Grice e Corleo: all’isola -- la
ragione conversazionale – scuola di Salemi – filosofia trapanesi – filosofia siciliana
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Salemi). Filosofo trapanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Salemi,
Trapani, Sicilia. Grice: “Corleo is a genius --
His keyword is identity, the Hegelian type, and that’s why he attracted
Gentile’s attention! But my favourite is his excursus on language! He talks
like a veritable Griceian – about ‘intenzione’ and ‘pre-convezione’ – and the
spontaneous cry to seek attention, Romolo from Remo, say – He very much
elaborates on the subject and the predicate and the copula, and the other parts
of speech – But he retains an empiricist, evolutionary viewpoint with which I
wholly agree!” Studia
nel Seminario vescovile di Mazara del Vallo, laureandose a Palermo. Crea un
seminario di psicologia filosofica. Liberale, aderì alla rivoluzione siciliana.
Su saggio, “Progetto per una adeguata costituzione siciliana”. Durante la spedizione dei mille, fu nominato
da Garibaldi governatore di Salemi – Saggio: “Garibaldi e i Mille”. Saggio:
“Storia dell’enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia”. Diviene conte di
Salemi. Altre opere: “Meditazioni
filosofiche”; “Il sistema della filosofia universale; ovvero, la filosofia
dell’identità”; “Per la filosofia morale”; “Lezioni di filosofia morale”. Dizionario
biografico degli italiani. La regola d'identità, dipendente dall’esperienza e
dal concetto appartene a qualunque specie di giudizio, giudizio affermativo (S
e P) o giudizio negativo -- S non e P -- , giudizio condizionale -- Se p, q -- ,
giudizio tetico -- S e P -- giudizio ipotetico
-- si p, q --, giudizio disgiuntivo -- p v q -- e via via. Poichè,ogni proposizione o
giudizio, semplice or complessa, debbe congiungere un predicate ad un soggetto --
S e P -- o negare un predicato ad un soggetto -- S non e P --, e ciò non può
farsi altrimenti che in forza della identità parziale o totale del predicato
stesso col soggetto, ovvero del contrario o contrapposto del predicato in caso
di giudizio negativo, sia cotesta identità assoluta, o sperimentale, sotto
condizione, problematica, o in forma disgiuntiva. Il raciocinio è un complesso
di giudizi che serve a scoprire una verità incognita per mezzo di una verità
nota, o a dimostrare il nesso ignoto tra due verità conosciute. Onde il
raciocinio deve esser fodato sulla medesima legge d'identità, che costituisce
l'essenza dei giudizi di cui è composto. Ogni passaggio da una verità ad
un'altra, da un giudizio ad un altro, è giustificato dalla connessione che deve
esistere tra loro. Se connessione non vi è, non si può dall'uno inferir
l'altro, non vi è passaggio legittimo o accettabile dal noto all'ignoto, e
molto meno si può scoprire il nesso incognito tra due veri conosciuti. Or,
questa stessa connessione non è che effetto d'identità. Parrà strano che la
connessione si debba risolvere anch'essa in identità; ma riflettendo con attenzione,
si scorge chiaro che in fondo è così, nè può essere altrimenti. Se S è connesso
con P, ciò non importa che S sia identico con P, ma importa invece che ambidue
sieno identici con S-P, cioè, che sieno parti integranti del tutto S-P, di
guisa che la loro connessione non *significa* o signa altro, che il loro legame
necessario per la formazione di quel tutto complesso proposizionale – “S e P”
-- onde se essi non fossero con nessi a comporre il tutto S-P, quel tutto non
sarebbe mai quello che è, non sarebbe identico alla somma delle parti che lo
costituiscono. Due o più giudizi, tra loro connessi, sono parti integranti di
un giudizio di maggiore estensione che tutti li abbraccia, ed è identico con
essi come il tutto è identico con la somma delle sue parti. Laonde non può
esser vero l'uno senza che sia vero l'altro, perocchè in diverso non sarebbe
vero quel giudizio maggiore che risulta dalla verità di tutti i giudizi subalterni
dai quali è costituito. Se, per cagion d'esempio, prendiamo ad esaminare ogni teorema
geometrico intorno alle proprietà del “triangolo” in genere e delle varie sue
specie, scorgiamo tosto che vi ha una continua connessione tra cotesti teoremi,
nè puo uno esser vero se non sieno veri tutti gli altri di seguito; onde essi
si dimo strano a vicenda. La ragione di ciò è semplicissima. Essi non sono che
le parti necessarie di un solo tutto, del concetto di triangolo e delle sue
specie subalterne, e tutti più o meno mediatamente in quel concetto complessivo
sono compresi. Pertanto non vi ha che un identico totale (talora nemmeno
avvertito ), il quale, per esser quello che è, ha bisogno che ciascuna delle
sue parti sia quella che è, e che tutte insieme concorrano con unità di nesso a
costituirlo, come le parti si debbon legare fra loro per unirsi nella identità
di un sol tutto. Metto una grande importanza in queste osservazioni sul
raziocinio e sulla connessione (consequenza logica) de' suoi membri; poichè
l'unica che sembrerebbe scappare dalla rigorosa legge della identità sarebbe la
connessione tra i giudizi diversi (premessa e conclusion), di cui consta un
ragionamento. Eppure, quella connessione non è altro che il frutto
dell'identità totale di un giudizio maggiore e più esteso, il quale abbraccia come
sue parti necessarie ogni giudizio subalterno; e quelli sono per l'appunto
connessi, perchè tutti in sieme formano un solo e identico giudizio di più
larga estensione. Nè fa d'uopo che nel ragionare si abbia presente quel giudizio
maggiore, nel quale si congiungono con identità totale i giudizi connessi. Esso
opera senza che il ragionatore lo sappia, poichè è virtù dell'identico totale
riunire per necessità le parti fra di lor, senza di cui egli non potrebbe esser
quello che è. Ciò sapendo, chi ragiona può benissimo salire dai veri connessi a
quel vero più ampio che tutti li abbraccia e nella sua unità totale li
identifica. Sarà questo un sistema più completo di ragionare, perocchè non ci
contenteremo di scorgere il nesso tra parecchi giudizi, di procedere per mezzo
di tal nesso alla scoperta di un giudizio novella e di dire che uno essendo
vero, tutti gli altri debbono pure esser veri; ma cercheremo ancora in qual
giudizio plenario e più esteso essi tutti vadano a connettersi per la identità
di unico comune risultato. In ciò consiste l'analiticita logica. Il raciocinio
analitico ercano la dimostrazione dei teoremi singoli o la risoluzione dei
singoli problemi nella proprietà, o nella funzioni e simili, che sono appunto i
giudizii più ampli e plenary, nei quali tutti quei singoli s'identificano come
parti di un sol tutto. Nella parte logica la connessione non è che l'identità
del tutto più ampio con le sue parti subalterne, senza il cui necessario legame
egli non risulterebbe quello che è. Il ragionamento è dimostrativo, quando
serve a chiarire il nesso tra verità e verità. Dimostrare niente altro è che
legare tra loro i giudizi come connessi, e la connessione pertanto vi è, perchè
i loro rispettivi subbietti, quand'anco non si sappia, si raggruppano in unico
e identico subbietto più esteso che tutti li abbraccia come tante sue parti:
onde vi ha passaggio, dalla identità parziale di un predicato P col suo
soggetto S, all'identità parziale dell'altro predicato P2 con l'altro suo
soggetto S2, e così di seguito; perocchè essi tutti costituiscono un solo
subbietto più esteso, che di tutti quei predicati si compone, e che perciò è
identico con la loro somma. Un subbietto subalterno non potrebbe concorrere
alla costituzione del subbietto totale, se non possedesse quel tale predicato e
se gli altri subalterni non possedessero quelli altri predicati; onde la
connessione fra tutti, se è vero l'uno, debbono esser veri gli altri, ed *implicitamente*
deve esser vero il giudizio totale, con cui tutti s'identificano. È inventivo e
non dimostrativo il raziocinio, quando, dalla verità che si conosce, si passa a
quella che s'ignora; ed anco in tal caso la ragion del passaggio è fondata
sulla connessione, e perciò sulla legge d'identità, in quanto che dalla
identità parziale che si conosce, si sospetta prima e poi si scopre la identità
totale. Per causa di alcuni punti d'identità o di parziali somiglianze tra un
fenomeno ed un altro, si concepisce la *possibile* identità dei loro elementi
in un sol tutto, e delle leggi che li governano. In questo caso vi ha l'*ipotesi*
o supposizione, che annunzia come *possibile* identico totale quello che
tuttora non è che un identico parziale. La conoscenza dei punti, della cui
identità bisogna ancora certificarsi, conduce a cercare la medesima identità
con quei mezzi, coi quali essa ordinariamente si osserva in altri simili. Ed
allora uno dei due, o si giunge all'accertamento della identità di tutti gli
elementi essenziali tra un fenomeno e l'altro, tra una legge e l'altra, e si ha
perciò l'identità totale, si ha la tesi o posizione; o non si giunge ad
accertarla per ostacoli presentemente insuperabili, di cui però dobbiamo
renderci conto, e si resta in tal caso nella identità parziale, nella ipotesi o
supposizione, pur sapendo quello che manca e perchè manchi, per poterla
trasformare in tesi o posizione quando che sia. Tanto il raziocinio
dimostrativo, quanto l'inventivo si valgono dell’esperienza concetto; poichè la
*testificazione* della identità parziale tra predicato e soggetto di ogni
giudizio, che compone un raziocinio, deve esser data dall’esperienza. Se è
composto di giudizi sperimentali, risulta pur esso sperimentale; e la
connessione dipende dalla loro parziale identità con un giudizio sperimentale
di ordine superiore, il quale talvolta nemmeno è conosciuto, ma vi si deve
giungere in forza di altre esperienze, come per lo più accade nel raziocinio
inventivo. Siccome pero il giudizio sperimentale e tale temporaneamente, cioè
fino a tanto che l'identità del predicato P col soggetto S sia solo testificata
dall'esperienza, perchè ancora tutti gli elementi di essa non sono conosciuti,
nè si ha l'identico concettuale che dovrebbe trasformare in concettuale il
giudizio em pirico, così i raziocinî sperimentali, o anco misti, potranno
divenire quando che sia raziocinî concettuali, fondati sull'identità assoluta
dei concetti, quando cioè l'esperienza, per la perfetta analisi e sintesi delle
parti col tutto, si eleva a concetto fisso ed assoluto con la conoscenza degli
elementi proporzionali che costituiscono l'identico totale.Vi ha dunque
passaggio dalle verità empiriche e dai ragionamenti empirici alle verità
assolute ed ai raziocinî concettuali, a misura che la scienza progredisce nel
conoscimento delle parti integranti che costituiscono i subbietti dei giudizi
sperimentali, ed a misura che essa discopre il nesso tra quei subbietti
parziali ed il subbietto più esteso che tutti l'identifica in un complesso
solo. È questo il doppio scopo finale dell’uomo: la cognizione concettuale e
necessaria dei fatti sperimentali per mezzo degli elementi proporzionali che li
costitui scono, e lo svolgimento dei concetti più complessi nei loro con cetti
subalterni, che sono del pari i loro elementi costitutivi. Pertanto l'essenza
del raziocinio non può essere collocata in una forma piuttosto che in un'altra;
essa consiste nel passaggio dalla identità totale alle identità sparziali che
la costituiscono, o dalle identità parziali alla totale per mezzo della
scoperta di quelle altre identità parziali che sono con loro connesse per
compiere l'identità totale. Bisogna dunque assi curarsi, per mezzo dei
concetti, della doppia identità delle parti e del tutto per avere ragionamenti
rigorosi; e non potendo giungervi per mezzo dei concetti, assicurarsene per
mezzo della esperienza. In questi due soli modi è possibile il raziocinio. Chi
cura soltanto la forma esteriore del ragionamento e ripone la logica nello
studio delle leggi della FORMA LOGICA, non prende di mira lo scopo vero del
raziocinio, che è l'accertamento della identità de' giudizi connessi col tutto
di cui sono parti; e perciò corre l'aringo di un VUOTO FORMALISMO alla Hilbert,
che non è mai garanzia sicura di esatti ragionamenti. Or, perchè mai i
subbietti di tali giudizi son dive nuti concettuali e perciò includono
necessariamente i loro pre. Tre sono state le più grandi logiche formali. La
prima e l’induzione primitiva: quella che argomenta dal particolare al
particolare per mezzo di un generale appoggiato ad altri particolari. La
seconda, quella che argomenta il generale dai particolari (necessario se i
particolari si presentano con caratteri di necessità, empirico se si presentano
soltanto come fatti di esperienza) per poter poi discendere dal generale ad
altri particolari: il sillogismo di Aristotele preceduto dalla classificazione
dei necessari e degli empirici, predicabili e predicamenti, che costituiscono
le sue categorie. Terza legge formale: la induzione di Bacone, e quella che
ascende dai particolari empirici ai generali pure empirici, adottata da ogni
naturalista sensista e positivista. Il sillogismo di Aristotele fu scompagnato
dalla sua precedente classificazione categorica per opera dei neoplatonici come
Porfirio e BOEZIO, che vollero così conciliare a forza Aristotele con Platone,
e poi per opera degli scolastici e dei moderni idealisti. Essi hanno adottato
la sola argomentazione dal generale al particolare ponendo il generale come
idea, che si afferma da sè per la sua evidenza e pei caratteri di necessità, di
universalità e di assolutezza che la distinguono, senza indurre le categorie dalla
classificazione dei fatti, come fa Aristotele. Niuna pero di queste
argomentazioni formali costituisce da sè un esatto ragionamento: esse sono o
inutili allo scoprimento del vero, o pericolose di errore, o tali almeno che
non posson menare al concetto scientifico e necessario, perchè non conducono al
vero identico totale. Difatti la induzione primitiva argomenta da un particolare
all'altro in forza d'identità parziali; e peggio, da un certo numero di
particolari, che si somigliano in taluni punti, argomenta il generale. Perchè
questa casa fuma, perciò si brucia! E perchè il legno delle nostre cucine
fumando si brucia, perciò: OGNI cosa che fuma si brucia! Da somiglianze o
identità parziali si vuole argomentare l'identità totale di un fatto con un
altro, o anche più, l'identità totale di tutti i fatti che parzialmente si assomigliano.
Il sillogismo dei neoplatonici e degli scolastici, conchiudendo dal generale al
particolare e ponendo il generale in virtù della luce dell'idea, non trova mai
verità nuove. Poichè, s'io dico, che il tutto é maggiore della parte, e percið
ne deduco che il libro dicati, mentre altri rimangono soltanto empirici e
perciò la identità tra predicato e subbietto dev'essere soltanto attestata dal
l'esperienza? Chi fa che taluni giudizi siano concettuali ed altri non? D'altra
parte, è poi sicuro che le idee che noi abbiamo siano tutte esatte, e non può
accadere che vi si contengano predicati che loro non appartengano veramente, in
modo che apparisca una identità necessaria tra predicato e subbietto, mentre
essa non è che l'effetto di una inclusione di predicato che veramente nel
concetto non deve entrare? Quanto alla formazione di un concetto si deve
notare, che essa avviene per opera di astrazione, la quale procede in due modi,
o spontaneamente, per effetto d'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e di separazione dei diversi, ovvero riflessivamente e
volontariamente, cioè per deve esser maggiore di ciascuna pagina, non affermo
in conclusione una verità nuova; ma dico due proposizioni, di cui l'una è tanto
vera e tanto evidente, quanto è vera ed evidente l'altra, nè vi è affatto ragionamento.
Se però il generale è posto in forza di un cumulo di esperienze o di fatti (sia
quanto si voglia lungo ed esteso quel cumulo) si corre pericolo di errare; poichè
allora dalla similitudine, o dalla identità par ziale che hanno fra loro alcuni
fatti, si vuol provare che tutti gli altri, i quali abbiano identità parziali
conformi, debbano somigliarli in tutto il resto. È allora una induzione
mascherata sotto le forme assolute di un sillogismo. Poichè, una delle due: o
il particolare, di cui si cerca, si ebbe già presente nella formazione del
generale, o il generale fu formato per gli altri particolari simili, ma senza
di lui. Nel primo caso, lungi che il particolare, di cui si cerca, acquisti
luce dal generale, è desso che con corre a formarle. Nel second, si ha il
solito vizio di argomentare da alcune identità parziali, tra un fatto
particolare e gli altri dello stesso genere, alla loro totale identità. Perchè
moltissimi esseri che hanno la figura umana hanno la ragione, percio qua lunque
selvaggio che presenta la figura umana, deve avere la ragione? La induzione
baconiana ha lo stesso difetto, perocchè non potendo raccogliere che un certo
numero di fatti particolari, grande quanto pur si voglia, da’ essi soli suo
generale, e poi ne argomenta agli altri casi particolari per ragione di
parziali somiglianze. Essa inoltre non perviene mai al necessario ed
all'assoluto, perchè non giunge alla identità concettuale del tutto cogli
elementi che lo costituiscono. Tutto al più, vi giunge come la categorizzazione
di Aristotele (che per lui deve precedere il sillogismo), cioè ritiene
l'assoluto ed il necessario nel generale, perchè i particolari si presentano
anch’essi con tali caratteri di necessità e di assolutezza. Il tutto è
necessariamente maggiore della parte, o è assolutamente identico alla somma
delle parti, perchè con tale necessità ed assolutezza nei fatti singoli il
tutto si presenta in tali rapporti con le sue parti. Non si perviene mai
all'identico, si rimane sempre nell'empirico, in tutte coteste forme di
ragionare. Come la necessità ed assolutezza dell'idea si accetta empiricamente,
perchè essa con tali caratteri si presenta alla coscienza, cosi nelle varie suddette
forme di ragionare si rimane pur sempre nel passaggio empirico da identità parziali
ad altre parziali, o peggio, ad altre total, senza assicurarne la totale
identità. rea analisi che l'uomo fa di proposito sui complessi ancora inde
composti delle percezioni, e sugli stessi primi astratti tuttavia
decomponibili. Seguendo sempre la regola dell'identico e del di verso, con la
quale si forma idee tipiche e concettuali delle parti più salienti delle
percezioni, e di quelle altre che, pur connettendosi con le percezioni stesse,
non potranno mai divenire oggetto immediato di percezione. Nasce da ciò un
doppio ordine di concetti ben distinti, cioè di quelli che si formano spontaneamente
e primitivamente per l'identica presentazione dei punti identici delle
percezioni e per la spontanea separazione dei diversi, e di quelli altri che da
sè non si offrono, ma è neces sario l'uomo se li procuri colla propria
riflessione e col proprio studio, cioè con l'applicazione della legge
dell'identità nelle analisi ulteriori, e se li trasmetta tradizionalmente per
non per derli. Nel primo caso, l'identico tipico del concetto si costituisce da
sè spontaneamente, e perciò il predicato si trova tosto incluso nel soggetto
concettuale di cui fa parte. Nel secondo, l'identico tipico del concetto
riflesso si costituisce mediante la voro mentale, e per lungo tempo, in
mancanza dell'idea, è d'uopo ricorrere all'esperienza, affinchè essa testifichi
l'identità del predi cato col soggetto, non potendo nel soggetto trovarsi il
predicato a prima fronte, sino a tanto che non sorga netta e chiara l'idea in
tutte le sue parti costitutive. Nei concetti spontanei e primitivi, formati
dalla identificazione tipica dei punti più chiaramente identici delle percezioni,
non può esservi pericolo di errore, logicamente parlando; poichè identicamente
si presenta e si presenterà sempre ciò che identicamente si presenta, e
diversamente il diverso. Onde i concetti fissi, fondati sulla identità logica,
e perciò as loluti e necessarî. All'incontro, le idee (concetti riflessi) ela
borate dall'uomo, ben vero con la stessa regola della identità, ma composte di
elementi ch'egli astrae da gruppi diversi e che egli poi mette insieme, possono
per avventura non es sere logicamente esatte; poichè per un momento si fallisca
o per disattenzione, o per precipitanza, o per pregiudizi, alla rigorosa regola
della identità nel condurre l'analisi riflessa, o nel mettere insieme gli
elementi astratti dai gruppi diversi, potrà uscirne un'idea monca ed imperfetta
nel primo caso, erronea nel secondo. E quel ch'è peggio, divenuta tipica tale
idea che contiene o non contiene il predicato, l'operazione del giudizio o del
raziocinio, che verrà a cercarlo in essa, riuscirà difettiva oppure erronea,
come difettosa o erronea era l'idea. Difettiva o erronea l'idea (cioè, mancante
di elementi necessari, o intrusi in essa elementi che non le convengono), sarà
sempre causa di errore nel giudizio ideale che su di essa si fonderà per legge
logica d'identità, e conseguentemente nel raziocinio. Nello stesso modo,
un'esperienza mal condotta o per difetto o per syista e confusione di una cosa
con un'altra, sarà fonte d'errore nel giudizio empirico, e quindi nel
ragionamento che da esso prenderà le mosse. Gl’errori di esperimento si
correggono con la ripetizione e col controllo di tutti quelli che se ne
occupano. Gl’errori però dell'idea debbonsi correggere con un buono ed accurato
esame ideologico, al quale debbono collaborare tutti gli studiosi delle
rispettive materie. Ma qual sarà la regola, con la quale si potrà fare l'esame
delle idee, o di quei concetti riflessi che l'uomo si è formati col proprio
lavoro, per conoscere se elementi vi man chino, o se vi siano intrusi degli elementi
che non possono en trarvi? La regola dell'esame non può essere che quella
stessa la quale deve presiedere alla loro formazione, cioè quella del
l'identità totale dell'idea con l'identità parziale dei singoli ele menti che
la costituiscono. L'idea deve essere decomposta nei suoi elementi, e deve
essere osservato se tra essi e l'idea vi sia perfetta e totale identità: così
soltanto potranno includersi quelli che difettano e potranno escludersi quelli
che non convengono; poichè nell'uno e nell'altro caso l'identico totale mostra
quello che gli manca, o quello che gli conviene, per essere quel che è. In tal
modo è possibile l'esame, e la rettificazione delle idee, occorrendo; ed in ciò
consiste un buon trattato d'Ideologia. La scuola empirica, duce il Locke, aveva
già compreso la necessità dell'esame delle idee, all'oggetto di non ammetterle
soltanto in forza dei loro caratteri este riori di evidenza, necessità,
universalità ed assolutezza, con cui s'impongono. La disposizione che si dà al
complesso de' giudizi ed ai ragionamenti, sia per esporre, sia per dimostrare,
sia per avviare alla ricerca, costituisce il metodo, il quale non può avero
altro scopo, che quello di condurre all'identico totale per mezzo di tutti i
suoi parziali, o ai parziali per la decomposizione del loro totale. Il metodo
sta ai ragionamenti, come il ragionamento sta ai giudizi: egli ha lo scopo di
fare un ragionamento com plessivo di tutti i ragionamenti subalterni mediante
la regola della doppia identità parziale e totale. Onde il vero metodo
scientifico è certamente analitico e sintetico insieme, man è l'ana lisi sola,
nè la sola sintesi, nè entrambe unite, potrebbero con durre a risultati
scientifici, se non avessero per rigorosa regola l'identità, e se non mirassero
al suo conseguimento finale in tutti i giudizi e raziocinî, sperimentali, concettuali,
o misti. Parlo del vero metodo scientifico; poichè per comunicare alle masse i
risultati della scienza, o per indurre in loro la persua sione necessaria
all'adempimento dei proprî doveri, una esatta analisi degli elementi delle idee
o dell'esperienze, ed una esatta loro sintesi, all'oggetto di condurle a
rigorosa identità totale, Perd essa voleva rimontare, senza alcuna ragione nè
possibilità di riuscita, alla ori gine cronologica delle idee. Voleva inoltre,
far provenire le idee dai sensi. Onde, in vece della vera origine cronologica,
ben difficile a trovarsi per le singole idee, diede spesso supposizioni
romanzesche sulla prima nascita delle medesime, e sopra tutto delle idee morali,
col preteso stato naturale e col contratto sociale. Tutte quelle idee che non
potè giustificare coi sensi, le rigetto, o le ammise alla credenza pubblica
come necessità indemostrabili della nostra natura. Onde i posteriori idealisti,
visto l'inte lice esito dell'esame, son tornati ad ammettere le idee in virtù
della loro evidenza e dei loro caratteri che s'impongono alla nostra ragione,
sia ritenendole verità prime indiscutibili ed indispensabili ad ogni ragionare
(scuola del senso comune); sia supponendole forme assolute del pensiero quidquid recipitur ad formam recipientis
recipitur (scuola kantiana ); sia riputandole innate e facienti parte del
nostro intel letto, almeno in una prima idea fondamentale, quella dell'essere
(*scuola rosminiana*); sia ammettendole come frutto d'interne azioni e reazioni
dello spirito (scuola di Herbart); sia credendole comunicazioni della mente
medesima di Dio, intuizioni, tocchi misteriosi (*scuole giobertiane*), o anche
evoluzioni della stessa idea divina, assumente caratteri di progressiva
attuazione per la legge dialettica de contrari (scuola hegeliana ), attuazione
dell'idea in forza di volontà preordinante e producente (scuola di Schopenauher
), o attuazione inconscia (scuola di Hartmann ). Tutti supposti, appoggiati a
me tafore, a superficiali osservazioni, o a dogmi, per dare una spiegazione dei
caratteri delle idee senza volerle esaminare in sè stesse, nei loro attuali
elementi costitutivi, adducendo a prova della impossibilità dello esame
l'infelice risultato ottenuto dagli empirici, i quali ebbero bensì il buon
volere, ed anche la presunzione dell'esame, senza mai averne studiato i mezzi
convenienti non sono punto possibili, nè anche utili. Laonde è d'uopo r correre
ad esperienze ovvie, a idee evidenti e generalment ammesse, per inferirne le
bramate conseguenze. Or se è vero che percepire distintamente, sintetizzare,
analizzare, ricordare, astrarre, concettuare, ideare, giudicare, connettere e
ragionare, non sono altro che più o men largamente identificare le parti ed il
tutto, spontaneamente o riflessivamente, in forma sperimentale o in forma
tipica assoluta, se cid è vero, diviene pur troppo evidente che, per potere
scorgere l'identità più prontamente e con maggiore chiarezza, sarebbero assai
utili due cose. Primo, abbreviare e ravvicinare tra loro con SEGNI le
percezioni ed i loro elementi, le idee ed i loro elementi. Secondo indicare con
segni le successive operazioni che vengon fatte spontaneamente o riflessivmente
sui detti complessi e loro elementi. L'algebra ed il *calcolo* per sè non sono
scienza, ma sono potenti mezzi di scienza, in quanto abbracciano e ravvicinano
le idee e le operazioni su di esse fatte rendendo più facile e più sicuro il
colpo d'occhio su di loro per scorgerne le identità e le differenze. Or, perchè
non sarà possibile una logica aritmetica o matematica per agevolare la
conoscenza delle identità parziali e totali, dalle quali dipende tutto l'eser cizio
della intelligenza? Non vale il dire che nell’aritmetica e la geometria si
tratta di rapporti tra sole quantità, e perciò e possibile un segno abbre viativi
e le operazioni identiche. Mentre invece nella logica generale si dovrebbero
trattare molti altri rapporti di QUALITà, che variano tra loro indefinitamente,
e perciò l'aritmetica non si potrebbe applicare alla logica. Non vale il dire
questo; poichè tutti i rapporti tra le QUANTITà hanno unico fondamento comune,
l'identità costante di ogni unità con sè stessa, in guisa che non possa
crescere nè decrescere in alcun modo, e che ogni unità valga quanto un'altra.
Onde il fondamento vero dell’aritmetica e dei loro processi è tutto nella
identità, come in generale il fondamento di tutte le operazioni
dell'intelletto; e la loro unica regola consiste nella IDENTIFICAZIONE. Non vi
ha dunque difficoltà vera contro la formazione di un'aritmetica logica; il cui scopo
non dev'essere altro che quello di fissare, abbreviare, e con un segno,
costante e certo, ravvicinare fra loro le idee ed i loro elementi, e le
operazioni che su di esse si fanno. Nella scelta del segno per tale oggetto, non
occorre far tutto a nuovo. Come nell'aritmetica, si posson prendere le lettere
alfabetiche per indicare i complessi della percezione e dell'idea, non che i
loro elementi, cioè le lettere maiuscole (A, B, C…) pei complessi, e le lettere
minuscole (a, b, c, …) per gli elementi, se fossero gli uni e gli altri
conosciuti e categorizzati. Se ancora non fossero conosciuti distintamente,
potrebbero adoperarsi i soli punti. Ogni segno dell’aritmetica, più, meno,
eguale, maggiore, minore, hanno posto nella logica o semiotica matematica o
aritmetica. Il dubbio ha un segno nella scrittura ordinaria, l’interrogativo –
la quesserzione --. Un segno pure abbiamo nella stessa scrittura per indicare
un seguito di cose simili, che corrisponde all' &. Soltanto resterebbero a
stabilirsi un segno per quell’operazione che nell'aritmetica e nel linguaggio
ordinario non esiste. Questo segno si riducono a distinguere lo stato spontaneo
dal stato riflesso, che sono i due stati del nostro animo, ed ambidue i detti
stati dal di fuori di essa. Per tale scopo descrivo due spazi, uno spazio inferiore
e l'altro spazio superiore, chiusi da tre linee parallele orizzontali. Il di
fuori è tutto quello ch'è al disotto dello spazio inferiore e lo spazio
superior. Lo spazio inferiore indica lo *spontaneo*. Lo spazio superiore indica
il *riflesso*. Indico con quadrati di linee, di punti, o di lettere, i
complessi e le loro parti, sia percepito, sia non percepito, o sia salito allo
stato di riflessione. Un punto e una lettera minuscola indicano i loro elementi.
Il punto indica che l’elemento non e conosciuto. La lettere indica che
l’elemento e conosciuto. Denoto il simile con due parallele verticali.
Rappresento l'identico con la convergenza di due linee in un angolo verticale.
Se l’identità non è completa, ma sol tanto parziale, una delle due linee sarà
più corta dell'altra, quasi per indicare la mancanza. Due quadrilateri che
convergono e si toccano con un lato rispettivo in un angolo vertical rappresentano
la sintesi dei punti identici. Se i due lati divergono, le quadrilateri rappresentano
l'analisi dei diversi. Indico il connesso con una serie di anelli di una
catena. Esprimo il negativo col segno 3 del meno sovrapposto a quello che
voglio negare, il non identico, il non simile, il non dubbio, ecc. $ 54. Ecco
così la serie dei segni principali: + più, meno, = uguale, <: maggiore; ‘>’: minore; ‘ll’
simile, 1 identico, ^ identico parziale,? dubbio, 000 connesso, (II) in
contatto, & etcetera, -1-- non simile, ^ non identico,?- non dubbio cioè
riflesso spontaneo, [ ] non percepito, I percepito in comcerto, plesso,
percepito distintamente senza categorizzazione di TAI parti, 71 percepito e
sintetizzato, !! percepito e analizzato, DU U IV / TAL sintesi ed analisi
spontanea e riflessa, |A| astratto com Ul Tala plessivo, Tala astratto con la
parte a. | A la S 55. Quando non occorre distinguere lo stato di spontaneità da
quello di riflessione, cioè quando si è nei concetti riflessi (idee), nei
giudizii e nei raziocinii nei quali non entrino l'esperienze e le percezioni, i
due spazî, che segnano lo spontaneo ed il riflesso, si trascurano. L'idea ed i
suoi elementi si rappresentano così ovvero al ovvero A:, ovvero secondo chè
sieno più o meno distinte e conosciute le sue parti elementari. Il giudizio ha
una delle due formole: 10 AA? Bİ, il concetto o la percezione A è identica a B?
A A? Bİ, non è identica certamente, oppure la risposta contraria: è iden tica
certamente, 1 -?-; 2º Aja?, l'elemento a fa parte dell'idea a _?. o della
percezione A? La risposta si dà col negare il dubbio (A) а h g bAt a b A. cde?
с a hg an. Or, dire che a fa parte di A è lo stesso che dire 1A | {4} +/ biali,
с de cioè l'elemento a è identico ad uno degli elementi di A, essendo OOO gli
altri elementi b c d e f g h. Il raziocinio in generale ha la formola della
connessione logica, cioè della connessione nello stato riflesso, che è
l'identità de’ suoi membri in un tutto mag giore, di cui sono parti; onde è
necessario che sieno veri i membri con reciproca connessione, affinchè sia vero
il loro tutto. Onde la formola del raziocinio in generale sarebbe: ^()()(). Con
le parentesi esprimo i membri di versi del raziocinio che fanno da premesse (e
possono essere parecchi) e quello che fa da conclusione, indicando la loro connessione
e l'identità di essi in un sol tutto più ampio con quel segno intermedio di
connessione riflessa e d'identità, che qui equivale al dunque. Il ragionamento
erroneo si esprimerebbe con l'identico non identico Â, con la contraddizione. $
56. Il raciocinio è o dimostrativo, o inventivo; ed in ogni caso esso passa
dalla identità parziale di una idea con un'altra, o di un esperimento con un
altro, alla identità totale (S 43). Onde la formola generale di ogni raziocinio
ne' suoi passaggi è i sempre questa: (a"B') (a000bcdefghh), a h g с de b h
g ovvero OOO d e (a), (^Bİ). Quanto a dire: A e B contengono a, sono
parzialmente identici. Come si farà per sapere se sieno totalmente identici?
Bisogna dalla parziale identità a riconoscere se pur vi sieno le altre parziali
identità b c d e f g h. Ciò si può sapere in due modi: o che vi sia connessione
tra a e tutti quegli altri, o che a li contenga. Bisogna accertare uno dei due,
o decomponendo i rispettivi concetti, o sperimentalmente. Accertato uno dei
due, o per connessione 000 che signa l’identità dei membri col loro tutto, o
per continenza che signa lo stesso (il tutto che contiene le parti), si ha
passaggio logico legittimo 000 al dunque, alla conclusione; e pongo il segno
d'identità 1 sul dunque, perchè ogni connessione di membri esprime la loro identità
col tutto che li contiene $57. Lo scopo di cotesti segni non deve esser quello
di sostituirli al linguaggio ordinario; poichè in tal caso ogni ragionamento
prenderebbe l'aspetto della matematica e del convenzionalismo di Poincare e il
formalism di Hilbert; onde sarebbero ben pochi coloro che avrebbero la forza di
mente e l'abitudine necessaria per condurre così i loro raziocinî. Io mi son
limitato nella mia semiotica (significa) universale a servirmene come mezzi di
reddiconto e di controllo, a ragionamenti finiti; poichè giova il riassumerli
con segni e presentare la forma logica della percezione, dell’idea e del
concetto, i loro rispettivi elementi, e le varie serie di operazioni su di loro
eseguite, per potere a colpo d'occhio discernere il cammino della identità in
tutti i giudizi e ragionamenti. Nella cennata mia opera ne ho fatto largo uso
in questo modo, nè domando per ora che sieno adoperati altrimenti. Qui pero, in
questo lavoro sintetico e riassuntivo del sistema, non renderebbero più facile
la comprensione delle idee, alla quale aspiro; onde io non me ne servirò,
lasciando che i leggitori di mente più ferma ne prendano esperimento nelle
singole dimostrazioni, alle quali già li ho applicati nella suddetta semiotica universale.
Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere
qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o
un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter”
-- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo
esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome
il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di esser
pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione*
da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un mezzo di
suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una idea o
concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare) colui
che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro
quella stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere,
cioè: o mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia
volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion
di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o
pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio
co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto,
cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno
per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico,
assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione
convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima
espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di
communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato
segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee
co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una
proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”),
il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della
esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione
il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che
s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta
naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque
non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca
stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto
spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien
pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè
ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il
segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far
nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione
e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo
solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose
per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi
stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci
rappresentiamo una idea astratta. La influenza del segno sull’astrazione
comincia ad esser guardata con attenzione quando i filosofi della scuola
sensista credettero che l'unica differenza tra l'uomo ed il bruto consistesse
nel segno communicativo. In verità è ben facile rilevare che senza gl'innumerevoli
segni articolati l’uomo non puo mai formarsi e ritenere l'immensa serie d'idee
astratte, e per dirla più esattamente, non puo egli nè sintetizzare ne
analizzare in sì gran copia, posciachè l’astrazione è figlia dei grandi
incrociamenti delle sintesi e delle analisi. Certamente i punti simili delle
percezioni rappresentandosi similmente si sintetizzano, ed i dissimili si
analizzano rappresentandosi dissimilmente. Ma se per ciascuno di quei punti simili
e dissimili non vi fosse un segno associato, non e mica possibile riprodurre e
ritenere la immensità delle similitudini e delle differenze che offrono da un
momento all’altro la percezione. Imperciocchè tra moltissimi punti simili, che
fra loro si differenziano in picciola cosa, sarebbe più fa eile la confusione,
anzichè la distinta rappresentazione di ciascun grado minimo di somiglianza e
di differenza per mezzo delle percezioni medesime. Al contrario, il segno
articolati e diversissimi d’altro segno articolato; e perciò attaccando un
segno a ciascuna di quelle minute sintesi ed analisi, si ha di già quanto basta
per poterle esattamente richiamare, senza poterle mai confondere un segno per
altro. Per esempio, quante gradazioni diverse non offre un colore solo, il
concetto di “bianco” (o “bianca”)? Or si potrebbero mai ritenere senza
confonderle tutte queste gradazioni? Ma l’uomo vi adatta un segno diverso per
signarle, e la confusione è evitata. Egli dice “bianco chiaro”, “bianco
sbiadito”, “bianco lordo”, “bianco latte”, ec. Vi sono poi delle parti di percezioni
che si isolano dal complesso mediante l’astrazione, e se non vi fosse un segno
per risvegliarne l'idea, non puo esser pensate giammai. Per esempio, l'idea o
il concetto astratto o generale o universale di “colore” – il nero non e un
colore; il bianco no e un colore --, siccome abbraccia ogni colore, con qual di
essi partitamente o complessivamente si puo rappresentare, se non vi fosse un
segno distinto (gaelico glas: verde o blu?) da tutti i co fori singoli per
richiamarla? Vi e pure un gruppo d'idee astratte che con maggior ragione han
bisogno di un segno per essere pensate, come la “gloria”, la “virtù”, l’
“onore”, il “dovere”, ec. Cosi anche e
il concetto meta-fisico dell’essere sopra-sensibile, Iddio, la sostanza, ec. É
in forza dell'unità del segno, che sorge l'unica idea astratta; poichè, se
vogliam provarci a idear (o mentare) la cosa senza segno alcuno,
particolarmente in una nozione astratta che non ra-presentano o signa un essere
reale, ma soli rapporti fra gli esseri, non sappiamo veramente come farcene
l'idea. Oltre a tutto ciò il segno ha una virtù speciale, che fa vedere il
legame di una idea coll’altra; perciocchè, messo un segno radicale o di radice
(“amare”), ogni variazione di desinenza e e ogni derivativo indica o signa,
come un gruppo che costituisce un'azione risultante venga variandosi in mille
modi: il che importa una sintesi mista all'analisi, perchè la radicale ferma
indica il punto fondamentale della somiglianza, mentre ogni desinenza e ogni
derivato fa vedere ogni categoria: quantita, qualita, relazione, modalita – per
citare la funzione kantiana della categoria d’Aristotele -- tempo, luogo. Questo
vantaggio non si puo altrimenti ottenere, che coll’articolazione del segno
sub-segmentale (prima e seconda articolazione), poichè rimanendo fermo un segno
come segno radicale sub-segmentale (articolazione prima e seconda) (“am-”), il
segno articolato (mutato della radice) indica la differenza (“amans”, “amatus”,
“amiamo” “ambi due amiemo”) fine a formare una proposizione compieta: il
mittente con il signans signa al recipient *che* il mittente crede che ama al
recipiente. Siegue da tutto ciò che il segno articolato ha un'influenza
grandissima nella operazione della sintesi, dell'analisi e dell'astrazione; e
siccome senza del segno articolato l'uomo non può nè giudicare (operare con una
proposizione) nè ragionare (inferire una proposizione d’altra), cosi il segno
articolato ha un'influenza suprema nel giudizio e la volizione e nel raziocinio
(di giudizio e di volizione). Infatti il sordo-muto ha un limite strettissimo
nella sintesi, nell’analisi e
nell’astrazione; ed a misura che si allarga in loro la sfera dei segni per
mezzo della gesticolazione, e più anche per mezzo di un sistema alternativo, il
sordo-muto inoltransi nell'astrazione, il suo giudizio, la sua volunta, ed il
suo ragionamento – di giudizio o di volonta -- divene più estesi e più esatti.
Dopo che si disse che l'uomo non puo mai dare origine al segno articolato o
communicativo, la scuola di Bonald si valse di questa stessa dottrina per
fondarvi sopra l'edificio della divina rivelazione, che dovette communicarsi al
primo uomo coll'insegnamento diretto del segno communicativo, e che dovette
tradizionalmente discendere col segno medesimo in tutta l'umana generazione,
fino a che colla dispersion babeliana delle lingue venne a guastarsi la forma
genuina primitiva del segno soppranaturale, praeternaturale rivelato, e varii
innesti di origine umana si attaccarono al primitivo tronco, cosicchè insiem
col segno furono anche travisate le idee della rivelazione prima. Questa stessa
dottrina è stata abbracciata con molta facilità da Gioberti, quantunque in
tutt'altro alla scuola di Bonald egli non appartenesse. Non entro in questa questione
dal lato teologico (o genitoriale), molto più che non veggo nella antica
religione romana nessuna espressione che alluda all'insegnamento primitivo del
segno per mezzo di un dio. Veggo per altro che le anzidette scuole han preso a
dimostrare filosoficamente che l'uomo da sè stesso non può dare origine al
linguaggio, e con questa dimostrazione negativa credono dare il più saldo
appoggio alla necessità della primitiva rivelazione della parola. Guarderò
adunque le loro ragioni da questo stesso lato filosofico, e porrò così il
quesito: È egli vero che per poter ‘signare’ comunicativamente in qualunque
guisa bisogna l’uso preventivo dell’astrazione, e viceversa per potere astrarre
bisogna l'uso antecedente del ‘signare communicativo? Se ciò fosse vero, sarebbe
questo un circolo vizioso (“a Schifferian loop”), da cui non potrebbe mai
uscire l'origine puramente umana del ‘signare communicativamente’; e perciò,
essendo un fatto che l'uomo signa communicativamente, ed ammesso che egli sia
stato *creato* da un dio (Prometeo), re sterebbe come una ipotesi interamente
consona alla divina bontà di Prometeo che egli stesso gli abbia insegnato o
signato a signare communicativamente fin dalla origine o dalla genesi alle
rivelazioni! Resterebbero cosi giustificati gli argomenti della scuola teologica
o genitoriale di Gioberti. Ma a me pare che, posto a quel modo il quesito, la
necessità del circolo vizioso venga tutta dal non voler discendere nella minuta
analisi di un tutto complessivo – un complesso proposizionale --, e dal volere
la spiegazione sintetica di un fatto che costa d'innumerevoli elementi, senza
volere esaminare come nascano gli elementi medesimi, e come gradatamente si
combinino fra loro per costituire il fatto totale nel modo che oggi si presenta.
Uno dei difetti delle scuole dell'età nostra è questo precisamente, che i nodi
voglionsi tagliare invece di scioglierli; e cosi mi pare sia accaduto al
problema che riguarda l'origine del signare communicativamente. Infatti, se si
domaada: l'uomo può esercitare quella vastità di astrazione che attualmente
esercita senza fare uso del signare communicativamente? La risposta è facile:
nol può: perchè il segno communicativo, siccome testé abbiam veduto, influisce
grandemente nell'esercizio dell’astrazione. Parimente se si domanda: l'uomo può
signare communicativamente (con “o”) senza l’esercizio dell’astrazione? è anche
facile ugualmente la risposta che nol può: perchè la convenzione implica la conoscenza
dell'utilità del signare communicativamnte, ed implica nel tempo stesso
l'attaccamento di un'idea (“presta attenzione”) ad un segno articolato (“o”),
il che è un'effetto di astrazione. Ma il problema non è ben presentato col
porre le due anzidette domande; perocchè non si vuol sapere se l'esercizio
completo del signare communicativamente, qual'è attualmente, può stare senza
l’uso dell'astrazione, nè anche si vuol sapere se lo sviluppo immenso che ha
preso l’astrazione nelle molte successive generazioni del popolo italiano possa
mai stare senza l'uso del segno articulato. Invece il problema vero è
quest'altro. Vi può essere un atto di signare communicativamente primitivo, un
primo uso di un segno articolato (“o – o – o”), colla sola influenza di un'astrazione
(o articolazione) di primo grado, la quale per compiersi non ha bisogno
dell'uso del atto di signare communicativo. Quando due cose s’influiscono a
vicenda, in modo che non può crescer l’una senza che cresca l’altra, se si
guardano *sinteticamente* dopo un lunghissimo periodo di mutuo accrescimento,
non pajono più naturalmente spiegabili, e comparisce quella specie di circolo
vizioso, di cui si parla inpanzi, perchè lo sviluppo pieno del l’una suppone lo
sviluppo pieno dell’altra, ed amendue si suppongono talmente a vicenda, che non
si sa più qual delle due debba esser prima. Per isciogliere un problema di tal
fatto bisogna incominciare dal periodo o fase o stadio primo, cioè dal momento
men complicato e meno sviluppato. Allora soltanto si può scorgere la influenza
mutua, e come mano mano vengano accrescendosi l’una coll’altra. Qui trovo
un’obbiezione ben facile. Mi si dirà: avete voi elementi storici ben certi per
poter determinare qual sia stato il periodo primo dell’atto di signare
communicamente in Romolo e Remo. Anzi taluni credono trovare nell'etnografia
una base sufficiente per poter sostenere che il segno communicativo più antico
e più elevato e più ricco di forza plastica. Onde da quelli si crede che l’atto
del signare comunicativamente e andati mano mano deteriorando. Veramente, se debbo
esaminare il mio problema sull’appoggio del solo dato storicio non mi credo autorizzato a dare una soluzione
diffinitiva. Imperciocchè io non son’ uso a sciogliere un problema a posteriori,
e viceversa, so che la *ragione* necessaria delle cose governa la storia. Non
entro ad esaminare se l’uomo e creato adulto o no; o se, dimenticato il
primitivo atto del signare communicativamente, sia stata possibile la nascita
di un atto *nuovo* di signare communicativemente. Non entro in un esame
storico, dal quale la mia semiotica non puo sempre ricavare un risultato
filosoficamente rigoroso. Invece, domando se e possibile, senza precedente
arbitrio alcuno, stabilirsi una communicazione di un segnato tra due uomini per
mezzo di un segno (“o”) anche *involontariamente* (spontaneamente,
naturalemnte) adoperati, e, se trovata l'utilità pratica o prammatica di un
arbitrio mutuo di tal fatto. Si puo fare avvertitamente e per mutuo arbitrio ciò
che prima si è fatto *spontaneamente*. Posta così la questione, non ha bisogno
più della ricerca storica. Si attacca alla natura comune – la ragione -- di due
uomini – una diada conversazionale, Romolo e Remo, Niso ed Eurialo --,
quantunque anche la storia puo venire in conferma di ciò che la cosa deve
essere per natura sua propria – uomo animale razionale. Distingo due specie del
genero segno: ma non e necessario moltiplicare i sensi di ‘segno’ sine
necessita. Primo e un segno naturale, spontaneo, imitative, mimetico, iconico,
assoziativo. Secondo, e a posteriori altro segno – un segno devenuto segno dopo
un mutuo arbitrario. Or sebbene il mittente che usa un specimen particolare di
segno “o” che imita una proprieta naturale spontanea, il segno “o”, sieno per
sè stesso assai ristretto, pure ha questo di particolare. Senza bisogno di
arbitrio mutuo alcuno, e senza anchie aver lo scopo di *conimunicare*
(transfere il segnato) all’altro un qualunque segnato (sensum, percipito), puo
essere adoperati, e producono l’effetto della communicazione (communicato,
segnato) che non e primariamente nell' *intenzione* di nessuna delle due parti.
Nessuno più di un bambino italiano è da natura inclinato ad imitare (‘bow wow’)
i romori che sente o perceve. Non è necessario supporre che questa imitazione (‘bow
wow’) ha uno scopo, fine, volizione, o intenzione (volutum). Il bambino
italiano imita spontaneamente, e signa che e in relazione con un cane, è come
la ri-petizione naturale della cadenza che si esieguono non dall'uomo solo, ma
anche dai bruti. Comincio da questo caso semplicissimo, non perchè io creda che
l’atto del signare communicativamente sia nato in questo preciso modo, ma
quando si cerca la possibilità di una cosa, bisogna ricercarla tra le
possibilità più semplici e più comuni. Imperciocchè, pria che si dice che una
cosa non può essere, è mestieri osservare in quante maniere ben semplici ella
può avvenire. Or vediamo, allorchè un’uomo imita spontaneamente un suono
qualunque naturale (“o-o-o”), che cosa accade nell’altr’uomo che lo interpreta
(l’interprete). Il segno imitato per ragione di semplice associazione o
iconicita richiama naturalmente la percezione della causa che suole ordinariamente
emettere cotal segno. Per esempio, se un bạmbino italiano, senza la menoma
intenzione communicativa, e solo per il puro piacere imitare, esiegue il belato
(‘bah bah’) della sua pecora, chiunque lo sente si rappresenta in quel momento
l'animale che fa quel belạto. Senza *voler* o avere l’intenzione di communicare,
i. e. d’informare ad altro, vi è di già tutto quello – il principio razionale
-- che costituisee la communicazione e
la conversazionale. Un segno, a cui è attaccato una percezione, adoperato la
prima volta, ‘one-off’, spontaneamente, per caso, per imitazione, per qualunque
altra causa, desta la percezione socia, e senza arbitrio mutuo alcuno divien
segno della medesima causa (‘bah bah’ = pecora). Infatti, se il bambino italiano
che imitava poc' anzi il belato della sua pecora, non conosce punto il segno
articolato ‘pecora’, e se io voglio più tardi rinnovare in lui la percezione della
pecora, che altro dovrei se non che imitare il belato medesimo? Nè ciò dipende
da che io conosco l'utilità del segno. Giacchè potrei supporre all'inverso che
il bambino italiano il quale, imitando spontaneamente il belato della pecora
(“bah bah”), si accorse o da un segno (“bah bah”), o dallo sguardo ch’io do
alla pecora, che già mi feci ricordanza della pecora, più tardi il bambino stesso
potrebbe servirsi a ragion veduta di quel belato per riprodurre in me or di proposito
la stessa percezione. Immagino un’altro caso. Se alla vista (visum) di un
pericolo (leone) l'uomo (Eurialo) gitta un grido – “o-o-o” --, un suono
qualunque, quand’anche non sapesse che vi fossero altr’ uomo (Niso), dal che
potrebbe essere soccorso, il grido spontaneo che suole uscire per lo più
involontariamente, spontaneamente, naturalmente - sotto il dominio della paura o
pena, e se a quel grido si ve dessero accorrere altr’uomo, il quale, scorgendo
la posizione pericolosa, viene in aiuto, non sarebbe tosto quel grido spontaneo
“o-o-o” un segno della “chiamata” in aiuto, segno non devenuto da mutuo
arbitrio in principio, nia che per l’effetto ottenuto o la risponsa ottentua
divene base di un mutuo arbitrio in avvenire? Immagino anche un’altro caso più
semplice. Se un'uomo spontaneamente, e senza *intenzione* communicative alcuna,
signa “o-o-o”, il segno più facile ad articolare, e se altr’uomo (Remo, Niso) e
presente e sente o perceve che Romo ha profferito un specimen di un segno, che
cosa mai dovrà avvenire? Non si voltera verso colui che signa? Non è naturale
il rivolgersi verso il punto donde parte il segno? Ebbene, un'effetto si è ottenuto.
Questo segno profferito senza intento alcuno o intenzione comunicativa alcuna
richiama l’attenzione dell’altra parte della diada conversazionale. Ciò che si
è dapprima, one-off, ottenuto senza intento communicativo o intenzione communicativa,
può la seconda volta esser voluto *di proposito*, voluntariamente, -- def. di
verbum in Aquino -- per la utilità che se n’è ricavata: ripetendosi dunque
avvedutamente lo stesso segno, quello è divenuto un vocativo naturale. E noi
osservammo che appunto questa vocale “o” è il vocative nella Roma di Remo (o
tempora o mores) e nella Roma di oggi. L’arbitrio mutuo o duale dunque non
nasce dapprima a ragion veduta, ma nasce per mezzo di un'effetto o risponsa,
che un segno, EMESSO per accidente (“o”) o per imitazione, consigue. Volendo di
nuovo ottenere avvedutamente lo stesso effetto o la stessa risponsa, non ci
vuol’altro che ripetere un altro specimen del stesso genero di segno (“o”).
L’arbitrio mutuo dual è bello e fatto. Or quando vi sono tante possibilità
d'incominciare l'uso di un segno articolato e di dar luogo spontaneamente a un
arbitrio mutuo e duale, come si può dire in tuono assoluto che sia impossibile
l'uso del segno senza aver la preventiva conoscenza della utilità del segno
medesimo? Non dico che l’atto del signare communicativamente nacque in questo o
in quell’altro modo. Dico che vi sono moltissime possibilità tutte *naturali*,
nelle quali l'uomo può avvertire l'utilità dell'uso di un segno articolato per
l’effetto o la risponsa spontanea, no intenzionata, che ne ottiene, e senza il
bisogno di un preventivo arbitrio duale. Basta questo per distruggere a rigor
di logica le basi tutte di quell'edificio che si vuol fondare
sull’impossibilità assoluta che l’uomo signa senza prima aver conosciuto l'uso
e l'utilità dell segno. Ma invero il brutto ebbero forse insegnato da Dio l'uso
del atto di signare communicativamente, con che communica (o transferre) il suo
bisogni, la sua gioia, il suo pericolo, la domanda del soccorso? Forse non
vediamo fin dal loro nascere i varii animali communicarsi per mezzo di un segno,
per lo più *istintivo* -- che causa una risponsa istintiva, i diversi loro
stati? Non puo il brutto perfezionare il suo atto di signare
communicativamente, perchè non ha facoltà di sintetizzare e di analizzare gli
elementi della percezioni, e molto meno ha facoltà astrarre, siccome vedremo a
suo luogo. Ma la co-rispondenza o co-relazione dell’effetto o stimolo, in esito
al suo primo segno istintivo fa si che il brutto lo ripeta volontariamente; e
tutti conosciamo come un animale domnanda il cibo o la libertà del movimento
per mezzo di segni speciali, nel che dalla sua parte vi ha una specie di “tacito”
arbitrio duale (Androcle e il leone), perché l’effetto ottenuto o la risponsa
ottenuta una volta, per ragion di associazione o co-relazione iconica istintiva
associativa, fa appunto le veci di un arbitrio duale. Se dunque questo segno
inferiore è possibile nel bruto, il quale non astragge, perchè lo stesso
principio di spontaneo tacito arbitrio duale non è possibile fra due uomini! Un
uomo, che ha la piena capacità di astrarre, riconosce più facilmente l'utilità
dell’effetti ottenuto o della risponsa ottenuta dall’altra parte della diada
conversazionale, e si crea l'idea generica del arbitrio duale del segno, dalla
quale discende poi come conseguenza la necessità di *variare*, fare piu ricco,
illimitato, creativo, e di fine aperto, in ragione di questo o quello bisogne,
in ragion di questa o quella percezione, o in ragione di questo o quello
concetto astratta. Concepita una volta l’utilità dell’uso del atto di signare
communicativemente, del segno articolato (terza articolazione), non ci vuol’altro
che possedere in fatto la capacità di variare e combinare *indefinitamente* in
modo aperto e illimitato, l'articolazione e la operazione di questo o quello
segno primitivo, e l'uomo possiede già questa capacità meravigliosa. L’uomo
adunque può, da un certo numero di fatti spontanei in cui il segno è riuscito a
*stabilire* un arbitrio duale, elevarsi all'idea astratta dell’arbitrio duale
del segno, poichè da un fatto singole si forma la sintesi, l'astrazione, e
l'idea generica; e possedendo in fatto la varietà indefinita, componibile, di
questo o quello segno articulato primitivo, è già nel caso di far da sè tutto
il resto. Quantunque il segno che compone l’atto del signare communicativo e
per arbitrio muto, pure siccome debbono *signare* una percezione (S e P), gli tre
elementi delle medesime (S, e, P) ed i concetti astratti, debbono quindi
ritrarre le proprietà fondamentali dell’uomo, cioè la relazione costanti che debbono
avere fra ogni percezione, e ogni operazione o combinazione. Perciò, sebbene e
diverso il segno che si adoperano ne' varii paese dell’Italia per signare il
medesimo segnato, pure in ogni dia-letto vi sono parti fisse del discorso o
dell’orazione, vi è una sintassi necessaria, vi sono in somma una relazione che
e comuni a ogni segno. In primo luogo, siccome ogni percezione rappresenta un
risultamento esteriore ed e anch' esso del risultamento organico subbiettivo,
perciò vi ha un fondo comune in ogni percezione ed è l'azione risultante, che
equivale alla somma di ogni azione sostanziale aggregate insieme. L’azione
sostantiva e la aggregazione di questa o quella azione sostantiva, ecco ciò che
è comune a ogni reale ed a ogni percezione. Quindi in ogni atto del signare
communicativamente debbe esistere un segno addetto ad indicare l’azione
risultante in tutta la loro immensa varietà. Questo e il segno del “verbo” –
Varrone, verbum, greco rheo --, cioè il segno per eccellenza, per chè in
verità, tutto quello che si può rappresentare, ad azione sostanziale si riduce,
e perciò il segno del verbo (la copula) è il fondamento di ogni segno. Ogni
proposizione si aggira intorno al segno del verbo (il S e P), e se vuol farsene
un'analisi, la mossa si dee sempre prendere dal segno del verbo, perchè un
segno che non e un verbo non puo indicare, se non che un rapporto dell’azione
risultante signata dal segno verbo. Inoltre, per questo stesso che ogni azione *risultante*
e non basica, e composte della combinazione di questa o quella azione
sostanziali intransitive ed immutabili, è necessario che ogni verbo ha il loro
fondamento in un solo segno di verbo, e che quel segno del verbo e *intransitivo*
(la copula e intransitiva), siccome e questa o quella azione sostanziale, dalla
che nasce ogni azione risultante, la quale e ra-presentata dal resto della
classe del segno del verbo. Infatti abbiam notato già da molto tempo che in
ogni atto di signare communicavemente vi è un verbo sostantivo intransitivo, il
verbo “essere”, al quale si possono facilmente ridurre ogni altro verbo,
decomponendoli in “copula e predicato”. Io amo è lo stesso che io sono amante.
Ed è notevole che ogni segno di verbo chiamati attivo, o meglio transitivi,
perchè denota un’azione che passa dal soggetto all'oggetto, si sciolgono tutti
in un segno di verbo fondamentale che è intransitivo, o come i modisti dicono
neutro – epiceno, mezza voce --, cioè nè attivo nè passivo. Poichè ciò che è
veramente transitivo é la forma del risultato, ma ognuna delle azioni
sostanziali componenti è intransitiva. La sintesi e necessaria e l'analisi e
necessaria, perchè una percezioni e complessiva e costa di questo o quello elemento,
che colla riproduzione, sovrapponendosi gli uni agli altri, si sintetizzano nel
punto simile e si analizzano nel punto dissimile. Bisogna dunque che ogni segno
indica un composto o complesso proposizionale, e che ogni segno articulato
composito e de-compo nibili. Però, siccome gli elementi di ogni risultato e una
azioni sostantiva, perciò è necessario che ogni segno si puosciogliere in un
segno solo che indica l’azione sostantiva, non come occulta (sub-stantia), ma
come realtà, cioè come essere, onde il *nome* (nomen, onoma – nomen
substantivum, nomen adjectivum) non meno che il segno del verbo, si sciolgono
tutti nell'essere, il quale è verbo e nome allo stesso tempo, ed è appunto
verbo sostantivo, perchè indica un’azione che sta per sè stessa, e che non ha
bisogno dell'altrui appoggio. Un nomine addiettivo e ogni altro segno
sin-categorematico che indica quantita, qualita, relazione, o modalità o
relazione, ra-presentano la composizione, il risultato, la combinzione di
questa o quella azione sostanziale, e perciò non e mai da sè sole, ma ha
bisogno di un segno di verbo o di un segno di nomine (S e P), su cui debbono
appoggiarsi. Conciossiachè in verità la consposizione e qualunque suo modo di essere
non può stare senza questo o quello componenti, anzi non è altro che la somma
medesima di questo o quello componento. Però, siccome la composizione è una
forma complessa, e come tale si distingue da cia scun componente, quindi è che
tutte le parole indicanti modd lità, quantità e relazi ni, conie gli avverbii,
le preposizioni, le congiunzioni, gli aggettivi, ec. non sono riduttibili al
solo verbo essere, nè al solo nume essere, a differenza del segno del verbo e
del segno del nome che ogni segno si reduce al verbo sostantivo “essere”. Nel
tempo stesso non possono sussistere per sè, ed han continuo bisogno di questo o
quello essere (il S, il P), perchè la composizione non può stare senza di
questo o quello singolo componento. Sotto tai riguardo la differenza che passa
tra ogni segno che indicano la quantita, la qualita, la relazione, e la
modalità dell’azione sostanziale e quella che indica l'azione medesima, e
quella stessa differenza che esiste tra il tutto e la collezione di questa o
quella parte che lo compone; imperocchè il segno del verbo, e principalmente il
verbo “essere”, nel quale ogni segno di verbo si sciolgono, indica la
collezione di questa o quella azione, mentrechè il segno del nome aggettivo, il
segno del avverbo (ad-verbium, come la particola “non”), la preposzione (in
latino, i casi), il signo di congiunzione (copulativa, e, adversative, ma), ec.
indica come questa o quella azione e disposte, e che relazione ha fra loro, in
ogni vario gruppo che compone. Siccome ogni gruppo di azioni è un *risultato*
che subisce questa o quella modificazione (declinazione, congiuggazione) secondo
i cangiamenti parziali del numero (singolare, duale, plurale) e della posizione
di questo o quello componento, cosi vi ha una sintesi fondamentale in ogni
parte simile che nel risultato e ferma, e vi ha una continua analisi di ogni
parte variabile ed accessoria. Per questa ragione e necessario il segno radicale
che esprimono la parte *sintetica* fondamentale, cioè, il fondo permanente
dell’azione: il radicale poi si va cangiando nella sua desinenza (uomo, uomni,
pater e familia, paterfamilias), o in suo articolo definito (il – ille, la --
illa) o indefinito, “segna-caso”, ed ausiliare, per indicare ogni variazione e
accessorio che in torno a quel gruppo fondamentale di questa o quella aziona si
effettua. Il atto di signare monosillabica dei cinesi supplisce a ciò coll’accozzare
diverse sillabe, cioè diverse segni, di cui ognuna esprime una idea, e tutte unite
esprimono un complesso. Una idea fissa si esprime con un signo fisso. Una
segnato variabile si esprime con un segno variantie. Sorge da ciò la necessità
del segno derivativo, del segno della desinenza e del segno del prefisso,
infisso, e suffisso, come anche la necessità di trasformare in maniera
avverbiale un nome e un verbo, e di operare ogni cangiamento di preposizione in
verbo ed in nome, dell’aggettivo in sostantivi e viceversa. Poichè, fissa la
forma fondamentale, ogni mutamento di forma debbe esprimersi con cangiarli secondo
il bisogno e secondo la relazione che vuolsi esprimere tra un gruppo di azioni
ed un'altra. Finalmente vi ha un'altra forma obbligata in ogni costruzioni del
discorso, ed è quella del giudizio, poichè ogni proposizione – in ogni modo –
indicativo, imperative -- in giudizio o volizione si risolvono, e come si va da
un giudizio all'altro per mezzo di una connessione, così la proposizione prende
forma concatenata e compone un period (protasi, apodosis), e questo periodo
s'incatena con quello periodo e forman un discorso. Però è no ievole che
l’operazione dell'analisi e l’operazione della sintesi spontanea non puo
altrimenti annunziarsi che sotto forma di “proposizione”, cioè di giudizio o
volizione; quantunque agli occhi perspicaci del filosofo anche un segno solo,
considerata nella sua radicale o nella sua derivazione, indica benissimo l’operazione
analitica che vi è dentro. La ragione, per cui non si può annunziare ad altri,
che sotto forma di giudizio, una completa operazione di sintesi e di analisi,
si è appunto questa, che quando si annunziano ad altri cotali operazione di
sintesi o analisi, vi è di già il concorso della riflessione, e perciò non si
annunzia altro che il risultato ultimo della sintesi e dell'analisi riflessa, il
qual risultato e il giudizio e la volizione, ambe due con contenuto
proposizionale. Onde si ha che nello singolo signo si rappresenta le sintesi e
le analisi spontaneamente fatte, e nel complesso si rappresenta il risultato
totale, che perciò appunto veste la forma di giudizio o volizione con contenuto
proposizionale. Da tutte queste osservazioni emerge che il segno e la sua
costruzione (sintassi) in ogni popolo – o paese d’Italia -- debbe avere una
forma fissa (semiotica agglutinativa) e una forme variabile (semiotica
componenziale), siccome il risultamento organico subbiettivo ed il risultamento
esteriori obbiettivo ha una forma fissa e una forme variabile, poiché il segno
debbe necessariamente prendere lo stesso aspetto del segnato. In ogni segno
possono riguardarsi due parti distinte, cioè il segno e la costruzione del segno.
Ogni segno è segno di una percezione, o di una parte di percezione, o di
un'idea o concetto (signato). La costruzione del segno ra-presenta ogni
relazione che ha questa o quella percezione, questa o quella idea, questo o
quello segnato. Onde il signo è lo specchio più sicuro del grado delle
conoscenze di un emittente del segno. Poiché la povertà o la ricchezza del
repertorio semiotico e di questa o quella forma di costruzione indica quante
percezioni, quante idee, esistano presso il medesimo emittente, ed in quante
maniere sa metterle in relazione fra di
loro. Però è notevole una cosa, che forse non è stata abbastanza studiata sino
al presente. C’e un segno (“colletivo”) che non esprime una percezione sola o
una idea sola, ma serve ad esprimerne più di una. Per sapere se mai una di tale
segno esprima una idea piuttosto che un'altra, fa d'uopo stare attento alla *forma*
del discorso, dall' insieme del medesimo, come anche dalla forma della
costruzione, si ricava ciò che precisamente si vuol signare col segno che si
adopera. Questo fatto è ben noto ai filosofi sensista; ma forse la causa del
fatto non è da loro cercata con rigore semiotico. Acciocchè un segno sia
adoperato a signare un segnato diverso d’altro segnato (equivocazione), è
necessario che il segno in origine appartenga ad un segnato solo; poichè non è
presumibile che siasi voluta fare un arbitrio dual anfi-bologico (equivocazione
– para-bologica – il rasaio di Occam), cioè un arbitrio duale di usare un segno
solo per rappresentare un segnato e altro segnato, appunto per far nascere la
dubbietà di sapere il segnato che propriamente vuolsi indicare. Allorchè dunque
si presenta un segnato nuovo, che perciò non ha ancora segno proprio, il
segnato stesso fa sperimentare il bisogno di trovare o inventare o concevire un
segno per indicarlo, ed in pari tempo il segnato (es. spirito) fa svegliare
l'idea socia di un segnato simile avente un segno proprio (spirare). Allora
l'uomo prende quel segno, e se ne serve per indicare il segnabile novello ch' è
ancora propriamente IN-segnato. Questo bisogno si sperimenta più di tutto
nell'esprimere una idee astratta (‘implicatura’), a cui mano mano un emittente
si eleva; e perciò si serve del segno che indica un segnato, quanto più è possibile,
somigliante a quella idea (im-piegare). Nasce cosi l'uso del traslato: un
segno, che propriamente è servito ad indicare una segnato (lo spirare), è
adoperata a signare un'altra (lo spirito) che solo ha con essa qualche
somiglianza. Il traslato di tal fatta e una necessità, perchè la presentazione
di un segnabile IN-signato conduce al bisogno di signarlo, e non potendo formarsi
sul momento un segno apposito per l'impossibilità di fare un pronto arbitrio
duale, si ricorre più prestamente al segno del segnato simile, lasciando pure
al resto del discorso l’incarico di mostrare la diversità e la novità del
signabile previamente IN-segnato, pel quale si adopera una segno. Ma oltre a
ciò vi ha pure una necessità di usare un segno da traslati o metaforicamente,
quantunque il signato che vuolsi esprimere ha segno suo proprio. L’esattezza
del segno appartiene sopra tutto a quel filosofo oxoniense che e avvezzo alla
precisione del segnato e del segnabile non segnato, e che valutano ciò che
propriamente esprima ciascuno dei segni, che essi adoperano per indicarle. Ma
il numero maggiore degli uomini non può mai aver fatto queste esatte
meditazioni, e molto meno può aver l'abitudine del linguaggio preciso. Inoltre
gli uomini, spinti dal momentaneo bisogno di communicare il segnato, e molto
più quando sono sotto il dominio delle passioni che maggiormente l'incalzano,
non han tempo a ricercare il segno che esattamente corrisponde al segnabile
IN-segnato. Allora succede un'effetto ch' è tutto proprio dell'associazione
delle idee. Si presenta un segnabile che non richiama prontamente alla memoria
il suo segno, ed invece richiama per ragion di similitudine un'altra percezione
segnata che ha pronto il segno. Allora l’emittente, senza metter tempo ir mezzo,
si approfitta di questo segno cognosciuto per indicare, non il segnato proprio,
ma un segnabile simile; e cosi si la un'altro genere di traslato, cioè il
traslato metaforico. L’interprete o recipiente e pur'essi obbligato da quel
segno a passare dal segnato simile non propria al segnato propri; e ciò, quando
la similitudine calza bene, riesce a proccurare una maggior persuasione, come
pure riesce a rappresentare lo stato di esaltamento dell'animo del emittente,
quando lo si vede correre rapidamente di segnato in segnato, senza aspettare la
corrispondenza esatta del segno, é con servirsi di un segno che indicano un
segnato simile. Quest'altro genere di trasláti è anch'esso una necessità,
perchè la maggioranza degli uomini non può sempre misurare il segno, e molto
meno lo può, quando è sotto l' ardore delle passioni, o nel momento di una
pubblica arringa, in cui il segno naturalmente si eleva colla metafora per l’imperioso
bisogno di esprimersi con qualunque segno si presenti più adatta. Con questi criterii
è ben facile giudicare, perchè vi sieno emittente di repertorio ricco ed emittente
di repertorio povero, perchè vi sieno emittente di repertorio riccho e
emittente di repertorio povere di forme, ed in qual rapporto stieno tra loro
l'abbondanza e la povertà degli uni e delle altre. Il emittente men civilizzato
e meno avvezz alla riflessione filosofica, avendo un minor numero di segnati, debbono
esseri poveri di segni; ed a misura che son poveri di sengi, più abbondano di
traslati, perocchè ad ogni nuovo sengabile che ai medesimi si presenta debbono
adattare per similitudine un segno. Queste emittente però diventa di un
repertorio ricchissime di forme, ed inclinano quasi sempre alle circonlocuzioni
(perifrasi) ed al figurato (metafora). Ciò è ben naturale, perché la forma
stessa del discorso deve dare a comprendere che el sengo non venga adoperata
nel uso suo ordinario, ma in un uso di somiglianza, in un uso figurato o
allegorico. Questo emittente si presta anche facilmente alla nascita di un
segno composto (bi-cicletta), perchè sentono il bisogno di accoppiare due segni
indicanti oggetti proprii, per segnare un segnabie che ha una somiglianza con
ambidue uniti insieme (portmanteau). Perciò questo emittente contiene un signo
radicale che si prestano ad inflessioni molto diverse, e per quanto son povere
di radice originaei, tanto son ricche di composti e derivati. Per ciò sogliono
chiamarsi il più anticho emittente. Non vuolsi confondere un ricco repertorio
delle forma con un ricco repertorio di segni, nè si deve credere che la
ricchezza delle forme sia indice della perfezione maggiore dell’emittente,
molto più quando non è congiunta a - ricchezza vera di signo. Al contrario, i
segni di più avanzati nella riflessione e nella civiltà hanno un più esteso
numero di vocaboli proprii, e fanno molto conto della purità e della proprietà
del segno: onde esse sono più aliene dalla sinonimia, scansano le figure, e
adoperano al bisogno strettissimo i traslati. Queste linyne si prestano meglio
all’esattezza scientifica, ma quanto sono rigorose, tanto son più fredde,
poichè non si confanno collo stato dell'uomo appassionato, il quale afferra
qualunque segno avente somiglianza col segnable che vuole signare. Un emittente
i di tal sorta non e nato con quella esattezza fin dalla loro origine; perciò
porta l' impronta di molte radicali, di molti decivativi e di traslati che
appartennero all'epoca più antica. Tutti questi però coll'andare del tempo
hanno acquistato segnati loro proprie; cosicché non si ha più l’idea di un
traslato o di una metafora in ciascun segno, ma vi si scorge un segnato tutto
proprio (By uttering ‘You’re the cream in my coffee’ I sign that you are my
pride and joy). Ciò prova che questo fenomeno e recente, e figli, anzichè padre.
L’emittente e ricchissimo nel repertorio di segni, ma molto povero nel
repertorio di forme poichè ogni segnato ha segno proprio che esattamente lo
segna, e perciò le relazioni delle proposizioni sono meno intralciate, son più
semplici, e sempre più si avvicinano alla forma fondamentale di ogni giudizio o
proposizione: soggetto copula e predicato. Un'altra osservazione debbesi pur
fare intorno a queste due specie di emittente. Quello che e più antico, più
abbondante di figure e di traslati, meno ricchi di segni che di forme, segna il
segnato per come si presenta in forza del l'associazione, e perciò nella loro
costruzione-riescono sempre più intralciati; cosicchè il soggetto dell'azione
sostanziale, l'azione sostanziale stessa, ed il suo oggetto, non van sempre in
ordine progressivo, ma per come si associano tumultuosamente un signato
coll’altro, cosi l'esprime: quindi la necessità di molti incisi e di molte
trasposizioni del signo. Al contrario, l’emittente più riflessivo, più
abbondanti di segni e men ricche di forme, abitua ad un'associazione d'idee più
ordinata, e perciò la proposizione conserva la fisonomia ordinaria del
giudizio, senza il tumulto d'idee bruscamente congiunte. Per questo un
emittente antico (Catone) non e più intelligibili a noi, se prima non mutiamo
la sua costruzione, da noi chiamata “indiretta”, in un’altra costruzione più
conforme all'ordine logico delle idee che diciamo “diretta” e che a noi è
divenuta più abituale. Se si interpreta an pezzo di Catone colla costruzione
stessa che ha nell'originale, non sarebbe mica intelligibile. Intanto si scorye
da ciò che al linguaggio appassionato ed oratorio, a quel linguaggio, che ha
bisogno di esprimere le idee per come si presentano nel tumulto delle passioni
o nel calore della perorazione, l’emittente antico e meglio adatto, e quella
stessa costruzione intralciata rileva vie maggiormente l'originalità e la
spontaneità dell'associazione delle idee. Al contrario, l’emittente nuovo si
presta meglio alle opere scientifiche, e per sostenersi nella poesia e
nell'oratoria ha bisogno di pensieri per sé stessi clevati, non potendo sperare
il loro effetto dalla varietà della forma e dallo stile figurato. Io non scendo
a particolari confronti tra stile e stile, poi che qui m'intrattengo dell'alta
semiotica generale. Lascio al non-filosofo lo applicare questo principio che nascono
dalla natura stessa del segno, dallo stato più o meno amplo delle idee e dal
corso delle loro associazioni. Solamente debbo notare che il migliore emittente
debbe esser quello, il quale accoppi i due diversi vantaggi, dello stile
figurato e dei traslati quando abbisognano, e della precisione rigorosa quando
è necessaria. L’emittente antico non puo riunire questi due vantaggi insieme,
se non che in un caso solo, quando cioè il popolo italiano è passato colla
medesima lingua dal primo periodo della spontaneità a quello della riflessione,
dall'epoca della poesia (mythos) a quello della filosofia (logos). Bisogna però
in tal caso che il popolo italiano mantenga i due registry in un solo sistema:
l'ordinario o basso ed il sublime o alto, il rigoroso ed il figurato. Questo
emittente e ricco di segni e di forme allo stesso tempo, ma pecca di molta
sinonimia, ed in generale offre un'esempio rilevante, che coloro, i quali
adoperano il rigistro esatto, non sa più riuscire nell'altro registro. Wikipedia
Ricerca Affezione Lingua Segui Modifica Il termine affezione (dal latino
affectio, sinonimo di affectus) nel linguaggio comune è usato nel significato
di "affetto", inteso come un sentimento di benevolenza verso il
prossimo, di intensità minore della passione. In filosofia il lemma
indica tutto ciò che avviene nell'animo determinandone una modificazione:
l'affezione è ogni «fenomeno passivo della coscienza», ossia la condizione in
cui si trova chiunque subisca un'azione o una modificazione[2].
AristoteleModifica In Aristotele, in senso generico, l'affezione è ciò che si
contrappone all' ἔργον, (azione): il πάϑος, il "patire", una delle
dieci categorie che si possono predicare dell'essere. I sensi producono
affezioni con i dati sensibili, che provengono dagli oggetti esterni,
sull'anima, che come una tabula rasane viene impressa, dando luogo così all'inizio
del processo conoscitivo. L'affezione può anche riguardare un
cambiamento di stato, cioè «una modificazione o carattere sopravvenienti a una
sostanza, come l'essere musico o l'essere bianco per l'uomo» In senso più
ampio, sempre in Aristotele, poiché dagli oggetti esterni provengono quegli
elementi che provocano nell'anima modifiche non solo sensibili ma anche
sentimentali come il piacere, il dolore, il desiderio...ecc., le affezioni
coincidono con le "passioni" della sfera etica Quest'ultimo
significato si ritrova anche in Cicerone, che adotta affectionescome sinonimo
di perturbatio animi o concitatio animi. Anche Agostino d'Ippona usa i termini
perturbationes, affectus, affectiones come sinonimi di passiones. La
funzione delle affezioni. Nella storia del pensiero la funzione delle affezioni
viene considerata in tre diversi modi: con Platone e il platonismo,
poiché il comportamento buono si basa sulla conoscenza del vero, le affezioni
sono dannose perché influiscono negativamente sia sulla conoscenza che sul
comportamento morale. Su questa stessa linea di giudizio sono Cartesio,
Spinoza, Leibniz, e soprattutto Hegel, che fanno rientrare le affezioni — sia
per la conoscenza che per la moralità — nell'ambito della false o confuse idee.
Nella filosofia aristotelica e in quella epicurea le affezioni sono valide
nell'ambito conoscitivo, poiché i dati sensibili ricevuti passivamente dal
soggetto sono sempre veri, mentre falsi sono i nostri giudizi anticipatori
(prolessi) delle sensazioni vere e proprie. Le affezioni sono valutate
positivamente anche dal punto di vista morale, poiché non esiste uomo senza
passioni, quindi il problema non è quello di eliminarle ma di moderarle
(μετριοπάϑεια). Con lo stoicismo le affezioni sono ineliminabili dal punto di
vista del processo conoscitivo, mentre vanno messe da parte nei comportamenti
morali, che non devono essere compromessi dalle passioni. Il saggio è colui che
raggiunge l'apatia, l'indifferenza alle passioni. Kant Secondo Kant, per le
nostre intuizioni è indispensabile che il nostro animo sia "afflitto"
(affiziert, "affettato") dalle affezioni. Quella della ragione
sarebbe una falsa conoscenza senza le affezioni sensibili. Se invece noi
intendiamo le affezioni come passioni allora il loro ruolo è puramente
negativo: esse sono, non diversamente da quanto aveva inteso Cartesio, «cancri
della ragion pura pratica, per lo più inguaribili. Il concetto di
affezione tuttavia fa nascere nella dottrina kantiana un problema relativo alla
dicotomia fra fenomeno e cosa in sé. Se l'affezione è tale nel senso per cui i
sensi del soggetto vengono modificati dall'oggetto, poiché spazio e tempo sono
parte della nostra intuizione sensibile come "a priori", indipendenti
dall'esperienza, e il noumeno è per definizione inaccessibile ai sensi, dove
mai l'affezione fisicamente modificherà la nostra sensibilità? Kant per uscire
dalla difficoltà parla allora di affezione come il risultato di un rapporto
causale, intellettivo e non intuitivo sensibile, tra l'oggetto e il soggetto
percipiente. Le categorie senza intuizione sono vuote, ma l'intuizione empirica
senza le categorie non porta ad alcuna conoscenza. NoteModifica ^
Dizionario Treccani di filosofia alla voce corrispondente; Enciclopedia
Garzanti di Filosofia alla voce corrispondente Aristotele, De Anima, Aristotele,
Metaphisica, (in Sapere.it alla voce "Affezione") ^ Aristotele,
Rhetorica, Cicerone, Tusculanae Agostino, De civitate Dei, La passioni sono una
"malattia" della razionalità. Sono utili per la vita come l'istinto
di sopravvivenza ma impediscono la serenità dell'uomo razionale. (In Ubaldo
Nicola, Atlante illustrato di filosofia, Giunti, Dizionario Treccani di
filosofia alla voce corrispondente ^ I. Kant, Critica della ragion pura,
Estetica trascendentale Cfr. I. Kant, id., Dialettica trascendentale ^ I.
Kant, Antropologia pragmatica Kant, Critica della Ragion pura, Analitica
trascendentale, 24 Voci correlateModifica Modo (filosofia) «affezione» Portale Filosofia. Intelletto
facoltà della mente di intendere e concepire Critica della ragion pura
libro del 1781 di Immanuel Kant Pensiero di Kant Wikipedia Il contenutoSimone
Corleo. Keywords: filosofia morale, filosofia dell’identita, filosofia universale,
meditazione filosofica, logica, antropologia, sofologia, noologia, noetica-estetica
-- linguaggio ordinario, principio dell’identita, Aristotele, la sostanza,
l’universale ontologico, la categoria come universale ontologico, segno,
signare communicativamente, segnabile, sensibile – nihil est in intellectu quod
prius non fuerit in sensu -- segnato, emettente, repertorio di segni,
repertorio di forme, composizionalita, communicazione primitive, pre-arbitrio pre-convenzione,
pre-consenso mutuo, spontaneita, naturalita, associazione, iconicita, bah-bah,
peccora, conversazione adulto-bambino, il vocativo “o” emesso sense intent
communicative – signa naturalmente che e necessaria l’attenzione spontanea,
scenario ii. Romolo e Remo, Eurialo e Niso. Le parti dell’orazione, il verbo e
le categorie agruppatta in quattro funzione: quantita, qualita, relazione,
modalita. Il nome sostantivo, il nome addgietivo, il avverbo, le particelle, la
congiunzione, il vocative “o” – la forma del giudizio e la proposizione
semplice “S e P” – modelo filosofico dello svilupo del signare
communicativamente – dello spontaneo (arbitrio duale tacito) al arbitrio duale,
l’idea di un gesto come SEGNO di una affezione dell’animo – DUALISMO? Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Corleo” – The Swimming-Pool Library.
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