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Thursday, November 28, 2024

GRICE E CORLEO

 

Grice e Corleo: all’isola -- la ragione conversazionale – scuola di Salemi – filosofia trapanesi – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Salemi). Filosofo trapanese. Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Salemi, Trapani, Sicilia. Grice: “Corleo is a genius --  His keyword is identity, the Hegelian type, and that’s why he attracted Gentile’s attention! But my favourite is his excursus on language! He talks like a veritable Griceian – about ‘intenzione’ and ‘pre-convezione’ – and the spontaneous cry to seek attention, Romolo from Remo, say – He very much elaborates on the subject and the predicate and the copula, and the other parts of speech – But he retains an empiricist, evolutionary viewpoint with which I wholly agree!” Studia nel Seminario vescovile di Mazara del Vallo, laureandose a Palermo. Crea un seminario di psicologia filosofica. Liberale, aderì alla rivoluzione siciliana. Su saggio, “Progetto per una adeguata costituzione siciliana”.  Durante la spedizione dei mille, fu nominato da Garibaldi governatore di Salemi – Saggio: “Garibaldi e i Mille”. Saggio: “Storia dell’enfiteusi dei terreni ecclesiastici in Sicilia”. Diviene conte di Salemi.  Altre opere: “Meditazioni filosofiche”; “Il sistema della filosofia universale; ovvero, la filosofia dell’identità”; “Per la filosofia morale”; “Lezioni di filosofia morale”. Dizionario biografico degli italiani. La regola d'identità, dipendente dall’esperienza e dal concetto appartene a qualunque specie di giudizio, giudizio affermativo (S e P) o giudizio negativo -- S non e P -- , giudizio condizionale -- Se p, q -- , giudizio tetico -- S e P --  giudizio ipotetico -- si p, q --, giudizio disgiuntivo -- p v q --  e via via. Poichè,ogni proposizione o giudizio, semplice or complessa, debbe congiungere un predicate ad un soggetto -- S e P -- o negare un predicato ad un soggetto -- S non e P --, e ciò non può farsi altrimenti che in forza della identità parziale o totale del predicato stesso col soggetto, ovvero del contrario o contrapposto del predicato in caso di giudizio negativo, sia cotesta identità assoluta, o sperimentale, sotto condizione, problematica, o in forma disgiuntiva. Il raciocinio è un complesso di giudizi che serve a scoprire una verità incognita per mezzo di una verità nota, o a dimostrare il nesso ignoto tra due verità conosciute. Onde il raciocinio deve esser fodato sulla medesima legge d'identità, che costituisce l'essenza dei giudizi di cui è composto. Ogni passaggio da una verità ad un'altra, da un giudizio ad un altro, è giustificato dalla connessione che deve esistere tra loro. Se connessione non vi è, non si può dall'uno inferir l'altro, non vi è passaggio legittimo o accettabile dal noto all'ignoto, e molto meno si può scoprire il nesso incognito tra due veri conosciuti. Or, questa stessa connessione non è che effetto d'identità. Parrà strano che la connessione si debba risolvere anch'essa in identità; ma riflettendo con attenzione, si scorge chiaro che in fondo è così, nè può essere altrimenti. Se S è connesso con P, ciò non importa che S sia identico con P, ma importa invece che ambidue sieno identici con S-P, cioè, che sieno parti integranti del tutto S-P, di guisa che la loro connessione non *significa* o signa altro, che il loro legame necessario per la formazione di quel tutto complesso proposizionale – “S e P” -- onde se essi non fossero con nessi a comporre il tutto S-P, quel tutto non sarebbe mai quello che è, non sarebbe identico alla somma delle parti che lo costituiscono. Due o più giudizi, tra loro connessi, sono parti integranti di un giudizio di maggiore estensione che tutti li abbraccia, ed è identico con essi come il tutto è identico con la somma delle sue parti. Laonde non può esser vero l'uno senza che sia vero l'altro, perocchè in diverso non sarebbe vero quel giudizio maggiore che risulta dalla verità di tutti i giudizi subalterni dai quali è costituito. Se, per cagion d'esempio, prendiamo ad esaminare ogni teorema geometrico intorno alle proprietà del “triangolo” in genere e delle varie sue specie, scorgiamo tosto che vi ha una continua connessione tra cotesti teoremi, nè puo uno esser vero se non sieno veri tutti gli altri di seguito; onde essi si dimo strano a vicenda. La ragione di ciò è semplicissima. Essi non sono che le parti necessarie di un solo tutto, del concetto di triangolo e delle sue specie subalterne, e tutti più o meno mediatamente in quel concetto complessivo sono compresi. Pertanto non vi ha che un identico totale (talora nemmeno avvertito ), il quale, per esser quello che è, ha bisogno che ciascuna delle sue parti sia quella che è, e che tutte insieme concorrano con unità di nesso a costituirlo, come le parti si debbon legare fra loro per unirsi nella identità di un sol tutto. Metto una grande importanza in queste osservazioni sul raziocinio e sulla connessione (consequenza logica) de' suoi membri; poichè l'unica che sembrerebbe scappare dalla rigorosa legge della identità sarebbe la connessione tra i giudizi diversi (premessa e conclusion), di cui consta un ragionamento. Eppure, quella connessione non è altro che il frutto dell'identità totale di un giudizio maggiore e più esteso, il quale abbraccia come sue parti necessarie ogni giudizio subalterno; e quelli sono per l'appunto connessi, perchè tutti in sieme formano un solo e identico giudizio di più larga estensione. Nè fa d'uopo che nel ragionare si abbia presente quel giudizio maggiore, nel quale si congiungono con identità totale i giudizi connessi. Esso opera senza che il ragionatore lo sappia, poichè è virtù dell'identico totale riunire per necessità le parti fra di lor, senza di cui egli non potrebbe esser quello che è. Ciò sapendo, chi ragiona può benissimo salire dai veri connessi a quel vero più ampio che tutti li abbraccia e nella sua unità totale li identifica. Sarà questo un sistema più completo di ragionare, perocchè non ci contenteremo di scorgere il nesso tra parecchi giudizi, di procedere per mezzo di tal nesso alla scoperta di un giudizio novella e di dire che uno essendo vero, tutti gli altri debbono pure esser veri; ma cercheremo ancora in qual giudizio plenario e più esteso essi tutti vadano a connettersi per la identità di unico comune risultato. In ciò consiste l'analiticita logica. Il raciocinio analitico ercano la dimostrazione dei teoremi singoli o la risoluzione dei singoli problemi nella proprietà, o nella funzioni e simili, che sono appunto i giudizii più ampli e plenary, nei quali tutti quei singoli s'identificano come parti di un sol tutto. Nella parte logica la connessione non è che l'identità del tutto più ampio con le sue parti subalterne, senza il cui necessario legame egli non risulterebbe quello che è. Il ragionamento è dimostrativo, quando serve a chiarire il nesso tra verità e verità. Dimostrare niente altro è che legare tra loro i giudizi come connessi, e la connessione pertanto vi è, perchè i loro rispettivi subbietti, quand'anco non si sappia, si raggruppano in unico e identico subbietto più esteso che tutti li abbraccia come tante sue parti: onde vi ha passaggio, dalla identità parziale di un predicato P col suo soggetto S, all'identità parziale dell'altro predicato P2 con l'altro suo soggetto S2, e così di seguito; perocchè essi tutti costituiscono un solo subbietto più esteso, che di tutti quei predicati si compone, e che perciò è identico con la loro somma. Un subbietto subalterno non potrebbe concorrere alla costituzione del subbietto totale, se non possedesse quel tale predicato e se gli altri subalterni non possedessero quelli altri predicati; onde la connessione fra tutti, se è vero l'uno, debbono esser veri gli altri, ed *implicitamente* deve esser vero il giudizio totale, con cui tutti s'identificano. È inventivo e non dimostrativo il raziocinio, quando, dalla verità che si conosce, si passa a quella che s'ignora; ed anco in tal caso la ragion del passaggio è fondata sulla connessione, e perciò sulla legge d'identità, in quanto che dalla identità parziale che si conosce, si sospetta prima e poi si scopre la identità totale. Per causa di alcuni punti d'identità o di parziali somiglianze tra un fenomeno ed un altro, si concepisce la *possibile* identità dei loro elementi in un sol tutto, e delle leggi che li governano. In questo caso vi ha l'*ipotesi* o supposizione, che annunzia come *possibile* identico totale quello che tuttora non è che un identico parziale. La conoscenza dei punti, della cui identità bisogna ancora certificarsi, conduce a cercare la medesima identità con quei mezzi, coi quali essa ordinariamente si osserva in altri simili. Ed allora uno dei due, o si giunge all'accertamento della identità di tutti gli elementi essenziali tra un fenomeno e l'altro, tra una legge e l'altra, e si ha perciò l'identità totale, si ha la tesi o posizione; o non si giunge ad accertarla per ostacoli presentemente insuperabili, di cui però dobbiamo renderci conto, e si resta in tal caso nella identità parziale, nella ipotesi o supposizione, pur sapendo quello che manca e perchè manchi, per poterla trasformare in tesi o posizione quando che sia. Tanto il raziocinio dimostrativo, quanto l'inventivo si valgono dell’esperienza concetto; poichè la *testificazione* della identità parziale tra predicato e soggetto di ogni giudizio, che compone un raziocinio, deve esser data dall’esperienza. Se è composto di giudizi sperimentali, risulta pur esso sperimentale; e la connessione dipende dalla loro parziale identità con un giudizio sperimentale di ordine superiore, il quale talvolta nemmeno è conosciuto, ma vi si deve giungere in forza di altre esperienze, come per lo più accade nel raziocinio inventivo. Siccome pero il giudizio sperimentale e tale temporaneamente, cioè fino a tanto che l'identità del predicato P col soggetto S sia solo testificata dall'esperienza, perchè ancora tutti gli elementi di essa non sono conosciuti, nè si ha l'identico concettuale che dovrebbe trasformare in concettuale il giudizio em pirico, così i raziocinî sperimentali, o anco misti, potranno divenire quando che sia raziocinî concettuali, fondati sull'identità assoluta dei concetti, quando cioè l'esperienza, per la perfetta analisi e sintesi delle parti col tutto, si eleva a concetto fisso ed assoluto con la conoscenza degli elementi proporzionali che costituiscono l'identico totale.Vi ha dunque passaggio dalle verità empiriche e dai ragionamenti empirici alle verità assolute ed ai raziocinî concettuali, a misura che la scienza progredisce nel conoscimento delle parti integranti che costituiscono i subbietti dei giudizi sperimentali, ed a misura che essa discopre il nesso tra quei subbietti parziali ed il subbietto più esteso che tutti l'identifica in un complesso solo. È questo il doppio scopo finale dell’uomo: la cognizione concettuale e necessaria dei fatti sperimentali per mezzo degli elementi proporzionali che li costitui scono, e lo svolgimento dei concetti più complessi nei loro con cetti subalterni, che sono del pari i loro elementi costitutivi. Pertanto l'essenza del raziocinio non può essere collocata in una forma piuttosto che in un'altra; essa consiste nel passaggio dalla identità totale alle identità sparziali che la costituiscono, o dalle identità parziali alla totale per mezzo della scoperta di quelle altre identità parziali che sono con loro connesse per compiere l'identità totale. Bisogna dunque assi curarsi, per mezzo dei concetti, della doppia identità delle parti e del tutto per avere ragionamenti rigorosi; e non potendo giungervi per mezzo dei concetti, assicurarsene per mezzo della esperienza. In questi due soli modi è possibile il raziocinio. Chi cura soltanto la forma esteriore del ragionamento e ripone la logica nello studio delle leggi della FORMA LOGICA, non prende di mira lo scopo vero del raziocinio, che è l'accertamento della identità de' giudizi connessi col tutto di cui sono parti; e perciò corre l'aringo di un VUOTO FORMALISMO alla Hilbert, che non è mai garanzia sicura di esatti ragionamenti. Or, perchè mai i subbietti di tali giudizi son dive nuti concettuali e perciò includono necessariamente i loro pre. Tre sono state le più grandi logiche formali. La prima e l’induzione primitiva: quella che argomenta dal particolare al particolare per mezzo di un generale appoggiato ad altri particolari. La seconda, quella che argomenta il generale dai particolari (necessario se i particolari si presentano con caratteri di necessità, empirico se si presentano soltanto come fatti di esperienza) per poter poi discendere dal generale ad altri particolari: il sillogismo di Aristotele preceduto dalla classificazione dei necessari e degli empirici, predicabili e predicamenti, che costituiscono le sue categorie. Terza legge formale: la induzione di Bacone, e quella che ascende dai particolari empirici ai generali pure empirici, adottata da ogni naturalista sensista e positivista. Il sillogismo di Aristotele fu scompagnato dalla sua precedente classificazione categorica per opera dei neoplatonici come Porfirio e BOEZIO, che vollero così conciliare a forza Aristotele con Platone, e poi per opera degli scolastici e dei moderni idealisti. Essi hanno adottato la sola argomentazione dal generale al particolare ponendo il generale come idea, che si afferma da sè per la sua evidenza e pei caratteri di necessità, di universalità e di assolutezza che la distinguono, senza indurre le categorie dalla classificazione dei fatti, come fa Aristotele. Niuna pero di queste argomentazioni formali costituisce da sè un esatto ragionamento: esse sono o inutili allo scoprimento del vero, o pericolose di errore, o tali almeno che non posson menare al concetto scientifico e necessario, perchè non conducono al vero identico totale. Difatti la induzione primitiva argomenta da un particolare all'altro in forza d'identità parziali; e peggio, da un certo numero di particolari, che si somigliano in taluni punti, argomenta il generale. Perchè questa casa fuma, perciò si brucia! E perchè il legno delle nostre cucine fumando si brucia, perciò: OGNI cosa che fuma si brucia! Da somiglianze o identità parziali si vuole argomentare l'identità totale di un fatto con un altro, o anche più, l'identità totale di tutti i fatti che parzialmente si assomigliano. Il sillogismo dei neoplatonici e degli scolastici, conchiudendo dal generale al particolare e ponendo il generale in virtù della luce dell'idea, non trova mai verità nuove. Poichè, s'io dico, che il tutto é maggiore della parte, e percið ne deduco che il libro dicati, mentre altri rimangono soltanto empirici e perciò la identità tra predicato e subbietto dev'essere soltanto attestata dal l'esperienza? Chi fa che taluni giudizi siano concettuali ed altri non? D'altra parte, è poi sicuro che le idee che noi abbiamo siano tutte esatte, e non può accadere che vi si contengano predicati che loro non appartengano veramente, in modo che apparisca una identità necessaria tra predicato e subbietto, mentre essa non è che l'effetto di una inclusione di predicato che veramente nel concetto non deve entrare? Quanto alla formazione di un concetto si deve notare, che essa avviene per opera di astrazione, la quale procede in due modi, o spontaneamente, per effetto d'identica presentazione dei punti identici delle percezioni e di separazione dei diversi, ovvero riflessivamente e volontariamente, cioè per deve esser maggiore di ciascuna pagina, non affermo in conclusione una verità nuova; ma dico due proposizioni, di cui l'una è tanto vera e tanto evidente, quanto è vera ed evidente l'altra, nè vi è affatto ragionamento. Se però il generale è posto in forza di un cumulo di esperienze o di fatti (sia quanto si voglia lungo ed esteso quel cumulo) si corre pericolo di errare; poichè allora dalla similitudine, o dalla identità par ziale che hanno fra loro alcuni fatti, si vuol provare che tutti gli altri, i quali abbiano identità parziali conformi, debbano somigliarli in tutto il resto. È allora una induzione mascherata sotto le forme assolute di un sillogismo. Poichè, una delle due: o il particolare, di cui si cerca, si ebbe già presente nella formazione del generale, o il generale fu formato per gli altri particolari simili, ma senza di lui. Nel primo caso, lungi che il particolare, di cui si cerca, acquisti luce dal generale, è desso che con corre a formarle. Nel second, si ha il solito vizio di argomentare da alcune identità parziali, tra un fatto particolare e gli altri dello stesso genere, alla loro totale identità. Perchè moltissimi esseri che hanno la figura umana hanno la ragione, percio qua lunque selvaggio che presenta la figura umana, deve avere la ragione? La induzione baconiana ha lo stesso difetto, perocchè non potendo raccogliere che un certo numero di fatti particolari, grande quanto pur si voglia, da’ essi soli suo generale, e poi ne argomenta agli altri casi particolari per ragione di parziali somiglianze. Essa inoltre non perviene mai al necessario ed all'assoluto, perchè non giunge alla identità concettuale del tutto cogli elementi che lo costituiscono. Tutto al più, vi giunge come la categorizzazione di Aristotele (che per lui deve precedere il sillogismo), cioè ritiene l'assoluto ed il necessario nel generale, perchè i particolari si presentano anch’essi con tali caratteri di necessità e di assolutezza. Il tutto è necessariamente maggiore della parte, o è assolutamente identico alla somma delle parti, perchè con tale necessità ed assolutezza nei fatti singoli il tutto si presenta in tali rapporti con le sue parti. Non si perviene mai all'identico, si rimane sempre nell'empirico, in tutte coteste forme di ragionare. Come la necessità ed assolutezza dell'idea si accetta empiricamente, perchè essa con tali caratteri si presenta alla coscienza, cosi nelle varie suddette forme di ragionare si rimane pur sempre nel passaggio empirico da identità parziali ad altre parziali, o peggio, ad altre total, senza assicurarne la totale identità. rea analisi che l'uomo fa di proposito sui complessi ancora inde composti delle percezioni, e sugli stessi primi astratti tuttavia decomponibili. Seguendo sempre la regola dell'identico e del di verso, con la quale si forma idee tipiche e concettuali delle parti più salienti delle percezioni, e di quelle altre che, pur connettendosi con le percezioni stesse, non potranno mai divenire oggetto immediato di percezione. Nasce da ciò un doppio ordine di concetti ben distinti, cioè di quelli che si formano spontaneamente e primitivamente per l'identica presentazione dei punti identici delle percezioni e per la spontanea separazione dei diversi, e di quelli altri che da sè non si offrono, ma è neces sario l'uomo se li procuri colla propria riflessione e col proprio studio, cioè con l'applicazione della legge dell'identità nelle analisi ulteriori, e se li trasmetta tradizionalmente per non per derli. Nel primo caso, l'identico tipico del concetto si costituisce da sè spontaneamente, e perciò il predicato si trova tosto incluso nel soggetto concettuale di cui fa parte. Nel secondo, l'identico tipico del concetto riflesso si costituisce mediante la voro mentale, e per lungo tempo, in mancanza dell'idea, è d'uopo ricorrere all'esperienza, affinchè essa testifichi l'identità del predi cato col soggetto, non potendo nel soggetto trovarsi il predicato a prima fronte, sino a tanto che non sorga netta e chiara l'idea in tutte le sue parti costitutive. Nei concetti spontanei e primitivi, formati dalla identificazione tipica dei punti più chiaramente identici delle percezioni, non può esservi pericolo di errore, logicamente parlando; poichè identicamente si presenta e si presenterà sempre ciò che identicamente si presenta, e diversamente il diverso. Onde i concetti fissi, fondati sulla identità logica, e perciò as loluti e necessarî. All'incontro, le idee (concetti riflessi) ela borate dall'uomo, ben vero con la stessa regola della identità, ma composte di elementi ch'egli astrae da gruppi diversi e che egli poi mette insieme, possono per avventura non es sere logicamente esatte; poichè per un momento si fallisca o per disattenzione, o per precipitanza, o per pregiudizi, alla rigorosa regola della identità nel condurre l'analisi riflessa, o nel mettere insieme gli elementi astratti dai gruppi diversi, potrà uscirne un'idea monca ed imperfetta nel primo caso, erronea nel secondo. E quel ch'è peggio, divenuta tipica tale idea che contiene o non contiene il predicato, l'operazione del giudizio o del raziocinio, che verrà a cercarlo in essa, riuscirà difettiva oppure erronea, come difettosa o erronea era l'idea. Difettiva o erronea l'idea (cioè, mancante di elementi necessari, o intrusi in essa elementi che non le convengono), sarà sempre causa di errore nel giudizio ideale che su di essa si fonderà per legge logica d'identità, e conseguentemente nel raziocinio. Nello stesso modo, un'esperienza mal condotta o per difetto o per syista e confusione di una cosa con un'altra, sarà fonte d'errore nel giudizio empirico, e quindi nel ragionamento che da esso prenderà le mosse. Gl’errori di esperimento si correggono con la ripetizione e col controllo di tutti quelli che se ne occupano. Gl’errori però dell'idea debbonsi correggere con un buono ed accurato esame ideologico, al quale debbono collaborare tutti gli studiosi delle rispettive materie. Ma qual sarà la regola, con la quale si potrà fare l'esame delle idee, o di quei concetti riflessi che l'uomo si è formati col proprio lavoro, per conoscere se elementi vi man chino, o se vi siano intrusi degli elementi che non possono en trarvi? La regola dell'esame non può essere che quella stessa la quale deve presiedere alla loro formazione, cioè quella del l'identità totale dell'idea con l'identità parziale dei singoli ele menti che la costituiscono. L'idea deve essere decomposta nei suoi elementi, e deve essere osservato se tra essi e l'idea vi sia perfetta e totale identità: così soltanto potranno includersi quelli che difettano e potranno escludersi quelli che non convengono; poichè nell'uno e nell'altro caso l'identico totale mostra quello che gli manca, o quello che gli conviene, per essere quel che è. In tal modo è possibile l'esame, e la rettificazione delle idee, occorrendo; ed in ciò consiste un buon trattato d'Ideologia. La scuola empirica, duce il Locke, aveva già compreso la necessità dell'esame delle idee, all'oggetto di non ammetterle soltanto in forza dei loro caratteri este riori di evidenza, necessità, universalità ed assolutezza, con cui s'impongono. La disposizione che si dà al complesso de' giudizi ed ai ragionamenti, sia per esporre, sia per dimostrare, sia per avviare alla ricerca, costituisce il metodo, il quale non può avero altro scopo, che quello di condurre all'identico totale per mezzo di tutti i suoi parziali, o ai parziali per la decomposizione del loro totale. Il metodo sta ai ragionamenti, come il ragionamento sta ai giudizi: egli ha lo scopo di fare un ragionamento com plessivo di tutti i ragionamenti subalterni mediante la regola della doppia identità parziale e totale. Onde il vero metodo scientifico è certamente analitico e sintetico insieme, man è l'ana lisi sola, nè la sola sintesi, nè entrambe unite, potrebbero con durre a risultati scientifici, se non avessero per rigorosa regola l'identità, e se non mirassero al suo conseguimento finale in tutti i giudizi e raziocinî, sperimentali, concettuali, o misti. Parlo del vero metodo scientifico; poichè per comunicare alle masse i risultati della scienza, o per indurre in loro la persua sione necessaria all'adempimento dei proprî doveri, una esatta analisi degli elementi delle idee o dell'esperienze, ed una esatta loro sintesi, all'oggetto di condurle a rigorosa identità totale, Perd essa voleva rimontare, senza alcuna ragione nè possibilità di riuscita, alla ori gine cronologica delle idee. Voleva inoltre, far provenire le idee dai sensi. Onde, in vece della vera origine cronologica, ben difficile a trovarsi per le singole idee, diede spesso supposizioni romanzesche sulla prima nascita delle medesime, e sopra tutto delle idee morali, col preteso stato naturale e col contratto sociale. Tutte quelle idee che non potè giustificare coi sensi, le rigetto, o le ammise alla credenza pubblica come necessità indemostrabili della nostra natura. Onde i posteriori idealisti, visto l'inte lice esito dell'esame, son tornati ad ammettere le idee in virtù della loro evidenza e dei loro caratteri che s'impongono alla nostra ragione, sia ritenendole verità prime indiscutibili ed indispensabili ad ogni ragionare (scuola del senso comune); sia supponendole forme assolute del pensiero  quidquid recipitur ad formam recipientis recipitur (scuola kantiana ); sia riputandole innate e facienti parte del nostro intel letto, almeno in una prima idea fondamentale, quella dell'essere (*scuola rosminiana*); sia ammettendole come frutto d'interne azioni e reazioni dello spirito (scuola di Herbart); sia credendole comunicazioni della mente medesima di Dio, intuizioni, tocchi misteriosi (*scuole giobertiane*), o anche evoluzioni della stessa idea divina, assumente caratteri di progressiva attuazione per la legge dialettica de contrari (scuola hegeliana ), attuazione dell'idea in forza di volontà preordinante e producente (scuola di Schopenauher ), o attuazione inconscia (scuola di Hartmann ). Tutti supposti, appoggiati a me tafore, a superficiali osservazioni, o a dogmi, per dare una spiegazione dei caratteri delle idee senza volerle esaminare in sè stesse, nei loro attuali elementi costitutivi, adducendo a prova della impossibilità dello esame l'infelice risultato ottenuto dagli empirici, i quali ebbero bensì il buon volere, ed anche la presunzione dell'esame, senza mai averne studiato i mezzi convenienti non sono punto possibili, nè anche utili. Laonde è d'uopo r correre ad esperienze ovvie, a idee evidenti e generalment ammesse, per inferirne le bramate conseguenze. Or se è vero che percepire distintamente, sintetizzare, analizzare, ricordare, astrarre, concettuare, ideare, giudicare, connettere e ragionare, non sono altro che più o men largamente identificare le parti ed il tutto, spontaneamente o riflessivamente, in forma sperimentale o in forma tipica assoluta, se cid è vero, diviene pur troppo evidente che, per potere scorgere l'identità più prontamente e con maggiore chiarezza, sarebbero assai utili due cose. Primo, abbreviare e ravvicinare tra loro con SEGNI le percezioni ed i loro elementi, le idee ed i loro elementi. Secondo indicare con segni le successive operazioni che vengon fatte spontaneamente o riflessivmente sui detti complessi e loro elementi. L'algebra ed il *calcolo* per sè non sono scienza, ma sono potenti mezzi di scienza, in quanto abbracciano e ravvicinano le idee e le operazioni su di esse fatte rendendo più facile e più sicuro il colpo d'occhio su di loro per scorgerne le identità e le differenze. Or, perchè non sarà possibile una logica aritmetica o matematica per agevolare la conoscenza delle identità parziali e totali, dalle quali dipende tutto l'eser cizio della intelligenza? Non vale il dire che nell’aritmetica e la geometria si tratta di rapporti tra sole quantità, e perciò e possibile un segno abbre viativi e le operazioni identiche. Mentre invece nella logica generale si dovrebbero trattare molti altri rapporti di QUALITà, che variano tra loro indefinitamente, e perciò l'aritmetica non si potrebbe applicare alla logica. Non vale il dire questo; poichè tutti i rapporti tra le QUANTITà hanno unico fondamento comune, l'identità costante di ogni unità con sè stessa, in guisa che non possa crescere nè decrescere in alcun modo, e che ogni unità valga quanto un'altra. Onde il fondamento vero dell’aritmetica e dei loro processi è tutto nella identità, come in generale il fondamento di tutte le operazioni dell'intelletto; e la loro unica regola consiste nella IDENTIFICAZIONE. Non vi ha dunque difficoltà vera contro la formazione di un'aritmetica logica; il cui scopo non dev'essere altro che quello di fissare, abbreviare, e con un segno, costante e certo, ravvicinare fra loro le idee ed i loro elementi, e le operazioni che su di esse si fanno. Nella scelta del segno per tale oggetto, non occorre far tutto a nuovo. Come nell'aritmetica, si posson prendere le lettere alfabetiche per indicare i complessi della percezione e dell'idea, non che i loro elementi, cioè le lettere maiuscole (A, B, C…) pei complessi, e le lettere minuscole (a, b, c, …) per gli elementi, se fossero gli uni e gli altri conosciuti e categorizzati. Se ancora non fossero conosciuti distintamente, potrebbero adoperarsi i soli punti. Ogni segno dell’aritmetica, più, meno, eguale, maggiore, minore, hanno posto nella logica o semiotica matematica o aritmetica. Il dubbio ha un segno nella scrittura ordinaria, l’interrogativo – la quesserzione --. Un segno pure abbiamo nella stessa scrittura per indicare un seguito di cose simili, che corrisponde all' &. Soltanto resterebbero a stabilirsi un segno per quell’operazione che nell'aritmetica e nel linguaggio ordinario non esiste. Questo segno si riducono a distinguere lo stato spontaneo dal stato riflesso, che sono i due stati del nostro animo, ed ambidue i detti stati dal di fuori di essa. Per tale scopo descrivo due spazi, uno spazio inferiore e l'altro spazio superiore, chiusi da tre linee parallele orizzontali. Il di fuori è tutto quello ch'è al disotto dello spazio inferiore e lo spazio superior. Lo spazio inferiore indica lo *spontaneo*. Lo spazio superiore indica il *riflesso*. Indico con quadrati di linee, di punti, o di lettere, i complessi e le loro parti, sia percepito, sia non percepito, o sia salito allo stato di riflessione. Un punto e una lettera minuscola indicano i loro elementi. Il punto indica che l’elemento non e conosciuto. La lettere indica che l’elemento e conosciuto. Denoto il simile con due parallele verticali. Rappresento l'identico con la convergenza di due linee in un angolo verticale. Se l’identità non è completa, ma sol tanto parziale, una delle due linee sarà più corta dell'altra, quasi per indicare la mancanza. Due quadrilateri che convergono e si toccano con un lato rispettivo in un angolo vertical rappresentano la sintesi dei punti identici. Se i due lati divergono, le quadrilateri rappresentano l'analisi dei diversi. Indico il connesso con una serie di anelli di una catena. Esprimo il negativo col segno 3 del meno sovrapposto a quello che voglio negare, il non identico, il non simile, il non dubbio, ecc. $ 54. Ecco così la serie dei segni principali: + più, meno, =  uguale, <: maggiore; ‘>’: minore; ‘ll’ simile, 1 identico, ^ identico parziale,? dubbio, 000 connesso, (II) in contatto, & etcetera, -1-- non simile, ^ non identico,?- non dubbio cioè riflesso spontaneo, [ ] non percepito, I percepito in comcerto, plesso, percepito distintamente senza categorizzazione di TAI parti, 71 percepito e sintetizzato, !! percepito e analizzato, DU U IV / TAL sintesi ed analisi spontanea e riflessa, |A| astratto com Ul Tala plessivo, Tala astratto con la parte a. | A la S 55. Quando non occorre distinguere lo stato di spontaneità da quello di riflessione, cioè quando si è nei concetti riflessi (idee), nei giudizii e nei raziocinii nei quali non entrino l'esperienze e le percezioni, i due spazî, che segnano lo spontaneo ed il riflesso, si trascurano. L'idea ed i suoi elementi si rappresentano così ovvero al ovvero A:, ovvero secondo chè sieno più o meno distinte e conosciute le sue parti elementari. Il giudizio ha una delle due formole: 10 AA? Bİ, il concetto o la percezione A è identica a B? A A? Bİ, non è identica certamente, oppure la risposta contraria: è iden tica certamente, 1 -?-; 2º Aja?, l'elemento a fa parte dell'idea a _?. o della percezione A? La risposta si dà col negare il dubbio (A) а h g bAt a b A. cde? с a hg an. Or, dire che a fa parte di A è lo stesso che dire 1A | {4} +/ biali, с de cioè l'elemento a è identico ad uno degli elementi di A, essendo OOO gli altri elementi b c d e f g h. Il raziocinio in generale ha la formola della connessione logica, cioè della connessione nello stato riflesso, che è l'identità de’ suoi membri in un tutto mag giore, di cui sono parti; onde è necessario che sieno veri i membri con reciproca connessione, affinchè sia vero il loro tutto. Onde la formola del raziocinio in generale sarebbe: ^()()(). Con le parentesi esprimo i membri di versi del raziocinio che fanno da premesse (e possono essere parecchi) e quello che fa da conclusione, indicando la loro connessione e l'identità di essi in un sol tutto più ampio con quel segno intermedio di connessione riflessa e d'identità, che qui equivale al dunque. Il ragionamento erroneo si esprimerebbe con l'identico non identico Â, con la contraddizione. $ 56. Il raciocinio è o dimostrativo, o inventivo; ed in ogni caso esso passa dalla identità parziale di una idea con un'altra, o di un esperimento con un altro, alla identità totale (S 43). Onde la formola generale di ogni raziocinio ne' suoi passaggi è i sempre questa: (a"B') (a000bcdefghh), a h g с de b h g ovvero OOO d e (a), (^Bİ). Quanto a dire: A e B contengono a, sono parzialmente identici. Come si farà per sapere se sieno totalmente identici? Bisogna dalla parziale identità a riconoscere se pur vi sieno le altre parziali identità b c d e f g h. Ciò si può sapere in due modi: o che vi sia connessione tra a e tutti quegli altri, o che a li contenga. Bisogna accertare uno dei due, o decomponendo i rispettivi concetti, o sperimentalmente. Accertato uno dei due, o per connessione 000 che signa l’identità dei membri col loro tutto, o per continenza che signa lo stesso (il tutto che contiene le parti), si ha passaggio logico legittimo 000 al dunque, alla conclusione; e pongo il segno d'identità 1 sul dunque, perchè ogni connessione di membri esprime la loro identità col tutto che li contiene $57. Lo scopo di cotesti segni non deve esser quello di sostituirli al linguaggio ordinario; poichè in tal caso ogni ragionamento prenderebbe l'aspetto della matematica e del convenzionalismo di Poincare e il formalism di Hilbert; onde sarebbero ben pochi coloro che avrebbero la forza di mente e l'abitudine necessaria per condurre così i loro raziocinî. Io mi son limitato nella mia semiotica (significa) universale a servirmene come mezzi di reddiconto e di controllo, a ragionamenti finiti; poichè giova il riassumerli con segni e presentare la forma logica della percezione, dell’idea e del concetto, i loro rispettivi elementi, e le varie serie di operazioni su di loro eseguite, per potere a colpo d'occhio discernere il cammino della identità in tutti i giudizi e ragionamenti. Nella cennata mia opera ne ho fatto largo uso in questo modo, nè domando per ora che sieno adoperati altrimenti. Qui pero, in questo lavoro sintetico e riassuntivo del sistema, non renderebbero più facile la comprensione delle idee, alla quale aspiro; onde io non me ne servirò, lasciando che i leggitori di mente più ferma ne prendano esperimento nelle singole dimostrazioni, alle quali già li ho applicati nella suddetta semiotica universale. Sotto il generico vocabolo “parola” (cf. Grice, ‘to utter’) si può intendere qualunque segno communicativo che serve a rappresentare una percezione o un'idea o concetto. Pur nondimeno questa voce “parola” – cf. Grice “to utter” -- nell'uso ordinario è ristretta a signare un suono articolato, con cui l’uomo esprime e communica la pércezione o la idea o concetto ad altro uomo; e siccome il suono articolato e stato legato ad altro segno, così la parola, oltre di esser pronunziata (pro-nuntiatum), è anche scritta. Orche cosa è mai questa *communicazione* da un'uomo all'altro? Questa communicazione propriamente è un mezzo di suscitare nell’altro uomo, al quale si dirigge, una percezione o una idea o concetto consimile a quelle che ha e che vuol *communicare* (o signare) colui che ‘signa’. Perciò la communicazione consiste nel far sorgere nell’altro quella stessa percezione o quella stessa idea. Ciò in due modi può succedere, cioè: o mediante una convenzione, arbitrio, concordo, patto, sul segno, sia volontariamente fatta, sia abitualmente seguita, cosicchè ogni segno per ragion di associazione convenzionale desti una percezione o un'idea corrispondente; o pure mediante una naturale (iconica, assoziativa) associazione o meglio co-relazione che si stabilisce tra un segno e una percezione o idea o concetto, cosicchè non abbisogni altro che imitare (proffere) appositamente questo segno per suscitare nell’altro la percezione o idea o concetto naturalmente (iconico, assoziativo) annessa o co-relata. È del primo modo – il modo di correlazione convenzionale -- la maggior parte dei segni; poichè una convenzion prima espressamente o tacitamente fatta, e l'uso che ciascun trova del sistema di communicazione del suo popolo, fan sì che appena si manipula un determinato segno, tosto si destino in coloro che ascoltano le percezioni e le idee co-rispondenti. Sono del secondo modo ogni segno che per lo più imitano una proprieta naturale, come la voce del cane (“Daddy wouldn’t buy me a bow-wow”), il romore del vento, lo scorrer del fiume il rimbombo del tuono, della esplosione, ed altri simili. Ancorchè l'uomo non sa per antecedente convenzione il ‘signato’ di tale ‘segno,’ egli tosto si fa l'idea del ‘segnato’ che s'indica, perchè la imitazione – iconicita, assoziativita – della proprieta naturale sveglia la percezione socia. Sentendo “bac-buc” dei tedeschi, quantunque non sa l'alemanno, mi debbo far tosto l'idea del vuotarsi di un vaso a bocca stretta. In questa categoria va pure il vocativo “o”, perchè la pronunzia molto spontanea di questa vocale fa volgere la persona verso il punto donde “o” vien pronunziato: e quindi da per sè stesso il vocativo “o” serve a chiamare, perchè ottiene spontaneamente questo effetto o risponsa nell’recipiente. Intanto il segno, oltre che serve a mettere in communicazione due uomini fra loro ed a far nascere in essi la ri-produzione (o trasferenza psicologica) di una percezione e di una idea secondo la volontà del ‘signante,’ è al tresi utile ad un'uomo solo, allorchè egli si racchiude in se stesso e si va rappresentando le cose per meditarvi. Difatti è un'osservazione ben comune che noi parliamo dentro noi stessi, allorquando pensiamo le diverse cose, e principalmente allor quando ci rappresentiamo una idea astratta. La influenza del segno sull’astrazione comincia ad esser guardata con attenzione quando i filosofi della scuola sensista credettero che l'unica differenza tra l'uomo ed il bruto consistesse nel segno communicativo. In verità è ben facile rilevare che senza gl'innumerevoli segni articolati l’uomo non puo mai formarsi e ritenere l'immensa serie d'idee astratte, e per dirla più esattamente, non puo egli nè sintetizzare ne analizzare in sì gran copia, posciachè l’astrazione è figlia dei grandi incrociamenti delle sintesi e delle analisi. Certamente i punti simili delle percezioni rappresentandosi similmente si sintetizzano, ed i dissimili si analizzano rappresentandosi dissimilmente. Ma se per ciascuno di quei punti simili e dissimili non vi fosse un segno associato, non e mica possibile riprodurre e ritenere la immensità delle similitudini e delle differenze che offrono da un momento all’altro la percezione. Imperciocchè tra moltissimi punti simili, che fra loro si differenziano in picciola cosa, sarebbe più fa eile la confusione, anzichè la distinta rappresentazione di ciascun grado minimo di somiglianza e di differenza per mezzo delle percezioni medesime. Al contrario, il segno articolati e diversissimi d’altro segno articolato; e perciò attaccando un segno a ciascuna di quelle minute sintesi ed analisi, si ha di già quanto basta per poterle esattamente richiamare, senza poterle mai confondere un segno per altro. Per esempio, quante gradazioni diverse non offre un colore solo, il concetto di “bianco” (o “bianca”)? Or si potrebbero mai ritenere senza confonderle tutte queste gradazioni? Ma l’uomo vi adatta un segno diverso per signarle, e la confusione è evitata. Egli dice “bianco chiaro”, “bianco sbiadito”, “bianco lordo”, “bianco latte”, ec. Vi sono poi delle parti di percezioni che si isolano dal complesso mediante l’astrazione, e se non vi fosse un segno per risvegliarne l'idea, non puo esser pensate giammai. Per esempio, l'idea o il concetto astratto o generale o universale di “colore” – il nero non e un colore; il bianco no e un colore --, siccome abbraccia ogni colore, con qual di essi partitamente o complessivamente si puo rappresentare, se non vi fosse un segno distinto (gaelico glas: verde o blu?) da tutti i co fori singoli per richiamarla? Vi e pure un gruppo d'idee astratte che con maggior ragione han bisogno di un segno per essere pensate, come la “gloria”, la “virtù”, l’ “onore”,  il “dovere”, ec. Cosi anche e il concetto meta-fisico dell’essere sopra-sensibile, Iddio, la sostanza, ec. É in forza dell'unità del segno, che sorge l'unica idea astratta; poichè, se vogliam provarci a idear (o mentare) la cosa senza segno alcuno, particolarmente in una nozione astratta che non ra-presentano o signa un essere reale, ma soli rapporti fra gli esseri, non sappiamo veramente come farcene l'idea. Oltre a tutto ciò il segno ha una virtù speciale, che fa vedere il legame di una idea coll’altra; perciocchè, messo un segno radicale o di radice (“amare”), ogni variazione di desinenza e e ogni derivativo indica o signa, come un gruppo che costituisce un'azione risultante venga variandosi in mille modi: il che importa una sintesi mista all'analisi, perchè la radicale ferma indica il punto fondamentale della somiglianza, mentre ogni desinenza e ogni derivato fa vedere ogni categoria: quantita, qualita, relazione, modalita – per citare la funzione kantiana della categoria d’Aristotele -- tempo, luogo. Questo vantaggio non si puo altrimenti ottenere, che coll’articolazione del segno sub-segmentale (prima e seconda articolazione), poichè rimanendo fermo un segno come segno radicale sub-segmentale (articolazione prima e seconda) (“am-”), il segno articolato (mutato della radice) indica la differenza (“amans”, “amatus”, “amiamo” “ambi due amiemo”) fine a formare una proposizione compieta: il mittente con il signans signa al recipient *che* il mittente crede che ama al recipiente. Siegue da tutto ciò che il segno articolato ha un'influenza grandissima nella operazione della sintesi, dell'analisi e dell'astrazione; e siccome senza del segno articolato l'uomo non può nè giudicare (operare con una proposizione) nè ragionare (inferire una proposizione d’altra), cosi il segno articolato ha un'influenza suprema nel giudizio e la volizione e nel raziocinio (di giudizio e di volizione). Infatti il sordo-muto ha un limite strettissimo nella sintesi,  nell’analisi e nell’astrazione; ed a misura che si allarga in loro la sfera dei segni per mezzo della gesticolazione, e più anche per mezzo di un sistema alternativo, il sordo-muto inoltransi nell'astrazione, il suo giudizio, la sua volunta, ed il suo ragionamento – di giudizio o di volonta -- divene più estesi e più esatti. Dopo che si disse che l'uomo non puo mai dare origine al segno articolato o communicativo, la scuola di Bonald si valse di questa stessa dottrina per fondarvi sopra l'edificio della divina rivelazione, che dovette communicarsi al primo uomo coll'insegnamento diretto del segno communicativo, e che dovette tradizionalmente discendere col segno medesimo in tutta l'umana generazione, fino a che colla dispersion babeliana delle lingue venne a guastarsi la forma genuina primitiva del segno soppranaturale, praeternaturale rivelato, e varii innesti di origine umana si attaccarono al primitivo tronco, cosicchè insiem col segno furono anche travisate le idee della rivelazione prima. Questa stessa dottrina è stata abbracciata con molta facilità da Gioberti, quantunque in tutt'altro alla scuola di Bonald egli non appartenesse. Non entro in questa questione dal lato teologico (o genitoriale), molto più che non veggo nella antica religione romana nessuna espressione che alluda all'insegnamento primitivo del segno per mezzo di un dio. Veggo per altro che le anzidette scuole han preso a dimostrare filosoficamente che l'uomo da sè stesso non può dare origine al linguaggio, e con questa dimostrazione negativa credono dare il più saldo appoggio alla necessità della primitiva rivelazione della parola. Guarderò adunque le loro ragioni da questo stesso lato filosofico, e porrò così il quesito: È egli vero che per poter ‘signare’ comunicativamente in qualunque guisa bisogna l’uso preventivo dell’astrazione, e viceversa per potere astrarre bisogna l'uso antecedente del ‘signare communicativo? Se ciò fosse vero, sarebbe questo un circolo vizioso (“a Schifferian loop”), da cui non potrebbe mai uscire l'origine puramente umana del ‘signare communicativamente’; e perciò, essendo un fatto che l'uomo signa communicativamente, ed ammesso che egli sia stato *creato* da un dio (Prometeo), re sterebbe come una ipotesi interamente consona alla divina bontà di Prometeo che egli stesso gli abbia insegnato o signato a signare communicativamente fin dalla origine o dalla genesi alle rivelazioni! Resterebbero cosi giustificati gli argomenti della scuola teologica o genitoriale di Gioberti. Ma a me pare che, posto a quel modo il quesito, la necessità del circolo vizioso venga tutta dal non voler discendere nella minuta analisi di un tutto complessivo – un complesso proposizionale --, e dal volere la spiegazione sintetica di un fatto che costa d'innumerevoli elementi, senza volere esaminare come nascano gli elementi medesimi, e come gradatamente si combinino fra loro per costituire il fatto totale nel modo che oggi si presenta. Uno dei difetti delle scuole dell'età nostra è questo precisamente, che i nodi voglionsi tagliare invece di scioglierli; e cosi mi pare sia accaduto al problema che riguarda l'origine del signare communicativamente. Infatti, se si domaada: l'uomo può esercitare quella vastità di astrazione che attualmente esercita senza fare uso del signare communicativamente? La risposta è facile: nol può: perchè il segno communicativo, siccome testé abbiam veduto, influisce grandemente nell'esercizio dell’astrazione. Parimente se si domanda: l'uomo può signare communicativamente (con “o”) senza l’esercizio dell’astrazione? è anche facile ugualmente la risposta che nol può: perchè la convenzione implica la conoscenza dell'utilità del signare communicativamnte, ed implica nel tempo stesso l'attaccamento di un'idea (“presta attenzione”) ad un segno articolato (“o”), il che è un'effetto di astrazione. Ma il problema non è ben presentato col porre le due anzidette domande; perocchè non si vuol sapere se l'esercizio completo del signare communicativamente, qual'è attualmente, può stare senza l’uso dell'astrazione, nè anche si vuol sapere se lo sviluppo immenso che ha preso l’astrazione nelle molte successive generazioni del popolo italiano possa mai stare senza l'uso del segno articulato. Invece il problema vero è quest'altro. Vi può essere un atto di signare communicativamente primitivo, un primo uso di un segno articolato (“o – o – o”), colla sola influenza di un'astrazione (o articolazione) di primo grado, la quale per compiersi non ha bisogno dell'uso del atto di signare communicativo. Quando due cose s’influiscono a vicenda, in modo che non può crescer l’una senza che cresca l’altra, se si guardano *sinteticamente* dopo un lunghissimo periodo di mutuo accrescimento, non pajono più naturalmente spiegabili, e comparisce quella specie di circolo vizioso, di cui si parla inpanzi, perchè lo sviluppo pieno del l’una suppone lo sviluppo pieno dell’altra, ed amendue si suppongono talmente a vicenda, che non si sa più qual delle due debba esser prima. Per isciogliere un problema di tal fatto bisogna incominciare dal periodo o fase o stadio primo, cioè dal momento men complicato e meno sviluppato. Allora soltanto si può scorgere la influenza mutua, e come mano mano vengano accrescendosi l’una coll’altra. Qui trovo un’obbiezione ben facile. Mi si dirà: avete voi elementi storici ben certi per poter determinare qual sia stato il periodo primo dell’atto di signare communicamente in Romolo e Remo. Anzi taluni credono trovare nell'etnografia una base sufficiente per poter sostenere che il segno communicativo più antico e più elevato e più ricco di forza plastica. Onde da quelli si crede che l’atto del signare comunicativamente e andati mano mano deteriorando. Veramente, se debbo esaminare il mio problema sull’appoggio del solo dato storicio  non mi credo autorizzato a dare una soluzione diffinitiva. Imperciocchè io non son’ uso a sciogliere un problema a posteriori, e viceversa, so che la *ragione* necessaria delle cose governa la storia. Non entro ad esaminare se l’uomo e creato adulto o no; o se, dimenticato il primitivo atto del signare communicativamente, sia stata possibile la nascita di un atto *nuovo* di signare communicativemente. Non entro in un esame storico, dal quale la mia semiotica non puo sempre ricavare un risultato filosoficamente rigoroso. Invece, domando se e possibile, senza precedente arbitrio alcuno, stabilirsi una communicazione di un segnato tra due uomini per mezzo di un segno (“o”) anche *involontariamente* (spontaneamente, naturalemnte) adoperati, e, se trovata l'utilità pratica o prammatica di un arbitrio mutuo di tal fatto. Si puo fare avvertitamente e per mutuo arbitrio ciò che prima si è fatto *spontaneamente*. Posta così la questione, non ha bisogno più della ricerca storica. Si attacca alla natura comune – la ragione -- di due uomini – una diada conversazionale, Romolo e Remo, Niso ed Eurialo --, quantunque anche la storia puo venire in conferma di ciò che la cosa deve essere per natura sua propria – uomo animale razionale. Distingo due specie del genero segno: ma non e necessario moltiplicare i sensi di ‘segno’ sine necessita. Primo e un segno naturale, spontaneo, imitative, mimetico, iconico, assoziativo. Secondo, e a posteriori altro segno – un segno devenuto segno dopo un mutuo arbitrario. Or sebbene il mittente che usa un specimen particolare di segno “o” che imita una proprieta naturale spontanea, il segno “o”, sieno per sè stesso assai ristretto, pure ha questo di particolare. Senza bisogno di arbitrio mutuo alcuno, e senza anchie aver lo scopo di *conimunicare* (transfere il segnato) all’altro un qualunque segnato (sensum, percipito), puo essere adoperati, e producono l’effetto della communicazione (communicato, segnato) che non e primariamente nell' *intenzione* di nessuna delle due parti. Nessuno più di un bambino italiano è da natura inclinato ad imitare (‘bow wow’) i romori che sente o perceve. Non è necessario supporre che questa imitazione (‘bow wow’) ha uno scopo, fine, volizione, o intenzione (volutum). Il bambino italiano imita spontaneamente, e signa che e in relazione con un cane, è come la ri-petizione naturale della cadenza che si esieguono non dall'uomo solo, ma anche dai bruti. Comincio da questo caso semplicissimo, non perchè io creda che l’atto del signare communicativamente sia nato in questo preciso modo, ma quando si cerca la possibilità di una cosa, bisogna ricercarla tra le possibilità più semplici e più comuni. Imperciocchè, pria che si dice che una cosa non può essere, è mestieri osservare in quante maniere ben semplici ella può avvenire. Or vediamo, allorchè un’uomo imita spontaneamente un suono qualunque naturale (“o-o-o”), che cosa accade nell’altr’uomo che lo interpreta (l’interprete). Il segno imitato per ragione di semplice associazione o iconicita richiama naturalmente la percezione della causa che suole ordinariamente emettere cotal segno. Per esempio, se un bạmbino italiano, senza la menoma intenzione communicativa, e solo per il puro piacere imitare, esiegue il belato (‘bah bah’) della sua pecora, chiunque lo sente si rappresenta in quel momento l'animale che fa quel belạto. Senza *voler* o avere l’intenzione di communicare, i. e. d’informare ad altro, vi è di già tutto quello – il principio razionale --  che costituisee la communicazione e la conversazionale. Un segno, a cui è attaccato una percezione, adoperato la prima volta, ‘one-off’, spontaneamente, per caso, per imitazione, per qualunque altra causa, desta la percezione socia, e senza arbitrio mutuo alcuno divien segno della medesima causa (‘bah bah’ = pecora). Infatti, se il bambino italiano che imitava poc' anzi il belato della sua pecora, non conosce punto il segno articolato ‘pecora’, e se io voglio più tardi rinnovare in lui la percezione della pecora, che altro dovrei se non che imitare il belato medesimo? Nè ciò dipende da che io conosco l'utilità del segno. Giacchè potrei supporre all'inverso che il bambino italiano il quale, imitando spontaneamente il belato della pecora (“bah bah”), si accorse o da un segno (“bah bah”), o dallo sguardo ch’io do alla pecora, che già mi feci ricordanza della pecora, più tardi il bambino stesso potrebbe servirsi a ragion veduta di quel belato per riprodurre in me or di proposito la stessa percezione. Immagino un’altro caso. Se alla vista (visum) di un pericolo (leone) l'uomo (Eurialo) gitta un grido – “o-o-o” --, un suono qualunque, quand’anche non sapesse che vi fossero altr’ uomo (Niso), dal che potrebbe essere soccorso, il grido spontaneo che suole uscire per lo più involontariamente, spontaneamente, naturalmente - sotto il dominio della paura o pena, e se a quel grido si ve dessero accorrere altr’uomo, il quale, scorgendo la posizione pericolosa, viene in aiuto, non sarebbe tosto quel grido spontaneo “o-o-o” un segno della “chiamata” in aiuto, segno non devenuto da mutuo arbitrio in principio, nia che per l’effetto ottenuto o la risponsa ottentua divene base di un mutuo arbitrio in avvenire? Immagino anche un’altro caso più semplice. Se un'uomo spontaneamente, e senza *intenzione* communicative alcuna, signa “o-o-o”, il segno più facile ad articolare, e se altr’uomo (Remo, Niso) e presente e sente o perceve che Romo ha profferito un specimen di un segno, che cosa mai dovrà avvenire? Non si voltera verso colui che signa? Non è naturale il rivolgersi verso il punto donde parte il segno? Ebbene, un'effetto si è ottenuto. Questo segno profferito senza intento alcuno o intenzione comunicativa alcuna richiama l’attenzione dell’altra parte della diada conversazionale. Ciò che si è dapprima, one-off, ottenuto senza intento communicativo o intenzione communicativa, può la seconda volta esser voluto *di proposito*, voluntariamente, -- def. di verbum in Aquino -- per la utilità che se n’è ricavata: ripetendosi dunque avvedutamente lo stesso segno, quello è divenuto un vocativo naturale. E noi osservammo che appunto questa vocale “o” è il vocative nella Roma di Remo (o tempora o mores) e nella Roma di oggi. L’arbitrio mutuo o duale dunque non nasce dapprima a ragion veduta, ma nasce per mezzo di un'effetto o risponsa, che un segno, EMESSO per accidente (“o”) o per imitazione, consigue. Volendo di nuovo ottenere avvedutamente lo stesso effetto o la stessa risponsa, non ci vuol’altro che ripetere un altro specimen del stesso genero di segno (“o”). L’arbitrio mutuo dual è bello e fatto. Or quando vi sono tante possibilità d'incominciare l'uso di un segno articolato e di dar luogo spontaneamente a un arbitrio mutuo e duale, come si può dire in tuono assoluto che sia impossibile l'uso del segno senza aver la preventiva conoscenza della utilità del segno medesimo? Non dico che l’atto del signare communicativamente nacque in questo o in quell’altro modo. Dico che vi sono moltissime possibilità tutte *naturali*, nelle quali l'uomo può avvertire l'utilità dell'uso di un segno articolato per l’effetto o la risponsa spontanea, no intenzionata, che ne ottiene, e senza il bisogno di un preventivo arbitrio duale. Basta questo per distruggere a rigor di logica le basi tutte di quell'edificio che si vuol fondare sull’impossibilità assoluta che l’uomo signa senza prima aver conosciuto l'uso e l'utilità dell segno. Ma invero il brutto ebbero forse insegnato da Dio l'uso del atto di signare communicativamente, con che communica (o transferre) il suo bisogni, la sua gioia, il suo pericolo, la domanda del soccorso? Forse non vediamo fin dal loro nascere i varii animali communicarsi per mezzo di un segno, per lo più *istintivo* -- che causa una risponsa istintiva, i diversi loro stati? Non puo il brutto perfezionare il suo atto di signare communicativamente, perchè non ha facoltà di sintetizzare e di analizzare gli elementi della percezioni, e molto meno ha facoltà astrarre, siccome vedremo a suo luogo. Ma la co-rispondenza o co-relazione dell’effetto o stimolo, in esito al suo primo segno istintivo fa si che il brutto lo ripeta volontariamente; e tutti conosciamo come un animale domnanda il cibo o la libertà del movimento per mezzo di segni speciali, nel che dalla sua parte vi ha una specie di “tacito” arbitrio duale (Androcle e il leone), perché l’effetto ottenuto o la risponsa ottenuta una volta, per ragion di associazione o co-relazione iconica istintiva associativa, fa appunto le veci di un arbitrio duale. Se dunque questo segno inferiore è possibile nel bruto, il quale non astragge, perchè lo stesso principio di spontaneo tacito arbitrio duale non è possibile fra due uomini! Un uomo, che ha la piena capacità di astrarre, riconosce più facilmente l'utilità dell’effetti ottenuto o della risponsa ottenuta dall’altra parte della diada conversazionale, e si crea l'idea generica del arbitrio duale del segno, dalla quale discende poi come conseguenza la necessità di *variare*, fare piu ricco, illimitato, creativo, e di fine aperto, in ragione di questo o quello bisogne, in ragion di questa o quella percezione, o in ragione di questo o quello concetto astratta. Concepita una volta l’utilità dell’uso del atto di signare communicativemente, del segno articolato (terza articolazione), non ci vuol’altro che possedere in fatto la capacità di variare e combinare *indefinitamente* in modo aperto e illimitato, l'articolazione e la operazione di questo o quello segno primitivo, e l'uomo possiede già questa capacità meravigliosa. L’uomo adunque può, da un certo numero di fatti spontanei in cui il segno è riuscito a *stabilire* un arbitrio duale, elevarsi all'idea astratta dell’arbitrio duale del segno, poichè da un fatto singole si forma la sintesi, l'astrazione, e l'idea generica; e possedendo in fatto la varietà indefinita, componibile, di questo o quello segno articulato primitivo, è già nel caso di far da sè tutto il resto. Quantunque il segno che compone l’atto del signare communicativo e per arbitrio muto, pure siccome debbono *signare* una percezione (S e P), gli tre elementi delle medesime (S, e, P) ed i concetti astratti, debbono quindi ritrarre le proprietà fondamentali dell’uomo, cioè la relazione costanti che debbono avere fra ogni percezione, e ogni operazione o combinazione. Perciò, sebbene e diverso il segno che si adoperano ne' varii paese dell’Italia per signare il medesimo segnato, pure in ogni dia-letto vi sono parti fisse del discorso o dell’orazione, vi è una sintassi necessaria, vi sono in somma una relazione che e comuni a ogni segno. In primo luogo, siccome ogni percezione rappresenta un risultamento esteriore ed e anch' esso del risultamento organico subbiettivo, perciò vi ha un fondo comune in ogni percezione ed è l'azione risultante, che equivale alla somma di ogni azione sostanziale aggregate insieme. L’azione sostantiva e la aggregazione di questa o quella azione sostantiva, ecco ciò che è comune a ogni reale ed a ogni percezione. Quindi in ogni atto del signare communicativamente debbe esistere un segno addetto ad indicare l’azione risultante in tutta la loro immensa varietà. Questo e il segno del “verbo” – Varrone, verbum, greco rheo --, cioè il segno per eccellenza, per chè in verità, tutto quello che si può rappresentare, ad azione sostanziale si riduce, e perciò il segno del verbo (la copula) è il fondamento di ogni segno. Ogni proposizione si aggira intorno al segno del verbo (il S e P), e se vuol farsene un'analisi, la mossa si dee sempre prendere dal segno del verbo, perchè un segno che non e un verbo non puo indicare, se non che un rapporto dell’azione risultante signata dal segno verbo. Inoltre, per questo stesso che ogni azione *risultante* e non basica, e composte della combinazione di questa o quella azione sostanziali intransitive ed immutabili, è necessario che ogni verbo ha il loro fondamento in un solo segno di verbo, e che quel segno del verbo e *intransitivo* (la copula e intransitiva), siccome e questa o quella azione sostanziale, dalla che nasce ogni azione risultante, la quale e ra-presentata dal resto della classe del segno del verbo. Infatti abbiam notato già da molto tempo che in ogni atto di signare communicavemente vi è un verbo sostantivo intransitivo, il verbo “essere”, al quale si possono facilmente ridurre ogni altro verbo, decomponendoli in “copula e predicato”. Io amo è lo stesso che io sono amante. Ed è notevole che ogni segno di verbo chiamati attivo, o meglio transitivi, perchè denota un’azione che passa dal soggetto all'oggetto, si sciolgono tutti in un segno di verbo fondamentale che è intransitivo, o come i modisti dicono neutro – epiceno, mezza voce --, cioè nè attivo nè passivo. Poichè ciò che è veramente transitivo é la forma del risultato, ma ognuna delle azioni sostanziali componenti è intransitiva. La sintesi e necessaria e l'analisi e necessaria, perchè una percezioni e complessiva e costa di questo o quello elemento, che colla riproduzione, sovrapponendosi gli uni agli altri, si sintetizzano nel punto simile e si analizzano nel punto dissimile. Bisogna dunque che ogni segno indica un composto o complesso proposizionale, e che ogni segno articulato composito e de-compo nibili. Però, siccome gli elementi di ogni risultato e una azioni sostantiva, perciò è necessario che ogni segno si puosciogliere in un segno solo che indica l’azione sostantiva, non come occulta (sub-stantia), ma come realtà, cioè come essere, onde il *nome* (nomen, onoma – nomen substantivum, nomen adjectivum) non meno che il segno del verbo, si sciolgono tutti nell'essere, il quale è verbo e nome allo stesso tempo, ed è appunto verbo sostantivo, perchè indica un’azione che sta per sè stessa, e che non ha bisogno dell'altrui appoggio. Un nomine addiettivo e ogni altro segno sin-categorematico che indica quantita, qualita, relazione, o modalità o relazione, ra-presentano la composizione, il risultato, la combinzione di questa o quella azione sostanziale, e perciò non e mai da sè sole, ma ha bisogno di un segno di verbo o di un segno di nomine (S e P), su cui debbono appoggiarsi. Conciossiachè in verità la consposizione e qualunque suo modo di essere non può stare senza questo o quello componenti, anzi non è altro che la somma medesima di questo o quello componento. Però, siccome la composizione è una forma complessa, e come tale si distingue da cia scun componente, quindi è che tutte le parole indicanti modd lità, quantità e relazi ni, conie gli avverbii, le preposizioni, le congiunzioni, gli aggettivi, ec. non sono riduttibili al solo verbo essere, nè al solo nume essere, a differenza del segno del verbo e del segno del nome che ogni segno si reduce al verbo sostantivo “essere”. Nel tempo stesso non possono sussistere per sè, ed han continuo bisogno di questo o quello essere (il S, il P), perchè la composizione non può stare senza di questo o quello singolo componento. Sotto tai riguardo la differenza che passa tra ogni segno che indicano la quantita, la qualita, la relazione, e la modalità dell’azione sostanziale e quella che indica l'azione medesima, e quella stessa differenza che esiste tra il tutto e la collezione di questa o quella parte che lo compone; imperocchè il segno del verbo, e principalmente il verbo “essere”, nel quale ogni segno di verbo si sciolgono, indica la collezione di questa o quella azione, mentrechè il segno del nome aggettivo, il segno del avverbo (ad-verbium, come la particola “non”), la preposzione (in latino, i casi), il signo di congiunzione (copulativa, e, adversative, ma), ec. indica come questa o quella azione e disposte, e che relazione ha fra loro, in ogni vario gruppo che compone. Siccome ogni gruppo di azioni è un *risultato* che subisce questa o quella modificazione (declinazione, congiuggazione) secondo i cangiamenti parziali del numero (singolare, duale, plurale) e della posizione di questo o quello componento, cosi vi ha una sintesi fondamentale in ogni parte simile che nel risultato e ferma, e vi ha una continua analisi di ogni parte variabile ed accessoria. Per questa ragione e necessario il segno radicale che esprimono la parte *sintetica* fondamentale, cioè, il fondo permanente dell’azione: il radicale poi si va cangiando nella sua desinenza (uomo, uomni, pater e familia, paterfamilias), o in suo articolo definito (il – ille, la -- illa) o indefinito, “segna-caso”, ed ausiliare, per indicare ogni variazione e accessorio che in torno a quel gruppo fondamentale di questa o quella aziona si effettua. Il atto di signare monosillabica dei cinesi supplisce a ciò coll’accozzare diverse sillabe, cioè diverse segni, di cui ognuna esprime una idea, e tutte unite esprimono un complesso. Una idea fissa si esprime con un signo fisso. Una segnato variabile si esprime con un segno variantie. Sorge da ciò la necessità del segno derivativo, del segno della desinenza e del segno del prefisso, infisso, e suffisso, come anche la necessità di trasformare in maniera avverbiale un nome e un verbo, e di operare ogni cangiamento di preposizione in verbo ed in nome, dell’aggettivo in sostantivi e viceversa. Poichè, fissa la forma fondamentale, ogni mutamento di forma debbe esprimersi con cangiarli secondo il bisogno e secondo la relazione che vuolsi esprimere tra un gruppo di azioni ed un'altra. Finalmente vi ha un'altra forma obbligata in ogni costruzioni del discorso, ed è quella del giudizio, poichè ogni proposizione – in ogni modo – indicativo, imperative -- in giudizio o volizione si risolvono, e come si va da un giudizio all'altro per mezzo di una connessione, così la proposizione prende forma concatenata e compone un period (protasi, apodosis), e questo periodo s'incatena con quello periodo e forman un discorso. Però è no ievole che l’operazione dell'analisi e l’operazione della sintesi spontanea non puo altrimenti annunziarsi che sotto forma di “proposizione”, cioè di giudizio o volizione; quantunque agli occhi perspicaci del filosofo anche un segno solo, considerata nella sua radicale o nella sua derivazione, indica benissimo l’operazione analitica che vi è dentro. La ragione, per cui non si può annunziare ad altri, che sotto forma di giudizio, una completa operazione di sintesi e di analisi, si è appunto questa, che quando si annunziano ad altri cotali operazione di sintesi o analisi, vi è di già il concorso della riflessione, e perciò non si annunzia altro che il risultato ultimo della sintesi e dell'analisi riflessa, il qual risultato e il giudizio e la volizione, ambe due con contenuto proposizionale. Onde si ha che nello singolo signo si rappresenta le sintesi e le analisi spontaneamente fatte, e nel complesso si rappresenta il risultato totale, che perciò appunto veste la forma di giudizio o volizione con contenuto proposizionale. Da tutte queste osservazioni emerge che il segno e la sua costruzione (sintassi) in ogni popolo – o paese d’Italia -- debbe avere una forma fissa (semiotica agglutinativa) e una forme variabile (semiotica componenziale), siccome il risultamento organico subbiettivo ed il risultamento esteriori obbiettivo ha una forma fissa e una forme variabile, poiché il segno debbe necessariamente prendere lo stesso aspetto del segnato. In ogni segno possono riguardarsi due parti distinte, cioè il segno e la costruzione del segno. Ogni segno è segno di una percezione, o di una parte di percezione, o di un'idea o concetto (signato). La costruzione del segno ra-presenta ogni relazione che ha questa o quella percezione, questa o quella idea, questo o quello segnato. Onde il signo è lo specchio più sicuro del grado delle conoscenze di un emittente del segno. Poiché la povertà o la ricchezza del repertorio semiotico e di questa o quella forma di costruzione indica quante percezioni, quante idee, esistano presso il medesimo emittente, ed in quante maniere sa  metterle in relazione fra di loro. Però è notevole una cosa, che forse non è stata abbastanza studiata sino al presente. C’e un segno (“colletivo”) che non esprime una percezione sola o una idea sola, ma serve ad esprimerne più di una. Per sapere se mai una di tale segno esprima una idea piuttosto che un'altra, fa d'uopo stare attento alla *forma* del discorso, dall' insieme del medesimo, come anche dalla forma della costruzione, si ricava ciò che precisamente si vuol signare col segno che si adopera. Questo fatto è ben noto ai filosofi sensista; ma forse la causa del fatto non è da loro cercata con rigore semiotico. Acciocchè un segno sia adoperato a signare un segnato diverso d’altro segnato (equivocazione), è necessario che il segno in origine appartenga ad un segnato solo; poichè non è presumibile che siasi voluta fare un arbitrio dual anfi-bologico (equivocazione – para-bologica – il rasaio di Occam), cioè un arbitrio duale di usare un segno solo per rappresentare un segnato e altro segnato, appunto per far nascere la dubbietà di sapere il segnato che propriamente vuolsi indicare. Allorchè dunque si presenta un segnato nuovo, che perciò non ha ancora segno proprio, il segnato stesso fa sperimentare il bisogno di trovare o inventare o concevire un segno per indicarlo, ed in pari tempo il segnato (es. spirito) fa svegliare l'idea socia di un segnato simile avente un segno proprio (spirare). Allora l'uomo prende quel segno, e se ne serve per indicare il segnabile novello ch' è ancora propriamente IN-segnato. Questo bisogno si sperimenta più di tutto nell'esprimere una idee astratta (‘implicatura’), a cui mano mano un emittente si eleva; e perciò si serve del segno che indica un segnato, quanto più è possibile, somigliante a quella idea (im-piegare). Nasce cosi l'uso del traslato: un segno, che propriamente è servito ad indicare una segnato (lo spirare), è adoperata a signare un'altra (lo spirito) che solo ha con essa qualche somiglianza. Il traslato di tal fatta e una necessità, perchè la presentazione di un segnabile IN-signato conduce al bisogno di signarlo, e non potendo formarsi sul momento un segno apposito per l'impossibilità di fare un pronto arbitrio duale, si ricorre più prestamente al segno del segnato simile, lasciando pure al resto del discorso l’incarico di mostrare la diversità e la novità del signabile previamente IN-segnato, pel quale si adopera una segno. Ma oltre a ciò vi ha pure una necessità di usare un segno da traslati o metaforicamente, quantunque il signato che vuolsi esprimere ha segno suo proprio. L’esattezza del segno appartiene sopra tutto a quel filosofo oxoniense che e avvezzo alla precisione del segnato e del segnabile non segnato, e che valutano ciò che propriamente esprima ciascuno dei segni, che essi adoperano per indicarle. Ma il numero maggiore degli uomini non può mai aver fatto queste esatte meditazioni, e molto meno può aver l'abitudine del linguaggio preciso. Inoltre gli uomini, spinti dal momentaneo bisogno di communicare il segnato, e molto più quando sono sotto il dominio delle passioni che maggiormente l'incalzano, non han tempo a ricercare il segno che esattamente corrisponde al segnabile IN-segnato. Allora succede un'effetto ch' è tutto proprio dell'associazione delle idee. Si presenta un segnabile che non richiama prontamente alla memoria il suo segno, ed invece richiama per ragion di similitudine un'altra percezione segnata che ha pronto il segno. Allora l’emittente, senza metter tempo ir mezzo, si approfitta di questo segno cognosciuto per indicare, non il segnato proprio, ma un segnabile simile; e cosi si la un'altro genere di traslato, cioè il traslato metaforico. L’interprete o recipiente e pur'essi obbligato da quel segno a passare dal segnato simile non propria al segnato propri; e ciò, quando la similitudine calza bene, riesce a proccurare una maggior persuasione, come pure riesce a rappresentare lo stato di esaltamento dell'animo del emittente, quando lo si vede correre rapidamente di segnato in segnato, senza aspettare la corrispondenza esatta del segno, é con servirsi di un segno che indicano un segnato simile. Quest'altro genere di trasláti è anch'esso una necessità, perchè la maggioranza degli uomini non può sempre misurare il segno, e molto meno lo può, quando è sotto l' ardore delle passioni, o nel momento di una pubblica arringa, in cui il segno naturalmente si eleva colla metafora per l’imperioso bisogno di esprimersi con qualunque segno si presenti più adatta. Con questi criterii è ben facile giudicare, perchè vi sieno emittente di repertorio ricco ed emittente di repertorio povero, perchè vi sieno emittente di repertorio riccho e emittente di repertorio povere di forme, ed in qual rapporto stieno tra loro l'abbondanza e la povertà degli uni e delle altre. Il emittente men civilizzato e meno avvezz alla riflessione filosofica, avendo un minor numero di segnati, debbono esseri poveri di segni; ed a misura che son poveri di sengi, più abbondano di traslati, perocchè ad ogni nuovo sengabile che ai medesimi si presenta debbono adattare per similitudine un segno. Queste emittente però diventa di un repertorio ricchissime di forme, ed inclinano quasi sempre alle circonlocuzioni (perifrasi) ed al figurato (metafora). Ciò è ben naturale, perché la forma stessa del discorso deve dare a comprendere che el sengo non venga adoperata nel uso suo ordinario, ma in un uso di somiglianza, in un uso figurato o allegorico. Questo emittente si presta anche facilmente alla nascita di un segno composto (bi-cicletta), perchè sentono il bisogno di accoppiare due segni indicanti oggetti proprii, per segnare un segnabie che ha una somiglianza con ambidue uniti insieme (portmanteau). Perciò questo emittente contiene un signo radicale che si prestano ad inflessioni molto diverse, e per quanto son povere di radice originaei, tanto son ricche di composti e derivati. Per ciò sogliono chiamarsi il più anticho emittente. Non vuolsi confondere un ricco repertorio delle forma con un ricco repertorio di segni, nè si deve credere che la ricchezza delle forme sia indice della perfezione maggiore dell’emittente, molto più quando non è congiunta a - ricchezza vera di signo. Al contrario, i segni di più avanzati nella riflessione e nella civiltà hanno un più esteso numero di vocaboli proprii, e fanno molto conto della purità e della proprietà del segno: onde esse sono più aliene dalla sinonimia, scansano le figure, e adoperano al bisogno strettissimo i traslati. Queste linyne si prestano meglio all’esattezza scientifica, ma quanto sono rigorose, tanto son più fredde, poichè non si confanno collo stato dell'uomo appassionato, il quale afferra qualunque segno avente somiglianza col segnable che vuole signare. Un emittente i di tal sorta non e nato con quella esattezza fin dalla loro origine; perciò porta l' impronta di molte radicali, di molti decivativi e di traslati che appartennero all'epoca più antica. Tutti questi però coll'andare del tempo hanno acquistato segnati loro proprie; cosicché non si ha più l’idea di un traslato o di una metafora in ciascun segno, ma vi si scorge un segnato tutto proprio (By uttering ‘You’re the cream in my coffee’ I sign that you are my pride and joy). Ciò prova che questo fenomeno e recente, e figli, anzichè padre. L’emittente e ricchissimo nel repertorio di segni, ma molto povero nel repertorio di forme poichè ogni segnato ha segno proprio che esattamente lo segna, e perciò le relazioni delle proposizioni sono meno intralciate, son più semplici, e sempre più si avvicinano alla forma fondamentale di ogni giudizio o proposizione: soggetto copula e predicato. Un'altra osservazione debbesi pur fare intorno a queste due specie di emittente. Quello che e più antico, più abbondante di figure e di traslati, meno ricchi di segni che di forme, segna il segnato per come si presenta in forza del l'associazione, e perciò nella loro costruzione-riescono sempre più intralciati; cosicchè il soggetto dell'azione sostanziale, l'azione sostanziale stessa, ed il suo oggetto, non van sempre in ordine progressivo, ma per come si associano tumultuosamente un signato coll’altro, cosi l'esprime: quindi la necessità di molti incisi e di molte trasposizioni del signo. Al contrario, l’emittente più riflessivo, più abbondanti di segni e men ricche di forme, abitua ad un'associazione d'idee più ordinata, e perciò la proposizione conserva la fisonomia ordinaria del giudizio, senza il tumulto d'idee bruscamente congiunte. Per questo un emittente antico (Catone) non e più intelligibili a noi, se prima non mutiamo la sua costruzione, da noi chiamata “indiretta”, in un’altra costruzione più conforme all'ordine logico delle idee che diciamo “diretta” e che a noi è divenuta più abituale. Se si interpreta an pezzo di Catone colla costruzione stessa che ha nell'originale, non sarebbe mica intelligibile. Intanto si scorye da ciò che al linguaggio appassionato ed oratorio, a quel linguaggio, che ha bisogno di esprimere le idee per come si presentano nel tumulto delle passioni o nel calore della perorazione, l’emittente antico e meglio adatto, e quella stessa costruzione intralciata rileva vie maggiormente l'originalità e la spontaneità dell'associazione delle idee. Al contrario, l’emittente nuovo si presta meglio alle opere scientifiche, e per sostenersi nella poesia e nell'oratoria ha bisogno di pensieri per sé stessi clevati, non potendo sperare il loro effetto dalla varietà della forma e dallo stile figurato. Io non scendo a particolari confronti tra stile e stile, poi che qui m'intrattengo dell'alta semiotica generale. Lascio al non-filosofo lo applicare questo principio che nascono dalla natura stessa del segno, dallo stato più o meno amplo delle idee e dal corso delle loro associazioni. Solamente debbo notare che il migliore emittente debbe esser quello, il quale accoppi i due diversi vantaggi, dello stile figurato e dei traslati quando abbisognano, e della precisione rigorosa quando è necessaria. L’emittente antico non puo riunire questi due vantaggi insieme, se non che in un caso solo, quando cioè il popolo italiano è passato colla medesima lingua dal primo periodo della spontaneità a quello della riflessione, dall'epoca della poesia (mythos) a quello della filosofia (logos). Bisogna però in tal caso che il popolo italiano mantenga i due registry in un solo sistema: l'ordinario o basso ed il sublime o alto, il rigoroso ed il figurato. Questo emittente e ricco di segni e di forme allo stesso tempo, ma pecca di molta sinonimia, ed in generale offre un'esempio rilevante, che coloro, i quali adoperano il rigistro esatto, non sa più riuscire nell'altro registro.  Wikipedia Ricerca Affezione Lingua Segui Modifica Il termine affezione (dal latino affectio, sinonimo di affectus) nel linguaggio comune è usato nel significato di "affetto", inteso come un sentimento di benevolenza verso il prossimo, di intensità minore della passione.  In filosofia il lemma indica tutto ciò che avviene nell'animo determinandone una modificazione: l'affezione è ogni «fenomeno passivo della coscienza», ossia la condizione in cui si trova chiunque subisca un'azione o una modificazione[2].  AristoteleModifica In Aristotele, in senso generico, l'affezione è ciò che si contrappone all' ἔργον, (azione): il πάϑος, il "patire", una delle dieci categorie che si possono predicare dell'essere. I sensi producono affezioni con i dati sensibili, che provengono dagli oggetti esterni, sull'anima, che come una tabula rasane viene impressa, dando luogo così all'inizio del processo conoscitivo.   L'affezione può anche riguardare un cambiamento di stato, cioè «una modificazione o carattere sopravvenienti a una sostanza, come l'essere musico o l'essere bianco per l'uomo»  In senso più ampio, sempre in Aristotele, poiché dagli oggetti esterni provengono quegli elementi che provocano nell'anima modifiche non solo sensibili ma anche sentimentali come il piacere, il dolore, il desiderio...ecc., le affezioni coincidono con le "passioni" della sfera etica Quest'ultimo significato si ritrova anche in Cicerone, che adotta affectionescome sinonimo di perturbatio animi o concitatio animi. Anche Agostino d'Ippona usa i termini perturbationes, affectus, affectiones come sinonimi di passiones.  La funzione delle affezioni. Nella storia del pensiero la funzione delle affezioni viene considerata in tre diversi modi:  con Platone e il platonismo, poiché il comportamento buono si basa sulla conoscenza del vero, le affezioni sono dannose perché influiscono negativamente sia sulla conoscenza che sul comportamento morale. Su questa stessa linea di giudizio sono Cartesio, Spinoza, Leibniz, e soprattutto Hegel, che fanno rientrare le affezioni — sia per la conoscenza che per la moralità — nell'ambito della false o confuse idee. Nella filosofia aristotelica e in quella epicurea le affezioni sono valide nell'ambito conoscitivo, poiché i dati sensibili ricevuti passivamente dal soggetto sono sempre veri, mentre falsi sono i nostri giudizi anticipatori (prolessi) delle sensazioni vere e proprie. Le affezioni sono valutate positivamente anche dal punto di vista morale, poiché non esiste uomo senza passioni, quindi il problema non è quello di eliminarle ma di moderarle (μετριοπάϑεια). Con lo stoicismo le affezioni sono ineliminabili dal punto di vista del processo conoscitivo, mentre vanno messe da parte nei comportamenti morali, che non devono essere compromessi dalle passioni. Il saggio è colui che raggiunge l'apatia, l'indifferenza alle passioni. Kant Secondo Kant, per le nostre intuizioni è indispensabile che il nostro animo sia "afflitto" (affiziert, "affettato") dalle affezioni. Quella della ragione sarebbe una falsa conoscenza senza le affezioni sensibili. Se invece noi intendiamo le affezioni come passioni allora il loro ruolo è puramente negativo: esse sono, non diversamente da quanto aveva inteso Cartesio, «cancri della ragion pura pratica, per lo più inguaribili.  Il concetto di affezione tuttavia fa nascere nella dottrina kantiana un problema relativo alla dicotomia fra fenomeno e cosa in sé. Se l'affezione è tale nel senso per cui i sensi del soggetto vengono modificati dall'oggetto, poiché spazio e tempo sono parte della nostra intuizione sensibile come "a priori", indipendenti dall'esperienza, e il noumeno è per definizione inaccessibile ai sensi, dove mai l'affezione fisicamente modificherà la nostra sensibilità? Kant per uscire dalla difficoltà parla allora di affezione come il risultato di un rapporto causale, intellettivo e non intuitivo sensibile, tra l'oggetto e il soggetto percipiente. Le categorie senza intuizione sono vuote, ma l'intuizione empirica senza le categorie non porta ad alcuna conoscenza.  NoteModifica ^ Dizionario Treccani di filosofia alla voce corrispondente; Enciclopedia Garzanti di Filosofia alla voce corrispondente Aristotele, De Anima, Aristotele, Metaphisica, (in Sapere.it alla voce "Affezione") ^ Aristotele, Rhetorica, Cicerone, Tusculanae Agostino, De civitate Dei, La passioni sono una "malattia" della razionalità. Sono utili per la vita come l'istinto di sopravvivenza ma impediscono la serenità dell'uomo razionale. (In Ubaldo Nicola, Atlante illustrato di filosofia, Giunti, Dizionario Treccani di filosofia alla voce corrispondente ^ I. Kant, Critica della ragion pura, Estetica trascendentale Cfr. I. Kant, id.,  Dialettica trascendentale ^ I. Kant, Antropologia pragmatica Kant, Critica della Ragion pura, Analitica trascendentale, 24 Voci correlateModifica Modo (filosofia)  «affezione»   Portale Filosofia. Intelletto facoltà della mente di intendere e concepire  Critica della ragion pura libro del 1781 di Immanuel Kant  Pensiero di Kant Wikipedia Il contenutoSimone Corleo. Keywords: filosofia morale, filosofia dell’identita, filosofia universale, meditazione filosofica, logica, antropologia, sofologia, noologia, noetica-estetica -- linguaggio ordinario, principio dell’identita, Aristotele, la sostanza, l’universale ontologico, la categoria come universale ontologico, segno, signare communicativamente, segnabile, sensibile – nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu -- segnato, emettente, repertorio di segni, repertorio di forme, composizionalita, communicazione primitive, pre-arbitrio pre-convenzione, pre-consenso mutuo, spontaneita, naturalita, associazione, iconicita, bah-bah, peccora, conversazione adulto-bambino, il vocativo “o” emesso sense intent communicative – signa naturalmente che e necessaria l’attenzione spontanea, scenario ii. Romolo e Remo, Eurialo e Niso. Le parti dell’orazione, il verbo e le categorie agruppatta in quattro funzione: quantita, qualita, relazione, modalita. Il nome sostantivo, il nome addgietivo, il avverbo, le particelle, la congiunzione, il vocative “o” – la forma del giudizio e la proposizione semplice “S e P” – modelo filosofico dello svilupo del signare communicativamente – dello spontaneo (arbitrio duale tacito) al arbitrio duale, l’idea di un gesto come SEGNO di una affezione dell’animo – DUALISMO? Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Corleo” – The Swimming-Pool Library.

 

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