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Thursday, November 28, 2024

GRICE ITALO A/Z C CIV

 

Grice e Civitella: la ragione conversazionale e ’implicatura conversazionale – scuola di Teramo – filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Montorio al Vomano). Filosofo abruzzese. Filosofo italiano. Montorio al Vomano, Teramo, Abruzzo. Delfico-de-Civitella (under Ser Marco). (Montorio al Vomano). Filosofo. Grice: “I love Delfico – while he wrote on Roman jurisprudence – Hart’s favourite summer read! – mine is his (Delfico’s, not Hart’s) little thing on the beautiful – we must remember that back in them days of Plato, ‘kallos, ‘pulchrum,’ or ‘bellum,’ is a diminutive of ‘bonus,,’ as in ‘bonello’ – the point is important for for Platonists, love (that makes the world go round) is desire for the ‘bello’ including the MORAL bello – so it is the key concept in philosophy – and not as Sibley and Scruton narrowly conceive it!” C. è giustamente ritenuto il Nestore della filosofia napoletana. Questo illustre filosofo, autore di molte opere di storia e di una varietà di soggetti interessanti, unisce ad una vasta istruzione una accuratissima e profondissima conoscenza di ogni aspetto che interessa la sua terra; e possede l'ancor più raro merito di saper comunicare le preziose esperienze acquisite con una amenità di maniere, una facilità e semplicità di espressione che le rendono più apprezzate a quelli che le ricevono. Figlio di Berardo C. nasce nella villa di Leognano, in provincia di Teramo. Le origini della sua famiglia risalivano almeno a quando Pir (o Pyr) Giovanni di Ser Marco, generalmente riconosciuto come il capostipite della famiglia, cambia il proprio cognome in “Delfico” e adotta il motto “eat in posteros Delphica Laurus”. Secondo alcuni, e tra questi Savorini, il cognome è “de C.”. All'interno della sua famiglia va individuato come Melchiorre III. Rimasto ben presto orfano di madre, fu dapprima affidato ad ecclesiastici ed in seguito inviato a Napoli,  per il completamento degli studi. Nella capitale del regno ebbe maestri insigni quali Genovesi per le materie filosofiche per l'economia, Rossi per le materie letterarie, Ferrigno per il diritto e Mazzocchi per l'archeologia.  Nella città partenopea si laureò in utroque iure sotto la direzione di Filangieri e redasse subito diverse memorie per il governo. Ha già indossato l'abito ecclesiastico, ma se ne spogliò subito per motivi di salute.  Nella prima parte della vita si dedica in particolare allo studio della giurisprudenza e dell'economia politica, scrivendo numerosi trattati che esercitarono un grande influsso nel miglioramento e l'abolizione di molti abusi.  Con il ritorno in patria si inizia un periodo fondamentale per la storia della città e dell'intero regno di Napoli. Intorno a loro si riunisce un importante gruppo di filosofi che crea le premesse per un profondo rinnovamento sociale, politico ed economico del territorio in cui agiscono. Tra questi troviamo Cicconi, Comi, Lattanzi, Nardi, Quartapelle, Tulli, Nolli, Orazio C., il figlio di Giamberardino, che fu allievo di Volta e Spallanzani, e l'altro nipote, Michitelli, che fu architetto noto in tutto l'Abruzzo. Si appassiona al collezionismo, in particolare di libri antichi e monete di epoca romana e pre-romana. Nominato presidente del Consiglio Supremo di Pescara e poco dopo membro del governo provvisorio della Repubblica Partenopea.  Caduta la Repubblica Partenopea anda in esilio per sette anni nella Repubblica di San Marino che gli riconobbe la cittadinanza. Scrisse il saggio “Memorie storiche della Repubblica di San Marino”, prima storia organica dell'antica repubblica. La Repubblica del Titano ha emesso una serie di 12 francobolli e ha coniato una moneta d'argento dal valore nominale di 5 euro per commemorare il filosofo e ricordarne la permanenza sul proprio territorio.  Bonaparte, nominato re di Napoli, entra a far parte del Consiglio di Stato, ricoprendo varie cariche ministeriali.  Restaurato il governo borbonico, fu nominato presidente della commissione degli archivi e successivamente Presidente della Reale Accademia delle Scienze. Venne eletto deputato al Parlamento napoletano e fu chiamato alla presidenza della Giunta provvisoria di governo. Si stabilì definitivamente a Teramo. La famiglia di C. si estingue con Marina, sposata al conte Gregorio De Filippis di Longano, dando origine all'attuale famiglia dei conti De Filippis marchesi Delfico. La filosofia di C. si forge nel fermento culturale del Secolo dei Lumi e del diritto naturale, le cui idee gius-naturalistiche furono compiutamente esposte da un lato nell'opera di Locke, dall'altro in quella di Rousseau, nelle quali i principi del diritto naturale erano rappresentati dalle idee di libertà e di eguaglianza di tutti gli uomini. I fermenti culturali del periodo assunsero una valenza rivoluzionaria e contribuirono all'abbattimento di una struttura sociale logora ed invecchiata, che si reggeva ancora ai capricci bizantini dell'autorità invadente.  Proprio tali tesi gius-naturalistiche furono gli strumenti a cui si richiamò l'opera del Delfico, permeata dall'anti-curialismo, anti-Roma, dalla compressione della feudalità, dall'anti-fiscalismo e soprattutto dall'abbattimento del monopolio forense, ritenuto il baluardo principale del regime. Ciò che caratterizza la sua visione politica è una nuova concezione dello Stato, non più ispirato al predominio politico e svincolato dalle regole della morale corrente.  Come politico e come giurista, e eminentemente pratico, così da poter essere ricordato come uno dei più illuminati riformatori del suo tempo.  Al suo nome sono intitolati a Teramo il Convitto nazionale, il Liceo Classico e la Biblioteca provinciale che ha la propria sede nel Palazzo Delfico. Numerosi i comuni che hanno intitolato strade a filosofo. Altre a Teramo  e alla frazione di San Nicolò (nello stesso comune teramano), si segnalano Sant'Egidio alla Vibrata, Penna Sant'Andrea e Roseto degli Abruzzi in provincia di Teramo; Montesilvano, Pescara e Milano. È noto che esistono Logge massoniche intestate a Civittella, ma ci si chiedeva se lui stesso fosse stato massone.  Questo interrogativo è stato posto da parecchi storici ma non esisteva una risposta documentale. Esistono invece molte prove indiziarie relative alla sua appartenenza alla Massoneria, per le quali rimandiamo all'appendice del volume di Eugeni, Forti, allievo di Fergola. I principali indizi si possono così riassumere:  I maestri ed amici di C., come Genovesi, Pagano, Filangeri, furono tutti noti massoni;  In un diario del curato Crocetti di Mosciano appaiono notizie di una Loggia massonica esistente a Teramo. Assieme a Quartapelle, subisce due processi per miscredenza. Promuove un movimento culturale detto '’La Rinascenza'’ di chiaro stampo illuminista. Nella rinascenza militano tutti i filosofi del tempo: i Tulli, i Quartapelle, Comi, Pradowski ed altri; La poesia di Pradowski sembra proprio la descrizione di una Loggia. Manda il nipote Orazio C., futuro Gran Maestro della Carboneria teramana, a studiare a Pavia da Spallanzani, Volta e Mascheroni, tre noti massoni del tempo.  Perrone pubblica un saggio basato sulla corrispondenza di Münter con noti massoni napoletani lo dà come sicuramente massone, anche se "il suo nome non s'incontra nelle logge razionaliste". Altre saggi: “Saggio filosofico sul matrimonio” (s.n.tip. ma Teramo, Consorti e Felcini); Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del regno” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Riflessioni su la vendita de’ feudi” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); “Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori” (Napoli, presso Giuseppe Maria Porcelli); Pensieri sulla Istoria e su l'incertezza ed inutilità della medesima, Forlì, dai torchi dipartimentali Roveri); “Nuove ricerche sul bello” (Napoli, presso Agnello Nobile); “Della antica numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche” (Teramo, Angeletti).  Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.   Il Palazzo Dèlfico, Edigrafita  Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione. Con la corrispondenza massonica e altri documenti, Palermo, Sellerio, Giacinto Cantalamessa Carboni, Sulla vita e sugli scritti del commendatore C., in Giornale arcadico di scienze, lettere ed arti,  Raffaele Liberatore, Melchiorre Delfico. Necrologia, in Annali civili del Regno delle Due Sicilie, Ristampato come C. in: De Tipaldo Biografia degli Italiani illustri, Venezia, Ferdinando Mozzetti, Degli studii, delle opere e delle virtù di C., Teramo, Angeletti, Gregorio De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere, Teramo, Angeletti, Aurini, C., in: Dizionario bibliografico della gente d'Abruzzo, Teramo, Ars et Labor, ora in Nuova edizione, Colledara (Teramo), Andromeda editrice, Vincenzo Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, l'attività presso il Consiglio delle finanze, Roma, Edizioni di storia e letteratura, Clemente, Dizionario biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana, Donatella Striglioni ne' Tori, L'inventario del Fondo Delfico. Archivio di Stato di Teramo, Teramo, Centro abruzzese di ricerche storiche, Carletti, C.. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, Pisa, Edizioni ETS,  Perrone, La Loggia della Philantropia. Un religioso danese a Napoli prima della rivoluzione, Palermo, Sellerio. Treccani. Il DRITTO ROMANO è sempre incerto ed arbitrario. Tale il suo carattere, poichè, sebbene non gli mancassero ancora degli altri nei, pure quelle sole qualità -- incertezza e arbitrarietà -- sono bastanti per renderlo mostruoso e deforme. E di esse specialmente imprendo a trattare, come quelle che portarono a luce LA VANTATA GIURISPRUDENZA ROMANA. Ed accio questo ordinatamente si vegga, fiaci opportuno il seguir la storia che della nascita e de felici progressi di essa ci somministra i lumi i più importanti. Fra gl’innumerevoli doccumenti tal oggetto riguardanti, prescelgo quello di cui tutti I FILOSOFI si servirono, quasi di testo alle loro ricerche e commenti. Già si vede che io parlo delle opera del giureconsulto SESTO POMPONIO, della quale si avvalsero i compilatori del dritto giustinianeo, rapportando nel titolo dell’origine del dritto, tutto cid che il nomato giureconsulto raccolgeo su tal oggetto nel suo manuale. E poichè POMPONIO incomincia la storia del dritto da ROMOLO e dagl’altri seire di Roma, dello stesso momento conviene seguirlo. In questa prima epoca, abbastanza oscura, non vi sarà pero materia di dispute, poichè SESTO POMPONIO parlando conformemente alla ragione ed alla storia dice che Roma da principio visse con incerte leggi e con dritto incerto e tutto dal regio arbitrio e governato. Ciocchè si deve intendere per quella parte che appartene al capo dell’aristocrazia – GL’OTTIMAT -- nella qual forma Roma ha il suo incominciamento. Quindi POMPONIO si espresse nelle precise parole. POPVLVS SINE LEGE CERTA SINE IVRE CERTO PRIMVM AGERE INSITVIT. N’altrimenti dove avvenire, poichè quella prima associazione essendosi formata di gente malatta al vivere socievole, e non avendo ancora positiva forma di società, dove essere piuttosto REGOLATA DALLA FORZA DEL COMMANDO che da un stabilimento positivo. Ciascuno sa che ROMOLO, per accrescere il numero de primi suoi compagni, prese l’espediente d’APRIRE UN ASILO da era retto ve s9  da che si puo comprendere quali fossero i primi fondatori di Roma. I di lui favoriti furono i più valorosi briganti, e questi divenneno i padri della patria, i forti, i primi quiriti, e formano il SENATO. Dopo questi primi tratti caratteristici relativi alla legge, POMPONIO segue a raccontare tradizione, che essendo cresciuta in qualche modo la città, ROMOLO divide il popolo in tante parti chiamate “LE CURIE” e col voto di esse prende. LA CURA DELLA PUBBLICA COSA e in seguito FA LA LEGGE CHE CHIAMA “LEGGE CURIATA” --  come ne fanno ancora i sei re successivi. TUTTA LA LEGGE CURIATA è raccolta da SESTO PAPIRIOS, il quale viv al tempo di TARQUINIO il superbo – e, dal nome dell'autore, quella raccolta è chiamata il “DRITTO PAPIRIANO”. Non m'impegno nelle dispute storiche e critiche delle quali si occuparono gl'interpreti di POMPONIO, ma osservo che, sebbene da principio, parla dello stato informe di Roma e dell’autorità regia non modificata dalle legge, fa dindi vedere come è data una forma, non una costituzione, alla città, e come dai re è promulgata la legge curiata. Per quanto durano i regii signori, Roma non ha dunque che QUESTA O QUELLA legge occasionale, e LA SOCIETÀ È MANTENUTA PIÙ COL GOVERNO CHE COLLA LEGGE. Prima intanto di passar oltre, e per la migliore intelligenza de’ tempi seguenti, non è inutile il presentare lo stato politico del popolo romano sotto l’epoca dei re, e quale è l’indole della legislazione per tutto quel tempo. E poichè di cose che non hanno autori contemporanei o vicini, non è possibile il ragionare con precisione ed esattezza; percio scortato dalla natura delle circostanze e dalle tradizioni pervenutaci, m’ingegnero di esporle nell’aspetto il più ragionevole. Fra l’oscurità delle origini romane possiamo rilevare che quella società incomincia da un ADUNAMENTO DI PERSONE APPARTENENTI A VARI POPOLI -- non solo ITALICI, ma greci e celtici ancora. Codesta tumultuaria associazione, avendo ROMOLO per capo vive, da principio, di prede e di rapine, gusto che fa il perpetuo carattere della nazione, trasformato poi in quello di conquiste, come gli avoltoi comparsi a ROMOLO nel prendere gli’auguri sono poscia nobilitati in aquile vincitrici. In tale stato di cose, da principio NON VI È BISOGNO DI LEGGE, poichè non vi era proprietà, essendochè Roma è fondata come LIVIO si esprime in fondo alieno, e le piccole private dispute sono decise dalla volontà del capo, come presso tutti i popoli barbari, e nelle società de’ briganti è sempre avvenuto. Avviene similmente che, nel formarsi tali associazioni, si gittino i fondamenti dell'aristocrazia – GL’OTTIMATI -- e così avvenne di Roma. Il palagio di ROMOLO è una succida capanna. Il di lui TRONO quattro zolle che lo rialzavano dal suolo. Il SENATO è la scelta de’ commilitoni o complici delle sue rapine. I patrizi quelli che poterono vantare certezza di natali e qualche superiorità di ricchezze; e tutto il resto è vile plebe o volgo profano. Questa è la divisione naturale dell’aristocrazie nascente. ‘Padre,’ ‘patrizio,’ ‘patrone’ sono nomi di versi appartenenti alle stesse persone secondo i va apporti ne' quali sono considerati, o di Senato consultivo, o di corpo aristocratico, o di superiorità immediata sulle divisioni della plebe, la quale che che ne dicano i tardi autori della storia non ha alcuna parte di potere nè costituzionale nè amministrativo. Gli stessi autori dai fatti fanno scorgere questa verità alla quale contrariano colle parole. Festo il quale aveva trascritto le notizie dagl’antichi autori, parlando dell’origine del CLIENTE, si esprime in termini rappresentativi della verità, cioè come d’una divisione di gregge piuttosto che d'un popolo. PATROCINIA APPELARI CAPRA SVNT CVM PLEBS DISTRIBVIA EST INTER PARES. Ne si devono contare per un ordine intermedio di cittadini quegli equiri o celeri o i fossuli nominati fin dai principi di Roma, poichè non appartenevano allo stato politico ma al stato militare. Non è possibile il seguire i naturali progressi di quella società nascente, e vedere come a poco a poco si andasse a consolidare in quella forma nella quale da principio è stata abbozzata. Sotto il re NUMA vediamo i primi passi di qualche civilizzamento, lo stabilimento della proprietà territoriale: la prima legge relativa alla religione ed al delitto, lo stabilimento dei ministri e degl’interpreti della divinità. In somma, il principio di un GOVERNO TEOCRATICO, pel quale pare che sieno passate tutte le nazioni prima di portare sulle cose civili le considerazioni proprie della ragione. Ma quello che specialmente riflettere dobbiamo è che sotto quel re teosofo hanno i primi principi le scienze ancora della legge e del politico governo. Non si dee durar gran fatica per trovare de’ rapporti religiosi in tutti gl’atti umani e farli nascere ancora in UN POPOLO QUANTO IGNORANTE TANTO SUPERSTIZIOSO. Così par che fa Numa o per idea propria o per imitare i stabilimenti della sua nazione o pel natural corso del sociale andamento. Cosi gitid i veri fondamenti di quell’aristocrazia sommamente poderosa poichè combina nello stesso corpo gl’interessi del sacerdozio e dell’impero, o le due aristocrazie, politica e sacerdotale: GL’OTTIMATI. Su questo piano Roma cresce successivament sotto i re. L’aristocrazia è sempre salda contro le regie intraprese, e la storia ci mostra con quali mezzi crudeli e sacri sa sostenersi. MASSACRARONO ROMOLO E NE FECERO UN DIO. Tale idea pero del primo governo di Roma è stata generalmente sconosciuta. Il primo per quanto io so a darne l’idea è VICO, il quale, riunendo alla multiplicità delle filologiche cognizioni la filosofia indagatrice delle origini sociali, fra le tenebre della rimota antichità, e fra le favole e le ricordanze degl’antichi costumi sa scoprire come un principio naturale politico, che nel comune corso delle nazioni la società primitiva comincia sempre dall’aristocrazia, la quale nasce dalla qualità delle circostanze, dall’ignoranza de’ dritti, e della compagna superstizione. Le luminose tracce di VICO sono poi seguite da DUNI, e fermatosi particolarmente a considerare il governo romano, dimostra che Roma nasce aristocratica – Gl’otimati --, che il RE non è che il capo dell’aristocrazia, che i soli patrizi – gl’ottimati – hanno la quarta di cittadini che sono in perfetto stato di combinazione l’aristocrazia POLITICA e l’aristocrazia sacerdotale, e che il nome di ‘POPOLO’ ne’ primi tempi ai soli patrizi (ottimati) appartenne, come quelli che soli godevano del dritto della cittadinanza – CIVES, POLIS -- i quali poi sono gradatamente dalla PLEBE acquistati. DUNI concilia luminosamente la contradizione in cui par che cadesse il giureconsulto POMPONIO e fa vedere che il re NON HA CHE UNA *PARTE* del governo o dell’amministrazione, ma che LA SOMMA DELL’AUTORITÀ, LA VERA SOVRANITÀ,  il potere legislativo, il dritto della pace e della guerra risedeno nel corpo de’ patrizi – L’OTTIMATI -- come anche il dritto di eliggersi il loro re o principe. Sono essi i depositari delle leggi e delle medesime i (DUNI, Orig. del Citted. Romano) ministri ed interpreti. E, siccome per un’eterna verità, l’aristocrazia – GL’OTTIMATI --  non si sostiene che sull’appoggio della SUPERSTIZIONE POLITICA. Cosi, dal corpo aristocratico – Gl’OTTIMATI -- si sceglievano i vari sacerdozi, e fra essi il corpo de’ pontefici è specialmente destinato a dar i giudici alle cose umane. Quindi la CONOSCENZA della legge e l’amministrazione delle medesima è un dritto esclusivo e divenne una dottrina arcana, conservata con tutta la gelosia del mistero, dispensata solo a modo d’oracoli e strettamente CUSTODITA NELL’ORDINE de’ patrizi – GL’OTTIMATI. Codesta emanazione della prima ‘teocratica’ idea non solo si conserva per quanto ha di durata il governo del re ma per quanto vive la Roma. Una repubblica, colla sola differenza pero che come crescheno le cognizioni ed i necessari riflessi della ragione, e da essi RIFLESSI DELLA RAGIONE POLITCA nasceno i sentimenti di libertà e d’eguaglianza, così quelle idee si andano a poco a poco estenuando, finchè non ne rimasero che i soli simboli commemorativi, o il nome senza la cosa, o le cose senz’alcuna effettiva influenza. È necessaria questa breve esposizione, per cogoscere quale fosse lo stato della legge, dell' amministrazione giudiziaria e della giurisprudenza ne’ primi tempi di Roma. Senza impegnarci nella particolari legge sotto il re emanata dal senato regnante, possiamo con sicurezza affermare che la legge è minima, eventuale ed incerta -- e che l’interpretazione delle medesine essendo stato un dritto di corpo o di ordine affidato ad alcuni individui, possiamo dire ancora che la giurisprudenza è incerta, irregolare, arbitraria, e quale AD UNA NAZIONE IGNORANTE E SUPERSTIZIOSA può solo convenire, e per conseguenza esser stato pur vero ciocchè POMPONIO scrivee, che sotto i re sine lege Gerta – SINE IVRE CERTO -- ine jure certo viveno i romani. Lascio agl’ambiziosi di glorie filologiche legali l’andar raggruzzolando i pochi superstiti frammenti della legge regia, poichè i stessi antichi giure-consulti ne fanno poco conto e le lasciano perire. Chi vuole però riconoscerle, trova in esse la conferma di quell’idea superstiziosa caratteristiche della prima aristocratiche associazione. Espulso il re col ratto di LUCREZIA, si crede comunemente che il governo di Roma cangia d’aspetto e da quel momento si cominciano a contare gl’eroi della libertà. Ma chi  giudica senza prevenzione non vi trova che gl’eroi dell’aristocrazia. Anche quessti parlano di libertà; della propria libertà però non della libertà pubblica -- per servirmi delle parole di Dionisio, della libertà propria e del dominio sugl’altri. Quindi, Roma non vide alero cangiamento che di due re invece di uno e la legge e l’amministrazione politica e civile rimaneno nella stessa condizione. L'incertezza è seguita dell'incertezza; l’arbitrio dall’arbitrio. Ciocchè ci dà manifestamente ad intendere POMPONIO dicendo: EXACTIS DEINDE REGIBVS AE ITERVMQUE CÆPIS POPVLVS ROMANVS INCERTO MAGIS IVRE ET CONSVETVDINE ALIQVAM PER LATAM LEGEM IDQVE PROPE SEXAGINTA ANNIS PASSVS EST. L’aristocrazia è stata alquanto abbassata dall’ultimo re, per cui ha fine il suo governo. Ma dopo la sua espulsione ritorna presto nel primiero vigore. Quindi gl’effetti doveno essere conseguenti, e tutta la storia è una pruova dimostrativa. Infattim si sa che DALL’ANNO FATALE AI TARQUINI FINO AL TEMPO DELLA LEGGE DECEMVIRALE, il potere legislativo ed il potere giudiziario sono privativi del corpo aristocratico. Troppo lungo è ora il seguire tutta la serie de dibattimenti intervenuti fra i patrizi ed i plebei, quando questi già stanchi dell’incertezza della leggi civile, della forma esclusiva di governo, e della schiavitù nella quale sono tenuti, tentano de’ mezzi per alleviarsi in qualche modo dalle gravezze ond’erano oppressi. Ottenuto il TRIBUNATO si avvidero ben presto che esso è troppo debole ostacolo contro la tirannia de patrizi, la quale efforcivamente è annidata dentro la stessa legge e fortificata dallo spirito di corpo che fieramente la difende. L’insurrezione, la secessione, soli mezzi che può escogitare un popolo schiavo ancora dell'opinione, sono più volte ripetute. Ma le loro domande sono incerte, le loro querele generali, ed i loro desideri si riduceno ad essere considerari come uomini e come cittadini: Ut hominum ut civium numero simus. In questo stato compassionevole compresero finalmente che niun mezzo vi può essere migliore per ottenere l’intento che quello di formarsi una legislazione generale, poichè la sola legge puo stabilire la libertà e l’uguaglianza civile, potevano esser riguardati come uomini cittadini. Strano ed ARROGANTE sembra al patrizio il desiderio della plebe, e strano pare sempre al possessore del potere arbitrario il desiderio del ristabilimento della legge e della giustizia. Quindi il patrizio non lascia mezzo intentato per frastornare il plebeo dalla lodevole intenzione e persuaderli che i patri costumi sono sufficienti e che di nuova legge non vi è bisogno – MORES PATRIOS OBSERVANDOS LEGES FERRE NON OPORTERE. Sono intanto inutili le persuasioni, e lo stato infelice nel quale il plebeo si trova detta suo questo solo espediente. Non altrimenti che l’oracolo consultato da Locresi sul modo di sedare le civiche discordie rispose loro. Fatevi la legge; i Romani plebei senteno l’oracolo della ragione e della infelicità nella qua Je gemevano. Vollero quindi la legge, ma ciascuno sa, come tutte le arti aristocratiche sono messe in uso per ingannare quel popolo che spesso riposa colla più buona fede sopra i suoi naturali e costanti nimici. Si sa come i deputati i quali doveno mandarsi in Atene e nelle altre Città della Grecia e dell'Italia a raccorre la legge per la nascente regina del mondo, si occultano in qualche luogo d'Italia, e la legge poi è tirata dall’arche pontificali  e perchè nulla manca di condimento aristocratico, si fanno poi impastare e disporre da quell’Ermodoro esiliato da Efeso dal partito popolare. La storia relativa E 3 alla moeten alla legge delle XII tavole se è trattata con quell’accuratezza che pur le converrebbe, è un articolo sommamente istruttivo. Ma questa ricerca veramente politica è stata molto trascurata. Il popolo domanda una legge della quale il console si dove servire e che non dove aver più in luogo di una legge il capriccio o la privata autorità; non ipsos libidinem ac licentiam pro lege habituros. Il patrizio risponde che di una nuova legge non fa mestieri, e che bastano l’usanza, no la legge. Il popolo adduce ragioni, il patrizio face parlare la religione, e questa spesso parla per bocca de buoi e d’altri animali, del linguaggio de quali si fa un merito d'essere interprete. I plebei vuoleno che la legge si fa dal popolo legitimamente e liberamente congregato. Il patrizi sostiene che non vi è altra legge che quelle ch'essi stesse fanno: darurum legem neminem, nisi ex parribus ajebant. Il popolo vuole una legge d’uguaglianza. Il patrizio le promette in parole; sicuro di non essere nel fatto obbligati a mantener. Finalmente, dopo tante vicende le X tavole furono pubblicate – E SUCCESSIVAMENTE L’ALTRE DUE -- come ci fa sapere la storia. La storia ci dice ancora che con esse ogni diritto e resi uguali: omnibus summis infimisque jura æquasse: e ci dice ancora che il popolo la esamina e la approva solennemente. Ma la storia stessa ci dice che quel bravo legislatore a anche più bravo tiranno che sconvolsero tuttol'ordine pubblico e secondo LIVIO nihil juris in civitate reliquerant, che PER QUELLE LEGGE OGNI CONSUETUDINE ARISTOCRATICA È CONSERVATA, che la vantata uguaglianza resia in parole; e che al primo momento di paragone il popolo riconosce d' essere stato ingannato. La favola dell’invio de’ deputati in Grecia è stata pienamente scoverta da molti autori e specialmente da VICO, da Bonamy e da DUNIi: la favola d;essere state leggi d’uguaglianza e di giustizia, la può scoprire facilmente ognuno che voglia leggere con critica la storia gl’avanzi di quelle leggi. La scovri ancora il  [VICO, Scienza nuova; Bonamy, Memoir. de litterar. de l' Accad. de Paris; Duni: Dėl Cittad. Rom.] popolo, quando ritornato in cal ma dopo l’abolizione del decemvirato può tranquillamente esaminar la legge, ed invece di vederne tali che classificasse la gente come uomini e come cittadini, non trova che UNA LEGGE CIVILE, una legge criminale, una legge funeraria e una legge religiose, che punto o poco l'interessano. Per essere classificati per uomini o per cittadini vi bisognano UNA LEGGE COSTITUZIONALE che avessero ragguagliati i dritti, che li avesse egualmente interessati alla cosa pubblica, che li avesse ammessi ai suffragi. Niente di tutto questo. E la plebe resta delusa della sua troppo malfondata speranza. Ma sa rinnovare le giuste sue pretenzioni; ed in tanto senza voler fare l'analisi di que’miseri frammenti delle leggi decein virali, è pur giusto portarvi uno sguardo generale per vedere almeno, se meritano tutti gl’elogi de' quali sono state ciecamente onorate dagl’antichi é da moderni; ed osservare in seguito, se ne provenissero quegl’effetti felici, ai quali produrre sono destinate. CICERONE in più luoghi esaltandole sopra tutte le leggi conosciute, non è poi molto felice nel darne le pruove. Così condanna Solone, per non aver imposto pera al parricidio, supponendolo impossibile, o volendolo supporre talo tale per onore dell'umana natura; ed eleva la seviezza della Romana legislazione per aver saputo inventare una pena orribile e crudele. O singola, sem sapientiam! esclama CICERONE dopo aver lungamente ragionato con logica forense. Tale è la saviezza di que’ legislatori ne' varj rami di quelle leggi; poichè se si riguardano per la parte criminale esse sono aristocratiche, ingiuste, severe, é crudeli. Se per la parte del dritto pubblico, del la quale poch’indizi ci sono restati, andano alla conservazione dell’aristocrazia: se per quella della Religione e de' funerali, corrispondevano ai superstiziosi concepimenti del tempo: se per ciò che riguarda l'ordine giudiziario, doveno esser analoghe alle leggi ed all'usanze: se per la parte testamentaria, è facile il vedere, ch' esse conteneno la massima ingiustizia politica, per conservare in forza gl’aristocratici dritti. Della stessa indole sono le indegne leggi relative alla patria potestà ed alle altre relazioni domestiche nelle quali sempre campeggia lo spirito di famiglia. In quanto al CONTRATTO, la legge è pur sempli ci, come dove essere in un popolo barbaro con pochi rapporti civili. Ma l’usure d'ogni specie sono terribili. Chiunque vuole esaminar quelle leggi in buona fede, e misurarle secondo i vem ri rapporti che le leggi dove avere colla natura e collo stato civile, trova senza fallo ingiusti ed irragionevoli gl’encomj alle medesime attribuiti. Ma forse neppur in Roma si pensa tanto favorevolmente di esse, poichè col tempo par che sono del tutte neglette e dimenticate. CICERONE stesso riferisce che, al suo tempo neppure erano ben intese, e sebbene egli nell'infanzia le avesse apprese a memoria, era poi passato di moda tal costume -- discebamus enim pueri XII. ut carmen necessarium, quas jam nemo discit. Ed in seguito al riferir di Gellio sono cadute. in tale disprezzo ed obbllo, che sono derise come fossero le leggi dei Fauni e degl’aborigeni. Si può trovar intanto qualche motivo, pel quale si possono difendere gl’antichi panegiristi delle leggi decemvirali. Poichè per quanto fossero selvatiche quelle leggi, godevam no pur dei dritti che danno l'opinione e l' antichità; e paragonata la giurisprudenz'antica a quel la degl’ultimi tempi della Repubblica, il paragone risulta in favore della prima. Ma che i giure-consulti moderni, e quelli specialmente della setta degl’eruditi riguardino ancora lo studio dei mi peri frammenti superstiti come il più interessante per la conoscenza del giusto, e rincariscano sugl’elogj degl;antichi, cið non può essere che l'effetto d'un letterario fanatismo Se LIVIO chiama le leggi delle XII tavole fonté ogni equità è troppo credulo all’espressioni ed alle promesse degl’iniqui decemviri. Qual nie è infatti l’utilità pel popolo Romano? La severa ed ingiusta costituzione non è cangiata, e da quella vantata uguaglianza la plebe neppure ottenne di acquistar la condizione desiderata. Per quel principio teocratico, di sopra accennato, ciò che distingue in tutti gl;effetti civili tanto pubblici che privati, il patrizio dal plebeo, è il dritto degl’auspicj. È questo dritto che da la vera qualità di cittadino negl’affari civili; ed incominciando dal primo vincolo sociale, cioè dalle nozze ', con i soli auspicj si produce il connubio o nozze solenni, dalle qua li deriva il carattere di padre di famiglia, la patria potestà, e la facoltà di testare; e questa specie di nozze è de' soli patrizi, poichè gl’altri ridotti al matrimonio civile o naturale senza prevj auspicj non potevano godere delle stesse prerogative. Gli auspicj e propriamente gl’auspicj maggiori poi sono i soli mezzi per aver drito alle Magistrature, e far parte dell'ordine regnante dello stato. Or niun cangiamento è fatto da quelle vantate leggi su di un articolo tanto importante in quella costituzione nella quale tutto è sacro; e la Storia c'insegna, quanto poi costasse di tranquillità alla Repubblica, il voler introdurre in qual che modo l'uguaglianza. Sebbene si vänti l ' Oratoria e la giurisprudenza de' tempi più antichi di Roma, pure si può asserire ch ' esse non hanno propriamente la loro origine che dopo la pubblicazione delle XII tavole. Si crede intanto che quel prezioso codice avendo acquistata due qualità principali, cioè d'eso ser PUBBLICO  e generale, avesse resa certa e stabile la legislazione. Autorizzato dal popolo, fisso nel foro e delle curie, ciascuno dove trovarvi la certezza de' giudizj, la sicurezza de'suoi dritti la legittimità de' suoi dominj. Ma su questa conseguenza ci fanno nascer gran dubbj gl’antichi autori e molti fatti conosciuti. Convien sempre ricordare che il principal caractere delle prische aristocrazie è la misteriosa custodia delle leggi o consuetudini, e della religione, ciocchè forma il privilegio esclusivo, o la privatiya di quella sola sapienza che gode del bujo & del [(Det ZE =]; pro ice e della pubblica ignoranza. Ma codasta sapienza romana è fondata parte sull’ingiustizia, parte su l'errore. Su questo, perchè la loro scienza sacra ed arcana non consiste nel celare al volgo i misteri della natura, l'origine della cose, l'energia della forza motrice, la fecondazione dell’universo, ed altri tali idee nascoste ai profani presso le altre nazioni: la loro scienza arcana si raggira sul cantare o cibarsi dei polli, sul volo degl’uccelli, sull'andamento del fumo su i tremori delle viscere, e simili cose, alle quali non può appartener mai il nobile titolo di scienza o sapienza, ma quello solo di vane osservanze. L'errore poi lo fanno servire all'ingiustizia, poichè con tali mezzi si manteneno nell'assoluta disposizione delle leggi, facendole servire alla conservazione del preteso dritto del più forte, cioè alla sovversion ne di tutte le idee del giusto. Or poichè quelle leggi qualunque sono pur pubblicate, una parte della scienza arcana e dell' aristocratico potere anda a svanire, se non si trova un modo col quale si ripara una perdita si grave. Quessto si effetrul col conservare il potere giudiziario Dell'ordine de' patrizj, e col rendere inutili le lege es za 7 bid SSO rvi ti chi Tale Cu ne, ori ujo el gi (78 )* gi; se non sono avvalorate dalla doro recondita sapienza. Essi doveno spiegarne il senso; essi conoscere qual dritto nasce da una tal legge; qual era l'azione che ne provenne, quale il modo o la formola di proporla, quale l'eccezione che può impedirla; e finanche si arrogarono come un mistero sapere i giorni ne' quali si può amministrar la giustizia senza offendere i numi. Ecco insomma la giurisprudenza, ossia il mezzo di rendere inutile anzi dannoso alla società il beneficio d'una legislazione. Essa vanta un origine aristocratica, un origine che si confonde coll' errore, colla malizia, e colla prepotenza. Sebbene dunque la giurisprudenza è nata subito che vi sono leggi incerte ed arbitrarie; pu e non si conferma, estese e stabilì nelle forme, che dopo la pubblicazione delle XII. tavole; dopo questo prezioso compendio dei dritti degl’uomini. POMPONIO conferma le mie parole. Dopo pubblicate (egli dice) le leggi delle XII tavole, come naturalmente avvenir suole, s'incomincia a desiderare per l'interpretazione delle medesime l'autorità de' giurisprudenti, e le necessarie dispute del foro. Tali dispute e tal dritto non scritto composto dai giurisperiti non ha s pes, 79 ) 9 ji però un nome proprio come le altri parti del dritto, ma con vocabolo comune è chiamato DRITTO CIVILE. Quasi nel tempo medesimo da quelle stesse leggi si fanno nascere le azioni, colle quali si dove discettare a litigare: ed saccia non è in libertà di ciascuno il farne uso, si pensa a farle essere certe e solenni; e questa parte del dritto è denominata azioni della legge, o sia azioni legittime. E cosi quasi ad un tempo nasceno queste tre specie di dritto cioè leggi delle XII. tavole; dritta çivile derivato da esse; ed azioni della legge, composte sui s dritti antecedenti, La scienza poi tanto delle leggi quanta dell'interpretazione, e delle azioni %, stesse è riservata al collegio de Pontefici, quali in ogni anno destinano persona che presedesse ai privati affari o litigi; e con questa, consuetudine vive il popolo per cento anni in circa. Quale orribile contradizione! Appena pubblicata una legislazione tanto vantata per la sua perfezione, è trovata cosi insufficiente che ha immediato bisogno di sostegni e di interpretazioni. E codesto è il codice superiore a tutte le biblioteche de’ filosofi? Ogni parola di POMPONIO contiene una contradizione alle idee di leggi e legislazione che somministra il buon senso il più comune. Il dritto civile tanto encomiato non è altro dunque che il risultato dell’interpretazioni de'Giurisprudenti e delle dispute forensi? E qual razza di prudenti sono mai quelli! Ciascuno sa che quella è l’epoca della più crassa ignoranza; la spada, la zappa, i polli e le usure sono le sole idee che fiorisceno in quelle teste leggislatrici. Ma poichè col progresso del tempo, e colla frequenza de' giudizi qualunque è stato quel dritto consuetudinario può pur ridursi in massime o in principj di giustizia, e cosi divenire di comune intelligenza e di un uso generale. Si pensa il modo onde questo non avvenisse, e si mantenne sempre le leggi nel bujo e nell'incertezza. Ne cið è sicuramente per una vanità dottorale, ma per conservare un potere ed una leggislazione arbitraria, qual è il grande scopo dell'ordine aristocratico. L'unico mezzo che essi viddero il più opportuno è quello d'inventare le azioni, cioè delle formole colle quali non solo si dove agire o eccepire in giudizio, ma secondo le quali si dove regolare i contratti e gl’altri atti civili, accið por ve far potessero avere un effetto legale. Non basta loro di aver la privativa de' giudizj; poichè colla legge certa difficilmente si può abusarne: bisogno dunque inventare un nuovo dritto di esso e della nuova pratica una nuova legislazione da surrogare all'antica scienza mistica delle leggi, per tenerle sempre in quella severá custodia, colla quale prima delle XII. tavole tenne le antiche consuetudini. E perchè non si manca di venerazione a tale straordinario stabilimento, i pontefici ne sono fatti depositarj egualmente e disponitori. Chi' può trovare in questa specie di legistazione altro carattere che di una volontà arbitraria diretta non a dispensar giustizia, ma a conservare ľaristocratico dispotismo, da segno, di non aver mai idea di ciocchè costituisce il carattere delle leggi. Ma non si tratta già di fare la legge, si tratta solo di tener il popolo in schiavitù: perchè se avendo già esso acquistato i dritti di privata cittadinanza può godere anche quello d'ISONOMIAI, cioè dell' eguaglianza delle legge, qual'è il suo intendimento nel promuovere una pubblica leggislazione, ha un gran passo verso quella libertà che tanto F ambe, ma che più sente che conosce. Escla. md esso sovente contro quella specie di occulta o privata legislazione, dicendo, che la sua condizione de ea in questo assai peggiore di quella dei popoli vinti; essendogli negato il poter sapere cioc che riguarda i più comuni affari çivili, e fino i giorni legali e feriali, ciocchè agl’altri non è ignoto: segno sicuro che l'aristocrazia romana e inolto più feroce o severa di quella delle altre città o popoli vicini. Il dottissimo VICO con gran proprietà d' intelligenza pensa che quel notissimo motto di Solone: conasciti, è piuttosto un précetto politico che morale. Pieno l'animo di tutti i sentimenti della vera giustizia Solone ricorda con quel motto all'oppresso popolo di riconoscer se stesso, cioè di riconoscersi per uomini ed uguali ip dritto a colo ro che li opprimevano. Il popolo romano non ha un Solone, che gli da così utili ricordi; ne forse ne ha bisogno, poichè abbastanza si riconosce, ed agl’insulti de'patrizi risponde, che non sono fioalmente essi ne discendenti do’ Dei, nè venu i giù dall' Empireo. Avrebbe però avuto bisogno di un Solone, per aver lidea d'una costituzione, senza la quale arrivo si a distruge gero gere la maggior parte degl’abusi del potere aristocratico, ma non giunse mai a formare una pefetta repubblica, fondata su i veri rapporti sociali e su i dritti primitivi della giustizia naturale e positiva: per cui se Roma corse rapidamente alla grandezza dell'impero e delle ricchezze, cadde anche presto nella voragine del dispotismo. Ma ritornando a quella giurisprudenza che succedè immediatamente alle XII tavole, e che da nascita a quel nuovo dritto così stranamente amministrato, dico che, sebbene da quanto semplicemente espone POMPONIO, se ne possa giustamente fare il carattere; pure ad esuberanza aggiungerd, che l’illustre GRAVINA, tuttochè pieno d' entusiasmo per la romana giurisprudenza, non sa nascondere, quanto fosse infelice quella de' tempi de'quali ragionamo. Antiqua jurisprudentia nun. cupatur quæ statim post latas leges XII. tabularum prodiit: aspera quidem illa tenebricosa & tristis non tam in æquitate quan in verborum superstitione fundata. Se il Gravina rinunciando ai pregiudizj filologici, vuole mettersi in grado Gray. de Ortu Tur. Civ. F 2 di giudicare giustamente, come riconobbe per tenebrosa l'antica giurisprudenza, avrebbe riconosciute per arbitrarie e maligne le successive giurisprudenze dette media e nuova, ed avrebbe disconfessato gl 'inopportuni encomj, che in generale yolle ad esse tributare. Per quanto però si è finora ragionato, non ho toccato che leggermente la nequizia della giurisprudenza e della giustizia sacerdotale; ma chiun que per poco abbia di buon senso converrà meco, che una delle tristizie maggiori in fatto d'amministrazione è il sottrarre le leggi del pubblico uso e conoscenza, e ridurle per vile ambizione e su dicio interesse ad arcani misteriosi. Nascondere le leggi, è nascondere la luce civile, è precipitar gli uomini ne' vizj e nella corruzione. Le leggi con molta proprietà e verità d'espressione si chiamano LA RAGIONE CIVILE la, onde il celarle, il corromperle, val lo stesso che privare gl'individui del corpo politico di quella ragione che loro deve servir di guida in tuui gli affari sociali. I patrizj giurisprudenti non lasciano mezzo per tenere il popolo nell'oscurità, poichè non solo coll'inventare le azioni e farsene' una privativa di ordine, occultaro no le leggi e le guastarono; ma de' nuovi stabili menti anche s'impossessavano per poterne disporre a loro talento. LIVIO n'è amplissimo testimone dicendo: institutum etiam ab iisdem coss. (cioè Lo Valerio e M. Orazio ) ut senatusconsulta in ædem Cereris ad ædiles plebis deferrentur, quia ante atobitrio Consulum supprimebantur vitiabanturque. Non è però sufficiente questa legge, e i giurisperiti seguitarono ad essere veri monopolisti della legge. Dobbiamo credere però che i più virtuosi romani avessero a vile codesto mestiere d'ingan no e di soverchieria; e perciò. la storia ci pre senta sempre con elogj coloro i quali quasi senz’intervallo tornando dai campi di Marte cambiava no coglistrumenti rurali gli arnesi guerrieri, o coronavano l'aratro di allori trionfali. Si sa che Roma allora e per alui secoli non presenta alcuna occupazione che potesse allettare alla vita cittadinesca, la quale dalle belle arti, dalle scienze, e dal prodotto da, esse spirito sociale si rende solo piacevole; perciò chi non ama l'intrigo, nè la vita oziosa soffre, in vece di darsi alla cabalistica (LIVIO) e viziosa giurisprudenza, si ripara nella esercizio dell'agricoltura sempre preferibile ad una mestiere cosi pernicioso. Infatti la storia ci pudo istruire, mostrandoci, che la famiglia la più infesta allo stato, la perpetua persecutrice della libertà popolare e della giustizia pubblica è una famiglia di giurisprudenti. Tale è LA CLAUDIA; e sempre si è veduto che dove dottori e forensi sono, la discordia prende il luogo della pace e della naturale tranquillità. Ma ritorniamo a POMPONIO. Egli ci dice che quella mistica giurisprudenza si sostenne quasi per un secolo: la storia pero agl’altri autori dicono, che ha una durata eguana le a quella della Repubblica, toltene alcune differenze dalle quali non è alterato il fondo del la cosa. Seguita dindi POMPONIO a raccontare come quelle formole ed azioni, essendo RIDOTTE IN FORMA D’APPIO CLAUDIO, cotal mistico libro gli è involato da GNEO FLAVIO, figlio d'un libertino e scriba dello stesso Claudio: ed aver., dolo pubblicato e fattone un dono al popolo, questo gli è si grato, che lo fa pervenire ad esser tribuno della plebe, senatore, ed edile. Questo libro contenente quelle azioni delle quali si è già parlato, dal nome dell'editore è deno. Si po, mitato DRITTO CIVILE FLAVIANO, benchè egli nulla vi aggiungesse del suo. Nel crescere poi in Roma la popolazione e nel multiplicarsi gl’affari maticando alcune specie di formole, SESTO ELIO non » guari dopo compone nuove azioni e ne pubblico co un libro chiamato DRITTO ELIANO,. trebbe" ragionevolmente pensare, che pubblicate le leggi e resa publica la scienza arcana, il dritto cívile, le azioni, la pratica, e le leggi stesse diven cassero di pubblica ragione; e che il popolo illuminato su i principj legali, sulla condotta degl’affari, sul modo di amministrar la giustizia, sull’ordine giudiziario, non avesse più bisogno della maduduzione de' patriaj per distinguere il giusto, e sapere i mezzi d'ottenerlo. Ma tuu ' altrimenti andiede la bisogna į poichè non volendo i patrizj – gl’ottimati -- perdere per alcun modo la custodia e la dispensazione di quella scienz'arcana, che forma la base principale del loro ingiusto potere, trovano il'modo, onde far rimaner il popolo defuso. E come nelle sette se si vengono a scopris se i segni mistici destinati al riconoscimento, presstamente si cangiano, e de ' nuovi si surrogano, onde sia salvo it mistero; cost i bravi Giurispe siti eseguirono, cost posero in salvo i pretesi F drica, dritti dell'ordine, e conservano il grande arcano della giurisprudenza. Le formole e le azioni sono cangiate, e forse in maggiori cifre involute onde potessero rimanere ancora lungo tempo nascoste ed inintelligibili allo sguardo plebeo. Ma ascoltiamone, CICERONE, il qua le ce ne dà il più distinto divisamento.ERANT IN INIGNA POTENTIA QVI CONSVLEBANTVR A QVIBVS ETIAM DIES TAMQVAM A CHALDÆIS PETEBANTVR INVENTVS EST SCRIBA QVIDAM GNAIVS FLAVIVS QVI CORNICVM OCVULOS CONFIXERIT ET SINGVLIS DIEBVS EDISCENDOS FASTOS POPVLO PROPOSVERIT ET AB IPSIS CAVRIS IVRISCONSVLTIS CORVIN SAPIENTAM COMPILARIT ITAQVE IRATI ILLI QVOD SVNT VERITI NE DIERVM RATIONE PERVULGATA ET COGNITA SINE SUA OPERA LEGE POSSET AGI NOTAS QVASDAM COMPOSSVERVNT VT OMNIBVS IN REBVS IPSI INIERESSENI (CIC. PRO PUR.) Non è d’alcun utile dunque l'aver trafitti gli occhj a quelle cornacchie poichè in breve tempo seppero rinnovarli e renderli migliori. Per quanto quindi prosegue, la storia troviamo sempre costantemente e già pel corso di quattro secoli gli stessi sentimenti, gli stessi principj, la 2 stes cha stessa condotta. La Giurisprudenza è latente, incerta, arbitraria, ignota al popolo, e privativa del solo ordine patrizio sacerdotale, il quale lungi da quella virtù che sola consiste nella beneficenza »da quella sapienza che cerca il vero, per render lo di comune demanio; da quella giustizia trova i principj nella ragione, e gli espansivi sentimenti nel cuore; da quella naturale benevolenza e da quel sentimento di pietà, che distinguono l'uomo civilizzato; da'veri sentimenti di patriotismą che non può essere mai scompagnato dalla giustizia; lungi dico da tutte queste qualità e gl’eroi del Campidoglio non sembra che provassero altri sentimenti che quelli dettati dallo spirito di corpo, sempre contrario, anzi distruttivo de' sentimenti sociali, dal vile interesse personale e pecuniario Fros, duttore di tutti i vizj, e dall'abuso d’un illegitimo potere. E pure questi furono i patriarchi della giurisprudenza! Seguitando quindi POMPONIO ad esporre i fonti del dritto romano ci accenna l'origine de' plebisciti e de' senatusconsulti, specie di leggi dettate dal popolo o dal senato, e delle quali si vedeno gli effetti ee'l'l valore, e soggiunge, che nel tempo stesso anche dai magistrati nasce un' 1 el gobierno un' altra specie di dritto s poichè, tecid saw pessero i cittadini, di qual dritto i magistrati in si sarebbero serviti intorno ai varj oggetti di giudicatura, e perchè vi andassero premuniti, pubblicarono degl’editri, da quali si costitui IL DRITTO ONORARIO, cost detto perchè proveniya DALL’ONOR del pretore. E dopo aver parlato finalmente dell'altra parte del dritto che nasce delle costituzioni de' principi, cost ri-epiloga tutti i fonti che costituiscono il 'dritto Romano., Nel la nostra Città dunque dice egli ) la legislazione è costituita del dritto o sia legge; da quello che propriamente si chiama DIRTTO CIVILE, che non è scritto, è consiste nella sola interpretazione de' prudenti: dalle azioni della legge  le quali contengono le formole di agire; dai plebisciti che sono fatti senza l'autorità del Senato, dagl’edini de'magistrati, da' quali nasce il dritto onorario; dai Senatusconsulti costituiti dal Senato senza legge particolare; e finalmente, dalle costituzioni de' Principi, Ecco tutta la Storia seguita, che POMPONIO ci ha lasciata del dritto Romano, ed intorno alla quale presso a poco gl’autori tunti convengono. Abbiamo finora voduto quale è il dritto é la giurisprudenza romana prima è dopo dello leggi decemvirali, e quindi come per quattro secoat li e più le leggi e la Giurisprudenza avessero 1 caratteri d'irregolarità, d'incertezza e di arbitrio i é non ostanteche la ragion popolare andasse acquistando qualche dritto su l'aristocrazia, puro questa sostenuta dal sacerdozio, qnantunque per necessità cede in qualche cosa de’dritti pubblici, fa perð ogni sforzo per tener recondita le legge, e sotto le chiavi del mistero tutto quello che riguarda l'anministrazione della giustizia. Conoscheno ben essi che nei stati di qualunque sorte, quel If anno veramente il massimo di potere effettivo cho possono disporre a loro modo delle leggi e della giustizia, e che tanto più diventa tale autorità efficace quanto più la legge e oscura, incerta, ed arbitraria. Ma per vedere come questo continuassets e come la giurisprudenza segue ad esser sempre della stessa indole, prima di venir a ragioniare de' plebisciti e de' senatusconsulti ch' ebbero di yerse fasi, ci fermeremo ad esaminare quel dritto cui si volle dare il titolo di ONORARIO, ma che vedremo' non essere stato degno di alcun onore. Se si vuole parlare del la ridevolezza di quelle vantate formole, che costituivano la Romana Giurisprudenza, ci porterebbe a perdita di tempo, ma se i Romani di buon senso e CICERONE stesso le. derideno e teneno in altissimo disprezzo, credo che dopo due mille anni potremo far noi altrettanto, e chiunque non sia un’ vero divoto, e cieco adoratore della Romana antichità e giurisprudenza. Rifletterà solamente che quando di cose semplicissime si vogliono far misteri, allora dovendo vi aver luogo l'arte d'imporre, le idee semplici si devono involgere in un numero di parole non necessarie, e surrogare impropriamente le immagini e le finzioni alla semplicità e realità delle cose e delle idee: specie di geroglifici che deve ace: compagnar sempre il mistero, e l'impostura Siccome non è mio intendimento però di fare la Storia del governo civile di Roma, mà solo indicare il corso infelice delle legge e della giurisprudenza, cosi non m'impegnerò nelle lunghe dispute e di bauimenti fra la plebe e i patrizi, quando quella per acquistare i dritti di cittadinanza, e questi per allontanarli, fanno tuttogiorno rimbombare de loro schiamazzi IL FORO ROMANO. Ma accennerò solamente ciocchè importa, per passare all'origine del dritto onorario. La forza dell' opinione non ha più molio. scevano valore contro la forza reale ed effettiva; per cuti essendo riusciti i plebei a partecipare ad alcuni di quegli officj che fin allora sono privativi de patrizi, come è quello della questura e de' TRIBUNI MILITARI, non parve foro di aversi assicuraii i sospirati dritti, se non otteneno la massima delle magistrature, vale a dire il consolato. E poichè già per lunga e dolorosa esperienza cono che sempre col manto della religione i patrizj cercao coprire le loro pretese, o tependone lungi il volgo profano, ailontanarlo da tutte le magistrature che de' sacri auspicj abbisognayano; così i plebei videro che per farsi strada al consolato, si rende necessario l’ardi mento di entrar ne' sacri pene trali, ed andar anche essi a studiare e consultare un poco i libri Sibillini. Quindi fra le rogazioni che fecero cor endo alla fine il quarto secolo di Roma, sono queste cose combinate; cioè che invece de' Duumviri addetti alle cose sacre si facessero de Decemviri, e che di questi V patrizj fossero ed altrettanti plebei: e che nella nuova elezione de consoli l'uno fosse del loro ordine, e l'altro patrizio. Invano APPIO CLAUDIO montà in tribuna per fare non arringa ma una predica teologica contro le nuove idee filosofiche sorte negl’animi della plebe Romana: invano ricorse alle idee teocrati che già fatte obsolete; invano minaccia d anate ma quel popolo, che potea far a lui più reali mi nacce: Roma, dice egli, è fondata cogli au spicj: futiociò che vi è di pubblico, di privato, di sacro, di profano, in guerra, in pace, in cae sa e fuori, tutto doversi cogli auspicj trattare: che i soli patrirj in esclusione de' plebei per inveterato costuma godevano del dritto degli auspicj: che niun magistrato plebeo è mai creato cogl’auspicjse che in fine canto è il creare i Consoli dalla plebe, quanto il rovesciare interamente la religione, ed incorrere nell'ultima indignazione degli dei. Non ostantino però tante e si gravi rimostranze LUCIO SESTIO ottenne finalmente il consolato. Se questo colpo è doloroso a sostenere per i patrizi, è facile l'immaginare; ma al male già accaduto non potendo portare alcun riparo efficace, si rivolsero ad escogitare qualche rinfranco, per non perdere intieramente quel privativo potere che dipende dal consolato. Pensano dunque sta (12 ) Lir. lib. YI. cap. 36 mabilire una nuova magistratura che può conservare nell'ordine patrizio l'amministrazione della Giustizia, il potere giudiziario, e tuttociò che riguarda l'esecuzione della legge civile. Quindi col pretesto che i consoli sono quasi sempre fuori di città alla testa degl’eserciti, onde non possono adempire agl’ufficj della giudicatura, proposento di stabilire un nuovo magistrato che adempisse e questa parte dell'amministrazione, ed è ordinato che si traesse dai patrizj e si chiamasse PRETORE. La pretura dunque è stabilita per conservare nell'ordine de' padri tutto il sistema giudiziario o forense del quale hanno facto fin allora uno scempio cosi crudele. La legge e la Giurisprudenza segueno ad essere malversate, ma per poia chi anni dura privativamente nelle mani de' patrizj la Pretura. Eccoci intanto al tempo nel quale si può fissare veramente l' epoca di quella Giurisprudenza che passo di mano in mano fino agli ultimi tempi ne' quali ebbero qualche celebrità il nome Romano e l'Impero. Questa parte del dritto, come testè ci ha insegnato POMPONIO, nasce dagl’editti, che emanano į pretori nell'entrare in esercizio della loro magistratura, ed essa fa il maggior latifondio della scienza forense. L'importanza dunque della medesima ci merte nel dovere di portarvi sopra uno sguardo particolare, seguendola brevemente nel corso della Storia, ve derne in qualche modo l'uso, il carattere; e gl’effetti, Dopo lo stabilimento della pretura e della comunicazione a tat officio delle plebe, e più dopo eseguito il censo di FABIO MASSIMO il governo di Roma perde la forma Aristocratica, benchè non ne perdesse lo spirito; ed io non ardirei dire col cos mune de' dotti, che si trasformasse mai in quella forma costituzionale che si chiama Democrazia: La libertà popolare è molta, e qualche volta eccessiva a segno che degenera in licenza, poichè essa non era limitata dalla legge; ed il dritto de' suffraggj ed il potere legislativo non hanno mai quela regolarità ed uniformità, che può rendere nel tempo stesso un popolo regnante e tranquillo. E non è mai tale il popolo Romano, poichè la forma del suo governo non è costituita su d'un piano antecedentemente ragionato nel quale dalla considerazione de' varj rapporti sociali si fosse rimontato alla necessaria divisione del pubblico potere, e questo ripartito in modo che le varie parti non si potessero nuocere fra loro, e non si po tes. → toa 97 ) tessero riunire; ma per un nesso naturale tutte coordinatamente contribuissero al grande scopo della perpetua conservazione sociale. Non avremo perciò quind' innanzi frequente occasione di parlare dei disordini dell' Aristocrazia patrizia o sacerdotale, poichè gittati i semi del disordine e della corruzione, essi si moltiplicarono dovunque trovarono suolo adattato alla facile germinazione. Llibertà produsse i suoi necessarj vantag ki, non però tutti quelli che sarebbeo nati da una vera e legittima costituzione. Ma passiamo finalmente a vedere quale fosse stato il fato della Giurisprudenza in questo nuovo ordine di cose. Fra i Scrittori che di proposito e più accuratamente trattarono degli editti pretorj sono da distinguere il celebre Giureconsulto Eineccio ed Bouchaud dell'Accademia delle Iscrizioni, i quali per trattare il più compitamente che fosse possibile questo importantissimo articolo relativo alla Storia politica ed alla Giurisprudenza Romana, non tralasciarono ricerca alcuna conducente al loa G TO Heinec. Hist. Edict. Memor. de l'Accadem. des Inscr. com. 72. ma 98 ) ro scopo. Trovarono che in Roma e per l'Impero ancora non solo quelli che propriamente Mangistrati sono detti, ma diverse altre cariche ed officj ancora che non avevano tal carattere, ebbe To pure il dritto o il costume di fare deg’edinti Quante che fossero adunque le divisioni e suddivisioni del potere esecutivo o giudiziario, ed in quanti diversi rapporti fossero esse costituite, prendendo un tal dritto, hanno l'uso e la facoltà di straordinariamente comandare. Cosi, incominciando dai pontefici e dai tribuni della plebe, nè gli uni nè gli altri Magistrati, e passando ai Consoli e Pretori fino ai menomi Magistrati Civici tutti vollero avere il dritto di far editti, e godere di quel. Ja parte di potere che in tale facoltà o prerogativa è compresa. Fra tanti Magistrati però che hanno o si arrogano cotale autorità, gl’editti di maggiore celebrità, e che contribuirono a creare una nuova Giurisprudenza sono quelli de'Pretori. Dai patrizj è inventata e fatia stabilire questa nuova Magistratura a consolazione ed indennizzamento della perdita che avevano fatta d'un Consolato passato al la plebe; e quindi ottennero, che il pretore dal loro ordine dove essere prescelto Non dura mol, (99 molto intanto questo, privilegio poichè la plebe veggendo di quale importanza fosse la Pretura, non molti anni dopo cioè nel 417. volle anche paratecipare a tal carica, mentre ancora è unica e non divisa nei due Pretori Urbano e Peregrino; ciocchè' avvenne circa un secolo dopo. Coll’andar del tempo si multiplicarono maggiormente, ed oltre dei due mentovati e dei Pretori Provinciali altri ve ne furono nella Città, de' quali alcuni sono addetti a rami di cause para ticolari, Ricordandoci ora di ciocchè abbiamo detto del la origine della Pretura, ciocchè ci viene attesta 10 da LIVIO e da altri, cioè che essa è surrogata al potere giudiziario, che i Consoli esercitano, si dovrebbe naturalmente pensare, che se i Pretori cagionarono alterazione nell'antica Giurisprudenza, e ne fecero nascere una puova, çið essere accaduto per effetto delle loro decisioni o decreti o sentenze, le quali avessero per la loro giustizia meritata la conferma della pubblica autorità, e passate quindi in dritto consuetudinario Ma non fu certamente per tal motivo, nè si potrebbe facilmente immaginare, che essi a priori fossero autori di un nuovo dritto e d'una nuova Giurisprudenza. Eppure non fu altrimente: essendo essi semplici giudici o ministri di giustizia, colla facoltà di fare degli editti seppero per tal modo usurpare l'autorità legislativa, che il dritto è cangiato, e gl’editti più che la legge sono osservati, e maggior uso ed autorità hanno nel Foro. Ma se i Pretori non erano altro che Giudici cioè Magistrati di Giustizia, il loro officio è solo di applicare la legge al caso particolare, o sia ve der i rapporti fra la legge e ' l fatto del quale si disputa. Un Giudice non può creare un dritto colle sue sentenze, poiché esse altro non sono che la dichiarazione del dritto medesimo; cioè che la legge nel caso proposto si verifica per la tale azione o d'eccezione dedotta in giudizio. E se decidendo, cioè esercitando l'attualità della Magistratnra non può crear un dritto, molto meno dee ciò poter fare per la sola qualità di Magistrato o in forza della Magistratura. Gl’editti pretorii dunque per i quali si alterano, si cangiavano le leggi, e se ne stabilivano delle altre temporarie, ci presentano degl’atti d’autorità arbitraria, temporaria, ed incerta che non possono formar mai una parte del dritto, il quale può solo emanare dalla potestà legislativa, e dev'essere certo generale o perpetuo, fino a che non sia abrogato dalla stessa autorità. Quando dunque in una carica siriuniscos no contro tutti i principi della ragion pubblica quelle facoltà, che devono essere divise da limiti insurmontabili, si può dire che tal carica contenga almeno in potenza, come diceno i scolastici, i principj del disporisano, e dispotico si può chia mar il Magistrato che l'esercita. Nel crearsi la Pretura io voglio supporre che non s'intese produrre un mostro di tal fatta, ma come codesta carica è surrogata al potere giudizionario che avevano prima i Consoli, il quale era riunito al potere esecutivo, cosi' e per questo per quel grado d'autorità che prendevano dall’ordine da cui erano tratti, non è difficile il farvi passare di tali abusi. A considerar dunque giustamente la cosa non nasce nella Pretura tale abuso dal semplice potere giudiziario, ma da quello di far gl’editti. In fatti se si va all'origine di questo dritto, ne troveremo la ragione: Edicimus (dicevano gli antichi) quod jubemtis fieri: espressione tanto generale, che potrebbe comprendere l'esecuzione di tutte le potestà non esclusa la legislativa; e perciò fiequentemente le parole di G leggi e di editti sono di uso promiscuo: Ma PAPINIANO  è quello che più nettamente ci ha la sciata la vera idea del dritto pretorio dicendo che è introdotto a pubblica utilità, per adjuvare supplire, e corriggere il dritto civile. Jus prætorium adjuvandi, vel supplendi, vel corrigendi juris gratia propter publicam utilitatem introducium. Ecco dunque la vera origine del dritto Pretorio, e propriamente di quello che proveniva dal fare gl’editti. Ajutare intanto indica debolezza, supplire, mancanza, correggere, errori. Si dice ch'è nell' ordine naturale delle idee di amministrazione, che quando al caso non si trovi alcun stabilimento di dritto, alcuna legge scritta, la volontà del Magistrato o di colo ro che governano supplisca a questo difetto che il loro piacere tenga luogo di legge questa volontà sia giusta o ingiusta, utile o nociva alla Repubblica. Ma che altro è mai il dispotismo, l'odio de' popoli czualmente e de' buoni regnanti: Se la legge manca, bisogna farla, e non solo il Ministro di giustizia, ma niun Magistrato è mai autorizzato non dico a fare alcu > o che na (13) Bouchaud Memoir. cit. tom. 72. (103 11 0 7 I na legge, ma nè a soccorrerle cadenti, nè a sup plirle difettose, nè a correggerle erronee, nè ad interpretarle oscure. Lascio le tre prime condizioni o circostanze delle leggi, sopra le quali non può cadere alcun dubbio che il restituirle in qualunque modo non possa spettare ad altri che al Sovrano. Ma in quanto all'interpretarle,. sopra di cui il probabilismo forense pare che abbia stabilita la sua autorità, rifletterò che l'interpetrare o interpatrare da principio è in Roma del soto ordine del patrizi, quando tutti i poteri e specialmente il legislativo sono ristretti nell'ordine aristocratico. Essi dunque che fanno la legge sono i soli che potessero interpretarle, uno e l'altro potere era illegitimamente stabilico ed abusivamente amministrato. Quando una legge è oscura, non vuol dir altro, che il non sapersi precisamente, ciocchè essa comandi o prescriva; lo spiegarlo deve venir dunque dalla stessa autorità, che l'ha emanata, sola interprete legitima di se stessa. Ne i giudici dunque nè i giurisperiti possono arrogarsi un autorità illegittima della quale è tan 10 facile l'abusare; e percid gli ottimi legislatori e GIUSTINIANO stesso ogn'interpretazione proibiro G 4 ma l i 10. (104 ) no. Le leggi bisognose di sussidj ed interpretazio. ni indicano abbastanza i loro difetti, de' quali di sopra abbiamo accennato il rimedio, ed il maggior male da esse prodotto è d' aver fatta nascere la Giurisprudenza, ed in seguito la corruzione della giustizia: nel qual fatto osserva l ' Eineccio, che i Romani furono cogli Ebrei sotto lo stesso parallelo. Or l'autorità data ai pretori cogl’editti prova visibilmente due punti: il primo che la legge è così incompleta, come è quella dei popoli barabari; e che i Romani lo furono a tal segno, che non seppero conoscere, quanto il confondere le potestà, ed il lasciar il poter arbitrario ai Magistrati fosse contrario alla Giustizia ed ai principi di ogni buon governo. Scuserò i pretori se ne abusarono, ma come scusare quel modello delle Repubbliche, quella Repubblica stabilità su la virtù, e che connobbe più delle altre la libercà e l'uguaglianza? Non togliamo a Roma gl’onori che merita. Essa è la prima inventrice degli editti, essa è la sola Re. Heinec. De prohib. a Justin. interpret. facult. Cros bertan Repubblica per quanto si sappia, che li avesse in costume. A vedere quale è il dritto Pretorie lungi dal dover credere i Pretori Magistrati giudiziarj, dovremmo anzi prenderli per riformatori o correttori delle leggi. Tali sono in fatti, ma non per uno stabilimento autorizzato dalla potestà legislativa: lo furono solo per abuso, vergognoso ai costituenti di sì strana Magistratura, e pernicioso sommamente al popolo soggetto. Se Roma avesse conosciuti i difetti delle sue leggi, e l'incongruenza nella quale dovevano essere per la differenza de' tempi, e per i politici cangiamenti; ed avesse voluto imitar veramente le leggi ed i stabilimenti d’Atene, avrebbe trovato più opportuno mezzo  a correggere e modificare la sua barbara legislazione. Ciascuno sa che in Atene vera un Magistrato detto de’ tesmoreti, il quale propone annualmente i cangiamenti o correzioni da farsi nelle leggi, e queste sono poi approvate o riggettate dal potere legislativo. Non deve farci intanto molta meraviglia che la pretura s' introducesse con tali abusi e tant'autorità straordinaria, se rifletteremo che quella. Magistratura è da principio stabilita privativamente per l’ordine patrizio, il quale la conserva in suo potere per anni. Per sapere poi come quell'abusivo potere si esercitasse, devo ricordare, che vi sono IV specie di editti, cioè Repentina: perpetuæ jurisdi fionis caussa: translaticia: nova. E senz' andar esponendo il valore di ciascuno, ciocche fino alla sazietà da molti autori è stato eseguito, mi ristringo ad alquante osservazioni più importanti. E primamente dirò, che quelli editti i quali dovevano contenere il sistema giudiziario attuale del la pretura, sono quelli appunto, da'quali derivarono maggiori abusi, cioè quelli perpetuæ jufts dictionis causa, pei quali il pretore espone nell' albo le formole delle azioni, delle cauzioni, delle eccezioni, secondo le quali avrebbe fatto giustizia. Or avendo veduto che la Giurisprudenza anzi il dritto civile de' Romani in tali formole è compreso, chi è autore delle formole, lo è in conseguenza del dritto medesimo. Chiunque nell'agire in giudizio manca a quelle formole per qualun que causa, cade dall ' azione, o rimane con inutile eccezione cioè perde la lite anche che intrinsecamente avesse avuta dal canto suo la giustizia e la disposizione delle leggi. Ecco dunque il Magistrato divenuto legislatore, ed arbitrario it sistema di giudicare. Dobbiamo però credere, che tuttociò fosse fatto senza principj, e che non avendo idee certe e generali de' principj del driito, facessero gl’editti ciascuno secondo le proprie cognizioni ed idee: poichè come le ultime derivazioni e ramificazioni delle leggi si possono ritrar tutte della retta ragione e dalle idee di giustizia universale, cosi se i loro editti fossero derivati da tali fonti, non sarebbero stati prescrizioni annuali, ma avrebbero avuta una continuazione o vera perpetuità. NÈ SI FACCIA ILLUSIONE IL NOME DI PERPETVÆ IVRISDICTIONIS, POICHÈ QUELLA PERPETUITÀ ERA RISTRETTA AD UN SOL ANNO. Il Pretore o Pretori che succede alla carica, ha il dritto assoluto di proporre nel nuovo albo un nuovo sistema giudiziario, e cangiare a lor grado la formola ed i principj; e sebbene questo non si fosse fatto sempre nè in tutto, poichè spesso i succes'sori conservano integralmente o parzialmente gl’edirii an tecedenti, ciocchè diede il nome di translatixj agli editti di tal indole, è sempre però in libertà de' nuovi Magistrati di farne di nuovo conio, che perciò portarono il titolo di nova. Se maggiori irregolarità, incertezze; ed arbitrj. si possono portare nell' ordine giudiziario e ne ! dritto, lo lascio giudicare agl’amici della Giu stizia e della ragione. La Giustizia dipende solo dal capriccio pretorio, e gl’attori in giudizio dovevano essere ben intrigati in variar le loro formole, e su di esse disputare ed argumentare, per trarre le disposizioni o le opinioni legali al loro partito. Questo porta col tempo, che fossero molte le azioni per lo stesso giudizio, ciocchè fa un nuovo intrigo, ed accresce l'arbitrio de’ magistrati. Più anche dovette crescere quando i Pretori sono varj, e vi è in Roma quasi una popolazione di Magistrati, poichè ciascuno a suo modo proponendo gl’editri, quel ch'era giusto presso di uno, si trova ingiusto presso un altro. La morale pubblica e quella delle leggi particolaramente è dunque così incerta che non ha per regola che le opinioni o il capriccio, e si dilata o ristringe, allungava o accorciava secondo le sublimi Teorie del probabile, le quali sorgono sempre dall'arbitrio e dalla corruzione. Se il Pretore fosse stato uno solo, se l' Amministrazione giudiziaria fosse stata ristretta ad una sola specie di Magistratura, non avrebbe potuto 1 diffondersi tanto l'incertezza della Giustizia e la forza dell' arbitrio: ma gl’ammiratori o visionarj della Sapienza Romana, trovano ragioni sufficienti per ogni disordine. Il progressivo accrescimento della Città o della Repubblica porto secondo essi multiplicità e varietà di affari, per cui si doveano coerentemente multiplicare e variare le Magistrature e le Giurisdizioni. Esempio pur croppo funestamente imitato nei vari stati di Europa! Nel progresso delle Società si aumenta è vero la popolazione o il numero degl'individui; ma non per questo crescono i rapporti naturali e necessarj che essi hanno collo stato, col governo, e fra se stessi. Non crescendo i rapporui non devono multiplicarsi e variarsi le leggi, le quali ne sono I espressione; ne devono quindi crescere e diversificarsi in varj generi e classi i Magistrati che ne sono i Ministri o dispensatori. Possono crescere in numero bensi ed in divisioni, ma de vono essere costantemente della stessa specie e con i stessi nomi. Quindi il dividere i giudizj criminali e civili in tante varietà, giurisdizioni, e legislazioni differenti è il produrre volontariamente una confusione, e multiplicare gl’abusi dell'arbitrario potere: ciocchè però non accade quando si vedono nettamente e con precisione i rapporti del cittadino. In questo caso, la legislazione sarà univoca, generale, uniforme; i limiti del potere giudiziario resteranno distintamente marcati; e le giurisdizioni, e le Maggistrature non saranno stabilite e divise sopra rapporti immaginarj e fattizj. Più, non nascerà pelle Magistrature quello spirito di corpo per cui sono in continua contesa o guerra fra loro, e, per conseguenza col governo o collo stato. Lo spirito di corpo è in ragion inversa della grandezza del corpo medesimo, onde più saranno piccoli, più avranno i difetti della picciolezza, più saranno capricciosi, irragionevoli, ed abuseranno della forza e dei momenti favorevoli:. Un gran corpo di Magistratura ben costituito e convenevolmente diviso, senza gelosia e senza interessi contrarj avrà la dignità che deve aver la Magistratura, ma non ne avrà le follie. Per quanto però fosse ampio ed esteso il dritto o potere che i Pretori esercitavano, non sembro loro ad ogni caso sufficiente; e poichè delle cari che non limitate o mal circoscritte dalla legge si. passa facilmente da abusi in abuşi, essi non fu sono contenti dover osservare i loro stessi princi pį idee e sistemi per quella perpetuità annua, ma, pensarono d'abbreviarne il termine a loro piacere Fenomeni di tal natura sono forse del tutto nuo vi nella storia ! Una magistratura costituzional mente arbitraria, si arroga anche il dritto di can. giar quelle norme legali divenute leggi per mezzo della pubblicazione, e farne delle nuove senza pre, vio esame, come, un corpo leggislativo farebbe, ma di propria volontà e piacere come un Despota potrebbe fare. Questo pur si faceva nel foro Ro mano, e spesso durante l'anno della Pretura si vedeva quasi magicamente scomparir l'albo espo sto, ed un altro a quello sostituito. Pensi chi vuole, che fosse quella una sublimità di condos. ļa, o la surrogazione d' idee più giuste ed al paba blico vantaggiose; io penserò cogli antichi, che i pretori, nol fecero per altro che per favore, per interesse e per altre tali cagioni, stimate ferite mortali per la Giustizia. Cosi penso anche l'Ei neccio, il quale benchè impa stato di vecchia giu risprudenza, pure abominò il dritto pretorio ed i più illegali abusi de' Pretori. Si erano essi accom modati talmente a cotal giuoco, che portandolo, ormai all'eccesso, e facendo vero scempio della giustizia, si svegliò finalmente un'anima virtuo sa compassioneyole per la pubblica disgrazia, la qua la en le tentò d'apportarvi riparo. Come infatti si pud vedere lo strazio che della giustizia fanno gli stes si di lei sacerdoti, e non sentirsi l' animo com mosso da pietà egualmente e da 'nobile disdegno. Paulo Emilio nudrito nelle semplici idee di quella véra sapienza che accoppia i doveri alla beneficenza, e l'umanità alla virtù, vedeva con orrore l ' amministrazione della giustizia Romana tanto nel la Città quanto nelle più infelici provincie. Vede va condannati gl'innocenti, i deboli oppressi, ed i Magistrati impuniti; e questo' nell'epoca la più memorevole della Romana virtù. Sdegnò egli, come rapporta PLUTARCO, i studii che la nobile gio venid coltivava ai suoi tempi per giungere alle cariche: quindi non comparve mai nel foro, o a piatire innanzi ai Magistrati, o ad umiliarsi al po polo per ambizione; ma corse libero la strada del la gloria e superò tutti i suoi contemporanei in virtù ed in valore. Nè vi vuol meno d’un tal carattere per attaccare i pregiudizj potenti, gli abu. 81 interessati, ed i sistemi di corruzione. Essendo infani pervenuto al Consolato non fu tardo a proporre le sue idee ajutatrici, e quali che fossero le generali opposizioni trionfo su la pub-. blica corruttela, stabilendo, che i Pretori non potesssero cambiare più i loro Editri = V. K. Apria lis. Fasccs penes Æmilium S. C. factum est, uti prætores ex suis perpetuis edictis jus dice teni. PAULO EMILIO fu in dovere di partir subi. to per la Macedonia, dove ebbe più durevoli trion fi su i lontani nimici, che quelli ottenuti su i ne mici che Roma aveva dentro delle sue mura. Que. sii fecero infatii rimaner invalida la legge; e non è raro che i nimici del bene pubblico riescano con mezzi di vittoria più efficaci. Da quest'anno cha fu il 585 di Roma i Pretori seguirono ad imbal danzire alle spese della Giustizia, e di quell' equirà medesima, che tanto vantavano nei loro editri a nella loro giudicatura. La Repubblica sempre in disordini correva già al suo termine per i vizi della casuale costituzio ne; ma tra i disordini, la Giurisprudenza pretoria era giunta ad un punto insopportabile. A nulla valevano le accuse contro de ' Magistrati, poiché i mezzi di salvarsi erano molto conosciuti. Quello però a cui un Console non potè riuscire con ef fetto susseguente, riuscì un virtuoso Tribuno della plebe, con tuttocchè fosse stato contrariato dai suoi compagni. Questi fu C. CORNELLIO SILLA il quale o tocco dai stessi sentimenti di Paulo Emilio, o scan H 1drlezzato specialmente dalle depredazioni di Verre e de' simili a lui, fra le altre utili leggi, propose la rinnovazione del Senatoconsulto per moderare la smodata cupidigia de' Pretori. LIVIO e DION CASSIO ed altri autori ci attestano in que' tempi non solo la sfrenatezza pretoria, « ma il grand' interesse de nobili specialmente a conservarsene il possesso; per cui la proposta del Tribuno eccitd tumulto tale ne' Comizj, che i fasci Consolari andiedero in pezzi, ed i sassi facendosi sentire più delle vo ci, convenne dimettere, o posporre la lodevole im, presa ad altro tempo più tranquillo. Infatti secondo ASCONIO PEDIANO la legge passò = Multis 12 mon invitis quæ res tum gratiam ambitiosis Prætoribus, qui varie jus dicere assueverunt, sustit lit. Gli oppositori della legge non avendo potuto impedirla, rivolsero lo sdegno loro contro l'autore accusandolo di Fellonia, e Cornelio fu debitore della sua salvezza alla facondia di CICERONE: Troppo tardi perd pel popolo Romano vena ne quel beneficio; la Repubblica era già spirante i disordini irreparabili, ed apparecchiati i ferri per le Ascon. in Orat. pro Cond. le nuove catene. Roma non godè mai della liber ' tà, non seppe conoscerla, nè conobbe mai i moa menti favorevoli, ne' quali avrebbe potuta ren: derla eterna, Se colla Repubblica però fini la grande autorità de' Pretori, e se nuova Legislazione, nuova Giurisprudenza e nuovo metodo giu diziario furono introdotti dal Dispotismo; la legislazione, la Give risprudenza, l' ordine giadiziario restarono perd perpetuamente infetti dagli usi o d'abusi, che l'ar te Pretoria figlia della vecchia Giurisprudenza in trodotti y aveva. Nuove parole ', nuove azioni, nuovi atti legittimi ingombrava no le leggi e la giurisprudenza; ma quello che poi fu il colmo dell' abuso, ridicolo per se stesso, e tristo assai per gli effetti, fu l'aver inventato un nuovo metoda di considerar in giudizio gli oggetti,.i rapporti e le azioni; in sostanza le finzioni legali: Anche questo bel ritrovato lo dobbiamo alla Romana intelligenza. Senz'averè molta perizia nella Giuris. prudenza, basta la più semplice ragione per ve dere, che tali invenzioni furono i sussidi dell'igno tanza ed i sostegni della ingiustizia. Si possono perdonare ai Romani; ma come perdonare a que' moderni Giureconsuli, i quali ancora dalla Ro se 1 mulea feccia pretendono far sacri libamenti alla Giustizia? Tale fu l’ALTESERR, il quale offerendo a Lamoignon l'opera de Fictionibus Juris, così s'espresse = quid enim aliud istæ fictiones, quam juris remedia et jurisprudenium supulua IC, qui bus difficiliores casus expediuntur, et aurræ claves quibus Jurisprudentiæ secreta aperiuntur? = e peg gio altrove. Tale fu EINECCIO ancora il quale nel la Dissertazione, De Jurisprudentia Heuremarica versd gran copia d'erudizione per giustificare le finzioni legali, e farne vedere la bellezza e l'im portanza. Chi sarà vago di conoscere quelle auree chiavi della Giurisprudenza, potrà consultare i cita ti autori e la maggior parte de' Giureconsulti erų - diti. lo aggiungero soltanto, che esse ebbero ori gine da ignoranza o da malizia. Per la prima av. venne, che nei progressi della civilizzazione can giandosi gli antichị barbarựci modi de' tesçamen tị, de contratti, de’ litigj, credettero quasi che fosse cangiata la realità, e chiamarono finzioni i modi che a queli furono surrogati. Per la secon da, le finzioni s'introdussero in fraude delle leggi, per eludere le loro prescrizioni, e per estenderle a que'casi, de'quali non avevano espressamente par Jato. Origini entrambe poco degne della Giustizia dottissimo VICO portando le sue perspicaci osservazioni su quelle strane usanze e richiamando, le ai loro principi, chiamò il vecchio dritto. Roma-, no un Poema serio, poichè le immagini si erano Sosti uite alla realità, e non si erano trovate poi espressioni più semplici e più adattate. „ In con „, fum tà di tali nature (dice il lodato autore ) l'antica Giurisprudenza tutia fu Poetica, la qua. le fingeva i farti non facii, i non fatti, fatti, na y ti gli non nati ancora, mori i viventi, i morti vivere nelle loro giacenti eredilà: introdusse tan, te maschere vane senza subjenti, che si dissero, » jura imaginaria; ragioni favoleggiate da fanta e riponeva tutta la sua riputazione in rim „ trovare sì fatte favole, che alle leggi serbassero y la gravità, ed ai fatti somministrassero la ragio talche tutte le finzioni dell’antica Giurism prudenza furono verità mascherate, e le formo, s le colle quali parlavano le leggi, per le loro circoscrit te misure di tante e tali parole, nè più, nè meno, nè altre si dissero carmina. Ed altrove ragionando della Giurisprudenza Eroica ciod. H 3 bara sia: 99 he: (VICO Princ. della Scien. Nuo.) barbara de' Romani, la paragona a quella della se. conda barbarie, dicendo, Cost a tempi barbari,, ritornati la riputazion de' dottori era di trovar, cautele intorno a contratti, o ultime volontà red in saper formare domande di ragioni ed ar ticoli, che era appunto il cavere e de jure respon. dere de’ romani giureconsulti. Da tuttociò si rileva, che sebbene la Romana Repubblica progredisse in quanto allo stato politico verso la libertà, ed in quanto ai costumi verso la civiliz zazione, in quanto alle leggi però ad alla Giurisprus, denza i Romani erano rimasti in quello stato poetico, o barbaro, che caracterizza i primi passi sociali o lo stato (dirò cost) di necessaria Aristocrazia. Se di ciò si voglia indagar la cagione, si troverà facilmente ne' tardi progressi che fecero i Romani nel perfezionamento dello spirito o della Ragione; poichè da questo solo possono essere migliorate le: costituzioni, le leggi politiche, e le civili. Mi dispenso volentieri, è credo ragionevolmente, di andar ragionando di tutte le novità, che i Pre cori introdussero nel dritto, se da quanto si è detto finora, la Giurisprudenza pretoria resta ab bastanza caratterizzata; e chi volesse meglio istruir sene, può ricorrere agli autori che ne favellano. Se qualcuno sarà preventivamente infatuato del'no me di Roma, vi troverà cose maravigliose e pelle grine, compiangerà l'attuale barbarie, e gemerà su le ruine del Campidoglio: ma se sarà una persona ragionevole e senza prevenzione, riderà di molte fole, compiangerà coloro che ne sono restati illu si, e farà voti sinceri, accið tali memorie indegno di uomini ragionevoli passino ' nell ' obblio. Volendo dunque giudicare con principi di ra gione non adombrata dall'ammirazione e dai pre giudizi della infanzia, dovremo dire, che i Preto - ri poterono essere buoni o cattivi, come in tuli gl ' impieghi sociali accader suole; e che perciò molti di essi si servirono in bene delle loro pre rogative ', riducendo all' equità, o sia alla giusti zia accompagnata all'umanità, le leggi troppo se vere. o barbare che allora esistevano. Ma dall' al tra banda dovremo pur confessare, che la maggior parte de pretori si abbandonarono ciecamente ai nobili istinti di tesaurizzare e signoreggiare, per cui, più che ministri o sacerdoti furono conculca tori della Giustizia. Riconosceremo nel tempo stes 50, che questo nacque, dal non essere stata limi ta e legittimamente circonscritta la di loro autori tà o potere; e per questo d'ogni arbitrio abusan н 4 do 1 do resero l'ordine de' giudizj arbitrario, la Giurise prudenza equivoca ed incerta', e fecero nascere una nuova specie di dritto, che tali qualità tutte in se comprendeva; e sebbene non autenticato da alcun atto del potere legislativo, divenne. pure. un dritto consuetudinario più esteso e più usato delle leggi, e durò con perpetua continuità insiem. me colla Repubblica e coll' Impero Romano. Non ci lasciamo dunque illudere dalla tanto vantata eruiià pretoria: l'equià ve a fu solo de' buoni, e quella specie di equità può solo valutarsi do ve la legislazione non è nè rispettabile nè giusta. Considerando le antiche azioni della leg gé, gli atti legittimi, e le finzioni legali, ci com parirà molto giusto che GIUSTINIANO le chiami favo le cioè azioni Drammariche, poichè in sostanza erano delle vere scene che si rappresentavano innan zi ai Magistrati. Cosi tutte le azioni che si face Justin. In proem instit. = ur liccat vom bis prima legum cunabula non ab antiquis fabulis discere, sed ab imperiali splendore appetere, A cotal intrinseco difetto della Romana Repub. blica non parmi che si pensasse gianımai a pora, tar un vero rimedio., per cui la vantata libertà che senza leggi non nasce,nè si può sostenere, non sedè mai lieta su le sponde del Tevere, e fuggi. finalmente di mezzo a un popolo, che non la co nobbe, e non fu mai degno d'adorarla. Il latte della lupa si perpetuò nelle vene de' Romani, ne quina 7 vano per æs & libram, le rivindicazioni, le cré zioni, le manomissioni, le nunciazioni di nuove opere, le usutpazioni, le licitazioni, le antestazio lé elezioni & c. non solo erano faite conceptis verbis, dalle quali non si poteva trascendere, me con azioni e rappresentanze particolari, che rende. vanò comiche le processure giudiziarie. Questo però non significa altro, se non che, nei tempi d'ignorana ga si sostituisce il linguaggio d'azione all' espres sione naturale delle idee e de sentimenti; e percið i simboli, i geroglifici, le gesticolazioni furono nei tempi barbari il supplemento della lingua parlata é divennero poi il linguaggio rituale solenne e sacro; in che principalmente consisteya la Giurisprudonza Romana quindi conobbero mai i sentimenti di sociabilità, i piaceri della società, le regole che all'adempimen to di essi prescrive la Natura. Perciò e per effet to della loro barbarie ed ignoranza, si disputò, si discusse, si combatte, si decise sempre sopra idee particolari, nè mai seppero elevarsi a generalizza re i principi, che la ragione ci mostra per la buo na' costituzione de corpi sociali, Dai campi ai Co. mizj era quasi continuo l alternativo passaggio maquanto furono felici colla forza o colla frode altrettanto infelici furono nell'uso della ragione. Essi non ebbero mai sentimenti univoci, e se la plebe fu qualche volta superiore di fatto, l’aristocrazia conservò sempre la sua condotta, ne seppero far cessare il nome di plebe, che vergognosamente li caratterizzava, e distingueva pre giudizievolmente il cittadino dal cittadino. Dell uguaglianza non ebbero mai la vera idea, e quindi non poterono averla della libertà, che sola per quella sussiste, ed il vantato censo, non diro quello di Seryio Tullio, ma quello stesso della Res pubblica non fu una invenzione sublime. Se cotali riflessioni potranno sembrare ad alcuno superflue in rapporto al soggetto della Giurisprudenza Romana, rispondero, che tali non sono poic (Det poichè quando si parla delle leggi, convien neces sariamente avere le giuste idee del popolo che ne fu l'autore, dei suoi sentimenti, e della forma e condizione del potere legislativo. Or potrà sembrare strano il dire, che Roma era formata quasi di due stati l'uno nell'altro, e che il potere legislativo fosse diviso in due corpi o anche in tre, e che poi quelle leggi fossero di un uso generale. E pure tal fu di Roma nel tempo in cui fu più celebre e risplendente. $' egli è vero, che nella undecima delle dodici tavole fosse contenuto il Dritto pubblico de' Ro mani, dobbiamo pur riconoscere che fu la più negletta e la meno rammentata, poichè i fram menti o le quisquilie che di essa ci rimangono sono le più meschine. E quantunque io sia nell' idea, che quella tavola non contenesse che i prin cipali dritti dell' Aristocrazia, qual' era appunto la legge de'cornubj, tanto detestata dalla plebe, e ro versciata vittoriosamente da CANULEJO; pure in un frammento rimastoci, troviamo quale avrebbe dovuto esser il vero stabilimento del dritto Legisla tivo, cioè QUOD POSTREMUM POPULUS JUSSIT ID JUS RATUM E $ TO. Ma se vogliamo seguire, la ragioneyole interpretazione del Vico e del Duni, la parola popolo non fu ivi presa nel senso proprio; e nel significato generale, per esprimere la collezio ne di tutti gl'individui componenti lo stato, ma di quelli soli che godevano il dritto, e meritava no il vero nome di Cittadini, quali erano i soli Patrizj. Quando poi la plebe gradatamente venne a partecipare alle qualità civiche, la parola po. " polo divenne generale, e non essendovi più di visione privilegiata d'ordini nello stato, ma solo di classi, ciocchè la cennata legge prescriveva, passò ad essere nel suo vero uso e valore, cioè, a far, sì che legge si chiamasse, ctocchè l'intiero popolo avea prescritto e comandato. Se tale è però il principio costitutivo delle Rear pubbliche, e secondo il Gravina il più convenien te ancora alla natura umana, vi devono esse re delle regole, accið lespressione della volon tà generale sia certa legittima libera ed uguale, onde ciascun cittadino senta essere una parte in tegrante del Sovrano, dello Stato, e della Patria: Tali sono le leggi costitu zionali, che riguardano il dritto del suffragio, o la maniera di communi care la propria volontà al corpo sociale, e fare che la volontà pubblica sia realmente il risultato del. le volontà particolari. Il Dritto di suffragio costi tui yang tuisce dunque principalmente la qualità di cittadi. no, e il modo di darlo, forina quasi una misura di graduazione del Cittadino mede simo. cioè che tanto più si è Gittadino, quanto più il dritto del suffragio è libero ed uguale. Troppo lungi mi porterebbe l'andare esaminan do particolarinence colla Storia, come questo drit to si stabilisse in Roma:, cioè nella formazione casuale di quella Repubblica, alla quale contribul molto più la natura o il corso naturale delle sa cietà, che i priacipj d'intelligenza e di ragione. Dirò solo, che quel popolo sempre rozzo ed ignorante fu tanto lontano dal conoscere l'importanza di queste idee, che şi conteniò di essere con vocato al suon d'un corno di bue alle grandi Assemblee de' Çomizj; e mandra od ovile fu chiamato quel luogo, dove si radunava, per compir l'atto il più degno, il più glorioso p er un popolo, cioè il dar leggi a se stesso. Ma cotai nomi ed usanze erano avanzi dell'antico stato Aristocrațico; e pa stori e mandre sono correlativi necessarj. Delle tre maniere intanto nelle quali si diedero į suf DIONYS. ANTIQV. ROMANARVM e i suffragj, quella de' Comizj tributi si può dire che fondasse veramente la libertà o la potestà del po polo, giacchè i Comizj delle Curie furono obblia ti, nè ebbero in effetto il potere legislativo; ed i Comizj centuriati davano la preferenza o la pre ponderanza alle ricchezze. Vi fu inoltre il Senato, il quale sebbene non avesse altro dritto, che di esaminare o consultare, si arrogo pure in parte il potere legislativo. O la Nazione dunque radu nata per Tribd, o essa stessa convocata per Centurie, o il Senato ebbero o in dritto o in fatto l'esercizio del potere legislativo. Le risoluzioni per tribù dette plebisciti, non ottennero che dopo molte contese la vera for za di leggi, cioè di obbligare tutti i cittadi ni, giacchè da principio non obbligavano che la plebe soltanto. Tanto è vero che i Patrizi si cre devano un altro popolo un altra Nazione; che quelle leggi nelle quali non avevano potuto far prevalere, le loro idee e le loro volontà, per mol to tempo non le fecero valere per leggi. L'auto rità de' Senatusconsulti fu meramente abusiva, poichè nè per le leggi Decemvirali ne per al cun stabilimento posteriore, il Senato da se solo aveva in alcun modo la potestà legislasiva. el 3 2 tiva. Quelle risoluzioni però che portarono parti colarmente il nome proprio di leggi, furono le de cisioni dei Comizi centuriati, delle quali non oc corre ripetere nè il metodo nelle proposizioni, nè quello della convocazione, nè quello delle deci sioni. Tuttocið fu vario nel corso della Repubbli. ca, e si può trovare presso mille autori, che del governo Romano anno ragionato. Ho voluto solo ricordare queste poche notizia per mostrare, come il potere legislativo fu stabie lito in Roma sotto varie forme, le quali influivano di molto su la realità, e come il dritto di suffra. gio, non fu lo stesso nè uguale nei diversi comizi. Nei centuriati la qualità di Cittadino era misurata su le ricchezze, e non si può dire, che fosa se la volontà del maggior numero de' cittadini, che rappresentasse la volontà generale, come don vrebb' essere per natura. Și sa ancora quanti abu si vi s'introdussero per farle essere le decisioni del minor numero, e spesso la quarta o quinta parte del popolo aveva già decretata la legge, men tre la volontà di tutti gli altri rimaneva inutile e, delusa. Che quello fosse un sistema meraviglioso lo potranno dir solamente gli Entusiasti, ma non chi nel giudicare suol prendere per guida la ragione: Dirò di più, e ciò fu contro i principi di ogni regolare amministrazione, che quei comizj oltre al potere legislativo si arrogarono ancora la facoltà governativa', ed in molte occasioni simil mente il potere giudiziario; ciocchè indica, qua le idea essi avessero di un vero ' e buon Politico sistema. Fu sicuramente un effetto delle distinzioni sco lastiche dell' antica Roma il dire, che i Tribuni del popolo non fossero Magistrati, perchè non avevano nè imperio nè dritto di vocazione, nè giu risdizione, nè auspicj, ma in verità se non erano magistrati nominali, lo erano in effetto, ed eser citavano un potere amplissimo su la plebe, sul Senato, e sopra tutta la Repubblica: ad es si apparteneva il convocare i comizj tributi i quali secondo me formavano il vero corpo le gislativo, se in essi il dritto del suffragio ap parteneva egualmente ed integralınente ad ogni. cittadino. Il Cittadino vi figurava come Citra dino libero, e non era il rango o la ricchezza, che davano la preponderanza. E pure questa par te della legislazione non meritò mai il nome di legge, come l'ebbero le risoluzioni de'Comizj cen turiati. lo non decido pai se al paragone le leggi Orno proposte dại Tribuni fossero più giuste ed utili allo stato, che quelle proposte nei Comizj centu riati dai Magistrati maggiori. Possiamo però ri Aettere, che tutte le leggi riguardanti la costitu zione politica, o relative alla libertà ed al lo stato popolare, le quali si possono chiamare leggi di Umanità e di Giustizia uni versale, furono tutte o quasi tutte proposte dai Tribuni. Nè si pud dubitare che esse fossero leggi necessarie, poi che erano le leggi naturali della libertà, e quindi necessarie e costituzionali per un popolo che voleva essere libero, Nè è da imputar loro che non fos sero migliori; giacchè la mancanza d'idee e di buone cognizioni era comune ai patrizi ed ai ple bei. Lo stesso Cicerone contuttoche fosse Aristo cratichissimo, non potè far a meno, di con fessare, che se si avessero voluti annoverare i misfatti de' Consoli, non sarebbero stati pochi, ma che toline i due GRACCHI, non si potevano contare altri Tribuni perniciosi. Infatti, e varj plebisci ti furono salutarissimi alla Repubbiica, e le leggi an. (Do Leg.)anche civili dai Tribuni promosse furono effettiva. mente a pubblico vantaggio. La maggior parte però delle leggi, dei plebisciti, e de' Senatusconsulti furono una specie di leggi volanti o temporarie, essendo per lo più pro mosse per occasioni particolari; ¢ sebbene si procurasse di dare ad esse tutta l'autenticità so. lenne, non si riducevano però in un corpo, che avesse l'autorità d'un codice di legislazione; ne io credo, che ad uso pubblico sempre s' incidesse ro in ' tavole o lamine di bronzo, come pur ci vo. gliono far credere alcuni autori antichi. Sono in dotto a pensar cosi da varie testimonianze, e spes cialmente da una di CICERONE. Possiamo da esse raccogliere, che quando le leggi furono una scienza arcana de' Patrizj e de' Pontefici, si conservaro no e custodirono con gelosia e con mistero, trat tandosi quasi della loro proprietà più preziosa, e proprietà come abbiamo veduto molto dispo nibile. Il tempio prima di Cerere par che fosa se a ciò destinato, e poi il pubblico Erario, accid i Consoli'o i Senatori non le corrompessero o in volassero; ma quando le leggi divennero di ragion pubblica, gli antichi curatori non le curarono più, e funne generalmente negletta la custodia Al (131 ) si. Almeno cosi ci attesta CICERONE, assicurandoci, che per saperle, o per conoscerle, bisognava far capo dai Portieri e dai Copisti = Legum custodiam nullam habemus: itaque hæ leges sunt, quæ apparia tores nostri volunt; a librariis petimus; pubblicis literis consignaram memoriam publicam nullam ha bemus. Græci hoc diligentius, apud quos xquaquaames creantur: nec hi solum literas (nam id quidem een iam apud majores nostros erat, sed etiam facta hominùm obsesvabant, ad legesque revocabant. E la credė egli così necessaria, che nel suo Co dice, legislazione stabilisce appunto nell'Erario la conservazione o custodia pubblica delle leggi Forse però i Romani si avvidero, che le loro leggi non meritavano tale attenzione ed onore. Ho avver che TACITO caratterizza con molto favore le leggi Decemvirali, non perchè meritas sero elogj di equità e di giustizia, ma perchè, al meno in apparenza, avevano avuta una certa re golarità di formazione e di pubblicazione; ed a causa delle leggi posteriori, prive di tali qualità. Qualunque fossero in facti le regole per convocare I 2 i co tito di sopra, 1 (Cic. de leg.)i comizi, per dare i suffra gj, per creare le leggi oltre la viziosa costituzione, è da credere ancora, che il disordine e la confusione sempre vi avesse ro luogo, e spesso vi avesse parte la violenza, la cerruzione, e tutti quegl' inconvenienti soliti a nascere da personalità, da privato interesse, e da spirito di vendetta. Cosi di fatti c'indica Tacito dicendo compositæ duodecim tabulæ, finis omnis æqui juris: nam sequuræ leges, etsi aliquando in maleficos ex delicto, sæpius tamen dissentione ordi hun, et adipiscendi inlicitos honores, aut pe'len di claros viros, aliaque ob prava, per vim taie sunt. Questo fatto finalmente mette il colmo, a quan to abbiamo detto della irregolarità ed incertezza di quelle Leggi, che meritarono tanti encomiatori. Le espressioni della volontà generale d ' un popolo libero e giusto, avrebbero veramente meritate P adorazione, e l'accettazione della posterità, se stabilite secondo i principj della Natura e della ra. gione ci avessero presentato un archetipo degno d'imitazione. Ma colla scorta della Storia, e sce vri (TACITO, Annal.) ba ia di 10 18 tie 1 vri della infantile prevenzione tutt'altro abbiamo trovato. Se Dionigi d' Alicarnasso ci presen " ta Romolo come un legislatore Filosofo, ed in struito della storia degli alui stati; la storia vera ce lo presenta come capo di un' Aristocrazia pri mitiva, cioè barbara e feroce, la quale risorin - geva nel suo ordine, tutte le qualità di uomo e di cittadino: ma la storia del primo Regno e de gli alııi successivi è quasi tutta incerta simbolica e favolosa, come si potrebbe provare su le poche tracce, che non sfuggono ai critici indagatori del le origini civili. In tutto quel tratto di an ni altro non veggiamo in risultato, che dopo una prima aggregazione di forti e di deboli, senza altre leggi che le consuetudini Aristocratiche, si co minciò a dare una forma alla nascenie società. Il re videro, che il loro potere era un nulla, se invece di esser capi de'patrizj, nol divenivano del la plebe o del popolo; ma Romulo scompar ve per diventar Quirino ne' cieli, Servio fu tru cidato, ed il secondo Tarquinio espulso. In tanta incertezza di cose, come i storici assai posteriori parlarono dei tempi passati colle idee dei tempi loro, così si aprì la strada a credere, che le stes. se parole corrispondessero alle stesse idee in epo che di is ble che assai differenti e lontane; quindi i scrittori suse seguenti si tormentarono prima lo spirito in tante ricerche, e poi si distillarono il cervello per con cordare le contradizioni, che ad ogni passo incon travano fra le idee prima formatesi, ed i fatti che poi trovavano nella Storia. Quindi tante ricerche e tante dispute inopportune e difficili per la man canza di monumenti, ed inutili affatto ai progres si della ragione. La legge regia però non meri tando alcuna particolare attenzione, importava so lo al nostro assunto il vedere, che l' incertezza delle leggi cominciò col nome Romano, e porta rono questa marca vergognosa in tutte le epoche, e in tutta la durata della Repubblica. Tali poi furono anche il dritto civile, le azioni legitime, gli Editri de' pretori o sia il dritto onorario, e finalmente le leggi propriamente dette, le quali sempre più confusero e resero incerto il drit, to e le leggi antecedenti. Parmi dunque poter drittamente dai fatti con chiudere, che le leggi e la Giurisprudenza Roma na furono immeritevoli di quelle lodi colle quali sono state esaltate, ed indegne di reggere un po polo qualunque, mancando di quelle qualità che poteyano renderle pregey oli e sacre, cioè collo stabilire la regola eterna della giustizia, render P urmo suddito di esse, e non dipendente dall' arbitrio; ciocchè positivamente distingue la libertà del dispotismo, qualunque sia del resto la forma o la costituzione sociale. Se le specolazioni de' politici si fossero fermate principalmente su quest'articolo, avrebbero facil mente ravvisato, che Roma non cadde oppressa della sua grandezza, poichè per gli edifici mate riali o politici è essa anzi una cagione di resi stenza e di durata. Cadde quella mole immensa per mancanza di base, e per difetto di Architettum ia. La base della Società è sempre la Giustizia tanto nella legge e nel principio, quanto dell'amministrazione ed esecuzicne di esse. Che poi l'ossa tura politica fosse mal congegnata ed un prodotto progressivo del caso, credo averlo di sopra abba stanza dichiarato. La giustizia di Roma fir in principio quale può essere nella barbarie; d'indi qua le suol' essere nell'amministrazione arbitraria; e fi nalmente quale dev'essere nell’anarchia, nella confusione della legge e nella generale corruzione. Dell' origine dell'idea che abbiamo della Bellezza. Il Bello della Natura. Il Bello dell'arte, ossia della imitazione e del Bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. Opere complete (Teramo, Fabbri). Indizi di morale. Il metodo della morale. Il sentimento morale. L’origine del sentimento morale. Lo sviluppo del sentiment morale. Divisione della morale. La libertà civile. L’eguaglianza. La proprietà. Lo vviluppo della morale nella diada sociale. Il senso morale. Il dovere morale. L’obbligazione morale. L’amor proprio (l’amore proprio – Butler – self-love). La virtù. La benevolenza – la benevolenza conversazionale. La giustizia. L’educazione. La felicità. La passione. Note agli "Indizj di Morale" di G. Pannella Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana. La giurisprudenza romana dal tempo de' re fino all'estinzione della repubblica. Sequela dei carattere della giurisprudenza romana sotto gl'imperatori. I cultori della giurisprudenza. L’amministrazione della giustizia. Memorie storiche della Repubblica di S. Marino. La Situazione corografica della Repubblica di SAMMARINO e dei varii nomi dati successivamente al capoluogo dello Stato. L’origine della Repubblica di S. Marino, e prime sue memorie fino al secolo decimosecondo. Le memorie di S. Marino nel secolo decimosecondo, e nel seguente. Proseguimento delle memorie istoriche per tutto il secolo decimoquarto. Proseguimento delle memorie per rutto il secolo decimoquinto. Proseguimento delle memorie per tutto il secolo decimosesto. Proseguimento delle memorie pel secolo decimosettimo. Sequela del secolo decimottavo. Il governo politico della Repubblica di San Marino. Diplomi ed altri monumenti citati nell'opera. L’istoria, la sua incertezza ed inutilità. Ai dotti e agli studiosi delle scienze della natura. L’origine naturale della storia e dei progressi ed abusi della medesima. La storica incertezza. L’autorità degli storici contemporanei del cavalier Tiraboschi. L’inutilità della storia e dei pregiudizi derivati dalla medesima. Verificazione degli antecedenti principj con esempi tratti dalla storia della romana repubblica. I bello. Ai giovani educati. L'origine dell'idea che abbiamo del bello. Il bello della natura. Il bello dell'arte, ossia della imitazione e del bello ideale. La grazia. Il sublime. Il bello morale. Il gusto. Il carattere del bello. L’espressione. Lo stile e la regola del bello. L’antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche.  Alla reale accademia ercolanese di archeologia e a S. E. reverendissima monsignor Rosini presidente della medesima e della R. Società Borbonica di Napoli. Le origini italiche. Le antiche monete della città di Atri nel Piceno. I pelasgi e I tirreni. Rischiaramenti ed alcune osservazioni fatte sull' opera della Numismatica atriana. Lettera a S. E. il sig. conte D. Giuseppe Zurlo. Antologia di Firenze. Articolo di G. Micali. Biblioteca Italiana. La Numismatica atriana ed agli altri opuscoli. AL. Sorricchio. Saggio istorico delle ragioni dei sovrani di Napoli sopra la città di Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca. Saggio filosofico sul matrimonio. Lo stabilimento della milizia Provinciale. La coltivazione del riso nella Provincia di Teramo. Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi. Il tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle, provincie confinanti del regno. La necessità di rendere uniformi i pesi e le misure del regno. Il tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma. La vendita dei feudi umiliate a S. R. M. La tassa fondiaria. L’istruzione pubblica. La sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle nazioni lette nella Reale Accademia delle scienze. La perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell’educazione con alcune vedute sulla medesima letta nella R. Borbonica Accademia delle scienze. La perfettibilità organica considerata come il Principio fisico dell'educazione letta nella Reale Accademia delle scienze. Alcuni mezzi economici per supplire agli attuali bisogni dello stato. L’importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale. Lo stabilimenti di umanità e di pubblica beneficenza. L’organizzazione dei tribunal. Un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara. A Berardo Quartapelle. A S. E. il sig. Duca di Cantalupo. Al Cav. sig. Pasquale Liberatore. Ai Capitani Reggenti la Repubblica di S. Marino. Al marchese Luigi Dragonetti (Aquila). Al signor Roberto Betti (Napoli). A Giacinto Cantalamessa Carboni in Ascoli. A Giuseppe M. Giovene (Molfetta). Ad Alberto Fortis. A Bernardino Delfico. Al Sig. Abate D. Cataldo Jannelli. Saggio di lettere indirizzate a Melchiorre Delfico Gaetano Filangieri a M. Delfico Pietro Borghesi a M. Delfico F. Neumann a monsieur l'Abbé Fortis. Spallanzani all'abate Fortis. Al medesimo Fortis in Napoli. Spallanzani a M. Delfico. Luigi Grimaldi a M. Delfico..... pag. 141  Toaldo a M. Delfico..Spannocchi a M. Delfico.V. Comi a B. Q. [Berardo Quartapelle]. Michele Torcia a G. Berardino Delfico..Mollo a M. Delfico. Carli...Mùnter a M. Delfico..... pag. 154  Mùnter a Delfico in Napoli..... pag. 159  Mùnter a M. Delfico..Filippo Mazzocchi a M. Delfico..Gazola a M. Delfico..Giuseppe Micali a C...Bertola a G. Bernardino Delfico..Il medesimo a M. Delfico..Brugnatelli a M. Delfico..Anutos a M. Delfico..Gio. Andrea Fontana a M. Delfico. Il Duca di Cantalupo a M. Delfico..Palmieri a M. Delfico...Gargallo a M. Delfico in Teramo...Galante a M. Delfico..Amaduzzi a M. Delfico..Zarillo a M. Delfico..Giovene a M. Delfico..Amoretti a M. Delfico. Francesco Soave a M. Delfico..Acton a M. Delfico (Teramo).Fortis a M. Delfico..Zannoni a M. Delfico..... pag. 206  Bossi a M. Delfico..Tommaso Frantoni a M. Delfico..Felici a M. Delfico..... pag. 209  G. Napoleone a. M. Delfico.Trivulzio a M. Delfico..Melzi a M. Delfico..San Severino a M. Delfico..Il duca di Sant'Arpino a M Delfico..... pag. 231  Tracy a M. Delfico. Antonio Canova a M. Delfico..Ricci a M. Delfico..Gioli a M. Delfico..Dragonetti a M. Delfico..Zurlo a M. Delfico..... pag. 246  Michele Arditi a M. Delfico...Orsini a M. Delfico...Burini a M. Delfico...Taranto a M. Delfico..... pag. 252  Francesco Sorricchio a Delfico..Cicognara a M. Delfico..Santangelo a M. Delfico...Ciampi a M. Delfico..... pag. 260  Donato Tommasi a M. Delfico.. Il Duca di Laurenzana a M. Delfico...Grimaldi a M. Delfico..Santangelo a M. Delfico..Lodovico Bianchini a M. D..Filangieri a Melchiorre Delfico.Niccolini a M. Delfico...Rangone a M. Delfico..Pilla a M. Delfico Il Duca di Gualtieri a M. Delfico...II Barone Poerio a M. Delfico..Armaroli a M. Delfico..Neroni a Leopoldo Armaroli.Fuoco a M. Delfico..... pag. 287  Giuseppe Micali a Gregorio de Filippis..Aggiunta agli opuscoli. Fiera franca in Pescara..Al sig. Pasquale Borelli..Al sig. Antonio Orsini..Al sig. Conte Armaroli..Volta a Orazio Delfico.. Rapporto sull' Italia inviato a Napoleone, e attribuito a M. Delfico. Piemonte. Liguria. Regno D' Italia. Toscana..... pag. 326  Stati Romani.Napoli. Memoria per la conservazione e riproduzione dei boschi nella provincia di Teramo.Discorso del Cav. Comm. Gian Berardino Delfico letto in occasione del solenne giuramento prestato a S. M. Giuseppe Napoleone Re di Napoli e Sicilia dalla Città e Provincia di Teramo..La famiglia e le opere di Melchiorre Delfico. I titoli nobiliari. Episodi della vita del Delfico. Opere ignorate del Delfico. Il contenuto delle opere. Catalogo per materia delle opere di M. Delfico. Lettere del Delfico e al Delfico. La Repubblica di S. Marino in onore di M. Delfico. M. Delfico a Gaspero Selvaggio. A Paolo D' Ambrosio M. Delfico. Il teramano Melchiorre Delfico è uno dei più cosmopoliti e al tempo stesso dei più autenticamente provinciali tra i riformatori meridionali della seconda metà del Settecento (1). Durante il suo primo soggiorno a Napoli, interrotto dopo tredici anni nel 1768 perché malato di emottisi, il giovane intellettuale abruzzese segue le lezioni di Antonio Genovesi e frequenta il gruppo che si riunisce attorno alla cattedra dell'abate (2), che dal 1754 al 1769 costituisce il fulcro del movimento riformatore meridionale. Sarà questa scuola composta da Longano, Galanti, Palmieri, Grimaldi, Filangieri, Pagano ed altri, ad imprimere una «benefica scossa» (3) alla cultura napoletana e avviare negli anni successivi un serrato e articolato dibattito sui problemi più urgenti del Regno, suggerendo le linee di un possibile rinnovamento della società civile che non di rado contrasteranno con l'angusta politica del governo borbonico (4).  È soprattutto dalla rilettura del genovesiano Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze (5), considerato il manifesto dell'illuminismo napoletano, in cui viene rivendicato un uso pratico del sapere, che Delfico matura una nuova concezione della cultura e dell'intellettuale, la cui attività sia, come diceva Genovesi, «più pratica che teoria» (6), e la convinzione della necessità di un impegno politico più diretto. Un atteggiamento anticuriale e giurisdizionalistico, di ascendenza giannoniana (7) e di eredità genovesiana (8), egli manifesta nei due lavori, con i quali inaugura nel 1768 la sua attività di scrittore, in difesa dei diritti del Regno di Napoli sui territori di Benevento, dal 1077 sotto il dominio pontificio, e di Ascoli Piceno, anch'esso dal 1266 annesso allo Stato ecclesiastico (9). Nelle due Memorie denuncia le tendenze temporali dell'autorità ecclesiastica, dimostrando «false o insussistenti» le pretese giurisdizionali del pontefice su quei possedimenti, ottenuti non già per legittimi diritti di sovranità, ma con l'usurpazione, titolo «vergognoso» perché «prodotto per dolo o per frode» (10).  Sebbene notevole sia stata l'influenza di Genovesi sul movimento illuminista meridionale, non tutte le molteplici espressioni della cultura riformistica degli anni Settanta e Ottanta possono essere ricondotte alla sola riflessione del pensatore salernitano. Anche per i rappresentanti della corrente «più provinciale», «più tecnica e descrittiva»(11) della scuola genovesiana, l'insegnamento del Maestro non sempre costituirà l'unica matrice culturale. Lo stesso C., sebbene riconosca il suo debito nei confronti dell'abate, non trova in lui il pensatore che la propria ragione gli faceva desiderare, bensì il pubblicista che ricerca e analizza i mali economici e sociali della sua terra. «La fortuna però - scriverà più tardi - avendomi fatto pervenir nelle mani le immortali opere di Loke [sic] e di Condillac, parve che il mio spirito prendesse una nuova modificazione, e quindi una inclinazione pel vero, ed un gusto particolare per i morali sentimenti. Già nel Saggio filosofico sul matrimonio, apparso a Teramo, alcuni anni dopo il suo ritorno in provincia, s'intravede l'orientamento filosofico dello scrittore abruzzese basato su una visione tutta empiristica e sensistica dei rapporti umani, che indurrà la Congregazione del Sant'Uffizio a porre l'opuscolo nell'Index librorum prohibitorum. L'opera è una vera e propria esaltazione sia dello stato coniugale che dell'amore, inteso come desiderio, come piacere fisico ma soprattutto morale. In polemica con Rousseau, C. considera il vincolo matrimoniale una fonte continua di sensazioni e di sentimenti aggradevoli e sostiene, richiamandosi a Hume, che esso debba essere il più possibile completo e duraturo. La critica del celibato e più ancora del libertinaggio è l'occasione per un'attenta disamina della condizione della donna, di cui sostiene l'emancipazione e la rivalutazione nella famiglia e nella società, fino a rivendicare una legislazione sulla parità dei diritti e dei doveri fra i sessi.  Del 1775 sono gli Indizi di morale, interrotti per ordine dell'assessore Paolillo che ne dispone il sequestro mentre sono ancora in corso di stampa, i quali svelano assai più a fondo e gl'ideali politici di C. e la sua cultura» (15). Sul piano filosofico infatti essi segnano una piena adesione all'empirismo e al sensismo di Locke e Condillac. Dalle idee filosofiche dei due pensatori il Teramano non si discosterà più, restando sino alla fine legato alla dottrina sensistica. Confessa ad un amico: «Dopoché il mio spirito soffrì la modificazione dal Trattato delle sensazioni, non l'ho turbato più perché mi vi sono trovato comodo, non trascurando però le successive osservazioni le quali hanno potuto migliorarlo. Egli riconosce alla morale il fondamento empirico proprio delle scienze fisiche e riconduce l'origine dei sentimenti morali alle sensazioni. Poiché è nella società che gl’uomini acquisiscono le prime nozioni di moralità e le loro azioni diventano utili o dannose, ne consegue che la sfera delle loro idee e con essa quella delle loro attività si dilatano soprattutto in quelle forme politiche in cui maggiormente cresce la possibilità di comprensione della qualità degl’oggetti e gli individui sono messi nelle condizioni che meglio permettono la individuazione dell'amor proprio. È nel passaggio dall'Aristocrazia allo stato popolare, scrive, che le nazioni godono del colmo della virtù e nasce quella gara d’Eroismo che è difficile a trovarsi nelle Monarchie e che si verifica ogni qualvolta «l'interesse di tutti i particolari va a riunirsi col pubblico e i cittadini partecipano maggiormente alla sovranità e al potere.  L'affermazione non si concreta in una scelta della democrazia come forma di governo, né in una rivendicazione di ordinamenti politici alternativi a quelli in cui si incarna la monarchia borbonica. L'allusione alla repubblica resta in lui vaga, sottintesa e comunque priva di un reale contenuto politico-istituzionale, mentre egli non nasconde la propria simpatia per il despotisme éclairé. Vi è, da parte sua, una svalutazione della politica in quanto problema teorico, a favore di un impegno politico più immediatamente finalizzato alla soluzione di questioni politiche contingenti. Suo obiettivo principale è il perseguimento del bene pubblico, realizzato attraverso un'avveduta e coraggiosa politica di riforme. Un processo di trasformazione che miri innanzitutto all'uguaglianza politica e che non ha niente a che vedere con la «fatale» comunione dei beni, fomite di disordini e di eterne contese. Il problema dell'uguaglianza, di cui le garanzie politiche costituiscono una imprescindibile componente, consente a C. di condurre a fondo l'attacco contro la struttura feudale della società napoletana, in cui ancora assai diffusa e radicata è l'ineguaglianza sia essa generata dall'abuso del potere che da quello delle ricchezze. «Conosciuti i mali che provengono dall'ineguaglianza - afferma a conclusione del capitolo sulla proprietà - deve essere un canone politico quello di ravvicinare gli estremi, e non dar luogo ad altre ricompense che a quelle del merito personale e dell'industria. Al contrario, il persistere dell'ineguaglianza non fa che produrre «lusso e corruzione» ed aggravare la già precaria condizione dei più miserevoli, privati della loro stessa dignità perché costretti a mercanteggiare persino «la vita, l'onore, la stima, la virtù, ed i più sacrosanti doveri. Dopo il sequestro degli Indizi di morale e la messa all'Indice del Saggio filosofico,  C. incorre in un nuovo spiacevole episodio con le autorità provinciali. Soprattutto a causa del vescovo Pirelli e dell'assessore Dragonetti, con cui pure aveva avuto rapporti di amicizia, è ingiustamente inquisito e condannato per la fuga di certe monache dal monastero di S. Matteo di Teramo.  L'exequatur del Tribunale del capoluogo abruzzese (5 febbraio 1778) con il conseguente ordine di carcerazione, emesso nei confronti suoi e di altri «lajci seduttori» (22) presunti responsabili dell'insubordinazione, lo costringono ad allontanarsi dalla città e a recarsi a Napoli, dove rimarrà circa tre anni, fino alla conclusione della vicenda giudiziaria, giunta con l'indulto regio del 17 giugno 1780.  Questo secondo soggiorno partenopeo, avvenuto a dieci anni di distanza dalla fine del primo, si rivela assai fecondo per lo scrittore teramano che ha l'occasione di  rinsaldare i legami con gli ambienti riformatori della capitale e stringere rapporti con vari esponenti della cultura, quali tra gli altri i fratelli Di Gennaro e Grimaldi, Filangieri, Pagano, Torcia e Fortis. È anche il periodo in cui egli matura l'idea che la provincia possa imprimere, attraverso la denuncia dei mali prodotti dal sistema feudale, un nuovo e maggiore impulso alla politica governativa ed avverte la necessità di una ridefinizione del rapporto tra capitale e province, tra i centri periferici più sani e dinamici e quella Napoli corrotta ed inerte dalla quale tutti attendono una politica di riforme.  Ritornato a Teramo, Delfico pubblica nel 1782 il Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, che gli varrà, l'anno successivo, la nomina ad Assessore militare della sua provincia. Lo scritto, dedicato all'amico FILANGIERI, inaugura un'intensa stagione che vede l'illuminista abruzzese farsi promotore di numerose riforme. Nel Discorso la questione militare acquista rilevanza politica, avendo intuito l'Autore l'importanza che una buona costituzione militare poteva assumere per la vita di uno Stato. Criticando lo «spirito di corpo» dei militari, quel «sentimento dissociale» che li porta a disprezzare la vita civile e che fa di loro una classe di privilegiati distinta dal corpo sociale, egli mira a riqualificare il ruolo del soldato all'interno della società, non soltanto in tema di sicurezza, ma anche, soprattutto, di progresso civile, riunendo, sull'esempio di Rousseau, la qualità di soldato a quella di cittadino, così che i due termini diventino sinonimi fra loro.  Ad alimentare la fiducia nei primi anni Ottanta che si potesse realizzare sul piano legislativo e amministrativo quanto si veniva sostenendo su quello dottrinario, contribuirono sia la istituzione della Reale Accademia di Scienze e Belle Lettere (che però tradì presto le attese suscitate) che quella del Supremo Consiglio delle Finanze. Il Consiglio si prefiggeva di riformare gli antichi e perniciosi abusi del sistema e di restituire l'abbattuto vigore alla Nazione promuovendo i canali della ricchezza dei sudditi e dello Stato. Ad esso C. vorrebbe sottoporre la sua Memoria sulla coltivazione del riso nella provincia di Teramo, pubblicata a Napoli nel 1783. Considerato «forse il più limpido e ragionato» (24) dei numerosi suoi scritti economici di quegli anni, il testo è una dura requisitoria contro il persistere di pesanti imposizioni feudali e di certi abusi economici e politici, responsabili di mantenere tale coltivazione in uno stato di sottosviluppo. La risposta delficina è in favore di un ammodernamento della tecnica di produzione e della rimozione di tutti gli ostacoli, compresi i controlli e le restrizioni governative, che impediscono la realizzazione di un'economia di mercato.  Nell'estate dell'83 Delfico è di nuovo a Napoli, dove si fermerà fino alla fine dell'anno. Ma non sarà questa una permanenza piacevole. All'entusiasmo iniziale, infatti, subentrerà presto un sentimento di profonda amarezza per l'andamento della vita politica della capitale. Egli prende coscienza della incapacità dello Stato di dar vita ad un programma organico di risanamento dell'economia del Paese, messa di nuovo a dura prova dal terribile terremoto calabrese. La condotta della corte borbonica gli appare quanto mai improvvisata e piena di incertezze e di contraddizioni.  Ritornato a Teramo è raggiunto, nel febbraio del 1784, dalla notizia della scomparsa dell'amico Francescantonio Grimaldi, cui dedica, come ultimo tributo, un Elogio (26) che ne rievoca il pensiero e il valore. Dopo un rapido excursus delle opere, lo scrittore abruzzese si sofferma sulle Riflessioni sopra l'ineguaglianza tra gli uomini, pubblicate a Napoli in tre volumi tra il 1779 e il 1780. In esse l'Autore confuta le tesi roussoiane  sull'uguaglianza  tra  gli uomini,  correggendo quei «paradossi», scrive Delfico, che «fra molte vere e nobili osservazioni» (28) sono racchiusi nel Discours sur l'origine de l'inégalité. Contrariamente al Ginevrino, che ritiene l'ineguaglianza essere «presque nulle dans l'Etat de Nature» (29), Grimaldi ne afferma il principio dell'origine naturale, smentendo quanti sostenevano che gli uomini nascono eguali. Una particolare attenzione rivolge infine all'ultimo incompiuto lavoro di Grimaldi, gli Annali del Regno di Napoli. Sin da ora emerge chiara in lui l'idea di una storia non più concepita come piacevole passatempo per «gli oziosi e gli annojati», ma in funzione «d'un utile presente» (30) per l'umanità e, in particolare, per la nazione per la quale si scrive. Ciò che interessa non è più il nudo racconto di fatti isolati o di particolarità legate a circostanze del momento, bensì la conoscenza delle cause che stanno dietro i fenomeni e la vita morale delle nazioni.  Alla fine di giugno del 1785 Delfico si trasferisce di nuovo a Napoli, dove si trattiene, salvo una breve parentesi nella città natale nell'estate dell'86, fino alla metà del 1788. Risale a questo periodo l'incontro con il danese, di origine tedesca, Friedrich Münter, venuto in Italia nell'autunno del 1784 con l'incarico di propagandare l'Ordine degli Illuminati di Baviera (31). A Münter, con il quale visiterà assieme a Filangieri e allo storico tedesco Heeren le rovine di Pestum, egli si legherà da profonda amicizia, di cui è testimonianza una corrispondenza più che trentennale (32), accomunati dalla passione per l'archeologia e, soprattutto, per la numismatica.  A Napoli Delfico pubblica nel 1785 la Memoria sul Tribunal della Grascia (33), considerata, assieme a pochi altri testi, «il vangelo del liberismo napoletano» (34) dell'epoca. Lo scritto sferra un attacco contro il «terribile mostro» del Tribunale della Grascia, istituito lungo il confine tra l'Abruzzo e lo Stato pontificio e simile per alcuni versi a quello «più odioso dell'inquisizione», che impedisce ai due Stati pacifici di scambiarsi liberamente i prodotti, fomentando dovunque corruzione e violenza e lasciando quelle popolazioni in «un languore di dissoluzione. Vi è nella Memoria l'affermazione del principio della libertà di commercio e dell'abolizione del sistema protezionistico, a proposito del quale vengono fatti i nomi di Verri, Genovesi, Filangieri e del celebre Smith, di cui il Teramano è uno dei primi in Italia a citare La ricchezza delle nazioni.  Nel 1788 vede la luce il Discorso sul Tavoliere di Puglia (36) in cui C. rivendica, dopo un'aspra requisitoria contro le concentrazioni latifondiste e il mantenimento delle rendite, la divisione di quelle terre in favore dei contadini e un diverso ruolo dell'agricoltura, non più limitata e subordinata alla pastorizia. In un Paese così «infelicemente» amministrato, dove regna una troppo marcata diseguaglianza e una «ripugnante ed infelice» contrapposizione tra ricchi e poveri, l'aumento dei proprietari è un obiettivo che risponde non soltanto a criteri di giustizia sociale, ma anche ad una necessità dello Stato. Tutti «i più savj governi - scrive - distinsero sempre la classe dei proprietarj, come quella che dava il vero carattere di cittadino. La proprietà infatti è il primo e più saldo principio della società, poiché crea nei proprietari «sempre affezione» nei confronti dello Stato, a cui essi chiedono di riconoscere e tutelare i loro diritti, interessati come sono, più di ogni altra classe, al buon funzionamento delle sue istituzioni e alla corretta applicazione delle sue leggi. Della parte settentrionale della Puglia l'illuminista abruzzese si era occupato una prima volta nel 1784 nella pur breve ma incisiva ricognizione geografico-economica del tratto costiero «desolato» che va dal Fortore al Tronto, in cui denunciava le gravi «avarie» commesse dai governanti con la creazione di continue dogane che, ostacolando il libero scambio dei prodotti tra quelle popolazioni, finiva per immiserirle sempre più.  Si coglie in questi scritti non soltanto la totale adesione di Delfico al liberismo, ma anche la sua piena consapevolezza del ruolo che lo Stato è chiamato a svolgere in favore di un sistema economico imperniato sulla libertà di scambio. Un rapporto, quello tra Stato ed economia di mercato, che egli affronta anche nella Memoria sulla libertà di commercio della fine degli anni Ottanta, in cui esalta il principio del laissez-faire contro le regolamentazioni e i vincoli del sistema mercantile. Il rifiuto di «ogni coazione economica» si fonda sulla convinzione che la libertà (di produzione, di consumo, di commercio, di concorrenza) favorisca un progresso e uno sviluppo economico tali da recare benefici sia ai privati cittadini che allo Stato stesso. È solo attraverso la rimozione di tutti i controlli governativi che ostacolano l'allargamento del mercato e impediscono che le attività economiche si svolgano nei modi loro naturali che la scienza economica riesce a far fronte al suo duplice compito di mantenimento dello Stato e di accrescimento della ricchezza e del benessere individuali.  In quest'ultimo soggiorno napoletano prima dello scoppio della rivoluzione francese, Delfico si attiva non poco, presso le Segreterie della capitale, per sollecitare iniziative e soluzioni di problemi riguardanti le provincie del Regno. Ma le sue istanze non sempre trovano il riscontro desiderato. Ciò non fa che accrescere in lui un sentimento di sfiducia nell'azione riformatrice del governo. Un'insofferenza, quella nei confronti del potere politico partenopeo, che lo porterà nell'estate del 1788 ad allontanarsi da un ambiente dove gli era diventato penoso vivere, non prima però di aver presentato a Ferdinando IV il suo ultimo lavoro, Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri (41). Nello scritto condanna la giurisdizione feudale in nome dei principi roussoiani di indivisibilità e inalienabilità della sovranità fino a ritenere qualsiasi forma di alienazione o di usurpazione della sovranità stessa «non solo un atto nullo, ma anche ingiusto» (42).  La notizia della rivoluzione francese raggiunge Delfico lontano dal Regno napoletano, mentre si trova nel Nord Italia, dove si era recato nel novembre del 1788 per accompagnare a Pavia il nipote Orazio che studiava Scienze naturali sotto la guida di Volta e Spallanzani. Durante il suo soggiorno ha modo di frequentare gli ambienti riformatori milanesi ed entrare in contatto con Beccaria, il filosofo e pedagogista Francesco Soave, i fratelli Verri, Parini, il giurista senese Giovanni Bonaventura Spannocchi, lo studioso di scienze agrarie ed economiche Carlo Amoretti ed altri ancora, con alcuni dei quali manterrà un rapporto di amicizia. Sugli avvenimenti francesi non gli è difficile tenersi informato. È lecito credere anzi che, oltre a seguire, egli guardi con simpatia a quanto sta accadendo oltralpe. La rapidità e la determinazione con cui si conduce l'attacco contro l'Ancien Régime lo spingono a ritenere che la rivoluzione di Francia favorisca il progetto riformatore e rappresenti «un esempio favorevole per i Principi savj» (43) affinché non indugino più sulla strada delle riforme.  Rianimato da queste speranze, nel dicembre del 1789, dopo aver fatto da poco ritorno nella sua città natale (44), Delfico si trasferisce a Napoli, dove dà alle stampe, nell'estate del 1790, le Riflessioni su la vendita dei feudi (45) in cui, ispirandosi al dibattito costituzionale d'oltralpe, conduce un attacco più diretto ed esplicito contro il sistema feudale e la giurisdizione baronale in particolare. Nel 1791 pubblica le Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana e de' suoi cultori, che rappresentano «la più forte manifestazione del pensiero illuministico italiano nei confronti del diritto romano» (47), cui viene negato ogni valore. Ad emergere è l'idea di un sistema legislativo nuovo, «uguale ed uniforme per tutti gl'individui» che, a differenza di quello vigente, troppo legato alla tradizione romana, risulti più inerente «all'indole delle nazioni e dei governi presenti» (48). Sull'esempio di quanto accade in Francia, lo scrittore abruzzese rivendica, accanto ad una legislazione stabile e regolare, una legittima costituzione che ne sia il presupposto e ne costituisca il necessario fondamento. Il sistema politico che egli predilige si fonda sull'uguaglianza delle leggi, sulla divisione dei poteri, sul conferimento dell'autorità legislativa al popolo, sulla rappresentanza politica senza restrizioni di rango o di censo e sul decentramento dell'amministrazione della giustizia attraverso lo stabilimento di magistrature locali e provinciali.  Da una soluzione di tipo monarchico-costituzionale C. non si allontanerà mai. Alla politica illuminata del sovrano restano per lui legate le condizioni di cambiamento della società meridionale. Nonostante tuttavia la sua predilezione per la monarchia, a partire dalla seconda metà del 1791 si ravvisa nel Teramano un conflitto tra l'ottimismo generato dalle vicende francesi, che lo spinge a credere ancora nell'intesa tra dinastia borbonica e intellettuali, e il crescente scetticismo nei confronti della volontà governativa di attuare un programma di rinnovamento. Deluso, decide di abbandonare la capitale dove si sorprende sempre più spesso «scontentissimo».  Il rientro a Teramo, nel dicembre del 1791, segna la fine di un periodo di grande impegno politico e letterario, al termine del quale egli vede svanire la possibilità che la rivoluzione francese imprima un nuovo impulso alla politica del governo napoletano. È, questo, un periodo di grande sconcerto e delusione per quanti, come C., avvertono i limiti della politica ferdinandea. Alla fine del 1793 la consapevolezza che la grande stagione riformistica sia definitivamente conclusa è radicata nel suo animo. Essa segna l'inizio di una lunga interruzione della sua attività di scrittore, a conferma di come egli ritenesse allora non solo vano ma addirittura pericoloso farsi sostenitore di una politica di rinnovamento del Regno borbonico. La sfiducia diverrà pressoché totale durante il soggiorno nella capitale partenopea tra la primavera e l'autunno 1794. A Napoli s'imbatte in una città in preda alla più forte «agitazione». È l'epoca della scoperta della congiura giacobina che porta all'arresto e alla condanna di numerosi patrioti ed esponenti giacobini. Coinvolto è pure l'amico e concittadino Troiano Odazi (49) che egli considera innocente e spera invano venga presto scagionato.  L'accentuarsi del carattere reazionario della politica napoletana non determina tuttavia in Delfico, come in altri illuministi, il passaggio «da regalista in giacobino» (50) o repubblicano, anche perché egli, a differenza di molti di loro, non vede più nella Francia del '93-'94 concretarsi i suoi ideali riformistici. L'avversione per gli eccessi rivoluzionari lo porta ad anticipare un modulo storiografico che avrà fortuna negli anni successivi: la contrapposizione tra una prima fase della rivoluzione, l'89, con le sue idee di libertà e di uguaglianza, ed una fase successiva, il '93, caratterizzata da tanti orrori. C. lascia di nuovo l'Abruzzo per compiere un secondo viaggio fuori del Regno, dapprima a Roma, restandovi per circa un mese, quindi in Toscana dove rimane fino alla primavera successiva ed ha modo di rivedere gli amici Giovanni Fantoni e Giuseppe Micali e legarsi al nobile fiorentino Neri Corsini e all'uomo di Stato francese André-François Miot (51). A spingerlo verso il Granducato è una certa simpatia politica per quello Stato, suscitata dalla mitezza del suo governo e dalla libertà che ancora vi regnava. Ritornato a Teramo agli inizi di maggio del 1796, lo raggiungono le notizie dell'avanzata francese in Piemonte e in Lombardia. Nessun dubbio nutre sulle mire espansionistiche di Napoleone, di cui disapprova non solo le condizioni gravose imposte alle città occupate, ma anche le innumerevoli requisizioni, ruberie e saccheggi dei suoi soldati.  Nella seconda metà del 1796 si riaccende nello scrittore teramano l'interesse per la Grande Nation, in quanto vede delinearsi nella vita politica del Direttorio la possibilità per la Francia di riprendere e consolidare quel processo di trasformazione avviato negli anni precedenti la parentesi giacobina; interesse che si manifesta anche attraverso il desiderio, mai realizzato, di compiere un viaggio transalpino (52). Ciò nonostante, appare poco probabile una sua partecipazione al concorso indetto dall'Amministrazione generale della Lombardia il 6 vendemmiaio anno V della Repubblica francese (27 settembre 1796) sul quesito Quale dei Governi liberi meglio convenga alla felicità d'Italia, di cui risulterà vincitore il piacentino Melchiorre Gioia (53).  Immutato è invece il giudizio sulla corte napoletana. Nonostante infatti nel corso del '97 egli accenni ad una ripresa di dialogo con il governo borbonico (54), non scorge alcun cambiamento nella sua politica. Sempre più, inoltre, dovrà guardarsi dalla gelosia dei suoi nemici, soprattutto nel 1798, quando verrà nominato portolano della città di Teramo, con responsabilità amministrative di rilievo. La situazione si aggraverà nell'estate di quell'anno, allorché alle trepidazioni per una probabile invasione straniera si uniranno quelle per il susseguirsi di infondate accuse di giacobinismo costruite ai suoi danni da parte di anonimi concittadini. Già nel 1793 era stato costretto a dare formale prova del suo lealismo monarchico in seguito a delazioni da parte di alcuni «malevoli di Napoli fra quali il Vescovo in unione colla magistratura» (55). Sempre più si alimenta il sospetto di una sua cospirazione antimonarchica, tanto che il 27 settembre 1798 è tratto in arresto, nel proprio palazzo, assieme a tutta la famiglia (56). Liberato l'11 dicembre successivo dall'arrivo a Teramo delle truppe francesi (57), è dapprima posto a capo della Municipalità della città e successivamente nominato presidente dell'Amministrazione Centrale dell'Alto Abruzzo. Èchiamato a presiedere a Pescara il Supremo Consiglio (58), l'organo politico più importante esistente in Abruzzo, che avrebbe dovuto fungere da raccordo tra il comando francese e i due nuovi organismi repubblicani - i Dipartimenti dell'Alto e del Basso Abruzzo - in cui il generale Duhesme, con il proclama del 28 dicembre 1798, aveva diviso il territorio regionale.  Non vi è dubbio che la collaborazione di Delfico con i Francesi, per quanto piena e convinta, vada vista come il tentativo di reinserirsi nel giro di quella politica attiva, nella quale egli da sempre confida. Tale partecipazione, tuttavia, non segna il passaggio dello scrittore teramano dalla prospettiva monarchico-riformistica a quella repubblicano-giacobina (59), dal momento che l'esperienza non provoca quella vera e propria «lacerazione» e «rottura» nella sua biografia intellettuale che è stata riscontrata invece nei riformisti meridionali passati alla rivoluzione (60). Tensioni ideali e finalità pratiche continuano ad essere, anche durante la parentesi repubblicana, le stesse che lo hanno animato in tante battaglie del passato. Persino il Piano di una amministrazione provvisoria di giustizia pei Tribunali dei Dipartimenti e Giudici dei Cantoni (61) del 24 piovoso anno VII (12 febbraio 1799), l'atto legislativo più importante del Consiglio Supremo pescarese col quale viene introdotto un nuovo ordinamento giudiziario e in cui maggiore è l'istanza egualitaria, non sembra discostarsi da certi suoi principi e aspirazioni precedentemente espressi. Il Piano, che si inserisce fra i provvedimenti di riforma del sistema giudiziario adottati dalla Repubblica napoletana, sanciva, in nome delle idee di libertà e di eguaglianza, il decentramento dell'autorità giudiziaria, prevedendo un giudice per ogni capoluogo di cantone e un tribunale per ogni capoluogo di dipartimento; l'amministrazione gratuita della giustizia e la corresponsione di uno stipendio ai giudici e a tutti coloro che collaboravano all'attività giudiziaria; l'assistenza gratuita ai poveri; la «prontezza» e «l'imparzialità» dei giudici nell'applicazione delle norme; l'abolizione della carcerazione per debiti, a meno che non venisse provata la «frode» del debitore; il controllo dell'attività giudiziaria nonché la possibilità di ricorrere in appello.  Volentieri egli si sarebbe portato nella capitale partenopea dove, il 23 gennaio 1799, era stato nominato membro del Governo Provvisorio dal comandante in capo Championnet. Ma a Napoli C. non potrà recarsi mai a causa delle insorgenze antifrancesi. Di qui il rammarico per non poter partecipare all'attività legislativa del Governo Provvisorio a cui muove l'accusa di aver non solo «abbandonato» ma addirittura «obliato» le province abruzzesi, lasciando che ovunque si verificassero «le più ferali tragedie» ad opera di briganti e di scorribande antifrancesi (62). Non è da escludere a questo punto che proprio durante il periodo pescarese C. abbia elaborato, secondo una prassi piuttosto diffusa in Italia nel triennio rivoluzionario, una Tavola dei Dritti e dei Doveri dell'uomo e del Cittadino (63). Il testo, che si ispira alle Dichiarazioni francesi dei diritti del 1789, del 1793 e del 1795, proclama l'uguaglianza davanti alla legge; riconosce i diritti inalienabili di libertà, sicurezza, proprietà, resistenza all'oppressione e i doveri inviolabili di subordinazione, benevolenza, giustizia e obbedienza alle leggi. Fa risiedere la sovranità nella Nazione, cui spetta, attraverso i suoi rappresentanti, emanare le leggi, stabilire le imposizioni, cambiare la costituzione e il governo. Ammette la possibilità di armarsi contro ogni forma di manifesta violenza e di tirannia e non esclude il ricorso all'insurrezione, ma solo in casi estremi, mentre condanna le rivolte e i perturbatori dell'ordine pubblico, per odio forse  delle sommosse che si stavano verificando agli inizi del '99 e di quanti sobillavano le masse contro le nuove istituzioni.  Di fronte al crescente stato di abbandono delle province abruzzesi e alla partenza dei Francesi da Teramo, C. preferisce, prima ancora della caduta della Repubblica napoletana, lasciare Pescara e sotto il falso nome di Carlo Cauti riparare via mare nelle Marche, per poi raggiungere nel settembre successivo San Marino. Nella piccola Repubblica rimarrà fino al 1806, quando Giuseppe Bonaparte, divenuto re di Napoli, in giugno lo chiamerà al suo fianco con la carica di consigliere di Stato.  Durante il soggiorno sammarinese Delfico si interrogherà a lungo sulla «tempestosa crisi» di fine secolo di cui, come CUOCO (si veda), critica l'«immatura ed intempestiva» manifestazione, come pure il metodo rivoluzionario, ritenuto «distruttivo» (66). La confusione dei princìpi, l'eccesso di passioni assieme a mal fondati calcoli avevano fatto nascere delle idee politiche così «mostruose» che per i loro intrinseci difetti non avevano potuto a lungo sopravvivere. Fu la Francia, afferma, a far sorgere dei canoni politici «falsi e irregolari». L'Italia, «abbagliata ed attonita - scrive - non ebbe tempo a riflettere, che le confuse proclamazioni di libertà, benché le provenissero da quella nazione che aveva prodotti i più grandi filosofi politici del secolo, Montesquieu, Rousseau, Sieyès, pure non aveva mai essa veduta la libertà in propria casa, mai ne aveva avuta la pratica né la finezza del senso e il gusto per conoscerla, così non poteva avere le forze intellettuali e le qualità morali per effettuare una tale palingenesia» (67).  Dal ripensamento della vicenda rivoluzionaria Delfico trae l'indicazione della necessità di un recupero della tradizione storica nazionale: «Se si fosse consultata la storia d'Italia con qualche diligenza, si sarebbe trovato, che lo spirito di ragione e di moderazione fece dell'Italia il soggiorno o la sede della libertà nei secoli più remoti» (68). A questo senso di moderazione l'Italia deve continuamente richiamarsi e gli eventi recenti ed i fatti antichi devono persuaderla, che non vi è altro mezzo alla sua tranquillità e alla sua felicità. La critica delficina dell'esperienza rivoluzionaria si risolve, in definitiva, nella ricerca di una linea politica saggia e realistica che non miri alle magiche trasformazioni ma proceda per «proporzionate graduazioni» alla realizzazione di un programma costituzionale a cui è lecito aspirare. Tutta l'attenzione è rivolta alla individuazione di modi civili più adatti e convenienti all'umana convivenza i quali, più che nelle forme politiche stereotipe, egli ritiene realizzabili, riprendendo una definizione vichiana, nei governi umani, di cui proprio il piccolo Stato di San Marino, nonostante il suo processo di incivilimento avesse subìto arresti ed involuzioni, rappresentava un modello politico reale che, in modo non utopistico, «mostrava non essere impossibile alla specie umana una tal forma di società» (69).  Dalla piccola Repubblica Delfico uscirà diverse volte per riordinare la biblioteca pubblica della vicina Rimini, dove trascorrerà alcuni mesi nella casa del marchese Belmonte, la cui amicizia risaliva al 1784, o per andare a Bologna dal suo amico Fortis, in quel tempo prefetto della biblioteca nazionale della città. Da gennaio ad aprile del 1803 soggiornerà ad Ascoli Piceno dal fratello Giamberardino. Si porterà a Milano per seguire la stampa del suo libro sulla storia di San Marino. Nel capoluogo lombardo, dove sarà l'ispiratore della ristampa dei Principj della legislazione universale d’Avenstein, rivedrà CUOCO (si veda) e stringerà nuove amicizie, tra cui quelle con Giuseppe Bossi, Pietro Custodi e Francesco Saverio Salfi. Ma, soprattutto, si legherà a Gian Giacomo Trivulzio, a Leopoldo Cicognara, grazie al quale entrerà in contatto con il celebre scultore Antonio Canova, e a sua moglie Massimiliana Cislago, donna assai colta e amica di Melchiorre Cesarotti, con il quale resterà, come con gli altri, in corrispondenza. Infine, dall'autunno all'inverno di quello stesso anno si fermerà di nuovo ad Ascoli, da suo fratello.  È, quello sammarinese, un periodo in cui Delfico, fuori dalla vita politica attiva, riprende gli studi e pubblica le Memorie storiche della Repubblica di S. Marino e l'opera sua più famosa, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima che, usciti a Forlì nel 1808, vedono in poco tempo altre due edizioni (70). Lo studio della storia in stretta relazione con la realtà presente, già ricorrente negli scritti giovanili, trova nelle Memorie storiche diretta applicazione. Nonostante, infatti, l'Autore dichiari, nelle battute iniziali della prefazione, di non essere nell'opinione di coloro i quali riguardano la storia come «maestra della vita e dispensatrice della civile sapienza» (71), in realtà poi egli, attraverso una ricerca diligente e vasta, scrive una vera storia. In essa indaga le ragioni del «mito» di San Marino, di come cioè un piccolo stato abbia mantenuto nel tempo la propria libertas e serbato l'antica e prediletta forma repubblicana, tanto da assurgere a modello politico agli inizi del Seicento con Traiano Boccalini, Lodovico Zuccolo e Matteo Valli. Sotto tale aspetto dunque scrivere la storia della piccola Repubblica era tutt'altro che inutile, perché essa avrebbe mostrato le vicende di un popolo che poteva costituire «un esempio degno d'imitazione» (72). Questa «rivalutazione» dell'esperienza storica (73) appare quanto meno strana in un pensatore considerato da alcuni l'espressione più radicale dell'antistoricismo italiano.  Nei Pensieri C. affronta il problema della conoscenza storica in tutta la sua interezza ed estensione, per stabilire «se la scienza di ciò che fu, debba preferirsi a quella dell'esistenza. Con quest'opera esprime l'esigenza, già manifestata nell'Elogio al Grimaldi, di una storia utile, che indaghi e interroghi il passato in funzione del presente. Ma perché questo avvenga è necessario ideare un nuovo modo di fare storia. Alla tradizione storiografica, infatti, egli rimprovera l'uso di sistemi metodologici inadeguati e parziali che sarebbe la causa della mancata conoscenza del passato. Come e più di Fontenelle, Voltaire, d'Alembert, Rousseau, Condorcet, Volney, delle cui Leçons d'histoire risente la stesura dei Pensieri, nega che le ricostruzioni dei fatti fino ad allora condotte siano state in grado di riprodurre fedelmente la verità storica. E se priva di certezza, la storia non presenta alcuna vera utilità per il genere umano. Egli si pone principalmente il problema della manière d'écrire l'histoire, proprio della storiografia illuministica. A tal fine, denuncia deficienze e manchevolezze che ancora permangono negli studi storici e lamenta che la proliferazione incontrollata degli stessi abbia dato luogo ad una loro stagnazione piuttosto che a un ripensamento critico dei principi e dei criteri della pratica storiografica. Occorre distogliere l'analisi storica dal proporre il «secco e nudo racconto» di pochi avvenimenti, per indurla a valutare le circostanze nel loro complesso, ad indicare i rapporti che intercorrono tra gli effetti e le loro cause. Essa dovrebbe consistere in un'esposizione analitica di fatti gli uni dipendenti dagli altri, per scorgere come dai primi e più semplici siamo gradatamente giunti alle attuali positive cognizioni, di modo che «mostrandoci i due estremi c'indicherebbe più facilmente la strada da percorrere, per andare in cerca delle altre verità desiderose di venire alla luce. Così concepita, l'indagine storica permetterebbe di recuperare positivamente l'eredità del passato, che cesserebbe di appartenere alla memoria per divenire una componente integrante del processo storico contemporaneo. Una convinzione, questa, che trova conferma in un successivo scritto delficino del 1824, Discorso preliminare su le origini italiche (79), in cui viene ribadita l'opportunità di interrogare il passato e «registrare i fatti del tempo» in funzione dei bisogni presenti. Quest'azione di cerniera tra il tempo andato e quello avvenire rappresenta l'aspetto più interessante della storia. Essa la pone su un piano di parità con le altre scienze a cui l'accomuna il merito di protendere al miglioramento fisico e morale dell'uomo. Ma perché la ricerca storica possa adempiere a queste funzioni conoscitive si richiede che essa sia «qual non esiste», cioè una disciplina nuova, ancora intentata, che Delfico chiama anche «storia delle scienze». Le cognizioni storiche perdono allora il carattere di sterile nozionismo, che hanno sempre avuto, e acquistano un valore intrinseco: «Sobriamente conoscendo quel che fu», afferma a conclusione della sua opera, «potremo facilitarci la strada a saper ampiamente quel che è» (80).  Un atteggiamento polemico egli assume anche nei confronti delle mitologie la cui origine sarebbe dovuta a superstizione, ad ignoranza o ad incapacità di fornire una spiegazione razionale a fenomeni naturali. È il caso degli incantatori di serpenti e del loro presunto potere antiofidico, contro cui egli insorge in una Lettera di poche pagine, senza titolo, inserita a guisa di nota nel VI tomo degli Annali del Regno di Napoli di Grimaldi (81) e rimasta a lungo sconosciuta agli studiosi (82). La dissertazione, che si colloca nel filone della letteratura illuministica di confutazione delle superstizioni, è una dura requisitoria contro gli «impostori» serpari, i quali spacciano per miracoli e portenti ciò che in realtà non avrebbe nulla di prestigioso ma sarebbe solo il risultato o di una conoscenza particolare delle caratteristiche dei serpenti o di effetti naturali.  Una diversa considerazione, invece, egli ha dei cosiddetti «favoleggiatori». Come il «virtuoso» Socrate e il «divino» Platone, Delfico tiene in grande considerazione il racconto allegorico. Quando ancora lo spirito umano, afferma nel Discorso sulle favole esopiane del 1792 (83), non aveva maturato le sensazioni e le esperienze necessarie per poter generalizzare le idee ed esprimerle con precisione e proprietà di linguaggio, fu naturale che i primi pensieri morali, il sentimento di giustizia, le nozioni di bene e di male e molti altri concetti fossero acquisiti attraverso gli apologhi, che divennero così «la morale dell'infanzia dell'umanità». La loro utilità non verrebbe meno neppure nei tempi moderni dal momento che gli apologhi, se convenientemente scelti, possono giovare non soltanto ai giovani ma anche a quella parte del popolo che, ancora vittima dell'«errore» e del «pregiudizio», si trova in uno stato «più infelice» (84) di quello dei secoli remoti.  Il ritorno a Napoli dei Francesi, nel febbraio del 1806, viene salutato come l'inizio di una nuova stagione politica. Esso rappresenta per lo scrittore teramano quell'inversione di rotta che «era ormai tempo che si facesse» (85) e che lo induce a riportarsi, nel giugno di quell'anno, dopo sette anni di esilio sammarinese, nella capitale partenopea dove farà parte, per quasi un decennio, della nuova amministrazione francese. Nell'età napoleonica egli intravede la possibilità di un recupero di quello «spirito di ragione e di moderazione», a cui riteneva necessario ricondurre la politica dopo la crisi di fine secolo e che costituiva l'unica via possibile di sviluppo, sia contro gli eccessi dei rivoluzionari, sia contro le intemperanze dei reazionari.  Nominato da Giuseppe Bonaparte consigliere di Stato (3 giugno 1806), Delfico viene assegnato alla sezione delle Finanze, per poi passare alla presidenza della sezione dell'Interno, divenendo uno dei quattro presidenti del Consiglio di Stato. Regge più volte ad interim il ministero dell'Interno, facendo parte delle Commissioni per le lauree, per le pensioni, per le riforme del Codice civile, per la procedura delle cause feudali in Cassazione, per la riforma della pubblica istruzione, per la ripartizione dei demani, per la vendita dei beni dello Stato. Presidente della Commissione degli Archivi generali del Regno, nominato commendatore dell'ordine delle Due Sicilie, viene insignito da Murat del titolo di Barone.  I numerosi incarichi di responsabilità non lo distolgono dalla tensione intellettuale, tutta incentrata sullo studio della fisiologia e di altre fisiche cognizioni. Evidente appare il suo debito nei confronti di Pierre-Jean-Georges Cabanis (1757-1808), sostenitore della sensibilità fisica quale fondamento dell'attività umana. Delle teorie dei Rapports du physique et du moral de l'homme, l'opera più importante del filosofo francese, risentono soprattutto le Ricerche su la sensibilità imitativa considerata come il principio fisico della sociabilità della specie e del civilizzamento dei popoli e delle Nazioni del 1813 (87) e la Memoria su la perfettibilità organica considerata come il principio fisico dell'educazione con alcune vedute sulla medesima del 1814, cui segue, l'anno successivo, la Seconda memoria. Del 1818 sono, infine, le Nuove ricerche sul Bello, pubblicate a Napoli da Agnello Nobile.  Con la restaurazione dei Borboni, nel 1815, Delfico dirada il suo impegno nella vita politica. Ciò nonostante, all'indomani dello scoppio insurrezionale del 1820, Ferdinando I gli affida l'incarico di tradurre la Costituzione spagnola del 1812 e subito dopo, il 9 luglio 1820, lo nomina (assieme ad altri 14) membro della Giunta provvisoria di governo, chiamata a sostituire il Parlamento fino al suo insediamento. Successivamente sarà uno degli 89 deputati di quel Parlamento che, costituitosi il 1° ottobre 1820, vivrà solo fino al marzo 1821, quando Ferdinando I chiederà l'intervento austriaco per porre fine all'esperienza costituzionale e dar vita ad un nuovo governo reazionario. Deluso, decide di allontanarsi definitivamente dagli ambienti governativi.  Dopo il crollo del dominio francese in Italia, egli teme non soltanto la rivalsa delle forze reazionarie ma anche (soprattutto) che si interrompa quel processo di sviluppo economico e di trasformazione sociale, avviato dai Napoleonidi (90), che lentamente stava facendo risorgere il Paese. Nell'azione di ripristino dell'antico, che si svolge all'insegna della ricomposizione della vecchia alleanza tra trono e altare, il Teramano vede profilarsi la minaccia di rendere il mondo «stazionario» se non addirittura di farlo a grandi passi o salti «retrogradare». Un'ipotesi resa, a suo avviso, ancora più probabile da letture ideologicamente distorte di grandi autori, non ultimo Niccolò Machiavelli, che alimentano l'esistenza di pregiudizi dei quali ci si serve per sostenere fini politici particolari. Questo clima è per Delfico l'occasione (o forse soltanto il pretesto) per una rilettura del «gran politico pensatore», di cui in gioventù aveva subìto qualche influenza. Scrive così, agli inizi degli anni venti dell'Ottocento, le Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino (91), nate dall'esigenza di confrontarsi con Machiavelli intorno ad alcuni temi, come la religione, la libertà, il problema costituzionale, l'uguaglianza, per smascherare alcuni pregiudizi che si sarebbero formati sotto la sua «potente autorità, senza tuttavia tralasciare alcune sue verità che potrebbero risultare ancora utili per le civili società. Da questo confronto fuoriescono talora divergenze più o meno accentuate o giudizi critici, ma anche affinità e valutazioni positive.  Dell'«illustre autore» Delfico sottolinea il realismo politico e l'aderenza alla realtà effettuale. Egli guarda il Principe non come un'astratta speculazione politica, bensì come uno scritto d'occasione contenente una particolare proposta operativa, in relazione ad un obiettivo politico contingente, qual è la rigenerazione dell'Italia. Senza farne a tutti i costi un precorritore del Risorgimento o un assertore dell'unità nazionale, secondo un'interpretazione del Fiorentino allora assai diffusa, egli ammira in lui la «viva passione», la disperata ricerca di soluzioni politiche capaci di porre fine alla grave crisi della società italiana del Cinquecento. Ma la condizione di immobilismo e di decadenza politica e civile dell'Italia, per la quale Machiavelli suggerisce la soluzione del Valentino quale liberatore degli Stati italiani, non porta lo scrittore teramano a condividere interamente tutte le tesi del Segretario fiorentino: «Se si possono giustificare le sue intenzioni, e la persona» afferma «questo non vale per le sue dottrine» (93). Infatti, se da un lato egli comprende le preoccupazioni di Machiavelli e fa proprie le sue speranze di una prossima rigenerazione, attuabile quest'ultima solo attraverso mezzi eccezionali, dall'altro manifesta più di una perplessità di fronte al suo realismo politico, non riuscendo di fatto ad accettare la dissociazione machiavelliana tra etica e politica e il principio che «per regnar tutto lice» (94).  Divergenze emergono anche dal tentativo che Delfico in seguito compie di ricondurre il pensiero machiavelliano ai tempi presenti per poi valutarlo sulla base delle proprie convinzioni ed esperienze storiche, politiche e culturali maturate tra il XVIII e il XIX secolo. Molte sono tuttavia le idee del Fiorentino che considera ancora valide e attuali, come l'identificazione dell'origine dei conflitti sociali con l'ineguaglianza giuridica ed economica, l'assoluta inconciliabilità tra gli «umori» del popolo e quelli dei grandi (95) o la condanna del ruolo antisociale dei «gentiluomini», di quegli uomini cioè che, «oziosi», vivono dei proventi dei loro ingenti possedimenti (96). Ma, soprattutto, riconosce a Machiavelli il merito di aver legato la «questione militare» alla «questione politica», di aver ritenuto la soluzione dell'una imprescindibile da quella dell'altra. Tale correlazione presuppone ed implica un nuovo rapporto tra governanti e governati basato sul reciproco impegno, da parte del popolo, di assicurare la propria «affezione» allo Stato, così da garantirgli una maggiore stabilità; da parte dei governi, di soddisfare le aspirazioni dei sudditi, migliorandone le condizioni. Lo sviluppo di questo vincolo, che con assoluta originalità Delfico fa derivare dal nesso tra dimensione militare e dialettica politica, è concepito all'interno di una monarchia costituzionale, considerata la forma più «conveniente all'Umanità ed ai veri bisogni sociali», la giusta soluzione tra rivoluzione e reazione. L'emanazione di una carta costituzionale, di cui aveva manifestato l'esigenza sin dai primi anni della rivoluzione francese, risponde soprattutto all'esigenza di assicurare l'uguaglianza politica e la tutela dei diritti individuali dei cittadini, garantendo loro la sicurezza reale e personale. C. torna a Teramo, ma nell'autunno successivo si reca di nuovo a Napoli dove rimane per alcuni mesi, fino a quando lascia la Capitale per non farvi più ritorno. Nel capoluogo abruzzese, dove trascorre il resto della sua vita, senza mai più allontanarsi, l'anziano scrittore continua a studiare e a scrivere. Fra i lavori di questi anni (alcuni dei quali ancora inediti e, di questi, molti non terminati o soltanto abbozzati e frammentari) ricordiamo la memoria Della importanza di far precedere le cognizioni fisiologiche allo studio della filosofia intellettuale, in cui ribadisce la sua concezione materialistica della conoscenza e concepisce la ragione come strumento critico e operativo, che non deve tuttavia ostinarsi ad indagare l'essenza delle cose e tutto ciò che non può realmente conoscere ma rivolgersi alle cose utili e necessarie al benessere e alla felicità del genere umano, e gli scritti sulla numismatica pubblicati a Teramo dai tipi Ubaldo Angeletti nel 1824 con il titolo Della antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con un discorso preliminare su le origini italiche.  Non verrà meno neppure il suo impegno riformatore che lo porterà ad interessarsi di Pescara in due scritti, dal titolo Fiera franca in Pescara e Breve cenno sul progetto di un porto da costruirsi alla foce del fiume Pescara, con i quali si prefigge di rivitalizzare le attività produttive in questa zona ancora poco sviluppata del Regno. Decisivo gli appare a tal proposito un rilancio del commercio, considerato «la sola sorgente inesausta della ricchezza e floridezza delle Provincie», non senza però aver prima creato le condizioni e le strutture necessarie per facilitarlo. Una di queste potrebbe essere la realizzazione di un grande emporio o fiera franca, che non solo ridurrebbe sensibilmente le frodi e il contrabbando, ma assicurerebbe un notevole afflusso di merci, di provenienza anche straniera, senza l'imposizione di alcun dazio di importazione, che eviterebbe ai negozianti, ai mercanti e a molti proprietari abruzzesi di rivolgersi, non senza grave danno, ai mercati dello Stato pontificio di Fermo, di Ascoli o a quello più grande e lontano di Senigallia. Tutto ciò non farebbe che ripercuotersi favorevolmente sul commercio che potrebbe così finalmente «divenir attivo e moltiplicare i capitali e far nascere nuove attività economiche o migliorare e accrescere quelle esistenti.  La creazione di uno moderno scalo marittimo alla foce del fiume Pescara costituisce l'oggetto della riflessione che C. conduce nel Brevecenno. L'idea che il «mare anziché separare riavvicini le Nazioni fra loro, permettendo infinite comunicazioni tra i popoli, costituisce la determinazione dalla quale lo scrittore teramano muove per sostenere l'utilità che la creazione di un porto sicuro per i naviganti rivestirebbe per l'incremento del commercio e per lo sviluppo economico in generale. La scelta di Pescara quale centro di scalo portuale trova giustificazione nel fatto di avere la cittadina adriatica il fiume con la foce più ampia e di essere «punto centrale nel litorale degli Abruzzi», crocevia delle tre principali strade, l'una diretta verso Napoli, le altre, entrambe costiere, in direzione la prima verso lo stato pontificio, la seconda verso le province meridionali. Non solo, ma sarebbe anche l'unico porto ad avvalersi di una «piazza forte» che renderebbe sicuro il trasporto e la conservazione delle merci. Così il porto di Pescara potrebbe riacquistare quell'importanza che aveva avuto un tempo quando era conosciuto con il nome di Ostia Aterni e gli imperatori romani vi avevano fatto confluire le tre strade, la Claudia, la Flaminia e la Frentana per agevolarne gli scambi commerciali.  A metà degli anni Venti un libro anonimo, dal titolo La vérité sur les cent jours, principalement par rapport à la renaissance projetée de l'Empire Romain, par un Citoyen de la Corse (H. Tarlier, Bruxelles 1825), di cui uscirà una traduzione italiana incompleta dal titolo Delle cause italiane nell'evasione dell'imperatore Napoleone dall'Elba, con la falsa indicazione del luogo e dell'editore del testo originale, riferisce di una congiura che sarebbe stata ordita da alcuni italiani per affidare la corona d'Italia a Napoleone Bonaparte. Dei presunti cospiratori, rimasti anonimi nel libro, l'Autore fa il nome soltanto del conte Luigi Corvetto, «justement regardé comme un des meilleurs jurisconsultes de Gênes» e di Melchiorre Delfico, «un des hommes les plus vertueux de l'Italie», ritenendoli, erroneamente, entrambi deceduti. Al Teramano viene anche attribuita la stesura di un Rapport adressé à S. M. l'empereur Napoléon à l'île d'Elbe, par le principal émissaire en Italie, sulle condizioni politiche e morali dei vari Stati italiani, che sarebbe dovuto servire all'imperatore francese per meglio valutare le possibilità di successo dell'impresa. Ma nessuna conferma in proposito è mai venuta dalle carte delficine, né da successive ricerche, per cui ancora oggi l'ipotesi di una partecipazione del Nostro al progetto resta legata a quest'unica notizia. C. pubblica la lettera Della preferenza de' sessi (105) alla contessa Chiara Mucciarelli Simonetti in cui riprende i temi della condizione ed emancipazione della donna affrontati in gioventù nel Saggio filosofico sul matrimonio. Trascorre gli ultimi anni della vita continuando a coltivare i suoi interessi intellettuali. A questo periodo risalgono i suoi studi sulla scienza medica testimoniati da numerose pagine, ancora inedite, conservate presso il Fondo C. della Biblioteca Provinciale di Teramo, e la stesura di alcuni manoscritti di cui uno dal titolo Sugli antichi confini del Regno e un altro dal titolo Sull'origine e i progressi delle Società civili che invia al marchese aquilano Luigi Dragonetti, il quale ne caldeggia la pubblicazione, ma invano perché il suo autore intende «rivederlo. Riceve la visita di Ferdinando II, in giro per le regioni del Regno, e viene insignito, l'anno successivo, dell'onorificenza di Commendatore dell'Ordine di Francesco I. Nel capoluogo abruzzese C. muore.  Dopo la notorietà di cui aveva goduto in vita, alla sua morte C. cade in un lungo e ingiustificato oblio. Uscito grazie a GENTILE (si veda) dal ristretto ambito locale, che lo rende un filosofo sostanzialmente sconosciuto, e proiettato in una dimensione più ampia, nazionale, C. è oggetto di una diversa considerazione. Una rivalutazione che si determina in coincidenza con il rinnovato interesse storiografico per la cultura e la storia, e, in particolare, per alcune esperienze intellettuali e politiche significative dell'illuminismo. Merito di questa storiografia è quello di aver ricondotto e legato il riformismo delficino all'esperienza e al fervore culturale del movimento riformatore napoletano. Una lettura che ha privilegiato il C. riformatore, la sua fase riformistica, contrapponendosi alle rivisitazioni critiche precedenti, sia della storiografia neo-idealistica che del ventennio fascista. Llinee interpretative stanno approfondendo altre fasi fondamentali della biografia intellettuale di C. (alcune delle quali scarsamente scandagliate), come quella relativa al decennio rivoluzionario o quelle che contrassegnano la sua evoluzione durante la Restaurazione, da riformatore nutrito dell'illuminismo napoletano a FILOSOFO della storia e della politica. Nato in un paesino vicino Teramo, LEOGNANO, dove il genitore, Berardo C., si rifugia durante l'invasione austriaca del Regno di Napoli. Muore a Teramo. Per le notizie biografiche, la migliore fonte resta quella del nipote G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C., Angeletti, Teramo, arricchita di un'elencazione dei saggi editi ed inediti del Nostro, alcuni dei quali successivamente pubblicati, nonché di quelli non terminati e dei frammenti. Rimasta incompiuta, l'opera continua sul «Giornale abruzzese di scienze lettere e arti», col titolo Notizie intorno alle OPINIONI FILOSOFICHE ed alle opere di C.  e, sempre sulla stessa rivista, col titolo Notizie sulla vita e sulle opere di Melchiorre Delfico.  (2) Molti degli amici e dei discepoli del Genovesi furono abruzzesi. Fra loro ricordiamo, oltre ai fratelli Giamberardino, Gianfilippo e Melchiorre Delfico, il teatino Romualdo de Sterlich, Tommaso Maria Verri di Archi, Giuseppe De Sanctis di Penne, l'aquilano Giacinto Dragonetti, Giovanni Alò di Roccaraso, il teramano Giammichele Thaulero e Troiano Odazi di Atri, che succede al Maestro nella cattedra di economia. Sulla presenza anche in Abruzzo di quello che è stato definito il «partito genovesiano», cfr. G. De Lucia, Abruzzo  borbonico. Cultura, società, economia tra Sette e Ottocento, Cannarsa, Vasto; U. Russo,  Studi sul Settecento in Abruzzo, Solfanelli, Chieti 1990, Diaz, Dal movimento dei lumi al movimento dei popoli, Il Mulino, Bologna.Sul riformismo borbonico, cfr. F. Valsecchi, Il riformismo borbonico in Italia, Bonacci, Roma;  I Borbone di Napoli e i Borbone di Spagna, a cura di M. Di Pinto, Guida, Napoli 1985, vol. I; E. Chiosi, Il Regno dal 1734 al 1799, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni, Edizioni del Sole, Roma, e la sintesi di a. M. Rao, Il riformismo borbonico a Napoli, in Storia della società italiana, vol. 12, Il secolo dei lumi e delle riforme, Teti, Milano e la ricca bibliografia in essa contenuta.  (5) Lo scritto, dedicato a Bartolomeo Intieri e pubblicato assieme al Ragionamento sopra i mezzi più necessari per far rifiorire l'agricoltura dell'abate Ubaldo Montelatici colla Relazione dell'erba orobanche detta volgarmente succiamele e del modo di estirparla di Pier-Antonio Micheli, uscì a Napoli. GENOVESI (si veda), Lettere accademiche su la questione se sieno più felici gl'ignoranti che gli scienziati (Napoli), Lettera, Autobiografia, lettere e altri scritti, a cura di G. Savarese, Feltrinelli, Milano 1962, p. 497.  (7) Per una valutazione dell'influenza di Pietro Giannone sulla cultura napoletana del XVIII secolo oltre al lavoro sempre valido di L. Marini, Pietro Giannone e il giannonismo a Napoli nel Settecento. Lo svolgimento della coscienza politica del ceto intellettuale del regno, Laterza, Bari 1950, cfr. G. Ricuperati, L'esperienza civile e religiosa di GIANNONE (si veda), Ricciardi, Milano-Napoli 1970; Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R. Ajello, Jovene, Napoli 1980, 2 voll., sp. il contributo di E. Chiosi, La tradizione giannoniana nella seconda metà del Settecento, Sulla posizione di Genovesi nei confronti dell'autorità temporale e dottrinale della Chiesa, cfr. E. Pii, GENOVESI (si veda). Dalla politica economica alla «politica civile», Olschki, Firenze; G. Galasso, LA FILOSOFIA in soccorso de' governi. La cultura napoletana del Settecento, Guida, Napoli 1989, p. 383 sgg.  (9) Le due Memorie, dal titolo Intorno a' dritti sovrani di Napoli sulla città di Benevento e Saggio istorico delle ragioni dei Sovrani di Napoli sopra la città d'Ascoli d'Abruzzo oggi nella Marca, furono commissionate a Delfico dall'avvocato della Corona Ferdinando De Leon. Della prima, tuttora inedita, esiste una copia autografa presso l'Archivio di Stato di Teramo, «Fondo Delfico», b. 16, fasc. 178, dal titolo Del territorio beneventano. La seconda, invece, fu pubblicata la prima volta su «La Rivista abruzzese di scienze e lettere» nel 1890 (a. V, fasc. I, pp. 22-30; fasc. III-IV, pp. 142-168; fasc. V-VI, pp. 2), preceduta dalle Notizie di L. Volpicella sulle vicende del manoscritto. Il Saggio istorico è stato riedito nelle Opere complete, vol. III, Fabbri, Teramo 1903, pp. 9-80. La raccolta, che non esaurisce tutti gli scritti delficini (alcuni dei quali pubblicati successivamente, altri ancora inediti), esce a Teramo dal 1901 al 1904, in quattro volumi, a cura di G. Pannella e L. Savorini.  (10) M. Delfico, Del territorio beneventano, cit., p. 17.  (11) F. Venturi, Introduzione ai Riformatori napoletani, t. V degli Illuministi italiani, Ricciardi, Milano-Napoli G. De Filippis-Delfico, Della vita e delle opere di C., C., Memoria autobiografica, inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Misc. C., Saggio filosofico sul matrimonio, in  Opere complete. Garosci, San Marino. Mito e storiografia tra i libertini e il Carducci, Edizioni di Comunità, Milano Lettera di C. a Dragonetti, in Spigolature nel carteggio letterario e politico del march. Luigi Dragonetti, a cura del marchese G. Dragonetti suo figlio, Uffizio della Rassegna Nazionale, Firenze La lettera è stata riedita nelle Opere complete, M. Delfico, Indizi di morale, in Opere complete, Sull'ambiguità concettuale di tale espressione cfr. M. Bazzoli, Il pensiero politico dell'assolutismo illuminato, La Nuova Italia, Firenze, Guerci, L'Europa del Settecento. Permanenze e mutamenti, Pomba, Torino. C., INDIZI di morale. Per una ricostruzione dell'intera vicenda rinvio a V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano. L'attività di C. presso il Consiglio delle Finanze, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma; L'espressione è ricorrente nella Relazione di Mons. Luigi Pirelli alla Sacra Congregazione del Concilio, in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano. Cfr. C., Discorso sullo stabilimento della milizia provinciale, in Opere complete, F. Venturi, Nota introduttiva (a M. Delfico), in Riformatori napoletani; Favorevole ad un più moderno sviluppo dell'attività risiera per una ripresa economica della sua provincia, Delfico assumerà alcuni anni più tardi un atteggiamento decisamente contrario alla risicoltura. Su tale mutamento, cfr. V. Clemente, Cronache della defeudalizzazione in provincia di Teramo: le risaie atriane in «Itinerari», C., Elogio del marchese D. Francescantonio Grimaldi, presso Vincenzo Orsino, Napoli, Opere complete, C. ammira soprattutto la Vita di Ansaldo Grimaldi (Napoli 1769), poiché in essa l'Autore era riuscito a saldare la vicenda dell'uomo di Stato genovese con la storia politica dello Stato stesso e a far vedere come la mancanza di costituzioni e di leggi fondamentali tenesse lo Stato «in continua rivoluzione» (Elogio di GRIMALDI (si veda), C., Elogio di GRIMALDI (si veda), Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes, Oeuvres complètes, Gallimard,  Paris. C., Elogio di GRIMALDI (si veda). Su tale associazione, fondata il 1° maggio 1776 ad Ingolstadt da Adam Weishaupt, cfr. C. Francovich, Gli Illuminati di Baviera, in Storia della massoneria in Italia dalle origini alla rivoluzione francese, La Nuova Italia, Firenze. Alcune lettere sono state pubblicate nel quarto volume delle Opere complete di C.; altre sono apparse nel primo volume di Aus dem Briefwechsel Friedrich Münters. Europäische Beziehungen eines dänischen Gelehrten, Andreasen, Haasse, Leipzig. Due di queste ultime sono state riprodotte in appendice al libro di A. Di Nardo, Storia e scienza in Melchiorre Delfico. (Studi e ricerche), Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Lettere e Filosofia, Chieti, il quale ha pubblicato altre lettere di Delfico a Münter, assieme ad alcune lettere di Delfico alla sorella del Danese Federica Brun. Altre, ancora inedite, sono conservate presso la Biblioteca Provinciale di Teramo. C., Memoria sul Tribunal della Grascia e sulle leggi economiche nelle provincie confinanti del Regno, Porcelli, Napoli,Opere complete. Solari, Studi su PAGANO (si veda), cur. Firpo, Giappichelli, Torino. Sullo stesso piano l'Autore pone l'altro scritto di Delfico, Memoria sulla libertà del commercio, e l'opera sull'Annona di Domenico Di Gennaro, duca di Cantalupo, pubblicata anonima a Palermo; C., Memoria sul Tribunal della Grascia. C., Discorso sul Tavoliere di Puglia e su la necessità di abolire il sistema doganale presente e non darsi luogo ad alcuna temporanea riforma, Napoli 1788, ora in Opere complete; C., Discorso sul Tavoliere di Puglia, cit., p. 370.  (38) Il testo è stato pubblicato da L. Tossini, Una lettera inedita di Melchiorre Delfico a Michele Torcia, in «Nord e Sud. La lettera è datata Teramo, su invito dell'Accademia di Padova agli scrittori italiani di occuparsi del problema della libertà di commercio, la Memoria fu stampata la prima volta nel 1805 a Milano, presso Destefanis, Scrittori classici italiani di economia politica, cur. Custodi. L'opuscolo è stato recentemente riedito (De Petris, Teramo 1985) con un'introduzione di M. Finoia. Sul problema Delfico tornerà alcuni anni dopo con il Ragionamento su le carestie, in cui apporta alcune «modificazioni e moderazioni» al principio della libertà assoluta e illimitata di commercio, auspicando nel mercato l'intervento diretto dello Stato, cui riconosce il compito di prevenire il «terribile flagello» delle carestie e di altri simili avvenimenti. Il testo, letto nella Reale Accademia delle Scienze di Napoli e pubblicato negli Atti, è stato riedito a Teramo assieme alla Memoria sulla libertà del commercio.  Se, dopo varie insistenze, all'inizio del 1788 ottiene, come aveva richiesto due anni prima nella Memoria per il ristabilimento del Tribunale Collegiato nella Provincia di Teramo (in V. Clemente, Rinascenza teramana e riformismo napoletano, il ripristino a Teramo di detto Tribunale, in luogo dei magistrati unici, più agevolmente portati all'abuso del potere, non altrettanta fortuna incontreranno invece le sue richieste sia di abolizione della servitù degli Stucchi, del 1786, sia di istituzione di una Università degli Studi a Teramo ad indirizzo «fisico» ed orientamento laico. Sugli sviluppi delle iniziative delficine si vedano R. Di Antonio, Stucchi e Doganelle nel teramano, Libera Università Abruzzese degli Studi «G. D'Annunzio», Facoltà di Scienze Politiche, Teramo, la quale pubblica in appendice la Memoria sugli Stucchi e le Memorie su di un nuovo sistema per le Doganelle, e G. Carletti, Introduzione a M. Delfico, Una «piccola» Università a Teramo, Quaderni dell'Università di Teramo, Teramo. La Memoria è pubblicata in appendice al volume di a. M. Rao, L'«amaro della feudalità». La devoluzione di Arnone e la questione feudale a Napoli alla fine del '700, Guida, Napoli; C., Memoria per la vendita de' beni dello Stato d'Atri, Memoria delficina, rimasta interrotta e tuttora inedita, conservata presso la Biblioteca Provinciale di Teramo, fondo «Manoscritti Delfico», Ined. In Lombardia Delfico si trattenne fino al mese di giugno del 1789 per poi trasferirsi prima a Verona, dove rimase due mesi, e in seguito a Vicenza, Padova, Venezia e Ferrara, rientra in patria. Su questo viaggio e sui legami di amicizia che ebbe modo di stringere e di rinsaldare, cfr. G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C.. Opere complete. L'opera, che provocò subito «molto chiasso», sia per le reazioni della classe togata, sia per gli elogi che ricevette da più parti, fu pubblicata a Napoli, presso Porcelli, ristampata a Firenze e Napoli; Ghisalberti, La giurisprudenza romana nel pensiero di C., in «Rivista italiana per le scienze giuridiche. C., Ricerche sul vero carattere della giurisprudenza romana, in Opere complete. Odazi, nativo di Atri, in provincia di Teramo, fu tra i maggiori economisti napoletani della seconda metà del Settecento. Allievo del Genovesi, nel 1768 ne curò l'edizione milanese Delle lezioni di commercio o sia d'economia civile. Nominato PROFESSORE DI ETICA – non ‘moral philosophy,’ come a Oxford -- nel Reale convitto della Nunziatella, è chiamato a ricoprire la cattedra di Economia e Commercio che era stata del Genovesi e rimasta vacante per diversi anni. Esponente della massoneria napoletana, fu coinvolto nel fatti. Arrestato, morì suicida nelle carceri della Vicaria il 20 aprile di quell'anno. Sulla fine dell'Odazi, cfr. G. Beltrani, Odazi. La prima vittima del processo politico in Napoli, in «Archivio storico per le province napoletane», CROCE (si veda), La rivoluzione napoletana, Laterza, Bari, Sulle tappe di questo viaggio, cfr. G. De Filippis-C., Della vita e delle opere di C. Si veda la lettera di Delfico a Fortis del 9 gennaio 1797 da Teramo, in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di C., Rassegna della letteratura italiana. L'ipotesi di una partecipazione al concorso origina da De Filippis-C., il quale riporta tra le opere delficine «non-terminate» (cfr. Della vita e delle opere di C., un opuscolo di 26 pagine privo di intestazione e da lui intitolato Sul quesito: Quale sia il miglior de' governi per l'Italia?, anche se poi nessuna notizia, sia in merito a questo testo sia relativa al concorso, fornisce nella ricostruzione biografica dell'Autore. Su questo aspetto si veda Carletti, A proposito di un'anonima dissertazione. Note sulla presunta partecipazione di C. al concorso del 1796, in «Trimestre.  (54) Sono le delficine Memoria per la Decima imposta al Regno; Memoria intorno a' danni sofferti nella provincia di Teramo dalla cattiva monetazione dello Stato pontificio, e de' mezzi opportuni da ripararli ed infine Osservazioni su la nuova monetazione dello Stato papale per rapporto al commercio delle provincie confinanti del Regno, ancora tutte inedite.  (55) Lettera di C. a Fortis in M.G. Riccobono, Contributo per l'epistolario di Melchiorre Delfico. Il vescovo a cui allude è Luigi Maria Pirelli, nobile di Ariano, religioso dell'Ordine dei Regolari teatini, vescovo di Teramo e sin dal suo arrivo avverso alla famiglia Delfico. Nella Relazione risponsiva alle accuse, del 18 dicembre 1793 (pubblicata da L. Tossini, Autodifesa di un illuminista, in «Archivio storico per le province napoletane», egli era costretto a difendere la propria reputazione dinanzi al Supremo Consiglio a causa di «vaghe» e «calunniose imputazioni» di qualche delatore. La denuncia del '93, pur non avendo gravi conseguenze, riuscì tuttavia ad impedire che Delfico succedesse al fratello nella presidenza della Società Patriottica di Teramo. Una nuova denuncia anonima èall'origine del rifiuto del Supremo Consiglio di accogliere la richiesta del Teramano del titolo di conte. Non avrebbe ottenuto il titolo neppure in seguito, ma con decreto Murat gli avrebbe conferito quello di barone. Il pretesto è fornito da alcune lettere «rivoluzionarie» sequestrate ad una loro domestica, da poco licenziata, mentre faceva ritorno ad Ascoli Piceno. Interrogata, la donna avrebbe affermato di averle ricevute da Alessio Tullj e da Eugenio Michitelli, entrambi frequentatori di casa Delfico. Si veda in proposito la Memoria della persecuzione subita dalla famiglia C., scritta presumibilmente da Giamberardino C. «allo scopo - è precisato in un'annotazione - di ottenere il dissequestro dei propri beni», dopo che, condannato dai Regi inquisitori nel processo contro «i rei di Stato» e trasferito nell'agosto del 1800 nei castelli di Puglia, era stato liberato in seguito all'indulto generale. Il testo è stato pubblicato da V. Clemente su «Storia e civiltà. L'episodio che portò all'arresto dei C. è a. I Francesi, al comando del generale Rusca, erano entrati in Abruzzo il 6 dicembre 1798. Arrivano a Teramo. Messe in fuga dai rivoltosi, le truppe francesi riconquisteranno la città, per poi occupare Pescara, Sulmona e Penne e Chieti. Per una ricostruzione di queste vicende, fondamentale resta l'opera di L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi, voll. I e II, Vecchioni, L'Aquila, Consorzio Nazionale, Roma. Sull'arrivo e sulla permanenza dei Francesi a Teramo cfr. anche le tre cronache del periodo rivoluzionario, A. De Jacobis, Cronaca degli avvenimenti in Teramo ed altri luoghi d'Abruzzo in L. Coppa-Zuccari, L'invasione francese negli Abruzzi; G. Tullj, Minuta relazione dei fatti sanguinosi seguiti in Teramo, con postille e con la continuazione del canonico Niccola Palma (pubblicata da V. Clemente col titolo Una cronaca inedita teramana, Storia e Civiltà; C. Januarii, Avvenimenti seguiti nel Teramano dal 1798 al 1809, Teramo Il Consiglio, di cui fecero parte, oltre a Delfico, i lancianesi Carlo Filippo De Berardinis e Antonio Madonna, entrò in funzione subito dopo e svolse la sua attività non oltre la fuga del suo presidente da Pescara avvenuta il 28 aprile successivo. Cfr., in proposito, M. Battaglini, Abruzzo. Una repubblica giacobina, in «Rassegna storica del Risorgimento, La Repubblica napoletana. Origini, nascita, struttura, Bonacci, Roma; Sull'esperienza pescarese di Delfico, cfr. anche F.  Masciangioli, C. e Pescara. Per una storia del rapporto tra intellettuali ed esperienze giacobine in Abruzzo, in «Trimestre», Sullo spirito di moderazione di Delfico, interessato a trovare una mediazione tra eccessi rivoluzionari e intemperanze reazionarie, cfr. G. Carletti, C.. Riforme politiche e riflessione teorica di un moderato meridionale, ETS, Pisa; Cfr. Galasso, I giacobini meridionali, in «Rivista storica italiana», a XCVI (1984), fasc. I, p. 78 sgg., ora in La filosofia in soccorso de' governi.Il testo è stato pubblicato da R. Persiani, Alcuni ricordi politici nella massima parte abruzzesi con documenti e note, in «Rivista abruzzese di scienze, lettere ed arti. Senz'altro meno importante è l'altro atto a firma di C., Proclama sulla sicurezza pubblica del ventoso anno, con il quale venivano fissate alcune disposizioni per combattere il vagabondaggio. I due testi sono stati recentemente riediti assieme ad altri scritti delficini da G. Carletti, La «Pescara» di Melchiorre Delfico, Edizioni Tracce, Pescara. Cfr. la lettera di Delfico al Governo Provvisorio, da Pescara, datata 7 germile an. 7 Rep., Il Monitore Napoletano 1799, a cura di M. Battaglini, Guida, Napoli. Sulle insorgenze nella regione, cfr. R. Colapietra, Le insorgenze di massa nell'Abruzzo in età moderna, in «Storia e politica, e Per una rilettura socio-antropologica dell'Abruzzo giacobino e sanfedista, Edizioni Città del Sole, Napoli. Per il testo cfr. G. Carletti, C.. Sulla permanenza del Teramano nella Repubblica sammarinese, cfr. F. Balsimelli, Melchiorre Delfico e la Repubblica di San Marino, Arti Grafiche Della Balda, San Marino. Cfr. V. CUOCO (si veda), Saggio storico sulla rivoluzione napoletana, II ed. con aggiunte dell'Autore, Dalla Tipografia di Francesco Sonzogno, Milano. Si veda l'ormai nota Prefazione alle Memorie storiche della Repubblica di S. Marino (Milano 1804), in Opere complete. Il saggio, il cui titolo originale era Esame della Storia, e dei suoi vantati pregi, vide la luce due anni dopo che C. l'aveva consegnato alla stamperia Roveri e Casali. La seconda e la terza edizione uscirono a Napoli. C., Memorie storiche della Repubblica di S. Marino. Cfr. M. Agrimi, La vicenda rivoluzionaria e le riflessioni sulla storia: Melchiorre Delfico, in «Itinerari», Cfr. GENTILE (si veda), Dal Genovesi al Galluppi, Edizioni della «Critica», Napoli, il quale afferma che nessuno prima di allora aveva negato la storia nel modo assoluto del Teramano. Un estremo radicalismo nell'«antistoricismo» delficino è stato rilevato anche da CROCE (si veda), La storiografia in Italia dai cominciamenti del secolo decimonono ai giorni nostri: 1. Il «secolo della storia»  e  2. Il nuovo pensiero storiografico, in «La Critica», rielaborati nel volume Storia della STORIOGRAFIA ITALIANA, Laterza, Bari, e da RUGGIERO (si veda), Il pensiero politico meridionale, Laterza, Bari. C., Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, in Opere complete. Il titolo per esteso dell'opera è Leçons d'histoire, prononcées à l'École Normale en l'an III de la République française, par C.-F. Volney, chez J.A. Brosson, Paris. Sull'affinità di vedute dei due autori, cfr. Rosso, De Volney à C.: l'histoire, une discipline aussi inutile que dangereuse, in L'héritage des lumières: Volney et les idéologues, Angers, C. Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima, Opere complete. Delfico, Pensieri su l'istoria e sull'incertezza ed inutilità della medesima. Porcelli, Napoli, Epoca. Grimaldi si era rivolto all'amico teramano per avere notizie sull'esistenza nella Marsica moderna di antiche costumanze di carattere ofidico e su eventuali relazioni tra queste e i rituali moderni. La Lettera delficina venne ricordata nella recensione al volume di Grimaldi, Nuovo Giornale enciclopedico» per mano, molto probabilmente, del suo principale estensore Alberto Fortis.  Per un esame critico del testo, riprodotto in appendice, cfr. G. Profeta, Una ignorata dissertazione di Melchiorre Delfico sugli incantatori di serpenti, in «Lares, ora anche nel volume Lupari incantatori di serpenti e santi guaritori nella tradizione popolare abruzzese, Japadre, L'Aquila-Roma. Lo scritto, ideato e posto come prefazione alle ancora inedite Favole morali di Alessio Tullj, è stato pubblicato da A. Marino, in «Aprutium»; C., Discorso sulle favole esopiane, Lettera ad Onofri, in F. Balsimelli, Epistolario di Melchiorre Delfico. Lettere sammarinesi, Arti  grafiche Della Balda, San Marino. Sull'attività del Teramano nell'amministrazione francese, cfr. G. Palmieri, Melchiorre Delfico e il decennio francese, Edizioni del Gallo Cedrone, L'Aquila 1986, il quale riproduce in appendice alcuni scritti delficini del periodo; R. Feola, La monarchia amministrativa. Il sistema del contenzioso nelle Sicilie, Jovene, Napoli Ora in Opere complete. Ora in Opere complete. Ripubblicate nelle Opere complete, le Nuove ricerche sul Bello sono state recentemente riedite a cura di A. Marroni, Ediars, Pescara. Per un quadro d'insieme dell'attività amministrativa e dell'opera legislativa dei Napoleonidi nel Regno napoletano, oltre al volume, notevolmente arricchito e ampliato rispetto alla prima edizione, di A. Valente, Gioacchino Murat e l'Italia meridionale, Einaudi, Torino, cfr. Villani, Il decennio francese, in Storia del Mezzogiorno, vol. IV, t. II, Il Regno dagli Angioini ai Borboni. Spunti critici anche in Studi sul Regno di Napoli nel decennio francese, cur. Lepre, Liguori, Napoli. Rimasto inedito, il testo finale è tuttora irreperito ma di esso si conservano due stesure pubblicate da A. Marino, Scritti inediti di Melchiorre Delfico, Solfanelli, Chieti, C., Osservazioni sopra alcune dottrine politiche del Segretario fiorentino. Cfr. N. Machiavelli, Istorie fiorentine, in Opere di Niccolò Machiavelli Cittadino e Segretario fiorentino, Italia. Cfr. MACHIAVELLO [si veda], Discorsi sopra la prima deca di LIVIO [si veda], in Opere, Opere complete. L'opera, notevolmente ampliata, fu ristampata a Napoli nel 1826, per i tipi di Angelo Trani, col titolo Dell'antica Numismatica della città di Atri nel Piceno con alcuni opuscoli su le origini italiche, ora in Opere complete. Pubblicati nelle Opere complete, i due testi sono stati riediti da Carletti, La Pescara di C.. C., Breve cenno. C., Fiera franca in Pescara, Breve cenno. Ora, tradotto, in Opere complete, Rapporto sull'Italia inviato a Napoleone e attribuito a C. C., Della preferenza de' sessi. Lettera a Simonetti, pubblicata a Siena ed ora in Opere complete. Cfr. la lettera di Delfico a Dragonetti dell'8 marzo 1834, in Spigolature nel carteggio letterario e politico di Dragonetti. Cfr. G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Per un quadro d'insieme di queste esperienze, cfr. il volume di D. Carpanetto, Ricuperati, L'Italia del Settecento. Crisi, trasformazioni, lumi, Laterza, Bari, e la ricca bibliografia in esso contenuta. Per una ricognizione degli studi delficini, cfr. Carletti, Recuperi, oblii e prospettive. Per una storia critica della storiografia delficina, in «Trimestre», Saggio filosofico sul matrimonio, segnato nell'indice de' libri  proibiti, INDIZI di morale, proibito prima di pubblicarsi. Discorso sullo stabilimento della milizia  provinciale. TeramoMemoria sulla coltivazione del riso nella  provincia di Teramo  Napoli  Porcelli Elogio del marchese D. Francescantonio  Grimaldi . Napoli, presso Orsino Memoria sul tribunale della grascia e  sulle leggi economiche nelle provincie confinanti  del regno. Napoli presso  Porcelli. Memoria sulla necessità di rendere uniformi i pesi e le misure del regno. I. voi. iti  4 * Napoli presso Porcelli. Memoria su’ regii stucchi , o sia su la  servitù de’ pascoli invernali nelle provincie ma-  rittime degli Àpruzzi, Napoli; Discorso sul tavoliere di Puglia e su la  necessità di abolire il sistema doganale presente  e non darsi luogo ad alcuna temporanea rifor-  ma, Napoli; Memoria per la vendita de’ beni dello  Stato d’Atri. I. yol. in 4 * Napoli, stampata una col reai dispaccio di approvazione. Riflessioni su la vendita de’ feudi umi-  liate a S. R. M. Napoli, presso Porcelli . Ricerche sul vero carattere della giu-  risprudenza romana e de’ suoi cultori, Napoli, presso Porcelli, ristampato in Firenze ed in Napoli; Lettera di Cantalupo su feudi, Napoli Memorie storiche della repubblica di  San Marino, Milano dalla  tipografia di Francesco Sonzogno .  Memorie sulla libertà del commercio :  ( stampate nella Collezione de classici italia-  ni di Economia politica : parte moderna : Milano i Pensieri su la storia e su la incertezza  ed inutilità della medesima, Forlì. Pensieri sopra alcuni articoli relativi  all’ organizzazione de’ tribunali: stamperia reale di Napoli. Lettera a Selvaggi sulla Tragedia. Pubblicata dal Giornale enciclopedico di Napoli An. Nuove ricerche sul Bello. Napoli. Ricerche sulla sensibilità imitativa con-  siderata come il principio tìsico della sociabilità  della specie , e del civilizzamento de’ popoli e  delle nazioni ( Memoria letta nella reale Ac-  cademia delle scienze di Napoli il: pubblicata tra gli Aiti della medesima Napoli, insieme alle altre due seguenti Memorie. Memoiia su la perfettibilità organica  considerata come il principio fisico dell’ educa-  zione , con alcune vedute sulla medesima : Seconda memoria sulla perfettibilità  organica ec. Ragionamento su le carestie, letto  nell ’ Accademia delle Scienze di Napoli , e pubblicato negli Atti della  medesima voi. II. Napoli.    Poche idee su V accusa de' ministri .  Pubblicate in uno de' giornali costituzionali di  Napoli. Dell* antica numismatica della città  d’ Atri nel Piceno con un discorso preliminare  su le Origini italiche ed un appendice su’ Pelasgi ed i Tirreni, Teramo, con tavole in rame .Rischiarimenti ad alcune osservazioni fatte dal  Micali su la stessa , e di una Lettera a Zuroli su le antiche ghiande missili di  piombo, Napoli, dalla  tipografia di Angelo Trani : con più tavole in  rame .   27 Della preferenza de’ sessi. Lettera a Simonelti. Siena, Ristampata in Napoli insieme ad alcune poesie del  Conte di Longano. Lettera all’ autore delle Memorie intorno i letterati e gli artisti ascolani. ( Stampa-  ta in fine delle stesse Memorie, Ascoli. Espressioni della parlicolar riconoscenza  della provincia e città di Teramo dovuta alla  memoria dell’ immortai Ferdinando I. Annali civili del regno delle due  Sicilie Inforno a’ dritti sovrani di Napoli sul-  la città di Benevento. Memoria. Intorno a’ diritti sovrani di Napoli sul-  la città di Ascoli. Memoria.  Lettera a' fratelli sulla eruzione del  Vesuvio Estratto ragionevole del trattato degli  animali. Lettere sulla cavalleria ed i romanzi. Lettera al sig. Michele Torcia sul  tratto di paese che si estende dal Fortore al  Tronto. Supplemento alla Memoria su la gra-  scia , per rapporto all' estrazione degli animali  vaccini . Memoria per lo ristabilimento del tri-  bunale collegiato nella provincia di Teramo .  Memoria per lo stabilimento d’ una uni-  versità in Teramo. I titoli in carattere corsivo sono per quegli scritti che  1’autore lasciò senza una denominazione . S’ intende per lo più di pagine scritte, come si dice,  alta spagnola, ossia nella sola metà. Pel resto si troverà sod-  disfacente spiegazione nel prosieguo del libro . Su' danni de' terremoti in Calabria  nel iy 83 . - 0 sii ministro Corradini sulle maioliche  de' Castelli. Lettera. Appendice al discorso sul Tavoliere di  Puglia . Sull’ aumento de' soldi a.' magistrati  nel iygo; Estratto ragionato del Saggio analiti-  co su le facoltà dell’ anima di Bonnet.  Seconda Memoria sulla vendita de’beni allodiali. Breve Saggio su l’ importanza di abo-  lire la giurisdizione feudale , e sul modo di eseguirlo. Supplemento alla Memoria pe’ regii  stucchi .Degli Appalti. Memoria. Per la città di Teramo intorno d  beni dell' abolito convento di Agostino.  Memoria per la decima impesta al regno .  Memoria intorno a’ danni sofferti nella  provincia di Teramo dalla cattiva monetazione  dello Stato pontificio, e de’ mezzi opportuni da  ripararli. Osservazioni su la nuova monetazione   dello Stato papale per rapporto al commercio  delle provincie confinanti del regno . Discorso sulle Scienze morali, pag. ira.  Novena di San Marino . Intorno all’ imposizione per la caccia , ( Questo ed i selle seguenti scritti si  suppongono composti in Napoli dal Rapporto alla reai società d’ incorag-  giamento sul progetto di stabilire nelle provin-  cie del regno altre società simigliatiti , Considerazioni sul debito pubblico, e   su’ beni nazionali relativamente alla legge; Breve esame dell’ indole delle dogane  interne; Rapporto per gli stabilimenti di uma-  nità e di pubblica beneficenza Osservazioni su d’ un progetto d’ istruzione pubblica Sulla tassa fondiaria . Osservazioni sulle procedure criminali  die si chiamano Nullità. Parere intorno ad un’ opera del Sig.  Biie D. Davide JV'uispeare , intitolata : Storia  degli abusi feudali. Delle cause perchè siano molto scar-  si i buoni scrittori . Opuscolo,  Lettera sulla imputabilità de’ muti. Pochi cenni su’fondamenti delle Scienze morali. Discorso letto nella reale Accademia delle Scienze di Napoli nel iSlij , e de-  stinato a stamparsi nel voi. III. degli Aiti  della medesima , insieme al seguente Opuscolo ) .Sulla necessitò di cangiare i metodi  d’ istruzione usati in Europa . Alla Giunta preparatoria del Parlamen-  to nazionale . Allocuzione . Memoria in favore di alcuni impie-gati destituiti Osservazioni sopra alcune dottrine po-  litiche del Secretano fiorentino. Proposta di alcuui mezzi economici per  supplire agli attuali bisogni dello Stato. Deli’ importanza di far precedere le co-  gnizioni fisiologiche allo studio della filosofia  intellettuale . Discorso ( mandato alla reale  Accademia delle Scienze di Napoli. Elogio in morte della Duchessa di  S. Clemente . Lettera al Cav. e Ferri. Lettera in difesa de' Pensieri sulla Sto-  ria e sulla incertezza ed inutilità della medesi-  ma , per risposta alle obiezioni di Amaury D revai pubblicate nel Mercurio straniero tom . A  ( Questa lettera , e tutti gli altri scritti che  seguono nella presente classe furono compo-  sti dopo V ultimo ritorno dell' Autore in Apruzzo ) Sulle origini ed i progressi delle So-  cietà ossia Saggio filosofico sulla storia del  genere umano Proposta di alcune riflessioni sulla filo-  sofia medica ed intellettuale. Opuscolo, Giudizio sulla storia fi losofica di Da -  miron. Lettera. Lettera su cF un manoscritto comuni-  cato , riguardante politica. Due biografie di se stesso; Delle cagioni per le quali il civilizza-  mento non ebbe molti progressi . Opuscolo Sulla perfettibilità. Sulla guerra. Lettera, pag, 8.   82 Sulla medicina omiopatica . Lettere  due. Sulla dottrina medica di Samuele  Hanhemann. Memoria sul riso secco cinese, Sullo stesso argomento . Lettera al  Mse. Tommasi. Sullo stesso argomento. Lettera polemica. De' confini del regno di Napoli nella  linea del Tronto ; ossia : Sugli antichi confi-  ni del regno, Sugli stabilimenti di beneficenza. Lettere. Élen^UtmlnìxU Catechismo di moral ; civile , ossia  trattato pratico de’ doveri del cittadino. Del dritto naturale delle genti , ossia  della morale delle nazioni, Sistema di ragione e benevolenza uni-  versale. Sull’origine de’ popoli, Sulle Capitali. Opuscolo, Degli affari fiscali. Memoria. Sulle proprietà. Sugli stabilimenti di umanità, Deir unione della Ideologia colla Fi-  losofia. Dissertazione, Dell’ eguaglianza de’ diritti delle donne , considerati specialmente nelle successioni,  Distinzione fral merito c la gloria.  Dritti politici e dritti civili, Sul quesito : Quale sia il miglior  de governi per 1'Italia? Opuscolo; Ricerche su le teorie fisiche della ragion degli Stati , o sia de’ veri principi della  Politica, Delle leggi e del regimento de’ comu-  ni. Sulle leggi forestali. Discorso, Sulla vociferata abolizione della provincia di Teramo . Memoria. Ricerche su le leggi coniugali , considerate ne’ rapporti da’ quali devono sorgere ,  nelle cause produttrici , e negli efl’etti inorali  e civili; Sulla Vita e la Vitalità, Della specificità in medicina. Pensieri; Osservazioni sull’opera intitolata De’principi della scienza etimologica. Saggio filosofico su la guerra e su la  pace. Igiene. Fritmmitttt iti Di ciò che si chiama quadro dello  stile. Su ORAZIO (si veda). Critica, Pensieri divèrsi filosofici e letterarj. Qualche osservazione sull' opera di  Neker Sur 1 ’ administration; Del Vesuvio; Del tempo musico e filosofico, Idea d’ una legislazione, Per le origini civili, Alle nobili fanciulle mie concittadinc. Prefazione per una raccolta di aneddoti. Sulla Città di Reggio, Sul travaglio. Progressi dello Spirito - Orgoglio na-  zionale - Viaggiatori - Filosofia - Eccesso di  tipografia; Su’ pastori. Saggio sull’ adulazione (Progetto di  un'opera ). Ricerche storico-filosofico-poliliclie su la nobiltà (Progetto di un'opera ) .Istoria dell’ anima. Sugli ospedali. Molti pensieri non  legati. Progetto d’ un nuovo giornale delle  mode. Notizie su le opere impresse nel pri-  mo secolo della stampa , per ordine alfabetica. Qualche pensiero di dritto pubblico,  Delleraccomandazioni. Articolo morale. Considerazioni su’ magistrati municipali. Della Solitudine, Qualche osservazione sulle Lezioni  di Filosofia de Laromiguiere. Qualche osservazione sull’ opere fisiologiche di Spurzheim. Della civiltà, Catechismo universale. Della ragion di stato, Estratto della politica d’ Aristotile.   Morale nelle leggi,   Piano di scienze morali. DELL’ origine e SIGNIFICATO della parola   morale, e delle varie applicazioni della medesima Frammenti diversi sulle Leggi,  Osservazioni sulla risposta di Serbatti ad una lettera del cav. Monti  sulla lingua italiana, Esame de' classici italiani, Su' trecentisti, Romantici Osservazioni sull ’ opera di Lemercier riguardante i teatri, Osservazioni sul passato secolo ad uti-  lità del presente Viste politiche e morali sugli effetti  della rivoluzione Frammenti diversi sugli affari politici L’ obolo della vedova . All’ Italia Qualche ossen’azione sopra alcune  espressioni di Romagnosi. Rapporto storico su’ progressi delle  Scienze naturali, pag. io.  A Jannelli.  Dell’uso vero della Storia, Meditazioni d’ un solitario che vive  in mezzo alla società. Sull’Inghilterra. Sopra un libretto che riguarda la  divozione pel Sangue di Gesù-Cristo  Miscellanea di cose Jìsiologiche .Miscellanea di cose economiche .Miscellanea di cose filosòfiche Miscellanea di cose politiche. Il cavaliere Commendatore Melchiorre dei Marchesi Delfico. Melchiorre III Delfico de Civitella. Melchiorre Delfico. Civitella. Civitella. Keywords: giurisprudenza romana, sul bello, estetico, 'l’estetico, l’imitazione della natura, naturale, contra-naturale, non naturale -- l’espressione. La storia romana, incertezza e unitilita – la giurisprudenza romana fino alla caduta della repubblica, aristocrazia versus benevolenza, benevolenza conversazionale tra iguali. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Civitella” – The Swimming-Pool Library.

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