Grice e Conti: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale VIRGILIANA – La nudità eroica
d’Enea -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice:
“Conti is a good one – he reminds me of Bosanquet and Pater – the decadents in
Italy came AFTER them at Oxford! Conti philosophised on many aesthetic
subjects, such as man, masculinity, and maleness --!” Di una famiglia
originaria di Arpino, dove frequenta il locale liceo. Si ccupa di filosofia
estetica. D'Annunzio lo cita nel “Giovanni episcopo” e si ispira a lui per ‘Daniele
Glauro’ in “Il fuoco”. Insegna a Firenze presso la Galleria degli Uffizi ed a
Venezia presso l'Accademia di Belle Arti. Saggio: “Zorzi; o Giorgione –
l’estetica di Zorzi” -- Tornato a Firenze, “La beata riva”, raccolta di saggi
che delineavano la sua concezione critica ed estetica, ispirata dichiaratamente
a Platone, Kant e Schopenhauer. La prefazione fu curata d’Annunzio, il quale
scrive di stimare molto Conti e di ammirare il suo “ascetismo” estetico. Direttore delle Antichità di Roma. Direttore
della Reggia di Capodimonte a Napoli. Si ispirò alla poetica del filosofo
oxoniese Pater e Ruskin. Altre saggi: “Giorgione,
Firenze, F.lli Alinari, “Catalogo raggionato delle regie gallerie di Venezia,
Venezia, Tip. L. Merlo); La beata riva, Milano, F.lli Treves); Sul fiume del
tempo, Napoli, R. Ricciardi); “Dopo il canto delle Sirene, Napoli, R.
Ricciardi); Domenico Morelli, Napoli, Edizioni d'arte Renzo Ruggiero); “San
Francesco, con un saggio di Giovanni Papini, Firenze, Vallecchi); “Virgilio
dolcissimo padre, Napoli, R. Ricciardi). Praz nota che Parodi era solito
leggere La beata riva di Conti prima di addormentarsi; quando morì, la lettura
non era stata ancora terminata. Dizionario
Biografico degli Italiani, Forme del tragico nel teatro italiano. Modelli della
tradizione e riscritture originali,Romantici, vittoriani, decadenti – filosofo
decadente – decadentismo -- e museo dannunziano, in Bellezza e bizzarria – il
bello e il bizzarro., Croce, La letteratura della nuova Italia, Marcello
Carlino.C., Due conviti di Mattia Preti, Bollettino d'Arte. Io vengo dal
mare di Napoli e sono tornato qui a rivedere la primavera. Non c'è nessuna
altra città in cui, come in questa, il rifiorire degli alberi e delle siepi si
accordi con la giovinezza delle opere del genio umano, nessuna ove, come qui,
la Primavera sembri rimanere per un istante velata, per poi riapparire pili
fulgida e piìi lieta, al ritorno dei venti che spirano dalle colline e recano i
nuovi fiori. Sono anche giunto fra voi, per parlarvi della pittura di Leonardo.
Ma il mio compito, dopo la lettura deirillustre scrittore francese che m' ha
preceduto, sarebbe oggi, non dico diffìcile, ma quasi vano, se le mie idee
fossero affini alle sue ed egli fosse vicino al mio pensiero come io sono
vicino al suo aff'etto per questa nobile terra toscana, ove l'arte ha
continuato la grazia gentile e la pura bellezza della natura. Diversità di
pensare e anche d'immaginare mi rendono oggi possibile esprimere qualche cosa a
voi forse non detta, e combattere qualche affermazione troppo lontana dalla mia
sicura fede. Leonardo è il discepolo del Vermocchio. Ora, che cosa poteva egli
apprendere dal suo grande maestro? Non certamente l'arte, la quale non si
apprende e non si insegna. Quale uomo, che sappia che cosa è l'arte, potrà mai
pensare alla possibilità di creare con l'insegnamento un pittore, un musicista,
un poeta? La natura sola genera gli artisti, e l'uomo al pili può aiutarli a
trovare i mezzi d'esprimere la parola ch'essi son destinati a pronunziare nel
mondo. Il maestro, al discepolo suo, nato artista, può dire: " Il tuo
cuore è impaziente d'indugi, tu sei nato per il canto o per la espressione
plastica o per la espressione mediante il colore della tua gioia o della tua
amarezza; guarda, ecco il dizionario che contiene le parole di ogni umano
discorso, ecco la tavolozza sulla quale io appresi a mescolare i colori che
imitano la bellezza del cielo, della terra e del mare; ecco in qual modo si
modella la creta, affinchè dall'informe materia apparisca viva dinanzi a noi l'
immagine dell'uomo. Questi sono i mezzi, che io ti posso indicare; ma il discorso,
il canto, il soffio debbono essere tuoi, né io te li posso insegnare „. Ogni
opera d'arte è, rispetto alle opere precedenti, una cosa diversa e nuova, nella
quale, se pure sono entrati, alcuni elementi precedenti e preesistenti, hanno
mutato natura, si sono trasformati in parti di quel tutto inatteso e prodigioso
che si chiama la creazione artistica. Chi non sa che in Leonardo appare un'
immagine del sorriso che si mostra appena accennato sulle labbra del giovinetto
Davide del Verrocchio? Si, appare, ma è un riHesso che illumina un altro mondo;
poiché questo riso, ricomparendo dalle labbra dell'eroe adolescente sul viso e
negli occhi della Gioconda, diviene il mistero della seduzione femminile, una
grazia insidiosa e un periglio, un'armonia che nasce dall'espressione d'iin
volto, si diffonde verso il paese lontano e attira il contemplatore. Il sorriso
verrocchiesco è in Leonardo come nn brano di Plutarco in Shakespeare. Or chi
oserebbe dire che l'immortale tragico inglese derivi da Plutarco? Leonardo e il
Yerrocchio sono due artisti assolutamente distinti, che parlano un linguaggio
interamente diverso e che, se somigliano esteriormente in qualche cosa, hanno
due anime quasi opposte, chiusa l'una nella sua idea di bellezza e di stile,
l'altra aperta a tutte le manifestazioni della natura e della vita, in una
continua ansietà di fissarne l'immagine mutevole con la semplicità del segno
rivelatore. Noi viviamo pur troppo in un triste momento della vita, poiché la
maggior parte degli uomini ai quali parliamo non sanno che cosa sia l'arte, e
lo Stato crede a chi meno vede. Non è forse ancora possibile vincere una così
detta scuola di critica scientifica, fondata sull' errore già accennato e
chiusa nella rete del pregiudizio cronologico. A coloro che ancora credono alle
influenze sugli spiriti geniali e alla necessità in arte di una classificazione
come in botanica, noi possiamo trionfalmente rispondere con Leonardo che
l'artista genera le sue opere qual fanno le cose. Egli deve creare come fa la
natura, e le sue opere superare e cancelUxre i segni del tempo che passa. Un
quadro, una statua, un edifizio debbono nascere come le selve e apparire come
le albe. Or chi penserà all'epoca d'una primavera o d'un ciclo stellato? Non
c'è opera d'arte geniale che venga per noi dal passato lontano, come non e' è
indizio di vetustà nelle montagne e nella aerea architettura delle nubi.
Dinanzi all'umanità che passa, il genio si ferma e rende eterna la sua traccia
come è nel cielo il cammino delle stelle. Avete udito il canto dcirusignolo? Lo
riudirete in tutte le primavere. Il genio vi farà sempre udire la sua voce
fresca e giovanile come nella stagion nuova della terra il canto dell'usignolo.
Aprite Virgilio: ecco, è l'alba e cantano le allodole, è una notte serena, e
l'uomo si perde nella luce lunare. Aprite Dante, e siete nell'eternità della
vita. Ivi nulla dilegua, nessuna cosa invecchia o perisce, e noi stessi,
-accanto a quelle grandi anime, siamo per un istante fuori del tempo. Questo
momento di liberazione provai per la prima volta alcuni anni or sono a Milano,
trovandomi dinanzi alla Cena, nel convento di Santa Maria delle Grazie. Vidi il
capolavoro nella medesima ora indicata dalla luce clie lo illumina dal fondo,
tanto che mi fu d'un tratto facile superare i mille e piìi anni passati e
trovarmi presente alla scena Gesù era seduto nel centro del convito e da poco
avea prò nunziato le parole: qualcuno di voi mi tradira. I convitati a destra e
a manca s'erano ritratti e aggruppati in tumulto lasciando nel mezzo Gesù solo,
con la sua tristezza infinita La sala era piena di gesti concitati e di ansiose
interrogazioni. Il Maestro solo era calmo e la sua figura, sul paese che gli
s'apriva lontano alle spalle, era immobile. Ma qual dramma in quella immobilità
! Mentre la sua mano destra, lievemente contratta, esprimeva un istante di
ribellione e come un istintivo moto d'ira, la sinistra nel momento successivo
s'abbandonava col dorso poggiato sulla tavola e le dita allungate, esprimendo
la rassegnaziona e il perdono. Gli occhi abbassati non guardavano e non
vedevano nulla di ciò che era presente, ma contemplavano internamente il grande
spettacolo del dolore e della miseria umana, mentre la sua anima sembrava
essersi già rifugiata in quel fondo di paese luminoso e lontano, dove abitavano
una grande speranza e una eterna pace. Nessun uomo avevo veduto mai così solo
come Gesù in mezzo a quel tumulto. Era un'isola in mezzo a un mare procelloso.
Le onde fragorose del tempo, che travolgono^ uomini e cose, mi avevano forse
spinto ad approdare ad una riva ove splendono i fiori eterni della vita? Mai
infatti, come quel giorno, ebbi, per virtìi dell'arte, la visione della vita,
in un oblio piti completo. Quando il custode del Cenacolo venne ad annunziarmi
Fora della chiusura, io riudii nuovamente, dalla strada vicina, il rumore delle
carrozze e il rombo dell'esistenza; e ritornai fra gli uomini. Pochi anni or
sono Annunzio scrisse una bella pagina di poesia per rimpiangere la rovina del
Cenacolo. Voi infatti sapete, che, come della antica e celebrata pittura dei
greci, fra pochi anni della Cena vinciana non resterà se non il ricordo ^ Il
doloroso avvenimento non ^ Questo studio su Leonardo lìiitore era già stato
scritto, quando fu compiuta in Milano dal pittore prof. Luigi Cavenaghi l'opera
di ristauro del Cenacolo, salutata da tutti i cultori ed amatori d'arte con
gioia e gratitudine. Il Cenacolo, compiuto da Leonardo nel 1497, cominciò ben
presto a guastarsi; ì primi provvedimenti per salvare il capolavoro risalgono
al cardinale Borromeo, poi nei secoli si susseguirono alternative di lunghi
abbandoni, di fallaci rimedi empirici, di studii incompleti e riparazioni
deturpatrici, fin che il prof. Cavenaghi fuincaricato delle ricerche
scientifiche e tecniclie che, precisando le cause e l'entità dei guasti,
portassero ai rimedii più efficaci. Egli trovò — sono sue parole riprodotte
naìVIllustrazione Italiana, n. 41, dell'I 1 ottobre 1908 — che il dipinto,
coperto da polvere di secoli, si screpolava e la crosta di colore si
sollepoteva non commuovere e non far riapparire la visione tragica del fato
clic incombe sui capolavori. Ma è forse una illusione. In realtà la natura non
distrugge ne i fiori o le selve della terra ne le opere del genio: la Minerva
criselefantina di Fidia è passata dall'avorio e dall'oro nelle pagine immortali
dei poeti e nella eterna memoria degli uomini. Quando un capolavoro scompare,
noi non dobbiamo pensare che il tempo lo abbia distrutto, ma semplicemente che
si sia oscurato lo specchio che ci proiettava la sua imagine nel tempo e nello
spazio. Nella profonda unità dell'anima umana, clie rende i poeti e i filosofi
simili ai figli d'una madre sola, l'ispirazione da cui esso nacque riman pura e
vivente come una forza della terra non ancor vestita della sua forma. Se avessi
la virtù del canto, vorrei lodare e far comTava dall'intonaco, a squame di
varia misura, di modo clie parecchie di quelle i grandi, accartocciandosi,
formavano altrettante sacche che si riempivano con al- tre piccole squamette
che vi cadevano dall'alto. Vuotare ad una ad una le sac- che senza scuoterle,
senza quasi toccarle, mediante una pagliuzza resa attaccaticcia da una sostanza
adatta, poi fare aderire le sacche e le croste all'intorno, togliendone, con un
certo liquido dal Cavenaghi ideato, la polvere alla superficie, questo
sostanzialmente fu il lavoro paziente, mirabile, nel quale, per più di due mesi
durò il Cavenaghi, rendendo più tonica la fibra in isfacelo, facendole riac-
quistare un po' di colorito, così che il dipinto non debba peggiorare e possa
vi- vere ancora a lungo, con infiniti riguardi ed amorose cure. Ma — disse il
Cavenaghi — sarà sempre un organismo precario, e per le condizioni sue, pieno
come è di cicatrici, e per l'ambiente. Ad ogni modo questo del Cavenaghi è
•stato pel Cenacolo Vinciano il ristauro essenziale, decisivo, nei secoli; e
grandi manifestazioni di gratitudine ed ammirazione sono state tributate
all'assoluto disinterewse, pari all'amore grande per l'arte, spiegati dal
benemerito ristauratore, al quale Caravaggio, sua terra natia, ha consacrato
una targa artistica a memoria del fatto; ed i cultori ed amatori d'arte,
auspice Luca Beltrami, gli hanno conferita, davanti al capolavoro vinciano, una
bellissima medaglia d'oro. Il prof. Cavenaghi inoltre è stato chiamato dal
Papa, in sostituzione 4el defunto prof. Seitz, all'onorifico ufficio di
direttore delle pinacoteche vaticane. prendere la vita maravigliosa che il
Cenacolo leonardesco chiude nella sua rovina. Come la rovina d'ogni cosa
grande, essa equivale ad una purificazione e ad una apoteosi. Finche resterà un
sol frammento della parete prodigiosa, finche un sol disegno, una sola stampa,
una sola fotografia, custodiranno un riflesso lontano della sua bellezza,
quella creazione del genio sarà per noi piìi potente che se il tempo e gli
uomini l'avessero rispettata in tutte le sue parti caduche. E un errore credere
che il tempo non rispetti i capolavori; e noi molto spesso parliamo, spinti
dall'abitudine, contro l'eterna verità delle cose. Il tempo, artista
maraviglioso, è il solo degno collaboratore del genio umano. Dove sembrava che
l'opera geniale sì fermasse, egli la continua, mutilandola: dove appariva ciò
che è chiuso e preciso, egli apre una via infinita all' imaginazione; dov' era
un aspetto freddo e muto della realtà, egli fa nascere i segni del mistero. Ciò
che sembra una distruzione e invece una rivelazione e una consacrazione. E la
natura che riprende l'umana opera interrotta, che fa apparire la sua forza dove
la mano dell'uomo cadde stanca, e che, dove l'ispirazione di questo si oscurò e
si confuse, fa cantare le sue eterne aspirazioni. Ma non bisogna lodare il
tempo soltanto per le sue rovine; è necessario esaltarlo anche per tutte le
opere d'arte che, in compagnia del fato e della umana malvagità, ha impedito di
compiere al genio umano. Alludo principalmente alle cosi dette sculture non
finite di Michelangelo e ad un quadro, che è ancora considerato un abbozzo, di
Leonardo. Come i capolavori in rovina appariscono vicini a rientrare Leonardo
da Vinci.Conti, Leonardo pittore nella iiuiversalitìi della vita, i capolavori
incompiuti seml)rano usciti da poco dal seno stesso della natura. L'artista ne
segnò l'imaginc non fra i tormenti del lavoro consapevole, ma come in sogno,
obbedendo ad una volonth oscura che per qualche istante abolì la sua volontà
individuale. Poche tracce di pentimenti in quei primi segni, ma l'espressione
d'una beata obbedienza, come di chi si affidi al mare, e una ricchezza e una
esuberanza di vita uguale a quella di cento uomini felici. * Mi limito a parlarvi
del quadro di Leonardo, oggi nella Galleria degli Uffizi, e che rappresenta
l'Adorazione dei Magi. La prima cosa che ci colpisce è il movimento. Noi
sentiamo subito che il pittore ha voluto rappresentare un avvenimento
straordinario, un grande fatto della natura e della vita. Quasi tutte le figure
vanno, strisciano, accorrono verso la parte centrale della rappresentazione,
ove si fermano prostrate e come atterrate dallo stupore e dalla maraviglia. Fra
i gruppi in movimento, alcune figure stanno diritte e immobili a guardare la
scena. Nel centro una calma assoluta. La Madonna vi appare seduta in una
attitudine piena di grazia materna, e sulle sue ginocchia il bambino si china e
protende una mano per toccare il 'dono che un vecchio genuflesso gli porge. Intorno
si raccoglie e si concentra tutto ciò che nel quadro raggiunge la maggiore
intensità d'espressione e la maggior forza di vita. Questi vecchi che vengono
da lontano, guidati dal mistero, sono una Conti, LeonarJo j)ittore 91 fra le
più potenti creazioni del genio umano. Tutta la scena, piena della loro
commozione e del loro sbigottimento, sembra irradiare come un vento di tempesta
che, dall'anima dei vecchi, giunga sino ai punti piti lontani del quadro. Ed
ecco che noi vediamo gli effetti dell'onda invisibile. Dietro il gruppo
centrale è un accorrere disordinato di gente: uno ha le mani levate e grida
come per un ignoto pericolo, un cavaliere non riesce a contenere lo spavento
del suo cavallo, altri gruppi di cavalli nel fondo appariscono spinti dalla
furia d'una battaglia; qua e là, sotto archi crollati, uomini che corrono e
s'interrogano ansiosi, altri che salgono discendono a frotte e smarriti per una
gradinata. Si sente che un grande avvenimento si compie, e per tutta l'ampia
scena notturna è diffusa l'atmosfera del miracolo, come in un giorno sereno la
luce del sole sulle campagne. E questa è appunto l'idea che Leonardo ha
espressa nel suo quadro con una potenza e una eloquenza suprema. Mai infatti,
sino a questi anni, la pittura aveva rappresentato il miracolo, mai lo stupore
e il terrore di ciò che sembra turbare le leggi della natura e far presentire
agli uomini un rinnovellamento del mondo, erano stati resi visibili nell'opera
d'arte. Leonardo, con questa composizione sintetica, con questo semplice suo
disegno a chiaroscuro, nel quale non un sol particolare h compiuto, è riuscito
a rappresentare il miracolo come non sarebbe stato possibile con l'opera piìi
meditata e più coscienziosamente finita. E la ragione mi sembra questa. Vi sono
idee e sentimenti che le arti plastiche non possono rappresentare se non con
mezzi somraarii, se non giovandosi di ciò che comiincmcnte si chiama V
incomplitto. L' incompiuto è spesso un mezzo meraviglioso dì espressione per il
genio umano; è, a rovescio, il mezzo stesso che la natura adopera per
purificare e per consacrare nei secoli i capolavori degli uomini. In questi la
natura procede per eliminazione, nell'opera rimasta incompiuta il genio lavora
in uno stato di concentrazione suprema. Li^ Adorazione dei Magi non solo rappresenta
un miracolo; ma è essa stessa un'opera miracolosa. La notte che vi si addensa è
piena di luce per l'anima umana. Fra tutti i quadri della Galleria degli Uffizi
è il più vivo, il piìi drammatico e il più profondo per significazione.
Continuando per voi la enumerazione delle opere pittoriche vinciane e per
mostrarvi che, come allora mi fu possibile liberarmi dal tempo, posso anche
oggi, e mi piace, spezzare le catene della cronologia, passerò a parlare della
Gioconda. La vidi alcuni anni or sono, e feci, quasi per lei sola, il mio
pellegrinaggio da Firenze a Parigi. Quando entrai nella pinacoteca del Louvre,
la giornata era grigia e le sale quasi in una penombra. Nella sala dei
capolavori gli occhi delle figure dipinte da Tiziano, da Raffaello, da
Yelasquez mi guardavano fiso. Cercai la Gioconda, corsi verso di lei. Entro la
fioca luce indovinai il sorriso e sentii il fascino dello sguardo; vidi anche
il candore del seno. Ogni altra cosa era indistinta. In una pinacoteca non è
possibile abbandonarsi all'oblio, Angelo Coxti, Leonardo piUore 93 come in una
chiesa o in nn cenacolo. Coloro che entrano a visitare le collezioni dei
dipinti vanno per lo più a fare confronti, ad osservare particolari, a cercare
note caratteristiche, e portano con sé libri e fotografie. Io, qnando mi
dispongo ad andare o a tornare al cospetto d'nn capolavoro, m'affatico a
togliermi di dosso ogni peso, affinchè mi sia dato procedere con passo leggero
e mi trovi dinanzi all'opera geniale, con l'anima semplice e serena. Sono abituato
a contemplare un quadro, come se fosse una costellazione. Nella notte ir cielo
è pieno di silenzio e le stelle splendono armonizzando ciascuna il suo ritmo
alla musica del cielo. Guardando gli occhi di Monna Lisa del Giocondo, li vidi
palpitare in ritmo, in armonia con la musica del suo sorriso. Il quadro m'era
ancora ignoto, e pensavo a Leonardo. Mi pareva vederlo, mentre nel suo studio
fiorentino aspettava l'arrivo della sfinge ridente. Poco dopo ella entrava e si
sedeva accanto alla finestra. In fondo apparivano le colline di Fiesole, Monte
Morello, l'Appennino lontano, e l'Arno serpeggiava scintillando nel mattino,
mentre le torri della città uscivano dalla nebbia al primo sole. Anch'egli si
sedeva, e, presa la lira d'argento che s'era fabbricata con le sue mani,
cominciava a cantare. La bella donna, udendo la laude melodiosa, sorrideva,
mentre l'Arno da lungi diveniva più ricco di scintille. Poi cominciava a
dipingere, e, dopo i primi tocchi una orchestra invisibile di liuti riprendeva
la canzone interrotta. La donna sorrideva in una calma regale: i suoi istinti
di conquista, di ferocia, tutta l'eredità delia specie, la volontà della
seduzione e dell'agguato, la grazia dell'inganno, la bontà che cela un prò- 9i
An'gelo Conti, Leomrdo pittore posito crudele, tutto ciò appariva
alternativamente e scompariva dietro il velo ridente e si fondeva nel poema del
suo sorriso. Per un momento usci un raggio di sole; ed io die m'ero allontanato
dal prodigio, corsi e lo vidi intero. La donna era viva dinanzi a me, in tutta
la sua vita reale e ideale. Buona e malvagia, crudele e compassionevole,
graziosa e felina, ella rideva, e il suo riso si prolungava nel paese lontano e
nell'anima mia; sino a darle l'oblio die viene dalla presenza delle cose
immortali. Pochi istanti dopo, il sole scomparve e la penombra regnò nuovamente
nella sala. Lì presso un sol quadro ardeva come una lampada e in esso cantava,
non affievolita, la musica del colore. Era la Festa campestre: fra due donne
nude, un suonatore di liuto svegliava alcuni accordi e pareva che la Gioconda
ne sorridesse come quando VINCI (si veda) canta, per rendere piìi intensa la
sua vita e per tradurre col disegno la sua misteriosa bellezza. Questo
ritratto non esprime soltanto ciò che l'occhio vede, ma è il riflesso d'una
creatura amata da uno spirito che per oltre quattro anni si affaticò a penetrarne
a rivelarne la vita. Come dinanzi alla Gioconda, Leonardo si pone dinanzi ad
ogni cosa vivente col medesimo ardore di conoscenza, con la stessa ansiosa
curiosità e lo stesso desiderio invincibile di fissarla con segni semplici e
definitivi. Tutto questo poema della sua anima, questo dramma intimo che si
chiude in una alternativa di tentativi d' espressione e di istanti di tregua
contemplativa, di rapimenti e di lotte con la sorda materia, d' ansietà e
scoramenti e di calma trionfale, è raccontato nei suoi disegni, che sono 1'
immagine più completa della sua potenza non solo intuitiva ma creativa. Per lo
scultore il disegno è appena un segno, uno scliema, un presentimento dell'opera
futura. Lo chiamiamo disegno, perchè ijon abbiamo altre parole per significare
le notazioni figurative degli scultori; ma esso non è se non un appunta ideale,
un mezzo per ricordare un sentimento. Ricordate i disegni di BUONARROTI (si
veda) per le sue statue, ricordate gli odierni disegni di Rodin per i suoi
gruppi e per i suoi monumenti. Qm^tì disegni, benché esprimano una visione di
movimento, non sono pittura e non sono scultura perchè non illuminano una idea
che potrà essere espressa, come chiaroscuro e come colore sopra una superficie
e che sia per apparire come forma nello spazio. La scultura comincia soltanto
col bozzetto in cera, in creta o in gesso, cioè a dire quando V idea, destinata
a manifestarsi come forma nasce a somiglianza d'una cosa viva fra le altre cose
viventi e sorge nello spazio, nell' aria e nella luce, sottoposta alle leggi
del peso e chiusa nelle sue dimensioni. Per parlare con esattezza, la scultura
non ha disegno. Nella pittura il disegno è tutto, è il primo segno che nota la
visione ancora vaga sopra una superficie, ed è il chiaroscuro e il colore che
pili tardi la renderanno eloquente, che le daranno una voce che parla e che
canta, come in una musica e come in un poema. Per Leonardo, genio universale,
il disegno non è soltanto linguaggio pittorico, ma è il mezzo adeguato
d'espressione di tutto ciò che appare e che passa nel suo pensiero, nella sua
memoria, nella sua imaginazione e nella sua fantasia. Tutti gli aspetti e tutti
i momenti della multiforme ed inesaiiribilc attività del suo spirito trovano la
loro espressione negli innumerevoli disegni che egli traccia in margine e fra
le linee dei suoi manoscritti, la precedono e spesso la superano con la loro
potenza di linea intuitiva e divinatoria. Mai come in Leonardo il disegno ha
avuto la virtìi d'esprimere tante cose, dalle più athni alla pittura alle pili
lontane, dalle pili concrete alle più astratte; mai come in Leonardo e giunto
ad una cosi vasta e così intensa forza di analisi e di concentrazione. I
disegni di Leonardo non sono solamente una testimonianza del suo amore per la
natura, non sono soltanto un dialogo fra la sua anima e V anima delle cose, ma
principalmente sono un mezzo di cui egli si è servito per conoscere l'universo.
Invece di consultare i trattati scientifici ed i sistemi di filosofìa, Leonardo
disegna. I disegni sono i suoi pensieri, le sue meditazioni, le sue
osservazioni, le sue intuizioni, le sue scoperte. Ogni suo disegno contiene un
segreto svelato, è una verità conquistata, è il segno d' un nuovo trionfo della
indagine umana, è un lembo del mistero dell'universo sollevato dal genio umano.
Dinanzi a ciò che noi chiamiamo il vero e può essere ugualmente chiamato il
mistero, Leonardo ha lo sguardo limpido, sereno, nuovo, lo sguardo meravigliato
del fanciullo, ha quella innocenza del genio, senza la quale, come afferma
Bacone, non si può entrare ne nel regno della verità ne nel regno dei cieli. La
differenza fra l'uomo di genio e l'uomo comune sta p principalmente in questo:
dinanzi ai fatti e agli aspetti della natura e della vita V uomo comune si
abitua e finisce con l'abolire in se il senso della maraviglia; le sue
impressioni, invece d'avere sempre un carattere loro proprio, invece d'es-
Leonardo da Yisci Pai'ig;], Museo del Lonvie. J-'ot. X. LA GIOCONDA. sere
sempre eccitatrici di sentimenti nuovi, gradatamente si attenuano, si
affievoliscono; finche si adattano e si sottopongono al modo di sentire
individuale, finche si scolorano e muoiono davanti alla monotonia dei bisogni
quotidiani. L'uomo guidato dalle abitudini è un addormentatore di se stesso, è
uno schiavo di ciò che nel suo spirito è meno degno di comandare. Il genio
invece è sempre libero, è sempre desto, e il sonno dell'abitudine non può far
discendere un velo sui suoi grandi occhi puri. Leonardo è appunto della
famiglia di coloro che non conoscono lo stato di sonno e d'indifferenza, ma che
vivendo sempre in una ansiosa curiosità vedono il continuo apparire delle cose
e l'infinito rinnovellarsi dei fenomeni, e che sembrano veramente nascere ogni
mattina. In questo stato di attesa dell'ignoto e del nuovo, ogni osservazione è
per Leonardo una visione, ogni analisi è una scoperta. Guarda un ramo con le
sue foglie, ne cerca la vita col suo disegno, e gli appare la legge di
filotassi; canta accompagnandosi con la sua lira d' argento, e scopre la legge
di risonanza delle corde negli accordi. In ogni fenomeno egli sente e vede una
confessione fatta dalla natura al suo genio divinatore. I suoi disegni sono la
traduzione grafica di queste confessioni fatte alla sua anima dall' anima delle
cose. Ciascuno d'essi pili che studio dal vero è opera d' immaginazione, è
figurazione intuitiva, destniata ad illuminare la realtà e a fare apparire,
dietro ciò che passa, l'aspetto immutabile delle idee eterne e delle eterne
verità. Ogni loro contorno e una ricerca, ogni linea una interrogazione, ogni
luce un riflesso del vivente chiarore del mondo, ogni ombra Leoxakdo da Vixci.
lii 98 un'eco d'un vivente mistero; e tutta quella sua opera della penna, del
carbone, della matita non è se non un mezzo potente da lui adoperato per
stringere d' assedio la natura e per costringerla a rivelare il suo segreto.
Sempre mediante le imagini, i paragoni e le analogie egli trova il cammino che
deve condurlo verso la verità. Ricordate in un suo manoscritto e in un suo
disegno il movimento dell'acqua veduto simile al movimento d' una capigliatura,
ricordate in qual maniera i movimenti del nuoto lo aiutino a comprendere quelli
del volo, in quel maraviglioso trattato che ha la virtìi di metterci in segreta
comunicazione con 1' anima e con la forza delle creature volanti. In questo
modo, sempre per mezzo di imagini e di indagini grafiche, di analogie, di forma
e di movimento, osservando e studiando l'aria e l'acqua, il suono e la luce, e
paragonando le loro proprietà essenziali, egli giunge ad intuire l'unità delle
forze fisiche precorrendo Cartesio. E la sua conoscenza, alla quale appariscono
come intuizioni le principali conquiste della scienza moderna, è figlia della
sua imaginazione. Più ancora che nei suoi manoscritti è espresso nei suoi
disegni il cammino fatto dalla sua conoscenza, guidata dall'amore e resa più
profonda dalla sua infantile maraviglia. Chi non ricorda, fra gli altri
innumerevoli, i suoi disegni di foglie e di fiori? Sono questi fra tutti gli
altri, esclusi quelli solo che ritraggono la figura umana, i più precisi. Pure
in questa precisione è l'infinito della vita. A prima giunta potete pensare o
credere che quei segni corrispondano a qualche cosa di limitato e di esteriore;
poi sentiamo che ciascuno di essi ha la potenza di continuarsi in noi. La sua
precisione non è il segno rigido e freddo fatto da una mano abile, ma è la
linea sicura del genio che ha trovato la vita. Però egli non trascura mai un
solo particolare, non lascia mai nulla incompiuto e sembra dir tutto sino
all'ultima parola. Infatti egli dice tutto; ma il suo linguaggio è come il mare
e come l'infinito, e, nelF udirlo, la nostra piccola anima sembra farsi vasta
come 1' anima del mondo. In qua! modo ha potuto egli raggiungere questa potenza
d'espressione? In un modo semplice e grande: imitando la natura. L'imitazione
della natura è il principio che Leonardo proclama in tutti i suoi scritti e
mette in pratica in tutte le sue opere. Ma che cosa significa imitar la natura?
Ciò non vuol dire copiare le sue apparenze esteriori, come fanno oggi la
maggior parte dei nostri artisti, ma imitarla nelle sue leggi di vita. Imitar
la natura, per Leonardo come per tutti i geni dell'umanità, significa divenire
come la natura, acquistando la potenza di creare 1' opera d' arte nel modo
stesso nel quale la natura crea le sue vite innumerevoli: qual fanno le cose.
Voi sapete benissimo che i disegni vinciani fanno parte dei manoscritti di
Milano, di Parigi, di Londra, che sono aiizi un complemento, uno sviluppo e
un'irradiazione del testo. Poiché dunque l' uno e 1' altro sono connessi
intimamente, non m' è possibile, dopo parlato dei disegni, non dirvi due parole
dei manoscritti e significarvi in tal modo tutto il mio pensiero. Voi sapete
che nei manoscritti sono pagine di ogni scienza. Perchè? Volle forse Leonardo
coltivare r una dopo 1' altra le varie discipline scientifiche e contribuire al
loro sviluppo? A questa domanda risponde Leonardo medesimo. L'uomo non
dev'essere " solo un sacco dove si riceva il cibo e donde esso esca „, non
deve essere soltanto un " transito di cibo „ e avere della specie umana la
sola voce e la figura, e tutto il resto " essere assai manco che bestia „.
Il vero scopo della vita umana è per Leonardo il pensiero. Il pensiero, per
conoscere il passato e la nostra dimora terrena; ecco il mezzo per vivere
nobilmente liberandoci dalla illusione del piacere. Il tempo che fece piangere
Elena allorché ^ guardandosi nello specchio, vide i primi segni della
vecchiezza, il tempo non può colpire il pensiero. Il conoscere la sapienza
degli antichi e la vivente realtà delle cose presenti, ecco il decoro e l'
alimento degli spiriti umani. Ma perchè un tal desiderio di conoscere? Questo e
per me il punto capitale, il vero nodo della questione. Il sapere perchè
Leonardo ha voluto studiare tante forme ed ha cercato il segreto di tanti fatti
della vita universale, ci farà conoscere la qualità essenziale del suo genio.
Nella sua indagine instancabile d'ogni fenomeno del cielo e della terra, nel
suo ininterrotto colloquio con la natura, Leonardo non è animato da curiosità
puramente scientifica, non da vanità di dottrina, né dalla naturale tendenza
d'un intelletto analitico cui l'esercizio delia osservazione doni la gioia più
intensa. Spirito sostanzialmente intuitivo e sintetico, egli si sottopone in
tutta la sua vita al rigore e spesso al martirio dell' analisi, per acquistare
una conoscenza pili ricca, più vasta e piti profonda. Le sue innumerevoli
osservazioni, i suoi continui esperimenti sono i gradini che debbono condurlo
colà dove, entro una luce inestinguibile, appare l'eternità della vita.
Soffrire la disciplina del ragionamento e dell'esperimento per aver in fine,
come premio, la visione della vita, non h forse una divina aspirazione? Più la
sua conoscenza, nel quotidiano osservare e meditare, gli svelava nuove leggi e
nuovi segreti, più cresceva in lui l'amore per tutta la natura; ne vi fu mai al
mondo, dopo l' umile frate d'Assisi, chi l'abbia amata d'amore più puro e più
ardente. Chi più conosce 'pia ama^ sono le sue parole. In questo amore generato
dalla conoscenza è tutto il segreto dell'opera di Leonardo, dai manoscritti e disegni
alle pitture. Il suo realismo è un mezzo per giungere all'idea, è il modo
ch'egli adopera per ricomporre ciò che prima ha scomposto, in maniera che la
natura stessa sembri formarsi dinanzi a noi e farci assistere alla sua stessa
creazione. Chi conosca i manoscritti di AYindsor, nei quali i disegni hanno
un'importanza assai maggiore del testo, può convincersi agevolmente di questa
verità e può anche comprendere (cosa che in questo momento deve particolarmente
interessarci) che quando Leonardo parla di anatomia o di fisiologia, come nei
così detti trattati che si vanno ora pubblicando, egli non è mai un anatomico
vero e proprio, ne un vero fisiologo, ma è sempre prima d' ogni altra cosa e
sopra ogni altra cosa pittore. Tutta la sua opera di scienza, tutti i suoi
disegni d'anatomia, d'embriologia, di botanica, non ser- vono se non a rendere
più vasta, più profonda e più ricca la sua visione pittorica dell'uomo e della
natura. La scienza non è se non un mezzo d'espressione della sua visione del
mondo, ed egli se ne giova per dare un carattere di precisa realtà agli
ardimenti del suo sogno. Scopo del suo immenso lavoro e di giungere a creare
ima- 102 Angelo Conti, Leonardo pittore g'ini clic sembrino nate con le stesse
leggi con le quali la natura produce le sue forme: qual fanno le cose. E
doloroso che nella sua vasta opera essenzialmente pittorica, nella quale "
non fu impedito „, come egli dice, " da avarizia o da negligenza, ma solo
dal tempo „, manchi irreparabilmente una fra le pagine piti vive e più grandi:
La Battaglia d'Anghiarl. Scrivo queste parole vicino a Santa Maria Novella, a
pochi passi dal luogo nel quale egli disegnò r opera maravigliosa. Le campane
che suonano nel campanile roseo al primo sole del mattino, sembrano diffondere
sul mio ricordo una voce dì pianto. Li pochi mesi il lavoro fu compiuto, e
immediatamente cominciata la pittura a fresco per la sala del Consiglio in
Palazzo Vecchio. Leonardo vi dipinse dal 1504 al 1506. Poi l'opera fu da lui
abbandonata. Nel 1559 il cartone di Leonardo era ancora nella sala del Papa,
mentre il cartone della Guerra di Pisa disegnato da Michelangelo era nel
Palazzo dei Medici, l'uno e l'altro esposti all'ammirazione del mondo. Da queir
anno manca ogni notizia. Della pittura incominciata in Palazzo Vecchio si sa
soltanto che nel 1513 esisteva ancora, ma cadente a causa della cattiva
preparazione dell'intonaco e dei colori. Cito, contro il mio solito, dati di
fatto e date, perchè l' opera pur troppo manca. Se l'opera esistesse, il suo
linguaggio renderebbe insostenibile la voce della cronologia; ma poiché è
perduta, ci è necessario contentarci delle parole di chiunque ce ne parli. I
due tre ricordi pittorici rapidi e sommari dell' episodio centrale della
battaglia, non bastano a dare un'idea di ciò che fece Leonardo. Chi sa in qual
modo maraviglioso e straordinario egli avrà rappresentato la mischia, la furia
guerresca intorno allo stendardo, che sappiamo fosse nel centro, qnal prodigio
di scorci, quale evidenza di movimenti, nobiltà ed impeto di gesti e quale
perfezione di cavalli, dei quali egli conosceva la vita come nessuno dei suoi
tempi ! Di tutto ciò nulla e rimasto. Io imagino che nell'anno in cui ogni
traccia dell'opera scomparve, la natura, per compensare il mondo, dovè creare
una primavera favolosa, non veduta mai. Poiché nel mondo nulla si perde, e
quando una bellezza è distrutta, sia essa una selva che arda, un' isola che si
sommerga, un capolavoro che cada in rovina, la natura provvida fa nascere nuovi
germogli, suscita nuove bellezze e nuove energie, e la sua forza di creazione
rimane intatta in virtii della sua maggiore attività: il mutamento. Doctor
Mysticus. Iride, mandata da Giunone, scende sulla terra per consigliare TURNO a
idare l’assalto al campo troiano, finchè è assente ENEA. Turno, avendo
provocato invano i Troiani rinchiusi, pensa di dar fuoco alle navi, le quali si
salvano per l’intervento di Cibele che le trasforma in ninfe del mare. TURNO,
interpretato. favorevolmente quel portento, idispone l’accampamento. Durante
la notte, NISO confida ad EURIALO il’proponimento di andare in cerca d’ENEA. Ma
Eurialo lo vuole seguire. Ascanio e i capi li lodano, e prometton loro grandi
doni. Entrati nel campo dei Rùtuli, ne fanno strage. Ma quando,
uski- tine, si avviano per i boschi, sono scoperti da Volscente -
che veniva con trecento cavalieri di Laurento. Fuggono. NISO SI SALVA, MA
EURÌALO È RAGGIUNTO ED UCCISO, NONOSTANTE L’INTERVENTO DI NISO, TORNATO
INDIETRO A SALVARE IL COMPAGNO. Le teste recise dei due giovani, infilzate in
una picca, son portate sotto il campo troiano, fra i disperati lamenti
della madre di Eurialo. Turno assale i Troiani con grande strage. E
poichè Numano insolentiva i nemici vantando le virtù della stirpe
italica, Ascanio compie il suo primo eroismo idi guerra, e lo trafigge con una
freccia.Pandaro e Bizia, fratelli, tentano la riscossa lanciandosi sui
Rùtuli; ma Bizia è ucciso da Turno, che riesce a en- trare nel campo
nemico, dove fa strage; finchè, eopraf- fatto dalla folla dei Troiani, si
salva lanciandosi armato a nuoto nel Tevere. Atque ea diversa penitus dum
parte geruntur, Irim de caelo misit Saturnia Iuno audacem ad
Turnum. Luco tum forte parentis Pilumni Turnus sacrata valle
sedebat. Ad quem sic roseo Thaumantias ore locuta est: «
Turne, quod optanti Divum promittere nemo auderet, volvenda dies en
attulit ultro. Aeneas urbe et sociis et classe
relicta sceptra Palatini sedemque petit Evandri. Nec satis:
extremas Corythi penetravit ad urbes 10 Lydorumque manum collectos armat
agrestes. Quid dubitas? nunc tempus equos, nunc poscere currus.
Rumpe moras omnes et turbata arripe castra. Dixit, et in caelum paribus se
sustulit alis ingentemque fuga secuit sub nubibus arcum. A&novit
iuvenis duplicesque ad sidera palmas sustulit ac tali fugientem est voce
secutus: « Iri, decus caeli, quis te mihi nubibus actam detulit in
terras? unde haec tam clara repente tempestas? medium video discedere
caelum palantesque polo stellas: sequor omina tanta, quisquis in arma
vocas. » Et sic effatus ad undam processit summoque hausit de gurgite
lymphas, multa Deos orans, oneravitque aethera votis. lamque
omnis campis exercitus ibat apertis 25 dives equum, dives pictai vestis
et auri. Messapus
primas acies, postrema céoercent Tyrrhidae iuvenes, medio dux agmine
Turnus E mentre tutto questo in ben diversa parte succede, Iride
giù da cielo mandò la Saturnia Giunone a Turno audace. Allora a caso
sedeva Turno nel bosco dell’avo Pilumno * entro alla sacra valle; e a lui
con la rosea boc- ca la figlia di Taumante * parlò: « Turno, quel che
nes suno dei numi oserebbe promettere al tuo desiderio, ec- co che
il giorno che volge te l’offre spontaneamente. Énea lasciò la città e i
compagni e la flotta, ed è salito alla reggia del Palatino ed alla sede
di Evandro. Nè ba- sta: è penetrato nell’ultime ville di Còrito *, e
raccoglie ed arma agresti schiere di Etruschi. Che indugi? Il tem-
po è questo, è questo, di chiedere i cocchi e i cavalli. Rompi ogni
indugio, turba ed assali il suo campo ». Dis- se, e nell’alto del cielo
si alzò con le ali levate, e nel fuggire segnò sotto le nubi un grande
arco. La riconobbe il giovane, e alzò ambe le palme alle stelle, e,
mentr’ella volava, la seguiva con queste parole. Ìri, ornamento del
cielo, chi dalle nubi a me ti fece discendere sopra la terra? E come mai,
improvvisa, tanta chiarezza di cie- lo? A mezzo vedo dischiudersi i cieli
e in alto vagare le stelle. Chiunque tu sia, che mi chiami alle armi,
ob- bedisco ad un tanto presagio ». E, così detto, al fiume si
accostò, ed attinse a fiore del gorgo le acque, molto pregando gli Dei,
colmando il cielo di voti. E già l’esercito intiero andava per le aperte
pianure, ricco di cavalli, ricco di vesti intessute nell’oro
(all’a- vanguardia è Messapo, ultimi vengono, i figli di Tirro ‘,
ed a capo del grosso sta Turno: s’avanza brandendo ie
LI [vertitur arma tenens et toto
vertice supra est]; ceu septem surgens sedatis amnibus altus per
tacitum Ganges, aut pingui flumine Nilus cum refluit campis et iam
se condidit alveo. Hic subitam nigro glomerari pulvere nubem
prospiciunt Teucri ac tenebras insurgere campis. Primus ab adversa conclamat mole Caicus: Quis globus, o cives, caligine
volvitur atra? Ferte citi ferrum, date tela, ascendite
muros, hostis adest, heia. » Ingenti clamore per omnes
condunt se Teucri portas et moenia complent. Namque ita
discedens praeceperat optimus armis 40 Aeneas, si qua interea fortuna
fuisset, neu struere auderent aciem, neu credere campo;
castra modo et tutos servarent aggere muros. Ergo etsi conferre manum pudor iraque monstrat, 6biciunt portas tamen
et praecepta facessunt armatique cavis exspectant turribus hostem.
Turnus, ut ante volans tardum praecesserat agmen viginti lectis
equitum comitatus, et urbi improvisus adest: maculis quem Thracius
albis portat equus cristaque tegit galea aurea rubra. Ecquis erit,
mecum, iuvenes, qui primus in hostem? En » ait et iaculum intorquens
emittit in auras, principium pugnae, et campo sese arduus infert. Clamorem
excipiunt socii, fremituque sequuntur horrisono; Teucrum mirantur inertia
corda: 55 non aequo dare se campo, non obvia ferre arma
viros, sed castra fovere. Huc turbidus atque huc lustrat equo muros
aditumque per avia quaerit. Ac veluti pleno lupus insidiatus
ovili cum fremit ad caulas, ventos perpessus et imbres, 60
nocte super media: tuti sub matribus agni armi, e supera gli altri
del capo); come tacito scorre il Gange profondo, ingrossato da sette
fiumi tranquil. li, o il Nilo dalla pingue corrente, quando rifluisce
dai campi e già se ne torna al suo letto. Qui addensarsi una nube
di negra polvere i Teucri scorgono all’improvviso, e i campi oscurarsi;
Caico, primo dalla torre di fronte, si mette a gridare: « Che turbine, o
cittadini, si aggira di negra caligine? Presto, alle armi, recate le
armi, sali- te alle mura! Ecco il nemico, olà! ». E i Teucri con
grande schiamazzo si afiollan per tutte le porte, e col. man le mura.
Giacchè così, nel partire, Enea, esperto di guerra, aveva ordinato: se
intanto si offriva una qual- che sorpresa, non osassero uscire in
ischiera nè accet- tare battaglia; solo, tenessero il campo e 1 muri al
ri- paro del vallo *. Or, benchè ira e vergogna li spingano a dare
battaglia, pure rinserran le porte, ed obbedisco- no agli ordini, ed
aspettano armati dentro le torri il ne- mico. Turno, siccome volando
davanti avea preceduto il tardo suo stuolo, con venti cavalieri più
scelti, ecco appare improvviso davanti alle mura: lo porta un ca-
vallo di Tracia pezzato di bianco, e il capo gli copre un elmo d’oro con
rosso il cimiero. « E chi sarà con me, o giovani, chi primo incontro il
nemico? Ecco! » esclama, e un dardo vibrando, lo lancia per l’aure,
segnale della battaglia, ed alto si avanza nel campo. L'acclamano a
gran voce i compagni, e con un grido lo seguono che orribile suona: e
stupiscono dei cuori inerti dei Teucri, e come non escano in campo aperto
e non cozzin le ar- mi con loro, ma stiano accovacciati là dentro.
Turno, ora qua ora là, esplora a cavallo le mura, e cerca — ma
impenetrabile è il luogo — un accesso. E come quan- do un lupo che
insidia l’ovile ricolmo, freme là presso al recinto, esposto al vento e
alla pioggia, nel cuor della 2balatum exercent, ille asper et
improbus ira saevit in absentes, collecta ‘fatigat edendi ex longo
rabies et siccae sanguine fauces; haud aliter Rutulo muros et castra
tuenti ignescunt irae, duris dolor ossibus ardet, qua tentet ratione
aditus et qua vi clausos excutiat Teucros vallo atque effundat in
aequor.. Classem, quae lateri castrorum adiuncta latebat, aggeribus
septam circum et fluvialibus undis, invadit sociosque incendia poscit
ovantes atque manum pinu flagranti fervidus implet. Tum vero
incumbunt (urget praesentia Turni), atque omnis facibus pubes accingitur
atris. Diripuere focos; piceum fert fumida lumen taeda et commixtam
Vulcanus ad astra favillam. Quis Deus, o Musae, tam saeva incendia
Teucris avertit? tantos ratibus quis depulit ignes? Dicite. Prisca
fides facto, sed fama perennis. Tempore quo primum Phrygia formabat in
Ida Aeneas classem et pelagi petere alta parabat, ipsa Deum fertur
genetrix Berecyntia magnum vocibus his adfata Iovem: « Da, gnate,
petenti, quod tua cara parens domito te poscit Olympo. Pinea silva
mihi, multos dilecta per annos; lucus in arce fuit summa, quo sacra
ferebant, nigranti picea trabibusque obscurus acernis. Has ego
Dardanio iuveni, cum classis egeret, laeta dedi: nunc sollicitam timor
anxius angit.Solve metus, atque hoc precibus sine posse parentem: 90
ne cursu quassatae ullo neu turbine venti vincantur: prosit
nostris in montibus ortas. » Filius huic contra, torquet qui sidera
mundi: « O genetrix, quo fata vocas? aut quid petis istis?
notte: sotto le madri, al sicuro, vanno belando gli agnel- li, ed
esso, inasprito e feroce per l’ira, infuria contro i lontani; e lo
tormenta la lunga rabbia adunata del cibo con le fauci che han sete di
sangue; — non altrimenti nel Rùtulo, a guardare i muri ed il campo,
ardono lire, il dolore nell’ossa dure lo brucia: come tentare
l’accesso, e come scacciar con la forza i Teucri dal vallo e spar-
gerli nella pianura. Allora investe la flotta, che stava al riparo di
fianco al campo, recinta all’intorno dagli ar- gini e dall'onde del
fiume, e invita all'incendio i com- pagni esultanti, e furibondo impugna
una fiaccola ar- dente; ed essi si accaniscono all’opera: li sprona la
pre- senza di Turno, e tutta di negre faci la gioventù si for-
nisce. Saccheggiano i focolari; le torce fumose una luce spandon color
della pece, e Vulcano lancia fumo e fa- ville alle stelle. |
Qual Dio, o Muse, un così fiero incendio allontanò dai Troiani? chi
discacciò dalle navi sì grandi fiamme? Voi ditelo. Antica è la fede nel
fatto, ma la sua fama è pe- renne. Nel tempo che dapprima fabbricava
nell’Ida di Frigia Enea la sua flotta e si accingeva a prendere il
mare infinito, dicono che essa stessa, la Berecinzia * ma- dre dei numi,
al gran Giove volgesse queste parole: « Ascolta, o figlio, il mio prego,
il primo che io, la tua cara madre, ti chiedo, da quando domasti
l'Olimpo. Ho una selva di pini, da lunghissimi anni a me cara; ed
era il sacro mio bosco sulla cima del monte, ia dove si eser-
citava il mio culto, di nereggianti abeti ombroso e di alti tronchi di
aceri. Ed io ben lieta li ho dati al dàr- dano eroe, allorchè aveva
bisogno di navi; ma ora il ti- more mi rende ansiosa e sollecita: toglimi
da questo af-. fanno, e fa che questo ottenga la preghiera di una
ma- dre: fa che non siano mai schiantate da viaggio nes-
2Mortaline manu factae immortale carinae fas habeant? certusque incerta
pericula lustret Aeneas? cui tanta Deo permissa potestas? Immo ubi
defunctae finem portusque tenebunt Ausonios olim, quaecumque evaserit
undis Dardaniumque ducem Laurentia vexerit arva, mortalem eripiam
formam magnique iubebo aequoris esse Deas, qualis Nereia Doto et
Galatea secant spumantem pectore pontum. » Dixerat, idque ratum Stygii
per flumina fratris, per pice torrentes atraque voragine ripas
adnuit, et totum nutu tremefecit Olympum. Ergo aderat promissa dies et
tempora Parcae debita complerant, cum Turni iniuria Matrem admonuit
ratibus sacris depellere taedas. Hic primum nova lux oculis effulsit, et
ingens visus ab Aurora caelum transcurrere nimbus Idaeique chori:
tum vox horrenda per auras excidit et Troum Rutulorumque agmina
complet. « Ne trepidate meas, Teucri, defendere naves, neve armate
manus: maria ante exurere Turno, quam sacras dabitur pinus. Vos ite
solutae, ite Deae pelagi; genetrix iubet. » Et sua quaeque continuo
puppes abrumpunt vincula ripis delphinumque modo demersis aequora
rostris ima petunt: hinc virgineae (mirabile monstrum) [quot prius
aeratae steterant ad litora prorae] reddunt se totidem facies pontoque
feruntur. Obstupuere animis Rutuli, conterritus ipse turbatis
Messapus equis, cunctatur et amnis rauca sonans revocatque pedem
Tiberinus ab alto. At non audaci Turno fiducia cessit; ultro animos
tollit dictis atque increpat ultro: suno o da turbinose tempeste; e a lor
giovi sui nostri monti esser nate ». E a lei di rincontro il figliuolo,
che volge le stelle del cielo: « Madre, perchè vuoi tu cam- biare
il destino? e che cosa domandi per loro? Forse che navi foggiate da mano
mortale potranno avere una sorte immortale? Ed Enea al sicuro affronterà
i malsi- curi perigli? E quale dei numi ha così grande potere?
Bensì, quando compiuto il lor corso si fermeranno un giorno nei porti
d’Ausonia, qualunque ne sia scampata dall’onde ed abbia portato il duce
dardànio nei campi laurenti, io le toglierò la sua forma mortale, e
vorrò ch’elle sieno dee dell’ampie marine, come Doto e Gala- tea
nereidi, che fendono il mare spumante col petto ». Disse; e giuratolo per
il fiume dello stigio fratello * e per le sponde bollenti di pece
dall’atra voragine, cen- nò, ed al cenno, tutto fece tremare
l’Olimpo. Era dunque arrivato il giorno promesso, e avevan le
Parche compiuto il debito tempo, quando l'offesa di Turno indusse la
Madre a cacciar dalle sacre navi le fiaccole. Allora da prima una luce
novella agli occhi ri- fulse, e immenso fu visto trascorrere dall'Oriente
un nim- bo pel cielo, e con esso i cori dell’Ida: così tremenda una
voce cadde per l’aria, e le schiere riempì dei Troiani e dei Ruùtuli: «
Non vi affannate a difendere i miei na- vigli, o Troiani, e non afferrate
le armi: prima potrà ar- dere il mare, Turno, che bruciare i pini a me
sacri. È voi andatene sciolte, andatene, Dee del mare; la vostra
madre lo vuole ». E tosto ad una ad una ie poppe tron- can le corde dal
lido, e a guisa di delfini, tuffati i ro- stri, scendon nel fondo del
înare: e di qui (meraviglioso prodigio), quante prore di bronzo eran
state prima alla riva”, ricompaiono volti alirettanti di fanciulle, e si
av- vian sul mare. 2« Troianos haec monstra petunt, his
Iuppiter ipse auxilium solitum eripuit; non tela nec ignes
exspectant Rutulos. Ergo maria invia Teucris, 130 nec spes ulla fugae;
rerum pars altera adempta est; terra autem in nostris manibus: tot milia
gentes arma ferunt Italae. Nil me fatalia terrent, si
qua Phryges prae se iactant, responsa Deorum. Sat fatis Venerique
datum, tetigere quod arva 135 fertilis Ausoniae Troes. Sunt et mea contra
fata mihi, ferro sceleratam exscindere gentem, coniuge
praerepta; nec solos tangit Atridas iste dolor solisque licet
capere arma Mycenis. Sed periisse semel satis est; peccare fuisset
140 ante satis penitus modo non, genus omne perosos femineum?
quibus haec medii fiducia valli fossarumque morae, leti discrimina
parva, dant animos. An non viderunt moenia Troiae
Neptuni fabricata manu considere in ignes? 145 Sed vos, o lecti,
ferro quis scindere vallum adparat et mecum invadit trepidantia
castra? Non armis mihi Vulcani, non mille carinis est
opus in Teucros. Addant se protinus omnes Etrusci socios. Tenebras
et inertia furta ; 150 [Palladii caesis summae custodibus arcis]
ne timeant; nec equi caeca condemur in alvo: luce palam
certum est igni circumdare muros. Haud sibi cum Danais faxo et pube Pelasga esse putent, decimum
quos distulit Hector in annum. 159 Nunc adeo, melior quoniam pars
acta diei, quod superest, laeti bene gestis corpora rebus
procurate, viri, et pugnam sperate parari. » Interea vigilum
excubiis obsidere portas cura datur Messapo et moenia cingere
flammis. Stupiron nel cuore i Rùtuli,
atterrito è lo stesso Mes- sapo e i suoi cavalli s'impennano; il Tiberino
fiume an- cor esso s’indugia, rauco ‘sonando, e ritrae il piede dal
‘ mare. Ma non a Turno audace vien meno l’ardire, chè anzi rianima 1
cuori coi detti e li garrisce così: « Con- tro i Toiani, comparvero
questi portenti; a loro, il solito scampo lo stesso Giove ha strappato: non v'è
più bisogno delle armi e dei fuochi dei Rùtuli. Così i Teu- cri non
hanno più vie sul mare nè alcuna speranza di fuga: son tolte loro le
acque, e la terra è in nostro po- tere: tante migliaia di armati mandano
l'itale genti! Non mi atterriscono, no, i fatali responsi dei numi,
di cui i Frigi si vantano. Basti a Venere e ai fati, che della
fertile Ausonia toccarono i campi i Troiani. Ho i miei destini io pure:
esterminar con la spada la scellerata gente, poichè mi ha rapita la
sposa; e un tale dolore non tocca soltanto gli Atridi‘°, nè soltanto a
Micene e lecito l’armi brandire. Ma esser periti una volta, po-
teva bastare; e non sarebbe bastato aver peccato una volta, per odiar
tutto il sesso femmineo? Certo, a loro dan forza il vallo interposto e dei
fossati l’ostacolo, breve ritardo alla morte. Ma non vider le mura di
Troia — e le aveva costrutte Nettuno! — ruinare in mezzo alle
fiamme? Ora di voi, o eletti, chi si prepara a rom- pere il vallo e ad
assaltare con me gli accampamenti tremanti? Non ho bisogno dell’armi, io,
di Vulcano, e di mille carene, per combattere contro i Troiani. E a
loro si aggiungano pure alleati tutti quanti gli Etru- schi. Le tenebre e
gli assalti infingardi [del Palladio, e dei custodi della rocca la
strage]! non tornano essi, chè noi non ci chiuderemo nel ventre oscuro
del cavallo: alla luce, all’aperto, circonderemo ie mura di fiamme.
Io farò sì che non si credano in guerra coi Dànai e con Bis
septem Rutuli, muros qui milite servent, delecti: ast illos centeni
quemque sequuntur purpurei cristis iuvenes auroque corusci. Discurrunt variantque vices fusique per herbam indulgent vino et
vertunt crateras aénos. Collucent ignes: noctem custodia ducit insomnem
ludo. Haec super e vallo prospectant Troes et armis alta tenent,
nec non trepidi formidine portas explorant, pontesque et propugnacula
iungunt, tela gerunt. Instant Mnestheus acerque Serestus, quos pater
Aeneas, si quando adversa vocarent, rectores iuvenum et rerum dedit esse
magistros. Omnis per muros legio, sortita periclum, excubat, exercetque
vices, quod cuique tuendum est. 175 Nisus erat portae custos, acerrimus
armis, Hyrtacides, comitem Aeneae quam miserat Ida venatrix iaculo
celerem levibusque sagittis; et iuxta comes Eurialus, quo pulchrior
alter non fuit Aeneadum Troiana neque induit arma, 180 ‘ ora puer
prima signans intonsa iuventa. © His amor unus erat, pariterque in bella
ruebant; tum quoque communi portam statione tenebant. Nisus ait: «
Dine hunc ardorem mentibus addunt, Euryale, an sua cuique Deus fit dira
cupido? Aut pugnam aut aliquid iamdudum invadere magnum mens agitat mihi
nec placida contenta quiete est. Cernis, quae Rutulos habeat fiducia
rerum. Lumina rara micant: somno vinoque soluti procubuere; silent
late loca. Percipe porro, _ 190 quid dubitem et quae nunc animo sententia
surgat. Aeneam acciri omnes, populusque patresque, exposcunt,
mittique viros, qui certa reportent. la gente Pelasga,
che Ettore per ben dieci anni tardò. Ora dunque, poichè è scorsa la parte
migliore del gior- no, quel tanto che avanza, lieti dei primi successi,
con- cedetelo, o prodi, a ristorarvi le membra, e aspettate che venga
la pugna ». Frattanto si affida a Messapo di guar- dar con le scolte le
porte !* e di cinger le mura di fuo- chi. Due volte sette Rùtuli son
scelti a custodia dei mu- ri coi loro guerrieri; ed ognuno da cento
armati è se- guito, con cimieri purpurei ed armi che brillano
d’oro. Corron di qua e di là, si danno il cambio, e sdraiati su
l'erba tracannano il vino e lo versan dai crateri di bronzo. Splendono i
fuochi; e le guardie passano la notte insonne giocando. - Di
sopra al vallo i Troiani stanno a osservare, e con l’armi guardan le
mura, e così, in fretta, per il timore, vanno studiando le porte,
congiungon coi ponti le torri, ammucchiano l’armi. Stanno su loro Mnèsteo
ed il fiero Seresto, che il padre Enea, se mai lo chiedesse il
peri- colo, avea destinati a guidare l’esercito e a governare lo
stato. Tutti, lungo le mura, al rischio che la sorte ha voluto, i
guerrieri vegliano, n scambiano i turni, secon- do che tocca ad ognuno.
Niso era a custodia di una por- ta, d’Irtaco il figlio, che, a compagno
d’Enea, Ida aveva sini la cacciatrice, ed era destro a gettare
veloci saette; e accanto gli era compagno Eurìalo, il più bello fra
tutti gli Enèadi e quanti vestivano l’armi troiane; fanciullo ancora, gli
fioriva sulle gote intonse la prima lanugine. Stretto un amore li univa,
e insieme si preci- pitavano in guerra; ed anche allora, compagni di
scol- ta, guardavan la porta. Niso disse: « M'ispirano forse gli
Dèi questo mio ardor nella mente, o Eurialo? o il suo fiero desìo diviene
a ciascuno il suo Dio? Già da gran tempo il mio cuore mi spinge alla
pugna o a ten- Si tibi quae posco promittunt (nam mihi facti
fama sat est) tumulo videor reperire sub illo 195 posse viam ad muros et
moenia Pallantea. » Obstupuit magno laudum percussus amore
Euryalus: simul his ardentem adfatur amicum: « Mene igitur socium summis
adiungere rebus, Nise, fugis? solum te in tanta pericula mittam?
200 non ita me genitor, bellis adsuetus Opheltes, Argolicum
terrorem inter Troiaeque labores sublatum erudiit, nec tecum talia gessi
> magnanimum Aenean et fata extrema secutus. Est hic, est animus lucis contemptor et istum 205 qui vita bene
credat emi, quo tendis; honorem. » Nisus ad haec: « Equidem de te nil
tale verebar, nec fas, non: ita me referat tibi magnus ovantem
luppiter, aut quicumque oculis haec adspicit aequis. Sed si quis (quae
multa vides discrimine tali), si quis adversum rapiat casusve Deusve, te
superesse velim: tua vita dignior aetas. Sit, qui me raptum pugna
pretiove redemptum mandet humo; solita aut si qua id fortuna
vetabit, absenti ferat inferias, decoretque sepulchro; 215 neu
matri miserae tanti sim causa doloris, quae te sola, puer, multis e
matribus ausa persequitur, magni nec moenia curat Acestae. » Ille autem:
« Causas nequidquam nectis inanes, nec mea iam mutata loco sententia
cedit. 220 Adceleremus » ait. Vigiles simul excitat.
Illi succedunt servantque vices: statione relicta, ipse comes Niso
graditur, regemque requirunt. Cetera per terras
omnes animalia somno laxabant curas et corda oblita laborum; 225
ductores Teucrum primi, delecta iuventus, a è o so
pn tare qualche gran fatto, e non sa placarsi a un
tranquillo riposo. Tu vedi quale fiducia s'è impadronita dei Rù-
tuli. Rari lampeggiano i lumi; immersi nel sonno e nel vino giacquero;
tutto all’intorno è silenzio. Odimi dun- que quello ch’io penso, ed il
disegno che ora mi sorge nel cuore. Tutti, il popolo e i padri, chiedon
che Enea si richiami e gli si mandino messi che gli raccontino il
vero. Se mi promettono quello ch’io chiedo per te (per mia parte, mi
basta la gloria del fatto), credo, la, sotto a quel colle, di ritrovare
la via che mena del Pallantèo alle mura ». Stupì, colpito da grande amore
di gloria, Eurìalo; e con queste parole si volge all’ardito compa-
gno: « Niso, dunque rifuggi dal prendermi teco all’im- presa sì grande?
Ti lascerò andar solo in mezzo a co- tanti perigli? Ah, non così mio padre,
Ofelte assuefatto alle guerre, fra lo spavento argolico ed i travagli
di Troia mi allevò, m’istruì; e non così mi mostrai accanto a te,
nel seguire il magnanimo Enea fino all’estreme fortune. C’è qui, c'è qui
un animo che sa disprezzare la vita, e crede che ben con la vita si
acquisti questa gloria che agogni tu pure ». E Niso di rincontro: «
Non io certo dubitavo di te, nè lo potrei, oh no: così a te mi
riconduca in trionfo il grande Giove o chiunque dall’alto ci guarda con
occhio propizio. Ma se, come spesso accade in rischi sì grandi, se un
qualche caso, o un Dio, mi tragga a morire, vorrei che tu rimanessi;
ti dà più diritto alla vita la tua giovinezza: e vi sia chi mi
sottragga alla mischia o mi ricompri al nemico per sotterrarmi, e se,
come accade, lo vieterà la fortuna, mi renda i funebri offici, anche
lontano, e di un sepolcro mi onori. Ah, ch’io non sia cagione di un sì
grande dolore alla tua povera madre, che sola, o fanciullo, fra
tante madri osava seguirti, e non ristette del grande 3 - Vircuro
- Eneide - Vol. III consilium summis regni de rebus
habebant, quid facerent quisve Aeneae iam nuntius esset.
Stant longis adnixi hastis et scuta tenentes
castrorum et campi medio. Tum Nisus et una ‘230 Euryalus confestim
alacres admittier orant: rem magnam, pretiumque morae fore. Primus
Iulus accepit trepidos ac Nisum dicere iussit. Tunc sic
Hyrtacides: « Audite o mentibus aequis, Aeneadae, neve haec nostris
spectentur ab annis, 235 quae ferimus. Rutuli somno vinoque soluti
conticuere: locum insidiis conspeximus ipsi, qui patet in
bivio portae, quae proxima ponto; interrupti ignes, aterque ad sidera
fumus erigitur; si fortuna permittitis uti 240 quaesitum
Aenean et moenia Pallantea, mox hic cum spoliis ingenti caede
peracta adfore cernetis. Nec nos via fallet euntes:
vidimus obscuris primam sub vallibus urbem venatu adsiduo et
totum cognovimus amnem. » 245 Hic annis gravis atque animi maturus
Aletes: « Di patrii, quorum semper sub numine Troia est,
non tamen omnino Teucros delere paratis, cum tales animos
iuvenum et tam certa tulistis pectora. » Sic memorans umeros dextrasque
tenebat 250 amborum et vultum lacrimis atque ora rigabat: «
Quae vobis, quae digna, viri, pro laudibus istis, praemia posse rear
solvi? pulcherrima primum Di moresque dabunt vestri; tum cetera
reddet actutum pius Aeneas atque integer aevi 259 Ascanius,
meriti tanti non immemor umquam. » «Immo ego vos, cui sola salus genitore
reducto, excipit Ascanius, per magnos, Nise, Penates
Assaracique Larem et canae penetralia Vestae Aceste alle mura ». Ma quegli:
« Tu indarno intessi i tuoi vani pretesti, e il mio voler non si muta e
non ce- de. Presto!» soggiunge. E risveglia le scolte; queste
subentrano al cambio; lasciata la guardia, ei s’accom- pagna con Niso, e
vanno in cerca del re. Gli altri animali per tutte le terre
placavan nel son- no i loro affanni nei cuori dimentichi d’ogni
travaglio; ma i duci primi dei Teucri, fior dei guerrieri, tenevan
consiglio sul grave momento del regno: che fare? e chi mandar messaggero
ad Enea? Stanno poggiati alle lun- ghe aste, e reggon gli scudi, nel
mezzo alla piazza del campo. Quand’ecco Niso, e con lui Eurìalo, pronti,
chie- dono d’essere uditi, subito: grande è la cosa, e d’inter-
rompere vale la pena. Iulo per primo li accolse ansiosi, e a Niso ordinò
di parlare. Così allora l’Irtàcide: « Udite con menti benigne, o Enèadi;
e quel che portiamo non lo giudicate dagli anni. I Rùtuli, immersi nel
sonno e nel vino, tacciono tutti; noi, un luogo abbiam scorto,
propizio alle insidie, che si scopre là al bivio della porta ch’è
prossima al mare. Son mezzo spenti i fuochi, e cu- po il fumo si erge
alle stelle; se ci lasciate tentare la sorte a ricercare Enea e le mura
del Pallanteo, presto qui con le spoglie nemiche ed onusti di strage ci
rive- drete tornare. E non smarriremo la via: sotto le oscu- re
valli, nelle continue cacce, vedemmo lassù la città e tutto il fiume
esplorammo ». Allora, grave d’anni, e maturo di senno rispose Alete: «O
Dei della patria, sotto il cui nume è ancor Troia, certo voi non
pensate di distruggere i Teucri del tutto, poi che c'inviaste tali
anime e petti sì fermi di giovani! ». Questo dicendo, stringeva
d’entrambi le spalle e le mani, rigando le guance di pianto: « Oh, quale
premio, o prodi, che de- gno premio per questa impresa vi potremo noi
dare? obtestor: quaecumque mihi fortuna fidesque est, in vestris
pono gremiis; revocate parentem, reddite conspectum; nihil illo triste
recepto. Bina dabo argento perfecta atque aspera signis pocula,
devicta genitor quae cepit Arisba, et tripodas geminos, auri duo
magna talenta, cratera antiquum, quem dat Sidonia Dido. Si
vero capere Italiam sceptrisque potiri contigerit victori et praedae
ducere sortem, vidisti quo Turnus equo, quibus ibat in armis
aureus: ipsum illum, clipeum cristasque rubentes excipiam sorti, iam nunc
tua praemia, Nise. Praeterea bis sex genitor lectissima matrum
corpora captivosque dabit, suaque omnibus arma: insuper his, campi quod
rex habet ipse Latinus, Te vero, mea quem spatiis propioribus aetas
insequitur, venerande puer, iam pectore toto accipio, et comitem casus
complector in omnes. Nulla meis sine te quaeretur gloria rebus:
seu pacem seu bella geram, tibi maxima rerum verborumque fides. »
Contra quem talia fatur Euryalus: « Me nulla dies tam fortibus
ausis dissimilem arguerit; tantum fortuna secunda haud adversa
cadat. Sed te super omnia dona unum oro: genetrix Priami de gente
vetusta est mihi, quam miseram tenuit non Ilia tellus mecum
excedentem, non moenia regis Acestae: hanc ego nunc ignaram huius,
quodcumque pericli est, inque salutatam linquo; nox et tua
testis dextera, quod nequeam lacrimas perferre parentis; at
tu, oro, solare inopem et succurre relictae. Hanc sine me spem ferre tui:
audentior ibo in casus omnes. » Percussa mente dedere
290 Il primo ve lo daranno, e il più bello, gli Dèi e le vo-
stre virtù; gli altri ben presto li avrete dal pio Enea e da Ascanio, il giovinetto
in fiore, che di un così gran- de servigio non sarà immemore mai ». «
Anzi io, sog- giunse Ascanio, che altra salvezza non ho se non il
ri- torno del padre, questo vi giuro, o Niso, per i grandi Penati,
per il lare di Assàraco e per l’altare della anti- chissima Vesta: ogni
mia sorte ed ogni mia speranza, in vostre mani io pongo; riconducetemi il
padre, fate che io lo riveda: se lo ricupero, nulla sarà più triste
per me. Due coppe vi darò, cesellate in argento e scol- pite a
bassorilievi, che il padre ebbe alla presa di Ari- sba; e due tripodi, e
due grandi talenti di oro, ed un cratere antico, dono della sidònia
Didone. Se poi vin- citore potrò prender l’Italia e tenere lo scettro e
sorteg- giare le prede, certo tu hai veduto quel destriero su cui
Turno veniva, e le ammi che lo vestivano d’oro: ebbene, quel suo cavallo,
e lo scudo e il cimiero vermiglio, li sottrarrò dal sorteggio; fin d’ora
è un tuo premio, o Niso. Inoltre, mio padre darà due volte sei corpi
di donne, fra le più belle, ed altrettanti prigioni, con le sue
armi ciascuno: e oltre a ciò, proprio i campi che or sono del rege
Latino. Te poi, che sei vicino a me per età, o venerando fanciullo, con
tutto il cuore ti accolgo, fin d’ora, e ti abbraccio, compagno per ogni
fortuna. Non cercherò per me gloria nessuna senza di te; ed in pace
ed in guerra, nei fatti e nelle parole, in te fiderò sopra ognuno ». A
lui di rincontro Eurìalo rispose così: « Non verrà mai un giorno che mi
palesi diverso da que- sto mio forte sentire: mi basta che la fortuna di
secon- da non muti in avversa. Ma sopra ogni altro dono, solo una
cosa t’imploro: ho una madre, della stirpe di Priamo vetusta, che,
misera, quando partii, non si fer- Dardanidae lacrimas, ante omnes
pulcher Iulus, atque animum patriae strinxit pictetie imago.
Tum sic effatur: 295 « Sponde digna tuis ingentibus omnia coeptis;
| namque erit ista mihi genetrix nomenque Creusae solum defuerit,
nec partum gratia talem parva manet. Casus factum quicumque
sequentur, per caput hoc iuro, per quod pater ante solebat:
300 quae tibi polliceor reduci rebusque secundis, haec eadem
matrique tuae generique manebunt. » Sic ait illacrimans: umero
simul exuit ensem auratum, mira quem fecerat arte Lycaon |
Gnosius atque habilem vagina aptarat eburna. 305 Dat Niso Mnestheus pellem horrentisque leonis exuvias:
galeam fidus permutat Aletes. Protinus armati incedunt; quos omnis
euntes primorum manus ad portas iuvenumque senumque prosequitur
votis. Necnon et pulcher Iulus 310 ante annos animumque gerens curamque
virilem, multa patri mandata dabat portanda. Sed aurae omnia
discerpunt et nubibus irrita domant. Egressi superant fossas,
noctisque per umbram castra inimica petunt, multis tamen ante futuri
315 exitio. Passim somno vinoque per herbam corpora fusa vident,
arrectos litore currus, inter lora rotasque viros, simul arma
iacere, vina simul. Prior Hyrtacides sic ore locutus: «
Euryale, audendum dextra: nunc ipsa vocat res. 320 Hac iter est. Tu, ne
qua manus se attollere nobis a tergo possit, custodi et consule
longe. Haec ego vasta dabo et lato te limite ducam. » Sic memorat
vocemque premit; simul ense superbum Rhamnetem adgreditur, qui forte
tapetibus altis mò nella terra di Ilio nè fra le mura di Aceste. Or io
qui l’abbandono ignara di questo mio rischio, qual che si sia, e
insalutata: la notte e la tua destra mi sian te- stimoni che io non
potrei sostenere le lacrime della mia madre. Ma tu, te ne prego, consola
la misera, soccorrila, se resta sola. Lascia ch'io porti meco questa
speranza di te; poi, anderò più audace incontro ad ogni ventura ».
Commossi nel cuore i Dardànidi lagrimarono, il bel Iulo anzi tutti, chè
il cuore gli strinse il ricordo dell’a- more paterno. È così disse: «
Attenditi pur tutto quan- to si deve alla tua grande impresa; chè essa
sarà la mia madre, e soltanto il nome le mancherà di Creusa: pic-
colo dono, a colei che generò un tal figlio. Qualunque si sia l’evento,
per questo mio capo ti giuro sul quale soleva giurare mio padre: quello
che io ti promisi se tornerai vittorioso, alla tua madre sarà serbato ed
alla tua stirpe ». Così diceva piangendo, e dalla spalla si tolse
la spada d’oro che aveva foggiata con arte stu- penda Licàone di Cnosso,
scorrevole entro la guaina di avorio. Mnèsteo a Niso donava di un irsuto
leone la pelle e la apoglia, e il fido Alete scambia il suo elmo
con lui. Tosto s’avviano armati; e tutta ia schiera dei grandi, giovani e
vecchi, alle porte li accompagnan coi voti. E intanto il bello Iulo, che
ha cuore e senno virile, oltre l’età, affidava molti messaggi al suo
padre. Ma l’aura tutti li sperde inutili in mezzo alle nuvole.
Usciti, varcano i fossi, e per le ombre notturne ven- gbno al campo
fatale; ma prima, a molti daranno la morte. (Qua e là sparsi tra il sonno
ed il vino scorgono i corpi sull’erba, e i cocchi alzati sul lido, e, tra
le bri- glie e le ruote, giacere i guerrieri, e con loro le armi,
ed i vini con loro. Primo il figlio di Irtaco così disse: « Eurìalo, qui
bisogna osar con la destra: l’oecasione lo exstructus toto proflabat pectore
somnum, rex idem et regi Turno gratissimus augur; sed
non augurio potuit depellere pestem. Tres iuxta famulos temere
inter tela iacentes armigerumque Remi premit aurigamque sub ipsis nactus
equis, ferroque secat pendentia colla. Tum caput ipsi aufert
domino, truncumque relinquit sanguine singultantem; atro tepefacta
cruore terra torique madent. Necnon Lamyrumque Lamumque, et
iuvenem Sarranum, illa qui pluritha nocte luserat, insignis facie, multoque
iacebat membra Deo victus: felix, si protinus illum
aequasset nocti ludum in lucemque tulisset. Impastus ceu
plena leo per ovilia turbans, suadet enim vesana fames, manditque trahitque
340 molle pecus mutumque metu, fremit ore cruento. Nec minor
Euryali caedes; incensus et ipse perfurit, ac multam in medio sine
nomine plebem, Fadumque Herbesumque subit Rhoetumque Abarimque
ignaros, Rhoetum vigilantem et cuncta videntem, sed magnum metuens se post
cratera tegebat; pectore in adverso totum cui comminus ensem
condidit adsurgenti et multa morte recepit. Purpuream vomit ille
animam et cum sanguine mixta vina refert moriens: hic furto fervidus
instat. 350 lamque ad Messapi socios tendebat: ibi ignem
deficere extremum et religatos rite videbat carpere gramen
equos: breviter cum talia Nisus (sensit enim nimia caede atque cupidine
ferri. Absistamus, ait, nam lux inimica propinquat. Poenarum
exhaustum satis est, via facta per hostes. » Multa virum solido argento perfecta relinquunt armaque craterasque
simul pulchrosque tapetas. vuole. Di qua è la via. Ora tu, perchè un
qualche drap- pello non ci si levi alle spalle, fa guardia e sta
attento all’intorno. Io qui farò largo, e ti guiderò per un ampio
cammino >». Così dice, poi smorza la voce; ed il superbo Ramnete con
la sua spada colpisce; ed egli, sui tappeti ammucchiati giacendo, dormiva
lì a pieno petto, rus- sando. Re egli pure, ed al re Turno il più grato
degli àuguri; ma non potè con la scienza profetica allontana- re la
morte. Lì presso, uccide tre servi che a caso gia- cevan fra l’armi, e lo
scudiero di Remo, ed il suo auri- ga sorpreso sott’essi i cavalli, e col
ferro taglia le gole rovescie. Poscia anche al signore tronca il capo, ed
il busto lascia singhiozzante nel sangue; intiepiditi la terra ed i
letti di negro sangue s’imbevono. E poi Là- miro, e Lamo, e il giovin
Sarrano, che fino a tardi la notte aveva giocato, bello di volto, e
giaceva vinte le membra dal vino: felice, se avesse giocato tutta la
notte ed infino all’aurora! Così un leone digiuno imperver- sando
tra gli ovili ricolmi — la fame rabbiosa lo istiga — sbrana e trascina la
greggia molle e per il terrore ammutita, e rugge con bocca sanguigna. Nè
minore è la strage d’EURÌALO; ardendo anch'egli infuria, e alla rinfusa
sorprende molta ignobile plebe, e Fado, ed Erbeso, e Reto, ed Abari,
inconsapevoli; Reto, era desto e tutto vedeva, ma per paura si stava
nascosto dietro un grande cratere: ma mentre si alzava, gli immerse fino
all’elsa nel petto la spada, e la ritrasse grondante di sangue. Ed
egli in un fiotto di porpora esala la vita, ed il vino, morendo, rigetta
col sangue. L’altro, più ardente, con- tinua la strage furtiva. E già si
volgeva ai compagni di Messapo; ivi vedeva languire gli ultimi fuochi, e
i ca- valli al guinzaglio, com’è uso, pascere l’erba, allorchè NISO,
che trascinato lo vide da brama soverchia di stra- EURYALVS phaleras Rhamnetis et aurea
bullis cingula (Tiburti Remulo ditissimus olim quae mittit dona
hospitio, cum iungeret absens, Caedicus; ille suo moriens dat habere
nepoti, post mortem bello Rutuli pugnaque potiti), haec
rapit, atque umeris nequidquam fortibus aptat. Tum galeam Messapi habilem cristisque decorum induit. Excedunt castris, et
tuta capessunt. Interea praemissi equites ex urbe Latina, cetera dum
legio campis instructa moratur, ibant et Turno regi responsa
ferebant, tercentum, scutati omnes, Volscente magistro. 370 lamque
propinquabant castris murosque subibant, cum procul hos laevo
flectentes limite cernunt, et galea Euryalum sublustri noctis in
umbra prodidit immemorem, radiisque adversa refulsit.
Haud temere est visum. Conclamat ab agmine Vol. [scens: « State, viri: quae causa viae? quive
estis in armis? quove tenetis iter? » Nihil illi tendere
contra; sed celerare fugam in silvas et fidere nocti.
Obiciunt equites sese ad divortia nota hinc atque
hinc,omnemque aditum custode coronant. Silva fuit, late dumis atque ilice
nigra horrida, quam densi complerant undique sentes,
rara per occultos lucebat semita calles. Euryalum tenebrae
ramorum onerosaque praeda impediunt, fallitque timor regione
viarum. NISVS abit: iamque imprudens evaserat hostes atque locos,
qui post Albae de nomine dicti Albani (tum rex stabula alta Latinus
habebat). Ut stetit et frustra absentem respexit amicum:
« Euryale infelix, qua te regione reliqui? ge, così brevemente. parlò: «
Fermiamoci, chè oramai la luce nemica si appressa. Li abbiamo puniti
abbastanza, e aperta in mezzo ai nemici è la via ». Lasciano lì
molte armi di guerrieri lavorate di argento massiccio, ed i crateri
insieme ed i belli tappeti. Eurìalo si toglie i fregi di Ramnete ed il
balteo dall’auree borchie, e, invano!, sugli omeri forti lo adatta. A
Rèmolo, il tiburtino, li aveva mandati una volta il ricchissimo Cèdico,
in segno di ospitalità ch’egli stringeva da lungi; e quegli moren-
do li diede al nipote, e, questo morto, i Rùtuli se ne im- padronirono in
guerra. Poi l’elmo di Messapo si cinge, agevole, e adorno di creste.
Escon dal campo e s’avvia- no in salvo. Frattanto i cavalieri
mandati innanzi dalla città di Latino, mentre i pedoni attendono armati
nella campa- gna, venivano per riportare al re Turno un responso:
trecento, tutti scudati, ed era lor duce Volscente. E già erano. presso
al campo e varcavan le mura, quando da lungi li scorgono che piegavano
verso sinistra; e l’elmo, nella penombra notturna tradì EURÌALO immemore,
a un raggio di luna splendendo. È non fu vana la vista. Grida dalla
sua schiera Volscente: « Fermi, voi! perchè siete in via? chi siete così
armati? e dove andate? ». Ma quelli non rispondono, anzi si affrettano in
fuga pei boschi e fidano nell’oscurità. 1 cavalieri si gettano di qua, di
là ai bivi ben noti, e tutte circondan di gnardie le uscite. Era una
selva spaziosa e orrida di nere querce e di pruni, densa da ogni parte di
sterpi; e tra le peste occulte, raro si apriva un sentiero. L'ombre dei
rami e il carico del bottino ritardavano Euriìalo, e il timore gli fa
smar- rire la via. Niso è fuggito; e di già, senza pensare all’a-
mico, altrepassati aveva i nemici ed i luoghi che poi dal nome di Alba
furon chiamati Albani (allora, v’era- Quaque sequar, rursus
perplexum iter omne revolvens fallacis silvae? » Simul et vestigia retro observata legit dumisque silentibus
errat. Audit equos, audit strepitus et signa sequentum. Nec
longum i in medio tempus, cum clamor ad aures pervenit ac videt EURYALVM, quem
iam manus omnis fraude loci et noctis, subito turbante
tumultu, Oppressum rapit et conantem plurima frustra. Quid faciat?
qua vi iuvenem, quibus audeat armis eripere? an sese medios moriturus in
hostes inferat, et pulchram properet per vulnera mortem? Ocius adducto
torquens hastile lacerto, suspiciens altam Lunam, et sic voce
precatur: Tu, Dea, tu praesens nostro succurre labori, astrorum
decus et nemorum Latonia custos: si qua tuis umquam pro me pater Hyrtacus
aris dona tulit, si qua ipse meis venatibus auxi,
supendive tholo aut sacra ad fastigia fixi: hunc sine me
turbare globum et rege tela per auras. Dixerat, et toto conixus corpore ferrum
conicit. Hasta volans noctis diverberat umbras, et venit adversi in
tergum Sulmonis, ibique frangitur, ac fisso transit praecordia
ligno. Volvitur ille vomens calidum de pectore flumen
frigidus et longis singultibus ilia pulsat. 415 Diversi circumspiciunt.
Hoc acrior idem ecce aliud summa telum librabat ab aure. Dum
trepidant, it hasta Tago per tempus utrumque stridens, traiectoque haesit
tepefacta cerebro. Saevit atrox Volscens nec teli conspicit usquam
420 auctorem nec quo se ardens immittere possit. Tu tamen interea
calido mihi sanguine poenas persolves amborum » inquit: simul ense recluso
i no i pascoli
incolti del re Latino). Come ristette, ed in- vano si volse a cercare
l’amico: « O infelice EURIALO, e dove mai t'ho lasciato? dove ti
cercherò, ancor rifacendo il cammino tortuoso per la selva fallace? ». E
tosto nota e ricalca all’indietro le tracce, ed erra silenzioso tra
i pruni. Ode i cavalli, ode lo strepito e i segnali degl’inse-
guitori. E ben presto agli orecchi un grido gli giunge; ed Eurìalo vede,
cui già tutta quanta la schiera, ingan- nato dal luogo e dal buio,
turbato dall’improvviso tu- multo, circonda ed incalza; ed invano ei
tenta in mille modi la fuga. Che fare? con quali forze, con quali
armi tentar di salvare il fanciullo? O non è meglio lanciarsi in
mezzo ai nemici a morire, e bella cercare con le fe- rite la morte? E
subito, vibrando col braccio all’indie- tro un lanciotto, guarda la Luna
nell’alto e così le ri- volge una prece: « Tu, dea, tu, propizia, nel
nostro peri- glio soccorrici, o Latònia, onore degli astri e delle
selve custode, se mai ai tuoi altari doni per me ti recò Irtaco, il
padre, se mai con le mie cacce anch’io ne aggiunsi, e li sospesi alla
volta o li infissi ai sacri pinnacoli '*, lascia che io disordini questa
schiera, e guidami i dardi per l’aria ». Disse, e con tutto il suo corpo
puntando, lan- ciò il ferro. E l’asta volando sferza le ombre
notturne, e trapassa nel petto fino alle spalle Sulmone, ed ivi si
spezza, e attraversa, infittavi dentro, i precordi. Cade di sella colui,
vomitando un caldo fiume dal petto, gia freddo, ed i fianchi gli scuotono
lunghi singhiozzi. Guar- dano gli altri qua e la; e Niso ne prende
coraggio, e dall’altezza del capo, ecco, un altro dardo librava. E,
nella trepida attesa, l’asta attraversa stridendo a Tago le tempia, e
s’infigge tiepida in mezzo al cervello. Atro- cemente infuria Volscente,
chè non vede l'autore del eolpo per potersi lanciare ardente contro di
lui. « Eb- de ibat in EURYALVM. Tum vero exterritus,
amens conclamat Nisus, nec se celare tenebris . amplius, aut tantum
potuit perferre dolorem: « Me me, adsum qui feci, in me convertite
ferrum, o Rutuli! mea fraus omnis: nihil iste nec ausus, nec potuit:
caelum hoc et conscia sidera testor. Tantum infelicem nimium dilexit
amicum. Talia dicta dabat: sed viribus ensis adactus transabiit costas et
candida pectora rumpit. Volvitur Euryalus leto, pulchrosque per
artus it cruor, inque umeros cervix collapsa recumbit: purpureus
veluti cum flos succisus aratro 435 languescit moriens, lassove papavera
collo demisere caput, pluvia cum forte gravantur. At NISVS ruit in
medios solumque per omnes Volscentem petit, in solo Volscente
moratur. Quem circum glomerati hostes hinc comminus spe {hbinc
440 proturbant. Instat non secius ac rotat ensem fulmineum,
donec Rutuli clamantis in ore condidit adverso et moriens animam abstulit
hosti. Tum super exanimum sese proiecit amicum confossus placidaque
ibi demum morte quievit. 445 Fortunati ambo! si quid mea carmina
possunt, nulla dies umquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae
Capitolii immobile saxum accolet imperiumque pater Romanus habebit.
Victores praeda Rutuli spoliisque potiti | 450 Volscentem exanimum
flentes in castra ferebant. Nec minor in castris luctus, Rhamnete
reperto exsangui, et primis una tot caede peremptis Sarranoque
Numaque. Ingens concursus ad ipsa corpora seminecesque viros tepidaque
recentem bene, tu pagherai intanto col caldo tuo sangue per am- bedue »
gridò; e, sguainata la spada, senz’altro si av- venta ad Eurìalo. Ma
allora, atterrito, fuor di sè, con un grido, non potè più celarsi nelle
tenebre Niso, e sopportare un sì grande dolore: « Me, me! Son qui,
so- no io il colpevole; in me rivolgete le armi, o Rùtuli! È mia
ogni frode; costui non osò, non poteva; pel cielo, lo giuro, e per le
consapevoli stelle. Sola sua colpa, che troppo amò l’infelice suo amico
». Così diceva; ma il ferro, vibrato con forza, attraversò le coste e
ruppe il candido petto. S'abbattè Eurìalo morendo, e per le mem-
bra leggiadre il sangue si spande, ed il collo si piega ab- bandonato
sopra le spalle: come quando un fiore pur- pureo che l’aratro ha reciso,
languisce morendo: o co- me quando i papaveri sul collo stanco la testa
piegano, se per caso li grava la pioggia. Ma Niso si slancia
nel mezzo, e solo, fra tutti, Volscente cerca, e sol di Volscente si cura. Gli
si affollano intorno i nemici, e d’ogni parte, da presso, lo
ricaccia- no; e nondimeno egli incalza ruotando la spada fulmi-
nea, finchè la piantò nella bocca del Rùtulo, che schia- mazzava, e, già
morente, rapì al nemico la vita. Poi. si gettò, crivellato di colpi sopra
l’esanime amico, ed ivi, infine, trovò in placida morte riposo. Fortunati
ambe- due! Se qualche valore ha il mio canto, giorno nessuno mai vi
torrà alla memoria dei tempi, finchè la stirpe di Enea terrà del
Campidoglio l’incrollabile rupe, e il padre della patria romana avrà qui
l'impero !. Vincitori i Rùtuli, con la preda e con le spoglie, pian-
gendo portavano esanime nell’accampamento Volscen- te. E non minore fu il
lutto nel campo, allorchè si sco- perse esangue Ramnete, ed insieme con
lui tanti duci uccisi alla strage, e Sarrano, e Numa; la folla si
accalca caede locum et plenos spumanti sanguine rivos. Agnoscunt
spolia inter se galeamque nitentem Messapi, et multo phaleras sudore receptas.
Et iam prima novo spargebat lumine terras Tithoni croceum linquens
‘Aurora cubile; iam sole infuso, iam rebus luce retectis,
Turnus in arma viros, armis circumdatus ipse, suscitat, aeratasque
acies in proelia cogit quisque suas, variisque acuunt rumoribus
iras. Quin ipsa arrectis (visu miserabile) in hastis praefigunt
capita et multo clamore sequuntur Euryali et Nisi. Aeneadae
duri murorum in parte sinistra apposuere aciem, nam dextera cingitur
amni, ingentesque tenent fossas et turribus altis stant maesti;
simul ora virum praefixa movebant, nota nimis miseris atroque fluentia
tabo. Interea pavidam volitans pinnata per urbem nuntia Fama
ruit, matrisque adlabitur aures EURYALI. At subitus miserae calor ossa
reliquit: excussi manibus radii revolutaque pensa. Evolat
infelix, et femineo ululatu, scissa comam, muros amens atque agmina
cursu prima petit, non illa virum, non illa pericli telorumque
memor; caelum dehinc questibus implet: 480 « Hunc ego te, EURYALE,
adspicio? tunc illa senectae sera meae requies, potuisti linquere
solam, crudelis? nec te, sub tanta pericula missum, adfari extremum
miserae data copia matri? Heu, terra ignota canibus data praeda
Latinis alitibusque iaces, nec te, tua funera mater produxi
pressive oculos aut vulnere lavi, veste tegens, tibi quam noctes festina
diesque ai loro corpi, e ai guerrieri moribondi, ed al luogo ancor
caldo di strage recente, ed al sangue schiumante che scorre in ruscelli.
Riconoscon fra loro le epoglie, e di Messapo il lucido elmo, e i fregi
con grande sudore riavuti. ! E già di nuova luce spargeva la
terra la prima Aurora lasciando il giaciglio croceo di Titone; già sorto
il sole, già scoperte le cose alla luce, Turno, già chiuso nell’armi,
chiama alle armi i guerrieri; ed ordina ognuno in battaglia le sue
schiere coperte dî bronzo, e raccontan- do il fatto ne acuisce gli
sdegni. Anzi, o miserabile vieta!, piantan sull’aste i capi, e li seguono forte
gridando, di EURIALO e di NISO. Gli Enèadi saldi sulla parte einistra dei
muri ordinan la resistenza — chè la destra è recinta dal fiume —, e
difendono gli ampi fossati e stan mesti in cima alle torri; e li
sgomentano i volti con- fitti dei due guerrieri, ahi troppo noti a loro
infelici, e gocciolanti di marcia e di sangue. Intanto messaggera
la Fama volando alata per la città spaventata va scorrendo, e agli
orecchi giunge del- la madre di Eurìalo. Subitamente il calore lasciò
del- l’infelice le ossa: le cade di mano la spola e rotolan giù i
gomitoli. Esce correndo la misera, e, come donna, ur- lando, stracciate
le chiome, folle, raggiunge di corsa le mura e le prime avanguardie; e
non si cura, essa, dei guerrieri e del rischio dell’armi, e il cielo
riempie con i suoi lamenti: « Così ti rivedo, o Eurialo? Ultimo ri-
. poso alla mia vecchiezza, o crudele, lasciarmi sola hai potuto? E
non fu dato a tua madre infelice parlarti l’ultima volta, quando movesti
ad un rischio sì grande? Ahi, in terra ignorata, preda ai cani latini ed
agli uc- celli tu giaci; ed io, tua madre, non ho seguito i tuoi
resti mortali, e non ti ho chiusi gli occhi e lavate le tue 4 -
VircILI9 - Eneide - Vol. III urgebam et tela curas solabar
aniles. Quo sequar? aut quae nunc artus avulsaque membra et funus
lacerum tellus habet? hoc mihi de te, nate, refers? hoc sum
terraque marique secuta? Figite me, si qua est pietas, in me omnia
tela conicite, o Rutuli: me primam absumite ferro: aut tu,
magne pater Divum, miserere, tuoque 495 invisum hoc detrude caput sub Tartara
telo, quando aliter nequeo crudelem abrumpere vita. »
Hoc fletu concussi ariimi, maestusque per omnes it gemitus;
torpent infractae ad proelia vires. Illam incendentem luctus Idaeus
et Actor 500 Jlionei monitu et multum lacrimantis Iuli
corripiunt interque manus sub tecta reponunt. At tuba
terribilem sonitum procul aere canoro increpuit; sequitur clamor,
caelumque remugit. Accelerant acta pariter testudine Volsci et fossas
implere parant ac vellere vallum. Quaerunt pars aditum et scalis
ascendere muros, qua rara est acies interlucetque corona
non tam spissa viris. Telorum effundere contra omne genus
Teucri ac duris detrudere contis, 510 adsueti longo muros defendere
bello. Saxa quoque infesto volvebant pondere, si qua
possent tectam aciem perrumpere: cum tamen omnes ferre iuvat subter
densa testudine casus. Nec iam sufficiunt; nam, qua globus imminet ingens,
515 immanem Teucri molem volvuntque ruuntque, quae stravit
Rutulos late armorumque resolvit tegmina. Nec curant caeco contendere
Marte amplius audaces Rutuli, sed pellere vallo
missilibus certant. 520 Parte alia horrendus visu quassabat
Etruscam ferite, avvolgendoti poi nella veste che, giorno e notte,
per te, sollecita io tesseva, consolando al telaio i miei affanni senili.
Dove cercarti? Qual terra ha ora le tue membra troncate e la tua lacera
salma? Questo, o mio figlio, mi riporti di te? Questo, questo, per terra
e per mare, ho seguito? Me trafiggete, se in voi è alcuna pietà; su
me tutte l’armi scagliate, o Rùtuli; me prima uccidete col ferro! E se
no, abbimi misericordia tu, o gran padre dei numi, e col tuo dardo
scagliami questo mio capo odioso giù nel profondo del Tàrtaro, se in
al- tro modo non posso troncar questa vita crudele ». Si
consumarono i cuori a quel pianto, e mesto fra tutti un singhiozzare si
spande; si fiaccano infrante le forze dei guerrieri; ma Attore e Idèo,
per ordine di Ilionèo e di lulo molto piangente, la presero, chè
suscitava troppo dolore, ed a braccia la riportarono in casa.
Ma da lontano la tromba per il suo bronzo canoro squillò con
terribile suono; e la segue il grido di guerra e ne rimbombano L cieli.
Vengono i Volsci all'assalto, sotto la testuggin ‘!* serrati, e
s'accingono a colmare le fosse e a svellere il vallo '”. Altri cercano un
varco per la scalata alle mura, là dove rada è la schiera, e vi
tra- luce meno spessa di eroi la corona. Dall’altra' parte i Teucri
rovesciano ogni sorta di dardi, e li ricacciano giù con le lor dure
picche; chè erano avvezzi a difen- dere in lunga guerra le mura. E
rotolavano in basso ad offesa pesanti macigni, per tentar di spezzare la
schie- ra coperta: ma questa, sotto la densa testuggine, sopporta ogni
colpo. Ma ormai non possono più; chè lad- dove più folta e perigliosa è
la schiera, un masso im- menso i Troiani rotolano e piombano giù, che per
un ampio tratto schiacciò i Rùtuli e ruppe il riparo di scudi.
Allora non pensano più, i Rùtuli audaci, a farpinum et fumiferos infert
Mezentius ignes. At Messapus equum domitor Neptunia proles,
rescindit vallum et scalas in moenia poscit. Vos, o Calliope,
precor, adspirate canenti, 525 quas ibi tunc ferro strages, quae funera
Turnus ediderit, quem quisque virum demiserit Orco, et mecum
ingentes oras evolvite belli; let meministis enim, Divae, et memorare
potestis). Turris erat vasto suspectu et pontibus altis, opportuna
loco, summis quam viribus omnes expugnare Itali summaque evertere opum
vi certabant, Troes contra defendere saxis perque cavas densi tela
intorquere fenestras. Princeps ardentem coniecit lampada Turnus
535 et flammam adfixit lateri, quae plurima vento | corripuit
tabulas et postibus haesit adesis. Turbati trepidare intus
frustraque malorum velle fugam. Dum se glomerant, retroque
residunt in partem, quae peste caret, tum pondere turris procubuit
subito, et caelum tonat omne fragore. Semineces ad terram, immani mole
eecuta, confixique suis telis et pectora duro
transfossi ligno veniunt. Vix unus Helenor et Lycus elapsi,
quorum primaevus Helenor, Maeonio regi quem serva Licymnia furtim sustulerat
vetitisque ad Troiam miserat armis, ense levis nudo parmaque
inglorius alba. Isque, ubi se Turni media inter milia vidit,
hinc acies atque hinc acies adstare Latinas; ut fera, quae, densa
venantum saepta corona, contra tela furit seseque haud nescia
morti inicit et saltu supra venabula fertur: haud
aliter iuvenis medios moriturus in hoetes guerra così al coperto, ma
lanciano dardi al nemico per discacciarlo dal vallo. In altra parte,
orrendo a vedersi, squassava la fiaccola etrusca '* Mesenzio, e fuochi
fu- manti lanciava. E intanto Messapo, il domator di cavalli, prole
nettunia, rompeva il vallo e chiedeva le scale a salir sulle mura.
Voi '’, o Calliope, ti prego, ispirate il mio canto: quali stragi
ivi col ferro, e che lutti Turno spargesse, e chi ogni guerriero laggiù
nell’Orco respinse; e meco il gran quadro della guerra svolgete. Chè
tutto voi ricordate, o Dee, e agli altri ricordarlo potete. °°
V’era una torre, altissima a guardarla dal basso, con erti ponti,
opportunamente disposta; e tutti con ogni forza lottavano gli Itali per
espugnarla, e con estrema | violenza tentavan di abbatterla: ma di
rincontro i Tro- iani fitti la difendevan coi sassi e scagliavano dardi
pei vani delle finestre. Primo Turno lanciò una fiaccola ar- dente,
e nel fianco vi confisse una fiamma, che, nutrita dal vento, invase le
tavole, e alle imposte corrose si apprese. Spaventati, quelli di dentro,
si scompigliano, e invano cercan fuggendo lo scampo. E mentre si
affol- lano, e s’arretrano in una parte ancora illesa dal fuo- co,
allora a quel peso la torre improvvisamente si schian- ta, e tutto a quel
fragore il cielo rintuona. A terra semi- vivi, sotto l'enorme mole,
cadono, dalle lor armi trafitti o trapassato il petto dal duro legno. Due
soli appena, Elènore e Lico, scamparono; dei quali il giù giovine,
Elènore, Licinnia, una schiava, avea generato ad un re Meonio con amore
furtivo: e, con armi vietate ?!, a Troia l’aveva mandato, alla leggera,
con sola la spada, oscuro, e con un semplice scudo. Ma egli, come si vide
in mezzo ai mille di Turno, e d’ogni parte incalzarlo schiere e
schiere latine: come una belva che cinta da un denso irruit et, qua tela
videt densissima tendit. 559 At pedibus
longe melior Lycus inter et hostes inter et arma fuga muros tenet
altaque certat prendere tecta manu sociumque attingere
dextras. Quem Turnus, pariter cursu teloqye secutus, increpat
his victor: « Nostrasne evadere, demens, sperasti te posse manus? » simul
arripit ipsum pendentem, et magna muri cum parte revellit:
qualis ubi aut leporem ‘aut candenti corpore cycnum sustulit alta
petens pedibus Iovis armiger uncis, quaesitum aut matri multis balatibus
agnum 965 Martius a stabulis rapuit lupus. Undique clamor tollitur;
invadunt et fossas aggere complent; ardentes taedas alii ad
fastigia iactant. Ilioneus saxo atque ingenti fragmine montis
Lucetium portae subeuntem ignesque ferentem, : Emathiona Liger, Corynaeum
sternit Asylas, hic iaculo bonus, hic longe fallente sagitta;
Ortygium Caeneus, victorem Caenea Turnus, Turnus Ityn
Cloniumque, Dioxippum Promolumque et Sagarim et summis stantem pro
turribus Idam: Privernum Capys. Hunc primo levis hasta Themillae
strinxerat; ille manum proiecto tegmine demens ad vulnus tulit;
ergo alis adlapsa sagitta et laevo infixa est lateri manus
abditaque intus spiramenta animae letali vulnere rupit. Stabat in
egregiis Arcentis filius armis, pictus acu chlamydem et ferrugine
clarus Ibera, insignis facie, genitor quem miserat Arcens eductum
Matris luco Symaethia circum flumina, pinguis ubi et placabilis ara
Palici. Stridentem
fundam, positis Mezentius hastis ipse ter adducta circum caput agit
habena, cerchio di cacciatori, infuria contro le armi, e conscia si
slancia a morire, e con un balzo sopra gli spiedi si lancia, non
altrimenti il giovane morituro si getta nel mezzo ai nemici, e, dove vede
più folte le armi, là ten- de. Ma, più veloce alla corsa, Lico, fra i
nemici e fra l’armi fuggendo è già presso alle mura, e cerca di af-
ferrarsi là al sommo, e di aggrapparsi alle mani dei com- pagni;. ma
Turno, a corsa, e con l’armi, lo segue e lo giunge, e, vincitore,
l’oltraggia: « Folle, sperasti tu dun- que dalle mie mani scampare? » e
sì dicendo lo afferra penzoloni e lo svelle con una gran parte del muro:
come quando una lepre o un cigno dal candido corpo si porta nell’alto
l’armigero di Giove °° con piedi arti- gliati, o come quando il marzio
lupo rapisce dalla stal- la un agnello, e lo cerca con lunghi belati la
madre. Si alzan da ogni parte le grida; vanno all’assalto, e col.
man di terra i fossati; altri fiaccole ardenti lanciano verso le cime.
Ilioneo con un sasso, un enorme pezzo di monte, abbatte Lucezio, che già
era sotto alla porta per appicarvi il fuoco; Lìgero atterra Emazione:
Asila, Corineo; l’uno valente nell’asta, l’altro nel dardo che
coglie da lungi. Cèneo uccide Ortigio; e Turno, il vin- citore Cèneo;
Turno, Iti e Clònio e Diossippo e Pròmolo e Sàgari e Ida, che guardava le
altissime torri. Capi uccise Priverno. L’aveva sfiorato da prima
lievemente la lancia di Temilla; ed egli, gettato lo scudo, folle
por- tò la mano alla ferita: e allora, volando, una freccia gli
piantò nel fianco sinistro la mano, ed entrando gli rup- pe con mortale
ferita i polmoni. Stava nell’armi egre- gie il figlio di Arcente, con
ricamata la clàmide, spleu- dente di porpora ibèra #, bello di aspetto,
che il padre Arcente aveva mandato; ed allevato lo aveva di Cibele
nel bosco, presso alle correnti del Simeto, là dove è et media adversi
liquefacto tempora plumbo diffidit ac multa porrectum extendit
harena. Tum primum bello celerem intendisse sagittam dicitur, ante
feras solitus terrere fugaces, Ascanius, fortemque manu’ fudisse
Numanum cui Remulo cognomen erat, Turnique minorem germanam nuper
thalamo sociatus habebat. Is primam ante aciem digna atque indigna
relatu vociferans, tumidusque novo praecordia regno ibat et
ingentem sese clamore ferebat: « Non pudet obsidione iterum valloque
teneri, bis capti Phryges, et morti praetendere muros? En qui
nostra sibi bello conubia poscunt! Quis Dens Italiam, quae vos dementia
adegit? Non hic Atridae nec fandi fictor Ulixes: durum ab stirpe genus
natos ad flumina primum deferimus saevoque gelu duramus et undis:
venatu invigilant pueri silvasque fatigant, flectere ludus equos et
spicula tendere cornu. At patiens operum
parvoque adsueta iuventus aut rastris terram domat aut quatit oppida
bello. Omne aevum ferro teritur, versaque iuvencum terga fatigamus
hasta; nec tarda senectus debilitat vires animi mutatque vigorem;
canitiem galea premimus, semperque recentes comportare iuvat praedas et
vivere rapto. Vobis picta croco et fulgenti murice vestes, desidiae
cordi; iuvat indulgere choreis, . et tunicae manicas et habent redimicula
mitrae. O vere Phrygiae, neque enim Phryges, ite per alta Dindyma, ubi
adsuetis biforem dat tibia cantum. Tympana vos buxusque vocant Berecyntia
matris Idaeae: sinite arma viris et cedite ferro. » pingue di
doni e mite l’altar di Palìco **. Posate le aste, tre volte rotando la
fune al suo capo, Mesenzio stesso lanciava la fionda stridente; e con il
piombo disciolto *. gli ruppe nel mezzo le tempie, e lo rovesciò lungo
di- steso sul suolo. Dicon che allora, la prima volta
scagliasse in guerra il suo agile dardo Ascanio, già assuefatto a
spaventare in fuga le fiere, e di sua mano abbattesse il forte Numano,
Rèmolo detto, che aveva da poco sposata la sorella minore di Turno. Quegli,
davanti a tutti, vociferando a diritto e a rovescio, gonfio nel cuore della
fresca real parentela, andava avanzando borioso gridan- do: « E non vi
vergognate, o Frigi acchiappati due vol. te, di stare un’altra volta
dentro ad un vallo assediati, e di opporre alla morte le mura? Eccoli,
quelli che chie- dono le nostre spose con l’armi! Qual Dio vi ha
spinti in Italia o quale vostra follia? Non sono qui gli Atridi, nè
Ulisse spacciatore di frottole. Dura razza fin dalla ra- dice, i nostri
figli tuffiamo appena nati nei fiumi, e li induriamo al crudo gelo
dell’onde. Fanciulli, si danno alle cacce e stamcan le selve, ed è lor
gioco domare ca- valli e tender dall'arco le frecce. Poi, pazienti al
lavoro e paghi di poco, i giovani doman la terra coi rastri, o
scrollano in guerra le mura. Ogni età si consuma tra il ferro, e con
l’asta a rovescio pungiamo le terga dei buoi; nè la vecchiaia, ancor
tarda, indebolisce le forze del- l’animo o ne muta il vigore; premiamo
con l’elmo i ca- pelli canuti, e sempre ci giova portar via prede
novelle e vivere della rapina. Ma voi amate le vesti dipinte di
croco e di porpora splendida; vi piace badare alle dan- ze, con tuniche
adorne di maniche e mitre guarnite di nastri. O veramente Frige, e non
Frigi, andate per l’alto del Dìndimo ?‘, dove solete ascoltare il canto
del flauto Talia iactantem dictis ac dira canentem non tulit
Ascanius, nervoque obversus equino intendit telum, diversaque bracchia
ducens constitit, ante lovem supplex per vota precatus: « Iuppiter
omnipotens, audacibus adnue coeptis, = 625. ipse tibi ad tua templa feram
sollemnia dona et statuam ante aras aurata fronte iuvencum,
candentem, pariterque caput cum matre ferentem, iam cornu petat et
pedibus qui spargat harenam. » Audiit et caeli genitor de parte serena
intonuit laevum, sonat una fatifer arcus. Effugit horrendum stridens
adducta sagitta perque caput Remuli venit et cava tempora ferro
traicit. « I, verbis virtutem illude superbis! bis capti Phryges haec
Rutulis responsa remittunt. Hoc tantum Ascanius. Teucri clamore
sequuntur, laetitiaque fremunt animosque ad sidera tollunt.
Aetheria tum forte plaga crinitus Apollo desuper Ausonias acies urbemque
videbat, nube sedens, atque his victorem affatur Iulum: 640 « Macte
nova virtute, puer: sic itur ad astra, Dis genite et geniture Deos. Iure
omnia bella gente sub Assaraci fato ventura resident: nec te Troia
capit. » Simul haec effatus ab alto aethere se mittit, spirantes dimovet
auras, 645 Ascaniumque petit. Forma tum vertitur oris antiquum in
Buten. Hic Dardanio Anchisae armiger ante fuit fidusque ad limina
custos. Tum comitem Ascanio pater addidit. Ibat Apollo omnia
longaevo similis, vocemque coloremque 650 et crines albos et saeva
sonoribus arma; atque his ardentem dictis adfatur Iulum: « Sit
satis, Aenide, telis impune Numanum a due canne. Vi chiamano i timpani del
Berecinto e il flauto di bosso della gran Madre idèa; lasciate agli
uo- mini l’armi e rinunciate alla guerra ». Le vanterie e gli
insulti non tollerò Ascanio, e men- tr’egli sbraitava, di fronte a lui
incoccò sul nerbo equi- no °° una freccia, e con le braccia aperte stiè
fermo, pri- ma levando a Giove, supplichevole, il voto: « O Giove
onnipotente, consenti all'audace mia impresa. Ed io solenni doni ti
recherò ai tuoi templi, ed agli altari un giovenco t'immolerò, dalle
corna dorate, candido, che porti il capo alto al par della madre, e già
cozzi e coi piedi sparga all’intorno l’arena ». L’udì il Padre, e dalla
plaga serena del cielo tuonò da sinistra: ed insieme ri- suonò il suo
arco fatale. OCrribilmente stridendo fuggì la scagliata saetta, e dentro
il capo di Rèmolo s’infisse e trapassò col ferro le concave tempia. « Va,
schernisci il valore con le parole superbe! I Frigi, due volte
acchiap- pati, questa risposta ai Rùtuli inviano ». Nè altro disse
Ascanio; ma i Teucri lo applaudon gridando, e fremon di letizia, ed
alzano il cuore alle stelle. Proprio allora, dall’alto del cielo Apollo
crinito stava mirando le schiere ausonie ed il campo, seduto sopra una nube; e
a Iulo vittorioso volgeva queste parole: « Bene, o valoroso
fanciullo! Così si ascende alle stelle, o progenie di nu- mi che dovrai
generare altri numi. Ben tutte le guerre future, per volere dei fati,
sotto la stirpe di Assàraco dovranno aver fine: troppo poco è Troia per
te. Ciò detto, dall’alto dell’etere si getta, e fende le aure
vitali, e viene ad Ascanio, mutando l’aspetto del volto in quello
di Bute, l’anziano. Questi già era stato di Anchise dar- danio scudiero e
fido custode alle soglie. Poscia il padre lo diede compagno ad Ascanio;
ed Apollo veniva simile in tutto a quel vecchio, la voce, il colore, i
capelli canoppetisse tuis: primam hanc tibi magnus Apollo concedit
laudem et paribus non invidit armis:cetera parce, puer, bello. » Sic orsus
Apollo mortales medio adspectus sermone reliquit, et
procul in tenuem ex oculis evanuit auram. Agnovere Deum proceres
divinaque tela Dardanidae, pharetramque fuga sensere sonantem.Ergo
avidum pugnae dictis ac numine Phoebi Ascanium prohibent: ipsi in
certamina rursus succedunt animasque in aperta pericula
mittunt. It clamor totis per propugnacula muris:
intendunt acres arcus amentaque torquent. 665 Sternitur omne
solum telis; tum scuta cavaeque dant sonitum flictu galeae; pugna
aspera surgit; quantus ab occasu veniens pluvialibus Haedis .
verberat imber humum: quam multa grandine nimbi in vada
praecipitant, cum Iuppiter horridus Austris torquet aquosam hiemem et caelo
cava nubila rumpit. Pandarus et Bitias, Idaeo Alcanore creti,
quos Iovis eduxit luco silvestris Iaera abietibus iuvenes patriis et
montibus aequos, portam, quae ducis imperio commissa, recludunt,
freti armis, ultroque invitant moenibus hostem. Ipsi intus dextra
ac laeva pro turribus adstant, armati ferro et cristis capita alta
corusci: quales aériae liquentia flumina circum, sive
Padi ripis Athesim seu propter amoenum, consurgunt geminae quercus intonsaque
caelo attollunt capita et sublimi vertice nutant. Irrumpunt, aditus
Rutuli ut videre patentes. Continuo Quercens et pulcher Aquicolus
armis et praeceps animi Tmarus et Mavortius Haemon agminibus totis
aut versi terga dedere, didi e l’armi ferocemente sonanti: ed all’ardente
Iulo si volge con queste parole: « Ti basti, o figliuolo d’Enea, che sia
caduto Numano per il tuo colpo e senza tuo male; questa prima lode a te
il grande Apollo concede, e non t’invidia se tu lo eguagli nell’ arco; ma
d’ora in poi, o fanciullo, astieniti dal guerreggiare ». Così di-
cendo Apollo, a mezzo il discorso lasciò l'aspetto mor- tale e lontano
svanì dagli occhi nell’aria leggera. Rico- nobbero il Dio gli anziani dei
Dàrdani, e l’armi divine, e sentiron sonare, mentr'egli fuggìa, la
faretra. Onde ai detti e al volere di Febo allontanavano. Ascanio, avi-
do ancora di pugna; ritornano essi a combattere, ed espongono nell’aperto
periglio la vita. S'alza da tutte le mura per tutte le torri un clamore:
tendono gli ar- chi gagliardi e lanciano i giavellotti. Il suolo tutto si
copre di strali; ai colpi risuonan gli scudi e i concavi elmi; insorge
dura la pugna. Così al venir da ponente, sotto i Capretti piovosi °°,
sferza la pioggia la terra; così con la grandine precipitano i nembi sul
mare, quando orrido Giove con gli Austri turbina l’acque a diluvio,
e nel cielo le concave nubi dirompe. Pàndaro e Bizia, da
Alcànore Idèo generati, che nel bosco di Giove allevòo la silvestre Ièra
*, giovani pari agli abeti dei monti paterni, apron la porta, che il
duce aveva a loro affidata, fiduciosi nell’armi, e il nemico provocano a
entrar nelle mura. Ed essi là dentro, a destra e a sinistra, si rizzano a
guisa di torri, di ferro armati, e corruschi gli erti capi di creste;
come aeree lunghesso 1 fiumi correnti, sulle sponde del Po o presso
l'Adige ameno, sorgon due querce gemelle, e innalzano le chio- me
intonse nel cielo, con le cime sublimi ondeggiando. Irrompono i Ruùtuli,
poi che videro aperte le porte; ma tosto Quercente e Aquìcolo bello
nell’armi e Tmaro aut ipso portae posuere in limine vitam. Tum magis increscunt animis discordibus irae: et iam collecti Troés
glomerantur eodem et conferre manum et procurrere longius audent. 690
Ductori Turno diversa in parte furenti turbantique viros perfertur
nuntius, hostem fervere caede nova et portas praebere patentes.
Deserit inceptum atque immani concitus ira Dardaniam ruit ad portam
fratresque superbos. Ét primum Antiphaten (is enim se primus agebat), *
Thebana de matre nothum Sarpedonis alti, coniecto sternit iaculo: volat
Itala cornus aéra per tenerum, stomachoque infixa sub altum pectus
abit: reddit specus atri vulneris undam 700 spumantem, et fixo ferrum in
pulmone tepescit. Tum Meropem atque Erymanta manu, tum sternit
[Aphidnum: ‘tum Bitiam ardentem oculis animisque
frementem, non iaculo (neque enim iaculo vitam ille dedisset). Sed
magnum stridens contorta phalarica venit,, 705 fulminis acta modo, quam
nec duo taurea terga nec duplici squama lorica fidelis et auro
sustinuit. Collapsa ruunt immania membra. Dat tellus gemitum, et clipeum
super intonat ingens. Talis in Euboico Baiarum litore quondam 710
saxea pila cadit, magnis quam molibus ante constructam ponto iaciunt; sic
illa ruinam prona trahit penitusque vadis illisa recumbit; miscent
se maria et nigrae attolluntur harenae; tum sonitu Prochyta alta tremit,
durumque cubile 715 Inarime Iovis imperiis imposta Typhoeo.
Hic Mars armipotens animum viresque Latinis addidit et stimulos
acres sub pectore vertit l’impetuoso ed il marziale Emone, con tutte le
schiere, o volser fuggendo le spalle, o sulla soglia stessa della
porta lasciaron la vita. Allora crescon vie più nei cuori discordi le
ire; e già ammassati i Troiani si stringon colà, ed osan venire alle mani
e avanzarsi fuori più lungi. Al duce Turno, che in altra
parte infuriava e sgomi- nava i guerrieri, giunge la nuova: il nemico
arde di strage novella, e aperte si offron le porte. Lascia l’im-
presa e spinto dall’ira tremenda, contro la porta darda- nia si scaglia e
i fratelli superbi. E per il primo Antifate (poichè avanzava pel primo) di
madre tebana ba- stardo di Sarpèdone alto, colpisce ed abbatte col
dardo: vola il corniolo italico *' per l’aria leggera, e piantatosi
in gola scende nel fondo del petto; sgorga dalla caver- na della negra
ferita un'onda spumante, e nel polmone trafitto intiepidisce il ferro.
Poi Mèrope ed FErimante abbatte, poi Afidno, poi Bizia che Iampeggiava
con gli occhi e con il cuore fremeva; ma non con un dardo, chè
quegli con un dardo non dava la vita! Ma fortemen- te stridendo una
falàrica **° venne, lanciata a guisa di un fulmine, cui le due pelli
taurine non ressero, nè la fedele corazza di doppia squama dorata. Le membra
immani stramazzano; la terra ne geme, e di sopra lo ecu- do immenso
rintuona. Tale nel lido euboico di Baia . cade talora un blocco di
macigni che costruiscon prima con grandi massi e poi gettan nel mare;
così esso rovina all’ingiù, e scagliato nel più profondo si arresta:
ma ribollon le onde e negre si sollevan le arene, e a quel fragore
l’alta Pròcida trema, ed Ischia, che per co- mando di Giove, fu posta,
duro letto, sopra Tifèo. Qui Marte signore dell’armi coraggio e forza ai
La- tini crebbe ed acuti gli sproni rivolse loro nel cuore, e immisitque
Fugam Teucris atrumque Timorem. Undique conveniunt, quoniam data copia
pugnae, bellatorque animo Deus incidit. Pandarus ut fuso
germanum corpore cernit, et quo sit fortuna loco, qui casus agat
res, portam vi magna converso cardine torquet, obnixus latis
umeris; multosque suorum moenibus exclusos duro in certamine linquit;
ast alios secum includit, recipitque ruentes, demens, qui Rutulum in
medio non agmine regem viderit irrumpentem, ultroque incluserit
urbi, immanem veluti pecora inter inertia tigrim. Continuo nova lux
oculis effulsit, et arma horrendum sonuere: tremunt in vertice
cristae sanguineae, clipeoque micantia fulmina mittit. Agnoscunt
faciem invisam atque immania membra turbati subito Aeneadae. Tum Pandarus
ingens emicat, et mortis fraternae fervidus ira effatur: «
Non haec dotalis regia Amatae, nec muris cohibet patriis media
Ardea Turnum: castra inimica vides; nulla hinc exire potestas. »
Olli subridens sedato pectore Turnus: « Incipe, si qua animo
virtus, et consere dextram: hic etiam inventum Priamo narrabis Achillem.
» Dixerat. Ille rudem nodis et cortice crudo intorquet summis
adnixus viribus hastam. Excepere aurae: vulnus Saturnia luno
detorsit veniens, portaeque infigitur hasta. At non hoc telum, mea
quod vi dextera versat, effugies: neque enim is teli nec vulneris auctor.
» Sic ait, et sublatum alte consurgit in ensem, et mediam
ferro gemina inter tempora frontem dividit impubesque immani vulnere
malas. contro
i Teucri lanciò la Fuga ed il cupo Terrore. Ac- corrono da ogni parte
quelli, poichè si combatte da presso, ed il guerriero Iddio entrato è a
loro nel cuore. Pandaro, come vede a terra disteso il fratello, e che
la fortuna è per gli altri ed è contrario l'evento, a gran forza,
puntando l’ampie spalle, la porta spinge sui car- dini e serra; e molti
dei suoi lascia fuor delle mura in aspra battaglia; ma altri riesce a
chiuder con sè e li accoglie che precipitavano dentro. Folle, che il
rùtulo ‘re non vide, che in mezzo alla schiera dentro irrompeva, ed
anzi lo serrava nel campo, come, tra un gregge im- belle, feroce una
tigre; di sùbito, gli sfavillo dagli oc- chi una luce novella, e le armi
orribilmente suonarono: si squassan sull’'elmo le creste sanguigne, ed
agitando lo scudo vibra bagliori di lampi. Riconoscon la faccia
odio- sa e le membra giganti, di subito _sgomenti gli Enèadi.
Allora gli sbalza davanti Pàndaro immenso, e fremendo d’ira pel morto
fratello, grida: « Non è questa la reggia dotale di Amata, nè qui è
Ardea, che Turno rinchiuda fra le mura paterne. Campo nemico è questo che
vedi; ed uscir non potrai ». A lui sorridendo Turno con cuore
pacato: « Orsù, se hai coraggio, combatti con me: rac- conterai a Priamo
che anche qui s’è trovato un Achil- le ». Sì disse; e quegli, con ogni
sua forza poggiando, aspro di nodi e di ruvida scorza un giavellotto
lanciò. Ma colpì l’aria, chè la saturnia Giunone deviò il colpo
mortale, e l’asta contro la porta s’infisse. « Ma non tu questa spada,
che ruota la mia destra a gran forza, sfug- girai: chè di un altro è
l’arma ed è la ferita ». Così dis- se, e si alzò con tutta la spada
levata; e con il ferro la fronte gli spaccò in mezzo alle tempie, e, con
orrenda ferita, ancora imberbi le guance. Fu un fragore, e la terra
fu scossa al cader del gran peso; stende egli a VirciLio - Eneide - Vol. Fit
sonus, ingenti concussa est pondere tellus: collapsos artus atque
arma cruenta cerebro sternit humi moriens, atque illi partibus
aequis. huc caput atque illuc umero ex utroque pependit. Diffugiunt
versi trepida formidine Troés; et si continuo victorem ea cura
subisset, rumpere claustra manu sociosque immittere portis,
ultimus ille dies bello gentique fuisset. Sed furor ardentem
caedisque insana cupido egit in adversos. Principio Phalerim et
succiso poplite Gygen excipit: hinc raptas fugientibus ingerit
hastas in tergum. Iuno vires animumque ministrat; addit
Halym comitem et confixa Phegea parma, 765 ignaros deinde in muris
Martemque cientes Alcandrumque Haliumque Noémonaque
Prytanimque. Lyncea tendentem contra sociosque vocantem © vibranti
gladio conixus ab aggere dexter occupat: huic uno deiectum comminus
ictu cum galea longe iacuit caput. Inde ferarum vastatorem Amycum, quo non
felicior alter ungere tela manu ferrumque armare veneno,
et Clytium Aeoliden, et amicum Crethea Musis, Crethea Musarum
comitem, cui carmina semper et citharae cordi numerosque intendere
nervis: semper equos atque arma virum pugnasque canebat.
Tandem ductores, audita caede suorum, conveniunt Teucri, Mnestheus
acerque Serestus, palantesque vident socios hostemque receptum. Et
Mnestheus: « Quo deinde fugam, quo tenditis? inquit. Quos alios
muros, quae iam ultra moenia habetis? Unus homo et vestris, o
cives, undique saeptus aggeribus, tantas strages impune per
urbem terra morendo le membra prostrate e le armi sozze di sangue e
di cèrebro; e da ambedue le spalle gli pen- zola un capo e di qua e di
là. Fuggon respinti da pau- roso terrore i Troiani; e se il vincitore
pensava, in quel momento, a spezzare i cancelli e a far entrar per
la porta i compagni, l’ultimo giorno era quello della guer- ra e
del popol troiano. Ma il suo furore e un folle desi- derio di strage lo
scagliò impetuoso in mezzo ai nemici. Prima egli affronta Fàlari, e a
Gige recide il garretto; poi toglie loro le aste e le lancia alle spalle
ai fuggenti. Forze e coraggio gli somministra Giunone. Hali dà lor
per compagno, e, trafittogli lo scudo, Fegeo; poi, mentre ignari sulle
mura incitavano a guerra, Alcandro, ed Alio, e Noèmone, e Prìtani.
Lìnceo, che gli veniva incontro e chiamava i compagni, egli previene,
rotando la epada, dallo steccato a destra: e d’un sol colpo da presso,
il capo troncato si giacque insieme con l’elmo lontano. Poi, Amico,
il distruttore di fiere, di cui altri non era più esperto ad unger gli
strali e avvelenare le armi; poi, Clizio l’eòlide, e amico alle Muse
Creteo, Creteo alle Muse compagno, che sempre i carmi e le cetre ebbe
a cuore, e l’armonia delle corde: sempre i corsieri e le ar- mi e
le pugne eroiche cantava. Alfine i Teucri duci, udita la strage dei
loro, accor- rono, Mnèsteo ed il padre Seresto, e vedono rotti i
com- pagni, e, fra le mura, il nemico. E Mnèsteo: «E poi, dove
fuggite? dove andare volete? — diceva. — E che altre mura, che altra
città vi rimane? Un uomo solo, e d’ogni parte rinchiuso dai vostri
steccati, potrà, o cit- tadini, di stragi riempir la città, impunemente?
Tanti fra i primi guerrieri manderà giù nell’Orco? Non della misera
patria e degli antichi Iddii, e del magnanimo Enea, codardi, vi tocca
misericordia o vergogna? » Ac- ediderit? iuvenum primos tot miserit
Orco? 785 Non infelicis patriae veterumque Deorum et magni Aeneae,
segnes, miseretque pudetque? » Talibus accensi firmantur et agmine
denso consistunt. Turnus paulatim excedere pugna “et
fluvium petere ac partem, quae cingitur unda: 790 acrius hoc Teucri
clamore incumbere magno et glomerare manum, ceu saevum turba
leonem cum telis premit infensis, at territus ille asper,
acerba tuens, retro redit, et neque terga ora dare aut virtus
patitur, nec tendere contra, ille quidem, hoc cupiens, potis est per tela
virosque: haud aliter retro dubius vestigia Turnus
improperata refert, et mens exaestuat ira. Quin etiam bis tum
medios invaserat hostes, bis confusa fuga per muros agmina vertit;
800 sed manus e castris propere coit omnis in unum: nec
contra vires audet Saturnia luno sufficere, aériam caelo nam
luppiter Irim demisit, germanae haud mollia iussa ferentem, ni
Turnus cedat Teucrorum moenibus altis. Ergo nec clipeo
iuvenis subsistere tantum, nec dextra valet; iniectis sic undique
telis obruitur. Strepit adsiduo cava tempora circum
tinnitu galea, et saxis solida aera fatiscunt, discussaeque iubae
capiti, nec sufficit umbo ictibus; ingeminant hastis et Troès et ipse
fulmineus Mnestheus. Tum toto corpore sudor liquitur et
piceum (nec respirare potestas) flumen agit: fessos quatit acer
ànhelitus artus. Tum demum praeceps saltu sese omnibus
armis — 815 in fluvium dedit. Ille suo cum gurgite flavo
accepit venientem ac mollibus extulit undis et laetum sociis abluta
caede remisit. cesi da tali parole, riprendono cuore, e in ischiera
ser- rata lo affrontano: e Turno a passo a passo si ritrae dal- la
battaglia, volgendo verso il fiume e la parte che n’era ricinta; e però
più accaniti i Troiani lo incalzan con grande clamore, addensando le
schiere. E come quando un feroce leone stringon da presso con l’armi
ostili i cac- ciatori, e quello, fiero, e torvo lo sguardo, retrocede,
ma nè l’ira o il valore non gli lascian voltare le spalle; ma
neppure potrebbe, benchè desioso, lanciarsi in mezzo alle armi e alla
turba: non altrimenti Turno, dubbioso, lentamente si arretra, e il cuore
per l’ira gli bolle. Anzi, due volte si era gettato in mezzo ai nemici,
due volte volse in fuga per le mura le schiere sconvolte; ma tutto
rapidamente si accoglie dal campo l’esercito contro lui solo, nè altre
forze formirgli osa la Saturnia Giunone, giacchè aerea dal cielo Giove
Iride inviava, con suoi bruschi comandi alla sorella **, se Turno non
lasciasse le mura alte dei Teucri. Dunque non può il giovane con lo
scudo o con la mano resistere ancora: son troppi i dardi che d’ogni parte
gli piovono giù. Senza riposo tinnisce intorno alle concave tempie
l’elmo, ed il solido bronzo s’incrina alle pietre, e le creste si
rovescian dal capo, e ai colpi non basta lo scudo; raddoppian l’assalto i
Troiani con l’aste, e primo, fulmineo, Mnèsteo. Da tutto il corpo il
sudore allora gli gronda, e gli cola — omai il respiro gli manca — in un
fiume color della pece. E finalmente allora, a precipizio, di un salto,
con tutte le armi, nel fiume si lanciò; e quello, con la sua bionda
corrente l’accolse, e lo tenne sopra le onde tran- quille, e, della
strage asterso, lieto ai compagni lo rese.Angelo Conti. Keywords: VIRGILIANA, decadente,
decadenza, divina decadenza, filosofia decadente, filosofo decadente,
decadentismo, divinely decadent – d’annunzio, museo d’annunziano, il bello e il
bizzarro, il bello bizzarro, estetica, sensatio, senso, sensum, sentior,
sentitum, perceived, perceptum – sense and sensibilia, estetico/noetico (nihil
est in intellectu qui prior non fuerit in sensu), propieta estetica, proprieta
di secondo grado, secondary quality, Grice, Sibley, Scruton, Platone, Kant,
Schopenhauer, Ruskin, Pater, Antichita, antico e moderno, il fascino dell’antico,
from the antique, from life, Uffizi, Accademia Venezia, RegieAccademiadiVenezia,
Capodemonti, Napoli, Antichita Roma, il fiume d’Eraclito, Ulisse e il canto
delle sirene, Morelli, Francesco, Virgilio, dolcissimo padre, ascetismo,
ascecis, zorzi, riva beata, Pater, Essay on Style by Pater, Da Vinci, Morelli,
la nudita eroica d’Enea – Luigi Ratini. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti”
– The Swimming-Pool Library.
Grice e Conti: la ragione conversazionale e l’implicatura
converseazionale del dialogo filosofico – scuola di Padova – filosofia padovana
– filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo padovano. Filosofo veneto. Filosofo italiano.
Padova, Veneto. Grice: “Conti is a good one; for one he is a ‘patrizio
veneziano,’ for another he like Alexander Pope and detests Newton! (Italian
temper there!) – My favourite are his “Dialoghi filosofici,’ full of implicata
as they are!” Patrizio veneto,
classicista, famoso per essere stato arbitro nella controversia tra Leibniz e
Newton, circa l'invenzione del calcolo infinitesimale (keyword: infinito). Si
lege in amicizia con Fay, noto per gli
esperimenti fisici che conduce all'Accademia delle Scienze. Di lui esiste una
statua in Prato della Valle, fatta da Chiereghin. Scrive saggi riguardanti la
struttura della tragedia, e nel “Trattato del fantasma poetico” discute la
funzione del coro: monologo, dialogo, coro (terza persona?). Tra le sue
tragedie, la più significativa fu il “Giulio Cesare”. Ne scrive altre tre,
tutte di soggetto romano: “Marco Bruto”, “Giunio Bruto”, e “Druso”. Altre
opere: “Opere” (Venezia, presso Giambatista Pasquali); “Versioni poetiche”
(Bari, Laterza). Dizionario biografico degli italiani. Della nascita del C. sono
r’ſuoi veri pu dj. Principio de’ suoi studi scritto da lui stero. Disputa col
Nigrisoli e altre particolarità de’ suoi studi sono al primo viaggio di
Francia. Primo viaggio in Francia. Primo viaggio in Inghilterra e prime
conversazioni col Newtono. Mediazione tra il Newtono e il Leibnizio Studi e
altre occupazioni di Conti a Londra. Suoi sudj di belle lettere. Viaggio
d'Ollanda e d'Allemagna. Nuova dimora in Inghilterra. Ritorno in Francia e ſuoi
pudi. Amicizie. e converſazioni in queſti anni in Francia. Querela col Newtono.
Suo ritorno in Italia. Edizione del Cesare. Studi e commerzi. Edizione delle
ſue Prose e Poesie. Sue Tragedie. Illustrazione del Parmenide di Velia di
Platone; fima e onori di C.. Traduzioni. Altri suoi fudi. Progetti di nuove
opere. Ultimi ſtudi. Edizione del Druso; ſua morte. Rifleli Jul carattere di C.,
e notizie particolari della sua vita private. Relazione de’ Manoscritti
lasciati da C. Dell' Imitazione. Del Fantasma Poetico. La Poesia Greca.
Allegoria dell'Eneide di Virgilio. Illuſtrazione dello Scudo di Enea.
Illustrazione del Poema di Catullo intitolato le Nozze di Teride e di Peleo.
Dissertazione sopra la Tebaide di Stazio. Discorso ſopra la Italiana Poesia.
Illustrazione del Dialogo di Fracastoro intitolato il Na. wagero, o fia della
Poesia. Disertazione sopra la Ragion Poetica del Gravina. Della Potenza
conoscitiva dell'Anima. Della Fantasia. Poesie Tradotte dall' Inglese. Al Sig.
Marcheſe Manfredo Repeta sopra il Poema del Riccio Rapito. Il Riccio Rapito.
Prose Franceſe Italiane a Monſieur Perel. Dialogue ſur la Nature de l' Amour.
Lettre à Madame la Preſidente Ferrant. Lettera al Sig. Cavalier Vallisnieri. Al
sig. Marcheſe Maffei. Al N. U. Sig. Benedetto Marcello. Al P. D. Bernardo
Piſenti C. R. Somaſco.A Monſignor Cerarti. L’allegoria dell’Eneide di Virgilio
propone una cosa per farne intender un'altra, che ſeco è in proporzione, se l’
“Eneide” per consenso di tutti i più abili commentatori é un panegirico *allegorico*
d'Augusto, convien necessariamente che la cosa proposta sieno l’azione d’Enea
(l’explicatura), e la cosa che deve intendersi ed è loro proporzionata,
l’azione d'Augusto (implicatura) più memorabile e più degna di lode. Per çiò
con una ſuccinca narrazione pone prima sotto gli occhi l’azione d'Enea, che e
il primo termine (l’explicatura) su cui l’allegoria o metafora o implicatura
(& fonda, o come l'originale del ritratto; indi fa il confronto dell’azione
di Augusto. Nell'istoria d'Enea, basta quloſſervare l’oggetto dell’epica, e il
carattere stoico dell'eroe. L'oggetto tutto tende alla nuova colonia di Roma o
al Principato ch'Enea (via Ascanio e Romolo e Remo) ha da fondare nel Lazio e
Italia. Questo gli predisse Creusa, Febo, i Penati; questo le Arpie, Eleno e la
Sibilla; e perchè fi compisca l’oracolo della predeterminazione e del fatalismo
stoico, Enea li salva dagl in incendi e dalla strage di Troja. Ettore lo dichiara
Pontefice. I compagni lo eleggono Re. Avvisato o protetto schiva i tradimenti,
gli scogli, i ciclopi; non è sommerso nelle tempeste, non trattenuto
dall’africana Didone più pericolosa delle stesse tempeste. Finalmente arrivato
in nel Lazio trova il re latino dispoſto a riceverlo per genero, Evandro e i
toscani pronti a dargli soccorso; sebben abbia a fronte Torno, un nimico feroce
e collegato coi vicini, lo vince e l'uccide. Gli oracoli fatalisti
predeterminati stoichi dunque, i viaggi, e le guerre d’Enea non riguardano se
non lo stabilimento d'un regno o principato. Il carattere poi d’Enea o
dell'eroe si vede in tutta l'Eneide composto della *virtù* stoica convenevoli
al capo e fondatore d'un regno. La virtu e pietà verso l’uomo e verso
Diuspater, senno nel provvedere a’pericoli e prevederli, valore da soldato e da
capitano. La pietà (o compasione) verso l’uomo e la carità – l’imperativo della
carita conversazionale, verso Diuspater religione. Della carita o benevelonza o
compasione, o compieta verso l’uomo Enea dà esempi illustri per tutto. Salva il
padre Anchise dalle fiamme portandolo sulle spalle dirige sempre il viaggio secondo
i di lui consigli, celebra il suo anniversario co'giochi conſiderati da’ pagani
come una parte della eeligione, e per ubbidirlo discende fino all’inferno!
Quanto è tenero per il figliuolo Ascanio, e sollecito e della salute e de gli
avanzamenti di lui! E quando Creusa sua moglie si smarrisce, non va egli a ricercarla
tra gl'incendi e le stragi? Che dirò della sua pietà, carita, compassione,
compieta, benevolenza, verso il suo compagno (o d’EURIALO verso NISO), verso
l’amico, e verso Torno, il nemico stesso? Nella tempesta più s’affligge della
loro perdita che della propria, gli consola e gl’incoraggisce negli affanni, li
provvede di cibo, li divertisce e premia co’giochi, fa l’esequie a Polidoro suo
parente, a Miseno suo trombettiere, a Gaeta sua nutrice; piange la morte di Palinuro
e più quella di Pallante (Patroclo), e ne manda il cadavere ad Evandro con
magnificenza e con lutto degno di un re. Avendo ferito a morte Lauro che l’assalì,
gli itende la destra, lo solleva, e lascia che a Mesenzio se ne porsi il corpo.
Vuol perdonare a Turno, e non l’uccide *che* per vendicar suo amante Pallante;
ciò ch'era un atto di carita. Verso Diuspater sempre fervida e pronta è la sua
pietà. Come stoico perfetto e negatore del libre arbitrio, nulla intraprende
senza consultare l’oracolo, e non comincia alcun’azione senza offrir un voto,
una preghiera e sacri fizj, ch’egli offre egualmente al Diuspater propizio, che
alle Diuspater nonpropizio o Giunone e Pallade. Per ubbidir Diuspater supera la
passione che la strega Didone invoca, cede rispettoso alla sua collera
nell'incendio di Troia; conosce Apollo per principal protettore; ascolta attento
i cantici d'Ercole, e invoca Berecintia che l'allista nella nuova guerra. Alla
sua pietà corrisponde il suo senno. Tosto ch'entra in un paese vuol conoscere i
liti, i luoghi, e la gente che l'azbita; così fa in Affrica, e nel regno
d'Evandro, e scoperto l'assaſlinio di Polinestore fugge il pericolo di cadervi:
fa metter in aguato i soldati per lorprender l'Arpie; egli steſſo dirige la
nave che manca di piloto; manda ambasciatori al re del Lazio; cerca soccorso
nella guerra; ricevuto lo distribuisce in due corpi per più imbarazzare il
nemico ciò ch'è una parte della virtu o prudenza militare, non meno che
assediar la città mentre il nemico è sospeso. Questo o quello segno (manifestazione
secondo Vitters) del valore poi non dà nell'attaccare i nimici, nel farne
stragi di sua mano? uccide i più forti e tra gli altri Lauso, Mesenzio, lo
stesso Turno. Più comparisce il valore d'Enea, se col P. Boſsù fi confronti con
quello di Turno, antagonista, avversario, dell’epica, ardente, milantatore,
prepotente e buono sol per la guerra che vuole giusta od ingiusta, ed in questa
è incauto e senza direzione. Enea all'opposto grave – la gravita romana --, misurato
e non peccatore o essecivo, parla poco, laconico, opera molto, sempre consigliato
e forte colla gloria del consiglio e dell'esecuzione. Di questo o quello segno
della virtu -- pietà, senno, e valore, c’e un intreccio mirabile, sicche
comparisce Enea saggio e paziente capitano come Agamennone, valoroo vincitor
del nimico come Achille, destro a maneggiar lo spirito ed a condur una
negoziazione o consenso cooperative conversazionale come Nestore e Ulise:
giugne a questa virtù una pietà sincera, una probità esatta che mai non ſi
ſmente, una compassion tenera per il suo amico e il suo suddito. Enea è buon
figlio, buon padre, buon amico, buon amante, e tutto ciò per motivi superiori
di dovere e di ragione morale kantiana alla luce del stoicismo fatalism del
predeterminismo. Sopra tutto pero domina la specie della virtù più convenevole
d’ogni altra specie al fondatore della dinastia di Romolo, perchè per essa si
merita la protezione di Deuspater, si rende l’amico o il popolo che deve
ubbidire, l’alleato, ed il vicino con cui si deve patteggiare e con-federarsi
in cooperazione conversazionale verso un fine comune. Vi sarebbero il carattere
degli altri personaggi e dei dell'epica, ma essendo scritti di mano dell’autore
sono come non scritti. Anche la seconda parte che riguarda le azione del primo
imperatore romano, Ottavio detto l’augusto è molto imperfetta; eccone qualche
confronto. Nella rovina di Troja li ravvisano la rovina della Roma repubblicana
di Cesare ed Catone. Da questa rovina, Ottavio, come Enea era stato preservato
dalla provvità, 1 videnza del fato, come dice Orazio nel Carmie Secolare. Enea
porta in ispalla suo padre Anchiee; Ottavio prende la vendetta del suo padre addotivo
Cesare. Enea e in Troja maricato a Creusa da cui ha Julo; Ottavio e maricato a
Scribonia da cui ha Giulia. Ma Creusa per ordine de’ Fati è colia ad Enea, come
Scribonia ad Ottavio; e nel dir che ad Enea si apparecchia moglie, da cui
doveano discendere tanci Re, adula cacitamente Livia. Didone che s’oppone al
disegno (de-segno – plannificazione) d’Enea magnifica e vana dell'impero ha del
carattere superbo, impecuo lo, ed astuto di questa altra Africana, Cleopatra,
che impiegò cutre l'arti femmini li per impegnar Ottavio. Ma v'è un tratto
finissimo di lode nella comparazione che poteano i romani fare d’Enea e
ďOttavio, perchè laddove Enea cesse alle lusinghe di Didone, e dopo averla posseduta
l’abbandona scorteſemente in preda alla disperazione, biasmo da cui poco lo
scusanu gli ordini degli Dei; quanto più dovea stimarli Ottavio che mai non si
lasciò vincere dalle tante arti di Cleopatra? In Evandro, che accoglie Enea, si
puo ravvisar Cicerone, che col suo credito e colla sua eloquenza reſe tanti
servigj a Ottavio. L’epica, però per non rimproverargli la disgrazia di
Cicerone, fa che non Evandro ma il figliuolo di lui resti ucciso da Turno, nel
quale *senza dubbio* vien “simboleggiato” Marc’Antonio, valoroso bensì, ma
imprudente, e che le in molte cose mostra fortezza d’animo chiaro ed
eccellente, in molte altre, come Turno, li governa malissimo, e da quello o
questo segno non meno di magnanimità che di pulsanimità. Nulla dimostra più la
finezza cortigianesca di Orazio e di Virgilio come il loro non nominar mai
Cicerone. S'astennero dal risvegliar in Ottavio un'idea che gli dava de’ rimorsi.
All'incontro nominarono Giunio Bruto e Catone, per mostrare che Ottavio non ha
usurpata la libertà, ma che anzi ne era il protettore, l’imperatore, come negli
ultimi tempi lo volea Cromuvelo (Lord Protector) in Inghilterra. Antonio stesso
molto si risparmia, esi può osservare in Orazio che mai non si parla d’Antonio
senza congiungerlo a l’africana Cleopatra per far cadere in lei l’odio e la
colpa; e cosi fa Virgilio fagacemente nella battaglia d’Azio, quando parla
d’Antonio palesemente, e quando ne parla per allegoria, supprime quell vizio
che avrebbero dispiaciuto ai suoi partigiani ch’erano molti, ed a’figliuoli
elevati da Ottavio a sommi onori. Queſta è pur la ragione prammatica, per la
qual Virgilio non dipinta le guerre che fece Ottavio con Bruto, Callio e cogli
altri, che per modo di peregrinazioni, onde non offender quei ch’erano ancora
del partito di questi ultimi difensori della pubblica libertà. Il re del Lazio,
Latino, che ammonito dall’oracolo vuol dar la figliuola più ad Enea, che a
Turno, è il vero ritratto del senato romano, che vecchio (senior, senatore) ed
impotente non potendo più regolar la repubblica, benchè per ispirazione divina
egl’inchini più a lasciarsi governare d’Ottavio che da Marc’Antonio, atterrito
nondimeno dagli apparecchi di guerra, lascia disputar la vittoria a’ due rivali,
come appunto il re Latino fuggendo lascia terminar la guerra a Turno ed Enea.
In Mesenzio ed in Lauso si veggono Cassio e Giunio Bruto, e l'empietà data a
Mezenzio e la virtù data a Lauso lo persuadono. Muore Laulo ed Enea lo
compiagne, come Ottavio compianse Bruto, al dir di Plutarco. Quando Lauro
combatceva, era Mesenzio con la persona appresso di un tronco per posarvi
appoggiato, e gli stava intorno un cerchio de’ più eletti e de’ più fidi; e
quando vide Lauso ucciso, comincia a disperarsi, e a lagnarsi, e andar incontro
alla morte. Queſta deſcrizione concorda molto con quella che fa Plutarco di
Cassio, allora che ritirato sul colle stava rimirando l’esercito di Bruto, e
credendo ch’egli fosse rotto, disperato si confiſſe nel le reni la spade. Non
occorre cercare rassomiglianza perfetta tra questo o quello accidente vero e
questo o quello accidente finto. Baſta che uno si ravvif nell'altro. I ritratti
della Poesia, e particolarmente epica, sono “simili” a quelli che i gran
pittori introducono ne’ quadri istoriati; negli Dei, negli eroi, ne’ capitani
ritengono le fattezze del volto de viventi che vogliono onorare ma variano le
attitudini, o le velti per variare le imagini, e produr nello spettatore maggior
maraviglia ed affetti più vivi. Con questa regola si pollono ritrovare molti
altri confronti nelle cose dell'Eneide colla vita d’Ottavio. Nè par probabile
che tanta corriſpondenza sia effetto del caso, attesa spezialmente la sagacità
del poeta, e l'idea generale dell'opera. Parte di questa corriſpondenza fa
vedere nello scudo d' Enea la seguente illuſtrazione, che si dà intera. Come
nell'Iliade d'Omero Teti porge ad Achille uno scudo fabbricato da Vulcano così
nell'Eneide di Virgilio Venere porge ad Enea uno scudo fabbricato dallo stesso
Dio. Quì non s'intraprende d'illuſtrare ſe non ciò che appartie. ne allo Scudo
d'Enea, oſſervando prima generalmente, qual ne foſſe la materia, la faldezza,
la figura, l'intreccio e i colori, ed indi particolarmente l' ordine e' i fiti
delle coſe ſcolpite, le loro ſtorie, cd allegorie. I'Ciclopi impiegarono
nell'armatura d'Enea il rame, l'ac ciajo, l'oro, e l'argento, ma fecero che ivi
abbondante più dell'uno o dell'altro metallo ove era biſogno di maggior die
feſa, o di più raro ornamento. L'Elmo che dovea abbagliando minacciare i nimici,
riſplen dea per la terſezza dell'acciajo, non altrimenti che ſe fiam. me
ſpargeſſe. La Lorica era ſcabra per i rilievi del rame e del bronzo, che quanto
più maſſicci'ſi fingono, ed incurva ii, tanto più le faette e le ſpade
ſpuntavano. Ben è vero che per la miſtura degli altri metalli, i colori della
Lorica ſi mi ſchiavano con quei del bronzo e dell'oro, ond'ella riſplende va
come un Iride in faccia al Sole. Nell'aſta e nelle ſchinie re abbondava
particolarmente l'elettro che è un compofto d ' oro e ' una quinta parte
d'argento, ma purgato più volte da'Ciclopi; l'oro nel foco avea ſvaporato
l'argento, onde la compoſizione riuſciva più prezioſa, più denſa, ed impene.
trabile. Nello Scudov'erano tutti e quattro i metalli tra loro op portunamente
fuſi e temperati. I Ciclopi ne aveano appiana ta la maſſa in ſette piaſtre
rotonde, che a guiſa dei ſette cuoi attorti dello Scudo d' Ajace implicarono
l'une nell'altre, perchè lo Scudo refifteffe a tutte l'armi de' Latini.
Miſterioſo era il numero di ſetre appreſſo gli Antichi per la relazione ch'egli
avea al numero de Pianeti. Forſe credea no, che gli aſpetti di cucci e ſette
influendo nella fabbrica d' uno Scudo gli deffero una tempra immortale. La
figura dello Scudo d'Enea era ovale, nè a cid forſe an cora mancava il ſuo
miſtero. Gli Scudi ancili chc fi fingea. no 177 no caduti dal Cielo a tempi di
Numa, aveano la ſteſſa figura, Or lo Scudo d' Enea non era men celeſte di loro;
ed Enea, che doveva portarlo, non ſi fuppone men pio di Numa. I Ciclopi nel
fabbricar lo Scudo avendo poſta in opera per comando di Vulcano tutta la loro
arte maeſtra, collocarono, intrecciarono, limetrizzarono, e colorirono le
figure ſcolpite in maniera, che lo Scudo emulava la reflicura di un arazzo. Nè
queſta a mio credere è un'Iperbole poetica, ma un'imi tazione di quell'idee che
Virgilio, avea vedute ne'baſi rilievi di Roma, ove ſoggiornava, ed in quelli
delle Città della Gre cia, ove per profittarlı dello ſtudio delle bell'arti
avea viag giato. A Roma nelle Biblioteche e ne' Tempj ſtavano appeli certi
Scudi tutti ſtoriati, e tra gli altri Plinio racconta, che nel Tempio di
Bellona Appio Claudio confacrò uno Scudo, ove in picciole figure era
rappreſentata tutta la Genealogia dell'antica famiglia de' Claud). Nel conveſſo
dello Scudo di Minerva avea Fidia ſcolpita la battaglia delle Amazoni, e nel
concavo la guerra degli Dei e de'Giganti. Offerva Plinio, che Fidia, volendo
moſtrar l'arte nelle minimeparti, avea elpela ſo ne' Sandali della Dea la
battaglia de' Lapiti e de'Centauri, e nella baſe della ſtatua la naſcita di
Pandora con quella di trenia Dei. Ne'baſſi rilievi delle lamine che cingevano
la ſe dia della fatura di Giove Olimpico, lo ſteſſo Fidia in oro ſcol pito avea,
da una parte il sole che conduceva il cocchio, e dall'altra Giove e Giunone; a
lato di Giove v'era una delle Grazie, indi Mercurio e Veſta., Venere pareva,
uſcir dal ma re, l'Amore l'accoglieva, e la Dea Pito la coronava. Nello ſteſſo
baſſo rilievo li vedeva Apollo e Diana, Minerva ed Er; cole, e nel piedeſtallo
da un canto Anfitrite e Nettuno, e dall'altro la Luna, che galoppaya ſopra un
cavallo. Qual mol ticudine, qual varietà ed intreccio di figure in poco ſpazio?
Or è molto verifimile, che come lo Scudo d'Achille diede a Virgilio la prima
idea dello Scudo d'Enea, così į baſli rilie vi da lui yeduti a Roma in Atene e
in Olimpia gl'inſegnal ſero a perfezionarlo. Nella deſcrizione delle figure ben
fi ſcor ge che l'artifizio dell'imitazione, non deriva dagli alerui fan tasmi,
ma da un'acurata oſſervazione del ſenſo, che regold la fantaſia del Poeta
fino · lo ſpingo oltre la conghiettura, e pretendo che alle figu. se veduce da
Virgilio ſcolpite o nell’avorio, o nell'oro, od in altro metallo negli vi
applicalle la forza e la leggiadrią Tomo II. 2 de' 3 178 ra 1 1 de colori da
lui veduti nelle pitcure encauſtiche: Plioio ne annovera di tre fpezie, e non
ſaprei fuggerirne una miglior idea che raſſomigliandole alle picture che
vediamo, non dirò fulle porcellane di troppo fragil materia a confronto del me
tallo, ma su fmali di più dura tempra, e su vaſi e ſulle cop pe antiche, ove la
varietà del colore riſultò dal vario grado del foco, che lor fu dato nel
fondere e nel tingere il metal lo. Difficile è proporzionare il grado del foco
ad ogni colo re, ma difficiliſſimo ove i colori lieno per conſiſtenza e viva
cità differenti, e ſi debba nello ſteſſo tempo abbrugiandoli laſciarli ſecondo
il biſogno o floridi, od auſteri, ed a tutti imprimere quello fplendore che
ſecondo Plinio non è lo ſtef To che il lume, ma di'mezzo tra il lume e l'ombra,
ed è propriamente l'intenſione d'ogni colore nella ſua ſpezie. Il Sig. Abate
Fraguier, la cui memoria mi ſarà ſempre ca. offerva, che nello Scudo d'Achille
la terra fenduta in folco dall'aratro cangia in nero il color d'oro, che i
grappo li d'uva ſono neri e la vigna d'oro, che le giovenche ſono rappreſentate
al vivo col bianco e col giallo, cioè collo lta gno e con l'oro, e che
veriſſimo è il langue trangugiato da due Leoni che lacerarono il bue. Da ciò
inferiſce che l'arte encauſtica fioriva a'tempi d'Omero; ma quando anche i Cro
nologi che non convengono dell'età d'Omero glielo conce deffero, molto più
debbono elli concedere, che nel tempo d' Omero quell'arte era molto imperfetta
a paragone dell'eccel lenza a cui la portarono i Greci nel secolo d'Aleſſandro,
e ne’ſuſſeguenti. Le picture de' più celebri artefici encauſtici e rano ſtate
portate dalla Grecia a Roma da' Capitani Romani, é poſcia conſecrate ne! Tempi.
Virgilio che avea ſotto gli oc chj de'modelli così perfecti, gli ha
verifimilmente adombra ti ne ' colori del ſuo Scudo yine queſta ſpezie
d'imitazione pud negarſi ad ua Poeta sì doito, e d'on guſto così eſquiſito in
ogni genere d'arte • Per reftarne convinti bafta riflettere alla varietà ed
armonia de? colori delle figure deſcritte j ai sfuma menti, 0, come parla
Plinio, alle commiſſure de culoriftel fi, ai fecreti più mirabili della
perſpectiva introdotti negli ac» tidenti delle imagini, e finalmente
all'efpreffione degli affec ti de coſtumidegli Uomini rappreſentation La
varietà e larmonia de'colori appariſce nell'Oca d'ar gento che vola ne' portici
d'oro, ne' flutti biancheggianti per lai fpuma ini un mare cerulco Larrei ſono
i colli de'Galli, mentre le loro chiome fon d'oro, e vergate d'oro le veſti; il
langue di Mezio è vermiglio e gocciola dalle ſpine che lo no verdi. Per gli
sfumiamenti de colori, ed inſieme per l'eſpreſſione degli affetti e de' coſtumi,
diverſi nell' arni e nelle veſti fo no i colori de' Barbari condotti in trionfo;
il limitar del Tem. pio d'Apollo è bianco come la neve, ma più bianco è lo
ſteſſo Dio; Cleopatra è pallida per la morte futura; il Nilo al ſembiante ed al
geſto moſtra la doglia che lo crucia e l' impazienza di ſalvare i fuggitivi
ſuoi figli. Che dirò della forza della perſpectiva? Parrafio dipinle, al dir di
Plinio, il Demone degli Atenieſi vario, iracondo, in giuſto, incoſtante..
Virgilio rappreſenta Porſenna che nello Iteſſo tempo comanda, li ſdegna, e
minaccia. Nel Portico a. vanti la Curia di Pompeo era dipinto, ſecondo lo
ſteſſo Plinio, un Soldato che non ſi fapea ſe con lo Scudo aſcendeſſe o di
Icenderſe. Virgilio fa che i bambini attaccati alle poppe del. la Lupa fieno da
queſta alternaniente accarezzati; ciò che il Tallo imirò nelle figure delle
porte d'Armida ove Marcanto nio nel ſeguir Cleopatra che fugge, Mirava
alternamente or la crudele Pugna ch'è in dubbio, or le fuggenti vele. Ma
paſſando a coſe più particolari, io per far meglio in tender l'ordine,
l'intreccio, ed i fici delle figure, divido in quattro parii lo Scudo. La prima
contiene la diſcendenza d ' Enca fino alla Lupa incluſivamente. La copula o,
cioè an cora dimoſtra che tutto era nello ſtello baſſo rilievo. La ſeconda
parte contiene molte coſe memorabili fotto i Re e ſotto la Repubblica. La terza
la battaglia d' Azio. La quarta i tre Trionfi d'Auguſto. Queſte parti, ſi fanno
ſenſibili dividendo l'ovale in quattro altre ovali concentriche che io ſegnerò
co'numeri 1. 2. 3. 4. Nello spazio segnato i. ch' è come l'orlo dello Scudo io
pongo le figure che rappreſentano i diſcendenti d'Enea anno verati da Virgilio
nel primo libro e nel ſeſto: queſti ſono A Scanio, Silvio padre di molci Re,
Proca, Capi, Silvio, Enea, i due giovani coronati di quercia, Numitore, e la
Lupa che allatra i due bambini. De quindici Re d'Alba, di cui parla 2 2 Dio 186
Dionigi d’Alicarnaſſo e Tito Livio, Virgilio non nomina che queſti, perchè,
come egli accenna, furono fondatori di colo. nie, avendo edificato Nomento,
Gabia, Fidene, Collazia full? állo d'una montagna, ed il caſtello d'Inuo o di
Pane. Fon darono ancora Bola e Cora, e queſte ed altre nominate Cit rà eſſendo
nel Paeſe de' Sabini e de' Volſci, avranno dato oc caſione alle guerre e
battaglie nello Scudo eſpreſſe. Nel baf ſo rilievo d'Alcanio dev'egli
rappreſentarſi a guiſa d’un Ca. pirano o d'un Re che comanda di fabbricare una
Città qual era Alba lunga. Altri prendono gli ordini, ed altri gli eſegui
ſcono, ed i Soldati ſtanno riguardando l'opra. La pittura d ' Aſcanio è ſulla
cima dello Scudo; nella parte oppofta, o nel ballo v'è la Lupa che allatta i
bambini, e biſogna rappre ſentaría qual è in molte medaglie. Ne' lati dell'orlo
dello Scudo toſto ſi vede un bambino in mano d'un paſtore ch' eſce da una ſelva;
lo ſiegue in Re circondato da molti bam bini coronati, indi un Ře che guida un
eſercito, un altro che eſpugna una Città, un altro che è in mezzo a Sacerdo ti
e a Veltali, molti giovani Re cinti il capo di quercia che combattono e fondano
colonie, o su monti, o nelle pianu. se. Nè Tito Livio, nè Dionigi d'Alicarnaſſo
parlano in par ticolare di queſte battaglie, onde ſi poſſono ſcolpire a fanta
ſia, ma devono eſſer ſcolpice in medaglie appeſe a rami od alle foglie d'un
albero genealogico che ſerpeggi nell'orlo. Nello ſpazio ſegnato 2. io pongo da
una parte due baſſi ri lievi di forma ellittica, ma incaſtrati di varj fogliami
che riempiono i vuoti. Elli rappreſentano il ratto delle Sabine, e la pace cra
Romolo e Tazio. Pongo dall'altra parte altri rilievi della ſteſſa forma che
rappreſentano Mezio ſquarciato da ' cavalli, e Porſenna che afledia Roma. Nel
ſommo dell'ovale ſi vede nelle figure più rilevate il Campidoglio affalito
da’Galli, e difeſo daManlio; e nelle più lontane i Salj e le Matrone che
eſulcano; nella parte oppo. fta che è la più baſſa dello Scudo v'è il Tartaro
con Catili na affiffo allo ſcoglio, e ſopra il ſotterraneo (chiamato da Vir
gilio la bocca profonda di Dite ) verdeggiano gli Elisj, ove Catone dà la legge
all'anime pie. Le figure di queſto ſpazio ſono maggiori di quelle dell' orlo
perchè le parti più vici ne al centro dello Scudo ove fi fogliono diriger i
colpi, devo no eſſer più maſſiccie per più reliftere. Lo ſpazio è percid
maggiore Nel i 81 5 Nello ſpazio ſegnato 3. v'è la battaglia d' Azio. Apollo
ſaettante è ſul Promontorio, ove Auguſto gl’inalzò un Tem pio. Le navi
d'Auguſto ſono alla deſtra ſchierate in arco; nel deftro corno v'è Augufto
colla ftella in fronte e co' Pe. nati in mano, nel finiftro Agrippa cinto le
tempia della co rona roftrata. Dirimpetto vi fono le Navi torreggianti d'An
tonio. Secondo Plutarco, Antonio con Publicola reggeva il corno deſtro, e
Clelio il ſiniſtro. Cleopatra è nel mezzo in atto di percuotere il fiftro,
ſtromento dedicato ad Ilide che Cleopatra voleva emulare in curto. Tra i due
ſemicerchi del. le navi ve ne ſono alcune diſtaccate che tra loro combatto no.
Soggiunge Plutarco, che Ceſare non ſolamente non or dina ferir le prode dure e
ferrate d'Antonio, ma nè anco inveſtirle per fianco, perciò che gli ſproni
facilmente ſi ve nivano a romper urtando nelle cravi quadre incaſtrate infie me
col ferro: Era dunque queſta battaglia (ſegue egli) mol to ſimile a una
giornata per terra, anzi piuttoſto all'aſfalco d'una Cicà. Perciocchè tre o
quattro navi di Ceſare com battevano intorno a una nave d'Antonio con
partigiane, piche, e con fuoco. D'altra parte gli Antoniani ftando ſulle gabbie
di legno traevano dardi e pietre contro i nimici. Così ap punto Virgilio
rappreſenta le navi che combattono. Sulle navi di Cleopatra vi ſono i Dei
moſtruoſi d'Egitto, in atto di ſaettar Neituno, Venere, Minerva, che ſtanno
ſulle navi d'Auguſto, e contro alle quali egli diſſe al Senato che Antonio avea
moſſo la guerra, non meno che contro al. la Patria. Marre è in mezzo
della batcaglia, la Diſcordia, e Bellona, ed in aria ſtanno le Furie. Tutto ciò
è ſotto la fi. gura del Campidoglio o nella parte ſuperior dell'ovale, men tre
a'lari ſono le navi ſchierate. Nella parte inferiore vi fo no le navi di
Cleopatra che fuggono ſpinte dal vento Japiga, che ſoffia dal capo di Salentino;
non lungi è la figura del Nilo, che allargà la veſte, e chiama i vinci a
ricovrarli ne? ſuoi naſcondigli: egli è d' una figura giganteſca appoggiato
ſull'urna che verſa i ſette fiumi nel mediterraneo, nel reſto dello ſpazio ſi
diffonde il mare coi delfini che ſcherzano. Le figure di quello ſpazio ſono
maggiori per la ragione ſopraccen nata, ed è maggiore lo ſpazio ſteſſo. Nello
ſpazio ſegnato 4. vi ſono eſpreſli i tre trionfi d'Au guſto. Egli trionfo, dice
Svetonio, in tre giorni l'uno dietro all'alcro; la prima volta per la vistoria
Dalmacica, la ſecon da 4 182 1 da per l'Aziaca, e la terza per l'Aleſſandrina.
Dione Caffio particolareggia i trionfi. Trionfo Ceſare, dic'egli, il primo
giorno de' popoli Pannoni, Dalmatini, Japidi, ed altri loro circonvicini, e
d'alcuni popoli della Gallia e della Germania ancora, perciocchè Cajo Carina
avea già vinti e ſoggiogati i Morini e gli alıri popoli appreſſo, che nella
ribellione da lo. Fo fatta gli erano ſtati compagni, ed oltre ciò avea dato una
rolta a'Svevi, ed a quelli che aveano già paſſato il Reno; laonde ed egli e
Ceſare feco rappreſentò il Trionfo percioc chè la vittoria folevaſi attribuire
ſempre all'Imperatore, e l' Imperatore era Ceſare, è teneva in mano il governo
di tut, 10. Il ſecondo giorno Ceſare rappreſentò il Trionfo della bat taglia
fatta al promontorio d' Azio nel mare. Il terzo poi dell'Egitto ſoggiogato. Le
ſpoglie in queſte guerre acquiftare furono baſtanti ad ornar tutto l'apparato
di que' Trionfi; quel. Je però d'Egitto avvanzavano di gran lunga curti gli
aliri ap parati d'ornamenti di ricchezza e di rarità; tra l'altre coſe vi fi
vedea Cleopatra fteſa ſopra una colore in alto di morire, onde in un cerio modo
queſta Reina era condotta in trionfo cogli altri prigioni, tra'quali v'era
Aleſſandro ſuo figliuolo, e Cleopatra fua figliuola chiamati da lei col nome
del Sole e della Luna. Gl’interpreti fi vanno inutilmente affaricando a cercar
le ragioni della qualità de'prigioni, e particolarmente perchè ne' cocchi ſi
vedeſſe l'imagine dell' Eufrate e dell’A. raſſe fiumi dell'Armenia e della
Meſopotamia non conquiſtati da Auguſto. Il P. Arduino nelle ſue rifleſioni
fopra Virgilio non ritrovando queſte vittorie d'Auguſto ne trae degli argo
menti diſavantaggioſi all'Eneide. Io non perderò inutilmente il tempo a
riſpondergli in particolare. Ciò che poſſo dire a coloro che ammettono
l'autorità di Dion Callio, è far loro oſſervare, che Antonio dopo aver chiamara
Cleopatra Reina dei Re, Ceſarione Re dei Re, ed aggiunto alla loro giuriſdi.
zione l’Egico, donò la Siria a Tolomeo, e lutte le Provin cie di quà
dall'Eufrate fino all'Elleſponto; donò l'Africa fino alla Cirenaica a Cleopatra,
ed al fratello di coſtoro chiama to Aleflandro dond l'Armenia con tutto il
rimanente del pae fe al di là dell'Eufrate Gno all'Indie. Or non è verifimile
che Auguſto da cutti queſti Paeſi fcieglieſſe de' prigioni, che egli doveva
aver fatti o nella battaglia d'Azio, o nella ſcon fiila data ad Antonio in
Aleſſandria? Quanto al Reno, Agrip pa l'avea paſſato nel 717. nė fi curò del
Trionfo, ma egli è pro. 183 probabile che Auguſto voleſſe che Agrippa trionfare
ſeco co me Cajo Carina. Non v'era. ſegno d'amicizia e d'onore che non gli deſſe,
perciocchè oltre la corona roſtrata, con cui lo fregið dopo aver vinto Seſto
Pompeo in Sicilia, volea ch'egli avelle una cenda e l'altre inſegne militari
ſimili a quelle dell' Imperatore, e, come dall'Imperatore, da lui ſi prendeſſe
il ſegno della milizia, ed egli era in forſe di dargli per moglie Giulia: canto
grande, gli diſſe Mecenate, tu faceſti Agrippa, che o biſogna ucciderlo, o
ch'egli ſia tuo Genero. Dopo il Trionfo Auguſto inalzò molti Tempj; uno ad A.
pollo ſecondo Svetonio ſul monte Palarino, al quale aggiun ſe una Loggia con
una Biblioteca Greci e Latina; un altro ne edificò a Marte vendicatore per il
voto fatto nella guerra contro Bruto e Caſſio per vendicare il Padre, ed un
altro a Giove Tonante nel Campidoglio. Secondo Dione egli ancora conſecrò il
Tempio di Minerva, ornò il Tempio di Giulio ſuo Padre ſoſpendendovi molti e
molti doni della preda por tata d'Egitco, e molti ne conſecrò ed offerſe a
Giove Capi. tolino, a Giunone, a Minerva. Non è da traſcurare che po fe
l'imagine della vittoria ſecondo Dione nel Tempio di Mi nerva, e ſecondo Plinio
nel Tempio del Padre Celare, il qua le era nel Foro; aggiunge Plinio, che vi
poſe ancora i Ca ſtori che forſe ſimboleggiavano Auguſto ed Agrippa, nel pri mo
libro aſſomigliati da Virgilio a Romolo ed a Remo, come interpreta Servio. Poſe
ancora Augufto nel foro due quadri, uno della guerra, e l'altro del Trionfo; e
s’io non m'ingan doveano queſti rappreſentare coſe alluſive alla battaglia d'
Azio, ed ai trionfi dello ſteſſo Ceſare. Comunque la coſa ſia, ove è il centro
dello Scudo che è la parte più alta, io pongo la Cupola del Tempio d'Apollo,
alle cui porte Augufto affig ge le corone d'oro che erano i doni offertigli da’
Popoli dalle Provincie confederate. Tutto all'intorno vi ſono le are e
gl’incenſi colle vittime, e quindi la pompa e la lecizia del trionfo. In quel giorno
che Auguſto entrò in Roma, dice Dio ne, gli fu conceduto un Arco nella Piazza
di Roma, e in o nor di lui li celebrarono i giuochi quinquennali, e gli anda
rono incontro le Vergini Veítali, il Senaco ed il Popolo, colle mogli, e il
figliuoli: mi par ſoverchio (ſoggiunge Dio. ne ) di raccontar i voti e le
imagini ed altre coſe fatte per lui · La pompa del Trionfo conſiſte ne'
prigioni Nomadi, o Numidi, Affricani, Lelegi, Cari popoli dell'Alia minore Ge
no, e 184 Geloni ſpezie di Sciti, Morini popoli della Gallia Belgicà fi tuati
verſo l' Oceano Britannico. Tra queſti vi ſono molti cocchi colle imagini
dell'Eufrate, del Reno, e dell'Araffe col ponte che Auguſto vi fabbricò. Tali
ſono i baſli rilievi e le figure di tutto lo Scudo; elle s'ingrandiſcono a
proporzione ch'egli ſi va rilevando, e le miniature devono render ſenſi bili i
colori di cui ſono in Virgilio dipinte. I colori domi nanti ſono il giallo e il
bianco che rappreſentano l' acciajo ed il rame. Marte però deve eſſer dipinto
con un colore fer rigno, o fia di ferro, non raffinato in acciajo; diverſi ſono
i gradi de colori o floridi od auſteri che biſogna lumeggiare ed onibreggiare;
ma ſopra tutto convien dar alle figure lo ſplen dore, o ſia quel grado vigoroſo
di colore di cui s'è parlato. Spiegato in queſta maniera ciò che concerne la
parte ma teriale e ſtorica dello Scudo, egli è tempo di ragionare delle
relazioni che le figure hanno ad Auguſto, al quale tutto il Poema è diretto,
come a lungo eſpoſi nell'altra diſſertazione. Biſogna quì ricordarſi che
l'adulazione, ingegnoſiſlima nelle fue compiacenze, or impiega le lodi dirette
e manifeſte, or l'indirette ed occulte, ſecondo che l'une e l'altre per le cir
coſtanze fono più grate a colui che fi loda. Lodar Augufto per la ſua ſtirpe,
lodarlo per la vittoria che gli diede l'Imperio, e per i tre trionfi, ne' quali
fece tanto riſplender la ſua pietà, erano lodi che Auguſto fonima mente
defiderava che ſi pubblicaſſero, onde eſſo poteſſe ritrar: ne più venerazione
ed ubbidienza. Conviene a parte a parte moſtrarlo. Giulio Ceſare nel far
l'Orazione funebre in lode di Giulia ſua Zia: La firpe materna, diſſe, di
Giulia mia Zia ha origi ne dai Re, é la paterna è congiunta cogli Dei immortali,
im perciocchè da Anco Marzio derivano i Re Marxj del cui nom fu mia Madre, da
Venere i Giulj della cui gente è la noſtra Fa miglia. Trovaſ dunque nel ceppo
antico della caſa noſtra la fantità dei Re la quale appreſſo gli Uomini è di
grandiflima autorità e la Religione degli Dii nella podeſtà de' quali ſono el
Re. Sin quì Svetonio. Non potea dunque che molto pia. cere ad Augufto che
Virgilio noftraſſe e nel primo enel ſe fto e nell'ottavo che nella ſua
genealogia verano i Re, gli Dei, e gli Eroi. Virgilio dice nel primo libro: il
giovine A ſcanio che porta oggidiil cognome di Giulio e che ſi chiamava Ilo,
mentre Ilio era in piedi, governerà Lavinio per trent'anni 1 in. 185 intieri
etraſporterà la sede del Regno in Alba lunga di cui faa rà una forte Città. Nel
feſto egli dice: uſcirà dal ſangue Tro jano miſto all' Italico Silvio ſuo
figlio poſtumo che perpetuerd in Alba il ſuo nome, e ſarà egli fello Re e padre
di molti Re,. per lui la noſtra ftirpe dominerà in Alba. Virgilio ſcaltro nul
la parla delle guerre che ſecondo Dionigi d'Alicarnaſſo vi fu rono tra Giulio
figliuolo d'Aſcanio e Silvio, e molto meno che per i ſuffragj del popolo ſi
deſſe a Silvio il Regno che apparteneva a ſua madre, ea Giulio per contentarlo
la fo vranità ſulle coſe della Religione, per cui, ſoggiunge Dionigi, la
Famiglia Giulia ha goduto fin al mio tempo del ſovrano Pontificato, e s'è
chiamata Giulia a cagion d' Julo da cui u ſciva. Io non so accordar queſto
paſſo di Dionigi d'Alicarnaſ ſo con quell'altro di Plutarco e di Svetonio, ove ſi
vede che Giulio Ceſare non per dricco di ſangue, ma per i ſuffragidel popolo in
competenza di Catulo ottenne il ſommo Pontifica to. Laſciando cid, baſta quì
oſſervare, che Virgilio confonde Aſcanio con Silvio figliuolo di Lavinia e gli
altri diſcendenci da lui, poichè dice, che v'era ſcolpita tutta la ftirpe
d'Enea cominciando da Aſcanio. Io così interpreto quel Ab Aſcanio. Di tutti
queſti Re e di queſti Eroi Virgilio nefa come del le imagini trionfali, che
pone nell'orlo del ſuo Scudo, come negli atrj delle caſe de' Romani ſi poncano
le imagini degli Avi loro, ſulle quali Giuvenale e Plinio fanno sì gravi riflet
fioni intorno al biasmo ed alla lode de' diſcendenti. Ciò ba fi intorno la lode
manifeſta della ftirpe d'Auguſto. Palliamo alle lodi indirette. Nelle medaglie,
ove fi legge Reft. o reſtitui, ſi vede l'ima. gine o d'un Bruto, o d'un Coclite,
o della libertà, o d'al tre coſe alluſive alle azioni celebri de' Romani
antichi, che gl' Imperatori Romani aveano imitate o reftituite. Il P. Ar duino
vuole che queſte allegorie nelle medaglie cominciaſſero ſotto Tito, di cui ſi
contano fino 22. medaglie di queſta ſpe. zie e terminaſſero ſotto Trajano, di
cui ſe ne contano 24. ma non, perchè queſte medaglie non ci reſtino, ſi può
dedur che ſotto gli altri Imperatori e particolarmente ſottoAuguſto, che
vantavafi d'effere il difenſore della libertà del Senato e dei popolo,
l'adulazione non aveſſe inventate l'allegoric; certo è almeno, che con
queſt'ipoteſi ſi rileva il ſenſo del ratto del. le Sabine, e della pace ira
Tazio e Romolo. Prima che Planco determinaffe il Senato a dar ad Occavio Tomo
II. il 186 9 il nome d'Auguſto, molti volcano che ſi chiamafle Romolo. In fatti
Auguſto l'imicava non ſolo nella fondazione d'un nuovo Impero, ma ancora in
molte circoſtanze della ftella fon dazione. Come Romolo col ratto delle Sabine
avea provvedu to al mantenimento della Città, così Auguito con la legge di
maricar gli ordini che Orazio chiama legge Marita; due ne fece Auguſto., la
prima nell' anno 736. e ſi chiamava legge Giulia, e l'altra dell'anno 762. e li
chiamava legge Popea perchè fatta ſotto i Conſoli Sulpizio e Popeo. Con queſte
leg. gi fi rinovarono l'antiche rammemorate da Cicerone e da Aulo Gellio, e
Dion Caſſio merte in bocca d'Auguſto una lunga arringa su queſta materia al
Senato, nella quale dopo d'aver cogli eſempj delle nozze degli Dei eſaltato il
vantaggio e la giocondità de'figli, l'utile della Repubblica, e il biasmo di
viver ſenza moglie, gli fa dire: Romolo autor noftro, e da cui diſcendiamo, non
li ſdegnerà con tagione conſiderando il fuo naſcimento e i coftumi introdotti?
Orazio nel Carme ſecolare lodando per queſta legge il Se nato obliquamente loda
Auguſto; ma Virgilio nella lode obli. qua involge l'argomento del minore al
maggiore come s'egli diceffe: fe tanta obbligazione hanno i Romani a Romolo che
con una violenza provvide al mantenimento della Città, mol to maggior
obbligazione i Romani hanno ad Auguſto che ſen. za danno de' vicini vi provvide
con una legge si ſaggia. Romolo dopo le guerre con Tazio ai rapacificò
ſolennemen. te con lui, e diviſe feco il Regno; ed Auguſto dopo molte guerre
con Marcantonio conciliatoſi ſeco per l'opera de' co muni amici diviſe l'Impero,
del quale il termine ſecondo Plu tarco era il Mar Jonio. Tutta la parte,
dic'egli, verfo Levan te fu conceſſa ad Antonio, e l'alira verſo Occidente a
Ceſare. Pegno della pace fu Ottavia maritata ad Antonio, e certamente ella è
rappreſeatata nella vittima che ſi ſcanna nella ceremo nia del giuramento tra
Romolo e Tazio: ne deve far difficol tà il noine della vittima, poichè tutto
ciò che li confacrava agli Dei era fanto, e la Scrofa è ſtata ad Enea d'indizio
del paeſe che ricercava. La pittura di Mezio non è meno allegorica; egli tradi
Tul lo Oſtilio come Antonio tradì la Repubblica, e tradi Ottavio con la guerra
che all'uno ed all'altra intimo per far piacere a Cleopatra. Mezio ne fu
ſquarciato a viſta di Tullo; ed An. tonio fu coſtretto a darſi la morte quafi
agli occhi d'Augufto. An 187 Antonio mentre s'incamminava al ſepolcro ove s'era
rinchiuſa Cleopatra, andava verſando il ſangue per le Atrade come ap punto il
corpo di Mezio per la ſelva. Non ſi potevano eſpri mer da Virgilio coſe sì
delicate che in un quadro allegorico, Due volie, dice Svetonio, entrò Auguſto
in Roma vitto rioſo e ſenza trionfare, una, poichè egli ebbe vinto Bruto e
Caffio ne'campi Filippici, l'altra avendo vioto Seſto Pompeo in Sicilia; il che
moftra, qual foſſe la modeſtia politica d ' Auguſto; queſta ſteſſa egli usò con
Marcantonio del quale e gli non crionfo, ma di Cleopatra, come ſi può
raccoglier dal Trionfo deſcrito da Dion Callio. Egli ſollevò i figliuoli d'
Antonio alle prime dignità, nè col moſtrar odio e vendetta con Antonio dopo
ch'egli era morto voleva offender Octavia a cui era ſempre grata la memoria del
marito. Orazio e Vir gilio ben ſapendolo non mai parlarono di Marcantonio ſc
non mettendolo in compagnia di Cleopatra su cui fecero ca der l'odio e la colpa;
ma nel tempo ſteſſo, conoſcendo forſe che Auguſto ſi compiaceva, che negli
animi de' Romani non ſi ſmarriſſero l'idee di quanto avea fatto contra
Marcantonio per la finta difeſa della libertà, eſli procurarono di maſcherar ne
l'azioni con l'allegoria, della quale Auguſto poteva abba ſtanza intenderne il
ſenſo, e non offenderſi i partigiani d'An tonio per le varie interpretazioni
che poteano darle. Nelle mie note su l’Odi d'Orazio io ſpiego con ciò molte
coſe in intelligibili ſenza queſta ſuppoſizione, nè ſarà diſcaro che ne moſtri
l'uſo nelle ſtorie di Porſenna e di Manlio ſcolpite da Virgilio nella ſeconda
ovale dello Scudo. Porſenna voleva riſtabilire in Roma la tirannia traſportan
dovi i Tarquinj, e nonmeno Antonio voleva riſtabilirla tra ſportandovi
Cleopatra. Se Antonio, dice Dione, foſſe ſtato ſuperiore e ſignore del tutto,
era per dare a Cleopatra la Cit tà di Roma; è poco dopo ſoggiunge, che
Cleopatra era venu ta in ſperanza d'acquiſtar l'Impero Romano, e che quando al
cuno le dimandava giuſtizia, ella riſpondeva che gliela fareb be in Campidoglio:al
che pur allude Orazio nell'Ode 37. l. 1. dicendo ch'ella era ebbra di folli
ſperanze non meno che di vino mareorico. Io non so ſe troppo raffini nel
ritrovar in Clelia che ſi falva a nuoto, Ottavia che al dir di Plutarco eſce
precipitoſamente dalla caſa d'Antonio; ma certamente Coclite che rompe il ponte
è un ſimbolo d'Agrippa che con la vittoria navale interrompe l'avvanzamento
d'Antonio. AQ 2 Tito 188 Tito Manlio è difenſore della libertà del Campidoglio
con tra i Galli, come Antonio fu difenſore della preteſa libertà contra Caſſio
e Bruto e gli altri nimici di Giulio Ceſare. Non mancarono, dice Plinio, i
fregi delle coſe militari in Manlio Capitolino, ſe non gli aveſſe perduti
nell'eſito della vita; e Tito Livio ſoggiunge, che lo ſteſſo luogo nell'Uomo
ſteſſo fu un monumento e d'inſigne gloria e di ultima pena. Anto nio difeſe il
popolo Romano ne' Campi Filippici, e il popo lo Romano in Azio ed in
Aleſſandria l' inſeguì e fu cagione della ſua morte. I Salj ed i Luperci
eſultano, e le matrone ne loro cocchi agiati conducono le coſe ſacre per la
Città per dimoſtrare che non ſono ammeſſe in Roma le ſuperſtizio ni Egiziache,
abborrite eſtremamente da' Romani ne'cempi d ' Auguſto e di Tiberio. Catilina
tormentato nell' Inferno non moſtra egli le pene dovute a Marcantonio? e per la
ragion de contrarj quante lo di meritava Auguſto per la ſalvata libertà? In
grazia di que fta ſoffriva Augufto che fi lodaſſe Catone Uticenſe. Orazio
nell’Ode 12. c. 1. lo mette tra gli Eroi di Roma. Loderò di Caton la nobil
morte? Il P. Catrou pretende, che il Catone che negli Elisj dello Scudo dà
legge agli ſpiriti, non fia altrimenti Catune Uricen ſe, ch'era troppo odioſo
a'Ceſari, ma Catone il Cenſore, di cui dice Seneca, che tanto giovo co'ſuoi
coſtumi al popolo Romano, quanto Scipione colle ſue guerre. Il P. della Rue é
per il Carone Uticenſe, ma non ne aſſegna la ragione, la quale è manifefta, ſe
ſi riflette al paſſo di Taciro da me nell' alıra diſſertazione addotto e che
qui ancora ſoggiongo, perchè cgli moſtra quanto Ottavio fi vantafle, come
Cromuello fece a' noſtri tempi, di paſſar per difenſore della pubblica libertà.
Tito Livio (così fa dir Tacito a Cremuzio Cordo in Senato ) chiariffimo tra
tutti gli Scrittori e per eloquenza e per fedel tà, celebrò con tante lodiGnco
Pompeo che Auguſto lo chia mava Pompejano, nè perciò gli fu meno amico. Nelle
Opere di Aſinio Pollione (cui Virgilio dedicò l'Egloga terza ) li fa
onoratiflima memoria di Callio e Bruto: Meffala Corvino pre dicava Caffio per
ſuo Imperatore, e l'uno e l'altro viſſero lun. gamente pieni di ricchezze e
d'onori, ed Auguſto, non ſi sa le con maggior lode di manſuetudine o di
prudenza, laſciò 1 cor 189 correr le lettere d'Antonio, e l'orazioni di Bruto,
che molto lo diſonoravano; nel che forſe volle imitar Ceſare Dittatore che
tollerò i verſi di Bibaculo e di Catullo, ed al libro di Marco Cicerone nel
quale s' inalza Catone al Cielo, riſpoſe perorando come ſe foſse avanti i
Giudici. Con queſto paſſo di Tacito ſi può dar la ragione per la quale Virgilio
ed Ora zio non temerono, dedicando l'Opere loro ad Auguſto, di no. minar Giunio
Bruto, Marco Bruto, e Callio, Catone, e Pom peo. Maquale ſcaltrezza
cortigianeſca v'è in Virgilio nell' introdur Catone a dar legge agli ſpiriti?
Par, ch'egli accen ni, che Carone meritava ſolamente grado in quella Repubbli
ca ideale di Platone, la quale ſecondo Cicerone egli cercava nella feccia di
Romolo. Ed ecco ciò che dovea dirſi intorno alle lodi indirette ed allegoriche.
Le figure del quarto e del quinto ſpazio contengono lodi di rette, perchè cuite
ripiene delle coſe di cui si compiaceva Auguſto che i Romani continuamente
acclamaffero. Egli ſteſ ſo, come ſi diffe, avea nel Foro di Ceſare conſecrata
l'ima gine della battaglia, e del Trionfo, nè io dubito punto che Virgilio ne
aveſſe eſpreſli i tratti della pittura nello Scudo in quella guila, che nel
primo libro nel rappreſentar il Furore alliſo ſopra i trofei e con le mani
annodate al tergo imita la pittura ch'era nel Tempio di Giano. Tutto poi nella
deſcrizione e della battaglia, e del Trion fo, è diretto alla lode d'Auguſto.
Nella battaglia, Auguſto è coi Padri, col Popolo, coi Penati, e co'magni Dei,
ed ha in fronte la ſtella paterna; ciò ſignifica, che la guerra era in trapreſa
per la libertà del Popolo, del Senato e coll'alliſtenza di Giulio Ceſare già
Deificato. All'incontro Antonio non ha ſeco che de' Barbari, ed un'effeminata
Reina; Auguſto è di feſo da Venere genitrice, da Minerva, e da Apollo, Dei del
la prudenza e del conſiglio, e da Nettuno, che gli era ſtato favorevole nelle
guerre in Sicilia contro Seſto. All'incontro Antonio non ha ſeco che Dei
moſtruoſi ed odiati da' Romani. Quanto cgli deſcrive più feroce la pugna, tanto
maggior mente eſalta il valore d'Auguſto e d' Agrippa, ch'egli ſempre
accompagna per le ragioni di ſopra accennate. Le Furie e la Diſcordia con
Bellona liriferiſcono a Cleo patra; ma qual mai v'è ſagacità poetica
nell'accennare la fu ga e la morte di queſta Reina? Mentre ella ſuona il filtro
non vede i due ſerpi che la minacciano alle ſpalle; ella con fida iyo fida in
vano nelle forze dell'Egitto, e in vano tenta di rifu. giarſi nelle più occulte
ſpiagge delNilo. Tutto allude al.con higlio ed alle azioni di Cleopatra. Perchè
poi Virgilio non nc introducefle nel Trionfo l'effigie, e tra i prigioni non
poneſ ſe i figliuoli di lei, la cagione n'è forſe ſtata il timore d'ec citar
nell'animo altrui con queſte imagini qualche grado di ammirazione e di
compaffione, e perciò ſcemar in parte la lode d'Auguſto, e tra l'altre quella
della pietà. Ne'gran Poe. ti biſogna egualmente riflettere e a quel che dicono
e a quel che tacciono, onde molto male s'argomenta dalla Poeſia alla Storia, e
dalla Storia alla Poeſia, quando non s'attende al fi ne a cui tutto vuol
accomodare il Poeta. Il fine delle figure ſcolpite nei vari ſpazi dello Scudo
ha relazione al fine gene rale dell'Eneide. Le figuredel ſecondo ſpazio
riguardano il ſenno d'Auguſto, le figure del terzo il valore, le figure del
quarto riguardano la ſua pierà. Queſte ſono le tre virtù do. minanti
dell'Eneide. Dionigi d'Alicarnaſlo, che ſcriveva nel tempo d'Augufto, le
ſtabiliſce come neceſſarie ai fondatori d ' un Impero, e Virgilio vi fabbrica
ſovra l'Eneide. Molte altre coſe io potrei addurre intorno l'artifizio poeti.
€0, la chiarezza, e la brevità, colla quale Virgilio in sì po chi verſi eſprime
tante coſe, nè mai per oftentazione o d’in. gegno o di dottrina o d'erudizione,
maſempre relativamente al diſſegno del tutto e delle parti, ciò che deve
ſervire a' Poe. ti moderni di precetto e d'eſempio. atentat nesatentratata L A ſecca della
Filoſofia Italica fondata da Pitcagora ebbe nome e ſede nella Magna Grecia, tra
le cui Provincie fu per l'eccellenza de'Filoſofi, che vi fiorirono, celebre la
Lucania, ed in queſta la Città di Velia, o d'Elea così denomi nata dal fiume
che l'irrigava. Quivi Senofane di Colofone, Cit tà della Jonia nell'Alia minore,
ſtabilì e perfezionò la fecta, che dalla Città d'Elea fi diffe Eleacica, e
meritò d'avere tra gli al tri diſcepoli Parmenide nato di Pireto, e quel
Filoſofo grave e venerabile, che con Zenone paſsò in Atene, ove tenne la con
ferenza con Socrate eſpreſſa in queſto Dialogo. Ora avendomi propoſto io
d'illuſtrarlo nella ſua parte ſtori ca e Filoſofica, credo diſoddisfar quanto
baſta al mio impegno ſe prima tento d'accordar l'erà controverſa dei tre
Filoſofi nomi nati, indi ſe della dottrina Eleatica ſpiego l'origine e l'effetto,
o la Filoſofia Pittagorica, e la Platonica; finalmente ſe mi fer punto che
Platone in queſto Dialogo n'eſpoſe, e dichiaro l'artifizio filoſofico, e
poetico dello ſteſſo Dialogo. lo difli, che Senofane ftabili, e perfezionò la
ſecca Eleacica perchè Platone dice nel Sofiſta, la gente d ' Elea incomincia
appref ſo di noi da Senofane, anzi da più antichi, i quali non poteano eller
che Talete, o Pittagora, oi difcepoli loro; non regnando, allora alıra
Filoſofia nella Grecia, ſe non l'introdotta dai due fondatori, o profeſſata da
i loro allievi. Alcuni però fecero Se nofane poſteriore a Talete, ma più antico
di Pittagora, nè fo dove prendeſſero le loro congetture cronologiche, alle
quali oltre l'autorità di Platone, s'oppongono le ſcoperte dei due Fi loſofi, e
i viaggi loro. Taletecalcolo il primo l' eccliſli lunari, ma come poteva egli
calcolarle ſenza conoſcere la propolizione, che Euclide poi fe ce la 47 del
primo libro degli Elementi, e di cui s'aſcrive or dinariamente l'invenzione a
Pitcagora? I calcoli aſtronomici ſo mo ſul. no (4 ) no dedotti da
trigonometrici, principio de' quali è il triangolo rettangolo miſura diſe
ſteſſo, e de gli altri triangoli. Pittagora dunque, che l'invento, o fu
contemporaneo di Talete, o fiori prima di lui., Io credei, che queſta foſſe una
dimoſtrazione in cronologia, finchè in Plutarco (a ) ritrovai che gli Egizj
ſimboleggiavano co? tre lati del triangolo rettangolo miſurati da 3, 4, e s le
loro principali divinità Ilide, Oliride, ed Oro; aſſegnando ad Oſiri de la
perpendicolare, la baſe ad Ilide, e ad Oro l'ipotenuſa; L'antichità del ſimbolo
manifeſta quella della cognizione, tan to più che gli Egizi coltivarono l'
aſtronomia da poi che eb bero inventato la geometria per miſurare i terreni, e
non par veriſimile, che ſenza conoſcere il triangolo rettangolo, il pri mo e il
più facile ad immaginarſi de gli altri, poteſſero riu ſcire nella pratica di
queſte due ſcienze. V'aggiungo, che fe condo Platone (6.) noci erano, agli
Egizi gl' incomenlurabili, la prima idea de' quali naſce dall' impoſſibilità di
eſtrar la radice dal quadrato dell'ipotenuſa del triangolo; I lati del
retcangolo Pitta gorico ſono i numeri accennati, e queſta è la prova che dagli
E giz lo toglieſſe Pittagora, e nello ſteſſo tempo o poco prima l' aveſſe colto
Talete, benchè poi Talete ſi contentaffe di moſtrare all'Aſia minore l'ulo
aſtronomico della propoſizione, e Pictagora ne deſſe alla Magna Grecia la
dimoſtrazione Geometrica, ed è forſe quella regiſtrata da Euclide nel primo
libro diverſa dalla 8 del libro 6 dedotta dalle proporzioni delle linee, e che
nel progreſſo del tempo Eudoffo, che fiori nel tempo di Placone, portò dall'
Egitto col s elemento. Or fe i gradi delle cognizioni dello fpirito umano ſono
fema pre gli ftefli, dall'analogie dell' Epoche moderne ſi poſſono de durre le
antiche, e particolarmente quelle che hanno relazione agl'inventori de'
principjmatematici. Nel paſſato ſecolo ſi trova prima dal Toricelli la Cicloide,
e l' Ugenio l'applicò a regola re il moto dell'orologio a pendulo; il Newtono
fi limitò all'altrace ta Teoria della luna, e l' Hallejo l'applico a correggere
le Tavo le aſtronomiche. La ſeconda congettura della contemporaneità di
Pitragora, e di Talete, ſi prende da coſe più facili. Vuol Jamblico, che Ta
lete ſcriveſſe una lettera a Ferecide maeſtro di Pittagora, e gli legaſſe certi
fcritti morendo, e par che Plinio convenga che i due Filoſofi foſſero ſtati in
Egitto al tempo che regnava il Re Amaſi. La queſtione non cade più dunque ne ſu
tutto il ſecolo, ne (a) Trattato d'Ilide, ed Oſiride. Nella Rep. e nelle leggi.
1 4 ne ful mezzo ſecolo, ma su l'età dell'uno e dell'altro di pochi anni
diſtante; Talete par più vecchio ſe ſcriſſeuna lettera al maeſtro di Pittagora,
machi sa poi ſe Pitragora non era allora in Egitto? queſta lieve differenza non
toglie però, che ſe Talete' fu più d'un ſecoloprima di Senofane, non lo foſſe
ancora Pittagora: Io ritrovo bensì, che Senofane era contemporanco d'Epicar mo,
e diEmpedocle. Secondo Timeo lo Storico, Senofane paſsò in Sicilia al tempo di
Gerone, ſotto il cui Regno Epicarmo era illuſtre per le ſue commedie, e
Plutarco (a) ci conſervò la memo ' ia d'una riſpoſta, che diede Senofane ad
Empedocle. Non è facile il determinare, nè qui lo cerco, quanto Epicar mo, ed
Empedocle foſſero diſtanti da Pittagora, e quindidà Ar chita Tarentino il
vecchio, da Peritione, da Timeo di Locri, da Ocello Lucano, e da altri, che ſi
dimandavano Piccagorei (6 ) perchè udirono Pittagora, a differenza deglialtri,
che ſi chiamava no Pittagoriſti. Quando cominciò Senofane a ſtudiar la
Filoſofia, quella di Ta lete era già diffuſa nella Jonia, e quella di Pittagora
nella Magna Grecia,e nella Sicilia; su queſto fondamento altri fecero Seno fane
diſcepolo di Anaſimandro, ed altri di Archelao diſcepolo di Anafagora, il quale
avea il primo traſportata la Filoſofia dalla Jonia in Atene, ove paffato
Senofane ftudiò ſotto (c ) un certo Bottone Ateniere. Dalla povertà cacciato
Senofane dalla Grecia, paſsò nella Sici lia e quà s'abbandono alle doctrine
Pittagoriche, più delle Joniche conformi all'ingegno di lui acre, e profondo.
Dalla Filoſofia Jo nica, e dall' Italica traſſe un nuovo liftema, è meritò ď'
effer ca po della ſecta Eleatica primo fonte dell'Accademica, e della Pla
tonica, delle quali poi furono rami lo ſcetticismo, e lo ſtoicismo, Nulla
ancora s'è fatto, ſe non ſi dimoſtra accordarſi l'ecà di Senofane con quella di
Parmenide, e queſta con quella di Socra te. Tralaſciare dunque molte epoche
inverifimili, io m'arreſto a quella che aſſegna Timeo a Senofane, ed è che egli
fiorille nell'olimpiade 76. Parmenide, ſecondo Laerzio ſeguito dallo Stan lejo,
e da altri, fiorì nell' olimpiade 69 diſtante dalla 76 di 7 olimpiadi, che
importano 28 anni, calcolando ogni olimpiade per 4 anni compiuti. La voce
fiorire è molto vaga o ſteľa nel la Cronologia, perchè non ſempre moſtra, che
un Filoſofo fof ſe nel punto più alto della ſua fama, ma che ſolo aveſſe un no
meilluſtreacquiſtato. Il Newtono, che cosi rapidamente ſi per fezionò nelle
matematiche, fioria del pari in Inghilterra quando ſcriſſe al Leibnizio la
lettera in cui gli dichiarava lo ſvi luppo, (a ) Plut. de vit.pud. (6) Patr.
diſcuſs. prop. 1. 6. (c) Laerzio vit.di Sen. (6 ) 3 8 luppo, e l'uſo del
Binomio eſaltato ad una potenza indetermi nata, e nell'anno 1716 in cui molte
coſe aggiunſe al ſuo libro de' colori, e n'illuſtrò molte altre nei principj
naturali della Fi loſofia matematica, Senofane, che lo Scaligero fa vivere 104
an ni, ed altri almeno fino a 100, potea fiorire in olimpiadi mol to diftanti,
perchè per la forza della ſua mente facilmente riu fcendo nelle fue
applicazioni, in breve acquiſtava fama di lomme Filoſofo, e la ſua fama tanto
più ſpargeali per le bocche degli Uomini, quanto egli abbelliva le ſue
meditazioni filoſofiche con la Poelia per farle ricercare, e leggere con più
d'avidità. Parmenide fece i ſuoi ftudi in Elea (a ) ſotto Amenia, e Dio cheta
Pictagorici, i quali lo riduſſero a laſciar le ricchezze, ecol tivar la vita
privata, e darſi tutto alla Filoſofia. Biſogna dun que che in eſſa molto
riuſciſſe, o la Filoſofia foſſe la paſſione, che più lo dominava, ſe nato de'
più ricchi, e de’più nobili di Elea ebbe tale coraggio; ma ciò molto applauſo
dovea avergli acquiſtato appreſſo de'ſuoi Cittadini, ſe fin d'allora
cominciarono a celebrarlo in guiſa, che al dir di Ermipo Empedocle l'emuld.
Nulla vieta il ſupporre, che Empedocle avelTe molto ſoggiornato in Elea, e poi
foſſe ritornato in Agrigento ſua Patria. In Elea era ſtato emulator di
Parmenide doctiſſimo nelPittagoriſmo, e lo fu in Sicilia di Senofane, che lo
profeſſava con qualche cangiamento', dopo gli anni 28 che è l'intervallo
frappoſto tra l'olimpiade 69 e 76. Paſso Senofane in Elea, ed ivi Parmenide
conſecrato agli ſtudi corſe ad udir Senofane, come i giovani nobili, e ben
educati ſo leano far nella Grecia, quando nelle loro Circà udiano entrar un
Filoſofo illuſtre, e che potea inſtruirli in qualche nuovo liſte ma, del che
chiari gli eſempi ne vediamo nel Protagora, nelGor gia, ed in altri Dialoghi di
Platone. Quando Parmenide udi Se nofane, queſti poteva eſfer molto vecchio; ma
qualunque età dia ſi a Senofane, mi baſta, che nel pricipio dell' olimpiade
76Parme nide imparaſſe da lui il fiſtema dell'uno immobile, e non aveſſe allora
che 36, e ancor 40 anni, la ſteſſa età che avea Zenone quando diſputò con
Socrate in Acene. Socrate nacque al fine dell'olimpiade 77, ed avea 4 anni com
piuti o 5 anni cominciati, quando nella noſtra ipoteſi Parmeni de ne avea 40.
Se zo anni dopo ſi fuppone, che Parmenide con Ze none paſlaffe da Elea in Atene,
come vuol Platone, non avea che 60 anni, e Socrate che 25, onde era egli molto
giovane relativa mente a Parmenide. Semplici, e al fommo veriſimili ſono queſte
ipoteſi degli ſtudi, 1 e dei (a ) Laerzio vita di Parmenide. 1 (7 ) e dei
viaggi dei due Filoſofi, e ſe s'accordano facilmente con le olimpiadi, perchè
oftinarſi a rigettarle, e rinunziare all'au corità di Platone, che potea molto
meglio al fuo tempo cono fcere l'epoche dell'era filoſofica, che non ſi
conobbero 6oo an ni dopo, e ben più? Le circoſtanze, con cui Platone accompagna
l'abboccamento di Socrate con Parmenide, accoppiano in guiſa alla verità del
fatto la veriſimiglianza ſtorica del Dialogo, che pare non do ver laſciarſi
alcun ſoſpetto. Io le eſtrarro dal Dialogo. Parmenide, e Zenone fuo diſcepolo
favorito o fuo figlio a dottivo abitavano fuor delle mura di Atene in caſa di
un cer to Pitidoro. Nelle ſolennità de grandi Panatenei, itofene So crate a
ritrovar Parmenide, ritrovò folo in caſa Zenone, e comia cid a diſputar feco fu
l'idee. Entrato poco dopo Parmenide in caſa con Pitidoro, ſi proſeguì la
diſputa incominciata alla pre fenza di molti, tra' quali Ariſtotele non lo
Stagirita, ma uno dei 30 Governatori, o Tiranni di Atene. Tali ſono le circo
ftanze del luogo, del tempo, e dei teſtimoni della diſputa. Socrate non avea
allora che 25 anni; or eſſendo egli mor to nell'età di 72 anni,
dall'abboccamento alla morte non vi fo no che 47 anni di diſtanza, e tanti
appunto o pochi più dall' abboccamento al Dialogo, ſe Platone lo ſcriffe dopo
la morte di Socrate: ma poniamo che l' aveſſe compoſto anche 20 anni dopo; la
memoria di un Uomo così illuſtre qual era Parmeni de non potea più ignorarli in
Atene, di quel s'ignori ora a Parigi la dimora che vi fece il Leibnizio, e
l'Ugenio, e le di fpute che ebbero nell' Accademia reale. Alle verilimiglianze
ſtoriche s'aggiungono le poetiche necef ſarie all' ornamento del Dialogo, che è
una ſpecie di Poeſia Dramatica: così lo teſse Platone.: Cefalo per bocca di
Antifone ſuo fratello uterino, e figliuo lo di Pirilampo, racconta ad A dimanto,
e Glaucone, tutto ciò che avea udito da Pitidoro fu la diſputa che ebbero
Zenone pri ma, e poi Parmenide con Socrate. ' Antifone avea converſaco
familiarmente con Pitidoro compagno di Zenone, ma poi laſcia ta la Filoſofia
coltivava l'arte equeſtre, e quando Cefalo ad in ſtigazione de' compagni andd a
ritrovarlo, egli dava certo fre no ad accomodare ad un fabro; circoſtanza che
io credo finta per dar rilievo al racconto, é fiffar la fantaſia del lettore
con qualche coſa di ſtrano. Par toſto che Antifone occupato in un volgare
eſercizio, non debba favellare ſe non di coſe volgari, nè mai s' aſpetta, che
egli ſia per ſalire nell' ultime aſtrazio ni della metafiſica; quindi il
lettore reſta ſorpreſo dalla mera viglia (8 ) 1 > e di viglia, allora che
egli racconta il principio della diſputa tra So crate e Zenone, e che poi
s'interrompe alla venuta di Parme nide, che fattoſi pregar un poco la continua
fino al fine. Quan te menzogne, ſe Socrate non parld mai con Parmenide ! All
incontro qual arte fina di veriſimiglianza poetica, per dar or namento alla
verità del fatto di cuiCefalo, Adimanto, e Glau cone vivendo poteano renderne
teſtimonianza? Come immagi narſi, che un Filoſofo il qual volea render accetta
la lettura de ſuoi Dialoghi, cominciaſſe a diſguſtar il lettore con bugie le
più sfacciate? Ariſtotele, che calunnia il ſuo Maeſtro in tante parti
dell'opere ſue fue, e che parld ſovente di Parmenide Socrate non attaccò mai
Platone ſul loro abboccamento, e pur ne poteva trar degli argomenti, per
renderne la dottrina ſoſpetta. Non ne parlano altri autori Greci più vicini a
Platone, non gli autori Latini, che più ſtudiarono i Greci, e tra gli altri
Cicerone e Plinio, che tante coſe ci conſervarono fu l' iſtoria ed Era
Filoſofica. Non v'è che il ſolo Ateneo il qual viſſe a' tempi di Marco Aurelio,
che vuol dir quaſi più di 600 anni dopo Platone. (a ) Egli dice: Appena
permette l' età che Socrate aveſe veduto, ed udito Parmenide, non dover però
noi meravigliar ſene, perchè Platone ſuppoſe che Fedro vivere al tempo di
Socrate; che Paralo, e Zantippo figliuoli di Pericle, e morti nella peſtilenza,
ragionaſſero nel Protagora, e che Gorgia diceſſe nel Dialogo del ſuo nome quel
che mai s'era fognato di dire. Molte altre accuſe contro Platone vibra Ateneo,
e s'affatica a dipingerlo tanto mordace, e maledico quanto bugiardo. Non so
perchè i Cronologi attenti a peſare ogni minuzia de'te fti non oſfervino, che
Ateneo nel dire vix ætas permittit dichiara, che poco intervallo di tempo v'era
ſtato tra la morte di Parme nide, e l'età di Socrate, maqueſto vix qual ha poi
forza cronologica poſto in bocca di Guriſconſulti, di Oratori, diPoeti, di
Filologi, non di Cronologi, che avrebbono diminuito l'allegrezza del convito
coi loro calcoli, e colle lor aſciutte illazioni? Il Calaubono il qual nel ſuo
comentario d'Ateneo in un'altro libro in foglio sfoga tanta eru dizione ſu
l’erbe, ſu ipeſci, ſui coſtumidel convito, elu mille altre coſe inutiliffime a
ſaperli nulla degna di dire ſu le accuſe colle qua li uno dei Dinnoſofiſti
morde Platone. Io per me credo, che A teneo vedendoſi incapace d' emulare
l'immenſità della dottrina Platonica, e l'arrificioſa maniera con cui l'eſpone
Platone ne'ſuoi Dialoghi, teſſe lunga ſerie d'accuſe, e lo condanna di menzogne
ro, e maledico per accreditar ſe non altro la veracità, e la mo deſtia colla
quale caratterizza i ſuoi Dinnoſofiſti. Il buon Grama cico (a ) Ateneo lib. 14.
Sympt, 9 ) tico ne goda egli pure, e ſen ' applauda; non per queſto io crede rò,
che Parmenide non poteſſe ragionare con Socrate, e ſtard immobile nelle mie
ipoteſi cronologiche, che a ben peſarle non vagliono meno di tante altre, che
in queſto ſecolo fi ſpacciano, e fi difendono come i Teoremi diGeometria:
Candidamente perd confeſſo, che io farò per ſacrificarle a colui, che
all'autorità di Ateneo ne aggiungere qualchealtra più dimoſtrativa, e meno ſo
fpecta; finalmente malgrado le congetture eſpoſte io ſon perſua ſo, che ſe
Platone tutto finſe, il Dialogo è più ammirabile per la menzogna poetica tutta
opera della ſua fantaſia, che non è per la verità del fatto, di cui poteano
farſi onore i men dotti. Platone fcriffe in Filoſofia più ditutti gli antichi
che lo precede rono, e come da Eraclito le coſe fiſiche, da Socrate le morali,
così tolle da' Pittagorici lemetafiſiche, le quali non ſi correffero che nel
fecondo ſecolo della Religione, per le varie diſpuce che, nacquero tra
iPlatonici, e tra i Criſtiani. Eſaminerò dunque prima d'ogni altra coſa la
natura della difpu ta, dopo di cui proporrò generalmente l'antica Filoſofia, ed
in di la particolareggierò in Pittagora, e ne'Pittagorici, tra'quali Se nofane
e Parmenide, e la terminerò con Platone. A queſte due coſe io riduco l'origine,
e l'effetto dell'Eleatiça Filoſofia.. Gli antichi Filoſofi, ſenza eccettuarne
nè pur uno, convennero nel principio, che di nulla fi fa nulla, e ciò gl'
impedì di poter conoſcere che Dio era un ente ſingolariſlimo, uno, onnipoten re,
buono, e libero; in ſomma di tutte quelle perfezioni dotato le quali o per
negazione, o per caſualità, o per eminenza gli at tribuirono i SS. Padri, e
cuti'i Teologi. Era Dio ſtato ſempre con la materia? Dunque altro non gli
competea, che eſſer un modo di efla od un ente, che ſolo per preciſion di
ragione dalla materia ſi diſtingueva; era egli per metà uno, per metà onnipotente,
fe dipendea da un principio, ſenza il quale operar non potea, non più che il
Pitcore dalla tela e dai colori, e lo Scultore dal marmo. La diminuzione della
potenza toglieva a Dio la bontà, perchè non poteva egli vincer in guiſa la
contumacia della materia, che non regnaſſe a ſuo malgrado il male miſto col
bene. Come dunque Mosè per opporſi al politeiſmo del ſuo tempo dalla creazione
cominciò la ſtoria del mondo; così per opporſi a tutti gli errori che
derivarono dall'eternità della mate ria fi cominciò nel ſimbolo Apoftolico da
Dio creatore, inſiſten do al dogma di S. Paolo, il quale nella Epiſtola agli
Ebrei: In tendiamo; (a ) dice egli, per la fede eſſere ſtati connelli i ſecoli
Tom. II. b dalla (a ) Epiſt. agli Ebrei cap. 11. Fide intelligimus aptata eſſe
ſecula ver bo Dei. (10 ) dalla parola di Dio. I Padri nelle loro diſpute
co'Gentili lo dichia rarono. Noi, dice Atenagora,Jepariam Diodalla materia,
lamateria crediamo un ente diverſo ---- (m ) Dio è uno, ed ingenito, ed eterno;
la materia è corruttibile; e poi celebriamo tutti un Dio ſolo crea tore di
tutte le coſe. - -.- la fua forza immenſa non poterono abbrac ciar coloro con
l'animo, che la notizia di Dio non cercarono nello ſtef fo Dio, ma dentro fe
fteſi. Taciano (6 ) pur dice: Dio non s'inſi nua nella materia e negli spiriti
materiali e nelle forme, ma egli è artefice inviſibile ed intangibile di tutte
le coſe. Teofilo d'Antiochia (c) parlando ad Autolico, dice, ſe Dio è ingenito
e la materia è pur tale, non è più Dio fabricatore e creatore di tutte le coſe.
Queſti Pa dri viſfero tutti e tre nel ſecondo ſecolo non molto diftanti l' uno
dall'altro. Gli errori de' Marcioniti, de' Valentiniani, de' Baſiliani,
chefuronopur cutti e tre che in queſto ſecolo diedero occa fione a' Padri
d'illuſtrare il lor zelo, dichiarando con la crea zione della materia il
principio fondamentale della Religione Criſtiana. Anzi Taciano dimoſtro, che i
Greci ne avevano ri cevute l'idee da'Barbari, ed i Barbari dagli Ebrei, benchè
poi le aveſſero oſcurate e corrotse. Affaccendati gli altri Padri a purgarle,
oſſervarono che Dio, autore del pari della Fede, che della ragione, non le avea
ſeparate in un modo caliginoſo ed impenetrabile, ma le avea in maniera
accordate, che dall'aurora dell'una fi potea paſſare al pieno giorno dell'altra,
cogliendo però dalla ragione quanto e Platonici e Pittagorici e Stoici, ed
Epicurei v aveano im preſſo col lor proprio carattere. Si compiacquero dunque
della ſetta Eclerica, ed il primo che l'abbracciale fu Atenagora il primo de'
Catechiſti d'Aleſſandria, poi S. Clemente ed Origene dal Veſcovo Uezio chiamato
Pocamonico (d ) anzichè Platoni ço, San Clemente ſpinſe tant'oltre la
condiſcendenza, che pro poſe come poflibile un ſiſtema filoſofico, il quale
raccoglieſſe tut te le verità ſcoperte dalla ragione umana fin dal principio
del mondo, ed agevolaſſe il metodo di far ricever i dogmi della fede, e quello
della creazione. Amonio Sacca conciliator di Ariſtotele e di Platone,
ritrovando che in Ariſtotele l' eternità del mondo ſi conciliava con l'eter
nità di Dio, ſe ben egli nulla ſcriveſſe, laſcid tuttavia a' ſuoi diſcepoli,
onde ſtabilire tal dogma. Diſtinſe egli l' eternica in due gradi o in due ſegni,
nell' uno dei quali poneva Dio, nell'altro le coſe bensì create, ma da lui
dipendenti, come il raggio dalSole, o l'ombra dal corpo. S'accorſero i Padri,
che iFi (a ) Apologia pro Chriftianis. (6) Tat. allir, cont. Græc. (c ) Teof.
Aut, lib. 2. (d ) Iftor. del Moeffenio nel finedelCuduortio. (11 ) e tras i
Filoſofi mettendo con la creazione eterna una dipendenza tra la materia é tra
Dio, coglievano a Dio la libertà, perché cacitamente fupponevano, che da Dio
neceffariamente foſſe emanato il mondo come il raggio dal Sole e l'ombra dal
corpo. Far di Dio un Agente neceſſario, è lo ſteſſo che farlo per metà Signore,
per che ſe fi confeſſa da una parte, che da Dio dipenda la coſa che egli fa, fi
nega dall' altra che da lui dipende il farla ed il non farla. La libertà è la
maggiore delle perfezioni. Perchè dun que corla a un ente infinitamenteperfetto?
Lafcio S. Ireneo, S.Cirillo, ed altri, cheſoddisfarono ampia mente a tutte l'
obbiezioni; ma quello, che più degli altri le ſcDIonvolſe ed atterrò, è ſtato
Lattanzio Firmiano, che con au reo ftile nel quarto ſecolo ſcriſe. In queſto
ſecolo ancora ſcriffe ro Eufebio nella Preparazione evangelica, e poi S.
Agoſtino nel la Città di Dio, l'uno ſegut l' ormeaccennace da Taziano, 1 alţro
con erudizione più vigorofa, e più filoſofica ſcriffe contro l'eternità,
l'animazione, la divinica del mondo, e l'immutabi lità del Fato. Apparve Proclo
(as nel príncípio del V1. fecolo fondendo nella ſua Teologia molto di quella
de' nomiDivini at tribuita a S. Dionigi Areopagita, rinovd il fiſtema di Amonio
Sacca riſtoro il Platoniſmo caduto. Nel fecolo dopo, Zac caria di Mitilene, ed
Enea di Gaza, ſcriſſero' pure contro l'eter nità del Mondo. E da' loro fcritii
ſi raccoglie, che l'idea di Dio, combinata col policeiſmo era un'idea nugatoria,
non men di quel la del bilineo rettilineo, che rappreſenta alla mente una
figura, é non è che una contraddizione. Il P. Balto, nel ſuo dotuiffimo libro
contro il Platoniſmo ſvelato, lo dimoftra; e dopo il Balto fe de fece dal
Moeſfenio quella circoſtanziata iſtoria ſul Platonis la quale è nel fine dell'
opere del Cuduortio, da lui tradotre dall' Ingleſe in Latino. lo nell’eſpor la
doctrina de Filoſofi antichi non mi feryi rò dell'autorita de' Platonici
recenti, non più, che fe non aveſ ſero mai ſcritto, ſalvo allora, che
s'accordano cogli antichi, e ci confervano qualche circoſtanza ſtorica
indifferente. Cercherò prima ne' teſti de' Filoſofi ftefli il ſenſo, che
naturalmente preſen iano, e dove ſia queſto oſcuro, ed equivoco, ricorrerà
all'in terpretazione o di Cicerone, o di Plutarco, o di Sefto Empirico, o di
Laerzio Viſle Cicerone molti anni prima del Crifianeſimo, e Plutar co viffe a
Roma ſotto Adriano, o Trajano, dopo d'aver ſtudiato in Egitto forro Amonio,
diſcepolo di Potamone, e del quale egli b 2 par (a ) Pachimero in Suida, Vedi
Fabrizio Bibliot. art, Proclo. e mo,. (12 ) parla nella vita di Temiſtocle ed
altrove. Laerzio e Seſto Empi rico, fiorirono in circa ſotto Severo, che vuol
dire molto prima di Amonio Sacca, di Plotino, di Porfirio, e di molti alori
nimici del nomeCriſtiano; non rifiuterd dall'altro lato i ſoccorſi, che i Padri
m'offrono allora particolarmente, che non hanno certa indulgenza alle opinioni
filoſofiche, ſcrivendo agl’Imperatori, o non argomentano ad hominem contro
coloro, che gl'inſultava no. La mecafiſica di Platone non è diverſa da quella
de' Pittago rici, e ſe una volta io dimoſtro, che queſti e particolarmente
Pitta gora, Senofane, e Parmenide conobbero bensì un principio intel ligente,
ma non ſeparato dalla materia, anzi con effa non facen do che un tutto, avrò
dimoſtrato, io mi perſuado, che queſto pur era il ſiſtema Platonico. Cominciero
da Cicerone che in poche ma ſoſtanzioſe parole compendio tutto il ſiſtema de'
primi Accademici o di Platone, e lo craſſe da' Pittagorici, come da Placone
purtraſsero il loro gli Stoici, e i ſecondi e verzi Acca demici, poichè quanto
a' Peripatetici (a ) eli convenendo nelle cafe non differivano, che ne' nomi.
Gl’antichi, dice egli, divideano (b )lanatura in due coſe, l'una delle quali
era efficiente, e l'altraad eſsa quafi preſtandoſi quella di cui ſi fa ceano le
coſe.. Incid che facea riponevano la forza, in ciò di cui ſi fa cea, una certa
materia, ma l'una e l'altra era nell' una e nell' altra perchè nè la materia
può aver coerenza, ſe non ſia da qualche forza ritenuta, ne v'è la forza ſenza
qualche materia, poichè nullo v'è che non fic in qualche luogo.. Se la forza e
la materia erano indiviſibilmente unite, la fola mente le ſeparava, e perciò
conſiderar l'una ſenza l'altra era un?: aſtrazione, una preciſion della menee.
Cid che riſulta (c ) dall'uno e dall'altro, o ſia dall'accoppiamento, lo
chiamavano corpo, e quafi certa qualità...--. Di queſte qualità al tre fono
principali, ed altre derivate da queſte. Delle principali ſono ognuna [CICERONE,
QUÆST. ACAD. -- Peripateticos', & Academicos nominibus differentes, &
re congruentes lib. 2. (b ) De natura autem ita dicebant, ut eam dividerent in
res duas, ut altera eſſet efficiens, altera autem quaſi huic fe præbens ea qua
effi ceretur aliquid: in eo, quod efficeret vim eff: cenſebant; in eo au tem
quod efficeretur materiam quamdam: in utroque tamen utrum, que: neque enim
materiam ipfam cohærere potuiſſe, ſi nulla vi contineretur; neque vim line
aliqua materia: nihil eft enim quod non alicubi eſſe cogatur. (c ) Sed quod ex
utroque id jam corpus, & quaſi q uandam qualitatem nominabanc Earum igitur
qualitatum ſunt aliæ Principes, aliæ ex his ortæ. Principes ſunt uniuſmodi,
& ſimplices, ex iis au tem ortæ variæ funt, & quafi multiformes: itaque
aer quoque (uti niur (13 ) ognuna della ſteſſa ſpecie, e ſemplici. Da queſte
qualità, altre ne for no nate, e quaſi moltiformi. L'aere, il fuoco, l'acqua,
ela terra for no primi, e da queſti nacquero le forme degli animali, e le altre
coſe, che ſi generano dalla terra. Dunque que' principi, per tradurlo dal
Greco, ſi dicono elementi, de' quali l' aria, il fuoco, banno la for za di
muovere, e di fare, le altre parti di ricevere, e quaſi di pati re, l'acqua,
dico, e la terra. La parola ſemplice quì non ſignifica indiviſibile, e Seſto (a
) Em pirico pur la prende in queſto ſenſo. Vè un quinto genere, b )di cui ſono
gli aſtri, e le menti ſingolari, ed Ariftotele lo pone diſimile dagli altri
quattro. Se le menti ſono tratte dallo ſteſſo elemento, che gli altri, non ſon
eſſe ſemplici nel ſenſo d'indiviſibile, ciò che CICERONE dice altrove. Teniamo
noi che l'animo abbia tre parti, come piacque a Platone, o ſia ſemplice ed uno;
ſe ſemplice ſia egli come il foco, il fangue, l'anima, cioè il ſoffio. Queſte
coſe conſtando di parti non ſono ſemplici. Continua CICERONE. (c ) Ma penſano,
che di tutte ſia ſoggetto una certa materia priva di ogni specie, e d ogni
qualità, e da eui Butte le coſe ſono eſpreſſe e fatte, e che può ricever in sè
tutte le coſe. Se la materia era prima d'ogni fpecie, d'ogni qualità, non cra
corpo, e perciò conſiderata dalla mente, indipendentemen te dalla forza, ella
era incorporea; Selto Empirico chiama per. incorporei i punti, le linee, e le
ſuperficie... Platone nel Timeo, la chiama difficile ed oſcura fpecie, e il
recercacolo d'ogni generazione, e quali nutrice; aggiunge, che ella non fi
diparte mai dalla propria potenza, perciocchè tut te le coſe riceve, nè prende
maiper alcun modo, alcuna forma a queſte fimile, e prova eller convenevole, che
di tutte le ſpecie ſia privo quel. che ha in sè da ricever tisti'i generi,
comequelli che hanno da fa re unguenti odorofi, l'umida materia, che vogliono
di certo odore, cori dire di tal guiſa preparano ', che ella non abbia alcun
proprio odore e colore eziandio, vogliono in materie molli imprimere alcune
pgure, los niuna mur' n. pro latino ) ignis, & aqua, & terra prima
ſunt. Ex iis au tem' orræ animantium formæ earumque rerum quæ gignantur è ter
ras, ergo illa initia, ut è Greco vertam, elementa dicuntur; è qui bus aer,
& ignis movendi vim habent & efficiendi; reliquæ par tes accipiendi
& quafi patiendi, aquam dico & terram. a ) Contra Mathematicos. (b )
Quintuin genus e quo eſſent aſtra mentesque ſingulares earum quatuor quæ ſupra
dixi diſſimiles, Ariſtoteles quoddameſſe rebatur. (6 ) Sed Salicetam putant
oinnibus fine ulla fpecie, atque carentem omni illa qualitate o... materiam
quandam ex qua omnia eſptela, atque effecta lipt qux'- tota omnia accipere
pofito (14 ) 1 njuna figura affatto laſciano primieramente apparire in quelle,
ma cer cano pria di renderle quantopoſſibil fra polite. Molte altre coſe
aggiunge Placone, che Ariſtotele in una de finizione riduce, dicendo che la
materia non è alcuna di quelle co fe, di cui l'ente fi determina, e tra l'altre
coſe annovera la qua lica, e la quantità, che par Cicerone ridurre alla ſola
qualità; ma che l'idea del corpo, e della materia foffero diverſe ſecon do gli
antichi, lo dimoſtrano le diverſe parole, con cui l'eſpri mevano, chiamando la
materia ùns, ed il corpo owllde. Chi po ne un nome, dice Platone nel Sofiſta, dalla
cofa diverſo, introdu ce veramente due coſe. La materia dunque, non eſſendo il
corpo, ella era incorporea, ed incorporea la chiama in molti luoghi Sesto
Empirico, e Plotino, la cui autorità qui è tanto più for te, quanto che egli
ſteſo col nome d'incorporeo, non ſignifi cava la ſteſſa coſa che noi chiamšamo
fpirituale. Stobeo (a ) lo conferma col dire: Si nega effer corpo lamateria non
tanto, perchè manchi degl'intervalli del corpo, o delle tre dimenſioni, quanto
perchè ſia priva d'altre coſe appartenenti al corpo, figura, co lore, gravità,
leggerezza, ed ogni altra qualità, e quantità. La materia pud (b ) in tutti i
modi mutarfi, ed in ogni parte non mai ridurſi al niente, ma ſolo in parti che
poſsono all' infinito partir li, e dividerſi, nulla eſſendo di minimo in natura,
che divider non fi pola. Le coſe poi che ſi movono tutte', moverſi con
intervalli, che all'infinito ſi poſſono dividere, e cosi' movendoſi quella
forza, cheab bian detta qualità (cioè il corpo ) e di qud, e di là verſando per
fano, che tutta affatto la materia fi muti, efi faccian le coſe, che chix miam
quali, dalle cui nature coerenti, e continue in tutte le ſue parti è fatto il
mondo, fuori di cui non v'è alcuna parte di materia, nè abas cun corpo. Quante
coſe raduna CICERONE in poche parole ! Con la divi fibilità all'infinito della
materia, eſclude gli atomi forſe ammeſ da Empedocle ne' minutiſſimi corpicelli,
che componevano gli elementi, e da Eraclito nelle mondature piccioliflime, ed indivi
fibi (a ) Stobeo. I. 1. Egl. fil. cap. 14. 16 ) Omnibusque modismutare atque ex
omni parte eoque etiam interi se non in nihilum ', ſed in ſuas partes quæ
infinite lecari, atque di vidi pollint, cum ſit nihil omnino in rerum naturam
minimum quod dividi nequeat: quæ autem moveantur omnia intervallis moveri;
quzintervalla item infinite dividi poſfint, & cum ita moveatur il la vis,
quam qualitatem effe diximus, & cum fic ultro citroque verfetur: &
materiam ipfam totam penitus commutari putant, & ita effici quæ appellant
qualia, e quibus in omninatura cohærente, & confirmata cum omnibus fuis
partibus effectum elle mundunt, extra quem nulla pars materiæ fit nullumque
corpus. (15 ) Ibili. Con la coerenza delle parti della materia, CICERONE eſclu
de il vuoto negato da tutti, da Talece fino a Platone, onde dif ſe Empedocle:
Nulla di vuoto vė, nulla che abbondi. Accenna pur CICERONE le leggi coſtanti
che conſervano icore pi movendoſi, e nel dir che fi movono con certi intervalli,
i quali all' infinito ſi poffon dividere, non applica egli le leggi del moto a'
corpi minimi come a'fenfibili? Le parti (a) del mondo effer tutte le coſe che
fono in eso, e tutte occupate da una natura che ſente, e nella quale v'è una
ragione per fetta, e la ſteſsa fempiterna, nulla effendovi di più forteche
poſsa diſtruggerla, e la steſſadirfi mente, ſapienza perfetta, e chiamarfi Dio,
ed eſer.quafi certaprudenza di tutte le coſe, cheprovede alle coſe celefti, ed
a quelle che in terra appartengono agli uomini. Se queſto Dio degli antichi
Filoſofi rifultava dalle nature coerenti e continue di tutte le parti del mondo,
ſe egli era il ſenſo, la ragione perfetta, la ſapienza, la providenza che reg
gea queſte parti, era egli altro che una modificazione della forza e della
materia, giacchè non v'era forza ſenza materia, nè materia fenza forza, e non
era egli ſeparatamente dalle co ſe conſiderato che un ente di ragione? Qual
relazione ha que fto Dio al noſtro, che è un ente ſingolariſtimo in sè, e fepa
rato non per preciſion di ragione, ma realmente dalla forza e dalla materia,
della quale egli è il Creatore? Alle volte lochiamiamo (b ) neceſſità, perchè
null' altro pud farſi, ſe non ciò che da lei è coſtituito nella quafi fatale, e
immutabile con tinuazione d'un ordine fempiterno; alle volte poi lo chiamiamo
fortu na, la qual fa molte coſe improvvife, nè da noi penſate per l'oſcuri. tà,
ed ignoranza delle cagioni; ed ecco Dio rappreſentato come agente neceſſario, o
ſenza libertà; ecco diſegnato l' ordine fa tale e ſempiterno delle coſe; ecco
come per la noſtra igno ranza non poſſiamo conoſcere la conneſſione, e le
conſeguenze delle (a ) Partes autem mundi effe omnia quæ infint in eo quæ
natura ſentiente teneantur, in qua ratio perfecta inſit quæ fit eadem ſem
piterna: nihil enim valentius eſſe a quo intereat, quam vim ani mam effe dicunt
mundi eandemque effe mentem fapientiamque per fectam quem Deum appellant,
omniumque rerum quæ ſunt ei fub jedtæ quafi prudentiam quandam procurantem
cæleftia maxime dein de in terris, eaque pertinent ad homines. 16 ) Quam
interdum neceſitatem appellant quia nihil aliter poſfit, at que ab ea
conftitutum fit inter qual fatalem, &immutabilem conti nuationem ordinis
fempiterni; nonnunquam quidem eandem fortu nam, quod efficiat multa improviſa
hæc nec optata nobis propter obſcuritatem ignorationemque cauſarum, (16 ) delle
cagioni, e degli effetti loro. In ſomma l'antica Filoſofia aveva adotata l'
eternità, l' animazione, la divinità del mondo, e l'immutabilità del Fato, le
quattro coſe che Santo Agoſtino ha egregiamente combattute nella Città di Dio.
Comparando il trattato d' Ilide, e d' Ogride di Plutarco col paſſo di CICERONE,
non è difficile di raccogliere, che la Filoſo fia Egizia ne' principi
eſſenziali non era diverſa dalla Greca, ſe non nella maniera di ſpiegarſi o ne'
ſimboli. La materia, di cui parla CICERONE, era Ilide, la quale in ogni coſa
potea tramu. tarſi, e di tutte le coſe eſer capace, della luce, delle tenebre,
del giorno, della notte, della vita, della morte, del principio, e del fi ne.
La forza è Oſiride, la cui veſte ſi facea ſenza ombra, e ſenza varietà, d'un
color ſemplice, e rilucente; perchè ella è il principio dalla noſtramente ſolo,
intefo, puro, e ſincero, tutt' iſimbolicontrarj a quelli delle proprietà
dipendenti dalle qualità de' corpi diſegnati per Oro. Riſultava queſti
dall'accoppiamento d'Ilde, e d'Oſiride, e chiamavaſi parto o creatura,
rappreſentandoſi per l'ipotenuſa del triangolo miſurata dal 5; per cui ſi
chiamava con la voce Pente, da cui deriva Panta, o l'Univerſo, che gli Egizi
penſavano eſſer la ſteſſa coſa con Dio, nel che, come egli dice, s'accordava Ma
netone Sebenita con Ecateo Abderita. Diodoro di Sicilia nel principio della ſua
Storia, ſcrive coſa pen {aſſero gli Egizj su la generazione del mondo, ſul
principio del le coſe, ſul naſcimento dell'Uomo. Par che Euſebio afcriva a Tot,
che è il Mercurio degli Egizj, quanto ſcriſſe Sanconiatone ſul caos, e ſulla
formazione della Luna, delle Stelle, degli Elementi. La Teologia miſtica dei
Fenici, che dagli Ebrei, ſecondo Euſebio ed altri Padri, ſi preſe, reftd in
guila alterata e confuſa, che nel caos poſero prima i principj delle coſe, ed
introduſſero poi l'arte fice o l'amore, per opra del quale ordinarono il caos,
é fabbrica rono il mondo. Orfeo il primo la portò nella Grecia e L'Inno criſto
canto del caos vetufto, E come agli elementi, e come al Cielo Origin deffe, ed
alla vaſta terra, E alla profondità del mar Amore Antichiſſimo, e ſaggio. Il
caos era la materia, l'amore, o la forma, ed i prodotti, i compoſti, ed i
corpi, ed in queſte tre coſe conſiſtea la fiſica generale degli antichi. La
ſcienza che n'eftraſſero o la metafi fica rappreſentandola in una maniera molto
indeterminata, la ſciava infeparata la materia da Dio, e dai compoſti, ed era
molto perciò differente dalla noſtra metafiſica, la quale nell' en te include
eſſenzialmente le creature, nè s'eſtende che per un ' 9 1 5 analogia molto
lontana al Creatore. Io lo dimoſtrerò partita mente ne' liſtemi di Pittagora,
di Senofane, e di Parmenide, e ſarà facile ad applicarne l'uſo a Platone.
Pittagora e Platone (a ) giudicano, che il mondo ſia ſtato fatto da Dio: dunque
le Platone fece da Dio generar il mon do ordinando la materia fluctuante, egli
imparò ciò da Pitta gora, che l'avea imparato dagli Egizi, da Orfeo, anzi dal
pro prio maeſtro (6 ) Ferecide Sciro. Avea egli ſoſtenuto, che in tut ta
l'eternità Giove, il tempo, e la terra erano ſtati. Facciali pur di Giove, la
cagione di tutte le coſe, e gli ſi dia ſomma pruden za, e fomma ſapienza, egli
non ſarà mai che la forza, e l'amore che eguaglieraffi al tempo, e alla terra;
vi ſi aggiunga, che poi chè Giove diede il premio alla terra ſi chiamò queſta
Tellure, (c ) non altro mai ſi concluderà, ſe non che prima la forza, e l'amo
re temperaffe, digeriſſe, ed ornaſſe quella mole indigeſta, che chiamavali
terra. Pittagora generò il mondo dal foco, e a guiſa di foco ſotti liſſimo (d )
Iparſo, e rinchiuſo nel mondo, volea Placone, che foffe Dio. L'ornamento, (e )
l'unione, l'ordine di tutte le coſe furono chiamate da Pittagora Coſmos, o il
mondo, e diffe egli, che il mondo viſibile era Dio. Stimò il primo, dice
Cicerone (f) l'animo per tutta la natura delle coſe eſer diffuſo, e per la
mente da cui gli animi noftri ſono tratti, ne vide per la detrazione di que fti
diſtaccarſi, e ſquarciarſi Dio, e farſi miſera una parte di lui, mentre queſti
ſoffrivano. Dio dunque era il mondo, e l'anime era no parti di Dio, effetto
della Metempficoſi, ſe pur non era queſta una coſa affatto poetica, come Timeo
di Locri lo dice. VIRGILIO espresse il sentimento di CICERONE nelle Georgiche.
Della mente di Dio parci efſer l' api, E forfi eterei differo, che Dio Va per
tutte le terre, e tutti i mari, E pel profondo Ciel; quindi gli armenti, E le
pecore, e gli Uomini, e ogni ftirpe Di fere, e ogni altra, che da se rimove La
tenue vita allorchè naſce. Tomo II. E nell (a ) Plut. de Ifid.& Ofir.car. 374.
Franc. Edit. Vechel. (6 ) Laert. S.
Clem. Aleſs. San Giuſtino apolog. Ermia nel fine dell'opere di S. Giuſtino. (e) Plut,plac.lib.2. (1)
De Natura Deor. I. 1. Elle apibus partem divinæ mentis, & hauſtus Æthereos
dixere: Deum namque iré per omnes Terrasque tractusque maris Columque profundum.
Hinc pecudes, armenta, viros,
genus omne ferarum Quemque fibi tenues naſcentem arceſſere vitas. 1.4. Georg..
C (18 ) E nell' Eneide, Nel principio le terre, il Cielo, e i campi Liquidi, e
della Luna lo fplendente Globo, e gli aſtri Titanj, interno fpirco Alimenta, ed
infuſa in ogni membro Tutta la mole n'agica la mente E fi framiſchia nel gran
corpo; quindi E di pecore, e d'Uomini la ftirpe, De volanti la vita, e'l mar
che i moftri Sorco la liſcia ſuperficie porta. no, Pittagora fu l'autor
dell'idee; (a ) oſervd il primo tra'Greci che la mente non potendo
rappreſentarſi ſingolari, perchè ſono in numerabili nel compararli, ne traſfe
igeneri, e le ſpecie, ne'qua li ſi ravviſano le coſe ſparſe. Così ravviſava
tutti gli individui umani nell'animal ragionevole. Nel far queſti aſtratti
conſide rò, che la materia era mutabile, alterabile, Auflibile in ogni gui fa,
ma che non vi ſono ſpecie, che s'accreſcano, o che perifca e perciò gli Uomini
oſſervandole coſtantemente in tutti i tempi, e in tutti i Paeſi le credono eterne
ed immutabili. La que ſtione era di rappreſentar queſt'idee. I numeri
convengono all'Uomo, al cavallo, alla giuſtizia, al la caſa, e a che so io;
dunque i numeri ſono univerſali, perchè atti alla rappreſentazione de' molti.
L'oſſervazione è d'Ariſtotele, (c ) e molto più la ſtende Poſſidonio, riferito
da Seſto Empirico, (d ) il qual dimoſtra per i numeri aſſimigliarſi cutte le
coſe, e ſen za queſti non poterſi intendere nè gli elementi, nè l'armonia, nè
alcuna delle tre dimenſioni del corpo, nè ciò che riſulta da corpi uniti,
coerenti, diftánti, nè tutti i calcoli delle quantità fùccef five, nè ciò che
appartiene alla vita, ed all' arti fondate su propor zioni ſolo intelligibili
per i numeri. Pitragora dunque ſi ſervì del numero, per dar un ſimbolo dei due
principj delle coſe, la forza, e la materia, di cui chiamò l'una l'uno, e
l'altra il due. L'unità, diceva egli, è Dio, (e ) ed anche il bene che è di
natura * Principio Coelum, ac terras camposque liquentes Lucentemque globum
Lunæ Titaniaque altra Spiritus intus alit: totamque infuſa per artus Mens
agitat molem, & magno ſe corpore miſcet. Inde hominum pecudumque genus
vitæque volantum, Et quæ marmoreo fert monſtra ſub æquore pontus. (a ) Plut.
plac. Phil. l. 1. (6 ) Plut. ib. l. 1. c.9. (c ) Metaf. lib. 10. (d ) Contra Logicos. (e ) Plut. plac. Phil.
lib. 2. (19 ) un ſolo, e lo ſteſso intelletto, il due infinito, e genio triſto,
d'inser torno il qual due ſi fa la quantità della materia. Chiamava uno la
forza perchè noi la concepiamo a guiſa d'un non ſo che d'indi viſibile;
chiamava due la materia, perchè ella è fempre divil bile in due, Di queſti due
principj, uno è quello del bene, e l'altro del male, già l'ha inſinuato
Plutarco. Archelao Veſcovo (a ) di Cara dice; Širiano introduce la dualità
contraria a ſe ſteffa, la quale egli preſe da Pittagora, ſiccome tutti gli
altri ſettatori di tak dogma,; quali difendono la dualità declinando dalla via
retta della ſcrittura. Tutte in ſommal'ereſie, che vi ſono nel compendio della filosofia
di CICERONE, che vuol dir l'eternità, l'animazione, la divis nità del mondo,
Piccagora le raccolfe in un ſiſtema, ed in vano fi dice, che egli nulla
fcriveſſe. Liſide diſcepolo (b ) di Pittagora in una lettera fcnca ad Ip parco,
dopo la morte del maeſtro ſignifica non voler comuni care ad alcuno i precetti,
e dimoſtra che delle coſe, le quali di ceano i ſeguaci di Pitcagora, non ve
n'era nè pur ombra. Por firio nella vita di Pittagora dice, che agli Uomini
oppreſli da tale calamitat, (cioè dalla morte di Piccagora ): manca lo ſciens
di lui, la quale arcana e recondita cuſtodida in petto, nè vi reftas fono che
certe coſe difficili da intenderſi imparate a memoria dagli udi tori
dell'eſterna Filoſofia, poichènon v'era alçun ſcritto di Pittagora; ed aggiunge,che
dopo la morte di lui „ Lilide, Archippo,ed altri furono folleciti, chei
penſieridiPiccagora non ſi pubblicaffero, onde eutti gli arcani della ſua
Filoſofia con lui perirono'. To dubito aſſai del la vericà della lettera di
Liſide, la quale con quel che dice Porfirio pud eſſere ſtata finta,perchè i
Criſtiani nontraeſfero argomenti da quanto ci reſta diPitagora, in CICERONE in
Plutarco, in Laer zio: ma ſe non v'era coſa alcuna della Filoſofia di Pittagora,.co
me poi Jamblico poeea gloriarſi di riftabilirla; e non è manifeſto che egli la
riſtabili a fuo modo per combattere i Criſtiani de'quali fu accerbo' nimico; lo
ſteſſo Porfirio, che dice nulla aver fcric to Pittagora, come poi ebbe fronte
d'afferire, che egli avea ſcrit to fu l'ente, il che Euſebio (c ) riferiſce?
Diſcepoli di Pitcagora furono Archita Tarentino il vecchio, Pe ritione, Timeo
di Locri, ed Epicarmo. Archita il vecchio (d ), che Simplicio confonde col
giovine, fcriſſe delle dieci voci corriſpondenti ai dieci concetti dell'animo,
i quali s'eſtendono a cutte le cole, potendoſi d' ognuna cercar la (a )
Zaccagna collect. monumentorum veterum Eccleſiæ Græcæ, atque Latinæ. Archelai
Epiſcopi acta. (6 ) Galeo. (c ) Propof. Evang, lalg. (d ) Patrizia diſcuſ,
Peripa,1 (20 ) la ſoſtanza, la quantità, la qualità, l'azione, e gli altri
acciden ti regiſtrati a lungo da Ariſtotele nella ſua Logica, in cui copiò il
trattato di Archita. Lo Stanlejo, che pretende di numerare tutte le donne
Pitcago riche, omette Peritione, e pur eſser ella dovea la più celebre,le da
lei trafse Ariftotele (a ) tutta l'idea della ſua metafiſica. Lo prova con
molta erudizione il Patrizio, allegando la definizio ne della fapienza di
Peritione, e comparandola con quella di Ariſtotele. La ſapienza, diceva ella,
verſa in tutt'i generi degli en ti, perchè verſa intorno tutti gli enti, come
la viſione intorno tutti i viſibili. Ariſtotele definì la metafiſica, per la
ſcienza che contem pla l'ente, in quanto ente, e le coſe che per sè gli
convengono. Peritione egregiamente ſpiegò gli accidenti dicendo: delle coſe che
accadono agli enti, alcune univerſalmente accadono a tutti, alcu ne altre a
molti di loro, e certe ad un ſolo, ma riguardar univerſal mente, e contemplar
tutti gli accidenti appartiene alla ſcienza. Que. fte ed altre cole che
ilPatrizio aggiunge, danno idea della preci fione, e nettezza di Peritione, e
nel tempo ſtefso quanto tra' Pittagorici erano familiari l'idee Pittagoriche,
ſe le donne ſtef ſe ne ſcriveano con tanta eleganza filoſofica · Non dobbiamo
tuttavia meravigliarſene, di poi cheabbiam veduto ne’noftri gior ni Madama la
Marcheſa di Chatelet, ſcrivere ſulla natura del. le monadi Leibniziane,
queſtione molto più oſcura di quella dell'ente. Timeo di Locri nel ſuo
ragionamento ſull'anima del mondo, in queſta univerlità di natura, dice egli, v'è
un certo che, il qual rimane, ed è l intelligibile eſemplare delle coſe, che
ſono in un fuſo perpetuo di mutazioni, e queſto nelle vicende delle coſe
ſingolari, co ftante, e perpetuo eſemplare ſi chiama idea, ed è dalla mente
compre fo. Nell'univerſità dunque delle coſe, che vuol dir dentro le coſe o in
cutti i compoſti v'è quel non ſo che, che mai non cangia, e può dalla mente
eſtrarli qual idolo. Le coſe ſenſibili eſser in un perpetuo fluſso lo
diſsegnarono, al dir di Platone, nell'Omero, ed Eſiodo ſotto l'imagine
dell'Oceano, e di Te ti, e di queſte non aſsegnarono fcienza i Pictagorici, ma
ſolo di quelle, che nè col ſenſo, né coll' immaginazione ſi ravviſa no, e
queſta fu la prima differenza tra la Filoſofia Jonica, e l'Italica. Epicarmo
ſommo Poeta, come Omero al dir di Platone, so all' una grandezza d'un cubito (diceva
egli ) altra tu voglia aggiun gervi o ſottrarsi, non avrai mai certo la Nera
miſura; gli Uomini pa rimen (a ) Patriz. l. 2. cap. 1. diſcuſ. Perip. (6)
Ragion, ſu l'anima del Mondo. (21 ) rimente conſidera or accrefcere, ed or
decreſcere, tutti ſoggiaciono ai cambiamenti del tempo. (a ) Jeri tu fofti un
altro, io pur vi fui, E un altro ſiamo in queſto tempo, e fieno Di nuovo gli
altri, che non mai gli ſteſſi Noi ſiamo, come la ragion lo predica. Per
l'Intelligibile così parlo: A. L'arte tibicinal è qualche coſa? B. Perchè no. A. Forſe è
l' Uom queſta tal arte? B. Non mai
A. Vediam, che coſa queſto ſia Tibicine B. Egli è un Uom; non dico il vero? A.
Il ver ma ftimi che non debba diri Ciò pur del bene? Io voglio dir che il bene
Una coſa pur ſia, ma s'altri impari Ad effer buon ei già dirafli buono; Il
Tibicine è quegli che la tibia A ſuonar imparò. Quel che a ſaltare Salvatore, e
ceſtor quegli che a teſſere Impararo, e così d'ogni altro l'arte Certamente non
è, ma ben l'artefice. Nel dir Epicarmo, che il bene è una coſa come l'arte, e
che nè il buono, nè l'arte ſono gli uomini che la partecipano, egli c ' inſegna
a far le aſtrazioni della mente, la qual avendo comparato tra loro molti Uomini
che fien buoni, molti tibicini, molti falcatori e teſtori, ne ha compoſto
quell'idea, che poi convie ne a tutti. Queſt'idea reſtando ſempre la ſteſſa in
tutti i tem pi, ed in tutti i caſi, per quanto variano i temperamenti, e le
figure degli Uomini, li confidera ſempre nello Iteſſo modo, ed è principio del
diſcorſo, o di ciò che nel Teeteto ſi chiamano analogie ſcoperte, le quali nel
raccogliere le coſe col mezzo de' ſenli, le fanno comprendere la ragione.
Epicarmo era contemporaneo di Senofane, come ſi diffe, ed eccoci a ' Filolofi
più vicini a Socrate, ed indi a Platone, i qua li a poco preffo ſi trasfuſero
le ſtelle idee non diverſificate, che dalla maniera d'eſporle, e di colorirle.
Senofane, dice Euſebio, e quelli (6 ) che lo ſeguirono, moſfero così con (a )
Laerzio Vita di Platone. (6 ) Lib. 11. cap. 1. Prep. Evang. (22 ) 1. 1
contenzioſe ragioni, che piuttoſto arrecareno a' Filoſofanti confuſio ne, che
ajuto. Pittagora volea che il mondo foffe eterno, benst come gli altri Filoſofi,
quanto alla materia, ma non quanto alla forma, poichè credea che foſſe ſtato
generato dal foco; Se nofane pofe il mondo non generato, ma eterno, 'aderendo
ad Ocello Lucano, che fcriffe fu l'eternità del mondo prima d'A. riſtotele;
ecco la prima differenza tra Senofane, e Pittagora Un'altra più forte ve n' era;
Pittagora avea pofti per principj l'uno, e il due, Senofane riduſſe tutto
all'uno, Senofane", dice CICERONE, è più antico di Anafagora; vuel che uno
fieno tutte le coſe, nè queſto uno è mutabile, ed è Dio non mai nato, e
ſempiter no, e di conglobata figura. Seſto Empirico (b ) parlando per bocca di
Timone foggiunge, che fecondo Senofane l' Univerſo era una fola coſa, che Dio
eſiſteva in tutte le coſe, e che era di figura sfe rica, e di ragione dotato.
Ad Empirico ſi conforma Laerzio (c ) dicendo, che ſecondo Senofane, Dio nella
materia tutto udiva tutto vedeva, ſebben non reſpirale, e che tutte le coſe
inſieme erano la prudenza, la mente, l'eternità. Io dimando, ſe nel far Dio
fparfo per tutte le coſe, e fen ſitivo, e prudente, e intelligente, differiva
egli dall' opinione che CICERONE eſpoſe nel compendio della Filoſofia? Non v'è
che la figura sferica che gli aſſegna Senofane, e per cui non infinito, ma
finito lo rende; ma chi fa, fe nel concepir gli antichi la figu ra sferica,
comela più ſemplice, intendeſſero ſimbolicamente d'ac tribuir a Dio tutte le
perfezioni? converrebbe faper fe Senofane fcriſſe ciò in profa, od in verſo, e
ben eſaminare tutto il conte fto della fua dottrina. Non reſtandoci che
conghietture, io m'at tengo a quella del ſimbolo per accordar CICERONE con se stesso,
il quale nella natura degli Dei combatte Senofane, che aggiunſe la mente
all'infinito. Queſt'infinità era una conſeguenza del fuo ſiſtema, perchè ſup
poſta l'eternità della materia cost argomentava: (d ) Eterno è cid che è, se è
eterno è infinito, fe infinito uno, ſe uno fimile a sèl. Di nuovo ſe l' uno è
eterno e ſimile, egli è ancora immobile, fe immobile non ſi trasfigura per
poſizioni, non ſi altera per forme, non ſi miſchia con altri. Ariſtocele
elamina i ſoffiſmi contenuti in queſto ragio namento; il principale è; da ciò
che il mondo è ecerno, infini to, uno, non ne fiegue che egli lia
effettivamente immobile, per che le coſe eſiſtono nella maniera che poſfono
eſiſtere, e la materia ſe ſteſſa il principio del moto non v'è contradizione a
cont (a ) Queſt. Acad. lib. 1. (6 ) Lib. 1. dell'ipotipoſi. (c ) Laert. lib. 9.
idí Arift. contra Xenof, Zenon. & Gorgiam. eſſendo per i 2 (23 ) a
concepire, che il moto ſia eterno come la materia. Coloro che ammettevano il
caos eterno, davano eterno il moto, ſebben ſen za regola o forma. Non ſi cerca
qui però, ſe concludeſſe l'argomento di Seno fane, ma ſolo qual foſſe la ſua
ſentenza, e coſa egli ne dedu ceſse. Come poi accordarla colla ſua fifica?
Ammetteva egli per principj (a ) delle coſe naturali la terra, il foco, l'aria,
e l' acqua, e dalle alterazioni di queſti elementi, rendea tutti i miſti a
generazione, e corruzione ſoggetti. Grand uſo fece di quefte due coſe, perchè,
ſecondo lui, conſiſteva il So le negl'ignicoli raccolti dall umida (6 )
eſalazione in una nuvola ignita, e la Luna in una nuvola coſtipata. Manon era
poſſi bile decerminare il grado di verilimiglianza filoſofica ch'egli da va
all'Ipoteli, poichè nelle ſentenze filiche di Senofane y' è mani. feſta
contradizione. Poneva egli de' Soli innumerabili, e la Lu na abitata. I ſoli
innumerabili erano quelli de' Pitcagorici, e di Orfeo (C ); ma come abitar una
nuvola? La terra (d ) la quale per immenſa profondicà fi ftendea di ſotto, era
coſa ri pugnante alla sfera armillare che Anaſimandro forſe di lui, maeſtro
avea inventata o propagata per cutta la Grecia. Cor revano allora tali
dottrine, e Senofane, in Colofone, in Atene, in Sicilia, e in Elea le avea
ſtudiate; avea Talęce calcolate l'eccliffi del Sole, e della Luna, avea
Pittagora applicare al liſtema celeſte le conſonanze Muſicali, e nella lira a
lette corde determinato il pu mero, e le diſtanze de' Pianeti; non è poſſibile,
che Senofane in un tempo così illuminato voleſſe diſcredicare il ſuo ingegno
con ipoteſi aſſurde e ad ogni ragione contrarie; non erano dunque, che idoli
fantaſtici, iperboli poetiche, o ſimiglianze groſſolane, in cui ſi deve più
badare al color, che alla coſa. La grande difficoltà di Senofane era nel
combinare il fiſico col metafiſico, o lo ſtato ideale con l'obiettivo. Avea già
ſtabilito Pictagora, l'intelletto altro non eſſer che (e ) mente, ſcienza, opi
nione, ſenſo, da cui tutte l' arti, e le ſcienze nacquero. Egli diſse gnava la
mente per l'uno, ciò che adeſſo noi chiamiamo lemplice intelligenza; diſegnava
la ſcienza pel due, poichè s'acquiſta la ſcienza deducendo una coſa da un'altra;
diſsegnava l'opinione per il tre, poichè nel trar la conſeguenza da un
principio proba bile ſe ne riguarda nello ſteſſo tempo due, in uno de'quali
v'èla ragion ſufficiente d'affermare, nell'altro di negar la coſa. I Pit 3 ta (a ) Laert.
vit. di Xen. Plut. plac. (6)
Plutar. lib.... Origenes Philoſ. (c ) Veggali Moefenio ſu l'eſiſtenza d'Orfee. Plutar. plac. de Fil.
lib.i. (d) Gregorii Aſtronomici Pref. (c ) Plutar. lib. 1. de plac. (24 ) tagorici furono tutti dogmatici, o per
dar credito alle ſentenze del ſuo maeſtro, o perchè pareſſe loro, che la
fapienza non do veſſe mai eſſer miſtad'ignoranza, come accade nell' opinione
milta dell' una, e dell' altra. Senofane fu il primo ad introdur il dubbio
nella Filoſofia, e quindi l'opinione. Chiaro l'Uomo non ſa, nè ſaprà mai Degli
Dei coſa alcuna ed altre coſe Che da me dette fur, ſiaſi perfetto Pur quanto ei
dice, tuttavia non fallo, E v'è opinion in tutte queſte coſe. Da queſti verſi
Seſto Empirico inferiſce, che Senofane non to glica la comprenſione, ma
ſolamente quella che dalla ſcienza de riva; nel dire in tutte queſte coſe d'è
opinione accenna il proba bile, e l'opinabile, onde conclude che Senofane deve
porſi tra coloro, che negano darſi criterio della verità, e non tra gli ac
cattalecici, che negavano alcuna coſa poterſi da noi compren dere. L'autorità
di Selto Empirico è d'un gran peſo, ove ſi tratta di determinare i gradi della
cognizione, ma non è da ſprezzar fi ciò che dice CICERONE: Senofane e Parmenide
quan tunque con non buoni verſi però con certi verſi accufano quaſi irati
d'ignoranza coloro, che ofano dir di ſaper qualche coſa allo ra che nulla fanno.
Chi dice nulla eſclude ogni ſcienza, ed ogni opinione. Senofane ſi diſtinſe per
la Logica, (c ) e ſecondo la Cro nologia di Euſebio, egli fu udito da Protagora,
e da Nef ſa; Metrodoro udi Nefra; Diogene Metrodoro; Anaſarco Diogene, e coſtui
Pirro d' Elea, dal qual ebbero nome i Filo ſofi Scercici fino a Gorgia, il qual
diceva: Non v'è nulla;,fe anche vi foſe qualche coſa, non ſi potrebbe
comprendere, e ſe compren dere, non mai ſpiegare con le parole. Come inoltrarſi
dopo tale raf finamento di dubbj? Tra i diſcepoli però di Senofane il più
illuſtre fu Parmeni de deſcritto da Platone nel Teeteto qual vecchio grave, e
vene rabile e di una profondità al tutto generoſa, il che vuol dire, ſe mal non
m'appoogo, che egli nella diſputa non era oſtinato, ſu perbo, rozzo ed agreſte,
come Ariſtotele (e ) dipinge Senofane è Meliſſo. Socrate in quel Dialogo, ed in
altri s'aſtiene quanto pud (a) Xenoph. ap. Seſt. Emp, adv. Matem. (6 ) QUEST. ACAD.; Eufeb.1.6.
C. 19. (d ) Id. l. 12, c. 7. (c )
Metaf. lib.... (25 ) può di ragionare contro le ſentenze di Parmenide per la
rive renza che ad eſſo portava. Euſebio (a ) caratterizza la dottrina di
Parmenide, qual via contraria a quella di Senofane. Ermia però, dice Parmenide
in bei verſi, c'inſegna che queſto Univerſo è eterno, immobile, e ſempre ſimile
a ſe ſtero. Lo ſteſſo Euſebio credeva, che ſecondo Parmeni de l'univerſo foſſe
ſempiterno, ed immobile. Stobeo riferiſce, che Senofane, Parmenide, e Meliſſo
colſero affatto la generazio ne, e la corruzione. In che dunque diſconvenia
Parmenide da Se nofane, (6 ) Ariſtotele chiaramente lo ſpiega nell' accennar la
dif ferenza che v'era tra Parmenide e Meliſſo, dicendo: volea Par menide, che
tutto foſe uno ſecondo la ragione, e Meliſo ſecondo la materia, e da queſti due
differiva Senofane, che chiaramente non dif ſe nè l'uno, nè l'altro. Eſer uno
ſecondo la materia, è il medeſimo che ritrovar nell eſſenza della materia la
ragion ſufficiente dell'unità della ſteſſa. Ed in fatti una è la materia, fe in
tutte le parti e nel tutco e nella medeſima fpecie è omogenea, qual CICERONE la
deſcrit ſe nel compendio della filoſofia, e l'ammiſero Platone, ed Ariſto tele.
CICERONE rammemora ancora la forza, utrumque in utroque, ma conſiderando forſe
Meliſſo, che gli effetti della forza, o ſieno le forme, ed i modi aggiunti
ſucceſſivamente alla materia, non mai erano continuamente cangiando, gli
eſcluſe dall'eſſenza, e in con ſeguenza dall'unità della materia; ma ſe una era
eſſenzialmente la materia, uno era il mondo o l'univerſo, che da eſſa riſultava
e ſe uno in ſe ſteſſo indiviſibile, eterno, ed immutabile. Malgrado dunque le
continue aggregazioni delle parti ne' loro tutti, e le continue diſſoluzioni
de'tutti nelle lor parti, malgrado le altera zioni, le generazioni, e le
corruzioni, contemplando Meliſo l' univerſo nella parte effenziale lo credeva
uno, e immutabile in quella guiſa che è ilmare, non oſtante le continue
agitazioni che foffre da innumerabili flutti. Se tal era la ſentenza di Meliſo,
ella non è men empia ri ſpetto a noi, che ridicola preſo i Pagani, perchè la
materia, fe condo lo ſteſſo CICERONE, non può aver coerenza, e in conſeguen
Tomo II. d za (a ) Cap. 5. l. t. Præp. Evang. (6 ) Parmenides unum fecundum
rationem attigiffe videtur, Meliſſus vero fecundum materiam, quare id &
ille quidem finitum, hic ve ro infinitum ait effe, Xenophanes autem quando
prior iſtis unum poſuerat (nam Parmenides hujus auditor fuiffe dicitur ) nihil
tamen clarum dixit, & neutrius eorum naturam attigiſſe videtur, ſed ad
folum coelum refpiciens ille unum ait effe Deum. Metaf, Arift. l. 1. cap. 5.
ediz, Parigi (20 ) 1 1 1 4 > za unità, ſe non è ritenuta da qualche forza, e
la continua ſuccef fione delle forme conſiderata affolutamente in ſe ſteſſa,
non è me no eſſenziale al mondo, che alla materia. Ragionava dunque più
ſottilmente Parmenide; dalla materia, e dalla forza, dalla ſoſtanza, e
dall'accidente, avea coll'aſtra zione della mente dedotta l'idea dell'ente e
dell'uno, e preten dea che l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo preſcindeffe da
tutte le forme, e le differenze dell'ente ſteſſo. Il P. Maſtrio quali tre mille
anni dopo ebbe una fimile idea, poichè egli vuole che l'en te in quanto tale
preſcinda dal finito, e dall'infinito, da Dio, e dalle creature e la ſentenza è
ſeguita da tutti gli Scotiſti. Qualunque ella fiali, certo è che come quella di
Parmenide curta opera della ragione più raffinata, e che ben diſſe Arifto tele,
che l'uno di Parmenide di VELIA era tutto ſecondo la ragione, non che la
ſentenza di Meliſſo ancor non lo foffe, ma egli nel fondarla tutta ſulla
materia croppo s'accomodava ai pregiudizi del ſenſo. Da Parmenide, e da Meliſſo
ſi diſtaccava Senofane, il quale ef ſendo il primo a ragionare dell'immobilità
dell'ente e dell'uno, s'at tenne alla concluſione ſenza ſpiegar il metodo con
cui la deduſſe. Ariſtotele (a ) che avea diviſe le loro fentenze nella metafiſi
ca, par che nella fiſica le confonda dove diffe', che altri di lo ro tolfero la
generazione', e la generazione, e la corruzione, i quali come ben dicano in
altre coſe non ſi deve perd penſare che parlino da Fifici, poichè l'efervi
alcuni enti immobili è più inſpezione di una ſcienza ſuperiore, che della
Fiſica. Non condanna dunque PARMENIDE DI VELIA, e MELISSO DI VELIA, perchè
aveſſero tratcato dell'unità, ed immo bilità dell'ente, ma perchè ne aveano
fatto un punto di Fiſica, dalla quale egli eſclule il trattato delle coſe
eterne, e immuta bili, onde credendo che il mondo, e il Cielo lo foffero, parte
ne trattò nella ſteſſa metafiſica, e parte ne' libri del Cielo; na chi può
credere che Parmenide non diſtingueffe queſte due ſcien ze, avendo aſſegnati
due principi delle generazioni, il foco, e la terra? e determinato che un foco
ſottiliſſimo, o lia l'etere cingeſſe gli altri, e che movendoſi in vortice
raffrenaffe colla ſua rotazione ſe ſteſſo, e le coſe contenute, ciò che è il
principio de' più moderni FILOSOFI (6 ) Egli componeva il mondo di molte
ghirlande tra loro teſſüste, una rara, e l'altra' denfa; fra le ghirlan de ne
poneva dell'altre meſcolate di tenebre, e di luce, e volea che la coſa la qual
a guiſa di muro le circondava forje foda, e maliccia. Queſte ghirlande, e
corone erano i vortici di Empedocle, dei qua li egli dice parlando de caſtighi
de'genj. Quelli (a ) Ariſt. Fiſic. lib. 1, (b ) Plut, lib. 2. cap. 7. (17 ) (*
) Quelli nel mar ſollicitante forza Dell' etere rifpinge, e fola ſpucali
Ne’ſotterranei abimi, e nella lampada Dell'almo Sole dalla terra cacciali, E il
Sole infaticabile tramandali Ne' wortici dell'etere. Accoppiando il paffo di
Parmenide con quel di Empedocle, par che tutti due deſſero vortici alle Stelle,
raffigurando Parinenide nella luce le fiffe, e nelle tenebre i Pianeti; chi sa,
che queſta coſa maf ſiccia non foſſe il moto del vortice tutto luminoſo, perchè
tutto etereo, il quale impediffe con la ſua forza di rotazione lo sfaſcia mento
del mondo viſibile? il moto della Luna, dice Plutarco, (a ) ol'impero con cui
gira, l'impediſce di cadere in quella guiſa, che la fionda torta in giro
dalbraccio impediſce la caduta del faffo. Vuol Favorino, che Parmenide primo
ſcopriſſe, che la ſteſſa Stella pre cede il Sole la mattina, e lo fiegue la
fera, o che il Veſpero è lo ſteſſo che il Fosforo. PLINIO ne attribuiſce la
ſcoperta a Piccago ra, il quale veriſimilmente la portò d'Egitto, col ſiſtema
cele fte; ma forſe Parmenide, nella Teoria di queſta ftella, più che gli altri
Pittagorici ſi diſtinſe, come Filolao nel moto della ter ra. Filolao la facea
gira r in cerchio intorno alSole, ed Ecfan to volea, che movendoſinon
partiſſe dal proprio luogo, ma fer mata a guiſa di ruota, ſopra l'aſſe proprio
intorno quello giraffe da Occidente in Oriente; non (6 ) aderiva Parmenide, nè
a Filo lao, nè ad Ecfanto, ma conſiderando la terra d'ogni intorno egualmente
lontana dalCielo, la ponea in equilibrio, e voleva che ſenza eſſer fpinta da
alcuna forza a queſto, o quell'altro verſo, ella fi ſquaſfaſe bensì, ma non ſi
moveſſe. Parmenide feparò il primo le parti abitate della terra fuor de' cerchj
fol ftiziali, indizio manifeſto, che egli avea proficcato delle teorie di
Anaſimandro, di cui ſi ſuol far ignorante Senofane. Tal era: il ſiſtema
aſtronomico di Parmenide: nel fiſico egli divinizzò la guerra, la difcordia,
l'amore, e diffe: Di tutti gli altri Dei cauſa è l'amore. * Αιθέριον μεν γαρ
σφεμένος πόντον δε διώκει, Πόντος δέσχθονος έδας απέπτυσε, γαία δ' εσαύθις
Η'ελία ακαμαντος, ο δ αιθέρος εμβαλε δίνεις. Α'λος δ' εξ άλα δέχεται και
συγένεσι δε πάντες. Plut. de Ifide, & Ofiride. (a ) De facie Lunæ. 16 )
Plut,deplac. Phil. lib. 3. d 2 Cosi (28 ) 1 Così gli attribuiſce Simplizio, ed
Ariſtofane colle da Par menide l'amore che ordina, e fabbrica le coſe nella
commedia degli uccelli, gli altri Dei non erano, che gli elementi già di
vinizzati da Parmenide. (a ) Empedocle l' emulò, benchè egli quattro elementi
poneſse, e due Parmenide, il foco, e la ter ra, principali architetti delle
corruzioni, e delle generazioni, e che rarefatti, o condenſati, ſi cangiano in
aria, ed in acqua. I principj, ſecondo Ariſtotele, devono eſser tra loro
contrari, e nulla v'è di più contrario, che il caldo, e il freddo, a quali
corriſpondono il raro, ee ilil denſo denſo,, ilil moto moto,, e la quiete.
Tutto queſto ſiſtema fiſico di Parmenide eſpreſse Platone nel Sofiſta. Le mu je
Jadi, ele Siciliane, dice, a queſte poſterioriſtimaronocoſa più ſicura
d'annodare le coſe inſieme, in modo che l'ente ſia molte coſe ed uno, e ſi
tenga colla diſcordia, e colla concordia, perchè diſcordando (6 ) fem pre
s'accoſta egli come dicono le più forti muſe, ma le più molli non hanno voluto,
che ciò ſe ne ſia ſempre così, ma privatamente alcuna volta dicono che
l'Univerſo ſia uno, ed amica per Venere, altra volta molte, e con sè per ſeco
diſcordanſi con certa conteſa. S'io non m'in ganno, qui s'allude all'amicizia,
e alla diſcordia, o all’amore, e alla lite, che Parmenide poſe come principj
efficienti delle genera zioni, e corruzioni; molti Poeti ſtaccando ciò dalle
Poeſie di Par menide, e di Empedocle, non ifpiegarono con la lite, e con l'ami
cizia, ſe non alcunifenomeni particolari, come chi dalſiſtemadel Newtono, il
quale poſe per principio univerſale l’ attrazione; al tri ſolo la prendeſse per
iſpiegare i fenomeni del magnetiſmo, e poi per iſpiegare l'eletricità, la
gravità ec. fi valeſse d'altro prin cipio. Non può dirſi dunque, che Parmenide
non foſse eccellente Fi fico, ſe egli allora penſava a ciò che il Newtono pensò
tanti ſeco li dopo; ſcriſſe in verſi il trattato della Natura, come Lucre zio,
ma il Poema s'è perduto, e non ce ne reſta che il principio conſervatoci da
Seſto Empirico. (c ) Mi portano i deſtrier, e quant'io voglio Traſcorrono; che
già m'aveano tratto Nella celebre via del Genio; via Di cui m'aveano
ammaeſtrato appieno Gľ (a ) CICERONE. 6 ) Nel Gítema Newtoniano in tanto una
parte di erta fugge da un' altra parte, in quanto ella è attratta con più forza
da un altro corpo; quindi dall'attrazione ſi deduce l'a repulfione. () I verli
ſono in Seſto Empirico contra Logicos. (29 ) 1 Gl'infigni coridori, e dalla
fama. Correndo il cocchio ſquaſsano, cui Duce Le fanciulle precedono, ma l'aſſe
Splende ſtridendo nell'eſtrema parce De' raggi tra due fiſso orbi torniti.
Allorchè s'affrettaro le fanciulle Eliadi, e della notte abbandonando Le café
tenebroſe oltrepaſsarle, Nella via della luce al fine entraro; Da i ſpiragli
rimoſsero le vele Con man robuſta dove ſon le porte Delle vie della notte, e
della luce; L'une e l'altre circonda un arco immenſo, E il pavimento tutto n'è
di marmo; Agiliffime corronvi, e s'appreſsano Colà dove tenea Dice le chiavi,
L'ultrice Dea, che premj, e pene imparte. Con parole molcendola ottennero Le
fanciulle, che all'uſcio ella fmoveſse L'interna leva. L'adattata chiave
Spalancando le porte per immenſo Foro i chioſtri ſcoperfe, mentre l'affe Si
rivolgeva, e l'orbita del cocchio, Facilmente reggean l'alme fanciulle, A cui
ben pronti il cocchio, ed i cavalli Ubbidiro. La Dea liera m’accolfe, E per la
deſtra preſomi usd meco Tali parole. Dio ti ſalvi, o figlio Dilecto figlio, che
alla noſtra Řeggia Guidarono que' nobili deſtrieri Che hanno in forte di
reggere il divino Cocchio, nè rea fortuna ti conduſse In tal via. Non è trita a
paſſi umani Ma audacemente di pregare è d'uopo I Numi, onde ti laſcino le leggi
Inveſtigar della natura, in grembo Di veritade, che a ubbidire è proſta, E de'
mortali tu fuggir potrai Le opinion, di cui non vera fede, Ma tu rimovi il tuo
penſier da queſta Via di ricerca, nè ti sforzi lunga Eſperienza delle coſe gli
occhi Figgere accenti o pur aperte orecchie Ai (30 ) Ai dogmi che ragion non
prova. Quello Che ti preſcrive eſperienza lunga La ſola mente dall'error
corregge. Seſto Empirico, comentando queſti verſi oſſerva, che Parmeni de
chiama gli appetiti dell'animo i cavalli, la ragione il genio, o demone, e gli
occhi le fanciulle Eliadi; tutto il reſto è fancaf ma poetico, e, comeSenofane,
egli penſava intorno alla ricer ca del vero; concludendo il giudizio appartener
alla ragione, e non ai ſenſi, ſenza eccettuare i due delladifciplina, o l'udi
to, e la viſta; dogma che fu poi quello dell'accademia, come a lungo Cicerone
lo prova. I verſi fe hanno per oggetto cofe fublimi, e leggiadramente accoppino
l' allegoria all' imitazione, e all' armonia, foddisfanno in un tempo ſtesſo,
al fenſo, alla fantaſia, e all'incellecco, ono de queſte potenze coſpirando
inſieme a ben rappreſentarci le co fe cantase, a preſtano ſcambievolmente le
loro cognizioni, affin chè troppo sfumando nelle aſtrazioni, non ſvaniſca
l'idea, e le ſenſazioni, e i fantasmi non l'offuſchino, ma ſervino alla mente
di ſpecchio per ben contemplarla. La grande arte è, che lo ſpec chio non abbia
troppo d'aſprezze, le quali non diſpergano ſover chiamente, ed affortiglino il
raggio, che turbaco non ci laſci diſcernere, dove è l'oggetto. Alla proſa
dunque, ma proſa poe tica ricorre Platone volendo appagare tutte le potenze
della anima. Ed eccoci finalmente a Platone, dopo d' aver eſaminato come
Pittagora dall'eternità, divinità, animazione del mondo racco glieſe l'idee; le
divideſfero in certe claſſi generali i Pittagorici le diſtaccaſſero dal tutto,
e ne faceſſero degli enti a parte; come Senofane, il primo ricavaſſe la
concluſione dell'ente uno ed im-. mobile, come Parmenide contemplaſse ſecondo
la ragione queſt' idea, e nelle coſe fiſiche s'uniformaffe a Senofane,
diſtinguendo ľ opinabile dal vero. Tutta queſta fabbrica era fondata ſu la
maniera di penſar di Pictagora, maniera falla, e pienamente diſtrutta da Padri,
che molto al di là del IV. fecolo non combatterono collo fteffo Pit tagora, ma
con Platone, di cui ſi debbe adeſſo rintracciare qua li influenze aveſſero nel
Dialogo la dottrina dell'idee, dell'uno immobile, e dello ſcetticismo, perchè
egli vi parla, e dell'idee, e dell'uno, e tutto proponendo per iporeli nulla
conclude. Prima però di ſviluppar queſte cofe l'ordine della doctrina ricerca,
che favelliamo dello ſtile Platonico in generale. Profonda e delicata
cognizione della lingua Greca ſi ricerca per (31 ) e per ben intendere la
bellezza, la forza, e l'armonia dello ſti le poetico di Płacone; lFraguier, che
in tutto il cor ſo della ſua vita, l'avea con un ſpirito molto colto nella POESIA
LATINA, ed in ogni altro genere di belle lettere ſtu diato, ben eſaminando il
ſuo ſtile, ritrovava che Platone avea trasfuſo ne' Dialoghi l' Epico, il Lirico,
ed il Dramatico. Com parava egli la profopopea, colla quale Dio nel Timeo ra
giona agli Dei inferiori 'all' ode più ſublime di Pindaro travedeva nelle
narrazioni dello ſteíſo Timeo, e in alcune del la Repubblica, la magnificenza
Epica dell'Iliade. Nel paſſo cita so di ' Ateneo ', Gorgia mal ſoddisfatto di
quel Dialogo intito lato col ſuo nome, ci dice, che un giovane, e Lepido
Archilo co regnava in Atene; allude egli a Platone, che irritato con tro i
Sofifti, non riſparmid le accucezze, ed i ſali contro di lo ro, ma i ſali di
Platone non erano aſpri, ed ulcerofi, come quelli di Archiloco, e di Ariſtofane,
ma eſtratti dallo ſteſſo mare, in cui nacque Venere. Così Plutarco dice di
Menandro, e con non men di ragione io poſſo dirlo di Platone, che tut to
comicamente condiſce con le grazie, e con le luſinghe della Poeſia di Omero, ed
ingentiliſce in guiſa le accuſe de Sofiſti, che non mai gli affronta con quell'
ingiurie, colle quali il Re de'Re alla preſenza dell'eſercito rinfaccia Achille.
L' ironia di Socrate a ' è la chiave, ed ella è così ben maneggiata, che da
alcuni ſi crede nel Menedemo (a) lodarſi le orazioni funebri, e pure vi ſi condannano.
L'allegoria è perpetua in tutti i Dialoghi; allegorici ſono i nu meri armonici,
di cui teſſuta è l'anima del mondo; allegoriche le Sirene degli orbi celeſti;
allegorico il carro dell'anima, l'ali e il coc chiere; allegorici gli
Androgini, la naſcita dell' amore, la gradazionedegli animali di Prometeo, e di
Epimeteo, la guerra de gli Atenieſi contro i popoli del mar Atlantico, e quanto
diſſe dell'Iſola Atlantica, e ſulle leggi, esu i coſtumidegli abitanti; tutto
vi è finto per preparar l'idea della Repubblica, il cui modello cerca Platone
nella fabbrica ſteſſa del mondo, ed ordiſce così la men zogna poetica, che
molti s'affaticarono di ſpiegare ſtoricamente l'Iſola Atlantide, come il Ciro
di Senofonte. Più s'occulta Pla tone in certe allegorie incluſe nelle frafi
poetiche, per le qua li ſimboleggia molte coſe, e politiche, e morali, e
metafiſiche, diſegnando l'ulcime con coſe colte, o dalla muſica, o dall'altro
nomia, o dalla geometria; tre ſcienze (6 ) nelle quali era fo mamente dorto al
ſuo tempo. Certo è, che ſe giuſtamente non retro s'ap (a ) CERONE, Acad. (6 ) Ab, Fleurì nella lode di Platone.
s'apprezzano le fraſi poetiche riducendole al ſenſo filoſofico, li corre
riſchio di non intender mai, nè le parti, nè il tucco di un certo Dialogo, e ne
vedremo nel Parmenide ſteſso gli eſempj. Ebbe dunque Platone comune la poeſia
con Parmenide, ma molto egli l'accrebbe col Dialogo, modo più naturale per
iftrui re, più comodo per illuminare, adoprato da Socrate, da Seno fonte, da
Stilfone, daEuclide, da Glaucone, e al dire d'Ariſto tele da un certo
Aleffamene inventato. S'imitano col Dialogo i ragionamenti degli Uomini, come
ne? drami s'imitano le azioni. Platone che voleva emular in tutto la poeſia di
Omero, ſi sforzo d'imitar le diſpute de Filoſofi, in quella guiſa che Omero
avea imitate le azionidegli Eroi. Ciò che al Drama è la favola e l'epiſodio, è
la queſtione al Dialogo, e la digreffione, e' nell'una, e nell'altra riuſcì
egregiamente Plato ne. Non v'è Tragedia antica, che meglio eſprima il principio,
la percurbazione, il ſcioglimento dell'azione, di quel che Platone proponga,
diſcuta, termini la queſtione, in cui ſebben nulla concluda, però gli bafta
d'aver conſumate le ragioni dall' una, e dall'altra parte. Nelle digreffioni
comincia per lenti gradi ad allontanarſi dalla queſtione, poi ſpazia o nella
Geometria nella muſica, od in altra ſcienza a fuo talento, e ſenza che il
lettore fe ne accorga, il riconduce alla prima propoſizione non per ſalti, ma
per gradi. Anche in cid imitd Omero, che al dir del Gravina (a ) traſcorre
tallora alſoverchio, tallora moſtra ď abbandonare, ma poi per altra ſtrada
ſoccorre. Platone non imita meno Omero nel carattere degl'interlocu tori, e
delle ſentenze; io ravviſo in Alcibiade un non so che del carattere di Paride,
l'uno e l'altro è milapcatore, fuperbo, e laſcivo; il carattere di Neftore è
trasfuſo in quella parte del carattere di Socrate, ove queſto conſiglia, ma
Neſtore auto rizza i ſuoi diſcorſi con l'eſperienze acquiſtare nell'uſo della
vita, e Socrate con l'impreſſioni del genio che il dominava. I caratteri de'
Sofiſti ſono preli da quei dei Trojani, che ſenza ordine, e ſen za diſcipliita
s'avanzano come le Gru ſchiamazzando, e poi reſta no ſconfitti da' Greci, il
cui coraggio e valore era ſoſtenuto dalla ſapienza, e dal consiglio, e fino da
Minerva. Molti. pretendono che Platone ſpieghi la ſua ſentenza nel far
ragionare Socrate, Timeo, Parmenide, l'Oſpite Arepieſe, e l' Eleatico, due
perſone anonime, e che gli faccia dire a Gorgia, a Traſimaco a Claride., a.
Protagora, & Eucidemo, ciò che non approva e vuol rifiutare, ma coſtoro non
avvertono, che nel Ragion Poetica. nel far Platone ſiſtematico lo fanno peſlimo
Dialogiſta, e talor peffi moFiloſofo, perchè egli concraddice a ſe ſteſſo in
diverſiDialoghi, o almeno le coſe vi ſono così ſconneſſe, che non ſi può
raccoglierle, non più che le membra di Penteo (a ) diſunite e sbranate. Tratto
di cutte le parti della Filoſofia, or Logica, or Fiſica, or Metafiſica,
accennomolte ſcoperte de' ſuoi tempiintorno alla mufica, all'aſtro nomia,
all'ottica, ma imitando poi la ſetta Eleatica ne'dubbj, e nell'opinioni, tutto
propoſe ſenza nulla concludere. CICERONE lo conſidera come il primo degli
Accademici, o quel che diede ad Arceſilao, ed indi a Carneade il metodo di
dubitare. Seſto Empirico ſenza altro lo pone tra' Pirronici nelle materie an
cora più gravi, come in quelle dell'anima,del mondo, di Dio; nè a ciò CICERONE è
contrario. Conveniamo dunque che Platone, co me nello ſtile poetico convenne
colla ſcola Eleacica, così vi conven ne nel metodo di opinare,che egli col
Dialogo reſe più problematico. Confideriamolo adeſſo nelle fentenze, e
principalmente in quelle che riguardano l'idee ſulla Divinità, e ſulla materia.
S'è già dimoſtrato, che i Pitcagorici riducevano tutto all'idee, ed ai numeri.
Platone ſcielſe, e perfezionò ilmetodo dell'idee, econ duffe lo ſpirito alla
cognizione del bene per l'idea del bene, della bellezza per l'idea della
bellezza, e cosìfece del valore, della tem peranza, della ſcienza, e dell'altre
virtù morali ed intellettuali, com ponendo tra loro l'idee n'eſtraffe l'idea
della Repubblica, o l'idea del giuſto conſiderato nell'amminiſtrazione d'una
Repubblicazimmagine di quella amminiſtrazione, che delle potenze dell'anima fa
la ragione. Credevå egli, che ſpiegar le coſe particolari per le univerſali,
fof ſe il metodo chela natura leguiva, allorchè procede dalle cagioniagli
effecti. Parve ad Ariftotele, che foſſe più facile, e più ſendibile nelle
inſegnar le ſcienze, ſeguir l'ordine dello ſpirito, chealla cagionevi per
l'effetto. Non ſono più oppofti queſtimetoditra loro, che la ſin teſi, e
l'analių, di cui l'una comincia dalle coſe generali, per difcen dere alle
particolari, e l'altra dalle particolari, peraſcendere alle ge nerali; l'uno e
l'altro Filoſofo nell'inveſtigar l'idee delle coſe, adoprò il metodo ſteſſo di
comparare i ſingolari,e di farnele aſtrazioni oppor. rune, e lo dimoſtrerd a
lungo pel ragionamento dell'idee Placoniche. CICERONE riduce l'idea alla terza
parte della Filoſofia, che ver ſa nel difputare. Così l'idea trattavasi dagli
antichi, che ſebbene ac cordavano ella naſcer de ſenſi, però volevano che il
giudizio nonfoſe ne fenſi, ma che la mente fore giudice delle coſe, ſtimandola
ſola atta a di ſcopriril vero, perchèfola diſcopriva cid cheera ſemplice, della
ſteſanas tura, o tal qual era, e queſto lo chiamavano idea già così nominata da
Platone, e noi poſiamo (conclude egli ) rettamente chiamarla la lpecie. Non
erano perciò l'idee Platoniche, a ben comprenderle, che le fpe cie, eigeneri
che noi facciamo, comparando ed altraendo, eche, Tom. II. (a )
Eufeb.Prop.Evang. (6 ) De Natura Deorum. (c ) Lib.1.Accad. 2 e come (34 ) 1
come ſi diffe, cappreſentavano i Pittagorici per l'unità, poichè la mente tutto
va unificando per ſua natura. Una ſpiegazione sì facile, e breve dell'idee
Platoniche, perfectamente s'accorda co' principi d'Ariſtotele. Egli tratta
nella Merafilica l'idee Platoniche da metafc re poetiche, e queſto nome gli
avrebbe pur dato Platone, se avelle dogmaticamente ſcritto come Ariſtotele', ma
nel Dialogo ſpecie di Poelia Dramatica egli eguagliò la compoſizioneallo ſtile.
Morco Platone, ed offeſo Ariſtocele di vederſi poſpoſto a Pfeufipo „ a lui
tanto inferiore in ingegno, e in dotcrina vi oppoſe un'altra ſcuola di cui ſi
fece capo, e per accreditarla cominciò a combattere le fentenze del ſuo
antagoniſta, attaccandoſi alla parte più difficile, e più equivoca o alla
quiſtionedell'idee, alle quali Preuſipo imitando.forſe il metodo di Platone
dovea dar troppo di realità. Ariſtotele ſcriſe dunque contro l'idee ſeparate,
ma Platone avendo già nel Par menide conſumato quanto potea dirli contro di
loro, Ariftotele ne copiò gli argomenti dipeſo, ed al ſuo ſolito con brevica ed
oſcurità di ſtile, fingendo di combatter Placone critico Preuſipo, ed i ſuoi di
i fcepoli. Dital congettura è mallevadore il Patrizio nelle ſue diſcuſ fioni
peripatetiche. S'elle ſon vere, non che verifimili, verifimile è pure che fin
d'allora ſi ſpargeſſero i ſemi che prima Ammonio Sacca, ed indiPlotino,
Porfirio coltivarono, e Jamblico, e Procloridul fero in regolato fiftema.
S.Giuſtino, che avea più ſtudiatii Platoni ici, che Platone era perfuafo, che
l'idee foſſero ſoſtanzeſeparate, collocate con Dio nella sfera più alta. S.
Cirillo rifiuţa Giuliano A poſtaca, che credeva il Sole, la Luna, egli
altrieller l'idee viſibili e comporre gli Dei. 11 P. Balto riferiſce a lungo
ipaſſi di S. Ireneo, di S. Bafilio e d'altri, i quali impugnarono l'idee
ſeparate, che introdu cendo il politeismo rovinavano ne'ſuoiprincipj la
Religione Criſtia pa. Soſpetta il P. Balto, che Eufebio difendere l'idee
Platoniche persè ſuffiftenţia pro dell'Arianismo da lui profeſfaco. Negli
ultimi tempi il Clerico ne rinovd la ſentenza, e molto più l'anonimo Soci niano
nel tuo Platonismo ſvelato, ove ſi confondono con l'idee di Platone, gli Eoni
rami de'Seffirotii cabaliſtici adottati da' Valencia niani e da' Baſiliani, e
de'quali nella concinuazione dell'iſtoria degli Ebrei parla a lungo il Basnage,
I comentatori di Platone abbagliatidatante autorità, nè avendo forza di critica
fufficiente per reliltervi, s'abbandonarono ai fantasmi di Proclo, e di
Jamblico, anziche abbadarea'ceſti di Platone, ne s ' avviſarono di ben pelare
le dottrine del Parmenide contro l'idee ſeparate aggiunte da Ariſtotele alla
metafiſica. S. A goſtino è il primo de' Padri Latini, che non fepara l'idee Pla
toniche da Dio; dando a Dio la creazione del mondo non poteva egli non
concepire nell' intelletto divino la ragione dell'ordine del le coſe create, e
queſte appunto ſono l' idee su le quali poi San Tommaſo ſeguito da' Teologi, ne
fece molti articoli, of. feryando che l'idee divine ſono univerſali, onon
rappreſentano a Dio (35 ) 2 € Dio ſolo le ſpecie, ma ancora gl'individui, col
rappreſentargli le coſe non quali noi per la limitazione della noſtra mente le
veggiamo, ma quali ſono in fé ſteſſe. Il Padre Balco riprende a dritto su
queſto punto il Dacier, che per difender malamen te Platone, cade non volendo
in un errore. Ma fe Platone preſe da’ Pitragorici l' idee nel ſenſo, che le
propoſero Pitcagora, ed Archira, pare che egli ancora come queſti ſentiſſe
intorno la Divinità. S'è già dimoſtraco che dopo Pitcagora, Senofane e
Parmenide conſideravano Dio non altrimenti, che l'anima del mondo. Lunga cofa,
dice Ci cerone, (a ) ſarebbe a dire dell'incoſtanza di Platone intorno a Dio;
nel Timeo nega, che porta nominarſi il Padre del mondo; nel libro delle leggi,
ſtima non doverfa ricercar affatto coſa ſia Dio. Lo stesſo nel Timeo, e nelle
leggi, dice eſſer Dio, il mondo, e gli altri e la terra, e gli animi, e gli
altri Dei, che abbiamo ricevuti dagl' iftitu ti de' Maggiori. Il Padre Arduino
raccolſe tutti i paffi, ove Pla tone parla degli Dei nel ſenſo ſtero. Dio nel
Timeo ſi chiama bensì il Padre, e l'artefice del mondo, ma non mai il Signore,
il Sovrano; ſi chiamava il mondo un Dio generato, il quale ba una perfetta
ſomiglianza con Dio; figliuolo, e figliuolo unico di Dio; un Dio completo, un
Dio generato da un altro Dio, un Dio felice, im magine del Diointelligibile,
perfetta copia d un originale perfetto Dio ottimo malimo, qual appunto i Romani
doceano diGiove, per cui folo intendevano il deſtino inviſibile delle coſe.
Molci alcri paſſi ſpiega l' Arduino, e da cutii ſi raccoglie, che Placone non
co noſceva Dio, che come principio intelligente, qual lo conobbe Pittagora,
Senofane, PARMENIDE DI VELIA, e cant alori, a' quali può ben applicarſi il
pallo di S. Paolo, in un ſenſo filoſofico, che cono ſcendo Dio, non come Dio
l'onorarono (non ſeparandolo affacco dal la materia, o, ponendolo ad eſsa
coeterno. ) Pitcagora avea generato il mondo, e lo generarono i Fenici, Orfeo,
ed Eliodo. A queſt'idea poetica, Platone aggiunſe le Fi loſofiche accennate da
Timeo di Locri nel fuo ragionamento della natura, e dell'anima del mondo, e ne
compofe il Timeo, nel qual volea nell'ordine oſſervato dalla ſapienza nella
fabbrica del mon do, dar un modello di quella Repubblica, che poſcia propoſe
nel Dialogo del Giuſto. Ariſtocele pur comparava la coſtituzione del mondo ad
una Repubblica, in queſta v'è il Principe, che comanda ai Magiſtrati militari,
e civili, e nel mondo v'è Dio, che col miniſtero degli Dei inferiori, compie,
conſerva, ed ordina cuc te le coſe. S'è © e di lo Lei li i e lo i e (a ) D:
Natura Deorum lib. s'è gia dimoſtrato,
che i Platonici recenti nel divider in due punti, o ſegni, l'eternità,
neaſſegnavano il primo ſegno a Dio, in quanto a Dio, ed il ſecondo a Dio
creatore della materia la difficoltà è di ritrovare in Platone qualche coſa che
s'av vicini a queſta dottrina. Teofilo (a ) non ve la ritrovd altri menti
dicendo, che Platone coi ſuoi ſeguaci poneva Dio, e la materia ingenita; con
che non venia a porre Dio, nè uno; nè ſolo. lo qui ſtenderò un lungo paſſo di
Plutarco, perché fe 'ne giudichi. Il mondo, dice egli,è bensì ſtato fabbricato
da Dio, perchè fra tutte le coſe è bellißimo il mondo e Dio fra le cagioni
l'ottimo, ma la ſoſtanza, e la materia, della quale è ſtato formato, non eſſer
mai nata, ma ſempre averſi trovata ſottopoſta ab Maeſtro, ed ubbidiente a
ricever quell'ordine, e quella diſpoſizione, che fore in quanto ella potelle
comportare a lui fimigliante, percbè il mondo non fu creato dinulla, ma di ciò
che era privo, di bellezza, di leggiadria, e di perfezione, ſiccome la caſa, la
veſte, la ſtatua, perciocchè tutte le cose, primache naſceſe il mondo, foffero
confuſe, e diſordinate, nondimeno le coſe confuſe non erano ſenza corpo, ſenza
fora ma, ſenza regola, moſle da movimento a caſo, e ſenza ragione. Que sto
altro non era; che la ſproporzione dell' anima, di ragione Spoglia ta,
perciocchè Dio di coſa ſenza corpo non fece corpo, nè anima di coſa d'anima
priva, nella maniera che noi vediamo, cbe il Maeſtro di muſica, e dell armonia,
non fa egli la voce, bensì la voce acconcia, e il moto proporzionato; così
parimenti Dio non fece il corpo trattabile, e ſodo, nè l'anima atta a moverſi,
ed in gannarſi, ma preſo l' uno, e l'altro principio, quello oſcuro e pienodi
tenebre, queſto confuſo e pazzo, amendue più rozzi, e più difformidel
convenevole ordinandoli; e diſponendoli, e congiungendoli formd un animal
beltiſſimo, e perfettiſſimo. Dunque la natura del corpo non è punto diverſa da
quella natura, come dice Platone, che abbraccio il tutto, ed è fondamento e
nutrice di tutte le coſe che naſcono; non dimeno la natura delp anima fu da
Platone nel Filebo nominata infini to, il quale non riceve numero, nè
proporzione, nè vi ſi trova miſu ra, o termine alcuno di mancamento, di
ſoverchio, di ſimiglianza, o di differenza. Così parla Plutarco ed è facile il
dedurne, che ſecondo Pla tone eterna era bensì la materia del mondo, ma nuova
la for ma, (a ) Teophil. ad Autolicum 1.2. Plato cum ſuis aſſeclis Deum quidem
confitetur ingenitum, patrem præterea & conditorem hominum, at que deinde
fubjicit, live ſupponit Deo materiam quoque ingenitam, quæ fimul cum Deo
prodiderit five extiterit; verum fi Deus cen ſetur ingenitus, & materia
perhibetur ingenita, jam nec amplius Deus conditor & creator eſt hominum
etiam fecundum Platonicos, nec quod unus & folus ſit ab his vere
demonftratur. nè il moto, ma 1 1 (37 ) má, ed in queſto Platone differiva da
Ariftotele, il quale, come s'accennd, fece ad un tempo eterne, e la materia, e
la forma; Ariſtotele rimprovera perciò Platone, d' aver fuppofto, che la
materia con cuiDio compoſe le coſe, foſſe in moto, e loda Anaf fagora, che la
poſe in quiete. Vuole egli ignorare, che affatto poetico foſſe il Timeo; pure
non è credibile,che egli non l'aveſſe udito dir più volte da Placone ſteſſo,
che nel Dialogo finſe Socra te a favellar con Timeo di Locri contemporaneo
forſe a Pittagora; parla dell' abboccamento che Solone ebbe coi Sacerdoti
d'Egitto, iutta ſpaccia la favola dell'Iſola Atlantide., ſtempera in una taz za
i numeri armonici dell'anima del mondo compoſta di cre ſo ftanze, ne ſparge le
reliquie su le ſuperficie de glòbi', conſidera come coſa reale la mecemplicoſi,
che Timem (a ) nel ſuo ragiona. mento introduce come coſa politica. In ſomma
ben eſaminan do tutte le frafi Platoniche e tutto il conteſto della dottrina
Filoſofica poeticamente maſcherata, io ſon perſuaſo, che in Platone, comene
Pictagorici, Dio vi s'introduca qual animadel mondo, o la ſteſſa mente, e
ſapienza perfecta ſparſa per tutto; allora perciò che dice CICERONE nella
natura degli Dei, e quan do Platone fa Dio incorporeo (b ) egli confonde Dio
con la mate+ ria, la quale era incorporea, come ſi diffe, prima che da Dio ſe
ne eſtraffero i corpi. Dall'alcra parte nell'ipateli, che Dio gli abbia
eſtratti, fece Dio concepirſi" al di fuori della materia, co me
l'architetto al Palagio, e lo ſcultore alla ſtatua. In vano dun que dall' opere
di Platone, e degli altri Filoſofi antichi, i qua li ammifero la materia eterna,
li cerca l'idea del Dio che ado. riamo; egli è uno ſpirito infinito, nella di
cui natura inviſibile ſono riunite cutte le perfezioni immaginabili, e
poflibili; onde gli ſcolaſtici lo chiamarono il cumulo delle perfezioni; e i
Cartuliani l'ente infinitamente perfecto. Sino a què l' ammet cevano gli ſtefli
Pagani, ma la definizione non balta, ſe ad el fa non s? aggiunge, che Dio ha
tratto dal niente l' Univerſo, e che è diltinto realmente, e ſoſtanzialmente da
tutto ciò che ha creato. Tale definizione come ortodoſſa propoſe l' Abbate
d'Oliveta ’ Filoſofi (c ) dopo di aver eſpoſte tutte le loro fen tenze, tra le
quali entra e Pittagora, é Senofane, e Parmeni de, e Platone Itello, Non (a. )
Nel fine. (6 ) Cicer. Natur. Deor. (c ) Nel fine del Tomo 3. della traduzione
della Natura degli Dei;. Par ce mot. Dieu, je veux dire un eſprit infini, dont la
nature eſt indiviſible & incomunicable; dans lequel font réunies toutes les
perfections imaginables & poſsibles, ſans aucun mélange d' imperfe etion;
qui'a tiré du ndant l'univers, & qui eſt diſtinct réellement &
ſubſtantiellement de tout ce qu'il a créé. 0 1 (38 ) o dell' Non è tuttavia, che debbano
ſpregiarſi le dottrine di Placone, e rigettarle come inutili; conobbe egli Dio
ſotto un'idea con fuſa, come lo conobbe Ariſtotele, e in quella guiſa che S.
Tom maſo da Ariſtotele tralle molti principi, e combinandoli coi rivelati
propoſe molte concluſioni Teologiche, così può farſi di Platone; S. Tommaſo
dall' uno, e dall'altro traſfe l'eſiſtenza di Dio, impiegando i mori, le
cagioni, l'ordine del mondo, i gra di più o meno perfetti delle coſe, ma non
potè trarla dall' en te contingente e neceſſario, che Platone non conoſceva,
ponen do ecerna la materia, e chiamandola neceſſità. Dimoſtrar il primo ente
qual principio intelligente, per l'adequaca idea di Dio, non baſta le da eſſo
non ti rimovono tutte le compoſizio ni, dimoſtrando, come fa S. Tommaſo, che in
lui non ve n'ha nè di forma, nè di materia, e che non può ridurſi ad alcun
genere, Nel Parmenide però non v'è biſogno d'alcuno di queſti ar tificj; tutto
vi fi' riduce all'idea metafiſica dellence uno. Convien dedurla da' ſuoi
principj, od eſtrarla come fece Pittagora, e Peritione da tutti i compofti, ed
eſaminarne le proprietà. Così AQUINO (si veda), ove tratta dell'unicà, e della
bontà di Dio, prima ricerca, quanto la ragione, gli può per mettere, coſa ſia
l' uno, e coſa ſia il buono, indi col princi pio rivelato cid combinando,
dimoſtra la purità, e la bon tà di Dio. Io parimenti ricercherò con la ragione,
fe si poſſa ben intendere l' uno del Parmenide, laſciando agli altri la fa rica
di ſpiegarlo in un modo fublime, applicandovi le coſe Teologiche, delle quali
non intendo d' attaccarne, o diftrug. gerne la minima. Io cratterò della
dottrina del fine, indi del metodo del Dialogo. Gli antichi con ragione
intitolarono queſto Dialogo, il Par menide o dell' idee, perchè Parmenide parla
più degli altri, e tutti i ſuoi ragionamenti raggirano su l' idee, o per
cercarle con le aſtrazioni della mente, o per diſtruggere le ſeparate, eſempli
ficandone il caſo nell'idea dell' uno, la più ſemplice di tutte l'al tre, e a
cutte l'altre comune. Supponevano i Pictagorici, che tutte le coſe imicaſſero,
o par ticipaſſero l'idee, o le fpecie; provacontro loro Parmenide, che le cofe
non poſſono eſſer partecipi delle fpecie, nè ſecondo il tutto, nè ſecondo
unaparte, indi col principio di contraddizione, col progreſſo all'infinito, e
coll' ideaſteſſa delle perfezioni divine; gli fteffi argomenti di cui ſono nel
Parmenide i femi, fteſe Ariſto tele, ed è mirabile che i comentatori non
abbiano penſato di con frontarlo nel ragionamento dell'idee con Placone, ciò
che attri buiſco all'ipoceli da loro fiſsata, che in queſto Dialogo Parmenide,
o Platone confermi e non diſtrugga. l' idee ſeparate. Annullate tali idee in
modo cheSocrate ne reſta convinto, Pare menide per non laſciarlo nell'
imbarazzo gli moſtra la neceſſità che ha il Filoſofo d'ammettere certi principj
fiſſi ed immutabili e tanto più difficili a comprendere, quanto che non fi
poffono de terminare, nè co' ſenſi, nè colla fantaſia. Parmenide' nell'etem
plificare il caſo del metodo propone l'idea dell'uno, e la con ūdera
relativamente a ſe ſteſſa, indi all'ente, al fine, al non en te. Così un
matematico trattando per eſempio del triangolo, lo conſidererebbe prima in ſe
ſteſſo, poi per rapporto all'altre figure rettilinee o piane, ed al fine alle
non rettilinee, od alcerchio. Definiſce Zenone l'uno per oppoſizione a molti, e
chiama uno ciò che non è molti. Ariſtotele, nella metafiſica molto ap prova
queſta definizione, perché i molti ſono più noti al ſenſo che l' uno; prende
Parmenide la definizione, e negando dellº uno tutto ciò che s'include in molti
o li predica de' molti; negà ch' egli fia cutro, parte, principio, mezzo, fine,
figura moto, quiete, lo ſteſſo, diverſo, ſimile, diſſimile, eguale, mag giore,
minore; in oltre gli nega le differenze del tempo, pre lente, paſſato, futuro,
l'eſſenza, la ſoſtanza, il nome, il ſen fo, la ſcienza, l'opinione. Parmenide
prende ſempre l'uno nel ſuo concetto aſtrattiflimo, nè men volendo che l'uno â
conſideri per rapporto a ſe ſteſſo, perchè nel riferir l'uno a sè li concepireb
be come due o come molti. La ſeconda quiſtione è, ſe l'uno ſia che accada all'
uno, ed all'altre coſe; qui l'uno fi ſuppone inſeparabile dall'ente, come rente
dall' uno, onde tutto ciò che s' include o li predica dell', pud predicarſi
dell' uno; quindi ſe nell' ente's include o dell'ente fi predica, la parte, il
tutto, il finito, l'infinito, il principio, mezzo, il fine, la figura, il luogo,
il moto, la quiete, il fimile, il diffimile, lo iteſto, il diverſo, l'eguale,
il maggiore, il minore, il tempo paffato, preſente, e futuro, 1 eſſenza, o la
ſoſtanza, la ſcienza, l'opinione, il ſenſo, tutte queſte coſe ſi predicheranno
ancora dell'uno. Non ſi predicano però queſte coſe oppoſte dell' uno, e
dell'ente. nel medelimo tempo, e ſecondo lo ſteſſo riſpetto, ma in varj te m pi
o ſecondo diverſi riſpetti, e ciò fa che le contraddizioni non ſieno, che
apparenti, o del genere di quei meraviglioſi, che de generano ſpiegandoſi in
puerilità. Cosi penſa lo ſtelfo Platone nel Teeteto, maParmenide nel cercar qui
ſe ſia l'uno, quali altre co fe ne fieguano, non cela all'uſo de Sofiſti, ma
ſpiega come vero Filoſofo in termini ſemplici i miſteri, e queſta iola credo
una nuova prova del liftema Parmenideo da me ſtabilito. In queſte due prime
nozioni dell' uno non vi ſi framiſchiano le immaginarie', o poetiche; mabensì
ve ne fono nella terza, ove fi rapportal'uno al non ente, o al nulla, di cui
non s'ha nozionereale', ma ſolamente immaginaria come dell'impoffibile. V'è un
affioma Logico, il qual diceche, dall' impoflibile ogni coſa ſe ne deduce, pera
che in lui fi complicano i contraddicorj, anzi il criterio per co nofcerlo è
per mezzo dei contradditorj, e poichè l'uno è inſe párabile dall'ente; fia lo
ſteſſo dir il non uno, che il non en te, ma del non ente o dell'impoffibile fi
dice che ha effenza, o che non l'ha, che è lo ſteſſo e diverſo, che è ſimile, e
non fi mile, eguale, non eguale, cheſe genera e fi diſtrugge ec. Dun que le
ſteſſe coſe che ſi predicheranno del non ente conveniran no ancora al non uno.
Nell'attribuire il non uno all'altre coſe, fi trasformeranno queſte in
fantasmi, o sogni d'eſtenſione, di mal fa, di moto e di quiete, ciò che rende
il mondo più poetico del cabbaliftico. Platone o Parmenide maneggiano queſto
argo mento con ſomma ſagacità, e delicatezza, e ben ſi vede quanto foſſe la
loro Filoſofia profonda, e quanto utiliffima eller poſla, non cangiando il
grado dell' aſtrazione, nè inneſtandovi opinioni affatto encufiaftiche, come
fece FICINO. I celebri Pittori, attenti ad oſſervare in ogni luogo tutto ciò
che loro ſomminiſtra idee nuove d'atteggiamenti, di ſcorcii, di lineamenti,
difigure, ſe mai su i muri più affumicati ritro. yano quelle ſtriſcie fortuite
impreſſevi dalla caligine, le vanno combinando con la loro immaginazione, e
creano delle figure leggiadramente fimecrizzate, e canto ſi rifcaldano nel
vagheggiar opera loro, che le additano agli altri, come fe ivi foffero,e ſi
cruciano e fremono, e ingiuriano, quando queſti ſemplicemen te riſpondono di
non ravvifare, che orme irregolari di fumo. I Filofofi, e particolarmente i
comentatori hanno lo ſteſſo coſtu me, fiffi in un fiftema l'addatano a tutto
ciò che incontrano nell' autore da loro accarezzato, e dove egli ancora parla
nel modo più ſemplice, e naturale, e conveniente a'ſuoi principj, par loro di
fargli torto, ſe non l'abiſfano nelle loro profonde ſpeculazioni, e lo
dimoſtrano tanto più ammirabile, quanto nyono l'intendono, c quanto dagli altri
è meno intefo. In tutti i Dialoghi s'è prefiſſo FICINO, di far di Placone (a )
un Teologo Criſtiano, ma non so come ritorni in queſto Dialogo al (a ) Prima ex
quinque ſuperioribus de uno fupremoque Deo dixerint quomodo procreat
diſponitque deorum ſequentium ordines. Secunda de fingulis Deorum ordinibus, quo pacto ab
ipſo Deo proficiſcuntur ec. argum. Marſ. Ficini Parm. vel de uño rerum
principio, & de 9 ideis. (41 )
al Paganeſimo, e vi traſporti tutte le idee fimboliche del Timeo, e del Fedro
ſenza biſogno, e profitto; e che coſa ſon queſti Dei che ſeguono Dio
nell'ordine loro, ed in qual parte del Parmeni de li ritrovo? Annullò il Serano
gli Dei, e vi ſoſtituì due ſorti d'idee; Dio è la prima e principal idea, le
ſeconde ſono le va. rie idee delle coſe create; ma ſe Parmenide non diſtingueva
Dia dal mondo; coſe affatto poeriche non ſono le idee divine? Non bado il
Serano, che Parmenide toglie all'ente ſino il tem po' preſente, e le toglie
ancora l'eſſenza. Si, ma intende il Se rano l'eſſenza delle coſe ſingolari, e
quando Parmenide dice, che l'uno è molte coſe, vuol dire, che egli dà la forza
d'elfte re alle coſe ſingolari. Or come ſi può includere nell'idea dell' uno,
in quanto tale la forza? E come poteva Parmenide inclu derla nell' uno, ſenza
concepirvi l' eſſenza, e nell' accoppiare l' eliftenza alla forza, e non
concepir l' uno come molti contro l? ipoteſi? La prima idea, dice il Serano, fi
diffonde in maniera ſulle coſe create', alle quali Dio dà la forza, e facoltà d
' eſiſtere, che ad ogni modo circoſcrive ne' determinati cancelli dell' uno, la
feffa moltiplici, tà, e quaſi infinità delle coſe ſingolari. Queſta è la luce
tenebroſa del Flud, chi può ſpiegarla? Va il Serano peſcando le affezioni dell'
idee ſeconde, e ne ri trova ſei, dopo le quali la ſua vena metafiſica, e
teologica, ſi conſuma, o perde, ed in tutto il reſto del Dialogo immobil mente
fiſto, ed eſtatico ſul ceſto Platonico, par uno di que' Chineſi, che per molti
anni guardandoſi la punta del naſo s'im maginano di veder l'eſſenza divina; non
batte egli palpebra tutto concentrato in sè, nè degna abbaſſarſi a ſoſtener con
note margina li l'imbarazzato lettore. Io ſon ben lontano dal condannare le al
tre note di queſto autore, colle quali negli altri Dialoghi eſpone la
conneſſione, e callora le ragioni ſemplici del teſto, ma nel Par menide
ſpiegando alto il volo per emular il Ficino, li dimentica del ſuo coſtume, e
laſcia in aſciutco il leccore; ma come è poſſi. bile, che avendo egli canto
ſtudiaco Platone, e confrontati i teſti, nonabbia atteſo ad unpaſſo del Filebo,
in cui li ſpiega il fine, che Platone ſi prefiſſe in queſto Dialogo? Nel Filebo,
che non ſenza ragione gli antichi faceano ſeguir al Parmenide, cosi ſi parla da
Socrate a Protarco. Tu, o Protar dice Socrate, intorno l' uno ed i molti ai
dette le coſe pubbliche dei meraviglioſi, le quali, per dir cosi, ſono
concedute da tutti, che non fieno punto da toccarli, ejendone alcune puerili, e
facili da conoſcerſi, e per nuocere maſſimamente a ragionamenti, fe alcun le
ammetteſſe; nè è Tom. II. f de (42 ) - 1 1 tal uno, da ſtimarſi coſa
meraviglioſa, ſe alcun dividendo rolla ragione le mem-, bra d'alcuna coſa, e
tutte quelle parti, confeſſando quella eſerne una; di poi la confutalle, e ne
prendeſe beffe quaſi sforzato a con. feſare coſe moſtruoſe, cioè che una ſola
coſa ſia molte ed infinite, ele molte quaſi una ſola, E' quì da notarli quel
dividere con la ragione le membra di alcuna coſa, formula che egli repplica
ſovente nel Parmenide, in cui dice, ſeparar le coſe con l'intelligenza, e fino
sbranarle; indizio manifeſto che qui non ſi tratta, che d'aftrazione di ra
gione, per cui nelle coſe più ſemplici fi diſtinguono, non le par ii, ma gli
attributi, e le relazioni che le fan molte per rapporto alla mente; or tutto
ciò che dice nel Parmenide dell'ente, e dell' uno, non divien egli un di que'
meraviglioſi puerili, de' quali par la Socrate, fe non s'averte, che le
contraddizioniſono apparen. ti, o che nel medeſimo tempo, e ſecondo lo ſteſſo
non s'aſcrive all'uno, il fimile e diffimile? Siegue Socrate: quando alcuno
giovane pone l'uno, non eſſer alcu na di quelle coſe, le quali naſcono, e
muojono, perciocchè quì un co come poco fa dicemmo, ſi è conceduto, che non ſi
debba con futare. Parla quà Socrate della prudenza, della ſcienza, e della men
te, di loro natura une, immortali, ed eterne nel ſiſtema Piccagori co, e delle
quali, come d'eſſere reali, parla nel Sofiſta. Conclude Socrate: Ma quando ad
affermare è altretto un fol Uo mo, un ſol bue, una coſa bella, ed una coſa
buona, allora veramen. te in queſte, ed in cotali unità ſi rende ſollecito lo
ſtudio, ed anche ſi fa ambiguala divifione. Primieramente ſe ſieno da
ammetterſi certe uni tà sì farte, che fieno veramente; di poi, in qualguiſa ſia
de penſarſi, che ciaſcuna di quelle coſe ſia una, e la medeſima ſempre, nè fi
pren da generazione, nè morte, ma ſe ne ſtia fermiſima nell' unità di lei;
finalmente ſe ſia da porſi alcuna coſa nelle coſe generate, od infinite, o
partita, ed oggimaifatta moite coſe, o tutta eſa in diſparte da ſe medeſima, il
che più di tutte l'altre coſe parrebbe impoſibile che uno, e lo dello ſi facele
parimente in uno, ed in molti. Quefto è l'uno, ed i molti che ſi trovano
intorno a cotali coſe, ma non quelli, o Protarco che non conceduti bene ſono
cagione d'ogni dubitanza, ed ogni facilità ben conceduti. Manifeftiffimo è, che
quì Socrate ripete le difficoltà ſull' idee ſeparate fattegli da Parmenide, e
ſu le quali confeffa, che impoſſi bile è di scioglierle, indi fa attenzione al
metodo inſegnato da Par menide, di cercar l'idee per via dell' aſtrazioni, con
le quali ſi to glie ogni difficoltà intorno a'molti, e all'uno. Da queſti palli
io deduco, che il fine di Platone in queſto Dialogo altro non fu, che
d'allontanarſi da quel meravigliolo e puerile, in cui facilmente fi cade,
quando non ben li diftingua no i concerci della mente, o s'amia irasformare i
concetti in ido li, ed a realizzarli poeticamente, come faceano i Pittagorici.
Per compir queſto diſegno fcelle Platone il Filoſofo più ſpeculativo
dell'antichità, e deſcritto da Socrate qual Uomograve, evenerabile, e d'una
profondità al tutto generoſa, il che vuol dire, ſe non erro, che egli nella ſua
maniera d'argomentare franca, libera, ed inſie me profonda, nulla tenea del
lopraciglio, e della vanità dei Sofi fi; Platone quimoſtra fin dove arrivar pud
l'ultima analiſi, che i Pitcagorici faceano dell'idee, oltre le quali il
procedere'era un eſporſi a pericolo di non più intender quello che ſi dicea,
comepur trop ро è arrivato ad alcuni Scolaſtici, che fpingendo troppo, oltre le
queſtioni oncologiche, ofarono ſin negare il principio di con traddizione, ed
affermarono chel'infinito ſi raggruppaffe in un pun to. Nel GORGIA DI LEONZIO,
nel Protagora, ed in altri Dialoghi contro iSo fifti, coll'arte dell'ironia
Socratica, li dipinge a diritto Platone quali cacciatori mercenari d'uomini,
mercatanti venditori, appal tatori di ſcienze, e diſcipline falſe; ma chi può
dire che Platone ebbe difegno di proporſi in queſto Dialogo Parmenide, qual mer
catante venditore, ed appaltatore di bujo peſto, che così devono chiamarſi le
quiſtioni tenebroſe, ed all'ambicate; bujo peſto è quel lo di cui troppo
liberalmente lo caricano il Ficino, ed il Sera no, non quel che combina la
doctrina d' Ariſtotele, con quella di Platone; dotcrina che curt " i
Peripatetici, e gli Scolaſtici ab bracciarono e che ultimamente con tanta
chiarezza e preci* fione, eſpoſe il Wolfio nella fua Ontologia. Queſto Dialogo
è primieramente ontologico, e preſo in queſto ſenſo non ha in sè più di
pericolo che la metafilica d' Ariſtocele, ma ridotta alla Dialeccica, L'antica
Dialetica verſava fu i generi di tutte le coſe, attenca a compararli, a
combinarli, per preparare' ed illuſtrare la quiſtio ne propoſta. S'ingegna lo
Stanlejo di ridur a tre generi la Dialec tica de Piccagorici.1. Ai non
ripugnanti, o ſia all'eſſenza delle coſe nelle quali ſi combinano, coſe tra
loro non contradditcorie.. Così l'eſſenza del triangolo o del quadrato, è
l'eſfer figure di cre o quattro linee, perchè non v'è ripugnanza, che il numero
ter nario o quaternario, s'adatti o fi combini alle linee rette. 2. Ai
differenti o alle coſe che tra loro ſi diverſificano nell'eſſenza, nc gli
attributi, e ne' modi; così il triangolo è differente dal qua drato, ed il
quadrato dal cerchio. 3. Ai relativi a'quali ſi riduco if 2 no (44 ) no tutte
le matematiche conſiderate dagli antichi, come il vero modello della diſciplina,
ed a cui i moderni riduſſero l'arte dell' analogie filoſofiche, ed il calcolo
de' probabili. Platone ſtabiliſce in molti luoghi non tre ma cinque generi del
le coſe; l'eſſenza o ciò che è, lo ſteſſo, il diverſo, il moto, e la quiere; a
queſte due ultime nozioni ſi riduceva tutta la fiſica antica, onde diſfe
Ariſtotele, che ignorato il moto s'ignora la natura. Lo ſteſſo e il diverfo
vaga per tutte le altre fcien ze; onde Platone dello fteſſo, e del diverſo,
compoſe l'anima del mondo, e la bellezza. Lo ſteſſo e il diverſo ſono relazioni
dell' ente in genere, fi ſpargono ſulle relazioni dell'ente in ſpecie, il
fimile, il diffi mile, Peguale, il maggiore, il minore, il nuovo, l'antico. Que
fta era la ſcala de'generi ſuperiori, o quelle nozioni ontologi che aſtratte
per l'acume della mente da' concreti, coſa ben di verſa dalla ſcala de'
predicamenti d' Ariſtotele. Il Wolfio fa propoſe per ultimo oggetto degli ſtudj
fuoi, di perfezionar" la Icala de'generi, e con eſſa ſciogliere il
problema dell' analiſ dell'idee, propoſta ma non trattata dal Leibnizio. I
Pittagorici ne diedero i primi ſemi, e Placone più li ſviluppò, applican doli
alla determinazione dell' idee, quindi è che nel Parmeni de tutti iſuoi
argomenti ſi riducono alle relazioni dell'ente, in genere dell'ente, in ſpecie.
Rinferrata ne' fuoi limiti la materia del Parmenide, il meto do che v’applica è
quello del principio di contraddizione, che ci conduce all' aſſurdo; metodo non
tanto accetto a noi, per. chè ci dimoſtra la noftra impotenza, ma che ci sforza
invin cibilmente all'faffenſo. In queſto metodo Platone ne aggruppa molti altri,
il metodo d' eſcluſione è quello dell'analiſi geo metrica. Nel metodo
d'eſclufione fi numerano tutti i caſi di una co ſa, e s'eſcludono o tutti per
dinotare l'aſsurdità, o tutti men in cui fi cerca la ſoluzione del problema.
Così Archi mede avendo dimoſtrato, che un dato poligono non è, nèmag giore, nè
minore del cerchio, nel quale è inſcritto o circon Icritto, conclude che gli è
eguale. Placone in molti caſi ado pra il metodo ſteſſo. Nel metodo dell'analili
geometrica, fi aſſume (6 ) il quefito come conceffo, e per legitime conſeguenze
s'inoltra fino ad un ve 1 uno, ro (a ) Affumptio quæſiti tanquam conceſsi per
ea quæ conſequentur ad verum conceffum. (6.) Wallis Il. dell’Algebra. To concesso,
da cui riteſsendo il ragionamento ', li dimoſtra il quelito; molti vogliono,
che Platone ſia l'inventore di queſto metodo, e che abbia fatto il Parmenide
per darne l'eſempio; maqueſti attribuirono al tutto ciò che conviene adalcune
parti, Utiliflime ſarebbono le metafiſiche de'moderni, fe i loro autori fi
foſsero limitati all'ipoteſi, e ſi foſſero guardati di proporle in for ma di
dogma, cagione d'eterni litigi non ſalvati, ne da ſtile elo quente, nè da
calcoli algebraici. Il Carteſio ſegui nelle ſue medi tazioni ilmetodo analitico,
ma diede occaſione a molti ſiſtemi più ſtrani de'ſogni, come quello degli
Egoiſti, conſeguenza dello fpi nofismo fpirituale. Che dirò dell'arte del
Dialogo, in cui s'è già dimoſtrato imi, tarſi i ragionamenti umani, come i
Poeti Dramatici aveano imi tate le azioni umane. All'imitazione. di queſte
convien il palco, ed il verſo, non all'imitazione de' ragionamenti, la quale
per ſua natura appartiene alla DIALECTICA: poco o nulla di leggiadria avrebbono
i sillogismi, egli entimemi in verſo, e poco o nulla lor gioverebbe l'apparato
della ſcena. Si è pur detto che la quiſtione, e la digreffione al Dialogo, è
come la favola, e l' epiſodio al Drama. Nel Parmenide la quiſtione è intorno
l'idee, ma non v'è digreſſione, ſe pur non fi voglia ridur a queſta, la
preparazione alla diſputa con Par menide, incominciata tra Zenone, e Socrate.
La differenza de' drami ſi prende dal diverſo modo dell'azio ne, la quale o è
ſemplice, o compoſta, e la differenza de’ Dia loghi dal modo del ragionamento,
nel quale, o s'inſegna, os inveſtiga da un ſolo, o s' inſegna, o s'inveſtiga da
molti la quiftione propoſta. A quattro generi riduce il Taffo i Dialoghi, al
dottrinale, al Dialettico, al tentativo, al contenzioſo. De’due primi generi è
miſto il Parmenide, perchè dopo di aver egli diſputato con Socra te, quaſi ſolo
favella, non contandoſi le riſpoſte d'Ariſtotele, approvazioni per lo più della
concluſione, o preghiere d' eſpor più chiaramente la ragione accennata. Nel
inlegnare qual fia la natura o l'idea dell'uno, qui non v'è tentativo, nè
litigio, nè in queſto Dialogo v'è molto a ricercare, ſe ſia meglio adat cato
all'inſegnamento che il maeſtro interroghi, od i diſcepo lo., perchè appena
termino la breve diſputa có Zenone, che Parmenide cominciò a interrogar Socrate,
ed avendolo confu? lo, ed imbarazzato con una difficoltà cui non poteva
riſpondere, Para (a ). Torquato Taſſo diſc. ful Dialogo. uno. Parmenide paſſa
ſenza interrompimento alle tre poſizioni dell ' Vuol Torquato Tallo, che come
una ſia l'azione nel Dra ma, così una fia la quiſtion nel Dialogo, la quale o è
infini ta, per eſempio ſe deve apprezzarſi la virtù, o è finita, per eſempio
che deggia far Socrate condannato a morte. La qui ftione del Parmenide è
infinita, perchè fi tratta dell' idee di cui ſi cerca la natura e l'origine, la
natura dimoſtrando che non ſono dalla noſtra mente feparate, l'origine
dimoſtrando come per via delle ſuppoſizioni s'acquiſtano. Queſte due coſe ne
fan no propriamente una, perché non ſi può intender la natura dell' idee ſenza
prima determinarne l'origine. L'una e l' altra determina Parmenide, e rimove l'
idee feparate per convertire il ragionamento al modo con cui la mente le
acquiſta. Parme nide lo propone, non lo dimoſtra per non allontanarſi dal co
ſtume della ſua fetta, che era di propor dubitando le coſe: Non è cutravia in
ciò ſolamente che appariſce il coſtume di Par menide. Dimanda Socrate, che gli
ſia dichiarata la quiſtione delle idee, ed intorno alle coſe che ſi veggono,ed
ancora intorno a quelle che ſi comprendono con la ragione. Parmenide, e Zenone attentamente
lo aſcoltano, eſpero guardandoſi l'un l'altro fog ghignano quaſi di Socrate
meravigliandofi. E queſta è quell'evi denza tanto neceſſaria al Dialogo, e di
cui Platone diede si chiari eſempj neli' Ippia, e nel Fedone. Ella è qui
ordinata a manife ſtare il coſtume d'un Filoſofo accento, e che colla triſtezza,
e coi fogghigni accenna, ciò che nel diſcepolo non s'accorda con la ra gione.
Un tratto poi del coſtume d'un Filoſofo attento, è do ve dice Parmenide o
Socrate troppo per tempo, innanzi che tu ti eſerciti a parlare, ti sforzi di
definire ciò che ſia il bello, il giu ſto, il buono, e qualunque dell' altre
ſpecie. Perchè poco fa il con fiderai vedendoti diſputare con Ariſtotele. Per
certo mi credi, que fto tuo fervore è bello è divino, il quale alla ragion ſi
conduce, ma recati in ſe ſtello, ed eſercitati mentre ſei giovane in queſta fa
coltà la quale a molti inutile, e ſi chiama dal volgo garruli tà, altrimenti ſi
fuggiria da la veritade. Parmenide qui accenna la Dialectica in quanto vaga per
cutti i generi, ſulla qual coſa poco dopo ſoggiunge conſervando il co ſtume
divecchio venerabile. Sarebbe cofa ſconvenevole, cheſi trat tale maſſimamente
da un vecchio certe coſe si fatte alla preſenza di molti, non ſapendo il volgo,
che ſenza queſto vagare, e diſcerne re per tutte le coſeſia impoſſibile
abbattendoſi nel vero acquiſtar men te. Ariſtotele e gli altri lo pregarono, e
Parmenide riſpoſe con un apo 7 pare inutile apologo: egli è neceſſario
finalmente che s'ubbidiſca, tutto che mi è av viſo di tutto quello che patà il
cavallo Ibico, cui Atleta e vecchio do vendo prendere la conteſa delle carrette,
e per l'eſperienza iremando de' ſuccelli, alimigliando egli a ſe ſtello, dille
cheegli già vecchio era coſtretto di ritornar agli amori. Nel medeſimo modo
diſſe Parmeni. de, a me pare di temer malto, quando penſo in che guiſa
cosè.d'età avanzata, io pola paſar a nuoto un mare cosi profondo di ragionda
menti. Intorno la ſentenza, o ſia ciò che ſente il principale interlocu tore
del Dialogo, ella è qual conveniva a un Dialettico eſperto, nel vagar per i
generi delle coſe, e nell'argomentare, e ben de gno, che nelle coſe
intellettuali Platone, Secondo il teſtimonio di Apulejo, lo preferiſſe agli
altri Pitiagorici, e n'imitaſſe la ſotti gliezza, e nell' idee, e nel metodo di
proporle. Nella Poelia. Epica, altro è che il Poeta imiti narrando un facto,
altro che introduca un degli attori a narrarlo. Così nell' Odiſſea, aḥtre ſono
le cofe che Omero direttamente narra accadute ad Uliffe, altre quelle che narra
Ulife ſteſſo. S'in troducono ne' Poemi i racconti, per variar i modi dell'
imita zione, ed ancora per accreſcerla; ella è perciò doppia, quando nel Poema
i perſonaggi imitati, imitano effi fteffi col loro rac conto. In queſto Dialogo,
Pitidoro imita, narrando i diſcorſi che inteſe da Parmenide. I Dialoghi, benchè
fpecie di Poeſia Dramatica, in ciò con vengono con l' Epica, e Platone, che
nelle diſpute de'Filoſo fi volle imitare i combattimenti degli Eroi di Omero,
emold anche queſto nel modo di rappreſentarli. Nel Filebo propone ſenza alcro
la difputa chiaramente enunziata intorno la felici tà ed il piacere, nè
premette alcuna circoſtanza ſtorica ai ra gionamenti dei tre interlocutori,
Socrate,, Filebo e Protar co; così fa nel Sofiſta, nell' Eutifrone nelle Leggi,
e nella Repubblica, ma non cosi nel Convito, nel Fedone, e nel Par menide.
Pitidoro vi narra ciò che ha udito da Antifone, e queſto è modo più artificioſo
dell'altro, perchè vi ſi ricerca molta ſa gacità nel render neceffario il
ragionamento, ed accompagnar lo di quelle circoſtanze che più mettano la coſa
fotto gli oc chi, intereſſino il lettore ad aſcoltare i perſonaggi, e di tem po
in tempo lo ricreino con opportune digreffioni, ma tutte convergenti alla
quiſtione propoſta, ſenza che ſe ne accorga il lettore. Nel diſcorſo naturale
noi pafliamo ſenza rifleſſo da una coſa all'altra, ma nel Dialogo, ſe ſi vuol
imitando perfezionar la natura, nulla vi ſi deve introdurre ſenza ragion ſuf
ficiente. La ſomma difficoltà dell' artificio del Dialogo è nell:
interrogazioni, e nelle riſpoſte diftinte e preciſe, ma nel Par menide il
dialettico s'accoppia col dottrinale e queſta è la parte dominante, perchè
eſcluſe l' idee ſeparate, Parmenide ſem pre parla ſcorrendo per le
ſuppoſizioni.; ILLUSTRAZIONE D E L 1 PARMENIDE.. Tom. II. }, (51 )
ILLUSTRAZIONE di VELIA (si veda). tertentanut Estates L A diſputa su l' idee
fatta tra Parmenide, Zenone', Socra te, ed un certo Ariſtotele, viene a
Glaucone, e ad Adi manto riferita da Cefalo per bocca d'Antifone, il quale
avendo familiarmente converſato con Pitidoro compagno di Ze none', avea su
queſta materia udito da lui le ragioni dei tre Fi loſofi. Reſtarono queſte cosi
profondamente impreſſe nella me moria di Antifone allor giovanetto, che molti
anni dopo ſeb ben diſtratto dagli eſercizi equeſtri, poté in tutte le loro cir
coſtanze rappreſentarle nell' abboccamento, che egli ebbe con Cefalo, e coi
compagni. Tofto Cefalo eſpone il motivo della diſpuca Parmenide ne Poemi avea
detto che tutto è uno, e Zenone provato in uno ſcritto, che uno non è molti. Si
comincia la Jercura dello ſcritto, e Socrate vi fa ſopra delle difficoltà a mi
fura che ſi legge. Poco mancava' a' terminar la lettura, quan do Parmenide con
Pitidoro, e Ariſtotele entrarono in caſa. Si leſſe di nuovo alla preſenza di
Parmenide, e degli altri il pri moargomento, e fi difputò incidentemente su la
differenza del le due definizioni parendo a Socrate, che il dire tutto è uno
foffe lo ſteſſo che il dire, uno non è molti. Glielo concede Zenone, é lodaća
la ſagacità di Socrate dichiara', che non per vanità o per 'arcano di Filoſofia
egli ha' fcritto, ma per fo ftener l'orazion di Parmenide contro coloro che ſi
sforzavano di ſchernirlo, perchè ſe molte contraddizioni degne di riſo pativa
l' Orazion di Parmenide, molte altre di più ridicole ſe ne inferivano dalle
ſuppoſizioni degli altri. Zenone ſcriſfe il: li bro nella ſua giovanezza, ma un
certo avendoglielo rubato.fi pubblico. Si ricomincia la diſputa. Parmenide, e
Zenone lafciano a So. crace eſpor tutta la ſua ſentenza su l'idee ſeparate, per
le quali moſtrava la definizione dell'uno da Zenone affegnata non eſſer
univerſale ". Accorcol Parmenide, che tutta la forza dell'argo mento (52 )
mento di Socrate fondavaſi su l’idee ſeparate, l'imbarazza co ftringendolo ad
aſſegnarne alle coſe fiſiche. Non sa Socrate ri folvere la difficoltà.
Parmenide fingendo di conceder l'idee ſe parate argomenta contro la loro participazione,
contro il lo ro progreſo all' infinito, contro alla loro incomprenſibilità. So
crate n'è molto curbato, credendo che annullate l ' idee ſepara te non vi fieno
più principj per ben filoſofare. Ammira Par menide il fervor di Socrate, e lo
conſiglia ad eſercitarſi nella Dialetica per ben inveſtigare l'idee. Pitidoro
ed Ariftotele, pre gano Parmenide ad eſemplificar il metodo dell'inveſtigazione
dell'Idee. Egli ſcieglie l'idea dell' uno, e col metodo delle ſup poſizioni la
tratta. Orquattro ſono le quiſtioni che ſi poſſono eſtrar dal Parmeni de
relativamente alla definizione di Zenone, che l'uno non è molti. La prima è
quella dell'uno per rapporto all' idee feparate; Ia ſeconda dell'uno per
rapporto asé; la terza dell'unc per rap porto all ' ente; la quarta dell'uno
per rapporto al non ente. Le tre ultime quiſtioni ſono propoſte per via
d'ipoteſi: ſe l'uno; ſe l ' uno è; fe l'uno non è. Per non traſcurar nulla di
ciò che agevola l'intelligenza del Dialogo, premetterò partitamente ad ogni
quiſtione la Ipiegazio ne delle voci, e delle nozioni neceſſarie, ſtando più
che mi ſia poſſibile attaccato alle parole del teſto quale Dardi Bembo il tra
duffe; mi par inutile di por tutto il Dialogo, perchè eſſendoſi ri ſtampato di
freſco, tutti coloro i quali hanno vaghezza d inten derlo ſe ne faranno già
proveduti,per gli altri èinutile e vana ogni illuſtrazione. Zenone di VELIA defini
l'uno ciò che non è molci. Approva Ariſto tele (a ) queſta definizione, perchè
in generale ogni defini zione, dovendoſi aſſegnare per le coſe più lenfibilia e
più note, l'eſperienza di tutti i ſenſi ci moſtra, che i molti ci ſono più noti
che l'uno; i fanciulli più teneri nel coccare, nel vedere, e nell'udire
pereepiſcono i molti, e la loro cognizione è imme là dove hanno biſogno, che la
loro ragione fi maturi un poco per cominciare a dir uno, e quindi numerar su le
I molti dunque eſſendo più noti dell' uno, negandoli di forma 6 ) Metaf. lib.
1o. diata; dita. il (53 ) il concetto negativo dell'uno in quella guiſa, che
negando le par ti ſi fa il concetto negativo del punto. Dall'uno G fa l'idea
aſtratta dell'unità, come dall'idea dell'uomo l'idea aſtratta dell'umanità. Tre
ſono le ſpecie dell'unità; la Lo gica, la Matematica, la Metafisica. L'unità
Logica ſono i generi, e le ſpecie, o certe idee univerſali atte a rappreſentar
molti in uno; l'unità matematica è il principio compoſitivo de' numeri, o il
prin cipio per cui fi numera; principio differente dal zero, da cui ſi nuinera.
L'unità metafiſica' è una proprietà traſcendentale dell' ente, o che conviene
all'ente in quanto tale, poichè d'ogni ente fi predica l'uno, come fi predica
il vero, e il buono, o ſia il perfetto, ma la verità, e la bontà, o la
perfezione, inclu dendo ordine nella varietà ſuppone l' uno, onde tra le
proprie tà dell'ente egli è la più univerſale (a ). L'unità o l'uno nel ſuo
concetto aſtrattiſſimo preſcinde da tutte le relazioni, potendoſi per
l'aſtrazione della mente non riferire, nè alle coſe che rappreſenta, nè a'
numeri che compone, nè a ciò cui conviene: In queſto ſenſo aftrattiflimo
definiſce Zenone l' uno, opponendolo ai molti in genere. Contro queſta
definizione cosi argomenta Socrate. Vi ſono idee ſeparate: dunque ogni idea
eſſen do una in sè, e molti, nel participarſi a molti l'uno, eimolti poſſono
accoppiarſi; dunque non pud dirſi, che l'uno fia molti. Prima di ſviluppar l'
argomento rifletterò su certe voci, e nozioni di Socrate. $. 2. Suppone toſto
Socrate, che vi fieno idee ſeparate. L'idea ſe condo l'etimologia della voce
Greca, significa propriamente com fa viſta, e per traslato ſignifica coſa
inteſa, o ciò che s'inten de; ma tallora ſignifica l'atto per cui s'intende, il
qual però meglio ſi chiama nozione o concetto. Åleinoo defint l'idea, intelligenza
per rapporto a Dio, pri mo intelligibile per rapporto anoi, miſura quanto alla
mate ria, eſemplare quanto al mondo ſenſibile, effenza quanto a ſe ſteſſa. In
tutti queſti ſenſi la prende or Socrate, ora Parmeni de; ma la prima nozione
dell' idea ſeparata è che ella fia il primo intelligibile. $. 3• ve ) Wolfo
Metaf. (54 ) §. 3. Socrate: oltre l' idee del bello, dell' oneſto, e del giufto,
che Parmenide gli accorda, ammette ancora quelle del limile, del diffimile, del
moto, della quiete, dell' uno, e de' molti. Queſte ultime idee ſono tra loro
oppoſte e contrarie, come il caldo, il freddo, il bianco, ed il nero; eſſendo
contrarie, ciò che convie ne all'una, non conviene all' alira, e quindi ſecondo
Socrate i ge neri, e le ſpecie, idee più o meno univerſali conſiderate in se
non patiſcono paßioni contrarie, ma nulla vieta nell'ipoteſi di Socrate, che
non poſſano participarſi dalle coſe. 1 S. 4. Partecipare è propriamente ritener
in sè una parte d'un cutto;; così l'aria partecipa la luce ', poichè ogni
particella d' aria ha in sè una particella di luce. In un ſenſo più ampio, la
voce partici pare s'eſtende dalla quantità alla qualità, all'azione, all
effenza Iteffa.;. così ſi dice, che l'accidente partecipa della ſoſtanza', gli
effetti delle cagioni, un figlio le virtù, eivizj.del padre: La par cipazione è
quindi' più ampia della ſimiglianza limitata alla ſola convenienza delle
qualità, e molto più dell'imitazione, che alla fimiglianza aggiunge la
relazione tra il modello, e la copia; due gemelli naſcendo saſlimigliano, e pur
l'uno' non è la copia dell' altro. I Pittagorici' nel riferir le coſe all' idee
ſeparate, come a loro modellidiceano', che participavano o imitavano l'idee, ma
fecondo Ariſtotele non mai filoſoficamente ſpiegarono le voci di
participazione, e d'imitazione. S. 56 Cið fuppoſto, il primo argomento di
Socrate tratto da queſti principj fi pud diſtinguer in due per maggior
chiarezza. Ogni idea è una in sé, ed una in molti, dunque nel tempo ſteſſo, uno
può efser molti. Cosi lo conferma, Benchè l' idee lieno tra loro con crarie,
nondimeno poſsono eſserº nel tempo ſteſso participate da. molti, anzi dallo
ſteſso ſecondo diverſi riguardi, ma in queſte participazioni ritengono la loro
unità, dunque: ſon uno e molti. Così lo prova: oppoſte e contrarie ſono tra
loro l’idee, del ſimile, del diſſimile', del moto', della quiete, dell’'uno; é
dei molti; dunque comenulla viera, che lo ſteſso poſsa aver more in Metaf, in
una parte, e quiete nell'altra; eſfer fimile ad un altro in una parte, e
diffimile nell'altra, così nulla vieta che ſia uno, e molti; una Caſa ha molti
legni, e molte pietre; ogni. Uo mo è uno conſiderato in sè, ed è o ſeſto, o
ſettimo conſide rato con altri. la un Uomo, altra è la deſtra, altra la fini
ſtra, altre le parti dinanzi, altre di dietro, altre le ſupreme, al tre le
infime. Nel Sofiſta egli dice; noi chiamiamo un Uomo denominandolo con molti
cognomi, mentre a lui attribuiamo i colori, le figure, le grandezze, le virtù,
ed ivizi: nelle quali coſe tutte, ed in altre infinite, non ſolamente diciamo
che egli fia Uomo, ma ancora buono, ed altre infinite coſe, e le altre fecondo
la ſtella ragione. In cotal gui sa fupponendo noi qualunque coſa una, di nuovo
l'appelliamo molte e con molti nomi..... Onde ſi è da noi data occaſione di
contraddi re, come jo penſo a' giovani, ed a ' vecchi di tardo ingegno: percioc
che incontinente ci potrebbe chiunque far obbiezione che ſia coſa impos fibile,
che molte sofe folero una, ed una molte. Dunque uno può eſſer molti; dunque non
è generale la de finizione, che uno ſia non molti. La participazione dell' idea
evidentemente lo manifeſta. Sciolto è l'argomento ſe fi nega l'ipoteſi dell'
idee ſeparate perchè colte l'idee è colca la loro participazione. Parmenide ri
gecta l'ipoteſi, come nè generale, nè chiara; non generale.per chè non
s'eſtende a cutti i cafi poflibili i; non chiara., 'perchè non pud fpiegarſi la
participazione dell'idea. Cost:provo la pri ma parte non ſi debbonoaſſegnar
idee delle coſe ſeparate, o aſſegnarſene di tutte le coſe '; che vuol dire, non
baſta affe le.coſe morali, e matematiche, mabiſogna af. ſegnarne ancora per le
fifiche: dunque non ſolamente vi ſono idee del giuſto, del bello, del buono,
del grande, del fimile ec, ma dell'uomo, del foco, dell'acqua, e d' alcune coſe,
che molti fimano per avventura ridicoloſe; i peli, il fango, le macchie., ed
altre coſe ignobili, e vili. Socrate toſto lo nega, perchè gli pare, che
ammettere queſt' idee, ſarebbe coſa troppo diſconvenevole, poi can didamente
confera, che alcuna volta queſto penſiero lo turbo, e che quando di là fi ferma
ſe nefugge temendo di non corrompere la ſua mente, e fantaſia cadendo in
ciancie ineſplicabili., onde a quelle coſe ritornato (cioè all'idee del giuſto,
del bello, del buono, ed all idee 'matematiche ) verſa intorno a quelle. In (a
) Sof, pag. 306, (56.) In un caſo ſimile ſi ritrovò il P. Malebranchio;
ſentendo egli la difficoltà di ſpiegar chiaramente, come l'eſtenſione
intelligibi-: le, eſſendo immobile in Dio, gli rappreſenti il moto, ove il
luſtra queſto articolo dice nel fine: (a ) Io non oso impegnarmi'. a trattar
queſto ſoggetto a fondo, temendo di dir coſe, o troppo aftrat te, o troppo
ſtravaganti, o ſe ſi vuole, per non azzardarmi a dir co ſe che non so, nè sono
capace di diſcoprire. Queſto è il ripiego di Socrate. Ariſtotele (do ) ove
nella Metafiſica combatte l' idee ſeparate malamente attribuite a Platone,
adduce tra l'altre coſe, che dandoſi idee ſeparate ſi dovrebbe darne de'
ſingolari, de' corrut tibili; egli non eſtendeche l'argomento da Parmenide
eſemplifica to, e poida Alcinoo, che afferi non darſi nel fiſtema de' Platonici
idee delle coſe arcifiziali; uno ſcudo, una lira ec. ne delle co fe oltre
natura la febbre, la bile non naturale; non delle coſe ſingolari, Socrate,
Placone; non delle vili, ed abbiecte ſozzure, paglie ec. donde traffero i
Platonici dopo Ariſtotele, queſta di ſtinzione, ſe non dal Parmenide? Propoſta
che ha VELIA (si veda) un'obbiezione, che Socrate non può riſolvere, egli
cangia l' argomento ad judicium in quello aid hominem, che vuol dire non
argomenta più ſecondo i principi della ragione univerſale, ma ſecondo i
principj del diſputante, e ne deduce la contraddizione. Suppone dunque che vi
fieno idee ſeparate ", ma come poi date queſte idee lo ſpiegare che lieno
participate dalle coſe Queſta participazione ſi fa, o ſecondo il tutto, o
ſecondo la parte. Parmenide dimoſtra, che nèl'uno, nè l'altro può eſſere. Sia
da una coſa participaca l'idea ſecondo il cutco, dunque tut ta l'idea è in ſe
ſteſſa.; e tutta fuori di ſe ſteſſa; dunque nel tempo ſteſſo eſiſte tutta in sè,
e cutca fuori di sè. Siaľ idea conliderata in sè A, e participata fia B, C, D
ec. generalmen te, o non A; dunque nel tempo ſteſſo l'idea è A, e non A, ciò
che è contraddittorio. Nè occor dire che un giorno è uno, e lo Steffo, ed
inſieme in mola ti luoghi, e pur non è da ſesteso in diſparte. Il giorno non è
che la luce del sole, diffuſa in tutto il noſtro emisfero. Or quel la parte di
luce, che illumina me, non illumina il compagno ſebben mi lia vicino. Parmenide
li ſerve dell'eſempio della ve la, (a ) Ricerca della verità T. 4. pag.... (b )
Metaf. I..... (57 ) la, la quale molti coprendo, non è perd una in molti,
perchè la parte c he copre l'uno, non è la parte che copre l'altro. Reſta
a dimoſtrare, che l'idea non è participata dalle coſe ſe condo una parte; la
dimoſtrazione è da se manifefta, perchè l'idea participata ſarebbe una, e non
una; una tutta in sè, e non una nelle coſe che ne hanno ſolo una parte. Queſto
modo d'ar gomentare, è fondato ſul principio di contraddizione adoprato lovente
da Platone, e ſtabilito da Ariſtotele, come il primo prin cipio in cui ſi
riſolvono cutti gli altri. Eſperimentiamo noi cal eſſere la natura della noſtra
mente, la qual mentre giudica che una coſa ſia, non può inſieme giudicare, che
la ſteſſa non ſia. Parmenide eſemplifica l'impoſſibilità di queſta ipoteſi. 5.
8. La grandezza è ciò che è capace di più e di meno. Nel conce pir il più fi
concepiſce il maggiore, nel concepir il meno fi conce piſce il minore, e nel
concepir l'eguale non ſi concepiſce nè più, nè meno nelle quantità che ſi
comparano. lo dico che li comparano, perchè nè il più, nè il meno, nè l' eguale
concepir ſi poſſono ſenza riguardar una coſa nel tempo ſteſ to che l'altra o
ſenza compararle, e in queſta comparazione pro priamente la grandezza confifte,
la quale, come ben dice il Wol fio, non ſi può concepir ſenza un altro a
differenza della quali tà. Tutto quindi l' effer della grandezza è relativo, od
ha tut to l'eſſere in ordine ad un altro. Così Platone eſpreſſe la natu ra
della relazione nel Politico, nel Simpoſio, nel Sofifta, e pri ma di lui
Archita, ed Ocello, (a ) i quali diviſero la relazio ne in quattro generi. Da
queſti autori traſfe Ariſtotele (6 ) la definizione, che dà della relazione.
Nulla perd vieta, come & proverà, che per compendiare i concetti non ſi
concepiſca la gran dezza come qualche coſa di aſſoluto, a cui accade – eſſere
mag giore, minore, ed eguale, e che di nuovo ſi concepiſcano il maggiore, o'l
minore come aſſoluti, a' quali accada il più, o meno, o nè l'uno, nè l'altro.
Suppoſto dunque, che fi dia l'idea della grandezza, e in conſeguenza del
maggiore, del minore, dell' eguale, così argomenta Parmenide. Sia A l'idea del
maggiore, B del minore, C dell' eguale; ſi dividano tutte2, e tre in parti
ineguali: С poichè dunque una coſa in canto è maggiore, in quanto partecipa
l'idea del maggiore, lia l'idea - B del maggiore A diviſa in parti ineguali, e
la parte minore delmaggiore ſia participata, quello che la Tom. II. h par (á )
Diſcuſ. Perip. Patriz; T. 2. pag. 185. (b ) Ad aliquid alia dicuntur quæcunque
quod ipſa ſunt aliorum effe dicuntur. o il A (58 ) partecipa non ſarà egli nel
tempo fefto, e maggiore, e mino re? Maggiore, perchè parcecipa l'idea del
maggiore; minore per chè parcecipa la parte minor del maggiore. Così potrà
dirli della participazione della parte più picciola dell'idea del minore, e
dell' idea dell'eguale. Se'l idee dunque fi participano dalle coſe, ſe condo
una parte loro non potrà mai effer quefta, una delle par ri ineguali. Parmenide
non procede olore, maè facile l'aggiun-. gervi, che nè meno pud parcicipare
delle parti eguali, perchè la parte.eguale del maggiore participata dalla coſa,
la farebbe nel tempo ſteſſo eguale, e maggiore; e così la parte eguale del mi
nore, ſarebbe la coſa minore ed eguale.. 9. La noſtra mente, come per ſua
natura non può concepiricon tradditrorj, così non pud frappaſſar l'infinito,
biſogna che s'ar reſti ad un primo, o ad un ultimo, il qual è come Tuncino che
ſoſtiene curri gli anelli della catena. Ariſtocele, e'ne'mori, e nel le
cagioni, e ne'fini dimoſtra l' aſſurdità del progreſſo all' infini 10, modo d'
argomentare imparato dal Parmenide di Platone non men che l' altro del
principio di contraddizione. Il Wolfo dimoſtròeffer impoſibile il progreſſo
all'infinito rectilineo, e cir colare. g. 10,. Poſta l'aſſurdità del progreſſo
all'infinito, così argomenta Par menide: Tu ſtimi che qualunque ſpecie fia una,
quando pare i te cbe certe, e molte coſe fieno grandi, parendoti per avventura
in ris guardando a tutte le coſe, che ſia queſta una certa idea, onde tu penfi
che il grande fia uno. Prima d'inoltrarſi è da oſſervare, che qui Platone
inſegna, co me comparando le coſe, nel riflectere a quello in cui conven gono,
ne riſulta un'altra idea, come prima avea inſegnato Epicarmo, Queſt' idea è
ſempre una, perchè uno è l'atto della mente con cui ſi rifletre a ciò che le
coſe hanno di commune. Continua Parmenide: Se'il grande, e l'altre coſe che
ſono grandi nel medeſimo modo conſideralli per tutre le coſe, non apparirebbe
egli da capo ceri' una coſa grande, onde farebbe neceſſario che queſte tutte
pareffero grandi? Vuol dire che nel compararſi dalla mente di nuovo l'idea del
grande con le grandezze participate, nè riſulta un'altra idea di grandezza, per
la qual coſa concludeParmenide: apparirà di nuo po altra ſpecie di grandezza
fuor do esſa grandezza, e di quelle che fono ! (59 ) fono partecipi di lei, e
dopo tutte queſte, altra di nuovo con cui som rebbono queſte grandi, nè pide
qualunqueſpecie fia una, ma piuttoſto di numero infinito. La ragione è, che
l'idee della grandezza di nuovo aſtratte nella comparazione, eſſendo per loro
natura re lative faranno fena pre di nuovo comparabili, e così all' infini to.
Ariſtocele su queſto fondamento del Parmenide, e tutti i Platonici, e tra gli
altri Alcinoo dillero, che non fu potea aver idee de relativi. $. 11. cioè per
Dal modo con cui Parmenide comparando l'ideę, altre idee He deduffe, concluſe
Socrate, che le ſpecie ſono' atti dell'intel fetto, i quali non riſiedono, che
nell'animo. Gli concede Para menide, che ogni atto dell' intelletto è uno, ma
gli fa confef fare, che queſt' acto ha un oggetto, ed è l' ente'; l'ente perd
in quanto ſi concepiſce o s'intende', non s'immagina o ſente: prende egli qut
l'idea, non per la nozione, o per il concetro' della mente 1 atto, ma per la
relazione che ella ha ad un certo oggecto, e conſidera l'unità dell'idea' non
relativa mente all'atto dell'intelletto, ma all' ente che la partecipa poichè
ſecondo i principj di Socrate, ella è ſempre la ſteſa in tutte le coſe. Ne
deduce per confeguenza, che ſe l'idee ſono' at: ti dell'intelletto, le coſe che
partecipano della ſpezie', o deli? idea faranno tutte intellective, ed
intelligibili. Vi riſponde So crace, che le coſe non partecipano' dell' idee,
in quanto' queſte fono atti dell'intelletto, ma in quanto rappreſentano le coſe;
che vuol dire, in quanto l' idee Tono eſemplari, di cui le co fe fono
limiglianze; onde in tanto le coſe le partecipano', in quanto ad effe li fanno
ſimili. Parmenide contro queſte fimi glianze dell' idee, argomenta coll'
aſſurdità del progreſſo all' ip knito, come fece delle grandezze. $. 12
Supponiamo che' molte' coſé' fieno ſimili per la participazione dell' idee
della ſimiglianza. Potendoſi dunque comparar dall'in telletto le ' fimiglianze',
e delle coſe, e dell' idee, Te' ne' eſtrar rà un'altra' idea di ſimiglianza, e
queſta di nuovo comparando 1' idee con le coſe, darà un' altra idea di
fimiglianza, e co sh all'infinito, cio' che è aſſurdo”. Cosi eſprime queſto
argo mento Parmenide: non ſarebbe egli neceſſità grande, che' quel che è fimile
al fimile' folle partecipe dell' uno, e della fleffa ſpecie? Or hi 2 non (60 )
5 non ſarà ciò la ſtessa ſpecie, di cui le fimili coſe rendendoſi partecipi
fiano fimili? Dunque non può alcuna coſa eller ſimile alla ſpecie, ne la ſpecie
ad altrui, altrimenti oltre alla fpecie', altra ſpecie ſempre apparirebbe, che
ſe ella folle fimile ad alcuna coſa altra dacapo', ne cellerebbe mai queſto
progreſo, che non ſi faceſſe ſempre nuova fpe cie, ſe ancora folle ſimile la
ſpecie, a chi di lei ſi rendeſe partecipe: Ariſtotele propoſe lo ſteſſo
argomento ſebben oſcuramente L'Uomo, dice, ſignifica non meno la ſoſtanza
ſenſibile degli Uomini ſingolari, che la ſoſtanza intelligibile dell'Uomo per
sè, o fia l'idea dell' Uomo. Or ſe queſt' idee convengono in una coſa comune,
fi concepiſce comparandole un terzo Uomo, equin di un altro, e così all'infinit.
Ariftotele creſce l'aſſurdità Socrate lingolare participando dell'Uomo
univerſale partecipa, e dell'animale e dell'animale a due piedi, e d'altre coſe,
ciod, quelle che ha comuni colle piance, colle pietre, ed altre innume rabili.
Converrà dunque moltiplicare all'infinito l'idee, onde per una coſa ſenſibile
converrà porne infinite; ſi può aggiungere che queſto numero di nuovo ſi
moltiplicherà all'infinito am mettendoſi l' idee dei relativi, poichè ogni coſa
che è nell'Uo mo, pud compararſi a turce l' idee delle coſe viſibili, ed
invidia bili, o della ſteſſa, o di diverſa ſpecie. Ma l'Uomo ideale, diceano i
Pittagorici, effendo incorrutti bile, ed univerſale non ſi può comparar a coſa
ſingolare, e cor ruttibile, ed eſtrarne quindi nuova idea? Ariſtotele vi
riſponde: i binarj feparati ſono anche eſſi incorruttibili, e pur per conoſcer
li biſogna dar un'idea comune di binario, in cui convenga il binario B, il
binario C ec. In oltre l'idea di figura è comune al cerchio, al triangolo, ea
tutte le figure piane e ſolide, onde ella, è propriamente ge nere relativamente
alle ſpecie, ma chi può mai conoſcere una figura che non ſia, nè cerchio, nè
triangolo, nè altra ſimile? Intanto la concepiſce la figura in genere, in quanto
la mente non s' applica, che ai limiti che circonſcrivono lo ſpazio, fen za far
attenzione rifeffa, nè al modo, nè al numero, nè al fito dei limiti ſtelli.
Spiegherd la coſa con un eſempio più fa cile. Egli è impoſſibile che io
concepiſca un triangolo ſenza rappreſentarmi che egli fia, o Equilatero, o
Iſollele, Sca leno; altro è poi, che nel rappreſentarmi uno di queſti crian
goli io non faccia determinata attenzione alle ſpecie dei tre lati. Noi non
intendiamo le cofe, dice San Tommaſo, ſe non cona vertendoſi a' fantasmi loro.
Ora a qual fantasma è anneſſa l' idea della figura? Confuſamente a tutte le
figure; ma io non ne, con (01 ) conſidero diſtintamente alcuna, e ſolo attendo
a ciò in cui cut te convengono, ed è d' eſſere uno ſpazio circonſcritto; ma ſe
nel concepire l' idee de' generi delle coſe matematiche v'è canta dif ficoltà
ammettendo l' idee ſeparate, quale ve ne ſarà nell'idee metafiſiche?
Nell'ipoteſi Pitagorica ſi dovranno aſſegnar idee del poflibile, dell'ente,
dell'atto, della potenza, della cagione, del principio, del modo,
dell'attributo, del terminato, è dell ' indeterminato, del neceſſario, del
contingente', del perfetto dell'imperfetto ec. nè ſolo di queſte coſe, ma del
prima, del dopo, dell'inſieme, del ſeparato, e finalmente del genere in quanto
genere, e della ſpecie in quanto ſpecie: coſe tuote af furdiffime nè abbaſtanza
eſaminate da coloro che preteſero che noi vediamo le coſe in Dio, perchè ad
ognuna di queſte coſe non men che all'eſtenſione, ed al numero dovrebbe
aſſegnarſi un'idea, Ariſtotele con gran ragione v'aggiunſe, che neli ipo teſi
dell' idee ſeparate, oltre l'idee de relativi converrebbe am mettere l'idee
delle negazioni, e delle privazioni, o degli op pofti, cioè dei contraddittori
dei contrarj ec. 9. 13. Dace l'idee, data la loro participazione, ed eſcluſa la
compa razione a'ſenſibili, ricerca Parmenide fe debbonſi annoverare l'idee tra
gli enti relativi; od aſfoluti. Vi fono delle coſe, di cui tutta l'eſſenza
conſiſte nel riferir fi all'altre, e queſte ſono relative, (8. 8.) é ve ne ſon
altre di cui l'eſſenza conliſte nella non ripugnanza dei predicari, che le
coſtituiſcono, e queſte ſon le affolute; Poichè tutto l'efferé de’ relativi è
nel loro confronto, (5.8. ) includono effi neceffaria. mente due termini tra
loro oppoſti, il fondamento dei quali fo no le coſe affolute, che tra loro fi
comparano; quindi il fonda mento del relativo è sempre l' aſſoluto. Un Uomo
fuffifte per sè, e ſe foſſe ſolo nel mondo, non farebbe nè Padrone, nè ſer-' vo,
ma ſuppoſto che viva in una ſocietà, può eſſer l'uno, e l' altro, in guila però
che non è ſervo in quanto Padrone, nè Pa drone in quanto ſervo, ma come Padrone
ſi riferiſce a coloro cui comanda, come ſervo a coloro cui ubbidiſce, e l'uno,
e l' altro gli accade in quanto è Uomo, ed a diverſi Uomini li ri. feriſce.
Poichè dunque l'idee fi riferiſcono ai fimili che le par tecipano, biſogna che
ſieno in ſe ſteſſe e parimenti perchè i ſimili che partecipano l'idee fi
poffano riferir all’ idee, convie ne che fieno in ſe ſteſi. Biſogna in una
parola, che l'idee, e le coſe che le partecipano abbiano un' eſſenza
determinata. Con clude (62 ) 1 clude quindi Parmenide, che l'idee hanno tra
loro, un ' eſſenza, ma che queſta non è un eſſenza tutta: relativa alle coſe
che ſo no appreſſo di noi, o pure le coſe fi nominano ſimiglianze, o in
altramaniera di cui facendoſi partecipi, noi la nominiamo con, qualunque di
eſſe.;. aggiunge parimenti, che le coſe che ſono in noi, non hanno la virtù ſua
d'eſiſtere in verſo l' idee, ma fono quel che ſono relativamente a ſe ſteſſe.
Parmenide quin di chiama le cofe. che ſono in. noi,, e: in torno a noi:
equivoche: all' idee.. Cagione equivoca: degli animali, delle piante, de
metalli ec. diſero Ariſtocele, e gli Scolaſtici il Sole, perchè ſebben concorra
alla loro generazione, non conviene con loro, 0 non gli aſſomi glia che
nell'eſſere. Parmenide parlando ad bominem par che allu da all' opinione di
Socrate, il quale nell' ammecter l' idee, come cagioni delle coſe, era sforzato
ad ammetterle come cagioni equivoche,, non potendo ammetterle, come cagioni
eſemplari, il che: Ariſtotele così: dimoſtrò:-ſe quando l'Uomo fi genera da
Socra te, eglis'alfomiglia all'idea, e non a Socrate, fi potrà generar: { mile
all'idea, liavi o non ſiavi Socrate;; ma ľ Uomo generandofia non s'aſſomiglia
all'idea, ma a Socrate, come è manifeſto dall' eſperienza; dunque Socrate, e
non l'idea è l'eſemplare del generato: Poſto dunque che l' idee: influifcano
nella generazion delle coſe, convien ſempre porle, come cagioni equivoche;: ma
da: chi Ariſtotile traffe cal idea, ſe non da Placone? ' Or fe: l'idee non
hanno relazioni alle coſe, o ſono diloro ca gioni equivoche, come poſſiamo
conoſcerle? Se le piante, de pie tre ragionaſſero,. potrebbono
mairappreſentarli (rimirando ſe fteſ. ' fe,. ), che il Sole foſſe loro: tanto
diſſimile? che ebbe. tanta parte nella loro generazione. Le noſtre idee non
ſono cagioniequivoche delle coſe, le quali noi produciamo affilandoſi ſul loro
modello. Un Architeto uno Scultore, un Pitcore fanno la caſa, la ſtatua,.,
l'immagine ſecondo l'idea che ne hanno formata, e perciò comparano l'effet to
all' idea per miſurarla,, e perfezionarla;, nella combinazione dell'idée chiare,.
e diſtinte conſiſtendo la ſcienza, l'oggetto del la noſtra ha ſempre
proporzione all'idee che d'effo formiamo;.. ma ſe l.idee: ſeparate come cagioni
equivoche non hanno alcu na proporzione con le coſe che vediamo, non par
poffibile di: riconoſcerle, e in conſeguenza aver- Scienza di loro. Delle co fe
quindi rivelate, non abbiamo ſcienza ma fede; ſono certe, € infallibili, ma non
a noi: chiare e diftinte.. Platone nel Filebo ſtabiliſce due generi di coſe;
altre non 'han no avuto origine, nè finiranno giammai, perchè ſono immutabi li,
e fempiterne; altre non ſono perchè ſempre 'fi fanno ſono a generazione, &
corruzzione ſoggette: À queſti due ge neri di coſe, ' fa corriſponder due
generi di cognizione; delle coſe immutabili, ed eterne ſi ha ſcienza, dell'
altre non ſi ha che opinione. Le coſe di cui s' ha ſcienza ſono l'idee, perchè
ſono ſempre nello ſteſſo ſtaro, nè ſi può ſapere ſe non ciò che è, ed è ſempre
nel medeſimo modo; le coſe di cui s' ha opinione fono le coſe ſenſibili, perchè
continuamente fluendo, non ſono mai nello ſteſ fo ſtato. Come dunque Placone
nel Tilebo, dà fcienza dell'idee, e nel Parmenide non la dà? La riſpoſta
generale è, che da cid che ſi dice in un Dialogo,nulla deve inferirſi
relativamente a cid che ſi dice nell'altro, perchè Platone non ragiona ſecondo
la ſua ſentenza, come nelle lettere per eſempio, ma ſecondo le ſenten że altrui;
oltre a cid, Platone trattando nel Filebo della defini zione della ſcienza egli
è manifeſto, che tratta ſolo della ſua pof fibilità relativamente all'oggetto,ſenza
poi procurarſi di cercare, ſe ſi dia o no tale ſcienza negli Uomini, I
Matematici definiſco no il cerchio, e il triangolo in quanto è poffibile, nè fi
curano ſe eſiſta o.no: quindi ben ' li definiſce la Filolofia, la Scienza dei
poffibili in quanto tali; nel Parmenide non della poſſibili tà, ma
dell'attualità della ſcienza ſi tratta, e Parmenide mo ftra, che dandoſi l'
idee ſeparate non poſſiamo aver 'ſcienza di effe, perchè non hanno alcuna
proporzione con noi, e con le coſe.noſtre. 5. 15. Ammettendo con S. Agoſtino, e
S. Tommaſo, cheIddio ab bia idee, e molte idee, onde per eſſe conoſca i
ſingolari, i fu turi, i contingenti, gli infiniti, non perciò poſſiamo dire,
che abbiamo ſcienza dell' idee di Dio, o che poliamo conoſcere co me per queſt'
ideeegli conoſca le coſe. Il Malebranchio, ed il Poiret, che lo tentarono,
caderono ſecondo la fraſe di Socrate in ciancie ineſplicabili. 1. 16. (64 ). S.
'16.: s' inoltra Parmenide: La ſcienza in sè conliderata è un'idea, come la
bontà, la bellezza ec. ma ſe queſt' idea della ſcienza, non ha alcuna
proporzione alle ſcienze a noi note, non poßia mo conoſcerla, poichè le ſcienze
intanto a noi ſono note in quanto verſano su noi, o su le coſe che ſono intorno
a noi. Or non conoſcendo l'idea della ſcienza in quanto tale, nè men poſſiamo
conoſcere ſcientificamente l'altre idee, perchè per aver ſcienza dell' altre
idee convien participar dell'idea della ſcien za, ciò che è impoflibile:
Parmenide par qui ſupporre che la noftra ſcienza paragonata all'idea della
ſcienza ſia come il zero all' infinito ma ſe noi non participiamo dell'idea del
la ſcienza, come potremo ſcientificamente, o chiaramente, e diſtintamente
conoſcere il bello, l'oneſto, il giuſto, e l'altre idee? Nulla a mio credere
v'è di più acuto, e profondo che queſtº argomento, e quel d ' Ariſtotele non
l'eguaglia, benchè per altro concluda contro l'ipoteſi dell' idee ſeparate.
Oſservò egli che lº idee eſsendo immutabili per loro eſsenza, non ſi può per
eſse ſpie gar il moto, dalla cui cognizione dipende quella della natura; dunque
l' idee ſono inutili alla ſcienza per cui furono introdotte. Coloro i quali
amiſero con Eraclito, che le coſe ſenſibili ſono in un continuo fluſso,
ricorſero all'idee ſeparate, le quali immutabili eſsendo, ſomminiſtravano a?
Filoſofi dei principj immutabili del loro ſiſtema; la difficoltà è come i
Filolofi le conoſceſsero, ſe la lor mente, non nell' eſsere, ma nell operare
dipende dagli organi del corpo umano, ſoggetto alle vicende dell'altre coſe
fenfibili? f. 17. All' argomento tolto dal principio di contraddizione del pro
greſſo all' infinito, Placone aggiunge l' altro tolto dalle perfer zioni Divine.
Come il retto è la miſura di ſe ſteſſo, e del cur vo, così il cumulo di tutte
le perfezioni che è in Dio; ci ſer ve di miſura per giudicare, e delle
perfezioni di Dio ſteſso, e di quelle dell'altre coſe. Per via del principio di
contraddizio: ne del progreſso all'infinito ſi dimoſtra l'eſiſtenza di Dio, e
per via, o di negazione, o di eminenza, o di caſualità, fi di moſtrano le
infinite perfezioni di lui, onde ſe a qualche data ipoteſi conſegua l'annullazione
di qualche perfezione divina, l'al ſur ſurdo è maſſimo, perchè Dio nell' effer
principio dell'eſiſtenza, è ancora principio di tale eſiſtenza, e nulla può
eſiſtere ſe ri pugna alla natura Divina. Socrate non potea non conoſcer Dio
comeprincipio intelli gente, dunque era neceſſario, che gli attribuiffè l' idee
non me no convenevoli all'intelletto, che i tre lati ad un triangolo; pur tace
Socrate, quando Parmenide gli prova, che la perfec tiſſima ſcienza o P idea
della ſcienza convenendo a Dio, egli per queſt' idea non poteva conoſcer le
coſe, ciò che era con trario alla divina natura. Par dunque che Socrate
ſupponeſſe l' idee ſeparate, ma dall'altra parte Ariſtocele dice chiaramen te,
che Socrate noo ammetteva l' idee ſeparate ſe ben deffe gli univerſali. Non ſi
ſoddisfarebbe in parte alla difficoltà, di cendoli che Platone, per bocca di
Socrate, parlò dell' idee in fenfo poetico, per aver occaſione d'annullarle, e
propor la doc trina che ha da lui copiato Ariſtotele, e della quale poi ſi
ſervì contro que' diſcepoli di Platone, che realizzarono l' idee ſeparate.. 18.
Annullate l' idee ſeparate, la voce idea nel progreſo del Dia logo, tutta fi
riſtringe all' idee, che la mente aftrae comparan do le coſe. S'è già accennato
($. 8.) il modo, con cui deduſ fe Parmenide l'idea della grandezza, e de'
ſimili, e li vedrà inoltrandoſi, che egli parlando dell' uno e dell'ente,
proteſta di ſeparar le coſe con l'intelligenza, e con queſta fino sbra narle',
che è quanto dire, diſtinguer i concetti o l' idee, ſecon do i rapporti delle
coſe, foſſero ancora quefte ſempliciffime; nulla v'è di più ſemplice dell'anima
per ſua natura indiviſibi le, e pur in eſſa ſi diſtinguono varie potenze,
ſecondo le rela zioni, che ai varj organi del corpo ella ha operando, onde fi
dice che ella ſente, ë che ella immagina. Nella parte ancora intellettiva, ſi
diſtinguono le facoltà che ella ha di comparare, e di aſtrarre, e di combinare
e di, e di contemplare l' idee', onde ella dichiaraſi mente, e ingelletto, (c )
voci non altrimenti fi nonime, poichè le loro etimologie di confrontano ai varj
uffizj dell'anima; tutte quindi le ſcienze ſono ſu l' aſtrazioni fonda te. La
fiſica aftrae dalle coſe ſingolari, la matematica dalle ſen Tom. 11. i (a) Mens
è detta a menfura, poichè l' anima compara, e miſura le coſe, Intellectus da
intus legere, poichè intendendo ſcieglie, e deduce una cola da un' altra.
fibili, (06 ) fibili, la metafiſica da ogni materia. Vuole il Patrizio, che
come in una gran parte del Sofifta, čosi in tutto il Parmeni de non ſi tratti
che di quella metafiſica, che Ariſtotele colſe da Placone, e di cui le prime
idee ne diedero i Pitcagorici, e tra gli altri, Archira e Peritione; io
v'aggiungo che la me cafifica avendo due parti, cioè l' ontologia, o la ſcienza,
che tratta delle proprietà dell'ente, in quanto ente, e la Teolo gia naturale o
la ſcienza, che tratta delle ſoſtanze ſeparate dal la materia, come Dio e
l'anima, Parmenide ſi riſtringe in que ſto trattato all' ontologia, e manifefte
ne faranno nel progreſo ſo le prove; baſta accennar qui, che dovendofi dar un
elem pio del modo con cui s acquiſtano l ' idee, ſcieglie Parmenide l'idea
dell'uno, applicando ad efla il metodo delle fuppoſizio ni. Due coſe aggiunge
alluſive all'analiſi, ed alla ſinteſi. La prima che ufficio e d' uomo ingegnoſo
il poter apprendere, come ſi ritrovi il genere di qualunque coſa, ciò che ſi fa
cominciando dall'analiſi, o dall'eſame delle coſe particolari, e per l'aſtra
zione, elevandoſi agli univerſali; la ſeconda, che ufficio è di uomo
meraviglioſo inſegnar agli altri le coſe ritrovate, ciò che ſi fa per la
ſinteſi, combinando l'idee generali, e quindi le lo ro combinazioni, da cui ſi
deducono i problemi, e i teoremi, ed indi i corollari, e le annotazioni. Sommo
acume di men te fi ricerca nel far le opportune aſtrazioni, e di nuovo da.quefte
aftrarne altre, ſin che ” analiſi propoſta ſi riduca all' ul time idee, e ſomma
fodezza, ritrovare l'idee, concatenarle in guifa che alcri con facilità, e
prontezza le intendano, e l'uno, è l'altro dimoſtra Parmenide, o col luo nome
Placone. Se l'uno che ne ſegua. b. I. Vuol Uole il Ficino, che queſta prima
fuppoſizione debba inten derſi. Se l' uno, perchè il verbo è, o ſia la copula
del predicato o del ſoggetto v'è pofta, non in grazia della coſa, ma dell'
orazione. Nel legger la nota marginale del Ficino mi ricordai, che Licofrone (a
) invecedi dire, il parete è bianco, di ceva il parete bianco, ed altri il
parete biancheggia, quaſi che Platone non riprovaſſe nel Sofiſta l' orazion
ſenza verbi, o che Ariſt. 1. Phil. che i
verbi non foſſero ſtati inventati per compendiare i gius dizi ! Non è forſe lo
ſteſſo il dire, io amo, che io ſono aman te é io biancheggio, che io fono
biancheggiante? La fuppofi zione dunque, je l' uno equivale all' orazione
condizionata, ed implicità fé uno, nè così la propone Parmenide, ſe non per
intimarci, che a null' altro fi deve badare nell'ipoteſi, che all uno preſo in
un concetto aſtrattiflimo. Nella Geometria ſinteticamente ſi comincia dal punto
prin cipio della linea; nell'aritmetica, dall'uno principio del nume ro; e
nell' ontologia dall' uno traſcendentale, che conviene ad ogni noftra idea.
Eſclude tutte le relazioni, perchè riferendofi l'uno per eſempio ad A, B, C ec.
non è più uno, ma molti, in quanto in lui fi conſiderano le diverſe faccie che
ſi riferi ſcono ai molti. Parmenide in queſta prima ipoteſi eſclude dall' uno
cutte le relazioni, cioè quelle dell'ente in genere, e l'alore dell'ente in
fpecie. Relazioni dell'ente in genere ſono l'identicà, e la di verſità, perchè
non competono meno alla ſoſtanza, che alla quantità, qualità, ed agli altri
predicamenti. Relazioni dell'en te in fpecie ſono, la limiglianza, la
diſſimiglianza, Peguaglian za, l'ineguaglianza, l'antichità, la novità eco
perchè competo no o alle fole qualità, o alle ſole quantità ec. * l une e
l'altre intanto ſi dicono relazioni, in quanto non conſiderano le coſe in ſe
ſtelle, ma relativamente tra loro: il diffimile, l'eguale ec. non li
concepiſcono ſenza i due termini, che tra loro fi paragonano. Se l' uno in
quanto tale non può compararſi ad alcuna coſa, biſogna eſcluder da lui tutte
queſte relazioni, tan to più ſe nelle coſe riferite s'includono i molti.
Parmenide comincia dall'eſcluſione delle relazioni più facili a conofcere', che
ſono quelle della quantità; paſſa alle relazioni della qualità, e ad alcre, e
finalmente all'eſſenza; nè di ciò con tento efclude le relazioni, che l'uno può
aver all'opinione, al la ſcienza, é lino al nome. Se l'uno in queſto concetto
aftrat tiſſimo fi nominalle, avendo ogni nome relazione al ſenſo, al la
fantalia, od alla mente, e quindi a tutti gli uomini, che lo pronunziano o
l'odono, l'uno con l'aggiunta di queſte relazio ni ſarebbe molti. Si ſente più
che non s'eſprimequeſt' ultimo grado, ed abbiamo grande obbligazione a Platone,
che in que Ro Dialogo, nel rappreſentarci la dottrina della fetta Eleatica, ci
ha moſtrato l'uſo opportuno delle aſtrazioni. Egli di conten ta di non
moltiplicarla, che fino ad un certo grado, a fine che l'idea coll' altrarla
tanto non s'inlanguidifca, è sfumi; onde al fine la mente non poſſa più
ravviſarla in quella guiſa, che i 2 l'im 708 ) l'immagine d'un oggetto
riflettuta da uno ſpecchio ſucceflivamen te in molti altri, al fin diviene si
ombratile, che ſvaniſce da. gli occhi. Frattanto era neceſſario dimoſtrare in
un ſoggetto aſtrattiſſimo per sè, l'uſo dell'ultime aſtrazioni che può far la
mente, non eſſendovi altro modo di accennare, come in ogni quiſtione s'arrivi a
quell' ultima idea, in cui conviene che vi ci ripoſi, anco malgrado l'impeto
innato, che inevitabilmente ci porta a ſempre più nelle cognizioni inoltrarci.
Nell'inveſtigazione poi dell' idea vaga Parmenide per tutti i generi, come era
in uſo nell'antica Dialetica, e fatta la ſuppoſizio ne determinata per via di
comparazioni, ed eſcluſioni, egli ricava il punto preciſo della quiſtione
propoſta. Con la chiarezza maggio re che io poſſa, procurerò deſprimer
diſtintamente tutti i gra di tallor dell'analiſi, e callor della ſinteſi
Parmenidea. Nel trat çar l'altra quiſtione meconvenne ſeguire le interrogazioni,
e le riſpoſte degli Interlocutori ma quà folo Parmenide parla; onde bafta ſolo
ſeguendo l'ordine del Dialogo premetter le.co. ſe neceſſarie, eſtrar la
propoſizione, e dimoſtrarla fe fi può cal metodo de' Geometri. L' uno non è
molti. Abbiamo quanto baſta illuſtrata queſta definizione; qui fo lo avverto,
che come il Wolfio, dopo d'aver definito, che l'en te ſemplice è cid che non ha
parti, da queſta definizione ne gativa egli deduſſe, che l'ente ſemplice non è
ſteſo, non è diviſibi le, ſenza figura, ſenza grandezza, che non riempie ſpazio,
che non ha moto inteſtino ec. Così Platone, da ciò che è l ' uno, dimoſtra le
fteſſe coſe, e molt'altre che andremo partitamente, conſiderando, e deducendo
dalle nozioni preme{le. g. 3. 11 Wolfio defini il tutto ciò che è lo ſteſſo con
molti; per abbracciar in una definizione non ſolo il tutto integrale, che
chiamaſi totum, ma ancora il potenziale che chiamali omne. Lo ſteſſo, come ſi
vedrà fra poco, conviene non meno alle quantia tà, che alle qualità, ed alle
ſoſtanze, e l'idea di molti è più univerſale, che quella delle parti,
convenendo i molti e agli enti ſemplici, ed a' compoſti come a' quantitativi.
Parmenide non definiſce qui, che il tutto integrale, raccogliendo inſieme le 1 (69
) le parti, e limitandole in uno, a cui niente manca, ed è per fua natura
indiviſibile; la nozione di molti è quindipiù aftratta della nozion delle parti,
e in queſto ſenſo Ariſtotele diffe, che il tutto è prima delle parti, e non le
parti del tutto, il che, ſe ſi crede al Patrizio, tolfe da Ippodamo Turio. (a )
§. 4. L'uno non è nè tutto, nè parte di sè. Se l'uno è tutto non vi manca
alcuna parte, ($. 3. ) dunque ha parti; dunque è molti contro la definizione
dell' uno ($. 2. ) Se l'uno è parte di sè, è un tutto riſpetto a sè, ma non pud
eſser un tutto, come ſi dimoſtrò; dunque non è parte disè. L'uno non effendo nè
tutto, né ſteſo, od è indiviſibile, o è ſemplice. parte, non è 8. S. Ogni cutto
ha principio, mezzo, e fine. Cid vuol dire, che propoſtoſi un turco nel
numerarne le parti fi comincia da quella che chiamaſi prima, e li progrediſce
all' ultima paſſando per le intermedie. §. 6. L'uno non ha principio, nè mezzo,
nè fine. ol, Se l'aveſse ſarebbe un tutto ($. 5. ) il che è impoſſibile (8.4. )
Speſre volte inſegnò Ariſtotele, che l'infinito è ſenza principio, ſenza fine;
offerva il Patrizio, che lo preſe dal Parmenide, ove ſi dice, che l'infinito (o
piuttoſto come io crederei l'indefinito ) non ha ne principio, nè fine, cioè
non ſi sa in eſſo, nè dove comin, ciar la numerazione, ne dove terminarla. In
queſto ſenſo una li nea non è propriamente infinita, o indefinita, le comincia
da un punto, nè una ſuperficie, nè un corpo, ſe la ſuperficie comincia da una
linea, e il corpo daunaſuperficie. A queſti infiniti måtema rici, che
cominciano da un termine, non compere la definizione, che Platone aſſegna
dell'infinito, da cui eſclude il principio, ed il fine. (a ) Diſcuſ. perip. T.
2. p. 280. S. 2: (70 ) S. 7. L ' uno è infinito. L'uno non ha principio, nè
fine (S. 6. ) Dunque è infinito. (An. Si 6: ) 9. 8. La figura è una parte dello
ſpazio, o dell'eſtenſione circonſcrit ca da cerci limiti, o è retta come il
quadrato, il cubo ec. o ro tonda, come il cerchio, la sfera, Pelifli,
l'eliffoide ec. o miſta dell'uno, e dell'altro. Il principio della figura è
dove i moder ni pongono il vertice, il fine dove pongono la baſe", il mez
zodove la figura fi divide per mecà. 8. 9. L'uno non ha figura. Ogni figura, o
recta, o rotonda ha principio, mezzo, o fine (8. 8. ) ma l'uno non ha principio,
nè mezzo, nè fine. ($. 6. ) Dunque non ha figura. L'uno è infigurabile. $. 10.
Non lo può concepire', che una coſa ſia in ſè ſteſſa ſenza il di 1 ſtinguere
con la mente, che ella è comprendente e compreſa, cid che è concepirla due
volte, o di uno far due. Non ſi può conce pire, che una coſa ſia in altrui,
ſenza che ella ſia toccata in mol te parti. Il luogo abbraccia, o comprende la
coſa in lui colloca ta · Eſer in alcrui, od effer in ſe ſtello,, ſono due
oppoſti ſenza. mezzo, come il moto, e la quiete. So IT. L'uno non è in luogo. O
ſarebbe in sé, o in altrui; ($. 10. ) ſe in sè, egli ſarebbe a sè il ſuo luogo,
onde abbracciando ſe ſteſſo ſarebbe nel tempo fteflo, e comprendente, e
compreſo, cioè l' uno ſarebbe due co ſe o molti contro la definizione ($. 2.)
ſe foſſe in altrui, fareb be 1 1 1 1 (71 ) be toccato in molte parti, onde
avrebbe molte parti contro la definizione. (§. 2. COROL. L'unonon è
circonſcritto da alcuna coſa, terra, Cielo, materia, ſpazio ec. ANNOT. Daqueſto
argomento lice inferire, che Parmenide cob ſidera qui l'uno, in quanto è dalla
mente aſtratto da corpi, che ſono in luogo; s'è già oſſervato, che l'ontologia
degli anti chi era fondata su l' idee aftratce dalla materia, dalla forma, dal
compoſto, dagli accidenti; onde queſt'uno aſtratto da corpi, e da loro
dipendente non ha alcuna relazione a Dio, ch'è un ente per sè, in sè, infinito
cc.. 12. Il moto alla ſoſtanza, ſecondo Ariſtotele, è quando una coſa, per
eſempio una parte di terra ceſſa d'eſfer terra, e comincia ad eſſer pianta. Il
moto alla quantità è quando una coſa, per eſempio un fanciullo creſce nella
ſtatura, ed un vecchio decreſce. Il moto alla qualità è quando per eſempio la
carne d unUomo fredda, dura, ed aſpra, li fa da sè calda, molle, liſcia. Preten
deva Ariſtotele, che queſti tre moti dipendendo dalla forza in crinſeca, che
facea cangiare alle coſe la ſoſtanza, e gli acciden ti loro, li diſtingueſſero
dal moto locale, nel qual altro non ſi con ſidera, che il paſſaggio da un luogo
all' altro: Parmenide, o Pla tone, benchè parli del moto di generazione, e
d'alterazione, par ſolo far attenzione, ſecondo l'ulo de'moderni,
all'accoppiamento delle parti, e quindi all aumento delle qualità, due coſe
accom pagnate dal moto locale, o di traslazione. Lo conſidera egli in linea
retta, oin cerchio, nel qual moto una parte della coſa & forma nel mezzo, e
le altre parti fi rivolgono intorno al mezzo. Vuol poi, che tutto ciò che ſi
genera ſi faccia in qualche luogo ſecondo il principio da lui in queſto Dialogo
replicato più volte. Ciò che non è in alcun luogo è nulla. Platone nel Teeteto
dice per bocca di Socrate: Se dimoſtran eli una ſpecie di moto, o due ſpecie,
come a me pare, nondimeno io conſidero che cid non ſolamente appaja a me folo,
mo ancora tu ne fii partecipe, acciocchè amendue parimenti patiamo qualunque
coſa face cia meſtieri, ficchè mi di, cbiami tu forſe moverſi, quando alcune
coſa fe mute da luogo a luogo, e nello steſo ſi raccoglie? Teodoro glie lo
concede. Socrate ſoggiugne: Dunque fiare una specie questa, ma quando
fermandoſi alcuna coſa nello ſteffo luogo s'invecchia, o di bian, ca fi fa nera,
o dara dimolle, e ſi altera da certa altra alterazione, son chiameremo noi
meritamente queſt' altra ſpecie di movimenti?... Ora dico che fieno due le
ſpecie del movimento cioè alterazione, la (72 ) la circonferenza. Egli dice
circonferenza in luogo di traslazione in cerchio, per moſtrar che nel pieno
ogni coſa va in giro., Conſidera poi quì, che nel farſi una coſa vi la un
accoppia mento, nel qual prima una parte fi congiunga a quella che li fa,
mentre l'altra parte, che ſi deve aggiungere, è ancora fuori della coſa. L'uno
non ha moto di alterazione, nè di generazione. Non di alterazione, perchè ſe ſi
altera non è più uno, ac quiſtando nuove qualità; ſe fi genera non è più uno,
acquiſtan do nuove parti. Or nuove qualità, e nuove parti fanno molti; dunque
ſe l' uno o fi altera, o fi genera, è molti contro la de finizione. IN ALTRO
MODO. Una coſa non può generarſi o farſi che in un' altra, perchè tutto ciò che
è, o fi fa, è in qualche luogo, ma ſe l'uno non può effer in un altro (S. 11. )
nè meno può farſi in eſſo. In ol tre ſe una coſa ſi fa in un altro, non ancora
ella è ſe ſi fa. Or quando una coſa ſi fa, una parte è in lei, e una fuori di
lei, perchè le parti fi vanno ſucceſſivamente aggiungendo, ma l'uno non avendo
parti (5. 4. ) nè può eſſer nè tutto te in sè, nè tutto, nè parte fuori di sè.
Dunque non può ge nerarſi. Corol. L' uno non è generabile, nè alterabile, nè
par §. 14. L'uno non ha il moto di traslazione. L'uno non è in luogo (5. 11. )
ma la traslazione in linea ret. ta è una mutazione ſucceſſiva del luogo. Dunque
l ' uno non eſſendo in luogo ($. 11. ) non può mutar il luogo, ſecondo la linea
retta, ma nè meno pud mutarlo, ſecondo la linea circo lare, perchè deve
raggirar nel mezzo, e tener fiffe le parti che fi rivolgono intorno al mezzo;
ma l'uno non ha nè mezzo, né parte, dunque non può rivolgerſi in cerchio'(. 13.
) Dunque le alluno non conviene nè l'uno, nè l'altro, non gli conviene il moto
di traslazione. Q. 15. 1 1. 1 (73 ) g. isi Come ſi concepiſce il moto, nel
concepire la traslazione fuc ceffiva del mobile, o ſia il rapporto
continuamente vario della diſtanza del mobile a ' corpi contigui, così fi
concepiſce la quie te nel concepir il rapporto coſtante di diſtanza a ' corpi
conti gui; quindi nel moto, il corpo va ſucceſſivamente occupan do diverſe
parti dello ſpazio, e nella quiece occupa le ſteſſe par ti dello ſpazio. $. 16.
Luno non è nè in quiete, nè in moto. L'uno non è in sè, nè in altrui (9.11. )
ma ciò che è in quiete, è ſempre nello ſteſſo, ciò che li move è ſempre in al
trui. Dunque ſe l'uno non è in ſe ſteſſo, nè in altrui, non ſi ripoſa, nè ſi
muove. $ 17 Platone ha ſin ora conſiderato l' uno per eſcluder da lui la ragion
di tutto, di parte, di principio, di fine, di mezzo, di figura, di luogo, di
moto, cioè per eſcluder dall' uno tutte le relazioni che appartengono alla
quantità, come la più nota, e più facile. Senofane pur provava, che l' uno era
infinito, im mobile, non ſi trasfigurava nella poſizione, non s'alterava nel la
forma, non fi milchiava con alcri. Non è egli molto veri ſimile, che egli ne
arecaffe le ſteſſe ragioni, che poi Parmeni de più fteſe, ed affottiglid? Paſſa
Parmenide ad eſcluder dall' uno le relazioni dell'ente che appartengono alla
qualicà, di cui le prime ſono l'identità e la diverſità. Non premette Parmenide
alcuna definizione dello ſteſſo, e del diverſo; come fece del tutto; dai
Pittagorici (a ) impard, al dir del Patrizio, che l'identità, e la diverſità
non devono conſiderar fi come paſſioni dell' ente, ma come generi ſecondarj, i
di cui primi ſono il moco e la quiere. Ariſtotele all'incontro riduce l'
identità a una certa unità, e dichiara che ella come la diverſità appartiene
alla ſuſtanza, poichè fteſse ſono quelle coſe che con vengono, o nella materia,
o nella ſpecie, o nel numero, o nel Tomo II. k gene (a ) Diſcuſ. Perip. T. 2.
p. 207. (74.), genere di cui una è la ſoſtanza. Platone eſtende l'identità, e
di verſità alle qualità, e da lui impårarono i matematici a dire, che le
ragioni o proporzioni, che ſono le ſteſſe con una ſtella, ſo no le ſteſſe tra
loro; e non ſi dice pur tutto giorno lo lteſto grado di calore, di lume ec. e.
parimente ragioni diverſe, di verſo grado di calore, di lume ec. Dunque non
alla ſola fo ftanza, ma alla quantità, alla qualità, ed agli altri predicamen
ti apparciene lo ſtello, e il diverſo. Inliftendo il Wolfio su le nozioni
ſcolaſtiche, dà il criterio per diſtinguere lo ſteſſo dal diverſo. Quelle coſe,
dice egli, fou no le stelle che ſi poſſono ſoftituire. ſcambievolmente ſalvo
qua lunque predicato, che loro aſſolutamente, ſotto qualche con dizione
convenga; ſicchè fatta la fortituzione, la coſa reſta ta le, come ſe non foſſe
ſtata ſoftituita. Se in una bilancia, in cui ſang equilibrati due peſi, in
cambio di un peſo, d' una certa grandezza, io ne ſoſtituiſco un alıro, in modo
che l'equilibrio Loro non lia tolto, queſti due peſi, in quanto peſi, nulla
diſtin guendoli: ſi chiamano gli ſteſſi. Se nel peſo che è prima nella bilancia,
vi foſſe una certa figura, ed un certo colore, eun cer to grado di calore, e di
freddo, ed anche un certo odore, e tutto ciò appuntino ſi ritrovalle nel peſo
che ſi ſoſtituiſce, que fti due peſi non diſtinguendoſi, e nel peſo, e nell'
altre qualità li chiamano gli fteſi; Lo ſteffo in numero è ciò che ſi afferma
di ſe ſteſſo, o cui ripugna d'efiftere due volte; nel dirſi, queſto triangolo è
que ſto triangoló, ' ſi predica lo ſteſſo triangolo di ſe ſteſſo, onde
convenendo la ſtella eliſtenza al ſoggetto, e al predicato, egli è manifeſto,
che il triangolo in quanto è nell' uno, e nell' altro non ha doppia eſiſtenza,
mala ſteſſa, I diverſi poi ſono quelli, che ſcambievolinente non poſſono
ſoſtituirfi, falvo ogni predicato che all' uno, o all' altro aſſo lacamente o
condizionatamente convenga. Così nel caſo della ſoſtituzione de' peſi della
bilancia, ſe un peſo nel ſoſtituirſi all' altro cangia d'equilibrio, il pelo
ſofticuito è diverſo dal peſo, di cui preſe la vece; egli è diverlo in ragion
di peſo, benchè per altro poteſſe eller lo ſteſſo nella grandezza, nella figura
nel calore, ed altre qualità. Poſſono dunque le coſe eſſer le ftel ſe in un
predicato, e diverfe negli altri; quindi ſi può diſtin guer lo ſteſſo, e il
diverlo in affoluto, e in relativo; ſono aſ loluti, ſe le coſe convengono in
tutti i predicati, o diſconven gono falva però la loro eliſtenza; ſono relativi
le convengono in alcuni predicati, ma diſconvengono in altri. E'cid neceſſa rio
di ben avvertire, perchè in queſto Dialogo fi prende lo ſteſ 1 1 ſo, 1 (75 ) fo,
e. il diverſo in queſti due fenfi. Qul Parmenide perd pren de aſtrattamente la
coſa, perchè a lui baſta, che l'identità, e la diverficà fiano affezioni, o
generi delle coſe non preſe in sé, ma relativamente all'altre, baſtando queſta
fola relazione per eſclu derle dall' uno; quindi può facilmente dimoſtrarſi,
che l'uno non è, nè a se, nd ad altrui lo ſteſſo, perchè nel ſuo concerto
aſtrat tiffimo efclude ogni comparazione; ma Parmenide in alcro modo lo
dimoſtra, rappreſentandoſi alla mente per via d'una nozione immaginaria, che l'
uno prima è uno, e poi per forza della com parazione egli è molti. Ciò ſi rende
ſenſibile col diſegnar l'uno col ſimbolo aritmetico I, e poi aggiongendovi A, o
qualche alera lettera, onde egli fia prima i, indi 1 + A. S. 78 L'uno non è lo
ſteſſo, nè diverfo a sè, nè ad altri. Se l'uno foſſe da fé ſteffo diverfo,
ſoſtituendoſi l'uno per l'uno dove prima della ſoſtituzione fi concepiva i,
dopo della foftitu zione si concepirebbe 1 + A, dunque non più i contro
l'ipoteſi. Se fia lo ſteſſo ad altrui egli farà quello, cioè 1 + A non cið che
è, od uno, il che di nuovo è contro l'ipoteſi.. 19. L'uno non è diverſo, nè da
altrui, ne da ſe ſteſſo. L'uno convenendo con tutte le coſe, perchè d'ogni coſa
ſi dice, uno non è diverſo da effe, che in virtù di qualche predicato; dun que
in quanto non è più uno; dunque non può eſſer diverſo dall' altre cofe. Non è
la ſteſſa la natura dell' uno, e dello ſteſfo, perchè quando una coſa li fa la
ſteſſa ad aleuna non ſi fa uno; il colore di A per efempio ſia lo ſteſſo, che
il colore di B, non perciò mai A è B, perchè le due coſe colorite comparandoſi,
benchè con vengano nel colore, e in queſto fieno uno, non perd convengono nell
' çliſtenza, Se gli Itelli non ſi conofcono, che per la Toſti tuzione, gli
ftelli convengono bene ne'predicati; ma ſono fem pre due. Dunque quando una
coſa ſi fa la ſteſſa con l'altra, di due non ſi få uno, ſe non inquanto ſi
concepiſce, che con vengono, o nella quantità, o nella qualità ec. ma non
perchè convengono non ſono due; dunque o l' uno paragonato all' uno ſi fanno
due, e cosi l'uno non è uno, o reſtando uno non k 2 ſi può (70 ) la pudfar
ſoſtituzione. Dunque non pud dirſi, che l' uno fia lo ſteſſo a ſe ſteſſo. 20.
Parmenide paſſa a comparar l'uno coi fimili, e diffimili. Aris ftorele dice,
che i ſimili ſono quelli che patiſcono lo ſteſſo, ei diffimili quei che
pariſcono il diverſo; de' primi una è la qualità, dei ſecondi è diverſa la
qualità,onde egli ripone i ſimili, e dilli mili ſotto l'identità, e diverſità,
il che imparò da Platone nel Filebo (a ) e più facilmente dal Parmenide, ove
Platone defini ſce il ſimile, per ciò cui adiviene patir lo tego, il diffimile,
ciò cui adiviene patir il diverſo. Conſidera quì Parmenide le.qualità, come
attributi o modi che ſi ricevano nel ſoggetto, il quale nel riceverle in cerca
guiſa paciſce; ſono queſte nozioni immaginarie, come quella della ſoſtanza. Su
queſte orme Parmenidee, il Wol fio definiſce i fimili quelli, in cui le ſteſſe
ſono le coſe, per le qua li doverebbono diſcernerſi, onde ſecondo lui, la
fimiglianza è l' identità di quelle coſe per cui dovrebbono tra loro
diftinguerli. Se in due volti per eſempio io ritrovo nelle parti gli ſteſſi
linea menti, ne' lineamenti gli ſteſſi gradi de' colori ec. in fomma ſe io
ritrovo, che le ftelle fieno tutte quelle qualità, per cui dovereb bono
diſtinguerſi, i due volti ſono ſimili; diffimili all'incontro ſono quei volti,
in cui diverſe ſi ricrovano le coſe per cui tra lo ro fi diſtinguono, che vuol
dire i lineamenti delle parti, le figu la collocazione, le grandezze. Il Wolfio
fi fece ſtrada con que ſta definizione a definir i ſimili matematici, ben
oſſervando, che le loro proporzioni, benchè abbiano per fondamento ilquanto, fi
riducono al quale. re, S. 21. L' uno non è fimile nè diffimile ad alcuno, o a
se, o ad altrui. Simile a quello cui adivienelo feſto (. 20. ) ma l' uno eſclu
de lo ſteſſo (S. 18. ) Dunque efclude il ſimile. L’uno ſe riceve alcuna coſa
fuor di quello che è l' eſſer uno, pa tiſce d'eſſer più l'uno, perchè egli è
l'uno, ed inſieme la coſa che pariſce, onde almeno egli è due o molti; dunque
non è più uno; dunque ſe l’uno non paciſce d'effer lo ſteſſo, o loco, o con
altri, non può eſſer a ſe ſteſſo, o ad alcri ſimile, (a ) Patriz. Diſcuſ.
perip. p.202. Il (77 ) Il dillimile è quel che pariſce diverſità (5. 20. ) ma
l'uno non può parire diverſità, dunque non è, nè diverſo da lui, nèda altre
coſe, altrimenti non ſarebbe più uno; dunque l'uno non è diſli mile, nè a ſe
ſteſſo, nè ad altrui. 1 l. 22 Concluſo che ha Parmenide non convenir all'uno,
nè l'iden: tità, nè la diverſità, nè la ſimiglianza, nè la diffimiglianza, paſ
fa a ricercare ſe gli convenga l'eguale o l'ineguale, due pro prietà delle
grandezze comparate P une all' altre; l'eguale im murabilmente ſta nel mezzo,
da cui l' ineguale allontanandoſi per ecceſſo ſi chiama maggiore, e per difetto
minore. L'egua le paragonato all'eguale ha le ſteſſe miſure, paragonato al mag giore
ha meno miſure, e ne ha più paragonato al minore. Ra gionando Parmenide con
Socrate ad bominem, fi ferve del ter mine di participare, che non è allegorico,
ove ſi tratta di par ti. Offervo che non miſurandoli, ſecondo Platone, che con
l'uni tà, e col numero, è manifeſto, che la miſura è ſecondo lui quan tità; pur
gli attribuiſce lo ſteſso, e il diverſo. g. 23. L'uno non è, nè eguale, nè
maggiore, nè minore. Non participando, nè dello ſteſso, nè del diverſo, non
parte cipa mai, o le ſteſse, o le diverſe miſure, in conſeguenza non è nè
eguale, nè maggiore, nè minore. 6. 24. Come ſi miſurano le grandezze permanenti,
così ancora ſi mi ſurano le ſucceſſive, le quali paragonare l'une all' altre,
compete loro lo ſteſso e il diverſo, cioè il più, e il meno. Si dice che due
Uomini hanno la ſteſsa età, quando è miſurata per lo ſteſso nu mero di
rivoluzioni ſolari, e che hanno maggiore o minor età le ella ſia miſurata per
maggiori o minori rivoluzioni ſolari. L'antichità, la vetuftà, la novità ſono
relazioni degli enti ſuc ceflivi per rapporto alla loro eſiſtenza fucceffiva;
antico ſi dice quello che da lungo intervallo di tempo e prima d'un altro; nuo
vo quel che ora è, e non fu che già poco tempo prima d'un al tro; il giovane,
il vecchio, ſono propriamente le differenze dell' età degli Uomini,
mas'attribuiſcono per mecafora a curce le coſe. 9.25. (78 ) f. 25. L'uno non è
più vecchio, più giovane di ſe ſteſso, o dell' altre coſe. L ' uno non pud
participare, oo delle ſteſse,, o di maggiori o minori miſure degli enti
ſucceflivi, perchè non può partici pare dello ſteſso, e del diverſo; ma quel
ch'è più vecchio, partecipa di maggiori miſure, quel che è più giovine di
minori, dunque ec. g. 26. Per ben intendere come uno nel farli più vecchio di
fe fteſso o d'un altro ſi fa più giovane, mi è neceſsario trasferire alcu ne
nozioni della ſeconda ipoteſi, ed aritmeticamente ſvilupparle. g. 27 6 3 5 4 Se
il rapporto del maggiore al minore crefca per l'aggiun ta agli antecedenti, e a'
conſeguenti d'una grandezza eguale, il rapporto ſempre decreſce. Sieno i numeri
1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, i quali ſucceſſivamen te creſcono per l'aggiunta
dell'unità, èmanifeſto che (a ) > 4 $ Si prendano i quozienti o valori delle
ragioni. Il valore della ragione di = it; il valore di = ito il valore di = i +.
Or tal eſsendo la ragione qual è il fuo valore ſe I +1/2 > it it ec. come è
mani 3 feſto fard > 5 ec. Or rappreſenti A C l' età d'un 3 fanciullo di 3
anni, e B D l'età d'un | fanciullo di due anni, s' aggiunga alla А С F prima
età un anno, ciod ad " A C. s'ag giunga CF, e alla ſeconda età B D SA D G.
aggiunga un altro anno o DG. Onde s' averà la ragione di }; li vada aggiungendo
ſucceſſivamente alle due età un'anno, ed indi un'anno, e li averanno le ragio
ni di e di. Egli è manifeſto, che il fanciullo di tre anni è più vecchio di
quello di due, ma nel creſcere all'uno, e all' al > 3 4 Ā 1 B tro (a ) Il
ſegno è quello del maggiore, Il ſegno di < del minore. Il ſegno è quello
dell'eguale. (79 ) tro un' anno la ragione che ne riſulta di è minore
dell'altra; molto minore è quella di, e molto più minore quella di onde ſebben
il primo fanciullo ſi faccia ſempre più vecchio dell'altro, contuttociò per
l'accreſcimento dell'egual quantità ſi fa più gio vane relativamente, perché
dove nella prima ragione la differen za era nella ſeconda è minore di 1, e
quindi, ſempre mi nore. Egli è vero dunque, che un fanciullo nel farli' più
vecchio d'un altro li fa ancora più giovane. Se non ſi compari l'età di due
fanciulli, ma ſi conſideri folo l' erà di uno, che ſempre riſpetto a ſe ſteſso
creſce di un'anno, egli è manifeſto, che per queſto eguale accreſcimento, nel
decreſcer ſempre le ragioni degli anni cra loro comparati, lo ſteſso fanciul lo
nel farſi più vecchio di ſe ſtefso, fi fa ancora più giovane. Si vede quindi,
che nel farſi il più vecchio dal più giovane, fi fa cid dal diverſo, e che non
è diverſo, ma'ſi fa. Corol. Lo era, lo efser ſtato, il li faceva, ſignificano i
modi del tempo paſsato; il ſi farà, il ſarà, e ſarà per farſi, i modi del
fucuro o dell'inanzi; l'eſsere, il farſi, i modi del preſente. f. 28. L'uno non
è in cempo. Se l'uno fofse in tempo participerebbe delle miſure del tempo;
dunque or ſarebbe più giovane, or più vecchio, ma queſto non pud eſsere, come
s'è dimoſtrato (9. 25. Dunque ec, IN ALTRO MODO. Quel che è in tempo nel farſi
più vecchio, ſi fa più giovane di ſe ſteſso, (§. 27.) ma l'uno non può farſi
più vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſso, perchè non può farſi, nè una cola,
nè l'altra (9.25. ) Dunque non è in tempo. Il più giovane che ſi fa dal più
vecchio è diverſo da lui, e non è ma ſi fa, ma l'uno non può ricever il diverſo
(§. 18. ) Dunque non può farli dal più vecchio il più giovane; dunque non è in
tempo. Il più giovane non ſi fa dal più vecchio, nè in più lungo tem po, nè in
più breve di fe fteſso, ma ſempre nell'egual tempo con le ſteſso, o fia, o ſia
ſtato, o ſia per dover eſsere; mą l'uno non è ſuſcettibile dell'eguale (§. 23.
) Dunque nè meno dell' egual tempo; dunque non avendo le paſſioni del tempo non
è in cempo.. 29. (80 ) S. 29. L'uno non partecipa, nè del preſente, ' nè del
futuro nè del paſſato. L'uno non eſſendo in tempo non può partecipare del tem
po, ma le paſſioni del tempo ſono, il preſente, il paſſato, il futuro. ($. 27.
) Dunque non le partecipa. Corol. Se l'uno non è partecipe di niun tempo, non
fu mai, nè ſi faceva, nè era, nè ora è fatto, nè fi fa, nè farà. 8. 30. Ogni
ente, o ciò che è partecipe di eſſenza, è, ſecondo Plato ne, o nel tempo
preſente, o ſarà nel futuro, o fu nel paſſato. Nel Timeo egli dice, che Dio per
far il tempo fluente nel numero, fece un'immagine dell'eternità. Dunque
l'eternità fiſſa in ſe ſteſſa non contiene, che il preſente, e ciò pur dicono i
Teolo gi nel diffinirla con Boezio, una poſſeſſione tutta inſieme di una vita
interminabile. Negando dunque Parmenide, che il pre ſente competa all' uno, gli
nega l'eternità, onde è egli evidente che non parla di Dio, ma ſolo d'un ente
di ragione, dal quale per l' astrazion della mente eſclude tutto ciò che
involve rela zione a qualche coſa, ed anche a lui ſteſo. Dall' altra parte, qui
Parmenide non eſclude dall'uno, ſe non cid che appartie ne per lo più alle coſe
corporee e viſibili, il tutto, le parti, il luogo, l'eguale, il maggiore, il
minore, la generazione, la traslazione, le differenze del tempo; e ciò che dice
dello ſteſ. fo, e del diverſo, del fimile, e del diflimile, che pur conven gono
alle coſe incorporee, lo ricava da ciò che ha negato ne' quanti. 1. 31. L'uno
non è, o non ha eſſenza. L'uno non partecipa del preſente, del paſſato, del
futuro (9.29. ) ma ciò che ha effenza partecipa dell'uno, o dell'altro ($. 30.
) Dunque l'uno non ha eflenza. Annot. Dall'uno conſiderato preciſamente come
uno, cioè a dire oppoſto amolti, ſi debbe eſcludere, oltre l'eſſenza attuale,
an cor la poſſibile, perchè la poſſibilità come fonte, e principio della
realità porta ſeco qualche relazione a cid che eſiſte, é dall' uno ogni
relazione deve eſcluderſi.; molto più le relazioni dell' uno all'ente, di
ragione che chiamali intellettuale qual è il Lo-. gico, il metafiſico, il
matematico, e l'altre relazioni ancora ché aver poteſſe all'ente immaginario
ancor chimerico.. §. 32. tra coſa Primafi concepiſce la, non ripugnanza dei
predicati delle co ſe, ed è l'eſſenza, e queſta non ſi dice d'altre coſe, o
d'al tre eſſenze, ma bensì o gli attributi, i modi, e le relazioni fi dicono
deſsa; cal è la definizione logica, che Ariſtotele diede della ſoſtanza,
chiamandola ciò che non ſi predica d'al ma che tutte le coſe ſi predicano
d'eſsa. In que ſto ſenſo l'eſsenza nel ſuo concetto aſtratto, non differiſce
dal la foſtanza, che in quanto queſta ſi riferiſce a ſe ſteſſa, ed agli aleri
de' quali è ſoftegno, per il che ſi dice, che ella non ha contrario, e non è
capace di più, e di meno. Se l' uno non può predicarſi dell'uno, o di le ſteſſo,
per non radoppiarlo o farne due o molti, egli è manifeſto, che non è ſoſtanza
to più ſe fi conſidera col Wolfio, che nella nozione della fo ſtanza, v'è
qualche coſa d'immaginario, perchè ella fi rappre ſenca alla fantaſią, come un
valo od altra coſa, che in sè ri. ceve gli accidenti. $. 33 L'uno non è
ſoſtanza. L'uno non ha eſſenza. (S. 31. ) Dunque non ha ſoſtanza ($. 32. ) ſ.
34. La ragione è propriamente quell'atto della mente, che da una coſa
n'inferiſce un' alera, od è ancora ſe ſi vuole la con neſſione delle verità
univerſali; la ſcienza è la cognizione cer ta, ed evidente delle coſe, ed è
tutta opera della ragione che deduce una coſa da un' altra. Nell' attribuire
una coſa ad un altra, ſe li ha qualche cimore, che ad efla ſi poſſa attribuire
l'op poſto, ſi ha della coſa opinione. Col ſenſo poi non ſi percepi Icono, che
le coſe ſingolari, o determinate in ogni parte, e quindi compoſte di molti. Da
queſte definizioni e manifeſto chenegli oggetti della ragione, della ſcienza,
dell'opinione, del Tom. II. I fen ((82 ). fénfo s } includono moki, çd - in
oltre che ogni coſa, che.0.4 ſénte, o su cui di ragiona fcientificamente, od
opinabilmente, ha un' eſſenza attuale o poflibile; falfa o vera. 1 $. 356 Dell'
uno non li ha ragione, ſcienza, opinione, ſenfo. Quefte coſe includono molti, e
dipendono dall'ipoteſid' un eſſenza (§. 34. ) ma l' uno non ha eſenza (S. 31. )
e non in olude molti (.9.,2. ) Dunque ec, g. 36 Non ſi dà nome ſe non alle coſe,
della cui eſſenza, o per ragione, o per opinione, o per ſcienza, o per ſenſo ſi
ha un ' idea o chiara, od ofcura, o diſtinta, o, confula, o miſta di que Ite
differenze. S. 37... L'uno non ha nome. L'uno' non ha effetiza:(: 34:) Dunque
l'uno non ha nome. 1 §. 38. Ragruppando in poco ciò che ſin ora ſi è detto, ſi
può for mare tal fillogismo. Dal concetto aftrattiflimo dell' uno ſi de vono,
eſcluder i molti di qualunque genere effi fieno; ma cid che appatriene alla quantità,
alla qualità; alla refazione ec? vi s'includono imolti; dunque devono queſti
eſcluderſi dal.concet to aſtrattilfino dell'uno,. ] Se fi diceffe, che così
concludendo ſi confonde l'uno col nul la, manifeſto è l'inganno, poichè la
definizione del nulla è, che egli non abbia nozione alcuna o poſitiva, o
negativa, ciò che elclude dal nulla ogni realtà. Quando'io dico all'incontro,
l'uno non é molti, non tolgo a lui ogni realtà, benchè eſplicitámen te io non
vi rifletta. Io ſto più immobilmente che poſſo affil ſo su l'uno, in quanto
s’oppone a molti, e in queſta conſide razione preſcindo più che poſſo dal
conſiderar l' uno, o per rap porto all'ente, o per rapporto al mio penſiero;
noi poſſiamo, come accennai, più ſentire, che eſprimere queſte preciſionimen
tali, e momentanoe, ma 'non laſciamo di fentirte, e le fencia ·mo (83 ) mo ſe
poffiamo eſprimerle in qualche modo, e farle' intendered agli altri; nè per
altro la fcola Eleacica; ed indi Placone le pro poſe, che per addeſtrar la
mente ad inveſtigar l'idee delle coſe. Era necelfario fciegliere per eſempio
quell' idea, in cui la pre ciſione arriva all'ultimo grado, ove pofla mai
giungere la men te umana. Non ſi conoſce mai bene la natura', ' ed'i precetti
della arte, che l'imita, fe non ned maffimo. Io dimando al Lettore; che legge
attualmente il Parmenide di Platone, e lo confronta col mio comentario, fè
altro faccio in effo, che ſviluppare il fenſo.ovvio det tefto: Abbia pur Pro
clo, e gli altri Placonici, e Gentili, e Criſtiani confiderato queſto Dialogo,
non come ontologico, ma come Teologico, io ril pettando, e la dottrina, e
l'autorità loro', dirò che la mia Spiegazione ontologica non impediſce, che
degli intelletti più fublimi del mio, teologicamente non l'inalzino a coſe maggio
ri, come fece il Cardinal Befarione, applicando a queſto Dia logo la dotrrina
del preceſo S. Dionigi Areopagita. Si può ri leggere avendo preſente tútra
l'intiera ſeſſione, quanto ivi diſ fi appoggiandomi alla dottrina di S. Tommaſo:
Dio'è un en te fingolariſfimo, e nell' applicarvi quel che conviene all' en te
di ragione; biſogna ftar attenti che non ſi confonda l' uno ton l'altro; la
merafíſica degli antichi è la ſteffa che la me tafifica dei moderni; mia nel
riferir la prima ' alle coſe, queſte includevano Dio, che gli antichi non
ſeparavano dalla mate ria, che per preciſionedi mente, là dove la ſeconda
conſiderando fe coſe non ha a Dio, che un'analogia molco lontana, perchè fi
diſtingue eſenzialmente, é realmente dalle ſteſſe. SEZIONE TERZA. Se l'uno è,
quali coſe adivengono intorno ad eſſo. I. I. Nom On ſi ricerca ſe faecia
meſtieri, che ſucceda- un cert' uno, ma ſe vi ſia l'uno; o pure ſoſtituendo la
nozione imma ginaria ſe l'uno partecipi l'eſfenza. Dall'ipoteſi così propoſta
ne fiegue', che' l'uno non è la pro: pria 'eflenza, o che l' effenzà, e l' uno
non ſono gli ſteſi con: cerci z chi dice elfenza, dice preciſamente la: non
ripugnanza dei predicati, e chi dice uno, dice 'non molti.; Nel cratcat queſta:
ſuppoſizionë, Platone comincia a frami I 2 fchia (84 ) ſchiare all' aſtrazioni
le nozioni immaginarie più che di ſopra Queſto fa ſovente l'oſcurità del teſto,
perchè per intenderlo ci sforziamo toſto a concepire ciò, che non è che un'
imaginazione ed imaginazione tallora falſa, da cui li deduce una contraddizio
ne, nèſempre però vera, ma apparente, il che raddoppia l'ab baglio, ſe non vi
s'attende; manifeſteranno gli eſempi ciò che io dico, in tanto mi ſia lecito di
contraſegnare con due ſimboli diverſi, A, e B, i due concettidell'ente, e
dell'uno. Nel farne il compleſſo A + B io rappreſento un tutto che ha due
parti, che io tra loro ſeparo con la mente, per ragionarne più diſtintamente fi
2. Se l'uno è, ogni parte di queſto tutto (uno è:) può dividerſi in infinite
particelle. Si prenda la particella uno, e ſi concepiſca come ſeparata per un
momento dall'altra particella ence, poichè per la fuppoſizio ne l'uno è, egli è
manifeſto, che conſta di due particelle, uno ed ente. Di queſto nuovo compleffo
ſi prenda la particella uno, e queſta per la ſteſſa ragione ſi dividerà in due
altre, ente ed uno, e così all'infinito. Or ſi prenda l'altra particella ente,
e poiché ogni ente è uno, ſi dividerà queſta particella in due altre, le quali
di nuovo fi divideranno, e così all'infinito; dunque ogni particel. la del
cutto uno è, ovvero è l'uno, ſi divide in infinite particel le all' infinito.
Così può ſenſibilmente rappreſentarſi. Ente uno А + B 1 Ente uno uno ente 2 a +
2b 2A + 2B ente uno uno | ente 3A ente, uno uno | ente 46 4A 4B 3. a 36 3B 1
uno, Come A + B rappreſenta il primo compleſſo immaginario della e dell'ente
così 2a + 2b rappreſenta il ſecondo com pleſſo immaginario dell'uno, e
dell'ence dedotto dall'ente, o da A, e parimenti 2A + 2B ſignifica il ſecondo
compleſſo imma ginario dell'uno, e dell'ente dedotto da B. ANNOT. Qui Platone
fuppone darli reciprocazione tra le due pror (85 ) propoſizioni l'uno è, è
l'uno, nella prima delle quali l' uno è il loggetro, cliente è l'attributo, e
nella ſeconda l'ente è il ſoggetto, e uno l'attributo. Perchè legitimamente ſia
la reciprocazione del le propoſizioni, biſogna che il ſoggetto ſia tanto ampio,
quanto l'attributo, onde può reciprocarſi la propoſizione. Il triangolo è una
figura di tre lati; nell'altra ogni figura di tre lati è un trians golo, ma non
già ſi reciproca la propoſizione, ogni ternario è nu. mero, perchè non ogni
numero è ternario. Il non aver avvertita la legge della reciprocazione fece
cader in molti parallogismi tallora i Geometri. Corol. Poichè ogni ente è uno,
l'uno ſi moltiplicherà come l'ente, onde potrà dirſi, che l'uno è infinito, o
che l'uno è mol ti. Queſta è la prima contraddizione di queſt' ipoteſi, ma è
con traddizione immaginaria od apparente, perchè l'uno per sè non è molti, ma è
molti per accidente, cioè perchè gli accade di mol tiplicarſi, ſecondo gli enti
che lo partecipano, onde non predi candoſi dell'uno nel tempo ſteſſo, e ſecondo
lo ſteſſo, gli oppoſti, non ha in sè vera contraddizione. g. 3. Platone
s'inoltra con le nozioni immaginarie. Conſiderando l? uno, in quanto partecipe
di eſsenza, lo prende ſecondo ſe ſteſso con l'intelligenza, ſpartato da quello
di cui diciamo che ſia par tecipe, cioè dell'eſsenza. Ciò vuol dire, che
dell'ente, e dell'uno Platone fi fa quei due idoli caratterizzati per A, e per
B. Nel dirli che li prende l'uno coll'intelligenza ſpar; tato dall'ente,
s'allude manifeſtamente all'aſtrazioni della mente. $. 4. 1 L'eſsenza o l'ente,
e l'uno ſono diverfi. Alcro è l'eſsenza, ed altro l'uno (: 32. Sez. 2.)
Dunque uno in quanto uno è dall'eſsenza diverſo, e l'eſsenza in quanto eſsenza
è diverſa dall'ano; dunque l'uno, e l'eſsenza ſono diverſi; Co sì può
illuſtrarſi tale ragionamento. L'ente o l'eſsenza in quanto eſsenza include la
non ripugnan za dei predicati coſtitutivi; l'uno in quanto uno include l'oppo
Gizione ai molti, ma queſti due concetti tra loro non convengo no; dunque ſono
diverfi. 8. 5. (86 ) $. s. L'eſsenza, l'uno, e il diverſo fanno tre concetti o
tre coſe trx loro diverſe. S'è già dirnoftrato, che l'uno, el ente non termi
nando lo ſteſso concetto ſono diverſi tra loro, ma il diverſo non includendo
nel ſuo concetto, che la non convenienza, fa un concet to diverſo, ed in
conſeguenza una coſa diverſa dall' altre due; dunque l'eſsenza, l'uno, il
diverſo fanno tre coſe diverſe.. 6. Si rappreſenti l'uno per A, l'enre per B, e
il diverſo per C ne riſultano quindi. Le combi- FA B7 In ogni combi-7 Tre poi
eſsendo le combina nazioni di nazione vie zioni v'è ancora A, B,CAC uno in due
Erre volte uno? in ogni com uno in due tre volte due E binazione В С! uno in
due tre volte tre Abbiamo dunque dedotto da A, B, C, o dall'ente, dall' uno e
dal diverſo il 2.primo pari, il ' tre primo diſpari, dae volte 3 parimenti
impari, 3 volce 3 imparimenti: impari. Sipuò an cora dedurre due volte due
parimenti pari', e queſte ſono tutte le ſpecie dei numeri. Combinandoſi il 2 il
3 due volte, tre volte e fin quattro volte, ma non altre, ſi compongono tutti i
numeri: fino al dieci. It 3* 2 + 2 = 4 2 + 3 2 + 6 = 3 ti 3 2 + 2 + 37 2 + 1 +
2 + 2 = 3 + 3 + 2 3 + 3 + = te: 2 + 2 + 2 +19 1 + 2 + 2 + + 3 = I + 2 + 3 + 4 =
10 II 10 è fatto dall'ı, e dal o, e ſignifica ', che il primo articolo dei
numeri termina alla prima decina; fe ſucceſſivamente alla de cina ſi aggiunge
l'i, il 2, il 3. ec. ſi arriva alla ſeconda decina, e collo ftelso metodo alla
terza, alla quarta ec: fino al 100, che è la decima decina da cui ſi va fino a
1000, o 10 volte 1oo ec. I Pita (87 ) I Pittagorici chiamavanol yno il finito,
come quello che li mitava l'infinito o l'indefinito ad una tal ſpecie o forma:
dot trina, dice nel Eilebo Platone, la quale diſcende dagli Dei; queſta è, the
tutte le coſe tengono in loro fteſſe il termine, o l'infinito innato; o
piuctoſto l ' indefinito. Lo rappreſentavano nella materia i Pittagorici, e lo
ſimboleggiavano nel 2, o nel binario, poichè ogni coſa ſteſa è divit bile in
due e ognuna delle parti in altre due,; e così all'infinito. Quando a queſto
infinito s'aggiungea luna, che vuol dir la forza o la forma ſe ne faceva il
compoſto che era l'altro principio, di cui par la Platone; queſto compoſto
dețerminato a una ſpecie dalla for ma componeva un tutto, in cui vera principio,
mezzo, e fi në. Lo diffegnavano i Pictagorici per il 3, e lo chiamavano numero
perfecto, medio, e proporzione; oſſervò S. Agoſtino che numerando fino al 3,, €
rapportando prima il 2 all'1, ed indi al tre nel comporſi la proporzione
continua, aritmetica fi forma per la replicazione del 2 il 4, numero che
immediata mente luccede al 3, ciò che non ſi ha negli altri numeri, per chè
cominciando la proporzione aritmetica dal.2 chi replica il 3 non fa il numero
che immediatamente lo ſegue od il 5 ma il 6; nel continuare la proporzione con
queſto metodo i numeri riſultanti ſempre più ſe n'allontanano. S. Agoſtino per
ciò offerva co'.Pittagorici, che la perfezione dei numeri è ne quattro primi,
in cui gli eftremi ſono intimamente uniti ai mezzi, e i mezzi agli eſtremi.
Quindi le più perfecte conſo nanze muſicali, ſono fatte dei primi quattro
numeri 2 3-4, 1 ' 2'3? ſ. 7. Se l'uno è, egli è ogni numero. Nella combinazione
dell'uno, dell'ente, e del diverſo fi de ducono tutti i numeri (9. 6.), Dunque
nell' uno, in quanto è, vi ſono tutti i numeri,; Carol. Il numero eſſendo molti
nell' uno, in quanto l'uno è., egli contiene moltitudine, e perchè i numeri
fono infiniti nell uno che è, vi farà una moltitudine infinita. COROL. 2. Il
numero in moltitudine infinita, eſſendo inclu ſo nell'uno che è, farà egli
partecipe d'eſſenza. Si prenda la ſerie naturale de numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7
ec. fino al oo unità eterogenea alla prima, e da cui fi comincia l'alcra ferie
200, 30, 40, fino 200 = 60 altra unità eterogenea, da cui comin (88 ).
cominciali, un' altra ſerie 2 co ', 300'ec. ſino a o, e cosi all' infinito. Se
di queſte tre ſerie ſe ne fa una ſola ſi ha 1.2.3.4.5 ec. co '... 00?... oo...,
fino ad in cui ſi potrebbe cominciar di nuovo la numerazione. Cominciando da
uno, li può con le frazioni continuar la ſe. rie decreſcente con lo ſteſſo
ordine che l'altra, onde 1 I 1 ec. • • ec. fino 3 4 5 I 1 I I I wec. 4
Combinando la ſerie dei finiti intieri, rotti, e degli infiniti matematici, e
immaginarj, fi ha tutta la ſerie. ec. 1.2.3.4 ec. co oo oo ' ec. 0° 5 4 3 2 In
queſte eſpreſſioni non v'è errore, purchè non s' attenda, che alla proporzione
delle quantità, nè ſi realizzino i ſimboli. Ma non biſogna credere, che la
numerazione ſia terminata, po tendoſi concepire, e tra gli intieri, e tra rotti,
e tra gli infi. niti dei mezzi proporzionali, i quali ſono, come ben prova il
Ba rovio, veri numeri (ſe ben noi non poſſiamo eſprimerli ) perchè ſimboli di
vere quantità, come i numeri, ointieri, orotti, e gli infinitamente grandi,
egli infinitamente piccioli. Platone, al dir d'Ariſtotele, poſe i due infiniti (a
) magnum & parvum, e queſti, come ben ancora lo riconobbe il P. Grandi,
ſono gli infinita mente grandi, e gli infinitamente piccioli dei moderni Geome
tri; infiniti replico immaginarj, de' quali con tanta chiarezza trattò il
Wolfio nell'Ontologia, ſgombrando tutte le difficoltà' che v'oppoſero coloro,
che non ben inteſero queſte due ſpecie d'infiniti Platonici, caratterizzati da
profondi Geometri con tan to utile della Geomecria, della Mecanica, ed altre
parti delle Matematiche. Queſti due infiniti di Platone non ſono diverſi dai
grandiflimi, e menomiſlimi, di cui qui parla. 8. 8. In quanti luoghi è l' ente,
in tanti è l'uno. Se l' uno è egli accompagna ſempre l'ente, ma non v'è ente,
che non ſia in qual che luogo (9.12. Sez, 2. ) Dunque in quanti luoghi è l'ente,
in tanti è l'uno. a ) Plato vero duo infinita magnum & parvum. Arift.
3.Phiſ. c.4. §. 9: (89 ) g. 9. Se l' uno è, non ſolo ' egli è l'uno, ma un
certo uno. Ogni ente ſingolare partecipa dell'ente, dunque dell'uno; dunque
come ogni ente ſingolare è un certo ente, ogni ente ſingolare è un certo uno.
ČOROL. Si compartiſce dunque l'uno, non ſolo con le coſe in genere, ma con le
coſe ſingolari, onde v'è l'uno, e il tal uno, e a queſto compete, come
all'altro, eſfer molti, perchè vi ſono molti enti ſingolari, e compete loro il
luogo degli enti ſingolari. g. 10. Se l'uno è, egli è un uno che è uno, e cert'
uno, e mol ci, e parti, e finito, e in moltitudine infinito. Egli è uno, e
cert'uno, ſe accompagnando gli enti è in ogni ente, ed in ogni cal ente; egli è
tutto ſe ogni ente, in quan to è, egli è un tutto; egli è párte, ſe ogni parte
dell'ente è jina; egli è finito, ſe ogni tutto ha i ſuoi limiti, e infinito le
contiene in sè tutti i numeri. Annot. Queſte contraddizioni non ſono che
apparenti. D. II. Se l'uno è, egli ha principio, mezzo, e fine. L'uno è finito,
e tutto, e parte (S. 10. Sez. 3. ) Dunque ha in sè limiti, perchè ogni una di
queſte coſe ne ha; dunque ha principio, mezzo, e fine. Corol. Dunque l' uno è
partecipe di figura retta o roton da, o d'amendue miſta. ANNOT. Come l'uno, di
cui quì parla Parmenide, pud effer Dio, o qualche idea divina, fe egli è
circonſcritto da tutti i luoghi degli enti, ſe s'individua cogli enti
ſingolari, ſe è tutto, parte, finito, figurato ec. 5 Tom. II. m 6. 12. (20 ) Do?
127 ** Se. l'uno è, egli è in ſe ſtello, e iş altrui., Ciò che è tutto,
comprende tutte le ſue parti; ma l'uno com prende tutte le ſue parti, dunque l'
uno è un tutto; ma il tutto contien ſe ſteſſo, è l' uno è un turco. Dunque
l'uno contiene ſe fteffa. ANNOT. La propoſizione è identica, e vuol dire: un
tutto è. un tutto; o iltutto è nel tucta; non ſi faccia più attenzione al tutto,
mamaall all'uno, e li concluderà, che l'uno è nell'uno. Si com bini poi l'uno,
e il cucco, e ſi concluderà, che come il cutto è in ſe ſtello, così l'uno è in
fe fteflo. Quel che è in ſe ſteſſo, egli è in ogni ſua parte, ed in tutte le
parti, ma il cutto non può eſſer in niuna parte, perchè il più au conterebbe
pel manco, nè meno il tutto può eſſer in tutte le par ti, perchè ſe in cutie,
farebbe ancora tutto in ciaſcuna, dunque il tutto non è in ſe ſteſſo, ma l'uno
è il cutto; dunque non è in fe fteflo. Ogni coſa è in qualche luogo, perchè ciò
chenon è in qualche kuogo è nulla e quel che è in qualche luogo è in fe felio,
o in altrui, perché non li dà mezzo; mas'è dimoſtrato che ſe è l'uno egli non è
in ſe ſteſſo, dunque è in altrui; ma di ſopra s'era pur dimoſtrato, che egli
era in le ſtello; dunque è in ſe ſteſſo, ed in alcrui. ANNOT. Non v'è quì che
contraddizione apparente, perchè quando ſi dimoſtra, che l'uno è in ſe ſteſſo,
ſi conlidera che l'uno è un tutto le cui parti fon tutte inſieme, quando
all'incontro fi confidera, che l'uno è in altrui, non ſi concepiſce il tutto
con le párti pret inleme, ma come quello che non è in niuna delle ſue parti. S.
13. Se P upo è, egli fta, e ſi muove. Quel che ſta è ſempre in ſe ſteſſo,
perchè da lui non mai & di parte; ' ma l'uno eſſendo nell' uno, non ſi
diparte mai da fe ftef ſo; dunque è ſempre nello ſteſſo; dunque fta. Quel che è
ſempre in altri non è mai nello ſteſſo, e non eſsendo nello ſteſso mai non fta,
e non ſtando ſi move, ma l' uno non è in ſe ſteſso, ma ſempre in altrui; dunque
ſempre fi move. ANNOT. Non è pur queſta, che contraddizione apparente.. 14. (91
) $. 14. 1 e il Una coſa comparata all'altra, o è la ſteſsa, o diverſa, o è par
te di quella coſa conliderata come tutto, od è tutto, conſiderata 1a cofa come
parte. Così dice Platone, e par conſiderar lo ſteſso, e il diverſo
relativamente alle qualità ſolamente, e la parte, cutto relativamente alla
quantità. Se dunque fi dimoſtraſse, che una coſa relativamente a un' altra non
foſse, nè tutto, ne pare ce, nè la Ateſsa, ne ſeguirebbe per il metodo d'
eſcluſione, che ella fofse diyerſa. g. 15. Se l'uno è, egli è a ſe ſteſso lo
ſteſso, ed a ſe ſteſso diverſo. Se egli è in le ſteſso, e fta ſempre, egli è a
ſe ſteſso lo ſteſso, ſe egli è in altrui, e ſempre lr move, è da ſe ſteſso
diverſo. L'uno non è parte di ſe ſteſso, nè tutto rifpetto a ſe ſteſso, nè
l'uno è diverſo dall'uno; or s'è luppoſto, che una coſa compara ta ad un'altra,
fe d'eſsa non è tutto, nè parce, nè diverſa ſarà la ſteſsa; dunque l'uno ſarà
lo ſteſso con ſeco; ma ſe l'uno è in al trui non è ſempre lo ſteſso a ſe ſteſso;
dunque per l' eſcluſione Platonica ſarà egli da ſe ſteſso diverſo'. §. 16. ne
Per eſpor: l'argomento ſeguente in tutta la ſua forza, convie. ne particamente
illuftrare i principj da cui dipende. Si ſuppo 1. Che l' uno è da sè diverfo,
come da ente nell'ipo teſi, che egli ſia. 2. Che il diverſo e lo ſteſſo,
effendo contra rj, uno non può mai eſser dell' altro. Cost lo ſpiego · Molci
enti potendo efiftere, od eſiſtendo nel tempo ſteſso, lo ſteſso farebbe nel
diverſo, ciò che è impoſſibile, non potendo i con trarj, cioè A, e non A ſtar
inleme. Ben ſi vede che qui parla Platone del diverſo, e dello ſteſso aſsoluto,
e non relati. vo, quale abbiamo fpiegato nel G. 17. Sez. 2. perchè nulla vie ta,
che due coſe non poffino eſser diverſe' nell'eſsenza, nelle quantità, nelle
azioni ec. ed intanto eſiſtere nel tempo ſteſso mi Iura eſtrinfeca delle coſe.
Non è cosi conſiderando il diverſo aſsoluto, o l'idea del diverſo, e
conſiderando lo ſteſso aſſoluto o l'idea dello ſteſso.; l'uno non può mai ſtar
nell'altro, e in conſeguenza la ſteſsa coſa non può mai partecipare nello
ſteſso tempo di queſte due idee contrarie. Allude qui tacitamente Par m 2 meni (92
) menide a ciò che ha già dimoſtrato, parlando della participazio ne dell'idee.
L'argomento ha tanto maggior forza, quando fi conſiderano gli enti ſeparati
dall' uno, poichè ſe foſsero diverfi, per ragion del diverſo participerebbono
dell' idea del diverſo che è Tempre una, dal che deduce Parmenide, che non
poten do eſser diverſi per la participazione dell'uno nell'ipoteſi di Socrate,
non ſono diverſi tra loro. 3. Suppone che le coſe che non ſon uno, non fieno
partecipi dell'uno, perchè non ſarebbono uno, ma uno in certo modo. Quì pur
Parmenide parla dell'idea dell' uno, che participandofi dalle coſe non è più
uno, ma uno con certe circoſtanze, od in certo modo, ma ſe non ſon uno nor
faranno eziandio numero, perchè ogni numero è uno. 4. Le coſe che uno non ſono,
nè aſsolutamente uno, non poſsono eſser parti dell'uno, poichè l' uno non può
eſser parte delle co ſe che non fon uno, nè può eſser tutto, quafi comparato a
par ricella. Parmenide alludetacitamente a ciò che diſse di ſopra, che idea non
pud eſser participata, nè ſecondo la parte, nè ſecon do il tutto, dal che
deduce, che le coſe che non ſon uno ne fono particelle dell' uno, nè ſono all'
uno quaſi a particella. Ciò ſuppoſto così argomenta Parmenide col metodo d'
eſcluſione. g. 17. Se l'uno è, egli è diverſo, e lo ſteſso con altre cofe;
all'uno convien il diverſo, aſsolutamente in quanto diverſo, e non all” altre
coſe, cui non conviene, che relativamente Dun que l'uno è diverſo dall'altre
coſe.; le altre coſe non ſono diper fe dall'uno, nè ſono parci, nè tutto
riſpetto all' uno; dunque fono le Aeſse con l'uno. F. 18. Chi proferiſce lo
ſteſso pome una, e più volte ſenza riferirlo a più coſe, come ſi riferiſce nei
nomi equivoci, ed analoghi, eſprime fempre lo ſteſso concetto; dunque nel
proferire la voce, diverſo; applicandola all'uno, confiderato relativamente
agli altri, e un' altra volta agli altri conſiderati relativamente all'uno,
nell'ado prar lo ſteſso nome s'eſprime lo ſteſso concetto. Quindi dice Par:
menide: quando diciamo eſſer gli altri diverſi dall' uno, e l'uno ef ſer dagli
altri diverſo, non mai introduciamo il diverſo a figuificar altra coſa, che la
natura di cui è proprio nome. $. 19. (93 ) S. 19. s'è gia oſſervato, che fimile
è quel che patiſce lo ſteffo; difts mile quel che patiſce il diverſo (9.
20.Sez. 2.) Se l'uno è, egli è ſimile, e diſſimile a ſe ſteſſo, ed agli al tri.
L'uno è diverſo dagli altri (9. 17. Sez. 3. ) Dunque l'altre coſe ſono diverfe
dall' uno, ma non fono diverſe nè più né meno dall'uno, che l'uno dall' altre
coſe (S. 18. Sez. 3. ) e ſe nè più, nè meno, rimane che egualmente fia uno. In
quanto adiviene alle uno l'effer diverſo daglialtri, e gli altri dall'uno, egli
patiſce la ſteſſo per rapporto agli altri, e gli altri per rapporto a lui; ma
ciò che patiſce lo ſteſſo è fimile, dunque l'uno e limile agli altri, e gli
altri per la ſteſſa ragione fon fimili a lui. Il diverſo è contrario allo
ſteſſo; ma fi dimoſtro, che l'uno agli altri è lo ſteſſo, e diverſo, (S. 17.
Sez. 3. ) ed è contraria paffione effer lo ſteſſo agli altri, ed effer diverſo
dagli altri ma in quanto diverſo parve fimigliante; dunque in quanto lo Steffo
fia diflimigliante, ſecondo la paſſione contraria. E' da notarſi, che l'uno è
ſimile agli altri, in quan to diverſo, e diſſimile in quanto lo ſteſſo. S. 20.
Due coſe che ſi toccano ſono preſenti l'una all ' altra, nè tra effe vi ſi
frammette un terzo, perchè in queſto caſo non più toccherebbono ſe ſteſſe, ma
il terzo frappoſto. Ove due coſe fi toccano, due ſono le coſe, ed uno il
contatto, ove tre li toc chino, tre ſono le coſe, e due i contatti; in ſomma
creſcen do i termini creſcono a proporzione i contatti, ſecondo il nu mero dei
termini meno uno. Si tocchino tra loro due punti matematici, ' poichè nulla fra
loro s'interpone, un punto per ragion del contatto coinciderà con l'altro; fi
facciano toccare da un terzo punto, queſto pu. re coinciderà, e quindi infiniti
punti matematici non fanno che un punto, onde de liegue, che la linea non è
compoſta di punti, o che i punti ſovrapofti gli uni agli altri non fanno
grandezze. Ciò naſce, perchè tutti i punti ſono omogenei ſen za parti, ma ſe vi
foſféro degli enti tra loro eterogenei, ben chè non eſteſi, o ſenza parti,
nulladimeno poſti gli uni appreſ so gli altri, benchè non componeſſero
grandezza, tuttavia fa rebbono più, come ben offervò Ariſtotele. Ciò diede
occaſio ne al Leibnizio di compor l'eſtenſione di enti ſemplici, ma ete (94 )
eterogenei, o diverſi di ſpecie, che eſiſtendo ſcambievolmente gli uni fuori
degli altri coeſiſtano in uno; quindi per la no zione dell' eſtenſione, convien
conſiderare, e più enti che eſi Atano fuori di sè, e che tra loro s'unifcano, e
formino uno. Non fanno però un eſteſo;, perchè fe ben inſieme eſiſtano, non
ſono tuttavia tra loro uniti, come allora che liquefatti più me talli ſi
confondono in una maſſa. Le partipoi indeterminate dell'eſteſo, conſiderate in
aftratto, cioè ſenza far attenzione alla loro fpecie, non diferiſcono tra lo ro,
che nel numero. Non ſarà inutile quefta offervazione nel progreſſo. Intanto ſi
oſfervi, che l'uno eſcludendo nel ſuo con cetto i più, oi molti, per quanto
l'uno ſi moltiplichi per ſe ſteſ fo è ſempre uno, onde egliè il ſuo quadrato,
il fuo cubo, ed ogni altra potenza, foſſe anche ella di dimenſioni infinite, e
non folo avete un eſponente, ma molti, come le quantità che ſi dicono
eſponenziali. $. 21. Se l'uno è, egli tocca ſe ſteſſo, e l'altre coſe. L'uno è
in fe fteſſo, ed in altrui (5. 12. Sez. 3. ) In quanto è in fe fteſſo vien
impedito di toccar l'altre coſe, dunque tocca fe Hello; in quanto è in altrui,
è nell'altre coſe; dunque le coccherà. IN ALTRO MODO Una coſa nel coccar
l'altra giace appreffo quella che tocca, ed occupa la ſede vicina; ma ſe l'uno
tocca ſe ſteſſo, giace appreſſo ſe steſſo, ed è quindi due coſe, il che non
potendo effere, mani feſto è che non pud toccarſi. Le coſe diverſe dall'uno,
non potendo effer numero, perchè.non partecipano l'uno, non pociamo mai con l'uno
far due, ma nel contatto v'è ſempre almeno due (9. 19. Sez.-3.) Dunque l'uno
non toccherà l'altre coſe.: ANNOT. La contraddizione pur è qut apparente, e ſi
fa l'ano corporeo nel fupporre, che ei tocchi. Nozione immaginaria. 22.
Parmenide ragionando ad hominem con Socrate fuppone la par ticipazione
dell'idee, combattuta nella prima parte; conſidera quindi la grandezza, e la
piccolezza, come due ſpecie ſeparate, tra (95 ) tra loro contrarie; ben a cid
s'avverta, perchè in queſto conſiſte la deſtrezza del Filoſofo, e la forza del
ſuo ragionamento, S. 23 2 os' Se l'uno e, egli non è ně eguale, nè maggiore, në
mi nore degli altri enti. Sia l'ente minore degli altri enti, egli dunque
participerà dell ' idea della piccolezza, la qual è contraria alla ſpecie della
gran dezza. Si concepiſca, che la piccolezza ſia nell' uno, o farà in tutto
l'uno, o in alcuna parte di eſso; fe in tutto l' uno, eftenderà per l'intiero
uno tutto al di dentro, che vuol dire lo compenetrerà con la ſua ſoſtanza, o
l'abbraccierà con eſtremi li. miti al di fuori, che vuol dire lo comprenderà;
ma ſe la picco lezza s'eſtende al di dentro di tutto l' uno gli è eguale ",
e fe lo comprende gli è maggiore, onde la piccolezza ſarebbe nello ſteſ ſo
tempo grande, ed eguale contro l'idea di lei. Se la piccolezza è una parte
dell'uno, ne ſeguirà, che ella lia di nuovo in tutta la parte, o al di fuori, o
ál di dentro quindi che ella fia eguale, o maggiore per le coſe dimoſtrare;
dunque non potendo eſser la piccolezza, nè in tutto l' uno, nè in parte
dell'uno, non ſarà nell'uno, onde l'uno non farà pic colo, o minore degli altri
enti. Corol. In alcuno degli enti per la ſteſsa ragione non po irà ritrovarſi
la piccolezza, onde in queſta ipoteſi non v'è al tra cofa piccola, che la
piccolezza ftetsa, ma dove non v'è il piccolo, non v'è neppur il grande, perchè
l' uno non è che per riſpetto all'altro; dunque non vi faranno coſe grandi,
trartone la grandezza, e quindi I uno, e altre coſe ſaranno prive di grandezza,
e di piccolezza. e S. 24. Se l'uno è, le altre coſe non ſono di eſso nè
maggiori, nè minori, nè eguali. Le altre coſe aſsolutamente parlando ſono prive
di grandezza, e di piccolezza, dunque, rifpetto alla uno, non fono nè piccole,
ne grandi, e per la ſteſsa ragione, l'uno non è nè maggiore, nè minore
dell'altre coſe, eſsendo privo di grandezza, e dipiccolezza. 5.125. (26 ) S.
25. Se è l'uno egli farà eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non è maggiore,
nè minore dell'altre coſe, ma ſe l'uno non è, nè maggiore, nè minore dell'
altre coſe, egli per la forza dell'eſcluſione ſarà eguale. §. 26. Se l'uno è,
egli è eguale a ſe ſteſſo, ed all'altre coſe. Non avendo in sè, nè grandezza,
nè piccolezza, nè eccede rà ſe ſteſſo, nè da ſe ſteſo farà ecceduto, dunque
farà eguale a ſe ſteſſo. S. 27. L'uno è maggiore, e minore di fe ſteſſo. Egli è
in ſeſteſſo, dunque li comprende; dunque èmag giore di ſe ſtello; eſſendo in ſe
ſteſſo, egli è da ſe ſteſſo com preſo, dunque è minore; dunque è maggiore, e
minore di ſe ſteffo. S. 28, Se l'uno è, le altre coſe ſono maggiori, minori ed
eguali all' uno. Null'altro v'è, che l'uno, e l'altre coſe, non dandoſi mez zo,
($. 12. Sez. 2. ) Quel che è in una coſa è minore di eſſa (S. 10. Sezione 2. )
e ciò che la contiene è maggiore; dun que, poi che ogni coſa è in un luogo, e
che altro non v'è che l' uno, è l' altre coſe neceſſariamente ſono nell' uno, o
l' uno nell'altre coſe; ma ſe l' uno è nell' altre coſe, queſte ſono maggiori
dell' uno, perchè lo conten gono; l'uno è minore, perchè è contenuto; dunque
l'altre co le ſono maggiori, e - minori dell’uno: ma s'è dimoſtrato, che l' uno
non eſſendo nè maggiore, nè minore dell' altre coſe, all' al tre coſe farà
eguale (§. 24. Sez. 3.) Dunque egli è eguale, mag giore, minore dell'altre
coſe. Corol. Egli dunque può eſſere di miſure eguali, maggiori, e minori,
riſpetto a sè, ed all' altre coſe. Quindi Ha 1 1 ! (97 ) Ha più miſure riſpetto
alle coſe delle quali è maggiore, me no miſure riſpetto a quelle delle quali è
minore, e pari miſu re riſpetto a quelle delle quali egli è eguale. 6. 29. 9
Paſſa a dimoſtrare Parmenide, che ſe l'uno è, egli è parce cipe del tempo, ed è,
e ſi fa più giovane, e più vecchio di ſe fteſto, e degli altri, ed in contrario,
e che non è, nè ſi fa nè più giovane, nè più vecchio di ſe ſtello, e degli
altri par cicipanti il tempo. Per intendere adequatamente queſte propoſizioni,
in cui s'af follano varj principi i biſogna prima ripaffare ciò che fi diſle
nel ſ. 3. Sez. 3. 9. 27. Sez. 2. ove fi dimoſtrò. 1. Che chi partecipa dell'
eſſenza, partecipa delle differenze del tempo. 2. Che cið che ſi fa più vecchio
di ſe ſteſſo, e dell'altre coſe, nel farſi più vecchio, li fa più giovane, e
cið per eguali parti di tempo, ag giunte agli ineguali, il che abbiamo
dimoſtrato coll' eſempio delle ragioni di e diſucceſſivamente accreſciute di 1.
comparando percið le ragioni di į, e di abbiam veduto, che i loro va Iori i ti,
eit ! + divengono ſempre minori. Altreſuppoſizioniegli fa ne' ſeguenti
argomenti. 1. Il tempo è un fluſſo, da cui ſi fa progreſſo dal pallaco al
preſente, e dal pre Tente al futuro, e dall'era all'è, è dall' è al ſarà. 2.
Che una coſa che'ſi fa paſſa dal preſente ove è, nel futuro ove ſarà, e perciò
nel farli è di mezzo cra l'uno, e l'altro, onde propria mente ciò che è nell'
inftante, non ſi fa, ma è quello che è, o, come l'eſprime Platone, una coſa che
ha fatto acquiſto del preſente cella di farſi, od è ciò che allora convien che
fi faccia. 3. Il preſente è ſempre unito all'uno, perchè è ſempre unito all'
ente, dal qual l'uno è inſeparabile. 4. Il diverſo, o l'idea del diverſo è la
ſtella coſa ſecondo i principi di Socra te, e percid è ſempre uno, onde quello
che non è uno, non può eſer il diverſo, o l'idea del diverſo, onde le coſe
diverſe dall' uno, o che partecipano il diverſo, ſono più che l'uno, o hanno in
sè moltitudine, e in conſeguenza numero o più. 5. Delle più ſono prima le poche,
che le molte, e delle poche prima il pochiſſimo. 6. La coſa che prima li fa è
la prima, e le dipoi ſono più giovani delle già fatte innanzi. 7. E' impof
fibile', che una coſa ſi faccia oltre la natura, onde in una co ſa che ha
principio, mezzo, e fine, prima li fa il principio, indi il mezzo, e poi il
fine, che vuol dire, il fine ti fa i'ulti mo. 8. Quel che ſi fa ultimo è più
giovane di quel che fi fa Tomo II. il a e ce I 21 S: i n (98 ) il primo. 9. Chi
ſi fa con tutte le parti infieme d'un tutto,, fi fa nello ſteſſo tempo inſieme
col cutto.. 1 1 ſ. 30. Se l'uno è, egli è, e ſi fa, e non è, nè ſi fa più
vecchio, e più giovane di ſe ſteſſo. Se l' uno è participando l'eſſenza,
participa del tempo ($. 3. Sez. 3. ) ma quel che è in tempo, è in un fluſſo
continuo o pal ſa dal paſſato al preſente, o dal preſente al futuro (S. 28.
Sez: 3.) Dunque l'uno e continuamente in queſto paſſaggio. In quanto
paſſadall'era all' è fi fa più vecchio di sè;ma nel farſi più vec chio, ſi fa
più giovane (S. 26. Sez. 2. ) Dunque ſi fa più vec chio, e più giovane di ſe
ſteſſo. Chi non oltrepaſſa il preſente, nel far progreſſo dal paſſato,
nell'avvenire non ſi fa, ma è ciò che è ($.22. Sez. 4. ) Dunque quando l ' uno
tocca primieramente il preſente, non ſi fa allo ra vecchio, ma è vecchio
oggimai, Nel toccar il preſente, co me ha prima di lui fatto acquiſto, cefla di
farli, od è ancora ciò che avvien che ſi faccia i $. 28.Sez. 3.) Dunque l'uno,
quan do fatto vecchio conſeguiſce il preſence, cella di farſi, od è allora più
vecchio di ſe ſteſſo, di ciò che era toccando il pal fato; ma l'uno è di quello
più vecchio, onde fi faceva vec chio; e facevali di ſe ſteſſo, ed il più
vecchio è più vecchio del giovane; dunque allora l' uno è più giovane di ſe
ſteſſo quando fatto vecchio conſeguiſce il preſente, ma il preſente è fempre
unito all'uno; dunque l'uno, ed è ſempre, e li fa più vecchio, e più giovane di
ſe ſteſſo; ma facendoſi tale, od ef ſendo in tempo pari ritiene la ſteſſa età,
e chi ritiene la ftel fa età, non è più vecchio, nè più giovane; dunque l'uno
eſ ſendo, e facendoli in tempo, non è più vecchio, nè più gio vane di ſe ſteſſo.
g. 31. Se l'uno è, egli è più vecchio dell'altre coſe, o l'altre coſe più
giovani di lui. Nelle coſe diverſe, che hanno in sè moltitudine o numero, altre
ſon fatte prima, altre dappoi; ma il primo che ſi fa è pochifiimo, (9. 26. Sez.
3. ) e nei numeri l'uno è pochiſſimo, dunque l'uno è facco inanzi alle coſe che
hanno numero, o che fono. 1 fono diverſe dall'uno, o ſono gli altri; ma il
primo che ſi fa è più vecchio, le coſe che dipoi ſi fanno, ſono più giovani;
dunque l'uno è più vecchio dell'alcre coſe, e l'altre coſe più giovani. g. 32.
Se l'uno è, egli è più giovane dell' altre coſe, e le altre coſe più vecchie
dell' uno. L'uno non può farſi oltre la natura fua. Dunque avendo parti, o
principio, o mezzo, o fine, ſi fa ſecondo la natura del principio, del mezzo, e
del fine, ma il princi pio fi fa il primo, è il fine ſi fa l'ultimo, ma l'
ultimo fatto e più giovane dell' altre coſe, e l' altre coſe più vecchie dell'
uno ($. 26. Sez. 3. ); dunque l'uno è più giovane degli altri, e gli altri
dell'uno. $. 33. Se l'uno è, egli non è più vecchio, nè più giovane dell' altre
coſe.. Ogni parte dell' uno è una; ogni parte del mezzo è una, ed uno è
parimente il fine, od il tutto, onde fi farà l'uno, é colla prima coſa che fi
fa, ed infieme colla ſeconda, colla ter za ec. onde percorrendo ſin all'eſtremo
fi farà un tutto, o 1 uno non eſcluſo nella generazione dal mezzo, non dall'
eftre mo, non dal primo, non da altro; ma ſe l'uno ſi fa inſieme con tutte le
parti d' un tutto ha la ſteſfa età con tutti gli al tri; dunque ſe non è nato
oltre la propria natura, non è fac to prima nè dopo l'altre coſe, ma inſieme e
fecondo queſta ragione non è più vecchio, o più giovane degli altri, nè gli
altri dell' uno. ſ. 34. Se l' uno è, egli ſi fa più giovane, più vecchio di ſe
ſteſſo. Se alcuna coſa foſſe più vecchia d' altra, li farebbe ancora più
vecchia di ſe ſteffa: A ſia più vecchio di B, nel creſcerfi gli anni ad A, egli
& fa più vecchio di fe fteffo, e di B; dun n 2 que (100 ) | 1 que l'uno nel
farſi più vecchio dell' altre coſe ſi fa ancora più vecchio di sè; manel farſi
più vecchio, ſi fa ancora più gio vane per la ſteſſa ragione, che creſcendo
tempi eguali, la ra gione decreſce (5.27. Sez. 2. ) Dunque l'uno li fa più
giovane di ſe ſteſſo, ma s'era dimoſtrato, che ſi faceva più vecchio (S. 30.
Sezione 3. ) Dunque ſi fa più giovane, e più vecchio di ſe Iteffo. 1 f. 35. Se
l'uno è, egli non può farſi, nè più vecchio, nè più giovane dell'alere coſe.
Ciò che fi fa più vecchio d'un altro, o più giovane, ſi fa più vecchio, e più
giovane ancora riguardo a sè (1.37. Sez. 3.) ma l' uno non ſi fa, ma è, e più
giovane, e più vecchio ri guardo a sè; dunque non ſi fa, nè più giovane, nè più
vec chio riguardo agli altri. Se l'uno è più vecchio, che le altre coſe, ha più
lungo tem po dell'altre coſe, ma creſcendoſi il tempo, egli ſempre eccede meno,
onde ſi fa più giovane riſpetto alle coſe, delle quali era innanzi più vecchio;
ma ſe egli ſi fa più giovane, quell' altre coſe ſi faranno più vecchie; dunque
le coſe che erano innanzi, e più giovani dell'uno, ſi fanno dell' uno più
vecchie, cinè fi fanno più vecchie, riſpetto a quello che era più vecchio; ma
le coſe più vecchie non ſono, ma fi fanno ſempre, perchè la fanno più vecchie,
mentre l'uno ſi fa più giovane; dunque le coſe ſi fanno ſempre più vecchie
dell'uno. Le coſe poi più vec chie, parimente ſi fanno più giovani dell' uno
più giovane perchè l'uno, e l'altre coſe movendoli in contrario G fanno vi
cendevolmente contrarie, cioè le coſe più giovani dell'uno, ſi fanno più
vecchie dell'uno che è vecchio, ed all'incontro l'una più vecchio, li fa più
giovane delle coſe più giovani;, ma non, è poffibile che l' uno, e l' altre
coſe fieno fatte nè più giova ni, nè più vecchie, perchè le cali foſſero, non
più li farebbo no; dunque le coſe, e l'uno tra loro ſi fanno più vecchie, e più
giovani: l'uno li fa più giovane delle cofe, per quello che parve eſſer più
vecchio, e prima fatto, l'altre coſe poi fi fanno più vecchie, per quello che
ſono ſtate fatte dopo, e ſecondo la ſella ragione: l'altre coſe ancora ſe ne
ſtanno riſpettivamente alla uno, come quelle che ſono ſtate più vecchie, e
prima dell'uno. Dunque inquanto che nè l' uno, nè gli altri fi fanno, diſtan do
1 (101 ) $ do ſempre tra loro di un numero pari, non ſi farà nè l'uno più
vecchio degli altri, nè gli altri dell' uno. Ma come decreſce ſempre la ragione
dei tempi, o con minor particella ſempre tra loro differiſcono le coſe prime
dall' ultime, e l'ultime dalle prime, così è neceſſario che l' altre coſe ſi
facciano, e più vecchie più giovani dell'uno, e l'uno dell'altre coſe. Quinci
aggruppando in uno tutte le propoſizioni, abbiamo di. moſtrato, che l'uno è, e
li fa più vecchio, e più giovane degli altri, e di nuovo non è più vecchio, nè
più giovane di ſe ſteſſo e degli altri. Corol. Perchè l' uno è partecipe del
tempo, o ſi fa più vec chio, e più giovane, egli è partecipe del quando, del
futuro, e del preſente. Dunque era l'uno, ed è, e ſarà, e ſi faceva, e fi fa, e
li farà, e ſarà ancora alcuna coſa in lui, e di lui, ed è, ed era, e farà.
COROL. 2. Perchè la ſcienza, l'opinione, il ſenſo, la defini zione, il nome,
riguardando le coſe che ſono nelle differenze dei tempi, in quanto l'uno è
capace di queſte differenze, è ancora fog getto di ſcienza, d'opinione, di
fenſo, può definirli, e può no. minarſi. Annot. Qui Parmenide non dà ſcienza, e
definizione, ſe non delle coſe ſoggette al tempo, il che biſogna accordare con
ciò che diſke (9.16. Sez. 1. ) La ſcienza che appreſſo noi è ſcienza del le
verità, che ſono a noi dintorno. 9. 36. Riſtringiamo adeſſo in poco, quanto
Platone ha propoſto nella propoſizione condizionale, o ſia nell'ipoteſi ſe
l'uno è. 1. Diftin le colla mente i due concetti dell'uno, e dell'ence., 2. Ne
com poſe un tutto intellectuale di due parti, o dei due concetçi dell' uno, e
dell'ente. 3. Tra loro paragonandoli ne deduſſe il terzo concetto del diverlo.
4. Conclure che nell' uno o è una moltitu dine infinita di numeri, che dividono
l' uno a proporzione dell' ente. 5. Che l'uno è tutto, e parte, e finiso, e
infinito. 6. Da ciò che è un tutto finito, conſiderò in effo il principio, il
mez-, 2o, il fine, e quindi la figura. 7. Da ciò che è un turto, e che il tutto
è nel tutto, conclure che l'uno è nell' uno, ed in fe ftel 1o. 8. Da ciò che
l'uno è comeparte nel tutto, conclure che è in altrui. 9. Che ſta, e ripoſa, ſe
egli è in ſe ſteſſo. 10. Che ſi mo ve, le è in altrui. 11. Che è ſimile a sè in
quanto l'uno, è lo ſteſſo che l'uno. 12. Simile agli altri, perchè paciſce d'
eſſere co me gli altri. Che è diffimile in quanto cert'uno, e certo ente. 14. (102
) 14. Che è lo ſteſſo, poichè ekſte, ed eſiſtono glialtrienti nello ſteſſo
tempo. 15. Che è diverſo, in quanto non ha in sè ciò che hanno gli altri enti.
16. Quindi fimile, e diffimile, perchè patiſce le ſteſſe cofe. 17. Che è
maggiore, minore, ed ineguale, e non maggio re, minore, nè eguale dell'altre
coſe. 18. Che è, e ſi fa più gio vane, e più vecchio di ſe ſteſſo, e dell'altre
coſe, e non è, e non fi fa, nè più vecchio, nè più giovane dell'altre coſe, e
l'altre co fe di lui. 19. Finalmente, che dell'uno in quanto è li ha ſcienza,,
ſenſo, opinione, e può denominarſi, e definirſi. Si potrebbe più
compendioſamente ridur in poco l'argomento di Parmenide, conſiderando che
reciproche ſono queſte due pro polizioni: l'unoid, è l ' uno, per il che ſi può
predicar dell'ente ciò che ſi predica dell' uno, e dell' uno ciò che ſi predica
dell' en per ragione dei diverſi concetti formali, predicandoſi dell' ente, la
parte, il finito, l'infinito, il principio, il mezzo, il fine, la figura, lo
ſteſſo, il diverſo, la quiete, il mo to, il limile, il diſſimile, e il maggiore,
l'eguale, il minore, it giovane, il vecchio ec. cutti queſti
predicaricompereranno pari mente all'uno. Ben ſi vede, che qui non ſi parla che
dell' en te corporeo, e degli enti particolari, a cui or compete una co fa, ed
or un'altra. il tutto, S. 37: Ma perchè i predicati oppoſti, come il fimile, il
diffimile, it maggiore, e il minore non poſſono competere nel tempo ſteſſo all'
uno, ed all'ente ſenza contraddizione, Parmenide moſtra che queſti attributi
contrari non gli competono nello ſteſſo tem po, ma in diverſi tempi; tal è la
natura di ogni ente finito: gli attributi, imodi, le relazioni, delle quali è
capace, non hanno luo go in lui, che ſucceſſivamente a differenza dell'ente
infinito, in cui tutte le perfezioni poſſibili, che attribuir gli ſi poſſono,.ftan
no in lui tutte inſieme, onde non male con due parole molto energiche, ſebben
barbare, ſi chiamò Dio dal Bulfingero, omni tudo compoſibilitatis. Gli
Scolaſtici lo chiamarono atto puro, cioè atto ſenza alcuna miſtura di potenza,
e quindi diametralmen te oppoſto alla materia che è pura potenza, e talmente
pura, che al cuni degli ſcolaſtici la ſpogliano dell'atto entitativo,
edell'eſiſtenza. $. 38 (103 ) go 38. Se l'uno è; egli prende diverfi ſtati
ſecondo le:: differenza dei tempi. Nel tempo ſteſſo non ſi può participare, e
non participare dell'eſſenza, e delle coſe che conſeguono al non participarla,
ed al participarla; or il farli è renderſi partecipe dell' ellenza; il
rovinarli e privarſi dell' effenza; dunque l'uno non può ne! tempo ſteſſo, e
prender, c laſciar l'eſſenza. Dunque la pren de, e la laſcia in diverſi tempi,
Quando ſi fa uno, egli perde l' eſfer molte coſe; quando ſi fa molte coſe ceffa
d'effer uno; nel farfi uno, e molte, li fepara, e fi congiunge, qualora ſi fa
ſimile, e diffimile, ſi affimiglia, e diffimiglia; quando ſi fa maggiore,
minore, ed eguale, creſce, decreſce, e li pareggia; quallora movendoſi fi
ferma, e quallo ra fermandoſi li move. Or tutte queſte coſe, eſſendo tra loro
contrarie, l ' uno non può averle nel tempo ſteſſo, dunque l'ha in tempi
diverfi. 9. 39 Non fi pud paſſar dalla quiete al moto, e dal møto alla quie te,
ſenza cangiamento di itato. Un corpo che cangia fuccelli vamente la relazione
di diſtanza, che egli ha ad altri corpi vi cini, ha uno ſtato diverſo da quello
d'un corpo, che conſerya ſempre a ' corpi vicini la ſteſſa diſtanza. Queſto
cangiamento di uno ſtato all' altro ſi fa in tempo; ma conſidera Platone, che
nel paſſaggio dal moto alla quiete, e dalla quiere al moro, v'è un non so che
d'improvviſo, e di momentaneo, che ſi conce piſce nell'iſtante del paſſaggio, e
non più appartiene al moto, che alla quiete; non al moto, perchè la coſa ſi
concepirebbe ancora in ripoſo; non al ripoſo, perchè la coſa fi concepiſce
ancora in moto, Conclude dunque Placone, che queſta natu ra improvviſa è quaſi
ſconvenevole tra il moto, e la quiete; che ella non è in verun tempo, e a
queſta da queſta paſſan do fi muta nello ftato ciò che li move, e nel moto ciò
che ſi ri pola. 8. 40. (104 ).. §. 40. Se l'uno è, nell'atto che cangia ſtato,
non gli competono più i predicati dell'ente. Nel paſsar l'uno dal moto alla
quiete fi muta momentaneamen te, e all'improvviſo, o mutandoli egli non è in
alcun tempo; dunque non ſta nè fi move. Così quando paſsa dall'eſsere alla ro
vina, o dal non eſsere al farſi, non è, nè ſi fa, nè fi diſtrugge. Parimente
quando paſsa dall' uno in molti, e da molti in uno, non è, nè uno, nè molti, nè
ſi congiunge, nè fi ſcongiunge, e paf fando dal ſimile al diſſimile, od al
contrario, non è, nè affimi gliato, nè diſlimigliato, e paſsando dal piccolo al
grande, ed all' eguale non creſce, nè decreſce, nè ſi pareggia. Annot. Da
queſta dottrina ſebben metaforicamente da ' Plato ne eſpreſsa, imparò
Ariſtotele ad introdurre tra i principj delle generazioni, la privazione mal a
propoſito ſchernità da coloro, che non ne inteſero nè la forza, nè l'uſo.
Quando una coſa ha perdute tutte le diſpoſizioni o determinazioni, che la
rendevano tale, ella ceſsa d' eſsere la tal coſa, cioè reſta priva di tutto ciò
che la coſtituiva, e diſtingueva dall'altre coſe, ma nell'atto ſteſ fo, in cui
ceſsa d'eſsere quel che era, comincia ad eſsere ciò che non era, o paſsa dalla
privazione alla forma contraria; queſto ſtato di mezzo che è tra la forma, e la
non forma, Platone chia ma natura mirabile, e momentanea, ed è certo, che ella
nel fifa far i gradi della noſtra cognizione ci moſtra quelli della natura che
non opera mai per falti. Nel Timeo dice: Dovendo eſer l'ef figie delle coſe
diſtinta da ogni verità di forma, non fia mai prepa rato quel medeſimo grembo
di tal formazione, ſe egli non farà informe di tutte quelle ſpecie, le quali è
per ricever da qualche parte, percid che ſe egli faravvi alcuna di quelle coſe
che in sé riceve fimiglianza, quando riceverà una natura contraria di quella di
cui è ſimile, ovve ro un' altra, affatto malagevolmente la ſimiglianza, e
l'effigie di quel la eſprimerà quando moſtrerà la ſua, però egli è convenevole,
che di tutte le ſpecie ſia privo quello che ha in sè da ricevere tutti i generi.
Siccomequelli che hanno da fare unguenti odoriferi, l'umida materia, la quale
vogliono di certo odore condire, di tal guiſa preparano, che * ella non abbia
alcun proprio odore. E coloro che vogliono in materie molli imprimerealcune
figure, niuna figura affatto laſciano primiera mente apparire in quella, ma quelle
cercano in prima di render qan to poſibil fia polite. Ciò ſi rende ſenſibile
nelle quantità algebraiche poſitive, e ne gative, nelle quali non ſi paſsa
dall'une all'altre ſenza paſsar per 1 1 1 il (105. ) o il zero, che non è nè
negativo, ne poſitivo, ed è il vero fim bolo della privazione. Nella Geometria
il punto matematico equi vale al zero, che è il principio negativo
dell'eſtenſione, e dal quale fi comincia la miſura, come l'unità è il principio
poſitivo, per cui fi comincia la ſteſſa miſura. Il punto è comune alla linea,
che ceſsa per eſempio di eſsere alla ſiniſtra, e comincia ad eſsere alla deſtra,
o che termina d' eſser in alto, e comincia ad eſser a baſso; così egli non è
deſtro, nè finiſtro, nè alto, nè baſso. Tut te queſte ſono eſpreſſioni
utiliNime, e ſebben noicele rappreſen ciamo per fpecie aliene, come il niente,
o l' impoflibile, tuttavia molto fervono a reggere i noſtri ragionamenti.
L'origine, e la natura del calcolo delle fuſioni dipende dall'uſo della natura
momentanea, ed ammirabile di Platone. In queſto calcolo non ſi cercano, ſecondo
il Newtono, le quantità infinita mente piccole, chemainon poſsono
determinarſi,ma la ragione del le quantità naſcenti, od evaneſcenti, cioè di
quelle, le cui fuffio ni, o velocità nel naſcere, o nel ſvanire equivagliono al
zero, il qual ſimboleggia il termine del ripoſo, e il principio del moto il
termine del moto, ed il principio del ripoſo. Sieno nel preſen te momento le
fluenti quantità y, x; nel momento ſeguente di verranno ſecondo l' eſpreſſione
Newtoniana y toy, ed xtoy, ove o y, od ox eſprimono i momenti delle velocità.
Softituite queſte eſpreſſioni in un'equazione propoſta, per eſempio in quel la
della parabola yy. =ax, quefta fi caogierà nell' equazione. yy + 2 oyy tooyy =
oaxtoax o cancellando gli eguali 2oyy tooyy = oax, e cancellando il comune o 2
yyt oyy = ax Sin che la quantità efpreſsa per o reſta finita, non può mai de
terminarli la ragione delle quantità che fluivano, ma nella ſup poſizione che
ella s' annulli, come nel caſo dell' ultima o della prima velocità delle
grandezze, ove o s'eguaglia a zero, fi ha 2 yy = ax, e ponendo l'equazione in
analogia 2 y.a:: x.y ragione determinata, con cui le qualità cominciano o
termic nano di Auire. Il Newcono ſpiega più a lungo queſte coſe nel ſuo
trattato delle Curve, e lo ſpiega non chiarezza il Ditton nell'inſtituzione
delle Auſſioni; baſta a me d'averlo quì accennato, per moſtrare che agli
antichi non man cavano quell' idee, che i moderni hanno poi ſviluppato, carat £
erizzandole con canta utilità delle ſcienze, e delle bell'arri., 1 Platone
preſuppone nel ſeguente argomento, che la partenon è parte nè di molti, nè di
tutti, ma di cert'una idea, e di cert'uno che chiamiamo tutto, ed è un cutto
fatto da tutte le parti, e in sè perfetto, Dalla parola idea lice argomentare,
che qui non fi craica che dei concetti, con cui fi concepiicono i molti, e il
tutto, e le parti. L'idea dei molti è l'idea dei più aſſolutamente preſi, e com
prende egualmente le parti, ed i tutti, dicendoſi molte, o più parti, molti o
più molti. L'idea del tutto è l'idea dell'uno più riſtretto in un certo numero,
o riſtretto in cerci limiti; idea della parte è l'idea d'uno incluſo in queſti
più già ridoc ti. Non ſi pud quindi rigoroſamente parlando dire, che la par te
ſia parte di molti, perchè conſiderandoli ſecondo la loro propria idea, non
fanno ancora il tutto a cui ha immediata re lazione la parte, Nel dir dunque
Platone, che la parte non è parte di mol ti, allude ai modi, o ai più vagamente
preli, e nel dir che la parte è parte del tutto, allude ai più riſtretti; ne'
più, come s'accennd, vi ſono incluſe indifferentemente le parti, ei tutti, onde
ſe la parte foſſe parte dei più, potrebbe eſſer parte di ſe Iteffa. Aggiunge
Platone, che ogni parte non è parte di qualun que uno ma d'un cert' uno, cioè
di un certo tutto. La par te del triangolo non è la parte del quadrato, nè un
ſoldato che è una parce d' un eſercito, è parte di una proceſſione di Frati. Il
tutto poi che è fatto di tutte le parti, o a cui non man ca alcuna parte, è
perfetto., Si oſſervi in oltre eſſer lo ſteſſo, il dir molti, o più d'uno; che
ogni coſa quindi o è uno, o più, cioè molci; che una parte dell' eſtenlione
cratca fuori di efla, o feparata da eſſa, eſſendo fteſa, contiene più, e ſe
dinuovo ſi ſepa ra in due, una di queſte parti eſſendo di nuovo fteſa, ritiene
ipiù. In altri termini ciò vuol dire, che non v'è parte dell'eſtenſione che non
ſia diviſibile all'infinito, e come la prima divifione fi fa per 2, ed indi per
2 i Pittagorici aſſegnavano il 2, come il fim bolo dell'infinito. Prima che una
parte fi ſeparaſſe da una certa eſtenſione, ella riteneva il nome di parte, ma
quando è ſeparata, e che di nuovo ſi divide, ella non è più parte, ma tutto.
Queſti nomi di tutto, e di parte ſono ſempre relativi; coloro per ciò che
definiſcono l' eſtenſione, ciò che ha parti fuori" di? parti, null' altro
dicono ſe non che l' eſtenſione è l'eſtenſione, perchè non ha parti ſe non ciò
che è eſteſo. Molto peggio fan no coloro, che ſuppongono, che l' eſtenſione
eſſendo compoſta di una infinità di parti fteſe, ſia compoſta d'una infinità di
ſo. ſtanze tra loro tutte ſeparate, perchè l'idea dell'eſtenſione null hache di
relativo, e ſuppone la coſa aſſoluta,' o la ſoſtanza, su cui la relazione ſi
fonda. Il corpo fiſico, e mecanico non ſono pura eſtenſione, come il
geometrico,; perchè nel corpo fiſico v'è la forza, o la for ma, e nel mecanico
il peſo, origine delle proprietà, e dei lo ro fenomeni.. 8. 42. Se l'uno è, le
parti in quanto parti ſono parti dell' uno, o partecipano dell'uno. Le parti
non poſſono eſſer parti di le ſteſſe, nè di molti ($. 40. Sezione 3. ) dunque
dell' uno, il che è dire, che partecipano dell' uno. §. 43, Se l'uno è, il
tutto in quanto tutto partecipa dell' uno. Il tutto cui nulla manca delle tre
parti è uno; dunque par tecipa dell'uno. Corol. Il tutto dunque, e le parti
partecipano dell' uno, e ciò ſignifica un non so che di ſeparato da gli altri,
ma eſiſten; te per sè, ſia egli qualunque coſa. ANNOT. Non par egli, che
Parmenide nel dir, che queſt' uno ſia ſeparato dagli altri, e per sè eſiſtente,
alluda all'idee feparatę che ha combattute nella prima ſeſſione '? Se non vuol
ciò dirſi, come contrario alla profonda Filoſofia d'un sì grande Uomo, non ne
liegue egli, che parlando qui con Socrate, parla bensi col fuo linguaggio, ma
nel tempo fteffo incende di favellare fecondo le attrazioni della mente. 0 2
9.44. (108 ) 8. 44. Se l'uno è, le cofe che partecipano dell' uno fono altra
coſa che l'uno. Niuna coſa può effer alcun uno fuor che lo ſteſſo uno; dunque
ſe le coſe partecipano dell'uno, che vuol dire, non ſono lo ſtes fo uno,
bifogna che fieno un'altra coſa. Dunque le coſe che partecipano dell' uno fono
de verſe dall'uno. S. 4.5. Se l' uno è, le coſe che partecipano dell'uno, ſono
in moltitudine infinite. Se le coſe che partecipano l'uno ſono diverſe dall'
uno, non ef fendo uno nè più d'uno non faranno niente; ma non fon l'uno, dunque
più d'ano, dunque ogni parte d'uno, include in eſſa i più, e queſti altri più,
e così in infinito, dunque le coſe clre parteci pano l'uno, ſono infinite in
moltitudine. COROL. Poichè il più include per fua natura la moltitudine in
finita, ogni parte che d'eſſo ſi tragga fuori con l'intelligenza le ben
piccoliflima rifpetto all'altre, ſarà in moltitudine infinita. ANNOT. Platone
dice da quelle (cioè dei molti ) trar fuori con r* intelligenza alcuna cofa
piccoliffima. In qual altro modo pud egli meglio indicar l'aſtrazione della
mente.? nel dir Platone, che confiderando la diverſa natura della fpecie
fecondo ſe ſteſſa quanto di lei vediamo, fia egli infinito, e in moltitudine,
altro non ſignifica con la diverſa natura, ſe non che ogni parte dell'
eftenfione include in sè più, e queſti altri più, e infiniti in. moltitudine. 1
g. 46. Se l'uno è, la parre in quanto parte è diverſa dell' uno, per chè l'uno
è per sè indiviſibile, e la parte per sè divifibile. Se l'uno è, le parti ſono
più che l' uno. Le parti diverſe dell'uno, ſe non ſono uno, o più d'uno, nulla
ſaranno, ma ogni cofa è uno o più; dunque ſe le parti diverſe dall uno non ſon
uno, ſaranno più che uno. S. 48. Se l'uno è, le parti che lo partecipano hanno
termine tra loro, e riſpetto al tutto, e il tutto riſpetto alle parti. Ogni
parte è una, ogni tutto è uno; ſe l'uno e l'altro parte cipa l'uno; ma quello
che è fatto uno ha un termine. Dunque ec. Corol. All' altre coſe, che all' uno,
avviene che partecipan do dell'uno, e di loro ſteſſe, ſi fanno in loro
cert'altra coſa, il che dà loro il termine, ma la natura loro che include i più,
è per eſſenza infinita in moltitudine; dunque le altre coſe che l'uno tutte
ſecondo le particelle loro, ſono infinite in numero, e par tecipi di termini. g.
49. Se l'uno è, le coſe che partecipano l'uno, fono fimili, e dil ſimili, ſi
movono, e ſi fermano, od hanno altre paſſioni con trarie, Le altre coſe che
l'uno, ſono tutte infinite, o indefinite, fe condo la loro natura, onde tutte
patiſcono lo ſteſſo, ed aven do cermini, e diverſi termini, patiſcono il
diverſo, ma il limi le è quel che patiſce il ſimile, il diſſimile quel che
patiſce il diverſo. Dunquele coſe, altre che l'uno, ſono ſimili, e diffimi li.
Maſe patiſcono le ſtelle coſe, e diverſe, pariranno anche il moverſi, ed il
fermarſi, l'eſſer maggiori, minori, ed eguali, l' eſſer più vecchie, più
giovani ec. e 3. 50 Riepilogando le coſe dette, abbiam dimoſtrato che ſe l'uno
che in quanto lo partecipano ſon d'ello parti. Che il tutto dal le parti
riſultante partecipa pur dell' uno; che le parti parte cipanti del tutto, è
dell' uno ſono infinite in moltitudine, che han (110 ). hanno termine tra loro,
e rifpetto al tutto, come il tutto l'ha riſpetto alle parci, onde nel patir le
coſe ſteſſe, e diverſe ſono ſimili, e diffimili, ſi moyono, e fi fermano. Paſſa
a confiderar Parmenide nella ſuppoſizione, che sia l'uno, coſa adiviene alle
coſe che non partecipano l'uno. g. 58. Se l'uno è, e le altre coſe che non
partecipano l'uno, non ſono nè tutto, nè parii, nè fimili, nè diffimili, nè le
ſteſſe nè diverſe, non ſi movono, non fi fermano, non ſi fanno, non ſi
diſtruggono, non ſono, nè maggiori, nè minori, nè eguali, nè vecchie, nè
giovani. Si concepiſca l'uno ſeparato dall'altre coſe, cioè fi concepi ſca che
le altre coſe non lo partecipano, non vi ſaranno mol ti, perchè ognun de molti
è uno; non vi ſarà numero, o mol titudine ordinata che principia dall’uno, il
quale ſucceſſivamen te li va aggiungendo a ſe ſteſſo, e fa ogni numero uno
nella fua fpecie; non vi ſarà tutto, che è una moltitudine riſtretta in uño;
non vi ſaranno parti, ognuna delle quali è uno ordi nata ad un altro uno; non
vi ſaranno coſe limili, nè diffimi li, nè le ſteſſe, nè diverſe con l' uno,
perchè ſe teneffero in se -ſimigliznza, ediffimiglianza, comprenderebbono in sè
due ſpecie tra loro contrarie, onde non eſſendo partecipi di due, nemme no lo
ſarebbono di due contrarj; non poſſono eſſer quindi le coſe nè ſteſſe, nè
diverfe, nè moverſi, nè formarſi, nè diftrug. gerſi, nè effer maggiori, giovani,
e vecchie, perchè eſſendo ſem pre partecipi di due coſe contrarie ſarebbono
partecipi di nu mero. ANNOT. Queſto è lo ſteſſo che concludere che l' uno
traſcen dentale, eſſendo inſeparabile dall' ente, è lo ſteſſo tor dalle coſe l'
uno, che l'ente, od annullarlo. g. 52. 1 Parmenide ha ultimamente conſiderato,
coſa accaderebbe alle coſe, ſe non vi foſſe l'uno, che per ipoteſi ſtabili. Or
cangia ipoteſi, e cerca, coſa accaderebbe alle cofe fe non vi foſse l'uno.
Queſte due ipoteſi ſembrano diverſe, ma ricadono poi nello ſteſso, perchè canto
è annullar le cote ſeparando da loro l' uno che è, od eſsere ſi concepiſce,
quanto annuliarle ponendo le co ſe, e negando l'uno. SE (111 ) . B. I. Uando
per eſempio fi dice grandezza, e non grandezza, QI si dicono due coſe oppoſte,
e tra loro contrarie, poichè la non grandezza diſtrugge ciò che la grandezza
pone o in natu ra, o nella mente; le fi fanno quindi le due propoſizioni, la
grandezza è la non grandezza non è, tutte e due ſono nega tive, ma l'una è d'
un ſoggetto finito, e determinato, l'altra d'un ſoggetro infinito, e
indeterminato. La grandezza é il ſog getto di decerminata ſignificazione, la
non grandezza di ſignifica zione indeterminara, perchè non grande è il piccolo,
non grande il punto, non grande l'unità ec. Or il determinato è contrario all
indeterminato; dunque, come ben oſservò Marſilio Ficino, le due propoſizioni,
la grandezza è, la non grandezza non è, ſono con trarie, ſebben l’una, e
l'alcra fieno negative. Lo ſteſso debbe dirſi delle due propoſizioni, l'uno non
è, il non uno non è, egeneral mente della propoſizione A non è; non A non è:
nella pri ma ſi nega ad A l'eſere, nella ſeconda ad A che fi nega, ga l'effere.
Negar ſemplicemente una coſa, e negare la nega zione, ſono coſe tra loro
contrarie. La propoſizione all'incon. tro A non è, e l'altra non A è, ſono
equivalenti, perchè nel la prima di A fi nega l' eſſere, nella ſeconda fi
afferma, che ad A fia negato l' eſſere. Affermare la negazione è lo ſteſſo che
negar la cola; dunque equivalenti propoſizioni ſaranno, l'uno non è, il non uno
è. E' poi da oſſervarli, che le negazioni, e pri vazioni ſi conoſcono per le
loro realtà oppofte, la cecità per la vi fione, le tenebre per la luce, non A
per A. ſi ne B. 2. Se l'uno non è, nel pronunziar la propoſizione ai concepiſce
chiaramente e diſtintamente, che l'uno non fia, o li ha fcien za di ciò che
s'eſprime, e s'eſprime qualche coſa diverſa dall' altra, l'uno è. Le privazioni,
e negazioni ſi concepiſcono chia ramente, e diſtintamente per le loro realtà
oppoſte, dunque il non uno per l' uno (J. 1. ) ma la propoſizione il non uno è,
è, equivalente all'altra l' uno non è, dunque queſta propoſizione l' uno non è,
fi concepiſce chiaramente e diſtintamente, o li ha ſcienza di lei. La
propoſizione l'uno non è, è diverſa dall' altra, 3 uno (112 ) ! $ 1 1 uno è, e
chiaramente, e diſtintamente ſi concepiſce la loro diver ſità; dunque nel dir
l' uno non è, ſi concepiſce qualche coſa di diverſo. Platone così lo dice:
eſprime primieramente alcuna coſa che ſi può conoſcere, poſcia differente
dall'altra, colui che dice uno, aggiungendovi l'eſfere, oil non eſſere,
perciocchè non ſi conoſce meno, ciò che fia quel che ſi dice non ellere, e come
ſia certa co fa differente dall'altra. Corol. Può dunque predicarſi dell' uno
la ſcienza, e la di yerſità. S. 3. Se non è l'uno, o ſe il non uno è, il non
uno partecipa delle coſe che di lui ſi predicano, e non le partecipa. Del non
uno è, ſi predica la ſcienza, e la diverſità (Cor. ant. ) dunque partecipa di
queſte coſe, mapoichè egli non è, non aven do eflenza, non può participarle,
perchè il non ente non ha pro prietà, dunque non le partecipa; dunque le partecipa,
e non le partecipa. COROL. Così s'eſprime Platone: Il non ente è partecipe di
sé, e d'alcuna coſa, e di queſta, e con queſta, e di queſta, e di cut te le
coſe sì fatte; concioliachè non li direbbe uno, nè le diverſe coſe dell'uno, ne
avrebbe egli alcuna coſa, nè alcuna coſa fi chia merebbe, ſe non foſſe
partecipe di alcuna, nè di queſte altre nondimeno è impoſſibile che ſia l'uno,
ſe egli non é, ma niuna cofa vieta, che non ſia partecipe di molte coſe, ed è
neceſſario ancora ſe è quello l'uno, e non altro, ma ſe non è, nè l'uno, nè
quello non ſarà egli; non ſi dirà nulla di lui, ed il ragionamento farà d'altra
cofa, ma ſe fi ſuppone che quello uno non ſia, è ne ceſſario che ſia partecipe
di lui, e di molte altre coſe,. 4. Se il non uno è, il non uno è ſimile a ſe
ſteſſo, e diffimile all'altre coſe, ed al contrario. Il non uno convien col non
uno, dunque con ſe ſteſſo; dunque è ſimile a ſe ſtello. Il non uno è diverſo
dall'altre coſe che parte cipano l'uno, dunque è diffimile dall'altre coſe; ma
il non uno non eſſendo, non può aver proprietà d'effer ſimile, nè diffimi le,
dunque ec. 8. S. 1 (113 ) §. 5. Se il non uno d, egli è eguale, ed ineguale
all' altre coſe, e nel tempo ſteſo eguale, ed ineguale. Gli eguali ſono fimili nella
quantità; ma il non uno non ha ſimiglianza con l'altre coſe, dunque non ha
egualita; ma ſe egli non è eguale agli altri, gli altri non ſono eguali a lui,
dunque è loro ineguale; ma gl' ineguali partecipano dell' ineguaglianza, cioè
di grandezza, edi piccolezza; dunque l'uno che non è, egli è grande, e piccolo;
ma tra il grande, e il piccolo ſi frammetter eguale, e chi ha grandezza, e
piccolezza, pud ancora aver egua glianza; dunque l'uno che non è può
participare di queſte coſe; ma s'è dimoſtrato, che non le partecipa, dunque ec.
5. 6. Se l'uno non è, ha in certo modo l'eſſere, o s'attri buiſcono a lui coſe
che l'hanno.. -. Nel dire che l'iuno non è, ſi ha ſcienza di cid che ſi dice;
nel dir che è, diverſo dall' uno, che è, e dall'alcre coſe; che è fimile, non
fimile; diſſimile, non diſſimile dall' altre coſe; eguale, no eguale, fi
profeſſa di concepire, e di pronunziare il vero, ma eſprimendoſi, e
pronunciandoli queſte coſe a guiſa di enti, all'uno che non è s' attribuiſcono
in queſto modo, onde egli ha in un certo modo l'eſſere. B. 70 Queſta
propoſizione: il nulla è nulla, il nulla non è nulla, equivale a queſte altre
due: il non ente è non ' ente; il non ente non è non ente. La prima di elle è
affirmativa, ed iden, tica, perchè fi afferma il nulla di ſe ſteſo, la ſeconda
è nega tiva, perchè ſi nega il nulla del nulla, che vuol dir, ſi affer. ma
qualche coſa, perche una negazione diſtruggendo l' altra elleno affermano. Nel
dire il non ente, non ente, il non en te vien a participare in un certo modo
dell effere, affine di ef ſer non ente.. Nel dire all'incontro il non ente non
è non en te, il non ente per non eſſere non ente che vuol dir per eſ ſere, vien
a partecipar del non eſſere. Così intendo Platone, Tomo II. P allor (114 ) 1
allor che dice: il non ente ad eller non ente ba il legame dei non eſſere, fe
dee non eſſere, come lente tiene nella ſtella guiſa il legame deli eſere,
perchè ei non ſia non ente, affinchè di nuovo ei fia perfettamente, e non
ſiapartecipe il non ente delléſenza, del non eſſer non ente, ma dell'eſenza
dell'eſer non ente, ſe il non ento fia perfettamente. $ Se l'uno non è, egli
partecipa; e non partecipa dell' eflenza 1 L'ente è partecipe del non eſſere,
ed il non.ente dell'eſſe re ($. 7. Sez. 4. ) ma ſe non è, l'uno é neceffario
che ſia par tecipe del non eſſere, affinchè ei non ſia; dunque appariſce, che
l'eſſenza ſia nell' uno, ſe egli non è, e la non effenza ſé egli è. ANNOT. Tutti
queſti ſono ſcherzi metafiſici, per dar luogo alle nozioni immaginarie, e
quindi alle contraddizioni, che mo ſtrano le coſe impoſſibili; ben deve
oſſervarſi, che facilmente con effe fi cade in quel mirabile, che degenera in
puerilità. Platone ſobriamente l' adopra, per dimoſtrare in quali raffina menti
sfumavano le dottrine della ſetta Elearica. 9. 9. Se l'uno non è, ha mutamento,
e in conſeguenza moto, e non ha moto, Šisru ! L'uno parve ente, e non ente,
onde fta così, e non così, dunque fi muta paſſando dall' eſfér al non effer;
dunque ha moto. Ma fe l'uno non è, non è in alcun luogo, perchè ogni en té è in
qualche luogo, ma non eſſendo mai in luogo non pudo paſſare da un luogo
all'altro, dunque non percid fi move, per che non ſi traſmuta.. io. (115 ): $.
io. Y Se l'uno non è, non ſi altera, e non alterandoli ne ſi muta, nè ſi move.
L'uno non eſſendo, non può mai verſare in quello che non è, dunque non
alterarſi, poichè ſe l'uno da ſe stello li alceral fe in alcun luogo, non ſi
ragionerebbe più deil' uno, ma di cer ta altra coſa; ma ſe non li altera non ſi
rivolge in fe fteffo nè fi muta, nè ſi altera; dunque ec. ļ $. Se l'uno non è,
fta e ſi moồe, e fi altera, Quel che non ſi move ſe ne ſta in quiete, e ſi
ferma que gli che in quiete ne fta; dunque l'ano non effendo, comeapo pariſce
ſta egli e li move, anzi movendoſi è neceſſario che ſi alteri, perchè in quanto
alcuna coſa ſi move, incanto ſe ne ſta ella non nello ſteſſo modo, ma
altrimenti; dunque l'uno mentre fi move ſi altera, e nondimeno non movendoſi in
niun luogo in niuna guiſa ſi può alterare; dunque in quanto fi move", ciò
che non è uno ſi altera; ma in quanto non ti move, non fi alce ra, dunque l'uno
non eſſendo ſi altera, e non ſi altera. $. 12 Se l'uno non è, egli è diverſo da
quel che era prima, non ſi altera; non fi fa, non ci muore, e di nuovo ſi fa,
emuore. Cid che ſi alcera è neceſſario che ſi faccia diverſo da quel che era
prima, ma quel che non fi altera, non ſi fa në muore; dunque l'uno, non eſſendo
mentre fi altera, e ſi fa, e periſce, ma non alterandoſi, non fi fa, nè muore,
nè periſce, ed in do tal guiſa l' uno 'non effendo, li fa, e muore e di nuovo
non fi fa, nè muore. §. 13: Sin ora ha dimoſtrato Platone, che ſe l' uno non è,
egli dà di sè fcienza, ed ha in sè diverlicà, che è partecipe, e non par tecipe
di altre cole; quindi lo ſteilo-, e non lo ſteſſo con ſe ſtel р. 2 (116 ) ſi
move fteffo, ſimile e diffimile nè ſimile, nè diffimile, eguale, ed ineguale,
non eguale, nè ineguale, partecipe d'eſſenza, e non partecipe, ſi muta, e non
ſi muta e non ſi mo ve, fi altera, e non fi altera, ft fa, c periſce, e fi fa,
e non periſce. Tutte queſte concluſioni derivano dalla poſizione, l' uno non è;
l'uno eſſendo inſeparabile dall'ente, ſe non v'è l'uno, nè pur v'è l'ente.
OrPente non è, che il poflibile. Annullato dunque il poſſibile reſta l'
impoffibile, da cui ſecondo l' Aflioma ſegue coſa, ex impoſſibile ſequitur
quolibet, perchè nell'idea aſtrat ta dell'impoſſibile s'includono tutte le
contraddizioni. Platone dal conſiderare, che l'uno non ha eſſenza, e non n'è
capace, nega tutte le altre relazioni che pud avere. Premetto a ciò che quando
diciamo, che alcuna coſa non ſia, nel proferire, queſto non è, fi fignifica
ſemplicemente, che non è al tutto in niun modo, e non eſſendo in niun modo, non
è capace in alcun modo di eſſenza; dunque non potrà eſſere il non ente, ne in
alcun modo farſi partecipe di eſsenza. §. 14. Se l'uno non è, non può farſi in
alcun modo par tecipe d'eſsenza. Quel che non è, ſignifica ſemplicemente, che
non è al tur 10, in niun modo, o non è ſemplicemente capace di eſsenza, dunque
fe l'uno non è, non può mai eſser capace d'eſsenza.. 15: ne la per Se l'uno non
è, non pud farſit, nd morire. Chi non è partecipe di eſsenza, non la riceve, nè
la de. Dunque fe. L'uno non è, non pud nè ricever, nè acqui ftar l'eſsenza,
perchè non n ' è capace; dunque non periſce, nè fi fa. $. 16. Se l'uno nonè,
non fi altera, nè fi move, nè ſe ne ſta, non ha grandezza, nè piccolezza, nè
parità, né limiglianza, e dia, verlin (11 ) 3 onde eſsenza, non può aver ne
grandezza, nèpic marfi. Se verſità riſpetto all' altre coſe, e a ſe ſteſso, nè
gli conviene ale cun altro attributo Se l'uno non è, non ſi altera, perchè fi
farebbe già, je pe rirebbe potendo queſto; ſe non ſi alcera, nè men fi move, ſe
come non ente, non eſsendo in alcun luogo, non pud ſtar lo ſteſso in alcuna
coſa, nè in alcuna coſa fermarſi. Se non ha nè piccolezza, nè parità, eſser
ſimile, o diverſo, o rifpetto all'altre coſe, o a ſe ſteſso, nè le altre coſe
potranno eſser in lui in alcun modo, gli ſono, nè fimili, nè diffimili, nèle
ſteſse, nè diverſe, nè pud ſtar ſeco, non ha il di lui, o ciò che ſi dice di
alcuna coſa, o queſto, o di queſto, o d'altrui, o ad altrui, o alcuna volta, o
dopo, o al preſente, o ſcienza, o opinione, o ſenſo, o fer mone, o nome, o
qualunque altro degli enti. Annot. Sebben ſi oſserva, Platone al non uno toglie
tutto quello che ha dato all'uno, conſiderato in ſe ſteſso nella prima Sezione,
argomento evidente, che, quando tutti gli altri man caſsero, quì non ſi trarca
che delle aſtrazioni della mente, fra miſchiate tallora con le nozioni
immaginarie, quali ſono in que fta Sezione, e nel rimanente. Non ci reſta che
l'ultima quiſtione, in cui ſi cerca ſe non è l'uno, che accada all'altre coſe.
SEZIONE QUINTA,. $. 1. S'orser Oſservi tolto. 1. Che ciò che è, o è l' uno, o
l'altre co ſe • 2. Che ſe queſte non foſsero (almeno nella noſtra im-.
maginazione, o nella noſtra mente ) di loro non ſi diſputereb be, perchè il
nulla non ha proprierà. 3. Che ſe dell' altre li fa vella, l'altre ſono il
diverſo, poichè l'altro, e il diverſo ſono fi nonimi', onde diciamo altro non
eſser l'altro, che l'altro d'al tri, ed efser del diverſo diverſo, e che per
far le coſe altre dalla uno, vi ſi debbe aggiungere qualche altra coſa, onde
fieno per eſser altre, di cui ſaranno altre. 3 Tesni f. 2. (118 ) S. 2.. Se l'uno
non è, le coſe altre o diverſe dall'uno, non ſono altre. o diverſe, che per
ragion di ſe ſteſse.. Nelle coſe altre dall' uno o diverſe dall'uno, vi's
include' qual che altra coſa, per cui fieno altre, ma queſta coſa non pud ef
ſer l'uno, perchè per ipoteſi egli non v'è. Dunque, poiché non v'è, che l' uno,
e l'altre coſe, eſcluſo che altre coſe non fieno. altre per luno ne liegue che
ſieno altre per ſe. ftelse, COROL.. Dunque: per ſe ſteſse. ſono ciò che ſono
tra se.., S: 3 Se: l'uno non v'è, le coſe altre dall' uno ſono tali per una
moltitudine infinita. Non v'è che uno o i più, dunque le coſe altre o diverſe 1
dall’uno, non potendo eſser altre che l'uno, il quale non v'è per ipoteſi, non
ſaranno altre che per i più, cioè per la mol: titudine; ma il più, o la
moltitudine eſsendo per le ſteſsa in finita '; le coſe. altre dall uno,. ſono
alore per una: moltitudine infinita.. COROLLAR. Qualunque mala dunque di loro
appariſce in molti-. tudine infinita, e ſe alcuno ſi prenderà ciò che
menomilimo pare co. me. Sogno, incontinente in vece di quello che pare uno, ſi
fa innangi una moltitudine infinita, e in vece di quella chemenomilimopar ve,
apparirebbe grandiſſimo già, ſe il pareggialli ad altre coſe in die Sparte da
lui. Cosi: parla Platone: fia prefa qualunque parte d'eſtenſione, el la è
diviſibile in due, ed inoi in due, e così all'infinito. Della di viſione di cui
è capace il tutto, ſono capaci reſpettivamente le parti, nè v'è particella si
minima, che le noi nell' ipotefi che non v'è uno, poteſſimo vedere con un
microſcopio miracolo fo,, non ci pareſse diviſa in una moltitudine infinita di
parti, ma tali che nell' iſtante ſteſso, che noi vedeſſimo la parte, la
vedremmo attualmente diviſa in altre parti infinite, e cosi all'in finito; non
è che io dir voglia, che vedremmo l'infinito at tuale, perchè non poſſiamo
intenderlo, non che vederlo, nè so come il Leibnizio abbia poruto concepir
nella più minima parte di ciò che egli chiama 'materia, un numero attualmente
infinito di monadi"; biſogna prima provare, che noi concepia mo l'infinito
attuale -, ed indi che vi ſieno queſte monadi; ma ſe vi foſsero, il che io non
l' ammetto, che come principio di co gnizione, e non di natura, in eſse, come
l'eſprime il nome loro, v è un'unità, che è il fondamento di concepir nella
monade innumerabili proprietà; ma quì nell' eſtenlione Platonica, biſo gna
rappreſentarfi ogni parte deſsa ſeparata dall' uno; ' v'è in ciò contraddizione,
ma appunto Platone - la ſuppone per de dur dall'aſsurdo i, l'impoſſibilità di
ſeparar l' uno dall'ente. §. 4. Se non è l'uno in ogni maſsa apparente apparirà
il numero, e le proprietà dei numeri, l'eguale, il mag giore, il minore. Tolto
l' uno dalla maſsa, ci ſi fa come nel ſogno innanzi una moltitudine infinita,
in cui ſe ſi vuol ordinar colla mente la moltitudine, vi ſi trova il numero;
quindi il pari, e l' impari; il picciolo, il grande, il piccioliſſimo, il
grandiſſimo., compa rando tra loro le maſse, in cui s'è diviſa la maſsa
maggiore, e quindi l'eguale, perchè non ſi può paſsar dal maggiore al mino re
ſenza paſsar per l'eguale, ma queſti ſaranno tutti fantasmi d' egualità, di
maggiore, di minore, di pari, d'impari ec, come di numero. Se non v'è l' uno,
ogni maſsa apparente avendo termine appa rente, riſpetto all' altra non ha nè
principio, nè mezzo, nè fine riſpetto a fe ftefsa. Si prenda alcuna delle maſse
apparenti coll intelligenza, in nanzi al principio, ſe le fa ſempre innanzi
altro principio, e dopo il fine, ſegue ſempre un altro fine, e nel mezzo altre
coſe ſem pre più interne del mezzo, e ſempre minori, perchè non ſi può ricever
in queſta alcun uno, non eſsendo l'uno. Annot. E ' da oſservarſi, che qui
Platone dice, prender alcu na coſa con l'intelligenza, cioè aſtrattamente
conliderarla í vi aggiunge poi che potendoſi prender la maſsa ſenza l' uno,
cioè fenza far aftrazione dall'uno, ſi sbrana qualunque coſa così pre ſa con
l'intelligenza, che è quanto a dire con la mente fi* di vide in più parti, e
queſte in altre, e così all'infinito. S. 6. Se l'uno non è, preſa qualunque
maſſa a chi da lungi la mira groſſamente par uno, ma chi da preffo l'in tende è
un infinito in moltitudine. Non potendo noi nulla concepir ſenza l' uno a prima
viſta, e da lungi mirato ci par uno, ma da preſſo, e acutamente vedendolo,
tolto l'uno, ci rappreſenciamo infiniti. COROL. Se dunque non v'è l'uno, ma
l'altre coſe dall' uno, qualunque di eſſe è infinita, e con termine ed uno, e
molci. Se non v'è l'uno le altre coſe ci pareranno, e ſimili, e diffi mili, e
le ſteſſe, e le diverſe, e unire, e ſeparate, e moverſi, fermarſi; nè potendo
noi concepir le coſe ſenza l'uno le ve dremo, come adombrate da lunge, e patir
lo ſteſſo, ed eſſere fimiglianci, mada preſſo molte, e diverſe, e per il
fantasma della diverſità diverſe, e diflimiglianti tra loro ſteſſe e pari mente
ci pareranno le maſſe ſimili, e diffimili, e da loro ſteſ ſe, e tra di sè, e le
ſteſſe, e diverſe tra loro, e che tocchi no, e fieno ſeparate da loro ſteſſe, e
fi movano con tutti i mo ti, e ſi facciano, e periſcano, e nell' una, e nell'
altra manie e tutte le coſe sì fatte che li poſſono dedurre dalle coſe 7 ra,
già dette. S. 7. Ha dimoſtrato fin ora Parmenide 3 che adiviene alle coſe ſe
non è l' uno, cerca poi che fieno gli altri che non ſon uno. Se non è l'uno, le alere coſe non ſon uno, ne
molti. Non ſono uno, perchè non v'è l' uno; non ſono molti perchè i molti
preſuppongono l'uno. ital 18. s. Se non v'è l'uno, non vi ſarà nè opinione, nè
fantasma, ne ſcienza dell'altre coſe. Le altre coſe non hanno alcun concetto
con niuna di quel le che non ſono, nè alcuna di quelle che non ſono è appreſso
ad alcuna dell'altre che ſono; dunque appreſſo ad altri non v'è opinione, non
v'è fantasma dell'ente, e quindi dell uno; ma ſe non v'è l'uno, non effendo poſſibile
il penſar a molte coſe fen za r uno, neppur èpoſſibile che ſi penſi che fieno
uno, o mol ti le coſe.. 10. Se non vè l' uno, le coſe non fono nè fimili, nè
diffi mili, nè le ſteſſe, nè diverſe, nè ſi toccano, ne & ſeparano Non ſi
poſſono concepir le coſe ſenza l'uno; dunque ſe non vi è l'uno, non ſi poſſono
concepire, nè ſimili, nè diffimili nè le fteffe, nè diverſe, nè unite, nd
ſeparate. COROL. Dunque ſe non v' è l' uno nulla v'è, onde o ſia l' uno, o non
fia, ed egli e l'altre coſe ancora ſono, e non ſo no ad ogni modo riſpetto a fe
ftelle, e tra di loro, e appajo no, e non appajono. II. Riftringendo in poco
tutto ciò che negli ultimi paragrafi s'è eſpoſto, egli è manifefto, che l' uno
efiendo inſeparabile dall' ente, ove non v'è più uno, non v'è più d'ente, cioè
v'è nul. la, ol'impoſſibile", da cui ſeguono tutti i contraddittorj, qual
Tomo II. q Pla Platone ci eſpoſe per via di nozioni affatto immaginarie; egli
ne fa veder i uſo, e moſtra nel tempo ſteſſo, quanto la fan taſia ſia diverſa
dall' intelletto, poichè ella ci rappreſenta una coſa, mentre la mente
ragionando ce ne fa concepire un'altra. Si conclude dunque, che Placone in
queſto Dialogo non fi af fiffa che a moſtrar ſuſo dell'aſtrazioni della mente,
nell' inve ſtigazione dell' idee. 1. Con le negazioni, come fece nel primo
capo. 2. Con le analogie dell'altre idee aſtratte; finalmente con le cognizioni
dell' idee, del ſenſo, della fantaſia, combinate a quelle della mente. LETTERA
A SALIER Primo Cuſtode della Biblioteca DEL RE CRISTIANISSIMO. On dubitate che
io ſia mai per dimenticarmi di voi, co N°me alcuni venuti ultimamente di
Francia m' accufaro no da voſtra parte; troppo m'è rimaſta impreſſa l'idea
della bontà, e gentilezza voftra, troppo è ſtato vivo il piacere e ſodo il
profitto, che io ricavai dalle converſazioni letterarie, che abbiamo fpeſſo
avute inſieme, e tra l'altre su l'opere di Platone; ce ne porgevano il motivo
le ſaggie rifleſſioni, che leggevaci l'Ab bate Fraguier, or su l'ironia di
Socrate, or ful carattere de'So fifti, or su la Repubblica, ed or su le Leggi,
tutti oggetti delle belle diſſertazioni, che egli diede alla voſtra Accademia.
Solo la Iciò egli intatto il Parmenide, o non aveſſe il tempo, o la voglia d'
applicarſi a ſviluppare un Dialogo, che è il più malagevole di Platone, o
temeſſe dioffendere la ſoavità del ſuo genio con l'idee troppo auftere, e
filoſofiche, delle quali il Dialogo abbonda. Voi ben ſapete, che per voſtro
conſiglio m' applicai a leggerlo con attenzione e ne concepii quel fiſtema, di
cui állor vi parlai. Venuto in Italia, e diftratto da graviſſimi intereſſi
dimeſtici, ne interruppi l'eſame già cominciato, ſebbene negli intervalli io
leggeſſi continuamente Platone; e l'avrete ve duto nel Sogno del Globo di
Venere, che il Signor Conte di Cai lus v avrà forſe dimoſtrato in lingua
Franceſe tradotto. Di tem po intempo io parlai del Parmenide con gli amici, e
mi fi fue gliò il deſiderio di compierne il ſiſtema da me abbozzato all'occa
lione del Platone di Dardi Bembo, che ſtampali in Venezia, con P aggiunta delle
note e degli argomenti del Serano letteralmente tradotti. Dalla Differtazione
preliminare ritrarrete l'idea generale del la Filoſofia di VELIA (si veda) così
celebre per l'acurezza, e per la profon dità de' Filoſofi, come la Jonica per
la fodezza dell'eſperienze, e l'Ita (124 ) 1 1 ľ Italica per la felice
combinazione della Geometria, e dell'A ſtronomia alla Fiſica. Non è difficile
ſcoprire, che la metafiſica do Ariſtotele è tratta in granparte in queſto
Dialogo, in cui Plato ne abbandona quaſi l' artificio poetico adoprato negli
altri, e ſi ſpiega nella maniera più ſemplice, e più preciſa. Nella prima Sef
fione io v'oſſervai i tre fonti delle allurdità degli argomenti me tafiſici; il
principio di contraddizione, il progreſſo all'infinito, el' annullazione
fuppofta di qualche perfezione divina. GliEleatici, che forſe gli inventarono,
riconoſceano i limiti dell'intelligenza uma na, e pur era queſta la minor parte
della Dialectica loro, la qual vaga va per tutti i lommi generi delle coſe. La
quiſtione dell'origine e della natura dell' idee v'è più che abbozzata, e la
riſpoſta che so crare diede a Parmenide, su la maggior difficolcà dell' idee, è
la ſteſſa che uso il Padre Malebranchio nel medeſimo caſo. Nell'al tre opere s'
accuſa il Commentatore di dar troppo ſpirito al ſuo Filoſofo; in queſta è cutto
il contrario, poichè per quanto ſi ſpieghi Platone, vi reſta fempre molto a
medicare, e la compa razione del reſto fa ſempre vergogna al commento. Ficino e
Serano, che aſſegnarono al Dialogo un grado di ſublimità Teologica non
convenevole, l'hanno sfigurato, e colto agli altri il profitto, che avrebbono
potuto ricavare da una ſpe colazione così ben dedocta e conforta nè punto
inteſa dai due Commentatori, i quali preteſero che in queſto Dialogo chiama to
dell'idee, voleſſe Platone diſputare a pro delle feparate, quan do egli
manifeſtamente le rifiuto, tutto riducendo all' Ontolo gia che è la più bella,
e la più utile parte della metafiſica In molci errori cadè miſeramente il
Carcelio, per averla ab bandonata, eſpregiata; e non furono dal Leibnizio, ed
indi dal Wolfio ridotti al ſuo vero lume i dogmi filoſofici, ſe non dopo che
effi s' affaticarono a dimoſtrare, le nozioni Ontologiche eſſer quelle alle
quali convien avertire prima d' inoltrarſi nella combinazione dell'idee, e
quindineiſiſtemi. Tutti gli uomini pre veggono gli aſtratti ne' concreci, pochi
hanno la forza di ſepa rarli, pochiſſimi quella di ridurli in teoria, ed è ſolo
riſerva to a' ſommi Filoſofi il farne ſiſtema. Voi molto più vedete in Platone,
che io poſſa eſprimere; in canto vi prego a conſer varmi il voſtro affetto, ed
eſſer certo che il mio farà ſempre inviolabile. La scuola stoica è quella che
nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità una riflessione
semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si polarizza, com'era già av
venuto per Aristotele, su due ambiti fondamentalmente di stinti tra di loro:
da una parte, una teoria del linguaggio in senso stretto, che comporta anche
un'analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza
della terna significante, significato, oggetto esterno); dal l'altra, una
teoria del segno proposizionale, connessa con la teoria dell'inferenza. Questi
aspetti della filosofia stoica trovano però un pun to di convergenza, come
vedremo, nel loro comune legame con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto
eccezionale nella metafisica stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima,
si pone la speciale dialettica tra le entità che condividono la proprietà di
essere "corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee
(asOmata). Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende
in considerazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essere
oggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem po.
Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi derati esistenti. Ora,
tanto nella teoria del linguaggio, quan to in quella del segno proposizionale,
accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entità
incorporee, quali i lekta. Per il momento è invece necessario sgombrare il
campo da due equivoci. Il primo concerne il destino che tocca alle entità
incorporee: esse non vengono relegate semplicemente nell'ambito del
non-esistente, ma vengono investite di una esistenza derivativa' (Long ). Il
secondo possibile equivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra
riamente a quello che ci attenderemmo in relazione a una nozione moderna di
corpo, per gli stoici erano "corpi" an che le qualità, in quanto
venivano considerate come materia in un certo stato. Le proprietà di un certo
individuo costi tuiscono stati o modi del suo essere e, per la loro esistenza,
dipendono dall'esistenza di questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue
proprietà sono appunto disposizioni esistenti di materia (Rist). Si profila, a
questo punto, una ontologia che pone al suo centro la nozione di
"particolare": quest'ultimo viene carat terizzato come un oggetto
materiale, che ha una forma defi nita come condizione necessaria e sufficiente
della sua esi stenza. La forma, del resto, è l'elemento caratteristico di un
oggetto, che lo rende identificabile come tale (Long). È proprio su questi
presupposti antologici che si innesta e si sviluppa la teoria semiolinguistica
degli stoici: il bisogno di una teoria del significato e della verità nasce
appunto a proposito deIl'identificazione dei "particolari", ed è con
nesso a una teoria della percezione. Così, si terrà presente innanzitutto che
per gli stoici le im magini (phantasfa1) prodotte nella mente dagli oggetti
ester ni danno luogo a una percezione vera se esse riproducono esattamente la
configurazione di tali oggetti.1 Del resto, le immagini giocano un ruolo
importante nella teoria del si gnificato degli stoici, come si sa che avevano
una parte im portante anche nella teoria del significato di Aristotele. In
secondo luogo si può considerare come fondamentale il fatto che uno dei modi di
identificare un "particolare" è quello di identificarlo
linguisticamente. In questo caso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a
B che sta par lando intorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che
egli ha compreso il suo riferimento. Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti
fondamentali della teoria linguistica stoica si trova proprio in un contesto
che concerne un conflitto di opinioni intorno alla verità. È importante
sottolineare che per gli stoici una teoria del la verità, cioè la ricerca
delle basi per una verifica delle pro posizioni, non può essere elaborata in
maniera indipenden te da una concezione della struttura del mondo e da ciò che
può essere detto intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni hanno riposto
il vero e il falso nella cosa significata (tò smainomenon), altri nella voce
(phon), altri infine nel movimento del pensiero. Della prima opinione sono
stati i porta bandiera gli stoici col sostenere che sono tra loro congiunte
tre cose, ossia la cosa significata (tò smainomenon), quella significante (tò
smafnon), e quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn chanon), e che, tra
queste, la cosa significante è la voce (ad esempio la parola
"Dione"); quella significata è lo stesso stato di cose (autò tò
pragma) indicato dalla voce pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi
percepiamo come coesistente (paryphistamenon) con il nostro pensiero
(dianoia1), mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo
compren dono; infine, ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di
noi (ad esempio, Dione in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce
e ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor porea, cioè l'oggetto
significato o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso
(Sext. Emp., Adv. Math.) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli stoici
il fe nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui to nei
termini di un triangolo. Si può osservare che compaiono i termini significante
e significato (come è dato trovare anche nella teoria moderna di Saussure), ma
non quello di segno. Come anche slmsin6menon (significato) lekt6n
(detto) tmsm lnon (significente) tynchAnon in Aristotele, la
nozione di smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quello
strettamente linguistico. Si può notare anche che l'esempio che viene dato qui
è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome proprio. In secondo
luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che individuano la
significazione sono tre e comprendono anche l'oggetto, che propriamente è
esterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è solo
parziale. Soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si gnificante e
l'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. Un caso assolutamente a
sé costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo,
chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua seconda
denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del linguaggio
degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande interesse. Un primo
aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un confronto con
Aristotele. (oggetto esterno, referente). Nella stessa posizione del triangolo
della significazione Aristotele pone delle entità psicologiche, che venivano
considerate le medesime per tutti gl’uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci
dice Sesto nel passo riportato, ha caratteri completamente diversi, in quanto
i barbari, pur udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo comprendono . Come
rileva Todorov, la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nel
fatto che, mentre l'entità presa in considerazione da Aristotele si situa a
livello della mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si situa
direttamente al livello del linguaggio. Todorov interpreta il lekt6n come la
capacità del primo elemento di designare il terzo. Tale interpretazione poggia
anche sul fatto che l'esempio dato è un nome proprio, che ha una capacità di
de signazione come gl’altri nomi, ma è molto controverso se abbia un *senso*.
La risposta che di solito si dà a questo interrogativo è negativa. I barbari
odono sicuramente la sequenza di suoni /dione/ e vedono Dione, ma sono incapaci
di connettere il suono con il suo oggetto di riferimento. Comprendere, dunque,
come avviene appunto nel caso dei Greci, consiste proprio nel percepire la
connessione tra la parola che viene pronunciata e l'oggetto cui si riferisce.
Anche Long identifica il lekt6n con tale connessione, ma nel senso che esso si
configura come l'affermazione che un enunciato fa nei confronti di qualche
oggetto; in questo caso, la traduzione più propria di lekt6n è "ciò che è
detto", in quanto tale espressione copre sia la nozione di giudizio che
quella di stato di cose significato da una parola o da una serie di parole.
L'idea che il lekton si può configurare come una affermazione intorno all’oggetto
emerge da una testimonianza di Seneca (Epistulae morales), in cui viene delineato
uno schema triadico della significazione analogo a quello di Sesto, ma con una
proposizione – “Cato ambulat” -- laddove Sesto propone solo un nome (“Dione”).
Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Catone, che è
un oggetto materiale, e l'asserzione intorno a esso, che è un incorporale. Tale
asserzione è propriamente il lekton, del quale termine Seneca propone tre
diverse traduzioni latine: “enuntiatum,” “effatum,” e “dictum.” Dato che
l'esempio proposto da Seneca è una proposizione, risulta più agevole, rispetto
ali'esempio di Sesto, capire come possa essergli applicato il predicato
"vero" o "falso".4 nfatti solo i lekta che costituiscono
una proposizione completa possono essere veri o falsi. Nel modello
aristotelico della significazione, una espressione e un simbolo di uno stato
psichico (pathmata en tiipsychi1) elo dei pensieri (noimata). In questo modo, non
viene operata una chiara distinzione tra la nozione di significato e quella di
pensiero. Tale concezione ricompare del resto nella nota teoria di Ogden e Richards,
i quali disegnano un triangolo semiotico in cui figura al vertice superiore la
nozione di "thought" ("pensiero"). Diversa è la concezione
proposta dagli stoici. In effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di
Diogene, si ricava una nozione di significato nettamente distinto dal pensiero,
anche se intrattenente con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto.
“Gli stoici affermano che il lekton è ciò che sussiste in conformità con una
rappresentazione razionale (logike phantasia) e che una rappresentazione
razionale è quella secondo cui il rappresentato (phantasthén) può essere
espresso in parole (Sext. Emp., Adv. Math.). In termini del tutto analoghi si
esprime Diogene (Vitae), usando anche le stesse espressioni. Cosi, da entrambi
i passi si può ricavare l'idea che gli stoici operassero una distinzione netta
tra il lekton, che rappresentano il livello del significato, e la
rappresentazione razionalie (logike phantasma), che possiamo definire come
delle forme di atti vità intellettiva o dei pensieri. Quest'ultime entità sono
peculiari della specie umana e possono, ali'occorrenza, essere espresse in
parole -- a questo infatti si riferisce l'aggettivo, “logike”. Ma, sempre dai
due passi, si può ricavare anche che i due termini, il lekton e l'attività di
pensiero, vengono messi in relazione. Long cosi commenta il passo di Sesto: "I take
this difficult passage to mean that the lekton is defined as the objective
content of acts of thinking (noesis)" e aggiunge anche "or, what
comes to the same thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di approfondire il senso di questa
seconda asserzione di Long, soffermiamoci sulla prima. Dunque la relazione che
il lekton instaura con l'attività di pensiero è tale per cui esso si configura
come contenuto o risultato di tale attività. Ma questa nuova relazione, che ve
niamo scoprendo attraverso le testimonianze di Diogene e Sesto, comporta un
elemento nuovo rispetto a quanto lo stesso Sesto dice altrove (Adv.Math.),
quando ha messo in relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con
il smainon). In effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che
sussiste in conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che
l'accento appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a
un rapporto con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi
un'apparente contraddizione o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze
degl’esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli
stoici. Come mette bene in evidenza Mignucci, il lekton, essendo incorporeo,
non può essere disgiunti da qualcosa di corporeo che faccia in qualche modo da
supporto ad essi e che permetta la loro esprimibilità. Il proble ma diviene
allora quello di stabilire se a fare da supporto a un lekton siano: un suono della
voce; o l'attività della mente che li pensa. La prima definizione di Sesto opta
per la prima; la seconda, come pure la definizione di Diogene, per la seconda. Ugualmente,
tra gl’interpreti moderni, Mates risponde che è la parola a fare da supporto al
lekton. Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come dicevamo,
questo è un falso dilemma, non resolubile tuttavia filologicamente, in quanto
nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per ciascuno
dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un duplice
presupposto che sembra agire nella teoria stoica. Da un lato il verificarsi di
discorsi significativi rimanda a un'attività intellettuale, in assenza della
quale non è possibile che si diano i significati. Dall'altra, il risultato
dell'attività intellettuale ha bisogno dei suoni della voce significativi per
esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le conseguenze dal
fatto che un lekton è definito da una parte come *contenuto* di una
rappresentazioni razionale e dali'altra come il significato di una parola:
conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra
i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere significati
attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere disgiunti
l'uno dall'altro. A questo punto possiamo comprendere la seconda asserzione di
Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e il contenuto
oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la stessa
cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è dato
dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la
phantasia ha un ruolo assolutamente primario, in quanto non è possibile, senza
di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della conoscenza, quali
l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e l'attività di pensiero
(nosis). Infatti la rappresentazione viene per prima, poi il pensiero
(dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime in parole (/6g01) ciò
che esperimenta come il risultato della rappresentazione. Il passo di Diogene è importante perché
ripropone la nozione, già platonica, del pensiero come discorso interno. Tutto
ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla considerazione di
un passo di Diogene Laerzio (Vitae) in cui viene detto che il criterio di veri-
.. In questo una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli
della comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano
basati sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella
teoria linguistica del significato.Il lekton, che abbiamo finora incontrato
come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una nozione
fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un fattore
di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici sono
anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa sì
che, come sottolinea Eco, nella se fllÌOtica stoica si verifichi una saldatura
di diritto tra la 0ottrina del linguaggio e la dottrina dei segni. Infatti, per
ché ci siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizioni
debbono organizzarsi secondo una sintassi Jogica che è rispecchiata e resa
possibile dalla sintassi linguistica. Occorre tener presente che gli stoici
non dicono ancora che le parole sono segni (-- cf. H. P. Grice – “Not all
things that mean are signs. Words are not”) -- sarà Agostino il pri (110 a
fare una simile asserzione -- e rimane, del resto, una differenza lessicale tra
la coppia smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano
dei lekta ci illumina sul ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il
segno non verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl
maniera implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che
ci viene data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno,
dicono che è una proposizione (axioma) che è l'antecedente (prokathegoumenon)
in un condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del CONSEQUENTE
(ekkalyptikòn tou ligontos). E dicono che la proposizione è un lekt6n completo
in se stesso; e il condizionale vero è quello che non comincia dal vero e
finisce ] Riprenderemo più avanti le varie problematiche che vengono
presentate in questo passo. Per il momento ci preme sottolineare che in esso si
definisce il segno come un lekt6n completo, cioè come una proposizione che si
pone in rapporto di implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra
proposizione, secondo lo schema: p -:J q. Si deve notare che, come per
Aristotele, l'attenzione per il segno è esercitata in funzione della conoscenza
che esso permette di raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella
epistemica, e il segno appartiene a un campo che è distinto sia da quello
logico sia da quello semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una
proposizione qualsiasi che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma SOLO
QUELLA PROPOSIZIONE CHE PERMETTE DI SCOPRIRE IL CONSEGUENTE – cioè, che
permette l'accesso a una nuova conoscenza. Va comunque notato che, se l'ottica
con cui gli stoici guardano al segno è la stessa di quella di Aristotele,
assolutamente diverso è il tipo di inquadramento logico. È normallnente
accettato che Aristotele pratichi la logica delle classi, mentre gli stoici
introducono quella proposizionale. Ciò comporta che l'attenzione venga spostata
dalla so stanza degli eventi (Todorov), per quanto concerne il punto di vista
antologico, e dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione,
per quanto concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si
poteva notare un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come
segni. Ciò che, invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gl’avvenimenti
espressi da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la
differenza, tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e
finisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "ESSA
HA LATTE" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "ESSA
CONCEPTIO" (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh.). Essi chiamano antecedente la prima
proposizione via fornisce alcuni esempi di segno -- come quello della
Retorica. "Se essa ha latte, essa ha partorito" -- in cui vengono
presi in considerazione eventi e non sostanze. Ma nella filosofia aristotelica
la teoria del segno ha una parte marginale. Il segno viene fatto rientrare nel
procedimento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene
confinato nel campo dei procedimenti retorico-dialettici, se non è un
tekmirion, cioè, un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul
sillogismo perfetto, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle scuole
postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale: dalla
retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla
scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gl’epicurei
vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciò
che è ignoto. Preti sostiene che, a proposito della teoria del segno, tra
Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un anello di congiunzione,
rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di Democrito e uno dei
maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera, il Tripo de, 1 8 è
possibile cogliere i punti essenziali di questo passag gio . Per Nausifane,
infatti , il discorso filosofico (basato per Aristotele sul sillogismo) e
quello retorico (basato sull'entimema) presentano in realtà la stessa
struttura logica. In entrambi i casi è necessario distinguere tra la
CONSEQUENZA o conclusione (ak6/outhon),
la "premessa" (homologoumenon) e "ciò che deriva dalle
premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il sillogismo?). In ognuno dei
due tipi di discorso il problema è quello di partire da cose presenti
(hyparchonta) per giungere in maniera metodica alle cose invisibili. Il metodo
del passaggio è la akolouthia, "la relazione di consequenzialità",
di implicazione o implicitazione, comune appunto a filosofia e retorica. Ora,
come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò ton enargOn) alla comprensione
del le cose oscure (adla) per mezzo del segno come relazione di akolouthia
costituisce proprio il nocciolo della dottrina de gli stoici -- come pure di
tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità di passaggio il nome
di "dogmatici". Non solo, ma come prova della centralità della
semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno: fatto che
testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che
conferma la tendenza delle scuole post-aristoteliche a ridurre o trasformare
il sillogismo nell'inferenza implicativa. 1 I tipi di segno, comune e proprio. Nella semiotica stoica si
registra la scomparsa della di stinzione terminologica tra tekmrion e smeion:
il primo termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi nati
smeia. Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab bandono del
sillogismo e della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale
opposizione. Tuttavia, al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra
"segno comune" (koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion).
Tale distinzione non era specificamente stoica, ma appartenente a una koini
filosofica ellenistica, sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro
verso in contrasto. Una definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se
gno si trova nel trattato semiotico di Filodemo. Un segno è comune (koin6n) per
nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non
percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che
crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta
usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi
risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è
necessario (ananka stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che
noi di ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi dente
di cui è segno (Philodemus, De signis)
C'è una convergenza nelle scuole postaristoteliche nel ri tenere il segno
comune come non valido e nell'accettare in vece unicamente il segno proprio.
Dalla definizione di Filodemo si ricava che una differenza peculiare consiste
nel ca rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co me
"necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quello
comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno
necessario di Aristotele che ri chiedeva una connessione necessaria con
l'oggetto a cui rin viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel
segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa rebbe segno, ma può
anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza
di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri
no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda
e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari stotele si poteva inferire dal
pallore di una donna il suo es sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla
bontà di Pit taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se
gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una
conclusione interessante: men tre Aristotele, pur negando validità scientifica
ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi
stemologicamente più basso, come quello della retorica, do minio delPopinione,
la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita
delle inferenze del tipo non necessario. I tipi di segno: "rammemorativo"
e "indicativo" Filodemo aveva scritto il suo trattato intorno alla
metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto riprende la di stinzione
tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno preso in senso comune
(koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del segno; ma, stranamente,
assimila questa a un'altra opposizione, quella tra segno rammemorativo e segno
indicativo: Il segno si dice in due maniere, comune (koinOs) e proprio
(idt'Os). In maniera comune si dice segno quello che sembra rive lare qualche
cosa: in questo senso sogliono chiamare segno anche ciò che serve a richiamare
alla memoria la cosa osservata in sieme con esso. In maniera propria si dice
segno quello che è in dicativo di una cosa avvolta nell'oscurità. (Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera contraddittoria, tuttavia
Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione, in quanto, dopo aver
introdotto l'opposizione tra segno co mune e segno proprio, dichiara di voler
trattare solo di que st'ultimo; e poiché il segno proprio è quello che
permette di scoprire le cose che sono oscure, egli propo ne di distinguere
preliminarmente le cose in "manifeste" e "oscure", e di
suddividere ulteriormente quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una
quadruplice tipologia: (i) Le cose manifeste o immediatamente evidenti: sono
quelle che giungono alla conoscenza in maniera diretta; co me esempio Sesto
porta "il fatto che è giorno e che io sto di scorrendo"23 quando io
faccio realmente queste cose. Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che
han no una natura tale da non arrivare alla nostra comprensio ne (kata/psis),
come a esempio "se le stelle siano di numero pari o dispari" o
"se i granelli di sabbia della Libia siano di un determinato
numero".24 (iii) Le cose oscure temporaneamente: sono quelle che pur
avendo una natura manifesta divengono, per certe cir costanze, non evidenti
per un certo tempo: l'esempio è il fatto che, chi si trova a una certa
distanza, non vede la città di Atene. Atene, visibile per sua natura, diviene
tempora neamente invisibile a causa della distanza.2 (iv) Le cose oscure per
natura: sono quelle che hanno una natura tale da non essere percepite, ma sono
soltanto pen sabili (noto1). Gli esempi sono "i pori intelligibili"
e "il vuoto". Non si pone un problema di segni a proposito della
prima e della seconda categoria, in quanto le cose manifeste ven gono comprese
in maniera non mediata e le cose oscure in senso assoluto non possono essere
comprese affatto. Invece è proprio attraverso i segni che possono essere
comprese le cose che appartengono alle ultime due categorie. Ma i tipi di
segno sono diversi per ciascuna di esse. Le cose tempora neamente oscure si
colgono attraverso i segni rammemora tivi, quelle oscure per natura attraverso
i segni indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto: Dei segni, secondo i
dogmatici, alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika), altri indicativi
(endeiktika). Chia mano segno rammemorativo quello che, osservato insieme con
la cosa designata in maniera evidente, appena esso si presenta, se quella è
avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che è stata osservata
insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera evidente, come avviene
per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come dicono, quel segno che, non
osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, pure, per la
propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno; così, per esempio, i
movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp. Pyrrh.) Il segno
rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'asso ciazione costante tra cose
comunemente osservate in con nessione empirica. Sembra, tra l'altro, che gli
esempi che Sesto sceglie per illustrare questo tipo si distribuiscano se condo
la tripartizione28 contemporaneità/anteriorità/po steriorità tra il segno e la
cosa indicata: nel caso di "fu mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in
"cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il
fatto indicato è anterio re; in "ferita al cuore-morte", il segno
rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del
precedente, non è su scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è
segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno
sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono
di risalire all'"anima", o "il su dore" che rimanda ai
"pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei
segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi,
che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei
"medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente
schema la classifi cazione di Sesto: cose manifeste oscure non
danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno
luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la
distinzione riportata da Se sto tra segno rammemorativo e segno indicativo
solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne
trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso
Sesto. Inoltre, tale distinzione appa re addirittura in contrasto con
l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento
logico-for male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto
importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile vante dal punto di
vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra
segno comune e segno proprio, secondo la testimonian za di Filodemo. È, tra
l'altro, il carattere necessario del se gno proprio che dimostra la coerenza
di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un
segno "ne cessario", come un'analisi più dettagliata della sua
struttura ci permetterà di vedere. Ritornando alla definizione stoìca di segno
che abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima
di tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa
"connesso" o "connessione". Il suo significato logico ci
viene chiarito da Diogene: si tratta dell'asserto temporaneamente
condizionale del tipo "Se p, q", in cui a una prima proposizione
consegue una seconda come nell'esempio "Se è giorno, c'è luce". La
seconda cosa da prendere in considerazione è la nozione di condizionale valido
(hyghiés, "sano", igienico). Da un passo di Sesto, dove se ne trova
la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è affine alla moderna INTERPRETAZIONE
VER-FUNZIONALE di "Se p, q". Infatti la validità o in validità
dell'asserto condizionale "Se p, q" dipende dal valore di verità dell’antecedente
e del conseguente di esso.Sesto, in due passi paralleli, camente quel
condizionale che non comincia dal vero e finisce nel falso e fcrnisce una
tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica
contemporanea preve de per l'implicazione materiale: p q ·se p, q•
valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto
accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a proposito del criterio per
giudicare un condizionale valido. Esso corrisponde a ciò che è stato definito
dai Kneale il dibattito sulla natura dei condizionali, che anima le discussioni
di logica ali'epoca degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla
nozione di se- definisce come valido uni valido gno come antecedente
(prokathegoumenon) in un condizionale valido. In effetti, come fa rilevare lo
stesso Sesto, i tipi di condizionale valido sono TRE nella tavola dei valori
di verità corrispondente all'IMPLICAZIONE MATERIALE: 1) V V; 2) F F, e 3) F V.
INVALIDO: V F. Il problema diviene dunque quello di vedere se la struttura del
segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale valido, o solo
in casi particolari. Ora, in effetti, un segno non può non essere espresso da
una proposizione vera, come pure deve essere vera la proposizione a cui esso
rimanda. Così SONO ESCLUSI sono il secondo (F F) e il terzo caso (F V), in quanto
hanno un antecedente falso. Dunque, l'unica possibilità è relativa al PRIMO tipo
di condizionale – cioè, quello che comincia dal vero e finisce nel vero. Ma c'è
un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al carattere che il segno deve
avere di essere *rivelatore* (enkalyp tik6n) del conseguente. In effetti, un
condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento in cui si
verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è formato da
due proposizioni entrambe vere.Tuttavia, secondo Sesto, non si realizzano in
questo caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto entrambe le
proposizioni rimanno a FATTI DI PER SÉ EVIDENTI (cf. la caverna di Platone). Il
primo termine del condizionale non è *rivelatore* del secondo – cf. Grice:
“Black clouds mean rain” – yes). In effetti, per comprendere la vera natura del
segno bisogna passare dal piano strettamente logico a uno più generalmente
epistemologico, epistemico, o cognoscitivo, doxastico incluso. Il segno, per
gli stoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista
logico, individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve
anche possedere il carattere di dispositivo che permette di accrescere la conoscenza.
Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si appoggia su un livello
logico, ma si inquadra in un'ottica conoscitiva. Gli esempi di carattere
medico (Grice: “Those spots didn’t mean anything to me, but to the doctor, they
meant measles”) denunciano l'origine di quest'ottica. In generale il segno
deve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso,
come "egli ha sputato cartilagine bronchiale" – or Grice’s “Spots” --
a una conoscenza di molto più difficile accesso, come "egli ha una piaga
nel polmone" (“measles – and Dahl ignored it. A tragedy – and part of a
father’s responsibility and liability to know what measles spots mean””)
Tuttavia, ciò che la teoria del segno acquisisce, passando dalle mani dei
medici a quella dei filosofi, è una solida struttura dal punto di vista
logico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette o non
igieniche – malatta. Quanto ampio e
difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul piano
logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lo
dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla natura dei condizionali
(Kneale). Scrive infatti Sesto Empirico. Tutti quanti i dialettici sono
generalmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando il suo
conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul come e
quando esso segua, e propongono criteri rivali (Adv. Math.). Riferendosi a
questo dibattito, Sesto elenca quattro criteri che sono proposti per stabilire
la validità di un as serto condizionale: quello di FILONE MEGARICO (H. P.
GRICE); quello di Diodoro Crono; quello della srsnartsis attribuibile a
Crisippo; e quello della émphasis. Sulla disputa si può tuttavia fare
un'osservazione generale preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa
notare Hurst, è una relazione già conosciuta, nel senso che essa è
riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è una
definizione di questa relazione di consequenzialità (akolouthla) in termini
formali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logici
si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che può
possedere proprietà autonome, essendo dotato di significato, non è stato preso
in considerazione se non nella misura in cui poteva essere provato che esso
coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i due
livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente sono in grado di
elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazione
logica che essi tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci a
comprendere meglio questo modo di procedere un paragone con i metodi della
logica contemporanea. I logici contemporanei, infatti, sono in genere interes
sati unicamente al definiens, cioè alla relazione che essi possono stabilire
in simboli, senza riguardo alla questione se tale relazione sia identica a
quella che è ampiamente conosciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa
come quella di una espressione di implicitazione ("following", “yielding”
-- Hurst). A esempio Peirce e Russell erano interessati alle proprietà della
implicazione materiale indipendentemente dal fatto che essa riproducesse il
significato "usuale" di "implica" ("implies", o
di “se”). Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida
senza sostenere che l’im plicazione rigida rappresenti il significato di
"implica" (cf. H. P. GRICE citato da P. F. STRAWSON, Introduction to
Logical Theory – e P. F. STRAWSON, Introduction to “Philosophical Logic” on
Quine on the meaning of ‘if’. --. Questa differenza nel modo di procedere tra
antichi e moderni comporta un'ulteriore differenza formal. Mmentre i logici
antichi sono interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a
fornire due definizioni: quella di "implicazione materiale" e quella
di "implicazione rigida". Filone è il primo esponente della scuola
megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero-funzionale
dell'espressione "Se p, q". Secondo Filone – citato da Grice nella
William James IV, ‘Condizionali indicativi’ --, un'espressione condizionale è
valida o o vera se, e solo se, non comincia con il vero e finisce con il
falso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà del criterio di
consequenzialità (ako/outhfas kritrion) corrisponde al quadro del
l'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in cui il condizionale è
valido, corrispondente ai tre esempi seguenti:
"Se è giorno, c'è luce" (VV); "Se la terra vola, la terra
ha le ali" (FF); e "Se la terra vola, la terra esiste" (FV).
Come sottolineano i Kneale, è probabile che Filone ha in mente l'uso
dell'espressione "Se p, q" nel ragionamento e che vuole attirare
l'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto condizionale con il suo
antecedente implicita sempre il conseguente. L'interpretazione proposta da
Filone è la più debole che soddisfi tale requisito. Diodoro Crono è il
maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per secondo può essere
forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, que
st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo (Hurst – “wheras H. P.
Grice had no qualm about criticising his own tutee!”). La critica che Diodoro
muove all'interpretazione filoniana -- verso la sua diodoreana -- insiste
proprio sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua infatti degl’esempi
di condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo
tt , possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio,
l'asserto "SE É GIORNO, IO STO CONVERSANDO” è considerato VERO da Filone
se si dessero le condizioni , in un tempo t
, per cui è giorno e io sto conversando. Diodoro invece crede dimostrare
che esso è falso, sostenendo che non c'è niente nella sua natura che permetta
di dire se esso cada o no sotto la DEFINIZIONE di Filone. Infatti, esso – “SE É
GIORNO, IO STO CONVERSANDO” può essere pronunciato anche in un tempo t2, quando
è giorno -- MA io rimango silenzioso. In questo caso esso avrebbe la forma – o
interpretazione -- invalida (falsa) VF. Per ovviare a questo inconveniente,
Diodoro elabora una concezione secondo la quale un condizionale è valido quando
"non ammise, né ammette di cominciare con il vero e finire con il
falso". L'esempio che egli dà è "Se non esistono gl’elementi atomici
delle cose, esistono gl’elementi atomici delle cose", che, secondo
Diodoro, ha l'antecedente sempre falso e il conseguente semprevero: ciò basterà
a escludere l'evenienza di un antecedente vero con un conseguente falso, unico
caso in cui il condizionale sarebbe non valido La terza concezione di
condizionale valido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi
moderni (Mates; Bochenski), corrisponde alla implicazione rigida di Lewis o
comunque a una forma di implicazione necessaria (Kneale; Preti). In maniera concorde
con il passo di Sesto, che abbiamo visto, questa con cezione viene riportata
da Diogene (Vitæ). ÈVERO un condizionale nel quale il contraddittorio
(antikefmenon) del conseguente è incompatibile (macheta1) con l'antecedente,
come a esempio “se è giorno, c'è luce”. Il nome del sostenitore di questa
concezione non ci è stato lasciato da chi la riferisce. Ma vi sono prove che
essa appartenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller). La nozione di
"incompatibilità", messa in scena da que sta definizione, è molto
interessante, ma problematica in quanto non viene chiaramente definita. Hurst,
commentando il passo, tende a mostrare che la relazione di incompatibilità e
anche, più in generale, quella di "consequenzialità" (following,
yielding), non possono essere espresse in termini estensionali, cioè mediante
relazioni esterne, che sussistono tra le proposizioni in virtù di pro prietà
che esse avrebbero al di fuori della relazione. Al contrario, è necessario
ricorrere alle relazioni interne che sussi stono in virtù del loro
significato. Può essere interessante confrontare questa conclusione di Hurst
con le osservazioni di Preti, il quale so stiene che l'esempio di Sesto, dato
a proposito della “synartsis” (connectio”) sembra alludere a qualcosa di
ancora più forte della strict implication di Lewis, alla vera e propria
tautologia". Preti basa la sua osservazione sulle notizie circa la
dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De signis. In effetti in
quel testo è presentato come genuinamente stoico il metodo inferenziale della
contrapposizione (ana skeu), che appare analogo a quello della synartsis.
Infatti, l'inferenza per contrapposizione è quella in cui la negazione del
conseguente comporta la negazione del l'antecedente. Essa si configura in
maniera tale che la verità del condizionale "Se il primo, il secondo"
è garantita dalla verità del corrispondente condizionale "Se non il secondo,
non il primo". Preti sottolinea le affinità tra la synartsis (secondo cui
la negazione del conseguente è incompatibile con l'antecedente) e il metodo di
contrapposizione (anaskeu) (in cui la negazione del conseguente comporta la
negazione dell'antecedente), e in entrambi i casi chiama in causa la
implicazione rigida di Lewis, con la precisazione che gli esempi forniti da
Filodemo sembrano indicare un rapporto più forte, che tende a risolvere
l'inferenza o in una forma di tautologia o in una forma di L-implicazione. Nel
passaggio dalla teoria aristotelica del segno a quella stoica c'è, come abbiamo
visto, uno spostamento di accento dai termini su cui si costruiscono le
proposizioni categori che nel sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni
nell'as serto condizionale. Contemporaneamente si registra un'accentuazione
del carattere, già presente in Aristotele, di consequenzialità necessaria che
la relazione segnica è chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a
quello non noto deve presentare un carattere cogente. – cfr. Hobbes on
‘consequence’ – Computatio – e Grice, “Meaning Revisited” – x, y – consequence
--. Ci sono due ragioni di questo aspetto necessaristico della semiotica
stoica, una legata ali'analisi della natura della ra gione e dei suoi
processi, l'altra riferibile alla configurazio ne della metafisica stoica
(Lacy). Per il primo punto è Sesto stesso a informarci che gli stoici
ritenevano che l'uomo si differenzia dagli animali per la sua capacità di
discorso interno (logos endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare
i concetti e di passare dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione
di consequenzialità (akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di
segno, che ha appunto la forma: "Se questo, quest'altro". Così l'esistenza del segno
si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al
secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse
costituito da una catena ininter rotta di eventi, legati tra loro da rapporti
di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto
dipendenti daiPordine razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la
consequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella
stessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli
eventi. L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e
sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col locata sulla
relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause
ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa
accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi
nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle ga certi
avvenimenti presenti e altri che avverranno.4 Ora, per quanto la razionalità
degl’uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei,
tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che
lega gli eventi ("conligatio causarum omnium"), mentre ai primi è
preclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi
caratteristici delle cause ("signa causarum et notas") degli eventi e
su questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto av
verrebbe per gli dei, i condizionali degl’uomini intorno al futuro mancano di
necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quello
della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli cazione necessaria. Ma
questa, che è una caratteristica irri nunciabile, non è tuttavia sufficiente a
definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'è
luce» il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quanto
entrambe le cose sono evidenti e quindi l'inferenza non può provare nulla. La
verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiesto
nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo della
caratteristica di permettere di scoprire una nuova conoscenza. Il segno
stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello
deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per
collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore
dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presente che l'essenza del
segno è l'inferenza che va dalle cose ma nifeste a quelle non percepite. Ma a
questo punto sembra delinearsi nella semiotica stoi ca un problema
difficilmente resolubile: come è possibile che l'inferenza segnica sia
analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui parla Preti) e
contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di un fatto
nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti anche la
dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un segno):-
sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque , il secondo . Qui
l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre sentato dallo scorrere del
sudore al fatto nascosto che esi stano pori nella pelle. La presenza dei pori
è un fatto oscuro per natura. Infatti, essi possono soltanto essere conosciuti
dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il microscopio non era
ancora stato inventato. Sesto aggiunge, come argomento rafforzativo delle
premesse nel ragionamento precedente, un'ulteriore argomentazione: - compatto
e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il corpo. Pertanto non è possibile
che il corpo sia compatto, ma esso è poroso. La premessa maggiore di questa
argomentazione sembra essere basata sul test di contrapposizione (Q::jJ)
applicato alla premessa maggiore del precedente. Infatti se al condizionale: p
(se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo) ::q (ci sono pori
intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre attraverso la superficie del
corpo, ci È impossibile che un liquido scorra attraverso un corpo applichiamo il
test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto e non
poroso) :>p (un liquido non vi può scorrere attraverso), espressione che è
alla base della premessa del secondo ragionamento di Sesto. Essa permette di
sviluppare un ragionamento corrispondente al MODVS TOLLENS, che convalida la
conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se gli stoici riescano
a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la contraddizione che esiste
tra la richiesta di una relazione necessaria e a priori tra le due proposizioni
del condizionale e la necessità che il segno produca nuova conoscenza. Di fatto
la contrapposizione rende necessaria la relazione anche nel caso di verità
fattuali, poiché parte dall'assunzione che il fatto oscuro per natura sia
legato a quello evidente in modo tale che ciò che è evi dente non potrebbe
esistere se il fatto non percepito non fosse quale viene rivelato essere. Antonio
Schinella Conti. Antonio Conti. Keywords: Conti’s French letters – Conti’s
Scritti Filosofici, Dialoghi Filosofichi, about whether corpori celesti are
inhabited -- l’infinito, self-referential, recursion, anti-sneak, regress,
infinite regress in the analysis of communication, calcolo finitesimale,
calcolo infinitesimale, Enea stoico, Ottavio Stoico, Cicerone stoico, semiotica
stoica – allegoria dell’Eneide, scudo di Enea, Il Parmenide di Platone –
assiomatico dell’essere – L’essere e. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Conti” –
The Swimming-Pool Library.
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