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Thursday, November 28, 2024

GRICE E COLORNI

 

Grice e Colorni: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale della diadologia – scuola di Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “To understand the passion in Italian philosophy, as the pasdsion I experienced with Austin in the postwar and with Hardie on the golfcourse in the good old days, one has to understand Colorni – he was a socialist, and thus an empiriociritic! He found opposition in the Gentileians. Oddly, Colroni’s main interest is the ‘monad,’ but he also explored what we would at Oxford call ‘science’ – rather than philosophy. Lay the blame on his tutor at Milano!”. Promotore del federalismo europeo. Mentre era confinato a Ventotene, su saggio, “Manifesto per un’Europa libera e unita”. Figlio di Alberto Colorni, di Mantova, e Clara Pontecorvo, milanese di famiglia pisana (zia di Pontecorvo, del regista Gillo, del genetista Guido e del giurista Tullio Ascarelli).  Studia al ginnasio di Milano. Si appassiona al Breviario di estetica di Croce. La sua formazione adolescenziale, come raccontò egli stesso nella “Malattia filosofica”, fu influenzata dal rapporto intrattenuto con i cugini Enrico, Enzo ed Emilio Sereni, tutti più grandi di lui. Fu Enzo, che era un convinto socialista  ad esercitare su di lui una forte influenza ideale. Studia sotto Borgese e Martinetti. Si laurea sotto Martinetti con “Il concetto di individuo”. Strinse amicizia con Guido Piovene, che però verrà interrotta per via di certi articoli anti-semitici scritti da Piovene su L'Ambrosiano. Partecipa nel gruppo goliardico  per la libertà di Basso e Morandi. Saggio sull'estetica d’Ardigò. Si accosta alla divisione milanese del “Giustizia e Libertà”. Collabora in seguito col nucleo giellista torinese, che fece capo prima a Ginzburg e poi a Foa.  Incontra Croce, con il quale conversa a lungo.  Saggi per Il Convegno, La Cultura, Civiltà Moderna, Solaria e la Rivista di filosofia di Martinetti, e presso la società editrice "La Cultura" di Milano, uno studio critico su L'estetica di Croce.  Saggio sulla monada e la diada, vinse il concorso per l'insegnamento di storia e filosofia nei licei. Dopo una prima assegnazione al liceo Grattoni di Voghera, ottenne la cattedra di filosofia a Trieste. Qui conobbe e frequentò, fra gli altri, Saba (ritratto poi in Un poeta) ed anche Gambini, Pincherle ed Curiel.  Nella collana scolastica che Giovanni Gentile diresse per Sansoni, pubblica “Diadologia”. La diadologia lo costrinse ad affrontare studi di logica e semantica. Riparte da Kant e dalla problematica kantiana, e medita sulle conseguenze che la fisica quantica e la psicanalisi potevano avere per la dissoluzione di impostazioni filosofiche tradizionali. Quando, come si legge in Un poeta,Saba gli domanderà, ‘Perché fa filosofia?’, Colorni concluse che da quel giorno, ‘io non faccio più filosofia’. Non e la filosofia che rifiuta, ma un orientamento legato a quell'idealismo di cui erano seguaci Croce come Gentile e Martinetti. In occasione di un congresso di filosofia a Parigi, incontra Rosselli eTasca. In quanto ebreo e rinchiuso a Varese. I giornali pubblicarono la notizia con gran risalto, sottolineando che egli “di razza ebraica, manteneva rapporti di natura politica con altri ebrei residenti in Italia e all'estero”.  La sottolineatura sul “complotto ebraico” serviva a giustificare la legislazione anti-semita appena varata in Italia dal regime, per potersi così allineare alla linea politica seguita dagli alleati nazisti. Confinato a Ventotene, dove prosegue i suoi studi filosofici, e conversa intensamente con gli altri compagni confinati, Rossi, Doria e Spinelli. Un'eco fedele di quelle discussioni si ritrova in “Conversazioni di Commodo”. Risale a questo periodo la sua adesione alle idee federaliste europee, stesurando il Manifesto per un’Europa libera e unita. Saggio: Problemi della Federazione Europea, che raccoglieva il Manifesto ed altri scritti sul tema. Nella sua "Prefazione" al Manifesto, auspicò la nascita di una politica federalista europea di respiro “universalista”, come scenario democraticamente praticabile dopo la catastrofe della guerra. In tale ottica, la creazione di una federazione di stati europei era da lui considerata come condizione indispensabile per un profondo rinnovamento sociale, anche per iniziativa popolare, che partendo dagli enti territoriali avrebbe coinvolto tutta l’Italia e, quindi, l’intera Europa.  Circa le dinamiche che portarono alla stesura del Manifesto, è generalmente ricondotto ai soli Spinelli e Rossi il contributo maggioritario del testo, sebbene, alcuni recenti studi storiografici, abbiano seriamente rivalutato il suo ruolo. Di trinità si tratta, e lo spirito santo della situazione è lui, che partecipa alle discussioni preparatorie alla stesura del Manifesto assieme a poche altre persone, ed ebbe una parte di rilievo, soprattutto nella funzione di stimolo e di critica, dal suo punto di vista di socialista autonomista, verso i due autori del documento, fino al suo trasferimento a Melfi, benché comunque i contatti non cessassero del tutto. Grazie anche all'intervento di Gentile, riusce ad essere trasferito a Melfi, in provincia di Potenza, dove, nonostante lo stretto controllo della polizia, riusce ad avere contatti con alcuni degli anti-fascisti locali.  Assieme con Geymonat, elabora il progetto di una rivista di metodologia scientifica.  Riuscì a fuggire da Melfi, rifugiandosi a Roma, dove visse da latitante.  Dopo la capitolazione di Mussolini si dedica all'organizzazione del Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, nato dalla fusione del PSI col gruppo del Movimento di Unità Proletaria.  Partecipò, assieme a Spinelli, Rossi, Doria, Braccialarghe e Foa, in casa di Rollier a Milano, alla riunione che diede vita al Movimento Federalista Europeo. Il movimento adottò come proprio programma il "Manifesto di Ventotene". Svolse nella capitale un'intensissima attività nelle file della Resistenza. Prese parte alla direzione del PSIUP e s'impegna a fondo nella ricostruzione della Federazione Socialista Italiana e nella formazione partigiana della prima brigata Matteotti.  “Io ero da poco stato nominato segretario della Federazione Socialista per suggerimento e per decisione di Pertini, che era membro della segreteria del partito in quell'epoca. Avevamo organizzato una chiamiamola brigata, anche se era un gruppo armato che era comandato da Colorni che poi è  assassinata alla vigilia della liberazione di Roma. Fu redattore capo dell'Avanti! Clandestine. Così Pertini ricorda il suo impegno per la stampa del giornale socialista:  «Ricordare l'Avanti! clandestino di Roma vuol dire ricordare prima di tutto due nostri compagni che a forte ingegno unevano una fede purissima, entrambi caduti sotto il piombo fascista: C. e Fioretti. Ricordo come C., mio indimenticabile fratello d'elezione, si prodiga per far sì che l'Avanti! uscisse regolarmente. Egli in persona, correndo rischi di ogni sorta, non solo scrive gli articoli principali, ma ne cura la stampa e la distribuzione, aiutato in questo da Fioretti, anima ardente e generoso apostolo del socialismo. A questo compito cui si sente particolarmente portato per la preparazione e la capacità della sua mente, C. dedica tutto se stesso, senza tuttavia tralasciare anche i più modesti incarichi nell'organizzazione politica e militare del nostro partito. Amava profondamente il giornale e sogna di dirigerne la redazione nostra a Liberazione avvenuta e se non fosse stato strappato dalla ferocia fascista, sarebbe stato il primo redattore capo dell'Avanti! in Roma liberata e oggi ne sarebbe il suo direttore, sorretto in questo suo compito non solo dal suo forte ingegno e dalla sua vasta cultura filosofica, ma anche dalla sua profonda onestà e da quel senso del giusto che ha sempre guidato le sue azioni. Per opera sua e di Fioretti, l'Avanti! era tra i giornali clandestini quello che aveva più mordente e che sapeva porre con più chiarezza i problemi riguardanti le masse lavoratrici. La sua pubblicazione veniva attesa con ansia e non solo da noi, ma da molti appartenenti ad altri partiti, i quali nell'Avanti! vedevano meglio interpretati i loro interessi. Nella Roma occupata dalle forze naziste, in una tipografia nascosta di Monte Mario, fece stampare 500 copie di un libriccino di 125 pagine intitolato Problemi della Federazione Europea, contenente il "Manifesto di Ventotene".  Pochi giorni prima della liberazione della capitale, venne fermato in via Livorno da una pattuglia di militi fascisti della famigerata banda Koch. Tenta di fuggire, ma fu raggiunto e ferito gravemente da tre colpi di pistola. Trasportato all'Ospedale San Giovanni, muore sotto l’identità di ‘Franco Tanzi’. Indomito assertore della libertà, confinato durante la dominazione fascista, evadeva audacemente dedicandosi quindi a rischiose attività cospirative. Durante la lotta antinazista, organizzato il centro militare del Partito Socialista Italiano, dirigeva animosamente partecipandovi, primo fra i primi, una intensa, continua e micidiale azione di guerriglia e di sabotaggio. Scoperto e circondato da nazisti li affrontò da solo, combattendo con estremo ardimento, finché travolto dal numero, cadde nell'impari gloriosa lotta. Tre lapidi esistenti, una, posta dalla III Circoscrizione del Comune di Roma è semilleggibile perché scurita dal tempo, un'altra, posta dal Partito Socialista Italiano, è spaccata in due e un'ultima, posta sempre dalla III Circoscrizione del Comune di Roma, contiene un errore.  Foto delle tre lapidi.  Altre opere: “Scritti, Norberto Bobbio, la Nuova Italia, Firenze); “Il coraggio dell'innocenza, Luca Meldolesi, La Città del Sole (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Napoli); “Un poeta” (Il Melangolo, Genova); “La malattia della metafisica” (Einaudi, Torino). Dizionario Biografico degli Italiani. L'itinerario politico di Eugenio Colorni, in Id., Il socialismo riformista tra politica e cultura, Il socialismo federalista di Eugenio Colorni, tesi di laurea, Università degli studi di Firenze, Anno Accademico, Gaetano Arfé, Eugenio Colorni, l'antifascista, l'europeista, in, Matteotti, Buozzi, Colorni. Perché vissero, perché vivono, Franco Angeli, Milano, Sandro Gerbi, Tempi di malafede. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra. Piovene e C., Einaudi, Torino e Hoepli, Milano,. Geri Cerchiai, L'itinerario filosofico di Eugenio Colorni, in «Rivista di Storia della Filosofia», Stefano Miccolis, C. e Croce”. Talvolta non si distingue debitamente fra l’emergere originario di un testo nell’opera di un filosofo e il suo riemergere, o diffondersi, in altri tempi o contesti. In tal modo, proprio la tragedia del Novecento ha spostato spesso, rispetto alla composizione, la diffusione di scritti intrisi di attualità. Poche volte, come nel Novecento, è stato così vistoso il fenomeno delle letture differite. Ora, e al di là della nota di polemica che affiora da un montaggio tendenzioso fino al limite delle falsificazione – questo è quanto è all’incirca avvenuto per Colorni: scoperti (o riscoperti), dopo la morte dell’autore, in quel particolare contesto del quale si sono nutrite le due stesse riviste, “Analisi” e “Sigma” – che, insieme con «Aretusa», li hanno per prime pubblicati, a tale contesto sono rimasti giocoforza legati, venendo così ad essere proiettati all’interno di una tradizione e di un dialogo almeno parzialmente diverso dal loro, condotto in un altro linguaggio. Si è parlato, a proposito di tale linguaggio, dello spirito del ’45, e sovente si è visto in esso, da parte degli stessi animatori, una vera e propria prosecuzione, in campo culturale, delle istanze portate avanti dalla Liberazione. Alla “dittatura dell’idealismo”– il cui [Razionalismo e prassi a Milano: La cultura milanese vive profondamente quello “spirito del ’45” fatto anche di semplificazione e di attivismo, di fiducia ingenua nell’anno zero, nella svolta politico-sociale in corso, ma soprattutto di un nesso inscindibile con la liberazione e la Resistenza. La dittatura dell’idealismo è il titolo dato da Cantoni ad un articolo apparso sul Politecnico di Vittorini. Espressione di un comune sfondo sociale e di una comune struttura economica, le filosofie di Croce e Gentile si sarebbero unite, nella prospettiva di Cantoni, in una sorta di convergenza sociologica con il regime, riuscendo così a rimediare una posizione di singolare monopolio per la cultura idealista. Certamente, e una grossolanità speculativa e un errore storico identificare il destini del fascismo col destino dell’idealismo, anche se questa identificazione di fatto si verifica nella persona del maggior rappresentante filosofico dell’idealismo italiano, Gentile. In realtà, molti idealisti, dal Croce al De Ruggiero, staccarono, prima o dopo, le loro sorti da quelle del regime. Eppure, al di sotto della dichiarata e sincera avversione, un filo, inconscio spesso ma tenace, lega tra loro gli avversari e ne permetteva una, sia pure scomoda, convivenza. Questo filo era costituito dal loro comune, e inconfessato carattere *conservatore*. Lo spiritualismo idealista agì come una dittatura logica. Avendo in mano cattedre e riviste, gli idealisti facevano il bello e il cattivo tempo nella filosofia, facendo decadere al piano della non-filosofia gli avversari positivisti ed logico-empiristi. Alcune opinioni sul crocianesimo che, oltre ad essere meno drastiche, risultano per certi aspetti accostabili ad analoghi spunti della critica colorniana. Vale la pena di rimettersi a una revisione intelligente dell'idealismo italiano, rimanendo idealisti] filosofia viene assimilata alla sorte del regime – si è così tentato di opporre una filosofia più aperta al dibattito contemporaneo ed internazionale, fosse esso identificabile con le correnti fenomenologico-esistenziali o con quelle più strettamente epistemologiche ispirate al positivismo o empirismo logico del Circolo di Vienna. Quest’ultimo, d’altro canto, viene in Italia presentato da Geymonat con parole quanto mai indicative del clima che ne accoglieva i principi. L’indirizzo filosofico, che qui viene esposto difeso e sviluppato è e vuole essere un vero e proprio razionalismo, sebbene non attribuisca alla ragione un valore assoluto e dogmatico come gli antichi indirizzi che vantano il medesimo nome. Gli è che il razionalismo deve essere ben più agguerrito e penetrante di quelli che caratterizzarono i secoli passati. Deve essere: critico, ossia capace di tenere nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la pura ragione dalla filosofia mistica e decadente; costruttivo, cioè in grado di soddisfare le esigenze di ri-costruzione e di logicità caratteristiche della nuova epoca; aperto, cioè capace di affrontare i problemi sempre nuovi che la scienza e la prassi pongono innanzi allo spirito umano. Gli Studi per un nuovo razionalismo, che raccoglievano le ricerche di un intero ventennio (il testo più datato, Le idee direttive del neo-empirismo, era stato pubblica Ciò che si può apprezzare in Croce, da questo punto di vista, è il suo tentativo di sciogliere il pensiero dai legami colla filosofia metafisica per avvicinarsi a una filosofia intesa come chiarificazione dell’esperienza, intesa cioè come trapasso dalla metafisica alla metodologia. Croce si sarebbe in tal modo inserito nella corrente più viva della filosofia, non riuscendo tuttavia (e in questo consisterebbe il suo maggior limite) a rompere completamente i ponti con la metafisica specuativa. Croce non ha quindi tanto combattuto la metafisica speculativa quanto sostituito alla metafisica trascendente la metafisica immanente. Per una ricostruzione più esaustiva delle diverse posizioni di Cantoni su Croce, si rimanda a R. Franchini, Remo Cantoni critico di Croce, in C. Montaleone e C. Sini (a cura di), Remo Cantoni, filosofia a misura della vita, Milano, Guerini, Cfr. N. Bobbio, Introduzione, in E. Colorni, Scritti, Firenze, La Nuova Italia. Avviene la crisi dell’idealismo, cui segue la ricerca di nuove vie, proprio ad opera della generazione di C. le vie battute per uscire dalla crisi sono soprattutto due: quella che passa attraverso una riflessione sulle trasformazioni avvenute in seno al sapere scientifico e che dà origine a una filosofia scientifica, risolutamente anti-metafisica, qual è il positivismo logico, cui aprono la strada gli studi di Geymonat; e quella che passa attraverso l’esistenzialismo (Abbagnano, il primo Luporini)». Geymonat, Studi per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore. Come ha fatto notare Mario Dal Pra, e a conferma di quanto si scriveva di sopra, l’accostamento in questo passaggio dei termini “ricostruzione” e “logicità” sembra diretto a far pensare che «l’avversione alla metafisica del neoempirismo e l’avversione alla dittatura fascista da parte del movimento di liberazione abbiano per Geymonat una comune radice» (M. Dal Pra, Il razionalismo critico, in Bausola, Bedeschi et al., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari, Laterza. Geri Cerchiai 4 to per la prima volta nel 1935 con il titolo Nuovi indirizzi della filosofia austriaca), fu significativamente fatto uscire con la medesima data di stampa del giorno della Liberazione di Milano; e in quello stesso mese di aprile apparve il primo numero della rivista «Analisi» che, come si è accennato, contribuì fra le prime, con la pubblicazione del frammento intitolato Filosofia e scienza, alla diffusione dell’epistemologia colorniana9. Ed è proprio da una lettura di «Analisi» e «Sigma» che è possibile sommariamente inquadrare il contorno di quel periodo storico al quale si deve la prima scoperta dell’epistemologia colorniana. Voluta da Fachini, «Analisi» fu stampata per cinque numeri, mutando il nome, nel corso delle pubblicazioni, in quello di «Analysis». L’«esperienza personale che io avevo fatto», racconta Fachini circa la nascita della rivista, mi aveva convinto della necessità di una piattaforma di incontro interdisciplinare. Allora in Italia mancava qualcosa di simile. La guerra spezzò agli inizi i miei tentativi. Gli eventi bellico-politici stessi, per conto loro, mi portarono a profonda solidarietà mentale con Gratton. Nasce così l’idea di «Analysis»: con ambizioni editoriali infantilmente dissonanti col momento. Trovammo poi nel Buzzati-Traverso un biologo “fisicalista” ma aperto ad ogni esperienza. Tra i filosofi professionali (a formazione cioè tradizionalmente filosofico-letteraria) Banfi, cui mi ero rivolto, mi indica l’allievo suo Preti, come fornito di interessi e preparazione fisico-matematica, allora rara nel filosofo. Per inciso, ricordo i miei contatti con un altro filosofo con preparazione e interessi analoghi: C. I temi portati avanti dalla rivista furono sostanzialmente due: l’interesse per la metodologia delle scienze – attraverso la quale indagare la possibilità di un fondamento comune alle diverse discipline – e la volontà di mantenersi all’interno di un’impostazione strettamente antimetafisica. La collaborazione fra 8 In «Rivista di filosofia». Cfr. C., Filosofia e scienza, in «Analisi». D’ora innanzi si indicheranno gli scritti raccolti in questa edizione col solo titolo seguito dal numero di pagina. Di «Analisi» e «Sigma», con specifico riferimento alla figura di C., si è occupato M. Quaranta, La scoperta di C. nelle riviste del secondo dopoguerra. Gli scritti sulla relatività, in Cerchiai e Rota (cur.), C. e la cultura italiana fra le due guerre, Manduria-Bari-Roma, Lacaita. “Analysis”: testimonianza di Fachini, in Analisi. Milano, riletta da Quaranta, con testimonianze di Fachini, Ceccato, Geymonat, Gratton, Poli, Bologna, Forni. Aggiunge Fachini, a proposito della sua formazione, che l’impulso a uno sforzo collettivo interdisciplinare era sorto in me dai primi contatti con l’ambiente mentale del neopositivismo logico», ma che la soluzione positivista, verso cui ero in un primo tempo quasi costretto, mi si rivelò presto insoddisfacente per l’irrigidimento formale, verso cui stava avviandosi. Il «periodico», si affermava nel Programma pubblicato sul primo numero, era «inteso ad offrire un luogo di libera discussione a quanti abbiano interesse ai problemi di metodologia e di critica della scienza, nello sforzo di purificare ed universalizzare il linguaggio  Cinque scritti metodologici di C. 5 scienziati e filosofi fu uno degli aspetti qualificanti della pubblicazione, ma fu anche d’impedimento ad un’armonica composizione delle sue diverse anime, concorrendo in definitiva alla conclusione dell’esperienza. L’incontro con i fondatori e la rivista, racconta a questo proposito Ceccato, avvenne per chiamata gentile. Io mi trovavo in parabola positivistica o logico-empiristica discendente. Il filone che comincia ad interessarmi era ormai piuttosto quello di Bridgman e Dingler, comunque un filone operativo. Questo difficilmente avrebbe permesso una intesa con i filosofi del gruppo, Geymonat e Preti. Una collisione non poteva tardare anche con il più aperto filosofo ufficiale, Banfi, più storico, più umanista. Un certo divario di lavoro si venne a creare anche con gli scienziati in quanto per lo scienziato di discipline assestate e floride, come la fisica, la biologia, l’anatomo-fisiologia, etc., la metodologia si può aggiungere come ornamento, come divertimento. Ma non per me. Così terminate le pubblicazioni di «Analisi», la sua eredità venne raccolta, in quello stesso anno, dalla rivista romana «Sigma», fondata da Somenzi e Giuseppe Vaccarino. Il periodico – che riporta il sottotitolo di «Conoscenza unitaria» – si propone di riunire, come si legge nella seconda di copertina, una limitata quantità di elementi atti a determinare una concezione unica della conoscenza. La nota di presentazione della rivista precisava poi i confini all’interno dei quali si intendevano muovere i curatori: «si va facendo evidente che esaurire la scienza nel tecnicismo dello specialista è dannoso – non solo ai fini della costituzione di un sistema unitario della conoscenza scientifica, ma anche nei riguardi degli stessi progressi tecnici nei singoli settori. Da qui specialistico verso una comune impostazione dei modi fondamentali, pur essi comuni, con cui si edifica e modifica il sapere scientifico». Unico limite, in tal senso, era quello di non «travalicare di là dalla metodologia in una sistematica della scienza [per] fare della metafisica insaputa e inutile» (Il programma, in «Analisi»). “Analysis”: testimonianza di Ceccato, in Analisi. Milano. In una lettera a Vaccarino, Somenzi rilegge la storia di «Sigma»: “Sigma” è nata con la modesta intenzione di pubblicare il vecchio materiale tuo, di C. e Cotone, mio. E di esaurirlo coi primi numeri. Poi si è visto che, se non altro dato il costo della carta e stampa, conveniva pubblicare un tentativo di sintesi organica, sia pure provvisoria, del tuo – e limitare quello dei due C. e mio a ciò che può avere ancora interesse dal punto di vista filosofico. Infine è sorta l’idea, con la crisi di “Analisi”, di prenderne il posto con il programma serio di Metodo. Già l’impostazione dei primi due numeri ci alienerà le simpatie dei Castelli, Blanc, Fantappié ecc., ma anche dei Filiasi e Geymonat (l’interessamento di quest’ultimo è condizionato alla possibilità di una nostra conversione al materialismo dialettico/razionalista tipo “La Pensée”). Attualmente spero solo nei Servadio e magari Spirito, Savinio e stop» (“Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Somenzi, Attività professionale, Carte di lavoro non organizzate, Collaborazione con Vaccarino, b. 1, Vaccarino. Da ora in avanti, il Fondo sarà abbreviato con la sigla “FS”, seguita dall’indicazione dei riferimenti completi d’inventario. La conoscenza unitaria, in «Sigma». Scriveva Vaccarino a Somenzi riguardo a questa nota. Rileggendo la tua edizione riveduta della conoscenza unitaria penso che possa andare come presentazione anonima, specie se sarà da  Geri Cerchiai 6 avrebbe anche dovuto discendere il ruolo della ricerca metodologica, che – comprendendo un discorso più largamente critico-filosofico – avrebbe dovuto fissare le norme dirette ad unificare in sistema le scienze particolari o la conoscenza in genere. Come «Analisi», anche «Sigma» ha però vita breve, e dopo sei numeri una nota editoriale ne annunciava la confluenza nella rivista «Methodos». Questo fu dunque lo sfondo culturale che vide nascere l’interesse per la filosofia colorniana, un interesse che, attraverso la pubblicazione di alcuni testi del filosofo milanese, richiamava alla ricostruzione della filosofia empiristica italiana (come la proposta del ebraico-britannico Ayer a Oxford) come tradizione anti-metafisica e anti-idealistica e capace di attuare un profondo rinnovamento negli orientamenti teoretici nazionali. D’altra parte, che il pensiero di Colorni fosse in certa misura vicino alle posizioni espresse da «Analisi» e «Sigma» è testimoniato, oltre che dalle singole scelte di politica editoriale delle due riviste, da quanto raccontato dagli stessi protagonisti: «Ricordo con precisione», ha scritto ad esempio Fachini sul secondo numero di «Analisi», le conversazioni di quell’epoca: credo di poter affermare, per esperienza personale, che C. sia stato tra i primi italiani di preparazione filosofica a tentare di accogliere e di comprendere, in modo serio, le nuove affermazioni epistemologiche. La più gran parte dei suoi saggi sono inediti: molte pregevoli cose egli ha lasciato: e forse potrebbe indicarci vie nuove. Gli amici di «Analisi» auspicano di poter far conoscere in cerchio vasto il suo lavoro, a vantaggio della ricerca metodologica e in omaggio alla sua memoria Somenzi, a sua volta, scrivendo a Vaccarino della pubblicazione degli scritti colorniani su «Sigma», afferma: Per Sigma convinciti che i nostri scritti, incomprensibili per virtù proprie dalla maggioranza dei competenti, l’hanno irrimediabilmente “condannata” e che quelli di C. sono ancora i migliori che potessimo o possiamo esibire, oltre che i più vicini al nostro ordine di idee. “Fisica teorica e filosofia” di Colornimerita senz’altro la pubblicazione sul numero che spero di riuscire a dedicare a questo argomento19. Rievocando poi il Progetto di una rivista di metodologia scientifica – da C. discusso fra gli altri con Geymonat durante gli anni della guerra – ante ulteriormente ampliata. Effettivamente rileggendo il mo testo subito dopo averlo scritto non avevo avuto una buona impressione. Ma ora mi è piaciuto» (FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza scientifica, gen. 28, 135, Vaccarino. La conoscenza unitaria. Cambi, Razionalismo e prassi a Milano, G. Fachini, C., in «Analisi». Si tratta di C., Critica filosofia e fisica teorica. Lettera di Somenzi a Vaccarino. Alcuni inediti riconducibili a tale progetto sono presentati in M. Quaranta, La scoperta di C., cit., cfr. in part. le pp. 126-130. Per i testi di FS destinati alla rivista metodologica. Saggi metodologici di C.  7 cora Somenzi ha sottolineato come esso corrispondesse «nella sostanza a molte realizzazioni degli ultimi quarant’anni, da riviste come “Analysis” a collane di volumi di filosofia della scienza e di storia della scienza quali quelle impostate a Milano e Torino dallo stesso Geymonat e da Rossi. A partire da queste premesse, appare evidente come la storia della riscoperta colorniana nel dopoguerra possa concorrere a gettare luce su alcuni fondamentali aspetti dello stesso pensiero dell’autore; essa ne evidenzia difatti la novità di prospettiva e la conseguente, connaturata disposizione a dialogare coi più avanzati ambienti filosofico-culturali del nostro Paese. Ciò che tuttavia rende affatto esemplare la filosofia colorniana, concorrendo a fare di essa un importante «contributo alla comprensione del travaglio della filosofia italiana al momento del declino della preponderanza idealistica, non è soltanto la particolare modalità della sua ricezione, ma anche la complessiva parabola intellettuale seguita dal giovane studioso per giungere alle posizioni metodologiche degli ultimi anni. C. è allievo di Borgese e Martinetti a Milano. Nel raccontare della formazione universitaria di c., Tagliacozzo scrive. Va ricordata l’influenza che sui suoi studenti ha allora una personalità come quella di Borgese, che C.  e compagni chiamano scherzosamente G.A. Era uno di quei pochi professori che non disdegnano allora di soffermarsi a discutere dopo la lezione con i propri studenti. Altra influenza determinante per i suoi studenti quella dell’austero Martinetti che spiega Kant alle otto del mattino. Martinetti avvia gli studenti al rigorismo dell’etica kantiana, mentre il brillante G.A., più alla mano, discute di estetica e letteratura comparata. I debiti con l’insegnamento di Borgese, d’altro canto, sono resi espliciti dallo stesso C., che in un suo curriculum universitario afferma: Durante i miei studi mi sono occupato specialmente di problemi filosofici ed estetici e, sotto la direzione del Borgese, ho redatto lavori su L’estetica d’Ardigò.  21 V. Somenzi, C. filosofo della scienza, in «Filosofia e società»,  Bobbio, Introduzione, cit., p. VI. 23 Tagliacozzo, L’uomo C., in «Tempo presente». Prosegue poi Tagliacozzo nella pagina seguente: «Martinetti […] indusse [Eugenio] ad approfondire Kant, amò Spinoza dopo la prima infatuazione per l’idealismo italiano. E chi in quegli anni non lesse Croce e Gentile, ma specie Croce? Eugenio conobbe Hegel, ma non è mai hegeliano. Studiò dal punto di vista filosofico Marx, ma non fu mai marxista. Dopo un’esercitazione sul positivismo – e si noti l’influenza borgesiana nell’approfondimento dei problemi estetici – si indirizzò verso Leibniz» (ivi, p. 54). Geri Cerchiai 8 gò e del positivismo italiano, L’estetica bergsoniana e L’estetica di Croce. Quest’ultimo studio è stato pubblicato più tardi a Milano dalla casa editrice “La Cultura”24. Più complesso, e forse maggiormente studiato, è il rapporto di Colorni con Piero Martinetti, col quale l’autore si laureò nel 1930 su Sviluppo e significato dell’individualismo leibniziano. Il primo, fondamentale impulso all’approfondimento di Leibniz; l’introduzione alla filosofia di Kant; il rifiuto del metodo dialettico; l’urgenza di rinvenire una nuova, diversa organizzazione del nesso fra individuale ed universale, sono elementi che stringono C. al magistero martinettiano e che risultano fondamentali per la più generale formazione del filosofo milanese. Al di sotto di tutti è poi presente l’esigenza di individuare il corretto rapporto fra l’analisi della realtà e la sua organizzazione sistematica, esigenza il cui movimento e la cui parabola all’interno della propria maturazione intellettuale sono così descritte, ne La malattia filosofica, dallo stesso protagonista: 24 Curriculum vitae di Colorni, s.d., in Archivio Hirschmann, Roma, citato in Gerbi, Tempi di Malafede. Guido Piovene ed Eugenio Colorni. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra, nuova edizione Milano, Hoepli. Cfr.: C., L’estetica di Croce. Studio critico, Milano, La Cultura; Id., Ardigò, in «Pietre», firmato con lo pseudonimo di Carlo Rosemberg; per una storia di questa pubblicazione rinvio ad Vigorelli, Antifascismo: il caso di “Pietre”, in Eugenio Colorni e la cultura italiana, a cura di G. Cerchiai e G. Rota); lo scritto sul bergsonismo è tuttora inedito. È lo stesso C., ne La malattia filosofica, a raccontare come si svolgevano, durante le lezioni di Borgese, le esercitazioni dalle quali è nato ad esempio lo studio su Croce. All’università si dà continuamente battaglia contro Croce. Ogni settimana, uno studente sale sulla cattedra per discutere coi compagni e col professore. Salire anche lui su quella pedana, gli piacerebbe tanto: ma per che dire? Tenterà, ad ogni modo» (C., La malattia filosofica). Sul rapporto fra C. e Borgese rimando a Riosa,  Borgese e C.  tra letteratura e politica, in Cerchiai e Rota, C. e la cultura italiana. Nello stesso periodo nel quale si laurea C., altri due allievi di Martinetti, Barié e Gadda, venivano indirizzati dal maestro allo studio del filosofo di Lipsia. Si veda, a mero titolo di esempio, quanto lo stesso Martinetti scrive a Gadda: «Se fra tre o quattro anni Ella potesse uscire con una bella esposizione di Leibniz (non tema d’avere concorrenti in questo argomento!) la via dell’università (per storia della filosofia) Le sarebbe aperta» (Lettera di Martinetti a Gadda; in Martinetti, Lettere a Gadda, a cura di Lucchini, in «I quaderni dell’ingegnere. Testi e studi gaddiani», Cfr. anche: Cerchiai, Due inediti di Emanuele su Leibniz, in «Rivista di storia della filosofia»; C. lettore di Leibniz, in C. e la filosofia italiana. Si veda la testimonianza di Tagliacozzo riportata poco sopra. Per il clima nel quale poteva essere riletto Kant durante le lezioni martinettiane (con particolare riferimento alle vicende relative a C.), si rimanda a S. Gerbi, Tempi di malafede, cit., p. 39. 27 Una delle poche citazione dirette di C. presenti nel libro sull’estetica crociana rinvia proprio allo scritto di Martinetti intitolato Il metodo dialettico (in «Rivista di filosofia), là dove Colorni scrive: «perché, per quale forza o per quale principio questa implicazione dei contrari debba presentarsi quasi come una generazione dell’uno da parte dell’altro, è difficile a intendersi. Perché si deve dire che il Non-io, il quale è, per la sua stessa definizione, inseparabile dall’Io, sgorga, si svolge, si origina da esso? Che il particolare nasce dall’universale?» (C., L’estetica di Croce). Cinque scritti metodologici di C.. Il problema che lo occupa è sempre il posto, la collocazione delle facoltà nel mondo dello spirito. A un certo punto, gli balena la possibilità che questi elementi di cui cercava con tanto accanimento l’ordine e la collocazione, non patiscano alcun ordine: possano vivere così, separati, paralleli, autonomi. L’idea lo entusiasma. Gli sembra di avere ora fatto veramente un passo innanzi. E non pensa più tanto a definire e a ordinare, quanto a descrivere. Ma questo procedere dovrà pure avere una sua giustificazione teorica, dovrà pure inquadrarsi in una visione del mondo, avere un suo nome che termina in -ismo. Pierino [alter ego di C.] si butta sui pluralisti, sugli empiriocriticisti: studia Mach e Avenarius, si addentra nel labirinto di Leibniz. Su queste basi, si può dire che quello che altrove ho definito il “problema dell’ordine” divenga, talvolta anche solo per contrasto, uno dei fili conduttori dell’intera riflessione colorniana: impostato fin da L’estetica di Benedetto Croce, esso cercherà una prima, instabile sistemazione nella filosofia di Leibniz, per trovare poi nella rilettura metodologica ed epistemologica del criticismo kantiano una soluzione – o, come potrebbe dirsi: dissoluzione – affatto originale. Al fine di seguire il movimento del pensiero di Colorni da questo punto di vista, può essere utile rileggere le parole dell’autore stesso. C., La malattia filosofica; cfr. anche ibidem, n. 19 del curatore. Di Leibniz dirò in seguito, in questo stesso paragrafo. Per quanto riguarda l’accenno agli empiriocriticisti, si rimanda a quanto scritto da Guzzardi, il quale, esaminando precisamente la radice dei riferimenti colorniani a Mach, Avenarius e Schuppe, ne ha riconosciuto l’origine proprio nell’insegnamento di Martinetti. C., spiega Guzzardi, trova una valutazione positiva di questo pluralismo, nonché delle filosofie dell’esperienza di Schuppe, Avenarius e Mach, nell’Introduzione alla metafisica di Martinetti. D’altra parte, M. indirizza allo studio di Mach, Avenarius e Schuppe, un allievo, Pelazza. Tali circostanze, secondo Guzzardi, fanno ritenere», insieme con altre che dovrebbero essere approfondite, che l’interesse originario di C. per l’empirio-criticismo sia da collegare a Martinetti e Pelazza (Guzzardi, Lo specchio della natura. C. e la cultura del suo tempo, in C. e la cultura italiana, a cura di Cerchiai e Rota). Prosegue Guzzardi. Non solo Schuppe e Avenarius vengono citati da C. nella recensione all’Introduzione alla metafisica. Qui si trova pure accennato fra i meriti di Martinetti quel concetto di esperienza pura e obiettiva che egli sembra indicare come via di uscita dalle difficoltà in cui il pensiero moderno si trova impigliato” – e l’esperienza pura [reine Erfahrung], attorno a cui Pelazza ha costruito la propria presentazione dell’empirio-criticismo, aveva costituito il punto d’approdo della filosofia di Avenarius. La recensione Sull’“Introduzione alla metafisica” di Piero Martinetti si trova nell’edizione Einaudi degli scritti colorniani. A tutto ciò si può aggiungere che C. accostò all’empirio-criticismo anche la filosofia di Croce. L’individualismo del Croce non è necessariamente in contrasto col suo idealismo: risolve piuttosto il principio dell’auto-coscienza – che è essenziale all’idealismo – in una coscienza del pensiero nella effettualità del suo pensare; identifica il punto di partenza soggettivo col suo necessario correlato oggettivo, l’universale col particolare. In questo senso si avvicina piuttosto a forme di contingentismo e di empirio-criticismo; e in questo senso appunto è giustificabile il suo tenersi al dato e partire da esso: in quanto questo dato non può essere inteso che come uno stato d’animo, un’esperienza che debba essere vissuta intensamente, e da cui si debba trarre a volta a volta l’assoluto. C., L’estetica di Croce.  Cfr. Cerchiai, L’itinerario filosofico di C., in «Rivista di storia della filosofia, Cerchiai. Nel libretto su Croce, il problema dell’ordine è inquadrato a partire dalla questione del rapporto fra la «soprastruttura» 30 dialettica del sistema e l’effettivo valore delle singole osservazioni: «Ciò che sta sotto l’organizzazione esteriore», scrive Colorni, è nel crocianesimo il vero sistema, non ancora chiaro e formulato, ma agile e ricco di molteplici possibilità. Ricercare tale ricchezza sotto un’impalcatura in gran parte insoddisfacente è il compito che s’impone a chiunque viva quel pensiero come un’esperienza della propria vita. E seguirne la possibilità di sviluppo anche di là dalla forma che ha dato a se stessa, ci pare il miglior omaggio che si possa rendere a una filosofia31. Se il “metodo individualistico” così identificato nella filosofia di Croce conduce Colorni a liberare le singole osservazioni «dall’interpretazione che Croce stesso ne ha data allo scopo di adattarle ad un suo schema presupposto di organizzazione», per cercare di «renderle di nuovo pure» e «ravvisare» di conseguenza «in esse» un sistema «non imposto in precedenza, ma derivante e identico coi dati stessi forniti»32, non può stupire l’interesse teorico nutrito dal filosofo milanese per il secondo dei suoi “auttori”, ossia per il pensiero di Leibniz. Quest’ultimo, infatti, pare offrire precisamente la possibilità di chiudere in un circolo coerente l’analisi empirica del particolare e l’organizzazione sistematica del tutto. Scrive C. Leibniz non parte mai con l’intento esplicito di costruire un sistema. La sua attività filosofica si presenta a tutta prima come una grande raccolta di prese di posizione particolari. Eppure il sistema non manca in esse: è anzi continuamente presente. I singoli problemi si mostrano a poco a poco connessi l’uno all’altro; le soluzioni convergono, si giustificano e confermano a vicenda […]. Il sistema non è una pura esteriorità, un concordanza sopravvenuta; è anzi l’anima di ciascuno osservazione, attraverso cui tutto si spiega e si giustifica33. Per tali motivi, Leibniz rappresenta quasi il contraltare dello storicismo crociano o, meglio ancora, il rimedio alle sue lacune; «Leibniz», infatti, «differisce [proprio] in questo da altri pensatori, apparentemente più coerenti e organizzati, ma la cui ricchezza va cercata al di là del sistema, nelle varie formulazioni particolari»34: vi differisce cioè per il fatto che, come si è visto, il suo sistema si C., L’estetica di CROCE (si veda), cit. Scrive ancora C.: «chi parta dal mondo stesso e, rendendo eterno e universale ciascun dato di questo, voglia costruire una scienza delle forme possibili di questa universalizzazione e di qui giungere ad una visione complessiva dei modi eterni della realtà e delle loro reazioni reciproche, non pone il sistema all’inizio, come premessa della sua ricerca; ma ad esso giungerà al termine ideale del suo cammino. C., Nota bio-bibliografica, in G. W. von Leibniz, La monadologia, preceduta da una esposizione antologica del sistema leibniziano, a cura di C., Firenze, Sansoni. Il riferimento sembra rinviare precisamente alla critica della filosofia crociana. Cinque scritti metodologici di C.11 sviluppa spontaneamente dalle singole osservazioni e l’insieme si mostra nella sua completezza attraverso il complesso dei suoi aspetti. E tuttavia, lo scacco della prospettiva leibniziana giungerà a sua volta quando, muovendo da simili presupposti, Colorni dovrà constatare il carattere prettamente soggettivo del tentativo di sistematizzazione da quella realizzato: Leibniz, spiega così C. nel suo ultimo scritto sull’argomento, applica all’ordine spirituale quella continuità, quel passaggio ininterrotto, quel procedere da ogni legge ad una legge più vasta, che egli crede di scorgere come l’essenza più profonda del mondo naturale. Che questa stessa continuità e questo allargarsi sia, più che una legge della natura, un’esigenza dello spirito nella considerazione della natura stessa, egli non sospetta36. L’insuccesso del punto di vista leibniziano consentirà però anche a C. di schiudere un più libero sguardo, sciolto ormai dai condizionamenti delle diverse scuole filosofiche, sul criticismo kantiano e sugli strumenti da questo forniti per lo studio dei meccanismi di funzionamento del pensiero. C. aveva anticipa le due linee – leibniziana e kantiana – della propria filosofia, là dove aveva scritto, in Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà, che la monade di Leibniz avrebbe dovuto completarsi con la dottrina kantiana, di modo che l’«universalità della monade, intesa come realtà cosciente, puo coincidere con la trascendentalità del conoscere, inteso come conoscenza reale»37. L’effettivo passaggio ad un più maturo kantismo segna tuttavia per Colorni un punto di svolta fondamentale o, come afferma l’autore stesso, una vera e propria «operazione di cataratta»38, capace di conquistare una diversa prospettiva sul mondo: esso, infatti, consente al giovane studioso di voltare le spalle alla “conoscenza filosofica” e di approdare infine a quella particolare metodica ch’egli presenta come conoscenza prettamente scientifica, intesa cioè come padronanza di un processo. La domanda impossibile (senza senso) della filosofia, spiega così Colorni, pur nella loro rigida formulazione teoretica, sono sempre espressione di qualche tendenza, di qualche profonda esigenza dell’animo. La risposta si dà dunque divenendo padroni del meccanismo psicologico mediante cui la domanda viene posta; essendo capaci di riprodurlo, di seguirlo nelle sue fasi, di variarlo all’infinto. Al problema della realtà, si risponde fabbricando animi per cui l’expressione “realtà” non ha senso. Alla domanda se esiste un mondo in sé in cui la somma degli angoli di un triangolo non sia uguale a due angoli retti, si risponde costruendo una geometria in cui tale somma sia effettivamente maggiore o minore di due retti, e mostrando che tale geometria non è né più né meno vera di quell’altra; ma è, rispetto all’altra, essenzialmente nuova C., Libero arbitrio e grazia nel pensiero di Leibniz, C., Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà. C., Critica filosofia e fisica teorica, C., Filosofia e scienza. C., Critica filosofia e fisica teorica; Cerchiai 12 È in questo contesto, all’interno del quale Colorni ritiene di essere definitivamente guarito dalla sua «malattia filosofica»41, che vanno collocati i titoli di seguito trascritti e conservati presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Vittorio Somenzi. Di tali scritti, e degli altri pubblicati dalle riviste «Aretusa», «Analisi» e «Sigma», è lo stesso Somenzi a raccontare la storia nel già citato testo su C. filosofo della scienza. 3. La metodologia colorniana negli scritti del Fondo Somenzi «Nel 1945», scrive difatti Somenzi, comparve sulla rivista «Aretusa» un Ricordo di C. scritto dall’amico Guido Morpurgo-Tagliabue, accompagnato da due inediti stimolanti: Il bisogno dell’unità e Sul complesso di Edipo. Altri inediti mi pervennero attraverso la rivista «Analisi» […], e di questi una parte venne pubblicata su «Analisi» e sulla rivista romana «Sigma» che ad essa si affiancò per iniziativa di Giuseppe Vaccarino e mia. Dal carteggio fra Vaccarino e Somenzi emergono altre importanti informazioni sui dattiloscritti conservati in FS, che con ogni evidenza i due fondatori di «Sigma» si inviavano in reciproca lettura. Di quanto scriveva Somenzi a Vaccarino nel maggio del ’47 si è già reso conto nel § 1. Il 27 gennaio di quel medesimo anno, è Vaccarino a dire a Somenzi di sperare «tra qualche giorno di inviar[gli] i C.»; il giorno appresso, e quello successivo ancora, Vaccarino aggiunge poi quanto segue: Spero domani di inviarti i Colorni. Molto interessanti e brillanti. Comincerei con i dialoghi di “Commodo”, combinandoli in modo che abbiano tra di loro un certo legame. Ieri sera ho riletto i C., che ti rimando tranne l’ultimo, che ti invierò tra qualche giorno. “I dialoghi” si potrebbero pubblicare in 3 puntate – (La seconda notevolmente più lunga delle altre 2) – Vi è una quarta puntata sull’economia, che mi piace meno. Nel testo ho cambiato qualche parola a matita (in modo che tu possa eventualmente ricorreggere). Ho creduto anche opportuno evitare il “dialogo nel dialogo” nel primo n°, introducendo invece del “fisico ribelle” il “Curiosus” del secondo n°. L’Apologo ed il Ritorno alla natura vanno anche benissimo. Forse si potrebbero pubblicare unitamente al terzo dialogo, che è molto breve. Le idee di Colorni mi sembrano meglio espresse nei dialoghi che nel capitolo sulla fisica, data la forma brillante 41 La malattia filosofica è per l’appunto il titolo che C. diede alla sua più completa biografia intellettuale, già qui ricordata nelle pagine precedenti. 42 V. Somenzi, C., cit., p. 79. Prosegue poi Somenzi citando di fatto alcuni dei titoli dei quali si sta qui discutendo: «La rivista doveva contenere articoli di fondo dedicati a problemi come: il concetto di esperienza, costanti universali e unità di misura, l’illusione finalistica nella fisica e nella biologia, l’illusione realistica nella fisica, geometria ed esperienza, l’assiomatica dei principi della meccanica, l’assiomatica della teoria della relatività e quella della meccanica quantistica, fisica puntuale e fisica di campo, il concetto di istinto, la polemica tra meccanicismo e vitalismo, la costruzione di una economia indipendente da premesse psicologiche. dell’espressione. In quanto alle opinioni espresse (l’io, la storia, l’amore, ecc.) non c’è coincidenza con la metaconoscenza, anzi piena opposizione43. Su «Analisi», uscì Filosofia e scienza44, mentre un più consistente numero di titoli apparve su «Sigma»; si trattava, in particolare, dei testi seguenti: Apologo su quattro modi di filosofare; Della lettura dei filosofi; Del finalismo nelle scienze; Dell’antropomorfismo nelle scienze; Sugli idoli della scienza fisica; Critica filosofica e fisica teorica; Il ritorno alla natura; Filosofi a congresso45. Oltre a questi – e presumibilmente appartenenti al medesimo gruppo di testi del quale Somenzi afferma di aver pubblicato solo una parte – in FS sono conservati altri dattiloscritti, di cui sono qui trascritti quelli maggiormente compiuti46. I primi tre scritti appartengono con ogni evidenza al gruppo di testi destinati dall’autore alla rivista di metodologia scientifica progettata con GEYMONAT (si veda). Questa, oltre a note di varietà, rassegne e recensioni, avrebbe infatti dovuto ospitare una sezione dedicata ad «Articoli e saggi», fra i cui titoli C. indica per l’appunto Geometria ed esperienza e Assiomatica delle leggi della meccanica. Il testo intitolato II: Relatività generale è, come mostrato dalla numerazione romana, il secondo paragrafo di Sull’assiomatica della teoria della relatività (anch’esso menzionato nel Progetto di una rivista di metodologia scientifica), il quale comincia proprio con l’indicazione di un paragrafo (I) La relatività ristretta. Tutti e tre i testi fanno riferimento al discorso intorno all’idea di esperienza che per C. discende dalla scoperta del carattere relativo delle categorie: «la coscienza che abbiamo acquistato della nostra possibilità di modificare [i] dati elementari»48 della conoscenza, infatti, costringe secondo C. sia a riformare i concetti di a priori e di a posteriori, sia a rivedere coerentemente la nozione di esperienza. «A priori», spiega così C., «non significa più della ragione. A posteriori non significa più dei sensi. Sia i dati della ragione, sia i dati dei sensi, ap43 Lettere rispettivamente del 28 e del 29 gennaio 1947; quest’ultima è scritta di seguito all’epistola del giorno precedente, sul medesimo foglio. Il 17 gennaio 1947, Vaccarino aveva informato Somenzi del suo scritto sulla metaconoscenza, col quale confronta qui gli scritti colorniani: «Avevo preparato uno scritto sui rapporti tra la conoscenza e la religione, il quale in definitiva risultò troppo lungo ed infarcito di considerazioni metagnosologiche. Ho pensato perciò che è meglio direttamente attaccare la questione della metaconoscenza». Tutte le lettere sono in FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza scientifica, 1942-2003 gen. 28, 135, Vaccarino Giuseppe, 1946-1948. Il “fisico ribelle” è probabilmente il Fisico che Colorni inserisce quale interlocutore (appunto: quasi come dialogo nel dialogo) in Del finalismo nelle scienze, e che nella stampa definitiva su «Sigma» non viene poi effettivamente sostituito dal Curiosus interlocutore di Dell’antropomorfismo nelle scienze. 44 Cfr. supra, § 1, n. 9. Il testo comprende parzialmente anche: Sul concetto di esperienza e Intorno al principio di identità.  Cfr. infra, la Nota del curatore. C., Filosofia e scienza. Cerchiai 14 paiono come elementi in cui il fattore soggettivo e quello oggettivo si presentano mescolati, ma di cui è in nostro potere, mediante un procedimento logico e psicologico insieme, modificare la struttura»49. L’esperienza, a sua volta, «anziché rivelare leggi naturali», dovrà suggerire, secondo le contingenti necessità degli studiosi, «determinate forme di definizione e di misura», utili a proseguire nel lavoro di ricerca scientifica51. Siamo qui di fronte a quel progetto di “liberazione” della fisica «dalle premesse realistiche-finalistiche» che deve per Colorni rappresentare non solo «uno degli scopi essenziali della rivista»52, ma anche il fine ultimo della sua stessa critica epistemologica. Di tale progetto il più lungo e strutturato Programma contribuisce a tracciare ulteriormente i contorni teorici. Il nucleo dello scritto ruota intorno alla considerazione secondo la quale la «filosofia odierna dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine. Criteri che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano radicalmente la realtà, operando una scelta che ci fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato». La constatazione del carattere condizionato della realtà diviene in tal modo, e nuovamente, il punto di partenza – tutto kantiano – della metodologia di C.. Il criticismo trascendentale, aggiunge però l’autore, «ha messo tutti sul chi vive», sì che «la curiosità di vedere al di là del velo di Maja delle categorie si è fatta sempre più intensa»; sarà tuttavia soltanto la capacità della conoscenza scientifica di disubbidire all’«ammonimento di Kant» per trascurare «i limiti» da questo imposti che consentirà, ancora una volta, di compiere il secondo, decisivo passo lungo la strada già intrapresa dalla Critica della ragione pura: «La domanda da porsi», chiarisce Colorni in un passo cruciale di Critica filosofica e fisica teorica, Non [è]: “È il mondo del nostro pensiero, o non è, quello reale?”; bensì: “Come potrebbe essere conformato un mondo di pensiero diverso dal nostro?”. La prima domanda parte da quella esigenza di sicurezza e stabilità che è sempre collegata col pensiero del reale [e che appartiene all’atteggiamento filosofico]. La risposta che essa cerca è una risposta che assicuri tale sicurezza e stabilità in un modo qualsiasi; nel reale, o in qualche cosa che lo sostituisca. La seconda domanda [propria dell’atteggiamento scientifico] muove invece da una esigenza di novità […]. Si tratta qui del secondo passo della rivoluzione copernicana. Il primo era consistito nell’accorgersi che le leggi della realtà non sono che forme del nostro intelletto. Il secondo consiste nel domandarsi se queste forme siano proprio necessarie ed immutabili e irresolubili. Anzi, non 49 Ibid. A priori diviene perciò il «nostro potere di modificazione che si riferisce sia agli oggetti della nostra ragione, sia a quelli dei nostri sensi. Mentre poi «la geometria definisce gli oggetti su cui opera mediante i suoi assiomi, la fisica definisce quei medesimi oggetti mediante definizioni reali, cioè facendoli corrispondere a determinati fenomeni naturali. Mentre dunque la prima gode di una completa libertà nella scelta degli assiomi, la seconda è legata alle conseguenze implicite nella scelta di quelle particolari definizioni; libera però di mutare le definizioni, qualora le conseguenze non la soddisfacessero. C., Sul concetto di esperienza. Cinque scritti metodologici di C. 15 nel domandarsi se siano irresolubili (domanda che presuppone l’uso di quelle forme stesse) ma nel tentare senz’altro di scioglierle53. In tal modo, spiega C. al termine di Programma, è la conoscenza scientifica a raggiungere quell’“al di là” che alla prospettiva kantiana era negato, ma l’“al di là” al quale essa perviene «non è una negazione del “di qua”, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di nuove categorie», un mondo al quale si viene portati, in primo luogo, dalla consapevolezza che la «legge essenziale della natura è la ragione, e la ragione è pure la legge essenziale del mondo esterno, in quanto l’uomo non fa che proiettare fuori di sé l’essenza della propria natura»54. L’ultimo testo qui trascritto, Commodo a Ritroso, appartiene ad un gruppo di dialoghi, noto come Dialoghi di Commodo, stesi a più mani durante il periodo del confino a Ventotene55. Commodo, come ha spiegato la moglie Ursula Hirschmann in occasione dei primi tentativi di pubblicazione integrale dei frammenti colorniani, è lo stesso Colorni; Ritroso è Ernesto Rossi56. Lo scritto prende spunto da argomenti economici per chiarire alcune questioni che, venendo a teorizzare una sorta di “dilettantismo metodologico”, rendono conto della stessa natura dell’indagine colorniana. L’«appartenenza professionale», dice C. all’amico Ritroso/Rossi in uno dei dialoghi già [C., Critica filosofica e fisica teorica. 55 Racconta Altiero Spinelli nella sua autobiografia, ben descrivendo non solo la genesi dei Dialoghi di Commodo, ma anche l’atteggiamento di Colorni nelle discussioni: «Parlavamo ogni giorno delle cose più varie, di politica, di geometria non euclidea, di nostri compagni di confino, delle nostre letture, delle nostre storie personali, dei grandi della storia, ma sentivo che [Eugenio] stava sempre attento a scoprire un qualche mio coperto punto malato, che egli avrebbe messo in luce, curato e guarito – poiché la vocazione del guaritore d’anime l’aveva proprio nel sangue. Mi affascinava la precisione quasi infallibile con la quale scopriva il punto errato di un ragionamento, il punto equivoco di un atteggiamento, il momento retorico di un’espressione. Talvolta uno di noi, ripensando la sera alle parole scambiate durante il giorno, le proseguiva scrivendo un dialogo nel quale diceva la sua e immaginava quel che l’altro avrebbe risposto. Talvolta il dialogo aveva un seguito, scritto dall’altro, prima di terminare a voce» (A. Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio, Il Bologna, Mulino). 56 Gli pseudonimi principali utilizzati negli altri dialoghi sono i seguenti: Severo è Altiero Spinelli, Manlio Rossi-Doria è Modesto, Ursula Hirschmann è Ulpia. Così scriveva Ferruccio Rossi-Landi alla Hirschmann. Penso che  i tempi stiano maturando per un’edizione in volume degli scritti lasciati da C.: come sono maturati, dopo tanti decenni, per la ripresentazione ai lettori italiani di quelli diVailati, che fu studioso per tanti versi affine ad Eugenio e che, rimasto quasi sepolto fin da prima della Prima Guerra Mondiale, ricomparirà ora presso Laterza e presso Einaudi su mia iniziativa». RossiLandi faceva poi riferimento alle pubblicazioni di «Analisi» e «Sigma». Ho potuto prendere visione della corrispondenza relativa ai diversi tentativi di pubblicazione degli scritti filosofici di C. (prima presso l’editore Laterza e poi per la Feltrinelli) grazie alla cortesia di Renata C., che ancora conserva una parte del carteggio e che qui debbo ringraziare per la sua disponibilità. 57 Esso va dunque letto insieme a Dello psicologismo in economia, pubblicato nella ed. Einaudi alle pp. 322-342. Per una più precisa contestualizzazione dei frammenti economici colorniani cfr infra, la Nota del curatore.  Cerchiai 16 pubblicati da «Sigma» nell’immediato dopoguerra, «comporta un legame così stretto con la scienza e un interesse così diretto ai vari problemi particolari in cui la ricerca si articola momento per momento, che è difficile avere la possibilità di riprendere in esame i problemi iniziali e i principi fondamentali da cui si è partiti»58; proprio per questo, secondo Colorni, i «dilettanti e gli outsider», sono forse maggiormente in grado, attraverso l’esercizio di un «tranquillo, pacato, spregiudicato esame dei punti di partenza e delle definizioni iniziali»59, di «sconvolgere dalle fondamenta tutto l’edificio del proprio sapere»60. Certo, dovendo rispondere all’accusa di «presumere di rivedere i principî di tutte le scienze, senza averle mai praticate»61, lo stesso C. – che alla scienza è giunto passando per la filosofia – parla in qualche modo pro domo sua. E tuttavia, egli va anche a puntualizzare, in tal modo, il «arattere pragmatistico del proprio pensiero, il quale deve giocoforza confrontarsi con le più differenti discipline scientifiche. In Commodo a Ritroso, C. riprende questi medesimi argomenti, insistendo però con maggior vigore su quello spirito d’indipendenza – indispensabile ad un proficuo sviluppo dell’opera scientifica e filosofica – il cui significato teorico è già stato indagato in Programma. Scrive C.: «Anziché accostarmi a grossi trattati con fare accogliente e passivo, io parto con la lancia in resta, pieno di idee sbagliate e confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo […], desideroso di scontri e di battaglie». Emerge qui, accanto alla consapevolezza di un metodo teorico ormai chiaramente precisato, una componente particolare del carattere del giovane filosofo: quella irrequietezza, ironicamente descritta ne La malattia filosofica, che contribuisce a rendere conto della stessa, febbrile attività politica colorniana. Essa rivela una vivacità intellettuale che si mostrò sempre incapace di fermarsi ai risultati volta per volta raggiunti e che, trascorrendo dai primi studi storico-filosofici a quelli metodologici degli ultimi anni, viene a costituire l’anima, per così dire, anche dei dattiloscritti colorniani conservati nel Fondo Somenzi. C., Dell’antropomorfismo nelle scienze. Com’è noto, e a dispetto della sua formazione umanistica (lit. hum.), Colorni si cimenta direttamente nella ricerca fisica, con particolare attenzione alla teoria della relatività. Cfr. nello specifico i titoli seguenti: Unités de misure et relativité; Le trasformazioni di Lorentz come caso particolare e Deduzione del campo elettromagnetico di una carica in movimento rettilineo e uniforme. 63 E. Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Nota del curatore I testi di Colorni in FS – tutti dattiloscritti – sono per lo più approntati per la composizione a stampa, spesso con indicazione del corpo e della impaginazione da utilizzarsi. Alcune correzioni e integrazioni, la segnalazione «a penna» talvolta riferita ai titoli o alla firma, i commenti a margine sulla opportunità o meno della pubblicazione, fanno supporre che ci si trovi per lo più di fronte a trascrizioni battute a macchina dagli originali. Salvo che dove diversamente segnalato (come ad esempio – per i motivi lì esposti a pié di pagina – in Programma), ci si è generalmente attenuti al criterio di integrare le eventuali sviste od errori ortografici direttamente nel testo, senza ulteriore indicazione. Ugualmente ci si è comportati per le correzioni e gli interventi a penna o a macchina. Il dattiloscritto di Programma presente in FS conserva la conclusione, che risulta invece assente nelle precedenti edizioni in volume. Oltre ai titoli qui riportati, e a quanto si dirà qui appresso, in FS sono conservati anche i testi seguenti: Il bisogno dell’unità; Sul complesso di Edipo; I primitivi e le categorie dello spirito; Filosofi a congresso; Sul concetto di esperienza; Costanti universali e unità di misura; Sull’assiomatica della teoria della relatività. I. Relatività ristretta, tutti già raccolti nelle diverse edizioni dei frammenti colorniani. A partire da Sul concetto di esperienza, le pagine sono numerate, a mano o a macchina, in sequenza, sì da creare un complesso unico comprendente anche: II. Relatività generale (da inserirsi dopo Relatività ristretta), e di seguito: Sull’assiomatica delle leggi della meccanica e Geometria ed esperienza. In FS sono inoltre presenti due ulteriori scritti di argomento economico: Batti, ma ascolta! e Ritroso a Commodo: meno compiuti degli altri, essi saranno da me trascritti in un volume di prossima uscita. Già nella nota introduttiva a Dello psicologismo in economia, pubblicato nella edizione Einaudi alle pp. 322-342, si ricostruiva, anche grazie agli elenchi dei titoli stesi da Ursula Hirschmann per Rossi-Landi, la genesi degli scritti economici colorniani, che qui ci si limiterà dunque ad integrare con quanto emerge dai titoli presenti in FS. Dello psicologismo in economia risulta composto da tre blocchi. Il primo, intitolato È possibile costruire una scienza economica indipendente da premesse psicologiche e sociologiche?, è citato anche nel Progetto di una rivista di metodologia scientifica fra i possibili «Articoli e saggi», e prosegue dall’inizio del dialogo fino al terzo capoverso: «[…] sarebbe una differenza di grado e non di natura. Del secondo (Robbins considera), che comincia subito dopo il primo e termina in ivi, E m’invita a prendere tutto l’argomento non troppo sul serio»), è conservato in FS il solo ultimo foglio, del quale così scriveva Silvio Ceccato a Somenzi il 5 febbraio del 1943: «Ho guardato fra le carte di Colorni. Spaiato trovo un foglio, numero 5, che mi sembra appartenere al dialogo fra Commodo e Severo [che in effetti è l’interlocutore di quella parte del dialogo]. Se vuoi te lo mando, o lo do a Vaccarino. Altro non c’è, mi sembra, che possa interessarti. Stampa pure. Quando hai ben deciso, fammelo però sapere, che, per cortesia, ne avvisi la sorella» (FS, sez. 3, Attività professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste, enciclopedie e progetti editoriali, 1, Sigma Analysis, b. 5, Analysis Methodos (Ceccato). Il terzo blocco, Vedo che riprendi (cfr. C., Dello psicologismo in economia), rappresenta il nucleo centrale e la con- Geri Cerchiai 18 clusione del dialogo. Per quanto riguarda i titoli di FS: Ritroso a Commodo – come si evince dai numerosi riferimenti a Vedo che riprendi – prosegue il dialogo già iniziato in quest’ultima parte di Dello psicologismo in economia; Commodo a ritroso è la risposta a Vedo che riprendi; Batti ma ascolta è l’«accluso foglietto» menzionato in Commodo a Ritroso. Le note in calce ai testi sono tutte del curatore. Desidero Ringraziare Giovanni Battimelli, Responsabile del Fondo Vittorio Somenzi, e Libutti, Direttrice della Biblioteca del Dipartimento di Fisica (“Sapienza” Università di Roma), per la disponibilità e cortesia che mi hanno dimostrato durante la consultazione dell’Archivio. G. C. Cinque scritti metodologici 19 II. Relatività generale1 Se vogliamo estendere quanto si è detto per la relatività ristretta3 al caso di sistemi in movimento qualsiasi4, il problema della relatività generale diverrà quello di determinare le misure spazio-temporali per un osservatore in movimento qualsiasi rispetto ad un sistema inerziale nel quale valga la geometria euclidea. La determinazione di tali misure sarà fatta di nuovo assumendo come fissa la distanza fra due punti5, e come costante la velocità della luce. In linea generale risulterà che la geometria tridimensionale del sistema in questione non sarà euclidea. Viceversa dovrebbe essere dimostrabile che se le misure assunte da un osservatore col metodo di cui sopra, danno luogo ad una geometria non euclidea, si potrà sempre trovare un sistema i cui punti siano mossi rispetto all’osservatore in questione in modo tale che la sua geometria sia euclidea. In tale sistema non vi sarà alcun campo gravitazionale. Una tale impostazione del problema differisce un poco da quella classica della relatività generale. Non si tratta qui di trovare una formulazione delle leggi di natura che sia invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, e quindi di attribuire ad ogni sistema la geometria richiesta dal campo gravitazionale in esso vigente, ma piuttosto di trovare le trasformazioni che permettono di passare da un sistema ad un altro qualsiasi6, avendo assunte per tutti i sistemi determinate convenzioni7 riguardo alle misure spazio-temporali; e questo senza fare alcuna ipotesi riguardo alla forma delle leggi naturali. 1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste, enciclopedie e progetti editoriali, Sigma Analysis, b. 6, Articoli, Il titolo è cancellato nel dattiloscritto, così come è barrata la numerazione “5” (a penna) della pagina, numerazione che, insieme con quella romana, segnava il foglio come seguito di C., Sull’assiomatica della teoria della relatività. I. Relatività ristretta (cfr. la Nota del curatore), del quale lo scritto è il secondo paragrafo. 2 All’inizio del dattiloscritto sono inserite a penna delle virgolette basse (chiuse al termine del terzo capoverso), che spiegano l’intervento del quale si rende conto infra, n. 4. 3 Il riferimento è a Sull’assiomatica della teoria della relatività, che infatti è numerato: La relatività ristretta. A penna è stato qui aggiunto: «prosegue C.». 5 Cfr. E. Colorni, Sull’assiomatica della teoria della relatività. Anziché assumere come unità di misura fondamentali una lunghezza o un intervallo di tempo per poi dedurne le altre grandezze cinematiche, si potrebbe assumere come unità primitive la distanza fra due punti dati e la velocità di propagazione di un dato fenomeno». 6 Si tratta qui precisamente dell’idea di revisione del concetto di esperienza in relazione a quello di definizione che costituisce uno dei nuclei del programma metodologico colorniano. 7 Sono molti i riferimenti di Colorni al carattere convenzionale della scienza e delle sue definizioni. Riporto, per il suo carattere “generale”, quanto affermato nella Postilla al programma della rivista di metodologia scientifica (in M. Quaranta, La “scoperta” di C.): «Si tratta, in breve, di partire da una concezione “convenzionalistica” o “idoenistica” della scienza; non limitandola però, come fa in sostanza la scuola di Vienna o anche il Gonseth, alla interpretazione filosofica dei fatti scientifici; applicandola invece ai concetti basilari su cui poggia l’edificio della scienza, e mostrando come un chiarimento rigoroso delle ipotesi che sono implicite nell’assunzione di tali concetti possa trasformare effettivamente e rendere più chiare molte formulazioni scientifiche, e forse risolvere alcuni dei problemi più scottanti della scienza moderna». C. 20 Formulando in questo modo il problema, si giungerebbe probabilmente alle medesime conclusioni della relatività generale riguardo alla gravitazione; ma la nuova impostazione permetterebbe forse di aggredire in maniera diversa da quella consueta altri problemi (in particolare quello dell’elettromagnetismo). Non si tratterebbe più in questo caso di formulare le leggi del campo elettromagnetico in forma invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, ma di rendersi ragione della loro struttura, studiando sistematicamente il comportamento di cariche in movimento, mediante “Transformation auf Ruhe”. Questo saggio si riferisce a studi ancora in corso e ben lungi dalla conclusione8 ). 8 L’ultimo capoverso è barrato a penna nel dattiloscritto. L’inciso fra parentesi riprende quello analogo – non riportato nelle edizioni dei testi colorniani, ma presente nei dattiloscritti di FS – posto al termine di Sull’assiomatica della teoria della relatività. I.- Relatività ristretta, il quale recita nel modo seguente: «Questo saggio si riferisce ad un lavoro già terminato, in cui lo sviluppo qui descritto viene eseguito» (FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, Scatole grigie 1942-2000, 1, C. e Cotone, b. 3, Colorni). Sull’assiomatica delle leggi della meccanica. Il principio d’inerzia è notoriamente una definizione camuffata. Esso definisce come non soggetto ad alcuna forza il corpo dotato di movimento uniforme; quindi come soggetto ad una forza il corpo dotato di movimento non uniforme. È possibile considerare i principi della conservazione della quantità di movimento e dell’energia come delle estensioni del principio d’inerzia, cioè anch’essi come delle implicite definizioni della forza? Crediamo di sì. Consideriamo infatti un sistema di due corpi. Diremo che il sistema non è stato sottoposto all’azione di alcuna forza, non solo quando i due corpi proseguono nel loro moto rettilineo ed uniforme, ma anche quando hanno modificato tale loro moto dopo essersi urtati. Ciò che dovrà essere rimasto immutato nel sistema non sarà dunque più il moto dei due corpi, ma una funzione di tale moto; funzione che si tratta di determinare, ponendole delle condizioni derivanti da esigenze plausibili. Anzitutto si può richiedere che il mutamento provocato dall’urto nello stato di moto di uno dei due corpi sia misurato dal mutamento provocato dal medesimo urto nell’altro corpo: cioè che ciò che rimane costante nel sistema sia la somma delle funzioni in questione riferite a ciascun corpo. Individuato poi ciascun corpo mediante una costante caratteristica di esso (la sua “massa”), si può richiedere che il cambiamento provocato in un corpo successivamente da due altri corpi di uguale massa e uguale velocità, sia identico al cambiamento provocato da un corpo di massa doppia e di uguale velocità: il che equivale a dire che la nostra funzione dovrà essere della forma mf(v). Si potrà poi osservare che la funzione in questione deve poter esprimere sia un mutamento nel valore assoluto della velocità di ciascun corpo, sia un mutamento nella sola direzione: le funzioni in questione devono cioè essere due, l’una vettoriale, l’altra scalare. Infine si osserverà che, poiché due corpi in movimento uniforme rispetto ad un sistema inerziale lo sono pure rispetto a qualsiasi altro sistema inerziale, la costanza delle nostre funzioni deve essere invariante rispetto a trasformazioni di Lorentz. Tutte queste condizioni limitano la scelta delle nostre funzioni in modo da determinarle univocamente; e ne risultano le espressioni relativistiche della quantità di movimento e dell’energia. Ciò è stato mostrato da Langevin2, il quale parte però da premesse un po’ diverse. Gli sviluppi precedenti possono avere un’importanza per il seguente motivo: la teoria della relatività giunge alle sue espressioni dell’energia e della quantità di movimento, partendo dalle equazioni di Maxwell, che suppone assicurate dall’esperienza. Ma il controllo sperimentale di tali equazioni suppone che si 1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Somenzi, 2, Scatole grigie, 1, C. e Cotone, Nel dattiloscritto, le pagine riportano la numerazione, a penna in rosso, da 6 a 7 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e la Nota del curatore). Langevin e un fisico francese che, non diversamente da Eddington – altro autore colorniano e griceiano – fu abile divulgatore scientifico. disponga di una definizione dell’energia e della quantità di moto. Inoltre, quando si siano definiti i principi fondamentali della meccanica indipendentemente dall’elettromagnetismo, rimane aperta la possibilità di dedurre le leggi stesse dell’elettromagnetismo servendosi di alcuni risultati della relatività, e raggiungendo così una più profonda comprensione di quelle leggi. (Anche questo articolo si riferisce a studi in corso, di cui la prima parte, riguardante la relatività ristretta e l’elettromagnetismo, è terminata; ma avrebbe carattere troppo tecnico per la rivista4.) 3 Assente nel testo. 4 Per un’analisi degli scritti colorniani sulla teoria della relatività, si rinvia a M. Quaranta, La “scoperta” di C. sulla teoria della relatività. Per l’inciso fra parentesi, cfr. supra, II. Relatività generale. La rivista è la progettata rivista di metodologia scientifica, sulla quale si rimanda ancora a quanto scritto supra, § 3. Cinque scritti metodologici 23 Geometria ed esperienza1 Gli assiomi della geometria sono delle definizioni implicite, o meglio rappresentano delle limitazioni imposte alla nostra libertà di definire gli oggetti ai quali essi si riferiscono. Tali oggetti però possono essere di due tipi: o sono tali che per ottenerne una rappresentazione concreta è necessario immaginarli realizzati da un fenomeno fisico (p. es. la linea retta realizzata dalla traiettoria di un raggio luminoso nel vuoto); in tal caso la definizione implicita negli assiomi è una definizione “reale” (Zuordnungsdefinition2 ), e gli assiomi limitano il numero degli oggetti o dei fenomeni che possono essere assunti per realizzare fisicamente quel determinato ente geometrico. Oppure l’ente geometrico in questione è tale da poter essere definito mediante un’opportuna combinazione di altri enti precedentemente definiti (p. es. l’angolo uguale ad un angolo dato può essere definito senza ricorrere ad alcuna sovrapposizione, quando sia stata definita precedentemente la distanza fra due punti); e allora gli assiomi limitano il numero degli accorgimenti che noi possiamo usare per definire quel determinato ente geometrico. Agli scopi della costruzione fisica di un sistema galileiano, è opportuno distinguere questi due tipi di definizione; e può essere utile studiare da questo punto di vista le “Grundlagen” di Hilbert3. Non è detto che si possa sempre trovare un insieme di fenomeni fisici capaci di realizzare contemporaneamente tutti gli assiomi di una geometria. Per esempio, se si vuol realizzare la geometria mediante raggi luminosi assunti co1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Somenzi, 2, Scatole grigie,1, C. e Italo Cotone, b. 3, C., 1945-1993. Numerato a penna 8 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e Nota del curatore). Il titolo è anch’esso sottolineato a penna con l’indicazione: a mano. A margine, scritto a matita in rosso e cancellato, alcune segnalazioni per il tipografo: «Corpo 10/10 tondo // Giustezza 27». Scrive Colorni in Filosofia e scienza. Ora, mentre la geometria definisce implicitamente gli oggetti di cui tratta, mediante gli assiomi, la fisica li definisce direttamente, mediante definizioni reali (Zuordnungsdefinitionen). Con queste parole, C. richiama il concetto reichenbachiano di Zuordnungsdefinition, per cui cfr. H. Reichenbach, Axiomatik der Raum-Zeit-Lehre, Braunschweig, Vieweg & Sohn Akt.-Ges.,; Id., Philosophie der Raum-Zeit-Lehre, Berlin- Leipzig, W. de Gruyter & Co. In una lettera firmata da Hirschmann (ma in realtà scritta da Colorni) e indirizzata a GEYMONAT (si veda) per il tramite della moglie Virginia, l’autore afferma di possedere il primo dei due titoli, e a questo rinvia per la comprensione del proprio pensiero. Noi abbiamo qui l’importante saggio di Reichenbach, “Axiomatik der relativistischen Raum-Zeit-Lehre”, che mette le cose da un punto di vista molto affine a quello che Eugenio vorrebbe sviluppare. La lettera, conservata nel Fondo Geymonat presso la Biblioteca del Museo civico di storia naturale di Milano, è citata da M. Quaranta (La scoperta di Eugenio Colorni), il quale commenta: «Ora, se è rintracciabile in Kant una nozione rigida dell’a priori, letture kantiane sviluppate in quegli anni da Cassirer e Reichenbach, in Italia da Preti, vanno nella direzione di accogliere la fecondità del “metodo trascendentale”; le indagini epistemologiche di Colorni si inseriscono in questa linea di ricerca. Questo capoverso, da Agli scopi fino a Hilbert, è cancellato a penna nel testo dattiloscritto. Il riferimento è ai Grundlagen der Geometrie (Fondamenti della geometria) di Hilbert. me rettilinei e di velocità di propagazione uniforme, non è detto che risulti verificato l’assioma di Euclide; e questo assioma, se è verificato per il sistema costruito da un determinato osservatore, necessariamente non è verificato per il sistema costruito da un altro osservatore, dotato rispetto al primo di movimento non uniforme. Cinque scritti metodologici Programma1 Supponiamo che l’uomo viva in un palazzo le cui porte sono tutte chiuse. Egli non ha le chiavi. Cioè egli ne possiede un mazzetto, ma non sa se esse si adattino alla serratura, né quale chiave a quale serratura. Prova, riprova, si costruisce nuove chiavi nella continua speranza di potere un giorno abitare tutto il palazzo. Lo scienziato è un uomo al quale è riuscito di aprire una porta. Una chiave, per sua fortuna, o per sua abilità, ha girato nella toppa. Egli apre, e trova nella camera immensi tesori, li utilizza3, li mette a disposizione degli altri uomini che lo ringraziano ammirati. Da quel momento4 la camera è accessibile a tutti. Entusiasmato, lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte5. La chiave comincia a diventare uno strumento pericoloso nelle sue mani. Egli la vuole usare dappertutto. Il risultato è che sfonda le serrature. Ci vorrà6 poi una gran fatica per accomodarle e per trovare o costruire una nuova chiave che permetta di aprirle (Fuor di metafora: p. es. la medicina è stata rovinata per secoli dall’ossessione del metodo meccanicistico, che aveva fatto meraviglie nel campo della fisica. E si è voluto risolvere tutto a base di anatomia, di rapporti e di modificazioni di tessuti. Nella maggioranza dei casi non si è cavato un ragno dal buco). Il filosofo, invece, cosa fa? Egli non ha avuto la fortuna o l’abilità di aprire una porta, ma anche lui è preso dall’ossessione di aprirle tutte. Con la chiave9 dello scienziato o con un’altra di sua fattura. La sua ossessione è forte, meno pericolosa10 che quella dello scien1 FS, sez. 3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 1929- 2000, 2, Scatole grigie, 1, C. e Italo Cotone, b. 3, Colorni. Nel dattiloscritto un primo titolo, barrato, recita come segue: «SCIENZA E MATERIALISMO // È un caso che tutti gli scienziati tendano ad essere materialisti? // PROGRAMMA». A margine, scritto a penna, il titolo è fissato così: «SCIENZA E REALISMO». Un asterisco rimanda alla seguente nota manoscritta: «(V[edi]. l’“Apologo su quattro modi di filosofare”, altro inedito di C., in Sigma. Sempre a margine, si ha l’indicazione di stampa, a penna: «Corpo 10 tondo 11 // giustezza – 10 su 12. Poiché lo scritto si discosta spesso – nella forma, mai nella sostanza – dalle precedenti edizioni (nelle quali esso risulta per altro incompiuto), è parso utile indicare in nota le differenze fra le diverse versioni. Per questo stesso motivo ho talvolta esplicitato le correzioni e gli interventi sul dattiloscritto. La sigla FS rimanda al testo presente fra le carte di Somenzi; la sigla E a quello dell’edizione Einaudi. Benché sia barrato, e per consentire una più chiara identificazione, si è preferito mantenere il titolo Programma. 2 per sua fortuna, o per sua abilità FS: per sua fortuna o per sua abilità E. 3 immensi tesori, li utilizza FS: immensi tesori. Li utilizza Di seguito nel testo di E. 5 lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte FS: lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte E. 6 le serrature. Ci vorrà FS: le serrature, ma ci vorrà E. 7 (Fuor di metafora FS: di aprirle. (Fuor di metafora E 8 Il filosofo, invece, FS: Il filosofo invece, E aprirle tutte. Con la chiave FS: aprirla con la chiave E. 10 è forte, meno pericolosa FS: è forse meno pericolosa E. Eugenio Colorni ziato, ma più intensa. Per lo scienziato essa è necessaria accessoria11. Il massimo sforzo è già stato compiuto12 nel trovare la chiave. Il tentativo di allargamento è spesso solo abbozzato. Il filosofo, invece, è tutto fatto di questo bisogno. Egli è abbastanza accorto per avvedersi che il correre da una parte13 all’altra con la medesima chiave si risolve in un danno e in un disordine. Egli vuole soddisfare alla sua esigenza in un modo sistematico, che non lasci residui. La sua ossessione è che il palazzo sia completamente abitabile, aperto in tutte le camere, dai saloni ai ripostigli. Che cosa fa per soddisfarsi? Si costruisce un palazzo a suo uso e consumo, simile il più possibile a quello vero, in cui tutte le serrature siano apribili con una sola chiave, o con le varie chiavi che ha a sua disposizione. Lì si rinchiude; lì15 gli sembra di vivere tranquillo. Ma il palazzo è di cartapesta. In poco tempo crolla. Le camere sono identiche a quelle dell’altro palazzo, ma sono vuote. Il poterle aprire non dà all’uomo maggior ricchezza e maggior17 potenza. A volte avviene che nel lavoro di costruire, al filosofo venga fatto di scoprire o inventare una chiave nuova, che gli altri uomini possono usare, e provare nelle varie serrature. In questo caso egli sarà ammirato e studiato solo per questa invenzione fortuita o strumentale, che nelle sue intenzioni non doveva essere che un dettaglio del grande edificio. E il grande edificio scompare. Dopo un secolo nessuno ci crede più, nessuno può più abitarvi dentro. Lo si considera come un bel rudero, come l’interessante documento di un’epoca; lo si apprezza per un certo impulso che indirettamente, nei coi suoi contorni, ha dato alle lotte e alle ricerche dell’umanità. Gli storici, gli esegeti, cominciano a scuoterlo per vedere se, non potendosene più servire in blocco, non si trovi del buono fra il materiale della costruzione. E cominciano a distinguere “ciò che è vivo e ciò che è morto” e a manipolare il sistema ai propri fini. Ne risulta che ogni pensatore viene, di regola, apprezzato dai posteri per motivi che egli non avrebbe immaginato e che sono estranei alle sue intenzioni fondamentali. Quello che egli aveva creduto il suo vero apporto alla cultura e alla civiltà viene considerato inutile. Il dispendio di energie è enorme. Vediamo gli uomini più intelligenti dell’umanità dirigere tutti i loro sforzi per raggiungere mete che andranno poi completamente perdute; e 11 necessaria accessoria. FS: accessoria, sopraggiunta. E.  già stato compiuto FS: già compiuto E.  parte FS: porta E. 14 sola chiave, o con FS: sola chiave o con E. 15 Lì si rinchiude; lì FS: Là si rinchiude, là E. 16 di cartapesta. In poco tempo crolla. Le FS: di cartapesta, non di mattoni veri. In poco tempo crolla, si disfa. Le E. 17 ricchezza e maggior FS: ricchezza o maggior E. scoprire o inventare FS: trovare E. 19 possono usare, e provare nelle varie FS: possono usare nelle varie E. 20 rudero FS: rudere E. 21 nei coi suoi FS: nei suoi E.  scuoterlo FS: smontarlo E. ogni pensatore viene, di regola, apprezzato FS: ogni pensatore (come spesso anche ogni poeta) viene di regola apprezzato E. 24 immaginato e che FS: immaginato, e che E. Cinque scritti metodologici: 27 siamo costretti a racimolare con fatica alcuni residui del loro lavoro. Nella25 scienza le cose sembrano andar meglio. Siamo per lo meno nel palazzo vero, dove le camere sono piene di ricchezze; e là dove la chiave ha aperto la porta, la potenza dell’umanità ne è stata infinitamente aumentata. Ma se la porta non si apre? Dai Greci al Rinascimento, per duemila anni, gli uomini si sono affaccendati a costruir26 chiavi di tutti i generi e magnifici palazzi di cartapesta. Ma nessuna porta dell’edificio vero si è aperta ai loro sforzi. Da Galilei e Bacone27 in poi, alcune sembrano cedere. Una, quella28 del meccanicismo fisico si è addirittura spalancata. Ma quante restano ancora chiuse[!]?29 Quale sarà per esse la chiave giusta? L’abbiamo già in mano o dobbiamo ancora costruircela? E come sfuggire alla continua tentazione di usare per ogni porta quella che ha fatto una volta buona prova, col rischio di rovinare tutto? La filosofia odierna, anziché costruire bei palazzi di cartapesta, dovrebbe proporsi il compito di affacciarsi a questi problemi, e tentare di mettere un certo ordine, allo scopo di evitare sforzi inutili e raggiungere risultati il più possibile concreti. Dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine coi quali noi affrontiamo il reale e cerchiamo di renderlo utile ai nostri usi. Criteri che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano31 radicalmente la realtà, operando una scelta che ci fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato. Ciò che noi chiamiamo realtà è evidentemente condizionato non solo dai nostri sensi, ma da tutto l’insieme delle forme, delle categorie, dei criteri associativi e interpretativi senza dei quali non ci è possibile di pensare e di percepire alcunché. Criteri che noi potremo studiare, scomporre, modificare; senza però poter mai uscire dal campo di un’attività del soggetto costitutiva della realtà stessa. Noi34 non possediamo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, alcun nesso mezzo per eliminare il sole lato35 soggettivo della nostra nozione della realtà; anzi abbiamo seri elementi per propendere a ritenere che la nozione di una realtà oggettiva, da noi indipendente,36 sia un’ipostasi della nostra mente,37 do25 A capo in E. costruir FS: costruire E. Da Galilei e Bacone FS: Da Galileo a Bacone E. Una, quella FS: Quella E. 29 Chiuse[!]? FS: chiuse! E. 30 d’indagine a penna nel testo FS: ermeneutici E. che, ormai ciò è chiaro a tutti, trasformano FS: che – ormai ciò è chiaro a tutti – trasformano E.  Queste righe, e quelle immediatamente successive, rappresentano una sorta di compendio della filosofia colorniana, ossia del ruolo essenzialmente critico-metodologioco che, muovendo «dalla grande scoperta kantiana» (E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 240), essa dovrebbe svolgere. A capo in E.Di seguito in E. alcun nesso mezzo per eliminare il sole lato a mano nel testo FS: alcun mezzo per eliminare il polo E. 36 oggettiva, da noi indipendente, FS: oggettiva da noi indipendente E. 37 mente, FS: mente E. C.  vuta ad un nostro fondamentale bisogno di contrapporre alcunché a noi stessi, di urtarci contro qualche cosa, di polarizzare il contenuto della nostra coscienza in un passivo ed un attivo. Vedi Fichte (Trascendenza interna)38. Ciò che chiamiamo realtà non è dunque né l’oggetto né il soggetto39, ma alcunché nella costituzione del quale il soggetto, con i suoi criteri e le sue categorie, ha una gran parte e41 che noi, per comodità di studio, consideriamo per un istante come dato di fronte a noi, coscienti che con ciò noi poniamo di fronte a noi qualche cosa cui partecipiamo noi stessi. Ora questo “qualche cosa” gli uomini si sforzano di manipolarlo ai loro usi, di penetrare nella sua costituzione, di prevedere il suo divenire, di costruire in base alle previsioni. A seconda che si accentui il carattere oggettivo o soggettivo di questo lavoro, lo consideriamo un “penetrare nelle leggi della natura” oppure un estrarre dalla natura un certo numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, un cedere alla natura” o un “farle violenza”, e si chiamano positivisti o pragmatisti. Ma questa distinzione riguarda il significato metafisico dell’attività umana, non la sua conformazione, i suoi procedimenti, il suo fine: che è ciò che c’interessa qui di indagare per contribuire al progresso dell’umanità46. Lo scienziato non conosce concretamente un problema del carattere pratico e teorico47 della sua attività. Egli non si domanda mai, seriamente, se ciò che lo spinge alla ricerca sia il “bisogno di sapere” inteso come fine a sé stesso, o la speranza che gli uomini possano ricavare un utile dalla sua scoperta. Egli si dedicherà secondo la sua attitudine ad un campo più vicino alla ricerca pura o più vicino alle applicazioni. Ma nella sua mente ricerca e applicazione costituiscono un tutto unico di cui solo per comodità di studio e per la necessità della divisione del lavoro egli scinde a volte le parti. La scoperta si considera come la naturale, evidente premessa dell’invenzione:51 l’invenzione come la conseguenza della scoperta. L’antitesi positivismo-pragmatismo non ha senso per lo scienziato, e non moVedi Fichte (Trascendenza interna) FS: (Vedi Fichte, Trascendenza interna) E. Su questo aspetto della metodologia colorniana, si legga quanto affermato da Ferruccio RossiLandi, che rileva fra l’altro, negli scritti colorniani, la presenza di «quel disimpegno dalla visione realistica del mond che è merito della migliore critica idealistica, soprattutto negli sviluppi dell’attualismo» (Su i saggi di C., in «Rivista critica di storia della filosofa né l’oggetto né il soggetto FS: né il soggetto né l’oggetto  il soggetto, a mano nel testo FS: l’uomo parte e FS: parte; e E. A capo in E. un estrarre dalla natura un certo numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, FS: un “estrarre dalla natura un certo numero di elementi, regolarli per usarli a loro vantaggio”; E. 44 “un cedere FS: un “cedere E. 45 violenza”, e FS: violenza”. E E. 46 per contribuire al progresso dell’umanità FS: per raggiungere risultati utili e teorico FS: o teoretico sé FS: se E. 49 dedicherà secondo la sua attitudine ad FS: dedicherà, secondo le sue attitudini, ad E. Ma nella sua mente ricerca FS: Ma, nella sua mente, ricerca  dell’invenzione: dell’invenzione; E. Cinque scritti metodologici: difica in nulla il suo agire. Lo scienziato lavora insomma su qualche cosa che egli ha di fronte a sé e della quale sono elementi costituenti alcune “forme” e “categorie” che provengono dalla sua mente, incorniciano la realtà e gliela rendono comprensibile e afferrabile. Di queste forme o categorie egli ne considera alcune come appartenenti alla realtà, esistenti assolutamente al di fuori di sé. Quali sono? Sono quelle cui egli si sente necessariamente legato, di cui non può in alcun modo fare a meno, senza le quali gli sarebbe impossibile vedere e pensare. Kant ne ha elencato5 alcune: spazio, tempo, causalità, numero ecc. Egli ha riconosciuto sì che esse vengono imposte alle cose dallo spirito dell’uomo; ma col dare ad esse un carattere necessario ed a priori, ha ammonito gli uomini sulla impossibilità di uscire da esse. Infatti gli uomini comuni, senza preoccuparsi della loro provenienza e accontentandosi del fatto che di quelle categorie non si può fare a meno, le attribuiscono senz’altro alla realtà. Ma l’osservazione di Kant ha messo tutti sul chi vive; e la curiosità di vedere al di là del “velo di Maja” delle categorie si è fatta sempre più intensa. Si può dire che la filosofia si sia scissa a questo proposito in due opposte direzioni, a seconda che l’ammonimento di Kant sia stato seguito o no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati60 hanno continuato a considerare le categorie come reali, e a lavorare in un mondo costruito sulla base di queste categorie, contentandosi a volte di mantenere nello sfondo l’ombra di un inconoscibile (Spencer, positivisti), oppure62 di acquisire coscienza della relatività dei loro sforzi, limitando63 il compito della scienza alla costruzione di ipotesi semplici e maneggevoli (Poincaré, pragmatisti). Su questa via essi hanno continuato ad ottenere un buon numero di successi, proseguendo quell’indagine e quello sfruttamento della natura che era cominciato con Galilei e Newton, e che consisteva nell’uso sistematico di quelle categorie che poi Kant elencò. Ma si ha già da qualche tempo l’impressione che il campo stia per esaurirsi e che non restino da fare in questa direzione se non scoperte particolari di importanza ristretta. I filosofi invece, insofferenti di qualsiasi dualismo o relativismo, e preoccupati di saldare l’unità del reale, preferiscono eliminare la tentazione del52 A capo in A capo in E. 54 impossibile FS: assolutamente impossibile E.  elencato FS: elencate E. spazio FS: Spazio E. numero ecc. FS: numero, ecc. E. A capo in E. filosofico FS: filosofico scientifico E. 60 no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati FS: no. (I) Fra quelli che l’hanno seguito gli scienziati E. categorie, contentandosi FS: categorie; contentandosi  positivisti), oppure FS: positivisti); oppure E. sforzi, limitando FS: sforzi; limitando E. 64 Newton, e FS: Newton e  di FS:, di  I filosofi invece, FS: (b) I filosofi, invece, C. 30 la “cosa in sé” col negarne addirittura l’esistenza; e attribuire realtà assoluta al pensiero nella sua forma universale68. In tal modo essi soddisfecero contemporaneamente all’esigenza Kantiana69 di non uscire dalle leggi del pensiero e al bisogno tipicamente filosofico di risolvere senza residui il problema della realtà; incuranti d’altronde se questo loro sistema li conducesse o no a un qualsiasi risultato apprezzabile che non si limitasse alla soddisfazione del loro bisogno di completezza. Coloro invece71 che “hanno disubbidito” sembrano a tutta prima disprezzare l’ammonimento di Kant e trascurare i limiti da lui posti: ma in realtà sono essi suoi figli molto più che gli ubbidienti. Quel limite, quella barriera appunto li ha eccitati ad andare al di là: ha indicato loro la direzione verso cui rivolgersi Cominciamo74 questa volta dai filosofi. a) - Il filosofo vuol gustare il frutto proibito. Ma egli sa oramai che non potrà mai raggiungerlo con le categorie, con75 le quali Kant gli ha indicato così chiaramente i limiti. Egli abbandona per sempre le illusioni della metafisica e della teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione; ed76 è alla continua ricerca di un altro strumento che gli permetta di raggiungere il suo scopo. Volontà, fede, intuizione, ispirazione: in una parola l’irrazionale è ciò cui egli si affida. Ad esso egli attribuisce tutte le possibilità che mancano alle categorie della ragione. Con esso egli afferma di poter aprire tutte le porte del palazzo. Ma che garanzie gli dà la nuova chiave? Semplicemente di non essere79 la vecchia. Ogni interpretazione irrazionalistica del mondo, là dove non consista in esplosioni di entusiasmo, è una polemica contro l’impotenza della ragione. Polemica spesso acuta e giusta, ma che non costituisce un motivo bastante per accettare come criterio definitivo tutto ciò che ragione non è. Le80 esplosioni d’entusiasmo81, invece, sono a volte più interessanti e fruttifere. Esse ci permettono di penetrare, sia pure in modo confuso, nella costituzione interna di queste attività irrazionali; di conoscere un po’ meglio quali siano i loro procedimenti. Ciò che ha paralizzato però tale indagine e non le ha permesso di dare finora se non scar e FS: ed E. Evidente riferimento all’idealismo nei suoi diversi modelli. 69 Kantiana FS: kantiana E. 70 se FS: che E. 71 Coloro invece FS: (2) Coloro, invece, E. disubbidito” FS: disubbidito”, E. appunto FS: appunto, E. 74 Di seguito in E. 75 categorie, con FS: categorie delle E. 76 teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione; ed FS: teologia – cioè i tentativi di afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione – ed E. 77 parola FS: parola, E. 78 A capo in E.  essere FS: esser E. A capo in E. d’entusiasmo FS: di entusiasmo E. Cinque scritti metodologici: 31 sissimi risultati,82 è che tali attività sono sempre state descritte appunto col presupposto e con l’esigenza di attribuire ad esse un valore assoluto, molto superiore a quello della ragione. Preconcetto il quale ha naturalmente deformato la descrizione ed ha impedito qualsiasi seria indagine sull’uso che di questi atteggiamenti si potrebbe eventualmente fare. Anche qui la fretta di chiudere il circolo e il bisogno filosofico di rinchiudersi in un edificio abitabile in tutte le sue parti ha impedito di compiere qualsiasi vero progresso. E le interpretazioni irrazionalistiche della realtà si sono succedute l’una all’altra senza condurre l’umanità ad alcuna conquista stabile. È questo un fenomeno che si ripete da secoli; ché la constatazione delle insufficienze della ragione e il tentativo di affidarsi ad attività irrazionali non data da Kant, ma è vecchio, si può dire, quanto la nostra civiltà. E la massa di esperienze che si è venuta raccogliendo è83, se non ordinata, pure imponente; e dà l’impressione di una grande miniera inesplorata85 in cui il materiale prezioso è unito con le scorie. Siamo qui ad uno stadio di evoluzione e di sfruttamento molto meno sviluppato che nel campo della ragione. Il materiale della ragione è stato esplorato a fondo, inventariato, ordinato dal pensiero greco e dalla scolastica. Con Galilei e Newton ha trovato il campo cui applicarsi, conducendo ai vastissimi risultati che conosciamo. Kant infine88 ne ha tracciato i limiti segnando insieme (forse un po’ in anticipo) l’esaurirsi della miniera dal89 quale esso traeva ricchezze. Il campo dell’irrazionale probabilmente comprende regioni infinitamente più vaste che quelle della ragione, contenenti materiale dal carattere più eterogeneo, atto agli usi più disparati. Il fatto solo che siamo abituati a classificarlo secondo la rubrica negativa del “non rientrare nella ragione” ci mostra lo stato disordinato delle nostre conoscenze al proposito. Ordinare questo mondo in modo che ci possa servire, analizzarlo con mente tranquilla e senza preconcetti entusiasmi od avversioni, liberarlo dal continuo incubo del confronto con la ragione ed infine tentare se alcuni dei dati così ottenuti ci possono90 servire come criterio per risolvere qualche problema, come chiave per aprire qualche porta: ecco il compito che s’impone oggi alla nostra indagine91. Va92 da sé che i metodi da usarsi non saranno i medesimi che si sono usati per il mondo razionale: e che l’ordine ottenuto non assomiglierà neppure da lontano a quello che noi conosciamo nel campo logico-matematico. La parola 82 risultati, FS: risultati E. raccogliendo è, FS: raccogliendo, è, E. 84 imponente; FS: imponente: E. 85 inesplorata FS: inesplorata, E. 86 unito FS: misto E. 87 A capo in E. 88 Kant infine FS: Kant, infine, E. dal FS: dalla possono FS: possano Nietzsche», afferma C. in Critica filosofica e fisica teorica aveva indicato, con acredine iconoclasta, il cammino. Ci fu chi lo seguì col pacato distacco dell’indagatore, ove il riferimento è chiaramente al metodo psicoanalitico. Di seguito in E. Eugenio Colorni stessa “ordine” non vuole avere qui che un significato analogico. Si tratterà di attingere nel mondo stesso dell’irrazionale per trovare in esso dei punti intorno a cui quella materia possa coagularsi e offrirci dei punti di appiglio per essere da noi usata. Sarebbe assurdo e avventato dare qui direttive e indicazioni. La riuscita di questo lavoro dipenderà dalla fantasia e dal fiuto di chi lo compie, dalla sua capacità di servirsi liberamente di esperienze fatte in altri campi senza lasciarsene suggestionare, dalla mobilità e ricchezza della sua facoltà di combinazione. Il risultato massimo sarà di mettere l’umanità in possesso di una o più nuove chiavi capaci di scoprire nuove leggi del reale o, se preferite, di costruire nuovi sistemi di concordanze che si offrano al nostro uso e ci permettano di soddisfare alcuni nostri bisogni. b) - Lo scienziato che dalla messa a punto kantiana ha ricevuto l’impulso ad andare al di là delle categorie, non s’indugia però nella ricerca dell’irrazionale, che non offre, finora, alcuna presa ai suoi metodi. La sua mentalità è ancora imperniata completamente sul razionalismo logico-matematico, che ha permesso ai secoli scorsi di compiere le grandi scoperte di cui vive la nostra civiltà. Ed il superamento che egli vuol compiere non98 è un superamento di principio, trasportandosi di un salto in un mondo completamente diverso, ma graduale, volta a volta seguendo le esperienze che non sono giustificabili mediante le leggi finora conosciute. Egli non si domanda quale sia la realtà assoluta che si cela agli occhi degli uomini dietro il velo delle categorie; ma piuttosto come sia possibile apprendere e organizzare il materiale secondo categorie che siano diverse da quelle finora usate. In questo senso egli è molto meno realista che il del filosofo idealista o mistico o che lo dello scienziato positivista. E in questo senso si può quasi dire che egli porti una conferma sperimentale, se non alla necessità a priori delle categorie kantiane, almeno alla dottrina kantiana delle categorie. Lo scienziato di regola non ha letto Kant. dei FS: quei E.  campi senza FS: campi, senza E. concordanze FS: concordanza E. E. logico-matematico, che FS: logico-matematico che compiere non FS: compiere, non E.  di un FS: d’un E. e FS: ed E. che il del FS: che il E. 102 che lo dello FS: che lo E. Proprio in questo comune punto di arrivo», scrive Colorni in Critica filosofica e fisica teorica trattando delle diverse forme della filosofia e della epistemologia postkantiane, «in questa medesima esigenza, in questa eguale preoccupazione di raggiungere una base stabile cui si possa attribuire un valore obbiettivo, tali diversi modi di procedere riconoscono forse tra di sé quella parentela di premesse e di fini che permette loro di attribuirsi il nome comune di filosofia. La scienza, al contrario, e precisamente perché figlia della rivoluzione kantiana, rifiuterà al contrario di operare secondo il criterio delle affermazioni di verità per muoversi attraverso un procedimento di composizione e scomposizione della propria materia. sperimentale, se FS: sperimentale se E. 105 Kantiane FS: kantiane E. Kantiana FS: kantiana E. Cinque scritti metodologici. Ma l’atmosfera diffusa del Kantismo e la nozione stessa della categoricità del reale gli suggeriscono di porsi, di fronte ad una nuova esperienza inspiegabile, nell’atteggiamento di colui che attribuisce tale inesplicabilità alla violenza che le categorie tradizionali operano sulla ricerca organizzando ogni dato secondo le loro forme. Dal quale atteggiamento deriva direttamente il tentativo di modificare le categorie e provarle di nuovo, così modificate, sul metro della interpretazione scientifica. Modificare, ho detto, non abolire. Qui si mostra la modestia dello scienziato, il suo voler provare una dopo l’altra le chiavi, il suo volontario limitare il proprio orizzonte. Da quando egli si è accorto di usare delle categorie nella formulazione delle sue leggi, è continuamente tentato di provare che cosa avverrebbe se queste categorie fossero fatte altrimenti. Come si comporterebbero i fenomeni in uno spazio che non sia quello euclideo? Materia, energia, sostanza, causalità. Che aspetto avrebbe un mondo in cui queste categorie si presentassero con caratteri diversi da quelli che hanno finora avuto? L’elemento a priori del reale, divenuto cosciente nell’uomo, comincia ad eseguire un gioco di spostamenti, di retrocessioni, di modificazioni tale da trasformare completamente l’immagine della realtà sulla quale gli uomini lavorano: come un obbiettivo che abbia imparato ad aprirsi e a chiudersi, a mettersi a fuoco a seconda delle esigenze dell’oggetto da ritrarsi. E se da un lato si può dire che questo accomodamento delle categorie viene imposta dalle modalità della ricerca scientifica, cioè dalle esperienze e dalle osservazioni che non è possibile far rientrare nelle categorie finora usate (cioè quelle dell’universo newtoniano), d’altro lato è avvenuto forse che gli scienziati, tratti dalla vaga sensazione di essere sul punto di crearsi nuovi strumenti per l’apprensione del reale, fossero attratti appunto da quelle esperienze che dei nuovi strumenti potessero aver bisogno. L’esperienza non è mai evidentemente qualche cosa di puramente passivo, e vi è sempre un motivo perché lo sperimentatore raccolga la sua attenzione su di un fatto piuttosto che su di un altro108. Comunque se la conformazione delle singole categorie è stata fortemente modificata dalla scienza moderna, non è stata modificata, anzi è stata rafforzata la coscienza della categoricità del reale. Il filosofo può giungere con ragione alla conclusione che le nuove teorie fisiche non hanno intaccato la concezione Kantiana del mondo. Noi diremmo che esse hanno tratto da quella concezione le uniche conseguenze che aprono alla mente umana nuove indefinite prospettive di ricerca. Le quali non consistono in una vaga e problematica evasione dalle categorie, ma in una tranquilla accettazione del fatto che non è possibile prescindere da una “categoricità”. Accettazione che permetta però la continua revisione delle esistenti. Kantismo e la nozione stessa FS: kantismo e la nozione stessa E. Da questo punto comincia la conclusione assente nelle precedenti edizioni del testo. Sulla revisione colorniana del concetto di esperienza, cfr. supra § 3. 109 C. non si astiene mai dal sottolineare, nei suoi scritti metodologici, «quanto vantaggio derivi alla scienza stessa dall’eliminazione del suo substrato metafisico-finalistico» (C., Del finalismo nelle scienze. Cfr. p.e. Id., Critica filosofica e fisica teorica. Non c’è miglior propaganda per un nuovo atteggiamento intellettuale e morale che il fatto che esso si dimostri una chiave capace di aprire molte porte nel campo della scienza e della conoscenza». C. 34 categorie; cioè di quelle categorie dalle quali la mente umana al suo stato attuale non può prescindere. Non è forse inutile precisare che tale revisione non ha nulla a che fare con quelle discussioni sulle classificazioni delle categorie di cui i filosofi così spesso si dilettano. Non si tratta affatto di discutere se le categorie siano dodici o dieci, o quattro o una. Se il “finalismo” costituisca una categoria a sé o rientri in un’altra. Se l’“economico” e l’“estetico” siano modi autonomi o meno di considerare le cose. Non si tratta di organizzare le forme conosciute del pensiero, e accordarsi su quali si debbano considerare originarie, quali derivate. Il lavoro da compiersi è molto più profondo e creativo. Si tratta di dare allo spirito umano la possibilità di vedere le cose in modo completamente diverso da quello usato finora; di fornirlo di un nuovo senso, mediante il quale egli possa scoprire cose finora sconosciute, risolvere problemi finora insolubili. L’atteggiamento “critico” in senso kantiano si mostra così come l’ultima fase di tutta un’epoca e di un modo di prendere contatto col reale. La scienza messa nella possibilità di prendere piena coscienza non solo dei propri metodi, ma delle premesse necessarie di ogni sua costruzione, riceve da ciò l’impulso a superare tale necessità ed a crearsi premesse nuove. Il lavoro che qui compie lo spirito non ha solo i caratteri di una ricerca intellettuale. Ne fanno parte alcuni atteggiamenti che possiamo raccogliere sotto il nome generico di morale. Si tratta di uno sforzo violento contro un modo di considerare le cose cui tutto ci tiene legati, di tendenze alla liberazione, di salti fuori dal mondo cui si apparteneva. Si cerca di rifarsi una “nuova mentalità”, di vedere le cose con occhi diversi, di ritornare semplici, di rifiutare le costruzioni già fatte. Ci si affida alla fantasia, all’invenzione, all’intuizione, per immaginarsi mondi diversi da quello che siamo abituati a vedere. Tutti questi movimenti di conversione dello spirito, che siamo abituati [ad] attribuire al mistico o all’uomo desideroso di purificazioni o di visio. È questo il tema affrontato fra l’altro nel dialogo di Commodo dedicato a Dell’antropomorfismo nelle scienze, là dove C., stabilendo la necessità di rovesciare l’umana tendenza a ricreare una natura fatta a propria immagine e somiglianza, distingue due differenti forme di antropomorfismo, a seconda che si sia o meno consapevoli – e si sappia quindi controllarne i risultati – della nostra impossibilità di prescindere dalla “categoricità del reale”: il primo antropomorfismo è «una constatazione, o meglio una necessità, dalla quale non siamo riusciti a uscire, l’altro è invece una esigenza. Ora io odio le esigenze. Non ho nemmeno alcun motivo di amare le necessità, ma da queste non vedo alcun modo per liberarci, se non illusoriamente. Evidente riferimento allo storicismo crociano, su cui Si mostra qui, in tutta la sua originalità, il senso più profondo che Colorni attribuisce al kantismo all’interno della storia del pensiero filosofico e scientifico della modernità. C., Critica filosofica e fisica teorica, ove si sottolinea il carattere essenzialmente morale che caratterizza il primo impulso alla scoperta scientifica: «alla base di ogni grande scoperta, di ogni rivoluzione nel campo della scienza, c’è una conquista morale; l’abbattimento di un idolo saldamente insediato e abbarbicato fra le pieghe della nostra anima, di cui è estremamente difficile accorgersi, estremamente doloroso liberarsi; idolo fatto per lo più di un cieco ed infantile amore per noi stessi, di un bisogno di sentirsi circondati da forze a noi congeniali, di veder ripetuto nell’universo, nella realtà oggettiva, ciò che sperimentiamo nel nostro intimo». Cinque scritti metodologici: 35 ni, non devono essere stati estranei a chi si è sforzato per il primo di immaginare la terra rotonda anziché piana, o il sole immobile e non la terra in mezzo ai pianeti, o lo spazio a quattro e non a tre dimensioni. Solamente che mentre il mistico suole descrivere molto accuratamente il processo della conversione, ma si ferma solo ad esso e non ci dà alcuna garanzia quando comincia a parlare di ciò che egli trova “al di là”, lo scienziato invece compie la conversione silenziosamente, spesso quasi inconsciamente; ma giunto al di à, cioè al nuovo punto di vista, è sollecito ad occuparsi solo di ciò che sia non dico vero in senso assoluto, ma usabile, cioè organizzabile in un ordine, in una legge. E per giungere a ciò escogita esperimenti e controlli che gli diano la garanzia di camminare su un terreno sicuro, sul quale sia possibile ai suoi strumenti di far presa. L’“al di là” non è affatto una negazione del di qua, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di nuove categorie che pretendono di essere più vaste, di comprendere in sé anche le vecchie. Rotondo anziché piano, meccanismo anziché finalismo, probabilità statistica anziché determinazione causale. La validità delle nuove chiavi è determinata dal loro uso, cioè dalla maggiore o minore possibilità che esse offrano di spiegare fenomeni, di risolvere problemi, di formulare leggi. La maggiore difficoltà consiste nell’abituarsi al nuovo modo di vedere. Non esiste neppure un vocabolario che permetta di esprimere le cose nei termini delle nuove categorie, e si è comunemente costretti a ricorrere a metafore tratte dal mondo vecchio. Gran parte del lavoro, nei primi tempi, consiste nell’escogitare una formula di trasformazione che permetta di passare agevolmente dai termini delle vecchie categorie a quelli delle nuove. Come le leggi della prospettiva mi permettono di rappresentare su un piano ciò che ha un volume nello spazio, così le “trasformazioni di Lorentz” mi permettono di usare gli strumenti a mia disposizione (calcolo, misura, ecc.) nello spazio normale, per il nuovo spazio einsteniano; analogamente la psicanalisi tenta di tra Il dominio della natura è divenuto così il prezzo dell’incredulità. È come se la grazia venisse a toccare proprio colui che ha cessato di sperarla. Il coraggio di riconoscersi abbandonato da Dio, di rinunciare ad essere il centro e lo scopo dell’universo, apre immediatamente l’occhio agli uomini, li arricchisce d’un immenso patrimonio. A bella posta abbiamo espresso queste cose in un linguaggio mistico. Quando Kant parla di rivoluzioni dovute all’ardimento di un sol uomo, di illuminazioni subitanee, di vie improvvisamente aperte a chi brancolava alla cieca, c’è in lui sicuramente la coscienza che una vera grande conquista conoscitiva è sempre frutto – più che di uno sforzo logico o di uno sviluppo dialettico – di un capovolgimento affettivo e morale; di una inversione di valori, di una vittoria conquistata contro se stessi e contro ciò cui con più profondi e tenaci ed inconsci vincoli siamo legati. Chi compie per primo un capovolgimento deve anzitutto combattere nel suo intimo una lotta non molto diversa da quella che combatte l’uomo che voglia raggiungere lo stato di perfetta passività ed umiltà di fronte al suo dio. Molinos diceva che non bisogna chiedere nulla a Dio, neppure la propria salvazione. Lo scienziato deve pure rinunziare all’idolo di una natura che parli il suo medesimo linguaggio, di un mondo organizzato in vista dei suoi bisogni e dei suoi organi. Solo questa assoluta vuotezza e purità, questa mancanza di anticipazione gli permetterà di aprire gli occhi su se stesso e sul mondo». L’osservazione rientra pienamente nell’antirealismo della metodologia colorniana. D’altra parte, risulta di particolare interesse il tentativo di delineare le caratteristiche che dovrebbero assumere le nuove categorie rispetto a quelle che volta per volta si vanno ad abbandonare. Eugenio Colorni sformare in termini della coscienza ciò che è inconscio. Mediante tali trasformazioni si aiutano anche gli altri uomini a trasportarsi sul nuovo piano; si forniscono loro, per così dire, gli occhiali che permettono di vedere con la nuova illuminazione, finché non si sarà tanto avvezzi da poter fare a meno di occhiali, ed usare un linguaggio diretto. Ma il linguaggio appunto serba sempre le tracce di ciò, e le etimologie documentano spesso tali mutamenti di registro. Tale è, presso a poco, lo stato delle cose attualmente. Si veda, fra i riferimenti colorniani alla psicoanalisi e a mero titolo di esempio, quanto è dall’autore affermato nel dialogo intitolato Della lettura dei filosofi. La psicanalisi è una scienza ad uno stadio che corrisponde circa a quello dell’astronomia prima di Copernico, e dell’alchimia prima della chimica. Ha individuato in modo vago, mitico, pieno di pregiudizi e di troppo rapide generalizzazioni, delle relazioni e dei rapporti finora inosservati. Ha abbozzato una parvenza di metodo di ricerca: metodo talmente incerto e malsicuro che il più delle volte conduce a risultati opposti a quelli che si volevano ottenere. Ma insomma, si muove in un campo completamente sconosciuto, e il materiale che sta portando alla luce è di un tale interesse, che il rifiutarlo solo perché non è stato ancora capace di organizzarsi secondo gli aurei schemi del metodo scientifico mi sembra il colmo del filisteismo professorale». L’accenno alla possibilità di una condurre una vera e propria analisi categoriale attraverso lo studio del linguaggio è forse uno degli aspetti più interessanti ed originali di queste pagine Cinque scritti metodologici Commodo a Ritroso Vedo che non sei sazio di facili vittorie. Se il tuo scopo era di dimostrare che tu sai l’economia e io no, l’hai raggiunto pienamente, a tua perenne gloria e soddisfazione. Ma se io volessi ritorcere le tue intimazioni sulla mia abilità nelle scienze di cui mi occupo, ti direi che, con tutta la tua bravura, non sei stato neppure capace di chiarire il mio dubbio. Non te lo dico, perché sono sicuro che ci saresti riuscito facilmente, solo che ti fossi occupato di capire attraverso gli sbagli e le imprecisioni, quello che ho cercato di dire, anziché limitarti a sfogare a tua rabbia. Se un dilettante o un principiante di teoria della scienza mi viene a parlare di corpo rigido in un senso errato e diverso da quello usato dai fisici, io cerco di capire quale concetto egli cerchi di adombrare dietro al termine improprio; e mi guardo dal cedere alla meschina soddisfazione di prenderlo in castagna ad ogni parola. Il fare così, con tua buona pace, si chiama in italiano pignoleria. Io non voglio prendere sul serio questo tuo modo di discutere che è probabilmente solo una reazione alla mia aggressività, e il riflesso di arrabbiature prese non in questa ma in altre discussioni. E non ho ancora perso la speranza di trovare in te un esperto ed aperto iniziatore ai problemi dell’economia, anziché un geloso e gretto sacerdote del tempio della scienza. Questo metodo, hai ragione, è supremamente irritante e presuntuoso; ma a me è molto utile, perché mi permette, fra l’altro, di appropriarmi i concetti fondamentali con maggiore consapevolezza, senza subirli, e mantenendo rispetto alle scienze quel certo distacco che è pur necessario al critico e al metodologo. Una nozione si forma molto più salda nella mia mente, quando ha resistito vittoriosamente ai miei ripetuti attacchi, che quando l’ho dovuta imparare dalle pagine di un manuale. 1 FS, sez. 1, Carte personali, serie 2, Documenti diversi, b. 3, Inediti di C. Per la storia di questo scritto in relazione agli altri dialoghi economici colorniani, si rinvia alla Nota del curatore. Così si rivolge Commodo a Ritroso in C., Dell’antropomorfismo nelle scienze. Mi pare che tu sia un po’ troppo attaccato, o Ritroso, alle prerogative professionali. Sei proprio sicuro che l’aver frequentato una scuola ufficiale e aver letto molti trattati, e avere una lunga consuetudine coi ferri del mestiere, sia una condizione assolutamente necessaria per capire qualche cosa dei principî fondamentali di una scienza? Non vi è mai capitato di dover dire a una persona una di quelle cose scottanti, dopo le quali non si ha più il coraggio di guardarsi negli occhi? Ebbene, se voi scegliete il partito di prenderlo in disparte con tono mansueto e fraterno, mostrandogli comprensione ed affetto, e lo consolerete, e cercherete di addolcirgli in tutti i modi la pillola; se farete questo, siete dei volgari istrioni, innamorati di voi stessi, infatuati della vostra funzione, incapaci di comprendere e di amare l’amico. Voi vorreste assestargli il colpo che darà inizio per lui a una dolorosa lotta contro se medesimo, e in più avere la sua gratitudine, la sua ammirazione. Vorreste, nel momento in cui egli si sente basso e spregevole, apparirgli voi come l’arcangelo liberatore, il puro, il disinteressato, l’immacolato. Se vi prende a calci, è il meno che possa fare. Ditegli invece le medesime cose in un accesso di rabbia, in una lite violenta, in cui voi avrete almeno altrettanto torto quanto lui. Buttategli in faccia queste verità come veleno che schizzi dalla vostra lingua; dategli un appiglio per difendersi, un’occasione di odiarvi, di considerare tutto ciò che gli dite come falso e malvagio. Il vostro  C. Non so se questo possa servire agli occhi tuoi da giustificazione. Non credere che questo metodo sia in me qualche cosa di cosciente e di voluto. Me ne accorgo oggi per la prima volta, cercando di analizzare perché le tue accuse mi colpiscono e insieme non mi colpiscono. Delle tue osservazioni incasso senz’altro la lezione sulla matematica; io non avevo avuto altra intenzione che di riinventare per conto mio quell’ombrello; e naturalmente l’ho inventato più brutto, più goffo e confuso di quello che c’è già. Il solo punto che non mi è ancora chiaro è quello indicato nell’accluso foglietto. Mi basta che tu risponda a monosillabi e credo che non ci perderai più di un quarto d’ora. Da principio mi sono preso una solenne arrabbiatura, e ti avevo già risposto una lettera piena d’insolenze. Poi, nel rileggere tutto insieme a mente più calma, ho visto che in fin dei conti hai tutte le ragioni. Ma, poiché le tue accuse mi toccano solo in un certo speciale modo, vorrei spiegarti quanto segue a puro titolo di chiarimento personale: Da uno che si avvicina ad una scienza che non conosce è giusto di pretendere che lo faccia “con le ginocchia della mente inchine” pronto ad apprendere anziché a criticare. Gli s’impone, e ben a ragione, un lungo e silenzioso noviziato, solo finito il quale gli si potrà accordare voce in capitolo. Tutto questo è giusto (e lo dico senza la minima ironia). Ma il risultato è che un uomo, di solito, di questi noviziati ne fa uno solo, e vi resta legato per tutta la vita. Si specializza in una materia, e da essa non esce, salvo che per excursus curiosi e dilettanteschi. Ora a me questo non è concesso, giacché i miei interessi più specifici si rivolgono alla metodologia delle scienze. E dato che mi farebbe schifo risolvere il mio problema dall’alto, escogitando un paio di criteri filosofici e applicandoli poi come chiavi capaci di aprire tutte le porte6; sono costretto ad avvicinarmi a insegnamento allora penetrerà nel suo cuore in modo umano, lieve, benefico. Egli sarà libero di accoglierlo come cosa sua, e avrà modo di stimare se stesso per non avervi serbato rancore. Nella sua accettazione ci sarà il senso di fare una conquista, di costruire qualche cosa. Non vi temerà. Che sia questo il senso del mito di Nereo, l’indovino col quale bisognava azzuffarsi perché si decidesse a profetare?». Su questa immagine del mito di Nereo, rinvio ad A. Cavaglion, «Il mio poeta». Colorni, Saba e la psicoanalisi, in G. Cerchiai e G. Rota, C. e la cultura italiana fra le due guerre, Cfr. quanto spiegato nella Nota del curatore. Citazione a senso da Vergine bella, che di sol vestita, dal Canzoniere di Petrarca. E. C., Giustificazione, Colorni disprezza coloro che chiamano filosofia l’aver trovato una formula per interpretare il mondo. La metafora della chiave è spesso utilizzata da Colorni per indicare precisamente l’errore di scambiare la ricerca filosofico-scientifica con la scoperta di un criterio esplicativo unico ed onnicomprensivo. Su tale metafora cfr. anche Programma. ciascuna scienza, non per esserne genericamente informato, ma con l’impegno di osservarne con occhio critico gli interni meccanismi e cavarne conclusioni non genericamente filosofiche, ma che possono aiutare il procedere della scienza stessa. Se voglio far questo è chiaro che non posso pretendere di sfuggire al noviziato più severo, in ciascuna delle scienze cui mi avvicino. E non mi sogno di sfuggirvi. Posso però cercare di rendermelo più piacevole. Il metodo che, inconsciamente, ho trovato, è questo: Anziché accostarmi a grossi trattati con fare accogliente e passivo, pronto ad imparare e ad adagiarmi nell’ordine della loro esposizione, io parto con la lancia in resta, pieno di idee sballate e confuse, sfondando porte aperte ad ogni passo, ed inventando ombrelli, desideroso di scontri e di battaglie. Da ogni scontro esco ammaccato e contuso (come da questo con te) ma con un’idea più chiara. Ogni knoch out subito mi fa fare un passo avanti nella comprensione della scienza. Così non evito naturalmente, lo studio; e della lettura dei trattati non posso certo fare a meno: ma mi riesce più piacevole leggerli come appassionati combattenti, piuttosto che come amorosi pedagoghi. A patto, s’intende, di non impuntarsi mai, e di essere pronto a riconoscere la sconfitta. Laboratorio dell’ISPF. Geri Cerchiai ISPF-CNR, Milano. Laboratorio dell’ISPF. Saggi di Colorni conservati presso la “Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Somenzi. In essi Colorni espone alcuni dei punti chiave della propria metodologia, delineando una proposta epistemologica destinata ad essere riscoperta e apprezzata dopo la caduta del regime fascista, nel secondo dopoguerra.  Carlo Rosenberg. ‘G. Rosenberg’. ‘Agostini’. ‘Franco Tanzi’. Oggettivismo e armonia. - L a filosofia leibniziana ha ai  suoi inizi un carattere nettamente oggettivistico. Intendiamo  'lire con questo che non si trova al cent ro di essa alcun pro-  blema che riguardi la maggiore o minor validità della nostra  conoscenza delmondo esterno, nè in genere che tratti dei rap-  porti fra conoscente e conosciuto. 11 relativismo che deriva al  sofista dall’osservazione che « l’uomo è misura di tutte le cose »  è estraneo a Leibniz: egli studia il reale in sè stesso, nella sua  essenza divina od umana, secondo le sue leggi razionali o em-  pn iene. Egli parte dal dato di fatto del mondo in tutti i suoi  aspetti, che vuole scrutare, comprendere, ridurre a unità, a  formule semplici e facilmente apprendibili, trasportando nel  campo filosofico e metafisico l’atteggiamento onde i suoi grandi  predecessori o contemporanei, Copernico, Galileo, Newton, ave-  \uno improntato la loro indagine del mondo fìsico: un ten-  tativo di visione complessiva, armonica, coerente di tutti i  latti presi a studiare; una ricerca di ipotesi che diano una  spiegazione del tutto, quanto più omogenea e lineare possibile.  A un tale atteggiamento egli si avvicina, piuttosto che a quello  di Cartesio, il quale vuole dedurre il mondo con le sue leggi  da un solo principio posto inizialmente come unico valido.   . me ! ltre con la filosofia cartesiana molti saranno i rapporti  di Leibniz nella formulazione e nello sviluppo dei vari pro-  ficui 1 , egli se ne differenzia però fondamentalmente per la sua  concezione essenziale del mondo come un complesso a sè stante,  di cui si debba ricercare un principio unificatore, e non come  qualche cosa di inizialmente problematico, la cui esistenza e   le cui leggi debbano venir dimostrate e dedotte. Se in que-  st'ultimo atteggiamento si vuol far consistere la linea diret-  trice del moderno gnoseologismo e in genere della filosofia mo-  derna, bisognerà dire che da tale direzione Leibniz si discosta,  tenendosi piuttosto per questo riguardo sulla linea del pensiero  greco, in un atteggiamento che potremmo avvicinare a quello  di Aristotele.    La filosofia (sapientia) consiste essenzialmente nella co-  noscenza perfettissima della natura. E da che cosa, se non  dalla filosofia, sono dimostrate con tanta evidenza non  solo l'essenza e le funzioni della natura, ma la cura spe-  ciale che essa ha per ogni singola cosa, e il fatto che essa  non si è limitata a creare ima volta le cose dal nulla, ma  continuamente le crea e risuscita ? Devo dire che, quando  ebbi compreso tutta la forza di questi ragionamenti, esul-  tai e mi rallegrai per la filosofìa, la quale sembra finalmente  volersi l’appacificare con la religione; con la quale, non  per sua colpa, ma per le opinioni e i giudizi temerari de-  gli uomini, o anche a causa di espressioni e termini mal  scelti, sembrava male conciliarsi. Cessino dunque gli uomini  pii e accesi dallo zelo della gloria divina, di aver timore  della ragione; basta che si studino di raggiungere la ra-  gione retta.... E i filosofi, dal canto loro, tralascino di  riferire tutto all' immaginazione e a figure, e di accusare  come vanità o impostura tutto ciò che si oppone a quelle  nozioni crasse e materiali, nelle quali taluni credono di  poter circoscrivere tutta la natura.   (Dialogo Pacidius Philalelhi).   Questo studio oggettivo della natura nelle sue leggi, e questo  sforzo di una visione unitaria del tutto, conduce Leibniz a  complessi e armonici panorami, in cui fede e ragione, mondo  divino e mondo umano, scienze naturali e scienze metafisiche  si organizzano in un ordine omogeneo. L'arniomo è ciò cui  egli tende con tutte le sue forze di scienziato e di pensatore.  Fin dai suoi anni giovanili, il miraggio di un'armonia univer-  sale è al centro dei suoi pensieri.  L fisici dei nostri tempi, ricercando le cause materiali  delle cose, trascurano quelle razionali. E invece la sapienza  dell Autore supremo riluce principalmente nell’aver così  costruito I orologio del mondo, che tutto ne derivasse come  per necessità, per la suprema armonia dell’ universo. Vi è  dunque bisogno li filosofi naturali che non introducano  soltanto la geometria nel campo delle scienze fisiche (dato  che la geometria manca di cause finali) ma rendano anche  manifesta nelle scienze naturali un’organizzazione, per  così dire, civile. 11 mondo è infatti come una grande re-  pubblica in cui gli spiriti corrispondono agli uomini liberi  (cittadini o nemici) le altre creature agli schiavi.   (Lettera al Thomasius).   In questa su prema armonia tutte le scienze, tutti i modi di  considerazione del mondo si conciliano ed unificano. Risolvere inizialmente il labirinto del continuo e del  movimento, che avvolge nelle sue complicazioni tutti gli  ingegni, è impresa di grande importanza per stabilire i  fondamenti delle scienze e rintuzzare la vanagloria degli  scettici ; per dare una solida base alla geometria degli indivisibili e alla aritmetica degli infiniti, generatrici di tanti  e così importanti teoremi; per elaborare un" ipotesi fisica  di coerenza universale; infine, e questo è l'essenziale,  per arrivare a dimostrazioni assolutamente geometriche, e  finora mai raggiunte, sull intima essenza del pensiero e  sull eternità dello spirito (1) e sulla causa prima. Di qui  sgorgano le fonti della bontà e dell’equità, del diritto e  delle leggi, così chiare e limpide, così piccole d’estensione  e insieme profonde di contenuto, da poter valere come  grandi volumi, e da poter bastare alla soluzione di qual-  siasi problema, con una compendiosita stupefacente per   []. CON LA PAROLA ‘SPIRITO’ TRADURREMO IL TERMINO LATINO “MENS”] chi ne faccia uso, e di cui il volgo, io erodo, non ha  neppure 1’ idea (1).   (Hgpothesis phyaica nova, T /noria motus abstracti, 1671, pref., G. IV 226).   A quest’ idea della coincidenza di ogni forma di realtà e di  ogni metodo d’ indagine nella suprema armonia e coerenza della  natura, si riallacciano i progetti, perseguiti da Leibniz lungo  tutta la sua carriera, di un’organizzazione sistematica delle  scienze, di un’ Enciclopedia in cui di tutto il sapere si desse  una visione complessiva, concordante e concaten antesi in tutte  lo sue parti; progetti, questi, che richiamano alla Pansofia  eomoniana (2) e per realizzare i quali Leibniz si fece promotore  di società scientifiche e fondatore di accademie.   Quest'armonia, però, come si è visto, non deriva in alcun  modo da un concepire tutte le scienze come prodotto dello  spirito umano, quindi soggette alle leggi di esso; essa è l’espres-  sione di una realtà divina oggettiva, a sè stante, con le sue  leggi concordanti e armoniche. La scienza scopre questa unità  noi mondo, attraverso lo leggi dello spirito, che corrispondono,  in virtù dell armonia stessa, alle leggi del mondo.   Verità di ragione e di fatto. - Questa realtà oggettiva  può presentarsi sotto due aspetti : come verità di ragione «  verità di fallo ; anno questi i due modi di essere del reale, retto  ciascuno da leggi proprie, ciascuno con proprie inconfondibili  caratteristiche, cui corrispondono poi anche i due diversi modi  di apprensi one del reale: razionale e sensibile. Ecco due defi-  nizioni di questi due tipi di verità, prese da due opere distan-  tissime per data e per argomento:   Le verità di ragione sono necessarie, quelle di fatto  sono contingenti. Le verità primitive di ragione sono    (1) Quale sia il significato (lei termini .j ni adoperati (continuità, indi-  visibile, infinito, pensiero, ecc.), si vedrà in seguito.   (2) Giovanni Amos Comenio (1592-1670), noto principalmente nel campo  della pedagogia per la Bua Dì*ìar.tica Magne r, concepì il sapere come un'or-  ganizzazione di ogni elemento della conoscenza secondo leggi universali  (Pansofia), trasformando il concetto di enciclopedia da quello di una semplice  raccolta di dati, a quello di una sistemazione unitaria dei dati stessi. Leibniz  conobbe ed apprezzò grandemente le sue opero. quelle che io chiamo con nome generale identiche, poiché  sembra che esse non facciano che ripetere la medesima  cosa, senza insegnarci nulla. Esse sono affermative o ne-  gative. Le affermative sono sul tipo delle seguenti: Ogni  casa è ciò che è. e in qualsivoglia esempio A è A, lì è B;  io sarò quel che sarò; ho scritto quel che ho scritto. Le proposizioni copulative, le disgiuntive, e altre, sono  pure suscettibili di tale identità; e io considero afferma-  tiva anche la seguente: Non-A è nou-A; e l'ipotetica:  se A è non-B, ne segue che A è non-B. Similmente se non-A  è BC, ne segue che non-A è BC....   Vengo ora a parlare delle identiche negative che sono  rette o dal 'principio di con trad izione (1) o da quello dei  disparati. Il principio di contradizione è in generale il se-  guente: una proposizio-ne è vera o falsa. Il che contiene  due enunciazioni vere: l una che il vero e il falso non sono  compatibili nella medesima proposizione, ovvero che una  proposizione non può esser vera e falsa contemporaneamente ;  l'altra che l’opposto o la negazione del vero e del falso  non sono compatibili, ovvero che non vi è via di mezzo  fra il vero e il falso; o, in altri termini, che non è possi-  bile che una proposizione non sia nè vera nè falsa (2). Óra.  tutto ciò è vero anche in tutte le proposizioni partico-  lari immaginabili, come: ciò che è A non potrebbe essere  non-A,...   Quanto ai disparati , sono quelle proposizioni che di-  cono che I oggetto di un’ idea non è l’oggetto di un’ altra  idea; per esempio, che il calore non è la medesima cosa  che il colare, oppure che uomo e animale non sono la me-  desima cosa, per quanto ogni uomo sia mi animale. Tutto  questo si può stabilire indipendentemente da qualsiasi    (1) Leibniz, come molti altri, chiama « principio rii contradizionc >; quello  che dovrebbe essere chiamato più esattamente « principio di non contra-  dizionc ».   (2) È questo il principio che si suole chiamare del «terzo escluso»,    prova o dalla riduzione all' assurdo o al principio di con-  tradizione, quando tali idee siano abbastanza evidenti da  non aver bisogno di analisi: ma in caso contrario c’è pe-  ricolo d’ ingannarsi: infatti, dicendo che triangolo e tri-  latero non sono la medesima rosa, si cadrebbe in errore:  perchè, a ben considerare, si vede che i tre lati e i tre  angoli vanno sempre insieme. Dicendo che il rettangolo  quadrilatero e il rettangolo non son la medesima cosa, si  sbaglierebbe ancora, perchè solo il poligono a quattro  lati può avere tutti gli angoli retti. Tuttavia si può sempre  dire in astratto che il triangolo non è il trilatero, o che  le ragioni formali ( 1 ) del triangolo e del trilatero non sono  le medesime, per dirla coi filosofi. Sono espressioni diverse  della medesima cosa.   Taluno, dopo aver ascoltato con pazienza ciò che ab-  biamo detto finora, la perderà infine, e dirà che noi ci  divertiamo a fare frivole enunciazioni, e che tutte le verità  identiche non servono a nulla. Ma un tale giudizio dipeli -  derrebbe dal non aver abbastanza meditato su queste ma-  terie. Le dimostrazioni di logica, per esempio, procedono  dai principi dell - identità : e i geometri hanno bisogno del  principio di contradizione nello loro dimostrazioni per as-  surdo. Contentiamoci qui di mostrare l’uso delle propo-  sizioni identiche nelle dimostrazioni degli sviluppi di  ragionamento.   Segue lo sviluppo di queste tesi e altre considerazioni sul-  I applicazione del principio di contradizione ai procedimenti  logici.   Ciò mostra che anche le pili pine e apparentemente  inutili fra le proposizioni identiche, sono di grande utilità    (1) TI tonnine è scolastico-aristotelico, come del resto tutti i concetti logici di cui si parla in questo brano.  nei procedimenti astratti e generali: e ci può insegnare  che non si deve disprezzare nessuna verità....   Quanto alle verità primitive di fatto, sono le esperienze  immediate interne di una immediatezza di sentimento.   (Nuovi   saggi, 1701 segg., IV, 2, § 1).   Bisogna avvertire che tutta l'arte combinatoria (1) si  rivolge a teoremi, o proposizioni di verità eterna, che  hanno validità non per arbitrio di Dio, ma per loro  propria natura. Quanto alle proposizioni singolari e per  cosi dire storiche, come p. es. « Augusto fu imperatoredei Romani ». o alle osservazioni cioè alle proposizioni  clic sono sì universali, ma la cui verità non si fonda sul-  l’essenza ma sull’ esistenza, e che sono vere quasi per caso,  cioè per arbitrio di Dio. come p. es. « tutti gli uomini  adulti in Europa hanno cognizione di Dio»; di tali pro-  posizioni non si dà dimostrazione, ma induzione, salvo il  caso in cui sia possibile dedurre un’osservazione da  un'altra osservazione attraverso un teorema. A tali osser-  vazioni si riferiscono tutte le proposizioni particolari che  non siano inverse o subalterne di una universale (2). È  chiaro da ciò in qual senso si soglia dire che dell’ indivi-  duale non si dà dimostrazione, e per qual ragione il pro-  fondissimo Aristotele abbia collocato nella Topica i luoghi  degli altri argomenti in cui le proposizioni sono contingenti  e le ragioni probabili, mentre il luogo delle dimostrazioni  è uno solo: la definizione (3). Ma quando di una cosa si  deve dire ciò che non si desume dalle sue stesse viscere,    (1) I/artc combinatoria, cui questo passo si riferisce, verrà presa in  considerazione in seguito. Inverse o subalterno di una universale sarebbero per esempio le prò  posizioni particolari dei sillogismi, le quali hanno sempre carattere ana-  litico.   (3) Aristotele tratta nei libri Topici dei «luoghi » (TÓ7tot)o aspetti sotto  i quali ciascuna cosa può venir considerata. Ivi tiene anche conto dei cri-  teri di probabilità, di induzione; mentre la dimostrazione e il sillogismo  venzono trattati nei due Analitici.     p. es. che Cristo è nato a Betlemme, nessuuo potrà arri-  vare a tali proposizioni attraverso le definizioni, ma la  materia sarà fornita dalla storia, e i testi sovverranno  alla memoria.   (Ara Combinatoria, 1000, G. IV, 69-70).   Lo verità di ragione si fondano dunque su puri principi lo-  gici ; quelle di fatto invece sull’esperienza. Le une riguardano  1 'essenza, le altre V esistenza-, quelle il necessario, queste il con-  tingente.   Le verità di ragione sono analitiche. Esse non tanno ohe svi-  luppare ciò che è già contenuto nelle viscere di ciascun con-  cetto, non aggiungono cioè nulla alla nostra conoscenza delle  cose; costituiscono la base del ragionamento deduttivo. Le  scienze che da esse derivano sono le logiche e matematiche;  i principi su cui si fondano sono quelli di non còntradizione, del  terzo escluso, che poi si riducono tutti al principio di identità.   Le verità di fatto sono empiriche. Nelle proposizioni che da  esse derivano il predicato non è, come in quelle di ragione,  già contenuto nel soggetto: vi si aggiunge come qualche cosa  di nuovo, che lo aumenta ed arricchisce, ma che non gli appar-  tiene necessariamente per la sua stessa essenza; la cui presenza  deve invece essere concretamente constatata, sperimentata vol-  ta per volta. Ad esse si applica 1’ induzione ; di esse si occu-  pano le scienze naturali, quello storiche, tutte le indagini che  partono dal dato concreto e contingente. Si reggono, queste ve-  rità, sul principio di causalità odi ragion sufficiente. (Ofr. p. 17 ss.).   LE VERITÀ di ragione come possibili. Le v erità di ra-  gione hanno dunque su quelle di fatto il vantaggio della as-  soluta certezza e necessità, o dell’ impossibilità del contrario;  esse costituiscono una incrollabile base su cui tutta la realtà  poggia, un punto di riferimento assoluto e infallibile. D’altra  parte, però, hanno una staticità che non permette loro alcuno  sviluppo nè variazione: rimangono immobili nella loro fissità.  Le verità di fatto, invece, sono bensì casuali, contingenti;  non dipendono da nessuna legge a priori ; ma appunto questo  carattere di non poter venir dedotte da principi già conosciuti,  quindi di non essere mai dimostrabili, ma solamente perce-  pibili attraverso i sensi, fa di esse lo portatrici di ciò che è  nuovo, imprevisto, mutevole; le pone come l’espressione della realtà del mondo nel suo concreto divenire. Si potrebbe dire  che le verità di ragione costituiscono l’ordine necessario di  relazioni, di rapporti entro cui tutte le cose avvengono, quasi  la cornice, la forma della realtà: e le verità di fatto il conte-  nuto, la realtà stessa in tutti i suoi particolari. E infatti, le  verità di ragione vengono da Leibniz concepite piuttosto come  relazioni che come cose-, il che egli esprime col dire che le ve-  rità di ragione, necessarie, ci dànno la sola 'possibilità delle  cose, che non implica ancora affatto la loro realtà effettiva.   Infatti, se ogni possibile, e tutto ciò che ci si può im-  maginare (anche se assolutamente biasimevole) dovesse av-  venire un giorno, se ogni favola o finzione fosse stata o  dovesse divenire storia effettiva, in tal caso non vi sarebbe  nuli’ altro che la necessità e non vi sarebbe nè scelta nè  provvidenza.   (Polemica pubblicata nel Journal de# Savants, 1697, G. IV, 341).   Questo mondo delle possibilità, datoci dalle verità di ragione,  può assumere infiniti aspetti, conformarsi in infinite guise, che  rappresentano tutte le forme in cui potrebbe manifestarsi la  realtà; la quale poi concretamente si manifesta in una sola di  esse. Ciò che noi vediamo e sperimentiamo è la realtà d[ fatto,  che si svolge e manifesta entro l’ambito segnatole dai principi  della ragione (infatti qualsiasi fatto concreto non potrebbe de-  rogare al principio di non contradizione). Tali principi però  potrebbero inquadrare infinite altre forme di realtà, diverse  da quella di questo mondo, concretamente esistente. È questo  il principio dell’ infinità < lei mondi possibili, cioè dell’ infinità  delle possibilità che sono racchiuse nelle verità di ragione,  schemi logici necessari entro cui si svolge ogni e qualsiasi realtà.   Quando dico che vi è un’ infinità di mondi possibili, in-  tendo che non implichino contradizione, così come si pos-  sono fare romanzi che non si effettueranno mai e che sono  tuttavia possibili. Per essere possibile basta che una cosa   sia intelligibile. (Lettera al Bourguet).   È chiaro quale sia un’ idea vera e quale falsa. Vera è  un’ idea, quando la nozione ne è possibile, falsa quando implica contradizione. La ]x>ssibilità di una cosa. poi. la co-  nosciamo a priori o a posteriori. A priori, quando risol-  viamo una nozione nei suoi elementi, cioè in altre nozioni  di riconosciuta possibilità e sappiamo che in esse nulla vi è  di contradi ttorio...; a posteriori quando sperimentiamo at-  tualmente resistenza della cosa: infatti ciò che esiste o è  esistito attualmente, è senz'altro possibile (I). E ogni qual-  volta si ha una conoscenza adeguata, si ha la conoscenza  della possibilità a priori; condotta poi l'analisi a termine,  se non si manifesta alcuna contradizione, la nozione è  certamente possibile.   (i Meditai iones de Cogitinone, Ventate et 'de in, 1684, G. IV, 425).   Alle verità di ragione c di fatto corrispondono anche i due  modi di conoscenza razionale e sensibile. Ma quelle verità ap-  partengono anzitutto - all'ordine oggettivo del reale. In questo  senso si deve intendere l’opposizione di Leibniz alle idee chiare  e distinte poste da Cartesio come criterio delle verità di ragione.  Tale criterio non consiste per lui in una qualsiasi evidenza  conoscitiva, ma nella possibilità e non contradizione.   Egli [Cartesio] aveva posto come criterio della verità la  nostra percezione chiara e distinta. Cioè, la verità del  fatto che il circolo sia la figura di massima area con  dato perimetro non sarebbe secondo lui altrimenti ricono-  scibile se non attraverso la chiara e distinta percezione che  noi abbiamo ili tale sua proprietà. E se Dio avesse con-  formato la nostra natura in modo che noi avessimo chiara  e distinta percezione del contrario, il contrario sarebbe  vero. Questa è la sua opinione, che io non approvo punto.  E non è assolutamente vero quel suo principio metafìsico  universale, che di tutte le cose che pensiamo o di cui  ragioniamo sia necessariamente in noi l' idea, p. es. del po-    li) Oiòsignilìca che resistenti) deve rientrare nelle leggi della possibilità,  ma cho queste leggi possono anche andare molto al ili fuori dal campo  dell’attualmente esistente.  ligono di mille lati o dell'ente sommamente perfetto: prin-  cipio col quale, come armato dello scudo di Achille, egli  disprezzo non senza arroganza tutti coloro che dubitarono  delle sue dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Con tale argo-  mento, egli avrebbe certo potuto facilmente far sì che in noi  fosse anche 1' idea di cose impossibili, p. es. del movimento  sommamente veloce; fra le quali cose impossibili, coloro  che vogliono opporsi alle sue dimostrazioni porranno anche  l'ente sommamente perfetto, lo so, per parte mia. clic  altro è l'ente sommamente perfetto e altro il movimento  sommamente veloce: ritengo però che i ragionamenti di  Cartesio siano imperfetti, e che chi li voglia condurre a  compimento, vi debba aggiungere molto di suo.   (Frammento).   Dio e i,e verità di ragione e di fatto. - Con queste af-  fermazioni, Leibniz sottomette de idee chiare, e distinte al cri-  terio oggettivo della pos sila 1 ita logica, o «non cont ra dizio ne ».  E a questo criterio sottomette anche il concetto dell’ente  sommamente perfetto, sul quale si fonda la cartesiana prova  ontologica dell esistenza di Dio (2). L' idea dell’ente somma-  mente perfetto, egli dice, potrebbe essere contradittoria, come  quella della velocità massima o del numero più grande di tutti  (iflee contradittorie, queste, perchè sarà sempre possibile con-  cepire una velocità o un numero maggiori di una qualsiasi  altra velocità o numero presi a piacere: quindi non si potrà  mai giungere al massimo) v J)eirente perfettissimo, dunque, non  basta aver l’idea: bisogna anche dimostrarne la possibilità, di-  mostrare cioè che esso non appartiene solo al mondo delle  nostre rappresentazioni, ma anche al mondo delle verità eterne  di ragione.    (1) Questa data mi 6 stata gentilmente comunicata dal prof. Ritter,  direttore della Commissione leibniziana dell'Aceademia delle Scienze di  Berlino.   (2) La prova ontologica, clic Cartesio ha ripreso da Anseimo d'Aosta  (1033-1109), afferma che Tessere sommamente perfetto deve contenere, fra  le sue perfezioni, anche resistenza: quindi esiste. Tale prova considera  quindi l’esistenza come un attributo dell'essenza dell’essere perfettissimo.   L'obiezione di Leibniz contro la prova ontologica si ferma  generalmente a questa dichiarazione di incompletezza; e non  mancano poi in lui le affermazioni che l'ente sommamente  perfetto sia effettivamente possila le e implichi la propria esi-  stenza. Tuttavia in lui già è chiaro il concetto che le verità  di ragione e quelle di fatto appartengono a due sfere diverse  e - per cosi dire - incommensurabili, sì che non sia possibile  far rientrare l’una nel campo dell’altra.   Ma in generale non si può dire che Leibniz si preoccupi  troppo di provare resistenza di Dio. Abbiamo già visto che  il suo problema non è tanto di dimostrare e dedurre i concetti  fondamentali del suo sistema, quanto di organizzarli in unità  armonica. Dio è una premessa dalla quale Leibniz parte, non  una conclusione cui egli arrivi.   Quale ora il rapporto fra Dio e le verità di ragione c di fatto (  Anche a questo proposito la posizione di Leibniz si contrap-  pone a quella di Cartesio ; il (piale, dedotta a priori l'esistenza  di Dio, fa poi discendere da Dio, per un atto libero della sua  volontà, tutto il mondo delle verità, sia di ragione, sia di  fatto (1). A questa dipendenza delle verità di ragione dal-  l'arbitrio divino, Leibniz si oppone recisamente. Per lui sono  rappresentato, in queste verità, relazioni assolute regolatrici  dell’ univorso, tali ohe in esso si devono inquadrare perfino  i decreti della volontà divina. Si è già visto che le verità  di ragione valgono «non per l'ar bitrio divin o ma per loro  propria natura»; e tale opinione circola in tutti gli scritti di  Leibniz, fin dalla sua prima giovinezza.   È necessario che tutto si rifaccia ad una qualche ra-  gione, nè ci si deve fermare finché non si arrivi alla prima....    (1) C'fr. per esempio, Meditazioni metafisiche, Risposte alle seste obbie-  zioni,!). U: «...lo dico che è impossi bile che una tale idea [del bene o del vero]  abbia preceduto la determinazione della volontà di Dio.... in modo che que-  sta idea del bene abbia portato Dio a scegliere l'una cosa piuttosto che  l’altra. Por esempio, non per aver visto cho era meglio che il mondo fosse  creato nel tempo piuttosto cho dall’eternità, egli ha voluto crearlo nel tempo;  o non ha voluto cho i tre angoli di un triangolo fossero uguali a due retti per  aver visto cho non poteva essere altrimenti, etc. Ma all'opposto: per il fatto  che egli ha voluto creare il mondo nel temilo, per questo ò meglio così che  se fosse stato creato dall'eternità; e solo perchè egli ha voluto che i tre an-  goli di un triangolo fossero necessariamente uguali a due retti, ciò è ora vero  o non può essere altrimenti; e così di tutte le altre cose».   E iiuale. è dunque l’ultima ragione della volontà divina?  L’ intelletto divino. Quale la ragione dell' intelletto divino?  L’armonia delle cose. Quale dell'armonia delle cose ? Nulla.  Per esempio, della proposizione 2:4=4 : 8 non si può  dare alcuna ragione, neppure attraverso la stessa volontà  divina. Quella verità dipende dall'essenza stessa o idea  delle cose. i   (Frammento De resurrectione corporum, 1671, Ak. II, I, 117).   L’ intelletto divino è insomm a determinato dalle verità di  ragione, e la volontà divina non può agire se non nell’ambito  segnato da esse. La volontà divina, ora, si esplica nelle verità  di /atto. Esse, ed esse sole, sono create da Dio per un atto  libero della sua volontà.   Dio è la ragione prima delle cose : poiché quelle che sono  limitate, come tutto ciò che noi vediamo e sperimen-  tiamo. sono contingenti e non hanno nulla in sé che renda  la loro esistenza necessaria; essendo chiaro che il tempo,  lo spazio e la materia, uniti e uniformi in sé stessi, e in-  differenti a tutto, avrebbero potuto ricevere movimenti e  figure totalmente diversi e in tutt' altro ordine. Bisogna  dunque cercare la ragione dell esistenza del mondo, che è  tutto l'insieme delle cose contingenti: e bisogna cercarla  nella sostanza che contiene la ragione della sua esistenza  in se stessa (1), e che, per conseguenza, è necessaria ed  eterna. Bisogna pure che tale causa sia intelligente: poi-  ché dato che questo mondo che esiste è contingente, es-  sendo egualmente possibili ed egualmente pretendenti al-  l'esistenza per così dire al pari di esso una infinità di  altri mondi, bisogna che la causa del mondo abbia avuto  rapporto e riguardo a tutti questi mondi possibili, por  determinarne uno. E questo riguardo o rapporto di una    (1) Tale sostanza è Dio. Cfr. la prima definizione dell’ FI tea di Spinoza:  Per caiuiam e ui intelligo id, cujus esse alia invaivi t existenliam; vive id,  cujus natura non potest concipi, nini existensv.  sostanza esistente con semplici possibilità, non può essere  altro che 1‘ intelletto che ne ha le idee; e a determinarne  una non può essere altro che l'atto della mhmtà che sceglie.  Ed è la potenza di questa sostanza che ne rende la volontà  efficace. La potenza tende all'essere, la saggezza o l' in-  telletto al vero, la volontà al bene. E questa causa intel-  ligente deve essere infinita in tutti i modi, e assolutamente  perfetta quanto a potenza, saggezza e bontà, poiché essa  tende a tutto ciò che è possibile. E siccome tutto è con-  nesso. non vi è ragione di ammetterne più di una. 11 suo  intelletto è la fonte delle essenze, la sua volontà è l'ori-  gine delle esistenze. Ecco in poche parole la prova di un  Dio unico con le sue perfezioni e, per suo mezzo, l'origine  delle cose.   (Teodicea, 1710, § 7).   Le verità di ragione sono dunque il contenuto fieli intelletto  di Dio , le verità di f atto il prodotto della sua volontà, fra  le infinite possibilità che potrebbero realizzarsi entro gli schemi  del principio di non contradizione, Dio ne sceglie una, e la  pone in atto. Anche in questo, Leibniz si oppoue a Cartesio,  il quale ritiene che la materia assuma tutte le forme possibili.  Egli cita, per confutarlo, questo passo dei Princip { rii Filosofia  (parte III, art. 47): a Poiché la materia assume successiva-  mente tutti' le forme di cui è capace, se consideriamo ordi-  natamente queste forme, giungeremo infine a quella che ap-  partiene a questo nostro mondo, in modo che non sia da temere  alcun errore per colpa di una eventuale falsa i potesì " ( 1 ) .  Leibniz risponde:   Non credo che si possa enunciare una proposizione più  pericolosa di questa. Poiché, se la materia riceve succes-  sivamente tutte le forme possibili, ne deriva che non si   (1) Cartesio ò costretto alla concezione che tutti i mondi possibili siano  effettivamente esistenti, dal suo impegno di dedurre il mondo dalle sole  idee chiare e distinte o di ragione. Leibniz, col suo principio di una netta  separazione Ira la possibilità c l’esistenza, può esimersi da questo passaggio  per tutte le forme della possibilità, e risolvere il problema dell origine del  mondo sensibile con un diretto ricorso al principio delle verità di fatto.    I. - VERITÀ DI RAGIONE E DI FATTO 17   possa immaginare nulla di tanto assurdo nè di tanto biz-  zarro e contrario a quello che noi chiamiamo giustizia,  che non sia accaduto o che non debba accadere un gior-  no.... È questo, a mio avviso, il 7rpwxov tpeòSoq (primo in-  ganno) e il fondamento della filosofia atea, la quale non  tralascia mai, in apparenza, di dire belle cose di Dio. Ma  la vera filosofia deve darci ben altra nozione della perfe-  zione di Dio, che possa servirci tanto nella fisica, quanto  nella morale.   (Lotterà al Philippi, 1080, G. IV, 283-4).    Il principio di ragion sufficiente. La realtà contin-  gente posta in atto da Dio è il mondo sensibile che noi speri-  mentiamo. Per la giustificazione di esso, le immutabili leggi  della logica non sono sufficienti. TI mondo, la realtà di fatto è,  ma potrebbe anche non esserci, o essere diverso da quello che  è. Esso non deriva da nessuna verità assoluta. 11 principio lo-  gico clic si dovrà applicare per rendersi conto di esso, non è  il principio di non conti-a dizione, ma quello di ragion suffi-  ciente, quel principio cioè per cui da un dato di fottìi si risale  alla sua causa, e da essa di nuovo alla causa, e cosi fino alla  causa jprima, cioè Dio.   11 principio universale nihil esse sine catione (1) risolve  quasi tutte le discussioni metafìsiche.... Is’ulla avviene, del  cui esser stato prodotto piuttosto che non essere stato  (cur factum sit polius quam non sii) Dio, se voglia, non  possa render ragione.   (Frammento sulla Selenita Media, 1677, C. 25).    (L) È il principio di ragion sulKcicnle. Non bisogna far confusione fra  questo, che Leibniz chiama a volte anche semplicemente - principio di ra-  gione », e le verità di ragione. 11 pri n c imo d i rag ione è la forma generalo che  regola lo verità di fatto. Le verità di ragione si contrappongono invece a  queste ultimo, e si fondano sul principio di non contradizione. La somi-  glianza di due termini dal significato così differente e quasi opposto, deriva  ila un diverso uso del termino « ragione ». Nella locuzione principio di ra-  gione » osso equivale a « motivo, causa ». Ora bisogna elevarsi alla metafisica , servendoci del gran  principio, comunemente poco impiegato, il quale afferma  che nulla si verifica senza una ragione sufficiente, cioè che  nulla accade senza che sia possibile a colui che conosca  sufficientemente le cose, di dare una ragione che basti a  determinare perchè è così e non altrimenti. Posto questo  principio, la prima domanda che si avrà il diritto di porre,  sarà : Perchè ri è qualche cosa piuttosto che nulla ? poiché il  nulla è più semplice e più facile che il qualche cosa. Inol-  tre. supposto che cose debbano esistere, bisogna che si  possa rendere ragione del perchè esse debbano esistere così,  e non altrimenti.   Ora questa ragione sufficiente dell esistenza dell universo  non si può trovare nell' ordine delle cose contingenti, cioè  dei corpi e delle loro rappresentazioni nelle anime : poiché,  essendo la materia indifferente in sè stessa al movimento  e al riposo e a questo movimento o ad un altro, non si  può trovare in essa la ragione del movimento e ancor  meno di questo movimento. E. benché il movimento at-  tuale che è nella materia derivi dal precedente, e questo  ancora da un precedente, non si avanzerà affatto, per  quanto lontani si possa andare: poiché resterà sempre la  medesima domanda. Così bisogna che quella ragione suf-  ficiente che non ha più bisogno di un'altra ragione, sia  fuori di questo ordme di cose contingenti, e si trovi in  una sostanza che ne sia la causa o che sia un essere ne-  cessario il quale porti con sè la ragione della sua esistenza :  altrimenti non si avrebbe mai una ragione sufficiente, alla  quale arrestare il processo. E questa ultima ragione delle  cose è chiamata Dio.   ( Principe# de la nature et de la grane, 1713-14, G. VI, 002).   La causa FINALE E il « mkiliore ». Dio è dunque la causa  o ragion sufficiente rii tutte le verità di fatto, cioè del mondo  sensibile. Ma con quale criterio ha egli scelto, nella sua creazione, fra le infinite possibilità che gli si offrivano, proprio  questa e non un altra? Che cosa lo ha guidato nella scelta?   Nulla avviene senza un perchè sufficiente, o senza una  ragione determinante. In virtù di questo principio, che ci  conduce oltre i limiti raggiunti dai nostri predecessori, Dio  non cambia mai volontà e operazione senza averne qual-  che valida ragione. E quando la cosa di cui si tratta è  di natura uniforme e semplice, siamo in condizione di  giudicare (per quanto povere creature si sia) se vi può  essere una ragione o no. Quando la volontà di Dio è im-  piegata da sola, senza che nella natura delle creature vi  sia la ragione di questa volontà, nè il modo del suo ope-  rare, si tratta di un puro miracolo : criterio poco oppor-  tuno in filosofia, come se Dio volesse (per esempio) che i  pianeti si muovessero in linea curva senza essere spinti  da altri corpi Ogni volta che noi conosciamo qual-   che cosa delle opere di Dio, vi troviamo dell' ordine.   (Lettera allo Hartaoekcr).    II principio della ragion sufficiente, dunque, come vale per  risalire attraverso le cause dai dati esistenti lino a Dio, cosi  lieve essere applicato a Dio stesso, il quale, creando questo  mondo, non ha agito arbitrariamente, ma è stato guidato da  un criterio della sua azione. Non ha agito, neppur lui, senza  una ragione del suo agire; e questa ragione che. determina  la sua volontà, è i l criterio del massimo be ne, della massima  perfezione.   A q uest o criterio Dio si è ispirato nel creare il mondo, e a  questo criterio si deve ricorrere dunque come alla ultima ra-  gione di tutta la creazione. Il bene e la perfezione come motivo  dell esistenza delle cose, viene chiamato A n '\{ è±.   Io ritengo che, ben lungi dal dover escludere le cause  finali dalla considerazione fisica, come pretende Descartes  nei Principi di Filosofia, parte 1, art. 28, sia piuttosto  per mezzo di esse che tutto si debba determinare, poiché la causa efficiente delle cose è intelligente, avendo una  volontà e perciò tendendo al bene.   (Lettera al Philipp!, 1080, 0. IV, 281).   Dio mette in opera, dunque, uno solo degli infiniti mondi  possibili ; ma è retto da un criterio in tale creazione. Questo  criterio fa sì che il mondo da luf scelto sia il migliore fra i  mondi possibili.   Questa infinita saggezza, unita ad una bontà non meno  infinita, non ha potuto fare a meno di scegliere il migliore;  poiché, come im male minore è, in certo senso, un bene,  cosi mi minor bene è, in certo senso, un male, se fa  ostacolo ad un bene più grande: e vi sarebbe qualche  cosa da correggere nelle azioni di Dio, se vi fosse modo  di far meglio. E come in matematica, quando non vi è  nè massimo nè minimo e nulla, insomma, di distinto,  tutto avviene ugualmente, o, quando ciò è impossibile, non  avviene addirittura nulla ; si può dire lo stesso a proposito  della perfetta saggezza, la quale non è mono regolata che  la matematica : che, se non ci fosse stato il migliore (opti-  mum) fra tutti i mondi possibili, Dio non ne avrebbe pro-  dotto nessuno. Chiamo mondo tutta la serie e tutto 1 in-  sieme di tutte le cose esistenti, affinchè non si dica che  più mondi hanno potuto esistere in differenti tempi e  in differenti luoghi. Giacché bisognerebbe considerarli tutti  insieme come un solo mondo, o se volete, come un universo.  E quando si riempissero tutti i tempi e tutti i luoghi,  resta pur sempre vero che si sarebbero potuti riempire in  una infinità di maniere, e che vi è ima infinità di mondi  possibili, di cui Dio deve aver scelto il migliore, perchè  egli non fa nulla senza agire secondo la suprema ragione.   (Teodicea, 1710, § 8).   Dio dunque non scoglie arbitrariamente. Anche qui egli si  ispira ad un principio - il principio del migliore - che regola la sua azione nel metterò in opera la realtà del mondo. In  che cosa consiste questo principio? Che cos’è il «migliore»,  questa causa finale deile verità di fatto? Un criterio di mas-  sima realizzazione, di massima perfezione, di massima felicità,  bontà, etc. : insomma di armonia, che tende a che nei limiti  della possibilità venga realizzato il massimo di esistenza pos-  sibile.   Discende dalla perfezione suprema di Dio che, produ-  cendo T universo, egli abbia scelto il miglior piano possi-  bile, nel quale vi è la massima varietà, col massimo  ordine; il terreno, il luogo, il tempo meglio organati; il  massimo effetto prodotto coi mezzi più semplici; il mas-  simo di potenza, il massimo di conoscenza, il massimo di  felicità e di bontà nelle creature, ammissibile nell' universo.  Infatti, dato che tutti i possibili pretendono all'esistenza  nell intelletto di Dio in proporzione delle loro perfezioni,  il risultato di tutte queste pretensioni deve essere il mondo  attuale, il più perfetto che sia possibile. Altrimenti non  sarebbe possibile rendere ragione del perchè le cose siano  andate così piuttosto che in altro modo.   ( Pricipes de la Nature et de la (brace, 1713-14, G. VI, 003).   È un mio principio, che tutto ciò che può esistere ed  è conciliabile con le altre cose, esista. Poiché la ratio exi-  atendi a preferenza di tutti gli altri possibili, non deve  essere limitata da altra ragione, se non da quella che non  tutte le cose sono conciliabili fra di loro. L' unica ragione  determinante è dunque ut exislant / totiora , quae plurimum  involvant realitatis.   (Ii'rammonto del 1070, C. 530).   Vi è una ragione in natura per cui esiste qualche cosa  piuttosto che nulla. Ciò è una conseguenza del grande prin-  cipio che nulla avviene senza una ragione, così come deve  esservi anche una ragione per cui esista una cosa piut-  tosto che un' altra. Tale ragione deve essere in qualche ente reale o causa.  Infatti la causa non è altro che una realis ratio , e le ve-  rità di possibilità e di necessità (cioè di cui viene negata  la possibilità del contrario) non produrrebbero nulla se  le possibilità non si fondassero su qualche cosa di attual-  mente esistente.   Questo ente poi dovrà essere necessario: altrimenti si  dovrebbe ricercare di nuovo (contro l' ipotesi), di là da  esso, una causa per cui esso esista piuttosto che no. Quel-  l'ente è insomma l'ultima ragione delle cose, e in una  parola lo si suole chiamare Dio.   Vi è dunque una ragione per cui 1 esistenza debba pre-  valere sulla non-esistenza. e cioè Ens necessarium est exi-  stentificans.   Ma quella causa che fa sì che qualche cosa esista, cioè che  la possibilità esiga l'esistenza, fa anche sì che ogni possi-  bile abbia una tendenza all'esistenza; poiché non si può  trovare in generale una ragione di restrizione all esistenza  dei possibili. Così si può dire che ogni jmsibile è un inizio  di esistenza ( I ) in quanto si fonda su di un ente necessario  attualmente esistente, senza il quale non vi sarebbe alcuna  via per la quale potesse possibilmente giungere ad at-  tuarsi. Ma da questo non deriva che tutti i possibili esi-  stano: ciò avverrebbe sì se tutti i possibili fossero com-  possibili.   Ma poiché vi sono alcune cose che sono incompatibili  con altre, ne segue che alcuni possibili non giungano al-  l'esistenza. E le cose possono essere incompatibili non  solo relativamente al medesimo tempo, ma anche uni-  versalmente parlando, perchè nelle cose presenti sono im-  plicite le future.   Intanto però, dal conflitto di tutti i possibili che pre-  tendono all' esistenza, deriva questo almeno, che esista    (1) Traduciamo così il termine existilurire.     quella serie di cose per la quale giunge all'esistenza il  massimo numero di cose, cioè la serie massima di tutti i  possibili. E questa serie unica è determinata, così come  tra le linee è determinata la retta, tra gli angoli l'angolo  retto, tra le figure e i solidi quelle di massima capacità,  cioè il circolo e la sfera. E come vediamo che i liquidi si  raccolgono spontaneamente in gocce sferiche, così nel-  l' universo esiste la serie di massima capacità.   Esiste dunque la massima perfezione; e non consiste se  non nella quantità di realtà.   Inoltre la perfezione non si deve soltanto ravvisare nella  materia, cioè in ciò che riempie il tempo e lo spazio, la  cui quantità sarebbe sempre costante in qualsiasi modo,  ma nella forma o varietà.   Ne consegue che la materia non è ovunque simile a sè  stessa, ma viene resa dissimile dalle forme; altrimenti non  otterrebbe tanta varietà quanta . le è possibile....   Ne consegue anche che ha prevalso quella serie dalla  quale derivava il massimo di pensabilità distinta.   E la pensabilità distinta dà ordine alla cosa e bellezza  a chi pensa. L 'ordine, non è altro infatti che relalio plu-  rium dislinctiva, e confusione si ha quando sono presenti  bensì più cose, ma non vi è un criterio por distinguere  l una dall'altra.   Cade così il concetto eli atomo e in generale di qual-  siasi corpo in cui non vi sia un criterio di distinzione  di una parte dall'altra.   E ne deriva universalmente che il mondo è un y.óapoc.  un organismo armonico, cioè fatto in modo da soddisfare  massimamente chi comprenda.   Il piacere di chi comprende (voluptas intelligentis ) non è  altro infatti che la percezione della bellezza, dell' ordine,  della perfezione; e ogni dolore contiene qualche cosa di  disordinato, ma solo riguardo a chi lo percepisce, perchè,  assolutamente parlando, tutto è ordinato. Così, quando alcunché ci dispiace nella serie delle cose,  ciò deriva da un difetto di comprensione. Infatti non è  possibile che ciascuno spirito comprenda tutto distinta-  mente; e a chi osservi solamente alcune parti piuttosto  che altre, 1’ armonia non può apparire nel suo complesso.   Consegue da ciò che nell'universo è osservata anche la  giustizia, non essendo la giustizia altro che un ordine o  perfezione riguardo agli spiriti.   (Frammento, G. VII, 289-90).   Necessità e libertà. - Anche questo criterio di perfezione,  di bontà, di armonia è, aqalogamente alle verità di ragione,  assoluto, oggettivo, a sè stante, indipendente dalla volontà di  Dio, imposto dalla necessità delle cose. Dio sceglie il migliore:  ma non avrebbe potuto scegliere altrimenti. Siamo qui in  presenza della celebre questione della conciliazione fra neces-  sità e libertà-, la quale riguarda solo da lato il nostro argomento,  e rientra piuttosto nel problema della Teodicea. Anche a que-  sto proposito Leibniz si oppone a Cartesio.   Contro coloro che sostengono che non vi è bontà nelle opere di Dio  o che le regole della bontà e della bellezza sono arbitrarie.   Io sono molto lontano dall'opinione di coloro che so-  stengona che non vi siano affatto regole di bontà e di  perfezione nella natura delle cose, o nelle idee che Dio ne  ha; e che le opere di Dio non siano buone se non por la  ragione formale che Dio le ha fatte. Poiché, se ciò fosse, Dio,  sapendo che egli ne è l'autore, non avrebbe avuto ragione  di guardarle in seguito e trovarle buone, come testimonia  la Sacra Scrittura (1), la quale non pare si sia servita di  questo linguaggio umano, se non per mostrarci che la loro  eccellenza si riconosce a guardarle in se stesse, anche  se non si fanno riflessioni su questa semplice denomina-  zione esteriore, che le riattacca alla loro causa. E ciò è    (I) Leibniz allude qui al racconto del Co p. I della Genesi , in cui a cia-  scun atto della creazione seeue la frase: «E Dio vide che ciò era buono». tanto più vero, in quanto proprio attraverso la considera-  zione delle opere si può valutare chi le ha operate. Bi-  sogna dunque che queste opere portino in sè il suo carattere.  Confesso che l'opinione contraria mi sembra estremamente  pericolosa e molto vicina a quella degli ultimi novatori (1),  i quali ritengono che la bellezza dell' universo e la bontà  che noi attribuiamo alle opere di Dio non siano se non  chimere degli uomini che concepiscono Dio a modo loro.  Cosi, dicendo che le cose non sono buone per nessuna  regola di bontà, ma per la sola volontà di Dio, si distrugge,  mi semina, senza pensarci, tutto l'amore di Dio e la sua  gloria. Infatti, perchè lodarlo di ciò che egli ha fatto, se  egli sarebbe ugualmente lodevole facendo tutto il con-  trario? Dove sarà dunque la sua giustizia e la sua sag-  gezza, se non rimane che un certo potere dispotico, se la  volontà tiene il posto della ragione e se, secondo la defi-  nizione dei tiranni, ciò che piace al più potente è, ap-  punto per ciò, giusto? Inoltre sembra che ogni volontà  supponga qualche ragione di volere, e che questa ragione  sia naturalmente anteriore alla volontà. È per questo che  io trovo anche molto strana l’espressione di altri filosofi (2),  i quali dicono che le verità eterne della metafisica e della  geometria, e conseguentemente anche le regole della bontà,  della giustizia e della perfezione non sono che effetti della  volontà di Dio, mentre mi sembra che esse non siano che  conseguenze del suo intelletto, il quale non dipende affatto  dalla sua volontà, così come non ne dipende la sua essenza.   Contro coloro che credono che Dio avrebbe potuto far meglio.   Non posso neppure approvare l’ opinione di alcuni moderni (’.i) i quali sostengono arditamente che quello che Dio   (1) Allude agli spinozisti (cfr. l’ed. cit. del Ijestibnnk). I/opinione che  Lei lini/, ha della dottrina di Spinoza, è per molti aspetti errata e turbata  da preconcetti.   (2) Cartesio (cfr. ibid.).   (3) Gli scolastici del suo tempo (efr. ibid.). fa. non è l’assoluta perfezione, e che egli avrebbe potuto  agire assai meglio. Poiché mi semina che le conseguenze  eli questa concezione siano assolutamente contrarie alla  gloria di Dio. Ufi minus malum habet ratiouem boni, ita  mimi* bomttn habet rationem mali. E si chiama agire im-  perfettamente, agire con minor perfezione di quello che  si sarebbe potuto. E trovare a ridire sull' opera di un ar-  chitetto il mostrare che egli avrebbe potuto farla meglio....   Questi moderni credono anche di provvedere così alla  libertà di Dio; come se non fosse la piìi alta libertà quolla  di agire in perfezione seguendo la ragione sovrana. Poiché  credere che Dio agisca in qualche cosa senza aver alcuna  ragione della sua volontà, oltre che apparire impossibile, è  opinione poco conforme alla sua gloria. Per esempio, suppo-  niamo che Dio scelga fra A e li. e che egli prenda A senza  avere alcuna ragione di preferirlo a B: io dico che questa  azione di Dio, per lo meno, non sarebbe affatto lodevole;  poiché ogni lode deve essere fondata su qualche ragione  che non si trovi già ex hypothesi . Ritengo invece che Dio  non faccia nulla per cui non meriti di essere glorificato.   ( Discours de métaphysique, 108G, §§. Il, III).   I l criterio della, bontà e del «migliore», non è dunque con-  seguenza della volontà divina: è piuttosto la volontà divina  che si ispira a questo criterio, il «piale ha una validità ogget-  tiva a sé stante, altrettanto come le verità di ragione. L'azione  di Dio è da un lato circoscritta dai limiti della possibilitòj  dati dal principio di non contradizione, nell’ambito del «piale  essa si devo svolgere: dall’altro lato è determinata da epiesto  finalismo, da questo principio del « migliore », della bontà,  che costituisce l’oggetto necessario della sua scelta. D'ambo i  lati dunque, essa si trova determinata: e questa determina-  zione costituisce la legge stessa «Iella sua perfezione.   Necessità nelle verità di ragione, dunque, poiché i principi  di esse sono inderogabili, tali che non potrebbero venir con-  cepiti diversi da «piel che sono; necessità anche nelle verità  di fatto, in quanto la loro ragion sufficiente non può non essere  il principio della suprema perfezione e bontà. Ma queste due forine «li necessità onde consta l' intelletto e la volontà divina,  quindi tutte le cose del mondo, non sono identiche fra di  loro: se lo fossero, cesserebbe, si può dire, ogni distinzione  fra verità di ragione e di fatto, e le une discenderebbero dai  medesimi principi che le altre, si baserebbero sulle medesime  leggi. La necessità di fatto ha invece caratteristiche sue proprie.  Essa non implica quella impossibilità «lei contrario che è es-  senziale caratteristica della necessità di ragione.   La necessità morale. - La necessità di ragione è una legge  regolativa dell’ intelletto divino. La necessità di fatto e la  ragion sufficiente che determina la volontà di Dio: e questa  ragione è necessitante sì, ma non in modo che il contrario  sarebbe impossibile. Questo secondo tipo di necessità, Leibniz  lo distingue a volte dalla necessità di ragione col chiamarlo  motivo inclinante (contrapposto a necessitante), necessità inorale.    Bisogna distinguere tra necessità assoluta e necessità  ipotetica. Bisogna pure distinguere fra una necessità che  ha luogo perchè l’opposto implica contradizione, e che vien  chiamata logica, metafisica, o matematica, ed una neces-  sità olio è morale , che fa sì che il saggio scelga il migliore,  e che ogni spirito segua l' inclinazione più grande.   La necessità ipotetica è quella che viene imposta ai  futuri contingenti dalla supposizione o ipotesi della pre-  visione e preordinazione da parte di Dio....   ....11 bene, sia vero sia apparente, in una parola il motivo,  inclina senza necessitare, senza imporre cioè una necessità  assoluta. Infatti, quando Dio, per esempio, sceglie il mi-  gliore, ciò che egli non sceglie e che è inferiore quanto a  perfezione, non cessa di essere possibile. Ma se ciò che  Dio sceglie fosse necessario, ogni altra scelta sarebbe im-  possibile, contro T ipotesi; poiché Dio sceglie tra i pos-  sibili, cioè fra vari partiti, dei quali nessuno implica con-  tradizione.   Ma dire che Dio non può scegliere se non il migliore,  e volerne inferire che ciò che egli non sceglie è impossibile, è confondere i termini, la potenza e la volontà, la neces-  sità metafisica e la necessità morale, le essenze e le esi-  stenze. Giacché ciò che è necessario, lo è per la sua  essenza, poiché l'opposto implica contradizione; ma il con-  tingente che esiste deve la sua esistenza al principio del  migliore, ragione sufficiente delle cose. Ed è per questo  che io dico che i motivi inclinano senza necessitare; e che  vi è ima certezza e ima infallibilità, ma non una necessità  assoluta nelle cose contingenti.   Ed ho mostrato a sufficienza nella mia Teodicea che  questa necessità morale è felice, conforme alla perfezione  divina, conforme al gran principio delle esistenze, che è  quello del bisogno di una ragione sufficiente; mentre la  necessità assoluta e metafisica dipende dall' altro grande  principio dei nostri ragionamenti, che è quello delle es-  senze, cioè quello dell’ identità o della contradizione; poiché  quello che è assolutamente necessario è l’unico possibile  fra i vari partiti, e il suo contrario implica contradizione.   (Polemica con Clarke).   Bisogna distinguere tra il necessario e il contingente,  quantunque determinato. E non solo le verità contingenti  non sono punto necessarie, ma anche i loro legami non sono  sempre di necessità assoluta, poiché bisogna riconoscere  che vi è differenza, nel modo di determinare, fra le con-  seguenze che hanno luogo in materia necessaria e quelle  che hanno luogo in materia contingente. Le conseguenze  geometriche e metafìsiche necessitano, ma le conseguenze  fìsiche e morali inclinano senza necessitare; avendo il fi-  sico stesso in sé qualche cosa di morale e di volontario  rispetto a Dio, poiché le leggi del movimento non hanno  altra necèssità che quella del migliore. Ora Dio sceglie libe-  ramente, benché egli sia determinato a scegliere il meglio.  E, poiché i corpi stessi non scelgono (avendo Dio scelto  per essi), 1’ uso ha voluto che fossero chiamati agenti  necessari ; denominazione cui non mi oppongo, purché non  si confonda il necessario col determinato, e non si vada  ad immaginare che gli esseri liberi agiscano in una ma-  niera indeterminata: errore, questo, che ha prevalso in al-  cuni spiriti e che distrugge le più importanti verità, ed  anche l'assioma fondamentale che nulla accade senza ra-  gione; assioma senza il quale nè l' esistenza di Dio, nè  altre grandi verità potrebbero essere ben dimostrate.   (Nuovi Saggi).   Su questo argomento della necessità e libertà, come su mol-  tissimi altri con questo comiessi (origine del male e sua giu-  stificazione nel mondo, libero arbitrio, responsabilità etc.) si  imperniano molteplici problemi, riguardanti un altro aspetto  del pensiero leibniziano, che non dobbiamo qui esaminare:  ([nello della Teodicea. Verità di ragione e di fatto sono dunque ciò di cui è costi-  tuita là realtà. Le une assolute, necessarie, imi versali, ma di  una universalità astratta, che ha luogo solo nel mondo ideale  delle possibilità, delle essenze. Le altre concrete, tangibili, esi-  stenti, ma insieme contingenti, individuali, tali che la loro  esistenza non può venire ilimostrata a priori, nè discendere  matematicamente da alcuna forma inerente alla costituzione  del reale. La necessità morale, basata sul principio ili ragione  e finalistico, non elimina, come si è visto, la contingenza:  non dà quella assoluta certezza clic appartiene alle verità di  ragione e deriva dall’ impossibilità del contrario.   Il problema di Leibniz è ora la ricerca di una universalità  anche nel campo del contingente; o, in altri termini, la ridu-  zione del principio di ragion sufficiente a una linea altrettanto  fissa e immutabile che quella del principio di non contradi-  zione. La sostanza individuale sarà la soluzione di questo pro-  blema: e con essa Leibniz raggiungerà a suo modo, e sempre  nell’ambito della sua concezione oggettivistica della realtà, una  sintesi di universale e individuale.   La carattkkistica. - Miraggio di Leibniz è ili ottenere una  certezza matematica in tutte le cose conosciute, in modo ila  eliminare tutto ciò che si fonila sull'opinione, e di ridurre ogni  ragionamento a un calcolo. È questo il fondamento di quella  Scienza generale, Caratteristica, Ars inveniendi di cui egli va-  gheggia 1 idea, a partire dal suo primo scritto del 1666 sul-  V Arte Combinatoria, fino alla fine della sua vita. Posso dire senza vanità che, tra i miei contemporanei,  sono uno di quelli che pili ha approfondito la scienza ma-  tematica; ed ho scoperto metodi e procedimenti comple-  tamente nuovi, che portano questa scienza di là dai limiti  che le erano stati prescritti.   1 saggi che ne ho dati hanno avuto successo in Francia  ed in Inghilterra: e mi sarebbe facile darne ancora molti  altri ; ma io non faccio gran caso delle scoperte particolari,  e ciò che desidero maggiormente è di perfezionare l’arte  d’ inventare in generale, e di dare piuttosto metodi che  soluzioni di problemi; poiché un solo metodo comprende  un’ infinità di soluzioni....   E poiché ho avuto la fortuna di perfezionare considere-  volmente l'arte d' inventare o analisi dei matematici, ho  cominciato ad avere certe concezioni nuovissime, per ri-  durre tutti i ragionamenti umani ad una specie di calcolo  che servirebbe a scoprire la verità, nei limiti ili ciò che è  possibile ex datis , posto cioè quel che ci è dato o conosciuto.  E quando le conoscenze date non bastano a risolvere la que-  stione proposta, questo metodo servirebbe, come nelle ma-  tematiche, ad accostarsi il più possibile alla soluzione e a  determinare esattamente ciò che è pili probabile.   Un tale calcolo generale formerebbe nello stesso tempo  una specie di scrittura universale che avrebbe i medesimi  vantaggi che quella dei cinesi, perchè ciascuno la potrebbe  intendere nella sua lingua. Ma supererebbe infinitamente  la cinese in quanto la si potrebbe imparare in poche set-  timane, avendo essa caratteri ben collegati secondo 1 or-  dine e la connessione delle cose; mentre i cinesi hanno  una infinità di caratteri secondo la varietà delle cose, e  occorre la vita di un uomo per imparar tiene la loro scrit-  tura (1).    (1) I caratteri cinesi si avvicinerebbero, secondo Leibniz, a quelli della  sua caratteristica, in quanto rappresentano, così come i geroglifici egiziani,  non le lettere di cui ciascuna parola ó forniate, ma l'oggetto stesso che essa    Questa scrittura o lingua (se si rendessero enunciabili i  caratteri) potrebbe essere presto accolta nel mondo, per-  chè la si potrebbe imparare in poche settimane, e forni-  rebbe un mezzo generale di comunicazione: il che sarebbe  di glande importanza per la diffusione della fede e per  1 istruzione dei popoli lontani.   Ma questo sarebbe il minore dei suoi vantaggi; giacche  questa medesima scrittura sarebbe una specie di algebra  geneiale, e darebbe modo di ragionare calcolando, sicché,  invece di discutere, si potrebbe dire: contiamo. E si tro-  verebbe che gli errori di ragionamento non sono che errori  di calcolo, riconoscibili mediante prove, come nell’ arit-  metica.   Gli uomini avrebbero così un giudice delle controversie  veramente infallibile. Poiché potrebbero sempre sapere se  è possibile decidere la questione j>er mezzo delle conoscenze  che essi posseggono già, e quando non fosse possibile  soddisfarsi intieramente, potrebbero sempre determinare  ciò che è più verosimile....   J ci giungere dunque a questa scrittura o caratteristica,  che contiene un calcolo così sorprendente, bisogna cercare  le definizioni esatte dei concetti. Poiché infatti le nostre  parole sono assai oscure e non ci dà imo spesso che nozioni  confuse, si è obbligati a sostituire ad esse altri caratteri,  la cui nozione sia precisa e determinata; ora le definizioni  non sono se non un'espressione distinta dell’ idea della  cosa.   E avendo io studiato con cura non solamente la storia  e le matematiche, ma anche la teologia naturale, la giu-  risprudenza e la filosofia, ho portato molto avanti questo  progetto, e mi sono fatto una quantità di definizioni. Per    rappresenta. Differiscono però dai geroglifici inquanto «sono forse più filo-  ne;. e sembrano fondati su considerazioni più intellettuali, come quelle  chedànno i numeri, l’ordine, le relazioni ». (Lettera inedita citata in J. Bakuzi,  Leibniz et l' organisation reXigieuse de la terre, Paris, 1907, pp. 82-3).  esempio la definizione della giustizia per me è la seguente :  La giustizia è la carità del saggio, o una carità conforme  alla saggezza. La carità non è altro clxe la benevolenza  generale; la saggezza è la scienza della felicità, la felicità  è lo stato di gioia durevole, la gioia è un sentimento di  perfezione, la perfezione è il grado di realtà.   Penso di poter dare definizioni analoghe di tutte le pas-  sioni. virtù, vizi e azioni umane, quanto ve ne è bisogno.  E con questo mezzo si potrà parlare e ragionare con esat-  tezza. E siccome i nuovi caratteri comprenderanno sempre  le definizioni delle cose, ne segue che essi ci daranno modo  di ragionare calcolando, come ho appunto detto sopra.   Ma per portare a termine un progetto di tanta impor-  tanza. il quale fornirebbe al genere umano una specie di  strumento così adatto a perfezionare la vista dello spirito  come gli occhiali servono a quella del corpo, occorrerà  molta meditazione ed un poco di assistenza.   (Lettera al Duca <li Hannover, 1 ti86 ( I ), il. Vii, 25-27).   È principalmente per attuare questo vastissimo progetto  che Leibniz propugnò durante tutta la sua vita la fondazione  di società di scienziati ed accademie. Il progetto rimase sem-  pre inattuato. Ma è interessante lo sviluppo che gli studi com-  piuti per esso dettero al pensiero di Leibniz. 11 metodo per  raggiungere quegli elementi semplici o « caratteri " dalla cui  composizione derivano tutti gli oggetti della conoscenza uma-  na, è un metodo di scomposizione delle idee che troviamo di  fronte a noi già composte, partendo dalle loro definizioni (2).    (1) Data comunicatami dal prof. Ritter.   (2) Ecco la primitiva formulazione di questo metodo nella giovanile  Arte Combinatoria:    i L'analisi avviene nel modo seguente: Dato un qualsiasi termine, lo si ri-  solva nei suoi elementi formali, cioè se ne ponea la definizione; questi clementi  si risolvano di nuovo in elementi, cioè si ponga la definizione dei termini della  definizione stessa, fino agli elementi semplici o termini indefinibili; poiché  „ non di tutte lo cose si deve ricercare la definizione » (*). E questi ultimi    (*) In greco nel testo: citazione da Aristotele. Con tale metodo sarà possibile qualsiasi dimostrazione. Co-  nosciuta, infatti, 1 intima costituzione di ciascun concetto, si  potrà sempre stabilire in qualsiasi proposizione se il predicato  rientri nel soggetto, abbia cioè con esso in comune i suoi ele-  menti costitutivi.   Di qualsiasi cosa, nulla ci può essere dimostrato, nep-  pure da un angelo, finché noi non conosciamo i termini  costitutivi (requisita) di essa. Infatti in ogni verità tutti  i termini costitutivi del predicato sono compresi fra i ter-  mini costitutivi del soggetto, e i termini dell’effetto ricer-  cato comprendono i mezzi che sono stati necessari per  produrlo.   (Initia et specimina scientiae generali 8, G. VII, 62).   termini non si comprendono più per definizione, ma per analogia (** (***) ). Tro-  vati tutti questi primi termini, si pongano in una classe, e si indichino con  segni qualsiasi; il più comodo sarà numerarli. Fra i termini primi si pon-  gano non solo lo cose ma anche i modi o rapporti (**•). Poiché i termini  composti variano in distanza dai termini primi, a seconda del numero di  termini primi di cui si compongono - cioè a seconda dell’esponente della  combinazione, - si facciano tante classi, quanti sono gli esponenti, e in cia-  scuna classe si pongano i termini che constano di un ugual numero di ter-  mini primi. I termini sorti da una combinazione di due non si potranno  indicare altrimenti che scrivendo i termini primi di cui si compongono; c  poiché i termini primi sono indicati da numeri, si scrivano due numeri che  indichino i due termini. Ma i termini derivati da una combinazione di tre  o anche da una combinazione di maggior esponente - cioè quelli che sono  nella classe terza e seguenti - si possono indicare ciascuno in tanti modi  diversi quanto sono le combinazioni che compongono il suo esponente, con-  siderato non più come esponente, ma come numero Per esempio, siano   alcuni termini primi indicati dai numeri 3, 6, 7, 9; sia un termine com-  posto della classe terza, cioè formato da una combinazione di tre, p. es.  dai tre termini semplici 3, 6, 9; e siano nella seconda classe le seguenti  combinazioni: I.°) 3.6; 2.<>) 3.7; 3.°) 3.9; 4.°) 6.7; 5.®) 6.9; fi») 7.9. Pico  che quel dato termine della classe terza si può scrivere o cosi : 3. 0. 9,    (**) Per « analogia» Leibniz intende un modo di apprensione più imme-  diato e diretto che non sia il processo logico definitorio; per esempio un’ im-  magine sensibile. Altrove egli dice che i termini semplici si apprendono coi  sensi.   (***) Questo significa che i termini semplici non si devono intendere so-  lamente come dati concreti, di fatto, sensibili, ma comprendono anche dati  astratti, relazioni ecc. Quale sia la vera natura di questi termini semplici  o molto poco chiaro, o Leibniz si ò espresso in proposito sempre in modo  vago e impreciso.  Criterio della  verità è dunque che il predicato rientri nell'ambito del sog-  getto; e questo rientrare è perfettamente calcolabile. Ma tale  criterio vale solamente per le verità di ragione ohe sono ana-  litiche. In esse sole il predicato è già contenuto nel soggetto,  poiché solo in esse tutto ciò che si afferma (predica) a propo-  sito di una cosa deve essere già nella cosa stessa. Se io dico  che gli angoli di un triangolo sono uguali a due retti, non faccio  altro che mettere in rilievo, nel concetto di triangolo, una qua-  lità già implicita in esso. Il predicato (essere uguali a duo retti)  fa parte già a priori del soggetto (angoli di un triangolo). Ma  posso io affermare che nel concetto di GIULIO (si veda) Cesare, per  esempio, sia già contenuta, a priori, l’azione di passare il  Rubicone? La proposizione: Cesare passò il Rubicone, non  è analitica, il suo predicato cioè non è già compreso nel sog-   esprimendo tutti i suoi termini semplici; oppure esprimendo un semplice o,  in luogo degli altri duo semplici, la loro combinazione, p. es. così ; 1 /2 -9 op-  pure 8/2 . 6, oppure 5 / 2 .3... Ogni qualvolta un tonnine composto viene usato  fuori della sua classe, lo si scrive sotto forma di una frazione il cui numero  superiore o numeratore è il numero d’ordine nella classe, e quello inferiore  o denominatore il numero della classe. (*) È più comodo, nell’ indicare i ter-  mini oomposti, di non scrivere tutti i termini primi, ma gli intermedi, per  diminuirne il gran numero, e fra questi intermedi di scegliere quelli che più  facilmente vengono in mente a chi consideri quella determinata cosa. Ma  sarebbe più rigoroso scrivere tutti i termini primi. Stabiliti questi principi,  si possono trovare tutti i soggetti 0 i predicati, sia affermativi sia negutivi,  sia universali sia particolari. I predicati di un soggetto dato sono infatti 1  suoi termini primi; così pure tutti i termini composti più vicini di esso ai  primi, i termini primi dei quali sono compresi nel soggetto dato. Se dunque  il termino dato che viene considerato come soggetto è scritto in funzione  dei suoi termini primi, sarà facile trovare quei primi che di esso si predicano,  o si potranno anche trovare i composti che di esso si predicano, se si conser-  verà l’ordine nel formare le combinazioni. Se invece il termine dato è indi-  cato corno una composizione di composti, o in parte di composti, in parte  di semplici, tutto ciò che si può predicare dei composti che lo compongono  si può predicare anche del termine dato (**).... In tal modo sara facile inda-  gare per mezzo del calcolo tutto ciò che si può predicare di qualsiasi soggetto  dato ».   (ARS COMBINATORIA).   (*) P. es. 5/2 . 3 significa la combinazione del termine semplice 3 col ter-  mine composto che ha il quinto posto nella seconda classe; e cioò, secondo  la lista indicata sopra, con 6.9. La notazione 5 /2 - 3 indica dunque il termine  composto 3.6.9.   (**) Questo ò, in sostanza, lo schema dol procedimento sillogistico, in cui  «iò che si predica del termine più generale si può predicare anche del parti-  colare in esso contenuto. getto, ma vi viene aggiunto per esperienza diretta, contin-  gente. Questa proposizione appartiene alle verità di fatto.   Ora, sarà possibile una dimostrazione rigoros.a in questo  campo, se ogni dimostrazione è, come si è visto, un semplice  calcolo per stabilire che i termini componenti il predicato  fanno parte del complesso dei termini componenti il soggetto?  Leibniz dice a volte c he la dimo strazione, quanto alle propo-  sizioni di fatto, da solo IìT probabilità e non la certezza. Ma egli  tenta anche di fondare in modo più rigoroso la sistemazione  logica di queste verità, e di far rientrare anche esse nella re-  gola del predicato contenuto nel soggetto. A tale scopo egli  si serve del principio di causalità, cui sottostanno tutte le  verità di fatto. « I termini dell effetto ricercato - si è visto -  comprendono i mezzi necessari a produrlo»; l'effetto, cioè, com-  prende già nella sua nozione tutte le cause che 1 hanno deter-  minato. E, reciprocamente, potremo dire che la nozione della  causa racchiude in sè già implicitamente tutti gli effetti cui  darà luogo. Ora, poiché ogni dato di fatto appartiene alla  serie delle cause e degli effetti, ed è insieme effetto e causa,  si può affermare che ogni nozione individuale contiene in se  le nozioni delle cause che 1 hanno prodotta e degli effetti cui  darà luogo; e questa causa e questi effetti a loro volta- con-  terranno le loro cause e i loro effetti, e così via, lino alla causa  prima del tutto e causa di sè, cioè Dio; sicché ciascun singolo  dato e collegato, attraverso tali rapporti causali, con tutto  l’universo.   La conoscenza di tutti questi infiniti nessi causali è su-  periore alle forzi* dell ingegno umano, il quale perciò si  contenta di ricorrere alFesperienza del dato di fatto, rinun-  ciando a dedurlo dalle sue cause; sarebbe però, in linea di  principio, possibile.   Le proposizioni certe per sè stesse sono di due tipi; le  ime hanno la loro validità nella ragione — e cioè nel con-  tenuto dei loro termini e io le chiamo « note per sè stesse »   o anche « identiche »; le altre sono di f'atdoT e ci sì ma-  nifestano attraverso esperienze indubitabili; e tali sono  anche le testimonianze immediate della coscienza. Ma vera-  mente anche le proposizioni di fatto hanno le loro ragioni,  e perciò potrebbero essere risolte nella propria costiti!-    II. zione: ma noi non potremmo conoscerle a priori attra-  verso le loro cause, se non conoscendo la totalità del-  l'universo (cognita tota serie renivi) : il che supera la forza  dell' intelletto umano. Perciò le apprendiamo a posteriori,  sperimentalmente. Ma poiché spesso dobbiamo agire ri-  guardo a cose per le quali manchiamo di una sicura scienza,  è preferibile che almeno sappiamo di sicuro che una certa  proposizione è probabile.   ( Praecoynita <id Encyclopatdiam).   L’apprensione per via sperimentale e il metodo della pro-  babilità derivano dalla imperfezione della conoscenza umana.  In linea di principio, anche di qualsiasi verità di fatto si può  avere una nozione analitica, a priori, tale che contenga in sè  già sviluppati tutti i predicati, cioè tutti gli effetti e le cause.   Il segno di una conoscenza perfetta si ha quando non  c'è nulla della cosa trattata di cui non si possa render  ragione, e non vi sia nessun avvenimento di cui non si  possa predile l'avverarsi.   (Frammento De la Hagense, G.VIJ, S3).   Ora, tale conoscenza a priori dei contingenti, se è impossi-  bile alla mente umana, non è impossibile a Dio che li ha scelti  e li ha messi in atto.   Di qualsiasi verità si può rendere ragione; infatti la  connessione del predicato col soggetto o è evidente eli per  sè, come nelle proposizioni identiche, oppure si deve spie-  gare, il che avviene con la scomposizione dei termini. E  l'unico c massimo criterio della verità, beninteso nelle pro-  posizioni astratte e non derivanti dall' esperienza, è di ri-  solversi nell' identità (ut sit rei identica vel ad identicas  revoca bilia). Di qui si possono dedurre gli elementi della  eterna verità e il metodo in ogni problema, purché si sap-  (1) Oioè potrebbero essere considerate come analitiche.  pia procedere in modo altrettanto dimostrativo che nella  geometria. Così, tutto viene compreso da Dio a priori e  al modo delle verità eterne; poiché egli non ha bisogno  di esperienza, ed ogni cosa viene conosciuta da lui in  modo adeguato, mentre da parte nostra quasi nessuna  cosa è conosciuta adeguatamente, poche a priori, e le più  per via sperimentale. E per quest'ultimo modo di cono-  scenza si devono usare altri principi ed altri criteri.   (Ve Synthesi et Analysi universali, G. VII, 295-296).   Qualsiasi cosa creata, dunque, nella sua considerazione a  priori, così come è nella mente di Dio, contiene in sè come  predicati tutti gli altri contingenti che sono stati o saranno  in una qualsiasi connessione causale con essa: in una parola,  tutto il suo passato e tutto il suo avvenire. Ciò che erano i  termini semplici nella costituzione dei concetti di ragione, sono,  nelle verità di fatto, questa serie di cause e di effetti.   Intesa ciascuna verità di fatto in questo modo, come sog-  getto di infiniti predicati, Leibniz la chiama sostanza indivi-  duale: essa racchiude in sè, quando sia intesa in tutta la sua  comprensione, con gli infiniti suoi collegamenti, tutto l'uni-  verso .   Per distinguere le azioni di Dio e delle creature, viene spiegato  in che consista il concetto di sostanza individuale.    Poiché le azioni e le passioni appartengono propria-  mente alle sostanze individuali (actiones sunt mppo-  sitorum), sarebbe necessario spiegare che cosa sia u mutale  sostanza.   E pur vero che quando si attribuiscono piìi predicati  ad un medesimo soggetto, e questo soggetto non si attri-  buisce come predicato a nessun altro, lo si chiama so-  stanza individuale: ma ciò non è sufficiente, ed una tale  spiegazione non è che nominale. Bisogna dunque conside-  rare che cosa significhi l'essere attribuito veramente ad  un certo soggetto. Ora è evidente che ogni vera predicazione ha qualche  fondamento nella natura delle cose, e quando una propo-  sizione non è identica, quando cioè il predicato non è  compreso espressamente nel soggetto, Insogna che vi sia  compreso virtualmente (1) : ed è ciò che i filosofi chiamano  in-esse, dicendo che il predicato è nel soggetto. Così oc-  corre che il termine del soggetto comprenda sempre quello  del predicato, in modo che colui che intendesse perfetta-  mente la nozione del soggetto, giudicherebbe anche che il  predicato gli appartiene.   Posto ciò, possiamo dire che la natura di una sostanza  individuale o di un essere completo è che la sua nozione  sia così compiuta, da bastare a comprendere e a farne  dedurre tutti i predicati del soggetto cui questa nozione  si attribuisce. Mentre l’accidente è un essere la cui no-  zione non comprende affatto tutto ciò che si può atti i-  buire al soggetto al quale si attribuisce questa nozione.  Così la qualità di re che appartiene ad Alessandro Magno,  facendo astrazione dal soggetto, non è abbastanza deter-  minata ad un individuo, e non comprende affatto le altre  qualità del medesimo soggetto, nè tutto ciò che è com-  preso nella nozione di quel principe; mentre Dio, vedendo  la nozione individuale o /«eccetto* d Alessandro, vi vede  nello stesso tempo il fondamento e la ragione di tutti i  predicati che gli si possono veramente attribuire, come  per esempio che egli vincerà Dario e Poro, fino a cono-  scervi a priori (e non per esperienza) se egli sia morto di  morte naturale o per* veleno; cose che noi non possiamo  sapere se non dalla storia. Inoltre, quando si consideri bene  la connessione delle cose, si può dire che vi sono da ogni  tempo nell’ anima di Alessandro resti di tutto ciò che gli e    (1) Cioè, nelle proposizioni identiche (analitiche) il predicato è contenuto  nel soggetto per la conformazione del soggetto stesso (espressamente). Nelle  proposizioni di fatto, invoee.il predicato è contenuto nel soggetto in quanto  collegato ad esso da una relazione di causa ad effetto (virtualmente). accaduto, e segni di tutto ciò che gli accadrà, perfino  tracce di tutto ciò che accade nell’universo; benché non  appartenga che a Dio di riconoscerle tutte.   ( Discours de métaphysiqtu:, 1080, § Vili).   A questa stregua possiamo dire che l’atto di passare il Ru-  bicone non si aggiunge alla nozione di Cesare come qualche  cosa di nuovo, di contingente, d’imprevisto. Cesare, per chi in-  tenda, questa nozione in tutti i suoi collegamenti, contiene in  sè già a priori tutto lo sviluppo della sua personalità, compreso  l'atto di passare il Rubicone: il quale, quando si attuerà, non  sarà che la conseguenza necessaria delle cause che 1" hanno  prodotto, quindi lo sviluppo ili ciò che era già contenuto  in esse.   Libertà e causalità. - Sorge qui di nuovo, analogamente  a ciò che si è visto poc’anzi a proposito della determinazione  di Dio a scegliere il «migliore», il problema della libertà. Se  ogni fatto contingento è presente nella mente di Dio, non  cesserà esso di essere contingente ? Non sarà per ciò stesso ne-  cessario, predeterminato? E non cadrà così anche qualsiasi  libertà nell azione dell uomo, la quale si svolge nel campo  delle verità di fatto? E insieme con essa, ogni responsabilità  umana nel biute e nel male? Anche a proposito di questo pro-  blema, strettamente collegato con l'altro citato, Leibniz fa una  distinzione fra connessione necessaria e inclinante.    Poiché la nozione individuale di ogni persona comprende una  volta per tutte ciò che mai le accadrà, si redono in essa le prove a  priori dell' avverarsi di ciascun avvenimento, o le ragioni per cui  è avvenuta una cosa piuttosto che un'altra ; ina queste verità, benché  sicure, nondimeno sono contingenti, in quanto fondate sul libero ar-  bitrio di Dio o delle creature, la cui scelta dipetuie sempre da ragioni  che inclinano senza necessitare.   Bisogna cercare di risolvere una grave difficoltà che può  nascere dai fondamenti che abbiamo fissato qui sopra.  Abbiamo detto che la nozione di una sostanza indivi-  duale comprende una volta per tutte tutto ciò che le può  mai accadere, e che, considerando tale nozione, vi si può vedere tutto ciò che si potrà veramente enunciare di essa,  come possiamo vedere nella natura del circolo tutte le pro-  prietà che se ne possono dedurre. Ma semi ira che venga con  ciò distrutta la differenza fra le verità contingenti e le ne-  cessarie, che non vi sia più alcuna libertà umana, e che una  fatalità assoluta venga a regnare su tutte le nostre azioni  come su tutto il resto degli avvenimenti del mondo. Al  che io rispondo che bisogna fare distinzione fra ciò che è  certo e ciò che è necessario: tutti sono d'accordo che i  futuri contingenti sono assicurati, poiché Dio li prevede;  ma non si riconosce, dicendo ciò, che siano necessari. Ma,  si dirà, se qualche conclusione si può dedurre infalli-  bilmente da una definizione o nozione, essa sarà neces-  saria. Ora. dato che noi sosteniamo che tutto ciò che deve  accadere a qualsiasi persona è già compreso virtualmente  nella sua natura o nozione, così come nella definizione del  circolo sono comprese le sue proprietà, la difficoltà sussiste  ancora. Per risolverla in modo plausibile, dico che la con-  nessione o consecuzione è di due specie : l’ una è assoluta-  mente necessaria, e il suo contrario implica contradizione  (e questo modo di deduzione ha luogo per le verità eterne,  come quelle di geometria). L’altra non è necessaria che ex  hypothesi e, per così dire, accidentalmente, ma in sè stessa  è contingente: e ha luogo quando il contrario non implica  contradizione. E questa connessione è fondata non sulle  pure idee e sul semplice intelletto di Dio, ma anche sui  suoi liberi decreti e sull'ordine dell’universo.   Veniamo ad un esempio: poiché Giulio Cesare diverrà  dittatore perpetuo e capo della repubblica, e rovescerà la  libertà dei Romani, tale azione è compresa nella sua no-  zione, poiché noi supponiamo che la natura di una tale  nozione perfetta di un soggetto sia di comprendere tutto,  affinché il predicato vi sia compreso, ut possit inesse sub-  jecto. Si potrebbe dire che non è in virtù di questa no-  zione o idea che egli deve commettere questa azione, poiché essa non gli conviene se non perchè Dio sa tutto.  Ma si insisterà che la sua natura o forma risponde a  questa nozione, e poiché Dio gli ha imposto questa parte,  gli è ormai necessario sostenerla. Io potrei rispondere invo-  cando l’analogia dei futuri contingenti, i quali non hanno  ancor nulla di reale se non nell’ intelletto e nella volontà di  Dio, e poiché Dio ha dato loro inizialmente questa forma,  bisognerà in ogni modo che vi rispondano.   Ma preferisco risolvere le difficoltà che giustificarle con  l’esempio di altre difficoltà simili; e ciò che dirò, servirà  a chiarire sia l una sia l'altra. È dunque ora il momento di  applicare la distinzione fra le connessioni; ed io dico che  ciò che accade conformemente a questi precedenti è sicuro,  ma non necessario: e se qualcheduno facesse il  contrario,  non farebbe nulla d’ impossibile in sé, quantunque sia im-  possibile (ex hypothesi) che ciò accada. Poiché, se qualche  uomo fosse capace di portare a termine tutta la dimo-  strazione in virtù della quale potrebbe provare questa con-  nessione del soggetto che è Cesare col predicato che è la  sua fortunata impresa, mostrerebbe effettivamente che la  dittatura futura di Cesare ha il suo fondamento nella sua  nozione o natura: che vi si vede una ragione per cui egli  ha deciso di passare il Rubicone piuttosto che di arrestar-  visi, e per cui egli ha vinto piuttosto che perso la gior-  nata di Farsaglia, e si vede pure che era ragionevole e  perciò sicuro che ciò sarebbe accaduto, ma non che ciò  fosse necessario in sé stesso, nè che il contrario impli-  casse contradizione. Press’ a poco come è ragionevole e si-  curo che Dio farà sempre il migliore, benché ciò che è  meno perfetto non implichi affatto contradizione.   Infatti si troverebbe che tale dimostrazione di questo pre-  dicato di Cesare non è altrettanto assoluta che quella dei  numeri o della geometria, ma che essa presuppone l’ordine  delle cose che Dio ha scelto liberamente, e che è fondato  sul primo Ubero decreto di Dio - il quale comporta di fare   sempre tutto ciò ohe è più perfetto - e sui decreto che Dio  ha fatto (in seguito al primo) riguardo alla natura umana,  cioè che l’uomo farà sempre (per quanto liberamente) ciò  che parrà il migliore. Ora ogni verità che sia fondata su  questa specie di decreti è contingente, benché sia certa;  poiché questi decreti non cambiano affatto la possibilità  delle cose e, come ho già detto, benché Dio scelga sem-  pre sicuramente il migliore, ciò non impedisce che ciò che  è meno perfetto non sia e non resti possibile in sé stesso,  sebbene non accadrà ; perchè non è la sua impossibilità,  ma la sua imperfezione che lo fa respingere. Ora nulla è  necessario, di cui sia possibile l’opposto.   Si sarà dunque in condizione di risolvere queste specie  di difficoltà, per quanto grandi appaiano (ed infatti esse  non sono mono impellenti a questo riguardo che tutte le  altre che si sono mai riferite a tale materia), purché si  consideri bene che tutte le proposizioni contingenti hanno  ragioni per essere piuttosto così che altrimenti, oppure  (ciò che è lo stesso) che esse hanno delle prove a priori  della loro verità, le quali le rendono certe e mostrano  che la connessione del soggetto e del predicato di que-  ste proposizioni ha il suo fondamento nella natura del-  l’ imo e dell'altro: ma che esse non hanno dimostrazioni  di necessità, poiché queste ragioni non sono fondate che  sul principio della contingenza o dell'esistenza delle cose,  cioè su ciò che sembra il migliore fra varie cose ugual-  mente possibili : mentre le verità necessarie sono fondate  sul principio di contradizione e sulla possibilità o impos-  sibilità delle essenze stesse, senza riguardo, in ciò, alla  volontà libera di Dio o delle creature.   ( Discour « de métti physique, 1086, §X1II).   D’altra parte, Leibniz usa anche altri argomenti per sal-  vare la libertà e la responsabilità in questa connessione causale  universale. Libertà non è sempre necessariamente un contrap-  posto di determinazione causale.  Quanto al libero arbitrio, sono dell' opinione dei tomi-  sti (1) e di altri filosofi, i quali credono che tutto sia  predeterminato: e non vedo ragione di dubitarne. Ciò però  non impedisce che noi abbiamo ima libertà esente non  solo dalla costrizione, ma anche dalla necessità: ed in ciò  la nostra situazione è analoga a quella di Dio stesso, il  quale è pure sempre determinato nelle sue azioni, poiché  non potrebbe fare a meno di scegliere il migliore. Ma se  egli non avesse da scegliere, e se ciò che egli la, fosse 1 unico  possibile, egli sarebbe sottomesso alla necessità. Piu si è  perfetti, più si è determinati al bene, ed anche più liberi  nello stesso tempo. Poiché si ha una facoltà e conoscenza  tanto pili estesa ed una volontà tanto più rinchiusa nei  limiti della perfetta ragione.   (Lettera al Bayle).   Quantunque tutti i fatti dell’universo siano ora certi in  rapporto a Dio. o (ciò che è poi lo stesso) determinati in  sé stessi ed anche legati fra di loro, non ne viene di con-  seguenza che il loro legame sia sempre di una vera ne-  cessità. cioè che la verità la quale stabilisce che un fatto  è conseguenza dell altro, sia necessaria. Ed è questo prin-  cipio che bisogna applicare particolarmente alle azioni  volontarie.   Quando ci si propone una scelta, per esempio di uscire  o di non uscire, il problema è se, con tutte le circostanze  interne od esterne, motivi, percezioni, disposizioni, impres-  sioni. passioni, inclinazioni prese insieme, io sia ancora in  istato di contingenza, o se io sia necessitato a scegliere,  per esempio, di uscire. Cioè è da domandare se la proposi-  zione vera ed effettivamente determinata: « in tutte queste  circostanze prese insieme io sceglierò di uscire », sia con- Il principio ohe il mondo sensibile sia retto dalla leggo di causalità  appartiene alla tradizione ari»toteliea, ricevuta da Leibniz attraverso la  scolastica. tingente o necessaria. A ciò io rispondo che è contingente;  perchè nè io nè alcun altro spirito più illuminato di me  potrebbe dimostrare che l'opposto di questa verità impli-  chi contradizione. E supposto che per libertà il' indiffe-  renza & intenda una libertà opposta alla necessità (come  ho or ora spiegato), io accetto tale concetto della libertà.  Poiché sono effettivamente d'opinione che la nostra libertà,  così come quella di Dio e degli spiriti beati, è esente non  solo da coazione, ma anche da una necessità assoluta;  benché essa non possa essere esente dalla determinazione  e dalla certezza.   Ma io penso che in questo argomento sia necessaria una  grande precauzione, per non cadere in una concezione chi-  merica che urta contro i principi del buon senso: la quale  sarebbe ciò che io chiamo indifferenza assoluta o di equi-  librio: concetto che taluni introducono nella libertà, e che  io ritengo chimerico. Bisogna dunque considerare che que-  sto legame di cui ho parlato, assolutamente parlando non  è punto necessario, ma che non jier questo è men vero;  e che in generale, ogni volta che. in tutte le circostanze  prese insieme, la bilancia della deliberazione è piìi carica  da una parte che dall’altra, è certo e immancabile che que-  sto partito vincerà. Dio, o il saggio perfetto, sceglieranno  sempre il migliore conosciuto, e se un partito non fosse mi-  gliore dell'altro, essi non sceglierebbero nè l'uno nè l’altro.  Nelle altre sostanze intelligenti, le passioni spesso terranno  luogo di ragione, e si potrà semine dire, riguardo alla vo-  lontà in generale, che la scelta segue la jiiù grande incli-  nazione-, nella quale io comprendo sia le passioni, sia le  ragioni vere o apparenti.   So bensì che qualcuno immagina che ci si determini  qualche volta per il partito meno carico di ragioni, che  Dio scelga qualche volta, tutto considerato, il minor bene,  e che l’ uomo scelga a volte senza motivo e contro tutte le  sue ragioni, disposizioni e passioni; insomma che si scelga a volte senza che vi sia alcuna ragione che determini la  scelta. Ma ciò, io lo ritengo falso e assurdo, poiché è uno  dei massimi principi del buon senso che nulla accada  senza causa o ragione determinante.   Così, quando Dio sceglie, lo fa secondo il criterio del mi-  gliore; quando l'uomo sceglie, sceglierà il partito che l'avrà  colpito maggiormente. E se scegliesse ciò che vede meno  utile e meno piacevole, sarà magari perchè gli è divenuto  piacevole per capriccio, per spirito di contradizione, o per  analoghe ragioni di gusto depravato; le quali però non  per questo saranno meno determinanti, anche quando non  fossero concludenti. E non si troverà mai un esempio con-  trario a ciò.   Così, quantunque noi abbiamo una libertà di indifferenza  che ci salva dalla necessità, non abbiamo mai una indif-  ferenza di equilibrio che ci esima dalle ragioni determi-  nanti. C’è sempre qualche cosa che ci inclina e ci la sce-  gliere, ma senza che ci possa necessitare. E come Dio e  sempre portato infallibilmente al migliore, per quanto non  vi sia portato necessariamente (se non per mia necessità  morale), noi siamo sempre portati infallibilmente a ciò  che ci colpisce di più, ma non necessariamente. Poiché  il contrario non implicava alcuna contradizione, non era  punto necessario nè essenziale che Dio creasse alcunché  nè che creasse particolarmente questo mondo: benché la  sua saggezza e la sua bontà ve lo abbiano indotto.   (Lettera al Coste, 1707, 6. Ili, 400-102).   Previsione e predeterminazione. - Posto ciò, è possib ile  pensare che la previsione dei predicati contingenti da parte-  di Dio non contraddica alla libertà. P reveder e non significa  predeterminare. Dio sceglie fra i possibili una serie nella quale  soiuTdpaT contenute determinate azioni col carattere di li-  bertà. Nello sceglierle, egli non le crea nè le determina: non  fa che metterle in azione, attualizzare la loro possibilità. Nel  farlo, egli vede tutta la serie, ne prevedo gli sviluppi: con ciò non ha però determinato quelle azioni, le quali mantengono,  nella serie attuale come in quella possibile, la loro caratteri-  stica di libertà.    Dio inclina la nostra anima senza necessitarla ; non si ha il diritto  di lamentarsi, e non si deve domandare perchè Giuda pecchi, ma  solamente perchè il peccatore Giuda sia ammesso all' esistenza a pre-  ferenza di altre persone possibili. Imperfezione originale prima del  peccato e gradi della grazia.   Quanto all’azione di Dio sulla volontà umana, vi sono  moltissime considerazioni assai difficili, che sarebbe lungo  esporre qui. Ciò nonostante, ecco che cosa si può dire  all' ingrosso: Dio, concorrendo ordinariamente alle nostre  azioni, non fa che seguire le leggi che egli ha stabilite;  egli conserva, cioè, e produce continuamente il nostro es-  sere, in modo che i pensieri ci arrivino spontaneamente  o liberamente nell'ordine determinato dalla nozione della  nostra sostanza individuale, nella quale essi si potevano  prevedere fin dall’eternità. In più, in virtù del suo decreto  secondo cui la volontà tende sempre al bene apparente,  esprimendo o imitando la volontà di Dio sotto certi aspetti  particolari, riguardo ai quali questo bene apparente ha  sempre qualche cosa di reale, egli determina la nostra  alla scelta di ciò che sembra il migliore, senza però ne-  cessitarla. Poiché, assolutamente parlando, essa è nell’ in-  differenza, in quanto la si oppone alla necessità, ed ha  il potere di fare altrimenti o anche di sospendere affatto  la propria azione; l'uno e l'altro partito essendo e rima-  nendo possibili.   Dipende dunque dall'anima di premunirsi contro le sor-  prese dell’apparenza, attraverso una ferma volontà di fare  riflessioni, e di non agire nè giudicare in determinate oc-  casioni, se non dopo aver maturamente deliberato, fi vero  però, ed anche è assicurato da tutta f eternità, che qualche  anima non si servirà affatto di questo potere in una tale circostanza. Ma chi ne ha colpa? può essa lagnarsi d'altri  che di sè stessa ? Poiché tutte queste lagnanze post factum  sono ingiuste, quando sarebbero state ingiuste ante factum.  Ora quest’anima, un poco prima di peccare, avrebbe mo-  tivo di lagnarsi di Dio come se egli la determinasse al  peccato? Essendo le determinazioni di Dio in questa ma-  teria imprevedibili, d’onde sa essa di essere determinata  a peccare, se non quando essa pecca già effettivamente?  Non si tratta che di non volere; e Dio non potrebbe pro-  porre condizione più agevole e piii giusta; così tutti i  giudici, senza cercare le ragioni che hanno disposto un  uomo ad avere una cattiva volontà, si fermano a consi-  derare soltanto quanto questa volontà sia cattiva. Ma forse  è fissato da tutta l’eternità che io peccherò? Rispondete  voi stessi: forse no. E senza pensare a ciò che voi non  potete conoscere e che non può darvi alcun lume, agite  seguendo il vostro dovere, che conoscete.   Ma qualche altro dirà : D onde consegue che quest'uomo  commetterà sicuramente questo peccato ? La risposta è  facile: è che altrimenti non sarebbe quest’ uomo. Poiché  Dio vede dall’eternità che vi sarà un certo Giuda la cui  nozione o idea posseduta da Dio contiene questa azione  futura libera. Non resta dunque se non questo problema:  perchè un tal Giuda, traditore, che non è se non possibile  nell’ idea di Dio, esista attualmente. Ma a tale domanda  non è da aspettare risposta quaggiù, se non che in gene-  rale si deve dire che, poiché Dio ha trovato giusto che  Giuda esistesse nonostante il peccato che egli prevedeva,  bisogna che questo male si compensi ad usura nell - universo,    che Dio ne tragga un bene maggiore, e che insomma questo  ordine di cose, nel quale l'esistenza di tale peccatore è com-  presa, sia il più perfetto fra tutti gli altri ordini possibili (1).    (1) Questo concetto del male come parte integrante e necessaria dell’ar-  mnnia universale, sarà il tenia fondamentale della Tendiceli. Ma spiegare sempre l' ammirevole economia di questa  scelta, non si può, durante il nostro passaggio su que-  sto mondo; e basti saperlo, senza comprenderlo. Questo  è il momento di riconoscere altitudinem divitiarum, la  profondità e l’abisso della saggezza divina, senza voler  sviluppare problemi di dettaglio, che implicano considera-  zioni infinite.   Si vede però bene che Dio non è la causa del male.  Poiché non soltanto dopo la perdita dell’ innocenza degli  uomini il peccato originale si è impossessato dell' anima,  ma ancor prima vi era una limitazione o imperfezione  originale connaturale a tutte le creature, che le rendeva  soggette al peccato e capaci di errare. Così non vi è mag-  gior difficoltà riguardo ai supralapsari (1) che riguardo  agli altri. Ed a ciò, a mio avviso, si deve ridurre l'opi-  nione di S. Agostino e di altri autori, che l’ orìgine del  male sia nel nulla; cioè nella privazione o limitazione delle  creature, alla quale Dio rimedia graziosamente col grado  di perfezione che gli piace di dare. Questa grazia di Dio,  sia ordinaria o straordinaria, ha i suoi gradi e le sue misure,  è sempre efficace in sé stessa a produrre un certo effetto  proporzionato; ed inoltre essa è sempre sufficiente, non  solo a preservarci dal peccato, ma anche a condurci alla  salvazione, supponendo che l’uomo si unisca ad essa per  quanto dipende da lui. Ma essa non è sempre sufficiente  a superare le inclinazioni dell' uomo, perchè altrimenti egli  non terrebbe più a nulla; e ciò è riservato alla sola grazia  assolutamente efficace, che è sempre vittoriosa; o che lo  sia per sè stessa, o per l'accordo delle circostanze.   (Discount de mélaphysiqne, 1 080, §XXX).    (I) L supralapsari sostenevano, contro gli infialapsari, che la predeter-  minazione divina si esercitasse anche prima del peccato originale (sujrra  lapsum, prima della caduta) e che quindi il fallo di Adamo non fosse stato  compiuto per un atto di libera volontà. Leibniz, con questu sua concilia-  zione di predeterminazione e contingenza o libertà, rende ozioso il problema,    4. — Leibniz, La monadologia. Ma a parto questi problemi di necessità, libortà, previsione  predeterminazione, che rientrano piuttosto nell’ambito della  Teodicea, il punto essenziale toccato qui è V universalità della  sostanza indimdmle che, con lo infinite connessioni che rac-  chiude in sè, diviene l’universo stesso visto da un particolare  punto di vista. Essa comprende il proprio passato e il proprio  avvenire, e insieme il passato e l’avvenire di tutto l'universo;  raggiunge cioè il massimo del l'universalità: è una visione to-  tale, complessiva del tutto.   E d'altra parte conserva tutta la sua individualità. 11 punto  di partenza è sempre il singolo dato di tatto, specifico, parti-  colare, contingente. Esso non scompare nel tutto: rimane ben  chiaro e visibile come capo dell’ immenso filo svolgentesi al-  I' infinito, al seguito di tutte le connessioni causali. Rimane  e garantisce un punto di appoggio, una possibilità di percor-  rere ordinatamente tutto 1’ interminabile cammino. E d’altra  parte ammette la possibilità di infiniti altri punti di partenza.  Le sostanze individuali sono tante quanti sono i dati di fatto,  cioè infinite. E ciascuna è tutto l’imiverso. Ma ciascuna da un  diverso punto di vista, con diverso punto di partenza. L’uni-  verso è uno: ciascun particolare è una infinitesima parte di  esso: ma da ciascun particolare si ha la possibilità di risalire  alla totalità nel suo complesso. In questa unione di particolare  e universale nella sostanza individuale, sta la prima grande  scoperta di Leibniz, il nu cleo fon damentale del concetto di  monade. Un altro campo del! attività di pensiero loibniziana è la filo-  sofia della natura; campo ben distinto da quello che si è visto  fin ora, e trattato con strumenti e metodi di tutt’altro genere.  I problemi qui analizzati hanno particolare affinità con quelli  dello scienze fisiche: c ostituzione della m ateria, esistenza o meno  degli atomi, del vuoto, origine e funzione del movimento, del-  l’energia, etc. Leibniz non fa discendere la soluzione di questi  problemi dai principi generali della sua filosofia metafisica:  li tratta per sè stessi, secondo una tecnica ad essi propria,  seguendo in questo il suo uso di entrare sempre nel vivo di  ogni ricerca e di appropriarsi le caratteristiche particolari di  ogni scienza. In seguito poi, una volta giunto a determinate  soluzioni e ad atteggiamenti definitivi, li metterà in rapporto  con le soluzioni ottenute negli altri campi, giungendo così a  sintesi sempre più ricche e comprensive.   La continuità e la materia. - Le idee di Leibniz nella  filosofia fisica subiscono una profonda evoluzione, dalla giova-  nile Hypothesis physica nova, alle concezioni più mature. E  nel corso di questa evoluzione si formano i suoi concetti fon-  damentali in questo campo. Egli comincia come atomista, al  seguito del Gasa elidi, il quale rinnovava le dottrine  di Epicuro e di Democrito, e concepiva la materia in tutti  i suoi aspetti come formata dalla varia combinazione degli  atomi nel vuoto. Ben presto però Leibniz abbandona questa  teoria, la quale è inconciliabile col suo principio di continuità. È questo uno dei fondamenti del suo pensiero, e si applica  non solo alla considerazione della materia, ma anche a molti  altri aspetti della sua speculazione. Per esso non esistono arresti,  interruzioni, distacchi nello sviluppo delle cose. Per esso natura  non facil saltus. Applicato alla considerazione logica del mondo  sensibile, questo principio è il fondamento del passaggio inin-  terrotto dalla causa all’effetto e dall’effetto alla causa, senza  ammettere posto una volta il miracolo iniziale della creazione -  nuove creazioni ex novo, nuovi miracoli. Per questo princi-  pio tutto il mondo è comiesso in tutte le sue parti; sì che dal-  ì’una si può, attraverso un procedimento ininterrotto, passare a  qualsiasi altra.   Nulla avviene ad un tratto. Una delle mie grandi mas-  sime, e delle più ricche di applicaziomi, è che la natura  non fa mai salti : 1' ho chiamata legge della continuità;....  e l’uso di questa legge è molto importante nella fisica:  essa stabilisce che si passi sempre dal piccolo al grande e  viceversa, attraverso il medio, nei gradi come nelle parti,  e che mai mi movimento nasca immediatamente dal ri-  poso, nè vi giunga se non attraverso un movimento più  piccolo; che non si possa mai finire di percorrere alcuna  linea o lunghezza prima d’aver percorso una linea più  piccola; quantunque coloro che hanno formulato finora  le leggi del movimento, non abhiano affatto osservato  questa legge, credendo che un corpo possa ricevere in mi  istante un movimento contrario al precedente. Tutto ciò  permette di stabilire che anche le percezioni evidenti^de-  rivano per gradi da quelle che sono troppo piccole per  essere osservate. Giudicare altrimenti significa non cono-  scere a sufficienza 1’ i mm ensa sottigliezza delle cose, che  implica sempre e ovunque un infinito attuale.   (Nuovi Saggi, 1701 segg., Prefazione. G. V, 49).   Applicato alla considerazione del mondo materiale, il principio  di continuità stabilisce che la materia è divisibile all’ infinito,  e che non è possibile concepire un arresto in questa divisibilità,  o pensare un elemento che sia indivisibile e possa rappresentare  un punto ili partenza per la costituzione dei corpi. Viene così  a cadere la dottrina dell’ atomo (1) come elemento primo e  semplice, dalla cui composizione derivino i diversi aspetti della  materia. Qualsiasi elemento materiale, sia pur piccolissimo, è  concepito come composto di parti.   Poiché il continuo è divisibile all'infinito, qualsiasi atomo  sarà, in certo modo, come un mondo di infinite specie,  e vi saramio mundi in mundis in infinitum.   ( Hypothesis pkyeica nova, Theoria molli e concreti, 1671, G. IV, 201).   Tutta la natura è piena di corpi organizzati, cioè animali  e piante o altre specie ancora, e non vi è atomo che non  contenga un mondo di creatine, poiché tutto è diviso at-  tualmente all' infinito.   (lettera al Burnott, 1699, G. Ili, 250).   Il movimento. La materia, dunque, non è formata di  atomi: è divisibile all’infinito, continua, omogenea, tale che  mai si potrà arrivare all’elemento più piccolo di essa. D’altro  lato, essa non è riducibile a pura estensione, come voleva Cartesio. Tale concezione, che terrebbe conto nella materia dei  soli elementi geometrici e la considererebbe solo in funzione  dello spazio che occupa, non è sufficiente per Leibniz. La ma-  teria è per lui qualche cosa di più: è anzitutto compattezza,  movimento, inerzia. È ciò che oppone resistenza. Che la natura normale della sostanza corporea sia co-  stituita dall’estensione, mi pare sia affermato da molti con  grande sicurezza, ma da nessuno dimostrato; certamente,  non derivano dal l’estensione nè il movimento o azione,  nè la resistenza o passione; e neppure le leggi della natura  che regolano il movimento e l’urto dei corpi. E veramente  il concetto dell'estensione non è primitivo, ma risolubile   (1) "ATOfioq significa appunto indivisibile.   (2) Ricordiamo che Cartesio, nella sua deduzione del mondo da Lio,  prende come punto di partenza le due sostanze: ree cogitane (principio spi-  rituale) e ree exietcne (principio della materia).  in altri. Infatti, da ciò che è esteso si richiede che sia un  tutto continuo in cui coesistano vari elementi. E, per dir  tutto, all estensione, il cui concetto è relativo, è necessario  qualche cosa che si estenda o sia continuo, così come nel  latte la bianchezza, nel corpo ciò stesso che ne costituisce  l’essenza. La ripetizione di questo quid (qualunque esso  sia) è l’estensione. E io sono pienamente d'accordo con  lo Huygens ( I ) (del quale ho grande stima in questioni  naturali e matematiche), cho spazio vuoto e pura esten-  sione siano un solo e medesimo concetto: nè, a mio giudi-  zio, la mobilità o la dcvriTUTtla (2) possono spiegarsi con la  pura estensione, ma solo con un soggetto dell’ estensione il  qualo non solo determini, ma riempia anche uno spazio.   (Animadvtraionee in pariem generabili Prinoipiorum eurtesianorvm, prima  del 1692, G. IV,   I)a che cosa derivano, ora, queste qualità della materia?  Questa azione, questa resistenza etc., in cui consiste l’essen-  ziale di essa? Nei suoi primi studi, Leibniz fa derivare tutte  le qualità della materia dal movimento.   La materia prima è la massa stessa, nella quale non è  nuli altro che estensione e àvTiTtmta, ovvero impene-  trabilità: ('estensione le deriva dallo spazio che riempie;  ma la vera natura della materia consiste nell'essere alcun-  ché di denso (crassum) e impenetrabile, e in conseguenza  tale che, incontrandosi con qualche cosa d'altro, si muova  (dato che l’uno dei due deve cedere). Questa massa con-  tinua che riempie il mondo mentre tutte le sue parti ri-    ti) Cristiano Huvobns (1629-1695) grande scenziato olandese, autore  della teoria ondulatoria della luco e primo applicatole del principio del pen-  dolo alla costruzione degli orologi, 6 uno di coloro ohe hanno maggiormente  influito sullo sviluppo dello idee scientifiche di Leibniz. La loro amicizia c cor-  rispondenza dura da iranno della loro conoscenza a Parigi (1672) finn alla mor-  te della Huygens. E fin dal 1669, Leibniz aveva tratto dalle leggi di Huygens  sugli urti lo spanto per alcune sue idee sulla costituzione della materia.   (2) Antitypia è il termine usato da Leibniz por indicare la compattezza e  impenetrabilità della materia.  mangono in quiete, è la materia prima, dalla quale ogni  cosa deriva attraverso il movimento, e nella quale tutto  si dissolve attraverso la quiete. In essa non vi sarebbe’  infatti nessuna diversità, ma una pura omogeneità, se  non vi fosse il movimento....   Dalla materia passiamo ora alla forma. Se supponiamo  che la forma non sia altro che figura, troveremo di nuovo  una mirabile concordanza. Infatti, poiché la figura è il  limite ( terminus ) del corpo, per formare le figure della  materia sarà necessario un limite. E per far sorgere vari  limiti nella materia, bisogna ricoiTere alla discontinuità  delle parti, dato che (piando le parti sono discontinue,  ciascuna di esse ha termini separati (infatti Aristotele de-  finisce i continui come quelli il cui limite è uno (1)); ma  la discontinuità, in quella massa inizialmente continua, può  essere prodotta in duplice modo : o togliendole insieme an-  che la contiguità, il che ha luogo quando avviene una se-  parazione fra le parti, in modo che si produca un vuoto;  oppure conservando la contiguità, come quando le parti,  pur rimanendo accoste, si muovono tuttavia in direzioni  diverse: così per esempio due sfere, comprese l una nell'al-  tra, possono muoversi in direzioni diverse e tuttavia ri-  manere contigue cessando di essere continue. Di qui è  chiaro che se la massa è stata creata inizialmente discon-  tinua o interrotta da vuoti, alcune forme devono esser  state create contemporaneamente alla materia; se invece  la massa è inizialmente continua, è necessario che le forme   sorgano dal movimento perchè dal movimento deriva   la divisione, dalla divisione il limite delle parti, dai li-  miti delle parti le loro figure, dalle figure le forme, quindi  dal movimento derivano le forme. È chiaro da ciò che  ogni tendenza alla forma è movimento: e questa è la so-  luzione della contrastata questione sull’origine delle forme...    (1) lu greco nel tosto: uv Tà cacata sv.    Ci resta da occuparci dei mutamenti. Come mutamenti  si enumerano volgarmente (e giustamente) i seguenti: ge-  nerazione, corruzione, aumento, diminuzione, alterazione,  e mutamento di luogo o movimento. I moderni ritengono  che tutti questi mutamenti si possano spiegare attraverso  il solo mutamento di luogo. E la cosa è chiara quanto  all’ aumento e alla diminuzione : infatti mutamento di quan-  tità avviene, in un tutto, quando una parte muta di luogo  e si aggiunge o viene tolta. Resta da spiegare attraverso  il movimento la generazione e la corruzione e l’ altera-  zione.... E tanto la generazione e la corruzione quanto  l’alterazione possono spiegarsi attraverso mi sottile movi-  mento delle parti: per esempio, poiché è bianco ciò che  riflette molta luce e nero ciò che ne riflette poca, saranno  bianche le cose le cui superficie contengono molti piccoli  specchi; e questa è la ragione per cui la spuma dell’acqua  è bianca, constando di innumerevoli bollicine che sono al-  trettanti specchi.... E chiaro da ciò che i colori derivano  dal semplice mutamento di figura e di situazione nella  superficie ; altrettanto potremmo facilmente spiegare, se ne  avessimo lo spazio, della luce, del calore e di tutte le qua-  lità. E invero, se le qualità mutano a causa del solo movi-  mento, per ciò stesso muterà anche la sostanza: mutati  infatti tutti gli elementi (perciò anche alcuni di essi) si  elimina la cosa stessa; per esempio, se elimini o la luce  o il calore, avrai eliminato il fuoco.   (Lettera al Thomasius, 1669, 6. J, 17-19).   Tutto dunque deriva, nella materia, dal movimento; e senza  il movimento, quando cioè sia in quiete, essa perde ogni sua  solidità e consistenza, quindi ogni sua caratteristica di materia.  Leibniz afferma ripetutamente « nullam esse cohaesionem seu  consistenliam quiescentis ».   Devo dire che Cartesio ha tutt’ altra opinione, sembrando  a lui che alla stabilità della coesione nei corpi non necessiti altro elemento collegante ( gluten ) che la quiete. Io  sono di opinione contraria : questo glutine è il movimento.  .... Ciò che è in quiete è spazio vuoto.   (Lettera ali’Oldenburg, 1671, Ale. II, I, 166-7).   Bisogna spiegare la causa della connessione maggiore o  minore e quindi della eterogeneità nei corpi. Si domanda  perchè i corpi abbiano le parti più o meno coerenti: af-  fermo che non si deve cercare altra causa di ciò se non  nel fatto che queste parti stanno o si muovono insieme.  Si muovono insieme perchè in una così grande varietà di  movimenti generali in tutta la massa complessiva era in  ogni modo necessario che alcune parti si allontanassero  di molto dalle loro vicine, altre poco in paragone. E la  medesima causa che ha fatto sì che queste parti poco o  nulla si allontanassero dalle loro vicine, fa anche sì che  esse tendano a perseverare nel medesimo stato, perchè la  causa permane. La causa è la combinazione stessa dei mo-  vimenti generali : e i movimenti generali permangono sem-  pre. Li turba dunque chi muti improvvisamente un qual-  siasi effetto da essi prodotto e stabilito, e nel quale tutta  la natura consente. Ne deriva chiaramente che la pres-  sione esterna è la causa prima della solidità, e che la  quiete o il movimento cospirante delle parti ne è la causa  prossima, ma soltanto quando deriva da una causa esterna  permanente. Così dunque come la concomitanza, cioè la  quiete o il movimento cospirante costituiscono il corpo  solido, analogamente il movimento vario delle parti costi-  tuisce il liquido. E questo è il principio della diver-  sità specifica nei corpi, e del fatto che alcuni sono più  densi degli altri, cioè più solidi o composti di parti so-  lide più grandi. Questa tesi è anche confermata dal-  l’esperienza.    (Lettera a Onorato Fabri, 1677, G. IV, 250).      li. «conatcs». — Il concetto di materia dun que si dissolve in  quello di movimerfto. Ma "come avviene, ora, tale creazione di  materialità'? Qual^dl punto di partenza dell'azione del movi-  mento ? K su che cosa si svolge, inizialmente, tale azione?  Leibniz non può ricorrere agli atomi, come elementi primi,  avendoli già negati in nome del principio di continuità. Egli  modifica il suo punto di partenza, rendendolo privo di esten-  sione: considerandolo non più come la particella più piccola  di materia (la quale sarebbe pur sempre materiale, estesa),  ma come un limite o un inizio, qualche cosa quindi di inesteso.  In tale principio, che egli chiama, riprendendo un termine del-  lo Hobbes, comtus, fa coincidere l’ inizio della materialità e  l’ inizio derTìTTTvtrnrnto.   Vi sono degli indivisibili o inestesi, altrimenti non sa-  rebbe concepibile nè l’inizio nè la fine del movimento cor-  poreo. Ecco la dimostrazione di ciò : Si vuol trovare 1’ ini-  zio o la fine di uno spazio, di un corpo, di un movimento   0 di un tempo qualsiasi: sia, ciò di cui si vuol cercare   1 inizio, indicato da una linea ab il cui punto mediano  sia c, e il mediano fra a e c sia d, e quello fra a e d sia e,  e così via. Si cerchi 1‘ inizio della parte sinistra, verso il  lato a. Dico che ac non è 1‘ inizio, perchè gli si può to-  gliere de senza toccare I' inizio; nè lo è ad, perchè gli  si può togliere ed, e così via; non si può mai dunque  considerare come inizio ciò a cui si può togliere qualche  cosa dalla parte destra. Ciò a cui non si può togliere alcuna  estensione, è inesteso; dunque 1’ inizio del corpo, o dello  spazio, o del movimento, o del tempo, (cioè il punto, il  conatus, I istante) o è nullo, il che è assurdo, oppure è  inesteso, il che era da dimostrarsi. Il /muto non è ciò che  non ha parti, e neppure ciò di cui non si considerano le  parti; ma ciò la cui estensione è nulla, cioè ciò le cui parti  non hanno distanza fra di loro, la cui grandezza non è  da considerarsi, è inassegnabile, è minore di qualsiasi gran-  dezza die possa avere un rapporto non infinito con una  altra grandezza sensibile ; minore di una qualsiasi assegna-       Iòle: e ciò è il fondamento del metodo di Cavalieri (1) e  dimostra in modo chiaro, la verità di quel suo principio  per il quale si concepiscono dei rudimenti, per così dire,  o inizi delle linee e delle figure, minori di qualsiasi asse-  gnabile....   11 conatus sta al movimento come il punto allo spazio,  cioè come l’unità all' infinito; è cioè 1’ inizio o la fine del  movimento. Perciò tutto ciò che si muove, sia pur debol-  mente, sia pure urtando contro qualsiasi ostacolo, propa-  gherà il conatus all ’ infinito per tutto ciò che gli si op-  pone nella materia, e perciò imprimerà il suo conatus a  tutte le altre cose : nè si può negare che, quando anche  cessi di procedere, tuttavia abbia un conatus; e per-  ciò tenda ( conetur ), o — che è lo stesso imprima un  inizio di movimento a tutto ciò che gli si oppone, an-  che se venga superato da questi ostacoli. Così in cia-  scun corpo vi possono essere contemporaneamente più conati  contrari....   Nel tempo di una spinta, di un urto, di un incontro, i  due estremi dei corpi, o pimti, si penetrano, ovvero sono  nel medesimo punto dello sjxtzio : infatti quando, di due  corpi che s incontrano, l'uno tende a penetrare nel luogo  dell altro, comincerà ad essere in esso, cioè comincerà a  penetrare in esso, a unirsi con esso. Infatti il conatus è  inizio, penetrazione, unione; quei due corpi sono perciò  all inizio dell unione, cioè i loro estremi si uniscono:  dunque i corpi che si premono o spingono, hanno coesione.  Infatti i loro estremi sono uno, poiché le cose i cui ter-  mini sono uno (2), sono continue o coerenti, anche pel-    li) Bona vkstuka Cavai.ihri (1598-1(147), autore della Geometria indivisi-  hiliurn. ebbe, eoi suo concetto di indivisibile, «rande influenza sul pensiero  matematico di Leibniz. T3«!i può essere considerato forse come il principale  precursore della scoperta del calcolo infinitesimale, dovuta al Leibniz e al  Newton.   (2) In greco nel testo. Cfr. sopra, p. 55.    definizione di .Aristotele; e se due cose sono in un solo  luogo, l’una non può essere spinta senza l’altra.   (Hypothe.sis phyatea nova, Theoria molun abftraeti, 1071, (i. IV, 228-30).   Corpo e spirito. — il conatus è dunque, per così dire, l' ini-  zialo punto di contattoTra “materia e movimento: l'atto in  cui il movimento, applicandosi 'ad un punto" spaziale, segna  I' inizio del corpo. Ma che cos’ò il movimento rispetto alla ma-  teria, se non un principio spirituale?   La lisica tratta della materia e della unica affezione  risultante dalla sua combinazione con altre cause, cioè  del movimento. Lo spirito (mena) infatti, per ottenere una  figura e situazione delle cose buona e a lui gradita, for-  nisce alla materia il movimento. Infatti la materia di per  sè è priva di movimento. Principio di ogni movimento è  lo spirito.   (Lotterà al Thouiasius, l(i(iU, U. I, 22).   Così Leibniz, in una formulazione ancora immatura: e, giunto  al concetto di conattie . in esso egli fa consistere il principio  dello spirito. L'estendersi e svilupparsi del conati ts nello spazio,  dà luogo alla materia; l’estendersi nel tempo (sotto forma di  memoria) dà luogo allo spirito. TI corpo sta così allo spirito  come l’ istante sta al tempo; lo spirito al corpo come il punto  allo spazio.   Nessun conato senza movimento dura più di un istante,  se non negli spiriti (in mentibus). Infatti ciò che nell'istante  è il conato, quello è nel tempo il movimento del corpo:  qui si apre la porta a chi vorrà proseguire verso la vera  distinzione di corpo e spirito, che non è ancora stata  spiegata da alcuno : Dinne enirn corpus est mens momen-  tanea, seu carena recordalione, poiché non ritiene per piìi  di un istante insieme il proprio conato e un altro contrario ;  due elementi, infatti, sono necessari alla sensazione e al  piacere o al dolore, senza i quali non vi è sensazione alcuna: l'azione e la reazione, cioè la comparazione e quindi Y ar-  monia ; perciò il corpo manca di memoria, manca del senso  delle azioni e delle passioni, manca di pensiero (cogitatio). (llypothesis physica nova, Theoria motus abxtracli.   Come le azioni del corpo consistono nel movimento,  così consistono le azioni dello spirito nel conatun o, per  così dire, nel minimo movimento o punto; infatti anche  lo spirito stesso consiste propriamente soltanto in un punto  dello spazio, mentre il corpo comprende spazio, li questo,  per parlare popolarmente, lo dimostro dal fatto che lo  spirito dev'essere nel luogo d : incontro di tutti i movi-  menti che ci vengono impressi dagli oggetti dei sensi. Dato  che, quando voglio stabilire che un dato corpo è oro,  prendo insieme la sua lucentezza, il suo suono, il suo peso,  e ne conchiudo che è oro, bisogna dunque che lo spirito  sia in un luogo in cui tutte le linee della vista, dell’udito  e del tatto si incontrano, cioè in un punto. Se noi dessimo  allo spirito uno spazio maggiore che un punto, esso sa-  rebbe già un corpo e sarebbe divisibile in parti; e perciò  non sarebbe sempre intimamente presente a sè stesso e  così non potrebbe anche riflettersi su tutti i suoi elementi e  le sue azioni. Eppure in ciò consiste proprio l’essenza dello  spirito. Posto dunque che lo spirito consista in un punto,  è indivisibile e indistruttibile. Da questi principi e da altri  ancora, ho dimostrato molte cose meravigliose riguardo  alle caratteristiche dell'anima umana e in generale di tutti  gli spiriti intelligenti; cose alle quali nessuno finora aveva  pensato, benché da esse sgorghi in modo finora mai visto  la verità della religione, della provvidenza divina, dell im-  mortalità della nostra anima e la possibilità di molti su-  blimi misteri (come quello della giustizia divina, della  predestinazione e della presenza nel sacramento). Ed io  spero una volta di poter mostrare tutto ciò nel modo più  chiaro possibile, e di acquistarmi così qualche benemerenza presso tutti gli uomini intelligenti, ehe odiano l’ateismo  oggi invadente e si preoccupano dell’ eternità.   (Lettera al duca ili Hannover, 1671, f!. I, 52-53).   Da questo contatto fra sostanza spirituale e materiale nel  conatus, Leibniz trao le sue prime conclusioni verso la fun-  zione della spiritualità nel mondo fisico, e 1 importanza dello  spirito in rapporto a qualsiasi elemento corporeo e materiale.   Sono capace di dimostrare dalla natura del movimento  nel campo fisico, da me scoperta, che il movimento non  può esistere nei corpi presi per sè, se non vi si aggiunga  lo spirito;.... che lo spirito è incorporeo; che lo spirito  agisce su sè stesso, che nessuna azione su sè stesso può  essere movimento, che l'azione ilei corpo non è se non il  movimento, e che quindi lo spirito non è corpo. Che lo  spirito consiste in un punto o centro, e che perciò è indi-  visibile, incorruttibile, immortale. Come nel centro con-  corrono tutti i raggi, così concorrono insieme nello spirito  tutte le impressioni sensibili attraverso i nervi; e dunque  lo spirito è un piccolo mondo concepito in un punto, il  quale consiste delle proprie idee così come il centro con-  siste degli angoli, poiché l’angolo è mia parte del centro,  nonostante che il centro sia indivisibile. Così può essere  spiegata geometricamente tutta la natura dello spirito.   (Lettera al duca di Hannover, 1071, U. 1, (il). La conservazione della forza. Queste sono le teorie  fisiche del giovane Leibniz. Ha una nuova scoperta fa sì che  egli abbandoni il suo concetto del movimento come essenza  dei corpi, e lo sostituisca con quello di forza.   Cartesio aveva affermato la immutabilità e costanza della  quantità di movimento nell’universo; cioè, ehe quanto movi-  mento viene perduto da un corpo, tanto viene acquistato da  un altro, sì ehe la somma complessiva neH ! universo sia sempre  costante: intendendo per quantità di movimento il prodotto  della massa per la velocità. Leibniz dimostra che tale principio nou è esatto, e che ciò la cui somma rimane costante  non è la quantità di movimento, ma la quantità di forza viva   0 ! azione motrice, che è eguale al prodotto della massa per  il quadrato della velocità.   Quale sia la portata di questa scoperta nel campo fisico,  non è il caso qui di notare. Per intendere l'uso che Leibniz  ne farà in questioni filosofiche e metafisiche bisogna osservare  che I azione motrice non rappresenta più come la quantità  di movimento - la semplice traslazione di un corpo da un luogo  ad un altro, ma la possibilità di produrre un determinato ef-  fetto, per esempio, di sollevare un corpo ad una determinata  altezza. Questa azione motrice di Leibniz è quella che oggi si  chiama energia.   In generale la forza assoluta deve essere stimata per   1 effetto violento che essa può produrre. Chiamo effetto  violento ciò che consuma la forza dell'agente, come, per  esempio, imprimere una certa velocità ad un corpo dato,  elevare un corpo determinato ad ima determinata altezza,  etc. E si può giudicare comodamente la forza di un corpo  pesante, attraverso il prodotto della massa o della pesan-  tezza per 1 altezza alla quale il corpo potrebbe salire in  virtù del suo movimento.... Quando un corpo pesante ha  progredito discendendo liberamente, ed ha acquistato im-  peto o forza' viva , le altezze a cui questo corpo potrebbe  allora arrivare non sono affatto proporzionali alle velocità,  ma al quadrato delle velocità. Ed è per questo che nel  caso della forza viva le forze non sono affatto come le  quantità di movimento, o come i prodotti delle masse  per le velocità....   Si verifica per via di ragione e di esperienza, che è la  forza viva assoluta - quella determinata dall'effetto violento  che può produrre - che si conserva, e non già la quantità  di movimento. Poiché se questa forza viva potesse mai  aumentare, si avrebbe un effetto più potente che la causa,  oppure si avrebbe il moto perpetuo meccanico, cioè mi  movimento che potrebbe riprodurre la sua causa e qualche cosa di più ; il che è assurdo. Ma se la forza potesse dimi-  nuire, essa perirebbe alla line completamente perchè, non  potendo mai aumentare, e potendo però diminuire, an-  drebbe via via decadendo : il che è senza dubbio contrario  all'ordine delle cose. Anche l’esperienza lo conferma....   Adesso mi piace di guardare la questione da un altro  punto di vista, e di mostrare anche la conservazione di  qualche cosa di più prossimo alla quantità del movimento,  cioè la conservazione dell'azione motrice. Ecco dunque la  regola generale che io stabilisco. Qualunque cambiamento  possa accadere tra corpi concorrenti, qualunque sia il  loro numero, bisogna che vi sia sempre nei corpi concor-  renti in un sistema chiuso la medesima quantità di azione  motrice nel medesimo intervallo di tempo. Per esempio, v i  deve essere durante questa ora tanta azione motrice nel-  T universo o in dati corpi che agiscono fra di loro in un  sistema chiuso, quanta ve ne sarà durante un'altra ora  qualsiasi.   Per comprendere questa regola, bisogna spiegare la va-  lutazione deh' azione motrice, tutta diversa da quella della  quantità di movimento, intesa la quantità di movimento  secondo l’uso che si è spiegato sopra. Ora, affinché 1 azione  motrice possa essere valutata, bisogna prima valutare 1 ef-  fetto formale del movimento. Tale effetto formale o essen-  ziale al movimento consiste in ciò che è cambiato dal mo-  vimento, cioè nella quantità della massa trasportata, e  nello spazio o nella lunghezza attraverso cui questa massa  è trasportata. È questo l'effetto essenziale del movimento,  o il cambiamento che esso determina: poiché il tal corpo  era lì, ora è qui: il corpo è tanto grande e la distanza  è tanta....   Bisogna ben distinguere quello che io chiamo 1 effetto  formale o essenziale al movimento, da ciò che ho chiamato  più sopra l' effetto violento. Poiché 1 effetto violento con-  suma la forza e si esercita su qualche cosa di fuori; ma l'effetto formale consiste nel corpo in movimento preso in  sè stesso, e non consuma affatto forza, anzi la conserva:  poiché la medesima traslazione della medesima massa si  deve sempre continuare, se nulla dal di fuori non F im-  pedisce. È questa la ragione per cui le forze assolute sono  come gli effetti violenti che le consumano, ma non già  come gli effetti formali.   Ora sarà più facile d' intendere che cosa sia F azione mo-  trice: bisogna diuique stimarla non solo per l’effetto for-  male che essa produce, ma anche per il vigore e la velocità  con la quale essa lo produce. Si vogliono far trasportare  100 libbre alla distanza di un miglio; questo è l’effetto  formale che si domanda. Uno lo vuol compiere in un’ora,  un'altro in due; io dico che Fazione del primo è doppia  di quella del secondo, essendo doppiamente rapida, su ili  un medesimo effetto....   Questa definizione dell azione motrice si giustifica ab-  bastanza a priori, perchè è chiaro che in un' azione pura-  mente formale presa in sè stessa, come è qui quella di  un corpo in movimento considerato a sè, vi sono due punti  da esaminare: l’effetto formale o ciò che è cambiato, e  la rapidità del cambiamento; poiché è ben chiaro che  colui che produce il medesimo effetto formale in minor  tempo, agisce di più.   (Enfiai/ de Dynamique sur lei laix dii mouvemenl, M. VI, 218-21).   La forza come attività. — La forza, l’energia, è dunque  sostituita al movimento. Dalla' semplice e obbiettiva trasla-  zione dei corpi HaTun luogo all’altro, Leibniz sposta il centro  della attenzione su ciò che della traslazione è la causa, su  ciò che contiene già in sè - per così dire - il movimento allo  stato potenziale, e lo produce. Il movimento perde così realtà  a favore della forza. La forza viene considerata come assoluta  e il movimento come relativo.   Bisogna sapore anzitutto che la forza è qualche cosa di  assolutamente reale, anche nelle sostanze create: ma che lo spazio, il tempo e il movimento hanno qualche cosa  dell’ente di ragione, e non sono veri e reali per sè stessi,  ma solo in quanto attributi divini involventi 1* immensità,  l’ eternità, l'azione o la forza delle sostanze create. Ise con-  segue che non esiste un vuoto nello spazio nè nel tempo,  che il movimento separato dalla forza, cioè quando non  si considerino in esso se non le caratteristiche geometriche,  cioè la grandezza, la figura o i loro mutamenti, non è  altro che un mutamento di luogo; e che perciò il movi-  mento, rispetto ai fenomeni, consiste in una semplice rela-  zione-, il che fu anche riconosciuto da Cartesio, quando  definì il movimento come una traslazione dalle vicinanze  di un corpo alle vicinanze di un altro corpo. Ma nel trarne  le conseguenze, dimenticò la sua definizione, e stabili le  regole del movimento come se il movimento fosse qualche  cosa di reale e assoluto. Bisogna dunque ritenere che,  quando più corpi qualsiasi sono in movimento, non è pos-  sibile dedurre, dal loro aspetto esteriore, in quali di essi  sia un determinato movimento assoluto oppure la quiete;  ma ciascuno di essi a piacere può essere considerato in  quiete, pur restando uguali le manifestazioni esteriori.   (Specimen Dynamicum, parte 11, M. VI, 247).   1 1 movimento è relativo: la forza sola è assoluta. E il concetto  di forza ha, molto più che quello di movimento, una chiara  impronta di attività. Pare che in esso il conatus degli scritti  giovanili abbia trovato il suo completamento e la sua realiz-  zazione.   Abbiamo altrove avvertito che negli esseri corporei vi  è qualche cosa al di là dell'estensione, anzi prima del-  l’estensione : la forza della natura, riposta ovunque dal-  l’autore supremo, la quale non consiste soltanto in una  semplice facoltà, come si contentavano di dire gli scola-  stici, ma anche in un conatus o sforzo, il quale avrà il  suo effetto pieno se non sia impedito da un conatus contrario. Questo sforzo si mostra da ogni parte ai nostri  sensi; e, a mio parere, può essere dimostrato per via ra-  zionale ovunque nella materia, anche là dove non è evi-  dente ai sensi. Che se questa forza non si deve attribuire  a Dio come un miracolo, bisogna certamente che sia im-  messa da lui nei corpi, in modo da costituirne 1' intima  natura; poiché l'agire è il carattere essenziale delle sostanze,  e l’estensione, lungi dal determinare la sostanza stessa, non  indica altro che la continuazione o diffusione di una so-  stanza già data, la quale tenda e si opponga, cioè resista.  Nè importa che ciascuna azione corporea derivi dal mo-  vimento, e il movimento non derivi se non da mi altro  movimento esistente già da prima in quel corpo o im-  pressogli dal di fuori. Infatti il movimento (così come il  tempo) non esiste mai, a considerare la cosa rigorosamen-  te; giacché non esiste mai tutto, non avendo parti coe-  sistenti. E nulla vi è in esso di reale, se non quel quid  istantaneo che consiste nella forza tendente al mutamento.  A ciò dimque si riduce tutto ciò che è nella natura cor-  porea al di fuori dell’oggetto della geometria, cioè al di  fuori deH’estensione.   (Speri intra Jji/namicum, M. VI, 235).   11 corpo, la materia, contiene dunque in se una t’i*s adiva  clic supera, la materialità ed ha carattere spirituale.   Tò Su o ii.ty.óv, la potenza, 1 è duplice nel corpo: passiva  e attiva. La forza passiva costituisce propriamente la ma-  teria o massa, quella attiva la entelechia (5) o forma. La  forza passiva è la resistenza stessà^per la quale il corpo  resiste non soltanto alla penetrazione, ma anche al mo-    li) Entelechia, da èvreXé? (compiuto) e exetv (avere) ò il termine usato  da Aristotele per indicare la lorma pienamente realizzata. Leibniz lo riprende  per definire l’aspetto attivo della sostanza e della monade. Questo termine  6 anche usato spesso da lui come sinonimo ili monade. C’fr. Monadologia,  §§ 18, 48.  vimento. e per la quale avviene che un altro corpo non  possa subentrare al suo posto senza che esso ceda: d altra  parte, esso non cede se non ritardando alquanto il mo-  vimento del corpo che lo spinge, e così tende a perseve-  rare nel proprio stato anteriore, in modo non soltanto da  non scostarsene spontaneamente, ma anche da resistere a  ciò che tende a mutarlo. Così vi sono due resistenze o  masse: la prima, quella che chiamano antitypia o impene-  trabilità; la seconda, quella che Keplero chiama inerzia  naturale dei corpi e che Cartesio in qualche luogo del  suo epistolario riconobbe dal fatto che per essa i corpi  non accolgono un nuovo movimento se non per forza, e  perciò resistono al corpo che li preme e ne indeboliscono  la forza. J1 che non avverrebbe, se nel corpo, oltre all'esten-  sione, non vi fosse tò Su jo gtxó , cioè il principio delle leggi  del movimento, per il quale avviene che la quantità delle  forze non può essere aumentata, e che un corpo non può  essere spinto da un altro corpo se non diminuendo la  forza di quello/   La forza attiva, che si suole anche dire senz altro forza,  non è da concepirsi come la semplice potenza volgare della  scuola, cioè come ima recettività di azione, ma implica  un conatus, cioè mia tendenza all'azione, cosicché, se non  vi sia impedimento, ne derivi l'azionepE in ciò propria-  mente consiste l'entelechia, mal compresa dalla scuola:  una tale potenza infatti comprende 1 atto, nè permane una  semplice facoltà, benché non sempre proceda direttamente  all'azione cui tende; a volte infatti vi si oppone un im-  pedimento.! In secondo luogo, la forza attiva è duplice,  primitiva'? derivativa, cioè sostanziale o accidentale. La  forza attiva primitiva, che vien chiamata da Aristotele  la prima entelechia (è'.veXé/ev/ •?) 7tpoVr/;) e nel linguaggio  comune forma della sostanza, è il secondo principio na-  turale che, insieme con la materia o forza passiva, costi-  tuisce la sostanza corporea; la quale è in sè un unità, cioè non un semplice aggregato di più sostanze: come  per esempio vi è grande differenza tra un animale e un  gregge di animali. E perciò questa entelechia è o un'anima,  o qualche cosa di analogo all'anima, e sempre attua na-  turalmente qualche corpo organico, il quale, quando fosse  preso separatamente in sè stesso, cioè toltane o allontana-  tane l’anima, non sarebbe un'unica sostanza, ma un ag-  gregato di molti, insomma un artificio della natura....   La forza derivativa è ciò che alcuni chiamano impetus,  cioè conatus, o la tendenza, per così dire, ad un qualche  movimento determinato, attraverso il quale la forza pri-  mitiva o principio dell'azione viene modificato. Quanto a  questa forza, ho mostrato che non si mantiene sempre la  medesima nel medesimo corpo, ma che, comunque sia di-  stribuita in piìi corpi, rimane sempre nella medesima  quantità complessiva, e differisce dal movimento stesso,  la cui quantità non si conserva..,.   A stabilire una forza attiva nei corpi ci inducono molte  ragioni, e principalmente l'esperienza stessa, la quale mo-  stra che nella materia vi sono movimenti i quali devono  bensì essere attribuiti originariamente alla causa univer-  sale delle cose, cioè a Dio; ma immediatamente e speci-  ficamente devono essere spiegati attraverso la forza posta  da Dio nelle cose^'infatti, dire che Dio nella creazione  ha dato ai corpi una legge di aziono, non è altro se non  dire che ha dato ad essi qualche cosa in virtù di cui quella  legge sia osservata; altrimenti dovrebbe sempre egli stesso  procurare continuamente per via straordinaria l'osservanza  di quella legge; mentre è piuttosto la sua legge stessa che  ha efficacia, ed egli ha reso i corpi attivi, cioè ha dato  ad essi ima forza insita} Bisogna inoltre considerare che  la forza derivativa e l'azione sono qualche cosa di modale,  perchè sono soggetti a mutamento. E ogni modo consiste  in qualche modificazione di alcunché di pexsistente, o me-  glio di assoluto. Come la figura è in certo modo una limitazione o mo-  dificazione della forza passiva o massa estesa, così la forza  derivativa e l'azione motrice è in certo modo una modifi-  cazione non già di qualche cosa di puramente passivo  (altrimenti la modificazione o limite conterrebbe più realtà  di ciò stesso cho è limitato), ma di qualche cosa di attivo,  cioè dell' entelechia primitiva. Onde la forza derivativa e  accidentale o mutevole sarà una qualche modificazione della  vìrtus primitiva essenziale che perdura in qualsiasi sostanza  corporea. Perciò i cartesiani, non riconoscendo alcun prin-  cipio attivo sostanziale modificabile nel corpo, furono co-  stretti a negare ad esso qualsiasi azione ed a trasferire  l'azione nel solo Dio: un Deus ex machina, principio tut-  t' altro che filosofico.   ( Frammento del 1702, >1. VI, 100-103).   Valore metafisico della forza. Questa entelechia, que-  sta forza di qui è formata la materia, che ne costituisce anzi  la piii intima essenza, è qualche cosa di analogo all'anima.   La materia ha essenzialmente in sè il principio del mo-  vimento, ma secondo me ciò non si deve intendere se  non nel senso che vi sono delle anime nella materia, le  quali sono indivisibili e indistruttibili (Lettera a Burnett, G.).   E questo principio delTanimazione della materia che spinge  Leibniz ad una considerazione del mondo corporeo diversa da  quella puramente meccanica: che gli fa vedere in esso, attra-  verso il principio spirituale, un elemento finalistico e, attra-  verso questo, la mano di Dio.   Devo dichiarare inizialmente che a mio parere tutto  avviene meccanicamente nella natura e che, per rendere  una ragione esatta e compiuta di qualsiasi fenomeno par-  ticolare (come per esempio della pesantezza o della ela-  sticità), bastano le nozioni di figura e ili movimento. Ma i principi stessi della meccanica e le leggi del movimento  sorgono a mio parere da alcunché di superiore, che dipende  piuttosto dalla metafisica che dalla geometria e che non  si può raggiungere con 1 immaginazione, benché lo spirito  lo possa molto ben concepire. Così io penso che nella na-  tura, oltre alla nozione di estensione, convenga impiegare  quella di forza, che rende la materia capace di agire e di  resistere. E per forza o potenza non intendo il potere o la  semplice facoltà; che non è se non una possibilità pros-  sima di agire e che, essendo come morta, non produce  neppur mai un'azione senza essere eccitata dal di fuori  Ma intendo qualche cosa di mezzo fra il poterete l’azione  che implica imo sforzo, un atto, un’entelechia, poiché la  forza passa per sua virtù all" azione finché nulla ne la  impedisce. Questa è la ragione per cui io la considero  come 1 elemento costitutivo della sostanza, essendo essa il  principio dell azione che della sostanza è il carattere  essenziale(^l)   Così io vedo che la causa efficiente delle azioni fisiche  deriva dalla metafisica; nella quale opinione sono molto  lontano da coloro che non riconoscono nella natura se  non ciò che è materiale o esteso, e che perciò si rendono  sospetti con qualche ragione presso le persone pie. Ri-  tengo pure che il concetto del bene o della causa finale,  I>er quanto contenga in sé alcunché di morale, si possa  anche impiegare utilmente nella spiegazione dei fenomeni  naturali; poiché l'autore della natura agisce secondo il  principio dell ordine e della perfezione, con una saggezza  alla quale nulla si può aggiungere: e ho mostrato altrove,  a proposito della legge generale dell" irraggiamento della  luce, come il principio della causa finale basti spesso a  scoprire i segreti della natura, finché non se ne sia trovata  la causa prossima efficiente, che é più difficile a scoprirsi. Tì)   (Système novi eon jkivr erpliqvtr la nature des subitanee», primo  abbozzo, 1(395, G. IV, 472).  La vera scienza tìsica deve essere tratta dalle sorgenti  ilelle perfezioni divine. Dio infatti è l' ultima ragione delle  cose, e la conoscenza di Dio è il principio delle scienze,  così come la sua essenza e la sua volontà sono i principi  delle cose. Quanto piii si è versati nelle profondità della  filosofia, tanto più facilmente si riconosce ciò. Ma pochi  finora sono riusciti a dedurre, dalla considerazione delle  proprietà divine, verità di qualche importanza nella scienza.  Vi sono forse alcuni che potranno essere spinti da questi  esempi. La filosofia si santifica così coll’ immissione in  essa delle correnti sgorgate dalle sacre sorgenti della teo-  logia naturale. E così lontana dal vero è la tesi che si  debbano rifiutare le cause finali e la considerazione di uno  spirito sapientissimo che agisce secondo bontà (onde la  bontà e la bellezza diverrebbero arbitrarie o soltanto re-  lative a noi e non attribuibili a Dio: opinione quella, di  Cartesio, questa di Spinoza ( 1 ), che invece, dalla conside-  razione dello spirito, si possono dedurre principi essenziali  della fisica.   (Principium quoddam generale, M. VI, 134).   In questa organizzazione divina del mondo noi vediamo la  forza pervadere e permeare tutta la natura. Non più atomi  corporei: qualche cosa di altrettanto unitario e indivisibile,  ma privo di qualsiasi materialità. Queste unità sostanziali  stanno al confine fra materia e spirito, potendosi sviluppare  in ambedue le direzioni ; e racchiudono in sé una forza che  permette loro una spontaneità di sviluppo verso l’universale.  In tale spontaneità e attività consiste il carattere spirituale  degli elementi della sostanza corporea, ciò che li avvicina al-  l’ anima e all’ io.   Poiché è necessario che vi sieno nella natura corporea  delle vere unità, senza le quali non vi sarebbe affatto    (1) Cartesio fa derivare, secondo Leibniz, le regole della bontà e dell’ar-  monia dall’arbitrio di Dio (Cfr. sojira, p. 13). Per Spinoza invece la bontà  è un rapporto della creatura individuale alla Sostanza assoluta, cioè Dio.  Tri    molteplicità uè aggregati, bisogna che ciò che costituisce  la sostanza corporea sia alcunché di rispondente a ciò che  si suol chiamare io in noi, che è indivisibile e tuttavia  agente; poiché questo io, essendo indivisibile e senza parti,  non potrà essere un essere composto, ma, essendo agente,  sarà qualche cosa di sostanziale.   (Syitcmc un uveali, primo abbozzo, I 695, G. IV, 47ii).  Costituzione e funzione della monade. - Si sono stu-  diati nei capitoli precedenti due principi fondamentali della filo-  sofia leibniziana: l’universalità della sostanza individuale, e il  principio spirituale della f orza n el mondo materiale. Il primo,  derivato dalla elaborazione dT” concetti logici; il secondo dal  rigoroso pensamento di teoremi fisici. L’unione e la fusione  di questi due principi, dà luogo alla mònade (1). Ciò ebe essi  hanno in comune è il fatto di racchiudere ambedue in sè, allo  stato potenziale, un infinita possibilità di sviluppo: la sostanza  individuale, punto di partenza di una catena di causo e di  effetti che racchiude nelle sue maglie il passato e l’avvenire  di tutto 1 universo; l'unità animata del mondo corporeo, forza  capace di svilupparsi in movimento e, pur col suo carattere  spirituale, di dar luogo ad una formazione di materialità. Dei  due elementi, l’uno è universale ma astratto, puramente lo-  gico; l’altro concreto, reale, spirituale, ma ancora privo di uni-  versalità. Nella loro fusione l’uno fornisce ciò che all’altro  manca: e la monade sarà un principio spirituale e universale  insieme, ma pur concreto, tale che di esso consti effettiva-  mente il mondo esistente. La monade è « l’atomo della natura  e 1 elemento delle cose ». Ad essa vengono dati da Leibniz  nomi diversi: entelechia, anima, sostanza, etc., a seconda delle  varie occasioni in cui ne parla.    (1) Monade ò parola greca ebe significa unità. ]| termine è stato usato  anche da Giordano Bruno per indicare gli elementi primi delle cose. Non è  però sicuro ohe Leibniz abbia derivato da lui questa denominazione. L : atomo di Epicuro, benché fornito di parti, è ima  cosa unita nel suo interno, mentre l'anima, quantunque  senza parti, racchiude in sé un gran numero, o meglio un  numero infinito di varietà, per la molteplicità delle rap-  presentazioni di cose esterne, o piuttosto per la rappre-  sentazione dell'universo che il Creatore vi ha posto.   ( Osservazioni al dizionario del Bayle, 1702, G. IV, 544).   Le monadi sono i principi primi c più semplici onde è  costituito il mondo: non sono materiali, ma da esse deriva  tutta la materia: sono individuali, molteplici (in quanto sono  sempre punti di vista particolari presi sull’universo, e i punti  di vista possono essere infiniti); e d’altra parte ciascuna rac-  chiude in sè una visione del tutto.   L’unità sostanziale richiede un essere compiuto, indivi-  sibile e indistruttibile per natura, poiché la sua nozione  involve tutto ciò che gli deve accadere; e ciò non si po-  trebbe trovare nè nella figura nè nel movimento, che im-  plicano anzi entrambi alcunché d’ immaginario - come  potrei dimostrare —, ma bensì in un’anima o forma sostanziale, sull’esempio di ciò che si suol chiamare io. Sono  questi i soli veri esseri compiuti, come avevano ricono-  sciuto gli antichi e soprattutto Platone, il quale ha ben  chiaramente mostrato che la sola materia non è in sè  sufficiente a formare una sostanza. Ora 1’ io sopraddetto,  o ciò che gli risponde in ciascuna sostanza individuale,  non può essere nè fatto nè disfatto dall'avvicinamento o  dall'allontanamento delle parti, procedimento puramente  esteriore a ciò che è la sostanza. Non saprei dire preci-  samente se vi siano altre sostanze corporee effettive, oltre  quelle che sono animate, ma almeno le animo servono a  darci qualche conoscenza delle altre per analogia.   (Lotterà all' Arnauld, 1086, G. 11, 76-7).   Non so se sia possibile spiegare la costituzione dell' anima  meglio che dicendo: l.° che è una sostanza semplice, ovvero ciò eli e io chiamo una vera unità; 2.° che tale unità  esprime tuttavia la molteplicità, cioè i corpi, e che li  esprime il meglio possibile secondo il suo punto di vista  o il suo rapporto ; 3.° che così essa è espressiva dei fenomeni  secondo le leggi metafisico-matematiche della natura, cioè  secondo 1 ordine più conforme alla intelligenza e alla ra-  gione. i\e deriva inline, 4.° che 1" anima è una imitazione  di Dio, nel massimo grado possibile alle creature, che essa  è come lui semplice eppure anche infinita, e avvolge tutto  attraverso percezioni confuse; ma che, riguardo a quelle  distinte, essa e limitata. Invece tutto è distinto nella so-  stanza sovrana, dalla quale tutto emana, e che è la causa  ilcll esistenza e dell ordine e, in una parola, l'ultima ragione  delle cose. Dio contiene 1 universo eminentemente, e l'anima  o l'unità lo contiene virtualmente, essendo imo specchio  centrale, ma, per così dire, attivo e vitale. Si può anche  dire ohe ogni anima è un mondo a parte, ma che tutti  questi mondi si accordano e sono rappresentativi dei me-  desimi fenomeni, secondo rapporti differenti; e che questa  è la maniera più perfetta di moltiplicare gli esseri quanto  è jiossibile, ed il meglio possibile.   (Lettera a) Bayle, 1702, G. Ili, 72).   Il concetto di sostanza individuale è stato formulato da  Leibniz por la prima volta nel Dìscours de Méta physìque del  1686. La parola monade è introdotta da lui nel 1696. Verso  il mezzo della sua vita, cioè, egli è giunto in possesso dell’ele-  mento fondamentale onde per lui è costituito il mondo. Tro-  vato questo, il problema che gli si pone è di spiegare, attra-  verso tale elemento, la costituzione del mondo stesso. Come  nell arte combinatoria' si dovevano trovare, per mezzo della  scomposizione dei concetti, i termini semplici di cui consta il  pensiero umano, e poi, attraverso la varia combinazione di  essi, formare di nuovo ogni possibile concetto, così ora un’ in-  dagine analitica nel campo logico, fisico, metafisico, ha condotto  alla nozione di monade come sostanza semplice, costituente il  mondo. Si tratta ora di mostrare concretamente come il mondo consti di monadi, come ogni aspetto, ogni fenomeno di esso  sia spiegabile attraverso le combinazioni, le modificazioni, i  diversi aspetti delle monadi.   Inizio e fine della monade. - Donde nasce la monade?  Che cosa 1’ ha prodotta? Qnal’è la sua origino?   Noijl è possibile concepirla come derivata da ini qualsiasi  ente naturale: essere prodotta significa sempre in qualche modo  essere causala ; c, poiché essa comprende già in sé tutta la  serie infinita delle causo e degli effetti, non si può attribuirle  una causa al di fuori di sé stessa: qualsiasi sua causa sarebbe  sempre compresa nel suo interno. Analogamente, non è con-  cepibile neH’ordine naturale la fine della monade; implicando  tale fine un interruzione nella serie delle cause e degli effetti,  che è invece continua e infinita. L’origine e la fine delle monadi  deve essere dunque ricercata fuori deU’ordino causale dell' universo; o piuttosto si può dire che le monadi non hanno ori-  gine: sono nate insieme con l’universo stesso, sono concreate  ad esso; e il creatore di esse è il medesimo creatore deH'uni-  verso: Dio.    Quanto all' inizio e alla fine di queste forme, anime, o  principi sostanziali, bisogna dire che esse non possono avere  origine se non dalla creazione, e non possono aver fine  se non da un annullamento compiuto espressamente dalla  potenza suprema di Dio.... Così queste forme non comin-  ciano nè finiscono naturalmente. E perchè non avrebbero  esse il medesimo privi egio degli atomi, i quali, secondo  i seguaci di Gassendi, devono sempre conservarsi? Tale  privilegio bisogna accordarlo a tutto ciò che è veramente  una sostanza; perchè la vera unità è assolutamente indis-  solubile. Dato ciò, bisogna credere che queste sostanze  sono state inizialmente create insieme col mondo.   (Syslème noiweau, primo abbozzo, 1605, G. IV, 474).    Così (eccezion fatta per le anime che Dio vuole ancora  creare espressamente) fui obbligato a riconoscere che le forme costitutive delle sostanze sono state create insieme  col mondo e che sussistono in eterno.   (Syntènu nouveau, seconda stesura, 1095, G. IV, 479).   Individualità e universalità della monade. - Lo monadi  hanno in se stesse il doppio carattere di essere ciascuna un  elemento costitutivo del mondo, e insieme di implicare cia-  scuna, in se, 1 assoluta totalità di sviluppo del mondo stesso.  11 mondo è composto di monadi: ma ciascuna monade è, da  un certo punto di vista, il mondo stesso. Da va certo punto  di vista : questo è il criterio che permette di conservare e con-  ciliare quelle due caratteristiche. Ciascuna monade mantiene  la sua individualità* e la sua distinzione dalle altre, in quanto  implica e rappresenta il medesimo tutto, ma da un diverso  punto di vista. E i punti di vista sono infiniti; così sono in-  finite le monadi. L individualità della monade si concilia in  tal modo con la sua universalità.    Benché ciò possa parere paradossale, è impossibile a noi di  avere conoscenza degli individui e di trovare il mezzo per  determinare esattamente l'individualità di qualsiasi cosa.se  non prendendo la cosa stessa: infatti tutte le circostanze  possono ripetersi; le piti piccole differenze ci sono insen-  sibili; il luogo e il tempo, lungi dal determinare, hanno  anzi bisogno di essere essi stessi determinati dalle cose  che contengono. Ciò che vi è di più notevole in questo  principio, è che Y individualità involve l'infinito; e solamente colui che è capace di comprendere ciò, può aver  conoscenza del principio di individuazione di questa o di  quella cosa: principio il quale deriva dall" influenza retta-  mente intesa di tutte le cose dell' universo le une sulle  altre. E vero che non sarebbe punto così, se il mondo  fosse composto di atomi, come vuole Democrito; ma in  tal caso non vi sarebbe pure alcuna differenza tra due in-  dividui differenti aventi la medesima figura e la medesima  grandezza.    [Nuovi Saggi, 1701 s.gg., ILI, 3, § «>. Proprio Inaili versali tà della monade è ciò che garantisce la  sua individualità. Due atomi di ugual forma e grandezza, con  le medesime caratteristiche esteriori, sarebbero indistinguibili  1 uno dall altro. Due monadi non possono invece essere indi-  stinguibili e perfettamente 'identiche. II fatto di essere due,  implica che esse rappresentano il mondo da due punti di vista:  e ciascun punto di vista comporta legami e rapporti all’ in-  finito che necessariamente saranno diversi da quelli di ciascun  altro punto di vista. Due monadi perfettamente identiche in  tutto il complesso dei rapporti implicati, non sono concepi-  bili: sarebbero una sola e medesima monade. È questo il prin-  cipio che Leibniz chiama della identità degli indiscernibili. Per  esso ogni monade ha garantita la sua individualità e inconfon-  dibilità fra tutte le altre.   K eli grande importanza in tutta la filosofia e anche  nella teologia il principio che non esistono denominazioni  puramente estrinseche; e questo a causa della connessione  delle cose tra di loro. Due cose non possono diff erir e solo  locabnente o temporalmente, ma è sempre necessario che  interceda tra di esse qualche altra differenza interna. Così  non è possibile che vi siano due atomi simili per forma e  uguali per grandezza : per esempio due cubi uguali. Queste  sono nozioni matematiche, cioè astratte, non reali. Tutto  ciò che è differente deve distinguersi per qualche cosa; e  la sola posizione non basta a differenziare le cose reali.  Per questo principio si sconvolge tutta la filosofia pura-  mente atomistica. In primo luogo, non è possibile che vi  siano atomi, altrimenti vi sarebbero due cose che non dif-  ferirebbero se non dall’esterno. In secondo luogo, se la  sola posizione presa per sè non costituisce un mutamento,  ne deriva che non vi è alcun mutamento che sia pura-  mente di luogo. E, in generale, il luogo, la posizione, la  quantità (come p. es. il numero), la proporzione, non sono  se non relazioni che risultano da altre cose che costi-  tuiscono per sè stesse il mutamento. Così, essere in un  determinato luogo, astrattamente parlando, non sembra indicare altro che una posizione. Ma effettivamente bisogna  che ciò che è in un determinato luogo, esprima in sè quel  luogo stesso; cosicché la distanza e il grado di distanza  implica anche un modo di esprimere in sè la cosa distante,  di agire su di essa, e di essere da essa affetto. Ed effet-  tivamente la posizione implica un grado di espressione. Tutte le cose da noi qui esposte derivano dal principio  fondamentale che il predicato è contenuto nel soggetto;  principio che colpì l’Arnauld(l) quando una volta gliene  feci cenno: - j’ en ay esté frappe - mi scrisse.   (Frammento, C. 8-10).    Rappresentazione e appetito. - Proseguiamo nel carat-  terizzare la struttura della monade. Essa contiene in sè tutto  il proprio sviluppo futuro, insieme con lo sviluppo del mondo.  Ma quello che determina la sua particolarità e il suo valore,  è di contenerlo non esplicito ed esteso nel tempo e nello spazio,  ma implicito, in modo pregnante, allo stato potenziale.   Se noi volessimo immaginare in ciascuna monade, attualmente  sviluppato, tutto il suo svolgimento completo, perderemmo,  per così dire, il vantaggio essenziale della monade: avremmo  di fronte a noi il mondo stesso in tutta la sua immensa e inaf-  ferrabile molteplicità. Il vantaggio consiste proprio nel rac-  cogliere la molteplicità del mondo nella individualità; di con-  tenere allo stato implicito ciò che allo stato esplicito sarebbe  Superiore ad ogni facoltà di percezione o di apprensione.   Ora, come si svolge e quale aspetto assume concretamente,  nella monade, tale implicazione della totalità ? Assume l’aspetto  di forza o appetito da un lato, di rappresentazione dall'altro.  Ciascuna monade ha una rappresentazione di tutti gli stati  futuri che essa contiene in sè, e contemporaneamente ha un  impulso, una tendenza che la spinge a passare a questi futuri,  dal presente in cui si trova. In tali due forme si svolge, nel-  I - individuo, il passaggio all'universale.    (1) Antonio Arnauld (1012-1604), teologo e filosofo francese di scuola  cartesiana e giansenistica, intrattenne una lunga e importantissima corri-  spondenza col Leibniz. Lo stato dell'anima, come quello dell'atomo, è imo stato  di cambiamento, una tendenza: l'atomo tende a cambiare  di luogo, l'anima a cambiare di pensiero; l'uno e l’altro  cambiano nel modo piìi semplice e più uniforme che il  loro stato permetta. Come mai allora (mi si domanderà) c'è  tanta semplicità nel cambiamento dell'atomo e tanta va-  rietà nei cambiamenti dell'anima? Il fatto è che l'atomo  (così come lo si i mm agina, benché veramente non esista  in natura), quantunque sia composto di parti, non ha  nulla che determini varietà nel suo tendere, poiché si sup-  pone che queste parti non mutino i loro rapporti reciproci ;  mentre l'anima, per quanto indivisibile, contiene una ten-  denza composta, cioè una molteplicità di pensieri presenti  dei quali ciascuno tende a un particolare cambiamento, a  seconda di ciò che esso contiene; e questi pensieri si tro-  vano tutti insieme nell'anima, in virtù del suo rapporto  essenziale con tutte le altre cose del mondo. E anzi, è  fra 1 altro la mancanza di tale rapporto che rende impos-  sibili in natura gli atomi di Epicuro. Infatti ogni cosa o  parte dell' universo deve rappresentare tutte le altre; Sic-  ilie 1 anima, quanto alla varietà delle sue modificazioni,  non deve paragonarsi all'atomo materiale, ma piuttosto  all universo, che essa rapprasenta dal suo punto di vista,  e anche in qualche maniera a Dio, di cui essa rappresenta  in modo finito 1 infinità (a causa della sua percezione con-  fusa e imperfetta dell' infinito).   11 sentimento del piacere, per esempio, sembra semplice,  ma non lo è; e chi lo volesse notomizzare troverebbe  che esso implica tutto ciò che ci circonda e conseguente-  mente tutto ciò cir conila ciò che ci circonda. E la ragione  del cambiamento dei pensieri nell'anima è la medesima  ragione del cambiamento delle cose nell’ universo che  essa rappresenta. Infatti i rapporti meccanici che sono  sviluppati nei corpi, sono riuniti e, per cosi dire, con-  centrati nelle anime o entelechie, ed hanno anzi in esse    0. — Leibniz, La monadologia.   la loro origine. È vero che non tutte le entelechie sono,  come la nostra anima, immagini di Dio, poiché non tutte  sono fatte per essere membri di una società o di uno stato  di cui egli sia il capo; ma esse sono sempre immagini del-  l'universo. Sono mondi in compendio, a modo loro: sem-  plicità feconde ; unità di sostanze ; ma virtualmente infinite,  por la molteplicità delle loro modificazioni; centri che  esprimono una circonferenza infinita.   (Polemica col Bayle, 1712, G. 1 V, óti2).   Non potrebbe Dio forse dare inizialmente alla sostanza  una natura o forza interna che le faccia produrre ordi-  natamente (come in un automa spirituale o formale, ma  libero, in quanto gli è attribuita la ragione) tutto ciò  che le accadrà, cioè tutte le impressioni o espressioni che  essa avrà ; e ciò senza 0 soccorso di alcun' altra creatura ?  Tanto più che la natura della sostanza richiede necessa-  riamente e implica essenzialmente im progresso o un cam-  biamento, senza il quale essa non avrebbe la forza di  agire. E poiché questa natura dell'anima è rappresentativa  dell" universo in modo esattissimo (benché più o meno di-  stinto), la serie delle rappresentazioni che l'anima produce  in sé risponderà naturalmente alla serie dei cambiamenti  dell’universo stesso.   (Syxtème nouveau, lt>95, G. IV, IS.">).    Una monade, in sé stessa e in un istante, non può essere  distinta da un'altra, se non per le sue qualità e azioni  interne, le quali non possono essere altro che le sue per-  cezioni (cioè le rappresentazioni del composto o di ciò che  sta al di fuori, nel semplice), e le sue appetizioni (cioè il  suo tendere da una percezione all'altra) che sono i prin-  cipi del cambiamento. Infatti la semplicità della sostanza  non impedisce la molteplicità delle modificazioni che si  devono trovare insieme in questa medesima sostanza semplico; e tali modificazioni consistono nella varietà dei rap-  porti rispetto alle cose che stanno al di fuori. Così in un  centro o punto, per quanto semplice, si trova un' infinità  di angoli formati dalle linee che ad esso concorrono.   ( Principe « de la Mature et de la Grace, 1713-14, G. VI, 598).   Tn tal modo si viene anche a configurare il concetto di rap-  presentazione e in generale di conoscenza, come Leibniz lo  tratta dal punto di vista gnoseologico. Percezione è espressione  delia molteplicità nell’unità; e, d’altro lato, è azione.   11 pensiero, essendo l’azione di una cosa su sè medesima,  non ha luogo nella figura e nel movimento, i quali non  possono mostrare il principio d ima azione veramente in-  terna: d’altronde è necessario che vi sieno esseri semplici,  altrimenti non vi sarebbero esseri composti o esseri per  aggregazione, i quali sono piuttosto fenomeni che so-  stanze, ed esistono piuttosto \óp<p che (potrei (cioè piut-  tosto moralmente o razionalmente che fisicamente) per  parlare con Democrito. E se non vi fosse cambiamento  nelle cose semplici, non ve ne sarebbe neppure nelle com-  poste, tutta la realtà delle quali non consiste se non nella  realtà delle cose semplici. Ora i cambiamenti interni nelle  cose semplici sono analoghi a ciò che noi concepiamo nel  pensiero, e si può dire che in generale la percezione è  V espressione della molteplicità nell' unità. Ella non ha bi-  sogno, Signore (1), di questi schiarimenti sulla immate-  rialità del pensiero di cui Ella ha parlato in modo ammi-  revole in molti luoghi. Tuttavia, unendo queste conside-  razioni con la mia ipotesi particolare, mi pare che l'una  serva a dar luce alle altre.   (Lotterà ni Bayle, 1702, G. Ili, 69).   (1) Piotro Bayle (1647-1706), cui Leibniz qui si rivolge, b il principale  rappresentante della lilosofia scettica in quel tempo. Fondatore delle 1 Volt-  velles de la republique des lettres, autore del Dictionnaire historique et crilique,  ebbe col Leibniz lunghe od interessantissime polemiche su vari argomenti,  quali l’ipotesi dell’armonia prestabilita, e il problema della conciliazione fra  fede o ragione. I pensieri sono azioni; e le conoscenze o verità, in  quanto sono in noi, anche quando non vi si pensa, sono  abitudini o disposizioni; e noi sappiamo molte cose alle  quali non pensiamo punto.   ( Nuovi Saggi, 1701 segg. I, I, § 26, G. V., 79).   Mi meraviglio, Signore, che Ella insista nel volgere le mie  opinioni in modo completamente diverso da ciò che io  intendo. Ella pretende che, secondo me, noi non facciamo  altro che accorgerci di ciò che avviene dentro di noi. Non  so d onde Ella abbia ricavato quest’ idea; io ritengo in-  vece che noi facciamo tutto ciò che avviene in noi.   (Lettera al Jaquelot, 1701, G. VI, 567).   II pensiero come unità della molteplicità e come azione:  ecco due concetti che saranno propri della filosofia idealistica  postkantiana, cui Leibniz giunge già qui con l’ approfondi mento  del concetto di monade come spirito.   Le piccole percezioni. - Da tale concetto Leibniz trae  anche argomenti per affermare l’ innatismo, contro la nega-  zione del Locke, il quale nel suo * Saggio sull’ intelletio umano,  si era opposto al razionalismo cartesiano affermando che tutto  viene aU’anima esclusivamente dai sensi, cioè dal di fuori,  come segni che si imprimano su di una tabula rasa. I Nuovi  saggi sull’ intelletto umano di Leibniz sono tutti destinati ad  una presa di posizione di fronte alle tesi del Locke. Di essi  verrà trattato in un volume a parte. Qui ci interessa solo no-  tare come raifermazione dell’ innatismo in Leibniz non si fondi  soltanto, come in Cartesio, su motivi razionalistici. Ciò che è in-  nato allo spirito, non deriva per lui unicamente dalle idee di ra-  giono. È innato anche tutto ciò che è contenuto nell’anima,  intesa come monade, cioè tutta la serie dei rapporti di causa  e di effetto di cui essa ha rappresentazione. Tutto ciò costi-  tuisce il contenuto dell’anima, e non viene ad essa dal di fuori  ma fa parte di essa già fin dalla sua creazione; tutto 1 uni-  verso, insomma, è già insito a priori nell’anima.   Ma l’anima non ha nozione attuale di tutto questo suo con-  tenuto. Il campo della sua conoscenza è limitato e si estende    IV. - LA MONADE    85    solo a ciò che le è pili immediatamente a contatto. Come si  concilia questo con la sua universalità e con l’innatismo?  Leibniz ricorre a* questo proposito alle piccole percezioni o per-  cezioni insensibili, le quali non cessano di influire sull’anima,  pur senza giungere alla sua coscienza. Esse appartengono bensì  dia rappresentazione deH’anima: l’anima però non ne ha con-  sapevolezza. In tal modo si viene a far concordare l’assoluto  innatismo di ogni verità, sia necessaria sia contingente, sia  di ragione sia di fatto, con la limitazione attuale delle nostre  conoscenze. Le piccole percezioni permettono a Leibniz di con-  cepire la monade limitata insieme e universale.   La questione dell’origine delle nostre idee e dei nostri  principi non è preliminare nella filosofia, e bisogna esser  molto avanzati per risolverla bene. Credo tuttavia di po-  ter dire che le nostre idee, anche quelle delle cose sensibili  vengono dal nostro proprio intimo.... Non sono affatto fa-  vorevole alla tabula rasa di Aristotele; e vi è del giusto  in ciò che Platone chiamava reminiscenza. Vi è anzi di  piii, giacché noi non abbiamo soltanto una reminiscenza di  tutti i nostri pensieri passati, ma anche un presentimento  di tutti i nostri pensieri futuri. È vero che ciò avviene in  modo confuso e senza distinguere questi pensieri, press’ a  poco come quando io odo il rumore del mare: odo allora  il rumore di tutte le onde particolari che compongono il  rumore totale, pur senza distinguere un'onda dall'altra.  Così è vero, in un certo senso, ciò die ho spiegato : cioè  die non solo le nostre idee, ma anche le nostre sensazioni  (sentiments) nascono dal nostro fondo, e che l'anima è più  indipendente di quanto non si pensi; benché resti pur  vero che nulla avviene in essa che non sia determinato,  e che nulla è nelle creature, che non sia continuamente  creato da Dio.   (Suri' Essay de l'entendement liutnain de Momùur Loci. dc.j o il ]( f-3, G.Y, l(i).   Si tratta di sapere se l' anima in se stessa sia compieta-  mente vuota, come delle tavolette in cui non si sia ancora scritto nulla (tabula rasa), secondo l'opinione di Aristotele  e dell'autore del Saggio, e se tutto ciò che vi è tracciato  derivi unicamente dai sensi e dall'esperienza: oppure se  l'anima contenga originariamente i principi di varie nozioni  e dottrine che gli oggetti esterni risvegliano soltanto nelle  varie occasioni, come credo io, d’accordo con Platone e  anche con la Scuola e con tutti coloro che prendono in  questo significato il passo di S. Paolo (Rom. 2,15), dove  egli dice che la legge di Dio è scritta nei cuori....   Possiamo noi negare che vi sia molto d’ iimato nel  nostro spirito, dal momento che siamo innati - per così  dire - a noi stessi, e in noi stessi vi sono l’essere, l'unità,  la sostanza, la durata, il cambiamento, l'azione, la per-  fezione, il piacere e mille altri oggetti delle nostre idee  intellettuali? Ed essendo questi oggetti immediati al no-  stro intelletto e sempre presenti (benché non possano esser  sempre percepiti a causa delle nostre distrazioni e dei  nostri bisogni), perchè meravigliarsi se noi diciamo che  queste idee ci sono innate con tutto ciò che ne dipende?  Mi sono servito anche del paragone di una pietra di marmo  che abbia delle venature, anziché essere tutta unita come  le tavolette vuote o ciò che i filosofi chiamano tabula  rasa. Poiché, se l'anima somigliasse a queste tavolette  vuote, le verità sarebbero in noi come la figura d' Ercole  è in un marmo, quando questo marmo è completamente  indifferente a ricevere questa figura o qualche altra. Ma  se vi fossero delle vene in quella pietra, elio indicassero  la figura di Ercole a preferenza di altre figure, questa  pietra sarebbe piii determinata, e Ercole vi sarebbe come  innato in qualche maniera ; quantunque sarebbe necessario  un certo lavoro per scoprile queste vene e polirle, elimi-  nando ciò che impedisce loro di apparire. E in questa  guisa le idee e le verità ci sono innate come inclinazioni,  disposizioni, abitudini o virtualità naturali, e non come  azioni; benché queste virtualità siano sempre accompanate da qualche azione, spesso insensibile, ad esse rispon-  dente.... D'altronde, vi sono mille segni i quali mostrano  che in ogni istante vi è in noi un' infinità di ■p ercezio ni,  prive però di appercezione (1) e di riflessione, cioè cam-  biamenti nell’anima stessa, di cui noi non ci accorgiamo  perchè le impressioni sono troppo piccole o troppo nume-  rose o troppo unite fra di loro in modo da non aver nulla  che lo distingua partitamente ; ma, unito ad altre, non  mancano di produrre il loro effetto e di farsi sentire per lo  meno confusamente nell’ insieme. Così l'abitudine fa sì che  noi non ci accorgiamo del movimento di im mulino o di  una cascata, quando vi abbiamo abitato vicino per qualche  tempo. Ciò non significa che tali movimenti non conti-  nuino a colpire i nostri organi, e che non avvenga anche  nell’anima qualche cosa che vi risponda ...., ma queste in-  pressioni che sono nell’anima e nel corpo, prive dell'attrat-  tiva della novità, non sono abbastanza forti per attirare  la nostra attenzione e la nostra memoria, le quali sono  rivolte ad oggetti più interessanti. Giacché ogni attenzione  richiede memoria, e spesso, quando non siamo per così dire  ammoniti ed avvertiti di prestare attenzione a talune delle  nostre percezioni presenti, le lasciamo passare senza rifles-  sione e senza neppur notarle; ma se qualcuno ce ne avverte subito dopo, e ci fa osservare per esempio un qual-  siasi suono che si sia appena inteso, ce ne ricordiamo, e  ci accorgiamo di averne avuto poco fa una sensazione. Così si trattava di percezioni di cui non ci eravamo ac-  corti immediatamente, derivando in questo caso l'apper-  cezione solo dall' avvertimento venuto dopo un intervallo  sia pur minimo. Non si dorme mai tanto profondamente da non aver  qualche sensazione debole e confusa, e non si sarebbe mai  svegliati neppure dal più grande rumore del mondo, so   (1) Appercezione » significa percezione cosciente (A j>ercevoir: accorgersi)  Cfr. Monadologia , 8 14.    ss   non si avesse una qualche percezione del suo inizio, che  è piccolo; cosi come, neppure col più grande sforzo del  mondo, non si romperebbe mai una corda so essa non  fosse tesa e allungata un poco attraverso sforzi minori;  per quanto questa piccola estensione da essi prodotta, non  appaia.   (Nuovi .Saggi, 1701 segg., Prelazione, G. V, 42 47).   Do Ila rappresentazione e percezione si parlerà più a lungo  nel volume che tratterà dei Nuovi Saggi. Qui è interessante  notale come lo sviluppo del concetto di monade influisca di-  rettamente anche su tutti i problemi gnoseologici. La monade assume sempre più le caratteristiche dello spi-  rito. Universale, priva di estensione, eterna, indistruttibile,  dotata di rappresentazione e azione, essa diviene come la  pietra con cui l’edificio deH’universo è stato costruito. Essa  è spirito; ma tutto, anche la materia, consta di monadi; sia,  il mondo materiale sia il mondo spirituale la devono assu-  mere come punto di partenza. Da questa concezione della  monade come elemento costitutivo del mondo, e dall’ impegno  di giustificare tutto attraverso essa, sorgono nuovi sviluppi.  Non si tratta più ora di studiare questo principio sostanziale  nella sua. intima costituzione: si tratta di vederlo agire nel  mondo.   I problemi che si pongono a questo proposito si possono  ridurre a tre: quello dei rapporti della monade con la suprema  sostanza spirituale, cioè Dio; quello dei rapporti delle varie  monadi tra loro; e quello della giustificazione di una natura  corporea. Vedremo corno questi problemi siano vicendevol-  mente collegati.   Le monadi e dio; accordo tra le monadi. - La rap-  presentazione di tutto l'universo e la tendenza alla propria  realizzazione che ciascuna monade tiene in sè, sono analoghe  alla tendenza e alla rappresentazione che caratterizzano la  divinità. Per questo riguardo la monade non è diversa da Dio.  L) altro lato essa è una creatimi di Dio; e il suo aspetto di  creatura consiste proprio nel punto di vista particolare da cui essa agisce e si rappresenta il mondo. In tale rappresentazione  ciascuna monade è completa in sè stessa, nè è possibile che  alcunché provenga ad essa dal di fuori: tutte lo sue affezioni,  passate, presenti e future, sono già contenute in ossa. La sua  rappresentazione del mondo è già chiusa in sè: il suo contenuto  corrispondo al contenuto delle altre monadi, allo stosso modo  che due panorami di una città da punti di vista diversi si  corrispondono senza influenzarsi a vicenda. Questa comple-  tezza della monade chiusa in sè stessa, è espressa da Leibniz  con due detti celebri: il primo, che le monadi non hanno fi-  nestre', il secondo, che basta all’esistenza e universalità della  monade, che ci sia Dio ed essa sola al mondo.   Dio produce diverse sostanze, a seconda delle visioni differenti che  egli ha dell' universo -, e, attraverso V intervento di Dio, la natura  propria di ciascuna sostanza fa sì che ciò che accade all' una, corri-  sponda a ciò che accade a tutte le altre, senza però che l’una agisca  immediatamente sull’ altra.   È in primo luogo chiarissimo che le sostanze create di-  pendono da Dio, il quale le conserva, anzi le produce con-  tinuamente per ima specie di emanazione, così come noi  produciamo i nostri pensieri. Infatti, dato che Dio volge,  per così dire, da tutte le parti e in tutte la maniere il si-  stema generale dei fenomeni ch’egli crede bene di produrre  per manifestare la sua gloria, e guarda tutti gli aspetti  del mondo in tutti i modi possibili (poiché nessun rap-  porto sfugge alla sua onniscienza); ne consegue che il ri-  sultato di ciascuna visione dell’universo da un determinato  punto di vista, è una sostanza che esprime l’universo in  modo conforme a tale visione, se Dio crede bene di rendere  il suo pensiero effettivo e di produrre tale sostanza. E  poiché la visione di Dio è sempre veritiera, lo sono altresì  le nostre percezioni : ma ciò che ci inganna sono i nostri  giudizi, che dipendono da noi.   Ora noi abbiamo detto sopra, e discende dalle nostre ulti-  me affermazioni, che ciascima sostanza è come un mondo a  parte, indipendentemente da qualsiasi altra cosa all’ infuori  di Dio. Così tutti i nostri fenomeni, cioè tutto ciò che ci  potrà mai accadere, non è che una conseguenza del nostro  essere. E poiché questi fenomeni conservano un certo or-  dine conforme alla nostra natura, o. per così dire, al mondo  elio è in noi - onde possiamo fare osservazioni utili a  regolare la nostra condotta e giustificate dall' avverarsi  dei fenomeni futuri, e possiamo spesso arguire senza errare  1’ avvenire dal passato . basterebbe questo per dire che  tali fenomeni sono veri, senza preoccuparsi se essi siano  fuori di noi e se anche gli altri li percepiscano. Tuttavia  è pur vero che le percezioni o espressioni di tutte le so-  stanze si rispondono vicendevolmente, in modo che cia-  scuno, seguendo accuratamente certe ragioni o leggi che  ha osservate, s’ incontra con l' altro che fa altrettanto ; così  come, quando più persone si sono accordate di trovarsi  insieme in un determinato luogo e in un determinato  giorno, lo possono fare effettivamente se vogliono. Ora.  nonostante che tutti esprimano i medesimi fenomeni, non  per questo le loro espressioni sono perfettamente simili,  ma basta che siano proporzionali: così come vari spetta-  tori credono di vedere la medesima cosa, e infatti si in-  tendono vicendevolmente, per quanto ciascuno veda e parli  secondo la misura della sua vista.   Ora solamente Dio (dal quale emanano continuamente  tutti gli individui, e il quale vede l'universo non solo  come lo vedono essi, ma anche in modo completamente  diverso) è causa di tale corrispondenza dei loro fenomeni,  e fa sì che ciò che è specifico di uno sia comune a tutti;  altrimenti non vi sarebbe alcun legame. Si potrebbe dun-  que dire — in certo modo e in senso esatto, per quanto  lontano dall'uso comune che una sostanza particolare  non agisce mai su di un'altra sostanza particolare nè è  affetta da essa, se si considera che ciò che accade a cia-  scuna non è che una conseguenza della sola sua idea o  nozione completa ; poiché tale idea contiene già tutti i predicati o eventi, ed esprime tutto l’universo. Infatti,  niente ci può toccare se non pensieri e percezioni, e tutti  i nostri pensieri e le nostre percezioni future non sono  che conseguenze (sia pur contingenti) dei nostri pensieri  e percezioni precedenti; in modo che, se io fossi capace  di considerare distintamente tutto ciò che mi accade o mi  appare in questo istante, vi potrei vedere tutto ciò  che mi accadrà o mi apparirà in eterno; e ciò non ver-  rebbe a manóare e mi accadrebbe pur sempre, se anche  tutto ciò che è fuori di me fosse distrutto, purché non ri-  manesse se non Dio e io stesso.   ( Discovra de métaphysique, 1686, § XIV).   La differenza fra la monade e Dio consisto dunque in ciò,  die la monade è rappresentazione del mondo da un solo punt o  di vista; mentre Dio li raccoglie e riassume tutti in sé. E  <|uesto è anche il fondamento dell’accordo delle monadi fra  di loro, pur mantenendo ciascuna la sua autonomia e in-  dipendenza.   Le percezioni confuse e l’azione reciproca delle mo-  nadi. - Ma anche per un altro lato si distingue la monade da  Dio: perla minor chiarezza e precisione della sua rappresentazione. Con le percezioni confuse Leibniz riprende il concetto  delle piccole percezioni. Ma mentre quelle servivano a dimo-  strare in ogni anima la presenza - sia pure incosciente e in-  distinta - di tutto il contenuto del mondo, queste fanno  ravvisare in tale incoscienza e confusione la causa della im-  perfezione propria di ciascuna monade.   Nella rappresentazione delle monadi sono contenuti bensì  tutti i legami di causa ed effetto che costituiscono l’universo:  ma non come percezione chiara, distinta, perfettamente svi-  luppata. Man mano che ci si allontana dal punto di partenza  che costituisce 1 individualità essenziale di ciascuna monade,  tale percezione si fa indistinta e confusa. E la deficienza deriva  dalla imperfezione che è propria delle creature. In Dio, che è  il luogo, per così dire, di tutte le monadi e raccoglie in sé  gli infiniti punti di vista, la rappresentazione dell’universo  nella sua totalità è sempre perfettamente chiara e distinta.  Le percezioni dei nostri sensi, quand' anche sono chiare,  devono necessariamente contenere una qualche sensazione  confusa; poiché, dato che tutti i corpi dell'universo sim-  patizzano, il nostro riceve 1’ impressione di tutti gli altri :  e quantunque i nostri sensi siano in rapporto col tutto,  non è possibile che la nostra anima possa por mente a  tutto particolareggiatamente. Questa è la ragione onde le  nostre sensazioni confuse sono il risultato di una varietà  di percezione assolutamente infinita. Così il mormorio con-  fuso che vien udito da chi si avvicini alla riva del maro  deriva dalla riunione delle risonanze di imvumerevoli onde.  Ora, se fra varie percezioni (che non s'accordano affatto  a costituirne mia complessiva) non ve n’è alcuna che ec-  cella al di sopra delle altre, e se esse producono press’ a poco  impressioni di uguale intensità o ugualmente capaci di  determinare l'attenzione dell'anima, l'anima non può ac-  corgersene se non confusamente.   ( Discoltra de mélaphysique, J 080 , § XXXHI).   La differenziazione nella chiarezza della percezione è dunque  ciò che costituisce l'individualità di ciascuna monade e ciò che  differenzia le monadi una dall’altra. E anche spiega, in certo  qual modo, come si possa parlare - impropriamente però -  di azione, di una monade sull’altra.   Poiché noi attribuiamo ad altre cose, come a cause che  agiscano su di noi, ciò che percepiamo in un certo modo,  bisogna considerare il fondamento di questa opinione e  ciò che vi è in essa di vero.   L'azione di una sostanza finita sull’altra no>i consiste se non nel-  l’accrescimento del grado della sua espressione , unito alla diminu-  zione di quello dell'altra , in quanto Dio le obbliga ad accordarsi.   Ma senza entrare in una lunga discussione, basta ora,  per conciliare il linguaggio metafisico con la pratica, os-  servare che noi attribuiamo a noi stessi, e con ragione, piuttosto i fenomeni che esprimiamo più perfettamente;  e clie attribuiamo alle altre sostanze ciò che ciascuna di  esse esprime meglio. Così ciascuna sostanza, clie è di esten-  sione infinita in quanto esprime tutto, diviene limitata per  il modo della sua espressione più o meno perfetta. In tal  modo dunque si può concepire che le sostanze si impe-  discano e limitino vicendevolmente; e quindi si può dire  in questo senso che esse agiscono l’ima sull'altra e sono  obbligate, per così esprimersi, a adattarsi l una all'altra.  Giacché può avvenire che un cambiamento che aumenti  l’espressione dell - una, diminuisca quella dell'altra. Ora la  virtù di mia sostanza particolare è di bene esprimere la  gloria di Dio; ed è questo l'aspetto onde ossa è meno li-  mitata. E qualsiasi cosa, quando esercita la sua virtù o  potenza, cioè quando agisce, cambia in meglio e si svi-  luppa, in quanto agisce. E dunque, quando avviene un  cambiamento da cui più sostanze sono affette (e effetti-  vamente ogni cambiamento le tocca tutte), credo che si  possa due che quella che per questo cambiamento passa  immediatamente ad un maggior grado di perfezione o ad  una espressione più perfetta, esercita la sua potenza e  agisce; e quella che passa ad un grado minore di perfe-  zione, mostra la sua debolezza e 'patisce. Ritengo inoltre  che ogni azione della sostanza che abbia una qualche per-  cezione, comporti un qualche 'piacere ; e ogni passione un  qualche dolore, e viceversa. Ma può tuttavia accadere che  un vantaggio presente sia distrutto da un male maggiore  in seguito. D’onde deriva che si può peccare pur nell' agire  o nell’ esercitare la propria potenza e provando piacere.   (Discovra de méiuphysique, 1686, § XV).   Le percezioni confuse come corpo. - Percezione distinta  è dunque nella monade l’elemento attivo; percezione confusa  l’elemento passivo. Ora noiT si e già visto, a proposito delle  leggi della forza e del movimento, che Leibniz definisce l’azione  come il principio spirituale, e la passione (o passività) come  quello materiale? Le percezioni confuse, in quanto passive,  rappresentano nella monade il principio corporeo.   Ho già detto che da un punto di vista rigorosamente  metafisico, considerando come azione ciò che a va- iene alla  sostanza spontaneamente e dal suo stesso fondo, tutto  ciò che è propriamente una sostanza non fa (thè agire, poi-  ché tutto le proviene da sé stessa dopo che da Dio, e non  è possibile che una sostanza creata abbia influenza sul-  l’altra. Ma, considerando come azione un esercizio di per-  fezione, e passione il contrario, non vi è azione nelle vere  sostanze se non quando la loro percezione (e io attribuisco  percezione a tutte) si sviluppa e diviene più distinta; e  non vi è jxissione se non quando diviene più confusa. Di  modo che nelle sostanze capaci di piacere e di dolore,  ogni azione è un avviamento al piacere, e ogni passione  al dolore.   ( Nuovi Saggi, 1701 segg., II, 21, § 72).   Le ideo e verità innate non possono essere cancellate;  ma sono oscurate in tutti gli uomini (al loro stato attuale)  dalla loro tendenza verso i bisogni del corpo, e spesso ancor  pili dalle cattive abitudini sopravvenute. Tali caratteri di  illuminazione interna sarebbero sempre splendenti nell" in-  telletto e darebbero calore alla volontà, se le percezioni  confuse dei nostri sensi non si impossessassero della no-  stra attenzione. È questa la lotta di cui parla la Sacra  Scrittura e anche la filosofia antica e la moderna.   ( Nuovi Saggi, 1701 segg., 1, 2, § 20).   Si ha ragione di chiamare, coi filosofi antichi, perturba-  zione o passione ciò che consiste nei pensieri confusi, in  cui vi è dell' involontario e dello sconosciuto ; ed è ciò che  nel linguaggio comune si attribuisce non ingiustamente alla  lotta fra corpo e spirito, poiché i nostri pensieri confusi rappresentano il corpo o la carne, e costituiscono la no-  stra imperfezione.   (Polemica eoi Bayle, 1702, G. It , olio).    D’altro lato, è interessante notare elio Leibniz, proprio con-  temporaneamente alla definizione delle percezioni confuse come  provenienti dalla natura corporea, riafferma che esse non hanno  nulla di essenziale che no distingua la natura da quella delle  percezioni distinte; che è come dire che la natura corporea  non differisce essenzialmente dalla natura spirituali'.    Si concepiscono generalmente i pensieri confusi come di  un genere completamente diverso dai pensieri distinti, e il  nostro autore (1) giudica die lo spirito sia più unito al  corpo attraverso i pensieri confusi che attraverso quelli  distinti. Ciò non è senza fondamento, poiché i pensieri  confusi indicano la nostra imperfezione, le nostre pas-  sioni, la nostra dipendenza dall' insieme delle cose este-  riori o dalla materia, mentre la perfezione, forza, do-  minio, libertà e azione dell’anima consistono principal-  mente nei nostri pensieri distinti. Tuttavia non è men  vero che, in fondo, i pensieri confusi non sono altro  che ima molteplicità di pensieri in sé stessi uguali ai  distinti, ma tanto piccoli che ciascuno separatamente  non eccita la nostra attenzione e non è distinguibile.  Si può dire anzi che nelle nostre sensazioni ve ne è com-  presa insieme una quantità veramente infinita. E in ciò  consiste proprio la grande differenza fra i pensieri confusi   e quelli distinti.... .   Così non bisogna punto concepire le sensazioni contuse  come qualche cosa di primitivo e di inesplicabile ; altri-  menti le si mettono press’ a poco a pari con le antiche qua-  lità di alcuni filosofi scolastici, (2) alle quali non si farebbe    (1) Il benedettino Francesco Lami, autore di una Connotane de soy  , nènie ( Parici, 1«99), con cui Leibniz è qui in polemica.   (2) Leibniz allude qui alla concezione scolastica Becondocuiognisensa.  zinne deriva da differenti « qualità sensibili » che si muovono dai corpi esterni che sostituire queste sensazioni se si volesse sostenere tale  differenza essenziale; e ciò non sarei) he che spostare la  difficolta. E, quantunque sia vero che la loro spiegazione  completa superi le nostre forze a causa della troppo grande  molteplicità che esse implicano, non si cessa tuttavia di  penetrarvi sempre più, per mezzo di esperienze che fanno  scoprire in esse i fondamenti dei pensieri distinti. La luce  e i colori ci forniscono esempi di ciò. Queste sensazioni  confuse, non sono neppur esse arbitrarie; e io non sono  d’accordo con l'opinione accettata oggi dai più e seguita  dal nostro autore, che non vi sia somiglianza o rapporto  fra le nostre sensazioni e le loro tracce corporee. Direi  piuttosto che le nostre sensazioni rappresentano ed espri-  mono perfettamente tali tracce. Taluno dirà forse che la  sensazione del calore non assomiglia al movimento: sì.  senza dubbio, non assomiglia a un movimento sensibile  quale quello della ruota di una carrozza; ma assomiglia  all' insieme dei piccoli movimenti del fuoco e degli organi  che ne sono la causa; o piuttosto non è se non la loro  rappresentazione. Così la bianchezza non assomiglia a uno  specchio sferico convesso, e tuttavia non è che 1' insieme  di una quantità di piccoli specchi convessi quali si vedono  nella schiuma, guardandola da vicino. E se noi potes-  simo sempre scoprire con la medesima facilità la causa  delle nostre sensazioni, troveremmo che essa si riduce  sempre a qualche cosa del genere.   (Addition à l'Explication du systeme nouteau, dopo il 1700, G. IV, 674-0).   Corporeità nella monade. Immortalità. - Si è giunti  dunque a concepire il corpo come un semplice aspetto dello  spirito: o meglio, corpo e spirito come due diversi aspetti della   per penetrare in noi. Tale concezione faceva di ogni sensazione alcunché di  primitivo, originario, irresolubile. Le varie sensazioni derivano invece per  Leibniz dal differente comportarsi di un’unica sostanza, e la differenza fra  confuso e distinte — cioè fra anima e corpo - è differenza di grado, non es-  senziale.    7. — I.kihniz, La monadologia.   sostanza semplice originaria, o monade; la quale non è in sè  corporea, ma può, anzi deve svilupparsi in quanto aumenti  o diminuisca il suo grado di perfezione - come spirito o come  corpo. Le percezioni possono infatti divenire da confuse di-  stinte, e viceversa.   Oltre alle percezioni di cui l'anima ha ricordo, essa ne ha  una quantità infinita di confuse, di cui non viene in chiaro;  e attraverso queste, essa rappresenta i corpi esterni, e  giunge a pensieri distinti diversi dai precedenti : perchè i  corpi che essa rappresenta sono passati d’ un tratto a qual-  che cosa che colpisce fortemente il suo. Cosi l’ anima passa  qualche volta dal bianco al nero o dal sì al no, senza sa-  pere come, o almeno in modo involontario. Poiché ciò  che i suoi pensieri confusi e le sue sensazioni producono  in essa, si attribuisce al corpo. E non Insogna dunque  meravigliarsi se un uomo che mangia un dolce, e si trova  punto da un qualche animale, passa immediatamente, suo  malgrado, dal piacere al dolore. Intatti l animale era già  in relazione col corpo dell'uomo avvicinandosi ad esso  prima di pungerlo, e la rappresentazione di ciò colpiva  già la sua anima, ma insensibilmente. Tuttavia a poco a  poco F insensibile passa al sensibile, nell' anima come nel  corpo ; e così l’anima si modifica da sè anche contro la sua  volontà; poiché essa è schiava, attraverso le sensazioni e  i pensieri confusi che si formano secondo gli stati del suo  corpo e degli altri corpi in rapporto al suo. Ecco dunque  per quale meccanismo i piaceri si interrompono, e a volte  succedono i dolori senza che l'anima ne sia sempre avver-  tita o vi sia preparata; come per esempio nel caso che  l'animale il quale pungerà si avvicini senza rumore; op-  pure, se fosse per esempio una vespa, quando una di-  strazione ci impedisce di fare attenzione al ronzio della  vespa che si avvicina. Così non bisogna punto dire che  non è avvenuto nulla di nuovo nella sostanza di questa  anima, per cui essa passi alla sensazione della puntura: sono i presentimenti confusi o, per meglio dire, le dispo-  sizioni insensibili dell'anima che rappresentavano la dispo-  sizione alla puntura nel corpo. Osservazioni al Dizionario del Bayle, G.).   Discende anche necessariamente da tutto ciò che ogni mo-  nade, e perciò ogni anima, sia fornita di un corpo. E, poiché  ogni monade è eterna e ind istrutt ibile, non solo l'anima è  immortale, ma è anche indistruttibile il corpo; e di morte, a  ligoie, nella natura, non si può parlare, ma solo di una com-  posizione e scomposizione di vari elementi semplici tra loro.   Io ritengo non solo che queste anime o entelechie ab-  biano tutte con sè un qualche corpo organico proporzio-  nato alle loro percezioni; ma anche che Io avi-anno sempre  e lo hanno sempre avuto da quando esistono: così non  solo l'anima, ma anche l'animale stesso (o ciò che è ana-  logo all anima e all animale, per non fare questioni di  parole) permane, e la generazione e la morte non possono  essere se non sviluppi e involuzioni di cui la natura ci  mostra visibilmente alcuni saggi, secondo il suo uso, per  aiutarci a indovinare ciò che nasconde. E quindi nè il  terrò, ne il fuoco, ne tutte le altre violenze della natura,  qualunque rovina portino nel corpo di un animale, non pos-  sono impedire all'anima di conservare un qualche corpo  organico, in quanto l'organismo, cioè l'ordine e l'artificio,  è qualche cosa di essenziale alla materia prodotta e orga-  nizzata dalla sovrana saggezza: poiché la produzione deve  sempre conservare traccia del suo autore. Questo mi fa  pensare anche che non vi sia alcuno spirito separato    (I ) Quanto è qui affermato contraddice solo in parte all' ipotesi dell’ar-  monia prostabilita, secondo la quale corpo e spirito sono due sistemi sepa-  rati, privi di influenze reciproche. Le percezioni confuse dell’anima sono  qui intese non come veraracute corporee, ma come rappresentatrici nel-  l'anima di ciò ohe avviene nel corpo. È innegabile però clic Leibniz a volte  attribuisce invece alle percezioni confuse un carattere nettamente corporeo.  (Cfr. pp. 94 ss., 110 ss.).  completamente dalla materia, salvo l'essere primo e so-  vrano (1). .   (Lettera a Lady Mnsham, 1704, G. Ili, 340).   In natura e secondo un rigore metafisico, non vi è nè  generazione nè morte, ma solo sviluppo e involuzione di  un medesimo animale. Altrimenti vi sarebbe un salto ec-  cessivo, e la natura uscirebbe troppo dal suo carattere di  uniformità per un cambiamento essenziale inesplicabile.  L’esperienza conferma tali trasformazioni in alcuni animali,  nei quali la natura stessa ci ha mostrato un piccolo saggio  di ciò che essa nasconde altrove. L' osservazione anche  permette ai più accorti osservatori di notare che la gene-  razione degli animali non è altro che un accrescimento ag-  giunto alla trasformazione; il che consente di giungere alla  conclusione che la morte non può essere se non il con-  trario; consistendo la differenza solamente nel fatto che  in un caso il cambiamento si produce a poco a poco, e  nell’altro d’ un tratto e come violentemente. D'altronde,  l'esperienza mostra anche che un numero troppo grande  di piccole percezioni poco distinte, come quelle che ven-  gono quando si è ricevuto un colpo alla testa, ci stoi-  disce: e che in un deliquio avviene che noi ricordiamo  - e dobbiamo ricordare — così poco di tali percezioni, come  se non ne avessimo avute affatto. Dunque la regola del-  T uniformità ci deve permettere di non giudicare diversa-  mente anche della morte degli animali, secondo l'ordine  naturale; poiché la cosa è facile a spiegarsi in tale ma-  niera già conosciuta e sperimentata, ed è inesplicabile in  qualsiasi altra maniera. Non è intatti possibile concepire  come cominci o termini 1 esistenza o 1 azione del principio  percettivo, nè la sua disgregazione.   ( Lettera alla regina Sofia Carlotta di Prussia, 1704, G. IH, alò).   (1) Cioè Dio, in uni non esistono percezioni oscure, nò passività, e in cui  tutto ò realizzato.  Gerarchia delle monadi. - La concezione delle percezioni  distinte e confuse come criteri di perfezione o imperfezione,  dà a Leibniz il modo di stabilire una graduazione tra le varie  monadi. Le percezioni più elevate e complesse saranno segni  distintivi delle monadi più elevate. Si forma così una vera e  propria gerarchia, i cui gradi inferiori rappresentano gli infimi  staili della vita vegetativa, i superiori le più alte vette della  spiritualità. La monade dell’uomo sta al culmine di questa  ascesa; e ciò che le attribuisce tale titolo di nobiltà sono le  percezioni riflesse, onde essa giunge alle idee astratte, all’auto-  coscienza, alla memoria di sè che le garantisce la conservazione  dellasua personalità individuale. AI di sopra di tutto poi, come  percezione sommamente distinta e completa, e oggetto pure di  ogni percezione particolare da parte delle monadi, è Dio.    Ogni monade, con un corpo particolare, costituisce una  sostanza vivente. Così non vi è solamente vita dapper-  tutto, imita alle membra o organi, ma questa vita si mo-  stra in un' infinità di gradi nelle monadi, dominando le  une più o meno sulle altre. Ma quando la monade ha  organi così bene adattati, che per loro mezzo vi sia rilievo  e distinzione nell' impressione che essi ricevono, e quindi  nelle percezioni che rappresentano tali impressioni (come  per esempio quando, per la conformazione degli umori degli  occhi, i raggi della luce sono concentrati e agiscono con  maggior forza), allora ciò può giungere fino al sentimento ( 1 ),  che è una percezione accompagnata da memoria, della  quale cioè resta a lungo una certa eco, per farsi sentire  occasionalmente. E un tale essere vivente è chiamato ani-  male, così come la sua monade è chiamata anima. E  quando quest’anima s’ innalza fino alla ragione, essa è  qualche cosa di più sublime, e la si annovera fra gli spiriti,  come spiegheremo or ora. È vero che gli animali sono a  volte nello stato di semplici esseri viventi e le loro anime    (1) Questo termine (sentiment) è stato da noi a volte anche tradotto con  la parola « sensazione ». nello stato di semplici monadi: quando cioè le loro per-  cezioni non sono abbastanza distinte perchè ci se ne possa  ricordare, come nel caso di un sonno profondo senza sogni,  o di uno svenimento. Ma le percezioni divenute intera-  mente confuse si devono sviluppare di nuovo negli ani-  mali.... Così è bene far distinzione fra la percezione, che è  lo stato interiore della monade che rappresenta le cose  esterne, e la appercezione, che è la coscienza o conoscenza  riflessiva di quello stato interiore, e non è data a tutte  le anime, nè sempre alla medesima anima....   Vi è nelle percezioni degli animali un legame che ha  qualche somiglianza con la ragione, ma non è fondato  che sulla memoria dei fatti o effetti, e non sulla cono-  scenza delle cause. Così un cane fugge il bastone da cui  è stato colpito, perchè la memoria gli rappresenta il do-  lore che questo bastone gli ha prodotto. E gli uomini, in  quanto empirici, cioè nei tre quarti delle loro azioni, non  agiscono che come bestie: per esempio, prevediamo che  domani farà giorno perchè si è sempre fatta una tale espe-  rienza: ma solo l'astronomo lo prevede per via di ragione.  E anche questa previsione fallirà una volta, quando la  causa del giorno, che non è eterna, cesserà. Ma il vero  ragionamento dipende dalle verità necessarie o eterne,come  quelle della logica, dei numeri, della geometria, che costi-  tuiscono la connessione indubitabile delle idee e le conse-  guenze immancabili. Gli animali nei quali tali conseguenze  non si osservano, sono eliiamati bestie. Ma quelli che co-  noscono queste verità necessarie, sono propriamente quelli  che si chiamano animali ragionevoli, e le loro anime sono  chiamate spiriti. Queste anime sono capaci di compiere  atti riflessivi, e di considerare ciò che si chiama io, so-  stanza, anima, spirito, insomma le cose e le verità imma-  teriali. Ed è questa facoltà che ci rende partecipi delle  scienze o dello conoscenze dimostrative.   ( Principe* (Iti la nature et de la yruce, 1711-14-, I». VI, 599-bOl).   Differenza fra gli spiriti e le altre sostanze, anime o forme so-  stanziali ; e dimostrazione che V immortalità di cui si vuol sostenere  l’esistenza, implica la memoria.   Supposto che i corpi che costituiscono unum per se,  come l'uomo, siano sostanze e abbiano fonile sostanziali,  e che le bestie abbiano anima, bisogna riconoscere elio  tali anime e forme sostanziali non possono perire com-  pletamente, non meno che gli atomi o le ultimo parti  della materia, secondo l’opinione degli altri filosofi; giac-  ché nessuna sostanza perisce, per quanto possa mutarsi.  Esse esprimono tutto l’universo, benché più imperfetta-  mente che gli spiriti. Ma la principale differenza consiste  nel fatto che esse non conoscono ciò che sono, nè ciò che  fanno, e quindi, non potendo fare riflessioni, non possono  scoprire verità necessarie e universali. La mancanza di  riflessione su sé stesse è pure la ragione per cui esse non  posseggono alcuna qualità morale : ne deriva che, passando  esse per mille trasformazioni - press’a poco come un bruco  si muta in farfalla - ciò equivale per la morale o pratica ( 1 )  a dire che esse periscono. Si può anzi dirlo, da un punto  di vista fisico, così come diciamo che i corpi periscono  per corruzione. Ma l' anima intelligente, conoscendo ciò che  essa è, e potendo dire quella parola io che ha un così pro-  fondo significato, non solo permane e sussiste metafisica-  mente anche piii delle altre, ma rimane la medesima anche  moralmente, e costituisce il medesimo personaggio. Giac-  ché è il ricordo o la conoscenza di quell’ io che la rende  passibile di castigo o di ricompensa. Così 1’ immortalità  ciie si richiede nella morale e nella religione non consiste  nella sola sussistenza perpetua che appartiene a tutte le  sostanze; poiché, senza il ricordo di ciò che si è stati, non    (1) Morale, ha per Leibniz e per tutti i filosofi del suo tempo anche il si-  gnificato di pratico, contingente, empirico. Si ò già visto (p. 27 ss.) come la  nooessità morale si applichi alle verità di fatto e si contrapponga alla neces-  sità di ragione, che dà l’assoluta cortezza, l’impossibilità del contrario.  avrebbe nulla di desiderabile. Supponiamo che un privato  qualsiasi debba divenire ad un tratto re della Cina, ma  a condizione di dimenticare ciò ch'egli è stato, come se  nascesse di nuovo. Ebbene, in pratica e quanto agli ef-  fetti di cui ci si può accorgere, non è forse come se egli  dovesse essere annientato, e dovesse venir creato nel me-  desimo istante al suo posto un re della Cina? Cosa che  questo privato non ha alcuna ragione di desiderare.   Eccellenza degli spiriti, che Dio considera a preferenza delle al-  tre creature. Oli spiriti esprimono piuttosto Dio che il mondo , ma  le altre sostanze esprimono piuttosto il mondo che Dio.   Ma, per permettere di giudicare attraverso ragioni natu-  rali che Dio conserverà sempre non soltanto la nostra so-  stanza, ma anche la nostra persona, cioè il ricordo e la co-  noscenza di ciò che noi siamo (benché la conoscenza distinta  ne sia a volte sospesa nel sonno e negli svenimenti), bisogna  unire la morale alla metafisica: cioè non bisogna soltanto  considerare Dio come il principio e la causa di tutte le so-  stanze e di tutti gh esseri, ma anche come il capo di tutte  le persone o sostanze intelligenti, e come il monarca asso-  luto della più perfetta città o repubblica, quale è quella  dell' universo, composta di tutti gli spiriti insieme; essendo  Dio stesso insieme il più completo di tutti gli spiriti e il  massimo di tutti gli esseri. Sicuramente infatti gli spiriti  sono le sostanze pili perfette e che esprimono meglio la  divinità. Ed essendo la natura, il fine, la virtù e la fun-  ziono delle sostanze nuli’ altro che di esprimere Dio e l’uni-  verso (come è già stato spiegato a sufficienza) non vi è  ragione di dubitare che le sostanze che lo esprimono con  conoscenza di ciò che esse fanno, e che sono capaci di  conoscere grandi verità riguardo a Dio e all' universo, non  lo esprimano incomparabilmente meglio che quelle nature  che sono o brute e incapaci di conoscere le verità, o com-  pletamente prive di sentimento e di conoscenza: e la differenza fra lo sostanze intelligenti e quelle che non lo sono  è così grande come quella che c’è fra lo specchio e colui  che vede.   E poiché Dio stesso è il piii grande e il più saggio degli  spiriti, è facile comprendere che gli esseri coi quali egli  può, per così dire, entrare in conversazione e perfino in  società comunicando ad essi i suoi sentimenti e le sue  volontà in modo particolare e in guisa che essi possano  conoscere ed amare il loro benefattore, lo devono interes-  sare infinitamente pi fi che il resto delle cose, le quali non  possono essere considerate se non come strumenti degli  spiriti: così come noi vediamo che tutte le persone sagge  hanno molto maggior stima dell'uomo che di qualsiasi altra  cosa, sia pur preziosissima. E la pili grande soddisfazione  che possa avere un’anima, per altri riguardi contenta, è  di vedersi amata dagli altri. Vi è tuttavia, riguardo a Dio,  questa differenza: chela sua gloria e il nostro culto non pos-  sono aggiungere nulla alla sua soddisfazione; non essendo  la conoscenza delle creatine se non una conseguenza della  sua sovrana e perfetta felicità, ben lungi dal contribuirvi o  dall’esseme in parte la causa. Tuttavia, ciò che è buono e  ragionevole negli spiriti finiti, si trova eminentemente in  lui. E come noi loderemmo un re che preferisse conservare  la vita di un uomo che quella del più prezioso e più raro  fra i suoi animali, così non dobbiamo affatto dubitare che  il più illuminato e il più giusto di tutti i monarchi non  abbia il medesimo sentimento.   Dio è il monarca delta più perfetta repubblica composta di tutti  gli spirili-, e il suo principale intento è la felicità di questa città  di THo.   Effettivamente gli spiriti sono le sostanze massimamente  sus*cettibili di perfezione. E le loro perfezioni hanno questo  di particolare: che non si intralciano a vicenda, anzi si  aiutano; poiché soltanto i piti virtuosi potranno essere i più perfetti amici. Ne segue chiaramente che Dio. il quale  tende sempre alla massima perfezione universale, avrà più  cura degli spiriti e darà ad essi non soltanto in generale  ma anche a ciascuno in particolare, il massimo di per-  fezione permesso dall'armonia universale.   Si può anzi dire che Dio. in quanto è uno spirito, è  l'origine delle esistenze; altrimenti, se gli mancasse la vo-  lontà per scegliere il migliore, non vi sarebbe alcuna ra-  gione affinchè esistesse un possibile a preferenza di altri.  Così la qualità posseduta da Dio, di essere egli stesso uno  spirito, precede tutte le altre considerazioni che egli può  avere riguardo alle creature: solo gli spiriti sono fatti a  sua immagine, appartengono quasi alla sua razza e sono  come i figli della casa, perchè essi soli possono servirlo  li fieramente e agire coscientemente ad imitazione della na-  tura divina: un solo spùito vale tutto un mondo, perchè  non solo lo esprime, ma lo conosce pure, e vi si comporta  al modo di Dio. Così sembra che, quantunque ogni so-  stanza esprima tutto l'universo, pine le altre sostanze espri-  mono piuttosto il mondo che Dio, ma gli spiriti esprimono  piuttosto Dio che il mondo. E tale natura così nobile  degli spiriti, ohe li avvicina alla divinità quanto è possi-  bile a semplici creatine, fa sì che Dio tragga da essi gloria  infinitamente maggiore che dagli altri esseri : o piuttosto  gli altri esseri non fanno che dare agli spiriti argomenti per  glorificare Dio.   Questa è la ragione per cui quella qualità morale di Dio  che lo rende signore o monarca degli spiriti, lo tocca,  per così dire, personalmente in modo affatto smgolare. È  in ciò ch'egli si umanizza, ch'egli soffre rapporti umani,  eh' egli entra in società con noi, come un principe con i  suoi sudditi; e tale rapporto gli è così caro, che lo stato  felice e fiorente del suo impero, consistente nella massima  felicità possibile dei suoi abitanti, diviene la suprema  delle sue leggi. Poiché la felicità è per le persone ciò che la perfezione è per gli esseri. E se il primo principio del-  l'esistenza del mondo fisico è il decreto di dargli il mas-  simo di perfezione possibile, il primo disegno del mondo  morale o della città di Dio, clie è la parte pili nobile del-  l'universo, sarà di diffondervi il massimo di felicità pos-  sibile.   Non bisogna dunque affatto dubitare che Dio non abbia  ordinato il tutto in modo che gli spiriti non solo possano  vivere sempre, il che è inevitabile, ma anche ch'essi con-  servino sempre la loro qualità morale, affinchè la sua  città non perda alcuna persona, così come il mondo non  perde alcuna sostanza. E quindi gli spiriti saranno sempre  ciò che sono, altrimenti non sarebbero suscettibili di ri-  compensa nè di castigo: il che d'altra parte appartiene  all'essenza di qualsiasi repubblica, ma sopratutto della più  perfetta, nella quale nulla può essere negletto.   Ingomma, essendo Dio contemporaneamente il più giusto  e il più benevolo dei monarchi, e non richiedendo se non  la buona volontà, purché sia sincera e seria, i suoi sudditi  non potrebbero desiderare una condizione migliore. E, per  renderli perfettamente felici, egli vuole soltanto che lo  amino.    Gesù Cristo Ita scoperto agli uomini, il mistero e le leggi ammi-  revoli del regno dei cieli e la grandezza della suprema felicità che  Dio prepara a coloro che lo amano.   I filosofi antichi non hanno abbastanza conosciuto que-  ste importanti verità: Gesù Cristo solo le ha espresse di-  vinamente bene, o in modo così chiaro e famigliare, che  gli spiriti più grossolani le hanno potute concepire. Così  il suo Evangelo ha cambiato completamente la faccia delle  cose umane: egli ci ha mostrato il regno dei cieli, o quella  perfetta repubblica degli spiriti che merita il titolo di città  di Dio, di cui ci ha scoperto le leggi ammirevoli: egli  solo ha mostrato come Dio ci ami, e con quale esattezza  abbia provveduto a tutto ciò die ci riguarda; che. preoc-  cupandosi dei passerotti, non trascurerà le creature ragio-  nevoli che gli sono infinitamente più care; che tutti i ca-  pelli della nostra testa sono contati; che cadranno il cielo  e la terra, prima che sia cambiata la parola di Dio e ciò  che riguarda l'economia della nostra salvezza; che Dio ha  più riguardo alla minima anima intelligente, che a tutta  la macchina del mondo; che noi non dobbiamo temere ciò  che può distruggere il corpo ma non può nuocere all' anima,  perchè solo Dio può rendere l'anima febee od infebee; che  le anime dei giusti sono nella sua mano al coperto da  tutte le rivoluzioni dell'universo, e nulla può agire su di -  esse se non Dio solo; che nessuna delle nostre azioni viene  dimenticata; che tutto viene messo in conto, anche lo pa-  role oziose, anche un cucchiaio d’acqua ben impiegato:  infine, che tutto deve riuscire per il maggior bene dei  buoni; che i giusti saranno come dei soli, e che nè i nostri  sensi nè il nostro spirito non hanno mai gustato nulla che  si avvicini aUa febeità che Dio prepara a coloro che lo  amano.   ( JJiecours de mélaphysique.   Così termina il Discours de métaphysique : nel quale, dal  principio della differente chiarezza di percezione nelle varie  monadi, si giunge ad una gerarchia degli esseri, e alla defi-  nizione deU’anima o della personalità umana in sè e nei suoi  rapporti con la natura divina. Tale costruzione permette a  Leibniz uno di quegli sguardi armonici e complessivi su tutto  ("universo, in cui fenomeni tìsici, concetti scientifici o filoso-  fici, principi morali, dogmi religiosi coincidono in una suprema  armonia.  La materia come aggregato. - Si è studiata finora la  natura del corpo come elemento essenziale della monade, inse-  parabile. dall'anima. Ma c’è per Leibniz un modo rii conside-  rare il mondo materiale da un altro punto di vista. La materia  può essere vista anello altrimenti che come forza passiva, ap-  partenente a ciascuna delle sostanze fondamentali onde consta  il mondo, o come ciò che vi è di confuso e indistinto nella  percezione della monade. Materia è, pili concretamente, tutto  ciò che ci sta intorno; tutto ciò che, nei suoi vari aspetti, cade  sotto i nostri sensi. Ora, questa materia, a volerla analizzare  più a fondo, consterebbe anch essa di unità sostanziali, di  monadi: pur tuttavia ci si presenta, così composita, senza ca-  ratteri di attività o di spiritualità. La sua materialità non  dipende dalle unità che la costituiscono (e sappiamo che non  esistono unità che siano puramente materiali), ma dal fatto  stesso di non essere un’unità, ma un gruppo di unità: un <kj -  gregaio.   Quanto alle forme sostanziali o entelechie primitive...,  io non le approvo se non quando le si considera sostanze  semplici, capaci di percezione e di appetito, insomma anime,  o qualche cosa che abbia analogia con l’anima, e che si  potrebbe chiamare principio di vita: e ritengo infatti che  tutta la natura sia piena di corpi organici viventi. Così  non ritengo in verità che una pietra sia essa stessa una  sostanza corporea animata o dotata di un principio di    Ilo  unità o di vita; ma ritengo che in essa vi siano dapper-  tutto di tali principi; e che non vi sia alcuna parte di  materia nella quale non si trovi un animale o una pianta  o qualche altro corpo organico vivente (quantunque di  organico vivente noi non conosciamo che le piante e gli  animali). Così una massa di materia non è propriamente  ciò che io chiamo una sostanza corporea, ma un'ammasso  e una risultante ( aggregatovi ) di una infinità di tali so-  stanze, come lo è un gregge di pecore o un mucchio di  vermi.   ( Éclaircissement sur les natures plastiques, G. VI, 550).   Non dirò, come mi si accusa, che ci sia una sola sostanza  di tutte le cose e che questa sostanza sia lo spirito. Vi  sono invece tante sostanze distinte quante sono le monadi,  e tutte le monadi non sono spiriti. E queste monadi non  compongono affatto un tutto effettivamente unitario. Que-  sto tutto, se esse lo componessero, non sarebbe in nulla  uno spirito. Mi guardo pure dal dire che la materia sia  un'ombra o un nulla. Sono espressioni esagerate. Essa è  un ammasso, non substantia seti substa ntiatum, cosi come  sarebbe un esercito, un gregge; e in quanto la si consideri  come componente una cosa unica, è un fenomeno; feno-  meno ben reale effettivamente, ma la cui unità è determi-  nata dal nostro concepirla.   (Frammento, G.).   L aggregato come eenomeno. - La materia, intesa in que-  sto modo, non viene ad avere nulla di reale. La sua essenza  consiste appunto nel fatto di essere una riunione di sostanze  reali: in sé stessa, essa è dunque qualche cosa di costruito,  (li artificiale. Quando viene osservata a fondo, si dissolve ne-  cessariamente nei suoi componenti. Leibniz esprime ciò col dire  che essa ha natura fenomenica { 1).    (1) Fenomenico (da «palvopai, appaio), è termine usato fin da Platone  per indicare ciò che non ha realtà assoluta, ma è una apparenza. Sembra che a rigore i corpi non meritino affatto il nome  di sostanze; e questa pare esser già stata l’opinione di  Platone, il quale ha osservato che essi sono esseri tran-  seunti, i quali non sussistono mai più di un istante. Ma  questo è un punto che richiede più ampia discussione; e  io ho altre ragioni importanti che mi conducono a rifiu-  tare ai corpi il titolo e il nome di sostanze, metafisi-  camente parlando. Perchè, per dirla in una parola, il  corpo non ha affatto una vera unità; non è che un aggre-  gato, che la scuola chiama puro accidente ; un insieme,  come mi gregge. La sua unità deriva dalla nostra perfe-  zione. È un essere di ragione o piuttosto di immaginazione,  un fenomeno.   (Evlretien de Philarète et d’ Ariste, G. VI, 58(>).   I corpi non possono essere sostanze propriamente dette,  poiché sono sempre solamente delle unioni, risultanti di  sostanze semplici o vere monadi, le quali non sono estese  e perciò non sono veri corpi. Onde i corpi presuppongono  sostanze immateriali.   ( Lettera a Lady Masham, 1705, G. 111.357).   II continuo e il discreto. — Di qui Leibniz trae nuovi  argomenti per dimostrare 1 irrealtà della natura corporea in  generale e la necessità di ricorrere, di là da essa, a qualche  cosa che sia fornito di più solida validità. Acquista anche  nuova forza la sua negazione del concetto di estensione. La  monade in sè non è estesa; non è considerabile se non come  un « punto metafìsico ». L'*estcnsione non può derivare che da una  molteplicità, una ripetizione: in questo senso essa è puramente  fenomenica, così come lo è l’aggregato. La differenza consiste  nel fatto che la materia come aggregato è discreta , cioè com-  posta di un ammasso di unità indivi si biìn e Féstensione in-  vece è continua, cioè divisibile all" infinito. A maggior ragione  essa non sarà nulla di reale, ma un semplice ordine di rapporti  spaziali, così come il tempo è un ordine di rapporti successivi.   Non vi sono se non gli atomi di sostanza, cioè le unità reali  e assolutamente prive di parti, che siano le origini delle azioni e i primi principi assoluti della composizione delle  cose, e come gli ultimi elementi dell’analisi delle cose sostan-  ziali. Si potrebbe chiamarli punti metafìsici : hanno alcunché  di vitale e una specie di percezione, e i punti matematici  sono i loro punti di vista per esprimere l'universo. Ma  (piando le sostanze corporee sono ristrette insieme, tutti  i loro organi non costituiscono se non un punto fisico ri-  guardo a noi. Così i punti fìsici non sono indivisibili se non  in apparenza: i punti matematici sono esatti, ma non sono  che modalità; e solo i punti metafisici o sostanziali (costi-  tuiti dalle forme o anime) sono esatti e reali. E senza di  essi non vi sarebbe nulla di reale, poiché senza le vere  unità non vi sarebbe alcuna molteplicità.   ( Syslème nourea u, 1695, G. IV, 482-83).   Benché la materia consista in un ammasso di sostanze  semplici innumerevoli, e la durata delle creature, così come  il movimento attuale, consista in un ammasso di stati  momentanei, tuttavia bisogna dire che lo spazio non è af-  fatto composto di punti nè il tempo di istanti, nè il movi-  mento matematico di momenti, nè la tensione di gradi  estremi. Il fatto è che la materia, lo scorrere delle cose,  e insomma ciascun composto attuale, è ima quantità  discreta, ma che lo spazio, il tempo, il movimento mate-  matico, la tensione e l’ accrescimento continuo nella velo-  cità e in altre qualità, e insomma tutto ciò la cui valu-  tazione appartiene al campo delle possibilità, è una quan-  tità continuata e indeterminata in sé stessa, o indifferente  alle parti che vi si possono prendere e che vi si prendono  attualmente in natura. La massa dei corpi è divisa attual-  mente in modo determinato, e nulla non vi è esattamente  continuato; ma lo spazio o la continuità perfetta che è  nell' idea, non indica se non una possibilità indeterminata  di dividere come si vuole. Nella materia e nelle realta  attuali, il tutto è un risultato di parti: ma nelle idee e  nei possibili (che comprendono non solamente questo imi-  verso, ma anche qualsiasi altro che possa essere concepito  e che T intelletto divino si rappresenti effettivamente), il  tutto indeterminato è anteriore alle ilivisioni, come la no-  zione dell' intero è più semplice che quella delle frazioni,  e la precede....   Per meglio concepire la divisione attuale della materia  all' infinito e l'esclusione che vi è in essa di ogni conti-  nuità esatta e indeterminata, bisogna considerare che Dio  vi ha giti prodotto tanto ordine e tanta varietà, quanto  era possibile di introdurvi finora, e che così nulla vi è  rimasto di indeterminato, mentre 1' indeterminazione è l'es-  senza della continuità. Questo apprende il nostro spirito  dalla perfezione divina; e l'esperienza lo conferma attra-  verso i sensi. Non vi è goccia d'acqua così pura, che non  vi si possa osservare qualche varietà, guardandola bene.  Un pezzo di pietra è composto di determinati granuli, e al  microscopio questi granuli appaiono come rocce nelle quali  vi sieno mille giochi di natura. Se la forza della nostra  vista aumentasse continuamente, troverebbe sempre campo  per esercitarsi. Dappertutto vi sono varietà attuali, e mai  una perfetta miiforinità. Nè vi sono due parti di materia  completamente simili l ima all’altra, sia nel grande, sia  nel piccolo.   (Lotterà alla elettrioe Sofia di Hannover, 1705, G. V]], 502-63).   Materia trema e seconda. - Il continuo è dunque spa-  zialità (o temporalità eco.) astratta; il discreto è aggregato, o  materia. E della materia Leibniz ha due concezioni diverse:  da un lato quella che abbiamo vista al Capitolo 111, come  potenza passiva primitiva, come quel substrato di resistenza,  densità, « anti tip' a», al quale si applica la forza, trasformandola  in attività, entelechia; d’altro lato questo concetto di aggre-  gato, composizione, costruzione artificiale posteriore alla mo-  nade, non avente in sè una vera e propria sostanzialità. Per  distinguere tali due modi diversi di considerare la materia,  Leibniz usa i due termini di materia prima e materia seconda.   H.    Leibniz, La mvnailoloi/ia.  Nei corpi io distinguo la sostanza corporea dalla ma-  teria, e distinguo la materia prima dalla seconda. La ma-  teria seconda c un aggregato o composto di varie sostanze  corporee, come un gregge è composto di vari animali. Ma  ogni animale e ogni pianta, dal canto suo, è una sostanza  corporea, la quale ha in sè il principio dell' unità che fa  sì die sia veramente una sostanza e non un aggregato.  E questo principio di unità è ciò che si chiama anima,  oppure qualche cosa che ha analogia con l'anima. Ma oltre  al principio dell’ unità, la sostanza corporea ha la sua  massa e la sua materia seconda, che è ancora un aggre-  gato di altre sostanze corporee più piccole, tino all' infi-  nito. Tuttavia la materia primitiva o presa in sè stessa,  è ciò che si concepisce nei corpi mettendo da parte tutti  i principi dell' unità, è cioè ciò che vi è in essa di passivo.  Di qui derivano due qualità: resistenti a et restitantia vel  inertia. Cioè, un corpo non può essere penetrato, e cede  piuttosto a un altro corpo, ma non cede senza difficoltà  e senza diminuire il movimento complessivo di quello che  lo spinge. Così si può dire che la materia, in sè stessa,  involve, oltre l'estensione, ima potenza passiva primitiva.  Ma il principio dell’unità contiene la potenza attiva pri-  mitiva, o la forza primitiva, la quale non si perde mai  e persevera sempre in un ordine esatto delle sue modi-  ficazioni interne che rappresentano quelle esterne.   (Lettera al Burnett, 1699, U. Ili, 260-261).   L’anima e il corpo. Attraverso il concetto di aggregato,  Leibniz spiega anche la costituzione dei .corpi organici e degli  animali. TI loro corpo, egli dice, è un aggregato, con una mo-  nade, per così dire, dominante e ordinatrice, di natura su-  jieriore. Tale monade è l’anima e costituisce l’elemento per-  manente di ciascun individuo.   Definisco 1* organismo, o macchina naturale, come una  macchina, ciascuna parte della quale sia una macchina a sua volta (1). Perciò la sottigliezza del suo artificio va  all ? infinito, poiché nulla è tanto piccolo da poter essere  trascurato; mentre le parti delle nostre macchine artificiali  non sono a loro volta macchine. Questa è la differenza  essenziale fra la natura e forte, che i nostri moderni non  hanno ancora considerato abbastanza.   (Lettera a Lady Magliari), G. Ili, 356).   lo distinguo: l.°) fentelechia primitiva o anima. 2.°) La  materia prima o potenza passiva primitiva. 3.°) La monade,  composta di queste due. 4.°) La massa, o materia seconda,  o macchina organica, a formare la quale concorrono innu-  merevoli monadi subordinate. 5.°) L'animale o sostanza  corporea, la cui unità è determinata dalla monade domi-  nante nella macchina.   (Lettera al Le Volder, 1703, G. Il, 252).   E attraverso i due concetti di materia prima c seconda, si for-  mano pine duo concetti differenti di anima. Il primo, come  principio attivo insito nella monade, inseparabile dalla sua pas-  sività ; l’altro, come quella monade a carattere più strettamente  spirituale, che permane in ciascun individuo, mentre le monadi  formanti la massa del suo corpo variano e si trasformano.   La materia, senza le anime e forme o entelechie, non  è che passiva, e le anime senza materia non sarebbero che  attive: poiché la sostanza corporea completa veramente  una, chiamata dalla scuola unum per se (opposta all'essere  per aggregazione), deve risultare del principio dell' unità,  che è attivo, e della massa che costituisce la molteplicità  e che sarebbe solamente passiva se essa non contenesse  se non la materia prima. Invece la materia seconda o  massa, che costituisce il nostro corpo, è tutta composta  di parti che sono in sé sostanze complete quando sono    (1) Con la parola « macchina » Leibniz intende qui, come già altrove, un  organismo composito, cioè formato di parti eterogenee.    altri animali o sostanze organiche animate o attuate a  parte. Ma l'ammasso di queste sostanze corporee organiz-  zate che costituisce il nostro corpo, non è imito alla nostra  anima se non per quel rapporto che deriva dall'ordine dei  fenomeni naturali rispetto a ciascuna sostanza particolare.  £ tutto ciò mostra come si possa dire da un lato che l' anima  e il corpo sono indipendenti l'uno dall'altro, dall'altro che  limo è incompleto senza l'altro, poiché in natura l'uno  non è mai privo dell'altro.   ( Additimi il l’explication <lu lyslèine noiueau, U. JY, 572-3).   Le lecci del mondo materiale e del mondo spirituale. -  In qualunque modo la si intenda, sia come materia prima o  potenza passiva, sia come materia seconda o aggregato, la  natura corporea ha dunque qualche cosa di irreale. Nel primo  caso essa è un’astrazione, anteriore, |>er così dire, alla monade;  qualche cosa che senza la forza attiva di essa non è ancor  nulla: semplice aspetto inizialmente passivo di quella che sarà  un’attiva unità. Nell'altro caso è pure un'astrazione; poste-  riore, questa volta, alla monade: una riunione, un aggruppa-  mento che rimanda però sempre alla monade come al suo  elemento costitutivo essenziale.   D’altro lato, però, la materia non è eliminabile dalla monade.  Essa le si accompagna sempre, come un momento, quasi, della  sua natura. Momento astratto sì, ma essenziale; attraverso il  quale necessariamente si deve passare per raggiungere la vera  concretezza dell’entelechia, o perfectihabies, nella traduzione di BARBARO (si veda). Questa materia che, analizzata nel  fondo della sua costituzione, si dissolve e perde ogni realtà,  puro ha ima parte fondamentale nel mondo concreto, natu-  rale e umano, come se lo rappresenta Leibniz. La monade è  immateriale, si è visto, eppure ritiene un suo aspetto mate-  riale; così non vi è anima senza corpo. Affermato questo,  Leibniz va più in là, dimenticando quasi le sue premesse che  fanno della materia qualche cosa solo in funzione dell’anima;  e cerca leggi autonome e proprie del mondo materiale, ben  distinte da quelle del mondo spirituale. Egli ritorna quasi  alla concezione cartesiana, che aveva sempre combattuto, del-  l'anima e del corpo come due sostanze separate. E, per giu-  dtifìcare la distinzione, attribidsce al corpo la legge meccanica  sella causa efficiente, all'anima la legge vitale della finalità. Questo due leggi, che abbiamo viste unite là dove il principio  della ragion sufficiente, nelle verità di fatto, rimandava diret-  tamente a Dio (1), ora sono applicate separatamente all’anima  e al corpo.   Ciò è giustificabile anche, in parte, con la natura della monade.  Essa, si è visto, contiene in sè tutto lo sviluppo futuro dell’uni-  verso allo stato di implicazione causale: l’effetto, cioè, è già  contenuto nelle cause che dovranno necessariamente produrlo.  E questa connessione causale puramente meccanica e determi-  nistica, ha carattere materiale. Per tale aspetto, la monade è  materia: è cioè un punto dell’universo perfettamente e neces-  sariamente determinato dalle cause da cui discende. D altro  lato però, l’universalità si esplica nella monade come rappre-  sentazione e appetito. La totalità dei rapporti è contenuta in  essa allo stato di implicazione pregnante, cosciente e attiva.  In questa percezione e appetito, che Leibniz immagina tendente  al bene e retta dalla causa, finale del v migliore », egli fa con-  sistere l’anima. Leibniz fa anche coincidere questa nuova distin-  zione di anima-corpo, con l’altra in cui si concepisce il corpo  come percezione confusa e l’anima come percezione distinta. Tutto nei corpi avviene meccanicamente, cioè attraverso  le qualità intelligibili dei corpi, quali la grandezza, la figura,  e il movimento; e tutto nelle anime deve essere spiegato  vitalmente, cioè attraverso le qualità intelligibili dell anima,  quali la percezione e l’appetito. E nei corpi animati noi  vediamo esservi una mirabile armonia tra vitalità e mec-  canismo, se ciò che avviene nel corpo meccanicamente viene  rappresentato vitalmente nell’anima; e ciò che viene per-  cepito esattamente nell’anima, nel corpo ottiene la sua  completa esecuzione.   Ne deriva che, conosciute le qualità del corpo, possiamo  curare le malattie dell’anima e, conosciute lo qualità del-  l’anima, curare le malattie del corpo. È infatti a volte  più facile sapere ciò che avviene nell’ anima che ciò che  avviene nel corpo; a volte viceversa. E ogni volta che  noi usiamo delle indicazioni dell’ anima per essere d aiuto    (l) Cfr. sopra, p. 19.    al corpo, possiamo parlare di una medicina vitale : metodo  questo che ha più ampia estensione di quanto non si creda  comunemente, perchè il corpo non soltanto risponde al-  1 anima nei movimenti che vengono chiamati volontari,  ma anche in tutti gli altri; quantunque, per l'abitudine che  ne abbiamo, noi non ci accorgiamo che l’anima viene in-  fluenzata o consente coi movimenti del corpo, o che questi  corrispondono alle percezioni e agli appetiti dell' anima.  Infatti le percezioni del corpo sono confuse, in modo che  la corrispondenza non appare così facilmente. E l'anima  comanda al corpo in quanto abbia percezioni distinte, gli  obbedisce in quanto abbia percezioni confuse. Ma pure,  chiunque abbia una qualsiasi percezione nell’anima, può  essere certo di avere un qualche effetto di essa nel corpo  e viceversa.... E le cose avvengono in modo tale, che a  volte anche nei fatti naturali noi ricerchiamo la verità at-  traverso le cause finali, quando non si può giungere fa-  cilmente ad essa attraverso le cause efficienti.   (Frammento, C. 12- 13).   Separazione dei due mondi. — Ora, formulata questa di-  stinzione, Leibniz rinuncia, in certo senso, a proseguire per  quella via che, attraverso la concezione del rapporto di causa  ed effetto come un rapporto di soggetto c predicato, lo aveva  condotto alla sostanza individuale e gli aveva permesso la  risoluzione dei concetti di corpo e spirito l’uno all’ altro.  Qui egli accentua invece la distinzione: corpo e spirito diven-  gono due mondi separati, due entità parallele ma prive di rap-  porti fra di loro. La loro situazione viene ad essere analoga  a quella di due monadi distinte: il contenuto di ciascuna cor-  i ispoude a quello dell altra, senza che perciò si possa dire che  I una influisce sull altra (1 ). Così, ciò che avviene meccanica-  monte nel corpo, corrisponde a ciò che è nella rappresentazione  dello spirito: ma non per influenza dell'uno sull’altro o per  una qualsiasi unificazione. 1 rapporti dovranno essere stabiliti  attraverso un intervento della divinità.    (1) Cfr. sopra, p. 89 ss. Noi sperimentiamo che i corpi agiscono fra di loro se-  condo leggi meccaniche, e che le anime producono in sè  stesse azioni interne. E non vediamo alcun modo di con-  cepire l'azione dell'anima sulla materia o della materia  sull’ anima, nè alcunché di analogo, poiché non è affatto  spiegabile attraverso un qualsiasi artificio che lo variazioni  materiali, cioè le leggi meccaniche, facciano nascere una  percezione; nè che dalla percezione possa derivare un cam-  biamento di velocità o di direzione negli spiriti animali e  negli altri corpi, siano essi sottili o grossi a piacere. Così,  sia l' inconcepibilità di un'altra ipotesi, sia il buon ordine  della natura uniforme in sè stessa (per non parlare qui  di altre considerazioni), mi hanno portato alla conclusione  die l'anima e il corpo seguano perfettamente la loro legge,  ciascuno la sua separatamente, senza che le leggi corporee  siano turbate dalle azioni dell'anima, nè che i corpi tro-  vino finestre per far penetrare il loro influsso nelle anime.  Si domanderà dunque: D'onde viene questo accordo del-  f anima col corpo?   (Lettera a Lady Masharn, 1704, G. Ili, 340-11).   L’armonia prestabilita. - 11 problema che sorge ora è  quello di questa corrispondenza del mondo corporeo con  quello spirituale. Ma una così netta distinzione dei due mondi  non era necessaria alla dottrina della monade. Leibniz fu  forse indotto ad accentuarla, dal fatto di trovarsi in pole-  mica col Malebranche e con gli occasionalisti (1) e di aver  trovato un’ ipotesi più plausibile per risolvere il loro medesimo  problema. 11 desiderio di correggere 1' ipotesi occasionalistica  e di applicare la propria, gli fece forse formulare il problema  negli stessi termini che i suoi interlocutori, più di quanto non    (1) Nicola Malebranche (1638-1713) autore della Recherete de la viri té  h il rappresentante principale dell'occasionalismo, dottrina che spiegava la  corrispondenza tra l'ordine corporeo e l’ordine spirituale attraverso un inter-  vento continuo di Dio. In occasione di ciascun fatto avvenuto nel mondo  corporeo, Dio, secondo questa dottrina, suscita la corrispondente rappre-  sentazione nello spirito, e viceversa. Questo problema presuppone natural-  mente una netta separazione fra l'ordine corporeo e l’ordine spirituale:  separazione di marca prettamente cartesiana. Avessero riohiesto i precedenti della sua dottrina. L’ ipotesi di  cui parliamo è quella famosa dell’ armonia prestabilita , di cui  riportiamo qui alcune fra lo molte esposizioni lasciatene dal  Leibniz.   I mmaginate due orologi che si accordino perfettamente.  l 'iò può avvenire in tre maniere : la prima consiste nella  mutua influenza di un orologio sull’altro: la seconda nella  cura di mi uomo che vi provveda: la terza nella loro pro-  pria esattezza. La prima maniera è quella dell’ influenza....   La seconda maniera di far sempre accordare due orologi  anche cattivi, potrebbe essere di farvi sempre provvedere  da un abile operaio che li accordi ad ogni istante: e questa  è quella che io chiamo la maniera dell’ assistenza.   Infine la terza mainerà sarà di fare da principio queste  due pendolo con tanta arte e giustezza, da potersi assi-  emare il loro accordo per il futuro. E questa è la via del-  l’accordo prestabilito.   Mettete ora l'anima e il corpo al posto di questi due  orologi: il loro accordo o simpatia avverrà pure in una  di queste tre maniere. La maniera dell' influenza è quella  della filosofia volgare; ma poiché non si possono concepire  particelle materiali, nè specie o qualità immateriali che  possano passare dall’ima di queste sostanze nell’altra, si  è obbligati ad abbandonare questa opinione. La maniera  dell assistenza è quella del sistema delle cause occasionali:  ma ritengo che ciò significhi introdurre un Deus ex machina  ili un fatto naturale e ordinario, nel quale, secondo ragione,  egli uon deve intervenire se non nolla medesima maniera  nella quale concorre a tutti gli altri fatti della natura.  Così non resta che la mia ipotesi, cioè la maniera dell'ar-  monia prestabilita attraverso un artificio divino preven-  tivo, il quale, fin da principio, abbia formato queste so-  stanze in un modo cosi perfetto e regolato con tanta  esattezza che, non seguendo se non le sue proprie leggi  ricevute insieme col proprio essere, ciascuna si accordi tuttavia con l’altra: proprio come se vi fosse una mutua  influenza o come se Dio vi mettesse continuamente la  mano, oltre il suo concorso generale.   (Tetterà del 1696, a. IV, 500-501).   Vi è ordine e connessione nei pensieri, come ve ne è nei  movimenti; poiché l’uno risponde perfettamente all'altro,  quantunque la determinazione nei movimenti sia bruta,  e sia invece libera o con scelta nell’ essere che pensa, il  quale non è se non inclinato ma non costretto dal bene  e dal male (1). Infatti l’anima, rappresentando il corpo,  conserva le sue perfezioni; e, benché essa dipenda dal  corpo (se ben si guardi) nelle azioni involontarie, ne è  indipendente e fa dipendere il corpo da se stessa nelle  altre. Ma questa dipendenza non è se non metafisica, e  consiste nel riguardo che Dio ha per l’uno regolando l'altro,  o più per 1’ uno che per l’ altro, a seconda delle perfezioni  originali di ciascun individuo (2) ; mentre la dipendenza fisica  consisterebbe in un’ influenza immediata che l’imo riceve-  rebbe dall’altro, dal quale dipenderebbe.   (Nuovi Saggi, 1701 segg. II, 21, § 12).   L'armonia prestabilita fa sì che al cane entri il dolore  nell' anima, quando il suo corpo è colpito. E se il cane  non dovesse essere colpito ora, Dio non avrebbe dato fin  dall’ inizio alla sua anima una costituzione tale da produrre  attualmente tale doloro in esso, e la rappresentazione o  percezione che risponde al colpo del bastone. Ma se (cosa  impossibile) Dio si pentisse e, senza mutare la natura del-  l’anima e il corso naturale dello sue modificazioni, mutasse  il corso delle nature corporee in modo tale che il colpo    (1) Cfr. «opra, p. 27 ss.   (2) Abbiamo già visto come in ragione delle sue percezioni più distinte  o più confuse, ciascuna monade partecipi più dello spirito o del corpo, abbi»  cioù maggiore o minore perfezione. Cfr. sopra, p. 94 ss.    non arrivasse, ramina sentirebbe ciò che corrisponde a  questo colpo, mentre il suo corpo non lo riceverebbe af-  fatto. Ma - dirà il signor Bayle - io comprendo le ragioni  per le quali il corpo del cane è colpito dal bastone, ma non  comprendo affatto come mai l'anima del cane che prova  piacere mentre mangia con appetito, passi così subitamente  al dolore senza che il bastone ne sia la causa (come vor-  rebbe la tesi scolastica), nè ne sia causa Dio in particolare  (come vorrebbero gli ocxasionalisti). Ma il signor Bayle  non comprende neppure come mai il bastone possa influire  sull’ anima, nè come possa avvenire l'operazione miraco-  losa attraverso la quale Dio accorda continuamente l'anima  ai corpi. Invece io ho cercato di spiegare come tale ac-  cordo avvenga naturalmente, col supporre che ogni anima  sia uno specchio vivente rappresentante l' universo secondo  il suo punto di vista, ed eminentemente in rapporto col  suo corpo. Così le cause che fanno agire il bastone (cioè  l’uomo posto dietro al cane, preparato a colpirlo mentre  esso mangia, e tutto ciò che nell'ordine corporeo contri-  buisce a disporre quell’uomo a quell'azione) sono anche  rappresentate fin da principio nell'anima del cane in modo  esatto sì, ma debole, per mezzo di percezioni piccole e  confuse e senza appercezione, cioè senza che il cane se ne  accorga; perchè anche il corpo del cane non ne è influen-  zato se non impercettibilmente. E come, nell’ordine delle  nature corporee, queste disposizioni conducono finalmente  al colpo ben assestato sul corpo del cane, analogamente  le rappresentazioni di queste disposizioni conducono nel-  l'anima del cane alla rappresentazione del colpo di ba-  stono: rappresentazione la quale, essendo distinta e forte  (come non lo erano le rappresentazioni delle predisposi-  zioni. poiché le predisposizioni influenzavano solo debol-  mente anche il corpo del cane), il cane se ne accorge  ben distintamente: ed è questo che determina il suo do-  lore. Così non si deve affatto immaginare che l'anima del cane, in questo caso, passi dal piacere al dolore senza  alcuno sviluppo e senza alcuna ragione interna.   (Osservazioni al Dizionario del Bayle, 1702, G., IV, 531-32) -   Nel corpo tutto avviene meccanicamente secondo le leggi  del movimento, e nell'anima tutto avviene moralmente o  secondo le apparenze del bene e del male: in modo che,  anche (piando si tratta dei nostri istinti o delle azioni in-  volontarie alle quali sembra partecipare solamente il corpo,  vi è nell'anima un appetito di bene o una fuga dal male  che la spinge; benché la nostra riflessione non possa ben  districarne la confusione. Ma se l'anima e il corpo seguono  così ciascuno separatamente le sue proprie leggi, come si  incontrano essi e come avviene che il corpo obbedisca al-  l' anima, e che l'anima risenta del corpo? Per spiegare  questo mistero naturale bisogna ben ricorrere a Dio, così  come quando si tratta di dare la ragione primordiale del-  l’ordine e dell'armonia nelle cose. Ma questo ricorso non  avviene che una volta per tutte, e non come se Dio tur-  basse le leggi dei corpi per farli corrispondere alle anime,  e viceversa. Egli ha invece fatto fin da principio i corpi  in modo tale che, seguendo le loro leggi e le tendenze na-  turali dei movimenti, essi verranno a fare ciò che l'anima  chiederà quando ne verrà il momento; e d'altra parte ha  fatto le anime tali che. seguendo le tendenze naturali del  loro appetito, giungeranno anche sempre alle rappresenta-  zioni degli stati del corpo. Giacché, come il movimento  conduce la materia di figura in figura, così l’appetito con-  duce l'anima di immagine in immagine. E così l’anima è  inizialmente dominante ed obbedita dal corpo nella mi-  sura in cui il suo appetito è accompagnato da percezioni  distinte che la fanno pensare ai mezzi adatti quando essa  vuole qualche cosa; ma è soggetta al corpo, pure fin dal-  1’ inizio, in misura delle sue percezioni confuse. Noi spe-  rimentiamo infatti che tutte le cose tendono al cambiamento; i corpi per la forza movente, e l’anima per 1 appetito  che la conduce a percezioni distinte o confuse, secondo  la sua maggiore o minore perfezione. E non bisogna affatto  meravigliarsi di quest’accordo primordiale delle anime e  dei corpi, essendo tutti i corpi organizzati secondo le in-  tenzioni di uno spirito universale, ed essendo tutte le anime  essenzialmente rappresentazioni o specchi viventi dell uni-  verso, secondo la portata e il punto di vista di ciascuna,  essendo essi perciò altrettanto durevoli che il mondo stesso.  È come se Dio avesse variato 1 universo tante volte quanto  sono le anime, o come se egli avesse creato tanti universi  in compendio, accordantisi nel fondo o differenziati nel-  l'apparenza. Non vi è nulla di così ricco come questa sem-  plicità uniforme, accompagnata da un ordine perfetto. E  si può ben pensare come ciascuna anima in sè stessa debba  essere perfettamente disposta, essendo ciascuna ima par-  ticolare espressione dell'universo e come un universo con-  centrato; e ciò risulta anche dal latto che ciascun corpo,  e quindi il nostro pure, è affetto in qualche modo da  tutti gli altri, ed anche l'anima dunque vi partecipa. Ecco  in poche parole tutta la mia filosofia.   (Lettera alla regina Sofia Carlotta di Prussia).    Tale ò l' ipotesi dell'armonia prestabilita; la quale termina  e corona il sistema di Leibniz, ma non si può dire che aggiunga  molto di essenziale alla dottrina della monade. TI principio  qui introdotto è quello medesimo onde viene dimostrata la  corrispondenza del contenuto di ciascuna monade con quello  di tutte, pur senza un’ influenza reciproca. Ma l’applicarlo ai  rapporti fra anima e corpo, obbliga ad una distinzione e se-  parazione fra l’ordine corporeo e l’ordine spirituale; mentre  proprio nel superamento di tale separazione e nella sintesi dei  due ordini abbiamo ravvisato il valore piu specifico del con-  cetto di monade.   Ma questa separazione è posteriore idealmente a quel con-  cetto. Nell’ applicare i principi trovati, nel far agire la sua mo-  nade come elemento costituente del mondo, Leibniz ricade a volte in posizioni da lui già inizialmente superate, e mal inter-  preta sè stesso. Ciò che rimane essenziale in quanto si è visto  ilei suo pensiero è la struttura interna del concetto di monade :  questa sintesi di universale e individuale, di materia e spirito,  ili attività e passività, che è un punto di arrivo e un punto  di partenza nella storia della filosofia. /La monade, di cui parleremo qui, non è altro che  ima sostanza semplice che entra nei composti; semplice,  cioè senza parti.   2. ° E bisogna che vi siano sostanze semplici, dato che  vi sono composti; poiché il composto non è altro che un  ammasso o aggrega tum di semplici (1).   •1." ^ h-a. dove non vi sono parti, non vi è nè estensione,  nè figura, nè divisibilità possibili (2). E queste monadi sono  i veri atomi della natura; in una parola gli elementi  delle cose.   4.° Non vi è neppure alcuna dissoluzione da temere,  e non vi è alcuna maniera concepibile nella quale una  sostanza semplice possa perire naturalmente.   ó.° Per la medesima ragione, non v'è alcun motivo per  il quale una sostanza semplice possa aver principio natu-  ralmente; poiché essa non può essere formata per com-  posizione.  1 m ricerca (logli eleuiyuti semplici, (la cui cleri vano per composizione tutte  le altro cose, è una dello idee fondamentali di Leibniz. Applicato al campo  logico, questo concetto dà luogo ai progetti di arte combinatoria, carattc-  ristica, scienza generale, lingua universale ecc. Cfr. p. 33 s. Sul concetto  di aggregato, cfr. p. 100 s. Si toglie così olla monade ogni carattere di materialità.   (3) Atomi immateriali, metafisici; non naturalmente le particelle mate-  riali indivisibili di cui parlano gli atomisti, e che Leibniz combatteva.  Così si può dire che le monadi non possono aver  principio nè fine se non d un tratto; cioè esse non pos-  sono aver principio se non per creazione, ne fine se non  per annullamento; mentre ciò che è composto comin-  cia o finisce per parti (1).   7» Neppure c'è modo di spiegare come una mo-  nade possa essere alterata o cambiata nel suo interno da  qualche altra creatura; poiché in essa non e possibile  trasposizione, nè è concepibile movimento interno che vi  possa essere eccitato, diretto, aumentato o diminuito ,  ciò invece è possibile nei composti, dove si danno cam-  biamenti fra le parti. Le monadi non hanno finestre pei  le quali qualche cosa vi possa entrare o uscire. Gli acci-  denti non possono staccarsi nè passeggiare fuori delle sostanze. come facevano una volta le specie sensibili deg  scolastici. Così nè sostanza, nè accidente, non possono en-  trare dall’ esterno in ima monade (2).   8° Tuttavia occorre che le monadi abbiano qualche  qualità; altrimenti non sarebbero neppure degli esseri. E  se le sostanze semplici non differissero affatto per le loro  qualità, non si avrebbe modo di accorgersi d. alcun cam-  biamento nelle cose, poiché ciò che è nel composto non  può venne se non dagli ingredienti semplici; e se le monadi  fossero prive di qualità, sarebbero indistinguibili una dal-  l'altra. giacché esse non differiscono neppure nella quan-  tità: e quindi, ammesso il pieno, ciascun luogo non rice-  verebbe mai, nel movimento, se non l'equivalente (lei mo-  vimento che aveva già avuto : e uno stato di cose sarebbe  y indiscernibile dall altro.   deducono dall’ immaterialità delle monadi la imposeibilUtà   r ^   C,t (2) a N°elS monade, soggetto eomprendentegt arnese   può dire cl/e £ de™ da, di lucri, se  tutto quanto le avviene è già compreso m essa. Cfr. p. 89 ss.    "'O.o Occorre inoltre che ciascuna, monade sia differente  da ogni altra. Poiché non vi sono in natura due esseri  che siano perfettamente uguali, e nei quali non sia pos-  sibile trovare una differenza interna o fondata su di una  denominazione intrinseca (1).   10. 0 Considero inoltre come ammesso, che ogni essere  creato, e quindi ogni monade creata, sia soggetta a mu-  tamento: e anzi che questo mutamento sia continuo in  ognuna.   11.0 Da quanto abbiamo detto, consegue che i muta-  menti naturali delle monadi derivano da mi j)rinci]iio in-  terno, dato che ima causa esteriore non potrebbe influire  sul loro interno (2).   12.° Ma occorre pure che, oltre il principio del muta-  mento, vi sia un dettaglio (3) di ciò che muta-, il quale deter-  mini, per così dire, la specificazione e la varietà delle so-  stanze semplici.   v 13.° Tale dettaglio deve implicare una molteplicità nel-  l'unità o nel semplice. Infatti, poiché ogni cambiamento  naturale avviene per gradi, qualche cosa cambia e qualche  cosa resta; e quindi bisogna che nella sostanza semplice  vi sia una pluralità di affezioni e di rapporti, benché essa  non abbia parti.   14.° Lo stato transitorio che implica e rappresenta  una molteplicità nell’unità o nella sostanza semplice, non   (1) Nei §3 8-9 è affermata la differenziazione fra le varie monadi; In  quale deve fondarsi su alcunché di qualitativo, interno alla monade stessa,  riguardante la sua intima costituzione, e non le sue relazioni esteriori. Questo  principio intorno di ditTerenziazione è costituito dal diverso punto di vista,  secondo cui ciascuna monade rappresenta l’universo. Sul principio dell’ iden-  tità degli indiscernibili, efr. p. 78 ss.   (2) Il mutamento nolla monade consiste nello sviluppo c nella realizza-  zione di quanto è già implicito in essa. In questo sviluppo essa manifesta  la sua facoltà attiva o quella conoscitiva: percezione c appetito. Cfr. p. 78,  80 ss., 89 ss.   (3) Traduciamo cosi, non trovando vocabolo migliore, la parola ilétail,  che altri traduce con a particolarità » o in modo affine. Essa vuole indicare  uno sviluppo completo, disteso e particolareggiato in tutti i suoi dettagli.   è altro che ciò che si chiama percezione (1), da distinguersi y  dalla appercezione o dalla coscienza, come si vedrà in se-  guito. A cpiesto proposito i cartesiani hanno gravemente  errato, non avendo tenuto conto delle percezioni di cui non  ci si accorge (2). E ciò puro li ha indotti a ritenere che i  soli spiriti fossero monadi e che non vi fossero affatto  anime di bestie nè altre entelechie; ed a confondere, come  fa il volgo, un lungo stordimento con la morto propria- 1 2 3 4  mente detta: il che li ha fatti anche cadere nel pregiudizio  scolastico delle anime interamente separate, ed ha pure con-  fermato gli spiriti mal disposti nell'opinione della morta-  lità dell'anima (3).   * 15.° L’azione del principio interno che determina il  mutamento o il passaggio da ima percezione ad un altra,  può chiamarsi appetizione ; è vero che l’appetito non sem-  pre può giungere completamente all’ intera percezione cui  tende; ma ne ottiene pur sempre qualche cosa, e giunge  a percezioni nuove (4).   16.° Noi stessi sperimentiamo una molteplicità nella  sostanza semplice, quando troviamo che il minimo pensiero    (1) La percezione, questo fatto dolio spirito, permetto dunque la sintesi  dell’uno e del molteplice, necessaria a conciliare l’unità e immaterialità della  monade oon la varietà e mutevolezza del suo contenuto. Percepire è cogliere  una molteplicità e riferirla ad un unico soggetto. 11 contenuto, diremmo noi.  è molteplice, la forma ò una. Cosi è nella monade; e ciò spiega conio la va-  rietà e mutevolezza in essa venga concepita da Leibniz in termini di perce-  zione. Cfr. p. 82 s.   (2) « Accorgersi « traduce il francese aptrCLVoir. Appercezione (aptreeptiev)  significa dunque l’accorgersi, cioè il percepire coscientemente, contrapposto al  percepire senza accorgersene, come nel caso delle piccole percezioni. Cfr. p. 87.   (3) Cartesio, che considera ogni attività conoscitiva come razionale,  quindi cosciente, non può attribuire tale attività se non all’uomo, e la tiene  nettamente separata da tutto ciò che è corporeo. Pi qui gli inconvenienti  sopra elencati, cui Leibniz vuole ovviare col suo concetto di una percezione  di cui non ci si accorge, e priva di ragione (la piccola percezione), che  sia quindi attribuibile anche agli animali e che segni come un punto di con-  tatto fra la materia e lo spirito. Cfr. pp. 84 ss., 94 ss., 99 ss. Vedi anche  in seguito, §§ 19 ss.   (4) L’appetito ò l’altra attività della monade, secondo cui essa può pas-  sare dall’uno al molteplice. Cfr. p. 80 ss.  di cui ci accorgiamo, implica una varietà nell'oggetto. Così  tutti coloro che riconoscono che l’ anima è una sostanza  semplice, devono riconoscere questa molteplicità nella mo-  nade; e il Bayle non avrebbe dovuto trovarvi difficoltà,  come ha fatto nel suo dizionario, all'articolo Borariua (1).   17. ° Peraltro bisogna pur riconoscere che la percezione  e ciò che ne dipende, è inesplicabile mediante ragioni mec-  caniche, cioè mediante ligure e movimenti (2). E supposto  che vi sia una macchina la cui struttura faccia pensare,  sentire, aver percezione, si potrà concepirla ingrandita,  conservando le medesime proporzioni, in modo che vi si  possa entrare, come in un mulino. E posto ciò, non si tro-  verà, visitandola al! interno, se non pezzi spingentisi vi-  cendevolmente, ma nulla di che spiegare una percezione.  E dunque nella sostanza semplice e non nel composto o  nella macchina bisogna cercare la percezione. Anzi, non  vi è se non questo che si possa trovare nella sostanza  semplice: percezioni e i loro cambiamenti. E solo in ciò  possono consistere tutte le azioni interne delle sostanze  semplici.   18. ° .Si potrebbe dare il nome di entelechie a tutte  le sostanze semplici o monadi create, poiché esse hanno  in sè stesse una certa perfezione (l/oum tò è tsXéc); vi è  una autosufficienza (afiràpxet*) che le rende fonti delle  loro azioni interne, e, per così dire, automi incorporei.   l‘J.° Se vogliamo chiamare anima tutto ciò che ha  percezioni e appetiti nel senso generale che ho spiegato or  ora. tutte le sostanze semplici o monadi create potrebbero  essere chiamate anime; ma siccome il sentimento è qualche    ( 1) Nell’artieolo Korarius dei suo Dizionario, il Bayle discute P ipotesi  leibniziana dell'anuouia prestabilita; e a questo proposito trova contradjt-  toria la. tesi cho una sostanza semplice e priva di parti sia soggetta a cam-  biamento.   (2) Ragioni meccaniche, lìgura, movimento sono caratteristiche della pura  in viaria. Leibniz le contrappone alle cause finali, che sono proprie del mondo  immateriale e spirituale. Cfr. p. 116 ss. cosa di più che ima semplice percezione, io acconsento a  che il nome generale di monadi e entelechie basti per le  sostanze semplici che non hanno se non la pura perce-  zione: e che si chiamino anime solamente quelle la cui  percezione è più distinta e accompagnata da memoria (1).   20. ° Infatti noi sperimentiamo in noi stessi uno stato  in cui non ci ricordiamo di nulla e non abbiamo alcuna  percezione distinta; come quando cadiamo in deliquio o  quando siamo immersi in un sonno profondo senza sogni.  In questo stato, l'anima non differisce sensibilmente da ima  semplice monade; ma siccome questo stato non è dure-  vole, e l’anima se ne Ubera, essa è qualche cosa di più.   21. ° E non ne consegue punto che in tale stato la  sostanza semphee sia priva di percezione; ciò non è anzi  possibile, per le ragioni suddette; poiché essa non può pe-  rire. nè può sussistere senza qualche affezione, che non è  poi altro che la sua perceziome. Ma quando vi è una grande  moltitudine di piccole percezioni, nelle quali non vi è  nulla di distinto, si è storditi; al modo che quando si gira  continuamente nello stesso senso per più volte di seguito  si è presi da una vertigine che può farci svenire e che  non ci permette di distinguere nulla. E la morte può de-  terminare questo stato per un certo tempo negh animali.   22. ° E, poiché ogni stato presente di una sostanza sem-  plice è naturalmente conseguenza del suo stato precedente,  sicché il presente in essa è gravido dell’avvenire (2);   23. ° dunque, poiché, appena desti dallo stordimento,  ci si accorge delle proprie percezioni, bisogna pure che se    (1) La percezione pura e semplico, incosciente o priva di appercezione  tasta a costituire la monade; ma le monadi più complesse c perfette si di-  stinguono appunto per una percezione più perfezionata, dotata di coscienza,  di memoria eoe. Cfr. §§ 24-30 e p. 101 ss.   (2) Leibniz introduce qui incidentalmente un suo principio fondamentale:  il principio di causalità o di ragion sufficiente. Ogni stalo della monade  deriva da cause e produce effetti, c se si segue tale connessione causale in  tutto il suo sviluppo, si va all’ infinito e si comprende tutto l’universo pas-  sato e avvenire. Cfr. p. 17 a., 35 ss. Vedi anche in seguito, § 32.  ne siano avute immediatamente prima, quantunque non  ce ne siamo accorti ; poiché una percezione non può venire  in natura se non da un'altra percezione, come un mo-  vimento non può venire in natura se non da un movimento. Si vede da ciò. che se noi non avessimo nulla di  distinto e, per dir così, in rilievo e di un più forte sapore  nelle nostre percezioni, saremmo sempre in uno stato di  stordimento. E questo è lo stato delle monadi pure e  semplici. Così noi vediamo che la natura ha dato perce-  zioni in rilievo agli animali, dalla cura che essa si è presa  di fornirli di organi che raccolgono più raggi di luce o  pili vibrazioni di aria per aumentarne l'efficacia con l’u-  nione. E vi è qualche cosa di simile nell'odorato, nel gusto  e nel tatto, e forse in una quantità di altri sensi che ci  sono sconosciuti. E spiegherò fra poco come ciò che  avviene nell’anima rappresenti ciò che avviene negli organi. La memoria fornisce alle anime una specie di  concatenazioM che imita la ragione, ma che deve esserne  distinta. Noi vediamo che gli animali, quando hanno per-  cezione di qualche cosa che li colpisce e di cui hanno già  avuto anteriormente una percezione simile, si attendono,  per la rappresentazione della loro memoria, a ciò che vi  era unito in quella percezione precedente, e sono portati a  sentimenti simili a quelli che avevano provati allora. Per  esempio, quando si mostra il bastone ai cani, essi si ram-  mentano del dolore che esso ha loro causato, e abbaiano  e fuggono. Si riferisce qui al principio di continuità, secondo il quale natura  non facil saliti)). Cfr. p. 52.   (2) Leibniz stabilisce, in questi paragrafi e nei seguenti, i tre gradi della  gerarchia: lo monadi pure c semplici fornite di sole percezioni incoscienti;  quelle fornite di momoria, o animali, quelle fornite anche di ragione, o spi-  riti. Cfr. p. 101 ss.   (3) Cfr. §§ 62, 78 ss.    E la forte immaginazione che li colpisce e li com-  muove, deriva o dall’ intensità o dal numero delle perce-  zioni precedenti. Poiché spesso un' impressione forte pro-  duce d’un sol tratto l’ effetto di una lunga abitudine o di  molte percezioni mediocri ripetute.   28. ° Gli uomini agiscono come le bestie, in quanto la  concatenazione delle loro percezioni non avviene se non  per il principio della memoria; assomigliano, per questo  riguardo, ai medici empirici che hanno una semplice pra-  tica senza teoria; e noi non siamo che empirici nei tre  quarti delle nostre azioni. Per esempio, quando ci si at-  tende che domani faccia giorno, si fa ciò empiricamente,  perchè finora è sempre avvenuto così. Soltanto l’ astro-  nomo giudica ciò per Ada di ragione.   29. ° Ma la conoscenza delle verità necessarie ed eterne  è ciò che ci distingue dai semplici animali e ci dà la ra-  gione e le scienze, elevandoci alla conoscenza di noi stessi  e di Dio. E ciò si chiama in noi anima ragionevole o spirito.   30. ° Inoltre, mediante la conoscenza delle verità necessa-  rie e delle loro astrazioni, noi siamo elevati agli atti riflessivi  che ci fanno pensare a ciò che si chiama io, o considerare  che questo o quel contenuto è in noi ; ed è così che, pen-  sando a noi, noi pensiamo all’essere, alla sostanza, al sem-  plice e al composto, all' immateriale e a Dio stesso, col  concepire che ciò che in noi è limitato, è in lui senza limiti.  E questi atti riflessivi forniscono i principali oggetti dei  nostri ragionamenti.   \ 31.° I nostri ragionamenti sono fondati su due grandi   principi ( 1 ) : quello delia contradizione, in A T irtù del quale giu-  dichiamo falso ciò che implica contradizione, e vero ciò che  è opposto o contradittorio al falso;    (I) Passa ad altro argomento: le grandi forme costitutive della realtà, c  insieme i fondamentali principi logici: verità di ragione, rette dal principio  di non contradizione, verità di fatto, rette dal principio di ragion suflìciente  o di causalità. Cfr. p. (i ss., 17 s.   e quello della ragion sufficiente, in virtù del quale  consideriamo clic nessun fatto può esser vero o esistente,  nessuna proposizione veritiera, se non vi è una ragione suf-  ficiente per cui sia così e non altrimenti; benché tali ra-  gioni il più delle volte non possano esserci note.  y 33° Vi sono pure due specie di verità: quelle di ra-  gione e quello di fatto ; le verità di ragione sono necessarie  e il loro opposto è impossibile; quelle di fatto sono con-  tingenti e il loro opposto è possibile. Quando una verità  è necessaria, se ne può trovare la ragione per mezzo del-  l'analisi, risolvendola in idee e in verità più semplici, fin-  ché si giunga alle primitive (1).   34° Così nelle matematiche i teoremi speculativi e i  canoni pratici sono ridotti, per mezzo dell’analisi, a defi-  nizioni, assiomi e 'postulati,   35.° Vi sono infine idee semplici, di cui non si può  dare la definizione; vi sono pure assiomi e postulati o,  in una parola, principi primitivi che non possono essere  dimostrati, e non ne hanno bisogno ; e sono le proposizioni  identiche, il cui opposto contiene un'espressa contradizione.   36° Ma la ragion sufficiente deve trovarsi anche nelle  verità contingenti o di fatto, cioè nell'ordine delle cose dif-  fuse nell'universo delle creature ; nel quale la risoluzione  in ragioni particolari potrebbe procedere fino a un frazio-  namento senza limiti, a causa della varietà immensa delle  cose della natura e della divisione dei corpi all' infinito.  Vi è un" infinità di figure e di movimenti presenti e passati,  che entrano nella causa efficiente della mia scrittura at-  tuale; vi è un' infinità di piccole inclinazioni e disposi-  zioni della mia anima, presenti e passate, che entrano  nella causa finale (2).    ( 1 ) È questo il metodo ilollu « caratteristica» e « combinatoria »; cfr. p. .'iUtss-  (2) La causa liliale, che Leibniz usa con significati diversi secondo le oc-  casioni, rappresenta qui, per cosi dire, una causa efficiente rivolta verso  l’avvenire. ICssa dà il fine, lo scopo, l’intenzione secondo cui una determinata E siccome tutto questo dettaglio non implica se  non altri contingenti anteriori o più dettagliati, ciascuno  dei quali ha ancora bisogno di una simile analisi perchè  se ne possa rendere ragione, per questa via non si procede  affatto; e conviene che la ragion sufficiente od ultima sia  fuori dell’ ordine o seriett di questo dettaglio di contingenze, *  per quanto infinito esso possa essere.   38. ° E cosi la ragione ultima delle cose deve consi-  stere in una sostanza necessaria, nella quale il dettaglio  dei cambiamenti non si trovi se non in modo eminente,  come in una fonte; e tale sostanza noi la chiamiamo Dio. Ora, essendo tale sostanza ragion sufficiente di  tutto quel dettaglio, il quale inoltre è concatenato univer-  salmente, non vi è che un nolo Dio, e questo Dio è suflì-V  dente. È da ritenere inoltre che questa sostanza su-  prema, che è unica, universale e necessaria, non avendo  nulla fuori di sè che sia da essa indipendente, ed essendo  semplice conseguenza dell'essere possibile, debba essere in-  capace di limiti e contenere la massima quantità possibile  di realtà.   4 1 . ° Donde consegue che Dio è assolutamente perfet-  to; non essendo la perfezione altro che la grandezza della  realtà positiva intesa precisamente, eliminando i limiti o  confini nelle cose che ne hanno. E là dove non vi sono  confini, cioè in Dio, la perfezione è assolutamente infinita.    cosa è avvenuta. Contribuisce quindi a determinare Je « ragioni della cosa  stessa e rientra cioè nella sua ragion sufficiente. Da causa tinaie serve a Leib-  niz per indicare un aspetto più spontaneo, attivo, spirituale, morale del prin-  cipio di ragion sufficiente. Essa si contrappone in questo senso alla causa  efficiente, la quale indirà un rapporto puramente materiale e meccanico.  Cfr. pp. li) s., 1 lfi ss.   (1) Questa dimostrazione di Ilio è basata sul principio di rugion suffi-  ciente. Dio è la causa prima di tutta la serie delle cose del mondo, delle verità  di fatto empiriche e contingenti. Egli non può però appartenere all’ordine  delle cose contingenti, altrimenti dovrebbe avere una causa fuori rii sè, e  non sarebbe più causa prima. Appartiene quindi all’ordine delle essenze  necessario.   Ne consegue pure che le creature ricevono le loro  perfezioni dall' influsso di Dio, ma che derivano le imper-  fezioni dalla loro propria natura, incapace di essere senza  limiti. Poiché in questo appunto esso sono distinte da Dio.  Tale imperfezione originaria delle creature, si riscontra nel-  f inerzia naturale dei corpi (1).   43. ° È anche vero che Dio è non solo la fonte delle  esistenze, ma anche quella delle essenze in quanto reali,  o di quanto vi è di reale nella possibilità. Infatti V intel-  letto di Dio è la regione delle verità eterne, o delle idee  da cui esse dipendono; e senza di lui non vi sarebbe nulla  di reale nelle possibilità, e non solamente nulla vi sarebbe  di esistente, ma neppure alcunché di possibile. Infatti, se vi è mia realtà nelle essenze o possi-  bilità, o nelle verità eterne, bisogna pure che questa realtà  si fondi su qualche cosa di esistente e di attuale; si fondi  quindi sull - esistenza dell'essere necessario, in cui l’essenza  implica l’esistenza, o cui basta di essere possibile per essere  attuale. Così Dio solo, ovvero l'essere necessario, ha  questo privilegio: che. se è possibile, bisogna che esista.  E siccome nulla può impedire la possibilità di ciò che  non implica alcun limite, alcuna negazione, quindi alcuna  contradizione, ciò solo basta per riconoscere a priori la  esistenza di Dio (2). Noi l’abbiamo anche dimostrata per    (1) Perfezione è per Leibniz il massimo di realtà, di fatto compatibile eoi  principi della possibilità, determinati dalle verità di ragione. Cfr. p. 21 ss.  Imperfezione è una limitazione di realtà. L’intero complesso del mondo  dunque, cosi come 6 messo in opera da Dio, rappresenta il massimo di realtà  possibile, ed è perfetto. Solo le cose particolari sono imperfette, in ragione  appunto della loro particolarità. Questa concezione àia medesima die Leib-  niz svolge nella Teodicea.   (2) Questa è la prova ontologica del resistenza di Ilio. Leibniz lui aggiunto  alla formulazione cartesiana di essa il criterio della possibilità. Bisogna an-  zitutto, secondo lui, dimostrare che il concetto dell’ente perfettissimo ò pos-  sibile, cioè noninvolve contradizione. Sia poiché esso è effettivamente pos-  sibile, ne segue che esso contiene in sé anche l'attributo dell’esistenza. Cfr.  p. 13 ss. mezzo della realtà delle verità eterne (1). Ma l'abbiamo di-  mostrata or ora anche a 'posteriori (2), poiché esistono es-  seri contingenti, i quali non possono avere la loro ragione  ultima o sufficiente se non nell essere necessario che ha in  aè stesso la ragione della sua esistenza.   40.° Tuttavia non bisogna punto immaginarci, come  fa taluno, che le verità eterne, essendo dipendenti da Dio,  siano arbitrarie e derivino dalla sua volontà, come sembra  aver inteso Cartesio e dopo di lui il Poiret (3). Ciò non è  vero se non delle verità contingenti, il cui principio è la  convenienza o la scelta del migliore : laddove le verità ne-  cessarie dipendono unicamente dal suo intelletto e ne sono  l'oggetto interno. Così Dio solo è f unità primitiva, o la sostanza  semplice originaria di cui tutte le monadi create o derivate  sono prodotti; e queste monadi nascono, per così dire,  per fulgurazioni continue della divinità, di momento in  momento, limitate dalla recettività della creatura, alla  quale è essenziale di essere limitata.   4 8.° \ i è in Dio la potenza , che è la sorgente di tutto,  la conoscenza che contiene il dettaglio delle idee, e la vo-  lontà che determina i mutamenti o le produzioni secondo  il principio del migliore (5). E ciò corrisponde a quello che  nelle monadi create costituisce il soggetto o base, la fa-  coltà percettiva, e la facoltà appetitiva. Ma in Dio questi    (1) Ai §§ 43, 44.   (2) Ai §§ 37-30.   (3) Teologo protestante. Questa affermazione correggo in parte quunto fc stato attenuato ai  SS 43 o 44. Le verità di ragione, clic danno la possibilità delle cose, hanno  pure una loro realtà di esseri possibili. Questa realtà deriva loro da Dio.  Ma la loro conformazione in quanto principi regolativi dell’universo, ha una  validità a sò stante, indipendente anche dalla volontà di Dio. Solo le esistenze o realtà di fatto sono messe esplicitamente in opera da lui, secondo  il criterio del «migliore». Cfr. pp. 13 ss., 18 ss.   (5) L’intelletto divino Ita come contenuto le verità di ragione; la sua  volontà mette in opera le realtà di fatto. attributi sono assolutamente infiniti e perfetti; e invece  nelle monadi create o entelechie (o PERFECTIHABIES, secondo  la traduzione di questa parola data da BARBARO (si veda)) essi non sono se non imitazioni, in ragione della  perfezione di ciascuna.   49. ° La creatina è detta agire verso l’ esterno in quanto  essa ha perfezione, e {Mire da parte di un’altra in quanto  è imperfetta. Così si attribuisce azione alla monade in  quanto essa ha percezioni distinte, e passione in quanto ha  percezioni confuse. E ima creatura è più perfetta di un'altra, in  quanto si trova in essa ciò che serve a render ragione a  priori di ciò che avviene nell'altra; ed appunto per ciò  si dice che l una agisce sull’altra.   51. ° Ma nelle sostanze semplici non si tratta che di  un' influenza ideale di una monade sull’altra; influenza che  non può avere il suo effetto se non per 1" intervento di  Dio, in quanto, nelle idee di Dio, una monade pretende  con ragione che Dio, regolando le altre fin dal principio  delle cose, abbia riguardo ad essa. Infatti, giacché una  monade creata non può avere influenza fisica sull' interno  dell'altra, solo per questa via può verificarsi una dipen-  denza dell’ima dall’altra.   f>2.° Per questo appunto, fra le creature, le azioni e  passioni sono reciproche. Infatti Dio, paragonando due  sostanze semplici fra loro, trova in ciascuna ragioni  che l’obbligano ad adattarvi l'altra; e quindi ciò che è  attivo per certi riguardi, è passivo da un altro punto di  vista; attivo in quanto ciò che in esso vien conosciuto di-  stintamente serve a render ragione di ciò che accade in  un altro; e passivo in quanto la ragione di ciò che accade  Filologo e filosofo italiano, tradusse in latino vario  opere di Aristotele.   (2) Sulle percezioni confuse, efr. p. 92 ss.  in esso si trova in ciò che vien conosciuto distintamente  in un altro (1).   53. ° Ora, poiché vi è un' infinità di universi possi-  bili nelle idee di Dio, e invece non ne può esistere che uno  solo, bisogna che vi sia una ragione sufficiente della scelta  di Dio, che lo determini a scegliere uno piuttosto che l’altro.   54. ° E questa ragione non può trovarsi se non  nella convenienza o nel grado di perfezione che questi  mondi contengono; poiché ogni possibile ha diritto di  pretendere all'esistenza, in ragione della perfezione che  racchiude.   55. ° E ciò appunto è la causa dell’esistenza del  mondo migliore, che la saggezza fa conoscere a Dio, la  sua bontà gli fa scegliere e la sua potenza gli fa pro-  durre (2).   5(j.° Ora questo legame o adattamento di tutte le cose  create a ciascuna singola, e di ciascuna a tutte le altre,  fa sì che ogni sostanza semplice contenga in sé rapporti    (I) Le monadi, ohe sono senza Maestre (J 7), non possono agile l una  sull’altra. Il contenuto di ciascuna corrisponde a quello di tutte le altre,  in quanto ciascuna è un punto di vista preso sul medesimo universo.  (§§ 50-57), Ciascuna contiene nel suo intimo tutto il proprio sviluppo;  e tutto le viene dal suo intorno, nulla dal di fuori. Solo in senso improprio  c metaforico si può parlare d’influenza di una monade sull’altra. 11 diverso  punto di vista dal quale l’ universo viene rappresentato, costituisce la  particolare individualità di ciascuna monade; esso viene indicato dalla di-  versa sfera delle percezioni distinte che rappresentano, per così dije, la  zona centrale di ogni monade, mentre le confusene rappresentano la peri-  feria. (Cfr. § 60). Questa varia collocazione reciproca dei centri e delie peri-  ferie ò ciò che permette una differenziazione fra le varie monadi. Ora, se  si vuol chiamare attivo il centro, incili si hanno percezioni distinte, e pas-  siva la periferia che ha solo percezioni confuse (§49), si potrà parlare anche  di una sfera di attività in ciascuna monade, cui corrisponde una sfera di  passività nelle altro; insomma di una certa azione ideale dcH’una sull’altra.  Cfr. p. 93 ss.   (2) I mondi possibili, cioè concepiti dall’ intelletto di Dio secondo i prin-  cipi di ragione, sono influiti. Dio sceglie fra di essi uno, il migliore, cioè il  piò perfetto. È più perfetto quello che, una volta attuato, cioè passato dalla  pura possibilità alla effettiva esistenza, contiene il massimo di realtà. Ogni  possibile, insomma, è tanto più perfetto, a quanta maggior quantità di esi-  stenza può dar luogo. Cfr. pp. 19-24. V. anche S§ 40-42, 46. clic esprimono tutte le altre, e sia per conseguenza uno  specchio vivente perpetuo dell'universo.   57.° E come una medesima città, guardata da diffe-  renti punti, sembra diversa ed è come moltiplicata in  prospettiva, analogamente avviene che, per la moltepli-  cità infinita di sostanze semplici, vi sono come altrettanti  universi differenti, i quali non sono peraltro se non le  prospettive di un universo solo, secondo i differenti punti  di vista di ciascuna monade.   ò8.° È questo il modo di ottenere il massimo di va-  rietà possibile, ma con quanto pili ordine si può; cioè il  massimo di perfezione possibile. Dunque solo questa ipotesi (che io oso dire dimo-  strata) esprime in modo adeguato la grandezza di Dio.  Ciò fu riconosciuto anche dal Bayle, quando, nel suo Dizionario (articolo Rorarius), mosse ad essa obiezioni; fu  anzi spinto a credere che io attribuissi troppo a Dio, e  più che non sia possibile. Ma egli non potè addurre alcuna  ragione che dimostrasse 1' impossibilità di questa armonia  universale, la quale fa sì che ogni sostanza esprima esat-  tamente tutte le altre per i rapporti che ha con esse. Si vedono fi altronde, in ciò che ho esposto, le  ragioni a priori per cui le cose non potrebbero procedere  diversamente. Dio infatti, regolando il tutto, ha avuto  riguardo a ciascuna parte, e particolarmente ad ogni  monade; la cui natura essendo rappresentativa, nulla  la può limitare a non rappresentare se non una parte  delle cose; benché sia vero che questa rappresenta-  zione non è se non confusa nel dettaglio di tutto l'uni-  verso, e non può essere distinta che per una piccola parte  delle cose, per quelle cioè che sono o più vicine o pili  glandi rispetto ad ogni monade; altrimenti ogni monade  sarebbe una divinità. Non nell’oggetto, ma nella modifi-  cazione della conoscenza dell'oggetto, le monadi sono li  mitate. Esse tendono tutte confusamente all’ infinito, al tutto; ma sono Limitate e differenziate secondo i gradi  delle percezioni distinte (1).   tìl.° E i composti in ciò corrispondono ai semplici.  Intatti, siccome tutto è pieno (il che fa sì che tutta la  materia sia concatenata (2)), e siccome nel pieno ogni movimento opera qualche effetto sopra i corpi distanti in  ragione della distanza, di modo ohe ogni corpo non solo  è affetto da quelli che lo toccano e risente in qualche  modo di tutto ciò che accade ad essi, ma anche per mezzo  loro risente di quelli che toccano i primi da cui esso è  toccato immediatamente; ne consegue che questa comu-  nicazione va a qualsiasi distanza. E quindi ogni corpo  risente di tutto ciò che avviene nell' universo; sì che chi  avesse la facoltà di veder tutto, potrebbe leggere in cia-  scun corpo ciò che avviene ovunque, ed anche ciò che è  avvenuto e avverrà; osservando nel presente ciò che è  lontano, sia secondo il tempo, sia secondo lo spazio:  ffup.7r.oia 7ràvTa (4), diceva lppocrate. Ma mi' anima non  può leggere in sè stessa se non ciò che vi è rappresen-  tato distintamente; essa non saprebbe svolgere in una  sola volta tutte le sue pieghe, perchè esse vanno all' in-  finito.   (i2.° Così, quantunque ogni monade creata rappresenti  tutto l'universo, essa rappresenta piii distintamente il corpo  che lo si riferisce particolarmente e di cui essa costituisce  l’entelechia: e siccome tale corpo esprime tutto l'universo  a causa della connessione di tutta la materia nel pieno. Ciascuna monade, in quanto rappresentativa ili tutto l’universo, è  analoga alla divinità. Solo la minor foiza di questa rappresentazione la  rende imperfetta e la ditTerenzia dalla divinità e dalle altro monadi. In Dio  tutto è chiaro e distinto. Nella monade sono distinte solo le percezioni più  vicino al contro, come si è già visto. (§? 49-52) Cfr. pp. 78, 92 ss.   (2) Leibniz non ammette il vuoto, per il suo principio della continuità  applicato alla materia.Ecco un’altra formulazione della concatenazione universale secondo il  principio di causalità, considerato questa volta nel suo aspetto fisico. i Tutto ù conspirante ». l’anima, nel rappresentare questo corpo clie le appartiene in  maniera particolare, rappresenta insieme tutto runiverso. Il corpo appartenente ad una monade che ne è  l’entelechia o l’anima, costituisce con l’entelechia ciò che  si può chiamare un vivente, e coll'anima ciò che si può  chiamare un animale. Ora questo corpo di un vivente o  di un animale è sempre organico; poiché, essendo ogni  monade a suo modo uno specchio dell’ imiverso, ed essendo  l'universo regolato in un ordine perfetto, bisogna pure che  vi sia un ordine nel rappresentante, cioè a dire nelle per-  cezioni dell’ anima, e per conseguenza nel corpo, secondo  il quale l'universo è rappresentato nell’anima.   (>4.° Così il corpo organico di ogni vivente è ima specie  di macchina divina o di automa naturale che supera infi-  nitamente tutti gli automi artificiali. Perchè una macchina  fatta dall’arte dell' uomo non è macchina in ciascuna delle  suo parti. Per esempio, il dente di una ruota di ottone  ha parti o frammenti che non sono più per noi qualche  cosa di artificiale e non hanno più nulla con carattere di  macchina riguardo all'uso cui la ruota è destinata. Ma le  macchine della natura, cioè i corpi viventi, sono ancora  macchine nelle loro più piccole parti, all' infinito. Ciò de-  termina la differenza fra la natura e l'arte, cioè fra l’arte  divina e la nostra (2).   65.° E 1 autore della natura ha potuto operare questo  artifìcio divino e infinitamente meraviglioso, perchè ogni  porzione di materia non solo è divisibile all’ infinito, come  hanno già riconosciuto gli antichi, ma è anche suddivisa  attualmente senza fine, ogni parte in parti, ognuna    (1) « LI corpo - commenta il Boutroux (eil. eit., p. 178) -, attraverso lo  infinite percezioni confuse relative all’univerBO che esso determina ncl-  l’auima, ò il nesso che riunisce l’anima al resto del mondo, che fa cioè comu-  nicare lo anime fra di loro. È questa un’altra applicazione del principio di continuità alla materia. Lkiuniz, La monadologia. delle quali ha qualche movimento proprio; altrimenti sa-  rebbe impossibile che ogni porzione della materia potesse  esprimere tutto l’ universo.   66. ° Donde si vede che vi è un mondo di creatine,  di viventi, di animali, di entelechie, di anime anche nella  minima particella di materia.   67. ° Ogni porzione di materia può essere concepita  come un giardino pieno di piante, e come uno stagno  pieno di pesci. Ma ogni ramo della pianta, ogni membro  dell' animale, ogni goccia dei suoi umori, è ancora un giar-  dino, uno stagno.   68. ° E quantunque la terra e l'aria interposta fra le  piante del giardino, o l’acqua interposta fra i pesci dello  stagno, non siano punto pianta nè pesce, esse ne conten-  gono tuttavia ancora; ma per lo più di una piccolezza  a noi impercettibile. Cosi non vi è nulla di incolto, di sterile, di morto  nell'universo; e non vi è caos nè confusione se non in ap-  parenza; press' a poco come apparirebbe confusione in uno  stagno, ad una distanza dalla quale si vedesse un movi-  mento confuso, un brulichio, per così dire, di pesci, senza  discernere i pesci stessi. Si vede da ciò che ogni corpo vivente ha una  entelechia dominante che è f anima nell'animale; ma le  membra di questo corpo vivente sono piene di altri viventi,  piante, animali, ciascuno dei quali ha ancora la sua ente-  lechia, o la sua anima dominante.   71. ° Ma non bisogna immaginare, come fece taluno  che aveva male inteso il mio pensiero, che ogni anima  abbia una massa o porzione di materia propria o applicata  ad essa per sempre, e che essa possieda quindi altri vi-  venti inferiori, destinati sempre al suo servizio. Poiché  tutti i corpi sono in un flusso perpetuo, come fiumi; e  parti vi entrano e ne escono continuamente. Così l’anima non cambia di corpo se non a poco  a poco, per gradi, di modo che essa non è mai spogliata  ad un tratto di tutti i suoi organi; e vi è spesso metamor-  fosi negli animali, ma non mai metempsicosi nè trasmi-  grazione delle anime; non vi sono neppure anime comple-  tamente separate, nè genii senza corpo. Dio solo è staccato  interamente dal corpo.Perciò anche non vi è nè generazione assoluta,  nè morte perfetta, intesa rigorosamente, come separazione  dall’anima. E ciò che noi chiamiamo generazione , è sviluppo  e accrescimento; come ciò che noi chiamiamo morte, è  involuzione o diminuzione. I filosofi sono stati molto imbarazzati sull’origine  delle forme, entelechie, o anime; ma oggi che ci si è ac-  corti, per mezzo di ricerche esatte sulle piante, sugli in-  setti e sugli animali, che i corpi organici della natura  non sono mai prodotti da caos o da putrefazione, ma sem-  pre dai semi nei quali vi ora senza dubbio qualche pre-  formazione, si è ritenuto che, prima della concezione, vi  fosse già non solo il corpo organico, ma anche un’anima  in questo corpo, insomma l'animale stesso; e che per mezzo  della concezione questo animale sia stato solamente di-  sposto ad una grande trasformazione per divenire un ani-  male di un'altra specie. Si vede pure qualche cosa di si-  mile fuori del campo della generazione; come quando i  vermi divengono mosche e i bruchi farfalle. La menade, elio ò assolutamente immateriale (§3), non è però priva  di un suo aspetto di materialità. La materialità viene definita da Leibniz  in vari modi: come percezione confusa (cfr. p. 91 ss.); come aggregato  (ofr. p. 109 ss.). Sempre però come un modo di essere della monade, un suo  particolare « fenomeno ». Posto ciò, e dato che la monade è eterna e indi-  struttibile (§§ 4-6) non si può a rigore parlare di morte neppure nella materia;  si potrà parlare solo di aggregazione e di disgregazione, di passaggio do uno  stato all’altro (cfr. p. 99, s.; v. anche §§ 70-77). Cosi non si può parlare  di una materia clic sia pura materia, separata da un’anima che sia pura  anima. Le teorie biologiche del suo tempo servono qui a Leibniz come so-  stegno e conferma delle sue concezioni metafisiche. Leibniz, La monadologia.  Gli animali dei quali alcuni sono elevati al grado  di animali più grandi per mezzo della concezione, possono  essere chiamati spermatici-, ma quelli fra di essi che ri-  mangono nella loro specie, cioè la maggior parte, nascono,  si moltiplicano, e vengono distrutti come i grandi animali, e  non vi e che un piccolo numero di eletti che passi ad un  teatro più vasto. Ma questo non era che la metà della verità; ho  dunque ritenuto che se 1 animale non ha mai inizio natu-  ralmente, non avrà neppure fine naturale, e che non solo  non vi sarà generazione, ma neppure distruzione intera,  nè morte rigorosamente intesa. E questi ragionamenti fatti  a posteriori e tratti dalle esperienze si accordano perfet-  tamente coi miei principi dedotti a priori qui sopra.   77. ° Così si può dire che non solamente l'anima (spec-  chio di un universo indistruttibile) è indistruttibile, ma  che lo e anche 1 animale stesso, benché la sua macchina  perisca spesso in parte, e lasci o prenda spoglie organiche. Questi principi mi hanno dato modo di spiegare  naturalmente l’ unione o conformità dell'anima e del corpo  organico. L' anima segue le sue proprie leggi, ed il corpo  le sue; ed essi si incontrano in virtù dell'armonia presta-  bilita fra tutte le sostanze, poiché le sostanze sono tutte  rappresentazioni di un medesimo imiverso. Le anime agiscono secondo le leggi delle cause  finali, per appetizioni, fini e mezzi. 1 corpi agiscono se-  condo le leggi delle cause efficienti o dei movimenti. E i  due regni, quello delle cause efficienti e quello delle cause  finali, sono armonici fra di loro. Cartesio ha riconosciuto che le anime non possono  attribuire forza ai corpi, perchè vi è sempre la medesima   (1) Questa teoria ha il suo corrispondente nella dottrina della gerarchia  delle monadi (jjij 24-30), secondo cui solo alcune di esse possono elevarsi agli  stadi superiori di animale o spirito ragionevole. Sui rapporti fra le cause efficienti e le finali, cfr. la nota a] j; 3fi.quantità di forza nella materia. Pur tuttavia egli lia cre-  duto che l’anima potesse cambiare la direzione dei corpi.  Ma egli credeva ciò, perchè ai suoi tempi non si conosceva  la legge naturale che stabilisce anche la conservazione della  medesima direzione totale nella materia: se egli avesse  notato questa legge, sarebbe giunto al mio sistema del-  l’armonia prestabilita (1).   81. ° Tale sistema stabilisce che i corpi agiscono come  se (ipotesi assurda) non vi fossero anime; che le anime  agiscono come se non vi fossero corpi; e che entrambi  agiscono come se l’uno influisse sull’altro. Quanto agli sjnriti,o anime ragionevoli, benché io  ritenga, come ho detto or ora, che tutti i viventi e animali  siano in fondo conformati ugualmente (cioè che l’animale  e l'anima comincino col mondo e non finiscano se non  col mondo stesso), vi è però di particolare negli animali  ragionevoli, il fatto che i loro piccoli animali spermatici, fino  a che non sono che tali, hanno soltanto anime cornimi o  sensitive: ma appena quelli che sono eletti, per così dire,  pervengono per ima effettiva concezione alla natura umana,  le loro anime sensitive vengono elevate al grado della ra-  gione e alla prerogativa degli spiriti.   83. ° Tra le differenze che intercedono fra le anime  comuni e gli spiriti, e di cui già ne ho notato alcune, vi  è anche questa: che le anime sono in generale specchi    Questo leggo tisica, secondo cui si oonserva anche la direzione totale (o  quantità di progrosso) - cioè a qualsiasi cambiamento di direzione, in un si-  stema chiuso, deve corrispondere un altro cambiamento di direzione eguale  o contrario-, contribuisce a fare del mondo meccanico un sistema a sè, chiuso  a qualsiasi influenza elio provenga dall’esterno, por esempio dnll’aninia. Car-  tesio credeva alla oonsorvazione della quantità di movimento (cui Leibniz  sostituisce la conservazione della forza viva); ma non conosceva la conservaziono della direzione totale. Egli pensava cioè che l'anima potesse mu-  tare la dirozionedi un movimento, lasciando invariato il sistema. Una tale  influenza dell’anima è impossibile, posta la legge di Leibniz. Anima e corpo  rimangono due sistemi separati, privi di influenze reciproche, cosi come lo  sono le monadi fra di loro. E il loro accordo dovrà essere stabilito attraverso  l’armonia prestabilita. Sulle leggi tìsiche leibniziane, cfr. pp. 62 ss., 65 ss. viventi o immagini dell'universo delle creatine; ma che gli  spiriti sono anche immagini della divinità stessa, o dell’autore stesso della natura; capaci di conoscere il sistema  dell universo e di imitarne alcunché, per mezzo di saggi  architettonici; essendo ogni spirito come una piccola di-  vinità nel suo ambito.   84. ° Appunto questo fa sì che gli spiriti siano capaci  ili entrare in una specie di società con Dio, e che egli sia  rispetto a loro non solo quello che un inventore è per la  sua macchina (ciò che Dio è rispetto alle altre creature),  ma altresì quel che mi principe è per i suoi sudditi, ed  anzi un padre per i suoi figli. Donde è facile concludere che l’insieme di tutti  gli spiriti deve compone la città di Dio, cioè il più per-  fetto stato possibile sotto il più perfetto dei monarchi.   86. ° Questa città di Dio, questa monarchia veramente  universale, è un mondo morale nel mondo naturale, è ciò  che vi è di più di elevato e di più divino nelle opere di  Dio. E proprio in essa consiste la gloria di Dio; poiché  non vi sarebbe gloria, se la sua grandezza e la sua bontà  non fossero conosciute ed ammirate dagli spiriti; e anche  solo in rapporto a questa città divina egli è propriamente fornito di bontà, laddove la sua saggezza e la sua potenza  si mostrano ovunque. Come abbiamo stabi lito pili sopra una perfetta  armonia fra due regni naturali, l’uno delle cause efficienti,  1 altro delle finali, dobbiamo notare qui anche un’altra  armonia fra il regno fisico della natura e il regno morale  della grazia, cioè fra Dio considerato come architetto della  macchina dell universo, e Dio considerato come monarca  della città divina degli spiriti. Tale armonia fa sì che le coso conducano alla  grazia per le vie medesime della natura, e che questo globo, per esempio, debba essere distrutto e riparato per  vie naturali, nel momento in cui il governo degli spiriti  lo richieda, per il castigo degli uni e la ricompensa degli  altri.  Si può dire ancora che Dio, in quanto architetto, soddisfa in tutto a Dio in quanto legislatore; e che così i  peccati devono portare con sè la propria pena per ordine  di natura e hi virtù anche della strattura meccanica delle  cose; e che analogamente le belle azioni debbono attirare  a sè la propria ricompensa por vie meccaniche rispetto ai corpi; benché ciò non possa e non debba avvenire sempre immediatamente. Insomma, sotto questo governo perfetto, non vi  sarebbe azione buona senza ricompensa, nè cattiva senza  castigo; e tutto deve risolversi nel bene dei buoni, cioè  di coloro che non sono malcontenti in questo grande stato,  che si fidano della Provvidenza dopo aver fatto il loro  dovere, e che amano e imitano come si conviene l’Autore  di ogni bene, compiacendosi nella considerazione delle sue  perfezioni, secondo la natura del vero puro amore veritiero, che fa prendere piacere alla felicità di colui che si  ama. E ciò fa sì che le persone sagge e virtuose lavorino  a tutto ciò che sembra conforme alla volontà divina pre-  suntiva o antecedente, e si contentino, d'altra parte, di  ciò che Dio fa accadere effettivamente per mezzo della sua volontà segreta, conseguente e decisiva; riconoscendo  che, se noi potessimo intendere a sufficienza bordine del-  l'universo, troveremmo che esso supera tutti i desideri dei  piii saggi, e che è impossibile renderlo migliore di quello  che è, non solo quanto al tutto in generale, ma anche  La volontà presuntiva o antecedente rappresenta ciò che deriva  dalla natura stessa di Dio, ohe ò connaturato con la sua essenza; la vo-  lontà conseguente e decisiva rappresenta l’atto effettivo con cui Dio ha  messo in opera la realtà di fatto: atto non necessario, quindi non prevedibile, « segreto ». Questa distinzione richiama quella fra le verità di ra-  gione, necessarie, e le verità di fatto, contingenti. Cfr. pp. 6 ss., 10 ss.    quanto a noi stessi in particolare, perchè ci teniamo le-  gati, come è giusto, all'autore del tutto, non solamente  come all architetto e alla causa efficiente del nostro essere,  ma anche come al nostro signore e alla causa tinaie che  deve costituire tutto lo scopo della nostra volontà, e solo  può procurarci la felicità. E qui accennato al concetto fondamentale della Teodicea, secondo  cui tutto oiò che apparo come malo cessa di essere tale, quando venga con-  siderato in connessione con l'arinonia del tutto, nella quale anche i lati  oscuri hanno una loro funziono, e le ombreggiature contribuiscono alla per-  fezione del quadro. Cfr. p. 4(5 ss. Eugenio Colorni. Colorni. Parole chiave: diadologia, il concetto dell’individuo, l’idealismo filosofico como malatia, indice alla malatia metafisica, scritti filosofici curati da Bobbio, scienza unificata, ebreo-italiano, ebreo-britannico Ayer, circolo di Vienna, Reichenbach, Hilbert, Eddington. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colorni” – The Swimming-Pool Library. Colorni.

 

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