Grice e Colorni: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale della diadologia – scuola di
Milano – filosofia milanese – filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Milano).
Filosofo milanese. Filosofo lombardo. Filosofo
italiano. Milano, Lombardia. Grice: “To understand the passion in Italian
philosophy, as the pasdsion I experienced with Austin in the postwar and with
Hardie on the golfcourse in the good old days, one has to understand Colorni –
he was a socialist, and thus an empiriociritic! He found opposition in the
Gentileians. Oddly, Colroni’s main interest is the ‘monad,’ but he also
explored what we would at Oxford call ‘science’ – rather than philosophy. Lay
the blame on his tutor at Milano!”. Promotore del federalismo europeo. Mentre era
confinato a Ventotene, su saggio, “Manifesto per un’Europa libera e unita”. Figlio
di Alberto Colorni, di Mantova, e Clara Pontecorvo, milanese di famiglia pisana
(zia di Pontecorvo, del regista Gillo, del genetista Guido e del giurista
Tullio Ascarelli). Studia al ginnasio di
Milano. Si appassiona al Breviario di estetica di Croce. La sua formazione
adolescenziale, come raccontò egli stesso nella “Malattia filosofica”, fu
influenzata dal rapporto intrattenuto con i cugini Enrico, Enzo ed Emilio
Sereni, tutti più grandi di lui. Fu Enzo, che era un convinto socialista ad esercitare su di lui una forte influenza
ideale. Studia sotto Borgese e Martinetti. Si laurea sotto Martinetti con “Il
concetto di individuo”. Strinse amicizia con Guido Piovene, che però verrà
interrotta per via di certi articoli anti-semitici scritti da Piovene su
L'Ambrosiano. Partecipa nel gruppo goliardico
per la libertà di Basso e Morandi. Saggio sull'estetica d’Ardigò. Si
accosta alla divisione milanese del “Giustizia e Libertà”. Collabora in seguito
col nucleo giellista torinese, che fece capo prima a Ginzburg e poi a
Foa. Incontra Croce, con il quale conversa a lungo. Saggi per Il
Convegno, La Cultura, Civiltà Moderna, Solaria e la Rivista di filosofia di Martinetti,
e presso la società editrice "La Cultura" di Milano, uno studio critico
su L'estetica di Croce. Saggio sulla monada e la diada, vinse il concorso
per l'insegnamento di storia e filosofia nei licei. Dopo una prima assegnazione
al liceo Grattoni di Voghera, ottenne la cattedra di filosofia a Trieste. Qui
conobbe e frequentò, fra gli altri, Saba (ritratto poi in Un poeta) ed anche Gambini,
Pincherle ed Curiel. Nella collana scolastica che Giovanni Gentile
diresse per Sansoni, pubblica “Diadologia”. La diadologia lo costrinse ad
affrontare studi di logica e semantica. Riparte da Kant e dalla problematica
kantiana, e medita sulle conseguenze che la fisica quantica e la psicanalisi
potevano avere per la dissoluzione di impostazioni filosofiche tradizionali. Quando,
come si legge in Un poeta,Saba gli domanderà, ‘Perché fa filosofia?’, Colorni
concluse che da quel giorno, ‘io non faccio più filosofia’. Non e la filosofia
che rifiuta, ma un orientamento legato a quell'idealismo di cui erano seguaci Croce
come Gentile e Martinetti. In occasione di un congresso di filosofia a Parigi,
incontra Rosselli eTasca. In quanto ebreo e rinchiuso a Varese. I giornali
pubblicarono la notizia con gran risalto, sottolineando che egli “di razza
ebraica, manteneva rapporti di natura politica con altri ebrei residenti in
Italia e all'estero”. La sottolineatura
sul “complotto ebraico” serviva a giustificare la legislazione anti-semita
appena varata in Italia dal regime, per potersi così allineare alla linea
politica seguita dagli alleati nazisti. Confinato a Ventotene, dove prosegue i
suoi studi filosofici, e conversa intensamente con gli altri compagni
confinati, Rossi, Doria e Spinelli. Un'eco fedele di quelle discussioni si
ritrova in “Conversazioni di Commodo”. Risale a questo periodo la sua adesione
alle idee federaliste europee, stesurando il Manifesto per un’Europa libera e
unita. Saggio: Problemi della Federazione Europea, che raccoglieva il Manifesto
ed altri scritti sul tema. Nella sua "Prefazione" al Manifesto,
auspicò la nascita di una politica federalista europea di respiro “universalista”,
come scenario democraticamente praticabile dopo la catastrofe della guerra. In
tale ottica, la creazione di una federazione di stati europei era da lui
considerata come condizione indispensabile per un profondo rinnovamento
sociale, anche per iniziativa popolare, che partendo dagli enti territoriali
avrebbe coinvolto tutta l’Italia e, quindi, l’intera Europa. Circa le
dinamiche che portarono alla stesura del Manifesto, è generalmente ricondotto
ai soli Spinelli e Rossi il contributo maggioritario del testo, sebbene, alcuni
recenti studi storiografici, abbiano seriamente rivalutato il suo ruolo. Di
trinità si tratta, e lo spirito santo della situazione è lui, che partecipa alle
discussioni preparatorie alla stesura del Manifesto assieme a poche altre
persone, ed ebbe una parte di rilievo, soprattutto nella funzione di stimolo e
di critica, dal suo punto di vista di socialista autonomista, verso i due
autori del documento, fino al suo trasferimento a Melfi, benché comunque i
contatti non cessassero del tutto. Grazie anche all'intervento di Gentile,
riusce ad essere trasferito a Melfi, in provincia di Potenza, dove, nonostante
lo stretto controllo della polizia, riusce ad avere contatti con alcuni degli
anti-fascisti locali. Assieme con Geymonat, elabora il progetto di una
rivista di metodologia scientifica. Riuscì a fuggire da Melfi,
rifugiandosi a Roma, dove visse da latitante. Dopo la capitolazione di Mussolini
si dedica all'organizzazione del Partito Socialista Italiano di Unità
Proletaria, nato dalla fusione del PSI col gruppo del Movimento di Unità
Proletaria. Partecipò, assieme a Spinelli, Rossi, Doria, Braccialarghe e
Foa, in casa di Rollier a Milano, alla riunione che diede vita al Movimento
Federalista Europeo. Il movimento adottò come proprio programma il
"Manifesto di Ventotene". Svolse nella capitale un'intensissima
attività nelle file della Resistenza. Prese parte alla direzione del PSIUP e
s'impegna a fondo nella ricostruzione della Federazione Socialista Italiana e
nella formazione partigiana della prima brigata Matteotti. “Io ero da
poco stato nominato segretario della Federazione Socialista per suggerimento e
per decisione di Pertini, che era membro della segreteria del partito in
quell'epoca. Avevamo organizzato una chiamiamola brigata, anche se era un
gruppo armato che era comandato da Colorni che poi è assassinata alla vigilia della liberazione di
Roma. Fu redattore capo dell'Avanti! Clandestine. Così Pertini ricorda il suo
impegno per la stampa del giornale socialista: «Ricordare l'Avanti!
clandestino di Roma vuol dire ricordare prima di tutto due nostri compagni che
a forte ingegno unevano una fede purissima, entrambi caduti sotto il piombo
fascista: C. e Fioretti. Ricordo come C., mio indimenticabile fratello
d'elezione, si prodiga per far sì che l'Avanti! uscisse regolarmente. Egli in
persona, correndo rischi di ogni sorta, non solo scrive gli articoli
principali, ma ne cura la stampa e la distribuzione, aiutato in questo da Fioretti,
anima ardente e generoso apostolo del socialismo. A questo compito cui si sente
particolarmente portato per la preparazione e la capacità della sua mente, C. dedica
tutto se stesso, senza tuttavia tralasciare anche i più modesti incarichi
nell'organizzazione politica e militare del nostro partito. Amava profondamente
il giornale e sogna di dirigerne la redazione nostra a Liberazione avvenuta e
se non fosse stato strappato dalla ferocia fascista, sarebbe stato il primo
redattore capo dell'Avanti! in Roma liberata e oggi ne sarebbe il suo
direttore, sorretto in questo suo compito non solo dal suo forte ingegno e
dalla sua vasta cultura filosofica, ma anche dalla sua profonda onestà e da
quel senso del giusto che ha sempre guidato le sue azioni. Per opera sua e di Fioretti,
l'Avanti! era tra i giornali clandestini quello che aveva più mordente e che
sapeva porre con più chiarezza i problemi riguardanti le masse lavoratrici. La
sua pubblicazione veniva attesa con ansia e non solo da noi, ma da molti
appartenenti ad altri partiti, i quali nell'Avanti! vedevano meglio interpretati
i loro interessi. Nella Roma occupata dalle forze naziste, in una tipografia
nascosta di Monte Mario, fece stampare 500 copie di un libriccino di 125 pagine
intitolato Problemi della Federazione Europea, contenente il "Manifesto di
Ventotene". Pochi giorni prima della liberazione della capitale,
venne fermato in via Livorno da una pattuglia di militi fascisti della
famigerata banda Koch. Tenta di fuggire, ma fu raggiunto e ferito gravemente da
tre colpi di pistola. Trasportato all'Ospedale San Giovanni, muore sotto l’identità
di ‘Franco Tanzi’. Indomito assertore della libertà, confinato durante la dominazione
fascista, evadeva audacemente dedicandosi quindi a rischiose attività
cospirative. Durante la lotta antinazista, organizzato il centro militare del
Partito Socialista Italiano, dirigeva animosamente partecipandovi, primo fra i
primi, una intensa, continua e micidiale azione di guerriglia e di sabotaggio.
Scoperto e circondato da nazisti li affrontò da solo, combattendo con estremo
ardimento, finché travolto dal numero, cadde nell'impari gloriosa lotta. Tre
lapidi esistenti, una, posta dalla III Circoscrizione del Comune di Roma è
semilleggibile perché scurita dal tempo, un'altra, posta dal Partito Socialista
Italiano, è spaccata in due e un'ultima, posta sempre dalla III Circoscrizione
del Comune di Roma, contiene un errore. Foto delle tre lapidi. Altre opere: “Scritti, Norberto Bobbio, la
Nuova Italia, Firenze); “Il coraggio dell'innocenza, Luca Meldolesi, La Città
del Sole (Istituto Italiano per gli Studi Filosofici), Napoli); “Un poeta” (Il
Melangolo, Genova); “La malattia della metafisica” (Einaudi, Torino).
Dizionario Biografico degli Italiani. L'itinerario politico di Eugenio Colorni,
in Id., Il socialismo riformista tra politica e cultura, Il socialismo
federalista di Eugenio Colorni, tesi di laurea, Università degli studi di Firenze,
Anno Accademico, Gaetano Arfé, Eugenio Colorni, l'antifascista, l'europeista,
in, Matteotti, Buozzi, Colorni. Perché vissero, perché vivono, Franco Angeli,
Milano, Sandro Gerbi, Tempi di malafede. Una storia italiana tra fascismo e
dopoguerra. Piovene e C., Einaudi, Torino e Hoepli, Milano,. Geri Cerchiai,
L'itinerario filosofico di Eugenio Colorni, in «Rivista di Storia della
Filosofia», Stefano Miccolis, C. e Croce”. Talvolta non si distingue debitamente
fra l’emergere originario di un testo nell’opera di un filosofo e il suo
riemergere, o diffondersi, in altri tempi o contesti. In tal modo, proprio la
tragedia del Novecento ha spostato spesso, rispetto alla composizione, la
diffusione di scritti intrisi di attualità. Poche volte, come nel Novecento, è
stato così vistoso il fenomeno delle letture differite. Ora, e al di là della
nota di polemica che affiora da un montaggio tendenzioso fino al limite delle
falsificazione – questo è quanto è all’incirca avvenuto per Colorni: scoperti
(o riscoperti), dopo la morte dell’autore, in quel particolare contesto del
quale si sono nutrite le due stesse riviste, “Analisi” e “Sigma” – che, insieme
con «Aretusa», li hanno per prime pubblicati, a tale contesto sono rimasti
giocoforza legati, venendo così ad essere proiettati all’interno di una
tradizione e di un dialogo almeno parzialmente diverso dal loro, condotto in un
altro linguaggio. Si è parlato, a proposito di tale linguaggio, dello spirito
del ’45, e sovente si è visto in esso, da parte degli stessi animatori, una
vera e propria prosecuzione, in campo culturale, delle istanze portate avanti
dalla Liberazione. Alla “dittatura dell’idealismo”– il cui [Razionalismo e
prassi a Milano: La cultura milanese vive profondamente quello “spirito del
’45” fatto anche di semplificazione e di attivismo, di fiducia ingenua
nell’anno zero, nella svolta politico-sociale in corso, ma soprattutto di un
nesso inscindibile con la liberazione e la Resistenza. La dittatura dell’idealismo
è il titolo dato da Cantoni ad un articolo apparso sul Politecnico di Vittorini.
Espressione di un comune sfondo sociale e di una comune struttura economica, le
filosofie di Croce e Gentile si sarebbero unite, nella prospettiva di Cantoni,
in una sorta di convergenza sociologica con il regime, riuscendo così a
rimediare una posizione di singolare monopolio per la cultura idealista.
Certamente, e una grossolanità speculativa e un errore storico identificare il
destini del fascismo col destino dell’idealismo, anche se questa identificazione
di fatto si verifica nella persona del maggior rappresentante filosofico dell’idealismo
italiano, Gentile. In realtà, molti idealisti, dal Croce al De Ruggiero,
staccarono, prima o dopo, le loro sorti da quelle del regime. Eppure, al di
sotto della dichiarata e sincera avversione, un filo, inconscio spesso ma
tenace, lega tra loro gli avversari e ne permetteva una, sia pure scomoda,
convivenza. Questo filo era costituito dal loro comune, e inconfessato carattere
*conservatore*. Lo spiritualismo idealista agì come una dittatura logica. Avendo
in mano cattedre e riviste, gli idealisti facevano il bello e il cattivo tempo
nella filosofia, facendo decadere al piano della non-filosofia gli avversari
positivisti ed logico-empiristi. Alcune opinioni sul crocianesimo che, oltre ad
essere meno drastiche, risultano per certi aspetti accostabili ad analoghi
spunti della critica colorniana. Vale la pena di rimettersi a una revisione
intelligente dell'idealismo italiano, rimanendo idealisti] filosofia viene
assimilata alla sorte del regime – si è così tentato di opporre una filosofia
più aperta al dibattito contemporaneo ed internazionale, fosse esso
identificabile con le correnti fenomenologico-esistenziali o con quelle più
strettamente epistemologiche ispirate al positivismo o empirismo logico del
Circolo di Vienna. Quest’ultimo, d’altro canto, viene in Italia presentato da
Geymonat con parole quanto mai indicative del clima che ne accoglieva i
principi. L’indirizzo filosofico, che qui viene esposto difeso e sviluppato è e
vuole essere un vero e proprio razionalismo, sebbene non attribuisca alla
ragione un valore assoluto e dogmatico come gli antichi indirizzi che vantano
il medesimo nome. Gli è che il razionalismo deve essere ben più agguerrito e
penetrante di quelli che caratterizzarono i secoli passati. Deve essere:
critico, ossia capace di tenere nel dovuto conto le obiezioni mosse contro la
pura ragione dalla filosofia mistica e decadente; costruttivo, cioè in grado di
soddisfare le esigenze di ri-costruzione e di logicità caratteristiche della
nuova epoca; aperto, cioè capace di affrontare i problemi sempre nuovi che la
scienza e la prassi pongono innanzi allo spirito umano. Gli Studi per un nuovo
razionalismo, che raccoglievano le ricerche di un intero ventennio (il testo
più datato, Le idee direttive del neo-empirismo, era stato pubblica Ciò che si
può apprezzare in Croce, da questo punto di vista, è il suo tentativo di
sciogliere il pensiero dai legami colla filosofia metafisica per avvicinarsi a
una filosofia intesa come chiarificazione dell’esperienza, intesa cioè come
trapasso dalla metafisica alla metodologia. Croce si sarebbe in tal modo
inserito nella corrente più viva della filosofia, non riuscendo tuttavia (e in
questo consisterebbe il suo maggior limite) a rompere completamente i ponti con
la metafisica specuativa. Croce non ha quindi tanto combattuto la metafisica
speculativa quanto sostituito alla metafisica trascendente la metafisica
immanente. Per una ricostruzione più esaustiva delle diverse posizioni di
Cantoni su Croce, si rimanda a R. Franchini, Remo Cantoni critico di Croce, in
C. Montaleone e C. Sini (a cura di), Remo Cantoni, filosofia a misura della
vita, Milano, Guerini, Cfr. N. Bobbio, Introduzione, in E. Colorni, Scritti,
Firenze, La Nuova Italia. Avviene la crisi dell’idealismo, cui segue la ricerca
di nuove vie, proprio ad opera della generazione di C. le vie battute per
uscire dalla crisi sono soprattutto due: quella che passa attraverso una
riflessione sulle trasformazioni avvenute in seno al sapere scientifico e che
dà origine a una filosofia scientifica, risolutamente anti-metafisica, qual è
il positivismo logico, cui aprono la strada gli studi di Geymonat; e quella che
passa attraverso l’esistenzialismo (Abbagnano, il primo Luporini)». Geymonat,
Studi per un nuovo razionalismo, Torino, Chiantore. Come ha fatto notare Mario
Dal Pra, e a conferma di quanto si scriveva di sopra, l’accostamento in questo
passaggio dei termini “ricostruzione” e “logicità” sembra diretto a far pensare
che «l’avversione alla metafisica del neoempirismo e l’avversione alla
dittatura fascista da parte del movimento di liberazione abbiano per Geymonat
una comune radice» (M. Dal Pra, Il razionalismo critico, in Bausola, Bedeschi
et al., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, Roma-Bari, Laterza. Geri
Cerchiai 4 to per la prima volta nel 1935 con il titolo Nuovi indirizzi della
filosofia austriaca), fu significativamente fatto uscire con la medesima data
di stampa del giorno della Liberazione di Milano; e in quello stesso mese di
aprile apparve il primo numero della rivista «Analisi» che, come si è
accennato, contribuì fra le prime, con la pubblicazione del frammento
intitolato Filosofia e scienza, alla diffusione dell’epistemologia colorniana9.
Ed è proprio da una lettura di «Analisi» e «Sigma» che è possibile
sommariamente inquadrare il contorno di quel periodo storico al quale si deve
la prima scoperta dell’epistemologia colorniana. Voluta da Fachini, «Analisi»
fu stampata per cinque numeri, mutando il nome, nel corso delle pubblicazioni,
in quello di «Analysis». L’«esperienza personale che io avevo fatto», racconta
Fachini circa la nascita della rivista, mi aveva convinto della necessità di
una piattaforma di incontro interdisciplinare. Allora in Italia mancava
qualcosa di simile. La guerra spezzò agli inizi i miei tentativi. Gli eventi
bellico-politici stessi, per conto loro, mi portarono a profonda solidarietà
mentale con Gratton. Nasce così l’idea di «Analysis»: con ambizioni editoriali
infantilmente dissonanti col momento. Trovammo poi nel Buzzati-Traverso un
biologo “fisicalista” ma aperto ad ogni esperienza. Tra i filosofi
professionali (a formazione cioè tradizionalmente filosofico-letteraria) Banfi,
cui mi ero rivolto, mi indica l’allievo suo Preti, come fornito di interessi e
preparazione fisico-matematica, allora rara nel filosofo. Per inciso, ricordo i
miei contatti con un altro filosofo con preparazione e interessi analoghi: C. I
temi portati avanti dalla rivista furono sostanzialmente due: l’interesse per
la metodologia delle scienze – attraverso la quale indagare la possibilità di
un fondamento comune alle diverse discipline – e la volontà di mantenersi
all’interno di un’impostazione strettamente antimetafisica. La collaborazione
fra 8 In «Rivista di filosofia». Cfr. C., Filosofia e scienza, in «Analisi». D’ora
innanzi si indicheranno gli scritti raccolti in questa edizione col solo titolo
seguito dal numero di pagina. Di «Analisi» e «Sigma», con specifico riferimento
alla figura di C., si è occupato M. Quaranta, La scoperta di C. nelle riviste
del secondo dopoguerra. Gli scritti sulla relatività, in Cerchiai e Rota (cur.),
C. e la cultura italiana fra le due guerre, Manduria-Bari-Roma, Lacaita.
“Analysis”: testimonianza di Fachini, in Analisi. Milano, riletta da Quaranta,
con testimonianze di Fachini, Ceccato, Geymonat, Gratton, Poli, Bologna, Forni.
Aggiunge Fachini, a proposito della sua formazione, che l’impulso a uno sforzo
collettivo interdisciplinare era sorto in me dai primi contatti con l’ambiente
mentale del neopositivismo logico», ma che la soluzione positivista, verso cui
ero in un primo tempo quasi costretto, mi si rivelò presto insoddisfacente per
l’irrigidimento formale, verso cui stava avviandosi. Il «periodico», si
affermava nel Programma pubblicato sul primo numero, era «inteso ad offrire un
luogo di libera discussione a quanti abbiano interesse ai problemi di
metodologia e di critica della scienza, nello sforzo di purificare ed
universalizzare il linguaggio Cinque scritti metodologici di C. 5
scienziati e filosofi fu uno degli aspetti qualificanti della pubblicazione, ma
fu anche d’impedimento ad un’armonica composizione delle sue diverse anime,
concorrendo in definitiva alla conclusione dell’esperienza. L’incontro con i
fondatori e la rivista, racconta a questo proposito Ceccato, avvenne per
chiamata gentile. Io mi trovavo in parabola positivistica o logico-empiristica
discendente. Il filone che comincia ad interessarmi era ormai piuttosto quello
di Bridgman e Dingler, comunque un filone operativo. Questo difficilmente
avrebbe permesso una intesa con i filosofi del gruppo, Geymonat e Preti. Una
collisione non poteva tardare anche con il più aperto filosofo ufficiale, Banfi,
più storico, più umanista. Un certo divario di lavoro si venne a creare anche
con gli scienziati in quanto per lo scienziato di discipline assestate e
floride, come la fisica, la biologia, l’anatomo-fisiologia, etc., la
metodologia si può aggiungere come ornamento, come divertimento. Ma non per me.
Così terminate le pubblicazioni di «Analisi», la sua eredità venne raccolta, in
quello stesso anno, dalla rivista romana «Sigma», fondata da Somenzi e Giuseppe
Vaccarino. Il periodico – che riporta il sottotitolo di «Conoscenza unitaria» –
si propone di riunire, come si legge nella seconda di copertina, una limitata
quantità di elementi atti a determinare una concezione unica della conoscenza. La
nota di presentazione della rivista precisava poi i confini all’interno dei
quali si intendevano muovere i curatori: «si va facendo evidente che esaurire
la scienza nel tecnicismo dello specialista è dannoso – non solo ai fini della
costituzione di un sistema unitario della conoscenza scientifica, ma anche nei
riguardi degli stessi progressi tecnici nei singoli settori. Da qui
specialistico verso una comune impostazione dei modi fondamentali, pur essi
comuni, con cui si edifica e modifica il sapere scientifico». Unico limite, in
tal senso, era quello di non «travalicare di là dalla metodologia in una
sistematica della scienza [per] fare della metafisica insaputa e inutile» (Il
programma, in «Analisi»). “Analysis”: testimonianza di Ceccato, in Analisi.
Milano. In una lettera a Vaccarino, Somenzi rilegge la storia di «Sigma»:
“Sigma” è nata con la modesta intenzione di pubblicare il vecchio materiale
tuo, di C. e Cotone, mio. E di esaurirlo coi primi numeri. Poi si è visto che,
se non altro dato il costo della carta e stampa, conveniva pubblicare un
tentativo di sintesi organica, sia pure provvisoria, del tuo – e limitare
quello dei due C. e mio a ciò che può avere ancora interesse dal punto di vista
filosofico. Infine è sorta l’idea, con la crisi di “Analisi”, di prenderne il
posto con il programma serio di Metodo. Già l’impostazione dei primi due numeri
ci alienerà le simpatie dei Castelli, Blanc, Fantappié ecc., ma anche dei
Filiasi e Geymonat (l’interessamento di quest’ultimo è condizionato alla
possibilità di una nostra conversione al materialismo dialettico/razionalista
tipo “La Pensée”). Attualmente spero solo nei Servadio e magari Spirito,
Savinio e stop» (“Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di
Fisica, Fondo Somenzi, Attività professionale, Carte di lavoro non organizzate,
Collaborazione con Vaccarino, b. 1, Vaccarino. Da ora in avanti, il Fondo sarà
abbreviato con la sigla “FS”, seguita dall’indicazione dei riferimenti completi
d’inventario. La conoscenza unitaria, in «Sigma». Scriveva Vaccarino a Somenzi
riguardo a questa nota. Rileggendo la tua edizione riveduta della conoscenza
unitaria penso che possa andare come presentazione anonima, specie se sarà
da Geri Cerchiai 6 avrebbe anche dovuto discendere il ruolo della ricerca
metodologica, che – comprendendo un discorso più largamente critico-filosofico
– avrebbe dovuto fissare le norme dirette ad unificare in sistema le scienze
particolari o la conoscenza in genere. Come «Analisi», anche «Sigma» ha però
vita breve, e dopo sei numeri una nota editoriale ne annunciava la confluenza
nella rivista «Methodos». Questo fu dunque lo sfondo culturale che vide nascere
l’interesse per la filosofia colorniana, un interesse che, attraverso la
pubblicazione di alcuni testi del filosofo milanese, richiamava alla
ricostruzione della filosofia empiristica italiana (come la proposta del
ebraico-britannico Ayer a Oxford) come tradizione anti-metafisica e
anti-idealistica e capace di attuare un profondo rinnovamento negli orientamenti
teoretici nazionali. D’altra parte, che il pensiero di Colorni fosse in certa
misura vicino alle posizioni espresse da «Analisi» e «Sigma» è testimoniato,
oltre che dalle singole scelte di politica editoriale delle due riviste, da
quanto raccontato dagli stessi protagonisti: «Ricordo con precisione», ha
scritto ad esempio Fachini sul secondo numero di «Analisi», le conversazioni di
quell’epoca: credo di poter affermare, per esperienza personale, che C. sia
stato tra i primi italiani di preparazione filosofica a tentare di accogliere e
di comprendere, in modo serio, le nuove affermazioni epistemologiche. La più
gran parte dei suoi saggi sono inediti: molte pregevoli cose egli ha lasciato:
e forse potrebbe indicarci vie nuove. Gli amici di «Analisi» auspicano di poter
far conoscere in cerchio vasto il suo lavoro, a vantaggio della ricerca
metodologica e in omaggio alla sua memoria Somenzi, a sua volta, scrivendo a
Vaccarino della pubblicazione degli scritti colorniani su «Sigma», afferma: Per
Sigma convinciti che i nostri scritti, incomprensibili per virtù proprie dalla
maggioranza dei competenti, l’hanno irrimediabilmente “condannata” e che quelli
di C. sono ancora i migliori che potessimo o possiamo esibire, oltre che i più
vicini al nostro ordine di idee. “Fisica teorica e filosofia” di Colornimerita
senz’altro la pubblicazione sul numero che spero di riuscire a dedicare a
questo argomento19. Rievocando poi il Progetto di una rivista di metodologia
scientifica – da C. discusso fra gli altri con Geymonat durante gli anni della
guerra – ante ulteriormente ampliata. Effettivamente rileggendo il mo testo
subito dopo averlo scritto non avevo avuto una buona impressione. Ma ora mi è
piaciuto» (FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza
scientifica, gen. 28, 135, Vaccarino. La conoscenza unitaria. Cambi,
Razionalismo e prassi a Milano, G. Fachini, C., in «Analisi». Si tratta di C.,
Critica filosofia e fisica teorica. Lettera di Somenzi a Vaccarino. Alcuni
inediti riconducibili a tale progetto sono presentati in M. Quaranta, La
scoperta di C., cit., cfr. in part. le pp. 126-130. Per i testi di FS destinati
alla rivista metodologica. Saggi metodologici di C. 7 cora Somenzi ha sottolineato come esso
corrispondesse «nella sostanza a molte realizzazioni degli ultimi quarant’anni,
da riviste come “Analysis” a collane di volumi di filosofia della scienza e di
storia della scienza quali quelle impostate a Milano e Torino dallo stesso Geymonat
e da Rossi. A partire da queste premesse, appare evidente come la storia della
riscoperta colorniana nel dopoguerra possa concorrere a gettare luce su alcuni
fondamentali aspetti dello stesso pensiero dell’autore; essa ne evidenzia
difatti la novità di prospettiva e la conseguente, connaturata disposizione a
dialogare coi più avanzati ambienti filosofico-culturali del nostro Paese. Ciò
che tuttavia rende affatto esemplare la filosofia colorniana, concorrendo a fare
di essa un importante «contributo alla comprensione del travaglio della
filosofia italiana al momento del declino della preponderanza idealistica, non
è soltanto la particolare modalità della sua ricezione, ma anche la complessiva
parabola intellettuale seguita dal giovane studioso per giungere alle posizioni
metodologiche degli ultimi anni. C. è allievo di Borgese e Martinetti a Milano.
Nel raccontare della formazione universitaria di c., Tagliacozzo scrive. Va
ricordata l’influenza che sui suoi studenti ha allora una personalità come
quella di Borgese, che C. e compagni
chiamano scherzosamente G.A. Era uno di quei pochi professori che non
disdegnano allora di soffermarsi a discutere dopo la lezione con i propri
studenti. Altra influenza determinante per i suoi studenti quella dell’austero
Martinetti che spiega Kant alle otto del mattino. Martinetti avvia gli studenti
al rigorismo dell’etica kantiana, mentre il brillante G.A., più alla mano,
discute di estetica e letteratura comparata. I debiti con l’insegnamento di
Borgese, d’altro canto, sono resi espliciti dallo stesso C., che in un suo
curriculum universitario afferma: Durante i miei studi mi sono occupato
specialmente di problemi filosofici ed estetici e, sotto la direzione del Borgese,
ho redatto lavori su L’estetica d’Ardigò.
21 V. Somenzi, C. filosofo della scienza, in «Filosofia e società», Bobbio, Introduzione, cit., p. VI. 23
Tagliacozzo, L’uomo C., in «Tempo presente». Prosegue poi Tagliacozzo nella
pagina seguente: «Martinetti […] indusse [Eugenio] ad approfondire Kant, amò
Spinoza dopo la prima infatuazione per l’idealismo italiano. E chi in quegli
anni non lesse Croce e Gentile, ma specie Croce? Eugenio conobbe Hegel, ma non è
mai hegeliano. Studiò dal punto di vista filosofico Marx, ma non fu mai
marxista. Dopo un’esercitazione sul positivismo – e si noti l’influenza
borgesiana nell’approfondimento dei problemi estetici – si indirizzò verso
Leibniz» (ivi, p. 54). Geri Cerchiai 8 gò e del positivismo italiano,
L’estetica bergsoniana e L’estetica di Croce. Quest’ultimo studio è stato
pubblicato più tardi a Milano dalla casa editrice “La Cultura”24. Più
complesso, e forse maggiormente studiato, è il rapporto di Colorni con Piero
Martinetti, col quale l’autore si laureò nel 1930 su Sviluppo e significato
dell’individualismo leibniziano. Il primo, fondamentale impulso
all’approfondimento di Leibniz; l’introduzione alla filosofia di Kant; il
rifiuto del metodo dialettico; l’urgenza di rinvenire una nuova, diversa
organizzazione del nesso fra individuale ed universale, sono elementi che
stringono C. al magistero martinettiano e che risultano fondamentali per la più
generale formazione del filosofo milanese. Al di sotto di tutti è poi presente
l’esigenza di individuare il corretto rapporto fra l’analisi della realtà e la
sua organizzazione sistematica, esigenza il cui movimento e la cui parabola
all’interno della propria maturazione intellettuale sono così descritte, ne La
malattia filosofica, dallo stesso protagonista: 24 Curriculum vitae di Colorni,
s.d., in Archivio Hirschmann, Roma, citato in Gerbi, Tempi di Malafede. Guido
Piovene ed Eugenio Colorni. Una storia italiana tra fascismo e dopoguerra,
nuova edizione Milano, Hoepli. Cfr.: C., L’estetica di Croce. Studio critico,
Milano, La Cultura; Id., Ardigò, in «Pietre», firmato con lo pseudonimo di
Carlo Rosemberg; per una storia di questa pubblicazione rinvio ad Vigorelli,
Antifascismo: il caso di “Pietre”, in Eugenio Colorni e la cultura italiana, a
cura di G. Cerchiai e G. Rota); lo scritto sul bergsonismo è tuttora inedito. È
lo stesso C., ne La malattia filosofica, a raccontare come si svolgevano,
durante le lezioni di Borgese, le esercitazioni dalle quali è nato ad esempio
lo studio su Croce. All’università si dà continuamente battaglia contro Croce.
Ogni settimana, uno studente sale sulla cattedra per discutere coi compagni e
col professore. Salire anche lui su quella pedana, gli piacerebbe tanto: ma per
che dire? Tenterà, ad ogni modo» (C., La malattia filosofica). Sul rapporto fra
C. e Borgese rimando a Riosa, Borgese e
C. tra letteratura e politica, in
Cerchiai e Rota, C. e la cultura italiana. Nello stesso periodo nel quale si
laurea C., altri due allievi di Martinetti, Barié e Gadda, venivano indirizzati
dal maestro allo studio del filosofo di Lipsia. Si veda, a mero titolo di
esempio, quanto lo stesso Martinetti scrive a Gadda: «Se fra tre o quattro anni
Ella potesse uscire con una bella esposizione di Leibniz (non tema d’avere
concorrenti in questo argomento!) la via dell’università (per storia della
filosofia) Le sarebbe aperta» (Lettera di Martinetti a Gadda; in Martinetti,
Lettere a Gadda, a cura di Lucchini, in «I quaderni dell’ingegnere. Testi e
studi gaddiani», Cfr. anche: Cerchiai, Due inediti di Emanuele su Leibniz, in
«Rivista di storia della filosofia»; C. lettore di Leibniz, in C. e la
filosofia italiana. Si veda la testimonianza di Tagliacozzo riportata poco
sopra. Per il clima nel quale poteva essere riletto Kant durante le lezioni
martinettiane (con particolare riferimento alle vicende relative a C.), si
rimanda a S. Gerbi, Tempi di malafede, cit., p. 39. 27 Una delle poche
citazione dirette di C. presenti nel libro sull’estetica crociana rinvia
proprio allo scritto di Martinetti intitolato Il metodo dialettico (in «Rivista
di filosofia), là dove Colorni scrive: «perché, per quale forza o per quale
principio questa implicazione dei contrari debba presentarsi quasi come una
generazione dell’uno da parte dell’altro, è difficile a intendersi. Perché si
deve dire che il Non-io, il quale è, per la sua stessa definizione,
inseparabile dall’Io, sgorga, si svolge, si origina da esso? Che il particolare
nasce dall’universale?» (C., L’estetica di Croce). Cinque scritti metodologici
di C.. Il problema che lo occupa è sempre il posto, la collocazione delle facoltà
nel mondo dello spirito. A un certo punto, gli balena la possibilità che questi
elementi di cui cercava con tanto accanimento l’ordine e la collocazione, non
patiscano alcun ordine: possano vivere così, separati, paralleli, autonomi.
L’idea lo entusiasma. Gli sembra di avere ora fatto veramente un passo innanzi.
E non pensa più tanto a definire e a ordinare, quanto a descrivere. Ma questo
procedere dovrà pure avere una sua giustificazione teorica, dovrà pure
inquadrarsi in una visione del mondo, avere un suo nome che termina in -ismo.
Pierino [alter ego di C.] si butta sui pluralisti, sugli empiriocriticisti:
studia Mach e Avenarius, si addentra nel labirinto di Leibniz. Su queste basi,
si può dire che quello che altrove ho definito il “problema dell’ordine” divenga,
talvolta anche solo per contrasto, uno dei fili conduttori dell’intera
riflessione colorniana: impostato fin da L’estetica di Benedetto Croce, esso
cercherà una prima, instabile sistemazione nella filosofia di Leibniz, per
trovare poi nella rilettura metodologica ed epistemologica del criticismo
kantiano una soluzione – o, come potrebbe dirsi: dissoluzione – affatto
originale. Al fine di seguire il movimento del pensiero di Colorni da questo
punto di vista, può essere utile rileggere le parole dell’autore stesso. C., La
malattia filosofica; cfr. anche ibidem, n. 19 del curatore. Di Leibniz dirò in
seguito, in questo stesso paragrafo. Per quanto riguarda l’accenno agli
empiriocriticisti, si rimanda a quanto scritto da Guzzardi, il quale,
esaminando precisamente la radice dei riferimenti colorniani a Mach, Avenarius
e Schuppe, ne ha riconosciuto l’origine proprio nell’insegnamento di Martinetti.
C., spiega Guzzardi, trova una valutazione positiva di questo pluralismo,
nonché delle filosofie dell’esperienza di Schuppe, Avenarius e Mach,
nell’Introduzione alla metafisica di Martinetti. D’altra parte, M. indirizza
allo studio di Mach, Avenarius e Schuppe, un allievo, Pelazza. Tali
circostanze, secondo Guzzardi, fanno ritenere», insieme con altre che
dovrebbero essere approfondite, che l’interesse originario di C. per l’empirio-criticismo
sia da collegare a Martinetti e Pelazza (Guzzardi, Lo specchio della natura. C.
e la cultura del suo tempo, in C. e la cultura italiana, a cura di Cerchiai e
Rota). Prosegue Guzzardi. Non solo Schuppe e Avenarius vengono citati da C.
nella recensione all’Introduzione alla metafisica. Qui si trova pure accennato
fra i meriti di Martinetti quel concetto di esperienza pura e obiettiva che
egli sembra indicare come via di uscita dalle difficoltà in cui il pensiero
moderno si trova impigliato” – e l’esperienza pura [reine Erfahrung], attorno a
cui Pelazza ha costruito la propria presentazione dell’empirio-criticismo,
aveva costituito il punto d’approdo della filosofia di Avenarius. La recensione
Sull’“Introduzione alla metafisica” di Piero Martinetti si trova nell’edizione
Einaudi degli scritti colorniani. A tutto ciò si può aggiungere che C. accostò
all’empirio-criticismo anche la filosofia di Croce. L’individualismo del Croce non
è necessariamente in contrasto col suo idealismo: risolve piuttosto il
principio dell’auto-coscienza – che è essenziale all’idealismo – in una
coscienza del pensiero nella effettualità del suo pensare; identifica il punto
di partenza soggettivo col suo necessario correlato oggettivo, l’universale col
particolare. In questo senso si avvicina piuttosto a forme di contingentismo e
di empirio-criticismo; e in questo senso appunto è giustificabile il suo
tenersi al dato e partire da esso: in quanto questo dato non può essere inteso
che come uno stato d’animo, un’esperienza che debba essere vissuta
intensamente, e da cui si debba trarre a volta a volta l’assoluto. C.,
L’estetica di Croce. Cfr. Cerchiai,
L’itinerario filosofico di C., in «Rivista di storia della filosofia, Cerchiai.
Nel libretto su Croce, il problema dell’ordine è inquadrato a partire dalla
questione del rapporto fra la «soprastruttura» 30 dialettica del sistema e
l’effettivo valore delle singole osservazioni: «Ciò che sta sotto
l’organizzazione esteriore», scrive Colorni, è nel crocianesimo il vero
sistema, non ancora chiaro e formulato, ma agile e ricco di molteplici possibilità.
Ricercare tale ricchezza sotto un’impalcatura in gran parte insoddisfacente è
il compito che s’impone a chiunque viva quel pensiero come un’esperienza della
propria vita. E seguirne la possibilità di sviluppo anche di là dalla forma che
ha dato a se stessa, ci pare il miglior omaggio che si possa rendere a una
filosofia31. Se il “metodo individualistico” così identificato nella filosofia
di Croce conduce Colorni a liberare le singole osservazioni
«dall’interpretazione che Croce stesso ne ha data allo scopo di adattarle ad un
suo schema presupposto di organizzazione», per cercare di «renderle di nuovo
pure» e «ravvisare» di conseguenza «in esse» un sistema «non imposto in
precedenza, ma derivante e identico coi dati stessi forniti»32, non può stupire
l’interesse teorico nutrito dal filosofo milanese per il secondo dei suoi
“auttori”, ossia per il pensiero di Leibniz. Quest’ultimo, infatti, pare
offrire precisamente la possibilità di chiudere in un circolo coerente
l’analisi empirica del particolare e l’organizzazione sistematica del tutto.
Scrive C. Leibniz non parte mai con l’intento esplicito di costruire un
sistema. La sua attività filosofica si presenta a tutta prima come una grande
raccolta di prese di posizione particolari. Eppure il sistema non manca in
esse: è anzi continuamente presente. I singoli problemi si mostrano a poco a poco
connessi l’uno all’altro; le soluzioni convergono, si giustificano e confermano
a vicenda […]. Il sistema non è una pura esteriorità, un concordanza
sopravvenuta; è anzi l’anima di ciascuno osservazione, attraverso cui tutto si
spiega e si giustifica33. Per tali motivi, Leibniz rappresenta quasi il
contraltare dello storicismo crociano o, meglio ancora, il rimedio alle sue
lacune; «Leibniz», infatti, «differisce [proprio] in questo da altri pensatori,
apparentemente più coerenti e organizzati, ma la cui ricchezza va cercata al di
là del sistema, nelle varie formulazioni particolari»34: vi differisce cioè per
il fatto che, come si è visto, il suo sistema si C., L’estetica di CROCE (si
veda), cit. Scrive ancora C.: «chi parta dal mondo stesso e, rendendo eterno e
universale ciascun dato di questo, voglia costruire una scienza delle forme
possibili di questa universalizzazione e di qui giungere ad una visione
complessiva dei modi eterni della realtà e delle loro reazioni reciproche, non
pone il sistema all’inizio, come premessa della sua ricerca; ma ad esso
giungerà al termine ideale del suo cammino. C., Nota bio-bibliografica, in G.
W. von Leibniz, La monadologia, preceduta da una esposizione antologica del
sistema leibniziano, a cura di C., Firenze, Sansoni. Il riferimento sembra
rinviare precisamente alla critica della filosofia crociana. Cinque scritti
metodologici di C.11 sviluppa spontaneamente dalle singole osservazioni e
l’insieme si mostra nella sua completezza attraverso il complesso dei suoi
aspetti. E tuttavia, lo scacco della prospettiva leibniziana giungerà a sua
volta quando, muovendo da simili presupposti, Colorni dovrà constatare il
carattere prettamente soggettivo del tentativo di sistematizzazione da quella
realizzato: Leibniz, spiega così C. nel suo ultimo scritto sull’argomento,
applica all’ordine spirituale quella continuità, quel passaggio ininterrotto,
quel procedere da ogni legge ad una legge più vasta, che egli crede di scorgere
come l’essenza più profonda del mondo naturale. Che questa stessa continuità e
questo allargarsi sia, più che una legge della natura, un’esigenza dello spirito
nella considerazione della natura stessa, egli non sospetta36. L’insuccesso del
punto di vista leibniziano consentirà però anche a C. di schiudere un più
libero sguardo, sciolto ormai dai condizionamenti delle diverse scuole
filosofiche, sul criticismo kantiano e sugli strumenti da questo forniti per lo
studio dei meccanismi di funzionamento del pensiero. C. aveva anticipa le due
linee – leibniziana e kantiana – della propria filosofia, là dove aveva
scritto, in Di alcune relazioni fra conoscenza e volontà, che la monade di
Leibniz avrebbe dovuto completarsi con la dottrina kantiana, di modo che
l’«universalità della monade, intesa come realtà cosciente, puo coincidere con
la trascendentalità del conoscere, inteso come conoscenza reale»37. L’effettivo
passaggio ad un più maturo kantismo segna tuttavia per Colorni un punto di
svolta fondamentale o, come afferma l’autore stesso, una vera e propria
«operazione di cataratta»38, capace di conquistare una diversa prospettiva sul
mondo: esso, infatti, consente al giovane studioso di voltare le spalle alla
“conoscenza filosofica” e di approdare infine a quella particolare metodica
ch’egli presenta come conoscenza prettamente scientifica, intesa cioè come padronanza
di un processo. La domanda impossibile (senza senso) della filosofia, spiega
così Colorni, pur nella loro rigida formulazione teoretica, sono sempre
espressione di qualche tendenza, di qualche profonda esigenza dell’animo. La
risposta si dà dunque divenendo padroni del meccanismo psicologico mediante cui
la domanda viene posta; essendo capaci di riprodurlo, di seguirlo nelle sue
fasi, di variarlo all’infinto. Al problema della realtà, si risponde fabbricando
animi per cui l’expressione “realtà” non ha senso. Alla domanda se esiste un
mondo in sé in cui la somma degli angoli di un triangolo non sia uguale a due
angoli retti, si risponde costruendo una geometria in cui tale somma sia
effettivamente maggiore o minore di due retti, e mostrando che tale geometria
non è né più né meno vera di quell’altra; ma è, rispetto all’altra, essenzialmente
nuova C., Libero arbitrio e grazia nel pensiero di Leibniz, C., Di alcune
relazioni fra conoscenza e volontà. C., Critica filosofia e fisica teorica, C.,
Filosofia e scienza. C., Critica filosofia e fisica teorica; Cerchiai 12 È in
questo contesto, all’interno del quale Colorni ritiene di essere
definitivamente guarito dalla sua «malattia filosofica»41, che vanno collocati
i titoli di seguito trascritti e conservati presso la “Sapienza” Università di
Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo Vittorio Somenzi. Di tali
scritti, e degli altri pubblicati dalle riviste «Aretusa», «Analisi» e «Sigma»,
è lo stesso Somenzi a raccontare la storia nel già citato testo su C. filosofo
della scienza. 3. La metodologia colorniana negli scritti del Fondo Somenzi
«Nel 1945», scrive difatti Somenzi, comparve sulla rivista «Aretusa» un Ricordo
di C. scritto dall’amico Guido Morpurgo-Tagliabue, accompagnato da due inediti
stimolanti: Il bisogno dell’unità e Sul complesso di Edipo. Altri inediti mi
pervennero attraverso la rivista «Analisi» […], e di questi una parte venne
pubblicata su «Analisi» e sulla rivista romana «Sigma» che ad essa si affiancò per
iniziativa di Giuseppe Vaccarino e mia. Dal carteggio fra Vaccarino e Somenzi
emergono altre importanti informazioni sui dattiloscritti conservati in FS, che
con ogni evidenza i due fondatori di «Sigma» si inviavano in reciproca lettura.
Di quanto scriveva Somenzi a Vaccarino nel maggio del ’47 si è già reso conto
nel § 1. Il 27 gennaio di quel medesimo anno, è Vaccarino a dire a Somenzi di
sperare «tra qualche giorno di inviar[gli] i C.»; il giorno appresso, e quello
successivo ancora, Vaccarino aggiunge poi quanto segue: Spero domani di
inviarti i Colorni. Molto interessanti e brillanti. Comincerei con i dialoghi
di “Commodo”, combinandoli in modo che abbiano tra di loro un certo legame.
Ieri sera ho riletto i C., che ti rimando tranne l’ultimo, che ti invierò tra
qualche giorno. “I dialoghi” si potrebbero pubblicare in 3 puntate – (La
seconda notevolmente più lunga delle altre 2) – Vi è una quarta puntata
sull’economia, che mi piace meno. Nel testo ho cambiato qualche parola a matita
(in modo che tu possa eventualmente ricorreggere). Ho creduto anche opportuno
evitare il “dialogo nel dialogo” nel primo n°, introducendo invece del “fisico
ribelle” il “Curiosus” del secondo n°. L’Apologo ed il Ritorno alla natura
vanno anche benissimo. Forse si potrebbero pubblicare unitamente al terzo
dialogo, che è molto breve. Le idee di Colorni mi sembrano meglio espresse nei
dialoghi che nel capitolo sulla fisica, data la forma brillante 41 La malattia
filosofica è per l’appunto il titolo che C. diede alla sua più completa
biografia intellettuale, già qui ricordata nelle pagine precedenti. 42 V.
Somenzi, C., cit., p. 79. Prosegue poi Somenzi citando di fatto alcuni dei
titoli dei quali si sta qui discutendo: «La rivista doveva contenere articoli
di fondo dedicati a problemi come: il concetto di esperienza, costanti
universali e unità di misura, l’illusione finalistica nella fisica e nella
biologia, l’illusione realistica nella fisica, geometria ed esperienza, l’assiomatica
dei principi della meccanica, l’assiomatica della teoria della relatività e
quella della meccanica quantistica, fisica puntuale e fisica di campo, il
concetto di istinto, la polemica tra meccanicismo e vitalismo, la costruzione
di una economia indipendente da premesse psicologiche. dell’espressione. In
quanto alle opinioni espresse (l’io, la storia, l’amore, ecc.) non c’è
coincidenza con la metaconoscenza, anzi piena opposizione43. Su «Analisi», uscì
Filosofia e scienza44, mentre un più consistente numero di titoli apparve su
«Sigma»; si trattava, in particolare, dei testi seguenti: Apologo su quattro
modi di filosofare; Della lettura dei filosofi; Del finalismo nelle scienze;
Dell’antropomorfismo nelle scienze; Sugli idoli della scienza fisica; Critica
filosofica e fisica teorica; Il ritorno alla natura; Filosofi a congresso45.
Oltre a questi – e presumibilmente appartenenti al medesimo gruppo di testi del
quale Somenzi afferma di aver pubblicato solo una parte – in FS sono conservati
altri dattiloscritti, di cui sono qui trascritti quelli maggiormente compiuti46.
I primi tre scritti appartengono con ogni evidenza al gruppo di testi destinati
dall’autore alla rivista di metodologia scientifica progettata con GEYMONAT (si
veda). Questa, oltre a note di varietà, rassegne e recensioni, avrebbe infatti
dovuto ospitare una sezione dedicata ad «Articoli e saggi», fra i cui titoli C.
indica per l’appunto Geometria ed esperienza e Assiomatica delle leggi della
meccanica. Il testo intitolato II: Relatività generale è, come mostrato dalla
numerazione romana, il secondo paragrafo di Sull’assiomatica della teoria della
relatività (anch’esso menzionato nel Progetto di una rivista di metodologia
scientifica), il quale comincia proprio con l’indicazione di un paragrafo (I)
La relatività ristretta. Tutti e tre i testi fanno riferimento al discorso
intorno all’idea di esperienza che per C. discende dalla scoperta del carattere
relativo delle categorie: «la coscienza che abbiamo acquistato della nostra
possibilità di modificare [i] dati elementari»48 della conoscenza, infatti,
costringe secondo C. sia a riformare i concetti di a priori e di a posteriori,
sia a rivedere coerentemente la nozione di esperienza. «A priori», spiega così
C., «non significa più della ragione. A posteriori non significa più dei sensi.
Sia i dati della ragione, sia i dati dei sensi, ap43 Lettere rispettivamente
del 28 e del 29 gennaio 1947; quest’ultima è scritta di seguito all’epistola
del giorno precedente, sul medesimo foglio. Il 17 gennaio 1947, Vaccarino aveva
informato Somenzi del suo scritto sulla metaconoscenza, col quale confronta qui
gli scritti colorniani: «Avevo preparato uno scritto sui rapporti tra la
conoscenza e la religione, il quale in definitiva risultò troppo lungo ed
infarcito di considerazioni metagnosologiche. Ho pensato perciò che è meglio
direttamente attaccare la questione della metaconoscenza». Tutte le lettere
sono in FS, sez. 5, Corrispondenza, gen. 28, serie 1, Corrispondenza
scientifica, 1942-2003 gen. 28, 135, Vaccarino Giuseppe, 1946-1948. Il “fisico
ribelle” è probabilmente il Fisico che Colorni inserisce quale interlocutore
(appunto: quasi come dialogo nel dialogo) in Del finalismo nelle scienze, e che
nella stampa definitiva su «Sigma» non viene poi effettivamente sostituito dal
Curiosus interlocutore di Dell’antropomorfismo nelle scienze. 44 Cfr. supra, §
1, n. 9. Il testo comprende parzialmente anche: Sul concetto di esperienza e
Intorno al principio di identità. Cfr.
infra, la Nota del curatore. C., Filosofia e scienza. Cerchiai 14 paiono come
elementi in cui il fattore soggettivo e quello oggettivo si presentano
mescolati, ma di cui è in nostro potere, mediante un procedimento logico e
psicologico insieme, modificare la struttura»49. L’esperienza, a sua volta,
«anziché rivelare leggi naturali», dovrà suggerire, secondo le contingenti
necessità degli studiosi, «determinate forme di definizione e di misura», utili
a proseguire nel lavoro di ricerca scientifica51. Siamo qui di fronte a quel
progetto di “liberazione” della fisica «dalle premesse
realistiche-finalistiche» che deve per Colorni rappresentare non solo «uno
degli scopi essenziali della rivista»52, ma anche il fine ultimo della sua
stessa critica epistemologica. Di tale progetto il più lungo e strutturato
Programma contribuisce a tracciare ulteriormente i contorni teorici. Il nucleo
dello scritto ruota intorno alla considerazione secondo la quale la «filosofia
odierna dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in mano, cioè i
criteri di ricerca, i metodi d’indagine. Criteri che, ormai ciò è chiaro a
tutti, trasformano radicalmente la realtà, operando una scelta che ci fa
scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato». La constatazione del
carattere condizionato della realtà diviene in tal modo, e nuovamente, il punto
di partenza – tutto kantiano – della metodologia di C.. Il criticismo
trascendentale, aggiunge però l’autore, «ha messo tutti sul chi vive», sì che
«la curiosità di vedere al di là del velo di Maja delle categorie si è fatta
sempre più intensa»; sarà tuttavia soltanto la capacità della conoscenza
scientifica di disubbidire all’«ammonimento di Kant» per trascurare «i limiti»
da questo imposti che consentirà, ancora una volta, di compiere il secondo,
decisivo passo lungo la strada già intrapresa dalla Critica della ragione pura:
«La domanda da porsi», chiarisce Colorni in un passo cruciale di Critica
filosofica e fisica teorica, Non [è]: “È il mondo del nostro pensiero, o non è,
quello reale?”; bensì: “Come potrebbe essere conformato un mondo di pensiero
diverso dal nostro?”. La prima domanda parte da quella esigenza di sicurezza e
stabilità che è sempre collegata col pensiero del reale [e che appartiene
all’atteggiamento filosofico]. La risposta che essa cerca è una risposta che
assicuri tale sicurezza e stabilità in un modo qualsiasi; nel reale, o in qualche
cosa che lo sostituisca. La seconda domanda [propria dell’atteggiamento
scientifico] muove invece da una esigenza di novità […]. Si tratta qui del
secondo passo della rivoluzione copernicana. Il primo era consistito
nell’accorgersi che le leggi della realtà non sono che forme del nostro
intelletto. Il secondo consiste nel domandarsi se queste forme siano proprio
necessarie ed immutabili e irresolubili. Anzi, non 49 Ibid. A priori diviene
perciò il «nostro potere di modificazione che si riferisce sia agli oggetti
della nostra ragione, sia a quelli dei nostri sensi. Mentre poi «la geometria
definisce gli oggetti su cui opera mediante i suoi assiomi, la fisica definisce
quei medesimi oggetti mediante definizioni reali, cioè facendoli corrispondere
a determinati fenomeni naturali. Mentre dunque la prima gode di una completa
libertà nella scelta degli assiomi, la seconda è legata alle conseguenze
implicite nella scelta di quelle particolari definizioni; libera però di mutare
le definizioni, qualora le conseguenze non la soddisfacessero. C., Sul concetto
di esperienza. Cinque scritti metodologici di C. 15 nel domandarsi se siano
irresolubili (domanda che presuppone l’uso di quelle forme stesse) ma nel
tentare senz’altro di scioglierle53. In tal modo, spiega C. al termine di
Programma, è la conoscenza scientifica a raggiungere quell’“al di là” che alla
prospettiva kantiana era negato, ma l’“al di là” al quale essa perviene «non è
una negazione del “di qua”, non è un assoluto privo di categoria. È un mondo di
nuove categorie», un mondo al quale si viene portati, in primo luogo, dalla
consapevolezza che la «legge essenziale della natura è la ragione, e la ragione
è pure la legge essenziale del mondo esterno, in quanto l’uomo non fa che
proiettare fuori di sé l’essenza della propria natura»54. L’ultimo testo qui
trascritto, Commodo a Ritroso, appartiene ad un gruppo di dialoghi, noto come
Dialoghi di Commodo, stesi a più mani durante il periodo del confino a
Ventotene55. Commodo, come ha spiegato la moglie Ursula Hirschmann in occasione
dei primi tentativi di pubblicazione integrale dei frammenti colorniani, è lo
stesso Colorni; Ritroso è Ernesto Rossi56. Lo scritto prende spunto da
argomenti economici per chiarire alcune questioni che, venendo a teorizzare una
sorta di “dilettantismo metodologico”, rendono conto della stessa natura
dell’indagine colorniana. L’«appartenenza professionale», dice C. all’amico
Ritroso/Rossi in uno dei dialoghi già [C., Critica filosofica e fisica teorica.
55 Racconta Altiero Spinelli nella sua autobiografia, ben descrivendo non solo
la genesi dei Dialoghi di Commodo, ma anche l’atteggiamento di Colorni nelle
discussioni: «Parlavamo ogni giorno delle cose più varie, di politica, di
geometria non euclidea, di nostri compagni di confino, delle nostre letture,
delle nostre storie personali, dei grandi della storia, ma sentivo che
[Eugenio] stava sempre attento a scoprire un qualche mio coperto punto malato,
che egli avrebbe messo in luce, curato e guarito – poiché la vocazione del
guaritore d’anime l’aveva proprio nel sangue. Mi affascinava la precisione
quasi infallibile con la quale scopriva il punto errato di un ragionamento, il
punto equivoco di un atteggiamento, il momento retorico di un’espressione.
Talvolta uno di noi, ripensando la sera alle parole scambiate durante il
giorno, le proseguiva scrivendo un dialogo nel quale diceva la sua e immaginava
quel che l’altro avrebbe risposto. Talvolta il dialogo aveva un seguito,
scritto dall’altro, prima di terminare a voce» (A. Spinelli, Come ho tentato di
diventare saggio, Il Bologna, Mulino). 56 Gli pseudonimi principali utilizzati
negli altri dialoghi sono i seguenti: Severo è Altiero Spinelli, Manlio
Rossi-Doria è Modesto, Ursula Hirschmann è Ulpia. Così scriveva Ferruccio
Rossi-Landi alla Hirschmann. Penso che i
tempi stiano maturando per un’edizione in volume degli scritti lasciati da C.:
come sono maturati, dopo tanti decenni, per la ripresentazione ai lettori
italiani di quelli diVailati, che fu studioso per tanti versi affine ad Eugenio
e che, rimasto quasi sepolto fin da prima della Prima Guerra Mondiale,
ricomparirà ora presso Laterza e presso Einaudi su mia iniziativa». RossiLandi
faceva poi riferimento alle pubblicazioni di «Analisi» e «Sigma». Ho potuto
prendere visione della corrispondenza relativa ai diversi tentativi di
pubblicazione degli scritti filosofici di C. (prima presso l’editore Laterza e
poi per la Feltrinelli) grazie alla cortesia di Renata C., che ancora conserva
una parte del carteggio e che qui debbo ringraziare per la sua disponibilità.
57 Esso va dunque letto insieme a Dello psicologismo in economia, pubblicato
nella ed. Einaudi alle pp. 322-342. Per una più precisa contestualizzazione dei
frammenti economici colorniani cfr infra, la Nota del curatore. Cerchiai
16 pubblicati da «Sigma» nell’immediato dopoguerra, «comporta un legame così
stretto con la scienza e un interesse così diretto ai vari problemi particolari
in cui la ricerca si articola momento per momento, che è difficile avere la
possibilità di riprendere in esame i problemi iniziali e i principi
fondamentali da cui si è partiti»58; proprio per questo, secondo Colorni, i
«dilettanti e gli outsider», sono forse maggiormente in grado, attraverso
l’esercizio di un «tranquillo, pacato, spregiudicato esame dei punti di
partenza e delle definizioni iniziali»59, di «sconvolgere dalle fondamenta
tutto l’edificio del proprio sapere»60. Certo, dovendo rispondere all’accusa di
«presumere di rivedere i principî di tutte le scienze, senza averle mai
praticate»61, lo stesso C. – che alla scienza è giunto passando per la
filosofia – parla in qualche modo pro domo sua. E tuttavia, egli va anche a
puntualizzare, in tal modo, il «arattere pragmatistico del proprio pensiero, il
quale deve giocoforza confrontarsi con le più differenti discipline
scientifiche. In Commodo a Ritroso, C. riprende questi medesimi argomenti,
insistendo però con maggior vigore su quello spirito d’indipendenza –
indispensabile ad un proficuo sviluppo dell’opera scientifica e filosofica – il
cui significato teorico è già stato indagato in Programma. Scrive C.: «Anziché
accostarmi a grossi trattati con fare accogliente e passivo, io parto con la
lancia in resta, pieno di idee sbagliate e confuse, sfondando porte aperte ad
ogni passo […], desideroso di scontri e di battaglie». Emerge qui, accanto alla
consapevolezza di un metodo teorico ormai chiaramente precisato, una componente
particolare del carattere del giovane filosofo: quella irrequietezza,
ironicamente descritta ne La malattia filosofica, che contribuisce a rendere
conto della stessa, febbrile attività politica colorniana. Essa rivela una
vivacità intellettuale che si mostrò sempre incapace di fermarsi ai risultati
volta per volta raggiunti e che, trascorrendo dai primi studi
storico-filosofici a quelli metodologici degli ultimi anni, viene a costituire
l’anima, per così dire, anche dei dattiloscritti colorniani conservati nel
Fondo Somenzi. C., Dell’antropomorfismo nelle scienze. Com’è noto, e a dispetto
della sua formazione umanistica (lit. hum.), Colorni si cimenta direttamente
nella ricerca fisica, con particolare attenzione alla teoria della relatività.
Cfr. nello specifico i titoli seguenti: Unités de misure et relativité; Le
trasformazioni di Lorentz come caso particolare e Deduzione del campo
elettromagnetico di una carica in movimento rettilineo e uniforme. 63 E.
Colorni, Dell’antropomorfismo nelle scienze. Nota del curatore I testi di
Colorni in FS – tutti dattiloscritti – sono per lo più approntati per la
composizione a stampa, spesso con indicazione del corpo e della impaginazione
da utilizzarsi. Alcune correzioni e integrazioni, la segnalazione «a penna»
talvolta riferita ai titoli o alla firma, i commenti a margine sulla
opportunità o meno della pubblicazione, fanno supporre che ci si trovi per lo
più di fronte a trascrizioni battute a macchina dagli originali. Salvo che dove
diversamente segnalato (come ad esempio – per i motivi lì esposti a pié di
pagina – in Programma), ci si è generalmente attenuti al criterio di integrare
le eventuali sviste od errori ortografici direttamente nel testo, senza
ulteriore indicazione. Ugualmente ci si è comportati per le correzioni e gli
interventi a penna o a macchina. Il dattiloscritto di Programma presente in FS
conserva la conclusione, che risulta invece assente nelle precedenti edizioni
in volume. Oltre ai titoli qui riportati, e a quanto si dirà qui appresso, in
FS sono conservati anche i testi seguenti: Il bisogno dell’unità; Sul complesso
di Edipo; I primitivi e le categorie dello spirito; Filosofi a congresso; Sul
concetto di esperienza; Costanti universali e unità di misura; Sull’assiomatica
della teoria della relatività. I. Relatività ristretta, tutti già raccolti
nelle diverse edizioni dei frammenti colorniani. A partire da Sul concetto di
esperienza, le pagine sono numerate, a mano o a macchina, in sequenza, sì da
creare un complesso unico comprendente anche: II. Relatività generale (da
inserirsi dopo Relatività ristretta), e di seguito: Sull’assiomatica delle
leggi della meccanica e Geometria ed esperienza. In FS sono inoltre presenti
due ulteriori scritti di argomento economico: Batti, ma ascolta! e Ritroso a
Commodo: meno compiuti degli altri, essi saranno da me trascritti in un volume
di prossima uscita. Già nella nota introduttiva a Dello psicologismo in
economia, pubblicato nella edizione Einaudi alle pp. 322-342, si ricostruiva,
anche grazie agli elenchi dei titoli stesi da Ursula Hirschmann per Rossi-Landi,
la genesi degli scritti economici colorniani, che qui ci si limiterà dunque ad
integrare con quanto emerge dai titoli presenti in FS. Dello psicologismo in
economia risulta composto da tre blocchi. Il primo, intitolato È possibile
costruire una scienza economica indipendente da premesse psicologiche e
sociologiche?, è citato anche nel Progetto di una rivista di metodologia
scientifica fra i possibili «Articoli e saggi», e prosegue dall’inizio del
dialogo fino al terzo capoverso: «[…] sarebbe una differenza di grado e non di
natura. Del secondo (Robbins considera), che comincia subito dopo il primo e
termina in ivi, E m’invita a prendere tutto l’argomento non troppo sul serio»),
è conservato in FS il solo ultimo foglio, del quale così scriveva Silvio
Ceccato a Somenzi il 5 febbraio del 1943: «Ho guardato fra le carte di Colorni.
Spaiato trovo un foglio, numero 5, che mi sembra appartenere al dialogo fra
Commodo e Severo [che in effetti è l’interlocutore di quella parte del
dialogo]. Se vuoi te lo mando, o lo do a Vaccarino. Altro non c’è, mi sembra,
che possa interessarti. Stampa pure. Quando hai ben deciso, fammelo però
sapere, che, per cortesia, ne avvisi la sorella» (FS, sez. 3, Attività
professionale, 1929-2003, serie 2, Carte di lavoro non organizzate, 5, Riviste,
enciclopedie e progetti editoriali, 1, Sigma Analysis, b. 5, Analysis Methodos
(Ceccato). Il terzo blocco, Vedo che riprendi (cfr. C., Dello psicologismo in
economia), rappresenta il nucleo centrale e la con- Geri Cerchiai 18 clusione
del dialogo. Per quanto riguarda i titoli di FS: Ritroso a Commodo – come si
evince dai numerosi riferimenti a Vedo che riprendi – prosegue il dialogo già
iniziato in quest’ultima parte di Dello psicologismo in economia; Commodo a
ritroso è la risposta a Vedo che riprendi; Batti ma ascolta è l’«accluso
foglietto» menzionato in Commodo a Ritroso. Le note in calce ai testi sono
tutte del curatore. Desidero Ringraziare Giovanni Battimelli, Responsabile del
Fondo Vittorio Somenzi, e Libutti, Direttrice della Biblioteca del Dipartimento
di Fisica (“Sapienza” Università di Roma), per la disponibilità e cortesia che
mi hanno dimostrato durante la consultazione dell’Archivio. G. C. Cinque
scritti metodologici 19 II. Relatività generale1 Se vogliamo estendere quanto
si è detto per la relatività ristretta3 al caso di sistemi in movimento
qualsiasi4, il problema della relatività generale diverrà quello di determinare
le misure spazio-temporali per un osservatore in movimento qualsiasi rispetto
ad un sistema inerziale nel quale valga la geometria euclidea. La
determinazione di tali misure sarà fatta di nuovo assumendo come fissa la
distanza fra due punti5, e come costante la velocità della luce. In linea
generale risulterà che la geometria tridimensionale del sistema in questione
non sarà euclidea. Viceversa dovrebbe essere dimostrabile che se le misure
assunte da un osservatore col metodo di cui sopra, danno luogo ad una geometria
non euclidea, si potrà sempre trovare un sistema i cui punti siano mossi
rispetto all’osservatore in questione in modo tale che la sua geometria sia
euclidea. In tale sistema non vi sarà alcun campo gravitazionale. Una tale
impostazione del problema differisce un poco da quella classica della
relatività generale. Non si tratta qui di trovare una formulazione delle leggi
di natura che sia invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, e quindi di
attribuire ad ogni sistema la geometria richiesta dal campo gravitazionale in
esso vigente, ma piuttosto di trovare le trasformazioni che permettono di
passare da un sistema ad un altro qualsiasi6, avendo assunte per tutti i
sistemi determinate convenzioni7 riguardo alle misure spazio-temporali; e
questo senza fare alcuna ipotesi riguardo alla forma delle leggi naturali. 1
FS, sez. 3, Attività professionale, serie 2, Carte di lavoro non organizzate,
5, Riviste, enciclopedie e progetti editoriali, Sigma Analysis, b. 6, Articoli,
Il titolo è cancellato nel dattiloscritto, così come è barrata la numerazione
“5” (a penna) della pagina, numerazione che, insieme con quella romana, segnava
il foglio come seguito di C., Sull’assiomatica della teoria della relatività.
I. Relatività ristretta (cfr. la Nota del curatore), del quale lo scritto è il
secondo paragrafo. 2 All’inizio del dattiloscritto sono inserite a penna delle
virgolette basse (chiuse al termine del terzo capoverso), che spiegano
l’intervento del quale si rende conto infra, n. 4. 3 Il riferimento è a
Sull’assiomatica della teoria della relatività, che infatti è numerato: La
relatività ristretta. A penna è stato qui aggiunto: «prosegue C.». 5 Cfr. E.
Colorni, Sull’assiomatica della teoria della relatività. Anziché assumere come
unità di misura fondamentali una lunghezza o un intervallo di tempo per poi
dedurne le altre grandezze cinematiche, si potrebbe assumere come unità
primitive la distanza fra due punti dati e la velocità di propagazione di un
dato fenomeno». 6 Si tratta qui precisamente dell’idea di revisione del
concetto di esperienza in relazione a quello di definizione che costituisce uno
dei nuclei del programma metodologico colorniano. 7 Sono molti i riferimenti di
Colorni al carattere convenzionale della scienza e delle sue definizioni.
Riporto, per il suo carattere “generale”, quanto affermato nella Postilla al
programma della rivista di metodologia scientifica (in M. Quaranta, La
“scoperta” di C.): «Si tratta, in breve, di partire da una concezione
“convenzionalistica” o “idoenistica” della scienza; non limitandola però, come
fa in sostanza la scuola di Vienna o anche il Gonseth, alla interpretazione
filosofica dei fatti scientifici; applicandola invece ai concetti basilari su
cui poggia l’edificio della scienza, e mostrando come un chiarimento rigoroso
delle ipotesi che sono implicite nell’assunzione di tali concetti possa
trasformare effettivamente e rendere più chiare molte formulazioni scientifiche,
e forse risolvere alcuni dei problemi più scottanti della scienza moderna». C.
20 Formulando in questo modo il problema, si giungerebbe probabilmente alle
medesime conclusioni della relatività generale riguardo alla gravitazione; ma
la nuova impostazione permetterebbe forse di aggredire in maniera diversa da
quella consueta altri problemi (in particolare quello dell’elettromagnetismo).
Non si tratterebbe più in questo caso di formulare le leggi del campo
elettromagnetico in forma invariante rispetto a trasformazioni qualsiasi, ma di
rendersi ragione della loro struttura, studiando sistematicamente il
comportamento di cariche in movimento, mediante “Transformation auf Ruhe”. Questo
saggio si riferisce a studi ancora in corso e ben lungi dalla conclusione8 ). 8
L’ultimo capoverso è barrato a penna nel dattiloscritto. L’inciso fra parentesi
riprende quello analogo – non riportato nelle edizioni dei testi colorniani, ma
presente nei dattiloscritti di FS – posto al termine di Sull’assiomatica della
teoria della relatività. I.- Relatività ristretta, il quale recita nel modo
seguente: «Questo saggio si riferisce ad un lavoro già terminato, in cui lo
sviluppo qui descritto viene eseguito» (FS, sez. 3, Attività professionale, serie
1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, Scatole grigie 1942-2000, 1, C. e
Cotone, b. 3, Colorni). Sull’assiomatica delle leggi della meccanica. Il
principio d’inerzia è notoriamente una definizione camuffata. Esso definisce
come non soggetto ad alcuna forza il corpo dotato di movimento uniforme; quindi
come soggetto ad una forza il corpo dotato di movimento non uniforme. È
possibile considerare i principi della conservazione della quantità di
movimento e dell’energia come delle estensioni del principio d’inerzia, cioè
anch’essi come delle implicite definizioni della forza? Crediamo di sì.
Consideriamo infatti un sistema di due corpi. Diremo che il sistema non è stato
sottoposto all’azione di alcuna forza, non solo quando i due corpi proseguono
nel loro moto rettilineo ed uniforme, ma anche quando hanno modificato tale
loro moto dopo essersi urtati. Ciò che dovrà essere rimasto immutato nel
sistema non sarà dunque più il moto dei due corpi, ma una funzione di tale
moto; funzione che si tratta di determinare, ponendole delle condizioni
derivanti da esigenze plausibili. Anzitutto si può richiedere che il mutamento
provocato dall’urto nello stato di moto di uno dei due corpi sia misurato dal
mutamento provocato dal medesimo urto nell’altro corpo: cioè che ciò che rimane
costante nel sistema sia la somma delle funzioni in questione riferite a
ciascun corpo. Individuato poi ciascun corpo mediante una costante
caratteristica di esso (la sua “massa”), si può richiedere che il cambiamento
provocato in un corpo successivamente da due altri corpi di uguale massa e
uguale velocità, sia identico al cambiamento provocato da un corpo di massa
doppia e di uguale velocità: il che equivale a dire che la nostra funzione
dovrà essere della forma mf(v). Si potrà poi osservare che la funzione in
questione deve poter esprimere sia un mutamento nel valore assoluto della
velocità di ciascun corpo, sia un mutamento nella sola direzione: le funzioni
in questione devono cioè essere due, l’una vettoriale, l’altra scalare. Infine
si osserverà che, poiché due corpi in movimento uniforme rispetto ad un sistema
inerziale lo sono pure rispetto a qualsiasi altro sistema inerziale, la
costanza delle nostre funzioni deve essere invariante rispetto a trasformazioni
di Lorentz. Tutte queste condizioni limitano la scelta delle nostre funzioni in
modo da determinarle univocamente; e ne risultano le espressioni relativistiche
della quantità di movimento e dell’energia. Ciò è stato mostrato da Langevin2,
il quale parte però da premesse un po’ diverse. Gli sviluppi precedenti possono
avere un’importanza per il seguente motivo: la teoria della relatività giunge
alle sue espressioni dell’energia e della quantità di movimento, partendo dalle
equazioni di Maxwell, che suppone assicurate dall’esperienza. Ma il controllo
sperimentale di tali equazioni suppone che si 1 FS, sez. 3, Attività
professionale, serie 1, Carte organizzate da Somenzi, 2, Scatole grigie, 1, C. e
Cotone, Nel dattiloscritto, le pagine riportano la numerazione, a penna in
rosso, da 6 a 7 (cfr. supra, II. Relatività generale, n. 1, e la Nota del
curatore). Langevin e un fisico francese che, non diversamente da Eddington –
altro autore colorniano e griceiano – fu abile divulgatore scientifico. disponga
di una definizione dell’energia e della quantità di moto. Inoltre, quando si
siano definiti i principi fondamentali della meccanica indipendentemente
dall’elettromagnetismo, rimane aperta la possibilità di dedurre le leggi stesse
dell’elettromagnetismo servendosi di alcuni risultati della relatività, e raggiungendo
così una più profonda comprensione di quelle leggi. (Anche questo articolo si
riferisce a studi in corso, di cui la prima parte, riguardante la relatività
ristretta e l’elettromagnetismo, è terminata; ma avrebbe carattere troppo
tecnico per la rivista4.) 3 Assente nel testo. 4 Per un’analisi degli scritti
colorniani sulla teoria della relatività, si rinvia a M. Quaranta, La
“scoperta” di C. sulla teoria della relatività. Per l’inciso fra parentesi,
cfr. supra, II. Relatività generale. La rivista è la progettata rivista di
metodologia scientifica, sulla quale si rimanda ancora a quanto scritto supra,
§ 3. Cinque scritti metodologici 23 Geometria ed esperienza1 Gli assiomi della
geometria sono delle definizioni implicite, o meglio rappresentano delle
limitazioni imposte alla nostra libertà di definire gli oggetti ai quali essi
si riferiscono. Tali oggetti però possono essere di due tipi: o sono tali che
per ottenerne una rappresentazione concreta è necessario immaginarli realizzati
da un fenomeno fisico (p. es. la linea retta realizzata dalla traiettoria di un
raggio luminoso nel vuoto); in tal caso la definizione implicita negli assiomi
è una definizione “reale” (Zuordnungsdefinition2 ), e gli assiomi limitano il
numero degli oggetti o dei fenomeni che possono essere assunti per realizzare
fisicamente quel determinato ente geometrico. Oppure l’ente geometrico in
questione è tale da poter essere definito mediante un’opportuna combinazione di
altri enti precedentemente definiti (p. es. l’angolo uguale ad un angolo dato
può essere definito senza ricorrere ad alcuna sovrapposizione, quando sia stata
definita precedentemente la distanza fra due punti); e allora gli assiomi
limitano il numero degli accorgimenti che noi possiamo usare per definire quel
determinato ente geometrico. Agli scopi della costruzione fisica di un sistema
galileiano, è opportuno distinguere questi due tipi di definizione; e può
essere utile studiare da questo punto di vista le “Grundlagen” di Hilbert3. Non
è detto che si possa sempre trovare un insieme di fenomeni fisici capaci di
realizzare contemporaneamente tutti gli assiomi di una geometria. Per esempio,
se si vuol realizzare la geometria mediante raggi luminosi assunti co1 FS, sez.
3, Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Somenzi, 2, Scatole
grigie,1, C. e Italo Cotone, b. 3, C., 1945-1993. Numerato a penna 8 (cfr.
supra, II. Relatività generale, n. 1, e Nota del curatore). Il titolo è
anch’esso sottolineato a penna con l’indicazione: a mano. A margine, scritto a
matita in rosso e cancellato, alcune segnalazioni per il tipografo: «Corpo 10/10
tondo // Giustezza 27». Scrive Colorni in Filosofia e scienza. Ora, mentre la
geometria definisce implicitamente gli oggetti di cui tratta, mediante gli
assiomi, la fisica li definisce direttamente, mediante definizioni reali
(Zuordnungsdefinitionen). Con queste parole, C. richiama il concetto
reichenbachiano di Zuordnungsdefinition, per cui cfr. H. Reichenbach, Axiomatik
der Raum-Zeit-Lehre, Braunschweig, Vieweg & Sohn Akt.-Ges.,; Id.,
Philosophie der Raum-Zeit-Lehre, Berlin- Leipzig, W. de Gruyter & Co. In
una lettera firmata da Hirschmann (ma in realtà scritta da Colorni) e
indirizzata a GEYMONAT (si veda) per il tramite della moglie Virginia, l’autore
afferma di possedere il primo dei due titoli, e a questo rinvia per la comprensione
del proprio pensiero. Noi abbiamo qui l’importante saggio di Reichenbach, “Axiomatik
der relativistischen Raum-Zeit-Lehre”, che mette le cose da un punto di vista
molto affine a quello che Eugenio vorrebbe sviluppare. La lettera, conservata
nel Fondo Geymonat presso la Biblioteca del Museo civico di storia naturale di
Milano, è citata da M. Quaranta (La scoperta di Eugenio Colorni), il quale
commenta: «Ora, se è rintracciabile in Kant una nozione rigida dell’a priori,
letture kantiane sviluppate in quegli anni da Cassirer e Reichenbach, in Italia
da Preti, vanno nella direzione di accogliere la fecondità del “metodo
trascendentale”; le indagini epistemologiche di Colorni si inseriscono in questa
linea di ricerca. Questo capoverso, da Agli scopi fino a Hilbert, è cancellato
a penna nel testo dattiloscritto. Il riferimento è ai Grundlagen der Geometrie
(Fondamenti della geometria) di Hilbert. me rettilinei e di velocità di
propagazione uniforme, non è detto che risulti verificato l’assioma di Euclide;
e questo assioma, se è verificato per il sistema costruito da un determinato
osservatore, necessariamente non è verificato per il sistema costruito da un
altro osservatore, dotato rispetto al primo di movimento non uniforme. Cinque
scritti metodologici Programma1 Supponiamo che l’uomo viva in un palazzo le cui
porte sono tutte chiuse. Egli non ha le chiavi. Cioè egli ne possiede un mazzetto,
ma non sa se esse si adattino alla serratura, né quale chiave a quale
serratura. Prova, riprova, si costruisce nuove chiavi nella continua speranza
di potere un giorno abitare tutto il palazzo. Lo scienziato è un uomo al quale
è riuscito di aprire una porta. Una chiave, per sua fortuna, o per sua abilità,
ha girato nella toppa. Egli apre, e trova nella camera immensi tesori, li
utilizza3, li mette a disposizione degli altri uomini che lo ringraziano
ammirati. Da quel momento4 la camera è accessibile a tutti. Entusiasmato, lo
scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di
grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte5. La chiave comincia a diventare uno
strumento pericoloso nelle sue mani. Egli la vuole usare dappertutto. Il
risultato è che sfonda le serrature. Ci vorrà6 poi una gran fatica per
accomodarle e per trovare o costruire una nuova chiave che permetta di aprirle
(Fuor di metafora: p. es. la medicina è stata rovinata per secoli
dall’ossessione del metodo meccanicistico, che aveva fatto meraviglie nel campo
della fisica. E si è voluto risolvere tutto a base di anatomia, di rapporti e
di modificazioni di tessuti. Nella maggioranza dei casi non si è cavato un
ragno dal buco). Il filosofo, invece, cosa fa? Egli non ha avuto la fortuna o
l’abilità di aprire una porta, ma anche lui è preso dall’ossessione di aprirle
tutte. Con la chiave9 dello scienziato o con un’altra di sua fattura. La sua
ossessione è forte, meno pericolosa10 che quella dello scien1 FS, sez. 3,
Attività professionale, serie 1, Carte organizzate da Vittorio Somenzi, 1929-
2000, 2, Scatole grigie, 1, C. e Italo Cotone, b. 3, Colorni. Nel
dattiloscritto un primo titolo, barrato, recita come segue: «SCIENZA E
MATERIALISMO // È un caso che tutti gli scienziati tendano ad essere
materialisti? // PROGRAMMA». A margine, scritto a penna, il titolo è fissato
così: «SCIENZA E REALISMO». Un asterisco rimanda alla seguente nota
manoscritta: «(V[edi]. l’“Apologo su quattro modi di filosofare”, altro inedito
di C., in Sigma. Sempre a margine, si ha l’indicazione di stampa, a penna:
«Corpo 10 tondo 11 // giustezza – 10 su 12. Poiché lo scritto si discosta
spesso – nella forma, mai nella sostanza – dalle precedenti edizioni (nelle
quali esso risulta per altro incompiuto), è parso utile indicare in nota le
differenze fra le diverse versioni. Per questo stesso motivo ho talvolta
esplicitato le correzioni e gli interventi sul dattiloscritto. La sigla FS
rimanda al testo presente fra le carte di Somenzi; la sigla E a quello
dell’edizione Einaudi. Benché sia barrato, e per consentire una più chiara
identificazione, si è preferito mantenere il titolo Programma. 2 per sua
fortuna, o per sua abilità FS: per sua fortuna o per sua abilità E. 3 immensi
tesori, li utilizza FS: immensi tesori. Li utilizza Di seguito nel testo di E.
5 lo scienziato vorrebbe aprire tutte le porte comincia ad acquistare manie di
grandezza. Vorrebbe aprire tutte le porte FS: lo scienziato vorrebbe aprire
tutte le porte E. 6 le serrature. Ci vorrà FS: le serrature, ma ci vorrà E. 7
(Fuor di metafora FS: di aprirle. (Fuor di metafora E 8 Il filosofo, invece, FS:
Il filosofo invece, E aprirle tutte. Con la chiave FS: aprirla con la chiave E.
10 è forte, meno pericolosa FS: è forse meno pericolosa E. Eugenio Colorni ziato,
ma più intensa. Per lo scienziato essa è necessaria accessoria11. Il massimo
sforzo è già stato compiuto12 nel trovare la chiave. Il tentativo di
allargamento è spesso solo abbozzato. Il filosofo, invece, è tutto fatto di
questo bisogno. Egli è abbastanza accorto per avvedersi che il correre da una
parte13 all’altra con la medesima chiave si risolve in un danno e in un
disordine. Egli vuole soddisfare alla sua esigenza in un modo sistematico, che
non lasci residui. La sua ossessione è che il palazzo sia completamente
abitabile, aperto in tutte le camere, dai saloni ai ripostigli. Che cosa fa per
soddisfarsi? Si costruisce un palazzo a suo uso e consumo, simile il più
possibile a quello vero, in cui tutte le serrature siano apribili con una sola
chiave, o con le varie chiavi che ha a sua disposizione. Lì si rinchiude; lì15
gli sembra di vivere tranquillo. Ma il palazzo è di cartapesta. In poco tempo
crolla. Le camere sono identiche a quelle dell’altro palazzo, ma sono vuote. Il
poterle aprire non dà all’uomo maggior ricchezza e maggior17 potenza. A volte
avviene che nel lavoro di costruire, al filosofo venga fatto di scoprire o
inventare una chiave nuova, che gli altri uomini possono usare, e provare nelle
varie serrature. In questo caso egli sarà ammirato e studiato solo per questa
invenzione fortuita o strumentale, che nelle sue intenzioni non doveva essere
che un dettaglio del grande edificio. E il grande edificio scompare. Dopo un
secolo nessuno ci crede più, nessuno può più abitarvi dentro. Lo si considera
come un bel rudero, come l’interessante documento di un’epoca; lo si apprezza
per un certo impulso che indirettamente, nei coi suoi contorni, ha dato alle
lotte e alle ricerche dell’umanità. Gli storici, gli esegeti, cominciano a
scuoterlo per vedere se, non potendosene più servire in blocco, non si trovi
del buono fra il materiale della costruzione. E cominciano a distinguere “ciò
che è vivo e ciò che è morto” e a manipolare il sistema ai propri fini. Ne
risulta che ogni pensatore viene, di regola, apprezzato dai posteri per motivi
che egli non avrebbe immaginato e che sono estranei alle sue intenzioni
fondamentali. Quello che egli aveva creduto il suo vero apporto alla cultura e
alla civiltà viene considerato inutile. Il dispendio di energie è enorme.
Vediamo gli uomini più intelligenti dell’umanità dirigere tutti i loro sforzi
per raggiungere mete che andranno poi completamente perdute; e 11 necessaria
accessoria. FS: accessoria, sopraggiunta. E. già stato compiuto FS: già compiuto E. parte FS: porta E. 14 sola chiave, o con FS:
sola chiave o con E. 15 Lì si rinchiude; lì FS: Là si rinchiude, là E. 16 di
cartapesta. In poco tempo crolla. Le FS: di cartapesta, non di mattoni veri. In
poco tempo crolla, si disfa. Le E. 17 ricchezza e maggior FS: ricchezza o
maggior E. scoprire o inventare FS: trovare E. 19 possono usare, e provare
nelle varie FS: possono usare nelle varie E. 20 rudero FS: rudere E. 21 nei coi
suoi FS: nei suoi E. scuoterlo FS:
smontarlo E. ogni pensatore viene, di regola, apprezzato FS: ogni pensatore
(come spesso anche ogni poeta) viene di regola apprezzato E. 24 immaginato e
che FS: immaginato, e che E. Cinque scritti metodologici: 27 siamo costretti a
racimolare con fatica alcuni residui del loro lavoro. Nella25 scienza le cose
sembrano andar meglio. Siamo per lo meno nel palazzo vero, dove le camere sono
piene di ricchezze; e là dove la chiave ha aperto la porta, la potenza
dell’umanità ne è stata infinitamente aumentata. Ma se la porta non si apre?
Dai Greci al Rinascimento, per duemila anni, gli uomini si sono affaccendati a
costruir26 chiavi di tutti i generi e magnifici palazzi di cartapesta. Ma
nessuna porta dell’edificio vero si è aperta ai loro sforzi. Da Galilei e
Bacone27 in poi, alcune sembrano cedere. Una, quella28 del meccanicismo fisico
si è addirittura spalancata. Ma quante restano ancora chiuse[!]?29 Quale sarà
per esse la chiave giusta? L’abbiamo già in mano o dobbiamo ancora
costruircela? E come sfuggire alla continua tentazione di usare per ogni porta
quella che ha fatto una volta buona prova, col rischio di rovinare tutto? La
filosofia odierna, anziché costruire bei palazzi di cartapesta, dovrebbe
proporsi il compito di affacciarsi a questi problemi, e tentare di mettere un
certo ordine, allo scopo di evitare sforzi inutili e raggiungere risultati il
più possibile concreti. Dovrebbe anzitutto esaminare le chiavi che abbiamo in
mano, cioè i criteri di ricerca, i metodi d’indagine coi quali noi affrontiamo
il reale e cerchiamo di renderlo utile ai nostri usi. Criteri che, ormai ciò è
chiaro a tutti, trasformano31 radicalmente la realtà, operando una scelta che
ci fa scorgere solo ciò che da essi può essere afferrato. Ciò che noi chiamiamo
realtà è evidentemente condizionato non solo dai nostri sensi, ma da tutto
l’insieme delle forme, delle categorie, dei criteri associativi e
interpretativi senza dei quali non ci è possibile di pensare e di percepire
alcunché. Criteri che noi potremo studiare, scomporre, modificare; senza però
poter mai uscire dal campo di un’attività del soggetto costitutiva della realtà
stessa. Noi34 non possediamo, allo stato attuale delle nostre conoscenze, alcun
nesso mezzo per eliminare il sole lato35 soggettivo della nostra nozione della
realtà; anzi abbiamo seri elementi per propendere a ritenere che la nozione di
una realtà oggettiva, da noi indipendente,36 sia un’ipostasi della nostra
mente,37 do25 A capo in E. costruir FS: costruire E. Da Galilei e Bacone FS: Da
Galileo a Bacone E. Una, quella FS: Quella E. 29 Chiuse[!]? FS: chiuse! E. 30
d’indagine a penna nel testo FS: ermeneutici E. che, ormai ciò è chiaro a
tutti, trasformano FS: che – ormai ciò è chiaro a tutti – trasformano E. Queste righe, e quelle immediatamente
successive, rappresentano una sorta di compendio della filosofia colorniana,
ossia del ruolo essenzialmente critico-metodologioco che, muovendo «dalla
grande scoperta kantiana» (E. Colorni, Filosofia e scienza, p. 240), essa
dovrebbe svolgere. A capo in E.Di seguito in E. alcun nesso mezzo per eliminare
il sole lato a mano nel testo FS: alcun mezzo per eliminare il polo E. 36
oggettiva, da noi indipendente, FS: oggettiva da noi indipendente E. 37 mente, FS:
mente E. C. vuta ad un nostro
fondamentale bisogno di contrapporre alcunché a noi stessi, di urtarci contro
qualche cosa, di polarizzare il contenuto della nostra coscienza in un passivo
ed un attivo. Vedi Fichte (Trascendenza interna)38. Ciò che chiamiamo realtà
non è dunque né l’oggetto né il soggetto39, ma alcunché nella costituzione del
quale il soggetto, con i suoi criteri e le sue categorie, ha una gran parte e41
che noi, per comodità di studio, consideriamo per un istante come dato di
fronte a noi, coscienti che con ciò noi poniamo di fronte a noi qualche cosa
cui partecipiamo noi stessi. Ora questo “qualche cosa” gli uomini si sforzano
di manipolarlo ai loro usi, di penetrare nella sua costituzione, di prevedere
il suo divenire, di costruire in base alle previsioni. A seconda che si
accentui il carattere oggettivo o soggettivo di questo lavoro, lo consideriamo
un “penetrare nelle leggi della natura” oppure un estrarre dalla natura un
certo numero di elementi regolari per usarli a loro vantaggio, un cedere alla natura”
o un “farle violenza”, e si chiamano positivisti o pragmatisti. Ma questa
distinzione riguarda il significato metafisico dell’attività umana, non la sua
conformazione, i suoi procedimenti, il suo fine: che è ciò che c’interessa qui
di indagare per contribuire al progresso dell’umanità46. Lo scienziato non
conosce concretamente un problema del carattere pratico e teorico47 della sua
attività. Egli non si domanda mai, seriamente, se ciò che lo spinge alla
ricerca sia il “bisogno di sapere” inteso come fine a sé stesso, o la speranza
che gli uomini possano ricavare un utile dalla sua scoperta. Egli si dedicherà
secondo la sua attitudine ad un campo più vicino alla ricerca pura o più vicino
alle applicazioni. Ma nella sua mente ricerca e applicazione costituiscono un
tutto unico di cui solo per comodità di studio e per la necessità della
divisione del lavoro egli scinde a volte le parti. La scoperta si considera
come la naturale, evidente premessa dell’invenzione:51 l’invenzione come la
conseguenza della scoperta. L’antitesi positivismo-pragmatismo non ha senso per
lo scienziato, e non moVedi Fichte (Trascendenza interna) FS: (Vedi Fichte,
Trascendenza interna) E. Su questo aspetto della metodologia colorniana, si
legga quanto affermato da Ferruccio RossiLandi, che rileva fra l’altro, negli
scritti colorniani, la presenza di «quel disimpegno dalla visione realistica
del mond che è merito della migliore critica idealistica, soprattutto negli
sviluppi dell’attualismo» (Su i saggi di C., in «Rivista critica di storia
della filosofa né l’oggetto né il soggetto FS: né il soggetto né l’oggetto il soggetto, a mano nel testo FS: l’uomo parte
e FS: parte; e E. A capo in E. un estrarre dalla natura un certo numero di
elementi regolari per usarli a loro vantaggio, FS: un “estrarre dalla natura un
certo numero di elementi, regolarli per usarli a loro vantaggio”; E. 44 “un
cedere FS: un “cedere E. 45 violenza”, e FS: violenza”. E E. 46 per contribuire
al progresso dell’umanità FS: per raggiungere risultati utili e teorico FS: o
teoretico sé FS: se E. 49 dedicherà secondo la sua attitudine ad FS: dedicherà,
secondo le sue attitudini, ad E. Ma nella sua mente ricerca FS: Ma, nella sua
mente, ricerca dell’invenzione:
dell’invenzione; E. Cinque scritti metodologici: difica in nulla il suo agire.
Lo scienziato lavora insomma su qualche cosa che egli ha di fronte a sé e della
quale sono elementi costituenti alcune “forme” e “categorie” che provengono
dalla sua mente, incorniciano la realtà e gliela rendono comprensibile e
afferrabile. Di queste forme o categorie egli ne considera alcune come
appartenenti alla realtà, esistenti assolutamente al di fuori di sé. Quali sono?
Sono quelle cui egli si sente necessariamente legato, di cui non può in alcun
modo fare a meno, senza le quali gli sarebbe impossibile vedere e pensare. Kant
ne ha elencato5 alcune: spazio, tempo, causalità, numero ecc. Egli ha
riconosciuto sì che esse vengono imposte alle cose dallo spirito dell’uomo; ma
col dare ad esse un carattere necessario ed a priori, ha ammonito gli uomini
sulla impossibilità di uscire da esse. Infatti gli uomini comuni, senza
preoccuparsi della loro provenienza e accontentandosi del fatto che di quelle
categorie non si può fare a meno, le attribuiscono senz’altro alla realtà. Ma
l’osservazione di Kant ha messo tutti sul chi vive; e la curiosità di vedere al
di là del “velo di Maja” delle categorie si è fatta sempre più intensa. Si può
dire che la filosofia si sia scissa a questo proposito in due opposte
direzioni, a seconda che l’ammonimento di Kant sia stato seguito o no. Fra
quelli che l’hanno seguito, gli scienziati60 hanno continuato a considerare le
categorie come reali, e a lavorare in un mondo costruito sulla base di queste
categorie, contentandosi a volte di mantenere nello sfondo l’ombra di un
inconoscibile (Spencer, positivisti), oppure62 di acquisire coscienza della
relatività dei loro sforzi, limitando63 il compito della scienza alla
costruzione di ipotesi semplici e maneggevoli (Poincaré, pragmatisti). Su
questa via essi hanno continuato ad ottenere un buon numero di successi,
proseguendo quell’indagine e quello sfruttamento della natura che era cominciato
con Galilei e Newton, e che consisteva nell’uso sistematico di quelle categorie
che poi Kant elencò. Ma si ha già da qualche tempo l’impressione che il campo
stia per esaurirsi e che non restino da fare in questa direzione se non
scoperte particolari di importanza ristretta. I filosofi invece, insofferenti
di qualsiasi dualismo o relativismo, e preoccupati di saldare l’unità del
reale, preferiscono eliminare la tentazione del52 A capo in A capo in E. 54
impossibile FS: assolutamente impossibile E. elencato FS: elencate E. spazio FS: Spazio E. numero
ecc. FS: numero, ecc. E. A capo in E. filosofico FS: filosofico scientifico E.
60 no. Fra quelli che l’hanno seguito, gli scienziati FS: no. (I) Fra quelli
che l’hanno seguito gli scienziati E. categorie, contentandosi FS: categorie;
contentandosi positivisti), oppure FS:
positivisti); oppure E. sforzi, limitando FS: sforzi; limitando E. 64 Newton, e
FS: Newton e di FS:, di I filosofi invece, FS: (b) I filosofi, invece,
C. 30 la “cosa in sé” col negarne addirittura l’esistenza; e attribuire realtà
assoluta al pensiero nella sua forma universale68. In tal modo essi
soddisfecero contemporaneamente all’esigenza Kantiana69 di non uscire dalle
leggi del pensiero e al bisogno tipicamente filosofico di risolvere senza
residui il problema della realtà; incuranti d’altronde se questo loro sistema
li conducesse o no a un qualsiasi risultato apprezzabile che non si limitasse
alla soddisfazione del loro bisogno di completezza. Coloro invece71 che “hanno
disubbidito” sembrano a tutta prima disprezzare l’ammonimento di Kant e
trascurare i limiti da lui posti: ma in realtà sono essi suoi figli molto più
che gli ubbidienti. Quel limite, quella barriera appunto li ha eccitati ad
andare al di là: ha indicato loro la direzione verso cui rivolgersi
Cominciamo74 questa volta dai filosofi. a) - Il filosofo vuol gustare il frutto
proibito. Ma egli sa oramai che non potrà mai raggiungerlo con le categorie,
con75 le quali Kant gli ha indicato così chiaramente i limiti. Egli abbandona
per sempre le illusioni della metafisica e della teologia, cioè i tentativi di
afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione; ed76 è alla
continua ricerca di un altro strumento che gli permetta di raggiungere il suo
scopo. Volontà, fede, intuizione, ispirazione: in una parola l’irrazionale è
ciò cui egli si affida. Ad esso egli attribuisce tutte le possibilità che
mancano alle categorie della ragione. Con esso egli afferma di poter aprire tutte
le porte del palazzo. Ma che garanzie gli dà la nuova chiave? Semplicemente di
non essere79 la vecchia. Ogni interpretazione irrazionalistica del mondo, là
dove non consista in esplosioni di entusiasmo, è una polemica contro
l’impotenza della ragione. Polemica spesso acuta e giusta, ma che non
costituisce un motivo bastante per accettare come criterio definitivo tutto ciò
che ragione non è. Le80 esplosioni d’entusiasmo81, invece, sono a volte più
interessanti e fruttifere. Esse ci permettono di penetrare, sia pure in modo
confuso, nella costituzione interna di queste attività irrazionali; di
conoscere un po’ meglio quali siano i loro procedimenti. Ciò che ha paralizzato
però tale indagine e non le ha permesso di dare finora se non scar e FS: ed E. Evidente
riferimento all’idealismo nei suoi diversi modelli. 69 Kantiana FS: kantiana E.
70 se FS: che E. 71 Coloro invece FS: (2) Coloro, invece, E. disubbidito” FS:
disubbidito”, E. appunto FS: appunto, E. 74 Di seguito in E. 75 categorie, con
FS: categorie delle E. 76 teologia, cioè i tentativi di afferrare la realtà
assoluta con gli strumenti della ragione; ed FS: teologia – cioè i tentativi di
afferrare la realtà assoluta con gli strumenti della ragione – ed E. 77 parola
FS: parola, E. 78 A capo in E. essere FS:
esser E. A capo in E. d’entusiasmo FS: di entusiasmo E. Cinque scritti
metodologici: 31 sissimi risultati,82 è che tali attività sono sempre state
descritte appunto col presupposto e con l’esigenza di attribuire ad esse un
valore assoluto, molto superiore a quello della ragione. Preconcetto il quale
ha naturalmente deformato la descrizione ed ha impedito qualsiasi seria
indagine sull’uso che di questi atteggiamenti si potrebbe eventualmente fare.
Anche qui la fretta di chiudere il circolo e il bisogno filosofico di rinchiudersi
in un edificio abitabile in tutte le sue parti ha impedito di compiere
qualsiasi vero progresso. E le interpretazioni irrazionalistiche della realtà
si sono succedute l’una all’altra senza condurre l’umanità ad alcuna conquista
stabile. È questo un fenomeno che si ripete da secoli; ché la constatazione
delle insufficienze della ragione e il tentativo di affidarsi ad attività
irrazionali non data da Kant, ma è vecchio, si può dire, quanto la nostra
civiltà. E la massa di esperienze che si è venuta raccogliendo è83, se non
ordinata, pure imponente; e dà l’impressione di una grande miniera
inesplorata85 in cui il materiale prezioso è unito con le scorie. Siamo qui ad
uno stadio di evoluzione e di sfruttamento molto meno sviluppato che nel campo
della ragione. Il materiale della ragione è stato esplorato a fondo,
inventariato, ordinato dal pensiero greco e dalla scolastica. Con Galilei e
Newton ha trovato il campo cui applicarsi, conducendo ai vastissimi risultati
che conosciamo. Kant infine88 ne ha tracciato i limiti segnando insieme (forse
un po’ in anticipo) l’esaurirsi della miniera dal89 quale esso traeva
ricchezze. Il campo dell’irrazionale probabilmente comprende regioni
infinitamente più vaste che quelle della ragione, contenenti materiale dal carattere
più eterogeneo, atto agli usi più disparati. Il fatto solo che siamo abituati a
classificarlo secondo la rubrica negativa del “non rientrare nella ragione” ci
mostra lo stato disordinato delle nostre conoscenze al proposito. Ordinare
questo mondo in modo che ci possa servire, analizzarlo con mente tranquilla e
senza preconcetti entusiasmi od avversioni, liberarlo dal continuo incubo del
confronto con la ragione ed infine tentare se alcuni dei dati così ottenuti ci
possono90 servire come criterio per risolvere qualche problema, come chiave per
aprire qualche porta: ecco il compito che s’impone oggi alla nostra indagine91.
Va92 da sé che i metodi da usarsi non saranno i medesimi che si sono usati per
il mondo razionale: e che l’ordine ottenuto non assomiglierà neppure da lontano
a quello che noi conosciamo nel campo logico-matematico. La parola 82
risultati, FS: risultati E. raccogliendo è, FS: raccogliendo, è, E. 84
imponente; FS: imponente: E. 85 inesplorata FS: inesplorata, E. 86 unito FS:
misto E. 87 A capo in E. 88 Kant infine FS: Kant, infine, E. dal FS: dalla
possono FS: possano Nietzsche», afferma C. in Critica filosofica e fisica
teorica aveva indicato, con acredine iconoclasta, il cammino. Ci fu chi lo
seguì col pacato distacco dell’indagatore, ove il riferimento è chiaramente al
metodo psicoanalitico. Di seguito in E. Eugenio Colorni stessa “ordine” non
vuole avere qui che un significato analogico. Si tratterà di attingere nel
mondo stesso dell’irrazionale per trovare in esso dei punti intorno a cui
quella materia possa coagularsi e offrirci dei punti di appiglio per essere da
noi usata. Sarebbe assurdo e avventato dare qui direttive e indicazioni. La
riuscita di questo lavoro dipenderà dalla fantasia e dal fiuto di chi lo
compie, dalla sua capacità di servirsi liberamente di esperienze fatte in altri
campi senza lasciarsene suggestionare, dalla mobilità e ricchezza della sua
facoltà di combinazione. Il risultato massimo sarà di mettere l’umanità in
possesso di una o più nuove chiavi capaci di scoprire nuove leggi del reale o,
se preferite, di costruire nuovi sistemi di concordanze che si offrano al
nostro uso e ci permettano di soddisfare alcuni nostri bisogni. b) - Lo
scienziato che dalla messa a punto kantiana ha ricevuto l’impulso ad andare al
di là delle categorie, non s’indugia però nella ricerca dell’irrazionale, che
non offre, finora, alcuna presa ai suoi metodi. La sua mentalità è ancora
imperniata completamente sul razionalismo logico-matematico, che ha permesso ai
secoli scorsi di compiere le grandi scoperte di cui vive la nostra civiltà. Ed
il superamento che egli vuol compiere non98 è un superamento di principio,
trasportandosi di un salto in un mondo completamente diverso, ma graduale,
volta a volta seguendo le esperienze che non sono giustificabili mediante le
leggi finora conosciute. Egli non si domanda quale sia la realtà assoluta che
si cela agli occhi degli uomini dietro il velo delle categorie; ma piuttosto
come sia possibile apprendere e organizzare il materiale secondo categorie che
siano diverse da quelle finora usate. In questo senso egli è molto meno
realista che il del filosofo idealista o mistico o che lo dello scienziato
positivista. E in questo senso si può quasi dire che egli porti una conferma
sperimentale, se non alla necessità a priori delle categorie kantiane, almeno
alla dottrina kantiana delle categorie. Lo scienziato di regola non ha letto
Kant. dei FS: quei E. campi senza FS:
campi, senza E. concordanze FS: concordanza E. E. logico-matematico, che FS:
logico-matematico che compiere non FS: compiere, non E. di un FS: d’un E. e FS: ed E. che il del FS:
che il E. 102 che lo dello FS: che lo E. Proprio in questo comune punto di
arrivo», scrive Colorni in Critica filosofica e fisica teorica trattando delle
diverse forme della filosofia e della epistemologia postkantiane, «in questa
medesima esigenza, in questa eguale preoccupazione di raggiungere una base
stabile cui si possa attribuire un valore obbiettivo, tali diversi modi di
procedere riconoscono forse tra di sé quella parentela di premesse e di fini
che permette loro di attribuirsi il nome comune di filosofia. La scienza, al
contrario, e precisamente perché figlia della rivoluzione kantiana, rifiuterà
al contrario di operare secondo il criterio delle affermazioni di verità per
muoversi attraverso un procedimento di composizione e scomposizione della
propria materia. sperimentale, se FS: sperimentale se E. 105 Kantiane FS:
kantiane E. Kantiana FS: kantiana E. Cinque scritti metodologici. Ma
l’atmosfera diffusa del Kantismo e la nozione stessa della categoricità del
reale gli suggeriscono di porsi, di fronte ad una nuova esperienza
inspiegabile, nell’atteggiamento di colui che attribuisce tale inesplicabilità
alla violenza che le categorie tradizionali operano sulla ricerca organizzando
ogni dato secondo le loro forme. Dal quale atteggiamento deriva direttamente il
tentativo di modificare le categorie e provarle di nuovo, così modificate, sul
metro della interpretazione scientifica. Modificare, ho detto, non abolire. Qui
si mostra la modestia dello scienziato, il suo voler provare una dopo l’altra
le chiavi, il suo volontario limitare il proprio orizzonte. Da quando egli si è
accorto di usare delle categorie nella formulazione delle sue leggi, è
continuamente tentato di provare che cosa avverrebbe se queste categorie
fossero fatte altrimenti. Come si comporterebbero i fenomeni in uno spazio che
non sia quello euclideo? Materia, energia, sostanza, causalità. Che aspetto
avrebbe un mondo in cui queste categorie si presentassero con caratteri diversi
da quelli che hanno finora avuto? L’elemento a priori del reale, divenuto
cosciente nell’uomo, comincia ad eseguire un gioco di spostamenti, di
retrocessioni, di modificazioni tale da trasformare completamente l’immagine
della realtà sulla quale gli uomini lavorano: come un obbiettivo che abbia
imparato ad aprirsi e a chiudersi, a mettersi a fuoco a seconda delle esigenze
dell’oggetto da ritrarsi. E se da un lato si può dire che questo accomodamento
delle categorie viene imposta dalle modalità della ricerca scientifica, cioè
dalle esperienze e dalle osservazioni che non è possibile far rientrare nelle
categorie finora usate (cioè quelle dell’universo newtoniano), d’altro lato è
avvenuto forse che gli scienziati, tratti dalla vaga sensazione di essere sul
punto di crearsi nuovi strumenti per l’apprensione del reale, fossero attratti
appunto da quelle esperienze che dei nuovi strumenti potessero aver bisogno.
L’esperienza non è mai evidentemente qualche cosa di puramente passivo, e vi è
sempre un motivo perché lo sperimentatore raccolga la sua attenzione su di un
fatto piuttosto che su di un altro108. Comunque se la conformazione delle
singole categorie è stata fortemente modificata dalla scienza moderna, non è
stata modificata, anzi è stata rafforzata la coscienza della categoricità del
reale. Il filosofo può giungere con ragione alla conclusione che le nuove
teorie fisiche non hanno intaccato la concezione Kantiana del mondo. Noi
diremmo che esse hanno tratto da quella concezione le uniche conseguenze che
aprono alla mente umana nuove indefinite prospettive di ricerca. Le quali non
consistono in una vaga e problematica evasione dalle categorie, ma in una
tranquilla accettazione del fatto che non è possibile prescindere da una
“categoricità”. Accettazione che permetta però la continua revisione delle
esistenti. Kantismo e la nozione stessa FS: kantismo e la nozione stessa E. Da
questo punto comincia la conclusione assente nelle precedenti edizioni del
testo. Sulla revisione colorniana del concetto di esperienza, cfr. supra § 3.
109 C. non si astiene mai dal sottolineare, nei suoi scritti metodologici,
«quanto vantaggio derivi alla scienza stessa dall’eliminazione del suo
substrato metafisico-finalistico» (C., Del finalismo nelle scienze. Cfr. p.e.
Id., Critica filosofica e fisica teorica. Non c’è miglior propaganda per un
nuovo atteggiamento intellettuale e morale che il fatto che esso si dimostri
una chiave capace di aprire molte porte nel campo della scienza e della
conoscenza». C. 34 categorie; cioè di quelle categorie dalle quali la mente
umana al suo stato attuale non può prescindere. Non è forse inutile precisare
che tale revisione non ha nulla a che fare con quelle discussioni sulle
classificazioni delle categorie di cui i filosofi così spesso si dilettano. Non
si tratta affatto di discutere se le categorie siano dodici o dieci, o quattro
o una. Se il “finalismo” costituisca una categoria a sé o rientri in un’altra.
Se l’“economico” e l’“estetico” siano modi autonomi o meno di considerare le
cose. Non si tratta di organizzare le forme conosciute del pensiero, e
accordarsi su quali si debbano considerare originarie, quali derivate. Il
lavoro da compiersi è molto più profondo e creativo. Si tratta di dare allo
spirito umano la possibilità di vedere le cose in modo completamente diverso da
quello usato finora; di fornirlo di un nuovo senso, mediante il quale egli
possa scoprire cose finora sconosciute, risolvere problemi finora insolubili.
L’atteggiamento “critico” in senso kantiano si mostra così come l’ultima fase
di tutta un’epoca e di un modo di prendere contatto col reale. La scienza messa
nella possibilità di prendere piena coscienza non solo dei propri metodi, ma
delle premesse necessarie di ogni sua costruzione, riceve da ciò l’impulso a
superare tale necessità ed a crearsi premesse nuove. Il lavoro che qui compie
lo spirito non ha solo i caratteri di una ricerca intellettuale. Ne fanno parte
alcuni atteggiamenti che possiamo raccogliere sotto il nome generico di morale.
Si tratta di uno sforzo violento contro un modo di considerare le cose cui
tutto ci tiene legati, di tendenze alla liberazione, di salti fuori dal mondo
cui si apparteneva. Si cerca di rifarsi una “nuova mentalità”, di vedere le
cose con occhi diversi, di ritornare semplici, di rifiutare le costruzioni già
fatte. Ci si affida alla fantasia, all’invenzione, all’intuizione, per
immaginarsi mondi diversi da quello che siamo abituati a vedere. Tutti questi
movimenti di conversione dello spirito, che siamo abituati [ad] attribuire al
mistico o all’uomo desideroso di purificazioni o di visio. È questo il tema
affrontato fra l’altro nel dialogo di Commodo dedicato a Dell’antropomorfismo
nelle scienze, là dove C., stabilendo la necessità di rovesciare l’umana
tendenza a ricreare una natura fatta a propria immagine e somiglianza,
distingue due differenti forme di antropomorfismo, a seconda che si sia o meno
consapevoli – e si sappia quindi controllarne i risultati – della nostra
impossibilità di prescindere dalla “categoricità del reale”: il primo
antropomorfismo è «una constatazione, o meglio una necessità, dalla quale non
siamo riusciti a uscire, l’altro è invece una esigenza. Ora io odio le
esigenze. Non ho nemmeno alcun motivo di amare le necessità, ma da queste non
vedo alcun modo per liberarci, se non illusoriamente. Evidente riferimento allo
storicismo crociano, su cui Si mostra qui, in tutta la sua originalità, il
senso più profondo che Colorni attribuisce al kantismo all’interno della storia
del pensiero filosofico e scientifico della modernità. C., Critica filosofica e
fisica teorica, ove si sottolinea il carattere essenzialmente morale che
caratterizza il primo impulso alla scoperta scientifica: «alla base di ogni
grande scoperta, di ogni rivoluzione nel campo della scienza, c’è una conquista
morale; l’abbattimento di un idolo saldamente insediato e abbarbicato fra le
pieghe della nostra anima, di cui è estremamente difficile accorgersi,
estremamente doloroso liberarsi; idolo fatto per lo più di un cieco ed
infantile amore per noi stessi, di un bisogno di sentirsi circondati da forze a
noi congeniali, di veder ripetuto nell’universo, nella realtà oggettiva, ciò
che sperimentiamo nel nostro intimo». Cinque scritti metodologici: 35 ni, non
devono essere stati estranei a chi si è sforzato per il primo di immaginare la
terra rotonda anziché piana, o il sole immobile e non la terra in mezzo ai
pianeti, o lo spazio a quattro e non a tre dimensioni. Solamente che mentre il
mistico suole descrivere molto accuratamente il processo della conversione, ma
si ferma solo ad esso e non ci dà alcuna garanzia quando comincia a parlare di
ciò che egli trova “al di là”, lo scienziato invece compie la conversione
silenziosamente, spesso quasi inconsciamente; ma giunto al di à, cioè al nuovo
punto di vista, è sollecito ad occuparsi solo di ciò che sia non dico vero in
senso assoluto, ma usabile, cioè organizzabile in un ordine, in una legge. E
per giungere a ciò escogita esperimenti e controlli che gli diano la garanzia
di camminare su un terreno sicuro, sul quale sia possibile ai suoi strumenti di
far presa. L’“al di là” non è affatto una negazione del di qua, non è un
assoluto privo di categoria. È un mondo di nuove categorie che pretendono di
essere più vaste, di comprendere in sé anche le vecchie. Rotondo anziché piano,
meccanismo anziché finalismo, probabilità statistica anziché determinazione
causale. La validità delle nuove chiavi è determinata dal loro uso, cioè dalla
maggiore o minore possibilità che esse offrano di spiegare fenomeni, di risolvere
problemi, di formulare leggi. La maggiore difficoltà consiste nell’abituarsi al
nuovo modo di vedere. Non esiste neppure un vocabolario che permetta di
esprimere le cose nei termini delle nuove categorie, e si è comunemente
costretti a ricorrere a metafore tratte dal mondo vecchio. Gran parte del
lavoro, nei primi tempi, consiste nell’escogitare una formula di trasformazione
che permetta di passare agevolmente dai termini delle vecchie categorie a
quelli delle nuove. Come le leggi della prospettiva mi permettono di
rappresentare su un piano ciò che ha un volume nello spazio, così le
“trasformazioni di Lorentz” mi permettono di usare gli strumenti a mia
disposizione (calcolo, misura, ecc.) nello spazio normale, per il nuovo spazio
einsteniano; analogamente la psicanalisi tenta di tra Il dominio della natura è
divenuto così il prezzo dell’incredulità. È come se la grazia venisse a toccare
proprio colui che ha cessato di sperarla. Il coraggio di riconoscersi
abbandonato da Dio, di rinunciare ad essere il centro e lo scopo dell’universo,
apre immediatamente l’occhio agli uomini, li arricchisce d’un immenso
patrimonio. A bella posta abbiamo espresso queste cose in un linguaggio
mistico. Quando Kant parla di rivoluzioni dovute all’ardimento di un sol uomo,
di illuminazioni subitanee, di vie improvvisamente aperte a chi brancolava alla
cieca, c’è in lui sicuramente la coscienza che una vera grande conquista
conoscitiva è sempre frutto – più che di uno sforzo logico o di uno sviluppo
dialettico – di un capovolgimento affettivo e morale; di una inversione di
valori, di una vittoria conquistata contro se stessi e contro ciò cui con più
profondi e tenaci ed inconsci vincoli siamo legati. Chi compie per primo un
capovolgimento deve anzitutto combattere nel suo intimo una lotta non molto
diversa da quella che combatte l’uomo che voglia raggiungere lo stato di
perfetta passività ed umiltà di fronte al suo dio. Molinos diceva che non
bisogna chiedere nulla a Dio, neppure la propria salvazione. Lo scienziato deve
pure rinunziare all’idolo di una natura che parli il suo medesimo linguaggio,
di un mondo organizzato in vista dei suoi bisogni e dei suoi organi. Solo
questa assoluta vuotezza e purità, questa mancanza di anticipazione gli
permetterà di aprire gli occhi su se stesso e sul mondo». L’osservazione
rientra pienamente nell’antirealismo della metodologia colorniana. D’altra
parte, risulta di particolare interesse il tentativo di delineare le
caratteristiche che dovrebbero assumere le nuove categorie rispetto a quelle
che volta per volta si vanno ad abbandonare. Eugenio Colorni sformare in
termini della coscienza ciò che è inconscio. Mediante tali trasformazioni si
aiutano anche gli altri uomini a trasportarsi sul nuovo piano; si forniscono
loro, per così dire, gli occhiali che permettono di vedere con la nuova
illuminazione, finché non si sarà tanto avvezzi da poter fare a meno di occhiali,
ed usare un linguaggio diretto. Ma il linguaggio appunto serba sempre le tracce
di ciò, e le etimologie documentano spesso tali mutamenti di registro. Tale è,
presso a poco, lo stato delle cose attualmente. Si veda, fra i riferimenti
colorniani alla psicoanalisi e a mero titolo di esempio, quanto è dall’autore
affermato nel dialogo intitolato Della lettura dei filosofi. La psicanalisi è
una scienza ad uno stadio che corrisponde circa a quello dell’astronomia prima
di Copernico, e dell’alchimia prima della chimica. Ha individuato in modo vago,
mitico, pieno di pregiudizi e di troppo rapide generalizzazioni, delle relazioni
e dei rapporti finora inosservati. Ha abbozzato una parvenza di metodo di ricerca:
metodo talmente incerto e malsicuro che il più delle volte conduce a risultati
opposti a quelli che si volevano ottenere. Ma insomma, si muove in un campo
completamente sconosciuto, e il materiale che sta portando alla luce è di un
tale interesse, che il rifiutarlo solo perché non è stato ancora capace di
organizzarsi secondo gli aurei schemi del metodo scientifico mi sembra il colmo
del filisteismo professorale». L’accenno alla possibilità di una condurre una
vera e propria analisi categoriale attraverso lo studio del linguaggio è forse
uno degli aspetti più interessanti ed originali di queste pagine Cinque scritti
metodologici Commodo a Ritroso Vedo che non sei sazio di facili vittorie. Se il
tuo scopo era di dimostrare che tu sai l’economia e io no, l’hai raggiunto
pienamente, a tua perenne gloria e soddisfazione. Ma se io volessi ritorcere le
tue intimazioni sulla mia abilità nelle scienze di cui mi occupo, ti direi che,
con tutta la tua bravura, non sei stato neppure capace di chiarire il mio dubbio.
Non te lo dico, perché sono sicuro che ci saresti riuscito facilmente, solo che
ti fossi occupato di capire attraverso gli sbagli e le imprecisioni, quello che
ho cercato di dire, anziché limitarti a sfogare a tua rabbia. Se un dilettante
o un principiante di teoria della scienza mi viene a parlare di corpo rigido in
un senso errato e diverso da quello usato dai fisici, io cerco di capire quale
concetto egli cerchi di adombrare dietro al termine improprio; e mi guardo dal
cedere alla meschina soddisfazione di prenderlo in castagna ad ogni parola. Il
fare così, con tua buona pace, si chiama in italiano pignoleria. Io non voglio
prendere sul serio questo tuo modo di discutere che è probabilmente solo una
reazione alla mia aggressività, e il riflesso di arrabbiature prese non in
questa ma in altre discussioni. E non ho ancora perso la speranza di trovare in
te un esperto ed aperto iniziatore ai problemi dell’economia, anziché un geloso
e gretto sacerdote del tempio della scienza. Questo metodo, hai ragione, è
supremamente irritante e presuntuoso; ma a me è molto utile, perché mi
permette, fra l’altro, di appropriarmi i concetti fondamentali con maggiore
consapevolezza, senza subirli, e mantenendo rispetto alle scienze quel certo
distacco che è pur necessario al critico e al metodologo. Una nozione si forma
molto più salda nella mia mente, quando ha resistito vittoriosamente ai miei
ripetuti attacchi, che quando l’ho dovuta imparare dalle pagine di un manuale.
1 FS, sez. 1, Carte personali, serie 2, Documenti diversi, b. 3, Inediti di C. Per
la storia di questo scritto in relazione agli altri dialoghi economici
colorniani, si rinvia alla Nota del curatore. Così si rivolge Commodo a Ritroso
in C., Dell’antropomorfismo nelle scienze. Mi pare che tu sia un po’ troppo
attaccato, o Ritroso, alle prerogative professionali. Sei proprio sicuro che
l’aver frequentato una scuola ufficiale e aver letto molti trattati, e avere
una lunga consuetudine coi ferri del mestiere, sia una condizione assolutamente
necessaria per capire qualche cosa dei principî fondamentali di una scienza? Non
vi è mai capitato di dover dire a una persona una di quelle cose scottanti,
dopo le quali non si ha più il coraggio di guardarsi negli occhi? Ebbene, se
voi scegliete il partito di prenderlo in disparte con tono mansueto e fraterno,
mostrandogli comprensione ed affetto, e lo consolerete, e cercherete di
addolcirgli in tutti i modi la pillola; se farete questo, siete dei volgari
istrioni, innamorati di voi stessi, infatuati della vostra funzione, incapaci
di comprendere e di amare l’amico. Voi vorreste assestargli il colpo che darà
inizio per lui a una dolorosa lotta contro se medesimo, e in più avere la sua
gratitudine, la sua ammirazione. Vorreste, nel momento in cui egli si sente
basso e spregevole, apparirgli voi come l’arcangelo liberatore, il puro, il
disinteressato, l’immacolato. Se vi prende a calci, è il meno che possa fare.
Ditegli invece le medesime cose in un accesso di rabbia, in una lite violenta,
in cui voi avrete almeno altrettanto torto quanto lui. Buttategli in faccia
queste verità come veleno che schizzi dalla vostra lingua; dategli un appiglio
per difendersi, un’occasione di odiarvi, di considerare tutto ciò che gli dite
come falso e malvagio. Il vostro C. Non so se questo possa servire agli
occhi tuoi da giustificazione. Non credere che questo metodo sia in me qualche
cosa di cosciente e di voluto. Me ne accorgo oggi per la prima volta, cercando
di analizzare perché le tue accuse mi colpiscono e insieme non mi colpiscono.
Delle tue osservazioni incasso senz’altro la lezione sulla matematica; io non
avevo avuto altra intenzione che di riinventare per conto mio quell’ombrello; e
naturalmente l’ho inventato più brutto, più goffo e confuso di quello che c’è
già. Il solo punto che non mi è ancora chiaro è quello indicato nell’accluso
foglietto. Mi basta che tu risponda a monosillabi e credo che non ci perderai
più di un quarto d’ora. Da principio mi sono preso una solenne arrabbiatura, e
ti avevo già risposto una lettera piena d’insolenze. Poi, nel rileggere tutto
insieme a mente più calma, ho visto che in fin dei conti hai tutte le ragioni.
Ma, poiché le tue accuse mi toccano solo in un certo speciale modo, vorrei
spiegarti quanto segue a puro titolo di chiarimento personale: Da uno che si
avvicina ad una scienza che non conosce è giusto di pretendere che lo faccia
“con le ginocchia della mente inchine” pronto ad apprendere anziché a
criticare. Gli s’impone, e ben a ragione, un lungo e silenzioso noviziato, solo
finito il quale gli si potrà accordare voce in capitolo. Tutto questo è giusto
(e lo dico senza la minima ironia). Ma il risultato è che un uomo, di solito,
di questi noviziati ne fa uno solo, e vi resta legato per tutta la vita. Si
specializza in una materia, e da essa non esce, salvo che per excursus curiosi
e dilettanteschi. Ora a me questo non è concesso, giacché i miei interessi più
specifici si rivolgono alla metodologia delle scienze. E dato che mi farebbe
schifo risolvere il mio problema dall’alto, escogitando un paio di criteri
filosofici e applicandoli poi come chiavi capaci di aprire tutte le porte6;
sono costretto ad avvicinarmi a insegnamento allora penetrerà nel suo cuore in
modo umano, lieve, benefico. Egli sarà libero di accoglierlo come cosa sua, e
avrà modo di stimare se stesso per non avervi serbato rancore. Nella sua
accettazione ci sarà il senso di fare una conquista, di costruire qualche cosa.
Non vi temerà. Che sia questo il senso del mito di Nereo, l’indovino col quale
bisognava azzuffarsi perché si decidesse a profetare?». Su questa immagine del
mito di Nereo, rinvio ad A. Cavaglion, «Il mio poeta». Colorni, Saba e la
psicoanalisi, in G. Cerchiai e G. Rota, C. e la cultura italiana fra le due
guerre, Cfr. quanto spiegato nella Nota del curatore. Citazione a senso da
Vergine bella, che di sol vestita, dal Canzoniere di Petrarca. E. C.,
Giustificazione, Colorni disprezza coloro che chiamano filosofia l’aver trovato
una formula per interpretare il mondo. La metafora della chiave è spesso
utilizzata da Colorni per indicare precisamente l’errore di scambiare la
ricerca filosofico-scientifica con la scoperta di un criterio esplicativo unico
ed onnicomprensivo. Su tale metafora cfr. anche Programma. ciascuna scienza,
non per esserne genericamente informato, ma con l’impegno di osservarne con
occhio critico gli interni meccanismi e cavarne conclusioni non genericamente
filosofiche, ma che possono aiutare il procedere della scienza stessa. Se
voglio far questo è chiaro che non posso pretendere di sfuggire al noviziato
più severo, in ciascuna delle scienze cui mi avvicino. E non mi sogno di sfuggirvi.
Posso però cercare di rendermelo più piacevole. Il metodo che, inconsciamente,
ho trovato, è questo: Anziché accostarmi a grossi trattati con fare accogliente
e passivo, pronto ad imparare e ad adagiarmi nell’ordine della loro
esposizione, io parto con la lancia in resta, pieno di idee sballate e confuse,
sfondando porte aperte ad ogni passo, ed inventando ombrelli, desideroso di
scontri e di battaglie. Da ogni scontro esco ammaccato e contuso (come da
questo con te) ma con un’idea più chiara. Ogni knoch out subito mi fa fare un
passo avanti nella comprensione della scienza. Così non evito naturalmente, lo
studio; e della lettura dei trattati non posso certo fare a meno: ma mi riesce
più piacevole leggerli come appassionati combattenti, piuttosto che come
amorosi pedagoghi. A patto, s’intende, di non impuntarsi mai, e di essere
pronto a riconoscere la sconfitta. Laboratorio dell’ISPF. Geri Cerchiai
ISPF-CNR, Milano. Laboratorio dell’ISPF. Saggi di Colorni conservati presso la
“Sapienza” Università di Roma, Biblioteca del dipartimento di Fisica, Fondo
Somenzi. In essi Colorni espone alcuni dei punti chiave della propria
metodologia, delineando una proposta epistemologica destinata ad essere
riscoperta e apprezzata dopo la caduta del regime fascista, nel secondo
dopoguerra. Carlo Rosenberg. ‘G.
Rosenberg’. ‘Agostini’. ‘Franco Tanzi’. Oggettivismo e armonia. - L a filosofia
leibniziana ha ai suoi inizi un carattere nettamente oggettivistico.
Intendiamo 'lire con questo che non si trova al cent ro di essa alcun
pro- blema che riguardi la maggiore o minor validità della nostra
conoscenza delmondo esterno, nè in genere che tratti dei rap- porti fra
conoscente e conosciuto. 11 relativismo che deriva al sofista
dall’osservazione che « l’uomo è misura di tutte le cose » è estraneo a
Leibniz: egli studia il reale in sè stesso, nella sua essenza divina od
umana, secondo le sue leggi razionali o em- pn iene. Egli parte dal dato
di fatto del mondo in tutti i suoi aspetti, che vuole scrutare,
comprendere, ridurre a unità, a formule semplici e facilmente
apprendibili, trasportando nel campo filosofico e metafisico
l’atteggiamento onde i suoi grandi predecessori o contemporanei,
Copernico, Galileo, Newton, ave- \uno improntato la loro indagine del
mondo fìsico: un ten- tativo di visione complessiva, armonica, coerente
di tutti i latti presi a studiare; una ricerca di ipotesi che diano
una spiegazione del tutto, quanto più omogenea e lineare possibile.
A un tale atteggiamento egli si avvicina, piuttosto che a quello di
Cartesio, il quale vuole dedurre il mondo con le sue leggi da un solo
principio posto inizialmente come unico valido. . me ! ltre con la
filosofia cartesiana molti saranno i rapporti di Leibniz nella
formulazione e nello sviluppo dei vari pro- ficui 1 , egli se ne
differenzia però fondamentalmente per la sua concezione essenziale del
mondo come un complesso a sè stante, di cui si debba ricercare un
principio unificatore, e non come qualche cosa di inizialmente problematico,
la cui esistenza e le cui leggi debbano venir dimostrate e dedotte.
Se in que- st'ultimo atteggiamento si vuol far consistere la linea
diret- trice del moderno gnoseologismo e in genere della filosofia
mo- derna, bisognerà dire che da tale direzione Leibniz si discosta,
tenendosi piuttosto per questo riguardo sulla linea del pensiero greco,
in un atteggiamento che potremmo avvicinare a quello di Aristotele.
La filosofia (sapientia) consiste essenzialmente nella co-
noscenza perfettissima della natura. E da che cosa, se non dalla
filosofia, sono dimostrate con tanta evidenza non solo l'essenza e le
funzioni della natura, ma la cura spe- ciale che essa ha per ogni singola
cosa, e il fatto che essa non si è limitata a creare ima volta le cose
dal nulla, ma continuamente le crea e risuscita ? Devo dire che,
quando ebbi compreso tutta la forza di questi ragionamenti, esul-
tai e mi rallegrai per la filosofìa, la quale sembra finalmente volersi
l’appacificare con la religione; con la quale, non per sua colpa, ma per
le opinioni e i giudizi temerari de- gli uomini, o anche a causa di
espressioni e termini mal scelti, sembrava male conciliarsi. Cessino
dunque gli uomini pii e accesi dallo zelo della gloria divina, di aver
timore della ragione; basta che si studino di raggiungere la ra-
gione retta.... E i filosofi, dal canto loro, tralascino di riferire
tutto all' immaginazione e a figure, e di accusare come vanità o
impostura tutto ciò che si oppone a quelle nozioni crasse e materiali,
nelle quali taluni credono di poter circoscrivere tutta la natura.
(Dialogo Pacidius Philalelhi). Questo studio oggettivo della
natura nelle sue leggi, e questo sforzo di una visione unitaria del
tutto, conduce Leibniz a complessi e armonici panorami, in cui fede e
ragione, mondo divino e mondo umano, scienze naturali e scienze
metafisiche si organizzano in un ordine omogeneo. L'arniomo è ciò
cui egli tende con tutte le sue forze di scienziato e di pensatore.
Fin dai suoi anni giovanili, il miraggio di un'armonia univer- sale è al
centro dei suoi pensieri. L fisici dei nostri tempi, ricercando le cause
materiali delle cose, trascurano quelle razionali. E invece la
sapienza dell Autore supremo riluce principalmente nell’aver così
costruito I orologio del mondo, che tutto ne derivasse come per
necessità, per la suprema armonia dell’ universo. Vi è dunque bisogno li
filosofi naturali che non introducano soltanto la geometria nel campo
delle scienze fisiche (dato che la geometria manca di cause finali) ma
rendano anche manifesta nelle scienze naturali un’organizzazione,
per così dire, civile. 11 mondo è infatti come una grande re-
pubblica in cui gli spiriti corrispondono agli uomini liberi (cittadini o
nemici) le altre creature agli schiavi. (Lettera al
Thomasius). In questa su prema armonia tutte le scienze, tutti i
modi di considerazione del mondo si conciliano ed
unificano. Risolvere inizialmente il labirinto del continuo e del
movimento, che avvolge nelle sue complicazioni tutti gli ingegni, è
impresa di grande importanza per stabilire i fondamenti delle scienze e
rintuzzare la vanagloria degli scettici ; per dare una solida base alla
geometria degli indivisibili e alla aritmetica degli infiniti, generatrici di
tanti e così importanti teoremi; per elaborare un" ipotesi
fisica di coerenza universale; infine, e questo è l'essenziale, per
arrivare a dimostrazioni assolutamente geometriche, e finora mai
raggiunte, sull intima essenza del pensiero e sull eternità dello spirito
(1) e sulla causa prima. Di qui sgorgano le fonti della bontà e
dell’equità, del diritto e delle leggi, così chiare e limpide, così
piccole d’estensione e insieme profonde di contenuto, da poter valere
come grandi volumi, e da poter bastare alla soluzione di qual-
siasi problema, con una compendiosita stupefacente per []. CON LA
PAROLA ‘SPIRITO’ TRADURREMO IL TERMINO LATINO “MENS”] chi ne faccia uso, e di
cui il volgo, io erodo, non ha neppure 1’ idea (1).
(Hgpothesis phyaica nova, T /noria motus abstracti, 1671, pref., G. IV
226). A quest’ idea della coincidenza di ogni forma di realtà e
di ogni metodo d’ indagine nella suprema armonia e coerenza della
natura, si riallacciano i progetti, perseguiti da Leibniz lungo tutta la
sua carriera, di un’organizzazione sistematica delle scienze, di un’
Enciclopedia in cui di tutto il sapere si desse una visione complessiva,
concordante e concaten antesi in tutte lo sue parti; progetti, questi,
che richiamano alla Pansofia eomoniana (2) e per realizzare i quali
Leibniz si fece promotore di società scientifiche e fondatore di
accademie. Quest'armonia, però, come si è visto, non deriva in
alcun modo da un concepire tutte le scienze come prodotto dello
spirito umano, quindi soggette alle leggi di esso; essa è l’espres- sione
di una realtà divina oggettiva, a sè stante, con le sue leggi concordanti
e armoniche. La scienza scopre questa unità noi mondo, attraverso lo
leggi dello spirito, che corrispondono, in virtù dell armonia stessa,
alle leggi del mondo. Verità di ragione e di fatto. - Questa realtà
oggettiva può presentarsi sotto due aspetti : come verità di ragione
« verità di fallo ; anno questi i due modi di essere del reale,
retto ciascuno da leggi proprie, ciascuno con proprie
inconfondibili caratteristiche, cui corrispondono poi anche i due diversi
modi di apprensi one del reale: razionale e sensibile. Ecco due
defi- nizioni di questi due tipi di verità, prese da due opere
distan- tissime per data e per argomento: Le verità di
ragione sono necessarie, quelle di fatto sono contingenti. Le verità
primitive di ragione sono (1) Quale sia il significato (lei
termini .j ni adoperati (continuità, indi- visibile, infinito, pensiero,
ecc.), si vedrà in seguito. (2) Giovanni Amos Comenio (1592-1670),
noto principalmente nel campo della pedagogia per la Bua Dì*ìar.tica
Magne r, concepì il sapere come un'or- ganizzazione di ogni elemento
della conoscenza secondo leggi universali (Pansofia), trasformando il
concetto di enciclopedia da quello di una semplice raccolta di dati, a
quello di una sistemazione unitaria dei dati stessi. Leibniz conobbe ed
apprezzò grandemente le sue opero. quelle che io chiamo con nome generale
identiche, poiché sembra che esse non facciano che ripetere la
medesima cosa, senza insegnarci nulla. Esse sono affermative o ne-
gative. Le affermative sono sul tipo delle seguenti: Ogni casa è ciò che
è. e in qualsivoglia esempio A è A, lì è B; io sarò quel che sarò; ho
scritto quel che ho scritto. Le proposizioni copulative, le disgiuntive, e
altre, sono pure suscettibili di tale identità; e io considero
afferma- tiva anche la seguente: Non-A è nou-A; e l'ipotetica: se A
è non-B, ne segue che A è non-B. Similmente se non-A è BC, ne segue che
non-A è BC.... Vengo ora a parlare delle identiche negative che
sono rette o dal 'principio di con trad izione (1) o da quello dei
disparati. Il principio di contradizione è in generale il se- guente: una
proposizio-ne è vera o falsa. Il che contiene due enunciazioni vere: l
una che il vero e il falso non sono compatibili nella medesima
proposizione, ovvero che una proposizione non può esser vera e falsa contemporaneamente
; l'altra che l’opposto o la negazione del vero e del falso non
sono compatibili, ovvero che non vi è via di mezzo fra il vero e il
falso; o, in altri termini, che non è possi- bile che una proposizione
non sia nè vera nè falsa (2). Óra. tutto ciò è vero anche in tutte le
proposizioni partico- lari immaginabili, come: ciò che è A non potrebbe
essere non-A,... Quanto ai disparati , sono quelle
proposizioni che di- cono che I oggetto di un’ idea non è l’oggetto di
un’ altra idea; per esempio, che il calore non è la medesima cosa
che il colare, oppure che uomo e animale non sono la me- desima cosa, per
quanto ogni uomo sia mi animale. Tutto questo si può stabilire
indipendentemente da qualsiasi (1) Leibniz, come molti altri,
chiama « principio rii contradizionc >; quello che dovrebbe essere
chiamato più esattamente « principio di non contra- dizionc ».
(2) È questo il principio che si suole chiamare del «terzo escluso»,
prova o dalla riduzione all' assurdo o al principio di con-
tradizione, quando tali idee siano abbastanza evidenti da non aver
bisogno di analisi: ma in caso contrario c’è pe- ricolo d’ ingannarsi:
infatti, dicendo che triangolo e tri- latero non sono la medesima rosa,
si cadrebbe in errore: perchè, a ben considerare, si vede che i tre lati
e i tre angoli vanno sempre insieme. Dicendo che il rettangolo
quadrilatero e il rettangolo non son la medesima cosa, si sbaglierebbe
ancora, perchè solo il poligono a quattro lati può avere tutti gli angoli
retti. Tuttavia si può sempre dire in astratto che il triangolo non è il
trilatero, o che le ragioni formali ( 1 ) del triangolo e del trilatero
non sono le medesime, per dirla coi filosofi. Sono espressioni
diverse della medesima cosa. Taluno, dopo aver ascoltato con
pazienza ciò che ab- biamo detto finora, la perderà infine, e dirà che
noi ci divertiamo a fare frivole enunciazioni, e che tutte le
verità identiche non servono a nulla. Ma un tale giudizio dipeli -
derrebbe dal non aver abbastanza meditato su queste ma- terie. Le
dimostrazioni di logica, per esempio, procedono dai principi dell -
identità : e i geometri hanno bisogno del principio di contradizione
nello loro dimostrazioni per as- surdo. Contentiamoci qui di mostrare
l’uso delle propo- sizioni identiche nelle dimostrazioni degli sviluppi
di ragionamento. Segue lo sviluppo di queste tesi e altre
considerazioni sul- I applicazione del principio di contradizione ai
procedimenti logici. Ciò mostra che anche le pili pine e
apparentemente inutili fra le proposizioni identiche, sono di grande
utilità (1) TI tonnine è scolastico-aristotelico, come del resto
tutti i concetti logici di cui si parla in questo brano. nei
procedimenti astratti e generali: e ci può insegnare che non si deve
disprezzare nessuna verità.... Quanto alle verità primitive di
fatto, sono le esperienze immediate interne di una immediatezza di
sentimento. (Nuovi saggi, 1701 segg., IV, 2, §
1). Bisogna avvertire che tutta l'arte combinatoria (1) si rivolge
a teoremi, o proposizioni di verità eterna, che hanno validità non per
arbitrio di Dio, ma per loro propria natura. Quanto alle proposizioni
singolari e per cosi dire storiche, come p. es. « Augusto fu
imperatoredei Romani ». o alle osservazioni cioè alle proposizioni clic
sono sì universali, ma la cui verità non si fonda sul- l’essenza ma sull’
esistenza, e che sono vere quasi per caso, cioè per arbitrio di Dio. come
p. es. « tutti gli uomini adulti in Europa hanno cognizione di Dio»; di
tali pro- posizioni non si dà dimostrazione, ma induzione, salvo il
caso in cui sia possibile dedurre un’osservazione da un'altra
osservazione attraverso un teorema. A tali osser- vazioni si riferiscono
tutte le proposizioni particolari che non siano inverse o subalterne di
una universale (2). È chiaro da ciò in qual senso si soglia dire che
dell’ indivi- duale non si dà dimostrazione, e per qual ragione il
pro- fondissimo Aristotele abbia collocato nella Topica i luoghi
degli altri argomenti in cui le proposizioni sono contingenti e le
ragioni probabili, mentre il luogo delle dimostrazioni è uno solo: la
definizione (3). Ma quando di una cosa si deve dire ciò che non si desume
dalle sue stesse viscere, (1) I/artc combinatoria, cui questo
passo si riferisce, verrà presa in considerazione in seguito. Inverse
o subalterno di una universale sarebbero per esempio le prò posizioni
particolari dei sillogismi, le quali hanno sempre carattere ana-
litico. (3) Aristotele tratta nei libri Topici dei «luoghi »
(TÓ7tot)o aspetti sotto i quali ciascuna cosa può venir considerata. Ivi
tiene anche conto dei cri- teri di probabilità, di induzione; mentre la
dimostrazione e il sillogismo venzono trattati nei due Analitici.
p. es. che Cristo è nato a
Betlemme, nessuuo potrà arri- vare a tali proposizioni attraverso le
definizioni, ma la materia sarà fornita dalla storia, e i testi
sovverranno alla memoria. (Ara Combinatoria, 1000, G. IV,
69-70). Lo verità di ragione si fondano dunque su puri principi
lo- gici ; quelle di fatto invece sull’esperienza. Le une
riguardano 1 'essenza, le altre V esistenza-, quelle il necessario,
queste il con- tingente. Le verità di ragione sono
analitiche. Esse non tanno ohe svi- luppare ciò che è già contenuto nelle
viscere di ciascun con- cetto, non aggiungono cioè nulla alla nostra
conoscenza delle cose; costituiscono la base del ragionamento deduttivo.
Le scienze che da esse derivano sono le logiche e matematiche; i
principi su cui si fondano sono quelli di non còntradizione, del terzo
escluso, che poi si riducono tutti al principio di identità. Le
verità di fatto sono empiriche. Nelle proposizioni che da esse derivano
il predicato non è, come in quelle di ragione, già contenuto nel
soggetto: vi si aggiunge come qualche cosa di nuovo, che lo aumenta ed
arricchisce, ma che non gli appar- tiene necessariamente per la sua
stessa essenza; la cui presenza deve invece essere concretamente
constatata, sperimentata vol- ta per volta. Ad esse si applica 1’
induzione ; di esse si occu- pano le scienze naturali, quello storiche,
tutte le indagini che partono dal dato concreto e contingente. Si
reggono, queste ve- rità, sul principio di causalità odi ragion
sufficiente. (Ofr. p. 17 ss.). LE VERITÀ di ragione come possibili.
Le v erità di ra- gione hanno dunque su quelle di fatto il vantaggio
della as- soluta certezza e necessità, o dell’ impossibilità del
contrario; esse costituiscono una incrollabile base su cui tutta la
realtà poggia, un punto di riferimento assoluto e infallibile. D’altra
parte, però, hanno una staticità che non permette loro alcuno sviluppo nè
variazione: rimangono immobili nella loro fissità. Le verità di fatto,
invece, sono bensì casuali, contingenti; non dipendono da nessuna legge a
priori ; ma appunto questo carattere di non poter venir dedotte da
principi già conosciuti, quindi di non essere mai dimostrabili, ma
solamente perce- pibili attraverso i sensi, fa di esse lo portatrici di
ciò che è nuovo, imprevisto, mutevole; le pone come l’espressione
della realtà del mondo nel suo concreto divenire. Si potrebbe dire
che le verità di ragione costituiscono l’ordine necessario di relazioni,
di rapporti entro cui tutte le cose avvengono, quasi la cornice, la forma
della realtà: e le verità di fatto il conte- nuto, la realtà stessa in
tutti i suoi particolari. E infatti, le verità di ragione vengono da
Leibniz concepite piuttosto come relazioni che come cose-, il che egli
esprime col dire che le ve- rità di ragione, necessarie, ci dànno la sola
'possibilità delle cose, che non implica ancora affatto la loro realtà
effettiva. Infatti, se ogni possibile, e tutto ciò che ci si può
im- maginare (anche se assolutamente biasimevole) dovesse av-
venire un giorno, se ogni favola o finzione fosse stata o dovesse
divenire storia effettiva, in tal caso non vi sarebbe nuli’ altro che la
necessità e non vi sarebbe nè scelta nè provvidenza.
(Polemica pubblicata nel Journal de# Savants, 1697, G. IV, 341).
Questo mondo delle possibilità, datoci dalle verità di ragione, può
assumere infiniti aspetti, conformarsi in infinite guise, che
rappresentano tutte le forme in cui potrebbe manifestarsi la realtà; la
quale poi concretamente si manifesta in una sola di esse. Ciò che noi
vediamo e sperimentiamo è la realtà d[ fatto, che si svolge e manifesta
entro l’ambito segnatole dai principi della ragione (infatti qualsiasi
fatto concreto non potrebbe de- rogare al principio di non
contradizione). Tali principi però potrebbero inquadrare infinite altre
forme di realtà, diverse da quella di questo mondo, concretamente
esistente. È questo il principio dell’ infinità < lei mondi possibili,
cioè dell’ infinità delle possibilità che sono racchiuse nelle verità di
ragione, schemi logici necessari entro cui si svolge ogni e qualsiasi
realtà. Quando dico che vi è un’ infinità di mondi possibili,
in- tendo che non implichino contradizione, così come si pos- sono
fare romanzi che non si effettueranno mai e che sono tuttavia possibili.
Per essere possibile basta che una cosa sia intelligibile. (Lettera
al Bourguet). È chiaro quale sia un’ idea vera e quale falsa. Vera
è un’ idea, quando la nozione ne è possibile, falsa quando implica
contradizione. La ]x>ssibilità di una cosa. poi. la co- nosciamo a
priori o a posteriori. A priori, quando risol- viamo una nozione nei suoi
elementi, cioè in altre nozioni di riconosciuta possibilità e sappiamo
che in esse nulla vi è di contradi ttorio...; a posteriori quando
sperimentiamo at- tualmente resistenza della cosa: infatti ciò che esiste
o è esistito attualmente, è senz'altro possibile (I). E ogni qual-
volta si ha una conoscenza adeguata, si ha la conoscenza della
possibilità a priori; condotta poi l'analisi a termine, se non si
manifesta alcuna contradizione, la nozione è certamente possibile.
(i Meditai iones de Cogitinone, Ventate et 'de in, 1684, G. IV,
425). Alle verità di ragione c di fatto corrispondono anche i
due modi di conoscenza razionale e sensibile. Ma quelle verità ap-
partengono anzitutto - all'ordine oggettivo del reale. In questo senso si
deve intendere l’opposizione di Leibniz alle idee chiare e distinte poste
da Cartesio come criterio delle verità di ragione. Tale criterio non
consiste per lui in una qualsiasi evidenza conoscitiva, ma nella
possibilità e non contradizione. Egli [Cartesio] aveva posto come
criterio della verità la nostra percezione chiara e distinta. Cioè, la
verità del fatto che il circolo sia la figura di massima area con
dato perimetro non sarebbe secondo lui altrimenti ricono- scibile se non
attraverso la chiara e distinta percezione che noi abbiamo ili tale sua
proprietà. E se Dio avesse con- formato la nostra natura in modo che noi
avessimo chiara e distinta percezione del contrario, il contrario
sarebbe vero. Questa è la sua opinione, che io non approvo punto. E
non è assolutamente vero quel suo principio metafìsico universale, che di
tutte le cose che pensiamo o di cui ragioniamo sia necessariamente in noi
l' idea, p. es. del po- li) Oiòsignilìca che resistenti) deve
rientrare nelle leggi della possibilità, ma cho queste leggi possono
anche andare molto al ili fuori dal campo dell’attualmente
esistente. ligono di mille lati o dell'ente sommamente perfetto:
prin- cipio col quale, come armato dello scudo di Achille, egli
disprezzo non senza arroganza tutti coloro che dubitarono delle sue
dimostrazioni dell'esistenza di Dio. Con tale argo- mento, egli avrebbe
certo potuto facilmente far sì che in noi fosse anche 1' idea di cose
impossibili, p. es. del movimento sommamente veloce; fra le quali cose
impossibili, coloro che vogliono opporsi alle sue dimostrazioni porranno
anche l'ente sommamente perfetto, lo so, per parte mia. clic altro
è l'ente sommamente perfetto e altro il movimento sommamente veloce:
ritengo però che i ragionamenti di Cartesio siano imperfetti, e che chi
li voglia condurre a compimento, vi debba aggiungere molto di suo.
(Frammento). Dio e i,e verità di ragione e di fatto. - Con
queste af- fermazioni, Leibniz sottomette de idee chiare, e distinte al
cri- terio oggettivo della pos sila 1 ita logica, o «non cont ra dizio ne
». E a questo criterio sottomette anche il concetto dell’ente
sommamente perfetto, sul quale si fonda la cartesiana prova ontologica
dell esistenza di Dio (2). L' idea dell’ente somma- mente perfetto, egli
dice, potrebbe essere contradittoria, come quella della velocità massima
o del numero più grande di tutti (iflee contradittorie, queste, perchè
sarà sempre possibile con- cepire una velocità o un numero maggiori di
una qualsiasi altra velocità o numero presi a piacere: quindi non si
potrà mai giungere al massimo) v J)eirente perfettissimo, dunque,
non basta aver l’idea: bisogna anche dimostrarne la possibilità,
di- mostrare cioè che esso non appartiene solo al mondo delle
nostre rappresentazioni, ma anche al mondo delle verità eterne di
ragione. (1) Questa data mi 6 stata gentilmente comunicata dal
prof. Ritter, direttore della Commissione leibniziana dell'Aceademia
delle Scienze di Berlino. (2) La prova ontologica, clic
Cartesio ha ripreso da Anseimo d'Aosta (1033-1109), afferma che Tessere
sommamente perfetto deve contenere, fra le sue perfezioni, anche
resistenza: quindi esiste. Tale prova considera quindi l’esistenza come
un attributo dell'essenza dell’essere perfettissimo. L'obiezione di Leibniz contro la prova
ontologica si ferma generalmente a questa dichiarazione di incompletezza;
e non mancano poi in lui le affermazioni che l'ente sommamente
perfetto sia effettivamente possila le e implichi la propria esi- stenza.
Tuttavia in lui già è chiaro il concetto che le verità di ragione e
quelle di fatto appartengono a due sfere diverse e - per cosi dire -
incommensurabili, sì che non sia possibile far rientrare l’una nel campo
dell’altra. Ma in generale non si può dire che Leibniz si
preoccupi troppo di provare resistenza di Dio. Abbiamo già visto
che il suo problema non è tanto di dimostrare e dedurre i concetti
fondamentali del suo sistema, quanto di organizzarli in unità armonica.
Dio è una premessa dalla quale Leibniz parte, non una conclusione cui
egli arrivi. Quale ora il rapporto fra Dio e le verità di ragione c
di fatto ( Anche a questo proposito la posizione di Leibniz si
contrap- pone a quella di Cartesio ; il (piale, dedotta a priori
l'esistenza di Dio, fa poi discendere da Dio, per un atto libero della
sua volontà, tutto il mondo delle verità, sia di ragione, sia di
fatto (1). A questa dipendenza delle verità di ragione dal- l'arbitrio
divino, Leibniz si oppone recisamente. Per lui sono rappresentato, in
queste verità, relazioni assolute regolatrici dell’ univorso, tali ohe in
esso si devono inquadrare perfino i decreti della volontà divina. Si è
già visto che le verità di ragione valgono «non per l'ar bitrio divin o
ma per loro propria natura»; e tale opinione circola in tutti gli scritti
di Leibniz, fin dalla sua prima giovinezza. È necessario che
tutto si rifaccia ad una qualche ra- gione, nè ci si deve fermare finché
non si arrivi alla prima.... (1) C'fr. per esempio, Meditazioni
metafisiche, Risposte alle seste obbie- zioni,!). U: «...lo dico che è
impossi bile che una tale idea [del bene o del vero] abbia preceduto la
determinazione della volontà di Dio.... in modo che que- sta idea del
bene abbia portato Dio a scegliere l'una cosa piuttosto che l’altra. Por
esempio, non per aver visto cho era meglio che il mondo fosse creato nel
tempo piuttosto cho dall’eternità, egli ha voluto crearlo nel tempo; o
non ha voluto cho i tre angoli di un triangolo fossero uguali a due retti
per aver visto cho non poteva essere altrimenti, etc. Ma all'opposto: per
il fatto che egli ha voluto creare il mondo nel temilo, per questo ò
meglio così che se fosse stato creato dall'eternità; e solo perchè egli
ha voluto che i tre an- goli di un triangolo fossero necessariamente
uguali a due retti, ciò è ora vero o non può essere altrimenti; e così di
tutte le altre cose». E iiuale. è
dunque l’ultima ragione della volontà divina? L’ intelletto divino. Quale
la ragione dell' intelletto divino? L’armonia delle cose. Quale
dell'armonia delle cose ? Nulla. Per esempio, della proposizione 2:4=4 :
8 non si può dare alcuna ragione, neppure attraverso la stessa
volontà divina. Quella verità dipende dall'essenza stessa o idea
delle cose. i (Frammento De resurrectione corporum, 1671, Ak. II,
I, 117). L’ intelletto divino è insomm a determinato dalle verità
di ragione, e la volontà divina non può agire se non nell’ambito
segnato da esse. La volontà divina, ora, si esplica nelle verità di
/atto. Esse, ed esse sole, sono create da Dio per un atto libero della
sua volontà. Dio è la ragione prima delle cose : poiché quelle che
sono limitate, come tutto ciò che noi vediamo e sperimen- tiamo.
sono contingenti e non hanno nulla in sé che renda la loro esistenza
necessaria; essendo chiaro che il tempo, lo spazio e la materia, uniti e
uniformi in sé stessi, e in- differenti a tutto, avrebbero potuto
ricevere movimenti e figure totalmente diversi e in tutt' altro ordine.
Bisogna dunque cercare la ragione dell esistenza del mondo, che è
tutto l'insieme delle cose contingenti: e bisogna cercarla nella sostanza
che contiene la ragione della sua esistenza in se stessa (1), e che, per
conseguenza, è necessaria ed eterna. Bisogna pure che tale causa sia
intelligente: poi- ché dato che questo mondo che esiste è contingente, es-
sendo egualmente possibili ed egualmente pretendenti al- l'esistenza per
così dire al pari di esso una infinità di altri mondi, bisogna che la
causa del mondo abbia avuto rapporto e riguardo a tutti questi mondi
possibili, por determinarne uno. E questo riguardo o rapporto di
una (1) Tale sostanza è Dio. Cfr. la prima definizione dell’ FI
tea di Spinoza: Per caiuiam e ui intelligo id, cujus esse alia invaivi t
existenliam; vive id, cujus natura non potest concipi, nini
existensv. sostanza esistente con semplici possibilità, non può essere
altro che 1‘ intelletto che ne ha le idee; e a determinarne una non può
essere altro che l'atto della mhmtà che sceglie. Ed è la potenza di
questa sostanza che ne rende la volontà efficace. La potenza tende
all'essere, la saggezza o l' in- telletto al vero, la volontà al bene. E
questa causa intel- ligente deve essere infinita in tutti i modi, e
assolutamente perfetta quanto a potenza, saggezza e bontà, poiché
essa tende a tutto ciò che è possibile. E siccome tutto è con-
nesso. non vi è ragione di ammetterne più di una. 11 suo intelletto è la
fonte delle essenze, la sua volontà è l'ori- gine delle esistenze. Ecco
in poche parole la prova di un Dio unico con le sue perfezioni e, per suo
mezzo, l'origine delle cose. (Teodicea, 1710, § 7).
Le verità di ragione sono dunque il contenuto fieli intelletto di
Dio , le verità di f atto il prodotto della sua volontà, fra le infinite
possibilità che potrebbero realizzarsi entro gli schemi del principio di
non contradizione, Dio ne sceglie una, e la pone in atto. Anche in
questo, Leibniz si oppoue a Cartesio, il quale ritiene che la materia
assuma tutte le forme possibili. Egli cita, per confutarlo, questo passo
dei Princip { rii Filosofia (parte III, art. 47): a Poiché la materia
assume successiva- mente tutti' le forme di cui è capace, se consideriamo
ordi- natamente queste forme, giungeremo infine a quella che ap-
partiene a questo nostro mondo, in modo che non sia da temere alcun
errore per colpa di una eventuale falsa i potesì " ( 1 ) . Leibniz
risponde: Non credo che si possa enunciare una proposizione
più pericolosa di questa. Poiché, se la materia riceve succes-
sivamente tutte le forme possibili, ne deriva che non si (1)
Cartesio ò costretto alla concezione che tutti i mondi possibili siano
effettivamente esistenti, dal suo impegno di dedurre il mondo dalle sole
idee chiare e distinte o di ragione. Leibniz, col suo principio di una
netta separazione Ira la possibilità c l’esistenza, può esimersi da
questo passaggio per tutte le forme della possibilità, e risolvere il
problema dell origine del mondo sensibile con un diretto ricorso al
principio delle verità di fatto. I. - VERITÀ DI RAGIONE E DI FATTO
17 possa immaginare nulla di tanto assurdo nè di tanto biz-
zarro e contrario a quello che noi chiamiamo giustizia, che non sia
accaduto o che non debba accadere un gior- no.... È questo, a mio avviso,
il 7rpwxov tpeòSoq (primo in- ganno) e il fondamento della filosofia atea,
la quale non tralascia mai, in apparenza, di dire belle cose di Dio.
Ma la vera filosofia deve darci ben altra nozione della perfe-
zione di Dio, che possa servirci tanto nella fisica, quanto nella
morale. (Lotterà al Philippi, 1080, G. IV, 283-4). Il
principio di ragion sufficiente. La realtà contin- gente posta in atto da
Dio è il mondo sensibile che noi speri- mentiamo. Per la giustificazione
di esso, le immutabili leggi della logica non sono sufficienti. TI mondo,
la realtà di fatto è, ma potrebbe anche non esserci, o essere diverso da
quello che è. Esso non deriva da nessuna verità assoluta. 11 principio
lo- gico clic si dovrà applicare per rendersi conto di esso, non è
il principio di non conti-a dizione, ma quello di ragion suffi- ciente,
quel principio cioè per cui da un dato di fottìi si risale alla sua
causa, e da essa di nuovo alla causa, e cosi fino alla causa jprima, cioè
Dio. 11 principio universale nihil esse sine catione (1)
risolve quasi tutte le discussioni metafìsiche.... Is’ulla avviene,
del cui esser stato prodotto piuttosto che non essere stato (cur
factum sit polius quam non sii) Dio, se voglia, non possa render
ragione. (Frammento sulla Selenita Media, 1677, C. 25).
(L) È il principio di ragion sulKcicnle. Non bisogna far confusione
fra questo, che Leibniz chiama a volte anche semplicemente - principio di
ra- gione », e le verità di ragione. 11 pri n c imo d i rag ione è la
forma generalo che regola lo verità di fatto. Le verità di ragione si
contrappongono invece a queste ultimo, e si fondano sul principio di non
contradizione. La somi- glianza di due termini dal significato così
differente e quasi opposto, deriva ila un diverso uso del termino «
ragione ». Nella locuzione principio di ra- gione » osso equivale a «
motivo, causa ». Ora bisogna elevarsi alla metafisica , servendoci del
gran principio, comunemente poco impiegato, il quale afferma che
nulla si verifica senza una ragione sufficiente, cioè che nulla accade
senza che sia possibile a colui che conosca sufficientemente le cose, di
dare una ragione che basti a determinare perchè è così e non altrimenti.
Posto questo principio, la prima domanda che si avrà il diritto di
porre, sarà : Perchè ri è qualche cosa piuttosto che nulla ? poiché
il nulla è più semplice e più facile che il qualche cosa. Inol-
tre. supposto che cose debbano esistere, bisogna che si possa rendere
ragione del perchè esse debbano esistere così, e non altrimenti.
Ora questa ragione sufficiente dell esistenza dell universo non si
può trovare nell' ordine delle cose contingenti, cioè dei corpi e delle
loro rappresentazioni nelle anime : poiché, essendo la materia
indifferente in sè stessa al movimento e al riposo e a questo movimento o
ad un altro, non si può trovare in essa la ragione del movimento e
ancor meno di questo movimento. E. benché il movimento at- tuale
che è nella materia derivi dal precedente, e questo ancora da un
precedente, non si avanzerà affatto, per quanto lontani si possa andare:
poiché resterà sempre la medesima domanda. Così bisogna che quella
ragione suf- ficiente che non ha più bisogno di un'altra ragione,
sia fuori di questo ordme di cose contingenti, e si trovi in una
sostanza che ne sia la causa o che sia un essere ne- cessario il quale
porti con sè la ragione della sua esistenza : altrimenti non si avrebbe
mai una ragione sufficiente, alla quale arrestare il processo. E questa
ultima ragione delle cose è chiamata Dio. ( Principe# de la
nature et de la grane, 1713-14, G. VI, 002). La causa FINALE E il «
mkiliore ». Dio è dunque la causa o ragion sufficiente rii tutte le
verità di fatto, cioè del mondo sensibile. Ma con quale criterio ha egli
scelto, nella sua creazione, fra le infinite possibilità che gli si offrivano,
proprio questa e non un altra? Che cosa lo ha guidato nella scelta?
Nulla avviene senza un perchè sufficiente, o senza una ragione
determinante. In virtù di questo principio, che ci conduce oltre i limiti
raggiunti dai nostri predecessori, Dio non cambia mai volontà e
operazione senza averne qual- che valida ragione. E quando la cosa di cui
si tratta è di natura uniforme e semplice, siamo in condizione di
giudicare (per quanto povere creature si sia) se vi può essere una
ragione o no. Quando la volontà di Dio è im- piegata da sola, senza che
nella natura delle creature vi sia la ragione di questa volontà, nè il
modo del suo ope- rare, si tratta di un puro miracolo : criterio poco
oppor- tuno in filosofia, come se Dio volesse (per esempio) che i
pianeti si muovessero in linea curva senza essere spinti da altri corpi
Ogni volta che noi conosciamo qual- che cosa delle opere di Dio, vi
troviamo dell' ordine. (Lettera allo Hartaoekcr). II
principio della ragion sufficiente, dunque, come vale per risalire
attraverso le cause dai dati esistenti lino a Dio, cosi lieve essere
applicato a Dio stesso, il quale, creando questo mondo, non ha agito
arbitrariamente, ma è stato guidato da un criterio della sua azione. Non
ha agito, neppur lui, senza una ragione del suo agire; e questa ragione
che. determina la sua volontà, è i l criterio del massimo be ne, della
massima perfezione. A q uest o criterio Dio si è ispirato nel
creare il mondo, e a questo criterio si deve ricorrere dunque come alla
ultima ra- gione di tutta la creazione. Il bene e la perfezione come
motivo dell esistenza delle cose, viene chiamato A n '\{ è±.
Io ritengo che, ben lungi dal dover escludere le cause finali dalla
considerazione fisica, come pretende Descartes nei Principi di Filosofia,
parte 1, art. 28, sia piuttosto per mezzo di esse che tutto si debba
determinare, poiché la causa efficiente delle cose è intelligente, avendo
una volontà e perciò tendendo al bene. (Lettera al Philipp!,
1080, 0. IV, 281). Dio mette in opera, dunque, uno solo degli
infiniti mondi possibili ; ma è retto da un criterio in tale creazione.
Questo criterio fa sì che il mondo da luf scelto sia il migliore fra
i mondi possibili. Questa infinita saggezza, unita ad una
bontà non meno infinita, non ha potuto fare a meno di scegliere il
migliore; poiché, come im male minore è, in certo senso, un bene,
cosi mi minor bene è, in certo senso, un male, se fa ostacolo ad un bene
più grande: e vi sarebbe qualche cosa da correggere nelle azioni di Dio,
se vi fosse modo di far meglio. E come in matematica, quando non vi
è nè massimo nè minimo e nulla, insomma, di distinto, tutto avviene
ugualmente, o, quando ciò è impossibile, non avviene addirittura nulla ;
si può dire lo stesso a proposito della perfetta saggezza, la quale non è
mono regolata che la matematica : che, se non ci fosse stato il migliore
(opti- mum) fra tutti i mondi possibili, Dio non ne avrebbe pro-
dotto nessuno. Chiamo mondo tutta la serie e tutto 1 in- sieme di tutte
le cose esistenti, affinchè non si dica che più mondi hanno potuto
esistere in differenti tempi e in differenti luoghi. Giacché bisognerebbe
considerarli tutti insieme come un solo mondo, o se volete, come un
universo. E quando si riempissero tutti i tempi e tutti i luoghi,
resta pur sempre vero che si sarebbero potuti riempire in una infinità di
maniere, e che vi è ima infinità di mondi possibili, di cui Dio deve aver
scelto il migliore, perchè egli non fa nulla senza agire secondo la
suprema ragione. (Teodicea, 1710, § 8). Dio dunque non
scoglie arbitrariamente. Anche qui egli si ispira ad un principio - il
principio del migliore - che regola la sua azione nel metterò in opera la
realtà del mondo. In che cosa consiste questo principio? Che cos’è il
«migliore», questa causa finale deile verità di fatto? Un criterio di
mas- sima realizzazione, di massima perfezione, di massima
felicità, bontà, etc. : insomma di armonia, che tende a che nei
limiti della possibilità venga realizzato il massimo di esistenza
pos- sibile. Discende dalla perfezione suprema di Dio che,
produ- cendo T universo, egli abbia scelto il miglior piano possi-
bile, nel quale vi è la massima varietà, col massimo ordine; il terreno,
il luogo, il tempo meglio organati; il massimo effetto prodotto coi mezzi
più semplici; il mas- simo di potenza, il massimo di conoscenza, il
massimo di felicità e di bontà nelle creature, ammissibile nell'
universo. Infatti, dato che tutti i possibili pretendono
all'esistenza nell intelletto di Dio in proporzione delle loro
perfezioni, il risultato di tutte queste pretensioni deve essere il
mondo attuale, il più perfetto che sia possibile. Altrimenti non
sarebbe possibile rendere ragione del perchè le cose siano andate così
piuttosto che in altro modo. ( Pricipes de
la Nature et de la (brace, 1713-14, G. VI, 003). È un mio
principio, che tutto ciò che può esistere ed è conciliabile con le altre
cose, esista. Poiché la ratio exi- atendi a preferenza di tutti gli altri
possibili, non deve essere limitata da altra ragione, se non da quella
che non tutte le cose sono conciliabili fra di loro. L' unica
ragione determinante è dunque ut exislant / totiora , quae plurimum
involvant realitatis. (Ii'rammonto del 1070, C. 530).
Vi è una ragione in natura per cui esiste qualche cosa piuttosto
che nulla. Ciò è una conseguenza del grande prin- cipio che nulla avviene
senza una ragione, così come deve esservi anche una ragione per cui
esista una cosa piut- tosto che un' altra. Tale ragione deve essere
in qualche ente reale o causa. Infatti la causa non è altro che una
realis ratio , e le ve- rità di possibilità e di necessità (cioè di cui
viene negata la possibilità del contrario) non produrrebbero nulla
se le possibilità non si fondassero su qualche cosa di attual- mente
esistente. Questo ente poi dovrà essere necessario: altrimenti
si dovrebbe ricercare di nuovo (contro l' ipotesi), di là da esso,
una causa per cui esso esista piuttosto che no. Quel- l'ente è insomma
l'ultima ragione delle cose, e in una parola lo si suole chiamare Dio.
Vi è dunque una ragione per cui 1 esistenza debba pre- valere sulla
non-esistenza. e cioè Ens necessarium est exi- stentificans.
Ma quella causa che fa sì che qualche cosa esista, cioè che la
possibilità esiga l'esistenza, fa anche sì che ogni possi- bile abbia una
tendenza all'esistenza; poiché non si può trovare in generale una ragione
di restrizione all esistenza dei possibili. Così si può dire che ogni
jmsibile è un inizio di esistenza ( I ) in quanto si fonda su di un ente
necessario attualmente esistente, senza il quale non vi sarebbe
alcuna via per la quale potesse possibilmente giungere ad at-
tuarsi. Ma da questo non deriva che tutti i possibili esi- stano: ciò
avverrebbe sì se tutti i possibili fossero com- possibili. Ma
poiché vi sono alcune cose che sono incompatibili con altre, ne segue che
alcuni possibili non giungano al- l'esistenza. E le cose possono essere
incompatibili non solo relativamente al medesimo tempo, ma anche
uni- versalmente parlando, perchè nelle cose presenti sono im-
plicite le future. Intanto però, dal conflitto di tutti i possibili
che pre- tendono all' esistenza, deriva questo almeno, che esista
(1) Traduciamo così il termine existilurire. quella serie di cose per la quale giunge
all'esistenza il massimo numero di cose, cioè la serie massima di tutti
i possibili. E questa serie unica è determinata, così come tra le
linee è determinata la retta, tra gli angoli l'angolo retto, tra le
figure e i solidi quelle di massima capacità, cioè il circolo e la sfera.
E come vediamo che i liquidi si raccolgono spontaneamente in gocce
sferiche, così nel- l' universo esiste la serie di massima
capacità. Esiste dunque la massima perfezione; e non consiste
se non nella quantità di realtà. Inoltre la perfezione non si
deve soltanto ravvisare nella materia, cioè in ciò che riempie il tempo e
lo spazio, la cui quantità sarebbe sempre costante in qualsiasi
modo, ma nella forma o varietà. Ne consegue che la materia
non è ovunque simile a sè stessa, ma viene resa dissimile dalle forme;
altrimenti non otterrebbe tanta varietà quanta . le è possibile....
Ne consegue anche che ha prevalso quella serie dalla quale derivava
il massimo di pensabilità distinta. E la pensabilità distinta dà
ordine alla cosa e bellezza a chi pensa. L 'ordine, non è altro infatti
che relalio plu- rium dislinctiva, e confusione si ha quando sono
presenti bensì più cose, ma non vi è un criterio por distinguere l
una dall'altra. Cade così il concetto eli atomo e in generale di
qual- siasi corpo in cui non vi sia un criterio di distinzione di
una parte dall'altra. E ne deriva universalmente che il mondo è un
y.óapoc. un organismo armonico, cioè fatto in modo da soddisfare
massimamente chi comprenda. Il piacere di chi comprende (voluptas
intelligentis ) non è altro infatti che la percezione della bellezza,
dell' ordine, della perfezione; e ogni dolore contiene qualche cosa
di disordinato, ma solo riguardo a chi lo percepisce, perchè,
assolutamente parlando, tutto è ordinato. Così, quando alcunché ci
dispiace nella serie delle cose, ciò deriva da un difetto di
comprensione. Infatti non è possibile che ciascuno spirito comprenda
tutto distinta- mente; e a chi osservi solamente alcune parti piuttosto
che altre, 1’ armonia non può apparire nel suo complesso. Consegue
da ciò che nell'universo è osservata anche la giustizia, non essendo la
giustizia altro che un ordine o perfezione riguardo agli spiriti.
(Frammento, G. VII, 289-90). Necessità e libertà. - Anche
questo criterio di perfezione, di bontà, di armonia è, aqalogamente alle
verità di ragione, assoluto, oggettivo, a sè stante, indipendente dalla
volontà di Dio, imposto dalla necessità delle cose. Dio sceglie il migliore:
ma non avrebbe potuto scegliere altrimenti. Siamo qui in presenza della
celebre questione della conciliazione fra neces- sità e libertà-, la
quale riguarda solo da lato il nostro argomento, e rientra piuttosto nel
problema della Teodicea. Anche a que- sto proposito Leibniz si oppone a
Cartesio. Contro coloro che sostengono che non vi è bontà nelle
opere di Dio o che le regole della bontà e della bellezza sono
arbitrarie. Io sono molto lontano dall'opinione di coloro che
so- stengona che non vi siano affatto regole di bontà e di
perfezione nella natura delle cose, o nelle idee che Dio ne ha; e che le
opere di Dio non siano buone se non por la ragione formale che Dio le ha
fatte. Poiché, se ciò fosse, Dio, sapendo che egli ne è l'autore, non
avrebbe avuto ragione di guardarle in seguito e trovarle buone, come
testimonia la Sacra Scrittura (1), la quale non pare si sia servita
di questo linguaggio umano, se non per mostrarci che la loro
eccellenza si riconosce a guardarle in se stesse, anche se non si fanno
riflessioni su questa semplice denomina- zione esteriore, che le
riattacca alla loro causa. E ciò è (I) Leibniz allude qui al
racconto del Co p. I della Genesi , in cui a cia- scun atto della
creazione seeue la frase: «E Dio vide che ciò era buono». tanto più vero,
in quanto proprio attraverso la considera- zione delle opere si può
valutare chi le ha operate. Bi- sogna dunque che queste opere portino in
sè il suo carattere. Confesso che l'opinione contraria mi sembra
estremamente pericolosa e molto vicina a quella degli ultimi novatori
(1), i quali ritengono che la bellezza dell' universo e la bontà
che noi attribuiamo alle opere di Dio non siano se non chimere degli
uomini che concepiscono Dio a modo loro. Cosi, dicendo che le cose non
sono buone per nessuna regola di bontà, ma per la sola volontà di Dio, si
distrugge, mi semina, senza pensarci, tutto l'amore di Dio e la sua
gloria. Infatti, perchè lodarlo di ciò che egli ha fatto, se egli sarebbe
ugualmente lodevole facendo tutto il con- trario? Dove sarà dunque la sua
giustizia e la sua sag- gezza, se non rimane che un certo potere
dispotico, se la volontà tiene il posto della ragione e se, secondo la
defi- nizione dei tiranni, ciò che piace al più potente è, ap-
punto per ciò, giusto? Inoltre sembra che ogni volontà supponga qualche
ragione di volere, e che questa ragione sia naturalmente anteriore alla
volontà. È per questo che io trovo anche molto strana l’espressione di
altri filosofi (2), i quali dicono che le verità eterne della metafisica
e della geometria, e conseguentemente anche le regole della bontà,
della giustizia e della perfezione non sono che effetti della volontà di
Dio, mentre mi sembra che esse non siano che conseguenze del suo
intelletto, il quale non dipende affatto dalla sua volontà, così come non
ne dipende la sua essenza. Contro coloro che credono che Dio
avrebbe potuto far meglio. Non posso neppure approvare l’ opinione
di alcuni moderni (’.i) i quali sostengono arditamente che quello che Dio
(1) Allude agli spinozisti (cfr. l’ed. cit. del Ijestibnnk). I/opinione
che Lei lini/, ha della dottrina di Spinoza, è per molti aspetti errata e
turbata da preconcetti. (2) Cartesio (cfr. ibid.).
(3) Gli scolastici del suo tempo (efr. ibid.). fa. non è l’assoluta
perfezione, e che egli avrebbe potuto agire assai meglio. Poiché mi
semina che le conseguenze eli questa concezione siano assolutamente
contrarie alla gloria di Dio. Ufi minus malum habet ratiouem boni,
ita mimi* bomttn habet rationem mali. E si chiama agire im-
perfettamente, agire con minor perfezione di quello che si sarebbe
potuto. E trovare a ridire sull' opera di un ar- chitetto il mostrare che
egli avrebbe potuto farla meglio.... Questi moderni credono anche
di provvedere così alla libertà di Dio; come se non fosse la piìi alta
libertà quolla di agire in perfezione seguendo la ragione sovrana.
Poiché credere che Dio agisca in qualche cosa senza aver alcuna
ragione della sua volontà, oltre che apparire impossibile, è opinione
poco conforme alla sua gloria. Per esempio, suppo- niamo che Dio scelga
fra A e li. e che egli prenda A senza avere alcuna ragione di preferirlo
a B: io dico che questa azione di Dio, per lo meno, non sarebbe affatto
lodevole; poiché ogni lode deve essere fondata su qualche ragione
che non si trovi già ex hypothesi . Ritengo invece che Dio non faccia
nulla per cui non meriti di essere glorificato. ( Discours de
métaphysique, 108G, §§. Il, III). I l criterio della, bontà e del
«migliore», non è dunque con- seguenza della volontà divina: è piuttosto
la volontà divina che si ispira a questo criterio, il «piale ha una
validità ogget- tiva a sé stante, altrettanto come le verità di ragione.
L'azione di Dio è da un lato circoscritta dai limiti della
possibilitòj dati dal principio di non contradizione, nell’ambito del
«piale essa si devo svolgere: dall’altro lato è determinata da epiesto
finalismo, da questo principio del « migliore », della bontà, che
costituisce l’oggetto necessario della sua scelta. D'ambo i lati dunque,
essa si trova determinata: e questa determina- zione costituisce la legge
stessa «Iella sua perfezione. Necessità nelle verità di ragione,
dunque, poiché i principi di esse sono inderogabili, tali che non
potrebbero venir con- cepiti diversi da «piel che sono; necessità anche
nelle verità di fatto, in quanto la loro ragion sufficiente non può non
essere il principio della suprema perfezione e bontà. Ma queste
due forine «li necessità onde consta l' intelletto e la volontà
divina, quindi tutte le cose del mondo, non sono identiche fra di
loro: se lo fossero, cesserebbe, si può dire, ogni distinzione fra verità
di ragione e di fatto, e le une discenderebbero dai medesimi principi che
le altre, si baserebbero sulle medesime leggi. La necessità di fatto ha
invece caratteristiche sue proprie. Essa non implica quella impossibilità
«lei contrario che è es- senziale caratteristica della necessità di
ragione. La necessità morale. - La necessità di ragione è una
legge regolativa dell’ intelletto divino. La necessità di fatto e
la ragion sufficiente che determina la volontà di Dio: e questa
ragione è necessitante sì, ma non in modo che il contrario sarebbe
impossibile. Questo secondo tipo di necessità, Leibniz lo distingue a
volte dalla necessità di ragione col chiamarlo motivo inclinante
(contrapposto a necessitante), necessità inorale. Bisogna
distinguere tra necessità assoluta e necessità ipotetica. Bisogna pure
distinguere fra una necessità che ha luogo perchè l’opposto implica
contradizione, e che vien chiamata logica, metafisica, o matematica, ed
una neces- sità olio è morale , che fa sì che il saggio scelga il
migliore, e che ogni spirito segua l' inclinazione più grande.
La necessità ipotetica è quella che viene imposta ai futuri
contingenti dalla supposizione o ipotesi della pre- visione e
preordinazione da parte di Dio.... ....11 bene, sia vero sia
apparente, in una parola il motivo, inclina senza necessitare, senza
imporre cioè una necessità assoluta. Infatti, quando Dio, per esempio,
sceglie il mi- gliore, ciò che egli non sceglie e che è inferiore quanto
a perfezione, non cessa di essere possibile. Ma se ciò che Dio
sceglie fosse necessario, ogni altra scelta sarebbe im- possibile, contro
T ipotesi; poiché Dio sceglie tra i pos- sibili, cioè fra vari partiti,
dei quali nessuno implica con- tradizione. Ma dire che Dio
non può scegliere se non il migliore, e volerne inferire che ciò che egli
non sceglie è impossibile, è confondere i termini, la potenza e la
volontà, la neces- sità metafisica e la necessità morale, le essenze e le
esi- stenze. Giacché ciò che è necessario, lo è per la sua essenza,
poiché l'opposto implica contradizione; ma il con- tingente che esiste
deve la sua esistenza al principio del migliore, ragione sufficiente
delle cose. Ed è per questo che io dico che i motivi inclinano senza
necessitare; e che vi è ima certezza e ima infallibilità, ma non una necessità
assoluta nelle cose contingenti. Ed ho mostrato a sufficienza nella
mia Teodicea che questa necessità morale è felice, conforme alla
perfezione divina, conforme al gran principio delle esistenze, che
è quello del bisogno di una ragione sufficiente; mentre la
necessità assoluta e metafisica dipende dall' altro grande principio dei
nostri ragionamenti, che è quello delle es- senze, cioè quello dell’
identità o della contradizione; poiché quello che è assolutamente
necessario è l’unico possibile fra i vari partiti, e il suo contrario
implica contradizione. (Polemica con Clarke). Bisogna
distinguere tra il necessario e il contingente, quantunque determinato. E
non solo le verità contingenti non sono punto necessarie, ma anche i loro
legami non sono sempre di necessità assoluta, poiché bisogna riconoscere
che vi è differenza, nel modo di determinare, fra le con- seguenze che
hanno luogo in materia necessaria e quelle che hanno luogo in materia
contingente. Le conseguenze geometriche e metafìsiche necessitano, ma le
conseguenze fìsiche e morali inclinano senza necessitare; avendo il
fi- sico stesso in sé qualche cosa di morale e di volontario
rispetto a Dio, poiché le leggi del movimento non hanno altra necèssità
che quella del migliore. Ora Dio sceglie libe- ramente, benché egli sia
determinato a scegliere il meglio. E, poiché i corpi stessi non scelgono
(avendo Dio scelto per essi), 1’ uso ha voluto che fossero chiamati
agenti necessari ; denominazione cui non mi oppongo, purché non si
confonda il necessario col determinato, e non si vada ad immaginare che
gli esseri liberi agiscano in una ma- niera indeterminata: errore,
questo, che ha prevalso in al- cuni spiriti e che distrugge le più
importanti verità, ed anche l'assioma fondamentale che nulla accade senza
ra- gione; assioma senza il quale nè l' esistenza di Dio, nè altre
grandi verità potrebbero essere ben dimostrate. (Nuovi Saggi).
Su questo argomento della necessità e libertà, come su mol- tissimi
altri con questo comiessi (origine del male e sua giu- stificazione nel
mondo, libero arbitrio, responsabilità etc.) si imperniano molteplici
problemi, riguardanti un altro aspetto del pensiero leibniziano, che non
dobbiamo qui esaminare: ([nello della Teodicea. Verità di ragione e di
fatto sono dunque ciò di cui è costi- tuita là realtà. Le une assolute,
necessarie, imi versali, ma di una universalità astratta, che ha luogo
solo nel mondo ideale delle possibilità, delle essenze. Le altre
concrete, tangibili, esi- stenti, ma insieme contingenti, individuali,
tali che la loro esistenza non può venire ilimostrata a priori, nè
discendere matematicamente da alcuna forma inerente alla
costituzione del reale. La necessità morale, basata sul principio ili
ragione e finalistico, non elimina, come si è visto, la
contingenza: non dà quella assoluta certezza clic appartiene alle verità
di ragione e deriva dall’ impossibilità del contrario. Il
problema di Leibniz è ora la ricerca di una universalità anche nel campo
del contingente; o, in altri termini, la ridu- zione del principio di
ragion sufficiente a una linea altrettanto fissa e immutabile che quella
del principio di non contradi- zione. La sostanza individuale sarà la
soluzione di questo pro- blema: e con essa Leibniz raggiungerà a suo
modo, e sempre nell’ambito della sua concezione oggettivistica della
realtà, una sintesi di universale e individuale. La
carattkkistica. - Miraggio di Leibniz è ili ottenere una certezza
matematica in tutte le cose conosciute, in modo ila eliminare tutto ciò
che si fonila sull'opinione, e di ridurre ogni ragionamento a un calcolo.
È questo il fondamento di quella Scienza generale, Caratteristica, Ars
inveniendi di cui egli va- gheggia 1 idea, a partire dal suo primo
scritto del 1666 sul- V Arte Combinatoria, fino alla fine della sua
vita. Posso dire senza vanità che, tra i miei contemporanei, sono
uno di quelli che pili ha approfondito la scienza ma- tematica; ed ho
scoperto metodi e procedimenti comple- tamente nuovi, che portano questa
scienza di là dai limiti che le erano stati prescritti. 1
saggi che ne ho dati hanno avuto successo in Francia ed in Inghilterra: e
mi sarebbe facile darne ancora molti altri ; ma io non faccio gran caso
delle scoperte particolari, e ciò che desidero maggiormente è di
perfezionare l’arte d’ inventare in generale, e di dare piuttosto metodi
che soluzioni di problemi; poiché un solo metodo comprende un’
infinità di soluzioni.... E poiché ho avuto la fortuna di
perfezionare considere- volmente l'arte d' inventare o analisi dei
matematici, ho cominciato ad avere certe concezioni nuovissime, per
ri- durre tutti i ragionamenti umani ad una specie di calcolo che
servirebbe a scoprire la verità, nei limiti ili ciò che è possibile ex
datis , posto cioè quel che ci è dato o conosciuto. E quando le
conoscenze date non bastano a risolvere la que- stione proposta, questo
metodo servirebbe, come nelle ma- tematiche, ad accostarsi il più
possibile alla soluzione e a determinare esattamente ciò che è pili
probabile. Un tale calcolo generale formerebbe nello stesso
tempo una specie di scrittura universale che avrebbe i medesimi
vantaggi che quella dei cinesi, perchè ciascuno la potrebbe intendere
nella sua lingua. Ma supererebbe infinitamente la cinese in quanto la si
potrebbe imparare in poche set- timane, avendo essa caratteri ben
collegati secondo 1 or- dine e la connessione delle cose; mentre i cinesi
hanno una infinità di caratteri secondo la varietà delle cose, e
occorre la vita di un uomo per imparar tiene la loro scrit- tura
(1). (1) I caratteri cinesi si avvicinerebbero, secondo Leibniz, a
quelli della sua caratteristica, in quanto rappresentano, così come i
geroglifici egiziani, non le lettere di cui ciascuna parola ó forniate,
ma l'oggetto stesso che essa Questa scrittura o lingua (se si
rendessero enunciabili i caratteri) potrebbe essere presto accolta nel
mondo, per- chè la si potrebbe imparare in poche settimane, e
forni- rebbe un mezzo generale di comunicazione: il che sarebbe di
glande importanza per la diffusione della fede e per 1 istruzione dei
popoli lontani. Ma questo sarebbe il minore dei suoi vantaggi;
giacche questa medesima scrittura sarebbe una specie di algebra
geneiale, e darebbe modo di ragionare calcolando, sicché, invece di
discutere, si potrebbe dire: contiamo. E si tro- verebbe che gli errori
di ragionamento non sono che errori di calcolo, riconoscibili mediante
prove, come nell’ arit- metica. Gli uomini avrebbero così un
giudice delle controversie veramente infallibile. Poiché potrebbero
sempre sapere se è possibile decidere la questione j>er mezzo delle
conoscenze che essi posseggono già, e quando non fosse possibile
soddisfarsi intieramente, potrebbero sempre determinare ciò che è più
verosimile.... J ci giungere dunque a questa scrittura o
caratteristica, che contiene un calcolo così sorprendente, bisogna
cercare le definizioni esatte dei concetti. Poiché infatti le
nostre parole sono assai oscure e non ci dà imo spesso che nozioni
confuse, si è obbligati a sostituire ad esse altri caratteri, la cui
nozione sia precisa e determinata; ora le definizioni non sono se non
un'espressione distinta dell’ idea della cosa. E avendo io
studiato con cura non solamente la storia e le matematiche, ma anche la
teologia naturale, la giu- risprudenza e la filosofia, ho portato molto
avanti questo progetto, e mi sono fatto una quantità di definizioni.
Per rappresenta. Differiscono però dai geroglifici inquanto «sono
forse più filo- ne;. e sembrano fondati su considerazioni più
intellettuali, come quelle chedànno i numeri, l’ordine, le relazioni ». (Lettera inedita citata in J. Bakuzi, Leibniz et l' organisation
reXigieuse de la terre, Paris, 1907, pp. 82-3). esempio la
definizione della giustizia per me è la seguente : La giustizia è la
carità del saggio, o una carità conforme alla saggezza. La carità non è
altro clxe la benevolenza generale; la saggezza è la scienza della
felicità, la felicità è lo stato di gioia durevole, la gioia è un
sentimento di perfezione, la perfezione è il grado di realtà.
Penso di poter dare definizioni analoghe di tutte le pas- sioni.
virtù, vizi e azioni umane, quanto ve ne è bisogno. E con questo mezzo si
potrà parlare e ragionare con esat- tezza. E siccome i nuovi caratteri
comprenderanno sempre le definizioni delle cose, ne segue che essi ci
daranno modo di ragionare calcolando, come ho appunto detto sopra.
Ma per portare a termine un progetto di tanta impor- tanza. il
quale fornirebbe al genere umano una specie di strumento così adatto a
perfezionare la vista dello spirito come gli occhiali servono a quella
del corpo, occorrerà molta meditazione ed un poco di assistenza.
(Lettera al Duca <li Hannover, 1 ti86 ( I ), il. Vii, 25-27).
È principalmente per attuare questo vastissimo progetto che Leibniz
propugnò durante tutta la sua vita la fondazione di società di scienziati
ed accademie. Il progetto rimase sem- pre inattuato. Ma è interessante lo
sviluppo che gli studi com- piuti per esso dettero al pensiero di
Leibniz. 11 metodo per raggiungere quegli elementi semplici o « caratteri
" dalla cui composizione derivano tutti gli oggetti della conoscenza
uma- na, è un metodo di scomposizione delle idee che troviamo di
fronte a noi già composte, partendo dalle loro definizioni (2).
(1) Data comunicatami dal prof. Ritter. (2) Ecco la primitiva
formulazione di questo metodo nella giovanile Arte Combinatoria:
i L'analisi avviene nel modo seguente: Dato un qualsiasi termine, lo si
ri- solva nei suoi elementi formali, cioè se ne ponea la definizione;
questi clementi si risolvano di nuovo in elementi, cioè si ponga la
definizione dei termini della definizione stessa, fino agli elementi
semplici o termini indefinibili; poiché „ non di tutte lo cose si deve
ricercare la definizione » (*). E questi ultimi (*) In greco nel
testo: citazione da Aristotele. Con tale metodo sarà possibile qualsiasi
dimostrazione. Co- nosciuta, infatti, 1 intima costituzione di ciascun
concetto, si potrà sempre stabilire in qualsiasi proposizione se il
predicato rientri nel soggetto, abbia cioè con esso in comune i suoi
ele- menti costitutivi. Di qualsiasi cosa, nulla ci può
essere dimostrato, nep- pure da un angelo, finché noi non conosciamo i
termini costitutivi (requisita) di essa. Infatti in ogni verità
tutti i termini costitutivi del predicato sono compresi fra i ter-
mini costitutivi del soggetto, e i termini dell’effetto ricer- cato
comprendono i mezzi che sono stati necessari per produrlo.
(Initia et specimina scientiae generali 8, G. VII, 62).
termini non si comprendono più per definizione, ma per analogia (** (***)
). Tro- vati tutti questi primi termini, si pongano in una classe, e si
indichino con segni qualsiasi; il più comodo sarà numerarli. Fra i
termini primi si pon- gano non solo lo cose ma anche i modi o rapporti
(**•). Poiché i termini composti variano in distanza dai termini primi, a
seconda del numero di termini primi di cui si compongono - cioè a seconda
dell’esponente della combinazione, - si facciano tante classi, quanti
sono gli esponenti, e in cia- scuna classe si pongano i termini che
constano di un ugual numero di ter- mini primi. I termini sorti da una
combinazione di due non si potranno indicare altrimenti che scrivendo i
termini primi di cui si compongono; c poiché i termini primi sono
indicati da numeri, si scrivano due numeri che indichino i due termini.
Ma i termini derivati da una combinazione di tre o anche da una
combinazione di maggior esponente - cioè quelli che sono nella classe
terza e seguenti - si possono indicare ciascuno in tanti modi diversi
quanto sono le combinazioni che compongono il suo esponente, con-
siderato non più come esponente, ma come numero Per esempio, siano
alcuni termini primi indicati dai numeri 3, 6, 7, 9; sia un termine
com- posto della classe terza, cioè formato da una combinazione di tre,
p. es. dai tre termini semplici 3, 6, 9; e siano nella seconda classe le
seguenti combinazioni: I.°) 3.6; 2.<>) 3.7; 3.°) 3.9; 4.°) 6.7;
5.®) 6.9; fi») 7.9. Pico che quel dato termine della classe terza si può
scrivere o cosi : 3. 0. 9, (**) Per « analogia» Leibniz intende un
modo di apprensione più imme- diato e diretto che non sia il processo logico
definitorio; per esempio un’ im- magine sensibile. Altrove egli dice che
i termini semplici si apprendono coi sensi. (***) Questo
significa che i termini semplici non si devono intendere so- lamente come
dati concreti, di fatto, sensibili, ma comprendono anche dati astratti,
relazioni ecc. Quale sia la vera natura di questi termini semplici o
molto poco chiaro, o Leibniz si ò espresso in proposito sempre in modo
vago e impreciso. Criterio della verità è dunque che il predicato
rientri nell'ambito del sog- getto; e questo rientrare è perfettamente
calcolabile. Ma tale criterio vale solamente per le verità di ragione ohe
sono ana- litiche. In esse sole il predicato è già contenuto nel
soggetto, poiché solo in esse tutto ciò che si afferma (predica) a
propo- sito di una cosa deve essere già nella cosa stessa. Se io
dico che gli angoli di un triangolo sono uguali a due retti, non
faccio altro che mettere in rilievo, nel concetto di triangolo, una qua-
lità già implicita in esso. Il predicato (essere uguali a duo retti) fa
parte già a priori del soggetto (angoli di un triangolo). Ma posso io
affermare che nel concetto di GIULIO (si veda) Cesare, per esempio, sia
già contenuta, a priori, l’azione di passare il Rubicone? La
proposizione: Cesare passò il Rubicone, non è analitica, il suo predicato
cioè non è già compreso nel sog- esprimendo tutti i suoi termini
semplici; oppure esprimendo un semplice o, in luogo degli altri duo
semplici, la loro combinazione, p. es. così ; 1 /2 -9 op- pure 8/2 . 6,
oppure 5 / 2 .3... Ogni qualvolta un tonnine composto viene usato fuori
della sua classe, lo si scrive sotto forma di una frazione il cui numero
superiore o numeratore è il numero d’ordine nella classe, e quello inferiore
o denominatore il numero della classe. (*) È più comodo, nell’ indicare i
ter- mini oomposti, di non scrivere tutti i termini primi, ma gli
intermedi, per diminuirne il gran numero, e fra questi intermedi di
scegliere quelli che più facilmente vengono in mente a chi consideri quella
determinata cosa. Ma sarebbe più rigoroso scrivere tutti i termini primi.
Stabiliti questi principi, si possono trovare tutti i soggetti 0 i
predicati, sia affermativi sia negutivi, sia universali sia particolari.
I predicati di un soggetto dato sono infatti 1 suoi termini primi; così
pure tutti i termini composti più vicini di esso ai primi, i termini
primi dei quali sono compresi nel soggetto dato. Se dunque il termino
dato che viene considerato come soggetto è scritto in funzione dei suoi
termini primi, sarà facile trovare quei primi che di esso si predicano, o
si potranno anche trovare i composti che di esso si predicano, se si
conser- verà l’ordine nel formare le combinazioni. Se invece il termine
dato è indi- cato corno una composizione di composti, o in parte di
composti, in parte di semplici, tutto ciò che si può predicare dei
composti che lo compongono si può predicare anche del termine dato
(**).... In tal modo sara facile inda- gare per mezzo del calcolo tutto
ciò che si può predicare di qualsiasi soggetto dato ». (ARS
COMBINATORIA). (*) P. es. 5/2 . 3 significa la combinazione del
termine semplice 3 col ter- mine composto che ha il quinto posto nella
seconda classe; e cioò, secondo la lista indicata sopra, con 6.9. La
notazione 5 /2 - 3 indica dunque il termine composto 3.6.9.
(**) Questo ò, in sostanza, lo schema dol procedimento sillogistico, in
cui «iò che si predica del termine più generale si può predicare anche
del parti- colare in esso contenuto. getto, ma vi viene aggiunto per
esperienza diretta, contin- gente. Questa proposizione appartiene alle
verità di fatto. Ora, sarà possibile una dimostrazione rigoros.a in
questo campo, se ogni dimostrazione è, come si è visto, un semplice
calcolo per stabilire che i termini componenti il predicato fanno parte
del complesso dei termini componenti il soggetto? Leibniz dice a volte c
he la dimo strazione, quanto alle propo- sizioni di fatto, da solo IìT
probabilità e non la certezza. Ma egli tenta anche di fondare in modo più
rigoroso la sistemazione logica di queste verità, e di far rientrare
anche esse nella re- gola del predicato contenuto nel soggetto. A tale
scopo egli si serve del principio di causalità, cui sottostanno tutte
le verità di fatto. « I termini dell effetto ricercato - si è visto
- comprendono i mezzi necessari a produrlo»; l'effetto, cioè, com-
prende già nella sua nozione tutte le cause che 1 hanno deter- minato. E,
reciprocamente, potremo dire che la nozione della causa racchiude in sè
già implicitamente tutti gli effetti cui darà luogo. Ora, poiché ogni
dato di fatto appartiene alla serie delle cause e degli effetti, ed è
insieme effetto e causa, si può affermare che ogni nozione individuale
contiene in se le nozioni delle cause che 1 hanno prodotta e degli
effetti cui darà luogo; e questa causa e questi effetti a loro volta-
con- terranno le loro cause e i loro effetti, e così via, lino alla
causa prima del tutto e causa di sè, cioè Dio; sicché ciascun
singolo dato e collegato, attraverso tali rapporti causali, con
tutto l’universo. La conoscenza di tutti questi infiniti
nessi causali è su- periore alle forzi* dell ingegno umano, il quale
perciò si contenta di ricorrere alFesperienza del dato di fatto,
rinun- ciando a dedurlo dalle sue cause; sarebbe però, in linea di
principio, possibile. Le proposizioni certe per sè stesse sono di
due tipi; le ime hanno la loro validità nella ragione — e cioè nel
con- tenuto dei loro termini e io le chiamo « note per sè stesse »
o anche « identiche »; le altre sono di f'atdoT e ci sì ma- nifestano
attraverso esperienze indubitabili; e tali sono anche le testimonianze
immediate della coscienza. Ma vera- mente anche le proposizioni di fatto
hanno le loro ragioni, e perciò potrebbero essere risolte nella propria
costiti!- II. zione: ma noi non potremmo conoscerle a priori
attra- verso le loro cause, se non conoscendo la totalità del-
l'universo (cognita tota serie renivi) : il che supera la forza dell'
intelletto umano. Perciò le apprendiamo a posteriori, sperimentalmente.
Ma poiché spesso dobbiamo agire ri- guardo a cose per le quali manchiamo
di una sicura scienza, è preferibile che almeno sappiamo di sicuro che
una certa proposizione è probabile. ( Praecoynita <id
Encyclopatdiam). L’apprensione per via sperimentale e il metodo
della pro- babilità derivano dalla imperfezione della conoscenza
umana. In linea di principio, anche di qualsiasi verità di fatto si
può avere una nozione analitica, a priori, tale che contenga in sè
già sviluppati tutti i predicati, cioè tutti gli effetti e le cause.
Il segno di una conoscenza perfetta si ha quando non c'è nulla
della cosa trattata di cui non si possa render ragione, e non vi sia
nessun avvenimento di cui non si possa predile l'avverarsi.
(Frammento De la Hagense, G.VIJ, S3). Ora, tale conoscenza a
priori dei contingenti, se è impossi- bile alla mente umana, non è
impossibile a Dio che li ha scelti e li ha messi in atto. Di
qualsiasi verità si può rendere ragione; infatti la connessione del
predicato col soggetto o è evidente eli per sè, come nelle proposizioni
identiche, oppure si deve spie- gare, il che avviene con la scomposizione
dei termini. E l'unico c massimo criterio della verità, beninteso nelle
pro- posizioni astratte e non derivanti dall' esperienza, è di ri-
solversi nell' identità (ut sit rei identica vel ad identicas revoca
bilia). Di qui si possono dedurre gli elementi della eterna verità e il
metodo in ogni problema, purché si sap- (1) Oioè potrebbero essere
considerate come analitiche. pia procedere in modo altrettanto
dimostrativo che nella geometria. Così, tutto viene compreso da Dio a
priori e al modo delle verità eterne; poiché egli non ha bisogno di
esperienza, ed ogni cosa viene conosciuta da lui in modo adeguato, mentre
da parte nostra quasi nessuna cosa è conosciuta adeguatamente, poche a
priori, e le più per via sperimentale. E per quest'ultimo modo di
cono- scenza si devono usare altri principi ed altri criteri.
(Ve Synthesi et Analysi universali, G. VII, 295-296).
Qualsiasi cosa creata, dunque, nella sua considerazione a priori,
così come è nella mente di Dio, contiene in sè come predicati tutti gli
altri contingenti che sono stati o saranno in una qualsiasi connessione
causale con essa: in una parola, tutto il suo passato e tutto il suo
avvenire. Ciò che erano i termini semplici nella costituzione dei
concetti di ragione, sono, nelle verità di fatto, questa serie di cause e
di effetti. Intesa ciascuna verità di fatto in questo modo, come
sog- getto di infiniti predicati, Leibniz la chiama sostanza
indivi- duale: essa racchiude in sè, quando sia intesa in tutta la
sua comprensione, con gli infiniti suoi collegamenti, tutto l'uni-
verso . Per distinguere le azioni di Dio e delle creature, viene
spiegato in che consista il concetto di sostanza individuale.
Poiché le azioni e le passioni appartengono propria- mente alle
sostanze individuali (actiones sunt mppo- sitorum), sarebbe necessario
spiegare che cosa sia u mutale sostanza. E pur vero che
quando si attribuiscono piìi predicati ad un medesimo soggetto, e questo
soggetto non si attri- buisce come predicato a nessun altro, lo si chiama
so- stanza individuale: ma ciò non è sufficiente, ed una tale
spiegazione non è che nominale. Bisogna dunque conside- rare che cosa
significhi l'essere attribuito veramente ad un certo soggetto. Ora è
evidente che ogni vera predicazione ha qualche fondamento nella natura
delle cose, e quando una propo- sizione non è identica, quando cioè il
predicato non è compreso espressamente nel soggetto, Insogna che vi
sia compreso virtualmente (1) : ed è ciò che i filosofi chiamano
in-esse, dicendo che il predicato è nel soggetto. Così oc- corre che il
termine del soggetto comprenda sempre quello del predicato, in modo che
colui che intendesse perfetta- mente la nozione del soggetto,
giudicherebbe anche che il predicato gli appartiene. Posto
ciò, possiamo dire che la natura di una sostanza individuale o di un
essere completo è che la sua nozione sia così compiuta, da bastare a
comprendere e a farne dedurre tutti i predicati del soggetto cui questa
nozione si attribuisce. Mentre l’accidente è un essere la cui no-
zione non comprende affatto tutto ciò che si può atti i- buire al
soggetto al quale si attribuisce questa nozione. Così la qualità di re
che appartiene ad Alessandro Magno, facendo astrazione dal soggetto, non
è abbastanza deter- minata ad un individuo, e non comprende affatto le
altre qualità del medesimo soggetto, nè tutto ciò che è com- preso
nella nozione di quel principe; mentre Dio, vedendo la nozione
individuale o /«eccetto* d Alessandro, vi vede nello stesso tempo il
fondamento e la ragione di tutti i predicati che gli si possono veramente
attribuire, come per esempio che egli vincerà Dario e Poro, fino a
cono- scervi a priori (e non per esperienza) se egli sia morto di
morte naturale o per* veleno; cose che noi non possiamo sapere se non
dalla storia. Inoltre, quando si consideri bene la connessione delle
cose, si può dire che vi sono da ogni tempo nell’ anima di Alessandro
resti di tutto ciò che gli e (1) Cioè, nelle proposizioni
identiche (analitiche) il predicato è contenuto nel soggetto per la
conformazione del soggetto stesso (espressamente). Nelle proposizioni di
fatto, invoee.il predicato è contenuto nel soggetto in quanto collegato
ad esso da una relazione di causa ad effetto (virtualmente). accaduto, e
segni di tutto ciò che gli accadrà, perfino tracce di tutto ciò che
accade nell’universo; benché non appartenga che a Dio di riconoscerle
tutte. ( Discours de métaphysiqtu:, 1080, § Vili). A
questa stregua possiamo dire che l’atto di passare il Ru- bicone non si
aggiunge alla nozione di Cesare come qualche cosa di nuovo, di
contingente, d’imprevisto. Cesare, per chi in- tenda, questa nozione in
tutti i suoi collegamenti, contiene in sè già a priori tutto lo sviluppo
della sua personalità, compreso l'atto di passare il Rubicone: il quale,
quando si attuerà, non sarà che la conseguenza necessaria delle cause che
1" hanno prodotto, quindi lo sviluppo ili ciò che era già
contenuto in esse. Libertà e causalità. - Sorge qui di nuovo,
analogamente a ciò che si è visto poc’anzi a proposito della
determinazione di Dio a scegliere il «migliore», il problema della
libertà. Se ogni fatto contingento è presente nella mente di Dio,
non cesserà esso di essere contingente ? Non sarà per ciò stesso
ne- cessario, predeterminato? E non cadrà così anche qualsiasi libertà
nell azione dell uomo, la quale si svolge nel campo delle verità di
fatto? E insieme con essa, ogni responsabilità umana nel biute e nel
male? Anche a proposito di questo pro- blema, strettamente collegato con
l'altro citato, Leibniz fa una distinzione fra connessione necessaria e
inclinante. Poiché la nozione individuale di ogni persona
comprende una volta per tutte ciò che mai le accadrà, si redono in essa
le prove a priori dell' avverarsi di ciascun avvenimento, o le ragioni
per cui è avvenuta una cosa piuttosto che un'altra ; ina queste verità,
benché sicure, nondimeno sono contingenti, in quanto fondate sul libero
ar- bitrio di Dio o delle creature, la cui scelta dipetuie sempre da
ragioni che inclinano senza necessitare. Bisogna cercare di
risolvere una grave difficoltà che può nascere dai fondamenti che abbiamo
fissato qui sopra. Abbiamo detto che la nozione di una sostanza
indivi- duale comprende una volta per tutte tutto ciò che le può
mai accadere, e che, considerando tale nozione, vi si può vedere tutto ciò che
si potrà veramente enunciare di essa, come possiamo vedere nella natura
del circolo tutte le pro- prietà che se ne possono dedurre. Ma semi ira
che venga con ciò distrutta la differenza fra le verità contingenti e le
ne- cessarie, che non vi sia più alcuna libertà umana, e che una
fatalità assoluta venga a regnare su tutte le nostre azioni come su tutto
il resto degli avvenimenti del mondo. Al che io rispondo che bisogna fare
distinzione fra ciò che è certo e ciò che è necessario: tutti sono
d'accordo che i futuri contingenti sono assicurati, poiché Dio li
prevede; ma non si riconosce, dicendo ciò, che siano necessari. Ma,
si dirà, se qualche conclusione si può dedurre infalli- bilmente da una
definizione o nozione, essa sarà neces- saria. Ora. dato che noi
sosteniamo che tutto ciò che deve accadere a qualsiasi persona è già
compreso virtualmente nella sua natura o nozione, così come nella
definizione del circolo sono comprese le sue proprietà, la difficoltà
sussiste ancora. Per risolverla in modo plausibile, dico che la
con- nessione o consecuzione è di due specie : l’ una è assoluta-
mente necessaria, e il suo contrario implica contradizione (e questo modo
di deduzione ha luogo per le verità eterne, come quelle di geometria).
L’altra non è necessaria che ex hypothesi e, per così dire,
accidentalmente, ma in sè stessa è contingente: e ha luogo quando il
contrario non implica contradizione. E questa connessione è fondata non
sulle pure idee e sul semplice intelletto di Dio, ma anche sui suoi
liberi decreti e sull'ordine dell’universo. Veniamo ad un esempio:
poiché Giulio Cesare diverrà dittatore perpetuo e capo della repubblica,
e rovescerà la libertà dei Romani, tale azione è compresa nella sua
no- zione, poiché noi supponiamo che la natura di una tale nozione
perfetta di un soggetto sia di comprendere tutto, affinché il predicato
vi sia compreso, ut possit inesse sub- jecto. Si potrebbe dire che non è
in virtù di questa no- zione o idea che egli deve commettere questa
azione, poiché essa non gli conviene se non perchè Dio sa tutto. Ma
si insisterà che la sua natura o forma risponde a questa nozione, e
poiché Dio gli ha imposto questa parte, gli è ormai necessario sostenerla.
Io potrei rispondere invo- cando l’analogia dei futuri contingenti, i
quali non hanno ancor nulla di reale se non nell’ intelletto e nella
volontà di Dio, e poiché Dio ha dato loro inizialmente questa
forma, bisognerà in ogni modo che vi rispondano. Ma preferisco
risolvere le difficoltà che giustificarle con l’esempio di altre
difficoltà simili; e ciò che dirò, servirà a chiarire sia l una sia
l'altra. È dunque ora il momento di applicare la distinzione fra le
connessioni; ed io dico che ciò che accade conformemente a questi
precedenti è sicuro, ma non necessario: e se qualcheduno facesse
il contrario, non farebbe nulla d’ impossibile in sé,
quantunque sia im- possibile (ex hypothesi) che ciò accada. Poiché, se
qualche uomo fosse capace di portare a termine tutta la dimo-
strazione in virtù della quale potrebbe provare questa con- nessione del
soggetto che è Cesare col predicato che è la sua fortunata impresa,
mostrerebbe effettivamente che la dittatura futura di Cesare ha il suo fondamento
nella sua nozione o natura: che vi si vede una ragione per cui egli
ha deciso di passare il Rubicone piuttosto che di arrestar- visi, e per
cui egli ha vinto piuttosto che perso la gior- nata di Farsaglia, e si
vede pure che era ragionevole e perciò sicuro che ciò sarebbe accaduto,
ma non che ciò fosse necessario in sé stesso, nè che il contrario
impli- casse contradizione. Press’ a poco come è ragionevole e si-
curo che Dio farà sempre il migliore, benché ciò che è meno perfetto non
implichi affatto contradizione. Infatti si troverebbe che tale
dimostrazione di questo pre- dicato di Cesare non è altrettanto assoluta
che quella dei numeri o della geometria, ma che essa presuppone
l’ordine delle cose che Dio ha scelto liberamente, e che è fondato
sul primo Ubero decreto di Dio - il quale comporta di fare sempre
tutto ciò ohe è più perfetto - e sui decreto che Dio ha fatto (in seguito
al primo) riguardo alla natura umana, cioè che l’uomo farà sempre (per
quanto liberamente) ciò che parrà il migliore. Ora ogni verità che sia
fondata su questa specie di decreti è contingente, benché sia
certa; poiché questi decreti non cambiano affatto la possibilità
delle cose e, come ho già detto, benché Dio scelga sem- pre sicuramente
il migliore, ciò non impedisce che ciò che è meno perfetto non sia e non
resti possibile in sé stesso, sebbene non accadrà ; perchè non è la sua
impossibilità, ma la sua imperfezione che lo fa respingere. Ora nulla
è necessario, di cui sia possibile l’opposto. Si sarà dunque
in condizione di risolvere queste specie di difficoltà, per quanto grandi
appaiano (ed infatti esse non sono mono impellenti a questo riguardo che
tutte le altre che si sono mai riferite a tale materia), purché si
consideri bene che tutte le proposizioni contingenti hanno ragioni per
essere piuttosto così che altrimenti, oppure (ciò che è lo stesso) che
esse hanno delle prove a priori della loro verità, le quali le rendono
certe e mostrano che la connessione del soggetto e del predicato di
que- ste proposizioni ha il suo fondamento nella natura del- l’ imo
e dell'altro: ma che esse non hanno dimostrazioni di necessità, poiché
queste ragioni non sono fondate che sul principio della contingenza o
dell'esistenza delle cose, cioè su ciò che sembra il migliore fra varie
cose ugual- mente possibili : mentre le verità necessarie sono
fondate sul principio di contradizione e sulla possibilità o impos-
sibilità delle essenze stesse, senza riguardo, in ciò, alla volontà
libera di Dio o delle creature. ( Discour « de métti physique,
1086, §X1II). D’altra parte, Leibniz usa anche altri argomenti per
sal- vare la libertà e la responsabilità in questa connessione
causale universale. Libertà non è sempre necessariamente un
contrap- posto di determinazione causale. Quanto al libero
arbitrio, sono dell' opinione dei tomi- sti (1) e di altri filosofi, i
quali credono che tutto sia predeterminato: e non vedo ragione di
dubitarne. Ciò però non impedisce che noi abbiamo ima libertà esente
non solo dalla costrizione, ma anche dalla necessità: ed in ciò la
nostra situazione è analoga a quella di Dio stesso, il quale è pure
sempre determinato nelle sue azioni, poiché non potrebbe fare a meno di
scegliere il migliore. Ma se egli non avesse da scegliere, e se ciò che
egli la, fosse 1 unico possibile, egli sarebbe sottomesso alla necessità.
Piu si è perfetti, più si è determinati al bene, ed anche più
liberi nello stesso tempo. Poiché si ha una facoltà e conoscenza
tanto pili estesa ed una volontà tanto più rinchiusa nei limiti della
perfetta ragione. (Lettera al Bayle). Quantunque tutti
i fatti dell’universo siano ora certi in rapporto a Dio. o (ciò che è poi
lo stesso) determinati in sé stessi ed anche legati fra di loro, non ne
viene di con- seguenza che il loro legame sia sempre di una vera
ne- cessità. cioè che la verità la quale stabilisce che un fatto è
conseguenza dell altro, sia necessaria. Ed è questo prin- cipio che
bisogna applicare particolarmente alle azioni volontarie.
Quando ci si propone una scelta, per esempio di uscire o di non
uscire, il problema è se, con tutte le circostanze interne od esterne,
motivi, percezioni, disposizioni, impres- sioni. passioni, inclinazioni
prese insieme, io sia ancora in istato di contingenza, o se io sia
necessitato a scegliere, per esempio, di uscire. Cioè è da domandare se
la proposi- zione vera ed effettivamente determinata: « in tutte
queste circostanze prese insieme io sceglierò di uscire », sia con- Il
principio ohe il mondo sensibile sia retto dalla leggo di causalità
appartiene alla tradizione ari»toteliea, ricevuta da Leibniz attraverso
la scolastica. tingente o necessaria. A ciò io rispondo che è
contingente; perchè nè io nè alcun altro spirito più illuminato di
me potrebbe dimostrare che l'opposto di questa verità impli- chi
contradizione. E supposto che per libertà il' indiffe- renza &
intenda una libertà opposta alla necessità (come ho or ora spiegato), io
accetto tale concetto della libertà. Poiché sono effettivamente
d'opinione che la nostra libertà, così come quella di Dio e degli spiriti
beati, è esente non solo da coazione, ma anche da una necessità
assoluta; benché essa non possa essere esente dalla determinazione
e dalla certezza. Ma io penso che in questo argomento sia
necessaria una grande precauzione, per non cadere in una concezione
chi- merica che urta contro i principi del buon senso: la quale
sarebbe ciò che io chiamo indifferenza assoluta o di equi- librio:
concetto che taluni introducono nella libertà, e che io ritengo
chimerico. Bisogna dunque considerare che que- sto legame di cui ho
parlato, assolutamente parlando non è punto necessario, ma che non jier
questo è men vero; e che in generale, ogni volta che. in tutte le
circostanze prese insieme, la bilancia della deliberazione è piìi
carica da una parte che dall’altra, è certo e immancabile che que-
sto partito vincerà. Dio, o il saggio perfetto, sceglieranno sempre il
migliore conosciuto, e se un partito non fosse mi- gliore dell'altro,
essi non sceglierebbero nè l'uno nè l’altro. Nelle altre sostanze
intelligenti, le passioni spesso terranno luogo di ragione, e si potrà
semine dire, riguardo alla vo- lontà in generale, che la scelta segue la
jiiù grande incli- nazione-, nella quale io comprendo sia le passioni,
sia le ragioni vere o apparenti. So bensì che qualcuno
immagina che ci si determini qualche volta per il partito meno carico di
ragioni, che Dio scelga qualche volta, tutto considerato, il minor
bene, e che l’ uomo scelga a volte senza motivo e contro tutte le
sue ragioni, disposizioni e passioni; insomma che si scelga a volte senza
che vi sia alcuna ragione che determini la scelta. Ma ciò, io lo ritengo
falso e assurdo, poiché è uno dei massimi principi del buon senso che
nulla accada senza causa o ragione determinante. Così, quando
Dio sceglie, lo fa secondo il criterio del mi- gliore; quando l'uomo
sceglie, sceglierà il partito che l'avrà colpito maggiormente. E se
scegliesse ciò che vede meno utile e meno piacevole, sarà magari perchè
gli è divenuto piacevole per capriccio, per spirito di contradizione, o
per analoghe ragioni di gusto depravato; le quali però non per
questo saranno meno determinanti, anche quando non fossero concludenti. E
non si troverà mai un esempio con- trario a ciò. Così,
quantunque noi abbiamo una libertà di indifferenza che ci salva dalla
necessità, non abbiamo mai una indif- ferenza di equilibrio che ci esima
dalle ragioni determi- nanti. C’è sempre qualche cosa che ci inclina e ci
la sce- gliere, ma senza che ci possa necessitare. E come Dio e
sempre portato infallibilmente al migliore, per quanto non vi sia portato
necessariamente (se non per mia necessità morale), noi siamo sempre
portati infallibilmente a ciò che ci colpisce di più, ma non
necessariamente. Poiché il contrario non implicava alcuna contradizione,
non era punto necessario nè essenziale che Dio creasse alcunché nè
che creasse particolarmente questo mondo: benché la sua saggezza e la sua
bontà ve lo abbiano indotto. (Lettera al Coste, 1707, 6. Ili,
400-102). Previsione e predeterminazione. - Posto ciò, è possib
ile pensare che la previsione dei predicati contingenti da parte-
di Dio non contraddica alla libertà. P reveder e non significa
predeterminare. Dio sceglie fra i possibili una serie nella quale
soiuTdpaT contenute determinate azioni col carattere di li- bertà. Nello
sceglierle, egli non le crea nè le determina: non fa che metterle in
azione, attualizzare la loro possibilità. Nel farlo, egli vede tutta la
serie, ne prevedo gli sviluppi: con ciò non ha però determinato quelle
azioni, le quali mantengono, nella serie attuale come in quella
possibile, la loro caratteri- stica di libertà. Dio inclina
la nostra anima senza necessitarla ; non si ha il diritto di lamentarsi,
e non si deve domandare perchè Giuda pecchi, ma solamente perchè il
peccatore Giuda sia ammesso all' esistenza a pre- ferenza di altre persone
possibili. Imperfezione originale prima del peccato e gradi della
grazia. Quanto all’azione di Dio sulla volontà umana, vi sono
moltissime considerazioni assai difficili, che sarebbe lungo esporre qui.
Ciò nonostante, ecco che cosa si può dire all' ingrosso: Dio, concorrendo
ordinariamente alle nostre azioni, non fa che seguire le leggi che egli
ha stabilite; egli conserva, cioè, e produce continuamente il nostro
es- sere, in modo che i pensieri ci arrivino spontaneamente o
liberamente nell'ordine determinato dalla nozione della nostra sostanza
individuale, nella quale essi si potevano prevedere fin dall’eternità. In
più, in virtù del suo decreto secondo cui la volontà tende sempre al bene
apparente, esprimendo o imitando la volontà di Dio sotto certi
aspetti particolari, riguardo ai quali questo bene apparente ha
sempre qualche cosa di reale, egli determina la nostra alla scelta di ciò
che sembra il migliore, senza però ne- cessitarla. Poiché, assolutamente
parlando, essa è nell’ in- differenza, in quanto la si oppone alla
necessità, ed ha il potere di fare altrimenti o anche di sospendere
affatto la propria azione; l'uno e l'altro partito essendo e rima-
nendo possibili. Dipende dunque dall'anima di premunirsi contro le
sor- prese dell’apparenza, attraverso una ferma volontà di fare
riflessioni, e di non agire nè giudicare in determinate oc- casioni, se
non dopo aver maturamente deliberato, fi vero però, ed anche è assicurato
da tutta f eternità, che qualche anima non si servirà affatto di questo
potere in una tale circostanza. Ma chi ne ha colpa? può essa lagnarsi
d'altri che di sè stessa ? Poiché tutte queste lagnanze post factum
sono ingiuste, quando sarebbero state ingiuste ante factum. Ora
quest’anima, un poco prima di peccare, avrebbe mo- tivo di lagnarsi di
Dio come se egli la determinasse al peccato? Essendo le determinazioni di
Dio in questa ma- teria imprevedibili, d’onde sa essa di essere
determinata a peccare, se non quando essa pecca già effettivamente?
Non si tratta che di non volere; e Dio non potrebbe pro- porre condizione
più agevole e piii giusta; così tutti i giudici, senza cercare le ragioni
che hanno disposto un uomo ad avere una cattiva volontà, si fermano a
consi- derare soltanto quanto questa volontà sia cattiva. Ma forse
è fissato da tutta l’eternità che io peccherò? Rispondete voi stessi:
forse no. E senza pensare a ciò che voi non potete conoscere e che non
può darvi alcun lume, agite seguendo il vostro dovere, che
conoscete. Ma qualche altro dirà : D onde consegue che
quest'uomo commetterà sicuramente questo peccato ? La risposta è
facile: è che altrimenti non sarebbe quest’ uomo. Poiché Dio vede
dall’eternità che vi sarà un certo Giuda la cui nozione o idea posseduta
da Dio contiene questa azione futura libera. Non resta dunque se non
questo problema: perchè un tal Giuda, traditore, che non è se non
possibile nell’ idea di Dio, esista attualmente. Ma a tale domanda
non è da aspettare risposta quaggiù, se non che in gene- rale si deve
dire che, poiché Dio ha trovato giusto che Giuda esistesse nonostante il
peccato che egli prevedeva, bisogna che questo male si compensi ad usura
nell - universo, che Dio ne tragga un bene maggiore, e che insomma
questo ordine di cose, nel quale l'esistenza di tale peccatore è
com- presa, sia il più perfetto fra tutti gli altri ordini possibili
(1). (1) Questo concetto del male come parte integrante e
necessaria dell’ar- mnnia universale, sarà il tenia fondamentale della
Tendiceli. Ma spiegare sempre l' ammirevole economia di questa scelta,
non si può, durante il nostro passaggio su que- sto mondo; e basti
saperlo, senza comprenderlo. Questo è il momento di riconoscere
altitudinem divitiarum, la profondità e l’abisso della saggezza divina,
senza voler sviluppare problemi di dettaglio, che implicano
considera- zioni infinite. Si vede però bene che Dio non è la
causa del male. Poiché non soltanto dopo la perdita dell’ innocenza
degli uomini il peccato originale si è impossessato dell' anima, ma
ancor prima vi era una limitazione o imperfezione originale connaturale a
tutte le creature, che le rendeva soggette al peccato e capaci di errare.
Così non vi è mag- gior difficoltà riguardo ai supralapsari (1) che
riguardo agli altri. Ed a ciò, a mio avviso, si deve ridurre l'opi-
nione di S. Agostino e di altri autori, che l’ orìgine del male sia nel
nulla; cioè nella privazione o limitazione delle creature, alla quale Dio
rimedia graziosamente col grado di perfezione che gli piace di dare.
Questa grazia di Dio, sia ordinaria o straordinaria, ha i suoi gradi e le
sue misure, è sempre efficace in sé stessa a produrre un certo
effetto proporzionato; ed inoltre essa è sempre sufficiente, non
solo a preservarci dal peccato, ma anche a condurci alla salvazione,
supponendo che l’uomo si unisca ad essa per quanto dipende da lui. Ma
essa non è sempre sufficiente a superare le inclinazioni dell' uomo,
perchè altrimenti egli non terrebbe più a nulla; e ciò è riservato alla
sola grazia assolutamente efficace, che è sempre vittoriosa; o che
lo sia per sè stessa, o per l'accordo delle circostanze.
(Discount de mélaphysiqne, 1 080, §XXX). (I) L supralapsari
sostenevano, contro gli infialapsari, che la predeter- minazione divina
si esercitasse anche prima del peccato originale (sujrra lapsum, prima
della caduta) e che quindi il fallo di Adamo non fosse stato compiuto per
un atto di libera volontà. Leibniz, con questu sua concilia- zione di
predeterminazione e contingenza o libertà, rende ozioso il problema,
4. — Leibniz, La monadologia. Ma a parto questi problemi di necessità,
libortà, previsione predeterminazione, che rientrano piuttosto
nell’ambito della Teodicea, il punto essenziale toccato qui è V
universalità della sostanza indimdmle che, con lo infinite connessioni
che rac- chiude in sè, diviene l’universo stesso visto da un
particolare punto di vista. Essa comprende il proprio passato e il
proprio avvenire, e insieme il passato e l’avvenire di tutto
l'universo; raggiunge cioè il massimo del l'universalità: è una visione
to- tale, complessiva del tutto. E d'altra parte conserva
tutta la sua individualità. 11 punto di partenza è sempre il singolo dato
di tatto, specifico, parti- colare, contingente. Esso non scompare nel
tutto: rimane ben chiaro e visibile come capo dell’ immenso filo
svolgentesi al- I' infinito, al seguito di tutte le connessioni causali.
Rimane e garantisce un punto di appoggio, una possibilità di
percor- rere ordinatamente tutto 1’ interminabile cammino. E
d’altra parte ammette la possibilità di infiniti altri punti di
partenza. Le sostanze individuali sono tante quanti sono i dati di
fatto, cioè infinite. E ciascuna è tutto l’imiverso. Ma ciascuna da
un diverso punto di vista, con diverso punto di partenza. L’uni-
verso è uno: ciascun particolare è una infinitesima parte di esso: ma da
ciascun particolare si ha la possibilità di risalire alla totalità nel
suo complesso. In questa unione di particolare e universale nella
sostanza individuale, sta la prima grande scoperta di Leibniz, il nu cleo
fon damentale del concetto di monade. Un altro campo del! attività
di pensiero loibniziana è la filo- sofia della natura; campo ben distinto
da quello che si è visto fin ora, e trattato con strumenti e metodi di
tutt’altro genere. I problemi qui analizzati hanno particolare affinità
con quelli dello scienze fisiche: c ostituzione della m ateria, esistenza
o meno degli atomi, del vuoto, origine e funzione del movimento,
del- l’energia, etc. Leibniz non fa discendere la soluzione di
questi problemi dai principi generali della sua filosofia
metafisica: li tratta per sè stessi, secondo una tecnica ad essi
propria, seguendo in questo il suo uso di entrare sempre nel vivo
di ogni ricerca e di appropriarsi le caratteristiche particolari di
ogni scienza. In seguito poi, una volta giunto a determinate soluzioni e
ad atteggiamenti definitivi, li metterà in rapporto con le soluzioni
ottenute negli altri campi, giungendo così a sintesi sempre più ricche e
comprensive. La continuità e la materia. - Le idee di Leibniz
nella filosofia fisica subiscono una profonda evoluzione, dalla
giova- nile Hypothesis physica nova, alle concezioni più mature. E
nel corso di questa evoluzione si formano i suoi concetti fon- damentali
in questo campo. Egli comincia come atomista, al seguito del Gasa elidi,
il quale rinnovava le dottrine di Epicuro e di Democrito, e concepiva la
materia in tutti i suoi aspetti come formata dalla varia combinazione
degli atomi nel vuoto. Ben presto però Leibniz abbandona questa
teoria, la quale è inconciliabile col suo principio di continuità. È
questo uno dei fondamenti del suo pensiero, e si applica non solo alla
considerazione della materia, ma anche a molti altri aspetti della sua
speculazione. Per esso non esistono arresti, interruzioni, distacchi
nello sviluppo delle cose. Per esso natura non facil saltus. Applicato
alla considerazione logica del mondo sensibile, questo principio è il
fondamento del passaggio inin- terrotto dalla causa all’effetto e
dall’effetto alla causa, senza ammettere posto una volta il miracolo
iniziale della creazione - nuove creazioni ex novo, nuovi miracoli. Per
questo princi- pio tutto il mondo è comiesso in tutte le sue parti; sì
che dal- ì’una si può, attraverso un procedimento ininterrotto, passare
a qualsiasi altra. Nulla avviene ad un tratto. Una delle mie
grandi mas- sime, e delle più ricche di applicaziomi, è che la
natura non fa mai salti : 1' ho chiamata legge della
continuità;.... e l’uso di questa legge è molto importante nella
fisica: essa stabilisce che si passi sempre dal piccolo al grande e
viceversa, attraverso il medio, nei gradi come nelle parti, e che mai mi
movimento nasca immediatamente dal ri- poso, nè vi giunga se non
attraverso un movimento più piccolo; che non si possa mai finire di
percorrere alcuna linea o lunghezza prima d’aver percorso una linea
più piccola; quantunque coloro che hanno formulato finora le leggi
del movimento, non abhiano affatto osservato questa legge, credendo che
un corpo possa ricevere in mi istante un movimento contrario al
precedente. Tutto ciò permette di stabilire che anche le percezioni
evidenti^de- rivano per gradi da quelle che sono troppo piccole per
essere osservate. Giudicare altrimenti significa non cono- scere a
sufficienza 1’ i mm ensa sottigliezza delle cose, che implica sempre e
ovunque un infinito attuale. (Nuovi Saggi, 1701 segg., Prefazione.
G. V, 49). Applicato alla considerazione del mondo materiale, il
principio di continuità stabilisce che la materia è divisibile all’
infinito, e che non è possibile concepire un arresto in questa
divisibilità, o pensare un elemento che sia indivisibile e possa
rappresentare un punto ili partenza per la costituzione dei corpi.
Viene così a cadere la dottrina dell’ atomo (1) come elemento primo
e semplice, dalla cui composizione derivino i diversi aspetti della
materia. Qualsiasi elemento materiale, sia pur piccolissimo, è concepito
come composto di parti. Poiché il continuo è divisibile
all'infinito, qualsiasi atomo sarà, in certo modo, come un mondo di
infinite specie, e vi saramio mundi in mundis in infinitum. (
Hypothesis pkyeica nova, Theoria molli e concreti, 1671, G. IV, 201).
Tutta la natura è piena di corpi organizzati, cioè animali e piante
o altre specie ancora, e non vi è atomo che non contenga un mondo di
creatine, poiché tutto è diviso at- tualmente all' infinito.
(lettera al Burnott, 1699, G. Ili, 250). Il movimento. La
materia, dunque, non è formata di atomi: è divisibile all’infinito, continua,
omogenea, tale che mai si potrà arrivare all’elemento più piccolo di
essa. D’altro lato, essa non è riducibile a pura estensione, come voleva
Cartesio. Tale concezione, che terrebbe conto nella materia dei soli
elementi geometrici e la considererebbe solo in funzione dello spazio che
occupa, non è sufficiente per Leibniz. La ma- teria è per lui qualche
cosa di più: è anzitutto compattezza, movimento, inerzia. È ciò che
oppone resistenza. Che la natura normale della sostanza corporea sia
co- stituita dall’estensione, mi pare sia affermato da molti con
grande sicurezza, ma da nessuno dimostrato; certamente, non derivano dal
l’estensione nè il movimento o azione, nè la resistenza o passione; e
neppure le leggi della natura che regolano il movimento e l’urto dei
corpi. E veramente il concetto dell'estensione non è primitivo, ma
risolubile (1) "ATOfioq significa appunto indivisibile.
(2) Ricordiamo che Cartesio, nella sua deduzione del mondo da Lio,
prende come punto di partenza le due sostanze: ree cogitane (principio
spi- rituale) e ree exietcne (principio della materia). in altri.
Infatti, da ciò che è esteso si richiede che sia un tutto continuo in cui
coesistano vari elementi. E, per dir tutto, all estensione, il cui
concetto è relativo, è necessario qualche cosa che si estenda o sia
continuo, così come nel latte la bianchezza, nel corpo ciò stesso che ne
costituisce l’essenza. La ripetizione di questo quid (qualunque
esso sia) è l’estensione. E io sono pienamente d'accordo con lo
Huygens ( I ) (del quale ho grande stima in questioni naturali e
matematiche), cho spazio vuoto e pura esten- sione siano un solo e
medesimo concetto: nè, a mio giudi- zio, la mobilità o la dcvriTUTtla (2)
possono spiegarsi con la pura estensione, ma solo con un soggetto dell’
estensione il qualo non solo determini, ma riempia anche uno
spazio. (Animadvtraionee in pariem generabili Prinoipiorum eurtesianorvm,
prima del 1692, G. IV, I)a che cosa derivano, ora, queste
qualità della materia? Questa azione, questa resistenza etc., in cui
consiste l’essen- ziale di essa? Nei suoi primi studi, Leibniz fa
derivare tutte le qualità della materia dal movimento. La materia
prima è la massa stessa, nella quale non è nuli altro che estensione e
àvTiTtmta, ovvero impene- trabilità: ('estensione le deriva dallo spazio
che riempie; ma la vera natura della materia consiste nell'essere
alcun- ché di denso (crassum) e impenetrabile, e in conseguenza
tale che, incontrandosi con qualche cosa d'altro, si muova (dato che
l’uno dei due deve cedere). Questa massa con- tinua che riempie il mondo
mentre tutte le sue parti ri- ti) Cristiano Huvobns (1629-1695)
grande scenziato olandese, autore della teoria ondulatoria della luco e
primo applicatole del principio del pen- dolo alla costruzione degli
orologi, 6 uno di coloro ohe hanno maggiormente influito sullo sviluppo
dello idee scientifiche di Leibniz. La loro amicizia c cor- rispondenza
dura da iranno della loro conoscenza a Parigi (1672) finn alla mor- te
della Huygens. E fin dal 1669, Leibniz aveva tratto dalle leggi di
Huygens sugli urti lo spanto per alcune sue idee sulla costituzione della
materia. (2) Antitypia è il termine usato da Leibniz por indicare
la compattezza e impenetrabilità della materia. mangono in
quiete, è la materia prima, dalla quale ogni cosa deriva attraverso il
movimento, e nella quale tutto si dissolve attraverso la quiete. In essa
non vi sarebbe’ infatti nessuna diversità, ma una pura omogeneità,
se non vi fosse il movimento.... Dalla materia passiamo ora
alla forma. Se supponiamo che la forma non sia altro che figura,
troveremo di nuovo una mirabile concordanza. Infatti, poiché la figura è
il limite ( terminus ) del corpo, per formare le figure della
materia sarà necessario un limite. E per far sorgere vari limiti nella
materia, bisogna ricoiTere alla discontinuità delle parti, dato che
(piando le parti sono discontinue, ciascuna di esse ha termini separati
(infatti Aristotele de- finisce i continui come quelli il cui limite è
uno (1)); ma la discontinuità, in quella massa inizialmente continua,
può essere prodotta in duplice modo : o togliendole insieme an- che
la contiguità, il che ha luogo quando avviene una se- parazione fra le
parti, in modo che si produca un vuoto; oppure conservando la contiguità,
come quando le parti, pur rimanendo accoste, si muovono tuttavia in
direzioni diverse: così per esempio due sfere, comprese l una
nell'al- tra, possono muoversi in direzioni diverse e tuttavia ri-
manere contigue cessando di essere continue. Di qui è chiaro che se la
massa è stata creata inizialmente discon- tinua o interrotta da vuoti,
alcune forme devono esser state create contemporaneamente alla materia;
se invece la massa è inizialmente continua, è necessario che le
forme sorgano dal movimento perchè dal movimento deriva
la divisione, dalla divisione il limite delle parti, dai li- miti
delle parti le loro figure, dalle figure le forme, quindi dal movimento
derivano le forme. È chiaro da ciò che ogni tendenza alla forma è
movimento: e questa è la so- luzione della contrastata questione
sull’origine delle forme... (1) lu greco nel tosto: uv Tà cacata
sv. Ci resta da occuparci dei mutamenti. Come mutamenti si
enumerano volgarmente (e giustamente) i seguenti: ge- nerazione,
corruzione, aumento, diminuzione, alterazione, e mutamento di luogo o
movimento. I moderni ritengono che tutti questi mutamenti si possano
spiegare attraverso il solo mutamento di luogo. E la cosa è chiara
quanto all’ aumento e alla diminuzione : infatti mutamento di quan-
tità avviene, in un tutto, quando una parte muta di luogo e si aggiunge o
viene tolta. Resta da spiegare attraverso il movimento la generazione e
la corruzione e l’ altera- zione.... E tanto la generazione e la
corruzione quanto l’alterazione possono spiegarsi attraverso mi sottile
movi- mento delle parti: per esempio, poiché è bianco ciò che
riflette molta luce e nero ciò che ne riflette poca, saranno bianche le
cose le cui superficie contengono molti piccoli specchi; e questa è la
ragione per cui la spuma dell’acqua è bianca, constando di innumerevoli
bollicine che sono al- trettanti specchi.... E chiaro da ciò che i colori
derivano dal semplice mutamento di figura e di situazione nella
superficie ; altrettanto potremmo facilmente spiegare, se ne avessimo lo
spazio, della luce, del calore e di tutte le qua- lità. E invero, se le
qualità mutano a causa del solo movi- mento, per ciò stesso muterà anche
la sostanza: mutati infatti tutti gli elementi (perciò anche alcuni di
essi) si elimina la cosa stessa; per esempio, se elimini o la luce
o il calore, avrai eliminato il fuoco. (Lettera al Thomasius, 1669,
6. J, 17-19). Tutto dunque deriva, nella materia, dal movimento; e
senza il movimento, quando cioè sia in quiete, essa perde ogni sua
solidità e consistenza, quindi ogni sua caratteristica di materia.
Leibniz afferma ripetutamente « nullam esse cohaesionem seu consistenliam
quiescentis ». Devo dire che Cartesio ha tutt’ altra opinione,
sembrando a lui che alla stabilità della coesione nei corpi non necessiti
altro elemento collegante ( gluten ) che la quiete. Io sono di opinione
contraria : questo glutine è il movimento. .... Ciò che è in quiete è
spazio vuoto. (Lettera ali’Oldenburg, 1671, Ale. II, I,
166-7). Bisogna spiegare la causa della connessione maggiore
o minore e quindi della eterogeneità nei corpi. Si domanda perchè i
corpi abbiano le parti più o meno coerenti: af- fermo che non si deve
cercare altra causa di ciò se non nel fatto che queste parti stanno o si
muovono insieme. Si muovono insieme perchè in una così grande varietà
di movimenti generali in tutta la massa complessiva era in ogni
modo necessario che alcune parti si allontanassero di molto dalle loro
vicine, altre poco in paragone. E la medesima causa che ha fatto sì che
queste parti poco o nulla si allontanassero dalle loro vicine, fa anche
sì che esse tendano a perseverare nel medesimo stato, perchè la
causa permane. La causa è la combinazione stessa dei mo- vimenti generali
: e i movimenti generali permangono sem- pre. Li turba dunque chi muti
improvvisamente un qual- siasi effetto da essi prodotto e stabilito, e
nel quale tutta la natura consente. Ne deriva chiaramente che la
pres- sione esterna è la causa prima della solidità, e che la
quiete o il movimento cospirante delle parti ne è la causa prossima, ma
soltanto quando deriva da una causa esterna permanente. Così dunque come
la concomitanza, cioè la quiete o il movimento cospirante costituiscono
il corpo solido, analogamente il movimento vario delle parti costi-
tuisce il liquido. E questo è il principio della diver- sità specifica
nei corpi, e del fatto che alcuni sono più densi degli altri, cioè più
solidi o composti di parti so- lide più grandi. Questa tesi è anche
confermata dal- l’esperienza. (Lettera a Onorato Fabri,
1677, G. IV, 250). li. «conatcs». — Il concetto di materia
dun que si dissolve in quello di movimerfto. Ma "come avviene, ora,
tale creazione di materialità'? Qual^dl punto di partenza dell'azione del
movi- mento ? K su che cosa si svolge, inizialmente, tale azione?
Leibniz non può ricorrere agli atomi, come elementi primi, avendoli già
negati in nome del principio di continuità. Egli modifica il suo punto di
partenza, rendendolo privo di esten- sione: considerandolo non più come
la particella più piccola di materia (la quale sarebbe pur sempre
materiale, estesa), ma come un limite o un inizio, qualche cosa quindi di
inesteso. In tale principio, che egli chiama, riprendendo un termine
del- lo Hobbes, comtus, fa coincidere l’ inizio della materialità e
l’ inizio derTìTTTvtrnrnto. Vi sono degli indivisibili o inestesi,
altrimenti non sa- rebbe concepibile nè l’inizio nè la fine del movimento
cor- poreo. Ecco la dimostrazione di ciò : Si vuol trovare 1’ ini-
zio o la fine di uno spazio, di un corpo, di un movimento 0 di un
tempo qualsiasi: sia, ciò di cui si vuol cercare 1 inizio, indicato
da una linea ab il cui punto mediano sia c, e il mediano fra a e c sia d,
e quello fra a e d sia e, e così via. Si cerchi 1‘ inizio della parte
sinistra, verso il lato a. Dico che ac non è 1‘ inizio, perchè gli si può
to- gliere de senza toccare I' inizio; nè lo è ad, perchè gli si
può togliere ed, e così via; non si può mai dunque considerare come
inizio ciò a cui si può togliere qualche cosa dalla parte destra. Ciò a
cui non si può togliere alcuna estensione, è inesteso; dunque 1’ inizio
del corpo, o dello spazio, o del movimento, o del tempo, (cioè il punto,
il conatus, I istante) o è nullo, il che è assurdo, oppure è
inesteso, il che era da dimostrarsi. Il /muto non è ciò che non ha parti,
e neppure ciò di cui non si considerano le parti; ma ciò la cui
estensione è nulla, cioè ciò le cui parti non hanno distanza fra di loro,
la cui grandezza non è da considerarsi, è inassegnabile, è minore di
qualsiasi gran- dezza die possa avere un rapporto non infinito con
una altra grandezza sensibile ; minore di una qualsiasi assegna-
Iòle: e ciò è il
fondamento del metodo di Cavalieri (1) e dimostra in modo chiaro, la
verità di quel suo principio per il quale si concepiscono dei rudimenti,
per così dire, o inizi delle linee e delle figure, minori di qualsiasi
asse- gnabile.... 11 conatus sta al movimento come il punto
allo spazio, cioè come l’unità all' infinito; è cioè 1’ inizio o la fine
del movimento. Perciò tutto ciò che si muove, sia pur debol- mente,
sia pure urtando contro qualsiasi ostacolo, propa- gherà il conatus all ’
infinito per tutto ciò che gli si op- pone nella materia, e perciò
imprimerà il suo conatus a tutte le altre cose : nè si può negare che,
quando anche cessi di procedere, tuttavia abbia un conatus; e per-
ciò tenda ( conetur ), o — che è lo stesso imprima un inizio di movimento
a tutto ciò che gli si oppone, an- che se venga superato da questi
ostacoli. Così in cia- scun corpo vi possono essere contemporaneamente
più conati contrari.... Nel tempo di una spinta, di un urto,
di un incontro, i due estremi dei corpi, o pimti, si penetrano, ovvero
sono nel medesimo punto dello sjxtzio : infatti quando, di due
corpi che s incontrano, l'uno tende a penetrare nel luogo dell altro,
comincerà ad essere in esso, cioè comincerà a penetrare in esso, a unirsi
con esso. Infatti il conatus è inizio, penetrazione, unione; quei due
corpi sono perciò all inizio dell unione, cioè i loro estremi si uniscono:
dunque i corpi che si premono o spingono, hanno coesione. Infatti i loro
estremi sono uno, poiché le cose i cui ter- mini sono uno (2), sono
continue o coerenti, anche pel- li) Bona vkstuka Cavai.ihri
(1598-1(147), autore della Geometria indivisi- hiliurn. ebbe, eoi suo
concetto di indivisibile, «rande influenza sul pensiero matematico di
Leibniz. T3«!i può essere considerato forse come il principale precursore
della scoperta del calcolo infinitesimale, dovuta al Leibniz e al
Newton. (2) In greco nel testo. Cfr. sopra, p. 55.
definizione di .Aristotele; e se due cose sono in un solo luogo, l’una
non può essere spinta senza l’altra. (Hypothe.sis phyatea nova,
Theoria molun abftraeti, 1071, (i. IV, 228-30). Corpo e spirito. —
il conatus è dunque, per così dire, l' ini- zialo punto di contattoTra
“materia e movimento: l'atto in cui il movimento, applicandosi 'ad un
punto" spaziale, segna I' inizio del corpo. Ma che cos’ò il
movimento rispetto alla ma- teria, se non un principio spirituale?
La lisica tratta della materia e della unica affezione risultante
dalla sua combinazione con altre cause, cioè del movimento. Lo spirito
(mena) infatti, per ottenere una figura e situazione delle cose buona e a
lui gradita, for- nisce alla materia il movimento. Infatti la materia di
per sè è priva di movimento. Principio di ogni movimento è lo
spirito. (Lotterà al Thouiasius, l(i(iU, U. I, 22).
Così Leibniz, in una formulazione ancora immatura: e, giunto al
concetto di conattie . in esso egli fa consistere il principio dello
spirito. L'estendersi e svilupparsi del conati ts nello spazio, dà luogo
alla materia; l’estendersi nel tempo (sotto forma di memoria) dà luogo
allo spirito. TI corpo sta così allo spirito come l’ istante sta al
tempo; lo spirito al corpo come il punto allo spazio. Nessun
conato senza movimento dura più di un istante, se non negli spiriti (in
mentibus). Infatti ciò che nell'istante è il conato, quello è nel tempo
il movimento del corpo: qui si apre la porta a chi vorrà proseguire verso
la vera distinzione di corpo e spirito, che non è ancora stata
spiegata da alcuno : Dinne enirn corpus est mens momen- tanea, seu carena
recordalione, poiché non ritiene per piìi di un istante insieme il
proprio conato e un altro contrario ; due elementi, infatti, sono
necessari alla sensazione e al piacere o al dolore, senza i quali non vi
è sensazione alcuna: l'azione e la reazione, cioè la comparazione e quindi
Y ar- monia ; perciò il corpo manca di memoria, manca del senso
delle azioni e delle passioni, manca di pensiero (cogitatio). (llypothesis
physica nova, Theoria motus abxtracli. Come le azioni del corpo
consistono nel movimento, così consistono le azioni dello spirito nel
conatun o, per così dire, nel minimo movimento o punto; infatti
anche lo spirito stesso consiste propriamente soltanto in un punto
dello spazio, mentre il corpo comprende spazio, li questo, per parlare
popolarmente, lo dimostro dal fatto che lo spirito dev'essere nel luogo d
: incontro di tutti i movi- menti che ci vengono impressi dagli oggetti
dei sensi. Dato che, quando voglio stabilire che un dato corpo è
oro, prendo insieme la sua lucentezza, il suo suono, il suo peso, e
ne conchiudo che è oro, bisogna dunque che lo spirito sia in un luogo in
cui tutte le linee della vista, dell’udito e del tatto si incontrano,
cioè in un punto. Se noi dessimo allo spirito uno spazio maggiore che un
punto, esso sa- rebbe già un corpo e sarebbe divisibile in parti; e
perciò non sarebbe sempre intimamente presente a sè stesso e così
non potrebbe anche riflettersi su tutti i suoi elementi e le sue azioni.
Eppure in ciò consiste proprio l’essenza dello spirito. Posto dunque che
lo spirito consista in un punto, è indivisibile e indistruttibile. Da
questi principi e da altri ancora, ho dimostrato molte cose meravigliose
riguardo alle caratteristiche dell'anima umana e in generale di
tutti gli spiriti intelligenti; cose alle quali nessuno finora
aveva pensato, benché da esse sgorghi in modo finora mai visto la
verità della religione, della provvidenza divina, dell im- mortalità
della nostra anima e la possibilità di molti su- blimi misteri (come
quello della giustizia divina, della predestinazione e della presenza nel
sacramento). Ed io spero una volta di poter mostrare tutto ciò nel modo
più chiaro possibile, e di acquistarmi così qualche
benemerenza presso tutti gli uomini intelligenti, ehe odiano
l’ateismo oggi invadente e si preoccupano dell’ eternità.
(Lettera al duca ili Hannover, 1671, f!. I, 52-53). Da questo
contatto fra sostanza spirituale e materiale nel conatus, Leibniz trao le
sue prime conclusioni verso la fun- zione della spiritualità nel mondo
fisico, e 1 importanza dello spirito in rapporto a qualsiasi elemento
corporeo e materiale. Sono capace di dimostrare dalla natura del
movimento nel campo fisico, da me scoperta, che il movimento non
può esistere nei corpi presi per sè, se non vi si aggiunga lo
spirito;.... che lo spirito è incorporeo; che lo spirito agisce su sè
stesso, che nessuna azione su sè stesso può essere movimento, che
l'azione ilei corpo non è se non il movimento, e che quindi lo spirito
non è corpo. Che lo spirito consiste in un punto o centro, e che perciò è
indi- visibile, incorruttibile, immortale. Come nel centro con-
corrono tutti i raggi, così concorrono insieme nello spirito tutte le
impressioni sensibili attraverso i nervi; e dunque lo spirito è un
piccolo mondo concepito in un punto, il quale consiste delle proprie idee
così come il centro con- siste degli angoli, poiché l’angolo è mia parte
del centro, nonostante che il centro sia indivisibile. Così può
essere spiegata geometricamente tutta la natura dello spirito.
(Lettera al duca di Hannover, 1071, U. 1, (il). La conservazione
della forza. Queste sono le teorie fisiche del giovane Leibniz. Ha una
nuova scoperta fa sì che egli abbandoni il suo concetto del movimento
come essenza dei corpi, e lo sostituisca con quello di forza.
Cartesio aveva affermato la immutabilità e costanza della quantità
di movimento nell’universo; cioè, ehe quanto movi- mento viene perduto da
un corpo, tanto viene acquistato da un altro, sì ehe la somma complessiva
neH ! universo sia sempre costante: intendendo per quantità di movimento
il prodotto della massa per la velocità. Leibniz dimostra che tale
principio nou è esatto, e che ciò la cui somma rimane costante non è la
quantità di movimento, ma la quantità di forza viva 0 ! azione
motrice, che è eguale al prodotto della massa per il quadrato della
velocità. Quale sia la portata di questa scoperta nel campo
fisico, non è il caso qui di notare. Per intendere l'uso che
Leibniz ne farà in questioni filosofiche e metafisiche bisogna
osservare che I azione motrice non rappresenta più come la quantità
di movimento - la semplice traslazione di un corpo da un luogo ad un
altro, ma la possibilità di produrre un determinato ef- fetto, per
esempio, di sollevare un corpo ad una determinata altezza. Questa azione
motrice di Leibniz è quella che oggi si chiama energia. In
generale la forza assoluta deve essere stimata per 1 effetto
violento che essa può produrre. Chiamo effetto violento ciò che consuma
la forza dell'agente, come, per esempio, imprimere una certa velocità ad
un corpo dato, elevare un corpo determinato ad ima determinata
altezza, etc. E si può giudicare comodamente la forza di un corpo
pesante, attraverso il prodotto della massa o della pesan- tezza per 1
altezza alla quale il corpo potrebbe salire in virtù del suo movimento....
Quando un corpo pesante ha progredito discendendo liberamente, ed ha
acquistato im- peto o forza' viva , le altezze a cui questo corpo
potrebbe allora arrivare non sono affatto proporzionali alle
velocità, ma al quadrato delle velocità. Ed è per questo che nel
caso della forza viva le forze non sono affatto come le quantità di
movimento, o come i prodotti delle masse per le velocità....
Si verifica per via di ragione e di esperienza, che è la forza viva
assoluta - quella determinata dall'effetto violento che può produrre -
che si conserva, e non già la quantità di movimento. Poiché se questa
forza viva potesse mai aumentare, si avrebbe un effetto più potente che
la causa, oppure si avrebbe il moto perpetuo meccanico, cioè mi
movimento che potrebbe riprodurre la sua causa e qualche cosa di più ; il
che è assurdo. Ma se la forza potesse dimi- nuire, essa perirebbe alla
line completamente perchè, non potendo mai aumentare, e potendo però
diminuire, an- drebbe via via decadendo : il che è senza dubbio
contrario all'ordine delle cose. Anche l’esperienza lo conferma....
Adesso mi piace di guardare la questione da un altro punto di
vista, e di mostrare anche la conservazione di qualche cosa di più prossimo
alla quantità del movimento, cioè la conservazione dell'azione motrice.
Ecco dunque la regola generale che io stabilisco. Qualunque
cambiamento possa accadere tra corpi concorrenti, qualunque sia il
loro numero, bisogna che vi sia sempre nei corpi concor- renti in un
sistema chiuso la medesima quantità di azione motrice nel medesimo
intervallo di tempo. Per esempio, v i deve essere durante questa ora
tanta azione motrice nel- T universo o in dati corpi che agiscono fra di
loro in un sistema chiuso, quanta ve ne sarà durante un'altra ora
qualsiasi. Per comprendere questa regola, bisogna spiegare la
va- lutazione deh' azione motrice, tutta diversa da quella della
quantità di movimento, intesa la quantità di movimento secondo l’uso che
si è spiegato sopra. Ora, affinché 1 azione motrice possa essere
valutata, bisogna prima valutare 1 ef- fetto formale del movimento. Tale
effetto formale o essen- ziale al movimento consiste in ciò che è
cambiato dal mo- vimento, cioè nella quantità della massa trasportata,
e nello spazio o nella lunghezza attraverso cui questa massa è
trasportata. È questo l'effetto essenziale del movimento, o il
cambiamento che esso determina: poiché il tal corpo era lì, ora è qui: il
corpo è tanto grande e la distanza è tanta.... Bisogna ben
distinguere quello che io chiamo 1 effetto formale o essenziale al
movimento, da ciò che ho chiamato più sopra l' effetto violento. Poiché 1
effetto violento con- suma la forza e si esercita su qualche cosa di
fuori; ma l'effetto formale consiste nel corpo in movimento preso in
sè stesso, e non consuma affatto forza, anzi la conserva: poiché la
medesima traslazione della medesima massa si deve sempre continuare, se
nulla dal di fuori non F im- pedisce. È questa la ragione per cui le
forze assolute sono come gli effetti violenti che le consumano, ma non
già come gli effetti formali. Ora sarà più facile d'
intendere che cosa sia F azione mo- trice: bisogna diuique stimarla non
solo per l’effetto for- male che essa produce, ma anche per il vigore e
la velocità con la quale essa lo produce. Si vogliono far
trasportare 100 libbre alla distanza di un miglio; questo è
l’effetto formale che si domanda. Uno lo vuol compiere in un’ora,
un'altro in due; io dico che Fazione del primo è doppia di quella del
secondo, essendo doppiamente rapida, su ili un medesimo effetto....
Questa definizione dell azione motrice si giustifica ab- bastanza a
priori, perchè è chiaro che in un' azione pura- mente formale presa in sè
stessa, come è qui quella di un corpo in movimento considerato a sè, vi
sono due punti da esaminare: l’effetto formale o ciò che è cambiato,
e la rapidità del cambiamento; poiché è ben chiaro che colui che
produce il medesimo effetto formale in minor tempo, agisce di più.
(Enfiai/ de Dynamique sur lei laix dii mouvemenl, M. VI,
218-21). La forza come attività. — La forza, l’energia, è
dunque sostituita al movimento. Dalla' semplice e obbiettiva
trasla- zione dei corpi HaTun luogo all’altro, Leibniz sposta il
centro della attenzione su ciò che della traslazione è la causa, su
ciò che contiene già in sè - per così dire - il movimento allo stato
potenziale, e lo produce. Il movimento perde così realtà a favore della
forza. La forza viene considerata come assoluta e il movimento come
relativo. Bisogna sapore anzitutto che la forza è qualche cosa
di assolutamente reale, anche nelle sostanze create: ma che lo
spazio, il tempo e il movimento hanno qualche cosa dell’ente di ragione,
e non sono veri e reali per sè stessi, ma solo in quanto attributi divini
involventi 1* immensità, l’ eternità, l'azione o la forza delle sostanze
create. Ise con- segue che non esiste un vuoto nello spazio nè nel
tempo, che il movimento separato dalla forza, cioè quando non si
considerino in esso se non le caratteristiche geometriche, cioè la
grandezza, la figura o i loro mutamenti, non è altro che un mutamento di
luogo; e che perciò il movi- mento, rispetto ai fenomeni, consiste in una
semplice rela- zione-, il che fu anche riconosciuto da Cartesio,
quando definì il movimento come una traslazione dalle vicinanze di
un corpo alle vicinanze di un altro corpo. Ma nel trarne le conseguenze,
dimenticò la sua definizione, e stabili le regole del movimento come se
il movimento fosse qualche cosa di reale e assoluto. Bisogna dunque
ritenere che, quando più corpi qualsiasi sono in movimento, non è
pos- sibile dedurre, dal loro aspetto esteriore, in quali di essi
sia un determinato movimento assoluto oppure la quiete; ma ciascuno di
essi a piacere può essere considerato in quiete, pur restando uguali le
manifestazioni esteriori. (Specimen Dynamicum, parte 11, M. VI,
247). 1 1 movimento è relativo: la forza sola è assoluta. E il
concetto di forza ha, molto più che quello di movimento, una chiara
impronta di attività. Pare che in esso il conatus degli scritti giovanili
abbia trovato il suo completamento e la sua realiz- zazione.
Abbiamo altrove avvertito che negli esseri corporei vi è qualche
cosa al di là dell'estensione, anzi prima del- l’estensione : la forza della
natura, riposta ovunque dal- l’autore supremo, la quale non consiste
soltanto in una semplice facoltà, come si contentavano di dire gli
scola- stici, ma anche in un conatus o sforzo, il quale avrà il suo
effetto pieno se non sia impedito da un conatus contrario. Questo sforzo si
mostra da ogni parte ai nostri sensi; e, a mio parere, può essere
dimostrato per via ra- zionale ovunque nella materia, anche là dove non è
evi- dente ai sensi. Che se questa forza non si deve attribuire a
Dio come un miracolo, bisogna certamente che sia im- messa da lui nei
corpi, in modo da costituirne 1' intima natura; poiché l'agire è il
carattere essenziale delle sostanze, e l’estensione, lungi dal
determinare la sostanza stessa, non indica altro che la continuazione o
diffusione di una so- stanza già data, la quale tenda e si opponga, cioè
resista. Nè importa che ciascuna azione corporea derivi dal mo-
vimento, e il movimento non derivi se non da mi altro movimento esistente
già da prima in quel corpo o im- pressogli dal di fuori. Infatti il
movimento (così come il tempo) non esiste mai, a considerare la cosa
rigorosamen- te; giacché non esiste mai tutto, non avendo parti
coe- sistenti. E nulla vi è in esso di reale, se non quel quid
istantaneo che consiste nella forza tendente al mutamento. A ciò dimque
si riduce tutto ciò che è nella natura cor- porea al di fuori
dell’oggetto della geometria, cioè al di fuori deH’estensione.
(Speri intra Jji/namicum, M. VI, 235). 11 corpo, la materia,
contiene dunque in se una t’i*s adiva clic supera, la materialità ed ha
carattere spirituale. Tò Su o ii.ty.óv, la potenza, 1 è duplice nel
corpo: passiva e attiva. La forza passiva costituisce propriamente la
ma- teria o massa, quella attiva la entelechia (5) o forma. La
forza passiva è la resistenza stessà^per la quale il corpo resiste non
soltanto alla penetrazione, ma anche al mo- li) Entelechia, da
èvreXé? (compiuto) e exetv (avere) ò il termine usato da Aristotele per
indicare la lorma pienamente realizzata. Leibniz lo riprende per definire
l’aspetto attivo della sostanza e della monade. Questo termine 6 anche
usato spesso da lui come sinonimo ili monade. C’fr. Monadologia, §§ 18,
48. vimento. e per la quale avviene che un altro corpo non possa
subentrare al suo posto senza che esso ceda: d altra parte, esso non cede
se non ritardando alquanto il mo- vimento del corpo che lo spinge, e così
tende a perseve- rare nel proprio stato anteriore, in modo non soltanto
da non scostarsene spontaneamente, ma anche da resistere a ciò che
tende a mutarlo. Così vi sono due resistenze o masse: la prima, quella
che chiamano antitypia o impene- trabilità; la seconda, quella che
Keplero chiama inerzia naturale dei corpi e che Cartesio in qualche luogo
del suo epistolario riconobbe dal fatto che per essa i corpi non
accolgono un nuovo movimento se non per forza, e perciò resistono al
corpo che li preme e ne indeboliscono la forza. J1 che non avverrebbe, se
nel corpo, oltre all'esten- sione, non vi fosse tò Su jo gtxó , cioè il
principio delle leggi del movimento, per il quale avviene che la quantità
delle forze non può essere aumentata, e che un corpo non può essere
spinto da un altro corpo se non diminuendo la forza di quello/
La forza attiva, che si suole anche dire senz altro forza, non è da
concepirsi come la semplice potenza volgare della scuola, cioè come ima
recettività di azione, ma implica un conatus, cioè mia tendenza
all'azione, cosicché, se non vi sia impedimento, ne derivi l'azionepE in
ciò propria- mente consiste l'entelechia, mal compresa dalla
scuola: una tale potenza infatti comprende 1 atto, nè permane una
semplice facoltà, benché non sempre proceda direttamente all'azione cui
tende; a volte infatti vi si oppone un im- pedimento.! In secondo luogo,
la forza attiva è duplice, primitiva'? derivativa, cioè sostanziale o
accidentale. La forza attiva primitiva, che vien chiamata da
Aristotele la prima entelechia (è'.veXé/ev/ •?) 7tpoVr/;) e nel
linguaggio comune forma della sostanza, è il secondo principio na-
turale che, insieme con la materia o forza passiva, costi- tuisce la
sostanza corporea; la quale è in sè un unità, cioè non un semplice
aggregato di più sostanze: come per esempio vi è grande differenza tra un
animale e un gregge di animali. E perciò questa entelechia è o
un'anima, o qualche cosa di analogo all'anima, e sempre attua na-
turalmente qualche corpo organico, il quale, quando fosse preso
separatamente in sè stesso, cioè toltane o allontana- tane l’anima, non
sarebbe un'unica sostanza, ma un ag- gregato di molti, insomma un
artificio della natura.... La forza derivativa è ciò che alcuni
chiamano impetus, cioè conatus, o la tendenza, per così dire, ad un
qualche movimento determinato, attraverso il quale la forza pri-
mitiva o principio dell'azione viene modificato. Quanto a questa forza,
ho mostrato che non si mantiene sempre la medesima nel medesimo corpo, ma
che, comunque sia di- stribuita in piìi corpi, rimane sempre nella
medesima quantità complessiva, e differisce dal movimento stesso,
la cui quantità non si conserva..,. A stabilire una forza attiva
nei corpi ci inducono molte ragioni, e principalmente l'esperienza
stessa, la quale mo- stra che nella materia vi sono movimenti i quali
devono bensì essere attribuiti originariamente alla causa univer-
sale delle cose, cioè a Dio; ma immediatamente e speci- ficamente devono
essere spiegati attraverso la forza posta da Dio nelle cose^'infatti,
dire che Dio nella creazione ha dato ai corpi una legge di aziono, non è
altro se non dire che ha dato ad essi qualche cosa in virtù di cui
quella legge sia osservata; altrimenti dovrebbe sempre egli stesso
procurare continuamente per via straordinaria l'osservanza di quella
legge; mentre è piuttosto la sua legge stessa che ha efficacia, ed egli
ha reso i corpi attivi, cioè ha dato ad essi ima forza insita} Bisogna
inoltre considerare che la forza derivativa e l'azione sono qualche cosa
di modale, perchè sono soggetti a mutamento. E ogni modo consiste in
qualche modificazione di alcunché di pexsistente, o me- glio di
assoluto. Come la figura è in certo modo una limitazione o mo-
dificazione della forza passiva o massa estesa, così la forza derivativa
e l'azione motrice è in certo modo una modifi- cazione non già di qualche
cosa di puramente passivo (altrimenti la modificazione o limite
conterrebbe più realtà di ciò stesso cho è limitato), ma di qualche cosa
di attivo, cioè dell' entelechia primitiva. Onde la forza derivativa
e accidentale o mutevole sarà una qualche modificazione della
vìrtus primitiva essenziale che perdura in qualsiasi sostanza corporea.
Perciò i cartesiani, non riconoscendo alcun prin- cipio attivo
sostanziale modificabile nel corpo, furono co- stretti a negare ad esso
qualsiasi azione ed a trasferire l'azione nel solo Dio: un Deus ex
machina, principio tut- t' altro che filosofico. ( Frammento
del 1702, >1. VI, 100-103). Valore metafisico della forza.
Questa entelechia, que- sta forza di qui è formata la materia, che ne
costituisce anzi la piii intima essenza, è qualche cosa di analogo
all'anima. La materia ha essenzialmente in sè il principio del
mo- vimento, ma secondo me ciò non si deve intendere se non nel
senso che vi sono delle anime nella materia, le quali sono indivisibili e
indistruttibili (Lettera a Burnett, G.). E questo principio
delTanimazione della materia che spinge Leibniz ad una considerazione del
mondo corporeo diversa da quella puramente meccanica: che gli fa vedere
in esso, attra- verso il principio spirituale, un elemento finalistico e,
attra- verso questo, la mano di Dio. Devo dichiarare
inizialmente che a mio parere tutto avviene meccanicamente nella natura e
che, per rendere una ragione esatta e compiuta di qualsiasi fenomeno
par- ticolare (come per esempio della pesantezza o della ela- sticità),
bastano le nozioni di figura e ili movimento. Ma i principi stessi della
meccanica e le leggi del movimento sorgono a mio parere da alcunché di
superiore, che dipende piuttosto dalla metafisica che dalla geometria e
che non si può raggiungere con 1 immaginazione, benché lo spirito
lo possa molto ben concepire. Così io penso che nella na- tura, oltre
alla nozione di estensione, convenga impiegare quella di forza, che rende
la materia capace di agire e di resistere. E per forza o potenza non intendo
il potere o la semplice facoltà; che non è se non una possibilità
pros- sima di agire e che, essendo come morta, non produce neppur
mai un'azione senza essere eccitata dal di fuori Ma intendo qualche cosa
di mezzo fra il poterete l’azione che implica imo sforzo, un atto,
un’entelechia, poiché la forza passa per sua virtù all" azione
finché nulla ne la impedisce. Questa è la ragione per cui io la
considero come 1 elemento costitutivo della sostanza, essendo essa
il principio dell azione che della sostanza è il carattere
essenziale(^l) Così io vedo che la causa efficiente delle azioni
fisiche deriva dalla metafisica; nella quale opinione sono molto
lontano da coloro che non riconoscono nella natura se non ciò che è
materiale o esteso, e che perciò si rendono sospetti con qualche ragione
presso le persone pie. Ri- tengo pure che il concetto del bene o della
causa finale, I>er quanto contenga in sé alcunché di morale, si
possa anche impiegare utilmente nella spiegazione dei fenomeni naturali;
poiché l'autore della natura agisce secondo il principio dell ordine e
della perfezione, con una saggezza alla quale nulla si può aggiungere: e
ho mostrato altrove, a proposito della legge generale dell"
irraggiamento della luce, come il principio della causa finale basti
spesso a scoprire i segreti della natura, finché non se ne sia
trovata la causa prossima efficiente, che é più difficile a scoprirsi.
Tì) (Système novi eon jkivr erpliqvtr la nature des subitanee»,
primo abbozzo, 1(395, G. IV, 472). La vera scienza tìsica deve
essere tratta dalle sorgenti ilelle perfezioni divine. Dio infatti è l'
ultima ragione delle cose, e la conoscenza di Dio è il principio delle
scienze, così come la sua essenza e la sua volontà sono i principi
delle cose. Quanto piii si è versati nelle profondità della filosofia,
tanto più facilmente si riconosce ciò. Ma pochi finora sono riusciti a
dedurre, dalla considerazione delle proprietà divine, verità di qualche
importanza nella scienza. Vi sono forse alcuni che potranno essere spinti
da questi esempi. La filosofia si santifica così coll’ immissione
in essa delle correnti sgorgate dalle sacre sorgenti della teo-
logia naturale. E così lontana dal vero è la tesi che si debbano rifiutare
le cause finali e la considerazione di uno spirito sapientissimo che
agisce secondo bontà (onde la bontà e la bellezza diverrebbero arbitrarie
o soltanto re- lative a noi e non attribuibili a Dio: opinione quella,
di Cartesio, questa di Spinoza ( 1 ), che invece, dalla conside-
razione dello spirito, si possono dedurre principi essenziali della
fisica. (Principium quoddam generale, M. VI, 134). In
questa organizzazione divina del mondo noi vediamo la forza pervadere e
permeare tutta la natura. Non più atomi corporei: qualche cosa di
altrettanto unitario e indivisibile, ma privo di qualsiasi materialità.
Queste unità sostanziali stanno al confine fra materia e spirito,
potendosi sviluppare in ambedue le direzioni ; e racchiudono in sé una
forza che permette loro una spontaneità di sviluppo verso
l’universale. In tale spontaneità e attività consiste il carattere
spirituale degli elementi della sostanza corporea, ciò che li avvicina
al- l’ anima e all’ io. Poiché è necessario che vi sieno
nella natura corporea delle vere unità, senza le quali non vi sarebbe
affatto (1) Cartesio fa derivare, secondo Leibniz, le regole della
bontà e dell’ar- monia dall’arbitrio di Dio (Cfr. sojira, p. 13). Per
Spinoza invece la bontà è un rapporto della creatura individuale alla
Sostanza assoluta, cioè Dio. Tri molteplicità uè aggregati,
bisogna che ciò che costituisce la sostanza corporea sia alcunché di
rispondente a ciò che si suol chiamare io in noi, che è indivisibile e
tuttavia agente; poiché questo io, essendo indivisibile e senza
parti, non potrà essere un essere composto, ma, essendo agente,
sarà qualche cosa di sostanziale. (Syitcmc un uveali, primo
abbozzo, I 695, G. IV, 47ii). Costituzione e funzione della monade. - Si
sono stu- diati nei capitoli precedenti due principi fondamentali della
filo- sofia leibniziana: l’universalità della sostanza individuale, e
il principio spirituale della f orza n el mondo materiale. Il
primo, derivato dalla elaborazione dT” concetti logici; il secondo
dal rigoroso pensamento di teoremi fisici. L’unione e la fusione di
questi due principi, dà luogo alla mònade (1). Ciò ebe essi hanno in
comune è il fatto di racchiudere ambedue in sè, allo stato potenziale, un
infinita possibilità di sviluppo: la sostanza individuale, punto di
partenza di una catena di causo e di effetti che racchiude nelle sue
maglie il passato e l’avvenire di tutto 1 universo; l'unità animata del
mondo corporeo, forza capace di svilupparsi in movimento e, pur col suo
carattere spirituale, di dar luogo ad una formazione di materialità.
Dei due elementi, l’uno è universale ma astratto, puramente lo-
gico; l’altro concreto, reale, spirituale, ma ancora privo di uni-
versalità. Nella loro fusione l’uno fornisce ciò che all’altro manca: e
la monade sarà un principio spirituale e universale insieme, ma pur
concreto, tale che di esso consti effettiva- mente il mondo esistente. La
monade è « l’atomo della natura e 1 elemento delle cose ». Ad essa
vengono dati da Leibniz nomi diversi: entelechia, anima, sostanza, etc.,
a seconda delle varie occasioni in cui ne parla. (1) Monade
ò parola greca ebe significa unità. ]| termine è stato usato anche da
Giordano Bruno per indicare gli elementi primi delle cose. Non è però
sicuro ohe Leibniz abbia derivato da lui questa denominazione. L : atomo
di Epicuro, benché fornito di parti, è ima cosa unita nel suo interno,
mentre l'anima, quantunque senza parti, racchiude in sé un gran numero, o
meglio un numero infinito di varietà, per la molteplicità delle
rap- presentazioni di cose esterne, o piuttosto per la rappre-
sentazione dell'universo che il Creatore vi ha posto. (
Osservazioni al dizionario del Bayle, 1702, G. IV, 544). Le monadi sono
i principi primi c più semplici onde è costituito il mondo: non sono
materiali, ma da esse deriva tutta la materia: sono individuali,
molteplici (in quanto sono sempre punti di vista particolari presi
sull’universo, e i punti di vista possono essere infiniti); e d’altra
parte ciascuna rac- chiude in sè una visione del tutto.
L’unità sostanziale richiede un essere compiuto, indivi- sibile e
indistruttibile per natura, poiché la sua nozione involve tutto ciò che
gli deve accadere; e ciò non si po- trebbe trovare nè nella figura nè nel
movimento, che im- plicano anzi entrambi alcunché d’ immaginario -
come potrei dimostrare —, ma bensì in un’anima o forma sostanziale,
sull’esempio di ciò che si suol chiamare io. Sono questi i soli veri
esseri compiuti, come avevano ricono- sciuto gli antichi e soprattutto
Platone, il quale ha ben chiaramente mostrato che la sola materia non è
in sè sufficiente a formare una sostanza. Ora 1’ io sopraddetto, o
ciò che gli risponde in ciascuna sostanza individuale, non può essere nè
fatto nè disfatto dall'avvicinamento o dall'allontanamento delle parti,
procedimento puramente esteriore a ciò che è la sostanza. Non saprei dire
preci- samente se vi siano altre sostanze corporee effettive, oltre
quelle che sono animate, ma almeno le animo servono a darci qualche
conoscenza delle altre per analogia. (Lotterà all' Arnauld, 1086,
G. 11, 76-7). Non so se sia possibile spiegare la costituzione
dell' anima meglio che dicendo: l.° che è una sostanza semplice, ovvero
ciò eli e io chiamo una vera unità; 2.° che tale unità esprime tuttavia
la molteplicità, cioè i corpi, e che li esprime il meglio possibile
secondo il suo punto di vista o il suo rapporto ; 3.° che così essa è
espressiva dei fenomeni secondo le leggi metafisico-matematiche della
natura, cioè secondo 1 ordine più conforme alla intelligenza e alla
ra- gione. i\e deriva inline, 4.° che 1" anima è una
imitazione di Dio, nel massimo grado possibile alle creature, che
essa è come lui semplice eppure anche infinita, e avvolge tutto
attraverso percezioni confuse; ma che, riguardo a quelle distinte, essa e
limitata. Invece tutto è distinto nella so- stanza sovrana, dalla quale
tutto emana, e che è la causa ilcll esistenza e dell ordine e, in una
parola, l'ultima ragione delle cose. Dio contiene 1 universo
eminentemente, e l'anima o l'unità lo contiene virtualmente, essendo imo
specchio centrale, ma, per così dire, attivo e vitale. Si può anche
dire ohe ogni anima è un mondo a parte, ma che tutti questi mondi si
accordano e sono rappresentativi dei me- desimi fenomeni, secondo
rapporti differenti; e che questa è la maniera più perfetta di
moltiplicare gli esseri quanto è jiossibile, ed il meglio
possibile. (Lettera a) Bayle, 1702, G. Ili, 72). Il
concetto di sostanza individuale è stato formulato da Leibniz por la
prima volta nel Dìscours de Méta physìque del 1686. La parola monade è
introdotta da lui nel 1696. Verso il mezzo della sua vita, cioè, egli è
giunto in possesso dell’ele- mento fondamentale onde per lui è costituito
il mondo. Tro- vato questo, il problema che gli si pone è di spiegare,
attra- verso tale elemento, la costituzione del mondo stesso. Come
nell arte combinatoria' si dovevano trovare, per mezzo della
scomposizione dei concetti, i termini semplici di cui consta il pensiero
umano, e poi, attraverso la varia combinazione di essi, formare di nuovo
ogni possibile concetto, così ora un’ in- dagine analitica nel campo
logico, fisico, metafisico, ha condotto alla nozione di monade come
sostanza semplice, costituente il mondo. Si tratta ora di mostrare
concretamente come il mondo consti di monadi, come ogni aspetto, ogni
fenomeno di esso sia spiegabile attraverso le combinazioni, le
modificazioni, i diversi aspetti delle monadi. Inizio e fine
della monade. - Donde nasce la monade? Che cosa 1’ ha prodotta? Qnal’è la
sua origino? Noijl è possibile concepirla come derivata da ini
qualsiasi ente naturale: essere prodotta significa sempre in qualche
modo essere causala ; c, poiché essa comprende già in sé tutta la
serie infinita delle causo e degli effetti, non si può attribuirle una
causa al di fuori di sé stessa: qualsiasi sua causa sarebbe sempre
compresa nel suo interno. Analogamente, non è con- cepibile neH’ordine
naturale la fine della monade; implicando tale fine un interruzione nella
serie delle cause e degli effetti, che è invece continua e infinita.
L’origine e la fine delle monadi deve essere dunque ricercata fuori
deU’ordino causale dell' universo; o piuttosto si può dire che le monadi non
hanno ori- gine: sono nate insieme con l’universo stesso, sono
concreate ad esso; e il creatore di esse è il medesimo creatore
deH'uni- verso: Dio. Quanto all' inizio e alla fine di
queste forme, anime, o principi sostanziali, bisogna dire che esse non
possono avere origine se non dalla creazione, e non possono aver
fine se non da un annullamento compiuto espressamente dalla potenza
suprema di Dio.... Così queste forme non comin- ciano nè finiscono
naturalmente. E perchè non avrebbero esse il medesimo privi egio degli
atomi, i quali, secondo i seguaci di Gassendi, devono sempre conservarsi?
Tale privilegio bisogna accordarlo a tutto ciò che è veramente una
sostanza; perchè la vera unità è assolutamente indis- solubile. Dato ciò,
bisogna credere che queste sostanze sono state inizialmente create
insieme col mondo. (Syslème noiweau, primo abbozzo, 1605, G. IV,
474). Così (eccezion fatta per le anime che Dio vuole ancora
creare espressamente) fui obbligato a riconoscere che le forme costitutive
delle sostanze sono state create insieme col mondo e che sussistono in
eterno. (Syntènu nouveau, seconda stesura, 1095, G. IV, 479).
Individualità e universalità della monade. - Lo monadi hanno in se
stesse il doppio carattere di essere ciascuna un elemento costitutivo del
mondo, e insieme di implicare cia- scuna, in se, 1 assoluta totalità di
sviluppo del mondo stesso. 11 mondo è composto di monadi: ma ciascuna
monade è, da un certo punto di vista, il mondo stesso. Da va certo
punto di vista : questo è il criterio che permette di conservare e
con- ciliare quelle due caratteristiche. Ciascuna monade mantiene
la sua individualità* e la sua distinzione dalle altre, in quanto implica
e rappresenta il medesimo tutto, ma da un diverso punto di vista. E i
punti di vista sono infiniti; così sono in- finite le monadi. L
individualità della monade si concilia in tal modo con la sua
universalità. Benché ciò possa parere paradossale, è impossibile a
noi di avere conoscenza degli individui e di trovare il mezzo per
determinare esattamente l'individualità di qualsiasi cosa.se non
prendendo la cosa stessa: infatti tutte le circostanze possono ripetersi;
le piti piccole differenze ci sono insen- sibili; il luogo e il tempo,
lungi dal determinare, hanno anzi bisogno di essere essi stessi
determinati dalle cose che contengono. Ciò che vi è di più notevole in
questo principio, è che Y individualità involve l'infinito; e solamente
colui che è capace di comprendere ciò, può aver conoscenza del principio
di individuazione di questa o di quella cosa: principio il quale deriva
dall" influenza retta- mente intesa di tutte le cose dell' universo
le une sulle altre. E vero che non sarebbe punto così, se il mondo
fosse composto di atomi, come vuole Democrito; ma in tal caso non vi
sarebbe pure alcuna differenza tra due in- dividui differenti aventi la
medesima figura e la medesima grandezza. [Nuovi Saggi, 1701
s.gg., ILI, 3, § «>. Proprio Inaili versali tà della monade è ciò che
garantisce la sua individualità. Due atomi di ugual forma e grandezza,
con le medesime caratteristiche esteriori, sarebbero
indistinguibili 1 uno dall altro. Due monadi non possono invece essere
indi- stinguibili e perfettamente 'identiche. II fatto di essere
due, implica che esse rappresentano il mondo da due punti di vista:
e ciascun punto di vista comporta legami e rapporti all’ in- finito che
necessariamente saranno diversi da quelli di ciascun altro punto di
vista. Due monadi perfettamente identiche in tutto il complesso dei
rapporti implicati, non sono concepi- bili: sarebbero una sola e medesima
monade. È questo il prin- cipio che Leibniz chiama della identità degli
indiscernibili. Per esso ogni monade ha garantita la sua individualità e
inconfon- dibilità fra tutte le altre. K eli grande
importanza in tutta la filosofia e anche nella teologia il principio che
non esistono denominazioni puramente estrinseche; e questo a causa della
connessione delle cose tra di loro. Due cose non possono diff erir e
solo locabnente o temporalmente, ma è sempre necessario che
interceda tra di esse qualche altra differenza interna. Così non è
possibile che vi siano due atomi simili per forma e uguali per grandezza
: per esempio due cubi uguali. Queste sono nozioni matematiche, cioè
astratte, non reali. Tutto ciò che è differente deve distinguersi per
qualche cosa; e la sola posizione non basta a differenziare le cose
reali. Per questo principio si sconvolge tutta la filosofia pura-
mente atomistica. In primo luogo, non è possibile che vi siano atomi,
altrimenti vi sarebbero due cose che non dif- ferirebbero se non
dall’esterno. In secondo luogo, se la sola posizione presa per sè non
costituisce un mutamento, ne deriva che non vi è alcun mutamento che sia
pura- mente di luogo. E, in generale, il luogo, la posizione, la
quantità (come p. es. il numero), la proporzione, non sono se non
relazioni che risultano da altre cose che costi- tuiscono per sè stesse
il mutamento. Così, essere in un determinato luogo, astrattamente
parlando, non sembra indicare altro che una posizione. Ma effettivamente
bisogna che ciò che è in un determinato luogo, esprima in sè quel
luogo stesso; cosicché la distanza e il grado di distanza implica anche
un modo di esprimere in sè la cosa distante, di agire su di essa, e di
essere da essa affetto. Ed effet- tivamente la posizione implica un grado
di espressione. Tutte le cose da noi qui esposte derivano dal principio
fondamentale che il predicato è contenuto nel soggetto; principio che
colpì l’Arnauld(l) quando una volta gliene feci cenno: - j’ en ay esté
frappe - mi scrisse. (Frammento, C. 8-10).
Rappresentazione e appetito. - Proseguiamo nel carat- terizzare la
struttura della monade. Essa contiene in sè tutto il proprio sviluppo
futuro, insieme con lo sviluppo del mondo. Ma quello che determina la sua
particolarità e il suo valore, è di contenerlo non esplicito ed esteso
nel tempo e nello spazio, ma implicito, in modo pregnante, allo stato
potenziale. Se noi volessimo immaginare in ciascuna monade,
attualmente sviluppato, tutto il suo svolgimento completo,
perderemmo, per così dire, il vantaggio essenziale della monade:
avremmo di fronte a noi il mondo stesso in tutta la sua immensa e
inaf- ferrabile molteplicità. Il vantaggio consiste proprio nel
rac- cogliere la molteplicità del mondo nella individualità; di
con- tenere allo stato implicito ciò che allo stato esplicito
sarebbe Superiore ad ogni facoltà di percezione o di apprensione.
Ora, come si svolge e quale aspetto assume concretamente, nella
monade, tale implicazione della totalità ? Assume l’aspetto di forza o
appetito da un lato, di rappresentazione dall'altro. Ciascuna monade ha
una rappresentazione di tutti gli stati futuri che essa contiene in sè, e
contemporaneamente ha un impulso, una tendenza che la spinge a passare a
questi futuri, dal presente in cui si trova. In tali due forme si svolge,
nel- I - individuo, il passaggio all'universale. (1) Antonio
Arnauld (1012-1604), teologo e filosofo francese di scuola cartesiana e
giansenistica, intrattenne una lunga e importantissima corri- spondenza
col Leibniz. Lo stato dell'anima, come quello dell'atomo, è imo
stato di cambiamento, una tendenza: l'atomo tende a cambiare di
luogo, l'anima a cambiare di pensiero; l'uno e l’altro cambiano nel modo
piìi semplice e più uniforme che il loro stato permetta. Come mai allora
(mi si domanderà) c'è tanta semplicità nel cambiamento dell'atomo e tanta
va- rietà nei cambiamenti dell'anima? Il fatto è che l'atomo (così
come lo si i mm agina, benché veramente non esista in natura), quantunque
sia composto di parti, non ha nulla che determini varietà nel suo
tendere, poiché si sup- pone che queste parti non mutino i loro rapporti
reciproci ; mentre l'anima, per quanto indivisibile, contiene una
ten- denza composta, cioè una molteplicità di pensieri presenti dei
quali ciascuno tende a un particolare cambiamento, a seconda di ciò che
esso contiene; e questi pensieri si tro- vano tutti insieme nell'anima,
in virtù del suo rapporto essenziale con tutte le altre cose del mondo. E
anzi, è fra 1 altro la mancanza di tale rapporto che rende impos-
sibili in natura gli atomi di Epicuro. Infatti ogni cosa o parte dell'
universo deve rappresentare tutte le altre; Sic- ilie 1 anima, quanto
alla varietà delle sue modificazioni, non deve paragonarsi all'atomo
materiale, ma piuttosto all universo, che essa rapprasenta dal suo punto
di vista, e anche in qualche maniera a Dio, di cui essa rappresenta
in modo finito 1 infinità (a causa della sua percezione con- fusa e
imperfetta dell' infinito). 11 sentimento del piacere, per esempio,
sembra semplice, ma non lo è; e chi lo volesse notomizzare
troverebbe che esso implica tutto ciò che ci circonda e
conseguente- mente tutto ciò cir conila ciò che ci circonda. E la
ragione del cambiamento dei pensieri nell'anima è la medesima
ragione del cambiamento delle cose nell’ universo che essa rappresenta.
Infatti i rapporti meccanici che sono sviluppati nei corpi, sono riuniti
e, per cosi dire, con- centrati nelle anime o entelechie, ed hanno anzi
in esse 0. — Leibniz, La monadologia. la loro origine. È vero che non tutte le
entelechie sono, come la nostra anima, immagini di Dio, poiché non
tutte sono fatte per essere membri di una società o di uno stato di
cui egli sia il capo; ma esse sono sempre immagini del- l'universo. Sono
mondi in compendio, a modo loro: sem- plicità feconde ; unità di sostanze
; ma virtualmente infinite, por la molteplicità delle loro modificazioni;
centri che esprimono una circonferenza infinita. (Polemica
col Bayle, 1712, G. 1 V, óti2). Non potrebbe Dio forse dare
inizialmente alla sostanza una natura o forza interna che le faccia
produrre ordi- natamente (come in un automa spirituale o formale,
ma libero, in quanto gli è attribuita la ragione) tutto ciò che le
accadrà, cioè tutte le impressioni o espressioni che essa avrà ; e ciò
senza 0 soccorso di alcun' altra creatura ? Tanto più che la natura della
sostanza richiede necessa- riamente e implica essenzialmente im progresso
o un cam- biamento, senza il quale essa non avrebbe la forza di
agire. E poiché questa natura dell'anima è rappresentativa dell"
universo in modo esattissimo (benché più o meno di- stinto), la serie
delle rappresentazioni che l'anima produce in sé risponderà naturalmente
alla serie dei cambiamenti dell’universo stesso. (Syxtème
nouveau, lt>95, G. IV, IS.">). Una monade, in sé stessa
e in un istante, non può essere distinta da un'altra, se non per le sue
qualità e azioni interne, le quali non possono essere altro che le sue
per- cezioni (cioè le rappresentazioni del composto o di ciò che
sta al di fuori, nel semplice), e le sue appetizioni (cioè il suo tendere
da una percezione all'altra) che sono i prin- cipi del cambiamento.
Infatti la semplicità della sostanza non impedisce la molteplicità delle
modificazioni che si devono trovare insieme in questa medesima sostanza
semplico; e tali modificazioni consistono nella varietà dei rap- porti
rispetto alle cose che stanno al di fuori. Così in un centro o punto, per
quanto semplice, si trova un' infinità di angoli formati dalle linee che
ad esso concorrono. ( Principe « de la
Mature et de la Grace, 1713-14, G. VI, 598). Tn tal modo si
viene anche a configurare il concetto di rap- presentazione e in generale
di conoscenza, come Leibniz lo tratta dal punto di vista gnoseologico.
Percezione è espressione delia molteplicità nell’unità; e, d’altro lato,
è azione. 11 pensiero, essendo l’azione di una cosa su sè
medesima, non ha luogo nella figura e nel movimento, i quali non
possono mostrare il principio d ima azione veramente in- terna:
d’altronde è necessario che vi sieno esseri semplici, altrimenti non vi
sarebbero esseri composti o esseri per aggregazione, i quali sono
piuttosto fenomeni che so- stanze, ed esistono piuttosto \óp<p che
(potrei (cioè piut- tosto moralmente o razionalmente che fisicamente)
per parlare con Democrito. E se non vi fosse cambiamento nelle cose
semplici, non ve ne sarebbe neppure nelle com- poste, tutta la realtà
delle quali non consiste se non nella realtà delle cose semplici. Ora i
cambiamenti interni nelle cose semplici sono analoghi a ciò che noi
concepiamo nel pensiero, e si può dire che in generale la percezione
è V espressione della molteplicità nell' unità. Ella non ha bi-
sogno, Signore (1), di questi schiarimenti sulla immate- rialità del
pensiero di cui Ella ha parlato in modo ammi- revole in molti luoghi.
Tuttavia, unendo queste conside- razioni con la mia ipotesi particolare,
mi pare che l'una serva a dar luce alle altre. (Lotterà ni
Bayle, 1702, G. Ili, 69). (1) Piotro Bayle (1647-1706), cui Leibniz
qui si rivolge, b il principale rappresentante della lilosofia scettica
in quel tempo. Fondatore delle 1 Volt- velles de la republique des
lettres, autore del Dictionnaire historique et crilique, ebbe col Leibniz
lunghe od interessantissime polemiche su vari argomenti, quali l’ipotesi
dell’armonia prestabilita, e il problema della conciliazione fra fede o
ragione. I pensieri sono azioni; e le conoscenze o verità, in quanto
sono in noi, anche quando non vi si pensa, sono abitudini o disposizioni;
e noi sappiamo molte cose alle quali non pensiamo punto. (
Nuovi Saggi, 1701 segg. I, I, § 26, G. V., 79). Mi meraviglio,
Signore, che Ella insista nel volgere le mie opinioni in modo
completamente diverso da ciò che io intendo. Ella pretende che, secondo
me, noi non facciamo altro che accorgerci di ciò che avviene dentro di
noi. Non so d onde Ella abbia ricavato quest’ idea; io ritengo in-
vece che noi facciamo tutto ciò che avviene in noi. (Lettera al
Jaquelot, 1701, G. VI, 567). II pensiero come unità della
molteplicità e come azione: ecco due concetti che saranno propri della
filosofia idealistica postkantiana, cui Leibniz giunge già qui con l’
approfondi mento del concetto di monade come spirito. Le
piccole percezioni. - Da tale concetto Leibniz trae anche argomenti per
affermare l’ innatismo, contro la nega- zione del Locke, il quale nel suo
* Saggio sull’ intelletio umano, si era opposto al razionalismo
cartesiano affermando che tutto viene aU’anima esclusivamente dai sensi,
cioè dal di fuori, come segni che si imprimano su di una tabula rasa. I
Nuovi saggi sull’ intelletto umano di Leibniz sono tutti destinati
ad una presa di posizione di fronte alle tesi del Locke. Di essi
verrà trattato in un volume a parte. Qui ci interessa solo no- tare come
raifermazione dell’ innatismo in Leibniz non si fondi soltanto, come in
Cartesio, su motivi razionalistici. Ciò che è in- nato allo spirito, non
deriva per lui unicamente dalle idee di ra- giono. È innato anche tutto
ciò che è contenuto nell’anima, intesa come monade, cioè tutta la serie
dei rapporti di causa e di effetto di cui essa ha rappresentazione. Tutto
ciò costi- tuisce il contenuto dell’anima, e non viene ad essa dal di
fuori ma fa parte di essa già fin dalla sua creazione; tutto 1 uni-
verso, insomma, è già insito a priori nell’anima. Ma l’anima non ha
nozione attuale di tutto questo suo con- tenuto. Il campo della sua
conoscenza è limitato e si estende IV. - LA MONADE
85 solo a ciò che le è pili immediatamente a contatto. Come
si concilia questo con la sua universalità e con l’innatismo?
Leibniz ricorre a* questo proposito alle piccole percezioni o per-
cezioni insensibili, le quali non cessano di influire sull’anima, pur
senza giungere alla sua coscienza. Esse appartengono bensì dia
rappresentazione deH’anima: l’anima però non ne ha con- sapevolezza. In
tal modo si viene a far concordare l’assoluto innatismo di ogni verità,
sia necessaria sia contingente, sia di ragione sia di fatto, con la
limitazione attuale delle nostre conoscenze. Le piccole percezioni
permettono a Leibniz di con- cepire la monade limitata insieme e
universale. La questione dell’origine delle nostre idee e dei
nostri principi non è preliminare nella filosofia, e bisogna esser
molto avanzati per risolverla bene. Credo tuttavia di po- ter dire che le
nostre idee, anche quelle delle cose sensibili vengono dal nostro proprio
intimo.... Non sono affatto fa- vorevole alla tabula rasa di Aristotele;
e vi è del giusto in ciò che Platone chiamava reminiscenza. Vi è anzi
di piii, giacché noi non abbiamo soltanto una reminiscenza di tutti
i nostri pensieri passati, ma anche un presentimento di tutti i nostri
pensieri futuri. È vero che ciò avviene in modo confuso e senza
distinguere questi pensieri, press’ a poco come quando io odo il rumore
del mare: odo allora il rumore di tutte le onde particolari che
compongono il rumore totale, pur senza distinguere un'onda
dall'altra. Così è vero, in un certo senso, ciò die ho spiegato :
cioè die non solo le nostre idee, ma anche le nostre sensazioni
(sentiments) nascono dal nostro fondo, e che l'anima è più indipendente
di quanto non si pensi; benché resti pur vero che nulla avviene in essa
che non sia determinato, e che nulla è nelle creature, che non sia
continuamente creato da Dio. (Suri' Essay de l'entendement
liutnain de Momùur Loci. dc.j o il ]( f-3, G.Y, l(i). Si tratta di
sapere se l' anima in se stessa sia compieta- mente vuota, come delle
tavolette in cui non si sia ancora scritto nulla (tabula rasa), secondo
l'opinione di Aristotele e dell'autore del Saggio, e se tutto ciò che vi
è tracciato derivi unicamente dai sensi e dall'esperienza: oppure
se l'anima contenga originariamente i principi di varie nozioni e
dottrine che gli oggetti esterni risvegliano soltanto nelle varie
occasioni, come credo io, d’accordo con Platone e anche con la Scuola e
con tutti coloro che prendono in questo significato il passo di S. Paolo
(Rom. 2,15), dove egli dice che la legge di Dio è scritta nei cuori....
Possiamo noi negare che vi sia molto d’ iimato nel nostro spirito,
dal momento che siamo innati - per così dire - a noi stessi, e in noi
stessi vi sono l’essere, l'unità, la sostanza, la durata, il cambiamento,
l'azione, la per- fezione, il piacere e mille altri oggetti delle nostre
idee intellettuali? Ed essendo questi oggetti immediati al no- stro
intelletto e sempre presenti (benché non possano esser sempre percepiti a
causa delle nostre distrazioni e dei nostri bisogni), perchè meravigliarsi
se noi diciamo che queste idee ci sono innate con tutto ciò che ne
dipende? Mi sono servito anche del paragone di una pietra di marmo
che abbia delle venature, anziché essere tutta unita come le tavolette
vuote o ciò che i filosofi chiamano tabula rasa. Poiché, se l'anima
somigliasse a queste tavolette vuote, le verità sarebbero in noi come la
figura d' Ercole è in un marmo, quando questo marmo è completamente
indifferente a ricevere questa figura o qualche altra. Ma se vi fossero
delle vene in quella pietra, elio indicassero la figura di Ercole a
preferenza di altre figure, questa pietra sarebbe piii determinata, e
Ercole vi sarebbe come innato in qualche maniera ; quantunque sarebbe
necessario un certo lavoro per scoprile queste vene e polirle,
elimi- nando ciò che impedisce loro di apparire. E in questa guisa
le idee e le verità ci sono innate come inclinazioni, disposizioni,
abitudini o virtualità naturali, e non come azioni; benché queste
virtualità siano sempre accompanate da qualche azione, spesso insensibile, ad
esse rispon- dente.... D'altronde, vi sono mille segni i quali
mostrano che in ogni istante vi è in noi un' infinità di ■p ercezio
ni, prive però di appercezione (1) e di riflessione, cioè cam-
biamenti nell’anima stessa, di cui noi non ci accorgiamo perchè le
impressioni sono troppo piccole o troppo nume- rose o troppo unite fra di
loro in modo da non aver nulla che lo distingua partitamente ; ma, unito
ad altre, non mancano di produrre il loro effetto e di farsi sentire per
lo meno confusamente nell’ insieme. Così l'abitudine fa sì che noi
non ci accorgiamo del movimento di im mulino o di una cascata, quando vi
abbiamo abitato vicino per qualche tempo. Ciò non significa che tali
movimenti non conti- nuino a colpire i nostri organi, e che non avvenga
anche nell’anima qualche cosa che vi risponda ...., ma queste in-
pressioni che sono nell’anima e nel corpo, prive dell'attrat- tiva della
novità, non sono abbastanza forti per attirare la nostra attenzione e la nostra
memoria, le quali sono rivolte ad oggetti più interessanti. Giacché ogni
attenzione richiede memoria, e spesso, quando non siamo per così
dire ammoniti ed avvertiti di prestare attenzione a talune delle
nostre percezioni presenti, le lasciamo passare senza rifles- sione e
senza neppur notarle; ma se qualcuno ce ne avverte subito dopo, e ci fa
osservare per esempio un qual- siasi suono che si sia appena inteso, ce
ne ricordiamo, e ci accorgiamo di averne avuto poco fa una
sensazione. Così si trattava di percezioni di cui non ci eravamo ac-
corti immediatamente, derivando in questo caso l'apper- cezione solo
dall' avvertimento venuto dopo un intervallo sia pur minimo. Non si dorme
mai tanto profondamente da non aver qualche sensazione debole e confusa,
e non si sarebbe mai svegliati neppure dal più grande rumore del mondo,
so (1) Appercezione » significa percezione cosciente (A
j>ercevoir: accorgersi) Cfr. Monadologia , 8 14. ss
non si avesse una qualche percezione del suo inizio, che è piccolo;
cosi come, neppure col più grande sforzo del mondo, non si romperebbe mai
una corda so essa non fosse tesa e allungata un poco attraverso sforzi
minori; per quanto questa piccola estensione da essi prodotta, non
appaia. (Nuovi .Saggi, 1701 segg., Prelazione, G. V, 42 47).
Do Ila rappresentazione e percezione si parlerà più a lungo nel
volume che tratterà dei Nuovi Saggi. Qui è interessante notale come lo
sviluppo del concetto di monade influisca di- rettamente anche su tutti i
problemi gnoseologici. La monade assume sempre più le caratteristiche
dello spi- rito. Universale, priva di estensione, eterna, indistruttibile,
dotata di rappresentazione e azione, essa diviene come la pietra con cui
l’edificio deH’universo è stato costruito. Essa è spirito; ma tutto,
anche la materia, consta di monadi; sia, il mondo materiale sia il mondo
spirituale la devono assu- mere come punto di partenza. Da questa
concezione della monade come elemento costitutivo del mondo, e dall’
impegno di giustificare tutto attraverso essa, sorgono nuovi
sviluppi. Non si tratta più ora di studiare questo principio
sostanziale nella sua. intima costituzione: si tratta di vederlo agire nel
mondo. I problemi che si pongono a questo proposito si
possono ridurre a tre: quello dei rapporti della monade con la
suprema sostanza spirituale, cioè Dio; quello dei rapporti delle
varie monadi tra loro; e quello della giustificazione di una natura
corporea. Vedremo corno questi problemi siano vicendevol- mente
collegati. Le monadi e dio; accordo tra le monadi. - La rap-
presentazione di tutto l'universo e la tendenza alla propria
realizzazione che ciascuna monade tiene in sè, sono analoghe alla
tendenza e alla rappresentazione che caratterizzano la divinità. Per
questo riguardo la monade non è diversa da Dio. L) altro lato essa è una
creatimi di Dio; e il suo aspetto di creatura consiste proprio nel punto
di vista particolare da cui essa agisce e si rappresenta il mondo. In tale
rappresentazione ciascuna monade è completa in sè stessa, nè è possibile
che alcunché provenga ad essa dal di fuori: tutte lo sue affezioni,
passate, presenti e future, sono già contenute in ossa. La sua rappresentazione
del mondo è già chiusa in sè: il suo contenuto corrispondo al contenuto
delle altre monadi, allo stosso modo che due panorami di una città da
punti di vista diversi si corrispondono senza influenzarsi a vicenda.
Questa comple- tezza della monade chiusa in sè stessa, è espressa da
Leibniz con due detti celebri: il primo, che le monadi non hanno
fi- nestre', il secondo, che basta all’esistenza e universalità
della monade, che ci sia Dio ed essa sola al mondo. Dio
produce diverse sostanze, a seconda delle visioni differenti che egli ha
dell' universo -, e, attraverso V intervento di Dio, la natura propria di
ciascuna sostanza fa sì che ciò che accade all' una, corri- sponda a ciò
che accade a tutte le altre, senza però che l’una agisca immediatamente
sull’ altra. È in primo luogo chiarissimo che le sostanze create
di- pendono da Dio, il quale le conserva, anzi le produce con-
tinuamente per ima specie di emanazione, così come noi produciamo i
nostri pensieri. Infatti, dato che Dio volge, per così dire, da tutte le
parti e in tutte la maniere il si- stema generale dei fenomeni ch’egli
crede bene di produrre per manifestare la sua gloria, e guarda tutti gli
aspetti del mondo in tutti i modi possibili (poiché nessun rap-
porto sfugge alla sua onniscienza); ne consegue che il ri- sultato di
ciascuna visione dell’universo da un determinato punto di vista, è una
sostanza che esprime l’universo in modo conforme a tale visione, se Dio
crede bene di rendere il suo pensiero effettivo e di produrre tale
sostanza. E poiché la visione di Dio è sempre veritiera, lo sono
altresì le nostre percezioni : ma ciò che ci inganna sono i nostri
giudizi, che dipendono da noi. Ora noi abbiamo detto sopra, e
discende dalle nostre ulti- me affermazioni, che ciascima sostanza è come
un mondo a parte, indipendentemente da qualsiasi altra cosa all’
infuori di Dio. Così tutti i nostri fenomeni, cioè tutto ciò che ci
potrà mai accadere, non è che una conseguenza del nostro essere. E poiché
questi fenomeni conservano un certo or- dine conforme alla nostra natura,
o. per così dire, al mondo elio è in noi - onde possiamo fare
osservazioni utili a regolare la nostra condotta e giustificate dall'
avverarsi dei fenomeni futuri, e possiamo spesso arguire senza
errare 1’ avvenire dal passato . basterebbe questo per dire che
tali fenomeni sono veri, senza preoccuparsi se essi siano fuori di noi e
se anche gli altri li percepiscano. Tuttavia è pur vero che le percezioni
o espressioni di tutte le so- stanze si rispondono vicendevolmente, in
modo che cia- scuno, seguendo accuratamente certe ragioni o leggi
che ha osservate, s’ incontra con l' altro che fa altrettanto ;
così come, quando più persone si sono accordate di trovarsi insieme
in un determinato luogo e in un determinato giorno, lo possono fare
effettivamente se vogliono. Ora. nonostante che tutti esprimano i
medesimi fenomeni, non per questo le loro espressioni sono perfettamente
simili, ma basta che siano proporzionali: così come vari spetta-
tori credono di vedere la medesima cosa, e infatti si in- tendono
vicendevolmente, per quanto ciascuno veda e parli secondo la misura della
sua vista. Ora solamente Dio (dal quale emanano continuamente
tutti gli individui, e il quale vede l'universo non solo come lo vedono
essi, ma anche in modo completamente diverso) è causa di tale
corrispondenza dei loro fenomeni, e fa sì che ciò che è specifico di uno
sia comune a tutti; altrimenti non vi sarebbe alcun legame. Si potrebbe
dun- que dire — in certo modo e in senso esatto, per quanto lontano
dall'uso comune che una sostanza particolare non agisce mai su di
un'altra sostanza particolare nè è affetta da essa, se si considera che
ciò che accade a cia- scuna non è che una conseguenza della sola sua idea
o nozione completa ; poiché tale idea contiene già tutti i predicati
o eventi, ed esprime tutto l’universo. Infatti, niente ci può toccare se
non pensieri e percezioni, e tutti i nostri pensieri e le nostre
percezioni future non sono che conseguenze (sia pur contingenti) dei
nostri pensieri e percezioni precedenti; in modo che, se io fossi
capace di considerare distintamente tutto ciò che mi accade o mi
appare in questo istante, vi potrei vedere tutto ciò che mi accadrà o mi
apparirà in eterno; e ciò non ver- rebbe a manóare e mi accadrebbe pur
sempre, se anche tutto ciò che è fuori di me fosse distrutto, purché non
ri- manesse se non Dio e io stesso. ( Discovra de
métaphysique, 1686, § XIV). La differenza fra la monade e Dio consisto
dunque in ciò, die la monade è rappresentazione del mondo da un solo punt
o di vista; mentre Dio li raccoglie e riassume tutti in sé. E
<|uesto è anche il fondamento dell’accordo delle monadi fra di loro,
pur mantenendo ciascuna la sua autonomia e in- dipendenza. Le
percezioni confuse e l’azione reciproca delle mo- nadi. - Ma anche per un
altro lato si distingue la monade da Dio: perla minor chiarezza e
precisione della sua rappresentazione. Con le percezioni confuse Leibniz
riprende il concetto delle piccole percezioni. Ma mentre quelle servivano
a dimo- strare in ogni anima la presenza - sia pure incosciente e
in- distinta - di tutto il contenuto del mondo, queste fanno
ravvisare in tale incoscienza e confusione la causa della im- perfezione
propria di ciascuna monade. Nella rappresentazione delle monadi
sono contenuti bensì tutti i legami di causa ed effetto che costituiscono
l’universo: ma non come percezione chiara, distinta, perfettamente
svi- luppata. Man mano che ci si allontana dal punto di partenza
che costituisce 1 individualità essenziale di ciascuna monade, tale
percezione si fa indistinta e confusa. E la deficienza deriva dalla
imperfezione che è propria delle creature. In Dio, che è il luogo, per
così dire, di tutte le monadi e raccoglie in sé gli infiniti punti di
vista, la rappresentazione dell’universo nella sua totalità è sempre
perfettamente chiara e distinta. Le percezioni dei nostri sensi, quand'
anche sono chiare, devono necessariamente contenere una qualche
sensazione confusa; poiché, dato che tutti i corpi dell'universo
sim- patizzano, il nostro riceve 1’ impressione di tutti gli altri
: e quantunque i nostri sensi siano in rapporto col tutto, non è
possibile che la nostra anima possa por mente a tutto
particolareggiatamente. Questa è la ragione onde le nostre sensazioni
confuse sono il risultato di una varietà di percezione assolutamente
infinita. Così il mormorio con- fuso che vien udito da chi si avvicini
alla riva del maro deriva dalla riunione delle risonanze di imvumerevoli
onde. Ora, se fra varie percezioni (che non s'accordano affatto a
costituirne mia complessiva) non ve n’è alcuna che ec- cella al di sopra
delle altre, e se esse producono press’ a poco impressioni di uguale
intensità o ugualmente capaci di determinare l'attenzione dell'anima,
l'anima non può ac- corgersene se non confusamente. (
Discoltra de mélaphysique, J 080 , § XXXHI). La differenziazione
nella chiarezza della percezione è dunque ciò che costituisce
l'individualità di ciascuna monade e ciò che differenzia le monadi una
dall’altra. E anche spiega, in certo qual modo, come si possa parlare -
impropriamente però - di azione, di una monade sull’altra.
Poiché noi attribuiamo ad altre cose, come a cause che agiscano su
di noi, ciò che percepiamo in un certo modo, bisogna considerare il
fondamento di questa opinione e ciò che vi è in essa di vero.
L'azione di una sostanza finita sull’altra no>i consiste se non
nel- l’accrescimento del grado della sua espressione , unito alla
diminu- zione di quello dell'altra , in quanto Dio le obbliga ad
accordarsi. Ma senza entrare in una lunga discussione, basta
ora, per conciliare il linguaggio metafisico con la pratica, os-
servare che noi attribuiamo a noi stessi, e con ragione, piuttosto i
fenomeni che esprimiamo più perfettamente; e clie attribuiamo alle altre
sostanze ciò che ciascuna di esse esprime meglio. Così ciascuna sostanza,
clie è di esten- sione infinita in quanto esprime tutto, diviene limitata
per il modo della sua espressione più o meno perfetta. In tal modo
dunque si può concepire che le sostanze si impe- discano e limitino
vicendevolmente; e quindi si può dire in questo senso che esse agiscono
l’ima sull'altra e sono obbligate, per così esprimersi, a adattarsi l una
all'altra. Giacché può avvenire che un cambiamento che aumenti
l’espressione dell - una, diminuisca quella dell'altra. Ora la virtù di
mia sostanza particolare è di bene esprimere la gloria di Dio; ed è
questo l'aspetto onde ossa è meno li- mitata. E qualsiasi cosa, quando
esercita la sua virtù o potenza, cioè quando agisce, cambia in meglio e
si svi- luppa, in quanto agisce. E dunque, quando avviene un
cambiamento da cui più sostanze sono affette (e effetti- vamente ogni
cambiamento le tocca tutte), credo che si possa due che quella che per
questo cambiamento passa immediatamente ad un maggior grado di perfezione
o ad una espressione più perfetta, esercita la sua potenza e
agisce; e quella che passa ad un grado minore di perfe- zione, mostra la
sua debolezza e 'patisce. Ritengo inoltre che ogni azione della sostanza
che abbia una qualche per- cezione, comporti un qualche 'piacere ; e ogni
passione un qualche dolore, e viceversa. Ma può tuttavia accadere
che un vantaggio presente sia distrutto da un male maggiore in
seguito. D’onde deriva che si può peccare pur nell' agire o nell’
esercitare la propria potenza e provando piacere. (Discovra de
méiuphysique, 1686, § XV). Le percezioni confuse come corpo. -
Percezione distinta è dunque nella monade l’elemento attivo; percezione
confusa l’elemento passivo. Ora noiT si e già visto, a proposito
delle leggi della forza e del movimento, che Leibniz definisce
l’azione come il principio spirituale, e la passione (o passività)
come quello materiale? Le percezioni confuse, in quanto passive,
rappresentano nella monade il principio corporeo. Ho già detto che
da un punto di vista rigorosamente metafisico, considerando come azione
ciò che a va- iene alla sostanza spontaneamente e dal suo stesso fondo,
tutto ciò che è propriamente una sostanza non fa (thè agire, poi-
ché tutto le proviene da sé stessa dopo che da Dio, e non è possibile che
una sostanza creata abbia influenza sul- l’altra. Ma, considerando come
azione un esercizio di per- fezione, e passione il contrario, non vi è
azione nelle vere sostanze se non quando la loro percezione (e io
attribuisco percezione a tutte) si sviluppa e diviene più distinta;
e non vi è jxissione se non quando diviene più confusa. Di modo che
nelle sostanze capaci di piacere e di dolore, ogni azione è un avviamento
al piacere, e ogni passione al dolore. ( Nuovi Saggi, 1701
segg., II, 21, § 72). Le ideo e verità innate non possono essere
cancellate; ma sono oscurate in tutti gli uomini (al loro stato
attuale) dalla loro tendenza verso i bisogni del corpo, e spesso
ancor pili dalle cattive abitudini sopravvenute. Tali caratteri di
illuminazione interna sarebbero sempre splendenti nell" in- telletto
e darebbero calore alla volontà, se le percezioni confuse dei nostri
sensi non si impossessassero della no- stra attenzione. È questa la lotta
di cui parla la Sacra Scrittura e anche la filosofia antica e la
moderna. ( Nuovi Saggi, 1701 segg., 1, 2, § 20). Si ha
ragione di chiamare, coi filosofi antichi, perturba- zione o passione ciò
che consiste nei pensieri confusi, in cui vi è dell' involontario e dello
sconosciuto ; ed è ciò che nel linguaggio comune si attribuisce non
ingiustamente alla lotta fra corpo e spirito, poiché i nostri pensieri
confusi rappresentano il corpo o la carne, e costituiscono la no-
stra imperfezione. (Polemica eoi Bayle, 1702, G. It , olio).
D’altro lato, è interessante notare elio Leibniz, proprio con-
temporaneamente alla definizione delle percezioni confuse come
provenienti dalla natura corporea, riafferma che esse non hanno nulla di
essenziale che no distingua la natura da quella delle percezioni
distinte; che è come dire che la natura corporea non differisce
essenzialmente dalla natura spirituali'. Si concepiscono
generalmente i pensieri confusi come di un genere completamente diverso
dai pensieri distinti, e il nostro autore (1) giudica die lo spirito sia
più unito al corpo attraverso i pensieri confusi che attraverso
quelli distinti. Ciò non è senza fondamento, poiché i pensieri
confusi indicano la nostra imperfezione, le nostre pas- sioni, la nostra
dipendenza dall' insieme delle cose este- riori o dalla materia, mentre
la perfezione, forza, do- minio, libertà e azione dell’anima consistono
principal- mente nei nostri pensieri distinti. Tuttavia non è men
vero che, in fondo, i pensieri confusi non sono altro che ima
molteplicità di pensieri in sé stessi uguali ai distinti, ma tanto
piccoli che ciascuno separatamente non eccita la nostra attenzione e non
è distinguibile. Si può dire anzi che nelle nostre sensazioni ve ne è
com- presa insieme una quantità veramente infinita. E in ciò
consiste proprio la grande differenza fra i pensieri confusi e
quelli distinti.... . Così non bisogna punto concepire le
sensazioni contuse come qualche cosa di primitivo e di inesplicabile ;
altri- menti le si mettono press’ a poco a pari con le antiche qua-
lità di alcuni filosofi scolastici, (2) alle quali non si farebbe
(1) Il benedettino Francesco Lami, autore di una Connotane de soy , nènie
( Parici, 1«99), con cui Leibniz è qui in polemica. (2) Leibniz
allude qui alla concezione scolastica Becondocuiognisensa. zinne deriva
da differenti « qualità sensibili » che si muovono dai corpi esterni che
sostituire queste sensazioni se si volesse sostenere tale differenza
essenziale; e ciò non sarei) he che spostare la difficolta. E, quantunque
sia vero che la loro spiegazione completa superi le nostre forze a causa
della troppo grande molteplicità che esse implicano, non si cessa
tuttavia di penetrarvi sempre più, per mezzo di esperienze che
fanno scoprire in esse i fondamenti dei pensieri distinti. La luce
e i colori ci forniscono esempi di ciò. Queste sensazioni confuse, non
sono neppur esse arbitrarie; e io non sono d’accordo con l'opinione
accettata oggi dai più e seguita dal nostro autore, che non vi sia
somiglianza o rapporto fra le nostre sensazioni e le loro tracce
corporee. Direi piuttosto che le nostre sensazioni rappresentano ed
espri- mono perfettamente tali tracce. Taluno dirà forse che la
sensazione del calore non assomiglia al movimento: sì. senza dubbio, non
assomiglia a un movimento sensibile quale quello della ruota di una
carrozza; ma assomiglia all' insieme dei piccoli movimenti del fuoco e
degli organi che ne sono la causa; o piuttosto non è se non la loro
rappresentazione. Così la bianchezza non assomiglia a uno specchio
sferico convesso, e tuttavia non è che 1' insieme di una quantità di
piccoli specchi convessi quali si vedono nella schiuma, guardandola da
vicino. E se noi potes- simo sempre scoprire con la medesima facilità la causa
delle nostre sensazioni, troveremmo che essa si riduce sempre a qualche
cosa del genere. (Addition à
l'Explication du systeme nouteau, dopo il 1700, G. IV, 674-0). Corporeità
nella monade. Immortalità. - Si è giunti dunque a concepire il corpo come
un semplice aspetto dello spirito: o meglio, corpo e spirito come due
diversi aspetti della per penetrare in noi. Tale concezione faceva
di ogni sensazione alcunché di primitivo, originario, irresolubile. Le
varie sensazioni derivano invece per Leibniz dal differente comportarsi
di un’unica sostanza, e la differenza fra confuso e distinte — cioè fra
anima e corpo - è differenza di grado, non es- senziale. 7.
— I.kihniz, La monadologia. sostanza semplice originaria, o monade;
la quale non è in sè corporea, ma può, anzi deve svilupparsi in quanto
aumenti o diminuisca il suo grado di perfezione - come spirito o
come corpo. Le percezioni possono infatti divenire da confuse di-
stinte, e viceversa. Oltre alle percezioni di cui l'anima ha
ricordo, essa ne ha una quantità infinita di confuse, di cui non viene in
chiaro; e attraverso queste, essa rappresenta i corpi esterni, e
giunge a pensieri distinti diversi dai precedenti : perchè i corpi che
essa rappresenta sono passati d’ un tratto a qual- che cosa che colpisce
fortemente il suo. Cosi l’ anima passa qualche volta dal bianco al nero o
dal sì al no, senza sa- pere come, o almeno in modo involontario. Poiché
ciò che i suoi pensieri confusi e le sue sensazioni producono in
essa, si attribuisce al corpo. E non Insogna dunque meravigliarsi se un
uomo che mangia un dolce, e si trova punto da un qualche animale, passa
immediatamente, suo malgrado, dal piacere al dolore. Intatti l animale
era già in relazione col corpo dell'uomo avvicinandosi ad esso
prima di pungerlo, e la rappresentazione di ciò colpiva già la sua anima,
ma insensibilmente. Tuttavia a poco a poco F insensibile passa al
sensibile, nell' anima come nel corpo ; e così l’anima si modifica da sè
anche contro la sua volontà; poiché essa è schiava, attraverso le
sensazioni e i pensieri confusi che si formano secondo gli stati del
suo corpo e degli altri corpi in rapporto al suo. Ecco dunque per
quale meccanismo i piaceri si interrompono, e a volte succedono i dolori
senza che l'anima ne sia sempre avver- tita o vi sia preparata; come per
esempio nel caso che l'animale il quale pungerà si avvicini senza rumore;
op- pure, se fosse per esempio una vespa, quando una di- strazione
ci impedisce di fare attenzione al ronzio della vespa che si avvicina.
Così non bisogna punto dire che non è avvenuto nulla di nuovo nella
sostanza di questa anima, per cui essa passi alla sensazione della puntura: sono
i presentimenti confusi o, per meglio dire, le dispo- sizioni insensibili
dell'anima che rappresentavano la dispo- sizione alla puntura nel corpo. Osservazioni
al Dizionario del Bayle, G.). Discende anche necessariamente da
tutto ciò che ogni mo- nade, e perciò ogni anima, sia fornita di un
corpo. E, poiché ogni monade è eterna e ind istrutt ibile, non solo
l'anima è immortale, ma è anche indistruttibile il corpo; e di morte,
a ligoie, nella natura, non si può parlare, ma solo di una com-
posizione e scomposizione di vari elementi semplici tra loro. Io
ritengo non solo che queste anime o entelechie ab- biano tutte con sè un
qualche corpo organico proporzio- nato alle loro percezioni; ma anche che
Io avi-anno sempre e lo hanno sempre avuto da quando esistono: così
non solo l'anima, ma anche l'animale stesso (o ciò che è ana- logo
all anima e all animale, per non fare questioni di parole) permane, e la
generazione e la morte non possono essere se non sviluppi e involuzioni
di cui la natura ci mostra visibilmente alcuni saggi, secondo il suo uso,
per aiutarci a indovinare ciò che nasconde. E quindi nè il terrò,
ne il fuoco, ne tutte le altre violenze della natura, qualunque rovina
portino nel corpo di un animale, non pos- sono impedire all'anima di
conservare un qualche corpo organico, in quanto l'organismo, cioè
l'ordine e l'artificio, è qualche cosa di essenziale alla materia
prodotta e orga- nizzata dalla sovrana saggezza: poiché la produzione
deve sempre conservare traccia del suo autore. Questo mi fa pensare
anche che non vi sia alcuno spirito separato (I ) Quanto è qui
affermato contraddice solo in parte all' ipotesi dell’ar- monia
prostabilita, secondo la quale corpo e spirito sono due sistemi sepa-
rati, privi di influenze reciproche. Le percezioni confuse dell’anima
sono qui intese non come veraracute corporee, ma come rappresentatrici
nel- l'anima di ciò ohe avviene nel corpo. È innegabile però clic Leibniz
a volte attribuisce invece alle percezioni confuse un carattere
nettamente corporeo. (Cfr. pp. 94 ss., 110 ss.). completamente
dalla materia, salvo l'essere primo e so- vrano (1). .
(Lettera a Lady Mnsham, 1704, G. Ili, 340). In natura e
secondo un rigore metafisico, non vi è nè generazione nè morte, ma solo
sviluppo e involuzione di un medesimo animale. Altrimenti vi sarebbe un
salto ec- cessivo, e la natura uscirebbe troppo dal suo carattere
di uniformità per un cambiamento essenziale inesplicabile.
L’esperienza conferma tali trasformazioni in alcuni animali, nei quali la
natura stessa ci ha mostrato un piccolo saggio di ciò che essa nasconde
altrove. L' osservazione anche permette ai più accorti osservatori di
notare che la gene- razione degli animali non è altro che un
accrescimento ag- giunto alla trasformazione; il che consente di giungere
alla conclusione che la morte non può essere se non il con- trario;
consistendo la differenza solamente nel fatto che in un caso il
cambiamento si produce a poco a poco, e nell’altro d’ un tratto e come
violentemente. D'altronde, l'esperienza mostra anche che un numero troppo
grande di piccole percezioni poco distinte, come quelle che ven-
gono quando si è ricevuto un colpo alla testa, ci stoi- disce: e che in
un deliquio avviene che noi ricordiamo - e dobbiamo ricordare — così poco
di tali percezioni, come se non ne avessimo avute affatto. Dunque la
regola del- T uniformità ci deve permettere di non giudicare diversa-
mente anche della morte degli animali, secondo l'ordine naturale; poiché
la cosa è facile a spiegarsi in tale ma- niera già conosciuta e
sperimentata, ed è inesplicabile in qualsiasi altra maniera. Non è
intatti possibile concepire come cominci o termini 1 esistenza o 1 azione
del principio percettivo, nè la sua disgregazione. ( Lettera
alla regina Sofia Carlotta di Prussia, 1704, G. IH, alò). (1) Cioè
Dio, in uni non esistono percezioni oscure, nò passività, e in cui tutto
ò realizzato. Gerarchia delle monadi. - La concezione delle
percezioni distinte e confuse come criteri di perfezione o
imperfezione, dà a Leibniz il modo di stabilire una graduazione tra le
varie monadi. Le percezioni più elevate e complesse saranno segni
distintivi delle monadi più elevate. Si forma così una vera e propria
gerarchia, i cui gradi inferiori rappresentano gli infimi staili della
vita vegetativa, i superiori le più alte vette della spiritualità. La
monade dell’uomo sta al culmine di questa ascesa; e ciò che le
attribuisce tale titolo di nobiltà sono le percezioni riflesse, onde essa
giunge alle idee astratte, all’auto- coscienza, alla memoria di sè che le
garantisce la conservazione dellasua personalità individuale. AI di sopra
di tutto poi, come percezione sommamente distinta e completa, e oggetto
pure di ogni percezione particolare da parte delle monadi, è Dio.
Ogni monade, con un corpo particolare, costituisce una sostanza
vivente. Così non vi è solamente vita dapper- tutto, imita alle membra o
organi, ma questa vita si mo- stra in un' infinità di gradi nelle monadi,
dominando le une più o meno sulle altre. Ma quando la monade ha
organi così bene adattati, che per loro mezzo vi sia rilievo e
distinzione nell' impressione che essi ricevono, e quindi nelle percezioni
che rappresentano tali impressioni (come per esempio quando, per la
conformazione degli umori degli occhi, i raggi della luce sono
concentrati e agiscono con maggior forza), allora ciò può giungere fino
al sentimento ( 1 ), che è una percezione accompagnata da memoria,
della quale cioè resta a lungo una certa eco, per farsi sentire
occasionalmente. E un tale essere vivente è chiamato ani- male, così come
la sua monade è chiamata anima. E quando quest’anima s’ innalza fino alla
ragione, essa è qualche cosa di più sublime, e la si annovera fra gli
spiriti, come spiegheremo or ora. È vero che gli animali sono a
volte nello stato di semplici esseri viventi e le loro anime (1)
Questo termine (sentiment) è stato da noi a volte anche tradotto con la
parola « sensazione ». nello stato di semplici monadi: quando cioè le loro
per- cezioni non sono abbastanza distinte perchè ci se ne possa
ricordare, come nel caso di un sonno profondo senza sogni, o di uno
svenimento. Ma le percezioni divenute intera- mente confuse si devono
sviluppare di nuovo negli ani- mali.... Così è bene far distinzione fra
la percezione, che è lo stato interiore della monade che rappresenta le
cose esterne, e la appercezione, che è la coscienza o conoscenza
riflessiva di quello stato interiore, e non è data a tutte le anime, nè
sempre alla medesima anima.... Vi è nelle percezioni degli animali
un legame che ha qualche somiglianza con la ragione, ma non è
fondato che sulla memoria dei fatti o effetti, e non sulla cono-
scenza delle cause. Così un cane fugge il bastone da cui è stato colpito,
perchè la memoria gli rappresenta il do- lore che questo bastone gli ha
prodotto. E gli uomini, in quanto empirici, cioè nei tre quarti delle
loro azioni, non agiscono che come bestie: per esempio, prevediamo
che domani farà giorno perchè si è sempre fatta una tale espe-
rienza: ma solo l'astronomo lo prevede per via di ragione. E anche questa
previsione fallirà una volta, quando la causa del giorno, che non è
eterna, cesserà. Ma il vero ragionamento dipende dalle verità necessarie
o eterne,come quelle della logica, dei numeri, della geometria, che
costi- tuiscono la connessione indubitabile delle idee e le conse-
guenze immancabili. Gli animali nei quali tali conseguenze non si
osservano, sono eliiamati bestie. Ma quelli che co- noscono queste verità
necessarie, sono propriamente quelli che si chiamano animali ragionevoli,
e le loro anime sono chiamate spiriti. Queste anime sono capaci di
compiere atti riflessivi, e di considerare ciò che si chiama io,
so- stanza, anima, spirito, insomma le cose e le verità imma-
teriali. Ed è questa facoltà che ci rende partecipi delle scienze o dello
conoscenze dimostrative. ( Principe* (Iti la nature et de la yruce,
1711-14-, I». VI, 599-bOl). Differenza fra gli spiriti e le altre
sostanze, anime o forme so- stanziali ; e dimostrazione che V immortalità
di cui si vuol sostenere l’esistenza, implica la memoria. Supposto
che i corpi che costituiscono unum per se, come l'uomo, siano sostanze e
abbiano fonile sostanziali, e che le bestie abbiano anima, bisogna
riconoscere elio tali anime e forme sostanziali non possono perire
com- pletamente, non meno che gli atomi o le ultimo parti della
materia, secondo l’opinione degli altri filosofi; giac- ché nessuna
sostanza perisce, per quanto possa mutarsi. Esse esprimono tutto
l’universo, benché più imperfetta- mente che gli spiriti. Ma la
principale differenza consiste nel fatto che esse non conoscono ciò che
sono, nè ciò che fanno, e quindi, non potendo fare riflessioni, non
possono scoprire verità necessarie e universali. La mancanza di
riflessione su sé stesse è pure la ragione per cui esse non posseggono
alcuna qualità morale : ne deriva che, passando esse per mille
trasformazioni - press’a poco come un bruco si muta in farfalla - ciò
equivale per la morale o pratica ( 1 ) a dire che esse periscono. Si può
anzi dirlo, da un punto di vista fisico, così come diciamo che i corpi
periscono per corruzione. Ma l' anima intelligente, conoscendo ciò
che essa è, e potendo dire quella parola io che ha un così pro-
fondo significato, non solo permane e sussiste metafisica- mente anche
piii delle altre, ma rimane la medesima anche moralmente, e costituisce
il medesimo personaggio. Giac- ché è il ricordo o la conoscenza di quell’
io che la rende passibile di castigo o di ricompensa. Così 1’
immortalità ciie si richiede nella morale e nella religione non
consiste nella sola sussistenza perpetua che appartiene a tutte le sostanze;
poiché, senza il ricordo di ciò che si è stati, non (1) Morale, ha
per Leibniz e per tutti i filosofi del suo tempo anche il si- gnificato
di pratico, contingente, empirico. Si ò già visto (p. 27 ss.) come la
nooessità morale si applichi alle verità di fatto e si contrapponga alla
neces- sità di ragione, che dà l’assoluta cortezza, l’impossibilità del
contrario. avrebbe nulla di desiderabile. Supponiamo che un privato
qualsiasi debba divenire ad un tratto re della Cina, ma a condizione di
dimenticare ciò ch'egli è stato, come se nascesse di nuovo. Ebbene, in
pratica e quanto agli ef- fetti di cui ci si può accorgere, non è forse
come se egli dovesse essere annientato, e dovesse venir creato nel
me- desimo istante al suo posto un re della Cina? Cosa che questo
privato non ha alcuna ragione di desiderare. Eccellenza degli
spiriti, che Dio considera a preferenza delle al- tre creature. Oli
spiriti esprimono piuttosto Dio che il mondo , ma le altre sostanze
esprimono piuttosto il mondo che Dio. Ma, per permettere di
giudicare attraverso ragioni natu- rali che Dio conserverà sempre non
soltanto la nostra so- stanza, ma anche la nostra persona, cioè il
ricordo e la co- noscenza di ciò che noi siamo (benché la conoscenza
distinta ne sia a volte sospesa nel sonno e negli svenimenti),
bisogna unire la morale alla metafisica: cioè non bisogna soltanto
considerare Dio come il principio e la causa di tutte le so- stanze e di
tutti gh esseri, ma anche come il capo di tutte le persone o sostanze
intelligenti, e come il monarca asso- luto della più perfetta città o
repubblica, quale è quella dell' universo, composta di tutti gli spiriti
insieme; essendo Dio stesso insieme il più completo di tutti gli spiriti
e il massimo di tutti gli esseri. Sicuramente infatti gli spiriti
sono le sostanze pili perfette e che esprimono meglio la divinità. Ed
essendo la natura, il fine, la virtù e la fun- ziono delle sostanze nuli’
altro che di esprimere Dio e l’uni- verso (come è già stato spiegato a
sufficienza) non vi è ragione di dubitare che le sostanze che lo
esprimono con conoscenza di ciò che esse fanno, e che sono capaci
di conoscere grandi verità riguardo a Dio e all' universo, non lo
esprimano incomparabilmente meglio che quelle nature che sono o brute e
incapaci di conoscere le verità, o com- pletamente prive di sentimento e
di conoscenza: e la differenza fra lo sostanze intelligenti e quelle che non lo
sono è così grande come quella che c’è fra lo specchio e colui che
vede. E poiché Dio stesso è il piii grande e il più saggio
degli spiriti, è facile comprendere che gli esseri coi quali egli
può, per così dire, entrare in conversazione e perfino in società
comunicando ad essi i suoi sentimenti e le sue volontà in modo
particolare e in guisa che essi possano conoscere ed amare il loro
benefattore, lo devono interes- sare infinitamente pi fi che il resto
delle cose, le quali non possono essere considerate se non come strumenti
degli spiriti: così come noi vediamo che tutte le persone sagge
hanno molto maggior stima dell'uomo che di qualsiasi altra cosa, sia pur
preziosissima. E la pili grande soddisfazione che possa avere un’anima,
per altri riguardi contenta, è di vedersi amata dagli altri. Vi è tuttavia,
riguardo a Dio, questa differenza: chela sua gloria e il nostro culto non
pos- sono aggiungere nulla alla sua soddisfazione; non essendo la
conoscenza delle creatine se non una conseguenza della sua sovrana e
perfetta felicità, ben lungi dal contribuirvi o dall’esseme in parte la
causa. Tuttavia, ciò che è buono e ragionevole negli spiriti finiti, si
trova eminentemente in lui. E come noi loderemmo un re che preferisse
conservare la vita di un uomo che quella del più prezioso e più
raro fra i suoi animali, così non dobbiamo affatto dubitare che il
più illuminato e il più giusto di tutti i monarchi non abbia il medesimo
sentimento. Dio è il monarca delta più perfetta repubblica composta
di tutti gli spirili-, e il suo principale intento è la felicità di
questa città di THo. Effettivamente gli spiriti sono le
sostanze massimamente sus*cettibili di perfezione. E le loro perfezioni
hanno questo di particolare: che non si intralciano a vicenda, anzi
si aiutano; poiché soltanto i piti virtuosi potranno essere i più
perfetti amici. Ne segue chiaramente che Dio. il quale tende sempre alla
massima perfezione universale, avrà più cura degli spiriti e darà ad essi
non soltanto in generale ma anche a ciascuno in particolare, il massimo
di per- fezione permesso dall'armonia universale. Si può anzi
dire che Dio. in quanto è uno spirito, è l'origine delle esistenze;
altrimenti, se gli mancasse la vo- lontà per scegliere il migliore, non
vi sarebbe alcuna ra- gione affinchè esistesse un possibile a preferenza
di altri. Così la qualità posseduta da Dio, di essere egli stesso
uno spirito, precede tutte le altre considerazioni che egli può
avere riguardo alle creature: solo gli spiriti sono fatti a sua immagine,
appartengono quasi alla sua razza e sono come i figli della casa, perchè
essi soli possono servirlo li fieramente e agire coscientemente ad
imitazione della na- tura divina: un solo spùito vale tutto un mondo,
perchè non solo lo esprime, ma lo conosce pure, e vi si comporta al
modo di Dio. Così sembra che, quantunque ogni so- stanza esprima tutto
l'universo, pine le altre sostanze espri- mono piuttosto il mondo che
Dio, ma gli spiriti esprimono piuttosto Dio che il mondo. E tale natura
così nobile degli spiriti, ohe li avvicina alla divinità quanto è
possi- bile a semplici creatine, fa sì che Dio tragga da essi
gloria infinitamente maggiore che dagli altri esseri : o piuttosto
gli altri esseri non fanno che dare agli spiriti argomenti per
glorificare Dio. Questa è la ragione per cui quella qualità morale
di Dio che lo rende signore o monarca degli spiriti, lo tocca, per
così dire, personalmente in modo affatto smgolare. È in ciò ch'egli si
umanizza, ch'egli soffre rapporti umani, eh' egli entra in società con
noi, come un principe con i suoi sudditi; e tale rapporto gli è così
caro, che lo stato felice e fiorente del suo impero, consistente nella
massima felicità possibile dei suoi abitanti, diviene la suprema
delle sue leggi. Poiché la felicità è per le persone ciò che la perfezione è
per gli esseri. E se il primo principio del- l'esistenza del mondo fisico
è il decreto di dargli il mas- simo di perfezione possibile, il primo
disegno del mondo morale o della città di Dio, clie è la parte pili
nobile del- l'universo, sarà di diffondervi il massimo di felicità
pos- sibile. Non bisogna dunque affatto dubitare che Dio non
abbia ordinato il tutto in modo che gli spiriti non solo possano
vivere sempre, il che è inevitabile, ma anche ch'essi con- servino sempre
la loro qualità morale, affinchè la sua città non perda alcuna persona,
così come il mondo non perde alcuna sostanza. E quindi gli spiriti
saranno sempre ciò che sono, altrimenti non sarebbero suscettibili di
ri- compensa nè di castigo: il che d'altra parte appartiene
all'essenza di qualsiasi repubblica, ma sopratutto della più perfetta,
nella quale nulla può essere negletto. Ingomma, essendo Dio
contemporaneamente il più giusto e il più benevolo dei monarchi, e non
richiedendo se non la buona volontà, purché sia sincera e seria, i suoi
sudditi non potrebbero desiderare una condizione migliore. E, per
renderli perfettamente felici, egli vuole soltanto che lo amino.
Gesù Cristo Ita scoperto agli uomini, il mistero e le leggi ammi-
revoli del regno dei cieli e la grandezza della suprema felicità che Dio
prepara a coloro che lo amano. I filosofi antichi non hanno
abbastanza conosciuto que- ste importanti verità: Gesù Cristo solo le ha
espresse di- vinamente bene, o in modo così chiaro e famigliare,
che gli spiriti più grossolani le hanno potute concepire. Così il
suo Evangelo ha cambiato completamente la faccia delle cose umane: egli
ci ha mostrato il regno dei cieli, o quella perfetta repubblica degli
spiriti che merita il titolo di città di Dio, di cui ci ha scoperto le
leggi ammirevoli: egli solo ha mostrato come Dio ci ami, e con quale
esattezza abbia provveduto a tutto ciò die ci riguarda; che. preoc-
cupandosi dei passerotti, non trascurerà le creature ragio- nevoli che
gli sono infinitamente più care; che tutti i ca- pelli della nostra testa
sono contati; che cadranno il cielo e la terra, prima che sia cambiata la
parola di Dio e ciò che riguarda l'economia della nostra salvezza; che
Dio ha più riguardo alla minima anima intelligente, che a tutta la
macchina del mondo; che noi non dobbiamo temere ciò che può distruggere
il corpo ma non può nuocere all' anima, perchè solo Dio può rendere
l'anima febee od infebee; che le anime dei giusti sono nella sua mano al
coperto da tutte le rivoluzioni dell'universo, e nulla può agire su di
- esse se non Dio solo; che nessuna delle nostre azioni viene
dimenticata; che tutto viene messo in conto, anche lo pa- role oziose,
anche un cucchiaio d’acqua ben impiegato: infine, che tutto deve riuscire
per il maggior bene dei buoni; che i giusti saranno come dei soli, e che
nè i nostri sensi nè il nostro spirito non hanno mai gustato nulla
che si avvicini aUa febeità che Dio prepara a coloro che lo
amano. ( JJiecours de mélaphysique. Così termina il
Discours de métaphysique : nel quale, dal principio della differente
chiarezza di percezione nelle varie monadi, si giunge ad una gerarchia
degli esseri, e alla defi- nizione deU’anima o della personalità umana in
sè e nei suoi rapporti con la natura divina. Tale costruzione permette
a Leibniz uno di quegli sguardi armonici e complessivi su tutto
("universo, in cui fenomeni tìsici, concetti scientifici o filoso-
fici, principi morali, dogmi religiosi coincidono in una suprema armonia.
La materia come aggregato. - Si è studiata finora la natura del corpo
come elemento essenziale della monade, inse- parabile. dall'anima. Ma c’è
per Leibniz un modo rii conside- rare il mondo materiale da un altro
punto di vista. La materia può essere vista anello altrimenti che come
forza passiva, ap- partenente a ciascuna delle sostanze fondamentali onde
consta il mondo, o come ciò che vi è di confuso e indistinto nella
percezione della monade. Materia è, pili concretamente, tutto ciò che ci
sta intorno; tutto ciò che, nei suoi vari aspetti, cade sotto i nostri
sensi. Ora, questa materia, a volerla analizzare più a fondo, consterebbe
anch essa di unità sostanziali, di monadi: pur tuttavia ci si presenta,
così composita, senza ca- ratteri di attività o di spiritualità. La sua
materialità non dipende dalle unità che la costituiscono (e sappiamo che
non esistono unità che siano puramente materiali), ma dal fatto
stesso di non essere un’unità, ma un gruppo di unità: un <kj -
gregaio. Quanto alle forme sostanziali o entelechie
primitive..., io non le approvo se non quando le si considera
sostanze semplici, capaci di percezione e di appetito, insomma
anime, o qualche cosa che abbia analogia con l’anima, e che si potrebbe
chiamare principio di vita: e ritengo infatti che tutta la natura sia
piena di corpi organici viventi. Così non ritengo in verità che una
pietra sia essa stessa una sostanza corporea animata o dotata di un
principio di Ilo unità o di vita; ma ritengo che in essa vi
siano dapper- tutto di tali principi; e che non vi sia alcuna parte
di materia nella quale non si trovi un animale o una pianta o
qualche altro corpo organico vivente (quantunque di organico vivente noi
non conosciamo che le piante e gli animali). Così una massa di materia
non è propriamente ciò che io chiamo una sostanza corporea, ma
un'ammasso e una risultante ( aggregatovi ) di una infinità di tali
so- stanze, come lo è un gregge di pecore o un mucchio di
vermi. ( Éclaircissement sur les natures plastiques, G. VI,
550). Non dirò, come mi si accusa, che ci sia una sola
sostanza di tutte le cose e che questa sostanza sia lo spirito. Vi
sono invece tante sostanze distinte quante sono le monadi, e tutte le
monadi non sono spiriti. E queste monadi non compongono affatto un tutto
effettivamente unitario. Que- sto tutto, se esse lo componessero, non
sarebbe in nulla uno spirito. Mi guardo pure dal dire che la materia
sia un'ombra o un nulla. Sono espressioni esagerate. Essa è un
ammasso, non substantia seti substa ntiatum, cosi come sarebbe un
esercito, un gregge; e in quanto la si consideri come componente una cosa
unica, è un fenomeno; feno- meno ben reale effettivamente, ma la cui
unità è determi- nata dal nostro concepirla. (Frammento, G.).
L aggregato come eenomeno. - La materia, intesa in que- sto modo,
non viene ad avere nulla di reale. La sua essenza consiste appunto nel
fatto di essere una riunione di sostanze reali: in sé stessa, essa è
dunque qualche cosa di costruito, (li artificiale. Quando viene osservata
a fondo, si dissolve ne- cessariamente nei suoi componenti. Leibniz
esprime ciò col dire che essa ha natura fenomenica { 1). (1)
Fenomenico (da «palvopai, appaio), è termine usato fin da Platone per
indicare ciò che non ha realtà assoluta, ma è una apparenza. Sembra che a
rigore i corpi non meritino affatto il nome di sostanze; e questa pare
esser già stata l’opinione di Platone, il quale ha osservato che essi
sono esseri tran- seunti, i quali non sussistono mai più di un istante.
Ma questo è un punto che richiede più ampia discussione; e io ho
altre ragioni importanti che mi conducono a rifiu- tare ai corpi il
titolo e il nome di sostanze, metafisi- camente parlando. Perchè, per
dirla in una parola, il corpo non ha affatto una vera unità; non è che un
aggre- gato, che la scuola chiama puro accidente ; un insieme, come
mi gregge. La sua unità deriva dalla nostra perfe- zione. È un essere di
ragione o piuttosto di immaginazione, un fenomeno. (Evlretien
de Philarète et d’ Ariste, G. VI, 58(>). I corpi non possono
essere sostanze propriamente dette, poiché sono sempre solamente delle
unioni, risultanti di sostanze semplici o vere monadi, le quali non sono
estese e perciò non sono veri corpi. Onde i corpi presuppongono
sostanze immateriali. ( Lettera a Lady Masham, 1705, G.
111.357). II continuo e il discreto. — Di qui Leibniz trae
nuovi argomenti per dimostrare 1 irrealtà della natura corporea in
generale e la necessità di ricorrere, di là da essa, a qualche cosa che
sia fornito di più solida validità. Acquista anche nuova forza la sua
negazione del concetto di estensione. La monade in sè non è estesa; non è
considerabile se non come un « punto metafìsico ». L'*estcnsione non può
derivare che da una molteplicità, una ripetizione: in questo senso essa è
puramente fenomenica, così come lo è l’aggregato. La differenza
consiste nel fatto che la materia come aggregato è discreta , cioè
com- posta di un ammasso di unità indivi si biìn e Féstensione in-
vece è continua, cioè divisibile all" infinito. A maggior ragione
essa non sarà nulla di reale, ma un semplice ordine di rapporti spaziali,
così come il tempo è un ordine di rapporti successivi. Non vi sono
se non gli atomi di sostanza, cioè le unità reali e assolutamente prive
di parti, che siano le origini delle azioni e i primi principi assoluti
della composizione delle cose, e come gli ultimi elementi dell’analisi
delle cose sostan- ziali. Si potrebbe chiamarli punti metafìsici : hanno
alcunché di vitale e una specie di percezione, e i punti matematici
sono i loro punti di vista per esprimere l'universo. Ma (piando le
sostanze corporee sono ristrette insieme, tutti i loro organi non
costituiscono se non un punto fisico ri- guardo a noi. Così i punti
fìsici non sono indivisibili se non in apparenza: i punti matematici sono
esatti, ma non sono che modalità; e solo i punti metafisici o sostanziali
(costi- tuiti dalle forme o anime) sono esatti e reali. E senza di
essi non vi sarebbe nulla di reale, poiché senza le vere unità non vi
sarebbe alcuna molteplicità. ( Syslème nourea u, 1695, G. IV,
482-83). Benché la materia consista in un ammasso di sostanze
semplici innumerevoli, e la durata delle creature, così come il movimento
attuale, consista in un ammasso di stati momentanei, tuttavia bisogna
dire che lo spazio non è af- fatto composto di punti nè il tempo di
istanti, nè il movi- mento matematico di momenti, nè la tensione di
gradi estremi. Il fatto è che la materia, lo scorrere delle cose, e
insomma ciascun composto attuale, è ima quantità discreta, ma che lo
spazio, il tempo, il movimento mate- matico, la tensione e l’
accrescimento continuo nella velo- cità e in altre qualità, e insomma
tutto ciò la cui valu- tazione appartiene al campo delle possibilità, è
una quan- tità continuata e indeterminata in sé stessa, o
indifferente alle parti che vi si possono prendere e che vi si
prendono attualmente in natura. La massa dei corpi è divisa attual-
mente in modo determinato, e nulla non vi è esattamente continuato; ma lo
spazio o la continuità perfetta che è nell' idea, non indica se non una
possibilità indeterminata di dividere come si vuole. Nella materia e
nelle realta attuali, il tutto è un risultato di parti: ma nelle idee
e nei possibili (che comprendono non solamente questo imi- verso,
ma anche qualsiasi altro che possa essere concepito e che T intelletto
divino si rappresenti effettivamente), il tutto indeterminato è anteriore
alle ilivisioni, come la no- zione dell' intero è più semplice che quella
delle frazioni, e la precede.... Per meglio concepire la
divisione attuale della materia all' infinito e l'esclusione che vi è in
essa di ogni conti- nuità esatta e indeterminata, bisogna considerare che
Dio vi ha giti prodotto tanto ordine e tanta varietà, quanto era
possibile di introdurvi finora, e che così nulla vi è rimasto di
indeterminato, mentre 1' indeterminazione è l'es- senza della continuità.
Questo apprende il nostro spirito dalla perfezione divina; e l'esperienza
lo conferma attra- verso i sensi. Non vi è goccia d'acqua così pura, che
non vi si possa osservare qualche varietà, guardandola bene. Un
pezzo di pietra è composto di determinati granuli, e al microscopio
questi granuli appaiono come rocce nelle quali vi sieno mille giochi di
natura. Se la forza della nostra vista aumentasse continuamente,
troverebbe sempre campo per esercitarsi. Dappertutto vi sono varietà
attuali, e mai una perfetta miiforinità. Nè vi sono due parti di
materia completamente simili l ima all’altra, sia nel grande, sia
nel piccolo. (Lotterà alla elettrioe Sofia di Hannover, 1705, G.
V]], 502-63). Materia trema e seconda. - Il continuo è dunque spa-
zialità (o temporalità eco.) astratta; il discreto è aggregato, o
materia. E della materia Leibniz ha due concezioni diverse: da un lato
quella che abbiamo vista al Capitolo 111, come potenza passiva primitiva,
come quel substrato di resistenza, densità, « anti tip' a», al quale si
applica la forza, trasformandola in attività, entelechia; d’altro lato
questo concetto di aggre- gato, composizione, costruzione artificiale
posteriore alla mo- nade, non avente in sè una vera e propria
sostanzialità. Per distinguere tali due modi diversi di considerare la
materia, Leibniz usa i due termini di materia prima e materia
seconda. H. Leibniz, La mvnailoloi/ia. Nei corpi
io distinguo la sostanza corporea dalla ma- teria, e distinguo la materia
prima dalla seconda. La ma- teria seconda c un aggregato o composto di
varie sostanze corporee, come un gregge è composto di vari animali.
Ma ogni animale e ogni pianta, dal canto suo, è una sostanza
corporea, la quale ha in sè il principio dell' unità che fa sì die sia
veramente una sostanza e non un aggregato. E questo principio di unità è
ciò che si chiama anima, oppure qualche cosa che ha analogia con l'anima.
Ma oltre al principio dell’ unità, la sostanza corporea ha la sua
massa e la sua materia seconda, che è ancora un aggre- gato di altre
sostanze corporee più piccole, tino all' infi- nito. Tuttavia la materia
primitiva o presa in sè stessa, è ciò che si concepisce nei corpi
mettendo da parte tutti i principi dell' unità, è cioè ciò che vi è in
essa di passivo. Di qui derivano due qualità: resistenti a et restitantia
vel inertia. Cioè, un corpo non può essere penetrato, e cede
piuttosto a un altro corpo, ma non cede senza difficoltà e senza
diminuire il movimento complessivo di quello che lo spinge. Così si può
dire che la materia, in sè stessa, involve, oltre l'estensione, ima
potenza passiva primitiva. Ma il principio dell’unità contiene la potenza
attiva pri- mitiva, o la forza primitiva, la quale non si perde mai
e persevera sempre in un ordine esatto delle sue modi- ficazioni interne
che rappresentano quelle esterne. (Lettera al Burnett, 1699, U.
Ili, 260-261). L’anima e il corpo. Attraverso il concetto di
aggregato, Leibniz spiega anche la costituzione dei .corpi organici e
degli animali. TI loro corpo, egli dice, è un aggregato, con una
mo- nade, per così dire, dominante e ordinatrice, di natura su-
jieriore. Tale monade è l’anima e costituisce l’elemento per- manente di
ciascun individuo. Definisco 1* organismo, o macchina naturale,
come una macchina, ciascuna parte della quale sia una macchina a sua
volta (1). Perciò la sottigliezza del suo artificio va all ? infinito,
poiché nulla è tanto piccolo da poter essere trascurato; mentre le parti
delle nostre macchine artificiali non sono a loro volta macchine. Questa
è la differenza essenziale fra la natura e forte, che i nostri moderni
non hanno ancora considerato abbastanza. (Lettera a Lady
Magliari), G. Ili, 356). lo distinguo: l.°) fentelechia primitiva o
anima. 2.°) La materia prima o potenza passiva primitiva. 3.°) La
monade, composta di queste due. 4.°) La massa, o materia seconda, o
macchina organica, a formare la quale concorrono innu- merevoli monadi
subordinate. 5.°) L'animale o sostanza corporea, la cui unità è
determinata dalla monade domi- nante nella macchina. (Lettera
al Le Volder, 1703, G. Il, 252). E attraverso i due concetti di
materia prima c seconda, si for- mano pine duo concetti differenti di
anima. Il primo, come principio attivo insito nella monade, inseparabile
dalla sua pas- sività ; l’altro, come quella monade a carattere più
strettamente spirituale, che permane in ciascun individuo, mentre le monadi
formanti la massa del suo corpo variano e si trasformano. La
materia, senza le anime e forme o entelechie, non è che passiva, e le
anime senza materia non sarebbero che attive: poiché la sostanza corporea
completa veramente una, chiamata dalla scuola unum per se (opposta
all'essere per aggregazione), deve risultare del principio dell'
unità, che è attivo, e della massa che costituisce la molteplicità
e che sarebbe solamente passiva se essa non contenesse se non la materia
prima. Invece la materia seconda o massa, che costituisce il nostro
corpo, è tutta composta di parti che sono in sé sostanze complete quando
sono (1) Con la parola « macchina » Leibniz intende qui, come già
altrove, un organismo composito, cioè formato di parti
eterogenee. altri animali o
sostanze organiche animate o attuate a parte. Ma l'ammasso di queste
sostanze corporee organiz- zate che costituisce il nostro corpo, non è
imito alla nostra anima se non per quel rapporto che deriva dall'ordine
dei fenomeni naturali rispetto a ciascuna sostanza particolare. £
tutto ciò mostra come si possa dire da un lato che l' anima e il corpo
sono indipendenti l'uno dall'altro, dall'altro che limo è incompleto
senza l'altro, poiché in natura l'uno non è mai privo dell'altro.
( Additimi il l’explication <lu lyslèine noiueau, U. JY, 572-3).
Le lecci del mondo materiale e del mondo spirituale. - In qualunque
modo la si intenda, sia come materia prima o potenza passiva, sia come
materia seconda o aggregato, la natura corporea ha dunque qualche cosa di
irreale. Nel primo caso essa è un’astrazione, anteriore, |>er così
dire, alla monade; qualche cosa che senza la forza attiva di essa non è
ancor nulla: semplice aspetto inizialmente passivo di quella che
sarà un’attiva unità. Nell'altro caso è pure un'astrazione; poste-
riore, questa volta, alla monade: una riunione, un aggruppa- mento che
rimanda però sempre alla monade come al suo elemento costitutivo
essenziale. D’altro lato, però, la materia non è eliminabile dalla
monade. Essa le si accompagna sempre, come un momento, quasi, della
sua natura. Momento astratto sì, ma essenziale; attraverso il quale
necessariamente si deve passare per raggiungere la vera concretezza dell’entelechia,
o perfectihabies, nella traduzione di BARBARO (si veda). Questa materia che,
analizzata nel fondo della sua costituzione, si dissolve e perde ogni
realtà, puro ha ima parte fondamentale nel mondo concreto, natu-
rale e umano, come se lo rappresenta Leibniz. La monade è immateriale, si
è visto, eppure ritiene un suo aspetto mate- riale; così non vi è anima
senza corpo. Affermato questo, Leibniz va più in là, dimenticando quasi
le sue premesse che fanno della materia qualche cosa solo in funzione
dell’anima; e cerca leggi autonome e proprie del mondo materiale,
ben distinte da quelle del mondo spirituale. Egli ritorna quasi
alla concezione cartesiana, che aveva sempre combattuto, del- l'anima e
del corpo come due sostanze separate. E, per giu- dtifìcare la
distinzione, attribidsce al corpo la legge meccanica sella causa
efficiente, all'anima la legge vitale della finalità. Questo due leggi, che
abbiamo viste unite là dove il principio della ragion sufficiente, nelle
verità di fatto, rimandava diret- tamente a Dio (1), ora sono applicate
separatamente all’anima e al corpo. Ciò è giustificabile
anche, in parte, con la natura della monade. Essa, si è visto, contiene
in sè tutto lo sviluppo futuro dell’uni- verso allo stato di implicazione
causale: l’effetto, cioè, è già contenuto nelle cause che dovranno
necessariamente produrlo. E questa connessione causale puramente
meccanica e determi- nistica, ha carattere materiale. Per tale aspetto,
la monade è materia: è cioè un punto dell’universo perfettamente e
neces- sariamente determinato dalle cause da cui discende. D altro
lato però, l’universalità si esplica nella monade come rappre- sentazione
e appetito. La totalità dei rapporti è contenuta in essa allo stato di
implicazione pregnante, cosciente e attiva. In questa percezione e
appetito, che Leibniz immagina tendente al bene e retta dalla causa,
finale del v migliore », egli fa con- sistere l’anima. Leibniz fa anche
coincidere questa nuova distin- zione di anima-corpo, con l’altra in cui
si concepisce il corpo come percezione confusa e l’anima come percezione
distinta. Tutto nei corpi avviene meccanicamente, cioè attraverso le
qualità intelligibili dei corpi, quali la grandezza, la figura, e il
movimento; e tutto nelle anime deve essere spiegato vitalmente, cioè
attraverso le qualità intelligibili dell anima, quali la percezione e
l’appetito. E nei corpi animati noi vediamo esservi una mirabile armonia
tra vitalità e mec- canismo, se ciò che avviene nel corpo meccanicamente
viene rappresentato vitalmente nell’anima; e ciò che viene per-
cepito esattamente nell’anima, nel corpo ottiene la sua completa
esecuzione. Ne deriva che, conosciute le qualità del corpo,
possiamo curare le malattie dell’anima e, conosciute lo qualità
del- l’anima, curare le malattie del corpo. È infatti a volte più
facile sapere ciò che avviene nell’ anima che ciò che avviene nel corpo;
a volte viceversa. E ogni volta che noi usiamo delle indicazioni dell’
anima per essere d aiuto (l) Cfr. sopra, p. 19.
al corpo, possiamo parlare di una medicina vitale : metodo
questo che ha più ampia estensione di quanto non si creda comunemente,
perchè il corpo non soltanto risponde al- 1 anima nei movimenti che
vengono chiamati volontari, ma anche in tutti gli altri; quantunque, per
l'abitudine che ne abbiamo, noi non ci accorgiamo che l’anima viene
in- fluenzata o consente coi movimenti del corpo, o che questi
corrispondono alle percezioni e agli appetiti dell' anima. Infatti le
percezioni del corpo sono confuse, in modo che la corrispondenza non
appare così facilmente. E l'anima comanda al corpo in quanto abbia
percezioni distinte, gli obbedisce in quanto abbia percezioni confuse. Ma
pure, chiunque abbia una qualsiasi percezione nell’anima, può
essere certo di avere un qualche effetto di essa nel corpo e viceversa....
E le cose avvengono in modo tale, che a volte anche nei fatti naturali
noi ricerchiamo la verità at- traverso le cause finali, quando non si può
giungere fa- cilmente ad essa attraverso le cause efficienti.
(Frammento, C. 12- 13). Separazione dei due mondi. — Ora,
formulata questa di- stinzione, Leibniz rinuncia, in certo senso, a
proseguire per quella via che, attraverso la concezione del rapporto di
causa ed effetto come un rapporto di soggetto c predicato, lo aveva
condotto alla sostanza individuale e gli aveva permesso la risoluzione
dei concetti di corpo e spirito l’uno all’ altro. Qui egli accentua
invece la distinzione: corpo e spirito diven- gono due mondi separati,
due entità parallele ma prive di rap- porti fra di loro. La loro
situazione viene ad essere analoga a quella di due monadi distinte: il
contenuto di ciascuna cor- i ispoude a quello dell altra, senza che
perciò si possa dire che I una influisce sull altra (1 ). Così, ciò che
avviene meccanica- monte nel corpo, corrisponde a ciò che è nella
rappresentazione dello spirito: ma non per influenza dell'uno sull’altro
o per una qualsiasi unificazione. 1 rapporti dovranno essere
stabiliti attraverso un intervento della divinità. (1) Cfr. sopra,
p. 89 ss. Noi sperimentiamo che i corpi agiscono fra di loro se-
condo leggi meccaniche, e che le anime producono in sè stesse azioni
interne. E non vediamo alcun modo di con- cepire l'azione dell'anima
sulla materia o della materia sull’ anima, nè alcunché di analogo, poiché
non è affatto spiegabile attraverso un qualsiasi artificio che lo
variazioni materiali, cioè le leggi meccaniche, facciano nascere
una percezione; nè che dalla percezione possa derivare un cam-
biamento di velocità o di direzione negli spiriti animali e negli altri
corpi, siano essi sottili o grossi a piacere. Così, sia l'
inconcepibilità di un'altra ipotesi, sia il buon ordine della natura
uniforme in sè stessa (per non parlare qui di altre considerazioni), mi
hanno portato alla conclusione die l'anima e il corpo seguano
perfettamente la loro legge, ciascuno la sua separatamente, senza che le
leggi corporee siano turbate dalle azioni dell'anima, nè che i corpi
tro- vino finestre per far penetrare il loro influsso nelle anime.
Si domanderà dunque: D'onde viene questo accordo del- f anima col
corpo? (Lettera a Lady Masharn, 1704, G. Ili, 340-11).
L’armonia prestabilita. - 11 problema che sorge ora è quello di
questa corrispondenza del mondo corporeo con quello spirituale. Ma una
così netta distinzione dei due mondi non era necessaria alla dottrina
della monade. Leibniz fu forse indotto ad accentuarla, dal fatto di
trovarsi in pole- mica col Malebranche e con gli occasionalisti (1) e di
aver trovato un’ ipotesi più plausibile per risolvere il loro medesimo
problema. 11 desiderio di correggere 1' ipotesi occasionalistica e di
applicare la propria, gli fece forse formulare il problema negli stessi
termini che i suoi interlocutori, più di quanto non (1) Nicola
Malebranche (1638-1713) autore della Recherete de la viri té h il
rappresentante principale dell'occasionalismo, dottrina che spiegava la
corrispondenza tra l'ordine corporeo e l’ordine spirituale attraverso un
inter- vento continuo di Dio. In occasione di ciascun fatto avvenuto nel
mondo corporeo, Dio, secondo questa dottrina, suscita la corrispondente
rappre- sentazione nello spirito, e viceversa. Questo problema presuppone
natural- mente una netta separazione fra l'ordine corporeo e l’ordine
spirituale: separazione di marca prettamente cartesiana. Avessero
riohiesto i precedenti della sua dottrina. L’ ipotesi di cui parliamo è
quella famosa dell’ armonia prestabilita , di cui riportiamo qui alcune
fra lo molte esposizioni lasciatene dal Leibniz. I mmaginate
due orologi che si accordino perfettamente. l 'iò può avvenire in tre
maniere : la prima consiste nella mutua influenza di un orologio
sull’altro: la seconda nella cura di mi uomo che vi provveda: la terza
nella loro pro- pria esattezza. La prima maniera è quella dell’
influenza.... La seconda maniera di far sempre accordare due
orologi anche cattivi, potrebbe essere di farvi sempre provvedere
da un abile operaio che li accordi ad ogni istante: e questa è quella che
io chiamo la maniera dell’ assistenza. Infine la terza mainerà sarà
di fare da principio queste due pendolo con tanta arte e giustezza, da
potersi assi- emare il loro accordo per il futuro. E questa è la via
del- l’accordo prestabilito. Mettete ora l'anima e il corpo
al posto di questi due orologi: il loro accordo o simpatia avverrà pure
in una di queste tre maniere. La maniera dell' influenza è quella
della filosofia volgare; ma poiché non si possono concepire particelle
materiali, nè specie o qualità immateriali che possano passare dall’ima
di queste sostanze nell’altra, si è obbligati ad abbandonare questa
opinione. La maniera dell assistenza è quella del sistema delle cause
occasionali: ma ritengo che ciò significhi introdurre un Deus ex
machina ili un fatto naturale e ordinario, nel quale, secondo
ragione, egli uon deve intervenire se non nolla medesima maniera
nella quale concorre a tutti gli altri fatti della natura. Così non resta
che la mia ipotesi, cioè la maniera dell'ar- monia prestabilita attraverso
un artificio divino preven- tivo, il quale, fin da principio, abbia
formato queste so- stanze in un modo cosi perfetto e regolato con
tanta esattezza che, non seguendo se non le sue proprie leggi
ricevute insieme col proprio essere, ciascuna si accordi tuttavia con l’altra:
proprio come se vi fosse una mutua influenza o come se Dio vi mettesse
continuamente la mano, oltre il suo concorso generale.
(Tetterà del 1696, a. IV, 500-501). Vi è ordine e connessione
nei pensieri, come ve ne è nei movimenti; poiché l’uno risponde
perfettamente all'altro, quantunque la determinazione nei movimenti sia
bruta, e sia invece libera o con scelta nell’ essere che pensa, il
quale non è se non inclinato ma non costretto dal bene e dal male (1).
Infatti l’anima, rappresentando il corpo, conserva le sue perfezioni; e,
benché essa dipenda dal corpo (se ben si guardi) nelle azioni
involontarie, ne è indipendente e fa dipendere il corpo da se stessa
nelle altre. Ma questa dipendenza non è se non metafisica, e
consiste nel riguardo che Dio ha per l’uno regolando l'altro, o più per
1’ uno che per l’ altro, a seconda delle perfezioni originali di ciascun
individuo (2) ; mentre la dipendenza fisica consisterebbe in un’
influenza immediata che l’imo riceve- rebbe dall’altro, dal quale
dipenderebbe. (Nuovi Saggi, 1701 segg. II, 21, § 12).
L'armonia prestabilita fa sì che al cane entri il dolore nell'
anima, quando il suo corpo è colpito. E se il cane non dovesse essere
colpito ora, Dio non avrebbe dato fin dall’ inizio alla sua anima una
costituzione tale da produrre attualmente tale doloro in esso, e la
rappresentazione o percezione che risponde al colpo del bastone. Ma se
(cosa impossibile) Dio si pentisse e, senza mutare la natura del-
l’anima e il corso naturale dello sue modificazioni, mutasse il corso
delle nature corporee in modo tale che il colpo (1) Cfr. «opra, p.
27 ss. (2) Abbiamo già visto come in ragione delle sue percezioni
più distinte o più confuse, ciascuna monade partecipi più dello spirito o
del corpo, abbi» cioù maggiore o minore perfezione. Cfr. sopra, p. 94
ss. non arrivasse, ramina sentirebbe ciò che corrisponde a
questo colpo, mentre il suo corpo non lo riceverebbe af- fatto. Ma - dirà
il signor Bayle - io comprendo le ragioni per le quali il corpo del cane
è colpito dal bastone, ma non comprendo affatto come mai l'anima del cane
che prova piacere mentre mangia con appetito, passi così
subitamente al dolore senza che il bastone ne sia la causa (come
vor- rebbe la tesi scolastica), nè ne sia causa Dio in particolare
(come vorrebbero gli ocxasionalisti). Ma il signor Bayle non comprende
neppure come mai il bastone possa influire sull’ anima, nè come possa
avvenire l'operazione miraco- losa attraverso la quale Dio accorda
continuamente l'anima ai corpi. Invece io ho cercato di spiegare come
tale ac- cordo avvenga naturalmente, col supporre che ogni anima
sia uno specchio vivente rappresentante l' universo secondo il suo punto
di vista, ed eminentemente in rapporto col suo corpo. Così le cause che
fanno agire il bastone (cioè l’uomo posto dietro al cane, preparato a
colpirlo mentre esso mangia, e tutto ciò che nell'ordine corporeo
contri- buisce a disporre quell’uomo a quell'azione) sono anche
rappresentate fin da principio nell'anima del cane in modo esatto sì, ma
debole, per mezzo di percezioni piccole e confuse e senza appercezione,
cioè senza che il cane se ne accorga; perchè anche il corpo del cane non
ne è influen- zato se non impercettibilmente. E come, nell’ordine
delle nature corporee, queste disposizioni conducono finalmente al
colpo ben assestato sul corpo del cane, analogamente le rappresentazioni
di queste disposizioni conducono nel- l'anima del cane alla
rappresentazione del colpo di ba- stono: rappresentazione la quale,
essendo distinta e forte (come non lo erano le rappresentazioni delle
predisposi- zioni. poiché le predisposizioni influenzavano solo
debol- mente anche il corpo del cane), il cane se ne accorge ben
distintamente: ed è questo che determina il suo do- lore. Così non si
deve affatto immaginare che l'anima del cane, in questo caso, passi dal
piacere al dolore senza alcuno sviluppo e senza alcuna ragione
interna. (Osservazioni al Dizionario del Bayle, 1702, G., IV,
531-32) - Nel corpo tutto avviene meccanicamente secondo le
leggi del movimento, e nell'anima tutto avviene moralmente o
secondo le apparenze del bene e del male: in modo che, anche (piando si
tratta dei nostri istinti o delle azioni in- volontarie alle quali sembra
partecipare solamente il corpo, vi è nell'anima un appetito di bene o una
fuga dal male che la spinge; benché la nostra riflessione non possa
ben districarne la confusione. Ma se l'anima e il corpo seguono
così ciascuno separatamente le sue proprie leggi, come si incontrano essi
e come avviene che il corpo obbedisca al- l' anima, e che l'anima risenta
del corpo? Per spiegare questo mistero naturale bisogna ben ricorrere a
Dio, così come quando si tratta di dare la ragione primordiale del-
l’ordine e dell'armonia nelle cose. Ma questo ricorso non avviene che una
volta per tutte, e non come se Dio tur- basse le leggi dei corpi per
farli corrispondere alle anime, e viceversa. Egli ha invece fatto fin da
principio i corpi in modo tale che, seguendo le loro leggi e le tendenze
na- turali dei movimenti, essi verranno a fare ciò che l'anima
chiederà quando ne verrà il momento; e d'altra parte ha fatto le anime
tali che. seguendo le tendenze naturali del loro appetito, giungeranno anche
sempre alle rappresenta- zioni degli stati del corpo. Giacché, come il
movimento conduce la materia di figura in figura, così l’appetito
con- duce l'anima di immagine in immagine. E così l’anima è
inizialmente dominante ed obbedita dal corpo nella mi- sura in cui il suo
appetito è accompagnato da percezioni distinte che la fanno pensare ai
mezzi adatti quando essa vuole qualche cosa; ma è soggetta al corpo, pure
fin dal- 1’ inizio, in misura delle sue percezioni confuse. Noi
spe- rimentiamo infatti che tutte le cose tendono al cambiamento; i corpi
per la forza movente, e l’anima per 1 appetito che la conduce a
percezioni distinte o confuse, secondo la sua maggiore o minore
perfezione. E non bisogna affatto meravigliarsi di quest’accordo
primordiale delle anime e dei corpi, essendo tutti i corpi organizzati
secondo le in- tenzioni di uno spirito universale, ed essendo tutte le
anime essenzialmente rappresentazioni o specchi viventi dell uni-
verso, secondo la portata e il punto di vista di ciascuna, essendo essi
perciò altrettanto durevoli che il mondo stesso. È come se Dio avesse
variato 1 universo tante volte quanto sono le anime, o come se egli
avesse creato tanti universi in compendio, accordantisi nel fondo o
differenziati nel- l'apparenza. Non vi è nulla di così ricco come questa
sem- plicità uniforme, accompagnata da un ordine perfetto. E si può
ben pensare come ciascuna anima in sè stessa debba essere perfettamente
disposta, essendo ciascuna ima par- ticolare espressione dell'universo e
come un universo con- centrato; e ciò risulta anche dal latto che ciascun
corpo, e quindi il nostro pure, è affetto in qualche modo da tutti
gli altri, ed anche l'anima dunque vi partecipa. Ecco in poche parole
tutta la mia filosofia. (Lettera alla regina Sofia Carlotta di
Prussia). Tale ò l' ipotesi dell'armonia prestabilita; la quale
termina e corona il sistema di Leibniz, ma non si può dire che
aggiunga molto di essenziale alla dottrina della monade. TI
principio qui introdotto è quello medesimo onde viene dimostrata la
corrispondenza del contenuto di ciascuna monade con quello di tutte, pur
senza un’ influenza reciproca. Ma l’applicarlo ai rapporti fra anima e
corpo, obbliga ad una distinzione e se- parazione fra l’ordine corporeo e
l’ordine spirituale; mentre proprio nel superamento di tale separazione e
nella sintesi dei due ordini abbiamo ravvisato il valore piu specifico
del con- cetto di monade. Ma questa separazione è posteriore
idealmente a quel con- cetto. Nell’ applicare i principi trovati, nel far
agire la sua mo- nade come elemento costituente del mondo, Leibniz ricade
a volte in posizioni da lui già inizialmente superate, e mal inter-
preta sè stesso. Ciò che rimane essenziale in quanto si è visto ilei suo
pensiero è la struttura interna del concetto di monade : questa sintesi
di universale e individuale, di materia e spirito, ili attività e
passività, che è un punto di arrivo e un punto di partenza nella storia
della filosofia. /La monade, di cui parleremo qui, non è altro che ima
sostanza semplice che entra nei composti; semplice, cioè senza
parti. 2. ° E bisogna che vi siano sostanze semplici, dato
che vi sono composti; poiché il composto non è altro che un ammasso
o aggrega tum di semplici (1). •1." ^ h-a. dove non vi sono
parti, non vi è nè estensione, nè figura, nè divisibilità possibili (2).
E queste monadi sono i veri atomi della natura; in una parola gli
elementi delle cose. 4.° Non vi è neppure alcuna dissoluzione
da temere, e non vi è alcuna maniera concepibile nella quale una
sostanza semplice possa perire naturalmente. ó.° Per la medesima
ragione, non v'è alcun motivo per il quale una sostanza semplice possa
aver principio natu- ralmente; poiché essa non può essere formata per
com- posizione. 1 m ricerca (logli eleuiyuti semplici, (la cui
cleri vano per composizione tutte le altro cose, è una dello idee
fondamentali di Leibniz. Applicato al campo logico, questo concetto dà
luogo ai progetti di arte combinatoria, carattc- ristica, scienza
generale, lingua universale ecc. Cfr. p. 33 s. Sul concetto di aggregato,
cfr. p. 100 s. Si toglie così olla monade ogni carattere di materialità.
(3) Atomi immateriali, metafisici; non naturalmente le particelle
mate- riali indivisibili di cui parlano gli atomisti, e che Leibniz
combatteva. Così si può dire che le monadi non possono aver
principio nè fine se non d un tratto; cioè esse non pos- sono aver
principio se non per creazione, ne fine se non per annullamento; mentre
ciò che è composto comin- cia o finisce per parti (1). 7»
Neppure c'è modo di spiegare come una mo- nade possa essere alterata o
cambiata nel suo interno da qualche altra creatura; poiché in essa non e
possibile trasposizione, nè è concepibile movimento interno che vi
possa essere eccitato, diretto, aumentato o diminuito , ciò invece è possibile
nei composti, dove si danno cam- biamenti fra le parti. Le monadi non
hanno finestre pei le quali qualche cosa vi possa entrare o uscire. Gli
acci- denti non possono staccarsi nè passeggiare fuori delle sostanze.
come facevano una volta le specie sensibili deg scolastici. Così nè
sostanza, nè accidente, non possono en- trare dall’ esterno in ima monade
(2). 8° Tuttavia occorre che le monadi abbiano qualche
qualità; altrimenti non sarebbero neppure degli esseri. E se le sostanze
semplici non differissero affatto per le loro qualità, non si avrebbe
modo di accorgersi d. alcun cam- biamento nelle cose, poiché ciò che è
nel composto non può venne se non dagli ingredienti semplici; e se le
monadi fossero prive di qualità, sarebbero indistinguibili una dal-
l'altra. giacché esse non differiscono neppure nella quan- tità: e
quindi, ammesso il pieno, ciascun luogo non rice- verebbe mai, nel
movimento, se non l'equivalente (lei mo- vimento che aveva già avuto : e
uno stato di cose sarebbe y indiscernibile dall altro.
deducono dall’ immaterialità delle monadi la imposeibilUtà r
^ C,t (2) a N°elS monade, soggetto eomprendentegt arnese può
dire cl/e £ de™ da, di lucri, se tutto quanto le avviene è già compreso m
essa. Cfr. p. 89 ss. "'O.o Occorre inoltre che ciascuna,
monade sia differente da ogni altra. Poiché non vi sono in natura due
esseri che siano perfettamente uguali, e nei quali non sia pos-
sibile trovare una differenza interna o fondata su di una denominazione
intrinseca (1). 10. 0 Considero inoltre come ammesso, che ogni
essere creato, e quindi ogni monade creata, sia soggetta a mu-
tamento: e anzi che questo mutamento sia continuo in ognuna.
11.0 Da quanto abbiamo detto, consegue che i muta- menti naturali
delle monadi derivano da mi j)rinci]iio in- terno, dato che ima causa
esteriore non potrebbe influire sul loro interno (2). 12.° Ma
occorre pure che, oltre il principio del muta- mento, vi sia un dettaglio
(3) di ciò che muta-, il quale deter- mini, per così dire, la
specificazione e la varietà delle so- stanze semplici. v 13.°
Tale dettaglio deve implicare una molteplicità nel- l'unità o nel
semplice. Infatti, poiché ogni cambiamento naturale avviene per gradi, qualche
cosa cambia e qualche cosa resta; e quindi bisogna che nella sostanza
semplice vi sia una pluralità di affezioni e di rapporti, benché
essa non abbia parti. 14.° Lo stato transitorio che implica e
rappresenta una molteplicità nell’unità o nella sostanza semplice,
non (1) Nei §3 8-9 è affermata la differenziazione fra le varie
monadi; In quale deve fondarsi su alcunché di qualitativo, interno alla
monade stessa, riguardante la sua intima costituzione, e non le sue
relazioni esteriori. Questo principio intorno di ditTerenziazione è
costituito dal diverso punto di vista, secondo cui ciascuna monade
rappresenta l’universo. Sul principio dell’ iden- tità degli
indiscernibili, efr. p. 78 ss. (2) Il mutamento nolla monade
consiste nello sviluppo c nella realizza- zione di quanto è già implicito
in essa. In questo sviluppo essa manifesta la sua facoltà attiva o quella
conoscitiva: percezione c appetito. Cfr. p. 78, 80 ss., 89 ss.
(3) Traduciamo cosi, non trovando vocabolo migliore, la parola
ilétail, che altri traduce con a particolarità » o in modo affine. Essa
vuole indicare uno sviluppo completo, disteso e particolareggiato in
tutti i suoi dettagli. è altro che ciò che si chiama percezione
(1), da distinguersi y dalla appercezione o dalla coscienza, come si
vedrà in se- guito. A cpiesto proposito i cartesiani hanno
gravemente errato, non avendo tenuto conto delle percezioni di cui
non ci si accorge (2). E ciò puro li ha indotti a ritenere che i
soli spiriti fossero monadi e che non vi fossero affatto anime di bestie
nè altre entelechie; ed a confondere, come fa il volgo, un lungo
stordimento con la morto propria- 1 2 3 4 mente detta: il che li ha fatti
anche cadere nel pregiudizio scolastico delle anime interamente separate,
ed ha pure con- fermato gli spiriti mal disposti nell'opinione della
morta- lità dell'anima (3). * 15.° L’azione del principio
interno che determina il mutamento o il passaggio da ima percezione ad un
altra, può chiamarsi appetizione ; è vero che l’appetito non sem-
pre può giungere completamente all’ intera percezione cui tende; ma ne
ottiene pur sempre qualche cosa, e giunge a percezioni nuove (4).
16.° Noi stessi sperimentiamo una molteplicità nella sostanza semplice,
quando troviamo che il minimo pensiero (1) La percezione, questo
fatto dolio spirito, permetto dunque la sintesi dell’uno e del
molteplice, necessaria a conciliare l’unità e immaterialità della monade
oon la varietà e mutevolezza del suo contenuto. Percepire è cogliere una
molteplicità e riferirla ad un unico soggetto. 11 contenuto, diremmo noi.
è molteplice, la forma ò una. Cosi è nella monade; e ciò spiega conio la
va- rietà e mutevolezza in essa venga concepita da Leibniz in termini di
perce- zione. Cfr. p. 82 s. (2) « Accorgersi « traduce il
francese aptrCLVoir. Appercezione (aptreeptiev) significa dunque
l’accorgersi, cioè il percepire coscientemente, contrapposto al percepire
senza accorgersene, come nel caso delle piccole percezioni. Cfr. p. 87.
(3) Cartesio, che considera ogni attività conoscitiva come
razionale, quindi cosciente, non può attribuire tale attività se non
all’uomo, e la tiene nettamente separata da tutto ciò che è corporeo. Pi
qui gli inconvenienti sopra elencati, cui Leibniz vuole ovviare col suo
concetto di una percezione di cui non ci si accorge, e priva di ragione
(la piccola percezione), che sia quindi attribuibile anche agli animali e
che segni come un punto di con- tatto fra la materia e lo spirito. Cfr.
pp. 84 ss., 94 ss., 99 ss. Vedi anche in seguito, §§ 19 ss.
(4) L’appetito ò l’altra attività della monade, secondo cui essa può
pas- sare dall’uno al molteplice. Cfr. p. 80 ss. di cui ci
accorgiamo, implica una varietà nell'oggetto. Così tutti coloro che
riconoscono che l’ anima è una sostanza semplice, devono riconoscere
questa molteplicità nella mo- nade; e il Bayle non avrebbe dovuto
trovarvi difficoltà, come ha fatto nel suo dizionario, all'articolo
Borariua (1). 17. ° Peraltro bisogna pur riconoscere che la
percezione e ciò che ne dipende, è inesplicabile mediante ragioni
mec- caniche, cioè mediante ligure e movimenti (2). E supposto che
vi sia una macchina la cui struttura faccia pensare, sentire, aver
percezione, si potrà concepirla ingrandita, conservando le medesime
proporzioni, in modo che vi si possa entrare, come in un mulino. E posto
ciò, non si tro- verà, visitandola al! interno, se non pezzi spingentisi
vi- cendevolmente, ma nulla di che spiegare una percezione. E
dunque nella sostanza semplice e non nel composto o nella macchina
bisogna cercare la percezione. Anzi, non vi è se non questo che si possa
trovare nella sostanza semplice: percezioni e i loro cambiamenti. E solo
in ciò possono consistere tutte le azioni interne delle sostanze
semplici. 18. ° .Si potrebbe dare il nome di entelechie a
tutte le sostanze semplici o monadi create, poiché esse hanno in sè
stesse una certa perfezione (l/oum tò è tsXéc); vi è una autosufficienza
(afiràpxet*) che le rende fonti delle loro azioni interne, e, per così
dire, automi incorporei. l‘J.° Se vogliamo chiamare anima tutto ciò
che ha percezioni e appetiti nel senso generale che ho spiegato or
ora. tutte le sostanze semplici o monadi create potrebbero essere
chiamate anime; ma siccome il sentimento è qualche ( 1)
Nell’artieolo Korarius dei suo Dizionario, il Bayle discute P ipotesi
leibniziana dell'anuouia prestabilita; e a questo proposito trova
contradjt- toria la. tesi cho una sostanza semplice e priva di parti sia
soggetta a cam- biamento. (2) Ragioni meccaniche, lìgura,
movimento sono caratteristiche della pura in viaria. Leibniz le
contrappone alle cause finali, che sono proprie del mondo immateriale e
spirituale. Cfr. p. 116 ss. cosa di più che ima semplice percezione, io
acconsento a che il nome generale di monadi e entelechie basti per
le sostanze semplici che non hanno se non la pura perce- zione: e
che si chiamino anime solamente quelle la cui percezione è più distinta e
accompagnata da memoria (1). 20. ° Infatti noi sperimentiamo in noi
stessi uno stato in cui non ci ricordiamo di nulla e non abbiamo
alcuna percezione distinta; come quando cadiamo in deliquio o
quando siamo immersi in un sonno profondo senza sogni. In questo stato,
l'anima non differisce sensibilmente da ima semplice monade; ma siccome
questo stato non è dure- vole, e l’anima se ne Ubera, essa è qualche cosa
di più. 21. ° E non ne consegue punto che in tale stato la
sostanza semphee sia priva di percezione; ciò non è anzi possibile, per
le ragioni suddette; poiché essa non può pe- rire. nè può sussistere
senza qualche affezione, che non è poi altro che la sua perceziome. Ma
quando vi è una grande moltitudine di piccole percezioni, nelle quali non
vi è nulla di distinto, si è storditi; al modo che quando si gira
continuamente nello stesso senso per più volte di seguito si è presi da
una vertigine che può farci svenire e che non ci permette di distinguere
nulla. E la morte può de- terminare questo stato per un certo tempo negh
animali. 22. ° E, poiché ogni stato presente di una sostanza
sem- plice è naturalmente conseguenza del suo stato precedente,
sicché il presente in essa è gravido dell’avvenire (2); 23. °
dunque, poiché, appena desti dallo stordimento, ci si accorge delle
proprie percezioni, bisogna pure che se (1) La percezione pura e
semplico, incosciente o priva di appercezione tasta a costituire la
monade; ma le monadi più complesse c perfette si di- stinguono appunto
per una percezione più perfezionata, dotata di coscienza, di memoria eoe.
Cfr. §§ 24-30 e p. 101 ss. (2) Leibniz introduce qui
incidentalmente un suo principio fondamentale: il principio di causalità
o di ragion sufficiente. Ogni stalo della monade deriva da cause e
produce effetti, c se si segue tale connessione causale in tutto il suo
sviluppo, si va all’ infinito e si comprende tutto l’universo pas- sato e
avvenire. Cfr. p. 17 a., 35 ss. Vedi anche in seguito, § 32. ne siano
avute immediatamente prima, quantunque non ce ne siamo accorti ; poiché
una percezione non può venire in natura se non da un'altra percezione,
come un mo- vimento non può venire in natura se non da un movimento. Si
vede da ciò. che se noi non avessimo nulla di distinto e, per dir così,
in rilievo e di un più forte sapore nelle nostre percezioni, saremmo
sempre in uno stato di stordimento. E questo è lo stato delle monadi pure
e semplici. Così noi vediamo che la natura ha dato perce- zioni in
rilievo agli animali, dalla cura che essa si è presa di fornirli di
organi che raccolgono più raggi di luce o pili vibrazioni di aria per
aumentarne l'efficacia con l’u- nione. E vi è qualche cosa di simile
nell'odorato, nel gusto e nel tatto, e forse in una quantità di altri
sensi che ci sono sconosciuti. E spiegherò fra poco come ciò che
avviene nell’anima rappresenti ciò che avviene negli organi. La memoria
fornisce alle anime una specie di concatenazioM che imita la ragione, ma
che deve esserne distinta. Noi vediamo che gli animali, quando hanno
per- cezione di qualche cosa che li colpisce e di cui hanno già
avuto anteriormente una percezione simile, si attendono, per la
rappresentazione della loro memoria, a ciò che vi era unito in quella
percezione precedente, e sono portati a sentimenti simili a quelli che
avevano provati allora. Per esempio, quando si mostra il bastone ai cani,
essi si ram- mentano del dolore che esso ha loro causato, e
abbaiano e fuggono. Si riferisce qui al principio di continuità,
secondo il quale natura non facil saliti)). Cfr. p. 52. (2)
Leibniz stabilisce, in questi paragrafi e nei seguenti, i tre gradi della
gerarchia: lo monadi pure c semplici fornite di sole percezioni
incoscienti; quelle fornite di momoria, o animali, quelle fornite anche
di ragione, o spi- riti. Cfr. p. 101 ss. (3) Cfr. §§ 62, 78
ss. E la forte immaginazione che li colpisce e li com-
muove, deriva o dall’ intensità o dal numero delle perce- zioni precedenti.
Poiché spesso un' impressione forte pro- duce d’un sol tratto l’ effetto
di una lunga abitudine o di molte percezioni mediocri ripetute.
28. ° Gli uomini agiscono come le bestie, in quanto la
concatenazione delle loro percezioni non avviene se non per il principio
della memoria; assomigliano, per questo riguardo, ai medici empirici che
hanno una semplice pra- tica senza teoria; e noi non siamo che empirici
nei tre quarti delle nostre azioni. Per esempio, quando ci si at-
tende che domani faccia giorno, si fa ciò empiricamente, perchè finora è
sempre avvenuto così. Soltanto l’ astro- nomo giudica ciò per Ada di
ragione. 29. ° Ma la conoscenza delle verità necessarie ed
eterne è ciò che ci distingue dai semplici animali e ci dà la ra-
gione e le scienze, elevandoci alla conoscenza di noi stessi e di Dio. E
ciò si chiama in noi anima ragionevole o spirito. 30. ° Inoltre,
mediante la conoscenza delle verità necessa- rie e delle loro astrazioni,
noi siamo elevati agli atti riflessivi che ci fanno pensare a ciò che si
chiama io, o considerare che questo o quel contenuto è in noi ; ed è così
che, pen- sando a noi, noi pensiamo all’essere, alla sostanza, al
sem- plice e al composto, all' immateriale e a Dio stesso, col
concepire che ciò che in noi è limitato, è in lui senza limiti. E questi
atti riflessivi forniscono i principali oggetti dei nostri
ragionamenti. \ 31.° I nostri ragionamenti sono fondati su due
grandi principi ( 1 ) : quello delia contradizione, in A T irtù del
quale giu- dichiamo falso ciò che implica contradizione, e vero ciò
che è opposto o contradittorio al falso; (I) Passa ad altro
argomento: le grandi forme costitutive della realtà, c insieme i
fondamentali principi logici: verità di ragione, rette dal principio di
non contradizione, verità di fatto, rette dal principio di ragion
suflìciente o di causalità. Cfr. p. (i ss., 17 s. e quello
della ragion sufficiente, in virtù del quale consideriamo clic nessun
fatto può esser vero o esistente, nessuna proposizione veritiera, se non
vi è una ragione suf- ficiente per cui sia così e non altrimenti; benché
tali ra- gioni il più delle volte non possano esserci note. y 33°
Vi sono pure due specie di verità: quelle di ra- gione e quello di fatto
; le verità di ragione sono necessarie e il loro opposto è impossibile;
quelle di fatto sono con- tingenti e il loro opposto è possibile. Quando
una verità è necessaria, se ne può trovare la ragione per mezzo
del- l'analisi, risolvendola in idee e in verità più semplici, fin-
ché si giunga alle primitive (1). 34° Così nelle matematiche i
teoremi speculativi e i canoni pratici sono ridotti, per mezzo
dell’analisi, a defi- nizioni, assiomi e 'postulati, 35.° Vi
sono infine idee semplici, di cui non si può dare la definizione; vi sono
pure assiomi e postulati o, in una parola, principi primitivi che non
possono essere dimostrati, e non ne hanno bisogno ; e sono le
proposizioni identiche, il cui opposto contiene un'espressa
contradizione. 36° Ma la ragion sufficiente deve trovarsi anche
nelle verità contingenti o di fatto, cioè nell'ordine delle cose
dif- fuse nell'universo delle creature ; nel quale la risoluzione
in ragioni particolari potrebbe procedere fino a un frazio- namento senza
limiti, a causa della varietà immensa delle cose della natura e della
divisione dei corpi all' infinito. Vi è un" infinità di figure e di
movimenti presenti e passati, che entrano nella causa efficiente della
mia scrittura at- tuale; vi è un' infinità di piccole inclinazioni e
disposi- zioni della mia anima, presenti e passate, che entrano
nella causa finale (2). ( 1 ) È questo il metodo ilollu «
caratteristica» e « combinatoria »; cfr. p. .'iUtss- (2) La causa
liliale, che Leibniz usa con significati diversi secondo le oc- casioni,
rappresenta qui, per cosi dire, una causa efficiente rivolta verso
l’avvenire. ICssa dà il fine, lo scopo, l’intenzione secondo cui una
determinata E siccome tutto questo dettaglio non implica se non
altri contingenti anteriori o più dettagliati, ciascuno dei quali ha
ancora bisogno di una simile analisi perchè se ne possa rendere ragione,
per questa via non si procede affatto; e conviene che la ragion
sufficiente od ultima sia fuori dell’ ordine o seriett di questo
dettaglio di contingenze, * per quanto infinito esso possa essere.
38. ° E cosi la ragione ultima delle cose deve consi- stere in una
sostanza necessaria, nella quale il dettaglio dei cambiamenti non si
trovi se non in modo eminente, come in una fonte; e tale sostanza noi la
chiamiamo Dio. Ora, essendo tale sostanza ragion sufficiente di
tutto quel dettaglio, il quale inoltre è concatenato univer- salmente,
non vi è che un nolo Dio, e questo Dio è suflì-V dente. È da ritenere
inoltre che questa sostanza su- prema, che è unica, universale e
necessaria, non avendo nulla fuori di sè che sia da essa indipendente, ed
essendo semplice conseguenza dell'essere possibile, debba essere
in- capace di limiti e contenere la massima quantità possibile di
realtà. 4 1 . ° Donde consegue che Dio è assolutamente
perfet- to; non essendo la perfezione altro che la grandezza della
realtà positiva intesa precisamente, eliminando i limiti o confini nelle
cose che ne hanno. E là dove non vi sono confini, cioè in Dio, la
perfezione è assolutamente infinita. cosa è avvenuta. Contribuisce
quindi a determinare Je « ragioni della cosa stessa e rientra cioè nella
sua ragion sufficiente. Da causa tinaie serve a Leib- niz per indicare un
aspetto più spontaneo, attivo, spirituale, morale del prin- cipio di
ragion sufficiente. Essa si contrappone in questo senso alla causa
efficiente, la quale indirà un rapporto puramente materiale e meccanico.
Cfr. pp. li) s., 1 lfi ss. (1) Questa dimostrazione di Ilio è
basata sul principio di rugion suffi- ciente. Dio è la causa prima di
tutta la serie delle cose del mondo, delle verità di fatto empiriche e
contingenti. Egli non può però appartenere all’ordine delle cose contingenti,
altrimenti dovrebbe avere una causa fuori rii sè, e non sarebbe più causa
prima. Appartiene quindi all’ordine delle essenze necessario.
Ne consegue pure che le creature ricevono le loro perfezioni dall'
influsso di Dio, ma che derivano le imper- fezioni dalla loro propria
natura, incapace di essere senza limiti. Poiché in questo appunto esso
sono distinte da Dio. Tale imperfezione originaria delle creature, si
riscontra nel- f inerzia naturale dei corpi (1). 43. ° È
anche vero che Dio è non solo la fonte delle esistenze, ma anche quella
delle essenze in quanto reali, o di quanto vi è di reale nella
possibilità. Infatti V intel- letto di Dio è la regione delle verità
eterne, o delle idee da cui esse dipendono; e senza di lui non vi sarebbe
nulla di reale nelle possibilità, e non solamente nulla vi sarebbe
di esistente, ma neppure alcunché di possibile. Infatti, se vi è mia
realtà nelle essenze o possi- bilità, o nelle verità eterne, bisogna pure
che questa realtà si fondi su qualche cosa di esistente e di attuale; si
fondi quindi sull - esistenza dell'essere necessario, in cui l’essenza
implica l’esistenza, o cui basta di essere possibile per essere
attuale. Così Dio solo, ovvero l'essere necessario, ha questo
privilegio: che. se è possibile, bisogna che esista. E siccome nulla può
impedire la possibilità di ciò che non implica alcun limite, alcuna
negazione, quindi alcuna contradizione, ciò solo basta per riconoscere a
priori la esistenza di Dio (2). Noi l’abbiamo anche dimostrata per
(1) Perfezione è per Leibniz il massimo di realtà, di fatto compatibile
eoi principi della possibilità, determinati dalle verità di ragione. Cfr.
p. 21 ss. Imperfezione è una limitazione di realtà. L’intero complesso
del mondo dunque, cosi come 6 messo in opera da Dio, rappresenta il
massimo di realtà possibile, ed è perfetto. Solo le cose particolari sono
imperfette, in ragione appunto della loro particolarità. Questa
concezione àia medesima die Leib- niz svolge nella Teodicea.
(2) Questa è la prova ontologica del resistenza di Ilio. Leibniz lui
aggiunto alla formulazione cartesiana di essa il criterio della
possibilità. Bisogna an- zitutto, secondo lui, dimostrare che il concetto
dell’ente perfettissimo ò pos- sibile, cioè noninvolve contradizione. Sia
poiché esso è effettivamente pos- sibile, ne segue che esso contiene in
sé anche l'attributo dell’esistenza. Cfr. p. 13 ss. mezzo della realtà
delle verità eterne (1). Ma l'abbiamo di- mostrata or ora anche a
'posteriori (2), poiché esistono es- seri contingenti, i quali non
possono avere la loro ragione ultima o sufficiente se non nell essere
necessario che ha in aè stesso la ragione della sua esistenza.
40.° Tuttavia non bisogna punto immaginarci, come fa taluno, che le
verità eterne, essendo dipendenti da Dio, siano arbitrarie e derivino
dalla sua volontà, come sembra aver inteso Cartesio e dopo di lui il
Poiret (3). Ciò non è vero se non delle verità contingenti, il cui
principio è la convenienza o la scelta del migliore : laddove le verità
ne- cessarie dipendono unicamente dal suo intelletto e ne sono
l'oggetto interno. Così Dio solo è f unità primitiva, o la sostanza
semplice originaria di cui tutte le monadi create o derivate sono
prodotti; e queste monadi nascono, per così dire, per fulgurazioni
continue della divinità, di momento in momento, limitate dalla
recettività della creatura, alla quale è essenziale di essere
limitata. 4 8.° \ i è in Dio la potenza , che è la sorgente di
tutto, la conoscenza che contiene il dettaglio delle idee, e la vo-
lontà che determina i mutamenti o le produzioni secondo il principio del
migliore (5). E ciò corrisponde a quello che nelle monadi create
costituisce il soggetto o base, la fa- coltà percettiva, e la facoltà
appetitiva. Ma in Dio questi (1) Ai §§ 43, 44. (2) Ai
§§ 37-30. (3) Teologo protestante. Questa affermazione correggo in
parte quunto fc stato attenuato ai SS 43 o 44. Le verità di ragione, clic
danno la possibilità delle cose, hanno pure una loro realtà di esseri
possibili. Questa realtà deriva loro da Dio. Ma la loro conformazione in
quanto principi regolativi dell’universo, ha una validità a sò stante,
indipendente anche dalla volontà di Dio. Solo le esistenze o realtà di fatto
sono messe esplicitamente in opera da lui, secondo il criterio del
«migliore». Cfr. pp. 13 ss., 18 ss. (5) L’intelletto divino Ita
come contenuto le verità di ragione; la sua volontà mette in opera le
realtà di fatto. attributi sono assolutamente infiniti e perfetti; e
invece nelle monadi create o entelechie (o PERFECTIHABIES, secondo
la traduzione di questa parola data da BARBARO (si veda)) essi non sono se non
imitazioni, in ragione della perfezione di ciascuna. 49. ° La
creatina è detta agire verso l’ esterno in quanto essa ha perfezione, e
{Mire da parte di un’altra in quanto è imperfetta. Così si attribuisce
azione alla monade in quanto essa ha percezioni distinte, e passione in
quanto ha percezioni confuse. E ima creatura è più perfetta di un'altra,
in quanto si trova in essa ciò che serve a render ragione a priori
di ciò che avviene nell'altra; ed appunto per ciò si dice che l una
agisce sull’altra. 51. ° Ma nelle sostanze semplici non si tratta
che di un' influenza ideale di una monade sull’altra; influenza che
non può avere il suo effetto se non per 1" intervento di Dio, in
quanto, nelle idee di Dio, una monade pretende con ragione che Dio, regolando
le altre fin dal principio delle cose, abbia riguardo ad essa. Infatti,
giacché una monade creata non può avere influenza fisica sull'
interno dell'altra, solo per questa via può verificarsi una dipen-
denza dell’ima dall’altra. f>2.° Per questo appunto, fra le
creature, le azioni e passioni sono reciproche. Infatti Dio, paragonando
due sostanze semplici fra loro, trova in ciascuna ragioni che
l’obbligano ad adattarvi l'altra; e quindi ciò che è attivo per certi
riguardi, è passivo da un altro punto di vista; attivo in quanto ciò che
in esso vien conosciuto di- stintamente serve a render ragione di ciò che
accade in un altro; e passivo in quanto la ragione di ciò che
accade Filologo e filosofo italiano, tradusse in latino vario opere
di Aristotele. (2) Sulle percezioni confuse, efr. p. 92 ss.
in esso si trova in ciò che vien conosciuto distintamente in un altro
(1). 53. ° Ora, poiché vi è un' infinità di universi possi-
bili nelle idee di Dio, e invece non ne può esistere che uno solo,
bisogna che vi sia una ragione sufficiente della scelta di Dio, che lo
determini a scegliere uno piuttosto che l’altro. 54. ° E questa
ragione non può trovarsi se non nella convenienza o nel grado di
perfezione che questi mondi contengono; poiché ogni possibile ha diritto
di pretendere all'esistenza, in ragione della perfezione che
racchiude. 55. ° E ciò appunto è la causa dell’esistenza del
mondo migliore, che la saggezza fa conoscere a Dio, la sua bontà gli fa
scegliere e la sua potenza gli fa pro- durre (2). 5(j.° Ora
questo legame o adattamento di tutte le cose create a ciascuna singola, e
di ciascuna a tutte le altre, fa sì che ogni sostanza semplice contenga
in sé rapporti (I) Le monadi, ohe sono senza Maestre (J 7), non
possono agile l una sull’altra. Il contenuto di ciascuna corrisponde a
quello di tutte le altre, in quanto ciascuna è un punto di vista preso
sul medesimo universo. (§§ 50-57), Ciascuna contiene nel suo intimo tutto
il proprio sviluppo; e tutto le viene dal suo intorno, nulla dal di
fuori. Solo in senso improprio c metaforico si può parlare d’influenza di
una monade sull’altra. 11 diverso punto di vista dal quale l’ universo
viene rappresentato, costituisce la particolare individualità di ciascuna
monade; esso viene indicato dalla di- versa sfera delle percezioni
distinte che rappresentano, per così dije, la zona centrale di ogni
monade, mentre le confusene rappresentano la peri- feria. (Cfr. § 60). Questa
varia collocazione reciproca dei centri e delie peri- ferie ò ciò che
permette una differenziazione fra le varie monadi. Ora, se si vuol
chiamare attivo il centro, incili si hanno percezioni distinte, e pas-
siva la periferia che ha solo percezioni confuse (§49), si potrà parlare
anche di una sfera di attività in ciascuna monade, cui corrisponde una
sfera di passività nelle altro; insomma di una certa azione ideale
dcH’una sull’altra. Cfr. p. 93 ss. (2) I mondi possibili,
cioè concepiti dall’ intelletto di Dio secondo i prin- cipi di ragione,
sono influiti. Dio sceglie fra di essi uno, il migliore, cioè il piò
perfetto. È più perfetto quello che, una volta attuato, cioè passato
dalla pura possibilità alla effettiva esistenza, contiene il massimo di
realtà. Ogni possibile, insomma, è tanto più perfetto, a quanta maggior
quantità di esi- stenza può dar luogo. Cfr. pp. 19-24. V. anche S§ 40-42,
46. clic esprimono tutte le altre, e sia per conseguenza uno
specchio vivente perpetuo dell'universo. 57.° E come una medesima
città, guardata da diffe- renti punti, sembra diversa ed è come
moltiplicata in prospettiva, analogamente avviene che, per la
moltepli- cità infinita di sostanze semplici, vi sono come altrettanti
universi differenti, i quali non sono peraltro se non le prospettive di
un universo solo, secondo i differenti punti di vista di ciascuna
monade. ò8.° È questo il modo di ottenere il massimo di va-
rietà possibile, ma con quanto pili ordine si può; cioè il massimo di
perfezione possibile. Dunque solo questa ipotesi (che io oso dire dimo-
strata) esprime in modo adeguato la grandezza di Dio. Ciò fu riconosciuto
anche dal Bayle, quando, nel suo Dizionario (articolo Rorarius), mosse ad essa
obiezioni; fu anzi spinto a credere che io attribuissi troppo a Dio,
e più che non sia possibile. Ma egli non potè addurre alcuna
ragione che dimostrasse 1' impossibilità di questa armonia universale, la
quale fa sì che ogni sostanza esprima esat- tamente tutte le altre per i
rapporti che ha con esse. Si vedono fi altronde, in ciò che ho esposto,
le ragioni a priori per cui le cose non potrebbero procedere
diversamente. Dio infatti, regolando il tutto, ha avuto riguardo a
ciascuna parte, e particolarmente ad ogni monade; la cui natura essendo
rappresentativa, nulla la può limitare a non rappresentare se non una
parte delle cose; benché sia vero che questa rappresenta- zione non
è se non confusa nel dettaglio di tutto l'uni- verso, e non può essere
distinta che per una piccola parte delle cose, per quelle cioè che sono o
più vicine o pili glandi rispetto ad ogni monade; altrimenti ogni
monade sarebbe una divinità. Non nell’oggetto, ma nella modifi-
cazione della conoscenza dell'oggetto, le monadi sono li mitate. Esse
tendono tutte confusamente all’ infinito, al tutto; ma sono Limitate e
differenziate secondo i gradi delle percezioni distinte (1).
tìl.° E i composti in ciò corrispondono ai semplici. Intatti,
siccome tutto è pieno (il che fa sì che tutta la materia sia concatenata
(2)), e siccome nel pieno ogni movimento opera qualche effetto sopra i corpi
distanti in ragione della distanza, di modo ohe ogni corpo non solo
è affetto da quelli che lo toccano e risente in qualche modo di tutto ciò
che accade ad essi, ma anche per mezzo loro risente di quelli che toccano
i primi da cui esso è toccato immediatamente; ne consegue che questa
comu- nicazione va a qualsiasi distanza. E quindi ogni corpo
risente di tutto ciò che avviene nell' universo; sì che chi avesse la facoltà
di veder tutto, potrebbe leggere in cia- scun corpo ciò che avviene
ovunque, ed anche ciò che è avvenuto e avverrà; osservando nel presente
ciò che è lontano, sia secondo il tempo, sia secondo lo spazio:
ffup.7r.oia 7ràvTa (4), diceva lppocrate. Ma mi' anima non può leggere in
sè stessa se non ciò che vi è rappresen- tato distintamente; essa non
saprebbe svolgere in una sola volta tutte le sue pieghe, perchè esse
vanno all' in- finito. (i2.° Così, quantunque ogni monade
creata rappresenti tutto l'universo, essa rappresenta piii distintamente
il corpo che lo si riferisce particolarmente e di cui essa
costituisce l’entelechia: e siccome tale corpo esprime tutto
l'universo a causa della connessione di tutta la materia nel pieno. Ciascuna
monade, in quanto rappresentativa ili tutto l’universo, è analoga alla
divinità. Solo la minor foiza di questa rappresentazione la rende
imperfetta e la ditTerenzia dalla divinità e dalle altro monadi. In Dio
tutto è chiaro e distinto. Nella monade sono distinte solo le percezioni
più vicino al contro, come si è già visto. (§? 49-52) Cfr. pp. 78, 92
ss. (2) Leibniz non ammette il vuoto, per il suo principio della
continuità applicato alla materia.Ecco un’altra formulazione della
concatenazione universale secondo il principio di causalità, considerato
questa volta nel suo aspetto fisico. i Tutto ù conspirante
». l’anima, nel rappresentare questo corpo clie le appartiene in
maniera particolare, rappresenta insieme tutto runiverso. Il corpo
appartenente ad una monade che ne è l’entelechia o l’anima, costituisce
con l’entelechia ciò che si può chiamare un vivente, e coll'anima ciò che
si può chiamare un animale. Ora questo corpo di un vivente o di un
animale è sempre organico; poiché, essendo ogni monade a suo modo uno
specchio dell’ imiverso, ed essendo l'universo regolato in un ordine
perfetto, bisogna pure che vi sia un ordine nel rappresentante, cioè a
dire nelle per- cezioni dell’ anima, e per conseguenza nel corpo,
secondo il quale l'universo è rappresentato nell’anima.
(>4.° Così il corpo organico di ogni vivente è ima specie di
macchina divina o di automa naturale che supera infi- nitamente tutti gli
automi artificiali. Perchè una macchina fatta dall’arte dell' uomo non è
macchina in ciascuna delle suo parti. Per esempio, il dente di una ruota
di ottone ha parti o frammenti che non sono più per noi qualche
cosa di artificiale e non hanno più nulla con carattere di macchina
riguardo all'uso cui la ruota è destinata. Ma le macchine della natura,
cioè i corpi viventi, sono ancora macchine nelle loro più piccole parti,
all' infinito. Ciò de- termina la differenza fra la natura e l'arte, cioè
fra l’arte divina e la nostra (2). 65.° E 1 autore della
natura ha potuto operare questo artifìcio divino e infinitamente
meraviglioso, perchè ogni porzione di materia non solo è divisibile all’
infinito, come hanno già riconosciuto gli antichi, ma è anche
suddivisa attualmente senza fine, ogni parte in parti, ognuna
(1) « LI corpo - commenta il Boutroux (eil. eit., p. 178) -, attraverso
lo infinite percezioni confuse relative all’univerBO che esso determina
ncl- l’auima, ò il nesso che riunisce l’anima al resto del mondo, che fa
cioè comu- nicare lo anime fra di loro. È questa un’altra applicazione
del principio di continuità alla materia. Lkiuniz, La monadologia. delle
quali ha qualche movimento proprio; altrimenti sa- rebbe impossibile che
ogni porzione della materia potesse esprimere tutto l’ universo.
66. ° Donde si vede che vi è un mondo di creatine, di viventi, di
animali, di entelechie, di anime anche nella minima particella di
materia. 67. ° Ogni porzione di materia può essere concepita
come un giardino pieno di piante, e come uno stagno pieno di pesci. Ma
ogni ramo della pianta, ogni membro dell' animale, ogni goccia dei suoi
umori, è ancora un giar- dino, uno stagno. 68. ° E quantunque
la terra e l'aria interposta fra le piante del giardino, o l’acqua
interposta fra i pesci dello stagno, non siano punto pianta nè pesce,
esse ne conten- gono tuttavia ancora; ma per lo più di una
piccolezza a noi impercettibile. Cosi non vi è nulla di incolto, di
sterile, di morto nell'universo; e non vi è caos nè confusione se non in
ap- parenza; press' a poco come apparirebbe confusione in uno
stagno, ad una distanza dalla quale si vedesse un movi- mento confuso, un
brulichio, per così dire, di pesci, senza discernere i pesci stessi. Si
vede da ciò che ogni corpo vivente ha una entelechia dominante che è f
anima nell'animale; ma le membra di questo corpo vivente sono piene di
altri viventi, piante, animali, ciascuno dei quali ha ancora la sua
ente- lechia, o la sua anima dominante. 71. ° Ma non bisogna
immaginare, come fece taluno che aveva male inteso il mio pensiero, che
ogni anima abbia una massa o porzione di materia propria o
applicata ad essa per sempre, e che essa possieda quindi altri vi-
venti inferiori, destinati sempre al suo servizio. Poiché tutti i corpi
sono in un flusso perpetuo, come fiumi; e parti vi entrano e ne escono
continuamente. Così l’anima non cambia di corpo se non a poco a
poco, per gradi, di modo che essa non è mai spogliata ad un tratto di
tutti i suoi organi; e vi è spesso metamor- fosi negli animali, ma non
mai metempsicosi nè trasmi- grazione delle anime; non vi sono neppure
anime comple- tamente separate, nè genii senza corpo. Dio solo è
staccato interamente dal corpo.Perciò anche non vi è nè generazione
assoluta, nè morte perfetta, intesa rigorosamente, come separazione
dall’anima. E ciò che noi chiamiamo generazione , è sviluppo e
accrescimento; come ciò che noi chiamiamo morte, è involuzione o
diminuzione. I filosofi sono stati molto imbarazzati sull’origine delle
forme, entelechie, o anime; ma oggi che ci si è ac- corti, per mezzo di
ricerche esatte sulle piante, sugli in- setti e sugli animali, che i
corpi organici della natura non sono mai prodotti da caos o da
putrefazione, ma sem- pre dai semi nei quali vi ora senza dubbio qualche
pre- formazione, si è ritenuto che, prima della concezione, vi
fosse già non solo il corpo organico, ma anche un’anima in questo corpo,
insomma l'animale stesso; e che per mezzo della concezione questo animale
sia stato solamente di- sposto ad una grande trasformazione per divenire
un ani- male di un'altra specie. Si vede pure qualche cosa di si-
mile fuori del campo della generazione; come quando i vermi divengono
mosche e i bruchi farfalle. La menade, elio ò assolutamente immateriale (§3),
non è però priva di un suo aspetto di materialità. La materialità viene
definita da Leibniz in vari modi: come percezione confusa (cfr. p. 91
ss.); come aggregato (ofr. p. 109 ss.). Sempre però come un modo di
essere della monade, un suo particolare « fenomeno ». Posto ciò, e dato
che la monade è eterna e indi- struttibile (§§ 4-6) non si può a rigore
parlare di morte neppure nella materia; si potrà parlare solo di aggregazione
e di disgregazione, di passaggio do uno stato all’altro (cfr. p. 99, s.;
v. anche §§ 70-77). Cosi non si può parlare di una materia clic sia pura
materia, separata da un’anima che sia pura anima. Le teorie biologiche
del suo tempo servono qui a Leibniz come so- stegno e conferma delle sue
concezioni metafisiche. Leibniz, La monadologia. Gli animali dei
quali alcuni sono elevati al grado di animali più grandi per mezzo della
concezione, possono essere chiamati spermatici-, ma quelli fra di essi
che ri- mangono nella loro specie, cioè la maggior parte, nascono,
si moltiplicano, e vengono distrutti come i grandi animali, e non vi e
che un piccolo numero di eletti che passi ad un teatro più vasto. Ma
questo non era che la metà della verità; ho dunque ritenuto che se 1
animale non ha mai inizio natu- ralmente, non avrà neppure fine naturale,
e che non solo non vi sarà generazione, ma neppure distruzione
intera, nè morte rigorosamente intesa. E questi ragionamenti fatti
a posteriori e tratti dalle esperienze si accordano perfet- tamente coi
miei principi dedotti a priori qui sopra. 77. ° Così si può dire
che non solamente l'anima (spec- chio di un universo indistruttibile) è
indistruttibile, ma che lo e anche 1 animale stesso, benché la sua
macchina perisca spesso in parte, e lasci o prenda spoglie
organiche. Questi principi mi hanno dato modo di spiegare
naturalmente l’ unione o conformità dell'anima e del corpo organico. L'
anima segue le sue proprie leggi, ed il corpo le sue; ed essi si
incontrano in virtù dell'armonia presta- bilita fra tutte le sostanze,
poiché le sostanze sono tutte rappresentazioni di un medesimo imiverso. Le
anime agiscono secondo le leggi delle cause finali, per appetizioni, fini
e mezzi. 1 corpi agiscono se- condo le leggi delle cause efficienti o dei
movimenti. E i due regni, quello delle cause efficienti e quello delle
cause finali, sono armonici fra di loro. Cartesio ha riconosciuto che le
anime non possono attribuire forza ai corpi, perchè vi è sempre la
medesima (1) Questa teoria ha il suo corrispondente nella dottrina
della gerarchia delle monadi (jjij 24-30), secondo cui solo alcune di
esse possono elevarsi agli stadi superiori di animale o spirito
ragionevole. Sui rapporti fra le cause efficienti e le finali, cfr. la nota a]
j; 3fi.quantità di forza nella materia. Pur tuttavia egli lia cre- duto
che l’anima potesse cambiare la direzione dei corpi. Ma egli credeva ciò,
perchè ai suoi tempi non si conosceva la legge naturale che stabilisce
anche la conservazione della medesima direzione totale nella materia: se
egli avesse notato questa legge, sarebbe giunto al mio sistema del-
l’armonia prestabilita (1). 81. ° Tale sistema stabilisce che i
corpi agiscono come se (ipotesi assurda) non vi fossero anime; che le
anime agiscono come se non vi fossero corpi; e che entrambi
agiscono come se l’uno influisse sull’altro. Quanto agli sjnriti,o anime
ragionevoli, benché io ritenga, come ho detto or ora, che tutti i viventi
e animali siano in fondo conformati ugualmente (cioè che l’animale
e l'anima comincino col mondo e non finiscano se non col mondo stesso),
vi è però di particolare negli animali ragionevoli, il fatto che i loro
piccoli animali spermatici, fino a che non sono che tali, hanno soltanto
anime cornimi o sensitive: ma appena quelli che sono eletti, per così
dire, pervengono per ima effettiva concezione alla natura umana, le
loro anime sensitive vengono elevate al grado della ra- gione e alla
prerogativa degli spiriti. 83. ° Tra le differenze che intercedono
fra le anime comuni e gli spiriti, e di cui già ne ho notato alcune,
vi è anche questa: che le anime sono in generale specchi Questo
leggo tisica, secondo cui si oonserva anche la direzione totale (o
quantità di progrosso) - cioè a qualsiasi cambiamento di direzione, in un
si- stema chiuso, deve corrispondere un altro cambiamento di direzione
eguale o contrario-, contribuisce a fare del mondo meccanico un sistema a
sè, chiuso a qualsiasi influenza elio provenga dall’esterno, por esempio
dnll’aninia. Car- tesio credeva alla oonsorvazione della quantità di
movimento (cui Leibniz sostituisce la conservazione della forza viva); ma
non conosceva la conservaziono della direzione totale. Egli pensava cioè che
l'anima potesse mu- tare la dirozionedi un movimento, lasciando invariato
il sistema. Una tale influenza dell’anima è impossibile, posta la legge
di Leibniz. Anima e corpo rimangono due sistemi separati, privi di influenze
reciproche, cosi come lo sono le monadi fra di loro. E il loro accordo
dovrà essere stabilito attraverso l’armonia prestabilita. Sulle leggi
tìsiche leibniziane, cfr. pp. 62 ss., 65 ss. viventi o immagini dell'universo
delle creatine; ma che gli spiriti sono anche immagini della divinità
stessa, o dell’autore stesso della natura; capaci di conoscere il sistema
dell universo e di imitarne alcunché, per mezzo di saggi architettonici;
essendo ogni spirito come una piccola di- vinità nel suo ambito.
84. ° Appunto questo fa sì che gli spiriti siano capaci ili entrare
in una specie di società con Dio, e che egli sia rispetto a loro non solo
quello che un inventore è per la sua macchina (ciò che Dio è rispetto
alle altre creature), ma altresì quel che mi principe è per i suoi
sudditi, ed anzi un padre per i suoi figli. Donde è facile
concludere che l’insieme di tutti gli spiriti deve compone la città di
Dio, cioè il più per- fetto stato possibile sotto il più perfetto dei
monarchi. 86. ° Questa città di Dio, questa monarchia
veramente universale, è un mondo morale nel mondo naturale, è ciò
che vi è di più di elevato e di più divino nelle opere di Dio. E proprio
in essa consiste la gloria di Dio; poiché non vi sarebbe gloria, se la
sua grandezza e la sua bontà non fossero conosciute ed ammirate dagli
spiriti; e anche solo in rapporto a questa città divina egli è
propriamente fornito di bontà, laddove la sua saggezza e la sua
potenza si mostrano ovunque. Come abbiamo stabi lito pili sopra una
perfetta armonia fra due regni naturali, l’uno delle cause
efficienti, 1 altro delle finali, dobbiamo notare qui anche un’altra
armonia fra il regno fisico della natura e il regno morale della grazia,
cioè fra Dio considerato come architetto della macchina dell universo, e
Dio considerato come monarca della città divina degli spiriti. Tale
armonia fa sì che le coso conducano alla grazia per le vie medesime della
natura, e che questo globo, per esempio, debba essere distrutto e riparato
per vie naturali, nel momento in cui il governo degli spiriti lo
richieda, per il castigo degli uni e la ricompensa degli altri. Si
può dire ancora che Dio, in quanto architetto, soddisfa in tutto a Dio in
quanto legislatore; e che così i peccati devono portare con sè la propria
pena per ordine di natura e hi virtù anche della strattura meccanica
delle cose; e che analogamente le belle azioni debbono attirare a
sè la propria ricompensa por vie meccaniche rispetto ai corpi; benché ciò
non possa e non debba avvenire sempre immediatamente. Insomma, sotto
questo governo perfetto, non vi sarebbe azione buona senza ricompensa, nè
cattiva senza castigo; e tutto deve risolversi nel bene dei buoni,
cioè di coloro che non sono malcontenti in questo grande stato, che
si fidano della Provvidenza dopo aver fatto il loro dovere, e che amano e
imitano come si conviene l’Autore di ogni bene, compiacendosi nella
considerazione delle sue perfezioni, secondo la natura del vero puro
amore veritiero, che fa prendere piacere alla felicità di colui che si
ama. E ciò fa sì che le persone sagge e virtuose lavorino a tutto ciò che
sembra conforme alla volontà divina pre- suntiva o antecedente, e si
contentino, d'altra parte, di ciò che Dio fa accadere effettivamente per
mezzo della sua volontà segreta, conseguente e decisiva;
riconoscendo che, se noi potessimo intendere a sufficienza bordine
del- l'universo, troveremmo che esso supera tutti i desideri dei
piii saggi, e che è impossibile renderlo migliore di quello che è, non
solo quanto al tutto in generale, ma anche La volontà presuntiva o
antecedente rappresenta ciò che deriva dalla natura stessa di Dio, ohe ò
connaturato con la sua essenza; la vo- lontà conseguente e decisiva
rappresenta l’atto effettivo con cui Dio ha messo in opera la realtà di
fatto: atto non necessario, quindi non prevedibile, « segreto ». Questa
distinzione richiama quella fra le verità di ra- gione, necessarie, e le
verità di fatto, contingenti. Cfr. pp. 6 ss., 10 ss. quanto a noi
stessi in particolare, perchè ci teniamo le- gati, come è giusto,
all'autore del tutto, non solamente come all architetto e alla causa
efficiente del nostro essere, ma anche come al nostro signore e alla
causa tinaie che deve costituire tutto lo scopo della nostra volontà, e
solo può procurarci la felicità. E qui accennato al concetto fondamentale
della Teodicea, secondo cui tutto oiò che apparo come malo cessa di
essere tale, quando venga con- siderato in connessione con l'arinonia del
tutto, nella quale anche i lati oscuri hanno una loro funziono, e le
ombreggiature contribuiscono alla per- fezione del quadro. Cfr. p. 4(5
ss. Eugenio Colorni. Colorni. Parole chiave: diadologia, il concetto dell’individuo,
l’idealismo filosofico como malatia, indice alla malatia metafisica, scritti
filosofici curati da Bobbio, scienza unificata, ebreo-italiano, ebreo-britannico
Ayer, circolo di Vienna, Reichenbach, Hilbert, Eddington. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Colorni” – The Swimming-Pool Library. Colorni.
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