Grice e Conti: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – scuola di San Miniato – filosofia pisana – filosfia toscana
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Miniato).
Filosofo pisano. Filosofo toscano. Filosofo italiano. San Miniato, Pisa,
Toscana. Grice: “Conti is a good one – a historian of
philosophy, or rather a philosophical historian – I never know! – his chapter
on the Greek embassy that brought philosophy to Rome is stimulating!” Studia a
Siena e Pisa. Si laurea a Lucca. Insegna a Lucca, Pisa, Firenze. Filosofo del
bello, che define stare fra il vero e il buono, e li collega come il mezzo tra
il principio e fine. Altre opere: “Cose di storia e d'arte; Evidenza, amore e
fede, o i criteri della filosofia, discorsi e dialoghi. Famiglia, patria, Dio,
o i tre amori”; “I discorsi del tempo in un viaggio in Italia”. In ogni città
coglie occasione per un insegnamento civile; a Venezia isulla religione, a
Milano sullo stato, ecc.; “Il bello nel vero, o estetica”; “Il buono nel vero,
o morale e diritto naturale”. “Illustrazione delle sculture e dei mosaici sulla
facciata del Duomo di Firenze”; “Il vero nell'ordine, o ontologia e logica”; “L'armonia
delle cose, o antropologia”. Cerca di costruire una metafisica fondata sulla
relazione, l'armonia, l'ordine; Studia l’educazione religiosa, civile e private;
“Letteratura e patria, collana di ricordi nazionali”; “Nuovi discorsi del
tempo, o famiglia, Patria, Dio Religione ed arte, collana di ricordi
nazionali”; “Storia della filosofia”, molto accreditata. “Sveglie dell'anima.
Il Messia redentore vaticinato, uomo dei dolori, re della gloria. La mia corona
del rosario. Ai figli del popolo, consigli. Giovanni Duprè o Dell'arte, 2
dialoghi. Evidenza, amore e fede o i criteri della filosofia” -- lezioni e
dialoghi sulla filosofia cristiana; lavoro scientifico e popolare, e discorsi
sulla storia della filosofia, accordo della filosofia con la tradizione;
discussione sulla filosofia e la fede. La filosofia di Dante. “Il bello qual
mezzo”. Dizionario Biografico degli Italiani. Armonie ideali nell'opere belle. L'artista
deve tendere al più alto se gno ideale. Ordine dell'idea chiaro che include
giudizj e ragionamenti. Dialettica dell'arte, o dialettica rappre sentativa.
L'idea è universale, talchè i particolari dell'arte non debbono mai ecclissare
o escludere l'universalità del concetto; perché, altrimenti, arte bella non c'è’
L’ordine ideale porge alle immagini formosità. eletta, che manifestasi o per
cose straordinarie, o per l'eccellenza de'modi, o per tutto ciò ad un tempo, ma
ſuggendo le ampollosità. L'ordine ideale
si determina ne sezni; onde s' origina l'armonia de'con trapposti. Armonia
dell'ordine ideale con la natura, legge di corrispondenza e di contrapposto
anche in ció. Armonia col divino per
natura.Il gusto del Bello. Regola prossima è il gusto. Sentimento di verità, di
bellezza, e di bene. Che cosa è il gusto? Ana logie del gusto intellettivo col
gusto sensitivo. Urficj del gusto; sanità e infermità; abiti buoni, o vizinsi; S'esamina
gli ufficj del gusto intellettivo della bellezza. Effetto del gusto. Il gusto
non può mancare a ' veri artisti, e avvertenze io giudicare il gusto loro dall'
opere. Quattro gradi del gusto. Aiuto che il gusto del bello riceve dal
sentimento logico e dalla morale coscienza. Stato di sanità o di malattia, cioè
buona o rea edu cazione. E empj. Stato
d' abiti buoni o viziosi. Esempj. Conclusione. Come si può guarire o correggere
il gusto falso. Le leggi del gusto. Che cosa presuppone l'esame ch'uno faccia
del proprio gusto, 3. affinchè possa regolarci un gusto buono e rettificarsi un
gusto cattivo, 4. e primiera mente il derivato da falsa educazione. 5. Studio
perciò di buoni esemplari. 6. Esame degli abiti viziosi, e quanto alla verità –
7. e quanto a ' fini dell'arte. - 8. Il gusto deve mostrarci il modo e il
quando dell'operare. Elevazione del sentimento. 10. Verosimiglianza. Esempj.
Equazione di tutti gli elementi dell'arte con l'idea. Gusto de' limiti. I
limiti massi. mamente ne segni esteriori.
I Pedanti e i Licenziosi. Argomento. Che sieno i Pedanti e i Licenziosi.
Significato più generale di questi vocaboli. 4. Si gnificato più proprio e
stretto. Errori contrarj e vizj comuni. La pedanteria va fuori di natura. 7.
Esem pj. 8. Va fuor di natura la licenza. 9. Esempj. Non comprendono
l'universalità i Pedanti. Esempj. 12. Nė la comprendono Licenziosi. 13. Esempj.
Non hanno vera nobiltà i Pedanti, 15. e la licenza è ignobilità. Talchè gli uni
e gli altri non consegui scono fama durevole. Estro. Leggi dell'ordine
immaginato.. 1. Argomento. Immaginazione. Rinnovazione di fan tasmi, 3. e
innovazione o invenzione. 4. Queste per tre modi, spontaneo. pensato, meditato.Legge
univer sale della fantasia e sede di quella nell'intelletto. 6. Gradi
dell'invenzione immaginativa. Primo; mutamento di alcune cose percepite.Secondo;
immagini di cose reali non percepite. Terzo; novità d'imma.ini fra percezioni
oscure. 8. Quarto; un ordine di verosimiglianze relativo a un or dine di cose
reali determinato. 9. Quinto; relativo a no tizie vaghe. 10. Sesto; relativo ad
astratte generalità. 11. Settimo; fantasmi di cose semplici, spirituali,
divine. 12. Ultimo; armonia universale di fantasmi e loro elevazione. 13.
Perché l'estro abbia tal nome. Origini sue misteriose. 15. Estro fallace o
vuoto, e vero o fecondo. Conclusione. Armonia
interna delle Immagini. Argomento. Sceltezza e vita delle immagini, Scel. tezza
rispetto all'arti diverse; 3. e rispetto ai componi menti speciali d'un' arte;
e rispetto agli argomenti. Sceltezza per la qualità e per la quantità. 5. Vita
delle immagini, 6. come le figure d'affetto nell'arte del dire. Unione del
sensibile con l'ideale. Allegoria, e 8. allegorie speciali, e vizj
dell'allegoria. 10. L'im magine deve ritrarre l'idea intera; e quindi bisogna
imma ginar l'opera innanzi di farla e che rispondano i par ticolari al lutto e
l'e - trinseco venga dall'intrinseco, e gli accessorj dal principale. 13.
Spiritualità delle im magini. 14. e vizj opposti. 15. Relazione specificata
delle immagini co' segni. Armonie di verosimiglianza in generale. Argomento e legge
universale di corrispondenza e di con trapposto, e come si rifletta nelle
immagini dell'arte. 2. Questa legge apparisce nella qualità, quantità, tempo e
spa zio. 3. Relazioni. 4. Esempj antichi di letteratura. 5. Esempj dell'éra
nostra, - 6. Drammatica e lirica 7. Figure di confronto ne'linguaggi. – 8.
Esempi del disegno e della musica. 9. Analogia del corporeo e dello spiritua le.
10. Loro diversità; – 11. e contrapposto nella na tura e nell'arte. 12.
Verosimile immaginoso, che differi sce dal reale, benchè gli somigli. 13.
Quello trascende. Poesia e architettura. 14. Scultura, pittura, musica, e arti
ausiliari. Com'accade ciò. Armonie con la natura corporea. 1. Argomento. Legge
naturale di simetria. 5. Vi sta e udito porgono immediati all'arte bella i
sensibili rap presentati, Il lalto remotamente, il gusto e l'odorato
indirettamente forniscono all'arte cose immaginabili, salvo la poesia ch'è
universale. Legge naturale di simetria
ne ' visibili aspetti, - 6. e ne' suoni. - 7. Legge corrispon dente nell'arte
bella. 8. Simetria di quantità nel grado. Simetria di quantità nel numero de'
suoni, delle cose visibili. 11. Simetria naturale dello spazio. 12. Simetria
nell'arti, quanto a’limiti. 13. Simetria di limiti anche nell'unione di più
cose. Simetria di luo ghi. 15. Simetria di tempo misuratore, e di tempo rap
presentato. - Armonie con la natura spirituale. Gli affetti. Somiglianza loro;
3. varietà; 4. contrapposto. 5. Personificazione immaginosa dell'unmo, 6. e
della socievolezza; - 7. che dall'arti non prò mai scompagnarsi. - 8.
Personificazione immaginosa del mondo materiale per tre modi. Materialismo non
può spiegarla. 11. Person i ſicazione immaginosa del soprannaturale; 12. presa
sostanzialmente da simboli e miti di credenze religiose; 13. ma trasformate dal.
l'estro. 14. La personificazione, ritraendo l'uomo, ac cenna lo stato degli
artisti e de' tempi loro. Grecia, Roma, 15. Italia; suo scadimento; letterature
straniere.. 16. Anche nell' altre arti avviene lo stesso. Immaginazioni
tragiche e comiche Argomento. Può l'ottimo essere argomento del l'arte bella?
3. Può il pessimo? — 15. Immaginazioni tragiche e comiche. - 5. Quando mai
nasce l'immagina zione tragica più specialmente? 6. Quando la comica? 7.
Condizioni dell'una, - 8. e dell' altra. La morte immaginata nell'arte, 10.
eidolori del senso, tragica mente; comicamente. 12. Deformità fisiche nel
rispetto tragico; 13. e nel comico. - 14. Le mostruosità nell'un rispetto, · 15.
e nell'altro, e come in ciò facilmente si trasmodi. Ordine de' Segni. Stile.
Pag. 176 1. Argomento. 2. Nozione generica dello stile. - 3. Nozione meno
generica. - 4. Nozione determinata. 5. Ne cessità di meditare lo stile. 6. Idem.
7. Ordine dello stile. Unità. - 8. proprietà, evidenza, 9. vivezza, for. mosità.
10. verosimiglianza. Legge sua universale. - 11. L'unione di dette qualità
forma il decoro. 12. Esempio di essa, - 13. Esempio del contrario. 14. La
misura nello stile. 15. Sunto. Armonia intrinseca dello stile e co ' propri
segni.. 1. Argomento. - 2.Unità del bello stile. 3. Si riscon tra nell'arte del
dire; ne'proverbj e rispetti, · 4. nelle sentenze, 5. nel periodo, 6.
nell'armonia e nell'unione del discorso. 7. Si riscontra nell' arti del disegno;
nel l'architettura, 8. ch'è un discorso anch'essa; - 9. nella scultura e nella
pittura, 10. simili pur esse al discorso; - 11. e nella inusica; 12. che ha
disegno perfetto, o unione d'armonia e di melodia. - 13. Proprietà de' se gni;
e come segni adoperino l'arte del dire, la musica, 14. l'architettura, e l'arti
figurative; 15. onde viene la proprietà dello stile. 16. Conclusione. Armonia
dello stile col pensiero.. 1. Argomento. 2. In che consiste l'evidenza. -3. Dee
rispondere lo stile a integrità del pensiero; 4. e a varietà d'argomenti; - 5.
abbracciando l'universalità dell' argo mento, proprio, 6. e distinguendolo, per
poi bene com porlo. 7. Mancamento d'arte o di volontà impedisce tal perfezione.
8. Vivezza di stile, o moto, 9. nell'arte del dire, 10. nella pittura e
scultura, 11. nell'archi tettor3, 12. nella musica. 13, Formosità, - 14. anche
nello stile grande, e nel sublime. 15. Onde procede la deformità? 1Armonia
dello stile con la natura..... 228 1. Argomento. 2. Il bello stile corrisponde
alla natura dell'artista e a quella degli oggetti. 3. Non si possono separare
le due relazioni senz'errore e deformità. – 4. Avvi una parte relativa
all'artista; 5. e una parte relativa agli oggetti, e danno armonia. 6. La legge
di corrispondenza e di contrapposto ſa nascere le diverso specie del bello
stile in quei gradi che l'ordine ha varj nella natura. 7. Idem. 8. Nello stile
tenue an prevalenza i simili, 9. Qua lità principale di esso è la venusià. 10.
Nello stile mez. zano han prevalenza i diversi. 11. Qualità principale di esso è la naluralezza, 12. Nello stile grande
han preva lenza i contrarj. 13. Qualità principale di esso è la pe regrinità.
14. Nello stile sublime han prevalenza i contrapposli supremi. 15. Qualità principale
di esso è l ' ammirabilità. Arti del Bello speciali. Cap. XL. Come si
originarono le Arti speciali del Bello. Pag. 249 1. Argomento. — 2. Due generi
supremi dell'arte bella, cioè arti di suono e arti di prospettiva. 3. Arte de'
suoni parlati, e arte de' suoni armonizzati. 4. Arti prospettive di spazio, e
arti prospettive di figura. -- 5. Arti prospettive distinte in arti di spazio
imitato e di spazio naturale; in arti di figure imitate e di figure naturali.
6. Onde l'arti del disegno son distinte dall'arti di naturale amenità e dalla
mimica e danza, le quali sono arti secondarie. 7. Arti ansiliari dell'arti
principali e delle secondarie. 8. Diver sità di segni sensibili determinò
diversità del significato, quanto al mondo esteriore, 9. e quanto al mondo
interio. re. 10. Stato implicito dell'arti: poesia; 11. arti del disegno e
musica. 12. Poi si distinsero l'arti del Bello fra loro; e s'esamina per la
poesia, per l'architettura, 13. per l'arti figurative, 14. e per l'arte
musicale. Di stinzione di ogni specie in ispecie minori. 15. Conclu sione. 16.
L'arte bella fa quasi un mondo novello. Ordine fra l’ Arti speciali del Bello......
1. argomento. 2. Criterio per giudicare i gradi dell'arti belle. 3. Segni
supremamente ideali della poesia. L'ordine loro è una invenzione distinta
dall'altra delle im magini. 5. Perfezione suprema de' significati poetici. 6 Ma
questa precedenza rende difficile al sommo il poetare buopo. 7. In che la
poesia verso l'altre arti sia inferiore. 8. Architettạra, e perfezione ideale
del suo disegno. 9. Perfezione del suo significato. -- 10. In che cosa l'archi
tettura è vinta dall'altre due arti del disegno. 11. Pit tura e scultura;
disputa di quale fra loro primeggj, antica. - 12. S' esamina quanto a ' segni,
13. e quanto al signi ficato di queste arti. 14. Musica; in che sta un suo sin
golare pregio, 15. da cui procede la potenza musicale; benche in altro rispetto
la musica resti- superata. - Della Poesia.... Pag. 283 1. Argomento; definizione
della poesia. -2. Come la poe sia somigli la filosofia. 3. Consentono tutti nel
divario fra considerare direttamente i sensibili esterni e il conside rarne
l'altinenza con l'anima. 4. Però l'idea che regola i poeti, si è l'idea
dell'uomo interiore, avvivata d'immagibi. Si riscontra ciò ne' sensibili
esterni, comuni alla musica e al segno e alla poesia; – 5, ne' sensibili
esterni, propri solo alle rappresentazioni poetiche; - 6. ne' sensibili inter
ni, che la sola poesia può prendere per oggetto immediato; - 7. e poi, nelle
cose di pura intelligibilità. 8. Tanto è più alta la poesia, quanto più rende
viva immagine del. l'uomo interiore; - 9. e, inoltre, quanto più rende imma
gine di ciò che l'uomo dev'essere; 10. perchè il poeta tende alle più élette
forme dell'anima; 11. e indi cerca immaginativamente di risolvere in armonia le
contraddizioni del mondo; 12. come si riscontra ne' poeti veri del tempo antico
e del nuovo, - 13. e anche ne' poeti scettici, ov'essi han vera poesia; 14.
talché, quest' arte rappresenta in immagini l'universalità dell'intelletto. 15.
E ogni ge nere perciò di componimenti nell'arte del dire può parteci - pare di
poesia. 16. Conclusione.Le specie della Poesia. Argomento. Tre modi principali
della poesia: espositivo, 3. narrativo, - 4. dialogico. sia par talora non
essere imitativa nè inventiva, se cade in soggetto reale. 6. Si scioglie la
difficoltà, distinguendo al. lora il soggetto reale dalla rappresentazione
immaginosa. 7. Indi è varia l ' attinenza fra la poetica rappresentazione ed il
soggetto. — 8. Idem. – 9. Indi anco è vario lo stile figu rato nella poesia
espositiva, 10. o nella narrativa, - 11. o nella dialogica. 12. Anche il numero
musicale dello stile diversifica. 13. Idem. 14. Diversifica pure l'ori. gine
de' tre modi principali di poesia, l'espositivo prece dendo a tutti, 15. e poi
al drammatico il narrativo. • 16. Conclusione. 302 5. La poe Dell'idioma, 1.
Argomento. - 2. Lingua, in significato generale, è unità parlata della morale
unità d'un popolo; 3. e che mai non manca di segni per cose antiche, 4. nè ha
sino nimi perfetti. 5. Le Parlate. 6. I Dialetti. - 7. Le Lingue. 8. Scelta fra
le tarlate. 9. Scelta fra' Dialetti. 10. Distinzione d'una lingua da ogni altra
lingua. 11. Uso di lingua parlata, e uso di lingua scritta; 12. iden tici
nell'essenza, e in che diversi, 13. Come uso di buoni scrittori giova, 14. e
come giova uso di ben parlanti. 15. Realismo e Idealismo nell' usare l'idioma.
10. Con clusione. Arti del disegno. Pag 338. 1. Che cosa sono l'arti del
disegno - 2. Il disegno è fon damento alle tre arti particolari.. 3. Doppia
significazione del vocabolo disegno. -- 4. Ogni qualità sensibile de' corpi ha
relazione con la lor forma; 5. e può risguardarsi per natura, e per l'arti del
disegno, quasi accessoria. - 6. La forma ci palesa l'unità; 7. ch' esterna
dipende dall ' in terno delle cose, si per natura e si per arte. 8. Esempj di
ciò; e in che dunque consiste l'ordine ideato comune al l ' arti del disegno. –
9. Per acquistare il disegno, ci oc corre abito astrallivo degli occhi, - 10.
fantasia ferma e viva in ritenere la linea pura, 11. e intelletto esercitato a
distinguere, paragonare, comprendere i contorni; 12. nè basta vedere, ma
bisogna saper vedere o guardare; 13. e in ciò sta il cosi detto giudizio degli
occhi. - 14. Come si faccia l'esercizio nel disegnare. 15. Una regola princi.
pale per l'arti secondarie. 16. Conclusione. Architettura.... 1. Che cosa è
l'architettura. 2. Si originò dal convi. vere umano. - 3. Si distinse
dall'ingegneria per fine di bel lezza, 4. ritraendo l'immagine formosa del
consorzio umano, 5. Questa idea perció la rende inventiva; 6. e indi
l'architettura prende significato a ' suoi disegni, 7. e anche la loro unità;
8. ehe si palesa nelle proporzioni della massa, nel congiungimento delle linee,
9. e anche negli ornamenti. – 10. Com'espressione del consorzio uma no, quest'
arte abbraccia le altre arti del disegno; – 11. s' accorda co' luoghi abitati
dall ' uomo, e a sė li conforma; 12. imprime la bellezza sua nelle città
intere, - 13. nel l'intera patria d'una nazione, — 14. per ogni luogo di es sa;
15. e si distende a tutta la terra civile, com' efligie inica
dell'incivilimento. 16. Conclusione. S ulura..... 376 1. Che cosa è la scultura.
- 2. Principale soggetto al l'arti figurative si è l'aspetto umano. - 3. Più
proprio della scultura è la relazione de' lineamenti con la vita interiore,
anziché dell'uomo con la natura. -- 4. Indi all'arte sculto. ria il colorito e
accidentale, ec. - 5. Nè la scultura di tutto rilievo ha paesaggj, che
ristretti son' anche nel bassorilievo: - 6. è limitata nel figurare animali;
--- 7. e anche ne'gruppi di ligure umane. - 8. Soggetto più proprio alla
scultura ė la bellezza umana del corpo, e in essa si comprende la fisio. logica
e la fisica. 9. E perché si dica ciò della scultura piucchè della pittura,
distinguendo tra figura e forma. - 10. L'unità intera della immagine umana
comparisce nella scule tura solamente. 11. Divario i'ra le due arti nel nudo e
ne' panneggiamenti. 12. Limiti posti dal pudore. 13. Qual sia -dunque l'idea
esemplare dell'arte scultoria, 14. E come bisogni evitare ia essa, piucché
nella pittura, il freddo ed il generico;
-- 15. ma senza cascare nei vizj opposti, 16. Conclusione. Pittura.... Pag. 395
1. Che cosa è la pittura. – 2. Idea che serve d' esemplare alle immagini ed
a'segni di quest'arte, cioè armonia fra l'uomo e la natura esteriore, come
rilevasi dal colorito; 3. e perciò dalla figura colorata e dal prospetto aereo.
- 4. Magistero essenziale della pittura è il colorito; – 5. ma non
contraſfacendo i rilievi della scultura, 6. nè gareggiando con le cose reali
pe' colorie per gli splendori, 7. nė pe' se goi di vitalità; gareggiamento
impossibile, - 8. e dannoso; 9. bensi eleggendo que' segni che sveglino i
sentimenti nell'anima nostra, come le cose di natura sogliono. 10. La pittura è
visione di fantasia. 11. che splende in gen tilezze d' ornamenti, e in paesaggj.
12. e ne segni del con • versare umano, 13. e nell'unione verosimile di più
tempi e luoghi, 14. e nel simboleggiare affetti sovrammondani. 15. Conclusione.
16. Utilità di tutte l' arti del dia segno. Musica...... 415 1. Che cosa è la
musica. 2. Qual n'è l'idea regolatri ce. Relazione de' suoni col sentimento
umano. 3. Ragione anche fisiologica di tale attinenza. 4. E indi attinenza
principale di quest'arte con la voce umana. 5. Ma la relazione de' suoni col
sentimento é indefinita, 6. e però la musica può indefinitamente significare
ogni affetto. 7. Esprime e incita direttamente l' esaltazione degli af. fetti,
8. e viene usata per significare più vivo l'esalta. mento comune alla poesia ed
all' arti del disegno. 9. Ciò apparisce altresi dal significato universale
d'armonia. 10. Però idea suprema e reggitrice della musica è, ch' essa renda
immagine dell' esaltazione di ogni affetto umano. La quale idea si determina
nel concetto de' componimenti varj. 11. onde nasce la musicale unità, – 12. e
l'invenzione di una frase principale, 13. che si svolge. - 14. Errori sulla na.
tura della musica. Sensisti e Positivisti assoluti, - 15. Sen timentali,
Aritmeticanti, Retoricanti. 16. Conclusione. CAP. L. Unione fra tutte l’ Arti
del Bello... 434 1. Danni del separare l' Arti, e argomento. 2. Unità d'
obbietto, di soggetto e di potenza prevalente nell' Arti del Bello. 3. Perfezionamenti
loro successivi, e legge di que sta successione. - 4. Si risolve una difficoltà.
5. Prima si perfezionò la poesia; 6. indi l'architettura; - 7. poi la scultura,
e poi la pittura; — 8. Apalmente la musica. 9. Aiuto che si porgono l'Arti;
quale la poesia? – 10. quale l'architettura, 11. l'arti figurative, - 12. la
musica? 13. Si conferma l'unità essenziale dell'Arti fra loro. -- 14. Ri torno
del pensiero alle cose ragionate; 15 e 16. indi con clusione generale.
DIALETTICA. La Filosofia e i Concetti universali. Idea della Filosofia. Che
cosa è la Filosofia? È scienza del
pensiero, ma del pensiero in atto di vita, e non soltanto delle leggi logiche
astratte; e però è Scienza della coscienza e dello spirito; Scienza degli
oggetti connaturali al pensiero, e però di Dio, dell'universo e dell'uomo;
Scienza, per tanto, delle somme cause, dell'ultime ragioni e de' primi prin
cipj; Scienza, poi, della conoscenza, della scienza e della verità. Perciò
nell'idea di relazione s ' appuntano i quesiti tutti della Filosofia; e ivi
troviamo la sua più alta verità. Talchè la Filosofia e Scienza di Dio, del
mondo e del l'uomo nell'ordine loro uoiversale; o, più breve, Scienza delle
relazioni upiversali; e siccome queste forman l' ordine, dunque altresì Scienza
dell'ordine universale. Come in ogni
altra Scienza, cosi nella Filosofia si ha perfezionamento, levandosi a un'idea
superiore. - 12. Questa è l'idea di relazione. - 13. Ciò richiede la tendenza e
il bisogoo de' postri tempi. – 14.Im portanza della Filosofia; danni d'una
Filosofia separativa. — 15, Vantaggj d’una Filosofia comprensiva. 16. Sunto. La
Verità.... 1. Perché dobbiamo esaminare l'idea universale di verità. 2. La
verità è sempre entità conosciuta. – 5. La verità è ordine d'entità conosciuto.
- 4. Si procede relazione in relazione. L'unità dell'oggetto conosciuto si
comprende, si distingue, 6. si riupisce di nuovo. - 7. Però gli Antichi dissero
che la verità è pei giudizj. - 8. L'errore perciò sta nel vedere l'oggetto da
una parte sola, e quindi nel travedere, 9. come si rileva degli errori
metafisici; - 10. nello Scet ticismo medesimo, e negli errori morali e delle
Scienze fisiche. 11. Sicchè l'errore confonde, separa, nega. 12. Jadi
spieghiamo il progresso della scienza e della civiltà, 13. o il regresso; 14.
le invenzioni e le scoperte. – 15. esame dell'idea di verità ci mostra il
costrutto semplice degli Univer sali, presupposto da ogni conoscenza. - -
L'Entità. Pag. 1. Si comincia dalla nozione d'entità. — 2. Che cosa sono gli
universali, - 3. Tre ordini d'universali: gli analogici, 4. gli attributi
metafisici, e le condizioni universali del creato. - 5. L'uoiversale si è in
ogni cosa e presentasi all'intelletto. - 6. L'idea d' entità primeggia fra gli
universali. La esami Darono gli Antichi, – 7. i Padri, il Medioevo, e la
Filosofia moderoa. 8. Non possono farne a meno anche gli Scettici e i
Soggettivisti. 9. Questa idea non può pegarsi. Ma esaminandola, bisogna evitare
tre difetti. - 11. Si tripartisce: idea dell'essere comunissimo, - 12. idea
d'essenza, - 13. idea d'esistenza; – 14. com' apparisce anche da' linguaggi,
15. e dall'antica dottrina sull'essere e sulla possibilità, ch'è di tre specie.
- 16. Conclusione. L'Ordine dell'entità.... t. L'idea d'ordine si distingue
nell'idea di relazione, d'atto della relazione e di correlazione. 2. Che cosa è
la relazione? L'esperienza ce la mostra ovunque. 3. Ogoi en tità è un tutto di
relazioni, benchè, quando si tratta di cosa fioita, non essenziali. Ciò si
rileva dal concetto d' essere, - 4. d'essenza e d'esistenza. – 5. La relazione
poi è, o intrinseca, - 6. od estrinseca (cioè ad intra, o ad extra ). – 7. Ogni
relazione si è atlo; anche le attineoze ideali o di ragione. - 8. Conie si
procedè per giungere a questa universalità dell'idea d'allo. Gli Italioti,
gl’lonici, Platone; 9. Aristotele; 10. i Padri, gli Scolastici, e il Cartesio;
11. il Leiboitz e la Fisica nioderna. 12. Correlazioni. Unità e triplicità in
ogoi cosa. -- 13. Dottrine aptiche su ciò. - 14. Il Dogma cristiano della
Trinità. - 15. Le correlazioni spiegano la legge universale de' simili e de'
contrapposti, 16. Conclusione. l conoscimento dell'Ordine.. 1. Nel conoscimento
dell'ordine si distingue il Vero, il Bello ed il Buono, distinta la triplice
relazione della Verità col l'intelletto, benchè io significato generalissimo
ogoi relazione col nostro conoscimento sia Verità. 2. L'universalità del Vero
corrisponde ai gradi dell' essere; e come li notarono già i Filosofi. - 3. Cose
non animate; 4. cose animate; 5. gl'intelletti, ove la presenza dell'entità è
manifesta. 6. La verità è relazione dell'entità con gl’intelletti, cioè
intelligibi lità. Che cosa è la Bellezza, cioè l'ammirabilitd, con trapposta al
Vero. Suoi gradi, 8. ne' corpi non animati, Degli animati e negl'intelletti. 9.
Che cosa è il Bene, cioè l'amabilità. Suoi gradi, — 10. ne' corpi, negli
animali e nella mente, 11. Assioma che deriva dall'esame degli universali, -
12. e loro convertibilità mutua; – 13. la quale si manifesta nella scieoza,
nell'arte e nella vita, perché il Buono conduce al Vero ed al Bello, - 14. e il
Bello conduce al Vero e al Buono. -15. Nell'esame degli universali analogici
abbiamo riscontrato le distinzioni già fatte dai Filosofi antichi e recenti. -
16. Conclusione, e come il Bello morale sia l'accordo del Vero, del Bello e del
Buono. Attributi metafisici correlativi e Idea di Dio. Pag. 101 1. Esamedegli
attributi metafisici, al quale ci porta l'esame degli universali analogici. —
2. Che cosa s'intende per attri buti correlativi metafisici. 3. Idee di questi
attributi, tro vate nell'idea d'entitd; 4. trovate nell'idea d'ordine dela
Ľentità; - 5. trovate nell'idea di conoscimento dell'ordine. - 6. L'idee degli
attributi metafisici correlativi, e l'idea di Dio, non sono correlazioni
astratte; - 7. nè limiti soggettivi; - 8. nè un ideale soggettivo; 9. nè,
d'altra parte, sigoi ficano che Dio sia il grado supremo degli esseri; – 10. nè
la parte o il tutto; 1. nè Pessenza o la sostanza delle cose contingenti. – 12.
La correlazione degli attributi metafisici viene rappreseotata dall'idea del
possibile fra l'idea d'Eote e l'idea d'esistente, o dall'idea d ' indefinito
fra quelle d'Infinito e di finito. - 13. La correlazione stessa fu pure
significata dal Gen tilesimo, 14. da' simboli suoi più notevoli, 15. e dalla
simbologia naturale. - 16. Conclusione. Cap. VII. Idea di Creazione.... 121 1.
Possibilità razionale della creazione. - 2. Vi ha nel pensiero umano questa
idea dell'atto creativo, cioè di Causa prima. — 3. L'idea di causa si distingue
dall'idea di sostanza; 4. e si riferisce ad un che, il quale comincia dal nulla
quanto all'esistenza, benchè non quanto alla potenza; 5. si riferisce, poi, ad
un termine distinto essenzialmente dalla cau sa, o ad extra. - 6. Più vera e
più potente fra tutte le cagioni è l'intellettiva. 7. La Causa creatrice si
distingue dalle cause naturali, perchè alla totalità delle cose preesiste la
pos 8. perchè il soggetto, cioè la sostanza, si produce ad estra; 9. e perchè
avvi efficienza intellettuale assoluta: - 10. opde la Causa creatrice fu
chiamata Verbo ia tutte le Tradizioni sacre, e il mondo è arte di Dio; -11. la
quale produce una somigliaoza divina nell'universo, mentre Dio non somiglia i
finiti e li trascende. - 12. Gli errori e i dubbj sul dogma razionale di
creazione nascono dalla fantasia, - 13. e dallo sdegoare il mistero, comune ad
ogni causalita; 14. sicchè gli errori provocarono lo svolgimento del Teismo
nell'età de' Padri e de' Dottori, 15. e dell'età della Riforma e del
Rinnovamento. - 16. L'idea di creazione ba tanta importanza, sibilità pura; -
perchè risguarda la Causa universale. CAP. VIII. Idee relative all'Entità della
Natura....... 143 1. Argomento; le condizioni dell' entità: Prima condizione
della natura, per l'essere suo, il quanto; 2. che si distia. gue nell'unità, 3.
nel numero 4. (che non può essere infinito), 5. e pella unione delle unità. 6.
Condizione seconda per l'essenza, il quale; - 7. che si distingue nella varietà,
8. nella contrarietà, 9. e nella somiglianza;. 10. più notevoli dove la oatura
è più alta. - 11. Terza condizione per l'esistenza, il quando; 12. che si
distingue nel momento, -13. nella successione, - 14. e nella durata; - 15. non
predicabili dell' Eternità. 16. Conclusione. il pine. - Idee relative
all'Ordine della Natura....... Pag. 1. L'ordine della natura viene dall'
attinenza della crea zione, 2. La relazione delle cose create ci dà la
dipendenza, o derivazione; 3. ossia la sostanza, - 4. la causa, 5. e l'essenza
reale. - 6. L'Atto delle cose ci dà il come (quomodo); – 7. ossia il principio,
8. il mezzo, 9. e 10. Le correlazioni delle cose ci dàono il dove, che può
essere correlazione ancointellettiva, 11, e correle zione materiale; - 12.
ossia il punto, - 13. Y estensione particolare, 14. e lo spazio, 15, che non
può essere infinito, ma è nell'infinito; 16. e il sublime si origina da cið.
Cap. X. Condizioni naturali del conoscimento...... 1. Criterio della conoscenza;
ove si riscontrado: l'oggetto ideale, – 3.6. l'idea, - 4. che ci fa conoscere
il si mile per ilsimile, 5. (onde si spiega la formazione dell'idee universali,
e la conoscenza delle cose esteriori, 6. di noi stessi, degli altri uomini, -
7. e di Dio), - 8. c. il senti mento, in relazione del quale ogoi cosa dicesi
un fatto, ed esso medesimo ha questo pome. 9. Forma del bellezza; - 10. e qui
si riscontrano: la cosa formata, 11. l'idea esem plare, 12. e il gusto. - 13.
Legge del bene, ove si ri scontra il bene oggettivo, - 14. la felicità, - 15. e
l'utilitd. - 16. Conclusione. Divisione della Filosofia e Arte dialettica. L'Enciclopedia....
1. Per determinare i quesiti della Filosofia, bisogna ve. dere le sue parti e
l'Enciclopedia o l'albero del sapere umano, Ordine di formazione, ordine di
logica dipendenza. Criterio armonicamente oggettivo e soggettivo per trovare la
distiozione dello scibile e l'ordinamento suo. Quattro classi di conoscenze:
onde vengono la Teologia positiva, la Filosofia, le Matematiche e la Fisica. 6.
Parti della Fi losofia universale. - 7. Filosofie particolari e applicate. 8.
Matematica. - 9. Fisica. - 10. Storia sacra, umana, na turale. – 11. Arti
filosofiche, matematicofisiche e storiche. 12. Tradizione perenne dell'
Eociclopedia. – 13. Errori che la guastano. 14. Pericolo dell'Enciclopedie a
dizionario, le quali spezzano la continuità del sapere. - 15. Divisione della
Filosofia in tre parti: la Dialettica, l' Estetica e la Morale. - 16.
Conclusione. La Dialettica. Che cosa è la Dialettica. È quasi un dialogo.
Esemplare unico dell'Arte logica è la natura, -se no e s'op v'è ignoranza. L'Arte
logica è osservazione di natura, - 6. se oo avvi leggerezza, impazienza e
preoccupazione appas sionata. – 7. È imitazione di natura, 8. se no avvi artifi
cio. – 9. È inveozione ordinativa, pop oggettiva, - 10. se no avvi l'assurdo. -
14. È per fine di verità, - 12. se no si confondono l ' arti, che per altro s'
accordano e s ' aiutano. 13. La Verità, com'oggetto dell'Arte logica, viene
deter minata dalle operazioni di questa, - 14. e però è ordine d'en tità
ripensato, 15. ragionato, — 16. e significato. La Critica interiore vera e la
falsa........ Pag. 251 1. La Critica suppose un Criterio, che paturale cono
scenza porge alla riflessa. - 2. Il bisogno di Critica interiore viene dal
bisogno di cercar l'origini dell'errore, e dall'altro di sceverare nelle
cognizioni la parte oggettiva e la soggettiva; - 3. e però è antichissima;
benchè a questa si contrapponesse Ja Critica eccessiva. 4. Esempj dell'una e
dell'altra nel Cartesio e nel Kant. 5. Principiare dal dubbio universale non si
può; e questa è critica smodata, o fuori di natura. 6. La riflessione
filosofica deve cominciare dalla ignoranza filosofica, piuttostochè dal dubbio
metodico. 7. Però la Critica eccessiva non può condurre alla scienza; pone,
qualunque sia l'intenzione de' Critici, alla virtù; 9. è causa di desolazione,
- 10. o di misera indifferenza. 11. Jovece per la Critica razionale s' afferma
il oaturale co noscimento, 12. la forma di questo e la materia; 15. cioè la
forma naturale in relazione con gli oggetti, - 14. e la realtà degli oggetti
stessi, che costituiscono la materia necessa ria o coboaturale del pensiero. ·
15. Postulati della Critica - 16. Ogni operosità viene impedita dal Criticismo.
Cap. XIV. Verità connaturali al pensiero umano. 272 1. Tre requisiti delle
verità connaturali. – 2. Esistenza di noi stessi. - 5. Errore del Kant e de'
Positivisti, - 4. e loro confutazione. 5. Si riscontrano i requisiti della conoscenza
naturale nella coscienza di noi stessi. – 6. Notizia del mondo esteriore, – 7.
e dell'ordine suo. — 8. Opinione del Kant e de Positivisti, 9. e loro
confutazione. - 10. I requisiti della conoscenza naturale si trovano nella
notizia del mondo. 11. Idea di Dio. - 12. Opinione del Kapt e de' Positivisti.
13. Confutazione, 14. Si riscontrano nell'idea di Dio gli stessi requisiti o
spontaneità, - 15.inconvertibililà e insepa rabilità. Da queste notizie di noi,
del mondo e di Dio risulta la sostanziale totalità della coscienza. 16. La
Filosofia non può disconoscere questa materia del pensiero e della scienza.
CAP. XV. Armonia tra le forme della conoscenza e le cose. 294 1. Che cosa è la
forma. – 2. L'armonia tra le forme del conoscimento e gli oggetti, onde
provenga. 3. Apparenza sensibile, - 4. corrispondente agli oggetti percepiti; –
5. e quindi si fece da Galileo e poi dagli altri la distinzione fra le qualità
primarie de' corpi e le secondarie; - 6. talchè verifi chiamo che l'apparenze
sensibili son segoi reali, realmente vera. - . corrispondenti alla realtà delle
cose. -7. Aoche le apparenze, che dano'occasione d'inganno, procedono da leggi
di natura. - 8. La vista ci dà i segoi apparenti delle distanze. – 9. For me
intellettuali, corrispondenti all'entità e verità delle cose, ue' concetti, -
10. ne giudizi, -11. e oei raziocioj. 12. Armonia tra il conoscimento di ciò
ch'è o avviene deotro di noi, e il conoscimento di ciò ch'è fuori di noi: per i
segoi del l'anima del corpo; – 13. per l'analogie fra l'anima l'uoj verso; -
14. per l'intendimento delle qualità e delle condi zioni d'ogoi cosa esterna; —
15. e per la conoscenza di Dio. 16. Conclusione. Principj armonici della
ragione... Pag. 318 1. Che sono i principj universali della ragione. — 2. Na
scono dalle idee universali, e s'ordipano com'esse. -3. Prima classe,
corrispondente agli universali analogici. Per l'entitd si distinguono più
principj, riflettendo all ' idee d' essere, 4. e all' idee d'essenza e
d'esistenza. 5. Per l'ordine del l'entità, si distinguono, riflettendo all'idee
di relazione, 6. di atto della relazione e di correlazione. - 7. Per il cono.
scimento dell'ordine, si distinguono, riflettendo all' idee del Vero, – 8. del
Bello e del Buono. – 9. Seconda classe, cor rispondente agli attributi
metafisici correlativi. – 10. Terza classe, corrispondente alle universali
condizioni della Datora fioita. Si hanno: Per l'entità di questa, i priocipj di
quantild, di qualità e di tempo; 11. per l'ordine della natura, i principj di
derivazione o dipendenza, - 12. di modalità e di confinazione o del dove; – 13.
per il conoscimento dell'or dine, com ' esso è negl' intelletti creati, i
principj che risguar dano il criterio della verità, la forma della bellezza e
la regola del bene. – 14. In che stia l'utilità de' principj uni versali. – 15.
Due opinioni estreme ed erronee: l' una che li Dega, l'altra che li reputa
generativi di tutto il conoscimento. - 16. Conclusione. L'Osservazione......
340 1. Materie da trattarsi. — 2. Atteozione. - 3. Osservazio ne. – 4.
Riflessione. - 5. Si verifica ciò nelle verità d'espe rienza esteriore, cosi
per Arte logica naturale, 6. come scientificamente. 7. Si verifica delle verità
di esperieoza interiore, cosi per suggerimento di natura, 8. come per la
Scienza. 9. Si verifica delle verità intellettuali pure, 10. cioè negli
universali della Metafisica e delle Matematiche. 11. Si verifica nelle
conoscenze ricevute dall'autorità, 12. e ipdi vien la Critica, 13. Lo stesso
aodamiento si vede nel procedimento storico delle Scienze. -44. Idem,-15. Anche
nel procedimento della Letteratura. 16. E anche nell'Arte pedagogica. Metodo
che imita la Natura...... 1. Che cosa è l'imitazione dialettica: parte
sostanziale del metodo. 2. Sintesi primitiva. – 3. Analisi. - 4. Sintesi 541 -
secondaria. 5. Legge dialettica. 6. Il metodo allora è quasi un contrappuoto
musicale. -7. Però non può essere nè solameote analitico, nè solamente
sintetico. 8. Difetti del Puno e dell'altro, - 9. Il metodo compreosivo gli
uoisce. 10. Contrarie inclioazioni di ogni età verso l'analisi eccessiva o la
sintesi eccessiva. 11. Esempio del Gioberti. - 12. Il vero metodo è
propriamente dialetlico o dialogico. 13. Sua utilità nelle Scienze; 14. nell'
Arti del Bello, - 15. e nel ” Arti del vivere civile.. 16. Conclusione. L'invenzione
dialettica..... Pag. 381 1. Che cosa è l'invenzione scientifica, o che cosa è
la Scienza com'ordine meditato di conosceoze, - 2. Si comincia dalla
comprensione dell'oggetto per una definizione nominale; - 3. poi si viene
all'analisi con la divisione, – 4. con la tési e con l ' antitesi, con la prova
dall'assurdo, e con l'elimina zione; - 5. fochè si giunge alla definizione
dialettica, che può essere o intrinseca o per via disole relazioni. - 6. Poscia,
passando alla sintesi, abbiamo l'ordine induttivo e il dedatti 7. Tutto questo
mirabile ordinamento è una ricerca delle ragioni, e uno spiegare per esse; oode
gli Antichi dis. sero che saper vero è un sapere per le cagioni; - 8. cioè per
principj; - 9. e questo s'avveranella teorica degli universali, - 10. e nella
Scienza dell'uomo, dell'universo e di Dio; s'avvera nelle Scieoze civili e
storiche; Delle Matematiche, e nella Fisica. Indi si spiega l'invenzione degli
stromenti e delle macchine; 15. come altresi la ipotesi e l'intuizione
dottrinale. 16. Supto. vo. – IL FINE DELL’ARTE DIALETTICA. Argomento. Connessione logica. Che stato der
essere quello di chi cerca la verità, e DIFETTI CHE BISOGNA EVITARE. Si può
errare io ciò per leggerezza, o per una
preoccupazione. CHIAREZZA e difetti da evitarsi. Errori che procedopo da
leggerezza, e da preoccupazione,
prendendo per chiaro ciò che non è. Certezza; e difetti evitabili; badando
anche ip ciò di non errare per leggerezza d' assensi e per qual che
preoccupazione, stimando che sia certo l'incerto, e vice Connessione, chiarezza,
certezza, non possono realmente trovarsi che pella verità. Si concbiude: che
fine d'ogoi Scienza, e perciò anche della Filosofia, non è di dare a noi, quasi
mancanti d'ogni ragionevole conoscenza, un primo conoscimento della verità, si
l' ordine riflesso della co gosceoza e della verità: e poi, che L’ARTE
DIALETTICA È ALTRESÌ UN ABITO MORALE; e ancora, che L’ABITO DEL PARLARE meditato giova molto all'ordine del pensare
RAGIONATO E RETTO versa.. I Criterj della Verità o Leggi universali della
Dialettica. L'Evidenza, o il Criterio della Verità. Argomento, e qual sia il
disegno della Dialettica, e qual ragione v'abbia di trattare qui de Criterj; e
dottrina loro semplicissima. Il Criterio è uoa regola, perch'è un segno della
verità in relazione con l'intelletto. Non può negar si, fuorchè negando la
conoscenza; non può travisarsi, fuorchè da' sistemi sostanzialmente falsi; e vi
ha una dottrina costante sulla natura del Criterio. Il Criterio è un segno
apparte nente all'ordine della verità, ed è universale. II Criterio, perciò, è
l ' evidenza dell' ordine di verild; è quindi uno e moltiplice, ossia è un
ordine di Criterj; perch'è l' evidenza dell'ordine di verild in sè stesso, e
ne' suoi contrassegni universali; cioè coutrassegni d'amore e di fede, perchè
l'ordine della verità corrisponde all'ordine della nalura umana. Il Criterio
vale altresi nelle cognizioni anteriori alla Scienza, 10. nè la Scienza può
disco noscerlo. 14. Nella Scienza, poi, l'evidenza precede il ragionamento,
l'accompagna, e lo compisce. 12. Nella Filosofia, l'evideoza del Criterio
naturale si converte in evi deoza scientifica; non già perchè si comioci dal
dubbio; anzi non può cominciarsi da esso, perch'è un riconoscimento. – 13.
Criterio della Filosofia è l' evidenza dell'ordine universale;. 14.senza di che
quella è fuor di natura. - 15. Criterio delle altre Scienze è l' evideoza d'un
ordine particolare; ma in essa i Criterj sccondarj bao solo un ufficio
indiretto e più ristretto. - 16. Conclusione. -L'evidenza del Teismo, come di
verità ordinatrice o di Criterio supremo.... 1. Perchè la verità di Dio
creatore sia Criterio compren sivo alla riflessione. 2. La Scienza de' limiti è
scienza ne cessaria; e il Teismo ci avverte de' nostri limiti. 3. Questi sono
la natura stessa dell'intelletto e delle cose. 4. Soprin telligibile,
soprannaturale, 5. intelligibile: 6. la verità di creazione fa serbare questi
limiti, e spiega il perchè del sovrintelligibile divino, –7. del
sovriptelligibile naturale, 8. e ci rende liberi e sicuri nello studio delle
cose intelligibili, che sono inesauste a mente umana. - 9. Quindi essa rende
soddisfatto qualunque bisogno dell'uomo, e ordina le Scienze che si riferiscono
a' bisogoi stessi. Teologia positiva, - 10. Filosofia, Matematica, — 11. Fisica,
12. Filosofia della Sto ria, Filologia e Critica. - 15. Quel Criterio spiega la
legge del progresso in Filosofia e il regresso sofistico. – 14. I siste mi,
opposti alla verità di creazione, ristringono la conoscenza riflessa, 15. e poi
l'apoientano. - 16. Conclusione. - - 543
- Sistemi opposti al Criterio della Verità, e pri mieramente il Panteismo....
Pag. 472 1. Argomento. - 2. Contradizioni del Panteismo, e pro posito di
affermare le contradizioni.- 3. Panteismo orientale, 4. pitagorico, - 5.
eleatico ed ionico; - 6. degli Ales sandrini e Gnostici, - 7. che difendevano
il Paganesimo; 8. de' Reali nel medioevo, – 9. e dell'altre Sètte; - 10. del
Bruno e del Campanella 11. (sterili, se paragonati al Car tesio ed a Galileo ),
· 12. dello Spinosa (non paragonabile alla fecondità del Leiboitz), - 13. de'
Panteisti tedeschi, 14. e de' loro discepoli. 15. Verità grandi, che balenano
dal Panteismo; 16. il quale, bensì, le travisa, e però nega i fatti più sublimi
della coscienza. II Dualismo. 493 1. Argomento. - 2. Io che il Dualismo è
peggio, e in che meglio del Panteismo? 5. Dualismo fra gl' Indiani. 4.
D'Anassagora, - 5. di Platone, -d'Aristotele, 7. degli Stoici. - 8. Dualismo
tra certi Filosofi maomettani. 9. Dualismo nella Cristianità del medioevo; 10.
e come le tracce del Dualismo antico si trovino anche ne' Dottori scola stici;
- 14. talchè se n'occasionava, ne' tempi della Riforma, up Dualismo nuovo, non
antiteistico, macosmologico e antro pologico. – 12. Il Cartesio; – 15. ed
effetti delsuo Dualismo, segnatamente nel Malebranche, - 14. e nel Leibojtz;
15. o anche nell'Idealismo, nel Sensismo e nello Scetticismo poste riori. 16.
Il Dualismo riduce i contrarj a contradittorj, - talchè rompe ogoi armonia. L '
Idealismo e il Sensismo.... 515 1. Differenza fra l ' Idealismo e il Sensismo.
2. Cenno storico di questi sistemi. – 3. Io che propriamente consiste l '
Idealismo (e sbaglio d' alcuni moderni), e paragone con gli effetti del
Sensismo. - 4. Vizio principale degl ' Idealisti. 5. Nel Sensismo la coscienza
umana non riconosce sè stessa; 6. non l'intelletto, essenzialmente diverso dal
senso; - 7. non - 8. non l'idealità; 9. non la riflessione sopra di noi; 10.
non la religiosità; 11. non la certezza nella cogoizione de' corpi; 12. non la
Filosofia; si solamente la Fisica, - 13. ma falsata e con metodi non suoi. -
14. E sono alterate anco le Matematiche, - 15. com' altresi la Sto ria. - 16.
Sunto. - Lo Scetticismo......
Pag. 1. Argomento. 2. Scetticismo nell'Asia e fra gl ' Italo greci; - 3.
nell'età Socratica e del medioevo; 4. nell'età moderna. – 5. Eclettici e
Mistici, che non riparano allo Scet ticismo, dacchè gli concedono di partire
dal dubbio. – 6. Idea Jismo scettico e Sepsismo scettico. 7. Razionalismo, 8. e
Positivismo; – 9. e quindi Scetticismo metafisico, antimetafisico, - 11. che
bensi trova la Metafisica per tutto. – 12. Come la natura repugoi dallo
Scetticismo. 13. Con seguenze principali di questo. Desolazionee scherno. - 14.
Dif ficoltà pelle controversie, o Dommatismo scettico; abito di giudicare de'
fatti umani da sole circostanze esteriori. 16. Lo scetticismo riduce a nulla il
pensiero. 10. e 15. e L'Amore della Verità... 22 4. Che cosa è nell'ordine suo
pieno il Criterio? Condizioni intrinseche ed estrivseche per la conoscenza
della Verità. 2. Sentimento e amore. 3. L' affetto è conoscenza e la cono
scenza è affetto. -- 4. Bisogna secondare con la libera riflessione il naturale
affetto. 5. Come l'affetto della Verità dia im pulso al ragionamento,
l'accompagni e lo assicuri, e perciò bi sogna guardare a quell'impulso, 6. a
quella compagnia e a quel riposo; - 7. e sbagliarono tanto i Sentimentali, che
di visero l'affetto dall'evideoza; 8. quanto gli Astratteggian ti, che
separarono l'evidenza dall'affetto. 9. Ufficio del l'amore di Verità nelle
Matematiche ed io Fisica. - 10. Ufficio di quello in Filosofia, il quale
altresì ci mostra gli affetti con naturali, che corrispondono agli oggetti
della Filosofia stessa; - 11. cioè l'amore di noi medesimi e degli altri uomioi,
12. l'ammirazione affettuosa per l'ordine della natura 13. e gli affetti
religiosi. – 14. Quello è anche Criterio degli Studj critici, storici e
teologici. – 15. Nelle passioni l'affetto patu rale può facilmente riconoscersi.
– 16. Per l'affetto la scienza si converte in sapienza. salità; Il Senso
Comune... Pag. 1. Quando la parola serve di Criterio? - 2. Che cosa è il Seoso
Comune? Due sigoificati di esso, - 5. dal separare i quali vennero due opinioni
false, · 4. Limiti del Senso Co mune:. 5. i principj, 6. le immediate
percezioni, 7. e le immediate conclusioni. 8. Ufficio diretto e generale del
Senso Comune in Filosofia; non cosi nell'altre Scienze, 9. fuorchè dov'esse s'
uniscono alla Filosofia stessa. - 10. Obie zioni sull'esistenza del Senso
Comune, per la contrarietà delle opinioni. – 11. Obiezioni contro la
testimonianza de' Lioguagej al Senso Comune, per la supposta indifferenza de'
vocaboli al si e al no; – 12. per il materiale significato primitivo di parole
che ricevevano poi un sigoificato spirituale. 13. Obiczioni sulla
ragionevolezza d'usare il Senso Comune a Criterio, qua sichè questo sia
credenza, non evidenza; - 14. quasichè vo gliamo reputarlo sapienza o scienza;
15. quasichè occor resse interrogare tutti gli uomini.. 16. Sunto, e necessità
di ricondurre le Scienze alla natura, come le Arti del Bello. Tradizioni e
progressi nelle Scienze... 1. Criterio delle Tradizioni scientifiche. 2. Due
siguifi. cati del vocabolo Scienza. – 3. Dobbiamo verificare l'univer 4.
distinguendo i principj, i teoremi, i problemi, e gli errori. 5. L'unità del
consentimento non toglie la libera varietà. -6. Consentimento e progresso pe'
principj e ne' teo remi, -7. e ne' problemi. – 8. Le Sètte son dimezzatrici
della Verità; 99.. eppure confermano i teoremi, 10. e son’oc casione di
progresso, mostrando i mancamenti della Filosofia, 11. perfezionandone la forma,
12. e alcune dottrine particolari, - 13. e le loro conseguenze nelle dottrine
de'Fi losofi. – 14. Nascono due opinioni false: cioè i sosteoitori della sola
evidenza privata; – 15. e i sostenitori del solo criterio storico. - 16.
Conclusione. Relazioni fra le Scienze e la Religione..... 1. L'argomento, che
ora si tratta, è Glosofico di sua na tura, – 2. Due significati della parola
Religione. - 5. S'esclu de: che la Filosofia debba ricevere l'autorità senz' uo
motivo evidente di ragione; – 4. che, per l'esame, debba sospendersi la Fede;
5. che l'autorità del verbo religioso sia un Crite rio diretto per ogni Scienza;
- 6. che la Filosofia debba en trar pe' Misteri, o la Teologia nel ragionamento
filosofico; – 7. che sia lo stesso metodo e lo stesso fioe a’ Filosofi e a'
Teologi. - 8. Nel fatto, l'efficacia delle Religioni è universale sopra i
sistemi filosofici; 9. e sempre la Religione s’ è reputata upa Fede; 10.
Criterio è poi, se corrisponde alla coscienza; 11. talchè sia un'evidenza e una
credenza, cioè una credenza evidente. · 12. Fa quasi specchio all' uomo
interiore, - 15. che riconosce l'integrità dell'essere suo io quella. 14. Gra
vissimo errore del negare validità razionale lenza non filosofica. 15. Il
Criterio religioso sublima l'animo e lo ràs. serena, porgendo così le due
condizioni necessarie d'ogni me. ditazione più alta. 16. Sunto. Leggi speciali
della Dialettica. oi. - - Dell'Ordine, come suprema Legge razionale. Legge
suprema razionale. Leggi concrete o datu
rali, Legge soprema è l'ordine. Unione de' termi. Cercare questa unione,
rispetto agli oggetti, pelle operazioni, cosi dell'Arte bella e dell' Arte
buona, come dell'Arte dialettica. Cercare la somiglianza de' ter mioi, – le loro differenze, e le loro contrarietà,
escludendo i contradittorj. Ksempio tolto dalla teo rica de' Criterj. Errore,
deformità, male, sono disor dini. Ogni errore non altro è, che da una parte
soltanto risguar dare la verità, segregandola dal resto che le appartiene, e
senza cui non è più verità. - Gli errori e il male cadono d'ec cesso jo eccesso.
Meraviglie della ragione umana, che imita l'ordine della natura interiore ed
esteriore. Coo clusione. Ordine dell'idee Ripensamento dell'idee. L'idea, del
suo valore intimo, è sempre vera; quantuoque altresi per idea s’in. tenda lutto
ciò che con la riflessione s'afferma e nega; e allora l'idea può essere falsa.
Bisogna esaminare il positivo del l'idee; nè può darsi un'idea negativa per sè
medesima. 6. Poi bisogna esaminare l'ordine dell'idee con gli oggetti, e come
non possiamo pegar l'idea d’un oggetto, se igooriamo la sua intima essenza, nè
possiamo negare l'idea d'un fatto, se ignoriamo il comeavviene il fatto, ec.; e
bisogoa esa minare qual sia la natura dell'oggetto, coocepita per mezzo dell'
idee. - 8. Idee a priori e a posteriori? L'idee hanno fra loro uo ordine cbe va
riconosciuto; 10. talcbè, riflettendo a quello, si formano idee distinle,
adequale, chia -A1. e ci leviamo all'idea perfetta. Bisogna, in line, ch'
esaminiamo la forma concettuale dell'idee, 13. la loro estensione e
comprensione, 14. onde riconosciamo l'unità 15. per la quale l'idea è un
esemplare unico di 16. Chi poo badi alla oatura dell' idee non può intendere
alcuni fatti maravigliosi della patura umana. Ordine della Memoria.. 1.
Argomento.La legge della Memoria è l'ordine stesso che regge l'idee. 3.
Associazione dell'idee. 4. Come possono in unità raccogliersi le varie
associazioni, notate da' Filosofi. 5. Quella medesima legge si distende al
richiamo de' fantasmi e de'segoi. - 6. E anzi, abbraccia tutte le facoltà,
concorrenti nella Memoria, 7. e unità naturale del. 8. e l'unità morale del
genere umano. — 9. Que st' ordine, ch'è legge della Memoria, diviene regola. È
neces saria l'attenzivce sull’idee e il raccoglimento. 10. Bisogoa 32 * re,
dell' idee, molte cose. ſaomo, - considerare la coonessione dell'idee e i segni
seosibili per facil. mente richiamarle. - 11. Inoltre, acquistar l'abito della
ri flessione sull'ordine de' giudizj e de' raciocinj, per il pronto discorso
scientifico. 12. Singolarmente quell'abito è neces sario per la Memoria delle
parole. 15. Tadi procede la pa dronanza dell'esporre. 14. Per l'uoità
coosapevole interna, occorre rammemorare il nostro passato. 15. Per unità
morale del genere umano poi, occorre la Tradizione, ch'è me moria. – 16.
Conclusione. Ordine de' giudizj.. Pag. 166 4. Argomento. 2. Co.ne dall'idee si
svolgono i giudizj; - 3. onde i giudizj possibili sono distinti da’ formati o
reali. - 4. Categorie, 5. oggettive e soggettive. 6. Perfezio oamento di questa
dottrina. - 7. Categorie oggettive, o se condo gli Universali; 8. Categorie
soggettive: 9. I. quanto alla forma concettuale dell'idee, giudizj universali,
ge nerali, particolari, singolari; - 10. II. quanto alle relazioni fra l'idee,
categorici, ipotetici, disgiuntivi, 11. problema tici, assertori, apodittici, -
12. diretti e comparativi, astratti e concreti, a priori e a posteriori, - 13.
analitici e sintetici; - 44.III. quanto alla forma de'giudizj, affermativi,
negativi, limitativi; 15. IV. quanto alla relazione di più giudizj,
equipollenti, convertibili, contradittorj, contrarj e subcontrarj. 16.
Conclusione; e come sia necessario, giudicando, solle varsi all'idea distinta,
chiara, adequata, e quindi perfetta, di ciò che meditiamo. Ordine del ragionamento..
186 1. Argomento. Regole. • 2. Legge dialettica. Idea media; e come il
raziocinio sia un giudizio complesso che si scioglie in tre giudizj. – 4.
Priocipio formale del raziocinio. - 5. Deduzione e induzione. - 6. Deduzione
dal simile al diverso. – 7. Induzione dal diverso al simile. - 8. La diffe
reoza tra il ragionamento deduttivo e l'induttivo, in che non può consistere? —
9. Qual'è duoque la differenza del ragiona mento deduttivo, 10. e
dell'induttivo? - 11. Da essa viene la regola. 12. E, per opposto, dal violarla
vengono i sofi - 13. e si vedenel dedurre, - 14. e nell'indurre.: 15. Non deve
mai separarsi la 'regala formale dalla materia del ragionamento; - 16. oè la
materia di questo dall'ordine suo. C.: P. Utilità del ragionamento. 206 1.
Argomento. 2. Come deve intendersi che si procede dal noto all'ignoto? 5. Che
cosa troviamo di nuovo per via del ragionamento? 4. Deduzione; 5. in Fisica, in
Ma. tematica applicata; – 6. altre scoperte, – 7. per equipollen za,
conversione, opposizione, esclusione'; 8. deduzione per via di regole applicate.
– 9. Induzione, é sua certezza. --40. Induzioni fisiche. 11. Analogia. 12.
Ipotesi. – 13. In duzione metafisica. – 14. Due erroriopposti: l'uso di coloro
che immaginano la deduzione quasi generazione; 15. l'al tro di coloro che
negano il dedurre. 16. Conclusione. smi;
Unione e varietà de'Metodi.......... Pag. 227 1. Argomento. 2. La verità,
com ' ordine conosciuto, si trasforma in Metodo: può vedersi dalla Storia della
filosolia, 3. e delle Scienze fisiche; 4. talchè vana è la disputa se preceda
l'importanza de'Metodi o de principj; - 5. e quindi ancora si vede che il
Metodo risguarda il soggello e l'oggello, e ch'è psicologico ed ontologico
insieme, 6. cioè critico. - 7. Faria il Metodo; ma neile varietà c'è leggi
comuoi. 8. Le varietà poi derivano dalla natura dell'argomento, 9. taotoché
riesce assurdo il coofondere tra loro i Metodi; 10. e vba Scienze deduttive,
11. induttive,. 12, miste; 13. più sintetiche, o più analitiche. 14. I Metodi,
variando secondo la varietà delle cose, diversificano pure secondo la mente di
chi pensa la verità, 15. e secondo la mente di co loro, a cui la verità s '
espone. 16. Sunto. Abiti necessarj al ragionamento Metodo è abito, e richiede:
abito di virtù, abito intellettuale che disponga l'intelletto all'Arte
ragionativa, e abito dell'Arte. Abito morale, cioè amore della Verità. Bisogna
essere preoccupati solo da questo amore; unito alle virtù morali, e come dagli
abiti viziosi opposti s' of feoda il ragionaiento buono. Abito intellettuale
del rac coglimento, donde nasce il diletto della meditazione, e che porta con
sè l'abito di badare all'armonia delle facoltà e delle dottrine, e di ordinare
i proprj studj. Abito intellettuale dell'Arte, cioè il possesso delle regole.
41. e dell'ordine loro; 12 donde procede la necessità di tre atti razionali
abitualmente, cioè l'esame del pensiero del principio de' ragionamenti, a mezzo
e io fine; 13. il quale ultimo è importantissimo; 14. e indi viene il possesso
della ragione; 15. acquistato piucchè mai dall'esercizio della pewna e della
disputa; 16. purchè questa sia conveniente. L’ESPOSIZIONE. Iinportanza
dell'argomento, Ufbej della PAROLA: interno e SOCIALE. LA PAROLA s’unisce
strettamente al pensiero, ma non lo costituisce; bensi lo determina. Non
bastano i fantasmi, ma ci vuole IL SEGNO dell'idea, tanto più che IL DISCORSO
esterno aiuta con la successione sua la riflessione discorsiva. LEGGE
DELL’ESPOSIZIONE si è la legge dialettica; ossia determinare con la lingua
l'ordine del pensiero; il che apparisce anche da' nomi che si dànoo a'termio i
della proposizione e del raziocinio, e al congiungimento de' termini; e poi, la
bellezza dello stile dottrinale accorda il Vero col Buono. Regola perciò è:
determinare coll'ORDINE DELLA PAROLA l'ordine del pensiero; in conformità
dell'idee e dell'idioma, donde si traggono le regole tutte grammaticali, e dello stile. Quindi è impossibile separare
la bellezza dell ' Esposizione dalla profondità e dall'ordine del pensiero. Se
non determiniamo con le parole il proprio concetto, in conformità dell'intimo
legame fra i concetti, e in conformità del linguaggic, vengono gravi errori. L’INTERPRETAZIONE
E L’IMPLICATURA (“He hasn’t been to prison yet”). L'Interpretazione. Argomento.
In quante maniere debba determinarsi l'ordine del pensiero ALTRUI altrui.
Relazioni del DISCORSO con la lingua; e perciò la sappia, chi vuolesser critico;
tutti sapere ogni liogua, non si può pè giova; e allora valersi degl'interpreti
migliori. Relazioni del DISCORSO con la mente ALTRUI; e perciò stare al senso
letterale, quanto si puo; oon interpretare alla leggiera né cop troppo di SOTTIGLIEZZA,
non alterare né i difetti né i prenj; badare AI FINI che il testimone o lo
scrittore SI PROPONEVA – “what he meant, not what he means!” -- Relazioni del DISCORSO
con l' animo ALTRUI; e pero guardare alla capacità e alla veracità con
argomenti intrinseci ed estrioseci;: nè la capacità negare, preoccupati da
un'idea; nè, per la veracità, eccedere ne' due vizj opposti d'una Critica
adulatrice o caluoniatrice. Relazioni con la Società umana; e però con
l'incivilimento, con la Religione, con l
' uniune delle prove. Sunto, Metodi secondo le varie Discipline. Metodi speciali. Perchè i Metodi si
distinguono secoudo le Discipline varie?
Quanti sono i Metodi speciali, che procedono dalla relazione varia degli
oggetti con la mente? Ogni errore sostanziale di Metodo procede da un errore su
detta relazione. Gli errori de' sistemi sul Metodo, esaminati, rendono
testimonianza tutti insieme alla vera dottrina. La distinzione de' Metodi è
necessaria pell'Arte del Vero, come si distinguono l'Aiti speciali nell'Arte
del Bello; e chi oega la differenza de'
Metodi, pega implicitamente esplicitamente una qualche verità; come nell'Arti
Belle, 8. cosi nell'Arte dialettica. 9. Connessione de' Metodi;. 10. e ciò si
vede anco nell' Arti del Bello. Hl. Ma la connessione non toglie poi la
distinzione, 12. secoudocbė il rispetto delle verità mediane o collegatrici
diversifica; 13. onde bisogna rispet tare la varia competenza nelle Scienze
diverse; 14. beocbe uno Scienziato possa partecipare di più Scieoze. 15. Sunto.
- 16. La confusione de' Metodi è coutro il progresso della civiltà. Cap. XLII.
Metodo degli Studj religiosi. 1. Argomento. 2. Proprietà del Metodo negli Studj
re ligiosi. – 3. Metodo storico circa i fatti; – 4. e guardare do v apparisca
propriamente la loro Storia. 5 Metodo joterpre tativo circa i fatti, -6, e le
dottrine, 7. Metodo filosolico circa la possibilità razionale de' fatti dividi,
8, e come gli . 505 - Avversarj neghino irragionevolmente questa possibilità; 9.
poi, circa la razionale convenienza in genere de ' fatti divini, ma esclusa
sempre la necessità; - 10. poi ancora, circa la ra zionale convenienza in
ispecie, cosi de preliminari della Fe de, 11. come nelle Verità misteriose. 12.
Unione del Metodo filosofico, dell'interpretativo e dello storico, per le
origini del Culto e per la sua universalità nel tempo, 13. per le sue relazioni
universali con le Scienze e con l'Arti, 14. con la Civiltà intera, - 15. e con
tutti gli altri Culti. Metodo teologico si distingue dagli altri Me. todi e vi
s'accorda.. Pag. 342 1. Argomento. 2. Il Metodo teologico si distingue dal
filosofico, perchè muove dall'autorità, – 3. perchè risguarda il soggetto
medesimo in un rispetto differente, 4. perchè, quantunque abbia io sè una parte
filosofica, non è meramente filosofico. 5. Si distingue dal Metodo critico e
filologico, percbė storicameote e ioterpretativamente riconosciamo cause
sovrunane, l' Intelletto sovrumano, tini soprannaturali. 6. Si distingue dal
Metodo matematico, perchè risguarda la libertà divina e l'umana ne' fatti
religiosi. – 7. Si distingue dal Mo todo fisico; e tal distinzione ha
importanza eguale pe' Teologi, che non debbono considerare come il mondo è
fatio, - 8.6 pe ' Fisici, che non debbono considerare come il moodó fu fatto.
9. Il Metodo teologico s'accorda poi col filosofico; perchè il Teologo non deve
separare mai l'attinenza fra Teologia e Filo sofia che porge a quella le verità
prelimioari, l'analogie razio nali e l'ordinamento; - 10. pè il Filosofo deve
mai separare l'attinenza tra Filosofia e Teologia, che rende più autorevoli o
efficaci le verità razionali. – 11. II Metodo teologico s'ac corda col critico,
perchè il Teologo ha bisogno di guardare alla Storia universale e alla
Linguistica; — 12. il Filologo ba bi sogno diguardare alla Storia religiosa e
ai monumenti sacri. 13. S'accorda col matematico, per la severità del ragiona
mento, per molti esempj, per molte dottrine fisicomatematiche, per l'evidenza
del concetto d'infinità. – 14. S'accorda col fisi co, perchè il Teologo non
deve mai tenere la scoperta di cose na - 15. pė il fisico deve spregiare la
verificazione delle ipotesi, secondo le narrazioni sacre. 16. Sunto. Metodo
della Filosofia.... 361 1. Argomento. — 2. Proprietà del Metodo filosofico. – 3.
Raccoglimento nella coscienza. 4. Esame de' fatti interni, delle loro leggi e
cause. turali; - - 5. Delle relazioni con gli oggetti; 6. e però avvi una parte
del Metodo, asceosiva da'fatti agli oggetti stessi, e una parte discensiya
dagli oggetti a ' fatti. -7. Si distingue dal Metodo teologico, e dal critico o
filologico: 8. dal matematico, per la natura de' concetti, la natura degli
oggetti; – 10. dal fisico, per la natura de' fat ti, e per le relazioni loro
con gli oggetti, 11. e quindi per la ricerca delle classi loro, e leggi e cause,
e per i priocipi della ragione. - 12. Si accorda col Metodo teologico per l'esa
9. e per . - me della coscienza; 13. col critico o filologico, per lo stu. dio
dell'umana natura pe' fatti umani esteriori e nelle lingue; 14. col malematico,
per la speculazione di verità con ma teriali; – col fisico, per l'altigenze fra
le cose intellettuali e le corporee. 16, Sunto. CAP. XLV. Metodo della
Filosofia Civile.... Pag. 381 1. Argomento. — 2. Proprietà del Metodo nella
Filosofia Civile. Questa si fondi sopr'i fatti, – 3. badando alla notizia loro
precisa e al collegamento loro. 4. Studio delle cagioni; ma fuggendo di
prendere l'analogie per identità. - 5. Esame delle cagioni esteriori ed
interiori, non separabili, ma distinte. - 6. Le cagioni interiori hanno più
importanza: 7. ma senza trascurare l' esteriori. - 8. Si ascende alle leggi o
ragio ni. Leggi supreme della Scienza storica, della Politica, della
Giurisprudenza, dell'Economia. - 9. Le dette leggi non tol gono la libertà, -
10. come la libertà non toglie alle conse guenze proprie la necessità; 11.
tantochè in ciò risplende l'ordine della Provvidenza. – 12. Dopo l'esame
induttivo delle cagioni e leggi può farsi la deduzione, o probabile o necessa
ria, di ciò ch' è avvenuto e che può avvenire. 13. Questa Filosofia delle
ragioni o leggi, che governano le nazioni, non può trascurare il procedimento
storico; ma neppure si può, per questo, trascurare la teorica di quelle. - 14.
Talchè la Scienza civile ha due presupposti, la Storia e la batura. –15. Però
il Metodo suo si distingue da ogni altro, 16. e a tutti si upisce. Metodo
critico nella Storia. 401 t. Argomento. – 2. Esame de' fatti, Discipline che
aiutano in ciò la Storia: Cronologia e Geografia, – 4. Archeo logia,
Diplomatica, Statistica, Archeologia preistorica, Etno grafia. 5. Come si può
andare in eccessi con queste disci pline. - 6. Ipercritica. – 7. Esame delle
cagioni; e iodi lo Storico rifà la Storia entro di sè. 8. Cause finali, 9.
particolari, generali, 10. psicologiche, A1. divine. 12. Oggettività della
Storia; 15. e come ciò la renda bel lissima e ammaestrativa. – 14. Come lo
storico si distingua da ogoi altro Metodo; 15, e vi si accordi. 16 Sunto, CAP.
XLVII. Metodo critico nella Linguistica. 420 1. Proprietà del Metodo
interpretativo delle Lingue. 2. Raccolta ed esame de' vocaboli. – 5. Come
bisogna valersi dell ' uso proprio nelle Lingue parlate, e come giovino i testi
moni dell'uso. A chi ricorrere per lo Lingue morte. Grammatica poi determina le
classi e le leggi de' vocaboli, 5. Avvisi necessarj a far bene la Grammatica. –
6. Io che con siste la Filologia comparata. – 7. Utilità di essa, e da quali
estremi bisogna fuggire. 8. Il fine dell'esame filologico è interpretativo
principalmente; – 9. e ciò ne determina i con fini, i modi, 10. e le relazioni;
che sono massimamente due: con la Letteratura, 11. e con la Storia, - 42. E
iodi anche vediamo le indirelle relazioni della Linguistica; cioè con 4. La ca,
la Teologia. 13. con la Filosofia, 14. cop la Matemati 15. e altresi con la
Fisica, sempre distinguendosi da tutto ciò. 16. Sunto. Metodo matematico...
Pag. 440 1. Proprietà del Metodo matematico. – 2. Quantità pore, cioè astratte
da ogni altra idea. – 5. Nel che, poi, bisogna di stinguere fra l'insegnamento
elementare ed il superiore. 4. Si cerchino le ragioni, sgombre da ogo' idea
straniera. 5. Idea dell'Infinito, distinto dall'indefinito matematico. - 6. Il
Cavalieri. – 7. Distiozione dal Metodo teologico, - 8. e relazioni con esso;
dal Metodo filosofico: e accordo con la Logica, onde l'insegnamento della
Matematica è razionale, 12. Distinzione dal Metodo critico, segnatamente dal
letterario, 13. e accordo. - 14. Relazione col Metodo fisico. 15. Come le
dimostrazioni matematiche abbian virtù di assestare gl'intelletti, e anche
possano dissestarli.. 16. Sunto. Metodo nelle Scienze fisiche. Argomento.
Proprietà del Metodo nelle Scienze fisiche, - 2. Prinia d'indurre si comincia
dall'Analogia; 3. cbe talora non può giungere all' Induzione, 4. Può essere
fonte di errori; o del troppo generaleggiare, 5. o del poco. – 6. Essa è di
molta difficoltà. 7. Regola da tenersi. – 8. Indu zione. Uffioj del senso e
dell'iotelletto. 9. Ci solleviamo alle 10. alle cause, - alle leggi, 12. e però
al. l'ordine. Doppio errore de' Sensisti e degl ' Idealisti. 14. Frantendono
allri la luduzione, ch'è legittima e necessa ria, 15. e da cui siamo condotti
alla Deduziune. Suato. Cap. L. Segue del Metodo fisico; e Ordine fra le Scienze..
479 classi, 16. 1. Argomento. – 2. Abiti che prende la meote per gli Studi
fisici. – 5. Idem. 4. Necessità di mantenere l'ordine fra le Scienze. - 5. Guai,
se la Fisica è usurpativa. Confusione della Fisiologia con la Psicologia: – 6.
de' fatti esteriori con fl'interiori. – 7. Confusione di linguaggio, e
dogmatismo. 8. Si confondono i bruti con l'uomo; – 9. la volontà con gli atti
meccanicamente determinati. – 10. Si distingue il genere umano in più specie,
poi si pongono le trasformazioni di tutte le specie; -- 11. si confonde
l'ordine de' fini col piacere • con la materiale utilità. - Abiti cbe prende
l'intelletto per gli Studj religiosi; Filosofia; - 14. per le Matema. tiche; -
15.per la Gritica. 16. Conclusione generale. STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA. Epoca
dell' èra pagana. Civiltà degl' Italici. Successione dei loro sistemi.. Scuole
italiche. Sistemi latini. CICERONE Giureconsulti romani. CIVILTÀ
DEGL'ITALICI. SUCCESSIONE DE'LORO SISTEMI. Tre tempi dell'incivilimento italici;
i l'elasghi, la trasformazione loro negli Elleni, le colonie. - Il terzo è più
nolo; quali sono i suoi termini. Cinque cagioni più principali dell'unione fra
la civiltà orientale e l'italica: colonie, commerci, viaggi, lingue,
tradizioni. Tre opinioni sopr’esse; tutto dall'oriente, nulla e opinione media.
Dipendenza non generica nė volgare della filosofia italica; daʼsistemi orien
tali. La civiltà jtalica fiorisce primamente dove più vive le comunicazioni con
l’Asia e dove più ricco un anteriore incivilimento. l'ero quest'epoca si chiama
oriental italica. Questa è un'età di passaggio, fra le qualità orientali e il
tempo socratico. Si veda le attinenze lia filosofia italica religione e
civiltà. Quanto alla religione sacerdotale, se n'ha indizi per le memorie de '
Pelasghi, de ' Misteri e degli Orfici. Celebre passo di Erodoto sulla religione
de ' Pelasghi, e sul nome degli dèi posteriori ec., e conseguenze di ciò. Somigilianze
tra la religione pelasgica e quella de' Bragmani. Misteri: quelli di Samotracia
istituiti da 'Pelasghi; domma che s'insegnava segretamente e molto simile al
panteismo dell'India. Ciò pur anche ne’ misteri eleusini; panteismo naturale,
metempsicosi, immortalità, purificazione. - La teologia d’Eleusi non può interpretarsi
solamente in senso fisico. Testi monianze di lode que' Misteri pel domma
sull'immortalità. Le due anime; anch'in Omero ec. – Gli Orfici: qualcosa di
storico v'è circa Orfeo, benché con mistura di simbolo.-- La dottrina che va
sotto il nome d'Orfeo si raccoglie da tradizioni antiche e da'versi orlici. Le
tradi zioni attribuiscono a Orfeo una religione collegata poi a'Misteri
eleusini: cosmogonie orliche, somiglianti all'indiane. Quanto a'versi orlici,
que sli non appartengono a Orfeo; ma parecchi son certamente molto antichi. Da
varj ioni (che si riferiscono qui, apparisce il panteismo naturale come ne '
Vedi. Passi che fece la religione tra l'Italogreci: panteismo natu rale con
molte tracce del Dio unico; adorazione degli astri, massime nel volgo; teogonie,
o emanazioni sempre più specificate e che prendono attri boti e nomi distinti;
individuazione ultima e volgare del politeismo, specie per opere degli artisti
e de' poeti, abbandonando quasi ogni simbolo. Memorie sul combattimento fra le
religiose tradizioni e il politeismo cre scente. - La filosofia, dunque, prima
sacerdotale; poi sacerdotale e laicale ad un tempo; cedè inline al politeismo,
rispettandolo, se non altro, come apparenza o credulità popolare. — Questo
resistere al male, e poi cedergli, si vede ancora per l'altre parti della
civiltà italogreca. La filosofia venne preparata da molte cagioni, e però dovè
fiorirvi assai presto, anzi chè cominciare a' tempi di Talete molto dubbiosi. -
La filosolia mosse da un ritorno sulla coscienza morale Questa filosofia morale
e religiosa fiori, prima di Taleto, non solo in Italia ma tra gli Ionj pur anco;
e se n'ha prove non dubbie. La cuola pitagorica precedeva Talute; ma va di.
slinto Pitagora dal Pitagoresimo. - Molti argomenti di fatto e molte auto rità
per mettere in saldo le antiche origini di tal filosofia. Anche la scuola di
Xenofane antecedė Xenofane stesso; e quindi abbiamo, prima il Pitagoresimo, poi
la scuola cleatica e l'ionica, infine i sistemi negativi. L'epoca
dell'incivilimento italogreco si può distin guere in tre tempi; de Pelasghi (o
con qual altro nome si voglia chiamare que' popoli primitivi); della trasforma
zione di essi negli Elleni; delle colonie. L'età de' pelasghi o degl’antichi
abitatori d'Italia si perde nella notte de’ secoli, ignoto il principio e la
durata. È certo bensì, che quegl’abitatori vennero d'Oriente, come se n'ha
prova in tutte le memorie e ne’ linguaggi e nelle reliquie dell'arti, e che i pelasghi,
quantunque paruti barbari a Ecateo e ad Erodoto e di barbaro dialetto, sono la
più antica sorgente e più copiosa delle genti e lingue e religioni elleniche (Balbo,
St. d'It.; Cantù, St. univ.; Guignaut, note al Lib. IV del Creuzer, Rel. de
l'antiquité. Sembraron barbari, perchè reliquie di popoli più segregati allora
da'popoli nuovi, già molti passati avanti. Fatto è che di là, ove i pelasghi
abitarono, fan derivare i greci la civiltà loro, dall' Elicona, dall'Olimpo e
dal Pindo. Accadde poi e IN ITALIA un cozzo di popoli. Qual cozzo, e di che
popoli, è molto incerto agli eruditi. Ma questo si sa, ed Erodoto l'afferma più
volte, che al lora con trasformazione lunga e tempestosa i pelasghi si
convertirono in elleni. Viene poi l'età delle colonie; un rovesciarsi di genti
greche le une sull'altre, un invadere, un esulare, e indi un propagarsi di
colonie, prima nell'Asia minore e nell'isole, poi nella Calcide, nell'Eubea, in
Sicilia e SULLE COSTE D’ITALIA, e infine (propag gini di colonie da colonie) in
Asia, in Tracia, sul Danubio e nel Mar Nero. Questa terza età è propriamente
storica. Dell'altre due il più va ingombro di favole. La terza comincia,
secondo l'Hofler assai temperato nelle cronologie, sul secolo undecimo avanti
l'èra nostra. (St. Univ.) In un'età così lunga e operosa, e ch’ebbe così lunghe
e ricche preparazioni, si forma la civiltà e FILOSOFIA DEGL’ITALICI -- la
quale, svolgendosi nelle colonie d’ITALIAe dell'Asia minore, cedè poi al
primato d' Atene; onde comincia una seconda età di filosofia. Nell'epoca di che
si parla ora, in ogni tempo del l'epoca stessa, cinque cagioni principalmente
mantenevano unite la civiltà orientale e l'ITLICA; colonie, commerci, viaggi,
lingue, tradizioni: Le colonie, nè dico solo l'egiziane di Lelege, Danao,
Cecrope ed altri, ma le prime venute dalla terra degli arii e de' persiani, e
l'ultime ellene che si spargevano per l'Asia minore; i commerci, che com’appare
in Omero, non cessarono mai tra ITALIA e le coste dell'Asia. I viaggi per
l'Oriente, non possibili a negare in tutto, de FILOSOFI d'allora, come Ritter
non nega quelli di PITAGORA A CROTONE, Ritter negatore sì voglioso. Le lingue,
che certo prendevano gl'inizj degli Orientali, e con le lingue le tradizioni
d'ogni maniera. Tra queste, principali le religiose, in torno a cui son tre le
opinioni: da Erodoto fino a Creuzer la mitologia ITALICA, la greca
segnatamente, si reputarono di provenienza orientale e il più egiziana. Ma poi
Müller, Voss e altri riferirono tutto ad origine greca. Guignaut (Note al
Crcuzer) ed altri con lui tennero finalmente l'opinione media. E questa si è
che i germi delle credenze religiose si trapiantassero d' Asia com'anco radici
e forme generali delle lingue; ne può pensarsi altrimenti, dacchè ivi
coabitarono un tempo le genti ellene: ciò non impedì, nè mai l'im pedisce uno
svolgimento di proprie fattezze così nelle lingue come nelle religioni: all'età
poi delle colonie, quand' elle si sparsero sull' Asia minore, per l'Egeo e nel
Ponto Eusino, dalle comunicazioni fra loro e i vicini orientali scaturi la
fonte più copiosa d'idee e di simboli asiani, manifesta già in Esiodo ed in
Omero. Talchè (ponete mente, o signori),
se lo spargersi di colonie nell'Asia minore avvenne dall’undecimo all'ottavo
secolo incirca, e nel con tinente poi d'ITALIA e di Sicilia dall'ottavo al
sesto, que st'ultimo fatto s'incontra per appunto col ritornare delle
tradizioni orientali fra gl’elleni, e ne sorge in mezzo la filosofia nuova
degl'ITALICI. Non istarò dunque a disputare com’essa deriva più o meno
da’sistemi orientali, bastandomi ch'ella dipende per fermo da molte tradizioni
d'Oriente o per le origini delle schiatte o pel riaccostarsi loro all'Asia. Che
tal dipendenza poi de' popoli d'ITALIA, nazione antichissimamente civili e
nella civiltà loro pertinaci, possa credersi affatto generica e volgare, cioè
senz'efficacia sull'educazione speculativa, giudicatene voi, o signori, che pur
vedete gli effetti odierni del comunicare le nazioni fra loro. Dove fu egli il
primo fiorire della civiltà ITALICA? nelle colonie d'Asia e di Magna Grecia. Non
già in Grecia propriamente detta. Perchè mai, o signori? La ri sposta non par
malagevole. Prima che in Grecia, fiori la civiltà negl'Ionj dell'Asia minore,
appunto perchè più vicini all'Asia media, sorgente de' popoli e della civiltà;
e prima pure che in Grecia fiorì nella Magna Grecia, cioè in ITALIA, perchè ivi
più forse ch'altrove ra dicò la civiltà pelasga, e perchè le tradizioni che
fanno ionio Pitagora e ionio Xenofane, venuti tra noi, dan segno come frequenti
e vive fossero le comunicazioni tra LE COSTE ITALIANE e l ' Asia minore. Dico
poi, ad ogni modo, che le colonie greche trovarono in ITALIA grandi semenze di
civiltà, nè però ebbero impedimento, anzi ebbero aiuto a presto incivilirsi e
prosperare. Di fatto recatevi a mente, o signori, due cose molto important. Prima,
che le tavole d'Eraclea, lette dl Mazzocchi, fan prova come i coloni greci
prendessero dagl'ITALIOTI misure e confinazioni agrarie. Seconda, che i Lucani,
i Bruzj, i Sanniti, dopo essersi ritirati davanti alle colonie greche, e
riparatisi a’ monti, ne discesero poi, e le ributtarono (Hofler), talchè più
non resta in ITALIA dialetti greci (in PUGLIA ve n'ha, ma di colonie recenti e
fuggite dai Turchi); la qual cosa non poteva accadere, se que'popoli montanari
non serbavano istituti civili. Ecco il perchè ho chiamato quest'epoca
orientalita logreca (italogreca ITALIOTA per più brevità); greca, perchè
filosofia di colonie greche; ITALIANA perchè sorse più splendida in ITALIA e
con tradizioni italiane (italica chia marono pure i Greci, come Platone ed
Aristotile, la scuola pitagorica e di VELIA); orientale, perchè con origini e
comunicazioni asiatiche. Non si toglie a' Greci la loro eccellenza ' se notiamo
quel ch ' essi appresero; offenderebbe la verità e loro chi loro negasse la
mira bile potenza di far proprio l'imparato e di dargli bellezza e compimento;
essi il ricevuto per dieci lo ridussero a mille e quel mille lo insegnarono al
mondo; ecco la lor gloria vera e non superata. Quant' all'ITALIA nostra, o
signori, principalmente sul terreno di lei sorse co' Pitagorici questa
filosofia nuova che tanto potè su Platone e sopr’Aristotile. L’ITALIA ricevè
dal 1 ° Oriente e da’Greci, l’ITALIA poi restituì alla Grecia e alla civiltà
de' secoli avvenire; e potè dirsi allora quel che poi disse PLINIO. Omnium
terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa, una cunctarum gentium in
toto orbe patria. Ma le lodi antiche suonano vituperio a’tra lignati:
avvaloriamoci, o signori, d'emulazione e di virtù, e non di lode. E
quest'epoca, di fatto (come dissi altrove), è un'età di passaggio; ritiene
ancora le qualità orientali, ma che mostrano già di convertirsi nell'altre
dell'età socratica. Così tra gl’ITALIOTI come tra gli Asiatici, abbiamo un
sistema religioso sacerdotale; ma ora si nasconde ne' misteri, e si separa
perciò interamente dalle credenze popolari che prevalgono. Tra gli uni e tra
gli altri la filosofia dipende dal sistema religioso. Ma ora si svolge in un
modo più laicale e più da sè stesso, perchè così ri chiede la mobilità di
quelle repubbliche, e perchè il sistema religioso si rimpiatta, e nè ha
sull'invecchiare il vigore speculativo degl'inni e commentarj vedici; par come
un'eco de' tempi passati, più che voce vivente. E siccome la filosofia di
quest'epoca pigliò i germi da' misteri (Ritter), che hanno del panteismo
orientale, così ell'hanno del panteistico a mo' degl'Indiani, ma con tendenze
più manifeste alla DIALETTICA che va per distinzioni anzichè per confusioni.
Poi, qui come là s' unì la poesia con la speculazione, ma più altresi se ne
distinse; perchè i poemi omerici non furon mai ravviluppati con una
enciclopedia d'episodj. Ed i poemi scientifici di VELIA (il Sulla Natura di
Parmenide) e di GIRGENTI (il Della natura di Empedocle) s'accostano alla prosa.
E qui come là v'è ncertezze storiche, meno per altro. Giacchè il più delle
incertezze cadono su' misteri e sulle origini pitagoriche, non già sulle scuole
posteriori. Premesso ciò, si veda, o signori, qual fosse in attinenza con la
filosofia la religione e la civiltà degl'ITALIOTI. Della religione, come
sistema sacerdotale, me ne passerò più breve che non feci per l'India, giacchè
(com ' ho detto) quel sistema era sul morire, e se n'ha meno ragguagli e meno
certezza. La religione sacerdotale ITALIOTA si può ricercare in tre modi: per
le notizie assai oscure dei Pelasghi, i quali tennero idee religiose più
primitive e più vicine alle orientali; per le notizie scarsissime de' Misteri;
per quelle degli Orfici. Essi e l'origine de' Misteri appartengono, credo,
all'età di combattimento e di trasforma zione. Quanto a’ Pelasghi, Erodoto
scrive che da loro non si metteva nome agli dèi; aggiunge che i nomi vennero
d'Egitto e che i pelasghi non li volevano accettare, sì ne rimisero la
decisione all'oracolo di Dodona, riuscito favorevole a que' nomi; e dice infine
che le nascite e le forme e gli aspetti degli dèi vennero cantati da Esiodo e
da Omero; tutte cose già ignote. Vuol notarsi com’Erodoto accenni pure che un
simbolo osceno gli Ateniesi lo presero da’ Pelasghi, i quali ne spiegavano il
senso ne' Misteri; e sappiamo di fatto che pure ne' Misteri eleusini e bacchici
si mostrava i simboli femminili e maschili secondo i riti d'Oriente. Erodoto,
uomo schietto, n'avvisa che il narrato da lui circ' a ' Pelasghi glie l'avevano
appreso le sacerdotesse di Dodona, ma che il resto, circa le invenzioni d'Omero
e d' Esiodo, lo diceva di suo. Che cosa si raccoglie, o signori, da questo
luogo così famoso? Primo, che la religione de' Pelasghi era più delle succedute
lontana dal politeismo; secondo, che quella si rappresentava co'sim boli
orientali della generazione divina e però ne teneva i principali concetti;
terzo, che il passaggio dalle divi nità innominate alle nominate, cioè da un
che meno pagano ad un più, non accadde senza contrasto, e indi si ricorse agli
oracoli; quarto, che tenuto il simbolo antico ed esteriore, la sua spiegazione
si fece nell'in terno de' Misteri; quinto, che i nomi si suppongono venuti
d'Egitto in età più recente, perchè all' Asia media non s'imputavano queste tradizioni;
infine che Erodoto reca l'antropomorfismo ad invenzione di poeti, non perchè
già tal errore non fosse cominciato popolar mente, ma perchè que' poeti
l'ordinarono (più o men di proposito) in sistemi di mitologia, ed in modi
specificati. Che poi la religione pelasgica somigliasse quella de Brag mani lo
attestano Ferecide e Acusilao in Strabone (Ed. Sturz ); dicendo che i Cabiri,
divinità pelasgiche, son generati da Efesto e Cabira, e che sono tre Cabiri
maschi e tre femmine. (Creuzer ) Venendo a’ Misteri, abbiamo da Erodoto, non
solo che i Misteri di Samotracia venissero istituiti da' Pela sghi (II, 5), ma
(com’abbiamo sentito ) che altresì nel l'interno di quelli si spiegasse i
simboli esterni. Come si spiegavano essi? Apollonio di Rodi serbò del vecchio
storico Mnasea un luogo prezioso circa i dommi primi tivi di Samotracia. (Schol.
Apoll. Rhod. ad 1, 917.) Che dommi, o signori? Similissimi a quelli dell'India.
S'in segnava, di fatto, un principio onnipotente, Azieros; la materia fecondata,
Aziokersa, o principio passivo; e il principio attivo, fecondatore, Asiokersos.
Vuol egli dir ciò che il principio attivo ed il passivo si distinguono
dall'essenza universale, Azieros o Brahm? 0 piuttosto (giacchè l'
interpretazione di que' nomi non è certa ), Aziokersa, Azieros, Aziokersos e
Casmilo o Cammillo che da taluno s'aggiungeva secondo Apollonio, rispon dono a
Maya, a Brahma, Visnù e Siva, taciuta l'essenza universale, il Dio neutro, come
non si nomina il Dio supremo nel Rig Veda? tanto più che Casmilo rispon
derebbe, l'afferma Dionosidoro, ad Ermete cioè al Dio delle trasformazioni.
Comunque, nell'incertezza de' docu menti tal cosa è certa, il domma samotracio
mostrare analogie non poche col panteismo vedico e con la Trimurti. (Saint
Croix, sur le Mystères du Paganisme; Creuzer, V, 2. ) E risponde non meno a
quel panteismo la dottrina samotracia dell'età varie mondane, o che il mondo si
distrugga e rinnovi per forza di fuoco. Anche ne' Misteri eleusini s'esponeva
la dottrina d’un principio passivo, d'uno attivo, dell'armonia mon diale che ne
nasce, e di ciò che distrugge le forme senza intermissione. Bacco, Cerere,
lacco e Mercurio, ossia grecamente Dionisio, Demeter, Iacco ed Ermete, non
ritraggono forse, o signori, i sistemi dell'India, del l'Egitto e della Persia?
E forse su quelle divinità è, innominato, il Dio androgeno, o il Cronos e lo
Zeus de' tempi remoti, divenuto poi un principio maschile, contrapposto a
Giunone principio femminile. Di que' Mi steri non si sa i particolari, vietato
rigorosamente il propalarli, come dice Pausania (art. Beozia) e Apollodoro
(Argon. I), e come dimostra il Meursio (De Festis Græcorum). Pure, da'cenni
dell'antichità si ritrae che insegnavasi nell' orgie il panteismo naturale (com’ho
detto di sopra), e la metempsicosi, e l'immortalità del l'anima (forse col ritorno
all'essenza divina), e la puri ficazione per mezzo della virtù. Il panteismo
naturale viene indicato da CICERONE (De Nat. Deor.), che diceva: come le
dottrine de'Misteri eleusini, ridotte a termini di ragione, si conosce meglio
per esse la natura delle cose che quella degli dèi. Che vuol egli dire? CICERONE
accusa di dottrina neramente fisica gli Eleusini, che la teogonia confondevano,
in realtà con la cosmogonia, e ciò accade nel panteismo naturale. Prova,
dunque, tale accusa, e viene confermato da molt' indizj, che la religione d'
Eleusi somiglia il panteismo de' Vedi; di fatto, che si trattasse d'una fisica
soltanto, o senza vedervi dentro la divinità o un che superiore alla natura
esterna ce lo vieta lo stesso CICERONE. Egli scrive nel II “De Legibus”, che i
Misteri eleusini s ' hanno da riguardare come il massimo beneficio d'Atene,
perch'insegnano a viver lieti e a morire tranquilli nella speranza di vita
migliore; cosa ripetuta da lui nelle Verrine, V. Dice Platone (Fedone) che
l'iniziarsi a' Misteri purifica i cattivi, e dà a'buoni felicità eterna, cioè
un'abitazione comune con gli dèi dopo la morte. Isocrate afferma (Panegirico)
che i Mi steri mettono in cuore agl'iniziati le più dolci speranze quant'alla
fine di questa vita e quant'all'altra che non finirà mai. Che poi gl'iniziati
s'ammaestrassero alla virtù si ha da molti argomenti; e il Meursio dimostra che
quelli si preparavano a’ Misteri con gli esercizi di castità, e poi si
credevano astretti, quasi da sacramento, a rendersi migliori. Così Aristofane (Rane)
mette in bocca a un coro d'iniziati queste parole: « Il sole e una luce
aggradevole sono per noi che onoriamo i Misteri e osserviamo le regole della
pietà verso i forestieri e verso i cittadini. » Però que' Misteri si chiamavan
teleti (7: ) ett ), giacchè da loro veniva la perfezione della vita. Va notato
che la me tempsicosi s' univa col domma dell'immortalità in que sto modo:
credevano gli antichi che il principio animale, principio di vita e di senso,
distinguasi sostanzialmente dal principio intellettivo; e che l'uno, cioè
l'animale, passi di corpo in corpo, ma l'altro se ne sciolga dopo alquanti giri
di secoli e in premio del vivere onesto, ritornando all'essenza universale o
divina. Però si di stingueva in Persia il fervéro o genio dall' animazione, e
in China Hoen da Pe, e tra gl’Indiani atma e pran, e in Grecia il démone (dzepov)
o anche logo da psiche, e tra’ ROMANI “animus” da “anima”. Quindi l'anima
sensitiva s'immaginò non altrimenti che come materia sottilissima, e che,
divisa dal corpo, ne teneva le apparenze, erane lo spettro od il fantasma,
vagante nelle notti e intorno a' sepolcri. Tal distinzione si vede pertino in
Omero, allorchè Ulisse approdando a'Cimmerj inter roga i morti (Odiss.): «
D'Ercole mi s'offerse alfin la possa, Anzi il fantasma; però ch'ei de' numi
Giocondasi alla mensa, e cara sposa Gli siede accanto la dal piè leggiadro Ebe,
di Giove figlia e di Giunone. » La terza fonte di notizie, cioè le memorie
orfiche, non vanno soggette, o signori, a tanta perplessità, e può trarsene qualche
costrutto; purchè evitiamo così la co moda credulità come l'eccesso de critici.
S'è giunti a du bitare d'ogni realtà storica ed antica rispetto ad Orfeo; ma,
quantunque la parte storica si frammischi a' por tenti della favola, e un nome (al
solito) rappresenti le dottrine e i canti di più, nondimeno qualcosa di reale e
d'antico vi ha; perchè Ibico (in Prisc.) che fiorì presso al 550 prima di Gesù
Cristo, già ram menta Orfeo; lo rammenta Pindaro (Pith.), anzi lo chiama padre
de canti apdov Tr UTEP (Ott. Mül ler, St. della Lett. Gr. ); lo rammentano
ancora gli an tichi Ellenico e Ferecide e le tragedie ateniesi. Da molti luoghi
di Platone (Leg. VIII; Ione, Convito, Rep. 11) apparisce che a tempo di lui
eran divulgati già molti carmi col nome di Museo e d’Orfeo; questi è citato nel
Filebo e nel Cratilo; e si scorge che l ' espiazioni de’de litti appartenevano
alle discipline orfiche. La dottrina che va sott' il nome d’Orfeo si racco glie
da tradizioni antiche e da versi orfici. Quanto alle tradizioni antiche, elle
attribuiscono tutte ad Orfeo una religione, che istituita da lui si collegò
quindi a Misteri d'Eleusi (Müller): e ciò conferma il già detto sulla natura di
quel sistema religioso. Si rileva poi dagli antichi scrittori un sistema orfico
di cosmo gonia, benchè sotto più forme, e talora v'han messo la mano autori
dell' èra cristiana. Creuzer ne dà cinque di tali cosmogonie; rilevantissima
quella di Ferecide Siro, pel quale son tre i principj Zeus o Giove o Cronos o
l'etere, il Caos o massa inerte ch'egli vivifica, il Tempo o la durata senza
limiti. E qui voi scorgete, o signori, l'indefinito ch'è concepito nell'astra
zione del tempo (come tra’ Persiani ), e dall'indefinito i due principj,
l'attivo ed il passivo. Nella cosmogonia che viene riferita da Atanagora e da
Damascio, v’ha l'idea indiana dell' uovo nell'acque, da cui esce Eros o Fa
nete, amore o manifestazione dell'armonia universale; e tal idea orfica viene
rammentata negli Uccelli d'Aristofane. Il mondo, poi, si rinnova per
bruciamento (co me secondo Eraclito, gli stoici, gl'Indiani e l'orgie eleu
sine), in virtù di Dionisio corrispondente a Siva. (Creuzer) Mi pare che il
Maury ottimamente riduca le teogonie o cosmonie orfiche a questo: Cronos genera
i due principj, l'etere e il caos; il caos in virtù dell' etere prende la forma
d'uovo, avviluppato dal l'erebo o dalla notte, cioè dalle tenebre primitive, a
cui segue la luce o l'amore, quando l'uovo si spacca, ossia quando il germe
involuto si svolge nelle sue parti: queste le idee più principali che risultano
dal paragone de' più antichi testimoni. Ma i versi che ci restano sott'il nome
d’Orfeo, son essi autentici? Aristotile e Cicerone negarono già che i versi
propalati fin d'allora come d'Orfeo gli apparte nessero; e più n'è dubbio a' dì
nostri, perchè nei primi secoli dell' èra volgare molti documenti si rimaneggia
rono, e molti se ne invento. Ma dice Mullachio (Fragm. Phil. Græc., ed. Didot.
Parisiis): Plerique ver sus puroque et simplici sermone insignes sunt; talchè,
considerata la purità e il fare antico di molti versi, e il riscontro di varie
testimonianze. ond' essi ci sono tramandati, e l'accordo loro con le tradizioni
vetuste, possiamo affermare che quelli senz'essere forse d’un poeta che si
chiamava Orfeo, sien per altro reliquie vere degli Orfici antichi. Udite l'inno
insigne alla Natura, tradotto dal Cantù nella Storia universale e riferito
negli Schiarimenti (Tauchnitz): « Natura, diva madre universale, in tante guise
madre, celeste, venerabile, molto creante spirito (o cuor ), regina che tutto
domi indomata, tutto governi, in tutte parti splendi, onnipossente, ve nerata
in eterno, divinità a tutte superiore, indistrutti bile, primonata,
antichissima,... comune a tutti, sola, incomunicabile, padre a te stessa senza
padre, che per maschia forza tutto sai, tutto dài, nodrice e regina di tutto;
feconda operatrice di quanto cresce, di quanto è maturo dissolvitrice, delle
cose tutte vero padre e madre e nodrice e sostegno. Le quali ultime parole già
udimmo per Aditi nell'inno del Rig Veda. Or bene, che dottrina s’asconde, o
signori, ne' versi orfici? La stessa che ne' Vedi: la natura universale è padre
e madre, ossia, principio attivo e passivo; ell’è divina, perchè non è la
materia, sì l'essenza universale, spirito divino primo e materia prima in unità;
è senza padre, cioè senza principio; è primonata, cioè generata da sè stessa
con uscire all'atto dall'indefinita potenza; indi, ella è padre di sè stessa;
infine, si palesa con tre divine opera zioni, genera tutto, sostiene tutto,
distrugge tutto. In Clemente Alessandrino (Stro. V), in san Giustino (Co hort.
ad Græc.), in Eusebio, nell'egloghe di Stobeo, in Proclo, in Porfirio e in
altri si ha varj altri frammenti più o meno antichi, ma che rendono lo stesso
sistema. Un inno ch'Eusebio prese da Aristobulo peripatetico. insegna qual sia
l'unico genitore del mondo, comie lo chiamano i prischi documenti degli
uomini,contro l'er rore antico, cioè contro il politeismo; e che Dio tiene in
sè il principio, il mezzo e il fine. (Pr. Ev.) Riferirò un altro inno
ch’Eusebio tolse da Porfirio (Ivi, e Stobeo, Eclog. Phis. 1, 2, 23, e Bibliot.
del Didot, Framm. ec. p.6 ): « Primo e ultimo è Giove che splende col fulmine.
Egli capo e mezzo, e a lui son create tutte le cose. Giove è nato maschio,
Giove nato intatta ver gine. Egli sostiene la terra e l'aria stellata de 'cieli;
ed è insieme re e padre d'ogni cosa e autore della loro origine. Unica forza e
unico demone che governa tutte le cose, quest' unico le chiude tutte nel suo
corpo regale, il fuoco, l'onda, la terra, l'etere, e la notte e il giorno, e il
consiglio, e il primo genitore e nume del l'amore: contiene tutto ciò Giove
nell'immenso corpo. E il capo esimio di lui e il volto maestoso irradia il
cielo, intorno a cui sparge con molto lume la chioma pendente e aurea d'astri;
e gli sta sull'alta fronte, a somiglianza di toro, un doppio corno che
l'accende di fulgido oro. Ivi sono l'oriente e l'occidente, giri noti a' supremi
dèi. Son occhi di lui il sole e la luna che corre di contro al sole. In lui è
mente verace, ed etere regale non sottoposto a morte, il quale col consiglio
muove e regge ogni cosa; e quella mente, perchè prole di Giove, non può essere
nascosta da niuna voce o stre pito o suono o fama. Così, egli beato possiede e
senso dell'animo e vita immortale, spandendo il corpo illu stre, immenso,
immutabile e con valida forza di brac cio. A lui son omeri e petto e terga
immani le ampiezze dell'aria; e con veloci e native penue precipitando, egli
vola intorno a tutte le cose. La terra, madre comune, ei monti che levano l'
alte cime, formano il sacro ven tre di lui ne fanno la zona media i tumidi
flutti del mare sonante. L'ultima base che sostiene il nume, sta nell' intime
radici della terra e negli ampj spazi del l'erebo e negli ultimi confini che
inaccessa ed immota spande la terra. Tutte le cose egli nasconde primamente nel
mezzo del petto, e poi le manda fuori nell'alma luce con opera divina. » Tra le
figure poetiche non si può non vedere in quest'inni l'opera della riflessione
che affaticasi di scoprire e spiegare l'attinenza fra Dio e l'universo,
confondendola, per abuso d'induzione, con l'attinenza tra l'unità delle
sostanze e la moltiplicità c mutabilità de'fenomeni. Non fa dunque meraviglia
se Pitagorici, Eleati ed Ionj che presero gli esordj dalle dottrine orfiche e
de' Misteri e però dall'antiche tradi zioni pelasghe, cadessero nel panteismo.
Ecco dunque i passi che sembrano fatti dalla reli gione fra gl’ITALIOTE. Prima
è un tal panteismo natu rale, in cui le divinità sono le forze della naturu;
non le forze per altro simboleggiate, come interpretò poi la scuola de' Fisici
(Plutarco la distinse sì bene dall'an tica scuola de' Teologi), bensì le forze
naturali confuse con gli attributi divini. In quel panteismo, come nel Rig
Veda, gli dèi son poco determinati: differiscono poco gli uni dagli altri;
escono tutti e rientrano nel Dio unico (Creuzer, V, 4). Talche certi Padri
pensarono ch'ei fosse un culto dell' unico Dio creatore, e tal culto
contrapposero alla corruzione posteriore dell'idolatria; Storia della F lofint.
17 2 ill 1 ma, veramente, non può chiamarsi un teismo, bensì un panteismo
naturale, dove nondimeno le tracce del l'unità di Dio si conservano così
spiccate da causare l'opinione ch'io vi diceva. Però le divinità pelasghe non
avevano un nome, dice Erodoto; e a dar loro un nome s ' opponevano le
sacerdotali tradizioni (Ispot 20091). E come narra Platone nel Cratilo che
prima si chiamò in genere 0: 9 le divinità, così cabiri le dissero i Pelasghi,
ossia (forse) potenti; e ciò risponde agli dei complices o consentes degli
Etruschi. Poi, questo panteismo naturale si ristrinse più par ticolarmente (e
specie nel culto popolare) all'adorazione degli astri, dove più che in altro ci
apparisce la po tenza di Dio: e che sia così l'attestano Platone (Fileb. e
Crat. ) ed Aristotile (Met.). Allora Zeus o Giove fu proprio il cielo; e si
mantenne questo nel detto volgare: Giove che fa? per dire: che tempo fa? Ma il
panteismo naturale de' sacerdoti più e più si foggiò a sistema d'emanazioni,
per ispiegare con modo determinato la dipendenza di tutto dalla causa prima; e
indi le teogonie e cosmogonie orfiche e quella d’Esio do. Le operazioni divine,
allora, ebbero nome partico lare, e vennero simboleggiate con immagini esterne;
come narrai che la triade pelasga prese il nome dall'onnipo tenza e dalla
fecondazione; e si sa del Giove con tre occhi in Argo (Pausania ), della Venere
piramidale di Pafo, e co' due sessi (statuina nella bibliot. naz. di Pa rigi),
dell' Apollo a quattro mani, del Sileno a due te ste, di una dea a quattro
teste nel Ceramico d' Atene, del Giano bifronte, della Diana mammellata d'Efeso
e della Cibele come informe pietra. Tutti questi nomi e simboli, a poco a poco
divennero nomi e attributi pro pri di certe divinità specificate; e la Trimurti,
le cui vestigia restano fin anche negli dèi omerici, Giove, Net tuno e Plutone,
s'individuò per modo che l'un Dio non più si confuse con gli altri, e questi si
moltiplicarono all'infinito. Però, questa individuazione favoriva il politeismo
a volgare e si mescolava con esso, e n'era eccitata e lo eccitava; e ambedue si
stabilirono più che mai con l'arti del disegno, che lasciati quasi del tutto i
simboli, ri dusse gli dèi a forme umane, con alcune qualità pro prie di
ciascuno. Un'ombra di simbolo restò, ma velata, nelle forme tra maschili e
femminili di Bacco e d'altri dei, figura sacra dell'androgenia, quando
s'abbandono la rozzezza dello scarabeo (Winkelman, St. dell'arte ec. ); e tal
simbolo (sia detto di passaggio ) alcuni artisti vo gliono imitare quasi
perfezione di membra umane e le sono immaginarie! Fatto sta che la scuola
d'Egina, Polignoto, Fidia, Prassitele, imitando i poeti ebbero più ch'altro
efficacia nel fermare quel politeismo di dèi spicciolati. Vuolsi por mente
adunque, o signori, che da un lato restava la tradizione sacerdotale, benchè
più e più cor rotta, e cresceva dall'altro il politeismo. Come restava la
tradizione? Ne' Misteri; già lo vedemmo. E perchè mai dovè occultarsi? Dicono
le memorie antiche, i primi re di Grecia e d'Italia fossero ad un tempo sa
cerdoti, capitani e giudici; patriarcato ch'è origine d'ogni nazione. (Arist.
Pol. III, 14. ) Le memorie stesse ci nar l'ano poi d'un contrasto lungo e
sanguinoso tra le classi sacerdotali e le guerriere; il che apparisce anco
nell'In die; ma se ivi le liti si composero stabilmente, fra gl'Ita logreci al
contrario scapitò la classe sacerdotale che (l'accennano i racconti circa
Erettéo e gli Eumolpidi) si dovè segregare in alcuni luoghi, come Eleusi,
lasciando a' re tutto il resto; e così, a poco a poco, e tanto più quando
sorsero i governi popolari, s'abbandonò l'inse gnamento religioso e restò
solamente i riti esteriori del sacrifizio e delle feste. Quell'insegnamento,
dunque, escluso da ' popoli, rifuggivasi nel mistero, in que'luoghi appunto che
la classe sacerdotale abitò, com’Eleusi e i sacri querceti di Dorona. E che fa
intanto la filosofia? Ella è sacerdotale dap prima, o teologia, perchè tenute
le tradizioni asiatiche, cresce nel sacerdozio pelasgo ed orfico; poi, nell'
età che > il sacerdozio si separa e
s’asconde, dalle semenze reli giose de' Misteri germogliano i primi sistemi
come i pi tagorici, che han del sacerdotale e del laicale ad un tempo. Questa
filosofia, perciò, combattè dapprima il politeismo, per esempio ne' frammenti
di Xenofane che derideva il fingere dèi a somiglianza nostra. Poi, dac chè il
concetto di Dio sempre più s' annebbiò, i poste riori consentirono a' tempi, e
gl' Ionj, gli Eleati, e molto più i sofisti, menaron buona, se non altro come
appa renza o come credulità popolare la mitologia. Nè altrimenti andò negli
ordini tutti della civiltà. Di fatto; quando i governi regi si mutarono in
popola reschi, molta efficacia e salutare v'ebbe la filosofia mercè i
Pitagorici, e segnatamente Zeleuco e Caronda, i cui frammenti di leggi muovono
dal dimostrare che Dio è; ma in progresso la filosofia non potè resistere alla
li cenza, fu perseguitata, e però cadde in mano di sofisti che inventarono
l'arte della parola per la parola, malvagi adulatori di plebe e mercanti di
cavillo. Abbondando le ricchezze, nate da operosità, fiorirono scienza ed arte;
ma successe un abito d'ozio e di godimenti, e la Magna Grecia in ITALIA e
l'Ionia caddero in mollezze di trista fama. Resisterono i primi sapienti, come
dimostra l'istituto pitagorico; ma cedè a poco a poco la loro austerezza, e già
Xenofane canta « ch'è dolce nel verno stare al fuoco bevendo, e domándare
all'ospite: quant'anni avevi tu quand' il Medo invase? » il Medo, o signori,
invasore della patria ! lei sofisti, all'ultimo, la filosofia diventò l'arte di
godere. Nell'ordine morale s'arrivò a tal segno ch'Ateneo rimprovera Platone,
perch'e' disse nel Sofista come Parmenide di VELIA ama Zenone di VELIA;
quasichè tal parola, detta di giovane, non ricevesse mai buon senso. E la
filosofia, resistente dapprima co' Pitagorici, giunse co ' sofisti
all'indifferenza tra bene e male; indifferenza molto diversa e peggiore
dell'indiana; chè questa è non curanza del moltiplice e vario ch'apparisce, in
grazia dell'unità sostanziale, ma quella è non curanza senz'al tro; ivi è
un'ombra di moralità, qui nessuna. Mostrate così l ' attinenze tra filosofia,
religione e ci viltà degl'Italogreci, resta che vediamo il principio e la
successione de' loro sistemi. Cominciamo da dire che in tutta questa età e per
confessione di tutti, v'ha incer tezza sul tempo preciso de' varj filosofi; e
bisogna ri correre il più a Diogene Laerzio, autorità poco accettata. Le
congetture dunque son lecite; e tutti ne fanno. Avvertirò inoltre che sul
definire l'età de' tempi remoti variano le tendenze degli Orientali e de'
Greci; que sti tirano al meno e quelli al più. Per che ragione? I Greci amando
la certezza de' fatti, li trasportano quanto più si può nel tempo storico, e
lontani dal favoloso; al contrario degli Orientali, che amano l'indefinito de
se coli; effetto del panteismo. Premesso ciò, rammentate, o signori, che prima
dell'undecimo secolo avanti Cristo Pelasghi ed Elleni si mescolarono insieme; e
allora co minciò l'età delle colonie; e da esse la più nota civiltà ITALIOTA.
Quali preparazioni vi riscontriamo noi per la filosofia? La civiltà pelasga, le
dottrine orfiche, i Mi steri; inoltre le comunicazioni più che mai frequenti
per l'Asia minore (dove prosperavano tante colonie) coll' Asia media. E che
tempi erano quelli per l'Asia media? Rammentiamocene, o signori; erano i tempi
di splendida civiltà, quando circa il mille avanti Cristo si compilavano i Vedi
ed i poemi, e fiorivano le scuole di filosofia. Chi potrà dunque negare, che
date tali prepa razioni e la civiltà delle colonie, e dato quell'impeto di vita
civile ond' il pensiero s'agita tutto, e poste le sedi nuove in paesi non
selvaggi come l' America, ma già inciviliti, sorgessero presto le speculazioni
filosofi che? Non farebb' egli un'ipotesi strana chi le credesse indugiate a
tre o quattro secoli dopo, fino a Talete, anzichè colui che le dicesse più meno
già in via circa il mille od al novecento prima dell' èra volgare? A ogni modo,
tempi precisi non se n'ha; e poichè la critica devé supplire, parmi più
ragionevole vi supplisca così, che stando ad indizi già riconosciuti per poco
probabili. La filosofia mosse anc' allora da un ritorno sulla coscienza morale;
ce ne assicura la moltitudine di sen tenze attribuite dagli antichi a ' Sette
sapienti; a uno de' quali, cioè a Chilone, si reca il detto: conosci te stesso.
Abbiamo poi alcuni tra ' poeti gnomici, come le recide, della cui antichità non
si dubita punto; e chi, Foclide per esempio, lo fa contemporaneo, chi anteriore
a Pitagora. Le sentenze di Mimnermo, Evano, Metrodo ro, Teognide e va'
discorrendo, mostrano chiaramente la riflessione sulle verità morali, benchè
nascosta in afori smi. Così queste di Foclide: « Non dire mendacio, ma parla
sempre con verità. Primieramente venera Dio e quindi i tuoi genitori. Non
disprezzare i poveri, nè voler giudicare alcuno ingiustamente, perchè se tu
giudiche rai male, Dio poi ti giudicherà. Fu da Dio a’mortali dato in uso lo
spirito ch'è immagine di lui. Il corpo abbiamo dalla terra e si scioglie in
essa e siam polve re, ma lo spirito va in cielo. » Or bene, io dico, e mi
sembra di poter essere sicuro, che codesta filosofia morale e religiosa sorse e
fiori prima del panteismo materiale di Talete e d’Anassi mandro; perchè n'ho
prove storiche (come dirò), e per chè dalle tradizioni sacre orientali e orfiche
non si poté saltare in un subito alla materialità. Dove fiorì? Non in Italia
soltanto co ' più antichi savj della scuola ita lica, ma nell' Asia minore
altresì, fra gl ' Ionj, dovunque insomma germinò la civiltà ellena. Di fatto,
che che vo glia credersi delle tradizioni circa Pitagora e del suo venire dall'
Ionia, esse, unite alla certezza che Xeno fane pure ne derivasse, mostrano
almeno che l'antichi tà non reputò straniere agl' Ionj 1 ' idee pitagoriche ed
cleate. Aggiungete che Talete ha molti più segni di spiritualità che non i
posteriori; e tal peggioramento non si può negare. Perchè dunque, dimanderete,
vien solo ricordata la scuola italica? La risposta è facile e il caso è comune;
si ricorda i luoghi dove la scuola più crebbe e durò. y Ma la scuola pitagorica
o ITALIOTA, dimanderassi an cora, ell’è anteriore a Talete, cioè al panteismo
materiale degl' Ionj? Mi sembra certo, purchè si distingua Pitagora dal
Pitagoresimo; questo è la totalità di dot trine comuni a tutta una scuola di
filosofi; quegli è un tal nome, parte storico, parte simbolico, che può essere
prima o dopo, senzachè provi l'anteriorità o posteriorità della scuola nel suo
nome rappresentata. E nondimeno anche sull'età di Pitagora son diverse l'
opinioni. Quanto a Pitagora, Meiners lo crede nato al 584 avanti l'èra nostra;
lo crede nato Lacher al 608. Come si determina ciò? Per autorità non salde, e
per vie di congetture. Talete poi, secondo Apollodoro, sa rebbe nato il 640,
anteriore perciò a Pitagora; dáta non senza incertezze. (Ritter, St. della fil.
ant.) Ma ecco il Niebuhr (St. Rom. I) che contrapponendo a Polibio ed a
Cicerone l'autorità d'alcuni scrittori orientali, crede probabile la
contemporaneità di Pitagora e di Numa; talchè andremmo più oltre che la data di
Talete. Avanti alle dáte di Pitagora s'ha in ITALIA e Sicilia ZELEUCO E CARONDA,
legislatori l'uno di LOCRI e l'altro di CATANIA; e ne' frammenti di quelle
leggi v'ha il segno delº pitagoresimo. Il Krug fa CARONDA DI LOCRI del 668; il
Benteley, l'Heyne, il Saint Croix, Centofanti, del 730. Quando Pitagora venne
in Italia, in CROTONE, si dice che subito la scuola crescesse tanto di numero e
di potenza, da bisognare feroci persecuzioni a spiantarli: il che umanamente
non può accadere. La scuola dunque precedeva. Il personaggio di Pitagora,
l'istitutore insomma del Pitagoresimo, diventa un simbolo in gran parte; il che
dà segno d'antichità molta, e di tradizioni orientali. Nella scuola pitagorica
è mescolanza di culto e di speculazione; e ciò indica il passaggio dall' età
teologicha (MYTHOS) alla filosofica o LAICALE (LOGOS), che in modo distinto
vengono più tardi. Secondo la comune leggenda, tra l'istituzione della scuola ITALIOTA,
il suo prevalere anco negl' istituti civili, e la sua persecuzione, corsero
pochi anni; il quale rovesciamento di favori popolari si dà presto a un uomo,
tardi a un potente consorzio d'uomini. La storia di Pitagora, simbolico in gran
parte, ha natura di leggenda; e sogliono le leggende avvicinare tempi lontani.
Indi le confusioni dette di sopra. Nella
scuola pitagorica son chiare e molte le vestigia orfiche; talchè l'antichità di
queste palesa l'antichità di quella che le raccoglie; com'elle poi diminuiscono
in progresso, e appena si scorgono negl' lonj. I Pitagorici han forma di
consorteria, e tra loro è comune e costante un corpo di dottrine. Ciò rammenta,
o signori, gl’usi orientali che sempre più si perdono nelle repubblichette
popolari; e rammenta l'antichità più remota, dove più vale l'unione e
l'autorità. Aristotile dà la filosofia de' Pitagorici come una, e vi scopre
solo differenze accidentali. Le tavole d' ERACLEA, lette dal Mazzocchi (come accennai
già), mo strano un incivilimento anteriore, e quindi un'antica preparazione
alla scienza. E delle prove d'antica civiltà nelle genti d'ITALIA recherò qui
cosa che pare non fosse disputata fra' Greci, val a dire ch'essi, come dice
Taziano (Or. contra Greci) prendessero da’ TOSCANI la plastica. Cousin dimostra
con le autorità non ricusabili di Sozione, d' Apollodoro e di Sesto che
Xenofane nasceva il 620 avanti l'èra volgare, un 60 anni circa prima di
Pitagora stando agli anni di Meiners. Ora, se la dottrina di Xenofane tenne del
Pitagoresimo, come mai sarebb'egli tanto più vecchio del suo maestro? Se
bisogni stare alle memorie greche talquali, i capi della scuola pitagorica di
CROTONE e di VELIA vennero d'Ionia; men frechè in lonia correva un tutt'altro
pensare. Qui, prendendo la cosa talquale, v'ha due inverisimiglianze, prima che
ne luoghi de' capiscuola non ci avesse quell'indirizzo di speculazioni, come
sarebbe assurdo che d'Alemagna venissero in Italia fondatori d'eghelismo e là
non n'apparisse il focolare. Seconda, che piuttosto que' filosofi cercasser
favore in Italia, sé qui non preparato il terreno. Ma tutto si concilia, quando
il silenzio delle mete, in tanta oscurità di tempi dissero all'incirca il più
rinomato, tacquero il meno, senza negarlo bensi, chè non lo conobbero forse.
Dissero la scuola ionica, tacendo la scuola religiosa comune là ed a'
Magnogreci, O ITALIOTI, perchè più celebre qui; dissero i più famosi capi delle
scuole ITALIOTE, tacendo le lontane e recondite preparazioni. E ch'elle ci
fossero, mostra il celebre passo di Platone che fa dire a Zenone di VELIA. Queste
opinioni sull'uno cominciarono da Xenofane, anzi da più antichi di lui. (Soffista.)
Brandis e Ritter crederono s'alludesse ad avere quella dottrina germe innato
negl' intelletti. Al che ripugna Cousin e con ragione. Prima, qui si parla
storicamente e non teoreticamente. Poi, se volesse allu (lere a germi naturali
e senz' origine, come mai, anzi, parlerebbe Platone di cominciamento anteriore?
(te 2.2.1 i te tepisºsv č.pčarevov). De primi Pitagorici non v'è scritti;
scrissero i più vicini al tempo di Socrate; e ciò per l'uso degl'insegnamenti
orali, per la costanza delle tradizioni e pel segreto delle dottrine religiose.
Or tutto ciò è segno d'antichità e risponde agli usi orientali. Nella scuola
ionica poi sembra che fino il primo, cioè Talete, scrivesse versi,
probabilmente prose (Diog. Laert. I, 34, Plut. de Pitiæ Orac. 18, Arist. Phys.
); il che mostra un fare più nuovo, e desiderio di stabilire la novità. L'uso
di non iscrivere, uso lasciato si tardi da ' Pita gorici, spiega ben anco il
perchè sembrò più recente « lella scuola ionia il pitagoresimo: più recenti
erano le scritture, non la loro filosofia. Recherò infine (lue singolari
testimonianze di Padri greci, d'Ermia verso la fine del secondo secolo, e d'
Eusebio dottissi mo ne' libri originali della greca filosofia. Ermia, dun que,
nell'opera Derisione de' filosofi gentili enumera le contrarie opinioni loro
sull'anima, sul bene, sull'immortalità, sulla divinità e sui principj del mondo;
e poichè ha.rammentato varj filosofi, viene a Pitagora e lo distingue dagli
altri così: egli d'antica nazione. Qui, segnalare tra gli altri Pitagora per
antichità, è notabile assai. Eusebio, poi, più espressamente nelle Preparazioni
evangeliche dice: che Pitagora nacque a Samo O IN TOSCANA o altrove, ma non
greco, e ch' egli fu principe de filosofi, talchè alla filosofia ITALICA di
TOSCANA (ETRURIA) E CROTONA succedette la ionica e la di VELIA. Anzi anche Flavio
rammenta tre filosofi prischi con quest' ordine qui, Ferecide Siro, Pitagora e
Talete. Questi argomenti, la cui tesi è convalidata pure dal l'autorità di Niebuhr,
di Cousin, di Gioberti (nel Buono), di Poli (Appendice al Manuale del
Tennemann) e di Centofanti (Pitagora), e che non hanno in contrario argomenti
positivi di tradizione, o concordi autorità di storici antichi, mi fanno sicuro
che il pitagoresimo, come scuola religiosa e morale, anteceda l'altre scuole;
poi venga la di VELIA, e come più affine alla prima, e come precedente a
Xenofane stesso per la dottrina dell'unità universale; succeda loro l’ionica,
quant'al suo cominciamento bensì, non quanto alla sua continuazione che
s'accompagna (com' accade) con l'altre; e vengano infine, su che non ha dubbio,
le gative. I quali sistemi darann ' argomento ad altra lezione. vole ne SCUOLE
ITALCHE. Causa interiore del Pitagoresimo è la necessità d'una riforma morale:
da ciò l'esame di coscienza posto per principio di filosofia e di vita buona.
Cause esteriori. Si volle la riforma religiosa e morale da cui la civile, per
mezzo della filosofia. - Parti non dubbie nelle memorie degl'istituti
pitagorici. Notizie su Pitagora e sugli altri più famosi. Quali documenti
abbiamo certi sulla scuola italica. - Il Carme aureo i antico.- Le notizie che
ci danno gli Alessandrini non vanno accettate senza esame, ma nemmeno rigettate
con leggerezza. - Oggetto della filo sofia pitagorica, suo fine e metodo. —
Quali cagioni dettero impulso a quel metodo che fu applicazione d'idee
matematiche. Ma ciò non vuol dire che lal dottrina stia in un ideolismo
matematico; giacchè la monade si pensò come una forza. - Il numero
rappresentava l'attinenze o l'armo. nia; indi il simbolo musicale. Due furono i
significati del numero, it simbolico ed il reale. Verità del metodo matematico;
suoi eccessi nel pro cedere dall'astratto al concreto: esempi varj. – Si cercò
le leggi mentali della quantità effettuato nella realtà, per salire con esse a
Dio, causa, ragione e legge. Dio è principio de'principj; e poichè i principj
delle cose si dis ser numeri, Dio è il numero per eccellenza. -Questo è l'unità.
– L'unità bensi presa, non come parte d’un tutto, ma in senso generale. - A Dio
non si può applicare il concetto d'uniti nemmeno in quel senso; Dio è sopruni
tà; ma l'errore precedė dalla induzione astrattiva. Si dimostra co ' do cumenti
che il significato dell'unità pitagorica ė panteistico, ma ondeg giante tra il
vero ed il falso. - L’unità, come per gl'Indiani, parve l'indefinito che si
determina. — Grandi verità contenute nell'implicitezza di quelle dottrine. —
Dio si pensó come unità suprema di tutti i contrarj; l'universo, come i
contrarj in atto, e ridotti all'armonia da Dio. - L'uni tà generale o la monade
che si distingue in monadi secondarie, spiega lo teoriche d'allora
sugl'intervalli, sul vuoto, sull’intinito, sul finito ec. L'anima è numero, ed
è nel corpo come Dio nel mondo; è l'armonia del corpo. La verità è l'uno e il
numero; l'errore va fuori dell'armonia. -- Intelletto e senso. — Dio, ragione
prima del conoscere, perché gl’intelletti si credettero divini. Poi, perchè Dio
è il numero per eccellenza, e il nu mero è l'esemplare del mondo. Quanto alla
scienza, si sbagliò cercando sempre l'assoluta necessità razionale. Numero e
armonia il bene; disar monia il male. - Fine dell'anima intellettiva il ritorno
all'essenza pri ma. --- Come si tentó fuggire le contraddizioni del panteismo
naturale negando la cognizione diretta dell'essenza. - Xenofane tentó fuggirle
col panteismo ideale. - Cinque concetti principali di Xenofane: Dio è uno;
sommo potere; gli manca ogni contingenza e però non è nè finito nė infi nito né
in quiete nè in moto; Dio non può nascere, perchè il non ente non può dal nulla
divenire qualcosa: Dio è il tulto. — Indi segui che il mondo è apparenza. –
l'armenide stabilisce chiaro il doppio aforismo degli Eleati e degl ' Ionj, e
condanna il secondo. Muove dall'idea generale d'essere; Dio si fa più
indefinito che in Xenofane. – Tutto è idea. Melisso fa Dio più indeterminato
ancora, chiamandolo un qualcosa. -- Gli attributi della moralità non più
appariscono. – Panteismo materiale de gl'Ionj: nasce in condizioni opportune. -
Il moto delle cose vien conside rato nell’ente o nell'assoluto, ch'è la materia
eterna divina, dotata di pensiero. – Diversità nel concepire tal moto fra '
dinamici e i meccanici. E la causa prima del moto la posero diversamente in
quella cosa che più parve trasmutabile in ogni altra cosa. – Talete ba dello
spirituale anco ra; la grossolanità materiale viene crescendo. Anassayora vide
l'assur dità del panteismo, e prese il dualismo; ma non détte troppo alla mente.
— Idealismo ateo di Protagora; materialismo di Democrito; le due forme di
scetticismo particolare. Scetticismo universale di Gorgia ec. Misticismo
d'Empedocle; e perché il suo sistema paia indeterminato ed ecclettico. — Due
schiere d’uomini; gli atei e i l'itagorici di quel tempo: interpreta zione
storica, e interpretazione fisica della mitologia. Qual è mai, o signori, la
causa interna del Pitagoresimo? La necessità d'una riforma morale; necessità
profondamente sentita da uomini ornati, quanto la gentilità comporta, di grandi
virtù. Il conosci te stesso e esame di coscienza morale negli istituti
pitagorici, e fondamento altresì di speculazione; chè, nella coscienza
e'trovarono il dovere e nel dovere Dio. Cagioni esterne furono il guasto
crescente della religione, de costumi e della libertà, al quale s'oppone il
Pitagoresimo, e inoltre (com’ho avvertito più volte) le tradizioni e i commerci
d'Oriente, le dottrine orfiche ed i Misteri. Si volle, pertanto, una riforma
religiosa e morale, da cui venisse la civile; e criterio a tutto ciò désse la
Scienza. Il che spiega gl'isti tuti pitagorici su cui gli Alessandrini
mescolaron favole, ma la natura di consorteria e un culto segreto (Ritter ) e
la sostanza dell'arti educative non cadono in dubbio. La riforma religiosa si
tentò co’riti e dommi segreti; la morale con l'opporsi a tre vizi, voluttà,
superbia ed avarizia, ed esercitando anima e corpo nella musica e nella GINNASTICA;
la civile, domando la licenza con abiti disciplinati ossia con l'autorità (curos
pz) e con la vita comune. Il discepolato morale prepara così alle speculazioni,
e, preparato, s'eleva l'alunno a gradi più alti e più liberi. (Centofanti,
Pitagora; Puccini.) Circa Pitagora o di Samo nella lonia o di Samo nella Magna
Grecia in ITALIA, poco v'ha di sicuro e con mescolanza di simboli; pare
tuttavia che un fondamento storico v’ha e ch'egli e uomo di molta dottrina e
virtù. Per la dimenticanza in che vennero le colonie di Magna Grecia in ITALIA e
tutte le antichità italiche dopo le conquiste di ROMA, e per la guerra feroce
contro i Pitagorici, non ne sappiamo quasi nulla; li sappiamo bensì a lor tempo
in molta riverenza. Si rammentano con più certezza LISSIDE, CLINIA, ED ARCHITA
cittadini DI TARANTO in Magna Grecia, EURITE E FILOLAO o di TARANTO o di CROTONE.
ARCHITA, il più celebre di tutti, capitana più volte gli eserciti, e non ha mai
la peggio; buon padrefamiglia e cittadino, domatore di sè stesso, famoso per
invenzioni e scoperte in musica ed in matematica e per libri d'agricoltura. La
scuola pitagorica venne atrocemente perseguitata; molti fra gli scampati, o si
rifuggirono in Grecia o si sbandarono in ITALIA. Sembra che l'odio movesse da
opinioni politiche, parteggiando essi per GL’OTTIMATI; ma chi badi alla
segretezza del culto attestata da Erodoto, e alla tradizione che un capopopolo
attizza le ire, invelenito dal non es sere accolto nell'adunanze, s'accorgerà
che trattasi qui, come per Anassagora e per Socrate, del politeismo volgare
geloso e persecutore. Gli scritti col nome di TIMEO, d'ARCHITA e d'OCELLO
LUCANO sono apocrifi, e i frammenti di BRONTINO e d'EURISAMO; ma non quelli di
FILOLAO (vedili nel libro di Boecckh su FILOLAO, e Ritter); i quali col carme
aureo e con ciò che narra Platone ed Aristotile sulla scuola ITALICA, ne dánno
contezza. Nel sostanziale di essa gli storici vanno d'accordo. Quanto al Carme
aureo, e's'attribuì a FILOLAO, a EPICARMO, a LISIDE, a EMPEDOCLE di Girgenti,
da Crisippo a'Pitagorici. Sta il Mullachio per LISIDE; e: mostra, comunque, che
ne' versi aurei non v'ha nulla di non antico, e come un alemanno, secondo
l'usanza di molti critici odierni, neghi l'autenticità pel dubbio di tre’ sole
parole, che a lui non paiono antiche; e antiche le dimostra il Mullachio. (Fragm.
Phil. Græc. Didot). Le relazioni che ci danno del pensar pitagorico gli
Alessandrini, non vogliono accettarsi senza discrezione; chè in loro la critica
è poca, molta la voglia d'interpretare a lor modo gli antichi; tuttavia dire
come si dice) che il Pitagoresimo, quale dagli Alessandrini si descrive, non i
meriti fede per le grandi somiglianze con Platone, è dir troppo, sapendosi negli
Psilli di Timone Fliasio che quegli ebbe in gran pregio i Pitagorici: « E tu, o
Platone, giacchè ti possedeva l'animo il desiderio di sapere, comprasti con
gran pecunia un piccolo libro, da cui imparasti a scrivere tu pure il TIMEO. (Fragm.
Phil. etc. ) La filosofia de' Pitagorici, come tutta la filosofia antica, come
la filosofia d'ogni tempo, meditò i primi prin cipj dell'essere, del conoscere
e dell'operare. Il pensiero della causa suprema ch'è ragione e legge, vediamo
bene da tutte le loro memorie che occupò quegl'intelletti for temente. Fine
della filosofia parve loro ed a tutti gli antichi, la liberazione degli errori
e de' mali comuni, ma con tal divario dagl'Indiani, che la speculazione dovesse
congiungersi all'operosità civile. Metodo di filosofare fu il matematico; cioè
l'applicazione d'idee matematiche alla natura universale, così esterna come
interna, e al suo principio. Onde mai tal metodo? quali cagioni gli dettero im
pulso? Già negli antichi v'ha inclinazione di filosofare a priori sul mondo
(sebbene l'esperienza, anch'esterna, non s ' escludesse dai Pitagorici), perchè
mancavano gli stromenti; poi, premeva più lo speculare teologico, re cato
altresì nella fisica; e le lunghezze d'una fisica os servatrice non si
comportavano in tempo, che i varj studj non erano scompartiti tra più dotti.
Inoltre l'arimmetica e la geometria vennero d'Asia, nate tra le scienze più
antiche, perchè non bisognose d'osservazione. Altresì di tali scienze s’aveva
necessità tra popoli commercianti e tra colonie che dissodano terreni,
asciugano paduli, e scavano canali. Più, la discordia tra' politeisti e il mono
teismo - antico fece spiccare, quant'al concetto di Dio, le nozioni d'uno e di
moltiplice, come anche si scorge nel vecchio Testamento. Infine, tempo é spazio
ci danno la quantità, e sappiamo che l'induzione falsa indíava, come ne' Vedi,
lo spazio e massime il cielo (onde l'uranismo), e il tempo (onde l’Aherene de'
Persiani, il Crono de Greci, il Saturno de' Latini), talchè le tradizioni
orientali e or fiche, cadendo in tali concetti, davano impulso a quel modo di
filosofare. I Pitagorici, dunque, parlano dell'uno, del due, del tre, del dieci
e delle combinazioni loro allorchè discor rono del mondo e di Dio. Ma si vuol
credere forse che tal metodo li riducesse a vane astrazioni? ossia, ch'e'sti
massero Dio e il mondo idee matematiche e nulla più? In altre parole, il
Pitagoresimo fu egli un idealismo matematico? No, sicuramente; Aristotile lo
spiega chiaro dicendo: ch'essi stimarono le cose una imitazione de'numeri
(μίμησιν είναι τα όντα των αριτμών. Μet.). Imitazione, dunque; a leggi di
numero, cioè, rispondono le cose; e la mente ritrova l'une nell'altre; e in
questo è la scienza. Anzi (e va notato accuratamente ), che mai restava pe'
Pitagorici, levato il composto? Restava la monade. E che cos'era la monade?
Forse un'astratta unità, o l'atomo indifferente inattivo di Democrito e di
Leucippo? No; ma l'essenza ch'è una forza: il concetto di forza o d' attività
prevale nel Pitagoresimo, così ri spetto a Dio come rispetto al mondo. Di
fatti, e ch'è mai, secondo i Pitagorici, l'ordinamento universale se non la
continua limitazione (o determinazione) dell'inde finito? Ciò resulta da molti
riscontri, ma singolarmente dallo specchio de contrarj (di cui parleremo).
Inoltre, Dio per que’ filosofi è mente e causa o principio; causa è l'anima; e
causa d'ogni armonia è l'unità. (Frag. di FILOLAO; Siriano, Com. Met. d '
Arist. XIII; Ritter St. Fil. ant.; Bertini, Idea d'una Fil. della Vita) Quindi,
pe' Pitagorici, le leggi del numero e della geo metria rappresentavano
l'attinenze; cioè, significavano il rispetto d'una cosa all'altra, e d'uno
all'altro con cetto, l'armonie particolari e l'universale; da ciò i lor simboli
musicali. Si dica pertanto, o signori, che per la scuola italica eran due i
significati del numero; significato simbolico e reale. È significato reale
quando noi diciamo: Dio è uno e le creature sono moltiplici; e così dicevano
essi che Dio è il numero per eccellenza, cioè l'unità e la totalità d'ogni
perfezione. È significato simbolico quando s'astrae i numeri a significare gli
oggetti; come dicendo (per esempio) l'unità e il numero, e s'intendesse Dio e
le creature; così parlavano più spesso i Pitagorici. Al lora si fa come
l'algebrista un linguaggio figurativo. assai comune agli Orientali; e ciò
toglie l'apparente stranezza delle parole. Il metodo matematico ha egli verità?
Certo non manca di buon fondamento, perchè tutto nel mondo si distingue o
d'essenza o d'accidenti o di parti, di gradi o di potenza o di atti; e tutto,
dunque, è capace di numero e di misura. Per altro, le leggi matematiche non
hanno da cercarsi a priori nella realtà, bensi con l'osservazione; come
Galileo, osservato il cadere de corpi, vi scoperse la quantità del moto
crescente. Trovata la legge matematica, s'applica poi a nuove scoperte, come
dalla legge matematica delle oscillazioni s'inventò il pen dolo. Chi volesse
procedere a priori, sbaglierebbe, perchè dalla idealità non si può concludere
la realtà contingente; per esempio, dall'idea d'un circolo non si può conclu
dere ch'e' si dia in natura. Bensì, nella realtà si scopre ognora leggi ideali
a cui essa risponde sempre (come le proporzioni tra spazio e velocità nella
caduta son sempre le stesse ), ed anche, esemplando il reale all'ideale, quello
vi combacia, come, facendo un circolo, i raggi gli ha sempre uguali. Ebbene la
scuola italica non ignorò i buoni metodi della osservazione e delle matematiche
applicate; già ho notato le dottrine fisiche d'Archita; del metodo sperimentale
di Polo ci ragguaglia Aristotile (Met.); le dottrine musicali d'allora fan
supporre molti esperimenti; Erodoto scrivche i medici italiani erano i più
reputati; e tutti sappiamo le meraviglie d'Archimede. Tuttavia il metodo
astratto ebbe il diso pra. Così, rappresentando il principio, il mezzo ed il
fine col numero tre, lo vedevano in ogni cosa; però Filo lao divideva il mondo
in tre parti. Il numero dieci è compiuto in sè stesso, perchè si compone
sommando i suoi quattro numeri primi? ebbene, dieci i pianeti. Cin que i corpi
regolari nella geometria? dunque altrettanti gli elementi, e ciascun d'essi n '
ha la figura; la terra ha il cubo, il fuoco la piramide, l'aria l'ottaedro,
l'ac qua l'icosaedro, l'etere il dodecaedro; e dunque, altresì cinque i sensi.
Se i quattro numeri primi, sommati tra loro, fanno il dieci; e se i quattro
numeri pari (2, 4, 6, 8 ) e i quattro numeri dispari (1, 3, 5, 7), sommati, fan
tutt'insieme trentasei, la tetrattisi o quadernario dovrà riscontrarsi nelle
cose; e quattro, per esempio, sono i gradi della vita: minerale, pianta,
animale e uomo; e, ne' corpi, il punto è unità, la linea è qualità, la super
ficie è triade, il solido è quadernario, si compone, cioè. di quattro punti.
Questo metodo, applicato alle cose dell'esperienza, riuscì arbitrario non di
rado, e se, inalzato a Dio, ne guastò il concetto per l'astrazione dell'
indefinito; pure, accompagnato come fu da tradizioni buone, da molte virtù
morali, da preziose osservazioni interne ed anco esterne, ed eccitando la
speculazione, fece sorgere tra gli errori belle e profonde verità. Quel metodo
era (com’ac cennai): trovare le leggi mentali della quantità geome trica e
arimmetica effettuate nella realtà e salire con queste alla prima cagione, alla
prima ragione ed alla prima legge. Però dice FILOLAO che l'intendimento mate
matico è il criterio di verità. La prima cagione dell'essere, che è ella mai?
Sic come i Pitagorici voller trovare i principj delle cose e il principio de
principj, così precede il quesito: che son mai tali principj? Risponde
Aristotile: « I Pitagorici, educati nelle matematiche, dissero i numeri esser
prin cipj delle cose. » (Met.) cioè tutte le cose si ridu cono a leggi supreme
di numero, e queste leggi costi tuiscono la loro essenza. Or bene, che cos' è
la prima cagione? È il primo principio, per Filolao; è la causa che antecede
ogni altra causa, per Archita: « quam Are chytas causam ante causam esse
dicebat, Philolaus rero omnium principium esse affirmabat. » (Siriano, alla
Met. Storia della Filosofi. - 1. 18 l'
Arist. XIII. Dunque se i principj delle cose son numeri, il primo principio è
tale altresì; o, come diceva Hierocle nel commento al Carme aureo (Fragm. Phil.
Græc.): « Se tutto è numero, Dio è numero. » Che nu mero? Il numero per
eccellenza. Che cos' è il numero per eccellenza? Vediamolo. Il moltiplice fa
supporre l’unità; e l'unità n'è sem pre il principio; così abbiamo solido,
superficie, linea, punto; questo è il principio della linea, della superficie e
del solido. Dunque Dio, ch' essendo il primo principio, è il numero per
eccellenza, è altresì l'uno per eccellenza. (Aless. Afrod. Comm. alla Met. d '
Arist.) Resta da ve dere che cosa sia l'uno per eccellenza. L'unità,
idealmente, si può considerare e qual parte che compone la pluralità, e quale
idea generica che abbracci la pluralità stessa. Diciamo: il venti è compo sto
d'uno più uno, più uno ec.; ecco le unità che com pongono un tutto. Diciamo
ancora: una ventina, un centinaio, un migliaio, un milione; ecco l'unità gene
rica che abbraccia ogni numero, considerato come unità. Nel primo caso, l'unità
è l'elemento della pluralità; nel secondo, è la forma mentale che fa capaci di
compren dere in un concetto le moltiplicità sparpagliate. E in tal senso
l'unità si può chiamare il numero per eccel lenza, giacchè abbraccia ogni
numero. Or bene, o signori, si può egli applicare a Dio l'idea d'unità ne'
detti significati? No; Dio non è il compo nente della moltiplicità; nè Dio è un
che generico e comune alle moltiplicità particolari. L'unità di Dio è, a dir
così, una soprunità, come, secondo i Teologi, le rela zioni personali della
Trinità son soprannumero. (S. Aug. in Joann. Evang. ) Si dice uno per negare il
moltiplice, nulla più; e chi confonde l'analogia di tali concetti col
significato proprio, o cade nel panteismo, o accusa erro neamente la filosofia
e la teologia. Si domanda, per tanto: la scuola pitagorica usò que' concetti
nel signi ficato vero? Da’tre frammenti di Filolao apparisce che Dio per lui è
imperatore sommo e duce, uno, eterno, permanente, immobile, simile a sè stesso,
diverso dal l ' altre cose, potentissimo, supremo, e che solo conosce l'essenza
eterna. Anzi, Siriano nel luogo già citato dice, che pe' Pitagorici Dio è una e
singolare causa, astratta « la tutte le cose, e superiore alla dualità de'
principi, la quale vedremo più qua: « Ante duo principia unam et singulam
causam, et ab omni abstractam præponebat. Parrebb'egli, dunque, che l'unità de'
Pitagorici sia nel senso buono? Bertini interpreta più benignamente che si può
certe opinioni pitagoriche. le quali ne farebbero dubitare; e tuttavia
conclude: « Il sentimento religioso e morale gl'induceva a collocare Dio molto
al disopra del mondo; ma il fato della logica li forzava sovente ad
immedesimarli in una sola sostanza e ricacciavali nel panteismo. » Che vuole
dir mai fato della logica? Vuol dire la necessità di certe conse guenze, dati
certi principj. Or via, quali son dunque i principj che menavano al panteismo,
non ostante l'alte verità frammischiate in abbondanza? Era, appunto, il
concepire Dio quasi unità generica, o numero per eccel lenza; e questo in
grazia della non buona induzione. Di fatto, poichè i numeri son pari ed impari,
e l'unità, cioè il numero genericamente preso, s'estende ad en trambi; così la
scuola pitagorica chiamò Dio pari ed impari, e diceva che l' uno è l'essenza di
tutte le cose (Arist. Met. I ); l'essenza delle cose chiamata eterna (la FILOLAO;
che inoltre affermò, le cose diverse e con trarie non istarebbero senz'armonia,
e tale armonia è il numero per eccellenza, cioè Dio; aggiunse, che tal numero è
legame all'eterna durata del mondo; anzi (e questo val più ), esso legame
produce sè stesso. (V.framm. i FILOLAO nel Ritter. St. della Fil. ant.)
Finalmente. Dio pe' Pitagorici è limitato ed illimitato ad un tempong 11pTLOTES
PITTOy, Arist. Met. 1. ) Par dunque certo ch ' essi concepivano Dio com'unità
generica, in cui s 'uniscono potenzialmente i contrarj del mondo, pari e
dispari, femmina e maschio, male e bene, e via discorrendo; contrarj che si
distinguono attualmente quando il potenziale viene all'atto, e l'illimitato si
limita, e l'essenza universale (conosciuta solo da Dio, cioè da sè stessa) si
determina mano a mano ne' fenomeni. Dubitò il dotto Bertini che s'intendesse
da' Pitagorici, non dimmedesi mare le cose in un' essenza, ma d'accennare che
Dio la in sè i contrari perchè li supera. E non esito punto a dire che ciò e '
tenevano forse, ma in confuso, e la con fusione generava il panteismo. Di
fatto, se quel concetto era limpido, essi non avrebber detto che Dio è pari ed
impari; giacchè i contrarj sono il modo finito delle per fezioni mondane, e
però non si contengono in Dio. Si risponderà: noi n'abbiamo un'idea più chiara.
Va bene; se i Pitagorici avesser capito chiaro come Dio superi l'universo
infinitamente, le parole chiare l'avrebber tro vate anch'essi. Anzi, l'infinito
lo pigliavano per l'inde finito o potenziale; e quindi, il finito sembrò a loro
il perfetto, e l'infinito l ' imperfetto. Aristotile serbò lo specchio delle
contrarietà in dieci antitesi (dispari e pari, finito e infinito, uno e più,
quiete e moto, luce e tenebre, bene e male ec. ), fatto da qualche Pitagorico;
e Simplicio notò come le contrarietà si comprendano si risolvano in Dio. (Arist.
Met. I, Simpl. Phys.) Inol tre, come il mondo era la decade, cioè la pienezza
d'ogni grado d ' entità, e così Dio; che riceveva nome d'ogni numero, unità,
diade, triade, quadernario (o solido), set tenario, decade. Dimodochè pe
Pitagorici, come per tutta la filosofia pagana (avvertite, o signori ), il
quesito della causa pri venne a quest' altro: Come si limiti 1 illimitato;
ossia, pensarono gli antichi che la produzione del mondo consistesse nel
determinare in atto la potenzialità prec sistente: talchè Filolao pone tre
principj, l’illimitato. il confine, e la causa (το απειρων, το πέρας, το αίτιον
). Il che parve in due modi: i Pitagorici, com’i pan teisti ionj e indiani,
dissero che quel potenziale sta in Dio; i dualisti, che e' sta fuori di Dio, ed
è la mate ria informata da esso. Nella scuola italica, poi, la im plicitezza
de' concetti adombrò alte verità; Dio (per ma esempio), legame del tempo e
dello spazio, se non si prende com ' identità d'ogni essenza, vuol dire
benissimo che l'unità divina con l'unico atto creatore e conser vatore fa
l’unione del moltiplice disgregato: però Dio è l'armonia dell'armonie. Che
cos'è dunque Iddio pe' Pitagorici? L'unità su prema di tutti i contrarj. Che
cos'è l'universo? I con trarj in atto, e ridotti da Dio all'armonia. Come
l'unità generica non diviene numero se non si distingua in unità determinate o
particolari, così la monade suprema non genera il mondo se non si distingua in
monadi o so stanze particolari. Che si richiede, o signori, a formare il numero?
L'unità e la distinzione d'un'unità dall'al tra. Ma la distinzione, considerata
mentalmente, non è forse un concetto negativo e indeterminato, dacchè si
gnifichi che l'una cosa non è l ' altra? Or bene; e pen savano essi che a
formare l'universo ci voglia le unità o monadi particolari, poi la loro
distinzione; ossia, come (lice Aristotile, elementi positivi da un lato,
elementi nega tivi dall'altro. Da queste due maniere d'elementi si fa tempo e
spazio; nel tempoi momenti e la distinzione di un momento dall'altro, cioè
gl'intervalli; nello spazio i punti e la distinzione d’un punto dall'altro cioè
il vuoto. Tal cosa venne simboleggiata con l'ispirazione del vuoto; ossia
distinguendosi le monadi, il vuoto entra in loro com'aria ne’polmoni. I due
elementi, il positivo ed il negativo, uniti tra loro, fanno la diade o il pari;
l'ele mento positivo o l' unità, così sola come aggiunta al numero pari (per
esempio il tre), fa il dispari. Ed ecco, o signori, l' unità nell'altro senso
ch'io spiegava di sopra, cioè nel senso non generico ma particolare di compo
nente il composto. Talchè l'unità nel senso generico è Dio; le unità nel senso
particolare fanno il mondo. Ed ecco altresì perchè si diceva da’ Pitagorici che
il pari è illimitato, illimitato perchè il vuoto e l'intervallo (o la
negazione) è in astratto un che potenziale, può ricevere distinzione da' punti
e da’ momenti all' indefinito. Si diceva per contrapposto che il dispari è
limitato, giacchè chiude l'intervallo ed il vuoto tra due estremità positive o
tra due monadi, riduce in atto la potenza, e si fa la triade, numero perfetto
che ha principio, mezzo e fine. Voi capite, o signori, come per la teorica
de’toni e degl' intervalli si vedesse analogia tra la musica e l'universo. Il
quale, venendo dall'essenzá eterna come necessario svolgimento d'attività, non
ha reale comin ciamento, è ab eterno; comincia sì, ma quant' al nostro pensiero
(-o iniyocav), ossia il pensiero nol può con cepire altrimenti. Nè s'avvidero
essi che se il pensiero nol può concepire senza cominciamento, segno è che l'op
posto è irrazionale. Che cos'è l'uomo nell'universo? Un'anima razionale che sta
nel corpo come in u sepolcro, dice FILOLAO. L'anima è numero e armonia (Plut.
De plac. phil. IV, 2 ), o monade che riduce ad unione la moltiplicità del corpo
e n'è principio di vita e causa motrice. Se Platone confutò nel Fedone la
sentenza che l ' ani ma è armonia, combatte i materialisti che ponevano l'anima
com'un risultamento dell'unione corporale, an zichè com’un principio di essa, a
mo' de ' Pitagorici. Ma Platone invece s'accorda con Filolao dicendo, che l'ani
ma è sepolta nel corpo. Se non che in Platone ha senso più dualistico; ma ne’
Pitagorici significò (badando noi alla totalità delle lor opinioni), che come
Dio è l'anima del mondo, e vien da essa immediatamente l'anima uma na (V.
Ritter e Bertini), così vien dalla terra, infima ne'gradi dell' entità e delle
emanazioni tutte, il corpo. Derivano da tutto ciò le teoriche sulla ragione som
må del conoscere e sulla legge dell'operare. Come l'en tità, così la verità è
l'uno e il numero, e l'errore va fuori dell'armonia; talchè come il numero fa la
misura di ciascun ente o la specie loro, e fa l' attinenze del l'uno all'altro,
così la verità è nell' attinenza dell'in telletto con le specie degli enti e
con le loro attinenze. Ma come si conosce da noi? Il simile col simile; però
distinse la scuola italica il senso dall' intelletto come in due parti (Cic.
Tusc. IV, 5 ); l'intelletto è divino e si conosce per esso (benchè in modo
relativo, dice Filolao) la divinità della natura; il senso è terrestre, e si
conosce per esso il fenomeno o l'apparenza sensibile. Ragion prima del
conoscimento è dunque Dio; ma com’es senza prima degl'intelletti. In Dio sta la
ragione pri ma, non solo perchè raggiano da lui gl'intelletti, ma perche Dio è
numero, e il numero è l' esemplare del mondo; esemplare riconosciuto dall'
intelletto. (V. il Cou sin e lo Stalbaum, ambedue nel commento al TIMEO) Però,
avvertite, o signori, la scienza pe' Pitagorici, come per ognuno che n'abbia
vero concetto, stette nel ritro vare la necessità razionale di ciò che
conosciamo. Essi voller saper non solo ciò che è ed accade, ma perchè ciò
dev'essere ed accadere. Tuttavia successe a loro quel che ad ogni panteista; si
credè di trarre a priori le cose dal conoscimento dell'essenza universale, come
le pro prietà d'un triangolo. Ma invece, e lo dissi altrove, la necessità
razionale (eccetto la ontologia e la teologia naturale e le loro applicazioni e
le matematiche) sta solo in vedere come, supposto un che, ne venga di neces sità
un altro per attinenza; ad esempio, data la per cezione, non può non essere il
corpo, o data la volontà negli uomini che son razionali, non può non essere la
libertà. L'assoluta necessità vedesi solo dove può trarsi l'illazioni da
un'idea, anzichè sperimentare de' fatti; nel resto è necessità ipotetica, e non
altro; o anco è sola contingenza. (V. Lez. I. ) Come l'entità e la verità sono
numero, negazione la potenzialità indefinita e l'erro re, così è numero ed
armonia il bene, disarmonia o ne gazione il male. (Arist. Met. I.) Il bene è
misura, il male è dismisura: da ciò quel detto pitagorico: « La misura è
ottima, pétpov Žpustov. » E come Dio è l'ar monia universale, il numero per
eccellenza, egli è il bene o misura o legge. Però, come l'intendimento va per
armonie matematiche e musicali, così la volontà; e indi nasce la virtù, ch'è
numero dentro di noi, componente la discordia degli appetiti (Carme aureo,
57-60 ); numero fuor di noi nell'educazione della famiglia e della città.. (Fragm.di
LUCIANO OCELLO ) Allora l'anima si va conformando a Dio (ov.02.09749. Tapos to
delov ); la disforme da Dio passa in corpi diversi con la metempsicosi od è
punita nel Tartaro; la conforme a Dio ritorna nell'essenza ond'ella emanò. »
Sarai, dice il Carme aureo, un Dio immorta le, incorrotto, non sottoposto a
morte (v. 71: ETEL 0212. τος θεός, άμοροτος, ούκ έτι θνητος). Signori, chi non
mirerà, in mezzo a quell'ombre, la luce di sì alte dot trine? Ma, tralignando i
tempi, la filosofia traligno. Il sistema pitagorico è, quant'a'principj, un
pantei smo naturale; perchè l'unità per eccellenza vi comprende lo spirito e la
materia, distinti poi come tutte l'altre contrarietà. Come voleva egli scappare
il Pitagoresimo alla contraddizione suprema d'identificare tutte le contrad
dizioni? Dicendo che non conosciamo l'essenza in modo diretto: quasichè importi
tal conoscenza per escludere l'assurdo. La scuola di Elea tentò fuggire la
contrad. dizione, escludendo la materialità, il moltiplice ed ogni mutamento, e
così creò un panteismo ideale. Xenofane, nato a Colofone d'Ionia il 620 av. G.
Cri. sto, venne assai tardi a VELIA città di Magna Grecia. L'idealismo suo
nasceva prima di lui; ma egli lo recò a sistema. E l'idealismo nasceva per più
cagioni; pri ma, com'ho detto, ad evitare le contraddizioni del pan teismo
naturale; poi, perchè il sistema idealistico ha dello scetticismo, a cui ora
pendevano i Dorj non più austeri, e più gl'Ionj (ionica pure la colonia d'Elea);
scetticismo voluttuoso e mesto che apparisce nel poeta Mimnermo, di Colofone
anch'esso, e in alcuni versi di Xenofane; inoltre, già il sistema pitagorico,
benchè com prensivo, faceva prevalere i concetti spirituali, però Xeno fane,
vissuto a lungo in Ionia, venuto poi in Italia, mostra nell'ontologia
l'idealismo italico, ma nella cosmologia la fisica degl'Ionj. Egli scrisse in
versi, e ne resta frammenti, da cui, com'anche da Platone e da Aristotile, si
rileva le sue opinioni. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) Uscì di patria per le
invasioni Lidie, viaggiò in Sicilia, si fermò in VELIA; e visse più che
centenne. (Censorino.) Xenofane ha di Dio un'idea sublime. Egli è uno, non
simile all'uomo, immoto, è tutto vedere, intendere e udi re. Ma si deve, o
signori, notare cinque concetti che formano il sostanziale del sistema. Dio è
uno. Xenofane tolse il principio pitagorico che l'uno si converte con l'ente;
però Dio, entità suprema, è uno. L'unicità di Dio, Xenofane la provò benissimo
per un secondo concetto ancora, ch'è la potenza. Voi sapete già, o signori, che
per la scuola italica l'unità o la monade o l'entità (vocaboli equivalenti) è
forza, è un'energia. Ciò pure affermò Xenofane; e però Dio, ch'è l'ente, è
sommo po tere (20 % TELY ): quindi se più dèi uguali, nessuno è po tentissimo
per l'eguaglianza, se più dèi inferiori, nes suno è potentissimo per
l'inferiorità. Talchè Xenofane, riprensore d’Esiodo e d'Omero, scherniva
com’empie le superstizioni volgari, e, diceva, se i cavalli sapessero di
segnare, fingerebbero gli dèi a loro sembianza. Traeva da ciò un terzo concetto;
che a Dio manca ogni contin genza, finità e infinità, moto e riposo. L'infinità?
In che senso la nega egli Xenofane, e contro chi? Nel senso d'illimitato o
indefinito che si determina con atti successivi; contro i Pitagorici pe' quali
Dio è infinito e finito ad un tempo, si distingue nell'universo e vi si muta
perennemente, benchè immutato nell'essenza: for s'anche, dove Xenofane accenna
il moto e il riposo, con futa le opinioni degl' Ionj già cominciate e già oppo
ste all'ITALICHE più antiche, ma pe' Pitagorici ancora Dio comprende in sè le
contrarietà fra cui Aristotile notò (come vedemmo) il moto e la quiete,
ugualmente che il finito e l'infinito, il finito ch'è quiete, l'infinito
(indefi nito ) ch'è moto. Crederemo noi dunque, o signori, che quest'altra
verità, in Dio non essere contingenza, con ducesse gli Eleati al Dio creatore?
No; e si scorge dal l'esame d'un quarto concetto, per sè vero, ma falso
nell'applicazione: Dio non può nascere. Va bene; ma per chè? udiamolo, signori;
il perchè ce lo dà il trattatello De Xenophane, MELISSO e GORGIA, attribuito ad
Aristo tile, non di lui forse, antico ad ogni modo. Si dice, adunque: Dio non
può nascere, perchè l'ente non può non essere, e il non ente non può dal nulla
divenire qual cosa. L'ente, ch'è per essenza, certo non può non essere; ma il
non ente nel significato di Platone e pitagorico è il contingente; che può non
essere appunto, giacchè non è per essenza sua propria, bensì dall'ente.
Xenofane, per altro (notate, vi prego, siguori), prese il non ente in
significato di nulla, e il nulla è impossibile sia mai altro che nulla; ma ciò
che diventa, è nulla in sè, nulla non già nella potenza causatrice. Che ne
conchiudeva Xenofane? Non solo che non si dà creazione, ma che non si dà pure
causalità nessuna; non v'ha che l'es senza immobile, infeconda, inaccessibile. (ch'è
dun que il resto? o quel che ci pare in continua mutazione? Fenomeno,
apparenza, illusione, e nulla più; talchè la fisica che si fa con l'apparenze è
illusoria, non è scien za. Però egli disse in un verso: « Queste cose (del
mondo) non hanno altra vita che l'apparenza, e appartengono alla opinione. (Plut.
Symp. IX. ) De' dubbj di Xeno fane sul mondo parlo altresì Timone Fliasio ne'
Psilli. (Fragm. Phil. Græc.) E per provare ciò s'adoperava un quinto concetto:
che Dio o l'ente è tutto, o intero. (Fragm. di Xenoph.) Che vuol egli dire?
Cerchiamolo. Che idea vi dà, o signori, l'infinità? Certo, pienezza d'es sere,
cioè che ivi non ha mancamento. Ma tal pienezza significa forse il tutto? No,
chè tutto è idea relativa: tutto, implica parti; e quindi ogni tutto può essere
più o meno, come numero ch'egli è; nè numero assoluto si dà; mentre assoluto è
l'infinito. Or bene, l'induzione astrattiva concepisce il mondo com'un tutto e
confonde l'infinità (come pienezza d'essere) con l'universo. Così accadde agli
Eleati; e però Aristotile scriveva di Xeno fane: « Contemplando egli il tutto
del mondo, disse che l'unità è Dio. » Indi l'aforismo eleatico, uno è l'ente e
il tutto (ey to y uzi có Tiv). Che si concludeva mai da questo? Poichè al tutto
non manca nulla, e l'ente è il tutto, nulla può cominciare, perchè sarebbe
aggiun gimento: quasichè, o signori, ciò che viene dall'efficienza creatrice
aggiungasi all'infinità. E però vedete, che dove gli Eleati pareva negassero l
' indefinito pitago rico, van poi al medesimo vizio; perchè si piglia Dio
com'un tutto generico, che viene simboleggiato con lo sfero. Resta da sapere
che foss'egli per Xenofane l'ente o Dio. È ragione assoluta, intelletto
essenziale. (Fragm. di Xenoph.) Che v'ha dunque più di pitagorico negli Eleati?
Si lasciò la parte corporea ed ogni moto e restò la spirituale, divina ed
immutabile; quindi è un pan teismo ideale. Il qual sistema si continuò in PARMENIDE,
e ZENONE. Di PARMENIDE di VELIA dice Plutarco (Adv. Colot.) che détte alla
patria leggi avute in grande amore. Zenone di VELIA, scolare di Parmenide, amo
di cuore la patria, e poichè un tiranno lo condannò a morire, sostenne da uomo
il supplizio: Melisso di Samo fiori verso l'84a Olimpiade, seguì PARMENIDE DI
VELIA, fu uomo di Stato, e capitano gl'ITALIOTI contro Pericle. Questi gli
Eleati (VELINI) più famosi. L'opinioni di PARMENIDE vi son date assai chiare
ne' frammenti del suo poema. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) E che si trova in
quelli fin da principio? I due aspetti, già separati da Xenofane: l'ente, che
unico è; e il non ente o l'apparenza, che non è: non è, o signori, in modo
assoluto e non già perchè semplice contingenza. Ci ha due vie, scrive PARMENIDE,
di filosofare: 0 porre che l'ente è e che il non ente non è (70 ury; vedi anche
il Parm. di Plat.), e questa è la via retta, perchè s'afferma l'ente e si nega
il non ente o l'apparenza; o, al contrario, porre che l'ente non è c che sia di
necessità il non ente, questa è via non retta. Si descrive così la via degli
Eleati o VELINI da un lato, e la via degl'Ionj dall'altro, i quali si fermavano
a considerare il moto delle cose. Ebbene, che concetti ha egli Parmenide
allorchè e' mostra che l’ente è e il non ente non è? Gli stessi di Xenofane:
l'ente è conosci bile con la sola ragione, ingenito, non mobile, tutto (cudow )
unigeno, eterno; non fu nè sarà, perchè ora è tutto insieme; non può esser nato,
perch'è assurdo che l'ente non sia; non divisibile, somigliante a sè stesso
intera mente, riempie ogni cosa; la dura necessità (dir.n ) lo stringe in
vincoli (ossia egli è necessario; necessità di Dio trasferita da' panteisti al
mondo ed alla volontà uma na ); egli non è infinito (atedrventov ), non bisogna
di nulla, ed è lo stesso il pensare e ciò che si pensa. (Framm. e segnatamente
v. 66-94.) In che PARMENIDE differì da Xenofane? Quegli ha forma più
scientifica di speculare, perchè comincia dall'idea universale dell'essere, e
la contrappone al non essere. (Ritter, Bertini.) Ma crede reste voi che
Parmenide s'avvantaggi su Xenofane, come nella severità dialettica, così nella
perfezione dell'idea ili Dio? Anzi, dove il maestro partì dall'idea di Dio,
ragione pura, santità essenziale e provvidenza, lo sco lare poi con un vizio
più rilevato d'induzione si fermò al concetto dell'essere generale, nè
v'apparisce punto la personalità divina: sicchè Parmenide non avversa come
Xenofane la mitologia, anzi l'accetta qual credenza po polare. In man di lui,
perciò, il sistema eleatico si rese più ideale. E questa idealità condusse PARMENIDE
(sembra un paradosso ), come anco Xenofane alla confusione lel senso e
dell'intelletto. Quanto a Xenofane apparisce da un verso di lui in Sesto
Empirico; e quanto a PARMENIDE, lo notò espresso Aristotile (ppovaly usy tér vistn512).
Mentrechè il sensista dice: la sensazione è idea e tutto: l'idealista dice:
l'idea è sensazione e tutto. Ma sorge contraddizione nuova: se intelligenza e
senso son tut t'uno, come potrà egli il senso darci l'illusione? Ep pure, ZENONE
DI VELIA non pare ch'altro volesse co’suoi strani sofismi fuorchè mostrare:
com’abbandonandoci all'apparenze del moto e del moltiplice, cadiamo sem pre in
contraddizioni. E la parte negativa di tal sistema s'accrebbe in Melisso che (notate,
o signori) muove dal l'ente indeterminato come PARMENIDE, ma lo significa in
modo più indeterminato ancora, chiamandolo un qual cosa. (V. Fragm. Phil. Græc. Didot; De Xenophau Melisso et Gorgia; Arist. de
Soph. Elenchis,
e Plat. Thecet.) Se non che, Melisso torna co’ Pitagorici a dire che Dio è
infinito, negando a loro ch'e'sia finito, per chè l'ente non ha principio nè
fine. (Fragm. 2. ) E ciò va bene; ma pare che qui terminasse l'infinità nel
concetto di Melisso; egli non lo concepì come infinitu dine assoluta d'entità,
e pero dotato d'efficienza crea trice e pensiero puro; anzi l' indeterminatezza
di quel l'astrazione fece sì ch'egli non parla dell'intelletto e della bontà di
Dio, e l'idea ne vacilla dinnanzi com'om bra informe e vana. (Ritter, Bertini.)
Così da Xenofane in poi vi fu scadimento, come da ' Pitagorici di CROTONE agli
Eleati o VELINI Questi bensì fecero progredire la dialettica tendendo a
conciliare i contrari, e Aristotile fa inventore di quella ZENONE DI VELIA, che
si sa da Diogene Laerzio aver composto dialoghi. Se la scuola pitagorica
seguitò, ma con forme più filosofiche, il panteismo orfico nella sua totalità,
gli Eleati ne presero la parte ideale; gl’Ionj la corporea e sensuale. Ell'è
perciò la setta men filosofica. In che ci viltà? Tra'costumi voluttuosi della
Ionia, e in quelle città che presto soggiacquero alla servitù de’Lidj e de
Persiani. E se voi mi domandate, o signori: Que' sistemi da che gente vennero
professati? Rispondo, che salvo i più antichi, cioè Talete e Anassimandro nati
a Mileto nel l'Asia minore, delle virtù cittadine di tutti gli altri non si sa
nulla; o sappiamo d' Eraclito ch'era superbo, duro e solitario. Di Talete
stesso, bench’ Erodoto ricordi un consiglio di lui agl' Ionj, Platone (Teetete)
dice ch' ei s'astenne da' pubblici negozj. Qual diversità dalla storia de
Pitagorici ! non ci meravigli, pertanto, la diversità ne sistemi. (Fragm.
Philos. Græc. Didot, 1860.) Il moto delle cose lo crederono gli Ionj nell'asso
luto. E che cos'è l'assoluto? La materia del mondo. unica entità, eterna,
divina, dotata di pensiero ch'è di vino attributo. Tutti gli Ionj. fuorchè
Anassagora, ebber ciò di comune; e s'assomigliano alla scuola degli Eghe 286
PARTE PRIMA. liani materiali che succedettero agl' ideali. Ma gl' Ionj
diversificarono tra loro nel concepire il moto dell'uni verso; chi, come Talete
e Anassimene, Diogene d'Apollonia ed Eraclito, ebbe un sistema dinamico; chi,
come Anassimandro e Archelao, un sistema meccanico. Ed ec cone il divario:
cercaron tutti la prima cagione delle cose, ma pe' dinamici la produzione si fa
con isvolgi mento di forze vive, come gli animali e le piante; pe’miec canici
la produzione non ha se non forme apparenti. mutandosi solo le particelle
inerti come ne’minerali. La dottrina vera comprende le due opinioni; perchè la
cau salità modale trae sempre in atto le potenze, l'atto si produce (dinamica );
benchè quest'atto poi non ci dia sempre una specie o un individuo, come nella
generazione degli animali, bensì talora un aggregamento come ne'mi nerali. A
ogni modo, tal dottrina non s'applica punto alla causalità creatrice; e
gl’lonj, negando che dal nulla si faccia nulla, negando qualunque causalità che
non operi sopr'un soggetto preesistente, non s'avvidero, che tal cau salità non
può dirsi assoluta, ma condizionata. Questo in genere; venendo poi a
specificare la causa prima, gl’lonj la posero chi nell'una e chi nell'altra
cosa che più parve trasmutabile in ogni altra o quasi un germe, secondo i
dinamici, o quasi elemento univer sale, secondo i meccanici: Talete nell'acqua,
Anassi mandro in una natura media (udtaču puçev ), e però lo chiama principio
(apua), Anassimene nell'aria, Eraclito nel fuoco, Diogene altresì nell'aria.
Ma, badate, o si gnori, nè quell'acqua, nè quell' aria, nè quel fuoco, son
proprio ciò che ne vediamo; è un che più intimo e uni versale, simboleggiato in
cose visibili secondochè queste parevano più acconce a figurare l'universalità,
come l'acqua che tutto abbraccia, l' aria per cui si vive, il fuoco che tutto
vivifica e distrugge. E con questo pensare la causa prima, s'andò di male in
peggio. Talete serba confuso al materiale un < he di spirituale; però dice
che tutto è pieno degli dèi e che in ogni cosa è la mente, e, secondo CICERONE (Quest.
Tusc.), professa l'immortalità dell'anima. È un panteismo materiale, ma confuso
ed implicato: vi si sente ancora le reliquie della filosofia teologica più
antica, già comune (com' io dissi ) agl'Ioni, anzi a ogni gente ellenica ed
agl' Italioti; e però i Padri citano di Talete molti detti sapienti sulla
natura di Dio. Anassi mandro svolgeva la parte materiale dicendo che il prin
cipio, in cui tutto ritorna è infinito, perchè l'origine o il cominciare non
termina mai (tov © vo ) trn doury ENOL Ó žosipov. Fragm. Phil. Græc.; Didot);
però gli dèi nascono e moiono, e son astri e mondi; e la specie umana venne da'
pesci. Anassimene seguitò quella via; nè altrimenti Eraclito, benchè questi,
che cita Pitagora e Xenofane (Diog. Laert. IX, e Clem. Alex. Strom. I ), désse
alla dottrina del fuoco le apparenze d' una misti cità orientale. Non si
discostò dalla teorica degl'Ionj circa la causa lità l'altra teorica sulla
ragione prima. Qual è la ragione del conoscere? questa, che il principio
conoscitore sia formato della materia universale, di cui si formano le cose
conosciute, dacchè il simile si conosca pel simile. Sembra che di morale
gl'Ionj ne parlassero poco; e ciò sta col materialismo loro; Eraclito bensì
pone la legge nella ragione universale o divina, palese con le leggi della
patria; Achelao nega ogni legge necessaria; e il giusto e l'ingiusto fa nascere
dalle convenzioni umane. Tal panteismo ch ' è sempre a priori non détte, benchè
materiale e salvo poche verità, una fisica buona. All'assurdità del panteismo
volle rimediare Anassagora da Clazomene, nato verso il 500 avanti l'èra nostra,
però distinse la mente dal mondo. Ma non la stimò creatrice; sicchè s'apprese
al dualismo; anzi, (lacchè spiega poi la formazione del mondo come gli al tri
Ionj meccanici, non si sa bene che ufficio e' désse alla mente divina in
ordinare, il mondo. (Plat. Fodone.) Il suo libro cominciava: Tutte le cose
erano insieme; l'intelligenza le divise e le dispose. (Diog. Laert.) E così
distinse Dio, o la mente (vojv), dalla natura; e questa pose in particelle
simili, omeomerie, che son semi delle cose o per la disposizione già ricevuta o
che rice von poi di mano in mano (2.pay.tov otepusta.). Diogene di Apollonia in
parte lo seguì, ma peggiorando; chè fece l'aria dotata di mente, e quindi
ordinatrice. Archelao pure, ultimo fra gl' Ionj, alla confusione primitiva sta
bili ordinatrice la mente; ma questa non va esente di materialità (Fragm. Phil.
Didot); talchè il dualismo di Anassagora isterili. Che tenne dietro, o signori,
alla confusione del pan teismo ed alla separazione del dualismo? La negazione
degli scettici, particolare dapprima, universale poi. E di fatto, già svolte
l'opinioni de' Pitagorici e di VELIA, ben chè non anco terminate (come va
sempre), e già comin ciato il sistema d' Anassagora, sorsero pressochè ad un
tempo le sette degl'idealisti e de' materialisti. L'idea lismo ateo venne da
Protagora (di cui nel dialogo con tal nome ed in più luoghi scrive Platone );
colui, non si sa quando nato, fiorì verso il 444 avanti l'èra nostra. Il
principio d’un suo libro cominciava: Degli dèi non so nulla; e Timone Fliasio
scrive, che Protagora quantun que dicesse ignorarli, osservò la legge ossia le
cerimo nie legali (Fragm. Phil. Græc.): nella osservanza della legge i sotisti
posero moralità e religione. Diceva Pro tagora con gl' Ionj: tutto si muta; e
con gli Eleati: tutto apparisce. Questa proposizione viene dall'altra; perchè
se nulla r’ha di stabile, tutto è fenomeno od ap parenza. Vedete, o signori,
come l'idealismo nascesse dall' opinioni anteriori. E sulle due proposizioni
già dette si fonda il sistema di Protagora, che disse perciò: se tutto muta,
nulla è in sè stesso; e se tutto apparisce, l'apparenza solo è vera; vere
l'apparenze contrarie, veri i contradittorj, vero insomma tutto ciò che si
pensa, e l'anima è la somma dei diversi pensieri (Condillac, Kant), e il fine
del discorso sta nel produrre l'appa renza: qui è il sostanziale dell'arte
sofistica. Che vi pare, o signori, non lo dicono anch ' oggi: tutto è vero quel
che si pensa? Quasi contemporaneo, ma un po'dopo è Democrito d'Abdera, nato per
Apollonio il 460, e per Trasillo il 470; talchè, se fiorito con Protagora il
444. ciò sarebbe avanti a' 16 od a'26 anni; impossibile il primo caso, non
verosimile il secondo, perchè Democrito dettò le cose sue dopo lunghi viaggi.
Sa degl'Ionj, perchè materialista, tiene bensì degli Eleati, perchè muove dal
concetto dell'ente; e dice: unico ente il vuoto e lo spazio con gli atomi nel
seno; dalle loro congiunzioni e dalle figure matematiche conseguenti nascono le
qualità; e poiche il simile si conosce col simile (τα όμοια ομοιών είναι
apestira ), v'ha conoscimento nell'anima, essendo ella un atomo a cui vengono
le figurette o immaginette dei corpi; rozza fantasia che male s'attribui ad
Aristotile. E Dio che cosa è per Democrito? Compiacendo alle plebi, egli finse
dèi come immagini enormi, ma sotto posti a morte; vero ateismo. (Fragm. Phil.
Græc. Di dot.) Vuol notarsi che Leucippo fiori con Eraclito il 500; ma poichè
il materialismo giungeva non opportuno. mancò allora il successo, in tal
maniera che di Leucippo non si sa pressochè nulla. Se Protagora s'accostò allo
scetticismo universale, non mi pare che vi giungesse: affermò che tutto si
muta, e ch' è solo quale apparisce, non si sa per altro ch'e' ne gasse l'entità
delle cose in questa loro perpetua muta bilità ed apparenza; chi giunse a tal
punto, risoluta mente, espressamente, e GORGIA DI LEONZIO (V. Dial. di Platone
col nome di lui, e altri dialoghi); perchè scrisse un libro sul non ente, cioè
sulla natura, e volle provare che o nulla è, o se è non può conoscersi o se si
conosce non può significarsi. Con Protagora e GORGIA v ' ha una schiera che la
Grecia infamò col nome di So tisti, Prodico, Eutidemo e simiglianti. Chi erano
costo ro? L'antichità gli ebbe per uomini venali. In che ci viltà vennero? In
età di corruzione. Che frutto recarono? Dicon gli antichi: pessimo nell'arte,
nella scienza e nel l'educazione della gioventù; benchè, come si vedrà, fossero
occasione di qualche miglioramento. Ma ecco fiorire verso que' tempi (V. Tavole
del Storia della Filosofia. - I. 19 Krug) un uomo che vuol riparare a tanta
dubbietà. Chi? Empedocle di GIRGENTI. Con che? col misticismo a cui s'ac
compagna (come accade sulla fine dei sistemi) un fare d'ecclettico. (Fragm.
Phil. Græc. Didot. ) Da'frammenti del suo poema (népe ouro ) e da' detti d'
Aristotile e d'altri si raccoglie che il sistema d'Empedocle non è già fisico
solamente; Dio per lui è mente santa incor porea: e nè un pretto dualismo,
perchè il mondo è tutto, e c'è divinità mondane o fisiche: e nè un pretto pan
teismo, perchè si distingue la mente divina e gli atomi: che cos'è dunque?
Parmi ch'e' non avesse un concetto nitido, com'accade agli ecclettici; e così
di lui pensa rono gli antichi: alcuno lo fa di Parmenide, altri pita gorico,
Platone lo mette con Eraclito, e Aristotile con Leucippo, con Democrito e con
Anassagora. Ma prevale il misticismo; perchè ne' frammenti del poema, Empe
docle si dà com’uomo miracoloso, e si crede un Dio immortale; e veste da
sacerdote. In lui sentite lo scet ticismo e l'estasi; egli pone la mente, umana
in parte ed in parte divina; quella c' illude, questa (come dice il Ritter) dà
un santo delirio e sorge alla contemplazione mistica di Dio nella natura. Tal è
l'Yoga indiano, tali gli Alessandrini. E questi, di fatto, ebbero in grande
stima Empedocle; ma Platone ed Aristotile, osservato ri, lo pregian poco.
Tuttavia egli seppe dimolto, e valse in fisica, e fu ben altr'uomo dei sofisti;
onorato dai suoi cittadini ed in tutta Sicilia. Così terminò quest'epoca, ed
ebbe strascico lungo in due schiere d'uomini; atei la cui morale era il
piacere, Evemero, Ippone, Nicanore, Pelleo, Teodoro, Egesia e Diagora;
Pitagorici o dati anch'essi al materialismo, così Ecfante, o mistici la maggior
parte. Questi atei com ' Evemero interpretarono storicamente la mitologia: gli
dèi furono uomini indiati, non altro. La scuola fisica poi degl'Ionj, più
tralignati, la interpretò fisicamente: gli dèi son le forze uniche della natura
EPOCA QUARTA DELL' ÈRA PAGANA. SISTEMI GRECOLATINI. CICERONE. Moltitudine
di scuole tra la seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fin al
quarto secolo dell'era stessa, sullo spartimento delle quali non sono chiari
gli storici. Criterio per la distinzione del. l'epoche, e quindi per
l'assegnazione varia de ' sistemi. Con tal crite rio, le dette scuole si
spartiscono in due classi. – La prima classe si sud distingue; 1º negli eruditi;
2 ' negli scettici; 3 ne ' sistemi grecoasiatici: tutti formano la fine
dell'epoca terza, cioè sono la conseguenza de ' sistemi anteriori. La seconda
classe, o de' sistemi grecolatini, fa un'epoca da sė, cioè l'epoca quarta. È
un'epoca nuova, per la tentata riforma, e per l'efficacia grande cosi di
Cicerone come de' Giureconsulti. — Cagione del sorgere tardi la letteratura e
la filosofia in Roma. Elle sorsero, quando i Romani non furono più con tutta la
mente in fatti gravi e giornalieri. Allora può la riflessione volgersi alla
coscienza e contemplarvi l'uomo, – Il pensiero de ' Romani si distese
all'Italia e al genere umano. — Naziona lità naturale e politica degl' Italiani
merce i Romani. Affetti domestici nel buon tempo di Roma. Come si vedano in
Virgilio le qualità prin cipali della civiltà italica. I germi antichi di
questa erano in Roma; si svolsero per impulso di Grecia. Durò poco in Roma la
filosofia pura mente speculativa, perchè già la filosofia greca, declinando,
avea lasciato salve ben poche verità, e perché Roma cadde in servitù. Cicerone
e i Giureconsulti romani costituiscono la vera filosofia grecolatina. Cice rone
si proponeva di sceverare dal falso e dall'incerto le parti vere e certe ile'
sistemi greci, di comporle in ordine chiaro, d'applicurle praticamente, e che
se n' aiutasse l'eloquenza. - Sue virtù e suoi difetti. Si prova ch'egli non fu
copiatore de ' Greci, ma pensò di suo. Non pare da distinguere i suoi libri (com
' alcuno pensa) in popolari e dottrinali. Libri logici, fisici e morali.
Cicerone ripete il conosci te stesso come fondamento della filo sofia: la
coscienza con tutte le due relazioni. Indi l'evidenza interio Uso degli altri
criterj secondari, tenendo sempre in mente l'universi lità e dov'ella si
manifesti. Cosi egli potė cansare gli eccessi de ' sistemi; e si prova quanto a
’ Platonici, a' Peripatetici, agli Stoici, agli Accademici: rigettato
assolutamente l'Epicureismo. - Cicerone non elegyeva da ecclettico, ma per un
ordine di principj; vide cioè che la filosofia è da studiarsi entro di noi; e
da tale studio inferi tre verità, che gli furono regolatrici: 1º che l'uomo sta
sopr' all ' altre cose; 20 che la ragione dell'uomo prevale al senso e al
corpo; 3º che questa ragione con le sue leggi ci fa palese Dio. Talche delini
la filosofia: scienza delle cose divine e umane e delle cagioni di queste (off.):
l'altra definizione de' Tuscolani è come racconto dell'opinioni pitigori che.
Va seguito i principj spontanei, naturali, universali della ragione: ecco
l'assioma di Tullio. — Ma, per la moltitudine de ' sistemi, ei potè co gliere
poche verità; queste affermò, nel resto sospende il giudizio. Esem pio, il
finale de natura Deorum. Le dottrine certe di lui ne ' libri morali, o sulla
legge e sulla libertà; le opinioni verosimili ne'fisici, o sulla natura divina
e dell'anima; ne'ljbri logici l'une e l'altre; ossia, egli è certo su'prin cipj
e sull' evidenza interiore, ha solo verosimiglianza sul criterio delle per cezioni
esteriori. Dualismo. — Anche per la teorica del conoscimento. Teorica
dell'operare bellissima; legge naturale, eterna; Dio n'è la fonte; re. -. chi
non ammette Dio, non può ammettere la legge. — Il dovere. Gradi degli officj.
Quel ch'è giusto in sè stesso. Utile apparente, e utile vero; questo è
conseguenza della virtù. — Onestå. Le leggi positive nascono dalla naturale;
Dio è il proemio di tutte le leggi. - Buoni eifetti della filosofia di Cicerone.
Non anche terminata l' epoca terza cominciò la quarta, de' sistemi greco-latini
– LATINO – ROMANO. Dalla seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare
fino al quarto secolo dell' era stessa, troviamo una moltitudine di scuole, lo
spartimento delle quali dà qualche impaccio agli storici. Taluno le piglia
tutte insieme (e vi comprende gli Alessandrini) come una sequela de sistemi greci
anteriori; e così non pone ad esse un'epoca distinta. E per fermo se tutte le
dette scuole non fosser altro che discepoli, o raccoglitori eruditi,
mancherebbe la ragione del porle da sè, o del farne più classi. La ragione
d'un'epoca, quando si parla di scienze, è solamente una grande verità scoperta,
da cui dipende l'ordine universale d'una scienza qualunque, o il risorgimento
di essa dopo un tempo di scadimento, e quindi l'efficacia su ' tempi avvenire.
Insomma, v'ha un principio d'epoca, quando v’ha un principio di moto nuovo e
potente: la continuazione di moto, è continua zione d'epoca e nulla più.
Applicando tal criterio all' età sovraccennata, par chiaro che i sistemi vi si
distinguano in due parti; una sta nell'epoca terza precedente, ossia nella
greca e come termine di essa; la seconda costituisce un'epoca da se per qualità
sue proprie, o un'epoca quarta, benchè i siste mi dell'epoca terza la
precedano, l'accompagnino ed an che le sopravvivano: tanto è vero che la sola
divisione per tempi non segue la realtà. La prima parte che ter minò l'epoca
greca, si suddivide in tre, gli eruditi, gli scettici, i grecoasiatici. Da un
lato v'ha le scuole di pretta erudizione; le quali non iscopersero nulla, nè
rinnovarono nulla; gli Stoici eruditi; i Platonici eruditi, com’Areio Didimo,
Trasillo, Albino, Alcinoo, Massimo di Tiro; i Peripatetici eruditi o
commentatori d'Aristotile, come Alessandro d'Afrodisio; i Medici, eruditi
anch'essi, platonici e peripatetici, come Galeno. Poi da un altro lato v'ha lo
scetticismo d'Enesidemo e di Sesto Empirico, i quali compivano, anzi riducevano
a sistema il dubbio di Pirrone e di Timone, volgendosi specialmente contro la
causalità, e negandola per la singolare ragione che il modo intimo del causare
nol conosciamo; quasichè possa negarsi ciò ch'è ad evidenza, quando non si sa
spiegarlo. Da un terzo lato ancora, mescolati i Greci con gli Asiatici per le
conquiste d'Alessandro e poi per la vastità dell'impero di ROMA vediamo un
congiungimento tra la sapienza orientale e i sistemi greci; onde si svolse la
setta degl’Alessandrini, che non fecero altro se non ridurre a forme greche il
panteismo asiatico, già cominciato in Filone ebreo, nella Kabbala, in Apollonio
Tianeo e in Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio, Cronio, Numenio. Questi,
benchè distinti dalla scuola d'Alessandria (e fa male chi li confonde), in
sostanza cominciaron l'avvio di quella, che ne trasse i pensieri a compimento.
Gl’Alessandrini e i loro antecessori fanno essi dunque un'epoca nuova? No,
perchè i metodi sono affatto dell'età socratica, e i principj gli stessi. Lo
scetticismo poi che li conduce al misticismo, appartiene a quel medesimo tempo.
L'unione dell' orientalità con l'atticità pare un che nuovo, ma
scientificamente non è. Proviene dalle tendenze mistiche succedenti al dubbio,
non già da'me todi scienziali; piacque la misticità orientale, richiesta già
dagli animi. Ebbi l'opinione anch'io che gl’alessandrini facciano un'età da sè;
ma più attenta consi derazione m'hacondotto ad altro parere. La seconda parte
sì che fa un'epoca da sè, l'epoca quarta o LATINA O ROMANA. Introdotte le
scuole di Grecia in ROMA comincia ivi un ordine proprio di concetti per
efficacia delle tradizioni ITALICHE e per la civiltà di ROMA. Talchè, ripeto,
avvi un'epoca quarta, o de sistemi LATINI ROMANI; nuova per le riforme tentate
da CICERONE e per la novità dei iureconsulti, che hanno efficacia sì viva e
universale nella civiltà europea; e anco perchè CICERONE serve più che i greci
alla filosofia cristiana de' padri latini e dei dottori, i quali per via di lui,
piucchè in modo immediato, sanno l'antiche opinioni. Adunque in uno specchio
generale di storia si dee lasciare i filosofi eruditi, che non aggiungono nulla;
degli scettici dissi già nel passato. De'sistemi grecorientali poi si dee
trattare nella prim'epoca del l'èra cristiana, perch' essi combatterono la
sapienza de Padri e n'eccitarono la opposizione. Resta che noi parliamo qui de'
sistemi LATINI ROMANI, che soli ci danno un'epoca nuova. Non fa meraviglia che
in ROMA a nascesse tardi la filosofia. Nasce quando la riflessione si volge
alla coscienza, e vi contempla l'uomo interiore per elevarsi all'ideale
universalità. La filosofia vi s'eleva in modo astratto. Ma quando un popolo,
come IL ROMANO, è tutto inteso a fatti gravi e giornalieri che lo attirano o a
guerre esteriori od a contese interne; allora ti daranno bensì canti popolari
di guerra e d'illustri memorie (come gli accenna LIVIO. Ma non si possono dare
filosofia. In que' tempi guardasi al fine politico ed aʼmezzi, non alla natura
dell'uomo qualità generali delle operazioni, come fa il filosofo. Indi la
rozzezza de’ROMANI, talchè narra LIVIO, che lo storico più antico e FABIO
PITTORE a' tempi d'Annibale. Ma quando ROMA ha esteso la dominazione a tutta
Italia e oltre, allora IL ROMANO non vide più solo innanzi a sè le contese de'
vicini, e le contese del foro tra nobili e plebei, sì un'intera e grande
nazione e il genere umano. Così l'idea di ROMA si appresenta in relazione con
tutta l'Italia e l’Italia in relazione col mondo. Il pensiero de' ROMANI si
dilata. Si allarga fuori del cerchio de' fatti particolari. Il quirita si sente
più chiaramente e figlio di ROMA, e italiano, e uomo, tanto più che a poco a
poco LA CITTADINANZA ROMANA si estese a tutta Italia. A’tempi di Storia della
Filosofia. – 1. e alle 24 2 as 2 CICERONE non rimane quasi più possedimento in
ITALIA non assegnato a'cittadini per via di colonie; il qual fatto, unito
all'altro che già notai de’ primitivi abitatori ricaccianti le colonie greche,
spiega com’in Magna Grecia ed in Sicilia i dialetti sieno italici puri (chè i
pochi Greci di PUGLIA non sono gl’antichi), non già ellenici come in Grecia
moderna e in alcune parti del l'Asia minore. Le colonie di ROMA, aiutate
dall'affinità primitiva delle schiatte italiche, formano così l'unità naturale,
o la consanguinità della nostra nazione; nazionalità naturale determinata
da'naturali confini del nostro paese, e che si manifesta nell'unità formale de
dialetti, o già contemporanei al romano, o nati da esso. Indi allora nacque la
politica nazionalità benchè dopo cinque secoli di guerre; ma lasciando
a’municipj un'im magine di ROMA, consoli, senato e popolo com'a FIRENZE (Malespini
e Villani), e concedendo a que municipj amministrazione lor propria; indi
vennero i nostri comuni del medio evo. Roma e l'ITALIA, considerate in
relazione col mondo, formarono nelle menti romane com'un archetipo di perfezione.
Il vecchio PLINIO (giova ripeterlo qui) scrive dell' Italia. Omnium terrarum
alumna et parens, omnium terrarum electa; una cunctarum gentium in toto orbe
patria. E VIRGILIO, lodando magnificamente l'ITALIA nel secondo delle Georgiche,
non si ristringe a Roma, e dice. Hæc genus acre
virumi, Marsos pubemque Sabellam Adsuetumque malo Ligurem, Volcosque verutos
Extulite.” E
Virgilio finisce con quell'alte parole. “Salve, magna parens, Saturnia tellus
Magna virum.” Giunto un popolo a questa larghezza di sentimento e di
riflessione, possiede l'idealità necessaria per la filosofia. Non lo stringono
più le necessità de'fatti speciali, stende il pensiero alle attinenze,
considera la natura dell'uomo e delle cose. Questo svolgimento di coscienza per
la riflessione venne promosso da una causa tutta particolare a Roma ed all'ITALIA.
Qui, più ch'altrove nell'antichità, e sacro il connubio; e gli affetti di
famiglia v’ebbero consistenza per molti secoli. La stessa mitologia nostra,
come dice Polibio, rigetta le nefandezze de' simboli elleni. Or bene, gli
affetti di famiglia tengono vivo il senso morale, che dipende dal l'idealità
suprema della legge e del dovere. Non v'ha dunque da stupire, se VIRGILIO,
benchè imiti Omero, si distingua tanto da lui ne' principali concetti che
governano il poema; ossia, nel concetto che ordina il poema stesso e ch'è una
disposizione di provvidenza rispetto a’ Romani; poi, nel concetto di patria ch'
è Roma; in quello altresì di nazione (non di schiatta soltanto, come la Grecia
), cioè di tutte le genti italiane, non solo consanguinee (schiatta italica),
ma dimoranti pure in unico paese (nazionalità naturale) e poi congiunte da ROMA
(nazionalità politica): nell'altro di famiglia onde ri fulge l’Eneide dal
principio alla fine; per ultimo, nel l'intima e soave descrizione degli
affetti, con la quale il poeta mantovano prepara la poesia cristiana. Sicché,
quand' io leggo in alcuni libri ch'a Virgilio manca un'idealità propria, prego
da Dio la fine di certe passioni che impediscono la equità de' giudizj. Però,
mentre allargavasi il dominio romano, cresce vano le ragioni d'intima civiltà;
le quali, per altro, s'acchiudevano già in Roma ab antico. La prisca gente
romana che ch'ella fosse e in qualunque modo si ragunasse da prima, certo è,
che s'ella fu rozza per le necessità di continue guerre, sorse tuttavia tra
popoli molto civili; ebbe accanto la Magna Grecia e l'ETRURIA, e le tante città
de’ SABINI e del LAZIO. Ora chi non sa quanto valgano mai le tradizioni civili
anco tra popoli rozzi? NUMA vien detto alunno di Pitagora; ' e l'anteriorità di
quello è spiegata dall'antichità delle scuole pitagoriche, com'altrove narrai,
Dice CICERONE. “Romuli autem ætatem jam inveteratis literis atque doctrinis
fuisse cernimus.” (De rep.): e Agostino scrive nella “Città di Dio” che Romolo
e venuto non “redibus atque indoctis temporibus, sed jam eruditis et expolitis.”
Plinio cita le belle pitture d'Ardea più antiche di Roma. I Romani predarono
dalla sola Volsinia 2,000 statue. Bolsena in Fenicio significa città degli
Artisti (Cantù, St. Univ.) Se a ciò aggiungo la tradizione, che le leggi de
cemvirali si prendessero di Grecia (tradizione falsa per le leggi che
s'attengono a' costumi di Roma, vera probabilmente quant'al modo d'ordinarle ),
e se aggiungo altresì la perfezione che graduatamente il gius positivo ha dal
gius onorario, mi capacito che nel seno di ROMA cresce un germe di civiltà e
però di filosofia, da venire a compimento, quando se ne offerisse la occasione.
E questa occasione, testimonio la storia, è sempre qualcosa d' esterno.
L'occasione a Romani venne da Greci conquistati. Ed ha il proprio segnale
nell'ambasceria di Critolao, Carneade e Diogene babilonese. CATONE si sforza di
cacciare le sette greche. Invano, il terreno era preparato. E la pianta fiorisce.
Ben è vero che la speculazione puramente filosofica non dura a lungo, ma
prosegue a fecondare il diritto. E la qual brevità ha due cagioni principali. I
sistemi greci, che aveano menato tant' oltre la FORMA LOGICALE della filosofia,
quant'alla MATERIA poi l'aveano lasciata in dubbiezze infinite, come vedemmo;
talchè si richiede uno sforzo più che umano a rilevarla: poche verità si
conservavano intatte da ordirvi la scienza. Quindi, o rimane solo a far opera
d'eruditi e d'accozzatori, come gli ecclettici d'allora; o bisognara trar fuori
quel poco di certo, che non da soggetto a copiose speculazioni. In secondo
luogo, allorchè ROMA venn'a maturità di pensiero, cadde in servitù che isterili
la letteratura e la scienza. Quindi, i sistemi latini ROMANI si riducono il più
alla filosofia di CICERONE, e alle scuole de' Giureconsulti. I filosofi
anteriori a CICERONE seguirono i Greci pressochè interamente. LUCREZIO ripette
quasi le dottrine del Giardino; ma nondimeno LUCREZIO mostra la coscienza di
romano, allorchè, facendo materiale l'anima, pur conta fra gl’elementi
costitutivi di essa un elemento innominato, quasi animo dell'anima. “Nobilis illa vis, initum motus ab se que dividit ollis, Sensifer unde
oritur primum per viscera motus.” (De Nat.). E, quando stabilì negl’elementi
un moto spontaneo per ispiegare la libertà E quando celebra la divinità della
natura con versi stupendi e la santità del matrimonio. SENECA non si parte dal
PORTICO, benchè fa professione di non ispregiare nessuna scuola. ANTONINO, com’Epitetto,
ha lasciato aurei precetti, ma senza ordinamento di scienza. CICERONE, al
contrario, istitue speculazioni proprie, che certo hanno forza
nell'universalità de' Romani culti e nella giurisprudenza. Io dunque parlo di CICERONE
e de' Giureconsulti. Fin d'ora io dico che CICERONE si propone di sceverare
(con un principio superiore) le parti vere e certe de sistemi greci dalle false
od incerte, di comporle in ordine chiaro, d'applicarle alla vita privata, e
ch'elle confere all'eloquenza. Questa filosofia di CICERONE suol chiamarsi
ecclettica; e chi la intenda per metodo compositivo e logicamente ordinato,
passi. Ma dice male chi la pigliasse per una scelta a caso, senz’un principio
interiore e ordinatore. Nessuno puo negare che ciò distingua le speculazioni di
Tullio dall' ecclettismo de' Greci mentovati poco fa, i quali ragunavano nella
memoria, ma non componevano nel pensiero; e lè distingue pure da’migliori
sistemi dell'epoca antecedente, perchè CICERONE li giudica con libertà e li
trasceglie. Nè si può mettere in dubbio l'efficacia di CICERONE – non
MARC’ANTONIO, chi lo assassina -- su'secoli avvenire. I Padri e i Dottori lo
studiarono molto; e Agostino, da uomo grande che riconosce il vero ed il bene
onde che venga, scrive nelle Confessioni. Hic liber -- cioè la lettura dell'Or tension
-- mutuvit affectum meum, et ad te ipsum,
Domine, mutavit preces meas, et vota ac desideria mea fecit alia.” Pare che CICERONE
trade la schiatta da quel Tullo Azio, che regna gloriosamente su’ Volsci (Plut.
in Cic.). E quegli se lo tene per certo, sicchè dice ne' libri Tuscolani, che
Ferecide era antico -- fuit cnim meo regnante gentili: indi la smania di
comparire tra gli otti mati. Lasciate le scuole, udì Filone accademico; ma
insieme pratica Mucio, personaggio assai versato nella politica, e principale
tra’senatori, imparando da lui scienza di leggi; e milita con SILLA tra’ Marsi (Plut.).
Sente anche Fedro epicureo e Diodoro stoico. In Atene segue Antioco accademico,
e non trascura Zenone all’Orto. Anda poi in Asia, e si ferma a Rodi, per esser
ammaestrato dallo stoico Posidonio. Favella con tal passione e con voce si
concitata, che gli reca danno alla salute. In Sicilia e pretore giusto, umano,
amatissimo. Dopo la congiura di Catilina, CATONE stesso chiama Cicerone padre
della patria dinanzi al popolo. Esiliato da Roma per le mene di CLODIO, vi
rientra poi come in trionfo. Gli furon trionfo tutte le vie d'Italia, per le
quali CICERONE passa. Stette fedele alla re pubblica contro la signoria di
GIULIO CESARE e la tirannia di MARC’ANTONIO. MARC’ANTONIO lo manda a trucidare,
e Cicerone porse il collo alla spada (Plut.) Ama la famiglia con tenerezza.
Esule, scrive a Terenzia sua e alla figliuola lettere d'amore sconsolato. Come
CICERONE intende la santità dei pubblici ufficj, lo mostra la famosa lettera a
Quinto fratello. Le sue lettere, scritte da lui senz'intenzione di pubblicità,
e che formano uno de' più bei libri del mondo, lo mostrano sempre d'animo
schietto e buono. Scrive a PETO. “Sii persuaso, che giorno e notte non altro
cerco, non altro penso, se non che i miei cittadini sien salvi e liberi. Non
lascio opportunità d'ammonire, di fare, di provvedere. Infine io son fisso qui,
che se in tanta cura e amministrazione ho da porre la vita, stimo di aver
finito preclaramente. (Ad fam.) Non pecca d'orgoglio, ma di vanità; si lodava
spesso, e questo aizza gl'invidiosi, e a lui diminusce rispetto. Faceto, morde
non di rado altrui, e, senza volere, s'accatta nemici; ma in lodare i meriti
veri abbonda con allegrezza e con liberalità d'uomo sincero e benevolo. Parve
talora incerto ne' propositi, e troppo addolorato nelle sventure. Prende due
mogli, ripudiando la prima. Volle dedicare un tempio alla figliuola morta. Loda
e invidia gli uccisori di GIULIO CESARE. Loda prima GIULIO CESARE troppo, ma
non l'opere mai. Dice Capponi (Archivio Storico ): Ma chi fosse più di me
severo a Tullio, pensi com'egli animosamente comincia la sua vita d'oratore e
la compiesse gloriosamente. Assalse nella difesa di Roscio d'Amelia un
Crisogono liberto di Silla ch'era affrontare SILLA medesimo. Principe nella
città e guida e anima del Senato, combatte MARC’ANTONIO e incontra la
morte.Oratore, accusa sempre gli scellerati, difese qualche volta i non
innocenti. FILOSOFO, stette per lo più dalla parte del vero. Bensì approvò il
suicidio, l'assassinio de' tiranni, la vendetta, un certo sfogo di carnalità, e
la schiavitù. Uomo di stato, cerca troppo la lode, ma insieme la grandezza e il
bene della patria. Scrive d'eloquenza, ed e oratore sommo. Scrive di filosofia
morale, ed e uomo dabbene. Scrive di cose civili, ed e gran cittadino. Ecco i
fatti principali e virtù e difetti che spiegano LA FILOSOFIA DI CICERONE. È impossibile non vedere in CICERONE tre forti
amori, di gloria, di patria e di famiglia. E' reca in tutto ciò un'ardenza di
cuore, la quale ha talvolta del molle, ma la tenerezza è temperata da un senso
vivo d'onestà e di decoro. (V. le Lettere scritte in esilio.) Ude tutte le
scuole, e però raccoglie il meglio; ma con iscelta libera e ordinata, perchè
uomo libero ed T 11 tro operoso, e ingegno forte. Romano e uomo di stato, segue,
più che non facessero le scuole greche, il precetto socratico di badare nella
scienza al fine del bene; e tal qualità pratica non diminuisce il valore delle
dottrine, anzi lo cresce, purchè la scienza si pregi anco per sè, come fa CICERONE.
Badando al bene, odia la parte ipotetica e vana de sistemi anteriori, e ne prende
il poco, ma certo e buono. Però, indulgente ad ogni setta, coll’Orto non volle
mai pace. Un po' vano, pompeggia assai nelle parole; il che gli scema vigore
qua e là. Ma nella filosofia va semplice e spedito. Uomo universale, senatore e
console di Roma, cerca l'universalità negli; e questa filosofia da a 'Romani
l'idea di tutto il sapere. Pieghevole alla opinione altrui per bontà di cuore e
per bramosía di favori popolari, combatte nella “Divinazione” le falsità del
culto, le rispetta in altri luoghi; ammira il suicidio dei filosofi del Portico,
non se l'attenta per sè, timido, dicon taluni, rimorso da coscienza non
confessata, dirò io, e lo credo. Taluno da quelle parole di CICERONE ad Attico:
ATÓMp492 sunt; minore labore fiunt, verba tantum affero, quibus abundo” (Ad
Att., XII, 52). Deduce ch'esso i libri filosofici traduce, non li facesse di
suo. Ma quando poi sentiamo che Cicerone stesso, in tempi che gli autori greci
erano familiari, e molti a Roma i maestri greci, e in opere dedicate a dotti di
greco, quali ATTICO e BRUTO, o a studenti in Grecia, come il figliuolo, dice
(De fin. 1, 3): Noi non facciamo ufficio d'interpreti, ma sosteniamo le
dottrine di coloro che approviamo, e aggiungiamo ad essi il nostro giudizio e
un ordine nostro di scrivere. E dice altrove (De off. I, 2): Ora seguiremo e in
tal soggetto il PORTICO principalmente, non come interpreti (non ut
interpretes); bensì, al solito nostro, berremo a’lor fonti quanto per giudizio
e arbitrio nostro ci parrà.” Allora, io affermo che Cicerone non poteva dire
una bugia così sfacciata ed inutile. Narra egregiamente Plutarco. Eragli studio
comporre dialoghi di filosofia e tradurre dal greco an 10 1:. bi lice. li 1 tes 377 (In Cic. ). E così un greco antico, più
che i moderni non greci, distingue bene i libri tradotti come il Timeo
da'propri di Cicerone. L ' opere di lui distingue Ritter in filosofiche o
riposte ed in popolari. A me non sembra; sì scorgo chiara la distinzione del
DIALOGO SPECULATIVO, come i libri accademici, dagli scritti che hanno un fine
pratico, ad esempio gli Offici, dell'Amicizia, e simili. Negli Officj chi mai
non vede un ordinamento scienziale? E se CICERONE rispetta gli dèi più qui che
altrove, pensiamo che ciò s'usa da tutti i filosofi, quando essi non
ispeculavano direttamente sulla divino. Mi pare, poi, manifesta la distinzione,
e più principale: tra la FILOSOFIA NATURALE (De natura Deorum, De divinatione
), LA LOGICA -- Academicorum, Topica, De inventione, De oratore etc. – LA
FILOSOFIA MORALE (Tusculanorum, De officiis, De finibus, De senectute, De
amicitia, De legibus, De republica, De fato. Quantunque in ciascuna classe si
trovino mescolate più o meno le dottrine, non già divise assolutamente. L'
Ortensio poi è perduto, d'altri libri restano frammenti. Or dunque Cicerone,
imitando Socrate, tornò a'principj e al fondamento del sapere. Quegli, come
questi, si trova in mezzo a una confusione di sistemi, e, come Socrate, chiama
i suoi al conosci te stesso, affinchè nella coscienza di noi prendiamo il
rimedio alle superbie d'ipotesi vane e il principio della sapienza vera. Quand'
io dico che CICERONE imito Socrate, già non lo paragono a lui, nè come filosofo
glielo fo uguale, sì discepolo; dico bensì, che il tornare a'principj è in
tutte le cose rinnovamento unico e condizione di nuovo cammino; e chi rinnova,
è istitutore novello e cominciatore d'un'epoca propria. E se CICERONE non
riuscì a tanto come Socrate, ne chiarii altrove le cagioni; e a lui non s'ha da
imputare. La scienza e la civiltà del Paganesimo cadeno, e sempre più CICERONE
le trova quasi in fondo, nè potè nè sperò ritirarle in cima. Fatto è, che CICERONE,
come Socrate, capi la stranezza delle sette pagane. Ama con grand' amore la
filosofia, 2 ! la pre 18 MA Tha U.
>> TH e ne scrive lodi magnifiche in ogni suo libro; anzi l' Ortensio e
composto da lui per esortazione a filosofare; e nondimeno quand' ei volgevasi
attorno, e sente le strane opinioni di tante sette, esclama: Niente si può dire
di tanto assurdo, che non sia stato detto da qualche filosofo. (De div.) Ammone
per ciò a rientrare nella propria coscienza, a ripigliare il conoscimento di
noi, a seguire così una filosofia meno sicura de' propri sistemi, non
presuntuosa (minime arrogans: De div. II, 1 ). Ripeta il precetto che sta sul
tempio d'Apollo, nosce te ipsum, e dice: Essendo tante e sì grandi cose che si
scorgono nell’uomo interiore da quelli che voglion conoscere sè stessi, madre
loro e educatrice è la Sapienza (De off.). CICERONE invita a fermar l'occhio in
questa evidenza interiore, dove tante verità si veggono chiare -- quæ inesse in
homine perspiciuntur. In questa coscienza di noi stessi, CICERONE come Socrate,
più di Socrate forse perchè ROMANO, sente l'uni versalità del vero, distinta
dalle opinioni particolari, e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro
sociale e religioso, relazioni universali anch'esse; e però CICERONE inculca
sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo, ossia nella retta
ragione (De off.); e contro L’ORTO fa valere gli affetti più generosi
dell'animo (ivi, e negli Acc. e ne Tuscul. e quasi per tutto ); e chiama in
sostegno il senso comune e le tradizioni umane e divine. Così ne' libri
Tuscolani adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di un
divino e l'immortalità dell'anima umana; e dice ne'Paradossi contro gli Stoici Noi
più adope riamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono
cose non molto discordi dal pensar della gente. (Proem.) – cf. Grice,
“Philosopher’s Paradox” -. E nelle seguenti parole del Tuscolani si vede com'ei
raccogliesse, di mezzo alle opinioni varie, le tradizioni universali de
filosofi e le divine. Inoltre, d'ottime autorità intorno a tal sentenza --cioè
l'immortalità dell'anima -- possiamo far uso; il che in tutte le que HIE ale Di
D. 4 stioni e dee e suole valere moltissimo -- in omnibus causis et debet et
solet valere plurimum. E prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate ) -- la
quale, quanto più era presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ),
tanto più forse discerneva la verità. » (Tusc.) E tra filosofi, che CICERONE
cita, preferisce appunto FERECIDE, come antico, antiquus sane; e indi ne
conferma l'autorità con quella di Pitagora e de' Pitagorici; il nome de'quali,
egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun al tro paresse dotto (S
16). E dice più oltre che, secondo Platone, la filosofia e un dono, ma quanto a
sè, una invenzione degli dèi. Philosophia vero omnium mater artium, quid est
aliud, nisi, ut Plato ait, donum, ut ego, inventio deorum? » ($ 26. ) Nel che
s'accenna il principio divino della sapienza e della tradizione. Condotto da
questo filo tra i ravvolgimenti delle sette cansa gli eccessi d'ogni maniera. IL
PORTICO, per esempio, la cui morale severità CICERONE approva e segue, dice,
che nessun uomo è buono fuorchè il sapiente. Ma di questo sapiente ne fa
un'idea sì alta. che confessavano poi, e' non darsi quaggiù; e però IL PORTICO,
se consentanei a sè, dovevan dire impossibile umanamente la loro superba virtù
e disperarne come BRUTO morente. CICERONE al contrario riconosceva una più
umile sapienza e virtù, che può essere di tutti, e che ci abbisogna nel vivere
comune. (De amic.) IL PORTICO, crede CICERONE, indiando la natura, di poter
trarre le superstizioni volgari a senso ragionevole (come tenta VARRONE per
testimonianza d’Agostino – “Città di Dio”. Ma Cicerone le deride (De nat. Deor.).
Mena buono all’ACCADEMIA, al LIZIO, e al PORTICO, che la più alta felicità
dell'intellettuale natura sia la contemplazione (Hort. in Agost. De Trinit.). Ma
in questa vita, ei dice, la contemplazione senza la pratica delle virtù è nulla
(De off.); e quindi censura Platone che scrive: Il savio non essere obbligato a
civili negozi. (De off.). IL PORTICO, per alterezza di ragione, spregia il
corpo e i beni corporei. Ma Cicerone dice:
11 he COL iti be 111 15:-11 19 Poichè s'ha da seguire la natura. Noi
siam anima e CORPO. Non possiamo spregiar il corpo, nè si dee imitare
que'filosofi, che accorti d'un che superiore a'sensi ne spregiano la
testimonianza. Con che l'accoccava pure agl’Accademici. (De fin.). IL PORTICO
nega l'efficacia del dolore sull'uomo sapiente, e svile ogni piacere. CICERONE
invece mostra che il dolore eccessivo è impedimento agli officj, e che le
temperate giocondità son utili e buone. (De sen., De fin.). IL PORTICO,
concependo la virtù con altezzosa rigidità, stimano uguali tutti i malvagi e
tutti uguali i peccati, perchè tutti contrarj al bene. CICERONE confuta in più
luoghi tale uguaglianza e mostra, per esempio, ch'altro è mancare a posta,
altro è nell'impeto di passione. (De off.) Se nella morale ei tenne dal PORTICO,
rigettate le loro esagerazioni, in logica, metodo filosofico e analisi di
concetti stette per l’ACCADEMIA giacchè, come dissi altrove, la riforma del
filosofare comincia sempre da un dubbio temperato. Ma qui è il divario, la
temperanza; perchè, dove l’ACCADEMIA (a quello che ne sappiamo) nega ogni
verità e CERTEZZA nel percepire le cose e ammetteno solo una verosimiglianza,
uguale per tutte le opinioni. CICERONE invece ne' fondamentali principj e nelle
verità più alte non poneva dubbio, e quanto a' casi particolari li stima
probabili, non ugualmente, sì convarietà di gradi; e al probabile opponeva quel
ch ' è improbabile affatto. Ecco le sue parole: Vorrei che fosse ben chiaro il
nostro pensare; chè noi non siamo già di quelli il cui animo si crede aggirato
sempre in errori, e senz' alcun che da tenere: che sarebbe mai questa mente, o
questa vita piuttosto, negata ogni ragione, non solo del disputare, ma del
vivere altresì? Noi invece, come dagli altri si dicono certe alcune cose e
alcune incerte, così noi, dissenziendo da essi, diciamo probabili alcune e
alcune improbabili. (De off.) Qui si scorge, che il dubbio di Cicerone non cade
punto sulla ragione umana e sulla vita, o sull' essere proprio, ma sul domma fisico
e morale del PORTICO. E nel libro delle Leggi dice” « Preghiamo poi, che questa
Accademia nuova di Arcesilao e di Carneade, perturbatrice di tutto, si cheti;
perchè se darà dentro a tali dottrine, che ci sembrano ordinate e composte con
assai aggiustatezza, recherà troppo rovina. Io bensì desidero placarla, ma
cacciarla non oso.La qual conclusione mostra, ch'ei non rigetta in tutto i
dubbj, ma dov'essi erano cattivi. E più si discosta dagl’ACCADEMIA allor chè
dice. Quasi in tutte le cose, ma nelle fisiche più che mai, saprei dire
piuttosto quel che non è, che quel che è. (De nat. Deor.) Nel vivere nostro, e
massime a quei tempi fra tanto diluvio d'opinioni non monta già poco il sapere
quel ch’una cosa non è; significa sapere che il divino non è come noi, che il
divino o l'animo nostro non sono CORPO, che il fine dell'uomo non è la voluttà;
negazioni pregne d'affermazione, implicita si ma certa. E chi vuole stimare
quanto merita il ritegno di CICERONE, anc' allora ch ' ei parla di probabilità
negli officj particolari -- non mai nella legge suprema -- pensi l'assurdità
del panteismo e del dualismo antichi, le finzioni rozze di quella fisica,
l'incertezza della morale, anche in Platone e Aristotile; e s'accorgerà, che se
Socrate meritò lode dicendo, contro l’arroganza de' sofisti. Io so di non
sapere, merita pur lode il nostro CICERONE d'averlo imitato in tanta corruzione
di filosofia e di costumi. E quindi ei non ha dubbiezze contro L’ORTO. Dice a
loro: che la voluttà sia il nostro fine, voi non lo direste in Senato; nè la
voluttà va messa tra le virtù com'una meretrice in un'assemblea di matrone. (De
fin.) La natura ci ha fatti per qualcosa di meglio che non i piaceri del senso.
Il piacere stesso non cato per sè, ma per noi (De fin.). Il dovere ha da
cercarsi per sè stesso. E la dottrina dell’ORTO, se consentanea a sè, non
lascia luogo al dorere. (De off. ) Ma questo sceverare il vero dal falso, con
che 01. Jo (dine interno di principj si faceva? Già ho detto, che Cicerone
ritorna al conosci te stesso di Socrate, cioè al fondamento della coscienza. E
ho accennato, che ivi egli trova l'uomo non solitario, ma in relazione conl
divino, con gli altri uomini e col mondo. Però esclama: « In questa
magnificenza di cose, in questo cospetto e conoscimento della natura, o dèi
immortali, oh quanto conoscerà sè stesso l’uomo; il che c'impose Apollo Pizio! (De
off.) Per via della coscienza, s'accorse Cicerone in modo chiarissimo di tre
verità: prima, che l'uomo sta sopra l'altre cose; poi, che la ragione dell'uomo
prevale al senso e al corpo di lui; infine, che questa ragione ci mostra il
divino con le sue leggi. Viene da ciò la definizione della sapienza o della
filosofia nel II libro degli Officj (S2): scienza delle cose divine ed umane e
delle cagioni di queste; definizione più determinata che non l'altra ne' libri
Tuscolani (V. 3), dov'ei parla storicamente. E s'arguisce però, che Cicerone
stringe la scienza prima, secondo la universalità di essa, nel conoscimento
ragionato del divino e dell'uomo e de’sommi principj. CICERONE capisce, come
nella scienza si désse un ordinamento necessario; e diceva: « È malagevole
sapere alcun che in filosofia, chi non ne sappia o il più o il tutto. » (Tusc.
II, 1. ) Cicerone, come Socrate, ebbe una profonda coscienza della ragione.
Bisogna riflettere a noi stessi; in noi tro viamo la ragione, che ci distingue
da' bruti e dalle al tre cose; nella ragione troviamo i giudizj spontanei,
naturali, evidenti, universali. Questi fa d'uopo seguire. Ecco il principio
ordinatore della scienza e della virtù. Il tempo, scrive Cicerone, cancella i
capricci delle 110 stre opinioni, ma conferma i giudizj della natura. Opinionum
enim commenta delet dies, naturæ judicia con firmat (De nat. Deor.). Ma questi
giudizi erano avviluppati in una moltitudine di sistemi. Però, quanto alla
teorica dell'essere, Cicerone sta contento a poco. Chi potrebbe mai condannarlo
d'insipienza? Egli non si dà pensiero nella fisica nè de quattro elementi, nè
del quinto d'Aristotile, nè della materia o della forma. Le sue indagini hanno
per fine la esistenza e natura della divinità, le relazioni di questa col mondo
e l'immortalità dell'anima umana (Ritter). Quanto alla divinità, egli non ne
dubita punto, perchè sentiva nella ragione propria un che divino, la eterna
legge della giustizia (De leg.). Ma intorno alla natura di Dio non afferma gran
cosa. Del metodo di lui, su tali materie, porg' esempio il libro De natura
Deorum. Ivi disputano insieme un epicureo, uno stoico e un accademico.
L'accademico nega il dio animale degli Stoici, e termina dicendo: « Questo io
diceva, non perchè voglia negare la natura divina, ma per mostrare quant'ella
sia oscura e piena d'intrigate difficoltà. » Lo stoico poi combatte l '
epicureo. Cicerone, che si tiene da parte e non entra nel dialogo, che cosa
conclude? E' dice: la disputazione di COTTA (Accademico) sembra a VELLEIO (Epicureo)
più vera. A me l'altra di BALBO (Stoico), più verosimile. Cicerone, adunque,
mostra con singolare finezza quanto i dubbj dell'Accademia piacessero agli
Epicurei; e però com’egli, che s'allontana da questi, s'allontani pure da
quella ragionando sul divino. Pur tuttavia non sa nulla giudicare assolutamente
sulla natura del divino stesso e solo ammette verosimiglianze. Insomma, le
dottrine certe di lui le abbiamo ne' libri morali, dove si afferma l'esistenza
della divino (fonte ll'ogni giustizia e d'ogni diritto ), la legge morale e il
libero arbitrio, e dove perciò s'approva il detto di Crisippo, ch'ogni
proposizione è vera o falsa necessariamente (De fato); le opinioni verosimili
si hanno ne' libri di FILOSOFIA NATURALE, dove apparisce dubbj sulla natura del
divino e dell'anima, e sulle relazioni del divno con l'universo, e quindi sulla
prova fisica della divinità provvidente; ne' libri logici, finalmente, su '
principj della ragione e sull'evi denza interiore non v'ha dubbio di sorta,
beusì v'ha dubbio sul criterio per giudicare la natura delle cose esteriori
percepite da ' sensi. Anche Kant pose
superiore la certezza dell'argomento morale ad ogni altra certezza. Ma Kant
celebra quell'argomento dopo aver negata la validità della ragione pura o
teorica o speculativa. Cicerone, al contrario, non la nega mai, anzi la
magnifico, e solo crede ristretta di molto la possibilità de' giudizj
accertati. Dunque Cicerone, quant'alle dottrine supreme, e ch'egli poteva
conoscere fra l'ombre del Paganesimo sempre più fitte, ammette la verità e la
certezza; ma nel determinare più specificamente quelle verità pone la
verisimiglianza. In ciò solo fu accademico; e non pienamente nem men qui, come
avvertii già innanzi. Pare ch'egli cadesse nel dualismo, opponendo la necessità
della materia alla libertà divina; e che cadesse nel semi-panteismo, facendo
divina la nostra ragione. Il qual ultimo punto si raccoglie da più luoghi; ma
più da queste parole. Le altre parti, onde si compone l'uomo, fragili e
caduche, le prese da generazione mortale. Ma l'animo è generato dal divino (De
off.), e ammonisce di rammentare nel giuramento, che chiamiamo in testimone il
divino, « cioè, com'io penso (dice Cicerone) la mente propria, di cui non détte
il divino all ' uomo nulla di più divino. » Se non che, si vede la temperanza
dell'affermare in quello ut opinor; tant'era l' ecclissamento delle principali
verità sul finire del Paganesimo! Quant'alla teorica del conoscimento, CICERONE
distingue l'intelletto dal SENSO. Lo distingue tanto, che come Platone e
Aristotile, trovando un'immagine del divino nella mente nostra, la identifica con
esso. Anzi nel testimonio del SENSO non pone più autorità ch ' una
verisimiglianza, il che procedeva dal dualismo, secondo il quale il divino e la
mente son divisi dal resto. E per la logica si valse d'Aristotile, come si ha
dal libretto de' Topici. È stupenda la teorica dell'operare; perchè ivi reca
Cicerone più che altrove le verità universali raccolte dal testimonio della
coscienza; e vi reca quel suo modo di escludere l'esagerazioni e di comporre le
spatse verità con un principio più alto. Qual principio? Il rispetto della
ragione, che, in quanto conosce la verità, è retta ed è regola delle nostre
operazioni. Bisogna seguire, ei dice con gli Stoici, la natura, non l '
arbitrio delle passioni. Ma la natura nostra è ragionevole; dunque ogni atto
nostro dee farsi con ragione e sottomet terle l' appetito. (De off. I, 28, 29.
) E questa ragione ha potestà di comandare, perchè sta in essa una legge
naturale ed eterna del bene. « La legge (così Cicerone) è la ragione somma,
insita nella natura, e che comanda ciò ch'è da fare, proibisce il contrario.
(De leg.) Questa legge è nata da tutti i secoli, primache fosse scritta legge
alcuna, o che qualche città fosse istituita. Questa legge viene dal divino,
perch' ell ' è divina; e chi non ammette il divino, non può ammettere la legge
eterna e naturale. La legge è la ragione
divina partecipata a noi; e poich' è comune la retta ragione, e la comunanza di
questa è società, però noi siamo primamente consociati coll divino. E poich'
ell' è comune a tutti gli uomini, noi in secondo luogo formiamo la società del
genere umano « e tutti obbediamo a que st' ordine celeste, e alla mente divina,
e a Dio sovrap potente » (parent huic celesti descriptioni, mentique divinæ et
præpotenti divino. . Avendo questa legge divina nell'anima « tutti gli uomini
(soli essi fra gli altri animali) han qualche notizia del divino, nè v'ha gente
sì fiera che, ignorando qual divino adorare, pur non sappia che ve n'è uno. Noi
dunque siam nati alla giustizia; e il gius non è costituito per opinione, ma
per natura. Sì, per natura, giacchè siam tutti simili per la ragione, e ciascun
di noi si definisce com’uomo, e la mente di ciascuno « è diversa in dottrina,
ma nella facoltà del sapere è uguale. Dalla legge si genera il dovere, che va
quindi cer cato per sè stesso, come sudditi alla retta ragione, ne vi può
essere alcuna virtù se non si cerchi per sè, ma per la voluttà o per l'utilità.
(De off.) Come la ragione guida ogni atto umano, così la retta ragione reca in
ogni atto un officio. Talchè, dice il grand’uomo, « nè in cose pubbliche, nè in
private, nè in forensi, nè in domestiche, nè se tu operi teco stesso alcun che,
nè Storia della Filosofia. 25 se pattuisci con altrui; non v ' ha momento di
vita che possa mancare di qualch 'officio; e nell'adempirlo è tutta l'onestà,
nel trascurarlo la turpitudine. » (De off.) Nell'adempire gli officj stanno le
virtù, cioè la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La virtù,
se guendo la retta ragione che ci fa conoscere l'ordinamento naturale delle
cose, non è altro che l'osservanza dell'or dine stesso (De off. I, 4); sicchè «
nella universale so cietà son varj i gradi degli officj; onde si può sapere ciò
che si conviene a ciascuno; e quello che si dee prima agli dèi immortali, poi
alla patria, poi a' congiunti, infine di grado in grado agli altri. » (De off.)
Ma tant'è vero, che tutto ciò si vuol fare per l'autorità della legge eterna in
sè, e per la bellezza del dovere, che certe cose turpi non le giustifica
nemmeno l'amore di patria. (De off.) Egli distingueva poi l'utile apparente
dalla virtù: ma l'utile vero, diceva star sempre insieme con l'onestà; e quand'
apparisce che vi sia contrasto, è turpe eziandio di star a pensare sulla scelta.
(De off..) L'utilità è l'effetto, non il fine della virtù. (De amicitia) E
dalla virtù nasce l'onestà (che in latino ha senso d'onorabilità ), anche se
niuno la conoscesse: « etiam si a nullo lauda retur, natura esset laudabile. »
(De off.) Giacchè la virtù reca con sè il decoro, ch'è come la bellezza: «
l'uno viene dall' animo onesto, l'altra dalla sanità del corpo (De off.); e
come il decoro de' poeti è la convenienza delle parole col significato, così il
decoro della onestà è la convenienza con la natura. » (Ib. 28. ) Però, come i
Greci dicevano o" te uovoy (yóv to 2026, il solo buono è bello, così
Cicerone (come romano) muta il bello nel concetto d'onorabile, e dice: quod
honestum sit, id solum bonum esse: onorabile è solamente ciò ch ' è buono. (Paradox.
I, Osservazione del Ritter. ) Dalla legge eterna, che genera il dovere e la
virtù. nascono le leggi positive; talchè l'esistenza di Dio è il proemio di
tutte le leggi (habes legis proemium, De leg.). « È stoltissima cosa (segue
Cicerone contro l’Orto) che credasi giusto tutto ciò ch'è negl'istituti e nelle
leggi de' popoli. E che? dunque, anco le leggi de'tiranni?... Ma v'ha un unico
gius, da cui è unita la società degli uomini, e cui stabilì un'unica legge ch'è
la retta ragione di comandare e di proibire: e chi la ignora, è ingiusto, o
ch'ella sia scritta o no. Che se la giustizia è solo l'obbedienza a leggi
scritte e agl'istituti de' popoli; e se, come dicono coloro, tutto è da
misurare con la utilità, trascurerà le leggi e le infrangerà se può chi lo
creda fruttuoso. Così non v'ha più giustizia se non v'ha legge naturale, e ciò
che per utilità è stabilito, da un'altra utilità vien tolto via. Anzi, se da
natura non si conferma il giure, cessano tutte le virtù. » (De leg. I, 15. ) La
legge naturale ha da regolare il diritto pub blico, quello delle genti e il
privato; e il filosofo nostro dà precetti santi sulle pene, sulla guerra, sui
trattati. sui contratti e va' discorrendo. Così, dovrebb' essergli più mite il
giudizio degli stranieri, a legger ciò ch'ei dice della Repubblica romana: dopo
averne narrato l'umanità ne’secoli primi, aggiunge che questa diminuì a poco a
poco, e dopo le vittorie Sillane cessò; e quindi esclama: jure igitur plectimur
« a ragione dunque siamo puniti. » De off. II, 8. ) E quella pena noi abbiamo
scontata per se coli. De' pubblici reggimenti loda il misto, per gli stessi
argomenti d'Aristotile e con l'esempio di Roma. (De rep.) Che fa adunque la
filosofia di Cicerone? Essa gli donò (com’ei ripete più volte) copia e
splendore e, col crescere degli anni, efficace brevità d'eloquenza; gli dettò
que' Dialoghi di metafisica, dov'hai il fiore de sistemi greci, eletti e
temperati; que' libri rettorici, che sono un codice dell'arte per comune
giudizio; e que' libri morali degli Officj, delle Leggi e della Repubblica,
dove al me todo sperimentale dello Stagirita è unita la contempla zione
platonica e la severità stoica, senza i loro eccessi. Però, quand' io sento uno
storico illustre' scusarsi del l'aver troppo parlato di Cicerone perchè in lui
non v'ha troppo di nuovo, prego Dio che la scienza ritorni alla natura, e, più
che dell'insolito, sia desiderosa del vero. La giurisprudenza è scienza
filosofica, perché riguarda gli alti umani o personali. La giurisprudenza
positiva non altro fa se non appli care il diritto naturale. Si cerca, quindi,
lo svolgimento della giurispru denza romana e quanto alle forme logiche, e
quanto alla materia. Quattro età del gius romano. Prima età: consuetudini. È
difficile determinare qual parte avesse la civiltà, e quindi la scienza, in
que' primi germi del diritto. Ma vestigi di sapienza ve n'ba. Che cosa abbia di
vero e di falso la tradizione sulle dodici tavole. La materia di esse certo è
romana. Probabilmente la forma logica loro è di Ermodoro Efesio. Seconda età:
si pubblica il segreto delle azioni. La giurisprudenza, perciò, viene alla
gioventù dalla puerizia. Ma crebbe in modo segnalato allorché, sul cadere del
sesto secolo di Roma, si propaga ivi la filosofia. Il settimo se colo è quello
di Cicerone. Si prova con l'autorità di Cicerone, che allora si lero a grande
stato la giurisprudenza per lo studio della filosofia. Allora si conceve l'idea
d'un codice -- idea che vuol abito filosofico delle universalita. Terza età: la
signoria de’ Romani, dilatandosi a tutta Italia, fa pos sibili le scienze.
Cittadinanza romana a tutti gl 'I taliani. Gius italico che da il dominio
quiritario, e il diritto de’ comizii anche per deputati ec. Colonie romane per
tutta Italia. Si determina bene il concetto del paese italico. Gius equo e
buono. Altra cagione della fiorente giurisprudenza; giureconsulti, per lo più,
non sono causidici. Un'altra: l'emulazione in filosofia con gl’oratori. Cenno
su’ principali giureconsul ti. Loro virtù. Com'apparisca dagl’autori, ch’essi
citado ne' frammenti, lo studio loro ne’ poeti, negli oratori e ne ' filosofi.
Si paragona que’ giure consulti a' matematici per tre ragioni. Vigore delle
conseguenze. Cura nel l'evitare contraddizioni. Metodo induttivo e deduttivo.
L'efficacia della filosofia non si ristringe alla forma logica. Passa alla
materia. Tale influsso non apparisce solo da prove particolari, ma più ancora
dalla universale conformità di quelle dottrine alle leggi del pensiero e (salvo
qualch'errore di tempi ) alla natura umana. Nozioni della giurisprudenza, e
perchè i giureconsulti la definissero come la filosofia morale. Distingueno la
scienza del diritto dall'arte. Però s'elevano al concetto della filosofia vera,
rigettando gli eccessi: la speculazione de’ giureconsulti è contenuta nel vero
da' dettami di senso comune e dal fine pratico. Distinzione del diritto in jus
naturale, ius gentium et ius civi. Si
mostra ch'a torto i giureconsulti vennero ripresi sul concetto de’ diritti
naturali. Non accettabile, quanto alla servitù, la nozione del gius civile. Ma
i giureconsulti ROMANI diceno la servitù non secondo il gius naturale, e riconosceno
un fatto. Come la parola “ius” non esclude l'idea d'un diritto eterno. E si
distingue dalla espressione “legge.” Poi, si ha ne’ giureconsulti ROMANI l'idea
precisa del diritto eterno e del diritto naturale. L'efficacia della filosofia
si mostra nella giurisprudenza per via del diritto onorario, per via del
diritto ricevuto, e per l'interpretazione de ' giureconsulti. Molte novilà
introdotte dal gius ricevuto. La virtù e la vera FILOSOFIA de' giureconsulti ROMANI
si fa sentire per fino nel loro stile. Si reca un saggio della loro sapienza e
brevità elegante. Dalla esposizione delle dottrine di Tullio e de'
giureconsulti romani apparisce che l'epoca quarta cerca la comprensione finale.
Parlato di Cicerone, è da parlare de' giureconsulti romani. La giurisprudenza è
una scienza che e una parte della FILOSOFIA perchè risguarda gli atti umani o
personali. La giurisprudenza procede dalla FILOSOFIA MORALE, che abbraccia la
scienza de' doveri e quella de' diritti naturali. La giurisprudenza POSITIVA
non altro fa che determi nare nella varietà de' casi particolari le immutabili
generalità del diritto eterno. Però, se LA FILOSOFIA entra in tutte le scienze
com'ordinamento di concetti e di giudizj, entra poi nella GIURISPRUDENZA ROMANA,
non solo com'ordine logicale, ma eziandio come scienza dell'uomo e delle
ragioni supreme. Avrò dunque a cercare lo svolgimento di LA GIURISRPUDENZA
ROMANA, per l'impulso di LA FILOSOFIA ROMANA, nel doppio aspetto della FORMA
LOGICA e della materia. La storia di quella e distinta bene dall' Hugo in
quattro età nella sua “Histoire du Droit Romaine.” La prima va dall'origine di
ROMA fino a le XII tavole, cioè fino alla repubblica. La seconda fino a CICERONE.
La terza fino ad OTTAVIANO. Se vero, oltre i due secoli dell'èra volgare. La quarta eta, fino a GIUSTINIANO. Età di
fanciullezza, di gioventù, di virilità, e di vecchiaia. Il giureconsulto
Pomponio c'insegna (Fr. 2. D. De Or. Juris) che Roma, ne' primi tempi, si regge
SENZA LEGGE nè diritto stabile -- cioè per CONSUETUDINE. La CONSUDETUDINE forma,
dice Forti (“Istituzioni Civili”), il diritto privato con l'autorità degli
esempi, cioè de' fatti ripetuti, e forma con gli accordi de'potenti il diritto
pubblico. Così il potere assoluto del padre, del marito e del padroni è da'
giureconsulti risguardato sempre per CONSUETUDINARIO, ed anche l'uso delle
clientele. Quanta parte ha la civiltà, e con la civiltà la scienza, in
que'primi rudimenti del diritto romano è difficile a definire in antichità si
remota e perduti dalle guerre i documenti etruschi. Della Magna Grecia restano
scritti, perchè le serba con la lingua loro la stirpe greca. Ma de’ LATINI
PRISCHI e dell'Etruria non abbiamo più se non epigrafi tuttora ignote. Ogni
lingua e schiatta si confusero nell'unità romana. Certo è, tuttavia, che, almeno
gl’etruschi sono molto civili. Sembra non si possa dubitare che il sangue loro
si mescolasse nel popolo di Roma -- benchè l'Hugo lo nega. Ma LUCIO FLORO, parlando
della guerra sociale, dice chiaro. Quantunque la chiamiamo guerra “sociale” a
diminuirne l'odiosità. pure, se stiamo al vero, quella e guerra *civile* -- giacche
il popolo romano, avendo mescolato insieme gl’etruschi, i latini e i sabini, e
traendo da tutti un sangue solo – “unum ex omnibus sanguinem ducat” -- , è di
più membri un corpo e di tutti è una unità (Rer. Rom.) Lerminier nella sua “Philosophie
du Droit” riscontra con molto acume in VIRGILIO la prima origine de' tre
popoli, in Virgilio studiosissimo delle memorie antiche. Lodando l'agricoltura,
VIRGILIO dice cosi. Questa vita tennero i vecchi Sabini, questa Remo e il fratello.
Così crebbe la forte Etruria. In tal modo si fa la bellissima di tutti
gl'imperi, Roma; e una, si circonda d'un muro i sette colli (Georgiche). Fatto
è che a taluno par vedere i *tre* popoli nelle tre tribù del primo popolo
romano, rammentate da Livio – TRIBU I: i Rannesi o Latini, -- TRIBU II: i Tarsi
o Sabini, e TRIBU III: i Luceri o Etruschi (Warnkoenig, “Histoire du Droit Romaine”).
Momen (Storia Romana) nega tal mescolanza. Ma Momsen non da le prove.
Probabile, a ogni modo, che quel nuovo comune di Roma. sorto fra ’comuni vicini,
si mescolasse pure di genti vicine. O si conceda dunque con Niebuhr la
preminenza agl’etruschi, o concedasi a’ latini con l’Hugo, un in dirizzo nelle
cose romane lo dettero i primi – gl’etruschi. Ciò spiega, come in tanta
rozzezza di popolo guerriero e racco gliticcio come il popolo latino LATINO DEL
LAZIO si possede un gius pontificio, e formule sacerdotali e simboli segreti.
Questo io dico per mostrare che le prime consuetudini ed istituzioni hanno
qualche ragione di civiltà, e riuscirono buon fondamento alla giurisprudenza
perfetta. Però, fin dalla prima età, si scorge in Roma la mirabile distinzione
da’magistrati (magistratus populi romani) che stabilivano il diritto, da'
giudici (judex, arbiter ) che giudicavano del fatto (Hugo) -- distinzione che a
poco a poco détte occasione al gius onorario. È noto che il reggimento di Roma
sott’i re e, più, ne' principj della repubblica, e degl’OTTIMATI, cioè, aristocratico.
Indi la opposizione civile dei PATRIZI colla plebe per avere un gius equo -- opposizione
che, divenuta incivile o violenta, rovina la repubblica, come la prima ne forma
la grandezza. La PLEBE dimanda leggi scritte per contenere l'arbitrio de' PATRIZI,
e si promulga la legge di le XII tavole. Narra il giureconsulto Pomponio, che
queste si raccolsero in Grecia, interprete d'esse l'efesio Ermodoro (Fr. 4, D.
De Orig. Juris.). Certamente, PLINIO il vecchio (“Hist. Nat.”) rammenta come
serbata fino a lui la statua fatta per decreto a questo Ermodoro. Talchè la
tradizione non pare favolosa in tutto. Ma è certo altresì che in le XII Tavole,
per quanto ne conosciamo, non si ha traccia del diritto che non e romano.
L’essenza – l’essenziale -- giudizj, patria potestà e connubio, eredità e
tutele, dominio e possesso, diritto pubblico e diritto sacro -- e cosa tutta
romana, come dice Vico, e ormai ripetono i più dotti stranieri come Warnkoenig.
Ma io credo abbisognasse l'opera di quel greco erudito per meditare questa o
quella vecchia CONSUETUDINE, e RIDURLA A CONCETTI determinati ed a’lor capi
principali, ufficio di riflessione addestrata. Nè ciò avrebber saputo I ROMANI,
dati all'armi anzichè agli studj. Ecco
il per chè quella primitiva sapienza, logicamente specificata e distinta d’Ermodoro,
trae in ammirazione Tullio. CICERONE scrive ne' libri “De Oratore”. Se ne
adirino pur tutti, io dirò quel che sento: a me, il solo libricciuolo di le XII
tavole, par superi (se tu guardi a' fonti e a'capi delle leggi) le biblioteche
de' filosofi tutti nel peso del l'autorità e nella copia dell'utilità. Quanto
prevalessero in prudenza i nostri maggiori a ogni altra gente, intenderà facile
chi le nostre leggi romane paragoni a quelle di Licurgo, di Dracone e di
Solone. È incredibile, di fatto, quant'ogni altro diritto civile, salvo il
nostro romano, sia in colto e quasi ridicolo. (De Or.) Le quali parole
attestano tre cose: l'antichissima civiltà di quelle genti che formano Roma, e
che vi recano le proprie tradizioni, benchè si dessero, poi, a vita agreste e
guerriera; la falsità che il gius civile romano procede ài Grecia ne' suoi
particolari; e come la perfezione della giurisprudenza si svolge da principj
non rozzi ne poco pensati. I ROMANNO danno la sostanza, i Greci probabilmente LA MERA FORMA LOGICA, per GENERE E SPECIE – cioè,
ordinamento di codice. Da le XII tavole nasce la necessità d'interpretarle per
disputare in giudizio, e di avere azioni utili a domandare la loro
applicazione. Di qui, come dice Pomponio venne il diritto civile non scritto o
l'autorità dei prudenti, e le azioni delle leggi (“legis actiones”). Ma tutto
ciò e un SEGRETO de' pontefici. Pubblicato il segreto nella seconda età, la
libera giurisprudenza passa dallo stato infantile alla gioventù. Ma quando mai accadde
tal cosa in modo più segnalato? A Roma si propaga il filosofare. Il secolo
posteriore è appunto il secolo di CICERONE. Or bene, la giurisprudenza,
cresciuta lentamente crebbe rapidamente. Allora proprio noi riscontriamo i
giureconsulti studiosi della filosofia e quant'alle leggi del pensiero e quanto
alla natura degl’atti umani in sè e nell' esteriori attinenze. Scrive CICERONE
la “Topica”, o logica inventrice degli argomenti a preghiera di TREBAZIO, come
si ha dal proemio di quel saggio, ov'è scritto. “Non potrei, adunque, con te,
che me ne pregavi spesso, benchè timoroso di noiarmi, come scorgevo facile, stare
in debito più a lungo, senza parer d'offendere lo stesso interprete del
diritto. Sicchè queste cose, non avendo libri con me, scrivo a memoria nella
mia navigazione, e dopo il viaggio ti ho mandate.” Il qual saggio è notevole
molto, perchè ogni precetto è confortato da esempi di giurisprudenza. E di SERVIO
SULPIZIO, primo in autorità tra' giureconsulti di que' tempi e solo studiato
da' giure consulti posteriori, ecco che scrive CICERONE, amico di lui. “Si
stima, o BRUTO, che grand'uso del gius civile s'avesse da SCEVOLA e da molt'
altri, ma l'arte da que st' unico, cioè da SULPIZIO -- al che non sarebbe giunta in lui la scienza
del giure, s'e' non avesse imparato quell'arte che insegna spartire le materie
composte, esplicare con le definizioni l'ascose, chiarire con le
interpretazioni l'oscure; e così a veder prima ben chiaro le cose ambigue, poi
a distinguerle, e ad avere in fine la regola per separare il vero dal falso, le
conseguenze diritte dalle contrarie. Questi adunque reca tal arte (massima di
tutte l'arti ), quasi luce in tutto ciò che dagli altri si rispondeva o si
faceva confusamente. (De CI. Orat.) Con le quali parole mostra CICERONE la
forma di scienza che si prese dal diritto in virtù della LOGICA. E la FORMA
scientifica, ch'è abito di riflessione interiore, leva le menti alle
generalità, senza cui, come non istà scienza nessuna, così nemmeno la scienza
del diritto. E il segnale n'è questo; che al termine dell'età seconda, cioè sul
fiorire della filosofia a Roma, GIULIO CESARE e POMPEO ebber disegno d'un
codice; disegno, che mostra l’uso e la stima degli universali astratti da ogni
caso particolare, ordinati poi secondo GENERI E SPECIE -- giacchè un codice val
quanto in istoria naturale un ordinamento PER CLASSI. Pare che SERVIO SULPIZIO effettuasse
un alcun che di somigliante a impulso di Cicerone, il quale alla sua volta ne'
libri delle leggi mostra un saggio di codice pel diritto pubblico, e al
trettanto promise pel diritto privato. Nè qui entro in disputa fra due scuole
alemanne, l'una che, con Savigny, sostiene il danno de’codici. Laltra che ne
difende l'utilità. Dico a ogni modo (nè si contrasta ) che un codice non si fa
senz'abito di speculazioni filosofiche. L'averlo pensato in Roma e tentato a
quel tempo, chia risce la efficacia loro nella giurisprudenza. Essa pervenne a
compimento nella terza età, cioè ne' primi due secoli e mezzo dell'impero. Il
dilatarsi del dominio romano a tutta Italia prepara il campo alla filosofia. I
Romani, sentendosi non più solo romani, ma italiani e uomini, la loro coscienza
si chiarì e s'arricchì, e l'intelletto loro medito le verità universali. Di
questo fatto non v' ha dubbio di sorta. Dopo la guerra sociale, per LA LEGGE
PLAUZIA e LA LEGGE GIULIA DE CIVITATE SOCIORUM e data, come nota Haubold nella
sua “Tavola cronologica per servire alla St. del Diritto”, a tutte le città
italiche CITTADINANZA ROMANA -- eccetto i Lucani e i Sanniti. Poi consegueno la
cittadinanza i galli oltrepò, conseguíta prima da'Galli cispadani. La ottenne
tutta perciò la Gallia cisalpina. (Framm. L. de Gallia Cisalpina). In tal modo,
come scrive Savigny, dopo la guerra italica i cittadini d'Italia divennero
parte del popolo sovrano (St. del Dir. rom). Questo gius italico da dominio
quiritario, o dominio solennemente e pie namente assicurato, immunità da tutte
l'imposte dirette, libero governo municipale delle città italiane (ivi),
diritto d'intervenire a'comizj o di mandarvi deputati. Talchè l'Italia, a '
tempi romani, con l'unità politica suprema serbò le unità politiche secondarie,
che si chiamavano socio confederati. E questo accadde perchè i romani hanno già
fatto l'unità naturale della nazione col mescolamento de’ sangui, spargendo
ovunque le colonie (com'osserva Forti), nè per sei secoli ne mandaron mai fuori
d'Italia. (Ist. Civ.). L'Italia, dice Hugo, non si considera mai una provincia;
chè le provincie furono soggette a magistrati non propri, non compagne ma
suddite (Hist. du Dr. Rom..) I romani, allora, si levarono con la mente
all'unità naturale del territorio, come vediamo ne' Digesti. Al Fr. 99, $ 1 de
Verborum significatione è scritto. Dobbiam credere provincie continue le unite
all'Italia, come la Gallia cisalpine. Ma e la provincia di Sicilia più si ha da
tenere per continua, essendo separata d'Italia da piccolo stretto. “Continentes
provincias accipere debemus eas, quæ Italiæ junctæ sunt, ut puta Galliam: sed
et provinciam Siciliam magis inter continentes accipere eas oportet, quæ modico
freto Italia dividitur” Ulpiano. E al Fr. 9, D. de Judiciis et ubi etc., si
dice.Le isole d'Italia son parte d'Italia e di ciascuna provincia. “Insulæ
Italiæ pars Italiæ sunt et cuiusque provincie.” A questo concetto sì pieno
vennero i romani tra gli ultimi tempi della repubblica e i primi del PRINCIPATO,
cioè tra la prima e la seconda età. Ecco il perchè la giurisprudenza romana,
con l'aiuto della filosofia, potè sorgere a tant'altezza. Si aggiunga poi, che
le sevizie de' principi cadevano in Roma su'patrizi più sospetti, ma quel
reggimento temperavano istituti repubblicani e ordini civili equi. Se no, come
dice Romagnosi, non si capirebbe il perchè in un governo da turchi uscissero
mai tanto insigni se natusconsulti e le belle costituzioni de' principi; e come
ALESSANDRO SEVERO ha un consiglio di XVI sapienti, tra cui i più chiari
giureconsulti, FABIO cioè, Sabino, Ulpiano, Paolo, Pomponio, Modestino e altri.
(Ind. e Fattori dell'incivilimento. P. 2, C. 1, § 1-5. ). E tanto è vero, che la notizia del “gius equo”
e buono splendesse viva nelle menti romane, che lo strapazzo delle provincie, finita
la guerra civile, non e punto legale, anzi contr'alle leggi; perchè, secondo le
costituzioni come dice Warnkoenig, le provincie stano bene, le imposte sono
lievi, lo stato pacifico, molto dell'amministrazione in mano di quelle (il che
scusa in parte il popolo romano); ma infierivano i governatori. Popolo e senato
li minacciavano con le leggi repetundarum, tornate vane per corruzione
de'giudizj. (Hist. du Dr. Rom.) Tali cagioni principalmente formarono la
sapienza de' giureconsulti romani. Inoltre, essi per lo più non eran causidici,
ma scioglievano questioni di diritto in generale. E ciò indica sempre più e la
natura scientifica del ministero loro, e perchè la scienza, libera da interessi
particolari, progredisse continuamente. (Cic., De CI. Orat.). Poi, l'emulazione
degli oratori che piegavano il gius alla varietà de’lor fini, co' giureconsulti
che ne volevano serbare la severità, incita questi a gareggiare in isplendore
di filosofia, e ad interpretare il diritto co' placiti del senso comune. Così
da una disputa tra l'oratore CRASSO -- contemporaneo al padre di Cicerone -- e MUZIO
SCEVOLA giureconsulto sull'interpretare i testamenti o a rigore di parola, o
secondo la probabile volontà del testatore, nacque la giurisprudenza in
quest'ultimo senso, ripresa da Forti, ma e forse meglio approvata da Cuiacio.
Infine, l'esercitarsi tale ufficio da’giureconsulti senz'ombra di lucro, la
illustre loro condizione e l'affetto all'antiche leggi e consuetudini di Roma,
indica il perchè tennero essi per lo più l'austerità della morale del Portico,
che ci chiarisce alla sua volta il decoro, l’equità e sottilità della loro
scienza; e tutto insieme poi spiega la nobiltà di vita de' più tra loro, e n'è
spiegato. Le poche notizie che n’abbiamo ce li fanno apparire la più parte
uomini onorandi. Nomino dapprima QUINTO MUZIO SCEVOLA, assassinato a’tempi di MARIO.
Dice POMPONIO che Muzio costitue primo il decreto civile, disponendolo per capi
di materie (“generatim”) in XVIII libri. SERVIO SULPIZIO riduce il diritto a
stato di scienza. SULPIZIO e prima oratore grande, poi giureconsulto per un rim
provero che gli fa MUZIO SCEVOLA d'ignorare le leggi del proprio paese, egli
oratore e patrizio. Sostenne la repubblica. Avversa i Triumviri. La repubblica
gli alza una statua. Abbiamo di que' tempi ALFENO VARO e OFELIO, ambidue
discepoli di SERVIO, e TREBAZIO (a cui la Logica di Cicerone) e un altro MUZIO
SCEVOLA – PONTIFICE -- e CASCELLIO. Muzio non accetta da Ottaviano il consolato.
Cascellio non volle mai comporre una formola secondo le leggi de' Triumviri; e
a chi lo consiglia si temperasse rispondeva, “Son vecchio e senza figliuoli.” LABEONE,
il cui padre e morto a Filippi, rifiuta il consolato da OTTAVIANO anch'egli, e
serba spiriti antichi. Dice Pomponio: Ageio Capitoni si détte moltissimo agli
studj. Divide l'anno in modo che sta sei mesi a Roma co' discepoli (“cum
studiosis”), e sei mesi lontano per iscrivere libri. Così lascia XL volumi, che
i più s'usano ancora. Ateio CAPITONE (segue Pomponio) persevere nell'antico. Ma
LABEONE, che molto medita nell'altre parti della sapienza (“qui et in cæteris
sapientiæ operam dederat”), per valore d'ingegno e per fidanza di dottrina
comincia innovare molto” (Fr., D. De Or. Jur. ). I cinque giureconsulti più
celebri e più recenti (lasciando gli altri) sono: EMILIO PAPINIANO, PAOLO,
GAIO, ULPIANO, E MODESTINO. PAPINIANO, familiare di SETTIMIO SEVERO e
principale nel governo, stette per GETA contro il suo fratello CARACALLA, e
volendo costui una difesa legale del fratricidio. PAPINAINO la nega e venne
ucciso. Scrive “I fatti,” che le dono la pietà, il buon nome e il pudore
nostro, e che, a dirlo in genere, son contro al costume, si dee tenere che noi
uomini dabbene non possiamo farli (Fr. D. De servis exportandis etc.). Gl’altri
quattro illustrano, come dice, il consiglio di ALESSANDRO SEVERO. I
giureconsulti, massime della terza età, levano a stato di scienza le loro
discipline. Ciò nacque dalla molta erudizione loro, non solo in filosofia, ma
eziandio in lettere; e se n'ha prova ne' lor libri per le citazioni da' Greci;
com'a dire Omero, Ippocrate, Platone, Demostene e Crisippo. E il primo effetto e,
come notai de' tempi di CICERONE, che la giurisprudenza prende forma logica
tanto sicura e stringente, ch'è una meraviglia. Si sa da molti e ab antico, dice
Hugo, la filosofia de' giureconsulti, ma si sa da pochi, che nessuno più di
quelli sta in confronto de’matematici per tre ragioni. Cioè per vigore di
conseguenze da principj fissi, per diligenza nell'evitare contraddizioni -- che
Gaio dimandava “inelegantia juris” -- , e pel metodo distintivo e compositivo,
induttivo e deduttivo ad un tempo -- distintivo e induttivo salendo alle specie
generali del diritto; compositivo e deduttivo traendone con brevità ed evidenza
le illazioni. Il gran Leibnitz, insigne filosofo, scrive nell' Epist. “Io
ammiro l'opera de Digesti, o, meglio, i lavori de' giureconsulti, ond' ell' è
presa. Ne vidi mai nulla che più s'accosti al pregio de matematici. O che tu
guardi all'acume degli argomenti, o a'nervi del dire. Ma questa efficacia della
filosofia non potè fermarsi all'ordine de' pensieri, dovè penetrare
nell'interno, giacchè, com'avvertii, materia della giurisprudenza son gl’atti
umani o personali, soggetto filosofico. Tal efficacia non si creda particolare
ma generale. Quindi, coloro che cercano ne'giureconsulti le traccie minute o del
Portico o d'altri sistemi, errano forte se non passano inoltre a considerare
l'opera generale della riflessione interna. È certissimo, com'avvertono gl’eruditi,
che i più de'giureconsulti tolsero dal Portico l'argomentare per analogia,
l'amore dell' etimologie, la spartizione delle materie, LA SOTTILE DIALETTICA che
conviene al foro, e molte dottrine sulla ragione dell'onesto, applicate da essi
egregiamente al gius civile. Ma l'essenziale sta in quel gran corpo, così
disposto bene secondo le leggi del pensiero, e, salvo qualch'errore de' tempi, così
con formato alla natura umana nelle regole eterne di lei e nelle relazioni
esteriori. Sicchè il gius romano serve di lume al gius de’ popoli più civili,
come si ha dal codice Napoleone: e gli Alemanni, dimenticata noi tanta gloria,
vi fanno su studj esimj e perseveranti. E perchè si chiarisca il filosofare
intimo de' giureconsulti, guardiamo la nozione, ch'e'si fanno della
giurisprudenza e della filosofia. Ulpiano nel Tit. 1 dei Digesti scrive. Dand'opera
al gius, occorre prima sapere onde ne venga il nome. “Gius” è chiamato da
giustizia. Perchè, come Celso lo define elegantemente, il gius è l'arte del
buono e dell'equo. Però siamo chiamati, con ragione, sacerdoti della giustizia.
Di fatto, professiamo la giustizia e manifestiamo la scienza del buono e
dell'equo; separando l'equo dall' iniquo, e discernendo le cose lecite dalle
contrarie; desiderosi di far buoni gl’uomini, non per timore delle pene, ma
eziandio per l'incitamento de'premj; ricercatori, se non m'inganno, di vera e
non simulata filosofia. Se la definizione della giurisprudenza si prenda qui a
rigore, ella non regge, perchè si stende a tutta la filosofia morale. Ma se
badiamo al concetto che avevano di questa gl’antichi, e al generarsi la scienza
del diritto dall'altra del dovere, ci formeremo idea chiara del come
intimamente e FILOSOFICA LA GIURISPRUDENZA ROMANA. Secondo i sistemi filosofici,
sommità di perfezione umana è LO STATO ROMANO. Talchè la morale s'ordina alla
politica. Concetto vero per l'attinenze esteriori, falso e pagano quant'
all'ultimo fine. Non faccia dunque meraviglia se i giureconsulti romani definino
il gius civile come la morale. Lo definano così, perchè, a sentimento di tutti
gl’antichi, le due scienze si mescolavano in una. Noi con più ragione le
distinguiamo, ma s'erra da chi ne dimentica l'unità superiore, ch'è la scienza
de' primi principj e dell' uomo -- dimenticanza ignota agl’antichi, che però
svolgeno razionalmente il diritto e non lo maneggiano materialmente. Notate
ancora che nel passo citato si distingue la scienza dall'arte. Se nelle
Istituzioni poi la giustizia è definita: Costante e perpetua volontà di rendere
a ciascuno il suo diritto: e se la giurisprudenza è definita; Notizia delle
cose umane e divine e scienza del giusto e dell'ingiusto, pr. e S 1, Inst. De
just. et jure, si vuol fare la stessa osservazione detta di sopra; e noto con Cuiacio,
che in tal luogo la giurisprudenza è indicata bene com' abito dell'intelletto o
scienza, e com’abito della VOLONTA, secondo l'antica filosofia. E la filosofia
la pensano essi, non senz'alta speculazione, ma contenuta nel vero da' dettami
del senso comune e dal fine pratico. Di fatto s' inalzarono all'eternità del
diritto -- come osserva Vico nella “Scienza Nuova” -- allorchè dissero: Il
tempo non muta nè scioglie i diritti: “Tempus non est modus costituendi vel
dissolvendi juris.” E, quando discernano il diritto naturale dal positive,
nello stesso tempo rigetteno gl’eccessi del Portico, come l'eguaglianza della
imputazione; finalmente derisero le stranezze, l'ipocrisie, l'avarizia di
quelle sette in età di scadimento. Così sente Ulpiano, che distingue filosofia
schietta dalla mascherata; e nel Fr. 6, § 7, D. al Tit. De his quæ in
testamento delentur, è schernito il suicidio de' filosofi per ostentazione, e
nel Fr. 1, § 4, D. de extraordinariis cognitionibus etc., dove si stabilisce gl’onorarj
delle professioni, li nega il giureconsulto a' filosofi che, vantando di
spregiare le mercedi, n'andano a caccia. I giureconsulti poi mostrno tre specie
di diritti: jus naturale, gentium, et civile; distinzione che non si vuol
confondere con l'altra più pratica in jus gentium vel naturale e in jus civile;
e chi non vi badi, tassa i giureconsulti d'errori, ch'e'non hanno. La
distinzione praticamette divario tra leggi proprie di Roma (jus civile) e
istituzioni comuni a ogni popolo non selvatico (jus gentium vel naturale). L’altra
è distinzione più speculativa e fondamentale. Ulpiano nel Tit. De just. et
jure, D. dal Fr. 2 al 6, distingue diritto pubblico da privato; e distingue il
privato in diritto naturale, che natura insegna a tutti gl’animali, come la
procreazione de’ figliuoli; in diritto delle genti, del quale, tra gl’animali, hann'
uso gl’uomini soli, come la religione verso il divino, l’obbedire a' genitori e
alla patria: in diritto civile ch'è proprio d'un popolo. Ora, s'accusa Ulpiano
d'aver confuso il diritto naturale con gl' istinti del l'animalità; ' e sì che
Piccolomini da qualche secolo fa, come Warnkoenig, nota che qui, secondo le
dottrine vere d' Aristotile, son distinti nel l'uomo i diritti che vengono
dalla natura animale, quelli che vengono dalla razionale, e gl’altri che pone
la comunanza civile. Non s'intende già che una bestia -- detta da'
giureconsulti cosa, non PERSONA – ha diritto, ma che le potenze animali
dell'uomo, in quanto appartengono all'uomo, generan diritti, come li generano
le potenze razionali. Talchè in Ulpiano si trova benissimo sceverata
l'animalità dalla razionalità. È da confessare invece, che il diritto civile si
define per quello che toglie o aggiunge al diritto naturale e delle genti; e
s'allude alla servitù ch'è contro alla natura, come si dice nel Tit. De regulis
juris. Ma tuttavia meritan lode i giureconsulti, che se non condannarono la
servitù, la dissero contraria bensì al diritto naturale, migliori di Platone e
di Aristotile. Anzi nelle Istituzioni è detto, che il gius naturale e istituito
dalla divina provvidenza, come insegna il Portico (De Jur. Nat. Gen. et Cir.);
nel qual testo il gius naturale abbraccia pur l'altro delle genti. Poi, essi
definino il gius civile qual e in fatto allora. Osservo di passaggio che il
chiarissimo Conforti nel l'annotazioni a Stahl (“Storia della Filosofia del
Diritto”, Torino) opina con altri, che i romani non avessero idea del diritto
eterno, perchè jus viene da “iubeo”, comandare; dove la parola diritto, e le
simili del francese, tedesco e inglese, hanno il concetto di rettitudine, o di
rittura alla legge eterna. Ma quel valentuomo non pensa forse al come definisce
la parola Jus Forcellini (Voc. ad V.). Gius è tutto ciò che in generale vien
costi tuito da leggi o naturali, o divine, o delle genti o civili -- Jus est
autem universim id, quod legibus constitutum est etc. Si nomina con altro nome
equità comune, equo universale, legittimo, cioè adequato alle leggi, quasi
norma e regola degli atti umani. Sicchè I ROMANI chiamano “ius” un che
costituito da una legge qua lunque. Così distingueno la legge da ciò che ne
procede, e ch’è l'EFFETO DEL SUO COMMANDO. Cicerone (Rep. et De Leg.) adopera
legge e gius in tal significato. Ma la risposta migliore si è
in quell'assioma de romani già citato: Il tempo non muta nè scioglie i
diritti; conobbero, dunque, i romani la santità del diritto fuori del tempo,
cioè nell'eternità, o nel suo fondamento assoluto. Inoltre vedemmo che il gius
civile si distingue dal naturale. Ma tornando a'giureconsulti, la loro scienza
origina il diritto onorario, di cui parla Forti se non con molta novità, certo
con più chiarezza di tutti gli altri da me esaminati. E io ritrarrò in breve la
sentenza di lui, e n'usce la prova del quanto potè la scienza dell'uomo e la
filosofia morale in tanta perfezione di gius. Ma prima dico che il gius
onorario contene gli editti del urbano e del peregrino, e quelli degli edili e
proconsoli e propretori delle provincie -- edictum provinciale. Pare che il
gius predetto, almeno in modo segnalato, principiasse per chè Cicerone nella
seconda Verrina dice. Postea quam jus prætorium constitutum est. Hugo dimostra,
contro Heinneccio, che tal diritto ha forza di legge; poichè, tra gli altri
argomenti, Cicerone non contrasta nelle Verrine che L’EDITTO DI VERRE SIA LEGGE
da tenere, ma lo accusa di averlo infranto VERRE stesso, o conformato non
secondo ragione (Hugo, Hist.). Or dunque, i pretori rendevano giustizia
ne'civili negozi, gli edili per le convenzioni de' mercati e per LA POLIZIA
DELLA CITTA. E tanto gli uni che gl’altri, quando pigliavano i magistrati,
mandano fuori un editto, ove stabilivano le forme del giudizio e LE MASSIME -- ottimo
istituto in repubblica popolare. Non mutano il gius, ne determinano
l'applicazione. Eccone gli esempi. In primo luogo, salva LA FORMA LEGALE,, si
supponga che i contraenti hanno pattuito o per inganno, o per errore, o per
timore, o per forza. Mancando la moralità dell'atto, la legge non conservavasi
uguale per tutti. Quindi i pretori statuiron una MASSIMA PER L’EFFICACIA CIVILE
DELLA MORALITA NEGL’ATTI, scuse legittime per negare agl'ingiusti la sanzione
della legge e i mezzi legali. Perchè QUESTA O QUELLA MASSIMA d'equità si
recassero ad effetto. I codici moderni han composto di questa o quella MASSIMA
le lor legge universale. Allora, dice Forti, gli editti de' magistrati sono uno
de' principali modi, per cui la filosofia venne applicata gradatamente ai
bisogni civili. Sicchè, quant'alla moralità degli atti, trovarono i magistrati
l'ECCEZIONI perpetue contro le obbligazioni per dolo, per timore, per errore,
per violenza; la restituzione in intero, i modi legali a sciogliere le dette
obbligazioni, od a ripetere ciò che pel tenore loro fosse stato pagato. In
secondo luogo, la legge, definito il diritto e ordinatane la sanzione, lascia
a'magistrati il modo d'effettuarla. Per esempio, la legge stabilice i modi
d'acquistare la proprietà, ma non i modi della sua difesa; che più torna
necessaria, quanto più divise le possessioni, e distinta la varietà
de'godimenti e diritti che si comprendono nella mozione del dominio -- onde
nacquero nuovi contratti e bisogni di nuove difese. Quind'i pretori differenziano
a capello il dominio e il possesso, e gl'interdetti che lo proteggono, e va'
discorrendo (Ist. Civ., L. I. S. 1). Le dottrine de'giureconsulti poi vennero a
formare un'altra maniera di gius -- ioè il diritto ricevuto -- “jus receptum”.
Essi, introducendo ne'contratti clausule, con cui si stipulava l'osservanza
della buona fede, costringeno i magistrati a giudicare di que'contratti, non
secondo la nude parola della legge, sì a lume di naturale onestà; come le
clausale, si lodate da CICERONE uti ne propter te, fidemre tuam captus,
fraudatusne sim; e ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione (De
Off.). I giureconsulti si dano all'interpretazione; e poi chè questa o
considera la legge in sè, o L’ATTO DELLA VOLONTA UMANA, così la filosofia di
que'sapienti gl’aiuto all’un fine con le spiegazioni delle parole e con la
definizione de'termini astratti, e col mirare alla ragione della legge stessa:
gli aiutò all’altro fine co giudizi sulla moralità dell’ATTO, e con le regole
per interpretare l'altrui volontà. Gravina così accenna le novità del gius
ricevuto. Dalle interpretazioni de' giureconsulti passate in uso, e mitiganti a
poco a poco e come di soppiatto l'asprezza della legge, sono venute le regole
di diritto, temperate dalla ragione d'equità. Nacquero da essi, l'uso dei
codicilli, l'azione del dolo, le azioni quasi tutte che chiamaron utili, perchè
procedono dall’equa e utile interpretazione, le stipulazioni aquiliane, autore
AQUILIO giureconsulto, le varie differenze delle successioni. la regola
catoniana, la sostituzione pupillare, il divieto della donazione tra marito e
moglie, e l'altro che i pupilli s'obblighino senza l'autorità del tutore. Da
essi vernero i giudizi di buona fede, le azioni rei uxorie, la querela
dell'inofficioso testamento, e infine tutto ciò che si trova citato sotto nome
di costumi, di consuetudini e di gius ricevuto (De ortu et progr. I, Civ., C. )
Tale acume di riflessione disciplinata reca i giureconsulti per fino ad un
computo di probabilità sulla vita umana quant'all' usufrutto ed agl’alimenti
(come si vede Fr. D Ad Legem Falcidiam ). Cosa notabile molto, perchè fa
supporre grand'abito d'osservazione e di giudizi astratti. La virtù e la vera
filosofia de' giureconsulti le sentiamo pur anche nel loro stile, che in mezzo
alle ampollosità di SENECA e degli altri si tien semplice e puro.. Nelle
Pandette v' ha errori di lingua, per vizio de' compilatori greci e de' copisti.
Ma specie i frammenti di Gaio e d'Ulpiano son gioielli, ammirati da' principali
maestri di latinità. Termino recando un saggio di tal sapienza ed elegante
brevità, in alcune regole di gius dall' ultimo titolo de' Digesti. I diritti
del sangue non posson finire per niuna legge civile (Fr.). Sempre nelle cose
oscure s' ha da tenere il meno. Sta in natura che le comodità d'una cosa seguan
colui che ne sente gl' incomodi. Ciò che dapprima è vizioso non si può col
tempo sanare. Nulla è più naturale che sciogliersi a quel modo ch' uno s ' è
legato. Però l ' obbligazione di parole sciogliesi con parole, e quella di nudo
consenso con altro consenso. Che si fa o si dice nel caldo dell'ira, non si
stima. Vi sia consenso d'animo, se non v' ha perseveranza. Nessuno può
trasferire altrui più diritti che non ha. Sempre nel dubbio son da preferire le
sentenze più benigne. L'erede si stima di quelle facoltà e di que' diritti che
il defunto. È proprio di quel sofisma che i Greci chiamano sorite, o
ammucchiato sillogismo, di trar la disputa, con lievissime mutazioni, da cose
evidentemente vere a evidentemente false. Quante volte l’espressione in un
discorso PARE rendere DUE sensi, prendasi quello ch'E PIU ADDATO AL DA FARE. Non
si dà benefizio per forza. Nes suno può mutare il proposito suo in altrui danno.
In ogni cosa, ma più nel gius, è da guardare all’equità. Ne’discorsi AMBIGUI è
il più da guardare all'INTENDIMENTO DI CHI LI FA. Nelle cose oscure si badi al
più verosimile, e a ciò che accade più spesso. Il timore vano non è buona scusa.
Per l'impossibile non c'è obbligo che tenga. Le cose proibite da natura non
sono convalidate da legge nessuna. Per gius di natura nessuno dee farsi più
ricco a danno altrui. Per gius civile i servi si stimano nulla. Non per diritto
naturale, secondo cui tutti gli uomini sono uguali. Quando l'impero si foggia
all'orientale, la giurisprudenza cadde in vano eccletticismo; come n'è segno “la
indigesta mole de’ digesti” e ciò accadde alla quarta età, o di vecchiezza.
Poichè abbiamo con qualche sufficienza esposto la filosofia latina di CICERONE
e de' giureconsulti, e abbiam veduto come proposito di questi e di quello
apparisca sempre l'armonia tra le speculazioni e la pratica, e, nelle
speculazioni, fuggire tutti gl’eccessi delle sette, componendone, guidati dalla
coscienza e dal senso comune, un'unità, siam chiari, mi sembra, che veramente
dopo la dialettica distintiva de' greci, tendevano I ROMANI alla comprensione
finale, e che tal è proprio la qualità prevalente in quest'epoca quarta della
filosofia. Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due
importanti ambiti della sua produzione teorica: e opere di argomento retorico;
(le opere che parlano dei segni divinatori. Se prendiamo in considerazione il
primo di questo ambito, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è
ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De
oratore, l'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una
problematica a carattere so- cio-politico, volta a definire la figura dell'oratore
perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla
scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut- to ciò che
costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la
problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato,
quanto dato per scontato: esso si confi;:ura come un vasto campo di competenza
che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso
personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi
del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio- nes
oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla
caratteristica di prendere in considerazio- ne e di sistematizzare la gran massa
delle nozioni che com- pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di
que- ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del
procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa- rossismo, come nel
De inventione, e che spesso non trova un'adeguijta giustificazione teoretica.
Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli
spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno.
9.2.1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di
Cicerone e con- densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino
a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro- vino riprodotti alcuni
aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare
è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an- tecedente
che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione
verso i segni involontari (l'im- pallidire, l'arrossire, il balbettare
dell'imputato) come indi- zi di colpevolezza. Infine compare la classica
divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi-
noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto
con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni
proposta da Cice- rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap-
pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar- gomentazione),
cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per
confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa
che si esco- gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera
probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra in"un mo- do necessario
(necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene usato il
normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio
il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che
viene depositato nel dossier dell'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a
questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa
debole (probabili- ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon-
strans). 9.2.1.1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono così
definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi
né essere pro- vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono
esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se
respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv., I, 86). Come
Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il
conseguente sono legati da una re- lazione inscindibile (cum priore necessario
posterius cohae- rere videtur, De inv., I. 86). Il rapporto di rinvio non
necessario viene poi cosi defini- to: "Probabile è poi ciò che suole
generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé
qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De
inv., I, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri:
(i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da
Aristotele attribuito peculiarmente al1'eik6s (verisimile). E infatti i primi
due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eik6s:
"Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del
giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di
generalizzazio- ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet.,
1357a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari,
era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv., 9.2 CICERONE), che non
sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al semefon aristotelico. 9.2.1.2
L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar- tizione dei
segni non necessari, accanto al credibile (credibi- le), all'iudicatum
(giudicato) e al comparabile (paragonabi- le). Se le ultime tre nozioni
appaiono distinte in base a crite- ri estrinseci (e scompariranno nelle
trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni
abbastan- za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no-
stri sensi e indica (significat) un qualcosa che sembra deri- vato dal fatto
stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può
averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più
sicura" (De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il
pallore", "la fuga", "la polvere". Si tratta, come si
vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e
generalmente non vo- lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio-
nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio- ni, come dimostra
il caso dell'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei
calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine,
vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso.
Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo- sta nel De inventione
(cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae
sono un'opera della tarda matu- rità di Cicerone, nella quale la
classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e
peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si
sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa- mente
latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati argumentatio~ Né questo
è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca,
si ricorderà L'orazione per l'uccisione di Erode, in cui Antifonte così si
esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane
l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche
dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno caratteristico
I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin- seci, in
particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti
la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia
(verisimili) e le notae propriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il
verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Pari.
or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo
particolare". Questo tipo di segno corri- sponde ali' eik6s aristotelico,
di cui ha il carattere probabili- stico e generalizzante. La nata propria rei
viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e
indica una cosa certa, co- me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si
tratta, evi- dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche
dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman- da alla nozione di
fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele il segno proprio era la
caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i
leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per
le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat- tere di necessità e
si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui
rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono,
poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali necessaria (•ea quae aliter
ac discuntur nec fieri nec probari pos- sunt"I es.: ·se ha partorito, è
stata con un uomo" probabilis (•quod !ere solet fieri aut quod in opi-
nione μositum est") es.: ·se è madre, ama suo figlio" signum
credibile indicatt.:m comparabile ("quod sub sensum aliquem cadit, et
quiddam significat, quod ex ipso .!'rofectu.m .est"I. es.: sangue , fuga ,
"pallore", "polvere" vestigia facll) non compaiono più come
sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono ur.. ruolo autonomo. Infine
viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo- ghi estrinseci"
(corrispondenti alle "prove extratecniche", titechno1) e "luoghi
intrinseci" (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1),
che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata
nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto,
accanto alle testimonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli,
gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti
onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione
orda- lica e antichissima dell'amministrazione della giustizia; tut- tavia è
anche un indizio di un continuo riaffiorare del para- digma divinatorio
all'interno dei fatti semiotici, anche quando ormai i segni si sono
completamente laicizzati. Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per
quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L'orazione per l'uccisione di
Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile
con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare
dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81;
Lanza 1979: 105). 9.2.2.1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani
sono invece trattati tra gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli
che riguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può essere
tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriae
rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è
"ciò che accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "la
gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno
corri- sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico
e generalizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova che
non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica
il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno
necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo
proprius, che riman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari-
stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere,
come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del
coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno
proprio aveva carat- tere di necessità e si definiva come quel segno che non
può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I,
12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di
fatto), dei quali vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue,
grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor- so
contraddittorio, tremore [...]. gli indizi materiali della premeditazione, le
confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Part. or., 39). Cicerone non definisce qufsto tipo di segni, se
non dicendo che si tratta di "fenomeni avvertibili con i sensi"
(ibidem), caratte- ristica condivisa anche dai signa del De inventione (I, 48),
in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor- nificio (Rhet. ad
Her., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigia f acti siano più in
relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili
(verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria
abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le
caratteristi- che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate-
goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekméria quanto dagli eik6ta.
Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (114), dove ricorrono esempi
analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come
consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica
che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre
Aristotele condannava i semefa da un punto di vista episte- mologico per la
loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico- noscerne l'efficacia qualora si
presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi
schematizzare la classificazione cicero- niana nelle Partitiones oratoriae
(cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la
retorica giudiziaria alla divina- zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si
avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente
accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una
distinzione tra aspetti che sono eminente- mente congetturali e altri aspetti
che sono invece naturali o coniectura -- I --vestigia facti osigna
verisimili& notae propriae rerum c•quod plerumque ita r11·1 es.:
·adolescenza- incllnazione alla libidine· c•quod numquam aliter fit certumque
declarat•) es.: ·tumo-fuoco· 1•sensu percipi potest") es.:
·sangue-uccisione• dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o
congettu- rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di-
vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con- gettura) e
divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole- micamente rileva (De div.,
Il, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera
diametralmente oppo- sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e
la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di- verse ed
entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi dell'indagine giudiziaria,
mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di- vinazione. In linea,
infatti, con un vasto gruppo di intellet- tuali della sua epoca, educati ai
metodi di indagine della fi- losofia greca, a fondamento razionalistico, e
contempora- neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una
distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per
lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta
come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione
dello stato ste~so; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli
elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa,
dev'essere respinta, anche per- ché non venga limitata la libertà del cittadino
romano nel suo impegno di gestione della repubblica. Cicerone affronta questi
argomenti nel De natura deo- rum, nel De fato e, soprattutto, nel De
divinatione. Que- st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e
il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie
storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni
di Cicerone contro la teoria soste- nuta da Quinto sono particolarmente
interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo
semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale
del segno. 9.2.3.1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di
Quinto, gli dei si pongono come fon- te dell'informazione e come emittenti nei
processi di comu- nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata-
ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro- cesso
comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla
divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars,
ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia- listi,
ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere),
interpretes monstrorum et fu/gurum (inter- preti dei fatti prodigiosi e dei
fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti
delle stelle), in- terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di
tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione
l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una
sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un
contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di
questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i
fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau- se ed effetti, senza
soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos
divino e costituisce il fato (heimarméne), non è conoscibile per intero da
parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità
(De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che
"può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà
mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quanto prima è accaduto" (De
div., I, 127). Questo fa sì che gli uomini, attraverso l'osservazione attenta,
colgano il mo- do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere
direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi
caratteristici (signa tame.1causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è
possibile tramandare memoria dalle con- nessioni passate, si crea un vero e
proprio codice basato sul- la iteratività. Si può schematizzare così il
processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla
iter attività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di
divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque
tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione
divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte
di questo tipo le forme di preveggenza derivan- ti da invasamento profetico,
cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico
·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri-
patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no- minati, De div.),
secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta
che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la
legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del
codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:
emittente divino - Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione
presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso
segno sono spesso diametralmente opposte (De div., II, 83); (ii) si verificano
frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un
certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio- so, ma a
ben diverse cause naturali (De div.); (iii) l'interpretazione avviene a
posteriori e così toglie ogni ne- cessità di rapporto tra antecedente e
conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata
da ra- gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div.).segno
interno - evento futuro •➔ ricevente
umano 9.2.3.3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori
Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi- nazione si basano su
argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale
Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere
semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se- gni non siano
veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti
rispetto a dei conse- guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli
presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche
scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica
previsionale del contadino e dell'astronomo) e la divinazione. In entrambi i
casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre
le pratiche pro- fessionali adottano una vera e propria metodologia che
comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div., II, 14), le prati- che divinatorie si
basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra
che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso
farà accade- re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in
definitiva, è il codice (anche se si tratta di legami naturali basati sulla
frequenza statistica) 1 e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip-
pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes- sionale dalla
divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi
si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso
della divinazione tecnica si farebbe appello all'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono
altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico:
(i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte
(De div., II, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa
identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a
quello individuato come segno prodigio- so, ma a ben diverse cause naturali (De
div.); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne-
cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) in
certi casi l'interpretazione è motivata da ragioni di faziosità politica e
quindi è priva di oggettività (De div.,). Nel suo saggio Semiotica e
filosofia del linguaggio ECO (si veda) osserva come la semiotica, proprio nel
momento storico in cui esce dalla marginalità, affermandosi come disciplina e
vedendosi riconosciuto addirittura il ruolo di scienza paradigma, proprio in
questo volgere di seco lo, appunto, diventa anche il referente ultimo di una
serie di dichiarazioni che proclamano la morte del segno o, almeno, la sua
crisi. Situazione non nuova, osserva Eco: la storia del pensiero occidentale è
anche leggibile come storia di una cancellazione e rimozione, quella della
semiotica come scienza, al di là dei (e nonostante i) numerosi pre-annunci,
progetti, ipotesi di una teoria dei segni che, a più riprese, hanno percorso la
riflessione teorica degl’ultimi duemila cinquecento anni. La proposta di ECO
(si veda) è quella di pensare a un progetto attuale di semiotica che trovi
giustificazione proprio nello spazio che intercorre tra le attuali negazioni e
le reali presenze del passato. Ciò significa che la semiotica deve percorrere a
ritroso il cammino della storia e divenire archeologia del sapere segnico:
diverrebbe così possibile su perare i crampi linguistici che sono alla base
delle attuali de finizioni del segno (che ne criticano il formato come troppo
angusto o troppo ampio, che comunque non ne ritrovano il modello quando escono
dai sistemi verbali). Il presente saggio costituisce un tentativo di accogliere
il suggerimento di ECO (si veda) e si propone di indagare le pratiche semiotiche
dell’origini e la riflessione teorica sul segno, che sono elaborate dal mondo
antico e che ci sono state consegnate dalla TRADIZIONE letteraria, FILOSOFICA,
medica, storiografica, retorica. Si propone cioè di ritrovare le tracce di un
filo rosso che percorre il mondo antico, dalle origini e che porta alla
costituzione di una nozione di segno abbastanza diversa da quella proposta
dalle teorie del Novecento. La maggior parte, infatti, delle dottrine del segno
che sono elaborate nel Novecento - sia in ambito linguistico, a partire dal
Cours saussuriano, sia in ambito più gene ralmente semiologico - si fondano su
due presupposti, che risultano del tutto assenti nella riflessione classica su
questo soggetto: il modello di segno, sul quale l'intera indagine semiologica
viene articolata, è quello del segno linguistico – ecceto in H. P. GRICE --; il
tipo di rapporto postulato come instaurantesi tra le due facce del segno è
quello dell'equivalenza (p=q) o almeno CONSEQUENZA (Hobbes, Grice). Da questa
seconda assunzione dipende il fatto che la nozione di signi-FICATO più diffusa
fino a qualche anno fa nelle teorie semantiche fosse quella che lo vede come
sinonimia o come definizione essenziale. A partire, infatti, dallo
strutturalismo hjelmsleviano, fino ad arrivare alle teorie di semantica componenziale
e interpretativa di impostazione generativista, il singolo termine linguistico,
o se si preferisce, la forma dell'espressione di un segno, è sentito come
equivalente a una serie di figure del contenuto, o marche semantiche, espresse
a loro volta meta-linguisticamente da altrettante forme linguistiche (ad
esempio: uomo = essere animato + umano + maschio + adulto). Cf. H. P. Grice: Bachelor: unmarried male – In defence of a dogma. Una
indagine sul modo in cui nasce e si articola nell'antichità classica greco-romana
(e particolarmente ROMANA) la riflessione sul segno ci permette di scoprire
che, rispetto al primo punto, in origine, non solo non si ha omologazione dei
vari tipi di segno sotto la specie di quello linguistico, ma che, anzi, le due
teorie (quella semantica del linguaggio e quella del segno non-linguistico)
procedono in maniera parallela, senza inter-connettersi. Ne è un esempio chiaro
il fatto che Aristotele,nel LIZIO, adoperi il termine “symbolon” per indicare
il segno linguistico, ma le espressioni “smefon” o “tekmrion” per indicare
quello non linguistico. La saldatura avvienne molto più tardi, in Agostino. Ma,
in questo caso, è l'espressione linguistica a essere sussunta sotto la
categoria più generale [cf. H. P. Grice] e già costituita del segno non-linguistico.
Per quello che riguarda il secondo punto, le pratiche segniche che la
tradizione ci ha tramandato e le teorie classiche prevedono un funzionamento
del segno non secondo lo schema dell'equivalenza, bensì secondo quello
deli'implicazione (p ⊃ q) – cf.
Hobbes, Grice: CONSEQUENTIA. Per citare un esempio celebre, che percorre
l'intera tradizione antica da Aristotele del LIZIO alla retorica romana di Quintiliano,
passando per IL PORTICO, un caso paradigmatico di segno è: Se una donna ha
latte, ha partorito. The fact that this female has produced milk NATURALLY
means that this female has given birth (H. P. Grice). A questo punto è
già possibile un confronto. Il modello antico classico greco-romano, e
particolarmente ROMANO, implicazionale – cf. Moore, ENTAIL – Frege assertion
sign -- , appare non solo molto più interessante rispetto a quello equazionale,
ma certamente molto più, per così dire, attuale. Infatti, è in corso nella
ricerca contemporanea una revisione di paradigma, che tenta di superare le
semantiche cosiddette "a dizionario" (che funzionano secondo il
modello dell'equivalenza) per passare alla proposta di semantiche
"istruzionali,” che funzionano secondo il modello dell'implicazione).
Tuttavia, l'interesse di un lavoro di ricostruzione delle teorie semiotiche
dell'antichità non è limitato soltanto al reperimento di materiale sommerso,
finalizzato, magari, alla costituzione di un quadro da mettere in confronto con
quello attuale di H. P. GRICE. C'è un interesse intrinseco anche
nell'osservare come i campi nozionali, e la terminologia LATINA associata a
essi si siano venuti distinguendo lentamente e abbiamo preso forma a partire
da situazioni d’usi linguistici originariamente molto più magmatici. Anche in
questo caso bisogna citare Aristotele del LIZIO come il primo che impone dei
confini netti a termini e concetti, che sono stati usati sino alla fine del V
secolo a.C. e oltre (a esempio nei testi del Corpus Hippocraticum) con una
oscillazione semantica considerevole. Prima della categorizzazione aristotelica
del LIZIO, espressioni quali “semefon,” “aitia,” “prophasis,” “tekmrion,” ed “eikos,”
non solo costituivano un campo di termini imparentati, ma anche di termini che
ammettevano una parziale sovrapposizione e intercambiabilità (Lloyd). Ugualmente,
il riferimento culturale di certe espressioni è stato, prima di Aristotele nel
LIZIO, eterogeneo e diverso. “smafno,” a esempio, come ci mostra il frammento (Diels-Kranz)
d’Eraclito è il verbo che indica la rivelazione oscura del dio di Delfi. “tekmairomai,”
poi, denota in generale il procedere attraverso un ragionamento congetturale,
ma nei tragici e nei lirici vienne usato in riferimento alla pratica
dell'interpretazione divinatoria. “smefon,” infine (o la sua variante omerica “séma”),
è il termine più complesso di tutti, indicando, fin dalle origini, una
molteplicità di cose, dall'INDIZIO al SEGNO di riconoscimento, al prodigio
divino, fino a essere usato come termine generale per il segno divinatorio
(Bloch: tr. it.; Benveniste: tr. it.). È innanzitutto alla divinazione,
all'astronomia e, tramite queste, all'arte della navigazione, che la
problematica del segno viene in origine connessa. Come testimonianza di tale
connessione, si può ricordare la cosmogonia d’Alcmane in cui all'origine del
mondo compare la dea marina Teti, accompagnata da tre personaggi divini. Da una
parte P6ros (''la via") e Tékmor ("il segnale", "il punto
di riferimento"); dall'altra Sk6tos ("l'oscurità"). Come
sottolineano Detienne e Vernant, Tékmor svolge un ruolo fondamentale. Nell'oscurità
[sk6tos] del cielo e delle acque in origine confuse, Tekmor introduce vie
[p6roll differenziate, che rendono visibili sulla volta celeste e sul mare le
varie direzioni dello spazio, orientando una distesa prima sprovvista di ogni
tracciato, di ogni punto di riferimento, aporon kai atékmarton". I
naviganti devono congetturare, “tekmafre sthal”, sulla distesa indifferenziata
del mare, la loro rotta e gli dei e gli indovini la fanno loro intravedere,
fissando in anticipo percorsi e punti di riferimento. In questo modo. i
naviganti gettano un ponte tra il visibile o proprio il SENSIBILE e
l'invisibile. Con Aristotele nl LIZIO, i termini del vocabolario semiotico, che
mantenneno fino ad allora il riferimento alla sfera del sacro (e che continuano
a essere usati in tal senso fuori dagl’ambienti filosofici e razionalistici),
vengono piegati a un uso esclusivamente profano (Lanza) filosofico – cf. H. P.
Grice: Words are not signs. Tuttavia, se si perde il carattere sacro dell’origini,
qualche traccia rimane ed è leggibile in trasparenza, se è vero che Aristotele
nel LIZIO, nella sua delimitazione dei campi concettuali – cf. Austin/Grice, Seminar
on DE INTERPRETATIONE --, riserva l'espressione “smeion” al segno che non dà
certezza e che può risultare ingannevole (mentre riserva l'espressione “tekmrion”
al segno sicuro). Qui, quello che è il segno ambiguo della rivelazione
divina, diviene il segno ambiguo del modello conoscitivo razionalistico (“Those
spots didn’t mean anything to me, but to the doctor, they meant that he had the
measles – By uttering, ‘He hasn’t been to prison yet” he might have meant that
he is potentially dishonest. Grice. Se il paradigma semiotico affonda
le sue radici nelle pratiche non-scientifiche o non-filosofiche della
divinazione e della medicina magica (l’"iatromantica"), tuttavia
lentamente depura, nel corso dei secoli, queste origini da tutto ciò che in
esse c'è di irrazionale e di non controllabile (anche se sempre, al di fuori
delle teorizzazioni della FILOSOFIA ANALITICA tipo H. P. Grice, rimarranno usi
magmatici e irrazionali di questo paradigma, come dimostrano, a esempio, le
opere d’Artemidoro di Daldis o d’Elio Aristide sui segni onirici). Se si tiene
presente quest'ottica, non è più sorprendente osservare che la forma
proposizionale e implicazionale (p ⊃ q) che IL
PORTICO danno al segno -- Se c'è cicatrice, c'è stata piaga -- si ritrova
identica nelle tavolette divinatorie mesopotamiche. Anche gl’antichi babilonesi
esprimeno il segno attraverso un periodo ipotetico, formato da una protasi,
introdotta dalla congiunzione summa (equivalente alla “ei” greca e il “si”
latino, che introduce il condizionale del PORTICO), e da una apodosi. Esse,
rispettivamente, traducono in proposizioni linguistiche il segno e la sua
interpretazione. Se il polmone è rossastro a destra e sinistra, vi sarà un
incendio. Bottero. In ambiente greco, una saldatura tra segno divinatorio e
forma logica dell'implicazione (p⊃ q) la si
trova testimoniata in uno dei dialoghi delfici di Plutarco, L 'E di Delfi. In
quest'opera, alcuni prestigiosi personaggi discutono sul significato d’un
oggetto, avente la forma di E, che si trova tra i doni votivi del tempio di
Delfi. Tra essi, Teone propone un'interpretazione della E ricorrendo al nome
che nella lingua antica questa lettera riceve, e cioè ei. Teone assimila poi
questo nome alla congiunzione ipotetica ei (latino “si,” italiano ''se") e
mostra che tale congiunzione svolge nella dialettica un ruolo essenziale, in
quanto serve a esprimere il rapporto logico per eccellenza, quello che si ha
nei condizionali del tipo, Se è giorno, c'è luce -- esempio, questo, che è tra
i più classi ci della logica semiotica del PORTICO). Teone sottolinea, infine,
che il dio di Delfi, Apollo, è un dio molto amante della dialettica, tanto è
vero che i vaticini presuppongono la forma del condizionale, p ⊃
q, che è la forma stessa che assumono i fenomeni dell'universo (e qui il
richiamo è alla teoria del PORTICO della simpatia universale. Certo, quello
che risulta dal testo di Plutarco è al massimo che la teoria del PORTICO del
fato e della divinazione si fonda su base logica. Il destino consiste in una
serie interconnessa di condizionali. Ma se l'ipotesi da porre fosse quella
esattamente contraria? Se, cioè, lo strumento così asettico e razionale della
logica traesse in realtà le sue origini dall'ambito divinatorio? Come dimostra
la sua stretta connessione con i segni e la divinazione presso IL PORTICO
(Goldschmidt; Verbeke). Un enorme cammino è tuttavia stato compiuto dai testi
divinatori babilonesi alla logica del PORTICO. La forma proposizionale rimane
la stessa.. Ma nel caso del PORTICO è depurata non solo di ogni carattere
sacrale, ma anche di ogni elemento contenutistico. È lì solo per il calcolo
proposizionale. Nel caso degl’antichi mesopotamici, invece, il contenuto della
protasi permette di inferire il contenuto dell'apodo si mediante più o meno
complicati processi di analogia e giochi tropici. Il "rossore" del
polmone permette di inferire "incendio" per un TRATTO SEMANTICO
COMUNE. Infine una disamina sulla riflessione semiotica antica permette di
scoprire come il dibattito sui segni, sulla loro natura e sulla loro
classificazione si sia attestato a livelli sorprendentemente alti, come è il
caso della discussione sui condizionali in seno alla stessa scuola del PORTICO
(tra Diodoro, Filone – citato da H. P. Grice -- e Crisippo) o della disputa tra
IL PORTICO e L’ORTO sul rapporto tra antecedente e conseguente nei segni, di
cui puntualmente ci informa il De signis di Filodemo. La discussione di
carattere semiotico, insomma, si riferisce sempre a, o si identifica
decisamente con, il quadro più generale o più fondamentale del problema della
psicologia razionale o della conoscenza. È poi nel mondo romano che queste
problematiche d’ordine conoscitivo generale vienneno piegate all’esigenze più
pragmatiche della conoscenza giudiziaria – “Hart is no philosopher, he’s a
laywer” -- Grice: il problema dei segni si identifica con quello delle
metodiche per assegnare un maggiore o minor valore di PROVA agl’indizi presentati
in un procedimento processuale. La semiotica vienne messa al servizio dell'arte
del detective, in ciò prefigurando uno degl’aspetti più singolari dell'interesse
contemporaneo nei confronti dei paradigmi indiziari (Eco e Sebeok). È, infine,
con Agostino – e con Grice a Oxford --, che la teoria del segno fornisce un
paradigma anche per la teoria del linguaggio, permettendo d’UNIFICARE in
un'unica categoria anche i segni verbali. Desidero ringraziare i molti amici
che hanno letto e discusso con me parti di questo lavoro. Tra coloro che mi
hanno offerto preziosi suggerimenti critici vorrei ricordare Bernardini,
Borutti , Crevatin, Fabbri, Manuli, Marmo, Tabarroni, Vegetti, e Violi. Per
molte delle idee e per l'impostazione generale del saggio sono debitore a ECO
(si veda), di Bologna, la piu antica varisita del mondo, che segue e incoraggia
il lavoro fin dai suoi inizi. Un ringraziamento particolare va a Conte, che ha
rivisto una precedente versione del manoscritto, e dal quale ho ricevuto una
infinità di preziosi consigli. Quanto agl’errori e alle imprecisioni, ne
assumo invece totale responsabilità. C'è un campo specifico in relazione al
quale tutte le culture antiche riconoscevano l'eccellenza e il magistero dei
popoli mesopotamici: quello della divinazione. Non ci si può nascondere
tuttavia, a questo proposito, che l'atteggiamento sviluppato dalla cultura
moderna nei confronti delle pratiche che rientrano in questo campo è fortemente
svalutativo. Esse, infatti, rappresentano un paradigma che si pone esattamente
agl’antipodi di quello che normalmente è assunto come il paradigma scientifico.
Ma ci sono almeno due ragioni che ci inducono a guardare alla divinazione
mesopotamica come a qualcosa che merita più di un interesse puramente
occasionale o erudito. In primo luogo, infatti, è necessario ripensare, come
suggerisce Ginzburg, ai rapporti tra paradigma divinatorio e paradigma scientifico
come a qualcosa di molto più complesso di quello che si assume di solito e che
non comporta affatto una svalutazione del primo termine. Infatti, per Ginzburg,
il paradigma divinatorio (definito anche, a seconda dei contesti in cui si
manifesta, come indiziario, semeiotico, e venatorio), costituisce un modello
di sapere specifico, caratterizzato dall'aspetto qualitativo: e cioè basato
sulla conoscenza dell'individuale, attraverso l'uso della congettura. Ciò gli
permette di giungere a risul tati notevoli, in tutte quell’aree del sapere che
lo utilizzano privilegiatamente (al di là della mantica, sicuramente, anche la
medicina, la filologia e cosi via, su su fino alla detection, la
connoisseurship, la psicoanalisi), anche se per questo deve pagare il prezzo
di una ineliminabile dose di aleatorietà. Si tratta, in realtà, di un sapere
del tipo che Peirce [cf. Grice’s lectures on Peirce] definisce abduttivo, in
contrapposi zione al modello del sapere quantitativo che fa uso della deduzione
come metodo di ragionamento. In secondo luogo bisogna ricordare che, in
Mesopotamia, la divinazione subisce un lungo processo evolutivo che dalla
fondamentale e primaria tendenza a inferire le cause dagl’effetti (procedimento
tipico dell'abduzione) la porterà ad accentuare sempre di più i tratti
generalizzanti e aprioristici, in modo da gettare le basi per una vera e
propria scientifici tà di tipo astratto (Bottero 1974: tr. it. 211). Ciò che
risulta di maggiore interesse, dal punto di vista della ricostruzione storica
di una disciplina semiotica, è che al centro del pensiero divinatorio si pone
proprio il segno in una accezione non banale. Quest'ultimo, infatti,
costituisce anzitutto uno schema di ragionamento inferenziale, che permette di
trarre alcune conclusioni a partire da certi dati. È interessante notare come
il segno divenga centrale nel l'universo cognitivo mesopotamico, in quanto,
partendo dal campo della divinazione, si estenderà in seguito anche alel altre
pratiche culturali e discipline, come la medicina e la giurisprudenza, e
arriverà ad articolare, unificandola sot to il suo modello, la totalità del
sapere. Si raggiungerà dun que, in Mesopotamia, un punto in cui il sapere, a
livello molecolare, funzionerà secondo lo schema, unificato e for male, del
segno divinatorio, anche se contenuti di volta in volta differenziati verranno
utilizzati per dargli corpo. Pos siamo già accennare (anche se vi torneremo su
in seguito con maggiore ampiezza di dettagli) alal forma assunta nella cultura
mesopotamica dal modello segnico: quella di un pe riodo ipotetico in cui una
certa conclusione è data nella apodosi, come derivante direttamente dallo stato
di cose presentate nella protasi: in cui, in altre parole, la protasi è
"segno" deli'apodosi. Un modello segnico di questo tipo ("Se p,
allora q") è molto vicino a quello tramandatoci dalla cultura greca nella
fase della sua maggiore maturità semiotica: in particolare funziona secondo lo
schema implicativo il modello di segno elaborato dalla scuola stoica. Ma qui,
una volta rilevata l'affinità, devono subito essere messe in luce le
differenze: nel segno della divinazione mesopotamica sono in genere gli
elementi materiali (o contenutistici) che permettono il pas saggio dalla
protasi all'apodosi; in quello della semiotica stoica, invece, le inferenze
sono rese possibili unicamente grazie agli elementi formali. A ogni modo,
nonostante queste profonde divergenze e al di là del problema, che pure si
pone, degli eventuali debiti specifici della cultura greca nei confronti di
quella mesopo tamica a questo proposito,1 è interessante verificare la pre
senza dello stesso schema segnico p -:J q che attraversa due civiltà (quella
greca e quella mesopotamica) e due ambiti culturali (la divinazione e la
filosofia) per altri versi tanto distanti tra loro. 1. 1 Divinazione e
scrittura Il fatto che quella mesopotamica sia essenzialmente una civiltà della
scrittura costituisce senz'altro uno dei presup posti per capire il tipo di
divinazione sviluppatosi in Meso potamia e le ragioni della sua ampia
diffusione: è la scrittu ra, infatti, che in Mesopotamia fornisce la forma e
il mo dello per tutta una serie di attività intellettuali, prima fra tutte
quella deli'interpretazione dei segni inviati dagli dei. La lettura
dell'avvenire e la conoscenza del nascosto non avvengono qui per diretta
ispirazione divina, ma seguono lo stesso procedimento messo in atto
neli'interpretazione dei segni della scrittura. 'l E proprio in relazione alla
grande importanza assunta dalla scrittura nella cultura mesopotamica che il
modello ri sultato egemone è quello della divinazione tecnica (Bouché
Leclercq), quello cioè basato sulla interpretazione di segni che si realizzano
esternamente al l'uomo e che richiedono l'intervento esplicativo degli spe
cialisti. Per comprendere il ruolo che la coppia scritturaloralità gioca negli
orientamenti divinatori è sufficiente mettere in relazione la civiltà
mesopotamica con quella greca. Que st'ultima, come noto, è una cultura
essenzialmente orale, dove la scrittura si sviluppa in un periodo relativamente
re cente e non costituisce un fenomeno autonomo rispetto al parlato, bensì,
essenzialmente, una sua riproduzione in ca ratteri fonetici. In stretta
connessione con il carattere orale della cultura, in Grecia risulta egemone
proprio il modello della divina zione ispirata, in cui il dio parla ali'uomo
attraverso un profeta, avvertito come suo portavoce, secondo il celebre esempio
della divinazione oracolare della Pizia a Delfi. E non è poi un caso che la
società greca non abbia favorito, come avviene invece in Mesopotamia, la
nascita e la presen za stabile di una classe sacerdotale preposta
ali'interpreta zione specialistica sia dei segni della scrittura sia di quelli
della divinazione. Al contrario, nella cultura mesopotamica la scrittura, per
un verso, è un fenomeno piuttosto antico, per l'altro è un dispositivo dotato
di meccanismi in larga misura autonomi rispetto al parlato. Le prime
attestazioni della scrittura cuneiforme, infatti, si hanno tra la fine del IV
millennio e l'inizio del III.2 Nella sua forma primitiva la scrittura è
pittografica, in quanto fatta di segni che intendono designare ciò che
raffigurano: a esempio la rappresentazione di una testa di bovino, trac ciata
nei suoi contorni, ma perfettamente identificabile, in dicava in prima istanza
"il bue"; ma, per una sorta di am pliamento semantico del segno,
esso indicava anche "la vac ca" e "il bestiame grosso".
Ugualmente il disegno schemati co di un piede aveva anche il significato di
"stare in piedi" e quindi quello di "immobile", di
"camminare", di "parti re", fino ad arrivare addirittura a
quello di "portare via''. Come si vede l'abbinamento tra significanti e
significati non si presenta né univoco né banale: esso infatti comporta un
lavoro interpretativo piuttosto complesso per controlla re i processi di
ampliamento o di slittamento dei significati per uno stesso segno. Processi che
si complicavano attraverso nuove associa zioni derivanti dalla
giustapposizione di segni diversi: il se gno del pane messo accanto a quello
della bocca dà il pro dotto semantico "mangiare"; quello dell'acqua
accanto a quello deli'occhio significa "lacrime"; se invece è messo
ac canto a quello del cielo significa "pioggia". Più curioso an
cora è il caso del segno della montagna che, giustapposto al segno indicante la
donna, produce il senso "la schiava", in quanto le montagne
delimitavano a est e a nord la regione, e una donna portata da un paese situato
oltre la montagna era una straniera destinata a tale condizione. Ci sono dunque
complicati meccanismi enciclopedici che governano l'interpretazione. Ma si può
osservare anche che, nella sua forma più anti ca, quella cuneiforme è una
scrittura di cose (Bottero 1974: tr. it. 168), in quanto non ha bisogno di
passare attraverso il linguaggio verbale per designare gli oggetti della
realtà. La sua autonomia rispetto alla realizzazione verbale è tota le, tanto
è vero che i segni possono essere compresi da per sone che parlano lingue
diverse e, del resto, sono pronun ciati in modo diverso in ciascuna di queste
lingue come av viene, a esempio, per i numeri arabi nel mondo moderno. I
Mesopotamici si dimostrarono molto legati a questa "scrit tura di
cose" e non l'abbandonarono neppure quando ven nero fatti notevoli passi
avanti verso il fonetismo con l'in venzione della scrittura sillabica. In
effetti, circa un secolo dopo la sua prima scoperta, i segni della scrittura
pittografica avevano cominciato a subi re un processo di scollegamento dalle
"cose" che designava no, per essere collegati più direttamente alle
"parole" con cui il linguaggio verbale designava i medesimi oggetti.
Il ca rattere monosillabico di molte parole e l'alta percentuale di omonimi,
avevano favorito questo processo. Un esempio interessante del fenomeno, che è
anche il più antico, è quel- lo del segno della fr H 1--- , che viene a in-
dicare non più solo "la freccia" ma anche "la vita": la me
diazione è stata dali'omonimia tra le parole designanti i due concetti,
pronunciate entrambe ltil nella lingua sumerica.3 Possiamo così schematizzare
il processo: pronuncia l ti l l"" significato ..freccia· ..vita• l
::rafico HH H'VA questo punto per arrivare a un alfabeto sillabico per fetto
sarebbe stato sufficiente eliminare tutti gli ideogram mi indicanti parole per
lasciare soltanto i segni di sillabe, sorta di unità minime infinitamente
reimpiegabili. Invece i Mesopotamici lasciarono sopravvivere, accanto ai segni
presi nel loro valore fonetico (indicanti una sillaba), i segni presi nel loro
precedente valore pittografico. Ci sono almeno due importanti conseguenze che
derivano da questa organizzazione della scrittura, per la divinazione.
Anzitutto, come abbiamo visto da alcuni esempi, la scrit tura pittografica ha
la caratteristica essenziale di tessere una rete sottile e complessa di
rapporti tra le cose: abitua la mente a vedere nelle cose relazioni segrete e
legami inso spettati. Essa suggerisce, altresi, un'attitudine mentale che
porta a guardare anche alle cose del mondo reale come in nescanti un analogo
processo semiosico: non solo, quindi, l'abbinamento pittografico del segno
della montagna e di quello della donna indicheranno "schiava", ma
anche lo stesso abbinamento osservato nella realtà, oppure in un so gno,
porterà a trarre una inferenza analoga. È proprio un meccanismo inferenziale di
questo tipo che si pone alla base della divinazione. La seconda conseguenza è
connessa con il carattere spe cialistico delle conoscenze richieste per
l'interpretazione della scrittura: i caratteri cuneiformi non sono accessibili
a tutti, dato il sistema di cifrazione cosi complesso. Si crea al lora una
sorta di aristocrazia di esperti capaci di interpretare i segni della
scrittura. Allo stesso titolo si crea, per l'in terpretazione dei segni
mandati dagli dei, la casta degli in dovini baro, i quali hanno come emblema
della loro corpo razione proprio la tavoletta e il calamo. 1.2 La scrittura
degli dei Come sottolinea Jeannie Carlier (1978: 1227), in Meso potamia
"parlare di una scrittura degli dei non è una meta fora". Infatti
quella cultura proietta nel campo teologico lo stesso modello di organizzazione
che vede operante nel campo della burocrazia statale. Come ii re diffonde il
suo potere dal centro alla periferia attraverso una capillare e sviluppatissima
rete amministrativa che trasmette i suoi or dini scritti indirizzati ai
sudditi, così gli dei si servono della scrittura per far conoscere agli uomini
i destini che hanno fissato per ciascuno di loro; solo che "l'unica
tavoletta a lo ro misura è l'universo intero" (ibidem). Sama e Adad,
gli dei della divinazione, sono per un ver so come il sovrano che
notifica la sua volontà ai sudditi per mezzo di messaggi scritti; per un altro
sono come il giudice che, dopo aver preso una decisione, la ratifica sulla
tavolet ta per darle validità e pubblicità. Il mondo, dunque, in questa
concezione, è una immensa tavoletta, costituito da oggetti che sono il supporto
materia le dei presagi da cui verranno ricavati gli oracoli, come vie ne
testimoniato, tra l'altro, anche da un inno di Assurbani pal a Sama5: "Tu
scruti alla luce (del) tuo (sguardo) la terra intera come (altrettanti) segni
cuneiformi". Del resto i Babilonesi parlavano della disposizione degli
astri come "scrittura del cielo" che veniva "letta" dagli
astrologi. E d'altra parte non era raro il caso in cui un pre sagio
consistesse letteralmente in un segno di scrittura trac ciato nelle pieghe del
fegato di un animale o sulla fronte di un uomo. 1.3 Una semiologia "ante
litteram" Una volta messo in luce il carattere di profonda affinità tra il
sistema della scrittura cuneiforme e la divinazione concepita come scrittura
degli dei, passiamo a esaminare la struttura interna del segno divinatorio. È
possibile farsene un'idea abbastanza precisa attraverso i numerosi trattati di
vinatori che ci sono pervenuti. Questi ultimi consistevano in lunghissimi
elenchi di proposizioni complesse, ciascuna composta da una protasi e da
un'apodosi. La protasi è in trodotta dall'espressione summa (equivalente alla
congiun zione "se") e ha il verbo al presente o al passato: essa
costi tuisce il "presagio", cioè il segno ominoso che deve essere
interpretato; l'apodosi ha il verbo di solito al futuro e costi tuisce
!'"oracolo", ciò che viene indicato o svelato dall'in terpretazione
del segno. Vediamo alcuni esempi che, pur in relazione a differenti tecniche
divinatorie, presentano tutti la stessa struttura:4 Astrologia Se nel giorno
della sua scomparsa, la Luna si attarda nel cielo (invece di scomparire d'un
tratto)- vi sarà siccità-e-arestia nel paese. Fisiognomonia Se un uomo ha il
pelo delle spalle ricciuto - le donne lo ame ranno. Oniromanzia Se un uomo
sogna che gli consegnano un sigillo - avrà un fi glio. Lecanomanzia Se, dal
centro dell'olio (gettato sull'acqua), si staccano due "ponti", uno
maggiore dell'aJtro - la sposa dell'interessato met terà aJ mondo un figlio
maschio; quanto aJ malato, guarirà. Estispicina Se il polmone è rosso-vivo a
destra e a sinistra - vi sarà un in cend io. PASSAGGIO DALLA PROTASI
ALL'APODOSI 17 Libanomanzia Se, quando versi (la sostanza aromatica) sulla
brace, il fumo si sprigiona (solamente) verso destra, e non verso sinistra -
avrai la meglio sul tuo avversario. Se si sprigiona (solamente) verso sinistra
e non verso destra - il tuo avversario avrà la meglio su di te. Questi esempi
permettono già di fare due osservazioni a proposito del meccanismo semiotico in
essi instaurato. In primo luogo la struttura del segno è espressa in termini di
rapporti tra proposizioni e non tra singole unità lessicali o tra un
significante e un significato in senso saussuriano. Questo fa sì che i segni
non verbali e gli eventi acquisiscano subito un'importanza predominante, in
quanto trovano ap punto nella proposizione il modo migliore di essere
espressi. In secondo luogo il rapporto che c'è, all'interno di cia scun segno,
tra la protasi e l'apodosi è di tipo implicativo, intendendo però questo
termine come designante un'infe renza ancora abbastanza generica: come
vedremo, all'inter no della scuola stoica, invece, l'interesse si accentuerà
pro prio sul tentativo di definire il nesso implicativo che caratte rizza il
segno e a questo proposito si accenderanno diver genze che alimenteranno una
lunga e complessa discus sione . 1.4 n passaggio dalla protasi all'apodosi
Messi di fronte ali'enorme massa delle proposizioni divi natorie documentate
dai trattati mesopotamici può sembra re che regni la più completa casualità
nel movimento che re gola il passaggio delle protasi-presagio alle relative
apodo si-oracolo. A ben guardare, però, è possibile rintracciare al cune
linee generali che consentono di mettere un po' d'ordi ne in un coacervo
altrimenti amorfo e di cogliere alcuni principi di regolazione. Sono
rintracciabili in realtà tre casi teorici di passaggio non casuale dalla prima
alla seconda proposizione: Il primo tipo di passaggio è connesso al
principio del co siddetto empirismo divinatorio: protasi e apodosi regi
strano eventi che si sono verificati effettivamente secon do una concomitanza
temporale. Questo genere di mec canismo si trova nei cosiddetti "oracoli
storici", caratte rizzati dal fatto di avere l'apodosi al passato,
anziché al futuro; essi riproducono verisimilmente la forma del tipo originario
di divinazione. 2. 3. Il secondo tipo di passaggio non arbitrario è connesso
alla possibilità di un gioco di associazioni tra elementi della protasi ed
elementi dell'apodosi: naturalmente sono possibili i due casi, tanto del gioco
fonetico sui signifi canti, quanto di quello tropico sui significati. Il terzo
tipo di passaggio tra le due proposizioni è con nesso alla presenza di codici
che prevedono una serie esauriente e completamente specificabile di casi. In
realtà, nella fase più recente della storia della divina zione mesopotamica, i
trattati subiscono un'evoluzione nel la direzione della sistematicità e
dell'astrazione. Il sistema astratto e, in un certo senso, totalmente deduttivo
prende il sopravvento anche sulla verisimiglianza stessa dei presagi. La furia
classificatoria dei Mesopotamici guarda più ali'e saurimento di tutti i casi
astrattamente possibili che non al la loro concreta possibilità di verifica.
Avviene così che l'abbinamento di un'apodosi con una certa protasi dipenda
dallo schema astratto e, dunque, divenga prevedibile. 1.4. 1 Gli "oracoli
storici" e l'empirismo divinato rio Sommersi, e quasi fossilizzati,
nell'insieme delle decine di migliaia di oracoli che i trattati mesopotamici ci
hanno con servato, gli oracoli "storici" costituiscono un numero non
grande, ma significativo. Essi possono essere attribuiti, in base all'analisi
interna, all'epoca delle origini, anche se compaiono in trattati più
recenti. 1 . 4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 19 Essi
presentano infatti quattro caratteristiche specifiche: l. hanno tutti la tipica
apodosi al passato; 2. gli argomenti di cui trattano fanno riferimento ad
avvenimenti storici che, nel caso in cui possano essere confrontati con altre
fonti, risultano degni di fede; 3. i fatti e i personaggi che in essi sono
menzionati sono collocabili, nella maggior parte dei casi, nell'epoca di Accad
(ca. 2340-2160 a.C.); 4. fanno, quasi tutti, iniziare l'apodosi con la formula
amat "(è il) presagio di", formula che è assolutamente inusuale negli
al tri oracoli. Vediamone alcuni esempi: Se (nel Fegato) la Porta del Palazzo
è doppia, se vi sono tre Ro gnoni e a destra della Vescichetta-biliare sono
scavate (pa/Iu) due perforazioni (pilsu) ben nette - (è il) presagio degli
abitanti di Apgal, che Naram-Sin (ca. 2260-23) per mezzo di scavi (pii fu)
fece prigionieri. Se, a destra del Fegato, si trovano due Diti - (è il)
presagio del l 'Epoca-dei-Competitori. In entrambi questi casi l'apodosi fa
riferimento a fatti e personaggi storici reali deli'epoca di Accad. Si può
ipotizza re che gli oracoli così formulati non siano stati molto di stanti
cronologicamente dali'epoca dei fatti storici di cui parlano le apodosi. Anzi,
il punto fondamentale è proprio che tali oracoli avrebbero registrato delle
coincidenze "significative", a po steriori, tra un particolare stato
di cose considerato ornino so e un evento della storia: tali coincidenze
avrebbero as sunto in seguito valore di paradigma. A persuaderei di questa
ipotesi, che risponde appunto al principio dell'empirismo divinatorio
(Bouché-Leclercq 1879-82: vol. l, 298; Bottero 1974: tr. it. 161), c'è il fatto
che spesso i Fegati di Mari contengono una formula che mostra come il gioco
delle coincidenze si sia potuto stabi lire: Quando il mio paese si è rivoltato
contro lbbi-Sin (2027-2003), questo (=il Fegato) si trovava così disposto. LA
DIVINAZIONE MESOPOTAMlCA Il plastico di Mari riproduce la forma assunta dal
fegato reale esaminato durante un rito di estispicina: esso registra la
coincidenza tra questa forma, assunta come ominosa, e un evento storico di
importanza determinante, cioè la rivol ta contro l'ultimo re del periodo
neosumerico, lbbi-S'ìn. L'ipotesi dell"'empirismo divinatorio" si
spinge anche ol tre, ipotizzando che alla base stessa della scoperta della di
vinazione si porrebbe la scoperta delle coincidenze tra la se rie di presagi e
quella degli oracoli; ipotesi che può essere avvalorata dal fatto che tutti gli
"oracoli storici" possono essere cronologicamente situati nel periodo
delle origini del la divinazione mesopotamica. Nella istituzione stessa della
pratica divinatoria si sarebbe vicini, così, a una forma del principio del post
hoc, ergo propter hoc, per cui qualsiasi evento che fuoriesce in qual che
maniera dal corso "normale" e che è seguìto da un altro evento,
considerato a sua volta eccezionale, finirebbe per costituire con quest'ultimo
una coppia inscindibile. Il colle gamento tra i due eventi, una volta
stabilito, diventerebbe irresolubile; e il secondo evento, se non propriamente
cau sato dal primo, risulterebbe almeno annunciato da quello. Ciò che di fatto
viene qui elaborato è il metodo semiotico dell'inferenza delle cause dagli
effetti, che è tipica dell'ab duzione. È vero che in questo caso si arriva a
conclusioni che ci appaiono assurde, a causa di un errore fondamentale
nell'applicazione del metodo: infatti quello che viene preso come risultato (o
effetto) (una certa ben definita disposizio ne del fegato) che si presume
essere il caso di una certa re gola (o causa) (rivoltarsi contro lbbi-Sin), in
realtà non è affatto tale. Ma questo ha poca importanza: formalmente siamo di
fronte a un'abduzione. Un tale principio è applicato costantemente. Non c'è nes
sun interesse della divinazione a rivolgersi al passato: se le apodosi degli
oracoli storici lo fanno è appunto perché la fi losofia che sta dietro a
questo tipo di oracoli è che la storia può ripetersi. Nell'abduzione, infatti,
una volta che sia sta ta inferita la regola che spiega un certo risultato, è
possibile tenere a disposizione tale regola per successive applicazioni
deduttive. 1 .4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 21 1.4.2 Oracoli con
gioco associativo tra protasi e apodosi La seconda possibilità di un legame non
casuale tra pro tasi e apodosi dipende dalla presenza di rapporti associativi
tra elementi contenuti nella prima ed elementi contenuti nella seconda
proposizione. È operante qui in maniera evidente il modello della scrit tura
cuneiforme. Abbiamo infatti visto che essa tende a creare o suggerire una rete
di relazioni tra cose non diretta mente in contatto. Sappiamo come
l'interpretazione di un segno della scrittura cuneiforme apra la strada a una
catena di veri e propri interpretanti: la rappresentazione ideografi ca
dell'orecchio, a esempio, non solo significa "ascoltare", ma anche
"obbedire", "apprendere'', "il sapere", "l'intelli
genza". Ugualmente possono entrare in corto circuito se mantico due
ideogrammi omografi o che differiscano per pochi tratti del significante. Cosi
abbiamo due tipi di gioco associativo : l . quello sui significati; 2. quello
sui significanti. 1 .4.2. 1 Il gioco sui significati Il rapporto che si
instaura tra protasi e apodosi nel caso di un gioco associativo sui significati
è quello che si ha tra un "cifrato" tropico, e una sorta di
"chiaro" al grado zero. Vediamo alcuni esempi: Se il 29 del mese di
Aiiar (aprile-maggio) si verifica un'eclisse di sole - il re morirà, duramente
punito da Sam mortalità gene rale. Se un parto-anormale è doppio, con due
teste, l'una saldata al l'altra, e otto zampe, ma una sola colonna-vertebrale
- il paese sarà precipitato nella confusione per effetto delle dispute inte
stine . Se un cavallo cerca di accoppiarsi con un bue - riduzione del
l'incremento del bestiame. Nel primo esempio )'"eclisse di sole" può
essere conside rata una metafora rispetto alla "morte del re"; del
resto la metafora deli'eclisse come segno della morte di un sovrano si
catacresizzerà ed entrerà in una lunga tradizione mantica anche greco-romana.
Nel secondo esempio compare pure una metafora complessa: infatti la protasi
parla del corpo di un unico animale (''una sola colonna-vertebrale"), che
però ha organi doppi ("due teste", "otto zampe"); viene al
lora istituito un parallelo con l'organismo statale (''il pae se"),
unico, ma dilaniato e reso doppio dalle "dispute inte stine". Il
terzo esempio presenta un caso di accoppiamento tra due animali di specie
diverse, destinato dunque alla infe condità, il quale simbolizza una
"riduzione dell'incremento del bestiame": la protasi ha la funzione
(dal punto di vista della produzione segnica) deli 'esempio (Eco 1 975 : 296;
Eco 1984: 47), che vale per l'intera classe. In generale, questi esempi
mostrano come la logica che regola il rapporto tra protasi e apodosi è
dell'ordine del simbolico. Naturalmente molto spesso la relazione tra il ci
frato tropico e il chiaro ci sfugge, perché il linguaggio figu rato è
dipendente dal contesto culturale: è verosimile che in molti casi operino
associazioni che per la distanza spazio temporale tra le culture non possiamo
più avvertire. 1 .4.2.2 Il gioco sui significanti Vediamo ora alcuni esempi di
oracoli in cui nella protasi ci sono elementi che differiscono per pochi tratti
del signifi cante da elementi correlati nell'apodosi: Se piove (zunnu iznun)
nel giorno (della festa) del dio della città - quest'ultimo sarà adirato (zenl)
contro di essa. Se la Vescichetta biliare è rientrante (na!Jsat) è inquietante
(na!Jdat). - Se la Vescichetta biliare è presa dentro (kussti) il grasso - farà
freddo (kU$$U). 1 .4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 23 Se il Diaframma
è aderente (emid) - aiuto (imid) divino. La somiglianza tra i significanti fa
sì che un fatto, indica to da una parola con un certo suono, sia considerato
segno di un altro fatto, indicato da una parola con suono affine. 1 .4.3 I
codici sistematici Il terzo tipo di abbinamento non casuale tra protasi e
apodosi è quello legato alla presenza di codici sistematici. Come dicevamo, è
possibile registrare nella divinazione mesopotamica un'evoluzione diacronica
per cui, dall'epoca delle origini al periodo più recente, il modo di porre il
rap porto tra protasi e apodosi si modifica nel senso dell'astra zione. Il
culmine di tale processo porterà alla creazione di codici che prevedono una
casistica generale ed esaustiva: in questo caso verrà totalmente abbandonato il
principio del l'empirismo divinatorio per far spazio a una logica in un certo
modo deduttiva, che fa dipendere dalla configurazio ne generale del codice
l'inferenza del singolo caso. Infatti, a partire dal secondo quarto del II
millennio, la documentazione storica non ci presenta più oracoli singoli, ma
registra la presenza di un centinaio di "trattati", cioè di raccolte
sistematiche e spesso molto dettagliate, di segni di vinatori.s La
sistemazione in trattati, questo nuovo aspetto della di vinazione nel II
millennio, ha come tratto saliente quello di risultare funzionale al
raggruppamento di diversi segni ora colari in relazione a un unico oggetto,
considerato ornino so. Quest'ultimo veniva scomposto nell'intera gamma delle
sue parti o variazioni, ciascuna delle quali veniva a essere il tema di una
singola protasi. Si registra, in effetti, una mi nuziosa opera di
pertinentizzazione del reale: se un oggetto risulta esteso e divisibile, per
ognuno dei singoli aspetti identificati, viene costruita una coppia
presagio-oracolo. Ecco come, a esempio, in un trattato di estispicina, una sin
gola porzione del fegato, la cosiddetta "Porta del Palazzo", viene
esaminata: Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, si trova
una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, una
fessura è segnata per il lungo - . . . Se, sulla Soglia della Porta del
Palazzo, a sinistra, si trova una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta
del Palazzo, a sinistra, una fessura è segnata per il lungo - Se, nel bel mezzo
della Porta del Palazoz , si trova una fessura - ... Come si può vedere,
tutte queste protasi risultano co struite su un principio strutturale di
opposizioni binarie tra Ila Soglia! e Iii bel mezzo! della Porta del Palazzo,
tra jde stral e jsinistral , tra j fessuraj e l fessura segnata per il lungoj
. È dunque proprio il sistema, inteso in un senso strutturali stico ante
litteram, a prendere il sopravvento . Non vengono registrati più solo i casi
che sono stati effettivamente osser vati, ma tutti i casi virtualmente
possibili, in relazione a un sistema basato su opposizioni e regole astratte.
Questo fatto diviene particolarmente evidente quando in contriamo in un
trattato delle protasi che prendono in con siderazione fino a sette
Vescichette biliari per uno stesso fe gato: la logica del sistema (basata in
questo caso sulla rego la: n --+ n + l) prevale non solo sulla realtà, ma
perfino sulla verisimiglianza. Una cosa analoa avviene quando, all'ini zio del
trattato di teratomanzia Summa izbu, vengono pre viste, per un neonato
perfettamente umano, circa quaranta possibilità di aspetto mostruoso: tra esse,
che il neonato as somigli a un cavallo, a un leone, a un cane, a un maiale, a
un bue, a un asino, oppure a una mano, a un piede e, addi rittura, a un corno
di capra o a un mattone. Sotto la spinta della sistematizzazione, la
divinazione cambia radicalmente: tutto l'impegno non è più dedicato al la
ricerca di eventi ominosi, ma alla costruzione degli s-co dici (Eco 1975;
1984: 266) delle sequenze di protasi; a parti- 1.5 ESPLICITAZIONE
DELLE REGOLE DI CODIFICA 25 re da queste sequenze verrà costruito il codice
vero e pro prio di abbinamento con le serie di apodosi. In questo sen so,
anche se non formulate, varranno regole generali del ti po: "ogni volta
che trovi il numero x nella protasi, assegna la caratteristica y
all'apodosi"; cosi, a esempio, se l'indovi no incontra in un
evento-protasi il numero sette, che il siste ma abbina costantemente, poniamo,
alle caratteristiche del la "perfezione" e della
"totalità", può dare come oracolo "vi sarà Pimpero". Sono
del resto molte le regole di codifica non espresse, ma costanti, come a esempio
quella per cui tutto ciò che è a destra è connesso con un auspicio favorevole,
mentre tutto ciò che è a sinistra, esprime un augurio contrario. Oppure quella
per cui è possibile "cambiare di segno", come in alge bra, alla
predizione in base al contesto: a esempio, un pre sagio di per sé sfavorevole,
se messo in rapporto con la sini stra, diventa favorevole, o viceversa. In
questo senso l'apodosi diviene deducibile dalla prata si, in quanto basta
osservare le caratteristiche sistematiche che in essa sono contenute per
inferirla: è il trattato che for nisce in realtà la regola (anche senza
esplicitarla): di fronte a un nuovo caso sarà facile per l'indovino trovare il
risulta to applicando la regola. 1.5 L'esplicitazione delle regole di codifica
Se nei trattati del II millennio si assiste al superamento della fase empirica
a favore di una ristrutturazione della di vinazione su base sistematica e
deduttiva, tuttavia, le regole della deduzione, per quanto largamente operanti,
rimango no implicite. Nei trattati del I millennio si assiste a un'ulteriore
evolu zione della divinazione, che porta ali'esplicitazione delle re gole
stesse della codifica. Ciò è testimoniato dal grande trattato di aruspicina del
I millennio, che aveva un capitolo in cui erano formulati i va lori essenziali
di certe caratteristiche espresse dalle protasi. Il testo era disposto non più
su due, ma su tre colonne. La 26 l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMICA prima
riguardava il presagio, o meglio la caratteristica che appariva ominosa
nell'oggetto preso come segno. Di solito si trattava di una qualità, espressa o
da un aggettivo ("gros so") o da un sostantivo astratto
("lunghezza") oppure, an cora, da un verbo all'infinito
("essere piegato verso il bas so"). Nella seconda colonna veniva
registrato il valore fon damentale dell'oracolo, come a esempio
"gloria", "poten za", "vittoria". La terza
colonna, infine, proponeva una esemplificazione con un oracolo completo, tale
che nella protasi comparisse la qualità registrata dalla prima colonna e
neli'apodosi il valore risultante nella seconda colonna. Ec cone un esempio:
Lunghezza Riuscita Se la Stazione è abbastanza lun ga da arrivare fino alla
Strada il principe riuscirà nella campa gna che avrà intrapreso. È evidente
qui l'ulteriore progresso compiuto nella dire zione dell'astrazione: abbiamo
infatti la vera e propria pre sentazione della chiave del deciframento dei
segni. Le leggi deli'esegesi sono messe in chiaro. Presentare il trattato sulle
tre colonne equivale proprio a mettere in luce le leggi di cifratura. Ciò che
vi è di arbitrario nell'abbina mento tra protasi e apodosi viene dichiarato
fornendo i due termini della corrispondenza. Questo processo di astrazione non
si arresterà qui, ma procederà fino alla completa riduzione dei valori alla
dico tomia fondamentale: favorevole/sfavorevole. All'estrema complessità e particolarizzazione
degli oraco li più antichi si contrapporrà l'estrema semplificazione di una
logica binaria che prevede solo il sì o il no. 2. LA DIVINAZIONE GRECA
2.0 Divinazione e conoscenza Il campo delle pratiche divinatorie costituisce il
primo ambito sufficientemente omogeneo in cui nella Grecia anti ca si parla di
segni. Il termine semefon, che si incontra qui per la prima volta, è un nome di
genere, che indica un segno divinatorio di tipo qualsiasi e comprende anche il
responso oracolare, costituito in realtà da un testo verbale.1 Accanto a esso,
come sue specificazioni relative ad ambiti particolari della divinazione (o,
potremmo dire, a particola ri manifestazioni di sostanza dell'espressione), si
trovano vari altri termini; tra essi oion6s che indica etimologicamen te il
segno dato dal volo degli uccelli; phasma, che si riferi sce inizialmente ai
presagi che si possono trarre dai fenome ni atmosferici, ma che si estende in
seguito alle visioni in ge nere; téras, che costituisce l'equivalente deli
'espressione la tina prodigium e sta a indicare qualsiasi fenomeno o avve
nimento insolito, e in qualche maniera mostruoso, che pos sa essere preso come
base per una interpretazione divinato ria (Bioch 1963: tr. it. 19; Benveniste
1969: tr. it. 477). In tutti questi casi, qualcosa sta per qualcos'altro, o
meglio è assunto come base per un procedimento di inferenza. Nonostante che in
Grecia la divinazione come pratica ef fettiva abbia avuto un'importanza
abbastanza marginale,2 tuttavia il segno divinatorio ha dato origine a una
tradizio ne, letteraria e filosofica, che lo insedia nel punto di origine
mitico del processo di conoscenza. 28 2. LA DIVINAZIONE GRECA
Innanzitutto, infatti, l'indovino (mtintis), colui che è ca pace di
interpretare il segno proveniente dagli dei, è preci puamente un sapiente, e
il tipo di sapienza di cui il mantis è portatore non si identifica con
un'accezione limitativa del termine, come la conoscenza di una tecnica. Al
contrario, la sua è piuttosto una sapienza di ordine generale e sicura mente
superiore a qualsiasi tipo di conoscenza umana, co me suggerisce anche
l'etimologia del termine mantis, che è collegato alla radice •men, con cui
viene indicato un movi mento di accrescimento e di potenziamento dell'animo
(Crahay 1974: tr. it. 220). In Omero, per la prima volta, incontriamo
l'espressione che identifica la divinazione con la conoscenza "delle cose
che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato":
Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore tra gli scru tatori di
uccelli l che conosceva ciò che è e ciò che sarà e ciò che è stato prima (hòs
id ta t 'e6nta ta t 'ess6mena pr6 t 'e6nta) , l e aveva guidato verso Ilio le
navi degli Achei l con la sua arte di vinatoria, che Febo Apollo gli aveva
concesso. (Il., I, 69-72)3 Il passo omerico mette in risalto il carattere
generale e to tale della conoscenza rappresentata dalla divinazione; è una
conoscenza che trova un paragone solo con quella, molto più tarda, di ordine
filosofico: l'espressione tà eonta ("le cose che sono"), che nel
passo indica l'oggetto di conoscen za dell'indovino Calcante, rimarrà immutato
nella tradizio ne filosofica, in Eraclito, Empedocle, Platone, Aristotele,
come termine tecnico per indicare appunto gli oggetti della conoscenza
filosofica in generale. In secondo luogo, il segno, che è lo strumento
attraverso cui si attiva tale conoscenza, non proviene dalla sfera del
l'umano, ma da quella più alta e numinosa del divino; esso è lo strumento di
mediazione tra la conoscenza totale che ha il dio e quella limitata dell'uomo.
Il segno è altresì, nella prospettiva aperta da Colli (1977: 379; 1975: 40), il
luogo dell'irruzione della sapienza divina nella sfera dell'umano. Ma il
dio parla un linguaggio che non è quello dell'uomo. La parola del responso
oracolare, a esempio, è umana solo come suono, ma non produce alcun significato
se le viene applicato il codice del linguaggio verbale degli uomini. C'è dunque
una difformità nell'espressione dei contenuti della conoscenza che separa
l'uomo dal dio; ma c'è anche una più radicale differenza nelle modalità stesse
della conoscen za. Il dio padroneggia il tempo attraverso la "vista"
simul tanea e del passato, e del presente, e del futuro: la sua anni scienza
deriva appunto dal fatto di possedere una visione panoptica. Infatti Apollo,
secondo l'espressione usata da Pindaro (Pyth., III, 29), possiede
"l'occhiata che conosce ogni cosa". L'uomo, al contrario, può vedere
solo il suo presente, mentre gli sono irrimediabilmente sottratte le altre
dimen sioni del tempo. Solo il dio può permettergliene l'accesso; ma la
visione deve essere tradotta in parole, in quanto l'uo mo accede alla
conoscenza solo attraverso l'udito. Per il poeta, a esempio, la memoria del
passato è garantita dal racconto che traduce la visione panoptica delle Muse
(Horn., Il., Il, 484-486). Allo stesso titolo l'indovino è colui che rivela
all'uomo il futuro traducendo in parole la "visio ne" che il dio gli
comunica; ma proprio in questa traduzio ne il messaggio perde di perspicuità
(Lanza 1979: 99-l00; Detienne 1967: tr. it. 1). Per questi motivi il segno
divinatorio è enigmatico, oscu ro e per lo più incomprensibile. Per decifrarlo
c'è bisogno di un interprete, qualcuno che sia diverso dal soggetto nel quale
si è compiuto il processo di comunicazione e di tra sformazione della
conoscenza. Platone individua due distinte figure, rispettivamente "l'uomo
mantico" (colui che riceve la visione) e il "profeta" (colui che
interpreta le parole pronunciate dal primo duran te l'estasi). Il celebre
passo del Timeo, che propone tale di stinzione, in sé costituisce un piccolo
trattato teorico della divinazione quale se la rappresentavano i Greci, e
presenta con grande perspicuità la tradizione del segno divinatorio come segno
non direttamente decodificabile: Vi è un segno sufficiente che il dio ha
dato la divinazione alla dissennatezza umana: difatti nessuno che sia padrone
dei suoi pensieri raggiunge una divinazione ispirata dal dio e veridica.
Occorre piuttosto che la forza della sua intelligenza sia impedi ta dal sonno
o dalla malattia, oppure che egli l'abbia deviata es sendo posseduto da un
dio. Ma appartiene all'uomo assennato il ricordare le cose dette (tà rhthénta)
nel sogno o nella veglia dalla natura divinatrice ed entusiastica, il
riflettere su di esse, il discernere con il ragionamento tutte le visioni (tà
phasmata) al lora contemplate, il vedere onde quelle cose ricevano un signifi
cato e a chi indichino (smalnel) un male o un bene futuro o passato o presente.
A chi invece è esaltato e persiste in questo stato non spetta giudicare le
apparizioni e le parole da lui dette. Questa è una buona e vecchia massima:
soltanto a chi è assen nato conviene fare e conoscere ciò che lo riguarda, e
conoscere se stesso. Di qui deriva la legge di erigere il genere dei profeti a
interprete delle divinazioni ispirate dal dio. Questi profeti, alcu ni li
chiamano divinatori, ignorando del tutto che essi sono in terpreti delle
parole pronunziate mediante enigmi e di quelle immagini, ma per nulla
divinatori. La cosa più giusta è di chia marli profeti, cioè interpreti di ciò
che è stato divinato. (Plat., Tim., 7le-72a) Al centro concettuale del passo si
pone il verbo smafno, che indica appunto la rivelazione del dio; quest'ultimo
si presenta come il vero enunciatore, attraverso l'uomo ispira to, del testo
divinatorio. Il soggetto grammaticale di smal no è costituito dai due termini
che indicano le due forme di segno divinatorio, cioè "le cose dette"
e "le visioni contem plate", ma il responsabile della produzione di
questi segni è "la natura divinatrice ed entusiastica", cioè il dio
stesso che fa irruzione nell'uomo tramite l'invasamento (come indica anche
l'etimologia del secondo termine, collegata a theos). L'uomo non è che un
canale di trasmissione o un portavo ce. E perché il significato arrivi fino al
destinatario c'è biso gno di un complesso procedimento di interpretazione.
Cosi se prendiamo il verbo semalno come un predicato associato a un certo
numero di ruoli (o casi logici) e lo mettiamo in relazione a un processo di
comunicazione e a uno di inter pretazione, possiamo leggere il passo platonico
secondo il seguente schema (molto semplificato in alcune sue parti): 30
soggeno •te cose dette'" "le visioni contemplate'" il dio l'uomo
invasato significato - destinatario "'un male o un bene futuro o passato o
presente'" trice ed entusia- stica· 2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 3 1
--- - - - , '"la natura divina- l l'uomo processo di
interpretazione del segno , effe"uato da personaggi con un sapere
specializzato, a favore del destinatario "'i profeti'" Il
verbo smafno, dunque, non ha il banale senso di "si gnificare", nel
senso deli'instaurazione di un rapporto tra un piano dell'espressione e un
piano del contenuto all'inter no di un segno. Esso sembra piuttosto riferirsi
al processo di comunicazione stesso che il dio attiva nei confronti del
l'uomo: in altre parole, nel passo platonico, il verbo sembra riferirsi alla
situazione per cui il dio "indica attraverso segni (enigmatici)"
all'uomo qualcosa, che a quest'ultimo è sco nosciuto . A confermare l'uso del
verbo smafno con questo senso nei contesti divinatori si trova una lunga
tradizione che risa le almeno a Eraclito, al noto frammento 93 dell'edizione
Diels-Kranz (tr. it. 1974). È stato Romeo (1976) che, in una lucida e complessa
analisi del frammento, ha messo in evi denza questo significato del verbo
smafno, arrivando alla traduzione: (sorgente) (strumento) smafnei (oggetto)
(scopo) enunciatore- segno -- canale -- l! 2. I.A DIVINAZIONE GRECA Il
··•Hno• c du: ha l'oracolo in Delfi, né dischiude, né nasconde il ,•.un
pnJ.•,ac•o, rna lo indicaattraversosegni(smalner)4 rourro una lunga tradizione
che rendeva la forma verbale sl'nuJinei con "significa" o con altre
espressioni che avevano l'cffcllo di rendere contraddittorio o incomprensibile
l'inte ro frammento. Si viene qui a profilare un'opposizione tra due tipi di
lin guaggio, che hanno caratteristiche antitetiche. Da una parte c'è il
linguaggio umano, caratterizzato dalla trasparenza e dall'immediata
decifrabilità (e possiamo fare l'ipotesi che proprio questo tipo di linguaggio
sia circoscritto da entram bi i termini della coppia oppositiva
"dischiudo [/égO]"/"na scondo [krfptO]": l'uomo o svela
completamente il suo pen siero, usando il linguaggio, oppure lo nasconde del
tutto, non esternandolo in parole). Dall'altra parte c'è un diverso tipo di
linguaggio, quello attribuito direttamente al dio nel frammento di Eraclito (e
indirettamente nel passo platoni co), che è indicato dal verbo semafno e che
ha le caratteristi che opposte dell'oscurità e della non immediata decodifica
bilità. Il dio non concede all'uomo una rivelazione comple ta, né gli nega
totalmente la conoscenza: gli fornisce piutto sto, attraverso il segno
oracolare, una base di inferenza sul la quale l'uomo dovrà lavorare per
giungere a una conclu sione, senza però dargli alcuna garanzia sulla via da
seguire con il ragionamento. Ci sono due spiegazioni al fatto che la cultura
letteraria e filosofica greca si sia rappresentata il segno divinatorio co me
oscuro e ambiguo. La prima è quella che abbiamo visto inquadrarsi nell'otti ca
di Colli, secondo cui il segno divinatorio può essere con siderato come
"l'impronta del divino" nell'uomo, indizio di un punto di contatto
(quello attraverso cui la conoscenza divina si comunica all'uomo), e
contemporaneamente di un punto di fuga.s La seconda spiegazione è quella messa
in luce da Vernant (1974: tr. it. 20-21), ed è inerente al tipo di razionalità
speci fica messa in gioco dalla divinazione, come pratica effetti va, oltre
che come teoria. Essa si connette al diverso ruolo 2.0 DIVINAZIONE E
CONOSCENZA 33 che gioca il destino rispettivamente nella sfera divina e in
quella umana. Infatti, a livello dell'esistenza umana, il de stino è
concepibile come una successione lineare di avveni menti (rappresentato
metaforicamente dal filo delle Par che), i quali si connettono tra loro
apparentemente senza che possa essere attribuito loro un senso globale. Questa
successione acquisisce un significato solo quando è arrivata al suo termine,
quando cioè il destino "si compie". È solo a questo punto che esso
diventa intelligibile e permette di spiegare, alla luce degli ulteriori
sviluppi, anche gli avveni menti passati ai quali non si era saputo dare un
senso. Fino a quel momento, tuttavia, l'uomo rimane in una fondamen tale
ignoranza: anzi, è proprio questa ignoranza a caratte rizzare l'esistenza
umana. A livello degli dei, al contrario, il destino di ciascun uo mo è
presente e intelligibile in ogni momento nella sua tota lità. Esso infatti è
stabilito in maniera irrevocabile e iscritto nell'eternità già prima della
nascita di ogni uomo. La divi nazione trova il suo spazio proprio in questo
scarto di cono scenza che si apre tra gli uomini e gli dei: l'oracolo (e in
ulti ma analisi anche ogni altro tipo di segno divinatorio) si sup pone che
riveli all'uomo, quando è ancora in vita, proprio il significato segreto del
suo destino, mentre questo sarebbe accessibile, dal punto di vista umano, solo
dopo la morte. Tuttavia, se la divinazione compisse la sua funzione pro fetica
sino in fondo, se cioè abolisse totalmente lo scarto di conoscenza che esiste
tra l'uomo e la divinità, risulterebbe con ciò cancellata anche la differenza
che distingue l'uomo dal dio. Per questa ragione il dio non svela il destino
più di quanto lo nasconda in effetti, secondo la formulazione di Eraclito.
L'oracolo lo lascia intravedere, ma nello stesso tempo lo dissimula; lo dà a
indovinare attraverso un segno oscuro ed enigmatico che per i consultanti non è
più intelli gibile di quanto lo siano gli avvenimenti per i quali si sono
rivolti all'oracolo. Così, la logica della divinazione fa in modo che con
l'ambiguità del segno venga reintrodotta, a livello umano, quella
"opacità" circa il destino che l'anni scienza divinatoria avrebbe il
compito di attenuare, se non di eliminare del tutto. 14 2. LA DIVINAZIONE
GRECA 2. 1 llue tipi di divinazione 2 . 1 . 1 La divinazione naturale Il passo
platonico del Timeo, come pure il frammento di Eraclito, fanno riferimento a un
tipo di divinazione che vie ne di solito definita "ispirata": essa
rientra all'interno della categoria generale della mantik atechnos, della
divinazione cioè che non richiede un apparato di mezzi tecnici per la sua messa
in opera e per questo, talvolta, riceve anche il nome di "divinazione
naturale" (Cic. , De divinatione). Il carattere specifico di questo tipo
di divinazione è quel lo per cui il sapere del dio non passa attraverso mezzi
di ma nifestazione esterni all'uomo: l'ispirazione divina raggiunge
direttamente l'individuo attraverso i sogni (cioè un testo iconico) o si
comunica a un profeta-portavoce che emette un responso (normalmente un testo
verbale). Per usare l'e spressione di Romeo (1976: 84), si tratta di un tipo
di divi nazione "endosemiotica". Secondo questo modello funzionava
il più noto e presti gioso oracolo della Grecia antica, quello di Delfi6 in
cui la Pizia, la sacerdotessa di Apollo, emetteva un responso co stituito da
un testo verbale. Ma, come abbiamo visto, per quanto esso fosse formulato nei
termini del linguaggio na turale, il suo senso non era decodificabile mediante
la sem plice applicazione delle regole del codice linguistico a livello
denotativo. Più avanti vedremo alcuni esempi di decodifica aberrante di
responsi, fraintesi proprio per la pedissequa applicazione di questo codice
senza far ricorso a regole più complesse (come quelle di tipo
retorico-tropico). 2. 1 .2 La divinazione artificiale Il secondo tipo di
divinazione è la mantik technik, defi nita, a seconda dei commentatori, come
"congetturale", "induttiva", "deduttiva" o
"artificiale". Era basata suli'a nalisi dei segni (visibili,
acustici, sensibili) che si realizzava-no nell'ambiente esterno all'uomo e che
potevano essere spontanei (come i fulmini o le eclissi) oppure provocati (co
me il lancio dei dadi o l'estispicina).7 Questo secondo tipo di divinazione
mette in gioco una lo gica particolare, basata sull'ipotesi che esistano
rapporti di omologia e di corrispondenza tra il microcosmo, rappresen tato dal
fenomeno preso come segno, e il macrocosmo, rap presentato dall'ordine
generale dell'universo (J. Vernant 1948; J.-P. Vernant 1974). A questo
proposito vengono isolate delle porzioni di spa zio - che possono essere, a
esempio, le regioni del cielo per l'astrologia, come pure la superficie del
fegato della vittima sacrificale per l'estispicina - che vengono caricate di
valore simbolico e deputate a funzionare da specchio dell'ordine cosmico
generale. Negli spazi così delimitati è possibile leg gere la configurazione
futura degli eventi, sottratta a quella aleatorietà, a cui gli eventi reali
sono invece sottoposti, e per sopprimere appunto la quale il consultante si
rivolge al la divinazione. Si creano così due serie, quella delle
configurazioni strut turali interne al testo segnico e quella degli eventi a
cui tali configurazioni rimandano; tra le due si stabilisce un vero e proprio
codice di corrispondenza, che permette di passare immediatamente dal segno al
suo significato. Ne vediamo un esempio molto semplice nel seguente passo di
Omero: Dico che un cenno ci dette il Cronide superbo l il giorno che sulle navi
veloci in cammino salivano gli Argivi l a portare stra ge e morte ai Troiani l
tuonando da destra, mostrando segni di buon augurio. (//., Il, 351-354) In
questo caso la volta celeste viene costituita come spa zio significativo, come
microcosmo in cui sia possibile leg gere i segni del destino. Questo spazio
viene articolato in una struttura binaria che oppone due regioni, la destra e
la sinistra: a ciascuna di esse viene abbinato un valore seman tico
(ldestral--+"buon auspicio", !sinistra!-+"cattivo auspi
cio"). Una più articolata configurazione del significato de- LA
DIVINAZIONE GRECA riva dalla circostanza di enunciazione, cioè dalla sua rela
zione con la domanda esplicita (o implicita, come in questo caso) che
l'interrogante pone alla divinità·. Nel passo omeri co la circostanza di
enunciazione è la partenza della spedi zione per Troia, e la domanda implicita
concerne la riuscita dell'impresa: dunque il tuono che proviene dalla regione
de stra del cielo viene a significare "buona riuscita dell'impresa dei
Greci contro Troia". Infatti, per quel che riguarda l'individuazione del
signifi cato ultimo del segno, tutti i sistemi divinatori si basano su un
equilibrio più o meno stabile tra le strutture formali del codice che
permettono di cifrare in maniera completa l'av venimento prodigioso e
insolito, e la molteplicità delle si tuazioni concrete a cui tale
avvenimento-segno può riman dare nei contesti specifici. Nell'esempio omerico
il codice è così semplice da essere diventato patrimonio comune, tanto che non
si fa cenno della presenza di un indovino, per decifrare il segno. Di so lito
non è così per la divinazione artificiale, il cui carattere "tecnico"
risiedeva proprio nel fatto che per l'interpretazio ne dei segni era
necessario fare ricorso alla conoscenza spe cializzata di personaggi
depositari di un sapere che verte sulle regole di decodifica. L'indovino è
infatti essenziale nel caso, appena più com plesso, riportato da Plutarco
nella Vita di Dione (24). L'a neddoto riguarda la spedizione effettuata nel
357 a.C. da Diane contro Dionigi di Siracusa, durante la quale si verifi cò
un'eclisse di luna. L'indovino Miltas, chiamato a inter pretare quel segno,
dichiarò che esso annunciava che qual cosa che era stato splendente fino ad
allora, si sarebbe oscu rato: non poteva, dunque, che trattarsi del regno
tirannico di Dionigi, il quale era destinato a soccombere sotto l'attac co
portatogli da Dione. Anche qui ci sono le due fasi: la prima determina il signi
ficato degli abbinamenti del codice e la seconda quello deri vante dalla sua
applicazione alla situazione concreta. Inol tre l'indovino Miltas si avvale di
una tecnica più sofisticata, che fa ricorso anche alle trasformazioni
retoriche: la rela zione tra il macrocosmo della luna che viene oscurata
dal- 2. 1 DUE TIPI DI DIVINAZIONE 37 l'eclisse e il microcosmo del regno
di Dionigi destinato a soccombere è mediata dall'elemento comune !splendore!
con cui si designa in modo proprio una qualità della luna e in modo figurato
una proprietà del regno di Dionigi. Esistevano poi codici notevolmente
elaborati già al sem plice livello degli abbinamenti, come a esempio il codice
dell'estispicina. In questa pratica venivano esaminate le vi scere degli
animali, in particolare il fegato, del quale si os servavano l'aspetto e la
posizione del lobo, della vescichetta e delle porte.8 Per quello che riguarda
la cultura greca non abbiamo esempi del modo in cui venivano effettivamente
realizzati gli abbinamenti tra gli elementi significanti e quel li a cui essi
rinviavano. Tuttavia Luc Brisson (1974), in uno studio molto interessante e
completo sulla divinazione in Platone, ha segnalato un passo del Timeo (71 a-d)
in cui, nonostante non si parli direttamente di estispicina, si descri ve un
fenomeno che con essa ha molti punti di contatto. Il passo illustra i processi
che si determinan9 quando l'anima razionale, che ha sede nel cervello, lascia
la sua impronta, "come in uno specchio", sul fegato che è la sede
dell'anima appetitiva: questo permette di vedere riprodotte nel fegato (nei
suoi aspetti via via diversificantisi) le impressioni la sciate dali'anima
razionale. La specularità è, però, solo metaforica perché si verifica no in
realtà dei processi di codificazione molto forte, che fanno pensare ai
meccanismi della "comunicazione biochi mica" . In definitiva il
fegato viene a costituire un testo segnico sul quale I 'anima appetitiva legge
i contenuti intelligibili, di venuti sensibili attraverso un processo di
codifica. Esso co stituisce altresì un microcosmo che rispecchia, anche se in
modo molto particolare, l'assetto del macrocosmo costitui to dali'anima
razionale. Si può presumere che i codici dell'estispicina funzionasse ro in un
modo analogo a quello descritto per i processi di comunicazione
"intrapsichica" illustrati dal Timeo. Tuttavia, proprio da Platone
scaturisce una delle più reci se condanne che la Grecia classica abbia
espresso nei con fronti della divinazione artificiale. Tale condanna si
trova 38 2. LA DIVINAZIONE GRECA formulata nei due testi del Timeo (72 b)
e del Fedro (244 c-d). Nel primo di questi, in particolare, è contenuta una
condanna dell'epatoscopia: infatti Platone, che accetta la possibilità di
leggere sul fegato molti segni quando questo è contenuto in un organismo
vivente, sostiene che esso non può rivelare niente di sicuro agli uomini,
quando è privato della vita e non è più sottoposto all'influsso luminoso del
l'anima razionale. Più generale e radicale è la condanna della divinazione
tecnica nel Fedro. In quel testo Platone fa l'elogio della fol lia, di cui
considera la divinazione una specie, e separa la mantica ispirata ed
entusiastica da tutte le altre forme di in vestigazione del futuro. In
particolare la "mantica", nel senso ristretto, viene contrapposta
alla "oionistica", cioè la divinazione mediante l'osservazione dei
segni dati dal volo degli uccelli. La ragione della discriminazione è chiara:
nella divina zione tecnica la ragione umana pretende di sostituirsi ali'i
spirazione divina. Per indicare che in questo modo non si raggiunge che un
grado molto pallido e incerto di conoscen za, Platone inventa addirittura una
connessione etimologi ca tra "oionistica" e olsis (''opinione")
("L'investigazione del futuro [. . .] attraverso gli uccelli [. . .] fu
chiamata 'oio noistica', che i moderni, rendendola solenne con un omega,
dicono oionistica": Phaedr., 244 c). Nella divinazione ispi rata, invece,
la conoscenza deriva all'uomo da una posses sione divina e questo è garan.zia
di verità. Sembra profilarsi un'opposizione tra smafnein e tekmal resthai, il
primo verbo indicando, come nel Timeo e in Era clito, il dono della conoscenza
elargita dal dio, mentre il se condo indica la congettura puramente umana.
Questa op posizione richiama il motto di Alcmeone: Delle cose invisibili e
delle cose visibili gli dei hanno conoscenza certa; ma agli uomini tocca
procedere per indizi (tekmafre sthal) . (Diels-Kranz, 24 b l) su cui avremo
occasione di tornare. 2.2 DUE MODELLI DI DIVINAZIONE ORACOLARE 39 I
passi platonici non esemplificano soltanto l'opinione del filosofo ateniese, ma
si pongono altresì in linea con la scelta di fondo compiuta da tutta la civiltà
greca nei con fronti della divinazione ispirata. Infatti, per quanto in Gre
cia venissero praticate anche forme di divinazione tecnica, a esse è stata
sempre riservata un'importanza secondaria, mentre l'attenzione si è concentrata
soprattutto sulle forme della divinazione oracolare, che si esprimevano
attraverso la parola. D'altra parte questo fenomeno deve essere messo in rela
zione con il fatto che la civiltà greca è essenzialmente di tipo orale; in essa
la scrittura è non soltanto un fenomeno recen te, ma del tutto dipendente dal
parlato, che essa tende a ri produrre foneticamente. In altre civiltà, come
quella meso potamica o quella cinese, la scrittura è molto più antica e
funziona come un sistema autonomo rispetto alla lingua, presentando a suo modo,
attraverso i segni grafici, quelle realtà che la lingua presenta in altra
maniera: in queste ci viltà la scelta compiuta nei confronti del tipo di
divinazione è opposta a quella greca. 2.2 Due modelli della divinazione
oracolare Esistono tuttavia profonde differenze tra l'immagine che della
divinazione oracolare propongono i testi letterari e il modo in cui essa veniva
praticata effettivamente nei santua ri a essa adibiti. J.-P. Vernant (1974)
parla di due distinti modelli. Nella Grecia dell'età classica, infatti, la
divinazione come pratica effettiva ha una rilevanza marginale nel regime della
polis. Infatti l'oracolo viene consultato non per ottenere una predizione sul destino,
ma per prospettargli, in forma di alternativa, un certo corso di eventi che si
ha intenzione di intraprendere e per domandargli se la via sia libera o pre
clusa.9 Si instaura a questo proposito un vero e proprio dialogo tra il
consultante e l'oracolo (Crahay 1974): quest'ultimo ri sponde innanzitutto
alla domanda che è stata posta in for- 40 2. LA DIVlNAZIONE GRECA ma
chiusa, predicendo al consultante se farà o non farà una determinata cosa. Il
consultante pone poi all'oracolo una seconda domanda, in forma aperta, ma
limitata a una con dizione rituale di successo: in sostanza, esso domanda al
l'oracolo quali ostacoli debbono essere rimossi perché l'im presa prospettata
giunga a buon fine. È interessante a que sto punto vedere come la formula
usata di solito dall'oraco lo nell'emanare il consiglio di carattere rituale
rispecchi quella che veniva usata per redigere le decisioni dell'assem blea
sancite dal popolo. L'oracolo dice infatti loion kai ameinon éstai (''sarà più
conveniente e preferibile"), pro prio come nei decreti deli'assemblea si
usano formule che pongono l'accento sulla "preferenza" tra le
opinioni, piut tosto che sull'intimatività della decisione. Ciò è indice del
fatto che nella civiltà greca è il modello della discussione as sembleare che
si proietta sulla divinazione, e non viceversa come avveniva nella civiltà
mesopotamica. Ed è interessante che in questo modello di divinazione non si
trovi alcuna traccia di risposta ambigua o oscura. Ambiguità e oscurità si
trovano solo nel secondo model lo, quello "teorico,, della divinazione
oracolare, presente in tutta la letteratura scritta, da Erodoto ai poeti
tragici, ai fi losofi. Esso costituisce la rappresentazione che la cultura
della città si dà della divinazione. Secondo·questo modello, l'oracolo viene
consultato non per ottenere un consiglio, ma direttamente sul destino. Ciò
determina la supposizione che l'oracolo sia onnisciente, in quanto deve
conoscere sia lo sviluppo futuro degli eventi, sia, nel contempo, il passa to,
in cui si situano le remote origini delle sorti attuali e fu ture
deli'indi\iduo o del gruppo consultante. La logica a cui questo modello
risponde non è più bina ria: l'oracolo deve qui impegnarsi a ridurre a una
sola, spe cifica, opzione l'infinità dei possibili. Il responso oscuro e
ambiguo reintroduce, del resto, l'in certezza che caratterizza la condizione
umana che l'oracolo tende ad annullare. Così, nei racconti oracolari dei testi
let terari, la profezia sembra sempre inadeguata rispetto al cor so preso
dagli eventi. Il segno rimane oscuro fintantoché il "compiersi" della
sorte si incarica di fare chiarezza e di de- 2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI
RACCONTI ORACOLARI 41 sambiguare, ormai troppo tardi, la polisemia del testo
pro fetico. 2.3 Il problema interpretativo nei racconti oraco lari
Naturalmente, per capire come la nozione di smefon si sia sedimentata nella
cultura greca, per vedere quale sia il nucleo semantico con cui il termine
indicante il segno è sta to consegnato alla tradizione filosofica, il
riferimento ali'u so di smefon nei testi letterari è altrettanto importante
quanto il suo significato nelle pratiche divinatorie effettive. Soprattutto nei
testi di Erodoto e dei tragediografi è pos sibile vedere come costantemente
venga tematizzato il pro blema interpretativo che il segno oracolare pone:
l'oscurità del segno è in principio legata alla difficoltà, che diviene
immancabilmente impossibilità, di risolvere tale problema. Si deve però dire
che in primo luogo l'uomo è accecato dal la hjbris, e palesa la sua scarsa
ricettività alla parola della profezia in vari modi: la dimentica, non ne segue
le diretti ve, sbaglia la modalità di consultazione; alla fine, però, il suo
errore fondamentale è quello di scegliere sempre il ter mine errato
dell'alternativa posta dal segno ambiguo. Se la sua colpa è, dunque, un peccato
di tracotanza, il suo errore è un errore di conoscenza, e ha un carattere squi
sitamente semiotico. Ancora una volta compare l'opposizione "linguaggio
umano"/"linguaggio divino": l'uomo infatti interpreta sempre la
profezia secondo il proprio codice, non tentando mai di intendere la parola
della rivelazione come cifrata in un altro linguaggio, quello appunto della
divinità. In termini semiotici, in tutti i racconti sul tema della divi
nazione oracolare, l'uomo interpreta invariabilmente il te sto in modo
letterale, mentre questo dovrebbe ricevere una lettura secondo quello che
potremmo definire modo enig matico.10 Infatti, l'idea fondamentale che i
racconti oracolari sug geriscono è che esista sempre nella profezia un senso
secon- 42 2. LA DIVINAZIONE GRECA do, che è nascosto e che costituisce il
vero e unico significa to del segno: è la scoperta di questo secondo senso,
scartan do il primo, che qui chiamiamo interpretazione secondo il modo
enigmatico. Invece l'uomo coinvolto nell'interpreta zione, data la sua
incapacità di attingere la sapienza divina, compie proprio il gesto contrario,
scartando la possibilità di un senso non letterale. Vi sono tuttavia diverse
forme dell'errore di interpreta zione. (i) La prima consiste nella incapacità
di assegnare un senso al testo, o meglio, di adeguarlo a circostanze reali no
te: non si trovano oggetti a cui le parole della profezia pos sano essere
riferite e il testo appare totalmente assurdo. (ii) La seconda forma di errore
consiste nel riferire la profezia a oggetti reali, ma erroneamente
identificati; ve ne sono due sottospecie, a seconda che l'errore sia dovuto a
una omoni mia o a un equivoco (e quest'ultimo è ulteriormente suddi
visibile). Tutto ciò può essere illustrato mediante il seguente schema:
Interpretazione secondo il modo
enigmatico ~l et t e r a l e n o n se n so sen~ so errato per omonlmia
per equivoco errate scambio assunzioni di prospettiva di credenza 2.3
L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLAR.I 43 Vediamo ora alcuni racconti
oracolari in cui sono esem plificate queste modalità di errore. L'incapacità
di assegnare un senso al testo profetico si ha in vari racconti nei quali
vengono utilizzati meccanismi re torici, tra cui alcuni di tipo metaforico. È
naturale che, quando il veicolo metaforico viene interpretato "letteral
mente", si ottenga una assurdità sul piano del senso, a me no che non si
immagini un mondo possibile, diverso da quello reale, in cui i muli possano
diventare re dei Medi e gli araldi siano dipinti di rosso. Il consultante, che
prende in considerazione soltanto il mondo reale, si trova in difficoltà ad
assegnare un senso e una denotazione a testi siffatti. Ma vediamo che cosa
succede nel primo di questi racconti. È Erodoto a narrarci la storia degli
abitanti deli'isola di Sifno, i quali, essendo giunti a un notevole grado di
ricchez za con le loro miniere d'oro e d'argento, decisero di consul tare
l'oracolo di Delfi per sapere se avrebbero potuto con servare a lungo la loro
prosperità. La Pizia rispose: "Ma quando, a Sifno, il pritaneo sarà bianco
e bianco il bordo della piazza pubblica, allora c'è bisogno di un uomo accor
to per guardarsi dall'agguato di legno e dall'araldo rosso" (Herod., Hist.
, III, 57). La storia continua narrando del l'arrivo di una nave dei Sami,
della loro ambasceria per chiedere denaro e del saccheggio che questi ultimi
fanno dell'isola dei Sifni. Erodoto sottolinea l'incapacità manifestata dai
Sifni di dare un senso al testo ("l Sifni non furono capaci di com
prendere l'oracolo"); per loro il testo, e in particolare, si presume, le
espressioni "agguato di legno" e "araldo ros so", sono
prive di senso, perché appunto essi si fermano a un livello letterale di interpretazione.
In realtà il dio gioca con vari meccanismi tropici: innan zitutto con una
doppia enallage1 1 (è il legno [ = nave] che anticamente è rosso, come spiega
Erodoto, ed è l'araldo [ = gli ambasciatori] che organizza un agguato),
complican do poi il testo con meccanismi metonimici (legno per nave, il
singolare araldo per il plurale ambasciatori). Un secondo esempio di mancata
comprensione si trova in un episodio di quel lungo e complesso "romanzo
oracolare" 2 . LA DIVINAZIONE GRECA t·hc l·:rodotodedicaaCreso,quandoquest'ultimochiedeal
l ' oracolo di Delfi se la sua monarchia sarebbe durata a lun o . La Pizia
risponde: "Quando un mulo sarà re dei Medi, allora, Lidio dai piedi
delicati, fuggi lungo l'Ermo sassoso, non indugiare e non temere di essere
vile" (Herod., Hist., l, 55). Anche in questo caso, l'interpretazione che
viene data alla profezia sceglie il senso letterale: Creso ritiene, di con
seguenza, impossibile che venga a verificarsi uno stato di cose che soddisfi
alla descrizione della frase "un mulo sarà re dei Medi"; la
conclusione che egli trae da questa impossi bilità è che sia altrettanto
impossibile che il suo regno abbia una fine. Sarà poi il dio stesso a spiegare
al re il suo gioco metafo rico, quando ormai i fatti si saranno compiuti e
Creso sarà caduto sotto la dominazione dei Persiani . Il "mulo" è, in
ef fetti, Ciro, e il passaggio è mediato dalla proprietà "sangue
misto", che è condivisa sia dal termine metaforizzante sia dal termine
metaforizzato: ·sangue misto• / Tanto maggiore è la cecità di Creso se si pensa
che l'ele mento comune è doppiamente esemplificato in Ciro, in quanto figlio
"di madre nobile e di padre di oscuro lignag gio" e "di madre
meda e di padre persiano", come il testo di Erodoto non manca di
sottolineare. Vale la pena di rilevare che l'interpretazione del senso fi
gurato è un'operazione realmente più difficile di quello che si potrebbe
immaginare, fatto che giustifica in qualche ma niera gli insuccessi dei
consultanti. Essa è legata a cono scenze enciclopediche locali, oltre che ai
meccanismi retori ci che su quelle conoscenze si applicano. Ciò è tanto più ve
ro se si considera che è impossibile anche per il lettore mo derno fornire
l'interpretazione del testo profetico quando il testo letterario non ci informa
sulle relative porzioni di enciclopedia. Ciò avviene, a esempio, nel racconto
oracolare di Arcesilao (Herod., Hist., IV, 163-164) in cui, accanto a scambi
metaforici tra "anfore" e "uomini", tra "torri" e
"forni" che vengono spiegati dal prosieguo della narrazio ne,
compare l'espressione "il tuo più bel toro" che rimane inspiegata ed
è anche per noi incomprensibile. Vediamo ora il caso in cui il testo appare
interpretabile secondo un percorso di senso letterale, in cui cioè sia rin
tracciabile un corso di eventi corrispondente a esso, senza però essere quello
inteso dalla profezia. Consideriamo in particolare il caso in cui l'errore
interpretativo sia dovuto a omonimia. Questo meccanismo, accompagnato dal
costante frain tendimento, caratterizza l'intero romanzo oracolare di Cambise.
Si tratta di una storia in cui i vari segni si collega no tra di loro in una
catena di rimandi interni. Questa storia ha inizio con un sogno: Smerdi
(fratello di Cambise) era già tornato in patria (la Persia) quando Cambise ebbe
in sogno questa visione: gli parve che un messo, giunto dalla Persia, gli annunciasse
che Smerdi, seduto sul trono regale, toccava con la testa il cielo. Temendo
perciò che il fratello meditasse di ucciderlo per impadronirsi del regno, mandò
in Persia Prexaspe, che gli era fedelissimo fra tutti i Per siani, a uccidere
Smerdi. (Herod., Hist., III, 30) Dopo parecchi paragrafi, in cui la storia
continua narran do le stravaganze e le crudeltà di Cambise, ci viene raccon
tata la ribellione in Persia dei due fratelli Magi, uno dei quali, che si
chiamava anch'esso Smerdi, era stato collocato sul trono. Quando Cambise viene
a conoscenza di questo fatto, comprende il vero senso del sogno. Ma la storia
non finisce qui: Dopo che ebbe pianto e si fu afflitto di tanta sciagura,
Cambise balzò a cavallo per muovere al più presto verso Susa contro il Mago;
ma, mentre saliva in arcione, gli cadde il puntate del fo dero della spada,
che rimasta nuda lo ferì alla coscia. Colpito così nello stesso punto in cui
aveva trafitto il dio egizio Api, il 2. LA DIVINAZIONE GRECA fl\
iudicando mortale la sua ferita, domandò ancora come si chiarnassc la città
dove si trovavano e gli risposero che si chia rnava Ecbatana. Ora, molto tempo
addietro, a lui che l'aveva consultato, l'oracolo di Buto aveva risposto che
sarebbe morto ad Ecbatana ed egli aveva interpretato che sarebbe morto, vec
chio, ad Ecbatana di Media, dove aveva tutti i suoi beni, men tre l'oracolo
aveva inteso di indicare Ecbatana di Siria. Pertan to Cambise, come ebbe
saputo il nome della città, sotto il dupli ce colpo della rivolta del Mago e
della ferita, rinsavì e, com prendendo finalmente il divino responso, esclamò:
"Qui è desti no che muoia Cambise, figlio di Ciro". (Herod., Hist.,
III, 64) La rivolta del Mago e la ferita sono, più che avvenimenti, dei segni,
in quanto permettono a Cambise di accedere alla conoscenza, di comprendere,
finalmente senza più ambigui tà, l'oracolo, di non rimanere più prigioniero
dei giochi di parole: la rivolta che gli fa capire la differenza tra Smerdi suo
fratello e Smerdi Mago; la ferita mortale, la differenza tra Ecbatana in Media
ed Ecbatana di Siria. Infine c'è l'ulteriore caso di errata interpretazione a
cau sa di un equivoco, non strettamente linguistico, e che può essere di varia
natura. L'equivoco più famoso di tutta la letteratura oracolare greca è
senz'altro quello di cui cade vittima Edipo. Come noto, durante un banchetto
Edipo viene insospettito dalle insinuazioni fatte da un convitato circa la sua
paternità e decide allora di interrogare il dio della sapienza, il quale gli
predice che ucciderà il padre e che si congiungerà con la ma dre (Soph.,
Oedipus tyrannus, 787-798). L'equivoco riguar da le assunzioni di crede...zza:
Edipo non sa che i suoi veri genitori sono Laio, re di Tebe, e Giocasta, ma
crede che sia no Polibo, re di Corinto, e Merope; per questo, al fine di
stornare gli avvenimenti predetti dall'oracolo, si allontana da Corinto per
andare in direzione di Tebe, e compie, così, inconsapevolmente, proprio il
destino che gli è stato annun ciato. Altre volte l'equivoco riguarda lo
sca1nbio diprospettiva. Il caso emblematico è quello di Creso che manda a
consul tare congiuntamente l'oracolo di Delfi e quello di Anfiarao L'INTERPRETAZIONE
NEI RACCONTI ORACOLARJ 47 per sapere se dovesse fare guerra ai Persiani. I due
oraco li, concordemente, predicono che "se avesse mosso contro i
Persiani, avrebbe distrutto un grande impero" (Herod., Hist., l, 53).
Creso interpreta il responso come facente rife rimento alla distruzione
dell'impero dei Persiani, mentre, come si scopre in seguito, sarà proprio il
suo impero a subi re tale destino. A sviare il re dalla giusta interpretazione
in terviene un meccanismo semiotico implicito: l'assunzione di Creso che, dal
momento che l'oracolo è rivolto a lui, anche il dio assuma la sua prospettiva.
E, ovviamente, nella pro spettiva di Creso, il grande impero da distruggere
non può che essere quello persiano. Si incomincia a intravedere in questo
esempio, più che nei precedenti, una caratteristica che è tipica deli'enigma:
una fortissima carica aggressiva, potenzialmente distrutti va, da parte del
dio nei confronti dell'uomo quando gli po ne un problema interpretativo da
risolvere. Una conferma si trova nel racconto analogo in cui l'ora colo di
Delfi predice agli Spartani che misureranno la terra di Tegea con le funi
(Herod., Hist., l, 66). Gli Spartani in terpretano il riferimento alle funi
come indicante Patto di misurare le terre per distribuirle ai conquistatori e,
di conse guenza, fanno una spedizione contro Tegea. In realtà esse sono
inserite in un altroframe o sceneggiatura (Eco 1984), in quanto serviranno agli
Spartani , ridotti in schiavitù dopo la sconfitta, per misurare le terre che
dovranno lavorare. L'attributo con cui viene qualificato il responso è klbd
los che, nel suo senso traslato, significa "ambiguo", "fal
so", "ingannevole", ma nel suo senso base fa riferimento alla
carica estranea che adultera il metallo prezioso. Ciò che ne risulta, come nei
casi presi in considerazione, è la com mistione di due metalli, uno buono e
uno non, che fa lucci care come oro ciò che oro non è. Analogo meccanismo,
infine, si trova negli aneddoti, ri portati da Diodoro Siculo (Biblioteca, XVI,
91-92; XX, 29), nei quali viene annunciato a un generale che pranzerà o
alloggerà nella città che sta assediando; queste cose si verifi cheranno, ma
la prospettiva non sarà quella del vincitore bensì quella del
prigioniero. 48 2. LA DIVINAZIONE GRECA 2.4 Il segno come sfida:
divinazione ed enigma Abbiamo accennato alla carica di aggressività che si cela
dietro al segno oscuro. Questo aspetto collega immediata mente il segno
divinatorio all'enigma vero e proprio, an ch'esso oscuro e insolubile e, mitologicamente,
espressione della sfida che la divinità lancia ali'uomo. È stato Colli ( 1 975
: 1 8) a mettere in luce il rapporto tra la divinazione, l'enigma e l'altra
faccia di Apollo, quella mi nacciosa e distruttrice. 1 2 Apollo, infatti, non
è soltanto di vinità benefica che dona agli uomini l'arte mantica e la me
dicina: egli è anche il dio della freccia e dell'arco. Queste in dicazioni
assumono un valore direttamente semiotico quan do si scopre che la freccia di
Apollo e il segno oscuro sono non due cose diverse, ma due mezzi di espressione
della me desima potenza del dio e che possono avere anche lo stesso
funzionamento, come si può inferire da un passo di Pinda ro (0/ymp., II,
83-85). Il vero destinatario delle frecce di Apollo è l'uomo in quanto
interprete. Fuori dal linguaggio figurato l'uomo-in terprete raccoglie una
sfida che il dio, con intenzione ostile, gli lancia; e, dagli esempi stessi che
abbiamo visto nei rac conti oracolari, si è potuto notare che il non riuscire
a vin cere questa gara con il dio, cioè non riuscire a interpretare il segno
oscuro, conduce alla rovina. Non sembrano esserci, a questo punto, più dubbi
sulla relazione assolutamente stretta tra segno divinatorio ed enigma. Ciò
viene confermato anche da un'analisi diacroni ca del "genere"
enigma, che nasce proprio all'interno della sfera religiosa della divinazione
con i due ben precisi carat teri dell'ostilità divina nei confronti dell'uomo
e dell'aspet to di sfida a una gara. Lentamente l'enigma si staccherà dal contesto
sacro per dare origine a una sua storia evolutiva, nel corso della quale
attenuerà, pur conservandone traccia, i caratteri iniziali. La storia
deli'enigma è la storia stessa dell'interpretazione intesa come gara, fino ad
approdare al l'idea di interpretazione come confronto dialettico tra due
opinioni opposte. Può essere interessante per il nostro discorso, inteso
a 2.4 n SEGNO COME SFIDA 49 enucleare l'aspetto del segno divinatorio
come dispositivo scatenatore di interpretazione, seguire alcune delle fasi più
salienti dell'evoluzione deli'enigma. Come noto, il primo e più celebre esempio
di apparizione dell'enigma in un contesto sacro è quello presente nel mito
della Sfinge. La creatura mostruosa mandata da Apollo im pone agli abitanti di
Tebe l'enigma sulle tre età dell'uomo. La posta in gara è la vita: chi non
riesce a risolverlo è divo rato dalla Sfinge; chi invece lo risolve - e il
solo Edipo ne è capace - fa precipitare la Sfinge nell'abisso. Ma nella prima
evoluzione deli'enigma, già in età arcai ca, la lotta tra un personaggio
divino e uno umano, si spo sta a quella tra due personaggi umani, che però
conservano ancora un aggancio con la sfera del sacro in quanto sono due
divinatori. Questa fase è illustrata dall'aneddoto di Strabone sulla gara tra
Calcante e Mopso. Calcante propo ne a Mopso di "indovinare" quale è
il numero di frutti che porta un fico selvatico che si trova sul loro cammino.
Mop so dà una risposta estremamente dettagliata ("Sono dieci mila di
numero, la loro misura è un medimno, ma uno di questi fichi è di troppo e non
rientra nella misura") di fron te alla cui esattezza Calcante viene
colpito da un "sonno di morte" (Geogr., VI, 232-235). Di fronte alla
sapienza, ancora di origine divina, dei due personaggi, anche il contenuto
dell'enigma passa in secon do piano, come dimostra la banalità deli'oggetto
che deve essere scoperto. È, del resto, la stessa irrilevanza contenuti stica
che si poteva notare nell'enigma della Sfinge, cosi sproporzionato rispetto ai
rischi mortali che comportava. Tuttavia, nel passaggio ulteriore, quando
l'enigma si umanizza completamente, anche il suo testo assume un as setto
formale elaborato, basato sulla formulazione di una contraddizione che, anziché
non designare niente (come av viene di norma in un caso del genere), designa
altresì qual cosa di reale. Questa forma la si trova nella leggenda ri
guardante la morte di Omero: Omero interrogò il dio per sapere chi fossero i
suoi genitori e quale la sua patria; e il dio così rispose: "L'isola di lo
è patria di 2. LA DIVINAZIONE GRECA tua madre, ed essa ti accoglierà
morto; ma tu guardati dall'e nigma di giovani uomini [. . . ]" . Giunse
ad Io. Qui, seduto su uno scoglio, vide dei pescatori che si avvicinavano alla
riva e chiese loro se avessero qualcosa. Quelli, poiché non avevano pescato
nulla, ma si spidocchiavano, per la mancanza di pesca, cosi risposero:
"Quanto abbiamo preso l'abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo
portiamo", alludendo con un enigma al fatto che i pidocchi che avevano
preso li avevano uc cisi e lasciati cadere, e quelli che non avevano preso li
portava no nelle vesti. Omero, non essendo capace di risolvere l'enig ma,
morì per lo scoramento. (Arist., Dept., fr. 8) Nel frammento compaiono ancora
gli elementi dell'enig ma che abbiamo già incontrato: la sfida circa un
oggetto di conoscenza e il rischio mortale per il sapiente che non si di
mostra in grado di risolvere l'enigma; ma in più compare la forma elaborata di
una contraddizione, che da allora sarà tipica di questo genere. Più
precisamente compaiono due coppie di determinazioni contraddittorie
"abbiamo preso - non abbiamo preso" e "abbiamo lasciato -
portiamo", che possono essere così disposte sul quadrato logico: 50
·abbiamo preso· CONTRARI {non abbiamo fasciato = ) ·portiamo· ·non abbiamo
preso'" SUB CONTRARI ·abbiamo fasciato• 2.5 AGONISMO,
DIALETTICA, RETORICA 51 Ciascun singolo termine della prima coppia di contrad
dittori ("abbiamo preso"/"non abbiamo preso") entra in
relazione di congiunzione con un singolo termine della se conda coppia
("abbiamo lasciato"/"portiamo"), ma in mo do diverso da
quello che ci si attenderebbe intuitivamente (cioè "quanto abbiamo preso,
lo portiamo" e "quanto non abbiamo preso, l'abbiamo lasciato").
Invece nell'enigma ri sultano congiunti termini che logicamente sono in opposi
zione contraria: "quanto abbiamo preso, l'abbiamo lascia to" e
"quanto non abbiamo preso, lo portiamo". Eppure l'enigma non è, come
sappiamo, assurdo. Il sapiente, che domina la ragione, deve essere in grado di
sciogliere questo groviglio problematico. Umanizzandosi completamente, l'enigma
mette in evi denza l'aspetto competitivo, di gara per la sapienza, e si sta
bilizza sulla forma della contraddizione apparentemente in solubile.
L'ulteriore e ultima tappa di questa evoluzione conduce, secondo l'ipotesi di
Colli (1975), alla nascita della dialet tica. 2.5 Agonismo , dialettica,
retorica La dialettica, nel senso antico del termine, nasce infatti sul terreno
stesso dell'agonismo: essa si presenta come di scussione tra due persone su un
qualsiasi argomento cono scitivo; su questo campo comune si instaura una gara
desti nata a far emergere un vincitore. L'andamento generale della discussione
segue questo schema (Arist., Top.): inizialmente, lo sfidante propone una
domanda in forma alternativa, presentando i due corni di una contraddizione.
L'avversario sceglie uno dei due cor· ni e ne sostiene la verità. A questo
punto lo sfidante deve dimostrare come vera l'altra alternativa e cosi
confutare l'affermazione dell'avversario. Naturalmente il procedi mento può
richiedere anche una serie molto lunga e artico lata di successive domande e
risposte, miranti, in maniera diretta o, per lo più, indiretta, alla
dimostrazione. LA DIVINAZIONE GRECA Al suo nascere, però, il linguaggio
dialettico è limitato a un ambiente ristretto e in qualche modo elitario.
l)ccisi vi cambiamenti sono, tuttavia, destinati a verificar si con
l'accrescersi della cultura ad Atene e con il definitivo affermarsi del regime
democratico; infatti le forme della dialettica entrano nella sfera pubblica e
si connettono con il mondo politico. Così la discussione si allarga indefinita
mente e la dialettica, in una sua forma in qualche modo adulterata, si trasforma
in retorica. Dialettica e retorica sono basate entrambe su un forte spirito di
competizione. Tuttavia ciò che le distingue è che, nella prima, non c'è bisogno
di un giudice per assegnare la palma della vittoria a uno dei due contendenti:
la vittoria di uno dei partecipanti risulta dalla discussione stessa, in
quanto, durante lo sviluppo del dibattito, l'avversario ha contraddetto la tesi
che prima affermava. Nel caso della re torica, invece, l'agonismo è molto più
diretto e acceso, in quanto saranno gli ascoltatori a giudicare quale è stato
il migliore discorso; manca nella retorica una sanzione intrin seca (come c'è
nella dialettica) e per questo deve aggiungere un elemento emozionale, legato
all'intento persuasivo. 2.6 Divinazione e interpretazione persuasiva Il
processo evolutivo che abbiamo descritto è iniziato con il segno divinatorio
come sfida conoscitiva posta dal dio al l'uomo ed è approdato, nel punto del
suo massimo allonta namento, alla competizione conoscitiva della dialettica e
della retorica. Ma proprio a questo punto il cerchio sembra chiudersi tornando
al punto iniziale, con l'introduzione, ali'interno della divinazione stessa,
dei metodi della discussione dialet tico-retorica. È molto indicativo , a
questo proposito , un passo di Ero doto, in cui assistiamo a una sorta di
conciliazione appunto tra la divinazione, con la sua tipica concezione
deterministi ca del mondo, e l'eloquenza politica, legata a una visione mobile
della vita, che sottopone ogni cosa a una incessante 2.6 DIVINAZIONE E
INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 53 discussione. Egli infatti narra che gli Ateniesi,
trovandosi di fronte alla minaccia di una invasione persiana, mandarono a Delfi
degli ambasciatori per consultare l'oracolo. Ma, in un primo momento, la Pizia
li affrontò con l'annuncio di gravissime sciagure. Costernati, senza però darsi
per vinti, gli Ateniesi sollecitarono una seconda consultazione, im plorando
un responso più favorevole e stabilendo di non muoversi più dall'oracolo fino a
che non l'avessero ottenu to. La Pizia accettò di emettere un secondo
responso: Zeus concede a Tritogenia (Atena) che solo un muro di legno sia
inespugnabile, il quale salverà te e i tuoi figli. Non aspettare, inerte, la
cavalleria e le forze di terra che arrivano in massa dal continente, ma
ritìrati, volgi le spalle; verrà il giorno in cui po trai tenere testa. O
divina Salamina, farai perire figli di donne, o quando si semina o quando si
raccoglie il frutto di Demetra. (Herod., Hist., VII, 141) Il racconto d i
Erodoto mostra chiaramente come i l segno divinatorio, il responso oracolare,
innanzitutto non venga accolto con atteggiamento fatalistico. l messaggeri non
si accontentano del primo responso, ma sfidano a loro volta il dio, minacciando
di non muoversi dal santuario fintanto ché non abbiano indotto il dio a
mitigare il suo atteggia mento ostile. Ma, ciò che è più interessante, il
testo erodo teo mostra bene come il segno oracolare sia sottoposto a una
discussione. Infatti i messaggeri, una volta ottenuta la risposta, la trascrivono
e ripartono alla volta di Atene per riferire il responso all'Assemblea. La
forma della discussione che si svolge davanti aiPAs semblea è quella tipica
della dialettica. Il segno oscuro sca tena un processo interpretativo che
prevede varie possibilità di percorso. Ma, anzitutto, dialetticamente, si
presenta co me una dicotomia tra due soluzioni opposte e mutualmente
escludentisi: (i) ritirarsi sull'acropoli, anticamente fortifica ta con una
palizzata, perché a essa alludeva il dio con l'e spressione "muro di
legno"; (ii) allestire una flotta, perché il dio intende riferirsi
(sma(nein), con quella espressione enigmatica, a una barriera di navi. 54
2. LA DIVINAZIONE GRECA Ciascun corno della contraddizione è fatto proprio da un
gruppo: (i) "alcuni anziani" (affiancati dai cresmologi) so stengono
il primo termine; (ii) "altri" (tra i quali compare Temistocle)
assumono il secondo. Per ora siamo solo alla presentazione del problema: è poi
necessario sviluppare una dimostrazione che porti a contraddire una delle due
tesi. La discussione segue il secondo corno del dilemma; è co me se si
dicesse: "Ammettiamo che l'interpretazione giusta sia quella che consiglia
di allestire una flotta. Quale con traddizione comporta questa
interpretazione?". I cresmologi fanno notare, a questo punto, che
accettare il secondo corno del dilemma comporta una contraddizione con quella
parte del testo che predice a Salamina di divenire causa della morte di molti
uomini. Accettare la giustezza di questo sottoproblema posto dai cresmologi
comporterebbe l'autoconfutazione della tesi principale. Si è però nel frattempo
verificato uno spostamento del li vello tematico della discussione: a questo
punto, per avere ragione sulla tesi dei cresmologi, è sufficiente dimostrare
in.. fondata la loro obiezione. È appunto quello che fa Temistocle, negando che
l'obie zione dei cresmologi comporti una reale contraddizione. E anche in
questo caso il ragionamento procede per assurdo e prende in considerazione una
questione di prospettiva: se infatti avessero ragione gli avversari con il dire
che Salami na (metonimia per "battaglia con la flotta") avrebbe
causa to morte agli Ateniesi, e se anche questa seconda parte della profezia
fosse rivolta, come la prima, ancora agli Ateniesi, il dio non avrebbe
attribuito all'isola l'epiteto di "divina", ma di
"sventurata". In altre parole, c'è contraddizione tra l'epiteto
"divina" usato per Salamina e la morte degli Ate niesi. Dunque
questa seconda parte del responso, contenen te una predizione di morte, deve
essere intesa come rivolta ai nemici. Non sfuggirà che in questa seconda fase
della discussione il metodo dialettico va impercettibilmente sfumando in quello
più propriamente retorico. Conclusivamente Temistocle propone una interpretazio
ne che tende più a persuadere in positivo della validità del 2.6
DIVINAZIONE E INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 55 proprio ragionamento che non a
dimostrare la falsità della tesi fondamentale degli avversari. Infine
interviene il giudi zio dell'uditorio, elemento fondamentale appunto del di
scorso retorico, per sancire la vittoria di uno dei due con tendenti. Il testo
dice che gli Ateniesi "giudicarono preferì bile (hairetbtera)" la
spiegazione di Temistocle rispetto a quella dei cresmologi. Al discreto della
logica binaria del l'alternativa dialettica, succede il continuo della logica
gra duata del preferibile. La discussione può aver fatto perdere di vista che
oggetto di dibattito è un vaticinio del dio di Delfi. Ma non a caso. La logica,
appunto, che viene fatta intervenire neli'interpre tazione del responso
divinatorio è esattamente la stessa che guida le assemblee politiche. E del
resto non è senza significato il fatto che in questo contesto gli avversari di
Temistocle siano dei "cresmologi", cioè interpreti specializzati dei
responsi divini, ed è notevole che essi risultino sconfitti: è la conferma
paradigmatica di come nella Grecia della polis sia la razionalità politica a im
porre i suoi metodi alla divinazione e non viceversa. In definitiva, il
carattere di oscurità attribuito al segno divinatorio rende un ottimo servigio
ali'orientamento fon damentalmente orale e dialettico della cultura greca: con
ferma il segno stesso come dispositivo scatenatore di inter pretazioni, da
sondare con la procedura del confronto tra discorsi contrapposti. Il segno
rinvia a una realtà altra da sé, nascosta e ambi gua, ma alla quale si può
arrivare se ci si impegna in un confronto tra interpretazioni contrastanti:
procedura che, lungi dali'essere paralizzante, è invece stimolante e produt
tiva. In questa prospettiva il segno divinatorio si allontana da quelle che
erano due sue caratteristiche fondamentali, cioè il primato della visione e la
concezione della verità come ri velazione: la verità come a-ltheia, intesa
come caduta dei veli che la tenevano nascosta (lanthano). 1 3 Nel passo di
Erodoto non sono gli indovini con la loro vi sione panoptica a rivelare il
senso nascosto del segno: esso prende qui luce dalla congettura (che in Erodoto
è sempre 56 2. LA DIVINAZIONE GRECA espressa dal verbo symba/10 e dai
suoi derivati, equivalente al più diffuso tekmafroma1). E saranno proprio la
congettura e l'abbandono della vi sione che permetteranno di far evolvere il
segno dal campo della divinazione a quello della scienza vera e propria. SEGNI
E PROCESSI SEMIOSICI NELLA MEDICINA GRECA 3.0 Introduzione Ci siamo finora
interessati dell'ampio e magmatico cam po della divinazione, dove abbiamo
visto emergere le prime pratiche semiosiche, connesse, nella cultura greca, con
la nascita stessa di un pensiero sapienziale. Ci occuperemo ora dell'altra
grande area di manifestazione di un pensiero se mioticamente orientato, che
sorge prima e in maniera indi pendente dalla ricerca filosofica in senso
stretto: la medici na greca. In quest'area, accanto alla presenza fondamentale
dei processi semiosici, si possono registrare anche le prime vere e proprie
elaborazioni teoriche intorno al segno e all'infe renza (Vegetti 1976: 49
ss.). In seguito, la riflessione semio tica sarà consegnata direttamente alla
filosofia e alla retori ca; ma ampie tracce delle origini rimarranno sia negli
esempi che filosofi e trattatisti di retorica sceglieranno per illustrare il
segno (esempi spesso di carattere medico, talvol ta fisiognomico) sia nella
scelta di un modello di funziona mento logico del segno secondo lo schema
"Se p, allora q", che abbiamo visto operante nella divinazione e che
vedremo trasposto nella medicina con diversi contenuti, ma con eguale forma. A
differenza della divinazione, per la quale disponiamo di testimonianze per lo
più indirette e disorganiche, la medi cina greca può contare su una ricca
documentazione, rap presentata in particolare dal Corpus Hippocraticum, 1
un 58 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA insieme abbastanza ampio e vario di
testi (circa un centi naio) in cui si trovano illustrate le pratiche e le
teorie medi che del V e IV secolo a.C. Tali testi non appartengono a un unico
autore, come la tradizione aveva indotto a credere, attribuendoli a Ippocrate,2
né a un'epoca circoscrivibile con la vita di un uomo. Sono invece presenti
all'interno del C.H. opere con diverse finalità ed3esprimenti indirizzi di
versi nel campo del sapere medico. Tuttavia, nonostante la disomogeneità che è
dato riscon trare all'interno del C.H., è possibile vedere nello studio della
medicina del V e IV secolo uno dei più importanti campi di indagine del
pensiero greco, che si affianca sen z'altro alla ricerca filosofica e alla
storiografia coeve e che intrattiene con esse dei rapporti fecondissimi di
interscam bio. È noto il giudizio di Werner Jaeger, secondo cui il pen siero
socratico non sarebbe stato possibile senza le opere ip pocratiche,4 ed è
stato sottolineato il debito che la storio grafia scientifica, inaugurata da
Tucidide nell'ultimo scor cio del V secolo, ha contratto nei confronti della
téchn ip pocratica. Ciò che la medicina aveva da offrire tanto alla filosofia
quanto alla storiografia era un modello di sapere specifica mente semiotico,
articolato sul doppio livello rappresenta to, da una parte, da una solida
struttura formale (il loghi smos, cioè il ragionamento inferenziale, nei suoi
due mo menti abduttivo e deduttivo) e, dall'altra, da un orienta mento di
base empirico.6 Come vedremo meglio in seguito, il segno medico costi tuisce
proprio il prodotto del ragionamento inferenziale ap plicato alla ricorrenza
dei fenomeni, i quali in tanto acquisi scono senso, divenendo segni, in quanto
sono riconducibili appunto al loghismos. 3.1 Ambiguità della prognosi A
differenza del medico moderno, che legge i segni in funzione della diagnosi, il
medico antico elaborava il suo ragionamento in funzione della prognosi. Un
intero trattato 3. l AMBIGmTÀ DELLA PROONOSI 59 del C.H. , Ilprognostico,
è specificamente dedicato a questo problema. Eccone il passo iniziale e
programmatico: Quanto al medico, mi sembra che la cosa migliore sia che egli
pratichi la previsione; infatti, con una conoscenza e dichiara zione
preventiva, di fronte ai malati, dei loro casi presenti, pas sati e futuri, e
con una puntuale esposizione di quanto gli infer mi tralasciano di dire, egli
conquisterà maggiore fiducia di po ter conoscere le condizioni dei malati,
così che gli uomini si ri solvano ad affidare se stessi al medico. (cap. 1)7
Dal passo si può osservare che la prognosi non è concepi ta come previsione di
eventi soltanto futuri, ma coinvolge anche elementi di conoscenza che
riguardano sia il presente sia il passato:8 il medico deve avere la capacità di
descrivere anche quei sintomi, o quei fatti in generale, che gli ammala ti
tralasciano di esporre. Dal procedimento descritto nel Prognostico non sono
assenti scopi chiaramente manipola tori: dicendo ciò che sfugge ai malati, il
medico mira ad ac quistare maggiore credito presso di loro per persuaderli ad
affidarsi alle sue cure. È interessante che una procedura che vuole presentarsi
con i crismi della scientificità e dell'obiet tività, si ponga non tanto lo
scopo del rispecchiamento del la realtà (nosologica in questo caso), ma quello
della sua manipolazione. II discorso del medico è fatto, in questo ca so,
anche di "segni efficaci" come uello della retorica in cantatoria di
Gorgia o della magia. Del resto, la formula con il triplice riferimento al
passa to, al presente e al futuro, che non costituisce un caso isola to, ma
ricorre a esempio anche in Epidemie l (come pure, per definire la medicina, nel
Lachete platonico, 198 d), spinge a istituire un parallelo con l'analoga
formula usata per individuare il procedimento divinatorio (Brtescu 1 975: 46) .
1 0 D'altra parte, se per un verso si possono riscontrare ele menti comuni tra
la medicina e la divinazione, per un altro molti degli scritti medici del C.H.
sottolineano esplicita mente e con forza la distanza e i punti di divergenza.
A 60 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA esempio l'autore del libro Il regime
nelle malattie acute (cap. 8) polemizza contro le pratiche discordanti dei
cattivi medici, paragonandole alle pratiche di interpretazione divi natoria.
L'attacco sferrato alla divinazione è su base semiotica: il segno divinatorio è
ambiguo, può significare due cose dia metralmente opposte, e perciò è lontano
da quel piano di oggettività al quale aspira la scienza medica. Anche l'autore
del Prorretico II si scaglia contro i cattivi medici criticando le loro
predizioni miracolose, che li rendono simili agli in dovini, e contrappone
orgogliosamente il proprio metodo basato sui segni umani e sulla congettura:
Per parte mia non farò affatto delle divinazioni del genere (ou manteU.somat),
ma scriverò i segni (smeia) attraverso i quali si deve congetturare
(tekmafresthat), tra i malati, quali guariran no e quali moriranno, quali
guariranno e quali moriranno in poco o in molto tempo. (cap. l) L'inferenza
divinatoria (manteuein) è direttamente con trapposta alla congettura
(tekmairesthaz). La violenza con cui i medici polemizzano contro la divinazione
e la netta presa di distanza rispetto a essa è sicuramente indizio del fatto
che essi tentavano di imporre un nuovo e autonomo paradigma epistemologico, una
"semiotica profana"; ma è indizio, anche, del fatto che il rischio di
confusione o di fraintendimento era ancora presente. Sotto certi aspetti la
medicina ippocratica appare effetti vamente come la continuazione di una
medicina preceden te, popolare e antichissima, impostata su basi magiche
(Parker 1983: 213 ss.). Certi settori della terminologia de nunciano
chiaramente questa situazione: Pimportanza cen trale, nel C.H., della
katharsis ("purificazione") rimanda alle purificazioni magiche dello
iatr6mantis "medico-indo vino" e dei purificatori apollinei come
Epimenide e Bacide; lo stesso termine che indica il medicamento, pharmakon, era
in origine impiegato per indicare ciascuno dei due citta dini di Atene che
regolarmente il 6 di Targelione, o anche in 3.2 MEDICINA E SEMIOTICA
MAGICHE 61 caso di pestilenze, erano sottoposti a osservanze rituali, fla
gellati e scacciati dalla città e forse uccisi, per adempiere a una cerimonia
di purificazione (Lanata 1967: 45). Proprio per questi motivi il tentativo di
autodifferenzia zione dei medici ippocratici rispetto al paradigma magico
doveva assumere toni molto accesi, come ci mostra uno dei trattati più
interessanti del corpus, il Male sacro. Poiché, dal punto di vista della storia
della semiotica, la medicina magica non è meno importante di quella laica,
dedicheremo il prossimo paragrafo a illustrare il suo paradigma. Dopodi ché
esporremo la critica di questo stesso paradigma quale ci viene presentata
dall'autorè del Male sacro. 3.2 Medicina e semiotica magiche Molte fonti
letterarie suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la divinazione e
per la medicina: entram be le pratiche, infatti, figurano come doni di Apollo
e sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio (197
a): "In verità Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina e la
divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che le due
pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano avvertite
come originariamente collegate. E un effettivo stretto colle gamento esse lo
trovano nella figura antichissima dello ia tr6mantis, il medico-indovino, che
unisce in sé le facoltà di un veggente e la capacità di curare le malattie.
L'appellati vo iatr6mantis è riferito in prima istanza allo stesso Apollo; ma
passa poi a una serie di personaggi in vario modo legati al dio, che uniscono
al dono della mantica e della medicina, anche quello di effettuare delle
purificazioni. Un elemento fondamentale che caratterizza la figura del lo
iatr6mantis è la sua capacità di usare una procedura dia gnostica: trattandosi
di un veggente, egli è in grado di indi viduare la causa nascosta di una
malattia, causa che è da at tribuirsi sempre a un intervento soprannaturale.
In epoca antichissima la malattia è concepita infatti come miasma, come
contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità 62 3. I SEGNI NELLA
MEDICINA GRECA divina o demonica. 1 1 Per questa ragione c'è bisogno di un
medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli rendono accessibile il
mondo delle forze oscure e soprannaturali alle quali è imputato il presente
stato di contaminazione; in se guito alla sua diagnosi, lo iatr6mantis può
indicare gli stru menti magici atti a purificare il miasma. Questa concezione
è ben iliustrata da una notizia di un autore di scuola pitagorica, Alessandro
Poliistore, che cita le Memorie pitagoriche: L'aria (secondo i Pitagorici) è
piena di anime; ed essi le conside rano demoni ed eroi e pensano che siano
essi a inviare agli uo mini i sogni e i segni premonitori (smefa) e le
malattie, e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e agli altri animali da
pa scolo; e a questi (demoni ed eroi) sono dirette le cerimonie ca tartiche e
apotropaiche e tutta la mantica e i vaticini e tutto ciò che è di tal genere.12
Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una se miologia sacra
abbinata a una medicina magica. I demoni sono la fonte delle malattie che
affliggono gli uomini; ma, contemporaneamente, sono anche la fonte
dell'informazio ne che concerne il mondo invisibile, inviando agli uomini i
segni (compreso quel particolare tipo di segno che sono i so gni) dai quali si
rende riconoscibile l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo
si chiude attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a
produrre: i riti catartici e apotropaici. In particolare le cerimonie apotro
paiche sono costituite dalla recita di epOidal, cioè di formu le verbali
incantatorie, ritenute idonee a scongiurare il ma le: si tratta di segni
linguistici che da una parte chiudono il circuito comunicativo con il
soprannaturale, dall'altra sono "efficaci", nel senso che intendono
agire sul mondo e non rispecchiarlo. 3.3 La critica alla magia e alla semiotica
sacra Prenderemo ora in considerazione le critiche rivolte alla 3.3 LA
CRITICA ALLA SEMIOTICA SACRA 63 magia sul piano specificamente semiotico ed
epistemologi co. L'autore del Male sacro si muove sostanzialmente in due
direzioni: l . contrapporre alla nozione di "sacro" quel la di struttura
naturale (phjsis) e di causa razionale (pro phasis); 2. mostrare
l'inconsistenza sul piano logico del ra gionamento sotteso dalle procedure
della medicina magica, apponendovi un tipo di ragionamento inferenziale basato
sul tekmérion (che qui compare già con il senso di "prova", di
"segno sicuro") (cap. l). Ciò che l'autore del trattato vuole
contestare è la conce zione di un'origine divina della malattia; e questo vale
tanto per il "male sacro", cioè l'epilessia, quanto per qualunque
altro tipo di morbo. Sotto accusa è la nozione di "sacro'', come qualcosa
che si riconduce all'intervento divino. In ef fetti, il termine hier6s, anche
se in greco si specializzò molto presto in senso religioso, in origine non
apparteneva alla sfera olimpica, ma era legato a una concezione animistica:
hier6s è tutto quello in cui si rivela una vitalità prodigiosa e magica, e una
malattia è sacra in quanto inviata da una for za soprannaturale. Lo stesso
termine iasthai, "curare" (da cui iatr6s "medico"),
originariamente doveva indicare un curare come "un ristorare, un ridonare
le forze attraverso appropriate operazioni magico-mediche" (Ramat 1962:
20). In effetti, l'idea della malattia come riconducibile a un intervento
diretto "del piano verticale della trascendenza su taluni punti di quello
orizzontale della causalità naturale" (Vegetti 1976: 291) appare mettere
fuori gioco ogni idea di regolarità dei fenomeni ed escludere,
contemporaneamente, la possibilità di controllo su di essi e di previsione. La
no zione di "natura", che l'autore del trattato contrappone a quella
di "sacro", viene a reintrodurre proprio la regolarità nel movimento
di cause ed effetti, rendendo possibile l'im postazione della medicina su basi
scientifiche. Inoltre, se la nozione di phjsis individua la struttura oggettiva
e omoge nea di ricorrenze tra cause ed effetti, quella, correlata, di
pr6phasis (in altri casi aftion, aitle) rimanda al momento della spiegazione
del singolo fenomeno. 64 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA 3.4 Le forme di
argomentazione logica e il "tekmérion" Tuttavia il punto di maggior
forza dell'autore del Male sacro rispetto ai suoi avversari consiste nelle
modalità di ar gomentazione logica che adotta: facendo un esplicito ricor so
al tekmrion (''prova", "segno sicuro") egli riesce a indi
viduare delle contraddizioni interne al sistema della medici na magica e a
confutarla. Vediamone subito un esempio: E v'è un 'altra grande prova (méga
tekmrion) che questa non è più divina delle altre malattie; insorge ai
flegmatici per natura, ma non colpisce i biliosi: mentre, se fosse più divina
delle altre, in tutti ugualmente dovrebbe prodursi questa malattia, senza
distinguere tra biliosi e flegmatici. (cap. 2)13 L'argomentazione assume la
forma rigorosa di quello che in seguito sarà chiamato nzodus tollens, cioè
"Se p, allora q; ma non-q; di conseguenza non-p''. In altre parole
l'autore del A-lale sacro ragiona così: "Se questa malattia fosse più
divina delle altre (p}, essa dovrebbe colpire indistintamente tutti (q); ma
questo non si verifica (perché colpisce i flegma tici, ma non i biliosi)
(non-q); ne consegue che essa non è più divina delle altre (non-p)". Si
deve rilevare che l'autore utilizza la non verità del conseguente nel modus
tollens (''che la malattia non colpisce indiscriminatamente tutti") come
segno (teknzérion "segno sicuro", "prova") della non verità
dell'antecedente (''che l'epilessia non è più divina del le altre
malattie"). Naturalmente bisognerà aspettare Aristotele prima che il
nzodus tollens come schema ragionativo venga teorizzato e che venga fornita una
definizione rigorosa di teknzérion. Del resto, spetterà poi agli stoici di dare
un'analisi formale di questo schema argomentativo e di dire che ogni schema
argomentativo deve essere considerato come un segno. È in teressante,
tuttavia, che già l'autore ippocratico leghi l'e spressione tekmrion (che da
Aristotele in poi assumerà ine quivocabilmente il significato di "segno
inconfutabile") con 3.5 LA VISTA E OLI ALTRI SENSI 65 lo schema
inferenziale del modus tollens: logica e semiotica vengono già a trovare un
punto di convergenza e di saldatu ra. Saldatura che con gli stoici sarà
totale. 3.5 La vista e gli altri sensi Tuttavia la contrapposizione tra una
semiologia sacra e una profana non si basa soltanto sulla capacità, che la se
conda possiede, di utilizzare un ragionamento rigoroso e di fare ricorso a
segni che si inquadrino in uno schema logico inferenziale. Come ha mostrato
Lanza (1979: 103), un altro importante elemento di divergenza tra il paradigma
divina torio e quello della medicina ippocratica è dato dal diverso ruolo che
la vista gioca nei processi di conoscenza. Nella divinazione e nella medicina
magica la vista ha una parte fondamentale, in quanto è fonte primaria, e in
qual che modo unica, dell'attività conoscitiva. Non per niente Apollo, dio
della divinazione, è nelle parole di Pindaro co lui che possiede
"l'occhiata che conosce ogni cosa" (Pyth., III, 29): niente infatti è
sottratto alla sua vista nel passato, nel presente e nel futuro; a lui
appartiene il "dominio del tempo". L'uomo può conoscere solo ciò che
contingente mente capita sotto il suo sguardo. Solo l'indovino e il poeta
possiedono una seconda vista, che permette loro di vedere anche ciò che è al di
là delle limitazioni cui sono sottoposti i comuni mortali; per questo spesso i
primi sono ciechi, per essere ricettivi a questa vista; e un'analoga
limitazione delle facoltà percettive si verifica anche nell'attività onirica,
du rante la quale la raccolta di stimoli esterni si attenua fin quasi a
scomparire.14 Tanto nel poeta quanto nell'indovi no, poi, la visione si
tramuta in parola, diventando il segno che supplisce alla mancanza di presenza.
Questa concezione comporta una dipendenza del segno dalla divinità e una di
cotomia tra ciò che è percepibile con la vista e ciò che non lo è. Ma un primo
superamento della dipendenza dalla divi nità per la conoscenza dell'invisibile
si ha nel famoso motto di Anassagora "Vista dell'invisibile è ciò che
appare" (6psis ad/On tà phainomena) (D-K, 59 B 21a). Il fenomeno
viene I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA qui a sostituirsi alla divinità. La
vista tuttavia rimane cen trale. Caratteristicamente in un trattato medico
arcaico. Malattie delle donne, al cap. 60, si dice che attraverso il dito il
medico "vedrà" il modo di presentarsi del collo dell'u tero.
Certamente le opere del C.H. procedono sul cammino aperto da Anassagora, ma
contemporaneamente in esse il ruolo della vista perde di importanza nel
processo di cono scenza. Ci sono ragioni specificamente inerenti alla téchn
ippocratica che portano a una svalutazione, o almeno a un ridimensionamento,
del ruolo della vista. Nel trattato L 'ar te si dice esplicitamente che
"delle malattie alcune hanno se de in luoghi non celati alla vista, e non
sono molte, altre in luoghi non aperti alla vista, e sono molte" (cap. 9).
Per giungere alla conoscenza di queste ultime, il medico trae congetture da
segni tattili, uditivi, olfattivi e talvolta persi no gustativi: è attraverso
l'intera gamma della tipologia se gnica che il medico può elaborare la sua
previsione, percor rendo il tempo anche nella dimensione di un passato e di un
futuro che sono nascosti. Non solo, ma avviene che, quan do i segni non si
presentano spontaneamente, il medico giunga a "forzare la natura" per
costringerla a fornire degli indizi (cap. 13). A questo punto è possibile
tentare un riesame dell'oppo sizione visibile/invisibile nel momento in cui
essa passa dal la divinazione, che l'aveva inventata, agli altri ambiti del
sapere. La ritroviamo, a esempio, in ambito giuridico, con l'anti tesi tra
"beni apparenti" e "beni non apparenti" che, secon do la
penetrante analisi di Gernet (1968: tr. it. 399 sgg.), si configura come
opposizione tra i beni materiali (fondiari e patrimoniali soprattutto) che si
possono percepire, e i credi ti in genere, "invisibili" (a esempio,
i crediti nei confronti di un banchiere presso cui si è depositato del denaro).
Poi, nell'ambito strettamente filosofico, l'opposizione assume un carattere
squisitamente antologico, dando vita a una duplicazione dei livelli di realtà.
In Eraclito, a esempio, il "nascosto" costituisce la realtà vera in
contrapposizione all'"apparente", dicotomia di cui si trova chiara
traccia nei 3.6 L'ANALOGIAE LACONGETTURA 67 due frammenti: "L'armonia
che non si vede è superiore a quella manifesta" (D-K, 22 B 54) e "La
natura ama nascon dersi" (D-K, 22 B 123). Come si può osservare, mentre
nella divinazione il "visibile" richiamava apertamente la funzio ne,
tutta fisiologica, svolta dali'organo della vista, una vol ta avvenuta la
trasposizione in altri campi questo legame si attenua. Di fatto scompare quasi
del tutto nella scienza, do ve visibile e invisibile vengono concepiti come
due mondi, la cui comunicazione è garantita non dalla vista, ma dalla
congettura. 3.6 L'analogia e la congettura Il carattere semiotico della
rivoluzione effettuata dal pen siero ippocratico è stato messo in luce da
Vegetti (1976), il quale, ponendo in relazione gli scritti dei medici
ippocratici con la cultura scientifica e filosofica del loro tempo, ha mo
strato come essi fossero impegnati in una lotta a favore di un "metodo
semiotico", contro il cosiddetto "procedimento analogico",
tipico della filosofia ionica e di quei medici e intellettuali che a essa in
qualche maniera si richiamavano. In effetti, quella ionica, più che come una
filosofia vera e propria, si caratterizzava come una physiologhla, cioè una
indagine sulla natura (phjsis), e come ricerca di un suo principio (arch). La
natura dei filosofi ionici è in sostanza il mondo quale si manifesta
all'osservatore, ma presenta un duplice aspet to: esso è, contemporaneamente,
molteplice, perché si com pone di una infinità di fenomeni, e unitario, in
quanto cia scun fenomeno manifesta lo stesso principio rintracciabile in ogni
altro frammento del reale. L'unico procedimento conoscitivo, in questo quadro,
è l'analogia: di fronte a qualsiasi fenomeno, si tratta di riper correre il
cammino della phjsis che porta, per via analogi ca, dal singolo fenomeno
all'arch. Dal punto di vista se- miotico, la filosofia ionica ragiona come se
qualsiasi tipo di modalità di produzione segnica fosse ridotto al solo metodo
del riconoscimento di campioni: un frammento sta costan- 68 3. I SEGNI
NELLA MEDICINA GRECA temente per una totalità che è a esso completamente omoge
nea (Eco 1975: 296; 1984: 48). Un paradigma diverso è quello che si impone a
partire da Alcmeone di Crotone proprio con la proposta del principio semiotico
della congettura: Delle cose invisibili e delle cose visibili solo gli dci
hanno cono scenza certa; gli uomini possono soltanto congetturare (lekmaf
resthal). (Diog.Lart.,VIII,83== D-K,24Bl) Mentre per i filosofi ionici e per la
medicina dei postulati c'era continuità tra i principi della natura, i suoi
fenomeni e l'osservatore stesso di quei fenomeni, con lcmeone nasce una
frattura profonda tra l'uomo e la realtà. Il mondo del l'esperienza non si dà
a conoscere spontaneamente, non è più trasparente. Proprio sulla frattura
inaugurata da Alc meone si impernia il metodo semiotico. Essa conduce alla
necessità di sostituire il procedimento dell'analogia con uno basato
sull'indizio: la conoscenza umana assume per princi pio il tekmafresthai, il
procedere per indizi e congetture. Ciò che la medicina ippocratica svilupperà,
e che è ancora assente in Alcmeone, è l'inquadramento del metodo conget turale
in una struttura logica compiuta. 3.7 Metodo analogico e metodo semiotico A
questo punto è possibile domandarsi quale forma assu ma la metodologia della
ricerca congetturale nei trattati ip pocratici. Una prima risposta a questa
domanda può essere cercata attraverso un'analisi della polen1ica che, a questo
proposito, ha opposto Regenbogen (1930) a Diller (1932) nella prima metà di
questo secolo. In questa polemica ritro viamo una contrapposizione tra
"metodo semiotico" e "me todo analogico"; ma in un senso
sensibilmente diverso da quello esaminato finora, in quanto la nozione di
"analogia" era assunta in un senso lato, molto vicino alla nozione se
miotica di "omomatericità".15 3 .7 METODO ANALOGICO E METODO
SEMIOTICO 69 In questo secondo caso la nozione di "analogico" viene
assunta in un senso strettamente tecnico, come istituzione di un parallelismo
tra un fenomeno da spiegare e un altro fenomeno noto, con conseguente
possibilità di inferenza dal secondo al primo. L'inferenza analogica del tipo
de scritto costituisce, secondo Regenbogen, il carattere specifi co della
metodologia di ricerca utilizzata dali'autore del gruppo di trattati Sulla
procreazione, Sulla natura del bam bino, Sulle malattie I V: in questi testi
vengono spesso messi a confronto processi di tipo non osservabile con processi
osservabili e i primi vengono chiariti mediante un'analogia con i secondi, come
si verifica a esempio quando viene isti tuito un parallelo tra lo sviluppo del
feto e quello delle pian te (Littré 1839, VII 528, 22 e sgg.) o quello di un
uccello (Littré 1839, VII 530, 14 e sgg.). L'autore dei trattati si at tiene
di fatto al principio di Anassagora secondo cui ciò che appare permette di
avere una visione anche di ciò che è invi sibile, e applica questo principio
sistematicamente. Il para gone con l'oggetto visibile, su cui si basa
l'analogia, viene visto come una prova deli'oggetto di partenza. Il
procedimento analogico non è limitato ali'ambito me dico-biologico, ma se ne
possono rintracciare esempi chia rissimi in ambito storico. A esempio Erodoto
(Hist., II, 33), quando parla del Nilo, il cui corso, le cui sorgenti e la cui
lunghezza gli sono sconosciuti, sostiene: "a quanto io ri tengo, congetturando
(tekmair6menos) dalle cose note quelle ignote, (il Nilo) muove da una
longitudine eguale a quella da cui muove il Danubio". Il ragionamento è il
se guente: il corso del Danubio è conosciuto dalle sorgenti alla foce, e,
posto sullo stesso meridiano, nella concezione di Erodoto, scorre nella
direzione opposta a quella del Nilo, cioè da nord a sud verso il mar Nero, così
come il Nilo scor re da sud a nord verso il mar Mediterraneo; il Danubio, in
fine, è il fiume maggiore dell'Europa, come pure il Nilo lo è dell'Africa. Dati
questi elementi, si può immaginare il corso del Nilo in analogia con quello del
Danubio. Secondo Diller (1932: 17), tuttavia, l'analogia non riesce a coprire
tutti i casi di inferenza dal visibile all'invisibile, e porta a questo
proposito un certo numero di esempi, tra i 70 3 . I SEGNI NELLA MEDICINA
GRECA quali l'inferenza sperimentale contenuta al cap. 8 del tratta to Le
arie, le acque, i luoghi. L'esperimento vuole dimo strare che le acque che
provengono dalla neve e dai ghiacci, perdono le qualità di leggerezza, di
limpidezza e di dolcez za, mentre conservano quelle di pesantezza e di
torbidezza. L'autore del trattato suggerisce a questo proposito di versa re,
durante l'inverno, dell'acqua in un recipiente e, dopo averla misurata, di
esporla all'aperto per lasciarla gelare. Il giorno seguente va messa di nuovo
al caldo e fatta scioglie re: misurandola, ci si accorgerà che la sua quantità
è molto diminuita. Questa è una prova (tekmrion) del fatto che, gelando,
l'acqua ha lasciato andar via la parte più leggera e delicata e dimostra,
contemporaneamente, la scadente qua· lità dell'acqua proveniente dalla neve e
dai ghiacci. Questo esperimento viene definito tekmrion e si basa sulla istitu
zione di un parallelismo tra due serie di dati di realtà. Ma, giustamente,
Diller mette in dubbio che si tratti an che di un procedimento analogico: in
effetti l'unica analo gia che vi si può istituire è che per una piccola
quantità di una materia (acqua: ghiaccio) valgono le stesse leggi che valgono
per l'elemento nella sua totalità. Si può esprimere quello che avviene
nell'esperimento attraverso la formula "parte : parte = tutto :
tutto"; la vera inferenza consiste nel trarre conclusioni dalla parte sul
tutto. Comunque, per Dil ler, qui siamo di fronte a un tipo di inferenza che
non è ana logica nello stesso senso in cui è analogica l'inferenza che abbiamo
visto in Erodoto, in quanto qui "tutto si svolge al l'interno del
processo che dovrebbe essere spiegato, senza che un processo analogo sia
chiamato in causa" (ibidem, 19). Con un ragionamento non diverso, secondo
Diller, l'au tore del trattato Le arie, le acque, i luoghi sostiene che la
parte più fine e più pura deli'acqua ingerita viene espulsa dall'organismo,
quella che è più densa e più torbida sedi menta: la prova (tekmrion) è data
dall'osservazione di co loro che soffrono di calcoli alla vescica, i quali
espellono un'urina limpidissima, in quanto la parte più densa e torbi da si
condensa appunto in calcoli. Ciò che questi esempi hanno in comune è che
qualcosa di 3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 7 1 non percepibile
viene spiegato attraverso dei fenomeni per cepibili. Però questi fenomeni non
sono degli analoga di ciò che deve essere spiegato, bensì dei segni: essi
stabiliscono, rispetto al processo che deve essere spiegato, lo stesso rap
porto che c'è tra l'effetto e la causa. Quindi, per Diller, l'in ferenza
semiotica (propriamente: semeiotisch, ibidem, 20, da lui collegata strettamente
al procedimento medico) deve intendersi nel preciso senso (che sarebbe stato
poi quello aristotelico) di inferenza dal conseguente. Ulteriormente per
Diller, mentre l'inferenza analogica rende chiaro il "So sein" di un
processo o di uno stato sconosciuto quella se miotica indizia del suo
"Dasein". Recentemente la problematica è stata ripresa da Lonie
(1981: 79 ss.),16 che ha sottolineato come nei trattati presi in considerazione
dal Regenbogen, ma anche in altri testi del C.H. in generale (a esempio in Le
arie, le acque, i luoghi, cap. 8), sono rintracciabili degli esempi di processi
esplicati vi complessi, che comportano sia una inferenza semiotica (inferire
le cause da fenomeni osservabili), sia una induzio ne analogica. Molto
interessante a questo proposito è il capitolo 12 (= Littré 1839, VII 486, 3
ss.) del trattato Sulla natura del bambino: l'autore stabilisce anzitutto la
teoria (elemento non osservabile) per cui lo sperma, trovandosi nell'ambien te
umido e caldo dell'utero materno, acquisisce una capaci tà di respiro (pneuma)
che si apre una breccia verso l'ester no: esso emette un soffio e, in una
seconda fase, inspira aria fresca attraverso la breccia. Per provare questa
teoria, l'autore ricorre a un'analogia con tre diverse classi di ogget ti, in
cui si verificherebbe lo stesso fenomeno: il legno, le foglie, le sostanze
commestibili. Viene poi descritto il com portamento del legno quando brucia:
esso espelle aria cal da, in corrispondenza del punto in cui è stato tagliato
e, contemporaneamente, attira a sé un altro soffio freddo. L'azione dei due
movimenti contrapposti fa sì che il fumo e il vapore si avvolgano intorno al
legno. Questo fatto viene descritto come un fenomeno osservabile ("noi
vediamo che accade questo"), dal quale viene tratta un'inferenza (eklo
ghismos) circa la causa del fenomeno stesso. Tale inferenza 72 3. I SEGNI
NELLA MEDICINA GRECA assume la forma di un modus tollens "Se non-p, allora
non-q; ma q; perciòp": "Se non ci fosse questo duplice mo vimento
contrapposto, allora il soffio (fumo e vapore) non si avvolgerebbe intorno al
legno, fuoriuscendo" (Littré 1839, VII, 486, 20-21). L'autore passa poi a
illustrare lo stesso tipo di comporta mento negli altri esempi di analoga e
procede quindi alla formulazione di una legge generale per induzione:
"tutte le cose che sono riscaldate emettono un soffio (pneuma) e fanno
entrare un soffio freddo per rimpiazzarlo". Alla fine l'autore sostiene
che i fenomeni descritti devono essere con siderati come "prove
necessarie" della sua affermazione teorica intorno allo sperma. Nel
procedimento conoscitivo messo in scena nell'esem pio precedente possono
essere messi in luce tre diversi ele menti . Anzitutto si ha l'istituzione di
un'analogia tra un fatto non osservabile (il comportamento dello sperma
neli'utero materno) e alcuni fenomeni osservabili. In secondo luogo, c'è una
inferenza semiotica (che è pro priamente quella di cui parlava Diller,
chiamandola "infe renza semeiotica'' e che Lonie chiama "inferenza
causale") consistente nel risalire dal fenomeno osservabile (a esempio
l'emissione di fumo e vapore durante la combustione del le gno) alla sua causa
ovvero alla natura del processo. È inte ressante notare che inferenze di
questo tipo sono molto fre quenti nei trattati considerati e che l'espressione
che designa il fenomeno da cui l'inferenza è tratta è smefon. In terzo luogo,
si ha la formulazione, per induzione, di una legge generale, che è intesa come
valida anche per il pri mo termine (quello da dimostrare) dell'analogia. In
com plesso si può dire che il valore probante dell'analogia consi ste nel
fatto che essa permette di convalidare una proposi zione di partenza (relativa
a fatti non osservabili) mediante il ricorso a proposizioni concernenti fatti
analoghi, ma os servabili, che sono considerati come esempi di una legge va
lida generalmente. Lonie (1981: 85) iliustra i rapporti tra analogia, principio
generale ed enunciazione di partenza con il seguente diagramma: 3.8 LA
SEMIOTICA NEI TRATTATI METODOLOGICI 73 principio generale esemplifica/
tt(" , , conferma /// '' /' > analogo illustra asserzione di pertenza
3.8 Il metodo semiotico nei trattati metodologici Nel gruppo di opere del C.H.
dove vengono maggior mente approfonditi gli aspetti teorici della medicina
(Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Ilprognostico, Il regi me nelle
malattie acute, Male sacro, Le epidemie l e III e le maggiori opere
chirurgiche) è possibile rintracciare, nel mo do più chiaro, la formulazione
della metodologia/semioti ca, quella appunto a cui si riferiva Diller (1932) e
che Lonie (1981) individua come procedimento di "inferenza causa
le". In questo paragrafo cercherò di approfondire in che co sa consiste
tale metodologia, indipendentemente dagli altri procedimenti che possono
esserle associati, come abbiamo visto che avveniva con l'analogia. Nelle
opere che abbiamo sopra menzionato viene innan zitutto aperto il problema del
significato dei dati di osserva zione.17 Il singolo fenomeno (hékaston), non
essendo più collegato con (né riconducibile a) una presunta unità della natura,
come nella physiologhla, ha bisogno di essere inter pretato, cioè riconnesso a
un sistema di riferimento. È a questo punto che inizia il procedimento
inferenziale, o loghism6s, che è in un primo momento essenzialmente abduttivo:
18 si comincia a ipotizzare che il fenomeno singo lo, che si presenta
ali'osservazione del medico, sia un caso di una qualche regola generale. Si
prova, cioè, a pensare che lo hékaston, di per sé insignificante, possa essere
consi derato come un smeion, un segno che rimanda a un siste- 3. I SEGNI
NELLA MEDICINA GRECA ma, e dal quale riceve senso. Questo primo momento ascen
dente, di costruzione del sistema di riferimento, viene segui to da un secondo
movimento, discendente, di verifica. Se il sistema ipotizzato sia valido e
funzionante, può essere pro vato applicandolo a nuovi e diversi casi: il segno
si trasfor ma così in tekmirion e il metodo diviene deduttivo. Usando lo
schema proposto da Eco (1984: 41) per l'abduzione si po trebbe cosi illustrare
il processo: codice eziologico e/o prognostico: r------------, son: h,jksston
(singolo fenomeno) : l risultato l -- 1 r - - -, l l regola 1 l -----_j l
l lL - - -- - 1 .----l L Vegetti (1976: 49) mette molto bene in luce
questo dupli ce movimento abduttivo-deduttivo della téchnippocratica:
"Ciò d'altro canto conferiva alla funzione dello hékaston, spogliato dai
privilegi 'metafisici', una dignità nuova. Esso infatti era, da un lato,
chiamato ad essere segno, smeion, sull'altro da sé, sul sistema cui, per via di
inferenza, era supposto appartenesse; e dall'altro lato, acquistava il ruolo di
'prova', tekmirion, sulla validità dell'inferenza stessa, che si misura appunto
sulla possibilità di trovare conferma ___..J 1 l 74 3.9 LA STRUITURA
FORMALE DEL SEGNO 75 negli hékasta. Il metodo semeiotico si configurava cosi,
per la téchn ippocratica, come un movimento - 'dialettico' - che procedendo
dallo hékaston posto dall'osservazione (ma è il caso ormai di parlare di
'esperienza' scientifica), lo tra sforma in smefon, mediante un'inferenza
logico-concet tuale (loghism6s) e poi in prova o tekmrion, per conclude re,
se il circolo si fosse saldato, nella capacità di compren sione e di
intervento pratico su sempre nuovi hékasta". Sicuramente lo schema di
riferimento che il medico deve costruire è un codice, ma di tipo particolare: è
infatti pro babilistico. Come ha messo in evidenza Di Benedetto (1966 e 1986:
132), i testi del C.H. sono disseminati di espressioni che indicano una
tendenza o una probabilità quali "la mag gior parte", "i
più", "molti", "soprattutto", "spesso",
"tal volta" ecc. Questo non significa che i medici della collezio
ne ippocratica non siano impegnati nella costruzione di si stemi di riferimento
costanti e funzionanti generalmente. Semplicemente la logica del hoi pleistoi
("la maggior par te") si sostituiva alla logica del ptintes
("tutti"). Del resto, proprio il carattere probabilistico
contraddistingue l'infe renza abduttiva o ipotetica rispetto a quella
strettamente deduttiva. 3.9 La struttura formale del segno La nozione di smeion
("segno", "sintomo") è una delle nozioni centrali nei testi
del C.H. La struttura formale at traverso la quale il segno è introdotto è
relativamente co stante, in quanto prevede l'inquadramento in uno schema
implicativo del tipo: p-:Jq Dal punto di vista linguistico, molto spesso p e q
sono rap presentate da proposizioni (o da sequenze di proposizioni), il cui
collegamento costituisce un periodo ipotetico, come possiamo vedere da un brano
tratto dal cap. 9 del Progno stico : 76 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA
Ma bisogna osservare anche gli altri sintomi (smefa): se (n) in fatti il
malato sembra sopportare favorevolmente il male, oppu re, oltre a questi, mostra
qualche altro dei sintomi salutari, c'è speranza che il male si risolva in
ascesso, sicché l'uomo soprav viva, pur perdendo le parti annerite del corpo.
In questo esempio la prima parte dell'implicazione è co stituita da una
sequenza di due proposizioni condizionali introdotte da n ("se"), che
si riferiscono a dati di osserva zione (protasi), mentre la seconda parte
presenta un perio do complesso (apodosi) relativo a una previsione medica. Se
il riempimento semantico della protasi con dati di osser vazione, ovvero
elenchi di sintomi, è relativamente costan te, l'apodosi può contenere anche
una enunciazione diagno stica, sebbene ciò avvenga meno frequentemente, data
la centralità della prognosi nella medicina antica.. Inoltre l'a podosi può
contenere anche (e talvolta essere sostituita da) una indicazione terapeutica.
3. 10 Moduli espressivi arcaici Il modello "Se p, allora q", che
serve molto spesso (a esempio nei trattati tecnico-terapeutici) a introdurre la
ma lattia stessa, è molto antico e può essere messo in relazione agli analoghi
moduli di presentazione della malattia nei trattati medici assiro-babilonesi e
in quelli egiziani.19 Il mo dello implicativo nei testi assiro-babilonesi
prevede la pre senza di una protasi, introdotta da §umma ("se",
"nel caso che"), contenente l'indicazione dei sintomi, seguita da
un'a podosi contenente un'indicazione terapeutica. A esempio: Se il cranio di
un uomo ha una infiammazione, le sue tempie so no afflitte da SA.ZI (?) con
turbamento dei suoi occhi, essendo i suoi occhi affetti da offuscamento,
obnubilamento, disturbo, arrossamento (?), con le vene infiammate (?), e molto
pianto, tu devi tritare in una macina l/3 di ka di lolium (e) spelta mon data,
setacciare, quanto più puoi, e quindi prendere l/3 di kq, impastare in acqua di
rose, radere a sua testa), applicare legando, e non toglierlo per tre
giorni.2 3 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 77 La struttura implicativa
del modulo assiro-babilonese può essere considerata struttura segnica (anche se
non si parla esplicitamente di segno), con la particolarità che al li vello
semantico è sostituito direttamente il livello praxeolo gico:21 il segno
(propriamente, l'antecedente del condizio nale) suggerisce, senza mediazione,
un comportamento. Questo modulo, comunque, estremamente arcaico, è tal volta
rappresentato anche in alcuni dei trattati tecnico-tera peutici, che sono
anche i più antichi del C.H. : in Malattie II A e nello stato arcaico (A) del
trattato ginecologico Su/le malattie delle donne. Si tratta tuttavia di
attestazioni spora diche, che sono presenti accanto a moduli diversi, centrati
sulla relazione tra sintomatologia e malattia. Un discorso a parte merita il
trattato Sulle affezioni in terne, dove il modulo espressivo di presentazione
della ma lattia assume un carattere del tutto particolare. Esso è infat ti
composto di tre elementi strutturali: (A) una prima pro posizione (o serie di
proposizioni) introdotte da "se", dove è presentato un fenomeno
interno, non visibile, da conside rarsi come "la causa" della
malattia; (B) una seconda serie di proposizioni, introdotte dall'espressione
tade paschei ("tali cose soffre il malato"), nella quale è presentata
la sin tomatologia (i fenomeni rilevabili esternamente); (C) una terza serie
di proposizioni che sono relative alle indicazioni terapeutiche. Avviene molto
spesso che la parte A sia sdop piata in due: At (le cause dirette dei
sintomi); A2 (le cause che hanno prodotto la malattia stessa). Ecco un esempio,
tratto dal cap. 8, dove distinguiamo gli elementi strutturali: (At) Se (in) nel
petto e nelle spalle si produce una rottura, (A2) fatto che si verifica
soprattutto a causa di uno sforzo, (B) ecco i sintomi (tade [...] ptischez):
tosse vivace, espettorazione talvolta sanguinolenta; di solito brividi e
febbre; dolore acuto nel petto e nelle spalle. Il malato ha l'impressione che
una pietra gli pesi sul fianco; i dolori lo trapassano come se lo si bucasse
con un ago. (C) Stando così le cose, lo si farà ingrassare con il latte e
subito si cauterizzeranno il petto e le spalle. (Littré 1839, VII, 186,
3-10) 78 3. l SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ciò che è interessante di questo
modulo dal punto di vista semiotico è che l'inferenza tra i primi due elementi
("Se A, allora B") è non abduttiva (cioè dagli effetti alle cause),
ma deduttiva. Ciò significa che l'accento è posto sul sistema, già
preliminarmente ricostruito, delle cause che possono produrre determinati
sintomi. Questo è il punto di vista del trattatista: nella pratica il medico
risalirà invece dai sintomi alle cause. Si deve inoltre notare che Sulle
affezioni interne presenta anche una sezione prognostica (D), collocata tra B e
C oppure dopo C: il testo citato continuava con "In que sto modo il
malato sarà molto presto guarito". Un altro termine di confronto per i
moduli della medici na greca è quello rintracciabile nei testi egiziani. Le
formule che questi ultimi adoperano sono diverse da quelle della medicina
assiro-babilonese in quanto hanno anche una se zione dedicata alla diagnosi.
Come Vincenzo Di Benedetto (1986: 91) ha mostrato, esse potevano essere divise
in tre elementi strutturali: una prima sezione (A), introdotta dalla
congiunzione "se", presenta la sintomatologia come il risul tato di
un esame/visita del medico; una seconda sezione (B), sempre attraverso la messa
in rilievo della parola del medico che fa la diagnosi, enuncia la causa; una
terza sezio ne (C) presenta l'intervento terapeutico del medico. Vedia mo un
esempio tratto dal papiro Ebers (scritto intorno al 1550 a.C.): (A) Se tu
esamini un uomo che soffre al suo stomaco, tutte le parti del suo corpo sono
appesantite come per l'insorgere della stanchezza: tu devi allora mettere la
mano sul suo stomaco e lo trovi a mo' di timpano, in quanto va e viene sotto le
tue mani. (B) Allora tu devi dire "è un'inerzia nel mangiare che non per
mette che egli mangi dell'altro". (C) Allora tu devi preparargli un
rimedio che svuoti (seguono le indicazioni degli ingredienti della ricetta). In
questo caso si ha un andamento abduttivo: la sintoma tologia costituisce il
punto di partenza per ricostruire il qua dro eziologico, cioè una realtà
nascosta che deve essere in terpretata a partire dai dati esterni
disponibili. MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 79 Tutti questi moduli, attraverso
i quali si definisce la pre sentazione della sintomatologia medica,
costituiranno una base di riflessione, rimanendo talvolta sullo sfondo, ma più
spesso affiorando negli esempi, quando la filosofia cerche rà di definire la
struttura formale del segno. PLATONE 4.0 Introduzione Platone è il primo
compiuto erede della grande tradizione culturale che lo precede. Nelle sue
opere tale tradizione dà luogo a un'ampia e articolata teoria del linguaggio,
ma non produce, allo stesso tempo, una separata teorìa del segno, come invece
avverrà in Aristotele e in genere nelle scuole fi losofiche successive. Si
possono, però, osservare due fatti: da una parte l'ana lisi dei contesti in
cui Platone usa termini scmiotici permette di ricostruire un can1po teorico di
sfondo abbastanza omo geneo, i cui contorni definiscono il segno; dall'altra
certi aspetti della stessa teoria platonica del linguaggio presenta no un
carattere intrinsecamente semiotico, fatto che non si verificherà nelle teorie
Enguistichc dei filosofi successivi. Esaminiamo separatamentc i due problemi.
4.1 I segni 4. 1 . 1 La comunicazione divina Raccogliendo la tradizione
divinatoria, Platone parla di "segni" in tutti quei contesti in cui
si instaura una comuni cazione tra dei e uomini (Repubblica, 382 e; Timeo, 71
a - 4.1 I SEGNI 81 72 b; Fedro, 244 b-e). In questi casi viene anche
usato il ver bo smafno che, come abbiamo già visto, nell'ambito divi natorio
non indica tanto il "significare", quanto l"'inviare un
segno", vero tramite della comunicazione divina. Tale segno può essere un
testo verbale, come il responso della Pi zia di Delfi, o anche un testo
visivo, come lo sono le imma gini del sogno (Timeo, 71 e), o quelle impresse
nel fegato che funziona come uno specchio (Timeo, 10 b). Il segno può anche
essere rappresentato da un evento na turale, come il volo degli uccelli; ma in
questo caso (che è quello più classico della divinazione tecnica) la comunica
zione è troppo mediata per avere davvero alore e produce più opinione che
conoscenza (Fedro, 244 c). In effetti, il ca so della comunicazione più
efficace con il soprannaturale è quello del "segno demonico" di
Socrate, che si manifesta come una "voce" interna (Fedro, 242 b-e;
Apologia, 31 d) che parla direttamente al destinatario. 4. 1 .2 Il segno come
"impronta nell'anima" In una seconda serie di contesti il segno
appare come im pronta (tjpos), nel preciso senso in cui è un segno l'impron
ta lasciata da un sigillo. Questa accezione è presente nel Teeteto (191 a - 195
b), dove, per la soluzione di problemi epistemologici, viene sviluppata la
metafora dell'anima co me blocco di cera, su cui vanno a imprimersi i segni
prodot ti dalle sensazioni (tOn aisthseon smefa). Questi segni, quando sono
incisi profondamente, costituiscono la base per le elaborazioni della memoria e
per la formazione della retta opinione. In effetti si crea falsa opinione in
tutti quei casi in cui gli uomini si dimostrano incapaci di "assegnare
ciascuna cosa al proprio segno'' (195 a), cioè di far combaciare il segno
impresso nell'anima con la nuova sensazione, in quanto il rapporto che si viene
a stabilire nel rinnovato processo per cettivo è lo stesso che si instaura tra
"copie e originali" (apotypOmata kaì tjpous) (194 b). 82 4.
PLATONE 4.1.3 I segni della scrittura Il tema della memoria, che abbiamo
trovato accennato a proposito dei segni impressi nell'anima nel Teeteto,
ritorna in maniera centrale nel Fedro (274 c - 276 a), quando l'at tenzione di
Platone si focalizza sui segni della scrittura. Nel mito che Socrate racconta,
infatti, i segni alfabetici sono un dono che il dio egizio Theuth offre al re
di Tebe Thamus, invitandolo a diffonderli in tutto l'Egitto perché, secondo il
dio, essi sarebbero stati "una medicina per la sapienza e la memoria"
(Fedro, 274 e). Thamus però non accoglie senza riserve il dono di Theuth,
convinto che i segni della scrittura abbiano un effetto contrario rispetto a
quello previsto dal dio, indebolendo la memoria: gli uomini "fidandosi
dello scritto richiamerebbero le cose alla mente non più dalPin terno di se
stessi, ma dal di fuori, attraverso segni (tjpol) estranei" (Fedro, 275
a). Sviluppando questo concetto, Socrate giunge a una con trapposizione tra
"le parole scritte" e "il discorso scritto nell'anima":
quest'ultimo è "vivente e animato", è scritto con la scienza ed è
capace di selezionare i buoni destinatari; le parole scritte, invece, hanno
solo l'apparenza della vita, ma in realtà sono capaci di dire una sola cosa e
sempre la stessa, al pari delle immagini pittoriche che, se interrogate,
"mantengono un maestoso silenzio"; inoltre si rivolgono in
discriminatamente a tutti. Ma, posto il primato del discorso scritto
nell'anima, si istaura tuttavia una relazione semiotica tra i due termini: come
propone Fedro, le parole scritte possono essere consi derate "un'immagine
(eldolon)" del discorso scritto nell'a nima (276 a); ciò nonostante esse
rimangono segni estrinse ci, capaci solo di "rinfrescare la memoria di
coloro che già sanno" (277 e). Si possono rappresentare questi rapporti se
miotici con un triangolo (cfr. p. 83). La linea tratteggiata indica il fatto
che per Platone le pa role scritte, di per sé, non permettono la vera
conoscenza, che deve essere mediata dal discorso interiore, ma produco no solo
opinione (275 b). 4.1.4 Il segno come inferenza 4.1 I SEGNI discorso
scritto nell'anima 83 immagini { 8 /d lJI B ) parole scrrtte oggetti
della conoscenza Infine, una serie di contesti ci presenta un uso del termine
"segno" (stmeion, in alternanza con tekmrion) come indi cante un
fatto, un evento, uno stato dal quale si può inferi re un altro fatto, evento
o stato secondo il modello già in contrato nella divinazione mesopotamica e
nella medicina greca (p::)q). Nel Teeteto (153 a), a esempio, si dice che il
fatto per cui il movimento e lo sfregamento producono il calore e il fuo co, i
quali a loro volta producono tutte le altre cose, è un se gno sufficiente
(hikanòn stmeion) per argomentare che il moto produce l'essere e il divenire,
mentre la quiete produ ce il non essere e il perire. Negli stessi termini si
parla di se gno nell'Epistola VII (332 c), dove il fatto di avere o meno degli
amici viene presentato come il più grande segno del carattere virtuoso o
vizioso di una persona. Ancora, nel Gorgia (520 d-e) si definisce un bel segno
(ka/òn stmeion) del successo ottenuto il fatto che chi ha reso un servigio ri
ceva un adeguato contraccambio. In tutti questi casi il se gno è espresso da
una proposizione legata da un rapporto implicativo con un'altra proposizione.
Ma, su questa accezione basilare, si innesta l'idea del st- 84 4. PLATONE
mefon come segno che serve a distinguere una certa cosa da tutte le altre. In
un passo del Teeteto (208 c - 209 c) si dice che il segno distintivo del sole,
sufficiente (hikan6n) per co noscerlo, è dato dal fatto che esso è il più
risplendente tra tutti i corpi celesti che girano intorno alla terra. Natural
mente la forma logica sottesa a questa formulazione super ficiale è quella implicativa
("Se un corpo celeste che gira in torno alla terra è il più risplendente
di tutti, allora esso è il sole"). Ma a questo punto Platone si interroga
sul valore episte mologico della conoscenza attraverso i segni, chiedendosi se
cogliere il segno distintivo di una data cosa (''il segno onde la cosa di cui
si domanda differisce da tutte le altre", 208 c), significhi cogliere
anche la ragione (/6gos) di quella stessa cosa. L'interrogativo non è di
piccola importanza e si può notare che esso riapparirà in Aristotele sotto
forma di ricer ca dei rapporti tra il "segno" e la "causa"
di un fenomeno. E, come farà Aristotele, anche Platone qui distingue il se gno
dalla ragione di conoscenza (/6gos epistms), soste nendo che il segno
contribuisce al formarsi della retta opi nione, ma non della conoscenza. 4.2
La teoria del linguaggio 4.2. 1 Carattere semiotico della concezione lingui
stica di Platone Nella speculazione successiva a Platone, la teoria del se gno
e quella del linguaggio verranno a costituire due ambiti completamente
separati, che considereranno diversi gli og getti delle rispettive indagini,
chiamandoli con nomi diversi (in Aristotele, a esempio, il segno linguistico
sarà sjmbo lon, e non smefon). Nella filosofia platonica, invece, que sta
divaricazione non si è ancora affermata, ma, al contra rio, si può notare che
la sua teoria linguistica ha un caratte re spiccatamente semiotico. 4.2
LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 85 In generale, nella cultura greca, il segno è
concepito come un elemento percepibile che rimanda a (o permette di giun gere
alla conoscenza di) un elemento che non è manifesto (adlon, aphanés ecc.); come
abbiamo visto, del resto, nel caso della medicina e, prima ancora, della
divinazione, il segno costituisce la mediazione tra il piano delle cose acces
sibili ai sensi e il piano delle cose non accessibili. Proprio con questi
caratteri si presenta il segno linguisti co nei dialoghi platonici
(soprattutto nel Crati/o e nel So/i sta): esso è d/Oma
("rivelazione") di un oggetto non perce pibile (sia esso un
"significato", sia esso l"'essenza" della cosa nominata).
Costantemente il verbo smafno ("signifi co", "manifesto
attraverso segni") si alterna al verbo d/60 (''rivelo",
"manifesto") quando si parla di una forma espressiva che rimanda a un
contenuto che non viene colto con i sensi. Ciò avviene a esempio in un passo
del Crati/o (422 e), nel quale Socrate indaga la capacità che hanno i prO/a
on6mata (gli elementi primi e irriducibili del linguag gio) di rendere
evidenti (phanera) ciascuno degli enti: a que sto proposito li paragona ai
segni gestuali dei muti, che so no capaci di indicare (smalnein) le cose con
le mani, con il capo e con il resto del corpo, pur essendo impossibilitati a
manifestarle (dlot2n) con il linguaggio verbale. A più riprese nel corso del
Crati/o viene affermato il compito semiotico di "rivelazione" (d/Oma)
che hanno gli elementi del linguaggio. Ma Platone distingue la rivelazione
effettuata dai nomi da QUella effettuata dagli enunciati (Lo renz e Mittelstrass
1967: 8): questi ultimi, infatti, rivelano sempre qualcosa intorno agli oggetti
(Sofista, 262 d), men tre soltanto i nomi "corretti" rivelano gli
oggetti come sono (Crati/o, 422 d). Anzi, è proprio il carattere di rivelazione
che riveste il nome a costituire il suo criterio di correttezza. Nel Sojzsta
(262 a) il nome è definito espressamente "se gno vocale" (smefon tis
phonis), espressione che è usata come equivalente a d/Oma e la cui funzione è
quella di ma nifestare l'"essenza" della cosa nominata: "lo
direi infatti che c'è un duplice genere dei nostri segni fonici (tii phonii [..
.] dlomaton) che indicano l'essere di qualche cosa" (So- fista, 261
e). 86 4. PLATONE Particolari combinazioni di questi "segni
vocali" danno luogo agli enunciati (/6go1), facendo scattare un livello su
periore. In effetti, nel Sofista viene preso in considerazione il problema che,
in termini aristotelici, sarà descrivibile co me opposizione tra
"semantico" e "apofantico". In Plato ne, questa si
presenta come opposizione tra il livello ono mazein ("nominare") e
il livello légein ("enunciare") (262 d). I singoli segni vocali,
siano essi on6mata ("nomi") o rhimata ("verbi"),
manifestano un contenuto nel momento in cui nominano qualcosa. Le corrette combinazioni
di que sti segni vocali si situano a un diverso livello, perché, oltre a
manifestare un contenuto, lo presentano come "essere il ca so" o
"non essere il caso" di un determinato evento, stato o processo, cioè
ne costituiscono un'asserzione (De Rijk 1986: 199-200). 4.2.2 La teoria
linguistica del "Cratilo" Il problema fondamentale che viene
affrontato nel Crati lo è quello della "correttezza dei nomi". Esso
è posto fin dali'inizio del dialogo al centro di una disputa che oppone Cratilo
a Ermogene e per la quale Socrate è scelto come giu dice. Complessivamente,
nella discussione, Cratilo sostiene una tesi che possiamo definire
"naturalista", mentre Ermo gene una tesi
"convenzionalista"; ma le rispettive posizioni sono più stratificate
e presuppongono alcune distinzioni. Innanzitutto c'è un primo livello di
discorso che riguarda l'atto della nominazione in un momento del linguaggio che
possiamo considerare aurorale. Per Ermogene tale atto è frutto di convenzione e
nasce dali'accordo degli uomini, che già hanno una conoscenza preliminare delle
cose. Per Cratilo, al contrario, l'atto della nominazione non presup pone
alcun accordo tra gli uomini, ma avviene in maniera naturale. Un secondo
livello di discorso è rappresentato dall'analisi dello stesso fenomeno trascurando
il momento diacronico della formazione del linguaggio e focalizzando il
rapporto di correttezza rintracciabile tra il nome e la cosa a cui esso è
4.2 LA TEORIA DEL LINOUAOOIO 87 applicato sincronicamente. In questo caso tanto
Ermogene quanto Cratilo propongono la stessa soluzione, sostenendo che i nomi
sono sempre correttamente riferiti alle cose. L'u nica differenza tra le due
posizioni consiste nel fatto che per Cratilo la correttezza dei nomi segue una
legge naturale, mentre Ermogene sostiene il carattere convenzionale delle
regole che stabiliscono la correttezza, e adduce come prova il fatto che i nomi
possono essere cambiati a piacere, senza disturbare tale rapporto. Un terzo
livello di discorso, che scaturisce direttamente dal precedente, è quello che
riguarda l'estensione della vali dità del rapporto di correttezza. Per Cratilo
la correttezza del nome è "universale", vale tanto per i Greci,
quanto per i barbari. Per Ermogene, invece, sembra che tale correttezza debba
essere limitata alla comunità linguistica particolare che ha adottato la
convenzione. Si possono distribuire questi dati su una matrice:
Ermogene Cratilo atto della nomina- zione primordiale frutto di
accordo n aturale sempre presente sempre presente correnezza basata su leggi
con- venzionali basata su leggi naturali validità del rap- porto di correnezza
limitata alla comu- nitè inguistica particolare universale Come
abbiamo visto, entrambi i contendenti danno per scontato il carattere di correttezza
dei nomi rispetto alle co se. Tuttavia ciascuno fornisce una risposta diversa
alla do manda su chi garantisce la correttezza. La legge naturale, 88 4.
PLATONE che ne è responsabile per Cratilo, focalizza il rapporto che si
stabilisce tra il nome e gli oggetti che lo portano, senza che abbia alcuna
importanza ciò che gli utenti del nome ne pensano. Al contrario, la
convenzione, che per Ermogene è garanzia di correttezza del nome, è una regola
che riguarda gli utenti del nome, senza che venga presa in alcuna consi
derazione la natura dei portatori del nome stesso (Kretz mann 1971: 127).
4.2.3 Il problema linguistico e la dialettica Accanto a quelle di Ermogene e di
Cratilo, nel dialogo è presente anche una terza teoria, sviluppata dallo stesso
So crate attraverso la confutazione delle posizioni dei due con tendenti.
Socrate, come al solito, è portavoce delle opinioni di Platone e le ragioni per
cui egli rifiuta entrambe le altre posizioni sono da connettersi con la
concezione generale del metodo della filosofia che propugna Platone. Infatti,
se Cratilo o Ermogene avessero ragione, la via della dialettica, come mezzo per
raggiungere la conoscenza, risulterebbe impercorribile (Weingartner 1969: 6).
Platone prevede il linguaggio come mezzo necessario nella ricerca fi losofica,
ma pensa anche che la verità vada cercata nelle co se e non nel linguaggio
stesso, come suona appunto la con clusione del dialogo. Le teorie di Ermogene
e di Cratilo mettono entrambe in pericolo questo principio. Vediamo brevemente
in quale modo. La teoria di Ermogene si presenta all'inizio come una teoria
"convenzionalista classica", sostenendo il principio secondo cui la
convenzione e l'accordo costituiscono il cri terio di correttezza dei nomi
(384 c-d). Tuttavia questa non è l'unica posizione che Ermogene sostiene e non
è quella che è effettivamente attaccata da Socrate. Subito dopo Er mogene
sostiene anche che, "qualsiasi nome uno imponga a una cosa, questo è
quello corretto", precisando che, "se uno sostituisce quel nome con
un altro, non usando più il precedente, il secondo nome non è affatto meno
giusto del primo" (384 d). A questo punto Socrate costringe Ermoge-
4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 89 ne a effettuare un cambiamento di
focalizzazione e a preci sare che chiunque può operare questo cambiamento di
no mi, non solo una comunità, ma anche un singolo individuo. Ne risulta una
dottrina degli idioletti autonomi, tanto parcellizzati da coincidere con la
parlata di un solo uomo, che fa scoppiare il convenzionalismo di Ermogene in un
soggettivismo totale; tanto che Socrate non manca di met terlo in parallelo
con il relativismo di Protagora (386 a). Questa "Humpty Dumpty
position", come è stata arguta mente chiamata (Weingartner 1969: 7), fa
perdere al lin guaggio la funzione comunicativa e rende impossibile la
dialettica, in quanto non permette di distinguere tra enun ciati veri ed
enunciati falsi. Tuttavia anche la posizione di Cratilo conduce, altrettan to
perentoriamente, a una impossibilità della dialettica. Egli infatti elabora una
teoria che ha le caratteristiche di un "iconismo assoluto": il nome
rivela la natura della cosa che nomina, imitandola; ma questa imitazione è
totale o è un nonsenso. La configurazione sonora, che si distaccasse an che
per una piccola parte dalla perfezione deli'imitazione, verrebbe a essere
niente di più che "il rumore che fa uno che agita un vaso di bronzo
percuotendolo" (430 a). Poiché per Cratilo la produzione linguistica
sembra dare luogo in certi casi a imitazioni corrette, in certi altri a dei
nonsensi, in entrambe le evenienze la dialettica verrebbe ri dotta a uno
strumento sprovvisto di senso. Se, a esempio, la ricerca dialettica cominciasse
con il chiedersi "Che cos'è la giustizia?" e sperasse di raggiungere,
nel corso del dibattito, la conoscenza dell'entità sotto indagine. Si
presenterebbero allora due possibilità: (i) se l'espressione !giustiziai
rivelasse naturalmente l'oggetto, che nomina, la ricerca finirebbe prima di
cominciare; (ii) se invece essa fosse analoga al "ru more prodotto da un
vaso di bronzo percosso", la domanda stessa non avrebbe senso. La
dialettica, per quanto debba giungere a giudizi veri, deve avere la possibilità
di enunciare giudi.zi falsi, che devono essere corretti nel corso del dibatti
to. Ed è appunto questa possibilità che viene eliminata dalla teoria di
Cratilo. 90 4. PLATONE 4 . 2 . 4 Il nome come strumento Uno dei punti
fondamentali del dialogo platonico è costi tuito dalla ricerca di un criterio
oggettivo che permetta di assegnare un valore di verità tanto agli enunciati
quanto ai nomi. Per raggiungere adeguatamente questo scopo, Socra te sposta
temporaneamente il discorso dal piano linguistico a quello ontologico,
affermando che le cose (pragmata) hanno in loro stesse una stabile essenza e
non dipendono dal giudizio soggettivo (386 e). Una tale caratteristica di
oggettività è attribuita da Socra te anche alle azioni (praxeis), che al pari
delle cose (pragma ta) sono delle specie di enti (onta). Infatti, dal momento
che ci aspettiamo che le azioni abbiano certi effetti, esse non possono essere
compiute arbitrariamente. Ma, per Socrate, anche il dire (légein) e il
denominare (onomazein, che è una parte del dire), costituiscono delle forme di
azione e, di con seguenza, devono essere compiute in maniera non arbitra ria.
Possiamo illustrare questa serie di divisioni attraverso il seguente schema:
enti (6nts) cose (pr8gmsta) l ""azioni (prAxtJis) /\ dire (/(lgein)
/\ Nel resto del dialogo l'intuizione che il dire e il denomi nare
costituiscono delle specie di azioni non verrà ulterior mente sviluppata, ma
rimane comunque una importante in dicazione di una possibilità di sviiuppo in
senso pragmatico che avrebbe potuto avere la linguistica greca. In questo
contesto, lo scopo di mostrare che il linguaggio ha un legame oggettivo con la
realtà, commisurato con il fi- denominare (onomAzein) 4.2 LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO 91 ne di raggiungere una comunicazione efficace, è perseguito
attraverso il paragone del nome con uno strumento (orga non): proprio come la
spola serve a sceverare la trama del tessuto, così il nome è "uno
strumento didascalico e sceve rativo dell'essenza" (388 c). In altre
parole, in primo luogo, i nomi operano una tassonomia della realtà, separando
gli oggetti del reale, in maniera tale da rispettare le loro nature (Kretzmann
1971: 128); in secondo luogo i nomi permetto no di comunicare questa
tassonomia. 4.2.5 Forma ("eldos") e materia del nome Se lo scopo dei
nomi è quello di far acquisire la conoscen za delle cose e di comunicarla agli
altri, è necessario che chi ha denominato la realtà (il "nomoteta",
personificazione di un'autorità linguistica accettata), categorizzandola in una
certa maniera, già ne possedesse una conoscenza prelimi nare. In effetti, per
garantire la correttezza dei nomi, il nomo teta ha agito come il costruttore
di spole. Come quest'ulti mo guarda ali'eidos ("forma",
"idea") della spola, così il nomoteta, per costruire il nome, guarda
al "nome in sé", cioè alla forma ideale del nome (389 b; 390 a). Allo
stesso titolo, come non ogni materiale è adatto alla costruzione di uno
strumento, ma è necessario usare la ma teria che meglio si adatta alla forma
(a esempio il ferro per il trapano e il legno per la spola, e non viceversa),
ugual mente sarà necessario che i nomi siano costruiti con suoni e sillabe,
piuttosto che con altro materiale, se devono com piere bene la loro funzione.
Tuttavia non sarà necessario che la forma fonica (direm mo: di superficie) dei
nomi sia identica per tutte le lingue, ma ciascuna lingua suddividerà in modo diverso
il conti nuum sonoro (nello stesso modo in cui non ogni fabbro adopera lo
stesso ferro per lo stesso strumento atto allo stesso scopo) (389 e). In questo
modo Platone spiega la di versità delle lingue, le quali pure,
indistintamente, sono or ganizzate in maniera da rispettare i medesimi
modelli. Ciò 92 4. PLATONE che varia da lingua a lingua è la materia, da
interpretarsi co me la configurazione superficiale di nomi e di sillabe che as
sume ciascun nome. Ciò che rimane costante è laforma (eidos, idéa) del nome che
conviene a ciascuna cosa (390 a). Un modo di pensare a questa forma è quello
proposto dali'interpretazione di Kretzmann (1971: 129-130), che la identifica
con la funzio ne e lo scopo essenziali a ciascun nome, di separare le cose e
di separarle in maniera da rispettare le loro giunture natura li. In questo
modo, a esempio, il nome greco l hippos l o quelli barbari lchevall, lcavallol,
lborsel, lPferdl ecc. saranno tutti corretti se riusciranno a ritagliare la
realtà se condo le "naturali" giunture; e sembrerebbe esserci il pre
supposto che tali giunture debbano essere le stesse per tutte le culture. Come
si vede, Platone qui sta affrontando una questione che potremmo definire
"hjelmsleviana",1 e così potremmo parlare, più che di funzione, come
fa Kretzmann, di forma e sostanza, di espressione e contenuto, come fa
Hjelmslev: la forma espressiva (la materia di Platone) può variare da lingua a
lingua; ma, affinché il nome sia quello giusto, è ne cessario che la forma del
contenuto (l'eidos o idéa di Plato ne) ritagli la materia del contenuto
secondo le medesime ar ticolazioni. Cosi l hippos l , l cheval l , l cavallo l
, l borse l , l Pferd l saranno tutti nomi giusti se ritaglieranno il conti
nuum materiale del contenuto ("la cavallinità, all'interno dello spettro
relativo agli animali) esattamente secondo le stesse giunture. Che poi
l'elaborazione dei nomi debba essere messa in corrispondenza con una corretta
tassonomia del continuum della realtà, da effettuarsi verosimilmente con il
metodo della divisione (diairesis), è dimostrato dal fatto che spetta al
dialettico, personificazione dell'autorità scientifica e filo sofica,
giudicare se il lavoro dei vari nomoteti è stato fatto bene (390 d). LA
TEORIA DEL LINGUAGGIO 93 4.2.6 La prima teoria semantica Seguendo
l'interpretazione di Donatella Di Cesare (1981) si possono rintracciare nel
Crati/o due diverse teorie seman tiche, che si riferiscono, la prima a una
situazione di lin guaggio ideale, e la seconda a una situazione di linguaggio
come realtà storicamente data. Esaminiamo brevemente la prima. A un certo punto
del dialogo (393 d), infatti, Socrate so stiene che ciò che è veramente
importante per il nome è di significare (smalnein) l'essenza della cosa (ousfa
tofl prag matos), la quale viene chiaramente espressa (dJoumén) dal nome. Una
volta che il nome esprime l'essenza della co sa, non ha nessuna importanza se
vengono aggiunte o tolte delle lettere al nome. L'esempio che viene portato è
quello del nome di una let tera dell'alfabeto, il bita: esso nomina la lettera
l b l , ma a essa aggiunge ita (lel), tau (ltl) e alpha (lal); nonostante
queste aggiunte, esso nomina correttamente il l b l , in quan to fa comparire
il "valore" della lettera che doveva essere nominata. Un analogo
ragionamento vale per tutti i nomi: essi sono corretti se nominano l'essenza
della cosa di cui so no nomi. Il significato è, dunque, identificato con
questa essenza della cosa. Più avanti (394 b-e) Socrate introduce un altro
concetto, quello di djnamis ("valore"), che sembra anch'esso identifi
carsi con il significato. Infatti egli sostiene che chi è vera mente pratico
di nomi guarda al loro valore (djnamis), non lasciandosi sviare né da aggiunte
né da trasposizioni di let tere. Cosi i nomi Astyanax ("Astianatte"
= "signore della città") e Héktor (''Ettore" = "che tiene
saldo"), pur avendo in comune solo la lettera l t l , significano la
stessa cosa (tau tòn smalne1). Dunque il significato del nome è dato da
entrambi gli ele menti, l'essenza della cosa nominata e la djnamis del nome:
essi di fatto coincidono, in quanto il nome, attraverso il suo significato,
deve esprimere la cosa che nomina. Si possono illustrare i rapporti tra nome,
significato e cosa con il se guente triangolo: 4. PLATONE essenza della
cosa = In effetti , come l03), per Platone il nome non "rispecchia"
la cosa, ma solo la sua essenza, ed è questa la ragione per cui possono esserci
nomi diversi per lo stesso oggetto. Del resto, per rispecchia re l'essenza
della cosa, il nome deve "associare l'individuo al genere cui
appartiene" (ibidem); fatto che corrisponde a quanto avevano sottolineato
Lorenz e Mittelstrass (1967: 6- 8), con la loro attribuzione di una funzione
predicativa al nome. Il significato specifico del nome, la sua dynamis,
consiste allora neli'assegnare ciascuno degli oggetti al con cetto
appropriato, o al genere che gli compete. Ed è rispetto a questa operazione che
si può valutare oggettivamente la correttezza o meno del nome. Se ci
soffermiamo a considerare i risultati della teoria del significato esposta
nella prima parte del dialogo, vediamo che tutta la dimostrazione di Socrate è
rivolta a mostrare la coincidenza della struttura linguistica con quella
logico-on tologica: il linguaggio, attraverso i nomi, ritaglia il reale se
condo le stesse giunture che quest'ultimo naturalmente pre senta. Così,
imitando e rappresentando la struttura della realtà, il linguaggio costituisce
una mediazione tra il mondo delle idee e quello sensibile. Del resto il nome
rappresenta il genere stesso che può essere predicato di ciascuna cosa e che,
inafferrabile in natura, si concretizza nella materia fo nica. dynamis
nome cosa sottolinea Donatella Di Cesare ( 1 98 1 : 94 4.2 LA TEORIA DEL
LINGUAGGIO 95 Tuttavia, come dicevamo, l'identità descritta nella prima parte
del dialogo non costituisce per Platone un dato di fat to, ma un obiettivo
ideale. Infatti dalla parte finale del dia logo, che segue la digressione
etimologica scaturirà una se conda e ben diversa teoria semantica. 4.2.7 La
seconda teoria semantica In effetti, l'analisi etimologica svolta da Socrate
nella parte centrale del dialogo, e la congiunta riflessione sull'ori gine del
linguaggio, erano state intraprese per dimostrare la sostanziale identità tra
la struttura linguistica e quella anto logica, in generale, e tra l'essenza
dell'oggetto e la djnamis, in particolare. Ma il risultato a cui esse approdano
è esatta mente l'op,posto: il linguaggio non rispecchia la struttura oggettiva
del reale , ma piuttosto è espressione dell'idea che del reale si è formato il
nomoteta. Il significato, dunque, viene a essere identificato con la
rappresentazione del reale che si forma nel soggetto (Di Ce sare 1981 : 131),
rappresentazione che è il risultato delle opi nioni, sensazioni, impressioni
che vengono esercitate sul soggetto dagli oggetti della realtà. Pagliara (1956
a: 73) ave va del resto individuato questo passaggio da una prima a una
seconda teoria semantica come analisi di due aspetti di stinti del fatto
linguistico: (i) il rapporto tra il significante e l'oggetto, nella prima parte
del dialogo; (ii) il rapporto tra il significante e il significato, nella
seconda. In base alla seconda teoria, il triangolo che illustra i rap porti tra
nome, significato e cosa dovrebbe avere una parti colare struttura (cfr. p.
96). Il linguaggio, dunque, non rispecchia il mondo delleidee, cioè l'essenza
delle cose, ma piuttosto il mondo empirico: esso costituisce una realtà
storica, che contiene la visione del mondo che avevano i primi nomoteti, quando
tentarono di dare un ordine al reale, classificandolo e categorizzando lo,
proprio servendosi dei nomi come "strumenti sceverati vi". Ciò non
esclude, tuttavia, che si potrebbe arrivare a un adeguato rispecchiamento della
realtà mediante il linguag- 96 4. PLATONE rappresentazione soggettiva =
significato nome gio, qualora si raggiungesse una completa conoscenza delle
cose. Di particolare interesse risulta poi il fatto che è prevista una precisa
funzione mediatrice dell'anima, grazie alla qua le la teoria platonica si
avvicina a quelle moderne, in cui il linguaggio viene riconosciuto come fatto
psichico. Platone raccoglie qui l'eredità dei sofisti, che unici tra i filosofi
pre cedenti avevano insistito sulla dimensione psichica del lin guaggio, in
contrapposizione a quanti prevedevano la possi bilità per il reale di essere
rispecchiato nel linguaggio in ma niera diretta e senza mediazione. 4.2.8 La
mimesi La prima parte del dialogo era stata dedicata alla confu tazione della
teoria convenzionalista. L'ultima parte è inve ce dedicata alla confutazione
della teoria del rispecchiamen to sostenuta da Cratilo. Già la sezione
centrale, dedicata al l'etimologia, ha portato alla conclusione che il linguaggio
costituisce una rappresentazione soggettiva, fatto che, di per sé, contraddice
la tesi di Cratilo. Tuttavia Socrate, per condurre ancora di più all'assurdo la
tesi di quest'ultimo, solleva il problema della mimesi, proponendo provvisoria
mente una definizione del nome come "imitazione con voce
cosa 4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 97 di cosa che si imita; e colui
che imita nomina con la voce ciò che imita" (423 b-e). Quel che è
interessante è che anche l'imitazione sembra avere, in linea generale, un carattere
semiotico: infatti l'imi tazione "svela" (dloi) l'essenza della
cosa. Ma quello di imitazione non è un concetto pacifico e So crate lo indaga
in tre diversi ambiti: (i) nel ritratto; (ii) nel caso dei doppi; (iii) nel
caso del rispecchiamento "metafisi ca". Esaminiamo il primo caso.
Tanto il ritratto quanto il nome possono essere messi a confronto con l'oggetto
che imitano. Per Socrate si verifica allora il fenomeno per cui certi elementi
presenti nell'origi nale possono risultare trascurati, come pure elementi
assen ti possono risultare aggiunti. La copia ha dunque un carat tere di
iconicità, ma presenta variazioni all'interno di un continuum. Questo, per
Socrate, è lo stesso fenomeno che presentano i nomi, fatto che equivale a
sottolineare il loro carattere segnico. Ma Cratilo non è della stessa opinione,
in quanto pensa che i nomi debbano avere un carattere di so miglianza
assoluta, in mancanza della quale non sono affat to tali. Ecco in schema le
due posizioni: Socrate Cratilo rapporto
..nome/oggetto• iconico icon ico carattere della mimesi continuo discreto
A questo punto Socrate introduce l'argomento del dop pio: se nella
mimesi tutti i caratteri deli'originale venissero riprodotti, non si avrebbe
una imitazione, ma una occor- 98 4. PLATONE renza identica dello stesso
oggetto. Non si sarebbe dunque in presenza di un rapporto di rappresentazione,
ma di un vero e proprio doppio, in una situazione in cui è impossibile
stabilire quale è il rappresentante e quale il rappresentato. In altre parole,
il nome possiede un carattere segnico pro prio in virtù di questa sua
dissimiglianza rispetto all'oggetto cui rimanda. Il terzo caso considerato, che
abbiamo definito come "ri specchiamento metafisico", pone in primo
piano il tema dell'imitazione che il singolo suono compie di un singolo
frammento della struttura del reale. La parola sklrots, che significa
"durezza",ontrariamente a quanto ci aspette remmo se i suoni
rispecchiassero in tutto le essenze delle co se, contiene al suo interno un
/ambda ( I I I ), che esprime "mollezza" e "scivolosità".
Dunque la parola imita la "du rezza" solo in parte, mentre in parte
se ne discosta. Con ul teriori esempi, poi, Socrate mira a negare anche
un'altra ipotesi, più fondamentale filosoficamente: quella secondo cui nel
linguaggio venga rispecchiata la veduta eraclitea del la realtà come eterno
flusso e movimento (41 1 c; 436 e); ciò infatti non si verifica perché, come
sottolinea Socrate, nel linguaggio molte voci lessicali presentano la realtà come
perfettamente immobile (437 c). 4.2.9 L'uso e la convenzione Dalle critiche che
Socrate muove, soprattutto a Cratilo, scaturisce una proposta positiva. Avendo
infatti osservato che il nome sklrots (''durezza") è inesatto, in quanto
con tiene nel suo significante elementi che non corrispondono alla qualità
della cosa designata, Socrate osserva anche che, nonostante ciò, esso adempie
perfettamente alla sua funzio ne comunicativa: infatti i Greci si intendono
quando tale nome viene usato. La responsabilità di questa comprensione è
attribuita da Socrate ai due fenomeni dell'uso (éthos) e della convenzio ne
(xynthk): questi fenomeni non circoscrivono soltanto un rapporto tra i due
utenti del nome, ma si rintracciano 4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA
Vll» 99 anche a livello delle relazioni tra il nome e l'oggetto, cioè al
livello denotativo (Kretzmann 1971: 138). L'idea che il no me sia
"rivelazione" (d/Oma) dell'oggetto denotato non viene abbandonata, ma
viene solo spostata la responsabilità di questa rivelazione dal rapporto di
somiglianza tra i due termini, alla convenzione che li associa (435 a-b).
Platone, tuttavia, non sostituisce semplicemente una con cezione
convenzionalista a una in cui la semiosi avviene per somiglianza. Per lui la
situazione ideale rimane quella in cui i nomi sono immagini che riproducono
l'essenza degli og getti nominati; ma sono i limiti del linguaggio naturale
che rendono necessario il ricorso all'accordo (435 b-e). Questo è del resto il
punto in cui i commentatori hanno scorto un compromesso tra il convenzionalismo
di Ermogene e il na turalismo di Cratilo. Nella chiusura del dialogo si deve
rilevare anche uno spo stamento nella funzione assegnata al segno linguistico:
c'è una accentuazione della funzione comunicativa a scapito di quella
cognitiva. Il linguaggio non è uno strumento abba stanza valido per la
conoscenza della realtà, per raggiungere la quale sarà necessario percorrere
una via più diretta: quel la del ricorso alle cose stesse (439 b). Esso però
si configura come un ottimo strumento per il buono svolgersi della co
municazione interoggettiva. 4.3 La teoria linguistica deii'"Epistola
VII" Un'interessante trattazione degli elementi coinvolti in una teoria
del significato la si può trovare nell'Epistola VII, un testo attribuito a
Platone, ma la cui autenticità è stata più volte messa in dubbio (Edelstein
1966). A molti è sem brato che essa non contenesse niente di veramente non pla
tonico, e a ogni modo presenta un interesse intrinseco che induce a farne
oggetto di un'analisi particolare. Nella sua parte centrale, la lettera
contiene un passo teo rico (342 a - 344 d), in cui vengono indagati gli
elementi che permettono di raggiungere e trasmettere la conoscenza. Si tratta
anche, allo stesso tempo, di elementi che intervengo- 100 4. PLATONE no
nel processo di semiosi. Il primo di questi è il nome (onoma); il secondo la
definizione (/ogos); il terzo l'imma gine (efdo/on); il quarto la conoscenza
(epistm); il quinto, infine, l'oggetto conoscibile (gnost6n) e veramente reale
(althos 6n) (342 a-b). Questi elementi , secondo P interpretazione di Morrow
(1935: 68), sono organizzabili secondo un ordine interno. Infatti, da una parte
si possono collocare i fattori che costi tuiscono gli strumenti di conoscenza:
i nomi, le definizioni, le immagini o diagrammi; dall'altra, in opposizione
diame trale, si trovano gli oggetti conoscibili e reali. A mediare tra gli
strumenti e l'oggetto della conoscenza si trova l'epist mt, che Morrow
interpreta come "apprensione soggettiva", e che è ulteriormente
suddivisa, come Platone dice più avanti (242 c), in retta opinione (a/ths
doxa), conoscenza (epistm) (ritorna curiosamente come nome di una specie,
quello che è il nome dell'intero genere) e ragione o intuizio ne (noas), del
quale ultimo Platone precisa che è il più vici no al quinto fattore. Nella
lettera si dice che questi tre elementi, che compon gono complessivamente
l'epistémt e che devono essere con siderati come un unico grado, non risiedono
"né nelle voci, né nelle figure corporee, ma nelle anime (en
psychais)", fat to che, come Platone sottolinea, li distingue sia
dall'oggetto reale, sia dagli strumenti di conoscenza. Il richiamo ali'ani ma,
che può essere messo in parallelo con il ruolo assegnato all'anima nella
seconda teoria semantica del Crati/o, induce ad accostare questa nozione di
epistm alla nozione di si gnificato; fatto che del resto può venir confermato
se leg giamo il passo con l'ottica della tradizione posteriore, so prattutto
aristotelica, che colloca il significato esattamente nell'anima (tà en tii
psychr) (De interpreta/ione, 16 a). Possiamo distribuire i cinque elementi sul
triangolo se miotico nel modo illustrato alla p. 1 0 1 . Tutto l'interesse del
passo è orientato a mostrare il carat· tere difettoso degli strumenti di
conoscenza. E, per suggeri re come si può ovviare a questo inconveniente,
Platone ela bora una dottrina che è molto vicina alla teoria di Peirce della
semiosi come "fuga di interpretanti". Vediamola at- TEORIA
LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 101 4. apprensione soggettiva ( epistml)
3. immagine- (efdDion) 2. definizione (/6gos) l intuizione (noùs) l
conoscenza (epistmlJ} l retta opinione (allfths d6xa) 6. oggetto conoscibile
(gnst6n) e veramente reale (sleth;;s 6n) 1 . nome (6noms) traverso l'esempio
stesso che fa da filo conduttore al discor so platonico. Si tratta
deli'esempio del "cerchio", non a caso di carat tere matematico. Non
è difficile per Platone mostrare che il referente dell'espressione l cerchio l
non è un oggetto del mondo reale, sottoposto al divenire e alla corruzione, ma
è un'entità di altro tipo. A essa non si può arrivare se non passando
attraverso l'intera serie dei gradi preliminari e, so prattutto attraverso un
processo di continua sostituzione dell'uno con l'altro: "trascorrendo
continuamente fra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si
può, quando si ha buona natura, generare a gran fatica la cono scenza"
(343 e). Ciascun elemento, di per sé incompleto (co me lo sono gli
interpretanti di Peirce), contribuisce al rag giungimento della conoscenza se
inserito in questo processo instancabile di sostituzione e di confronto. Questo
processo di continua sostituzione permette di ovviare all'imperfezio ne degli
strumenti. 102 4. PLATONE In effetti il carattere di imperfezione del
nome è dovuto al fatto che, come sappiamo dal Crati/o, nel linguaggio sto
ricamente dato esso non è l'immagine della cosa che nomi na, ma è legato alla
convenzione. Questo, secondo l'autore ' Epistola VII, gli toglie stabilità, in
quanto potremmo dell usare l'espressione l linea retta l per riferirei alle
cose circo lari e l'espressione l cerchio l per designare la linea retta,
senza provocare cambiamenti nelle cose stesse (343 a-b). Si può ricorrere
allora alla definizione del cerchio come "quella figura che ha tutti i
punti distanti dal centro" (342 b); ma anch'essa, per quanto aggiunga
qualcosa, risulta composta di nomi e di verbi e dunque presenta difetti ana
loghi a quelli incontrati a proposito dei nomi. Tra l'altro, sottolineare che
la definizione è "formata di nomi e di ver bi" significa accentuarne
il carattere di significante, piutto sto che quello di significato. Essa è
semplicemente un'altra espressione, che può essere sostituita, nel processo
conosci tivo e/o semiosico, al nome. Del resto, alla possibilità di una
sostituzione tra nomi, Platone aveva già accennato, presupponendo
l'intercambiabilità di l cerchio l (kyklos), l rotondo l (strongylon), l
circolare l (peripherés) (242 b-e). Qualcosa ancora viene aggiunto dal terzo
livello, quello rappresentato dagli eldola ("immagini"). Qui il
cerchio è conosciuto come "quello che si disegna e si cancella, che si
costruisce al tornio e che perisce" (242 c). Si tratta della so
stituzione di un interpretante iconico ai precedenti interpre tanti verbali:
per capire che cosa è il cerchio in sé, non sono necessarie solo le spiegazioni
verbali, ma anche le illustra zioni e le astensioni. Anche a questo livello la
conoscenza presenta un carattere incerto, in quanto incontra oggetti in cui
l'essenza (tò 6n) risulta inquinata dalla qualità (tò poi6n 11), cioè da
proprietà accidentali e contrarie, talvolta, alla vera natura del suo referente
metafisica: infatti per ogni punto del cerchio può essere costruita una
tangente (343 a), tale che, isolando quel brevissimo tratto, non si saprebbe se
esso fa parte di un cerchio o di una retta (Taylor 1912: 361). Il passo teorico
deli'Epistola VIl si chiude ritornando su un concetto assai vicino a quello
della semiosi illimitata, an che se ovviamente modulata in chiave platonica:
"mentre 4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 103 ciascun
elemento (nomi , definizioni , immagini visive e per cezioni), in dispute
benevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri,
avviene che l'intuizione e l'intellezione di ciascuno brillino a chi compie
tutti gli sforzi che può fare un uomo" (344 b-e). La metafora dello "sfregamento",
con cui il passo si av via alla conclusione, è funzionale sia all'idea
epistemologica dell'improvviso accendersi e brillare deli'intuizione, sia an
che all'idea semiotica che il senso finale non lo si ottiene at traverso
l'immediata e semplicistica sostituzione di un signi ficante con un
significato, ma attraverso una strategia di mosse successive e ripetute, come
sono quelle appunto del processo di semiosi illimitata. LINGUAGGIO E SEGNI IN
ARISTOTELE 5.0 Introduzione Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storia
del se gno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du revolezza.
Il primo di questi riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teorica
che Aristotele compie nei confronti del lessico delle scienze e delle pratiche
professio nali che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere con
getturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, o
pregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz zato per tutto il V secolo
termini quali smefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici,
nella storiogra fia, nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle
esi genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini
e ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza
(1979: 107), non ha che un successo parziale nella pratica linguistica, in
quanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro se e
rigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi analitici e
della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del la Retorica e in generale nelle
opere che trattano di argo mento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond
(1939, ried. 1973: 241), l'uso dei vari termini del lessico semiotico
gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie gati senza speciali
sfumature di significato. Ciò non con traddice, tuttavia, il fatto che la
revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata profonda e
abbia inau- 5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 105 gurato una solida
tradizione, che continuerà nella trattati stica successiva, fin nella retorica
romana del I secolo d.C. Del resto le esigenze di distinzione teorica non si
limite ranno a intervenire con un'operazione normalizzatrice sul lessico, ma
entreranno anche nel vivo delle concezioni pro fonde coinvolte dal sapere
congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del tempo fosse centrale
tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in quello protoscientifico
della medicina. La conoscenza contemporanea del passato, del presente e del
futuro era un elemento essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in
entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega
alle esigenze della classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella
classificazione dei tipi di discorso proposta nella Retorica, Aristotele
individua in primo luogo due ca tegorie di destinatari dei discorsi: colui che
osserva (theo ros) e colui che decide (krits). Il primo agisce nella dimen
sione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al di scorso
epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agi re nelle altre due
dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice
(dikasts) decide sul passa to; il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul
futuro.2 Co me osserva giustamente Lanza (1979: 102), la classificazio ne è
totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento
aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con
le tre dimensioni del tem po che fin dall'epoca di Omero appaiono associate
agli am biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. 5.1 Teoria
del linguaggio e teoria del segno 5 . 1 . 1 Il triangolo serniotico Il secondo
fatto importante, inaugurato dalla riflessione aristotelica, è quello che
riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della
teoria del linguag- }()6 5. UNGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE gio e della
teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto
rilevante proprio perché nelle teorie semiologiche moderne è assolutamente dato
per scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se gni":
anzi, secondo un certo strutturalismo, sono i segni per eccellenza, e non sono
stati pochi coloro che sono arri vati ali'eccesso di pensare che essi
potessero fornire il mo dello anche per gli altri tipi di segno. In
Aristotele, invece, gli elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggio
ricevono il nome di sjmbola, mentre gli altri elementi di una teoria del segno
vengono denomi nati smeia o tekmiria.3 In realtà, come vedremo, la teoria del
segno propriamen te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un
in teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del
problema delle modalità di acquisizione della co noscenza, mentre il simbolo
linguistico è connesso princi palmente al problema dei rapporti che si
instaurano tra le espressioni linguistiche, le astrazioni concettuali e gli
stati del mondo. È nel De interpreta/ione che Aristotele espone la sua teo ria
del simbolo linguistico, articolandola secondo uno sche ma a tre termini: i
suoni della voce, che sono i "simboli" delle affezioni dell'anima, le
quali, a loro volta, sono le im magini degli oggetti esterni: Ordunque, i
suoni della voce (tà en tii phoniz) sono simboli (symbola) delle affezioni che
hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le lettere scritte
(graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poi che le
lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i me desimi;
tuttavia, suoni e lettere risultano segni (smela), anzi tutto, delle affezioni
dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini
(homoi6mata) di oggetti (pragma ta), già identici per tutti. (Arist., De int.,
16 a, 3-8) Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare il ter mine
smeia come apparente sinonimo di sjmbola non si gnifica affatto che le due
espressioni siano intercambiabili: 5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO
107 in realtà in questo passo Aristotele usa il termine smefon in un'accezione
debole, che ci conferma appunto la tenden za a un uso sfumato delle
espressioni del lessico semiotico, quando non sia in questione la costruzione
del sistema di demarcazioni teoriche. In secondo luogo qui Aristotele usa smeia
per dire che l'esistenza di suoni e lettere può essere considerata come indizio
deli'esistenza parallela di affezio ni dell'anima. A ogni modo, è possibile
costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo
tipo: 1 ) affezioni dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil 2) pensteri
(nomat8) rapporto convenzionale motivato ra ppo rto ( sn ti phntl
(prSgmsta) suoni della voce oggetti esterni Come si può osservare, diverso è il
rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade: tra suoni e stati
d'animo c'è un rapporto immotivato e convenzionale, in quanto gli stati d'animo
sono uguali, secondo Aristotele, per tutti gli uomini, ma essi vengono espressi
in maniera diversa a se conda delle varie lingue e culture, esattamente come
avvie ne per le forme scritte;4 invece tra gli stati d'animo e gli og getti
c'è un rapporto di motivazione, che appare addirittura iconico, in quanto i
primi sono le immagini dei secondi. Bi sogna precisare che sarebbe scorretto
identificare in manie ra diretta la tesi della convenzionalità degli elementi
del lin guaggio, cui aderisce Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà
108 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE del segno linguistico sviluppata da
Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tra
due en tità strettamente interne al linguaggio: il significante e il si
gnificato sono le due facce del segno, in quanto unità lin guistica. In
Aristotele troviamo invece un rapporto conven zionale tra elementi del
linguaggio (il nome, il verbo, il 16- gos) ed elementi che propriamente non
appartengono al lin guaggio, in quanto sono entità psichiche. Si deve inoltre
ri levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce
nei testi di prevalente interesse logico, quali il De interpreta/ione, ma
continua anche nei testi di interesse estetico: in questi ultimi, dove prevale
la funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in
parte attenuato (Belardi 1975: 75 e passim). 5.1.2 I "suoni della
voce" Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen ta
aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che
cosa intende Aristotele con l'espressio ne tà en tii phonii? A questa domanda
vi sono risposte di verse. Donatella Di Cesare (1981: 161) sostiene che
Aristotele attribuisce a questa espressione lo stesso valore che Saussu re dà
al termine "significante" quando spiega la natura del segno
linguistico. Belardi (1975: 198), invece, aveva sostenuto che tà en tii phonii
doveva riferirsi non ai significanti, ma alle "espres sioni
linguistiche" intese nella loro forma compiuta di 6no ma (nome), rhima
(verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione) e ap6phasis
(negazione); le ra gioni di questa scelta si basano sul fatto che questi
elemen ti, facenti parte del programma di analisi di Aristotele, ven gono
definiti "simboli" delle affezioni dell'anima (An. Pr. , 16 a, 25; 24
b, 2). Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suoni
della voce" qualcosa che sottolinea molto chiara mente la veste fonica e
il carattere di "significante". Tutta- 5.1 TEORIA DEL
LINGUAGGIO E DEL SEGNO 109 via si deve anche sottolineare che l'ottica con cui
Aristote le, almeno neli'Organon, guarda ai fatti di linguaggio sem bra
diversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare
le possibilità e le garanzie deli'uso del linguaggio neli'analisi della realtà.
Tali garanzie sembrano esserci quando si dia una reciproca bilità tra i due
ambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che per Aristotele la simbolicità
del linguaggio nei confron ti del reale è sempre di secondo grado, in quanto
il nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul
vertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici
perseguiti nel De interpreta/ione) sia intercambiabile con ciò che si trova al
vertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di sjmbolon, che Ari
stotele riprende da una tradizione risalente fino a Democri to (D-K, 68, B 5,
1). Le ragioni che permettono la specializ zazione di questo termine nel senso
di indicare le espressio ni linguistiche convenzionali, sono connesse alla sua
etimo· logia. Nella lingua greca, infatti, il termine sjmbolon indica ciascuna
delle due metà in cui viene spezzato un oggetto (a esempio un astragalo, una
medaglia, una moneta) in ma niera intenzionale, affinché possano servire, in
un momen to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una
certa cosa (Belardi 1975: 198; Eco 1984: 199): il fat to che le due metà
riescano a combaciare perfettamente vie ne a indicare la presenza di un
rapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di amicizia,
di paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla congruenza
perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una situazione in
cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra, senza che
venga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna parte pre
suppone l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri spondenza,
l'espressione sjmbolon viene ad acquisire il si gnificato di "ciò che sta
per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel contesto della
teoria linguistica aristote lica la parola sjmbolon all'espressione smefon
(che pure indica uno "stare per") induce a indagare su una
possibile LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE specificità del rinvio
istituito dal simbolo. In effetti, nel ca so del segno, i due termini del
rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono sempre reciprocabili:
un primo termine può rimandare a un secondo, senza che necessaria mente il
secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i due termini sono
perfettamente reciprocabili; non è un caso che sjmbo/on dal III secolo a.C. al
III d.C. sia attestato anche nel senso di "ricevuta", talvolta
redatta in duplice copia: le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore.
Questo aspetto etimologico è presente neli'uso che in particolare Aristotele fa
dell'espressione sjmbolon nel De interpreta/ione: i nomi ono simboli degli
stati d'animo nel preciso senso che si realizza, previo un accordo (synthk), un
combaciare perfetto tra di loro e una perfetta intercam biabilità, che
garantisce la correttezza del nome stesso (Be lardi 1975: 199). In quanto
sjmbolon, il nome non è più dloma ("rivela zione"), come lo era per
Platone: in Aristotele il nome è "suono della voce significativo per
convenzione" (phon s mantik katà synthkn) (De int., 16 a, 19). Questo
marca il passaggio da una linguistica che conservava un carattere semiotico,
come quella platonica, a una linguistica che non parla più di segni e che è
intrinsecamente non semiotica. Mentre per Platone le espressioni linguistiche
erano segni che "rivelano" qualcosa di non percepibile (l'essenza del
l'oggetto o la djnamis), per Aristotele esse sono simboli che stabiliscono
convenzionalmente una pura relazione di equivalenztr tra i due correlati, senza
alcuna preoccupazio ne che l'un termine "riveli" l'altro. 5 . l . 3
Il linguaggio degli animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6
permet te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli
animali,7 questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali e (ii)
interpretabili. Già la nozione di "voce" (phon) presenta alcune
interes- 5. 1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 1 1 1 santi
particolarità. Nel De anima si dice che un suono può essere definito una
"voce" quando: (i) sia emesso da un es sere animato (II, 420 b, 5);
(ii) sia dotato di significato (s mantik6s) (Il, 420 b, 29-33). Ora, i suoni
emessi dagli ani mali, per quanto definiti ps6phoi (''rumori"), hanno
tutta via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalle voci
emesse dagli uomini sono due fattori: (i) non sono convenzionali (e di
conseguenza non possono essere né simboli né nomi), ma sono "per na
tura" (De int., 16 a, 26-30); (ii) sono agrammatoi, cioè
"inarticolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Pot., 1456
b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra
Morpurgo-Tagliabue (1967: 33 e sgg.), è al centro stesso del carattere di
semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici (adiafretoi,
"invisibili") possono articolarsi in uni tà più grandi dotate di
significato.8 Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili, ma non
combinabili (Pot., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare riassuntivamente i
caratteri del lin guaggio umano in contrapposizione ai suoni emessi dagli
animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione -
elementi indivisibili combi- nabili e elementi divisibili - lettere - elementi
dotati di signifi- cato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura -
elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d-
loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi Si deve rilevare, tra l'altro, che la
semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo dlofìsi
(''rivela no", De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che per
Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del
linguaggio degli animali, torna di nuovo in pri mo piano il carattere
semiotico d'una espressione. I suoni degli animali sono sintomi che rivelano la
loro causa. 1 12 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5. 1 .4 Le
"affezioni dell'anima" Ritornando poi al triangolo aristotelico della
significa zione, la seconda nozione degna di rilievo è quella di pathmata en
tii psychi. Si noterà che, dove ci si aspetterebbe la nozione di
"significato", troviamo invece un'entità psichi ca, qualcosa che non
è posto all'interno del linguaggio, ma nella mente stessa degli utenti del
linguaggio. Per di più le affezioni dell'anima concepite da Aristotele, pur
configu randosi come eventi psichici, non sono affatto individuali: si tratta
piuttosto di elementi che, come dice Aristotele, so no identici per tutti,
fatto che connette la teoria del lin guaggio con una sorta di psicologia
sociale, se non addirit tura universale, piuttosto che individuale (Todorov
1977: 16). In secondo luogo è necessario rilevare una sorta di ambi guità che
si trova nella nozione posta al vertice superiore del triangolo. Infatti
Aristotele dice che i pathimata en tii psychii sono le immagini (homoiomata)
degli oggetti esterni: con ciò in tende che tra gli oggetti e le entità
psichiche c'è lo stesso rapporto che esiste tra l'originale e la copia.
Tuttavia, poi, per indicare la rappresentazione mentale usa anche, più avanti,
l'espressione noma ("pensiero", "nozione", 16 a, 10): ma,
in questo secondo caso, precisa che i pensieri, sot to certe condizioni,
possono essere veri o falsi. Da ciò con segue che i nomata vengono concepiti
come forme di giu dizio . Si tratta di due nozioni completamente diverse, e il
fatto che venissero entrambe messe in rapporto con le medesime espressioni
linguistiche aveva fatto pensare a un loro uso si nonimico, che risultava aporetico.
In realtà, come ha messo in evidenza Belardi (1975: 109), nessuna delle due
nozioni esaurisce da sola il livello della rappresentazione psichica, ma esse
rimandano a due facoltà differenti dell'anima: i pathtnata rimandano a una
facoltà passiva dell'anima, quella di subire impressioni dagli oggetti del
mondo ester no; i nomata rimandano a una facoltà attiva, quella di ela borare
giudizi. Questa relazione è del resto confermata dal 5.l TEORIA DEL
LINGUAGGIO E DEL SEGNO 113 rinvio che Aristotele fa al De anima, trattato nel
quale non vengono discussi solo i pathimata, ma anche le altre fa coltà. 5.1.5
Semantico e apofantico Non si può, a questo punto, non fare un cenno (anche se,
di necessità, breve) a una distinzione che si affaccia, nel pensiero
linguistico di Aristotele, tra la categoria del "se mantico" e
quella dell'"apofantico". Nel De interpretatione (16 a, 9 e sgg.)
viene aperta la problematica circa la diffe renza tra phasis (il semplice
"detto") e kataphasis (!'"affer mazione"). I nomi (ma così
anche i verbi) in sé costituisco no un "detto", ma non possono da
soli costituire un'affer mazione o una negazione. Correlatamente, vengono
distin ti due tipi di rappresentazioni mentali (noimata): l . quella "che
prescinde dal vero e dal falso"; 2. quella "cui spetta
necessariamente o di essere vera o di essere falsa". Ciò che in realtà
viene a essere contrapposto è la nozione di significato rispetto a quella di
condizioni di verità. Al primo tipo di rappresentazione, infatti, corrispondo
no i nomi (e anche i verbi) presi da soli, i quali possono avere un
significato, ma non hanno condizioni di verità. Ciò è provato da Aristotele
mediante la scelta di un caso particolare: il termine "ircocervo"
(traghélaphos). Esso "si gnifica bensì qualcosa" (cioè una
commistione mostruosa tra un caprone e un cervo), ma non può essere detto vero
o falso. Il "qualcosa" a cui si riferisce qui Aristotele indivi dua
appunto la dimensione della semanticità pura, regolata da leggi diverse da
quelle della referenzialità. Al secondo tipo corrispondono, invece, quelle
entità che hanno la dimensione linguistica della proposizione: è quan do si
passa agli enunciati affermativi e negativi che diviene possibile parlare di
verità o di falsità. È solo in questo caso che diviene possibile parlare di
apofanticità come dimensio ne aggiuntiva (non contrappositiva) rispetto a
quella se mantica. Ma qual è il mezzo specifico per passare dalla
dimensio- 1 14 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE ne semplicemente
semantica a quella apofantica? Non ci sono dubbi che esso consiste nell'uso del
verbo come predi cato. Del verbo Aristotele valorizza essenzialmente la fun
zione predicativa, quando, parlando del giudizio, riduce il verbo a !copula +
predicatol: "non c'è differenza", sostiene egli infatti, "tra
dire: l'uomo cammina, e dire: l'uomo è camminante" (De int. , 21 b, 9-10).
In effetti il verbo viene qui concepito come nome assunto in funzione
predicativa (Morpurgo-Tagliabue 1967: 62). Tuttavia, affinché il verbo possa
esplicare questa sua funzione occorre che esso sia congiunto a qualcos'altro
(cioè a un nome); preso da solo, cioè quando la sua funzio ne predicativa non
può dispiegarsi, esso non può affermare alcunché (De int., 16 b, 19-25).
L'incapacità del verbo preso da solo, ad affermare l'esi stenza di una certa
cosa (cioè a fare asserzioni) è dimostrata da Aristotele con il ricorso
all'esempio del verbo "essere": nemmeno esso preso da solo è capace
di affermare che una cosa è. Così commenta Eco (1984: 25): "Pertanto,
quando Aristotele dice che neppure il verbo essere da solo è segno
dell'esistenza della cosa, vuoi dire che l'enunciazione isola ta del verbo non
è indizio che si stia affermando l'esistenza di qualcosa: perché il verbo possa
avere tale valore indiziale occorre che sia congiunto gli altri termini
dell'enunciato, il soggetto e il predicato (e quindi il verbo l essere l è
indizio di asserzione di esistenza, o di predicazione deli'inerenza attuale di
un predicato a un soggetto, quando appaia in contesti come lx è yl oppure lx èl
, nel senso di "x esiste di fatto)". 5.2 La teoria del segno 5.2.1 La
definizione Completamente irrelata rispetto alla teoria del linguag gio, in
Aristotele la dottrina del segno si pone nel punto di intersezione tra logica e
retorica e i segni sono trattati tanto nei Primi analitici quanto nella
Retorica. 5.2 LA TEORIA DEL SEGNO 115 Allo stesso tempo, la nozione di
segno presenta due aspetti fondamentali: da una parte infatti ha un interesse
epistemologico e antologico, in quanto si configura come strumento di
conoscenza, che deve servire a condurre l'at tenzione dei soggetti conoscenti
a operare un passaggio da un fatto a un altro (Todorov 1977: 19; Simone 1969:
91); dall'altra ha un carattere prettamente logico, in quanto è dotato di un
meccanismo formale che presiede al suo fun zionamento. La definizione generale
del segno (smeion) è data nei Primi analitici (II, 70 a, 7-9). Di questo passo
esistono di verse traduzioni (Colli 1982: 252; Todorov 1977: 19 ecc.); ma
quella che sembra individuare nel modo più soddisfa cente il significato del
passo è quella di Preti (1956: 5): Quando, una cosa essendo, un'altra è, oppure
quando una cosa divenendo, un'altra diviene anteriormente o posteriormente,
queste ultime sono segni del divenire o dell'essere. La sottolineatura che
abbiamo effettuato intende mettere in risalto appunto la specificità
deIl'interpretazione di Pre ti, che restituisce al passo aristotelico tutta la
sua carica di problematicità e la complessità, che appunto gli ulteriori sviluppi,
a opera delle scuole successive, della dottrina del segno metteranno in luce.
Prima di tutto vediamo però ciò su cui tutte le interpreta zioni del passo
concordano, cioè che la nozione di segno proposta da Aristotele prevede
l'instaurarsi di un rapporto di tipo implicativo: il segno coincide press'a
poco con il rapporto di implicazione "p implica q", accezione,
questa, abbastanza comune della nozione di segno e che abbiamo già trovato
operante in altri ambiti, diversi dalla filosofia. Ma più precisamente, e
particolarmente in questa defini zione, il segno coincide con uno dei termini
dell'implicazio ne. L'interpretazione di Preti suggerisce che esso coincida in
particolare con il secondo termine, cioè suggerisce che la definizione
aristotelica vada letta nel senso che "q è segno di p": ora questa
definizione, che viene a configurare il rap porto segnico come "Se q,
allora p", comporta, ai fini della 116 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN
ARISTOTELE sua applicazione ad argomentazioni inferenziali, un'inver sione da
"p implica q" a "q implica p". È proprio questo fatto che
conferisce alla nozione di se gno il carattere di problematicità e che conduce
all'instau razione di un dibattito serrato e complesso in seno alle scuole
filosofiche postaristoteliche, anche se esse non fa ranno esplicitamente
riferimento ad Aristotele. D'alta parte, questo tipo di inversione sembra porsi
an che alla base della richiesta, ai fini della validità del segno, di
un'implicazione tra p e q più stretta di quanto non sia, a esempio,
l'implicazione materiale. Sembra, in sostanza, che già nella definizione
aristotelica venga richiesta la con dizione "Se non-q, non-p"
("q, o non-p"), cioè esattamente quel tipo di implicazione stretta
che verrà dagli stoici consi derata necessaria per la validità del segno. Al
di là di questo si deve anche notare che nella defini zione (e in genere
nell'intera trattazione) del segno condot ta da Aristotele è riscontrabile
un'ambiguità di fondo nel modo di concepire i due termini del rapporto implicativo.
Per un verso, infatti, essi costituiscono dei fatti (o delle proprietà) (e non
a caso una parola centrale della definizio ne è tò pragma "il
fatto"). Aristotele del resto dà esempi di questo genere: "il
mostrare che una certa donna è gravida attraverso il fatto che essa ha il
latte"; il segno è "l'aver lat te", che appare appunto essere
l'espressione di un fatto o di una proprietà. Per un altro verso il segno è
concepito come una proposi zione, in quanto un segno può costituire la
premessa da cui si sviluppa un sillogismo: "Un segno, invece, vuole essere
una premessa dimostrativa, o necessaria o fondata sulla opinione" (An.
Pr., II, 70 a, 6-7). In realtà, la definizione di segno come proposizione, che
può costituire una premes sa in un ragionamento infcrenziale, è abbastanza
centrale in Aristotele. Infatti il ruolo fondamentale che egli attribui sce al
smefon è proprio quello di essere uno degli elementi che forniscono premesse a
quel particolare tipo di siilogi smo che è I'entimema. LA TEORIA DEL
SEGNO 1 17 5.2.2 L'entimema e i segni Nella nozione di entimema coesistono due
aspetti com plementari, che la tradizione successiva svilupperà talvolta
separatamente. Da una parte l'entimema può essere consi derato un sillogismo
tronco, in cui una delle premesse è mancante, perché ritenuta nota o ovvia.9
DalPaltra, l'enti mema viene considerato un sillogismo che tende alla per
suasione, e non alla dimostrazione; in quanto tale non è ne cessario che le
sue premesse siano vere, ma soltanto che sia no probabili (hos epì tò poly).
Aristotele sviluppa esplicita mente il secondo aspetto delle definizioni
parallele dei Pri mi analitici (II, 70 a, 9-10) e della Retorica (1, 1357 a,
30- 32) . Dunque il segno trova la sua principale applicazione nel l'ambito
del discorso persuasivo, ovvero retorico, dove, sotto forma di proposizione,
entra nel meccanismo dell'en timema e vi svolge il ruolo di
"protasi", di premessa. Ma, in quell'ambito, si profila una prima
distinzione tra la no zione di smeion e quella di eikos "verosimile"
o "probabi le"), pur imparentate per il fatto di poter figurare
entrambe come premesse negli entimemi. Ciò che contraddistingue la nozione di
eikos è essenzial mente il suo carattere probabilistico, che lo lega irrevoca
bilmente all'opinione, rimuovendolo in una zona del sapere piuttosto insicura,
lontano dalla possibilità di una dimo strazione scientifica. 5.2.3 L'inferenza
dal conseguente Per quello che riguarda la nozione di segno, la situazione è
diversa e senz'altro molto più complessa. In effetti il s meion non costituisce
una categoria semplice, bensì una classe composita che prevede al suo interno
tipi con carat teristiche molto differenziate tra loro. Ma, prima di porre
l'accento sulle differenze interne, è forse possibile osservare che qualcosa
unisce i vari tipi di segni rispetto alla nozione di eikos: invece che sulla
probabilità, nel caso del segno 118 5. LINGUAGGIO ESEGNI IN ARISTOTELE
l'attenzione è concentrata sul carattere di "consequenziali tà". Il
ragionamento inferenziale, basato sui segni, procede tipicamente ek ton
hepomén{Jn, "per conseguenze", tende cioè a inferire la causa
dall'effetto. Per questa ragione sono possibili sia applicazioni corrette sia
applicazioni inganne voli. ÈinparticolarenelleConfutazionisofistiche(167b,
1-5) che Aristotele sviluppa chiaramente la teoria del ragiona mento per
conseguenze: quest'ultimo porta a conclusioni ingannevoli come, a esempio, nel
caso in cui qualcuno, avendo osservato una volta che la terra è bagnata dopo la
pioggia, volesse concludere in generale che, se la terra è ba gnata, allora è
piovuto. Un secondo esempio di ragiona mento per conseguenze dato da
Aristotele concerne le pro prietà, anziché gli eventi, come avveniva in quello
prece dente: se qualcuno, avesse sperimentato che il miele ha la proprietà di
essere giallo e volesse conciudere che qualcosa è miele partendo dalla
proprietà che ha il colore giallo, cor rerebbe il rischio di scambiare per
miele il fiele (ibidem, 167 b, 6-8). In tale contesto Aristotele giunge a
identificare de cisamente questo tipo di inferenza con quello specifico del
segno: "Nei discorsi retorici, del pari, le dimostrazioni trat te da
segni si fondano sulle conseguenze" (ibidem, 167 b, 8- 9). È possibile a
questo punto tornare agli Analitici e com prendere meglio perché Aristotele
proceda innanzitutto alla distinzione fondamentale tra due tipi di segni: il
tekmrion, segno "necessario" o "inconfutabile",10 e il
generico s meion, che ha le caratteristiche opposte. In realtà quest'ultima
distinzione (che, come vedremo, comporta non solo due, ma tre tipi di entità,
poiché vi sono due specie di segni non necessari) corrisponde a un tentati vo
di Aristotele di articolare una tipologia dei segni alle modalità di sviluppo
possibile del sillogismo. Sono infatti tre i modi in cui il sillogismo può
utilizzare la premessa che esprime un segno, corrispondenti alle posizioni
possibili del medio nelle varie figure. In questo modo si possono avere
inferenze che partono da un segno sulla prima, sulla secon da o sulla terza
figura. 5.3 n. MECCANISMO LOGICO 1 19 5.3 D meccanismo logico 5 . 3 . l
Il tekmérion come segno nella prima figura del sillogismo Prima però di entrare
nei dettagli tecnici di questa distin zione, vale la pena di rilevare
preliminarmente che ben di verso è il valore epistemologico che Aristotele
attribuisce al segno che si sviluppa in un sillogismo di prima figura, cioè il
tekmrion, rispetto a quelli che si sviluppano in seconda e in terza figura,
cioè i generici smefa. In realtà, nei due ultimi casi si verifica la tipica
illusione segnalatanelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5),cioèav viene di
credere che ci sia possibilità di conversione tra ra gione e conseguenza,
senza che questo sia di fatto giustifi cato: dunque, in questi casi,
l'inferenza dalle conseguenze alle cause è estremamente ipotetica e insicura.
Nel primo caso, invece, cioè con il tekmrion, si ha un ti po di inferenza che
parte anch'essa dalle conseguenze, co me dimostra l'esempio "se una donna
ha latte, allora essa è gravida", in quanto l'"avere latte"
costituisce sia una con seguenza dell'essere gravida, sia un segno di tale
fatto; tut tavia, al contrario che nei casi precedenti, sembra esserci
possibilità di conversione tra causa ed effetto; o, come sug gerivano le
osservazioni di Preti (1956: 6) riportate prima, sembra essere previsto da
Aristotele, in questo caso, un ti po di implicazione più stretta che non
l'implicazione mate riale. Possiamo vedere ora come Aristotele sviluppa
l'aspetto tecnico dei tre tipi di segno, partendo da quello in prima fi gura:
Ad esempio, il provare che una donna è gravida, in quanto essa ha latte, si
fonda sulla prima figura: il medio è infatti l'aver lat te. Poniamo che A
indichi "esser gravida", che B indichi "aver latte", che C
indichi "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 12-16)11 120 5. LINGUAGGIO
E SEGNI IN ARISTOTELE Traducendo il ragionamento di Aristotele nel comune schema
illustrativo del sillogismo, si otterrà: 8 "chi ha latte" c
"donna" c "donna" In questo esempio il segno "avere
nello schema sillogistico come noi ma è anche il termine intermedio dal punto
di vista esten sionale, tanto che potrebbe essere costruita la seguente fi
gura per illustrare i rapporti tra i termini del sillogismo: A essere gravida l
. A "essere gravida" 2. 8 "avere latte" si predica di si
predica di 3. A sipredicadi "essere gravida" latte" non solo è
medio lo abbiamo riportato, 5.3 n MECCANISMO LOGICO 121 5.3.2 La
seconda e la terza figura del sillogismo e i "semeia" Nella seconda e
nella terza figura il termine medio è il le game che consente Pinferenza, ma
non occupa, né nella formula né estensionalmente, la posizione centrale. Questo
fa sì che l'etichetta di "maggiore" e "minore" sia
"arbitra ria nella seconda o nella terza figura, a qualunque dei due
termini si voglia dare il nome di maggiore o minore" (Allan 1970: tr. it.
1973, 123). Del resto è indubbio che il punto di vista adottato da Aristotele
nella trattazione che egli fa delle premesse sia quello estensionale. Legata a
questo punto di vista è di cer to la svalutazione della seconda e della terza
figura. Passiamo ora ad analizzare il tipo di segno che si svilup pa in un
sillogismo basato sulla seconda figura: "Se una donna è pallida, allora
essa è gravida". Questa è l'analisi di Aristotele: Infine, la presunta
prova che una donna risulta gravida, in quanto è pallida, si sviluppa
attraverso la seconda figura. In realtà, dato che il pallore è una
determinazione conseguente delle donne gravide, e che tale determinazione appartiene
altre si a una certa donna, si crede allora provato che questa donna sia
gravida. Indichiamo con A "la nozione di pallore", con B
"l'essere gravida" e con C "donna". (An. Pr., Il, 70 a,
20-24) Lo schema che può essere costruito in corrispondenza di questo
sillogismo è il seguente: l . 2. 3. A "essere pallida" A "essere
pallida" 8 si predica di si predica di si predica di 8 "chi è
gravida" C "questa donna" C "essere gravida" "questa
donna" 122 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE In questo caso il
segno "essere pallida", che è anche il medio, ha la posizione di un
estremo e si predica contem poraneamente dei due termini "essere
gravida" e di "donna". 12 Aristotele condanna questa inferenza
come non valida. Come si può osservare, ci ritroviamo qui di fronte al ca so
più emblematico di inferenza tratta dalle conseguenze. Una conferma di questa
condanna la si trova anche nel pas so corrispondente della Retorica (1, 1357
b, 17-21): "Se uno respira rapidamente è segno che ha la febbre".
Anche que sto esempio di segno dà origine a un sillogismo sulla secon da
figura, in cui il medio, "respirare rapidamente", ha la posizione
dell'estremo maggiore e si predica di entrambi i termini "avere la
febbre" e "uomo". Nella definizione di questo tipo di segno data
nella Reto rica vengono aggiunte due particolarità interessanti rispetto a
quella presentata negli Analitici: (i) la prima è che il se gno è confutabile
anche se esso risultasse vero (kàn althès i1): viene dunque prevista la
possibilità di costruire un'infe renza che risulti conforme alla verità, anche
se questo è so lo un caso, si direbbe, accidentale; ciò deriva dal fatto che
il sillogismo èformalmente scorretto, ma ci sono casi in cui esso porta,
nonostante tutto, a conclusioni materialmente vere (Plebe 1966); (ii) la
seconda particolarità consiste nel l'accennare al fatto che questo tipo di
segno instaura una relazione "dall'universale al particolare": ciò è
probabil- mente da mettersi in relazione al fatto che è proprio il ter mine
estensionalmente maggiore a svolgere la funzione di medio, e che si predica
prima di una classe, poi di un indi viduo . Vediamo ora un segno dal quale si
sviluppa un sillogismo basato sulla terza figura. Ecco la definizione che ne
viene data negli Analitici: D'altro canto la presunta prova che i sapienti sono
eccellenti - poiché Pittaco è eccellente - si costruisce attraverso l'ultima fi
gura. Poniamo che A indichi "la nozione di eccellente", che B indichi
"i sapienti", che C indichi "Pittaco". Risponde in tal ca
so a verità il predicare di C tanto A quanto B; senonché la pre- 5.3 IL
MECCANISMO LOGICO 123 messa BC non viene enunciata, perché risaputa, mentre
Paltra è assunta espressamente. (An. Pr., II, 70 a, 16-20) Il segno, più
precisamente, è la protasi del condizionale "Se Pittaco è eccellente, i
sapienti sono eccellenti " . Su di es so si sviluppa un sillogismo che
può essere rappresentato dalla formula: l . 2. 3. A si predica di "essere
eccellente" c "Pittaco" c "Pittaco" 8 "chi è
sapiente" 8 "essere sapiente" si predica di A si predica di
"essere eccellente" In questo caso il medio è "Pittaco",
che ha la posizione del termine minore estensionalmente. Anche il sillogismo
costruito su questo tipo di segno vie ne condannato in quanto confutabile
(/jsimos). Del resto Aristotele aggiunge che esso rimane confutabile (come
quello in seconda figura) anche nell'evenienza in cui esso conduca a una
conclusione accidentalmente vera. Inoltre, nel passo parallelo della Retorica
(I, 1357 b, 10-11), viene precisato che esso instaura un rapporto che va
"dal partico lare all'universale"; anche in questo caso è la
posizione del medio, che qui è il termine estensionalmente minore, a sug
gerire questa determinazione ad Aristotele; in effetti si par te dalla
proprietà di un individuo particolare per conclude re che tale proprietà
appartiene a un'intera classe di cui l'individuo fa parte. 5.3.3 La
classificazione Una volta stabilita una distinzione fra i tre tipi di segno
sulla base della posizione che prende il medio in ciascuna 124 5.
LINGUAOOIO E SEGNI IN ARISTOTELE delle figure, Aristotele procede a una
ricapitolazione gene rale, dove consolida le distinzioni terminologiche e
ribadi sce la diversità della potenza conoscitiva in relazione a cia scun
tipo: il nome tekmirion ("indizio sicuro", "prova") viene
riservato a quei segni che prendono realmente la posi zione del termine
intermedio (cioè in cui il termine è medio anche dal punto di vista
estensionale, sul quale si sviluppa un sillogismo in prima figura); invece il
nome generico s meion viene lasciato a quei segni che all'intero sillogismo
hanno la posizione di un estremo (sui quali cioè si svilup pano delle
inferenze in seconda e terza figura) (An. Pr. , Il, 70b, 1-6). Rispetto a
quanto abbiamo già detto, è necessario ag giungere una precisazione sulla
nozione di éndoxon, che ca ratterizza nel massimo grado il sillogismo basato
sul· tekmi rion. In effetti nei Topici Aristotele precisa che i sillogismi dia
lettici che danno il massimo di garanzia sono i sillogismi che derivano da
premesse che sono degli éndoxa. Vengono poi definite éndoxa quelle proposizioni
che sono "condivise da tutti o dai più o dai sapienti, e tra questi da
tutti, dai più o dai più noti e famosi" (Top., l, 100 b, 21-23). Sono
queste, del resto, le condizioni che permettono di confermare dialetticamente
una tesi (Viano 1958 a). Il passo parallelo della Retorica propone un'analoga
classificazione che distingue tra il segno necessario (anan kaion),
corrispondente al tekmjrion, e il segno non neces sario m anankaion),
corrispondente al generico s meion, 3 e ulteriormente suddivisi in "segno
che si trova in rapporto dali'universale al particolare" (da mettersi in
rela zione ai segni in seconda figura del sillogismo) e "segno che si
trova nel rapporto del particolare ali'universale" (da met tersi in
relazione ai segni in terza figura). La classificazione aristotelica può allora
essere disposta sullo schema della pagina seguente: premesse da cui
derivano gli entimemi / eik6s smelon (segno) ("probabile",
"verisimile") - è tmdoxon ("fondato sulla opinione") es.:
"è amato -ama" ·è invidioso -detesta• m'S snsnkslon ("'non
necessario") - è éndoxon ("fondato sulla opinione") snsnkslon
(..necessario") tekm"érion ("prova") - è IJ/yton
(..inconfutabile·) - è il medio di un sillo- gismo in 1 • figura es.: ..essa ha
latte-è gravide" "ha la febbre -è malata" t6 ksth '
kéksston pr6s t6 ksth61on ("dal particolare all'universale") rl)
ksth6/on pr6s rl) kstll méros ( ·dall'universale al particolare") - è
lyron (..confutabile") - è medio in un sillogismo - è lyton
(..confutabile") - è medio in un sillogismo in 3• figura es.:
"Pittacco è giusto-i sapienti sono giusti" in 2• figura es.:
..respira rapidamente-ha la febbre" "è pallida -è gravido"
126 5 . LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.4 Un sistema particolare di segni
non linguisti ci: la fisiognomica La particolare concezione che Aristotele ha
del segno, come cosa o fatto che serve a condurre l'attenzione del sog getto
conoscente su un'altra cosa o fatto, permette di por tare in primo piano un
tipo di conoscenza che si ottiene in modo indipendente dal linguaggio verbale.
Ciò conduce a un'evidente valorizzazione dei sistemi di segni non lingui stici
. Aristotele, infatti, nei Primi analitici, dopo aver esposto la teoria del
segno, propone un'interessante, quanto curio sa applicazione a un tipo di
segni molto speciali: quelli del la fisiognomica. Neli'esempio dato si tratta
di risalire da un segno visivo a un tratto del carattere: le grandi estremità
del leone vengo no assunte come segno del suo coraggio. Tutto l'interesse di
Aristotele è concentrato su due punti: da una parte egli tende ad acquisire una
conoscenza circa l'ordine psichico partendo da un fatto rilevabile attraverso i
sensi; dall'altra tende a stabilire il legame più stretto pos sibile tra due
fatti che l'esperienza gli mostra associati (in questo caso: grandi estremità e
coraggio), come presuppo sto dell'affidabilità stessa della conoscenza. Per
dare validi tà al suo esempio di fisiognomica Aristotele propone di fa re tre
assunzioni: 1 4 (i) che "le affezioni naturali trasformino simultaneamente
il corpo e l'anima"; (ii) che vi sia un solo segno di un unico fatto, cioè
dell'affezione dell'anima che deve essere scoperta; (iii) che ogni genere abbia
un'affezio ne propria e un proprio segno (fdion [... ] semefon). Come si può
osservare, Aristotele, con queste assunzio ni, tenta di razionalizzare e di
dare dignità filosofica a una materia che era eminentemente mantica. Qui non
c'è più la divinità che garantisce la corrispondenza fra un tratto per
cepibile dell'aspetto fisico e qualcosa che si inscrive nell'or dine
dell'invisibile (sia esso il carattere di un uomo o più generalmente il destino
legato a quel carattere). Per Aristo tele vi può essere corrispondenza fra un
tratto fisico e un 5.4 LA FISIOGNOMICA 127 aspetto interiore perché
qualsiasi affezione trasforma con temporaneamente corpo e anima, proprio come
avviene nel caso di chi ha imparato la musica, che si è trasformato non solo
nell'abilità fisica di suonare, ma anche nella sua sensi bilità interna. Ma
come avveniva per la mantica, in questa materia si può correre il rischio
deli'ambiguità. È proprio per elimina re quest'ultima evenienza che Aristotele
propone le sue ul teriori assunzioni. Infatti l'ambiguità si può verificare in
due casi distinti: (i) quando si hanno molti segni che riman dano a un'unica
affezione (fenomeno che potremmo avvi cinare alla sinonimia): l'unico rimedio
epistemologico è, in questo caso, assumere che i segni siano univoci, cioè che
un unico fatto sia significato da un solo segno; (ii) quando un genere abbia
più affezioni, in maniera tale che si rimane in decisi su quale sia quella a
cui rimanda il segno (fenomeno che potremmo avvicinare all'omonimia): la
soluzione pro posta da Aristotele è quella di stabilire per ogni genere qua
le sia l'affezione che gli è propria e quale il segno proprio, in maniera da
riferire quest'ultimo univocamente alla prima. Stabilendo preliminarmente le
tre precedenti assunzioni è possibile per Aristotele fare della fisiognomica
una scienza. E, rispettando appunto queste assunzioni, è possibile stabi lire
che per il leone le grandi estremità sono il segno del co raggio (An. Pr., II,
70 b, 16-17). Fin qui abbiamo seguito Aristotele nel suo ragionamento che si
svolge su un piano, per così dire, deduttivistico. È possibile ricostruire,
però, anche un altro versante dell'ar gomentazione che si colloca
geneticamente in un momento in cui la regola deduttiva non è ancora stata
posta. In effet ti è possibile pensare a un momento in cui si osserva che una
certa affezione, il coraggio, è associata al genere dei leoni;
contemporaneamente si osserva che ai leoni è asso ciata la caratteristica di
are grandi estremità. A questo punto viene formulata l'ipotesi che il segno del
coraggio sia rappresentato dal possesso di grandi estremità. Il processo logico
che verrebbe qui a configurarsi segui rebbe lo schema: 128 5. LINGUAGGIO
E SEGNI IN ARISTOTELE l. "essere coraggiosi" 2. "avere grandi estremità"
3. "essere coraggiosi" (probabilmente) si predica di si predica di si
predica di "leoni, "leoni" "chi ha grandi estremità"
Un sillogismo in 3a figura, come è questo, secondo Peir ce costituirebbe una
induzione, ma di un tipo talmente "ti mido da perdere totalmente la
caratteristica ampliativa pro pria dell'induzione genuina" (1984: 210).
Esso avrebbe un forte carattere ipotetico. Tuttavia Aristotele non segue in
effetti questo ragiona mento perché non riesce ad accettare come valido dal
pun to di vista logico un procedimento che risulta privo di ga ranzie. Così è
costretto a inquadrare questo, si noti bene, quanto mai aleatorio segno del
coraggio in uno schema an cora una volta deduttivo. In altre parole,
l'osservazi,"ne deli'associazione tra coraggio e grandi estremità deve tra
mutarsi in un legame stretto e costante. Lo sforzo di Ari stotele è tutto
rivolto a dimostrare che ogni volta che ci sia coraggio, questo venga
manifestato dalla presenza di gran di estremità, e viceversa. In termini
tecnìci, la situazione ideale, cioè il massimo della certezza, si ottiene
quando si verifica conversione (antistréphein) tra ciò che funge da se gno e
ciò a cui esso rimanda, ovverosia quando l'estensione del primo termine è
esattamente uguale a quella del secon do. Da qui la necessità (puramente
logica, e non semiotica) che un unico segno si riferisca a un'unica affezione:
solo in questo modo è possibile la conversione tra i due termini. A questo
punto il problema di fare un'ipotesi su quale sia il segno del coraggio si
trasforma in quello di trovare un elemento di mediazione tra il
"coraggio" e il "genere dei leoni", che ne appaiono
costantemente provvisti. Tale elemento di mediazioneJ che sembra appunto giusti
ficare l'associazione, è "avere grandi estremità", che divie ne così
il segno, sul quale viene costruito il seguente schema sillogistico deduttivo
(An. Pr., II, 70 a, 32-38): SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEONICO 129 A si
predica di B "essere coraggioso" "chi ha grandi estremità"
B si predica di c 2. 3. A si predica di c "avere grandi estremità''
"leone" "essere coraggioso" "leone" Ma ciò che
Aristotele trascura di mettere in luce è che, come abbiamo visto, i dati di
partenza della deduzione stes sa poggiano su una precedente inferenza a
carattere più ipotetico. L'esempio proposto è interessante perché, prima della
presentazione dello schema formale, tutto il ragiona mento è rivolto a
stabilire i criteri che permettano di dire che qualcosa è segno di
qualcos'altro. Ma ciò è possibile solo formulando un'ipotesi, che solo in
seguito può essere verificata deduttivamente. 5.5 La svalutazione del sapere
segnico In effetti la diffidenza di Aristotele nei confronti della conoscenza
che si può ricavare dai segni è molto marcata. Infatti, nella concezione
aristotelica, anche quando tra i due termini del segno vi sia un legame
necessario, la cono scenza del termine non noto sembra imporcisi dall'esterno,
senza che si riesca a comprenderne la causa. Aristotele nei Secondi analitici
(1, 75 a, 28-36) oppone il ragionamento basato sull'essenza a quello basato
sulsegno; quest'ultimo infatti viene definito come ragionamento che si fonda
sulle determinazioni accidentali. Ne consegue, peraltro, che soltanto con il
primo tipo è possibile arrivare a conoscere la causa. Ciò non significa che la
conoscenza attraverso il segno sia totalmente esterio re. In certi casi, che
sono quelli dei segni necessari, il segno permette di risalire alla causa: così
la constatazione del fat to che una donna ha latte permette di risalire alla
causa, cioè al suo essere gravida, come pure l'accertamento della 130 5.
LINGUAGGIO E SEGNI IN ARlSTOTELE presenza della febbre permette di risalire
allo stato di ma lattia che la determina. Tuttavia questo tipo di ragionamento
non arriva a forni re una vera e propria scienza dei fatti, in quanto
quest'ulti ma si ottiene solo a partire dalla causa. Il ragionamento at
traverso il segno parte invece dall'effetto e permette soltan to
l'affermazione del fatto, cioè dello h6ti ("che"), senza condurre
alla comprensione delle cause, cioè del di6ti ("perché"). Nel
capitolo 13 dei Secondi analitici Aristotele insiste sul fatto che la
dimostrazione veramente scientifica non consi ste nella scoperta o nella
conclusione della causa, ma essa è scientifica proprio in quanto parte dalla
causa; in quel con testo viene infatti fondata la distinzione tra "il
sapere che qualcosa è" e "il sapere perché qualcosa è". In
effetti alle scienze dello h6ti viene riconosciuto un cer to diritto di
esistenza; tuttavia esse vengono considerate in feriori in quanto portano sui
fatti, senza raggiungere la co noscenza del necessario e a malapena quella
dell'universale. Ma quali sono queste scienze dello hoti? Dagli esempi che
Aristotele fornisce si direbbe che si tratta eminentemente di scienze
indiziarie, basate sui segni e fornite di un carattere fortemente ipotetico in
contrapposizione ad altre che invece hanno carattere deduttivo. Tra questi
esempi Aristotele cita il caso dell'astronomia (astrologhfa), nome condiviso
sia da una certa scienza nau tica (nautik) sia da una scienza basata su
fondamenti ma tematici (mathmatik). Solo la seconda è scienza delle cau se.
Ugualmente Aristotele contrappone la medicina alla geometria: infatti, nel caso
delle ferite circolari, spetta al medico di sapere che esse guariscono più
lentamente, men tre spetta all'esperto di geometria conoscere il perché di
questo fatto. Dunque abbiamo medicina e scienza della navigazione contro
matematica e geometria: il senso della scelta aristo telica contro il segno
non potrebbe essere più chiaro. È interessante osservare come per Aristotele
sia possibile anche sviluppare un ragionamento dello hoti oppure uno del dioti
all'interno di una stessa scienza. La differenza che 5.5 SVALUTAZIONE DEL
SAPERE SEGNICO 131 contraddistingue i due tipi è duplice. Infatti si fa un
ragio namento dello h6ti, in primo luogo, quando il sillogismo non si basa su
premesse immediate (che, nell'epistemologia aristotelica, significa assumere la
causa prima e prossima); in secondo luogo, quando, pur basandosi su premesse im
mediate, la deduzione non discende dal termine che indica la causa di un fatto,
ma dal più noto di due termini, en trambi riferiti al fatto. In altre parole,
la differenza specifi ca del sillogismo del dioti è ancora che esso va dalla
causa ali'effetto e non dali'effetto alla causa. L'esempio che Aristotele
fornisce è molto interessante. Posto, infatti, che c'è una certa relazione tra
il non sfavilla re dei pianeti e la loro vicinanza alla terra, Aristotele mo
stra come attraverso questi due termini sia possibile svilup pare due tipi di
ragionamento di diverso valore epistemolo gico . Da una parte è infatti
possibile dedurre la vicinanza dei pianeti dal fatto che non sfavillano (''Se
non sfavillano, so no vicini"). Si ha in questo caso un ragionamento
dello hoti e si può osservare che in questo contesto il "non
sfavillare" è tipicamente un segno del fatto che risulta come conclusio
ne, cioè la loro "vicinanza" alla terra. Il sillogismo costruito sul
segno non parte dalla causa del non sfavillamento dei pianeti (che è costituita
dalla loro vi cinanza), ma parte dell'effetto, che viene assunto come ter
mine medio, per arrivare alla causa. È possibile anche che la causa non venga
mai realmente conosciuta. Aristotele contrappone a questo tipo di ragionamento
quello che deduce il non sfavillamento dei pianeti dalla loro vicinanza. Si ha
in questo caso un ragionamento del dioti, che mostra il perché qualcosa sia,
dal momento che coglie la causa precisamente in quanto causatrice dell'effetto;
for malmente ciò avviene in quanto viene assunto come medio proprio il termine
che indica la causa. Dunque tra il sillogismo del dioti e quello dello hoti c'è
un rapporto di simmetria inversa. È sufficiente infatti in vertire i termini
del secondo per ottenere il primo. Tuttavia ciò non è sempre possibile, come
precisa il com mentatore del testo aristotelico Filopono: 132 5.
LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Spesso è necessario che, quando viene posta la
causa, anche l'effetto sia posto, mentre non è affatto necessario che, quando
si dà l'effetto, anche la causa si dia: così il fatto di avere il co lorito
pallido non si accompagna necessariamente al parto, ma se una donna ha
partorito, essa ha sempre il colorito pallido: infatti possono esserci varie
cause del medesimo fatto. (Philop., in Anal. Post., Wallies, 169-9)
L'aleatorietà del procedimento inferenziale tipico del se gno (dal pallore al
parto) viene qui messa in risalto preve dendo il caso che un effetto possa
avere molteplici cause, situazione nella quale, secondo Filopono, non potrà
essere costruito un vero sillogismo dello h6ti, ma soltanto un sil logismo del
di6ti. Del resto, Aristotele stesso aveva previsto il caso che un effetto
potesse avere cause differenti,15 che rendono difficile e aleatorio il percorso
di risalita dali'effet to alla causa. D'altra parte, però, secondo il
con1mentatore Filopono, si può verificare anche il caso opposto, quello cioè in
cui sia possibile soltanto un ragionamento dello h6ti. Infatti è possibile
risalire dal fatto che una donna ha partorito (co me effetto e segno) al fatto
che essa si è unita a un uomo (come causa): ma la reciproca non è necessaria,
poiché il parto non segue necessariamente all'accoppiamento (Phi lop., in
Ana/. Post., Wallies, 169-21). C'è infine un'ultima caratteristica che
contraddistingue il ragionamento dello h6ti da quello del di6ti, consistente
nel fatto che il primo è tipico del emplice osservatore dei feno meni, non
specialista, mentre il secoildo spetta all'uomo di scienza (An. Post. , I l ,
79 a, 2-3). In Aristotele, in definitiva, le scienze indiziarie e il segno in
generale sono oggetto di una svalutazione epistemologi ca, in quanto nella sua
concezione teorica della scienza non viene fatto alcuno spazio alla ricerca e
all'ipotesi, quale è presupposta invece da una concezione semiotica del sapere.
Come sottolinea Le Blond (1939, tr. it. 1973: l 05), per
Ari stotele la scienza "n'est elle pas principalement recherche, mais
possession; les Analytiques n'apportent guère d'indi cations sur la recherche:
il décrivent la science achevée, qui 5.6 DEDUZIONE E ABDUZIONE 133
descend des causes aux effets et coincide absolument avec le dynamisme des
choses - conception singulièrement con fiante, on le voit, qui pose en
principe la connaissance par faite de la réalité". 5.6 Deduzione e
abduzione Non si deve tuttavia pensare che questa posizione teorica corrisponda
esattamente alla pratica di ricerca adottata di fatto da Aristotele, a esempio
nelle opere scientifiche. Né, d'altra parte, si deve accettare enza riserve l'asserzione
ari stotelica circa il carattere assolutamente deduttivo delle scienze del
di6ti. Come ha mostrato Eco (1983: 242), per Aristotele trovare il perché di un
certo fenomeno significa trovare un buon termine medio che spieghi quel
fenomeno: ma questo termine medio può essere, in certi casi, anche molto ardito
e sofisticato, e non corrispondere a nessuna conoscenza già accertata. Esso può
essere, cioè, una "ipote si" nel senso peirceano. È illuminante, a
questo riguardo , il ragionamento svilup pato da Aristotele nel trattato Parti
degli animali, in cui, a proposito degli animali provvisti di corna, vengono
regi strati alcuni "fatti sorprendenti" bisognosi di spiegazione. A
esempio: (i) che tutti gli animali con le corna hanno una sola fila di denti, cioè
mancano degli incisivi superiori (663 b - 664 a); (ii) che tutti gli animali
con le corna hanno quat tro stomaci (674 a-b); (iii) che tutti gli animali con
quattro stomaci mancano degli incisivi superiori (674 a) ecc. Il problema che
ha di fronte Aristotele, in questo caso, è quello di spiegare la ragione per
cui, innanzitutto, agli ani mali con le corna mancano gli incisivi superiori.
Come sot tolinea Eco, Aristotele "deve porre una Regola tale che, se il
Risultato che vuole spiegare fosse un Caso di questa Re gola, tale Risultato
non sarebbe più sorprendente'' (1983: 239). E del resto, secondo Peirce, quando
una circostanza "strana" si spiega supponendo che essa sia il caso di
una certa regola 0enerale, siamo di fronte a un'ipotesi o abdu zione .
134 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Proprio in questi termini procede
Aristotele, supponen do che, nel caso considerato, probabilmente, la materia
du ra è stata deviata dagli incisivi superiori alla testa con lo scopo di
formare le corna. A sua volta, la mancanza di in cisivi superiori è causa
dello sviluppo di un quarto stomaco ed è il medio dal quale si sviluppa un
ulteriore sillogismo. Espresso nei termini del sillogismo (nella
formalizzazione peirceana adottata da Eco) il primo ragionamento si rico
struisce così: Regola = Tutti gli animali devianti (cioè che hanno deviato la
materia dura dalla bocca alla testa) mancano degli in cisivi superiori.
Caso=Tutti gli animali con le corna hanno deviato. Risultato = Tutti gli
animali con le corna mancano degli in cisivi superiori. La "deviazione
deUa materia dura" costituisce contem poraneamente il medio del
sillogismo e la spiegazione del fenomeno. Quello che Eco mette giustamente in
risalto è che lo sforzo di spiegare a titolo ipotetico perché un feno meno è
così come è, costruendo una forma rigorosamente deduttiva, non differisce in
niente da ciò che Peirce chiama abduzione: in ciascuno dei due casi c'è un
lavoro su ipotesi che permettono di spiegare fenomeni che appaiono "sor
prendenti " . L'idea di Eco, in sostanza, è che al di sotto e prima del li
vello deduttivo preso in considerazione da Aristotele esista un livello
abduttivo che Aristotele rifiuta di riconoscere, ma al quale ricorre nel caso
che debba costruire delle defi nizioni scientifiche: definire il perché di un
fatto sorpren dente "significa stabilire una gerarchia di collegamenti
cau sali per via di una sorta di ipotesi che può essere convalida ta solo
quando dà luogo a un sillogismo deduttivo che agi sce come previsione di successive
modifiche" (ibidem, 241). Ed è in definitiva proprio il mancato
riconoscimento di questo movimento inferenziale preliminare che vieta ad
Aristotele di riconoscere il carattere ipotetico della scienza e, nel contempo,
la produttività dello stesso sapere segnico. 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO
E LA SEMIOTICA DEGLI STOICI 6.0 Introduzione La scuola stoica è quella che
nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità una riflessione
semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si polarizza, com'era già av
venuto per Aristotele, su due ambiti fondamentalmente di stinti tra di loro:
da una parte, una teoria del linguaggio in senso stretto, che comporta anche
un'analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza
della terna "significante", "significato", "oggetto esterno");
dal l'altra, una teoria del "segno" proposizionale, connessa con la
teoria dell'inferenza. Questi aspetti della filosofia stoica trovano però un
pun to di convergenza, come vedremo, nel loro comune legame con il lekt6n,
un'entità che ha uno statuto eccezionale nella metafisica stoica. In effetti, a
fondamento di quest'ultima, si pone la speciale dialettica tra le entità che
condividono la proprietà di essere "corpi" (sOmata) e quelle entità
che sono invece corporee (asOmata). Più in dettaglio si può dire che di solito
l'ontologia stoica prende in considerazione solo quegli individui che hanno la
caratteristica di essere oggetti tridimensionali e di possedere altresì una
resistenza nel tem po. Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi
derati esistenti. Ora, tanto nella teoria del linguaggio, quan to in quella
del segno proposizionale, accanto alle entità corporee vengono prese in
considerazione anche delle entità incorporee, quali i lekta. 136 6. LA
TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI Per il momento è invece necessario sgombrare
il campo da due equivoci. Il primo concerne il destino che tocca alle entità
incorporee: esse non vengono relegate semplicemente nell'ambito del
non-esistente, ma vengono investite di una "esistenza derivativa'' (Long
197I a: 89-90). Il secondo pos sibile equivoco concerne la nozione stessa di
corpo. Contra riamente a quello che ci attenderemmo in relazione a una nozione
moderna di corpo, per gli stoici erano "corpi" an che le qualità, in
quanto venivano considerate come materia in un certo stato. Le proprietà di un
certo individuo costi tuiscono stati o modi del suo essere e, per la loro
esistenza, dipendono dall'esistenza di questo individuo. Se l'individuo esiste,
le sue proprietà sono appunto disposizioni esistenti di materia (Rist I969:
52-55). Si profila, a questo punto, una ontologia che pone al suo centro la
nozione di "particolare": quest'ultimo viene carat terizzato come un
oggetto materiale, che ha una forma defi nita come condizione necessaria e
sufficiente della sua esi stenza. La forma, del resto, è l'elemento
caratteristico di un oggetto, che lo rende identificabile come tale (Long I97I
a: 76). È proprio su questi presupposti antologici che si innesta e si sviluppa
la teoria semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria del
significato e della verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione dei
"particolari", ed è con nesso a una teoria della percezione. Così,
si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im magini (phantasfa1)
prodotte nella mente dagli oggetti ester ni danno luogo a una percezione vera
se esse riproducono esattamente la configurazione di tali oggetti.1 Del resto,
le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del si gnificato degli
stoici, come si sa che avevano una parte im portante anche nella teoria del
significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare come
fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un
"particolare" è quello di identificarlo linguisticamente. In questo
caso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a B che sta par lando
intorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il
suo riferimento. 6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 137 6.1 La teoria del
linguaggio 6 . 1 . 1 Il triangolo semiotico Il passo di Sesto Empirico che
contiene i lineamenti fon damentali della teoria linguistica stoica si trova
proprio in un contesto che concerne un conflitto di opinioni intorno alla
verità. È importante sottolineare che per gli stoici una teoria del la verità,
cioè la ricerca delle basi per una verifica delle pro posizioni, non può
essere elaborata in maniera indipenden te da una concezione della struttura
del mondo e da ciò che può essere detto intorno a esso. Ecco il passo di Sesto.
Alcuni hanno riposto il vero e il falso nella cosa "significata" (tò
smainomenon), altri nella voce (phon), altri infine nel mo vimento del
pensiero. Della prima opinione sono stati i porta bandiera gli stoici col
sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa significata (tò
smainomenon), quella signi ficante (tò smafnon), e
quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn chanon), e che, tra queste, la cosa
significante è la voce (ad esempio la parola "Dione"); quella
significata è lo stesso stato di cose (autò tò pragma) indicato dalla voce
pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi percepiamo come coesistente
(paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia1), mentre i barbari, pur
ascoltando la voce che lo indica, non lo compren dono; infine,
ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione
in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e
ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor porea, cioè l'oggetto significato
o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso. 2 (Sext.
Emp., Adv. Math., VIII, 11-12) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli
stoici il fe nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui to
nei termini di un triangolo (cfr. p. 138). Si può osservare che compaiono i
termini "significante" e "significato" (come è dato trovare
anche nella teoria mo derna di Saussure), ma non quello di "segno":
come anche 138 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI slmsin6menon
(significato) lekt6n ( detto) tmsm lnon (aignificente) tynchAnon in
Aristotele, la nozione di smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che
non è quello strettamente linguisti co. Si può notare anche che l'esempio che
viene dato qui è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome pro
prio. In secondo luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che
individuano la significazione sono tre e com prendono anche l'oggetto, che
propriamente è esterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli
è solo parziale: soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si
gnificante e l'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. 6. 1 .2 Il
"lekt6n" come "asserzione" Un caso assolutamente a sé
costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo,
chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua se
conda denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del
linguaggio degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande
interesse. Un primo aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un
confronto con Aristotele. (oggetto esterno, referente) LA TEORIA
DEL LINGUAGGIO 139 Nella stessa posizione del triangolo della significazione
Ari stotele poneva delle entità psicologiche, che venivano consi derate le
medesime per tutti gli uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci dice Sesto nel
passo riporta to, ha caratteri completamente diversi, in quanto i barbari, pur
udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo compren dono . Come rileva Todorov
(1977: 17-18), la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nel fatto
che, mentre l'en tità presa in considerazione da Aristotele si situa a livello
della mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si si- tua
direttamente al livello del linguaggio: Todorov interpreta il lekt6n come la
capacità del primo elementodi designare il terzo. Tale interpretazione poggia
anche sul fatto che l'e sempio dato è un nome proprio, che ha una capacità di
de signazione come gli altri nomi, ma è molto controverso se abbia un senso;
la risposta che di solito si dà a questo inter rogativo è negativa. I barbari
odono sicuramente la sequenza di suoni l Dio ne l e vedono l l Dione l l , ma
sono incapaci di connettere il suono con il suo oggetto di riferimento.
Comprendere, dun que, come avviene appunto nel caso dei Greci, consiste pro
prio nel percepire la connessione tra la parola che viene pro nunciata e
l'oggetto cui si riferisce. Anche Long (1971 a: 77) identifica il lekt6n con
tale connessione, ma nel senso che esso si configura come l'affermazione che un
enunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in questo caso, la tra duzione
più propria di lekt6n è "ciò che è detto", in quanto tale espressione
copre sia la nozione di "giudizio" che quella di "stato di cose
significato da una parola o da una serie di parole".3 L'idea che i lekta
si potessero configurare come "affer mazioni intorno agli oggetti"
emerge da una testimonianza di Seneca (Epistulae mora/es, 1 17, 13), in cui
viene delinea to uno schema triadico della significazione analogo a quello di
Sesto, ma con una proposizione ( l Catone cammina l ), laddove Sesto proponeva
solo un nome ( l Diane l ). Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di
riferimento, cioè Cato ne, che è un oggetto materiale, e l'asserzione intorno
a esso 140 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI ( l Cato ambulat l ),
che è un "incorporale". Tale asserzione è propriamente il lekton, del
quale termine Seneca propone tre diverse traduzioni latine: enuntiatum
("enunciazione"), effatum ("affermazione"), dictum
("asserzione"). Dato che l'esempio proposto da Seneca è una
proposizio ne, risulta più agevole, rispetto ali'esempio di Sesto, capire come
possa essergli applicato il predicato "vero" o "falso".4
Infatti solo i lekta che costituiscono una proposizione com pleta possono
essere veri o falsi.5 6. 1 .3 I rapporti tra il "lekt6n" e il
pensiero Nel modello aristotelico della significazione le espressioni
linguistiche sono i simboli degli stati psichici (pathmata en tiipsychi1) elo
dei pensieri (noimata). In questo modo non viene operata una chiara distinzione
tra la nozione di "si gnificato" e quella di "pensiero".
Tale concezione ricompa re del resto nella nota teoria novecentesca di Ogden e
Ri chards (1936: tr. it. 37), i quali disegnano un triangolo se miotico in
cui figura al vertice superiore la nozione di "thought"
("pensiero"). Diversa è la concezione proposta dagli stoici. In
effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di Diogene si ricava una
nozione di significato nettamente distinto dal pensiero, anche se intrattenente
con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto: [Gli stoici]
affermano che il /ekton è ciò che sussiste in confor mità con una
rappresentazione razionale (loghik phantasia) e che una rappresentazione
razionale è quella secondo cui il rap· presentato (phantasthén) può essere
espresso in parole. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70) In termini del tutto
analoghi si esprime Diogene (Vitae, VII, 63), usando anche le stesse
espressioni. Cosi, da en trambi i passi si può ricavare l'idea che gli stoici
operassero una distinzione netta tra i lekta, che rappresentano il livello del
"significato", e le "rappresentazioni razionali"
(loghikaì 6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 141 phantasfa1), che possiamo
definire come delle forme di atti vità intellettiva o dei pensieri;
quest'ultime entità sono pe culiari della specie umana6 e possono,
ali'occorrenza, essere espresse in parole (a questo infatti si riferisce
l'aggettivo lo ghikaf). Ma, sempre dai due passi, si può ricavare anche che i
due termini, il lekton e l'attività di pensiero, vengono messi in relazione. Long (1971 a: 82) cosi commenta il passo di Se sto: "I take this
difficult passage to mean that the /ekton is defined as the objective content
of acts of thinking (no sis)" e aggiunge anche "or, what comes to the
same thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di ap
profondire il senso di questa seconda asserzione di Long, soffermiamoci sulla
prima. Dunque la relazione che il lekton instaura con l'attività di pensiero è
tale per cui esso si configura come contenuto o risultato di tale attività. Ma
questa nuova relazione, che ve niamo scoprendo attraverso le testimonianze di
Diogene e Sesto, comporta un elemento nuovo rispetto a quanto lo
stessoSestoavevadettoaltrove(Adv.Math.,VIII, 11-12), quando aveva messo in
relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con il smainon). In
effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che sussiste in
conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che l'accen to
appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a un rapporto
con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi un'apparente
contraddizio ne o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze degli
esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli stoici.
Come mette bene in evidenza Mignucci (1965: 92-93), i lekta, essendo
incorporei, "non possono essere disgiunti da qualcosa di corporeo che
faccia in qualche modo da sup porto ad essi e che permetta la loro
esprimibilità". Il proble ma diviene allora quello di stabilire se a fare
da supporto ai lekta siano: (i) i suoni della voce; o (ii) l'attività della
mente che li pensa. La prima definizione di Sesto7 opta per la solu zione
(i),9mentre la seconda,8 come pure la definizione di Diogene, optano per la
soluzione (ii). Ugualmente, tra gli 1 42 6 . LA TEORIA DEL LINGUAGGIO
DEGLI STOICI interpreti moderni, Mates10 risponde che sono le parole a fare da
supporto ai lekta; Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come
dicevamo, questo è un falso dilemma, non resolu bile tuttavia filologicamente,
in quanto nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per
ciascuno dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un du
plice presupposto che sembra agire nella teoria stoica: da un lato il
verificarsi di discorsi significativi rimanda a un'at tività intellettuale, in
assenza della quale non è possibile che si diano i significati; dall'altra il
risultato dell'attività intel lettuale ha bisogno dei suoni della voce
significativi per esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le con
seguenze dal fatto che i lekta siano definiti da una parte co me contenuti
delle rappresentazioni razionali e dali'altra come significati delle parole:
conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra
i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere si
gnificati attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere
disgiunti l'uno dall'altro.13 A questo punto possiamo comprendere la seconda
asserzione di Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e
il contenuto oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la
stessa cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è
dato dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la
phantasia ha un ruolo assoluta mente primario, in quanto non è possibile,
senza di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della cono
scenza, quali l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e
l'attività di pensiero (n6sis): "infatti la rap presentazione viene per
prima, poi il pensiero (dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime
in parole (/6g01) ciò che esperimenta come il risultato della
rappresentazione". Il passo di Diogene è importante perché ripropone la no
zione, già platonica,15 del pensiero come "discorso inter no".16
Tutto ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla
considerazione di un passo di Diogene Laerzio (Vitae, VII, 49-50) in cui viene
detto che il criterio di veri- .. In questo 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 143
una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli della
comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano basati
sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella teoria
linguistica del si gnificato. 6.2 La teoria del segno 6.2. 1 Il
"lekt6n" e la teoria del segno Il lekton, che abbiamo finora
incontrato come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una
nozione fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un
fattore di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici
sono anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa
sì che, come sottolinea Eco (1984: 30), nella se fllÌOtica stoica si verifichi
una saldatura "di diritto" tra la 0ottrina del linguaggio e la
dottrina dei segni. Infatti, "per ché ci siano segni occorre che siano
formulate proposizioni e le proposizioni debbono organizzarsi secondo una
sintassi Jogica che è rispecchiata e resa possibile dalla sintassi lingui
stica" (ibidem). Occorre tener presente che gli stoici non di cono ancora
che le parole sono segni (sarà Agostino il pri (110 a fare una simile
asserzione) e rimane, del resto, una òifferenza lessicale tra la coppia
smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano dei lekta
ci illumina sul ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il segno non
verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl maniera
implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che ci viene
data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno, dicono che è
una proposizione (axloma) che è l'antecedente (prokathegou menon) in un
condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del conseguente
(ekkalyptikòn tou ligontos). E di- 144 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI
STOICI cono che la proposizione è un lekt6n completo in se stesso; e il
condizionale vero è quello che non comincia dal vero e finisce ] Riprenderemo
più avanti le varie problematiche che ven gono presentate in questo passo. Per
il momento ci preme sottolineare che in esso si definisce il segno come un
lekt6n completo, cioè come una proposizione che si pone in rap porto di
implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra proposizione, secondo lo
schema: p -:J q. Si deve notare che, come per Aristotele, l'attenzione per il
segno è esercitata in funzione della conoscenza che esso pe_rmette di
raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella epistemica, e il segno
appartiene a un campo che è di stinto sia da quello logico sia da quello
semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una proposizione qualsiasi
che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma so lo quella
proposizione che permette di scoprire il conse guente (cioè che permette
l'accesso a una nuova conoscen za). Su questo torneremo tuttavia più avanti.
Va comunque notato che, se l'ottica con cui gli stoici guardano al segno è la
stessa di quella di Aristotele, assolu tamente diverso è il tipo di
inquadramento logico. È nor mallnente accettato che Aristotele pratichi la
logica delle classi, mentre gli stoici introducono quella proposizionale. Ciò
comporta che l'attenzione venga spostata: (i) dalla so stanza degli eventi
(Todorov 1 977 : 21), per quanto concerne il punto di vista antologico; (ii)
dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione, per quanto
concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si poteva notare
un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come segni. Ciò che,
invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gli avvenimenti espressi
da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la differenza,
tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e finisce nel
vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "essa ha
latte" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "essa
concepito". 17 (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 104-106) ... . Essi chiamano
antecedente la prima proposizione LA TEORIA DEL SEGNO 145 via fornisce
alcuni esempi di segno (come quello della Reto rica, I, 1357 b, 16-18:
"Se essa ha latte, essa ha partorito"), in cui vengono presi in
considerazione eventi e non sostan ze. Ma nella filosofia aristotelica la
teoria del segno ha una parte marginale: il segno viene fatto rientrare nel
procedi mento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene
confinato nel campo dei procedimenti retorico-dia lettici, se non è un
tekmirion, cioè un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul
sillogismo perfet to, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle
scuole postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale:
dalla retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla
scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gli
epicurei vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è
noto a ciò che è ignoto. Preti (1956: 7-8) sostiene che, a proposito della
teoria del segno, tra Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un
anello di congiunzione, rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di
Democrito e uno dei maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera,
il Tripo de, 1 8 è possibile cogliere i punti essenziali di questo passag gio
. Per Nausi fane, infatti , il discorso filosofico (basato per Aristotele sul
sillogismo) e quello retorico (basato sull'enti mema) presentano in realtà la
stessa struttura logica. In en trambi i casi è necessario distinguere tra la
"conseguenza" (ak6/outhon), la "premessa" (homologoumenon)
e "ciò che deriva dalle premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il
sillogismo?). In ognuno dei due tipi di discorso il problema è quello di
partire da cose presenti (hyparchonta) per giun gere in maniera metodica alle
cose invisibili. Il metodo del passaggio è la akolouthia, "la relazione di
consequenziali tà", di implicazione o implicitazione,19 comune appunto a
filosofia e retorica. 20 Ora, come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò
ton enargOn) alla comprensione del le cose oscure (adla) per mezzo del segno
come relazione di akolouthia costituisce proprio il nocciolo della dottrina de
gli stoici (come pure di tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità
di passaggio LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI il nome di
"dogmatici"). Non solo, ma come prova della centralità della
semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno:21 fatto che
testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che
conferma la tendenza delle scuole postaristoteliche a ridurre o trasfor mare
il sillogismo nell'inferenza implicativa. 6.2.2. 1 I tipi di segno: A)
"comune" e "proprio" Nella semiotica stoica si registra la
scomparsa della di stinzione terminologica tra tekmrion e smeion: il primo
termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi nati smeia.
Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab bandono del sillogismo e
della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale opposizione. Tuttavia,
al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra "segno comune"
(koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion). Tale distinzione non era
specificamente stoica, ma appartenente a una koini filosofica ellenistica,
sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro verso in contrasto. Una
definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se gno si trova nel
trattato semiotico di Filodemo (l secolo a.C.): Un segno è comune (koin6n) per
nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non
percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che
crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta
usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi
risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è
necessario (ananka stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che
noi di ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi dente
di cui è segno. 22 (Philodemus, De signis, I, 1-17) C'è una convergenza nelle
scuole postaristoteliche nel ri tenere il segno comune come non valido e
nell'accettare in vece unicamente il segno proprio. Dalla definizione di
Filo- 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 147 demo si ricava che una differenza
peculiare consiste nel ca rattere di necessità del segno proprio, che viene
definito co me "necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto
da quello comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il
segno necessario di Aristotele che ri chiedeva una connessione necessaria con
l'oggetto a cui rin viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel
segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa rebbe segno, ma può
anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza
di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri
no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda
e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari stotele si poteva inferire dal
pallore di una donna il suo es sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla
bontà di Pit taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se
gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una
conclusione interessante: men tre Aristotele, pur negando validità scientifica
ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi
stemologicamente più basso, come quello della retorica, do minio delPopinione,
la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita
delle inferenze del tipo non necessario. 6.2.2.2 I tipi di segno: B)
"rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il
suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto
riprende la di stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno
preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del
segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra
segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno [. . .] si dice in due
maniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno
quello che sembra rive lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare
segno an- 148 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI che ciò che
serve a richiamare alla memoria la cosa osservata in sieme con esso. In
maniera propria si dice segno quello che è in dicativo di una cosa avvolta
nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera
contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione,
in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co mune e segno
proprio, dichiara di voler trattare solo di que st'ultimo (ibidem, 143); e
poiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono
oscure, egli propo ne di distinguere preliminarmente le cose in
"manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormente
quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le
cose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla
conoscenza in maniera diretta; co me esempio Sesto porta "il fatto che è
giorno e che io sto di scorrendo"23 quando io faccio realmente queste
cose. (ii) Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han no una natura
tale da non arrivare alla nostra comprensio ne (kata/psis), come a esempio
"se le stelle siano di numero pari o dispari" o "se i granelli
di sabbia della Libia siano di un determinato numero".24 (iii) Le cose
oscure temporaneamente: sono quelle che pur avendo una natura manifesta
divengono, per certe cir costanze, non evidenti per un certo tempo: l'esempio
è il fatto che, chi si trova a una certa distanza, non vede la città di Atene.
Atene, visibile per sua natura, diviene tempora neamente invisibile a causa
della distanza.2 (iv) Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno una
natura tale da non essere percepite, ma sono soltanto pen sabili (noto1).26
Gli esempi sono "i pori intelligibili" e "il vuoto". Non si
pone un problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, in
quanto le cose manifeste ven gono comprese in maniera non mediata e le cose
oscure in senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprio
attraverso i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alle
ultime due categorie. Ma i tipi 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 149 di segno sono
diversi per ciascuna di esse. Le cose tempora neamente oscure si colgono
attraverso i segni rammemora tivi, quelle oscure per natura attraverso i segni
indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto: Dei segni [...], secondo
costoro [i dogmatici], alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika), altri
indicativi (endeiktika). Chia mano segno rammemorativo quello che, osservato
insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si presenta, se
quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che è stata
osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera evidente,
come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come dicono, quel segno
che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, pure, per
la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno; così, per
esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp.
Pyrrh., II, l00-1Ol)27 Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'asso
ciazione costante tra cose comunemente osservate in con nessione empirica.
Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questo
tipo si distribuiscano se condo la tripartizione28
contemporaneità/anteriorità/po steriorità tra il segno e la cosa indicata: nel
caso di "fu mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in
"cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il
fatto indicato è anterio re; in "ferita al cuore-morte", il segno
rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del
precedente, non è su scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è
segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno
sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono
di risalire all'"anima", o "il su dore" che rimanda ai
"pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei
segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi,
che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei
"medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente
schema la classifi cazione di Sesto: cose manifeste oscure non
danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno
luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la
distinzione riportata da Se sto tra segno rammemorativo e segno indicativo
solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne
trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso
Sesto. Inoltre, tale distinzione appa re addirittura in contrasto con
l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento
logico-for male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto
importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile vante dal punto di
vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra
segno comune e segno proprio, secondo la testimonian za di Filodemo. È, tra
l'altro, il carattere necessario del se gno proprio che dimostra la coerenza
di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un
segno "ne cessario", come un'analisi più dettagliata della sua
struttura ci permetterà di vedere. 6.2.3 La struttura del segno nel
"condizionale" Ritornando alla definizione stoìca di segno che
abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima di
tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa
"connesso" o "connessione". Il suo significato lo gico ci
viene chiarito da Diogene:32 si tratta dell'asserto temporanea mente 6.2
LA TEORIA DEL SEGNO 151 condizionale del tipo "Se p, allora q", in
cui a una prima proposizione consegue una seconda come nell'esempio "Se è
giorno, c'è luce". La seconda cosa da prendere in considerazione è la no
zione di condizionale valido (hyghiés, "sano"). Da un passo di Sesto,
dove se ne trova la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è
affine alla moderna interpretazione vero-funzionale di "Se p, allora
q"; infatti la validità o in validità dell'asserto condizionale "Se
p, allora q" dipende dal valore di verità deli'antecedente e del
conseguente di esso. 33 Sesto, in due passi paralleli, camente "quel
condizionale che non comincia dal vero e fi nisce nel falso" e fcrnisce
una tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica
contemporanea preve de per l'implicazione materiale: p q ·se p, allora
q• valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto
accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a pro posito del criterio
per giudicare un condizionale valido:34 esso corrisponde a ciò che è stato
definito dai Kneale ( 1 962: tr. it. 154 e sgg.) "il dibattito sulla
natura dei condizionali", che animò le discussioni di logica ali'epoca
degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla nozione di se-
definisce come valido uni valido 152 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI
STOICI gno come antecedente (prokathegoumenon) in un condizio nale valido. In
effetti, come fa rilevare lo stesso Sesto,3s i ti pi di condizionale valido
sono tre nella tavola dei valori di verità corrispondente all'implicazione
materiale (V V; F F; F V); il problema diviene dunque quello di vedere se la
struttura del segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale
valido, o solo in casi particolari. Ora, in effet ti, un segno non può non
essere espresso da una proposizio ne vera, come pure deve essere vera la
proposizione a cui es so rimanda. Così sono esclusi il secondo e il terzo caso
(F F; F V), in quanto hanno un antecedente falso. Dunque l'uni ca possibilità
è relativa al primo tipo di condizionale, cioè quello che comincia dal vero e
finisce nel vero.36 Ma c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al ca·
rattere che il segno deve avere di essere rivelatore (enkalyp tik6n) del
conseguente. In effetti un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è
luce", nel momento in cui si verifichino le due condizioni che sia giorno
e che vi sia luce, è formato da due proposizioni entrambe vere. Tuttavia,
secondo Sesto,37 non si realizzano in questo caso le condizioni perché vi sia
un segno, in quanto entrambe le proposizioni rimand?no a fatti di per sé
evidenti. Il primo termine del condizionale non è rivelatore del secondo. In
effetti, per comprendere la vera natura del segno bisogna passare dal piano
strettamen te logico a uno più generalmente epistemologico. Il segno, per gli
stoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista logico,
individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve anche
possedere il carat tere di dispositivo che permette di accrescere la cono
scenza.38 Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si ap· poggia
su un livello logico, ma si inquadra in un'ottica co noscitiva. Gli esempi di
carattere medico denunciano l'ori gine di quest'ottica. In generale il segno
deve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso,
come "egli ha sputato cartilagine bronchiale", a una cono scenza di
molto più difficile accesso, come "egli ha una pia ga nel polmone".
Tuttavia, ciò che la teoria del segno ac quisisce, passando dalle mani dei
medici a quella dei filoso.. 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO fi, è una solida
struttura dal punto di vista logico-formale, tale da escludere la possibilità
di inferenze scorrette. 6.2.4. 1 Il dibattito sulla natura dei condizionali
Quanto ampio e difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere,
sul piano logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze
scorrette, lo dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla "natura
dei condizionali" (Kneale 1962). Scrive infatti Sesto Empirico:
"Tutti quanti i dialettici sono generalmente d'accordo neli'affermare che
un condizionale è valido quando il suo conseguente segue (akolouthei) dal suo
antecedente, ma disputano sul come e quando esso segua, e propongono criteri
rivali" (Adv. Math., VIII, 12). Riferendosi a questo dibattito, Sesto
elenca quattro crite ri che erano stati proposti per stabilire la validità di
un as serto condizionale: (i) quello di Filone Megarico; (ii) quello di
Diodoro Crono; (iii) quello della srsnartsis attribuibile a Crisippo; (iv)
quello della émphasis. 9 Sulla disputa si può tuttavia fare un'osservazione
genera le preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa notare Martha
Hurst (1935: 492), è una relazione già conosciuta, nel senso che essa è
riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è una
definizione di questa rela zione di consequenzialità (akolouthla) in termini
formali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logici
antichi si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo,
che può possedere proprietà auto nome, essendo dotato di significato, non è
stato preso in considerazione se non nella misura in cui poteva essere pro
vato che esso coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una
confusione tra i due livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente
erano in grado di elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà
della relazione logica che essi tentavano di identificare con la prima. Può
aiutarci a comprendere meglio questo modo di pro cedere un paragone con i
metodi della logica contempora- LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI nea. I
logici contemporanei, infatti, sono in genere interes sati unicamente al
definiens, cioè alla relazione che essi pos sono stabilire in simboli, senza
riguardo alla questione se tale relazione sia identica a quella che è
ampiamente cono sciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa come quella
di una espressione di implicitazione ("fol/owing", Hurst 1935: 492).
A esempio Peirce e Russell erano interes sati alle proprietà della
implicazione materiale indipenden temente dal fatto che essa riproducesse il
significato "usua le" di "implica" ("implies").
Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida senza
sostenere che l ' im plicazione rigida rappresenti il significato di
"implica". Questa differenza nel modo di procedere tra antichi e
moderni comporta un'ulteriore differenza formale: mentre i logici antichi erano
interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a fornire due
definizioni: quella di "im plicazione materiale" e quella di
"implicazione rigida". 6.2.4.2 L'implicazione filoniana Filone è il
primo esponente della scuola megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che
dà un'interpretazione vero funzionale dell'espressione "Se p, allora
q": secondo lui, un'espressione condizionale è valida se, e solo se, non
co mincia con il vero e finisce con il falso. Come abbiamo già visto, la
definizione che Filone dà del criterio di consequen zialità (ako/outhfas
kritrion) corrisponde al quadro del l'implicazione materiale. Infatti sono tre
i casi in cui il con dizionale è valido, corrispondente ai tre esempi
seguenti: (i) "Se è giorno, c'è luce" (VV); (ii) "Se la terra
vola, la terra ha le ali" (FF); (iii) "Se la terra vola, la terra
esiste" (FV). Come sottolineano i Kneale (1962: tr. it. 157), è probabi
le che Filone avesse in mente l'uso dell'espressione "Se p, allora q"
nei ragionamenti e che volesse attirare l'attenzione sul fatto che la
congiunzione dell'asserto condizionale con il suo antecedente implicita sempre
il conseguente. L'inter pretazione proposta da Filone è la più debole che
soddisfi tale requisito. 6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 155 6.2.4.3
L'implicazione diodorea Diodoro Crono era il maestro di Filone, e la ragione
per cui Sesto lo cita per secondo può essere forse attribuita al fatto che,
mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, que st'ultimo non riuscì a fare
altrettanto con il primo (Hurst 1935: 435 n.). La critica che Diodoro muove
all'interpretazione filonia na insiste proprio sul carattere di debolezza di
quest'ultima. Egli individua infatti degli esempi di condizionale che, pur
potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo tt , possono tuttavia
mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio, l'asserto "Se è
giorno, io sto conversando" sarebbe considerato vero da Filone se si
dessero le condizio ni , in un tempo t
, per cui fosse giorno e io stessi conversan do. Diodoro invece
dimostra che esso è falso, sostenendo che non c'è niente nella sua natura che
permetta di dire se esso cada o no sotto la definizione di Filone. Infatti esso
potrebbe essere pronunciato anche in un tempo t2, quando fosse giorno, ma io
rimanessi silenzioso. In questo caso es so avrebbe la forma invalida VF. Per
ovviare a questo inconveniente, Diodoro elabora una concezione secondo la quale
un condizionale è valido quan do "non ammise, né ammette di cominciare
con il vero e fi nire con il falso".40 L'esempio che egli dà è "Se
non esisto no gli elementi atomici delle cose, allora esistono gli ele menti
atomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha l'ante cedente sempre falso
e il conseguente sempre vero: ciò ba sterà a escludere l'evenienza di un
antecedente vero con un conseguente falso, unico caso in cui il condizionale
sarebbe non valido.41 6.2.4.4 L'"implicazione connessiva"
("synartesis") di Cri sippo La terza concezione di condizionale
valido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi moderni
(Mates LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI 1949 a; Bochenski 1951 e
1956), corrisponde alla implica zione rigida di Lewis o comunque a una forma
di implica zione necessaria (Kneale 1962; Preti 1956). In maniera con corde
con il passo di Sesto, che abbiamo visto, questa concezione viene riportata da
Diogene (Vitae) : " È v e r o un condizionale nel quale il contraddittorio
(antikefmenon) del conseguente è incompatibile (macheta1) con l'anteceden te,
come a esempio 'se è giorno, c'è luce' ". Il nome del sostenitore di
questa concezione non ci è sta to lasciato da chi la riferisce; ma vi sono
prove che essa ap partenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller 1978: 18-19). La
nozione di "incompatibilità", messa in scena da que sta definizione,
è molto interessante, ma problematica in quanto non viene chiaramente definita.
Martha Hurst (1935: 495), commentando il passo, tende a mostrare che la
relazione di incompatibilità e anche, più in generale, quella di
"consequenzialità" (jollowing), non possono essere espresse in
termini estensionali, cioè mediante relazioni esterne, che sussistono tra le
proposizioni in virtù di pro prietà che esse avrebbero al di fuori della
relazione: al con trario, è necessario ricorrere alle relazioni interne che
sussi stono in virtù del loro significato. Può essere interessante confrontare
questa conclusione di M. Hurst con le osservazioni di Preti (1956: 13), il
quale so stiene che l'esempio di Sesto, dato a proposito della synar tsis
"sembra alludere a qualcosa di ancora più forte (della strict implication
di Lewis): alla vera e propria tautologia". Preti basa la sua osservazione
sulle notizie circa la dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De
signis. In effetti in quel testo (come vedremo meglio nel capitolo spe-
cificamente dedicatogli) è presentato come genuinamente stoico il metodo
inferenziale della "contrapposizione" (ana skeu), che appare analogo
a quello della synartsis. Infatti, l'inferenza per "contrapposizione"
è quella in cui la negazione del conseguente comporta la negazione del
l'antecedente. Essa si configura in maniera tale che la verità del condizionale
"Se il primo, allora il secondo" è garantita dalla verità del
corrispondente condizionale "Se non il se condo, non il
primo".42 6.3 CONCLUSIONI 157 Preti sottolinea le affinità tra la
synartsis (secondo cui la negazione del conseguente è incompatibile con
l'anteceden te) e il metodo di contrapposizione (anaskeu) (in cui la ne
gazione del conseguente comporta la negazione dell'antece dente), e in
entrambi i casi chiama in causa la implicazione rigida di Lewis, con la
precisazione che gli esempi forniti da Filodemo sembrano indicare un rapporto
più forte, che ten de a risolvere l'inferenza o in una forma di tautologia o
in una forma di L-implicazione. 6.3 Conclusioni Nel passaggio dalla teoria
aristotelica del segno a quella stoica c'è, come abbiamo visto, uno spostamento
di accento dai termini su cui si costruiscono le proposizioni categori che nel
sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni nell'as serto condizionale.
Contemporaneamente si registra un'ac centuazione del carattere, già presente
in Aristotele, di con sequenzialità necessaria che la relazione segnica è
chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a quello non noto deve
presentare un carattere cogente. Ci sono due ragioni di questo aspetto
necessaristico della semiotica stoica, una legata ali'analisi della natura
della ra gione e dei suoi processi, l'altra riferibile alla configurazio ne
della metafisica stoica (De Lacy 1978: 208). Per il primo punto è Sesto43
stesso a informarci che gli stoici ritenevano che l'uomo si differenzia dagli
animali per la sua capacità di "discorso interno " (16gos
endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare i concetti e di passare
dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione di consequenzialità
(akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di segno, che ha appunto
la forma: "Se questo, allora quest'altro". Così l'esistenza del segno
si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al
secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse
costituito da una catena ininter rotta di eventi, legati tra loro da rapporti
di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto
di- 158 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI pendenti daiPordine
razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la consequenzialità
necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella stessa
consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli
eventi.44 L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e
sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col locata sulla
relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause
ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa
accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi
nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle ga certi
avvenimenti presenti e altri che avverranno.4Ora, per quanto la razionalità
degli uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei,
tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che
lega gli eventi ("conligatio causarum omnium"),46 men tre ai primi è
preclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi
caratteristici delle cause ("signa [.. . ] causarum et notas") degli
eventi e su questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto
av verrebbe per gli dei, i condizionali degli uomini intorno al futuro mancano
di necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a
quello della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli cazione necessaria.
Ma questa, che è una caratteristica irri nunciabile, non è tuttavia
sufficiente a definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è
giorno, c'è luce»47 il giorno non potrebbe essere considerato un segno della
luce in quanto entrambe le cose sono evidenti e quindi l'in ferenza non può
provare nulla. La verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come
sembra richiesto nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo
della caratteristica di permettere di scoprire una nuova co noscenza. Il segno
stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello
deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per
collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore
dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presen- 6.3
CONCLUSIONI 1 59 te che l'essenza del segno è l'inferenza che va dalle cose ma
nifeste a quelle non percepite. Ma a questo punto sembra delinearsi nella
semiotica stoi ca un problema difficilmente resolubile: come è possibile che
l'inferenza segnica sia analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui
parla Preti) e contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di
un fatto nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti
anche la dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un
segno):48 - sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque , il
secondo . Qui l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre sentato
dallo scorrere del sudore al fatto nascosto che esi stano pori nella pelle. La
presenza dei pori è un fatto oscuro per natura: infatti essi possono soltanto
essere conosciuti dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il
microscopio non era ancora stato inventato. Sesto aggiun ge, come argomento
rafforzativo delle premesse nel ragio namento precedente, un'ulteriore
argomentazione:49 - compatto e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il
corpo. - Pertanto non è possibile che il corpo sia compatto, ma esso è poroso.
La premessa maggiore di questa argomentazione sembra essere basata sul test di
contrapposizione (Q::jJ) applicato alla premessa maggiore del precedente.
Infatti se al condi zionale: p (se il sudore scorre attraverso la superficie
del corpo) ::q (ci sono pori intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre
attraverso la superficie del corpo, ci È impossibile che un liquido scorra
attraverso un corpo 160 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI
applichiamo il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo
compatto e non poroso) :>p (un li quido non vi può scorrere attraverso),
espressione che è alla base della premessa del secondo ra gionamento di Sesto.
Essa permette di sviluppare un ragio namento corrispondente al modus tollens,
che convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se
gli stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la
contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a
priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno
produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la
relazione anche nel caso di verità fattua li, poiché parte dall'assunzione che
il fatto oscuro per natu ra sia legato a quello evidente in modo tale che ciò
che è evi dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse
quale viene rivelato essere. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO 7.O Introduzione
Contemporaneo allo sviluppo della riflessione stoica sul segno è il capitolo
della semiotica antica scritto dalla scuola epicurea. Uno dei cardini
dell'epistemologia epicurea, in fatti, è il principio semiotico del
congetturare dai fenomeni visibili fatti che sono per natura non percepibili
con i sensi. Gli stessi elementi fondamentali della metafisica epicurea (cioè
l'esistenza degli atomi e del vuoto, le configurazioni e le ragioni dei
fenomeni celesti) vengono stabiliti attraverso inferenze semiotiche che partono
dai fenomeni percepibili: Gli indizi (semeia) dei fenomeni celesti ce li
forniscono alcuni fenomeni che accadono presso di noi, e che si vede dove e come
avvengono, e non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte
maniere. (Epic., Epistula ad Pythoclem, 87) Epicuro rifiutava il ragionamento
deduttivo, tipico di Aristotele e degli stoici, giudicandolo vuoto e privo di
utili tà, ma accettava e valorizzava l'inferenza analogica che si sviluppa a
partire dai segni. Nel periodo ellenistico, anzi, gli epicurei divennero i
portabandiera di un metodo di ragiona mento qualificabile come "induzione
semiotica", e proprio sul metodo deli ' in ferenza si posero in polemica
con gli esponenti della scuola stoica. Un intero trattato del I secolo a.C. ,
il Perì smelon kaì smeioseon (Sui segni e sulle infe- 162 7. INFERENZA E
LINGUAGGIO IN EPICURO renze), redatto dall'epicureo Filodemo di Gadara, è dedica
to, del resto, al dibattito intercorso fra stoici ed epicurei sul tema
dell'inferenza semiotica.1 Epicuro, così, e la scuola epicurea nel suo insieme,
pro pugnano la possibilità di elaborare giudizi che siano oggetti vamente
validi su fenomeni non direttamente conosciuti at traverso l'esperienza, sulla
base di inferenze elaborate a partire dai segni. Il problema centrale diviene,
allora, quello di stabilire il criterio per verificare se ed entro quali limiti
tali giudizi pos sano essere considerati attendibili o non attendibili (cioè
ve ri o falsi) e di fornire le basi per poter dire se certe asserzio ni
corrispondano effettivamente ai fatti che esse descrivo no. Si fa strada
quindi la nozione di "criterio di verità", che costituisce la cornice
di sfondo all'interno della quale si col locano tanto la teoria deli'inferenza
semiotica quanto la teoria del linguaggio. In effetti il criterio di verità è
non uni co, ma molteplice: secondo la testimonianza di Diogene Laerzio,2 esso
comprende le sensazioni (aisthseis), le affe zioni (path), le preconcezioni
(prolpseis), a cui può essere aggiunta, per motivi che vedremo, l'evidenza
immediata (enargheia). I criteri di verità, e tra essi la pro/essi
("antici pazione", "preconcezione") in particolare,
giocano un ruo lo fondamentale in entrambe le teorie sia nella teoria del
l'inferenza3 sia nella teoria del linguaggio;4 in questo modo essi
costituiscono un elemento di connessione tra le due teo rie. Tuttavia ciò non
è ancora sufficiente a permettere un'articolazione comune tra segno
inferenziale e segno lin guistico, che rimangono ancora una volta oggetti di
due in dagini separate. Si ricorderà che anche per gli stoici la teoria del
segno lin guistico, chiamato smafnon, nasceva ali'interno di una di scussione
sul criterio di verità e sul "vero"; e anche in quel caso il segno
inferenziale, chiamato smefon, non aveva al cun punto di contatto con il
precedente se non per il ruolo giocato dalla nozione di lekt6n, a cui spettava
il carico di essere vero o falso. Si deve però notare una peculiarità della
semiotica epicurea: essa si arricchisce anche di una teoria deli'immagine
percettiva, che si collega al criterio di verità, 7 . l CRITERIO DI
VERITÀ ED EPISTEMOLOGIA EPICUREA 1 63 ma che anticipa anche alcuni problemi
interessanti per una teoria semiotica deli'iconismo. Così, nei paragrafi
seguenti esamineremo le questioni del criterio di verità, della prolessi e
deli'immagine percettiva in Epicuro, che collegheremo con la teoria
deli'inferenza se miotica, da una parte, e con la teoria del linguaggio,
dall'al tra. Gli sviluppi che la teoria semiotica epicurea avrà nel trattato
De signis di Filodemo saranno esposti , data la loro ampiezza, a parte nel
prossimo capitolo. 7.1 ll criterio di verità e l'epistemologia epicurea
L'impostazione generale della filosofia di Epicuro, dal punto di vista
epistemologico, è un tentativo di fondare la conoscenza su basi puramente
empiriche. In primo piano vengono posti i fatti o gli oggetti; ma anche le
parole essen zialmente costituiscono una via per giungere alle cose. In questo
modo si presentano per la filosofia due metodi di ri cerca: (i) uno orientato
alla conoscenza che proviene dalle parole; (ii) l'altro a quella che proviene
direttamente dalle cose.s Tuttavia il primo è considerato un processo prelimi
nare rispetto al secondo, e spesso la conoscenza che si ottie ne attraverso
gli strumenti del linguaggio, come quella che si produce attraverso le
proposizioni, è vuota e inganne vole.6 Il fondamento ultimo della conoscenza
sono i criteri di verità, i quali sono in grado di procurare all'uomo niente
meno che l'imperturbabilità.7 Essi sono dunque posti alla base stessa della
filosofia generale di Epicuro; del resto essi erano trattati in un'opera
perduta, intitolata Canone, in cui era contenuta la materia propedeutica
rispetto all'intero si stema dottrinario.8 Se noi pensiamo alla verità in
termini moderni , cioè come una funzione delle proposizioni, corriamo il
rischio di non comprendere il pensiero di Epicuro. In effetti, nella lingua
greca in generale, l'aggettivo althés ("vero") può servire tanto a
qualificare la verità di una proposizione, quanto a indicare ciò che sussiste
di fatto o che è reale. In Epicuro, in 164 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN
EPICURO particolare, l'aggettivo "vero" implica un'effettiva consape
volezza di qualcosa. Si giustifica così la sua applicazione al le sensazioni e
alle affezioni, in quanto dire che una certa sensazione (o una certa affezione)
è vera equivale a dire che essa fornisce un indizio effettivo su un fatto
reale, renden docene consapevoli.9 Prima di passare in rassegna le varie forme
del criterio di verità, è necessario sottolineare fin d'ora come esso sia fun
zionale a una teoria dell'inferenza semiotica. Infatti esso tende a stabilire
delle verità basilari riguardanti le cose per cepibili, che servono a loro
volta come punto di partenza per fare inferenze intorno alle cose non
direttamente rag giungibili con i sensi.10 7.2 Le forme del criterio di verità
Epicuro, dunque, considerava come criteri di verità le sensazioni, le
p[econcezioni (o prolessi), le affezioni (o sen timenti). 1 1 Nel paragrafo 82
della Lettera ad Erodoto veni va fatto cenno anche alla enargheia
("evidenza immediata, o "chiara visione"). Riferendosi a questi
passi, Long (1971 b: 116) fa una interessante proposta circa l'organizzazione
interna delle forme del criterio di verità. Suggerisce infatti di ordinarie in
modo gerarchizzato: in primo luogo ci sono le affezioni e le sensazioni; poi
l'evidenza immediata; infine le preconcezioni. Secondo Long, le prime due hanno
un va lore di verità puramente soggettivo, se prese da sole, e devo no essere
coordinate all'evidenza immediata e alle prolessi, per giungere a costituire un
criterio oggettivo. Le affezioni e le sensazioni comportano la consapevolez za
di qualcosa, e la loro "verità" consiste proprio in questa
consapevolezza, anche se, appunto, soggettiva. Si possono riprodurre le
relazioni tra le forme del criterio di verità se condo il seguente
schema: 7.3 TEORIA DEI SIMULACRI 165 criteri di veritè consapevolezza consapevolezza soggettiva
oggettiva ll affezioni sensazioni evidenza 7.3 Teoria dei simulacri
prolessi Finora abbiamo considerato il processo conoscitivo dalla
parte del soggetto che prova una sensazione o ha una affe zione in relazione
agli stimoli esterni. Se consideriamo lo stesso processo dalla parte opposta,
cioè partendo dall'oggetto, possiamo constatare che Epicu ro aveva elaborato
una vera e propria teoria dell'immagine che ha molti elementi di interesse per
una semiotica dell'ico nismo. Dal paragrafo 46 della Lettera ad Erodoto
Epicuro inizia a parlare del modo in cui si rende possibile la perce zione
degli oggetti. Questi ultimi, infatti, emettono in conti nuazione degli
efflussi di atomi estremamente fini, che compongono configurazioni in tutto e
per tutto identiche alla forma esterna dei corpi solidi.12 Queste
configurazioni prendono il nome di simulacri (eldO!a). Essi viaggiano a una
velocità estremamente alta e possono penetrare nei no stri organi di senso o
nella nostra mente, e lì produrre un ' immagine (phantasfa) più o meno esatta
del corpo da cui i simulacri sono stati emanati. Il processo può essere sche
matizzato così: oggetti - - - simuh1cri
- - .-.. immsgini mentali (stertJmnia) (sfd"lJfs) (phsntssfst) 166
7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Quella di Epicuro può essere definita una
teoria "causa le" (Long 1 97 1 b: 1 1 7) della percezione, in quanto
gli ogget ti sono responsabili dell'esistenza dei simulacri e questi ulti mi
causano direttamente il formarsi delle immagini nella mente. Si deve però dire
che le immagini sono una diretta conseguenza dei simulacri, ma solo
secondariamente una conseguenza degli oggetti, dai quali possono anche essere
difformi. In effetti la continuità del processo può essere interrotta al
livello del passaggio dell'efflusso dagli oggetti esterni ai simulacri . Questi
ultimi , sebbene di solito risultino delle co pie esatte degli oggetti,
talvolta possono subire delle modifi cazioni per il fatto di entrare in
collisione con altri atomi nel passaggio attraverso l'aria e possono anche
ridursi in di mensione nel momento in cui entrano in una persona (in quanto,
anche in questo caso, entrano in collisione con altri atomi). 1 3 Epicuro è,
con questa teoria, impegnato a rendere conto del fatto che gli oggetti, visti
da vicino, presentano certe di mensioni, mentre ne presentano altre, molto
minori, se visti da lontano, senza entrare in contraddizione con il principio
che la sensazione è garanzia di verità in ogni caso, e ci si troverebbe di
fronte veramente a una contraddizione se la phantasfa fosse un'immagine
dell'oggetto, mentre in realtà è un'immagine del simulacro (ekiOion). Sesto
Empirico sembra riportare correttamente il pensie ro di Epicuro quando cita, a
questo proposito, l'esempio della "torre": Così io non oserei dire
che la vista suggerisca il falso per il fatto che a grande distanza essa vede
la torre piccola e rotonda e a di stanza accorciata la vede più grande e
quadrata, ma direi piut tosto che la vista suggerisca il vero, perché
l'immagine ricevuta dai sensi, quando le appare piccola e di una certa forma, è
real mente piccola e di quella determinata forma, per il fatto che i li miti
appartenenti ai simulacri (eldola) vengono cancellati dal passaggio attraverso
l'aria. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 208-209) 7.4 TEORIA DELL'ERRORE E
DELL'OPINIONE 167 In effetti, ciò che i sensi recepiscono è il flusso di atomi
che si stacca dall'oggetto e che costituisce il suo simulacro e non l'oggetto
stesso. Tale flusso, passando attraverso l'a ria, si altera nella sua
configurazione, producendo la diver sità delle immagini che si hanno dello
stesso oggetto. Cosi ogni immagine mentale (phantasfa) è effettivamente vera
perché è relativa non all'oggetto, ma a ciascuno dei simula cri dell'oggetto,
che sono diversi in relazione alla distanza percorsa per raggiungere il
soggetto che percepisce. L'importante è non identificare il simulacro che si
produ ce nelle vicinanze dell'oggetto con quello che si ha in una vi sione a
distanza. 7.4 Teoria dell'errore e dell'opinione Il tema deli'inferenza
semiotica diventa sempre più cen trale nel campo dei processi percettivi
quando si abbandona il terreno sicuro della sensazione per esplorare quello
insi dioso delle opinioni, in cui si può verificare l'evenienza del l'errore.
Se gli uomini si attenessero soltanto alle loro sen sazioni e si limitassero a
descrivere le loro immagini mentali (phantasfa1), non ci sarebbe possibilità di
errore. Ma ciò non avviene, e l'errore sorge quando viene ad aggiungersi alla
sensazione qualche processo mentale che Epicuro, nella Lettera ad Erodoto (5
1), chiama "secondo movimento" (al l klnèsis). Long (1971 b: 1 18)
identifica questo "secondo movimen to" proprio con il processo di
elaborazione deli'opinione. Infatti Epicuro dice che esso è
"connesso" con il primo mo vimento (cioè la semplice apprensione di
immagini), ma, a differenza di questo, "ammette una distinzione":
quella tra il falso e il vero. Il primo movimento, cioè l'apprensione di
immagini, non ammette alcuna distinzione di questo gene re, perché è prodotto
da cause esterne, ovvero dai simula cri; il secondo movimento, invece,
consistendo nell'aggiun ta di un giudizio che noi facciamo su queste immagini,
può ricevere conferma o attestazione contraria. Si può così sche matizzare il
processo: 168 7. INFERENZA E LINOUAOQIO IN EPICURO processo conoscitivo /
apprensione di immagmi lphsntsstik epiboli'J sempre vera opinione (d6xs)
conferma e non attestazione contraria vera attestazione contraria e non
conferma falsa In effetti, se, sulla scorta di una visione distante e
oscura, io dico, traducendo in parole le mie sensazioni: "Quella ha le
apparenze di una torre rotonda" , io parlo in maniera veri tiera; ma se
dico: "Quella è una torre rotonda", il mio giu dizio è disconfermato
nel caso che, avvicinandomi, riceva l'immagine di una torre quadrata. In
definitiva, le immagi ni sono tutte vere mentre le opinioni sono alcune vere e
altre false. 14 Quello che comunque risulta è il carattere congettu rale
dell'opinione. 7.5 La congettura È naturale che all'interno di una teoria
dell'opinione uno spazio privilegiato venga dedicato alla congettura. Infatti,
in generale, la congettura consiste proprio in un'ipotesi co noscitiva su una
dimensione che va oltre ciò che può essere colto attraverso i sensi.
L'opinione, come la concepisce Epi curo, è associata esattamente a queste
caratteristiche, consi stendo appunto in un giudizio che prevede l'impegno del
soggetto su qualcosa che attende conferma. Ci sono alcune parole chiave che
definiscono il processo conoscitivo attuato attraverso l'opinione. La prima è
pro- 7.5 LA CONGETTURA 169 sménon, "ciò che attende conferma",
1 5 che è appunto l'og getto sul quale si esercita il giudizio. Una seconda e
una terza parole chiave, collegate tra loro da una relazione di antonimia, sono
epimartjrsis "attesta zione" e antimartjrsis "attestazione
contraria" o "conte stazione". Tuttavia, il sistema di Epicuro
per la conferma o la disconferma di una certa opinione non gioca su due, ben
si su quattro termini: c'è infatti conferma quando si ha "at
testazione" o "non contestazione"; c'è disconferma quando c'è
"contestazione" o "non attestazione". Si viene cosi a
creare un vero quadrato semiotico: attestazione contestazione ( epimsrtyrlJsis)
non contestazione (ouk sntimsrtyrsis) ( sntimsrtyrlJsis) non attestazione (ouk
epimsrf'jrlJsis) in cui, per Epicuro, due termini (o quelli della deissi
positi va, o quelli della deissi negativa) congiuntamente sono ne cessari per
decidere di un'opinione. 1 6 Tuttavia ciascuno dei quattro termini è idoneo a
stabilire la validità di un'opinione. Infatti nella teoria semiotica ri
portata nel De signis da Filodemo, il criterio per decidere sulla validità di
un'inferenza induttiva sarà rappresentato dalla sola non contestazione, ovvero
dal non conflitto del l'espressione segnica con i fenomeni percepibili. Nel
quadrato di Epicuro sorge il problema di stabilire un criterio per definire in
che cosa consista il termine base, cioè l'attestazione. Questo criterio è
rintracciabile nella enargheia ("l'eviden za", "la chiara
visione"), come ci dice Sesto: 170 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN
EPICURO Ed è attestazione (epimartjris) una apprensione, conseguita mediante
evidenza (di' enarghefas), del fatto che l'oggetto opi nato è appunto quello
che precedentemente veniva opinato, co me, ad esempio, se Platone da lontano
incede verso di me, io congetturo ed opino, a causa della distanza, che si
tratti di Pla tone, e, quando egli mi si è accostato, viene attestato che si
trat ti eli Platone, mercé la soppressione della distanza, e la confer ma si
è avuta in virtù della stessa evidenza. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 212) In
effetti Epicuro era ben consapevole del fatto che si possono commettere degli
errori neli'identificazione o nel riconoscimento degli oggetti della percezione
e, probabil mente, egli pensava che in ogni atto percettivo, accanto alla pura
e semplice sensazione, anche la d6xa gioca sempre un ruolo. In questo modo la
congettura diviene onnipresente, in quanto è coinvolta in ogni atto percettivo.
Di conseguen za, la funzione che vengono ad assumere le sensazioni e le
immagini mentali è quella di fornire i dati sulla base dei quali elaborare le
congetture. 1 7 Nella Lettera ad Erodoto (38) sembrano essere presi in
considerazione due tipi di oggetti sui quali l'inferenza se miotica si
esercita: (l) ciò che attende conferma (prosménon) (2) ciò che non cade sotto i
sensi (adlon) che danno luogo a due tipi di processi inferenziali. Il primo è
relativo al genere di congettura che si instaura all'interno degli stessi
processi percettivi ed è illustrato dal l'esempio, riportato da Sesto, del
vedere in lontananza Pla tone che si avvicina, e poter solo congetturare che
si tratti proprio di lui. In questo caso l'oggetto su cui si esercita la
congettura è qualcosa che viene colto dai sensi, ma non di stintamente.
Tuttavia, questo processo si conclude con una verifica: in questo caso, la
conferma del dato congetturato, attraverso una visione chiara. Chiameremo
questo tipo in ferenza percettiva. Il secondo è relativo all'inferenza su cose
assolutamente escluse dal processo percettivo: è il caso della congettura nel
senso fliù classico. Anche di questo ci fornisce un esempio Sesto. 8 Si tratta
di risalire dali'esistenza del moto (cioè di 7.6 L'INFERENZA DA SEGNI 171
un elemento percepibile, un phain6menon) all'esistenza del vuoto (cioè di un
elemento non percepibile, adlon). È la ti pica relazione logica di
implicazione (chiamata da Sesto akolouthfa) tra un antecedente e un
conseguente. Chiame remo questo secondo tipo di processo inferenza al non per
cepibile. 7.6 L'inferenza da segni L'inferenza al non percepibile è una tipica
inferenza da segni. Infatti in molti casi, come quello che abbiamo visto,
"Se c'è moto-+c'è vuoto", non è possibile conoscere diret tamente
l'oggetto sul quale viene fatta l'inferenza ("il vuo to"), ma lo si
deve attingere attraverso un segno ("il mo to"). In effetti, anche
per Epicuro, l'inferenza da segni è connessa con la possibilità di ampliare i
limiti della cono scenza oltre la sfera degli oggetti sensibili. È proprio
grazie a una teoria dell'inferenza segnica che la scuola epicurea riesce a
superare i limiti del proprio radicale empirismo, aprendo la via anche alla
conoscenza di fenomeni non per cepibili direttamente dai sensi. Anzi, nel De
signis di Filode mo (fr. 2), c'è un esplicito invito a considerare le conoscen
ze ottenute tramite inferenza, altrettanto sicure di quelle di rette. Un
programma conoscitivo di questo tipo presuppone un'epistemologia che divide gli
oggetti in quattro categorie, in maniera del resto non molto diversa da quanto
avveniva nella semiotica stoica: ( l ) Oggetti o fatti evidenti (enarghi):
"quegli oggetti che vengono recepiti involontariamente per mezzo di una
rappresentazione o di una affezione" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 316).
Come esempi vengono dati il fatto che sia giorno o il riconoscimento che una certa
persona è un uomo. (2) Oggetti oscuri in modo assoluto (phjsei adla):
"quegli oggetti che né furono conosciuti nel passato, né sono conosciuti
nel presente, né saranno conosciuti nel futu- 172 7. INFERENZA E
LINGUAGGIO IN EPICURO ro, ma sono inconoscibili in eterno" (Sext. Emp.,
Adv. Math., VIII, 317-318). Come esempio viene data l'im possibilità di
conoscere se il numero delle stelle sia pari o dispari. Fatti di questo genere
sono inconoscibili, co me spiega Sesto, non per la loro natura, ma per la no
stra natura, dato il tipo di limitazioni a cui è sottoposta la conoscenza
umana. (3) Oggetti oscuri di per sé (ghénei adla): "quegli oggetti che
sono oscuri per la propria natura, ma che si stima vengano conosciuti per mezzo
di segni e di dimostrazio ni" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 319). Gli
esempi so no gli atomi e il vuoto infinito. L'esistenza degli atomi e del
vuoto era postulata da Leucippo e da Democrito su basi puramente razionali, ma
Epicuro insisterà, in con formità con il suo empirismo, che possono essere
cono sciuti attraverso l'inferenza analogica. (4) Oggetti che attendono
conferma (prosménonta): sono quegli oggetti posti immediatamente oltre la
nostra esperienza (Ep. Hdt. , 38), la cui conoscibilità è limitata da fattori,
quali la distanza nello spazio o il loro essere situati nel futuro. Come si può
vedere, gli unici oggetti che possono essere conosciuti attraverso l'inferenza
sono quelli che apparten gono alla terza e alla quarta classe. Essi sono da
porre in corrispondenza con i due tipi di inferenza di cui abbiamo già parlato.
L'inferenza percettiva, infatti, verte intorno agli oggetti appartenenti alla
quarta classe, quelli "che attendono con ferma". L'inferenza al non
percepìbile, invece, verte intorno agli oggetti appartenenti alla terza classe,
cioè è rivolta alla co noscenza di quegli oggetti che sono "oscuri di per
sé" e che non arrivano mai a essere esperiti dai sensi . In questo caso il
metodo di verifica assume una forma indiretta: la "non at testazione
contraria" (ouk antimartjresis). Il vuoto, come abbiamo visto, non è
verificabile per esperienza diretta, ma gli epicurei sostengono che la sua
esistenza non è in contra sto con nessun fatto conosciuto, 1 9 mentre la sua
negazione 7.7 LA PROLESSI 173 entra in conflitto con l'esperienza
empirica del movimento, che richiede il vuoto per attuarsi. Il cuore del
ragionamento basato sulla non attestazione contraria consiste nel fatto che,
quando si hanno due proposizioni contraddittorie in torno a qualcosa che non è
percepibile, e una di esse risulta falsa in base a una prova empirica
(nell'esempio preceden te, la non esistenza del vuoto, in quanto entra in
conflitto con l'esistenza del moto), allora l'altra può essere conside rata
vera (De Lacy 1978: 188). 7.7 La prolessi La prolessi (o
"anticipazione" o "preconcezione") costi tuisce il secondo
dei due criteri di verità che abbiamo defini to "oggettivi". Essa ha
un ruolo determinante nell'inferenza percettiva, come mostra Diogene: Per
esempio, per poter affermare: "Ciò che sta lontano è un ca vallo o un
bue", dobbiamo per prolessi (o anticipazione) già aver conosciuto una
volta la figura di un cavallo e di un bue. (Diog. Lai!rt.. Vitae, X, 33) In
effetti la protessi è necessaria perché si abbia percezio ne in senso proprio,
cioè affinché si passi dalla semplice consapevolezza del fatto che si sta
vedendo un'immagine, al giudizio oggettivo che questa è immagine di un oggetto
pre ciso. In altre parole, secondo Epicuro, per poter effettiva mente
percepire un cavallo o un bue, si deve: l . avere avuto precedentemente
un'immagine di questi animali; 2. averla immagazzinata nella mente; 3.
effettuare un confronto con i dati che vengono forniti dalla propria attuale
sensazione. Le prolessi sono in realtà delle immagini mentali o dei concetti
che si sono formati in seguito a numerose esperien ze relative agli oggetti
esterni. Esse hanno due caratteri fon damentali: (i) sono strettamente legate
alla memoria di esperienze precedenti; (ii) sono evidenti (enargeis). Come
concetti, le prolessi non necessariamente corri spondono a singoli oggetti
esterni, ma costituiscono piutto- INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO sto
il tipo, di cui le singole esperienze percettive sono le oc correnze. Ciò, del
resto, è strettamente collegato al fatto che esse rappresentano un test di
verità: solo possedendo il concetto generale di "uomo", si può
decidere se ciò che si ha di fronte sia o non sia un'occorrenza particolare di
esso. 7.8 La teoria del linguaggio Le protessi costituiscono anche una
condizione necessaria del linguaggio e agiscono tanto al livello della
decodifica quanto a quello della codifica. Infatti, da una parte, l'atto di
pronunciare un nome (a esempio juomol) richiama nella mente dell'ascoltatore
un'immagine o un concetto, cioè un'entità che è soggiacente, hyfootetagménon, a
quel nome e che è derivata dalla protessi; 0 potremmo dire che la pre senza di
un significante fa scattare nell'ascoltatore I'abbina mento con un
significato. Dall'altra, il Iocutore deve posse dere una preconcezione di ciò
che intende esprimere, altri menti non gli sarebbe possibile dire niente: in
questo caso, il locutore codifica un significato presente nella sua mente per
mezzo di un artificio espressivo (un "nome"). Nella teoria epicurea
la prolessi sembra coinvolta in ogni caso nella formazione dei concetti.
Infatti Diogene dice che "tutti i concetti (epfnoia1) sorgono dalle
sensazioni, o per diretta esperienza, o per analogia, o per somiglianza, o per
combinazione, con una certa collaborazione anche da parte del
ragionamento" ( Vitae, X, 32). Long (1971 b: 1 19) sug gerisce di
identificare con le prolessi la prima classe di con cetti, cioè quelli che
sorgono per diretta esperienza dalle sensazioni. Se dunque le prolessi sono
alla base di ogni concetto, si viene a configurare una teoria del segno
linguistico sensibil mente diversa da quella che è normalmente attribuita agli
epicurei sulla scorta delle testimonianze di Sesto e di PIutar co.21 Questi
ultimi, infatti, sostenevano che nella teoria lin guistica di Epicuro solo due
fattori erano implicati: la cosa significante (sèmainon, o voce, ph(Jn) e la cosa
designata (tynchanon). In effetti, la ragione per cui Plutarco e Sesto
7.8 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 175 trascurano le protessi nella teoria del
significato linguistico è imputabile al fatto che essi non vedono nella teoria
epicu rea niente di simile al lekt6n stoico, che è contemporanea mente
incorporeo e completamente diverso da un'immagine mentale. Ciò non impedisce,
tuttavia, alle protessi di avere la stes sa funzione dei lekta stoici, cioè di
costituire un elemento di mediazione tra le parole e le cose. Di conseguenza,
la teoria epicurea del segno linguistico dovrebbe essere così rico struita:
prolessi nomi cose Del resto, se a Epicuro fosse attribuita una teoria
lingui stica secondo cui le parole si riferiscono direttamente alle cose,
senza la mediazione delle protessi, entrerebbe in con traddizione tutta la sua
dottrina della falsa credenza. A esempio, poiché gli uomini credono
erroneamente che gli dei siano malevoli nei loro confronti ed esprimono verbal
mente questa credenza, se non esistesse il livello concettuale delle prolessi,
non ci sarebbe niente che corrisponde alla proposizione "Gli dei sono
malevoli nei confronti degli uo mini". La presenza della prolessi come
elemento mediatore tra le parole e le cose può rendere conto di molte
asserzioni false e di asserzioni su cose che non esistono. Ciò che gli uo mini
fanno, pensando agli dei come malevoli, è una falsa supposizione, ovvero un
concetto non derivato dali'ogget to, cioè dagli dei stessi. La centralità
della protessi nella teoria linguistica epicu rea è dimostrata anche dal fatto
che essa deve essere identi ficata anche con quel particolare significato che
è il "signifi- 176 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO cato
basico" o "primario" (proton ennoma), di cui si parla nella
Lettera ad Erodoto (37-38) e che si oppone a tutti gli altri significati che
possono essere considerati derivati da esso.22 7.9 L'origine del linguaggio La
teoria linguistica in Epicuro è connessa con quella del l'origine stessa del
linguaggio, che è discussa principalmen te nella Lettera ad Erodoto (75-76).23
Per Epicuro il linguaggio è un'attività che gli uomini han no sviluppato nel
corso della loro evoluzione, passando at traverso due stadi distinti. Nel
primo stadio il linguaggio esprime una relazione con la realtà che potrebbe
essere defi nita naturale, mentre nel secondo una relazione che potreb be
essere definita convenzionale. In effetti Epicuro, nella polemica phjsisln6mos,
assume una posizione mediana e molto particolare, rifiutando sia l'idea che ci
sia stato un unico datore di nomi, sia l'idea (per altro sostenuta dagli
stoici) che le parole si accordino in maniera naturale alle co se. Esaminiamo
più in particolare come è descritto il pro cesso di nascita e sviluppo del
linguaggio nella Lettera ad Erodoto . In una prima fase l'attività linguistica
degli uomini non è affatto diversa dai processi naturali quali tossire,
starnuti re, gemere ecc.: infatti gli uomini emettono suoni, simili a parole,
sotto lo stimolo involontario e naturale delle affe zioni (path) che provano e
delle immagini (phantasmata) che si formano in loro. Il linguaggio primitivo
costituisce una reazione istintiva all'arnbiente, e la tesi di Epicuro sem bra
essere, in relazione a questo stadio, a pieno titolo quella naturalista. Ma, a
ben guardare, essa presenta qualcosa di più. Infatti ha sempre costituito un
problema, per i sosteni tori della tesi del naturale accordo tra le parole e
le cose, spiegare la diversità delle lingue: qui Epicuro non evita que sto
aspetto del problema,24 ma lo integra nella sua teoria. La diversità delle
lingue è diretta conseguenza della diver sità degli ambienti in cui i vari
popoli si trovano e in relazio- 7. l0 EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS»
177 ne ai quali emettono suoni diversi. Insomma, le lingue va riano perché le
cose variano da regione a regione. Inoltre gli uomini, accorgendosi che si
producono suoni diversi in re lazione alle affezioni e alle immagini prodotte
dagli oggetti, trovano utile usare questi suoni come nomi-etichette degli
oggetti. A questo punto interviene il secondo stadio nel processo evolutivo del
linguaggio, in cui vengono introdotti degli ele menti di convenzione. Questi
ultimi si instaurano sotto una duplice spinta: da una parte c'è un movimento
che tende a razionalizzare il linguaggio, rendendo le espressioni ambi gue,
createsi naturalmente "più chiare" e "più concise"; dal
l'altra c'è l'operato degli "uomini colti", i quali tendono a
introdurre concetti relativi a cose che vanno oltre la perce zione e che
dunque non hanno potuto essere nominate at traverso il processo naturale. Come
sottolinea Sedley (1973: 19), il tentativo deliberato di introdurre processi di
semplifi cazione nell'evoluzione del linguaggio corrisponde al desi derio di
rendere conto dei processi astratti, come quelli in cui la relazione uno e uno
tra parole e cose non è più soste nibile. Ciò avviene sostanzialmente in due
casi, che sono le gati all'intera problematica linguistica di Epicuro, cioè
(i) nella formazione dei termini generali e (ii) nei processi di
metaforizzazione. 7.lO Epicuro e la tradizione "physis/nomos" Dopo
aver esaminato la teoria epicurea dell'origine del linguaggio, è possibile
ritornare al triangolo semiotico e analizzare quali relazioni siano implicate
tra i vari termini, in rapporto con altre posizioni della tradizione
linguistica. Un primo confronto può essere stabilito con Aristotele. Spesso gli
studiosi hanno suggerito una dipendenza della teoria linguistica di Epicuro da
quella di Aristotele (tra gli altri, Arrighetti 1960: 476), o almeno una
stretta somiglian za (Long 1971 b: 121). In effetti nel De interpreta/ione (16
a) Aristotele pensa alle affezioni dell'anima come a immagi ni provenienti
dalle espressioni sensoriali derivate dalle cose INFERENZA E LINGUAGGIO
IN EPICURO esterne, in un modo non molto diverso da come le protessi di Epicuro
derivano dagli oggetti. Se questo è un punto di contatto tra le due teorie,
tuttavia maggiori sono, secondo Sedley (1973: 20), le divergenze. Anzitutto,
per Aristotele i diversi popoli hanno esattamente le stesse affezioni mentali,
ma le rappresentano attraverso espressioni linguistiche diverse. Per Epicuro,
invece (come abbiamo visto a proposito dell'origine del linguaggio), le forme
linguistiche sono diverse perché le affezioni mentali (path e phantasmata,
ambedue inclusi negli aristotelici pathmata) sono diverse da popolo a popolo,
in relazione ai diversi ambienti naturali. Ma ci sono anche altri elementi di
divergenza tra Aristotele ed Epicuro. Per il primo, infatti, nessun nome preso
di per sé ha funzione apofantica, cioè nessun nome può essere detto vero o
falso; inoltre nessuna espressione diviene un simbolo se non in seguito a
conven zione. Per Epicuro, invece, i nomi di oggetti individuali comportano
verità o falsità, come avveniva, del resto, an che nel Crati/o platonico;
inoltre, una certa espressione, che può essere anche un semplice rumore, può
essere usata co me un simbolo, per quanto in assenza di elementi conven
zionali, come avviene negli stadi primitivi della comunica zione. Un secondo
confronto può essere stabilito poi anche con la posizione platonica.
Sicuramente in Epicuro non è pre sente alcuna posizione simile a quella della
prima teoria se mantica di Platone,25 adottata in seguito anche dagli stoici,
secondo la quale il nome è una lista abbreviata delle pro prietà dell'oggetto
a cui si riferisce. Platone, infatti, vede le parole primitive come una
rappresentazione fedele delle proprietà dell'oggetto, quasi che tutto il
vocabolario fosse deliberatamente costituito da onomatopee. La posizione
naturalistica di Epicuro si limita a sostenere che, ali'interno di ciascun
linguaggio, ogni nome ha un uso corretto quando viene impiegato per denotare
l'oggetto, o la classe di oggetti, a cui è stato associato nel momento del la
sua origine naturale. Tuttavia, nonostante questa distin zione, ci sono forti
elementi di convergenza tra la posizione platonica e quella epicurea, in quanto
in entrambe i nomi 7.l0 EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 179 hanno
alla loro origine un valore cognitivo, che viene par zialmente obliterato
attraverso i cambiamenti del linguag gio nel corso del tempo.26 Per Platone il
recupero del senso originario delle parole avviene attraverso l'etimologia,
stra da sulla quale lo seguiranno anche gli stoici. Epicuro ritie ne, invece,
che la relazione originaria del linguaggio con gli oggetti percepibili sia
stata oscurata soprattutto da processi metaforici e, per recuperare il valore
epistemologico origi nario dei nomi, suggerisce di ricercare "la prima
immagine" (prOton enn6ema: Ep. Hdt., 38). Questa prima immagine è da
identificarsi con la prolessi, cioè con il concetto che si è formato alla prima
percezione dell'oggetto e che è stato as sociato al nome. In conclusione,
rispetto alla teoria di Aristotele e alla pri ma teoria semantica di Platone,
si può dire che Epicuro as sume una posizione intermedia. Per Aristotele i
nomi sono simboli e sono convenzionali. Per Platone, invece, i nomi sono delle
icone degli oggetti e sono naturali. Per Epicuro i nomi sono simboli, come per
Aristotele, in quanto non riproducono le proprietà degli og getti, ma sono
naturali, come per Platone, nella loro origi ne, coincidente con il primo dei
due stadi evolutivi del lin guaggio . Gli elementi di convenzionalità si
sviluppano soltanto in seguito, nel secondo stadio. Questa posizione intermedia
di Epicuro spiega perché non venga fatto ricorso all'etimolo gia, come invece
avviene in Platone e negli stoici, e, pur tut tavia, si chieda di tenere
presente "la prima immagine": in realtà, la corrispondenza biunivoca
tra il nome e "la prima immagi ne" si fonda non sulla forma, ma sulla
origine natu rale . 8. IL ''DE SIGNIS'' DI FILODEMO 8.0 Introduzione
Dopo Epicuro la teoria del segno trovò un ampio svilup po negli scritti dei
suoi seguaci. Un trattato del I secolo a.C.,1
ilPerìsmet'Onkaìsmei8seon(Suisegniesulleinfe renze)2 di Filodemo, testimonia
ampiamente del grado di raffinatezza e di complessità che la teoria del segno
aveva raggiunto in seno alla scuola epicurea. Si tratta di un'opera composta
probabilmente a uso della scuola epicurea di Er colano, della quale Filodemo
fu uno dei più importanti esponenti. Il De signis non costituisce un vero e
proprio trattato metodologico, né un'esposizione sistematica della teoria
epicurea del segno, ma riporta la polemica allora in corso fra stoici ed
epicurei sull'inferenza da segni e su varie tematiche semiotiche a essa
connesse. Il trattato è diviso in quattro sezioni, nelle quali sono esposte le
argomentazioni di tre maestri epicurei, Zenone di Sidone, Bromio e Deme trio
di Laconia,3 a favore della teoria epicurea del segno e contro le critiche a
essa mosse dagli esponenti della scuola stoica. Il trattato è di grandissima
importanza semiotica, perché tanto gli stoici quanto gli epicurei costruivano
la loro teoria logica sull'inferenza da segni. Nel confronto le due teorie si
illuminano a vicenda. Inoltre il De signis dibatte una serie di problemi che
ancora oggi sono al centro della discussione semiotica. Del resto, per la sua
pertinenza semiotica, que st'opera aveva attirato anche l'interesse di Charles
Sanders 8.l RELAZIONE SEGNICA «A PRIORI» E «A POSTERIORI» 181 Peirce, che
ne aveva affidato l'approfondimento e l'analisi all'allievo Allan Marquand; di
quest'ultimo ci rimane un saggio sulla logica semiotica degli epicurei.4 8.1 La
relazione segnica è "a priori" o "a poste riori"? Al
centro del trattato di Filodemo si colloca il contrasto fondamentale tra le due
scuole circa il modo di concepire il rapporto che si instaura tra i due termini
della relazione se gnica: gli stoici sono sostenitori di una posizione che
vede tale relazione come a priori, formale e di natura razionale; gli epicurei,
invece, sostengono che tale relazione è a poste riori e interamente fondata su
basi empiriche. Il punto di vi sta epicureo, in effetti, è che per poter
stabilire una relazio ne tra un segno e ciò a cui esso rinvia, è necessario
aver os servato più volte i due termini in un qualche tipo di con giunzione
(sia essa spaziale, temporale, causale ecc.). Così la relazione si stabilisce
in seguito ali'esperienza, e non a priori, come sostenevano gli stoici. Di
conseguenza, il me todo semiotico proposto dagli epicurei è quello deH'analo
gia (ho katà tn homoi6tta tr6pos), cioè un "metodo stret tamente empirico
e basato sull'osservazione delle similarità nella nostra esperienza e su certe
congiunzioni costanti, dal le quali noi inferiamo ugualmente delle similarità
e delle congiunzioni nella sfera di ciò che è oscuro" (De Lacy 1938: 398).
In corrispondenza con i due modi di concepire la relazio ne segnica, stoici ed
epicurei sviluppano anche due differen ti teorie sulla verifica della validità
logica della relazione. Gli stoici consideravano valida la relazione segnica
basata sulla contrapposizione (anaskeu), secondo cui la negazione del
conseguente comporta la contemporanea negazione del l'antecedente. A esempio,
nell'inferenza "Se c'è moto, c'è vuoto", gli stoici sostenevano che
la negazione della cosa si gnificata ("c'è vuoto") implicherebbe
anche la negazione del segno (''c'è moto"). Si tratta di un metodo di
verifica as solutamente a priori e astratto, al quale gli epicurei con-
182 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO trappongono un metodo completamente empirico.
Anzi, gli epicurei sostengono che nessun metodo a priori è possibile fino a che
non sia stata costruita un'inferenza su base empi rica: l'esistenza del vuoto,
nell'esempio precedente, è inferi ta a partire dalla osservazione empirica che
non si verifica il moto senza l'esistenza congiunta del vuoto, e da una conse
guente generalizzazione.5 Ciò significa che il principio astratto degli stoici
può esse re formulato soltanto dopo che l'inferenza è stata costruita su base
empirica e con il ricorso a un ragionamento analogi co. Così gli epicurei
sostengono che il metodo della con trapposizione poggia, inconsapevolmente,
sul fondamento ultimo dell'analogia epicurea. In questo modo le verità ne
cessarie, che gli stoici consideravano analitiche e a priori, sono in realtà
stabilite attraverso l'induzione. Gli epicurei prospettano un punto di vista
secondo cui la logica dedutti va è susseguente a una logica induttiva in
ordine di svilup po: la prima dipende infatti dalla seconda (De Lacy 1978:
221). Se questa idea è chiaramente espressa nel trattato di Filodemo, non ci si
deve tuttavia aspettare una discussione articolata sulle relazioni tra la
logica formale e deduttiva da una parte, e logica induttiva e metodo empirico
dall'altra. Anzi, a ben vedere, nel corso del trattato, entrambi i prota
gonisti della discussione tendono a confondere due cose che la logica moderna
avrebbe piuttosto tendenza a tenere di stinte: da una parte, il metodo per la
costruzione di un'infe renza segnica; dall'altra, il criterio per la verifica
della sua validità (Martinelli) . Così , il metodo di costruzione
deli'inferenza per gli epicurei è l'analogia, mentre il criterio è più
precisamente quello della inconcepibilità (adianosfa). Tuttavia la distinzione
non è così forte, in quanto sia il me todo sia il criterio sono su base
empirica: in effetti, nel di battito, gli stoici tenderanno ad attaccare il
metodo per in validare il criterio e viceversa. 8.2 Contrapposizione vs
inconcepibilità Vediamo di analizzare, in termini formali, l'opposizione CONTRAPPOSIZIONE
VS INCONCEPmiLITÀ · 1 83 che si stabilisce tra il criterio stoico della
contrapposizione e quello epicureo della inconcepibililà. Data l'inferenza
p-:Jq il criterio della sua verifica secondo la contrapposizione stoica è
esprimibile come il che equivale a dire che, negando per ipotesi il conseguen
te, anche l'antecedente risulta negato. La prova dell'infe renza, dunque,
avviene su base formale e non empirica. Il criterio della inconcepibilità
epicurea, invece, prescinde da considerazioni formali ed è basato sull'analogia
empiri ca. Esso viene così illustrato nelle parole di Filodemo: Ma talvolta
l'inferenza non è provata essere vera in questo mo do ( = per
contrapposizione), ma proprio per l'impossibilità di concepire che il primo
sia, o abbia una certa proprietà, mentre il secondo non sia, o non abbia tale
proprietà, come per esem pio: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un
uomo". Se è vera questa inferenza, diviene vero anche che "Se Socrate
non è un uomo, nemmeno Platone è un uomo", non perché, attraver so la
negazione di Socrate, Platone sia negato insieme ad esso, ma perché non è
possibile che Socrate non sia un uomo e Plato ne sia un uomo; e questa
inferenza appartiene al metodo dell'a nalogia . (col. XII, 14-31=cap. 17) Dal
punto di vista formale il criterio della inconcepibilità è esprimibile come
impossibile (pl\q) In effetti le due formule che corrispondono rispettiva
mente al criterio di verifica stoico e a quello epicureo non esprimono un
contenuto logico molto diverso l'una rispetto all'altra. La stessa presenza di
un operatore modale nella 184 8. n «DE SIGNIS» DI FnODEMO formula
del criterio di inconcepibilità è controbilanciata dal carattere, ugualmente
modale, di necessità, che sappiamo essere richiesta dali'implicazione come la
concepivano gli stoici . Tuttavia, in Filodemo i due metodi sono presentati
come contrapposti, e anzi, nel passo citato, sembra che trovino applicazione in
casi diversi. Se non è dunque sul piano del contenuto logico che si dif
ferenziano, che cosa è allora che li rende diversi? È possibi le cercare una
risposta a questo interrogativo soffermando ci sull'esempio che viene
riportato da Filodemo di inferenza verificata con il metodo
dell'inconcepibilità: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo"
Questa inferenza, ci dice Filodemo, appartiene al metodo dell'analogia.
Infatti, entrambi i membri dell'inferenza condividono un elemento, cioè la
proprietà attribuita ai soggetti rispettivi delle due proposizioni, fatto che
potrem mo esprimere come: u {P) u {S)
in cui "u" è la proprietà di "essere un uomo",
"P" è "Plato ne" e "S" è "Socrate".
Questo aiuta a capire che cosa intendano esattamente con "analogia" e
con "inferenza segnica basata sull'analogia" gli epicurei. In
effetti, mentre per gli stoici non è necessario alcun elemt.nto in comune tra i
due membri dell'inferenza segnica, una tale caratteristica diviene essenziale
per gli epi curei.6 Il fatto, però, che l'analogia, da un punto di vista
logico, si venga precisando come situazione in cui c'è una proprietà condivisa
dai soggetti delle due proposizioni membri del l'inferenza, ci permette di
dire che la logica usata dagli epi curei non è la stessa di quella usata dagli
stoici: mentre que sti ultimi si servono della logica delle proposizioni, gli
epi curei ritornano a una logica dei predicati, sotto un certo punto di vista
più simile a quella aristotelica. 8.2 CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPIBILITÀ
185 A distinguere il metodo della contrapposizione da quello
dell'inconcepibilità è dunque l'ambito di applicazione: le proposizioni nel
primo caso, le proprietà nel secondo. Lo scopo è tuttavia lo stesso: dimostrare
che l'inferenza ha un carattere di necessità. Ora non c'è nessun problema a
considerare necessaria la relazione stoica verificata dalla contrapposizione,
in quanto il metodo adottato è aprioristi co. Ci sono maggiori problemi,
invece, come gli stoici sot tolineano, a considerare necessaria l'inferenza
analogica. A ogni modo, per gli epicurei le relazioni segniche vengo no scoperte
empiricamente e, se la ricerca è ben condotta, la relazione tra il segno e
l'oggetto a cui il segno rimanda' è necessaria. Tuttavia, il metodo stesso
dell'inconcepibilità è un metodo empirico, in quanto una certa cosa è inconcepi
bile solo nei termini della nostra esperienza. Le inferenze verificate
dall'inconcepibilità sono basate sull'analogia tra il segno e ciò a cui esso
rimanda: "Un oggetto che non ab bia niente in comune con ciò che appare è
inconcepibile" (col. XXI, 27.;.29 = cap. 36). Anche le inferenze su ciò
che va di là dell'esperienza sono basate sull'analogia con le proprietà che
presentano le cose ali'interno deli'esperienza. Se non è possibile verificare
di rettamente la presenza di quelle proprietà negli oggetti non percepiti, si
ricorre alla prova indiretta della non incompati bilità (ouk antimartjrsis)
con i dati empirici.7 L'inferenza che viene presa in considerazione è la
seguente: Se gli uomini che noi conosciamo direttamente, una volta deca pitati
muoiono, senza che ricrescano nuove teste, allora tutti gli uomini, dovunque,
una volta decapitati muoiono e non ricre scono nuove teste. Il primo membro
del condizionale è considerato segno del secondo. Tra i due membri si
stabilisce un elemento co mune, e l'inferenza è propriamente un'induzione:
l'espe rienza ripetuta dell'associazione tra decapitazione da una parte e
morte congiunta alla non ricrescita della testa dal l'altra, porta alla
generalizzazione di questa associazione, in modo da poter fare inferenze e
previsioni anche in casi 186 8. IL «DE SIONIS» DI FnODEMO non
precedentemente osservati, o non osservabili in asso luto. Inoltre, poiché è
impossibile verificare l'inferenza sui casi non osservabili , gli epicurei la
ritengono veri ficata basando si sulla non incompatibilità con i casi che
cadono nel domi nio deli'esperienza. La condizione è tuttavia quella di sce
gliere i casi giusti, che sono quelli che appartengono allo stesso genere: a
esempio, per inferire la non ricrescita delle teste, è necessario non basarsi
sulla ricrescita dei capelli o delle unghie (coli. XIII, 20 - XIV, 2 = cap.
18). 8.3 Segni comuni e segni propri La disputa sui metodi di verifica
dell'inferenza si lega alla discussione sui tipi possibili di segno. Tanto gli
stoici quan to gli epicurei distinguevano tra segno comune (koinòn s mefon) e
segno proprio (fdion smefon). Definivano il segno comune come quella entità che
può esistere anche in assen za di un'entità cui dovrebbe rinviare (a esempio,
nell'infe renza "Se quest'uomo particolare è ricco, allora è buono"!
la ricchezza può sussistere anche se non sussiste la bontà). Definivano poi il
segno proprio come quell'entità che può esistere solo se esiste un oggetto non
percepibile a cui essa rinvia (a esempio, nell'inferenza "Se c'è moto,
c'è9vuoto", il moto può esistere solo se esiste anche il vuoto). Gli
epicurei erano d'accordo con gli stoici nel rifiutare i segni comuni come basi
inaffidabili di inferenze, ma non concordavano sul fatto che ogni caso di segno
proprio fosse anche un caso (come sostenevano gli stoici) di segno stabili to
per contrapposizione, cioè stabilito aprioristicamente. Per essi era possibile
stabilire dei segni propri usando un criterio empirico, come è quello
dell'inconcepibilità.10 Se consideriamo l'inferenza: "Se Epicuro è un
uomo, allora anche Metrodoro è un uomo " ci troviamo di fronte a un segno
proprio costruito per ana- 8.3 SEGNI COMUNI E SEGNI PROPRI 187 logia,
cioè sull'osservazione di una proprietà in Epicuro che è inconcepibile pensare
che Metrodoro non abbia esatta mente negli stessi termini. In altre parole si
può dire che, posto l'accordo tra le due scuole sulla validità dei soli segni
propri, gli stoici costituivano un oggetto come segno a par tire dal
conseguente (ovvero dal rinviato), mentre gli epicu rei lo costituivano a
partire dall'antecedente. È l'oggetto che compare nell'antecedente, infatti,
che nella semiotica epicurea viene associato a certe proprietà (costantemente
osservate) e diviene segno di un altro ogget to non percepibile a cui vengono
attribuite le proprietà del primo. Tuttavia, il primo oggetto X deve avere
almeno due proprietà Pt e P2 e il secondo oggetto deve avere almeno una di
queste: la proprietà comune diviene il segno della presenza della seconda
proprietà che può non essere perce pibile direttamente nel secondo oggetto. A
esempio, se un certo individuo X ha le due proprietà: Pt = "essere un
uomo" p2 = "non poter avere la ricrescita della testa, una volta
tagliata" sarà sufficiente che un altro individuo Xt abbia la proprietà Pt
perché gli si possa attribuire anche la proprietà p2. Le condizioni della
validità generale di questa inferenza sono due: (i) che l'associazione tra le
due proprietà nel pri mo membro dell'inferenza sia costante; (ii) che tale
associa zione non si stabilisca tra proprietà casuali. Come vedremo in
seguito, si tratta di scegliere delle proprietà che siano "es
senziali". Rimane da fare una considerazione generale sul tipo di segno
proposto dagli epicurei: esso sembra costantemente configurarsi come segno iconico,
in quanto, in termini peir ceani, rimanda al suo oggetto in virtù di una
somiglianza o per avere alcune proRrietà in comune con esso (Peirce 1980: 140;
Eco 1973: 51). 1 188 8. ll «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.4 Critica stoica
all'induzione epicurea Gli stoici non accettano la validità dell'inferenza
basata su un criterio induttivo, come proponevano gli epicurei. A essa
contrappongono inferenze segniche basate sostanzial mente su due tipi di
criterio: (i) la tautologia; (ii) la L-impli cazione. 12 Seguiamo lo sviluppo
dell'argomentazione degli stoici. Essi prendono come punto di partenza una
tipica in ferenza induttiva, o analogica, epicurea: "Se gli uomini tra di
noi sono mortali, allora tutti gli uomi ni lo sono''. Per gli stoici
l'inferenza cosi formulata è inaccettabile. Per acquisire validità, essa deve
essere riformulata secondo l'uno o l'altro dei criteri che abbiamo menzionato.
Vedia mo il criterio definito come tautologia. Gli stoici sostengo no che,
per rendere valida l'inferenza, cioè, dal loro punto di vista, per rendere
necessaria la relazione tra i due mem bri, entrambe le proprietà prima
considerate devono essere contenute nella premessa. 1 3 Gli stoici propongono
così di riformulare l'inferenza nel modo seguente: Dal momento che gli uomini
tra di noi sono mortali, e se in altri luoghi vi sono uomini simili a quelli
tra di noi sotto tutti i ri spetti, e anche nell'essere mortali, essi sono
eventualmente mor tali . (coIl. II, 37 - III, 4= cap. 5) Il carattere
tautologico dell'inferenza è sottolineato dagli stoici stessi, i quali
sostengono espressamente che "la con clusione appresa attraverso questo
segno non differisce dal segno a partire dal quale si trae l'inferenza
(smeioume tha)".14 Infatti viene assunta la premessa che entrambe le
serie di entità (cioè sia gli uomini che si trovano tra di noi, sia gli uomini
che sono in luoghi sconosciuti) hanno non so lo la proprietà comune di essere
"uomini", ma anche con temporaneamente quella di essere
"mortali". 8.5 RISPOSTA EPICUREA A FAVORE DELL'INDUZIONE 189
L'assunzione nella premessa dello stesso carattere di "mortalità" che
dovrà essere anche oggetto di inferenza è, per gli stoici, condicio sine qua
non della necessità dell'infe renza. L'inferenza sarà valida, dunque, solo se
totalmente analitica o tautologica. Vediamo ora l'argomentazione stoica contro
l'induzione secondo il criterio definito L-implicazione. In questo secon do
caso gli stoici propongono di riformulare l'inferenza epi curea di partenza in
maniera tale che il carattere di "morta lità" da inferire sia
contenuto nella definizione stessa di "uomo". Per esprimere l'idea
che la parola luomol implicita semanticamente tutto un insieme di proprietà che
una defi nizione metterebbe in luce, essi introducono le espressioni hii
"in quanto" e kath6 "nella misura in cui". L'inferenza
riformulata secondo questo principio assume la forma se guente: Dal momento
che gli uomini tra di noi, in quanto (hi1) e nella misura in cui (kath6) sono
uomini, sono mortali, anche in qual siasi altro luogo gli uomini sono
mortali.ts in cui la semplice espressione l uomo l è data come implici tante
la proprietà "mortale" da inferire. Gli stoici sostengono che
l'attribuzione della proprietà di essere "mortale" a l uomo l , se
avviene in qualsiasi altro modo diverso da questo, come appunto fanno gli
epicurei, rende vana l'inferenza. 8.5 La risposta epicurea a favore
dell'induzione La sostanza della replica epicurea è che il sistema stoico, per
quanto appaia analitico e a priori, tuttavia poggia in ul tima analisi su una
base induttiva. In realtà, secondo gli epicurei, la necessità della relazione
inferenziale è costruita sull'osservazione di congiunzioni costanti. È a causa
del fatto di non vedere mai il fumo senza il fuoco, né il moto senza la presenza
del vuoto, che noi arriviamo a dire che il fumo è segno del fuoco e il moto
segno del vuoto.16 Cosi è 190 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO su base
empirica che viene stabilito il sistema di necessità lo gica a priori alla
quale fanno ricorso gli stoici . Del resto, la stessa connessione necessaria
tra due termini, espressa at traverso il test della contrapposizione, può
essere verificata solo dopo che l'esperienza ha mostrato la costante congiun
zione tra di essi. Come giustamente interpreta Estelle De Lacy (1938: 405),
"le ipotesi sul livello logico e teoretico sono formulate sulla base di
informazioni intorno alla connessione di termini da ti dali'osservazione
deli'esperienza dei sensi. La validità di queste ipotesi, di conseguenza,
dipende dalla loro corri spondenza con i fatti e dalla loro adeguatezza nel
compren dere tali fatti, come pure dalla loro interna coerenza o com
patibilità dell'uno con l'altra". Se questa è la sostanza della replica
epicurea alle critiche stoiche sull'induzione, vale però anche la pena di
analizzare la risposta specifica17 alla seconda critica stoica. Infatti, in
relazione alla L-implicazione, gli epicurei, ribaltando l'ar gomento stoico,
sollevano una questione interessante: la de finizione di uomo in quanto
mortale è non il punto di par tenza di un'inferenza deduttiva, ma il punto di
arrivo di ri petute inferenze induttive. In altre parole, si costruisce la
definizione di uomo in quanto tale, come comprendente an che la proprietà di
essere "mortale" in conseguenza di due serie di informazioni: (i) le
informazioni che ci fornisce la storia sulle vite degli uomini che ci hanno
preceduti; (ii) le informazioni che ci derivano dali'esperienza diretta dei no
stri contemporanei. Così gli epicurei pongono l'equivalenza tra la
proposizione: (a) "Gli uomini , in quanto uomini , sono mortali "
(che è la formula suggerita dagli stoici, e che indica dedutti visticamente il
fatto che nella nozione di "uomo" vi è com presa la proprietà
"mortale"), e la proposizione: (b) "Gli uomini con questa
proprietà (di essere mortali) sono uomini"18 8.6 PROPRIETÀ
ESSENZIALI E ACCIDENTALI 191 che è la formula epicurea, la quale suggerisce in
qual modo venga costruita la definizione. In sostanza, gli epicurei sem brano
sostenere che la definizione di "uomo" viene costrui ta mediante
un'accumulazione di proprietà che sono rileva te mediante un metodo analogico
in entità che sono9deno minate in un certo modo, in questo caso, luominil.1
8.6 Proprietà essenziali e proprietà accidentali Un altro interessante problema
che emerge nella disputa tra stoici ed epicurei è quello della distinzione tra
proprietà primarie e proprietà secondarie. Questa distinzione risale a
Democrito, che è stato il primo a usarla (De Lacy 1938: 403). Il problema non è
affatto banale e ancora oggi, in molte teorie semantiche, si ricorre a
un'analoga distinzione. Gli epicurei affrontano l'argomento per rispondere a
una critica stoica che attacca il metodo dell'analogia mostrando il rischio che
si corre neli'applicarla a proprietà che non hanno tutte la stessa ripartizione
o generalità. Infatti, so stengono gli stoici, allo stesso modo in cui viene
universaliz zata la concomitanza osservata tra la proprietà "uomo" e
la proprietà "mortale'', altrettanto potrebbe essere fatto per la
concomitanza osservata tra "uomo" e "di breve vita": il ri
schio è che, così facendo, si viene ad attribuire quest'ultima proprietà anche
agli abitanti del monte Athos, che nell'anti chità erano proverbialmente
considerati longevi.20 Proprio da questo tipo di critica gli epicurei sono
spinti a elaborare una distinzione tra proprietà che sono variabili (cioè
peculiari a certi individui) e proprietà che sono costan ti (cioè
rintracciabili in ogni individuo). L'inferenza corret ta sarà quella che parte
dalle proprietà costanti. Tuttavia, sostengono gli epicurei, la stessa presenza
di proprietà va riabili, invece di indebolire la teoria dell'inferenza analogi
ca, la rafforza: posto infatti che gli uomini conosciuti diffe riscono
moltissimo rispetto alla lunghezza della vita (essen do alcuni di breve vita e
altri longevi), diviene possibile, proprio sulla base dell'esistenza della
variazione, fare cor rettamente l'inferenza che altrove esistano uomini di
ecce- 192 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO zionale longevità, come lo sono
appunto gli abitanti del monte Athos.21 Ma ciò che spinge gli epicurei ad
andare ancora più a fon do su questa strada è l'attacco stoico a proposito di
inferen... ze che hanno conseguenze sulla loro teoria metafisica. La
provocazione stoica concerne la teoria degli atomi, che, nel la metafisica
epicurea, hanno la proprietà di essere "incolo ri" e
"indistruttibili"; però essi hanno anche la proprietà di essere
"corpi", a cui, nell'esperienza, sono associate le pro prietà opposte
(cioè "colorati" e "distruttibili"). Queste so no le due
inferenze che, secondo gli stoici, gli epicurei do vrebbero fare, applicando
correttamente il metodo analo gico: (l) "Dal momento che tutti i corpi
della nostra esperienza hanno colore e anche gli atomi sono corpi, anche gli
atomi hanno colore." (2) "Dal momento che tutti i corpi nella nostra
esperienza sono distruttibili, e anche gli atomi sono corpi, gli atomi devono
essere tutti distruttibili."22 La replica epicurea è molto interessante,
per due motivi. In primo luogo, perché precisa ulteriormente la necessità di
fare distinzioni tra proprietà a cui il metodo analogico si applica, e
proprietà a cui non si applica; infatti il metodo agisce selettivamente sulle
proprietà e non in modo ca suale.23 In secondo luogo, la replica epicurea è
interessante per ché modula la precedente distinzione in termini teoricamen
te più forti: essa diviene una distinzione in proprietà che possiamo definire
essenziali e proprietà accidentali. Infatti gli epicurei parlano di certe
proprietà che i corpi hanno pro prio "in quanto corpi" (hei somata),
che essi mantengono in ogni occasione: prima fra tutte la proprietà di
"opporre resistenza al tocco". Questa è dunque una proprietà essen
ziale. Poi ci sono quelle proprietà che non sono strettamen te legate alla
natura dei corpi e che possono variare a secon da delle condizioni: si tratta
di proprietà accidentali, che i PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 193
corpi hanno "in quanto partecipano di una natura opposta a quella corporea
e non resistente",24 come a esempio la di struttibilità o il colore, il
quale ultimo è tanto accidentale che scompare nelle condizioni di buio.
Possiamo schematizzare queste due serie di proprietà at traverso una
tabella: proprietè entitè corpi A B proprietè accidentali (in
quanto partecipano di una nature opposta) ..distruttibilitè• ·colore• (in
quanto tali) ·resistenze al tocco· proprietè essenziali Gli epicurei
precisano molto chiaramente che le inferenze induttive generalizzanti non
dovranno partire dalle proprie tà della colonna B; ma niente impedirà di fare
inferenze ge neralizzanti, con il metodo dell'analogia, partendo dalle
proprietà della colonna A.25 A conferma di questo schema si può riportare
l'esempio del "fuoco'',26 per il quale, accanto alla proprietà essenziale
di bruciare, viene elencata una serie di proprietà variabili peculiari ai vari
tipi: 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO proprietà essenziali proprietà
accidentali (koin6ttes) (idi6ttes) ·di lunga o corta durata• ·non tutte le
sostanze sono bruciate nello stesso modo· ·facili o difficili da spegnere ·
·duri o teneri· •di colore variabile a seconda del combustibile· Nella sezione
di Bromio27 viene anche prevista una specie di topica per individuare la
ripartizione delle proprietà: in fatti, ai fini della correttezza delle
inferenze, le proprietà es.. senziali (o comuni, koin6ttes) e quelle
accidentali (o pecu liari, idiOttes) devono essere analizzate nei vari campi o
ca tegorie che sono di pertinenza di un oggetto: nelle sostanze, nei poteri,
nelle qualità, negli attributi, nelle disposizioni, nelle quantità, nei numeri.
Lo scopo di questa topica appare essere quello di giustifi care inferenze
universalizzanti ali'interno di categorie omo genee: infatti, a esempio, pur
essendoci un'infinita varietà di esseri umani e di cibi che li nutrono, se si
considera il fie no rispetto alla categoria dei "poteri", si troverà
che esso ha due proprietà costanti: "di non nutrire gli esseri umani"
e "di non essere digerito da essi".28 Perciò, al di là delle diverse
caratteristiche che questo og getto potrà presentare (diversi colori, diversa
consistenza, diverso grado di maturazione ecc.), potremo fare con sicu rezza
l'inferenza che da nessuna parte si troverà del fieno che abbia la proprietà di
nutrire gli uomini e di essere da lo ro digerito. Ma che cosa sono
propriamente per gli epicurei quelle proprietà degli oggetti ''in quanto tali",
che abbiamo defini to proprietà essenziali? Dai precedenti esempi (e da altri
analoghi) appare chiaramente che esse sono , per loro , le - 194 propnettt r
entità ! fuochi PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 195 proprietà
definitorie di un oggetto, cioè quelle che concor rono alla sua definizione
essenziale. Abbiamo visto che per gli stoici una definizione viene co struita
analiticamente, attraverso una ricognizione delle proprietà implicite nella
nozione da definire: un individuo, in quanto è uomo, ha la proprietà di essere
mortale. Per gli epicurei le cose vanno nel senso opposto. La defi nizione di
una nozione viene costruita per accumulo delle proprietà comuni a certi individui.
Di conseguenza, tra le proprietà comuni (o essenziali) rilevate empiricamente e
le proprietà che fanno parte della definizione, non c'è diffe renza. Lo
dimostra anche l'uso della particella hi ("in quanto") che viene
utilizzata (come vedremo meglio più avanti) nelle espressioni definitorie.
Rimane aperto il pro blema se sia possibile costruire empiricamente una defini
zione annotando le proprietà comuni a una classe di ogget ti, o se il processo
non sia in qualche maniera viziato (alme no in parte) proprio dalla
preliminare esistenza di definizio ni che rimandano alla lingua come struttura
globale interde finita e/o storicamente stratificata. Questa seconda ipotesi
sembra in parte prospettarsi con la definizione di l uomo l . Per gli epicurei,
infatti, la pro prietà "mortale'' è, come abbiamo visto, una proprietà es
senziale o definitoria di l uomo l . Si deve però notare che es sa fa parte
della definizione di l uomo l già in una lunga tra dizione che risale per lo
meno ad Aristotele. Quest'ultimo definiva infatti l uomo l come "animale
mortale provvisto di ragione" (Top. , V, l , 128 b, 35-36). Gli stoici poi
lo defi nivano come "animale razionale mortale" (Epictetus, Diss.
II, 9, 2). La tradizione epicurea, infine, lo definiva come "mortale
provvisto di sapienza pratica" (De signis, col. XXII, 22-24=cap. 37).29 È
probabile, dunque, che definizioni di questo genere co stituissero
un'implicita guida nella stessa ricognizione empi rica delle proprietà comuni
a una serie di oggetti (gli uomini percepibili) analizzati in vista di
un'inferenza al non perce pibile . 196 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.7
Modalità di inerenza delle proprietà essenziali ai soggetti Quando nel trattato
di Filodemo si parla di proprietà co muni o essenziali, queste vengono
congiunte al soggetto me diante le particelle héi, kath6, par6, che
equivalgono nel si gnificato alle espressioni italiane "in quanto",
''nella misura in cui". Esse vengono a indicare una condizione restrittiva
nell'inferenza al non percepibile, come abbiamo visto nel l'esempio della
natura degli atomi come "corpi in quanto tali", o degli uomini come
mortali "nella misura in cui sono uomini". Nella sezione di Demetrio
sono elencate quattro accezioni fondamentali di queste particelle, che
rimandano a quattro modi di inerenza delle proprietà ai soggetti: (i) Secondo
la prima accezione, le proprietà possono es sere viste come conseguenze
necessarie (ex ananks synépe tar): come esempio di conseguenza necessaria del
fatto di essere uomini, sono riportati i fatti di avere un corpo e di essere
soggetti alla malattia e alla vecchiaia.3° Con questo esempio l'autore sembra
individuare un tipo di proprietà che in certe semantiche contemporanee sono
chiamate fat tuali o sintetiche3 1 o proprietà secondo il modo 1r). 32 (ii)
Nella seconda accezione, le proprietà sono individua te come essenziali alla
definizione o alla concezione fonda mentale (prolessi)33 di un certo oggetto.
Questo si verifica a esempio con espressioni del tipo: "I corpi, in quanto
corpi, hanno volume e resistenza", o come: "L'uomo, in quanto uomo, è
un animale razionale''. In questo caso il rapporto sembra essere di tipo
equativo: l'estensione del primo termi ne viene a coincidere con quella del
secondo. Nel caso del l'esempio di l uomo l , l'equivalenza definizionale
viene data in termini di genere ("animale"), più differenza specifica
("razionale"). (iii) Secondo la terza accezione, certe proprietà sono
vi ste come sempre concomitanti (synbebekénar), come nell'e sempio:
"L'uomo nella misura in cui è uomo, muore".34 8.8 CONCLUSIONI
197 L'autore sembra individuare qui delle proprietà che nelle teorie
contemporanee sono state definite semantiche, anali tiche o proprietà secondo
il modo E : "uomo,, infatti, è in cluso nella classe più vasta di
"mortale". Quest'ultima, poi, ritorna sotto forma di marca semantica
a comporre il seme ma corrispondente al termine l uomo l . (iv) La definizione
della quarta accezione è perduta in una lacuna, ma essa può essere ricostruita
dagli esempi che il testo ha conservato: "L'uomo, nella misura in cui è
folle, è massimamente infelice,, "Un coltello taglia nella misura in cui è
affilato", "Gli atomi, nella misura in cui sono soli di, sono
indistruttibili", "Un corpo, nella misura in cui ha peso, cade verso
il basso". Marquand (1883: 125) interpreta questi come esempi di proprietà
che implicano gradazioni o proporzione. I De Lacy (1978: 125) fanno invece la
conget tura che si tratti di proprietà delle proprietà. Certi di questi esempi
farebbero pensare al rapporto se miotico della connotazione, inteso come
significato che si appoggia su un altro significato e che comunque è fissato da
un codice. Si possono schematizzare i quattro modi in cui le proprie tà
ineriscono al soggetto, · sia secondo l'interpretazione di Marquand, sia
secondo quella della semiotica contempora nea (cfr. p. 198). 8.8 Conclusioni
Se gli stoici avevano fornito alla semiotica una solida im palcatura logica,
gli epicurei arricchiscono la problematica del segno mediante una serie di
specificazioni destinate ad avere valore operativo nella ricerca concreta ed
effettiva. Abbiamo già visto le distinzioni tra i tipi di segno, i tipi di
proprietà, i modi di inerenza delle proprietà ai soggetti. Ol tre a questi
temi gli epicurei affrontano anche il problema della gamma di variazione a cui
i fenomeni sono sottoposti e quello dei limiti di tale variazione, come
condizione per fare inferenze corrette. Infatti ammettono l'esistenza di
proprietà che variano da individuo a individuo, ma negano 198 8. IL «DE
SIGNIS)) DI FILODEMO semiotica contemporanea Marquand
conseguenza 1. 2. concezione estensionalmente necessaria definizione o
proprietè fattuali o sintetiche essenziale (protessi ) proprietà
equivalenti al soggetto 3. concomitanza proprietà semantiche o
analitiche 4. gradazione o connotazioni proporzione codificate che nei
fenomeni non percepibili la gamma di variazione sia illimitata e che comunque
superi i confini della variazione osservabile nei fenomeni conosciuti. Così non
si potrà infe rire che gli uomini fuori dalla nostra esperienza siano tanto
resistenti da essere invulnerabili, oppure che essi siano fatti di ferro, o che
passino attraverso le pareti, come quelli co nosciuti passano attraverso
l'aria. La giustificazione di que sto fatto viene data dal metodo
deli'inconcepibilità: "è in concepibile che ci sia un ogetto che non
abbia niente in co mune con ciò che appare". 5 Nel De signis vengono
anche affrontati i problemi con nessi ai vari tipi di inferenza: da classe a
classe; da oggetti identici ; da casi rari ; da casi unici . Tutti questi
problemi so no collegati a un tema che è costante nella semiotica epicu-
8.8 CONCLUSIONI 199 rea: quello delle garanzie di validità di
un'inferenza. A esempio, un'inferenza scorretta è quella che porta a concludere
che tutti gli uomini sono bianchi, partendo dal l'osservazione che gli uomini
greci lo sono, o che, al contra rio, porta a concludere che tutti gli uomini
sono neri, par tendo dali'osservazione che gli Etiopi sono tali. In effetti,
simili inferenze sono errate perché non sono frutto di "una accurata
supervisione di tutti i casi percepibili".36 Ciò che, dal punto di vista
logico, avviene in casi di questo genere è che si tenta di applicare ali'intera
classe o genere (quello de gli "uomini") una proprietà che di volta
in volta è caratteri stica di una sottoclasse o specie (quella dei
"Greci" o, ri spettivamente, quella degli "Etiopi"). In
effetti, per garantire il massimo di sicurezza, gli epicu rei pongono alla
base del loro metodo per costruire inferen ze una teoria della progressiva
inclusione semantica tra in dividui, specie e generi, cioè una teoria delle
classi. È infatti legittimo fare inferenze tra membri (classi o in dividui
particolari) i quali si situino a un livello analogo o che siano il più
possibile vicini e simili. Naturalmente que sto non significa che l'inferenza
debba essere fatta esclusi vamente tra membri che si situano esattamente allo
stesso livello, altrimenti l'induzione perderebbe molta della sua forza, ma
nella maggior parte dei casi viene previsto un mo vimento ascendente di
generalizzazione.37 Una teoria delle classi è implicita anche nella trattazione
epicurea dei casi unici, elaborata ancora una volta in rispo sta a una critica
stoica. In effetti gli stoici avevano tentato di attaccare il metodo
deli'analogia ricorrendo ali'argomen to deli'esistenza in natura di casi
unici, che non presentano analogia con alcun altro fenomeno: a esempio, in
mezzo al la stragrande quantità di pietre che esistono nella nostra
esperienza, ce n'è una sola, il magnete, che è capace di atti rare il ferro;
ugualmente, solo l'ambra ha la proprietà di at tirare la paglia; infine, non
c'è che il quadrato che misura 4 di lato che ha il perimetro e l'area espressi
dallo stesso nu mero.38 Secondo gli epicurei, però, le critiche degli stoici,
invece di inficiare l'inferenza analogica, in realtà la rafforzano. 200
8. IL «DE SIGNIS» DI Fll.ODEMO Per dimostrare questo, gli epicurei ricorrono al
metodo di ridurre ad altrettante classi gli oggetti unici. Così, essi dico no,
se alcuni magneti attirassero il ferro e altri no, l'inferen za per analogia
sarebbe inficiata; ma poiché così non avvie ne, è possibile inferire le
proprietà degli altri magneti a par tire dal magnete che cade sotto la nostra
percezione.39 Molti ancora sarebbero i punti particolari da prendere in
considerazione, per mostrare il modo con cui gli epicurei tentano di
dettagliare la teoria del segno. Ma quello che in definitiva caratterizza la
semiotica epi curea è il suo richiamo a un completo programma empirista (che
era condiviso, tra l'altro, anche dai medici empirici). Tale programma
comprende tre tappe fondamentali: osservazione; storia; inferenza da simile a
simile. I pri mi due momenti del programma permettono di individuare le
"proprietà essenziali", e quindi di passare al terzo mo mento, che è
quello della ricostruzione del processo semioti co vero e proprio. Nei primi
due momenti, infatti, vengono suggerite delle condizioni sui fenomeni da
osservare per ottenere le pro prietà costanti: essi devono essere
"molti", devono essere diversi tra di loro (''vari") e,
contemporaneamente, devono essere "omogenei".40 Il terzo momento,
infine, combina le proprietà deli'enciclopedia semantica con le leggi della
logi ca (che per gli epicurei sono quelle della logica delle classi). In
questo compromesso, appunto, tra i concreti suggeri menti in vista della
produttività empirica e il tentativo di mantenere il massimo rigore formale
deve essere individua ta l'originalità della proposta epicurea. RETORICA
LATINA. L'interesse per la problematica semiotica nel mondo ro mano fa parte
di quel processo di costante e progressiva ac quisizione del patrimonio
culturale greco, che inizia nel III secolo a.C. Ma, nel passaggio dal mondo
greco a quello ro mano, il paradigma semiotico abbandona il campo della fi
losofia in senso stretto, per installarsi, in maniera centrale, nell'ambito
retorico-giuridico. In Grecia la conoscenza attraverso i segni era divenuta,
soprattutto nelle scuole postaristoteliche, il modello stesso della conoscenza
in generale e, a partire dagli stoici, aveva trovato la sua collocazione
ali'interno della dialettica, una delle branche più astratte della filosofia,
in quanto sotto partizione della stessa logica. Invece i Romani, aderendo a
interessi maggiormente orientati in direzione pragmatica, avevano bensì colto
l'estremo interesse del paradigma se miotico, ma lo avevano subito piegato ai
fini, a loro più congeniali, del dibattito politico e giudiziario, dibattito de
stinato a essere condotto con gli strumenti forniti appunto dalla retorica. Per
rendersi conto, nel modo più chiaro, del cambiamen to di prospettiva, basta
mettere a confronto l'atteggiamento di Aristotele con quello di Cicerone nei
riguardi della retori ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina
l'argomento di un suo importante trattato, la Retorica, e al suo interno aveva
affrontato il tema dei segni; ma, come era già avve- 202 9. RETORICA
LATINA nuto nei Primi analitici, aveva tentato di ridurre la forma dei vari
tipi di segno a quella dei tipi di sillogismo. Cosi fa cendo, aveva indicato
un percorso ben preciso: la logica stabilisce le forme fondamentali del
ragionamento, che de vono rimanere un punto di riferimento anche quando l'inte
resse si sposta, come nel caso della retorica, dal discorso scientifico a
quello persuasivo, dai segni referenziali a quelli efficaci . In Cicerone, e in
genere nella trattatistica retorica roma na, si registra un'inversione
nell'ordine di priorità: la retori ca non occupa più il secondo posto,
rispetto a un primato della logica, ma, al contrario, è la filosofia nel suo
insieme che diviene scienza ancillare, il cui scopo è quello di contri buire
alla formazione del buon oratore. Tuttavia è l'elo quenza l'espressione più
alta dell'attività intellettuale. Un passo del De oratore (Il, 159-160) mostra
abbastanza chia ramente l'opinione di Cicerone circa i rapporti tra dialettica
e retorica, quando per bocca di Antonio viene detto che i dialettici sono
soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma non di produrne. In effetti,
per Cicerone la retorica costituisce il "corona mento" della
filosofia, dalla quale non può essere dissociata (De orat., III, 59-61), e non
deve essere considerata una tec nica capace di aggiungere un'espressione
elegante a un pen siero già formato. Come mettono bene in luce Mare Baratin e
Françoise Desbordes (1981: 50), in Cicerone agisce un principio, sempre
sfumato, ma costantemente affermato, che, se si parla bene, si pensa anche bene
o, in altre parole, che non si pensa veramente bene se non quando si parla ve
ramente bene. Tuttavia la retorica, indiscutibilmente, presenta anche un
aspetto tecnico, e ogni trattatista mostra che essa è organiz zata secondo due
tipi di assi. Il primo concerne i tipi di di scorso: il discorso dei tribunali
(giuridico); il discorso del l'assemblea (politico); il discorso delle
cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo riguarda le parti della
retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono essere messi in atto per
strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri cerca degli argomenti);
dispositio (ordinamento di quel che 9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 203 è
stato trovato); elocutio (resa degli argomenti in forma or nata); memoria
(procedimenti mnemotecnici); actio (recita zione del discorso: gesti e
dizione). La problematica riguardante il segno si colloca nel cuore della
inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove che convincano
l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato. Le prove, in
retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e si
inseriscono nel pro gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo dei
due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro gramma è il
commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio
o sulla sua forza proba toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia,
come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare
l'espressione "prova" per indicare le probationes (pfsteis)
retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno tazione scientifica la
cui assenza appunto definisce le "pro ve" retoriche. Tuttavia, un
merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di
dare una classifi cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza
argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni
autore ha assolto in ma niera particolare, proponendo una classificazione che
non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi
paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li nee secondo le quali i tre
grandi autori della trattatistica re torica romana, cioè Cornificio (autore
della Rhetorica ad Herennium) , Cicerone e Quintiliano , ricostruiscono nelle
rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia scuno secondo
diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una
documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati
del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium , attribuita un tempo a
Cicerone sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi
asse gnata a Cornificio (Calboli: 1969). 204 9. RETORICA LATINA La
problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della
constitutio coniecturalis dove, per verifica re se sia stata commessa o no una
determinata azione da un certo imputato, si segni che ne mostrino la col
pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret tamente a cui i segni
devono rimandare non è il fatto o rea to, che è ovviamente noto, ma l'agente
responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un
certo fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed
è ben illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi
reso conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla
spada. Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma
insanguinata. Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del fratello
con la spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la verità per
congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione nell'esempio Oa
colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può scaturire da una
intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La retorica antica, come ha
sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una fiducia incrollabile nel
metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo e l'ametodico non
portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti pico procedimento
diairetico, suddivide lo stato congettura le in sei parti, sei diverse vie per
arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità), conlatio (confronto),
signum (pro cedimento indiziario), argumentum (segno), consecutio
(conseguenza), adprobatio (conferma). 9. 1 . 1 La probabilità Troviamo qui una
terminologia in parte familiare, in quanto probabile può essere considerata la
trasposizione la tina di eik6s, e signum quella di smefon, per limitarci solo
a questi due casi. Ma i contenuti delle espressioni latine so- 9.l LA
«RHETORICA AD HERENNIUM» 205 no completamente difformi dalle corrispondenti
nozioni greche. Infatti il probabile è "ciò attraverso cui si dimostra che
era utile commettere il crimine e che l'imputato non si è mai astenuto da
comportamenti di tale turpitudine" (Il, 3), defi nizione nella quale non
rimane molto deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile è
connessa alla caratteriz zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se
[l'accu satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem pre stato
avaro, se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difetto
congenito con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dalla
sua ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di
"movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimento
indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò che
serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione
(del crimine)" (II, 6). Non ritro viamo nemmeno qui la nozione greca di
smeion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia
ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico struire il fatto
scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine
separata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di
por tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il
segno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la
sua definizione non è ancora molto elo quente ("Argumentum è ciò
attraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e
con un so spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci
tolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe nomeno
percepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile 206 9. RETORICA
LATINA direttamente; la sua struttura è quella in ferenziale, espressa da
un periodo ipotetico: "Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per
gonfiore o lividezza, significa che è stato uc ciso da una dose di
veleno" (Il, 8); se si trova del sangue sulle vesti dell'imputato, se è
stato visto sul luogo del delit to, significa che egli è colpevole (ibidem)
ecc. Caratteristicamente l'argumentum viene suddiviso in tre tipi, in relazione
al rapporto temporale (anteriorità, con temporaneità, posteriorità) che si
instaura fra antecedente e conseguente del segno; classificazione, questa, che
risale al la retorica prearistotelica (si trova a esempio nella Rhetori ca ad
Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le
reazioni fisiche non controllabili Un'altra nozione interessante è quella di
consecutio, che Calboli (1969: 232) mette in relazione ai sjmptoma della
terminologia medica. Si tratta, come dice Cornificio, dei "segni (signa)
che solitamente presentano i colpevoli e gli innocenti" (II, 8), come, a
esempio, che l'imputato, quando si è giunti a interrogarlo, "sia
arrossito, sia impallidito, ab bia titubato, sia caduto in contraddizione, si
sia smarrito, abbia fatto qualche promessa, che sono segni di coscienza non
tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle reazioni fisi che non
controllabili, dei segni involontari che possono ve nire messi in relazione,
in maniera abbastanza codificata, con degli stati d'animo (come il senso di
colpa). Questi se gni, per quanto non siano facilmente dissimulabili, sono pe
rò manipolabili a livello di interpretazione: infatti l'avvoca to difensore
può intervenire sulla loro presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è
turbato per la gravità del pe ricolo e non per la coscienza della colpa;
d'altro canto, l'ac cusatore può intervenire sull'assenza di segni di tal
genere sostenendo che l' imputato aveva a tal punto premeditato la cosa da
presentare la massima sicurezza, ragione che rende l'assenza di turbamento
"segno di sicurezza, non d'inno cenza" (ibidem). probabile
causa - vita conlatio alii nemini bonum - neminem alium potuisse slgnum occasio
- spes per- ficiendi spes celandi l argumentum consecudo adprobatio -
praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 207 9. 1 .5 La
classificazione e la forza argomentativa Come si può vedere, il procedimento
indiziario che viene messo in atto in ambito retorico-giuridico gioca su vari
li velli: (i) innanzitutto, ci sono i segni della premeditazione. che nella
tassonomia di Cornificio sono distribuiti tra il probabile, la conlatio (che
consisteva nel dimostrare che l'imputato aveva più di ogni altro ragioni e possibilità
di commettere il delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo ci sono i segni
delfatto stesso, che sono rappresentati dagli ar gumenta: essi mettono in
relazione diretta l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'è quella
sorta di segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dal
comportamen to dell'imputato osservato in un momento diverso e succes sivo
rispetto a quello dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamente
la classificazione della materia congetturale effettuata da Cornificio con il
se guente schema (Curcio 1900): - locus - tempus - spatium -
consequens Se messa a paragone con quella della Retorica aristoteli
ca, la classificazione di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e non
saldamente fondata. Tuttavia, con temporaneamente, appare molto più aderente
alla materia instans conscientiae - signe confidentiae - signa
innocentiae 208 9. RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e non
priva di una logica inter na nel suo seguire i segni deli'imputato in un
percorso che parte dal momento precedente il crimine e culmina nel pro cesso .
Cornificio discute anche della forza argomentativa dei se gni, quando propone
di organizzare in una struttura logica gli argomenti trovati. E, a questo
proposito, nota che ci so no dei segni che non garantiscono nessuna certezza
come a esempio: uoeve aver partorito, poiché porta in braccio un bimbo
piccolo", oppure: "Dal momento che è pallido, deve essere
ammalato" (Il, 39). Come si può notare, si tratta di segni che
corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi non sono sicuri perché,
a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma anche una quantità di
altre cose. Quello che è però interessante è che Cornificio non li rifiu ta,
ma sottolinea un loro valore argomentativo nel caso che compaiano in gran
numero ("se però vi si aggiungono an che tutti gli altri, tali segni
hanno un certo peso per accre scere il sospetto", ibidem). 9.2 Cicerone
Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti
della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere
che parlano dei se gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di
questo ambi to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è
ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De
oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una
problematica a carattere so cio-politico, volta a definire la figura
deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione
rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut to ciò
che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso
anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto
trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo
di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini
di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i
personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le
Partitio nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate
dalla caratteristica di prendere in considerazio ne e di sistematizzare la
gran massa delle nozioni che com pongono l'apparato tecnico della retorica. Un
limite di que ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del
procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa rossismo, come nel
De inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica.
Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli
spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno.
9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di
Cicerone e con densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino
a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro vino riprodotti alcuni
aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In
particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an
tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata
l'attenzione verso i segni involontari (l'im pallidire, l'arrossire, il
balbettare dell'imputato) come indi zi di colpevolezza. Infine compare la
classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il
fatto crimi noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti
di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei
segni proposta da Cice rone è in larga misura diversa da quelle precedenti.
Essa ap pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar
gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle
prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere
qualche cosa che si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in
maniera RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens) , o la dimostra
in . un mo do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44).
Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in
questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è
stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato)
rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già
aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili ter ostendens) e
un'inferenza necessaria (necessarie demon strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio
necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene
dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro vato
diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha
partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo",
"Se è giorno, c'è luce" (De inv. , l, 86). Come Cicerone spiega in un
altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono
legati da una re lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae
rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi
cosi defini to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o
che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con
questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa
definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico
e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito
peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un
tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo
figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv.,
I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio ne che per
Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo
esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un
viaggio" (De inv. , 9.2 CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello
stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La
categoria di signum, poi, compare come una sottopar tizione dei segni non
necessari, accanto al credibile (credibi le), ali'iudicatum (giudicato) e al
comparabile (paragonabi le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in
base a crite ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il
signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan za particolare:
"Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no stri sensi e indica
(significar) un qualcosa che sembra deri vato dal fatto stesso, e che può
essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e
tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv. ,
I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la
fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi,
intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo
lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio nale; ma niente vieta
che vengano sviluppati in proposizio ni, come dimostra il caso deli'indizio
"polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente
reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la
nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare
la classificazione propo sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2
"Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della
tarda matu rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia
semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato
giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei
modelli greci e viene completa mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi
(qui chiamati 212 9. RETORICA LATINA argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori
élut quod in opi nione positum est") es.: .. "pallore'",
..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di
un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac
discuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se ha partorito, è
stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig
nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"',
Sa è madre, ama suo fi\]lio --- ---
- l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine
viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo ghi estrinseci"
(corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi
intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che
veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei
Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino
posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli
oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici,
interpreti onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una
concezione orda lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut
tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para digma divinatorio
all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono
completamente laicizzati. 9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in
ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L
,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva:
"Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete
udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai
segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il
verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli
argomenti intrin seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di
cau sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di
segni: i verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni
caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che
accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è
incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri
sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili stico e
generalizzante. La nnta propria rei viene definita come "una prova che non
si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co me il fumo indica il
fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi dentemente, del segno necessario,
come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che
riman da alla nozione di fdion smeion (segno proprio). Per Ari stotele il
segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad
esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio
(An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva
carat tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se
non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli
indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei
quali 214 9. RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma,
macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor
so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione,
le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se
non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratte ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor nificio (Rhet. adHer., II,
8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione
con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile)
(Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma
non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi che degli
ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate goria dei semefa
aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo
delle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i
vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia,
cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva
appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava
i smefa da un punto di vista episte mologico per la loro insicurezza, Cicerone
è pronto a rico noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero
(coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione
cicero niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla
divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina zione.
Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla
conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo
luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente
mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o trt•)
(·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza
inclinazione alla libidine · 9.2 CICERONE 215 coniecturs ---- l -----
verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt
certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla
dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu rali) e prove extratecniche
corrisponde la distinzione tra di vinazione artificiale (basata
sull'interpretazione e sulla con gettura) e divinazione naturale. Infine, come
Cicerone pole micamente rileva (De div. , II, 55), i segni della divinazione
sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo sta, proprio come
avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto
due interpretazioni di verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i
metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei
confronti della di vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di
intellet tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi
losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora neamente impegnato in
politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e
superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione
appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti
dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stso; la
superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che
inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta,
anche per ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo
impegno di gestione della repubblica. 216 9. RETORICA LATINA Cicerone
affronta questi argomenti nel De natura deo rum, nel De fato e, soprattutto,
nel De divinatione. Que st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra
l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi
sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le
osservazioni di Cicerone contro la teoria soste nuta da Quinto sono
particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a
un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una
concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale"
Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon te dell'informazione
e come emittenti nei processi di comu nicazione divinatoria, dei quali gli
uomini sono i destinata ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di
divinazione, il pro cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il
primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione
dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di
decriptazione, demandata a specia listi, ciascuno esperto in un settore:
extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum
(inter preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo
degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in terpretes sortium
(interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a
caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si
materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars
permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano
le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica,
secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau se
ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento
primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile per
intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola
divinità (De div., I, 125-127). 9.2 CICERONE 217 Tuttavia viene prevista
l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo
srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete
sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini,
attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si
ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però
arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas
cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con
nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul la iteratività.
Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi
futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione
"naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito
naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma
derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso
la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di
preveggenza derivan ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e
quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo
secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri patetiche (Dicearco e
Cratippo vengono esplicitamente no minati, De div. , II, 100), secondo le
quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia
spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al
corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è
in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:
218 9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro
.... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni
divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi nazione
si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la
quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente
carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se gni non
siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli
antecedenti rispetto a dei conse guenti. Per distinguere i segni veri rispetto
a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche
scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica
previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i
casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre
le pratiche pro fessionali adottano una vera e propria metodologia che
comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div. , II, 14), le prati che divinatorie si
basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra
che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso
farà accade re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in
definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla
frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip
pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes sionale dalla
divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi
si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso
della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28).
9.3 QUINTILIANO 219 Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione
presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso
segno sono spesso diametralmente opposte (De div.); (ii) si verificano
frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un
certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio so, ma a
ben diverse cause naturali (De div.); l'interpretazione avviene a posteriori e così
toglie ogni ne cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div. ,
II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra gioni di
faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74). 9.3
Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del regime politico
dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re torica divenisse
inutilizzabile come mezzo di agitazione po litica e sociale: per questo, da
strumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita Cicerone, era
divenuta so prattutto materia teorica. In questo quadro Quintiliano è colui
che espone i principi dell'arte retorica nella maniera migliore e più completa
di chiunque altro e contemporanea mente registra il processo di
cadaverizzazione che l'elo quenza stava subendo. Nella sua Institutio oratoria
tratta un programma completo del ciclo educativo del perfetto orato re, in cui
la competenza semiotica ha una posizione di rilie vo. Gran parte degli
elementi che compongono l'opera di Quintiliano hanno indiscutibilmente una
pertinenza semio tica; ma nella lnstitutio è presente anche una sezione speci
ficamente dedicata ai segni, come era ormai consuetudine per ogni trattato di
retorica. Vaie anche nel caso di Quintiliano la considerazione fatta a
proposito degli altri trattatisti di retorica, e cioè che la ri flessione sul
segno è saldamente inquadrata all'interno del l'ottica giuridica con cui viene
trattata la materia. I segni in fatti fanno parte delle probationes
artificiales, cioè delle 220 9. RETORICA LA... INA prove che l'abilità
(ars) dell'oratore saprà trovare per far assolvere o condannare un imputato.
D'altro canto, le pro bationes inartificiales sono quegli elementi che
derivano dali'esterno del processo e vengono consegnati ali'oratore insieme al
suo dossier. Il seguente schema ne mostra l'inventario completo: 9.3. 1
Orientamento della retorica di Quintiliano probstiones (prove) i n a rt i
f i c/i a l tJ s praejudicia (pregiudizi) rumores (voce pubblica) tormenta ,
quaesita ( inter rogatorio sotto tortura) tabulae (scritture, atti, contratti
ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia (testimonianze) a rt i f i c i s l e
s formale Va pure detto che la retorica di Quintiliano, accanto a un
orientamento giuridico, ne presenta anche uno fortemente teorico, che tende a
inquadrare la materia il più possibile in termini logici e formali (anche se è
stato rilevato che Quinti liano non si trova del tutto a suo agio in questo
campo) (Kennedy). Così tutti e tre i tipi di prove tecniche (signa, argumenta,
exempla) vengono inquadrati in un reticolo di relazioni lo giche vicine al
genere deli'implicazione, ovvero del rappor to "se p, allora q".
Infatti il meccanismo di avvaloramento signum (segno, prova di fatto)
argumentum (prova di ragionamento) exemplum (esempio) ed epistemologico QUINTlIANO
221 delle prove deve assumere una forma logica che coincide con uno dei
seguenti quattro tipi: (i) il concludere dalPesse re una cosa che un'altra non
sia (p-+ - q) ("È giorno, dun que non è notte"); (ii) il concludere
dall'essere una cosa che un,altra sia (p-+q) (''Il sole splende sulla terra,
dunque è giorno"); (iii) il concludere dal non essere qualcosa che
qualcos'altro sia ( -p-+q) (''Non è notte, quindi è giorno"); (iv) il
concludere dal non essere qualcosa che un'altra sia ( -p-+ - q) ("Non è un
essere razionale, quindi non è un uomo") (lnst. or. , V, 8, 7). Analizzati
ali'interno di questa griglia, i segni tendono a configurarsi come degli
antecedenti rispetto a dei conse guenti; nozione, questa, che Quintiliano non
ha bisogno nemmeno di rendere esplicita, in quanto attinta direttamen te dalla
tradizione della retorica e della logica greca. Dallo stesso ambito, del resto,
verranno attinti anche molti esem pi, tra cui l'ormai celebre "Se una
donna ha partorito, si è unita con un uomo", che, più o meno variato,
ritorna in tutti i trattatisti del segno. Come Aristotele, a cui fa costante
riferimento, Quintilia no è orientato verso un'ottica epistemologica,
piuttosto che di calcolo logico: ciò che lo interessa è soprattutto la possi
bilità di acquisire una conoscenza a partire da un segno. Scrive Eco (1984: 38)
a questo proposito: "Aristotele, inte ressato ad argomentazioni che in
qualche modo rendessero ragione dei legami di necessità che reggono i fatti,
poneva distinzioni di forza epistemologica tra segni necessari e se gni
deboli. Gli stoici, interessati a puri meccanismi formali dell'inferenza,
evitano il problema. Sarà Quintiliano, inte ressato alle reazioni di
un'udienza forense, a cercare di giu stificare, secondo una gerarchia di
validità epistemologica, ogni tipo di segno che in qualche misura risulti
'persua sivo' ". A proposito del carattere persuasivo dei signa,
Quintilia no fa una precisazione preliminare: i signa hanno molto in comune
con le prove extratecniche, in quanto, a esempio, una veste insanguinata, le
grida o i livori non vengono esco gitati dali'arte deli'oratore, ma gli
vengono consegnati nel dossier. Inoltre, se esi rimandano a un significato
inequi- 222 9. RETORICA LATINA vocabile, scompare la possibilità di
argomentazione; se, in vece, essi sono ambigui, non sono delle prove ma
necessita no essi stessi di prove (lnst. or.). Per questa ragione i segni
devono essere divisi innanzitut to in necessari e non necessari. 9 . 3 . 2 I
segni necessari l signa necessaria sono quelli che, come dice Quintiliano,
"aliter se habere non possunt" (lnst. or. , V, 9, 3), cioè sono degli
antecedenti che rimandano in maniera necessaria a dei conseguenti, e vengono
messi in corrispondenza con i tekmria della tradizione greca. Si tratta di
segni insolubili (alyta smefa), ovvero legati inscindibilmente ai conseguen
ti. L'informazione che se ne ricava è sicura e incontroverti bile . La furia
classificatoria, tipica del mondo antico, porta inoltre Quintiliano a
sottoclassificare questo tipo di segni in base al fatto che i loro conseguenti
siano individuabili nel tempo passato ("Se una donna ha partorito, si è
unita con un uomo"), nel presente (''Se soffia un forte vento sul ma re,
si formano su di esso le onde"), nel futuro ("Se uno è stato ferito
al cuore, morirà") (lnst. or., V, 9, 5). Questi segni vengono, poi,
sottoposti anche a un altro ti po di classificazione basata sul criterio di
reversibilità dei termini: ci sono relazioni segniche, come "Se vive,
respira", che mantengono la relazione di necessità anche invertendo
antecedente e conseguente: "Se respira, allora vive"; ma vi sono
anche relazioni segniche in cui la reversibilità non è possibile, come in
"Se cammina, si muove", "Se ha partori to, si è unita con un
uomo", "Se è ferito al cuore, morirà", "Se si è raccolta la
messe, si è seminato", "Se è stato ferito dalla spada, ha una cicatrice"
(lnst. or. , V, 9, 7). Quintilia no sembra sollevare qui il problema della
"conversazione" (antistréphein), che per Aristotele (An. Pr. , 70 b,
32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè dell'"esserci un unico
segno di un'unica cosa". QUINTllANO 9.3.3 I segni non necessari 223
I signa non necessaria, che Quintiliano mette in corri spondenza con gli
eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei fatti su cui vi è comunemente
accordo, quelli che, se condo Eco (1984: 40), potendo essere altrettanto
convincen ti di un segno necessario, dipendono dai codici e dalle sce
neggiature che una certa comunità registra come "buone". Quintiliano
ne distingue tre tipi fondamentali, in base al l'intensità del legame che si
stabilisce fra antecedente e con seguente: firmissimum (sicurissimo),
corrispondente alla norma statistica, come "Se sono genitori, amano i
propri fi gli"; propensius (molto probabile), come "Se uno sta bene
in salute, allora giungerà fino al giorno successivo"; non re pugnans
(non contraddittorio), cioè non contrastante con il senso comune, come "Se
c'è stato un furto dentro la casa, allora è stato fatto da chi era in
casa". Nessuna di queste inferenze presenta un grado di certezza
accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos sono essere molto
efficaci, soprattutto nel caso che si pre sentino in gran numero avvalorandosi
a vicenda (lnst. or. , V, 9, 8), poiché ricostruiscono una tessitura isomorfa a
quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali Nel contesto dei
signa non necessaria (lnst. or.) Quintiliano parla del signum senza altra
determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e vestigium, sia con
il greco smeion). Non si capisce bene se esso venga considerato una categoria
autonoma rispetto alle due prece denti (segni necessari e verisimiglianze),
come del resto av veniva nella fonte aristotelica, o se Quintiliano consideri
analoghi eik6ta e smeia. Nella seconda ipotesi si potrebbe parlare di un vero e
proprio errore di Quintiliano, come fa Cousin (1936). Tuttavia il fatto che consideri
un sinonimo l'espressione vestigium e ricorra all'esempio del sangue che
permette di scoprire l'uccisione, spinge a stabilire un parallelo con i
vestigia facti delle Partitiones oratoriae (39) cice roniane, dove compariva
lo stesso esempio. Si tratterebbe, in definitiva, della abituale categoria
degli indizi materiali (lividi., enfiagioni, ferite ecc.) (lnst. or., V, 9, I
l) percepibili sensorialmente. Quintiliano li definisce come quelli "attraverso
cui si comprende un'altra cosa, (per quod alia res inte/ligitur, V, 9, 9),
sottolineando che con essi si stabilisce un rapporto di significazione, che
parte da un sensibile per arrivare a qualcos'altro. Nella precedente categoria
(quella dci signa non necessa ria == eik6ta) venivano classificati fatti o
proprictfi che forni vano un'informazione non sicura, perché non convalidabile
dal punto di vista sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente
sicuro che arriverà a domani); nella cate goria dei signa sono classificati
fatti che sono insicuri per ché ambigui (una macchia di sangue su una veste
può ri mandare tanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare
del sangue di una vitti1na durante un sacrifi cio). La classificazione,
allora, dovrebbe essere così formu lata: necessaria relazione necessaria tra
a'ltecadente e cons&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita
con un uomo· l ------- signa non necssaria verisimiglianze non
conva!idabili scienti ficamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà
fino al g iorno successivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se
macchia di sangue, allora omi cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega
anche come mai Quintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di
verisimiglianza (e non si gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora
e che 9.3 QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma
non necessari, Er magora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché
vaga nei boschi con i giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti liano ha una
certa riluttanza a considerare questo e altri esempi di verisimiglianze molto
deboli come elementi pro banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo
come se gno, temo che si ritengano come segni tutte le conseguenze che si
traggono da un fatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano
allo stesso modo dei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la
condizione tipica della semiotica giuridi ca, in perenne dialettica tra la
forza oggettivamente proba toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di
fare un uso persuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica
semiotica generale, non c'è al cun problema a considerare come segni
"tutte le conseguen ze che si traggono da un fatto". Le proprietà
che l'enciclo pedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono
tutte, a buon diritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno
poi le relazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella
forza probatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono
i casi in cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di un
poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramente
intuito dalla retori ca antica, già da Aristotele, ma ancor più da
Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "cer
tezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-cultura
li", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco mandando, nel
secondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero a
vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin guaggio
Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa
saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una
altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di
lin guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande
importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte
dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il
trattato giovanile De dialectica: in esso sono riassunti molti dei principali
temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi pio che la conoscenza è,
in linea generale, conoscenza attra verso segni (Simone). Ma vari elementi
differenziano l'impostazione agostinia na da quella stoica. In primo luogo,
infatti, gli stoici, racco gliendo e formalizzando una lunga tradizione di
origine so prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni
(smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e la
cicatrice che rinvia a una precedente feri ta. Agostino, invece, per primo
nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbali
come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le
espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene rale segno tutto ciò
che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De
Magistro). STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoici
avevano individuato nell'e nunciato il punto di congiunzione tra il
significante (semaf non) e il significato (semain6menon), elemento che comun
que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve ce, individua nella
singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento
in cui significante e signifi cato si fondono, e considera questa fusione un
segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda to che
le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si gna] e che non può essere
segno ciò che non significhi [si gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso
di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro
le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una
teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il
lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione.
Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere
psicologistico (i si gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale
(passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov; Markus). 10.1 n triangolo
semiotico e la stratificazione ter minologie& È del resto con l'analisi
della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed
è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni
terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che
possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con cetti di significato,
significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o
il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la
parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1
(corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio ne linguistica, al
/ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in
esso contenuto. In terzo luo- 228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la
res, che viene definita come un og getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o
con l'intelletto, op pure che sfugge alla percezione (De dialect. , cap. V). È
così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se guenti termini:
dicibile vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche
dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della
signifi cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi sione
terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente
di una parola: (i) può infatti avve nire che la parola rimandi a se stessa
come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero
della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii)
oppure può avvenire che la parola, intesa co me combinazione del significante
e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come
avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di
dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva to Baratin (
198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e
quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione
stoica di léxis (si gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por
tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui stici
antichi. RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione
di léxis; ma non ha lo stesso significa to che le attribuivano gli stoici,
bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio
Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato
costruito" (Grammatici graeci), a metà strada tra le lettere e le sillabe,
da una parte, e l'enunciato, dall'al tra. Questa sua particolare posizione fa
sì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (in
contrappo sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma
incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen so completo). Lo
spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e nunciato alla centralità
alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle
funzioni prima spet tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essere
un segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del
De dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato
dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il
segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale alla
percezione sensi bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellet
tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im
plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino
ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in
quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica
del linguag gio; per Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di
qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es senza della cosa.
Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia
un rapporto iconico (pe raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4),
in Agostino tale rapporto - configura subito come una rela zione di
significazione: il nomt "significa" una cosa (nozio- 230 10.
AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel
momento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si
producono alcune modificazio ni teoriche, conseguenti allo spostamento di
prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti
no il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte nuti era stato
concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di
carattere epistemologico e ri guardava la possibilità di lavorare direttamente
sul linguag gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin
guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta zione del reale (per
quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui
esso rin via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui
il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla
conoscenza del secondo. Eco ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti
tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra ti da
uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello
equazionale: onIE=>c m_E:! c
dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J
"implica" e == "è equivalente a". In Agostino
l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e
senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic tio, che è
rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u nione, o prodotto
logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che
diviene segno di qualcos'al tro (livello ii). 10.3 UNmCAZIONE
DELLE PROSPETI 231 10.3 Conseguenze dell'unificazione delle prospet tive La
prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, co me sottolinea Eco (1984:
33), è che la lingua comincia a tro varsi a disagio all'interno del quadro
implicativo. Essa in fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo
strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere
rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio,
nelle classificazioni della retorica greca e roma na. Infatti l'implicazione
semiotica era aperta alla possibili tà di percorrere l'intero continuum dei
rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto
Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare
rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un
"sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun que altro
sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della
lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e
che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui
stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec cellenza. Ma
quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto
culminante, si è ormai venuto a per dere il carattere implicativo, e il segno
linguistico si è cri stallizzato nella forma degradata del modello
dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito
come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante
conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione
della dia lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto ché
il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce pito nei termini
dell'equivalenza, il primo non appariva di rettamente responsabile della
conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di
segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra
implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co se di cui esse
sono segno. Tutta la grande tradizione serniotica, del resto, convergeva nel
considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla
conoscen za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è
allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag
gio fornisca o meno , di per se stesso , informazioni sulle co se che
significa. Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del
carattere informativo dei segni linguistici nel De Magistro. L'opera, in forma
di dialogo tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due
fondamentali funzioni del linguaggio: in· segnare (docere) e richiamare alla
memoria (commemorare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con
temporaneamente informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera
centrale la presenza del destinatario nel momento in cui forniscono
informazione. La prima parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste
funzioni, principalmente quella informativa, sono svolte dal linguaggio in
quanto sistema di segni. Sono le parole, infatti, che, in qualità di segni,
danno informazione sulle cose, senza che nient'altro possa assolvere alla
medesima funzione. Nella seconda parte del dialogo, però, Agostino ritorna
sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva. Fondandosi ancora una
volta sul fatto che la lingua è un in sieme di segni, egli mostra che si
possono presentare due ca si: il primo caso è quello in cui il locutore
produce un se gno che si riferisce a una cosa sconosciuta al destinatario; in
tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di fornire
informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino, dell'espressione
saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non permetterà di
comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essa effettua; il secondo
caso è quello in cui il locutore produce un segno che si rife risce a qualcosa
che è già noto al destinatario; e nemmeno COMUNICAZIONE DEL VERBO
INTERIORE 233 in questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio
processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino conclude invertendo il
rapporto cono scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co
noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola
ne è un segno. È la conoscenza della co sa che informa sulla presenza del
segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e
a es sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual mente
platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente della
conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è
necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma
se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci
permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle
cose puramente intelligibi li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino
individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla
rive lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga ranzia
tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con
questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio
è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno
rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi
mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo , ci
spingono a cercare (De Mag.). Espressione e comunicazione del verbo inte riore
In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da
un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel
De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo
interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani mo. In
effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola
o di un segno sensibile, per poter 234 10. AGOSTINO provocare nell'anima
dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre
parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura
prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle
lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan do ha bisogno di
essere espresso e portato alla comprensio ne dei destinatari. Il verbo
interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una
conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è
determinato dalle im pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza.
Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo
è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni
del simbolismo univer sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo.
Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia rezza è il carattere
comunicativo della semiologia agostinia na, che è individuabile anche nello
schema riassuntivo pro posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza
potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore
pensato proferito sa pere 10.6 Le classificazioni È comunque
innegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n. 2), che se la semiologia
agostiniana presenta un aspet to "teologico", connesso al problema
del verbo divino, tut tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet
to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se
stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni,
alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana,
l . 2. 3. 4. 5. secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine
e l'uso: segni naturali/segni intenzio nali secondo lo statuto sociale: segni
naturali/segni conven zionali secondo la natura del rapporto simbolico:
proprio/tra slato secondo la natura del designato: segno/cosa LE
CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie
altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di
classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se gno : Todorov
lamenta il fatto che Agostino giustappone quel lo che in realtà avrebbe potuto
articolare, in quanto gene ralmente queste opposizioni sono tra di loro
irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De
Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni
aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica
zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber nardelli 1987), secondo
il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La
classificazione di Agostino non è totalmente a inclu sione, come tende a
essere quella porfiriana; e si può osser vare che se venissero sviluppati i
rami collaterali, si vedreb bero comparire, una seconda volta, alcune
categorie elenca te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a
metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge nere a specie
quando definisce la relazione tra nome e paro la come "la stessa che c'è
tra cavallo e animale" e includen do la categoria delle parole in quella
più ampia dei segni (DeMag., 4.9). genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME
-- segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma,
fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata)
differenze ( s i g n i fi c s b i l i s l non significanti
nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba
militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo,
quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res
intelligibili ( virtus) SIGNIFICANTE delle .. AES"
10.6 LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e "signa"
La prima relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo
sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce
tale distinzione co me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti
anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as sumere come segno una res
che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa
nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone
1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che
non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i legno, la
pietra, il bestiame" (De doctr. Christ. , I, Il, 2). Ma, immediatamente
dopo, cosciente del la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma
non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la
loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la
sua testa (Gen., XXVIII, I l); né quella pecora che Abramo immolò al posto di
suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste tra segni e cose è
analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De
doctr. Christ. , l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran sitive, come i
segni, che sono strumenti per giungere a qual cos'altro; le cose di cui si
gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse
(Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per le
cose che non sono usate come segni, ma sono signifi cate attraverso segni:
significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime
possano essere assun te con funzione significante. Dopo aver così articolato i
rapporti tra segni e cose, Ago stino propone questa definizione di segno nel
De doctrina Christiana. Il segno è una cosa (res) che, al di là
dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente
(in cogitationem) qualcos'altro". 238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni
verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui
re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia
verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di
Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De
doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari
tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se gni, di cui
ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole;
ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei
segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del
linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale
carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni.
I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce zione Una classificazione
incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di
percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini
si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla
vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al tri sensi" (De
doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci
sono quel li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi cali,
come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi
dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con
l'udito, in una posizio ne dominante, anche le parole: "Le parole, in
effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione
dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester nare"
(Dedoctr. Christ.). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i
cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban diere e
le insegne militari, le lettere. LE CLASSIFICAZIONI Infine vengono presi
in considerazione i segni che riguar dano altri sensi, come l'odorato (l'odore
dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca
ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri sto e fu
guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data"
Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro
albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa
naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né
desiderio di si gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi,
come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ.). Ne sono esempi anche
le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano,
inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli definiti , Agostino
dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente
interessato ai signa data, in quan to a questa categoria appartengono anche i
segni della Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che
tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto
possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e
pensano" (De doctr. Christ.). Gli esempi sono soprattutto i segni
linguistici umani (le pa role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa
classe an che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il
gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una
marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali
tra i segni natu rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva
"naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono
i "segni convenzionali", come Markus aveva suggerito (e come del
resto era sta to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges).
I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel
Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na 240 10. AGOSTINO ben precisa
intenzione comunicativa (De doctr. Christ.). È del resto il carattere
intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli
emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que sta
intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46),
porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico
generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o
meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi
in corrisponden za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di
un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come
cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi
illimitata a modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali della
semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si
può stabi lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat
tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce zione semantica che
si avvicina al tipo della "semiosi illimi tata" di Peirce. Come ha
rilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno, per Agostino, può
essere stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei
sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti;
tramite astensione (De Mag. , III e VII). Questa concezione del significato si
rende possibile sol tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema
equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale
del segno. La teoria semiologica ago stiniana si apre così, come ha messo in
evidenza Eco, verso un modello "istruzionale" della descrizione
semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce
insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet
urbe relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come composto di otto segni,
dei quali, appunto si cerca il significato. SEMIOSI ILLIMITATA L'indagine
comincia da l si l , di cui si riconosce che espri me un significato di
"dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che non si è trovato un
altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si
passa, poi, a lni hi/1 , il cui significato viene individuato come
!'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una
cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il
significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa rebbe
equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e
argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha
bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l
significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe
rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica
contestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a qualcosa che non
esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso
virgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è
ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni negozianti
provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco
(una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni
contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di versi (ma
tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La
struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti
x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni
tanto al modello istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva,
è proprio grazie ali'assunzione generalizza ta del modello implicazionale che
la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni
semiolingui stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come
potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca
attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è
ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice
a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in
generale, è possibile, però, rilevare una connes sione storicamente
documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti colare del segno. A
esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno
implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi
eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in
cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di
Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C.
la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona
(1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri
cuneiformi. Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che
"la scrittura cu neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso
il 2850 avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3
Si veda il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu rioso
notare come si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios
(''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era
clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera
morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un
trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi,
come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca
pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero
(1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle
fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie
contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio. Si potevano contare oltre cento oracoli per
tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti
tavolette. 244 NOTE CAPITOLO 2. 1 Infatti da un'analisi del vocabolario
dell'azione oracolare compiuta da Crahay risulta che alcuni vocaboli presentano il
testo della rivelazione come un segno, molto spesso un segno anticipatorio, in
quanto orientano l'azione verso l'avvenire. Tra questi si ricordino i due verbi
smafno e prosmafnO (cioè "informare in anticipo con segni") e l'ag
gettivo di origine verbale pr6phanton che esprime l'idea di un'informazio ne
prima del fatto. 2 Ciò è tanto più evidente se si opera un confronto con
civiltà come quella mesopotamica che mettevano la divinazione al centro della
vita pubblica (Vernant 1974) e ne estendevano il modello formale anche a tutti
gli altri ambiti culturali (a esempio, alla medicina e alla giurisprudenza). 3
Cfr . anche //. , I I I , 277 . Per i passi citati sono utilizzate, nel corso
del l'intero testo, traduzioni correnti, talvolta parzialmente modificate. 4
Traduco dal testo in inglese di Romeo (1976: 86): "The lord, who has the
oracle in Delphi, l neither discloses nor hides his thought, l but indica tes
it through signs". s Infatti la divinazione è indissolubilmente legata ad
Apollo, e Apollo è indissolubilmente legato alla sapienza. La sapienza del dio
è totale e simul tanea e non ha bisogno di essere frammentata in parole.
Tuttavia agli uo mini egli concede, invece, solo la frammentazione della
parola oracolare, oscura e incomprensibile, in quanto in essa la sapienza
divina appare come follia dell'uomo invasato. La follia, del resto, che Platone
ritiene essere l'essenza stessa della mantica, riconnettendo nel Fedro (244
a-c) l'etimolo gia di mantiké a maniké ("arte folle"), non è altro
che la sapienza vista dal l'esterno. 6 Ma si veda anche Amandry (1950) per la
presenza di possibili procedi menti anche di cleromanzia (divinazione
attraverso il lancio delle sorti) presso l'oracolo di Delfi. 7 Talvolta certi
fenomeni naturali potevano perdere il carattere di ca sualità ed essere
sottoposti a un processo di istituzionalizzazione, come av veniva nel caso
dell'oracolo di Dodona, dove si interpretavano i segni dati dallo stormire del
vento tra le fronde di una quercia sacra a Zeus (come pure, probabilmente, il
tubare e il volo dei piccioni sacri e iJ mormorio di una fonte, gli echi di un
gong). Per gli oracoli in generale, si vedano Ferri (1916) e Parke (1967); per
una disamina generale e approfondita dei vari ti pi di divinazione i testi
basilari sono Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday (1913). 8
"Lobo", "vescichette" e "porte" erano i termini
tecnici designanti par ti che gli specialisti di questo tipo di divinazione
prendevano come segni da cui elaborare interpretazioni; cfr. Arist., Historia
anima/ium, l, 17, 496 b 32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le forme della
consultazione oracolare ci sono note attraverso un cer to numero di iscrizioni
epigrafiche, provenienti principalmente da Delfi e da Dodona; cfr.
Parke-Wormell e Fontenrose. Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento alla
nozione di enigma, come era presente nella cultura greca: esso comportava, come
vedremo NOTE 245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da parte del
dio all'uomo), sia la presenza nascosta di un secondo senso, sia, infine,
l'idea che il primo senso doveva essere immediatamente scontato. Il termine
"modo", poi, pone l'accento sul fatto che non vi è presenza di un
unico meccanismo, ma di una galassia di procedimenti espressivi molto eterogenei,
che vanno dalla banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo scambio di
prospetti va (metalogismi) ecc. L'espressione "modo" enigmatico fa
naturalmente riferimento alla categoria di modo simbolico elaborata da Eco. Pur
troppo non è qui possibile usare direttamente quella categoria perché essa, pur
avendo molti punti in comune con questa che qui proponiamo, se ne discosta per
la presenza di alcuni caratteri specifici (rapporto stretto tra si gnificante
e significato, nebulosa di sensi multipli tendenzialmente coesi stenti ecc.)
che qui non si ritrovano. È un peccato, perché ci sarebbe sem brato
appropriato definire "simbolico" il modo di parlare del dio. 1 1 Il
meccanismo retorico dell'enallage ricorda il meccanismo oracolare usato dalla
Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio (Aen. , VI): la sa cerdotessa di
Apollo scrive le varie parti del responso su delle foglie, se guendo l'ordine
sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia quelle fo glie al vento, che
scompiglia l'ordine precedente, creandone un altro, in cui i riferimenti
incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e difficile
l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due attributi
antitetici della li ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia benigna ed
esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche); l'arco,
quella maligna e deva stante. Del resto l'etimologia stessa del suo nome
suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente", ed è
sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove le sue
frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli). Per una
nozione complessa e articolata della nozione di "verità" nel mondo
antico, si veda Detienne (1967). In particolare, sulla concezione di a/theia
come "sintesi del passato, del presente e del futuro", comune al
poeti ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne. D'ora
in avanti ci riferiremo al Corpus Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente,
per una documentazione completa sulla medicina gre ca, dovrebbero essere prese
in specifica considerazione almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste
ultime, appartenendo a un'epoca molto più recente (II sec. d.C.) e attingendo a
una tradizione filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato
molto avanti lo studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso
che stiamo svolgendo . Rimandia mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia
attribuzione dei trattati di medicina del V e lV secolo 246 NOTE 3 Si
possono distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto
il gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter ne, il libro
II delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar caica del
trattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato
di arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della medicina
(Di Benedetto 1986: 5 e 80). In secondo luogo, un gruppo di trattati in cui
appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me todologici della
medicina. Vegetti (1976: 21 e sgg.) ha proposto di definire convenzionalmente
"pensiero ippocratico" queJJo che da questi ultimi ri sulta
(indipendentemente dal fatto che essi siano attribuibili a molti autori e
probabilmente tutti diversi dali'lppocrate storico vissuto tra il 460 e il 370
a.C.). Questi testi, collocabili cronologicamente nella seconda metà del V
secolo a.C., sono: Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4 Cfr.
Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr. Vegetti (1976: 65 ss.); Vegetti (1967: 78). 6
Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina ippocrati ca non
arriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per le traduzioni ci
atteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal volta apportandovi delle
modifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria, sarà stabilita una
distin zione fornaie tra anamnsis, relativa ai fenomeni collocati nel passato,
diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente, e pr6ghnOsis, cioè
previsione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di Benedetto-Lami (1983:
166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (1983: tr. it. 499 ss.). Si deve poi
segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso pro-, unito ai verbi di
"dire", con il significato di "pubblicamente ", anziché con
un si gnificato di "anticipazione". a.C . a lppocrate avviene
nell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr. Di
Benedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male
sacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella
testa, Le articola zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.).
10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la previsione medica ri
calca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si
dice che è compito del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi
pro cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale
la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica,
animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds
(1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento
magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde (1890-94: tr.
it. 1982). 12 Cfr. Diog. Laert., Vitae, VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di
sfug gita, che il carattere molto arcaico della concezione espressa dal brano
è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della
comunità umana: c'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini
e bestie formano una unità inscindibile; cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio
assolutamente analogo a questo si trova nel cap. 21 del = NOTE 247
trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si confuta, usando i1 modus tol
/ens, la tesi secondo cui l'impotenza che colpisce certuni degli Sciti sia do
vuta a causa divina, in quanto colpisce i ricchi (che vanno a cavallo, essen
do questa, per l'autore, la causa della malattia) e non i più poveri. Se fosse
di origine divina, continua l'autore, colpirebbe indifferentemente tutti.
1"' Si pensi a questo proposito all'indebolimento dei sensi durante il son
no di cui parla Platone nel Timeo e a1la diminuzione dei turbamenti nell'aria
che rende possibile il sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di vinatione
per somnum) . •s Per la nozione di "omomaterico", cfr. Eco (1975:
295): per "omoma tericità" si intende il fenomeno per cui
"l'oggetto, visto come pura espres sione, è fatto della stessa materia
del suo possibile referente. Cfr. anche Lichtenthaeler (1983) e Wenskus (1983).
17 Cfr. Vegetti (1976: 48); Manuli (1985: 233). 18 Sull'abduzione si vedano
Thagard; Proni (1981); Eco (1983); Bonfantini-Proni; Bonfantini; Peirce; Eco. Di
Benedetto (1986) ha messo in luce, in maniera molto convincente, i rapporti tra
i moduli espressivi di presentazione della malattia nella medi cina greca e
quelli dei trattati mesopotamici ed egiziani; cfr. anche Di Be nedetto-Lami
(1983). 2° Cfr. Campbell Thompson (1937: 285, I, 1). 2 1 Per questa nozione,
cfr. Conte. Cfr. Hjelmslev. Cfr. Arist., An. Pr., Il, 70 a-b; Rhet., Cfr.
Arist., Rhet., l, 1358 a, 36 e sgg. 3 Cfr.Arist., De int.,16a; An.Pr.,11,70a-b.
"' Su questa nozione cfr. Di Cesare. s Cfr. Eco. Cfr. Heinimann. 7 Cfr.
Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco. Emerge qui, per quanto
nebulosamente, il tema della doppia articola zione del linguaggio umano, che
verrà poi sviluppato in epoca contempo ranea da André Martinet (1960). 9 Anche
se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica
(1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti mema come
sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici 248 NOTE
(Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi
smo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel
secondo). 1ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente
"neces sario" (anankaion), mentre il smefon è definito ..non
necessario" (mè anankafon) (Rhet.). 1 1 Lo stesso punto di vista e la
stessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della Retorica. 12
Quanto al carattere di confutabilità di questo tipo di segno, Aristote le così
commenta l'esempio dato negli Analitici; "D'altra parte il sillogi smo
che si sviluppa attraverso la figura intermedia risulterà sempre confu tabile
(ljsimos), senza eccezione. In realtà, quando i termini si comporta no come si
è detto sopra, non si costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida
è pallida, e se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà
necessario che questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a,
34-37). 1 Dei segni quello necessario è la prova, quello non necessario non ha
un nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le
proposizioni da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è
tale è la prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la
proposizione enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie
ne dimostrata e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar (prova) e pé ras
Ccompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet.). Si deve tuttavia
segnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di stinzione
tra tekmrion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di questi
termini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza
distinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un
terzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; cfr. Le Blond.
Cfr. Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!. Cfr. Arist.,
An. Post.,
II, 98 b, 25-30. È del resto sulla base delle immagini prodotte nella mente
dagli oggetti esterni, in particolare su certi tipi di immagini, chegli stoici
chiamano ka talptikaì phantasfai, che viene basato il "criterio di
verità", cioè "ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose
esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere ( = sono il caso) e
certe altre sono false ( = non sono il caso)" (Sext. Emp., Adversus
Mathematicos, VII, 29); cfr. Mi gnucci; Sandbach; "The crite rion of
truth" di Rist. Cfr. anche Sext. Emp. , A dv. Math. 1 Si deve sottolineare
che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo /éghein. 6 Cfr. Diog. Lart., Vitae, VII, 51; Long Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 11-12. 8 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9 Cfr. Diog. Lart.,
Vitae, Vll , NOTE 249 A questo proposito si ricorderà che, come sostiene
Diogene Laerzio ( Vitae, VII, 57), gli stoici distinguevano tra il
"proferire" (prophéresthal), che consisteva nel puro emettere dei
suoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo da
significare (sma{nein) lo stato delle cose in mente; cfr. anche Sext. Emp.,
Adv. Math. , VIII, 80. Long (1971 a: 77) sostiene di preferire, per lekt6n, la
traduzione "what is said" rispetto a quella propo sta da Mates e dai
Kneale, "what is meant", in quanto la prima è più gene rale e
permette al lekt6n di essere interpretato come avente funzione tanto logica
quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia sottolineare che vi è una tradizione,
risalente al Crati lo platonico, secondo la quale nominare qualcuno equivale a
dire "questo è il suo nome". In questo caso anche l'esempio di Sesto
dovrebbe essere compreso nei termini di una proposizione implicita come
"'Dione è il nome di costui" oppure "Questo è Dione"; cfr.
Long (1971 a: 107 n. 1 1). ..s I lekta venivano classificati dagli stoici in
completi e incompleti; cia scuno dei due tipi dava luogo a una
sottoclassificazione, anche molto com plessa, che non prenderemo qui in
considerazione; si veda a questo proposito Mates. 63. 1° Cfr. Mates (1953: 1
1-12): Mates infatti concepisce i lekta come signi ficato delle parole e
avvicina la loro definizione a quella di Sinn di Frege e a uella di intension
di Carnap. 1 Cfr. Zeller (1865: 78-79). 12 Cfr. Bréhier. 13 Cfr. Mignucci
(1965: 96). 14 Una definizione del criterio di verità la fornisce Sesto (A dv.
Math. , VII, 29): "Ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose
esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere e certe altre sono false".
Sul problema del criterio di verità, cfr. Rist (1969: 133-151); Sandbach (1971
a: 9 e sgg.); Mignucci (1966). 17 Cfr. anche Adv. Math., VIII, 245-257. 18 Cfr.
Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda, a proposito di questa questione
terminologica, la esaustiva 1 Cfr. Platone, Th., 190 a (206 d); Soph., 263 a.
16 In effetti il "discorso interno" (endiathetos /6gos), a differenza
delle espressioni emesse materialment (prophorikòs 16gos), è un fattore che si
dimostra capace di distinguere l'uomo dagli animali. Dice infatti Sesto (Adv.
Math. , VIII, 275-276): "(Gli stoici) dicono che l'uomo differisce da gli
animali irrazionali a causa del discorso interno, non a causa di quello
pronunciato, in quanto corvi, pappagalli e gazze pronunciano suoni arti
colati"; cfr. anche Pohlenz (1959, 1: 61-62). trattazione di Conte (1972:
XXXV), curatore dcll'edizione italiana dei Kneale (1962). 20 Cfr. Sext. Emp.,
Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21 Ibidem: "anche la dimostrazione in quanto al
genere è, a quel che pa- 250 NOTE re, un segno"; cfr. anche Adv.
Math., VIII, 180. 22 Il testo del De signis, con traduzione inglese, è
contenuto in Ph . e E.A. De Lacy (1978). 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII,
144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 147; Hyp. Pyrrh., II, 97. 2' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 145; Hyp. Pyrrh.,
II, 98. 26 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 146; Hyp. Pyrrh., Il, 98. 27 Cfr.
anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale tripartizione verrà esplicitamente
teorizzata nella retorica roma- na: vedi il capitolo relativo. 29 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153. 30 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 154. 11 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 156. Al di là del carattere
pole mico, l'osservazione di Sesto è interessante perché, citando
"medici" e "fi losofi", fissa i due punti estremi di un
ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno: l'introduzione di tale
interesse da parte dei medici (come, poi, di mostrano anche i numerosi esempi
di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e lo studio sistematico
del segno da parte dei filosofi. 12 Cfr. Diog. Latrt., Vitae, VII, 71. 13 Cfr.
Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., VIII, 245- 247 . 34 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1' Cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., VIII, 248; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII,
249-250; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 37 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251.
11 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39
Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui prenderemo in
consi derazione solo i primi tre criteri, perché il quarto sembra avere
un'origine diversa dalla scuola megarico-stoica. 4() Cfr. Sext. Emp., Hyp.
Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv. Math., VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie
interpretazioni del condizionale diodoreo, che non possiamo qui prendere in
considerazione. Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di Mates (1949 a),
dei Kneale (1962) e di Mignucci (1966), che affrontano l'argomento in una
successione cronologica e teo rica. "2 Cfr. Phil., De signis, XIV, 11-14=
19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai paragrafi del testo greco,
sono messi in correlazione con il segno " = " ai capitoli della
traduzione inglese dei De Lacy (1978). "3 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 275-276; 287. Cfr. Goldschmidt
(1953: 79 e sgg.); Verbeke (1978: 401-402); Manuli (1986: 262). ..s Sul
rapporto tra filosofia e divinazione, Verbeke (1978: 402) osserva molto
opportunamente che per gli stoici il filosofo "est le médecin de cet
organisme vivant qu'est le monde; il est aussi une sorte de prophète, un de
vin, un exégète, un interprète des signes qu'il observe". 46 Cfr. Cic., De divinatione, I, 125-127. 49 Cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., 309. CAPITOLO 7. NOTE 251 "7 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II,
140; Adv. Math., VIII, 305. 48 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180:
"D'altronde anche la dimo strazione è, in linea generale, un segno,
giacché essa è considerata come di svelatrice della conclusione". 1 Il
testo di Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è ora
disponibile nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poi
citeremo quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato il
prossimo capitolo. 2 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31; cfr. ancheEpic.,
EpistulaadHerodo tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi
K.D.), XXIV. 3 Cfr.Phil.,Designis,fr.l. " Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33;
Epic., Nat., XXVIII, fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960: 296-297). Long (1971
b: 1 14) sostiene che un simile rap porto tra linguaggio e pro/essi è
presupposto anche nella Ep. Hdt. , 37-38.
Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Epic., Ep. Pyth., Cfr. Epic., Ep. Hdt., Cfr.
Diog. Laert., Vitae, Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr.
Diog. Laert., Vitae, Cfr. Epic., Ep. Hdt., Cfr. Epic., Ep. Hdt., 48. 1"
Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 15 Cfr. Epic., K.D., XXIV. 16 Cfr. Sext.
Emp., Adv. Math., VII, 211. 1 7 La congettura semiotica è espressa dal verbo
smeiolJ (Ep. Hdt. , 38) e prende la forma dell'induzione nella teoria epicurea.
Il sostantivo da esso derivato, smeilJsis, non direttamente attestato negli
scritti di Epicuro, avrà ampio spazio nel trattato di Filodemo. 18 Cfr. Sext.
Emp., Adv. Math. , VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nel prossimo capitolo, il
criterio della "non incompa tibilità" con i fatti conosciuti è
centrale nella teoria dell'inferenza come è esosta nel De signis di Filodemo. ° Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33. 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII,
13; 258; Plut., Adversus Colo tem, 1119f. 22 Si deve
segnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta il problema semantico in
Epicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo abbiamo trattato qui e
recupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di Plutarco, sostenendo che
non esiste nella filosofia linguistica epicurea un livello spe- 252 NOTE
cifico del "significato" in termini intensionali. 23 Cfr. Sedley
(1973: 17-18); il testo di Sedley in parte si discosta da quello di Arrighetti.
Come veniva evitato, nel Crati/o platonico, tanto da Cratilo quanto da Socrate.
Cfr. capitolo relativo a Platone in questo libro. 26 Cfr. Plat., Crat., 421 d,
435 c; cfr. Sedley. La data di composizione del trattato, che è controversa,
oscilla tra il 542e il 40 a.C.; cfr. De Lacy (1978: 163-164). Il titolo greco,
essendo il testo in parte corrotto, è frutto della conget tura di T. Gompers;
altre congetture sono state proposte. D'ora in poi ci riferiremo a esso nella
sua versione latina De signis; cfr. De Lacy. Nella prima sezione vengono
riportate le risposte di Zenone di Sidone alle critiche stoiche; nella seconda
viene esposta la versione di Bromio del l'enumerazione e confutazione di
Zenone degli argomenti contro l'inferen za empirica; nella terza viene
riportata l'enumerazione di Demetrio di La conia degli errori comuni degli
antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una seconda
lista degli errori degli oppositori, è anoni ma, ma, con molta probabilità, è
anch'essa da attribuire a Demetrio. .. Cfr. Marquand; Deledalle. Cfr. Phil., Designis, coll.VIII,32-IX,3= cap.13).
Il riferimentobi bliografico al trattato di Filodemo è dato in maniera
duplice, indicando prima la colonna e il numero delle righe del testo greco del
papiro, poi il numero del capitolo corrispondente nella traduzione inglese
effettuata dai De Lacy. 6 Come è a più riprese ribadito anche nella terza
sezione che riporta il pensiero di Demetrio; cfr. col. XXVIII, 13-25 = cap. 45,
e col. XXXVII, 12-24=cap. 57. 7 Cfr.col.XIII,1-15=cap.18. 8 Cfr. col. I, 1-12 9
Cfr. col. I, 12-16=cap. 2. 1° Cfr. col. XII, 14-31=cap. 17. 11 In Peirce (1980:
140), del resto, c'è a proposito dell'icona anche un'interessante
considerazione (sulla possibilità che l'oggetto del segno iconico esista o non
esista), la quale sembra riproporre, in epoca contem poranea, una tematica
simile a quella stoica ed epicurea circa la distinzione dei segni in propri e
comuni: "Un'Icona è un segno che si riferisce all'Og getto che essa
denota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede
nello stesso identico modo sia che un tale Oggetto esista ef fettivamente, sia
che non esista. È vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto,
l'Icona non agisce come segno". = cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19.
NOTE 12 Cfr. Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro. Cfr.
col. II, 25·36=cap. 5. ... Cfr. col. III, 4-8= cap. 5. 1Cfr. col. III, 30-34 =
cap. 6. 16 Cfr. coli. XXXV, 35 - XXXVI, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle
obiezioni stoiche sono, nella sezione di Zenone, alle coli. XVI, 4 · XVII, 28 =
capp. 23-24, e, nella sezione di Bromio, alle coli. XXII, 28 - XXIII, 7=cap.
38. 18 Cfr. col. XVII, 3-7=cap. 24. 19 Una discussione attribuita ai
"dogmatici" sul problema della defini zione come combinazione di
attributi, a esempio "animale", "mortale",
"ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico,
Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. XVII, 1 1-28 =
cap. 24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A Cfr. coli.
XVII, 37 - XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll.
XXIII, 13 - XXIV, 8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col.
XXVI, 6-9=cap. 41. 29 La tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda
antichità le de finizioni vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di
Galeno: "animali razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac.
Hipp. et Plat., IX, 3); e quella di Sesto Empirico: "animale razionale
mortale, provvisto di intelli genza e razionalità" (Adv. Math., VII,
269). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr. 1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18
Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. XIV, 28 - XV, 13=Cfr.coli.XX,32-XXI,3= cap.35.
coli. XXXIII, 35 - XXXIV, 5=cap. 52. Eco (1984: 130 e sgg.). Groupe p. (1970:
100). col . col. col . col. col. XXXIV, 5-7 = cap. 52. XXXIV, 11-15=cap. 52.
XXI , 27-29 = cap. 36. XXX, 27-31 =cap. 47. XVIII, 23-29=cap. 26. CAPITOLO 9. 1
A questo proposito Cicerone parla di "regolarità della ragione"
(ratio et constantia) contrapposta alla "sorte" (fortuna) (De div. ,
I l , 1 8) In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione
significatio; a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino
adopera l'espressione verbum in due sen si: (i) uno tecnico e specifico, che è
quello dell'uso metalinguistico della pa rola; (ii) uno generale, che
corrisponde alla nozione ampia di "parola", co me "segno di
ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso
dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come
composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto
dalla definizione del cap. V da De dialectica: Quel che ho detto dictio è una
parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti
conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo
per mezzo della parola [di cibile]". La dictio, inoltre, "non
procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si
ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo sizionali,
come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij Les Storcien.s et
leur logique, Actes du Colloque de Chan tilly, Vrin, Paris Al, D.J. The
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