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Thursday, November 28, 2024

GRICE E CONTI

 

Grice e Conti:  la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di San Miniato – filosofia pisana – filosfia toscana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (San Miniato). Filosofo pisano. Filosofo toscano. Filosofo italiano. San Miniato, Pisa, Toscana. Grice: “Conti is a good one – a historian of philosophy, or rather a philosophical historian – I never know! – his chapter on the Greek embassy that brought philosophy to Rome is stimulating!” Studia a Siena e Pisa. Si laurea a Lucca. Insegna a Lucca, Pisa, Firenze. Filosofo del bello, che define stare fra il vero e il buono, e li collega come il mezzo tra il principio e fine. Altre opere: “Cose di storia e d'arte; Evidenza, amore e fede, o i criteri della filosofia, discorsi e dialoghi. Famiglia, patria, Dio, o i tre amori”; “I discorsi del tempo in un viaggio in Italia”. In ogni città coglie occasione per un insegnamento civile; a Venezia isulla religione, a Milano sullo stato, ecc.; “Il bello nel vero, o estetica”; “Il buono nel vero, o morale e diritto naturale”. “Illustrazione delle sculture e dei mosaici sulla facciata del Duomo di Firenze”; “Il vero nell'ordine, o ontologia e logica”; “L'armonia delle cose, o antropologia”. Cerca di costruire una metafisica fondata sulla relazione, l'armonia, l'ordine; Studia l’educazione religiosa, civile e private; “Letteratura e patria, collana di ricordi nazionali”; “Nuovi discorsi del tempo, o famiglia, Patria, Dio Religione ed arte, collana di ricordi nazionali”; “Storia della filosofia”, molto accreditata. “Sveglie dell'anima. Il Messia redentore vaticinato, uomo dei dolori, re della gloria. La mia corona del rosario. Ai figli del popolo, consigli. Giovanni Duprè o Dell'arte, 2 dialoghi. Evidenza, amore e fede o i criteri della filosofia” -- lezioni e dialoghi sulla filosofia cristiana; lavoro scientifico e popolare, e discorsi sulla storia della filosofia, accordo della filosofia con la tradizione; discussione sulla filosofia e la fede. La filosofia di Dante. “Il bello qual mezzo”. Dizionario Biografico degli Italiani. Armonie ideali nell'opere belle. L'artista deve tendere al più alto se gno ideale. Ordine dell'idea chiaro che include giudizj e ragionamenti. Dialettica dell'arte, o dialettica rappre sentativa. L'idea è universale, talchè i particolari dell'arte non debbono mai ecclissare o escludere l'universalità del concetto; perché, altrimenti, arte bella non c'è’ L’ordine ideale porge alle immagini formosità. eletta, che manifestasi o per cose straordinarie, o per l'eccellenza de'modi, o per tutto ciò ad un tempo, ma ſuggendo le ampollosità.  L'ordine ideale si determina ne sezni; onde s' origina l'armonia de'con trapposti. Armonia dell'ordine ideale con la natura, legge di corrispondenza e di contrapposto anche in ció.  Armonia col divino per natura.Il gusto del Bello. Regola prossima è il gusto. Sentimento di verità, di bellezza, e di bene. Che cosa è il gusto? Ana logie del gusto intellettivo col gusto sensitivo. Urficj del gusto; sanità e infermità; abiti buoni, o vizinsi; S'esamina gli ufficj del gusto intellettivo della bellezza. Effetto del gusto. Il gusto non può mancare a ' veri artisti, e avvertenze io giudicare il gusto loro dall' opere. Quattro gradi del gusto. Aiuto che il gusto del bello riceve dal sentimento logico e dalla morale coscienza. Stato di sanità o di malattia, cioè buona o rea edu cazione.  E empj. Stato d' abiti buoni o viziosi. Esempj. Conclusione. Come si può guarire o correggere il gusto falso. Le leggi del gusto. Che cosa presuppone l'esame ch'uno faccia del proprio gusto, 3. affinchè possa regolarci un gusto buono e rettificarsi un gusto cattivo, 4. e primiera mente il derivato da falsa educazione. 5. Studio perciò di buoni esemplari. 6. Esame degli abiti viziosi, e quanto alla verità – 7. e quanto a ' fini dell'arte. - 8. Il gusto deve mostrarci il modo e il quando dell'operare. Elevazione del sentimento. 10. Verosimiglianza. Esempj. Equazione di tutti gli elementi dell'arte con l'idea. Gusto de' limiti. I limiti massi. mamente ne segni esteriori.  I Pedanti e i Licenziosi. Argomento. Che sieno i Pedanti e i Licenziosi. Significato più generale di questi vocaboli. 4. Si gnificato più proprio e stretto. Errori contrarj e vizj comuni. La pedanteria va fuori di natura. 7. Esem pj. 8. Va fuor di natura la licenza. 9. Esempj. Non comprendono l'universalità i Pedanti. Esempj. 12. Nė la comprendono Licenziosi. 13. Esempj. Non hanno vera nobiltà i Pedanti, 15. e la licenza è ignobilità. Talchè gli uni e gli altri non consegui scono fama durevole. Estro. Leggi dell'ordine immaginato.. 1. Argomento. Immaginazione. Rinnovazione di fan tasmi, 3. e innovazione o invenzione. 4. Queste per tre modi, spontaneo. pensato, meditato.Legge univer sale della fantasia e sede di quella nell'intelletto. 6. Gradi dell'invenzione immaginativa. Primo; mutamento di alcune cose percepite.Secondo; immagini di cose reali non percepite. Terzo; novità d'imma.ini fra percezioni oscure. 8. Quarto; un ordine di verosimiglianze relativo a un or dine di cose reali determinato. 9. Quinto; relativo a no tizie vaghe. 10. Sesto; relativo ad astratte generalità. 11. Settimo; fantasmi di cose semplici, spirituali, divine. 12. Ultimo; armonia universale di fantasmi e loro elevazione. 13. Perché l'estro abbia tal nome. Origini sue misteriose. 15. Estro fallace o vuoto, e vero o fecondo.  Conclusione. Armonia interna delle Immagini. Argomento. Sceltezza e vita delle immagini, Scel. tezza rispetto all'arti diverse; 3. e rispetto ai componi menti speciali d'un' arte; e rispetto agli argomenti. Sceltezza per la qualità e per la quantità. 5. Vita delle immagini, 6. come le figure d'affetto nell'arte del dire. Unione del sensibile con l'ideale. Allegoria, e 8. allegorie speciali, e vizj dell'allegoria. 10. L'im magine deve ritrarre l'idea intera; e quindi bisogna imma ginar l'opera innanzi di farla e che rispondano i par ticolari al lutto e l'e - trinseco venga dall'intrinseco, e gli accessorj dal principale. 13. Spiritualità delle im magini. 14. e vizj opposti. 15. Relazione specificata delle immagini co' segni. Armonie di verosimiglianza in generale. Argomento e legge universale di corrispondenza e di con trapposto, e come si rifletta nelle immagini dell'arte. 2. Questa legge apparisce nella qualità, quantità, tempo e spa zio. 3. Relazioni. 4. Esempj antichi di letteratura. 5. Esempj dell'éra nostra, - 6. Drammatica e lirica 7. Figure di confronto ne'linguaggi. – 8. Esempi del disegno e della musica. 9. Analogia del corporeo e dello spiritua le. 10. Loro diversità; – 11. e contrapposto nella na tura e nell'arte. 12. Verosimile immaginoso, che differi sce dal reale, benchè gli somigli. 13. Quello trascende. Poesia e architettura. 14. Scultura, pittura, musica, e arti ausiliari. Com'accade ciò. Armonie con la natura corporea. 1. Argomento. Legge naturale di simetria. 5. Vi sta e udito porgono immediati all'arte bella i sensibili rap presentati, Il lalto remotamente, il gusto e l'odorato indirettamente forniscono all'arte cose immaginabili, salvo la poesia ch'è universale.  Legge naturale di simetria ne ' visibili aspetti, - 6. e ne' suoni. - 7. Legge corrispon dente nell'arte bella. 8. Simetria di quantità nel grado. Simetria di quantità nel numero de' suoni, delle cose visibili. 11. Simetria naturale dello spazio. 12. Simetria nell'arti, quanto a’limiti. 13. Simetria di limiti anche nell'unione di più cose. Simetria di luo ghi. 15. Simetria di tempo misuratore, e di tempo rap presentato. - Armonie con la natura spirituale. Gli affetti. Somiglianza loro; 3. varietà; 4. contrapposto. 5. Personificazione immaginosa dell'unmo, 6. e della socievolezza; - 7. che dall'arti non prò mai scompagnarsi. - 8. Personificazione immaginosa del mondo materiale per tre modi. Materialismo non può spiegarla. 11. Person i ſicazione immaginosa del soprannaturale; 12. presa sostanzialmente da simboli e miti di credenze religiose; 13. ma trasformate dal. l'estro. 14. La personificazione, ritraendo l'uomo, ac cenna lo stato degli artisti e de' tempi loro. Grecia, Roma, 15. Italia; suo scadimento; letterature straniere.. 16. Anche nell' altre arti avviene lo stesso. Immaginazioni tragiche e comiche Argomento. Può l'ottimo essere argomento del l'arte bella? 3. Può il pessimo? — 15. Immaginazioni tragiche e comiche. - 5. Quando mai nasce l'immagina zione tragica più specialmente? 6. Quando la comica? 7. Condizioni dell'una, - 8. e dell' altra. La morte immaginata nell'arte, 10. eidolori del senso, tragica mente; comicamente. 12. Deformità fisiche nel rispetto tragico; 13. e nel comico. - 14. Le mostruosità nell'un rispetto, · 15. e nell'altro, e come in ciò facilmente si trasmodi. Ordine de' Segni. Stile. Pag. 176 1. Argomento. 2. Nozione generica dello stile. - 3. Nozione meno generica. - 4. Nozione determinata. 5. Ne cessità di meditare lo stile. 6. Idem. 7. Ordine dello stile. Unità. - 8. proprietà, evidenza, 9. vivezza, for. mosità. 10. verosimiglianza. Legge sua universale. - 11. L'unione di dette qualità forma il decoro. 12. Esempio di essa, - 13. Esempio del contrario. 14. La misura nello stile. 15. Sunto. Armonia intrinseca dello stile e co ' propri segni.. 1. Argomento. - 2.Unità del bello stile. 3. Si riscon tra nell'arte del dire; ne'proverbj e rispetti, · 4. nelle sentenze, 5. nel periodo, 6. nell'armonia e nell'unione del discorso. 7. Si riscontra nell' arti del disegno; nel l'architettura, 8. ch'è un discorso anch'essa; - 9. nella scultura e nella pittura, 10. simili pur esse al discorso; - 11. e nella inusica; 12. che ha disegno perfetto, o unione d'armonia e di melodia. - 13. Proprietà de' se gni; e come segni adoperino l'arte del dire, la musica, 14. l'architettura, e l'arti figurative; 15. onde viene la proprietà dello stile. 16. Conclusione. Armonia dello stile col pensiero.. 1. Argomento. 2. In che consiste l'evidenza. -3. Dee rispondere lo stile a integrità del pensiero; 4. e a varietà d'argomenti; - 5. abbracciando l'universalità dell' argo mento, proprio, 6. e distinguendolo, per poi bene com porlo. 7. Mancamento d'arte o di volontà impedisce tal perfezione. 8. Vivezza di stile, o moto, 9. nell'arte del dire, 10. nella pittura e scultura, 11. nell'archi tettor3, 12. nella musica. 13, Formosità, - 14. anche nello stile grande, e nel sublime. 15. Onde procede la deformità? 1Armonia dello stile con la natura..... 228 1. Argomento. 2. Il bello stile corrisponde alla natura dell'artista e a quella degli oggetti. 3. Non si possono separare le due relazioni senz'errore e deformità. – 4. Avvi una parte relativa all'artista; 5. e una parte relativa agli oggetti, e danno armonia. 6. La legge di corrispondenza e di contrapposto ſa nascere le diverso specie del bello stile in quei gradi che l'ordine ha varj nella natura. 7. Idem. 8. Nello stile tenue an prevalenza i simili, 9. Qua lità principale di esso è la venusià. 10. Nello stile mez. zano han prevalenza i diversi. 11. Qualità principale di  esso è la naluralezza, 12. Nello stile grande han preva lenza i contrarj. 13. Qualità principale di esso è la pe regrinità. 14. Nello stile sublime han prevalenza i contrapposli supremi. 15. Qualità principale di esso è l ' ammirabilità. Arti del Bello speciali. Cap. XL. Come si originarono le Arti speciali del Bello. Pag. 249 1. Argomento. — 2. Due generi supremi dell'arte bella, cioè arti di suono e arti di prospettiva. 3. Arte de' suoni parlati, e arte de' suoni armonizzati. 4. Arti prospettive di spazio, e arti prospettive di figura. -- 5. Arti prospettive distinte in arti di spazio imitato e di spazio naturale; in arti di figure imitate e di figure naturali. 6. Onde l'arti del disegno son distinte dall'arti di naturale amenità e dalla mimica e danza, le quali sono arti secondarie. 7. Arti ansiliari dell'arti principali e delle secondarie. 8. Diver sità di segni sensibili determinò diversità del significato, quanto al mondo esteriore, 9. e quanto al mondo interio. re. 10. Stato implicito dell'arti: poesia; 11. arti del disegno e musica. 12. Poi si distinsero l'arti del Bello fra loro; e s'esamina per la poesia, per l'architettura, 13. per l'arti figurative, 14. e per l'arte musicale. Di stinzione di ogni specie in ispecie minori. 15. Conclu sione. 16. L'arte bella fa quasi un mondo novello. Ordine fra l’ Arti speciali del Bello...... 1. argomento. 2. Criterio per giudicare i gradi dell'arti belle. 3. Segni supremamente ideali della poesia. L'ordine loro è una invenzione distinta dall'altra delle im magini. 5. Perfezione suprema de' significati poetici. 6 Ma questa precedenza rende difficile al sommo il poetare buopo. 7. In che la poesia verso l'altre arti sia inferiore. 8. Architettạra, e perfezione ideale del suo disegno. 9. Perfezione del suo significato. -- 10. In che cosa l'archi tettura è vinta dall'altre due arti del disegno. 11. Pit tura e scultura; disputa di quale fra loro primeggj, antica. - 12. S' esamina quanto a ' segni, 13. e quanto al signi ficato di queste arti. 14. Musica; in che sta un suo sin golare pregio, 15. da cui procede la potenza musicale; benche in altro rispetto la musica resti- superata. - Della Poesia.... Pag. 283 1. Argomento; definizione della poesia. -2. Come la poe sia somigli la filosofia. 3. Consentono tutti nel divario fra considerare direttamente i sensibili esterni e il conside rarne l'altinenza con l'anima. 4. Però l'idea che regola i poeti, si è l'idea dell'uomo interiore, avvivata d'immagibi. Si riscontra ciò ne' sensibili esterni, comuni alla musica e al segno e alla poesia; – 5, ne' sensibili esterni, propri solo alle rappresentazioni poetiche; - 6. ne' sensibili inter ni, che la sola poesia può prendere per oggetto immediato; - 7. e poi, nelle cose di pura intelligibilità. 8. Tanto è più alta la poesia, quanto più rende viva immagine del. l'uomo interiore; - 9. e, inoltre, quanto più rende imma gine di ciò che l'uomo dev'essere; 10. perchè il poeta tende alle più élette forme dell'anima; 11. e indi cerca immaginativamente di risolvere in armonia le contraddizioni del mondo; 12. come si riscontra ne' poeti veri del tempo antico e del nuovo, - 13. e anche ne' poeti scettici, ov'essi han vera poesia; 14. talché, quest' arte rappresenta in immagini l'universalità dell'intelletto. 15. E ogni ge nere perciò di componimenti nell'arte del dire può parteci - pare di poesia. 16. Conclusione.Le specie della Poesia. Argomento. Tre modi principali della poesia: espositivo, 3. narrativo, - 4. dialogico. sia par talora non essere imitativa nè inventiva, se cade in soggetto reale. 6. Si scioglie la difficoltà, distinguendo al. lora il soggetto reale dalla rappresentazione immaginosa. 7. Indi è varia l ' attinenza fra la poetica rappresentazione ed il soggetto. — 8. Idem. – 9. Indi anco è vario lo stile figu rato nella poesia espositiva, 10. o nella narrativa, - 11. o nella dialogica. 12. Anche il numero musicale dello stile diversifica. 13. Idem. 14. Diversifica pure l'ori. gine de' tre modi principali di poesia, l'espositivo prece dendo a tutti, 15. e poi al drammatico il narrativo. • 16. Conclusione. 302 5. La poe Dell'idioma, 1. Argomento. - 2. Lingua, in significato generale, è unità parlata della morale unità d'un popolo; 3. e che mai non manca di segni per cose antiche, 4. nè ha sino nimi perfetti. 5. Le Parlate. 6. I Dialetti. - 7. Le Lingue. 8. Scelta fra le tarlate. 9. Scelta fra' Dialetti. 10. Distinzione d'una lingua da ogni altra lingua. 11. Uso di lingua parlata, e uso di lingua scritta; 12. iden tici nell'essenza, e in che diversi, 13. Come uso di buoni scrittori giova, 14. e come giova uso di ben parlanti. 15. Realismo e Idealismo nell' usare l'idioma. 10. Con clusione. Arti del disegno. Pag 338. 1. Che cosa sono l'arti del disegno - 2. Il disegno è fon damento alle tre arti particolari.. 3. Doppia significazione del vocabolo disegno. -- 4. Ogni qualità sensibile de' corpi ha relazione con la lor forma; 5. e può risguardarsi per natura, e per l'arti del disegno, quasi accessoria. - 6. La forma ci palesa l'unità; 7. ch' esterna dipende dall ' in terno delle cose, si per natura e si per arte. 8. Esempj di ciò; e in che dunque consiste l'ordine ideato comune al l ' arti del disegno. – 9. Per acquistare il disegno, ci oc corre abito astrallivo degli occhi, - 10. fantasia ferma e viva in ritenere la linea pura, 11. e intelletto esercitato a distinguere, paragonare, comprendere i contorni; 12. nè basta vedere, ma bisogna saper vedere o guardare; 13. e in ciò sta il cosi detto giudizio degli occhi. - 14. Come si faccia l'esercizio nel disegnare. 15. Una regola princi. pale per l'arti secondarie. 16. Conclusione. Architettura.... 1. Che cosa è l'architettura. 2. Si originò dal convi. vere umano. - 3. Si distinse dall'ingegneria per fine di bel lezza, 4. ritraendo l'immagine formosa del consorzio umano, 5. Questa idea perció la rende inventiva; 6. e indi l'architettura prende significato a ' suoi disegni, 7. e anche la loro unità; 8. ehe si palesa nelle proporzioni della massa, nel congiungimento delle linee, 9. e anche negli ornamenti. – 10. Com'espressione del consorzio uma no, quest' arte abbraccia le altre arti del disegno; – 11. s' accorda co' luoghi abitati dall ' uomo, e a sė li conforma; 12. imprime la bellezza sua nelle città intere, - 13. nel l'intera patria d'una nazione, — 14. per ogni luogo di es sa; 15. e si distende a tutta la terra civile, com' efligie inica dell'incivilimento. 16. Conclusione. S ulura..... 376 1. Che cosa è la scultura. - 2. Principale soggetto al l'arti figurative si è l'aspetto umano. - 3. Più proprio della scultura è la relazione de' lineamenti con la vita interiore, anziché dell'uomo con la natura. -- 4. Indi all'arte sculto. ria il colorito e accidentale, ec. - 5. Nè la scultura di tutto rilievo ha paesaggj, che ristretti son' anche nel bassorilievo: - 6. è limitata nel figurare animali; --- 7. e anche ne'gruppi di ligure umane. - 8. Soggetto più proprio alla scultura ė la bellezza umana del corpo, e in essa si comprende la fisio. logica e la fisica. 9. E perché si dica ciò della scultura piucchè della pittura, distinguendo tra figura e forma. - 10. L'unità intera della immagine umana comparisce nella scule tura solamente. 11. Divario i'ra le due arti nel nudo e ne' panneggiamenti. 12. Limiti posti dal pudore. 13. Qual sia -dunque l'idea esemplare dell'arte scultoria, 14. E come bisogni evitare ia essa, piucché nella pittura, il freddo  ed il generico; -- 15. ma senza cascare nei vizj opposti, 16. Conclusione. Pittura.... Pag. 395 1. Che cosa è la pittura. – 2. Idea che serve d' esemplare alle immagini ed a'segni di quest'arte, cioè armonia fra l'uomo e la natura esteriore, come rilevasi dal colorito; 3. e perciò dalla figura colorata e dal prospetto aereo. - 4. Magistero essenziale della pittura è il colorito; – 5. ma non contraſfacendo i rilievi della scultura, 6. nè gareggiando con le cose reali pe' colorie per gli splendori, 7. nė pe' se goi di vitalità; gareggiamento impossibile, - 8. e dannoso; 9. bensi eleggendo que' segni che sveglino i sentimenti nell'anima nostra, come le cose di natura sogliono. 10. La pittura è visione di fantasia. 11. che splende in gen tilezze d' ornamenti, e in paesaggj. 12. e ne segni del con • versare umano, 13. e nell'unione verosimile di più tempi e luoghi, 14. e nel simboleggiare affetti sovrammondani. 15. Conclusione. 16. Utilità di tutte l' arti del dia segno. Musica...... 415 1. Che cosa è la musica. 2. Qual n'è l'idea regolatri ce. Relazione de' suoni col sentimento umano. 3. Ragione anche fisiologica di tale attinenza. 4. E indi attinenza principale di quest'arte con la voce umana. 5. Ma la relazione de' suoni col sentimento é indefinita, 6. e però la musica può indefinitamente significare ogni affetto. 7. Esprime e incita direttamente l' esaltazione degli af. fetti, 8. e viene usata per significare più vivo l'esalta. mento comune alla poesia ed all' arti del disegno. 9. Ciò apparisce altresi dal significato universale d'armonia. 10. Però idea suprema e reggitrice della musica è, ch' essa renda immagine dell' esaltazione di ogni affetto umano. La quale idea si determina nel concetto de' componimenti varj. 11. onde nasce la musicale unità, – 12. e l'invenzione di una frase principale, 13. che si svolge. - 14. Errori sulla na. tura della musica. Sensisti e Positivisti assoluti, - 15. Sen timentali, Aritmeticanti, Retoricanti. 16. Conclusione. CAP. L. Unione fra tutte l’ Arti del Bello... 434 1. Danni del separare l' Arti, e argomento. 2. Unità d' obbietto, di soggetto e di potenza prevalente nell' Arti del Bello. 3. Perfezionamenti loro successivi, e legge di que sta successione. - 4. Si risolve una difficoltà. 5. Prima si perfezionò la poesia; 6. indi l'architettura; - 7. poi la scultura, e poi la pittura; — 8. Apalmente la musica. 9. Aiuto che si porgono l'Arti; quale la poesia? – 10. quale l'architettura, 11. l'arti figurative, - 12. la musica? 13. Si conferma l'unità essenziale dell'Arti fra loro. -- 14. Ri torno del pensiero alle cose ragionate; 15 e 16. indi con clusione generale. DIALETTICA. La Filosofia e i Concetti universali. Idea della Filosofia. Che cosa è la Filosofia?  È scienza del pensiero, ma del pensiero in atto di vita, e non soltanto delle leggi logiche astratte; e però è Scienza della coscienza e dello spirito; Scienza degli oggetti connaturali al pensiero, e però di Dio, dell'universo e dell'uomo; Scienza, per tanto, delle somme cause, dell'ultime ragioni e de' primi prin cipj; Scienza, poi, della conoscenza, della scienza e della verità. Perciò nell'idea di relazione s ' appuntano i quesiti tutti della Filosofia; e ivi troviamo la sua più alta verità. Talchè la Filosofia e Scienza di Dio, del mondo e del l'uomo nell'ordine loro uoiversale; o, più breve, Scienza delle relazioni upiversali; e siccome queste forman l' ordine, dunque altresì Scienza dell'ordine universale.  Come in ogni altra Scienza, cosi nella Filosofia si ha perfezionamento, levandosi a un'idea superiore. - 12. Questa è l'idea di relazione. - 13. Ciò richiede la tendenza e il bisogoo de' postri tempi. – 14.Im portanza della Filosofia; danni d'una Filosofia separativa. — 15, Vantaggj d’una Filosofia comprensiva. 16. Sunto. La Verità.... 1. Perché dobbiamo esaminare l'idea universale di verità. 2. La verità è sempre entità conosciuta. – 5. La verità è ordine d'entità conosciuto. - 4. Si procede relazione in relazione. L'unità dell'oggetto conosciuto si comprende, si distingue, 6. si riupisce di nuovo. - 7. Però gli Antichi dissero che la verità è pei giudizj. - 8. L'errore perciò sta nel vedere l'oggetto da una parte sola, e quindi nel travedere, 9. come si rileva degli errori metafisici; - 10. nello Scet ticismo medesimo, e negli errori morali e delle Scienze fisiche. 11. Sicchè l'errore confonde, separa, nega. 12. Jadi spieghiamo il progresso della scienza e della civiltà, 13. o il regresso; 14. le invenzioni e le scoperte. – 15. esame dell'idea di verità ci mostra il costrutto semplice degli Univer sali, presupposto da ogni conoscenza. - - L'Entità. Pag. 1. Si comincia dalla nozione d'entità. — 2. Che cosa sono gli universali, - 3. Tre ordini d'universali: gli analogici, 4. gli attributi metafisici, e le condizioni universali del creato. - 5. L'uoiversale si è in ogni cosa e presentasi all'intelletto. - 6. L'idea d' entità primeggia fra gli universali. La esami Darono gli Antichi, – 7. i Padri, il Medioevo, e la Filosofia moderoa. 8. Non possono farne a meno anche gli Scettici e i Soggettivisti. 9. Questa idea non può pegarsi. Ma esaminandola, bisogna evitare tre difetti. - 11. Si tripartisce: idea dell'essere comunissimo, - 12. idea d'essenza, - 13. idea d'esistenza; – 14. com' apparisce anche da' linguaggi, 15. e dall'antica dottrina sull'essere e sulla possibilità, ch'è di tre specie. - 16. Conclusione. L'Ordine dell'entità.... t. L'idea d'ordine si distingue nell'idea di relazione, d'atto della relazione e di correlazione. 2. Che cosa è la relazione? L'esperienza ce la mostra ovunque. 3. Ogoi en tità è un tutto di relazioni, benchè, quando si tratta di cosa fioita, non essenziali. Ciò si rileva dal concetto d' essere, - 4. d'essenza e d'esistenza. – 5. La relazione poi è, o intrinseca, - 6. od estrinseca (cioè ad intra, o ad extra ). – 7. Ogni relazione si è atlo; anche le attineoze ideali o di ragione. - 8. Conie si procedè per giungere a questa universalità dell'idea d'allo. Gli Italioti, gl’lonici, Platone; 9. Aristotele; 10. i Padri, gli Scolastici, e il Cartesio; 11. il Leiboitz e la Fisica nioderna. 12. Correlazioni. Unità e triplicità in ogoi cosa. -- 13. Dottrine aptiche su ciò. - 14. Il Dogma cristiano della Trinità. - 15. Le correlazioni spiegano la legge universale de' simili e de' contrapposti, 16. Conclusione. l conoscimento dell'Ordine.. 1. Nel conoscimento dell'ordine si distingue il Vero, il Bello ed il Buono, distinta la triplice relazione della Verità col l'intelletto, benchè io significato generalissimo ogoi relazione col nostro conoscimento sia Verità. 2. L'universalità del Vero corrisponde ai gradi dell' essere; e come li notarono già i Filosofi. - 3. Cose non animate; 4. cose animate; 5. gl'intelletti, ove la presenza dell'entità è manifesta. 6. La verità è relazione dell'entità con gl’intelletti, cioè intelligibi lità. Che cosa è la Bellezza, cioè l'ammirabilitd, con trapposta al Vero. Suoi gradi, 8. ne' corpi non animati, Degli animati e negl'intelletti. 9. Che cosa è il Bene, cioè l'amabilità. Suoi gradi, — 10. ne' corpi, negli animali e nella mente, 11. Assioma che deriva dall'esame degli universali, - 12. e loro convertibilità mutua; – 13. la quale si manifesta nella scieoza, nell'arte e nella vita, perché il Buono conduce al Vero ed al Bello, - 14. e il Bello conduce al Vero e al Buono. -15. Nell'esame degli universali analogici abbiamo riscontrato le distinzioni già fatte dai Filosofi antichi e recenti. - 16. Conclusione, e come il Bello morale sia l'accordo del Vero, del Bello e del Buono. Attributi metafisici correlativi e Idea di Dio. Pag. 101 1. Esamedegli attributi metafisici, al quale ci porta l'esame degli universali analogici. — 2. Che cosa s'intende per attri buti correlativi metafisici. 3. Idee di questi attributi, tro vate nell'idea d'entitd; 4. trovate nell'idea d'ordine dela Ľentità; - 5. trovate nell'idea di conoscimento dell'ordine. - 6. L'idee degli attributi metafisici correlativi, e l'idea di Dio, non sono correlazioni astratte; - 7. nè limiti soggettivi; - 8. nè un ideale soggettivo; 9. nè, d'altra parte, sigoi ficano che Dio sia il grado supremo degli esseri; – 10. nè la parte o il tutto; 1. nè Pessenza o la sostanza delle cose contingenti. – 12. La correlazione degli attributi metafisici viene rappreseotata dall'idea del possibile fra l'idea d'Eote e l'idea d'esistente, o dall'idea d ' indefinito fra quelle d'Infinito e di finito. - 13. La correlazione stessa fu pure significata dal Gen tilesimo, 14. da' simboli suoi più notevoli, 15. e dalla simbologia naturale. - 16. Conclusione. Cap. VII. Idea di Creazione.... 121 1. Possibilità razionale della creazione. - 2. Vi ha nel pensiero umano questa idea dell'atto creativo, cioè di Causa prima. — 3. L'idea di causa si distingue dall'idea di sostanza; 4. e si riferisce ad un che, il quale comincia dal nulla quanto all'esistenza, benchè non quanto alla potenza; 5. si riferisce, poi, ad un termine distinto essenzialmente dalla cau sa, o ad extra. - 6. Più vera e più potente fra tutte le cagioni è l'intellettiva. 7. La Causa creatrice si distingue dalle cause naturali, perchè alla totalità delle cose preesiste la pos 8. perchè il soggetto, cioè la sostanza, si produce ad estra; 9. e perchè avvi efficienza intellettuale assoluta: - 10. opde la Causa creatrice fu chiamata Verbo ia tutte le Tradizioni sacre, e il mondo è arte di Dio; -11. la quale produce una somigliaoza divina nell'universo, mentre Dio non somiglia i finiti e li trascende. - 12. Gli errori e i dubbj sul dogma razionale di creazione nascono dalla fantasia, - 13. e dallo sdegoare il mistero, comune ad ogni causalita; 14. sicchè gli errori provocarono lo svolgimento del Teismo nell'età de' Padri e de' Dottori, 15. e dell'età della Riforma e del Rinnovamento. - 16. L'idea di creazione ba tanta importanza, sibilità pura; - perchè risguarda la Causa universale. CAP. VIII. Idee relative all'Entità della Natura....... 143 1. Argomento; le condizioni dell' entità: Prima condizione della natura, per l'essere suo, il quanto; 2. che si distia. gue nell'unità, 3. nel numero 4. (che non può essere infinito), 5. e pella unione delle unità. 6. Condizione seconda per l'essenza, il quale; - 7. che si distingue nella varietà, 8. nella contrarietà, 9. e nella somiglianza;. 10. più notevoli dove la oatura è più alta. - 11. Terza condizione per l'esistenza, il quando; 12. che si distingue nel momento, -13. nella successione, - 14. e nella durata; - 15. non predicabili dell' Eternità. 16. Conclusione. il pine. - Idee relative all'Ordine della Natura....... Pag. 1. L'ordine della natura viene dall' attinenza della crea zione, 2. La relazione delle cose create ci dà la dipendenza, o derivazione; 3. ossia la sostanza, - 4. la causa, 5. e l'essenza reale. - 6. L'Atto delle cose ci dà il come (quomodo); – 7. ossia il principio, 8. il mezzo, 9. e 10. Le correlazioni delle cose ci dàono il dove, che può essere correlazione ancointellettiva, 11, e correle zione materiale; - 12. ossia il punto, - 13. Y estensione particolare, 14. e lo spazio, 15, che non può essere infinito, ma è nell'infinito; 16. e il sublime si origina da cið. Cap. X. Condizioni naturali del conoscimento...... 1. Criterio della conoscenza; ove si riscontrado: l'oggetto ideale, – 3.6. l'idea, - 4. che ci fa conoscere il si mile per ilsimile, 5. (onde si spiega la formazione dell'idee universali, e la conoscenza delle cose esteriori, 6. di noi stessi, degli altri uomini, - 7. e di Dio), - 8. c. il senti mento, in relazione del quale ogoi cosa dicesi un fatto, ed esso medesimo ha questo pome. 9. Forma del bellezza; - 10. e qui si riscontrano: la cosa formata, 11. l'idea esem plare, 12. e il gusto. - 13. Legge del bene, ove si ri scontra il bene oggettivo, - 14. la felicità, - 15. e l'utilitd. - 16. Conclusione. Divisione della Filosofia e Arte dialettica. L'Enciclopedia.... 1. Per determinare i quesiti della Filosofia, bisogna ve. dere le sue parti e l'Enciclopedia o l'albero del sapere umano, Ordine di formazione, ordine di logica dipendenza. Criterio armonicamente oggettivo e soggettivo per trovare la distiozione dello scibile e l'ordinamento suo. Quattro classi di conoscenze: onde vengono la Teologia positiva, la Filosofia, le Matematiche e la Fisica. 6. Parti della Fi losofia universale. - 7. Filosofie particolari e applicate. 8. Matematica. - 9. Fisica. - 10. Storia sacra, umana, na turale. – 11. Arti filosofiche, matematicofisiche e storiche. 12. Tradizione perenne dell' Eociclopedia. – 13. Errori che la guastano. 14. Pericolo dell'Enciclopedie a dizionario, le quali spezzano la continuità del sapere. - 15. Divisione della Filosofia in tre parti: la Dialettica, l' Estetica e la Morale. - 16. Conclusione. La Dialettica. Che cosa è la Dialettica. È quasi un dialogo. Esemplare unico dell'Arte logica è la natura, -se no e s'op v'è ignoranza. L'Arte logica è osservazione di natura, - 6. se oo avvi leggerezza, impazienza e preoccupazione appas sionata. – 7. È imitazione di natura, 8. se no avvi artifi cio. – 9. È inveozione ordinativa, pop oggettiva, - 10. se no avvi l'assurdo. - 14. È per fine di verità, - 12. se no si confondono l ' arti, che per altro s' accordano e s ' aiutano. 13. La Verità, com'oggetto dell'Arte logica, viene deter minata dalle operazioni di questa, - 14. e però è ordine d'en tità ripensato, 15. ragionato, — 16. e significato. La Critica interiore vera e la falsa........ Pag. 251 1. La Critica suppose un Criterio, che paturale cono scenza porge alla riflessa. - 2. Il bisogno di Critica interiore viene dal bisogno di cercar l'origini dell'errore, e dall'altro di sceverare nelle cognizioni la parte oggettiva e la soggettiva; - 3. e però è antichissima; benchè a questa si contrapponesse Ja Critica eccessiva. 4. Esempj dell'una e dell'altra nel Cartesio e nel Kant. 5. Principiare dal dubbio universale non si può; e questa è critica smodata, o fuori di natura. 6. La riflessione filosofica deve cominciare dalla ignoranza filosofica, piuttostochè dal dubbio metodico. 7. Però la Critica eccessiva non può condurre alla scienza; pone, qualunque sia l'intenzione de' Critici, alla virtù; 9. è causa di desolazione, - 10. o di misera indifferenza. 11. Jovece per la Critica razionale s' afferma il oaturale co noscimento, 12. la forma di questo e la materia; 15. cioè la forma naturale in relazione con gli oggetti, - 14. e la realtà degli oggetti stessi, che costituiscono la materia necessa ria o coboaturale del pensiero. · 15. Postulati della Critica - 16. Ogni operosità viene impedita dal Criticismo. Cap. XIV. Verità connaturali al pensiero umano. 272 1. Tre requisiti delle verità connaturali. – 2. Esistenza di noi stessi. - 5. Errore del Kant e de' Positivisti, - 4. e loro confutazione. 5. Si riscontrano i requisiti della conoscenza naturale nella coscienza di noi stessi. – 6. Notizia del mondo esteriore, – 7. e dell'ordine suo. — 8. Opinione del Kant e de Positivisti, 9. e loro confutazione. - 10. I requisiti della conoscenza naturale si trovano nella notizia del mondo. 11. Idea di Dio. - 12. Opinione del Kapt e de' Positivisti. 13. Confutazione, 14. Si riscontrano nell'idea di Dio gli stessi requisiti o spontaneità, - 15.inconvertibililà e insepa rabilità. Da queste notizie di noi, del mondo e di Dio risulta la sostanziale totalità della coscienza. 16. La Filosofia non può disconoscere questa materia del pensiero e della scienza. CAP. XV. Armonia tra le forme della conoscenza e le cose. 294 1. Che cosa è la forma. – 2. L'armonia tra le forme del conoscimento e gli oggetti, onde provenga. 3. Apparenza sensibile, - 4. corrispondente agli oggetti percepiti; – 5. e quindi si fece da Galileo e poi dagli altri la distinzione fra le qualità primarie de' corpi e le secondarie; - 6. talchè verifi chiamo che l'apparenze sensibili son segoi reali, realmente vera. - . corrispondenti alla realtà delle cose. -7. Aoche le apparenze, che dano'occasione d'inganno, procedono da leggi di natura. - 8. La vista ci dà i segoi apparenti delle distanze. – 9. For me intellettuali, corrispondenti all'entità e verità delle cose, ue' concetti, - 10. ne giudizi, -11. e oei raziocioj. 12. Armonia tra il conoscimento di ciò ch'è o avviene deotro di noi, e il conoscimento di ciò ch'è fuori di noi: per i segoi del l'anima del corpo; – 13. per l'analogie fra l'anima l'uoj verso; - 14. per l'intendimento delle qualità e delle condi zioni d'ogoi cosa esterna; — 15. e per la conoscenza di Dio. 16. Conclusione. Principj armonici della ragione... Pag. 318 1. Che sono i principj universali della ragione. — 2. Na scono dalle idee universali, e s'ordipano com'esse. -3. Prima classe, corrispondente agli universali analogici. Per l'entitd si distinguono più principj, riflettendo all ' idee d' essere, 4. e all' idee d'essenza e d'esistenza. 5. Per l'ordine del l'entità, si distinguono, riflettendo all'idee di relazione, 6. di atto della relazione e di correlazione. - 7. Per il cono. scimento dell'ordine, si distinguono, riflettendo all' idee del Vero, – 8. del Bello e del Buono. – 9. Seconda classe, cor rispondente agli attributi metafisici correlativi. – 10. Terza classe, corrispondente alle universali condizioni della Datora fioita. Si hanno: Per l'entità di questa, i priocipj di quantild, di qualità e di tempo; 11. per l'ordine della natura, i principj di derivazione o dipendenza, - 12. di modalità e di confinazione o del dove; – 13. per il conoscimento dell'or dine, com ' esso è negl' intelletti creati, i principj che risguar dano il criterio della verità, la forma della bellezza e la regola del bene. – 14. In che stia l'utilità de' principj uni versali. – 15. Due opinioni estreme ed erronee: l' una che li Dega, l'altra che li reputa generativi di tutto il conoscimento. - 16. Conclusione. L'Osservazione...... 340 1. Materie da trattarsi. — 2. Atteozione. - 3. Osservazio ne. – 4. Riflessione. - 5. Si verifica ciò nelle verità d'espe rienza esteriore, cosi per Arte logica naturale, 6. come scientificamente. 7. Si verifica delle verità di esperieoza interiore, cosi per suggerimento di natura, 8. come per la Scienza. 9. Si verifica delle verità intellettuali pure, 10. cioè negli universali della Metafisica e delle Matematiche. 11. Si verifica nelle conoscenze ricevute dall'autorità, 12. e ipdi vien la Critica, 13. Lo stesso aodamiento si vede nel procedimento storico delle Scienze. -44. Idem,-15. Anche nel procedimento della Letteratura. 16. E anche nell'Arte pedagogica. Metodo che imita la Natura...... 1. Che cosa è l'imitazione dialettica: parte sostanziale del metodo. 2. Sintesi primitiva. – 3. Analisi. - 4. Sintesi 541 - secondaria. 5. Legge dialettica. 6. Il metodo allora è quasi un contrappuoto musicale. -7. Però non può essere nè solameote analitico, nè solamente sintetico. 8. Difetti del Puno e dell'altro, - 9. Il metodo compreosivo gli uoisce. 10. Contrarie inclioazioni di ogni età verso l'analisi eccessiva o la sintesi eccessiva. 11. Esempio del Gioberti. - 12. Il vero metodo è propriamente dialetlico o dialogico. 13. Sua utilità nelle Scienze; 14. nell' Arti del Bello, - 15. e nel ” Arti del vivere civile.. 16. Conclusione. L'invenzione dialettica..... Pag. 381 1. Che cosa è l'invenzione scientifica, o che cosa è la Scienza com'ordine meditato di conosceoze, - 2. Si comincia dalla comprensione dell'oggetto per una definizione nominale; - 3. poi si viene all'analisi con la divisione, – 4. con la tési e con l ' antitesi, con la prova dall'assurdo, e con l'elimina zione; - 5. fochè si giunge alla definizione dialettica, che può essere o intrinseca o per via disole relazioni. - 6. Poscia, passando alla sintesi, abbiamo l'ordine induttivo e il dedatti 7. Tutto questo mirabile ordinamento è una ricerca delle ragioni, e uno spiegare per esse; oode gli Antichi dis. sero che saper vero è un sapere per le cagioni; - 8. cioè per principj; - 9. e questo s'avveranella teorica degli universali, - 10. e nella Scienza dell'uomo, dell'universo e di Dio; s'avvera nelle Scieoze civili e storiche; Delle Matematiche, e nella Fisica. Indi si spiega l'invenzione degli stromenti e delle macchine; 15. come altresi la ipotesi e l'intuizione dottrinale. 16. Supto. vo. – IL FINE DELL’ARTE DIALETTICA.  Argomento. Connessione logica. Che stato der essere quello di chi cerca la verità, e DIFETTI CHE BISOGNA EVITARE. Si può errare io ciò per leggerezza,  o per una preoccupazione. CHIAREZZA e difetti da evitarsi. Errori che procedopo da leggerezza,  e da preoccupazione, prendendo per chiaro ciò che non è. Certezza; e difetti evitabili; badando anche ip ciò di non errare per leggerezza d' assensi e per qual che preoccupazione, stimando che sia certo l'incerto, e vice Connessione, chiarezza, certezza, non possono realmente trovarsi che pella verità. Si concbiude: che fine d'ogoi Scienza, e perciò anche della Filosofia, non è di dare a noi, quasi mancanti d'ogni ragionevole conoscenza, un primo conoscimento della verità, si l' ordine riflesso della co gosceoza e della verità: e poi, che L’ARTE DIALETTICA È ALTRESÌ UN ABITO MORALE; e ancora, che L’ABITO DEL PARLARE  meditato giova molto all'ordine del pensare RAGIONATO E RETTO versa.. I Criterj della Verità o Leggi universali della Dialettica. L'Evidenza, o il Criterio della Verità. Argomento, e qual sia il disegno della Dialettica, e qual ragione v'abbia di trattare qui de Criterj; e dottrina loro semplicissima. Il Criterio è uoa regola, perch'è un segno della verità in relazione con l'intelletto. Non può negar si, fuorchè negando la conoscenza; non può travisarsi, fuorchè da' sistemi sostanzialmente falsi; e vi ha una dottrina costante sulla natura del Criterio. Il Criterio è un segno apparte nente all'ordine della verità, ed è universale. II Criterio, perciò, è l ' evidenza dell' ordine di verild; è quindi uno e moltiplice, ossia è un ordine di Criterj; perch'è l' evidenza dell'ordine di verild in sè stesso, e ne' suoi contrassegni universali; cioè coutrassegni d'amore e di fede, perchè l'ordine della verità corrisponde all'ordine della nalura umana. Il Criterio vale altresi nelle cognizioni anteriori alla Scienza, 10. nè la Scienza può disco noscerlo. 14. Nella Scienza, poi, l'evidenza precede il ragionamento, l'accompagna, e lo compisce. 12. Nella Filosofia, l'evideoza del Criterio naturale si converte in evi deoza scientifica; non già perchè si comioci dal dubbio; anzi non può cominciarsi da esso, perch'è un riconoscimento. – 13. Criterio della Filosofia è l' evidenza dell'ordine universale;. 14.senza di che quella è fuor di natura. - 15. Criterio delle altre Scienze è l' evideoza d'un ordine particolare; ma in essa i Criterj sccondarj bao solo un ufficio indiretto e più ristretto. - 16. Conclusione. -L'evidenza del Teismo, come di verità ordinatrice o di Criterio supremo.... 1. Perchè la verità di Dio creatore sia Criterio compren sivo alla riflessione. 2. La Scienza de' limiti è scienza ne cessaria; e il Teismo ci avverte de' nostri limiti. 3. Questi sono la natura stessa dell'intelletto e delle cose. 4. Soprin telligibile, soprannaturale, 5. intelligibile: 6. la verità di creazione fa serbare questi limiti, e spiega il perchè del sovrintelligibile divino, –7. del sovriptelligibile naturale, 8. e ci rende liberi e sicuri nello studio delle cose intelligibili, che sono inesauste a mente umana. - 9. Quindi essa rende soddisfatto qualunque bisogno dell'uomo, e ordina le Scienze che si riferiscono a' bisogoi stessi. Teologia positiva, - 10. Filosofia, Matematica, — 11. Fisica, 12. Filosofia della Sto ria, Filologia e Critica. - 15. Quel Criterio spiega la legge del progresso in Filosofia e il regresso sofistico. – 14. I siste mi, opposti alla verità di creazione, ristringono la conoscenza riflessa, 15. e poi l'apoientano. - 16. Conclusione. - -  543 - Sistemi opposti al Criterio della Verità, e pri mieramente il Panteismo.... Pag. 472 1. Argomento. - 2. Contradizioni del Panteismo, e pro posito di affermare le contradizioni.- 3. Panteismo orientale, 4. pitagorico, - 5. eleatico ed ionico; - 6. degli Ales sandrini e Gnostici, - 7. che difendevano il Paganesimo; 8. de' Reali nel medioevo, – 9. e dell'altre Sètte; - 10. del Bruno e del Campanella 11. (sterili, se paragonati al Car tesio ed a Galileo ), · 12. dello Spinosa (non paragonabile alla fecondità del Leiboitz), - 13. de' Panteisti tedeschi, 14. e de' loro discepoli. 15. Verità grandi, che balenano dal Panteismo; 16. il quale, bensì, le travisa, e però nega i fatti più sublimi della coscienza. II Dualismo. 493 1. Argomento. - 2. Io che il Dualismo è peggio, e in che meglio del Panteismo? 5. Dualismo fra gl' Indiani. 4. D'Anassagora, - 5. di Platone, -d'Aristotele, 7. degli Stoici. - 8. Dualismo tra certi Filosofi maomettani. 9. Dualismo nella Cristianità del medioevo; 10. e come le tracce del Dualismo antico si trovino anche ne' Dottori scola stici; - 14. talchè se n'occasionava, ne' tempi della Riforma, up Dualismo nuovo, non antiteistico, macosmologico e antro pologico. – 12. Il Cartesio; – 15. ed effetti delsuo Dualismo, segnatamente nel Malebranche, - 14. e nel Leibojtz; 15. o anche nell'Idealismo, nel Sensismo e nello Scetticismo poste riori. 16. Il Dualismo riduce i contrarj a contradittorj, - talchè rompe ogoi armonia. L ' Idealismo e il Sensismo.... 515 1. Differenza fra l ' Idealismo e il Sensismo. 2. Cenno storico di questi sistemi. – 3. Io che propriamente consiste l ' Idealismo (e sbaglio d' alcuni moderni), e paragone con gli effetti del Sensismo. - 4. Vizio principale degl ' Idealisti. 5. Nel Sensismo la coscienza umana non riconosce sè stessa; 6. non l'intelletto, essenzialmente diverso dal senso; - 7. non - 8. non l'idealità; 9. non la riflessione sopra di noi; 10. non la religiosità; 11. non la certezza nella cogoizione de' corpi; 12. non la Filosofia; si solamente la Fisica, - 13. ma falsata e con metodi non suoi. - 14. E sono alterate anco le Matematiche, - 15. com' altresi la Sto ria. - 16. Sunto.  -  Lo Scetticismo...... Pag. 1. Argomento. 2. Scetticismo nell'Asia e fra gl ' Italo greci; - 3. nell'età Socratica e del medioevo; 4. nell'età moderna. – 5. Eclettici e Mistici, che non riparano allo Scet ticismo, dacchè gli concedono di partire dal dubbio. – 6. Idea Jismo scettico e Sepsismo scettico. 7. Razionalismo, 8. e Positivismo; – 9. e quindi Scetticismo metafisico, antimetafisico, - 11. che bensi trova la Metafisica per tutto. – 12. Come la natura repugoi dallo Scetticismo. 13. Con seguenze principali di questo. Desolazionee scherno. - 14. Dif ficoltà pelle controversie, o Dommatismo scettico; abito di giudicare de' fatti umani da sole circostanze esteriori. 16. Lo scetticismo riduce a nulla il pensiero. 10. e 15. e L'Amore della Verità... 22 4. Che cosa è nell'ordine suo pieno il Criterio? Condizioni intrinseche ed estrivseche per la conoscenza della Verità. 2. Sentimento e amore. 3. L' affetto è conoscenza e la cono scenza è affetto. -- 4. Bisogna secondare con la libera riflessione il naturale affetto. 5. Come l'affetto della Verità dia im pulso al ragionamento, l'accompagni e lo assicuri, e perciò bi sogna guardare a quell'impulso, 6. a quella compagnia e a quel riposo; - 7. e sbagliarono tanto i Sentimentali, che di visero l'affetto dall'evideoza; 8. quanto gli Astratteggian ti, che separarono l'evidenza dall'affetto. 9. Ufficio del l'amore di Verità nelle Matematiche ed io Fisica. - 10. Ufficio di quello in Filosofia, il quale altresì ci mostra gli affetti con naturali, che corrispondono agli oggetti della Filosofia stessa; - 11. cioè l'amore di noi medesimi e degli altri uomioi, 12. l'ammirazione affettuosa per l'ordine della natura 13. e gli affetti religiosi. – 14. Quello è anche Criterio degli Studj critici, storici e teologici. – 15. Nelle passioni l'affetto patu rale può facilmente riconoscersi. – 16. Per l'affetto la scienza si converte in sapienza. salità; Il Senso Comune... Pag. 1. Quando la parola serve di Criterio? - 2. Che cosa è il Seoso Comune? Due sigoificati di esso, - 5. dal separare i quali vennero due opinioni false, · 4. Limiti del Senso Co mune:. 5. i principj, 6. le immediate percezioni, 7. e le immediate conclusioni. 8. Ufficio diretto e generale del Senso Comune in Filosofia; non cosi nell'altre Scienze, 9. fuorchè dov'esse s' uniscono alla Filosofia stessa. - 10. Obie zioni sull'esistenza del Senso Comune, per la contrarietà delle opinioni. – 11. Obiezioni contro la testimonianza de' Lioguagej al Senso Comune, per la supposta indifferenza de' vocaboli al si e al no; – 12. per il materiale significato primitivo di parole che ricevevano poi un sigoificato spirituale. 13. Obiczioni sulla ragionevolezza d'usare il Senso Comune a Criterio, qua sichè questo sia credenza, non evidenza; - 14. quasichè vo gliamo reputarlo sapienza o scienza; 15. quasichè occor resse interrogare tutti gli uomini.. 16. Sunto, e necessità di ricondurre le Scienze alla natura, come le Arti del Bello. Tradizioni e progressi nelle Scienze... 1. Criterio delle Tradizioni scientifiche. 2. Due siguifi. cati del vocabolo Scienza. – 3. Dobbiamo verificare l'univer 4. distinguendo i principj, i teoremi, i problemi, e gli errori. 5. L'unità del consentimento non toglie la libera varietà. -6. Consentimento e progresso pe' principj e ne' teo remi, -7. e ne' problemi. – 8. Le Sètte son dimezzatrici della Verità; 99.. eppure confermano i teoremi, 10. e son’oc casione di progresso, mostrando i mancamenti della Filosofia, 11. perfezionandone la forma, 12. e alcune dottrine particolari, - 13. e le loro conseguenze nelle dottrine de'Fi losofi. – 14. Nascono due opinioni false: cioè i sosteoitori della sola evidenza privata; – 15. e i sostenitori del solo criterio storico. - 16. Conclusione. Relazioni fra le Scienze e la Religione..... 1. L'argomento, che ora si tratta, è Glosofico di sua na tura, – 2. Due significati della parola Religione. - 5. S'esclu de: che la Filosofia debba ricevere l'autorità senz' uo motivo evidente di ragione; – 4. che, per l'esame, debba sospendersi la Fede; 5. che l'autorità del verbo religioso sia un Crite rio diretto per ogni Scienza; - 6. che la Filosofia debba en trar pe' Misteri, o la Teologia nel ragionamento filosofico; – 7. che sia lo stesso metodo e lo stesso fioe a’ Filosofi e a' Teologi. - 8. Nel fatto, l'efficacia delle Religioni è universale sopra i sistemi filosofici; 9. e sempre la Religione s’ è reputata upa Fede; 10. Criterio è poi, se corrisponde alla coscienza; 11. talchè sia un'evidenza e una credenza, cioè una credenza evidente. · 12. Fa quasi specchio all' uomo interiore, - 15. che riconosce l'integrità dell'essere suo io quella. 14. Gra vissimo errore del negare validità razionale lenza non filosofica. 15. Il Criterio religioso sublima l'animo e lo ràs. serena, porgendo così le due condizioni necessarie d'ogni me. ditazione più alta. 16. Sunto. Leggi speciali della Dialettica. oi. - - Dell'Ordine, come suprema Legge razionale. Legge suprema razionale.  Leggi concrete o datu rali, Legge soprema è l'ordine. Unione de' termi. Cercare questa unione, rispetto agli oggetti, pelle operazioni, cosi dell'Arte bella e dell' Arte buona, come dell'Arte dialettica. Cercare la somiglianza de' ter mioi, –  le loro differenze, e le loro contrarietà, escludendo i contradittorj. Ksempio tolto dalla teo rica de' Criterj. Errore, deformità, male, sono disor dini. Ogni errore non altro è, che da una parte soltanto risguar dare la verità, segregandola dal resto che le appartiene, e senza cui non è più verità. - Gli errori e il male cadono d'ec cesso jo eccesso. Meraviglie della ragione umana, che imita l'ordine della natura interiore ed esteriore. Coo clusione. Ordine dell'idee Ripensamento dell'idee. L'idea, del suo valore intimo, è sempre vera; quantuoque altresi per idea s’in. tenda lutto ciò che con la riflessione s'afferma e nega; e allora l'idea può essere falsa. Bisogna esaminare il positivo del l'idee; nè può darsi un'idea negativa per sè medesima. 6. Poi bisogna esaminare l'ordine dell'idee con gli oggetti, e come non possiamo pegar l'idea d’un oggetto, se igooriamo la sua intima essenza, nè possiamo negare l'idea d'un fatto, se ignoriamo il comeavviene il fatto, ec.; e bisogoa esa minare qual sia la natura dell'oggetto, coocepita per mezzo dell' idee. - 8. Idee a priori e a posteriori? L'idee hanno fra loro uo ordine cbe va riconosciuto; 10. talcbè, riflettendo a quello, si formano idee distinle, adequale, chia -A1. e ci leviamo all'idea perfetta. Bisogna, in line, ch' esaminiamo la forma concettuale dell'idee, 13. la loro estensione e comprensione, 14. onde riconosciamo l'unità 15. per la quale l'idea è un esemplare unico di 16. Chi poo badi alla oatura dell' idee non può intendere alcuni fatti maravigliosi della patura umana. Ordine della Memoria.. 1. Argomento.La legge della Memoria è l'ordine stesso che regge l'idee. 3. Associazione dell'idee. 4. Come possono in unità raccogliersi le varie associazioni, notate da' Filosofi. 5. Quella medesima legge si distende al richiamo de' fantasmi e de'segoi. - 6. E anzi, abbraccia tutte le facoltà, concorrenti nella Memoria, 7. e unità naturale del. 8. e l'unità morale del genere umano. — 9. Que st' ordine, ch'è legge della Memoria, diviene regola. È neces saria l'attenzivce sull’idee e il raccoglimento. 10. Bisogoa 32 * re, dell' idee, molte cose. ſaomo, - considerare la coonessione dell'idee e i segni seosibili per facil. mente richiamarle. - 11. Inoltre, acquistar l'abito della ri flessione sull'ordine de' giudizj e de' raciocinj, per il pronto discorso scientifico. 12. Singolarmente quell'abito è neces sario per la Memoria delle parole. 15. Tadi procede la pa dronanza dell'esporre. 14. Per l'uoità coosapevole interna, occorre rammemorare il nostro passato. 15. Per unità morale del genere umano poi, occorre la Tradizione, ch'è me moria. – 16. Conclusione. Ordine de' giudizj.. Pag. 166 4. Argomento. 2. Co.ne dall'idee si svolgono i giudizj; - 3. onde i giudizj possibili sono distinti da’ formati o reali. - 4. Categorie, 5. oggettive e soggettive. 6. Perfezio oamento di questa dottrina. - 7. Categorie oggettive, o se condo gli Universali; 8. Categorie soggettive: 9. I. quanto alla forma concettuale dell'idee, giudizj universali, ge nerali, particolari, singolari; - 10. II. quanto alle relazioni fra l'idee, categorici, ipotetici, disgiuntivi, 11. problema tici, assertori, apodittici, - 12. diretti e comparativi, astratti e concreti, a priori e a posteriori, - 13. analitici e sintetici; - 44.III. quanto alla forma de'giudizj, affermativi, negativi, limitativi; 15. IV. quanto alla relazione di più giudizj, equipollenti, convertibili, contradittorj, contrarj e subcontrarj. 16. Conclusione; e come sia necessario, giudicando, solle varsi all'idea distinta, chiara, adequata, e quindi perfetta, di ciò che meditiamo. Ordine del ragionamento.. 186 1. Argomento. Regole. • 2. Legge dialettica. Idea media; e come il raziocinio sia un giudizio complesso che si scioglie in tre giudizj. – 4. Priocipio formale del raziocinio. - 5. Deduzione e induzione. - 6. Deduzione dal simile al diverso. – 7. Induzione dal diverso al simile. - 8. La diffe reoza tra il ragionamento deduttivo e l'induttivo, in che non può consistere? — 9. Qual'è duoque la differenza del ragiona mento deduttivo, 10. e dell'induttivo? - 11. Da essa viene la regola. 12. E, per opposto, dal violarla vengono i sofi - 13. e si vedenel dedurre, - 14. e nell'indurre.: 15. Non deve mai separarsi la 'regala formale dalla materia del ragionamento; - 16. oè la materia di questo dall'ordine suo. C.: P. Utilità del ragionamento. 206 1. Argomento. 2. Come deve intendersi che si procede dal noto all'ignoto? 5. Che cosa troviamo di nuovo per via del ragionamento? 4. Deduzione; 5. in Fisica, in Ma. tematica applicata; – 6. altre scoperte, – 7. per equipollen za, conversione, opposizione, esclusione'; 8. deduzione per via di regole applicate. – 9. Induzione, é sua certezza. --40. Induzioni fisiche. 11. Analogia. 12. Ipotesi. – 13. In duzione metafisica. – 14. Due erroriopposti: l'uso di coloro che immaginano la deduzione quasi generazione; 15. l'al tro di coloro che negano il dedurre. 16. Conclusione. smi;  Unione e varietà de'Metodi.......... Pag. 227 1. Argomento. 2. La verità, com ' ordine conosciuto, si trasforma in Metodo: può vedersi dalla Storia della filosolia, 3. e delle Scienze fisiche; 4. talchè vana è la disputa se preceda l'importanza de'Metodi o de principj; - 5. e quindi ancora si vede che il Metodo risguarda il soggello e l'oggello, e ch'è psicologico ed ontologico insieme, 6. cioè critico. - 7. Faria il Metodo; ma neile varietà c'è leggi comuoi. 8. Le varietà poi derivano dalla natura dell'argomento, 9. taotoché riesce assurdo il coofondere tra loro i Metodi; 10. e vba Scienze deduttive, 11. induttive,. 12, miste; 13. più sintetiche, o più analitiche. 14. I Metodi, variando secondo la varietà delle cose, diversificano pure secondo la mente di chi pensa la verità, 15. e secondo la mente di co loro, a cui la verità s ' espone. 16. Sunto. Abiti necessarj al ragionamento Metodo è abito, e richiede: abito di virtù, abito intellettuale che disponga l'intelletto all'Arte ragionativa, e abito dell'Arte. Abito morale, cioè amore della Verità. Bisogna essere preoccupati solo da questo amore; unito alle virtù morali, e come dagli abiti viziosi opposti s' of feoda il ragionaiento buono. Abito intellettuale del rac coglimento, donde nasce il diletto della meditazione, e che porta con sè l'abito di badare all'armonia delle facoltà e delle dottrine, e di ordinare i proprj studj. Abito intellettuale dell'Arte, cioè il possesso delle regole. 41. e dell'ordine loro; 12 donde procede la necessità di tre atti razionali abitualmente, cioè l'esame del pensiero del principio de' ragionamenti, a mezzo e io fine; 13. il quale ultimo è importantissimo; 14. e indi viene il possesso della ragione; 15. acquistato piucchè mai dall'esercizio della pewna e della disputa; 16. purchè questa sia conveniente. L’ESPOSIZIONE. Iinportanza dell'argomento, Ufbej della PAROLA: interno e SOCIALE. LA PAROLA s’unisce strettamente al pensiero, ma non lo costituisce; bensi lo determina. Non bastano i fantasmi, ma ci vuole IL SEGNO dell'idea, tanto più che IL DISCORSO esterno aiuta con la successione sua la riflessione discorsiva. LEGGE DELL’ESPOSIZIONE si è la legge dialettica; ossia determinare con la lingua l'ordine del pensiero; il che apparisce anche da' nomi che si dànoo a'termio i della proposizione e del raziocinio, e al congiungimento de' termini; e poi, la bellezza dello stile dottrinale accorda il Vero col Buono. Regola perciò è: determinare coll'ORDINE DELLA PAROLA l'ordine del pensiero; in conformità dell'idee e dell'idioma, donde si traggono le regole tutte grammaticali,  e dello stile. Quindi è impossibile separare la bellezza dell ' Esposizione dalla profondità e dall'ordine del pensiero. Se non determiniamo con le parole il proprio concetto, in conformità dell'intimo legame fra i concetti, e in conformità del linguaggic, vengono gravi errori. L’INTERPRETAZIONE E L’IMPLICATURA (“He hasn’t been to prison yet”). L'Interpretazione. Argomento. In quante maniere debba determinarsi l'ordine del pensiero ALTRUI altrui. Relazioni del DISCORSO con la lingua; e perciò la sappia, chi vuolesser critico; tutti sapere ogni liogua, non si può pè giova; e allora valersi degl'interpreti migliori. Relazioni del DISCORSO con la mente ALTRUI; e perciò stare al senso letterale, quanto si puo; oon interpretare alla leggiera né cop troppo di SOTTIGLIEZZA, non alterare né i difetti né i prenj; badare AI FINI che il testimone o lo scrittore SI PROPONEVA – “what he meant, not what he means!” -- Relazioni del DISCORSO con l' animo ALTRUI; e pero guardare alla capacità e alla veracità con argomenti intrinseci ed estrioseci;: nè la capacità negare, preoccupati da un'idea; nè, per la veracità, eccedere ne' due vizj opposti d'una Critica adulatrice o caluoniatrice. Relazioni con la Società umana; e però con l'incivilimento,  con la Religione, con l ' uniune delle prove. Sunto, Metodi secondo le varie Discipline.  Metodi speciali. Perchè i Metodi si distinguono secoudo le Discipline varie?  Quanti sono i Metodi speciali, che procedono dalla relazione varia degli oggetti con la mente? Ogni errore sostanziale di Metodo procede da un errore su detta relazione. Gli errori de' sistemi sul Metodo, esaminati, rendono testimonianza tutti insieme alla vera dottrina. La distinzione de' Metodi è necessaria pell'Arte del Vero, come si distinguono l'Aiti speciali nell'Arte del Bello;  e chi oega la differenza de' Metodi, pega implicitamente esplicitamente una qualche verità; come nell'Arti Belle, 8. cosi nell'Arte dialettica. 9. Connessione de' Metodi;. 10. e ciò si vede anco nell' Arti del Bello. Hl. Ma la connessione non toglie poi la distinzione, 12. secoudocbė il rispetto delle verità mediane o collegatrici diversifica; 13. onde bisogna rispet tare la varia competenza nelle Scienze diverse; 14. beocbe uno Scienziato possa partecipare di più Scieoze. 15. Sunto. - 16. La confusione de' Metodi è coutro il progresso della civiltà. Cap. XLII. Metodo degli Studj religiosi. 1. Argomento. 2. Proprietà del Metodo negli Studj re ligiosi. – 3. Metodo storico circa i fatti; – 4. e guardare do v apparisca propriamente la loro Storia. 5 Metodo joterpre tativo circa i fatti, -6, e le dottrine, 7. Metodo filosolico circa la possibilità razionale de' fatti dividi, 8, e come gli . 505 - Avversarj neghino irragionevolmente questa possibilità; 9. poi, circa la razionale convenienza in genere de ' fatti divini, ma esclusa sempre la necessità; - 10. poi ancora, circa la ra zionale convenienza in ispecie, cosi de preliminari della Fe de, 11. come nelle Verità misteriose. 12. Unione del Metodo filosofico, dell'interpretativo e dello storico, per le origini del Culto e per la sua universalità nel tempo, 13. per le sue relazioni universali con le Scienze e con l'Arti, 14. con la Civiltà intera, - 15. e con tutti gli altri Culti. Metodo teologico si distingue dagli altri Me. todi e vi s'accorda.. Pag. 342 1. Argomento. 2. Il Metodo teologico si distingue dal filosofico, perchè muove dall'autorità, – 3. perchè risguarda il soggetto medesimo in un rispetto differente, 4. perchè, quantunque abbia io sè una parte filosofica, non è meramente filosofico. 5. Si distingue dal Metodo critico e filologico, percbė storicameote e ioterpretativamente riconosciamo cause sovrunane, l' Intelletto sovrumano, tini soprannaturali. 6. Si distingue dal Metodo matematico, perchè risguarda la libertà divina e l'umana ne' fatti religiosi. – 7. Si distingue dal Mo todo fisico; e tal distinzione ha importanza eguale pe' Teologi, che non debbono considerare come il mondo è fatio, - 8.6 pe ' Fisici, che non debbono considerare come il moodó fu fatto. 9. Il Metodo teologico s'accorda poi col filosofico; perchè il Teologo non deve separare mai l'attinenza fra Teologia e Filo sofia che porge a quella le verità prelimioari, l'analogie razio nali e l'ordinamento; - 10. pè il Filosofo deve mai separare l'attinenza tra Filosofia e Teologia, che rende più autorevoli o efficaci le verità razionali. – 11. II Metodo teologico s'ac corda col critico, perchè il Teologo ha bisogno di guardare alla Storia universale e alla Linguistica; — 12. il Filologo ba bi sogno diguardare alla Storia religiosa e ai monumenti sacri. 13. S'accorda col matematico, per la severità del ragiona mento, per molti esempj, per molte dottrine fisicomatematiche, per l'evidenza del concetto d'infinità. – 14. S'accorda col fisi co, perchè il Teologo non deve mai tenere la scoperta di cose na - 15. pė il fisico deve spregiare la verificazione delle ipotesi, secondo le narrazioni sacre. 16. Sunto. Metodo della Filosofia.... 361 1. Argomento. — 2. Proprietà del Metodo filosofico. – 3. Raccoglimento nella coscienza. 4. Esame de' fatti interni, delle loro leggi e cause. turali; - - 5. Delle relazioni con gli oggetti; 6. e però avvi una parte del Metodo, asceosiva da'fatti agli oggetti stessi, e una parte discensiya dagli oggetti a ' fatti. -7. Si distingue dal Metodo teologico, e dal critico o filologico: 8. dal matematico, per la natura de' concetti, la natura degli oggetti; – 10. dal fisico, per la natura de' fat ti, e per le relazioni loro con gli oggetti, 11. e quindi per la ricerca delle classi loro, e leggi e cause, e per i priocipi della ragione. - 12. Si accorda col Metodo teologico per l'esa 9. e per . - me della coscienza; 13. col critico o filologico, per lo stu. dio dell'umana natura pe' fatti umani esteriori e nelle lingue; 14. col malematico, per la speculazione di verità con ma teriali; – col fisico, per l'altigenze fra le cose intellettuali e le corporee. 16, Sunto. CAP. XLV. Metodo della Filosofia Civile.... Pag. 381 1. Argomento. — 2. Proprietà del Metodo nella Filosofia Civile. Questa si fondi sopr'i fatti, – 3. badando alla notizia loro precisa e al collegamento loro. 4. Studio delle cagioni; ma fuggendo di prendere l'analogie per identità. - 5. Esame delle cagioni esteriori ed interiori, non separabili, ma distinte. - 6. Le cagioni interiori hanno più importanza: 7. ma senza trascurare l' esteriori. - 8. Si ascende alle leggi o ragio ni. Leggi supreme della Scienza storica, della Politica, della Giurisprudenza, dell'Economia. - 9. Le dette leggi non tol gono la libertà, - 10. come la libertà non toglie alle conse guenze proprie la necessità; 11. tantochè in ciò risplende l'ordine della Provvidenza. – 12. Dopo l'esame induttivo delle cagioni e leggi può farsi la deduzione, o probabile o necessa ria, di ciò ch' è avvenuto e che può avvenire. 13. Questa Filosofia delle ragioni o leggi, che governano le nazioni, non può trascurare il procedimento storico; ma neppure si può, per questo, trascurare la teorica di quelle. - 14. Talchè la Scienza civile ha due presupposti, la Storia e la batura. –15. Però il Metodo suo si distingue da ogni altro, 16. e a tutti si upisce. Metodo critico nella Storia. 401 t. Argomento. – 2. Esame de' fatti, Discipline che aiutano in ciò la Storia: Cronologia e Geografia, – 4. Archeo logia, Diplomatica, Statistica, Archeologia preistorica, Etno grafia. 5. Come si può andare in eccessi con queste disci pline. - 6. Ipercritica. – 7. Esame delle cagioni; e iodi lo Storico rifà la Storia entro di sè. 8. Cause finali, 9. particolari, generali, 10. psicologiche, A1. divine. 12. Oggettività della Storia; 15. e come ciò la renda bel lissima e ammaestrativa. – 14. Come lo storico si distingua da ogoi altro Metodo; 15, e vi si accordi. 16 Sunto, CAP. XLVII. Metodo critico nella Linguistica. 420 1. Proprietà del Metodo interpretativo delle Lingue. 2. Raccolta ed esame de' vocaboli. – 5. Come bisogna valersi dell ' uso proprio nelle Lingue parlate, e come giovino i testi moni dell'uso. A chi ricorrere per lo Lingue morte. Grammatica poi determina le classi e le leggi de' vocaboli, 5. Avvisi necessarj a far bene la Grammatica. – 6. Io che con siste la Filologia comparata. – 7. Utilità di essa, e da quali estremi bisogna fuggire. 8. Il fine dell'esame filologico è interpretativo principalmente; – 9. e ciò ne determina i con fini, i modi, 10. e le relazioni; che sono massimamente due: con la Letteratura, 11. e con la Storia, - 42. E iodi anche vediamo le indirelle relazioni della Linguistica; cioè con 4. La ca, la Teologia. 13. con la Filosofia, 14. cop la Matemati 15. e altresi con la Fisica, sempre distinguendosi da tutto ciò. 16. Sunto. Metodo matematico... Pag. 440 1. Proprietà del Metodo matematico. – 2. Quantità pore, cioè astratte da ogni altra idea. – 5. Nel che, poi, bisogna di stinguere fra l'insegnamento elementare ed il superiore. 4. Si cerchino le ragioni, sgombre da ogo' idea straniera. 5. Idea dell'Infinito, distinto dall'indefinito matematico. - 6. Il Cavalieri. – 7. Distiozione dal Metodo teologico, - 8. e relazioni con esso; dal Metodo filosofico: e accordo con la Logica, onde l'insegnamento della Matematica è razionale, 12. Distinzione dal Metodo critico, segnatamente dal letterario, 13. e accordo. - 14. Relazione col Metodo fisico. 15. Come le dimostrazioni matematiche abbian virtù di assestare gl'intelletti, e anche possano dissestarli.. 16. Sunto. Metodo nelle Scienze fisiche. Argomento. Proprietà del Metodo nelle Scienze fisiche, - 2. Prinia d'indurre si comincia dall'Analogia; 3. cbe talora non può giungere all' Induzione, 4. Può essere fonte di errori; o del troppo generaleggiare, 5. o del poco. – 6. Essa è di molta difficoltà. 7. Regola da tenersi. – 8. Indu zione. Uffioj del senso e dell'iotelletto. 9. Ci solleviamo alle 10. alle cause, - alle leggi, 12. e però al. l'ordine. Doppio errore de' Sensisti e degl ' Idealisti. 14. Frantendono allri la luduzione, ch'è legittima e necessa ria, 15. e da cui siamo condotti alla Deduziune. Suato. Cap. L. Segue del Metodo fisico; e Ordine fra le Scienze.. 479 classi, 16. 1. Argomento. – 2. Abiti che prende la meote per gli Studi fisici. – 5. Idem. 4. Necessità di mantenere l'ordine fra le Scienze. - 5. Guai, se la Fisica è usurpativa. Confusione della Fisiologia con la Psicologia: – 6. de' fatti esteriori con fl'interiori. – 7. Confusione di linguaggio, e dogmatismo. 8. Si confondono i bruti con l'uomo; – 9. la volontà con gli atti meccanicamente determinati. – 10. Si distingue il genere umano in più specie, poi si pongono le trasformazioni di tutte le specie; -- 11. si confonde l'ordine de' fini col piacere • con la materiale utilità. - Abiti cbe prende l'intelletto per gli Studj religiosi; Filosofia; - 14. per le Matema. tiche; - 15.per la Gritica. 16. Conclusione generale. STORIA DELLA FILOSOFIA ROMANA. Epoca dell' èra pagana. Civiltà degl' Italici. Successione dei loro sistemi.. Scuole italiche. Sistemi latini. CICERONE Giureconsulti romani.  CIVILTÀ DEGL'ITALICI. SUCCESSIONE DE'LORO SISTEMI. Tre tempi dell'incivilimento italici; i l'elasghi, la trasformazione loro negli Elleni, le colonie. - Il terzo è più nolo; quali sono i suoi termini. Cinque cagioni più principali dell'unione fra la civiltà orientale e l'italica: colonie, commerci, viaggi, lingue, tradizioni. Tre opinioni sopr’esse; tutto dall'oriente, nulla e opinione media. Dipendenza non generica nė volgare della filosofia italica; daʼsistemi orien tali. La civiltà jtalica fiorisce primamente dove più vive le comunicazioni con l’Asia e dove più ricco un anteriore incivilimento. l'ero quest'epoca si chiama oriental italica. Questa è un'età di passaggio, fra le qualità orientali e il tempo socratico. Si veda le attinenze lia filosofia italica religione e civiltà. Quanto alla religione sacerdotale, se n'ha indizi per le memorie de ' Pelasghi, de ' Misteri e degli Orfici. Celebre passo di Erodoto sulla religione de ' Pelasghi, e sul nome degli dèi posteriori ec., e conseguenze di ciò. Somigilianze tra la religione pelasgica e quella de' Bragmani. Misteri: quelli di Samotracia istituiti da 'Pelasghi; domma che s'insegnava segretamente e molto simile al panteismo dell'India. Ciò pur anche ne’ misteri eleusini; panteismo naturale, metempsicosi, immortalità, purificazione. - La teologia d’Eleusi non può interpretarsi solamente in senso fisico. Testi monianze di lode que' Misteri pel domma sull'immortalità. Le due anime; anch'in Omero ec. – Gli Orfici: qualcosa di storico v'è circa Orfeo, benché con mistura di simbolo.-- La dottrina che va sotto il nome d'Orfeo si raccoglie da tradizioni antiche e da'versi orlici. Le tradi zioni attribuiscono a Orfeo una religione collegata poi a'Misteri eleusini: cosmogonie orliche, somiglianti all'indiane. Quanto a'versi orlici, que sli non appartengono a Orfeo; ma parecchi son certamente molto antichi. Da varj ioni (che si riferiscono qui, apparisce il panteismo naturale come ne ' Vedi. Passi che fece la religione tra l'Italogreci: panteismo natu rale con molte tracce del Dio unico; adorazione degli astri, massime nel volgo; teogonie, o emanazioni sempre più specificate e che prendono attri boti e nomi distinti; individuazione ultima e volgare del politeismo, specie per opere degli artisti e de' poeti, abbandonando quasi ogni simbolo. Memorie sul combattimento fra le religiose tradizioni e il politeismo cre scente. - La filosofia, dunque, prima sacerdotale; poi sacerdotale e laicale ad un tempo; cedè inline al politeismo, rispettandolo, se non altro, come apparenza o credulità popolare. — Questo resistere al male, e poi cedergli, si vede ancora per l'altre parti della civiltà italogreca. La filosofia venne preparata da molte cagioni, e però dovè fiorirvi assai presto, anzi chè cominciare a' tempi di Talete molto dubbiosi. - La filosolia mosse da un ritorno sulla coscienza morale Questa filosofia morale e religiosa fiori, prima di Taleto, non solo in Italia ma tra gli Ionj pur anco; e se n'ha prove non dubbie. La cuola pitagorica precedeva Talute; ma va di. slinto Pitagora dal Pitagoresimo. - Molti argomenti di fatto e molte auto rità per mettere in saldo le antiche origini di tal filosofia. Anche la scuola di Xenofane antecedė Xenofane stesso; e quindi abbiamo, prima il Pitagoresimo, poi la scuola cleatica e l'ionica, infine i sistemi negativi. L'epoca dell'incivilimento italogreco si può distin guere in tre tempi; de Pelasghi (o con qual altro nome si voglia chiamare que' popoli primitivi); della trasforma zione di essi negli Elleni; delle colonie. L'età de' pelasghi o degl’antichi abitatori d'Italia si perde nella notte de’ secoli, ignoto il principio e la durata. È certo bensì, che quegl’abitatori vennero d'Oriente, come se n'ha prova in tutte le memorie e ne’ linguaggi e nelle reliquie dell'arti, e che i pelasghi, quantunque paruti barbari a Ecateo e ad Erodoto e di barbaro dialetto, sono la più antica sorgente e più copiosa delle genti e lingue e religioni elleniche (Balbo, St. d'It.; Cantù, St. univ.; Guignaut, note al Lib. IV del Creuzer, Rel. de l'antiquité. Sembraron barbari, perchè reliquie di popoli più segregati allora da'popoli nuovi, già molti passati avanti. Fatto è che di là, ove i pelasghi abitarono, fan derivare i greci la civiltà loro, dall' Elicona, dall'Olimpo e dal Pindo. Accadde poi e IN ITALIA un cozzo di popoli. Qual cozzo, e di che popoli, è molto incerto agli eruditi. Ma questo si sa, ed Erodoto l'afferma più volte, che al lora con trasformazione lunga e tempestosa i pelasghi si convertirono in elleni. Viene poi l'età delle colonie; un rovesciarsi di genti greche le une sull'altre, un invadere, un esulare, e indi un propagarsi di colonie, prima nell'Asia minore e nell'isole, poi nella Calcide, nell'Eubea, in Sicilia e SULLE COSTE D’ITALIA, e infine (propag gini di colonie da colonie) in Asia, in Tracia, sul Danubio e nel Mar Nero. Questa terza età è propriamente storica. Dell'altre due il più va ingombro di favole. La terza comincia, secondo l'Hofler assai temperato nelle cronologie, sul secolo undecimo avanti l'èra nostra. (St. Univ.) In un'età così lunga e operosa, e ch’ebbe così lunghe e ricche preparazioni, si forma la civiltà e FILOSOFIA DEGL’ITALICI -- la quale, svolgendosi nelle colonie d’ITALIAe dell'Asia minore, cedè poi al primato d' Atene; onde comincia una seconda età di filosofia. Nell'epoca di che si parla ora, in ogni tempo del l'epoca stessa, cinque cagioni principalmente mantenevano unite la civiltà orientale e l'ITLICA; colonie, commerci, viaggi, lingue, tradizioni: Le colonie, nè dico solo l'egiziane di Lelege, Danao, Cecrope ed altri, ma le prime venute dalla terra degli arii e de' persiani, e l'ultime ellene che si spargevano per l'Asia minore; i commerci, che com’appare in Omero, non cessarono mai tra ITALIA e le coste dell'Asia. I viaggi per l'Oriente, non possibili a negare in tutto, de FILOSOFI d'allora, come Ritter non nega quelli di PITAGORA A CROTONE, Ritter negatore sì voglioso. Le lingue, che certo prendevano gl'inizj degli Orientali, e con le lingue le tradizioni d'ogni maniera. Tra queste, principali le religiose, in torno a cui son tre le opinioni: da Erodoto fino a Creuzer la mitologia ITALICA, la greca segnatamente, si reputarono di provenienza orientale e il più egiziana. Ma poi Müller, Voss e altri riferirono tutto ad origine greca. Guignaut (Note al Crcuzer) ed altri con lui tennero finalmente l'opinione media. E questa si è che i germi delle credenze religiose si trapiantassero d' Asia com'anco radici e forme generali delle lingue; ne può pensarsi altrimenti, dacchè ivi coabitarono un tempo le genti ellene: ciò non impedì, nè mai l'im pedisce uno svolgimento di proprie fattezze così nelle lingue come nelle religioni: all'età poi delle colonie, quand' elle si sparsero sull' Asia minore, per l'Egeo e nel Ponto Eusino, dalle comunicazioni fra loro e i vicini orientali scaturi la fonte più copiosa d'idee e di simboli asiani, manifesta già in Esiodo ed in Omero.  Talchè (ponete mente, o signori), se lo spargersi di colonie nell'Asia minore avvenne dall’undecimo all'ottavo secolo incirca, e nel con tinente poi d'ITALIA e di Sicilia dall'ottavo al sesto, que st'ultimo fatto s'incontra per appunto col ritornare delle tradizioni orientali fra gl’elleni, e ne sorge in mezzo la filosofia nuova degl'ITALICI. Non istarò dunque a disputare com’essa deriva più o meno da’sistemi orientali, bastandomi ch'ella dipende per fermo da molte tradizioni d'Oriente o per le origini delle schiatte o pel riaccostarsi loro all'Asia. Che tal dipendenza poi de' popoli d'ITALIA, nazione antichissimamente civili e nella civiltà loro pertinaci, possa credersi affatto generica e volgare, cioè senz'efficacia sull'educazione speculativa, giudicatene voi, o signori, che pur vedete gli effetti odierni del comunicare le nazioni fra loro. Dove fu egli il primo fiorire della civiltà ITALICA? nelle colonie d'Asia e di Magna Grecia. Non già in Grecia propriamente detta. Perchè mai, o signori? La ri sposta non par malagevole. Prima che in Grecia, fiori la civiltà negl'Ionj dell'Asia minore, appunto perchè più vicini all'Asia media, sorgente de' popoli e della civiltà; e prima pure che in Grecia fiorì nella Magna Grecia, cioè in ITALIA, perchè ivi più forse ch'altrove ra dicò la civiltà pelasga, e perchè le tradizioni che fanno ionio Pitagora e ionio Xenofane, venuti tra noi, dan segno come frequenti e vive fossero le comunicazioni tra LE COSTE ITALIANE e l ' Asia minore. Dico poi, ad ogni modo, che le colonie greche trovarono in ITALIA grandi semenze di civiltà, nè però ebbero impedimento, anzi ebbero aiuto a presto incivilirsi e prosperare. Di fatto recatevi a mente, o signori, due cose molto important. Prima, che le tavole d'Eraclea, lette dl Mazzocchi, fan prova come i coloni greci prendessero dagl'ITALIOTI misure e confinazioni agrarie. Seconda, che i Lucani, i Bruzj, i Sanniti, dopo essersi ritirati davanti alle colonie greche, e riparatisi a’ monti, ne discesero poi, e le ributtarono (Hofler), talchè più non resta in ITALIA dialetti greci (in PUGLIA ve n'ha, ma di colonie recenti e fuggite dai Turchi); la qual cosa non poteva accadere, se que'popoli montanari non serbavano istituti civili. Ecco il perchè ho chiamato quest'epoca orientalita logreca (italogreca ITALIOTA per più brevità); greca, perchè filosofia di colonie greche; ITALIANA perchè sorse più splendida in ITALIA e con tradizioni italiane (italica chia marono pure i Greci, come Platone ed Aristotile, la scuola pitagorica e di VELIA); orientale, perchè con origini e comunicazioni asiatiche. Non si toglie a' Greci la loro eccellenza ' se notiamo quel ch ' essi appresero; offenderebbe la verità e loro chi loro negasse la mira bile potenza di far proprio l'imparato e di dargli bellezza e compimento; essi il ricevuto per dieci lo ridussero a mille e quel mille lo insegnarono al mondo; ecco la lor gloria vera e non superata. Quant' all'ITALIA nostra, o signori, principalmente sul terreno di lei sorse co' Pitagorici questa filosofia nuova che tanto potè su Platone e sopr’Aristotile. L’ITALIA ricevè dal 1 ° Oriente e da’Greci, l’ITALIA poi restituì alla Grecia e alla civiltà de' secoli avvenire; e potè dirsi allora quel che poi disse PLINIO. Omnium terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa, una cunctarum gentium in toto orbe patria. Ma le lodi antiche suonano vituperio a’tra lignati: avvaloriamoci, o signori, d'emulazione e di virtù, e non di lode. E quest'epoca, di fatto (come dissi altrove), è un'età di passaggio; ritiene ancora le qualità orientali, ma che mostrano già di convertirsi nell'altre dell'età socratica. Così tra gl’ITALIOTI come tra gli Asiatici, abbiamo un sistema religioso sacerdotale; ma ora si nasconde ne' misteri, e si separa perciò interamente dalle credenze popolari che prevalgono. Tra gli uni e tra gli altri la filosofia dipende dal sistema religioso. Ma ora si svolge in un modo più laicale e più da sè stesso, perchè così ri chiede la mobilità di quelle repubbliche, e perchè il sistema religioso si rimpiatta, e nè ha sull'invecchiare il vigore speculativo degl'inni e commentarj vedici; par come un'eco de' tempi passati, più che voce vivente. E siccome la filosofia di quest'epoca pigliò i germi da' misteri (Ritter), che hanno del panteismo orientale, così ell'hanno del panteistico a mo' degl'Indiani, ma con tendenze più manifeste alla DIALETTICA che va per distinzioni anzichè per confusioni. Poi, qui come là s' unì la poesia con la speculazione, ma più altresi se ne distinse; perchè i poemi omerici non furon mai ravviluppati con una enciclopedia d'episodj. Ed i poemi scientifici di VELIA (il Sulla Natura di Parmenide) e di GIRGENTI (il Della natura di Empedocle) s'accostano alla prosa. E qui come là v'è ncertezze storiche, meno per altro. Giacchè il più delle incertezze cadono su' misteri e sulle origini pitagoriche, non già sulle scuole posteriori. Premesso ciò, si veda, o signori, qual fosse in attinenza con la filosofia la religione e la civiltà degl'ITALIOTI. Della religione, come sistema sacerdotale, me ne passerò più breve che non feci per l'India, giacchè (com ' ho detto) quel sistema era sul morire, e se n'ha meno ragguagli e meno certezza. La religione sacerdotale ITALIOTA si può ricercare in tre modi: per le notizie assai oscure dei Pelasghi, i quali tennero idee religiose più primitive e più vicine alle orientali; per le notizie scarsissime de' Misteri; per quelle degli Orfici. Essi e l'origine de' Misteri appartengono, credo, all'età di combattimento e di trasforma zione. Quanto a’ Pelasghi, Erodoto scrive che da loro non si metteva nome agli dèi; aggiunge che i nomi vennero d'Egitto e che i pelasghi non li volevano accettare, sì ne rimisero la decisione all'oracolo di Dodona, riuscito favorevole a que' nomi; e dice infine che le nascite e le forme e gli aspetti degli dèi vennero cantati da Esiodo e da Omero; tutte cose già ignote. Vuol notarsi com’Erodoto accenni pure che un simbolo osceno gli Ateniesi lo presero da’ Pelasghi, i quali ne spiegavano il senso ne' Misteri; e sappiamo di fatto che pure ne' Misteri eleusini e bacchici si mostrava i simboli femminili e maschili secondo i riti d'Oriente. Erodoto, uomo schietto, n'avvisa che il narrato da lui circ' a ' Pelasghi glie l'avevano appreso le sacerdotesse di Dodona, ma che il resto, circa le invenzioni d'Omero e d' Esiodo, lo diceva di suo. Che cosa si raccoglie, o signori, da questo luogo così famoso? Primo, che la religione de' Pelasghi era più delle succedute lontana dal politeismo; secondo, che quella si rappresentava co'sim boli orientali della generazione divina e però ne teneva i principali concetti; terzo, che il passaggio dalle divi nità innominate alle nominate, cioè da un che meno pagano ad un più, non accadde senza contrasto, e indi si ricorse agli oracoli; quarto, che tenuto il simbolo antico ed esteriore, la sua spiegazione si fece nell'in terno de' Misteri; quinto, che i nomi si suppongono venuti d'Egitto in età più recente, perchè all' Asia media non s'imputavano queste tradizioni; infine che Erodoto reca l'antropomorfismo ad invenzione di poeti, non perchè già tal errore non fosse cominciato popolar mente, ma perchè que' poeti l'ordinarono (più o men di proposito) in sistemi di mitologia, ed in modi specificati. Che poi la religione pelasgica somigliasse quella de Brag mani lo attestano Ferecide e Acusilao in Strabone (Ed. Sturz ); dicendo che i Cabiri, divinità pelasgiche, son generati da Efesto e Cabira, e che sono tre Cabiri maschi e tre femmine. (Creuzer ) Venendo a’ Misteri, abbiamo da Erodoto, non solo che i Misteri di Samotracia venissero istituiti da' Pela sghi (II, 5), ma (com’abbiamo sentito ) che altresì nel l'interno di quelli si spiegasse i simboli esterni. Come si spiegavano essi? Apollonio di Rodi serbò del vecchio storico Mnasea un luogo prezioso circa i dommi primi tivi di Samotracia. (Schol. Apoll. Rhod. ad 1, 917.) Che dommi, o signori? Similissimi a quelli dell'India. S'in segnava, di fatto, un principio onnipotente, Azieros; la materia fecondata, Aziokersa, o principio passivo; e il principio attivo, fecondatore, Asiokersos. Vuol egli dir ciò che il principio attivo ed il passivo si distinguono dall'essenza universale, Azieros o Brahm? 0 piuttosto (giacchè l' interpretazione di que' nomi non è certa ), Aziokersa, Azieros, Aziokersos e Casmilo o Cammillo che da taluno s'aggiungeva secondo Apollonio, rispon dono a Maya, a Brahma, Visnù e Siva, taciuta l'essenza universale, il Dio neutro, come non si nomina il Dio supremo nel Rig Veda? tanto più che Casmilo rispon derebbe, l'afferma Dionosidoro, ad Ermete cioè al Dio delle trasformazioni. Comunque, nell'incertezza de' docu menti tal cosa è certa, il domma samotracio mostrare analogie non poche col panteismo vedico e con la Trimurti. (Saint Croix, sur le Mystères du Paganisme; Creuzer, V, 2. ) E risponde non meno a quel panteismo la dottrina samotracia dell'età varie mondane, o che il mondo si distrugga e rinnovi per forza di fuoco. Anche ne' Misteri eleusini s'esponeva la dottrina d’un principio passivo, d'uno attivo, dell'armonia mon diale che ne nasce, e di ciò che distrugge le forme senza intermissione. Bacco, Cerere, lacco e Mercurio, ossia grecamente Dionisio, Demeter, Iacco ed Ermete, non ritraggono forse, o signori, i sistemi dell'India, del l'Egitto e della Persia? E forse su quelle divinità è, innominato, il Dio androgeno, o il Cronos e lo Zeus de' tempi remoti, divenuto poi un principio maschile, contrapposto a Giunone principio femminile. Di que' Mi steri non si sa i particolari, vietato rigorosamente il propalarli, come dice Pausania (art. Beozia) e Apollodoro (Argon. I), e come dimostra il Meursio (De Festis Græcorum). Pure, da'cenni dell'antichità si ritrae che insegnavasi nell' orgie il panteismo naturale (com’ho detto di sopra), e la metempsicosi, e l'immortalità del l'anima (forse col ritorno all'essenza divina), e la puri ficazione per mezzo della virtù. Il panteismo naturale viene indicato da CICERONE (De Nat. Deor.), che diceva: come le dottrine de'Misteri eleusini, ridotte a termini di ragione, si conosce meglio per esse la natura delle cose che quella degli dèi. Che vuol egli dire? CICERONE accusa di dottrina neramente fisica gli Eleusini, che la teogonia confondevano, in realtà con la cosmogonia, e ciò accade nel panteismo naturale. Prova, dunque, tale accusa, e viene confermato da molt' indizj, che la religione d' Eleusi somiglia il panteismo de' Vedi; di fatto, che si trattasse d'una fisica soltanto, o senza vedervi dentro la divinità o un che superiore alla natura esterna ce lo vieta lo stesso CICERONE. Egli scrive nel II “De Legibus”, che i Misteri eleusini s ' hanno da riguardare come il massimo beneficio d'Atene, perch'insegnano a viver lieti e a morire tranquilli nella speranza di vita migliore; cosa ripetuta da lui nelle Verrine, V. Dice Platone (Fedone) che l'iniziarsi a' Misteri purifica i cattivi, e dà a'buoni felicità eterna, cioè un'abitazione comune con gli dèi dopo la morte. Isocrate afferma (Panegirico) che i Mi steri mettono in cuore agl'iniziati le più dolci speranze quant'alla fine di questa vita e quant'all'altra che non finirà mai. Che poi gl'iniziati s'ammaestrassero alla virtù si ha da molti argomenti; e il Meursio dimostra che quelli si preparavano a’ Misteri con gli esercizi di castità, e poi si credevano astretti, quasi da sacramento, a rendersi migliori. Così Aristofane (Rane) mette in bocca a un coro d'iniziati queste parole: « Il sole e una luce aggradevole sono per noi che onoriamo i Misteri e osserviamo le regole della pietà verso i forestieri e verso i cittadini. » Però que' Misteri si chiamavan teleti (7: ) ett ), giacchè da loro veniva la perfezione della vita. Va notato che la me tempsicosi s' univa col domma dell'immortalità in que sto modo: credevano gli antichi che il principio animale, principio di vita e di senso, distinguasi sostanzialmente dal principio intellettivo; e che l'uno, cioè l'animale, passi di corpo in corpo, ma l'altro se ne sciolga dopo alquanti giri di secoli e in premio del vivere onesto, ritornando all'essenza universale o divina. Però si di stingueva in Persia il fervéro o genio dall' animazione, e in China Hoen da Pe, e tra gl’Indiani atma e pran, e in Grecia il démone (dzepov) o anche logo da psiche, e tra’ ROMANI “animus” da “anima”. Quindi l'anima sensitiva s'immaginò non altrimenti che come materia sottilissima, e che, divisa dal corpo, ne teneva le apparenze, erane lo spettro od il fantasma, vagante nelle notti e intorno a' sepolcri. Tal distinzione si vede pertino in Omero, allorchè Ulisse approdando a'Cimmerj inter roga i morti (Odiss.): « D'Ercole mi s'offerse alfin la possa, Anzi il fantasma; però ch'ei de' numi Giocondasi alla mensa, e cara sposa Gli siede accanto la dal piè leggiadro Ebe, di Giove figlia e di Giunone. » La terza fonte di notizie, cioè le memorie orfiche, non vanno soggette, o signori, a tanta perplessità, e può trarsene qualche costrutto; purchè evitiamo così la co moda credulità come l'eccesso de critici. S'è giunti a du bitare d'ogni realtà storica ed antica rispetto ad Orfeo; ma, quantunque la parte storica si frammischi a' por tenti della favola, e un nome (al solito) rappresenti le dottrine e i canti di più, nondimeno qualcosa di reale e d'antico vi ha; perchè Ibico (in Prisc.) che fiorì presso al 550 prima di Gesù Cristo, già ram menta Orfeo; lo rammenta Pindaro (Pith.), anzi lo chiama padre de canti apdov Tr UTEP (Ott. Mül ler, St. della Lett. Gr. ); lo rammentano ancora gli an tichi Ellenico e Ferecide e le tragedie ateniesi. Da molti luoghi di Platone (Leg. VIII; Ione, Convito, Rep. 11) apparisce che a tempo di lui eran divulgati già molti carmi col nome di Museo e d’Orfeo; questi è citato nel Filebo e nel Cratilo; e si scorge che l ' espiazioni de’de litti appartenevano alle discipline orfiche. La dottrina che va sott' il nome d’Orfeo si racco glie da tradizioni antiche e da versi orfici. Quanto alle tradizioni antiche, elle attribuiscono tutte ad Orfeo una religione, che istituita da lui si collegò quindi a Misteri d'Eleusi (Müller): e ciò conferma il già detto sulla natura di quel sistema religioso. Si rileva poi dagli antichi scrittori un sistema orfico di cosmo gonia, benchè sotto più forme, e talora v'han messo la mano autori dell' èra cristiana. Creuzer ne dà cinque di tali cosmogonie; rilevantissima quella di Ferecide Siro, pel quale son tre i principj Zeus o Giove o Cronos o l'etere, il Caos o massa inerte ch'egli vivifica, il Tempo o la durata senza limiti. E qui voi scorgete, o signori, l'indefinito ch'è concepito nell'astra zione del tempo (come tra’ Persiani ), e dall'indefinito i due principj, l'attivo ed il passivo. Nella cosmogonia che viene riferita da Atanagora e da Damascio, v’ha l'idea indiana dell' uovo nell'acque, da cui esce Eros o Fa nete, amore o manifestazione dell'armonia universale; e tal idea orfica viene rammentata negli Uccelli d'Aristofane. Il mondo, poi, si rinnova per bruciamento (co me secondo Eraclito, gli stoici, gl'Indiani e l'orgie eleu sine), in virtù di Dionisio corrispondente a Siva. (Creuzer) Mi pare che il Maury ottimamente riduca le teogonie o cosmonie orfiche a questo: Cronos genera i due principj, l'etere e il caos; il caos in virtù dell' etere prende la forma d'uovo, avviluppato dal l'erebo o dalla notte, cioè dalle tenebre primitive, a cui segue la luce o l'amore, quando l'uovo si spacca, ossia quando il germe involuto si svolge nelle sue parti: queste le idee più principali che risultano dal paragone de' più antichi testimoni. Ma i versi che ci restano sott'il nome d’Orfeo, son essi autentici? Aristotile e Cicerone negarono già che i versi propalati fin d'allora come d'Orfeo gli apparte nessero; e più n'è dubbio a' dì nostri, perchè nei primi secoli dell' èra volgare molti documenti si rimaneggia rono, e molti se ne invento. Ma dice Mullachio (Fragm. Phil. Græc., ed. Didot. Parisiis): Plerique ver sus puroque et simplici sermone insignes sunt; talchè, considerata la purità e il fare antico di molti versi, e il riscontro di varie testimonianze. ond' essi ci sono tramandati, e l'accordo loro con le tradizioni vetuste, possiamo affermare che quelli senz'essere forse d’un poeta che si chiamava Orfeo, sien per altro reliquie vere degli Orfici antichi. Udite l'inno insigne alla Natura, tradotto dal Cantù nella Storia universale e riferito negli Schiarimenti (Tauchnitz): « Natura, diva madre universale, in tante guise madre, celeste, venerabile, molto creante spirito (o cuor ), regina che tutto domi indomata, tutto governi, in tutte parti splendi, onnipossente, ve nerata in eterno, divinità a tutte superiore, indistrutti bile, primonata, antichissima,... comune a tutti, sola, incomunicabile, padre a te stessa senza padre, che per maschia forza tutto sai, tutto dài, nodrice e regina di tutto; feconda operatrice di quanto cresce, di quanto è maturo dissolvitrice, delle cose tutte vero padre e madre e nodrice e sostegno. Le quali ultime parole già udimmo per Aditi nell'inno del Rig Veda. Or bene, che dottrina s’asconde, o signori, ne' versi orfici? La stessa che ne' Vedi: la natura universale è padre e madre, ossia, principio attivo e passivo; ell’è divina, perchè non è la materia, sì l'essenza universale, spirito divino primo e materia prima in unità; è senza padre, cioè senza principio; è primonata, cioè generata da sè stessa con uscire all'atto dall'indefinita potenza; indi, ella è padre di sè stessa; infine, si palesa con tre divine opera zioni, genera tutto, sostiene tutto, distrugge tutto. In Clemente Alessandrino (Stro. V), in san Giustino (Co hort. ad Græc.), in Eusebio, nell'egloghe di Stobeo, in Proclo, in Porfirio e in altri si ha varj altri frammenti più o meno antichi, ma che rendono lo stesso sistema. Un inno ch'Eusebio prese da Aristobulo peripatetico. insegna qual sia l'unico genitore del mondo, comie lo chiamano i prischi documenti degli uomini,contro l'er rore antico, cioè contro il politeismo; e che Dio tiene in sè il principio, il mezzo e il fine. (Pr. Ev.) Riferirò un altro inno ch’Eusebio tolse da Porfirio (Ivi, e Stobeo, Eclog. Phis. 1, 2, 23, e Bibliot. del Didot, Framm. ec. p.6 ): « Primo e ultimo è Giove che splende col fulmine. Egli capo e mezzo, e a lui son create tutte le cose. Giove è nato maschio, Giove nato intatta ver gine. Egli sostiene la terra e l'aria stellata de 'cieli; ed è insieme re e padre d'ogni cosa e autore della loro origine. Unica forza e unico demone che governa tutte le cose, quest' unico le chiude tutte nel suo corpo regale, il fuoco, l'onda, la terra, l'etere, e la notte e il giorno, e il consiglio, e il primo genitore e nume del l'amore: contiene tutto ciò Giove nell'immenso corpo. E il capo esimio di lui e il volto maestoso irradia il cielo, intorno a cui sparge con molto lume la chioma pendente e aurea d'astri; e gli sta sull'alta fronte, a somiglianza di toro, un doppio corno che l'accende di fulgido oro. Ivi sono l'oriente e l'occidente, giri noti a' supremi dèi. Son occhi di lui il sole e la luna che corre di contro al sole. In lui è mente verace, ed etere regale non sottoposto a morte, il quale col consiglio muove e regge ogni cosa; e quella mente, perchè prole di Giove, non può essere nascosta da niuna voce o stre pito o suono o fama. Così, egli beato possiede e senso dell'animo e vita immortale, spandendo il corpo illu stre, immenso, immutabile e con valida forza di brac cio. A lui son omeri e petto e terga immani le ampiezze dell'aria; e con veloci e native penue precipitando, egli vola intorno a tutte le cose. La terra, madre comune, ei monti che levano l' alte cime, formano il sacro ven tre di lui ne fanno la zona media i tumidi flutti del mare sonante. L'ultima base che sostiene il nume, sta nell' intime radici della terra e negli ampj spazi del l'erebo e negli ultimi confini che inaccessa ed immota spande la terra. Tutte le cose egli nasconde primamente nel mezzo del petto, e poi le manda fuori nell'alma luce con opera divina. » Tra le figure poetiche non si può non vedere in quest'inni l'opera della riflessione che affaticasi di scoprire e spiegare l'attinenza fra Dio e l'universo, confondendola, per abuso d'induzione, con l'attinenza tra l'unità delle sostanze e la moltiplicità c mutabilità de'fenomeni. Non fa dunque meraviglia se Pitagorici, Eleati ed Ionj che presero gli esordj dalle dottrine orfiche e de' Misteri e però dall'antiche tradi zioni pelasghe, cadessero nel panteismo. Ecco dunque i passi che sembrano fatti dalla reli gione fra gl’ITALIOTE. Prima è un tal panteismo natu rale, in cui le divinità sono le forze della naturu; non le forze per altro simboleggiate, come interpretò poi la scuola de' Fisici (Plutarco la distinse sì bene dall'an tica scuola de' Teologi), bensì le forze naturali confuse con gli attributi divini. In quel panteismo, come nel Rig Veda, gli dèi son poco determinati: differiscono poco gli uni dagli altri; escono tutti e rientrano nel Dio unico (Creuzer, V, 4). Talche certi Padri pensarono ch'ei fosse un culto dell' unico Dio creatore, e tal culto contrapposero alla corruzione posteriore dell'idolatria; Storia della F lofint. 17 2 ill 1 ma, veramente, non può chiamarsi un teismo, bensì un panteismo naturale, dove nondimeno le tracce del l'unità di Dio si conservano così spiccate da causare l'opinione ch'io vi diceva. Però le divinità pelasghe non avevano un nome, dice Erodoto; e a dar loro un nome s ' opponevano le sacerdotali tradizioni (Ispot 20091). E come narra Platone nel Cratilo che prima si chiamò in genere 0: 9 le divinità, così cabiri le dissero i Pelasghi, ossia (forse) potenti; e ciò risponde agli dei complices o consentes degli Etruschi. Poi, questo panteismo naturale si ristrinse più par ticolarmente (e specie nel culto popolare) all'adorazione degli astri, dove più che in altro ci apparisce la po tenza di Dio: e che sia così l'attestano Platone (Fileb. e Crat. ) ed Aristotile (Met.). Allora Zeus o Giove fu proprio il cielo; e si mantenne questo nel detto volgare: Giove che fa? per dire: che tempo fa? Ma il panteismo naturale de' sacerdoti più e più si foggiò a sistema d'emanazioni, per ispiegare con modo determinato la dipendenza di tutto dalla causa prima; e indi le teogonie e cosmogonie orfiche e quella d’Esio do. Le operazioni divine, allora, ebbero nome partico lare, e vennero simboleggiate con immagini esterne; come narrai che la triade pelasga prese il nome dall'onnipo tenza e dalla fecondazione; e si sa del Giove con tre occhi in Argo (Pausania ), della Venere piramidale di Pafo, e co' due sessi (statuina nella bibliot. naz. di Pa rigi), dell' Apollo a quattro mani, del Sileno a due te ste, di una dea a quattro teste nel Ceramico d' Atene, del Giano bifronte, della Diana mammellata d'Efeso e della Cibele come informe pietra. Tutti questi nomi e simboli, a poco a poco divennero nomi e attributi pro pri di certe divinità specificate; e la Trimurti, le cui vestigia restano fin anche negli dèi omerici, Giove, Net tuno e Plutone, s'individuò per modo che l'un Dio non più si confuse con gli altri, e questi si moltiplicarono all'infinito. Però, questa individuazione favoriva il politeismo a volgare e si mescolava con esso, e n'era eccitata e lo eccitava; e ambedue si stabilirono più che mai con l'arti del disegno, che lasciati quasi del tutto i simboli, ri dusse gli dèi a forme umane, con alcune qualità pro prie di ciascuno. Un'ombra di simbolo restò, ma velata, nelle forme tra maschili e femminili di Bacco e d'altri dei, figura sacra dell'androgenia, quando s'abbandono la rozzezza dello scarabeo (Winkelman, St. dell'arte ec. ); e tal simbolo (sia detto di passaggio ) alcuni artisti vo gliono imitare quasi perfezione di membra umane e le sono immaginarie! Fatto sta che la scuola d'Egina, Polignoto, Fidia, Prassitele, imitando i poeti ebbero più ch'altro efficacia nel fermare quel politeismo di dèi spicciolati. Vuolsi por mente adunque, o signori, che da un lato restava la tradizione sacerdotale, benchè più e più cor rotta, e cresceva dall'altro il politeismo. Come restava la tradizione? Ne' Misteri; già lo vedemmo. E perchè mai dovè occultarsi? Dicono le memorie antiche, i primi re di Grecia e d'Italia fossero ad un tempo sa cerdoti, capitani e giudici; patriarcato ch'è origine d'ogni nazione. (Arist. Pol. III, 14. ) Le memorie stesse ci nar l'ano poi d'un contrasto lungo e sanguinoso tra le classi sacerdotali e le guerriere; il che apparisce anco nell'In die; ma se ivi le liti si composero stabilmente, fra gl'Ita logreci al contrario scapitò la classe sacerdotale che (l'accennano i racconti circa Erettéo e gli Eumolpidi) si dovè segregare in alcuni luoghi, come Eleusi, lasciando a' re tutto il resto; e così, a poco a poco, e tanto più quando sorsero i governi popolari, s'abbandonò l'inse gnamento religioso e restò solamente i riti esteriori del sacrifizio e delle feste. Quell'insegnamento, dunque, escluso da ' popoli, rifuggivasi nel mistero, in que'luoghi appunto che la classe sacerdotale abitò, com’Eleusi e i sacri querceti di Dorona. E che fa intanto la filosofia? Ella è sacerdotale dap prima, o teologia, perchè tenute le tradizioni asiatiche, cresce nel sacerdozio pelasgo ed orfico; poi, nell' età che  > il sacerdozio si separa e s’asconde, dalle semenze reli giose de' Misteri germogliano i primi sistemi come i pi tagorici, che han del sacerdotale e del laicale ad un tempo. Questa filosofia, perciò, combattè dapprima il politeismo, per esempio ne' frammenti di Xenofane che derideva il fingere dèi a somiglianza nostra. Poi, dac chè il concetto di Dio sempre più s' annebbiò, i poste riori consentirono a' tempi, e gl' Ionj, gli Eleati, e molto più i sofisti, menaron buona, se non altro come appa renza o come credulità popolare la mitologia. Nè altrimenti andò negli ordini tutti della civiltà. Di fatto; quando i governi regi si mutarono in popola reschi, molta efficacia e salutare v'ebbe la filosofia mercè i Pitagorici, e segnatamente Zeleuco e Caronda, i cui frammenti di leggi muovono dal dimostrare che Dio è; ma in progresso la filosofia non potè resistere alla li cenza, fu perseguitata, e però cadde in mano di sofisti che inventarono l'arte della parola per la parola, malvagi adulatori di plebe e mercanti di cavillo. Abbondando le ricchezze, nate da operosità, fiorirono scienza ed arte; ma successe un abito d'ozio e di godimenti, e la Magna Grecia in ITALIA e l'Ionia caddero in mollezze di trista fama. Resisterono i primi sapienti, come dimostra l'istituto pitagorico; ma cedè a poco a poco la loro austerezza, e già Xenofane canta « ch'è dolce nel verno stare al fuoco bevendo, e domándare all'ospite: quant'anni avevi tu quand' il Medo invase? » il Medo, o signori, invasore della patria ! lei sofisti, all'ultimo, la filosofia diventò l'arte di godere. Nell'ordine morale s'arrivò a tal segno ch'Ateneo rimprovera Platone, perch'e' disse nel Sofista come Parmenide di VELIA ama Zenone di VELIA; quasichè tal parola, detta di giovane, non ricevesse mai buon senso. E la filosofia, resistente dapprima co' Pitagorici, giunse co ' sofisti all'indifferenza tra bene e male; indifferenza molto diversa e peggiore dell'indiana; chè questa è non curanza del moltiplice e vario ch'apparisce, in grazia dell'unità sostanziale, ma quella è non curanza senz'al tro; ivi è un'ombra di moralità, qui nessuna. Mostrate così l ' attinenze tra filosofia, religione e ci viltà degl'Italogreci, resta che vediamo il principio e la successione de' loro sistemi. Cominciamo da dire che in tutta questa età e per confessione di tutti, v'ha incer tezza sul tempo preciso de' varj filosofi; e bisogna ri correre il più a Diogene Laerzio, autorità poco accettata. Le congetture dunque son lecite; e tutti ne fanno. Avvertirò inoltre che sul definire l'età de' tempi remoti variano le tendenze degli Orientali e de' Greci; que sti tirano al meno e quelli al più. Per che ragione? I Greci amando la certezza de' fatti, li trasportano quanto più si può nel tempo storico, e lontani dal favoloso; al contrario degli Orientali, che amano l'indefinito de se coli; effetto del panteismo. Premesso ciò, rammentate, o signori, che prima dell'undecimo secolo avanti Cristo Pelasghi ed Elleni si mescolarono insieme; e allora co minciò l'età delle colonie; e da esse la più nota civiltà ITALIOTA. Quali preparazioni vi riscontriamo noi per la filosofia? La civiltà pelasga, le dottrine orfiche, i Mi steri; inoltre le comunicazioni più che mai frequenti per l'Asia minore (dove prosperavano tante colonie) coll' Asia media. E che tempi erano quelli per l'Asia media? Rammentiamocene, o signori; erano i tempi di splendida civiltà, quando circa il mille avanti Cristo si compilavano i Vedi ed i poemi, e fiorivano le scuole di filosofia. Chi potrà dunque negare, che date tali prepa razioni e la civiltà delle colonie, e dato quell'impeto di vita civile ond' il pensiero s'agita tutto, e poste le sedi nuove in paesi non selvaggi come l' America, ma già inciviliti, sorgessero presto le speculazioni filosofi che? Non farebb' egli un'ipotesi strana chi le credesse indugiate a tre o quattro secoli dopo, fino a Talete, anzichè colui che le dicesse più meno già in via circa il mille od al novecento prima dell' èra volgare? A ogni modo, tempi precisi non se n'ha; e poichè la critica devé supplire, parmi più ragionevole vi supplisca così, che stando ad indizi già riconosciuti per poco probabili. La filosofia mosse anc' allora da un ritorno sulla coscienza morale; ce ne assicura la moltitudine di sen tenze attribuite dagli antichi a ' Sette sapienti; a uno de' quali, cioè a Chilone, si reca il detto: conosci te stesso. Abbiamo poi alcuni tra ' poeti gnomici, come le recide, della cui antichità non si dubita punto; e chi, Foclide per esempio, lo fa contemporaneo, chi anteriore a Pitagora. Le sentenze di Mimnermo, Evano, Metrodo ro, Teognide e va' discorrendo, mostrano chiaramente la riflessione sulle verità morali, benchè nascosta in afori smi. Così queste di Foclide: « Non dire mendacio, ma parla sempre con verità. Primieramente venera Dio e quindi i tuoi genitori. Non disprezzare i poveri, nè voler giudicare alcuno ingiustamente, perchè se tu giudiche rai male, Dio poi ti giudicherà. Fu da Dio a’mortali dato in uso lo spirito ch'è immagine di lui. Il corpo abbiamo dalla terra e si scioglie in essa e siam polve re, ma lo spirito va in cielo. » Or bene, io dico, e mi sembra di poter essere sicuro, che codesta filosofia morale e religiosa sorse e fiori prima del panteismo materiale di Talete e d’Anassi mandro; perchè n'ho prove storiche (come dirò), e per chè dalle tradizioni sacre orientali e orfiche non si poté saltare in un subito alla materialità. Dove fiorì? Non in Italia soltanto co ' più antichi savj della scuola ita lica, ma nell' Asia minore altresì, fra gl ' Ionj, dovunque insomma germinò la civiltà ellena. Di fatto, che che vo glia credersi delle tradizioni circa Pitagora e del suo venire dall' Ionia, esse, unite alla certezza che Xeno fane pure ne derivasse, mostrano almeno che l'antichi tà non reputò straniere agl' Ionj 1 ' idee pitagoriche ed cleate. Aggiungete che Talete ha molti più segni di spiritualità che non i posteriori; e tal peggioramento non si può negare. Perchè dunque, dimanderete, vien solo ricordata la scuola italica? La risposta è facile e il caso è comune; si ricorda i luoghi dove la scuola più crebbe e durò. y Ma la scuola pitagorica o ITALIOTA, dimanderassi an cora, ell’è anteriore a Talete, cioè al panteismo materiale degl' Ionj? Mi sembra certo, purchè si distingua Pitagora dal Pitagoresimo; questo è la totalità di dot trine comuni a tutta una scuola di filosofi; quegli è un tal nome, parte storico, parte simbolico, che può essere prima o dopo, senzachè provi l'anteriorità o posteriorità della scuola nel suo nome rappresentata. E nondimeno anche sull'età di Pitagora son diverse l' opinioni. Quanto a Pitagora, Meiners lo crede nato al 584 avanti l'èra nostra; lo crede nato Lacher al 608. Come si determina ciò? Per autorità non salde, e per vie di congetture. Talete poi, secondo Apollodoro, sa rebbe nato il 640, anteriore perciò a Pitagora; dáta non senza incertezze. (Ritter, St. della fil. ant.) Ma ecco il Niebuhr (St. Rom. I) che contrapponendo a Polibio ed a Cicerone l'autorità d'alcuni scrittori orientali, crede probabile la contemporaneità di Pitagora e di Numa; talchè andremmo più oltre che la data di Talete. Avanti alle dáte di Pitagora s'ha in ITALIA e Sicilia ZELEUCO E CARONDA, legislatori l'uno di LOCRI e l'altro di CATANIA; e ne' frammenti di quelle leggi v'ha il segno delº pitagoresimo. Il Krug fa CARONDA DI LOCRI del 668; il Benteley, l'Heyne, il Saint Croix, Centofanti, del 730. Quando Pitagora venne in Italia, in CROTONE, si dice che subito la scuola crescesse tanto di numero e di potenza, da bisognare feroci persecuzioni a spiantarli: il che umanamente non può accadere. La scuola dunque precedeva. Il personaggio di Pitagora, l'istitutore insomma del Pitagoresimo, diventa un simbolo in gran parte; il che dà segno d'antichità molta, e di tradizioni orientali. Nella scuola pitagorica è mescolanza di culto e di speculazione; e ciò indica il passaggio dall' età teologicha (MYTHOS) alla filosofica o LAICALE (LOGOS), che in modo distinto vengono più tardi. Secondo la comune leggenda, tra l'istituzione della scuola ITALIOTA, il suo prevalere anco negl' istituti civili, e la sua persecuzione, corsero pochi anni; il quale rovesciamento di favori popolari si dà presto a un uomo, tardi a un potente consorzio d'uomini. La storia di Pitagora, simbolico in gran parte, ha natura di leggenda; e sogliono le leggende avvicinare tempi lontani. Indi le confusioni dette di sopra.  Nella scuola pitagorica son chiare e molte le vestigia orfiche; talchè l'antichità di queste palesa l'antichità di quella che le raccoglie; com'elle poi diminuiscono in progresso, e appena si scorgono negl' lonj. I Pitagorici han forma di consorteria, e tra loro è comune e costante un corpo di dottrine. Ciò rammenta, o signori, gl’usi orientali che sempre più si perdono nelle repubblichette popolari; e rammenta l'antichità più remota, dove più vale l'unione e l'autorità. Aristotile dà la filosofia de' Pitagorici come una, e vi scopre solo differenze accidentali. Le tavole d' ERACLEA, lette dal Mazzocchi (come accennai già), mo strano un incivilimento anteriore, e quindi un'antica preparazione alla scienza. E delle prove d'antica civiltà nelle genti d'ITALIA recherò qui cosa che pare non fosse disputata fra' Greci, val a dire ch'essi, come dice Taziano (Or. contra Greci) prendessero da’ TOSCANI la plastica. Cousin dimostra con le autorità non ricusabili di Sozione, d' Apollodoro e di Sesto che Xenofane nasceva il 620 avanti l'èra volgare, un 60 anni circa prima di Pitagora stando agli anni di Meiners. Ora, se la dottrina di Xenofane tenne del Pitagoresimo, come mai sarebb'egli tanto più vecchio del suo maestro? Se bisogni stare alle memorie greche talquali, i capi della scuola pitagorica di CROTONE e di VELIA vennero d'Ionia; men frechè in lonia correva un tutt'altro pensare. Qui, prendendo la cosa talquale, v'ha due inverisimiglianze, prima che ne luoghi de' capiscuola non ci avesse quell'indirizzo di speculazioni, come sarebbe assurdo che d'Alemagna venissero in Italia fondatori d'eghelismo e là non n'apparisse il focolare. Seconda, che piuttosto que' filosofi cercasser favore in Italia, sé qui non preparato il terreno. Ma tutto si concilia, quando il silenzio delle mete, in tanta oscurità di tempi dissero all'incirca il più rinomato, tacquero il meno, senza negarlo bensi, chè non lo conobbero forse. Dissero la scuola ionica, tacendo la scuola religiosa comune là ed a' Magnogreci, O ITALIOTI, perchè più celebre qui; dissero i più famosi capi delle scuole ITALIOTE, tacendo le lontane e recondite preparazioni. E ch'elle ci fossero, mostra il celebre passo di Platone che fa dire a Zenone di VELIA. Queste opinioni sull'uno cominciarono da Xenofane, anzi da più antichi di lui. (Soffista.) Brandis e Ritter crederono s'alludesse ad avere quella dottrina germe innato negl' intelletti. Al che ripugna Cousin e con ragione. Prima, qui si parla storicamente e non teoreticamente. Poi, se volesse allu (lere a germi naturali e senz' origine, come mai, anzi, parlerebbe Platone di cominciamento anteriore? (te 2.2.1 i te tepisºsv č.pčarevov). De primi Pitagorici non v'è scritti; scrissero i più vicini al tempo di Socrate; e ciò per l'uso degl'insegnamenti orali, per la costanza delle tradizioni e pel segreto delle dottrine religiose. Or tutto ciò è segno d'antichità e risponde agli usi orientali. Nella scuola ionica poi sembra che fino il primo, cioè Talete, scrivesse versi, probabilmente prose (Diog. Laert. I, 34, Plut. de Pitiæ Orac. 18, Arist. Phys. ); il che mostra un fare più nuovo, e desiderio di stabilire la novità. L'uso di non iscrivere, uso lasciato si tardi da ' Pita gorici, spiega ben anco il perchè sembrò più recente « lella scuola ionia il pitagoresimo: più recenti erano le scritture, non la loro filosofia. Recherò infine (lue singolari testimonianze di Padri greci, d'Ermia verso la fine del secondo secolo, e d' Eusebio dottissi mo ne' libri originali della greca filosofia. Ermia, dun que, nell'opera Derisione de' filosofi gentili enumera le contrarie opinioni loro sull'anima, sul bene, sull'immortalità, sulla divinità e sui principj del mondo; e poichè ha.rammentato varj filosofi, viene a Pitagora e lo distingue dagli altri così: egli d'antica nazione. Qui, segnalare tra gli altri Pitagora per antichità, è notabile assai. Eusebio, poi, più espressamente nelle Preparazioni evangeliche dice: che Pitagora nacque a Samo O IN TOSCANA o altrove, ma non greco, e ch' egli fu principe de filosofi, talchè alla filosofia ITALICA di TOSCANA (ETRURIA) E CROTONA succedette la ionica e la di VELIA. Anzi anche Flavio rammenta tre filosofi prischi con quest' ordine qui, Ferecide Siro, Pitagora e Talete. Questi argomenti, la cui tesi è convalidata pure dal l'autorità di Niebuhr, di Cousin, di Gioberti (nel Buono), di Poli (Appendice al Manuale del Tennemann) e di Centofanti (Pitagora), e che non hanno in contrario argomenti positivi di tradizione, o concordi autorità di storici antichi, mi fanno sicuro che il pitagoresimo, come scuola religiosa e morale, anteceda l'altre scuole; poi venga la di VELIA, e come più affine alla prima, e come precedente a Xenofane stesso per la dottrina dell'unità universale; succeda loro l’ionica, quant'al suo cominciamento bensì, non quanto alla sua continuazione che s'accompagna (com' accade) con l'altre; e vengano infine, su che non ha dubbio, le gative. I quali sistemi darann ' argomento ad altra lezione. vole ne SCUOLE ITALCHE. Causa interiore del Pitagoresimo è la necessità d'una riforma morale: da ciò l'esame di coscienza posto per principio di filosofia e di vita buona. Cause esteriori. Si volle la riforma religiosa e morale da cui la civile, per mezzo della filosofia. - Parti non dubbie nelle memorie degl'istituti pitagorici. Notizie su Pitagora e sugli altri più famosi. Quali documenti abbiamo certi sulla scuola italica. - Il Carme aureo i antico.- Le notizie che ci danno gli Alessandrini non vanno accettate senza esame, ma nemmeno rigettate con leggerezza. - Oggetto della filo sofia pitagorica, suo fine e metodo. — Quali cagioni dettero impulso a quel metodo che fu applicazione d'idee matematiche. Ma ciò non vuol dire che lal dottrina stia in un ideolismo matematico; giacchè la monade si pensò come una forza. - Il numero rappresentava l'attinenze o l'armo. nia; indi il simbolo musicale. Due furono i significati del numero, it simbolico ed il reale. Verità del metodo matematico; suoi eccessi nel pro cedere dall'astratto al concreto: esempi varj. – Si cercò le leggi mentali della quantità effettuato nella realtà, per salire con esse a Dio, causa, ragione e legge. Dio è principio de'principj; e poichè i principj delle cose si dis ser numeri, Dio è il numero per eccellenza. -Questo è l'unità. – L'unità bensi presa, non come parte d’un tutto, ma in senso generale. - A Dio non si può applicare il concetto d'uniti nemmeno in quel senso; Dio è sopruni tà; ma l'errore precedė dalla induzione astrattiva. Si dimostra co ' do cumenti che il significato dell'unità pitagorica ė panteistico, ma ondeg giante tra il vero ed il falso. - L’unità, come per gl'Indiani, parve l'indefinito che si determina. — Grandi verità contenute nell'implicitezza di quelle dottrine. — Dio si pensó come unità suprema di tutti i contrarj; l'universo, come i contrarj in atto, e ridotti all'armonia da Dio. - L'uni tà generale o la monade che si distingue in monadi secondarie, spiega lo teoriche d'allora sugl'intervalli, sul vuoto, sull’intinito, sul finito ec. L'anima è numero, ed è nel corpo come Dio nel mondo; è l'armonia del corpo. La verità è l'uno e il numero; l'errore va fuori dell'armonia. -- Intelletto e senso. — Dio, ragione prima del conoscere, perché gl’intelletti si credettero divini. Poi, perchè Dio è il numero per eccellenza, e il nu mero è l'esemplare del mondo. Quanto alla scienza, si sbagliò cercando sempre l'assoluta necessità razionale. Numero e armonia il bene; disar monia il male. - Fine dell'anima intellettiva il ritorno all'essenza pri ma. --- Come si tentó fuggire le contraddizioni del panteismo naturale negando la cognizione diretta dell'essenza. - Xenofane tentó fuggirle col panteismo ideale. - Cinque concetti principali di Xenofane: Dio è uno; sommo potere; gli manca ogni contingenza e però non è nè finito nė infi nito né in quiete nè in moto; Dio non può nascere, perchè il non ente non può dal nulla divenire qualcosa: Dio è il tulto. — Indi segui che il mondo è apparenza. – l'armenide stabilisce chiaro il doppio aforismo degli Eleati e degl ' Ionj, e condanna il secondo. Muove dall'idea generale d'essere; Dio si fa più indefinito che in Xenofane. – Tutto è idea. Melisso fa Dio più indeterminato ancora, chiamandolo un qualcosa. -- Gli attributi della moralità non più appariscono. – Panteismo materiale de gl'Ionj: nasce in condizioni opportune. - Il moto delle cose vien conside rato nell’ente o nell'assoluto, ch'è la materia eterna divina, dotata di pensiero. – Diversità nel concepire tal moto fra ' dinamici e i meccanici. E la causa prima del moto la posero diversamente in quella cosa che più parve trasmutabile in ogni altra cosa. – Talete ba dello spirituale anco ra; la grossolanità materiale viene crescendo. Anassayora vide l'assur dità del panteismo, e prese il dualismo; ma non détte troppo alla mente. — Idealismo ateo di Protagora; materialismo di Democrito; le due forme di scetticismo particolare. Scetticismo universale di Gorgia ec. Misticismo d'Empedocle; e perché il suo sistema paia indeterminato ed ecclettico. — Due schiere d’uomini; gli atei e i l'itagorici di quel tempo: interpreta zione storica, e interpretazione fisica della mitologia. Qual è mai, o signori, la causa interna del Pitagoresimo? La necessità d'una riforma morale; necessità profondamente sentita da uomini ornati, quanto la gentilità comporta, di grandi virtù. Il conosci te stesso e esame di coscienza morale negli istituti pitagorici, e fondamento altresì di speculazione; chè, nella coscienza e'trovarono il dovere e nel dovere Dio. Cagioni esterne furono il guasto crescente della religione, de costumi e della libertà, al quale s'oppone il Pitagoresimo, e inoltre (com’ho avvertito più volte) le tradizioni e i commerci d'Oriente, le dottrine orfiche ed i Misteri. Si volle, pertanto, una riforma religiosa e morale, da cui venisse la civile; e criterio a tutto ciò désse la Scienza. Il che spiega gl'isti tuti pitagorici su cui gli Alessandrini mescolaron favole, ma la natura di consorteria e un culto segreto (Ritter ) e la sostanza dell'arti educative non cadono in dubbio. La riforma religiosa si tentò co’riti e dommi segreti; la morale con l'opporsi a tre vizi, voluttà, superbia ed avarizia, ed esercitando anima e corpo nella musica e nella GINNASTICA; la civile, domando la licenza con abiti disciplinati ossia con l'autorità (curos pz) e con la vita comune. Il discepolato morale prepara così alle speculazioni, e, preparato, s'eleva l'alunno a gradi più alti e più liberi. (Centofanti, Pitagora; Puccini.) Circa Pitagora o di Samo nella lonia o di Samo nella Magna Grecia in ITALIA, poco v'ha di sicuro e con mescolanza di simboli; pare tuttavia che un fondamento storico v’ha e ch'egli e uomo di molta dottrina e virtù. Per la dimenticanza in che vennero le colonie di Magna Grecia in ITALIA e tutte le antichità italiche dopo le conquiste di ROMA, e per la guerra feroce contro i Pitagorici, non ne sappiamo quasi nulla; li sappiamo bensì a lor tempo in molta riverenza. Si rammentano con più certezza LISSIDE, CLINIA, ED ARCHITA cittadini DI TARANTO in Magna Grecia, EURITE E FILOLAO o di TARANTO o di CROTONE. ARCHITA, il più celebre di tutti, capitana più volte gli eserciti, e non ha mai la peggio; buon padrefamiglia e cittadino, domatore di sè stesso, famoso per invenzioni e scoperte in musica ed in matematica e per libri d'agricoltura. La scuola pitagorica venne atrocemente perseguitata; molti fra gli scampati, o si rifuggirono in Grecia o si sbandarono in ITALIA. Sembra che l'odio movesse da opinioni politiche, parteggiando essi per GL’OTTIMATI; ma chi badi alla segretezza del culto attestata da Erodoto, e alla tradizione che un capopopolo attizza le ire, invelenito dal non es sere accolto nell'adunanze, s'accorgerà che trattasi qui, come per Anassagora e per Socrate, del politeismo volgare geloso e persecutore. Gli scritti col nome di TIMEO, d'ARCHITA e d'OCELLO LUCANO sono apocrifi, e i frammenti di BRONTINO e d'EURISAMO; ma non quelli di FILOLAO (vedili nel libro di Boecckh su FILOLAO, e Ritter); i quali col carme aureo e con ciò che narra Platone ed Aristotile sulla scuola ITALICA, ne dánno contezza. Nel sostanziale di essa gli storici vanno d'accordo. Quanto al Carme aureo, e's'attribuì a FILOLAO, a EPICARMO, a LISIDE, a EMPEDOCLE di Girgenti, da Crisippo a'Pitagorici. Sta il Mullachio per LISIDE; e: mostra, comunque, che ne' versi aurei non v'ha nulla di non antico, e come un alemanno, secondo l'usanza di molti critici odierni, neghi l'autenticità pel dubbio di tre’ sole parole, che a lui non paiono antiche; e antiche le dimostra il Mullachio. (Fragm. Phil. Græc. Didot). Le relazioni che ci danno del pensar pitagorico gli Alessandrini, non vogliono accettarsi senza discrezione; chè in loro la critica è poca, molta la voglia d'interpretare a lor modo gli antichi; tuttavia dire come si dice) che il Pitagoresimo, quale dagli Alessandrini si descrive, non i meriti fede per le grandi somiglianze con Platone, è dir troppo, sapendosi negli Psilli di Timone Fliasio che quegli ebbe in gran pregio i Pitagorici: « E tu, o Platone, giacchè ti possedeva l'animo il desiderio di sapere, comprasti con gran pecunia un piccolo libro, da cui imparasti a scrivere tu pure il TIMEO. (Fragm. Phil. etc. ) La filosofia de' Pitagorici, come tutta la filosofia antica, come la filosofia d'ogni tempo, meditò i primi prin cipj dell'essere, del conoscere e dell'operare. Il pensiero della causa suprema ch'è ragione e legge, vediamo bene da tutte le loro memorie che occupò quegl'intelletti for temente. Fine della filosofia parve loro ed a tutti gli antichi, la liberazione degli errori e de' mali comuni, ma con tal divario dagl'Indiani, che la speculazione dovesse congiungersi all'operosità civile. Metodo di filosofare fu il matematico; cioè l'applicazione d'idee matematiche alla natura universale, così esterna come interna, e al suo principio. Onde mai tal metodo? quali cagioni gli dettero im pulso? Già negli antichi v'ha inclinazione di filosofare a priori sul mondo (sebbene l'esperienza, anch'esterna, non s ' escludesse dai Pitagorici), perchè mancavano gli stromenti; poi, premeva più lo speculare teologico, re cato altresì nella fisica; e le lunghezze d'una fisica os servatrice non si comportavano in tempo, che i varj studj non erano scompartiti tra più dotti. Inoltre l'arimmetica e la geometria vennero d'Asia, nate tra le scienze più antiche, perchè non bisognose d'osservazione. Altresì di tali scienze s’aveva necessità tra popoli commercianti e tra colonie che dissodano terreni, asciugano paduli, e scavano canali. Più, la discordia tra' politeisti e il mono teismo - antico fece spiccare, quant'al concetto di Dio, le nozioni d'uno e di moltiplice, come anche si scorge nel vecchio Testamento. Infine, tempo é spazio ci danno la quantità, e sappiamo che l'induzione falsa indíava, come ne' Vedi, lo spazio e massime il cielo (onde l'uranismo), e il tempo (onde l’Aherene de' Persiani, il Crono de Greci, il Saturno de' Latini), talchè le tradizioni orientali e or fiche, cadendo in tali concetti, davano impulso a quel modo di filosofare. I Pitagorici, dunque, parlano dell'uno, del due, del tre, del dieci e delle combinazioni loro allorchè discor rono del mondo e di Dio. Ma si vuol credere forse che tal metodo li riducesse a vane astrazioni? ossia, ch'e'sti massero Dio e il mondo idee matematiche e nulla più? In altre parole, il Pitagoresimo fu egli un idealismo matematico? No, sicuramente; Aristotile lo spiega chiaro dicendo: ch'essi stimarono le cose una imitazione de'numeri (μίμησιν είναι τα όντα των αριτμών. Μet.). Imitazione, dunque; a leggi di numero, cioè, rispondono le cose; e la mente ritrova l'une nell'altre; e in questo è la scienza. Anzi (e va notato accuratamente ), che mai restava pe' Pitagorici, levato il composto? Restava la monade. E che cos'era la monade? Forse un'astratta unità, o l'atomo indifferente inattivo di Democrito e di Leucippo? No; ma l'essenza ch'è una forza: il concetto di forza o d' attività prevale nel Pitagoresimo, così ri spetto a Dio come rispetto al mondo. Di fatti, e ch'è mai, secondo i Pitagorici, l'ordinamento universale se non la continua limitazione (o determinazione) dell'inde finito? Ciò resulta da molti riscontri, ma singolarmente dallo specchio de contrarj (di cui parleremo). Inoltre, Dio per que’ filosofi è mente e causa o principio; causa è l'anima; e causa d'ogni armonia è l'unità. (Frag. di FILOLAO; Siriano, Com. Met. d ' Arist. XIII; Ritter St. Fil. ant.; Bertini, Idea d'una Fil. della Vita) Quindi, pe' Pitagorici, le leggi del numero e della geo metria rappresentavano l'attinenze; cioè, significavano il rispetto d'una cosa all'altra, e d'uno all'altro con cetto, l'armonie particolari e l'universale; da ciò i lor simboli musicali. Si dica pertanto, o signori, che per la scuola italica eran due i significati del numero; significato simbolico e reale. È significato reale quando noi diciamo: Dio è uno e le creature sono moltiplici; e così dicevano essi che Dio è il numero per eccellenza, cioè l'unità e la totalità d'ogni perfezione. È significato simbolico quando s'astrae i numeri a significare gli oggetti; come dicendo (per esempio) l'unità e il numero, e s'intendesse Dio e le creature; così parlavano più spesso i Pitagorici. Al lora si fa come l'algebrista un linguaggio figurativo. assai comune agli Orientali; e ciò toglie l'apparente stranezza delle parole. Il metodo matematico ha egli verità? Certo non manca di buon fondamento, perchè tutto nel mondo si distingue o d'essenza o d'accidenti o di parti, di gradi o di potenza o di atti; e tutto, dunque, è capace di numero e di misura. Per altro, le leggi matematiche non hanno da cercarsi a priori nella realtà, bensi con l'osservazione; come Galileo, osservato il cadere de corpi, vi scoperse la quantità del moto crescente. Trovata la legge matematica, s'applica poi a nuove scoperte, come dalla legge matematica delle oscillazioni s'inventò il pen dolo. Chi volesse procedere a priori, sbaglierebbe, perchè dalla idealità non si può concludere la realtà contingente; per esempio, dall'idea d'un circolo non si può conclu dere ch'e' si dia in natura. Bensì, nella realtà si scopre ognora leggi ideali a cui essa risponde sempre (come le proporzioni tra spazio e velocità nella caduta son sempre le stesse ), ed anche, esemplando il reale all'ideale, quello vi combacia, come, facendo un circolo, i raggi gli ha sempre uguali. Ebbene la scuola italica non ignorò i buoni metodi della osservazione e delle matematiche applicate; già ho notato le dottrine fisiche d'Archita; del metodo sperimentale di Polo ci ragguaglia Aristotile (Met.); le dottrine musicali d'allora fan supporre molti esperimenti; Erodoto scrivche i medici italiani erano i più reputati; e tutti sappiamo le meraviglie d'Archimede. Tuttavia il metodo astratto ebbe il diso pra. Così, rappresentando il principio, il mezzo ed il fine col numero tre, lo vedevano in ogni cosa; però Filo lao divideva il mondo in tre parti. Il numero dieci è compiuto in sè stesso, perchè si compone sommando i suoi quattro numeri primi? ebbene, dieci i pianeti. Cin que i corpi regolari nella geometria? dunque altrettanti gli elementi, e ciascun d'essi n ' ha la figura; la terra ha il cubo, il fuoco la piramide, l'aria l'ottaedro, l'ac qua l'icosaedro, l'etere il dodecaedro; e dunque, altresì cinque i sensi. Se i quattro numeri primi, sommati tra loro, fanno il dieci; e se i quattro numeri pari (2, 4, 6, 8 ) e i quattro numeri dispari (1, 3, 5, 7), sommati, fan tutt'insieme trentasei, la tetrattisi o quadernario dovrà riscontrarsi nelle cose; e quattro, per esempio, sono i gradi della vita: minerale, pianta, animale e uomo; e, ne' corpi, il punto è unità, la linea è qualità, la super ficie è triade, il solido è quadernario, si compone, cioè. di quattro punti. Questo metodo, applicato alle cose dell'esperienza, riuscì arbitrario non di rado, e se, inalzato a Dio, ne guastò il concetto per l'astrazione dell' indefinito; pure, accompagnato come fu da tradizioni buone, da molte virtù morali, da preziose osservazioni interne ed anco esterne, ed eccitando la speculazione, fece sorgere tra gli errori belle e profonde verità. Quel metodo era (com’ac cennai): trovare le leggi mentali della quantità geome trica e arimmetica effettuate nella realtà e salire con queste alla prima cagione, alla prima ragione ed alla prima legge. Però dice FILOLAO che l'intendimento mate matico è il criterio di verità. La prima cagione dell'essere, che è ella mai? Sic come i Pitagorici voller trovare i principj delle cose e il principio de principj, così precede il quesito: che son mai tali principj? Risponde Aristotile: « I Pitagorici, educati nelle matematiche, dissero i numeri esser prin cipj delle cose. » (Met.) cioè tutte le cose si ridu cono a leggi supreme di numero, e queste leggi costi tuiscono la loro essenza. Or bene, che cos' è la prima cagione? È il primo principio, per Filolao; è la causa che antecede ogni altra causa, per Archita: « quam Are chytas causam ante causam esse dicebat, Philolaus rero omnium principium esse affirmabat. » (Siriano, alla Met. Storia della Filosofi. - 1. 18  l' Arist. XIII. Dunque se i principj delle cose son numeri, il primo principio è tale altresì; o, come diceva Hierocle nel commento al Carme aureo (Fragm. Phil. Græc.): « Se tutto è numero, Dio è numero. » Che nu mero? Il numero per eccellenza. Che cos' è il numero per eccellenza? Vediamolo. Il moltiplice fa supporre l’unità; e l'unità n'è sem pre il principio; così abbiamo solido, superficie, linea, punto; questo è il principio della linea, della superficie e del solido. Dunque Dio, ch' essendo il primo principio, è il numero per eccellenza, è altresì l'uno per eccellenza. (Aless. Afrod. Comm. alla Met. d ' Arist.) Resta da ve dere che cosa sia l'uno per eccellenza. L'unità, idealmente, si può considerare e qual parte che compone la pluralità, e quale idea generica che abbracci la pluralità stessa. Diciamo: il venti è compo sto d'uno più uno, più uno ec.; ecco le unità che com pongono un tutto. Diciamo ancora: una ventina, un centinaio, un migliaio, un milione; ecco l'unità gene rica che abbraccia ogni numero, considerato come unità. Nel primo caso, l'unità è l'elemento della pluralità; nel secondo, è la forma mentale che fa capaci di compren dere in un concetto le moltiplicità sparpagliate. E in tal senso l'unità si può chiamare il numero per eccel lenza, giacchè abbraccia ogni numero. Or bene, o signori, si può egli applicare a Dio l'idea d'unità ne' detti significati? No; Dio non è il compo nente della moltiplicità; nè Dio è un che generico e comune alle moltiplicità particolari. L'unità di Dio è, a dir così, una soprunità, come, secondo i Teologi, le rela zioni personali della Trinità son soprannumero. (S. Aug. in Joann. Evang. ) Si dice uno per negare il moltiplice, nulla più; e chi confonde l'analogia di tali concetti col significato proprio, o cade nel panteismo, o accusa erro neamente la filosofia e la teologia. Si domanda, per tanto: la scuola pitagorica usò que' concetti nel signi ficato vero? Da’tre frammenti di Filolao apparisce che Dio per lui è imperatore sommo e duce, uno, eterno, permanente, immobile, simile a sè stesso, diverso dal l ' altre cose, potentissimo, supremo, e che solo conosce l'essenza eterna. Anzi, Siriano nel luogo già citato dice, che pe' Pitagorici Dio è una e singolare causa, astratta « la tutte le cose, e superiore alla dualità de' principi, la quale vedremo più qua: « Ante duo principia unam et singulam causam, et ab omni abstractam præponebat. Parrebb'egli, dunque, che l'unità de' Pitagorici sia nel senso buono? Bertini interpreta più benignamente che si può certe opinioni pitagoriche. le quali ne farebbero dubitare; e tuttavia conclude: « Il sentimento religioso e morale gl'induceva a collocare Dio molto al disopra del mondo; ma il fato della logica li forzava sovente ad immedesimarli in una sola sostanza e ricacciavali nel panteismo. » Che vuole dir mai fato della logica? Vuol dire la necessità di certe conse guenze, dati certi principj. Or via, quali son dunque i principj che menavano al panteismo, non ostante l'alte verità frammischiate in abbondanza? Era, appunto, il concepire Dio quasi unità generica, o numero per eccel lenza; e questo in grazia della non buona induzione. Di fatto, poichè i numeri son pari ed impari, e l'unità, cioè il numero genericamente preso, s'estende ad en trambi; così la scuola pitagorica chiamò Dio pari ed impari, e diceva che l' uno è l'essenza di tutte le cose (Arist. Met. I ); l'essenza delle cose chiamata eterna (la FILOLAO; che inoltre affermò, le cose diverse e con trarie non istarebbero senz'armonia, e tale armonia è il numero per eccellenza, cioè Dio; aggiunse, che tal numero è legame all'eterna durata del mondo; anzi (e questo val più ), esso legame produce sè stesso. (V.framm. i FILOLAO nel Ritter. St. della Fil. ant.) Finalmente. Dio pe' Pitagorici è limitato ed illimitato ad un tempong 11pTLOTES PITTOy, Arist. Met. 1. ) Par dunque certo ch ' essi concepivano Dio com'unità generica, in cui s 'uniscono potenzialmente i contrarj del mondo, pari e dispari, femmina e maschio, male e bene, e via discorrendo; contrarj che si distinguono attualmente quando il potenziale viene all'atto, e l'illimitato si limita, e l'essenza universale (conosciuta solo da Dio, cioè da sè stessa) si determina mano a mano ne' fenomeni. Dubitò il dotto Bertini che s'intendesse da' Pitagorici, non dimmedesi mare le cose in un' essenza, ma d'accennare che Dio la in sè i contrari perchè li supera. E non esito punto a dire che ciò e ' tenevano forse, ma in confuso, e la con fusione generava il panteismo. Di fatto, se quel concetto era limpido, essi non avrebber detto che Dio è pari ed impari; giacchè i contrarj sono il modo finito delle per fezioni mondane, e però non si contengono in Dio. Si risponderà: noi n'abbiamo un'idea più chiara. Va bene; se i Pitagorici avesser capito chiaro come Dio superi l'universo infinitamente, le parole chiare l'avrebber tro vate anch'essi. Anzi, l'infinito lo pigliavano per l'inde finito o potenziale; e quindi, il finito sembrò a loro il perfetto, e l'infinito l ' imperfetto. Aristotile serbò lo specchio delle contrarietà in dieci antitesi (dispari e pari, finito e infinito, uno e più, quiete e moto, luce e tenebre, bene e male ec. ), fatto da qualche Pitagorico; e Simplicio notò come le contrarietà si comprendano si risolvano in Dio. (Arist. Met. I, Simpl. Phys.) Inol tre, come il mondo era la decade, cioè la pienezza d'ogni grado d ' entità, e così Dio; che riceveva nome d'ogni numero, unità, diade, triade, quadernario (o solido), set tenario, decade. Dimodochè pe Pitagorici, come per tutta la filosofia pagana (avvertite, o signori ), il quesito della causa pri venne a quest' altro: Come si limiti 1 illimitato; ossia, pensarono gli antichi che la produzione del mondo consistesse nel determinare in atto la potenzialità prec sistente: talchè Filolao pone tre principj, l’illimitato. il confine, e la causa (το απειρων, το πέρας, το αίτιον ). Il che parve in due modi: i Pitagorici, com’i pan teisti ionj e indiani, dissero che quel potenziale sta in Dio; i dualisti, che e' sta fuori di Dio, ed è la mate ria informata da esso. Nella scuola italica, poi, la im plicitezza de' concetti adombrò alte verità; Dio (per ma esempio), legame del tempo e dello spazio, se non si prende com ' identità d'ogni essenza, vuol dire benissimo che l'unità divina con l'unico atto creatore e conser vatore fa l’unione del moltiplice disgregato: però Dio è l'armonia dell'armonie. Che cos'è dunque Iddio pe' Pitagorici? L'unità su prema di tutti i contrarj. Che cos'è l'universo? I con trarj in atto, e ridotti da Dio all'armonia. Come l'unità generica non diviene numero se non si distingua in unità determinate o particolari, così la monade suprema non genera il mondo se non si distingua in monadi o so stanze particolari. Che si richiede, o signori, a formare il numero? L'unità e la distinzione d'un'unità dall'al tra. Ma la distinzione, considerata mentalmente, non è forse un concetto negativo e indeterminato, dacchè si gnifichi che l'una cosa non è l ' altra? Or bene; e pen savano essi che a formare l'universo ci voglia le unità o monadi particolari, poi la loro distinzione; ossia, come (lice Aristotile, elementi positivi da un lato, elementi nega tivi dall'altro. Da queste due maniere d'elementi si fa tempo e spazio; nel tempoi momenti e la distinzione di un momento dall'altro, cioè gl'intervalli; nello spazio i punti e la distinzione d’un punto dall'altro cioè il vuoto. Tal cosa venne simboleggiata con l'ispirazione del vuoto; ossia distinguendosi le monadi, il vuoto entra in loro com'aria ne’polmoni. I due elementi, il positivo ed il negativo, uniti tra loro, fanno la diade o il pari; l'ele mento positivo o l' unità, così sola come aggiunta al numero pari (per esempio il tre), fa il dispari. Ed ecco, o signori, l' unità nell'altro senso ch'io spiegava di sopra, cioè nel senso non generico ma particolare di compo nente il composto. Talchè l'unità nel senso generico è Dio; le unità nel senso particolare fanno il mondo. Ed ecco altresì perchè si diceva da’ Pitagorici che il pari è illimitato, illimitato perchè il vuoto e l'intervallo (o la negazione) è in astratto un che potenziale, può ricevere distinzione da' punti e da’ momenti all' indefinito. Si diceva per contrapposto che il dispari è limitato, giacchè chiude l'intervallo ed il vuoto tra due estremità positive o tra due monadi, riduce in atto la potenza, e si fa la triade, numero perfetto che ha principio, mezzo e fine. Voi capite, o signori, come per la teorica de’toni e degl' intervalli si vedesse analogia tra la musica e l'universo. Il quale, venendo dall'essenzá eterna come necessario svolgimento d'attività, non ha reale comin ciamento, è ab eterno; comincia sì, ma quant' al nostro pensiero (-o iniyocav), ossia il pensiero nol può con cepire altrimenti. Nè s'avvidero essi che se il pensiero nol può concepire senza cominciamento, segno è che l'op posto è irrazionale. Che cos'è l'uomo nell'universo? Un'anima razionale che sta nel corpo come in u sepolcro, dice FILOLAO. L'anima è numero e armonia (Plut. De plac. phil. IV, 2 ), o monade che riduce ad unione la moltiplicità del corpo e n'è principio di vita e causa motrice. Se Platone confutò nel Fedone la sentenza che l ' ani ma è armonia, combatte i materialisti che ponevano l'anima com'un risultamento dell'unione corporale, an zichè com’un principio di essa, a mo' de ' Pitagorici. Ma Platone invece s'accorda con Filolao dicendo, che l'ani ma è sepolta nel corpo. Se non che in Platone ha senso più dualistico; ma ne’ Pitagorici significò (badando noi alla totalità delle lor opinioni), che come Dio è l'anima del mondo, e vien da essa immediatamente l'anima uma na (V. Ritter e Bertini), così vien dalla terra, infima ne'gradi dell' entità e delle emanazioni tutte, il corpo. Derivano da tutto ciò le teoriche sulla ragione som må del conoscere e sulla legge dell'operare. Come l'en tità, così la verità è l'uno e il numero, e l'errore va fuori dell'armonia; talchè come il numero fa la misura di ciascun ente o la specie loro, e fa l' attinenze del l'uno all'altro, così la verità è nell' attinenza dell'in telletto con le specie degli enti e con le loro attinenze. Ma come si conosce da noi? Il simile col simile; però distinse la scuola italica il senso dall' intelletto come in due parti (Cic. Tusc. IV, 5 ); l'intelletto è divino e si conosce per esso (benchè in modo relativo, dice Filolao) la divinità della natura; il senso è terrestre, e si conosce per esso il fenomeno o l'apparenza sensibile. Ragion prima del conoscimento è dunque Dio; ma com’es senza prima degl'intelletti. In Dio sta la ragione pri ma, non solo perchè raggiano da lui gl'intelletti, ma perche Dio è numero, e il numero è l' esemplare del mondo; esemplare riconosciuto dall' intelletto. (V. il Cou sin e lo Stalbaum, ambedue nel commento al TIMEO) Però, avvertite, o signori, la scienza pe' Pitagorici, come per ognuno che n'abbia vero concetto, stette nel ritro vare la necessità razionale di ciò che conosciamo. Essi voller saper non solo ciò che è ed accade, ma perchè ciò dev'essere ed accadere. Tuttavia successe a loro quel che ad ogni panteista; si credè di trarre a priori le cose dal conoscimento dell'essenza universale, come le pro prietà d'un triangolo. Ma invece, e lo dissi altrove, la necessità razionale (eccetto la ontologia e la teologia naturale e le loro applicazioni e le matematiche) sta solo in vedere come, supposto un che, ne venga di neces sità un altro per attinenza; ad esempio, data la per cezione, non può non essere il corpo, o data la volontà negli uomini che son razionali, non può non essere la libertà. L'assoluta necessità vedesi solo dove può trarsi l'illazioni da un'idea, anzichè sperimentare de' fatti; nel resto è necessità ipotetica, e non altro; o anco è sola contingenza. (V. Lez. I. ) Come l'entità e la verità sono numero, negazione la potenzialità indefinita e l'erro re, così è numero ed armonia il bene, disarmonia o ne gazione il male. (Arist. Met. I.) Il bene è misura, il male è dismisura: da ciò quel detto pitagorico: « La misura è ottima, pétpov Žpustov. » E come Dio è l'ar monia universale, il numero per eccellenza, egli è il bene o misura o legge. Però, come l'intendimento va per armonie matematiche e musicali, così la volontà; e indi nasce la virtù, ch'è numero dentro di noi, componente la discordia degli appetiti (Carme aureo, 57-60 ); numero fuor di noi nell'educazione della famiglia e della città.. (Fragm.di LUCIANO OCELLO ) Allora l'anima si va conformando a Dio (ov.02.09749. Tapos to delov ); la disforme da Dio passa in corpi diversi con la metempsicosi od è punita nel Tartaro; la conforme a Dio ritorna nell'essenza ond'ella emanò. » Sarai, dice il Carme aureo, un Dio immorta le, incorrotto, non sottoposto a morte (v. 71: ETEL 0212. τος θεός, άμοροτος, ούκ έτι θνητος). Signori, chi non mirerà, in mezzo a quell'ombre, la luce di sì alte dot trine? Ma, tralignando i tempi, la filosofia traligno. Il sistema pitagorico è, quant'a'principj, un pantei smo naturale; perchè l'unità per eccellenza vi comprende lo spirito e la materia, distinti poi come tutte l'altre contrarietà. Come voleva egli scappare il Pitagoresimo alla contraddizione suprema d'identificare tutte le contrad dizioni? Dicendo che non conosciamo l'essenza in modo diretto: quasichè importi tal conoscenza per escludere l'assurdo. La scuola di Elea tentò fuggire la contrad. dizione, escludendo la materialità, il moltiplice ed ogni mutamento, e così creò un panteismo ideale. Xenofane, nato a Colofone d'Ionia il 620 av. G. Cri. sto, venne assai tardi a VELIA città di Magna Grecia. L'idealismo suo nasceva prima di lui; ma egli lo recò a sistema. E l'idealismo nasceva per più cagioni; pri ma, com'ho detto, ad evitare le contraddizioni del pan teismo naturale; poi, perchè il sistema idealistico ha dello scetticismo, a cui ora pendevano i Dorj non più austeri, e più gl'Ionj (ionica pure la colonia d'Elea); scetticismo voluttuoso e mesto che apparisce nel poeta Mimnermo, di Colofone anch'esso, e in alcuni versi di Xenofane; inoltre, già il sistema pitagorico, benchè com prensivo, faceva prevalere i concetti spirituali, però Xeno fane, vissuto a lungo in Ionia, venuto poi in Italia, mostra nell'ontologia l'idealismo italico, ma nella cosmologia la fisica degl'Ionj. Egli scrisse in versi, e ne resta frammenti, da cui, com'anche da Platone e da Aristotile, si rileva le sue opinioni. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) Uscì di patria per le invasioni Lidie, viaggiò in Sicilia, si fermò in VELIA; e visse più che centenne. (Censorino.) Xenofane ha di Dio un'idea sublime. Egli è uno, non simile all'uomo, immoto, è tutto vedere, intendere e udi re. Ma si deve, o signori, notare cinque concetti che formano il sostanziale del sistema. Dio è uno. Xenofane tolse il principio pitagorico che l'uno si converte con l'ente; però Dio, entità suprema, è uno. L'unicità di Dio, Xenofane la provò benissimo per un secondo concetto ancora, ch'è la potenza. Voi sapete già, o signori, che per la scuola italica l'unità o la monade o l'entità (vocaboli equivalenti) è forza, è un'energia. Ciò pure affermò Xenofane; e però Dio, ch'è l'ente, è sommo po tere (20 % TELY ): quindi se più dèi uguali, nessuno è po tentissimo per l'eguaglianza, se più dèi inferiori, nes suno è potentissimo per l'inferiorità. Talchè Xenofane, riprensore d’Esiodo e d'Omero, scherniva com’empie le superstizioni volgari, e, diceva, se i cavalli sapessero di segnare, fingerebbero gli dèi a loro sembianza. Traeva da ciò un terzo concetto; che a Dio manca ogni contin genza, finità e infinità, moto e riposo. L'infinità? In che senso la nega egli Xenofane, e contro chi? Nel senso d'illimitato o indefinito che si determina con atti successivi; contro i Pitagorici pe' quali Dio è infinito e finito ad un tempo, si distingue nell'universo e vi si muta perennemente, benchè immutato nell'essenza: for s'anche, dove Xenofane accenna il moto e il riposo, con futa le opinioni degl' Ionj già cominciate e già oppo ste all'ITALICHE più antiche, ma pe' Pitagorici ancora Dio comprende in sè le contrarietà fra cui Aristotile notò (come vedemmo) il moto e la quiete, ugualmente che il finito e l'infinito, il finito ch'è quiete, l'infinito (indefi nito ) ch'è moto. Crederemo noi dunque, o signori, che quest'altra verità, in Dio non essere contingenza, con ducesse gli Eleati al Dio creatore? No; e si scorge dal l'esame d'un quarto concetto, per sè vero, ma falso nell'applicazione: Dio non può nascere. Va bene; ma per chè? udiamolo, signori; il perchè ce lo dà il trattatello De Xenophane, MELISSO e GORGIA, attribuito ad Aristo tile, non di lui forse, antico ad ogni modo. Si dice, adunque: Dio non può nascere, perchè l'ente non può non essere, e il non ente non può dal nulla divenire qual cosa. L'ente, ch'è per essenza, certo non può non essere; ma il non ente nel significato di Platone e pitagorico è il contingente; che può non essere appunto, giacchè non è per essenza sua propria, bensì dall'ente. Xenofane, per altro (notate, vi prego, siguori), prese il non ente in significato di nulla, e il nulla è impossibile sia mai altro che nulla; ma ciò che diventa, è nulla in sè, nulla non già nella potenza causatrice. Che ne conchiudeva Xenofane? Non solo che non si dà creazione, ma che non si dà pure causalità nessuna; non v'ha che l'es senza immobile, infeconda, inaccessibile. (ch'è dun que il resto? o quel che ci pare in continua mutazione? Fenomeno, apparenza, illusione, e nulla più; talchè la fisica che si fa con l'apparenze è illusoria, non è scien za. Però egli disse in un verso: « Queste cose (del mondo) non hanno altra vita che l'apparenza, e appartengono alla opinione. (Plut. Symp. IX. ) De' dubbj di Xeno fane sul mondo parlo altresì Timone Fliasio ne' Psilli. (Fragm. Phil. Græc.) E per provare ciò s'adoperava un quinto concetto: che Dio o l'ente è tutto, o intero. (Fragm. di Xenoph.) Che vuol egli dire? Cerchiamolo. Che idea vi dà, o signori, l'infinità? Certo, pienezza d'es sere, cioè che ivi non ha mancamento. Ma tal pienezza significa forse il tutto? No, chè tutto è idea relativa: tutto, implica parti; e quindi ogni tutto può essere più o meno, come numero ch'egli è; nè numero assoluto si dà; mentre assoluto è l'infinito. Or bene, l'induzione astrattiva concepisce il mondo com'un tutto e confonde l'infinità (come pienezza d'essere) con l'universo. Così accadde agli Eleati; e però Aristotile scriveva di Xeno fane: « Contemplando egli il tutto del mondo, disse che l'unità è Dio. » Indi l'aforismo eleatico, uno è l'ente e il tutto (ey to y uzi có Tiv). Che si concludeva mai da questo? Poichè al tutto non manca nulla, e l'ente è il tutto, nulla può cominciare, perchè sarebbe aggiun gimento: quasichè, o signori, ciò che viene dall'efficienza creatrice aggiungasi all'infinità. E però vedete, che dove gli Eleati pareva negassero l ' indefinito pitago rico, van poi al medesimo vizio; perchè si piglia Dio com'un tutto generico, che viene simboleggiato con lo sfero. Resta da sapere che foss'egli per Xenofane l'ente o Dio. È ragione assoluta, intelletto essenziale. (Fragm. di Xenoph.) Che v'ha dunque più di pitagorico negli Eleati? Si lasciò la parte corporea ed ogni moto e restò la spirituale, divina ed immutabile; quindi è un pan teismo ideale. Il qual sistema si continuò in PARMENIDE, e ZENONE. Di PARMENIDE di VELIA dice Plutarco (Adv. Colot.) che détte alla patria leggi avute in grande amore. Zenone di VELIA, scolare di Parmenide, amo di cuore la patria, e poichè un tiranno lo condannò a morire, sostenne da uomo il supplizio: Melisso di Samo fiori verso l'84a Olimpiade, seguì PARMENIDE DI VELIA, fu uomo di Stato, e capitano gl'ITALIOTI contro Pericle. Questi gli Eleati (VELINI) più famosi. L'opinioni di PARMENIDE vi son date assai chiare ne' frammenti del suo poema. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) E che si trova in quelli fin da principio? I due aspetti, già separati da Xenofane: l'ente, che unico è; e il non ente o l'apparenza, che non è: non è, o signori, in modo assoluto e non già perchè semplice contingenza. Ci ha due vie, scrive PARMENIDE, di filosofare: 0 porre che l'ente è e che il non ente non è (70 ury; vedi anche il Parm. di Plat.), e questa è la via retta, perchè s'afferma l'ente e si nega il non ente o l'apparenza; o, al contrario, porre che l'ente non è c che sia di necessità il non ente, questa è via non retta. Si descrive così la via degli Eleati o VELINI da un lato, e la via degl'Ionj dall'altro, i quali si fermavano a considerare il moto delle cose. Ebbene, che concetti ha egli Parmenide allorchè e' mostra che l’ente è e il non ente non è? Gli stessi di Xenofane: l'ente è conosci bile con la sola ragione, ingenito, non mobile, tutto (cudow ) unigeno, eterno; non fu nè sarà, perchè ora è tutto insieme; non può esser nato, perch'è assurdo che l'ente non sia; non divisibile, somigliante a sè stesso intera mente, riempie ogni cosa; la dura necessità (dir.n ) lo stringe in vincoli (ossia egli è necessario; necessità di Dio trasferita da' panteisti al mondo ed alla volontà uma na ); egli non è infinito (atedrventov ), non bisogna di nulla, ed è lo stesso il pensare e ciò che si pensa. (Framm. e segnatamente v. 66-94.) In che PARMENIDE differì da Xenofane? Quegli ha forma più scientifica di speculare, perchè comincia dall'idea universale dell'essere, e la contrappone al non essere. (Ritter, Bertini.) Ma crede reste voi che Parmenide s'avvantaggi su Xenofane, come nella severità dialettica, così nella perfezione dell'idea ili Dio? Anzi, dove il maestro partì dall'idea di Dio, ragione pura, santità essenziale e provvidenza, lo sco lare poi con un vizio più rilevato d'induzione si fermò al concetto dell'essere generale, nè v'apparisce punto la personalità divina: sicchè Parmenide non avversa come Xenofane la mitologia, anzi l'accetta qual credenza po polare. In man di lui, perciò, il sistema eleatico si rese più ideale. E questa idealità condusse PARMENIDE (sembra un paradosso ), come anco Xenofane alla confusione lel senso e dell'intelletto. Quanto a Xenofane apparisce da un verso di lui in Sesto Empirico; e quanto a PARMENIDE, lo notò espresso Aristotile (ppovaly usy tér vistn512). Mentrechè il sensista dice: la sensazione è idea e tutto: l'idealista dice: l'idea è sensazione e tutto. Ma sorge contraddizione nuova: se intelligenza e senso son tut t'uno, come potrà egli il senso darci l'illusione? Ep pure, ZENONE DI VELIA non pare ch'altro volesse co’suoi strani sofismi fuorchè mostrare: com’abbandonandoci all'apparenze del moto e del moltiplice, cadiamo sem pre in contraddizioni. E la parte negativa di tal sistema s'accrebbe in Melisso che (notate, o signori) muove dal l'ente indeterminato come PARMENIDE, ma lo significa in modo più indeterminato ancora, chiamandolo un qual cosa. (V. Fragm. Phil. Græc. Didot; De Xenophau Melisso et Gorgia; Arist. de Soph. Elenchis, e Plat. Thecet.) Se non che, Melisso torna co’ Pitagorici a dire che Dio è infinito, negando a loro ch'e'sia finito, per chè l'ente non ha principio nè fine. (Fragm. 2. ) E ciò va bene; ma pare che qui terminasse l'infinità nel concetto di Melisso; egli non lo concepì come infinitu dine assoluta d'entità, e pero dotato d'efficienza crea trice e pensiero puro; anzi l' indeterminatezza di quel l'astrazione fece sì ch'egli non parla dell'intelletto e della bontà di Dio, e l'idea ne vacilla dinnanzi com'om bra informe e vana. (Ritter, Bertini.) Così da Xenofane in poi vi fu scadimento, come da ' Pitagorici di CROTONE agli Eleati o VELINI Questi bensì fecero progredire la dialettica tendendo a conciliare i contrari, e Aristotile fa inventore di quella ZENONE DI VELIA, che si sa da Diogene Laerzio aver composto dialoghi. Se la scuola pitagorica seguitò, ma con forme più filosofiche, il panteismo orfico nella sua totalità, gli Eleati ne presero la parte ideale; gl’Ionj la corporea e sensuale. Ell'è perciò la setta men filosofica. In che ci viltà? Tra'costumi voluttuosi della Ionia, e in quelle città che presto soggiacquero alla servitù de’Lidj e de Persiani. E se voi mi domandate, o signori: Que' sistemi da che gente vennero professati? Rispondo, che salvo i più antichi, cioè Talete e Anassimandro nati a Mileto nel l'Asia minore, delle virtù cittadine di tutti gli altri non si sa nulla; o sappiamo d' Eraclito ch'era superbo, duro e solitario. Di Talete stesso, bench’ Erodoto ricordi un consiglio di lui agl' Ionj, Platone (Teetete) dice ch' ei s'astenne da' pubblici negozj. Qual diversità dalla storia de Pitagorici ! non ci meravigli, pertanto, la diversità ne sistemi. (Fragm. Philos. Græc. Didot, 1860.) Il moto delle cose lo crederono gli Ionj nell'asso luto. E che cos'è l'assoluto? La materia del mondo. unica entità, eterna, divina, dotata di pensiero ch'è di vino attributo. Tutti gli Ionj. fuorchè Anassagora, ebber ciò di comune; e s'assomigliano alla scuola degli Eghe 286 PARTE PRIMA. liani materiali che succedettero agl' ideali. Ma gl' Ionj diversificarono tra loro nel concepire il moto dell'uni verso; chi, come Talete e Anassimene, Diogene d'Apollonia ed Eraclito, ebbe un sistema dinamico; chi, come Anassimandro e Archelao, un sistema meccanico. Ed ec cone il divario: cercaron tutti la prima cagione delle cose, ma pe' dinamici la produzione si fa con isvolgi mento di forze vive, come gli animali e le piante; pe’miec canici la produzione non ha se non forme apparenti. mutandosi solo le particelle inerti come ne’minerali. La dottrina vera comprende le due opinioni; perchè la cau salità modale trae sempre in atto le potenze, l'atto si produce (dinamica ); benchè quest'atto poi non ci dia sempre una specie o un individuo, come nella generazione degli animali, bensì talora un aggregamento come ne'mi nerali. A ogni modo, tal dottrina non s'applica punto alla causalità creatrice; e gl’lonj, negando che dal nulla si faccia nulla, negando qualunque causalità che non operi sopr'un soggetto preesistente, non s'avvidero, che tal cau salità non può dirsi assoluta, ma condizionata. Questo in genere; venendo poi a specificare la causa prima, gl’lonj la posero chi nell'una e chi nell'altra cosa che più parve trasmutabile in ogni altra o quasi un germe, secondo i dinamici, o quasi elemento univer sale, secondo i meccanici: Talete nell'acqua, Anassi mandro in una natura media (udtaču puçev ), e però lo chiama principio (apua), Anassimene nell'aria, Eraclito nel fuoco, Diogene altresì nell'aria. Ma, badate, o si gnori, nè quell'acqua, nè quell' aria, nè quel fuoco, son proprio ciò che ne vediamo; è un che più intimo e uni versale, simboleggiato in cose visibili secondochè queste parevano più acconce a figurare l'universalità, come l'acqua che tutto abbraccia, l' aria per cui si vive, il fuoco che tutto vivifica e distrugge. E con questo pensare la causa prima, s'andò di male in peggio. Talete serba confuso al materiale un < he di spirituale; però dice che tutto è pieno degli dèi e che in ogni cosa è la mente, e, secondo CICERONE (Quest. Tusc.), professa l'immortalità dell'anima. È un panteismo materiale, ma confuso ed implicato: vi si sente ancora le reliquie della filosofia teologica più antica, già comune (com' io dissi ) agl'Ioni, anzi a ogni gente ellenica ed agl' Italioti; e però i Padri citano di Talete molti detti sapienti sulla natura di Dio. Anassi mandro svolgeva la parte materiale dicendo che il prin cipio, in cui tutto ritorna è infinito, perchè l'origine o il cominciare non termina mai (tov © vo ) trn doury ENOL Ó žosipov. Fragm. Phil. Græc.; Didot); però gli dèi nascono e moiono, e son astri e mondi; e la specie umana venne da' pesci. Anassimene seguitò quella via; nè altrimenti Eraclito, benchè questi, che cita Pitagora e Xenofane (Diog. Laert. IX, e Clem. Alex. Strom. I ), désse alla dottrina del fuoco le apparenze d' una misti cità orientale. Non si discostò dalla teorica degl'Ionj circa la causa lità l'altra teorica sulla ragione prima. Qual è la ragione del conoscere? questa, che il principio conoscitore sia formato della materia universale, di cui si formano le cose conosciute, dacchè il simile si conosca pel simile. Sembra che di morale gl'Ionj ne parlassero poco; e ciò sta col materialismo loro; Eraclito bensì pone la legge nella ragione universale o divina, palese con le leggi della patria; Achelao nega ogni legge necessaria; e il giusto e l'ingiusto fa nascere dalle convenzioni umane. Tal panteismo ch ' è sempre a priori non détte, benchè materiale e salvo poche verità, una fisica buona. All'assurdità del panteismo volle rimediare Anassagora da Clazomene, nato verso il 500 avanti l'èra nostra, però distinse la mente dal mondo. Ma non la stimò creatrice; sicchè s'apprese al dualismo; anzi, (lacchè spiega poi la formazione del mondo come gli al tri Ionj meccanici, non si sa bene che ufficio e' désse alla mente divina in ordinare, il mondo. (Plat. Fodone.) Il suo libro cominciava: Tutte le cose erano insieme; l'intelligenza le divise e le dispose. (Diog. Laert.) E così distinse Dio, o la mente (vojv), dalla natura; e questa pose in particelle simili, omeomerie, che son semi delle cose o per la disposizione già ricevuta o che rice von poi di mano in mano (2.pay.tov otepusta.). Diogene di Apollonia in parte lo seguì, ma peggiorando; chè fece l'aria dotata di mente, e quindi ordinatrice. Archelao pure, ultimo fra gl' Ionj, alla confusione primitiva sta bili ordinatrice la mente; ma questa non va esente di materialità (Fragm. Phil. Didot); talchè il dualismo di Anassagora isterili. Che tenne dietro, o signori, alla confusione del pan teismo ed alla separazione del dualismo? La negazione degli scettici, particolare dapprima, universale poi. E di fatto, già svolte l'opinioni de' Pitagorici e di VELIA, ben chè non anco terminate (come va sempre), e già comin ciato il sistema d' Anassagora, sorsero pressochè ad un tempo le sette degl'idealisti e de' materialisti. L'idea lismo ateo venne da Protagora (di cui nel dialogo con tal nome ed in più luoghi scrive Platone ); colui, non si sa quando nato, fiorì verso il 444 avanti l'èra nostra. Il principio d’un suo libro cominciava: Degli dèi non so nulla; e Timone Fliasio scrive, che Protagora quantun que dicesse ignorarli, osservò la legge ossia le cerimo nie legali (Fragm. Phil. Græc.): nella osservanza della legge i sotisti posero moralità e religione. Diceva Pro tagora con gl' Ionj: tutto si muta; e con gli Eleati: tutto apparisce. Questa proposizione viene dall'altra; perchè se nulla r’ha di stabile, tutto è fenomeno od ap parenza. Vedete, o signori, come l'idealismo nascesse dall' opinioni anteriori. E sulle due proposizioni già dette si fonda il sistema di Protagora, che disse perciò: se tutto muta, nulla è in sè stesso; e se tutto apparisce, l'apparenza solo è vera; vere l'apparenze contrarie, veri i contradittorj, vero insomma tutto ciò che si pensa, e l'anima è la somma dei diversi pensieri (Condillac, Kant), e il fine del discorso sta nel produrre l'appa renza: qui è il sostanziale dell'arte sofistica. Che vi pare, o signori, non lo dicono anch ' oggi: tutto è vero quel che si pensa? Quasi contemporaneo, ma un po'dopo è Democrito d'Abdera, nato per Apollonio il 460, e per Trasillo il 470; talchè, se fiorito con Protagora il 444. ciò sarebbe avanti a' 16 od a'26 anni; impossibile il primo caso, non verosimile il secondo, perchè Democrito dettò le cose sue dopo lunghi viaggi. Sa degl'Ionj, perchè materialista, tiene bensì degli Eleati, perchè muove dal concetto dell'ente; e dice: unico ente il vuoto e lo spazio con gli atomi nel seno; dalle loro congiunzioni e dalle figure matematiche conseguenti nascono le qualità; e poiche il simile si conosce col simile (τα όμοια ομοιών είναι apestira ), v'ha conoscimento nell'anima, essendo ella un atomo a cui vengono le figurette o immaginette dei corpi; rozza fantasia che male s'attribui ad Aristotile. E Dio che cosa è per Democrito? Compiacendo alle plebi, egli finse dèi come immagini enormi, ma sotto posti a morte; vero ateismo. (Fragm. Phil. Græc. Di dot.) Vuol notarsi che Leucippo fiori con Eraclito il 500; ma poichè il materialismo giungeva non opportuno. mancò allora il successo, in tal maniera che di Leucippo non si sa pressochè nulla. Se Protagora s'accostò allo scetticismo universale, non mi pare che vi giungesse: affermò che tutto si muta, e ch' è solo quale apparisce, non si sa per altro ch'e' ne gasse l'entità delle cose in questa loro perpetua muta bilità ed apparenza; chi giunse a tal punto, risoluta mente, espressamente, e GORGIA DI LEONZIO (V. Dial. di Platone col nome di lui, e altri dialoghi); perchè scrisse un libro sul non ente, cioè sulla natura, e volle provare che o nulla è, o se è non può conoscersi o se si conosce non può significarsi. Con Protagora e GORGIA v ' ha una schiera che la Grecia infamò col nome di So tisti, Prodico, Eutidemo e simiglianti. Chi erano costo ro? L'antichità gli ebbe per uomini venali. In che ci viltà vennero? In età di corruzione. Che frutto recarono? Dicon gli antichi: pessimo nell'arte, nella scienza e nel l'educazione della gioventù; benchè, come si vedrà, fossero occasione di qualche miglioramento. Ma ecco fiorire verso que' tempi (V. Tavole del Storia della Filosofia. - I. 19 Krug) un uomo che vuol riparare a tanta dubbietà. Chi? Empedocle di GIRGENTI. Con che? col misticismo a cui s'ac compagna (come accade sulla fine dei sistemi) un fare d'ecclettico. (Fragm. Phil. Græc. Didot. ) Da'frammenti del suo poema (népe ouro ) e da' detti d' Aristotile e d'altri si raccoglie che il sistema d'Empedocle non è già fisico solamente; Dio per lui è mente santa incor porea: e nè un pretto dualismo, perchè il mondo è tutto, e c'è divinità mondane o fisiche: e nè un pretto pan teismo, perchè si distingue la mente divina e gli atomi: che cos'è dunque? Parmi ch'e' non avesse un concetto nitido, com'accade agli ecclettici; e così di lui pensa rono gli antichi: alcuno lo fa di Parmenide, altri pita gorico, Platone lo mette con Eraclito, e Aristotile con Leucippo, con Democrito e con Anassagora. Ma prevale il misticismo; perchè ne' frammenti del poema, Empe docle si dà com’uomo miracoloso, e si crede un Dio immortale; e veste da sacerdote. In lui sentite lo scet ticismo e l'estasi; egli pone la mente, umana in parte ed in parte divina; quella c' illude, questa (come dice il Ritter) dà un santo delirio e sorge alla contemplazione mistica di Dio nella natura. Tal è l'Yoga indiano, tali gli Alessandrini. E questi, di fatto, ebbero in grande stima Empedocle; ma Platone ed Aristotile, osservato ri, lo pregian poco. Tuttavia egli seppe dimolto, e valse in fisica, e fu ben altr'uomo dei sofisti; onorato dai suoi cittadini ed in tutta Sicilia. Così terminò quest'epoca, ed ebbe strascico lungo in due schiere d'uomini; atei la cui morale era il piacere, Evemero, Ippone, Nicanore, Pelleo, Teodoro, Egesia e Diagora; Pitagorici o dati anch'essi al materialismo, così Ecfante, o mistici la maggior parte. Questi atei com ' Evemero interpretarono storicamente la mitologia: gli dèi furono uomini indiati, non altro. La scuola fisica poi degl'Ionj, più tralignati, la interpretò fisicamente: gli dèi son le forze uniche della natura  EPOCA QUARTA DELL' ÈRA PAGANA. SISTEMI GRECOLATINI. CICERONE. Moltitudine di scuole tra la seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fin al quarto secolo dell'era stessa, sullo spartimento delle quali non sono chiari gli storici. Criterio per la distinzione del. l'epoche, e quindi per l'assegnazione varia de ' sistemi. Con tal crite rio, le dette scuole si spartiscono in due classi. – La prima classe si sud distingue; 1º negli eruditi; 2 ' negli scettici; 3 ne ' sistemi grecoasiatici: tutti formano la fine dell'epoca terza, cioè sono la conseguenza de ' sistemi anteriori. La seconda classe, o de' sistemi grecolatini, fa un'epoca da sė, cioè l'epoca quarta. È un'epoca nuova, per la tentata riforma, e per l'efficacia grande cosi di Cicerone come de' Giureconsulti. — Cagione del sorgere tardi la letteratura e la filosofia in Roma. Elle sorsero, quando i Romani non furono più con tutta la mente in fatti gravi e giornalieri. Allora può la riflessione volgersi alla coscienza e contemplarvi l'uomo, – Il pensiero de ' Romani si distese all'Italia e al genere umano. — Naziona lità naturale e politica degl' Italiani merce i Romani. Affetti domestici nel buon tempo di Roma. Come si vedano in Virgilio le qualità prin cipali della civiltà italica. I germi antichi di questa erano in Roma; si svolsero per impulso di Grecia. Durò poco in Roma la filosofia pura mente speculativa, perchè già la filosofia greca, declinando, avea lasciato salve ben poche verità, e perché Roma cadde in servitù. Cicerone e i Giureconsulti romani costituiscono la vera filosofia grecolatina. Cice rone si proponeva di sceverare dal falso e dall'incerto le parti vere e certe ile' sistemi greci, di comporle in ordine chiaro, d'applicurle praticamente, e che se n' aiutasse l'eloquenza. - Sue virtù e suoi difetti. Si prova ch'egli non fu copiatore de ' Greci, ma pensò di suo. Non pare da distinguere i suoi libri (com ' alcuno pensa) in popolari e dottrinali. Libri logici, fisici e morali. Cicerone ripete il conosci te stesso come fondamento della filo sofia: la coscienza con tutte le due relazioni. Indi l'evidenza interio Uso degli altri criterj secondari, tenendo sempre in mente l'universi lità e dov'ella si manifesti. Cosi egli potė cansare gli eccessi de ' sistemi; e si prova quanto a ’ Platonici, a' Peripatetici, agli Stoici, agli Accademici: rigettato assolutamente l'Epicureismo. - Cicerone non elegyeva da ecclettico, ma per un ordine di principj; vide cioè che la filosofia è da studiarsi entro di noi; e da tale studio inferi tre verità, che gli furono regolatrici: 1º che l'uomo sta sopr' all ' altre cose; 20 che la ragione dell'uomo prevale al senso e al corpo; 3º che questa ragione con le sue leggi ci fa palese Dio. Talche delini la filosofia: scienza delle cose divine e umane e delle cagioni di queste (off.): l'altra definizione de' Tuscolani è come racconto dell'opinioni pitigori che. Va seguito i principj spontanei, naturali, universali della ragione: ecco l'assioma di Tullio. — Ma, per la moltitudine de ' sistemi, ei potè co gliere poche verità; queste affermò, nel resto sospende il giudizio. Esem pio, il finale de natura Deorum. Le dottrine certe di lui ne ' libri morali, o sulla legge e sulla libertà; le opinioni verosimili ne'fisici, o sulla natura divina e dell'anima; ne'ljbri logici l'une e l'altre; ossia, egli è certo su'prin cipj e sull' evidenza interiore, ha solo verosimiglianza sul criterio delle per cezioni esteriori. Dualismo. — Anche per la teorica del conoscimento. Teorica dell'operare bellissima; legge naturale, eterna; Dio n'è la fonte; re. -. chi non ammette Dio, non può ammettere la legge. — Il dovere. Gradi degli officj. Quel ch'è giusto in sè stesso. Utile apparente, e utile vero; questo è conseguenza della virtù. — Onestå. Le leggi positive nascono dalla naturale; Dio è il proemio di tutte le leggi. - Buoni eifetti della filosofia di Cicerone. Non anche terminata l' epoca terza cominciò la quarta, de' sistemi greco-latini – LATINO – ROMANO. Dalla seconda metà del penultimo secolo avanti l'èra volgare fino al quarto secolo dell' era stessa, troviamo una moltitudine di scuole, lo spartimento delle quali dà qualche impaccio agli storici. Taluno le piglia tutte insieme (e vi comprende gli Alessandrini) come una sequela de sistemi greci anteriori; e così non pone ad esse un'epoca distinta. E per fermo se tutte le dette scuole non fosser altro che discepoli, o raccoglitori eruditi, mancherebbe la ragione del porle da sè, o del farne più classi. La ragione d'un'epoca, quando si parla di scienze, è solamente una grande verità scoperta, da cui dipende l'ordine universale d'una scienza qualunque, o il risorgimento di essa dopo un tempo di scadimento, e quindi l'efficacia su ' tempi avvenire. Insomma, v'ha un principio d'epoca, quando v’ha un principio di moto nuovo e potente: la continuazione di moto, è continua zione d'epoca e nulla più. Applicando tal criterio all' età sovraccennata, par chiaro che i sistemi vi si distinguano in due parti; una sta nell'epoca terza precedente, ossia nella greca e come termine di essa; la seconda costituisce un'epoca da se per qualità sue proprie, o un'epoca quarta, benchè i siste mi dell'epoca terza la precedano, l'accompagnino ed an che le sopravvivano: tanto è vero che la sola divisione per tempi non segue la realtà. La prima parte che ter minò l'epoca greca, si suddivide in tre, gli eruditi, gli scettici, i grecoasiatici. Da un lato v'ha le scuole di pretta erudizione; le quali non iscopersero nulla, nè rinnovarono nulla; gli Stoici eruditi; i Platonici eruditi, com’Areio Didimo, Trasillo, Albino, Alcinoo, Massimo di Tiro; i Peripatetici eruditi o commentatori d'Aristotile, come Alessandro d'Afrodisio; i Medici, eruditi anch'essi, platonici e peripatetici, come Galeno. Poi da un altro lato v'ha lo scetticismo d'Enesidemo e di Sesto Empirico, i quali compivano, anzi riducevano a sistema il dubbio di Pirrone e di Timone, volgendosi specialmente contro la causalità, e negandola per la singolare ragione che il modo intimo del causare nol conosciamo; quasichè possa negarsi ciò ch'è ad evidenza, quando non si sa spiegarlo. Da un terzo lato ancora, mescolati i Greci con gli Asiatici per le conquiste d'Alessandro e poi per la vastità dell'impero di ROMA vediamo un congiungimento tra la sapienza orientale e i sistemi greci; onde si svolse la setta degl’Alessandrini, che non fecero altro se non ridurre a forme greche il panteismo asiatico, già cominciato in Filone ebreo, nella Kabbala, in Apollonio Tianeo e in Moderato, Nicomaco, Plutarco, Apuleio, Cronio, Numenio. Questi, benchè distinti dalla scuola d'Alessandria (e fa male chi li confonde), in sostanza cominciaron l'avvio di quella, che ne trasse i pensieri a compimento. Gl’Alessandrini e i loro antecessori fanno essi dunque un'epoca nuova? No, perchè i metodi sono affatto dell'età socratica, e i principj gli stessi. Lo scetticismo poi che li conduce al misticismo, appartiene a quel medesimo tempo. L'unione dell' orientalità con l'atticità pare un che nuovo, ma scientificamente non è. Proviene dalle tendenze mistiche succedenti al dubbio, non già da'me todi scienziali; piacque la misticità orientale, richiesta già dagli animi. Ebbi l'opinione anch'io che gl’alessandrini facciano un'età da sè; ma più attenta consi derazione m'hacondotto ad altro parere. La seconda parte sì che fa un'epoca da sè, l'epoca quarta o LATINA O ROMANA. Introdotte le scuole di Grecia in ROMA comincia ivi un ordine proprio di concetti per efficacia delle tradizioni ITALICHE e per la civiltà di ROMA. Talchè, ripeto, avvi un'epoca quarta, o de sistemi LATINI ROMANI; nuova per le riforme tentate da CICERONE e per la novità dei iureconsulti, che hanno efficacia sì viva e universale nella civiltà europea; e anco perchè CICERONE serve più che i greci alla filosofia cristiana de' padri latini e dei dottori, i quali per via di lui, piucchè in modo immediato, sanno l'antiche opinioni. Adunque in uno specchio generale di storia si dee lasciare i filosofi eruditi, che non aggiungono nulla; degli scettici dissi già nel passato. De'sistemi grecorientali poi si dee trattare nella prim'epoca del l'èra cristiana, perch' essi combatterono la sapienza de Padri e n'eccitarono la opposizione. Resta che noi parliamo qui de' sistemi LATINI ROMANI, che soli ci danno un'epoca nuova. Non fa meraviglia che in ROMA a nascesse tardi la filosofia. Nasce quando la riflessione si volge alla coscienza, e vi contempla l'uomo interiore per elevarsi all'ideale universalità. La filosofia vi s'eleva in modo astratto. Ma quando un popolo, come IL ROMANO, è tutto inteso a fatti gravi e giornalieri che lo attirano o a guerre esteriori od a contese interne; allora ti daranno bensì canti popolari di guerra e d'illustri memorie (come gli accenna LIVIO. Ma non si possono dare filosofia. In que' tempi guardasi al fine politico ed aʼmezzi, non alla natura dell'uomo qualità generali delle operazioni, come fa il filosofo. Indi la rozzezza de’ROMANI, talchè narra LIVIO, che lo storico più antico e FABIO PITTORE a' tempi d'Annibale. Ma quando ROMA ha esteso la dominazione a tutta Italia e oltre, allora IL ROMANO non vide più solo innanzi a sè le contese de' vicini, e le contese del foro tra nobili e plebei, sì un'intera e grande nazione e il genere umano. Così l'idea di ROMA si appresenta in relazione con tutta l'Italia e l’Italia in relazione col mondo. Il pensiero de' ROMANI si dilata. Si allarga fuori del cerchio de' fatti particolari. Il quirita si sente più chiaramente e figlio di ROMA, e italiano, e uomo, tanto più che a poco a poco LA CITTADINANZA ROMANA si estese a tutta Italia. A’tempi di Storia della Filosofia. – 1. e alle 24 2 as 2 CICERONE non rimane quasi più possedimento in ITALIA non assegnato a'cittadini per via di colonie; il qual fatto, unito all'altro che già notai de’ primitivi abitatori ricaccianti le colonie greche, spiega com’in Magna Grecia ed in Sicilia i dialetti sieno italici puri (chè i pochi Greci di PUGLIA non sono gl’antichi), non già ellenici come in Grecia moderna e in alcune parti del l'Asia minore. Le colonie di ROMA, aiutate dall'affinità primitiva delle schiatte italiche, formano così l'unità naturale, o la consanguinità della nostra nazione; nazionalità naturale determinata da'naturali confini del nostro paese, e che si manifesta nell'unità formale de dialetti, o già contemporanei al romano, o nati da esso. Indi allora nacque la politica nazionalità benchè dopo cinque secoli di guerre; ma lasciando a’municipj un'im magine di ROMA, consoli, senato e popolo com'a FIRENZE (Malespini e Villani), e concedendo a que municipj amministrazione lor propria; indi vennero i nostri comuni del medio evo. Roma e l'ITALIA, considerate in relazione col mondo, formarono nelle menti romane com'un archetipo di perfezione. Il vecchio PLINIO (giova ripeterlo qui) scrive dell' Italia. Omnium terrarum alumna et parens, omnium terrarum electa; una cunctarum gentium in toto orbe patria. E VIRGILIO, lodando magnificamente l'ITALIA nel secondo delle Georgiche, non si ristringe a Roma, e dice. Hæc genus acre virumi, Marsos pubemque Sabellam Adsuetumque malo Ligurem, Volcosque verutos Extulite.” E Virgilio finisce con quell'alte parole. “Salve, magna parens, Saturnia tellus Magna virum.” Giunto un popolo a questa larghezza di sentimento e di riflessione, possiede l'idealità necessaria per la filosofia. Non lo stringono più le necessità de'fatti speciali, stende il pensiero alle attinenze, considera la natura dell'uomo e delle cose. Questo svolgimento di coscienza per la riflessione venne promosso da una causa tutta particolare a Roma ed all'ITALIA. Qui, più ch'altrove nell'antichità, e sacro il connubio; e gli affetti di famiglia v’ebbero consistenza per molti secoli. La stessa mitologia nostra, come dice Polibio, rigetta le nefandezze de' simboli elleni. Or bene, gli affetti di famiglia tengono vivo il senso morale, che dipende dal l'idealità suprema della legge e del dovere. Non v'ha dunque da stupire, se VIRGILIO, benchè imiti Omero, si distingua tanto da lui ne' principali concetti che governano il poema; ossia, nel concetto che ordina il poema stesso e ch'è una disposizione di provvidenza rispetto a’ Romani; poi, nel concetto di patria ch' è Roma; in quello altresì di nazione (non di schiatta soltanto, come la Grecia ), cioè di tutte le genti italiane, non solo consanguinee (schiatta italica), ma dimoranti pure in unico paese (nazionalità naturale) e poi congiunte da ROMA (nazionalità politica): nell'altro di famiglia onde ri fulge l’Eneide dal principio alla fine; per ultimo, nel l'intima e soave descrizione degli affetti, con la quale il poeta mantovano prepara la poesia cristiana. Sicché, quand' io leggo in alcuni libri ch'a Virgilio manca un'idealità propria, prego da Dio la fine di certe passioni che impediscono la equità de' giudizj. Però, mentre allargavasi il dominio romano, cresce vano le ragioni d'intima civiltà; le quali, per altro, s'acchiudevano già in Roma ab antico. La prisca gente romana che ch'ella fosse e in qualunque modo si ragunasse da prima, certo è, che s'ella fu rozza per le necessità di continue guerre, sorse tuttavia tra popoli molto civili; ebbe accanto la Magna Grecia e l'ETRURIA, e le tante città de’ SABINI e del LAZIO. Ora chi non sa quanto valgano mai le tradizioni civili anco tra popoli rozzi? NUMA vien detto alunno di Pitagora; ' e l'anteriorità di quello è spiegata dall'antichità delle scuole pitagoriche, com'altrove narrai, Dice CICERONE. “Romuli autem ætatem jam inveteratis literis atque doctrinis fuisse cernimus.” (De rep.): e Agostino scrive nella “Città di Dio” che Romolo e venuto non “redibus atque indoctis temporibus, sed jam eruditis et expolitis.” Plinio cita le belle pitture d'Ardea più antiche di Roma. I Romani predarono dalla sola Volsinia 2,000 statue. Bolsena in Fenicio significa città degli Artisti (Cantù, St. Univ.) Se a ciò aggiungo la tradizione, che le leggi de cemvirali si prendessero di Grecia (tradizione falsa per le leggi che s'attengono a' costumi di Roma, vera probabilmente quant'al modo d'ordinarle ), e se aggiungo altresì la perfezione che graduatamente il gius positivo ha dal gius onorario, mi capacito che nel seno di ROMA cresce un germe di civiltà e però di filosofia, da venire a compimento, quando se ne offerisse la occasione. E questa occasione, testimonio la storia, è sempre qualcosa d' esterno. L'occasione a Romani venne da Greci conquistati. Ed ha il proprio segnale nell'ambasceria di Critolao, Carneade e Diogene babilonese. CATONE si sforza di cacciare le sette greche. Invano, il terreno era preparato. E la pianta fiorisce. Ben è vero che la speculazione puramente filosofica non dura a lungo, ma prosegue a fecondare il diritto. E la qual brevità ha due cagioni principali. I sistemi greci, che aveano menato tant' oltre la FORMA LOGICALE della filosofia, quant'alla MATERIA poi l'aveano lasciata in dubbiezze infinite, come vedemmo; talchè si richiede uno sforzo più che umano a rilevarla: poche verità si conservavano intatte da ordirvi la scienza. Quindi, o rimane solo a far opera d'eruditi e d'accozzatori, come gli ecclettici d'allora; o bisognara trar fuori quel poco di certo, che non da soggetto a copiose speculazioni. In secondo luogo, allorchè ROMA venn'a maturità di pensiero, cadde in servitù che isterili la letteratura e la scienza. Quindi, i sistemi latini ROMANI si riducono il più alla filosofia di CICERONE, e alle scuole de' Giureconsulti. I filosofi anteriori a CICERONE seguirono i Greci pressochè interamente. LUCREZIO ripette quasi le dottrine del Giardino; ma nondimeno LUCREZIO mostra la coscienza di romano, allorchè, facendo materiale l'anima, pur conta fra gl’elementi costitutivi di essa un elemento innominato, quasi animo dell'anima. “Nobilis illa vis, initum motus ab se que dividit ollis, Sensifer unde oritur primum per viscera motus.” (De Nat.). E, quando stabilì negl’elementi un moto spontaneo per ispiegare la libertà E quando celebra la divinità della natura con versi stupendi e la santità del matrimonio. SENECA non si parte dal PORTICO, benchè fa professione di non ispregiare nessuna scuola. ANTONINO, com’Epitetto, ha lasciato aurei precetti, ma senza ordinamento di scienza. CICERONE, al contrario, istitue speculazioni proprie, che certo hanno forza nell'universalità de' Romani culti e nella giurisprudenza. Io dunque parlo di CICERONE e de' Giureconsulti. Fin d'ora io dico che CICERONE si propone di sceverare (con un principio superiore) le parti vere e certe de sistemi greci dalle false od incerte, di comporle in ordine chiaro, d'applicarle alla vita privata, e ch'elle confere all'eloquenza. Questa filosofia di CICERONE suol chiamarsi ecclettica; e chi la intenda per metodo compositivo e logicamente ordinato, passi. Ma dice male chi la pigliasse per una scelta a caso, senz’un principio interiore e ordinatore. Nessuno puo negare che ciò distingua le speculazioni di Tullio dall' ecclettismo de' Greci mentovati poco fa, i quali ragunavano nella memoria, ma non componevano nel pensiero; e lè distingue pure da’migliori sistemi dell'epoca antecedente, perchè CICERONE li giudica con libertà e li trasceglie. Nè si può mettere in dubbio l'efficacia di CICERONE – non MARC’ANTONIO, chi lo assassina -- su'secoli avvenire. I Padri e i Dottori lo studiarono molto; e Agostino, da uomo grande che riconosce il vero ed il bene onde che venga, scrive nelle Confessioni. Hic liber -- cioè la lettura dell'Or tension --  mutuvit affectum meum, et ad te ipsum, Domine, mutavit preces meas, et vota ac desideria mea fecit alia.” Pare che CICERONE trade la schiatta da quel Tullo Azio, che regna gloriosamente su’ Volsci (Plut. in Cic.). E quegli se lo tene per certo, sicchè dice ne' libri Tuscolani, che Ferecide era antico -- fuit cnim meo regnante gentili: indi la smania di comparire tra gli otti mati. Lasciate le scuole, udì Filone accademico; ma insieme pratica Mucio, personaggio assai versato nella politica, e principale tra’senatori, imparando da lui scienza di leggi; e milita con SILLA tra’ Marsi (Plut.). Sente anche Fedro epicureo e Diodoro stoico. In Atene segue Antioco accademico, e non trascura Zenone all’Orto. Anda poi in Asia, e si ferma a Rodi, per esser ammaestrato dallo stoico Posidonio. Favella con tal passione e con voce si concitata, che gli reca danno alla salute. In Sicilia e pretore giusto, umano, amatissimo. Dopo la congiura di Catilina, CATONE stesso chiama Cicerone padre della patria dinanzi al popolo. Esiliato da Roma per le mene di CLODIO, vi rientra poi come in trionfo. Gli furon trionfo tutte le vie d'Italia, per le quali CICERONE passa. Stette fedele alla re pubblica contro la signoria di GIULIO CESARE e la tirannia di MARC’ANTONIO. MARC’ANTONIO lo manda a trucidare, e Cicerone porse il collo alla spada (Plut.) Ama la famiglia con tenerezza. Esule, scrive a Terenzia sua e alla figliuola lettere d'amore sconsolato. Come CICERONE intende la santità dei pubblici ufficj, lo mostra la famosa lettera a Quinto fratello. Le sue lettere, scritte da lui senz'intenzione di pubblicità, e che formano uno de' più bei libri del mondo, lo mostrano sempre d'animo schietto e buono. Scrive a PETO. “Sii persuaso, che giorno e notte non altro cerco, non altro penso, se non che i miei cittadini sien salvi e liberi. Non lascio opportunità d'ammonire, di fare, di provvedere. Infine io son fisso qui, che se in tanta cura e amministrazione ho da porre la vita, stimo di aver finito preclaramente. (Ad fam.) Non pecca d'orgoglio, ma di vanità; si lodava spesso, e questo aizza gl'invidiosi, e a lui diminusce rispetto. Faceto, morde non di rado altrui, e, senza volere, s'accatta nemici; ma in lodare i meriti veri abbonda con allegrezza e con liberalità d'uomo sincero e benevolo. Parve talora incerto ne' propositi, e troppo addolorato nelle sventure. Prende due mogli, ripudiando la prima. Volle dedicare un tempio alla figliuola morta. Loda e invidia gli uccisori di GIULIO CESARE. Loda prima GIULIO CESARE troppo, ma non l'opere mai. Dice Capponi (Archivio Storico ): Ma chi fosse più di me severo a Tullio, pensi com'egli animosamente comincia la sua vita d'oratore e la compiesse gloriosamente. Assalse nella difesa di Roscio d'Amelia un Crisogono liberto di Silla ch'era affrontare SILLA medesimo. Principe nella città e guida e anima del Senato, combatte MARC’ANTONIO e incontra la morte.Oratore, accusa sempre gli scellerati, difese qualche volta i non innocenti. FILOSOFO, stette per lo più dalla parte del vero. Bensì approvò il suicidio, l'assassinio de' tiranni, la vendetta, un certo sfogo di carnalità, e la schiavitù. Uomo di stato, cerca troppo la lode, ma insieme la grandezza e il bene della patria. Scrive d'eloquenza, ed e oratore sommo. Scrive di filosofia morale, ed e uomo dabbene. Scrive di cose civili, ed e gran cittadino. Ecco i fatti principali e virtù e difetti che spiegano LA FILOSOFIA DI CICERONE.  È impossibile non vedere in CICERONE tre forti amori, di gloria, di patria e di famiglia. E' reca in tutto ciò un'ardenza di cuore, la quale ha talvolta del molle, ma la tenerezza è temperata da un senso vivo d'onestà e di decoro. (V. le Lettere scritte in esilio.) Ude tutte le scuole, e però raccoglie il meglio; ma con iscelta libera e ordinata, perchè uomo libero ed T 11 tro operoso, e ingegno forte. Romano e uomo di stato, segue, più che non facessero le scuole greche, il precetto socratico di badare nella scienza al fine del bene; e tal qualità pratica non diminuisce il valore delle dottrine, anzi lo cresce, purchè la scienza si pregi anco per sè, come fa CICERONE. Badando al bene, odia la parte ipotetica e vana de sistemi anteriori, e ne prende il poco, ma certo e buono. Però, indulgente ad ogni setta, coll’Orto non volle mai pace. Un po' vano, pompeggia assai nelle parole; il che gli scema vigore qua e là. Ma nella filosofia va semplice e spedito. Uomo universale, senatore e console di Roma, cerca l'universalità negli; e questa filosofia da a 'Romani l'idea di tutto il sapere. Pieghevole alla opinione altrui per bontà di cuore e per bramosía di favori popolari, combatte nella “Divinazione” le falsità del culto, le rispetta in altri luoghi; ammira il suicidio dei filosofi del Portico, non se l'attenta per sè, timido, dicon taluni, rimorso da coscienza non confessata, dirò io, e lo credo. Taluno da quelle parole di CICERONE ad Attico: ATÓMp492 sunt; minore labore fiunt, verba tantum affero, quibus abundo” (Ad Att., XII, 52). Deduce ch'esso i libri filosofici traduce, non li facesse di suo. Ma quando poi sentiamo che Cicerone stesso, in tempi che gli autori greci erano familiari, e molti a Roma i maestri greci, e in opere dedicate a dotti di greco, quali ATTICO e BRUTO, o a studenti in Grecia, come il figliuolo, dice (De fin. 1, 3): Noi non facciamo ufficio d'interpreti, ma sosteniamo le dottrine di coloro che approviamo, e aggiungiamo ad essi il nostro giudizio e un ordine nostro di scrivere. E dice altrove (De off. I, 2): Ora seguiremo e in tal soggetto il PORTICO principalmente, non come interpreti (non ut interpretes); bensì, al solito nostro, berremo a’lor fonti quanto per giudizio e arbitrio nostro ci parrà.” Allora, io affermo che Cicerone non poteva dire una bugia così sfacciata ed inutile. Narra egregiamente Plutarco. Eragli studio comporre dialoghi di filosofia e tradurre dal greco  an 10 1:. bi lice. li 1 tes  377 (In Cic. ). E così un greco antico, più che i moderni non greci, distingue bene i libri tradotti come il Timeo da'propri di Cicerone. L ' opere di lui distingue Ritter in filosofiche o riposte ed in popolari. A me non sembra; sì scorgo chiara la distinzione del DIALOGO SPECULATIVO, come i libri accademici, dagli scritti che hanno un fine pratico, ad esempio gli Offici, dell'Amicizia, e simili. Negli Officj chi mai non vede un ordinamento scienziale? E se CICERONE rispetta gli dèi più qui che altrove, pensiamo che ciò s'usa da tutti i filosofi, quando essi non ispeculavano direttamente sulla divino. Mi pare, poi, manifesta la distinzione, e più principale: tra la FILOSOFIA NATURALE (De natura Deorum, De divinatione ), LA LOGICA -- Academicorum, Topica, De inventione, De oratore etc. – LA FILOSOFIA MORALE (Tusculanorum, De officiis, De finibus, De senectute, De amicitia, De legibus, De republica, De fato. Quantunque in ciascuna classe si trovino mescolate più o meno le dottrine, non già divise assolutamente. L' Ortensio poi è perduto, d'altri libri restano frammenti. Or dunque Cicerone, imitando Socrate, tornò a'principj e al fondamento del sapere. Quegli, come questi, si trova in mezzo a una confusione di sistemi, e, come Socrate, chiama i suoi al conosci te stesso, affinchè nella coscienza di noi prendiamo il rimedio alle superbie d'ipotesi vane e il principio della sapienza vera. Quand' io dico che CICERONE imito Socrate, già non lo paragono a lui, nè come filosofo glielo fo uguale, sì discepolo; dico bensì, che il tornare a'principj è in tutte le cose rinnovamento unico e condizione di nuovo cammino; e chi rinnova, è istitutore novello e cominciatore d'un'epoca propria. E se CICERONE non riuscì a tanto come Socrate, ne chiarii altrove le cagioni; e a lui non s'ha da imputare. La scienza e la civiltà del Paganesimo cadeno, e sempre più CICERONE le trova quasi in fondo, nè potè nè sperò ritirarle in cima. Fatto è, che CICERONE, come Socrate, capi la stranezza delle sette pagane. Ama con grand' amore la filosofia, 2  ! la pre 18 MA Tha U. >> TH e ne scrive lodi magnifiche in ogni suo libro; anzi l' Ortensio e composto da lui per esortazione a filosofare; e nondimeno quand' ei volgevasi attorno, e sente le strane opinioni di tante sette, esclama: Niente si può dire di tanto assurdo, che non sia stato detto da qualche filosofo. (De div.) Ammone per ciò a rientrare nella propria coscienza, a ripigliare il conoscimento di noi, a seguire così una filosofia meno sicura de' propri sistemi, non presuntuosa (minime arrogans: De div. II, 1 ). Ripeta il precetto che sta sul tempio d'Apollo, nosce te ipsum, e dice: Essendo tante e sì grandi cose che si scorgono nell’uomo interiore da quelli che voglion conoscere sè stessi, madre loro e educatrice è la Sapienza (De off.). CICERONE invita a fermar l'occhio in questa evidenza interiore, dove tante verità si veggono chiare -- quæ inesse in homine perspiciuntur. In questa coscienza di noi stessi, CICERONE come Socrate, più di Socrate forse perchè ROMANO, sente l'uni versalità del vero, distinta dalle opinioni particolari, e l'amore che tende al vero, e l'essere nostro sociale e religioso, relazioni universali anch'esse; e però CICERONE inculca sempre di fermar l'occhio in ciò ch'è proprio dell'uomo, ossia nella retta ragione (De off.); e contro L’ORTO fa valere gli affetti più generosi dell'animo (ivi, e negli Acc. e ne Tuscul. e quasi per tutto ); e chiama in sostegno il senso comune e le tradizioni umane e divine. Così ne' libri Tuscolani adopera l'autorità del senso comune a dimostrare l'esistenza di un divino e l'immortalità dell'anima umana; e dice ne'Paradossi contro gli Stoici Noi più adope riamo quella filosofia che partorisce copia di dire, e dove si dicono cose non molto discordi dal pensar della gente. (Proem.) – cf. Grice, “Philosopher’s Paradox” -. E nelle seguenti parole del Tuscolani si vede com'ei raccogliesse, di mezzo alle opinioni varie, le tradizioni universali de filosofi e le divine. Inoltre, d'ottime autorità intorno a tal sentenza --cioè l'immortalità dell'anima -- possiamo far uso; il che in tutte le que HIE ale Di D. 4 stioni e dee e suole valere moltissimo -- in omnibus causis et debet et solet valere plurimum. E prima, di tutta l'antichità (omni antiquitate ) -- la quale, quanto più era presso all'origine divina (ab ortu et divina progenie ), tanto più forse discerneva la verità. » (Tusc.) E tra filosofi, che CICERONE cita, preferisce appunto FERECIDE, come antico, antiquus sane; e indi ne conferma l'autorità con quella di Pitagora e de' Pitagorici; il nome de'quali, egli dice, ebbe per tanti secoli tanta virtù che niun al tro paresse dotto (S 16). E dice più oltre che, secondo Platone, la filosofia e un dono, ma quanto a sè, una invenzione degli dèi. Philosophia vero omnium mater artium, quid est aliud, nisi, ut Plato ait, donum, ut ego, inventio deorum? » ($ 26. ) Nel che s'accenna il principio divino della sapienza e della tradizione. Condotto da questo filo tra i ravvolgimenti delle sette cansa gli eccessi d'ogni maniera. IL PORTICO, per esempio, la cui morale severità CICERONE approva e segue, dice, che nessun uomo è buono fuorchè il sapiente. Ma di questo sapiente ne fa un'idea sì alta. che confessavano poi, e' non darsi quaggiù; e però IL PORTICO, se consentanei a sè, dovevan dire impossibile umanamente la loro superba virtù e disperarne come BRUTO morente. CICERONE al contrario riconosceva una più umile sapienza e virtù, che può essere di tutti, e che ci abbisogna nel vivere comune. (De amic.) IL PORTICO, crede CICERONE, indiando la natura, di poter trarre le superstizioni volgari a senso ragionevole (come tenta VARRONE per testimonianza d’Agostino – “Città di Dio”. Ma Cicerone le deride (De nat. Deor.). Mena buono all’ACCADEMIA, al LIZIO, e al PORTICO, che la più alta felicità dell'intellettuale natura sia la contemplazione (Hort. in Agost. De Trinit.). Ma in questa vita, ei dice, la contemplazione senza la pratica delle virtù è nulla (De off.); e quindi censura Platone che scrive: Il savio non essere obbligato a civili negozi. (De off.). IL PORTICO, per alterezza di ragione, spregia il corpo e i beni corporei. Ma Cicerone dice:  11 he COL iti be 111 15:-11 19 Poichè s'ha da seguire la natura. Noi siam anima e CORPO. Non possiamo spregiar il corpo, nè si dee imitare que'filosofi, che accorti d'un che superiore a'sensi ne spregiano la testimonianza. Con che l'accoccava pure agl’Accademici. (De fin.). IL PORTICO nega l'efficacia del dolore sull'uomo sapiente, e svile ogni piacere. CICERONE invece mostra che il dolore eccessivo è impedimento agli officj, e che le temperate giocondità son utili e buone. (De sen., De fin.). IL PORTICO, concependo la virtù con altezzosa rigidità, stimano uguali tutti i malvagi e tutti uguali i peccati, perchè tutti contrarj al bene. CICERONE confuta in più luoghi tale uguaglianza e mostra, per esempio, ch'altro è mancare a posta, altro è nell'impeto di passione. (De off.) Se nella morale ei tenne dal PORTICO, rigettate le loro esagerazioni, in logica, metodo filosofico e analisi di concetti stette per l’ACCADEMIA giacchè, come dissi altrove, la riforma del filosofare comincia sempre da un dubbio temperato. Ma qui è il divario, la temperanza; perchè, dove l’ACCADEMIA (a quello che ne sappiamo) nega ogni verità e CERTEZZA nel percepire le cose e ammetteno solo una verosimiglianza, uguale per tutte le opinioni. CICERONE invece ne' fondamentali principj e nelle verità più alte non poneva dubbio, e quanto a' casi particolari li stima probabili, non ugualmente, sì convarietà di gradi; e al probabile opponeva quel ch ' è improbabile affatto. Ecco le sue parole: Vorrei che fosse ben chiaro il nostro pensare; chè noi non siamo già di quelli il cui animo si crede aggirato sempre in errori, e senz' alcun che da tenere: che sarebbe mai questa mente, o questa vita piuttosto, negata ogni ragione, non solo del disputare, ma del vivere altresì? Noi invece, come dagli altri si dicono certe alcune cose e alcune incerte, così noi, dissenziendo da essi, diciamo probabili alcune e alcune improbabili. (De off.) Qui si scorge, che il dubbio di Cicerone non cade punto sulla ragione umana e sulla vita, o sull' essere proprio, ma sul domma fisico e morale del PORTICO. E nel libro delle Leggi dice” « Preghiamo poi, che questa Accademia nuova di Arcesilao e di Carneade, perturbatrice di tutto, si cheti; perchè se darà dentro a tali dottrine, che ci sembrano ordinate e composte con assai aggiustatezza, recherà troppo rovina. Io bensì desidero placarla, ma cacciarla non oso.La qual conclusione mostra, ch'ei non rigetta in tutto i dubbj, ma dov'essi erano cattivi. E più si discosta dagl’ACCADEMIA allor chè dice. Quasi in tutte le cose, ma nelle fisiche più che mai, saprei dire piuttosto quel che non è, che quel che è. (De nat. Deor.) Nel vivere nostro, e massime a quei tempi fra tanto diluvio d'opinioni non monta già poco il sapere quel ch’una cosa non è; significa sapere che il divino non è come noi, che il divino o l'animo nostro non sono CORPO, che il fine dell'uomo non è la voluttà; negazioni pregne d'affermazione, implicita si ma certa. E chi vuole stimare quanto merita il ritegno di CICERONE, anc' allora ch ' ei parla di probabilità negli officj particolari -- non mai nella legge suprema -- pensi l'assurdità del panteismo e del dualismo antichi, le finzioni rozze di quella fisica, l'incertezza della morale, anche in Platone e Aristotile; e s'accorgerà, che se Socrate meritò lode dicendo, contro l’arroganza de' sofisti. Io so di non sapere, merita pur lode il nostro CICERONE d'averlo imitato in tanta corruzione di filosofia e di costumi. E quindi ei non ha dubbiezze contro L’ORTO. Dice a loro: che la voluttà sia il nostro fine, voi non lo direste in Senato; nè la voluttà va messa tra le virtù com'una meretrice in un'assemblea di matrone. (De fin.) La natura ci ha fatti per qualcosa di meglio che non i piaceri del senso. Il piacere stesso non cato per sè, ma per noi (De fin.). Il dovere ha da cercarsi per sè stesso. E la dottrina dell’ORTO, se consentanea a sè, non lascia luogo al dorere. (De off. ) Ma questo sceverare il vero dal falso, con che 01. Jo (dine interno di principj si faceva? Già ho detto, che Cicerone ritorna al conosci te stesso di Socrate, cioè al fondamento della coscienza. E ho accennato, che ivi egli trova l'uomo non solitario, ma in relazione conl divino, con gli altri uomini e col mondo. Però esclama: « In questa magnificenza di cose, in questo cospetto e conoscimento della natura, o dèi immortali, oh quanto conoscerà sè stesso l’uomo; il che c'impose Apollo Pizio! (De off.) Per via della coscienza, s'accorse Cicerone in modo chiarissimo di tre verità: prima, che l'uomo sta sopra l'altre cose; poi, che la ragione dell'uomo prevale al senso e al corpo di lui; infine, che questa ragione ci mostra il divino con le sue leggi. Viene da ciò la definizione della sapienza o della filosofia nel II libro degli Officj (S2): scienza delle cose divine ed umane e delle cagioni di queste; definizione più determinata che non l'altra ne' libri Tuscolani (V. 3), dov'ei parla storicamente. E s'arguisce però, che Cicerone stringe la scienza prima, secondo la universalità di essa, nel conoscimento ragionato del divino e dell'uomo e de’sommi principj. CICERONE capisce, come nella scienza si désse un ordinamento necessario; e diceva: « È malagevole sapere alcun che in filosofia, chi non ne sappia o il più o il tutto. » (Tusc. II, 1. ) Cicerone, come Socrate, ebbe una profonda coscienza della ragione. Bisogna riflettere a noi stessi; in noi tro viamo la ragione, che ci distingue da' bruti e dalle al tre cose; nella ragione troviamo i giudizj spontanei, naturali, evidenti, universali. Questi fa d'uopo seguire. Ecco il principio ordinatore della scienza e della virtù. Il tempo, scrive Cicerone, cancella i capricci delle 110 stre opinioni, ma conferma i giudizj della natura. Opinionum enim commenta delet dies, naturæ judicia con firmat (De nat. Deor.). Ma questi giudizi erano avviluppati in una moltitudine di sistemi. Però, quanto alla teorica dell'essere, Cicerone sta contento a poco. Chi potrebbe mai condannarlo d'insipienza? Egli non si dà pensiero nella fisica nè de quattro elementi, nè del quinto d'Aristotile, nè della materia o della forma. Le sue indagini hanno per fine la esistenza e natura della divinità, le relazioni di questa col mondo e l'immortalità dell'anima umana (Ritter). Quanto alla divinità, egli non ne dubita punto, perchè sentiva nella ragione propria un che divino, la eterna legge della giustizia (De leg.). Ma intorno alla natura di Dio non afferma gran cosa. Del metodo di lui, su tali materie, porg' esempio il libro De natura Deorum. Ivi disputano insieme un epicureo, uno stoico e un accademico. L'accademico nega il dio animale degli Stoici, e termina dicendo: « Questo io diceva, non perchè voglia negare la natura divina, ma per mostrare quant'ella sia oscura e piena d'intrigate difficoltà. » Lo stoico poi combatte l ' epicureo. Cicerone, che si tiene da parte e non entra nel dialogo, che cosa conclude? E' dice: la disputazione di COTTA (Accademico) sembra a VELLEIO (Epicureo) più vera. A me l'altra di BALBO (Stoico), più verosimile. Cicerone, adunque, mostra con singolare finezza quanto i dubbj dell'Accademia piacessero agli Epicurei; e però com’egli, che s'allontana da questi, s'allontani pure da quella ragionando sul divino. Pur tuttavia non sa nulla giudicare assolutamente sulla natura del divino stesso e solo ammette verosimiglianze. Insomma, le dottrine certe di lui le abbiamo ne' libri morali, dove si afferma l'esistenza della divino (fonte ll'ogni giustizia e d'ogni diritto ), la legge morale e il libero arbitrio, e dove perciò s'approva il detto di Crisippo, ch'ogni proposizione è vera o falsa necessariamente (De fato); le opinioni verosimili si hanno ne' libri di FILOSOFIA NATURALE, dove apparisce dubbj sulla natura del divino e dell'anima, e sulle relazioni del divno con l'universo, e quindi sulla prova fisica della divinità provvidente; ne' libri logici, finalmente, su ' principj della ragione e sull'evi denza interiore non v'ha dubbio di sorta, beusì v'ha dubbio sul criterio per giudicare la natura delle cose esteriori percepite da ' sensi. Anche  Kant pose superiore la certezza dell'argomento morale ad ogni altra certezza. Ma Kant celebra quell'argomento dopo aver negata la validità della ragione pura o teorica o speculativa. Cicerone, al contrario, non la nega mai, anzi la magnifico, e solo crede ristretta di molto la possibilità de' giudizj accertati. Dunque Cicerone, quant'alle dottrine supreme, e ch'egli poteva conoscere fra l'ombre del Paganesimo sempre più fitte, ammette la verità e la certezza; ma nel determinare più specificamente quelle verità pone la verisimiglianza. In ciò solo fu accademico; e non pienamente nem men qui, come avvertii già innanzi. Pare ch'egli cadesse nel dualismo, opponendo la necessità della materia alla libertà divina; e che cadesse nel semi-panteismo, facendo divina la nostra ragione. Il qual ultimo punto si raccoglie da più luoghi; ma più da queste parole. Le altre parti, onde si compone l'uomo, fragili e caduche, le prese da generazione mortale. Ma l'animo è generato dal divino (De off.), e ammonisce di rammentare nel giuramento, che chiamiamo in testimone il divino, « cioè, com'io penso (dice Cicerone) la mente propria, di cui non détte il divino all ' uomo nulla di più divino. » Se non che, si vede la temperanza dell'affermare in quello ut opinor; tant'era l' ecclissamento delle principali verità sul finire del Paganesimo! Quant'alla teorica del conoscimento, CICERONE distingue l'intelletto dal SENSO. Lo distingue tanto, che come Platone e Aristotile, trovando un'immagine del divino nella mente nostra, la identifica con esso. Anzi nel testimonio del SENSO non pone più autorità ch ' una verisimiglianza, il che procedeva dal dualismo, secondo il quale il divino e la mente son divisi dal resto. E per la logica si valse d'Aristotile, come si ha dal libretto de' Topici. È stupenda la teorica dell'operare; perchè ivi reca Cicerone più che altrove le verità universali raccolte dal testimonio della coscienza; e vi reca quel suo modo di escludere l'esagerazioni e di comporre le spatse verità con un principio più alto. Qual principio? Il rispetto della ragione, che, in quanto conosce la verità, è retta ed è regola delle nostre operazioni. Bisogna seguire, ei dice con gli Stoici, la natura, non l ' arbitrio delle passioni. Ma la natura nostra è ragionevole; dunque ogni atto nostro dee farsi con ragione e sottomet terle l' appetito. (De off. I, 28, 29. ) E questa ragione ha potestà di comandare, perchè sta in essa una legge naturale ed eterna del bene. « La legge (così Cicerone) è la ragione somma, insita nella natura, e che comanda ciò ch'è da fare, proibisce il contrario. (De leg.) Questa legge è nata da tutti i secoli, primache fosse scritta legge alcuna, o che qualche città fosse istituita. Questa legge viene dal divino, perch' ell ' è divina; e chi non ammette il divino, non può ammettere la legge eterna e naturale.  La legge è la ragione divina partecipata a noi; e poich' è comune la retta ragione, e la comunanza di questa è società, però noi siamo primamente consociati coll divino. E poich' ell' è comune a tutti gli uomini, noi in secondo luogo formiamo la società del genere umano « e tutti obbediamo a que st' ordine celeste, e alla mente divina, e a Dio sovrap potente » (parent huic celesti descriptioni, mentique divinæ et præpotenti divino. . Avendo questa legge divina nell'anima « tutti gli uomini (soli essi fra gli altri animali) han qualche notizia del divino, nè v'ha gente sì fiera che, ignorando qual divino adorare, pur non sappia che ve n'è uno. Noi dunque siam nati alla giustizia; e il gius non è costituito per opinione, ma per natura. Sì, per natura, giacchè siam tutti simili per la ragione, e ciascun di noi si definisce com’uomo, e la mente di ciascuno « è diversa in dottrina, ma nella facoltà del sapere è uguale. Dalla legge si genera il dovere, che va quindi cer cato per sè stesso, come sudditi alla retta ragione, ne vi può essere alcuna virtù se non si cerchi per sè, ma per la voluttà o per l'utilità. (De off.) Come la ragione guida ogni atto umano, così la retta ragione reca in ogni atto un officio. Talchè, dice il grand’uomo, « nè in cose pubbliche, nè in private, nè in forensi, nè in domestiche, nè se tu operi teco stesso alcun che, nè Storia della Filosofia. 25 se pattuisci con altrui; non v ' ha momento di vita che possa mancare di qualch 'officio; e nell'adempirlo è tutta l'onestà, nel trascurarlo la turpitudine. » (De off.) Nell'adempire gli officj stanno le virtù, cioè la prudenza, la giustizia, la temperanza e la fortezza. La virtù, se guendo la retta ragione che ci fa conoscere l'ordinamento naturale delle cose, non è altro che l'osservanza dell'or dine stesso (De off. I, 4); sicchè « nella universale so cietà son varj i gradi degli officj; onde si può sapere ciò che si conviene a ciascuno; e quello che si dee prima agli dèi immortali, poi alla patria, poi a' congiunti, infine di grado in grado agli altri. » (De off.) Ma tant'è vero, che tutto ciò si vuol fare per l'autorità della legge eterna in sè, e per la bellezza del dovere, che certe cose turpi non le giustifica nemmeno l'amore di patria. (De off.) Egli distingueva poi l'utile apparente dalla virtù: ma l'utile vero, diceva star sempre insieme con l'onestà; e quand' apparisce che vi sia contrasto, è turpe eziandio di star a pensare sulla scelta. (De off..) L'utilità è l'effetto, non il fine della virtù. (De amicitia) E dalla virtù nasce l'onestà (che in latino ha senso d'onorabilità ), anche se niuno la conoscesse: « etiam si a nullo lauda retur, natura esset laudabile. » (De off.) Giacchè la virtù reca con sè il decoro, ch'è come la bellezza: « l'uno viene dall' animo onesto, l'altra dalla sanità del corpo (De off.); e come il decoro de' poeti è la convenienza delle parole col significato, così il decoro della onestà è la convenienza con la natura. » (Ib. 28. ) Però, come i Greci dicevano o" te uovoy (yóv to 2026, il solo buono è bello, così Cicerone (come romano) muta il bello nel concetto d'onorabile, e dice: quod honestum sit, id solum bonum esse: onorabile è solamente ciò ch ' è buono. (Paradox. I, Osservazione del Ritter. ) Dalla legge eterna, che genera il dovere e la virtù. nascono le leggi positive; talchè l'esistenza di Dio è il proemio di tutte le leggi (habes legis proemium, De leg.). « È stoltissima cosa (segue Cicerone contro l’Orto) che credasi giusto tutto ciò ch'è negl'istituti e nelle leggi de' popoli. E che? dunque, anco le leggi de'tiranni?... Ma v'ha un unico gius, da cui è unita la società degli uomini, e cui stabilì un'unica legge ch'è la retta ragione di comandare e di proibire: e chi la ignora, è ingiusto, o ch'ella sia scritta o no. Che se la giustizia è solo l'obbedienza a leggi scritte e agl'istituti de' popoli; e se, come dicono coloro, tutto è da misurare con la utilità, trascurerà le leggi e le infrangerà se può chi lo creda fruttuoso. Così non v'ha più giustizia se non v'ha legge naturale, e ciò che per utilità è stabilito, da un'altra utilità vien tolto via. Anzi, se da natura non si conferma il giure, cessano tutte le virtù. » (De leg. I, 15. ) La legge naturale ha da regolare il diritto pub blico, quello delle genti e il privato; e il filosofo nostro dà precetti santi sulle pene, sulla guerra, sui trattati. sui contratti e va' discorrendo. Così, dovrebb' essergli più mite il giudizio degli stranieri, a legger ciò ch'ei dice della Repubblica romana: dopo averne narrato l'umanità ne’secoli primi, aggiunge che questa diminuì a poco a poco, e dopo le vittorie Sillane cessò; e quindi esclama: jure igitur plectimur « a ragione dunque siamo puniti. » De off. II, 8. ) E quella pena noi abbiamo scontata per se coli. De' pubblici reggimenti loda il misto, per gli stessi argomenti d'Aristotile e con l'esempio di Roma. (De rep.) Che fa adunque la filosofia di Cicerone? Essa gli donò (com’ei ripete più volte) copia e splendore e, col crescere degli anni, efficace brevità d'eloquenza; gli dettò que' Dialoghi di metafisica, dov'hai il fiore de sistemi greci, eletti e temperati; que' libri rettorici, che sono un codice dell'arte per comune giudizio; e que' libri morali degli Officj, delle Leggi e della Repubblica, dove al me todo sperimentale dello Stagirita è unita la contempla zione platonica e la severità stoica, senza i loro eccessi. Però, quand' io sento uno storico illustre' scusarsi del l'aver troppo parlato di Cicerone perchè in lui non v'ha troppo di nuovo, prego Dio che la scienza ritorni alla natura, e, più che dell'insolito, sia desiderosa del vero. La giurisprudenza è scienza filosofica, perché riguarda gli alti umani o personali. La giurisprudenza positiva non altro fa se non appli care il diritto naturale. Si cerca, quindi, lo svolgimento della giurispru denza romana e quanto alle forme logiche, e quanto alla materia. Quattro età del gius romano. Prima età: consuetudini. È difficile determinare qual parte avesse la civiltà, e quindi la scienza, in que' primi germi del diritto. Ma vestigi di sapienza ve n'ba. Che cosa abbia di vero e di falso la tradizione sulle dodici tavole. La materia di esse certo è romana. Probabilmente la forma logica loro è di Ermodoro Efesio. Seconda età: si pubblica il segreto delle azioni. La giurisprudenza, perciò, viene alla gioventù dalla puerizia. Ma crebbe in modo segnalato allorché, sul cadere del sesto secolo di Roma, si propaga ivi la filosofia. Il settimo se colo è quello di Cicerone. Si prova con l'autorità di Cicerone, che allora si lero a grande stato la giurisprudenza per lo studio della filosofia. Allora si conceve l'idea d'un codice -- idea che vuol abito filosofico delle universalita. Terza età: la signoria de’ Romani, dilatandosi a tutta Italia, fa pos sibili le scienze. Cittadinanza romana a tutti gl 'I taliani. Gius italico che da il dominio quiritario, e il diritto de’ comizii anche per deputati ec. Colonie romane per tutta Italia. Si determina bene il concetto del paese italico. Gius equo e buono. Altra cagione della fiorente giurisprudenza; giureconsulti, per lo più, non sono causidici. Un'altra: l'emulazione in filosofia con gl’oratori. Cenno su’ principali giureconsul ti. Loro virtù. Com'apparisca dagl’autori, ch’essi citado ne' frammenti, lo studio loro ne’ poeti, negli oratori e ne ' filosofi. Si paragona que’ giure consulti a' matematici per tre ragioni. Vigore delle conseguenze. Cura nel l'evitare contraddizioni. Metodo induttivo e deduttivo. L'efficacia della filosofia non si ristringe alla forma logica. Passa alla materia. Tale influsso non apparisce solo da prove particolari, ma più ancora dalla universale conformità di quelle dottrine alle leggi del pensiero e (salvo qualch'errore di tempi ) alla natura umana. Nozioni della giurisprudenza, e perchè i giureconsulti la definissero come la filosofia morale. Distingueno la scienza del diritto dall'arte. Però s'elevano al concetto della filosofia vera, rigettando gli eccessi: la speculazione de’ giureconsulti è contenuta nel vero da' dettami di senso comune e dal fine pratico. Distinzione del diritto in jus naturale, ius gentium et  ius civi. Si mostra ch'a torto i giureconsulti vennero ripresi sul concetto de’ diritti naturali. Non accettabile, quanto alla servitù, la nozione del gius civile. Ma i giureconsulti ROMANI diceno la servitù non secondo il gius naturale, e riconosceno un fatto. Come la parola “ius” non esclude l'idea d'un diritto eterno. E si distingue dalla espressione “legge.” Poi, si ha ne’ giureconsulti ROMANI l'idea precisa del diritto eterno e del diritto naturale. L'efficacia della filosofia si mostra nella giurisprudenza per via del diritto onorario, per via del diritto ricevuto, e per l'interpretazione de ' giureconsulti. Molte novilà introdotte dal gius ricevuto. La virtù e la vera FILOSOFIA de' giureconsulti ROMANI si fa sentire per fino nel loro stile. Si reca un saggio della loro sapienza e brevità elegante. Dalla esposizione delle dottrine di Tullio e de' giureconsulti romani apparisce che l'epoca quarta cerca la comprensione finale. Parlato di Cicerone, è da parlare de' giureconsulti romani. La giurisprudenza è una scienza che e una parte della FILOSOFIA perchè risguarda gli atti umani o personali. La giurisprudenza procede dalla FILOSOFIA MORALE, che abbraccia la scienza de' doveri e quella de' diritti naturali. La giurisprudenza POSITIVA non altro fa che determi nare nella varietà de' casi particolari le immutabili generalità del diritto eterno. Però, se LA FILOSOFIA entra in tutte le scienze com'ordinamento di concetti e di giudizj, entra poi nella GIURISPRUDENZA ROMANA, non solo com'ordine logicale, ma eziandio come scienza dell'uomo e delle ragioni supreme. Avrò dunque a cercare lo svolgimento di LA GIURISRPUDENZA ROMANA, per l'impulso di LA FILOSOFIA ROMANA, nel doppio aspetto della FORMA LOGICA e della materia. La storia di quella e distinta bene dall' Hugo in quattro età nella sua “Histoire du Droit Romaine.” La prima va dall'origine di ROMA fino a le XII tavole, cioè fino alla repubblica. La seconda fino a CICERONE. La terza fino ad OTTAVIANO. Se vero, oltre i due secoli dell'èra volgare. La  quarta eta, fino a GIUSTINIANO. Età di fanciullezza, di gioventù, di virilità, e di vecchiaia. Il giureconsulto Pomponio c'insegna (Fr. 2. D. De Or. Juris) che Roma, ne' primi tempi, si regge SENZA LEGGE nè diritto stabile -- cioè per CONSUETUDINE. La CONSUDETUDINE forma, dice Forti (“Istituzioni Civili”), il diritto privato con l'autorità degli esempi, cioè de' fatti ripetuti, e forma con gli accordi de'potenti il diritto pubblico. Così il potere assoluto del padre, del marito e del padroni è da' giureconsulti risguardato sempre per CONSUETUDINARIO, ed anche l'uso delle clientele. Quanta parte ha la civiltà, e con la civiltà la scienza, in que'primi rudimenti del diritto romano è difficile a definire in antichità si remota e perduti dalle guerre i documenti etruschi. Della Magna Grecia restano scritti, perchè le serba con la lingua loro la stirpe greca. Ma de’ LATINI PRISCHI e dell'Etruria non abbiamo più se non epigrafi tuttora ignote. Ogni lingua e schiatta si confusero nell'unità romana. Certo è, tuttavia, che, almeno gl’etruschi sono molto civili. Sembra non si possa dubitare che il sangue loro si mescolasse nel popolo di Roma -- benchè l'Hugo lo nega. Ma LUCIO FLORO, parlando della guerra sociale, dice chiaro. Quantunque la chiamiamo guerra “sociale” a diminuirne l'odiosità. pure, se stiamo al vero, quella e guerra *civile* -- giacche il popolo romano, avendo mescolato insieme gl’etruschi, i latini e i sabini, e traendo da tutti un sangue solo – “unum ex omnibus sanguinem ducat” -- , è di più membri un corpo e di tutti è una unità (Rer. Rom.) Lerminier nella sua “Philosophie du Droit” riscontra con molto acume in VIRGILIO la prima origine de' tre popoli, in Virgilio studiosissimo delle memorie antiche. Lodando l'agricoltura, VIRGILIO dice cosi. Questa vita tennero i vecchi Sabini, questa Remo e il fratello. Così crebbe la forte Etruria. In tal modo si fa la bellissima di tutti gl'imperi, Roma; e una, si circonda d'un muro i sette colli (Georgiche). Fatto è che a taluno par vedere i *tre* popoli nelle tre tribù del primo popolo romano, rammentate da Livio – TRIBU I: i Rannesi o Latini, -- TRIBU II: i Tarsi o Sabini, e TRIBU III: i Luceri o Etruschi (Warnkoenig, “Histoire du Droit Romaine”). Momen (Storia Romana) nega tal mescolanza. Ma Momsen non da le prove. Probabile, a ogni modo, che quel nuovo comune di Roma. sorto fra ’comuni vicini, si mescolasse pure di genti vicine. O si conceda dunque con Niebuhr la preminenza agl’etruschi, o concedasi a’ latini con l’Hugo, un in dirizzo nelle cose romane lo dettero i primi – gl’etruschi. Ciò spiega, come in tanta rozzezza di popolo guerriero e racco gliticcio come il popolo latino LATINO DEL LAZIO si possede un gius pontificio, e formule sacerdotali e simboli segreti. Questo io dico per mostrare che le prime consuetudini ed istituzioni hanno qualche ragione di civiltà, e riuscirono buon fondamento alla giurisprudenza perfetta. Però, fin dalla prima età, si scorge in Roma la mirabile distinzione da’magistrati (magistratus populi romani) che stabilivano il diritto, da' giudici (judex, arbiter ) che giudicavano del fatto (Hugo) -- distinzione che a poco a poco détte occasione al gius onorario. È noto che il reggimento di Roma sott’i re e, più, ne' principj della repubblica, e degl’OTTIMATI, cioè, aristocratico. Indi la opposizione civile dei PATRIZI colla plebe per avere un gius equo -- opposizione che, divenuta incivile o violenta, rovina la repubblica, come la prima ne forma la grandezza. La PLEBE dimanda leggi scritte per contenere l'arbitrio de' PATRIZI, e si promulga la legge di le XII tavole. Narra il giureconsulto Pomponio, che queste si raccolsero in Grecia, interprete d'esse l'efesio Ermodoro (Fr. 4, D. De Orig. Juris.). Certamente, PLINIO il vecchio (“Hist. Nat.”) rammenta come serbata fino a lui la statua fatta per decreto a questo Ermodoro. Talchè la tradizione non pare favolosa in tutto. Ma è certo altresì che in le XII Tavole, per quanto ne conosciamo, non si ha traccia del diritto che non e romano. L’essenza – l’essenziale -- giudizj, patria potestà e connubio, eredità e tutele, dominio e possesso, diritto pubblico e diritto sacro -- e cosa tutta romana, come dice Vico, e ormai ripetono i più dotti stranieri come Warnkoenig. Ma io credo abbisognasse l'opera di quel greco erudito per meditare questa o quella vecchia CONSUETUDINE, e RIDURLA A CONCETTI determinati ed a’lor capi principali, ufficio di riflessione addestrata. Nè ciò avrebber saputo I ROMANI, dati all'armi  anzichè agli studj. Ecco il per chè quella primitiva sapienza, logicamente specificata e distinta d’Ermodoro, trae in ammirazione Tullio. CICERONE scrive ne' libri “De Oratore”. Se ne adirino pur tutti, io dirò quel che sento: a me, il solo libricciuolo di le XII tavole, par superi (se tu guardi a' fonti e a'capi delle leggi) le biblioteche de' filosofi tutti nel peso del l'autorità e nella copia dell'utilità. Quanto prevalessero in prudenza i nostri maggiori a ogni altra gente, intenderà facile chi le nostre leggi romane paragoni a quelle di Licurgo, di Dracone e di Solone. È incredibile, di fatto, quant'ogni altro diritto civile, salvo il nostro romano, sia in colto e quasi ridicolo. (De Or.) Le quali parole attestano tre cose: l'antichissima civiltà di quelle genti che formano Roma, e che vi recano le proprie tradizioni, benchè si dessero, poi, a vita agreste e guerriera; la falsità che il gius civile romano procede ài Grecia ne' suoi particolari; e come la perfezione della giurisprudenza si svolge da principj non rozzi ne poco pensati. I ROMANNO danno la sostanza, i Greci probabilmente  LA MERA FORMA LOGICA, per GENERE E SPECIE – cioè, ordinamento di codice. Da le XII tavole nasce la necessità d'interpretarle per disputare in giudizio, e di avere azioni utili a domandare la loro applicazione. Di qui, come dice Pomponio venne il diritto civile non scritto o l'autorità dei prudenti, e le azioni delle leggi (“legis actiones”). Ma tutto ciò e un SEGRETO de' pontefici. Pubblicato il segreto nella seconda età, la libera giurisprudenza passa dallo stato infantile alla gioventù. Ma quando mai accadde tal cosa in modo più segnalato? A Roma si propaga il filosofare. Il secolo posteriore è appunto il secolo di CICERONE. Or bene, la giurisprudenza, cresciuta lentamente crebbe rapidamente. Allora proprio noi riscontriamo i giureconsulti studiosi della filosofia e quant'alle leggi del pensiero e quanto alla natura degl’atti umani in sè e nell' esteriori attinenze. Scrive CICERONE la “Topica”, o logica inventrice degli argomenti a preghiera di TREBAZIO, come si ha dal proemio di quel saggio, ov'è scritto. “Non potrei, adunque, con te, che me ne pregavi spesso, benchè timoroso di noiarmi, come scorgevo facile, stare in debito più a lungo, senza parer d'offendere lo stesso interprete del diritto. Sicchè queste cose, non avendo libri con me, scrivo a memoria nella mia navigazione, e dopo il viaggio ti ho mandate.” Il qual saggio è notevole molto, perchè ogni precetto è confortato da esempi di giurisprudenza. E di SERVIO SULPIZIO, primo in autorità tra' giureconsulti di que' tempi e solo studiato da' giure consulti posteriori, ecco che scrive CICERONE, amico di lui. “Si stima, o BRUTO, che grand'uso del gius civile s'avesse da SCEVOLA e da molt' altri, ma l'arte da que st' unico, cioè da SULPIZIO --  al che non sarebbe giunta in lui la scienza del giure, s'e' non avesse imparato quell'arte che insegna spartire le materie composte, esplicare con le definizioni l'ascose, chiarire con le interpretazioni l'oscure; e così a veder prima ben chiaro le cose ambigue, poi a distinguerle, e ad avere in fine la regola per separare il vero dal falso, le conseguenze diritte dalle contrarie. Questi adunque reca tal arte (massima di tutte l'arti ), quasi luce in tutto ciò che dagli altri si rispondeva o si faceva confusamente. (De CI. Orat.) Con le quali parole mostra CICERONE la forma di scienza che si prese dal diritto in virtù della LOGICA. E la FORMA scientifica, ch'è abito di riflessione interiore, leva le menti alle generalità, senza cui, come non istà scienza nessuna, così nemmeno la scienza del diritto. E il segnale n'è questo; che al termine dell'età seconda, cioè sul fiorire della filosofia a Roma, GIULIO CESARE e POMPEO ebber disegno d'un codice; disegno, che mostra l’uso e la stima degli universali astratti da ogni caso particolare, ordinati poi secondo GENERI E SPECIE -- giacchè un codice val quanto in istoria naturale un ordinamento PER CLASSI. Pare che SERVIO SULPIZIO effettuasse un alcun che di somigliante a impulso di Cicerone, il quale alla sua volta ne' libri delle leggi mostra un saggio di codice pel diritto pubblico, e al trettanto promise pel diritto privato. Nè qui entro in disputa fra due scuole alemanne, l'una che, con Savigny, sostiene il danno de’codici. Laltra che ne difende l'utilità. Dico a ogni modo (nè si contrasta ) che un codice non si fa senz'abito di speculazioni filosofiche. L'averlo pensato in Roma e tentato a quel tempo, chia risce la efficacia loro nella giurisprudenza. Essa pervenne a compimento nella terza età, cioè ne' primi due secoli e mezzo dell'impero. Il dilatarsi del dominio romano a tutta Italia prepara il campo alla filosofia. I Romani, sentendosi non più solo romani, ma italiani e uomini, la loro coscienza si chiarì e s'arricchì, e l'intelletto loro medito le verità universali. Di questo fatto non v' ha dubbio di sorta. Dopo la guerra sociale, per LA LEGGE PLAUZIA e LA LEGGE GIULIA DE CIVITATE SOCIORUM e data, come nota Haubold nella sua “Tavola cronologica per servire alla St. del Diritto”, a tutte le città italiche CITTADINANZA ROMANA -- eccetto i Lucani e i Sanniti. Poi consegueno la cittadinanza i galli oltrepò, conseguíta prima da'Galli cispadani. La ottenne tutta perciò la Gallia cisalpina. (Framm. L. de Gallia Cisalpina). In tal modo, come scrive Savigny, dopo la guerra italica i cittadini d'Italia divennero parte del popolo sovrano (St. del Dir. rom). Questo gius italico da dominio quiritario, o dominio solennemente e pie namente assicurato, immunità da tutte l'imposte dirette, libero governo municipale delle città italiane (ivi), diritto d'intervenire a'comizj o di mandarvi deputati. Talchè l'Italia, a ' tempi romani, con l'unità politica suprema serbò le unità politiche secondarie, che si chiamavano socio confederati. E questo accadde perchè i romani hanno già fatto l'unità naturale della nazione col mescolamento de’ sangui, spargendo ovunque le colonie (com'osserva Forti), nè per sei secoli ne mandaron mai fuori d'Italia. (Ist. Civ.). L'Italia, dice Hugo, non si considera mai una provincia; chè le provincie furono soggette a magistrati non propri, non compagne ma suddite (Hist. du Dr. Rom..) I romani, allora, si levarono con la mente all'unità naturale del territorio, come vediamo ne' Digesti. Al Fr. 99, $ 1 de Verborum significatione è scritto. Dobbiam credere provincie continue le unite all'Italia, come la Gallia cisalpine. Ma e la provincia di Sicilia più si ha da tenere per continua, essendo separata d'Italia da piccolo stretto. “Continentes provincias accipere debemus eas, quæ Italiæ junctæ sunt, ut puta Galliam: sed et provinciam Siciliam magis inter continentes accipere eas oportet, quæ modico freto Italia dividitur” Ulpiano. E al Fr. 9, D. de Judiciis et ubi etc., si dice.Le isole d'Italia son parte d'Italia e di ciascuna provincia. “Insulæ Italiæ pars Italiæ sunt et cuiusque provincie.” A questo concetto sì pieno vennero i romani tra gli ultimi tempi della repubblica e i primi del PRINCIPATO, cioè tra la prima e la seconda età. Ecco il perchè la giurisprudenza romana, con l'aiuto della filosofia, potè sorgere a tant'altezza. Si aggiunga poi, che le sevizie de' principi cadevano in Roma su'patrizi più sospetti, ma quel reggimento temperavano istituti repubblicani e ordini civili equi. Se no, come dice Romagnosi, non si capirebbe il perchè in un governo da turchi uscissero mai tanto insigni se natusconsulti e le belle costituzioni de' principi; e come ALESSANDRO SEVERO ha un consiglio di XVI sapienti, tra cui i più chiari giureconsulti, FABIO cioè, Sabino, Ulpiano, Paolo, Pomponio, Modestino e altri. (Ind. e Fattori dell'incivilimento. P. 2, C. 1, § 1-5. ).  E tanto è vero, che la notizia del “gius equo” e buono splendesse viva nelle menti romane, che lo strapazzo delle provincie, finita la guerra civile, non e punto legale, anzi contr'alle leggi; perchè, secondo le costituzioni come dice Warnkoenig, le provincie stano bene, le imposte sono lievi, lo stato pacifico, molto dell'amministrazione in mano di quelle (il che scusa in parte il popolo romano); ma infierivano i governatori. Popolo e senato li minacciavano con le leggi repetundarum, tornate vane per corruzione de'giudizj. (Hist. du Dr. Rom.) Tali cagioni principalmente formarono la sapienza de' giureconsulti romani. Inoltre, essi per lo più non eran causidici, ma scioglievano questioni di diritto in generale. E ciò indica sempre più e la natura scientifica del ministero loro, e perchè la scienza, libera da interessi particolari, progredisse continuamente. (Cic., De CI. Orat.). Poi, l'emulazione degli oratori che piegavano il gius alla varietà de’lor fini, co' giureconsulti che ne volevano serbare la severità, incita questi a gareggiare in isplendore di filosofia, e ad interpretare il diritto co' placiti del senso comune. Così da una disputa tra l'oratore CRASSO -- contemporaneo al padre di Cicerone -- e MUZIO SCEVOLA giureconsulto sull'interpretare i testamenti o a rigore di parola, o secondo la probabile volontà del testatore, nacque la giurisprudenza in quest'ultimo senso, ripresa da Forti, ma e forse meglio approvata da Cuiacio. Infine, l'esercitarsi tale ufficio da’giureconsulti senz'ombra di lucro, la illustre loro condizione e l'affetto all'antiche leggi e consuetudini di Roma, indica il perchè tennero essi per lo più l'austerità della morale del Portico, che ci chiarisce alla sua volta il decoro, l’equità e sottilità della loro scienza; e tutto insieme poi spiega la nobiltà di vita de' più tra loro, e n'è spiegato. Le poche notizie che n’abbiamo ce li fanno apparire la più parte uomini onorandi. Nomino dapprima QUINTO MUZIO SCEVOLA, assassinato a’tempi di MARIO. Dice POMPONIO che Muzio costitue primo il decreto civile, disponendolo per capi di materie (“generatim”) in XVIII libri. SERVIO SULPIZIO riduce il diritto a stato di scienza. SULPIZIO e prima oratore grande, poi giureconsulto per un rim provero che gli fa MUZIO SCEVOLA d'ignorare le leggi del proprio paese, egli oratore e patrizio. Sostenne la repubblica. Avversa i Triumviri. La repubblica gli alza una statua. Abbiamo di que' tempi ALFENO VARO e OFELIO, ambidue discepoli di SERVIO, e TREBAZIO (a cui la Logica di Cicerone) e un altro MUZIO SCEVOLA – PONTIFICE -- e CASCELLIO. Muzio non accetta da Ottaviano il consolato. Cascellio non volle mai comporre una formola secondo le leggi de' Triumviri; e a chi lo consiglia si temperasse rispondeva, “Son vecchio e senza figliuoli.” LABEONE, il cui padre e morto a Filippi, rifiuta il consolato da OTTAVIANO anch'egli, e serba spiriti antichi. Dice Pomponio: Ageio Capitoni si détte moltissimo agli studj. Divide l'anno in modo che sta sei mesi a Roma co' discepoli (“cum studiosis”), e sei mesi lontano per iscrivere libri. Così lascia XL volumi, che i più s'usano ancora. Ateio CAPITONE (segue Pomponio) persevere nell'antico. Ma LABEONE, che molto medita nell'altre parti della sapienza (“qui et in cæteris sapientiæ operam dederat”), per valore d'ingegno e per fidanza di dottrina comincia innovare molto” (Fr., D. De Or. Jur. ). I cinque giureconsulti più celebri e più recenti (lasciando gli altri) sono: EMILIO PAPINIANO, PAOLO, GAIO, ULPIANO, E MODESTINO. PAPINIANO, familiare di SETTIMIO SEVERO e principale nel governo, stette per GETA contro il suo fratello CARACALLA, e volendo costui una difesa legale del fratricidio. PAPINAINO la nega e venne ucciso. Scrive “I fatti,” che le dono la pietà, il buon nome e il pudore nostro, e che, a dirlo in genere, son contro al costume, si dee tenere che noi uomini dabbene non possiamo farli (Fr. D. De servis exportandis etc.). Gl’altri quattro illustrano, come dice, il consiglio di ALESSANDRO SEVERO. I giureconsulti, massime della terza età, levano a stato di scienza le loro discipline. Ciò nacque dalla molta erudizione loro, non solo in filosofia, ma eziandio in lettere; e se n'ha prova ne' lor libri per le citazioni da' Greci; com'a dire Omero, Ippocrate, Platone, Demostene e Crisippo. E il primo effetto e, come notai de' tempi di CICERONE, che la giurisprudenza prende forma logica tanto sicura e stringente, ch'è una meraviglia. Si sa da molti e ab antico, dice Hugo, la filosofia de' giureconsulti, ma si sa da pochi, che nessuno più di quelli sta in confronto de’matematici per tre ragioni. Cioè per vigore di conseguenze da principj fissi, per diligenza nell'evitare contraddizioni -- che Gaio dimandava “inelegantia juris” -- , e pel metodo distintivo e compositivo, induttivo e deduttivo ad un tempo -- distintivo e induttivo salendo alle specie generali del diritto; compositivo e deduttivo traendone con brevità ed evidenza le illazioni. Il gran Leibnitz, insigne filosofo, scrive nell' Epist. “Io ammiro l'opera de Digesti, o, meglio, i lavori de' giureconsulti, ond' ell' è presa. Ne vidi mai nulla che più s'accosti al pregio de matematici. O che tu guardi all'acume degli argomenti, o a'nervi del dire. Ma questa efficacia della filosofia non potè fermarsi all'ordine de' pensieri, dovè penetrare nell'interno, giacchè, com'avvertii, materia della giurisprudenza son gl’atti umani o personali, soggetto filosofico. Tal efficacia non si creda particolare ma generale. Quindi, coloro che cercano ne'giureconsulti le traccie minute o del Portico o d'altri sistemi, errano forte se non passano inoltre a considerare l'opera generale della riflessione interna. È certissimo, com'avvertono gl’eruditi, che i più de'giureconsulti tolsero dal Portico l'argomentare per analogia, l'amore dell' etimologie, la spartizione delle materie, LA SOTTILE DIALETTICA che conviene al foro, e molte dottrine sulla ragione dell'onesto, applicate da essi egregiamente al gius civile. Ma l'essenziale sta in quel gran corpo, così disposto bene secondo le leggi del pensiero, e, salvo qualch'errore de' tempi, così con formato alla natura umana nelle regole eterne di lei e nelle relazioni esteriori. Sicchè il gius romano serve di lume al gius de’ popoli più civili, come si ha dal codice Napoleone: e gli Alemanni, dimenticata noi tanta gloria, vi fanno su studj esimj e perseveranti. E perchè si chiarisca il filosofare intimo de' giureconsulti, guardiamo la nozione, ch'e'si fanno della giurisprudenza e della filosofia. Ulpiano nel Tit. 1 dei Digesti scrive. Dand'opera al gius, occorre prima sapere onde ne venga il nome. “Gius” è chiamato da giustizia. Perchè, come Celso lo define elegantemente, il gius è l'arte del buono e dell'equo. Però siamo chiamati, con ragione, sacerdoti della giustizia. Di fatto, professiamo la giustizia e manifestiamo la scienza del buono e dell'equo; separando l'equo dall' iniquo, e discernendo le cose lecite dalle contrarie; desiderosi di far buoni gl’uomini, non per timore delle pene, ma eziandio per l'incitamento de'premj; ricercatori, se non m'inganno, di vera e non simulata filosofia. Se la definizione della giurisprudenza si prenda qui a rigore, ella non regge, perchè si stende a tutta la filosofia morale. Ma se badiamo al concetto che avevano di questa gl’antichi, e al generarsi la scienza del diritto dall'altra del dovere, ci formeremo idea chiara del come intimamente e FILOSOFICA LA GIURISPRUDENZA ROMANA. Secondo i sistemi filosofici, sommità di perfezione umana è LO STATO ROMANO. Talchè la morale s'ordina alla politica. Concetto vero per l'attinenze esteriori, falso e pagano quant' all'ultimo fine. Non faccia dunque meraviglia se i giureconsulti romani definino il gius civile come la morale. Lo definano così, perchè, a sentimento di tutti gl’antichi, le due scienze si mescolavano in una. Noi con più ragione le distinguiamo, ma s'erra da chi ne dimentica l'unità superiore, ch'è la scienza de' primi principj e dell' uomo -- dimenticanza ignota agl’antichi, che però svolgeno razionalmente il diritto e non lo maneggiano materialmente. Notate ancora che nel passo citato si distingue la scienza dall'arte. Se nelle Istituzioni poi la giustizia è definita: Costante e perpetua volontà di rendere a ciascuno il suo diritto: e se la giurisprudenza è definita; Notizia delle cose umane e divine e scienza del giusto e dell'ingiusto, pr. e S 1, Inst. De just. et jure, si vuol fare la stessa osservazione detta di sopra; e noto con Cuiacio, che in tal luogo la giurisprudenza è indicata bene com' abito dell'intelletto o scienza, e com’abito della VOLONTA, secondo l'antica filosofia. E la filosofia la pensano essi, non senz'alta speculazione, ma contenuta nel vero da' dettami del senso comune e dal fine pratico. Di fatto s' inalzarono all'eternità del diritto -- come osserva Vico nella “Scienza Nuova” -- allorchè dissero: Il tempo non muta nè scioglie i diritti: “Tempus non est modus costituendi vel dissolvendi juris.” E, quando discernano il diritto naturale dal positive, nello stesso tempo rigetteno gl’eccessi del Portico, come l'eguaglianza della imputazione; finalmente derisero le stranezze, l'ipocrisie, l'avarizia di quelle sette in età di scadimento. Così sente Ulpiano, che distingue filosofia schietta dalla mascherata; e nel Fr. 6, § 7, D. al Tit. De his quæ in testamento delentur, è schernito il suicidio de' filosofi per ostentazione, e nel Fr. 1, § 4, D. de extraordinariis cognitionibus etc., dove si stabilisce gl’onorarj delle professioni, li nega il giureconsulto a' filosofi che, vantando di spregiare le mercedi, n'andano a caccia. I giureconsulti poi mostrno tre specie di diritti: jus naturale, gentium, et civile; distinzione che non si vuol confondere con l'altra più pratica in jus gentium vel naturale e in jus civile; e chi non vi badi, tassa i giureconsulti d'errori, ch'e'non hanno. La distinzione praticamette divario tra leggi proprie di Roma (jus civile) e istituzioni comuni a ogni popolo non selvatico (jus gentium vel naturale). L’altra è distinzione più speculativa e fondamentale. Ulpiano nel Tit. De just. et jure, D. dal Fr. 2 al 6, distingue diritto pubblico da privato; e distingue il privato in diritto naturale, che natura insegna a tutti gl’animali, come la procreazione de’ figliuoli; in diritto delle genti, del quale, tra gl’animali, hann' uso gl’uomini soli, come la religione verso il divino, l’obbedire a' genitori e alla patria: in diritto civile ch'è proprio d'un popolo. Ora, s'accusa Ulpiano d'aver confuso il diritto naturale con gl' istinti del l'animalità; ' e sì che Piccolomini da qualche secolo fa, come Warnkoenig, nota che qui, secondo le dottrine vere d' Aristotile, son distinti nel l'uomo i diritti che vengono dalla natura animale, quelli che vengono dalla razionale, e gl’altri che pone la comunanza civile. Non s'intende già che una bestia -- detta da' giureconsulti cosa, non PERSONA – ha diritto, ma che le potenze animali dell'uomo, in quanto appartengono all'uomo, generan diritti, come li generano le potenze razionali. Talchè in Ulpiano si trova benissimo sceverata l'animalità dalla razionalità. È da confessare invece, che il diritto civile si define per quello che toglie o aggiunge al diritto naturale e delle genti; e s'allude alla servitù ch'è contro alla natura, come si dice nel Tit. De regulis juris. Ma tuttavia meritan lode i giureconsulti, che se non condannarono la servitù, la dissero contraria bensì al diritto naturale, migliori di Platone e di Aristotile. Anzi nelle Istituzioni è detto, che il gius naturale e istituito dalla divina provvidenza, come insegna il Portico (De Jur. Nat. Gen. et Cir.); nel qual testo il gius naturale abbraccia pur l'altro delle genti. Poi, essi definino il gius civile qual e in fatto allora. Osservo di passaggio che il chiarissimo Conforti nel l'annotazioni a Stahl (“Storia della Filosofia del Diritto”, Torino) opina con altri, che i romani non avessero idea del diritto eterno, perchè jus viene da “iubeo”, comandare; dove la parola diritto, e le simili del francese, tedesco e inglese, hanno il concetto di rettitudine, o di rittura alla legge eterna. Ma quel valentuomo non pensa forse al come definisce la parola Jus Forcellini (Voc. ad V.). Gius è tutto ciò che in generale vien costi tuito da leggi o naturali, o divine, o delle genti o civili -- Jus est autem universim id, quod legibus constitutum est etc. Si nomina con altro nome equità comune, equo universale, legittimo, cioè adequato alle leggi, quasi norma e regola degli atti umani. Sicchè I ROMANI chiamano “ius” un che costituito da una legge qua lunque. Così distingueno la legge da ciò che ne procede, e ch’è l'EFFETO DEL SUO COMMANDO. Cicerone (Rep. et De Leg.) adopera legge e gius in tal significato. Ma la risposta migliore si è in quell'assioma de romani già citato: Il tempo non muta nè scioglie i diritti; conobbero, dunque, i romani la santità del diritto fuori del tempo, cioè nell'eternità, o nel suo fondamento assoluto. Inoltre vedemmo che il gius civile si distingue dal naturale. Ma tornando a'giureconsulti, la loro scienza origina il diritto onorario, di cui parla Forti se non con molta novità, certo con più chiarezza di tutti gli altri da me esaminati. E io ritrarrò in breve la sentenza di lui, e n'usce la prova del quanto potè la scienza dell'uomo e la filosofia morale in tanta perfezione di gius. Ma prima dico che il gius onorario contene gli editti del urbano e del peregrino, e quelli degli edili e proconsoli e propretori delle provincie -- edictum provinciale. Pare che il gius predetto, almeno in modo segnalato, principiasse per chè Cicerone nella seconda Verrina dice. Postea quam jus prætorium constitutum est. Hugo dimostra, contro Heinneccio, che tal diritto ha forza di legge; poichè, tra gli altri argomenti, Cicerone non contrasta nelle Verrine che L’EDITTO DI VERRE SIA LEGGE da tenere, ma lo accusa di averlo infranto VERRE stesso, o conformato non secondo ragione (Hugo, Hist.). Or dunque, i pretori rendevano giustizia ne'civili negozi, gli edili per le convenzioni de' mercati e per LA POLIZIA DELLA CITTA. E tanto gli uni che gl’altri, quando pigliavano i magistrati, mandano fuori un editto, ove stabilivano le forme del giudizio e LE MASSIME -- ottimo istituto in repubblica popolare. Non mutano il gius, ne determinano l'applicazione. Eccone gli esempi. In primo luogo, salva LA FORMA LEGALE,, si supponga che i contraenti hanno pattuito o per inganno, o per errore, o per timore, o per forza. Mancando la moralità dell'atto, la legge non conservavasi uguale per tutti. Quindi i pretori statuiron una MASSIMA PER L’EFFICACIA CIVILE DELLA MORALITA NEGL’ATTI, scuse legittime per negare agl'ingiusti la sanzione della legge e i mezzi legali. Perchè QUESTA O QUELLA MASSIMA d'equità si recassero ad effetto. I codici moderni han composto di questa o quella MASSIMA le lor legge universale. Allora, dice Forti, gli editti de' magistrati sono uno de' principali modi, per cui la filosofia venne applicata gradatamente ai bisogni civili. Sicchè, quant'alla moralità degli atti, trovarono i magistrati l'ECCEZIONI perpetue contro le obbligazioni per dolo, per timore, per errore, per violenza; la restituzione in intero, i modi legali a sciogliere le dette obbligazioni, od a ripetere ciò che pel tenore loro fosse stato pagato. In secondo luogo, la legge, definito il diritto e ordinatane la sanzione, lascia a'magistrati il modo d'effettuarla. Per esempio, la legge stabilice i modi d'acquistare la proprietà, ma non i modi della sua difesa; che più torna necessaria, quanto più divise le possessioni, e distinta la varietà de'godimenti e diritti che si comprendono nella mozione del dominio -- onde nacquero nuovi contratti e bisogni di nuove difese. Quind'i pretori differenziano a capello il dominio e il possesso, e gl'interdetti che lo proteggono, e va' discorrendo (Ist. Civ., L. I. S. 1). Le dottrine de'giureconsulti poi vennero a formare un'altra maniera di gius -- ioè il diritto ricevuto -- “jus receptum”. Essi, introducendo ne'contratti clausule, con cui si stipulava l'osservanza della buona fede, costringeno i magistrati a giudicare di que'contratti, non secondo la nude parola della legge, sì a lume di naturale onestà; come le clausale, si lodate da CICERONE uti ne propter te, fidemre tuam captus, fraudatusne sim; e ut inter bonos bene agier oportet et sine fraudatione (De Off.). I giureconsulti si dano all'interpretazione; e poi chè questa o considera la legge in sè, o L’ATTO DELLA VOLONTA UMANA, così la filosofia di que'sapienti gl’aiuto all’un fine con le spiegazioni delle parole e con la definizione de'termini astratti, e col mirare alla ragione della legge stessa: gli aiutò all’altro fine co giudizi sulla moralità dell’ATTO, e con le regole per interpretare l'altrui volontà. Gravina così accenna le novità del gius ricevuto. Dalle interpretazioni de' giureconsulti passate in uso, e mitiganti a poco a poco e come di soppiatto l'asprezza della legge, sono venute le regole di diritto, temperate dalla ragione d'equità. Nacquero da essi, l'uso dei codicilli, l'azione del dolo, le azioni quasi tutte che chiamaron utili, perchè procedono dall’equa e utile interpretazione, le stipulazioni aquiliane, autore AQUILIO giureconsulto, le varie differenze delle successioni. la regola catoniana, la sostituzione pupillare, il divieto della donazione tra marito e moglie, e l'altro che i pupilli s'obblighino senza l'autorità del tutore. Da essi vernero i giudizi di buona fede, le azioni rei uxorie, la querela dell'inofficioso testamento, e infine tutto ciò che si trova citato sotto nome di costumi, di consuetudini e di gius ricevuto (De ortu et progr. I, Civ., C. ) Tale acume di riflessione disciplinata reca i giureconsulti per fino ad un computo di probabilità sulla vita umana quant'all' usufrutto ed agl’alimenti (come si vede Fr. D Ad Legem Falcidiam ). Cosa notabile molto, perchè fa supporre grand'abito d'osservazione e di giudizi astratti. La virtù e la vera filosofia de' giureconsulti le sentiamo pur anche nel loro stile, che in mezzo alle ampollosità di SENECA e degli altri si tien semplice e puro.. Nelle Pandette v' ha errori di lingua, per vizio de' compilatori greci e de' copisti. Ma specie i frammenti di Gaio e d'Ulpiano son gioielli, ammirati da' principali maestri di latinità. Termino recando un saggio di tal sapienza ed elegante brevità, in alcune regole di gius dall' ultimo titolo de' Digesti. I diritti del sangue non posson finire per niuna legge civile (Fr.). Sempre nelle cose oscure s' ha da tenere il meno. Sta in natura che le comodità d'una cosa seguan colui che ne sente gl' incomodi. Ciò che dapprima è vizioso non si può col tempo sanare. Nulla è più naturale che sciogliersi a quel modo ch' uno s ' è legato. Però l ' obbligazione di parole sciogliesi con parole, e quella di nudo consenso con altro consenso. Che si fa o si dice nel caldo dell'ira, non si stima. Vi sia consenso d'animo, se non v' ha perseveranza. Nessuno può trasferire altrui più diritti che non ha. Sempre nel dubbio son da preferire le sentenze più benigne. L'erede si stima di quelle facoltà e di que' diritti che il defunto. È proprio di quel sofisma che i Greci chiamano sorite, o ammucchiato sillogismo, di trar la disputa, con lievissime mutazioni, da cose evidentemente vere a evidentemente false. Quante volte l’espressione in un discorso PARE rendere DUE sensi, prendasi quello ch'E PIU ADDATO AL DA FARE. Non si dà benefizio per forza. Nes suno può mutare il proposito suo in altrui danno. In ogni cosa, ma più nel gius, è da guardare all’equità. Ne’discorsi AMBIGUI è il più da guardare all'INTENDIMENTO DI CHI LI FA. Nelle cose oscure si badi al più verosimile, e a ciò che accade più spesso. Il timore vano non è buona scusa. Per l'impossibile non c'è obbligo che tenga. Le cose proibite da natura non sono convalidate da legge nessuna. Per gius di natura nessuno dee farsi più ricco a danno altrui. Per gius civile i servi si stimano nulla. Non per diritto naturale, secondo cui tutti gli uomini sono uguali. Quando l'impero si foggia all'orientale, la giurisprudenza cadde in vano eccletticismo; come n'è segno “la indigesta mole de’ digesti” e ciò accadde alla quarta età, o di vecchiezza. Poichè abbiamo con qualche sufficienza esposto la filosofia latina di CICERONE e de' giureconsulti, e abbiam veduto come proposito di questi e di quello apparisca sempre l'armonia tra le speculazioni e la pratica, e, nelle speculazioni, fuggire tutti gl’eccessi delle sette, componendone, guidati dalla coscienza e dal senso comune, un'unità, siam chiari, mi sembra, che veramente dopo la dialettica distintiva de' greci, tendevano I ROMANI alla comprensione finale, e che tal è proprio la qualità prevalente in quest'epoca quarta della filosofia. Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: e opere di argomento retorico; (le opere che parlano dei segni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambito, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, l'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una problematica a carattere so- cio-politico, volta a definire la figura dell'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut- to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi;:ura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio- nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio- ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com- pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que- ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa- rossismo, come nel De inventione, e che spesso non trova un'adeguijta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2.1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con- densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro- vino riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an- tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione verso i segni involontari (l'im- pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato) come indi- zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi- noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da Cice- rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap- pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar- gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco- gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera probabile (probabiliter ostendens), o la dimostra in"un mo- do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier dell'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili- ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon- strans). 9.2.1.1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro- vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv., I, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re- lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae- rere videtur, De inv., I. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini- to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., I, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente al1'eik6s (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eik6s: "Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio- ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv., 9.2 CICERONE), che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al semefon aristotelico. 9.2.1.2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar- tizione dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi- le), all'iudicatum (giudicato) e al comparabile (paragonabi- le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite- ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan- za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no- stri sensi e indica (significat) un qualcosa che sembra deri- vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv., I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la polvere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo- lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio- nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio- ni, come dimostra il caso dell'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo- sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della tarda matu- rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa- mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati argumentatio~ Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L'orazione per l'uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri- sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico e generalizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat- tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali necessaria (•ea quae aliter ac discuntur nec fieri nec probari pos- sunt"I es.: ·se ha partorito, è stata con un uomo" probabilis (•quod !ere solet fieri aut quod in opi- nione μositum est") es.: ·se è madre, ama suo figlio" signum credibile indicatt.:m comparabile ("quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam significat, quod ex ipso .!'rofectu.m .est"I. es.: sangue , fuga , "pallore", "polvere" vestigia facll) non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono ur.. ruolo autonomo. Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo- ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche", titechno1) e "luoghi intrinseci" (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testimonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or., 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda- lica e antichissima dell'amministrazione della giustizia; tut- tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para- digma divinatorio all'interno dei fatti semiotici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati. Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L'orazione per l'uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: 105). 9.2.2.1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin- seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau- sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notae propriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Pari. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri- sponde ali' eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili- stico e generalizzante. La nata propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co- me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi- dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman- da alla nozione di fdion semefon (segno proprio). Per Ari- stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat- tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si- gnis, I, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor- so contraddittorio, tremore [...]. gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Part. or., 39). Cicerone non definisce qufsto tipo di segni, se non dicendo che si tratta di "fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte- ristica condivisa anche dai signa del De inventione (I, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor- nificio (Rhet. ad Her., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigia f acti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi- che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate- goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekméria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (114), dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava i semefa da un punto di vista episte- mologico per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico- noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero- niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina- zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente- mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o coniectura -- I --vestigia facti osigna verisimili& notae propriae rerum c•quod plerumque ita r11·1 es.: ·adolescenza- incllnazione alla libidine· c•quod numquam aliter fit certumque declarat•) es.: ·tumo-fuoco· 1•sensu percipi potest") es.: ·sangue-uccisione• dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu- rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di- vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con- gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole- micamente rileva (De div., Il, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo- sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di- verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi dell'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di- vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet- tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi- losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora- neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato ste~so; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per- ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica. Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deo- rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que- st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria soste- nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3.1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon- te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu- nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata- ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro- cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia- listi, ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum (inter- preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in- terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau- se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarméne), non è conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quanto prima è accaduto" (De div., I, 127). Questo fa sì che gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo- do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tame.1causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con- nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul- la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iter attività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan- ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri- patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no- minati, De div.), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:   emittente divino - Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div., II, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio- so, ma a ben diverse cause naturali (De div.); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne- cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra- gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div.).segno interno - evento futuro • ricevente umano  9.2.3.3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi- nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se- gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei conse- guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e dell'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro- fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div., II, 14), le prati- che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade- re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) 1 e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip- pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes- sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello all'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div., II, 83); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio- so, ma a ben diverse cause naturali (De div.); (iii) l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne- cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div., II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ragioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div.,).  Nel suo saggio Semiotica e filosofia del linguaggio ECO (si veda) osserva come la semiotica, proprio nel mo­mento storico in cui esce dalla marginalità, affermandosi come disciplina e vedendosi riconosciuto addirittura il ruolo di scienza paradigma, proprio in questo volgere di seco­ lo, appunto, diventa anche il referente ultimo di una serie di dichiarazioni che proclamano la morte del segno o, almeno, la sua crisi. Situazione non nuova, osserva Eco: la storia del pensiero occidentale è anche leggibile come storia di una cancellazione e rimozione, quella della semiotica come scienza, al di là dei (e nonostante i) numerosi pre-annunci, progetti, ipotesi di una teoria dei segni che, a più riprese, hanno percorso la riflessione teorica degl’ultimi duemila­ cinquecento anni. La proposta di ECO (si veda) è quella di pensare a un progetto attuale di semiotica che trovi giustificazione proprio nello spazio che intercorre tra le attuali negazioni e le reali presenze del passato. Ciò significa che la semiotica deve percorrere a ritroso il cammino della storia e divenire archeologia del sapere segnico: diverrebbe così possibile su­ perare i crampi linguistici che sono alla base delle attuali de­ finizioni del segno (che ne criticano il formato come troppo angusto o troppo ampio, che comunque non ne ritrovano il modello quando escono dai sistemi verbali). Il presente saggio costituisce un tentativo di accogliere il suggerimento di ECO (si veda) e si propone di indagare le pratiche se­miotiche dell’origini e la riflessione teorica sul segno, che sono elaborate dal mondo antico e che ci sono state consegnate dalla TRADIZIONE letteraria, FILOSOFICA, medica, storiografica, retorica. Si propone cioè di ritrovare le tracce di un filo rosso che percorre il mondo antico, dalle origini e che porta alla costituzione di una nozione di se­gno abbastanza diversa da quella proposta dalle teorie del Novecento. La maggior parte, infatti, delle dottrine del segno che so­no elaborate nel Novecento - sia in ambito linguisti­co, a partire dal Cours saussuriano, sia in ambito più gene­ ralmente semiologico - si fondano su due presupposti, che risultano del tutto assenti nella riflessione classica su questo soggetto: il modello di segno, sul quale l'intera indagine semiologica viene articolata, è quello del segno linguistico – ecceto in H. P. GRICE --; il tipo di rapporto postulato come instaurantesi tra le due facce del segno è quello dell'equivalenza (p=q) o almeno CONSEQUENZA (Hobbes, Grice). Da que­sta seconda assunzione dipende il fatto che la nozione di signi­-FICATO più diffusa fino a qualche anno fa nelle teorie seman­tiche fosse quella che lo vede come sinonimia o come de­finizione essenziale. A partire, infatti, dallo strutturalismo hjelmsleviano, fino ad arrivare alle teorie di semantica com­ponenziale e interpretativa di impostazione generativista, il singolo termine linguistico, o se si preferisce, la forma del­l'espressione di un segno, è sentito come equivalente a una serie di figure del contenuto, o marche semantiche, espresse a loro volta meta-linguisticamente da altrettante forme lin­guistiche (ad esempio: uomo = essere animato + uma­no + maschio + adulto). Cf. H. P. Grice: Bachelor: unmarried male – In defence of a dogma. Una indagine sul modo in cui nasce e si articola nell'anti­chità classica greco-romana (e particolarmente ROMANA) la riflessione sul segno ci permette di scoprire che, rispetto al primo punto, in origine, non solo non si ha omologazione dei vari tipi di segno sotto la specie di quello linguistico, ma che, anzi, le due teorie (quella semantica del linguaggio e quella del segno non-linguistico) procedono in maniera parallela, senza inter-connettersi. Ne è un esempio chiaro il fatto che Aristotele,nel LIZIO, adoperi il termine “symbolon” per indicare il segno linguistico, ma le espressioni “smefon” o “tekmrion” per indicare quello non linguistico. La saldatura avvienne molto più tardi, in Agostino. Ma, in questo caso, è l'espressione linguistica a essere sussunta sotto la categoria più generale [cf. H. P. Grice] e già costituita del segno non-linguistico. Per quello che riguarda il secondo punto, le pratiche se­gniche che la tradizione ci ha tramandato e le teorie classi­che prevedono un funzionamento del segno non secondo lo schema dell'equivalenza, bensì secondo quello deli'implica­zione (p q) – cf. Hobbes, Grice: CONSEQUENTIA. Per citare un esempio celebre, che percorre l'intera tradizione antica da Aristotele del LIZIO alla retorica romana di Quintiliano, pas­sando per IL PORTICO, un caso paradigmatico di segno è: Se una donna ha latte, ha partorito. The fact that this female has produced milk NATURALLY means that this female has given birth (H. P. Grice). A questo punto è già possibile un confronto. Il modello antico classico greco-romano, e particolarmente ROMANO, implicaziona­le – cf. Moore, ENTAIL – Frege assertion sign -- , appare non solo molto più interessante rispetto a quello equazionale, ma certamente molto più, per così dire, attua­le. Infatti, è in corso nella ricerca contemporanea una revi­sione di paradigma, che tenta di superare le semantiche co­siddette "a dizionario" (che funzionano secondo il modello dell'equivalenza) per passare alla proposta di semantiche "istruzionali,” che funzionano secondo il modello dell'im­plicazione). Tuttavia, l'interesse di un lavoro di ricostruzione delle teorie semiotiche dell'antichità non è limitato soltanto al re­perimento di materiale sommerso, finalizzato, magari, alla costituzione di un quadro da mettere in confronto con quel­lo attuale di H. P. GRICE. C'è un interesse intrinseco anche nell'osservare come i campi nozionali, e la terminologia LATINA associata a essi si siano venuti distinguendo lentamente e abbiamo preso for­ma a partire da situazioni d’usi linguistici originariamente molto più magmatici. Anche in questo caso bisogna citare Aristotele del LIZIO come il primo che impone dei confini netti a ter­mini e concetti, che sono stati usati sino alla fine del V seco­lo a.C. e oltre (a esempio nei testi del Corpus Hippocrati­cum) con una oscillazione semantica considerevole. Prima della categorizzazione aristotelica del LIZIO, espressioni quali “semefon,” “aitia,” “prophasis,” “tekmrion,” ed “eikos,” non solo costituivano un campo di termini imparentati, ma anche di termini che ammettevano una parziale sovrapposizione e in­tercambiabilità (Lloyd). Ugualmen­te, il riferimento culturale di certe espressioni è stato, prima di Aristotele nel LIZIO, eterogeneo e diverso. “smafno,” a esempio, come ci mostra il frammento (Diels-Kranz) d’Eraclito è il verbo che indica la rivelazione oscura del dio di Del­fi. “tekmairomai,” poi, denota in generale il procedere at­traverso un ragionamento congetturale, ma nei tragici e nei lirici vienne usato in riferimento alla pratica dell'interpreta­zione divinatoria. “smefon,” infine (o la sua variante omerica “séma”), è il termine più complesso di tutti, indicando, fin dalle origini, una molteplicità di cose, dall'INDIZIO al SEGNO di riconoscimento, al prodigio divino, fino a essere usato come termine generale per il segno divinatorio (Bloch: tr. it.; Benveniste: tr. it.). È innanzitutto alla divinazione, all'astronomia e, tramite queste, all'arte della navigazione, che la problematica del segno viene in origine connessa. Come testimonianza di tale connessione, si può ricordare la cosmogonia d’Alcmane in cui all'origine del mondo compare la dea marina Teti, accompagnata da tre personaggi divini. Da una parte P6ros (''la via") e Tékmor ("il se­gnale", "il punto di riferimento"); dall'altra Sk6tos ("l'o­scurità"). Come sottolineano Detienne e Vernant, Tékmor svolge un ruolo fonda­mentale. Nell'oscurità [sk6tos] del cielo e delle acque in origine confuse, Tekmor introduce vie [p6roll differenziate, che rendono visibili sulla volta celeste e sul mare le varie dire­zioni dello spazio, orientando una distesa prima sprovvista di ogni tracciato, di ogni punto di riferimento, aporon kai atékmarton". I naviganti devono congetturare, “tekmafre­ sthal”, sulla distesa indifferenziata del mare, la loro rotta e gli dei e gli indovini la fanno loro intravedere, fissando in anticipo percorsi e punti di riferimento. In questo modo. i naviganti gettano un ponte tra il visibile o proprio il SENSIBILE e l'invisibile. Con Aristotele nl LIZIO, i termini del vocabolario semiotico, che mantenneno fino ad allora il riferimento alla sfera del sacro (e che continuano a essere usati in tal senso fuori dagl’ambienti filosofici e razionalistici), vengono pie­gati a un uso esclusivamente profano (Lanza) filosofico – cf. H. P. Grice: Words are not signs. Tuttavia, se si perde il carattere sacro dell’origini, qual­che traccia rimane ed è leggibile in trasparenza, se è vero che Aristotele nel LIZIO, nella sua delimitazione dei campi concettua­li – cf. Austin/Grice, Seminar on DE INTERPRETATIONE --, riserva l'espressione “smeion” al segno che non dà certez­za e che può risultare ingannevole (mentre riserva l'espres­sione “tekmrion” al segno sicuro). Qui, quello che è il segno ambiguo della rivelazione divina, diviene il segno am­biguo del modello conoscitivo razionalistico (“Those spots didn’t mean anything to me, but to the doctor, they meant that he had the measles – By uttering, ‘He hasn’t been to prison yet” he might have meant that he is potentially dishonest. Grice. Se il paradigma semiotico affonda le sue radici nelle pra­tiche non-scientifiche o non-filosofiche della divinazione e della medicina magica (l’"iatromantica"), tuttavia lentamente depura, nel corso dei secoli, queste origini da tutto ciò che in esse c'è di irrazionale e di non controllabile (anche se sempre, al di fuori delle teorizzazioni della FILOSOFIA ANALITICA tipo H. P. Grice, rimarranno usi magmatici e irrazionali di questo paradigma, come dimo­strano, a esempio, le opere d’Artemidoro di Daldis o d’Elio Aristide sui segni onirici). Se si tiene presente quest'ottica, non è più sorprendente osservare che la forma proposizionale e implicazionale (p q) che IL PORTICO danno al segno -- Se c'è cicatrice, c'è stata piaga -- si ritrova identica nelle tavolette divinatorie mesopotamiche. Anche gl’antichi babilonesi esprimeno il segno attra­verso un periodo ipotetico, formato da una protasi, intro­dotta dalla congiunzione summa (equivalente alla “ei” greca e il “si” latino, che introduce il condizionale del PORTICO), e da una apodosi. Es­se, rispettivamente, traducono in proposizioni linguistiche il segno e la sua interpretazione. Se il polmone è rossastro a destra e sinistra, vi sarà un incendio. Bottero. In ambiente greco, una saldatura tra segno divinatorio e forma logica dell'implicazione (p q) la si trova testimoniata in uno dei dialoghi delfici di Plutarco, L 'E di Delfi. In que­st'opera, alcuni prestigiosi personaggi discutono sul signifi­cato d’un oggetto, avente la forma di E, che si trova tra i doni votivi del tempio di Delfi. Tra essi, Teone propone un'interpretazione della E ricorrendo al nome che nella lin­gua antica questa lettera riceve, e cioè ei. Teone assimila poi questo nome alla congiunzione ipotetica ei (latino “si,” italiano ''se") e mo­stra che tale c­ongiunzione svolge nella dialettica un ruolo essenziale, in quanto serve a esprimere il rapporto logico per eccellenza, quello che si ha nei condizionali del tipo, Se è giorno, c'è luce -- esempio, questo, che è tra i più classi­ ci della logica semiotica del PORTICO). Teone sottolinea, infine, che il dio di Delfi, Apollo, è un dio molto amante della dialettica, tanto è vero che i vaticini presuppongono la for­ma del condizionale, p q, che è la forma stessa che assu­mono i fenomeni dell'universo (e qui il richiamo è alla teo­ria del PORTICO della simpatia universale. Certo, quello che risulta dal testo di Plutarco è al massimo che la teoria del PORTICO del fato e della divinazione si fonda su base logica. Il destino consiste in una serie interconnessa di condizionali. Ma se l'ipotesi da porre fosse quella esatta­mente contraria? Se, cioè, lo strumento così asettico e ra­zionale della logica traesse in realtà le sue origini dall'ambi­to divinatorio? Come dimostra la sua stretta connessione con i segni e la divinazione presso IL PORTICO (Goldschmidt; Verbeke). Un enorme cammino è tuttavia stato compiuto dai testi divinatori babilonesi alla logica del PORTICO. La forma proposizio­nale rimane la stessa.. Ma nel caso del PORTICO è depura­ta non solo di ogni carattere sacrale, ma anche di ogni ele­mento contenutistico. È lì solo per il calcolo proposiziona­le. Nel caso degl’antichi mesopotamici, invece, il contenuto della protasi permette di inferire il contenuto dell'apodo­ si mediante più o meno complicati processi di analogia e giochi tropici. Il "rossore" del polmone permette di infe­rire "incendio" per un TRATTO SEMANTICO COMUNE. Infine una disamina sulla riflessione semiotica antica per­mette di scoprire come il dibattito sui segni, sulla loro natu­ra e sulla loro classificazione si sia attestato a livelli sor­prendentemente alti, come è il caso della discussione sui condizionali in seno alla stessa scuola del PORTICO (tra Diodoro, Filone – citato da H. P. Grice -- e Crisippo) o della disputa tra IL PORTICO e L’ORTO sul rapporto tra antecedente e conseguente nei segni, di cui puntualmente ci informa il De signis di Filodemo. La discussione di carattere semiotico, insomma, si riferi­sce sempre a, o si identifica decisamente con, il quadro più generale o più fondamentale del problema della psicologia razionale o della cono­scenza. È poi nel mondo romano che queste problematiche d’ordine conoscitivo generale vienneno piegate all’esigenze più pragmatiche della conoscenza giudiziaria – “Hart is no philosopher, he’s a laywer” -- Grice: il problema dei segni si identifica con quello delle metodiche per as­segnare un maggiore o minor valore di PROVA agl’indizi pre­sentati in un procedimento processuale. La semiotica vienne messa al servizio dell'arte del detective, in ciò prefigurando uno degl’aspetti più singolari dell'interesse contemporaneo nei confronti dei paradigmi indiziari (Eco e Sebeok). È, infine, con Agostino – e con Grice a Oxford --, che la teo­ria del segno fornisce un paradigma anche per la teoria del linguaggio, permettendo d’UNIFICARE in un'unica categoria anche i segni verbali. Desidero ringraziare i molti amici che hanno letto e di­scusso con me parti di questo lavoro. Tra coloro che mi hanno offerto preziosi suggerimenti critici vorrei ricordare Bernardini, Borutti , Crevatin, Fabbri, Manuli, Marmo, Ta­barroni, Vegetti, e Violi. Per molte delle idee e per l'impostazione generale del saggio sono debitore a ECO (si veda), di Bologna, la piu antica varisita del mondo, che segue e incoraggia il lavoro fin dai suoi inizi. Un ringraziamento particolare va a Conte, che ha rivisto una precedente versione del mano­scritto, e dal quale ho ricevuto una infinità di preziosi con­sigli. Quanto agl’errori e alle imprecisioni, ne assumo inve­ce totale responsabilità. C'è un campo specifico in relazione al quale tutte le cul­ture antiche riconoscevano l'eccellenza e il magistero dei popoli mesopotamici: quello della divinazione. Non ci si può nascondere tuttavia, a questo proposito, che l'atteggiamento sviluppato dalla cultura moderna nei confronti delle pratiche che rientrano in questo campo è fortemente svalutativo. Esse, infatti, rappresentano un pa­radigma che si pone esattamente agl’antipodi di quello che normalmente è assunto come il paradigma scientifico. Ma ci sono almeno due ragioni che ci inducono a guardare alla divinazione mesopotamica come a qualcosa che merita più di un interesse puramente occasionale o erudito. In primo luogo, infatti, è necessario ripensare, come sug­gerisce Ginzburg, ai rapporti tra paradigma divinatorio e paradigma scientifico come a qualcosa di molto più complesso di quello che si assume di solito e che non comporta affatto una svalutazione del primo termine. Infatti, per Ginzburg, il paradigma divinatorio (definito an­che, a seconda dei contesti in cui si manifesta, come indi­ziario, semeiotico, e venatorio), costituisce un modello di sapere specifico, caratterizzato dall'aspetto qualitativo: e cioè basato sulla conoscenza dell'individuale, attraverso l'uso della congettura. Ciò gli permette di giungere a risul­ tati notevoli, in tutte quell’aree del sapere che lo utilizzano privilegiatamente (al di là della mantica, sicuramente, anche la medicina, la filologia e cosi via, su su fino alla detec­tion, la connoisseurship, la psicoanalisi), anche se per que­sto deve pagare il prezzo di una ineliminabile dose di aleato­rietà. Si tratta, in realtà, di un sapere del tipo che Peirce [cf. Grice’s lectures on Peirce] definisce abduttivo, in contrapposi­ zione al modello del sapere quantitativo che fa uso della de­duzione come metodo di ragionamento. In secondo luogo bisogna ricordare che, in Mesopotamia, la divinazione subisce un lungo processo evolutivo che dalla fondamentale e primaria tendenza a inferire le cause dagl’effetti (procedimento tipico dell'abduzione) la porterà ad accentuare sempre di più i tratti generalizzanti e aprioristici, in modo da gettare le basi per una vera e propria scientifici­ tà di tipo astratto (Bottero 1974: tr. it. 211). Ciò che risulta di maggiore interesse, dal punto di vista della ricostruzione storica di una disciplina semiotica, è che al centro del pensiero divinatorio si pone proprio il segno in una accezione non banale. Quest'ultimo, infatti, costituisce anzitutto uno schema di ragionamento inferenziale, che permette di trarre alcune conclusioni a partire da certi dati. È interessante notare come il segno divenga centrale nel­ l'universo cognitivo mesopotamico, in quanto, partendo dal campo della divinazione, si estenderà in seguito anche alel altre pratiche culturali e discipline, come la medicina e la giurisprudenza, e arriverà ad articolare, unificandola sot­ to il suo modello, la totalità del sapere. Si raggiungerà dun­ que, in Mesopotamia, un punto in cui il sapere, a livello molecolare, funzionerà secondo lo schema, unificato e for­ male, del segno divinatorio, anche se contenuti di volta in volta differenziati verranno utilizzati per dargli corpo. Pos­ siamo già accennare (anche se vi torneremo su in seguito con maggiore ampiezza di dettagli) alal forma assunta nella cultura mesopotamica dal modello segnico: quella di un pe­ riodo ipotetico in cui una certa conclusione è data nella apodosi, come derivante direttamente dallo stato di cose presentate nella protasi: in cui, in altre parole, la protasi è "segno" deli'apodosi. Un modello segnico di questo tipo ("Se p, allora q") è molto vicino a quello tramandatoci dalla cultura greca nella fase della sua maggiore maturità semiotica: in particolare funziona secondo lo schema implicativo il modello di segno elaborato dalla scuola stoica. Ma qui, una volta rilevata l'affinità, devono subito essere messe in luce le differenze: nel segno della divinazione mesopotamica sono in genere gli elementi materiali (o contenutistici) che permettono il pas­ saggio dalla protasi all'apodosi; in quello della semiotica stoica, invece, le inferenze sono rese possibili unicamente grazie agli elementi formali. A ogni modo, nonostante queste profonde divergenze e al di là del problema, che pure si pone, degli eventuali debiti specifici della cultura greca nei confronti di quella mesopo­ tamica a questo proposito,1 è interessante verificare la pre­ senza dello stesso schema segnico p -:J q che attraversa due civiltà (quella greca e quella mesopotamica) e due ambiti culturali (la divinazione e la filosofia) per altri versi tanto distanti tra loro. 1. 1 Divinazione e scrittura Il fatto che quella mesopotamica sia essenzialmente una civiltà della scrittura costituisce senz'altro uno dei presup­ posti per capire il tipo di divinazione sviluppatosi in Meso­ potamia e le ragioni della sua ampia diffusione: è la scrittu­ ra, infatti, che in Mesopotamia fornisce la forma e il mo­ dello per tutta una serie di attività intellettuali, prima fra tutte quella deli'interpretazione dei segni inviati dagli dei. La lettura dell'avvenire e la conoscenza del nascosto non avvengono qui per diretta ispirazione divina, ma seguono lo stesso procedimento messo in atto neli'interpretazione dei segni della scrittura. 'l E proprio in relazione alla grande importanza assunta dalla scrittura nella cultura mesopotamica che il modello ri­ sultato egemone è quello della divinazione tecnica (Bouché­ Leclercq), quello cioè basato sulla interpretazione di segni che si realizzano esternamente al­ l'uomo e che richiedono l'intervento esplicativo degli spe­ cialisti. Per comprendere il ruolo che la coppia scritturaloralità gioca negli orientamenti divinatori è sufficiente mettere in relazione la civiltà mesopotamica con quella greca. Que­ st'ultima, come noto, è una cultura essenzialmente orale, dove la scrittura si sviluppa in un periodo relativamente re­ cente e non costituisce un fenomeno autonomo rispetto al parlato, bensì, essenzialmente, una sua riproduzione in ca­ ratteri fonetici. In stretta connessione con il carattere orale della cultura, in Grecia risulta egemone proprio il modello della divina­ zione ispirata, in cui il dio parla ali'uomo attraverso un profeta, avvertito come suo portavoce, secondo il celebre esempio della divinazione oracolare della Pizia a Delfi. E non è poi un caso che la società greca non abbia favorito, come avviene invece in Mesopotamia, la nascita e la presen­ za stabile di una classe sacerdotale preposta ali'interpreta­ zione specialistica sia dei segni della scrittura sia di quelli della divinazione. Al contrario, nella cultura mesopotamica la scrittura, per un verso, è un fenomeno piuttosto antico, per l'altro è un dispositivo dotato di meccanismi in larga misura autonomi rispetto al parlato. Le prime attestazioni della scrittura cuneiforme, infatti, si hanno tra la fine del IV millennio e l'inizio del III.2 Nella sua forma primitiva la scrittura è pittografica, in quanto fatta di segni che intendono designare ciò che raffigurano: a esempio la rappresentazione di una testa di bovino, trac­ ciata nei suoi contorni, ma perfettamente identificabile, in­ dicava in prima istanza "il bue"; ma, per una sorta di am­ pliamento semantico del segno, esso indicava anche "la vac­ ca" e "il bestiame grosso". Ugualmente il disegno schemati­ co di un piede aveva anche il significato di "stare in piedi" e quindi quello di "immobile", di "camminare", di "parti­ re", fino ad arrivare addirittura a quello di "portare via''. Come si vede l'abbinamento tra significanti e significati non si presenta né univoco né banale: esso infatti comporta un lavoro interpretativo piuttosto complesso per controlla­ re i processi di ampliamento o di slittamento dei significati per uno stesso segno. Processi che si complicavano attraverso nuove associa­ zioni derivanti dalla giustapposizione di segni diversi: il se­ gno del pane messo accanto a quello della bocca dà il pro­ dotto semantico "mangiare"; quello dell'acqua accanto a quello deli'occhio significa "lacrime"; se invece è messo ac­ canto a quello del cielo significa "pioggia". Più curioso an­ cora è il caso del segno della montagna che, giustapposto al segno indicante la donna, produce il senso "la schiava", in quanto le montagne delimitavano a est e a nord la regione, e una donna portata da un paese situato oltre la montagna era una straniera destinata a tale condizione. Ci sono dunque complicati meccanismi enciclopedici che governano l'interpretazione. Ma si può osservare anche che, nella sua forma più anti­ ca, quella cuneiforme è una scrittura di cose (Bottero 1974: tr. it. 168), in quanto non ha bisogno di passare attraverso il linguaggio verbale per designare gli oggetti della realtà. La sua autonomia rispetto alla realizzazione verbale è tota­ le, tanto è vero che i segni possono essere compresi da per­ sone che parlano lingue diverse e, del resto, sono pronun­ ciati in modo diverso in ciascuna di queste lingue come av­ viene, a esempio, per i numeri arabi nel mondo moderno. I Mesopotamici si dimostrarono molto legati a questa "scrit­ tura di cose" e non l'abbandonarono neppure quando ven­ nero fatti notevoli passi avanti verso il fonetismo con l'in­ venzione della scrittura sillabica. In effetti, circa un secolo dopo la sua prima scoperta, i segni della scrittura pittografica avevano cominciato a subi­ re un processo di scollegamento dalle "cose" che designava­ no, per essere collegati più direttamente alle "parole" con cui il linguaggio verbale designava i medesimi oggetti. Il ca­ rattere monosillabico di molte parole e l'alta percentuale di omonimi, avevano favorito questo processo. Un esempio interessante del fenomeno, che è anche il più antico, è quel- lo del segno della fr H 1--- , che viene a in- dicare non più solo "la freccia" ma anche "la vita": la me­ diazione è stata dali'omonimia tra le parole designanti i due concetti, pronunciate entrambe ltil nella lingua sumerica.3 Possiamo così schematizzare il processo: pronuncia l ti l l"" significato ..freccia· ..vita• l ::rafico HH H'VA questo punto per arrivare a un alfabeto sillabico per­ fetto sarebbe stato sufficiente eliminare tutti gli ideogram­ mi indicanti parole per lasciare soltanto i segni di sillabe, sorta di unità minime infinitamente reimpiegabili. Invece i Mesopotamici lasciarono sopravvivere, accanto ai segni presi nel loro valore fonetico (indicanti una sillaba), i segni presi nel loro precedente valore pittografico. Ci sono almeno due importanti conseguenze che derivano da questa organizzazione della scrittura, per la divinazione. Anzitutto, come abbiamo visto da alcuni esempi, la scrit­ tura pittografica ha la caratteristica essenziale di tessere una rete sottile e complessa di rapporti tra le cose: abitua la mente a vedere nelle cose relazioni segrete e legami inso­ spettati. Essa suggerisce, altresi, un'attitudine mentale che porta a guardare anche alle cose del mondo reale come in­ nescanti un analogo processo semiosico: non solo, quindi, l'abbinamento pittografico del segno della montagna e di quello della donna indicheranno "schiava", ma anche lo stesso abbinamento osservato nella realtà, oppure in un so­ gno, porterà a trarre una inferenza analoga. È proprio un meccanismo inferenziale di questo tipo che si pone alla base della divinazione. La seconda conseguenza è connessa con il carattere spe­ cialistico delle conoscenze richieste per l'interpretazione della scrittura: i caratteri cuneiformi non sono accessibili a tutti, dato il sistema di cifrazione cosi complesso. Si crea al­ lora una sorta di aristocrazia di esperti capaci di interpretare i segni della scrittura. Allo stesso titolo si crea, per l'in­ terpretazione dei segni mandati dagli dei, la casta degli in­ dovini baro, i quali hanno come emblema della loro corpo­ razione proprio la tavoletta e il calamo. 1.2 La scrittura degli dei Come sottolinea Jeannie Carlier (1978: 1227), in Meso­ potamia "parlare di una scrittura degli dei non è una meta­ fora". Infatti quella cultura proietta nel campo teologico lo stesso modello di organizzazione che vede operante nel campo della burocrazia statale. Come ii re diffonde il suo potere dal centro alla periferia attraverso una capillare e sviluppatissima rete amministrativa che trasmette i suoi or­ dini scritti indirizzati ai sudditi, così gli dei si servono della scrittura per far conoscere agli uomini i destini che hanno fissato per ciascuno di loro; solo che "l'unica tavoletta a lo­ ro misura è l'universo intero" (ibidem). Sama e Adad, gli dei della divinazione, sono per un ver­ so come il sovrano che notifica la sua volontà ai sudditi per mezzo di messaggi scritti; per un altro sono come il giudice che, dopo aver preso una decisione, la ratifica sulla tavolet­ ta per darle validità e pubblicità. Il mondo, dunque, in questa concezione, è una immensa tavoletta, costituito da oggetti che sono il supporto materia­ le dei presagi da cui verranno ricavati gli oracoli, come vie­ ne testimoniato, tra l'altro, anche da un inno di Assurbani­ pal a Sama5: "Tu scruti alla luce (del) tuo (sguardo) la terra intera come (altrettanti) segni cuneiformi". Del resto i Babilonesi parlavano della disposizione degli astri come "scrittura del cielo" che veniva "letta" dagli astrologi. E d'altra parte non era raro il caso in cui un pre­ sagio consistesse letteralmente in un segno di scrittura trac­ ciato nelle pieghe del fegato di un animale o sulla fronte di un uomo. 1.3 Una semiologia "ante litteram" Una volta messo in luce il carattere di profonda affinità tra il sistema della scrittura cuneiforme e la divinazione concepita come scrittura degli dei, passiamo a esaminare la struttura interna del segno divinatorio. È possibile farsene un'idea abbastanza precisa attraverso i numerosi trattati di­ vinatori che ci sono pervenuti. Questi ultimi consistevano in lunghissimi elenchi di proposizioni complesse, ciascuna composta da una protasi e da un'apodosi. La protasi è in­ trodotta dall'espressione summa (equivalente alla congiun­ zione "se") e ha il verbo al presente o al passato: essa costi­ tuisce il "presagio", cioè il segno ominoso che deve essere interpretato; l'apodosi ha il verbo di solito al futuro e costi­ tuisce !'"oracolo", ciò che viene indicato o svelato dall'in­ terpretazione del segno. Vediamo alcuni esempi che, pur in relazione a differenti tecniche divinatorie, presentano tutti la stessa struttura:4 Astrologia Se nel giorno della sua scomparsa, la Luna si attarda nel cielo (invece di scomparire d'un tratto)- vi sarà siccità-e-arestia nel paese. Fisiognomonia Se un uomo ha il pelo delle spalle ricciuto - le donne lo ame­ ranno. Oniromanzia Se un uomo sogna che gli consegnano un sigillo - avrà un fi­ glio. Lecanomanzia Se, dal centro dell'olio (gettato sull'acqua), si staccano due "ponti", uno maggiore dell'aJtro - la sposa dell'interessato met­ terà aJ mondo un figlio maschio; quanto aJ malato, guarirà. Estispicina Se il polmone è rosso-vivo a destra e a sinistra - vi sarà un in­ cend io. PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 17 Libanomanzia Se, quando versi (la sostanza aromatica) sulla brace, il fumo si sprigiona (solamente) verso destra, e non verso sinistra - avrai la meglio sul tuo avversario. Se si sprigiona (solamente) verso sinistra e non verso destra - il tuo avversario avrà la meglio su di te. Questi esempi permettono già di fare due osservazioni a proposito del meccanismo semiotico in essi instaurato. In primo luogo la struttura del segno è espressa in termini di rapporti tra proposizioni e non tra singole unità lessicali o tra un significante e un significato in senso saussuriano. Questo fa sì che i segni non verbali e gli eventi acquisiscano subito un'importanza predominante, in quanto trovano ap­ punto nella proposizione il modo migliore di essere espressi. In secondo luogo il rapporto che c'è, all'interno di cia­ scun segno, tra la protasi e l'apodosi è di tipo implicativo, intendendo però questo termine come designante un'infe­ renza ancora abbastanza generica: come vedremo, all'inter­ no della scuola stoica, invece, l'interesse si accentuerà pro­ prio sul tentativo di definire il nesso implicativo che caratte­ rizza il segno e a questo proposito si accenderanno diver­ genze che alimenteranno una lunga e complessa discus­ sione . 1.4 n passaggio dalla protasi all'apodosi Messi di fronte ali'enorme massa delle proposizioni divi­ natorie documentate dai trattati mesopotamici può sembra­ re che regni la più completa casualità nel movimento che re­ gola il passaggio delle protasi-presagio alle relative apodo­ si-oracolo. A ben guardare, però, è possibile rintracciare al­ cune linee generali che consentono di mettere un po' d'ordi­ ne in un coacervo altrimenti amorfo e di cogliere alcuni principi di regolazione. Sono rintracciabili in realtà tre casi teorici di passaggio non casuale dalla prima alla seconda proposizione: Il primo tipo di passaggio è connesso al principio del co­ siddetto empirismo divinatorio: protasi e apodosi regi­ strano eventi che si sono verificati effettivamente secon­ do una concomitanza temporale. Questo genere di mec­ canismo si trova nei cosiddetti "oracoli storici", caratte­ rizzati dal fatto di avere l'apodosi al passato, anziché al futuro; essi riproducono verisimilmente la forma del tipo originario di divinazione. 2. 3. Il secondo tipo di passaggio non arbitrario è connesso alla possibilità di un gioco di associazioni tra elementi della protasi ed elementi dell'apodosi: naturalmente sono possibili i due casi, tanto del gioco fonetico sui signifi­ canti, quanto di quello tropico sui significati. Il terzo tipo di passaggio tra le due proposizioni è con­ nesso alla presenza di codici che prevedono una serie esauriente e completamente specificabile di casi. In realtà, nella fase più recente della storia della divina­ zione mesopotamica, i trattati subiscono un'evoluzione nel­ la direzione della sistematicità e dell'astrazione. Il sistema astratto e, in un certo senso, totalmente deduttivo prende il sopravvento anche sulla verisimiglianza stessa dei presagi. La furia classificatoria dei Mesopotamici guarda più ali'e­ saurimento di tutti i casi astrattamente possibili che non al­ la loro concreta possibilità di verifica. Avviene così che l'abbinamento di un'apodosi con una certa protasi dipenda dallo schema astratto e, dunque, divenga prevedibile. 1.4. 1 Gli "oracoli storici" e l'empirismo divinato­ rio Sommersi, e quasi fossilizzati, nell'insieme delle decine di migliaia di oracoli che i trattati mesopotamici ci hanno con­ servato, gli oracoli "storici" costituiscono un numero non grande, ma significativo. Essi possono essere attribuiti, in base all'analisi interna, all'epoca delle origini, anche se compaiono in trattati più recenti.   1 . 4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 19 Essi presentano infatti quattro caratteristiche specifiche: l. hanno tutti la tipica apodosi al passato; 2. gli argomenti di cui trattano fanno riferimento ad avvenimenti storici che, nel caso in cui possano essere confrontati con altre fonti, risultano degni di fede; 3. i fatti e i personaggi che in essi sono menzionati sono collocabili, nella maggior parte dei casi, nell'epoca di Accad (ca. 2340-2160 a.C.); 4. fanno, quasi tutti, iniziare l'apodosi con la formula amat "(è il) presagio di", formula che è assolutamente inusuale negli al­ tri oracoli. Vediamone alcuni esempi: Se (nel Fegato) la Porta del Palazzo è doppia, se vi sono tre Ro­ gnoni e a destra della Vescichetta-biliare sono scavate (pa/Iu) due perforazioni (pilsu) ben nette - (è il) presagio degli abitanti di Apgal, che Naram-Sin (ca. 2260-23) per mezzo di scavi (pii­ fu) fece prigionieri. Se, a destra del Fegato, si trovano due Diti - (è il) presagio del­ l 'Epoca-dei-Competitori. In entrambi questi casi l'apodosi fa riferimento a fatti e personaggi storici reali deli'epoca di Accad. Si può ipotizza­ re che gli oracoli così formulati non siano stati molto di­ stanti cronologicamente dali'epoca dei fatti storici di cui parlano le apodosi. Anzi, il punto fondamentale è proprio che tali oracoli avrebbero registrato delle coincidenze "significative", a po­ steriori, tra un particolare stato di cose considerato ornino­ so e un evento della storia: tali coincidenze avrebbero as­ sunto in seguito valore di paradigma. A persuaderei di questa ipotesi, che risponde appunto al principio dell'empirismo divinatorio (Bouché-Leclercq 1879-82: vol. l, 298; Bottero 1974: tr. it. 161), c'è il fatto che spesso i Fegati di Mari contengono una formula che mostra come il gioco delle coincidenze si sia potuto stabi­ lire: Quando il mio paese si è rivoltato contro lbbi-Sin (2027-2003), questo (=il Fegato) si trovava così disposto. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMlCA Il plastico di Mari riproduce la forma assunta dal fegato reale esaminato durante un rito di estispicina: esso registra la coincidenza tra questa forma, assunta come ominosa, e un evento storico di importanza determinante, cioè la rivol­ ta contro l'ultimo re del periodo neosumerico, lbbi-S'ìn. L'ipotesi dell"'empirismo divinatorio" si spinge anche ol­ tre, ipotizzando che alla base stessa della scoperta della di­ vinazione si porrebbe la scoperta delle coincidenze tra la se­ rie di presagi e quella degli oracoli; ipotesi che può essere avvalorata dal fatto che tutti gli "oracoli storici" possono essere cronologicamente situati nel periodo delle origini del­ la divinazione mesopotamica. Nella istituzione stessa della pratica divinatoria si sarebbe vicini, così, a una forma del principio del post hoc, ergo propter hoc, per cui qualsiasi evento che fuoriesce in qual­ che maniera dal corso "normale" e che è seguìto da un altro evento, considerato a sua volta eccezionale, finirebbe per costituire con quest'ultimo una coppia inscindibile. Il colle­ gamento tra i due eventi, una volta stabilito, diventerebbe irresolubile; e il secondo evento, se non propriamente cau­ sato dal primo, risulterebbe almeno annunciato da quello. Ciò che di fatto viene qui elaborato è il metodo semiotico dell'inferenza delle cause dagli effetti, che è tipica dell'ab­ duzione. È vero che in questo caso si arriva a conclusioni che ci appaiono assurde, a causa di un errore fondamentale nell'applicazione del metodo: infatti quello che viene preso come risultato (o effetto) (una certa ben definita disposizio­ ne del fegato) che si presume essere il caso di una certa re­ gola (o causa) (rivoltarsi contro lbbi-Sin), in realtà non è affatto tale. Ma questo ha poca importanza: formalmente siamo di fronte a un'abduzione. Un tale principio è applicato costantemente. Non c'è nes­ sun interesse della divinazione a rivolgersi al passato: se le apodosi degli oracoli storici lo fanno è appunto perché la fi­ losofia che sta dietro a questo tipo di oracoli è che la storia può ripetersi. Nell'abduzione, infatti, una volta che sia sta­ ta inferita la regola che spiega un certo risultato, è possibile tenere a disposizione tale regola per successive applicazioni deduttive.  1 .4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 21 1.4.2 Oracoli con gioco associativo tra protasi e apodosi La seconda possibilità di un legame non casuale tra pro­ tasi e apodosi dipende dalla presenza di rapporti associativi tra elementi contenuti nella prima ed elementi contenuti nella seconda proposizione. È operante qui in maniera evidente il modello della scrit­ tura cuneiforme. Abbiamo infatti visto che essa tende a creare o suggerire una rete di relazioni tra cose non diretta­ mente in contatto. Sappiamo come l'interpretazione di un segno della scrittura cuneiforme apra la strada a una catena di veri e propri interpretanti: la rappresentazione ideografi­ ca dell'orecchio, a esempio, non solo significa "ascoltare", ma anche "obbedire", "apprendere'', "il sapere", "l'intelli­ genza". Ugualmente possono entrare in corto circuito se­ mantico due ideogrammi omografi o che differiscano per pochi tratti del significante. Cosi abbiamo due tipi di gioco associativo : l . quello sui significati; 2. quello sui significanti. 1 .4.2. 1 Il gioco sui significati Il rapporto che si instaura tra protasi e apodosi nel caso di un gioco associativo sui significati è quello che si ha tra un "cifrato" tropico, e una sorta di "chiaro" al grado zero. Vediamo alcuni esempi: Se il 29 del mese di Aiiar (aprile-maggio) si verifica un'eclisse di sole - il re morirà, duramente punito da Sam mortalità gene­ rale. Se un parto-anormale è doppio, con due teste, l'una saldata al­ l'altra, e otto zampe, ma una sola colonna-vertebrale - il paese sarà precipitato nella confusione per effetto delle dispute inte­ stine . Se un cavallo cerca di accoppiarsi con un bue - riduzione del­ l'incremento del bestiame. Nel primo esempio )'"eclisse di sole" può essere conside­ rata una metafora rispetto alla "morte del re"; del resto la metafora deli'eclisse come segno della morte di un sovrano si catacresizzerà ed entrerà in una lunga tradizione mantica anche greco-romana. Nel secondo esempio compare pure una metafora complessa: infatti la protasi parla del corpo di un unico animale (''una sola colonna-vertebrale"), che però ha organi doppi ("due teste", "otto zampe"); viene al­ lora istituito un parallelo con l'organismo statale (''il pae­ se"), unico, ma dilaniato e reso doppio dalle "dispute inte­ stine". Il terzo esempio presenta un caso di accoppiamento tra due animali di specie diverse, destinato dunque alla infe­ condità, il quale simbolizza una "riduzione dell'incremento del bestiame": la protasi ha la funzione (dal punto di vista della produzione segnica) deli 'esempio (Eco 1 975 : 296; Eco 1984: 47), che vale per l'intera classe. In generale, questi esempi mostrano come la logica che regola il rapporto tra protasi e apodosi è dell'ordine del simbolico. Naturalmente molto spesso la relazione tra il ci­ frato tropico e il chiaro ci sfugge, perché il linguaggio figu­ rato è dipendente dal contesto culturale: è verosimile che in molti casi operino associazioni che per la distanza spazio­ temporale tra le culture non possiamo più avvertire. 1 .4.2.2 Il gioco sui significanti Vediamo ora alcuni esempi di oracoli in cui nella protasi ci sono elementi che differiscono per pochi tratti del signifi­ cante da elementi correlati nell'apodosi: Se piove (zunnu iznun) nel giorno (della festa) del dio della città - quest'ultimo sarà adirato (zenl) contro di essa. Se la Vescichetta biliare è rientrante (na!Jsat) è inquietante (na!Jdat). - Se la Vescichetta biliare è presa dentro (kussti) il grasso - farà freddo (kU$$U).  1 .4 PASSAGGIO DALLA PROTASI ALL'APODOSI 23 Se il Diaframma è aderente (emid) - aiuto (imid) divino. La somiglianza tra i significanti fa sì che un fatto, indica­ to da una parola con un certo suono, sia considerato segno di un altro fatto, indicato da una parola con suono affine. 1 .4.3 I codici sistematici Il terzo tipo di abbinamento non casuale tra protasi e apodosi è quello legato alla presenza di codici sistematici. Come dicevamo, è possibile registrare nella divinazione mesopotamica un'evoluzione diacronica per cui, dall'epoca delle origini al periodo più recente, il modo di porre il rap­ porto tra protasi e apodosi si modifica nel senso dell'astra­ zione. Il culmine di tale processo porterà alla creazione di codici che prevedono una casistica generale ed esaustiva: in questo caso verrà totalmente abbandonato il principio del­ l'empirismo divinatorio per far spazio a una logica in un certo modo deduttiva, che fa dipendere dalla configurazio­ ne generale del codice l'inferenza del singolo caso. Infatti, a partire dal secondo quarto del II millennio, la documentazione storica non ci presenta più oracoli singoli, ma registra la presenza di un centinaio di "trattati", cioè di raccolte sistematiche e spesso molto dettagliate, di segni di­ vinatori.s La sistemazione in trattati, questo nuovo aspetto della di­ vinazione nel II millennio, ha come tratto saliente quello di risultare funzionale al raggruppamento di diversi segni ora­ colari in relazione a un unico oggetto, considerato ornino­ so. Quest'ultimo veniva scomposto nell'intera gamma delle sue parti o variazioni, ciascuna delle quali veniva a essere il tema di una singola protasi. Si registra, in effetti, una mi­ nuziosa opera di pertinentizzazione del reale: se un oggetto risulta esteso e divisibile, per ognuno dei singoli aspetti identificati, viene costruita una coppia presagio-oracolo. Ecco come, a esempio, in un trattato di estispicina, una sin­ gola porzione del fegato, la cosiddetta "Porta del Palazzo", viene esaminata: Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, si trova una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a destra, una fessura è segnata per il lungo - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, si trova una fessura - . . . Se, sulla Soglia della Porta del Palazzo, a sinistra, una fessura è segnata per il lungo - Se, nel bel mezzo della Porta del Palazoz , si trova una fessura - ...  Come si può vedere, tutte queste protasi risultano co­ struite su un principio strutturale di opposizioni binarie tra Ila Soglia! e Iii bel mezzo! della Porta del Palazzo, tra jde­ stral e jsinistral , tra j fessuraj e l fessura segnata per il lungoj . È dunque proprio il sistema, inteso in un senso strutturali­ stico ante litteram, a prendere il sopravvento . Non vengono registrati più solo i casi che sono stati effettivamente osser­ vati, ma tutti i casi virtualmente possibili, in relazione a un sistema basato su opposizioni e regole astratte. Questo fatto diviene particolarmente evidente quando in­ contriamo in un trattato delle protasi che prendono in con­ siderazione fino a sette Vescichette biliari per uno stesso fe­ gato: la logica del sistema (basata in questo caso sulla rego­ la: n --+ n + l) prevale non solo sulla realtà, ma perfino sulla verisimiglianza. Una cosa analoa avviene quando, all'ini­ zio del trattato di teratomanzia Summa izbu, vengono pre­ viste, per un neonato perfettamente umano, circa quaranta possibilità di aspetto mostruoso: tra esse, che il neonato as­ somigli a un cavallo, a un leone, a un cane, a un maiale, a un bue, a un asino, oppure a una mano, a un piede e, addi­ rittura, a un corno di capra o a un mattone. Sotto la spinta della sistematizzazione, la divinazione cambia radicalmente: tutto l'impegno non è più dedicato al­ la ricerca di eventi ominosi, ma alla costruzione degli s-co­ dici (Eco 1975; 1984: 266) delle sequenze di protasi; a parti-   1.5 ESPLICITAZIONE DELLE REGOLE DI CODIFICA 25 re da queste sequenze verrà costruito il codice vero e pro­ prio di abbinamento con le serie di apodosi. In questo sen­ so, anche se non formulate, varranno regole generali del ti­ po: "ogni volta che trovi il numero x nella protasi, assegna la caratteristica y all'apodosi"; cosi, a esempio, se l'indovi­ no incontra in un evento-protasi il numero sette, che il siste­ ma abbina costantemente, poniamo, alle caratteristiche del­ la "perfezione" e della "totalità", può dare come oracolo "vi sarà Pimpero". Sono del resto molte le regole di codifica non espresse, ma costanti, come a esempio quella per cui tutto ciò che è a destra è connesso con un auspicio favorevole, mentre tutto ciò che è a sinistra, esprime un augurio contrario. Oppure quella per cui è possibile "cambiare di segno", come in alge­ bra, alla predizione in base al contesto: a esempio, un pre­ sagio di per sé sfavorevole, se messo in rapporto con la sini­ stra, diventa favorevole, o viceversa. In questo senso l'apodosi diviene deducibile dalla prata­ si, in quanto basta osservare le caratteristiche sistematiche che in essa sono contenute per inferirla: è il trattato che for­ nisce in realtà la regola (anche senza esplicitarla): di fronte a un nuovo caso sarà facile per l'indovino trovare il risulta­ to applicando la regola. 1.5 L'esplicitazione delle regole di codifica Se nei trattati del II millennio si assiste al superamento della fase empirica a favore di una ristrutturazione della di­ vinazione su base sistematica e deduttiva, tuttavia, le regole della deduzione, per quanto largamente operanti, rimango­ no implicite. Nei trattati del I millennio si assiste a un'ulteriore evolu­ zione della divinazione, che porta ali'esplicitazione delle re­ gole stesse della codifica. Ciò è testimoniato dal grande trattato di aruspicina del I millennio, che aveva un capitolo in cui erano formulati i va­ lori essenziali di certe caratteristiche espresse dalle protasi. Il testo era disposto non più su due, ma su tre colonne. La  26 l. LA DIVINAZIONE MESOPOTAMICA prima riguardava il presagio, o meglio la caratteristica che appariva ominosa nell'oggetto preso come segno. Di solito si trattava di una qualità, espressa o da un aggettivo ("gros­ so") o da un sostantivo astratto ("lunghezza") oppure, an­ cora, da un verbo all'infinito ("essere piegato verso il bas­ so"). Nella seconda colonna veniva registrato il valore fon­ damentale dell'oracolo, come a esempio "gloria", "poten­ za", "vittoria". La terza colonna, infine, proponeva una esemplificazione con un oracolo completo, tale che nella protasi comparisse la qualità registrata dalla prima colonna e neli'apodosi il valore risultante nella seconda colonna. Ec­ cone un esempio: Lunghezza Riuscita Se la Stazione è abbastanza lun­ ga da arrivare fino alla Strada il principe riuscirà nella campa­ gna che avrà intrapreso. È evidente qui l'ulteriore progresso compiuto nella dire­ zione dell'astrazione: abbiamo infatti la vera e propria pre­ sentazione della chiave del deciframento dei segni. Le leggi deli'esegesi sono messe in chiaro. Presentare il trattato sulle tre colonne equivale proprio a mettere in luce le leggi di cifratura. Ciò che vi è di arbitrario nell'abbina­ mento tra protasi e apodosi viene dichiarato fornendo i due termini della corrispondenza. Questo processo di astrazione non si arresterà qui, ma procederà fino alla completa riduzione dei valori alla dico­ tomia fondamentale: favorevole/sfavorevole. All'estrema complessità e particolarizzazione degli oraco­ li più antichi si contrapporrà l'estrema semplificazione di una logica binaria che prevede solo il sì o il no.  2. LA DIVINAZIONE GRECA 2.0 Divinazione e conoscenza Il campo delle pratiche divinatorie costituisce il primo ambito sufficientemente omogeneo in cui nella Grecia anti­ ca si parla di segni. Il termine semefon, che si incontra qui per la prima volta, è un nome di genere, che indica un segno divinatorio di tipo qualsiasi e comprende anche il responso oracolare, costituito in realtà da un testo verbale.1 Accanto a esso, come sue specificazioni relative ad ambiti particolari della divinazione (o, potremmo dire, a particola­ ri manifestazioni di sostanza dell'espressione), si trovano vari altri termini; tra essi oion6s che indica etimologicamen­ te il segno dato dal volo degli uccelli; phasma, che si riferi­ sce inizialmente ai presagi che si possono trarre dai fenome­ ni atmosferici, ma che si estende in seguito alle visioni in ge­ nere; téras, che costituisce l'equivalente deli 'espressione la­ tina prodigium e sta a indicare qualsiasi fenomeno o avve­ nimento insolito, e in qualche maniera mostruoso, che pos­ sa essere preso come base per una interpretazione divinato­ ria (Bioch 1963: tr. it. 19; Benveniste 1969: tr. it. 477). In tutti questi casi, qualcosa sta per qualcos'altro, o meglio è assunto come base per un procedimento di inferenza. Nonostante che in Grecia la divinazione come pratica ef­ fettiva abbia avuto un'importanza abbastanza marginale,2 tuttavia il segno divinatorio ha dato origine a una tradizio­ ne, letteraria e filosofica, che lo insedia nel punto di origine mitico del processo di conoscenza.  28 2. LA DIVINAZIONE GRECA Innanzitutto, infatti, l'indovino (mtintis), colui che è ca­ pace di interpretare il segno proveniente dagli dei, è preci­ puamente un sapiente, e il tipo di sapienza di cui il mantis è portatore non si identifica con un'accezione limitativa del termine, come la conoscenza di una tecnica. Al contrario, la sua è piuttosto una sapienza di ordine generale e sicura­ mente superiore a qualsiasi tipo di conoscenza umana, co­ me suggerisce anche l'etimologia del termine mantis, che è collegato alla radice •men, con cui viene indicato un movi­ mento di accrescimento e di potenziamento dell'animo (Crahay 1974: tr. it. 220). In Omero, per la prima volta, incontriamo l'espressione che identifica la divinazione con la conoscenza "delle cose che sono, di quelle che saranno e di quelle che sono state in passato": Calcante, figlio di Testore, di gran lunga il migliore tra gli scru­ tatori di uccelli l che conosceva ciò che è e ciò che sarà e ciò che è stato prima (hòs id ta t 'e6nta ta t 'ess6mena pr6 t 'e6nta) , l e aveva guidato verso Ilio le navi degli Achei l con la sua arte di­ vinatoria, che Febo Apollo gli aveva concesso. (Il., I, 69-72)3 Il passo omerico mette in risalto il carattere generale e to­ tale della conoscenza rappresentata dalla divinazione; è una conoscenza che trova un paragone solo con quella, molto più tarda, di ordine filosofico: l'espressione tà eonta ("le cose che sono"), che nel passo indica l'oggetto di conoscen­ za dell'indovino Calcante, rimarrà immutato nella tradizio­ ne filosofica, in Eraclito, Empedocle, Platone, Aristotele, come termine tecnico per indicare appunto gli oggetti della conoscenza filosofica in generale. In secondo luogo, il segno, che è lo strumento attraverso cui si attiva tale conoscenza, non proviene dalla sfera del­ l'umano, ma da quella più alta e numinosa del divino; esso è lo strumento di mediazione tra la conoscenza totale che ha il dio e quella limitata dell'uomo. Il segno è altresì, nella prospettiva aperta da Colli (1977: 379; 1975: 40), il luogo dell'irruzione della sapienza divina nella sfera dell'umano. Ma il dio parla un linguaggio che non è quello dell'uomo. La parola del responso oracolare, a esempio, è umana solo come suono, ma non produce alcun significato se le viene applicato il codice del linguaggio verbale degli uomini. C'è dunque una difformità nell'espressione dei contenuti della conoscenza che separa l'uomo dal dio; ma c'è anche una più radicale differenza nelle modalità stesse della conoscen­ za. Il dio padroneggia il tempo attraverso la "vista" simul­ tanea e del passato, e del presente, e del futuro: la sua anni­ scienza deriva appunto dal fatto di possedere una visione panoptica. Infatti Apollo, secondo l'espressione usata da Pindaro (Pyth., III, 29), possiede "l'occhiata che conosce ogni cosa". L'uomo, al contrario, può vedere solo il suo presente, mentre gli sono irrimediabilmente sottratte le altre dimen­ sioni del tempo. Solo il dio può permettergliene l'accesso; ma la visione deve essere tradotta in parole, in quanto l'uo­ mo accede alla conoscenza solo attraverso l'udito. Per il poeta, a esempio, la memoria del passato è garantita dal racconto che traduce la visione panoptica delle Muse (Horn., Il., Il, 484-486). Allo stesso titolo l'indovino è colui che rivela all'uomo il futuro traducendo in parole la "visio­ ne" che il dio gli comunica; ma proprio in questa traduzio­ ne il messaggio perde di perspicuità (Lanza 1979: 99-l00; Detienne 1967: tr. it. 1). Per questi motivi il segno divinatorio è enigmatico, oscu­ ro e per lo più incomprensibile. Per decifrarlo c'è bisogno di un interprete, qualcuno che sia diverso dal soggetto nel quale si è compiuto il processo di comunicazione e di tra­ sformazione della conoscenza. Platone individua due distinte figure, rispettivamente "l'uomo mantico" (colui che riceve la visione) e il "profeta" (colui che interpreta le parole pronunciate dal primo duran­ te l'estasi). Il celebre passo del Timeo, che propone tale di­ stinzione, in sé costituisce un piccolo trattato teorico della divinazione quale se la rappresentavano i Greci, e presenta con grande perspicuità la tradizione del segno divinatorio come segno non direttamente decodificabile: Vi è un segno sufficiente che il dio ha dato la divinazione alla dissennatezza umana: difatti nessuno che sia padrone dei suoi pensieri raggiunge una divinazione ispirata dal dio e veridica. Occorre piuttosto che la forza della sua intelligenza sia impedi­ ta dal sonno o dalla malattia, oppure che egli l'abbia deviata es­ sendo posseduto da un dio. Ma appartiene all'uomo assennato il ricordare le cose dette (tà rhthénta) nel sogno o nella veglia dalla natura divinatrice ed entusiastica, il riflettere su di esse, il discernere con il ragionamento tutte le visioni (tà phasmata) al­ lora contemplate, il vedere onde quelle cose ricevano un signifi­ cato e a chi indichino (smalnel) un male o un bene futuro o passato o presente. A chi invece è esaltato e persiste in questo stato non spetta giudicare le apparizioni e le parole da lui dette. Questa è una buona e vecchia massima: soltanto a chi è assen­ nato conviene fare e conoscere ciò che lo riguarda, e conoscere se stesso. Di qui deriva la legge di erigere il genere dei profeti a interprete delle divinazioni ispirate dal dio. Questi profeti, alcu­ ni li chiamano divinatori, ignorando del tutto che essi sono in­ terpreti delle parole pronunziate mediante enigmi e di quelle immagini, ma per nulla divinatori. La cosa più giusta è di chia­ marli profeti, cioè interpreti di ciò che è stato divinato. (Plat., Tim., 7le-72a) Al centro concettuale del passo si pone il verbo smafno, che indica appunto la rivelazione del dio; quest'ultimo si presenta come il vero enunciatore, attraverso l'uomo ispira­ to, del testo divinatorio. Il soggetto grammaticale di smal­ no è costituito dai due termini che indicano le due forme di segno divinatorio, cioè "le cose dette" e "le visioni contem­ plate", ma il responsabile della produzione di questi segni è "la natura divinatrice ed entusiastica", cioè il dio stesso che fa irruzione nell'uomo tramite l'invasamento (come indica anche l'etimologia del secondo termine, collegata a theos). L'uomo non è che un canale di trasmissione o un portavo­ ce. E perché il significato arrivi fino al destinatario c'è biso­ gno di un complesso procedimento di interpretazione. Cosi se prendiamo il verbo semalno come un predicato associato a un certo numero di ruoli (o casi logici) e lo mettiamo in relazione a un processo di comunicazione e a uno di inter­ pretazione, possiamo leggere il passo platonico secondo il seguente schema (molto semplificato in alcune sue parti): 30  soggeno •te cose dette'" "le visioni contemplate'" il dio l'uomo invasato significato - destinatario "'un male o un bene futuro o passato o presente'" trice ed entusia- stica· 2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 3 1  --- - - - ,  '"la natura divina- l l'uomo  processo di interpretazione del segno , effe"uato da personaggi con un sapere specializzato, a favore del destinatario "'i profeti'"   Il verbo smafno, dunque, non ha il banale senso di "si­ gnificare", nel senso deli'instaurazione di un rapporto tra un piano dell'espressione e un piano del contenuto all'inter­ no di un segno. Esso sembra piuttosto riferirsi al processo di comunicazione stesso che il dio attiva nei confronti del­ l'uomo: in altre parole, nel passo platonico, il verbo sembra riferirsi alla situazione per cui il dio "indica attraverso segni (enigmatici)" all'uomo qualcosa, che a quest'ultimo è sco­ nosciuto . A confermare l'uso del verbo smafno con questo senso nei contesti divinatori si trova una lunga tradizione che risa­ le almeno a Eraclito, al noto frammento 93 dell'edizione Diels-Kranz (tr. it. 1974). È stato Romeo (1976) che, in una lucida e complessa analisi del frammento, ha messo in evi­ denza questo significato del verbo smafno, arrivando alla traduzione: (sorgente) (strumento) smafnei (oggetto) (scopo) enunciatore- segno -- canale --  l! 2. I.A DIVINAZIONE GRECA Il ··•Hno• c du: ha l'oracolo in Delfi, né dischiude, né nasconde il ,•.un pnJ.•,ac•o, rna lo indicaattraversosegni(smalner)4 rourro una lunga tradizione che rendeva la forma verbale sl'nuJinei con "significa" o con altre espressioni che avevano l'cffcllo di rendere contraddittorio o incomprensibile l'inte­ ro frammento. Si viene qui a profilare un'opposizione tra due tipi di lin­ guaggio, che hanno caratteristiche antitetiche. Da una parte c'è il linguaggio umano, caratterizzato dalla trasparenza e dall'immediata decifrabilità (e possiamo fare l'ipotesi che proprio questo tipo di linguaggio sia circoscritto da entram­ bi i termini della coppia oppositiva "dischiudo [/égO]"/"na­ scondo [krfptO]": l'uomo o svela completamente il suo pen­ siero, usando il linguaggio, oppure lo nasconde del tutto, non esternandolo in parole). Dall'altra parte c'è un diverso tipo di linguaggio, quello attribuito direttamente al dio nel frammento di Eraclito (e indirettamente nel passo platoni­ co), che è indicato dal verbo semafno e che ha le caratteristi­ che opposte dell'oscurità e della non immediata decodifica­ bilità. Il dio non concede all'uomo una rivelazione comple­ ta, né gli nega totalmente la conoscenza: gli fornisce piutto­ sto, attraverso il segno oracolare, una base di inferenza sul­ la quale l'uomo dovrà lavorare per giungere a una conclu­ sione, senza però dargli alcuna garanzia sulla via da seguire con il ragionamento. Ci sono due spiegazioni al fatto che la cultura letteraria e filosofica greca si sia rappresentata il segno divinatorio co­ me oscuro e ambiguo. La prima è quella che abbiamo visto inquadrarsi nell'otti­ ca di Colli, secondo cui il segno divinatorio può essere con­ siderato come "l'impronta del divino" nell'uomo, indizio di un punto di contatto (quello attraverso cui la conoscenza divina si comunica all'uomo), e contemporaneamente di un punto di fuga.s La seconda spiegazione è quella messa in luce da Vernant (1974: tr. it. 20-21), ed è inerente al tipo di razionalità speci­ fica messa in gioco dalla divinazione, come pratica effetti­ va, oltre che come teoria. Essa si connette al diverso ruolo  2.0 DIVINAZIONE E CONOSCENZA 33 che gioca il destino rispettivamente nella sfera divina e in quella umana. Infatti, a livello dell'esistenza umana, il de­ stino è concepibile come una successione lineare di avveni­ menti (rappresentato metaforicamente dal filo delle Par­ che), i quali si connettono tra loro apparentemente senza che possa essere attribuito loro un senso globale. Questa successione acquisisce un significato solo quando è arrivata al suo termine, quando cioè il destino "si compie". È solo a questo punto che esso diventa intelligibile e permette di spiegare, alla luce degli ulteriori sviluppi, anche gli avveni­ menti passati ai quali non si era saputo dare un senso. Fino a quel momento, tuttavia, l'uomo rimane in una fondamen­ tale ignoranza: anzi, è proprio questa ignoranza a caratte­ rizzare l'esistenza umana. A livello degli dei, al contrario, il destino di ciascun uo­ mo è presente e intelligibile in ogni momento nella sua tota­ lità. Esso infatti è stabilito in maniera irrevocabile e iscritto nell'eternità già prima della nascita di ogni uomo. La divi­ nazione trova il suo spazio proprio in questo scarto di cono­ scenza che si apre tra gli uomini e gli dei: l'oracolo (e in ulti­ ma analisi anche ogni altro tipo di segno divinatorio) si sup­ pone che riveli all'uomo, quando è ancora in vita, proprio il significato segreto del suo destino, mentre questo sarebbe accessibile, dal punto di vista umano, solo dopo la morte. Tuttavia, se la divinazione compisse la sua funzione pro­ fetica sino in fondo, se cioè abolisse totalmente lo scarto di conoscenza che esiste tra l'uomo e la divinità, risulterebbe con ciò cancellata anche la differenza che distingue l'uomo dal dio. Per questa ragione il dio non svela il destino più di quanto lo nasconda in effetti, secondo la formulazione di Eraclito. L'oracolo lo lascia intravedere, ma nello stesso tempo lo dissimula; lo dà a indovinare attraverso un segno oscuro ed enigmatico che per i consultanti non è più intelli­ gibile di quanto lo siano gli avvenimenti per i quali si sono rivolti all'oracolo. Così, la logica della divinazione fa in modo che con l'ambiguità del segno venga reintrodotta, a livello umano, quella "opacità" circa il destino che l'anni­ scienza divinatoria avrebbe il compito di attenuare, se non di eliminare del tutto.  14 2. LA DIVINAZIONE GRECA 2. 1 llue tipi di divinazione 2 . 1 . 1 La divinazione naturale Il passo platonico del Timeo, come pure il frammento di Eraclito, fanno riferimento a un tipo di divinazione che vie­ ne di solito definita "ispirata": essa rientra all'interno della categoria generale della mantik atechnos, della divinazione cioè che non richiede un apparato di mezzi tecnici per la sua messa in opera e per questo, talvolta, riceve anche il nome di "divinazione naturale" (Cic. , De divinatione). Il carattere specifico di questo tipo di divinazione è quel­ lo per cui il sapere del dio non passa attraverso mezzi di ma­ nifestazione esterni all'uomo: l'ispirazione divina raggiunge direttamente l'individuo attraverso i sogni (cioè un testo iconico) o si comunica a un profeta-portavoce che emette un responso (normalmente un testo verbale). Per usare l'e­ spressione di Romeo (1976: 84), si tratta di un tipo di divi­ nazione "endosemiotica". Secondo questo modello funzionava il più noto e presti­ gioso oracolo della Grecia antica, quello di Delfi6 in cui la Pizia, la sacerdotessa di Apollo, emetteva un responso co­ stituito da un testo verbale. Ma, come abbiamo visto, per quanto esso fosse formulato nei termini del linguaggio na­ turale, il suo senso non era decodificabile mediante la sem­ plice applicazione delle regole del codice linguistico a livello denotativo. Più avanti vedremo alcuni esempi di decodifica aberrante di responsi, fraintesi proprio per la pedissequa applicazione di questo codice senza far ricorso a regole più complesse (come quelle di tipo retorico-tropico). 2. 1 .2 La divinazione artificiale Il secondo tipo di divinazione è la mantik technik, defi­ nita, a seconda dei commentatori, come "congetturale", "induttiva", "deduttiva" o "artificiale". Era basata suli'a­ nalisi dei segni (visibili, acustici, sensibili) che si realizzava-no nell'ambiente esterno all'uomo e che potevano essere spontanei (come i fulmini o le eclissi) oppure provocati (co­ me il lancio dei dadi o l'estispicina).7 Questo secondo tipo di divinazione mette in gioco una lo­ gica particolare, basata sull'ipotesi che esistano rapporti di omologia e di corrispondenza tra il microcosmo, rappresen­ tato dal fenomeno preso come segno, e il macrocosmo, rap­ presentato dall'ordine generale dell'universo (J. Vernant 1948; J.-P. Vernant 1974). A questo proposito vengono isolate delle porzioni di spa­ zio - che possono essere, a esempio, le regioni del cielo per l'astrologia, come pure la superficie del fegato della vittima sacrificale per l'estispicina - che vengono caricate di valore simbolico e deputate a funzionare da specchio dell'ordine cosmico generale. Negli spazi così delimitati è possibile leg­ gere la configurazione futura degli eventi, sottratta a quella aleatorietà, a cui gli eventi reali sono invece sottoposti, e per sopprimere appunto la quale il consultante si rivolge al­ la divinazione. Si creano così due serie, quella delle configurazioni strut­ turali interne al testo segnico e quella degli eventi a cui tali configurazioni rimandano; tra le due si stabilisce un vero e proprio codice di corrispondenza, che permette di passare immediatamente dal segno al suo significato. Ne vediamo un esempio molto semplice nel seguente passo di Omero: Dico che un cenno ci dette il Cronide superbo l il giorno che sulle navi veloci in cammino salivano gli Argivi l a portare stra­ ge e morte ai Troiani l tuonando da destra, mostrando segni di buon augurio. (//., Il, 351-354) In questo caso la volta celeste viene costituita come spa­ zio significativo, come microcosmo in cui sia possibile leg­ gere i segni del destino. Questo spazio viene articolato in una struttura binaria che oppone due regioni, la destra e la sinistra: a ciascuna di esse viene abbinato un valore seman­ tico (ldestral--+"buon auspicio", !sinistra!-+"cattivo auspi­ cio"). Una più articolata configurazione del significato de-  LA DIVINAZIONE GRECA riva dalla circostanza di enunciazione, cioè dalla sua rela­ zione con la domanda esplicita (o implicita, come in questo caso) che l'interrogante pone alla divinità·. Nel passo omeri­ co la circostanza di enunciazione è la partenza della spedi­ zione per Troia, e la domanda implicita concerne la riuscita dell'impresa: dunque il tuono che proviene dalla regione de­ stra del cielo viene a significare "buona riuscita dell'impresa dei Greci contro Troia". Infatti, per quel che riguarda l'individuazione del signifi­ cato ultimo del segno, tutti i sistemi divinatori si basano su un equilibrio più o meno stabile tra le strutture formali del codice che permettono di cifrare in maniera completa l'av­ venimento prodigioso e insolito, e la molteplicità delle si­ tuazioni concrete a cui tale avvenimento-segno può riman­ dare nei contesti specifici. Nell'esempio omerico il codice è così semplice da essere diventato patrimonio comune, tanto che non si fa cenno della presenza di un indovino, per decifrare il segno. Di so­ lito non è così per la divinazione artificiale, il cui carattere "tecnico" risiedeva proprio nel fatto che per l'interpretazio­ ne dei segni era necessario fare ricorso alla conoscenza spe­ cializzata di personaggi depositari di un sapere che verte sulle regole di decodifica. L'indovino è infatti essenziale nel caso, appena più com­ plesso, riportato da Plutarco nella Vita di Dione (24). L'a­ neddoto riguarda la spedizione effettuata nel 357 a.C. da Diane contro Dionigi di Siracusa, durante la quale si verifi­ cò un'eclisse di luna. L'indovino Miltas, chiamato a inter­ pretare quel segno, dichiarò che esso annunciava che qual­ cosa che era stato splendente fino ad allora, si sarebbe oscu­ rato: non poteva, dunque, che trattarsi del regno tirannico di Dionigi, il quale era destinato a soccombere sotto l'attac­ co portatogli da Dione. Anche qui ci sono le due fasi: la prima determina il signi­ ficato degli abbinamenti del codice e la seconda quello deri­ vante dalla sua applicazione alla situazione concreta. Inol­ tre l'indovino Miltas si avvale di una tecnica più sofisticata, che fa ricorso anche alle trasformazioni retoriche: la rela­ zione tra il macrocosmo della luna che viene oscurata dal-  2. 1 DUE TIPI DI DIVINAZIONE 37 l'eclisse e il microcosmo del regno di Dionigi destinato a soccombere è mediata dall'elemento comune !splendore! con cui si designa in modo proprio una qualità della luna e in modo figurato una proprietà del regno di Dionigi. Esistevano poi codici notevolmente elaborati già al sem­ plice livello degli abbinamenti, come a esempio il codice dell'estispicina. In questa pratica venivano esaminate le vi­ scere degli animali, in particolare il fegato, del quale si os­ servavano l'aspetto e la posizione del lobo, della vescichetta e delle porte.8 Per quello che riguarda la cultura greca non abbiamo esempi del modo in cui venivano effettivamente realizzati gli abbinamenti tra gli elementi significanti e quel­ li a cui essi rinviavano. Tuttavia Luc Brisson (1974), in uno studio molto interessante e completo sulla divinazione in Platone, ha segnalato un passo del Timeo (71 a-d) in cui, nonostante non si parli direttamente di estispicina, si descri­ ve un fenomeno che con essa ha molti punti di contatto. Il passo illustra i processi che si determinan9 quando l'anima razionale, che ha sede nel cervello, lascia la sua impronta, "come in uno specchio", sul fegato che è la sede dell'anima appetitiva: questo permette di vedere riprodotte nel fegato (nei suoi aspetti via via diversificantisi) le impressioni la­ sciate dali'anima razionale. La specularità è, però, solo metaforica perché si verifica­ no in realtà dei processi di codificazione molto forte, che fanno pensare ai meccanismi della "comunicazione biochi­ mica" . In definitiva il fegato viene a costituire un testo segnico sul quale I 'anima appetitiva legge i contenuti intelligibili, di­ venuti sensibili attraverso un processo di codifica. Esso co­ stituisce altresì un microcosmo che rispecchia, anche se in modo molto particolare, l'assetto del macrocosmo costitui­ to dali'anima razionale. Si può presumere che i codici dell'estispicina funzionasse­ ro in un modo analogo a quello descritto per i processi di comunicazione "intrapsichica" illustrati dal Timeo. Tuttavia, proprio da Platone scaturisce una delle più reci­ se condanne che la Grecia classica abbia espresso nei con­ fronti della divinazione artificiale. Tale condanna si trova  38 2. LA DIVINAZIONE GRECA formulata nei due testi del Timeo (72 b) e del Fedro (244 c-d). Nel primo di questi, in particolare, è contenuta una condanna dell'epatoscopia: infatti Platone, che accetta la possibilità di leggere sul fegato molti segni quando questo è contenuto in un organismo vivente, sostiene che esso non può rivelare niente di sicuro agli uomini, quando è privato della vita e non è più sottoposto all'influsso luminoso del­ l'anima razionale. Più generale e radicale è la condanna della divinazione tecnica nel Fedro. In quel testo Platone fa l'elogio della fol­ lia, di cui considera la divinazione una specie, e separa la mantica ispirata ed entusiastica da tutte le altre forme di in­ vestigazione del futuro. In particolare la "mantica", nel senso ristretto, viene contrapposta alla "oionistica", cioè la divinazione mediante l'osservazione dei segni dati dal volo degli uccelli. La ragione della discriminazione è chiara: nella divina­ zione tecnica la ragione umana pretende di sostituirsi ali'i­ spirazione divina. Per indicare che in questo modo non si raggiunge che un grado molto pallido e incerto di conoscen­ za, Platone inventa addirittura una connessione etimologi­ ca tra "oionistica" e olsis (''opinione") ("L'investigazione del futuro [. . .] attraverso gli uccelli [. . .] fu chiamata 'oio­ noistica', che i moderni, rendendola solenne con un omega, dicono oionistica": Phaedr., 244 c). Nella divinazione ispi­ rata, invece, la conoscenza deriva all'uomo da una posses­ sione divina e questo è garan.zia di verità. Sembra profilarsi un'opposizione tra smafnein e tekmal­ resthai, il primo verbo indicando, come nel Timeo e in Era­ clito, il dono della conoscenza elargita dal dio, mentre il se­ condo indica la congettura puramente umana. Questa op­ posizione richiama il motto di Alcmeone: Delle cose invisibili e delle cose visibili gli dei hanno conoscenza certa; ma agli uomini tocca procedere per indizi (tekmafre­ sthal) . (Diels-Kranz, 24 b l) su cui avremo occasione di tornare.   2.2 DUE MODELLI DI DIVINAZIONE ORACOLARE 39 I passi platonici non esemplificano soltanto l'opinione del filosofo ateniese, ma si pongono altresì in linea con la scelta di fondo compiuta da tutta la civiltà greca nei con­ fronti della divinazione ispirata. Infatti, per quanto in Gre­ cia venissero praticate anche forme di divinazione tecnica, a esse è stata sempre riservata un'importanza secondaria, mentre l'attenzione si è concentrata soprattutto sulle forme della divinazione oracolare, che si esprimevano attraverso la parola. D'altra parte questo fenomeno deve essere messo in rela­ zione con il fatto che la civiltà greca è essenzialmente di tipo orale; in essa la scrittura è non soltanto un fenomeno recen­ te, ma del tutto dipendente dal parlato, che essa tende a ri­ produrre foneticamente. In altre civiltà, come quella meso­ potamica o quella cinese, la scrittura è molto più antica e funziona come un sistema autonomo rispetto alla lingua, presentando a suo modo, attraverso i segni grafici, quelle realtà che la lingua presenta in altra maniera: in queste ci­ viltà la scelta compiuta nei confronti del tipo di divinazione è opposta a quella greca. 2.2 Due modelli della divinazione oracolare Esistono tuttavia profonde differenze tra l'immagine che della divinazione oracolare propongono i testi letterari e il modo in cui essa veniva praticata effettivamente nei santua­ ri a essa adibiti. J.-P. Vernant (1974) parla di due distinti modelli. Nella Grecia dell'età classica, infatti, la divinazione come pratica effettiva ha una rilevanza marginale nel regime della polis. Infatti l'oracolo viene consultato non per ottenere una predizione sul destino, ma per prospettargli, in forma di alternativa, un certo corso di eventi che si ha intenzione di intraprendere e per domandargli se la via sia libera o pre­ clusa.9 Si instaura a questo proposito un vero e proprio dialogo tra il consultante e l'oracolo (Crahay 1974): quest'ultimo ri­ sponde innanzitutto alla domanda che è stata posta in for-  40 2. LA DIVlNAZIONE GRECA ma chiusa, predicendo al consultante se farà o non farà una determinata cosa. Il consultante pone poi all'oracolo una seconda domanda, in forma aperta, ma limitata a una con­ dizione rituale di successo: in sostanza, esso domanda al­ l'oracolo quali ostacoli debbono essere rimossi perché l'im­ presa prospettata giunga a buon fine. È interessante a que­ sto punto vedere come la formula usata di solito dall'oraco­ lo nell'emanare il consiglio di carattere rituale rispecchi quella che veniva usata per redigere le decisioni dell'assem­ blea sancite dal popolo. L'oracolo dice infatti loion kai ameinon éstai (''sarà più conveniente e preferibile"), pro­ prio come nei decreti deli'assemblea si usano formule che pongono l'accento sulla "preferenza" tra le opinioni, piut­ tosto che sull'intimatività della decisione. Ciò è indice del fatto che nella civiltà greca è il modello della discussione as­ sembleare che si proietta sulla divinazione, e non viceversa come avveniva nella civiltà mesopotamica. Ed è interessante che in questo modello di divinazione non si trovi alcuna traccia di risposta ambigua o oscura. Ambiguità e oscurità si trovano solo nel secondo model­ lo, quello "teorico,, della divinazione oracolare, presente in tutta la letteratura scritta, da Erodoto ai poeti tragici, ai fi­ losofi. Esso costituisce la rappresentazione che la cultura della città si dà della divinazione. Secondo·questo modello, l'oracolo viene consultato non per ottenere un consiglio, ma direttamente sul destino. Ciò determina la supposizione che l'oracolo sia onnisciente, in quanto deve conoscere sia lo sviluppo futuro degli eventi, sia, nel contempo, il passa­ to, in cui si situano le remote origini delle sorti attuali e fu­ ture deli'indi\iduo o del gruppo consultante. La logica a cui questo modello risponde non è più bina­ ria: l'oracolo deve qui impegnarsi a ridurre a una sola, spe­ cifica, opzione l'infinità dei possibili. Il responso oscuro e ambiguo reintroduce, del resto, l'in­ certezza che caratterizza la condizione umana che l'oracolo tende ad annullare. Così, nei racconti oracolari dei testi let­ terari, la profezia sembra sempre inadeguata rispetto al cor­ so preso dagli eventi. Il segno rimane oscuro fintantoché il "compiersi" della sorte si incarica di fare chiarezza e di de-  2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARI 41 sambiguare, ormai troppo tardi, la polisemia del testo pro­ fetico. 2.3 Il problema interpretativo nei racconti oraco­ lari Naturalmente, per capire come la nozione di smefon si sia sedimentata nella cultura greca, per vedere quale sia il nucleo semantico con cui il termine indicante il segno è sta­ to consegnato alla tradizione filosofica, il riferimento ali'u­ so di smefon nei testi letterari è altrettanto importante quanto il suo significato nelle pratiche divinatorie effettive. Soprattutto nei testi di Erodoto e dei tragediografi è pos­ sibile vedere come costantemente venga tematizzato il pro­ blema interpretativo che il segno oracolare pone: l'oscurità del segno è in principio legata alla difficoltà, che diviene immancabilmente impossibilità, di risolvere tale problema. Si deve però dire che in primo luogo l'uomo è accecato dal­ la hjbris, e palesa la sua scarsa ricettività alla parola della profezia in vari modi: la dimentica, non ne segue le diretti­ ve, sbaglia la modalità di consultazione; alla fine, però, il suo errore fondamentale è quello di scegliere sempre il ter­ mine errato dell'alternativa posta dal segno ambiguo. Se la sua colpa è, dunque, un peccato di tracotanza, il suo errore è un errore di conoscenza, e ha un carattere squi­ sitamente semiotico. Ancora una volta compare l'opposizione "linguaggio umano"/"linguaggio divino": l'uomo infatti interpreta sempre la profezia secondo il proprio codice, non tentando mai di intendere la parola della rivelazione come cifrata in un altro linguaggio, quello appunto della divinità. In termini semiotici, in tutti i racconti sul tema della divi­ nazione oracolare, l'uomo interpreta invariabilmente il te­ sto in modo letterale, mentre questo dovrebbe ricevere una lettura secondo quello che potremmo definire modo enig­ matico.10 Infatti, l'idea fondamentale che i racconti oracolari sug­ geriscono è che esista sempre nella profezia un senso secon-  42 2. LA DIVINAZIONE GRECA do, che è nascosto e che costituisce il vero e unico significa­ to del segno: è la scoperta di questo secondo senso, scartan­ do il primo, che qui chiamiamo interpretazione secondo il modo enigmatico. Invece l'uomo coinvolto nell'interpreta­ zione, data la sua incapacità di attingere la sapienza divina, compie proprio il gesto contrario, scartando la possibilità di un senso non letterale. Vi sono tuttavia diverse forme dell'errore di interpreta­ zione. (i) La prima consiste nella incapacità di assegnare un senso al testo, o meglio, di adeguarlo a circostanze reali no­ te: non si trovano oggetti a cui le parole della profezia pos­ sano essere riferite e il testo appare totalmente assurdo. (ii) La seconda forma di errore consiste nel riferire la profezia a oggetti reali, ma erroneamente identificati; ve ne sono due sottospecie, a seconda che l'errore sia dovuto a una omoni­ mia o a un equivoco (e quest'ultimo è ulteriormente suddi­ visibile). Tutto ciò può essere illustrato mediante il seguente schema: Interpretazione  secondo il modo enigmatico ~l et t e r a l e n o n se n so sen~  so errato per omonlmia per equivoco errate scambio assunzioni di prospettiva di credenza  2.3 L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLAR.I 43 Vediamo ora alcuni racconti oracolari in cui sono esem­ plificate queste modalità di errore. L'incapacità di assegnare un senso al testo profetico si ha in vari racconti nei quali vengono utilizzati meccanismi re­ torici, tra cui alcuni di tipo metaforico. È naturale che, quando il veicolo metaforico viene interpretato "letteral­ mente", si ottenga una assurdità sul piano del senso, a me­ no che non si immagini un mondo possibile, diverso da quello reale, in cui i muli possano diventare re dei Medi e gli araldi siano dipinti di rosso. Il consultante, che prende in considerazione soltanto il mondo reale, si trova in difficoltà ad assegnare un senso e una denotazione a testi siffatti. Ma vediamo che cosa succede nel primo di questi racconti. È Erodoto a narrarci la storia degli abitanti deli'isola di Sifno, i quali, essendo giunti a un notevole grado di ricchez­ za con le loro miniere d'oro e d'argento, decisero di consul­ tare l'oracolo di Delfi per sapere se avrebbero potuto con­ servare a lungo la loro prosperità. La Pizia rispose: "Ma quando, a Sifno, il pritaneo sarà bianco e bianco il bordo della piazza pubblica, allora c'è bisogno di un uomo accor­ to per guardarsi dall'agguato di legno e dall'araldo rosso" (Herod., Hist. , III, 57). La storia continua narrando del­ l'arrivo di una nave dei Sami, della loro ambasceria per chiedere denaro e del saccheggio che questi ultimi fanno dell'isola dei Sifni. Erodoto sottolinea l'incapacità manifestata dai Sifni di dare un senso al testo ("l Sifni non furono capaci di com­ prendere l'oracolo"); per loro il testo, e in particolare, si presume, le espressioni "agguato di legno" e "araldo ros­ so", sono prive di senso, perché appunto essi si fermano a un livello letterale di interpretazione. In realtà il dio gioca con vari meccanismi tropici: innan­ zitutto con una doppia enallage1 1 (è il legno [ = nave] che anticamente è rosso, come spiega Erodoto, ed è l'araldo [ = gli ambasciatori] che organizza un agguato), complican­ do poi il testo con meccanismi metonimici (legno per nave, il singolare araldo per il plurale ambasciatori). Un secondo esempio di mancata comprensione si trova in un episodio di quel lungo e complesso "romanzo oracolare"  2 . LA DIVINAZIONE GRECA t·hc l·:rodotodedicaaCreso,quandoquest'ultimochiedeal­ l ' oracolo di Delfi se la sua monarchia sarebbe durata a lun­ o . La Pizia risponde: "Quando un mulo sarà re dei Medi, allora, Lidio dai piedi delicati, fuggi lungo l'Ermo sassoso, non indugiare e non temere di essere vile" (Herod., Hist., l, 55). Anche in questo caso, l'interpretazione che viene data alla profezia sceglie il senso letterale: Creso ritiene, di con­ seguenza, impossibile che venga a verificarsi uno stato di cose che soddisfi alla descrizione della frase "un mulo sarà re dei Medi"; la conclusione che egli trae da questa impossi­ bilità è che sia altrettanto impossibile che il suo regno abbia una fine. Sarà poi il dio stesso a spiegare al re il suo gioco metafo­ rico, quando ormai i fatti si saranno compiuti e Creso sarà caduto sotto la dominazione dei Persiani . Il "mulo" è, in ef­ fetti, Ciro, e il passaggio è mediato dalla proprietà "sangue misto", che è condivisa sia dal termine metaforizzante sia dal termine metaforizzato: ·sangue misto• / Tanto maggiore è la cecità di Creso se si pensa che l'ele­ mento comune è doppiamente esemplificato in Ciro, in quanto figlio "di madre nobile e di padre di oscuro lignag­ gio" e "di madre meda e di padre persiano", come il testo di Erodoto non manca di sottolineare. Vale la pena di rilevare che l'interpretazione del senso fi­ gurato è un'operazione realmente più difficile di quello che si potrebbe immaginare, fatto che giustifica in qualche ma­ niera gli insuccessi dei consultanti. Essa è legata a cono­ scenze enciclopediche locali, oltre che ai meccanismi retori­ ci che su quelle conoscenze si applicano. Ciò è tanto più ve­ ro se si considera che è impossibile anche per il lettore mo­ derno fornire l'interpretazione del testo profetico quando il testo letterario non ci informa sulle relative porzioni di enciclopedia. Ciò avviene, a esempio, nel racconto oracolare di Arcesilao (Herod., Hist., IV, 163-164) in cui, accanto a scambi metaforici tra "anfore" e "uomini", tra "torri" e "forni" che vengono spiegati dal prosieguo della narrazio­ ne, compare l'espressione "il tuo più bel toro" che rimane inspiegata ed è anche per noi incomprensibile. Vediamo ora il caso in cui il testo appare interpretabile secondo un percorso di senso letterale, in cui cioè sia rin­ tracciabile un corso di eventi corrispondente a esso, senza però essere quello inteso dalla profezia. Consideriamo in particolare il caso in cui l'errore interpretativo sia dovuto a omonimia. Questo meccanismo, accompagnato dal costante frain­ tendimento, caratterizza l'intero romanzo oracolare di Cambise. Si tratta di una storia in cui i vari segni si collega­ no tra di loro in una catena di rimandi interni. Questa storia ha inizio con un sogno: Smerdi (fratello di Cambise) era già tornato in patria (la Persia) quando Cambise ebbe in sogno questa visione: gli parve che un messo, giunto dalla Persia, gli annunciasse che Smerdi, seduto sul trono regale, toccava con la testa il cielo. Temendo perciò che il fratello meditasse di ucciderlo per impadronirsi del regno, mandò in Persia Prexaspe, che gli era fedelissimo fra tutti i Per­ siani, a uccidere Smerdi. (Herod., Hist., III, 30) Dopo parecchi paragrafi, in cui la storia continua narran­ do le stravaganze e le crudeltà di Cambise, ci viene raccon­ tata la ribellione in Persia dei due fratelli Magi, uno dei quali, che si chiamava anch'esso Smerdi, era stato collocato sul trono. Quando Cambise viene a conoscenza di questo fatto, comprende il vero senso del sogno. Ma la storia non finisce qui: Dopo che ebbe pianto e si fu afflitto di tanta sciagura, Cambise balzò a cavallo per muovere al più presto verso Susa contro il Mago; ma, mentre saliva in arcione, gli cadde il puntate del fo­ dero della spada, che rimasta nuda lo ferì alla coscia. Colpito così nello stesso punto in cui aveva trafitto il dio egizio Api, il  2. LA DIVINAZIONE GRECA fl\ iudicando mortale la sua ferita, domandò ancora come si chiarnassc la città dove si trovavano e gli risposero che si chia­ rnava Ecbatana. Ora, molto tempo addietro, a lui che l'aveva consultato, l'oracolo di Buto aveva risposto che sarebbe morto ad Ecbatana ed egli aveva interpretato che sarebbe morto, vec­ chio, ad Ecbatana di Media, dove aveva tutti i suoi beni, men­ tre l'oracolo aveva inteso di indicare Ecbatana di Siria. Pertan­ to Cambise, come ebbe saputo il nome della città, sotto il dupli­ ce colpo della rivolta del Mago e della ferita, rinsavì e, com­ prendendo finalmente il divino responso, esclamò: "Qui è desti­ no che muoia Cambise, figlio di Ciro". (Herod., Hist., III, 64) La rivolta del Mago e la ferita sono, più che avvenimenti, dei segni, in quanto permettono a Cambise di accedere alla conoscenza, di comprendere, finalmente senza più ambigui­ tà, l'oracolo, di non rimanere più prigioniero dei giochi di parole: la rivolta che gli fa capire la differenza tra Smerdi suo fratello e Smerdi Mago; la ferita mortale, la differenza tra Ecbatana in Media ed Ecbatana di Siria. Infine c'è l'ulteriore caso di errata interpretazione a cau­ sa di un equivoco, non strettamente linguistico, e che può essere di varia natura. L'equivoco più famoso di tutta la letteratura oracolare greca è senz'altro quello di cui cade vittima Edipo. Come noto, durante un banchetto Edipo viene insospettito dalle insinuazioni fatte da un convitato circa la sua paternità e decide allora di interrogare il dio della sapienza, il quale gli predice che ucciderà il padre e che si congiungerà con la ma­ dre (Soph., Oedipus tyrannus, 787-798). L'equivoco riguar­ da le assunzioni di crede...zza: Edipo non sa che i suoi veri genitori sono Laio, re di Tebe, e Giocasta, ma crede che sia­ no Polibo, re di Corinto, e Merope; per questo, al fine di stornare gli avvenimenti predetti dall'oracolo, si allontana da Corinto per andare in direzione di Tebe, e compie, così, inconsapevolmente, proprio il destino che gli è stato annun­ ciato. Altre volte l'equivoco riguarda lo sca1nbio diprospettiva. Il caso emblematico è quello di Creso che manda a consul­ tare congiuntamente l'oracolo di Delfi e quello di Anfiarao L'INTERPRETAZIONE NEI RACCONTI ORACOLARJ 47 per sapere se dovesse fare guerra ai Persiani. I due oraco­ li, concordemente, predicono che "se avesse mosso contro i Persiani, avrebbe distrutto un grande impero" (Herod., Hist., l, 53). Creso interpreta il responso come facente rife­ rimento alla distruzione dell'impero dei Persiani, mentre, come si scopre in seguito, sarà proprio il suo impero a subi­ re tale destino. A sviare il re dalla giusta interpretazione in­ terviene un meccanismo semiotico implicito: l'assunzione di Creso che, dal momento che l'oracolo è rivolto a lui, anche il dio assuma la sua prospettiva. E, ovviamente, nella pro­ spettiva di Creso, il grande impero da distruggere non può che essere quello persiano. Si incomincia a intravedere in questo esempio, più che nei precedenti, una caratteristica che è tipica deli'enigma: una fortissima carica aggressiva, potenzialmente distrutti­ va, da parte del dio nei confronti dell'uomo quando gli po­ ne un problema interpretativo da risolvere. Una conferma si trova nel racconto analogo in cui l'ora­ colo di Delfi predice agli Spartani che misureranno la terra di Tegea con le funi (Herod., Hist., l, 66). Gli Spartani in­ terpretano il riferimento alle funi come indicante Patto di misurare le terre per distribuirle ai conquistatori e, di conse­ guenza, fanno una spedizione contro Tegea. In realtà esse sono inserite in un altroframe o sceneggiatura (Eco 1984), in quanto serviranno agli Spartani , ridotti in schiavitù dopo la sconfitta, per misurare le terre che dovranno lavorare. L'attributo con cui viene qualificato il responso è klbd­ los che, nel suo senso traslato, significa "ambiguo", "fal­ so", "ingannevole", ma nel suo senso base fa riferimento alla carica estranea che adultera il metallo prezioso. Ciò che ne risulta, come nei casi presi in considerazione, è la com­ mistione di due metalli, uno buono e uno non, che fa lucci­ care come oro ciò che oro non è. Analogo meccanismo, infine, si trova negli aneddoti, ri­ portati da Diodoro Siculo (Biblioteca, XVI, 91-92; XX, 29), nei quali viene annunciato a un generale che pranzerà o alloggerà nella città che sta assediando; queste cose si verifi­ cheranno, ma la prospettiva non sarà quella del vincitore bensì quella del prigioniero.  48 2. LA DIVINAZIONE GRECA 2.4 Il segno come sfida: divinazione ed enigma Abbiamo accennato alla carica di aggressività che si cela dietro al segno oscuro. Questo aspetto collega immediata­ mente il segno divinatorio all'enigma vero e proprio, an­ ch'esso oscuro e insolubile e, mitologicamente, espressione della sfida che la divinità lancia ali'uomo. È stato Colli ( 1 975 : 1 8) a mettere in luce il rapporto tra la divinazione, l'enigma e l'altra faccia di Apollo, quella mi­ nacciosa e distruttrice. 1 2 Apollo, infatti, non è soltanto di­ vinità benefica che dona agli uomini l'arte mantica e la me­ dicina: egli è anche il dio della freccia e dell'arco. Queste in­ dicazioni assumono un valore direttamente semiotico quan­ do si scopre che la freccia di Apollo e il segno oscuro sono non due cose diverse, ma due mezzi di espressione della me­ desima potenza del dio e che possono avere anche lo stesso funzionamento, come si può inferire da un passo di Pinda­ ro (0/ymp., II, 83-85). Il vero destinatario delle frecce di Apollo è l'uomo in quanto interprete. Fuori dal linguaggio figurato l'uomo-in­ terprete raccoglie una sfida che il dio, con intenzione ostile, gli lancia; e, dagli esempi stessi che abbiamo visto nei rac­ conti oracolari, si è potuto notare che il non riuscire a vin­ cere questa gara con il dio, cioè non riuscire a interpretare il segno oscuro, conduce alla rovina. Non sembrano esserci, a questo punto, più dubbi sulla relazione assolutamente stretta tra segno divinatorio ed enigma. Ciò viene confermato anche da un'analisi diacroni­ ca del "genere" enigma, che nasce proprio all'interno della sfera religiosa della divinazione con i due ben precisi carat­ teri dell'ostilità divina nei confronti dell'uomo e dell'aspet­ to di sfida a una gara. Lentamente l'enigma si staccherà dal contesto sacro per dare origine a una sua storia evolutiva, nel corso della quale attenuerà, pur conservandone traccia, i caratteri iniziali. La storia deli'enigma è la storia stessa dell'interpretazione intesa come gara, fino ad approdare al­ l'idea di interpretazione come confronto dialettico tra due opinioni opposte. Può essere interessante per il nostro discorso, inteso a  2.4 n SEGNO COME SFIDA 49 enucleare l'aspetto del segno divinatorio come dispositivo scatenatore di interpretazione, seguire alcune delle fasi più salienti dell'evoluzione deli'enigma. Come noto, il primo e più celebre esempio di apparizione dell'enigma in un contesto sacro è quello presente nel mito della Sfinge. La creatura mostruosa mandata da Apollo im­ pone agli abitanti di Tebe l'enigma sulle tre età dell'uomo. La posta in gara è la vita: chi non riesce a risolverlo è divo­ rato dalla Sfinge; chi invece lo risolve - e il solo Edipo ne è capace - fa precipitare la Sfinge nell'abisso. Ma nella prima evoluzione deli'enigma, già in età arcai­ ca, la lotta tra un personaggio divino e uno umano, si spo­ sta a quella tra due personaggi umani, che però conservano ancora un aggancio con la sfera del sacro in quanto sono due divinatori. Questa fase è illustrata dall'aneddoto di Strabone sulla gara tra Calcante e Mopso. Calcante propo­ ne a Mopso di "indovinare" quale è il numero di frutti che porta un fico selvatico che si trova sul loro cammino. Mop­ so dà una risposta estremamente dettagliata ("Sono dieci­ mila di numero, la loro misura è un medimno, ma uno di questi fichi è di troppo e non rientra nella misura") di fron­ te alla cui esattezza Calcante viene colpito da un "sonno di morte" (Geogr., VI, 232-235). Di fronte alla sapienza, ancora di origine divina, dei due personaggi, anche il contenuto dell'enigma passa in secon­ do piano, come dimostra la banalità deli'oggetto che deve essere scoperto. È, del resto, la stessa irrilevanza contenuti­ stica che si poteva notare nell'enigma della Sfinge, cosi sproporzionato rispetto ai rischi mortali che comportava. Tuttavia, nel passaggio ulteriore, quando l'enigma si umanizza completamente, anche il suo testo assume un as­ setto formale elaborato, basato sulla formulazione di una contraddizione che, anziché non designare niente (come av­ viene di norma in un caso del genere), designa altresì qual­ cosa di reale. Questa forma la si trova nella leggenda ri­ guardante la morte di Omero: Omero interrogò il dio per sapere chi fossero i suoi genitori e quale la sua patria; e il dio così rispose: "L'isola di lo è patria di  2. LA DIVINAZIONE GRECA tua madre, ed essa ti accoglierà morto; ma tu guardati dall'e­ nigma di giovani uomini [. . . ]" . Giunse ad Io. Qui, seduto su uno scoglio, vide dei pescatori che si avvicinavano alla riva e chiese loro se avessero qualcosa. Quelli, poiché non avevano pescato nulla, ma si spidocchiavano, per la mancanza di pesca, cosi risposero: "Quanto abbiamo preso l'abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo portiamo", alludendo con un enigma al fatto che i pidocchi che avevano preso li avevano uc­ cisi e lasciati cadere, e quelli che non avevano preso li portava­ no nelle vesti. Omero, non essendo capace di risolvere l'enig­ ma, morì per lo scoramento. (Arist., Dept., fr. 8) Nel frammento compaiono ancora gli elementi dell'enig­ ma che abbiamo già incontrato: la sfida circa un oggetto di conoscenza e il rischio mortale per il sapiente che non si di­ mostra in grado di risolvere l'enigma; ma in più compare la forma elaborata di una contraddizione, che da allora sarà tipica di questo genere. Più precisamente compaiono due coppie di determinazioni contraddittorie "abbiamo preso - non abbiamo preso" e "abbiamo lasciato - portiamo", che possono essere così disposte sul quadrato logico: 50 ·abbiamo preso· CONTRARI {non abbiamo fasciato = ) ·portiamo· ·non abbiamo preso'" SUB CONTRARI ·abbiamo fasciato•   2.5 AGONISMO, DIALETTICA, RETORICA 51 Ciascun singolo termine della prima coppia di contrad­ dittori ("abbiamo preso"/"non abbiamo preso") entra in relazione di congiunzione con un singolo termine della se­ conda coppia ("abbiamo lasciato"/"portiamo"), ma in mo­ do diverso da quello che ci si attenderebbe intuitivamente (cioè "quanto abbiamo preso, lo portiamo" e "quanto non abbiamo preso, l'abbiamo lasciato"). Invece nell'enigma ri­ sultano congiunti termini che logicamente sono in opposi­ zione contraria: "quanto abbiamo preso, l'abbiamo lascia­ to" e "quanto non abbiamo preso, lo portiamo". Eppure l'enigma non è, come sappiamo, assurdo. Il sapiente, che domina la ragione, deve essere in grado di sciogliere questo groviglio problematico. Umanizzandosi completamente, l'enigma mette in evi­ denza l'aspetto competitivo, di gara per la sapienza, e si sta­ bilizza sulla forma della contraddizione apparentemente in­ solubile. L'ulteriore e ultima tappa di questa evoluzione conduce, secondo l'ipotesi di Colli (1975), alla nascita della dialet­ tica. 2.5 Agonismo , dialettica, retorica La dialettica, nel senso antico del termine, nasce infatti sul terreno stesso dell'agonismo: essa si presenta come di­ scussione tra due persone su un qualsiasi argomento cono­ scitivo; su questo campo comune si instaura una gara desti­ nata a far emergere un vincitore. L'andamento generale della discussione segue questo schema (Arist., Top.): inizialmente, lo sfidante propone una domanda in forma alternativa, presentando i due corni di una contraddizione. L'avversario sceglie uno dei due cor· ni e ne sostiene la verità. A questo punto lo sfidante deve dimostrare come vera l'altra alternativa e cosi confutare l'affermazione dell'avversario. Naturalmente il procedi­ mento può richiedere anche una serie molto lunga e artico­ lata di successive domande e risposte, miranti, in maniera diretta o, per lo più, indiretta, alla dimostrazione.  LA DIVINAZIONE GRECA Al suo nascere, però, il linguaggio dialettico è limitato a un ambiente ristretto e in qualche modo elitario. l)ccisi vi cambiamenti sono, tuttavia, destinati a verificar­ si con l'accrescersi della cultura ad Atene e con il definitivo affermarsi del regime democratico; infatti le forme della dialettica entrano nella sfera pubblica e si connettono con il mondo politico. Così la discussione si allarga indefinita­ mente e la dialettica, in una sua forma in qualche modo adulterata, si trasforma in retorica. Dialettica e retorica sono basate entrambe su un forte spirito di competizione. Tuttavia ciò che le distingue è che, nella prima, non c'è bisogno di un giudice per assegnare la palma della vittoria a uno dei due contendenti: la vittoria di uno dei partecipanti risulta dalla discussione stessa, in quanto, durante lo sviluppo del dibattito, l'avversario ha contraddetto la tesi che prima affermava. Nel caso della re­ torica, invece, l'agonismo è molto più diretto e acceso, in quanto saranno gli ascoltatori a giudicare quale è stato il migliore discorso; manca nella retorica una sanzione intrin­ seca (come c'è nella dialettica) e per questo deve aggiungere un elemento emozionale, legato all'intento persuasivo. 2.6 Divinazione e interpretazione persuasiva Il processo evolutivo che abbiamo descritto è iniziato con il segno divinatorio come sfida conoscitiva posta dal dio al­ l'uomo ed è approdato, nel punto del suo massimo allonta­ namento, alla competizione conoscitiva della dialettica e della retorica. Ma proprio a questo punto il cerchio sembra chiudersi tornando al punto iniziale, con l'introduzione, ali'interno della divinazione stessa, dei metodi della discussione dialet­ tico-retorica. È molto indicativo , a questo proposito , un passo di Ero­ doto, in cui assistiamo a una sorta di conciliazione appunto tra la divinazione, con la sua tipica concezione deterministi­ ca del mondo, e l'eloquenza politica, legata a una visione mobile della vita, che sottopone ogni cosa a una incessante  2.6 DIVINAZIONE E INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 53 discussione. Egli infatti narra che gli Ateniesi, trovandosi di fronte alla minaccia di una invasione persiana, mandarono a Delfi degli ambasciatori per consultare l'oracolo. Ma, in un primo momento, la Pizia li affrontò con l'annuncio di gravissime sciagure. Costernati, senza però darsi per vinti, gli Ateniesi sollecitarono una seconda consultazione, im­ plorando un responso più favorevole e stabilendo di non muoversi più dall'oracolo fino a che non l'avessero ottenu­ to. La Pizia accettò di emettere un secondo responso: Zeus concede a Tritogenia (Atena) che solo un muro di legno sia inespugnabile, il quale salverà te e i tuoi figli. Non aspettare, inerte, la cavalleria e le forze di terra che arrivano in massa dal continente, ma ritìrati, volgi le spalle; verrà il giorno in cui po­ trai tenere testa. O divina Salamina, farai perire figli di donne, o quando si semina o quando si raccoglie il frutto di Demetra. (Herod., Hist., VII, 141) Il racconto d i Erodoto mostra chiaramente come i l segno divinatorio, il responso oracolare, innanzitutto non venga accolto con atteggiamento fatalistico. l messaggeri non si accontentano del primo responso, ma sfidano a loro volta il dio, minacciando di non muoversi dal santuario fintanto­ ché non abbiano indotto il dio a mitigare il suo atteggia­ mento ostile. Ma, ciò che è più interessante, il testo erodo­ teo mostra bene come il segno oracolare sia sottoposto a una discussione. Infatti i messaggeri, una volta ottenuta la risposta, la trascrivono e ripartono alla volta di Atene per riferire il responso all'Assemblea. La forma della discussione che si svolge davanti aiPAs­ semblea è quella tipica della dialettica. Il segno oscuro sca­ tena un processo interpretativo che prevede varie possibilità di percorso. Ma, anzitutto, dialetticamente, si presenta co­ me una dicotomia tra due soluzioni opposte e mutualmente escludentisi: (i) ritirarsi sull'acropoli, anticamente fortifica­ ta con una palizzata, perché a essa alludeva il dio con l'e­ spressione "muro di legno"; (ii) allestire una flotta, perché il dio intende riferirsi (sma(nein), con quella espressione enigmatica, a una barriera di navi.  54 2. LA DIVINAZIONE GRECA Ciascun corno della contraddizione è fatto proprio da un gruppo: (i) "alcuni anziani" (affiancati dai cresmologi) so­ stengono il primo termine; (ii) "altri" (tra i quali compare Temistocle) assumono il secondo. Per ora siamo solo alla presentazione del problema: è poi necessario sviluppare una dimostrazione che porti a contraddire una delle due tesi. La discussione segue il secondo corno del dilemma; è co­ me se si dicesse: "Ammettiamo che l'interpretazione giusta sia quella che consiglia di allestire una flotta. Quale con­ traddizione comporta questa interpretazione?". I cresmologi fanno notare, a questo punto, che accettare il secondo corno del dilemma comporta una contraddizione con quella parte del testo che predice a Salamina di divenire causa della morte di molti uomini. Accettare la giustezza di questo sottoproblema posto dai cresmologi comporterebbe l'autoconfutazione della tesi principale. Si è però nel frattempo verificato uno spostamento del li­ vello tematico della discussione: a questo punto, per avere ragione sulla tesi dei cresmologi, è sufficiente dimostrare in.. fondata la loro obiezione. È appunto quello che fa Temistocle, negando che l'obie­ zione dei cresmologi comporti una reale contraddizione. E anche in questo caso il ragionamento procede per assurdo e prende in considerazione una questione di prospettiva: se infatti avessero ragione gli avversari con il dire che Salami­ na (metonimia per "battaglia con la flotta") avrebbe causa­ to morte agli Ateniesi, e se anche questa seconda parte della profezia fosse rivolta, come la prima, ancora agli Ateniesi, il dio non avrebbe attribuito all'isola l'epiteto di "divina", ma di "sventurata". In altre parole, c'è contraddizione tra l'epiteto "divina" usato per Salamina e la morte degli Ate­ niesi. Dunque questa seconda parte del responso, contenen­ te una predizione di morte, deve essere intesa come rivolta ai nemici. Non sfuggirà che in questa seconda fase della discussione il metodo dialettico va impercettibilmente sfumando in quello più propriamente retorico. Conclusivamente Temistocle propone una interpretazio­ ne che tende più a persuadere in positivo della validità del  2.6 DIVINAZIONE E INTERPRETAZIONE PERSUASIVA 55 proprio ragionamento che non a dimostrare la falsità della tesi fondamentale degli avversari. Infine interviene il giudi­ zio dell'uditorio, elemento fondamentale appunto del di­ scorso retorico, per sancire la vittoria di uno dei due con­ tendenti. Il testo dice che gli Ateniesi "giudicarono preferì­ bile (hairetbtera)" la spiegazione di Temistocle rispetto a quella dei cresmologi. Al discreto della logica binaria del­ l'alternativa dialettica, succede il continuo della logica gra­ duata del preferibile. La discussione può aver fatto perdere di vista che oggetto di dibattito è un vaticinio del dio di Delfi. Ma non a caso. La logica, appunto, che viene fatta intervenire neli'interpre­ tazione del responso divinatorio è esattamente la stessa che guida le assemblee politiche. E del resto non è senza significato il fatto che in questo contesto gli avversari di Temistocle siano dei "cresmologi", cioè interpreti specializzati dei responsi divini, ed è notevole che essi risultino sconfitti: è la conferma paradigmatica di come nella Grecia della polis sia la razionalità politica a im­ porre i suoi metodi alla divinazione e non viceversa. In definitiva, il carattere di oscurità attribuito al segno divinatorio rende un ottimo servigio ali'orientamento fon­ damentalmente orale e dialettico della cultura greca: con­ ferma il segno stesso come dispositivo scatenatore di inter­ pretazioni, da sondare con la procedura del confronto tra discorsi contrapposti. Il segno rinvia a una realtà altra da sé, nascosta e ambi­ gua, ma alla quale si può arrivare se ci si impegna in un confronto tra interpretazioni contrastanti: procedura che, lungi dali'essere paralizzante, è invece stimolante e produt­ tiva. In questa prospettiva il segno divinatorio si allontana da quelle che erano due sue caratteristiche fondamentali, cioè il primato della visione e la concezione della verità come ri­ velazione: la verità come a-ltheia, intesa come caduta dei veli che la tenevano nascosta (lanthano). 1 3 Nel passo di Erodoto non sono gli indovini con la loro vi­ sione panoptica a rivelare il senso nascosto del segno: esso prende qui luce dalla congettura (che in Erodoto è sempre  56 2. LA DIVINAZIONE GRECA espressa dal verbo symba/10 e dai suoi derivati, equivalente al più diffuso tekmafroma1). E saranno proprio la congettura e l'abbandono della vi­ sione che permetteranno di far evolvere il segno dal campo della divinazione a quello della scienza vera e propria. SEGNI E PROCESSI SEMIOSICI NELLA MEDICINA GRECA 3.0 Introduzione Ci siamo finora interessati dell'ampio e magmatico cam­ po della divinazione, dove abbiamo visto emergere le prime pratiche semiosiche, connesse, nella cultura greca, con la nascita stessa di un pensiero sapienziale. Ci occuperemo ora dell'altra grande area di manifestazione di un pensiero se­ mioticamente orientato, che sorge prima e in maniera indi­ pendente dalla ricerca filosofica in senso stretto: la medici­ na greca. In quest'area, accanto alla presenza fondamentale dei processi semiosici, si possono registrare anche le prime vere e proprie elaborazioni teoriche intorno al segno e all'infe­ renza (Vegetti 1976: 49 ss.). In seguito, la riflessione semio­ tica sarà consegnata direttamente alla filosofia e alla retori­ ca; ma ampie tracce delle origini rimarranno sia negli esempi che filosofi e trattatisti di retorica sceglieranno per illustrare il segno (esempi spesso di carattere medico, talvol­ ta fisiognomico) sia nella scelta di un modello di funziona­ mento logico del segno secondo lo schema "Se p, allora q", che abbiamo visto operante nella divinazione e che vedremo trasposto nella medicina con diversi contenuti, ma con eguale forma. A differenza della divinazione, per la quale disponiamo di testimonianze per lo più indirette e disorganiche, la medi­ cina greca può contare su una ricca documentazione, rap­ presentata in particolare dal Corpus Hippocraticum, 1 un  58 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA insieme abbastanza ampio e vario di testi (circa un centi­ naio) in cui si trovano illustrate le pratiche e le teorie medi­ che del V e IV secolo a.C. Tali testi non appartengono a un unico autore, come la tradizione aveva indotto a credere, attribuendoli a Ippocrate,2 né a un'epoca circoscrivibile con la vita di un uomo. Sono invece presenti all'interno del C.H. opere con diverse finalità ed3esprimenti indirizzi di­ versi nel campo del sapere medico. Tuttavia, nonostante la disomogeneità che è dato riscon­ trare all'interno del C.H., è possibile vedere nello studio della medicina del V e IV secolo uno dei più importanti campi di indagine del pensiero greco, che si affianca sen­ z'altro alla ricerca filosofica e alla storiografia coeve e che intrattiene con esse dei rapporti fecondissimi di interscam­ bio. È noto il giudizio di Werner Jaeger, secondo cui il pen­ siero socratico non sarebbe stato possibile senza le opere ip­ pocratiche,4 ed è stato sottolineato il debito che la storio­ grafia scientifica, inaugurata da Tucidide nell'ultimo scor­ cio del V secolo, ha contratto nei confronti della téchn ip­ pocratica. Ciò che la medicina aveva da offrire tanto alla filosofia quanto alla storiografia era un modello di sapere specifica­ mente semiotico, articolato sul doppio livello rappresenta­ to, da una parte, da una solida struttura formale (il loghi­ smos, cioè il ragionamento inferenziale, nei suoi due mo­ menti abduttivo e deduttivo) e, dall'altra, da un orienta­ mento di base empirico.6 Come vedremo meglio in seguito, il segno medico costi­ tuisce proprio il prodotto del ragionamento inferenziale ap­ plicato alla ricorrenza dei fenomeni, i quali in tanto acquisi­ scono senso, divenendo segni, in quanto sono riconducibili appunto al loghismos. 3.1 Ambiguità della prognosi A differenza del medico moderno, che legge i segni in funzione della diagnosi, il medico antico elaborava il suo ragionamento in funzione della prognosi. Un intero trattato  3. l AMBIGmTÀ DELLA PROONOSI 59 del C.H. , Ilprognostico, è specificamente dedicato a questo problema. Eccone il passo iniziale e programmatico: Quanto al medico, mi sembra che la cosa migliore sia che egli pratichi la previsione; infatti, con una conoscenza e dichiara­ zione preventiva, di fronte ai malati, dei loro casi presenti, pas­ sati e futuri, e con una puntuale esposizione di quanto gli infer­ mi tralasciano di dire, egli conquisterà maggiore fiducia di po­ ter conoscere le condizioni dei malati, così che gli uomini si ri­ solvano ad affidare se stessi al medico. (cap. 1)7 Dal passo si può osservare che la prognosi non è concepi­ ta come previsione di eventi soltanto futuri, ma coinvolge anche elementi di conoscenza che riguardano sia il presente sia il passato:8 il medico deve avere la capacità di descrivere anche quei sintomi, o quei fatti in generale, che gli ammala­ ti tralasciano di esporre. Dal procedimento descritto nel Prognostico non sono assenti scopi chiaramente manipola­ tori: dicendo ciò che sfugge ai malati, il medico mira ad ac­ quistare maggiore credito presso di loro per persuaderli ad affidarsi alle sue cure. È interessante che una procedura che vuole presentarsi con i crismi della scientificità e dell'obiet­ tività, si ponga non tanto lo scopo del rispecchiamento del­ la realtà (nosologica in questo caso), ma quello della sua manipolazione. II discorso del medico è fatto, in questo ca­ so, anche di "segni efficaci" come uello della retorica in­ cantatoria di Gorgia o della magia. Del resto, la formula con il triplice riferimento al passa­ to, al presente e al futuro, che non costituisce un caso isola­ to, ma ricorre a esempio anche in Epidemie l (come pure, per definire la medicina, nel Lachete platonico, 198 d), spinge a istituire un parallelo con l'analoga formula usata per individuare il procedimento divinatorio (Brtescu 1 975: 46) . 1 0 D'altra parte, se per un verso si possono riscontrare ele­ menti comuni tra la medicina e la divinazione, per un altro molti degli scritti medici del C.H. sottolineano esplicita­ mente e con forza la distanza e i punti di divergenza. A  60 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA esempio l'autore del libro Il regime nelle malattie acute (cap. 8) polemizza contro le pratiche discordanti dei cattivi medici, paragonandole alle pratiche di interpretazione divi­ natoria. L'attacco sferrato alla divinazione è su base semiotica: il segno divinatorio è ambiguo, può significare due cose dia­ metralmente opposte, e perciò è lontano da quel piano di oggettività al quale aspira la scienza medica. Anche l'autore del Prorretico II si scaglia contro i cattivi medici criticando le loro predizioni miracolose, che li rendono simili agli in­ dovini, e contrappone orgogliosamente il proprio metodo basato sui segni umani e sulla congettura: Per parte mia non farò affatto delle divinazioni del genere (ou manteU.somat), ma scriverò i segni (smeia) attraverso i quali si deve congetturare (tekmafresthat), tra i malati, quali guariran­ no e quali moriranno, quali guariranno e quali moriranno in poco o in molto tempo. (cap. l) L'inferenza divinatoria (manteuein) è direttamente con­ trapposta alla congettura (tekmairesthaz). La violenza con cui i medici polemizzano contro la divinazione e la netta presa di distanza rispetto a essa è sicuramente indizio del fatto che essi tentavano di imporre un nuovo e autonomo paradigma epistemologico, una "semiotica profana"; ma è indizio, anche, del fatto che il rischio di confusione o di fraintendimento era ancora presente. Sotto certi aspetti la medicina ippocratica appare effetti­ vamente come la continuazione di una medicina preceden­ te, popolare e antichissima, impostata su basi magiche (Parker 1983: 213 ss.). Certi settori della terminologia de­ nunciano chiaramente questa situazione: Pimportanza cen­ trale, nel C.H., della katharsis ("purificazione") rimanda alle purificazioni magiche dello iatr6mantis "medico-indo­ vino" e dei purificatori apollinei come Epimenide e Bacide; lo stesso termine che indica il medicamento, pharmakon, era in origine impiegato per indicare ciascuno dei due citta­ dini di Atene che regolarmente il 6 di Targelione, o anche in  3.2 MEDICINA E SEMIOTICA MAGICHE 61 caso di pestilenze, erano sottoposti a osservanze rituali, fla­ gellati e scacciati dalla città e forse uccisi, per adempiere a una cerimonia di purificazione (Lanata 1967: 45). Proprio per questi motivi il tentativo di autodifferenzia­ zione dei medici ippocratici rispetto al paradigma magico doveva assumere toni molto accesi, come ci mostra uno dei trattati più interessanti del corpus, il Male sacro. Poiché, dal punto di vista della storia della semiotica, la medicina magica non è meno importante di quella laica, dedicheremo il prossimo paragrafo a illustrare il suo paradigma. Dopodi­ ché esporremo la critica di questo stesso paradigma quale ci viene presentata dall'autorè del Male sacro. 3.2 Medicina e semiotica magiche Molte fonti letterarie suggeriscono l'idea di un'origine mitica comune per la divinazione e per la medicina: entram­ be le pratiche, infatti, figurano come doni di Apollo e sono a lui variamente collegate. Così, per esempio, Platone nel Simposio (197 a): "In verità Apollo scoprì l'arte del tiro con l'arco e la medicina e la divinazione". È molto suggestivo, dal punto di vista semiotico, che le due pratiche primordiali che inaugurano un sapere basato sui segni, siano avvertite come originariamente collegate. E un effettivo stretto colle­ gamento esse lo trovano nella figura antichissima dello ia­ tr6mantis, il medico-indovino, che unisce in sé le facoltà di un veggente e la capacità di curare le malattie. L'appellati­ vo iatr6mantis è riferito in prima istanza allo stesso Apollo; ma passa poi a una serie di personaggi in vario modo legati al dio, che uniscono al dono della mantica e della medicina, anche quello di effettuare delle purificazioni. Un elemento fondamentale che caratterizza la figura del­ lo iatr6mantis è la sua capacità di usare una procedura dia­ gnostica: trattandosi di un veggente, egli è in grado di indi­ viduare la causa nascosta di una malattia, causa che è da at­ tribuirsi sempre a un intervento soprannaturale. In epoca antichissima la malattia è concepita infatti come miasma, come contaminazione, dovuta a un contatto con un'entità  62 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA divina o demonica. 1 1 Per questa ragione c'è bisogno di un medico-indovino, in grado di leggere i segni che gli rendono accessibile il mondo delle forze oscure e soprannaturali alle quali è imputato il presente stato di contaminazione; in se­ guito alla sua diagnosi, lo iatr6mantis può indicare gli stru­ menti magici atti a purificare il miasma. Questa concezione è ben iliustrata da una notizia di un autore di scuola pitagorica, Alessandro Poliistore, che cita le Memorie pitagoriche: L'aria (secondo i Pitagorici) è piena di anime; ed essi le conside­ rano demoni ed eroi e pensano che siano essi a inviare agli uo­ mini i sogni e i segni premonitori (smefa) e le malattie, e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e agli altri animali da pa­ scolo; e a questi (demoni ed eroi) sono dirette le cerimonie ca­ tartiche e apotropaiche e tutta la mantica e i vaticini e tutto ciò che è di tal genere.12 Sono presenti in questo passo tutti gli elementi di una se­ miologia sacra abbinata a una medicina magica. I demoni sono la fonte delle malattie che affliggono gli uomini; ma, contemporaneamente, sono anche la fonte dell'informazio­ ne che concerne il mondo invisibile, inviando agli uomini i segni (compreso quel particolare tipo di segno che sono i so­ gni) dai quali si rende riconoscibile l'origine della malattia. Del resto il circolo comunicativo si chiude attraverso gli speciali segni che gli uomini sono chiamati a produrre: i riti catartici e apotropaici. In particolare le cerimonie apotro­ paiche sono costituite dalla recita di epOidal, cioè di formu­ le verbali incantatorie, ritenute idonee a scongiurare il ma­ le: si tratta di segni linguistici che da una parte chiudono il circuito comunicativo con il soprannaturale, dall'altra sono "efficaci", nel senso che intendono agire sul mondo e non rispecchiarlo. 3.3 La critica alla magia e alla semiotica sacra Prenderemo ora in considerazione le critiche rivolte alla  3.3 LA CRITICA ALLA SEMIOTICA SACRA 63 magia sul piano specificamente semiotico ed epistemologi­ co. L'autore del Male sacro si muove sostanzialmente in due direzioni: l . contrapporre alla nozione di "sacro" quel­ la di struttura naturale (phjsis) e di causa razionale (pro­ phasis); 2. mostrare l'inconsistenza sul piano logico del ra­ gionamento sotteso dalle procedure della medicina magica, apponendovi un tipo di ragionamento inferenziale basato sul tekmérion (che qui compare già con il senso di "prova", di "segno sicuro") (cap. l). Ciò che l'autore del trattato vuole contestare è la conce­ zione di un'origine divina della malattia; e questo vale tanto per il "male sacro", cioè l'epilessia, quanto per qualunque altro tipo di morbo. Sotto accusa è la nozione di "sacro'', come qualcosa che si riconduce all'intervento divino. In ef­ fetti, il termine hier6s, anche se in greco si specializzò molto presto in senso religioso, in origine non apparteneva alla sfera olimpica, ma era legato a una concezione animistica: hier6s è tutto quello in cui si rivela una vitalità prodigiosa e magica, e una malattia è sacra in quanto inviata da una for­ za soprannaturale. Lo stesso termine iasthai, "curare" (da cui iatr6s "medico"), originariamente doveva indicare un curare come "un ristorare, un ridonare le forze attraverso appropriate operazioni magico-mediche" (Ramat 1962: 20). In effetti, l'idea della malattia come riconducibile a un intervento diretto "del piano verticale della trascendenza su taluni punti di quello orizzontale della causalità naturale" (Vegetti 1976: 291) appare mettere fuori gioco ogni idea di regolarità dei fenomeni ed escludere, contemporaneamente, la possibilità di controllo su di essi e di previsione. La no­ zione di "natura", che l'autore del trattato contrappone a quella di "sacro", viene a reintrodurre proprio la regolarità nel movimento di cause ed effetti, rendendo possibile l'im­ postazione della medicina su basi scientifiche. Inoltre, se la nozione di phjsis individua la struttura oggettiva e omoge­ nea di ricorrenze tra cause ed effetti, quella, correlata, di pr6phasis (in altri casi aftion, aitle) rimanda al momento della spiegazione del singolo fenomeno.  64 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA 3.4 Le forme di argomentazione logica e il "tekmérion" Tuttavia il punto di maggior forza dell'autore del Male sacro rispetto ai suoi avversari consiste nelle modalità di ar­ gomentazione logica che adotta: facendo un esplicito ricor­ so al tekmrion (''prova", "segno sicuro") egli riesce a indi­ viduare delle contraddizioni interne al sistema della medici­ na magica e a confutarla. Vediamone subito un esempio: E v'è un 'altra grande prova (méga tekmrion) che questa non è più divina delle altre malattie; insorge ai flegmatici per natura, ma non colpisce i biliosi: mentre, se fosse più divina delle altre, in tutti ugualmente dovrebbe prodursi questa malattia, senza distinguere tra biliosi e flegmatici. (cap. 2)13 L'argomentazione assume la forma rigorosa di quello che in seguito sarà chiamato nzodus tollens, cioè "Se p, allora q; ma non-q; di conseguenza non-p''. In altre parole l'autore del A-lale sacro ragiona così: "Se questa malattia fosse più divina delle altre (p}, essa dovrebbe colpire indistintamente tutti (q); ma questo non si verifica (perché colpisce i flegma­ tici, ma non i biliosi) (non-q); ne consegue che essa non è più divina delle altre (non-p)". Si deve rilevare che l'autore utilizza la non verità del conseguente nel modus tollens (''che la malattia non colpisce indiscriminatamente tutti") come segno (teknzérion "segno sicuro", "prova") della non verità dell'antecedente (''che l'epilessia non è più divina del­ le altre malattie"). Naturalmente bisognerà aspettare Aristotele prima che il nzodus tollens come schema ragionativo venga teorizzato e che venga fornita una definizione rigorosa di teknzérion. Del resto, spetterà poi agli stoici di dare un'analisi formale di questo schema argomentativo e di dire che ogni schema argomentativo deve essere considerato come un segno. È in­ teressante, tuttavia, che già l'autore ippocratico leghi l'e­ spressione tekmrion (che da Aristotele in poi assumerà ine­ quivocabilmente il significato di "segno inconfutabile") con  3.5 LA VISTA E OLI ALTRI SENSI 65 lo schema inferenziale del modus tollens: logica e semiotica vengono già a trovare un punto di convergenza e di saldatu­ ra. Saldatura che con gli stoici sarà totale. 3.5 La vista e gli altri sensi Tuttavia la contrapposizione tra una semiologia sacra e una profana non si basa soltanto sulla capacità, che la se­ conda possiede, di utilizzare un ragionamento rigoroso e di fare ricorso a segni che si inquadrino in uno schema logico­ inferenziale. Come ha mostrato Lanza (1979: 103), un altro importante elemento di divergenza tra il paradigma divina­ torio e quello della medicina ippocratica è dato dal diverso ruolo che la vista gioca nei processi di conoscenza. Nella divinazione e nella medicina magica la vista ha una parte fondamentale, in quanto è fonte primaria, e in qual­ che modo unica, dell'attività conoscitiva. Non per niente Apollo, dio della divinazione, è nelle parole di Pindaro co­ lui che possiede "l'occhiata che conosce ogni cosa" (Pyth., III, 29): niente infatti è sottratto alla sua vista nel passato, nel presente e nel futuro; a lui appartiene il "dominio del tempo". L'uomo può conoscere solo ciò che contingente­ mente capita sotto il suo sguardo. Solo l'indovino e il poeta possiedono una seconda vista, che permette loro di vedere anche ciò che è al di là delle limitazioni cui sono sottoposti i comuni mortali; per questo spesso i primi sono ciechi, per essere ricettivi a questa vista; e un'analoga limitazione delle facoltà percettive si verifica anche nell'attività onirica, du­ rante la quale la raccolta di stimoli esterni si attenua fin quasi a scomparire.14 Tanto nel poeta quanto nell'indovi­ no, poi, la visione si tramuta in parola, diventando il segno che supplisce alla mancanza di presenza. Questa concezione comporta una dipendenza del segno dalla divinità e una di­ cotomia tra ciò che è percepibile con la vista e ciò che non lo è. Ma un primo superamento della dipendenza dalla divi­ nità per la conoscenza dell'invisibile si ha nel famoso motto di Anassagora "Vista dell'invisibile è ciò che appare" (6psis ad/On tà phainomena) (D-K, 59 B 21a). Il fenomeno viene  I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA qui a sostituirsi alla divinità. La vista tuttavia rimane cen­ trale. Caratteristicamente in un trattato medico arcaico. Malattie delle donne, al cap. 60, si dice che attraverso il dito il medico "vedrà" il modo di presentarsi del collo dell'u­ tero. Certamente le opere del C.H. procedono sul cammino aperto da Anassagora, ma contemporaneamente in esse il ruolo della vista perde di importanza nel processo di cono­ scenza. Ci sono ragioni specificamente inerenti alla téchn ippocratica che portano a una svalutazione, o almeno a un ridimensionamento, del ruolo della vista. Nel trattato L 'ar­ te si dice esplicitamente che "delle malattie alcune hanno se­ de in luoghi non celati alla vista, e non sono molte, altre in luoghi non aperti alla vista, e sono molte" (cap. 9). Per giungere alla conoscenza di queste ultime, il medico trae congetture da segni tattili, uditivi, olfattivi e talvolta persi­ no gustativi: è attraverso l'intera gamma della tipologia se­ gnica che il medico può elaborare la sua previsione, percor­ rendo il tempo anche nella dimensione di un passato e di un futuro che sono nascosti. Non solo, ma avviene che, quan­ do i segni non si presentano spontaneamente, il medico giunga a "forzare la natura" per costringerla a fornire degli indizi (cap. 13). A questo punto è possibile tentare un riesame dell'oppo­ sizione visibile/invisibile nel momento in cui essa passa dal­ la divinazione, che l'aveva inventata, agli altri ambiti del sapere. La ritroviamo, a esempio, in ambito giuridico, con l'anti­ tesi tra "beni apparenti" e "beni non apparenti" che, secon­ do la penetrante analisi di Gernet (1968: tr. it. 399 sgg.), si configura come opposizione tra i beni materiali (fondiari e patrimoniali soprattutto) che si possono percepire, e i credi­ ti in genere, "invisibili" (a esempio, i crediti nei confronti di un banchiere presso cui si è depositato del denaro). Poi, nell'ambito strettamente filosofico, l'opposizione assume un carattere squisitamente antologico, dando vita a una duplicazione dei livelli di realtà. In Eraclito, a esempio, il "nascosto" costituisce la realtà vera in contrapposizione all'"apparente", dicotomia di cui si trova chiara traccia nei  3.6 L'ANALOGIAE LACONGETTURA 67 due frammenti: "L'armonia che non si vede è superiore a quella manifesta" (D-K, 22 B 54) e "La natura ama nascon­ dersi" (D-K, 22 B 123). Come si può osservare, mentre nella divinazione il "visibile" richiamava apertamente la funzio­ ne, tutta fisiologica, svolta dali'organo della vista, una vol­ ta avvenuta la trasposizione in altri campi questo legame si attenua. Di fatto scompare quasi del tutto nella scienza, do­ ve visibile e invisibile vengono concepiti come due mondi, la cui comunicazione è garantita non dalla vista, ma dalla congettura. 3.6 L'analogia e la congettura Il carattere semiotico della rivoluzione effettuata dal pen­ siero ippocratico è stato messo in luce da Vegetti (1976), il quale, ponendo in relazione gli scritti dei medici ippocratici con la cultura scientifica e filosofica del loro tempo, ha mo­ strato come essi fossero impegnati in una lotta a favore di un "metodo semiotico", contro il cosiddetto "procedimento analogico", tipico della filosofia ionica e di quei medici e intellettuali che a essa in qualche maniera si richiamavano. In effetti, quella ionica, più che come una filosofia vera e propria, si caratterizzava come una physiologhla, cioè una indagine sulla natura (phjsis), e come ricerca di un suo principio (arch). La natura dei filosofi ionici è in sostanza il mondo quale si manifesta all'osservatore, ma presenta un duplice aspet­ to: esso è, contemporaneamente, molteplice, perché si com­ pone di una infinità di fenomeni, e unitario, in quanto cia­ scun fenomeno manifesta lo stesso principio rintracciabile in ogni altro frammento del reale. L'unico procedimento conoscitivo, in questo quadro, è l'analogia: di fronte a qualsiasi fenomeno, si tratta di riper­ correre il cammino della phjsis che porta, per via analogi­ ca, dal singolo fenomeno all'arch. Dal punto di vista se- miotico, la filosofia ionica ragiona come se qualsiasi tipo di modalità di produzione segnica fosse ridotto al solo metodo del riconoscimento di campioni: un frammento sta costan-  68 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA temente per una totalità che è a esso completamente omoge­ nea (Eco 1975: 296; 1984: 48). Un paradigma diverso è quello che si impone a partire da Alcmeone di Crotone proprio con la proposta del principio semiotico della congettura: Delle cose invisibili e delle cose visibili solo gli dci hanno cono­ scenza certa; gli uomini possono soltanto congetturare (lekmaf­ resthal). (Diog.Lart.,VIII,83== D-K,24Bl) Mentre per i filosofi ionici e per la medicina dei postulati c'era continuità tra i principi della natura, i suoi fenomeni e l'osservatore stesso di quei fenomeni, con lcmeone nasce una frattura profonda tra l'uomo e la realtà. Il mondo del­ l'esperienza non si dà a conoscere spontaneamente, non è più trasparente. Proprio sulla frattura inaugurata da Alc­ meone si impernia il metodo semiotico. Essa conduce alla necessità di sostituire il procedimento dell'analogia con uno basato sull'indizio: la conoscenza umana assume per princi­ pio il tekmafresthai, il procedere per indizi e congetture. Ciò che la medicina ippocratica svilupperà, e che è ancora assente in Alcmeone, è l'inquadramento del metodo conget­ turale in una struttura logica compiuta. 3.7 Metodo analogico e metodo semiotico A questo punto è possibile domandarsi quale forma assu­ ma la metodologia della ricerca congetturale nei trattati ip­ pocratici. Una prima risposta a questa domanda può essere cercata attraverso un'analisi della polen1ica che, a questo proposito, ha opposto Regenbogen (1930) a Diller (1932) nella prima metà di questo secolo. In questa polemica ritro­ viamo una contrapposizione tra "metodo semiotico" e "me­ todo analogico"; ma in un senso sensibilmente diverso da quello esaminato finora, in quanto la nozione di "analogia" era assunta in un senso lato, molto vicino alla nozione se­ miotica di "omomatericità".15  3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 69 In questo secondo caso la nozione di "analogico" viene assunta in un senso strettamente tecnico, come istituzione di un parallelismo tra un fenomeno da spiegare e un altro fenomeno noto, con conseguente possibilità di inferenza dal secondo al primo. L'inferenza analogica del tipo de­ scritto costituisce, secondo Regenbogen, il carattere specifi­ co della metodologia di ricerca utilizzata dali'autore del gruppo di trattati Sulla procreazione, Sulla natura del bam­ bino, Sulle malattie I V: in questi testi vengono spesso messi a confronto processi di tipo non osservabile con processi osservabili e i primi vengono chiariti mediante un'analogia con i secondi, come si verifica a esempio quando viene isti­ tuito un parallelo tra lo sviluppo del feto e quello delle pian­ te (Littré 1839, VII 528, 22 e sgg.) o quello di un uccello (Littré 1839, VII 530, 14 e sgg.). L'autore dei trattati si at­ tiene di fatto al principio di Anassagora secondo cui ciò che appare permette di avere una visione anche di ciò che è invi­ sibile, e applica questo principio sistematicamente. Il para­ gone con l'oggetto visibile, su cui si basa l'analogia, viene visto come una prova deli'oggetto di partenza. Il procedimento analogico non è limitato ali'ambito me­ dico-biologico, ma se ne possono rintracciare esempi chia­ rissimi in ambito storico. A esempio Erodoto (Hist., II, 33), quando parla del Nilo, il cui corso, le cui sorgenti e la cui lunghezza gli sono sconosciuti, sostiene: "a quanto io ri­ tengo, congetturando (tekmair6menos) dalle cose note quelle ignote, (il Nilo) muove da una longitudine eguale a quella da cui muove il Danubio". Il ragionamento è il se­ guente: il corso del Danubio è conosciuto dalle sorgenti alla foce, e, posto sullo stesso meridiano, nella concezione di Erodoto, scorre nella direzione opposta a quella del Nilo, cioè da nord a sud verso il mar Nero, così come il Nilo scor­ re da sud a nord verso il mar Mediterraneo; il Danubio, in­ fine, è il fiume maggiore dell'Europa, come pure il Nilo lo è dell'Africa. Dati questi elementi, si può immaginare il corso del Nilo in analogia con quello del Danubio. Secondo Diller (1932: 17), tuttavia, l'analogia non riesce a coprire tutti i casi di inferenza dal visibile all'invisibile, e porta a questo proposito un certo numero di esempi, tra i  70 3 . I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA quali l'inferenza sperimentale contenuta al cap. 8 del tratta­ to Le arie, le acque, i luoghi. L'esperimento vuole dimo­ strare che le acque che provengono dalla neve e dai ghiacci, perdono le qualità di leggerezza, di limpidezza e di dolcez­ za, mentre conservano quelle di pesantezza e di torbidezza. L'autore del trattato suggerisce a questo proposito di versa­ re, durante l'inverno, dell'acqua in un recipiente e, dopo averla misurata, di esporla all'aperto per lasciarla gelare. Il giorno seguente va messa di nuovo al caldo e fatta scioglie­ re: misurandola, ci si accorgerà che la sua quantità è molto diminuita. Questa è una prova (tekmrion) del fatto che, gelando, l'acqua ha lasciato andar via la parte più leggera e delicata e dimostra, contemporaneamente, la scadente qua· lità dell'acqua proveniente dalla neve e dai ghiacci. Questo esperimento viene definito tekmrion e si basa sulla istitu­ zione di un parallelismo tra due serie di dati di realtà. Ma, giustamente, Diller mette in dubbio che si tratti an­ che di un procedimento analogico: in effetti l'unica analo­ gia che vi si può istituire è che per una piccola quantità di una materia (acqua: ghiaccio) valgono le stesse leggi che valgono per l'elemento nella sua totalità. Si può esprimere quello che avviene nell'esperimento attraverso la formula "parte : parte = tutto : tutto"; la vera inferenza consiste nel trarre conclusioni dalla parte sul tutto. Comunque, per Dil­ ler, qui siamo di fronte a un tipo di inferenza che non è ana­ logica nello stesso senso in cui è analogica l'inferenza che abbiamo visto in Erodoto, in quanto qui "tutto si svolge al­ l'interno del processo che dovrebbe essere spiegato, senza che un processo analogo sia chiamato in causa" (ibidem, 19). Con un ragionamento non diverso, secondo Diller, l'au­ tore del trattato Le arie, le acque, i luoghi sostiene che la parte più fine e più pura deli'acqua ingerita viene espulsa dall'organismo, quella che è più densa e più torbida sedi­ menta: la prova (tekmrion) è data dall'osservazione di co­ loro che soffrono di calcoli alla vescica, i quali espellono un'urina limpidissima, in quanto la parte più densa e torbi­ da si condensa appunto in calcoli. Ciò che questi esempi hanno in comune è che qualcosa di  3 .7 METODO ANALOGICO E METODO SEMIOTICO 7 1 non percepibile viene spiegato attraverso dei fenomeni per­ cepibili. Però questi fenomeni non sono degli analoga di ciò che deve essere spiegato, bensì dei segni: essi stabiliscono, rispetto al processo che deve essere spiegato, lo stesso rap­ porto che c'è tra l'effetto e la causa. Quindi, per Diller, l'in­ ferenza semiotica (propriamente: semeiotisch, ibidem, 20, da lui collegata strettamente al procedimento medico) deve intendersi nel preciso senso (che sarebbe stato poi quello aristotelico) di inferenza dal conseguente. Ulteriormente per Diller, mentre l'inferenza analogica rende chiaro il "So­ sein" di un processo o di uno stato sconosciuto quella se­ miotica indizia del suo "Dasein". Recentemente la problematica è stata ripresa da Lonie (1981: 79 ss.),16 che ha sottolineato come nei trattati presi in considerazione dal Regenbogen, ma anche in altri testi del C.H. in generale (a esempio in Le arie, le acque, i luoghi, cap. 8), sono rintracciabili degli esempi di processi esplicati­ vi complessi, che comportano sia una inferenza semiotica (inferire le cause da fenomeni osservabili), sia una induzio­ ne analogica. Molto interessante a questo proposito è il capitolo 12 (= Littré 1839, VII 486, 3 ss.) del trattato Sulla natura del bambino: l'autore stabilisce anzitutto la teoria (elemento non osservabile) per cui lo sperma, trovandosi nell'ambien­ te umido e caldo dell'utero materno, acquisisce una capaci­ tà di respiro (pneuma) che si apre una breccia verso l'ester­ no: esso emette un soffio e, in una seconda fase, inspira aria fresca attraverso la breccia. Per provare questa teoria, l'autore ricorre a un'analogia con tre diverse classi di ogget­ ti, in cui si verificherebbe lo stesso fenomeno: il legno, le foglie, le sostanze commestibili. Viene poi descritto il com­ portamento del legno quando brucia: esso espelle aria cal­ da, in corrispondenza del punto in cui è stato tagliato e, contemporaneamente, attira a sé un altro soffio freddo. L'azione dei due movimenti contrapposti fa sì che il fumo e il vapore si avvolgano intorno al legno. Questo fatto viene descritto come un fenomeno osservabile ("noi vediamo che accade questo"), dal quale viene tratta un'inferenza (eklo­ ghismos) circa la causa del fenomeno stesso. Tale inferenza  72 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA assume la forma di un modus tollens "Se non-p, allora non-q; ma q; perciòp": "Se non ci fosse questo duplice mo­ vimento contrapposto, allora il soffio (fumo e vapore) non si avvolgerebbe intorno al legno, fuoriuscendo" (Littré 1839, VII, 486, 20-21). L'autore passa poi a illustrare lo stesso tipo di comporta­ mento negli altri esempi di analoga e procede quindi alla formulazione di una legge generale per induzione: "tutte le cose che sono riscaldate emettono un soffio (pneuma) e fanno entrare un soffio freddo per rimpiazzarlo". Alla fine l'autore sostiene che i fenomeni descritti devono essere con­ siderati come "prove necessarie" della sua affermazione teorica intorno allo sperma. Nel procedimento conoscitivo messo in scena nell'esem­ pio precedente possono essere messi in luce tre diversi ele­ menti . Anzitutto si ha l'istituzione di un'analogia tra un fatto non osservabile (il comportamento dello sperma neli'utero materno) e alcuni fenomeni osservabili. In secondo luogo, c'è una inferenza semiotica (che è pro­ priamente quella di cui parlava Diller, chiamandola "infe­ renza semeiotica'' e che Lonie chiama "inferenza causale") consistente nel risalire dal fenomeno osservabile (a esempio l'emissione di fumo e vapore durante la combustione del le­ gno) alla sua causa ovvero alla natura del processo. È inte­ ressante notare che inferenze di questo tipo sono molto fre­ quenti nei trattati considerati e che l'espressione che designa il fenomeno da cui l'inferenza è tratta è smefon. In terzo luogo, si ha la formulazione, per induzione, di una legge generale, che è intesa come valida anche per il pri­ mo termine (quello da dimostrare) dell'analogia. In com­ plesso si può dire che il valore probante dell'analogia consi­ ste nel fatto che essa permette di convalidare una proposi­ zione di partenza (relativa a fatti non osservabili) mediante il ricorso a proposizioni concernenti fatti analoghi, ma os­ servabili, che sono considerati come esempi di una legge va­ lida generalmente. Lonie (1981: 85) iliustra i rapporti tra analogia, principio generale ed enunciazione di partenza con il seguente diagramma:  3.8 LA SEMIOTICA NEI TRATTATI METODOLOGICI 73 principio generale esemplifica/ tt(" , , conferma /// '' /' > analogo illustra asserzione di pertenza 3.8 Il metodo semiotico nei trattati metodologici Nel gruppo di opere del C.H. dove vengono maggior­ mente approfonditi gli aspetti teorici della medicina (Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Ilprognostico, Il regi­ me nelle malattie acute, Male sacro, Le epidemie l e III e le maggiori opere chirurgiche) è possibile rintracciare, nel mo­ do più chiaro, la formulazione della metodologia/semioti­ ca, quella appunto a cui si riferiva Diller (1932) e che Lonie (1981) individua come procedimento di "inferenza causa­ le". In questo paragrafo cercherò di approfondire in che co­ sa consiste tale metodologia, indipendentemente dagli altri procedimenti che possono esserle associati, come abbiamo visto che avveniva con l'analogia.  Nelle opere che abbiamo sopra menzionato viene innan­ zitutto aperto il problema del significato dei dati di osserva­ zione.17 Il singolo fenomeno (hékaston), non essendo più collegato con (né riconducibile a) una presunta unità della natura, come nella physiologhla, ha bisogno di essere inter­ pretato, cioè riconnesso a un sistema di riferimento. È a questo punto che inizia il procedimento inferenziale, o loghism6s, che è in un primo momento essenzialmente abduttivo: 18 si comincia a ipotizzare che il fenomeno singo­ lo, che si presenta ali'osservazione del medico, sia un caso di una qualche regola generale. Si prova, cioè, a pensare che lo hékaston, di per sé insignificante, possa essere consi­ derato come un smeion, un segno che rimanda a un siste-  3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA ma, e dal quale riceve senso. Questo primo momento ascen­ dente, di costruzione del sistema di riferimento, viene segui­ to da un secondo movimento, discendente, di verifica. Se il sistema ipotizzato sia valido e funzionante, può essere pro­ vato applicandolo a nuovi e diversi casi: il segno si trasfor­ ma così in tekmirion e il metodo diviene deduttivo. Usando lo schema proposto da Eco (1984: 41) per l'abduzione si po­ trebbe cosi illustrare il processo: codice eziologico e/o prognostico: r------------, son: h,jksston (singolo fenomeno) : l risultato l -- 1 r -  - -, l l regola 1  l -----_j l  l  lL - - -- - 1 .----l L Vegetti (1976: 49) mette molto bene in luce questo dupli­ ce movimento abduttivo-deduttivo della téchnippocratica: "Ciò d'altro canto conferiva alla funzione dello hékaston, spogliato dai privilegi 'metafisici', una dignità nuova. Esso infatti era, da un lato, chiamato ad essere segno, smeion, sull'altro da sé, sul sistema cui, per via di inferenza, era supposto appartenesse; e dall'altro lato, acquistava il ruolo di 'prova', tekmirion, sulla validità dell'inferenza stessa, che si misura appunto sulla possibilità di trovare conferma ___..J 1 l 74  3.9 LA STRUITURA FORMALE DEL SEGNO 75 negli hékasta. Il metodo semeiotico si configurava cosi, per la téchn ippocratica, come un movimento - 'dialettico' - che procedendo dallo hékaston posto dall'osservazione (ma è il caso ormai di parlare di 'esperienza' scientifica), lo tra­ sforma in smefon, mediante un'inferenza logico-concet­ tuale (loghism6s) e poi in prova o tekmrion, per conclude­ re, se il circolo si fosse saldato, nella capacità di compren­ sione e di intervento pratico su sempre nuovi hékasta". Sicuramente lo schema di riferimento che il medico deve costruire è un codice, ma di tipo particolare: è infatti pro­ babilistico. Come ha messo in evidenza Di Benedetto (1966 e 1986: 132), i testi del C.H. sono disseminati di espressioni che indicano una tendenza o una probabilità quali "la mag­ gior parte", "i più", "molti", "soprattutto", "spesso", "tal­ volta" ecc. Questo non significa che i medici della collezio­ ne ippocratica non siano impegnati nella costruzione di si­ stemi di riferimento costanti e funzionanti generalmente. Semplicemente la logica del hoi pleistoi ("la maggior par­ te") si sostituiva alla logica del ptintes ("tutti"). Del resto, proprio il carattere probabilistico contraddistingue l'infe­ renza abduttiva o ipotetica rispetto a quella strettamente deduttiva. 3.9 La struttura formale del segno La nozione di smeion ("segno", "sintomo") è una delle nozioni centrali nei testi del C.H. La struttura formale at­ traverso la quale il segno è introdotto è relativamente co­ stante, in quanto prevede l'inquadramento in uno schema implicativo del tipo: p-:Jq Dal punto di vista linguistico, molto spesso p e q sono rap­ presentate da proposizioni (o da sequenze di proposizioni), il cui collegamento costituisce un periodo ipotetico, come possiamo vedere da un brano tratto dal cap. 9 del Progno­ stico :  76 3. I SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ma bisogna osservare anche gli altri sintomi (smefa): se (n) in­ fatti il malato sembra sopportare favorevolmente il male, oppu­ re, oltre a questi, mostra qualche altro dei sintomi salutari, c'è speranza che il male si risolva in ascesso, sicché l'uomo soprav­ viva, pur perdendo le parti annerite del corpo. In questo esempio la prima parte dell'implicazione è co­ stituita da una sequenza di due proposizioni condizionali introdotte da n ("se"), che si riferiscono a dati di osserva­ zione (protasi), mentre la seconda parte presenta un perio­ do complesso (apodosi) relativo a una previsione medica. Se il riempimento semantico della protasi con dati di osser­ vazione, ovvero elenchi di sintomi, è relativamente costan­ te, l'apodosi può contenere anche una enunciazione diagno­ stica, sebbene ciò avvenga meno frequentemente, data la centralità della prognosi nella medicina antica.. Inoltre l'a­ podosi può contenere anche (e talvolta essere sostituita da) una indicazione terapeutica. 3. 10 Moduli espressivi arcaici Il modello "Se p, allora q", che serve molto spesso (a esempio nei trattati tecnico-terapeutici) a introdurre la ma­ lattia stessa, è molto antico e può essere messo in relazione agli analoghi moduli di presentazione della malattia nei trattati medici assiro-babilonesi e in quelli egiziani.19 Il mo­ dello implicativo nei testi assiro-babilonesi prevede la pre­ senza di una protasi, introdotta da §umma ("se", "nel caso che"), contenente l'indicazione dei sintomi, seguita da un'a­ podosi contenente un'indicazione terapeutica. A esempio: Se il cranio di un uomo ha una infiammazione, le sue tempie so­ no afflitte da SA.ZI (?) con turbamento dei suoi occhi, essendo i suoi occhi affetti da offuscamento, obnubilamento, disturbo, arrossamento (?), con le vene infiammate (?), e molto pianto, tu devi tritare in una macina l/3 di ka di lolium (e) spelta mon­ data, setacciare, quanto più puoi, e quindi prendere l/3 di kq, impastare in acqua di rose, radere a sua testa), applicare legando, e non toglierlo per tre giorni.2  3 . l 0 MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 77 La struttura implicativa del modulo assiro-babilonese può essere considerata struttura segnica (anche se non si parla esplicitamente di segno), con la particolarità che al li­ vello semantico è sostituito direttamente il livello praxeolo­ gico:21 il segno (propriamente, l'antecedente del condizio­ nale) suggerisce, senza mediazione, un comportamento. Questo modulo, comunque, estremamente arcaico, è tal­ volta rappresentato anche in alcuni dei trattati tecnico-tera­ peutici, che sono anche i più antichi del C.H. : in Malattie II A e nello stato arcaico (A) del trattato ginecologico Su/le malattie delle donne. Si tratta tuttavia di attestazioni spora­ diche, che sono presenti accanto a moduli diversi, centrati sulla relazione tra sintomatologia e malattia. Un discorso a parte merita il trattato Sulle affezioni in­ terne, dove il modulo espressivo di presentazione della ma­ lattia assume un carattere del tutto particolare. Esso è infat­ ti composto di tre elementi strutturali: (A) una prima pro­ posizione (o serie di proposizioni) introdotte da "se", dove è presentato un fenomeno interno, non visibile, da conside­ rarsi come "la causa" della malattia; (B) una seconda serie di proposizioni, introdotte dall'espressione tade paschei ("tali cose soffre il malato"), nella quale è presentata la sin­ tomatologia (i fenomeni rilevabili esternamente); (C) una terza serie di proposizioni che sono relative alle indicazioni terapeutiche. Avviene molto spesso che la parte A sia sdop­ piata in due: At (le cause dirette dei sintomi); A2 (le cause che hanno prodotto la malattia stessa). Ecco un esempio, tratto dal cap. 8, dove distinguiamo gli elementi strutturali: (At) Se (in) nel petto e nelle spalle si produce una rottura, (A2) fatto che si verifica soprattutto a causa di uno sforzo, (B) ecco i sintomi (tade [...] ptischez): tosse vivace, espettorazione talvolta sanguinolenta; di solito brividi e febbre; dolore acuto nel petto e nelle spalle. Il malato ha l'impressione che una pietra gli pesi sul fianco; i dolori lo trapassano come se lo si bucasse con un ago. (C) Stando così le cose, lo si farà ingrassare con il latte e subito si cauterizzeranno il petto e le spalle. (Littré 1839, VII, 186, 3-10)  78 3. l SEGNI NELLA MEDICINA GRECA Ciò che è interessante di questo modulo dal punto di vista semiotico è che l'inferenza tra i primi due elementi ("Se A, allora B") è non abduttiva (cioè dagli effetti alle cause), ma deduttiva. Ciò significa che l'accento è posto sul sistema, già preliminarmente ricostruito, delle cause che possono produrre determinati sintomi. Questo è il punto di vista del trattatista: nella pratica il medico risalirà invece dai sintomi alle cause. Si deve inoltre notare che Sulle affezioni interne presenta anche una sezione prognostica (D), collocata tra B e C oppure dopo C: il testo citato continuava con "In que­ sto modo il malato sarà molto presto guarito". Un altro termine di confronto per i moduli della medici­ na greca è quello rintracciabile nei testi egiziani. Le formule che questi ultimi adoperano sono diverse da quelle della medicina assiro-babilonese in quanto hanno anche una se­ zione dedicata alla diagnosi. Come Vincenzo Di Benedetto (1986: 91) ha mostrato, esse potevano essere divise in tre elementi strutturali: una prima sezione (A), introdotta dalla congiunzione "se", presenta la sintomatologia come il risul­ tato di un esame/visita del medico; una seconda sezione (B), sempre attraverso la messa in rilievo della parola del medico che fa la diagnosi, enuncia la causa; una terza sezio­ ne (C) presenta l'intervento terapeutico del medico. Vedia­ mo un esempio tratto dal papiro Ebers (scritto intorno al 1550 a.C.): (A) Se tu esamini un uomo che soffre al suo stomaco, tutte le parti del suo corpo sono appesantite come per l'insorgere della stanchezza: tu devi allora mettere la mano sul suo stomaco e lo trovi a mo' di timpano, in quanto va e viene sotto le tue mani. (B) Allora tu devi dire "è un'inerzia nel mangiare che non per­ mette che egli mangi dell'altro". (C) Allora tu devi preparargli un rimedio che svuoti (seguono le indicazioni degli ingredienti della ricetta). In questo caso si ha un andamento abduttivo: la sintoma­ tologia costituisce il punto di partenza per ricostruire il qua­ dro eziologico, cioè una realtà nascosta che deve essere in­ terpretata a partire dai dati esterni disponibili.  MODULI ESPRESSIVI ARCAICI 79 Tutti questi moduli, attraverso i quali si definisce la pre­ sentazione della sintomatologia medica, costituiranno una base di riflessione, rimanendo talvolta sullo sfondo, ma più spesso affiorando negli esempi, quando la filosofia cerche­ rà di definire la struttura formale del segno. PLATONE 4.0 Introduzione Platone è il primo compiuto erede della grande tradizione culturale che lo precede. Nelle sue opere tale tradizione dà luogo a un'ampia e articolata teoria del linguaggio, ma non produce, allo stesso tempo, una separata teorìa del segno, come invece avverrà in Aristotele e in genere nelle scuole fi­ losofiche successive. Si possono, però, osservare due fatti: da una parte l'ana­ lisi dei contesti in cui Platone usa termini scmiotici permette di ricostruire un can1po teorico di sfondo abbastanza omo­ geneo, i cui contorni definiscono il segno; dall'altra certi aspetti della stessa teoria platonica del linguaggio presenta­ no un carattere intrinsecamente semiotico, fatto che non si verificherà nelle teorie Enguistichc dei filosofi successivi. Esaminiamo separatamentc i due problemi. 4.1 I segni 4. 1 . 1 La comunicazione divina Raccogliendo la tradizione divinatoria, Platone parla di "segni" in tutti quei contesti in cui si instaura una comuni­ cazione tra dei e uomini (Repubblica, 382 e; Timeo, 71 a -  4.1 I SEGNI 81 72 b; Fedro, 244 b-e). In questi casi viene anche usato il ver­ bo smafno che, come abbiamo già visto, nell'ambito divi­ natorio non indica tanto il "significare", quanto l"'inviare un segno", vero tramite della comunicazione divina. Tale segno può essere un testo verbale, come il responso della Pi­ zia di Delfi, o anche un testo visivo, come lo sono le imma­ gini del sogno (Timeo, 71 e), o quelle impresse nel fegato che funziona come uno specchio (Timeo, 10 b). Il segno può anche essere rappresentato da un evento na­ turale, come il volo degli uccelli; ma in questo caso (che è quello più classico della divinazione tecnica) la comunica­ zione è troppo mediata per avere davvero alore e produce più opinione che conoscenza (Fedro, 244 c). In effetti, il ca­ so della comunicazione più efficace con il soprannaturale è quello del "segno demonico" di Socrate, che si manifesta come una "voce" interna (Fedro, 242 b-e; Apologia, 31 d) che parla direttamente al destinatario. 4. 1 .2 Il segno come "impronta nell'anima" In una seconda serie di contesti il segno appare come im­ pronta (tjpos), nel preciso senso in cui è un segno l'impron­ ta lasciata da un sigillo. Questa accezione è presente nel Teeteto (191 a - 195 b), dove, per la soluzione di problemi epistemologici, viene sviluppata la metafora dell'anima co­ me blocco di cera, su cui vanno a imprimersi i segni prodot­ ti dalle sensazioni (tOn aisthseon smefa). Questi segni, quando sono incisi profondamente, costituiscono la base per le elaborazioni della memoria e per la formazione della retta opinione. In effetti si crea falsa opinione in tutti quei casi in cui gli uomini si dimostrano incapaci di "assegnare ciascuna cosa al proprio segno'' (195 a), cioè di far combaciare il segno impresso nell'anima con la nuova sensazione, in quanto il rapporto che si viene a stabilire nel rinnovato processo per­ cettivo è lo stesso che si instaura tra "copie e originali" (apotypOmata kaì tjpous) (194 b).  82 4. PLATONE 4.1.3 I segni della scrittura Il tema della memoria, che abbiamo trovato accennato a proposito dei segni impressi nell'anima nel Teeteto, ritorna in maniera centrale nel Fedro (274 c - 276 a), quando l'at­ tenzione di Platone si focalizza sui segni della scrittura. Nel mito che Socrate racconta, infatti, i segni alfabetici sono un dono che il dio egizio Theuth offre al re di Tebe Thamus, invitandolo a diffonderli in tutto l'Egitto perché, secondo il dio, essi sarebbero stati "una medicina per la sapienza e la memoria" (Fedro, 274 e). Thamus però non accoglie senza riserve il dono di Theuth, convinto che i segni della scrittura abbiano un effetto contrario rispetto a quello previsto dal dio, indebolendo la memoria: gli uomini "fidandosi dello scritto richiamerebbero le cose alla mente non più dalPin­ terno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni (tjpol) estranei" (Fedro, 275 a). Sviluppando questo concetto, Socrate giunge a una con­ trapposizione tra "le parole scritte" e "il discorso scritto nell'anima": quest'ultimo è "vivente e animato", è scritto con la scienza ed è capace di selezionare i buoni destinatari; le parole scritte, invece, hanno solo l'apparenza della vita, ma in realtà sono capaci di dire una sola cosa e sempre la stessa, al pari delle immagini pittoriche che, se interrogate, "mantengono un maestoso silenzio"; inoltre si rivolgono in­ discriminatamente a tutti. Ma, posto il primato del discorso scritto nell'anima, si istaura tuttavia una relazione semiotica tra i due termini: come propone Fedro, le parole scritte possono essere consi­ derate "un'immagine (eldolon)" del discorso scritto nell'a­ nima (276 a); ciò nonostante esse rimangono segni estrinse­ ci, capaci solo di "rinfrescare la memoria di coloro che già sanno" (277 e). Si possono rappresentare questi rapporti se­ miotici con un triangolo (cfr. p. 83). La linea tratteggiata indica il fatto che per Platone le pa­ role scritte, di per sé, non permettono la vera conoscenza, che deve essere mediata dal discorso interiore, ma produco­ no solo opinione (275 b).  4.1.4 Il segno come inferenza 4.1 I SEGNI discorso scritto nell'anima 83  immagini { 8 /d lJI B ) parole scrrtte oggetti della conoscenza Infine, una serie di contesti ci presenta un uso del termine "segno" (stmeion, in alternanza con tekmrion) come indi­ cante un fatto, un evento, uno stato dal quale si può inferi­ re un altro fatto, evento o stato secondo il modello già in­ contrato nella divinazione mesopotamica e nella medicina greca (p::)q). Nel Teeteto (153 a), a esempio, si dice che il fatto per cui il movimento e lo sfregamento producono il calore e il fuo­ co, i quali a loro volta producono tutte le altre cose, è un se­ gno sufficiente (hikanòn stmeion) per argomentare che il moto produce l'essere e il divenire, mentre la quiete produ­ ce il non essere e il perire. Negli stessi termini si parla di se­ gno nell'Epistola VII (332 c), dove il fatto di avere o meno degli amici viene presentato come il più grande segno del carattere virtuoso o vizioso di una persona. Ancora, nel Gorgia (520 d-e) si definisce un bel segno (ka/òn stmeion) del successo ottenuto il fatto che chi ha reso un servigio ri­ ceva un adeguato contraccambio. In tutti questi casi il se­ gno è espresso da una proposizione legata da un rapporto implicativo con un'altra proposizione. Ma, su questa accezione basilare, si innesta l'idea del st-  84 4. PLATONE mefon come segno che serve a distinguere una certa cosa da tutte le altre. In un passo del Teeteto (208 c - 209 c) si dice che il segno distintivo del sole, sufficiente (hikan6n) per co­ noscerlo, è dato dal fatto che esso è il più risplendente tra tutti i corpi celesti che girano intorno alla terra. Natural­ mente la forma logica sottesa a questa formulazione super­ ficiale è quella implicativa ("Se un corpo celeste che gira in­ torno alla terra è il più risplendente di tutti, allora esso è il sole"). Ma a questo punto Platone si interroga sul valore episte­ mologico della conoscenza attraverso i segni, chiedendosi se cogliere il segno distintivo di una data cosa (''il segno onde la cosa di cui si domanda differisce da tutte le altre", 208 c), significhi cogliere anche la ragione (/6gos) di quella stessa cosa. L'interrogativo non è di piccola importanza e si può notare che esso riapparirà in Aristotele sotto forma di ricer­ ca dei rapporti tra il "segno" e la "causa" di un fenomeno. E, come farà Aristotele, anche Platone qui distingue il se­ gno dalla ragione di conoscenza (/6gos epistms), soste­ nendo che il segno contribuisce al formarsi della retta opi­ nione, ma non della conoscenza. 4.2 La teoria del linguaggio 4.2. 1 Carattere semiotico della concezione lingui­ stica di Platone Nella speculazione successiva a Platone, la teoria del se­ gno e quella del linguaggio verranno a costituire due ambiti completamente separati, che considereranno diversi gli og­ getti delle rispettive indagini, chiamandoli con nomi diversi (in Aristotele, a esempio, il segno linguistico sarà sjmbo­ lon, e non smefon). Nella filosofia platonica, invece, que­ sta divaricazione non si è ancora affermata, ma, al contra­ rio, si può notare che la sua teoria linguistica ha un caratte­ re spiccatamente semiotico.  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 85 In generale, nella cultura greca, il segno è concepito come un elemento percepibile che rimanda a (o permette di giun­ gere alla conoscenza di) un elemento che non è manifesto (adlon, aphanés ecc.); come abbiamo visto, del resto, nel caso della medicina e, prima ancora, della divinazione, il segno costituisce la mediazione tra il piano delle cose acces­ sibili ai sensi e il piano delle cose non accessibili. Proprio con questi caratteri si presenta il segno linguisti­ co nei dialoghi platonici (soprattutto nel Crati/o e nel So/i­ sta): esso è d/Oma ("rivelazione") di un oggetto non perce­ pibile (sia esso un "significato", sia esso l"'essenza" della cosa nominata). Costantemente il verbo smafno ("signifi­ co", "manifesto attraverso segni") si alterna al verbo d/60 (''rivelo", "manifesto") quando si parla di una forma espressiva che rimanda a un contenuto che non viene colto con i sensi. Ciò avviene a esempio in un passo del Crati/o (422 e), nel quale Socrate indaga la capacità che hanno i prO/a on6mata (gli elementi primi e irriducibili del linguag­ gio) di rendere evidenti (phanera) ciascuno degli enti: a que­ sto proposito li paragona ai segni gestuali dei muti, che so­ no capaci di indicare (smalnein) le cose con le mani, con il capo e con il resto del corpo, pur essendo impossibilitati a manifestarle (dlot2n) con il linguaggio verbale. A più riprese nel corso del Crati/o viene affermato il compito semiotico di "rivelazione" (d/Oma) che hanno gli elementi del linguaggio. Ma Platone distingue la rivelazione effettuata dai nomi da QUella effettuata dagli enunciati (Lo­ renz e Mittelstrass 1967: 8): questi ultimi, infatti, rivelano sempre qualcosa intorno agli oggetti (Sofista, 262 d), men­ tre soltanto i nomi "corretti" rivelano gli oggetti come sono (Crati/o, 422 d). Anzi, è proprio il carattere di rivelazione che riveste il nome a costituire il suo criterio di correttezza. Nel Sojzsta (262 a) il nome è definito espressamente "se­ gno vocale" (smefon tis phonis), espressione che è usata come equivalente a d/Oma e la cui funzione è quella di ma­ nifestare l'"essenza" della cosa nominata: "lo direi infatti che c'è un duplice genere dei nostri segni fonici (tii phonii [.. .] dlomaton) che indicano l'essere di qualche cosa" (So- fista, 261 e).  86 4. PLATONE Particolari combinazioni di questi "segni vocali" danno luogo agli enunciati (/6go1), facendo scattare un livello su­ periore. In effetti, nel Sofista viene preso in considerazione il problema che, in termini aristotelici, sarà descrivibile co­ me opposizione tra "semantico" e "apofantico". In Plato­ ne, questa si presenta come opposizione tra il livello ono­ mazein ("nominare") e il livello légein ("enunciare") (262 d). I singoli segni vocali, siano essi on6mata ("nomi") o rhimata ("verbi"), manifestano un contenuto nel momento in cui nominano qualcosa. Le corrette combinazioni di que­ sti segni vocali si situano a un diverso livello, perché, oltre a manifestare un contenuto, lo presentano come "essere il ca­ so" o "non essere il caso" di un determinato evento, stato o processo, cioè ne costituiscono un'asserzione (De Rijk 1986: 199-200). 4.2.2 La teoria linguistica del "Cratilo" Il problema fondamentale che viene affrontato nel Crati­ lo è quello della "correttezza dei nomi". Esso è posto fin dali'inizio del dialogo al centro di una disputa che oppone Cratilo a Ermogene e per la quale Socrate è scelto come giu­ dice. Complessivamente, nella discussione, Cratilo sostiene una tesi che possiamo definire "naturalista", mentre Ermo­ gene una tesi "convenzionalista"; ma le rispettive posizioni sono più stratificate e presuppongono alcune distinzioni. Innanzitutto c'è un primo livello di discorso che riguarda l'atto della nominazione in un momento del linguaggio che possiamo considerare aurorale. Per Ermogene tale atto è frutto di convenzione e nasce dali'accordo degli uomini, che già hanno una conoscenza preliminare delle cose. Per Cratilo, al contrario, l'atto della nominazione non presup­ pone alcun accordo tra gli uomini, ma avviene in maniera naturale. Un secondo livello di discorso è rappresentato dall'analisi dello stesso fenomeno trascurando il momento diacronico della formazione del linguaggio e focalizzando il rapporto di correttezza rintracciabile tra il nome e la cosa a cui esso è  4.2 LA TEORIA DEL LINOUAOOIO 87 applicato sincronicamente. In questo caso tanto Ermogene quanto Cratilo propongono la stessa soluzione, sostenendo che i nomi sono sempre correttamente riferiti alle cose. L'u­ nica differenza tra le due posizioni consiste nel fatto che per Cratilo la correttezza dei nomi segue una legge naturale, mentre Ermogene sostiene il carattere convenzionale delle regole che stabiliscono la correttezza, e adduce come prova il fatto che i nomi possono essere cambiati a piacere, senza disturbare tale rapporto. Un terzo livello di discorso, che scaturisce direttamente dal precedente, è quello che riguarda l'estensione della vali­ dità del rapporto di correttezza. Per Cratilo la correttezza del nome è "universale", vale tanto per i Greci, quanto per i barbari. Per Ermogene, invece, sembra che tale correttezza debba essere limitata alla comunità linguistica particolare che ha adottato la convenzione. Si possono distribuire questi dati su una matrice:        Ermogene Cratilo atto della nomina- zione primordiale frutto di accordo n aturale sempre presente sempre presente correnezza basata su leggi con- venzionali basata su leggi naturali validità del rap- porto di correnezza limitata alla comu- nitè inguistica particolare universale    Come abbiamo visto, entrambi i contendenti danno per scontato il carattere di correttezza dei nomi rispetto alle co­ se. Tuttavia ciascuno fornisce una risposta diversa alla do­ manda su chi garantisce la correttezza. La legge naturale,  88 4. PLATONE che ne è responsabile per Cratilo, focalizza il rapporto che si stabilisce tra il nome e gli oggetti che lo portano, senza che abbia alcuna importanza ciò che gli utenti del nome ne pensano. Al contrario, la convenzione, che per Ermogene è garanzia di correttezza del nome, è una regola che riguarda gli utenti del nome, senza che venga presa in alcuna consi­ derazione la natura dei portatori del nome stesso (Kretz­ mann 1971: 127). 4.2.3 Il problema linguistico e la dialettica Accanto a quelle di Ermogene e di Cratilo, nel dialogo è presente anche una terza teoria, sviluppata dallo stesso So­ crate attraverso la confutazione delle posizioni dei due con­ tendenti. Socrate, come al solito, è portavoce delle opinioni di Platone e le ragioni per cui egli rifiuta entrambe le altre posizioni sono da connettersi con la concezione generale del metodo della filosofia che propugna Platone. Infatti, se Cratilo o Ermogene avessero ragione, la via della dialettica, come mezzo per raggiungere la conoscenza, risulterebbe impercorribile (Weingartner 1969: 6). Platone prevede il linguaggio come mezzo necessario nella ricerca fi­ losofica, ma pensa anche che la verità vada cercata nelle co­ se e non nel linguaggio stesso, come suona appunto la con­ clusione del dialogo. Le teorie di Ermogene e di Cratilo mettono entrambe in pericolo questo principio. Vediamo brevemente in quale modo. La teoria di Ermogene si presenta all'inizio come una teoria "convenzionalista classica", sostenendo il principio secondo cui la convenzione e l'accordo costituiscono il cri­ terio di correttezza dei nomi (384 c-d). Tuttavia questa non è l'unica posizione che Ermogene sostiene e non è quella che è effettivamente attaccata da Socrate. Subito dopo Er­ mogene sostiene anche che, "qualsiasi nome uno imponga a una cosa, questo è quello corretto", precisando che, "se uno sostituisce quel nome con un altro, non usando più il precedente, il secondo nome non è affatto meno giusto del primo" (384 d). A questo punto Socrate costringe Ermoge-  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 89 ne a effettuare un cambiamento di focalizzazione e a preci­ sare che chiunque può operare questo cambiamento di no­ mi, non solo una comunità, ma anche un singolo individuo. Ne risulta una dottrina degli idioletti autonomi, tanto parcellizzati da coincidere con la parlata di un solo uomo, che fa scoppiare il convenzionalismo di Ermogene in un soggettivismo totale; tanto che Socrate non manca di met­ terlo in parallelo con il relativismo di Protagora (386 a). Questa "Humpty Dumpty position", come è stata arguta­ mente chiamata (Weingartner 1969: 7), fa perdere al lin­ guaggio la funzione comunicativa e rende impossibile la dialettica, in quanto non permette di distinguere tra enun­ ciati veri ed enunciati falsi. Tuttavia anche la posizione di Cratilo conduce, altrettan­ to perentoriamente, a una impossibilità della dialettica. Egli infatti elabora una teoria che ha le caratteristiche di un "iconismo assoluto": il nome rivela la natura della cosa che nomina, imitandola; ma questa imitazione è totale o è un nonsenso. La configurazione sonora, che si distaccasse an­ che per una piccola parte dalla perfezione deli'imitazione, verrebbe a essere niente di più che "il rumore che fa uno che agita un vaso di bronzo percuotendolo" (430 a). Poiché per Cratilo la produzione linguistica sembra dare luogo in certi casi a imitazioni corrette, in certi altri a dei nonsensi, in entrambe le evenienze la dialettica verrebbe ri­ dotta a uno strumento sprovvisto di senso. Se, a esempio, la ricerca dialettica cominciasse con il chiedersi "Che cos'è la giustizia?" e sperasse di raggiungere, nel corso del dibattito, la conoscenza dell'entità sotto indagine. Si presenterebbero allora due possibilità: (i) se l'espressione !giustiziai rivelasse naturalmente l'oggetto, che nomina, la ricerca finirebbe prima di cominciare; (ii) se invece essa fosse analoga al "ru­ more prodotto da un vaso di bronzo percosso", la domanda stessa non avrebbe senso. La dialettica, per quanto debba giungere a giudizi veri, deve avere la possibilità di enunciare giudi.zi falsi, che devono essere corretti nel corso del dibatti­ to. Ed è appunto questa possibilità che viene eliminata dalla teoria di Cratilo.  90 4. PLATONE 4 . 2 . 4 Il nome come strumento Uno dei punti fondamentali del dialogo platonico è costi­ tuito dalla ricerca di un criterio oggettivo che permetta di assegnare un valore di verità tanto agli enunciati quanto ai nomi. Per raggiungere adeguatamente questo scopo, Socra­ te sposta temporaneamente il discorso dal piano linguistico a quello ontologico, affermando che le cose (pragmata) hanno in loro stesse una stabile essenza e non dipendono dal giudizio soggettivo (386 e). Una tale caratteristica di oggettività è attribuita da Socra­ te anche alle azioni (praxeis), che al pari delle cose (pragma­ ta) sono delle specie di enti (onta). Infatti, dal momento che ci aspettiamo che le azioni abbiano certi effetti, esse non possono essere compiute arbitrariamente. Ma, per Socrate, anche il dire (légein) e il denominare (onomazein, che è una parte del dire), costituiscono delle forme di azione e, di con­ seguenza, devono essere compiute in maniera non arbitra­ ria. Possiamo illustrare questa serie di divisioni attraverso il seguente schema: enti (6nts) cose (pr8gmsta) l ""azioni (prAxtJis) /\ dire (/(lgein) /\  Nel resto del dialogo l'intuizione che il dire e il denomi­ nare costituiscono delle specie di azioni non verrà ulterior­ mente sviluppata, ma rimane comunque una importante in­ dicazione di una possibilità di sviiuppo in senso pragmatico che avrebbe potuto avere la linguistica greca. In questo contesto, lo scopo di mostrare che il linguaggio ha un legame oggettivo con la realtà, commisurato con il fi- denominare (onomAzein)  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 91 ne di raggiungere una comunicazione efficace, è perseguito attraverso il paragone del nome con uno strumento (orga­ non): proprio come la spola serve a sceverare la trama del tessuto, così il nome è "uno strumento didascalico e sceve­ rativo dell'essenza" (388 c). In altre parole, in primo luogo, i nomi operano una tassonomia della realtà, separando gli oggetti del reale, in maniera tale da rispettare le loro nature (Kretzmann 1971: 128); in secondo luogo i nomi permetto­ no di comunicare questa tassonomia. 4.2.5 Forma ("eldos") e materia del nome Se lo scopo dei nomi è quello di far acquisire la conoscen­ za delle cose e di comunicarla agli altri, è necessario che chi ha denominato la realtà (il "nomoteta", personificazione di un'autorità linguistica accettata), categorizzandola in una certa maniera, già ne possedesse una conoscenza prelimi­ nare. In effetti, per garantire la correttezza dei nomi, il nomo­ teta ha agito come il costruttore di spole. Come quest'ulti­ mo guarda ali'eidos ("forma", "idea") della spola, così il nomoteta, per costruire il nome, guarda al "nome in sé", cioè alla forma ideale del nome (389 b; 390 a). Allo stesso titolo, come non ogni materiale è adatto alla costruzione di uno strumento, ma è necessario usare la ma­ teria che meglio si adatta alla forma (a esempio il ferro per il trapano e il legno per la spola, e non viceversa), ugual­ mente sarà necessario che i nomi siano costruiti con suoni e sillabe, piuttosto che con altro materiale, se devono com­ piere bene la loro funzione. Tuttavia non sarà necessario che la forma fonica (direm­ mo: di superficie) dei nomi sia identica per tutte le lingue, ma ciascuna lingua suddividerà in modo diverso il conti­ nuum sonoro (nello stesso modo in cui non ogni fabbro adopera lo stesso ferro per lo stesso strumento atto allo stesso scopo) (389 e). In questo modo Platone spiega la di­ versità delle lingue, le quali pure, indistintamente, sono or­ ganizzate in maniera da rispettare i medesimi modelli. Ciò  92 4. PLATONE che varia da lingua a lingua è la materia, da interpretarsi co­ me la configurazione superficiale di nomi e di sillabe che as­ sume ciascun nome. Ciò che rimane costante è laforma (eidos, idéa) del nome che conviene a ciascuna cosa (390 a). Un modo di pensare a questa forma è quello proposto dali'interpretazione di Kretzmann (1971: 129-130), che la identifica con la funzio­ ne e lo scopo essenziali a ciascun nome, di separare le cose e di separarle in maniera da rispettare le loro giunture natura­ li. In questo modo, a esempio, il nome greco l hippos l o quelli barbari lchevall, lcavallol, lborsel, lPferdl ecc. saranno tutti corretti se riusciranno a ritagliare la realtà se­ condo le "naturali" giunture; e sembrerebbe esserci il pre­ supposto che tali giunture debbano essere le stesse per tutte le culture. Come si vede, Platone qui sta affrontando una questione che potremmo definire "hjelmsleviana",1 e così potremmo parlare, più che di funzione, come fa Kretzmann, di forma e sostanza, di espressione e contenuto, come fa Hjelmslev: la forma espressiva (la materia di Platone) può variare da lingua a lingua; ma, affinché il nome sia quello giusto, è ne­ cessario che la forma del contenuto (l'eidos o idéa di Plato­ ne) ritagli la materia del contenuto secondo le medesime ar­ ticolazioni. Cosi l hippos l , l cheval l , l cavallo l , l borse l , l Pferd l saranno tutti nomi giusti se ritaglieranno il conti­ nuum materiale del contenuto ("la cavallinità, all'interno dello spettro relativo agli animali) esattamente secondo le stesse giunture. Che poi l'elaborazione dei nomi debba essere messa in corrispondenza con una corretta tassonomia del continuum della realtà, da effettuarsi verosimilmente con il metodo della divisione (diairesis), è dimostrato dal fatto che spetta al dialettico, personificazione dell'autorità scientifica e filo­ sofica, giudicare se il lavoro dei vari nomoteti è stato fatto bene (390 d).  LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 93 4.2.6 La prima teoria semantica Seguendo l'interpretazione di Donatella Di Cesare (1981) si possono rintracciare nel Crati/o due diverse teorie seman­ tiche, che si riferiscono, la prima a una situazione di lin­ guaggio ideale, e la seconda a una situazione di linguaggio come realtà storicamente data. Esaminiamo brevemente la prima. A un certo punto del dialogo (393 d), infatti, Socrate so­ stiene che ciò che è veramente importante per il nome è di significare (smalnein) l'essenza della cosa (ousfa tofl prag­ matos), la quale viene chiaramente espressa (dJoumén) dal nome. Una volta che il nome esprime l'essenza della co­ sa, non ha nessuna importanza se vengono aggiunte o tolte delle lettere al nome. L'esempio che viene portato è quello del nome di una let­ tera dell'alfabeto, il bita: esso nomina la lettera l b l , ma a essa aggiunge ita (lel), tau (ltl) e alpha (lal); nonostante queste aggiunte, esso nomina correttamente il l b l , in quan­ to fa comparire il "valore" della lettera che doveva essere nominata. Un analogo ragionamento vale per tutti i nomi: essi sono corretti se nominano l'essenza della cosa di cui so­ no nomi. Il significato è, dunque, identificato con questa essenza della cosa. Più avanti (394 b-e) Socrate introduce un altro concetto, quello di djnamis ("valore"), che sembra anch'esso identifi­ carsi con il significato. Infatti egli sostiene che chi è vera­ mente pratico di nomi guarda al loro valore (djnamis), non lasciandosi sviare né da aggiunte né da trasposizioni di let­ tere. Cosi i nomi Astyanax ("Astianatte" = "signore della città") e Héktor (''Ettore" = "che tiene saldo"), pur avendo in comune solo la lettera l t l , significano la stessa cosa (tau­ tòn smalne1). Dunque il significato del nome è dato da entrambi gli ele­ menti, l'essenza della cosa nominata e la djnamis del nome: essi di fatto coincidono, in quanto il nome, attraverso il suo significato, deve esprimere la cosa che nomina. Si possono illustrare i rapporti tra nome, significato e cosa con il se­ guente triangolo:  4. PLATONE essenza della cosa = In effetti , come l03), per Platone il nome non "rispecchia" la cosa, ma solo la sua essenza, ed è questa la ragione per cui possono esserci nomi diversi per lo stesso oggetto. Del resto, per rispecchia­ re l'essenza della cosa, il nome deve "associare l'individuo al genere cui appartiene" (ibidem); fatto che corrisponde a quanto avevano sottolineato Lorenz e Mittelstrass (1967: 6- 8), con la loro attribuzione di una funzione predicativa al nome. Il significato specifico del nome, la sua dynamis, consiste allora neli'assegnare ciascuno degli oggetti al con­ cetto appropriato, o al genere che gli compete. Ed è rispetto a questa operazione che si può valutare oggettivamente la correttezza o meno del nome. Se ci soffermiamo a considerare i risultati della teoria del significato esposta nella prima parte del dialogo, vediamo che tutta la dimostrazione di Socrate è rivolta a mostrare la coincidenza della struttura linguistica con quella logico-on­ tologica: il linguaggio, attraverso i nomi, ritaglia il reale se­ condo le stesse giunture che quest'ultimo naturalmente pre­ senta. Così, imitando e rappresentando la struttura della realtà, il linguaggio costituisce una mediazione tra il mondo delle idee e quello sensibile. Del resto il nome rappresenta il genere stesso che può essere predicato di ciascuna cosa e che, inafferrabile in natura, si concretizza nella materia fo­ nica. dynamis  nome cosa sottolinea Donatella Di Cesare ( 1 98 1 : 94  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 95 Tuttavia, come dicevamo, l'identità descritta nella prima parte del dialogo non costituisce per Platone un dato di fat­ to, ma un obiettivo ideale. Infatti dalla parte finale del dia­ logo, che segue la digressione etimologica scaturirà una se­ conda e ben diversa teoria semantica. 4.2.7 La seconda teoria semantica In effetti, l'analisi etimologica svolta da Socrate nella parte centrale del dialogo, e la congiunta riflessione sull'ori­ gine del linguaggio, erano state intraprese per dimostrare la sostanziale identità tra la struttura linguistica e quella anto­ logica, in generale, e tra l'essenza dell'oggetto e la djnamis, in particolare. Ma il risultato a cui esse approdano è esatta­ mente l'op,posto: il linguaggio non rispecchia la struttura oggettiva del reale , ma piuttosto è espressione dell'idea che del reale si è formato il nomoteta. Il significato, dunque, viene a essere identificato con la rappresentazione del reale che si forma nel soggetto (Di Ce­ sare 1981 : 131), rappresentazione che è il risultato delle opi­ nioni, sensazioni, impressioni che vengono esercitate sul soggetto dagli oggetti della realtà. Pagliara (1956 a: 73) ave­ va del resto individuato questo passaggio da una prima a una seconda teoria semantica come analisi di due aspetti di­ stinti del fatto linguistico: (i) il rapporto tra il significante e l'oggetto, nella prima parte del dialogo; (ii) il rapporto tra il significante e il significato, nella seconda. In base alla seconda teoria, il triangolo che illustra i rap­ porti tra nome, significato e cosa dovrebbe avere una parti­ colare struttura (cfr. p. 96). Il linguaggio, dunque, non rispecchia il mondo delleidee, cioè l'essenza delle cose, ma piuttosto il mondo empirico: esso costituisce una realtà storica, che contiene la visione del mondo che avevano i primi nomoteti, quando tentarono di dare un ordine al reale, classificandolo e categorizzando­ lo, proprio servendosi dei nomi come "strumenti sceverati­ vi". Ciò non esclude, tuttavia, che si potrebbe arrivare a un adeguato rispecchiamento della realtà mediante il linguag-  96 4. PLATONE rappresentazione soggettiva = significato nome gio, qualora si raggiungesse una completa conoscenza delle cose. Di particolare interesse risulta poi il fatto che è prevista una precisa funzione mediatrice dell'anima, grazie alla qua­ le la teoria platonica si avvicina a quelle moderne, in cui il linguaggio viene riconosciuto come fatto psichico. Platone raccoglie qui l'eredità dei sofisti, che unici tra i filosofi pre­ cedenti avevano insistito sulla dimensione psichica del lin­ guaggio, in contrapposizione a quanti prevedevano la possi­ bilità per il reale di essere rispecchiato nel linguaggio in ma­ niera diretta e senza mediazione. 4.2.8 La mimesi La prima parte del dialogo era stata dedicata alla confu­ tazione della teoria convenzionalista. L'ultima parte è inve­ ce dedicata alla confutazione della teoria del rispecchiamen­ to sostenuta da Cratilo. Già la sezione centrale, dedicata al­ l'etimologia, ha portato alla conclusione che il linguaggio costituisce una rappresentazione soggettiva, fatto che, di per sé, contraddice la tesi di Cratilo. Tuttavia Socrate, per condurre ancora di più all'assurdo la tesi di quest'ultimo, solleva il problema della mimesi, proponendo provvisoria­ mente una definizione del nome come "imitazione con voce   cosa  4.2 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 97 di cosa che si imita; e colui che imita nomina con la voce ciò che imita" (423 b-e). Quel che è interessante è che anche l'imitazione sembra avere, in linea generale, un carattere semiotico: infatti l'imi­ tazione "svela" (dloi) l'essenza della cosa. Ma quello di imitazione non è un concetto pacifico e So­ crate lo indaga in tre diversi ambiti: (i) nel ritratto; (ii) nel caso dei doppi; (iii) nel caso del rispecchiamento "metafisi­ ca". Esaminiamo il primo caso. Tanto il ritratto quanto il nome possono essere messi a confronto con l'oggetto che imitano. Per Socrate si verifica allora il fenomeno per cui certi elementi presenti nell'origi­ nale possono risultare trascurati, come pure elementi assen­ ti possono risultare aggiunti. La copia ha dunque un carat­ tere di iconicità, ma presenta variazioni all'interno di un continuum. Questo, per Socrate, è lo stesso fenomeno che presentano i nomi, fatto che equivale a sottolineare il loro carattere segnico. Ma Cratilo non è della stessa opinione, in quanto pensa che i nomi debbano avere un carattere di so­ miglianza assoluta, in mancanza della quale non sono affat­ to tali. Ecco in schema le due posizioni:       Socrate Cratilo rapporto ..nome/oggetto• iconico icon ico carattere della mimesi continuo discreto    A questo punto Socrate introduce l'argomento del dop­ pio: se nella mimesi tutti i caratteri deli'originale venissero riprodotti, non si avrebbe una imitazione, ma una occor-  98 4. PLATONE renza identica dello stesso oggetto. Non si sarebbe dunque in presenza di un rapporto di rappresentazione, ma di un vero e proprio doppio, in una situazione in cui è impossibile stabilire quale è il rappresentante e quale il rappresentato. In altre parole, il nome possiede un carattere segnico pro­ prio in virtù di questa sua dissimiglianza rispetto all'oggetto cui rimanda. Il terzo caso considerato, che abbiamo definito come "ri­ specchiamento metafisico", pone in primo piano il tema dell'imitazione che il singolo suono compie di un singolo frammento della struttura del reale. La parola sklrots, che significa "durezza",ontrariamente a quanto ci aspette­ remmo se i suoni rispecchiassero in tutto le essenze delle co­ se, contiene al suo interno un /ambda ( I I I ), che esprime "mollezza" e "scivolosità". Dunque la parola imita la "du­ rezza" solo in parte, mentre in parte se ne discosta. Con ul­ teriori esempi, poi, Socrate mira a negare anche un'altra ipotesi, più fondamentale filosoficamente: quella secondo cui nel linguaggio venga rispecchiata la veduta eraclitea del­ la realtà come eterno flusso e movimento (41 1 c; 436 e); ciò infatti non si verifica perché, come sottolinea Socrate, nel linguaggio molte voci lessicali presentano la realtà come perfettamente immobile (437 c). 4.2.9 L'uso e la convenzione Dalle critiche che Socrate muove, soprattutto a Cratilo, scaturisce una proposta positiva. Avendo infatti osservato che il nome sklrots (''durezza") è inesatto, in quanto con­ tiene nel suo significante elementi che non corrispondono alla qualità della cosa designata, Socrate osserva anche che, nonostante ciò, esso adempie perfettamente alla sua funzio­ ne comunicativa: infatti i Greci si intendono quando tale nome viene usato. La responsabilità di questa comprensione è attribuita da Socrate ai due fenomeni dell'uso (éthos) e della convenzio­ ne (xynthk): questi fenomeni non circoscrivono soltanto un rapporto tra i due utenti del nome, ma si rintracciano  4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 99 anche a livello delle relazioni tra il nome e l'oggetto, cioè al livello denotativo (Kretzmann 1971: 138). L'idea che il no­ me sia "rivelazione" (d/Oma) dell'oggetto denotato non viene abbandonata, ma viene solo spostata la responsabilità di questa rivelazione dal rapporto di somiglianza tra i due termini, alla convenzione che li associa (435 a-b). Platone, tuttavia, non sostituisce semplicemente una con­ cezione convenzionalista a una in cui la semiosi avviene per somiglianza. Per lui la situazione ideale rimane quella in cui i nomi sono immagini che riproducono l'essenza degli og­ getti nominati; ma sono i limiti del linguaggio naturale che rendono necessario il ricorso all'accordo (435 b-e). Questo è del resto il punto in cui i commentatori hanno scorto un compromesso tra il convenzionalismo di Ermogene e il na­ turalismo di Cratilo. Nella chiusura del dialogo si deve rilevare anche uno spo­ stamento nella funzione assegnata al segno linguistico: c'è una accentuazione della funzione comunicativa a scapito di quella cognitiva. Il linguaggio non è uno strumento abba­ stanza valido per la conoscenza della realtà, per raggiungere la quale sarà necessario percorrere una via più diretta: quel­ la del ricorso alle cose stesse (439 b). Esso però si configura come un ottimo strumento per il buono svolgersi della co­ municazione interoggettiva. 4.3 La teoria linguistica deii'"Epistola VII" Un'interessante trattazione degli elementi coinvolti in una teoria del significato la si può trovare nell'Epistola VII, un testo attribuito a Platone, ma la cui autenticità è stata più volte messa in dubbio (Edelstein 1966). A molti è sem­ brato che essa non contenesse niente di veramente non pla­ tonico, e a ogni modo presenta un interesse intrinseco che induce a farne oggetto di un'analisi particolare. Nella sua parte centrale, la lettera contiene un passo teo­ rico (342 a - 344 d), in cui vengono indagati gli elementi che permettono di raggiungere e trasmettere la conoscenza. Si tratta anche, allo stesso tempo, di elementi che intervengo-  100 4. PLATONE no nel processo di semiosi. Il primo di questi è il nome (onoma); il secondo la definizione (/ogos); il terzo l'imma­ gine (efdo/on); il quarto la conoscenza (epistm); il quinto, infine, l'oggetto conoscibile (gnost6n) e veramente reale (althos 6n) (342 a-b). Questi elementi , secondo P interpretazione di Morrow (1935: 68), sono organizzabili secondo un ordine interno. Infatti, da una parte si possono collocare i fattori che costi­ tuiscono gli strumenti di conoscenza: i nomi, le definizioni, le immagini o diagrammi; dall'altra, in opposizione diame­ trale, si trovano gli oggetti conoscibili e reali. A mediare tra gli strumenti e l'oggetto della conoscenza si trova l'epist­ mt, che Morrow interpreta come "apprensione soggettiva", e che è ulteriormente suddivisa, come Platone dice più avanti (242 c), in retta opinione (a/ths doxa), conoscenza (epistm) (ritorna curiosamente come nome di una specie, quello che è il nome dell'intero genere) e ragione o intuizio­ ne (noas), del quale ultimo Platone precisa che è il più vici­ no al quinto fattore. Nella lettera si dice che questi tre elementi, che compon­ gono complessivamente l'epistémt e che devono essere con­ siderati come un unico grado, non risiedono "né nelle voci, né nelle figure corporee, ma nelle anime (en psychais)", fat­ to che, come Platone sottolinea, li distingue sia dall'oggetto reale, sia dagli strumenti di conoscenza. Il richiamo ali'ani­ ma, che può essere messo in parallelo con il ruolo assegnato all'anima nella seconda teoria semantica del Crati/o, induce ad accostare questa nozione di epistm alla nozione di si­ gnificato; fatto che del resto può venir confermato se leg­ giamo il passo con l'ottica della tradizione posteriore, so­ prattutto aristotelica, che colloca il significato esattamente nell'anima (tà en tii psychr) (De interpreta/ione, 16 a). Possiamo distribuire i cinque elementi sul triangolo se­ miotico nel modo illustrato alla p. 1 0 1 . Tutto l'interesse del passo è orientato a mostrare il carat· tere difettoso degli strumenti di conoscenza. E, per suggeri­ re come si può ovviare a questo inconveniente, Platone ela­ bora una dottrina che è molto vicina alla teoria di Peirce della semiosi come "fuga di interpretanti". Vediamola at-  TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 101 4. apprensione soggettiva ( epistml)   3. immagine- (efdDion) 2. definizione (/6gos) l intuizione (noùs) l conoscenza (epistmlJ} l retta opinione (allfths d6xa) 6. oggetto conoscibile (gnst6n) e veramente reale (sleth;;s 6n) 1 . nome (6noms) traverso l'esempio stesso che fa da filo conduttore al discor­ so platonico. Si tratta deli'esempio del "cerchio", non a caso di carat­ tere matematico. Non è difficile per Platone mostrare che il referente dell'espressione l cerchio l non è un oggetto del mondo reale, sottoposto al divenire e alla corruzione, ma è un'entità di altro tipo. A essa non si può arrivare se non passando attraverso l'intera serie dei gradi preliminari e, so­ prattutto attraverso un processo di continua sostituzione dell'uno con l'altro: "trascorrendo continuamente fra tutti questi, salendo e discendendo per ciascuno di essi, si può, quando si ha buona natura, generare a gran fatica la cono­ scenza" (343 e). Ciascun elemento, di per sé incompleto (co­ me lo sono gli interpretanti di Peirce), contribuisce al rag­ giungimento della conoscenza se inserito in questo processo instancabile di sostituzione e di confronto. Questo processo di continua sostituzione permette di ovviare all'imperfezio­ ne degli strumenti.  102 4. PLATONE In effetti il carattere di imperfezione del nome è dovuto al fatto che, come sappiamo dal Crati/o, nel linguaggio sto­ ricamente dato esso non è l'immagine della cosa che nomi­ na, ma è legato alla convenzione. Questo, secondo l'autore ' Epistola VII, gli toglie stabilità, in quanto potremmo dell usare l'espressione l linea retta l per riferirei alle cose circo­ lari e l'espressione l cerchio l per designare la linea retta, senza provocare cambiamenti nelle cose stesse (343 a-b). Si può ricorrere allora alla definizione del cerchio come "quella figura che ha tutti i punti distanti dal centro" (342 b); ma anch'essa, per quanto aggiunga qualcosa, risulta composta di nomi e di verbi e dunque presenta difetti ana­ loghi a quelli incontrati a proposito dei nomi. Tra l'altro, sottolineare che la definizione è "formata di nomi e di ver­ bi" significa accentuarne il carattere di significante, piutto­ sto che quello di significato. Essa è semplicemente un'altra espressione, che può essere sostituita, nel processo conosci­ tivo e/o semiosico, al nome. Del resto, alla possibilità di una sostituzione tra nomi, Platone aveva già accennato, presupponendo l'intercambiabilità di l cerchio l (kyklos), l rotondo l (strongylon), l circolare l (peripherés) (242 b-e). Qualcosa ancora viene aggiunto dal terzo livello, quello rappresentato dagli eldola ("immagini"). Qui il cerchio è conosciuto come "quello che si disegna e si cancella, che si costruisce al tornio e che perisce" (242 c). Si tratta della so­ stituzione di un interpretante iconico ai precedenti interpre­ tanti verbali: per capire che cosa è il cerchio in sé, non sono necessarie solo le spiegazioni verbali, ma anche le illustra­ zioni e le astensioni. Anche a questo livello la conoscenza presenta un carattere incerto, in quanto incontra oggetti in cui l'essenza (tò 6n) risulta inquinata dalla qualità (tò poi6n 11), cioè da proprietà accidentali e contrarie, talvolta, alla vera natura del suo referente metafisica: infatti per ogni punto del cerchio può essere costruita una tangente (343 a), tale che, isolando quel brevissimo tratto, non si saprebbe se esso fa parte di un cerchio o di una retta (Taylor 1912: 361). Il passo teorico deli'Epistola VIl si chiude ritornando su un concetto assai vicino a quello della semiosi illimitata, an­ che se ovviamente modulata in chiave platonica: "mentre  4.3 TEORIA LINGUISTICA DELL'«EPISTOLA Vll» 103 ciascun elemento (nomi , definizioni , immagini visive e per­ cezioni), in dispute benevole e in discussioni fatte senza ostilità, viene sfregato con gli altri, avviene che l'intuizione e l'intellezione di ciascuno brillino a chi compie tutti gli sforzi che può fare un uomo" (344 b-e). La metafora dello "sfregamento", con cui il passo si av­ via alla conclusione, è funzionale sia all'idea epistemologica dell'improvviso accendersi e brillare deli'intuizione, sia an­ che all'idea semiotica che il senso finale non lo si ottiene at­ traverso l'immediata e semplicistica sostituzione di un signi­ ficante con un significato, ma attraverso una strategia di mosse successive e ripetute, come sono quelle appunto del processo di semiosi illimitata. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.0 Introduzione Con Aristotele vengono a inaugurarsi nella storia del se­ gno alcuni fatti nuovi, destinati ad avere una notevole du­ revolezza. Il primo di questi riguarda l'ampia e profonda opera di normalizzazione teorica che Aristotele compie nei confronti del lessico delle scienze e delle pratiche professio­ nali che avevano fatto riferimento ai segni e al sapere con­ getturale in genere. Il vasto alone semantico, l'alternanza di usi forti, o pregnanti, e di usi deboli che aveva caratteriz­ zato per tutto il V secolo termini quali smefon, tekmirion, aitia, pr6phasis, eik6s negli scritti medici, nella storiogra­ fia, nella stessa letteratura filosofica, viene piegato alle esi­ genze di una definizione categoriale, che fissa gli usi esatti dei termini e ne delimita e separa i campi nozionali. L'operazione, come rileva Lanza (1979: 107), non ha che un successo parziale nella pratica linguistica, in quanto è solo sul piano teorico che Aristotele riesce a rendere rigoro­ se e rigide le distinzioni, proposte in due passi paralleli dei Primi analitici e della Retorica; 1 ma, nella stessa prosa del­ la Retorica e in generale nelle opere che trattano di argo­ mento scientifico, come ha fatto rilevare Le Blond (1939, ried. 1973: 241), l'uso dei vari termini del lessico semiotico­ gnoseologico resta fluido e i termini spesso vengono impie­ gati senza speciali sfumature di significato. Ciò non con­ traddice, tuttavia, il fatto che la revisione terminologica, da un punto di vista teorico, sia stata profonda e abbia inau-  5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 105 gurato una solida tradizione, che continuerà nella trattati­ stica successiva, fin nella retorica romana del I secolo d.C. Del resto le esigenze di distinzione teorica non si limite­ ranno a intervenire con un'operazione normalizzatrice sul lessico, ma entreranno anche nel vivo delle concezioni pro­ fonde coinvolte dal sapere congetturale. Abbiamo infatti visto come il dominio del tempo fosse centrale tanto nel sapere ascientifico della mantica quanto in quello protoscientifico della medicina. La conoscenza contemporanea del passato, del presente e del futuro era un elemento essenziale, sebbene secondo modalità diverse, in entrambi questi ambiti di sapere. Aristotele riprende, concettualizza e piega alle esigenze della classificazione teorica anche tale aspetto. Infatti, nella classificazione dei tipi di discorso proposta nella Retorica, Aristotele individua in primo luogo due ca­ tegorie di destinatari dei discorsi: colui che osserva (theo­ ros) e colui che decide (krits). Il primo agisce nella dimen­ sione del presente ed è il tipo di pubblico che assiste al di­ scorso epidittico o celebrativo. Il secondo, invece, può agi­ re nelle altre due dimensioni del tempo proprie degli altri due generi di discorso: il giudice (dikasts) decide sul passa­ to; il membro dell'assemblea (ekklsiasts) sul futuro.2 Co­ me osserva giustamente Lanza (1979: 102), la classificazio­ ne è totalmente estrinseca ali'oggetto considerato, ma è chiaro l'intento aristotelico di congiungere la ripartizione canonica dei tipi di discorso con le tre dimensioni del tem­ po che fin dall'epoca di Omero appaiono associate agli am­ biti di manifestazione, esoterico o tecnico, del sapere. 5.1 Teoria del linguaggio e teoria del segno 5 . 1 . 1 Il triangolo serniotico Il secondo fatto importante, inaugurato dalla riflessione aristotelica, è quello che riguarda la disarticolazione, e la conseguente trattazione separata, della teoria del linguag-  }()6 5. UNGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE gio e della teoria del segno. Si tratta di un fatto che desta sorpresa e che appare molto rilevante proprio perché nelle teorie semiologiche moderne è assolutamente dato per scontato che i termini del linguaggio verbale sono dei "se­ gni": anzi, secondo un certo strutturalismo, sono i segni per eccellenza, e non sono stati pochi coloro che sono arri­ vati ali'eccesso di pensare che essi potessero fornire il mo­ dello anche per gli altri tipi di segno. In Aristotele, invece, gli elementi su cui si costruisce una teoria del linguaggio ricevono il nome di sjmbola, mentre gli altri elementi di una teoria del segno vengono denomi­ nati smeia o tekmiria.3 In realtà, come vedremo, la teoria del segno propriamen­ te detto è articolata alla teoria del sillogismo e riveste un in­ teresse sia logico sia epistemologico. Il segno è, infatti, al centro del problema delle modalità di acquisizione della co­ noscenza, mentre il simbolo linguistico è connesso princi­ palmente al problema dei rapporti che si instaurano tra le espressioni linguistiche, le astrazioni concettuali e gli stati del mondo. È nel De interpreta/ione che Aristotele espone la sua teo­ ria del simbolo linguistico, articolandola secondo uno sche­ ma a tre termini: i suoni della voce, che sono i "simboli" delle affezioni dell'anima, le quali, a loro volta, sono le im­ magini degli oggetti esterni: Ordunque, i suoni della voce (tà en tii phoniz) sono simboli (symbola) delle affezioni che hanno luogo nell'anima (tOn en tii psychii pathmatOn), e le lettere scritte (graphtJmena), sono simboli dei suoni della voce. Allo stesso modo poi che le lettere non sono le medesime per tutti, così neppure i suoni sono i me­ desimi; tuttavia, suoni e lettere risultano segni (smela), anzi­ tutto, delle affezioni dell'anima, che sono le medesime per tutti e costituiscono le immagini (homoi6mata) di oggetti (pragma­ ta), già identici per tutti. (Arist., De int., 16 a, 3-8) Bisogna innanzitutto dire che il fatto di incontrare il ter­ mine smeia come apparente sinonimo di sjmbola non si­ gnifica affatto che le due espressioni siano intercambiabili:  5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 107 in realtà in questo passo Aristotele usa il termine smefon in un'accezione debole, che ci conferma appunto la tenden­ za a un uso sfumato delle espressioni del lessico semiotico, quando non sia in questione la costruzione del sistema di demarcazioni teoriche. In secondo luogo qui Aristotele usa smeia per dire che l'esistenza di suoni e lettere può essere considerata come indizio deli'esistenza parallela di affezio­ ni dell'anima. A ogni modo, è possibile costruire, trascurando il livello grafematico, un triangolo semiotico di questo tipo: 1 ) affezioni dell'anima (psthlimsts sn tlii psychliil 2) pensteri (nomat8)  rapporto convenzionale motivato ra ppo rto ( sn ti phntl (prSgmsta) suoni della voce oggetti esterni Come si può osservare, diverso è il rapporto tra le coppie di termini appartenenti alla triade: tra suoni e stati d'animo c'è un rapporto immotivato e convenzionale, in quanto gli stati d'animo sono uguali, secondo Aristotele, per tutti gli uomini, ma essi vengono espressi in maniera diversa a se­ conda delle varie lingue e culture, esattamente come avvie­ ne per le forme scritte;4 invece tra gli stati d'animo e gli og­ getti c'è un rapporto di motivazione, che appare addirittura iconico, in quanto i primi sono le immagini dei secondi. Bi­ sogna precisare che sarebbe scorretto identificare in manie­ ra diretta la tesi della convenzionalità degli elementi del lin­ guaggio, cui aderisce Aristotele, con la tesi deli'arbitrarietà  108 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE del segno linguistico sviluppata da Saussure. In realtà nella teoria saussuriana esiste un rapporto arbitrario tra due en­ tità strettamente interne al linguaggio: il significante e il si­ gnificato sono le due facce del segno, in quanto unità lin­ guistica. In Aristotele troviamo invece un rapporto conven­ zionale tra elementi del linguaggio (il nome, il verbo, il 16- gos) ed elementi che propriamente non appartengono al lin­ guaggio, in quanto sono entità psichiche. Si deve inoltre ri­ levare che la teoria linguistica elaborata da Aristotele non si esaurisce nei testi di prevalente interesse logico, quali il De interpreta/ione, ma continua anche nei testi di interesse estetico: in questi ultimi, dove prevale la funzione poetica del linguaggio, il principio della convenzionalità viene in parte attenuato (Belardi 1975: 75 e passim). 5.1.2 I "suoni della voce" Ciascuno dei termini posti ai vertici del triangolo presen­ ta aspetti degni di nota e spesso non privi di problematicità. Per cominciare, che cosa intende Aristotele con l'espressio­ ne tà en tii phonii? A questa domanda vi sono risposte di­ verse. Donatella Di Cesare (1981: 161) sostiene che Aristotele attribuisce a questa espressione lo stesso valore che Saussu­ re dà al termine "significante" quando spiega la natura del segno linguistico. Belardi (1975: 198), invece, aveva sostenuto che tà en tii phonii doveva riferirsi non ai significanti, ma alle "espres­ sioni linguistiche" intese nella loro forma compiuta di 6no­ ma (nome), rhima (verbo), /6gos (discorso), come pure di kataphasis (affermazione) e ap6phasis (negazione); le ra­ gioni di questa scelta si basano sul fatto che questi elemen­ ti, facenti parte del programma di analisi di Aristotele, ven­ gono definiti "simboli" delle affezioni dell'anima (An. Pr. , 16 a, 25; 24 b, 2). Ora è indubbio che Aristotele intenda con l'espressione "suoni della voce" qualcosa che sottolinea molto chiara­ mente la veste fonica e il carattere di "significante". Tutta-  5.1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 109 via si deve anche sottolineare che l'ottica con cui Aristote­ le, almeno neli'Organon, guarda ai fatti di linguaggio sem­ bra diversa da quella saussuriana. Infatti Aristotele è qui interessato a saggiare le possibilità e le garanzie deli'uso del linguaggio neli'analisi della realtà. Tali garanzie sembrano esserci quando si dia una reciproca­ bilità tra i due ambiti del linguaggio e del reale. Ora, posto che per Aristotele la simbolicità del linguaggio nei confron­ ti del reale è sempre di secondo grado, in quanto il nome sta per un'immagine, la quale è appunto immagine di una cosa, sul vertice sinistro del triangolo deve stare qualcosa che (per gli scopi logici perseguiti nel De interpreta/ione) sia intercambiabile con ciò che si trova al vertice superiore. Da qui deriva l'uso della nozione di sjmbolon, che Ari­ stotele riprende da una tradizione risalente fino a Democri­ to (D-K, 68, B 5, 1). Le ragioni che permettono la specializ­ zazione di questo termine nel senso di indicare le espressio­ ni linguistiche convenzionali, sono connesse alla sua etimo· logia. Nella lingua greca, infatti, il termine sjmbolon indica ciascuna delle due metà in cui viene spezzato un oggetto (a esempio un astragalo, una medaglia, una moneta) in ma­ niera intenzionale, affinché possano servire, in un momen­ to successivo, come segno di riconoscimento, o come prova di una certa cosa (Belardi 1975: 198; Eco 1984: 199): il fat­ to che le due metà riescano a combaciare perfettamente vie­ ne a indicare la presenza di un rapporto precedentemente istituito (a esempio un rapporto di ospitalità, di amicizia, di paternità), la cui documentazione è affidata appunto alla congruenza perfetta dei due sjmbola. Si viene in effetti a realizzare una situazione in cui ciascuna delle due parti può scambiarsi di posto con l'altra, senza che venga a perdersi il valore di prova. Così dal momento che ciascuna parte pre­ suppone l'altra, o stabilisce con l'altra una stretta corri­ spondenza, l'espressione sjmbolon viene ad acquisire il si­ gnificato di "ciò che sta per qualcos'altro". Ma il fatto che venga preferita nel contesto della teoria linguistica aristote­ lica la parola sjmbolon all'espressione smefon (che pure indica uno "stare per") induce a indagare su una possibile  LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE specificità del rinvio istituito dal simbolo. In effetti, nel ca­ so del segno, i due termini del rinvio (che, come vedremo, è una implicazione) non sono sempre reciprocabili: un primo termine può rimandare a un secondo, senza che necessaria­ mente il secondo rimandi al primo. Nel caso del simbolo, invece, i due termini sono perfettamente reciprocabili; non è un caso che sjmbo/on dal III secolo a.C. al III d.C. sia attestato anche nel senso di "ricevuta", talvolta redatta in duplice copia: le due parti hanno, per cosi dire, lo stesso valore. Questo aspetto etimologico è presente neli'uso che in particolare Aristotele fa dell'espressione sjmbolon nel De interpreta/ione: i nomi ono simboli degli stati d'animo nel preciso senso che si realizza, previo un accordo (synthk), un combaciare perfetto tra di loro e una perfetta intercam­ biabilità, che garantisce la correttezza del nome stesso (Be­ lardi 1975: 199). In quanto sjmbolon, il nome non è più dloma ("rivela­ zione"), come lo era per Platone: in Aristotele il nome è "suono della voce significativo per convenzione" (phon s­ mantik katà synthkn) (De int., 16 a, 19). Questo marca il passaggio da una linguistica che conservava un carattere semiotico, come quella platonica, a una linguistica che non parla più di segni e che è intrinsecamente non semiotica. Mentre per Platone le espressioni linguistiche erano segni che "rivelano" qualcosa di non percepibile (l'essenza del­ l'oggetto o la djnamis), per Aristotele esse sono simboli che stabiliscono convenzionalmente una pura relazione di equivalenztr tra i due correlati, senza alcuna preoccupazio­ ne che l'un termine "riveli" l'altro. 5 . l . 3 Il linguaggio degli animali Del resto, l'opposizione convenzionalelnaturale6 permet­ te di distinguere anche tra il linguaggio umano e i suoni emessi dagli animali,7 questi ultimi essendo, per altro, ugualmente (i) vocali e (ii) interpretabili. Già la nozione di "voce" (phon) presenta alcune interes-  5. 1 TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 1 1 1 santi particolarità. Nel De anima si dice che un suono può essere definito una "voce" quando: (i) sia emesso da un es­ sere animato (II, 420 b, 5); (ii) sia dotato di significato (s­ mantik6s) (Il, 420 b, 29-33). Ora, i suoni emessi dagli ani­ mali, per quanto definiti ps6phoi (''rumori"), hanno tutta­ via le due precedenti caratteristiche. Ciò che li distingue dalle voci emesse dagli uomini sono due fattori: (i) non sono convenzionali (e di conseguenza non possono essere né simboli né nomi), ma sono "per na­ tura" (De int., 16 a, 26-30); (ii) sono agrammatoi, cioè "inarticolabili" o "non combinabili" (ibidem, e Pot., 1456 b, 22-24). La nozione di "combinabilità", del resto, come mostra Morpurgo-Tagliabue (1967: 33 e sgg.), è al centro stesso del carattere di semanticità del linguaggio umano, i cui suoni semplici (adiafretoi, "invisibili") possono articolarsi in uni­ tà più grandi dotate di significato.8 Gli animali, invece, emettono solo suoni indivisibili, ma non combinabili (Pot., 1465 b, 22-24). Si possono illustrare riassuntivamente i caratteri del lin­ guaggio umano in contrapposizione ai suoni emessi dagli animali, attraverso il seguente schema: linguaggio umano - per convenzione - elementi indivisibili combi- nabili e elementi divisibili - lettere - elementi dotati di signifi- cato - simboli - nomi suoni degli animali - per natura - elementi indivisibili non combinabili - non lettere - elementi che rivelano (d- loflsl) qualcosa - non simboli - non nomi Si deve rilevare, tra l'altro, che la semanticità dei suoni emessi dagli animali è espressa dal verbo dlofìsi (''rivela­ no", De int., 16 a, 28), fatto che conferma l'idea che per Aristotele, quando non sia in gioco la convenzione, come nel caso del linguaggio degli animali, torna di nuovo in pri­ mo piano il carattere semiotico d'una espressione. I suoni degli animali sono sintomi che rivelano la loro causa.  1 12 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5. 1 .4 Le "affezioni dell'anima" Ritornando poi al triangolo aristotelico della significa­ zione, la seconda nozione degna di rilievo è quella di pathmata en tii psychi. Si noterà che, dove ci si aspetterebbe la nozione di "significato", troviamo invece un'entità psichi­ ca, qualcosa che non è posto all'interno del linguaggio, ma nella mente stessa degli utenti del linguaggio. Per di più le affezioni dell'anima concepite da Aristotele, pur configu­ randosi come eventi psichici, non sono affatto individuali: si tratta piuttosto di elementi che, come dice Aristotele, so­ no identici per tutti, fatto che connette la teoria del lin­ guaggio con una sorta di psicologia sociale, se non addirit­ tura universale, piuttosto che individuale (Todorov 1977: 16). In secondo luogo è necessario rilevare una sorta di ambi­ guità che si trova nella nozione posta al vertice superiore del triangolo. Infatti Aristotele dice che i pathimata en tii psychii sono le immagini (homoiomata) degli oggetti esterni: con ciò in­ tende che tra gli oggetti e le entità psichiche c'è lo stesso rapporto che esiste tra l'originale e la copia. Tuttavia, poi, per indicare la rappresentazione mentale usa anche, più avanti, l'espressione noma ("pensiero", "nozione", 16 a, 10): ma, in questo secondo caso, precisa che i pensieri, sot­ to certe condizioni, possono essere veri o falsi. Da ciò con­ segue che i nomata vengono concepiti come forme di giu­ dizio . Si tratta di due nozioni completamente diverse, e il fatto che venissero entrambe messe in rapporto con le medesime espressioni linguistiche aveva fatto pensare a un loro uso si­ nonimico, che risultava aporetico. In realtà, come ha messo in evidenza Belardi (1975: 109), nessuna delle due nozioni esaurisce da sola il livello della rappresentazione psichica, ma esse rimandano a due facoltà differenti dell'anima: i pathtnata rimandano a una facoltà passiva dell'anima, quella di subire impressioni dagli oggetti del mondo ester­ no; i nomata rimandano a una facoltà attiva, quella di ela­ borare giudizi. Questa relazione è del resto confermata dal  5.l TEORIA DEL LINGUAGGIO E DEL SEGNO 113 rinvio che Aristotele fa al De anima, trattato nel quale non vengono discussi solo i pathimata, ma anche le altre fa­ coltà. 5.1.5 Semantico e apofantico Non si può, a questo punto, non fare un cenno (anche se, di necessità, breve) a una distinzione che si affaccia, nel pensiero linguistico di Aristotele, tra la categoria del "se­ mantico" e quella dell'"apofantico". Nel De interpretatione (16 a, 9 e sgg.) viene aperta la problematica circa la diffe­ renza tra phasis (il semplice "detto") e kataphasis (!'"affer­ mazione"). I nomi (ma così anche i verbi) in sé costituisco­ no un "detto", ma non possono da soli costituire un'affer­ mazione o una negazione. Correlatamente, vengono distin­ ti due tipi di rappresentazioni mentali (noimata): l . quella "che prescinde dal vero e dal falso"; 2. quella "cui spetta necessariamente o di essere vera o di essere falsa". Ciò che in realtà viene a essere contrapposto è la nozione di significato rispetto a quella di condizioni di verità. Al primo tipo di rappresentazione, infatti, corrispondo­ no i nomi (e anche i verbi) presi da soli, i quali possono avere un significato, ma non hanno condizioni di verità. Ciò è provato da Aristotele mediante la scelta di un caso particolare: il termine "ircocervo" (traghélaphos). Esso "si­ gnifica bensì qualcosa" (cioè una commistione mostruosa tra un caprone e un cervo), ma non può essere detto vero o falso. Il "qualcosa" a cui si riferisce qui Aristotele indivi­ dua appunto la dimensione della semanticità pura, regolata da leggi diverse da quelle della referenzialità. Al secondo tipo corrispondono, invece, quelle entità che hanno la dimensione linguistica della proposizione: è quan­ do si passa agli enunciati affermativi e negativi che diviene possibile parlare di verità o di falsità. È solo in questo caso che diviene possibile parlare di apofanticità come dimensio­ ne aggiuntiva (non contrappositiva) rispetto a quella se­ mantica. Ma qual è il mezzo specifico per passare dalla dimensio-  1 14 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE ne semplicemente semantica a quella apofantica? Non ci sono dubbi che esso consiste nell'uso del verbo come predi­ cato. Del verbo Aristotele valorizza essenzialmente la fun­ zione predicativa, quando, parlando del giudizio, riduce il verbo a !copula + predicatol: "non c'è differenza", sostiene egli infatti, "tra dire: l'uomo cammina, e dire: l'uomo è camminante" (De int. , 21 b, 9-10). In effetti il verbo viene qui concepito come nome assunto in funzione predicativa (Morpurgo-Tagliabue 1967: 62). Tuttavia, affinché il verbo possa esplicare questa sua funzione occorre che esso sia congiunto a qualcos'altro (cioè a un nome); preso da solo, cioè quando la sua funzio­ ne predicativa non può dispiegarsi, esso non può affermare alcunché (De int., 16 b, 19-25). L'incapacità del verbo preso da solo, ad affermare l'esi­ stenza di una certa cosa (cioè a fare asserzioni) è dimostrata da Aristotele con il ricorso all'esempio del verbo "essere": nemmeno esso preso da solo è capace di affermare che una cosa è. Così commenta Eco (1984: 25): "Pertanto, quando Aristotele dice che neppure il verbo essere da solo è segno dell'esistenza della cosa, vuoi dire che l'enunciazione isola­ ta del verbo non è indizio che si stia affermando l'esistenza di qualcosa: perché il verbo possa avere tale valore indiziale occorre che sia congiunto gli altri termini dell'enunciato, il soggetto e il predicato (e quindi il verbo l essere l è indizio di asserzione di esistenza, o di predicazione deli'inerenza attuale di un predicato a un soggetto, quando appaia in contesti come lx è yl oppure lx èl , nel senso di "x esiste di fatto)". 5.2 La teoria del segno 5.2.1 La definizione Completamente irrelata rispetto alla teoria del linguag­ gio, in Aristotele la dottrina del segno si pone nel punto di intersezione tra logica e retorica e i segni sono trattati tanto nei Primi analitici quanto nella Retorica.  5.2 LA TEORIA DEL SEGNO 115 Allo stesso tempo, la nozione di segno presenta due aspetti fondamentali: da una parte infatti ha un interesse epistemologico e antologico, in quanto si configura come strumento di conoscenza, che deve servire a condurre l'at­ tenzione dei soggetti conoscenti a operare un passaggio da un fatto a un altro (Todorov 1977: 19; Simone 1969: 91); dall'altra ha un carattere prettamente logico, in quanto è dotato di un meccanismo formale che presiede al suo fun­ zionamento. La definizione generale del segno (smeion) è data nei Primi analitici (II, 70 a, 7-9). Di questo passo esistono di­ verse traduzioni (Colli 1982: 252; Todorov 1977: 19 ecc.); ma quella che sembra individuare nel modo più soddisfa­ cente il significato del passo è quella di Preti (1956: 5): Quando, una cosa essendo, un'altra è, oppure quando una cosa divenendo, un'altra diviene anteriormente o posteriormente, queste ultime sono segni del divenire o dell'essere. La sottolineatura che abbiamo effettuato intende mettere in risalto appunto la specificità deIl'interpretazione di Pre­ ti, che restituisce al passo aristotelico tutta la sua carica di problematicità e la complessità, che appunto gli ulteriori sviluppi, a opera delle scuole successive, della dottrina del segno metteranno in luce. Prima di tutto vediamo però ciò su cui tutte le interpreta­ zioni del passo concordano, cioè che la nozione di segno proposta da Aristotele prevede l'instaurarsi di un rapporto di tipo implicativo: il segno coincide press'a poco con il rapporto di implicazione "p implica q", accezione, questa, abbastanza comune della nozione di segno e che abbiamo già trovato operante in altri ambiti, diversi dalla filosofia. Ma più precisamente, e particolarmente in questa defini­ zione, il segno coincide con uno dei termini dell'implicazio­ ne. L'interpretazione di Preti suggerisce che esso coincida in particolare con il secondo termine, cioè suggerisce che la definizione aristotelica vada letta nel senso che "q è segno di p": ora questa definizione, che viene a configurare il rap­ porto segnico come "Se q, allora p", comporta, ai fini della  116 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE sua applicazione ad argomentazioni inferenziali, un'inver­ sione da "p implica q" a "q implica p". È proprio questo fatto che conferisce alla nozione di se­ gno il carattere di problematicità e che conduce all'instau­ razione di un dibattito serrato e complesso in seno alle scuole filosofiche postaristoteliche, anche se esse non fa­ ranno esplicitamente riferimento ad Aristotele. D'alta parte, questo tipo di inversione sembra porsi an­ che alla base della richiesta, ai fini della validità del segno, di un'implicazione tra p e q più stretta di quanto non sia, a esempio, l'implicazione materiale. Sembra, in sostanza, che già nella definizione aristotelica venga richiesta la con­ dizione "Se non-q, non-p" ("q, o non-p"), cioè esattamente quel tipo di implicazione stretta che verrà dagli stoici consi­ derata necessaria per la validità del segno. Al di là di questo si deve anche notare che nella defini­ zione (e in genere nell'intera trattazione) del segno condot­ ta da Aristotele è riscontrabile un'ambiguità di fondo nel modo di concepire i due termini del rapporto implicativo. Per un verso, infatti, essi costituiscono dei fatti (o delle proprietà) (e non a caso una parola centrale della definizio­ ne è tò pragma "il fatto"). Aristotele del resto dà esempi di questo genere: "il mostrare che una certa donna è gravida attraverso il fatto che essa ha il latte"; il segno è "l'aver lat­ te", che appare appunto essere l'espressione di un fatto o di una proprietà. Per un altro verso il segno è concepito come una proposi­ zione, in quanto un segno può costituire la premessa da cui si sviluppa un sillogismo: "Un segno, invece, vuole essere una premessa dimostrativa, o necessaria o fondata sulla opinione" (An. Pr., II, 70 a, 6-7). In realtà, la definizione di segno come proposizione, che può costituire una premes­ sa in un ragionamento infcrenziale, è abbastanza centrale in Aristotele. Infatti il ruolo fondamentale che egli attribui­ sce al smefon è proprio quello di essere uno degli elementi che forniscono premesse a quel particolare tipo di siilogi­ smo che è I'entimema.  LA TEORIA DEL SEGNO 1 17 5.2.2 L'entimema e i segni Nella nozione di entimema coesistono due aspetti com­ plementari, che la tradizione successiva svilupperà talvolta separatamente. Da una parte l'entimema può essere consi­ derato un sillogismo tronco, in cui una delle premesse è mancante, perché ritenuta nota o ovvia.9 DalPaltra, l'enti­ mema viene considerato un sillogismo che tende alla per­ suasione, e non alla dimostrazione; in quanto tale non è ne­ cessario che le sue premesse siano vere, ma soltanto che sia­ no probabili (hos epì tò poly). Aristotele sviluppa esplicita­ mente il secondo aspetto delle definizioni parallele dei Pri­ mi analitici (II, 70 a, 9-10) e della Retorica (1, 1357 a, 30- 32) . Dunque il segno trova la sua principale applicazione nel­ l'ambito del discorso persuasivo, ovvero retorico, dove, sotto forma di proposizione, entra nel meccanismo dell'en­ timema e vi svolge il ruolo di "protasi", di premessa. Ma, in quell'ambito, si profila una prima distinzione tra la no­ zione di smeion e quella di eikos "verosimile" o "probabi­ le"), pur imparentate per il fatto di poter figurare entrambe come premesse negli entimemi. Ciò che contraddistingue la nozione di eikos è essenzial­ mente il suo carattere probabilistico, che lo lega irrevoca­ bilmente all'opinione, rimuovendolo in una zona del sapere piuttosto insicura, lontano dalla possibilità di una dimo­ strazione scientifica. 5.2.3 L'inferenza dal conseguente Per quello che riguarda la nozione di segno, la situazione è diversa e senz'altro molto più complessa. In effetti il s meion non costituisce una categoria semplice, bensì una classe composita che prevede al suo interno tipi con carat­ teristiche molto differenziate tra loro. Ma, prima di porre l'accento sulle differenze interne, è forse possibile osservare che qualcosa unisce i vari tipi di segni rispetto alla nozione di eikos: invece che sulla probabilità, nel caso del segno  118 5. LINGUAGGIO ESEGNI IN ARISTOTELE l'attenzione è concentrata sul carattere di "consequenziali­ tà". Il ragionamento inferenziale, basato sui segni, procede tipicamente ek ton hepomén{Jn, "per conseguenze", tende cioè a inferire la causa dall'effetto. Per questa ragione sono possibili sia applicazioni corrette sia applicazioni inganne­ voli. ÈinparticolarenelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5) che Aristotele sviluppa chiaramente la teoria del ragiona­ mento per conseguenze: quest'ultimo porta a conclusioni ingannevoli come, a esempio, nel caso in cui qualcuno, avendo osservato una volta che la terra è bagnata dopo la pioggia, volesse concludere in generale che, se la terra è ba­ gnata, allora è piovuto. Un secondo esempio di ragiona­ mento per conseguenze dato da Aristotele concerne le pro­ prietà, anziché gli eventi, come avveniva in quello prece­ dente: se qualcuno, avesse sperimentato che il miele ha la proprietà di essere giallo e volesse conciudere che qualcosa è miele partendo dalla proprietà che ha il colore giallo, cor­ rerebbe il rischio di scambiare per miele il fiele (ibidem, 167 b, 6-8). In tale contesto Aristotele giunge a identificare de­ cisamente questo tipo di inferenza con quello specifico del segno: "Nei discorsi retorici, del pari, le dimostrazioni trat­ te da segni si fondano sulle conseguenze" (ibidem, 167 b, 8- 9). È possibile a questo punto tornare agli Analitici e com­ prendere meglio perché Aristotele proceda innanzitutto alla distinzione fondamentale tra due tipi di segni: il tekmrion, segno "necessario" o "inconfutabile",10 e il generico s­ meion, che ha le caratteristiche opposte. In realtà quest'ultima distinzione (che, come vedremo, comporta non solo due, ma tre tipi di entità, poiché vi sono due specie di segni non necessari) corrisponde a un tentati­ vo di Aristotele di articolare una tipologia dei segni alle modalità di sviluppo possibile del sillogismo. Sono infatti tre i modi in cui il sillogismo può utilizzare la premessa che esprime un segno, corrispondenti alle posizioni possibili del medio nelle varie figure. In questo modo si possono avere inferenze che partono da un segno sulla prima, sulla secon­ da o sulla terza figura.  5.3 n. MECCANISMO LOGICO 1 19 5.3 D meccanismo logico 5 . 3 . l Il tekmérion come segno nella prima figura del sillogismo Prima però di entrare nei dettagli tecnici di questa distin­ zione, vale la pena di rilevare preliminarmente che ben di­ verso è il valore epistemologico che Aristotele attribuisce al segno che si sviluppa in un sillogismo di prima figura, cioè il tekmrion, rispetto a quelli che si sviluppano in seconda e in terza figura, cioè i generici smefa. In realtà, nei due ultimi casi si verifica la tipica illusione segnalatanelleConfutazionisofistiche(167b, 1-5),cioèav­ viene di credere che ci sia possibilità di conversione tra ra­ gione e conseguenza, senza che questo sia di fatto giustifi­ cato: dunque, in questi casi, l'inferenza dalle conseguenze alle cause è estremamente ipotetica e insicura. Nel primo caso, invece, cioè con il tekmrion, si ha un ti­ po di inferenza che parte anch'essa dalle conseguenze, co­ me dimostra l'esempio "se una donna ha latte, allora essa è gravida", in quanto l'"avere latte" costituisce sia una con­ seguenza dell'essere gravida, sia un segno di tale fatto; tut­ tavia, al contrario che nei casi precedenti, sembra esserci possibilità di conversione tra causa ed effetto; o, come sug­ gerivano le osservazioni di Preti (1956: 6) riportate prima, sembra essere previsto da Aristotele, in questo caso, un ti­ po di implicazione più stretta che non l'implicazione mate­ riale. Possiamo vedere ora come Aristotele sviluppa l'aspetto tecnico dei tre tipi di segno, partendo da quello in prima fi­ gura: Ad esempio, il provare che una donna è gravida, in quanto essa ha latte, si fonda sulla prima figura: il medio è infatti l'aver lat­ te. Poniamo che A indichi "esser gravida", che B indichi "aver latte", che C indichi "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 12-16)11  120 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Traducendo il ragionamento di Aristotele nel comune schema illustrativo del sillogismo, si otterrà: 8 "chi ha latte" c "donna" c "donna" In questo esempio il segno "avere nello schema sillogistico come noi ma è anche il termine intermedio dal punto di vista esten­ sionale, tanto che potrebbe essere costruita la seguente fi­ gura per illustrare i rapporti tra i termini del sillogismo: A essere gravida l . A "essere gravida" 2. 8 "avere latte" si predica di si predica di 3. A sipredicadi "essere gravida" latte" non solo è medio lo abbiamo riportato,   5.3 n MECCANISMO LOGICO 121 5.3.2 La seconda e la terza figura del sillogismo e i "semeia" Nella seconda e nella terza figura il termine medio è il le­ game che consente Pinferenza, ma non occupa, né nella formula né estensionalmente, la posizione centrale. Questo fa sì che l'etichetta di "maggiore" e "minore" sia "arbitra­ ria nella seconda o nella terza figura, a qualunque dei due termini si voglia dare il nome di maggiore o minore" (Allan 1970: tr. it. 1973, 123). Del resto è indubbio che il punto di vista adottato da Aristotele nella trattazione che egli fa delle premesse sia quello estensionale. Legata a questo punto di vista è di cer­ to la svalutazione della seconda e della terza figura. Passiamo ora ad analizzare il tipo di segno che si svilup­ pa in un sillogismo basato sulla seconda figura: "Se una donna è pallida, allora essa è gravida". Questa è l'analisi di Aristotele: Infine, la presunta prova che una donna risulta gravida, in quanto è pallida, si sviluppa attraverso la seconda figura. In realtà, dato che il pallore è una determinazione conseguente delle donne gravide, e che tale determinazione appartiene altre­ si a una certa donna, si crede allora provato che questa donna sia gravida. Indichiamo con A "la nozione di pallore", con B "l'essere gravida" e con C "donna". (An. Pr., Il, 70 a, 20-24) Lo schema che può essere costruito in corrispondenza di questo sillogismo è il seguente: l . 2. 3. A "essere pallida" A "essere pallida" 8 si predica di si predica di si predica di 8 "chi è gravida" C "questa donna" C "essere gravida" "questa donna"  122 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE In questo caso il segno "essere pallida", che è anche il medio, ha la posizione di un estremo e si predica contem­ poraneamente dei due termini "essere gravida" e di "donna". 12 Aristotele condanna questa inferenza come non valida. Come si può osservare, ci ritroviamo qui di fronte al ca­ so più emblematico di inferenza tratta dalle conseguenze. Una conferma di questa condanna la si trova anche nel pas­ so corrispondente della Retorica (1, 1357 b, 17-21): "Se uno respira rapidamente è segno che ha la febbre". Anche que­ sto esempio di segno dà origine a un sillogismo sulla secon­ da figura, in cui il medio, "respirare rapidamente", ha la posizione dell'estremo maggiore e si predica di entrambi i termini "avere la febbre" e "uomo". Nella definizione di questo tipo di segno data nella Reto­ rica vengono aggiunte due particolarità interessanti rispetto a quella presentata negli Analitici: (i) la prima è che il se­ gno è confutabile anche se esso risultasse vero (kàn althès i1): viene dunque prevista la possibilità di costruire un'infe­ renza che risulti conforme alla verità, anche se questo è so­ lo un caso, si direbbe, accidentale; ciò deriva dal fatto che il sillogismo èformalmente scorretto, ma ci sono casi in cui esso porta, nonostante tutto, a conclusioni materialmente vere (Plebe 1966); (ii) la seconda particolarità consiste nel­ l'accennare al fatto che questo tipo di segno instaura una relazione "dall'universale al particolare": ciò è probabil- mente da mettersi in relazione al fatto che è proprio il ter­ mine estensionalmente maggiore a svolgere la funzione di medio, e che si predica prima di una classe, poi di un indi­ viduo . Vediamo ora un segno dal quale si sviluppa un sillogismo basato sulla terza figura. Ecco la definizione che ne viene data negli Analitici: D'altro canto la presunta prova che i sapienti sono eccellenti - poiché Pittaco è eccellente - si costruisce attraverso l'ultima fi­ gura. Poniamo che A indichi "la nozione di eccellente", che B indichi "i sapienti", che C indichi "Pittaco". Risponde in tal ca­ so a verità il predicare di C tanto A quanto B; senonché la pre-  5.3 IL MECCANISMO LOGICO 123 messa BC non viene enunciata, perché risaputa, mentre Paltra è assunta espressamente. (An. Pr., II, 70 a, 16-20) Il segno, più precisamente, è la protasi del condizionale "Se Pittaco è eccellente, i sapienti sono eccellenti " . Su di es­ so si sviluppa un sillogismo che può essere rappresentato dalla formula: l . 2. 3. A si predica di "essere eccellente" c "Pittaco" c "Pittaco" 8 "chi è sapiente" 8 "essere sapiente" si predica di A si predica di "essere eccellente" In questo caso il medio è "Pittaco", che ha la posizione del termine minore estensionalmente. Anche il sillogismo costruito su questo tipo di segno vie­ ne condannato in quanto confutabile (/jsimos). Del resto Aristotele aggiunge che esso rimane confutabile (come quello in seconda figura) anche nell'evenienza in cui esso conduca a una conclusione accidentalmente vera. Inoltre, nel passo parallelo della Retorica (I, 1357 b, 10-11), viene precisato che esso instaura un rapporto che va "dal partico­ lare all'universale"; anche in questo caso è la posizione del medio, che qui è il termine estensionalmente minore, a sug­ gerire questa determinazione ad Aristotele; in effetti si par­ te dalla proprietà di un individuo particolare per conclude­ re che tale proprietà appartiene a un'intera classe di cui l'individuo fa parte. 5.3.3 La classificazione Una volta stabilita una distinzione fra i tre tipi di segno sulla base della posizione che prende il medio in ciascuna  124 5. LINGUAOOIO E SEGNI IN ARISTOTELE delle figure, Aristotele procede a una ricapitolazione gene­ rale, dove consolida le distinzioni terminologiche e ribadi­ sce la diversità della potenza conoscitiva in relazione a cia­ scun tipo: il nome tekmirion ("indizio sicuro", "prova") viene riservato a quei segni che prendono realmente la posi­ zione del termine intermedio (cioè in cui il termine è medio anche dal punto di vista estensionale, sul quale si sviluppa un sillogismo in prima figura); invece il nome generico s­ meion viene lasciato a quei segni che all'intero sillogismo hanno la posizione di un estremo (sui quali cioè si svilup­ pano delle inferenze in seconda e terza figura) (An. Pr. , Il, 70b, 1-6). Rispetto a quanto abbiamo già detto, è necessario ag­ giungere una precisazione sulla nozione di éndoxon, che ca­ ratterizza nel massimo grado il sillogismo basato sul· tekmi­ rion. In effetti nei Topici Aristotele precisa che i sillogismi dia­ lettici che danno il massimo di garanzia sono i sillogismi che derivano da premesse che sono degli éndoxa. Vengono poi definite éndoxa quelle proposizioni che sono "condivise da tutti o dai più o dai sapienti, e tra questi da tutti, dai più o dai più noti e famosi" (Top., l, 100 b, 21-23). Sono queste, del resto, le condizioni che permettono di confermare dialetticamente una tesi (Viano 1958 a). Il passo parallelo della Retorica propone un'analoga classificazione che distingue tra il segno necessario (anan­ kaion), corrispondente al tekmjrion, e il segno non neces­ sario m anankaion), corrispondente al generico s­ meion, 3 e ulteriormente suddivisi in "segno che si trova in rapporto dali'universale al particolare" (da mettersi in rela­ zione ai segni in seconda figura del sillogismo) e "segno che si trova nel rapporto del particolare ali'universale" (da met­ tersi in relazione ai segni in terza figura). La classificazione aristotelica può allora essere disposta sullo schema della pagina seguente:  premesse da cui derivano gli entimemi /  eik6s smelon (segno) ("probabile", "verisimile") - è tmdoxon ("fondato sulla opinione") es.: "è amato -ama" ·è invidioso -detesta•  m'S snsnkslon ("'non necessario") - è éndoxon ("fondato sulla opinione") snsnkslon (..necessario") tekm"érion ("prova") - è IJ/yton (..inconfutabile·) - è il medio di un sillo- gismo in 1 • figura es.: ..essa ha latte-è gravide" "ha la febbre -è malata"  t6 ksth ' kéksston pr6s t6 ksth61on ("dal particolare all'universale") rl) ksth6/on pr6s rl) kstll méros ( ·dall'universale al particolare") - è lyron (..confutabile") - è medio in un sillogismo - è lyton (..confutabile") - è medio in un sillogismo in 3• figura es.: "Pittacco è giusto-i sapienti sono giusti" in 2• figura es.: ..respira rapidamente-ha la febbre" "è pallida -è gravido"  126 5 . LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE 5.4 Un sistema particolare di segni non linguisti­ ci: la fisiognomica La particolare concezione che Aristotele ha del segno, come cosa o fatto che serve a condurre l'attenzione del sog­ getto conoscente su un'altra cosa o fatto, permette di por­ tare in primo piano un tipo di conoscenza che si ottiene in modo indipendente dal linguaggio verbale. Ciò conduce a un'evidente valorizzazione dei sistemi di segni non lingui­ stici . Aristotele, infatti, nei Primi analitici, dopo aver esposto la teoria del segno, propone un'interessante, quanto curio­ sa applicazione a un tipo di segni molto speciali: quelli del­ la fisiognomica. Neli'esempio dato si tratta di risalire da un segno visivo a un tratto del carattere: le grandi estremità del leone vengo­ no assunte come segno del suo coraggio. Tutto l'interesse di Aristotele è concentrato su due punti: da una parte egli tende ad acquisire una conoscenza circa l'ordine psichico partendo da un fatto rilevabile attraverso i sensi; dall'altra tende a stabilire il legame più stretto pos­ sibile tra due fatti che l'esperienza gli mostra associati (in questo caso: grandi estremità e coraggio), come presuppo­ sto dell'affidabilità stessa della conoscenza. Per dare validi­ tà al suo esempio di fisiognomica Aristotele propone di fa­ re tre assunzioni: 1 4 (i) che "le affezioni naturali trasformino simultaneamente il corpo e l'anima"; (ii) che vi sia un solo segno di un unico fatto, cioè dell'affezione dell'anima che deve essere scoperta; (iii) che ogni genere abbia un'affezio­ ne propria e un proprio segno (fdion [... ] semefon). Come si può osservare, Aristotele, con queste assunzio­ ni, tenta di razionalizzare e di dare dignità filosofica a una materia che era eminentemente mantica. Qui non c'è più la divinità che garantisce la corrispondenza fra un tratto per­ cepibile dell'aspetto fisico e qualcosa che si inscrive nell'or­ dine dell'invisibile (sia esso il carattere di un uomo o più generalmente il destino legato a quel carattere). Per Aristo­ tele vi può essere corrispondenza fra un tratto fisico e un  5.4 LA FISIOGNOMICA 127 aspetto interiore perché qualsiasi affezione trasforma con­ temporaneamente corpo e anima, proprio come avviene nel caso di chi ha imparato la musica, che si è trasformato non solo nell'abilità fisica di suonare, ma anche nella sua sensi­ bilità interna. Ma come avveniva per la mantica, in questa materia si può correre il rischio deli'ambiguità. È proprio per elimina­ re quest'ultima evenienza che Aristotele propone le sue ul­ teriori assunzioni. Infatti l'ambiguità si può verificare in due casi distinti: (i) quando si hanno molti segni che riman­ dano a un'unica affezione (fenomeno che potremmo avvi­ cinare alla sinonimia): l'unico rimedio epistemologico è, in questo caso, assumere che i segni siano univoci, cioè che un unico fatto sia significato da un solo segno; (ii) quando un genere abbia più affezioni, in maniera tale che si rimane in­ decisi su quale sia quella a cui rimanda il segno (fenomeno che potremmo avvicinare all'omonimia): la soluzione pro­ posta da Aristotele è quella di stabilire per ogni genere qua­ le sia l'affezione che gli è propria e quale il segno proprio, in maniera da riferire quest'ultimo univocamente alla prima. Stabilendo preliminarmente le tre precedenti assunzioni è possibile per Aristotele fare della fisiognomica una scienza. E, rispettando appunto queste assunzioni, è possibile stabi­ lire che per il leone le grandi estremità sono il segno del co­ raggio (An. Pr., II, 70 b, 16-17). Fin qui abbiamo seguito Aristotele nel suo ragionamento che si svolge su un piano, per così dire, deduttivistico. È possibile ricostruire, però, anche un altro versante dell'ar­ gomentazione che si colloca geneticamente in un momento in cui la regola deduttiva non è ancora stata posta. In effet­ ti è possibile pensare a un momento in cui si osserva che una certa affezione, il coraggio, è associata al genere dei leoni; contemporaneamente si osserva che ai leoni è asso­ ciata la caratteristica di are grandi estremità. A questo punto viene formulata l'ipotesi che il segno del coraggio sia rappresentato dal possesso di grandi estremità. Il processo logico che verrebbe qui a configurarsi segui­ rebbe lo schema:  128 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE l. "essere coraggiosi" 2. "avere grandi estremità" 3. "essere coraggiosi" (probabilmente) si predica di si predica di si predica di "leoni, "leoni" "chi ha grandi estremità" Un sillogismo in 3a figura, come è questo, secondo Peir­ ce costituirebbe una induzione, ma di un tipo talmente "ti­ mido da perdere totalmente la caratteristica ampliativa pro­ pria dell'induzione genuina" (1984: 210). Esso avrebbe un forte carattere ipotetico. Tuttavia Aristotele non segue in effetti questo ragiona­ mento perché non riesce ad accettare come valido dal pun­ to di vista logico un procedimento che risulta privo di ga­ ranzie. Così è costretto a inquadrare questo, si noti bene, quanto mai aleatorio segno del coraggio in uno schema an­ cora una volta deduttivo. In altre parole, l'osservazi,"ne deli'associazione tra coraggio e grandi estremità deve tra­ mutarsi in un legame stretto e costante. Lo sforzo di Ari­ stotele è tutto rivolto a dimostrare che ogni volta che ci sia coraggio, questo venga manifestato dalla presenza di gran­ di estremità, e viceversa. In termini tecnìci, la situazione ideale, cioè il massimo della certezza, si ottiene quando si verifica conversione (antistréphein) tra ciò che funge da se­ gno e ciò a cui esso rimanda, ovverosia quando l'estensione del primo termine è esattamente uguale a quella del secon­ do. Da qui la necessità (puramente logica, e non semiotica) che un unico segno si riferisca a un'unica affezione: solo in questo modo è possibile la conversione tra i due termini. A questo punto il problema di fare un'ipotesi su quale sia il segno del coraggio si trasforma in quello di trovare un elemento di mediazione tra il "coraggio" e il "genere dei leoni", che ne appaiono costantemente provvisti. Tale elemento di mediazioneJ che sembra appunto giusti­ ficare l'associazione, è "avere grandi estremità", che divie­ ne così il segno, sul quale viene costruito il seguente schema sillogistico deduttivo (An. Pr., II, 70 a, 32-38):  SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEONICO 129 A si predica di B "essere coraggioso" "chi ha grandi estremità" B si predica di c 2. 3. A si predica di c "avere grandi estremità'' "leone" "essere coraggioso" "leone" Ma ciò che Aristotele trascura di mettere in luce è che, come abbiamo visto, i dati di partenza della deduzione stes­ sa poggiano su una precedente inferenza a carattere più ipotetico. L'esempio proposto è interessante perché, prima della presentazione dello schema formale, tutto il ragiona­ mento è rivolto a stabilire i criteri che permettano di dire che qualcosa è segno di qualcos'altro. Ma ciò è possibile solo formulando un'ipotesi, che solo in seguito può essere verificata deduttivamente. 5.5 La svalutazione del sapere segnico In effetti la diffidenza di Aristotele nei confronti della conoscenza che si può ricavare dai segni è molto marcata. Infatti, nella concezione aristotelica, anche quando tra i due termini del segno vi sia un legame necessario, la cono­ scenza del termine non noto sembra imporcisi dall'esterno, senza che si riesca a comprenderne la causa. Aristotele nei Secondi analitici (1, 75 a, 28-36) oppone il ragionamento basato sull'essenza a quello basato sulsegno; quest'ultimo infatti viene definito come ragionamento che si fonda sulle determinazioni accidentali. Ne consegue, peraltro, che soltanto con il primo tipo è possibile arrivare a conoscere la causa. Ciò non significa che la conoscenza attraverso il segno sia totalmente esterio­ re. In certi casi, che sono quelli dei segni necessari, il segno permette di risalire alla causa: così la constatazione del fat­ to che una donna ha latte permette di risalire alla causa, cioè al suo essere gravida, come pure l'accertamento della  130 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARlSTOTELE presenza della febbre permette di risalire allo stato di ma­ lattia che la determina. Tuttavia questo tipo di ragionamento non arriva a forni­ re una vera e propria scienza dei fatti, in quanto quest'ulti­ ma si ottiene solo a partire dalla causa. Il ragionamento at­ traverso il segno parte invece dall'effetto e permette soltan­ to l'affermazione del fatto, cioè dello h6ti ("che"), senza condurre alla comprensione delle cause, cioè del di6ti ("perché"). Nel capitolo 13 dei Secondi analitici Aristotele insiste sul fatto che la dimostrazione veramente scientifica non consi­ ste nella scoperta o nella conclusione della causa, ma essa è scientifica proprio in quanto parte dalla causa; in quel con­ testo viene infatti fondata la distinzione tra "il sapere che qualcosa è" e "il sapere perché qualcosa è". In effetti alle scienze dello h6ti viene riconosciuto un cer­ to diritto di esistenza; tuttavia esse vengono considerate in­ feriori in quanto portano sui fatti, senza raggiungere la co­ noscenza del necessario e a malapena quella dell'universale. Ma quali sono queste scienze dello hoti? Dagli esempi che Aristotele fornisce si direbbe che si tratta eminentemente di scienze indiziarie, basate sui segni e fornite di un carattere fortemente ipotetico in contrapposizione ad altre che invece hanno carattere deduttivo. Tra questi esempi Aristotele cita il caso dell'astronomia (astrologhfa), nome condiviso sia da una certa scienza nau­ tica (nautik) sia da una scienza basata su fondamenti ma­ tematici (mathmatik). Solo la seconda è scienza delle cau­ se. Ugualmente Aristotele contrappone la medicina alla geometria: infatti, nel caso delle ferite circolari, spetta al medico di sapere che esse guariscono più lentamente, men­ tre spetta all'esperto di geometria conoscere il perché di questo fatto. Dunque abbiamo medicina e scienza della navigazione contro matematica e geometria: il senso della scelta aristo­ telica contro il segno non potrebbe essere più chiaro. È interessante osservare come per Aristotele sia possibile anche sviluppare un ragionamento dello hoti oppure uno del dioti all'interno di una stessa scienza. La differenza che  5.5 SVALUTAZIONE DEL SAPERE SEGNICO 131 contraddistingue i due tipi è duplice. Infatti si fa un ragio­ namento dello h6ti, in primo luogo, quando il sillogismo non si basa su premesse immediate (che, nell'epistemologia aristotelica, significa assumere la causa prima e prossima); in secondo luogo, quando, pur basandosi su premesse im­ mediate, la deduzione non discende dal termine che indica la causa di un fatto, ma dal più noto di due termini, en­ trambi riferiti al fatto. In altre parole, la differenza specifi­ ca del sillogismo del dioti è ancora che esso va dalla causa ali'effetto e non dali'effetto alla causa. L'esempio che Aristotele fornisce è molto interessante. Posto, infatti, che c'è una certa relazione tra il non sfavilla­ re dei pianeti e la loro vicinanza alla terra, Aristotele mo­ stra come attraverso questi due termini sia possibile svilup­ pare due tipi di ragionamento di diverso valore epistemolo­ gico . Da una parte è infatti possibile dedurre la vicinanza dei pianeti dal fatto che non sfavillano (''Se non sfavillano, so­ no vicini"). Si ha in questo caso un ragionamento dello hoti e si può osservare che in questo contesto il "non sfavillare" è tipicamente un segno del fatto che risulta come conclusio­ ne, cioè la loro "vicinanza" alla terra. Il sillogismo costruito sul segno non parte dalla causa del non sfavillamento dei pianeti (che è costituita dalla loro vi­ cinanza), ma parte dell'effetto, che viene assunto come ter­ mine medio, per arrivare alla causa. È possibile anche che la causa non venga mai realmente conosciuta. Aristotele contrappone a questo tipo di ragionamento quello che deduce il non sfavillamento dei pianeti dalla loro vicinanza. Si ha in questo caso un ragionamento del dioti, che mostra il perché qualcosa sia, dal momento che coglie la causa precisamente in quanto causatrice dell'effetto; for­ malmente ciò avviene in quanto viene assunto come medio proprio il termine che indica la causa. Dunque tra il sillogismo del dioti e quello dello hoti c'è un rapporto di simmetria inversa. È sufficiente infatti in­ vertire i termini del secondo per ottenere il primo. Tuttavia ciò non è sempre possibile, come precisa il com­ mentatore del testo aristotelico Filopono:  132 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Spesso è necessario che, quando viene posta la causa, anche l'effetto sia posto, mentre non è affatto necessario che, quando si dà l'effetto, anche la causa si dia: così il fatto di avere il co­ lorito pallido non si accompagna necessariamente al parto, ma se una donna ha partorito, essa ha sempre il colorito pallido: infatti possono esserci varie cause del medesimo fatto. (Philop., in Anal. Post., Wallies, 169-9) L'aleatorietà del procedimento inferenziale tipico del se­ gno (dal pallore al parto) viene qui messa in risalto preve­ dendo il caso che un effetto possa avere molteplici cause, situazione nella quale, secondo Filopono, non potrà essere costruito un vero sillogismo dello h6ti, ma soltanto un sil­ logismo del di6ti. Del resto, Aristotele stesso aveva previsto il caso che un effetto potesse avere cause differenti,15 che rendono difficile e aleatorio il percorso di risalita dali'effet­ to alla causa. D'altra parte, però, secondo il con1mentatore Filopono, si può verificare anche il caso opposto, quello cioè in cui sia possibile soltanto un ragionamento dello h6ti. Infatti è possibile risalire dal fatto che una donna ha partorito (co­ me effetto e segno) al fatto che essa si è unita a un uomo (come causa): ma la reciproca non è necessaria, poiché il parto non segue necessariamente all'accoppiamento (Phi­ lop., in Ana/. Post., Wallies, 169-21). C'è infine un'ultima caratteristica che contraddistingue il ragionamento dello h6ti da quello del di6ti, consistente nel fatto che il primo è tipico del emplice osservatore dei feno­ meni, non specialista, mentre il secoildo spetta all'uomo di scienza (An. Post. , I l , 79 a, 2-3). In Aristotele, in definitiva, le scienze indiziarie e il segno in generale sono oggetto di una svalutazione epistemologi­ ca, in quanto nella sua concezione teorica della scienza non viene fatto alcuno spazio alla ricerca e all'ipotesi, quale è presupposta invece da una concezione semiotica del sapere. Come sottolinea Le Blond (1939, tr. it. 1973: l 05), per Ari­ stotele la scienza "n'est elle pas principalement recherche, mais possession; les Analytiques n'apportent guère d'indi­ cations sur la recherche: il décrivent la science achevée, qui  5.6 DEDUZIONE E ABDUZIONE 133 descend des causes aux effets et coincide absolument avec le dynamisme des choses - conception singulièrement con­ fiante, on le voit, qui pose en principe la connaissance par­ faite de la réalité". 5.6 Deduzione e abduzione Non si deve tuttavia pensare che questa posizione teorica corrisponda esattamente alla pratica di ricerca adottata di fatto da Aristotele, a esempio nelle opere scientifiche. Né, d'altra parte, si deve accettare enza riserve l'asserzione ari­ stotelica circa il carattere assolutamente deduttivo delle scienze del di6ti. Come ha mostrato Eco (1983: 242), per Aristotele trovare il perché di un certo fenomeno significa trovare un buon termine medio che spieghi quel fenomeno: ma questo termine medio può essere, in certi casi, anche molto ardito e sofisticato, e non corrispondere a nessuna conoscenza già accertata. Esso può essere, cioè, una "ipote­ si" nel senso peirceano. È illuminante, a questo riguardo , il ragionamento svilup­ pato da Aristotele nel trattato Parti degli animali, in cui, a proposito degli animali provvisti di corna, vengono regi­ strati alcuni "fatti sorprendenti" bisognosi di spiegazione. A esempio: (i) che tutti gli animali con le corna hanno una sola fila di denti, cioè mancano degli incisivi superiori (663 b - 664 a); (ii) che tutti gli animali con le corna hanno quat­ tro stomaci (674 a-b); (iii) che tutti gli animali con quattro stomaci mancano degli incisivi superiori (674 a) ecc. Il problema che ha di fronte Aristotele, in questo caso, è quello di spiegare la ragione per cui, innanzitutto, agli ani­ mali con le corna mancano gli incisivi superiori. Come sot­ tolinea Eco, Aristotele "deve porre una Regola tale che, se il Risultato che vuole spiegare fosse un Caso di questa Re­ gola, tale Risultato non sarebbe più sorprendente'' (1983: 239). E del resto, secondo Peirce, quando una circostanza "strana" si spiega supponendo che essa sia il caso di una certa regola 0enerale, siamo di fronte a un'ipotesi o abdu­ zione .  134 5. LINGUAGGIO E SEGNI IN ARISTOTELE Proprio in questi termini procede Aristotele, supponen­ do che, nel caso considerato, probabilmente, la materia du­ ra è stata deviata dagli incisivi superiori alla testa con lo scopo di formare le corna. A sua volta, la mancanza di in­ cisivi superiori è causa dello sviluppo di un quarto stomaco ed è il medio dal quale si sviluppa un ulteriore sillogismo. Espresso nei termini del sillogismo (nella formalizzazione peirceana adottata da Eco) il primo ragionamento si rico­ struisce così: Regola = Tutti gli animali devianti (cioè che hanno deviato la materia dura dalla bocca alla testa) mancano degli in­ cisivi superiori. Caso=Tutti gli animali con le corna hanno deviato. Risultato = Tutti gli animali con le corna mancano degli in­ cisivi superiori. La "deviazione deUa materia dura" costituisce contem­ poraneamente il medio del sillogismo e la spiegazione del fenomeno. Quello che Eco mette giustamente in risalto è che lo sforzo di spiegare a titolo ipotetico perché un feno­ meno è così come è, costruendo una forma rigorosamente deduttiva, non differisce in niente da ciò che Peirce chiama abduzione: in ciascuno dei due casi c'è un lavoro su ipotesi che permettono di spiegare fenomeni che appaiono "sor­ prendenti " . L'idea di Eco, in sostanza, è che al di sotto e prima del li­ vello deduttivo preso in considerazione da Aristotele esista un livello abduttivo che Aristotele rifiuta di riconoscere, ma al quale ricorre nel caso che debba costruire delle defi­ nizioni scientifiche: definire il perché di un fatto sorpren­ dente "significa stabilire una gerarchia di collegamenti cau­ sali per via di una sorta di ipotesi che può essere convalida­ ta solo quando dà luogo a un sillogismo deduttivo che agi­ sce come previsione di successive modifiche" (ibidem, 241). Ed è in definitiva proprio il mancato riconoscimento di questo movimento inferenziale preliminare che vieta ad Aristotele di riconoscere il carattere ipotetico della scienza e, nel contempo, la produttività dello stesso sapere segnico.  6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO E LA SEMIOTICA DEGLI STOICI 6.0 Introduzione La scuola stoica è quella che nell'antichità ha sviluppato con maggior rigore e profondità una riflessione semiotica. Tuttavia l'indagine degli stoici si polarizza, com'era già av­ venuto per Aristotele, su due ambiti fondamentalmente di­ stinti tra di loro: da una parte, una teoria del linguaggio in senso stretto, che comporta anche un'analisi dei rapporti tra linguaggio, pensiero e realtà (in corrispondenza della terna "significante", "significato", "oggetto esterno"); dal­ l'altra, una teoria del "segno" proposizionale, connessa con la teoria dell'inferenza. Questi aspetti della filosofia stoica trovano però un pun­ to di convergenza, come vedremo, nel loro comune legame con il lekt6n, un'entità che ha uno statuto eccezionale nella metafisica stoica. In effetti, a fondamento di quest'ultima, si pone la speciale dialettica tra le entità che condividono la proprietà di essere "corpi" (sOmata) e quelle entità che sono invece corporee (asOmata). Più in dettaglio si può dire che di solito l'ontologia stoica prende in considerazione solo quegli individui che hanno la caratteristica di essere oggetti tridimensionali e di possedere altresì una resistenza nel tem­ po. Questi, appunto, sono i corpi e solo essi vengono consi­ derati esistenti. Ora, tanto nella teoria del linguaggio, quan­ to in quella del segno proposizionale, accanto alle entità corporee vengono prese in considerazione anche delle entità incorporee, quali i lekta.  136 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI Per il momento è invece necessario sgombrare il campo da due equivoci. Il primo concerne il destino che tocca alle entità incorporee: esse non vengono relegate semplicemente nell'ambito del non-esistente, ma vengono investite di una "esistenza derivativa'' (Long 197I a: 89-90). Il secondo pos­ sibile equivoco concerne la nozione stessa di corpo. Contra­ riamente a quello che ci attenderemmo in relazione a una nozione moderna di corpo, per gli stoici erano "corpi" an­ che le qualità, in quanto venivano considerate come materia in un certo stato. Le proprietà di un certo individuo costi­ tuiscono stati o modi del suo essere e, per la loro esistenza, dipendono dall'esistenza di questo individuo. Se l'individuo esiste, le sue proprietà sono appunto disposizioni esistenti di materia (Rist I969: 52-55). Si profila, a questo punto, una ontologia che pone al suo centro la nozione di "particolare": quest'ultimo viene carat­ terizzato come un oggetto materiale, che ha una forma defi­ nita come condizione necessaria e sufficiente della sua esi­ stenza. La forma, del resto, è l'elemento caratteristico di un oggetto, che lo rende identificabile come tale (Long I97I a: 76). È proprio su questi presupposti antologici che si innesta e si sviluppa la teoria semiolinguistica degli stoici: il bisogno di una teoria del significato e della verità nasce appunto a proposito deIl'identificazione dei "particolari", ed è con­ nesso a una teoria della percezione. Così, si terrà presente innanzitutto che per gli stoici le im­ magini (phantasfa1) prodotte nella mente dagli oggetti ester­ ni danno luogo a una percezione vera se esse riproducono esattamente la configurazione di tali oggetti.1 Del resto, le immagini giocano un ruolo importante nella teoria del si­ gnificato degli stoici, come si sa che avevano una parte im­ portante anche nella teoria del significato di Aristotele. In secondo luogo si può considerare come fondamentale il fatto che uno dei modi di identificare un "particolare" è quello di identificarlo linguisticamente. In questo caso è fondamentale l'abilità di A nel comunicare a B che sta par­ lando intorno a X, come pure l'abilità di B di indicare ad A che egli ha compreso il suo riferimento.  6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 137 6.1 La teoria del linguaggio 6 . 1 . 1 Il triangolo semiotico Il passo di Sesto Empirico che contiene i lineamenti fon­ damentali della teoria linguistica stoica si trova proprio in un contesto che concerne un conflitto di opinioni intorno alla verità. È importante sottolineare che per gli stoici una teoria del­ la verità, cioè la ricerca delle basi per una verifica delle pro­ posizioni, non può essere elaborata in maniera indipenden­ te da una concezione della struttura del mondo e da ciò che può essere detto intorno a esso. Ecco il passo di Sesto. Alcuni hanno riposto il vero e il falso nella cosa "significata" (tò smainomenon), altri nella voce (phon), altri infine nel mo­ vimento del pensiero. Della prima opinione sono stati i porta­ bandiera gli stoici col sostenere che sono tra loro congiunte tre cose, ossia la cosa significata (tò smainomenon), quella signi­ ficante (tò smafnon), e quella-che-si-trova-ad-esistere (tò tyn­ chanon), e che, tra queste, la cosa significante è la voce (ad esempio la parola "Dione"); quella significata è lo stesso stato di cose (autò tò pragma) indicato dalla voce pronunciata (tò hyp'autis dloumenon), che noi percepiamo come coesistente (paryphistamenon) con il nostro pensiero (dianoia1), mentre i barbari, pur ascoltando la voce che lo indica, non lo compren­ dono; infine, ciò-che-si-trova-ad-esistere è quello che sta fuori di noi (ad esempio, Dione in persona). Di queste cose due sono corpi, cioè la voce e ciò-che-si-trova-ad-esistere, ed una è incor­ porea, cioè l'oggetto significato o "detto" (lekton), e proprio quest'ultimo è vero o falso. 2 (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12) A partire dalle notizie di Sesto, anche per gli stoici il fe­ nomeno della significazione linguistica può essere ricostrui­ to nei termini di un triangolo (cfr. p. 138). Si può osservare che compaiono i termini "significante" e "significato" (come è dato trovare anche nella teoria mo­ derna di Saussure), ma non quello di "segno": come anche  138 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI slmsin6menon (significato) lekt6n ( detto)  tmsm lnon (aignificente) tynchAnon  in Aristotele, la nozione di smeion appartiene a un altro ambito della teoria, che non è quello strettamente linguisti­ co. Si può notare anche che l'esempio che viene dato qui è abbastanza particolare, in quanto si tratta di un nome pro­ prio. In secondo luogo, se da una parte, come per Aristotele, i termini che individuano la significazione sono tre e com­ prendono anche l'oggetto, che propriamente è esterno al linguaggio, tuttavia la coincidenza tra i due modelli è solo parziale: soltanto il primo e il terzo termine, cioè la voce si­ gnificante e l'oggetto, possono essere assimilati nei due triangoli. 6. 1 .2 Il "lekt6n" come "asserzione" Un caso assolutamente a sé costituisce il termine che si trova al vertice superiore del triangolo, chiamato prima ù·lJ_ main6menon, poi anche lekt6n. Soprattutto nella sua se­ conda denominazione costituisce un termine peculiare della filosofia del linguaggio degli stoici e rimanda a un concetto complesso e di grande interesse. Un primo aspetto della sua peculiarità lo si può rilevare in un confronto con Aristotele. (oggetto esterno, referente)   LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 139 Nella stessa posizione del triangolo della significazione Ari­ stotele poneva delle entità psicologiche, che venivano consi­ derate le medesime per tutti gli uomini. Il lekt6n degli stoici, come ci dice Sesto nel passo riporta­ to, ha caratteri completamente diversi, in quanto i barbari, pur udendo i suoni e vedendo l'oggetto, non lo compren­ dono . Come rileva Todorov (1977: 17-18), la differenza tra le due nozioni consiste innanzitutto nel fatto che, mentre l'en­ tità presa in considerazione da Aristotele si situa a livello della mente dei locutori, quella considerata dagli stoici si si- tua direttamente al livello del linguaggio: Todorov interpreta il lekt6n come la capacità del primo elementodi designare il terzo. Tale interpretazione poggia anche sul fatto che l'e­ sempio dato è un nome proprio, che ha una capacità di de­ signazione come gli altri nomi, ma è molto controverso se abbia un senso; la risposta che di solito si dà a questo inter­ rogativo è negativa. I barbari odono sicuramente la sequenza di suoni l Dio­ ne l e vedono l l Dione l l , ma sono incapaci di connettere il suono con il suo oggetto di riferimento. Comprendere, dun­ que, come avviene appunto nel caso dei Greci, consiste pro­ prio nel percepire la connessione tra la parola che viene pro­ nunciata e l'oggetto cui si riferisce. Anche Long (1971 a: 77) identifica il lekt6n con tale connessione, ma nel senso che esso si configura come l'affermazione che un enunciato fa nei confronti di qualche oggetto; in questo caso, la tra­ duzione più propria di lekt6n è "ciò che è detto", in quanto tale espressione copre sia la nozione di "giudizio" che quella di "stato di cose significato da una parola o da una serie di parole".3 L'idea che i lekta si potessero configurare come "affer­ mazioni intorno agli oggetti" emerge da una testimonianza di Seneca (Epistulae mora/es, 1 17, 13), in cui viene delinea­ to uno schema triadico della significazione analogo a quello di Sesto, ma con una proposizione ( l Catone cammina l ), laddove Sesto proponeva solo un nome ( l Diane l ). Seneca invita a distinguere tra l'oggetto di riferimento, cioè Cato­ ne, che è un oggetto materiale, e l'asserzione intorno a esso  140 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI ( l Cato ambulat l ), che è un "incorporale". Tale asserzione è propriamente il lekton, del quale termine Seneca propone tre diverse traduzioni latine: enuntiatum ("enunciazione"), effatum ("affermazione"), dictum ("asserzione"). Dato che l'esempio proposto da Seneca è una proposizio­ ne, risulta più agevole, rispetto ali'esempio di Sesto, capire come possa essergli applicato il predicato "vero" o "falso".4 Infatti solo i lekta che costituiscono una proposizione com­ pleta possono essere veri o falsi.5 6. 1 .3 I rapporti tra il "lekt6n" e il pensiero Nel modello aristotelico della significazione le espressioni linguistiche sono i simboli degli stati psichici (pathmata en tiipsychi1) elo dei pensieri (noimata). In questo modo non viene operata una chiara distinzione tra la nozione di "si­ gnificato" e quella di "pensiero". Tale concezione ricompa­ re del resto nella nota teoria novecentesca di Ogden e Ri­ chards (1936: tr. it. 37), i quali disegnano un triangolo se­ miotico in cui figura al vertice superiore la nozione di "thought" ("pensiero"). Diversa è la concezione proposta dagli stoici. In effetti, dalla testimonianza concorde di Sesto e di Diogene si ricava una nozione di significato nettamente distinto dal pensiero, anche se intrattenente con questo un certo tipo di rapporto. Dice infatti Sesto: [Gli stoici] affermano che il /ekton è ciò che sussiste in confor­ mità con una rappresentazione razionale (loghik phantasia) e che una rappresentazione razionale è quella secondo cui il rap· presentato (phantasthén) può essere espresso in parole. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70) In termini del tutto analoghi si esprime Diogene (Vitae, VII, 63), usando anche le stesse espressioni. Cosi, da en­ trambi i passi si può ricavare l'idea che gli stoici operassero una distinzione netta tra i lekta, che rappresentano il livello del "significato", e le "rappresentazioni razionali" (loghikaì  6.1 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 141 phantasfa1), che possiamo definire come delle forme di atti­ vità intellettiva o dei pensieri; quest'ultime entità sono pe­ culiari della specie umana6 e possono, ali'occorrenza, essere espresse in parole (a questo infatti si riferisce l'aggettivo lo ghikaf). Ma, sempre dai due passi, si può ricavare anche che i due termini, il lekton e l'attività di pensiero, vengono messi in relazione. Long (1971 a: 82) cosi commenta il passo di Se­ sto: "I take this difficult passage to mean that the /ekton is defined as the objective content of acts of thinking (no sis)" e aggiunge anche "or, what comes to the same thing in Stoicism, the sense of significant discourse". Prima di ap­ profondire il senso di questa seconda asserzione di Long, soffermiamoci sulla prima. Dunque la relazione che il lekton instaura con l'attività di pensiero è tale per cui esso si configura come contenuto o risultato di tale attività. Ma questa nuova relazione, che ve­ niamo scoprendo attraverso le testimonianze di Diogene e Sesto, comporta un elemento nuovo rispetto a quanto lo stessoSestoavevadettoaltrove(Adv.Math.,VIII, 11-12), quando aveva messo in relazione il lekton con l'espressione significante (cioè con il smainon). In effetti, se il lekton viene ora definito come qualcosa che sussiste in conformità con una rappresentazione razionale, è evidente che l'accen­ to appare spostato dal precedente rapporto con il suono della voce, a un rapporto con l'attività del pensiero. Questa, prima di dimostrarsi un'apparente contraddizio­ ne o un falso dilemma, ha diviso sia le testimonianze degli esegeti antichi sia le interpretazioni degli studiosi moderni degli stoici. Come mette bene in evidenza Mignucci (1965: 92-93), i lekta, essendo incorporei, "non possono essere disgiunti da qualcosa di corporeo che faccia in qualche modo da sup­ porto ad essi e che permetta la loro esprimibilità". Il proble­ ma diviene allora quello di stabilire se a fare da supporto ai lekta siano: (i) i suoni della voce; o (ii) l'attività della mente che li pensa. La prima definizione di Sesto7 opta per la solu­ zione (i),9mentre la seconda,8 come pure la definizione di Diogene, optano per la soluzione (ii). Ugualmente, tra gli ­  1 42 6 . LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI interpreti moderni, Mates10 risponde che sono le parole a fare da supporto ai lekta; Zeller11 e Bréhier12 assumono l'altro punto di vista. Come dicevamo, questo è un falso dilemma, non resolu­ bile tuttavia filologicamente, in quanto nei testi antichi c'è un'uguale quantità di elementi di convalida per ciascuno dei due punti di vista. Piuttosto è necessario considerare un du­ plice presupposto che sembra agire nella teoria stoica: da un lato il verificarsi di discorsi significativi rimanda a un'at­ tività intellettuale, in assenza della quale non è possibile che si diano i significati; dall'altra il risultato dell'attività intel­ lettuale ha bisogno dei suoni della voce significativi per esplicitarsi oggettivamente. È possibile, anzi, trarre le con­ seguenze dal fatto che i lekta siano definiti da una parte co­ me contenuti delle rappresentazioni razionali e dali'altra come significati delle parole: conseguenze che indicano la necessità di postulare una stretta connessione tra i contenuti dell'attività rappresentativa della mente e il loro essere si­ gnificati attraverso le parole. I due termini, in realtà, non possono essere disgiunti l'uno dall'altro.13 A questo punto possiamo comprendere la seconda asserzione di Long che abbiamo anticipato: il senso del discorso significante e il contenuto oggettivo degli atti di pensiero devono essere considerati come la stessa cosa.. La precedente conclusione viene del resto appoggiata da tà14 è dato dalla "rappresentazione" (phantasia) passo Diogene spiega che la phantasia ha un ruolo assoluta­ mente primario, in quanto non è possibile, senza di essa, rendere conto di alcuni processi fondamentali della cono­ scenza, quali l'assenso (synkatathesis), la comprensione (kata/psis) e l'attività di pensiero (n6sis): "infatti la rap­ presentazione viene per prima, poi il pensiero (dianoia) che è capace di parlare (eklalètik), esprime in parole (/6g01) ciò che esperimenta come il risultato della rappresentazione". Il passo di Diogene è importante perché ripropone la no­ zione, già platonica,15 del pensiero come "discorso inter­ no".16 Tutto ciò porta a concludere che per gli stoici esiste Long sulla considerazione di un passo di Diogene Laerzio (Vitae, VII, 49-50) in cui viene detto che il criterio di veri- .. In questo  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 143 una sostanziale identità tra i processi del pensiero e quelli della comunicazione linguistica. Il fatto poi che i processi cognitivi siano basati sulla phantasia getta luce sul ruolo che le immagini mentali hanno nella teoria linguistica del si­ gnificato. 6.2 La teoria del segno 6.2. 1 Il "lekt6n" e la teoria del segno Il lekton, che abbiamo finora incontrato come elemento centrale della teoria del linguaggio, costituisce una nozione fondamentale anche della teoria del segno e, in un certo f110do, è un fattore di mediazione tra le due teorie. Infatti i 5egni (smefa) per gli stoici sono anzitutto dei lekta, in auanto sono costituiti da proposizioni. Questo fa sì che, come sottolinea Eco (1984: 30), nella se­ fllÌOtica stoica si verifichi una saldatura "di diritto" tra la 0ottrina del linguaggio e la dottrina dei segni. Infatti, "per­ ché ci siano segni occorre che siano formulate proposizioni e le proposizioni debbono organizzarsi secondo una sintassi Jogica che è rispecchiata e resa possibile dalla sintassi lingui­ stica" (ibidem). Occorre tener presente che gli stoici non di­ cono ancora che le parole sono segni (sarà Agostino il pri­ (110 a fare una simile asserzione) e rimane, del resto, una òifferenza lessicale tra la coppia smafnonlsmain6menon e sl!mefon. Tuttavia il fatto che i segni siano dei lekta ci illumina sul­ ra necessità, avvertita dagli stoici, di tradurre il segno non verbale in termini linguistici e di legare, dunque, per quanto jfl maniera implicita e indiretta, le due teorie. Ecco la definizione di segno che ci viene data da Sesto: Gli stoici, volendo presentare la nozione di segno, dicono che è una proposizione (axloma) che è l'antecedente (prokathegou­ menon) in un condizionale vero (en hyghiei synemménOl), e che è rivelatore del conseguente (ekkalyptikòn tou ligontos). E di-  144 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI cono che la proposizione è un lekt6n completo in se stesso; e il condizionale vero è quello che non comincia dal vero e finisce ] Riprenderemo più avanti le varie problematiche che ven­ gono presentate in questo passo. Per il momento ci preme sottolineare che in esso si definisce il segno come un lekt6n completo, cioè come una proposizione che si pone in rap­ porto di implicazione con un altro lekt6n, cioè con un'altra proposizione, secondo lo schema: p -:J q. Si deve notare che, come per Aristotele, l'attenzione per il segno è esercitata in funzione della conoscenza che esso pe_rmette di raggiungere: l'ottica, in altre parole, è ancora quella epistemica, e il segno appartiene a un campo che è di­ stinto sia da quello logico sia da quello semantico in senso stretto. Il segno, infatti, non è una proposizione qualsiasi che figuri come antecedente in un condizionale vero, ma so­ lo quella proposizione che permette di scoprire il conse­ guente (cioè che permette l'accesso a una nuova conoscen­ za). Su questo torneremo tuttavia più avanti. Va comunque notato che, se l'ottica con cui gli stoici guardano al segno è la stessa di quella di Aristotele, assolu­ tamente diverso è il tipo di inquadramento logico. È nor­ mallnente accettato che Aristotele pratichi la logica delle classi, mentre gli stoici introducono quella proposizionale. Ciò comporta che l'attenzione venga spostata: (i) dalla so­ stanza degli eventi (Todorov 1 977 : 21), per quanto concerne il punto di vista antologico; (ii) dal nome/aggettivo, che funge da predicato, alla proposizione, per quanto concerne l'espressione linguistica. In effetti, in Aristotele si poteva notare un certo disagio a trattare le sostanze e le proprietà come segni. Ciò che, invece, può essere trattato come segno sono i fatti e gli avvenimenti espressi da proposizioni. E del resto Aristotele, pur senza denunciare la differenza, tutta- nel falso [ di un condizionale che comincia con il vero e finisce nel vero. Essa fa scoprire il conseguente poiché la proposizione "essa ha latte" sembra essere rivelatrice (de/Otik6n) di quest'altra "essa concepito". 17 (Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 104-106) ... . Essi chiamano antecedente la prima proposizione  LA TEORIA DEL SEGNO 145 via fornisce alcuni esempi di segno (come quello della Reto­ rica, I, 1357 b, 16-18: "Se essa ha latte, essa ha partorito"), in cui vengono presi in considerazione eventi e non sostan­ ze. Ma nella filosofia aristotelica la teoria del segno ha una parte marginale: il segno viene fatto rientrare nel procedi­ mento sillogistico (costituisce una premessa del sillogismo) e viene confinato nel campo dei procedimenti retorico-dia­ lettici, se non è un tekmirion, cioè un segno necessario. Nella scienza vera e propria, fondata sul sillogismo perfet­ to, il smeion non trova f>osto. Al contrario, nelle scuole postaristoteliche, l'inferenza da segni acquista un ruolo centrale: dalla retorica e dialettica, suoi punti di partenza, il segno viene esteso alla scienza in generale e alla filosofia nel suo grado più alto. Gli stoici e gli epicurei vedono nel segno il procedimento canonico del passaggio da ciò che è noto a ciò che è ignoto. Preti (1956: 7-8) sostiene che, a proposito della teoria del segno, tra Aristotele e le scuole posteriori si può individuare un anello di congiunzione, rappresentato dalla teoria di Nausifane, un seguace di Democrito e uno dei maestri di Epicuro. Da quanto ci è rimasto della sua opera, il Tripo­ de, 1 8 è possibile cogliere i punti essenziali di questo passag­ gio . Per Nausi fane, infatti , il discorso filosofico (basato per Aristotele sul sillogismo) e quello retorico (basato sull'enti­ mema) presentano in realtà la stessa struttura logica. In en­ trambi i casi è necessario distinguere tra la "conseguenza" (ak6/outhon), la "premessa" (homologoumenon) e "ciò che deriva dalle premesse" (tlnon lphthénton ti symbafnei: il sillogismo?). In ognuno dei due tipi di discorso il problema è quello di partire da cose presenti (hyparchonta) per giun­ gere in maniera metodica alle cose invisibili. Il metodo del passaggio è la akolouthia, "la relazione di consequenziali­ tà", di implicazione o implicitazione,19 comune appunto a filosofia e retorica. 20 Ora, come testimonia Sesto, dalle cose evidenti (apò ton enargOn) alla comprensione del­ le cose oscure (adla) per mezzo del segno come relazione di akolouthia costituisce proprio il nocciolo della dottrina de­ gli stoici (come pure di tutti coloro che Sesto riunisce sotto la possibilità di passaggio  LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI il nome di "dogmatici"). Non solo, ma come prova della centralità della semiotica, anche la dimostrazione viene considerata un segno:21 fatto che testimonia la riduzione della filosofia della scienza a semiotica e che conferma la tendenza delle scuole postaristoteliche a ridurre o trasfor­ mare il sillogismo nell'inferenza implicativa. 6.2.2. 1 I tipi di segno: A) "comune" e "proprio" Nella semiotica stoica si registra la scomparsa della di­ stinzione terminologica tra tekmrion e smeion: il primo termine non viene più usato e i segni vengono tutti denomi­ nati smeia. Un'ipotesi plausibile è che ciò sia legato all'ab­ bandono del sillogismo e della sua distinzione in figure la quale sorreggeva tale opposizione. Tuttavia, al suo posto, sembra comparire un'opposizione tra "segno comune" (koinòn smeion) e "segno proprio" (fdion). Tale distinzione non era specificamente stoica, ma appartenente a una koini filosofica ellenistica, sulla quale c'era accordo anche tra scuole per altro verso in contrasto. Una definizione sufficientemente chiara dei due tipi di se­ gno si trova nel trattato semiotico di Filodemo (l secolo a.C.): Un segno è comune (koin6n) per nessuna altra ragione che quella per cui può esistere, sia che l'oggetto non percepito (tò adlon) esista, sia che non esista. Noi diciamo che la persona che crede che questo particolare uomo sia buono a causa del fatto che è ricco, sta usando un segno non valido e comune dal momento che molti che sono ricchi risultano malvagi e molti buoni. Perciò il segno proprio (idion), se è necessario (ananka­ stik6n), non può esistere altrimenti che con la cosa che noi di­ ciamo appartenere di necessità ad esso, (cioè) l'oggetto non evi­ dente di cui è segno. 22 (Philodemus, De signis, I, 1-17) C'è una convergenza nelle scuole postaristoteliche nel ri­ tenere il segno comune come non valido e nell'accettare in­ vece unicamente il segno proprio. Dalla definizione di Filo-  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 147 demo si ricava che una differenza peculiare consiste nel ca­ rattere di necessità del segno proprio, che viene definito co­ me "necessario" (anankastik6n), carattere non posseduto da quello comune. Viene dunque da mettere in parallelo il segno proprio con il segno necessario di Aristotele che ri­ chiedeva una connessione necessaria con l'oggetto a cui rin­ viava. D'altra parte, il segno comune è definito come quel segno che può rimandare a qualcosa di esistente, di cui sa­ rebbe segno, ma può anche non rimandare a niente. Dato l'esempio, cioè l'inferire dalla ricchezza di un uomo la sua bontà (inferenza che in certi casi funziona e in certi altri no), sembra plausibile porre in relazione il segno comune e i segni in seconda e terza figura di Aristotele. Infatti per Ari­ stotele si poteva inferire dal pallore di una donna il suo es­ sere gravida (segno in 2a figura) oppure dalla bontà di Pit­ taco la bontà dei sapienti (segno in 3a figura): ma questi se­ gni non in ogni caso risultavano verificati. Si può così giungere a una conclusione interessante: men­ tre Aristotele, pur negando validità scientifica ai segni non necessari, ne prevedeva comunque un uso in un ambito epi­ stemologicamente più basso, come quello della retorica, do­ minio delPopinione, la scuole postaristoteliche sembrano aver fatto definitivamente piazza pulita delle inferenze del tipo non necessario. 6.2.2.2 I tipi di segno: B) "rammemorativo" e "indicativo" Filodemo aveva scritto il suo trattato intorno alla metà del I secolo a.C. Circa due secoli dopo, Sesto riprende la di­ stinzione tra segno preso in senso proprio (idlos) e segno preso in senso comune (koinOs), mettendola in esergo alla sua trattazione del segno; ma, stranamente, assimila questa a un'altra opposizione, quella tra segno rammemorativo e segno indicativo: Il segno [. . .] si dice in due maniere, comune (koinOs) e proprio (idt'Os). In maniera comune si dice segno quello che sembra rive­ lare qualche cosa: in questo senso sogliono chiamare segno an-   148 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI che ciò che serve a richiamare alla memoria la cosa osservata in­ sieme con esso. In maniera propria si dice segno quello che è in­ dicativo di una cosa avvolta nell'oscurità. (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 143) Apparentemente, e in maniera contraddittoria, tuttavia Sesto sembra voler mantenere la duplice distinzione, in quanto, dopo aver introdotto l'opposizione tra segno co­ mune e segno proprio, dichiara di voler trattare solo di que­ st'ultimo (ibidem, 143); e poiché il segno proprio è quello che permette di scoprire le cose che sono oscure, egli propo­ ne di distinguere preliminarmente le cose in "manifeste" e "oscure", e di suddividere ulteriormente quest'ultime in tre categorie. Ne risulta una quadruplice tipologia: (i) Le cose manifeste o immediatamente evidenti: sono quelle che giungono alla conoscenza in maniera diretta; co­ me esempio Sesto porta "il fatto che è giorno e che io sto di­ scorrendo"23 quando io faccio realmente queste cose. (ii) Le cose oscure in senso assoluto: sono quelle che han­ no una natura tale da non arrivare alla nostra comprensio­ ne (kata/psis), come a esempio "se le stelle siano di numero pari o dispari" o "se i granelli di sabbia della Libia siano di un determinato numero".24 (iii) Le cose oscure temporaneamente: sono quelle che pur avendo una natura manifesta divengono, per certe cir­ costanze, non evidenti per un certo tempo: l'esempio è il fatto che, chi si trova a una certa distanza, non vede la città di Atene. Atene, visibile per sua natura, diviene tempora­ neamente invisibile a causa della distanza.2 (iv) Le cose oscure per natura: sono quelle che hanno una natura tale da non essere percepite, ma sono soltanto pen­ sabili (noto1).26 Gli esempi sono "i pori intelligibili" e "il vuoto". Non si pone un problema di segni a proposito della prima e della seconda categoria, in quanto le cose manifeste ven­ gono comprese in maniera non mediata e le cose oscure in senso assoluto non possono essere comprese affatto. Invece è proprio attraverso i segni che possono essere comprese le cose che appartengono alle ultime due categorie. Ma i tipi  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 149 di segno sono diversi per ciascuna di esse. Le cose tempora­ neamente oscure si colgono attraverso i segni rammemora­ tivi, quelle oscure per natura attraverso i segni indicativi. Ecco la definizione che ne dà Sesto: Dei segni [...], secondo costoro [i dogmatici], alcuni sono ram· memorativi (hypomnstika), altri indicativi (endeiktika). Chia­ mano segno rammemorativo quello che, osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, appena esso si presenta, se quella è avvolta nell'oscurità, ci conduce a ricordare la cosa che è stata osservata insieme a tal segno e che non si presenta ora in maniera evidente, come avviene per il fumo e il fuoco. È invece indicativo, come dicono, quel segno che, non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, pure, per la propria natura e costituzione, segnala ciò di cui è segno; così, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima. (Sext. Empyr., Hyp. Pyrrh., II, l00-1Ol)27 Il segno rammemorativo è, in sostanza, frutto di un'asso­ ciazione costante tra cose comunemente osservate in con­ nessione empirica. Sembra, tra l'altro, che gli esempi che Sesto sceglie per illustrare questo tipo si distribuiscano se­ condo la tripartizione28 contemporaneità/anteriorità/po­ steriorità tra il segno e la cosa indicata: nel caso di "fu­ mo-+fuoco" vi è contemporaneità; in "cicatrice-+piaga" o in "fascia-unzione degli atleti" il fatto indicato è anterio­ re; in "ferita al cuore-morte", il segno rimanda a qualcosa di posteriore.29 Il segno indicativo, a differenza del precedente, non è su­ scettibile di essere osservato insieme alla cosa di cui è segno, in quanto quest'ultima non è mai stata manifesta e spesso non è nemmeno sospettabile. Ne sono esempi "i movimenti del corpo" che permettono di risalire all'"anima", o "il su­ dore" che rimanda ai "pori della pelle".30 Sesto accetta la validità epistemologica dei segni rammemorativi, mentre nega validità epistemologica ai segni indicativi, che sono, secondo lui, un'invenzione dei "filosofi dogmatici" e dei "medici razionalisti".3 1 Possiamo ricapitolare con il seguente schema la classifi­ cazione di Sesto: cose manifeste oscure   non danno luogo a segni danno luogo a un segno in senso assoluto per natura danno luogo a un segno indicativo rammemorativo Si deve però osservare che la distinzione riportata da Se­ sto tra segno rammemorativo e segno indicativo solleva molti dubbi circa la sua provenienza stoica. In effetti, non se ne trova traccia in altre fonti e neppure nel resto della trattazione dello stesso Sesto. Inoltre, tale distinzione appa­ re addirittura in contrasto con l'indirizzo complessivo della filosofia stoica e soprattutto con l'orientamento logico-for­ male della teoria del segno. Questa distinzione, per quanto importante dal punto di vista epistemologico, appare irrile­ vante dal punto di vista logico. Invece, sembra essere genuinamente stoica la distinzione tra segno comune e segno proprio, secondo la testimonian­ za di Filodemo. È, tra l'altro, il carattere necessario del se­ gno proprio che dimostra la coerenza di essa con il pensiero stoico. Infatti, il segno degli stoici è sempre un segno "ne­ cessario", come un'analisi più dettagliata della sua struttura ci permetterà di vedere. 6.2.3 La struttura del segno nel "condizionale" Ritornando alla definizione stoìca di segno che abbiamo visto, si devono prendere in considerazione almeno tre cose. Prima di tutto la nozione di synemménon, che letteralmente significa "connesso" o "connessione". Il suo significato lo­ gico ci viene chiarito da Diogene:32 si tratta dell'asserto temporanea­ mente  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 151 condizionale del tipo "Se p, allora q", in cui a una prima proposizione consegue una seconda come nell'esempio "Se è giorno, c'è luce". La seconda cosa da prendere in considerazione è la no­ zione di condizionale valido (hyghiés, "sano"). Da un passo di Sesto, dove se ne trova la definizione, è possibile ricavare che questa nozione è affine alla moderna interpretazione vero-funzionale di "Se p, allora q"; infatti la validità o in­ validità dell'asserto condizionale "Se p, allora q" dipende dal valore di verità deli'antecedente e del conseguente di esso. 33 Sesto, in due passi paralleli, camente "quel condizionale che non comincia dal vero e fi­ nisce nel falso" e fcrnisce una tavola dei valori di verità del tutto conforme a quella che la logica contemporanea preve­ de per l'implicazione materiale:  p q ·se p, allora q• valido vero vero falso falso vero falso invalido falso vero valido Sesto accenna anche a un disaccordo tra i logici stoici a pro­ posito del criterio per giudicare un condizionale valido:34 esso corrisponde a ciò che è stato definito dai Kneale ( 1 962: tr. it. 154 e sgg.) "il dibattito sulla natura dei condizionali", che animò le discussioni di logica ali'epoca degli stoici. Il terzo elemento da rilevare è legato alla nozione di se- definisce come valido uni­ valido  152 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI gno come antecedente (prokathegoumenon) in un condizio­ nale valido. In effetti, come fa rilevare lo stesso Sesto,3s i ti­ pi di condizionale valido sono tre nella tavola dei valori di verità corrispondente all'implicazione materiale (V V; F F; F V); il problema diviene dunque quello di vedere se la struttura del segno sia da ricercare in ciascuno dei tre tipi di condizionale valido, o solo in casi particolari. Ora, in effet­ ti, un segno non può non essere espresso da una proposizio­ ne vera, come pure deve essere vera la proposizione a cui es­ so rimanda. Così sono esclusi il secondo e il terzo caso (F F; F V), in quanto hanno un antecedente falso. Dunque l'uni­ ca possibilità è relativa al primo tipo di condizionale, cioè quello che comincia dal vero e finisce nel vero.36 Ma c'è un'ultima osservazione da fare, ed è relativa al ca· rattere che il segno deve avere di essere rivelatore (enkalyp­ tik6n) del conseguente. In effetti un condizionale del tipo "Se è giorno, c'è luce", nel momento in cui si verifichino le due condizioni che sia giorno e che vi sia luce, è formato da due proposizioni entrambe vere. Tuttavia, secondo Sesto,37 non si realizzano in questo caso le condizioni perché vi sia un segno, in quanto entrambe le proposizioni rimand?no a fatti di per sé evidenti. Il primo termine del condizionale non è rivelatore del secondo. In effetti, per comprendere la vera natura del segno bisogna passare dal piano strettamen­ te logico a uno più generalmente epistemologico. Il segno, per gli stoici, non solo deve avere una corretta costruzione dal punto di vista logico, individuabile nella implicazione tra due proposizioni vere, ma deve anche possedere il carat­ tere di dispositivo che permette di accrescere la cono­ scenza.38 Come già in Aristotele, anche per gli stoici il segno si ap· poggia su un livello logico, ma si inquadra in un'ottica co­ noscitiva. Gli esempi di carattere medico denunciano l'ori­ gine di quest'ottica. In generale il segno deve permettere il passaggio inferenziale da una conoscenza di facile accesso, come "egli ha sputato cartilagine bronchiale", a una cono­ scenza di molto più difficile accesso, come "egli ha una pia­ ga nel polmone". Tuttavia, ciò che la teoria del segno ac­ quisisce, passando dalle mani dei medici a quella dei filoso..  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO fi, è una solida struttura dal punto di vista logico-formale, tale da escludere la possibilità di inferenze scorrette. 6.2.4. 1 Il dibattito sulla natura dei condizionali Quanto ampio e difficoltoso fosse il lavoro che i filosofi dovevano svolgere, sul piano logico, per stabilire un criterio atto a escludere le inferenze scorrette, lo dimostra l'acceso dibattito che si sviluppò sulla "natura dei condizionali" (Kneale 1962). Scrive infatti Sesto Empirico: "Tutti quanti i dialettici sono generalmente d'accordo neli'affermare che un condizionale è valido quando il suo conseguente segue (akolouthei) dal suo antecedente, ma disputano sul come e quando esso segua, e propongono criteri rivali" (Adv. Math., VIII, 12). Riferendosi a questo dibattito, Sesto elenca quattro crite­ ri che erano stati proposti per stabilire la validità di un as­ serto condizionale: (i) quello di Filone Megarico; (ii) quello di Diodoro Crono; (iii) quello della srsnartsis attribuibile a Crisippo; (iv) quello della émphasis. 9 Sulla disputa si può tuttavia fare un'osservazione genera­ le preliminare. Il punto di partenza, infatti, come fa notare Martha Hurst (1935: 492), è una relazione già conosciuta, nel senso che essa è riconoscibile nei suoi esempi. Ciò che invece costituisce lo scopo è una definizione di questa rela­ zione di consequenzialità (akolouthla) in termini formali. Nel corso dell'intero dibattito sulla natura dei condizionali i logici antichi si sono concentrati sul definiendum e non sul definiens. Quest'ultimo, che può possedere proprietà auto­ nome, essendo dotato di significato, non è stato preso in considerazione se non nella misura in cui poteva essere pro­ vato che esso coincideva con il definiendum. Si è cosi spesso creata una confusione tra i due livelli e spesso sono stati scelti esempi che ambiguamente erano in grado di elucidare sia la relazione riconosciuta, sia le proprietà della relazione logica che essi tentavano di identificare con la prima. Può aiutarci a comprendere meglio questo modo di pro­ cedere un paragone con i metodi della logica contempora- LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI nea. I logici contemporanei, infatti, sono in genere interes­ sati unicamente al definiens, cioè alla relazione che essi pos­ sono stabilire in simboli, senza riguardo alla questione se tale relazione sia identica a quella che è ampiamente cono­ sciuta, facilmente riconosciuta, e poco compresa come quella di una espressione di implicitazione ("fol/owing", Hurst 1935: 492). A esempio Peirce e Russell erano interes­ sati alle proprietà della implicazione materiale indipenden­ temente dal fatto che essa riproducesse il significato "usua­ le" di "implica" ("implies"). Così pure Lewis era interessato al sistema della implicazione rigida senza sostenere che l ' im­ plicazione rigida rappresenti il significato di "implica". Questa differenza nel modo di procedere tra antichi e moderni comporta un'ulteriore differenza formale: mentre i logici antichi erano interessati a dare un'unica definizione, i moderni lo sono a fornire due definizioni: quella di "im­ plicazione materiale" e quella di "implicazione rigida". 6.2.4.2 L'implicazione filoniana Filone è il primo esponente della scuola megarico-stoica citato da Sesto ed è il primo che dà un'interpretazione vero­ funzionale dell'espressione "Se p, allora q": secondo lui, un'espressione condizionale è valida se, e solo se, non co­ mincia con il vero e finisce con il falso. Come abbiamo già visto, la definizione che Filone dà del criterio di consequen­ zialità (ako/outhfas kritrion) corrisponde al quadro del­ l'implicazione materiale. Infatti sono tre i casi in cui il con­ dizionale è valido, corrispondente ai tre esempi seguenti: (i) "Se è giorno, c'è luce" (VV); (ii) "Se la terra vola, la terra ha le ali" (FF); (iii) "Se la terra vola, la terra esiste" (FV). Come sottolineano i Kneale (1962: tr. it. 157), è probabi­ le che Filone avesse in mente l'uso dell'espressione "Se p, allora q" nei ragionamenti e che volesse attirare l'attenzione sul fatto che la congiunzione dell'asserto condizionale con il suo antecedente implicita sempre il conseguente. L'inter­ pretazione proposta da Filone è la più debole che soddisfi tale requisito.  6.2 LA TEORIA DEL SEGNO 155 6.2.4.3 L'implicazione diodorea Diodoro Crono era il maestro di Filone, e la ragione per cui Sesto lo cita per secondo può essere forse attribuita al fatto che, mentre Diodoro riuscì a confutare Filone, que­ st'ultimo non riuscì a fare altrettanto con il primo (Hurst 1935: 435 n.). La critica che Diodoro muove all'interpretazione filonia­ na insiste proprio sul carattere di debolezza di quest'ultima. Egli individua infatti degli esempi di condizionale che, pur potendo soddisfare il requisito filoniano in un tempo tt , possono tuttavia mancare di soddisfarlo in un altro tempo t2. A esempio, l'asserto "Se è giorno, io sto conversando" sarebbe considerato vero da Filone se si dessero le condizio­ ni , in un tempo t  , per cui fosse giorno e io stessi conversan­ do. Diodoro invece dimostra che esso è falso, sostenendo che non c'è niente nella sua natura che permetta di dire se esso cada o no sotto la definizione di Filone. Infatti esso potrebbe essere pronunciato anche in un tempo t2, quando fosse giorno, ma io rimanessi silenzioso. In questo caso es­ so avrebbe la forma invalida VF. Per ovviare a questo inconveniente, Diodoro elabora una concezione secondo la quale un condizionale è valido quan­ do "non ammise, né ammette di cominciare con il vero e fi­ nire con il falso".40 L'esempio che egli dà è "Se non esisto­ no gli elementi atomici delle cose, allora esistono gli ele­ menti atomici delle cose", che, secondo Diodoro, ha l'ante­ cedente sempre falso e il conseguente sempre vero: ciò ba­ sterà a escludere l'evenienza di un antecedente vero con un conseguente falso, unico caso in cui il condizionale sarebbe non valido.41 6.2.4.4 L'"implicazione connessiva" ("synartesis") di Cri­ sippo La terza concezione di condizionale valido riportata da Sesto è quella che, secondo diversi studiosi moderni (Mates  LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI 1949 a; Bochenski 1951 e 1956), corrisponde alla implica­ zione rigida di Lewis o comunque a una forma di implica­ zione necessaria (Kneale 1962; Preti 1956). In maniera con­ corde con il passo di Sesto, che abbiamo visto, questa con­cezione viene riportata da Diogene (Vitae) : " È v e r o un condizionale nel quale il contraddittorio (antikefmenon) del conseguente è incompatibile (macheta1) con l'anteceden­ te, come a esempio 'se è giorno, c'è luce' ". Il nome del sostenitore di questa concezione non ci è sta­ to lasciato da chi la riferisce; ma vi sono prove che essa ap­ partenesse a Crisippo (cfr. anche Miiller 1978: 18-19). La nozione di "incompatibilità", messa in scena da que­ sta definizione, è molto interessante, ma problematica in quanto non viene chiaramente definita. Martha Hurst (1935: 495), commentando il passo, tende a mostrare che la relazione di incompatibilità e anche, più in generale, quella di "consequenzialità" (jollowing), non possono essere espresse in termini estensionali, cioè mediante relazioni esterne, che sussistono tra le proposizioni in virtù di pro­ prietà che esse avrebbero al di fuori della relazione: al con­ trario, è necessario ricorrere alle relazioni interne che sussi­ stono in virtù del loro significato. Può essere interessante confrontare questa conclusione di M. Hurst con le osservazioni di Preti (1956: 13), il quale so­ stiene che l'esempio di Sesto, dato a proposito della synar­ tsis "sembra alludere a qualcosa di ancora più forte (della strict implication di Lewis): alla vera e propria tautologia". Preti basa la sua osservazione sulle notizie circa la dottrina stoica che vengono riportate da Filodemo nel De signis. In effetti in quel testo (come vedremo meglio nel capitolo spe- cificamente dedicatogli) è presentato come genuinamente stoico il metodo inferenziale della "contrapposizione" (ana­ skeu), che appare analogo a quello della synartsis. Infatti, l'inferenza per "contrapposizione" è quella in cui la negazione del conseguente comporta la negazione del­ l'antecedente. Essa si configura in maniera tale che la verità del condizionale "Se il primo, allora il secondo" è garantita dalla verità del corrispondente condizionale "Se non il se­ condo, non il primo".42  6.3 CONCLUSIONI 157 Preti sottolinea le affinità tra la synartsis (secondo cui la negazione del conseguente è incompatibile con l'anteceden­ te) e il metodo di contrapposizione (anaskeu) (in cui la ne­ gazione del conseguente comporta la negazione dell'antece­ dente), e in entrambi i casi chiama in causa la implicazione rigida di Lewis, con la precisazione che gli esempi forniti da Filodemo sembrano indicare un rapporto più forte, che ten­ de a risolvere l'inferenza o in una forma di tautologia o in una forma di L-implicazione. 6.3 Conclusioni Nel passaggio dalla teoria aristotelica del segno a quella stoica c'è, come abbiamo visto, uno spostamento di accento dai termini su cui si costruiscono le proposizioni categori­ che nel sillogismo, alle relazioni tra le proposizioni nell'as­ serto condizionale. Contemporaneamente si registra un'ac­ centuazione del carattere, già presente in Aristotele, di con­ sequenzialità necessaria che la relazione segnica è chiamata a istituire: l'inferenza dal termine noto a quello non noto deve presentare un carattere cogente. Ci sono due ragioni di questo aspetto necessaristico della semiotica stoica, una legata ali'analisi della natura della ra­ gione e dei suoi processi, l'altra riferibile alla configurazio­ ne della metafisica stoica (De Lacy 1978: 208). Per il primo punto è Sesto43 stesso a informarci che gli stoici ritenevano che l'uomo si differenzia dagli animali per la sua capacità di "discorso interno " (16gos endiathetos) e in virtù della sua abilità di combinare i concetti e di passare dall'uno all'altro. L'uomo possiede infatti la nozione di consequenzialità (akolouthfa) e con ciò egli possiede anche la nozione di segno, che ha appunto la forma: "Se questo, allora quest'altro". Così l'esistenza del segno si pone in stretta dipendenza dalla natura del pensiero umano. Quanto al secondo punto, la metafisica stoica poggiava sull'idea che il reale fosse costituito da una catena ininter­ rotta di eventi, legati tra loro da rapporti di causa-effetto. Tali relazioni erano .:oncepite come necessarie in quanto di-  158 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI pendenti daiPordine razionale istituito dalla divinità. In questo modo, la consequenzialità necessaria nella relazione segnica valida riproduce quella stessa consequenzialità che si rintraccia a livello della concatenazione degli eventi.44 L'insistenza che gli stoici pongono sull'asserto condizionale e sull'inferenza da segni indica proprio l'enfasi da loro col­ locata sulla relazione necessaria tra concetti e proposizioni a livello logico e tra cause ed effetti a livello metafisica. Su queste basi, del resto, riposa la stessa accettazione, con riserva, della divinazione da parte degli stoici. La divi­ nazione consiste, infatti, nel cogliere la relazione che colle­ ga certi avvenimenti presenti e altri che avverranno.4Ora, per quanto la razionalità degli uomini sia sostanzialmente dello stesso tipo di quella che hanno gli dei, tuttavia questi ultimi possiedono la conoscenza dell'intera catena causale che lega gli eventi ("conligatio causarum omnium"),46 men­ tre ai primi è preclusa. Gli uomini non possono conoscere dunque le cause ma solo gli indizi caratteristici delle cause ("signa [.. . ] causarum et notas") degli eventi e su questi si basano per predire il futuro. Ma, a differenza di quanto av­ verrebbe per gli dei, i condizionali degli uomini intorno al futuro mancano di necessità. Nel caso della scienza umana (che per gli stoici equivale a quello della dialettica) il segno deve basarsi su un'impli­ cazione necessaria. Ma questa, che è una caratteristica irri­ nunciabile, non è tuttavia sufficiente a definire un segno. Infatti, in un condizionale come: "Se è giorno, c'è luce»47 il giorno non potrebbe essere considerato un segno della luce in quanto entrambe le cose sono evidenti e quindi l'in­ ferenza non può provare nulla. La verità su cui si basa è certamente a priori e analitica, come sembra richiesto nel caso delle verità necessarie, ma tale condizionale è privo della caratteristica di permettere di scoprire una nuova co­ noscenza. Il segno stoico, in conclusione, si deve inquadrare in uno schema logico (che è quello deli'implicazione necessaria), ma deve contemporaneamente superarlo per collocarsi in un'ottica epistemologica, nella quale esso diventa fattore dell'accrescimento del sapere: bisogna sempre tener presen-  6.3 CONCLUSIONI 1 59 te che l'essenza del segno è l'inferenza che va dalle cose ma­ nifeste a quelle non percepite. Ma a questo punto sembra delinearsi nella semiotica stoi­ ca un problema difficilmente resolubile: come è possibile che l'inferenza segnica sia analitica (se si pensa alla L-impli.. cazione di cui parla Preti) e contemporaneamente fornisca una nuova conoscenza (la scoperta di un fatto nascosto)? Prendiamo come esempio di segno una dimostrazione (infatti anche la dimostrazione viene considerata, secondo la testimonianza di Sesto, un segno):48 - sono pori intellegibili nella pelle. - Il primo. - Dunque , il secondo . Qui l'inferenza è condotta dal fatto percepibile rappre­ sentato dallo scorrere del sudore al fatto nascosto che esi­ stano pori nella pelle. La presenza dei pori è un fatto oscuro per natura: infatti essi possono soltanto essere conosciuti dalla mente (noto1), ma non dai sensi in un'epoca in cui il microscopio non era ancora stato inventato. Sesto aggiun­ ge, come argomento rafforzativo delle premesse nel ragio­ namento precedente, un'ulteriore argomentazione:49 - compatto e non poroso. - Il sudore scorre attraverso il corpo. - Pertanto non è possibile che il corpo sia compatto, ma esso è poroso. La premessa maggiore di questa argomentazione sembra essere basata sul test di contrapposizione (Q::jJ) applicato alla premessa maggiore del precedente. Infatti se al condi­ zionale: p (se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo) ::q (ci sono pori intellegibili nella pelle) Se il sudore scorre attraverso la superficie del corpo, ci È impossibile che un liquido scorra attraverso un corpo  160 6. LA TEORIA DEL LINGUAGGIO DEGLI STOICI applichiamo il test di contrapposizione, otteniamo l} (se la pelle è un corpo compatto e non poroso) :>p (un li­ quido non vi può scorrere attraverso), espressione che è alla base della premessa del secondo ra­ gionamento di Sesto. Essa permette di sviluppare un ragio­ namento corrispondente al modus tollens, che convalida la conclusione del primo ragionamento. Non si saprebbe dire se gli stoici riescano a evitare, con il ricorso alla contrapposizione, la contraddizione che esiste tra la richiesta di una relazione necessaria e a priori tra le due proposizioni del condizionale e la necessità che il segno produca nuova conoscenza. Di fatto la contrapposizione rende necessaria la relazione anche nel caso di verità fattua­ li, poiché parte dall'assunzione che il fatto oscuro per natu­ ra sia legato a quello evidente in modo tale che ciò che è evi­ dente non potrebbe esistere se il fatto non percepito non fosse quale viene rivelato essere. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO 7.O Introduzione Contemporaneo allo sviluppo della riflessione stoica sul segno è il capitolo della semiotica antica scritto dalla scuola epicurea. Uno dei cardini dell'epistemologia epicurea, in­ fatti, è il principio semiotico del congetturare dai fenomeni visibili fatti che sono per natura non percepibili con i sensi. Gli stessi elementi fondamentali della metafisica epicurea (cioè l'esistenza degli atomi e del vuoto, le configurazioni e le ragioni dei fenomeni celesti) vengono stabiliti attraverso inferenze semiotiche che partono dai fenomeni percepibili: Gli indizi (semeia) dei fenomeni celesti ce li forniscono alcuni fenomeni che accadono presso di noi, e che si vede dove e come avvengono, e non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte maniere. (Epic., Epistula ad Pythoclem, 87) Epicuro rifiutava il ragionamento deduttivo, tipico di Aristotele e degli stoici, giudicandolo vuoto e privo di utili­ tà, ma accettava e valorizzava l'inferenza analogica che si sviluppa a partire dai segni. Nel periodo ellenistico, anzi, gli epicurei divennero i portabandiera di un metodo di ragiona­ mento qualificabile come "induzione semiotica", e proprio sul metodo deli ' in ferenza si posero in polemica con gli esponenti della scuola stoica. Un intero trattato del I secolo a.C. , il Perì smelon kaì smeioseon (Sui segni e sulle infe-  162 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO renze), redatto dall'epicureo Filodemo di Gadara, è dedica­ to, del resto, al dibattito intercorso fra stoici ed epicurei sul tema dell'inferenza semiotica.1 Epicuro, così, e la scuola epicurea nel suo insieme, pro­ pugnano la possibilità di elaborare giudizi che siano oggetti­ vamente validi su fenomeni non direttamente conosciuti at­ traverso l'esperienza, sulla base di inferenze elaborate a partire dai segni. Il problema centrale diviene, allora, quello di stabilire il criterio per verificare se ed entro quali limiti tali giudizi pos­ sano essere considerati attendibili o non attendibili (cioè ve­ ri o falsi) e di fornire le basi per poter dire se certe asserzio­ ni corrispondano effettivamente ai fatti che esse descrivo­ no. Si fa strada quindi la nozione di "criterio di verità", che costituisce la cornice di sfondo all'interno della quale si col­ locano tanto la teoria deli'inferenza semiotica quanto la teoria del linguaggio. In effetti il criterio di verità è non uni­ co, ma molteplice: secondo la testimonianza di Diogene Laerzio,2 esso comprende le sensazioni (aisthseis), le affe­ zioni (path), le preconcezioni (prolpseis), a cui può essere aggiunta, per motivi che vedremo, l'evidenza immediata (enargheia). I criteri di verità, e tra essi la pro/essi ("antici­ pazione", "preconcezione") in particolare, giocano un ruo­ lo fondamentale in entrambe le teorie sia nella teoria del­ l'inferenza3 sia nella teoria del linguaggio;4 in questo modo essi costituiscono un elemento di connessione tra le due teo­ rie. Tuttavia ciò non è ancora sufficiente a permettere un'articolazione comune tra segno inferenziale e segno lin­ guistico, che rimangono ancora una volta oggetti di due in­ dagini separate. Si ricorderà che anche per gli stoici la teoria del segno lin­ guistico, chiamato smafnon, nasceva ali'interno di una di­ scussione sul criterio di verità e sul "vero"; e anche in quel caso il segno inferenziale, chiamato smefon, non aveva al­ cun punto di contatto con il precedente se non per il ruolo giocato dalla nozione di lekt6n, a cui spettava il carico di essere vero o falso. Si deve però notare una peculiarità della semiotica epicurea: essa si arricchisce anche di una teoria deli'immagine percettiva, che si collega al criterio di verità,  7 . l CRITERIO DI VERITÀ ED EPISTEMOLOGIA EPICUREA 1 63 ma che anticipa anche alcuni problemi interessanti per una teoria semiotica deli'iconismo. Così, nei paragrafi seguenti esamineremo le questioni del criterio di verità, della prolessi e deli'immagine percettiva in Epicuro, che collegheremo con la teoria deli'inferenza se­ miotica, da una parte, e con la teoria del linguaggio, dall'al­ tra. Gli sviluppi che la teoria semiotica epicurea avrà nel trattato De signis di Filodemo saranno esposti , data la loro ampiezza, a parte nel prossimo capitolo. 7.1 ll criterio di verità e l'epistemologia epicurea L'impostazione generale della filosofia di Epicuro, dal punto di vista epistemologico, è un tentativo di fondare la conoscenza su basi puramente empiriche. In primo piano vengono posti i fatti o gli oggetti; ma anche le parole essen­ zialmente costituiscono una via per giungere alle cose. In questo modo si presentano per la filosofia due metodi di ri­ cerca: (i) uno orientato alla conoscenza che proviene dalle parole; (ii) l'altro a quella che proviene direttamente dalle cose.s Tuttavia il primo è considerato un processo prelimi­ nare rispetto al secondo, e spesso la conoscenza che si ottie­ ne attraverso gli strumenti del linguaggio, come quella che si produce attraverso le proposizioni, è vuota e inganne­ vole.6 Il fondamento ultimo della conoscenza sono i criteri di verità, i quali sono in grado di procurare all'uomo niente­ meno che l'imperturbabilità.7 Essi sono dunque posti alla base stessa della filosofia generale di Epicuro; del resto essi erano trattati in un'opera perduta, intitolata Canone, in cui era contenuta la materia propedeutica rispetto all'intero si­ stema dottrinario.8 Se noi pensiamo alla verità in termini moderni , cioè come una funzione delle proposizioni, corriamo il rischio di non comprendere il pensiero di Epicuro. In effetti, nella lingua greca in generale, l'aggettivo althés ("vero") può servire tanto a qualificare la verità di una proposizione, quanto a indicare ciò che sussiste di fatto o che è reale. In Epicuro, in  164 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO particolare, l'aggettivo "vero" implica un'effettiva consape­ volezza di qualcosa. Si giustifica così la sua applicazione al­ le sensazioni e alle affezioni, in quanto dire che una certa sensazione (o una certa affezione) è vera equivale a dire che essa fornisce un indizio effettivo su un fatto reale, renden­ docene consapevoli.9 Prima di passare in rassegna le varie forme del criterio di verità, è necessario sottolineare fin d'ora come esso sia fun­ zionale a una teoria dell'inferenza semiotica. Infatti esso tende a stabilire delle verità basilari riguardanti le cose per­ cepibili, che servono a loro volta come punto di partenza per fare inferenze intorno alle cose non direttamente rag­ giungibili con i sensi.10 7.2 Le forme del criterio di verità Epicuro, dunque, considerava come criteri di verità le sensazioni, le p[econcezioni (o prolessi), le affezioni (o sen­ timenti). 1 1 Nel paragrafo 82 della Lettera ad Erodoto veni­ va fatto cenno anche alla enargheia ("evidenza immediata, o "chiara visione"). Riferendosi a questi passi, Long (1971 b: 116) fa una interessante proposta circa l'organizzazione interna delle forme del criterio di verità. Suggerisce infatti di ordinarie in modo gerarchizzato: in primo luogo ci sono le affezioni e le sensazioni; poi l'evidenza immediata; infine le preconcezioni. Secondo Long, le prime due hanno un va­ lore di verità puramente soggettivo, se prese da sole, e devo­ no essere coordinate all'evidenza immediata e alle prolessi, per giungere a costituire un criterio oggettivo. Le affezioni e le sensazioni comportano la consapevolez­ za di qualcosa, e la loro "verità" consiste proprio in questa consapevolezza, anche se, appunto, soggettiva. Si possono riprodurre le relazioni tra le forme del criterio di verità se­ condo il seguente schema:  7.3 TEORIA DEI SIMULACRI 165 criteri di veritè  consapevolezza consapevolezza soggettiva oggettiva ll affezioni sensazioni evidenza 7.3 Teoria dei simulacri prolessi   Finora abbiamo considerato il processo conoscitivo dalla parte del soggetto che prova una sensazione o ha una affe­ zione in relazione agli stimoli esterni. Se consideriamo lo stesso processo dalla parte opposta, cioè partendo dall'oggetto, possiamo constatare che Epicu­ ro aveva elaborato una vera e propria teoria dell'immagine che ha molti elementi di interesse per una semiotica dell'ico­ nismo. Dal paragrafo 46 della Lettera ad Erodoto Epicuro inizia a parlare del modo in cui si rende possibile la perce­ zione degli oggetti. Questi ultimi, infatti, emettono in conti­ nuazione degli efflussi di atomi estremamente fini, che compongono configurazioni in tutto e per tutto identiche alla forma esterna dei corpi solidi.12 Queste configurazioni prendono il nome di simulacri (eldO!a). Essi viaggiano a una velocità estremamente alta e possono penetrare nei no­ stri organi di senso o nella nostra mente, e lì produrre un ' immagine (phantasfa) più o meno esatta del corpo da cui i simulacri sono stati emanati. Il processo può essere sche­ matizzato così: oggetti - - -  simuh1cri - - .-.. immsgini mentali (stertJmnia) (sfd"lJfs) (phsntssfst)  166 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Quella di Epicuro può essere definita una teoria "causa­ le" (Long 1 97 1 b: 1 1 7) della percezione, in quanto gli ogget­ ti sono responsabili dell'esistenza dei simulacri e questi ulti­ mi causano direttamente il formarsi delle immagini nella mente. Si deve però dire che le immagini sono una diretta conseguenza dei simulacri, ma solo secondariamente una conseguenza degli oggetti, dai quali possono anche essere difformi. In effetti la continuità del processo può essere interrotta al livello del passaggio dell'efflusso dagli oggetti esterni ai simulacri . Questi ultimi , sebbene di solito risultino delle co­ pie esatte degli oggetti, talvolta possono subire delle modifi­ cazioni per il fatto di entrare in collisione con altri atomi nel passaggio attraverso l'aria e possono anche ridursi in di­ mensione nel momento in cui entrano in una persona (in quanto, anche in questo caso, entrano in collisione con altri atomi). 1 3 Epicuro è, con questa teoria, impegnato a rendere conto del fatto che gli oggetti, visti da vicino, presentano certe di­ mensioni, mentre ne presentano altre, molto minori, se visti da lontano, senza entrare in contraddizione con il principio che la sensazione è garanzia di verità in ogni caso, e ci si troverebbe di fronte veramente a una contraddizione se la phantasfa fosse un'immagine dell'oggetto, mentre in realtà è un'immagine del simulacro (ekiOion). Sesto Empirico sembra riportare correttamente il pensie­ ro di Epicuro quando cita, a questo proposito, l'esempio della "torre": Così io non oserei dire che la vista suggerisca il falso per il fatto che a grande distanza essa vede la torre piccola e rotonda e a di­ stanza accorciata la vede più grande e quadrata, ma direi piut­ tosto che la vista suggerisca il vero, perché l'immagine ricevuta dai sensi, quando le appare piccola e di una certa forma, è real­ mente piccola e di quella determinata forma, per il fatto che i li­ miti appartenenti ai simulacri (eldola) vengono cancellati dal passaggio attraverso l'aria. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 208-209)  7.4 TEORIA DELL'ERRORE E DELL'OPINIONE 167 In effetti, ciò che i sensi recepiscono è il flusso di atomi che si stacca dall'oggetto e che costituisce il suo simulacro e non l'oggetto stesso. Tale flusso, passando attraverso l'a­ ria, si altera nella sua configurazione, producendo la diver­ sità delle immagini che si hanno dello stesso oggetto. Cosi ogni immagine mentale (phantasfa) è effettivamente vera perché è relativa non all'oggetto, ma a ciascuno dei simula­ cri dell'oggetto, che sono diversi in relazione alla distanza percorsa per raggiungere il soggetto che percepisce. L'importante è non identificare il simulacro che si produ­ ce nelle vicinanze dell'oggetto con quello che si ha in una vi­ sione a distanza. 7.4 Teoria dell'errore e dell'opinione Il tema deli'inferenza semiotica diventa sempre più cen­ trale nel campo dei processi percettivi quando si abbandona il terreno sicuro della sensazione per esplorare quello insi­ dioso delle opinioni, in cui si può verificare l'evenienza del­ l'errore. Se gli uomini si attenessero soltanto alle loro sen­ sazioni e si limitassero a descrivere le loro immagini mentali (phantasfa1), non ci sarebbe possibilità di errore. Ma ciò non avviene, e l'errore sorge quando viene ad aggiungersi alla sensazione qualche processo mentale che Epicuro, nella Lettera ad Erodoto (5 1), chiama "secondo movimento" (al­ l klnèsis). Long (1971 b: 1 18) identifica questo "secondo movimen­ to" proprio con il processo di elaborazione deli'opinione. Infatti Epicuro dice che esso è "connesso" con il primo mo­ vimento (cioè la semplice apprensione di immagini), ma, a differenza di questo, "ammette una distinzione": quella tra il falso e il vero. Il primo movimento, cioè l'apprensione di immagini, non ammette alcuna distinzione di questo gene­ re, perché è prodotto da cause esterne, ovvero dai simula­ cri; il secondo movimento, invece, consistendo nell'aggiun­ ta di un giudizio che noi facciamo su queste immagini, può ricevere conferma o attestazione contraria. Si può così sche­ matizzare il processo:  168 7. INFERENZA E LINOUAOQIO IN EPICURO processo conoscitivo / apprensione di immagmi lphsntsstik epiboli'J sempre vera opinione (d6xs)   conferma e non attestazione contraria vera attestazione contraria e non conferma falsa  In effetti, se, sulla scorta di una visione distante e oscura, io dico, traducendo in parole le mie sensazioni: "Quella ha le apparenze di una torre rotonda" , io parlo in maniera veri­ tiera; ma se dico: "Quella è una torre rotonda", il mio giu­ dizio è disconfermato nel caso che, avvicinandomi, riceva l'immagine di una torre quadrata. In definitiva, le immagi­ ni sono tutte vere mentre le opinioni sono alcune vere e altre false. 14 Quello che comunque risulta è il carattere congettu­ rale dell'opinione. 7.5 La congettura È naturale che all'interno di una teoria dell'opinione uno spazio privilegiato venga dedicato alla congettura. Infatti, in generale, la congettura consiste proprio in un'ipotesi co­ noscitiva su una dimensione che va oltre ciò che può essere colto attraverso i sensi. L'opinione, come la concepisce Epi­ curo, è associata esattamente a queste caratteristiche, consi­ stendo appunto in un giudizio che prevede l'impegno del soggetto su qualcosa che attende conferma. Ci sono alcune parole chiave che definiscono il processo conoscitivo attuato attraverso l'opinione. La prima è pro-  7.5 LA CONGETTURA 169 sménon, "ciò che attende conferma", 1 5 che è appunto l'og­ getto sul quale si esercita il giudizio. Una seconda e una terza parole chiave, collegate tra loro da una relazione di antonimia, sono epimartjrsis "attesta­ zione" e antimartjrsis "attestazione contraria" o "conte­ stazione". Tuttavia, il sistema di Epicuro per la conferma o la disconferma di una certa opinione non gioca su due, ben­ si su quattro termini: c'è infatti conferma quando si ha "at­ testazione" o "non contestazione"; c'è disconferma quando c'è "contestazione" o "non attestazione". Si viene cosi a creare un vero quadrato semiotico: attestazione contestazione ( epimsrtyrlJsis) non contestazione (ouk sntimsrtyrsis) ( sntimsrtyrlJsis) non attestazione (ouk epimsrf'jrlJsis)  in cui, per Epicuro, due termini (o quelli della deissi positi­ va, o quelli della deissi negativa) congiuntamente sono ne­ cessari per decidere di un'opinione. 1 6 Tuttavia ciascuno dei quattro termini è idoneo a stabilire la validità di un'opinione. Infatti nella teoria semiotica ri­ portata nel De signis da Filodemo, il criterio per decidere sulla validità di un'inferenza induttiva sarà rappresentato dalla sola non contestazione, ovvero dal non conflitto del­ l'espressione segnica con i fenomeni percepibili. Nel quadrato di Epicuro sorge il problema di stabilire un criterio per definire in che cosa consista il termine base, cioè l'attestazione. Questo criterio è rintracciabile nella enargheia ("l'eviden­ za", "la chiara visione"), come ci dice Sesto:  170 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO Ed è attestazione (epimartjris) una apprensione, conseguita mediante evidenza (di' enarghefas), del fatto che l'oggetto opi­ nato è appunto quello che precedentemente veniva opinato, co­ me, ad esempio, se Platone da lontano incede verso di me, io congetturo ed opino, a causa della distanza, che si tratti di Pla­ tone, e, quando egli mi si è accostato, viene attestato che si trat­ ti eli Platone, mercé la soppressione della distanza, e la confer­ ma si è avuta in virtù della stessa evidenza. (Sext. Emp., Adv. Math., VII, 212) In effetti Epicuro era ben consapevole del fatto che si possono commettere degli errori neli'identificazione o nel riconoscimento degli oggetti della percezione e, probabil­ mente, egli pensava che in ogni atto percettivo, accanto alla pura e semplice sensazione, anche la d6xa gioca sempre un ruolo. In questo modo la congettura diviene onnipresente, in quanto è coinvolta in ogni atto percettivo. Di conseguen­ za, la funzione che vengono ad assumere le sensazioni e le immagini mentali è quella di fornire i dati sulla base dei quali elaborare le congetture. 1 7 Nella Lettera ad Erodoto (38) sembrano essere presi in considerazione due tipi di oggetti sui quali l'inferenza se­ miotica si esercita: (l) ciò che attende conferma (prosménon) (2) ciò che non cade sotto i sensi (adlon) che danno luogo a due tipi di processi inferenziali. Il primo è relativo al genere di congettura che si instaura all'interno degli stessi processi percettivi ed è illustrato dal­ l'esempio, riportato da Sesto, del vedere in lontananza Pla­ tone che si avvicina, e poter solo congetturare che si tratti proprio di lui. In questo caso l'oggetto su cui si esercita la congettura è qualcosa che viene colto dai sensi, ma non di­ stintamente. Tuttavia, questo processo si conclude con una verifica: in questo caso, la conferma del dato congetturato, attraverso una visione chiara. Chiameremo questo tipo in­ ferenza percettiva. Il secondo è relativo all'inferenza su cose assolutamente escluse dal processo percettivo: è il caso della congettura nel senso fliù classico. Anche di questo ci fornisce un esempio Sesto. 8 Si tratta di risalire dali'esistenza del moto (cioè di  7.6 L'INFERENZA DA SEGNI 171 un elemento percepibile, un phain6menon) all'esistenza del vuoto (cioè di un elemento non percepibile, adlon). È la ti­ pica relazione logica di implicazione (chiamata da Sesto akolouthfa) tra un antecedente e un conseguente. Chiame­ remo questo secondo tipo di processo inferenza al non per­ cepibile. 7.6 L'inferenza da segni L'inferenza al non percepibile è una tipica inferenza da segni. Infatti in molti casi, come quello che abbiamo visto, "Se c'è moto-+c'è vuoto", non è possibile conoscere diret­ tamente l'oggetto sul quale viene fatta l'inferenza ("il vuo­ to"), ma lo si deve attingere attraverso un segno ("il mo­ to"). In effetti, anche per Epicuro, l'inferenza da segni è connessa con la possibilità di ampliare i limiti della cono­ scenza oltre la sfera degli oggetti sensibili. È proprio grazie a una teoria dell'inferenza segnica che la scuola epicurea riesce a superare i limiti del proprio radicale empirismo, aprendo la via anche alla conoscenza di fenomeni non per­ cepibili direttamente dai sensi. Anzi, nel De signis di Filode­ mo (fr. 2), c'è un esplicito invito a considerare le conoscen­ ze ottenute tramite inferenza, altrettanto sicure di quelle di­ rette. Un programma conoscitivo di questo tipo presuppone un'epistemologia che divide gli oggetti in quattro categorie, in maniera del resto non molto diversa da quanto avveniva nella semiotica stoica: ( l ) Oggetti o fatti evidenti (enarghi): "quegli oggetti che vengono recepiti involontariamente per mezzo di una rappresentazione o di una affezione" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 316). Come esempi vengono dati il fatto che sia giorno o il riconoscimento che una certa persona è un uomo. (2) Oggetti oscuri in modo assoluto (phjsei adla): "quegli oggetti che né furono conosciuti nel passato, né sono conosciuti nel presente, né saranno conosciuti nel futu-  172 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO ro, ma sono inconoscibili in eterno" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 317-318). Come esempio viene data l'im­ possibilità di conoscere se il numero delle stelle sia pari o dispari. Fatti di questo genere sono inconoscibili, co­ me spiega Sesto, non per la loro natura, ma per la no­ stra natura, dato il tipo di limitazioni a cui è sottoposta la conoscenza umana. (3) Oggetti oscuri di per sé (ghénei adla): "quegli oggetti che sono oscuri per la propria natura, ma che si stima vengano conosciuti per mezzo di segni e di dimostrazio­ ni" (Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 319). Gli esempi so­ no gli atomi e il vuoto infinito. L'esistenza degli atomi e del vuoto era postulata da Leucippo e da Democrito su basi puramente razionali, ma Epicuro insisterà, in con­ formità con il suo empirismo, che possono essere cono­ sciuti attraverso l'inferenza analogica. (4) Oggetti che attendono conferma (prosménonta): sono quegli oggetti posti immediatamente oltre la nostra esperienza (Ep. Hdt. , 38), la cui conoscibilità è limitata da fattori, quali la distanza nello spazio o il loro essere situati nel futuro. Come si può vedere, gli unici oggetti che possono essere conosciuti attraverso l'inferenza sono quelli che apparten­ gono alla terza e alla quarta classe. Essi sono da porre in corrispondenza con i due tipi di inferenza di cui abbiamo già parlato. L'inferenza percettiva, infatti, verte intorno agli oggetti appartenenti alla quarta classe, quelli "che attendono con­ ferma". L'inferenza al non percepìbile, invece, verte intorno agli oggetti appartenenti alla terza classe, cioè è rivolta alla co­ noscenza di quegli oggetti che sono "oscuri di per sé" e che non arrivano mai a essere esperiti dai sensi . In questo caso il metodo di verifica assume una forma indiretta: la "non at­ testazione contraria" (ouk antimartjresis). Il vuoto, come abbiamo visto, non è verificabile per esperienza diretta, ma gli epicurei sostengono che la sua esistenza non è in contra­ sto con nessun fatto conosciuto, 1 9 mentre la sua negazione  7.7 LA PROLESSI 173 entra in conflitto con l'esperienza empirica del movimento, che richiede il vuoto per attuarsi. Il cuore del ragionamento basato sulla non attestazione contraria consiste nel fatto che, quando si hanno due proposizioni contraddittorie in­ torno a qualcosa che non è percepibile, e una di esse risulta falsa in base a una prova empirica (nell'esempio preceden­ te, la non esistenza del vuoto, in quanto entra in conflitto con l'esistenza del moto), allora l'altra può essere conside­ rata vera (De Lacy 1978: 188). 7.7 La prolessi La prolessi (o "anticipazione" o "preconcezione") costi­ tuisce il secondo dei due criteri di verità che abbiamo defini­ to "oggettivi". Essa ha un ruolo determinante nell'inferenza percettiva, come mostra Diogene: Per esempio, per poter affermare: "Ciò che sta lontano è un ca­ vallo o un bue", dobbiamo per prolessi (o anticipazione) già aver conosciuto una volta la figura di un cavallo e di un bue. (Diog. Lai!rt.. Vitae, X, 33) In effetti la protessi è necessaria perché si abbia percezio­ ne in senso proprio, cioè affinché si passi dalla semplice consapevolezza del fatto che si sta vedendo un'immagine, al giudizio oggettivo che questa è immagine di un oggetto pre­ ciso. In altre parole, secondo Epicuro, per poter effettiva­ mente percepire un cavallo o un bue, si deve: l . avere avuto precedentemente un'immagine di questi animali; 2. averla immagazzinata nella mente; 3. effettuare un confronto con i dati che vengono forniti dalla propria attuale sensazione. Le prolessi sono in realtà delle immagini mentali o dei concetti che si sono formati in seguito a numerose esperien­ ze relative agli oggetti esterni. Esse hanno due caratteri fon­ damentali: (i) sono strettamente legate alla memoria di esperienze precedenti; (ii) sono evidenti (enargeis). Come concetti, le prolessi non necessariamente corri­ spondono a singoli oggetti esterni, ma costituiscono piutto-  INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO sto il tipo, di cui le singole esperienze percettive sono le oc­ correnze. Ciò, del resto, è strettamente collegato al fatto che esse rappresentano un test di verità: solo possedendo il concetto generale di "uomo", si può decidere se ciò che si ha di fronte sia o non sia un'occorrenza particolare di esso. 7.8 La teoria del linguaggio Le protessi costituiscono anche una condizione necessaria del linguaggio e agiscono tanto al livello della decodifica quanto a quello della codifica. Infatti, da una parte, l'atto di pronunciare un nome (a esempio juomol) richiama nella mente dell'ascoltatore un'immagine o un concetto, cioè un'entità che è soggiacente, hyfootetagménon, a quel nome e che è derivata dalla protessi; 0 potremmo dire che la pre­ senza di un significante fa scattare nell'ascoltatore I'abbina­ mento con un significato. Dall'altra, il Iocutore deve posse­ dere una preconcezione di ciò che intende esprimere, altri­ menti non gli sarebbe possibile dire niente: in questo caso, il locutore codifica un significato presente nella sua mente per mezzo di un artificio espressivo (un "nome"). Nella teoria epicurea la prolessi sembra coinvolta in ogni caso nella formazione dei concetti. Infatti Diogene dice che "tutti i concetti (epfnoia1) sorgono dalle sensazioni, o per diretta esperienza, o per analogia, o per somiglianza, o per combinazione, con una certa collaborazione anche da parte del ragionamento" ( Vitae, X, 32). Long (1971 b: 1 19) sug­ gerisce di identificare con le prolessi la prima classe di con­ cetti, cioè quelli che sorgono per diretta esperienza dalle sensazioni. Se dunque le prolessi sono alla base di ogni concetto, si viene a configurare una teoria del segno linguistico sensibil­ mente diversa da quella che è normalmente attribuita agli epicurei sulla scorta delle testimonianze di Sesto e di PIutar­ co.21 Questi ultimi, infatti, sostenevano che nella teoria lin­ guistica di Epicuro solo due fattori erano implicati: la cosa significante (sèmainon, o voce, ph(Jn) e la cosa designata (tynchanon). In effetti, la ragione per cui Plutarco e Sesto  7.8 LA TEORIA DEL LINGUAGGIO 175 trascurano le protessi nella teoria del significato linguistico è imputabile al fatto che essi non vedono nella teoria epicu­ rea niente di simile al lekt6n stoico, che è contemporanea­ mente incorporeo e completamente diverso da un'immagine mentale. Ciò non impedisce, tuttavia, alle protessi di avere la stes­ sa funzione dei lekta stoici, cioè di costituire un elemento di mediazione tra le parole e le cose. Di conseguenza, la teoria epicurea del segno linguistico dovrebbe essere così rico­ struita: prolessi  nomi cose Del resto, se a Epicuro fosse attribuita una teoria lingui­ stica secondo cui le parole si riferiscono direttamente alle cose, senza la mediazione delle protessi, entrerebbe in con­ traddizione tutta la sua dottrina della falsa credenza. A esempio, poiché gli uomini credono erroneamente che gli dei siano malevoli nei loro confronti ed esprimono verbal­ mente questa credenza, se non esistesse il livello concettuale delle prolessi, non ci sarebbe niente che corrisponde alla proposizione "Gli dei sono malevoli nei confronti degli uo­ mini". La presenza della prolessi come elemento mediatore tra le parole e le cose può rendere conto di molte asserzioni false e di asserzioni su cose che non esistono. Ciò che gli uo­ mini fanno, pensando agli dei come malevoli, è una falsa supposizione, ovvero un concetto non derivato dali'ogget­ to, cioè dagli dei stessi. La centralità della protessi nella teoria linguistica epicu­ rea è dimostrata anche dal fatto che essa deve essere identi­ ficata anche con quel particolare significato che è il "signifi-  176 7. INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO cato basico" o "primario" (proton ennoma), di cui si parla nella Lettera ad Erodoto (37-38) e che si oppone a tutti gli altri significati che possono essere considerati derivati da esso.22 7.9 L'origine del linguaggio La teoria linguistica in Epicuro è connessa con quella del­ l'origine stessa del linguaggio, che è discussa principalmen­ te nella Lettera ad Erodoto (75-76).23 Per Epicuro il linguaggio è un'attività che gli uomini han­ no sviluppato nel corso della loro evoluzione, passando at­ traverso due stadi distinti. Nel primo stadio il linguaggio esprime una relazione con la realtà che potrebbe essere defi­ nita naturale, mentre nel secondo una relazione che potreb­ be essere definita convenzionale. In effetti Epicuro, nella polemica phjsisln6mos, assume una posizione mediana e molto particolare, rifiutando sia l'idea che ci sia stato un unico datore di nomi, sia l'idea (per altro sostenuta dagli stoici) che le parole si accordino in maniera naturale alle co­ se. Esaminiamo più in particolare come è descritto il pro­ cesso di nascita e sviluppo del linguaggio nella Lettera ad Erodoto . In una prima fase l'attività linguistica degli uomini non è affatto diversa dai processi naturali quali tossire, starnuti­ re, gemere ecc.: infatti gli uomini emettono suoni, simili a parole, sotto lo stimolo involontario e naturale delle affe­ zioni (path) che provano e delle immagini (phantasmata) che si formano in loro. Il linguaggio primitivo costituisce una reazione istintiva all'arnbiente, e la tesi di Epicuro sem­ bra essere, in relazione a questo stadio, a pieno titolo quella naturalista. Ma, a ben guardare, essa presenta qualcosa di più. Infatti ha sempre costituito un problema, per i sosteni­ tori della tesi del naturale accordo tra le parole e le cose, spiegare la diversità delle lingue: qui Epicuro non evita que­ sto aspetto del problema,24 ma lo integra nella sua teoria. La diversità delle lingue è diretta conseguenza della diver­ sità degli ambienti in cui i vari popoli si trovano e in relazio-  7. l0 EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 177 ne ai quali emettono suoni diversi. Insomma, le lingue va­ riano perché le cose variano da regione a regione. Inoltre gli uomini, accorgendosi che si producono suoni diversi in re­ lazione alle affezioni e alle immagini prodotte dagli oggetti, trovano utile usare questi suoni come nomi-etichette degli oggetti. A questo punto interviene il secondo stadio nel processo evolutivo del linguaggio, in cui vengono introdotti degli ele­ menti di convenzione. Questi ultimi si instaurano sotto una duplice spinta: da una parte c'è un movimento che tende a razionalizzare il linguaggio, rendendo le espressioni ambi­ gue, createsi naturalmente "più chiare" e "più concise"; dal­ l'altra c'è l'operato degli "uomini colti", i quali tendono a introdurre concetti relativi a cose che vanno oltre la perce­ zione e che dunque non hanno potuto essere nominate at­ traverso il processo naturale. Come sottolinea Sedley (1973: 19), il tentativo deliberato di introdurre processi di semplifi­ cazione nell'evoluzione del linguaggio corrisponde al desi­ derio di rendere conto dei processi astratti, come quelli in cui la relazione uno e uno tra parole e cose non è più soste­ nibile. Ciò avviene sostanzialmente in due casi, che sono le­ gati all'intera problematica linguistica di Epicuro, cioè (i) nella formazione dei termini generali e (ii) nei processi di metaforizzazione. 7.lO Epicuro e la tradizione "physis/nomos" Dopo aver esaminato la teoria epicurea dell'origine del linguaggio, è possibile ritornare al triangolo semiotico e analizzare quali relazioni siano implicate tra i vari termini, in rapporto con altre posizioni della tradizione linguistica. Un primo confronto può essere stabilito con Aristotele. Spesso gli studiosi hanno suggerito una dipendenza della teoria linguistica di Epicuro da quella di Aristotele (tra gli altri, Arrighetti 1960: 476), o almeno una stretta somiglian­ za (Long 1971 b: 121). In effetti nel De interpreta/ione (16 a) Aristotele pensa alle affezioni dell'anima come a immagi­ ni provenienti dalle espressioni sensoriali derivate dalle cose  INFERENZA E LINGUAGGIO IN EPICURO esterne, in un modo non molto diverso da come le protessi di Epicuro derivano dagli oggetti. Se questo è un punto di contatto tra le due teorie, tuttavia maggiori sono, secondo Sedley (1973: 20), le divergenze. Anzitutto, per Aristotele i diversi popoli hanno esattamente le stesse affezioni mentali, ma le rappresentano attraverso espressioni linguistiche diverse. Per Epicuro, invece (come abbiamo visto a proposito dell'origine del linguaggio), le forme linguistiche sono diverse perché le affezioni mentali (path e phantasmata, ambedue inclusi negli aristotelici pathmata) sono diverse da popolo a popolo, in relazione ai diversi ambienti naturali. Ma ci sono anche altri elementi di divergenza tra Aristotele ed Epicuro. Per il primo, infatti, nessun nome preso di per sé ha funzione apofantica, cioè nessun nome può essere detto vero o falso; inoltre nessuna espressione diviene un simbolo se non in seguito a conven­ zione. Per Epicuro, invece, i nomi di oggetti individuali comportano verità o falsità, come avveniva, del resto, an­ che nel Crati/o platonico; inoltre, una certa espressione, che può essere anche un semplice rumore, può essere usata co­ me un simbolo, per quanto in assenza di elementi conven­ zionali, come avviene negli stadi primitivi della comunica­ zione. Un secondo confronto può essere stabilito poi anche con la posizione platonica. Sicuramente in Epicuro non è pre­ sente alcuna posizione simile a quella della prima teoria se­ mantica di Platone,25 adottata in seguito anche dagli stoici, secondo la quale il nome è una lista abbreviata delle pro­ prietà dell'oggetto a cui si riferisce. Platone, infatti, vede le parole primitive come una rappresentazione fedele delle proprietà dell'oggetto, quasi che tutto il vocabolario fosse deliberatamente costituito da onomatopee. La posizione naturalistica di Epicuro si limita a sostenere che, ali'interno di ciascun linguaggio, ogni nome ha un uso corretto quando viene impiegato per denotare l'oggetto, o la classe di oggetti, a cui è stato associato nel momento del­ la sua origine naturale. Tuttavia, nonostante questa distin­ zione, ci sono forti elementi di convergenza tra la posizione platonica e quella epicurea, in quanto in entrambe i nomi  7.l0 EPICURO E TRADIZIONE «PHYSIS/N6MOS» 179 hanno alla loro origine un valore cognitivo, che viene par­ zialmente obliterato attraverso i cambiamenti del linguag­ gio nel corso del tempo.26 Per Platone il recupero del senso originario delle parole avviene attraverso l'etimologia, stra­ da sulla quale lo seguiranno anche gli stoici. Epicuro ritie­ ne, invece, che la relazione originaria del linguaggio con gli oggetti percepibili sia stata oscurata soprattutto da processi metaforici e, per recuperare il valore epistemologico origi­ nario dei nomi, suggerisce di ricercare "la prima immagine" (prOton enn6ema: Ep. Hdt., 38). Questa prima immagine è da identificarsi con la prolessi, cioè con il concetto che si è formato alla prima percezione dell'oggetto e che è stato as­ sociato al nome. In conclusione, rispetto alla teoria di Aristotele e alla pri­ ma teoria semantica di Platone, si può dire che Epicuro as­ sume una posizione intermedia. Per Aristotele i nomi sono simboli e sono convenzionali. Per Platone, invece, i nomi sono delle icone degli oggetti e sono naturali. Per Epicuro i nomi sono simboli, come per Aristotele, in quanto non riproducono le proprietà degli og­ getti, ma sono naturali, come per Platone, nella loro origi­ ne, coincidente con il primo dei due stadi evolutivi del lin­ guaggio . Gli elementi di convenzionalità si sviluppano soltanto in seguito, nel secondo stadio. Questa posizione intermedia di Epicuro spiega perché non venga fatto ricorso all'etimolo­ gia, come invece avviene in Platone e negli stoici, e, pur tut­ tavia, si chieda di tenere presente "la prima immagine": in realtà, la corrispondenza biunivoca tra il nome e "la prima immagi ne" si fonda non sulla forma, ma sulla origine natu­ rale .  8. IL ''DE SIGNIS'' DI FILODEMO 8.0 Introduzione Dopo Epicuro la teoria del segno trovò un ampio svilup­ po negli scritti dei suoi seguaci. Un trattato del I secolo a.C.,1 ilPerìsmet'Onkaìsmei8seon(Suisegniesulleinfe­ renze)2 di Filodemo, testimonia ampiamente del grado di raffinatezza e di complessità che la teoria del segno aveva raggiunto in seno alla scuola epicurea. Si tratta di un'opera composta probabilmente a uso della scuola epicurea di Er­ colano, della quale Filodemo fu uno dei più importanti esponenti. Il De signis non costituisce un vero e proprio trattato metodologico, né un'esposizione sistematica della teoria epicurea del segno, ma riporta la polemica allora in corso fra stoici ed epicurei sull'inferenza da segni e su varie tematiche semiotiche a essa connesse. Il trattato è diviso in quattro sezioni, nelle quali sono esposte le argomentazioni di tre maestri epicurei, Zenone di Sidone, Bromio e Deme­ trio di Laconia,3 a favore della teoria epicurea del segno e contro le critiche a essa mosse dagli esponenti della scuola stoica. Il trattato è di grandissima importanza semiotica, perché tanto gli stoici quanto gli epicurei costruivano la loro teoria logica sull'inferenza da segni. Nel confronto le due teorie si illuminano a vicenda. Inoltre il De signis dibatte una serie di problemi che ancora oggi sono al centro della discussione semiotica. Del resto, per la sua pertinenza semiotica, que­ st'opera aveva attirato anche l'interesse di Charles Sanders  8.l RELAZIONE SEGNICA «A PRIORI» E «A POSTERIORI» 181 Peirce, che ne aveva affidato l'approfondimento e l'analisi all'allievo Allan Marquand; di quest'ultimo ci rimane un saggio sulla logica semiotica degli epicurei.4 8.1 La relazione segnica è "a priori" o "a poste­ riori"? Al centro del trattato di Filodemo si colloca il contrasto fondamentale tra le due scuole circa il modo di concepire il rapporto che si instaura tra i due termini della relazione se­ gnica: gli stoici sono sostenitori di una posizione che vede tale relazione come a priori, formale e di natura razionale; gli epicurei, invece, sostengono che tale relazione è a poste­ riori e interamente fondata su basi empiriche. Il punto di vi­ sta epicureo, in effetti, è che per poter stabilire una relazio­ ne tra un segno e ciò a cui esso rinvia, è necessario aver os­ servato più volte i due termini in un qualche tipo di con­ giunzione (sia essa spaziale, temporale, causale ecc.). Così la relazione si stabilisce in seguito ali'esperienza, e non a priori, come sostenevano gli stoici. Di conseguenza, il me­ todo semiotico proposto dagli epicurei è quello deH'analo­ gia (ho katà tn homoi6tta tr6pos), cioè un "metodo stret­ tamente empirico e basato sull'osservazione delle similarità nella nostra esperienza e su certe congiunzioni costanti, dal­ le quali noi inferiamo ugualmente delle similarità e delle congiunzioni nella sfera di ciò che è oscuro" (De Lacy 1938: 398). In corrispondenza con i due modi di concepire la relazio­ ne segnica, stoici ed epicurei sviluppano anche due differen­ ti teorie sulla verifica della validità logica della relazione. Gli stoici consideravano valida la relazione segnica basata sulla contrapposizione (anaskeu), secondo cui la negazione del conseguente comporta la contemporanea negazione del­ l'antecedente. A esempio, nell'inferenza "Se c'è moto, c'è vuoto", gli stoici sostenevano che la negazione della cosa si­ gnificata ("c'è vuoto") implicherebbe anche la negazione del segno (''c'è moto"). Si tratta di un metodo di verifica as­ solutamente a priori e astratto, al quale gli epicurei con-  182 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO trappongono un metodo completamente empirico. Anzi, gli epicurei sostengono che nessun metodo a priori è possibile fino a che non sia stata costruita un'inferenza su base empi­ rica: l'esistenza del vuoto, nell'esempio precedente, è inferi­ ta a partire dalla osservazione empirica che non si verifica il moto senza l'esistenza congiunta del vuoto, e da una conse­ guente generalizzazione.5 Ciò significa che il principio astratto degli stoici può esse­ re formulato soltanto dopo che l'inferenza è stata costruita su base empirica e con il ricorso a un ragionamento analogi­ co. Così gli epicurei sostengono che il metodo della con­ trapposizione poggia, inconsapevolmente, sul fondamento ultimo dell'analogia epicurea. In questo modo le verità ne­ cessarie, che gli stoici consideravano analitiche e a priori, sono in realtà stabilite attraverso l'induzione. Gli epicurei prospettano un punto di vista secondo cui la logica dedutti­ va è susseguente a una logica induttiva in ordine di svilup­ po: la prima dipende infatti dalla seconda (De Lacy 1978: 221). Se questa idea è chiaramente espressa nel trattato di Filodemo, non ci si deve tuttavia aspettare una discussione articolata sulle relazioni tra la logica formale e deduttiva da una parte, e logica induttiva e metodo empirico dall'altra. Anzi, a ben vedere, nel corso del trattato, entrambi i prota­ gonisti della discussione tendono a confondere due cose che la logica moderna avrebbe piuttosto tendenza a tenere di­ stinte: da una parte, il metodo per la costruzione di un'infe­ renza segnica; dall'altra, il criterio per la verifica della sua validità (Martinelli) . Così , il metodo di costruzione deli'inferenza per gli epicurei è l'analogia, mentre il criterio è più precisamente quello della inconcepibilità (adianosfa). Tuttavia la distinzione non è così forte, in quanto sia il me­ todo sia il criterio sono su base empirica: in effetti, nel di­ battito, gli stoici tenderanno ad attaccare il metodo per in­ validare il criterio e viceversa. 8.2 Contrapposizione vs inconcepibilità Vediamo di analizzare, in termini formali, l'opposizione  CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPmiLITÀ · 1 83 che si stabilisce tra il criterio stoico della contrapposizione e quello epicureo della inconcepibililà. Data l'inferenza p-:Jq il criterio della sua verifica secondo la contrapposizione stoica è esprimibile come il che equivale a dire che, negando per ipotesi il conseguen­ te, anche l'antecedente risulta negato. La prova dell'infe­ renza, dunque, avviene su base formale e non empirica. Il criterio della inconcepibilità epicurea, invece, prescinde da considerazioni formali ed è basato sull'analogia empiri­ ca. Esso viene così illustrato nelle parole di Filodemo: Ma talvolta l'inferenza non è provata essere vera in questo mo­ do ( = per contrapposizione), ma proprio per l'impossibilità di concepire che il primo sia, o abbia una certa proprietà, mentre il secondo non sia, o non abbia tale proprietà, come per esem­ pio: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo". Se è vera questa inferenza, diviene vero anche che "Se Socrate non è un uomo, nemmeno Platone è un uomo", non perché, attraver­ so la negazione di Socrate, Platone sia negato insieme ad esso, ma perché non è possibile che Socrate non sia un uomo e Plato­ ne sia un uomo; e questa inferenza appartiene al metodo dell'a­ nalogia . (col. XII, 14-31=cap. 17) Dal punto di vista formale il criterio della inconcepibilità è esprimibile come impossibile (pl\q) In effetti le due formule che corrispondono rispettiva­ mente al criterio di verifica stoico e a quello epicureo non esprimono un contenuto logico molto diverso l'una rispetto all'altra. La stessa presenza di un operatore modale nella   184 8. n «DE SIGNIS» DI FnODEMO formula del criterio di inconcepibilità è controbilanciata dal carattere, ugualmente modale, di necessità, che sappiamo essere richiesta dali'implicazione come la concepivano gli stoici . Tuttavia, in Filodemo i due metodi sono presentati come contrapposti, e anzi, nel passo citato, sembra che trovino applicazione in casi diversi. Se non è dunque sul piano del contenuto logico che si dif­ ferenziano, che cosa è allora che li rende diversi? È possibi­ le cercare una risposta a questo interrogativo soffermando­ ci sull'esempio che viene riportato da Filodemo di inferenza verificata con il metodo dell'inconcepibilità: "Se Platone è un uomo, anche Socrate è un uomo" Questa inferenza, ci dice Filodemo, appartiene al metodo dell'analogia. Infatti, entrambi i membri dell'inferenza condividono un elemento, cioè la proprietà attribuita ai soggetti rispettivi delle due proposizioni, fatto che potrem­ mo esprimere come: u {P)  u {S) in cui "u" è la proprietà di "essere un uomo", "P" è "Plato­ ne" e "S" è "Socrate". Questo aiuta a capire che cosa intendano esattamente con "analogia" e con "inferenza segnica basata sull'analogia" gli epicurei. In effetti, mentre per gli stoici non è necessario alcun elemt.nto in comune tra i due membri dell'inferenza segnica, una tale caratteristica diviene essenziale per gli epi­ curei.6 Il fatto, però, che l'analogia, da un punto di vista logico, si venga precisando come situazione in cui c'è una proprietà condivisa dai soggetti delle due proposizioni membri del­ l'inferenza, ci permette di dire che la logica usata dagli epi­ curei non è la stessa di quella usata dagli stoici: mentre que­ sti ultimi si servono della logica delle proposizioni, gli epi­ curei ritornano a una logica dei predicati, sotto un certo punto di vista più simile a quella aristotelica.  8.2 CONTRAPPOSIZIONE VS INCONCEPIBILITÀ 185 A distinguere il metodo della contrapposizione da quello dell'inconcepibilità è dunque l'ambito di applicazione: le proposizioni nel primo caso, le proprietà nel secondo. Lo scopo è tuttavia lo stesso: dimostrare che l'inferenza ha un carattere di necessità. Ora non c'è nessun problema a considerare necessaria la relazione stoica verificata dalla contrapposizione, in quanto il metodo adottato è aprioristi­ co. Ci sono maggiori problemi, invece, come gli stoici sot­ tolineano, a considerare necessaria l'inferenza analogica. A ogni modo, per gli epicurei le relazioni segniche vengo­ no scoperte empiricamente e, se la ricerca è ben condotta, la relazione tra il segno e l'oggetto a cui il segno rimanda' è necessaria. Tuttavia, il metodo stesso dell'inconcepibilità è un metodo empirico, in quanto una certa cosa è inconcepi­ bile solo nei termini della nostra esperienza. Le inferenze verificate dall'inconcepibilità sono basate sull'analogia tra il segno e ciò a cui esso rimanda: "Un oggetto che non ab­ bia niente in comune con ciò che appare è inconcepibile" (col. XXI, 27.;.29 = cap. 36). Anche le inferenze su ciò che va di là dell'esperienza sono basate sull'analogia con le proprietà che presentano le cose ali'interno deli'esperienza. Se non è possibile verificare di­ rettamente la presenza di quelle proprietà negli oggetti non percepiti, si ricorre alla prova indiretta della non incompati­ bilità (ouk antimartjrsis) con i dati empirici.7 L'inferenza che viene presa in considerazione è la seguente: Se gli uomini che noi conosciamo direttamente, una volta deca­ pitati muoiono, senza che ricrescano nuove teste, allora tutti gli uomini, dovunque, una volta decapitati muoiono e non ricre­ scono nuove teste. Il primo membro del condizionale è considerato segno del secondo. Tra i due membri si stabilisce un elemento co­ mune, e l'inferenza è propriamente un'induzione: l'espe­ rienza ripetuta dell'associazione tra decapitazione da una parte e morte congiunta alla non ricrescita della testa dal­ l'altra, porta alla generalizzazione di questa associazione, in modo da poter fare inferenze e previsioni anche in casi  186 8. IL «DE SIONIS» DI FnODEMO non precedentemente osservati, o non osservabili in asso­ luto. Inoltre, poiché è impossibile verificare l'inferenza sui casi non osservabili , gli epicurei la ritengono veri ficata basando­ si sulla non incompatibilità con i casi che cadono nel domi­ nio deli'esperienza. La condizione è tuttavia quella di sce­ gliere i casi giusti, che sono quelli che appartengono allo stesso genere: a esempio, per inferire la non ricrescita delle teste, è necessario non basarsi sulla ricrescita dei capelli o delle unghie (coli. XIII, 20 - XIV, 2 = cap. 18). 8.3 Segni comuni e segni propri La disputa sui metodi di verifica dell'inferenza si lega alla discussione sui tipi possibili di segno. Tanto gli stoici quan­ to gli epicurei distinguevano tra segno comune (koinòn s­ mefon) e segno proprio (fdion smefon). Definivano il segno comune come quella entità che può esistere anche in assen­ za di un'entità cui dovrebbe rinviare (a esempio, nell'infe­ renza "Se quest'uomo particolare è ricco, allora è buono"! la ricchezza può sussistere anche se non sussiste la bontà). Definivano poi il segno proprio come quell'entità che può esistere solo se esiste un oggetto non percepibile a cui essa rinvia (a esempio, nell'inferenza "Se c'è moto, c'è9vuoto", il moto può esistere solo se esiste anche il vuoto). Gli epicurei erano d'accordo con gli stoici nel rifiutare i segni comuni come basi inaffidabili di inferenze, ma non concordavano sul fatto che ogni caso di segno proprio fosse anche un caso (come sostenevano gli stoici) di segno stabili­ to per contrapposizione, cioè stabilito aprioristicamente. Per essi era possibile stabilire dei segni propri usando un criterio empirico, come è quello dell'inconcepibilità.10 Se consideriamo l'inferenza: "Se Epicuro è un uomo, allora anche Metrodoro è un uomo " ci troviamo di fronte a un segno proprio costruito per ana-  8.3 SEGNI COMUNI E SEGNI PROPRI 187 logia, cioè sull'osservazione di una proprietà in Epicuro che è inconcepibile pensare che Metrodoro non abbia esatta­ mente negli stessi termini. In altre parole si può dire che, posto l'accordo tra le due scuole sulla validità dei soli segni propri, gli stoici costituivano un oggetto come segno a par­ tire dal conseguente (ovvero dal rinviato), mentre gli epicu­ rei lo costituivano a partire dall'antecedente. È l'oggetto che compare nell'antecedente, infatti, che nella semiotica epicurea viene associato a certe proprietà (costantemente osservate) e diviene segno di un altro ogget­ to non percepibile a cui vengono attribuite le proprietà del primo. Tuttavia, il primo oggetto X deve avere almeno due proprietà Pt e P2 e il secondo oggetto deve avere almeno una di queste: la proprietà comune diviene il segno della presenza della seconda proprietà che può non essere perce­ pibile direttamente nel secondo oggetto. A esempio, se un certo individuo X ha le due proprietà: Pt = "essere un uomo" p2 = "non poter avere la ricrescita della testa, una volta tagliata" sarà sufficiente che un altro individuo Xt abbia la proprietà Pt perché gli si possa attribuire anche la proprietà p2. Le condizioni della validità generale di questa inferenza sono due: (i) che l'associazione tra le due proprietà nel pri­ mo membro dell'inferenza sia costante; (ii) che tale associa­ zione non si stabilisca tra proprietà casuali. Come vedremo in seguito, si tratta di scegliere delle proprietà che siano "es­ senziali". Rimane da fare una considerazione generale sul tipo di segno proposto dagli epicurei: esso sembra costantemente configurarsi come segno iconico, in quanto, in termini peir­ ceani, rimanda al suo oggetto in virtù di una somiglianza o per avere alcune proRrietà in comune con esso (Peirce 1980: 140; Eco 1973: 51). 1  188 8. ll «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.4 Critica stoica all'induzione epicurea Gli stoici non accettano la validità dell'inferenza basata su un criterio induttivo, come proponevano gli epicurei. A essa contrappongono inferenze segniche basate sostanzial­ mente su due tipi di criterio: (i) la tautologia; (ii) la L-impli­ cazione. 12 Seguiamo lo sviluppo dell'argomentazione degli stoici. Essi prendono come punto di partenza una tipica in­ ferenza induttiva, o analogica, epicurea: "Se gli uomini tra di noi sono mortali, allora tutti gli uomi­ ni lo sono''. Per gli stoici l'inferenza cosi formulata è inaccettabile. Per acquisire validità, essa deve essere riformulata secondo l'uno o l'altro dei criteri che abbiamo menzionato. Vedia­ mo il criterio definito come tautologia. Gli stoici sostengo­ no che, per rendere valida l'inferenza, cioè, dal loro punto di vista, per rendere necessaria la relazione tra i due mem­ bri, entrambe le proprietà prima considerate devono essere contenute nella premessa. 1 3 Gli stoici propongono così di riformulare l'inferenza nel modo seguente: Dal momento che gli uomini tra di noi sono mortali, e se in altri luoghi vi sono uomini simili a quelli tra di noi sotto tutti i ri­ spetti, e anche nell'essere mortali, essi sono eventualmente mor­ tali . (coIl. II, 37 - III, 4= cap. 5) Il carattere tautologico dell'inferenza è sottolineato dagli stoici stessi, i quali sostengono espressamente che "la con­ clusione appresa attraverso questo segno non differisce dal segno a partire dal quale si trae l'inferenza (smeioume­ tha)".14 Infatti viene assunta la premessa che entrambe le serie di entità (cioè sia gli uomini che si trovano tra di noi, sia gli uomini che sono in luoghi sconosciuti) hanno non so­ lo la proprietà comune di essere "uomini", ma anche con­ temporaneamente quella di essere "mortali".  8.5 RISPOSTA EPICUREA A FAVORE DELL'INDUZIONE 189 L'assunzione nella premessa dello stesso carattere di "mortalità" che dovrà essere anche oggetto di inferenza è, per gli stoici, condicio sine qua non della necessità dell'infe­ renza. L'inferenza sarà valida, dunque, solo se totalmente analitica o tautologica. Vediamo ora l'argomentazione stoica contro l'induzione secondo il criterio definito L-implicazione. In questo secon­ do caso gli stoici propongono di riformulare l'inferenza epi­ curea di partenza in maniera tale che il carattere di "morta­ lità" da inferire sia contenuto nella definizione stessa di "uomo". Per esprimere l'idea che la parola luomol implicita semanticamente tutto un insieme di proprietà che una defi­ nizione metterebbe in luce, essi introducono le espressioni hii "in quanto" e kath6 "nella misura in cui". L'inferenza riformulata secondo questo principio assume la forma se­ guente: Dal momento che gli uomini tra di noi, in quanto (hi1) e nella misura in cui (kath6) sono uomini, sono mortali, anche in qual­ siasi altro luogo gli uomini sono mortali.ts in cui la semplice espressione l uomo l è data come implici­ tante la proprietà "mortale" da inferire. Gli stoici sostengono che l'attribuzione della proprietà di essere "mortale" a l uomo l , se avviene in qualsiasi altro modo diverso da questo, come appunto fanno gli epicurei, rende vana l'inferenza. 8.5 La risposta epicurea a favore dell'induzione La sostanza della replica epicurea è che il sistema stoico, per quanto appaia analitico e a priori, tuttavia poggia in ul­ tima analisi su una base induttiva. In realtà, secondo gli epicurei, la necessità della relazione inferenziale è costruita sull'osservazione di congiunzioni costanti. È a causa del fatto di non vedere mai il fumo senza il fuoco, né il moto senza la presenza del vuoto, che noi arriviamo a dire che il fumo è segno del fuoco e il moto segno del vuoto.16 Cosi è  190 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO su base empirica che viene stabilito il sistema di necessità lo­ gica a priori alla quale fanno ricorso gli stoici . Del resto, la stessa connessione necessaria tra due termini, espressa at­ traverso il test della contrapposizione, può essere verificata solo dopo che l'esperienza ha mostrato la costante congiun­ zione tra di essi. Come giustamente interpreta Estelle De Lacy (1938: 405), "le ipotesi sul livello logico e teoretico sono formulate sulla base di informazioni intorno alla connessione di termini da­ ti dali'osservazione deli'esperienza dei sensi. La validità di queste ipotesi, di conseguenza, dipende dalla loro corri­ spondenza con i fatti e dalla loro adeguatezza nel compren­ dere tali fatti, come pure dalla loro interna coerenza o com­ patibilità dell'uno con l'altra". Se questa è la sostanza della replica epicurea alle critiche stoiche sull'induzione, vale però anche la pena di analizzare la risposta specifica17 alla seconda critica stoica. Infatti, in relazione alla L-implicazione, gli epicurei, ribaltando l'ar­ gomento stoico, sollevano una questione interessante: la de­ finizione di uomo in quanto mortale è non il punto di par­ tenza di un'inferenza deduttiva, ma il punto di arrivo di ri­ petute inferenze induttive. In altre parole, si costruisce la definizione di uomo in quanto tale, come comprendente an­ che la proprietà di essere "mortale" in conseguenza di due serie di informazioni: (i) le informazioni che ci fornisce la storia sulle vite degli uomini che ci hanno preceduti; (ii) le informazioni che ci derivano dali'esperienza diretta dei no­ stri contemporanei. Così gli epicurei pongono l'equivalenza tra la proposizione: (a) "Gli uomini , in quanto uomini , sono mortali " (che è la formula suggerita dagli stoici, e che indica dedutti­ visticamente il fatto che nella nozione di "uomo" vi è com­ presa la proprietà "mortale"), e la proposizione: (b) "Gli uomini con questa proprietà (di essere mortali) sono uomini"18  8.6 PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 191 che è la formula epicurea, la quale suggerisce in qual modo venga costruita la definizione. In sostanza, gli epicurei sem­ brano sostenere che la definizione di "uomo" viene costrui­ ta mediante un'accumulazione di proprietà che sono rileva­ te mediante un metodo analogico in entità che sono9deno­ minate in un certo modo, in questo caso, luominil.1 8.6 Proprietà essenziali e proprietà accidentali Un altro interessante problema che emerge nella disputa tra stoici ed epicurei è quello della distinzione tra proprietà primarie e proprietà secondarie. Questa distinzione risale a Democrito, che è stato il primo a usarla (De Lacy 1938: 403). Il problema non è affatto banale e ancora oggi, in molte teorie semantiche, si ricorre a un'analoga distinzione. Gli epicurei affrontano l'argomento per rispondere a una critica stoica che attacca il metodo dell'analogia mostrando il rischio che si corre neli'applicarla a proprietà che non hanno tutte la stessa ripartizione o generalità. Infatti, so­ stengono gli stoici, allo stesso modo in cui viene universaliz­ zata la concomitanza osservata tra la proprietà "uomo" e la proprietà "mortale'', altrettanto potrebbe essere fatto per la concomitanza osservata tra "uomo" e "di breve vita": il ri­ schio è che, così facendo, si viene ad attribuire quest'ultima proprietà anche agli abitanti del monte Athos, che nell'anti­ chità erano proverbialmente considerati longevi.20 Proprio da questo tipo di critica gli epicurei sono spinti a elaborare una distinzione tra proprietà che sono variabili (cioè peculiari a certi individui) e proprietà che sono costan­ ti (cioè rintracciabili in ogni individuo). L'inferenza corret­ ta sarà quella che parte dalle proprietà costanti. Tuttavia, sostengono gli epicurei, la stessa presenza di proprietà va­ riabili, invece di indebolire la teoria dell'inferenza analogi­ ca, la rafforza: posto infatti che gli uomini conosciuti diffe­ riscono moltissimo rispetto alla lunghezza della vita (essen­ do alcuni di breve vita e altri longevi), diviene possibile, proprio sulla base dell'esistenza della variazione, fare cor­ rettamente l'inferenza che altrove esistano uomini di ecce-  192 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO zionale longevità, come lo sono appunto gli abitanti del monte Athos.21 Ma ciò che spinge gli epicurei ad andare ancora più a fon­ do su questa strada è l'attacco stoico a proposito di inferen... ze che hanno conseguenze sulla loro teoria metafisica. La provocazione stoica concerne la teoria degli atomi, che, nel­ la metafisica epicurea, hanno la proprietà di essere "incolo­ ri" e "indistruttibili"; però essi hanno anche la proprietà di essere "corpi", a cui, nell'esperienza, sono associate le pro­ prietà opposte (cioè "colorati" e "distruttibili"). Queste so­ no le due inferenze che, secondo gli stoici, gli epicurei do­ vrebbero fare, applicando correttamente il metodo analo­ gico: (l) "Dal momento che tutti i corpi della nostra esperienza hanno colore e anche gli atomi sono corpi, anche gli atomi hanno colore." (2) "Dal momento che tutti i corpi nella nostra esperienza sono distruttibili, e anche gli atomi sono corpi, gli atomi devono essere tutti distruttibili."22 La replica epicurea è molto interessante, per due motivi. In primo luogo, perché precisa ulteriormente la necessità di fare distinzioni tra proprietà a cui il metodo analogico si applica, e proprietà a cui non si applica; infatti il metodo agisce selettivamente sulle proprietà e non in modo ca­ suale.23 In secondo luogo, la replica epicurea è interessante per­ ché modula la precedente distinzione in termini teoricamen­ te più forti: essa diviene una distinzione in proprietà che possiamo definire essenziali e proprietà accidentali. Infatti gli epicurei parlano di certe proprietà che i corpi hanno pro­ prio "in quanto corpi" (hei somata), che essi mantengono in ogni occasione: prima fra tutte la proprietà di "opporre resistenza al tocco". Questa è dunque una proprietà essen­ ziale. Poi ci sono quelle proprietà che non sono strettamen­ te legate alla natura dei corpi e che possono variare a secon­ da delle condizioni: si tratta di proprietà accidentali, che i PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 193 corpi hanno "in quanto partecipano di una natura opposta a quella corporea e non resistente",24 come a esempio la di­ struttibilità o il colore, il quale ultimo è tanto accidentale che scompare nelle condizioni di buio. Possiamo schematizzare queste due serie di proprietà at­ traverso una tabella:   proprietè entitè corpi A B proprietè accidentali (in quanto partecipano di una nature opposta) ..distruttibilitè• ·colore•  (in quanto tali) ·resistenze al tocco· proprietè essenziali  Gli epicurei precisano molto chiaramente che le inferenze induttive generalizzanti non dovranno partire dalle proprie­ tà della colonna B; ma niente impedirà di fare inferenze ge­ neralizzanti, con il metodo dell'analogia, partendo dalle proprietà della colonna A.25 A conferma di questo schema si può riportare l'esempio del "fuoco'',26 per il quale, accanto alla proprietà essenziale di bruciare, viene elencata una serie di proprietà variabili peculiari ai vari tipi:  8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO proprietà essenziali proprietà accidentali (koin6ttes) (idi6ttes) ·di lunga o corta durata• ·non tutte le sostanze sono bruciate nello stesso modo· ·facili o difficili da spegnere · ·duri o teneri· •di colore variabile a seconda del combustibile· Nella sezione di Bromio27 viene anche prevista una specie di topica per individuare la ripartizione delle proprietà: in­ fatti, ai fini della correttezza delle inferenze, le proprietà es.. senziali (o comuni, koin6ttes) e quelle accidentali (o pecu­ liari, idiOttes) devono essere analizzate nei vari campi o ca­ tegorie che sono di pertinenza di un oggetto: nelle sostanze, nei poteri, nelle qualità, negli attributi, nelle disposizioni, nelle quantità, nei numeri. Lo scopo di questa topica appare essere quello di giustifi­ care inferenze universalizzanti ali'interno di categorie omo­ genee: infatti, a esempio, pur essendoci un'infinita varietà di esseri umani e di cibi che li nutrono, se si considera il fie­ no rispetto alla categoria dei "poteri", si troverà che esso ha due proprietà costanti: "di non nutrire gli esseri umani" e "di non essere digerito da essi".28 Perciò, al di là delle diverse caratteristiche che questo og­ getto potrà presentare (diversi colori, diversa consistenza, diverso grado di maturazione ecc.), potremo fare con sicu­ rezza l'inferenza che da nessuna parte si troverà del fieno che abbia la proprietà di nutrire gli uomini e di essere da lo­ ro digerito. Ma che cosa sono propriamente per gli epicurei quelle proprietà degli oggetti ''in quanto tali", che abbiamo defini­ to proprietà essenziali? Dai precedenti esempi (e da altri analoghi) appare chiaramente che esse sono , per loro , le - 194 propnettt r entità ! fuochi PROPRIETÀ ESSENZIALI E ACCIDENTALI 195 proprietà definitorie di un oggetto, cioè quelle che concor­ rono alla sua definizione essenziale. Abbiamo visto che per gli stoici una definizione viene co­ struita analiticamente, attraverso una ricognizione delle proprietà implicite nella nozione da definire: un individuo, in quanto è uomo, ha la proprietà di essere mortale. Per gli epicurei le cose vanno nel senso opposto. La defi­ nizione di una nozione viene costruita per accumulo delle proprietà comuni a certi individui. Di conseguenza, tra le proprietà comuni (o essenziali) rilevate empiricamente e le proprietà che fanno parte della definizione, non c'è diffe­ renza. Lo dimostra anche l'uso della particella hi ("in quanto") che viene utilizzata (come vedremo meglio più avanti) nelle espressioni definitorie. Rimane aperto il pro­ blema se sia possibile costruire empiricamente una defini­ zione annotando le proprietà comuni a una classe di ogget­ ti, o se il processo non sia in qualche maniera viziato (alme­ no in parte) proprio dalla preliminare esistenza di definizio­ ni che rimandano alla lingua come struttura globale interde­ finita e/o storicamente stratificata. Questa seconda ipotesi sembra in parte prospettarsi con la definizione di l uomo l . Per gli epicurei, infatti, la pro­ prietà "mortale'' è, come abbiamo visto, una proprietà es­ senziale o definitoria di l uomo l . Si deve però notare che es­ sa fa parte della definizione di l uomo l già in una lunga tra­ dizione che risale per lo meno ad Aristotele. Quest'ultimo definiva infatti l uomo l come "animale mortale provvisto di ragione" (Top. , V, l , 128 b, 35-36). Gli stoici poi lo defi­ nivano come "animale razionale mortale" (Epictetus, Diss. II, 9, 2). La tradizione epicurea, infine, lo definiva come "mortale provvisto di sapienza pratica" (De signis, col. XXII, 22-24=cap. 37).29 È probabile, dunque, che definizioni di questo genere co­ stituissero un'implicita guida nella stessa ricognizione empi­ rica delle proprietà comuni a una serie di oggetti (gli uomini percepibili) analizzati in vista di un'inferenza al non perce­ pibile .  196 8. IL «DE SIGNIS» DI FILODEMO 8.7 Modalità di inerenza delle proprietà essenziali ai soggetti Quando nel trattato di Filodemo si parla di proprietà co­ muni o essenziali, queste vengono congiunte al soggetto me­ diante le particelle héi, kath6, par6, che equivalgono nel si­ gnificato alle espressioni italiane "in quanto", ''nella misura in cui". Esse vengono a indicare una condizione restrittiva nell'inferenza al non percepibile, come abbiamo visto nel­ l'esempio della natura degli atomi come "corpi in quanto tali", o degli uomini come mortali "nella misura in cui sono uomini". Nella sezione di Demetrio sono elencate quattro accezioni fondamentali di queste particelle, che rimandano a quattro modi di inerenza delle proprietà ai soggetti: (i) Secondo la prima accezione, le proprietà possono es­ sere viste come conseguenze necessarie (ex ananks synépe­ tar): come esempio di conseguenza necessaria del fatto di essere uomini, sono riportati i fatti di avere un corpo e di essere soggetti alla malattia e alla vecchiaia.3° Con questo esempio l'autore sembra individuare un tipo di proprietà che in certe semantiche contemporanee sono chiamate fat­ tuali o sintetiche3 1 o proprietà secondo il modo 1r). 32 (ii) Nella seconda accezione, le proprietà sono individua­ te come essenziali alla definizione o alla concezione fonda­ mentale (prolessi)33 di un certo oggetto. Questo si verifica a esempio con espressioni del tipo: "I corpi, in quanto corpi, hanno volume e resistenza", o come: "L'uomo, in quanto uomo, è un animale razionale''. In questo caso il rapporto sembra essere di tipo equativo: l'estensione del primo termi­ ne viene a coincidere con quella del secondo. Nel caso del­ l'esempio di l uomo l , l'equivalenza definizionale viene data in termini di genere ("animale"), più differenza specifica ("razionale"). (iii) Secondo la terza accezione, certe proprietà sono vi­ ste come sempre concomitanti (synbebekénar), come nell'e­ sempio: "L'uomo nella misura in cui è uomo, muore".34  8.8 CONCLUSIONI 197 L'autore sembra individuare qui delle proprietà che nelle teorie contemporanee sono state definite semantiche, anali­ tiche o proprietà secondo il modo E : "uomo,, infatti, è in­ cluso nella classe più vasta di "mortale". Quest'ultima, poi, ritorna sotto forma di marca semantica a comporre il seme­ ma corrispondente al termine l uomo l . (iv) La definizione della quarta accezione è perduta in una lacuna, ma essa può essere ricostruita dagli esempi che il testo ha conservato: "L'uomo, nella misura in cui è folle, è massimamente infelice,, "Un coltello taglia nella misura in cui è affilato", "Gli atomi, nella misura in cui sono soli­ di, sono indistruttibili", "Un corpo, nella misura in cui ha peso, cade verso il basso". Marquand (1883: 125) interpreta questi come esempi di proprietà che implicano gradazioni o proporzione. I De Lacy (1978: 125) fanno invece la conget­ tura che si tratti di proprietà delle proprietà. Certi di questi esempi farebbero pensare al rapporto se­ miotico della connotazione, inteso come significato che si appoggia su un altro significato e che comunque è fissato da un codice. Si possono schematizzare i quattro modi in cui le proprie­ tà ineriscono al soggetto, · sia secondo l'interpretazione di Marquand, sia secondo quella della semiotica contempora­ nea (cfr. p. 198). 8.8 Conclusioni Se gli stoici avevano fornito alla semiotica una solida im­ palcatura logica, gli epicurei arricchiscono la problematica del segno mediante una serie di specificazioni destinate ad avere valore operativo nella ricerca concreta ed effettiva. Abbiamo già visto le distinzioni tra i tipi di segno, i tipi di proprietà, i modi di inerenza delle proprietà ai soggetti. Ol­ tre a questi temi gli epicurei affrontano anche il problema della gamma di variazione a cui i fenomeni sono sottoposti e quello dei limiti di tale variazione, come condizione per fare inferenze corrette. Infatti ammettono l'esistenza di proprietà che variano da individuo a individuo, ma negano  198 8. IL «DE SIGNIS)) DI FILODEMO semiotica contemporanea   Marquand conseguenza  1. 2. concezione estensionalmente necessaria definizione o proprietè fattuali o sintetiche  essenziale (protessi ) proprietà equivalenti al soggetto  3. concomitanza proprietà semantiche o analitiche  4. gradazione o connotazioni proporzione codificate che nei fenomeni non percepibili la gamma di variazione sia illimitata e che comunque superi i confini della variazione osservabile nei fenomeni conosciuti. Così non si potrà infe­ rire che gli uomini fuori dalla nostra esperienza siano tanto resistenti da essere invulnerabili, oppure che essi siano fatti di ferro, o che passino attraverso le pareti, come quelli co­ nosciuti passano attraverso l'aria. La giustificazione di que­ sto fatto viene data dal metodo deli'inconcepibilità: "è in­ concepibile che ci sia un ogetto che non abbia niente in co­ mune con ciò che appare". 5 Nel De signis vengono anche affrontati i problemi con­ nessi ai vari tipi di inferenza: da classe a classe; da oggetti identici ; da casi rari ; da casi unici . Tutti questi problemi so­ no collegati a un tema che è costante nella semiotica epicu-   8.8 CONCLUSIONI 199 rea: quello delle garanzie di validità di un'inferenza. A esempio, un'inferenza scorretta è quella che porta a concludere che tutti gli uomini sono bianchi, partendo dal­ l'osservazione che gli uomini greci lo sono, o che, al contra­ rio, porta a concludere che tutti gli uomini sono neri, par­ tendo dali'osservazione che gli Etiopi sono tali. In effetti, simili inferenze sono errate perché non sono frutto di "una accurata supervisione di tutti i casi percepibili".36 Ciò che, dal punto di vista logico, avviene in casi di questo genere è che si tenta di applicare ali'intera classe o genere (quello de­ gli "uomini") una proprietà che di volta in volta è caratteri­ stica di una sottoclasse o specie (quella dei "Greci" o, ri­ spettivamente, quella degli "Etiopi"). In effetti, per garantire il massimo di sicurezza, gli epicu­ rei pongono alla base del loro metodo per costruire inferen­ ze una teoria della progressiva inclusione semantica tra in­ dividui, specie e generi, cioè una teoria delle classi. È infatti legittimo fare inferenze tra membri (classi o in­ dividui particolari) i quali si situino a un livello analogo o che siano il più possibile vicini e simili. Naturalmente que­ sto non significa che l'inferenza debba essere fatta esclusi­ vamente tra membri che si situano esattamente allo stesso livello, altrimenti l'induzione perderebbe molta della sua forza, ma nella maggior parte dei casi viene previsto un mo­ vimento ascendente di generalizzazione.37 Una teoria delle classi è implicita anche nella trattazione epicurea dei casi unici, elaborata ancora una volta in rispo­ sta a una critica stoica. In effetti gli stoici avevano tentato di attaccare il metodo deli'analogia ricorrendo ali'argomen­ to deli'esistenza in natura di casi unici, che non presentano analogia con alcun altro fenomeno: a esempio, in mezzo al­ la stragrande quantità di pietre che esistono nella nostra esperienza, ce n'è una sola, il magnete, che è capace di atti­ rare il ferro; ugualmente, solo l'ambra ha la proprietà di at­ tirare la paglia; infine, non c'è che il quadrato che misura 4 di lato che ha il perimetro e l'area espressi dallo stesso nu­ mero.38 Secondo gli epicurei, però, le critiche degli stoici, invece di inficiare l'inferenza analogica, in realtà la rafforzano.  200 8. IL «DE SIGNIS» DI Fll.ODEMO Per dimostrare questo, gli epicurei ricorrono al metodo di ridurre ad altrettante classi gli oggetti unici. Così, essi dico­ no, se alcuni magneti attirassero il ferro e altri no, l'inferen­ za per analogia sarebbe inficiata; ma poiché così non avvie­ ne, è possibile inferire le proprietà degli altri magneti a par­ tire dal magnete che cade sotto la nostra percezione.39 Molti ancora sarebbero i punti particolari da prendere in considerazione, per mostrare il modo con cui gli epicurei tentano di dettagliare la teoria del segno. Ma quello che in definitiva caratterizza la semiotica epi­ curea è il suo richiamo a un completo programma empirista (che era condiviso, tra l'altro, anche dai medici empirici). Tale programma comprende tre tappe fondamentali: os­servazione; storia; inferenza da simile a simile. I pri­ mi due momenti del programma permettono di individuare le "proprietà essenziali", e quindi di passare al terzo mo­ mento, che è quello della ricostruzione del processo semioti­ co vero e proprio. Nei primi due momenti, infatti, vengono suggerite delle condizioni sui fenomeni da osservare per ottenere le pro­ prietà costanti: essi devono essere "molti", devono essere diversi tra di loro (''vari") e, contemporaneamente, devono essere "omogenei".40 Il terzo momento, infine, combina le proprietà deli'enciclopedia semantica con le leggi della logi­ ca (che per gli epicurei sono quelle della logica delle classi). In questo compromesso, appunto, tra i concreti suggeri­ menti in vista della produttività empirica e il tentativo di mantenere il massimo rigore formale deve essere individua­ ta l'originalità della proposta epicurea.  RETORICA LATINA. L'interesse per la problematica semiotica nel mondo ro­ mano fa parte di quel processo di costante e progressiva ac­ quisizione del patrimonio culturale greco, che inizia nel III secolo a.C. Ma, nel passaggio dal mondo greco a quello ro­ mano, il paradigma semiotico abbandona il campo della fi­ losofia in senso stretto, per installarsi, in maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia la conoscenza attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuole postaristoteliche, il modello stesso della conoscenza in generale e, a partire dagli stoici, aveva trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica, una delle branche più astratte della filosofia, in quanto sotto­ partizione della stessa logica. Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormente orientati in direzione pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse del paradigma se­ miotico, ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro più congeniali, del dibattito politico e giudiziario, dibattito de­ stinato a essere condotto con gli strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersi conto, nel modo più chiaro, del cambiamen­ to di prospettiva, basta mettere a confronto l'atteggiamento di Aristotele con quello di Cicerone nei riguardi della retori­ ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di un suo importante trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il tema dei segni; ma, come era già avve-  202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primi analitici, aveva tentato di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quella dei tipi di sillogismo. Cosi fa­ cendo, aveva indicato un percorso ben preciso: la logica stabilisce le forme fondamentali del ragionamento, che de­ vono rimanere un punto di riferimento anche quando l'inte­ resse si sposta, come nel caso della retorica, dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segni referenziali a quelli efficaci . In Cicerone, e in genere nella trattatistica retorica roma­ na, si registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retori­ ca non occupa più il secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, al contrario, è la filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cui scopo è quello di contri­ buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia è l'elo­ quenza l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo del De oratore (Il, 159-160) mostra abbastanza chia­ ramente l'opinione di Cicerone circa i rapporti tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio viene detto che i dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma non di produrne. In effetti, per Cicerone la retorica costituisce il "corona­ mento" della filosofia, dalla quale non può essere dissociata (De orat., III, 59-61), e non deve essere considerata una tec­ nica capace di aggiungere un'espressione elegante a un pen­ siero già formato. Come mettono bene in luce Mare Baratin e Françoise Desbordes (1981: 50), in Cicerone agisce un principio, sempre sfumato, ma costantemente affermato, che, se si parla bene, si pensa anche bene o, in altre parole, che non si pensa veramente bene se non quando si parla ve­ ramente bene. Tuttavia la retorica, indiscutibilmente, presenta anche un aspetto tecnico, e ogni trattatista mostra che essa è organiz­ zata secondo due tipi di assi. Il primo concerne i tipi di di­ scorso: il discorso dei tribunali (giuridico); il discorso del­ l'assemblea (politico); il discorso delle cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo riguarda le parti della retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono essere messi in atto per strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri­ cerca degli argomenti); dispositio (ordinamento di quel che  9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 203 è stato trovato); elocutio (resa degli argomenti in forma or­ nata); memoria (procedimenti mnemotecnici); actio (recita­ zione del discorso: gesti e dizione). La problematica riguardante il segno si colloca nel cuore della inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove che convincano l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato. Le prove, in retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e si inseriscono nel pro­ gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo dei due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro­ gramma è il commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio o sulla sua forza proba­ toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia, come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare l'espressione "prova" per indicare le probationes (pf­steis) retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno­ tazione scientifica la cui assenza appunto definisce le "pro­ ve" retoriche. Tuttavia, un merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di dare una classifi­ cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni autore ha assolto in ma­ niera particolare, proponendo una classificazione che non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li­ nee secondo le quali i tre grandi autori della trattatistica re­ torica romana, cioè Cornificio (autore della Rhetorica ad Herennium) , Cicerone e Quintiliano , ricostruiscono nelle rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia­ scuno secondo diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium , attribuita un tempo a Cicerone sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi asse­ gnata a Cornificio (Calboli: 1969).  204 9. RETORICA LATINA La problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della constitutio coniecturalis dove, per verifica­ re se sia stata commessa o no una determinata azione da un certo imputato, si segni che ne mostrino la col­ pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret­ tamente a cui i segni devono rimandare non è il fatto o rea­ to, che è ovviamente noto, ma l'agente responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un certo fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed è ben illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi reso conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla spada. Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma insanguinata. Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del fratello con la spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la verità per congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione nell'esempio Oa colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può scaturire da una intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La retorica antica, come ha sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una fiducia incrollabile nel metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo e l'ametodico non portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti­ pico procedimento diairetico, suddivide lo stato congettura­ le in sei parti, sei diverse vie per arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità), conlatio (confronto), signum (pro­ cedimento indiziario), argumentum (segno), consecutio (conseguenza), adprobatio (conferma). 9. 1 . 1 La probabilità Troviamo qui una terminologia in parte familiare, in quanto probabile può essere considerata la trasposizione la­ tina di eik6s, e signum quella di smefon, per limitarci solo a questi due casi. Ma i contenuti delle espressioni latine so-  9.l LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 205 no completamente difformi dalle corrispondenti nozioni greche. Infatti il probabile è "ciò attraverso cui si dimostra che era utile commettere il crimine e che l'imputato non si è mai astenuto da comportamenti di tale turpitudine" (Il, 3), defi­ nizione nella quale non rimane molto deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile è connessa alla caratteriz­ zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se [l'accu­ satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem­ pre stato avaro, se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difetto congenito con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dalla sua ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di "movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimento indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò che serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione (del crimine)" (II, 6). Non ritro­ viamo nemmeno qui la nozione greca di smeion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia­ ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico­ struire il fatto scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine separata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di por­ tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il segno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la sua definizione non è ancora molto elo­ quente ("Argumentum è ciò attraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e con un so­ spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci tolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe­ nomeno percepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile  206 9. RETORICA LATINA direttamente; la sua struttura è quella in ferenziale, espressa da un periodo ipotetico: "Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per gonfiore o lividezza, significa che è stato uc­ ciso da una dose di veleno" (Il, 8); se si trova del sangue sulle vesti dell'imputato, se è stato visto sul luogo del delit­ to, significa che egli è colpevole (ibidem) ecc. Caratteristicamente l'argumentum viene suddiviso in tre tipi, in relazione al rapporto temporale (anteriorità, con­ temporaneità, posteriorità) che si instaura fra antecedente e conseguente del segno; classificazione, questa, che risale al­ la retorica prearistotelica (si trova a esempio nella Rhetori­ ca ad Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le reazioni fisiche non controllabili Un'altra nozione interessante è quella di consecutio, che Calboli (1969: 232) mette in relazione ai sjmptoma della terminologia medica. Si tratta, come dice Cornificio, dei "segni (signa) che solitamente presentano i colpevoli e gli innocenti" (II, 8), come, a esempio, che l'imputato, quando si è giunti a interrogarlo, "sia arrossito, sia impallidito, ab­ bia titubato, sia caduto in contraddizione, si sia smarrito, abbia fatto qualche promessa, che sono segni di coscienza non tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle reazioni fisi­ che non controllabili, dei segni involontari che possono ve­ nire messi in relazione, in maniera abbastanza codificata, con degli stati d'animo (come il senso di colpa). Questi se­ gni, per quanto non siano facilmente dissimulabili, sono pe­ rò manipolabili a livello di interpretazione: infatti l'avvoca­ to difensore può intervenire sulla loro presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è turbato per la gravità del pe­ ricolo e non per la coscienza della colpa; d'altro canto, l'ac­ cusatore può intervenire sull'assenza di segni di tal genere sostenendo che l' imputato aveva a tal punto premeditato la cosa da presentare la massima sicurezza, ragione che rende l'assenza di turbamento "segno di sicurezza, non d'inno­ cenza" (ibidem).  probabile causa - vita conlatio alii nemini bonum - neminem alium potuisse slgnum occasio - spes per- ficiendi spes celandi l argumentum consecudo adprobatio - praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 207 9. 1 .5 La classificazione e la forza argomentativa Come si può vedere, il procedimento indiziario che viene messo in atto in ambito retorico-giuridico gioca su vari li­ velli: (i) innanzitutto, ci sono i segni della premeditazione. che nella tassonomia di Cornificio sono distribuiti tra il probabile, la conlatio (che consisteva nel dimostrare che l'imputato aveva più di ogni altro ragioni e possibilità di commettere il delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo ci sono i segni delfatto stesso, che sono rappresentati dagli ar­ gumenta: essi mettono in relazione diretta l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'è quella sorta di segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dal comportamen­ to dell'imputato osservato in un momento diverso e succes­ sivo rispetto a quello dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamente la classificazione della materia congetturale effettuata da Cornificio con il se­ guente schema (Curcio 1900):  - locus - tempus - spatium - consequens   Se messa a paragone con quella della Retorica aristoteli­ ca, la classificazione di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e non saldamente fondata. Tuttavia, con­ temporaneamente, appare molto più aderente alla materia instans conscientiae - signe  confidentiae - signa  innocentiae  208 9. RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e non priva di una logica inter­ na nel suo seguire i segni deli'imputato in un percorso che parte dal momento precedente il crimine e culmina nel pro­ cesso . Cornificio discute anche della forza argomentativa dei se­ gni, quando propone di organizzare in una struttura logica gli argomenti trovati. E, a questo proposito, nota che ci so­ no dei segni che non garantiscono nessuna certezza come a esempio: uoeve aver partorito, poiché porta in braccio un bimbo piccolo", oppure: "Dal momento che è pallido, deve essere ammalato" (Il, 39). Come si può notare, si tratta di segni che corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi non sono sicuri perché, a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma anche una quantità di altre cose. Quello che è però interessante è che Cornificio non li rifiu­ ta, ma sottolinea un loro valore argomentativo nel caso che compaiano in gran numero ("se però vi si aggiungono an­ che tutti gli altri, tali segni hanno un certo peso per accre­ scere il sospetto", ibidem). 9.2 Cicerone Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere che parlano dei se­ gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambi­ to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una problematica a carattere so­ cio-politico, volta a definire la figura deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut­ to ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le Partitio­ nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in considerazio­ ne e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che com­ pongono l'apparato tecnico della retorica. Un limite di que­ ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa­ rossismo, come nel De inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. 9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di Cicerone e con­ densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro­ vino riprodotti alcuni aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an­ tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata l'attenzione verso i segni involontari (l'im­ pallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato) come indi­ zi di colpevolezza. Infine compare la classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il fatto crimi­ noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei segni proposta da Cice­ rone è in larga misura diversa da quelle precedenti. Essa ap­ pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar­ gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere qualche cosa che si esco­ gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in maniera RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens) , o la dimostra in . un mo­ do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44). Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili­ ter ostendens) e un'inferenza necessaria (necessarie demon­ strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro­ vato diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo", "Se è giorno, c'è luce" (De inv. , l, 86). Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono legati da una re­ lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae­ rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi cosi defini­ to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv., I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio­ ne che per Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" (De inv. ,  9.2 CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La categoria di signum, poi, compare come una sottopar­ tizione dei segni non necessari, accanto al credibile (credibi­ le), ali'iudicatum (giudicato) e al comparabile (paragonabi­ le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in base a crite­ ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan­ za particolare: "Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no­ stri sensi e indica (significar) un qualcosa che sembra deri­ vato dal fatto stesso, e che può essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv. , I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi, intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo­ lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio­ nale; ma niente vieta che vengano sviluppati in proposizio­ ni, come dimostra il caso deli'indizio "polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare la classificazione propo­ sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2 "Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della tarda matu­ rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei modelli greci e viene completa­ mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi (qui chiamati  212 9. RETORICA LATINA argumentatio  necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori élut quod in opi­ nione positum est") es.: .. "pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos­ sunt"l es . : ·se ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio   --- --- -  l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo­ ghi estrinseci" (corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una concezione orda­ lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut­ tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para­ digma divinatorio all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono completamente laicizzati.  9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L ,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli argomenti intrin­ seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di cau­ sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di segni: i verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri­ sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili­ stico e generalizzante. La nnta propria rei viene definita come "una prova che non si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co­ me il fumo indica il fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi­ dentemente, del segno necessario, come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che riman­ da alla nozione di fdion smeion (segno proprio). Per Ari­ stotele il segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva carat­ tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si­ gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei quali  214 9. RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma, macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor­ so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione, le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive, rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem), caratte­ ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor­ nificio (Rhet. adHer., II, 8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile) (Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi­ che degli ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate­ goria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia, cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava i smefa da un punto di vista episte­ mologico per la loro insicurezza, Cicerone è pronto a rico­ noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione cicero­ niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina­ zione. Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente­ mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o  trt•) (·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza­ inclinazione alla libidine · 9.2 CICERONE 215 coniecturs ---- l ----- verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu­ rali) e prove extratecniche corrisponde la distinzione tra di­ vinazione artificiale (basata sull'interpretazione e sulla con­ gettura) e divinazione naturale. Infine, come Cicerone pole­ micamente rileva (De div. , II, 55), i segni della divinazione sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo­ sta, proprio come avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due interpretazioni di­ verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti della di­ vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellet­ tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi­ losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora­ neamente impegnato in politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stso; la superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per­ ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della repubblica.  216 9. RETORICA LATINA Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deo­ rum, nel De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que­ st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria soste­ nuta da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale" Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon­ te dell'informazione e come emittenti nei processi di comu­ nicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinata­ ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di divinazione, il pro­ cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di decriptazione, demandata a specia­ listi, ciascuno esperto in un settore: extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum (inter­ preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in­ terpretes sortium (interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica, secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau­ se ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile per intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola divinità (De div., I, 125-127).  9.2 CICERONE 217 Tuttavia viene prevista l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini, attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo­ do in cui gli eventi si ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con­ nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul­ la iteratività. Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione "naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivan­ ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri­ patetiche (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente no­ minati, De div. , II, 100), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:     218 9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi­ nazione si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se­ gni non siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti. Per distinguere i segni veri rispetto a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre le pratiche pro­ fessionali adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De div. , II, 14), le prati­ che divinatorie si basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade­ re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip­ pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes­ sionale dalla divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28).     9.3 QUINTILIANO 219 Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div.); (ii) si verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio­ so, ma a ben diverse cause naturali (De div.);  l'interpretazione avviene a posteriori e così toglie ogni ne­ cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div. , II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra­ gioni di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74). 9.3 Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del regime politico dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re­ torica divenisse inutilizzabile come mezzo di agitazione po­ litica e sociale: per questo, da strumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita Cicerone, era divenuta so­ prattutto materia teorica. In questo quadro Quintiliano è colui che espone i principi dell'arte retorica nella maniera migliore e più completa di chiunque altro e contemporanea­ mente registra il processo di cadaverizzazione che l'elo­ quenza stava subendo. Nella sua Institutio oratoria tratta un programma completo del ciclo educativo del perfetto orato­ re, in cui la competenza semiotica ha una posizione di rilie­ vo. Gran parte degli elementi che compongono l'opera di Quintiliano hanno indiscutibilmente una pertinenza semio­ tica; ma nella lnstitutio è presente anche una sezione speci­ ficamente dedicata ai segni, come era ormai consuetudine per ogni trattato di retorica. Vaie anche nel caso di Quintiliano la considerazione fatta a proposito degli altri trattatisti di retorica, e cioè che la ri­ flessione sul segno è saldamente inquadrata all'interno del­ l'ottica giuridica con cui viene trattata la materia. I segni in­ fatti fanno parte delle probationes artificiales, cioè delle  220 9. RETORICA LA... INA prove che l'abilità (ars) dell'oratore saprà trovare per far assolvere o condannare un imputato. D'altro canto, le pro­ bationes inartificiales sono quegli elementi che derivano dali'esterno del processo e vengono consegnati ali'oratore insieme al suo dossier. Il seguente schema ne mostra l'inventario completo: 9.3. 1 Orientamento della retorica di Quintiliano probstiones (prove)  i n a rt i f i c/i a l tJ s praejudicia (pregiudizi) rumores (voce pubblica) tormenta , quaesita ( inter­ rogatorio sotto tortura) tabulae (scritture, atti, contratti ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia (testimonianze) a rt i f i c i s l e s  formale Va pure detto che la retorica di Quintiliano, accanto a un orientamento giuridico, ne presenta anche uno fortemente teorico, che tende a inquadrare la materia il più possibile in termini logici e formali (anche se è stato rilevato che Quinti­ liano non si trova del tutto a suo agio in questo campo) (Kennedy). Così tutti e tre i tipi di prove tecniche (signa, argumenta, exempla) vengono inquadrati in un reticolo di relazioni lo­ giche vicine al genere deli'implicazione, ovvero del rappor­ to "se p, allora q". Infatti il meccanismo di avvaloramento signum (segno, prova di fatto) argumentum (prova di ragionamento) exemplum (esempio) ed epistemologico QUINTlIANO 221 delle prove deve assumere una forma logica che coincide con uno dei seguenti quattro tipi: (i) il concludere dalPesse­ re una cosa che un'altra non sia (p-+ - q) ("È giorno, dun­ que non è notte"); (ii) il concludere dall'essere una cosa che un,altra sia (p-+q) (''Il sole splende sulla terra, dunque è giorno"); (iii) il concludere dal non essere qualcosa che qualcos'altro sia ( -p-+q) (''Non è notte, quindi è giorno"); (iv) il concludere dal non essere qualcosa che un'altra sia ( -p-+ - q) ("Non è un essere razionale, quindi non è un uomo") (lnst. or. , V, 8, 7). Analizzati ali'interno di questa griglia, i segni tendono a configurarsi come degli antecedenti rispetto a dei conse­ guenti; nozione, questa, che Quintiliano non ha bisogno nemmeno di rendere esplicita, in quanto attinta direttamen­ te dalla tradizione della retorica e della logica greca. Dallo stesso ambito, del resto, verranno attinti anche molti esem­ pi, tra cui l'ormai celebre "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo", che, più o meno variato, ritorna in tutti i trattatisti del segno. Come Aristotele, a cui fa costante riferimento, Quintilia­ no è orientato verso un'ottica epistemologica, piuttosto che di calcolo logico: ciò che lo interessa è soprattutto la possi­ bilità di acquisire una conoscenza a partire da un segno. Scrive Eco (1984: 38) a questo proposito: "Aristotele, inte­ ressato ad argomentazioni che in qualche modo rendessero ragione dei legami di necessità che reggono i fatti, poneva distinzioni di forza epistemologica tra segni necessari e se­ gni deboli. Gli stoici, interessati a puri meccanismi formali dell'inferenza, evitano il problema. Sarà Quintiliano, inte­ ressato alle reazioni di un'udienza forense, a cercare di giu­ stificare, secondo una gerarchia di validità epistemologica, ogni tipo di segno che in qualche misura risulti 'persua­ sivo' ". A proposito del carattere persuasivo dei signa, Quintilia­ no fa una precisazione preliminare: i signa hanno molto in comune con le prove extratecniche, in quanto, a esempio, una veste insanguinata, le grida o i livori non vengono esco­ gitati dali'arte deli'oratore, ma gli vengono consegnati nel dossier. Inoltre, se esi rimandano a un significato inequi-  222 9. RETORICA LATINA vocabile, scompare la possibilità di argomentazione; se, in­ vece, essi sono ambigui, non sono delle prove ma necessita­ no essi stessi di prove (lnst. or.). Per questa ragione i segni devono essere divisi innanzitut­ to in necessari e non necessari. 9 . 3 . 2 I segni necessari l signa necessaria sono quelli che, come dice Quintiliano, "aliter se habere non possunt" (lnst. or. , V, 9, 3), cioè sono degli antecedenti che rimandano in maniera necessaria a dei conseguenti, e vengono messi in corrispondenza con i tekmria della tradizione greca. Si tratta di segni insolubili (alyta smefa), ovvero legati inscindibilmente ai conseguen­ ti. L'informazione che se ne ricava è sicura e incontroverti­ bile . La furia classificatoria, tipica del mondo antico, porta inoltre Quintiliano a sottoclassificare questo tipo di segni in base al fatto che i loro conseguenti siano individuabili nel tempo passato ("Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo"), nel presente (''Se soffia un forte vento sul ma­ re, si formano su di esso le onde"), nel futuro ("Se uno è stato ferito al cuore, morirà") (lnst. or., V, 9, 5). Questi segni vengono, poi, sottoposti anche a un altro ti­ po di classificazione basata sul criterio di reversibilità dei termini: ci sono relazioni segniche, come "Se vive, respira", che mantengono la relazione di necessità anche invertendo antecedente e conseguente: "Se respira, allora vive"; ma vi sono anche relazioni segniche in cui la reversibilità non è possibile, come in "Se cammina, si muove", "Se ha partori­ to, si è unita con un uomo", "Se è ferito al cuore, morirà", "Se si è raccolta la messe, si è seminato", "Se è stato ferito dalla spada, ha una cicatrice" (lnst. or. , V, 9, 7). Quintilia­ no sembra sollevare qui il problema della "conversazione" (antistréphein), che per Aristotele (An. Pr. , 70 b, 32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè dell'"esserci un unico segno di un'unica cosa".  QUINTllANO 9.3.3 I segni non necessari 223 I signa non necessaria, che Quintiliano mette in corri­ spondenza con gli eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei fatti su cui vi è comunemente accordo, quelli che, se­ condo Eco (1984: 40), potendo essere altrettanto convincen­ ti di un segno necessario, dipendono dai codici e dalle sce­ neggiature che una certa comunità registra come "buone". Quintiliano ne distingue tre tipi fondamentali, in base al­ l'intensità del legame che si stabilisce fra antecedente e con­ seguente: firmissimum (sicurissimo), corrispondente alla norma statistica, come "Se sono genitori, amano i propri fi­ gli"; propensius (molto probabile), come "Se uno sta bene in salute, allora giungerà fino al giorno successivo"; non re­ pugnans (non contraddittorio), cioè non contrastante con il senso comune, come "Se c'è stato un furto dentro la casa, allora è stato fatto da chi era in casa". Nessuna di queste inferenze presenta un grado di certezza accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos­ sono essere molto efficaci, soprattutto nel caso che si pre­ sentino in gran numero avvalorandosi a vicenda (lnst. or. , V, 9, 8), poiché ricostruiscono una tessitura isomorfa a quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali Nel contesto dei signa non necessaria (lnst. or.) Quintiliano parla del signum senza altra determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e vestigium, sia con il greco smeion). Non si capisce bene se esso venga considerato una categoria autonoma rispetto alle due prece­ denti (segni necessari e verisimiglianze), come del resto av­ veniva nella fonte aristotelica, o se Quintiliano consideri analoghi eik6ta e smeia. Nella seconda ipotesi si potrebbe parlare di un vero e proprio errore di Quintiliano, come fa Cousin (1936). Tuttavia il fatto che consideri un sinonimo l'espressione vestigium e ricorra all'esempio del sangue che permette di scoprire l'uccisione, spinge a stabilire un parallelo con i vestigia facti delle Partitiones oratoriae (39) cice­ roniane, dove compariva lo stesso esempio. Si tratterebbe, in definitiva, della abituale categoria degli indizi materiali (lividi., enfiagioni, ferite ecc.) (lnst. or., V, 9, I l) percepibili sensorialmente. Quintiliano li definisce come quelli "attraverso cui si comprende un'altra cosa, (per quod alia res inte/ligitur, V, 9, 9), sottolineando che con essi si stabilisce un rapporto di significazione, che parte da un sensibile per arrivare a qualcos'altro. Nella precedente categoria (quella dci signa non necessa­ ria == eik6ta) venivano classificati fatti o proprictfi che forni­ vano un'informazione non sicura, perché non convalidabile dal punto di vista sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente sicuro che arriverà a domani); nella cate­ goria dei signa sono classificati fatti che sono insicuri per­ ché ambigui (una macchia di sangue su una veste può ri­ mandare tanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare del sangue di una vitti1na durante un sacrifi­ cio). La classificazione, allora, dovrebbe essere così formu­ lata: necessaria relazione necessaria tra a'ltecadente e cons&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita con un uomo· l ------- signa  non necssaria verisimiglianze non conva!idabili scienti­ ficamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà fino al g iorno successivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se macchia di sangue, allora omi­ cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega anche come mai Quintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di verisimiglianza (e non si­ gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora e che  9.3 QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma non necessari, Er­ magora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché vaga nei boschi con i giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti­ liano ha una certa riluttanza a considerare questo e altri esempi di verisimiglianze molto deboli come elementi pro­ banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo come se­ gno, temo che si ritengano come segni tutte le conseguenze che si traggono da un fatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano allo stesso modo dei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la condizione tipica della semiotica giuridi­ ca, in perenne dialettica tra la forza oggettivamente proba­ toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di fare un uso persuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica semiotica generale, non c'è al­ cun problema a considerare come segni "tutte le conseguen­ ze che si traggono da un fatto". Le proprietà che l'enciclo­ pedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono tutte, a buon diritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno poi le relazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella forza probatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono i casi in cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di un poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramente intuito dalla retori­ ca antica, già da Aristotele, ma ancor più da Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "cer­ tezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-cultura­ li", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco­ mandando, nel secondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero a vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin­ guaggio Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di lin­ guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il trattato giovanile De dialectica: in esso sono riassunti molti dei principali temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi­ pio che la conoscenza è, in linea generale, conoscenza attra­ verso segni (Simone). Ma vari elementi differenziano l'impostazione agostinia­ na da quella stoica. In primo luogo, infatti, gli stoici, racco­ gliendo e formalizzando una lunga tradizione di origine so­ prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni (smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e la cicatrice che rinvia a una precedente feri­ ta. Agostino, invece, per primo nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbali come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene­ rale segno tutto ciò che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De Magistro). STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoici avevano individuato nell'e­ nunciato il punto di congiunzione tra il significante (semaf­ non) e il significato (semain6menon), elemento che comun­ que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve­ ce, individua nella singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento in cui significante e signifi­ cato si fondono, e considera questa fusione un segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda­ to che le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si­ gna] e che non può essere segno ciò che non significhi [si­ gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro­ le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione. Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere psicologistico (i si­ gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale (passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov; Markus). 10.1 n triangolo semiotico e la stratificazione ter­ minologie& È del resto con l'analisi della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con­ cetti di significato, significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1 (corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio­ ne linguistica, al /ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in esso contenuto. In terzo luo-  228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la res, che viene definita come un og­ getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o con l'intelletto, op­ pure che sfugge alla percezione (De dialect. , cap. V). È così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se­ guenti termini: dicibile  vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della signifi­ cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi­ sione terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente di una parola: (i) può infatti avve­ nire che la parola rimandi a se stessa come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii) oppure può avvenire che la parola, intesa co­ me combinazione del significante e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva­ to Baratin ( 198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione stoica di léxis (si­ gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por­ tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui­ stici antichi. RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione di léxis; ma non ha lo stesso significa­ to che le attribuivano gli stoici, bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato costruito" (Grammatici graeci), a metà strada tra le lettere e le sillabe, da una parte, e l'enunciato, dall'al­ tra. Questa sua particolare posizione fa sì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (in contrappo­ sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen­ so completo). Lo spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e­ nunciato alla centralità alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle funzioni prima spet­ tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essere un segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del De dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale alla percezione sensi­ bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellet­ tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im­ plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica del linguag­ gio; per Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es­ senza della cosa. Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia un rapporto iconico (pe­ raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4), in Agostino tale rapporto - configura subito come una rela­ zione di significazione: il nomt "significa" una cosa (nozio-  230 10. AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel momento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si producono alcune modificazio­ ni teoriche, conseguenti allo spostamento di prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti­ no il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte­ nuti era stato concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di carattere epistemologico e ri­ guardava la possibilità di lavorare direttamente sul linguag­ gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin­ guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta­ zione del reale (per quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui esso rin­ via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla conoscenza del secondo. Eco ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra­ ti da uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello equazionale:  onIE=>c  m_E:! c dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J "implica" e == "è equivalente a". In Agostino l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic­ tio, che è rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u­ nione, o prodotto logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che diviene segno di qualcos'al­ tro (livello ii).   10.3 UNmCAZIONE DELLE PROSPETI 231 10.3 Conseguenze dell'unificazione delle prospet­ tive La prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, co­ me sottolinea Eco (1984: 33), è che la lingua comincia a tro­ varsi a disagio all'interno del quadro implicativo. Essa in­ fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio, nelle classificazioni della retorica greca e roma­ na. Infatti l'implicazione semiotica era aperta alla possibili­ tà di percorrere l'intero continuum dei rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un "sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun­ que altro sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui­ stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec­ cellenza. Ma quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto culminante, si è ormai venuto a per­ dere il carattere implicativo, e il segno linguistico si è cri­ stallizzato nella forma degradata del modello dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione della dia­ lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto­ ché il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce­ pito nei termini dell'equivalenza, il primo non appariva di­ rettamente responsabile della conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co­ se di cui esse sono segno. Tutta la grande tradizione serniotica, del resto, convergeva nel considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla conoscen­ za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag­ gio fornisca o meno , di per se stesso , informazioni sulle co­ se che significa. Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del carattere informativo dei segni linguistici nel De Magistro. L'opera, in forma di dialogo tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due fondamentali funzioni del linguaggio: in· segnare (docere) e richiamare alla memoria (commemo­rare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con­ temporaneamente informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera centrale la presenza del destinatario nel momento in cui forniscono informazione. La prima parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste funzioni, principalmente quella informativa, sono svolte dal linguaggio in quanto sistema di segni. Sono le parole, infatti, che, in qualità di segni, danno informazione sulle cose, senza che nient'altro possa assolvere alla medesima funzione. Nella seconda parte del dialogo, però, Agostino ritorna sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva. Fondandosi ancora una volta sul fatto che la lingua è un in­ sieme di segni, egli mostra che si possono presentare due ca­ si: il primo caso è quello in cui il locutore produce un se­ gno che si riferisce a una cosa sconosciuta al destinatario; in tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di fornire informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino, dell'espressione saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non permetterà di comprendere il ri­ ferimento ai "copricapr', che essa effettua; il secondo caso è quello in cui il locutore produce un segno che si rife­ risce a qualcosa che è già noto al destinatario; e nemmeno  COMUNICAZIONE DEL VERBO INTERIORE 233 in questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino conclude invertendo il rapporto cono­ scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co­ noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola ne è un segno. È la conoscenza della co­ sa che informa sulla presenza del segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e a es­ sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual­ mente platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente della conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle cose puramente intelligibi­ li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla rive­ lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga­ ranzia tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi­ mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo , ci spingono a cercare (De Mag.). Espressione e comunicazione del verbo inte­ riore In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani­ mo. In effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola o di un segno sensibile, per poter  234 10. AGOSTINO provocare nell'anima dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan­ do ha bisogno di essere espresso e portato alla comprensio­ ne dei destinatari. Il verbo interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è determinato dalle im­ pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza. Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni del simbolismo univer­ sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo. Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia­ rezza è il carattere comunicativo della semiologia agostinia­ na, che è individuabile anche nello schema riassuntivo pro­ posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore pensato proferito sa pere    10.6 Le classificazioni È comunque innegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n. 2), che se la semiologia agostiniana presenta un aspet­ to "teologico", connesso al problema del verbo divino, tut­ tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet­ to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni, alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana,  l . 2. 3. 4. 5. secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine e l'uso: segni naturali/segni intenzio­ nali secondo lo statuto sociale: segni naturali/segni conven­ zionali secondo la natura del rapporto simbolico: proprio/tra­ slato secondo la natura del designato: segno/cosa LE CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se­ gno : Todorov lamenta il fatto che Agostino giustappone quel­ lo che in realtà avrebbe potuto articolare, in quanto gene­ ralmente queste opposizioni sono tra di loro irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica­ zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber­ nardelli 1987), secondo il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La classificazione di Agostino non è totalmente a inclu­ sione, come tende a essere quella porfiriana; e si può osser­ vare che se venissero sviluppati i rami collaterali, si vedreb­ bero comparire, una seconda volta, alcune categorie elenca­ te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge­ nere a specie quando definisce la relazione tra nome e paro­ la come "la stessa che c'è tra cavallo e animale" e includen­ do la categoria delle parole in quella più ampia dei segni (DeMag., 4.9).  genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME -- segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma, fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata) differenze  ( s i g n i fi c s b i l i s l non significanti     nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo, quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res intelligibili ( virtus)   SIGNIFICANTE delle .. AES"    10.6 LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e "signa" La prima relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce tale distinzione co­ me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as­ sumere come segno una res che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone 1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i legno, la pietra, il bestiame" (De doctr. Christ. , I, Il, 2). Ma, immediatamente dopo, cosciente del­ la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la sua testa (Gen., XXVIII, I l); né quella pecora che Abramo immolò al posto di suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste tra segni e cose è analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De doctr. Christ. , l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran­ sitive, come i segni, che sono strumenti per giungere a qual­ cos'altro; le cose di cui si gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse (Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per le cose che non sono usate come segni, ma sono signifi­ cate attraverso segni: significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime possano essere assun­ te con funzione significante. Dopo aver così articolato i rapporti tra segni e cose, Ago­ stino propone questa definizione di segno nel De doctrina Christiana. Il segno è una cosa (res) che, al di là dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente (in cogitationem) qualcos'altro".  238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui­ re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se­ gni, di cui ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole; ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni. I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce­ zione Una classificazione incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al­ tri sensi" (De doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci sono quel­ li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi­ cali, come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con l'udito, in una posizio­ ne dominante, anche le parole: "Le parole, in effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester­ nare" (Dedoctr. Christ.). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban­ diere e le insegne militari, le lettere. LE CLASSIFICAZIONI Infine vengono presi in considerazione i segni che riguar­ dano altri sensi, come l'odorato (l'odore dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca­ ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri­ sto e fu guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data" Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né desiderio di si­ gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi, come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ.). Ne sono esempi anche le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano, inintenzionalmente, irrita­ zione o gioia . Dopo averli definiti , Agostino dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente interessato ai signa data, in quan­ to a questa categoria appartengono anche i segni della Sa­ cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e pensano" (De doctr. Christ.). Gli esempi sono soprattutto i segni linguistici umani (le pa­ role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa classe an­ che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali tra i segni natu­ rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva "naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono i "segni convenzionali", come Markus aveva suggerito (e come del resto era sta­ to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges). I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na  240 10. AGOSTINO ben precisa intenzione comunicativa (De doctr. Christ.). È del resto il carattere intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que­ sta intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46), porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi in corrisponden­ za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi illimitata a modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali della semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si può stabi­ lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat­ tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce­ zione semantica che si avvicina al tipo della "semiosi illimi­ tata" di Peirce. Come ha rilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno, per Agostino, può essere stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti; tramite astensione (De Mag. , III e VII). Questa concezione del significato si rende possibile sol­ tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale del segno. La teoria semiologica ago­ stiniana si apre così, come ha messo in evidenza Eco, verso un modello "istruzionale" della descrizione semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet urbe relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come composto di otto segni, dei quali, appunto si cerca il significato.  SEMIOSI ILLIMITATA L'indagine comincia da l si l , di cui si riconosce che espri­ me un significato di "dubbio", dopo aver tuttavia sottoli­ neato che non si è trovato un altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si passa, poi, a lni­ hi/1 , il cui significato viene individuato come !'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa­ rebbe equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe­ rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica contestuale: il termine può esprimere separa­ zione rispetto a qualcosa che non esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso virgiliano; oppu­ re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so­ no alcuni negozianti provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco (una se­ rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di­ versi (ma tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni tanto al modello istruzio­ nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva, è proprio grazie ali'assunzione generalizza­ ta del modello implicazionale che la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni semiolingui­ stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in generale, è possibile, però, rilevare una connes­ sione storicamente documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti­ colare del segno. A esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C. la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona (1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri cuneiformi. Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che "la scrittura cu­ neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso il 2850 avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3 Si veda il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu­ rioso notare come si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios (''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era­ clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi, come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca­ pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero (1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio.  Si potevano contare oltre cento oracoli per tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti tavolette.  244 NOTE CAPITOLO 2. 1 Infatti da un'analisi del vocabolario dell'azione oracolare compiuta da Crahay  risulta che alcuni vocaboli presentano il testo della rivelazione come un segno, molto spesso un segno anticipatorio, in quanto orientano l'azione verso l'avvenire. Tra questi si ricordino i due verbi smafno e prosmafnO (cioè "informare in anticipo con segni") e l'ag­ gettivo di origine verbale pr6phanton che esprime l'idea di un'informazio­ ne prima del fatto. 2 Ciò è tanto più evidente se si opera un confronto con civiltà come quella mesopotamica che mettevano la divinazione al centro della vita pubblica (Vernant 1974) e ne estendevano il modello formale anche a tutti gli altri ambiti culturali (a esempio, alla medicina e alla giurisprudenza). 3 Cfr . anche //. , I I I , 277 . Per i passi citati sono utilizzate, nel corso del­ l'intero testo, traduzioni correnti, talvolta parzialmente modificate. 4 Traduco dal testo in inglese di Romeo (1976: 86): "The lord, who has the oracle in Delphi, l neither discloses nor hides his thought, l but indica­ tes it through signs". s Infatti la divinazione è indissolubilmente legata ad Apollo, e Apollo è indissolubilmente legato alla sapienza. La sapienza del dio è totale e simul­ tanea e non ha bisogno di essere frammentata in parole. Tuttavia agli uo­ mini egli concede, invece, solo la frammentazione della parola oracolare, oscura e incomprensibile, in quanto in essa la sapienza divina appare come follia dell'uomo invasato. La follia, del resto, che Platone ritiene essere l'essenza stessa della mantica, riconnettendo nel Fedro (244 a-c) l'etimolo­ gia di mantiké a maniké ("arte folle"), non è altro che la sapienza vista dal­ l'esterno. 6 Ma si veda anche Amandry (1950) per la presenza di possibili procedi­ menti anche di cleromanzia (divinazione attraverso il lancio delle sorti) presso l'oracolo di Delfi. 7 Talvolta certi fenomeni naturali potevano perdere il carattere di ca­ sualità ed essere sottoposti a un processo di istituzionalizzazione, come av­ veniva nel caso dell'oracolo di Dodona, dove si interpretavano i segni dati dallo stormire del vento tra le fronde di una quercia sacra a Zeus (come pure, probabilmente, il tubare e il volo dei piccioni sacri e iJ mormorio di una fonte, gli echi di un gong). Per gli oracoli in generale, si vedano Ferri (1916) e Parke (1967); per una disamina generale e approfondita dei vari ti­ pi di divinazione i testi basilari sono Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday (1913). 8 "Lobo", "vescichette" e "porte" erano i termini tecnici designanti par­ ti che gli specialisti di questo tipo di divinazione prendevano come segni da cui elaborare interpretazioni; cfr. Arist., Historia anima/ium, l, 17, 496 b 32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le forme della consultazione oracolare ci sono note attraverso un cer­ to numero di iscrizioni epigrafiche, provenienti principalmente da Delfi e da Dodona; cfr. Parke-Wormell e Fontenrose. Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento alla nozione di enigma, come era presente nella cultura greca: esso comportava, come vedremo  NOTE 245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da parte del dio all'uomo), sia la presenza nascosta di un secondo senso, sia, infine, l'idea che il primo senso doveva essere immediatamente scontato. Il termine "modo", poi, pone l'accento sul fatto che non vi è presenza di un unico meccanismo, ma di una galassia di procedimenti espressivi molto eterogenei, che vanno dalla banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo scambio di prospetti­ va (metalogismi) ecc. L'espressione "modo" enigmatico fa naturalmente riferimento alla categoria di modo simbolico elaborata da Eco. Pur­ troppo non è qui possibile usare direttamente quella categoria perché essa, pur avendo molti punti in comune con questa che qui proponiamo, se ne discosta per la presenza di alcuni caratteri specifici (rapporto stretto tra si­ gnificante e significato, nebulosa di sensi multipli tendenzialmente coesi­ stenti ecc.) che qui non si ritrovano. È un peccato, perché ci sarebbe sem­ brato appropriato definire "simbolico" il modo di parlare del dio. 1 1 Il meccanismo retorico dell'enallage ricorda il meccanismo oracolare usato dalla Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio (Aen. , VI): la sa­ cerdotessa di Apollo scrive le varie parti del responso su delle foglie, se­ guendo l'ordine sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia quelle fo­ glie al vento, che scompiglia l'ordine precedente, creandone un altro, in cui i riferimenti incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e difficile l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due attributi antitetici della li­ ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia benigna ed esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche); l'arco, quella maligna e deva­ stante. Del resto l'etimologia stessa del suo nome suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente", ed è sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove le sue frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli). Per una nozione complessa e articolata della nozione di "verità" nel mondo antico, si veda Detienne (1967). In particolare, sulla concezione di a/theia come "sintesi del passato, del presente e del futuro", comune al poeti ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne. D'ora in avanti ci riferiremo al Corpus Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente, per una documentazione completa sulla medicina gre­ ca, dovrebbero essere prese in specifica considerazione almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste ultime, appartenendo a un'epoca molto più recente (II sec. d.C.) e attingendo a una tradizione filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato molto avanti lo studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso che stiamo svolgendo . Rimandia­ mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia attribuzione dei trattati di medicina del V e lV secolo  246 NOTE 3 Si possono distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto il gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter­ ne, il libro II delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar­ caica del trattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato di arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della medicina (Di Benedetto 1986: 5 e 80). In secondo luogo, un gruppo di trattati in cui appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me­ todologici della medicina. Vegetti (1976: 21 e sgg.) ha proposto di definire convenzionalmente "pensiero ippocratico" queJJo che da questi ultimi ri­ sulta (indipendentemente dal fatto che essi siano attribuibili a molti autori e probabilmente tutti diversi dali'lppocrate storico vissuto tra il 460 e il 370 a.C.). Questi testi, collocabili cronologicamente nella seconda metà del V secolo a.C., sono: Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4 Cfr. Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr. Vegetti (1976: 65 ss.); Vegetti (1967: 78). 6 Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina ippocrati­ ca non arriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per le traduzioni ci atteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal­ volta apportandovi delle modifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria, sarà stabilita una distin­ zione fornaie tra anamnsis, relativa ai fenomeni collocati nel passato, diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente, e pr6ghnOsis, cioè previsione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di Benedetto-Lami (1983: 166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (1983: tr. it. 499 ss.). Si deve poi segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso pro-, unito ai verbi di "dire", con il significato di "pubblicamente ", anziché con un si­ gnificato di "anticipazione". a.C . a lppocrate avviene nell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr. Di Benedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male sacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella testa, Le articola­ zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.). 10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la previsione medica ri­ calca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si dice che è compito del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi pro­ cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica, animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds (1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde (1890-94: tr. it. 1982). 12 Cfr. Diog. Laert., Vitae, VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di sfug­ gita, che il carattere molto arcaico della concezione espressa dal brano è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della comunità umana: c'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini e bestie formano una unità inscindibile; cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio assolutamente analogo a questo si trova nel cap. 21 del =  NOTE 247 trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si confuta, usando i1 modus tol­ /ens, la tesi secondo cui l'impotenza che colpisce certuni degli Sciti sia do­ vuta a causa divina, in quanto colpisce i ricchi (che vanno a cavallo, essen­ do questa, per l'autore, la causa della malattia) e non i più poveri. Se fosse di origine divina, continua l'autore, colpirebbe indifferentemente tutti. 1"' Si pensi a questo proposito all'indebolimento dei sensi durante il son­ no di cui parla Platone nel Timeo e a1la diminuzione dei turbamenti nell'aria che rende possibile il sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di­ vinatione per somnum) . •s Per la nozione di "omomaterico", cfr. Eco (1975: 295): per "omoma­ tericità" si intende il fenomeno per cui "l'oggetto, visto come pura espres­ sione, è fatto della stessa materia del suo possibile referente. Cfr. anche Lichtenthaeler (1983) e Wenskus (1983). 17 Cfr. Vegetti (1976: 48); Manuli (1985: 233). 18 Sull'abduzione si vedano Thagard; Proni (1981); Eco (1983); Bonfantini-Proni; Bonfantini; Peirce; Eco. Di Benedetto (1986) ha messo in luce, in maniera molto convincente, i rapporti tra i moduli espressivi di presentazione della malattia nella medi­ cina greca e quelli dei trattati mesopotamici ed egiziani; cfr. anche Di Be­ nedetto-Lami (1983). 2° Cfr. Campbell Thompson (1937: 285, I, 1). 2 1 Per questa nozione, cfr. Conte. Cfr. Hjelmslev. Cfr. Arist., An. Pr., Il, 70 a-b; Rhet., Cfr. Arist., Rhet., l, 1358 a, 36 e sgg. 3 Cfr.Arist., De int.,16a; An.Pr.,11,70a-b. "' Su questa nozione cfr. Di Cesare. s Cfr. Eco. Cfr. Heinimann. 7 Cfr. Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco. Emerge qui, per quanto nebulosamente, il tema della doppia articola­ zione del linguaggio umano, che verrà poi sviluppato in epoca contempo­ ranea da André Martinet (1960). 9 Anche se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica (1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti­ mema come sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici  248 NOTE (Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi­ smo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel secondo). 1ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente "neces­ sario" (anankaion), mentre il smefon è definito ..non necessario" (mè anankafon) (Rhet.). 1 1 Lo stesso punto di vista e la stessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della Retorica. 12 Quanto al carattere di confutabilità di questo tipo di segno, Aristote­ le così commenta l'esempio dato negli Analitici; "D'altra parte il sillogi­ smo che si sviluppa attraverso la figura intermedia risulterà sempre confu­ tabile (ljsimos), senza eccezione. In realtà, quando i termini si comporta­ no come si è detto sopra, non si costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida è pallida, e se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà necessario che questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a, 34-37). 1 Dei segni quello necessario è la prova, quello non necessario non ha un nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le proposizioni da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è tale è la prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la proposizione enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie­ ne dimostrata e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar (prova) e pé­ ras Ccompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet.). Si deve tuttavia segnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di­ stinzione tra tekmrion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di questi termini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza distinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un terzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; cfr. Le Blond. Cfr. Arist., An Pr., II, 70 b,'7-14. I!!. Cfr. Arist., An. Post., II, 98 b, 25-30. È del resto sulla base delle immagini prodotte nella mente dagli oggetti esterni, in particolare su certi tipi di immagini, chegli stoici chiamano ka­ talptikaì phantasfai, che viene basato il "criterio di verità", cioè "ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere ( = sono il caso) e certe altre sono false ( = non sono il caso)" (Sext. Emp., Adversus Mathematicos, VII, 29); cfr. Mi­ gnucci; Sandbach; "The crite­ rion of truth" di Rist. Cfr. anche Sext. Emp. , A dv. Math. 1 Si deve sottolineare che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo /éghein.  6 Cfr. Diog. Lart., Vitae, VII, 51; Long Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 11-12. 8 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9 Cfr. Diog. Lart., Vitae, Vll , NOTE 249 A questo proposito si ricorderà che, come sostiene Diogene Laerzio ( Vitae, VII, 57), gli stoici distinguevano tra il "proferire" (prophéresthal), che consisteva nel puro emettere dei suoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel fare ciò in modo da significare (sma{nein) lo stato delle cose in mente; cfr. anche Sext. Emp., Adv. Math. , VIII, 80. Long (1971 a: 77) sostiene di preferire, per lekt6n, la traduzione "what is said" rispetto a quella propo­ sta da Mates e dai Kneale, "what is meant", in quanto la prima è più gene­ rale e permette al lekt6n di essere interpretato come avente funzione tanto logica quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia sottolineare che vi è una tradizione, risalente al Crati­ lo platonico, secondo la quale nominare qualcuno equivale a dire "questo è il suo nome". In questo caso anche l'esempio di Sesto dovrebbe essere compreso nei termini di una proposizione implicita come "'Dione è il nome di costui" oppure "Questo è Dione"; cfr. Long (1971 a: 107 n. 1 1). ..s I lekta venivano classificati dagli stoici in completi e incompleti; cia­ scuno dei due tipi dava luogo a una sottoclassificazione, anche molto com­ plessa, che non prenderemo qui in considerazione; si veda a questo propo­sito Mates. 63. 1° Cfr. Mates (1953: 1 1-12): Mates infatti concepisce i lekta come signi­ ficato delle parole e avvicina la loro definizione a quella di Sinn di Frege e a uella di intension di Carnap. 1 Cfr. Zeller (1865: 78-79). 12 Cfr. Bréhier. 13 Cfr. Mignucci (1965: 96). 14 Una definizione del criterio di verità la fornisce Sesto (A dv. Math. , VII, 29): "Ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere e certe altre sono false". Sul problema del criterio di verità, cfr. Rist (1969: 133-151); Sandbach (1971 a: 9 e sgg.); Mignucci (1966). 17 Cfr. anche Adv. Math., VIII, 245-257. 18 Cfr. Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda, a proposito di questa questione terminologica, la esaustiva 1 Cfr. Platone, Th., 190 a (206 d); Soph., 263 a. 16 In effetti il "discorso interno" (endiathetos /6gos), a differenza delle espressioni emesse materialment (prophorikòs 16gos), è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo dagli animali. Dice infatti Sesto (Adv. Math. , VIII, 275-276): "(Gli stoici) dicono che l'uomo differisce da­ gli animali irrazionali a causa del discorso interno, non a causa di quello pronunciato, in quanto corvi, pappagalli e gazze pronunciano suoni arti­ colati"; cfr. anche Pohlenz (1959, 1: 61-62). trattazione di Conte (1972: XXXV), curatore dcll'edizione italiana dei Kneale (1962). 20 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21 Ibidem: "anche la dimostrazione in quanto al genere è, a quel che pa-  250 NOTE re, un segno"; cfr. anche Adv. Math., VIII, 180. 22 Il testo del De signis, con traduzione inglese, è contenuto in Ph . e E.A. De Lacy (1978). 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 147; Hyp. Pyrrh., II, 97. 2' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 146; Hyp. Pyrrh., Il, 98. 27 Cfr. anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale tripartizione verrà esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na: vedi il capitolo relativo. 29 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153. 30 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 154. 11 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 156. Al di là del carattere pole­ mico, l'osservazione di Sesto è interessante perché, citando "medici" e "fi­ losofi", fissa i due punti estremi di un ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno: l'introduzione di tale interesse da parte dei medici (come, poi, di­ mostrano anche i numerosi esempi di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e lo studio sistematico del segno da parte dei filosofi. 12 Cfr. Diog. Latrt., Vitae, VII, 71. 13 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., VIII, 245- 247 . 34 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 248; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 249-250; Hyp. Pyrrh., Il, 106. 37 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251. 11 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui prenderemo in consi­ derazione solo i primi tre criteri, perché il quarto sembra avere un'origine diversa dalla scuola megarico-stoica. 4() Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv. Math., VIII, 115- 117. •U Sono state proposte varie interpretazioni del condizionale diodoreo, che non possiamo qui prendere in considerazione. Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di Mates (1949 a), dei Kneale (1962) e di Mignucci (1966), che affrontano l'argomento in una successione cronologica e teo­ rica. "2 Cfr. Phil., De signis, XIV, 11-14= 19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai paragrafi del testo greco, sono messi in correlazione con il segno " = " ai capitoli della traduzione inglese dei De Lacy (1978). "3 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 275-276; 287.  Cfr. Goldschmidt (1953: 79 e sgg.); Verbeke (1978: 401-402); Manuli (1986: 262). ..s Sul rapporto tra filosofia e divinazione, Verbeke (1978: 402) osserva molto opportunamente che per gli stoici il filosofo "est le médecin de cet organisme vivant qu'est le monde; il est aussi une sorte de prophète, un de­ vin, un exégète, un interprète des signes qu'il observe". 46 Cfr. Cic., De divinatione, I, 125-127.  49 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., 309. CAPITOLO 7. NOTE 251 "7 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 140; Adv. Math., VIII, 305. 48 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 180: "D'altronde anche la dimo­ strazione è, in linea generale, un segno, giacché essa è considerata come di­ svelatrice della conclusione". 1 Il testo di Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è ora disponibile nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poi citeremo quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato il prossimo capitolo. 2 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31; cfr. ancheEpic., EpistulaadHerodo­ tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi K.D.), XXIV. 3 Cfr.Phil.,Designis,fr.l. " Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33; Epic., Nat., XXVIII, fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960: 296-297). Long (1971 b: 1 14) sostiene che un simile rap­ porto tra linguaggio e pro/essi è presupposto anche nella Ep. Hdt. , 37-38.  Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Epic., Ep. Pyth., Cfr. Epic., Ep. Hdt., Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Epic., Ep. Hdt., Cfr. Epic., Ep. Hdt., 48. 1" Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 15 Cfr. Epic., K.D., XXIV. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 1 7 La congettura semiotica è espressa dal verbo smeiolJ (Ep. Hdt. , 38) e prende la forma dell'induzione nella teoria epicurea. Il sostantivo da esso derivato, smeilJsis, non direttamente attestato negli scritti di Epicuro, avrà ampio spazio nel trattato di Filodemo. 18 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math. , VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nel prossimo capitolo, il criterio della "non incompa­ tibilità" con i fatti conosciuti è centrale nella teoria dell'inferenza come è esosta nel De signis di Filodemo. ° Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33. 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut., Adversus Colo­ tem, 1119f. 22 Si deve segnalare l'articolo di Glidden (1983) che tratta il problema semantico in Epicuro in termini molto diversi da quelli in cui lo abbiamo trattato qui e recupera, sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di Plutarco, sostenendo che non esiste nella filosofia linguistica epicurea un livello spe-  252 NOTE cifico del "significato" in termini intensionali. 23 Cfr. Sedley (1973: 17-18); il testo di Sedley in parte si discosta da quello di Arrighetti. Come veniva evitato, nel Crati/o platonico, tanto da Cratilo quanto da Socrate. Cfr. capitolo relativo a Platone in questo libro. 26 Cfr. Plat., Crat., 421 d, 435 c; cfr. Sedley. La data di composizione del trattato, che è controversa, oscilla tra il 542e il 40 a.C.; cfr. De Lacy (1978: 163-164). Il titolo greco, essendo il testo in parte corrotto, è frutto della conget­ tura di T. Gompers; altre congetture sono state proposte. D'ora in poi ci riferiremo a esso nella sua versione latina De signis; cfr. De Lacy. Nella prima sezione vengono riportate le risposte di Zenone di Sidone alle critiche stoiche; nella seconda viene esposta la versione di Bromio del­ l'enumerazione e confutazione di Zenone degli argomenti contro l'inferen­ za empirica; nella terza viene riportata l'enumerazione di Demetrio di La­ conia degli errori comuni degli antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una seconda lista degli errori degli oppositori, è anoni­ ma, ma, con molta probabilità, è anch'essa da attribuire a Demetrio. .. Cfr. Marquand; Deledalle.  Cfr. Phil., Designis, coll.VIII,32-IX,3= cap.13). Il riferimentobi­ bliografico al trattato di Filodemo è dato in maniera duplice, indicando prima la colonna e il numero delle righe del testo greco del papiro, poi il numero del capitolo corrispondente nella traduzione inglese effettuata dai De Lacy. 6 Come è a più riprese ribadito anche nella terza sezione che riporta il pensiero di Demetrio; cfr. col. XXVIII, 13-25 = cap. 45, e col. XXXVII, 12-24=cap. 57. 7 Cfr.col.XIII,1-15=cap.18. 8 Cfr. col. I, 1-12 9 Cfr. col. I, 12-16=cap. 2. 1° Cfr. col. XII, 14-31=cap. 17. 11 In Peirce (1980: 140), del resto, c'è a proposito dell'icona anche un'interessante considerazione (sulla possibilità che l'oggetto del segno iconico esista o non esista), la quale sembra riproporre, in epoca contem­ poranea, una tematica simile a quella stoica ed epicurea circa la distinzione dei segni in propri e comuni: "Un'Icona è un segno che si riferisce all'Og­ getto che essa denota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede nello stesso identico modo sia che un tale Oggetto esista ef­ fettivamente, sia che non esista. È vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto, l'Icona non agisce come segno". = cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19.  NOTE 12 Cfr. Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro. Cfr. col. II, 25·36=cap. 5. ... Cfr. col. III, 4-8= cap. 5. 1Cfr. col. III, 30-34 = cap. 6. 16 Cfr. coli. XXXV, 35 - XXXVI, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle obiezioni stoiche sono, nella sezione di Zenone, alle coli. XVI, 4 · XVII, 28 = capp. 23-24, e, nella sezione di Bromio, alle coli. XXII, 28 - XXIII, 7=cap. 38. 18 Cfr. col. XVII, 3-7=cap. 24. 19 Una discussione attribuita ai "dogmatici" sul problema della defini­ zione come combinazione di attributi, a esempio "animale", "mortale", "ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico, Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. XVII, 1 1-28 = cap. 24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A Cfr. coli. XVII, 37 - XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll. XXIII, 13 - XXIV, 8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col. XXVI, 6-9=cap. 41. 29 La tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda antichità le de­ finizioni vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di Galeno: "animali razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac. Hipp. et Plat., IX, 3); e quella di Sesto Empirico: "animale razionale mortale, provvisto di intelli­ genza e razionalità" (Adv. Math., VII, 269). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr. 1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18 Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. XIV, 28 - XV, 13=Cfr.coli.XX,32-XXI,3= cap.35. coli. XXXIII, 35 - XXXIV, 5=cap. 52. Eco (1984: 130 e sgg.). Groupe p. (1970: 100). col . col. col . col. col. XXXIV, 5-7 = cap. 52. XXXIV, 11-15=cap. 52. XXI , 27-29 = cap. 36. XXX, 27-31 =cap. 47. XVIII, 23-29=cap. 26. CAPITOLO 9. 1 A questo proposito Cicerone parla di "regolarità della ragione" (ratio et constantia) contrapposta alla "sorte" (fortuna) (De div. , I l , 1 8) In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione significatio; a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino adopera l'espressione verbum in due sen­ si: (i) uno tecnico e specifico, che è quello dell'uso metalinguistico della pa­ rola; (ii) uno generale, che corrisponde alla nozione ampia di "parola", co­ me "segno di ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto dalla definizione del cap. V da De dialectica: Quel che ho detto dictio è una parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo per mezzo della parola [di­ cibile]". La dictio, inoltre, "non procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo­ sizionali, come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij Les Storcien.s et leur logique, Actes du Colloque de Chan­ tilly, Vrin, Paris Al, D.J. The Philosophy ofAristotle, Oxford, Ox­ ford (tr. it. La filosofia di Aristotele, Lampugnani Nigri, Milano, AMANDRY, La mantique apollinienne à Delphes. E5sai sur lefonction­ nement de roracle, Thèse (Bibliotèque des Écoles Françai­ ses de Athènes et de Rome), Paris Oracles, littérature et politique", in Revue des études an­ ciennes, 61, 1-2, pp. 400-413 AllENs, H. (ed.) 1984 Aristotle's Theory of Language and Its Tradition. Texts from 500 to l750, Benjamins, Amsterdam-Philadel­ phia AlusTOTELE Opere. I. Organon (trad. di G. Colli), Einaudi, Torino ARluGHEITI, Epicuro. 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