Grice e Cuoco: l’implicatura conversazionale di
Platone in Italia – scuola di Civitacampomarano – filosofia campobassese –
filosofia molisana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Civitacampomarano). Filosofo campobassano. Filosofo
molisano. Filosofo italiano. Civitacampomarano, Campobasso, Molise. C..
Litografia di C. Direttore del Tesoro del Regno di Napoli Monarca Gioacchino
Murat Dati generali Partito politico Murattiani Professione Giurista,
economista. Targa posta sulla casa natìa di C. a Civitacampomarano. C. nacque a
Civitacampomarano, un piccolo borgo del contado di Molise, nel regno di Napoli
(attualmente in provincia di Campobasso), figlio di Michelangelo, un avvocato e
studioso di economia, appartenente ad una famiglia della locale borghesia di
provincia, e di Colomba de Marinis. Ricevuta una prima istruzione nel
vivace ambiente illuministico del paese natìo, animato dalla famiglia Pepe, a
cui era imparentato (tra i parenti ebbe come cugino Gabriele Pepe), si recò a
Napoli per studiarvi diritto e fu allievo privato di Ignazio Falconieri. Non
terminò gli studi di legge, ma a partire da questo periodo si interessò di
questioni economiche, sociali, culturali, filosofiche e politiche, materie che
resteranno sempre al centro della sua attività e dei suoi interessi.
Nell'ambiente culturale napoletano conobbe ed entrò in contatto con
intellettuali illuminati del Sud, tra i quali anche il conterraneo Galanti, che
in una lettera del 4 settembre del 1790 al padre Michelangelo, descrive
Vincenzo: «capace, di molta abilità e di molto talento», ma «trascurato» e
«indolente», forse non soddisfatto appieno della collaborazione di Vincenzo
alla stesura della sua Descrizione geografica e politica delle Sicilie.
Partecipò attivamente alla costituzione della Repubblica Napoletana nel 1799 ed
alle sue vicissitudini, ricoprendovi le cariche di segretario del suo ex
docente Ignazio Falconieri (che ricopriva la carica di comandante militare del
Dipartimento del Volturno) e di organizzatore del Dipartimento del
Volturno. In seguito alla capitolazione della Repubblica per mano delle
truppe sanfediste del cardinale Fabrizio Ruffo ed al susseguente ritorno al
potere dei Borboni, conobbe il carcere per alcuni mesi, venendo inoltre
condannato alla confisca dei beni e quindi costretto all'esilio, dapprima a
Parigi e poi a Milano, dove già nel 1801 pubblicò il suo capolavoro, il Saggio
storico sulla rivoluzione napoletana, poi ampliato nella successiva edizione
del 1806. Sempre a Milano, tra il 1802 ed il 1804 diresse il Giornale
Italiano, dando un'impronta economica di rilievo al periodico e svolgendo una
vivace attività pubblicistica, che proseguirà anche a Napoli con la sua
collaborazione al Monitore delle Sicilie. Nel 1806 pubblicò il suo
Platone in Italia, originale romanzo utopistico proposto in forma epistolare, e
quindi rientrò nel Regno di Napoli governato da Giuseppe Bonaparte,
ricoprendovi importanti incarichi pubblici, prima come Consigliere di
Cassazione e poi Direttore del Tesoro, dove si distinse inoltre come uno dei
più importanti consiglieri del governo di Gioacchino Murat. In questo
ambito preparò nel 1809 un Progetto per l'ordinamento della pubblica istruzione
nel Regno di Napoli, nel quale l'istruzione pubblica è vista come
indispensabile strumento per la formazione di una coscienza nazional popolare.
Seguace del Pestalozzi, Cuoco prospetta «un'istruzione generale, pubblica ed
uniforme». Dal 1810 ebbe l'incarico di Capo del Consiglio Provinciale del
Molise e, durante la durata di tale impiego, scrisse nel 1812 Viaggio in
Molise, opera storico-descrittiva sulla sua regione natale a cui restò legato
grazie anche alla stretta parentela con la famiglia Pepe (Gabriele Pepe),
presso la quale si conservano ancora suoi scritti e ritratti. Gli ultimi
suoi anni furono funestati dalla follia, che lo colpì a partire dal 1816 (forse
anche a causa del travaglio interiore scatenato dalla Restaurazione), spingendolo
alla distruzione di molti suoi manoscritti, rimasti dunque inediti, e
costringendolo a ridurre progressivamente le sue attività sino alla morte,
avvenuta a Napoli nel 1823, per le conseguenze di una frattura del femore,
riportata in seguito a una caduta. Opere Studioso di letteratura,
giurisprudenza e filosofia, Vincenzo Cuoco si segnala, oltre che per la sua
attività pubblicistica, per il Platone in Italia, originale romanzo utopistico
in forma epistolare e, soprattutto, per il Saggio storico sulla rivoluzione
napoletana del 1799, opera di fondamentale importanza nella nostra
storiografia, forse non studiata e conosciuta quanto meriterebbe. Lavorò ad
altri saggi e opere letterarie, rimaste in gran parte incompiute (salvo il
saggio Viaggio nel Molise, scritto nel 1812) e da lui stesso distrutte nel
corso delle crisi nervose causate dalla malattia che lo accompagnò nei suoi
ultimi anni. Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 «Tutte
le volte che in quest'opera si parla di "nome", di "opinione",
di "grado", s'intende sempre di quel grado, di quella opinione, di
quel nome che influiscono sul popolo, che è il grande, il solo agente delle
rivoluzioni e delle controrivoluzioni.» (V. Cuoco - Saggio storico sulla rivoluzione
napoletana del 1799, Prefazione alla seconda edizione) Il Saggio storico
sulla rivoluzione napoletana del 1799 fu scritto durante l'esilio a Parigi e
pubblicato a Milano in forma anonima nel 1801. L'opera narra gli eventi
occorsi a Napoli tra il dicembre del 1798 (fuga di re Ferdinando IV di Borbone
in Sicilia) e la caduta della Repubblica Napoletana, comprese le rappresaglie
che ne seguirono la fine. Il saggio conobbe un vasto successo (fu presto
tradotto anche in tedesco) e andò abbastanza rapidamente esaurito, tanto da
spingere l'autore - anche per scoraggiare i tentativi di ristampa abusiva - a
porre mano ad una nuova edizione ampliata, che vide la luce nel 1806. Nel 1807
il saggio fu tradotto anche in francese (quasi contemporaneamente ad analoga
traduzione del Platone in Italia). Accanto alla dimensione puramente
storiografica, attraverso la quale vengono ripercorsi gli eventi che condussero
alla nascita e alla rapida fine dell'effimero esperimento repubblicano
(inquadrati dall'autore nel burrascoso contesto delle invasioni napoleoniche in
Italia), l'opera si propone come un commento storico e mira a delineare una
lettura critica della vicenda rivoluzionaria. Il racconto degli
accadimenti viene proposto sotto forma di indagine rigorosa dei fatti e investe
l'esposizione dei principi teorici che mossero gli artefici della rivoluzione
napoletana. Senza indulgere in enfasi e retorica, viene in tal modo
offerto al lettore uno spaccato della vivace e avanzata cultura filosofica e
politica d'inizio secolo nella capitale del Sud d'Italia (all'epoca in Europa
seconda solo a Parigi per estensione), ove gli insegnamenti di Mario Pagano
(1748-1799), di Antonio Genovesi, di Gaetano Filangieri (1752-1788), e di
Giambattista Vico confluiscono a filtrare e aggiornare la lettura sempre valida
de Il Principe di Niccolò Machiavelli. «I Francesi furono costretti a
dedurre i princìpi loro dalla più astrusa metafisica, e caddero nell'errore nel
qual cadono per l'ordinario gli uomini che seguono idee soverchiamente
astratte, che è quello di confonder le proprie idee con le leggi della
natura.» (V. Cuoco - Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del
1799, cap. VII) Poste a confronto la Rivoluzione francese e quella
partenopea, Vincenzo Cuoco indaga le ragioni del fallimento di quest'ultima e
ne individua con lucidità e senza pregiudizi le cause: ispirata e poi di fatto
imposta dagli stranieri, la rivoluzione coinvolge a Napoli solo un’élite molto
limitata numericamente (e largamente impreparata alla difficile arte del
governo), senza penetrare nella coscienza popolare e senza tenere in alcun
conto le peculiarità, tradizioni, necessità reali e aspirazioni più autentiche
che caratterizzavano le genti napoletane: «Se mai la repubblica si fosse
fondata da noi medesimi; se la costituzione, diretta dalle idee eterne della
giustizia, si fosse fondata sui bisogni e sugli usi del popolo; se un'autorità,
che il popolo credeva legittima e nazionale, invece di parlargli un astruso
linguaggio che esso non intendeva, gli avesse procurato de' beni reali, e
liberato lo avesse da que' mali che soffriva; forse… noi non piangeremmo ora
sui miseri avanzi di una patria desolata e degna di una sorte migliore.»
(V. Cuoco - Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, cap.XV)
Se da un lato, secondo C., il governo rivoluzionario cadde vittima - prima di
tutto - della sua stessa imperizia tecnico-politica, dall'altro l'esperimento
era votato in partenza al fallimento in quanto mirava ad applicare ciecamente
il modello della Rivoluzione francese, tal quale, senza minimamente
preoccuparsi di adattarlo alla realtà napoletana e alle sue peculiarità.
D'altra parte, osserva C. con spirito squisitamente moderno e rara acutezza, si
pretendeva che il popolo aderisse ciecamente a una rivoluzione della quale non
poteva capire né i valori, né le ragioni: "«Il vostro Claudio è fuggito,
Messalina trema»… Era obbligato il popolo a saper la storia romana per
conoscere la sua felicità?" (Saggio) La Rivoluzione fu dunque
imposta al popolo, piuttosto che proposta o sorta dalle sue istanze più
autentiche e profonde, determinando pertanto una profonda e insanabile frattura
tra gli intellettuali che la guidarono e la popolazione che se ne sentì
sostanzialmente estranea e che spontaneamente seppe riconoscerla per quel che
certo essa era a livello geopolitico: un regime imposto dall'interesse di una
potenza straniera. L'acuta e onesta critica di C. - sempre sostenuto
nella sua opera da un raro attaccamento al realismo e da una logica incalzante
- nel condannare la cieca fiducia delle élite in teorie generali che non
tengono nel giusto conto la storia e la cultura più profonde e vere dei popoli,
individua dunque nella frattura tra classi dirigenti e istanze popolari quello
che sarà forse il più grave dramma dell'intera avventura risorgimentale
italiana e che tanto dovrà pesare sulla storia dell'Italia unita, sino ai
giorni nostri. Critiche al saggio storico L'opera di Vincenzo Cuoco
ricevette aspre critiche per la sua documentazione storiografica. Al di là
delle convinzioni politiche, gli è stata rimproverata una certa parzialità
nella ricerca storiografica. L'abate Domenico Sacchinelli, segretario del cardinale
Fabrizio Ruffo, fondatore e comandante dell'Esercito della Santa Fede in Nostro
Signore Gesù Cristo, principale responsabile della sanguinaria caduta della
Repubblica e della restaurazione dei Borboni al trono, criticò aspramente la
sua opera. Al fine di far conoscere la sua versione dei fatti, Domenico
Sacchinelli pubblicò un'opera intitolata Memorie storiche sulla vita di Ruffo,
scritta nove anni dopo la morte di Fabrizio Ruffo nella quale, essendo stato
segretario del cardinale e possedendo dei documenti del periodo, contestava
molte delle notizie su Ruffo e sui sanfedisti. Sacchinelli, nella prefazione,
asserisce che Cuoco, a sua differenza, non poteva sapere quello che l'esercito
della Santa Fede aveva fatto per filo e per segno, in quali paesi era stato e
quali paesi aveva saccheggiato o incendiato. Per contro, CROCE (si veda) la
segnalò quale prima vigorosa manifestazione del pensiero vichiano,
antiastrattista e storico, e l'inizio della nuova storiografìa, fondata sul
concetto dello svolgimento organico dei popoli, e della nuova politica, la
politica del liberalismo nazionale, rivoluzionario e moderato insieme."
(B. Croce, Storia della storiografia italiana, Laterza) Platone in
Italia Platone in Italia. «Se l'arte dell'eloquenza è l'arte di
persuadere, non vi è altra eloquenza che quella di dire sempre il vero, il solo
vero, il nudo vero. Le parole, onde è necessità di nostra inferma natura di
rivestire il pensiero, saranno tanto più potenti, quanto più atte al fine, cioè
quanto più nudo lasceranno il vero, che è nel pensiero. C. - Platone in
Italia) Il Platone in Italia, diviso in due volumi, è un originale
esempio di romanzo storico scritto in forma epistolare che l'autore finge di
aver tradotto dal greco. L'opera, scritta prima del suo rientro a Napoli
(e pubblicata nello stesso anno), è dedicata alla celebrazione del mito di
un'immaginata "Italia pitagorica", intesa come antico e mitico luogo
della saggezza. Nel racconto immaginario di Cuoco si descrive il viaggio
intrapreso dal giovane Cleobolo, discepolo di Platone, in visita nella Magna
Grecia in compagnia del suo maestro: il viaggio fornisce lo spunto per esaltare
l'originalità e la natura primigenia della civiltà italiana, vista da Cuoco
come più antica di quella ellenica: è nell'Italia meridionale che quelle
popolazioni raggiungono per prime l'apice sia nel campo delle istituzioni
civili, sia nelle scienze e nelle arti. Anche in quest'opera è
chiaramente rintracciabile l'influsso di Vico e del suo De antiquissima
Italorum sapientia, laddove Cuoco ne coglie non solo la dimensione storica, ma
anche quella filosofica. Importante dal punto di vista ideologico,
l'opera intende affermare la supremazia culturale italiana rispetto alla
Francia e al resto d'Europa e può essere considerata un preannuncio della
corrente d'orgoglio nazionale che si svilupperà in tutto il primo Ottocento e
che culminerà nel celebre Del primato morale e civile degli Italiani di GIOBERTI
(si veda). A tratti disorganica e monotona, l'opera non rende giustizia
al suo autore da un punto di vista squisitamente letterario, specie se
confrontata con lo stile straordinariamente persuasivo, agile ed efficace del
Saggio sulla rivoluzione napoletana. Opere Saggio storico sulla
rivoluzione napoletana, in Scrittori d'Italia 43, Bari, Laterza. L’ACCADEMIA in
Italia, in Scrittori d'Italia Bari, Laterza. L’ACCADEMIA in Italia, in
Scrittori d'Italia, Bari, Laterza, Scritti vari, in Scrittori d'Italia, Bari,
Laterza, Scritti vari, in Scrittori d'Italia, Bari, Laterza. Rapporto al re
Gioacchino Marat e Progetto di decreto per l'ordinamento della Pubblica
Istruzione nel Regno di Napoli, vedi Carlo Salinari Carlo Ricci, Storia della
letteratura italiana, Volume terzo, Parte prima, Edizioni Laterza, Bari, sacchinelli-memorie,
prefazione. Tessitore, Lo storicismo di C., Morano editore, Napoli, Tessitore, C.
tra illuminismo e storicismo, Scientifica, Napoli, Tessitore, Vincenzo Cuoco,
in Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Filosofia , Istituto
dell'Enciclopedia italiana Treccani, Salvo, la Pedagogia del reale di C., Pensa
Multimedia, Lecce-rovato, Boroli e Universo - la grande enciclopedia per tutti,
Istituto Geografico De Agostini S.p.A., Novara, L’Enciclopedia, UTET Torino -
Istituto Geografico De Agostini S.p.A., Novara - Gruppo Editoriale L'Espresso
S.p.A., Roma; Themelly, C., Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 31,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, Battaglia, C., la voce
nella Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Moriani,
Esoterismi e storie: Platone nell'interpretazione di C., in Le vie della
ricerca. Studi in onore di ADORNO (si veda), Olschki, Firenze, Sacchinelli,
Sulla vita di Ruffo, Calanco. C. su Treccani.it – Enciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Felice Battaglia, C.,
ENCICLOPEDIA ITALIANA, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, C., Dizionario di storia, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata Cuòco, Vincènzo, su
sapere.it, De Agostini. Cuoco, su
Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Themelly, C., Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Opere di C., su
Liber Liber. Opere di C., su MLOL, Horizons Unlimited. Opere di Vincenzo Cuoco,
su Open Library, Internet Archive. Portale Biografie Portale Due
Sicilie Portale Economia Portale Letteratura
Portale Risorgimento Categorie: Scrittori italiani Giuristi italiani Politici
italiani del XVIII secoloPolitici italiani Nati a Civitacampomarano Morti a
Napoli Economisti italiani Personalità del Risorgimento Personalità della
Repubblica Napoletana [altre] L'opera filosofica di Cuoco nella Repubblica e nel
Regno italico non si esaurisce nei molte plici articoli del “Giornale
italiano”. La filosofia italica di Cuoco si continua nel “Platone in Italia”,
nuova ed alta testimonianza di quello spirito che vediamo in opera
ininterrottamente dai frammenti agli scritti del foglio milanese. Questo
sentimento nazionalistico, che ha il suo centro sol nello spirito e non fuori
di esso, è la gran trovata, il punto fermo del molisano, e compenetra il suo
Platone. Quello stesso uomo, nota giustamente Hazard, che scrive che “ama di
morir per la sua patria,” con la sua Napoli, “poichè essa più non esiste”, mentre Cuoco vive ancora, ed aggiungeva che
ad essa ha consacrati tutti i suoi pensieri. Ora consapevole sempre di più di
quanto nel saggio storico ha pur detto, cioè che l'amore di patria nasce dalla
pubblica educazione. Ora scrive un saggio il cui solo fine è sempre lo stesso:
creare lo spirito nazionale, e crearlo, presentando quanto più spesso si possa
le memorie dei tempi gloriosi. Che questo e lo scopo del suo “Platone in
Italia” nessun dubbio. E Cuoco stesso che ce lo dice. Il Platone dice C., in
una lettera al vicerè Eugenio è “diretto a formar la morale pubblica
degl'italiani, ed ispirar loro quello spirito d’unione, quell’amor di patria,
quell’amor della milizia che finora non hanno avuto.” Il “Platone in Italia” di
C. perciò è un romanzo a tesi, o, se volete, un romanzo didattico, se con ciò
noi vogliamo riferirci al suo fine, lasciando impregiudicata assolutamente
l'ulteriore valutazione filosofica. E chi lo legge con cura non può non
accorgersi di questo scopo, estrinseco sì all'arte, ma non allo scrittore, di
questo scopo che C. persegue, e per il quale solo sembra vivere. La trama del
“Platone in Italia” in sè è tenuissima, tanto tenue che C. quasi non se ne
accorge, onde appena l'abbozza per tosto sorvolarla. Un greco, Cleobolo, fa un
viaggio culturale nella Magna Grecia con il suo tutore, Platone. Platone e il
suo scolaro visitano le più importanti città d'Italia: Crotone, Taranto,
Metaponto, Eraclea, Turio, Sibari, Locri, Reggio, ecc., e conosce direttamente
o indirettamente i più fieri popoli della pe [ROBERTI, Lettere inedite di G.
Botta, U. Foscolo e C., in Giornale storico della letteratura italiana. La
lettera del Cuoco è ora ri prodotta in Scritti vari. C., Saggio storico. BUTTI,
Una lettera di V. Cuoco al Vicerè Eugenio nella miscellanea Da Dante al
Leopardi, per Nozze Scherillo -Negri, Milano, Hoepli. La lettera è ora ripro.
dotta in Scritti vari] pennisola, i sanniti e i romani, ammira le opere d'arte,
disputa di filosofia, si innamora di Mnesilla. Cleobolo stringe con Mnesilla un
bel nodo d'amore. La trama è questa. Ma vien meno dinanzi all'urgere d'un
contenuto didascalico svariatissimo, che la spezza, la frantuma, e in fine ce
la fa dimenticare. Nè il “Platone in Italia” è sotto questo riguardo un romanzo
originale. Anzi ha i suoi bravi antecedenti, tra cui sopra tutti importante
quel “Voyage du jeune Anacharsis en Grèce,” che ha una grande diffusione in
Francia e fuori, che ovunque ebbe ammira tori ed imitatori. Ma nella maggior
parte de' casi, come nota il Sanctis, il viaggio di Platone e Cleobolo è “un
semplice mezzo, con un altro scopo ed un altro contenuto,” che non sia quello
vero e proprio di descrivere paesaggi e monumenti. Lo scopo non è più il viaggio.
Lo scopo e l'espressione di certe idee e sentimenti, fatta più agevole, con
questo mezzo. I secoli XVIII e XIX amarono il romanzo viaggio, come del resto
anche il romanzo-epistolario, perchè col suo meccanismo si piega ad ogni
finalità. Il “Platone in Italia” di C. anzi è nello stesso tempo viaggio ed
epistolario, è un insieme di lettere spedite visitando l'una dopo l'altra le
varie città d' Italia. Il viaggio, come forma letteraria, può servire a qua
lunque scopo ed avere qualunque contenuto. E cera, che può ricevere ogni specie
d'impressione; marmo, che può configurarsi secondo il capriccio dello scultore.
È difficile trovare una forma più libera, più pieghevole al vostro volere.
Passate da una città in un'altra: nessun limite trovate al vostro pensiero.
Potete incontrarvi con gli uomini che vi piace; immaginare ogni specie
d'accidenti; saltare dalla natura ai costumi, da' costumi al l'anima; visitare,
qua e colà, come vi torna meglio; rin chiudervi, tutto solo, nella vostra
stanza, e fantasticare, filosofare, poetare, mescere, a vostro grado, sogni,
ghiri bizzi e ragionamenti, dialoghi e soliloqui, visioni e rac conti. Se voi
vi proponete uno scopo particolare, questo v ' impone il tal contenuto, il tale
ordine, la tal proporzione: insomma v’impone un limite, che non procede dal
mezzo liberissimo di cui vi valete, ma dal fine che avete in mente. Ma se voi
leggete l'opera del Barthélemy e la raffron tate con l'opera cuochiana, una
differenza vi balzerà su bito agl’occhi, nell'alto fine che il nostro scrittore
s'è proposto e che nel francese, naturalmente, manca del tutto. È il fine,
quello che interessa C., e che da lungo tempo egli persegue ne' più vari modi.
Il Giornale italiano, a questo proposito, ci mostra come l'idea d'un viaggio
educativo nei vari reami della storia si sia al molisano altre volte
presentata. Tra tante opere che ci si dànno ogni giorno, buone, mediocri,
cattive quella descrivente un viaggio, per esempio, nel secolo di Leone X, non
sa rebbe certamente la meno utile per la nostra istruzione e per la nostra
gloria ». Così scrive, e di questo viaggio ideale, di cui immagina che un suo amico
conservi l'an tico manoscritto d'un suo maggiore, dà un saggio in quel
colloquio col Machiavelli che abbiamo a più riprese ve duto (2 ). Il fine
dunque è quello che occupa l'animo del nostro, e questo domina tutto, soffoca,
purtroppo, ogni intendimento che pedagogico non sia [Il romanziere cerca di
scusare questa deficienza di trama, che si risolve in una deficienza fantastica
e quindi in una deficienza artistica, e nella prefazione scrive che la sua
storia e rinvenuta in un antico manoscritto, autentico, perchè ritrovato da suo
nonno proprio fra le fondamenta d'una sua casa, ergentesi sovra quel suolo ove
un dì superba e Eraclea, manoscritto che è lacerato in varî punti e perciò
lacunoso, onde varje situazioni, prima accennate, non sono poi svolte e tanto
meno condotte a fine: ma questa è una scusa che non scusa nulla, poichè tutti
sanno che il manoscritto non è se non nell'immaginazione del Cuoco, nè più nè
meno come l'anonimo ma [SANCTIS (si veda), Saggi critici, Giorn. ital.: Varietà.
(SETTEMBRINI] -noscritto dei Promessi Sposi è nell'immaginazione di Don
Alessandro. Perciò l'esiguità della trama si deve unicamente al sopravvento di
fini estrinseci all'arte, pedagogici e didascalici. E gli stessi personaggi,
che la piccola trama lega, sono e non sono. Noi li vediamo e non li vediamo.
Soprattutto, noi non li vediamo mai in azione, in atto, con i loro caratteri e
con le loro passioni. A rigore possiamo dire che non sono protagonisti di
nessun dramma, poichè ci – Platone e il suo scolaro italiano -- appaiono, se
mai, nella stessa funzione del prologo in certi antichi componimenti teatrali,
che si limita ad annunciare ciò che fu o sarà e fa alcune sue considerazioni.
Essi hanno perciò un nome, come ne potrebbero avere un altro. Non sono essi
quelli che contano, conta quel che dicono, o che per essi dice C. Da questa
condizion di cose, è evidente, scaturisce un dissidio insanabile tra quello che
è arte, e che perciò non ha nè può avere un fine estrinseco a sè stessa, e lo
scopo stesso dichiarato dall'autore: il rammentare agl’italiani che essi furono
una volta virtuosi, potenti, felici, he furono un giorno gl'inventori di quasi
tutte le cognizioni che adornano lo spirito umano. Come VICO (si veda) nel “De
antiquissima italorum sapiential” si pone dinanzi il fine di dimostrare qual
filosofia si debba trarre dalle origini della lingua latina, quella filosofia
che in antico dovè certo essere professata dai sapienti italiani. Così il Cuoco
si propone di dimostrare che, nel pas sato più remoto, tra i popoli, che
abitarono la nostra penisola, ve ne furono di civilissimi, popoli, la cui
civiltà fu persino anteriore alla civiltà ellenica, che dalla prima riceve
luce, e non viceversa. E come chi voglia intendere il ”De antiquissima” non
deve tenere nessun conto del suo titolo e del proemio, e di tutte le vane
investigazioni che qua e là, vi ricorrono dei riposti con cetti, che, secondo
Vico supporrebbero talune voci latine, per considerare unicamente in sè stessa
questa dottrina che Cuoco pretende rimettere in luce dal più vetusto tesoro
della mente e dell’anima italica, e che non è altro che una dottrina
modernissima, quale puo essere costruita da esso Vico. Così chi voglia
comprendere il vero spirito del “Platone in Italia” di C. deve prescindere
dall'esil nucleo romantico, come dalla faticosa ricostruzione archeologica, e
considerarlo nella sua attualità. Esso non esprime i pensieri nè di Archita di
TARANTO (si veda) nè di Cleobolo, ma i pensieri di C., scrittore del regno
italico, meditante sulle proprie personali esperienze, e non sulle esperienze
di venticinque secoli avanti. All'anno di grazia vanno, per esempio, riferite
tutte le abbondanti considerazioni sulle leggi, sulla religione, sulle
istituzioni, sulle rivoluzioni, Ma l'opera di Vico è un'opera dottrinale,
filosofica, per cui lo sforzo di superamento temporale è facile. L’opera del
Cuoco è un romanzo che vuol pure essere consi derato dal punto di vista
dell'arte. Da ciò un insormontabile dualismo, onde noi veniamo risospinti
dall'Italia del VI secolo di Roma all'Italia del secolo XIX di Cristo, da
Platone a Vico, da Archita a Napoleone, dai filoneisti di Taranto ai giacobini
di Francia, da Alcistenide e Nicorio a Monti. E in questo urto di due visioni
opposte e con trastanti l'arte fugge via, e noi non sappiamo ove finisca la
finzione e cominci la realtà. La funzione è troppo evidente, perchè noi
possiamo ingannarci. V'è troppa erudizione, troppi richiami di testi classici,
e non solo greci, ma anche latini, medievali, moderni, perchè la fantasia possa
godere d’una pura contemplazione. E chi è quella Mnesilla, che disputa così
bene d'arte e di musica, se non un'estetica moderna, che conosce Vico? E chi è
quel Cleobolo, che cita opinioni del Filangieri e del Pagano, e parafrasa
persino versi del Petrarca? GENTILE, Studi vichiani SETTEMBRINI, In una lettera
che Cleobolo scrive all'amata è detto. Così, passando di pensiero in pensiero e
dimonte in monte, spesso sopraggiunge la sera; e, mentre par che tutta la
natura dorma, solo il mio cuore veglia, innalzandosi col pensiero fino a quegli
astri eternamente lucenti che [ E chi è quel Platone, che non ignora i princípi
della nazionalità e con Archita disputa di filosofia moderna! La contaminazione
è troppo evidente, e la filosofia pitagorica e platonica si mesce in uno strano
viluppo con quella vichiana. Da ciò, notiamo, scaturisce non solo, come abbiam
detto una deficienza grande nell'opera d'arte, ma anche nell'importanza
filosofica del Platone in Italia. È questo un'opera d'arte? Un lavoro
filosofico? Uno scritto politico? Nulla di tutto ciò, e pure tutto ciò misto in
una unità singolare. Non scritto storico, perchè, a parte il valore molto
discutibile del suo metodo, che egli si propone di ragionare e giustificare più
tardi, con una di quelle dilazioni, che svelano appunto l'incertezza del
pensiero e l'oscurità da vincere, Cuoco è troppo preoccupato da fini estrinseci
alla storia, artistici ed educativi] non filosofia, perchè Cuoco non segue un
indirizzo unico, ma si trova costretto dal l'imbastitura della narrazione a
mescere quel che è patrimonio dell'antichità con quella vigile coscienza tutta
moderna e vichiana della spiritualità del reale. Non opera d'arte per ragioni
sovradette, poichè Cuoco non riesce mai a trovare in sè quell'assoluta
pacatezza della fantasia, che sola può generare creature vive. L'arte «non c'è
principalmente nota » il Gentile « perchè Cuoco non si dimentica abbastanza in
questa visione confortante, che a un tratto gli sorge nell'animo, di un'Italia
grande per virtù private e pubbliche, perchè retta da una saggia filosofia. E
corre a ogni po' col pensiero all'Italia per cui scrive, all'Italia presente,
piccola, inferma, senza spirito pubblico, senza amor di grandezza, senza
orgoglio di nazione, senza forze vive: e ondeggia tra la statua brillano sul
mio capo; e, dopoaverli riguardati ad uno ad uno, il mio occhio si ferma in
quella fascia immensa, la quale pare che tutto circondi l'universo. Di là si
dice che le nostre anime sien discese, ed ivi ritorneranno e rimarranno unite
per sempre! GENTILE, Studi vichiani che avrebbe da animare, e sè stesso che
egli quasi non crede da tanto; e gli trema la mano ». Non c'è l'opera d'arte,
ma il lavoro non è cosa del tutto morta e caduca. Ci sono parti molto belle, in
cui realmente l'animo si placa in una commossa visione d'amore, o in un
paesaggio italico, ricco di tinte forti calde sfumanti; poi c'è una sempre
vigile volontà, tesa in un fine, che, se è estrinseco all'arte, non è mai fuori
dall'autore, ma pur sempre in lui, e l'accende di sano amore di patria e d'alto
nazionalismo. C'è in somma una matura attività dello spirito, che, sia che [Per
dare un esempio dell'arte del “Platone in Italia” di Cuoco, trascrivo un brano,
che già al RUGGIERI apparve degno d'attenzione: è una lettera di Cleobolo. Ieri
sera sedevamo in quel poggio il quale tu sai che domina il mare e Taranto. È il
sito più delizioso della villa ch'ella tiene nell'Aulone. E noi non sedevamo
propriamente sulla sommità, ma in mezzo della falda, come in una valletta, la
quale, ren dendo più ristretto l'orizzonte, par che renda più ristretti e più
forti i sensi del cuore. Il sole tramontava; spirava dal l'occidente il fresco
venticello della sera, che scendeva a noi turbinosetto per l'opposta falda del
colle. Eravamo soli, io ed ella, e nessuno di noi due parlava, assorti ambedue
in quella languida estasi che ispira il soave profumo de' fiori di primavera,
forse più grave la sera che la mattina ne' luoghi frequenti di alberi. Di tempo
in tempo io rivolgevo i miei occhi a lei, ma un istante dipoi li abbassava;
ella li abbassava come per non incontrarsi coi miei, ma un istante dipoi li
rial zava, quasi dolendole di non averli incontrati. Vedi quel l'arboscello di
cotogno? — mi dice (e di fatti ve ne era uno a dieci passi da me) — vedi come
il vento, che si rompe in faccia agli annosi ulivi ed ai duri peri, pare che
sfoghi tutta la sua prepotenza contro quel debole ed elegante arboscello?
Quanta verità è in quei versi di Ibico: Il mio cuore è simile al cotogno
fiorito, che il vento della primavera afferra per la chioma e ne con torce
tutti i teneri rami!... Tu non hai detti tutti i versi di Ibico; no escləmai io
tu non li hai detti tutti.... Esso è stato nudrito colla fresca onda del
ruscello che gli scorre vicino; ma nel mio cuore un vento secco, simile al
soffio del vento di Tra cia, divora.... Io voleva continuare; ma ella mi guardò
e le vossi. Qual potere era mai in quel guardo, in quell'atto?... Io non lo so;
so che tacqui, mi levai e ritornai in casa, se guendola sempre un passo
indietro, senza poter mai più alzar gli occhi dal suolo.”] eccesso e analizzi
le antiche istituzioni del Sannio; sia che valuti i germi della futura
grandezza di Roma, sia che da questi discenda ai fatti moderni, e
indirettamente dica della rivoluzione francese e de' popoli, che tra un l'altro
amano posarsi nelle opinioni medie o magari tro vare la pace in un Napoleone,
tiranno restauratore del l'ordine, rivela pur sempre un uomo d'alta coscienza,
con sapevole di sè e del suo posto nel suo popolo. Noi dimentichiamo l'artista
mal riuscito, il metafisico contaminato, lo storico poco sicuro, ma ammiriamo
il pedagogo, che dai dati concreti della storia umana trae un non perituro
insegnamento. C. parla non a sè stesso, poi che non si pone dal rigido punto di
vista subiettivo proprio dell'arti sta, ma a noi, a noi italiani; e per noi
vibra, per noi di sputa, per noi parla. Platone non parla al suo discepolo
Cleobolo. Archita non parla ai suoi tarantini. Ponzio non parla ai suoi
sanniti. Ma tutti e tre, attraverso il Cuoco, si rivolgono a noi, e il loro
insegnamento mira a formare una più sicura anima italica. Certo questa
posizione è un po' monotona, e riporta l'autore ad insistere su punti già precedentemente
esposti nel Saggio, nei Frammenti, nel Giornale italiano, ma, se guardiamo
l'arduità dello scopo, la difficoltà d'attingerlo, le ripetizioni non
appariranno mai soverchie. Da noi non si tratta, dice C., di conservare lo
spirito pubblico, ma di crearlo, e la creazione è opera lunga, spesso do
lorosa. La tesi principale del ”Platone in Italia”, che del resto non è una
novità cuochiana, ma una trovata del Vico, è che nella nostra penisola vi sia
stata una civiltà, come ho detto, anteriore alla greca, quella etrusca, che per
il mondo ha diffuso luce di sapere filosofico e splendore d'arte, della quale
civiltà quella ellenica e pitagorea è un posteriore riverbero. L'opinione, sia
essa tramontata, come pretendono alcuni, per cui le origini greche del
pitagorismo sono indubbie, sia essa vera, come sostengono altri, per cui
l'autonomia della civiltà etrusca e delle susseguenti civiltà italiche è
parimenti comprovata, è profondamente radicata nel Cuoco, la di cui serietà
scientifica non può essere posta in dubbio. Il Cuoco è fortemente compenetrato
di essa, e, laddove crede di vederla comprovata dai fatti, l'animo suo trema
d'intima com mozione e di passionata esaltazione. Al tempo del viaggio di
Platone, la Magna Grecia è in decadenza. Molte città, che già furono grandi,
vennero nelle civili dissensioni rase al suolo. Altre, che un dì dominarono
molte terre, sono ridotte a piccoli borghi. Stirpi, che hanno un passato
glorioso, fiere delle loro milizie e dei loro trionfi, ora languono nell'ozio e
nella effemina tezza. Ma, ovunque, a chi mira intimamente le cose s'appalesano
i segni dell'antica grandezza e dell'antica forza, diffusi ne' monumenti
architettonici, vivi negli ordini civili, parlanti nelle costruzioni filosofiche
del pensiero e dell'arte. “Io credo, dunque,” dice Ponzio a Cleobolo, “ciò che
dicono i nostri sapienti, i quali dan per certo che ne' tempi antichissimi
l'Italia tutta fioriva per leggi, per agricoltura, per armi e per commercio.
Quando questo sia stato, io non saprei dirtelo. Troverai però facilmente altri
che te lo saprà dire meglio di me. Questo solamente posso dirti io: che allora
tutti gl'italiani formavano un popolo solo, ed il loro imperio chiamavasi
etrusco. Mentre la Grecia è ancor giovane, l'Italia è assai antica e sul suo
vecchio suolo già due epoche s'avvicendano: l'una è scomparsa, l'altra è in
isviluppo, e solo esteriormente potrà dirsi ellenica, nelle innegabili im
migrazioni dei greci. Nel suo spirito è italica, erede della prim. Pitagora,
che la impersona, null'altro è che un mito, ma un mito italico, una sintesi
concettosa della sapienza, ma una sintesi tutta italica. Come nella natura vi
sono terribili sconvolgimenti fisici, per cui la faccia della terra è alterata,
i monti si fendono ed aprono larghe valli, in cui scorrono nuovi fiumi che
prima non erano, mentre i vecchi veggono alterato il loro corso, così nella
storia antiche catastrofi hanno distrutto una fiorttura senza pari e modificato
organismi civili possenti. Sappi dunque, dice Cleobolo all’ACCADEMIA, riferendo
un colloquio che egli ha avuto con un sacerdote di Pesto, che un tempo tutta
l'Italia è stata abitata da un popolo solo, che chiamavasi etrusco. Grandi e
per terra e per mare eran le di lui forze; e, de' due mari che, a modo d'isola,
cingon l'Italia, uno chiamossi, dal nome co mune del popolo, Etrusco; l'altro,
dal nome di una di lui colonia, Adriatico. Antichissima è l'origine di questi
etruschi.. Le memorie della sua gloria si confondono con quella de' vostri
iddii e de ' vostri eroi. Ma chi potrebbe dirti tutto ciò che gli etrusci opra
rono nell’età de' vostri eroi e de' vostri iddii? Oscurità e favole coprono le
memorie di que' tempi. Posso dirti però che gl’etrusci estendevano il loro
commercio fino all'Asia. Gl’etruschi signoreggiavano tutte le isole che sono
nel Mediterraneo, ed anche quelle che sono vicinissime alla Grecia.
Dall'ampiezza dell'impero giudica dell'antichità. Quest'impero però era troppo
grande e poco omogeneo, più federazione di città che stato unitario, onde esso
avea in sè stesso il germe della dissoluzione. Non mai si era pensato a render
forte il vincolo che ne univa le varie parti. Ciascun popolo ha ritenuto il
proprio nome: era il nome della regione che abitava, era quello della città
principale. Che importa saper qual mai fosse? Non era il nome “etrusco”.
Ciascun popolo ha governo, leggi e magistrati diversi. Non vi e nè consiglio,
nè magistrato comune se non per far la guerra. Da ciò trassero origine grandi
mali che distrussero ogni organizzazione: La corruzione de' costumi produce la
corruzione delle arti, le quali sono de' costumi ed istrumenti ed effetti, e
poi generò la corruzione della religione, la quale, corrotta, accelera la morte
delle città. Perciò l'Etruria, o ItTALIA, si sfasciò per legge naturale di
cose. Così cade, o Cleobolo, commenta il pellegrino Platone, qualunque altro
impero ove non è unità. Così cade la Grecia,, se non cessa la disunione tra le
varie città che la compongono, tra gl’uomini che abitano ciascuna città.
Imperciocchè, ovunque è sapienza, ivi si tende al l'unità. All'unità si tende
ovunque è virtù, il fine della quale è di render i cittadini concordi e simili.
Nè possono. esserlo se non son buoni. La vita istessa di tutti gl’esseri non è
se non lo sforzo degl’elementi, che li compongono, verso l'unità. Ovunque non
vi è unità, ivi non è più nè sapienza, nè virtù, nè vita, e si corre a gran
giornate alla morte. Ma la morte non è mai interamente morte, bensì tra
sformazione, cioè riduzione in nuove forme di vita, forme nuove, che della
prima vita mantengono alcuni elementi originari ed altri novelli acquistano.
Così l'Italia, divenuta deserto nella ruina, tosto si ripopola di genti, di
città, si organizza, si riabbellisce, e si ri presenta composta all'ammirazione
universa. Ma la civiltà italica, che possiamo dire pitagorea, nella sua essenza
è pur essa autoctona, se pure apparentemente ellenistica. Quando le colonie si
sono stabilite in Italia, le stirpi indigene dalle montagne eran discese al
piano, e due civiltà s'erano espresse. Noi disputiamo, osserva un italico a
Cleobolo, per sapere se i ellenici abbian popolata l'Italia o gl'italiani
abbian popolata la Grecia. Ed intanto è l'una e l'altra regione sono state
forse popolate da un popolo – l’ario --, il padre comune degl’elleni e
degl'italiani. Comune è perciò l'origine dei due popoli, ma, stanziatisi in
diverse sedi, gl’italiani hanno avuta una fioritura più precoce che non
gl’ellenici, che pure ai tempi di cui trattiamo, sembrano i più civili, i maestri
degl’italiani in ogni campo dell'umana attività. L'antico primato italico però
ancor si conserva, trasformato sì, ma sempre attivo, e si manifesta. Su questo
primato italico il Cuoco insiste, insiste, insiste calorosamente. E la sua tesi
nucleare. La pittura e in Italia già vecchia ed evoluta, allorquando Panco,
fratello di Fidia, «ipinse ne' portici di Atene la battaglia di Maratona,
riempiendo di stupore i suoi concittadini per la rassomiglianza che seppe
mettere nelle immagini dei duci greci e dei capitani nemici [Furono gl'italiani
che primi danno opera alle matematiche, e ne fecero un istrumento principale
della loro filosofia. Prima che Teodoro reca agl’elleni la scienza degli
italiani, in Grecia, le idee geometriche sono puerili, frivole, con traddittorie.
Invece, gl'italiani, potenti per un istrumento di filosofia tanto efficace,
fanno delle scoperte ammirabili in tutte quelle parti delle nostre cognizioni
che versano sulla quantità: nella geometria, nella astronomia, nella meccanica,
nella musica; ed hanno spinte al punto più sublime e più lontano dai sensi
tutte quelle altre che versan sulla qualità. La stessa arte della guerra e
delle milizie in Italia si perde nella remotezza de' secoli, onde ancora ai
tempi di Platone gl’italici mantengono indiscussa la loro superiorità. La
guerra presso gl’elleni ancora è duello, scienza rudimentale. Presso
gl’italiani l’arte della guerra è savio urto di masse e organica distribuzione
di manipoli. La stessa legge, che regola la convivenza nella penisola, e originaria
e nazionale, frutto di una intima esperienza sociale, e perciò nel loro
complesso immuni da contaminazioni eterogenee. Le romane XII tavole quindi non
sono mai derivate, come alcune storie vogliono, da Atene, poiché Atene nulla
poteva dare a un popolo, come il romano, discendente da popoli dell’ateniese
più antichi. Vedete dunque, dice Cleobolo ad alcuni legati di Roma, che una
parte delle vostre leggi è più antica della città vostra. Un'altra è
sicuramente più antica di quei dieci che voi dite aver imitate le leggi
d’Atene. Voi mi avete recitate le leggi de’ dieci e quelle dei re, le quali
dite esser state raccolte da Sesto Papirio sotto il regno del buon Servio
Tullio. Alcune, che voi recitate tra quelle, le ripetete anche tra queste. Tali
sono tutte quelle che regolano gl’auspici, l’assemblee del popolo, il diritto
di giudicar della vita di un cittadino, e che so io! Queste dunque già esisteno
in ROMA; ed e superfluo correr tanti stadi e valicare un mare tempestosissimo
per prenderle da un popolo che non le ha. Tre quarti dunque del vostro diritto
non ha potuto esser imitato da noi. Vi rimane una quarta parte, ed è quella
appunto nella quale può aver luogo l’imitazione, perchè può stare, senza
sconcio alcuno, ed in un modo ed in un altro. Tali sono le leggi sulla patria
potestà, sulle nozze, sulle eredità, sulle tutele. Ma queste cose sono dalle
vostre leggi ordinate in un modo tanto diverso dal nostro, che, se mai è vero
che i vostri maggiori abbiano inviati de' legati in Atene, è forza dire che ve
li abbian spediti per imparare, non ciò che volevano, ma ciò che non volevano
fare. Passando nel campo delle arti belle, tra gl’elleni la poesia drammatica è
meno antica che tra gl'italiani. Ben poche olimpiadi, dice un comico italiano,
Alesside, a Platone e Cleobolo, contate dalla morte di Tespi e di Frinico,
padri della vostra tragedia. Quando il siciliano Epicarmo si ha già meritato
quel titolo di principe della commedia, che, più di un secolo dopo, gli ha dato
il principe de’ vostri filosofi, Magnete d'Icaria appena balbutiva tra voi un
dialogo goffo e villano, che tutta ancor oliva la rusticità del villaggio ove
era nato. Quando la commedia tra voi nasceva, tra noi era già adulta. I poemi
omerici stessi nel loro nucleo fondamentale sono stati elaborati in Italia,
poichè di favole omeriche gl’italiani ne hanno più degl’elleni, e quelle
elleniche cominciano ove le italiche finiscono. In tutto ciò noi non possiamo
non notare il partito preso, la volontà di dimostrare ad ogni costo quel che C.
a priori afferma, l'originario primato italico. Ma lo scopo nobilissimo, che ha
dinanzi, vale a fare perdonarelo varie inesattezze. Nel tempo in cui Platone e
Cleobolo iniziano il loro viaggio per l'Italia, la Magna Grecia è in
dissoluzione. I vari popoli hanno fra loro relazioni saltuarie ed estrinseche.
Non si sentono fratelli animati da un'unica missione. Guerre, dissensioni,
lotte sono frequenti, donde scaturisce una condizione di perpetua incertezza.
Vedi, da una parte, l'Italia simile a vasto edificio rovinato dal tempo, dalla
forza delle acque, dall'impeto del terremoto. Là un immenso pilastro ancora
torreggia intero, qua un portico si conserva ancora per metà. In tutto il
rimanente dell'area, mucchi di calcinacci, di colonne, di pietre, avanzi preziosi,
antichi, ma che oggi non sono altro che rovine. Ben si conosce che tali
materiali han formato un tempo un nobile edificio, e che lo potrebbero formare
un'altra volta. Ma l'antico non è più, ed il nuovo dev'essere ancora. È l'unità
che si è infranta, per cui alla primigenia unitaria forza statale è sottentrata
la debolezza della molteplicità, mal celata dall' invadente forza belligera di
alcune stirpi, come i sanniti, o dal fasto di altre, come i tarentini. Ma
questa molteplicità tende quasi per fatale legge di natura all'unità, e
dall'indistinto pullulare delle genti dove pur sorgere chi di esse fa una sola
gente, un nome unico: Italia. Pure, se tu osservi attentamente e con costanza,
ti avvedrai che le pietre, le quali formano quei mucchi di rovine, cangiano
ogni giorno di sito; non le ritrovi oggi ove le avevi lasciate ieri. E mi par
di riconoscere un certo quasi fermento intestino e la mano d'un architetto
ignoto che lavora ad innalzare un edificio no vello. È la gran fede di C. Da questa unità o da
questa frammentarietà dipende l'avvenire della penisola. Tutta l'Italia, dice
Cleobolo, riunisce tanta varietà di siti e di cielo e di caratteri, e nel tempo
istesso sono questi caratteri tanto marcati e forti, che per essi mi par che
non siavi via di mezzo. Da ranno gl'italiani nella storia, come han dato
finora, gl’esempi di tutti gl’estremi, di vizi e di virtù, di forza e di
debolezza. Se saranno divisi, si faranno la guerra fino alla distruzione. Tu
conti più città distrutte in Italia in pochi anni, che in Grecia in molti
secoli. Se saranno uniti, daranno leggi all'universo. C. però ha fede che
questo suo ideale non resterà mero ideale. Questo ideale si concreta in una
entità statale, in un impero, che all'itala gente dalle molte vite darà
organizzazione e potenza. Cuoco dice che questo ideale non è nuovo, ma quasi
conformandosi ad un antico vero, il dominio etrusco, è risorto e di continuo
risorge nelle più elette menti. Lo stesso Pitagora concepì l'ardito disegno di
ristabilir la pace e la virtù, senzadi cui la pace non può durare. Pitagora
volea far dell'Italia una sola città; onde l’energia di ciascun cittadino ha un
campo più vasto per esercitarsi, senza essere costretta a cozzare continuamente
con coloro, che la vicinanza, la lingua, il costume facean nascer suoi fratelli
e la divisione degl’ordini politici ne costringeva ad odiar come nemici. E
l'energia di tutti non logorata da domestiche gare, potesse più vigorosamente
difender la patria comune dalle offese de’ barbari. Egli dava il nome di
barbari a tutti coloro che s’intromettono armati in un paese che non è loro patria,
e chiama poi barbari e pazzi quegl’altri, i quali, parlando una stessa lingua,
non sanno vivere in pace tra loro ed invocano nelle loro contese l'aiuto degli
stranieri. Egli sole dire agl'italiani quello stesso che Socrate ripete
agl’elleni. Tra voi non vi può nè vi deve essere guerra: ciò, che voi chiamate
guerra, è sedizione, di cui, se amassivo veracemente la patria, dovreste
arrossire. Sia stato Pitagora un essere umano di fatto vissuto, sia egli invece
un'idea, un mito elaborato dalla fantasia delle stirpi indigene, nel quale esse
han fatto confluire i risultati ultimi di tutte le loro secolari esperienze,
ciò dimostra l'antica radice, le remote propaggini nella co scienza collettiva
del problema unitario. Ma come attingere l'unità? Ritorniamo a posizioni che
noi già sappiamo. Il problema è un problema etico e pedagogico insieme. A
questa meta non si può pervenire senza virtù e senza ottimi ordini civili. Onde
non vi sia chi voglia e chi possa comprar la patria, chi voglia e chi possa
venderla. Ma l'ambizione di ciascuno, vedendosi tutte chiuse le vie della viltà
e del vizio, sia quasi co stretta a prender quella della virtù. È necessario
istruir il popolo. Un popolo ignorante è simile all'atabulo, che diserta le
campagne: spirando con minor forza il vento delle montagne lucane, porta sulle
ali i vapori che le rinfrescano e le fecondano. È necessario istruir coloro che
devono reggerlo. Un popolo con centomila piedi ha sempre bisogno di una mente
per camminare, e, con centomila braccia, non ha una mente per agire. Ma
quest'educazione pubblica, che occorre diffondere, non deve essere per sua
natura uniforme, uguale per tutti, bensì multiforme, varia, secondante le
infinite varietà che la natura umana ci offre: deve essere educazione vera,
cioè deve parlare agl’spiriti, e perciò deve essere in essi, e non fuori di
essi. Diversa perciò l'educazione della classe dirigente da quella delle classi
povere, diversa però non nell'intima qualità. L'una e l'altra si volgono alla
stessa natura umana e alle stesse potenze dello spirito. Un popolo, dicono
alcuni, il quale conoscesse le vere cagioni delle cose, sarebbe il più saggio
ed il più virtuoso de'popoli. Non è invero così. Riunite i saggi di tutta la
terra, e formatene tante famiglie. Riunite queste famiglie, e formatene una
città: qual città potrà dirsi eguale a questa! Nessuna, risponde C. o Archita da
TARANTO (si veda) per lui. Essa non meriterebbe neanche il nome di città,
perchè le mancherebbe quello che solo cangia un'unione di uo mini in unione di
cittadini. La vicendevole dipendenza tra di loro per tutto ciò che rende agiata
e sicura la vita e la perfetta indipendenza dagli stranieri. È necessario
perciò ai fini dello stato che gl'indotti coesistano accanto ai dotti, come i
poveri accanto ai ricchi, perché si realizzi quell’armonica convergenza di
forze distinte che è la vita. Ciò, che veramente è neces sario in una città, è
che ciascuno stia al suo luogo, cioè che sappia lavorare e che ami l'ordine. Ad
ottener l'uno e l'altro, sono necessarie egualmente la scienza e la
subordinazione. Diversa sarà l'educazione dei poveri da quella dei dirigenti.
Ma una educazione per i primi deve pur esservi. E per istruirli bisogna avere
la loro stima. Non perdete la stima del popolo, se volete istruirlo. Il popolo
non ode coloro che disprezza. Di rado egli può conoscer le dottrine, ma giudica
severissimamente i maestri, e li giudica da quelle cose che sembrano spesso
frivole, ma che son quelle sole che il popolo vede. Che vale il dire che il
popolo è ingiusto? Quando si tratta d'istruirlo, tutt'i diritti sono suoi.
Tutt’i doveri son nostri, e nostre tutte le colpe. Al popolo occorre insegnare
tutto ciò che è necessario per agire, tutto ciò che può rendergli o più facile
o più utile il lavoro, più costante e più dolce la virtù. Al savio, invece, è
necessaria la conoscenza delle cagioni vere, perchè sol col mezzo della
medesima può render più chiara, più ampia e più sicura la conoscenza delle
stesse cose. Al volgo conoscer le vere cagioni è inutile, perchè non potrebbe
farne quell'uso che ne fanno i savi. È necessario però che ne conosca una, in
cui la sua mente si acqueti. E questa necessità è tanto imperiosa, che, se voi
non gli direte una cagione, se la farneticherà egli stesso. Errano perciò i
filosofi che credono opportuno divulgare la filosofia è mettere il popolo a
contatto con i sublimi princípi della vita. Del resto ben diversa è la natura
del dotto filosofo e del popolano. Laddove il savio è ragione, il popolano è
tutto senso e fantasia. Il popolo è un eterno fanciullo che ha sempre più cuore
che mente, più sensi che ragione. E quindi ad esso bisogna parlare con quello
stesso linguaggio che s'usa con il fanciullo, dan dogli in un certo qual modo
cose e massime già fatte. Bisogna parlare al popolo dei suoi cari interessi, e
parlarne con il linguaggio che a lui più si conviene, con parabole e proverbi.
Se è vero che gl’esempi muovon più dei precetti, le parabole, le quali non sono
altro che esempi, debbon muovere più degli argomenti. I proverbi, che a noi
possono sembrare inintelligibili, perchè ignoriamo i veri costumi dei popoli
per i quali furono immaginati, sono nella rude concettosità adattissimi per lo
scopo prefissoci. La stessa virtù non la si può inculcare al popolo se non con
mezzi diversi di quelli che ci si offrono nella filosofia. La virtù è saviezza:
la saviezza ha bisogno di ragione, e la ragione ha bisogno di tempo. I pregiudizi,
gl’errori, i vizi che nella fantasia de' popoli vanno e vengono come le onde
del nostro Jonio, riempi rebbero sempre di nuova arena quel bacino, che tu vuoi
scavare a poco a poco per formarne un porto. È necessità piantare con mano
potente una diga, che freni la violenza delle onde sempre mobili. Prima di
avvezzare il popolo a ragionare, convien comandargli di credere. E, per
convincerlo che il vero sia quello che tu gli dici, convien per suadergli,
prima, che non possa essere vero quello che tu non dici. Non cerchiamo l'uomo
che abbia detto più verità, ma quello che ha persuase verità più utili. E, se
talora la necessità ha mossi i grandi uomini ad illudere il popolo, cerchiamo
solo se l'hanno utilmente illuso. Sono queste conclusioni che già sono
implicite nel saggio storico, ma riescono sempre interessanti, sia per il loro
intrinseco valore, sia per la forma con la quale l'autore ce le prospetta.
Questa educazione che mira a far sentire l'interesse comune alla virtù, e
quindi a radicarla in eterno, deve precedere la stessa attività legislativa, se
non si vuole che essa cada nel vuoto. Quando tu avrai incise le leggi della tua
città sulle tavole di bronzo, nulla potrai dir di aver fatto, se non avrai
anche scolpita la virtù ne' cuori de' suoi cittadini. La legge e la costume
sono i principali oggetti di tutta la scienza politica. La prima risponde
all'ordine eterno che è nelle cose, sempre perciò buono e vero; i se condi
invece presentano estreme varietà, e, nella maggior parte dei casi, ci si presentano
anzi che come correttivo delle prime, come deviazione da esse; onde coloro, che
traggono da una corrotta natura de' popoli le norme obiettive del vivere,
invece di evitare il male, spesso lo sancisce, e la sua opera pedagogica manca.
La legge è sempre una, perchè la natura dell'intelligenza è immutabile.
Mutabile è la natura della materia, di cui gli uomini sono in gran parte
composti; e quindi è che il costume inclina sempre ad allontanarsi dalla legge.
È necessità, dunque, conoscere del pari la natura sempre mobile di questo fango
di cui siamo formati, onde sapere per quali cagioni i nostri costumi si
allontanano dalle leggi, per quali modi, per quali arti possano riavvicinarsi
alle medesime; il che forma l'oggetto di tutta la scienza dell’educazione. Nn
di quella educazione che le balie soglion dare ai nostri fanciulli, ma di
quell'altra che Licurgo e Minosse seppero dare una volta agli spartani ed ai
cretesi. La ignoranza di una di queste due scienze ha moltiplicati sulla terra
i funesti esempi di quei legisla tori, i quali, volendo tentare riforme di
popoli, hanno o cagionata o accellerata la loro ruina. Imperciocchè, pieni la
mente delle sole idee intellettuali delle leggi ed ignoranti de' costumi de '
popoli, li hanno spinti ad una meta a cui non potevan pervenire, perdendo in
tal modo il buono che poteano ottenere, per avere un ottimo che era follia
sperare; o, conoscendo solo i costumi ed igno rando il vero bene ed il vero
male, hanno sancito i me desimi, ed han fatto come quel nocchiero, il quale,
non conoscendo il porto in cui dovea entrare, e servendo ai venti ed all'onde,
ha rotto miseramente il suo legno tra gli scogli. La legge però resterà sempre un astratto, se
gl’uomini non ne intenderanno la sua necessarietà e, quel che più conta, la sua
utilità. È d'uopo a ciò che essa sia accom pagnata non solo da pene, onde possa
con efficacia di storre gli animi dai vizî, ma eziandio da premi, onde possa
allettare alla virtù. Occorre parlare agli uomini un lin guaggio utilitario ed
edonistico, se si vuole essere seguiti da essi. E questa scienza, che si occupa
dei premî e delle pene, è difficilissima, perchè inutili sono senza premî e
pene le leggi, e arduo è calcolare l'adeguato rapporto so pra tutto delle pene
con i costumi dei popoli. Il crimi nalista perciò deve studiare non tanto i
rapporti giuri dici, di per sé astratti, ma i soggetti di essi rapporti, entità
concrete e viventi, e rispetto a questi porsi piut tosto in veste d’educatore,
anzi che di carceriere, e peg gio di boia. « La scienza delle pene e de' premî
» dice C. con perfetta sicurezza « appartiene alla pubblica educazione. La
legge, date alla città, hanno necessità di uomini atti ad eseguirle, che
veglino alla loro esecuzione. Le leggi, ho detto, sono nell'ordine eterno delle
cose, onde la filosofia a lungo le ha ritenute provenienti dalla divi nità.
Perciò il primo dovere degli esecutori è di comandare ne' limiti di esse, sovra
la loro base, poichè solo così si adempie l'universa volontà di Dio, o meglio,
s'attua l'ar monia immanente nelle cose. Ora, ordinate le leggi di una città,
per qual modo ritroveremo noi gli uomini degni di eseguirle? Questa èla parte
più difficile della scienza della legislazione: perchè, da una parte, le buone
leggi senza il buon governo sono inutili; e, dall'altra, sulla natura del
migliore de’governi gli uomini son più discordi che su quella delle buone
leggi. Anche questo secondo problema è di natura spirituale e pedagogica: la
preparazione della classe dirigente, la sua natura, ecc. non possono non
rientrare in quella scienza, di cui abbiamo visto i caratteri e le forme. In
quanto al problema subordinato se sia da accogliere il governo di un solo, di
pochi, o di molti; il governo ereditario o l'elettivo; e tra quest'ultimo
quello regolato dalla nascita, dagli averi, dalla sorte, questo è un pro blema
essenzialmente relativo e che del resto abbiamo già storicamente esaminato in
altra parte di questo la voro. La risoluzione è offerta da C. in poche parole
che giova riportare. « Noi diremo il miglior de' governi esser quello che non è
affidato ad uno solo, perchè un solo può aver delle debolezze; non a tutti,
perchè tra tutti il maggior numero è di stolti; ma a pochi, perchè pochi sempre
sono gli ottimi. E questi pochi avranno obbligo di render ragione delle opere
loro, onde la spe ranza dell'impunità non li spinga o ad obbliare per
negligenza le leggi o a conculcarle per ambizione; e perciò divideremo il
pubblico potere in modo che le diverse parti del medesimo si temperino e
bilancino a vicenda, e, dando a ciascuna classe di cittadini quella parte a cui
pare per natura più atta, riuniremo i beni del governo di uno solo, di pochi e
di tutti. Ma piuttosto altre considerazioni occorre fare, che ci riportano ad
un punto troppo caro al Cuoco perchè noi possiamo dimenticarcelo: le
considerazioni intorno alla religione. Abbiamo già visto i rapporti tra
autorità reli giosa ed autorità statale, il posto che la religione deve
occupare nello Stato, e lo abbiamo visto da un punto essenzialmente storico,
cioè in rapporto ai tempi del mo lisano: ora dobbiamo esaminare lo stesso
problema da un diverso punto, osservando quale posto può occupare la religione
nella formazione spirituale dei popoli. La religione è un fatto spirituale dal
quale non si può prescindere. « Quindi è che erran egualmente e coloro i quali
credon poter tutto ottenere colle sole leggi civili, e coloro che credono poter
colla religione e coi costumi supplire alle medesime. Questi renderanno le vite
dei cittadini e le loro sostanze dubbie, incerte; quelli rende ranno vacillante
lo stato dell'intera città. È necessità che vi sieno egualmente costumi,
religione e leggi: uno che manchi, la città, o presto o tardi, ruina. Il
bisogno della religione per C. non si basa tanto su ragioni ideali quanto su
ragioni pratiche. Lo Stato, che assorbe in sè la religione, s'eleva agli occhi
de'singoli e acquista maggiore rispetto. Nè è a dire che esso con ciò menomi la
religione, in quanto vita dello spirito, poi che esso assorbe quel che può
assorbire, infine il lato estrinseco e mondano della religione, lasciando
intatto il dommatico. I paesi, in cui i patrizi conservano autorità, sono
quelli in cui essi esercitano il sacerdozio, e in questi paesi la religione può
moltissimo sui costumi. « E forse queste due cose [ religione e costumi, stato
e chiesa) sono naturalmente inseparabili tra loro; perchè nè mai religione emen
derà utilmente i costumi se non sarà dipendente dal go verno; nè mai religione,
che non emendi i costumi e non ispiri l'amor della patria, potrà esser utile
allo stato italiano. Ora concepite in questa maniera le due classi dei ricchi e
dei poveri, dei savi e degli stolti, C. riguarda la vita pubblica come una loro
armonizzazione continua, in una evoluzione ininterrotta. Ricco non vuol dire a
priori savio, ma è certo che il ricco, coeteris paribus, può pro curarsi
un'educazione superiore, che il povero non può procacciarsi che in casi
eccezionali, onde quasi sempre, nella sua indigenza, resterà ignorante e spesso
stolto. L'opposizione tra savi e stolti si può in linea generalis sima
presentare come opposizione tra patrizi e plebei, op posizione delucidata anche
dal fatto che i patrizi, cioè coloro che nelle epoche primitive s'affermano
negli Stati e perpetuano la loro posizione dirigente per eredità di sangue e di
censo, sono, per lunga consuetudine e pratica pubblica, i più atti al
reggimento civile, mentre i plebei, gente nova, spesso portata su da súbiti
guadagni, sono di solito inesperti e fiacchi, perchè ignari del nuovo go verno
della cosa statale. Il segreto della varia vita delle città è nella saggia ar
monia di queste due forze, l'esperienza matura dei patres e la giovinezza
audace delle classi nuove. Quelle nelle quali i primi furono troppo fieri
difensori dei loro diritti lan guirono: i patres non vollero essere giusti,
preferirono es sere i più forti, onde fu mestieri che divenissero tirannici ed
oppressori: conservarono i loro privilegi, ma il prezzo di questi privilegi fu
la debolezza dello Stato, che al primo urto divenne preda dell' inimico. Quelle
altre, in cui la plebe per atto rivoluzionario acquisì d'un tratto i suoi
diritti, ebbero sempre costituzioni ispirate più dalla vendetta che dalla
sapienza, e poterono durare, per lo più, breve tempo, per turbolenze e
dissensioni interne. Ben diversa è la vita degli Stati, ove si giunge ad una
reciproca graduale integrazione de' due opposti in una vitale sintesi. È nell'ordine
eterno delle cose che « le idee non possano mai retrocedere », ed hanno vita
felice soltanto « quelle città nelle quali e la plebe ed i grandi vengono tra
loro ad eque transazioni. Ma pur tuttavia C.. concepisce la lotta di classe non
solo come un utile spediente, purché mantenuta ne' limiti della legge per
giungere ad un buono e durevole reggimento politico, ma come necessità di vita:
e qui è un punto fermo della sua dottrina politica, che nel suo saggio storico
non appare, e che nel ‘romanzo’, “Platone in Italia,” si rivela nella sua
luminosa chiarezza. Or vedi tu questa lotta eterna tra gli ottimati e la plebe,
tra i ricchi ed i poveri? In essa sta la vita non solo di Roma, di Atene, di
Sparta, ma di tutte le città. Ove essa non è, ivi non è vita: ivi un giogo di
ferro impo sto al cittadino ha estinte tutte le passioni dell'uomo e, con esse,
il germe di tutte le virtù, lo stimolo a tutte le più grandi imprese. Al
cospetto del gran re, nessun uomo emula più l'altro: e che invidierebbe, se son
tutti nulla? Quanto dura la vera vita di una città? Tanto quanto dura la
disputa. Tutti popoli hanno un periodo di vita certo e quasi diresti fatale, il
quale incomincia dall'estrema barbarie, cioè dall'estrema ignoranza ed op
pressione, e finisce nell'estrema licenza di ordini, di co stumi, di idee.
Nella prima età i padri han tutto, sanno tutto, fanno tutto, posseggon tutto.
Se le cose si rima nessero sempre così, la città sarebbe sempre barbara, cioè
sempre fanciulla. È necessario che si ceda alla plebe, poco a poco, ed in modo
che non se le dia ne meno nè più di quello che le bisogna: l'uno e l'altro ec
cesso porta seco o pericolosa sedizione o languore più funesto della sedizione
istessa. È necessario che il popolo prosperi sempre e che abbia sempre nuovi
bisogni, per chè questo è il segno più certo della sua prosperità. Guai a
quella città in cui il popolo non ha nulla ! Ma due volte ma guai a
quell'altra, in cui, non avendo nulla, nulla chiede ! È segno che la miseria
gli abbia tolto non solo, come dice Omero, la metà dell'anima, ma anche
l'ultimo spirito di vita che ci rimane nelle afflizioni, e che consiste nel la
gnarsi. È necessario però che il popolo e pretenda con modestia, e riceva con
gratitudine, e non cessi mai di sperare. Da queste considerazioni il molisano
trae una impor tante conclusione. Se la vita è molteplicità, ma molte plicità
non inorganizzata, bensì tendente ad unità, la molteplicità è pur necessaria
per attingere quella diffe renziazione di funzioni, il cui convergere forma la
felicità dello stato italiano. La vita di questo perciò è varietà, e non può
essere diversamente: l'uguaglianza assoluta è un'u topia, anzi un'utopia
dannosa. « Vi saranno sempre pa trizi e plebei, perchè vi saranno sempre i
pochi ed i molti; pochi ricchi e molti poveri; pochi industriosi e molti
scioperati; pochissimi savi e moltissimi stolti. I partigiani de' primi si
diran sempre patrizi, quelli de'se condi sempre plebei. Allorquando la plebe
avrà tutto il potere pubblico, e i patrizi nulla più avranno a cedere, allora,
« dopo aver eguagliati a poco a poco gli ordini, si vorranno eguagliare anche
gli uomini; dopo aver eguagliati i diritti, si vorrà l'eguaglianza anco dei
beni: e sorgeranno da ciò dispute eterne e pericolose. Eterne, perchè la
ragione delle dispute sussisterà sempre: vi saranno sempre poveri, vi saranno
sempre uomini da poco, i quali pretenderanno e crede ranno di meritar molto.
Pericolose, perchè tali dispute moveranno sempre la parte più numerosa del
popolo: i poveri, gli scioperati, i viziosi, tutti coloro i quali, nulla avendo
che perdere, non ricusan qualunque modo si of fra a guadagnare.... Le assemblee
diventeranno più tu multuose, le decisioni meno prudenti. I cittadini dalle
sedizioni civili passeranno alla guerra. Fra tanti partiti nascerà la necessità
che ciascuno abbia un capo; tra tanti capi uno rimarrà vincitore di tutti. Ed
avrà fine così la lite e la vita della città. Da ciò scaturisce un'altra
conclusione, che è una ri prova di precedenti nostre osservazioni circa la
politica cuochiana: i più adatti al pubblico reggimento non sono nè i ricchi,
pochi e tirannici, nè i poveri, molti e ti rannici in senso inverso dei ricchi,
ma bensì quel ceto medio, che con forme diverse e diversi aspetti, secondo i
vari tempi e la mutevole realtà storica, è nello stato. I migliori ordini
pubblici sono inutili se non vengono affidati ai migliori cittadini. Quelli
sono, in parole ed in fatti, ottimi tra gli ordini, i quali fan sì che la somma
delle cose sia sempre in mano degli uomini ottimi. Ma dove sono gli uomini
ottimi? Essi non son mai per l'ordinario nè tra i massimi, corrotti sempre
dalle ric chezze, nè tra i minimi di una città, avviliti sempre dalla miseria.
Ecco qui ritornare il concetto da noi già esaminato di un governo temperato,
equilibrio di forze opposte, e perciò armonia e giustizia, la quale giustizia
null'altro è se non obiettiva elisione d'ogni antagonismo e d'ogni dissension.
Ove avvien che siavi un ordine scelto, ma nel tempo istesso la facoltà a tutti
d'entrarvi, tostochè per le loro azioni ne sien divenuti degni, ivi tu eviti
gli scogli del l'oligarchia e della democrazia. Il popolo non permetterà che i
grandi, per gelosia di ordine, trascurino il merito; i grandi non soffriranno
che altri si elevi per via di viltà e di corruzione: per opra de’secondi eviterai
quella dissi pazione che ne' tempi di pace dissolve le città popolari; per opra
de' primi eviterai quella viltà per cui le città oligarchiche temono i
pericoli, e quel livore col quale si oppongono ad ogni pensiero nobile ed
ardito, e che vien dal timore dei grandi di dover ricorrere al merito di un
uomo il quale non appartenga al loro numero. Queste città così temperate sono
quelle che fanno più grandi cose delle altre, perchè non vi manca mai nè chi le
pro ponga nè chi le esegua. Soltanto attraverso questa coscienza politica dei
diri genti, attraverso quest'educazione dei poveri, attraverso questa
organizzazione di classi, sarà possibile realizzare quell’unione che è nel
pensiero di C.: fare delle varie stirpi italiche un popolo unico. Come nelle
singole città è possibile un contemperamento di interessi e di volontà singole,
così nella più vasta Italia è possibile un armo nizzamento di stirpi, di genti,
d' ideali diversi. Ma, mentre nelle città il processo d’unità procede dal
l'interno all'esterno, poichè una tirannia imposta estrin secamente è sempre
nociva e deleteria; nell'Italia il processo unitario può essere affrettato
dalla conquista e poi cementato dall'opera pubblica e pedagogica, dalla
religione unica e dalla legge unica. Il primo effetto della filosofia, dice C.,
è quello di avvezzar gli uomini a considerar la conquista non come un mezzo di
distrug gersi, ma di difendersi. E e, aggiungiamo noi, si di fende spesso più
validamente colui, che, essendo forte impone la sua ragion civile, la sua legge
agli altri, e non si assopisce in una pace senza parentesi d'attività belli
gera, assopimento che può diventare anche sonno e poi ancora morte. La
conquista perciò non deve rimanere mera conquista, cioè estrinseca forza, ma
deve conver tirsi in attività pubblica, imporsi alle volontà, plasmarle di sè,
unificarle nel nome d'un superiore verbo, il diritto. Questa, ammonisce C., è
la missione d’un popolo tra i tanti popoli della penisola, che L’ACCADEMIA e
Cleobolo nel loro viaggio incontrano, missione divina, missione il cui
spiegamento d'altra parte è nell'attualità della storia. Certo L’ACCADEMIA e
Cleobolo, nel frammentarismo italico del V secolo, non avrebbero mai potuto
dire quel che C. pone in bocca loro; ma le loro osservazioni, per quanto il
nostro spirito critico le riferisca all'autore del romanzo, non possono non
commoverci, e la commozione è in noi com'è nel molisano. In una prima età,
scrive Platone all'amico Archita, le città vivono pacificamente, e perciò s '
ignorano; ma in un secondo tempo si conoscono, e quindi si fanno guerra, o con
le armi o con le sottigliezze del commercio; ma questa conoscenza e questa
guerra non sono mai distruzione, ma reciproca integrazione: « da questa
vicendevole guerra, sia d'armi, sia d'industria, io veggo un'irresistibile ten
denza di tutte le nazioni a riunirsi; e, siccome ciascuna di esse ama aver le
altre piuttosto serve che amiche..., così veggo che, ad impedire la servitù del
genere umano ed a conservar più lungamente la pace sulla terra, il miglior
consiglio è sempre quello di accrescer coll' unione di molte città il numero
de' cittadini, prima e principal parte di quella forza, contro la quale la
virtù può bene insegnare a morire, ma la sola cieca e non calcolabile fortuna
può dar talora la vittoria ». « Non pare a te » continua il filosofo antico
caldo ne' suoi accenti e attraverso lui il magnanimo C. « che la natura, colle
diramazioni de' monti e de' fiumi, col circolo de' mari, colla varietà delle
produzioni del suolo e della temperatura de'cieli, da cui dipende la diversità
de' nostri bisogni e de' costumi nostri, e colla varia mo dificazione degli
accenti di quel linguaggio primitivo ed unico che gli uomini hanno appreso
dalla veemenza de gli affetti interni e dall'imitazione de’vari suoni esterni;
non ti pare, amico, ch'essa abbia in tal modo detto agli abitanti di ciascuna
regione: — Voi siete tutti fratelli: voi dovete formare una nazione sola? Da ciò scaturisce la necessità della
conquista come mezzo per affrettare dall'esterno un processo naturale: chi si
assume questa missione, diviene arbitro e stru mento della Provvidenza,
Provvidenza che per C., come del resto per VICO (si veda), è nell'immanenza
della storia, piuttosto che nella celeste trascendenza del divino posto fuori
di noi: questo l'intimo concetto, se pur qualche volta tradito dall'esteriorità
delle parole e dei simboli, nonchè da una certa oscillanza di pensiero. In Italia,
intuisce L’ACCADEMIA, un solo popolo sarà di ciò capace, il ROMANO, che sovra
la fiera rudezza dei san niti, sovra la imbecillità effeminata dei greci del
mez zodì, sovra la volubilità dei galli del Nord imporrà la sua legge, il suo
diritto, strumento d’universale civiltà, e che, in un lontano avvenire, venuto
a contatto con i cartaginesi e poi con i greci, non solo li debellerà come
entità politiche, ma solo s'assiderà dominatore del Me diterraneo e del mondo.
Rimarrà un solo popolo dominatore di tutta la terra, innanzi al di cui cospetto
tutto il genere umano tacerà; ed i superbi vincitori, pieni di vizi e di
orgoglio, rivolge ranno nelle proprie viscere il pugnale ancor fumante del
sangue del genere umano; e quando tutte le idee liberali degli uomini saranno
schiacciate ed estinte sotto l'im menso potere che è necessario a dominar
l'universo, e le virtù di tutte le nazioni prive di vicendevole emula zione
rimarranno arrugginite, ed i vizi di un sol popolo e talora di un sol uomo
saran divenuti, per la comune schiavitù, vizi comuni, sarà consumata allora la
vendetta degli dèi, i quali si servono delle grandi crisi della natura per
distruggere, e dell'ignoranza istessa degli uomini per emendare la loro
indocile razza. Grande sogno questo, in cui vibra tutto l'animo nostro in uno
con quello del Cuoco, ma che noi critici non dob biamo lasciare nel passato
inerte e perciò morto, come quello che non ritornerà più, ma trasportare nel
presente del C., cioè nel presente, che noi vediamo e pensiamo tale, quando in
un' Italia scissa e menomata da straniere superfetazioni, sia pur benigne come
quelle napoleoniche, l'unità era davvero un sogno; nel nostro presente, nella
nostra vita, che non è stasi, ma divenire, e perciò slancio, espansione,
conquista prima di noi stessi, della nostra maggiore unità, e poi del vario
mondo dei commerci e delle genti, che noi non vogliamo lasciare fuori di noi,
inerte grandezza da contemplare taciti am miranti, ma rendere nostre, per la nostra
civiltà, che è civiltà latina. Considerato da questo punto di vista altamente
poli tico, prescindendo da ogni considerazione artistica o filo sofica, il
Platone in Italia riacquista una grandissima importanza, « riacquista » come
ben dice il Gentile « tutto il suo valore, ed è la più grande battaglia,
combattuta dal Cuoco, per il suo ideale della formazione dello spirito pubblico
italiano. È l'animato ricordo d'un tempo che fu e d'una grandezza, che sta a
noi rinnovel lare, in cui tutta l'Italia si pose maestra di civiltà tra i
popoli, che da essa appresero le cose belle della vita, la poesia, il teatro,
la musica, la scultura, la pittura, che da essa intesero i primi precetti del
vivere e le norme de ' savi reggimenti; in cui l'Italia ebbe un'egemonia indi
scussa, che nella storia non si ripresenterà più se non forse nel Rinascimento:
ma, oltre che ricordo, è nello stesso tempo vivo presente, perchè molte
considerazioni che si fanno riferendosi all'Impero etrusco, alla Magna Grecia,
a Roma calzano nella loro semplicità, s'adattano alla nostra travagliata vita
moderna: ciò fa del Platone un libro, la cui importanza trascende la sua
deficienza artistica, il suo ibridismo filosofico. Perciò un solo raffronto
legittimo, quello tra il Platone e un altro grande libro, il Primato morale e
civile degli italiani, come quelli il cui obietto è uno solo, e la materia
alfine è pur essa comune: un'alta nazionale pedagogia politica. Questo
parallelismo fu prima accennato dal Gentile, ma poi sbozzato da un francese,
acuto studioso del Cuoco, al quale nel nostro studio abbiamo frequentemente
cennato, Hazard. ac GENTILE, Studi vichiani, GENTILE, Studi vichiani, HAZARD.
Anche ROMANO, raffronta C. e Gioberti e dice che il “Platone in Italia” è la
preparazione del primato morale e civile degli Italiani. Il principio genetico
dei due libri è lo stesso: una na zione non può esplicare le forze vere, che
sono in essa in potenza, nè può di esse usare, se non ha la coscienza d'avere
queste forze, o almeno la coscienza di poterle sviluppare, e quindi dispiegare
nella storia: perciò bi sogna nutrire un orgoglio nazionale, che, basato sulla
concreta realtà, è legittimo, non arbitrario. Ma, d'altra parte, laddove il primato
giobertiano, pur riannodan dosi, attraverso le glorie romane, alle remote genti
italo pelasgiche, trova il suo asse, il suo fulcro nel Papato, espressione di
purità religiosa e d'originaria sapienza, e si rinnoverà, se il presente sarà a
sufficienza legato al passato, cioè alla tradizione medievale- cattolica; C.,
pur mantenendo ferma la remotissima storia italo -pela sgica ed estrusca e poi
ancora romana, pur riconoscendo l'alta missione civilizzatrice della Chiesa nel
Medio Evo, questo primato vuol rinnovellare solo nel gioco delle li bere forze,
espresse da quella tragica crisi che è la rivo luzione francese ed italiana,
nel loro sviluppo, e nello spiegamento della loro maggior coscienza; nello
Stato laico, insomma, che afferrni sì la religione, come luce alla plebi, ma
affermi pure una sua intima naturale ra gione, che con la religione non ha
nulla a che fare. E in quest'accettamento delle nuove forze popolaresche, alle
quali bisogna parlare, perchè la volontà di nazione sia realmente nazione, e la
volontà di Stato realmente Stato, C. si lega ad un altro grande, MAZZINI (si
veda), tanto diverso da GIOBERTI (si veda), ma pur con questi entusiasta caldo
nella visione del futuro popolo dell'Italia re denta. L'educazione nazionale
nel pensiero cuochiano. Il popolo e la scuola. Vincenzo Cuoco. Cuoco. Keywords:
ITALIA, ITALO. Refs.: L. Speranza, “Grice e Cuoco” – The Swimming-Pool Library.
Cuoco.
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