Grice e Casotti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del volere – filosofia fascista – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Casotti; of course, he reminds me of my master at Clifton! Casotti is into the teaching of philosophy: did Socrates teach Alcibiade or did Alcibiade learn from Socrate? On top, Casotti tried to systematise WHAT you have to teach: his first volume is telling: ‘l’essere’, which of course reminds me of my explorations on the multiplicity of being in Aristtotle – a human being in an ‘essere,’ but my tutee A. G. N. Flew would scorn philosophers who use a verb with an article “l’essere” – or a pronoun with an an emphatic word meaning ‘same’ – “the self!” Figlio di Enrico e Virginia Sciello. Studia s Pisa sotto Amendola e Gentile. Con quest'ultimo si laurea con “La concezione idealistica della storia” in cui esprimeva la propria entusiasta adesione alla dottrina gentiliana dell'attualismo. Dopo aver aderito all'appello Per un Fascio di Educazione Nazionale in vista di un rinnovamento della scuola italiana, indirizza il proprio percorso professionale in direzione della pedagogia, orientata alle teorie idealiste di Gentile, da lui riprese e rielaborate anche nelle prime esperienze a Pisa e Torino. Collabora nella redazione delle riviste Levana e La nuova scuola Italiana. Motivazioni personali, unite all'esigenza di approccio più realista all'educazione, lo portano il ad allontanarsi in maniera piuttosto repentina dalle posizioni idealistiche precedenti e ad aderire all’aquinismo. Insegna a Milano, sviluppando una filosofia ispirata a Lambruschini, Rosmini, e Bosco, basata sulla “perennis philosophia” dell'aristotelismo aquinista. Egli avversa da un lato l'attivismo e il naturalismo, recuperando l'importanza della «lezione» e della «disciplina», in una prospettiva di insegnamento rivolta all'«imitazione di un ideale regulativo». Dall'altro reinterpreta il rapporto tutore/tutee nell'ottica di Alcibiade-Socrate. Contesta la pretesa dell'attualismo gentiliano di risolverne il dualismo (tutore-tutee) in unità, concependolo piuttosto come con-divisione di uno stesso cammino di crescita, incentrato su una rivelazione, nel quale la filosofia è vista come un'arte, che consente il passaggio dalla potenza all'atto. Fonda la rivista Supplemento pedagogico a Scuola italiana moderna, rinominata in Pedagogia e vita. Pubblicò in due volumi una sintesi della sua filosofia, che vede la filosofia contraddistinta, «come arte» e “come disciplina” -- sia da un aspetto etico, finalizzato a un ideale, sia da uno speculativo basato sulla sperimentazione del metodo più oppurtuno da seguire e adattare alle difficoltà del contesto. Altre opere: “La concezione idealistica della storia” (Firenze, Vallecchi); Introduzione alla pedagogia, Firenze, Vallecchi, La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione, Firenze, Vallecchi, Lettere sulla religione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia di Lambruschini, Milano, Vita e Pensiero); Il moralismo di Rousseau. Studio sulle idee pedagogiche e morali di Rousseau, Milano, Vita e Pensiero, Maestro e scolaro. Saggio di filosofia dell'educazione, Milano, Vita e Pensiero, La pedagogia d'Aquino. Saggi di pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Educazione cattolica, Brescia, La Scuola, Scuola attiva, Brescia, La Scuola, La pedagogia di Rosmini e le sue basi filosofiche, Milano, Vita e Pensiero, Didattica, Brescia, La Scuola, Pedagogia generale, Brescia, La Scuola, Esiste la pedagogia?, Brescia, La Scuola, La pedagogia del Vangelo, Brescia, La Scuola, Educare la volontà, Brescia, La Scuola, Il metodo educativo di Don Bosco, Brescia, La Scuola, L'arte e l'educazione all'arte, Brescia, La Scuola, Memorie e testimonianze Brescia, La Scuola. Franco Cambi, Mario Casotti, su treccani. Appello per un "Fascio di educazione Nazionale", su «L'educazione nazionale», Franco V. Lombardi, Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti. Dall'Idealismo alla Neoscolastica, Ugo Spirito, L'idealismo italiano e i suoi critici, Firenze, Le Monnier, Maria Rossi, La pedagogia italiana contemporanea: il pensiero di Casotti, in «Supplemento pedagogico», Filosofia e pedagogia nel pensiero di Casotti, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e sulle professioni», Il rapporto maestro-allievo nel confronto tra C. e Gentile, «CQIA rivistaFormazione, lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. Filosofia e pedagogia nel pensiero di C., «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», Vita e Pensiero, Un pedagogista troppo presto dimenticato. Casotti e l'arte educativa, «Osservatorio sul mercato del lavoro e sulle professioni», Il rapporto maestro-allievo nel confronto tra Casotti e Gentile, «CQIA rivistaFormazione, lavoro, persona», Dizionario biografico degli italiani. 40 L’Appello per un Fascio di Educazione Nazionale, in « L ' Educazione Nazionale », L ' Idea Nazionale. vedere C., Dopo il Congresso Nazionale, in « La Nostra Scuola », 1920, nn. 1 - È costituito un Fascio di educazione nazionale fra gli insegnanti di ogni ordine e grado e fra i cultori dei problemi concernenti la... Sullo stesso fascicolo rispondeva a Pellizzi Mario Casotti, il quale riconosceva l'opportunità di abbandonare... Casotti Mario, La nuova pedagogia e i compiti dell'educazione moderna, Vallecchi, Firenze, 1923. Mazzoni Elda, L ' idealismo... GENTILE Il Fascismo al governo della Scuola, Sandron, Palermo, Casotti makes a dramatic break with actualism early in his career. A tutee of Gentile, he nevertheless underwent a conversion in the 1920's and was called to teach pedagogy at Milan in 1924. There he worked with Neo-Thomist scholars and produced works on education with a distinct orientation. He is particularly remembered as the founder and director of the review Pedagogia e vita, a journal that took on new importance in the postwar years. A spiritualist who came out of the idealist tradition, he is considered a pioneer in neospiritualist pedagogy, taught in Pisa and Turin; he underwent a conversion, and was called to the chair of pedagogy a Milan. He produced critiques of idealism from a neoscholastic point of view. Eventually, he began a systematic study of divided into three parts: teleology (the aim or end); anthropology (study of the philosophical tutee); and methodology. In his "anthropological" writings, he defends personalism against idealism and materialism. He was a contributor to and editor of the education journal Scuola italiana moderna. He encouraged systematic child study in a way that later became more widespread among Italian philosophers. AQUINO Saggi di filosofia generale INDICE Prefazione, La Pedagogia di Aquino, L'educazione naturale, L'anima della pedagogia, Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie, Pedagogia cattolica, L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementary. Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la filosofia in Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non fuggevolmente il problema della filosofia, i filosofi più noti o non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo di noi. Ecco perché Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e, insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo - il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire, archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma alla maniera d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine «autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione», che conviene solo a Dio.Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital bergsoniano. La filosofia d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore Angelico AQUINO BRESCIA, Editrice “La Scuola”, La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino L'Educazione naturale 93 L'Anima della pedagogia Filosofia, Religione e " Filosofie " nelle Scuole Medie Pedagogia cattolica 195 L'Insegnamento religioso nelle Scuole elementari Non c'è nulla al mondo di tanto noioso come un autore che si ripete: pure non osiamo presentare ai benevoli lettori questa raccolta di saggi, senza richiamare, sia pur nella maniera più breve possibile, un concetto fondamentale da noi svolto in altri nostri lavori. Questo: che la pedagogia cattolica in Italia, e anche in un periodo indubbiamente per lei rigoglioso come fu il secolo XIX, ha sofferto, e soffre tuttavia, per aver lasciato cadere, o non aver saputo riprendere con sufficiente energia il filo di quella grandissima tradizione dottrinale che doveva ricongiungerla alla Scolastica, e, in essa, al più grande maestro: San Tommaso d'Aquino. Altre volte vi abbiamo accennato, ed ora non ripeteremo le ragioni per cui, mentre i maggiori scolastici moderni non trattavano se non fuggevolmente il problema dell'educazione, i pedagogisti cattolici più noti o non assurgevano a un concetto filosofico della pedagogia, o, in ogni caso, non si mostravano abbastanza agguerriti sul terreno della filosofia scolastica. E' cessato oggi, questo stato di cose? Non pretendiamo dare adesso un frettoloso giudizio. Però, salta, per così dire, agli occhi di qualunque imparziale osservatore, che la pedagogia cattolica italiana contemporanea, non certo povera, come qualcuno ama credere, di nomi e di opere, è lungi tuttavia dall'esser ricca come si desidererebbe, di trattazioni aventi un carattere rigidamente filosofico e speculativo. Inutile stare a discutere e a cercare, più o meno sottilmente, le cause di questo fatto. Trattandosi d'una realtà contemporanea, che si svolge sotto i nostri occhi, piuttosto che discutere, è meglio fare o, almeno, ingegnarsi di fare, è anche più simpatico e toglie a un modesto autore la noiosa responsabilità d'andar criticando e censurando a destra e sinistra. Fare: non certo perché gli altri ci debbano prendere a modello, anzi perché, dissodato alla meglio il campo, con minor fatica e maggior profitto altri lo possano lavorare dopo di noi. Ecco perché San Tommaso d'Aquino è il soggetto del primo saggio qui raccolto e, insieme, il titolo del volume, e San Tommaso d'Aquino è ancora - possiamo dirlo - il pensiero dominante che circola per tutti gli altri, e li stringe in una intima unità la quale non può sfuggire allo sguardo dell'attento lettore. La pedagogia di S. Tommaso non è stata studiata da noi con intento, vorremmo dire, archeologico, quasi per scoprire e mettere in mostra un degno monumento d'un passato glorioso, bensì per mostrare i numerosi, attualissimi problemi che un pensiero, eternamente giovane, dell'immortale giovinezza della verità, suscita quando lo si ripensa in relazione ai nuovi bisogni dello spirito moderno. Or non è molto, giudicando il movimento contemporaneo della ècole active, qualche studioso asseriva che i più sani principi onde va tanto orgogliosa l'educazione moderna, si trovano già in San Tommaso. Affermazione verissima, che però va subito completata con quest'altra: ciò che di più vacuo e superficiale v'ha nelle teorie pedagogiche recentissime, quel continuo riempirsi la bocca di parole vane ed imprecise, quel parlare a sproposito di autoeducazione, di libertà, di «creazione», quell’ingenuo ottimismo naturalistico, che fa dell'alunno e del bambino un mezzo Dio (naturalismo denunciato testé nella Enciclica Pontificia sull'educazione) trovano già in San Tommaso il critico più deciso e radicale che si possa desiderare. E la sua critica al concetto stesso, oggi tanto in voga, di «autoeducazione», va meditata, seriamente, se non si vuol correre il rischio, attratti dalla novità, di accettare addirittura, come cattoliche, tutte le teorie della école active! Con ciò mi sembra anche di avere amichevolmente risposto al Lombardo-Radice, o, meglio, all'Educazione Nazionale che in poche e benevole parole dedicate al mio libro Maestro e Scolaro, mi annoverava fra gli «attivisti». Sì, "attivista", se così volete: ma alla maniera di S. Tommaso d'Aquino, e non a quella del Ferrière. Sì, con voi se acconsentite a mettere il termine «attività» al posto del termine «autoeducazione», e il termine «spontaneità» al posto del termine «creazione», che conviene solo a Dio. Amico vostro finché studiate, in concreto, i mezzi migliori per garantire, nella scuola, l'effettivo lavoro e la gioiosa collaborazione dello scolaro: nemico, cortese, ma fierissimo, quando quello sforzo gioioso ignora, o, peggio, disprezza, la salutare frusta della mortificazione cristiana, e diventa cosi - uso ancora l'espressione della Enciclica Pontificia - «naturalistico», anche se giustificato da teorie più o meno idealistiche. Amico vostro quando vi preoccupate, giustamente, della educazione religiosa; nemico fierissimo quando gabellate il cristianesimo per un tetro «moralismo», e gli volete sostituire un dio fantasma, inafferrabile, che il Ferrière identifica addirittura, o poco ci manca, con l'élan vital bergsoniano. La pedagogia di San Tommaso d'Aquino! Quando penso alle immancabili smorfie colle quali certi critici accoglieranno questa frase, ch'è tutto un programma di rinnovamento e di risanamento, ho un rimpianto, sì, ma non quello che i suddetti critici s'aspetterebbero. Rimpiango di non essermi, se mai, ispirato abbastanza, in questi saggi che pur vogliono essere un modesto tentativo di pedagogia cristiana, al pensiero del grande Aquinate; rimpiango che il mio discepolato verso un tanto maestro, non abbia potuto riuscire, qua e là, più fedele e generoso. E se qualcosa può consolarmi, è la certezza che la mia fatica non sarà stata vana, se risparmierà agli altri lunghe e faticose ricerche per arrivare solo in fine a ciò che avrebbe dovuto essere il punto di partenza: una conoscenza esatta delle teorie elaborate, intorno all'educazione, dal Dottore Angelico. Da quelle teorie, anche così come le abbiamo prese e tentato di rivivere, emana già una luce che non può essere, come i nostri avversari vorrebbero, la luce scialba d'un crepuscolo che preceda la notte d'un passato morente, ma è la luce vivida dell'alba, che precede il giorno nuovo pieno di speranze e di promesse. A coloro che nel riprendere il pensiero di S. Tommaso e, in genere, della scolastica, vedono un pericolo per la libertà e l'originalità della ricerca scientifica s'è già risposto, e nel nostro volume Maestro e Scolaro e, qui, nel saggio Religione, filosofia e « filosofie » nelle scuole medie. Ora vogliamo ricordare, per finire, che non certo la pedagogia cattolica si può accusare di scarsa originalità. L'alba del giorno nuovo illumina delle figure che giganteggiano già nella storia della moderna educazione: basta menzionare Don Bosco, la cui grandezza e fecondità, anche come teorico e pedagogista, si comincia appena adesso a scoprire. Le numerose opere della pedagogia cristiana aspettano solo chi le studi, le illustri, le faccia conoscere al pubblico studioso, con quello stesso amore che altri mettono nell'illustrare le più piccole iniziative delle scuole nuove o rinnovate. Anche questa volta i figli del mondo sono stati più abili ed intelligenti dei figli di Dio. Ma non sarà sempre così. Cortemaggiore (Piacenza) Convento di S. Francesco, 4 Gennaio 1931, nella Festa del SS. Nome di Gesù. NOTA. I saggi che si raccolgono in questo volume furono tutti pubblicati, a vario intervallo di tempo, dal 1925 in poi sulla Rivista Scuola Italiana Moderna. Eccezion fatta pei seguenti: L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani, Firenze 1927, e apparsa negli Atti); L'anima della pedagogia (Rivista di filosofia neoscolastica, 1925) e Pedagogia cattolica (Rivista Levana, Firenze 1923). La Pedagogia di S. Tommaso d'Aquino Esiste una pedagogia di S. Tommaso d'Aquino? E si può, senza temer di cadere nelle solite esagerazioni che ci fanno attribuire troppo spesso ai grandi uomini del nostro cuore una sapienza sterminata ed estesa un po' a tutto l’universo scibile umano, asserire che il dottore angelico abbia segnato, anche nel campo delle teorie sull' educazione, l'impronta di quell'altissimo ingegno che, stringendo insieme cielo e terra costruiva un edificio di dottrina al quale le età venture avrebbero guardato sempre con commossa riverenza, quasi a testimonianza imperitura di quel che possa la scienza quando si congiunge colla fede? Fortunatamente, la risposta a tale domanda non ammette dubbi di sorta. Ché nella vastissima opera dell'Aquinate non solo la pedagogia c'è, in quanto dappertutto vi si possono cogliere spunti di teorie sull'educazione, in ordine a tutta la concezione dell'uomo e della realtà e al fine della vita, ma c'è anche come problema esplicitamente discusso e risolto con tale rigore scientifico e con tali esigenze critiche che dovranno passare dei secoli, nella storia della pedagogia, prima che sia possibile riprenderlo, quello stesso problema, colle medesime esigenze. Il problema, infatti, che San Tommaso affronta nel suo De magistro è un problema di per sé così delicato e difficile che solo rare volte, e in periodi di cultura filosofica molto diffusa, i pedagogisti anche più valenti riescono a proporselo con tutta la chiarezza desiderabile. E questo perché i pedagogisti sono premuti di solito dalla necessità di risolvere altre questioni più particolari e delimitate che loro sembrano e forse, sotto un certo aspetto, anche sono più urgenti, come quelle che riguardano l'organizzazione pratica dell'educazione, i metodi e via dicendo. Tutte questioni che non si possono, certo, risolvere senza far capo a un concetto filosofico dell' educazione, ma che spesso permettono, questo concetto, di sottintenderlo e di presupporlo, o di discuterlo, se mai, solo a proposito di quei particolari problemi pedagogici e didattici che si stanno trattando, piuttosto che di stabilirlo e discuterlo direttamente, per se stesso. Ciò spiega come mai le più celebri opere che la storia della pedagogia ricorda, dalla Didattica magna del Comenius ai Pensieri sull'educazione del Locke, all'Emilio del Rousseau, alla Education Progressive della Necker de Saussure, efficacissime nel descrivere e nell'analizzare in concreto il processo educativo, riescano tutte quanto mai deboli ed inefficaci nello stabilire, con sicuro metodo, una definizione dell'educazione che giunga ad appagarci sotto l'aspetto filosofico. Siamo, quasi, costretti a riconoscere che, se la pedagogia e la didattica sono antichissime, la filosofia dell'educazione è ancora bambina: ed era, forse, necessaria la rude scossa data dall' idealismo italiano contemporaneo col suo paradosso, gravido di verità, della identificazione completa tra filosofia e pedagogia, perché le indagini di filosofia dell'educazione riacquistassero, nella cultura pedagogica odierna, quel posto di prim'ordine che debbono avere. Questo breve preambolo occorreva per fare intendere che il problema pedagogico, così come San Tommaso lo annette, potremmo dire, alla filosofia scolastica, sotto il classico titolo «De magistro», è appunto il maggior problema della pedagogia, trattato con tutto quel rigore scientifico e filosofico che potrebbe desiderare, oggi, uno studioso. Non si tratta neppure della domanda: «che cosa è l'educazione?» domanda alla quale, in fondo, è dato rispondere anche restando sul terreno sperimentale, ma dell'altra e ben più difficile domanda: «come è possibile l'educazione?». Che l'educazione avvenga è un fatto che si può analizzare e descrivere sotto i più diversi aspetti, ma poi la filosofia deve sapere che cosa valga questo atto e quali siano le ragioni che lo spiegano e che lo rendono intelligibile. Ora, per arrivare a porre il problema così, bisogna cominciare dal compiere una certa astrazione (non spaventi questa parola oggi tanto malfamata) sui dati del problema educativo quale, a prima vista, ci è offerto dall'esperienza, bisogna, cioè, prescindere per un momento da tutte quelle particolari circostanze che rendono così interessanti e suggestivi, nella pratica, i problemi didattici, e avere il coraggio di ridurre l'educazione stessa alla sua più semplice espressione, a ciò che di veramente essenziale e caratteristico v'ha nel processo educativo, a ciò da cui non è possibile, davvero, prescindere, senza annullare o sfigurare gravemente l'educazione medesima. Il che viene poi ad essere un puro e semplice rapporto fra un soggetto che insegna ed un soggetto che impara, fra un soggetto che possiede determinate cognizioni od attitudini, e un soggetto che da lui riceve queste stesse cognizioni o attitudini che prima non possedeva: fra il maestro, cioè, e lo scolaro. Ebbene, domandare come è possibile l'educazione non significa altro che domandare come è possibile questo rapporto fra due soggetti pensanti, in virtù del quale l'uno può all'altro trasmettere determinate cognizioni ed attitudini. Ed ecco la cerchia entro la quale si svolge la ricerca del De Magistro di San Tommaso: ricerca che, appunto per questa sua rigorosa impostazione critica, sembra come anticipare i risultati delle più moderne e scaltrite filosofie dell'educazione. Posto così, il problema dell' educazione ha suscitato, si può dire, in ogni tempo, e ogni volta che qualche pensatore l'ha approfondito, alcune serie difficoltà, oggi note a tutti, ma il formulare precisamente le quali è costato alla filosofia dell' educazione uno sforzo non indifferente. Poiché il chiedere soltanto come è possibile che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni ed attitudini sembra implicare, se non addirittura una contraddizione, certo una difficoltà quasi insormontabile, dato che il termine «trasmettere» o «comunicare» o qualsiasi altro termine consimile che si adoperi a definire l'azione del maestro sullo scolaro, non sembra possa riflettere, se non in maniera molto imprecisa e grossolana, ciò ch'è veramente caratteristico del processo educativo. Se si trattasse, infatti, di un oggetto materiale, allora parrebbe a tutti chiarissimo ch'esso potesse comunicarsi, trasmettersi o cambiar sede, come una moneta che passa di mano in mano, ma nell'educazione ciò che si trasmette è essenzialmente un valore ideale e immateriale, come la scienza e la virtù. E questi valori tanto poco si lasciano «trasmettere», nel significato materiale della parola (poiché essi hanno la loro base in un atto interno del pensiero e del soggetto pensante), e un atto di tal genere è tanto impossibile trasportarlo da un soggetto ad un altro soggetto, quanto è impossibile che un soggetto trasmetta ad un altro ciò che costituisce la sua intima personalità, sì che Tizio diventi Caio o Socrate si tramuti in Alcibiade. E allora, al pensatore che sperimenta questa difficoltà, si affaccia spontanea una ipotesi che sembra semplificare nel miglior modo l'intricato problema, troncando alla radice ogni obiezione ed incertezza. Dato che la difficoltà prima nasce dall'aver concepito educatore ed educando come due soggetti distinti, perché non togliere addirittura di mezzo la dualità stessa, e concepire l'educazione come lo svolgimento d'un unico soggetto che, invece di ricevere il sapere dall'esterno, lo sviluppa dall'interno? Teoria antica per lo meno quanto la correlativa difficoltà, poiché ad essa si può ridurre già la maieutica socratica, e perché, fra l'altro, con l'intento di stabilirla su salde basi, Platone costruiva la sua celebre teoria della reminiscenza (mentovata, appunto, nel De Magistro tomistico) e lo schiavo ch'egli immaginava interrogato da Socrate nel Menone aveva proprio il compito di servire a dimostrare, indirettamente, la tesi che l'opera del maestro consiste nello stimolare o nell'aiutare la mente del discepolo perché cerchi, e, cercando, cavi fuori la scienza che ha già in sé, non nel pretender di trasmettere al discepolo una scienza bell'e fatta. Che è poi e in Socrate e in Platone e più tardi in tutta la pedagogia moderna, la dottrina che va per la maggiore, la dottrina dell'autodidattica, o, come anche si dice, dell’autoeducazione: dottrina, cioè, che riduce l'educazione ad autoeducazione, qualunque sia poi la concezione filosofica colla quale pensa di confortare tale riduzione. La teoria dell'autodidattica infatti (e questo è appunto uno dei motivi che hanno più contribuito alla sua diffusione) permette una grande varietà e latitudine di giustificazioni filosofiche, dal misticismo, se così si può chiamarlo, che immagina il sapere infuso da Dio direttamente allo spirito umano e da questo via via scoperto e reso esplicito mediante l'opera dell'educazione, al soggettivismo estremo il quale crede che il pensiero nostro crei liberamente la sua scienza nell'atto stesso del pensarla e non possa perciò ricevere dall' insegnamento e dalla scuola, altro che uno stimolo a tale creazione, o per dir meglio, alla chiara consapevolezza di questa creatività, che costituisce la sua essenza, e della quale non può mai spogliarsi. II Ora, di dottrine che potevano concludere in qualche modo un sistema di autodidattica S. Tommaso ne aveva presenti due. Molto diverse, è vero, per valore e significato, tanto diverse, anzi, quanto può essere diversa una dottrina vera, e vera di una profonda verità, ma incompleta, un errore aperto e tutto contesto di acuti ma inconsistenti sofismi. Basta ricordare che l'uno era la dottrina esposta da Sant'Agostino nel suo De Magistro e l'altro era l'averroismo: quella interpretazione di Aristotele che, movendo dal pensiero del grande stagirita attraverso il commento di Averroè e degli altri commentatori arabi, finiva in un sistema panteistico, mezzo idealista e mezzo naturalista, che sembrava anticipare in pieno medioevo la crisi ideale della quale dovrà poi tanto soffrire il pensiero moderno. Basta, diciamo, ricordare questo per intendere subito il diverso atteggiamento che l'Aquinate doveva prendere verso l'una e verso l'altra delle due dottrine, pur essendo costretto necessariamente a ravvicinarle nel corso di quella discussione dalla quale dovevano limpidamente scaturire i concetti fondamentali della pedagogia tomistica. Il De Magistro di Agostino è a sua volta, non meno del De Magistro tomistico, tenuto conto, si capisce, d'ogni differenza e di tempo e d'ambiente e di mentalità, un modello nel suo genere. Modello d'una ricerca che non si arresta neppure essa, come non si arresterà poi l'indagine di Tommaso, ai particolari problemi della pedagogia e della didattica, ma ascende subito al problema massimo su cui s'appoggia la filosofia dell' educazione. “Come è l'educazione possibile?” S. Agostino, né più né meno d’AQUINO (si veda), incomincia da questa domanda. “Come è possibile, cioè che un soggetto (il maestro) comunichi ad un altro soggetto (lo scolaro) determinate cognizioni?” L'indagine del De Magistro agostiniano prende in esame il mezzo principale e più appariscente, che sembra appunto garantire tale comunicazione tra il maestro e lo scolaro, non meno che tra gli uomini in genere: il linguaggio. Sembra, infatti, che proprio la parola, parlata o scritta, con tutto il corteggio di altre espressioni grafiche, foniche, mimiche ond'è accompagnata, debba essere per eccellenza il veicolo attraverso il quale, se così può dirsi, la scienza passa dal docente al discente; talché chi mette la mano su questo problema ha, di necessità, la strada aperta ad una esauriente critica delle forme nelle quali si costituisce e si svolge normalmente l'espressione didattica. Sennonché la vigorosa e geniale ricerca sul linguaggio perseguita nel De Magistro agostiniano, e alla quale non si può rimproverare altro che, talvolta, di indulgere a qualche sottigliezza eccessiva (spiegabile del resto, col carattere stesso dell'opera che, piuttosto che una esposizione compiuta d'una dottrina vuol essere ed è una magnifica realizzazione di metodo socratico) finisce, chi ben guardi, non solo col dichiarare il linguaggio uno strumento inservibile per la trasmissione della scienza dal maestro allo scolaro, ma anche collo svalutare, volta a volta, tutti gli altri mezzi dei quali il magistero umano si serve per rendere più concreta ed efficace la parola stessa. Sembra, è vero, che il maestro possa, per insegnare allo scolaro, servirsi di cose oltre che di parole, come ha sempre creduto la pedagogia, nei suoi sforzi verso un metodo «intuitivo» od «oggettivo», ma in realtà Agostino adduce contro quella pretesa un argomento molto forte, del quale S. Tommaso farà poi gran conto. Il mostrare una cosa non ci dice, per sé, quale sia l'elemento essenziale e quali gli elementi accidentali della cosa stessa: così se io cammino per mostrare ad altri che sia il camminare, gli spettatori potranno forse prendere per essenza della mia deambulazione l'andatura più lenta o più frettolosa ch'io ho tenuto e credere che il camminare sia, per esempio, l'affrettarsi. E se voglio evitare l'equivoco devo ricorrere alle parole o ad altri segni affini, poiché, effettivamente, anche nel mostrare una cosa debbo servirmi di segni che non sono identici alla cosa stessa, e se, poniamo, per spiegare che cos'è la parete la indico col dito tacendo, il mio dito teso a indicare non è la parete, ma un segno della parete: né più né meno della parola trisillaba «parete» [Cfr. S. agostino: De Magistro Cap. III, 5 e 6]. Segni sensibili: ecco la natura del linguaggio, parlato, scritto, mimico o grafico che sia. Ora, i segni hanno appunto questo inconveniente: che, quando noi li percepiamo, o li conoscevamo già oppure non conoscevamo le cose ch'essi significano. Se le conoscevamo, allora i segni ci servono, ma non inducono in noi nessuna nuova cognizione, se non le conoscevamo, i segni non ci dicono nulla e diventano affatto inutili. La parola latina saraballae, ad esempio, è un segno che non mi significa niente, proprio perché io non so che saraballae erano chiamate certe fogge di copricapi. Bisogna, dunque, che già l'abbia saputo, e l'ho potuto sapere non col mezzo di altre parole, ma perché già sapevo che cosa è il capo e che sono i copricapi, per aver visto l'uno e gli altri. Anzi, nemmeno la parola «capo» la prima volta che la udii mi disse nulla, e fu necessario ch'io la mettessi in relazione con quella cosa già da me conosciuta ch'era la testa mia o d'altri, per intendere il suo significato [Op. cit. Cap. X, 33, 34]. E allora non sono i segni che fanno intender le cose, ma, al contrario, le cose che fanno intendere i segni; e il linguaggio del maestro che è, anch'esso, un sistema di segni, ben lungi dal procurare allo scolaro una scienza ch'egli non possedeva, può significargli qualche cosa solo in ordine alla scienza ch'egli aveva già. Il che vuol dire ottenere un risultato nullo quanto alla sola cosa che ci premeva: la possibilità d'una effettiva comunicazione e trasmissione di scienza dal maestro allo scolaro. Ed ecco la conclusione. Le parole non possono essere veicolo di scienza dal maestro allo scolaro, perché sono puri segni sensibili, invece la scienza non è un segno o una cosa sensibile, ma un atto interno della mente, alla quale appare la verità o la falsità delle nozioni che le vengono date «Che se per i colori consultiamo la luce, e per le altre cose che sentiamo attraverso il corpo consultiamo gli elementi di questo mondo... per le cose intelligibili noi consultiamo con la ragione la verità interiore». E che cos'è questa verità? «...colui che è consultato insegna: quel Cristo che fu detto abitare nell'uomo interiore, cioè l'immutabile Virtù ed eterna Sapienza di Dio; chi consulta, del resto, ogni anima ragionevole; ma tanto a ciascuno si apre, quanto ciascuno può prenderla secondo la propria o cattiva o buona volontà» [Op. cit. cap. XI, 38 e XII, 39]. Che significa, appunto, concludere a una vera e propria autoeducazione nella quale non il maestro, ma solo Dio infonde direttamente il sapere allo spirito umano, ch'è precisamente, come abbiamo notato altra volta, una delle possibili giustificazioni, in sede filosofica, dell'autodidattica, e si trova, un pò come tutta la filosofia agostiniana, sulla stessa linea del platonismo e, in questo caso, della sua celebre teoria della reminiscenza. Dio, dunque, è l'unico maestro dell'uomo: l'unico maestro al quale non faccia ostacolo quella tale difficoltà della comunicazione fra soggetto docente e soggetto discente. Affermazione giustissima certo, sotto l'aspetto positivo, in quanto non solo si deve riconoscere che Dio può insegnare imprimendo senz'altro nella mente il lume intellettuale e la verità, ma appare evidente che il magistero divino debba essere la causa prima e il fine ultimo di ogni magistero umano. Ma affermazione insufficiente sotto l'aspetto negativo, poiché, in fondo, arriva a negare addirittura la possibilità dell'educazione e a dichiarare insolubile il problema, dal quale ha preso le mosse, dei rapporti fra maestro e scolaro. Nonostante gli spunti geniali della sua ricerca, Agostino non riesce che a far sentire più acute e tormentose le difficoltà del problema stesso, cioè, in ultima analisi, a farci desiderare con maggiore intensità una soluzione veramente razionale, che è infatti il grandissimo merito del De Magistro agostiniano. S. Tommaso dovrà precisare, dovrà, talora, rettificare dovrà, soprattutto, procedere oltre; ma la sua pedagogia non potrebbe poggiare così in alto, se l'opera di Agostino non le offrisse già una base sicura: l'impostazione rigorosamente critica del problema, che il De Magistro tomistico riprenderà tale e quale. III L'altra corrente filosofica alla quale guardava San Tommaso nell'impostare il problema del suo De Magistro è, certo, ben lungi dall'avere la chiarezza o, meglio la molteplicità di documenti e di manifestazioni che oggi permettono a noi di accostarci con tanto profitto al pensiero agostiniano. Poiché, ancora, il Renan nella sua opera su Averroé e l'averroismo era costretto a considerare l'averroismo piuttosto come una tendenza dottrinale da ricostruirsi attraverso le confutazioni che ne avevano fatto gli avversari, che come un insieme di teorie positivamente sostenute negli scritti di determinati autori. Studi più recenti hanno cambiato questo stato di cose: dopo il notissimo saggio del Mandonnet su Sigieri di Brabante, oggi noi conosciamo non soltanto i nomi di alcuni averroisti, ma possediamo alcuni testi di notevole interesse, i quali ci permettono, in ogni caso, di asserire che l'averroismo latino fu, almeno dopo il 1230, qualcosa di ben più reale e concreto che una semplice tendenza. Il che, del resto, appare chiaramente, per non dir altro, dalla differenza che passa già, in questo ordine di idee, fra il trattato di Alberto Magno De unitate intellectus, e l'omonimo trattato di S. Tommaso d'Aquino, scritto quindici anni dopo: dove l'uno è costretto in certo modo a escogitare lui le tesi averroiste fondandosi sugli scritti dei peripatetici, l'altro mostra di polemizzare contro una dottrina avversaria ben costituita ed effettivamente insegnata. In ogni modo, però, la conoscenza che abbiamo oggi dell'averroismo è ancora ben lungi dall'essere soddisfacente, sia pur solo in ordine ai numerosi problemi che fa sorgere in noi l’interpretazione di San Tommaso, ed è certo da augurare e da sperare che nuovi testi averroistici possano essere dati alla luce in un prossimo avvenire. Cosa che permetterebbe di studiare con maggior esattezza la stessa filosofia dell'educazione, esposta da S. Tommaso, e nella questione disputata De Veritate (della quale fa parte il De Magistro) e nella questione 117 della Summa Theologica (Parte Ia). Poiché e nell' una e nell' altra San Tommaso attacca l'averroismo intorno al problema dei rapporti fra maestro e scolaro, e della possibilità che un uomo riceva scienza da un altro uomo. Ora, l'averroismo aveva effettivamente prodotto qualche opera nella quale quel problema fosse, di proposito, esaminato, oppure, come adesso sembra più probabile, si trattava di conseguenze implicite in tutta la dottrina averroistica? Evidentemente, solo i progressi futuri della storiografia filosofica intorno all'averroismo potranno permettere una risposta definitiva a questa domanda. Comunque, se circa questo problema della possibilità dell’educazione, i precedenti storici del pensiero tomistico in ordine all’averroismo paiono incerti quanto ai particolari, nessun dubbio vi può essere invece circa i due punti che ora c’interessano. È certo, cioè, non solo che nel trattare il problema della educazione S. Tommaso guarda all'averroismo come all'avversario da sconfiggere, ma che, di più, egli suole, benché con intenti nei due casi molto diversi, trattarlo insieme alla dottrina agostiniana, o platonico-agostiniana, che abbiamo or ora richiamata. L'abbiamo già detto: la tesi agostiniana appare, in massima, vera ma incompleta, dove la tesi averroistica appare manifestamente falsa. Ma appunto da quella incompletezza S. Tommaso doveva pensare essere facile passare a questa falsità, non solo per la ragione generica del pericolo che presentano sempre le teorie incomplete, ma anche per alcune ragioni specifiche e positive che possiamo benissimo rintracciare attraverso le poderose argomentazioni del De Magistro, e che ci vengono subito in mente appena ci troviamo a richiamare i principi fondamentali dell'averroismo. L'averroismo, infatti, qualunque possa essere lo sviluppo che gli abbia dato in particolare l'uno o l'altro suo fautore, ci si presenta, nelle sue linee generali, abbastanza ben definito, si potrebbe dire, attorno a due tesi fondamentali riguardanti, l'una, la natura dell'anima umana, l'altra i rapporti di Dio col mondo. La prima tesi, riguarda la notissima questione della unità dell'intelletto: e non s'andrebbe lontani dal vero asserendo ch'essa rispondeva, nella mente dei pensatori medioevali, a un ordine di preoccupazioni non molto dissimile da quello cui rispondono, nella mente dei pensatori moderni, le dottrine idealistiche del soggetto unico e dell'io trascendentale. «Quod intellectus omnium hominum est unus et idem numero» [V. MANDONNET Siger de Brabant, Louvain 1911. Vol. 1° pag. 111 n.. - Si cfr. nel vol. II° a pag. 187 fra le proposizioni condannate dallo stesso Arcivescovo nel 1277: «Quod scientia magistri et discipuli est una numero...» Che è proprio una delle affermazioni confutate nel De Magistro, all'Art. 1° (ad sextum)]: ecco come la condanna portata nel 1270 dall'Arcivescovo di Parigi contro l'averroismo definiva la prima proposizione riprovata. Noi non possiamo, ora, addentrarci nelle sottili questioni di interpretazione aristotelica che questa dottrina coinvolge: basti notare, adesso, la soluzione del problema della conoscenza ch'essa richiede. In sostanza, come pure è chiarito sia dalla polemica di San Tommaso sia da un'altra delle proposizioni condannate, qualunque fosse la maniera colla quale interpretava Aristotele, l'averroismo intendeva fondarsi su ragioni speculative, fra l'altro, su questa: che l'atto del pensiero sembra non potersi attribuire in proprio a questo o a quel soggetto pensante particolare, ma doversi attribuire invece a un intelletto unico che si rifrange, sì variamente attraverso le singole anime e i singoli corpi da esse informati, ma che, ciò nonostante, resta unico, come la luce che illumina in diverso modo i vari oggetti, e tuttavia è sempre la stessa luce. Le differenze fra i singoli soggetti, ossia fra l'una e l'altra anima individuale sembravano, cioè, agli averroisti differenze che cadessero, se così ci si può esprimere, su un piano diverso da quello nel quale si svolge la funzione del pensiero vera e propria: differenze riguardanti, insomma, la materia piuttosto che il pensiero [O, al massimo, la sensibilità e l'immaginazione: l'anima sensitiva. V. quanto diciamo a pag. 29], fino a far dell'anima individuale, in quanto forma dell'uomo, qualcosa che si corrompe colla morte, né più né meno del corpo. Fermiamoci un momento a questa celebre tesi, per la quale l'averroismo ben merita di essere chiamato, pur colle debite differenze d'ambienti e di problemi, l'idealismo del Medio Evo, cosi come, d'altra parte, ben si potrebbe chiamare oggi l'idealismo un averroismo moderno, molto più evoluto e raffinato del suo antico progenitore. Quali conseguenze si possono trarre da questa tesi dell'intelletto unico in ordine al problema dell'educazione? È chiaro: se l'intelletto è uno solo in tutti gli uomini, è uno solo anche nel maestro e nello scolaro, i quali, dunque, non sono più due soggetti, ma un soggetto solo, almeno quanto alla funzione del pensiero. Ma allora ecco risolta quella tal difficoltà della «comunicazione» fra maestro e scolaro che tanto aveva tormentato Agostino. Il maestro non ha più bisogno di comunicare dall'esterno collo scolaro, per la semplice ragione che l'uno e l'altro già comunicano nella maniera più intima possibile, attraverso lo stesso intelletto, che è unico in ambedue. E perciò l'opera esteriore del maestro si riduce, non già al trasmettere scienza, ma solo a stimolare lo scolaro perché disponga la fantasia e la sensibilità [Si veda S. Tomm. Summa theol. I, 117 art. I (nel corpo)] in modo da attuare convenientemente quella scienza che già possiede - allo stesso titolo del maestro - nell'intelletto unico. Così la teoria averroistica accresce la sua autorità con tutto il peso degli argomenti fra i quali si era dibattuto il pensiero agostiniano, anzi, ci si presenta come la sola teoria capace di spiegare in maniera rigorosamente scientifica il problema dell'educazione. Né l’avere ammesso, come Agostino, Dio come solo maestro, costituisce un ostacolo: poiché quell'intelletto unico di Averroé e degli averroisti si trova già, filosoficamente, in una posizione equivoca, nella quale non è difficile riconoscergli attributi divini, quali la capacità di creare o, almeno, di infondere immediatamente le forme nella materia. E non basta: la teoria averroistica sembra venire incontro anche a quelle esigenze circa l'autodidattica, che da Socrate e da Platone in poi si erano fatte energicamente sentire, nella storia della pedagogia, poiché lo scolaro non vi riceve scienza dal maestro o, comunque, dal di fuori, ma solo trae da se stesso, o da quell'unico intelletto che pensa in lui, tutta la scienza che gli abbisogna. Sì che, in sostanza, averroismo, autodidattica, Dio unico maestro, finiscono col formare una sola dottrina, che pare rispondere mirabilmente alle difficoltà già sollevate da Agostino circa il problema dell'educazione, e fornirci, anzi, quel completamento e quella rielaborazione critica che la pedagogia agostiniana attendeva. Ricordiamo quello che avevamo detto al principio di questo studio: il difficile problema di intendere come un soggetto pensante (il maestro) possa trasmettere il suo sapere a un altro soggetto pensante (lo scolaro) è risolto appunto col toglier di mezzo la dualità, riducendo l'educazione all'atto di un soggetto unico. Non resta che tracciare una linea ideale attraverso il tempo, la quale congiunga Aristotele e Averroé con Cartesio, Kant ed Hegel, fino all'idealismo contemporaneo, e avremo rintracciato, nel bel mezzo delle dispute medioevali, le origini almeno di una fra le più cospicue correnti della pedagogia moderna. Ma la teoria dell'intelletto unico prendeva un significato ancor più deciso, quando la si considerava insieme a quell'altro gruppo di tesi cosmologico-metafisiche che si riscontrano non solo in Averroè e negli averroisti, anche in altri commentatori arabi di Aristotele, come Avicenna od Algazele. Le tesi averroistiche condannate nel 1270 affermano, aristotelicamente, il mondo essere eterno, e Dio non conoscere nulla fuori di se stesso e tutto ciò che accade nel mondo, compresi gli atti della volontà umana, essere soggetto non alla Provvidenza divina, ma alla necessità e all'influsso dei corpi celesti. D'altra parte, in tutti i commentatori di Aristotele sopra citati ricorre pertinacemente questa affermazione: che Dio non ha creato direttamente - se pur si può ancora parlare di «creazione» da questo punto di vista - tutti gli esseri, ma solo l'intelligenza prima, o l'intelletto separato, il quale, a sua volta, ha dato la forma a tutti gli esseri, magari attraverso una gerarchia d'intelligenze, le superiori delle quali agiscono sulle inferiori. Così l'importanza e la dignità, se si può dire, metafisica di Dio come causa prima, mentre sembra aumentata riesce, invece, stranamente diminuita. Sembra che sia tolto a Dio ogni contatto diretto colla materia e cogli esseri, inferiori: in realtà questo accade sol perché si sono dati alle cause seconde degli attributi che dovrebbero spettare solo alla causa prima, ad esempio la facoltà di creare, la facoltà d'imprimere immediatamente le forme nella materia, il dominio sulle intelligenze. La stessa materia e il mondo materiale diventano qualche cosa che sta e si svolge per sé indipendentemente da Dio: onde quella strana cecità e indifferenza di Dio per quanto accade nel mondo. Il che significa ridurre, anziché aumentare, l'importanza della causa prima, tanto da ammettere addirittura, implicitamente o esplicitamente, l'esistenza di parecchie cause prime. C'è insomma, e nei commentatori arabi di Aristotele e nell'averroismo, questa interessante posizione filosofica: un ingenuo materialismo che sta insieme a un non meno ingenuo idealismo, un sistema dell'immanenza che finisce in un vero e proprio naturalismo. Ce ne dovremo ricordare dopo, esaminando il De Magistro d’AQUINO (si veda). IV Il quale S. Tommaso due volte, nelle due diverse trattazioni che dedica al problema dell'insegnamento, torna a discutere la dottrina averroistica: una volta, prevalentemente, per ciò che riguarda la teoria dell’intelletto unico, un'altra volta per ciò che si riferisce alle teorie metafisico-cosmologiche. Nella Summa Theologica, I, q. 117, art. 1, l'averroismo è, infatti, esposto e confutato quanto alle sue conseguenze circa i rapporti fra maestro e discepolo che riguardano la teoria della conoscenza. Averroè, dice S. Tommaso, affermò esser unico l'intelletto in tutti gli uomini e perciò ammise che il maestro non può causare allo scolaro una scienza diversa da quella che quest’ultimo ha già, ma solo può spingerlo ad ordinare i fantasmi nella sua immaginazione in modo che siano ben disposti a riflettere la luce dell'unico intelletto e a provocare, perciò, l'apprensione della scienza. “ Et secundum hoc ponit, quod unus homo per doctrinam non causat scientiam in altero aliam ab ea quam ipse habet; sed communicat ei eamdem scientiam quam ipse habet, per hoc quod movet eum ad ordinandum phantasmata in anima sua, ad hoc quod sint disposita convenienter ad intelligibilem apprehensionem”. Dove bisogna tener presente che, secondo l'averroismo, l'anima sensitiva, alla quale appartengono la fantasia e i fantasmi, è forma del corpo, e, quindi, a differenza dell'anima intellettiva, è propria di ciascun singolo soggetto e molteplice secondo la molteplicità dei soggetti. Onde, l'atto del pensare si può attribuire all'uno o all'altro singolo soggetto, al maestro o allo scolaro, non in quanto puro atto del pensare (nel qual senso va attribuito solo all'intelletto unico) ma in quanto pensiero che si riflette e, per così dire, s'incorpora nei fantasmi, i quali appartengono in proprio all'uno o all'altro individuo o soggetto particolare. La differenza fra il maestro e lo scolaro non sta, dunque, nel fatto che l'uno sappia e l'altro non sappia, uno abbia la scienza e l'altro no, dal momento che maestro e scolaro hanno tutti e due, per natura, lo stesso intelletto e, perciò, la stessa scienza. Ma sta, invece, nel fatto che il maestro ha già disposto i fantasmi della sua immaginazione in modo che essi rispecchino e realizzino le forme intellettuali dell'intelletto unico; mentre lo scolaro non li ha ancor disposti così, ma deve tuttavia disporli. Il maestro, quindi, non «comunica» né trasmette scienza nel senso vero e proprio della parola, ma solo stimola con l'insegnamento lo scolaro a formare e ordinare quei fantasmi che permetteranno, se ci si consente l'espressione, alla luce dell'intelletto unico, che pur c'era nella sua anima, ma era come adombrata e annuvolata, di passare a risplendere in tutta la sua chiarezza. Teoria, bisogna pur dirlo, simile in modo addirittura impressionante a certe dottrine moderne le quali non hanno su di lei che il vantaggio di non formulare sempre chiaramente le ultime conseguenze cui giungono, ma le quali, viceversa, ammettono un «Io» unico per tutti i soggetti particolari, e debbono poi rinviare alla sensibilità quando vogliono spiegare la differenza, almeno apparente, fra un soggetto e l'altro, proprio come già faceva, a suo modo, la teoria averroistica. Più esperte e scaltrite, le teorie moderne sono pronte a coprire col divenire e la dialettica ogni loro deficienza; più ingenuo e grossolano, l'averroismo si lasciava subito sbarrare il passo da questa formidabile difficoltà. Se l'intelletto è unico, diverso e separato dalle singole anime individuali, come si può poi attribuire a queste singole anime, e ai singoli soggetti, Tizio, Caio e Sempronio, l'atto del pensare, l'atto, cioè, di un soggetto per definizione affatto diverso da loro? Abbiamo visto, è vero, che gli averroisti tentavano di vincere questa difficoltà amalgamando l'intelletto unico con l'anima individuale attraverso il termine medio dei fantasmi e delle forme o specie intelligibili. Ma si tratta di una soluzione che non risolve nulla, poiché tale «continuatio vel unio» come la chiama S. Tommaso non spiega in qual modo l'azione dell'intelletto si possa attribuire a questo o quel soggetto particolare. Il fatto che le specie o forme intelligibili siano nei fantasmi dell'anima individuale non significa punto che siano da essa pensate, così come l'essere il colore in una parete non vuol dire che la parete vegga il colore, o che si debba attribuir alla parete l'azione del vedere. Per avere in sé il colore, la parete non vede, ma è veduta; per avere riflesse nei suoi fantasmi le forme o specie intelligibili, l'individuo, Tizio o Caio, non penserebbe, ma piuttosto, sarebbe pensato, dall'unico intelletto [S. Theol. I, q. 76, art. 1 (in corp.)]. Difficoltà, si noti bene, che non si risolve col far entrare a forza l'intelletto unico dentro i soggetti particolari, o col renderlo, come oggi si preferisce dire, «immanente». Poiché la questione non è di lontananza o vicinanza, di continuità o di contiguità, ma di possibilità o impossibilità logica e metafisica. Si chiede appunto se sia possibile rendere «immanente» un intelletto unico nei singoli soggetti particolari, e proprio qui si trova la difficoltà insolubile. Non è ora il caso di addentrarsi oltre nell'acuta critica che San Tommaso fa alla teoria dell'intelletto unico tutte le volte che gli accade di trattare dell'averroismo sia direttamente che indirettamente; né di enumerare i poderosi argomenti in proposito della quest. 76 (I, art. 1 e 2) ch'egli stesso richiama alla quest. 117. Qui basti ricordare che l'aver criticato quella teoria averroistica porta l'Aquinate a denunciare un equivoco, nel quale altre teorie, ben più moderne e scaltrite dell'averroismo, sarebbero poi cadute. Questo: che, nell'insegnamento, perché si possa garantire la comunicazione fra maestro e scolaro e il loro reciproco intendersi, non occorre che la scienza del maestro sia una di numero [Cfr. supra, pag. 24, nota, la proposizione condannata nel 1277] con quella dello scolaro, quasiché il medesimo sapere dovesse passare da una mente all'altra come un pezzo di legno passa di mano in mano. Ma basta soltanto che la scienza dello scolaro sia eguale o simile a quella del maestro: identica per la identità delle cose conosciute pur attraverso due processi mentali distinti e diversi e non per una materiale coincidenza e sovrapposizione della mente del maestro a quello dello scolaro, «...non si dice che il docente trasfonda la scienza nel discepolo, come se la stessa scienza - numericamente la stessa scienza - che è nel maestro passasse nel discepolo; ma che, mediante l'insegnamento passa nel discepolo una scienza, simile a quella che è nel maestro...» [De Mag. Art. I ad 6.tum «...docens non dicitur transfundere scientiam in discipulum, quasi illa eadem numero scientia quae est in magistro, in discipulo fiat, sed quia per doctrinam fit in discipulo scientia similis ei quae est in magistero”]. Che significa, in sostanza, dimostrare quanto poco sia fondata l'idea che la teoria dell'intelletto unico possa facilitare o addirittura risolvere il problema della educazione, colla sua materialistica contrazione di tutti i soggetti pensanti in un soggetto solo, quasiché i soggetti fossero oggetti materiali che se non si sbattono gli uni contro gli altri non c'è verso di metterli in rapporto fra loro. V Nel De Magistro, invece, la teoria averroistica non è considerata per ciò che si riferisce al problema della conoscenza, ma più in generale per ciò che riguarda il problema metafisico e i rapporti fra la causa prima e le cause seconde. Tanto è vero che l'autore esplicitamente citato non è Averroè, come nella quest. 117 della Summa, ma Avicenna: ossia proprio colui che più insiste sul carattere metafisico dell'intelletto separato, considerandolo come l'intelletto primo, il solo prodotto immediatamente da Dio, e, in pari tempo, il datore delle forme a tutti gli esseri. Una specie di idealismo monistico, dunque, secondo il quale, e il problema metafisico e il problema morale e il problema della conoscenza sono risolti con l'ammettere che le forme degli esseri, la virtù e la scienza derivino dall'intelletto unico e da esso fluiscano, per così dire, sia negli oggetti sia nei soggetti individuali. Accanto a questa dottrina S. Tommaso ne ricorda, per criticarla parimente, un'altra che sembrerebbe quasi una teoria materialistica, se non ci aiutasse il riscontro con la citata questione 117 della Summa. Altri credettero, è detto nel De Magistro, che tutti codesti elementi, forme, scienza, virtù, fossero, anziché in un primo agente, nelle cose stesse, e venissero poi soltanto in luce per opera dell'azione e degli agenti naturali: come se tutte le forme delle cose fossero già immanenti nella materia. «Quidam vero e contrario opinati sunt; scilicet quod omnia ista rebus essent indita, nec ab exteriori causam haberent, sed solummodo quod per exteriorem actionem manifestantur: posuerunt enim quidam, quod omnes formae naturales essent actu in materia latentes» [De Mag. art. I (in corp.)]. Ma nella quest. 117 della Summa è detta opinione dei Platonici "opinio Platonicorum" quella secondo la quale gli agenti naturali preparano soltanto a ricevere le forme che la materia acquista per partecipazione delle Idee. «Sic etiam ponebant, quod agentia naturalia solummodo disponunt ad susceptionem formarum, quas acquirit materia corporalis per participationem specierum separatarum» [S. Theol. I, q. 117, art, 1 (in corp.)]. E il richiamo alla concezione platonica è efficacemente riconfermato dal De Magistro stesso, ove, tra le conseguenze di questa teoria si menziona appunto il concetto che all'anima individuale sia concreata la scienza e che, perciò, l'insegnare e l'imparare in altro non consista se non nel ricordarsi che fa l'anima della scienza già posseduta fin dall'inizio e poi obliata col suo ingresso nel corpo [De Mag. loc. cit]; cioè precisamente la dottrina platonica della anamnesi, che è appunto, come sappiamo, una delle più antiche giustificazioni della autodidattica. La dottrina platonica, dunque (che è anche, in gran parte, non dimentichiamolo, la dottrina agostiniana) e la dottrina averroistica sono da S. Tommaso non tanto contrapposte, come potrebbe avvenire di una teoria materialistica e di una idealistica, ma anzi poste sulla stessa linea, come due forme diverse di un medesimo idealismo. E, infatti, quanto all'insegnamento, che differenza ci può essere fra la teoria averroistica che concede al maestro solo di stimolare lo scolaro a disporre i suoi fantasmi in modo che lascino passare la luce dell'unico intelletto la quale già ardeva, ma velata, nella sua anima, e la teoria platonica che vede nell'insegnamento una rimozione degli ostacoli che il corpo e i sensi frappongono, nell'anima stessa, al ricordo della scienza che già possiede, ma ottenebrata e obliata? E che differenza c'è, si potrebbe aggiungere, fra queste antiche dottrine e le teorie dell’idealismo più moderno che nel maestro e nello scolaro vogliono vedere due aspetti o momenti diversi di un Soggetto solo, per cui debbono ammettere che lo scolaro ha la stessa scienza e lo stesso pensiero del maestro, ma solo in un grado di consapevolezza oscuro e involuto e che l'insegnamento avrà per unico compito di render più chiaro ed evoluto? In realtà siamo sempre allo stesso punto: idealismo e autodidattica. Nel combattere la possibile deformazione dell'agostinismo in senso averroistico, AQUINO (si veda) ha effettivamente innanzi a sé già i motivi fondamentali di quella che sarà poi pur con altre forme e altra mentalità, la pedagogia idealistica moderna. E all'autodidattica e all'idealismo che ne è il fondamento, S. Tommaso si sforza con successo, in questi suoi scritti sul magistero, di togliere proprio quella pericolosa arma che derivava loro dal presentarsi come l'unica soluzione capace di rimuovere sul serio tutte le difficoltà inerenti al problema educativo: prima fra le altre, si capisce, quella riguardante la possibile «comunicazione» fra maestro e scolaro. Se lo scolaro non ha già in sé e nel suo interno la scienza, come potrà riceverla dall'esterno? Abbiamo visto che per S. Agostino un argomento fondamentale contro l'efficacia didattica dei «segni» ond'è intessuto il linguaggio era proprio questo: o lo scolaro già conosce le cose da essi significate, o non le conosce: se le conosce, essi non servono a insegnargliele, se non le conosce, non capirà nemmeno i segni. A ciò S. Tommaso risponde negando senz'altro il dilemma, col richiamarci uno dei più importanti caratteri della conoscenza, che non è un oggetto o una cosa, la quale o c'è o non c'è, ma un processo che si svolge per gradi e si può considerare sotto diversi aspetti. Ha lo scolaro in sé la scienza, dall'interno, senza che il maestro gl'insegni? In un certo senso, sì, giacché, per poter conoscere, ogni singolo soggetto deve avere in sé non solo l'attività conoscitiva, il lume intellettuale, ma anche alcuni concetti primi, alcune «forme» o «categorie» come più modernamente si direbbero (l'essere, l'uno, la sostanza, la causa ecc.) applicando le quali al materiale offertoci dalla sensibilità e dall'esperienza noi formiamo poi tutti gli altri concetti. E se ne avessimo il tempo, sarebbe, ora, interessantissimo fermarsi su questa teoria tomistica della conoscenza, che non è affatto un «innatismo» simile a quello, poniamo, di Cartesio, ma piuttosto un vero e proprio «apriorismo» capace di richiamarci quello che con molti gravi inconvenienti e con una consapevolezza critica assai minore del tomismo doveva costruire più tardi la filosofia moderna [la quale distruggeva, con Hegel e dopo di lui, quello che aveva costruito, almeno in parte, con Kant; e dopo aver ammesso, con Kant, l'«a priori» nella conoscenza, distruggeva, dopo Hegel, ogni distinzione fra «a priori» ed «a posteriori»]. Questa teoria, secondo San Tommaso, che riconosce un «a priori» nella conoscenza, sta nel giusto mezzo fra le due teorie estreme sopra ricordate: che vorrebbe tutt'e due nell'anima il possesso completo della scienza (benché, eventualmente, oscurato) sia per concreazione che per partecipazione dell'Intelletto unico. Laddove la scienza c'è, se si vuole, nell'animo nostro, ma solo «in potenza» ed implicitamente. L'attività dell'intelletto nostro ha in sé alcuni germi di scienza «quaedam scientiarum semina», cioè alcune, virtualità, o disposizioni a formare immediatamente, appena stimolata dall'esperienza sensibile, i principi primi, o le «categorie». Che contengono già, in certo modo, tutta la scienza, ed ogni scienza possibile, passata, presente o futura, appunto perché sono i concetti primi e più universali dell'intelletto, concetti presupposti da ogni altro concetto e senza i quali nessun altro concetto si forma, né si potrebbe formare. Così come, per servirsi di un paragone grossolano, nelle sette note musicali sono contenute, in potenza, tutte le sinfonie che la mente umana abbia escogitato o sia mai per escogitare. Ma (proprio come, benché nelle sette note musicali sia contenuta tutta la musica in potenza ed implicitamente, esplicitamente non c'è nessuna sinfonia, e l'inesperto benché tocchi quanto vuole i tasti del pianoforte non ne cava nulla) nei primi principi è contenuta tutta la scienza, e tutto lo scibile umano in potenza ed implicitamente; ma in atto ed esplicitamente non v'è in essi nessuna scienza concreta e determinata o, meglio, vi è quella sola scienza che riguarda i primi principi stessi, poniamo il concetto dell'essere, il concetto dell'uno ecc. E dunque lo scolaro sa o non sa, ha o non ha nell'interno del suo animo quella scienza che il maestro gli insegna? Sa e non sa, ha e non ha, nello stesso tempo. Sa ed ha, in potenza ed implicitamente; non sa e non ha in atto ed esplicitamente. Sa, in quanto possiede, nel suo intelletto, i primi principi, nei quali ogni scienza è contenuta; non sa, in quanto dai primi principi non ha ancora ricavato quelle determinate e particolari cognizioni che il maestro gli insegna. L'opera del maestro è, quindi, inutile o superflua? Nemmeno per sogno. Senza di essa lo scolaro sarebbe come l'inesperto musicista che ha innanzi a sé, nella tastiera del pianoforte, tutti i capolavori possibili ma, sciaguratamente, non sa cavarne fuori che, al massimo, una scala. Giacché proprio questo è, secondo AQUINO (si veda) uno dei caratteri fondamentali dell'intelligenza umana: essere una vis collativa o, come più modernamente si direbbe, una «attività sintetica». A differenza del senso che si comporta egualmente rispetto a tutti i suoi oggetti sì che poco importa, ed è una circostanza accidentale che percepisca prima gli uni o gli altri, l'intelletto non si comporta egualmente nel considerare tutti gl'intelligibili; ma subito vede alcune cose, come quelle che sono per sé note, nelle quali sono contenute implicitamente alcune altre che la stessa potenza intellettiva non può intendere se non esplicando per mezzo della ragione le cose che nei principi sono implicitamente contenute [De Mag. Art. I (ad XII. mum) «...non se habet aequaliter ad omnia intelligibilia consideranda; sed statini quaedam videt, ut quae sunt per se nota, in quibus implicite continentur quaedam alia quae intelligere non potest nisi per officium rationis ea quae in principiis implicite continentur explicando »]. L'intelletto, cioè, afferra immediatamente i primi principi, e poi, mediante quelli, conosce tutte le altre cose, compie un atto semplice e immediato pei primi principi, e un processo mediato per tutte le altre cose. Ed è attività unitiva e sintetica appunto perché tutto quello che conosce, nella scienza, come vero, lo conosce in quanto lo può connettere ai primi principi mediante il processo del ragionamento. Tanto che se «si propongono ad alcuno cose non incluse nei principi per sé noti, o che non vi si manifestano incluse, non si produrrà in lui scienza, ma opinione, ovvero fede». VI. Sia concesso prima di procedere oltre, fare un'osservazione: questa teoria di S. Tommaso riguardante i primi principi, benché più volte abbia dato origine a delle critiche, non è mai stata, né poteva esserlo, veramente contraddetta neppure dalle più audaci e radicali teorie moderne della conoscenza. Le quali, sebbene abbiano protestato contro l'immediatezza dei primi principi e ci abbiano voluto vedere quasi un segno di umiliante passività dell'intelletto, non hanno, viceversa, poi, mai potuto far a meno, per conto loro, né dei primi principi, né della immediatezza relativa. Sì che tutto si è risolto, in ultima analisi, nel cambiare il nome dei primi principi serbandone, più o meno, immutata la sostanza. Cosi al posto dei principi si sono messe le «categorie» di Kant, l' «io» di Fichte o i momenti e gradi dello spirito degli idealisti moderni. Ma anche nella più estrema ipotesi, anche ridotte, cioè, tutte le categorie ad una sola, quella dell'«io», resta sempre vero che esse così si sono credute di poter ridurre, appunto, in quanto è sembrato che l' «io» solo fosse un principio immediatamente per sé noto, e tale che tutte le altre cose potessero esser note solo in quanto da lui si deducono e a lui si riconducono. Che è precisamente, con molte parole diverse e qualche asserzione assai discutibile per di più, la stessa posizione nella quale si trovano i «principi primi» della teoria tomisticoaristotelica, la quale sotto questo aspetto è dunque tanto «moderna» e critica come qualsiasi altra. Nessun filosofo degno di tal nome potrà mai negare il duplice carattere, mediato quanto alle conclusioni e immediato quanto ai principi, della conoscenza intellettuale. Appunto per questo l'attività intellettuale ha bisogno di un «motore» (indiget... motore) che la faccia passare dalla potenza all'atto. E ne ha bisogno proprio perché il processo della scienza pel quale dai principi si ricavano le conclusioni, non è un processo che si svolga per una necessità meccanica e fatale, cosicché posti da Dio nella mente umana i primi principi debba conseguirne senz'altro la scienza, così come un grave lasciato a se stesso deve fatalmente cadere. L'intelletto umano d'altra parte non è come l'intelletto angelico che scorge immediatamente nei principi le conclusioni e che con un solo e semplice atto coglie la verità: esso, invece, scorge immediatamente la verità dei primi principi, e quella di tutte le altre cognizioni solo in quanto le può ridurre, mediante il ragionamento, ai primi principi stessi. Ora, proprio in questo processo di riduzione ai principi e deduzione da esso, il discepolo ha bisogno d'aiuto; sia perché può sbagliare, sia perché può non avere la forza e la maturità mentale sufficiente per effettuare certe deduzioni e conclusioni. Inconvenienti ai quali rimedia il maestro in quanto gli mostra l'ordine dei principi e delle conclusioni: « inquantum proponit discipulo ordinem principiorum ad conclusione? qui forte per seipsum non haberet tantam virtutem collativam » [S. Theol. loc. cit]. Ma il soggetto pensante non ha in sé come sola fonte di conoscenze, il lume intellettuale e i primi principi, ha anche un'altra maestra: l'esperienza, o, meglio, la conoscenza sensibile. Già i primi principi, i concetti primi e per sé evidenti, abbiamo visto che sono nel nostro animo, forme a priori, disposizioni o virtualità che passano all'atto solo al primo stimolo della esperienza. Passati all'atto e costituiti che siano essi non producono nuove conoscenze se non in quanto si applicano, daccapo, ai dati che l'esperienza sensibile ci offre. Coi concetti di «uno», di «essere», ecc. (primi principi) io non posso formare i concetti di «animale», di «vegetale», di «uomo» ecc. se l'esperienza sensibile non mi dà la percezione dei singoli uomini, vegetali, animali ecc. dai quali astraendo certe caratteristiche essenziali comuni io formo appunto il concetto di «animale», «vegetale», «uomo » ecc. Processo che S. Tommaso descrive così: «Cum autem aliquis hujusmodi universalia principia, applicat ad aliqua particularia, quorum memoriam et experimentum per sensum accipit, per inventionem propriam acquirit scientiam eorum quae nesciebat...» Non basta, cioè, che ci siano i primi principi, occorre che ci siano anche le cognizioni particolari da ridurre ad essi; se no il processo che abbiamo descritto prima, col quale la mente umana conosce la verità, non potrebbe aver luogo. Ora, la conoscenza di queste particolari nozioni manca, o meglio, è scarsa ed imperfetta nello scolaro, che ha esplorato la propria esperienza sensibile molto meno e molto peggio del maestro. Ed ecco un altro modo col quale il maestro aiuta il discepolo: presentandogli, appunto, delle nozioni o proposizioni particolari, la verità delle quali egli possa saggiare da sé al lume dei primi principi, ovvero proponendo alla sua osservazione oggetti ed esempi sensibili da cui possa ricavare direttamente le cognizioni stesse [«...cum proponit ei aliquas propositiones minus universales, quas tamen ex praecognitis discipulus dijudicare potest; vel cum proponit ei aliqua sensibilia exempla, vel similia vel opposita, vel aliqua hujusmodi, ex quibus intellectus addiscentis manuducitur in cognitionem veritatis ignotae». S. Theol. loc. cit. (in corp.)]. Far questo, S. Tommaso lo dice, da parte del maestro: procurare allo scolaro «aliqua auxilia vel instrumenta» aiuti e strumenti di lavoro, potremmo dir noi, giacché il loro uso è proprio simile, sotto quest'aspetto, agli strumenti materiali, che facilitano il lavoro pur senza diminuire, anzi accrescendo la attività e la solerzia di chi li adopera. Che cosa c'è di vero, dunque, nella teoria agostiniana, secondo la quale è Dio che, dall'interno, mostra la verità all'anima umana? Questo: che da Dio appunto viene all'anima nostra la facoltà di conoscere, il lume intellettuale, i primi principi, la sensibilità. Ma poi lo sviluppo di questa facoltà e il suo passaggio dalla potenza all'atto avvengono non già per intervento diretto della Causa Prima, sibbene per intervento di una causa seconda, qual è precisamente il maestro umano. Il che non diminuisce affatto la potenza o la dignità della Causa Prima, la quale ha creato appunto le cause seconde, fra le quali i maestri, non perché ottenessero nell'universo solo un effetto decorativo, ma perché davvero «causassero», cioè producessero qualche cosa «...prima causa ex eminentia bonitatis sua? rebus aliis confert non solum quod sint, sed etiam quod causae sint» [De Mag Art. I (in corp.)]. Dio ha conferito alle cause seconde, non solo l'essere, ma anche il causare, l'esser cause. Onde significherebbe non accrescere, ma diminuire la bontà e la potenza di Dio, supporre ch'Egli avesse fatto delle cause incapaci di causare, quasi sbagliandosi e contraddicendosi nell'opera sua stessa. Ch'è appunto l'inconveniente rimproverato da San Tommaso alle due teorie, averroistica e platonica, le quali volendo riferir tutto, o all'azione dell'Intelletto unico, o all'azione delle forme separate (idee) finiscono col non vedere più, negli agenti naturali e nelle cause seconde, se non qualcosa d'illusorio e irreale. Il che accade alle teorie dell'autodidattica, che ammettono la esistenza del maestro, salvo poi a togliergli ogni possibilità e capacità effettiva d'insegnare. La teoria dell'autodidattica così è colpita proprio al cuore: nelle dottrine filosofiche che ne costituiscono la giustificazione. Ma, e quel tale, difficile problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? E quella tale impossibilità che la scienza si trasmettesse, mediante i puri segni sensibili del linguaggio, dall’uno all'altro soggetto? Per rispondere a queste domande S. Tommaso tiene a chiarire alcuni equivoci che saranno, in ogni tempo, i più potenti motivi delle teorie pedagogiche tendenti all'autodidattica. E, in primo luogo, il passaggio della scienza dal maestro allo scolaro è proprio vero che si debba considerare come il passaggio di un oggetto materiale da una mano all'altra? Anzi, è vero che sì possa parlare, in genere, di «passaggio» della scienza dal maestro allo scolaro? Un oggetto materiale passa da una mano all'altra sempre restando lo stesso oggetto, uno e identico. La scienza passa anche lei di mente in mente restando sempre una? Abbiamo già visto che non è così. Lo scolaro non riceve la stessa scienza del maestro, ma se ne forma una simile, la quale benché coincida, e contenga, cioè, le stesse cognizioni, non è numericamente una con quella del maestro. Così, per prendere un esempio volgare, due ciliege sono eguali fra loro come ciliege, ma sono tuttavia due e non una, e due rimarrebbero sempre anche se fossero uguali persino nelle più insignificanti particolarità, come due macchine di una identica serie. E, dunque, chi non accetta l'intelletto unico di Averroé non ha punto l'obbligo di mostrare come una stessa scienza passi, quasi oggetto materiale, dal maestro allo scolaro: basta che dimostri come lo scolaro possa formarsi - con un'attività che resta sua e interna al suo animo - una propria scienza, pur simile, nel contenuto delle nozioni, alla scienza del maestro. In secondo luogo: pensano alcuni (e lo pensano anche oggi) che siccome nel maestro e nello scolaro si svolge un processo sostanzialmente identico, così cada ogni ragione di distinguerli l'uno dall'altro, almeno nell'atto dell'insegnare e imparare. Che cosa c'è, infatti, nel maestro? Il processo della conoscenza. E nello scolaro? Ancora il processo della conoscenza. Dunque le leggi dell'educazione sono quelle della conoscenza, anzi l'educazione è addirittura la conoscenza, e allora la pedagogia è una scienza senza oggetto proprio, la quale si risolve nella teoria del conoscere e basta. Altro equivoco simile al primo. E’ ben vero che il modo col quale apprendiamo scienza da noi stessi è simile e sottostà alle medesime leggi del modo col quale apprendiamo scienza dal maestro. Ma, al solito, simile non vuol dire uguale e sottostare alle medesime leggi non vuol dire essere identici né uno di numero. VII Per esempio, nella medicina, il medico guarisce l'ammalato non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo, il quale, rigorosamente parlando, poteva guarire da solo, tanto è vero che qualche volta guarisce di fatto senza bisogno di medici né di medicine. Allo stesso modo il maestro procura scienza allo scolaro non facendo altro che aiutare e stimolare le forze intrinseche dell'organismo intellettuale: l'intelletto, l'esperienza, l'uso dei primi principi. Il medico per guarir l'ammalato si fonda sulla conoscenza delle leggi fisiche e fisiologiche, il maestro per insegnare si fonda sulla conoscenza delle leggi intellettuali. Anche lo scolaro poteva, rigorosamente parlando, imparare da sé, tanto è vero che vi sono sempre stati degli autodidatti. Che cosa significa questo? Soltanto che «...in his autem quae fiunt a natura et arte, eodem modo operatur ars, et per eadem media, quibus et natura» [De Mag. Art. I (in corp.)] il che, come è ovvio, non vuol dire affatto che, dunque, l'arte non esista, o sia identica alla natura. «Come la natura chi soffrisse per il freddo riscaldandolo lo sanerebbe, così fa anche il medico: onde anche si dice che l'arte imita la natura. Similmente avviene pure nell'acquisizione della scienza, che, ricercando e ritrovando, il docente conduce altri a sapere cose ignote nello stesso modo in cui alcuno conduce se medesimo a conoscer l'ignoto» [Ibid. Si cfr. la traduzione Guzzo, Vallecchi ed. Firenze]. Dunque, la somiglianza fra natura e l'arte o il fatto che l'arte imiti la natura, nell' insegnamento come nella medicina o in altre cose, non prova punto che l'arte non esista, o si possa considerare come una entità trascurabile. Ma, e quel tal problema della «comunicazione»? Com'è possibile che il maestro, imitando la natura, possa, sia pur non «trasmettere» nel senso materiale della parola, ma anche solo provocare o stimolare nel discepolo, una scienza eguale alla sua? Ecco, come S. Agostino, ancheS. Tommaso non mette in dubbio che lo strumento principale della comunicazione fra maestro e discepolo sia il linguaggio e siano i «segni» ond'esso è costituito: solo, non si arresta alla difficoltà che S. Agostino aveva creduto insuperabile, di conciliare la materialità e il carattere sensibile dei segni linguistici colla idealità e l'interiorità della scienza. Poiché il «segno» del linguaggio ha, per S. Tommaso, una fisionomia tutta speciale: è «sensibile», sì, ma d'una, se vogliamo così chiamarla, «sensibilità» affatto diversa da quella che possiamo attribuire alle qualità degli oggetti materiali ed alle vere e proprie sensazioni: sensibile della sensibilità che tocca piuttosto all'immaginazione e al suo prodotto, il «fantasma» o l'immagine, che è una sensibilità di un grado più elevato ed immateriale di quello che compete alle sensazioni pure e semplici. Poiché il fantasma linguistico (parola od altro segno che sia), a differenza delle sensazioni o percezioni che ci vengono dagli oggetti materiali suppone già l'esistenza dei concetti nella mente, e, nasce per esprimerli; e sta, perciò, con essi, in una relazione molto più immediata che non sia quella della sensazione coi medesimi concetti. Facciamo un esempio. Si prende la legge fisica: «il calore dilata i corpi». Che è quella legge? Niente altro che una «forma». Nella natura é la «forma» di quel processo che è, appunto, la dilatazione. Ora una forma, nella natura, può esistere solo come esistono in generale le forme in una materia, come conformazione, cioè, di determinati oggetti o di un determinato accadere. Nella natura la legge della dilatazione dei corpi è, appunto, il dilatarsi dei singoli corpi a, b, c ecc. e la conoscenza che ne abbiamo è appunto la sensazione o percezione dei corpi a, b, c, mentre si dilatano. Potrei, dunque, arrivare a formular la legge della dilatazione partendo dalle sensazioni e percezioni pure e semplici dei corpi? Certo che potrei e posso, in quanto, osservando prima il corpo a, poi il corpo b, poi il corpo c ecc. posso arrivare e arrivo ad estrarre, da queste percezioni particolari, un concetto e una legge universale riguardante la dilatazione. E come posso arrivarci io, posso condurvi lo scolaro, lasciando che osservi a sua volta i corpi a, b, c, e poi ne tragga, se gli riesce, la legge della dilatazione. Si noti, però, la difficoltà e la lentezza di questo processo. Quanti uomini hanno osservato sensibilmente il dilatarsi dei singoli corpi, eppure non sono riusciti a formulare la legge della dilatazione! Quanti videro i corpi cadere, e non ne seppero trarre la legge della gravitazione universale! E si capisce: quella «forma» che è la legge della dilatazione esiste nei corpi, ma non come forma pura e come concetto, bensì come forma d'una materia. Come forma pura e come concetto non la troviamo bell'e fatta, ma bisogna che la costruiamo noi, con tutte le difficoltà e incertezze che ne seguono. Ma si prenda, invece, la stessa legge della dilatazione qual è formulata in un trattato di fisica, o dalla voce del maestro, con queste precise parole: «il calore dilata i corpi». Anche qui essa viene espressa con segni sensibili, all'udito o alla vista, le parole. Segni tanto sensibili quanto lo è appunto la percezione dei corpi a, b, c. Ma con questa differenza. Che per poter dire o scrivere le parole «il calore dilata i corpi» si è già dovuto formare il concetto della dilatazione colla legge relativa. La legge della dilatazione ha dovuto esserci, cioè, non più come forma di quell'accadere materiale ch'è il dilatarsi dei singoli corpi, ma come forma pura nella mente del fisico. E perciò chi legge o ascolta quelle parole non ha bisogno di tutto un complicato e difficile lavoro per cavarne fuori la pura forma della legge scientifica, ma assume direttamente da esse la legge in quanto pura forma o concetto scientifico. Tanto è vero che è possibile vedere mille corpi a dilatarsi e non ricavarne la legge della dilatazione, ma non è possibile udire dal maestro o leggere nel libro di fisica le parole «il calore dilata i corpi» (udire e leggere davvero, s'intende, e non solo far finta) e non ricavarne la legge della dilatazione. Per lo meno: anche se il processo della visione e della sensazione si compie regolarmente senza essere turbato in alcun modo, e cioè anche ammesso ch'io osservi colla massima attenzione i singoli corpi, non è detto che per questo io arrivi ad astrarre la legge della gravitazione o della dilatazione. Mentre se lo leggo od ascolto regolarmente le parole colle quali il fisico si spiega, io dovrò necessariamente intendere la legge della gravitazione o della dilatazione, a meno che qualche ragione, diciamo così, patologica non impedisca alla mia lettura o audizione di svolgersi regolarmente. In quest'ultimo caso, insomma, svolto normalmente il processo, ne ho come necessaria conseguenza l'apprendimento; nell'altro caso, no. È questa, forse, una delle più originali caratteristiche della pedagogia delineata d’AQUINO (si veda) Per la quale, a differenza di ciò che succede in moltissimi altri sistemi pedagogici, la parola del maestro non è né eguale né, tanto meno, inferiore in valore agli oggetti esterni e, in genere, all'esperienza sensibile dello scolaro, come accadrà poi, tanto spesso, nei vari metodi «intuitivi» od «oggettivi» escogitati dalla pedagogia moderna, da Comenius in poi. Questo non vuol dire certo che S. Tommaso svaluti l'esperienza - abbiamo visto invece che la valuta moltissimo - né che non le attribuisca tutta l'importanza che deve avere. Ma fra gli oggetti sensibili che possono variamente essere offerti allo scolaro e la parola del maestro c'è, per S. Tommaso, una differenza essenziale che c'impedisce di considerare quest'ultima puramente come uno fra gli altri oggetti di possibile esperienza per lo scolaro. Giacché è vero che in un certo senso "le stesse parole dell'insegnante, udite o viste in iscritto, quanto al causare scienza nell'intelletto si portano come le cose che sono fuori dell'anima: perché e dalle une e dalle altre l'intelletto riceve le intenzioni intelligibili". Ma poi la somiglianza cessa qui, poiché le parole dell'insegnante causano scienza "più da vicino" che non i sensibili che esistono fuori dell'anima, in quanto le parole sono segni delle intenzioni intelligibili [De Mag. Art. I (ad XI.nium). IPSA VERBA DOCTORIS AVDITA VEL VISA IN SCRIPTA HOC MODO SE HABENT AD CAVSANDVM SCIENTIAM IN INTELLECTV SICVT RES QVÆ SVNT EXTRA ANIMAM QVIA EX VLTRISQVE INTELLECTVS INTENTIONES INTELLIGIBILES ACCIPIT QVAMVIS VERBA DOCTORIS PROPINQVIVS SE HABEANT AD CAVSANDVM SCIENTIAM QVAM SENSIBILIA EXTRA ANIMAM EXISTENTIA INQVANTVM SVNT SIGNA INTELLIGIBILIVM INTENTIONVM. E sappiamo già che cosa vuol dire quel "più da vicino", (propinquius) che non è punto indice di vicinanza o lontananza materiale, ma solo del fatto che abbiamo visto, dell'essere cioè presenti nel linguaggio le forme pure già astratte dalla materia ed esistenti nella mente: le "specie" o "intenzioni" intelligibili; le quali invece non sono presenti negli oggetti esterni e nelle sensazioni. Talché lo scolaro le può assumere senz'altro dalle parole del maestro; mentre non le potrebbe assumere dalle cose e dalle sensazioni: non le potrebbe se non mediatamente, attraverso un complesso e delicato procedimento astrattivo il cui risultato finale resta, in ultima analisi, incerto, almeno rispetto a quelle particolari forme e verità che l'insegnante vuol fargli, volta a volta, scoprire. In fondo, è ancora la giusta osservazione di S. Agostino che S. Tommaso accoglie e sviluppa da par suo: nelle cose che facciamo percepire solo sensibilmente allo scolaro, questi non sa, né può sapere, dalla sola percezione, quali siano gli elementi essenziali e quali gli elementi accidentali della cosa, quali gli elementi su cui abbiamo voluto fermare la sua attenzione e quali quelli che può anche trascurare. E da questa incertezza, causa feconda di errori, non si esce se non aggiungendo, alla percezione della cosa, l'insegnamento verbale del maestro, che solo può metterci innanzi le forme già astratte dalla materia e farci subito distinguere l'essenziale dall'accidentale, l'oggetto proposto al nostro pensiero, da altri oggetti reali o possibili. Così il linguaggio del maestro, lungi dal sopprimere l'esperienza dello scolaro, è proprio quello che la spiega, l'ordina, l'organizza e, insomma, le dà un vero significato e valore. È risolto, così, quel tal problema della «comunicazione» fra maestro e scolaro? Certo, ed è risolto proprio col rispettare ambedue quei dati del problema che a prima vista parevano inconciliabili: il carattere sensibile del linguaggio, o, in genere, dei «segni» fonici, mimici o grafici di cui si serve il maestro per operare ab estrinseco sulla coscienza dello scolaro e, insieme, il carattere affatto intimo e interno che sempre ha la scienza nell'animo dello scolaro medesimo, poiché vera «causa» di scienza allo scolaro - San Tommaso non si stanca di ripeterlo - sono non già i «segni» del maestro, ma il lume intellettuale e i «primi principi» dello scolaro stesso, il quale scopre la verità (o la falsità) di ciò che il maestro gli ha insegnato, non già ricevendo soltanto le forme intelligibili, ma riducendo i concetti così formati, sotto i primi principi, mercé quella attività collativa nella quale consiste il raziocinio, attività, senza nessun dubbio, originale e spontanea, che il maestro può stimolare e aiutare come abbiamo visto, ma in nessun modo sostituire. L'opera del maestro — altro errore che San Tommaso combatte continuamente negli argomenti acclusi al primo articolo del De Magistro — non è già un'opera creativa; come se il maestro dovesse dar lui al discepolo il lume intellettuale e i primi principi. Ma ciò non vuol dire che sia un'opera superflua e inesistente: crederlo, è l'illusione di coloro che scambiano l'attività colla creazione, l’operare col trarre dal nulla; e non potendo riconoscere in un uomo qual è il maestro un'attività creativa propria solo di Dio, finiscono col negargli ogni e qualsiasi attività od operazione. L'arte dell'insegnamento non crea la natura intellettuale; la presuppone. Ma la natura stessa dell'intelletto umano è così fatta che senza l'insegnamento rimarrebbe una vuota potenza non realizzata, o, almeno, realizzata attraverso un processo assai lento e malsicuro. La dimostrazione esauriente di questa tesi si trova nel secondo articolo del De Magistro, che è una delle critiche più brillanti e spregiudicate che siano mai state fatte all'autodidattica. Articolo paradossale in apparenza, e che suona stranamente agli orecchi di noi moderni abituati ormai da una lunga tradizione a ritenere l'autodidattica non solo un fatto evidentissimo e una realtà incontrastabile, ma addirittura il centro e il principio vitale di ogni educazione. Può dirsi qualcuno maestro di se stesso? A noi sembra di sì: sembra, anzi, che tutti e non soltanto qualcuno, siano, in certo modo almeno, maestri di se stessi. Ebbene, San Tommaso risponde senz'altro di no; e val la pena che, prima di scandalizzarci o di spaventarci, intendiamo bene il principio sul quale l'Angelico dottore fonda la sua dimostrazione; ch'è poi, in ultima analisi, lo stesso principio sul quale ha fondato la dimostrazione precedente. E, anzitutto, si faccia bene attenzione alla differenza che c'è fra queste due espressioni, apparentemente simili: «acquistar scienza da sé ed «esser maestro di se stesso». Che cosa vuol dire «acquistar scienza da sé» secondo la dottrina tomistica? Niente altro se non quello che abbiamo già visto. L'uomo possiede il lume intellettuale e i primi principi. Applicando tale sua attività al materiale offertogli dalla esperienza sensibile egli giunge da sé ad astrarre certi concetti, cioè ad accogliere nella sua mente come pure forme intelligibili quelle stesse forme che, nella natura, esistono solo come forme di una materia. Ne abbiamo visto, prima, un esempio a proposito della gravitazione e della dilatazione. È questa, così ottenuta, scienza vera e propria? Senza dubbio. Anzi, scienza alla cui estensione e complessità non ci è dato mettere un limite a priori. Supposta, da parte del soggetto umano, una continua e indefinita esplorazione della esperienza sensibile e una correlativa astrazione di forme, nulla si oppone a che ne risulti una scienza anch'essa in via d'indefinito accrescimento e a che chiunque si possa costruire, per questa via, un sapere teoricamente illimitato. Tale è l'acquisto della scienza che si ha per opera della natura, quando, cioè, la ragione naturale per se stessa giunge a cognizione delle cose ignorate [De Mag. Art. I (in corp.)]. E questo modo S. Tommaso lo definisce, per evitar confusioni, con un termine suo proprio: trovare, o scoprire: inventio. Ma se questo processo é, innegabilmente, «acquisto di scienza», è poi anche «insegnamento», o magistero? Qui la cosa cambia aspetto. L'insegnamento è un'operazione che si svolge mediante il linguaggio e che suppone, perciò, l’esistenza delle forme intelligibili come forme pure. Ora, un'esistenza tale noi sappiamo che quelle forme non possono averla nell'esperienza sensibile e nella natura, dove sono soltanto forme d'una materia: debbono averla nella mente. Ma nella mente di chi? Nella mente di colui che impara e ricerca, no di certo, altrimenti egli non imparerebbe e ricercherebbe, ma già saprebbe. Dunque nella mente di un altro, ossia del maestro. E allora l'insegnamento è un processo che lo stesso soggetto non può esercitare su sé medesimo per la contraddizione che ne consegue: perché dovrebbe al tempo stesso avere e non avere nella sua mente le forme intelligibili e i concetti, averle, dico, non in potenza e come possibilità di formarli, ma in atto, già formati e come principi positivamente esistenti e operanti. Per potere insegnare a me stesso, per esempio, la legge della gravitazione universale, io dovrei non soltanto avere la percezione dei corpi che cadono e astrarne poi la legge, il che sarebbe inventio, o scoperta e non insegnamento; ma dovrei già conoscere ed esprimere la legge come pura legge; il che è assurdo, poiché, evidentemente, se già conoscessi la legge non avrei bisogno di cercarla né di impararla. Sembra un'oziosa questione di parole, e non lo è. Poiché S. Tommaso non chiama con due nomi diversi l'acquistar scienza da sé (inventio) e l'insegnamento (doctrina, disciplina) per il solo gusto di complicare il vocabolario, ma appunto per definire bene due concetti che gli sembrano, e sono, distinti. Abbiamo noi il diritto di estendere a una vera e propria azione qual è l'insegnamento, ciò che è caratteristico, invece di un processo spontaneo e naturale come la scoperta e l'invenzione? Abbiamo cioè, il diritto di considerare anche il naturale acquisto della scienza che avviene spontaneamente e necessariamente in ciascuno per il solo fatto d'esistere, di pensare, di guardarsi attorno, come una vera e propria completa azione? A San Tommaso sembra di no, e questo è appunto l'argomento sul quale tutta la dimostrazione del secondo articolo si regge. Per potersi parlare di vera e propria «azione» (azione «perfetta») é necessario che l'agente il quale fa da causa, contenga in sé in maniera essenziale e non accidentale ciò che produce poi nell'effetto [De Mag. Art. II (in corp.)]. Così, ad esempio il fuoco è agente di sanità, per colui che soffre di una malattia guaribile col calore, ma agente accidentale (imperfetto) poiché non contiene se non fortuitamente e per accidens ciò che in quel dato caso produce la guarigione. Ma lo stesso fuoco è agente essenziale (perfetto) nell'incendio d'una casa, appunto perché, come fuoco, contiene già in sé tutto ciò ch'è necessario agli effetti della combustione. E dunque se l'insegnamento ha da essere una vera e propria «azione» (azione perfetta) occorre che nell’agente sia già contenuto tutto ciò che sarà poi prodotto dall'azione. Il che accade soltanto se il soggetto maestro è diverso dal soggetto scolaro, ossia ha già in sé in atto, esplicitamente e perfettamente, tutto ciò che per sua opera sarà poi nel discepolo: la scienza. La autodidattica, invece, o, meglio, l'inventio è azione solo imperfetta, cioè non vera e completa azione, poiché in essa la causa, sia l'intelletto e i primi principi, sia l'esperienza sensibile, contiene sì ciò che sarà poi nell'effetto (la scienza, le forme intelligibili come forme pure) ma lo contiene solo implicitamente e potenzialmente, quanto al suo essere di scienza e di forma pura. E questa non è - si badi bene - un'astratta escogitazione teorica senza nessuna rispondenza alla realtà. Al contrario, S. Tommaso c'invita ad osservare con lui che le cose stanno proprio in tal modo. Noi siamo, è vero, portati a lodare l'autodidatta e, perciò, attribuiamo all'autodidattica un valore superiore, in certo senso, a quello del semplice insegnamento. Ma nel far questo ci lasciamo sviare da un'osservazione che dovrebbe, se ben interpretata, suggerirci proprio la conclusione contraria a quella che abitualmente ne ricaviamo. Perché, infatti, esaltiamo, e giustamente, l'autodidatta? Ma appunto perché fa uno sforzo eccezionale; se no non avremmo ragione di lodarlo. Ora, l'eccezionalità di questo sforzo consiste precisamente nel fatto che l'autodidatta non segue nel costruire la sua cultura, il processo normale dell'insegnamento. Così l'equilibrista cammina sopra un filo, e merita elogio: ma diremo per questo che il migliore, più sicuro e spedito modo di camminare sia quello d'andar su un filo? No certo, anzi, diremo tutti che l'abilità dell'equilibrista consiste, invece, nell'aver scelto, per camminare, uno dei modi peggiori, meno sicuri e meno spediti. E, dunque, anche dell'autodidatta dobbiamo dire che l'autodidattica, lungi dall'essere il modo migliore e più sicuro di apprendere è, anzi, il peggiore e il più malsicuro, e che proprio per aver saputo acconciarsi a questa maggiore difficoltà l'autodidatta merita lode «...sebbene il modo di acquistare scienza mediante la ricerca sia più perfetto riguardo a chi riceve la scienza, in quanto egli si segnala più abile a sapere, pure, rispetto a chi causa la scienza, è più perfetto il modo d'acquistare scienza attraverso l'insegnamento» [De Mag. Art. II (ad 4.tum.) «quanivis modus in acquisitione scientiae per inventionem sit perfectior ex parte recipientis scientiam, inquantum designatur habilior ad sciendum; tamen ex parte scientiam causantis est modus perfectior per doctrinam»]. Né si creda che quel ridurre a scienza «più speditamente», sia solo una sfumatura: anzi, c'è sotto una questione di principio, così importante che solo chi l'ha afferrata può dirsi abbia inteso veramente la differenza fondamentale che intercede tra la filosofia scolastica e certe filosofie moderne, quali il materialismo positivistico o l'idealismo. C'è la scienza, prima di essere insegnata? Strana domanda, dirà qualcuno, eppure a questa domanda una corrente, certo rispettabile, e notevolissima della filosofia moderna, risponde addirittura di no. La scienza non c'è ma si fa, s'inventa, o si crea, nell'atto stesso dell'insegnamento. Come, poi, si fa o si crea? Dal pensiero nostro, il quale è, o dovrebbe essere un atto, secondo la filosofia moderna; ma viceversa è un atto che non è mai completamente realizzato, ma sempre deve realizzarsi, perciò diviene e si svolge all'infinito sempre facendosi altro da quello che era prima. Ora, un atto di questo genere: un atto che non è tutto realizzato, o tutto realizzantesi, un atto che non è, insomma, tutto quel che può e deve essere, ma aspetta di svolgersi e di completarsi sia pure in un processo infinito, un atto di questo genere, la filosofia scolastica non lo chiamerebbe punto atto, bensì potenza. Il pensiero nostro, come abbiamo visto, possiede sì, tutta la scienza passata presente e futura, ma «in potenza» o come pura possibilità di conoscere, non già come atto, o come conoscenza positiva e concreta. Ebbene, una pura potenza può esser causa reale di un atto? Una pura possibilità può dar origine a una realtà? Lo può, ma in quanto presuppone, a sua volta, un atto antecedente, così come il seme può dar origine alla pianta, ma è, a sua volta, derivato da un'altra pianta. Non è la pura «possibilità» di vivere che genera l’uomo, ma l’opera di un altro essere in cui la vita è già in atto: il padre, la madre. E dunque il supporre che la scienza, nello scolaro e nel maestro, derivi solo dal pensiero in quanto è una pura potenza o possibilità di conoscere, è così assurdo come supporre che il figlio nasca, non dal padre e dalla madre, ma dalla «possibilità» di vivere. Perché ci sia la scienza in potenza, ci deve essere già stata, la scienza in atto: perché ci sia il seme, già ci vuol la pianta completa. Ecco la differenza fra la scolastica e l'idealismo o il materialismo moderni. Secondo questi sistemi, tutta la realtà procede, in fondo, da una pura potenza, da un germe, un X spirituale o materiale che non è nulla al principio, ma tutto si fa o diviene: l'essere, insomma, deriva dal non essere. Secondo la scolastica, la realtà procede da un Atto assolutamente puro, senza mistura di potenza, nel quale sussistono eminentemente e perfettamente realizzati e realizzantisi ab aeterno, tutti quei valori che, nella realtà stessa, la nostra mente poi rintraccia: Dio, principio primo e fine ultimo d'ogni cosa. Ed ecco, quindi, la diversità fra la doctrina e l'inventio, fra l'insegnamento e l'autodidattica, fra lo «scoprire» e l'imparare. Si capisce che per coloro i quali seguono certe teorie filosofiche moderne, la doctrina presupponga l'inventio: se prima non abbiamo «scoperto» o tratto dal nulla la scienza, che cosa potremo mai insegnare? Ma in realtà, per San Tommaso e la scolastica, è vero il contrario: l’inventio presuppone la doctrina, noi possiamo, cioè, scoprire una scienza solo in quanto essa c'è già, ed è già in atto, se no, che cosa scopriremmo, il vuoto? Le forme stesse realizzate nella materia che ci dà la natura, non potrebbero ivi esistere, se prima non esistessero come pure forme nella mente di Dio, alla quale ogni scienza deve necessariamente risalire come a sua causa prima: sistema di idee, o rationes aeternae, come anche la scolastica le chiama, cioè archetipi e modelli di tutte le cose. Di qui il valore insostituibile della doctrina, cioè del vero e proprio insegnamento, poiché, nella mente del maestro, la scienza ha un'esistenza d'ordine superiore a quello che ha nella natura e nell'esperienza: una esistenza, se così ci si potesse esprimere, più lontana dalla materia e più vicina a quella delle rationes aeternae nella mente di Dio. Onde il genialissimo concetto tomistico dell'insegnamento, fondato proprio al polo opposto dell'autodidattismo moderno, non sull'imperfezione e sul divenire, ma sulla perfezione intrinseca della scienza che, quasi per sovrabbondanza, sembra irraggiare ed effondere, nel suo atto, dalla mente del maestro alla mente dello scolaro. Andare più oltre vorrebbe dire superare i limiti della presente trattazione, addentrandosi in una esposizione analitica del De Magistro, che, nella abituale densità e concisione del pensiero tomistico, presenta quasi ad ogni passo dovizie di dottrina, il cui adeguato svolgimento produrrebbe tutta una organica teoria della educazione da esporsi in un vero e proprio trattato, e non in un breve saggio [Chi desidera approfondire l'argomento può confrontare il nostro volume Maestro e Scolaro. - Soc. Ed. «Vita e Pensiero», Milano, 1930]. Basti qui ricordare, per concludere, che a questo punto il pensiero di S. Tommaso si ricongiunge a quello di S. Agostino, dando origine a una concezione della scienza e dell'insegnamento che si può considerare caratteristica dell'età in cui il sapere umano s'impose la più rigida e, insieme, la più feconda disciplina intellettuale: vogliamo dire il Medio Evo. La scienza come doctrina piuttosto che come inventio: non perché l'invenzione non possa e non debba avere la sua funzione legittima, ma perché la doctrina è un organo superiore, il mezzo più elevato e sicuro, del quale Dio stesso si è servito per ammaestrare il genere umano, al quale ha dato non solo la sensibilità, il lume intellettuale e i primi principi, abbandonandolo poi a tutte le incertezze d'una ricerca puramente naturale, ma una vera e propria scienza, rivelata dapprima ai Patriarchi e ai Profeti, poi agli Apostoli, ai Padri, ai Dottori e a tutta la Ecclesia docens, il cui perenne magistero si estende attraverso i secoli. I geni di Agostino e di Tommaso si uniscono in questa visione della scienza come procedente da Dio; ma mentre il primo preferisce insistere sull'azione diretta e immediata di Dio nell'anima e sulla operazione dello Spirito che agisce, soprannaturalmente, in ciascuno di noi, l'altro mette in luce, piuttosto, l'azione delle cause seconde e il magistero umano che Iddio medesimo ha voluto stabilire nella Chiesa, come organo della Rivelazione, oltreché nella scuola come strumento della cultura puramente naturale. Ma anche per S. Tommaso, come per S. Agostino, il problema dell'educazione e dell’insegnamento non si vede tutto, se non si considera, oltre che sotto l'aspetto naturale, sotto l'aspetto soprannaturale. Per questa parte il De Magistro tomistico non s'intende, senza ricorrere a quella triplice analisi della scienza qual è nella mente divina, nell'intelligenza angelica e nell'intelligenza umana, che si trova nella Summa Theologica: analisi alla quale si debbono aggiungere gli articoli che trattano della necessità e possibilità d'una Rivelazione. Ch'è poi sempre il grande metodo della Scolastica: stabilire, con la sola ragione, la legittimità e l'esistenza della Rivelazione, ma poi adoperare la rivelazione per estendere, disciplinare, consolidare l'opera della ragione. Taluno, certo, obietterà che questo metodo e questa concezione della scienza riducono a nulla l'attività e la libertà umana, condannate soltanto ad assoggettarsi, e a ricevere passivamente un sapere già fatto, fuori di loro, onde, si maledirà il Medio Evo, come l'epoca per eccellenza mortificatrice dell'umana originalità. Obiezione tanto impressionante a prima vista, quanto intrinsecamente debole e fondata sull'equivoco. Poiché la libertà dell'intelletto sta appunto nel conoscere il vero, e non nel conoscere il falso; e, perciò colui che riceve dottrina da un maestro, se questa dottrina è vera, non riceve una violazione, anzi un incremento della propria attività e personalità, così come, viceversa, colui che inventa o scopre, se inventa degli errori, riceve una vera propria violazione e diminuzione della sua attività intellettuale. E, dunque, colui che riceve scienza da un maestro più sapiente di lui, riceve non schiavitù, ma libertà intellettuale, e più ne riceve quanto più il maestro è sapiente e, perciò, la dottrina vera; e il massimo ne riceve quando il maestro è il più sapiente di tutti: Dio, e la dottrina la più vera di tutte: la dottrina rivelata. Schiavo in apparenza, il pensiero medioevale, col suo centro nella sacra teologia, era il pensiero più libero e audace che mai ci sia stato; un pensiero che tutto osava discutere e su tutto argomentava, un insegnamento della cui vastità e organicità le Somme ci sono, anche oggi, testimoni; ben lungi dall'anemica povertà dei criticismi o dei positivismi che hanno voluto liberare le intelligenze coi dubbi e fare la luce con l'oscurità. La pedagogia moderna cadde in un grosso equivoco quando confuse due concetti fra loro tanto diversi come quello di attività o libertà e quello di «autodidattica», quasiché per essere libero o attivo lo scolaro dovesse inventar tutto da sé, e non fosse vero invece il contrario e cioè che tanto più attivo e libero sarebbe riuscito lo scolaro quanto più energicamente gli si fosse data dal maestro una dottrina completa e vitale; e, per converso, tanto meno libero quanto più si fosse lasciato agli errori e alle incertezze delle sue personali invenzioni. Figlia di età indisciplinate e sterilmente irrequiete, la pedagogia moderna ha, così, affaticato gli intelletti giovanili senza nutrirli, e ha dato origine a quei gravi inconvenienti che uomini, pur poco tradizionalisti e niente affatto «medioevalisti», come il Lambruschini e il Capponi, hanno, durante il secolo scorso, con tanta efficacia denunciato. Tra gli sforzi di questa pedagogia così affaccendata e disorganica, il pensiero di S. Tommaso ci fa, oggi, l'effetto che fa sempre il ritorno all'antico, quando è, come nel nostro caso un antico «più vero» e, perciò, più «moderno» del moderno: l'effetto di una novità addirittura rivoluzionaria. Studiare S. Tommaso vuol dire, in questa come in tante altre questioni, ritrovare noi stessi. Una pedagogia del passato? Diciamo, piuttosto: una pedagogia dell'avvenire. L'Educazione naturale (Relazione presentata alla XVII Settimana Sociale dei cattolici italiani, Firenze, 1927) In due sensi può parlarsi di educazione naturale o soprannaturale: quanto al contenuto e quanto alla forma. Si dice, cioè, nel primo significato, soprannaturale l'educazione che ha per oggetto nozioni od atti che non si riducono alla natura umana e che non sono una semplice esplicazione di potenze in essa contenute. Si dice, nel secondo significato, soprannaturale l'educazione che, pur nel realizzare nozioni od atti, normalmente impliciti nella natura stessa, li realizza ricorrendo a mezzi i quali sono, essi, affatto irriducibili, ai naturali procedimenti dell'educazione. Per spiegarmi meglio, prenderò due esempi. Ecco un uomo che s'accosta tutti i giorni ai Sacramenti e, così facendo, progredisce via via nelle virtù dell'umiltà, della pazienza, della temperanza, della castità e, viceversa, reprime i vizi dell'orgoglio, dell'ira, dell'intemperanza, della lussuria. Orbene, questa educazione potrà dirsi naturale nel contenuto, ma soprannaturale nella forma. Naturale nel contenuto, giacché l'umiltà, la pazienza, la temperanza, la castità, sono virtù non soltanto possibili in tesi generale alla natura umana, ma tali che, nella maggior parte dei casi, la loro possibilità sarebbe distrutta, se la natura umana fosse diversamente costituita. Soprannaturale nella forma, perché quelle stesse virtù, potenzialmente insite nella natura umana, vengono sviluppate, colla frequenza dei Sacramenti, mediante un'azione che non è l'ordinaria disciplina o l’ammaestramento che un uomo può esercitare, sugli altri o su se stesso, con l'opera o la parola bensì la misteriosa, indefinibile azione d'un Dio che a noi s'assimila attraverso le specie eucaristiche. Prendiamo, invece, un maestro mentre spiega il catechismo ai suoi alunni, e parla loro di un Dio solo in tre persone distinte: avremo, evidentemente, un caso di educazione naturale per la forma e soprannaturale per il contenuto. Naturale per la forma, poiché nulla v'ha di più consono alle possibilità della natura umana che il leggere un libro e commentarne alcuni passi. Soprannaturale pel contenuto, poiché la nozione del Dio uno e trino nel senso cattolico della parola, è inattingibile alle sole forze della ragione nostra, e può ottenersi solo mediante una rivelazione divina, che la Chiesa ci ha conservato in fedele deposito attraverso i secoli, e alla quale l'umile maestro attinge quando istruisce nella religione i suoi scolari. Evidentemente, oltre questi due casi in cui nell'educazione l'oggetto è naturale e soprannaturale il metodo e viceversa, v'hanno anche i due casi più semplici, in cui e l'oggetto e il metodo sono entrambi naturali, o entrambi soprannaturali. Appartengono al primo tutti i più consueti esempi di educazione e d'istruzione che siamo soliti considerare nella scuola, nella famiglia e nel collegio, ove nozioni e attitudini naturali all'uomo, come le arti, le scienze, la morale, la filosofia vengono insegnate con quei metodi che la ragione e l'esperienza suggeriscono agli educatori. Appartengono al secondo caso, invece, tutti quei fatti, così numerosi nella storia del cristianesimo, ove una particolare rivelazione o mozione divina è veicolo, per dir così, di nozioni, atteggiamenti od affetti che l'uomo, secondo la pura possibilità della natura propria non avrebbe, nonché raggiunto, neppure sospettato. Cito un solo, ma tipico esempio: la discesa dello Spirito Santo sugli apostoli. I quali, appunto perché uomini, e quindi abituati a misurare tutto alla stregua della natura umana, avevano fino allora trovato di colore oscuro, benché Cristo medesimo le avesse loro inculcate, tante verità soprannaturali come la preannunziata morte e risurrezione del Salvatore, la redenzione del genere umano attraverso le lacrime e il dolore d'un Dio, la concordanza fra l'antica legge e la nuova, i rapporti fra il Padre ed il Figlio e via discorrendo, verità che, invece, dopo che le lingue di fuoco furono discese sul loro capo, s'impressero così profondamente nel loro animo da permetter poi loro d'insegnarle, con quell'efficacia che sappiamo, a tutto il mondo allora conosciuto. Io non parlerò adesso - poiché non è mio compito - della educazione in quanto soprannaturale nel contenuto e nella forma, e neppure soltanto nel contenuto. Io non parlerò dell'educazione, cioè, in quanto puramente soprannaturale, e neppure in quanto veicolo di nozioni, o di attitudini soprannaturali. Mi limiterò, dunque, a parlare dell'educazione naturale. II Sarebbe abbastanza interessante poter esaminare alla luce di queste nozioni oggi molto trascurate, quando non addirittura respinte e derise come assurde dagli studiosi, le più importanti concezioni pedagogiche, nelle quali il pensiero umano si è, attraverso la storia, rispecchiato. Ma, non potendo arrischiarci in un lavoro di così vasta mole, ci limiteremo ad affermare semplicemente che tutte le più importanti teorie dell'educazione sono, in un certo senso, naturalistiche, perché tutte confidano, anche quando non vogliono riconoscerlo, in una immanente capacità della natura umana, che le permette di svolgersi colle sue proprie forze, verso la verità e la moralità. Capacità che, essa stessa, si può coltivare e aiutare con mezzi puramente umani come l'insegnamento, l'esempio, il governo, la disciplina, dei quali è formata, appunto, l'educazione naturalmente e umanamente intesa. Senza questa fiducia, e nelle forze stesse della natura umana e nella possibilità di aiutarle, l'educazione sarebbe un perditempo assurdo. Se l'uomo non fosse fatto per la verità e la moralità, egli non potrebbe conoscere l'una e praticare l'altra, come effettivamente non la conoscono né la praticano gli animali, i minerali o le piante. Se, d'altra parte, in questo suo sforzo verso il vero e il bene, la natura umana non potesse essere aiutata con mezzi e strumenti adatti tanto varrebbe chiudere tutte le scuole, bruciare tutti i libri, abolire tutti i maestri, e lasciare che ognuno se la sbrigasse, alla meglio, da sé. Anzi, non si sarebbe trovato mai nessuno così pazzo da spender tempo e fatiche nell'educare i propri simili; o, se si fosse trovato, la disperata inutilità del tentativo, lo avrebbe, subito, persuaso di smettere; e scuole, collegi, libri, maestri, non sarebbero mai stati. Fin qui, dunque, fino a questa legittima persuasione intorno alla possibilità di educare l'uomo con mezzi naturali, tutte le teorie pedagogiche si debbono trovar concordi: né la pedagogia cristiana stessa, potrebbe fare eccezione. E lo dimostra la storia del cattolicesimo, il quale, nonostante la grandissima importanza da lui attribuita, nell'educazione, all'elemento soprannaturale, ha sempre rifiutato come eretica, la teoria la quale afferma impossibile all'uomo il conseguimento del vero e del bene senza una positiva rivelazione divina e proclamando «errori» la filosofia e «peccato» le virtù dei pagani, volentieri condannerebbe al rogo come futili sciocchezze, ogni scienza, ogni progresso, ogni civiltà. Così, invece di gettar via la scienza del paganesimo, il cristianesimo poté mantenerne viva la fiaccola nei suoi chiostri, nelle sue scuole, nelle sue Università e, ricongiungendo sapientemente il nuovo all'antico, poté serbare intatta quella tradizione della civiltà occidentale che ci fa, oggi, giustamente orgogliosi. Ma, oltre questo «naturalismo» ch'è, in fondo, una ragionevole fiducia nelle forze della natura umana, la quale, se ha in sé delle tendenze al male e all'errore, ha pure in sé delle tendenze altrettanto spontanee al bene e alla verità; oltre questo saggio naturalismo senza cui non è possibile parlare neppure di educazione, molte dottrine pedagogiche, specie moderne, hanno in sé un altro «naturalismo» niente affatto utile o necessario all'educazione. Tale naturalismo, non si limita a dichiarare che l'uomo ha nella sua propria natura le energie necessarie al suo ordinato svolgimento: afferma che ogni educazione si riduce allo spontaneo svolgimento della natura umana secondo le proprie, immanenti leggi costitutive. E non si limita a riconoscere che l'uomo ha nella sua propria natura una tendenza al vero e al bene, cioè che è fatto, in ultima analisi, per la conoscenza dell'uno e l'attuazione dell'altro, ma afferma che l'uomo solo è a sé stesso il vero e il bene, perché appunto nello svolgimento delle sue umane energie, o per sé prese o nei loro rapporti colla circostante natura, consiste il solo vero e il solo bene possibile. E non si limita, quindi, ad affermare la legittimità d'una educazione naturale dell'uomo, ma respinge come assurda e satireggia come ridicola pur l'idea d'una educazione soprannaturale, o, comunque, di un elemento soprannaturale nell'educazione. III Distinguiamo, anzitutto, due cose che si sogliono, per lo più, confondere: la possibilità d'una educazione naturale, e la sua effettiva realtà. Che l'uomo possa essere educato, e, anzi, sia fatto per essere educato al vero e al bene, non c'è dubbio, ma che tutti gli uomini siano, effettivamente, educati al vero e al bene, che tutti gli uomini arrivino, in realtà, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene, almeno nella misura necessaria a ciascuno per condurre decorosamente la sua esistenza umana, nessuno vorrebbe certo, affermarlo, fino al giorno in cui tutti i viziosi e gl'ignoranti non saranno eliminati dalla faccia della terra. Si può, è vero, sempre sottilizzare e rispondere che nemmeno l'uomo più rozzo ed ignorante del mondo vive senza accogliere nella mente un barlume di verità, che nemmeno il peggiore delinquente può fare a meno di vagheggiare, in fondo all’animo, qualche sentimento buono, e che, perciò, l'educazione del genere umano, fino a un certo punto, avviene sempre, e non può non avvenire. Ma è facile obiettare che la bontà la quale pure possiamo scoprire nel delinquente, o la verità che regna anche nel cervello dell'ignorante, non sono quella verità e quella bontà di cui si preoccupa l'educazione. Prodotte da una necessità delle cose, e non da una libera adesione dello spirito, inconsapevoli di sé, esse si distruggono e ci danno come risultato l'ignoranza nell'ignorante, e la delinquenza nel delinquente. O vorremo presentare il delinquente e l'ignorante come il tipo dell'uomo «educato»? Una tale ipotesi è così assurda che si confuta da sé. Se ci dovessimo contentare di quel vero e di quel bene che, come lo Spirito di Dio, riempiono il mondo e che, anche negandoli, l'uomo è sforzato in ogni condizione a riconoscere col solo fatto di esistere e di pensare, da lungo tempo l'umanità avrebbe chiuso le scuole e bruciato i libri e ricacciato i fanciulli ad istruirsi nella selva primitiva. Se, invece così non ha fatto, e le scuole e i libri, e i metodi costituiscono ancora la sua preoccupazione dominante, si è perché tutti sanno che il vero e il bene nell' uomo inconsapevole sono come l'oro, che non ha alcun valore finché non sia estratto dal fango col quale si trova mescolato. Torniamo, dunque, alla nostra primitiva affermazione. Benché l'uomo sia, per natura, potenzialmente educabile, questa possibilità non è ancora una realtà; e tutti i laboriosi sforzi fatti dal genere umano per educarsi, sono l'implicito riconoscimento della notevole differenza che intercede fra quella possibilità e la sua realizzazione effettiva. Riescono, almeno, questi sforzi? L'educazione naturale riesce, almeno, a portare ciascun uomo che apre gli occhi alla luce, alla conoscenza del vero e alla pratica del bene? Non pretendiamo ch'essa formi sempre dei santi, degli scienziati o degli eroi: forma almeno, sempre, onesti uomini, capaci lavoratori, buoni padri di famiglia? Ahimè, questa volta la risposta è troppo facile davvero! Se così fosse, oggi che, nelle nazioni civili l'istruzione è obbligatoria e la scuola tutti accoglie fra le sue mura, non dovrebbero esserci delinquenti, viziosi, vagabondi o inetti, le prigioni dovrebbero chiudersi, gli ospedali diminuire notevolmente; le famiglie, tutte ordine pace e armonia, non conoscerebbero i tristi germi che ne rodono la vita; la corruzione non insudicerebbe più carte ed anime colle sue oscene figure; dappertutto il lavoro innalzerebbe la sua lieta canzone, e la gioia e la serenità soltanto tesserebbero innanzi ai nostri occhi il loro ordito incantevole. Ahimè! Basta dare uno sguardo alla cronaca dei giornali per vedere questo sogno svanire come nebbia, al tocco della triste realtà. Anche nel più modesto mestiere, sono in maggior numero i capaci o gl'incapaci? i dotti o gl'ignoranti? i laboriosi o i fannulloni? gl'imbroglioni o gli onesti? No, non sarebbero tanto stimata l'onestà, tanto ricercate e pregiate la capacità, la competenza, l'attitudine al lavoro, se fosse possibile trovarle a tutte le cantonate! Ma poi, badiamo, non si tratta, qui, di più o di meno, di maggioranza o minoranza, che la scienza non si fa come i congressi o le elezioni. Quand'anche l'educazione universalmente diffusa avesse reso tutti onesti, tutti bravi, tutti capaci, tutti intelligenti, e di fronte a questi fortunati mortali un uomo - uno solo - fosse uscito dalle nostre scuole vizioso, fannullone, stupido e caparbio, io dico che quest'uno solo basterebbe colla sua esistenza per dare una solenne smentita a tutti i maestri e i pedagogisti e i metodi e i sistemi di cui si vanta la nostra civiltà. Quand'anche non si potesse citare che un solo uomo - uno solo - circondato da tutte le cure e cresciuto in una famiglia esemplare, e affidato ai migliori maestri, e tirato su fin dall'infanzia nelle più virtuose abitudini, dal quale poi fosse venuto fuori un giorno un bel fior di canaglia - quand'anche non si potesse citare che un solo esempio di questo genere - l'educazione umana, l'educazione naturale, dovrebbe considerarsi incapace di fatto (benché capace di diritto) a realizzare i propri fini: incapace a far diventare realtà concreta, quella potenzialità, quella tendenza al bene e al vero che esiste nella natura umana. E che importa conquistare il mondo, quando si è persa una - una sola - anima? In quell'anima era tutto un mondo: in lei non è stato sconfitto solo un individuo, ma il pensiero e il volere umano, irreparabile sconfitta, poiché quel pensiero e quel volere sono appunto la natura stessa che non solo si supponeva educabile, ma si presumeva di fatto educare coi nostri sottili accorgimenti. E invece tale natura ci si ribella e ci si mostra d'un tratto, in quell'unico individuo, chiusa, avversa, inaccessibile a tutti i mezzi coi quali l'abbiamo lavorata; come preda d'un fato misterioso contro cui ogni nostro potere sembra disarmato. IV Finora abbiamo parlato in generale. Ma le stesse considerazioni particolari e tecniche di cui è piena la storia della pedagogia, valgono a confermare la nostra tesi. Vediamolo, anzitutto, per il problema dell'istruzione. Che cosa c'è di più facile, in certo senso, dell'istruire? Il maestro parla, il discepolo ascolta. Le idee, mediante quel loro naturale veicolo che è il linguaggio, passano dalla mente dell'uno alla mente dell'altro. Se il discepolo è stato «attento», se i ghiribizzi della sua fantasia non l'hanno distratto, se un po' di pigrizia non lo ha intorpidito, se il maestro ha messo nelle sue spiegazioni l'ordine e la chiarezza necessari, la lezione ha raggiunto il suo scopo, e lo scolaro imparato ciò che doveva imparare. In sostanza si tratta soltanto di assicurarsi che nessuno dei piccoli malanni or ora enumerati abbia intralciato il regolare andamento delle cose, e per fare questa verifica lo stesso strumento che ci ha già servito ci può ancora servire. Il linguaggio, il naturale veicolo delle idee, già usato per la lezione, servirà per l'interrogazione e le ripetizioni, le quali dimostreranno se il discepolo è stato attento e ha compreso, se il maestro è riuscito, nelle sue spiegazioni, chiaro ed efficace. E quando, sventuratamente, così non fosse stato, chi ha prodotto il male, ci darà anche il rimedio. Il linguaggio è sempre là per correggere, chiarire, spiegare di nuovo, interrogare di nuovo, e dove non bastasse la parola parlata c'è la parola scritta: libri, quaderni, appunti, riassunti e così via. Ebbene, la storia della pedagogia, specialmente moderna, è, si potrebbe dire, tutta una critica a questo semplicissimo e vetusto fra i metodi, di cui l'umanità si è sempre servita per istruirsi e di cui, con le debite cautele, sempre si dovrà servire. La parola, infatti, e, con essa l’idea, non è un oggetto materiale che si possa trasmettere da una mano all'altra, una moneta che l'alunno riceve dal maestro e chiude nel borsellino. La parola è, prima che suono o segno esterno, atto interno del nostro spirito, e se questo atto non si produce, l'alunno può ripetere il suono o il segno senza aver capito niente della cosa significata, come effettivamente accade tante volte nella scuola. Eppure la ragione di tale spiacevole inconveniente che, spesso, riduce a una vuota accozzaglia di frasi nella mente giovanile l'istruzione impartita con maggior cura, è una ragione chiarissima. La parola è segno dell'idea, e l'idea è, se mi consente il paragone, lo strumento di una superiore e delicata civiltà che l'uomo adulto e già colto si è conquistata col sudor della fronte: è un termine ideale che si è ottenuto astraendolo dai particolari dell'esperienza sensibile. Ma innanzi a questa superiore civiltà l'alunno e, più, il fanciullo, è ancora un «barbaro» che vive in mezzo alle cose sensibili, particolari, e ancora non ha imparato ad astrarne l'idea, o, se lo ha imparato, ancora non sa mantenersi per lungo tempo in tale sfera superiore, né può lavorare sulle idee, e seguire tutta una catena di concetti, di definizioni, di ragionamenti, come la scuola pretende. Ne segue un errore gravissimo, da parte del maestro, il quale crede di aiutare tanto più lo scolaro, quanto più gli presenta la materia in ristretto, ridotta a poche, semplici e chiare idee, e non s'accorge, invece, che tanto più rende l'insegnamento difficile, quanto più presenta idee «semplici», che sono appunto le più universali e le più lontane dall'esperienza sensibile, nella quale il fanciullo vive. E allora questi, non potendo capire l'idea, s'appiglia al partito più facile, e ripete la parola e quanto più il maestro s'affanna a chiarire, spiegare e «semplificare», tanto più diventa impossibile al discepolo ripetere altro che parole. Per togliere questi inconvenienti, la pedagogia moderna ha proposto un celebre e decisivo rimedio: conformar l'istruzione al procedimento con cui naturalmente si formano in noi le idee astratte. Procedere, cioè, dal particolare all'universale, dal senso all'intelletto, dall'esperienza al concetto. Non presentare mai la parola senza la cosa, l'idea senza l'immagine, la definizione senza l'oggetto definito: procurare, anzi, che l'alunno stesso opportunamente guidato trovi da sé l'idea sotto lo stimolo della cosa e dell'immagine. È il cosiddetto metodo «intuitivo» che innegabilmente, se lo si adopera bene, dà buoni risultati, e al quale è da augurarsi che ci si ispiri sempre più e meglio in quella riforma di tutte le istituzioni scolastiche che le moderne nazioni civili vanno da qualche tempo effettuando. Ma badiamo bene: neppure il metodo intuitivo, pur inteso e applicato nel miglior modo possibile, è sicuro. Giacché, anche l'esperienza sensibile, partendo dalla quale si vuol condurre l'alunno alle idee, non è un oggetto o un processo meccanico, ma un atto dell'anima, che non ha nessun significato senza un esplicito concorso da parte dell'alunno. E' stato detto assai bene; anche per spiegare che due e due fanno quattro, avete un bel prendere il ragazzo, e fargli stendere due dita della destra e due della sinistra, e poi avvicinarle e far contare: se il ragazzo è «disattento», se si rifiuta di far scattare la scintilla ulteriore del pensiero, se «non vuole» ascoltare, nessuna costrizione, fosse anche la tortura, sarà capace di immettere nella sua testa ribelle quella semplicissima verità. Sicché in ultima analisi, quantunque i buoni metodi abbiano, certo, molta importanza, tutta l'istruzione dipende da circostanze imponderabili e imprevedibili che solo la genialità di un maestro artista può, volta per volta, determinare. Ora, siccome i maestri geniali ed artisti sono, necessariamente, una minoranza, ne viene di conseguenza che i tre quarti dell'umanità, affidati a maestri non geniali e non artisti, ricevono una istruzione difettosa. Ma non facciamo troppo facile la nostra dimostrazione. Concediamo pure che il metodo «intuitivo» possa, da solo, garantirci per tutti una buona istruzione [Il che evidentemente non è, poiché il metodo intuitivo, se contiene un principio gnoseologico verissimo, troppo spesso ignora o fraintende il valore del linguaggio, ch'è molto superiore a quello dei sensibili esterni. Si cfr. nel saggio precedente la teoria di San Tommaso in proposito]. Supponiamo anche ch'esso sia sempre facile ad applicare dappertutto; anche, mettiamo, alle scienze morali e filosofiche, nelle quali, pure, tutti vedono non esser tanto semplice trovare, quando occorre, una esperienza corrispondente alle singole idee. Io domando: chi vi garantisce che quel metodo possa essere applicato in tutte le scuole? Badate: sono secoli che la pedagogia conosce i difetti del verbalismo scolastico, e i pregi del metodo intuitivo; sono secoli che i migliori studiosi lamentano il deplorevole insuccesso dei sistemi abituali; sono secoli che «sapere scolastico» è sinonimo di sapore falso, freddo, morto, inutile: eppure ancor oggi, in mezzo a tutta la nostra civiltà, una migliore organizzazione dell'istruzione scolastica non s'è potuta ottenere se non incidentalmente, in alcuni istituti-modello, in alcuni ordini e gradi di scuole, in alcuni paesi privilegiati. Nella maggior parte dei casi, la scuola continua ad esser tutta spiegazioni verbali, definizioni astratte, ripetizioni, classificazioni, suoni e parole che gli studenti ingozzano spesso senza intenderne nulla, per ripeterle tal quali agli esami, e dimenticano subito dopo. E se un principio scientifico cosi evidente come quello del metodo intuitivo ha dovuto aspettare per secoli una parziale e incompleta realizzazione, che sarà di altre verità pedagogiche più astruse e complicate, eppure non meno necessarie a un buon andamento dell'istruzione? Quanti altri secoli dovremo attendere perché siano messe in pratica? Ma supponiamo, ancora, che i metodi secondo cui l'istruzione s'impartisce nelle scuole siano sempre e dappertutto i migliori possibili; supponiamo tutti i maestri buoni e tutti i discepoli volonterosi; supponiamo rimosse le condizioni economiche e sociali che oggi impediscono, o limitano a taluno la frequenza scolastica. Otterremo, per questo, un'umanità sufficientemente istruita in quelle fondamentali verità che importa all'uomo conoscere? Ahimè, non solo il genio, ma anche la comune intelligenza concluderà che non è in poter nostro ottenerla quando vogliamo. Perché un Dante o un Galileo può formarsi nonostante tutti i difetti delle scuole, e, viceversa, i più perfetti metodi del migliore istituto modello debbono confessarsi vinti dalla impenetrabile stupidità di un ragazzetto? Perché uno nasce aquila ed un altro gallina? Perché i procedimenti che riescono bene con un alunno, falliscono con un altro? Domande alle quali non si può dare che la solita risposta: dipendere il successo dell' educazione o dell' istruzione, da circostanze imponderabili le quali variano caso per caso. Il che significa, in fondo, riconoscere l'incertezza, la precarietà e il limitato valore di tutti i sistemi e i metodi dell'educazione umana e naturale, supposta anche nelle più ideali e favorevoli condizioni. V Questo, per l'istruzione. Che cosa bisognerà dire per l'educazione, intesa come formazione morale e, in genere, formazione della volontà? Se pare tanto difficile la lotta contro l'ignoranza, che sarà della lotta contro la pigrizia, contro la sensualità, contro l'orgoglio, contro l'egoismo, contro tutte le tendenze inferiori della natura umana? Anche qui, la storia della pedagogia è tutta un lamento sulla assoluta insufficienza e di questa educazione in se stessa, e dei metodi usati per conseguirla. Uomini dotti, pur coi difetti dei loro metodi, scuole e collegi e atenei ne producono abbastanza, ma uomini temperati, casti, umili, pronti al sacrificio, generosi verso il prossimo? E si capisce. Siccome la volontà non può muoversi alla cieca, senza il lume della conoscenza, le difficoltà dell'educazione morale sono in certo modo doppie: sono, per una parte, quelle stesse dell'istruzione, e per l'altra quelle specifiche dell' educazione. È già difficile per le ragioni or ora esaminate, che tutti gli uomini possano ricevere una sufficiente istruzione morale: che, cioè, il «non rubare», «non dire il falso testimonio», «non desiderare la donna d'altri» e simili precetti della morale naturale siano appresi da tutti, non come semplici suoni di parole che si ripetono pensando ad altro, ma come nozioni positive che suscitano una vera, interna convinzione. Ma, anche se questo si potesse garantire, quando ciascun uomo vi sapesse dimostrare con eccellenti ragioni filosofiche tutti i precetti della morale, si sarebbe raggiunto appena per metà lo scopo desiderato. Non basta saperli quei precetti: occorre metterli in pratica; non basta pensarli: bisogna volerli e applicarli; e non basta metterli in pratica una volta sola, bisogna farli diventare abitudine di tutta la vita. Saper che non si deve rubare e, ciò nonostante, appropriarsi, quando si può farlo senza pericolo, la roba altrui, predicar la temperanza ed essere intemperanti, esaltare la castità e darsi al vizio, non significa certo essere educati moralmente. Ora, il difetto che la pedagogia moderna ha più criticato nella educazione morale corrente, si è appunto il vecchio pregiudizio che basti predicare e insegnare e far leggere libri o novellette morali, per produrre la virtù: laddove l'insegnamento e la predica e la buona lettura, sono certo necessari ma concludono poco o nulla se la virtù non è praticata e fatta costantemente praticare attraverso le azioni. Il tirocinio effettivo dell'azione deve costituire per la volontà quella medesima base solida che l'esperienza sensibile è per l'intelletto: le idee morali debbono, per imprimersi, ricevere dalla pratica quel positivo significato che le idee scientifiche ricevono dalla sensazione degli oggetti particolari. Ma questo tirocinio effettivo, pratico, dell'azione, abbastanza facile ad organizzarsi finche si tratta di azioni materiali e, in certo modo, esterne, tendenti a rinvigorire la volontà come l'esercizio ginnastico rinvigorisce i muscoli, diventa poi difficilissimo quando si tratta d'azioni più specificamente morali, ove la volontà stessa deve ottemperare ad un giudizio della ragione che le indica questo come male e quello come bene. La teoria pedagogica in materia che va per la maggiore è la famosa teoria delle conseguenze naturali: teoria che vorrebbe allontanare dal vizio (e, per converso, avvicinare alla virtù) col lasciare che l'azione malvagia sia esperimentata dall'educando stesso nelle sue conseguenze dolorose. Ma tale teoria, sventuratamente, ha il difetto d'essere inapplicabile proprio in quei casi dove maggiore sarebbe il bisogno. Io posso, cioè, lasciare benissimo che il fanciullo, dopo aver rotto un vetro, sia punito della sua sbadataggine dalla rigida aria invernale che viene a pungerlo attraverso i telai della finestra; posso lasciargli fare una scorpacciata di dolci perché provi, poi, il mal di ventre e l'amara purga; posso lasciargli prendere un frutto dall'albero del vicino, perché il padrone gl'insegni, colle sue rudi maniere campagnole, il rispetto della proprietà. Ma non posso permettere che quello stesso fanciullo, cresciuto in età, perda ogni suo avere al giuoco per imparare quanto sia dannoso il giuoco, o si sciupi l'anima nelle peggiori compagnie per comprendere quanto sia dannosa la cattiva compagnia, o si dia ai facili amori per provare l'amaro sconforto delle abitudini viziose. Posso seguire Rousseau finché si tratta di rompere un vetro, non posso seguirlo, quando mi chiede di entrare, pel servizio del mio allievo, in un luogo di corruzione. Il rimedio sarebbe peggiore del male. È vero bensì, che l'esperienza acquistata nelle piccole azioni si riflette nelle grandi e che lo stesso alunno, il quale ha riconosciuto a spese proprie ben fondato il consiglio dell'educatore a proposito di un vetro o di un frutto, avrà una ragione positiva per ritenerlo ben fondato anche quando si tratterà di cose più importanti. Ma appunto in questo passaggio sta il pericolo. Chi ci garantisce che, invece, abituato dall'infanzia a provar tutto da sé, il giovane non trovi strana e irragionevole questa pretesa di frenarlo, proprio sulle soglie della maturità? Chi ci garantisce che egli, fatto ormai quasi uomo non respinga come sciocchi e puerili i consigli dell'educatore e non voglia, una volta di più, esperimentare per conto suo? Badiamo: non è detto che questo secondo caso debba sempre verificarsi, ma non è detto neppure che debba sempre verificarsi il primo. In teoria sono possibili ambedue: e, pur ammettendo che in pratica si dia eguale probabilità d'incontrar l'uno e l'altro, l'efficacia d'una educazione che raggiunge il suo scopo solo in una metà dei casi, diventa molto problematica. In ogni modo, siamo già entrati anche qui nelle circostanze imponderabili che variano volta per volta e che solo la sagacia d'un geniale educatore può, volta per volta, scoprire. Ora, noi sappiamo che gli educatori geniali non si fabbricano a piacere, quando se ne ha bisogno, e neanche dove ci sono riescono sempre, in ogni momento e per ogni educando, egualmente geniali. Ma l'educazione morale incontra, purtroppo, un altro ostacolo ben più grave di quel che non sia la deficienza dei metodi o l'imperizia degli educatori. Tale ostacolo all'educazione della volontà, se ci si permette il bisticcio, sta proprio nella volontà male educata: nella volontà umana che tende, sì, alla virtù, ma la trova dura, difficile e mortificante; e allora s'ingegna di addolcirla, di mitigarla, di conciliarla cogli interessi e le passioni: di falsificarla, insomma, per proprio uso e consumo. La storia della filosofia ce ne offre a bizzeffe, di queste morali falsificate che esaltano a gran voce l'ideale e il dovere, ma si trincerano in un prudente silenzio quando si tratta, questo ideale e questo dovere, di vederli concretarsi in un positivo sistema di azioni o, peggio, forniscono criteri coi quali l'uomo arriva a giustificare qualsiasi azione. Le dispute, le eterne dispute fra scienziati e fra filosofi non sono mai state così universali come nel campo dell'etica. E chi ci garantisce che quei pochi i quali vedono giusto, riusciranno ad imporre, nella scuola e nell'educazione in genere, la loro morale, contro gli altri, tanto più numerosi, che sbagliano per deliberato proposito, e che hanno a favore delle loro dottrine le fragorose voci dell' interesse, delle passioni, delle inferiori tendenze umane ricalcitranti contro ogni severa disciplina? VI Da queste considerazioni, e da altre ancora che si potrebbero fare, emerge una conclusione niente affatto confortante per l'educazione naturale. Se gl'inconvenienti che abbiamo notato sussistono, se, per essere bene educato, l'uomo ha bisogno e d'un geniale maestro, e di un buon metodo e di una buona scuola, e di una buona famiglia, e di una infinità di altre circostanze imponderabili che rendono fecondo nell'animo suo il concorso di tutti questi elementi, allora ogni uomo che nasce ha tanta probabilità di essere educato, quanta, poniamo, di essere ricco, o di vincere alla lotteria, o di diventare un grande poeta. Con la differenza però, che mentre ogni uomo può vivere benissimo senza ricchezze, senza vincite alla lotteria e senza essere grande poeta, non può vivere, intendo vivere da uomo e non da bruto, senza essere morale e ragionevole, senza adoperare l'intelletto e la volontà, caratteristiche essenziali della sua natura, per gli scopi pei quali gli furono dati. In questo senso, per poter riuscire nel suo intento, l'educazione avrebbe l'obbligo d'essere più universale, pronta e vigile della stessa carità. Eppure, nonostante tali scarsissime possibilità di riuscita noi dobbiamo, dopo tutto, meravigliarci non che l'educazione faccia poco, ma che faccia troppo. Invece di produrre, come dovrebbe a rigor di logica, accanto a un'aristocrazia di pochi superuomini, sterminate moltitudini avvolte nella peggiore barbarie, l'educazione mantiene, innegabilmente, nell'umanità un livello intellettuale e morale non disprezzabile. Scuole, istituti, maestri, compiono la loro missione: e tanto la compiono che nei paesi ove queste istituzioni sono sconosciute, la civiltà, e intellettualmente e moralmente, è molto più indietro; tanto la compiono che, a un limite estremo, se noi potessimo pensare un uomo il quale dalla nascita in poi non avesse mai ricevuto alcuna educazione, sia pur difettosa, né dalla madre, né dagli altri suoi simili, dovremmo immaginarlo più che come un selvaggio, come un animale; tanto la compiono che è in gran parte merito loro se un popolano dei nostri tempi ha, in molte materie, più cognizioni che un dotto dell'antichità, e se, dopo secoli e secoli, gli uomini hanno imparato a camminare per le strade senza sbudellarsi a vicenda e a mangiare, bere e dormire senza affogarsi nella sporcizia e nel sudiciume; che di questi progressi medesimi l'uomo possa talvolta abusare, facendosene mezzi di peggioramento anziché di miglioramento, chi lo nega? Ma di che cosa non può mai abusare l'uomo? In realtà il genere umano quando spende tante fatiche nella propria educazione ha fede in un successo le cui probabilità sono, secondo la logica della ragione naturale, addirittura irrisorie, e che pure si ottiene, non colla regolarità e l'ampiezza che ciascun cuore generoso desidererebbe, ma, tutto considerato, in una misura assai larga. Chi affida un figlio alla scuola sa benissimo di avere soltanto una scarsissima probabilità ch'esso venga educato coi metodi più perfetti e dai maestri più geniali, e con tutto quell'insieme di circostanze interne ed esterne necessario a rendere feconda l'educazione. Pure, ha fede nella buona riuscita, dei suoi e degli altrui sforzi; ha fede, diremmo, in una misteriosa equazione fra possibilità e realtà, fra l'educazione in quanto teoricamente possibile e l'educazione in quanto effettivamente avvenuta, una fede che nessun calcolo potrebbe giustificare, anzi della quale ogni calcolo ci mostrerebbe il tenuissimo fondamento. Ora, che cosa è mai questa fede apparentemente irragionevole? E chi è che realizza quell'equazione misteriosa? È la forza stessa delle cose, l'evoluzione stessa dell'universo, risponde il positivista. È la razionalità del reale, lo sviluppo dello spirito, dell'«io» immanente ed onnipresente, risponde l'idealista. Poiché l'uno e l'altro, in fondo, nelle loro pedagogie riconoscono lo scarso potere dell'educazione naturale, delle sue istituzioni, dei suoi procedimenti metodici, e l'uno e l'altro debbono ammettere, nella formazione intellettuale e morale del genere umano, una forza sconosciuta, superiore ad ogni nostro accorgimento; un disegno complessivo della realtà al quale sembra conforme che certe educazioni debbano riuscire nonostante tutti i loro difetti, e certe altre fallire nonostante tutti i loro pregi. Ma per il positivista come per l'idealista questa forza non è superiore alla natura: è la natura stessa, spirito o materia che sia; è l'evoluzione o la storia che forma l'individuo educato più o meno, come il mare forma onde nell'uno o nell'altro modo senza che di tale sua cangiante irrequietezza si possa addurre un motivo. Il fatto non ha altra ragione dal fatto stesso: è così perché è così. Pure, questa stessa, implicita confessione dei nostri avversari è preziosa, poiché, volendo allontanare il mistero lo conferma, e volendo tutto ridurre a principi naturali, riconosce che l'azione stessa di questi principi è, nei suoi effetti e nelle sue forme, imprevedibile secondo la natura e la ragione. Materia, spirito, evoluzione o storia, sono tanti nomi del mistero: tanti nomi i quali esprimono una realtà che trascende ogni nostro singolo raziocinio ed ogni nostra esperienza concreta. Ma sono nomi oscuri e contorti, che non possono appagare nessuno. Spiegare il fatto col fatto stesso, dire: è così perché è così, significa non spiegare nulla. L'educatore sarebbe come il giocatore che arrischia il suo avere sulla probabilità che i dadi o le carte o la ruota producano una fra le tante possibili combinazioni. L'equazione fra possibilità e realtà si compirebbe a caso. Ora, la fede dell'educatore ha, invece, un significato ben diverso, non riposa su un calcolo di probabilità e nemmeno sull'idea di una vaga razionalità sparsa in giro per l'universo: riposa sull'idea di un potere consapevole ed intelligente che dirige l'umanità nei suoi deboli sforzi per il proprio miglioramento, secondo un preciso disegno di cui a mala pena possiamo, talvolta, intravedere qualche parte. Potere che compie, nonostante tutte le nostre deficienze, l'educazione del genere umano anche là dove parrebbe temerario tentarla. Potere che forma Dante e Galileo nonostante i difetti delle scuole, e al quale si deve se l'ignorante e il delinquente non si moltiplicano in orde barbariche per abbattere la civiltà. Questo potere è il potere di Dio. Dio è l'autore della misteriosa equazione che si compie tutti i giorni, nell'opera educativa, fra possibilità e realtà. La pedagogia e la filosofia debbono fermarsi qui. Più oltre, bisognerebbe entrare nell'ordine soprannaturale mostrando come il divino Educatore abbia compiuto e compia la Sua missione, sia con una Rivelazione che ha offerto a tutti gli uomini le verità e i precetti morali onde avevano bisogno, senza le incertezze della scienza umana, sia con una assistenza positiva, con la grazia di cui attraverso la vivente azione della Chiesa ciascuno partecipa; sia in quei modi speciali ed imprevisti che alla Sua saggezza sono parsi opportuni. Ma la pedagogia e la filosofia possono garantire, come abbiamo visto, almeno questa importante conclusione. Senza ricorrere a un elemento soprannaturale, l'educazione, anche nell'ordine puramente naturale, rimarrebbe indispensabile e, nello stesso tempo, irraggiungibile al genere umano. Pur non potendolo dire assolutamente necessario, nel senso logico della parola, poiché l'idea d'una educazione naturale e della sua conseguente riuscita non presenta alcuna contraddizione intrinseca, dobbiamo dirlo, l'intervento soprannaturale nell'educazione, necessario di una necessità relativa e morale: utile nello stesso senso in cui i teologi parlano della «utilità» della rivelazione. Ecco una sfera lanciata attraverso lo spazio. Nulla v'è d'assurdo all'idea ch'essa debba indefinitamente continuare nel suo moto, anzi, appunto, questo dovrebbe accadere secondo i principi della fisica. Pure la sfera, a un certo punto, arresta il suo cammino e cade; gli attriti e le resistenze hanno assorbito la forza da cui era animata. Lo stesso può dirsi della educazione naturale. La natura umana tende spontaneamente al vero e al bene, è indefinitamente educabile e perfettibile, dovrebbe continuare all'infinito il suo progresso. Pure, gli attriti opposti dalle sue tendenze inferiori, dall'interesse, dalle passioni, dalla sensualità, ben presto la fermano in cammino, e ci vogliono tesori d'accorgimento, di sapienza, di genialità per farla progredire, per dare ad un uomo solo, anche la più modesta educazione, così come ci vogliono macchine complicate e delicate per dare ad un solo oggetto una limitata quantità di moto. Che diremmo di un fisico il quale volesse far marciare tutti i corpi, compresi i pianeti e le stelle, a forza di macchine? Che, perciò, di un pedagogista il quale voglia educare tutto il genere umano colle scuole e i maestri, i collegi ed i libri? L'educazione naturale è, come il moto perpetuo, possibile solamente in teoria. Ma per realizzarla, per realizzarla in modo che tutta l'umanità abbia il suo vero e il suo bene, i suoi giorni laboriosi e i suoi riposi meritati, le sue messi e le sue industrie, il pane del corpo e il pane dello spirito, la sua dignità e la sua fede, è necessario il braccio di Colui che sospese negli spazi, fiammante tappeto ad un trono invisibile, la corona di soli che i nostri occhi intravedono in un lontano luccichio dorato, nella notte. L'Anima della pedagogia. (Discorso tenuto per l'inaugurazione dell'anno accademico nell'Istituto Superiore di Magistero “ Maria Immacolata » il 17 dicembre 1924. È importante che il lettore tenga presente tale data, poiché alcune critiche contenute in questo studio rispecchiano, necessariamente, le condizioni dell'Italia liberale e democratica, che sono — com'è ovvio — assai diverse da quelle dell'Italia d'oggi.) Domando scusa se sono costretto a incominciare con l'affermazione di una verità così poco peregrina com'è quella secondo cui la scuola non è fatta dall'edificio ove si tengono le lezioni, dalle aule, dai banchi, dagli orari, dai programmi, e nemmeno, rigorosamente parlando, dalle persone discenti e docenti; sebbene da quell'idea, da quello spirito, da quell'indirizzo animatore che, dimostrandosi capace d'informare di sé tali disjecta membra, le stringa davvero in un organismo vitale. Ma voi sapete pure che le verità, quanto più sono evidenti, tanto più spesso corrono pericolo di esser dimenticate o non avvertite: come l'aria, della quale viviamo senza accorgercene, o come — se mi perdonate il brusco trapasso — la felicità che si va a cercare, talora, in paesi lontani, mentre si avrebbe sotto mano, piena ed intera quanto alla condizione umana è dato raggiungerla, fra le mura di casa propria. In particolare, poi, le verità riguardanti la scuola hanno avuto da noi, in Italia, fino all'altro giorno, la curiosa caratteristica d'esser proclamate a gran voce, con mirabile accordo, da un notevole numero di persone, ma di esser poi, con un accordo ancor più mirabile, dimenticate e violate nella pratica da un numero ancor più notevole di persone fra le quali, sempre, in primissima linea, coloro che avevano qualche potere in materia di politica scolastica. Ad esempio, per restare nell'ambito di quel che dicevamo poco prima, qual è il cittadino italiano immischiato comunque, per dovere od elezione, nelle cose scolastiche, che non abbia, semprechè l'occasione e la cultura propria glielo permettessero, fatto dei discorsi sull'«anima della scuola», sulla sacrosanta necessità «di educare oltreché istruire», sull' imprescindibile dovere di dare alle nuove generazione un saldo indirizzo ideale, ecc.? Tanto che chi dovesse, sull'unica base di quei discorsi, formarsi un concetto intorno alle condizioni della scuola italiana nell'ultimo trentennio, sarebbe tratto certamente a immaginare che, povera quantitativamente di edifici, di denaro, di persone, di numero, per le ancor scarse disponibilità economiche del paese, essa poi fosse forte e rigogliosa all'interno, tutta pervasa da un unico, ben definito ideale, informante di sé l'umile opera dell'insegnante come la superiore attività legislativa dei ministri e del parlamento. Orbene, in realtà è avvenuto proprio il contrario. Le nostre università sono state numerose più di quelle della dotta Germania o della miliardaria America, eppure noi non siamo ancora riusciti a diffondere nel ceto dei professionisti, degli alti funzionari, degli impiegati cosiddetti — forse per ironia — «di concetto», nemmeno la parvenza di quella cultura decorosa che tali classi hanno persino fra le più modeste nazioni civili moderne. Le nostre scuole medie sono diventate, a lungo andare, talmente pletoriche, da rappresentare infine una specie di piaga nazionale; eppure, gli individui capaci di leggere, gustandolo, un classico, o di interessarsi, per propria soddisfazione, a un qualsiasi ordine di problemi scientifici, si contano sulla punta delle dita. Le nostre scuole elementari sono, non diciamo troppe e neanche tante da bastare, in sé alla funzione che dovrebbero adempire, ma certo non poche in relazione ai magri bilanci dei comuni e degli enti pubblici onde traggono il loro sostentamento; eppure, non solo l'analfabetismo imperversa, ma è accompagnato da quell'altro, ben più pericoloso fenomeno, che è la noncuranza, l'accidia, la pigrizia interiore, la sordità ai valori spirituali, l'«analfabetismo morale» insomma. Né in questo groviglio d'istituzioni scolastiche venute su alla peggio, sotto la pressione dei più svariati casi o interessi, burocraticamente amministrate senza alcun riguardo a finalità ideali e ad esigenze interne, flagellate da una pioggia di decreti, leggi, regolamenti cozzanti fra di loro nel più assoluto caos, si saprebbe comunque scoprire, non dico un'anima, ma solo una certa, anche tutta estrinseca, unità e coerenza d'indirizzo, se indirizzo non si vuol chiamare la proclamazione aperta di non averne alcuno, che tale è appunto la scuola laica neutra onde siamo stati deliziati fino a ieri. Tutto ciò, naturalmente, non vale per il nuovo stato di cose prodotto dalla recentissima legislazione della riforma GENTILE (si veda): i benefici effetti della quale, giova credere, presto si faranno sentire nel loro lato positivo, giacché per ora, come era del resto naturale e giusto che accadesse, l'esame di stato ed altre misure simili hanno agito piuttosto spazzando via gli ultimi resti della vecchia mentalità liberale che ancora paralizzava il nostro organismo scolastico. Ma ecco che mi sperdo in un mare di considerazioni poco piacevoli e intanto dimentico l'oggetto primo del mio discorso. Ch'era, semplicemente, di dirvi, in omaggio alla non peregrina eppur troppo spesso dimenticata verità dalla quale avevamo preso le mosse, come la fondazione di questo Istituto Superiore di Magistero, che s'intitola al Nome tanto dolce ad ogni anima cristiana, non possa rimanere solo una di più fra le lodevoli iniziative onde si vanta l'azione cattolica in Italia, che pur trae dalla sola vigile carità dei fedeli mezzi ed opere, quali nessuna sapienza di amministratore saprebbe immaginare e ne fa fede questo stesso Istituto nel volger di pochi mesi creato e provvisto di tutto il necessario con una larghezza veramente signorile di cui bisogna render grazie alle Suore che l'hanno voluto ospitare. Se una scuola non è formata solo dalle aule e dagli edifici e dal materiale, se, prima di tutto, essa ha da rappresentare uno spirito e un pensiero, allora è nostro dovere domandarci qual è lo spirito e il pensiero che ci sostiene, ch'è poi quanto dire in nome di che cosa e con quali idee direttive i cattolici italiani hanno offerto alla loro patria, già, come notavamo un momento prima, anche troppo gravata dall'eccessivo numero degli istituti universitari esistenti fino a ieri, una nuova scuola universitaria? Problema difficile certo, e tale da render pensosi quanti si preoccupano delle sorti della cultura cattolica in Italia e del quale io non presumo davvero darvi qui la soluzione, non solo perché non è argomento da sbrigarsi in poche parole, ma anche perché io confido a tale uopo nel vostro futuro concorso, di quando voi stesse avrete superato in certo modo quel duro tirocinio che vi attende, di disimparare al più presto quello che la ingloriosamente defunta scuola normale vi ha insegnato o ha finto d'insegnarvi, per rimparare non dico, che non voglio essere esageratamente pessimista, tutto il contrario, ma almeno con spirito ben diverso, con altre finalità, con un differente senso dello «sforzo gioioso» base d'ogni cultura, i primi rudimenti, ossia gli strumenti del lavoro, d'un vero sapere, non peso morto e oppressione ingombrante dell'anima, ma compito quotidiano da adempiere se anche con sacrificio, colla coscienza di riempire d'un nuovo valore la propria vita. Problema, perciò, del quale io non posso darvi più di un senso e, direi quasi, un sospetto e un presentimento, fondandomi non solo su quel che avrete certo visto e sentito dire sul rivolgimento avvenuto, da un anno a questa parte, in materia scolastica, nel nostro paese ma, soprattutto, sullo spirito che v'ha infuso la vostra comune Madre, la Chiesa, quando accogliendovi nel suo seno come semplici fedeli, o inscrivendo talune nella milizia schierata sotto le bandiere dei diversi ordini religiosi che veggo fra voi rappresentati, ha trasfuso in voi quegl'immutabili principi direttivi del pensare e dell'operare che, per divina promessa, dureranno in eterno, anche quando il cielo e la terra cadranno da sé come vestimenti vuoti. Che cosa sia in sé un Istituto Superiore di Magistero secondo la nuova legislazione scolastica, voi certo sapete. Formare insegnanti per le scuole medie, migliorare e allargare la cultura dei maestri abilitandoli alle funzioni direttive ed ispettive, sono già compiti veramente nobili, da invogliarci a lavorare con tutta la nostra energia perché: chi sono gl'insegnanti delle scuole medie? Sono coloro che plasmano, in sostanza, le classi dirigenti di domani, le quali appunto in quelle scuole ricevono la prima umana educazione del loro spirito. E chi sono i direttori e gli ispettori? Sono coloro che hanno in mano tutto l'organismo delle scuole elementari e, per conseguenza, l'educazione del popolo. Ora, nessuno può negare che e l'una e l'altra cosa, l'educazione delle classi dirigenti e l'educazione del popolo, siano, da noi, bisognose di urgenti riforme delle quali i cattolici non possono in alcun modo disinteressarsi. E non basta che tali riforme siano ormai sancite da un corpo di leggi del quale l'Italia può oggi andar giustamente orgogliosa, giacché le leggi ci sono, ma occorre chi «ponga mano ad esse», ossia chi le realizzi nella propria intelligente operosità. D'altronde non si guarisce in pochi giorni dalla malattia di oltre un cinquantennio, anzi, a guardar bene, di secoli. Giacché la nostra patria, per ragioni storielle che ora sarebbe troppo lungo indagare, non ha da secoli avuto una «cultura» nel senso di attiva partecipazione delle classi socialmente più elevate ai lavori dello spirito. Ci sono stati, non meno numerosi che altrove, i geni dell'arte o della scienza, ma solitari, inaccessibili, chiusi nello sforzo della creazione, senza un pubblico che li seguisse, senza un'anima nazionale che si riconoscesse in loro e si assimilasse i risultati della loro opera, fermandola nella stabilità d'una tradizione. Perciò quando l'unità italiana compiuta permise la formazione d'uno Stato moderno, il problema tormentoso si riprodusse: da un lato le grandi personalità solitarie, dall'altro le plebi misere ed ignare, nel mezzo una classe dirigente improvvisata, sfornita di ogni vera consistenza interiore, costretta a vivere giorno per giorno d'una politica di ripieghi. Ed eccoci a quello che dicevamo prima sull'«analfabetismo morale», ben più pericoloso dell'analfabetismo grafico. In altre grandi nazioni civili europee il medico o l’avvocato, l'ingegnere o il funzionario, il banchiere o l'industriale d'una certa levatura non si limitano a compiere, per delicati e difficili che siano, i doveri della propria professione, ma spesso sentono il bisogno di riempire le proprie ore libere con qualche nobile disciplina spirituale. E il funzionario, uscito dall'ufficio, si dedica a studi letterari, e il medico, lasciati gli ammalati, coltiva la filosofia, e l'avvocato, dopo le sue pratiche legali, va acquistando una vera competenza nella storia politica, e l'industriale, chiusa la fabbrica, non vuol più sentir parlare di registri e di conti, ma riempie la casa di quadri e di mobili antichi e si esercita con passione nella critica d'arte. Né è raro il vedere persone già innanzi negli anni intraprendere, poniamo, per la prima volta lo studio della musica, o iniziarsi a qualche difficile ramo di ricerche scientifiche, quasi ad apprestare alla prossima vecchiezza un'occupazione dignitosa che le impedisca d'isterilirsi nell'ozio e di esaurirsi nella malinconica contemplazione dei propri acciacchi. Quel che accadesse, invece, da noi fino a ieri, purtroppo ognuno lo sa [Anche qui si tenga presente quanto s'è già osservato, in altra nota: che si parla, cioè, dell'Italia di... altri tempi! Oggi si potrebbe, forse, dire il contrario: la mentalità democratica, tessuta di atteggiamenti menzogneri e capricciosi, sta facendo perdere alle grandi nazioni europee ogni vera superiorità culturale. E invece, da noi sotto la nuova, severa disciplina «romana», le classi dirigenti si sono trasformate con una rapidità che, in altri tempi, sarebbe parsa incredibile.], dove non solo funzionari e impiegati, avvocati e medici, industriali e finanzieri non conoscevano — salvo pochissime lodevoli eccezioni — altro modo d'impiegare il proprio tempo libero che non fosse il biliardo o il caffè, il giornale e le chiacchiere, il cinematografo e l'operetta, per tacere il peggio, ma persino alcuni professori e maestri accoglievano l'obbligo di studiare e di dimostrare ad ogni occorrenza una cultura larga, soda, frequentemente rinnovata, sancito dalla nuova legislazione scolastica, con una meraviglia così ingenua da far sospettare che, nei loro pedagogici cervelli, fra il mestiere dell'insegnamento e l'obbligo di studiare non fosse mai esistito il sospetto d'una, sia pur lontanissima, relazione. E quando un simile esempio viene dato da quelle che dovrebbero essere, nel miglior senso della parola le classi dirigenti, che cosa può fare il popolo se non disertare la scuola per la bettola e il libro per il mazzo di carte? Il maggior tempo libero e i più alti salari ottenuti al proletariato dalle agitazioni socialiste del '20 e del '21 gli servirono non già ad elevarsi intellettualmente, sebbene a vagabondare, a gozzovigliare, a sfoggiare, con mentalità pescecanesca, stoffe costose e gioielli. Come vedete la questione intellettuale si trascina dietro, inevitabilmente, la questione morale, e direi anche, se voi non interpretaste la parola in cattivo senso, la questione politica. Sì, perché quel professionista, quel funzionario, quell'impiegato che, finito il proprio lavoro, invece di godere le vere libertà del raccoglimento e della meditazione, «va a divertirsi» in un modo più o meno discutibile, si forma poco a poco le physique o, meglio, le moral du róle, ossia la mentalità adeguata all'ambiente che frequenta: la mentalità del caffè, del cinematografo, dell'operetta, il dilettantismo frivolo, il semplicismo, l'orrore dei problemi seri che implicano fatica e disciplina, l'amore del lusso, l'insofferenza d'una vita tranquilla e modesta. Proprio come l'operaio «moralmente analfabeta» che nei suoi salari che gli hanno permesso il pescecanismo dei polli arrosto o dei vestiti costosi trova l’incentivo più sicuro all'odio e alla rivolta contro i ricchi, i quali, assoggettandolo al suo duro lavoro quotidiano, hanno voluto escluderlo da quella pantagruelica gazzarra in cui gli sembra debba celebrarsi la vera vita. Ora, mentalità simili, oltre all'anarchia che portano necessariamente alla coscienza morale dell'individuo, oltre alla corruzione e al vizio di cui necessariamente debbono pascersi, sono incompatibili colla esistenza politica d'una nazione, che vuol lavoro e disciplina, serietà e sobrietà, capacità di pensare e spirito di sacrificio. Ed ecco, allora, anche la politica uniformarsi ai superiori dettami del caffè e del cinematografo, della pochade e dell'operetta; ecco le chiacchiere con cui ognuno risolve i più complessi problemi, congiunte alla più massiccia ignoranza delle cose più elementari; ecco il fumo negli occhi al volgo gettato dai professionisti politicanti; ecco la corsa alle cariche, agl'impieghi, alle prebende; ecco la incapacità dell'opinione pubblica ad avere qualsiasi serietà e consistenza. Come meravigliarsi che per imporre il principio d'una disciplina in un ambiente simile non ci sia voluto meno del manganello e della rivoltella con tutti gli annessi inconvenienti? Il buon pubblico liberale e democratico, quello dello «stellone», non fu purtroppo accessibile al pacifico lavoro della stampa, alla discussione di problemi dibattuti nelle assemblee, sulle riviste, nei libri: se non aveva il «fattaccio» con morti e feriti, non si scuoteva. Pensate, per esempio, a un altro campo ove si è avuta gran copia di quei metaforici morti e feriti che sono i «bocciati» alla scuola media. Da quanto tempo noi, poveri pedagoghi, non avevamo scongiurato, implorato, supplicato coi pacifici e democratici mezzi dell'articolo, della conferenza, del libro, i padri di famiglia perché degnassero occuparsi delle scuole ove pure i loro figli trascorrevano in gran parte la propria vita? Quante volte non avevamo denunciato a gran voce il vuoto, la nullità, l'inettitudine di quelle pretese fucine del sapere? Quante volte non avevamo avvertito che così non poteva più andare innanzi e che la settimana rossa del '14, Caporetto, le agitazioni socialiste del dopoguerra, fenomeni fra le cui cause doveva certo annoverarsi in primissima linea l'analfabetismo morale alimentato dalle nostre scuole, erano già indizi sicuri di quel che poteva un giorno succedere se non si fosse presto messo un riparo alla degenerazione scolastica da cui eravamo afflitti? Credete voi che i padri di famiglia ne fossero impressionati? Che! era come parlare al muro. C'è voluto il «manganello» dell'esame di Stato colle conseguenti bocciature, perché i signori padri di famiglia, toccati nel punto sensibile della borsa, da una pedagogia ben altrimenti efficace di quella degli articoli e delle conferenze, degnassero finalmente accorgersi della esistenza d'un problema scolastico e finalmente sospettassero che la scuola è stata fatta per altro scopo che non sia quello di fornire diplomi ai loro figli. La gravità della situazione che vi ho prospettato dice dunque quanto sia importante il compito al quale siete chiamate voi, future direttrici e ispettrici di scuole elementari; voi, future insegnanti di scuole medie. Da anni ed anni noi andiamo sperperando le migliori riserve morali della nostra razza: quelle magnifiche energie del nostro popolo, fino a ieri provvidenzialmente salvaguardato dalla sua stessa incultura, dalle dure necessità del suo lavoro, dalla primitività rurale delle sue condizioni di vita, contro l'azione disgregatrice del laicismo imperante nelle città: quelle magnifiche energie che ci hanno fatto vincere la guerra e ci permettono ancora di ignorare il terribile problema dello spopolamento incombente su altre nazioni. Se voi poteste soltanto contribuire a cambiare lo stato di cose che vi ho or ora descritto: se voi poteste diffondere davvero una cultura nel più alto e nobile senso della parola e fra le nostre classi dirigenti e nel nostro popolo: se riusciste a sostituire, almeno in parte, il libro alla bettola, l'arte al cinematografo, la scienza alle chiacchiere del circolo, avreste già bene meritato della causa che servite. Avreste ottenuto quello che già ottenete in altri campi: e come nell'assistere ammalati, nel sollevare poveri, nel conquistare alla civiltà le più inospiti regioni del mondo conosciuto, gli ordini religiosi hanno fatto sì che il nome cristiano fosse sempre in prima linea anche in quelle opere socialmente utili di cui il mondo laico si vanta come di propria conquista perché non è dato scorgervi, a primo aspetto, alcun carattere religioso, così voi aprendo, anime, dirozzando intelligenze, opponendo ai «divertimenti» dissipatori il gusto d'un nobile lavoro dello spirito, dimostrereste che, anche nel diffondere la luce del sapere, il Cristianesimo sa essere in prima linea, e che tutte le verità, tutte le conquiste, tutte le vittorie del pensiero, non solo esso le accetta, ma sa farle fruttificare come nessuna scuola laica ha mai saputo. E io credo che ringraziereste anche la pedagogia: quella pedagogia da voi imparata a conoscere nella scuola normale — sia detto con tutto il rispetto dovuto alle zitelle — sotto la veste d'una zitellona dura ed arcigna, se vi aiutasse a raggiungere un fine simile, dandovi una più sicura consapevolezza dei problemi educativi, un più alto senso dell'opera scolastica, un palpito d'amore più puro per questa grande fucina d'anime ch'è la scuola. E io vado ancora innanzi, e vi dico che ambizione dei cattolici italiani dev'essere quella di veder sorgere intorno a questo istituto, vicine o lontane, ma sempre legate ad esso da un'intima comunione d'intenti e d’indirizzo, tutta una rete di scuole veramente nostre. Così noi auspichiamo un liceo-ginnasio nostro e un istituto magistrale nostro e delle scuole elementari nostre, non perché non vi siano in Italia scuole simili valorosamente rette da cattolici, ma perché desideriamo tenerci con esse nel contatto più diretto possibile, dando, non solo insegnamenti, ma anche, secondo la debolezza delle nostre forze, esempi, concretando però in tutto un sistema d'istituzioni scolastiche quelli che ci pare debbano essere i criteri pedagogici direttivi dei cattolici d'oggi: e ciò non per dare degli schemi che tutti debbano pedissequamente copiare, quanto piuttosto per approfittare delle favorevoli condizioni che solo una scuola modello, libera da ogni preoccupazione estranea ai suoi fini didattici, può offrire. Come vedete, è un programma di lavoro che per cinquant'anni e più può bastare alle giovani generazioni cattoliche. Tuttavia spero di non parervi proprio incontentabile se aggiungo subito che il fine, innegabilmente altissimo, la cui importanza ho cercato ora di farvi, alla meglio, comprendere non può, per vasto che paia, essere abbastanza per voi. E dico per voi, e un momento fa ho fatto appello alla coscienza cristiana e cattolica per cui la Chiesa in diversi gradi vi annovera fra le sue figlie obbedienti, perché se il diffondere la cultura, l'insegnare e l'aprire scuole sono tutte azioni nobilissime, degne delle nostre migliori energie, vano sarebbe credere che con ciò e soltanto con ciò si offrisse adeguato rimedio ai mali ond'è travagliata non solo la coscienza italiana, ma possiamo pur dire tutta la coscienza moderna. Qui comincia il nostro dissidio dai pedagogisti laici coi quali fino a questo punto abbiamo marciato di pari passo, e proprio qui dobbiamo dire, se ne siamo capaci, la parola nuova che si aspetta da noi, che è poi la ragione per cui non c'è parsa inutile, fra i troppi istituti universitari italiani, la fondazione d'un altro Magistero. Questa parola eccola: noi non crediamo che il problema pedagogico odierno sia risolvibile con un programma esclusivamente culturale, noi non crediamo, cioè, che basti dare alle nuove generazioni una scuola in cui si studia davvero invece d'una scuola in cui non si studiava per poter dire d'averle educate. Anzi noi non crediamo che l'insufficienza della vecchia scuola fosse solo, come tante volte s'è detto, una deficienza tecnica d'uomini e di programmi, a sanar la quale basti preparare un personale insegnante colto e conscio dei suoi doveri, rinvigorire le sanzioni giuridiche dei concorsi e degli esami, amministrare con maggior severità, o restituire ad alcune discipline formative a torto trascurate come il latino e la filosofia la loro funzione di prim'ordine; tutte cose, badiamo bene, bellissime e necessarie, alle quali noi cattolici plaudiamo toto corde, ma che non toccano ancora, secondo noi, il vero fondo della questione. Giacché il cattolicesimo è vecchio, miei cari, e ha troppo buona memoria per dimenticare le lezioni del passato. Quando gli uomini del Rinascimento ruppero i ponti dell'antica fede e ai Padri e ai Dottori della Chiesa vollero sostituiti i classici, pensavano anch'essi tutti, dal precursore Petrarca all'organizzatore e propagandista Erasmo, che la cultura avrebbe risanato il genere umano e che, fugata l'ignoranza, sarebbe sparita anche la corruzione, e pareva loro che lo studio delle lettere latine e greche sarebbe stato 1'ubi consistam di quella piena, elevata, armonica formazione spirituale ch'essi auspicavano all'umanità redenta dalle tenebre medioevali. Orbene, l'Umanesimo trionfa, riplasma nel proprio spirito le vecchie scuole, ne crea delle nuove ove il classicismo regna incontrastato... Ahimè, non è passato ancora un secolo e già i pedagogisti lamentano nella scuola umanistica i difetti che gli umanisti avevano voluto satireggiare nella scuola medioevale: rozzezza, pedanteria, soffocamento delle migliori energie, disconoscimento brutale delle esigenze intime dello spirito educando. E man mano che il tempo passa, sempre più la nuova pedagogia s'avvede che di tali deformazioni dell'anima giovanile è proprio responsabile questa cultura che agli uomini del Rinascimento pareva principio indispensabile d'ogni umana elevazione: la cultura classica, la preponderanza dell'esercizio letterario come fine a se stesso, il cerebralismo della pura dilettazione estetica, l'immoralismo in quanto divorzio fra il dire e il fare, la vacua retorica. Allora, mentre le critiche all'umanesmo si moltiplicano, un nuovo astro sorge sull'orizzonte e il realismo scientifico s'accampa minaccioso contro l’umanesimo. I pedagogisti del Rinascimento hanno sbagliato: non le lettere classiche, ma gli studi scientifici, l'osservazione della natura, l'esperienza, daranno all’ umanità la formazione spirituale di cui ha bisogno. E da Bacone e Comenio, nei quali il nuovo ideale educativo s'afferma ancora circondato da riserve e cautele critiche, ai pedagogisti della rivoluzione francese, ai positivisti del secolo XIX che annegano la scuola addirittura in un'orgia di scienze positive, il realismo entra poco a poco, come già era entrato l'umanesimo, nella prassi e nella legislazione scolastica di tutte le nazioni civili. E se proprio non riesce a detronizzare il rivale, almeno gli impone, attraverso la filologia che va impregnando di sé gl'insegnamenti delle letterature classiche, il suo spirito ed i suoi metodi. Il problema è dunque risolto? L'umanità ha finalmente trovato quella liberazione attraverso la cultura che andava cercando dal medioevo in poi? Mai più: il realismo scientifico non ha ancora avuto tempo di celebrare i suoi trionfi, che già un nuovo avversario è sorto a denunciare le sue malefatte. La pedagogia idealistica moderna riprende, a sua volta, contro il realismo scientifico, il medesimo atto d'accusa ch'esso aveva portato contro l'umanesimo letterario. Eccoli, secondo l'idealismo, i frutti della scuola razionalistica e scientifica che aveva voluto poggiare il suo insegnamento sulla salda base dei «fatti» e delle «notizie» e bandire tutto il resto come chiacchiera inutile: pedanteria, superficialità, soffocamento delle migliori energie, frivolo scetticismo, oblìo dei valori spirituali, meccanismo burocratico e livellatore. E l'idealismo contemporaneo non è solo. Sia i grandi pedagogisti moderni, un Pestalozzi, un Fròbel, già lo stesso Rousseau, già Locke, tutti più o meno simpatizzanti coi metodi del realismo scientifico, derivano la miglior parte della loro opera piuttosto che da quest’ultimo, da una oscura ribellione contro l'insegnamento “ufficiale” delle scuole che fa loro presagire, se pur non diagnosticare chiaramente, un errore, una stortura, una violazione di non so quali principi, onde tutto il sistema educativo dei loro tempi riesce falsato; né essi sono mai tanto eloquenti come quando inalberano la bandiera della rivolta a rivendicare i diritti dell'anima umana oppressa dalla pedanteria scolastica. E quella rivolta è sì accettata dall'idealismo contemporaneo, ma allo stesso modo con cui il realismo aveva accettato dall'umanesimo le critiche dei migliori umanisti sul “ciceronianismo”: non come indice di un errore infirmante i criteri stessi con cui si è risolto il problema educativo in genere, ma come il segno d'una serie d'errori particolari agevolmente rettificabili. In fondo il realismo aveva consentito con l'umanesimo nell'ammettere che il problema pedagogico fosse sopratutto problema di cultura, d'una maggiore e miglior cultura da diffondere fra gli uomini: soltanto gli era parso che l'umanesimo avesse male risolto questo problema imperniando la cultura sulle lingue classiche. A sua volta il neoumanesimo idealistico riconosce volentieri al realismo il pregio d'aver rivendicato i diritti dell'esperienza, della ragione, della cultura, ma, viceversa, gli ascrive a torto d'essersi esaurito nel proporre quel particolar tipo di cultura che s'impernia sulle discipline e sui metodi naturalistico-positivi. Secondo l'idealismo sarà, sì, la cultura, ma una cultura largamente storico-filosofica che permetterà al maestro moderno di risolvere il problema educativo. C'è da meravigliarsi se il Cattolicesimo, che è così vecchio!, ricorda oggi agli immemori che da cinque secoli la pedagogia laica agita ormai lo stesso programma senza riuscir ad altro che a disfare oggi quello che ha fatto ieri, non portando “a mezzo novembre” ciò che “ha filato di ottobre”? Ed è avventata superficialità il profetare che i medesimi inconvenienti denunciati per il passato nella scuola umanistica e nella scuola realistica, renderanno domani oppressiva, pedantesca, astrattamente verbale, anche la scuola neoumanistica? La ragione? Ma la ragione sta nello stesso carattere umanistico di tale scuola, intendendo questa volta per umanesimo non più l’humanitas delle antichità classiche, quanto piuttosto tutta una concezione della realtà, e precisamente la concezione della realtà come “uomo” o come “spirito umano”, che è poi il carattere distintivo di tutti gli ideali pedagogici laici i quali, in un modo o nell'altro, risolvono il problema educativo additando all'educando come meta ultima l'esercizio di un'attività umana non soltanto nell'esplicazione, ma anche nell'oggetto, procedente, cioè, dall'uomo e avente per suo oggetto il mondo umano, in quanto natura, storia, esperienza, ecc., e poco importa se poi questa attività sia la scienza o l'arte, la letteratura o la filosofia. Ora, ciascuna di queste attività umanisticamente intesa è sempre, per forza, finita e limitata: non già nel senso che ciascuno dei suoi singoli risultati non sia superabile all'infinito, ma nel senso che racchiude lo spirito in un determinato punto di vista, cristallizzandolo, per così dire, entro se stesso, vietandogli però di aprirsi ad una vita superiore. Diciamo la vera parola, la cultura umanistica è una cultura “egoista”. Nell'arte e nella scienza, nella filosofia e nella letteratura, lo spirito umano ammira soltanto le cangianti forme di se stesso: Narciso contempla la sua immagine scomporsi e ricomporsi in mille guise attraverso l'acqua leggermente mossa della fontana. E non si risponda che pure per far ciò egli deve sacrificarsi e negarsi, superare la morte e il dolore: che, dunque, la scuola umanistica sa dire anch'essa le salutari parole della sofferenza e della abnegazione? anche l'egoista, tutto dedito ai suoi piaceri, deve affrontare per essi sacrifici e sofferenze? è forse per questo meno egoista? No, una cultura — è questo il punto in cui noi ci separiamo decisamente da ogni pedagogia “laica” — la quale ignori Dio, o, peggio, lo riduca ad un momento dialettico nel divenire dell'autocoscienza, è sempre una cultura gretta, limitata, mancante di ogni vero stimolo a rinnovarsi, tendente a comprimere con dogmatica rigidezza quanto non rientra nei suoi quadri preformati. E infatti che vuol dire rinnovarsi, se non uscire da sé per mirare a una realtà superiore? Ora, la cultura laica non conosce realtà superiori; anche quando guarda all'avvenire, nelle nuove scoperte che nasceranno all'infinito da lei, essa non può scorgere, ancora e sempre, che l'immagine di sé. Ben diverso è il caso della cultura cristiana la quale, avendo per fine non se stessa, ma Dio, tende necessariamente a elevarsi sopra di sé e reca, quindi, nel suo seno, il più possente stimolo a rinnovarsi che si possa desiderare. L'enciclopedia laica è un circolo chiuso; per vasto che sia il suo giro, esso parte da sé e ritorna in sé: cultura letteraria del vecchio umanesimo, cultura scientifica del realismo, cultura storico-filosofica del neoumanesimo. Ed anche tutt'e tre insieme, saranno, perciò, sempre, violatrici della più caratteristica prerogativa dello spirito umano per cui “navigare necesse est, vivere non est necesse”: quella di ripugnare ad ogni barriera, quella di spezzare ogni limite per tendere sempre più in alto e sempre più oltre. Viceversa l’enciclopedia cristiana è, se ci si consente l'espressione, un circolo che s'apre, colla filosofia e la teologia, al riconoscimento d'una realtà superiore: infinita via su cui le anime dovranno avanzare colle loro forze sostenute dalla grazia divina. Né la materialità di queste immagini v'inganni, quasiché la differenza fra i due tipi di cultura s'iniziasse solo in un ordine soprannaturale. Poiché il tipo e, direi, l'orientamento di una cultura non può non essere visibile anche in ogni sua minima parte. Ogni frammento della cultura laica deve riprodurre in sé il circolo chiuso e ogni frammento della cultura cristiana il circolo aperto. Così i singoli fatti del mondo naturale sono, in fondo, nonostante tutte le proteste in contrario, per la cultura laica, niente altro che la ripetizione di un medesimo spettacolo per cui l'umanista è assalito dal terrore e dalla noia innanzi alla monotona infinità dei cieli, e i fatti della storia gli sembrano esauriti quando li ha sussunti sotto una determinata categoria ideale. Viceversa la scienza cristiana avverte l'infinito che è in ogni fatto e in ogni oggetto, non come la “mala infinità” d'una ricerca da proseguirsi indefinitamente, o d'uno spettacolo multicolore illimitatamente prolungato, ma come la positiva inesauribilità d'una esistenza concreta le cui radici si perdono in Dio, ch’è quanto dire, come uno dei modi, sempre originali e imprevedibili, attraverso cui la potenza creativa di Dio si è manifestata. Ecco perché questa nostra civiltà occidentale nutrita dal Cristianesimo ha avuto la grande fioritura di scienze e d'arti di cui oggi va orgogliosa. Ecco perché la vera cultura, ch'è “spirito di libera ricerca”, alieno dall'oppressione e dalla pedanteria, e “socratica maieutica” alle anime che facciano nascere, nel dolore e nello sforzo, la verità, non può andar mai disgiunta dallo spirito cristiano. Ed ecco, infine, la ragione dell'insuccesso che, dall'umanesimo al realismo e al neoumanesimo, ha sempre reso e renderà sempre sterili i tentativi di fondare, fuori del Cristianesimo, una scuola veramente liberatrice. Non basta. Il problema della cultura non è soltanto un problema di qualità o di intensità; è anche, sopratutto, un problema di diffusione. Ora, qui è proprio lo scoglio di tutte le pedagogie laiche che, dato il loro punto di partenza, debbono per forza porre nella ragione naturale la forma più alta d'autocoscienza, e perciò nella “consapevolezza” critica e scientifica l'essenza di ogni cultura. Già il mondo pagano aveva detto che i liberi studi, la ragione, la filosofia erano l'unica via onde l'uomo, elevandosi sulle proprie passioni, celebra veramente in sé l'umanità. E si era trovato innanzi al terribile problema: che faremo dunque, degli uomini che non hanno, anche volendo, né tempo né modo di studiare? Negheremo loro la qualifica di uomini?» Problema, si noti bene, assai più facile in una società che aveva gli schiavi e che non conosceva ancora le innumerevoli forme d'operosità manuale e materiale ormai indispensabili alla società moderna. Allora, forse, si sarebbe potuto pensare in linea teorica, che poche ore di lavoro manuale imposte a ciascuno bastassero per soddisfare i bisogni della società, garantendo poi a tutti la libertà di rivolgersi ad occupazioni intellettuali. Oggi non è più così. Il nostro operaio attende molte ore del giorno ad un lavoro faticosissimo e spesso tecnicamente difficile: e i mille servizi materiali, di trasporti, di comunicazioni, di cure igieniche, di polizia e via dicendo, di cui ha bisogno una città moderna, lasciano, a un intero esercito di persone, proprio il tempo che basta a rinnovare col riposo le proprie energie. Vorremo educare costoro col latino dell'umanesimo, colle scienze del realismo, o colla filosofia del neoumanesimo? O, non potendo, li lasceremo senza alcuna educazione? È il problema della cultura popolare, insolubile per il razionalismo laico moderno non meno che per il paganesimo antico. D'altronde, se i beni dello studio e della contemplazione sono i veri beni umani, con che diritto ne escluderemo la maggior parte dell'umanità ch'è condannata ai lavori manuali? Che se, viceversa, pare inevitabile quei beni dover toccare in sorte a pochi, con qual criterio gli uni saranno preferiti agli altri? Come evitare il sospetto che tutto il nostro sistema sociale sia fondato su una odiosa ingiustizia? Ed ecco lo spirito di ribellione che getta i lavoratori in braccio al socialismo e all'anarchismo, ecco il moto sotterraneo che mina le basi delle nazioni moderne. Anche qui la storia ci ammaestra. Il problema che la civiltà pagana non aveva saputo risolvere, fu risolto dal Cristianesimo. Se la santità è superiore alla scienza e la carità alla giustizia, allora i veri valori spirituali non si attuano nel lavoro intellettuale piuttosto che in ogni altra qualsiasi forma di lavoro o di attività umana, sebbene dovunque c'è occasione di accettar dei doveri che rompano la dura scorza del nostro egoismo. Anzi, più l'attività che esercitiamo è socialmente umile e materialmente faticosa, meno da essa possiamo aspettarci ricchezze, beni, onori, più essa è vicina a quella perfezione di sacrificio e di rinunzia che è l'ideale cristiano. “Qui vult post me venire abneget semetipsum”. Non basta rinunciare alle cose proprie, alle comodità, al lusso, alle mollezze, questo lo avevano detto anche i filosofi pagani: occorre rinunciare a se stesso, ossia rinunciare a quell'altro lusso interiore che è la gloria, la fama, l'alto sentire di sé in cui il ”saggio” antico trovava compenso a tutte le privazioni; occorre abnegare semetipsum. Il paganesimo aveva conosciuto comunità di filosofi che si proponevano come fine la più alta attività sociale, la scienza. Il Cristianesimo creerà, ammirevole assurdo per la sapienza mondana, comunità sterminate di religiosi che si proporranno per fine le attività, socialmente più basse, servili, dispregiate, che non solo accetteranno con entusiasmo il lavoro manuale, ma chiederanno al mendicante di dividere i suoi cenci con loro e cureranno le piaghe del lebbroso. Eccolo risolto, il problema della “cultura popolare”; non inutile tritume di nozioni da distribuire, ma organica concezione della vita da realizzare; concezione della vita, notate bene, non riservata a un piccolo numero di studiosi, ma aperta a tutti, aperta, anzi, con speciale sollecitudine, alle moltitudini doloranti nel più duro lavoro. All'annunzio della «buona novella» queste moltitudini non solo non cercheranno di strappare colla rivolta i beni che sono retaggio esclusivo del ricco e del sapiente (che è un ricco interiore), ma avranno compassione dell'uno e dell'altro, ben sapendo che quegli apparenti privilegiati trovano appunto nei loro beni, interni od esterni, il maggior fomite di attaccamento al mondo e il peggior ostacolo sulla via della perfezione cristiana, giacché è più facile a un cammello passar per la cruna di un ago che a un ricco entrar nel regno dei cieli. Né questo deve indurci a credere che, come favoleggiano taluni, il Cristianesimo, trascorrendo all'estremo opposto, sia, in odio al razionalismo pagano, divenuto fomite d'ignoranza e “dottrina da schiavi”. Il vigore col quale la Chiesa ha sempre rivendicato, contro le eresie irrazionalistiche e fideistiche, i diritti della ragione; la fermezza colla quale ha tenuto viva la tradizione dell'antica cultura in quegli stessi conventi ch'erano patrimonio dei «poveri» e degli «ignoranti», sono lì per dimostrarlo. Allo stesso modo, pur raccomandando in modo specialissimo la povertà come uno fra i principali consigli evangelici, Essa non ha mai accettato quelle rozze forme di ascetismo che avrebbero voluto distruggere i beni materiali della società riportando l'uomo alla caverna primitiva, così, pur proclamando la donnicciola ignorante pari, nella vita cristiana, quando non addirittura superiore al più dotto filosofo, Essa non ha mai misconosciuto i valori della cultura, rettamente intesa. Se cultura e ricchezza sono pericolose, lo sono soltanto allo stato, direi, naturale e pagano, in quanto forme di un'attività umana che presume di avere in sé il suo fine e che di esse orgogliosamente si compiace. Compenetrate dall'ideale cristiano, perdono il loro aculeo e divengono, anzi, fonte d'elevazione a chi le sa rettamente usare, al servizio del prossimo e di Dio. Ecco perché la Chiesa, nemica della ricchezza non ha mai tralasciato di porgere aiuti affinché le condizioni materiali della vita umana venissero sempre migliorate, e, nemica del razionalismo pagano, non ha mai cessato di combattere per l'elevazione intellettuale e morale di tutti. Possiamo dire, anzi, meglio: siccome nel più ci sta il meno, nel fine soprannaturale che il Cristianesimo propone all'uomo ci dev'essere implicito anche l'adempimento dei suoi fini naturali, e implicito eminenter, nel modo più perfetto possibile. Perciò non è da meravigliarsi che tutte le soluzioni del problema economico-sociale dibattute oggi dalla scienza (razionale limitazione del lavoro, equa distribuzione della ricchezza, severa disciplina della concorrenza) siano state già da secoli implicite nell'operosità sociale cristiana; e non c’è da meravigliarsi che tutti i più sottili accorgimenti didattici per la diffusione della cultura consigliati dai grandi pedagogisti moderni siano sempre stati il presupposto indispensabile d'ogni insegnamento cristiano. L'eccessivo lavoro manuale abbrutisce l'uomo, impedendogli di attendere la propria elevazione intellettuale e morale? Orbene, da quanto tempo la Chiesa non combatte perché cessi quel gravissimo scandalo ch'è la violazione del riposo festivo, stoltissima empietà non meno che ecco la vera parola barbara distruzione della libertà umana, la quale “non vive di solo pane”. Se le grandi feste di precetto del calendario liturgico cristiano fossero tutte scrupolosamente osservate, non avrebbe forse anche il più umile lavoratore un adeguato periodo di tempo da dedicare, al raccoglimento interiore e alla meditazione, in quei giorni che sono «di Dio» appunto perché Dio vuole che allora l'uomo, dimenticato ogni altro interesse, si fermi ad ascoltar la Sua Parola ed a riprender coscienza del proprio posto nella realtà e nella vita? E se il lavoro di tutti i giorni fosse, anziché esasperato fino alla vertiginosa tensione cui lo spingono la brama smodata di ricchezza e il materialismo pratico della moderna vita irreligiosa, contenuto nei limiti che la morale cristiana impone, lascerebbe esso l'uomo così esaurito da spingerlo a cercare un sollievo nei così detti “divertimenti”? Né solo il tempo libero, ma anche i mezzi più adeguati alla positiva diffusione d'una vera cultura, il Cattolicesimo ha sempre messo, con tutte le sue forze, in opera. Non abbiamo noi sentito vantare come scoperta della pedagogia moderna il “ metodo intuitivo”, cioè la potenza plastica e suggestiva dell'immagine che penetra là dove il nudo raziocinio non potrebbe arrivare? Orbene, di questo”metodo intuitivo” e, quel che più conta, senza i grossolani fraintendimenti del positivismo materialistico, la Chiesa è stata la prima maestra, quando, non contenta di predicare la propria dottrina, ha affidato alle belle arti il compito di realizzarla sotto aspetti architettonici, pittorici e musicali, in un simbolismo che solo gli stolti potrebbero irridere. Eccolo, quel simbolismo, nella costruzione del tempio, dalla sua forma generale di una croce, ai più minuti particolari delle porte e delle colonne su cui i costruttori antichi avevano una dettagliatissima dottrina; eccolo nelle pitture che adornano le pareti, ove si rappresentano i principali misteri della fede che il sacerdote commenta ad uso degli illetterati; eccolo in quell'altra mirabile creazione che è il canto liturgico, nel quale l'emozione lirica dell'arte è veicolo alla esposizione dei più profondi concetti cristiani, e il tutto con una facilità di esecuzione tecnica che rende possibile alle moltitudini più ignoranti di parteciparvi non da spettatrici, ma da attrici. E la liturgia stessa delle sacre funzioni, considerata nel suo aspetto umano e naturale, che altro è se non la partecipazione delle folle a un grandioso dramma ove la poesia, l'architettura, la pittura, la musica si fanno docili strumenti della verità? Oggi si raccomanda il «metodo attivo», si biasima il verbalismo della nostra cultura, si riscopre il valore educativo del lavoro manuale. Orbene, non sono nate dal Cristianesimo quelle corporazioni medioevali ove il tirocinio e l'esercizio del lavoro manuale si compenetravano del medesimo senso d'arte e di libertà umana che a mala pena e non sempre oggi si ritrova nei grandi lavoratori del pensiero? Ed è stranissimo che i pedagogisti moderni prendano, di solito, come tipo dell'educazione cristiana e cattolica le congregazioni insegnanti della Controriforma e, anche queste, le considerino in una ristretta parte della loro opera e precisamente in quella parte ove esse hanno dovuto agire collateralmente a metodi e sistemi, non posti da loro, ma forzatamente dovuti accettare dalla società in cui si movevano. Non si capisce, ad esempio, perché i Gesuiti debbano esser presi da tutti i manualetti della pedagogia razionalistica, come unici rappresentanti della educazione cristiana e dei suoi pretesi difetti, quasiché la divina Provvidenza avesse loro assegnato il compito di far da capro espiatorio, attirando sulla propria testa tutte le contumelie del laicismo anticlericale. E si capisce ancor meno perché mai, dato anche - e non concesso!- che tutti gl'inconvenienti deplorati dai pedagogisti dei laicismo nella scuola dei Gesuiti ci fossero effettivamente stati, i Gesuiti debbano venir giudicati esclusivamente in base all'opera dei loro collegi per alunni laici, quasiché essi nulla avessero fatto per l'educazione clericale ed ecclesiastica. Allo stesso nostro Capponi, che pur cita lo spartano e l'ateniese e il romano antico come esempio di educazioni effettivamente riuscite alla costruzione di tipi spirituali indelebili, non è mai caduto in mente che il Gesuita fosse un “tipo” spiritualmente altrettanto originale, ottenuto però con una educazione efficace per lo meno quanto quella da lui vantata negli antichi?
Tuesday, November 26, 2024
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