Grice e Cordeschi: la ragione
conersazionale e l’implicatura conversazionale della logica della guerra – scuola
dell’Aquila –filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (L’Aquila).
Filosofo abruzzes. Filosofo italiano. L’Aquila, Abruzzo. Grice: “Cordeschi is
fine if you are into how we can model a pirot from an automaton – Descartes’s
old idea!” -- Roberto Cordeschi (L'Aquila) filosofo. Si laurea a Roma sotto Somenzi. Si appassiona
subito alla storia della cibernetica, di cui Somenzi fu tra i primi studiosi e
contributori in Italia. Con la co-supervisione di Radice discute una tesi sui
Teoremi di incompletezza di Gödel. Insegna a Morino, Avezzano, Torino, Roma, e
Saerno. Altre opere: “Turing” – homo mechanicus (Alan Mathison); “Turing’s homo
mechanicus” (Pisa: Edizioni della Normale); “La cibernetica in Italia” (Roma:
Scienze, Istituto della Enciclopedia Italiana); “Un padrino per l’Intelligenza
Artificiale. Sapere; “L’intelligenza meccanica”; Alfabeta; “Dalla cibernetica a
internet: etica e politica tra mondo reale e mondo virtuale; “Dal corpo bionico
al corpo sintetico. Roma: Carocci); “Somenzi. testimonianze. Mantova: Fondazione
Banca Agricola Mantovana); “Natura, machina, cervello e conoscenza”; “Autonomia
delle macchine: dalla cibernetica alla robotica bellica” (Roma: Armando);
“Rap-resentare il concetto: filosofia e modello computazionale”. Sistemi
Intelligenti, “Fare a meno delle metafore: il metodo sintetico e la scienza
cognitive” (Milano: Franco Angeli). Nuove prospettive nell’Intelligenza
Artificiale, XXI SecoloNorme e idee. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana
Treccani), “Quale coscienza artificiale? Sistemi intelligenti, “Adattamento” e
“selezione” nel mondo della natura” (Milano: Franco Angeli); “Computazionalismo
sotto attacco” (Padova: CLEUP); Premessa al Documento di Dartmouth, Sistemi
Intelligenti, “Psicologia, fisicalismo e Intelligenza Artificiale. Teorie e Modelli;
“Forme e strutture della comunicazione linguistica. Intersezioni. Filosofia
dell’intelligenza artificiale. In Floridi L., a cura di. Linee di ricerca,
SWIF. Una lezione per la scienza cognitiva. Sistemi Intelligenti, Funzionalismo
e modelli nella Scienza Cognitiva. Forum SWIF. C Vecchi problemi filosofici per
la nuova Intelligenza Artificiale. Networks. Rivista di Filosofia
dell’Intelligenza Artificiale e Scienze Cognitive, In ricordo di Vittorio
Somenzi Quaderno Filosofi e Classici SWIF; Intelligenza artificiale. Manuale
per le discipline della comunicazione. Roma: Carocci. L’intelligenza
Artificiale: la storia e le idee. Roma: Carocci); “Naturale e artificiale”
(Bari: Edizioni Laterza); La scoperta dell’artificiale. Psicologia, filosofia e
macchine intorno alla cibernetica, Milano-Bologna: Dunod-Zanichelli); “Pensiero
meccanico” e giochi dell’imitazione. Sistemi Intelligenti; Prospettive della
Logica e della Filosofia della scienza. Atti del Convegno SILFS. Pisa: ETS. I
modelli della vita mentale, oggi e domani. Giornale Italiano di Psicologia, Filosofia
della mente. Quaderni di Le Scienze, L’intelligenza artificiale. In: Bellone,
E., Mangione, C., a cura di. Geymonat L., Storia del pensiero scientifico. Il
Novecento, Milano: Garzanti); Somenzi, La
filosofia degl’automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati
Boringhieri); Indagini meccanicistiche sulla mente: la cibernetica e
l’intelligenza artificiale. In: Somenzi, V., Cordeschi, R., a cura di. La
filosofia degl’automi. Origini dell’intelligenza artificiale. Torino: Bollati
Boringhieri: Qualche problema per l’IA classica e connessionista. Lettera
matematica PRISTEM, Una macchina protoconnessionista. Pisa: ETS: Le radici
moderne del recupero scientifico della teologia. Nuova Civiltà Delle Macchine);
Scienza e filosofia della scienza; La mente nuova dell’imperatore. La mente, i
computer, le leggi della fisica. Milano. Wiener. In: Negri, A., a cura di.
Novecento Filosofico e Scientifico. Protagonisti, Milano: Marzorati, Turing.
In: Negri, A., a cura di. Novecento Filosofico e Scientifico.
Protagonisti, Milano: Marzorati: Significato
e creatività: un problema per l’intelligenza artificiale. L’Automa spirituale:
Menti, Cervelli e Computer, Cervello, mente e calcolatori: précis storico
dell’intelligenza artificiale. In: Corsi, P., a cura di. La fabbrica del
pensiero. Dall’arte della memoria alle neuroscienze, Milano: Electa: L’intelligenza
artificiale tra psicologia e filosofia. Nuova Civiltà delle Macchine, Mente,
linguaggio e realtà. Milano: Adelphi. Linguaggio mentalistico e modelli
meccanici della mente. Osservazioni sulla relazione di Boden. L’evoluzione dei
calcolatori e l’intelligenza artificiale. Manuscript; La psicologia
meccanicistica, Storia e critica della psicologia, La teoria dell’elaborazione
umana dell’informazione. Aspetti critici e problemi metodologici. Roma: Editori
Riuniti); Dal comportamentismo alla simulazione del comportamento. Storia e
Critica della Psicologia, I sillogismi di Lullo. Atti del Convegno Internazionale
di Storia della Logica. San Gimignano: Il duro lavoro del concetto: il
neoidealismo e la razionalità scientifica. Giornale critico della Filosofia Italiana;
La psicologia come scienza autonoma: Croce, De Sarlo e gli “sperimentalisti”.
Per un’analisi storica e critica della Psicologia, 2Dietro una recensione
crociana di Couturat. Quaderni di Matematica, Metodi per la risoluzione dei
problemi nell’intelligenza artificiale, Per un’analisi storica e critica della
psicologia, Manuscript. La psicologia tra scienze della natura e scienze dello
spirito: Croce e De Sarlo. In: Cimino G., Dazzi, a cura di. Gli studi di
psicologia in Italia: Aspetti teorici scientifici e ideologici, Quaderni di
storia critica della scienza. Nuova serie. 9, Pisa: Domus Galileana); Una
critica del naturalismo: note sulla concezione crociana delle scienze. Critica
marxista; Introduzione alla logica. Roma: Editori Riuniti. Predicati. In: CIntroduzione
alla logica. Roma: Editori Riuniti. Elementi di logica matematica. Roma: Riuniti);
Bilancio dell’empirismo contemporaneo. Scientia; La filosofia di Leibniz:
esposizione critica con un’appendice antologica. Roma: Newton Compton Italiana);
Filosofia e informazione. Padova: La Cultura; Validità e reiezione nella logica
aristotelica. Il problema della decisione. Report: Storia della Filosofia
Antica. Istituto di Filosofia, Roma. Manuscript. In generale, nella implicatura
robotica c’è la tendenza a ricorrere al vocabolario delle rappresentazioni solo
quando, per così dire, non se ne può fare a meno, ovvero, più precisamente,
quando si lascia il livello puramente reattivo nel quale il lessico delle
rappresentazioni sarebbe banale, per passare a quello topologico e, a maggior
ragione, a quello metrico o delle mappe cognitive. Due robot puramente reattivi
sono capaci di risolvere alcuni compiti per i quali, nella ricerca su animali
(la squarrel Toby di Grice), si erano invocate rappresentazioni complesse come
le mappe cognitive. Questi stessi robot reattivi, man mano che si riducono le
restrizioni sull’ambiente, diventano sempre meno abili nell’affrontare quegli
stessi compiti, che possono essere risolti solo da agenti dotati di stati
interni (attitudine psicologica) ai quali essi riconoscono lo status di
rappresentazioni. La massima sarebbe in questi casi quella di esaminare tutti i
modi possibili di spremere l’ultima goccia di informazione dal livello reattivo
prima di parlare dell’influenza della rappresentazione, modello del mondo o
mappa sul comportamento intelligente. Circa la natura delle rappresentazioni,
una volta ammesse, le opinioni sono contrastanti, e riflettono la varietà dei
punti di vista ormai usuale in intelligenza artifiziale e intelligenza
naturale, classica o nouvelle che sia. Si può parlare di rappresentazione anche
per i pattern connessionisti, a patto di distinguere la relativa computazione.
La rappresentazione e solo simbolica, quale che sia la loro complessità, e un
pattern connessionista, non essendo considerato simbolico, non e una
rappresentazione. Si parla di una rappresentazione che possono essere di
diversa complessità e accuratezza, esplicita (spliegatura) o implicita
(impiegatura), metrica o topologica, centralizzata o distribuita. E in generale
si parla di ra-presentazione simbolica quando si è in presenza di un costrutto
dotato di proprietà ritenuta analoga a quella del segno. Ricorrenti valutazioni
polemiche da parte di alcune tendenze dell’IA nouvelle identificano
nell’Ipotesi del Sistema Fisico di Simboli il paradigma linguistico per
eccellenza dell’IA classica. Tuttavia, un confronto di qualche anno fa tra sostenitori
e critici di questa ipotesi mostra come questa interpretazione sia quanto meno
opinabile. Sarebbe opportuno tenerne conto, per evitare di porre in un modo
troppo sbrigativo l’identificazione tra simbolo e il concetto piu generale di segno in IA
classica e per affrontare senza pregiudizi i difficili problemi che stanno alla
base della costruzione di un modello di conversazione, tra i quali quello della
natura della rappresentazione. Mi riferisco all’interpretazione in termini di un
sistema di elaborazione simbolica dell’informazione (dunque in termini di un
sistema fisico materiale di simboli) di sistemi tradizionalmente non
considerati tali, come quelli proposti dai teorici dell’azione situata. L’idea
di simbolo che sta alla base di questa ipotesi è che un simbolo è un pattern
che denota, e la nozione di denotazione è quella che dà al simbolo la sua
capacità rappresentazionale. Il pattern puo denotare altro pattern, sia interni
al Si veda per una formulazione particolarmente esplicita (Gallistel). Detto in
breve, tali proprietà riguardano, tra l’altro, la produttività, ovvero la
capacità di generare e capire un insieme illimitato di frasi, e la sistematicità,
ovvero la capacità di capire ad esempio tanto aRb quanto bRa. Fodor ne ha fatto
la base per la sua controversa ipotesi del “linguaggio del pensiero” Per una
introduzione all’argomento, si veda (Francesco). Per pattern si intende, come
sarà più chiaro nel seguito, una struttura fisica, biologica o inor- ganica,
che può essere oggetto di processi computazionali—codifica, decodifica,
registrazione, cancellazione, cambiamento, confronto—i quali occorrono in
sistemi diversi, in un calcolatore e nel sistema nervoso, anche se in
quest’ultimo caso non sappiamo nei dettagli come. Questa tesi provocò diverse
reazioni (si vedano Cognitive Science). Si noti che nelle intenzioni di Simon e
Vera la tesi non comporta che ogni pattern sia dotato di meccanismo sistema
che esterni ad esso (nel mondo reale), e anche stimoli sensoriali e azioni motorie.
Processi tanto biologici quanto inorganici possono essere simbolici in questo
senso e, dal punto di vista sostenuto da Simon e Vera, i relativi sistemi sono
sempre sistemi fisici di simboli, ma a diversi livelli di complessità. Per
esempio, nel caso più semplice che riguarda gli organismi, anche l’azione
riflessa (subcorticale) è un processo simbolico: la codifica di un simbolo
provocata da un ingresso sensoriale, poniamo la bruciatura di una mano, dà
luogo alla codifica di un simbolo motorio, con la conseguente rapida
effettuazione dell’azione, in questo caso il ritirare la mano. Più
precisamente, l’idea è che “il sistema nervoso non trasmette certo la
bruciatura, ma ne comunica l’occorrenza. Il simbolo che denota l’evento [la
brucia- tura] viene trasmesso al midollo spinale, che a sua volta trasmette un
simbolo ai mu- scoli, i quali esercitano la contrazione che consente di ritirare
la mano.” Nel caso degli artefatti, già il solito termostato è un sistema
fisico di sim- boli, sebbene particolarmente semplice: il suo livello di
tensione è un simbolo che denota uno stato del mondo esterno. Come ho
ricordato, anche Brooks ha finito per riconoscere alle rappresentazioni un loro
ruolo nel comportamento dei suoi robot, se non altro alle rappresentazioni
“relati- ve al particolare compito per il quale sono usate” (i “modelli
parziali del mondo”), quali potrebbero essere, a diversi livelli di
complessità, quelle usate da agenti naturali come Cataglyphis o da agenti
artificiali come Toto o il solutore di labirinti sopra ri- cordato. Simon e
Vera considererebbero senz’altro agenti del genere come sistemi fisici di
simboli, dotati di un’attività rappresentazionale molto sofisticata, anche se
specializzata a un compito particolare. Ma essi includono tra i sistemi fisici
di simboli anche artefatti molto più semplici, come il ricordato termostato, e
agenti robotici pu- ramente reattivi o collocabili al livello del taxon system
(che, seguendo Prescott, era stato definito come una catena di associazioni
consistenti in coppie <stimolo, risponsa>). Secondo i due autori, i primi
robot alla Brooks sono (un tipo relativamente sem- plice di) sistemi fisici di
simboli: anche l’interazione senso-motoria diretta di un agen- te con
l’ambiente nella misura in cui dà luogo a un comportamento coerente alle rego-
larità dell’ambiente, non può essere considerata se non come manipolazione
simboli- ca. Ho ricordato sopra il semplice comportamento reattivo di Allen,
che tramite sonar evita ostacoli presenti in un ambiente reale. In questo caso,
i suoi ingressi sensoriali danno luogo a un processo di codifica, e i costrutti
in gioco (i simboli, secondo la definizione sopra ricordata) che risultano da
tale interazione sensoriale, e poi motoria, dell’agente con l’ambiente sono
rappresentazioni interne (degli ostacoli esterni da evitare) in un senso non
banale: l’informazione sensoriale captata dal robot è converti- ta in simboli,
i quali sono manipolati al fine di determinare gli appropriati simboli motori
che evocano o modificano un certo comportamento. L’assenza di memoria in questo
tipo di agente comporta che l’azione sia eseguita senza una rappresentazione
esplicita del piano e dell’obiettivo che orienta l’azione stessa (senza
pianificazione), ma non che non ci sia attività rappresentazionale simbolica.
Qual è la natura di questi simboli, di queste rappresentazioni simboliche?
denotazionale, cosa che evidentemente renderebbe banale questa definizione di
simbolo: ci sono pattern che non denotano, tanto naturali quanto artificiali. Sulla
sufficienza della denotazione per caratterizzare la nozione di simbolo (come di
rappresen- tazione) si è molto discusso. Nel caso degli artefatti più semplici
si tratta di rappresentazioni analogiche che stabiliscono e mantengono la
relazione funzionale del sistema con l’ambiente. Questo, si è visto, è già vero
per il solito termostato. Nel caso di (come pure di certi sistemi
connessionisti, o che includono sistemi connessioni- sti), tali
rappresentazioni (analogiche) hanno carattere temporaneo (senza intervento di
memoria) e distribuito (non sono sottoposte a controllo centralizzato). In
questi casi, una rappresentazione certo imprecisa ma sufficientemente efficace
è fornita da un sonar sotto forma di un pattern interno fisico (un pattern di
nodi della rete, nel caso di un sistema connessionista): essa denota o
rappresenta per il robot un ostacolo o una certa curvatura di una parete o di
un percorso. Una volta che tale pattern venga comu- nicato a uno sterzo, esso
determina l’angolo della ruota sterzante del carrello del robot. Per quanto
diversa a seconda dei casi, è sempre presente un processo di codifica-
elaborazione-decodifica non banale, che stabilisce una ben precisa relazione funziona-
le tra il sistema e l’ambiente, e spiega il comportamento coerente dell’agente
nell’interazione con il mondo. Non parlare di rappresentazioni interne, e
limitarsi a dire che un agente “intrattiene certe relazioni causali con il
mondo, non spiega come tali relazioni vengano mantenute. E’ del tutto
ragionevole sostenere che un agente mantiene l’orientamento verso un oggetto
tramite una relazione causale (Grice, “La teoria causale della percezione”) con
esso e che tale relazione è un pattern di interazione, ma non ha senso pensare
che tale pattern venga prodotto per magia, senza un corrispondente cambiamento
di stato rappresenta- zionale dell’agente, ovvero che esso possa aver luogo
senza una rappresentazione interna fosse pur minima.” Rappresentazioni più
complesse, che sono alla base di un’attività non semplicemente percettiva
diretta, sono presenti in altri casi, quando entrano in gioco la me- moria,
l’apprendimento, il riconoscimento di oggetti e l’elaborazione di concetti, la
formulazione esplicita di una mappa o di piani alternativi, sotto forma di
rappresentazioni off-line, e ancora. In molte di queste attività “alte”
intervengono rappresentazioni esplicite, linguistiche e metriche, ma se si
riconosce che la cognizione richiede questo tipo di rappresentazioni, è
difficile mettere in dubbio che tali attività non condividono con attività più
“basse” come la percezione, sulle quali esse vengono elaborate, il meccanismo
denotazionale, sia pure in una forma minimale. A meno di restringere
arbitrariamente la nozione di rappresentazione e di simbolo, non c’è ragione di
riservarla esclusivamente a pattern linguistici, o ai costrutti della semantica
denotazionale (variabili da vincolare ecc.). Penso si possa sottoscrivere
questa conclusione di Bechtel: “la nozione base [di rappresentazione] è
effettivamente minimale, tale da rende- re le rappresentazioni più o meno
ubique. Esse sono presenti in ogni sistema organiz- zato che si è evoluto o è
stato progettato in modo da coordinare il suo comportamento con le
caratteristiche dell’ambiente. Ci sono dunque rappresentazioni nel regolatore,
nei sistemi biochimici e nei sistemi cognitivi”. Il riferimento di Bechtel al
regolatore di Watt è polemico nei confronti di van Gelder, che ne faceva il
prototipo della sua concezione non computazionale e non simbolica della co-
gnizione. In realtà questo tipo di artefatti analogici (sistemi a feedback
negativo e servomecca- nismi) erano stati interpretati come sistemi
rappresentazionali già all’epoca della cibernetica, in primo luogo da Craik,
che ne aveva fatto la base per una “teoria simbolica del pensie- ro”, come egli
la chiamava, per la quale “il sistema nervoso è visto come una macchina
calcola- trice capace di costruire un modello o un parallelo della realtà”. Non
entriamo in questa sede sui diversi problemi relativi al contenuto delle Simon
e Vera distinguono il livello della modellizzazione simbolica da quello della
realizzazione fisica (sia biologica che inorganica) di un agente.
Nell’interazione con l’ambiente, un agente ha un’attività rappresentazionale
che è data dalle caratteri- stiche specifiche del suo apparato fisico di
codifica-elaborazione-decodifica di simboli. Si pensi ancora alla codifica,
molto approssimativa ma generalmente efficace, at- traverso sonar degli
ostacoli da parte di un robot reattivo, e alla relativa decodifica che si
conclude in un ben determinato movimento. La modellizzazione simbolica di
questa capacità non appare in linea di principio diversa da quella “alta” sopra
ricordata. L’idea è che tutti questi tipi o livelli di rappresentazioni, da
quelli legati alla percezio- ne a quelli più alti della “ricognizione”, possono
essere opportunamente modellizzati attraverso regole di produzione, come
livello di descrizione di un sistema fisico di simboli. Un robot basato
sull’architettura della sussunzione non fa eccezione. Ad esempio, il
funzionamento di un modulo reattivo al livello più basso dell’architettura, che
con- trolla la reazione di evitamento di ostacoli, potrebbe essere reso da
un’unica regola di produzione del tipo “se c’è un ostacolo rilevato attraverso
sonar e bussola allora fermati”. Questa possibilità sembra essere stata presa
in considerazione dallo stesso Brooks, che però la respingeva in questi
termini: “Un sistema di produzione standard in realtà è qualcosa di più [di un
robot behavior-based], perché ha una base di regole dalla quale se ne seleziona
una attraverso il confronto tra la precondizione di ogni regola e una certa
base di dati. Le precondizioni possono contenere variabili che de- vono essere
confrontate con costanti nella base di dati. I livelli dell’architettura della
sussunzione funzionano in parallelo e non ci sono variabili né c’è bisogno di
tale confronto. Piuttosto, vengono estratti aspetti del mondo, che evocano o
modificano direttamente certi comportamenti a quel livello. Tuttavia, se
distinguiamo il livello della realizzazione fisica da quello della sua
modellizzazione, quella che Brooks chiama l’estrazione degli “aspetti del
mondo” rilevanti per l’azione è descritta in modo adeguato da un opportuno
sistema di regole di produzione, e tramite tale sistema un certo comportamento
di una sua creatura può essere evocato o modificato nell’interazione con
l’ambiente. E questo modello (a regole di produzione) delle regolarità
comportamentali di diversi livelli dell’architettura della sussunzione può
essere implementata in un dispositivo che, grazie all’elevato grado di
parallelismo, presenta doti di adattività, robustezza e rispo- sta in tempo
reale paragonabili a quelle di un dispositivo behavior-based. In questo senso,
le regole di descrizione danno una modellizza- zione adeguata del comportamento
di un agente situato. Oltre alle risposte automatiche, che nel caso dell’azione
riflessa o “innata” e di quella reattiva possono essere rese attraverso
un’unica regola di produzione (qualcosa che corrisponda a una relazione
comportamentista S→R), esistono le azioni automa- rappresentazioni, al ruolo
dell’utente degli artefatti e alla natura della spiegazione cognitiva.
L’articolo di Bechtel contiene una disanima efficace di questi problemi,
rispetto a posizioni diverse come quella sostenuta da Clancey contro la tesi di
Vera e Simon. In breve, le regole di produzione hanno la forma “se... allora”,
o CONDIZIONE → AZIONE. La memoria a lungo termine di un sistema fisico di
simboli è costituita da tali regole: gli antecendenti CONDIZIONE permettono
l’accesso ai dati in memoria, codificati dai conseguenti AZIONE. tizzate a
seguito dell’apprendimento, quando cioè le regolarità relative a un certo
comportamento sono state memorizzate, o quelle che comportano una relazione
“di- retta” con il mondo tramite le affordance alla Gibson. Un esempio sono le
risposte immediate che fanno seguito a sollecitazioni improvvise o impreviste
provenienti dall’ambiente Ora i teorici dell’azione situata (e, come si è
visto, i nuovi robotici) insistono sul fatto che questi casi di interazione
diretta con l’ambiente si svolgono in tempo reale, senza cioè che sia possibile
quella presa di decisione, diciamo così, meditata che ri- chiede la
manipolazione di rappresentazioni e la pianificazione dell’azione. Si pensi
all’esempio di Winograd e Flores dell’automobilista che, guidando, affronta una
curva a sinistra. In primo luogo, secondo i due autori, non è necessario che
egli faccia continuamente riferimento a conoscenze codificate sotto forma di
regole di produzione—non è necessario riconoscere una strada per accorgersi che
è “percorribi- le” (la “percorribilità”, questa è la tesi, è colta nella
relazione diretta agente- ambiente). In secondo luogo, la decisione è presa
dall’agente, per così dire, senza pensarci (senza pensare di posizionare le
mani, di contrarre i muscoli, di girare lo sterzo in modo che le ruote vadano a
sinistra ecc.). Tutto ciò avviene automaticamente e immediatamente, dunque
senza applicare qualcosa come una successione di regole di produzione “se p, q”.
In conclusione, la tesi è che non è possibile modellizzare questo aspetto della
presa di decisione istantanea, o in tempo reale, attraverso un dispositivo che
comporta codifica-elaborazione-decodifica di simboli, dunque computazioni,
regole di produzione e così via. L’obiettivo della critica di Winograd e Flores
è la teoria della presa di decisione nello spazio del problema, con il quale ha
a che fare l’agente a razionalità limitata di Simon. Ora, se prendiamo sul
serio la teoria di Simon, va detto che alla base del carat- tere limitato della
razionalità dell’agente sta la complessità dell’ambiente non meno dei limiti
interni dell’agente stesso (limiti di memoria, di conoscenza della situazione
ecc.). Nel prendere la decisione, quest’ultimo, secondo la teoria di Simon, in
generale non è in grado di considerare, come spazio delle alternative
pertinenti, lo spazio di tutte le possibilità, ma solo una parte più o meno
piccola di esso, e questa selezione avviene sulla base delle sue conoscenze,
aspettative ed esperienze precedenti. Ora una presa di decisione istantanea,
non meno di una presa di decisione meditata, è condi- zionata da questi elementi,
i quali, una volta che abbiano indotto, poniamo attraverso l’apprendimento, la
formazione di schemi automatici di comportamento (di risposte motorie,
nell’esempio di sopra), finiscono per determinare l’esclusione immediata di
certe alternative possibili (come, nell’esempio della guida, innestare la
marcia indietro) a vantaggio di altre (come scalare marcia, frenare ecc.), e
tra queste altre quelle suggerite dalla conoscenza dell’ambiente stesso (fondo strada
bagnato ecc.) e dalle Le affordance, nella terminologia di Gibson sono
invarianti dell’ambiente che vengo- no “colte” (picked up) dall’agente
“direttamente” nella sua interazione con l’ambiente stesso, e “direttamente”
viene interpretato come: senza la mediazione di rappresentazioni e di computa- zioni
su esse. Un esempio sono i movimenti dell’agente in un ambiente nel quale deve
evitare oggetti o seguirne la sagomatura e così via: un po’ quello che fanno i
robot reattivi di cui ho parlato. L’esempio del termostato è ricorrente in
scienza cognitiva e in filosofia della mente dai tempi della cibernetica. E’
evidente che definire sistemi fisici di simboli artefatti di questo tipo (e del
tipo dei robot di Brooks, come vedremo) comporta rinunciare al requisito
dell’universalità per tali sistemi (sul quale si veda Newell). aspettative
pertinenti.17 Secondo le stesse parole di Simon “il solutore di problemi non
percepisce mai Dinge an sich, ma solo stimoli esterni filtrati attraverso i
propri pre- concetti” (Simon). Di norma, dunque, l’informazione considerata
dall’agente non è collocata in uno spazio bene ordinato di alternative,
generato dalla formulazione del problema: tale informazione è generalmente
incompleta, ma è pur sempre sostenuta dalla conoscenza della situazione da
parte dell’agente. La proposta è, dunque, che la modellizzazione a regole di
produzione di un’azione del genere, e in generale di una affordance, è un
simbolo che, via il sistema percettivo di codifica, raggiunge la memoria del
sistema per soddisfare la CONDIZIONE di una regola di produzione esplicita. In
questo modo, soddisfatta la CONDIZIONE, si attiva la regola, e la produzione
(la decodifica) del simbolo di AZIONE avvia la risposta motoria. Da questo
punto di vista, le affordance sono rappresentazioni di pattern del mondo esterno,
ma con una particolarità: quella di essere codificate in un modo particolar-
mente semplice. Nell’esempio di sopra, una volta che si sia imparato a guidare,
la regola è qualcosa come: “se la curva è a sinistra allora gira a
sinistra”.Questa regola rappresenta la situazione al livello funzionale più
alto nel quale la rappresentazione che entra in gioco è “minima”. Un termine
del genere, a proposito delle rappresentazioni, lo abbiamo visto usato da
Gallistel, ma per Simon e Vera il termine rimanda alla forma della regola
indicata, che può essere rapidamente applicata: in questo caso, cioè, non c’è
bisogno di evocare i livelli “bassi” o soggiacenti, quelli coinvolti con
l’analisi dettagliata dello spazio del problema e con l’applicazione delle
opportune strategie di soluzione, che comportano computazioni generalmente
complesse, sotto forma di successioni di regole di produzione. Questi livelli
intervengono nelle fasi dell’apprendimento (quando si impara come affrontare le
curve), e possono essere evocati dall’agente quando la situazione si fa
complicata (si pensi a una curva a raggio variabile, che rivela la complessità
dell’interazione codi- fica percettiva-decodifica motoria). E tanto un
apprendimento imperfetto quanto una carenza, per i più svariati motivi,
dell’informazione percettiva rilevante possono anche ostacolare l’accesso ai
livelli soggiacenti che potrebbero dare luogo alla risposta cor- retta (non
tutti coloro che hanno imparato a guidare riescono ad affrontare tutte le curve
con pieno successo in ogni situazione possibile). Insomma, in questa
interpretazione di Simon e Vera l’interazione in tempo reale dell’agente con
l’ambiente è data non dal fatto di essere non simbolica e di non poter essere
modellizzata mediante regole di produzione, ma dal fatto di non dover accede-
re, per dare la risposta corretta, alla complessità delle procedure di
elaborazione sim- bolica dei livelli soggiacenti a quello alto. E’ nell’attività
cognitiva ai livelli soggiacenti, allorché si elaborano piani e strategie di
soluzione di problemi, che viene evidenziata la consapevolezza dell’agente.
Simon e Vera ponevano infine un problema che riguarda i limiti degli approcci
reattivi, sul quale mi sono già soffermato, e che mi sembra condivisibile: “E’
tuttora dubbio se questo approccio behavior-based si possa estendere alla
soluzione di pro- blemi più complessi. Le rappresentazioni non centralizzate e
le azioni non pianificate possono funzionare bene nel caso di creature
insettoidi, ma possono risultare insuffi- cienti per la soluzione di problemi
più complessi. Certo, la formica di Simon non ha 17 Su questo tipo di
comportamento, che può essere visto in termini di “percezione attesa”, si veda bisogno
di una rappresentazione centralizzata e stabile del suo ambiente. Per tornare
al nido zigzagando essa non usa una rappresentazione della collocazione di
ciascun gra- nello di sabbia in relazione alla meta. Ma gli organismi superiori
sembrano lavo- rare su una rappresentazione del mondo più robusta, una
rappresentazione più complessa di quella di una formica, più stabile e tale da
poter essere manipolata per astrarre nuova informazione”. La successiva
evoluzione della robotica sembra confermare questa osservazione. Wikipedia
Ricerca Entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale Dichiarazione di
guerra dell'Italia verso gli alleati nella seconda guerra mondiale 1leftarrow
blue.svg Voce principale: Storia del Regno d'Italia. A seguito dell'attacco
tedesco contro la Polonia, il capo del governo Benito Mussolini, nonostante un
patto di alleanza con la Germania, dichiarò la non belligeranza italiana.
L'entrata dell'Italia nella seconda guerra mondiale avvenne con una serie di
atti formali e diplomatici solo dopo nove mesi,, e fu annunciata da Mussolini
stesso con un celebre discorso dal balcone di Palazzo Venezia. Durante i nove
mesi di incertezza operativa, il Duce, impressionato dalle folgoranti vittorie
tedesche, ma conscio della grave impreparazione militare italiana, restò a
lungo dubbioso fra diverse alternative, a volte contrastanti fra loro,
oscillando tra la fedeltà all'amicizia con Adolf Hitler, l'impulso a rinnegarne
la soffocante alleanza, la voglia di indipendenza tattica e strategica, il
desiderio di facili vittorie sul campo di battaglia e la brama di essere ago
della bilancia nello scacchiere della diplomazia europea. Mussolini annuncia
la dichiarazione di guerra dal balcone di Palazzo Venezia a Roma
AntefattiModifica Gli attriti con la Francia e l'avvicinamento alla
GermaniaModifica L'ambasciatore francese in Italia André François-Poncet.
Il ministro degli esteri tedesco Ribbentrop incontra a Roma MUSSOLINI e il
ministro degli esteri italiano CIANO. Durante il colloquio, Ribbentrop parlò di
un possibile patto di alleanza fra Germania e Italia, argomentando che, forse
nel giro di tre o quattro anni, un confronto armato contro Francia e Regno
Unitosarebbe stato inevitabile. Alle molte domande di Mussolini, il ministro
degli esteri tedesco spiegò che esisteva un'alleanza fra inglesi e francesi, i
quali avrebbero cominciato insieme a riarmarsi, che esisteva un patto di
assistenza reciproca fra sovietici e francesi, che gli Stati Uniti d'America
non erano nelle condizioni di intromettersi in prima persona e che la Germania
era in ottimi rapporti con il Giappone, concludendo che «tutto il nostro
dinamismo può dirigersi contro le democrazie occidentali. Questa la ragione
fondamentale per cui la Germania propone il Patto e lo ritiene adesso
tempestivo. Il Duce non sembrava convinto e iniziò a tergiversare, ma
Ribbentrop catturò la sua attenzione affermando che il mar Mediterraneo, nelle
intenzioni di Adolf Hitler, sarebbe stato posto sotto il totale dominio
italiano, aggiungendo che l'Italia aveva in passato dimostrato la sua amicizia
verso la Germania e che adesso era «la volta dell'Italia di profittare
dell'aiuto tedesco. L'obiettivo di Hitler, cogliendo l'importanza strategica di
avere Roma dalla propria parte, consisteva nel ridurre il numero dei potenziali
nemici in una futura guerra, scongiurando l'eventuale avvicinamento dell'Italia
a Francia e Regno Unito, il che avrebbe significato il ritorno al vecchio
schieramento della prima guerra mondiale e al blocco marittimo che aveva
contribuito a piegare l'Impero tedesco di Guglielmo II. L'incontro fra
Ribbentrop, MUSSOLINI e CIANO, però, si concluse con un momentaneo nulla di
fatto. Dopo la conferenza di Monaco del 1938 la Francia si era
riavvicinata all'Italia, inviando a Roma un suo ambasciatore nella persona di
André François-Poncet, e Mussolini ritenne di poter approfittare del periodo di
buoni rapporti per farle tre richieste riguardanti il mantenimento della
particolare condizione degli italiani in Tunisia, l'ottenimento di alcuni posti
nel consiglio di amministrazione della compagnia del Canale di Suez e un
arrangiamento relativo alla città di Gibuti, che era il terminale dell'unica
ferrovia esistente per Addis Abeba, all'epoca capitale dell'Africa Orientale
Italiana. Infatti, gli obiettivi del Duce non comprendevano la conquista di
territori europei. Il primo ministro inglese Chamberlain e il suo ministro
degli esteri, lord Halifax, si recarono a Parigi e ultimarono i dettagli per la
collaborazione militare tra Francia e Regno Unito, mentre i rapporti fra Italia
e Francia iniziavano a deteriorarsi. Il successivo 30 novembre, durante un
discorso alla Camera dei fasci e delle corporazioni, il ministro degli esteri
Ciano pronunciò un discorso durante il quale, accennando alle rivendicazioni
irredentistiche italiane, venne interrotto dalle acclamazioni Nizza!, Savoia!,
Corsica!, partite da una trentina di deputati. In quel momento, nella tribuna
diplomatica, assisteva alla seduta anche l'ambasciatore francese André
François-Poncet, arrivato a Roma da appena una settimana. Una manifestazione
simile si verificò il giorno stesso in piazza di Monte Citorio, dove un
centinaio di dimostranti esternò le stesse acclamazioni. Nonostante la parvenza
di spontaneità, si era trattato di iniziative organizzate da Ciano e da Achille
Starace, i quali, chiedendo molto di più delle tre richieste di Mussolini per
poi fingere di accontentarsi del poco ottenuto per via negoziale, avevano
inscenato le manifestazioni per impressionare François-Poncet, il quale infatti
avvisò immediatamente Parigi dell'accaduto.[8] Il governo francese gli ordinò
allora di chiedere spiegazioni e arrivò alla conclusione che, se la situazione
era quella, una futura guerra contro l'Italia sarebbe stata inevitabile. La
sera stessa, durante una seduta del Gran consiglio del fascismo, Mussolini
prese però le distanze da quanto accaduto in aula, dato che l'Italia aveva da
poco ripreso buone relazioni con la Francia e che la protesta era stata
intrapresa a sua insaputa. François-Poncet chiese a CIANO se le grida dei
deputati potevano rappresentare gli orientamenti della politica estera italiana
e se l'Italia riteneva ancora in vigore l'accordo franco-italiano. Ciano,
dissimulando la propria paternità su quanto accaduto, rispose che il Governo
non poteva assumersi la responsabilità delle affermazioni dei singoli, ma che
le riteneva un chiaro campanello d'allarme del sentire comune nazionale, e che
era auspicabile, secondo la sua opinione, una revisione dell'accordo. Di fronte a risposte così poco rassicuranti,
la Francia iniziò ad aspettarsi un attacco italiano. Tuttavia, lo stato d'animo
dei vertici militari d'oltralpe era improntato all'ottimismo: il generale Henri
Giraud affermò infatti che un eventuale conflitto sarebbe stato, per le truppe
francesi, «una semplice passeggiata nella pianura del Po», mentre altri
ufficiali parlavano di un'azione militare «facile come infilare un coltello nel
burro. Il primo ministro francese Édouard Daladier, irrigidendo la propria posizione
nei confronti dell'Italia, affermò che non avrebbe mai ceduto ad alcuna pretesa
straniera, facendo così sfumare anche la speranza di accoglimento delle tre
richieste del Duce su Tunisia, Suez e Gibuti. Lo Stato Maggiore francese, fin
dal 1931, aveva disposto dei piani per l'invasione militare dell'Italia,
ampliandoli dopo ma il generale Alphonse Georges fece notare che nessuna azione
sarebbe stata possibile contro l'Italia se, sulla Francia, fosse pesata una
minaccia tedesca. Mussolini decise di aderire al patto italo-germanico,
comunicando a Ribbentrop il proprio impegno. Secondo Ciano, il Duce si convinse
ad accettare la proposta tedesca a causa della comprovata alleanza militare tra
Francia e Regno Unito, dell'orientamento ostile del governo francese nei
confronti dell'Italia e dell'atteggiamento ambiguo degli Stati Uniti d'America,
che mantenevano una posizione defilata, ma che sarebbero stati pronti a
rifornire di armamenti Londra e Parigi. Il maresciallo Pietro Badoglio,
ribadendo la linea mussoliniana tracciata l'anno precedente, riferì allo Stato
Maggiore Generale il contenuto di un suo colloquio avuto con il Duce due giorni
prima, durante il quale «il Capo del Governo mi ha dichiarato che, nelle
rivendicazioni verso la Francia, non intende affatto parlare di Corsica, Nizza
e Savoia. Queste sono iniziative prese da singoli, le quali non entrano nel suo
piano di azione. Mi ha dichiarato, inoltre, che non intende porre domande di
cessioni territoriali alla Francia perché è convinto che essa non ne può fare:
quindi si metterebbe nella situazione o di ritirare una eventuale richiesta (e
ciò non sarebbe dignitoso) o di fare la guerra -- e ciò non è nelle sue
intenzioni. Gli sforzi sostenuti per la guerra d'Etiopia del 1935-36 e per il
supporto alla guerra civile spagnola del 1936-39avevano comportato spese
eccezionali per l'Italia, le quali, unite alla limitata capacità produttiva
dell'industria, alla lentezza del riarmo e alla scarsa preparazione
dell'esercito, spinsero il Duce ad annunciare al Gran consiglio del fascismo,
il 4 febbraio 1939, che il Paese non avrebbe potuto partecipare a un nuovo
conflitto. La firma del Patto d'AcciaioModifica Italia e Germania,
rappresentate rispettivamente dai ministri degli esteri Ciano e Ribbentrop,
concretizzarono la proposta tedesca dell'anno precedente e firmarono a Berlino
un'alleanza difensiva-offensiva, che Mussolini aveva inizialmente pensato di
battezzare Patto di Sangue, ma che poi aveva più prudentemente chiamato Patto
d'Acciaio. Il testo dell'accordo prevedeva che le due parti contraenti fossero
obbligate a fornirsi reciproco aiuto politico e diplomatico in caso di
situazioni internazionali che mettessero a rischio i propri interessi vitali.
Questo aiuto sarebbe stato esteso anche al piano militare qualora si fosse
scatenata una guerra. I due Paesi si impegnavano, inoltre, a consultarsi
permanentemente sulle questioni internazionali e, in caso di conflitti, a non
firmare eventuali trattati di pace separatamente.[16] Pochi giorni prima,
Ciano aveva incontrato Ribbentrop per chiarire alcuni punti del trattato prima
di firmarlo. In particolare la parte italiana, conscia della propria
impreparazione militare, voleva rassicurazioni sul fatto che i tedeschi non
avessero intenzione di iniziare a breve una nuova guerra europea. Il ministro
Ribbentrop tranquillizzò Ciano, dicendo che «la Germania è convinta della
necessità di un periodo di pace che dovrebbe essere non inferiore ai 4 o 5
anni» e che le divergenze con la Polonia per il controllo del Corridoio di
Danzica sarebbero state appianate «su una strada di conciliazione». Siccome la
rassicurazione di nessun conflitto armato per quattro o cinque anni faceva
arrivare al 1943 o al 1944e, quindi, coincideva con la previsione di Mussolini
del 4 febbraio 1939 di essere militarmente pronto per il 1943, il Duce diede il
suo assenso definitivo per la firma dell'alleanza. Vittorio Emanuele III,
nonostante la decisione di Mussolini, continuò a manifestare i propri
sentimenti antigermanici e il successivo 25 maggio, al ritorno di Ciano da
Berlino, commentò che «i tedeschi finché avran bisogno di noi saranno cortesi e
magari servili. Ma alla prima occasione, si riveleranno quei mascalzoni che
sono». Dal 27 al 30 maggio il Duce fu impegnato nella stesura di un testo
indirizzato ad Hitler, successivamente passato alla storia come memoriale
Cavallero dal nome del generale che glielo consegnò ai primi di giugno, nel
quale venivano inserite alcune interpretazioni italiane del Patto da poco
stipulato. Nello specifico, Mussolini, nonostante ritenesse inevitabile una
futura «guerra fra le nazioni plutocratiche e quindi egoisticamente
conservatrici e le nazioni popolose e povere», ribadì che Italia e Germania avevano
«bisogno di un periodo di pace di durata non inferiore ai tre anni» allo scopo
di completare la propria preparazione militare, e che un eventuale sforzo
bellico avrebbe potuto avere successo. Ciano si recò al Berghof, vicino
Berchtesgaden, per un colloquio con Hitler. Quest'ultimo, parlando del
Corridoio di Danzica, prospettò un eventuale confronto armato circoscritto a
Germania e Polonia qualora Varsavia avesse rifiutato le trattative proposte dai
tedeschi, specificando che, in base alle informazioni in suo possesso, né
Parigi né Londra sarebbero intervenute. Inoltre, il Cancelliere tedesco accennò
a delle trattative segrete in corso con l'Unione Sovietica per un'alleanza.
Ciano ricordò che era stato definito, alla firma del Patto d'Acciaio, di far
passare alcuni anni prima di intraprendere azioni belliche, ma il Führer lo
interruppe dicendo che «li avrebbe attesi, secondo quanto era stato concordato.
Ma le provocazioni della Polonia e l'aggravarsi della situazione» avevano «reso
urgente l'azione tedesca. Azione però che non provocherà un conflitto generale.
Hitler chiede al Capo del Governo italiano di quali mezzi e di quali materie
prime avesse bisogno per riuscire a prendere parte a un'eventuale nuova guerra.
Nella speranza che il Paese ne fosse esonerato, il Duce rispose con una
lunghissima lista appositamente abnorme e impossibile da soddisfare, talmente
esagerata da essere definita da Galeazzo Ciano «tale da uccidere un toro. L'elenco
- soprannominato Lista del molibdeno a causa delle 600 tonnellate richieste di
questo materiale - comprendeva, fra petrolio, acciaio, piombo e numerosi altri
materiali, un totale di quasi diciassette milioni di tonnellate di rifornimenti
e specificava che, senza tali forniture da ricevere subito, l'Italia non avrebbe
potuto assolutamente partecipare a una nuova guerra. Il Führer, nonostante il
sospetto che Mussolini lo stesse ingannando, rispose dicendo che comprendeva la
precaria situazione italiana e che poteva inviare una piccola parte del
materiale, ma che gli era impossibile soddisfare per intero le richieste
nostrane. La Germania inviò alla Polonia un ultimatum per la cessione del
Corridoio di Danzica e la Polonia ordinò la mobilitazione generale. La mattina
del giorno successivo, nonostante la situazione fosse già disperata, Mussolini
si offrì come mediatore presso Hitler affinché la Polonia cedesse pacificamente
Danzica alla Germania, ma il ministro degli esteri inglese Halifax rispose che
tale soluzione era inaccettabile. Appresa la notizia, nel pomeriggio dello
stesso giorno il Duce propose allora a Francia e Regno Unito una conferenza per
il successivo 5 settembre, «con lo scopo di rivedere quelle clausole del
trattato di Versaglia che turbano la vita europea». Mussolini, precedentemente,
aveva già tentato di instradare la situazione nell'alveo di una soluzione
diplomatica. Ciano, nel suo diario, in più momenti annotò che il Duce «è
d'avviso che una coalizione di tutte le altre Potenze, noi compresi, potrebbe frenare
l'espansione germanica»; «Il Duce sottolinea la necessità di una politica di
pace»; «si potrebbe parlare col Führer di lanciare una proposta di conferenza
internazionale»; «Il Duce tiene molto a che io provi ai tedeschi che lo
scatenare una guerra adesso sarebbe una follia [...] Mussolini ha sempre in
mente l'idea di una conferenza internazionale. Il Duce raccomanda ancora ch'io
faccia presente ai tedeschi che bisogna evitare il conflitto con la Polonia il
Duce ha parlato con calore e senza riserve della necessità della pace»;«Vedo
nuovamente il Duce. Tentativo estremo: proporre a Francia e Inghilterra una
conferenza per il 5 settembre»; «facciamo cenno a Berlino della possibilità di
una conferenza». Durante la sera del 31 agosto, però, Mussolini venne informato
che Londra aveva tagliato le comunicazioni con l'Italia. La scelta della non
belligeranzaModifica Truppe tedesche, il 1º settembre 1939, rimuovono una
sbarra di confine tra Germania e Polonia All'alba del 1º settembre le forze
armate tedesche, utilizzando come casus belli l'incidente di Gleiwitz, diedero
inizio alla campagna di Polonia, varcandone il confine alla volta di Varsavia.
Mussolini, avendo firmato solo tre mesi prima l'alleanza con il Reich, fu messo
di fronte alla scelta se scendere o meno in campo a fianco di Hitler. Ricevuta
notizia dell'attacco tedesco e conscio dell'impreparazione italiana, la mattina
dello stesso giorno il Duce telefonò subito all'ambasciatore italiano a Berlino,
Bernardo Attolico, chiedendo che Hitler gli mandasse un telegramma per
sganciarlo dagli obblighi del Patto, in modo da non passare per traditore agli
occhi dell'opinione pubblica. Il Führer rispose immediatamente, in modo molto
cortese, accogliendo senza problemi la posizione dell'Italia, dicendo che
ringraziava Mussolini per l'appoggio morale e politico e rassicurandolo sul
fatto che non aspettava il sostegno militare italiano. Il telegramma, però,
probabilmente per punire la beffa italiana della Lista del molibdeno, non venne
pubblicato da alcun quotidiano del Reich e non venne trasmesso alla radio,
facendo successivamente nascere, nell'opinione pubblica tedesca, una crescente
ostilità nei confronti degli italiani, percepiti come inaffidabili e traditori del
Patto.[32] Galeazzo Ciano riferì che Mussolini, avendo percepito questa
crescente avversione, ancora il 10 marzo 1940 disse a Ribbentrop di essere
«molto riconoscente al Führer per il telegramma nel quale questi ha dichiarato
che non aveva bisogno dell'aiuto militare italiano per la campagna contro la
Polonia», ma che sarebbe stato meglio «se questo telegramma fosse stato
pubblicato anche in Germania». Non potendo scegliere la neutralità per non
tradire l'amicizia con Hitler, nella seduta del Consiglio dei Ministri delle
15:00 del 1º settembre 1939 il Duce rese nota ufficialmente la posizione di non
belligeranza. La mancata consultazione dell'Italia da parte della Germania
prima dell'invasione della Polonia e prima della firma del patto
Molotov-Ribbentrop del 23 agosto 1939 fra Germania e Unione Sovietica,
comunque, secondo l'interpretazione italiana erano violazioni dei tedeschi
dell'obbligo di consultazione fra i due Paesi, previsto dal testo del Patto
d'Acciaio, consentendo perciò a Mussolini di dichiarare la non belligeranza
senza formalmente venir meno ai patti sottoscritti. Il 2 settembre
Mussolini ripropose l'idea di una conferenza internazionale: inaspettatamente,
Hitler rispose dichiarandosi disposto a fermare l'avanzata tedesca e a
intervenire in una conferenza di pace cui avrebbero partecipato Germania,
Italia, Francia, Regno Unito, Polonia e Unione Sovietica. Gli inglesi,
tuttavia, posero come condizione inderogabile che i tedeschi abbandonassero
immediatamente i territori polacchi occupati il giorno prima. Galeazzo Ciano
riportò nel suo diario che «non tocca a noi dare un consiglio di tale natura a
Hitler, che lo respingerebbe con decisione e forse con sdegno. Dico ciò ad
Halifax, ai due Ambasciatori e al Duce, e infine telefono a Berlino che, salvo
avviso contrario dei tedeschi, noi lasciamo cadere le conversazioni. L'ultima
luce di speranza si è spenta». Secondo lo storico Renzo De Felice: «Così, nelle
prime ore tra il 2 e il 3 settembre, sulle secche dell'intransigenza inglese
forse più che su quelle dell'intransigenza tedesca, naufragò la navicella della
mediazione italiana». Il Regno Unito e Francia, in virtù di un trattato di
alleanza con la Polonia, dichiararono guerra alla Germania. L’ambasciatore
Attolico, facendo riferimento all'accordo fra Hitler e Mussolini per una non
immediata entrata in guerra dell'Italia e al telegramma di conferma di Hitler,
comunicò che nel Reich «le grandi masse popolari, ignare dell'accaduto,
cominciano già a dar segno di una crescente ostilità. Le parole tradimento e
spergiuro ricorrono con frequenza». A conferma dell'impreparazione italiana, il
Commissariato Generale per le Fabbricazioni di Guerra sondò il grado di
approntamento delle Forze Armate, ricevendo come risposta dagli Stati Maggiori
che, salvo imprevisti, la Regia Aeronautica sarebbe riuscita a ripianare
sufficientemente le proprie carenze entro la metà del 1942, la Regia Marina
alla fine del 1943 e il Regio Esercito alla fine del 1944. Inoltre l'economia
italiana risultava fortemente danneggiata dal blocco navale alle esportazioni
tedesche di carbone, imposto da Regno Unito e Francia e dall'applicazione del
diritto di angheria, il quale prevedeva che Londra e Parigi potessero non solo attaccare
il naviglio nemico, ma anche controllare il naviglio neutrale (o non
belligerante) e porre sotto sequestro merci e navi neutrali (o non
belligeranti) provenienti da una nazione nemica o dirette verso di essa.
Dall'agosto al dicembre 1939, infatti, gli inglesi fermarono a Gibilterra e a
Suez, con vari pretesti, 847 navi mercantili e passeggeri italiane (cifra poi
salita a 1.347 navi al 25 maggio 1940), rallentando fortemente i traffici di
qualsiasi merce nel Mar Mediterraneo, arrecando grave danno alla produttività
nazionale e peggiorando i rapporti fra Roma e Londra.[39] Durante
l'inverno il Regno Unito fece sapere di essere disposto a vendere carbone
all'Italia, ma ad un prezzo stabilito unilateralmente da Londra, senza garanzia
sulle tempistiche di consegna e a patto che l'Italia rifornisse di armamenti
pesanti Regno Unito e Francia. Siccome l'accettazione di una simile proposta
avrebbe comportato il crollo delle relazioni fra Italia e Germania e una sicura
reazione di Hitler, Galeazzo Ciano comunicò il rifiuto del governo italiano. La
cronica mancanza di carbone e di approvvigionamenti causata dal blocco navale
anglo-francese, però, minava fortemente la stabilità nazionale e rischiava di
portare il Paese all'asfissia economica. La Germania intervenne, rifornendo
l'Italia del carbone necessario e rendendola così ancora più dipendente da
Berlino, anche se la fornitura era molto rallentata perché, per aggirare il
blocco marittimo, doveva obbligatoriamente avvenire via rotaie dal passo del
Brennero. Per i generi di prima necessità, invece, l'Italia sopperì
parzialmente mediante l'estensione delle politiche autarchiche adottate ai
tempi della guerra d'Etiopia. Gli esorbitanti costi di gestione dell'Africa
Orientale Italiana, uniti ai suoi magri guadagni, stavano però rivelando che la
conquista dell'impero era stata più un aggravio che un beneficio per le casse
dello Stato. Per quanto riguarda le risorse umane, le truppe italiane
risultavano impreparate sotto ogni aspetto: nonostante le «otto milioni di
baionette» millantate da Mussolini, la stragrande maggioranza dei soldati
italiani non era motivata da alcun odio contro inglesi e francesi, non era
addestrata a impieghi specifici come l'assalto a opere fortificate o
l'aviotrasporto ed era cronica la mancanza di munizioni, mezzi motorizzati e
indumenti adatti. Il Duce, a conoscenza della crescente ostilità dei
tedeschi nei confronti degli italiani, aveva paura di una possibile ritorsione
di Hitler vincitore e si era posto il problema di quale sorte, in caso di
vittoria tedesca, il Führer avrebbe riservato all'Italia qualora questa si
fosse sottratta ai suoi doveri di alleata. Il generale Faldella, infatti,
testimoniò che «più si profilava l'eventualità della vittoria germanica, più
Mussolini temeva la vendetta di Hitler».Sulla situazione, poi, pesava la
questione dell'Alto Adige, una zona di territorio italiano popolata
prevalentemente da abitanti di lingua e cultura tedesca che, nonostante le
rassicurazioni sull'inviolabilità dei confini, Hitler avrebbe potuto sfruttare
come casus belli, nell'ottica pangermanista di unificare tutte le popolazioni
di stirpe germanica, per annettere quel territorio al Reich e per invadere
militarmente l'Italia settentrionale.[46]Addirittura, il Duce fu anche sfiorato
dall'idea che convenisse cambiare campo e schierarsi con gli anglo-francesi. Il
30 settembre 1939, infatti, alludendo alla scarsità delle riserve di carburante
necessarie per la guerra, commentò che, senza tali scorte, non sarebbe stato
possibile impegnarsi «né col gruppo A né col gruppo B», facendo perciò supporre
che, almeno in linea teorica, il Duce non escludeva a priori un ribaltamento
delle alleanze.[47] Spaventato dalla situazione, diffidente nei confronti dei
tedeschi e preoccupato da una loro eventuale calata nella Penisola, il
successivo 21 novembre Mussolini ordinò il prolungamento difensivo del Vallo
Alpino del Littorioanche sul confine con il Reich, nonostante l'alleanza fra
Italia e Germania, creando il Vallo Alpino in Alto Adige. La zona,
massicciamente fortificata a tempo di record, venne poi soprannominata dalla
popolazione locale "Linea non mi fido", con evidente riferimento
ironico alla Linea Sigfrido.[48] Il problema della non
belligeranzaModifica La bandiera da guerra tedesca e la bandiera italiana
sventolano insieme Gli esiti della campagna di Polonia, contraddistinta da una
serie di impressionanti e fulminee vittorie dei tedeschi, contrastavano con la
condizione di non belligeranza italiana, mettendo implicitamente in risalto il
fallimento della politica militarista che Mussolini aveva condotto durante
tutto il suo governo e dando l'inaccettabile impressione che l'Italia potesse
essere considerata, in sede internazionale, come un Paese debole, ininfluente,
secondario o codardo.[49] Il Duce era infatti convinto che, nonostante
l'insufficienza militare nostrana, l'Italia non avrebbe potuto astenersi dalla
guerra. Secondo il cosiddetto Promemoria segretissimo 328 del 31 marzo 1940,[N
1][50] infatti, l'Italia non poteva restare non belligerante «senza dimissionare
dal suo ruolo, senza squalificarsi, senza ridursi al livello di una Svizzera
moltiplicata per dieci». Il problema, secondo Mussolini, non consisteva nel
decidere se il Paese avrebbe partecipato o no al conflitto, «perché l'Italia
non potrà fare a meno di entrare in guerra, si tratta soltanto di sapere quando
e come: si tratta di ritardare il più a lungo possibile, compatibilmente con
l'onore e la dignità, la nostra entrata in guerra».[49] Nello stesso testo, il
Duce tornò a riflettere sull'opportunità di denunciare il Patto d'Acciaio e di
schierarsi al fianco di Londra e Parigi, concludendo però che si trattava di
una strada non praticabile e che, anche «se l'Italia cambiasse atteggiamento e
passasse armi e bagagli ai franco-inglesi, essa non eviterebbe la guerra
immediata colla Germania», ritenendo uno scontro con il Reich un'eventualità
più disastrosa di un conflitto contro Francia e Regno Unito.[49]
Nonostante ciò Mussolini stesso covava la speranza, ormai flebile, di riuscire
ancora a riportare la situazione nell'alveo delle trattative diplomatiche,
credendo possibile una sorta di ripetizione della conferenza di Monaco del
1938. Per alcuni mesi il Duce restò infatti dubbioso fra tre possibili
alternative:[51] fungere da mediatore in una riconciliazione per via negoziale
fra tedeschi e anglo-francesi, in modo da ottenere da tutti qualche sorta di
ricompensa, oppure rischiare e scendere in guerra al fianco della Germania (ma
solo quando quest'ultima sarebbe stata a un passo dalla vittoria finale),
oppure condurre una sorta di guerra parallela a quella della Germania, in piena
autonomia da Hitler e con obiettivi limitati ed esclusivamente italiani, che
gli avrebbe consentito di sedersi al tavolo dei vincitori e di raccogliere
qualche guadagno con il minimo sforzo, essendo costretto a centellinare le
poche risorse disponibili,[52] e senza perdere la faccia.[53] Scartata la
prima ipotesi, dal momento che le richieste di trattative avanzate da Hitler
erano state respinte, Mussolini si orientò allora sulla seconda e sulla terza,
in realtà strettamente interconnesse fra loro, maturando questa convinzione
almeno già dal 3 gennaio 1940, quando scrisse una lettera al Führer per
comunicargli che l'Italia avrebbe preso parte al conflitto, ma solo nel momento
che avrebbe ritenuto più favorevole:[54] non troppo presto per evitare una
guerra logorante, e non troppo tardi da arrivare ormai a cose fatte.[55] Nella
stessa lettera, però, nonostante l'impegno a entrare in guerra, Mussolini
dimostrò di nuovo la propria titubanza, suggerendo contraddittoriamente a
Hitler di trovare un accomodamento pacifico con Parigi e Londra, in quanto «non
è sicuro che si riesca a mettere in ginocchio gli alleati franco-inglesi senza
sacrifici sproporzionati agli obiettivi». Dopo un incontro con il ministro
degli esteri tedesco Ribbentrop, il Duce confermò questa linea, come risulta
dal contenuto di una sua telefonata con Claretta Petacci intercettata dagli
stenografi del Servizio Speciale Riservato.[N 2] Nella telefonata, Mussolini
parlò dell'eventuale entrata dell'Italia in guerra come di un fatto
ineludibile, senza però precisare come e quando. I dubbi sul da
farsiModifica Mussolini e Hitler. Mussolini e Hitler si incontrarono per
un colloquio al passo del Brennero. Secondo Galeazzo Ciano, l'obiettivo del
Duce era dissuadere il Führer dal proposito di iniziare un'offensiva terrestre
contro l'Europa occidentale. L'incontro, invece, finì in un lunghissimo
monologo del Cancelliere tedesco, con il Duce che a stento riuscì ad aprire
bocca. Fra marzo e aprile Hitler intensificò la sua pressione psicologica su
Mussolini, mentre il fronte antitedesco sembrava crollare in una serrata
sequenza di vittorie germaniche. Le Forze Armate del Reich, mettendo in atto
l'efficace tattica del Blitzkrieg, travolsero infatti la Danimarca, la Norvegia,
i Paesi Bassi, il Lussemburgo, il Belgio e iniziarono l'attacco alla Francia. I
vertici militari italiani prevedevano, secondo il generale Paolo Puntoni, la
«liquidazione della Francia entro giugno e dell'Inghilterra entro luglio». Le
folgoranti vittorie tedesche, unite alle risposte tardive e inefficaci di
inglesi e francesi,[59]fecero rimanere gli italiani col fiato sospeso, tutti
più o meno consapevoli che dal conflitto sarebbero dipese le sorti dell'Europa
e dell'Italia, e causarono in Mussolini una serie di reazioni contrastanti che,
«con gli alti e bassi tipici del suo carattere», continuarono ad accavallarsi,
rendendolo incapace di prendere una decisione che sapeva di dover prendere, ma
alla quale cercava di sottrarsi. A chi gli chiedeva un parere sull'eventualità
che l'Italia restasse fuori dal conflitto, Mussolini, riferendosi all'attacco
tedesco in corso in quei mesi, rispondeva che: «se gli inglesi e i francesi
reggono il colpo ci faranno pagare non una, ma venti volte, Etiopia, Spagna e
Albania, ci faranno restituire tutto con gli interessi». Pio invia un messaggio
al Duce per convincerlo a restare fuori dal conflitto. Ciano, riferendosi al
messaggio, annotò sul suo diario che: «l'accoglienza di Mussolini è stata
fredda, scettica, sarcastica». Il re Vittorio Emanuele III, accennando alla
«macchina militare ancora debolissima», sconsigliò l'entrata in guerra,
raccomandando al Duce di rimanere nella posizione di non belligeranza il più a
lungo possibile. Contemporaneamente la diplomazia europea si impegnò per
evitare che Mussolini scendesse in campo al fianco della Germania: per
impreparata che fosse l'Italia, il suo apporto rischiava di essere decisivo per
piegare la resistenza francese e avrebbe potuto creare grosse difficoltà anche
al Regno Unito. Il 14 maggio, su insistenza francese, il presidente degli Stati
Uniti d'America Franklin Delano Rooseveltindirizzò al Duce un messaggio dai
toni concilianti, il quarto da gennaio, per dissuaderlo dall'entrare in guerra.
Due giorni dopo anche il primo ministro inglese Winston Churchill seguì
l'esempio, ma con un messaggio più intransigente, in cui avvertiva che il Regno
Unito non si sarebbe sottratto alla lotta, qualunque fosse stato l'esito della
battaglia sul continente. Il 26 maggio partì un quinto messaggio di Roosevelt
al Duce. Tutte le risposte di Mussolini confermarono che voleva rimanere fedele
all'alleanza con la Germania e agli "obblighi d'onore" che essa
comportava, ma privatamente non aveva ancora raggiunto la certezza sul da
farsi. Pur parlando continuamente di guerra con Galeazzo Ciano e con gli altri
suoi collaboratori,ed essendo profondamente colpito dai successi tedeschi,
almeno fino al 27-28 maggio (se si esclude un'improvvisa convocazione dei tre
sottosegretari militari la mattina del 10 maggio) non risulta che il numero dei
colloqui con i responsabili delle Forze Armate avesse avuto alcun incremento, e
nulla faceva presagire un intervento a breve. Mentre i francesi si aspettavano
un lento avanzare della fanteria tedesca attraverso il Belgio, o al massimo un
improbabile attacco frontale contro le fortificazioni della Linea Maginot,
circa 2.500 carri armati tedeschi penetrarono in Francia dopo aver attraversato
in modo fulmineo la foresta delle Ardenne, una regione collinare caratterizzata
da profonde vallate e da fitti arbusti che Parigi riteneva, fino a quel
momento, del tutto inadatta a essere attraversata da carri armati. Alla
sorpresa di un'azione tatticamente così brillante seguì il rapido e totale
collasso delle Forze Armate francesi, che fece nascere la convinzione, nei
vertici militari italiani, che il Regno Unito non sarebbe stato in grado di
fronteggiare da solo un attacco tedesco e che sarebbe stato costretto a
scendere a patti con Berlino e che gli Stati Uniti non avrebbero avuto la
volontà né il tempo utile di impegnarsi direttamente nel conflitto, dato che
non lo avevano fatto neanche per salvare la Francia e per servirsi di essa come
una testa di ponte sul continente europeo.[68] Inoltre, la maggioranza
dell'opinione pubblica statunitense era contraria alla guerra e Franklin Delano
Roosevelt, impegnato nella campagna elettorale per le elezioni presidenziali,
non poteva non tenerne conto. Il direttore dell'OVRA, Guido Leto, dispose la
raccolta di indiscrezioni, informazioni riservate e intercettazioni telefoniche
per sondare i sentimenti degli italiani nei confronti della guerra, allo scopo
di creare uno spaccato il più aderente possibile alla realtà da sottoporre al
Duce, che chiedeva un quadro completo della situazione. Secondo tali relazioni,
«i nostri informatori segnalarono, prima sporadicamente, poi con maggiore
frequenza ed ampiezza, uno stato di timore - che andava diffondendosi
rapidamente - che la Germania fosse sul punto di riuscire a chiudere assai
brillantemente e da sola la tremenda partita e che, di conseguenza, noi - se
pure ideologicamente alleati - saremmo rimasti privi di ogni beneficio per
quanto aveva tratto colle nostre aspirazioni nazionali. Che, a causa della
nostra prudenza - di cui veniva attribuita la responsabilità a Mussolini -
saremmo stati, forse, anche puniti dal tedesco e che, quindi, se ancora in
tempo, bisognava bruciare le tappe ed entrare subito in guerra». Leto, inoltre,
aggiunse che «pochissime voci, e non certo di politicanti delle due parti
avverse e con debolissimi echi nel paese, si levarono ad ammonire sulle
tremende incognite che la situazione presentava». In questo clima, perciò,
anche Mussolini si convinse che l'Italia potesse «arrivare tardi», in quanto
era opinione comune che il Regno Unito avesse i giorni contati e che la
conclusione della guerra fosse ormai prossima. A nulla servirono le opposizioni
del re e di Pietro Badoglio, motivate dall'impreparazione del Regio Esercito e
da un giudizio prudente sulle vittorie tedesche in Francia. Il sovrano,
inoltre, pose l'accento sull'importanza che avrebbe potuto avere nel conflitto
un eventuale intervento armato statunitense, che sarebbe stato foriero di
numerose incognite. Dello stesso avviso era anche il principe ereditario
Umberto di Savoia. Galeazzo Ciano scrisse nel suo diario: «Vedo il Principe di
Piemonte. È molto antitedesco e convinto della necessità di rimanere neutrali.
Scettico, impressionantemente scettico sulle possibilità effettive
dell'esercito nelle attuali condizioni, che giudica pietose, di armamento».
Secondo Mussolini, invece, le rapide vittorie tedesche erano il presagio
dell'imminente fine della guerra, per cui l'insufficienza effettiva delle Forze
Armate italiane assumeva ormai un'importanza trascurabile. Accanto al suo
timore che l'Italia non avrebbe ricevuto alcun beneficio nella futura
conferenza di pace qualora il conflitto fosse terminato prima dell'intervento
nostrano, nacque in Mussolini la
convinzione che gli fosse necessario «solo un pugno di morti» per potersi
sedere al tavolo dei vincitori e per avere diritto a reclamare parte dei
guadagni, senza la necessità di un esercito preparato e adeguatamente
equipaggiato in una guerra che, secondo l'opinione pubblica nella tarda
primavera del 1940, sarebbe durata ancora solo poche settimane e il cui destino
era già scritto in favore della Germania. L'entrata in guerra
dell'ItaliaModifica Ultimi tentativi di mediazioneModifica Il presidente
statunitense Franklin Delano Roosevelt A fine maggio, nei giorni in cui i
tedeschi vincevano la battaglia di Dunkerque contro gli anglo-francesi e il re
del Belgio Leopoldo III firmava la resa del proprio paese, il Duce si convinse
che fosse arrivato il «momento più favorevole» che attendeva da gennaio ed ebbe
una decisiva virata verso l'intervento: il 26 ricevette una lettera dal Führer
che lo sollecitava a intervenire e, contemporaneamente, un rapporto inviato a
Roma dall'ambasciatore italiano a Berlino Dino Alfieri, che era succeduto a Attolico,
su un suo colloquio con Hermann Göring. Quest'ultimo aveva suggerito all'Italia
di entrare in guerra quando i tedeschi avessero «liquidata la sacca
anglo-franco-belga», situazione che si stava verificando proprio in quei
giorni. Entrambi produssero nel dittatore una forte impressione, tanto che
Ciano annotò nel proprio diario che Mussolini «si propone di scrivere una
lettera ad Hitler annunciando il suo intervento per la seconda decade di
giugno». Ogni settimana, di fronte all'ampiezza della vittoria tedesca, poteva
essere quella decisiva per la fine della guerra e l'Italia, secondo Mussolini,
non poteva farsi trovare non in armi. Lo stesso giorno, in un estremo tentativo
di scongiurare la partecipazione italiana al conflitto, il primo ministro
inglese Winston Churchill aveva, previo accordo con il suo omologo francese
Paul Reynaud, inviato al presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt
la bozza di un accordo, che quest'ultimo avrebbe dovuto successivamente
trasmettere al Duce. Secondo tale documento, conservato presso i National
Archives di Londra con il nome Suggested Approach to Signor Mussolini, Regno
Unito e Francia ipotizzavano la vittoria finale della Germania e chiedevano a
Mussolini di moderare le future richieste di Hitler. Nello specifico, secondo
questa proposta di accordo, Londra e Parigi promettevano di non aprire alcun
negoziato con Hitler qualora quest'ultimo non avesse ammesso il Duce,
nonostante la mancata partecipazione italiana al conflitto, alla futura
conferenza di pace in posizione uguale a quella dei belligeranti. Inoltre,
Churchill e Reynaud si impegnavano a non ostacolare le pretese italiane alla
fine della guerra (che principalmente consistevano, in quel momento,
nell'internazionalizzazione di Gibilterra, nella partecipazione italiana al
controllo del Canale di Sueze in acquisizioni territoriali nell'Africa
francese). Mussolini, però, in cambio avrebbe dovuto garantire di non aumentare
successivamente le proprie richieste, avrebbe dovuto salvaguardare Londra e
Parigi frenando le pretese di Hitler vincitore, avrebbe dovuto revocare la non
belligeranza e dichiarare la neutralitàitaliana e avrebbe dovuto mantenere tale
neutralità per tutta la durata del conflitto. Roosevelt si dichiarò
personalmente garante per il futuro rispetto di tale accordo. L'ambasciatore
degli Stati Uniti a Roma, Phillips, recò a Ciano la missiva, indirizzata a
Mussolini, con il testo dell'accordo. Lo stesso giorno il governo di Parigi,
per rendere la proposta di Roosevelt ancora più allettante, mediante
l'ambasciatore francese in ItaliaAndré François-Poncet fece sapere al Duce di
essere disponibile a trattare «sulla Tunisia e forse anche sull'Algeria». Secondo
lo storico Ciro Paoletti, «Roosevelt prometteva per un futuro incerto e
lontano. Sarebbe stato in grado di mantenere? E se per allora non fosse stato
più presidente? L'Italia aveva già avuto in passato, nel 1915 e negli anni
seguenti, delle notevoli promesse, poi non mantenute a Versailles nel 1919,
come ci si poteva fidare? Mussolini doveva scegliere fra le promesse a lunga
scadenza, fatte per di più da un presidente che di lì a sei mesi doveva
presentarsi alla rielezione, e le possibilità vicine, concrete, date da una
Francia al collasso, da un'Inghilterra allo stremo e dalla paura di cosa
avrebbe potuto fargli subito dopo la ormai certa vittoria in Francia - e assai
prima di qualsiasi intervento americano - una Germania trionfante». Secondo gli
storici Emilio Gin ed Eugenio Di Rienzo, inoltre, il Duce non avrebbe mai
accettato di sedersi al futuro tavolo delle trattative di pace, accanto a un
Hitler trionfante, solo "per concessione" degli Alleati, senza aver
combattuto, in quanto la sua figura in sede internazionale ne sarebbe uscita
debolissima e la sua autorità, paragonata a quella del Führer, sarebbe stata
del tutto irrilevante. Ciano, nel suo diario riportò infatti che Mussolini «se
pacificamente potesse avere anche il doppio di quanto reclama, rifiuterebbe». La
risposta a Phillips, infatti, fu negativa. Gli atti formali e l'annuncio
pubblicoModifica La folla, radunata di fronte a Palazzo Venezia, assiste
al discorso sulla dichiarazione di guerra dell'Italia a Francia e Gran Bretagna.
Il Duce comunicò a Pietro Badoglio la decisione di intervenire contro la
Francia e, la mattina successiva, si riunirono a Palazzo Venezia i quattro
vertici delle Forze Armate, Badoglio e i tre capi di Stato Maggiore (Rodolfo
Graziani, Domenico Cavagnari e Francesco Pricolo): in mezz'ora tutto fu
definitivo. Mussolini comunicò ad Alfieri la sua decisione e il 30 maggio
annunciò ufficialmente a Hitler che l'Italia sarebbe entrata in guerra
mercoledì 5 giugno. Mesi prima, in realtà, il Duce aveva ipotizzato un'entrata
in guerra per la primavera 1941, data poi avvicinata al settembre 1940 dopo la
conquista tedesca di Norvegia e Danimarca e ulteriormente accorciata dopo
l'invasione della Francia, fatto che faceva presagire un'ormai imminente fine
del conflitto. Il 1º giugno il Führer rispose, chiedendo di posticipare di
qualche giorno l'intervento per non costringere l'esercito tedesco a modificare
i piani in corso di attuazione in Francia. Il Duce si mostrò d'accordo, anche
perché il rinvio gli permetteva di completare gli ultimi preparativi. In un
messaggio del 2 giugno, però, l'ambasciatore tedesco a Roma Mackensen comunicò
a Mussolini che la richiesta di posticipare l'azione era stata ritirata e,
anzi, la Germania avrebbe gradito un anticipo. Il Duce, tramite il generale
Ubaldo Soddu, chiese a Vittorio Emanuele III che gli venisse ceduto il comando
supremo delle forze armate che, in base allo Statuto Albertino, era detenuto
dal sovrano. Secondo Galeazzo Ciano il re avrebbe opposto notevole resistenza,
finendo con il concordare una formula di compromesso: il comando supremo
sarebbe rimasto in capo a Vittorio Emanuele III, ma Mussolini lo avrebbe
gestito in delega. Il 6 giugno il Duce, scontento di questa soluzione e
irritato dalla difesa del sovrano delle proprie prerogative statutarie, sbottò:
«Alla fine della guerra dirò a Hitler di far fuori tutti questi assurdi
anacronismi che sono le monarchie».[89] Volendo evitare l'entrata in guerra
venerdì 7 giugno, data che era stata superstiziosamente considerata di cattivo
auspicio, si giunse a lunedì 10 giugno. Galeazzo Ciano fece convocare per le
16:30 a Palazzo Chigi l'ambasciatore francese André François-Poncet e, secondo
la prassi diplomatica, gli lesse la dichiarazione di guerra, il cui testo
recitava: «Sua Maestà il Re e Imperatore dichiara che l'Italia si considera in
stato di guerra con la Francia a partire da domani 11 giugno». Alle 16:45 dello
stesso giorno venne ricevuto da Ciano l'ambasciatore britannico Percy Loraine,
che ascoltò la lettura del testo: «Sua Maestà il Re e Imperatore dichiara che
l'Italia si considera in stato di guerra con la Gran Bretagna a partire da
domani 11 giugno».[91] Entrambi gli incontri si svolsero, secondo i diari
di Galeazzo Ciano, in un clima formale, ma di reciproca cortesia. L'ambasciatore
francese avrebbe detto che considerava la dichiarazione di guerra come un colpo
di pugnale a un uomo già a terra, ma che si aspettava una tale situazione già
da due anni, dopo la firma del Patto d'Acciaio fra Italia e Germania, e che
comunque nutriva stima personale per Ciano e non poteva considerare gli
italiani come nemici. L'ambasciatore inglese, invece, sempre secondo Ciano
avrebbe partecipato all'incontro restando imperturbabile, limitandosi a
domandare educatamente se quella che stava ricevendo dovesse essere considerata
un preavviso o la vera e propria dichiarazione di guerra. Preceduto dal
vicesegretario del Partito Nazionale Fascista Pietro Capoferri, che ordinò alla
folla il saluto al Duce, alle 18:00 dello stesso giorno Mussolini, indossando
l'uniforme da primo caporale d'onore della Milizia Volontaria per la Sicurezza
Nazionale, di fronte alla folla radunatasi in Piazza Venezia, annunciò, con un
lungo discorso trasmesso anche via radio nelle principali città italiane, che
«l'ora delle decisioni irrevocabili» era scoccata, mettendo al corrente il
popolo italiano delle avvenute dichiarazioni di guerra. Di seguito, l'incipit e
explicit del discorso: «Combattenti di terra, di mare, dell'aria. Camicie nere
della rivoluzione e delle legioni. Uomini e donne d'Italia, dell'Impero e del
Regno d'Albania. Ascoltate! Un'ora, segnata dal destino, batte nel cielo della
nostra patria. L'ora delle decisioni irrevocabili. La dichiarazione di guerra è
già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. La parola
d'ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti. Essa già trasvola ed
accende i cuori dalle Alpi all'Oceano Indiano: vincere! E vinceremo, per dare
finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all'Italia, all'Europa, al
mondo. Popolo italiano! Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo
coraggio, il tuo valore!». Le reazioni dell'opinione pubblicaModifica La
prima pagina de Il Popolo d'Italia dell'11 giugno 1940 La notizia fu accolta
con entusiasmo dai gruppi industriali italiani, che vedevano l'inizio del
conflitto come un'occasione per aumentare la produzione e la vendita di armi e
macchinari, e da una buona parte dei vertici fascisti, nonostante le più alte
personalità del regime avessero in precedenza espresso scetticismo
sull'intervento italiano e avessero abbracciato la linea di condotta tracciata
da Mussolini il 31 marzo 1940, che prevedeva di entrare in guerra il più tardi
possibile allo scopo di evitare un conflitto lungo e insopportabile per il
Paese. In ogni caso, fra le personalità che avevano espresso dubbi - se non
veri e propri atteggiamenti ostili - sull'intervento militare italiano, nessuna
palesò pubblicamente la propria opposizione al conflitto e sulla scrivania del
Capo del Governo non vennero recapitate lettere di dimissioni. La stampa
italiana, condizionata da censura e controllo imposti dal regime fascista,
diede la notizia con grande enfasi, utilizzando titoli a caratteri cubitali che
facevano uso entusiasta di citazioni del discorso e manifestavano completa
adesione alle decisioni prese: «Corriere della Sera: Folgorante annunzio del
Duce. La guerra alla Gran Bretagna e alla Francia. Il Popolo d'Italia: POPOLO
ITALIANO CORRI ALLE ARMI! Il Resto del Carlino: Viva il Duce Fondatore
dell'Impero. GUERRA FASCISTA. L'Italia in armi contro Francia e Inghilterra. Il
Gazzettino: Il Duce chiama il popolo alle armi per spezzare le catene del Mare
nostro. L'Italia: I dadi sono gettati. L'ITALIA È IN GUERRA. La Stampa: Il Duce
ha parlato. La dichiarazione di guerra all'Inghilterra e alla Francia. Bertoldo:
Londra non sarà piena di tedeschi, ma fra poco sarà piena di italiani.»
L'unica voce critica che si levò, oltre ai giornali clandestini, fu quella de
L'Osservatore Romano: «E il duce (abbagliato) salì sul treno in corsa». Questo
titolo fu accolto con grande disappunto dai vertici italiani, tanto che Roberto
Farinacci, segretario del partito fascista, in un commento alla stampa affermò
che: «La Chiesa è stata la costante nemica dell'Italia». Il capo
dell'OVRA, Guido Leto, prendendo atto della reazione dell'opinione pubblica
italiana, riferì che: «Come la polizia rilevò e riferì il quasi unanime
dissenso del paese verso un'avventura bellica, così nella primavera del 1940
essa segnalò il rovesciamento della pubblica opinione presa da un ossessionante
timore di arrivare tardi. E nel primo e nel secondo tempo operò come un
termometro: non determinò, né influenzò, né menomamente alterò la temperatura
del paese, ma semplicemente la misurò». Hitler, venuto a conoscenza
dell'annuncio pubblico, inviò immediatamente due telegrammi di solidarietà e
ringraziamento, uno indirizzato a Mussolini e uno a Vittorio Emanuele III,
anche se, privatamente, espresse delusione per le scelte del Duce, in quanto
avrebbe preferito che l'Italia attaccasse a sorpresa Malta e altre importanti
posizioni strategiche inglesi anziché dichiarare guerra a una Francia già
sconfitta. In sede internazionale l'intervento italiano contro la Francia fu
visto come un gesto vile, al pari di una pugnalata alle spalle, in quanto
l'esercito francese era già stato messo in ginocchio dai tedeschi e il suo
comandante supremo, il generale Weygand, aveva già impartito ai comandanti
delle forze superstiti l'ordine di ritirarsi per mettere in salvo il maggior
numero possibile di unità. Il giudizio di Churchill sull'ingresso dell'Italia
nel conflitto bellico e sull'operato di Mussolini fu affidato al commento
pronunciato a Radio Londra: «Questa è la tragedia della storia italiana. E
questo è il criminale che ha tessuto queste gesta di follia e vergogna». Quando
venne raggiunto dalla notizia dell'intervento italiano contro un nemico ormai
sconfitto, il presidente degli Stati Uniti Roosevelt rilasciò a Charlottesville
una dura dichiarazione radiofonica: «In questo 10 giugno, la mano che teneva il
pugnale l'ha affondato nella schiena del suo vicino». Piani di
guerraModifica L'entrata in guerra fu la notizia principale su tutti i
quotidiani italiani. I preparativi bellici italiani erano stati delineati dallo
Stato Maggiore dell'esercito e prevedevano una condotta strettamente difensiva
sulle Alpi Occidentali ed eventuali azioni offensive (da iniziare solamente in
condizioni favorevoli) in Jugoslavia, Egitto, Somalia francese e Somalia
britannica. Si trattava di indicazioni di massima per la dislocazione delle
forze disponibili, non di piani operativi, per i quali veniva lasciata al Duce
piena libertà di improvvisazione. I vertici militari riconobbero
l'inadeguatezza del Paese ad affrontare una guerra ma, allo stesso tempo, non
presero posizione dinanzi all'intervento, ribadendo la loro totale fiducia in
Mussolini. L'approccio del Duce al conflitto appena iniziato dall'Italia si
concretizzò in direttive più o meno frammentarie, che egli indirizzava ai
vertici militari: furono formulate richieste di operazioni nei teatri più
disparati, mai trasformatesi in scelte precise e piani concreti. Venivano a
mancare, in questo quadro, una strategia complessiva e di ampio respiro,
obiettivi reali e un'organizzazione razionale della guerra. Ciò fu evidente fin
da subito, quando lo Stato Maggiore Generale notificò che: «A conferma di
quanto comunicato nella riunione dei Capi di Stato Maggiore tenuta il giorno 5
ripeto che l'idea precisa del Duce è la seguente: tenere contegno assolutamente
difensivo verso la Francia sia in terra che in aria. In mare: se si incontrano
forze francesi miste a forze inglesi, si considerino tutte forze nemiche da
attaccare; se si incontrano solo forze francesi, prendere norma dal loro
contegno e non essere i primi ad attaccare, a meno che ciò ponga in condizioni
sfavorevoli». In base a quest'ordine la Regia Aeronautica ordinò di non
effettuare alcuna azione offensiva, ma solo di compiere ricognizioni aeree
mantenendosi in territorio nazionale, e altrettanto fecero il Regio Esercito e
la Regia Marina, la quale non aveva intenzione di uscire dalle acque nazionali
salvo per il controllo del canale di Sicilia, ma senza garantire le
comunicazioni con la Libia. Come preannunciato nella corrispondenza con il
governo tedesco, dall'11 giugno le truppe italiane cominciarono le operazioni
militari al confine francese in vista della pianificata occupazione delle Alpi
occidentali ed effettuarono bombardamenti aerei, di carattere puramente
dimostrativo, su Porto Sudan, Aden e sulla base navale inglese di Malta. L'alto
comando delle operazioni venne affidato al generale Graziani, un ufficiale
esperto in guerre coloniali contro nemici inferiori per numero e per mezzi, che
non aveva mai avuto il comando su un fronte europeo e che non aveva alcuna familiarità con la
frontiera occidentale. I vertici militari italiani, costretti a centellinare le
poche risorse disponibili, decisero di muovere le truppe solo in concomitanza
con i movimenti dei tedeschi:[108]l'aggressione alla Francia avvenne infatti
solo quando la Germania l'aveva già praticamente sconfitta, poi ci fu un
periodo di inattività italiana contemporaneo all'inattività tedesca nell'estate
1940, poi le azioni italiane ripresero quando la Germania iniziò la
pianificazione dell'aggressione al Regno Unito. Secondo lo storico Ciro Paoletti:
«Ogni volta che i Tedeschi si muovevano poteva essere quella decisiva per la
fine vittoriosa del conflitto; e l'Italia doveva farsi trovare impegnata quel
tanto che bastasse a dire che anch'essa aveva combattuto lealmente e godeva il
diritto di sedersi al tavolo dei vincitori». L'atteggiamento dell'Italia, che
«entrava in guerra senza essere attaccata» né sapeva dove attaccare, e che
«addensava le truppe alla frontiera francese perché non aveva altri obiettivi»,
venne sintetizzato dal generale Quirino Armellini con la massima: «Intanto
entriamo in guerra, poi si vedrà. Il Promemoria segretissimo 328 era una
relazione, stilata da Mussolini il 31 marzo 1940, con destinatari Vittorio
Emanuele III, Galeazzo Ciano, Pietro Badoglio, Rodolfo Graziani, Domenico
Cavagnari, Francesco Pricolo, Attilio Teruzzi, Ettore Muti e Ubaldo Soddu. cfr.
Il «promemoria segretissimo» relativo ai piani di guerra redatto da Benito
Mussolini, su larchivio. Il Servizio
Speciale Riservato era un organo, istituito ai tempi di Giovanni Giolitti, per
tenere sotto controllo le principali personalità del Paese. ^ Diversa, invece,
la versione su toni e parole data dall'ambasciatore francese: «E così, avete
aspettato di vederci in ginocchio, per accoltellarci alle spalle. Se fossi in
voi non ne sarei affatto orgoglioso», e Ciano avrebbe risposto, arrossendo:
«Mio caro Poncet, tutto questo durerà l'espace d'un matin. Ben presto ci
ritroveremo tutti davanti a un tavolo verde», riferendosi a un futuro tavolo
delle trattative al termine del conflitto. cfr. Niente pugnale alla schiena in
Internet Archive., in Il Tempo. Di seguito i testi dei due telegrammi, qui
fedelmente riportati secondo le fonti reperibili. cfr. La Dichiarazione di
Guerra di Mussolini, su storiaxxisecolo. Berlino, telegramma di Hitler al
Re La provvidenza ha voluto che noi fossimo costretti contro i nostri
stessi propositi a difendere la libertà e l'avvenire dei nostri popoli in
combattimento contro Inghilterra e Francia. In quest'ora storica nella quale i
nostri eserciti si uniscono in fedele fratellanza d'armi, sento il bisogno
d'inviare a Vostra Maestà i miei più cordiali saluti. Io sono della ferma
convinzione che la potente forza dell'ITALIA e della GERMANIA otterrà la
vittoria sui nostri nemici. I diritti di vita dei nostri due popoli saranno
quindi assicurati per tutti i tempi. Berlino, telegramma di Hitler a
Mussolini Duce, la decisione storica che Voi avete oggi proclamato mi ha
commosso profondamente. Tutto il popolo tedesco pensa in questo momento a Voi e
al vostro Paese. Le forze armate germaniche gioiscono di poter essere in lotta
al lato dei camerati italiani. Nel settembre dell'anno scorso i dirigenti
britannici dichiararono al Reich la guerra senza un motivo. Essi respinsero
ogni offerta di un regolamento pacifico. Anche la Vostra proposta di mediazione
si ebbe una risposta negativa. Il crescente sprezzo dei diritti nazionali
dell'ITALIA da parte dei dirigenti di Londra e di Parigi ha condotto noi, che
siamo stati sempre legati nel modo più stretto attraverso le nostre Rivoluzioni
e politicamente per mezzo dei trattati, a questa grande lotta per la libertà e
per l'avvenire dei nostri popoli. Fonti ^ Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Paoletti,
Acerbo, Paoletti, Paoletti, Le Moan, Ciano, Schiavon, Ciano, Ciano, Corpo di
Stato Maggiore, Candeloro, Paoletti, Paoletti, Ciano, Collotti, Ciano, Paoletti,
Bocca, Costa Bona, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Ciano, Paoletti,
Ciano, Bocca, De Felice, Ciano, Paoletti, Paoletti, Paoletti, Candeloro, Ciano,
Candeloro, Bocca, Candeloro, Faldella, Paoletti, Bottai, Bernasconi e Muran, Rochat,
Il «promemoria segretissimo» relativo ai piani di guerra redatto da Benito
Mussolini, su larchivio.com, Candeloro, Paoletti, Rochat, Paoletti, Candeloro, Corrispondenza
Mussolini – Hitler, su digilander.libero.it. Speroni, Ciano, Candeloro, Felice,
Costa Bona, Ciano, Ciano, De Felice, De Felice, Vedovato, G., & Grandi. Grandi
al Duce. Questo è il momento di astenersi dalla guerra». Rivista di Studi
Politici, Felice, De Felice, Paoletti, Paoletti, Leto, Paoletti, Felice, Faldella,
Speroni, Speroni, Faldella, Badoglio, De la Sierra, De Felice, Il carteggio
Churchill-Mussolini? Una traccia nei National Archives di Londra, su
nuovarivistastorica, Paoletti, Ciano, Ciano, Felice, Carteggio Hitler Mussolini
L'Archivio "storia - history", su larchivio. Felice, Ciano, Lepre, Corpo
di Stato Maggiore, Niente pugnale alla schiena, in Il Tempo, Speroni, Felice, La
Dichiarazione di Guerra di Mussolini, su storiaxxisecolo,
Pietrantonio, L’Italia dichiara guerra a Francia e Gran Bretagna, su
abitarearoma, Santis, Bocca, Fiori, Mussolini: il discorso che cambiò la storia
d'Italia, in Repubblica, Campagna di Francia, su storiaxxisecolo, Rochat, Rochat,
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La perception de la menace italienne par le Quai d'Orsay à la veille de la
Seconde Guerre Mondiale, intervento alle «Journées d’études France et Italie en
guerre. Bilan historiographique et enjeux mémoriels», Roma, Ecole
Française, Lepre, Mussolini l'italiano. Il duce nel mito e nella realtà,
Milano, Mondadori, Leto, OVRA-Fascismo e antifascismo, Rocca San Casciano,
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- La politica estera fascista, Roma, Bonacci, Rochat, Le guerre italiane, Milano,
Einaudi, Schiavon, La perception de la menace italienne par l'État-Major
français à la veille de la Seconde Guerre Mondiale, intervento alle «Journées
d'études France et Italie en guerre. Bilan
historiographique et enjeux mémoriels», Roma, Ecole Française, Speroni, Umberto
II. Il
dramma segreto dell'ultimo re, Milano, Bompiani, Voci correlate Battaglia delle
Alpi Occidentali Lista del molibdeno Occupazione italiana della Francia
meridionale Storia del Regno d'Italia Italia nella seconda guerra mondiale
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completo del carteggio del 1940 fra Hitler e Mussolini contiene il testo
completo della dichiarazione di guerra dell'Italia a Gran Bretagna e Francia
Istituto Nazionale Luce. La dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran
Bretagna: il discorso di Mussolini, su patrimonio.archivioluce. Portale
Guerra Portale Italia Portale Seconda guerra
mondiale Portale Storia Ultima modifica 23 giorni fa di Franz van
Lanzee PAGINE CORRELATE Patto d'Acciaio accordo di reciproco aiuto politico,
diplomatico e militare tra i governi del Regno d'Italia e della Germania
nazista Lista del molibdeno richiesta italiana di materiale bellico nella
II guerra mondiale Memoriale Cavallero. Roberto Cordeschi. Cordeschi. Keywords:
la logica della guerra, la guerra del fascismo, Croce, sperimentalismo
italiano, mente, homo mechanicus, Turing, Craik, artificiale e naturale,
filosofia, rappresentare il concetto, logica matematica, reiezione in
Aristotele, predicate, significato, communicazione, creativita, informazione.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cordeschi” – The Swimming-Pool Library. Cordeschi.
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