Grie e Colazza: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’iniziazione – scuola di
Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Roma).
Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma,
Lazio. Grice: “Having gone to Clifton, I love Colazza – he is into
‘iniziazione’ – specially in the equites of ancient Rome, but not much
different from mine!” Di una famiglia dell'alta borghesia romana, e istruito
agli studi umanistici e si laurea a Roma. Cultore dell'esoterismo e delle
dottrine massoniche e teosofiche. Fonda il club antroposofico in Italia. Dall'incontro
con l'antroposofia C. apprese l'esigenza di seguire pratiche spirituali di
concentrazione adatte al contesto occidentale, coltivando in particolare la
«via del pensiero cosciente». Altre
opere: Dell’iniziazione (Tilopa); La magia del noi di Ur (Edizioni
Mediterranee). Evola e l'esperienza del Gruppo di Ur. A strong anthroposophical influence came from C.
and Duke Giovanni Colonna di Cesard. Close to the group,
which adopted the name UR, were Kremmerz, founder of the Fraternity of Myriam. Sedute
spiritiche che si svolgevano in casa dell'amico C., e che talvolta si
protraevano sino all'alba. SPUNTI DALLA CONFERENZA TENUTA IN ROMA CIRCA IL TEMA
DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E CALMA INTERIORE”. Il saggio l’Iniziazione mi fu
consigliato da Steiner in francese a Piazza Spagna, come un saggio importante, da
tenere sempre presente come guida.
L’uomo così come nella vita quotidiana serve a poco o niente per il mondo
dello spirito. Siguo Steiner più o meno il saggio, aggiungendo poi altri insegnamenti
estremamente utili per ottenere reali risultati. La nostra persona, di cui
siamo coscienti, è solo un riflesso del nostro ‘noi’. È molto utile per giungere
alla conoscenza del nascosto ‘noi’, distinguere e separare in noi il pensare
che p, il sentire che p e il volere che p. Cita l’aneddoto di Eurialo e Niso,
che viveno nell’illusione di essere il suo ‘noi’ contingente. L’esoterismo e facile,
se si conforta sempre donandoci personali indicazioni, circa gli esercizi e la
pratica esoterica. Ma ora, invece dobbiamo cercare fedelmente e scrupolosamente
quello che possiamo accogliere e applicare a noi stessi. Si dice che è importantissimo cominciare
sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non bisogna fraintendere il concetto
di “venerazione” con uno stato di esaltazione interiore dovuto all’insegnamento
che il tutor ci può dare e che noi accettiamo per co-ercizione intellettuale o
sentimentale o per atto di fede: ma non è assolutamente questo. Il fatto da
riconoscere è questo. Il calore dell’anima è vita stessa per l’anima.
L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci riempie soltanto il ‘noi’ di
nozioni, senza far penetrare la forza dello spirito. La venerazione e il calore
di nostre anime sono l’attività di nostre anime stesse. Bisogna aprirsi a tali
rivelazioni della psicologia filosofica come dottrina dell’anima, con
atteggiamento di venerazione. I meravigliosi quadri circa l’evoluzione del
cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia e riconoscenza per la
gerarchia. Tale stato di nostre anime
destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri e fatti spirituali,
ai quali siamo debitori. Astenersi dalla
critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro non il difetto, ma la
qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il biasimo è energia
perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime come la qualità
dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è pura, più saremo
sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto il dolore,
soltanto che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi alla
sensazione del piacere, ma ricercare nel godimento il contenuto più elevato da
cui promana, che ne è l’artefice e il senso, ma la sua essenza più intima.
Occorre coltivare momenti di raccoglimento, lavorando sui ricordi: rievocare
immagini mnemoniche di fatti passati, o della giornata trascorsa ricercando
nelle nostre anime l’eco di ciò che aleggia in quelle passate percezioni.
Bisogna passare in rassegna gli eventi con meticolosa analisi, oggettivarli,
senza applicare alcuna speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le
concatenazioni, semplicemente contemplarle in modo neutro, lasciando che siano
esse a svelarci qualcosa. Noi dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale
ad anticipare ciò che avviene nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel
nostro corpo astrale e nel ‘noi’, inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un
perdere energie. Il tono generale della preparazione è quello di una ri-educazione
su nuove basi, della vita di pensiero e di sentimento, tramite speciali
esercizi. Bisogna entrare nel ritmo della ripetizione, senza lasciare che la
nostra natura inferiore si ribelli, rifuggendo gli esercizi. La noia è un
grande nemico. Bisogna osservare una pianta in pieno sviluppo afferrando tutti
i dettagli; osservarla e riceverne una percezione così chiara che, chiudendo
gli occhi, possa rimanere come chiara immagine interiore di fronte a noi.
Esercitarsi con la forma esterna cercando ad occhi chiusi di ricordarla,
visualizzandola. Quando si riceve un’esperienza non bisogna assolutamente
tradurla in concetti con le parole: bensì mantenerla in sé e coltivarla. Altra
cosa importante da fare è dirigere l’attenzione sul mondo dei suoni. Analizzare
e realizzare la differenza fra i suoni di origine minerale immota, e quelli di
natura vegetale o animale. Fra lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie
nel vento, il rotolare di una pietra e il rumore di una macchina vi è una
diversa manifestazione delle forze cosmiche. Cessato il suono, dobbiamo
prolungare in noi il suo effetto, ma non attraverso l’udito, ma tramite
l’orecchio dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in silenzio il sorgere
di qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si lasciano trovare come
avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un effetto per ritrovarne
la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione, se è lecito o no farsi
percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e vogliono trovare l’uomo, solo
se posto in un determinato stato di accoglimento interiore. Le percezioni
immaginative si manifestano come impressioni interiori paragonabili ad
impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la percezione
soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto animico è
affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come
manifestazione animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico,
genera in noi un particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità
che ci appare immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene
in lei delle qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico
ci appare come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel
mondo spirituale come una “ripetizione” più sottile delle forme del mondo
fisico. Lo spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna
sviluppare sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e
sensibilità per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL
TIROCINIO. Spesso il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti
dagli esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una
direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza
accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra
direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre
e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di
colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi
all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di
colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi, nascendo
dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver avuto una
vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il sentimento di
aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine percepita ci è
a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è un qualcosa di
già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o lemurico). È un primo passo verso il riconoscere in
coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in completa unione con
il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli occhi fisici un
seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò, occorre
interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del seme, sforzandosi
di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi chiusi. Si pensi
che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera pianta: vi è in lui
un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la quale manifesterà in
un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente contenuta. In lui
dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla nostra vista,
invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di crescita in
successione, nel triplice ritmo della sua costituzione: radice, fusto, fogliame, fiori, frutto. Non è
importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa manifestazione, la
potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente delle forze insite
nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva è l’elemento
invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo vegetale
trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e percepibile. Ci
si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad esso l’intero processo
immaginativo delle potenziali forme di crescita, dell’invisibile che è
diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà in noi come facoltà
di visione: una specie di nube luminosa, una specie di piccola fiamma di colore
lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la vivente forza vitale che
edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare una pianta in completo
sviluppo, sforzandosi di vedere in essa immaginativamente l’attuarsi del ciclo
seme-pianta-fiore-frutto seme, realizzando così un senso di perennità della
vita vegetale, espressa nella sintesi della forma della pianta stessa. In un certo senso, è come se dalla
pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o
Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi
sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa
pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi
tramite i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante.
Senza distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna
sovrapporvi l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che
appassisce, disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta
morirà, ma non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare.
Questo trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della
pianta in oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione
personale che voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da
una diversa prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta,
solitamente il fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare
la testa, in modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il
modificare il modo abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale.
L’obiettivo di questi esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per
arrivare al suo contenuto immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame
il ricordo di un evento in cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei
movimenti e nei gesti di un individuo preda di un fortissimo desiderio.
Sforzarsi di sentire in noi quel sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo,
trasferendo in noi tale sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da
poterlo osservare obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri.
Appariranno diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi
inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza
spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza
stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o
intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente
protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale
qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse
verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia
in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da evitare,
anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso immette nel
sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una specie di
neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita, distorce o
impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del mondo
spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un naturale
disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono l’irregolare
autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa paralizza le
forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente spirituale. I
vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare, come funghi,
legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce solare, come i
pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI DAGL’ESERCIZI. Tutti
gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una maggiore mobilità del
corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si aiutava attraverso
particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali pratiche sono dannose:
si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il fisico; se tuttavia se
si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe priva di controllo,
casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A seguito degli esercizi
antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un nuovo ritmo. La
mobilità del corpo eterico offre la possibilità di percepire il proprio corpo
fisico come un elemento estraneo. Si possono, durante il tirocinio esoterico,
avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono venir interpretate
come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima, il proprio sistema
osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è sperimentare i propri muscoli
come percorsi da correnti; si sente scorrere qualcosa nel sistema muscolare,
quale moto del corpo eterico. Si può poi avere la sensazione che la nostra
coscienza sia distesa e diffusa non più solo nella testa, ma lungo tutto il
sistema circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro noi. Si avverte poi il il
centro del proprio essere nel centro del cervello, mentre nella periferia di
esso si percepisce la zona ove opera e agisce la memoria rappresentativa. Il
sistema nervoso comincia a rendersi indipendente dalla corrente sanguigna. Si
ha poi la percezione di avvertire l’indipendenza e l’individualità dei singoli
organi interni. Ciò vale anche per gli organi di senso, che sembrano come
“attaccati” al nostro essere. I SENSI. Il tatto non è un senso, ma un urto contro
il mondo esterno; tramite gli altri sensi, evocando le relative percezioni di
gusto, odore, suono e vista per poi cancellarle ispirativamente, è possibile
ritrovare la loro origine spirituale. Il gusto è un organo di percezione
dell’etere cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere vitale. L’udito è
l’involuzione di un organo dell’epoca lunare, allora predisposto per la
percezione dell’armonia delle sfere. Il senso del calore ci rimanda all’antico
Saturno. La vista ci permette di percepire la manifestazione dell’etere di
luce. Un sintomo evidente dell’effetto degli esercizi è sulla memoria: essa
viene man mano a perdersi, per venir sostituita da un’altra facoltà mnemonica
non fondata come questa su ricordi visivi e uditivi, ma su ricordi o
immaginazioni eteriche. Il vero serbatoio della memoria non è il cervello, ma
il corpo eterico: qui ogni cosa viene registrata, racchiusa e conservata.
Procedendo dal presente a ritroso, rievocando stati d’animo sperimentati, sarà
possibile ritrovarvi eventi dimenticati. Nel sentire, si risveglia la memoria.
Occorre sviluppare presenza di Spirito: abituarsi ad una grande
autodeterminazione, imparando a decidere con immediatezza, senza esitazioni.
Occorre poi di decidere responsabilmente di non tradire il mondo spirituale,
una volta conseguite le facoltà iniziatiche. Il comunicare insegnamenti a
qualcuno che non ne sia preparato, significa assumersi anche la responsabilità
karmica delle eventuali conseguenze, circa il buono o cattivo uso che questi ne
farà. Lo stare in segreto non deve significare darsi arie misteriose, ma solo
non voler nuocere ad altri. Tutto ciò che ci porta alla nostalgia del nostro
passato, è una tentazione luciferica. Bisogna cessare di contare i giorni, i
mesi e gli anni trascorsi senza risultati nella disciplina. La parola chiave è
“Pazienza”. L’impazienza rappresenta un ostacolo: il mondo spirituale per
potersi rivelare, per aprirsi un varco, ha bisogno di trovare nel discepolo
calma attesa, per potervisi riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le potenze spirituali
sono in continuo fermento, in perenne attesa per poter essere accolte
dall’uomo, purché trovino le giuste condizioni che glielo consentano: esse,
datrici di Amore eterno e altruista, trepidano nella fremente attesa di poter
riabbracciare i loro fratelli minori. Più che anelare di muoversi incontro a
loro, è più giusto intendere che la via giusta è sapersi aprire ad esse. Esse
possono riversarsi in noi solo se trovano purezza interiore; esse sono sempre
pronte, dai limiti della nostra coscienza, a connettersi con noi. Sono soltanto
i veli della personalità soggettiva, l’irrequietezza, i timori, gli impulsi
inferiori, a impedire loro di avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire
fisico, ogni reazione istintiva, paralizza i sensi spirituali. Bisogna
rinunciare alla suscettibilità e alla collericità: tacitare le passioni e i
desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza del desiderio, che impedisce la
percezione dello Spirito. Padronanza di sé: dominio dei sentimenti che sorgono
spontaneamente in noi. È consigliabile nei rapporti con gli altri, non la
durezza, ma la mitezza. La durezza erige una barriera invalicabile, spezzando
un’ulteriore comunicazione. Mitezza e silenzio: positività e astensione dalla
critica. Si consiglia di ritirarsi ogni tanto dall’ambiente della vita di tutti
i giorni, per raccogliersi e meditare in mezzo alla Natura. Il rumore della
vita quotidiana, può impedire il manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il
discepolo mano a mano si libera così della vita istintiva e dei caratteri
ereditari della sua razza e famiglia: si svincola dall’azione delle entità spirituali
corrispondenti. Occorre sempre chiedersi se si è degni di questa libertà
interiore che si vuole conseguire e se si ritiene di avere le forze necessarie
per sostenerla, affinché tale libertà agisca positivamente e correttamente. LE
sette CONDIZIONI PER LA PREPARAZIONE ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è
connessa al karma: molte volte occorre chiedersi se non vi sia qualche cosa nel
campo morale che gravi sul fisico, da purificare o da espiare, che ne impedisca
l’atteso miglioramento. Per la salute del corpo occorre sopratutto coltivare la
chiarezza del pensare e del discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo
esterno. Prima di parlare o di esporre una propria considerazione o
un’opinione, occorre stabilire con chiarezza il pensiero da formulare in
immagini: non è bene difatti cercare a tutta prima le parole idonee, ma
soprattutto la figura d’insieme da cui partire. È l’immagine che deve far
scaturire l’espressione dialettica. Sentirsi un arto della vita universale, una
parte di questa, superando ogni senso di separazione. La sostanza divina è solo
apparentemente e necessariamente ripartita nel cosmo: lo scopo finale
dell’evoluzione è comunque ricostituire un’unica entità spirituale. Bisogna
aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli altri fossero. 3- Si deve divenire
consapevoli che i pensieri e i sentimenti hanno la stessa valenza e importanza
che le proprie azioni: il movimento del pensiero e dei sentimenti è altrettanto
concreto quanto le azioni fisiche operate sul mondo esteriore. Ciò originerà
responsabilità per il circostante ambiente animico e fisico. I pensieri
permangono e si diffondono, comprendendo nei suoi effetti una moltitudine di
esseri. Operare secondo i puri impulsi dell’Io superiore, non dell’Io
inferiore. Si deve prendere coscienza che il corpo fisico, nel quale
solitamente ci s’identifica, è solo uno specchio, un arto dell’interiorità. Educarsi
al mantenimento di una decisione presa; il rinunciare è un cadere nel vuoto
dell’incoerenza e dell’indeterminatezza: è mancanza di forza dell’Io. Non
bisogna assolutamente mai, prendere decisioni o fissare regole, mentre ci si
trova travolti dall’onda di un moto passionale o di un impulso emotivo. Occorre
essere riconoscenti, grati al mondo esterno e allo Spirituale. Si deve
ricordare che nell’era di Saturno, “Tutto era Uomo”, e che solo grazie al frutto
del sacrificio di altri esseri spirituali e esseri fisici rimasti indietro nei
regni inferiori, è stato possibile configurare l’umanità attuale. Ringraziare
per il sostentamento giornaliero. Considerare la vita e agire in essa, secondo
la direzione enunciata nelle precedenti condizioni: dare un’impronta unitaria
ed equilibrata alla vita facendo in modo che le finalità delle proprie azioni
siano determinate dalle attitudini sopra descritte. Molte cose devono essere
abbandonate, e molte altre acquisite per porsi al servizio del divino. LA
POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa perpendicolarmente e
orizzontalmente da correnti, che possono favorire o ostacolare la meditazione.
Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre pertanto avere la colonna
vertebrale verticale rispetto alla superficie terrestre. La posizione distesa,
supina, invece accoglie le correnti orizzontali dirette alle specie animali,
inducendo automaticamente ad un tipico stato semisognante. I FIORI DI LOTO. Il
corpo eterico è percorso da innumerevoli correnti che muovono in senso
longitudinale o circolare radiale. Durante la veglia, il corpo astrale rimane
connesso spazialmente al corpo fisico; quando si apre nel discepolo la
coscienza spirituale, il corpo astrale si espande in proporzione dello spazio
che può essere percepito, ossia diviene grande quanto il suo campo di
percezione. Non si parla diffusamente del loto a due petali, fra gli occhi,
perché esso è connesso con il risveglio di forze che appartengono alla
chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni di sicurezza, del
loto della zona basale “kundalini” e del loto”1000 petali”, sul capo. In un lontano passato, i fiori di loto erano
attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente solo la loro
metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano, cominciando a
muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici (cuore)e dieci
petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta sull’Io inferiore.
IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della preparazione e dell’illuminazione
tendono ad attivare tale centro. Si tratta principalmente di lavorare nel campo
delle idee, curando la moralità nell’uso delle parole e la qualità di buon fine
delle proprie risoluzioni prese. Tale centro, attivato, conferisce la capacità
di entrare in comunicazione con altri Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le
condizioni da realizzare sono otto, ciascuna equivalente ad ogni petalo
dormiente: Formarsi rappresentazioni il più fedeli possibili del mondo esterno,
prive di fantasia personale, eliminare l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività;
le parole usate in un discorso devono essere sempre rigorosamente connesse
all’argomento; ogni gesto e atto deve
essere sempre in piena coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare,
pianificare concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità
e la giustezza delle proprie aspirazioni;
imparare ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita; la giornaliera meditazione per interrogarsi
sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È
di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità
promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo
interiore. A volte non è molto
altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza.
Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’
E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità:
anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione
sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a
due rami, con il compito di “portare fuori” il corpo eterico. Per mezzo di tale
centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il
cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio
reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione. Bisogna suscitare un rispettoso silenzio
riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre
accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni. Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a
trasformare tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta
incoerente e non ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle
forze spirituali. IL LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la
percezione delle “forme”. Come gli
altri, anche questo centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni
da realizzare sono sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad
ogni petalo dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema
o da un oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente,
distaccandosi così dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di
persone che parlano in modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non
intervenire correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri
deformi e correggerli dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé.
Controllo delle azioni; uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo
dato dagli istinti, prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai
movimenti, in modo che non avvenga che le nostre azioni possano venire
determinate da impulsi inconsci non passati al vaglio cosciente del nostro
pensiero. Pratica della Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità,
compiendo e portando sempre a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi,
gli esercizi o le determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare
la conoscenza dei motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla
comprensione degli errori altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di
criticare o giudicare; occorre far nascere in sé il desiderio di voler essere
utili all’altro tramite consigli o considerazioni costruttive, non con giudizi
che bloccano la sua evoluzione. Pratica dell’obiettività o spregiudicatezza;
non respingere immediatamente qualcosa che ci venga detta, e parimenti non
rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose da noi già appianate e
conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità, equilibrio degli
esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere le normali
reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina certamente
difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un buon
esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente importante
ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con un’altro
pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici PETALI
(Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri le
potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo
sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma
piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera
condotta di Vita. Occorre considerare la
totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee
spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la
coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse
risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono
alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato
tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare
interiormente il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente
impresse in noi come tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o
simpatia. In tal modo si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si
immette nella corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno
dell’addome). Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri
spirituali. Si sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e
spirito. Deve sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire
immersi nello spirito: incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e
insistere nel lottare duramente contro una propria inclinazione o tendenza
molto pronunciata; se tale difetto è così preponderante, a volte lo si può solo
dominare o controllare, ma non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare
e sublimare le proprie passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni
tendenti al voler tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di
sperimentare la gioia di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE
PARTICOLARITA’ SUL CORPO ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre
in perenne movimento: è percorso da correnti che si muovono continuamente,
seguendo la circolazione sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da
localizzarsi nel Loto del Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono
agli altri centri, recando con sé ripercussioni della sua eventuale
imperfezione. Esso è un organo di natura Solare. Nella zona centrale della
testa vi è un punto specialissimo in cui corpo eterico e corpo fisico sono
congiunti; qui inizialmente si formano le correnti del corpo eterico. Prima di
rendere operativo il fiore a 12 petali, nel cuore, occorre predisporre un
centro provvisorio nella testa, per rendere possibile uno sviluppo interiore
condotto in piena coscienza. Successivamente, dopo aver raggiunto un giusto
stadio di controllo cosciente delle attività di pensiero, tale centro dovrà
venir trasferito nella sua vera sede, presso il Cuore. Gli esercizi di
concentrazione e meditazione hanno lo scopo di attivare tale centro nella
testa, per poi far discendere nella Laringe e poi nel Cuore l’attivazione.
RIEPILOGO DELLE ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere il
vero dal falso. Capacità di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei esercizi
fondamentali. L’amore per la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA VIA
INIZIATICA. Durante il cammino Iniziatico può capitare di avvertire una specie
di senso di maturazione interiore, di compimento; sentire di essere pronti per
qualche cosa. E’ relativamente facile
contemplare l’intero cammino iniziatico attraverso un libro, difficile però
realizzarlo con la stessa continuità, puntualità, perseveranza e coerenza nella
vita: nella vita non è come nel libro, dove un passo viene descritto uno dopo
l’altro; a seconda delle occasioni e delle situazioni individuali ogni passo
può svilupparsi prima o dopo, in modo assolutamente non conseguente.
L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA “CONTINUITA’ DELLA COSCIENZA”. Il corpo eterico è
di per sé, un principio spirituale: è connaturato con il tempo, è fatto di
sostanza temporale. L’uomo non ha assolutamente alcun potere di interferire o
di influenzare le forme pensiero, di sentimento, di desideri o passioni da lui
generate. Una volta emanate, queste forme non possono più venire controllate.
Durante lo sviluppo occulto, in un primo momento, il sé superiore si pone di
fronte al proprio mondo inferiore, il suo Ego. Si ha la percezione che tutto che era la
nostra natura interiore, prende forme che tendono a venirci addosso, incontro
dal di fuori. Si verifica un rovesciamento delle immagini, tipico del mondo
astrale. Il praticare esercizi in modo
non corretto, disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida
base, potrebbe causare la percezione di queste forme pensiero in forme
ossessionanti ed aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e
anche possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però
indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che
comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia
quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale).
L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2
petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali. Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue
tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello
spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà
rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri
immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva,
passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è
rintracciabile come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir
sentito il più possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà
spirituale si sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo
apparire veri fatti e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano
nella coscienza la sede atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere:
costruiscono quasi la sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale
esperienza. Si arriva poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene:
il karma. A questo punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la
sorgente del proprio essere. Da questo momento il discepolo non torna più
indietro perché, compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di
quanto gli è inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di
veglia, l’uomo si trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno
ha la possibilità di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La
coscienza di sonno senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà
percettiva corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si
percepiscono come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la
sensazione di parlare a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in
noi esseri spirituali. Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio:
sono cenni del progresso spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di
aver ricevuto qualcosa, qualcosa che non si riesce a definire. Poi, i rapporti con gli esseri spirituali
assumono la caratteristica di domanda e risposta; si sente al risveglio una
voce interna donante luce e chiarezza alla propria vita interiore e alla vita
esteriore. Non è bene sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno,
ma lasciarle sorgere spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al
risveglio, questi messaggi diventeranno sempre più chiari, così da portare
nella vita di veglia tutte le esperienze della vita spirituale vissuta durante
la notte: si instaurerà la continuità fra lo stato di veglia e lo stato di
sonno senza sogni. Una volta stabilita, tale continuità di coscienza verrà
portata dal discepolo anche attraverso le porte della morte, e con essa la
stessa pienezza del ricordo nella vita fra morte e nuova nascita. Condizione
indispensabile per tale realizzazione è la pratica della concentrazione,
meditazione e contemplazione. Il discepolo potrà porre delle domande in
meditazione, durante lo stato di veglia: riceverà le risposte durante il sonno
senza sogni: ciò è l’inizio di un colloquio fra esseri spirituali. Il vero
scopo dell’Iniziazione consiste nell’instaurare la continuità della coscienza.
Ciò è una mèta assai lontana, ma dirigendosi verso di essa si possono cogliere
degli sprazzi di luce che indicano le tappe del cammino e ne danno la certezza.
LA SEPARAZIONE DEL PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale realizzazione pone il
discepolo ad esperienze inevitabili, che sono dure e difficili; la liberazione
delle tre facoltà umane è assolutamente necessaria per lo sviluppo degli organi
spirituali. Sono tre i pericoli in cui si può incombere. Pericolo del Pensare:
divenire astratti teorici pensanti, distaccati dalla vita, freddi e
indifferenti nei confronti dell’esistenza, che trovano soddisfazione solo nel
proprio pensare in solitudine; Pericolo del Sentire: una natura sensuale può
sentirsi trasportata in un sentimento di devozione eccezionale, fanatica, in un
estremo godimento del contenuto della propria coscienza mistica; Pericolo del
Volere: divenire super-attivi, trovando appagamento solo nel modificare il
mondo esteriore, lasciandosi dominare e trasportare da altri. LA LIBERTA’E L’INDIVIDUALISMO
ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si esplicano in modo immediato,
istintivo con un loro habitus personale; il discepolo deve distaccarsi da tale
automatismo innato, predisposto in lui.
Il fatto di poter dominare le reazioni e i sentimenti conferisce a tutto
l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché le emozioni non hanno
autorità sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si deve fondare su di una
nuova personalità morale, il quale deve conferire al discepolo la coscienza di
ciò che deve agli altri, di ciò che deve al mondo spirituale e a ciò a cui deve
la ragione della propria esistenza. La Libertà prevede che si sia superato
l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di moralità e di equilibrio da
poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma per l’umanità.Il discepolo
diviene consapevole di dipendere dai mondi superiori, con la libera decisione
di servire la Causa degli esseri spirituali. Solo in tal modo si può parlare di
una Libertà pura e vera, che non porti danno a lui stesso e agli altri. IL
GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato pensare, sentire e volere è
possibile accedere all’esperienza del guardiano della soglia. LA SOGLIA. Il liberare
le facoltà dell’anima significa assumersi direttamente la responsabilità delle
proprie azioni. Avendo liberato il corpo eterico e il corpo astrale dagli
automatismi del pensare, sentire e volere, si avvicina l’esperienza del
guardiano della soglia: si rende obiettivamente visibile il grado a cui si è
pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano diviene un essere indipendente,
al di fuori di noi. Mentre precedentemente si era intessuti con lui, ovvero con
ciò che rappresenta cosmicamente il nostro essere, ora si presenta
esteriormente la nostra interiorità. I propri moti interiori si traducono nella
figura esteriore di questo essere. Il guardiano si presenta all’improvviso,
appena i chakras cominciano ad attivarsi: è la prima esperienza soprasensibile.
Tale esperienza, può suscitare terrore. Molti, al cospetto del guardiano, che
palesa il grado di imperfezione e purezza da noi raggiunto sinora, riconoscono
la propria inadeguatezza, la propria immaturità nel sopportarne la visione,
quindi retrocedono. Si ravvisano le proprie limitazioni: i difetti assumono un
carattere obiettivo. Solitamente questo essere si presenta per la prima volta
al risveglio, la mattina, in un momento inaspettato, tanto da suscitare
terrore. SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO. Supponiamo che un uomo con il
viso deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai potuto specchiarsi; quale
sarà la sua reazione di fronte allo specchio, quando per la prima volta vedrà
la sua deformità? Prendere coscienza della propria figura interiore è
l’incontro con il guardiano: egli è noi, che ci appariamo all’esterno. IL
GUARDIANO E IL KARMA INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il nostro karma; la sua
figura riassume il nostro passato vivente con tutte le cause di dolore e gioia.
Qualora si trovi la forza d’intrepidezza di guardare in volto il guardiano, da
quel momento ci si assume coscientemente la responsabilità di pagare i propri
debiti karmici, quasi andando incontro a questi. Ci si accorge che ogni
tentativo di evadere o di rimandare il pagamento del proprio karma, provoca un disastro
nell’ordinamento spirituale. Ogni mancanza si riflette assumendo forma
demoniaca. Occorre assolutamente a cagion di ciò, quali discepoli, superare il
sentimento della paura. Il coraggio di
affrontare il guardiano è contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio
destino nelle proprie mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può
causare dolore, rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che
offre minore resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di
più difficile e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano
muterà di forma in modo direttamente proporzionale al nostro adempimento
karmico, sino ad assumere figure luminosissime nella misura in cui ci saremo
purificati. Fino al momento dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e
quanti pesi portiamo nel nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi
di prima, dopo aver visto la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più
possibile ingannare sé stessi. Finché non si vede e si conosce il proprio
karma, non si può dire di essere liberi; solo dopo aver allontanato la guida
delle Potenze del karma per prendere noi stessi la responsabile guida di tale
compito, solo allora si comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora
le forze del Cristo si sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI
CONFRONTI DELLE GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito
di popolo nel quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi
animici che condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente
spirituale, nel quale si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo.
Il riconoscimento delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo
che ci ha spinti ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a
scorgere nel giusto modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere
appieno la direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi
a quelle potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini
inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di
conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se
vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende
qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale
nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato
durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e
dell’astrale, viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del
mondo spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di “Adonai”
a Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza
risorgente. Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti
dell’esperienza e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione
dell’umano, saranno incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo
nascendo e morendo sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire:
offrendo un nutrimento spirituale al cosmo intero, in modo direttamente
proporzionale alle sue azioni pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA.
Tale incontro avviene solo quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le
regioni spirituali inferiori e stabilito una continuità della coscienza fra
veglia e sonno, ha attuato in sé la generazione di nuovi organi del pensare,
sentire e volere. L’oltrepassare la soglia del secondo guardiano significa
stabilire la continuità della coscienza fra la vita, la morte e la rinascita. La
vera libertà è conoscere il proprio karma senza alcun veloe adempiervi in
coscienza. All’incontro con il secondo guardiano si palesa una grande
tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al godimento procurato
dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale tentazione, anche se non
detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura. L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale
seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel
mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento
egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa
da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato
partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti
gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali
porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha
compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo. Breno. Kur. Giardino
di Maturità , chiamano certi antichi saggi il luogo, in cui pone
piede l'uomo allorchè gli divengon palesi gli arcani del mondo. Secondo
quei saggi in quel giardino non ci sarebbe fiore, che non recasse il suo
frutto, non uovo, che non portasse .a maturità la vita in esso
germinante. Ma come oscure e- pericolose vengono al tempo stesso
descritte le vie che menano alla «= Porta Stretta », la quale appunto
chiu- de quel giardino. Si assicura, però, che quel- l'oscurità
diviene più chiara del sole e che quei pericoli non hanno potere contro
le forze di cui ferve l'anima di colui, al quale queste vie sono
mostrate con provvida mano da un “mistico” da un “niziato.” Tutto ciò come
puerile concezione di un' e- poca, in cui nulla si sapeva delle scienze
dei giorni nostri, viene ripudiato dall’ i/lu- minato, che crede di saper
distinguere fra i vaneggiamenti di una fantasia brancolante e
le ponderate vedute d'un intelletto “ scier- “i So ca | oggi
tificamente disciplinato E chi, ciò nonostante, parla oggi di coteste
concezioni, può Al star certo di vedere sul volto di molti dei È ,
suoi contemporanei un sorriso, se. non di di : ll sprezzo, per lo meno di
compassione. Ta Eppure, anche oggi, ciò malgrado, ci sono I
alcuni che, come quegli antichi saggi, par- MAS lano del « rondo
dell'anima , e della “ pa- “N Cuina 7a dello spirito ». Costoro vengono
riputati | fe AMA ì È 3 | persone che parlano di un mondo
immagi- fa nario, figurato loro soltanto dalla propria » Sbrigliata
fantasia. Si deplora perfino che essi, LA in mezzo a un mondo che ha
raggiunto i tanto grandiosi risultati, grazie alla pura e i, now
austera logica, vadano brancolando come eb- branco ‘@& bri, cui ad
ogni momento viene meno la li sicurezza, perchè non si attengono a
ciò È che esiste “ positivamente ,,. Ora, che cosa dicono
questi edbri stessi i a codesti contradittori ? Quando si sentono f
arrivati all'alto punto, in cui è loro conferito il diritto di parlare di
sè, allora dalle loro È labbra si odono uscire le parole seguenti
: È “ Noi comprendiamo benissimo voi, ‘che dovete essere i
nostri oppositori. Sappiamo che molti di voi sono persone da bene,
che senza riserva si pongono al servizio del Vero e del Buono; ma
sappiamo altresì che Bee a), jr er => voi non ci potete
capire, fin tanto che pen- sate come appunto pensate. Sulle cose,
delle quali noi abbiamo da ragionare, potremo di- iscorrere con
voî, soltanto quando vi sarete presi voi stessi la pena di apprendere il lin-
guaggio nostro. Dopo questa nostra dichia- razione molti di voi, certo,
non vorranno più oltre occuparsi di noi, perchè crederanno di aver
riconosciuto che al farneticamento della nostra fantasia si accoppia in
noi an- che un immedicabile orgoglio. Noi però comprendiamo voi
anche in siffatta affer- mazione e sappiamo al tempo stesso che
dobbiamo essere non già superbi, ma mo- desti. Per incitarvi a tentare di
entrare nel nostro ordine di idee non ci resta che una cosa da
dire: Credeteci, noi non ricono- sciamo un vero diritto di parlare delle
no- stre conoscenze se non a colui, il quale sia capace di sentire
con voi ciò che vi co- stringe alle vostre asserzioni, e che cono-
sca a fondo la forza, la potenza convincente e la portata della vostra
scienza. Colui che non reca in sè la sicura consapevolezza di poter
pensare ponderatamente, scientifica mente, come l’ astronomo o il
botanico 0 lo zoologo più obbiettivo, costui in fatto di
vita spirituale, di conoscenze mistiche do- 9 e = e Re vrebbe contentarsi
di apprendere, e non già volere insegnare. Ma non ci si frain-
‘tenda: noi parliamo soltanto di insegnanti, non di studiosi,
Studioso di misticismo può : divenire chiunque, giacchè nell’
anima di ogni persona si trovano le facoltà, i poteri
presaghi, che si schiudono al ‘Vero. Il Mi- stico dovrebbe parlare in
modo comprensibile, anche pei più indotti; e a coloro, ai quali, secondo
il grado del loro intendimento, egli non potrebbe dire un centesimo
della verità, ne dirà ‘solo un millesimo. Costoro oggi riconoscono
questa millesima parte ; domani riconosceranno la centesima. Tutti
possono essere “ sfudiosi ,, ma “ insegnante ,, non dovrebbe voler
diventare nessuno, che sia incapace di assoggettarsi alla
disciplina del più austero intelletto e della scienza' più severa.
Sono veri insegnanti di misticismo soltanto coloro che sono stati
precedente- mente rigidi cultori della scienza, e che sanno perciò
che cosa viga nella scienza. Anche il vero mistico ritiene visionario,
inebriato, chiunque non sia capace di deporre in qua- lunque
momento il solenne paludamento del mistico per indossare la modesta
tunica del fisico, del chimico, del botanico “e dello zoologo
», sitori ;' con la massima modestia li assicura ‘che intende
il loro linguaggio e che non si arrogherebbe il diritto di essere un
mistico, se si sapesse ignaro del loro linguaggio. Al- lora, però,
egli può anche aggiungere di sa- f |pere, e di saperlo come si sanno i
fatti della Ù vita esteriore, che, qualora i suoi Opposi- ® \tori
imparassero il suo linguaggio, cesserebbero di essere suoi oppositori. Egli sa
que- sto come chiunque, il quale abbia studiato chimica, sa
che, date certe condizioni, dal- l'ossigeno e dall' idrogeno si forma l'
acqua. Che Platone non volesse ammettere ai gradi superiori
della sapienza nessuno che > mon conoscesse la geometria, non
significa «già che egli facesse suoi alunni soltanto i li Y T
Così parla il vero mistico ai suoi oppo- A 9 U
L dotti in geometria, ma significa che quei suoi alunni
dovevano essersi educati alla se- vera, rigida, ed esatta investigazione,
prima che venissero loro schiusi gli arcani della vita spirituale.
Una tale esigenza ci appari sce nella sua giusta luce se ‘riflettiamo
che nelle regioni trascendentali viene meno l'elemento di fatto, a
cui si saggia e corregge ad ogni piè sospinto l' investigazione
ordi- naria del mondo. Se il botanico si forma “concetti erronei,
subito i suoi sensi lo illu- n conci Da
(UR IZA minano circa il suo errore. Tra lui e il mi- stico corre il
rapporto stesso che intercede fra chi cammina su strada piana e chi
ascende una montagna: il primo può cadere a terra, ma solo in casi
eccezionali potrà causarsi la morte ; all’ altro, invece, questo
pericolo sta sempre dinanzi, E certamente nessuno che non abbia
imparato a camminare può ascendere una montagna. Poichè ; fatti
spi- rituali non correggono i concetti allo stesso modo che li
correggono i fatti del mondo esteriore, un pensare rigorosissimo e
degno della massima attendibilità è un ovvio pre- supposto per
l'investigatore mistico. Quando ci si dà tutti a pensieri siffatti,
si riconosce che cosa intendevano dire que- gli antichi saggi, allorchè
parlavano dei pe- ricoli che minacciano chi voglia penetrare negli
arcani del mondo. Se alcuno si ap- pressa a questi arcani con mente
indiscipli- nata, essi determinano nella sua anima deplorevoli disordini.
Divengono pericolosi come una bomba di dinamite nelle mani di un
fanciullo. Perciò da ogni investigatore mi- stico si esige rigorosamente
che la norma- lità del suo pensare, di tutta, anzi, la sua vita psichica,
abbia saggiato le proprie forze SE E attorno a problemi
gravi e spinosi, prima che egli si appressi ai compiti più elevati.
Valga ciò come accenno a quel che il mi- stico intenda dire, quando parla
dei primi gradi della Iniziazione nelle verità superiori. Moltissimi, i
quali reputano di starsi SUI Mrfica | più alti gradi della cultura
moderna, stimano che sano pensare e misticismo siano due termini
incolta sano che una illuminata educazione scienti- fica
debba estirpare dall'individuo qualunque | tendenza mistica. E costoro
trovano in par- b cora di tali tendenze chi conosca gli impor»
tantissimi risultati della moderna scienza na- | turale. Se avesse
ragione chi la pensa così, | si dovrebbe allora, certo, concedere che
la Mistica non abbia nel nostro tempo se non | piccola probabilità
di trovare accesso alle anime dei nostri contemporanei; giacchè
nes- «suno, il quale abbia intendimento dei biso- gni spirituali di
questa nostra età, può du- bitare che siano pienamente giustificati
i trionfi della scienza naturale già conseguiti. e ancora da
conseguire in avvenire. Biso- vi MER Na bilmefite antitetici.
Essi pen- K pate ticolar modo incomprensibile che abbia an)
"fi LI Peli so Naturalistici
itreprimibili do u + Con una certa tr ‘ zione cotesti
insoddisfatti <j O Opère dei mistici, e ]} trovand ciò, I cui
le” oro anime han Sete: ]ì gj affaccia loro ino Copiosa vena IÒ, di
cui il loro Cuore ha bj. Sogno: una effettiva aura di vita Spirituale!
Si In contatto con e Sa costoro sentono | Propria Crescere; ivi tr
aNo ciò che ] uomo | eve incessanternente ce vino! D’
rcare: l’ali Ta parte, Però, essi sj Petere ;l ito
diate a monito: « Bj ‘formarvi, mediante Ja
cie rale, un pen | non vj chiappanuvole vai
monito, l’anima loro sj inaridisce, econdita , . tò, in fondo all’
an ogni individuo Verità, e i che grande maestra
dell’uomo è la ] mande AIR Chi
potrebbe non dare, per intimo consenso, ragione al Goethe, allorchè dice
che dagli errori e dalle disarmonie degli uomini egli si ritira
sempre con rinnovato contento, ri- volgendosi alle eterne necessità della
natu- ra? E chi potrebbe leggere senza incondizionato consenso quelle
parole, con le quali il grande poeta descrive i sentimenti che
lo assalirono in una solitaria meditazione sulle ferree
leggi, secondo le quali la natura forma le montagne? Seduto
su di un’ alta e nuda vetta, e spaziando con l'occhio su di una vasta
sottostante regione, io posso dirmi: “ qui tu poggi immediatamente su di
un suolo, che ‘arriva fin giù ai più profondi strati della
terra. In_questo istante, in cui le eterne forze di attrazione e
di movimento della terra quasi direttamente agiscono su di me,
in cui più presso a me aliano e mi avvolgono gli influssi del
cielo, vengo come sospinto a drizzare l'animo mio a studi più alti
sulla natura.... Così, dico fra me e me, mentre da questa cima nuda
volgo lo sguardo in giù, così sentesi solitario chi voglia schiu-
dere l'anima propria unicamente ai più pri- mordiali, più antichi e più
profondi sentimenti del vero. Sì, egli può dire a se stesso: SONG).
pe Qui, sull'antichissimo ed eterno altare, im- mediatamente
eretto sul punto più basso della creazione, offro sacrifizio all'Essere
di tutti gli esseri. E' pur naturale che questa disposizione
d'animo, per cui si resta reverenti dinanzi alla grande istruttrice
Natura, si trasferisca sulla scienza ‘che ne discorre. Non
deve esistere antinomia fra i senti- menti che pervadono l'anima, quando
essa si approssima alle “ austere e profondissime verità
primordiali , circa la vita spirituale, e quelli che v'irrompono, quando
l'occhio si posa sull'attività costruttrice della natura.
Manca forse intelletto al mistico per co- testa armonia della
natura coi sentimenti più sacri all'anima umana? Tutt'altro;
giacchè al di sopra dell’altare, sul quale il vero mi- stico offre
i suoi sacrifizi, in ogni epoca, in cui può spingersi l'indagine umana,
stette scritto a lettere di fuoco fiammante, come legge. suprema: “
Natura è la grande guida al divino, e la conscia ricerca umana delle
fonti del Vero deve seguire le orme della sua recondita, volontà. Se i
Mistici seguono questa loro norma suprema, nessuna antitesi dovrebbe
sussi- stere fra le vie loro e quelle su cui camminano gli investigatori
della Natura. E tanto meno tale antitesi dovrebbe determinarsi
in un'epoca, che tanto deve alla scienza na- turale.
Per intendere bene quest’ ordine di de occorre domandarci: “ In
che, dune ue consistere l’ accordo fra la Scienza*fi Lie e il
Misticismo ? E in che potrebbe, invece, aversi un'antitesi? ,,
Ebbene, l'accordo non può venir cercato | se non nel fatto che le
rappresentazioni che ci facciamo intorno alla entità dell’
uomo ‘non siano estranee a quelle che abbiamo in- | torno agli
altri esseri della natura; nel ravvisare, quindi, nel ’opera della natura e
nella — vita dell'uomo uno stesso e unico tipo di “ ordine retto da
leggi ,. L Un'antitesi, invece, si avrebbe, se si vo- lesse vedere
nell’uomo un essere di specie "completamente diversa dalle creature
natu- rali. Coloro che vogliono un' antitesi in tal senso si
sbigottirono fortemente quando, più di 40 anni fa, il grande scienziato
Huxley, informandosi allo spirito stesso della scienza — naturale
moderna, sulla base della somi- pigliante struttura anatomica, concluse
la stretta parentela fra l’uomo e gli animali supe- ori con queste
parole: “ Possiamo prendere in esame un sistema di organi qual- siasi;
l'esame comparativo di essi nella serie delle scimie ci conduce sempre a
questo me- È desimo risultato: che le diversità anatomi- che, per
le quali l’uomo è distinto dal go- rilla e dallo scimpanzè, non sono
tanto grandi quanto quelle che separano il gorilla dalle altre
scimie inferiori. Una. tale asserzione può, però, sbigottire solamente
quando la si riferisca in modo errato all’ essezza dell'uomo. Certo ne
può. facilmente rampollare il pensiero: “ Ma come è vicino, dunque,
l’uomo alle bestie | , Questa stretta affinità non suscita però nel mi-
stico nessuna preoccupazione , giacchè per lui ne balza subito anche l'
altro pensiero: | “A quali fini superiori, però, possono ser- \vire
gli organi che ritrovansi nelle bestie, allorchè sono trasformati in
organi umani! » Il mistico sa che l'occulta volontà della na- tura
muta la percezione animale in percezione umana cofì lo sviluppare in altra
forma gli-organi animali. Egli segue le sicure orme della natura e
ne continua l'operato. Per lui i l'opera della natura non è punto
terminata con ciò che essa gli ha donato. Egli diviene un fido
discepolo della natura per il fatto appunto di portarne l’opera a
maggiore al- 1 toi tezza. La natura lo ha
portato fino al pen- sare e al sentire umano; egli, però, non
prende questo pensare e questo sentire come qualcosa di fissato,
d'immobile; ma li rende capaci di attività superiori. Avviene per
opera della sua volontà ciò, che nell'ambiente na- turale esteriore
avviene indipendentemente da essa. Gli occhi, come sono ora in lui,
attestano che gli organi visivi sono capaci di ben altro ufficio di
quello che compiono «® ©» nelle scimie. Così l’ occhio può venir
tra- stormato. Le facoltà psichiche del mistico evoluto sono,
rispetto a quelle dell’ uomo non evoluto, nello stesso rapporto in
cui sono gli occhi umani rispetto a quelli delle scimie. Si capisce
che chi non è mistico.in- pelende tende l’anima del_ mistico nella stessa
scarsa 64 liel misura, in cui l’animale può intendere il, mote
pensare dell’uomo. E come alla creatura non pensante si schiuderebbe
tutto un nuovo mondo, se potesse svolgere in sè la facoltà
del pensare, così il mistico, dopo lo svi- luppo delle sue facoltà
superiori acquista la visione di un altro mondo. In questo “ altro
mondo ,, egli è “ iniziato ,. Chi_non_ di- Re »Yiene Mistico rinnega la
natura. Ègli non È a progredire ciò che essa ha prodotto senza
di lui con la propria volontà occulta. Per- di mati Vella
lastare Mor pTa ene dPR ULOPY CELL. PI | Peg) AM e? lug las }
"El n fe fest NL Los ; mid : ni gd ed deli è y villa mM ni
collo i fiat 1a CA di (ANI it pece iò egli si pone in contrasto con
la natura, «giacchè questa trasmuta continuamente le proprie
forme: dal vecchio essa crea eterna- mente il nuovo. Ora, chi,
conformemente %@. alla moderna scienza naturale, crede a que-
sta trasmutazione, crede a questa evoluzione n) e, ciò
nonostante, non vuole trasmutare se esso , costui riconosce, sì, la
natura, ma A; nella sua propria vita si pone in contradi-
&l-zione con essa. Non si deve soltanto ricenoscere l'evoluzione, si
seno ivato Non si limitino, dunque, le facoltà della nostra
vita ;, col tener conto esclusivamente della nostra ‘
parentela con gli altri esseri. A chi per edu- cazione mistica diviene
un fido alunno della natura, si schiude il senso per la
superiore evoluzione. A proposito di questi cenni sulla
Mistica e sulla /riziazione molti diranno: Ma che ci
giova questo discorrere di facoltà a noi sconosciute! Dateci queste
facoltà, e vi cre- deremo ! ,. Nessuno, però, può dare a un
altro cosa che questi rifiuti. E il più delle volte ciò che
incontrano i nostri mistici è . un brusco rifiuto. Al presente essi
non pos- sono fare. molto .di più che raccontare le loro
cognizioni mistiche a quelli che vo- gliono prestare ascolto. Ciò ,
naturalmente n nt x IE RAIPAT cn potima tl — 29
C j Pa ENTI OT le ero Art 1 er? che, I, , a . = ì” \
wr / a) i e. e 7 pederntdt hern ci tCAns4- 1
È à a tutta prima un volersela cavare col RE ce raccontare
che cosa c'è in America a chi ci dicesse: “ Ajutatemi ad andarci!
,,. Ma pare, non è realmente una scappatoja, perchè i processi
dello spirito sono diversi da. quelli fisici Molto tempo prima che
l'uomo sia in grado di fissare la verità im piena luce, egli ha la
possibilità di intrave- derla, e di accoglierla nel suo sentimento.
E questo sentimento stesso è una forza, che lo può condurre più avanti.
E' questa una fase per cui è necessario passare Chi segue con
ricettivo abbandono la narrazione del Mistico, già calca il sentiero che
mena alle verità superiori. Solo l' Iniziatof'comprende
completamente l’Iniziato: ma angie per vero rende anche il non iniZiato
ricettivo alle parole del Mistico. E questa sua ricet- tività è
strumento con. cui egli lavora a schiu- dere i propri organi mistici. Ciò
che prima-, mente occorre è che si abbia questo senso | della
possibilità di conoscenze superiori: al- | lorà not si passa più
incurantemente ac- canto alle persone che di queste conoscenze
superiori tengono parola. E' stato già detto che anche al
presente ci sono persone che si adoperano a rinno- vare la vita
mistica. Up irene Kona diteou@ crt
u pe ud) fasi cl fa ine piftae 1 Om?
eudere } fnmmale tri rautwews i E Qui vi voglio
intrattenere di due esempi di tal genere, cioè del libro “ //
Cristiane- simo esoterico, (o i Misteri minori) ,,, di Annie Besant,
(1), e su “ / grandi Iniziati » el geniale pensatore e poeta
francese Edoardo Schuré (2). Ambedue queste opere gettano luce
sulla natura della così detta Iniziazione. Annie Besant, mostra come il
Cristianesimo debba venire compreso quale risultato di codesta
Iniziazione. Edoardo Schuré tratteg- gia le figure dei massimi duci
spirituali della umanità, fondandosi sulla convinzione che le
grandi confessioni religiose e le grandi filosofie cosmologiche da quei
duci dispen- sate all'umanità, celano verità eferne, che si
possono cercare e re soltanto in quelle dottrine filosofiche e
religiose. Ambedue queste opere trovano la propria giustificazione
unicamente nel campo del Mi- sticismo. Esse traggono la loro origine
da quella corrente spirituale dei tempi nostri, che è destinata ad
elevare l'umanità da un incivilimento puramente esteriore
all'altezza Traduzione Italiana di D. e O. Calvari, Roma,
1904, (2) Traduzione Italiana edita da G. Laterza, Bari, suh
Tor ella Vea dii Conti | RA fOdeth4, nu pori? IU)
di vedute spirituali. Verrà tempo, in cui il “pensiero
scientifico,, non potrà più contrapporsi _ostilmente a questa corrente.
La scienza naturale riconoscerà allora che non si comprendé lo spirito
col.negarlo , e che | non si contr lle leogi naturali col_cer- re
Treo © x iii dpi uelle spirituali. Non si designeranno iù i Mistici
come oscurantisti , giacchè si saprà che soltanto pei loro avversari il
campo di cui essi ragionano è oscuro. E non s'irriderà più l'
Iniziazione, come i non si irride l'esigenza, che chi vuole inda- pla
2 gare la vita dei microrganismi deve prima 4, tyoex94
imparare a userei. microscopio. | "I vv trvalta L'indagine
implica la necessità di adem- ' 3 piere a certe condizioni
preliminari. Queste P** ic; condizioni per l'aspirante mistico non
con- sistono , naturalmente, in pratiche di tecni- | cismo
esteriore, bensì na osservanza di un determinato orientamento della..vita
si- È ‘ chica. Grazie a tale A si dischiude Tide il senso per certe
verità, le quali non con- templano ciò che è FARA, ma ciò, di, A
cui, secondo le parole de Goethe “ ib.tran-\ itori v Bi n_simbolo ». In_s
sid | oe alla esistenza umana giacciono capacità,su- | CRA i GIONO
CA \periori, come il frutto giace.in grembo al fiore. E perciò
nessuna creatura dovrebbe TI YOMOMono wu € 0kL Lia UT E E I ipa
ln Leno el muyert Sace caprata farvi vtuel' fa P even
ord LISI (NE presumere di dire che “ nel suo mondo
vi i è qualche cosa di esauriente, di compiuto ». Il Se un uonio ha
tanta presunzione, assomi- i glia al verme che ritiene_come
orizzonte i | della esistenza il mondo dei suoi sensi. li —_
* Giardino di maturità » Chiamasi quel IR luogo, dove divengono palesi
gli arcani del mondo. Per accedere a tal luogo bisogna tI che
l’individuo stesso. tenda la sua volontà AU x al raggiungimento della
propria maturità. Ù" qultan Vé“ Bisogna che tu rompa e getti via da
te È, È quse: Vle 1 gusci del tuo essere quotidiano, e svegli
| see $ ÎN te la vita intima nascosta, se vuoi en- n trare
per la “ Porta stretta » Nel “ Giardino È di maturità ,. TAR Come
molti uomini insigni, anche il p Goethe espresse numerose verità dalla
pro- fonda vena del suo intuito , enunciandole non già in diffusi e
circostanziati discorsi, bensì in brevi e spesso enigmatici
accenni. sr Uno di tali accenni è in questo periodo: dg “ Nelle
opere dell’ uomo, come in quelle n e della Natura, sono le intenzioni,
che meri- / tano specialmente la nostra attenzione ,,.
E' questo un aforisma che verrà com- preso in tutta Ia sua
profondità quando lo Î si applichi ai più importanti fenomeni della
vita spirituale umana. Giacchè, come possiamo acquistarci senso e comprensione
per le azioni di un singolo individuo soltanto quando ne veniamo a
conoscere le_inten- zioni, così ci accade anche per la storia del-
l'intiero genere umano. Ma che abisso intercede fra l' osservazione degli atti
che si svolgono palesemente alla luce del giorno, e il
riconoscimento delle intenzioni che giac- ciono nelle regioni occulte
dell'anima! Si può essere addirittura rudimentali quanto a intuito
e a intendimento rispetto ‘a un altro uomo, ed essere tuttavia capaci di
osser- varne le azioni; ma bisognerà avere almeno un po'
delle sue qualità di spirito e della sua levatura psichica, se si vuole
penetrarne le intenzioni. Senza di ciò la sorgente del suo !
agire rimane un arcano, un enigma, alla cui soluzione ci manca la
chiave, Non accade diversamente con i grandi fatti della storia
spirituale dell'umanità. Questi fatti stessi son lì aperti davanti agli
occhi dello storico; ma le intenzioni giacciono in profondità molto
recondite. In queste profondità deve pene- frare colui, che vuol
procurarsi la chiave per la comprensione. Orbene, l'iptenzione di
un’a- zione giacerà tanto più profondamente re- condita, quanto più
questa azione avrà im- portanza e quanto più ampia sarà la
sua portata. L'intenzione di un atto della vita quotidiana non è
difficile a penetratsi. Ma non può essere così, naturalmente, di
azioni, la cui portata abbraccia una serie di secoli. Chi a ciò pon
mente giunge a presentire che cosa siano i Misteri: giacchè in
cotesti Misteri sono riposte le irzfezzioni dei grandi fatti dell’
umana evoluzione, involgenti il mondo intero nella loro portata. E
coloro che conoscono queste intenzioni e posseno con ciò conferire
alle proprie azioni stesse \ quel peso che le rende realmente efficaci
per lunga serie di secoli, sono gli /niziati. Solo chi nella storia
del mondo scorge unicamente una mèra successione di casi fortuiti,
può negare l'esistenza dei Misteri e degli Iniziati. In tal caso non c'è
che da attendere che un uomo siffatto si ponga un bel giorno a
studiare con occhio amorevole i fatti della storia. Allora un po’ per
volta albeggerà al suo sguardo un significato, un nesso, ed egli
finirà per non più conside- rare Tortuiti quei fatti storici, come non
con- sidera automa un individuo che veda muo- versi ed agire.
Giungerà così nella sua in- vestigazione là, donde gli Iniziati
dirigono il progresso umano, secondo le conoscenze the sono avvolte
nell'ombra dei Misteri. AA vila AATZzat fer, i 40 dad x x £
> it hu v da ORI ig tivfeco Vellar11W; 7 Di cotesti Misteri
parlano i testi religiosi di tutti i tempi. E ad essi vengono
condotti coloro, che non si fermano alla vita estrin- seca dei
fondatori delle varie religioni , nè alle vicende storiche del
propagamento delle loro dottrine; ma che, invece, cercano di
elevarsi_alle intenzioni di quei fondatori di | religioni. Non dovrebbe
eccitare stupore il fatto che queste intenzioni rimangano avvolte in
arcana oscurità e vengano comu- nicate soltanto a degli eletti entro le
scuole di sapienza, che sono appunto i Misteri; giacchè si fa opera
saggia solo quando a un individuo si comunica ciò che egli può
capire, o, con altre parole, quando gli si comunica qualcosa, soltanto
quando egli si sia messo in condizione di capirla. Per compiere azioni
che abbiano peso e valore occorre possedere un’alta sapienza, e per ap-
propriarsi un'alta sapienza bisogna passare per un periodo lungo e arduo
di prepara- zione. Così avviene nei Misteri. L’ evoluzione
spirituale dell'umanità pro- cede innanzi per opera delle varie
religioni e cosmologie. Chi coopera a questa evoluzione mette in
movimento le forze spirituali degli uomini. Bisogna che egli conosca
le leggi da cui dipende questo movimento, DE: pri come
deve conoscere le leggi della chimica chi vuol mescolare le
sostanze con effettuale risultato. Néi Misteri vengono insegnate le
. leggi supreme della vita spirituale; viene insegnata la chimica
dell'anima. E bisogna cercare di penetrare nella natura di
queste leggi, se si vogliono sorprendere , o anche solo
presentire, i moventi che stanno alla i A base delle azioni dei grandi
Istruttori della umanità. All'unisono con tutti coloro
che cercano di schiudersi per tale visione gli occhi spi-
rituali, Annie Besant parla nel suo libro « 7/ Cristianesimo
esoterico, (0 I Misteri mino- ré) », di un “ lato occulto delle
religioni , A lea Nell’analisi dei mistici arcani del Cristiane- 1%
simo, del così detto suo contenuto esoterico, ne. essa
luminosamente si addentra e trascina. d il lettore nell'intimo
della questione relativa sperato! scopo delle religioni. ‘a questo pro- |
Posito l'autrice così scrive :..... “ Esse ven- gono date al mondo
da uomini più saggi delle masse etniche , alle quali le
religioni Stesse sono dispensate e hanno appunto lo Vedi pure
«Il Cristianesimo come fattore mistico » di Rudolf Steiner. (Deposito presso
l'Ed. Bem- 7 porad, Firenze). Lolo scrullo du fevomeri
sia Pe i Dul th h Ha DI ire _ eSleeml J > Uibftsore
» Sé Lap de scopo di accelerare l'evoluzione dell'umanità.
Per conseguire ciò effettivamente esse deb- di bono giungere fino
agli individui e avere in- fluenza su loro. Orbene, gli uomini non sono
î tutti allo stesso livello di evoluzione, anzi i l'evoluzione
potrebbe venire rappresentata come una scala ascendente di gradi, su
ognuno asLelo api dei quali si trovano
uomini. I massimamente evoluti stanno di un gran tratto più su dei
meno evoluti, sia in intelligenza che in ca- A rattere; ad ogni grado
varia la capacità di 4 .. comprendere egualmente che quella di agire.
} E' perciò vano dare a tutti ii medesimo in- FE _ segnamento
religioso; quel che gioverebbe all'uomo d'intelletto resterebbe
inintelligibil all'uomo ottuso, laddove ciò che leverebbe e in
estasi il santo lascerebbe del tutto indif- Ì ferente il delinquente...2
LE La religione deve essere graduata con l’e- = voluzione, altrimenti
essa manca al suc scopo SI UGANB: Es. Chr.): ; Il modo, dunque, in
cui il maestro di re- : ligione parla a uomini di grado evolutivo i
- . diverso, dipende dai bisogni dello spirito e (1 . del cuore di
coloro, ai quali egli vuol giun- N | gere. Per riuscirvi bisogna che egli
stesso | porti nell'anima propria il nocciolo della sa- "i |
pienza, per mezzo della quale egli ha da START. agire; e il
modo come egli porta in sè que- sto nocciolo deve essere tale da
renderlo capace di parlare ad ognuno secondo la sua comprensione.
Perciò chi studia i discorsi degli Istruttori religiosi dal loro lato
este- riore, conosce soltanto un lato e precisa- mente quello più
estrinseco della loro sa- pienza. Acutamente accenna a questi fatti
Edoardo Schuré nel suo libro sui “ Grandi Iniziati ,. Ivi egli descrive i
grandi Maestri di sapienza: Rama, Krishna, Ermete, Mosè, Orfeo ,
Pitagora, Platone, Gesù, da quello investigatore intuitivo, da quel
nobile artista dei pensiero, da quell'anima satura di pro- fondo
sentimento religioso ch’ egli è. Così nell'introduzione al libro egli
espone il suo. modo di vedere : “ Tutte le grandi religioni
hanno una sto- ria esteriore ed una interiore; l'una visibile,
l'altra nascosta. Per istoria esteriore sono da intendersi i dogmi &
i miti pubblicamente © insegnati nei fémpli e nelle” scuole,
ricono- sciuti nei culti e nelle superstizioni popolari. Per
istoria interiore è da intendersi la scienza profonda, la dottrina
segreta, l’occulto agire dei grandi Iniziati, profeti o riformatori
che hanno istituite, sorrette e propagate le reli- gioni predette.
La prima la storia ufficiale, quella che si legge dovunque, si svolge
alla vista di tutti, ma non per questo è meno oscura, complicata,
contradittoria. — La se- ‘conda, che io chiamo la tradizione esote-
|, rica, o dottrina dei misteri, è difficilissima € Î a districare
dai veli che l’avvolgono. Essa infatti si svolge nei penetrali dei
templi, nelle segrete confraternite, e i suoi drammi più
appassionanti hanno intieramente per iscena l’anima dei grandi profeti,
che non hanno mai nè fissato in pergamena, nè confidato ‘a nessun
discepolo le proprie crisi più acute, o le proprie estasi più
paradisiache. Questa seconda storia vuole essere indovinata, ma non
appena si è scorta, apparisce luminosa, organica, sempre in armonia con se
stessa. Potrebbe essere anche chiamata la storia della religione
eterna e universale. In essa le cose mostrano il loro rovescio e la
co- scienza umana il suo diritto, mentre la sto- ria non ne offre
che il faticoso rovescio. In SD questa seconda storia cogliamo il punto
ge-N netico della religione e della filosofia , che si ricongiungono all’
altro capo dell' ellisse 9/8, per mezzo della Scienza integrale. Cotesto
\T} unto è costituito dalle verità trascendenti. N vi troviamo la
causa, l'origine e il fine del tene prodigioso lavoro dei secoli, l'azione
della RES 1; RARO provvidenza mediante i suoi agenti
terre- stri. ,, Questi “ messaggeri terreni , lavorano
nell'officina Spiritualistica, nel laboratorio spi- ritualistico della
umanità. Ciò che li abilita a questo lavoro sono le leggi imperiture
della chimica spirituale ed i processi chimici spi- rituali che
esse operano: vale a dire i grandi prodotti intellettuali e morali della
storia del mondo. Ma ciò che fluisce dalle loro labbra è soltanto
simbolo, immagine della sapienza superiore dimorante nella profondità
delle loro anime, immagini e simboli proporzio- nati
all'intendimento di coloro, che ad essi porgono orecchio. Soltanto a
coloro che adempiono alle condizioni, che garantiscono la
comprensione e il “ reffo uso » della sa- pienza superiore, questa può
venire dischiusa. E allora. nella Iniziazione mistica sentono
l'immediato contatto coi primordiali motivi spirituali, con le potenze
genitrici della esi- stenza. Ascoltisi ciò che dice un uomo
tutto com- penetrato di siffatti sentimenti: Clemente Alessandrino,
lo scrittore cristiano del 2° e 3° secolo della nostra èra , il quale
prima del suo battesimo fu un “ Misto ,, ossia A EE un
alunno dei Misteri, esalta questi con le seguenti parole : “O
veramente santi Misteri! O puris- sima luce! Una face viene portata
dinnanzi a me allorquando rimiro il Cielo e Dio; io sono
santificato, allorchè ricevo la consacra- zione. Gli arcani però .me li
rivela lo spi- rito primordiale e suggella in me l’Iniziato con
l'illuminazione; iniziato nella Fede mi presenta al Tutt'Uno, affinchè io
vega ser= bato in grembo all’eternità. Tali sono le ce- rimonie
iniziatiche dei miei Misteri! Se tu vuoi, fatti iniziare tu pure, e con
le forze spirituali dell'esistenza tu chiuderai la santa carola
attorno all’ increato, all'imperituro, al tutt'uno spirito dei mondi, e
la favella che a te dal Cosmo viene inspirata intonerà gl'inni di
lode a questo Tutt'Uno ,.. . Si comprende la descrizione che fa
Annie Besant dei Misteri, se si riflette che gli Ini- ziati devono
parlare di sè come lo fa Cle- mente Alessandrino con le parole suriferite:
“I Misteri d'Egitto, continua l’autrice, erano il vanto di quella vetusta
contrada e i più nobili figli della Grecia, come ad esempio |
Platone, andavano a Sais e a Tebe per farsi | iniziare nei Misteri dai
maestri della sapienza | iniziatica egizia. I Misteri Mithriaci dei Per. IDO.
JIA siani, i Misteri Orfici e quelli Bacchici, e i
posteriori pseudomisteri di Eleusi in Gre- cia, i Misteri di Samotracia,
della Scizia, della Caldea, sono universalmente noti, al- meno di
nome, come le parole d'uso fami- liare. Persino nella forma estremamente
at- tenuata dei Misteri eleusini il loro valore viene altamente
magnificato dai più eminenti uomini della Grecia, come Pindaro,
Sofocle, Isocrate, Platone e Plutarco ,,. (1). E nei Misteri non si
mira soltanto all’ ampliamento del sapere, alla sola spiegazione di
cose ignorate, ma alla elevazione di tutta la na- tura umana, di
modo ch’ essa si compene- tri di quella “sacra disposizione
iniziatica, che pone in grado di comprendere le fonti e principi
del Cosmo. Il mistico non solo conosce le cose superiori, ina oltre a ciò
la sua propria natura si fonde con esse. Egli deve quindi essere
preparato al fine di po- tere accogliere come si deve le fonti di
ogni vita che in lui affluiscono. Appunto nel no- stro tempo, in
cui si vuol riconoscere come attendibile soltanto ciò che è scientifico
in senso materiale, diviene difficile il credere che, circa le cose
supreme, quello, che im- V. Esot. Chr. pag. 21, a porta
veramente è una disposizione d° a- nimo. Per tal modo si fa della
cognizione un fatto intimo dell'anima umana: e tale essa è per il
Mistico. Si dica a qualcuno la soluzione di tutti gli enigmi del
mondo: Il Mistico troverà sempre che una siffatta esposizione è
vuota risonanza, che sfiora l'o- recchio e svanisce, se |’ anima non. è
stata prima preparata ed innalzata ad un livello superiore ; egli
troverà che il sentimento non ne resta affatto toccato, se non è staîc
di- sposto a sentire l'accoglimenio della sapienza come un “ Sacramento
,. Solo chi intende ciò conosce |’ atmosfera spirituale dal’ alto
della quale discendono certe espressioni del Mistico, come quelle di
Filone: « Sovente, allorchè mi_riscuoto dal sopore della corpo-4%
reità_e rientro in me, distogliendomi dal mondo esteriore, e penetro
dentro me stesso, . scorgo una mirabile bellezza ; allora io sono
certo di essermi internato nella parte mi- gliore di me; metto in
attività la vita vera, sono unito col divino e in lui fondato, e
conseguo la forza di trasferirmi nel mondo trascendentale. Quando, poi,
da codesta contemplazione dell’ Altissimo, e dopo questo riposo nell’
elemento spirituale del mondo, discendo nuovamente alla consueta
formazione di pensieri, allora mi domando come potè avvenire che l’ anima
mia si impigliasse nel vivere quotidiano, posto che la sua pa- tria
è pur quella dove testè mi sono sof- fermato ! “ — Chi sa quale grado di
puri- ficazione del sentimento e della funzione intellettiva sia
necessario per arrivare a sen- tire così conosce anche le ragioni per
cui la sapienza mistica, la sapienza consacrata non può essere
oggetto della vita consueta quotidiana, nè dell’ insegnamento
ordinario, nè dei documenti della storia esteriore; e perchè essa
stia chiusa nell'anima dei divini messaggeri e debba costituire, come
dice Schurè, il riservato oggetto della iniziazione in fratellanze
appartate. Ma, quantunque questa immediata comprensione della verità
rimanga un fatto d’ insegnamento del tutto intimo, pure tutti gli uomini
parteci- pano dei benefici della sapienza. Come i benefici delle
ferrovie elettriche ricadono su tutta la popolazione, pur restando
monopolio degli elettrotecnici la conoscenza delle. leggi Pe
così avviene, quanto ai frutti, ella efficacia e della sapienza dei
Misteri, E come il beneficio delle cognizioni tecni- che si
traduce nelle istituzioni esteriori della civiltà. così quello della
sapienza dei Mistici si esprime e distribuisce nel contenuto spirituale
della vita dell'umanità: cioè nei suoi miti, nei concetti informatori
delle sue credenze e delle sue religioni, nel suo mondo di leggende
e di fiabe, non solo, ma altresì nelle sue idee di morale e di diritto, e
da ultimo anche nella sua attività artistica, nelle sue scienze e
nelle sue filosofie. Il Mistico mostra «che la sapienza più profonda
della umanità è la radice di tutti questi vari con- tenuti della vita,
rendendosi ben conto che essi tutti possono trovare la loro vera
spie- gazione soltanto in quella sapienza. Clemente Alessandrino
parla del fatto che un uomo può avere la fede seriza posse- dere eru
Izione ,, ma al tempo stesso pro- clama essere impossibile che un uomo
senza sapienza comprenda gli oggetti che vengono spiegati nella
fede , (v. Besant, Esot. christ.). Ogni Mistico conosce questo vero
rapporto fra Fede re e sa che tra i due non può esistere contraddizione j
ma anche alla Mistica egli può fare riconoscere valore unicamente
sulla base della vera scien- za. Anche di ciò parla Clemente. Alcuni che
si ritengono favoriti da na- tura, non desiderano di occuparsi nè di
filosofia, nè di logica; anzi essi non deside- rano di studiare e
imparare la scienza na- turale; essi richiedono nuda fede soltanto. Io,
pertanto, chiamo dotto veramente colui che tutto mette a contributo per
la verità, così che traendo dalla geometria e dalla mu- sica, dalla
grammatica o dalla filosofia stessa, ciò che è utile, difende la fede da
ogni assalto. Quanto è necessario per chi desidera par- tecipare dei
poteri di Dio il trattare filosoficamente soggetti intellettuali! Lo gnostico
(Mistico) si vale del rami dello scibile vene di esercizi ausiliari
vreparativi. (A. B. Es. Chr.). Chi ha colto questo profondo accordo
della Fede col Sapere si trova costretto a rile- vare sempre di
nuovo una caratteristica pe- culiarità della nostra civiltà moderna, la
quale ha invece scavato un abisso tra Fede e Scienza.
E. Schurè accenna a questo abisso fin dai periodi introduttivi del
suo libro : “Il peggior male del nostro tempo è il mostrarsi
la Scienza e la Religione come due forze nemiche e irreducibili. Infermità
intellettuale questa tanto più perniciosa in quanto che deriva dall'alto
e furtivamente s' infiltra, ma sicuramente, in tutte le mem- bra,
come un veleno sottile che si respiri nell’ aria. Orbene ogni infermità
dell’ iritelligenza diviene a lungo andare infermità dell'anima e in
conseguenza un male so- ciale. “« Fintanto che il
Cristianesimo non fece che affermare ingenuamente la fede cristiana
in seno a una Europa ancor semibarbara, come era nel medio evo,
esso fu la più grande delle forze morali, e ha plasmato l’anima
dell'uomo moderno. Fin tanto che la scienza sperimentale , apertamente
ricostituitasi nel secolo 16°, non fece che rivendicare i legit-
timi diritti della ragione e l’ illimitata sua libertà, essa fu la più
grande tra le forze intellettuali; essa ha cambiato faccia al mondo,
liberato l’uomo da secolari catene, e fornito la mente umana di
fondamenta in- crollabili,,. Non meno energicamente Annie
Besant accenna a questa peculiarità della civiltà spirituale
moderna. Per ognuno che studi l’ultimo imme- diato quarantennio del
secolo passato è chiaro che persone meditative e morali sono in
gran numero esulate dalle chiesé perchè gl’ inse- gnamenti che vi
ricevevano urtavano, offendevano la loro intelligenza e il loro senso
morale. E' vano pretendere che l’agnosticismo così ue.
largamente diffuso in questi tempi abbia ra- : dice solo nella mancanza
di moralità o in È; una deliberata involuzione della mente. Chiun-
A que attentamente studi gli esposti fenomeni, ammetterà che uomini di
forte intelletto sono stati allontanati dal seno del Cristianesimo
per via della rude goffaggine delle idee re- ligiose loro presentate,
delle contradizioni negli insegnamenti delle varie autorità, nelle
vedute circa Dio, l'uomo e l’universo, idee n che nessun intelletto colto
e metodicamente ; disciplinato potrebbe di leggeri accettare ». a
(A. B. Cris, esot.). Alla domanda: “ Che cosa è da farsi in
questa direzione ? , Annie Besant risponde inspirandosi alla veduta che
anche la radice del Cristianesimo giace in una sapienza oc- culta e
che la Fede deve, quindi, per sus- I sistere risospingersi a questa
radice: “ Se il Cristianesimo vuol continuare a vi- i
co vere, deve ricuperare il sapere che ha e ria- d | vere la propria Mise
€ l propri insegna- sd cculti; deve di nuovo erigersi come. un
istruttore autorevole di verità spirituali, ma rivestito della sola
autorità meritevole .. Me, ù Mes di essere
alquanto apprezzata, l' autorità, cicè, della conoscenza. Se questi
insegna- menti ‘verranno recuperati, la loro influenza sarà subito
constatabile nelle più ampie e più profonde vedute che si avranno
circa la verità, dogmi che ora sembrano meri gusci ed impacci, saranno
riconosciuti subito quali parziali presentimenti di realtà fonda-
mentali. In primo luogo il Cristianesimo esoterico riapparirà nel /uogo
santo, nel Tem- pio, così che tutti i capaci di riceverlo pos- sano
seguirne le linee di pensiero palese, e secondariamente il Cristianesimo
occulto ridiscenderà nell'adito celato dietro la Cortina che custodisce
il « Sancta Sanctorum , in cui può entrare l’ iniziato soltanto. (A.
B. Es. Chris.). Mediante il senso della vista l'uomo
per- cepisce la natura con cento e cento sfumature di luce è di colore.
Sono i raggi della luce solare che, riverberati dagli oggetti, ne
determinano gli aspetti cromatici variamente sfumati. Sebbene per tal
fatto la percezione della luce solare sia una funzione abituale
dell'occhio, tuttavia questo non può impunemente fissare la fonte stessa de a
luce: Sole; esso viene accecato dal contatto im- mediato, diretto,
dei raggi solari. Ciò che ‘ 0° néi suoi effetti è
adeguato al compito quo- tidiano dell'occhio, dà occasione a una
sof- ferenza, quando, come causa in sè, colpisce l'organo sensorio.
Chi sa applicare nel giu- sto modo questa immagine alla vita spiri-
tuale dell'uomo, comprende perchè “ coloro che sanno » parlano di “
pericoli» della Iniziazione ai Misteri. Cotesti pericoli esi- stono
innegabilmente; se non che, chi ne parla non va preso alla lettera,
interpretando la parola « pericoli ,, nel senso usuale. La
intelligenza e la ragione umana sono tanto poco assuefatte a riconoscere
le fonti del vero nel complesso totale del mondo, quanto poco è
capace l'occhio di fissare direttamente il Sole. Come l'occhio sente a sè
rispon- denti gli effetti delia luce, così intelletto. e ragione
sentono a sè rispondenti gli effetti della sapienza eterna nei fenomeni
della na- tura e nel decorso della storia degli uomini. Ma come
l'occhio viene meno. di.fronte.alla sorgente stessa della luce,
così l'intelligenza umana” vigne meno dinanzi alle fonti pri- mordiali
della sapienza. Questo umano inten- dimento nel subito arretra, rinuncia.
Or bi- sogna assimilare nel debito modo ciò che allora succede
nell’ uomo , al fatto dell’ ab- bacinamento chel’ occhio.subisce dal
sole. veg 3 fer: Poichè l'uomo è assuefatto a scorgere nella Natura
e nell'attività dello spirito soltanto il riflesso della Verità, e non
questa imme- diatamente , egli viene meno di fronte alla verità
stessa, quando questa gli si presenta. Avvezzo a cogliere soltanto la
realtà grossolana, che quotidianamente I prnia, l'uomo sente le
manifestazioni della sapienza supe- riore come illusioni, come
costruzioni di una fantasiosità irreale: esse non gli possono dire
nulla, sono per lui come forme aeree che svaniscono quando egli le vuole
afferrare, così come è solito afferrare gli oggetti della realtà
consueta. Questa lo avvince a sè con mille lacci; ciò che essa gli può
promettere egli lo conosce, lo ha imparato ad apprez- zare in mille
modi. Chi qui vede giusta- mente, comprende che cosa intendano dire
le leggende religiose quando parlano del Tentatore, che promette tutte le
magnifi- cenze di guesto mondo a coloro, i quali vo- gliono
intraprendere il sentiero della illumi- nazione superiore. Se noh è
risvegliata in. loro la forza di resistere a cotesto Tenta- tore,
essi cadono inesorabilmente in sua balia. Con ciò si accenna a quel che
s'intende per “ pericoli della soglia ,, che occorre varcare, se si
vuole calcare il “ sentiero, della sapienza. Niuno può giungere a
que- sto sentiero se non intende valersi dell’ oc- chio spirituale,
dell'intelletto e della ragione, diversamente da come vengono
adoperati) nella vita quotidiana. L'uomo deve porre il piede sulla
soglia come un trasmutato, come "°° uno, il cni°occhio spirituale è
stato raffor- zato; ed è singolarmente difficile nell’ età nostra attuale
rinvigorire così.quest'occhio, x giacchè appunto dalla nostra
scienza esso viene rivolto o a.ciò che è concreto li tangibile. Per
compiere le sue conquiste nel campo delle forze naturali esteriori
que- , sta scienza dovè rendere quest'occhio cieco alle potenze
spirituali dell’esistenza. Non si fraintenda tutto ciò, prendendolo per
un rimprovero! Chi vuol comprendere il mec-\l canismo di un
orologio non ha certo biso» i} gno di risalire con l'indagine fino ai
pen-/! ). sieri dell’ inventore dell’ orologio ; egli può
mM bene attenersi a quanto ha imparato dalla [RUN fisica; può
comprendere l’ orologio dal suo stesso meccanismo. a nessuno può
com- preridere come le forze e le cose che coo- perano
nell’ orologio siano state originaria- mente combinate, se non va
in traccia dello | spirito che le ha combinate e non indaga
le ragioni per cui esse sono state così com- f frze
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È Logan Foe. SP RTTO el ppartnzs ti dae binate. Il
naturalista può comprendere giu- stamente la Natura solo se in lei stessa
ri- le cerca anzitutto le forze con cui essa opera. Se afferma che queste
si sono combinate | ® cudl da sè, assomiglia a colui che non si perita
Y0Me flat di pensare che un orologio si sia conge- gnato da sè. S
izione-è non il A | lo spirito Ge Le cose, bensì il trasferirlo alla
cieca me/le cose stesse. Superstizioso è, non colui che cerca l'inventore
dell’ orolo- gio, ma colui che nell’orologio stesso im-
magina ‘uno spirito , il quale manda avanti Î le lancette. Soltanto
quando in questo modo || sî fraintendono coloro che vanno in
traccia dello spirito dell'esistenza cosmica, si può metterli in un
fascio con quelli che a buon diritto sono accusati di superstizione e che
cen altrettanto buon diritto vengono oggi riguardati come turbapace,
perchè compro- mettono i “ benefizi , che la nostra coltura
scientifica ha prodotto. (Chi non ha l'occhio _ velato da. preconcetti
saprà a chi si vuol alludere nelle due categorie citate). Chi-pone
il piede sulla “ Sogliz » che d accesso alla visione superiore, se vuole
riu i " scire ad avanzare, deve essere provvisto della 2 sN
forza che mena ad avvertire il Reale là dov@mnn l'intelletto ordinario e
la ragione solita scor- x i T] x > l'intolegione
I Lie ii pai de Pe Pe Pietà sa desti Ann ie —_ | siii nc e a | na ta A
in x gono soltanto fantasticaggine ed illusione. . Giacchè il
perenne e l'eterno sono appunto, là, dgye all'occhio rivolto soltanto al
transi* torio e temporaneo altro non appare che fantasticaggine ed
illusione. Nessun utile, dunque, risentirà un uomo che venga con-
dotto dinnanzi alla sorgente della eterna sa- pienza colgalo
corredo.della.sua intelligenza rdinaria. Perciò nei Misteri, il primo
grado d Iniziazione non consiste nell'impartire un nuovo sapere
intellettuale, ma nella com- pleta trasmutazione delle forze
conoscitive dell’uomo. Con fine intuito pertanto, Edoardo Scuré
descrive nei suoi “ Grandi Iniziati , il cammino di chi tende al “ Sapere
, me- diante i Misteri: ALE « L’ iniziazione era a leaneno
r, le di futfo l'essere umano _ad ascen- lere le vette vertiginose dello
spirito , dal- l'alto delle quali si può dominare la vita. E più innanzi
egli dice: “«“ Per giungere a questa padronanza l’uomo ha
bisogno di una totale rifusione del pro- prio essere fisico, morale e
intellettuale. Or- bene, questa rifusione non è possibile se non
mediante |’ esercizio simultaneo della volontà, dell’intuito e del
raziocinio. Mercè il loro completo accordo l’ uomo può svi-
} ;) I Fapiecinia TX. iNalonta
Ponso ; I he sli luppare le proprie facoltà
fino a limiti in- definibili. L’ anima ha sensi assopiti ; l' ini-
ziazione li risveglia. Mercè uno studio pro- fondo e un'applicazione
costante l’uomo può _ mettersi in rapporto cosciente con le forze
occulte dell'universo. Con uno sforzo por- entoso egli puo raggiungere la
percezione spirituale diretta, schiudersi i sentieri che portano.
all’olt a, al superfisico, e di- venire capace di regolarvisi. oltanto
allora può dire di aver vinto il destino e di es- Sersi conquistato
fin da quaggiù la propria tiliberi divina. Soltanto allora l’iniziato
può vi divenire inizi.tore, profeta e teurgo, vale a dire veggente
e formatore di anime. Infatti soltanto colui, che comanda a se
stesso può comandare agli altri, e soltanto chi è libero può
liberare ». (Opera cit.). La missione dei Misteri va
intesa in tal senso, per quel che si riferisce al loro primo grado.
‘Non si trattava solo fi una DUOSA scienza, ma della produzione di nuove
forze | pudore ‘L’individuo=doveva. trasmutarsi,
ivenire un altro, prima di venir condotto al Sole spirituale, alla
sorgente della sa- pienza. Colui, le cui forze non sono temprate
allorchè pone il piede sulla “ Soglia ,,, non sente la realtà
dell’eterne. potenze spirituali, (}. che quivi gli si fanno incontro. In
luogo di — entrare in rapporto con_un mondo supe- riore egli ricade
nel mondo inferiore. À que- sto pericolo trovasi esposto chi va in
cerca delle sorgenti della sapienza. Se egli soc- combe, allora ha
temporaneamente ucciso in sè l'eterno germe. Questo era per l'in-
nanzi dormente in lui, ma, pur così dor- mente, era tuttavia ciò che
nobilitava la passeggera, inferiore natura e la trasfigura. Ingenuo ed
inconsapevole, l' individuo viveva con questo rudimento di
spiritualità superiore. Dal mal riuscito tentativo, di.ini-
ziazione quel latente rudimento JÉne. di- strutto. All'individuo non
resta che l'istinto di vivere nel transitorio, di yivere
«Soltanto pel regno di guesto mondo. Per il fatto di. avere sentito
come_illusorio il “ divino spi- rituale , , egli divinizza il «
sensibile_mate- riale ,. In tal modo, sulla “ Soglia ,, può andare
perduto per l'individuo il suo più prezioso tesoro, la sua parte
immortale. Que- sto è il pericolo analogo all’ accecamento
dell'occhio nella similitudine su riferita. E' ovvio che coloro,
cui nei misteri in- combeva l'ufficio d’iniziatori, erano per pro-
.Wei Rito fonda consapevolezza della propria respon-
sabilità, estremamente esigenti verso i disce- poli, giacchè tali
esigenze dovevano servire a temprare nel senso indicato le loro
forze spirituali. E. Schuré descrive la scala gra- duale
della Iniziazion ‘a_praticata I riella scuola di Pitagora (a. 582-507 a.
C.) e-la sua descrizione è tutta improntata di geniale senso
d’arte e di mistica profondità. Mi appoggerò appunto ad essa per parlare
di quei gradi iniziatici. Erano ammessi all’Iniziazione soltanto
co- loro che offrivano sicurezza di riuscita per la costituzione
appropriata della loro natura intellettuale, morale e spirituale. Per
costoro cominciava allora il periodo della « Prepa- razione ,. Per
molti anni essi diventavano itori. Nel tempo nostro, in cui
ciascuno sf crede autorizzato a giudicare e criticare mon appena
abbia appreso qualche cosa, 0, torse anche più sovente, quando non ha
an- cora imparato nulla, non è punto facile rendere simpatica
l’idea" quel lungo udito- rato. All'uditore era imposto il più
assoluto silenzio, inteso non nel senso esteriore di ‘
astinenza da ogni parola, bensì nel senso di | astinenza da qualsiasi
critica, STdoveva Accogliere del tutto spregiudicatamente l’istru-
due crilica PESTO, gp zione, senza turbare
questa spregiudicatezza con una prematura analisi critica. Il
saggio sapeva, e gli uditori avevano fiducia; per un certo tempo
non_.era loro Jlecito..criticare, giacchè il sapere che ricevevano era
appunto ciò che occorreva per renderli maturi all critica. Come è
possibile che impari vera- [mente chi vuole immediatamente criticare
\{ quel che apprende? Con questo metodo di ascoltare in silenzio i
Pitagorici hanno reso maggio a una massima, che sola può fare ascendere
i gradini della conoscenza. Chi ha percorso la via della conoscenza lo
sa. Egli non può che sentire pietà per coloro, che si creano
intoppi su tale strada coi loro giudizi prematuri e con le loro critiche.
Il nostro tempo è tutto pieno di questo_im- maturo spirito di
critica: basta osservare in- torno a noi ciò che i nostri oratori
dicono e ciò che i nostri scrittori scrivono.,Se vi fosse ai tempi
nostri solo un pò di spirito pitagorico, resterebbero. inespressi più
dei nove decimi di quanto vien detto e altret- tanto rimarrebbe non
stampato di quanto vien pubblicato. Oggidì , chi ha messo insieme un paio
di osservazioni, o si è ap- piccicato in testa un paio d'idee, si
crede autorizzato a sputar sentenze e giudizi sui sel RARI
TESE, soggetti più essenziali. Invece un tale di- ritto
spetta soltanto a chi abbia imparato a contenere per anni il suo giudizio
e a por- gere ascolto spregiudicat ea quanto i savi dell'umanità
hanno detto. “ Esaminate tutto e tenetevi il meglio ,, è una fallace
norma dell'anima di chi non è maturo per esaminare. Il nostro giudizio
non vale pro- prio nulla, nulla affatto di fronte alla Ve- rità,
fin tanto che non lo abbiamo fatto esaminare dalla verità stessa. Invece di
dire. Io esamino tutto e voglio tenermi il meglio, molti dovrebbero dire. Io
voglio fare esaminare me stesso dalla Verità, e quando io sia
sufficientemente buono per essa, allora ch' essa mi prenda! Chi non
si è esercitato per anni ad adattare, a inalveare la propria vita in questo
illimitato abbandono al giudizio delle sagge guide della umanità, non
arriverà mai a formulare giu- dizi che siano più che fumo e vacua risonanza.
Pa Una norma siffatta è certamente invisa in questo nostro
tempo “ illuminato ,, in cui dominano la pubblica criticaglia, e lo
spi- rito gazzettaio ; invece gli uditori pitagorici si attenevano
appunto a cotesta norma. Raggiunta la voluta maturità, l' uditore vedeva |
4 iena: acli Neggiunto per lui il giorno d'oro col quale
cominciavano le rivelazioni sull'essenza della natura e dello spirito
umano. A poco a poco i gli si fa comprendere la zomìa [“I am a zoologist –
a philosophical zoologist” – Grice], le leggi della esistenza corporea e
psichica. Be" 1 Voglia afferrare questa romia col non raffinato
intelletto ordinario non ne com- prende nulla. Goethe una volta
accennò a questo. Allorchè nel SUO VIAGGIO PER L’ITALIA e per la Sicilia
si era dato con tutta lena allo studio delle piante, e si era formato
quelle sue vedute tanto citate ma tanto poco comprese sulla pianta
archetipa, scrive in Germania che avrebbe voluto fare un viaggio in
India, non per scoprire qualche cosa di nuovo, bensi per guardare a
Suo..modo_.il già scoperto. Quel che importa, appunto, non è il conoscere le
leggi messe in luce dalla botanica “ intellettuale vi bensi il
penetrare coll’aiuto di queste leggi nell’intima essenza della vita
vegetale. Si fica essere un erudito professore di botanica e non capir
nulla di questa vita vegetale. | nostri scienziati hauno veramente delle
strane idee a questo proposito. Essi o credono che, in genere, non si possa
penetrare nell'intimo della natura, o affermano che la nosira
indagine non è ancora fanto avanzata. Essi non sospettano che con questa
indagine mediante i sensi e l'intelletto possono, sì, moltiplicarsi con effetto
benefico le nostre cognizioni, ma che per investigare (| « interno
,, è, invece, necessaria una maniera di pensare tutta diversa da quella
che essi mettono in pratica. Non vogliono saperne dell’inventore
dell'orologio mentre studiano l'orologio alla stregua dei principi della
fisica. Poichè non possono trovare nell'orologio nessuno spiritello che
spinge avanti le lancette, o negano lo spirito, che ha congegnato le ruote, o
asseri- scono che esso è inaccessibile all’umana co- noscenza, 0
del tutto o fino ad oggi. Chi parla dello spirito della Natura viene
accusato di sbizzarrirsi in vane parole. Ma non è colpa sua se gli
accusatori non sentono in ciò altro che parole! I discepoli pi- tagorici,
al secondo grado della loro istru- zione, venivano introdotti
nelloSpirito della Natura. Soltanto: dopo RARO al questo
grado, potevano venir condotti alla “« grande Ini- ziazione ». A
questo punto erano maturi per accogliere in sè i “ Segreti della
esistenza»; il loro occhio spirituale era ormai sufficientemente
vigoroso; oramai non apprendevano più a conoscere soltanto lo spirito
delia na- i tura, ma anche le intenzioni di questo spi- i rito. Da
questo punto in poi non sì può più i parlare dei Misteri col solito
linguaggio, ma soltanto per via d'immagini, giacchè il no- (a stro
linguaggio è tutto adeguato all'intelletto e non ha parola adatta alla
conoscenza superiore, di cui qui ci occupiamo. In questo È senso va
inteso pure quanto segue. Prima di ogni altra cosa l'individuo
ap- prendeva a spingere lo sguardo oltre la pro- pria esistenza
personale. Da ciò traeva l' esperienza che quella sua vita era la ripeti-
iS . zione di vite anteriori a un nuovo gradino dell'esistenza. Si poteva
convincere che quel i che è lecito chiamare anima , nel giusto
senso della parola, si rincarna ripetutamente, e che le capacità, le
vicende e le azioni della Me sua vita presente erano da interpretarsi
come effetti di cause reperibili in quelle sue vite antecedenti. Egli
si rendeva anche conto che i fatti e gli eventi di quella sua vita
presente dovevano produrre i loro effetti in esistenze 1 avvenire.
i ; Su ciò bastino qui questi pochi cenni, da perchè ho intenzione
di parlare in altro luogo esaurientemente delle grandi leggi della rincorporazione,
e della legge cosmica, ovvero, in altre parole, della rincarnazione, e del Karma.
Queste verità potevano divenir convin- zioni per il discepolo dei
Misteri, come è verità per l'uomo comune che 2 x 2-4; perchè al terzo
grado il discepolo era a ciò maturo. Ma anche a questo grado si può
avere un giudizio completamente sicuro su queste conoscenze, unicamente
perchè si è ormai acquistata la capacità di compren- derne
giustamente il significato. Anche oggi, come in ogni tempo, molto si
criticano tali concetti ;, ma ciò che viene criticato in realtà sono
soltanto le arbitrarie , concezioni dei critici stessi, che non
hanno alcuna importanza. Del resto, però, si deve anche pienamente
convenire che pure molti seguaci della idea della rincarnazione non
hanno di essa concetti migliori di quelli dei suoi oppositori. Non tutti
coloro che oggi difendono queste dottrine, le comprendono veramente.
Anche tra questi difensori ce ne sono molti che sono troppo scansafatiche
0 troppo.... consci di sè per apprendere in silenzio prima di far
da insegnanti. 0° Cfr. dello stesso autore gli scritti maggiori Teosofia Scienza occulta e i minori Azione del Karma. Rincarnazione e
Karma come leggi naturali. Ora, se non forse presso i Pitagorici, c'era,
però, in altri Misteri, dopo la grande « Iniziazione rivelatoria ,, il
grado della vera iniziazione mistica. In essa non soltanto
l'osservare e il pensare, ma tutto il vivere conscio veniva esteso oltre
l'immediata per- sonalità dello individuo. Per essa il discepolo
non diveniva soltanto un sapiente, soltanto un veggente. Egli ormai non
percepiva l'essenza delle cose, ma la viveva con esse. Molto arduo
è dare una idea di ciò, di cui qui si tratta. Il veggente non ha soltanto
la sensazione degli oggetti, bensì sente regoli oggetti stessi, trasferendosi
nel loro interno; egli non pensa circa la natura, bensì esce di se
medesimo e s'interna, pensando, re//a natura. (E' questo un procedimento
noto al Teosofo, il quale lo chiama.“ lo schiudersi dei sensi
astrali. L'uomo intellettuale non bada ai veggenti: essi debbono esser
per lui dei visionari, se non peggio. Chi, invece, ha senso per le
loro doti, li ascolta con pio rispetto, giacchè sente parlare in loro non
più una persona umana, bensì la stessa Saggezza vivente. Essi hanno
fatto olocausto delle Cfr. dello stesso autore: Come si acquista co-
noscenza dei mondi trascendentali v. EA proprie inclinazioni,
simpatie, opinioni personali per poter prestare la propria bocca
all’eterno Verbo, mediante il quale furono fatte tutte le cose. Giacchè
dove parla ancora l'opinione umana, dove campeggiano ancora
inclinazioni’e interessi, ivi tace la sapienza eterna. E quando
questa giunge all'orecchio di coloro che non ‘hanno ancora
sentimento per essa, appare loro soltanto come personale parola
umana, per quanto in essa possa chiudersi una forza divina. Ma dai
veggenti stessi, gli uomini ‘potrebbero imparare ad ascoltare, giacchè il
veggente fa tacere la sua umana per- sonalità quando a lui parla la voce
della Ve- rità. Il suo giudizio tace, i suoi interessi, le sue
inclinazioni gli stanno dinanzi altrettanto insignificanti quanto il tavolino
che ha davanti a sè: egli è tutto assorto nel- | l'ascoltazione
interiore. Solo il veggente ascenderà al grado successivo, che gli antichi
chiamavano del teurgo e che nella nostra lingua può venire designato
come quel grado, in cui si opera una “ completa riversione, delle
facoltà umane. Forze che, di solito, affluiscono nell'individuo da/ di fuori,
ora si ef- fondono da /uîi. In certi campi, nei quali 5 RS
a l’uomo è soltanto un servitore, diviene un dominatore colui, le
cui facoltà sono trasmutate. E poichè solo il veggente è in grado di
giudicare la portata e la maniera “a d’'agire di coteste forze, l'uomo
che ne verrà Ti in possesso senza aver raggiunta la purità del
veggente, ne farà mal uso. E questa do « sapienza senza purità ,, è
possibile a causa w di un cencatenamento di circostanze, di cui
<a qui non è il caso di tener discorso. Sulla Ini- ziazione superiore,
a proposito dei Pitagorici, E. Schuré ha il seguente magnifico passo :
1 i BRANO Abbiamo, seguendo Pitagora, toccato la cima della iniziazione
antica. Da dr questa vetta la terra apparisce come im- cf ersa
nell'ombra, come un astro morente. Di lì si schiudono le prospettive
sideree e eri dispiega nel suo meraviglioso complesso. Le * Scegatao ii a
n 1 la vista dall'alto, l'epifaria dell'universo. Ma \\®s4* scopo
dell'insegnamento non era l’assorbire VITA l'individuo nella
contemplazione o nell'estasi. È le regioni incommensurabili del
Cosmo, li UH aveva tuffati negli abissi dell'invisibile. I veri
pauroso pellegrinaggio fatti migliori, più forti e meglio temprati
pei cimenti della vita. I, Il Maestro aveva condotto i discepoli
per iniziati dovevano ritornare sulla terra da quei
î =Sf ia Alla iniziazione della intelligenza doveva
seguire quella della volontà, ed era di tutte la più ardua, giacchè
ora per il discepolo si trattava di far discendere la verità nelle
pro- fonde latebre dell’ esser suo , e di porla in azione nella
pratica della vita. Per raggiungere questo scopo ideale occorre
secondo Pitagora riunire tre perfezioni: avere realmente la verità
nell’intelletto, la virtù nell'animo, la purezza nel corpo.
Un'igiene sapiente, una regolata continenza dovevano serbare al corpo là
purezza che si richiedeva non come scopo, ma come mezzo. Ogni eccesso
corporeo lascia una traccia e quasi un imbratto nel corpo astrale,
vivente | organismo dell’ anima, e per conseguenza anche nello
spirito. A questa altezza l'individuo diviene un adepto, e, se possiede
bastante energia, entra in possesso di facoltà e di poteri novelli. Si
schiudono i sensi in- terni animici, e la volontà si riversa
radiosa negli altri sensi.... (vedi Schuré). Di tutto ciò che
l'uomo compie prima di raggiungere questo grado, le cause sono da
ricercare in regioni a lui completamente sco- nosciute. Lo sguardo del
teurgo , invece, | spazia in coteste regioni, e “ in perfetta consapevolezza
, egli irradia da sè quanto nell'uomo dorme di solito “ inconsciamente ,
nelle più profonde latebre dell'anima, Egli trovasi a faccia a faccia con
la sua Guida, che per l’innanzi lo aveva diretto invisibilmente da tergo.
Col sussidio di siffatti pensieri si dovreb- bero leggere periodi come il
seguente, tratto dall'antico testo di sapienza chiamato il Mundakopanishad: “
Quando il veggente vede l'aureo Creatore, il Signore, lo Spirito, il
cui grembo è Brahman, allora il savi o, dopo che ha gettato via
merito e demerito, raggiunge immacolato l'unione suprema ». Alle
vette, dunque, che vengono così con-. quistate drizza lo sguardo E.
Schuré; e la mistica fede nella fulgida forza di codeste vette gli
conferisce la capacità di trapassare. alcuni dei nebulosi veli che
nascondono la. vera natura delle grandi Guide dell'Umani tà. Ciò lo
rende capace di descriverli, questi grandi iniziati,: Rama, Krishna, Ermete,
Mosè, Orfeo, Pitagora di CROTONE, Platone e Gesù. A grado a grado da
coteste Guide sono state irraggiate nell'umanità le forze a_
seconda della maturità raggiunta dal genere umano nelle diverse epoche.
Rama condusse alla porta della sapienza; Krishna ed Er-.ai mete ne
misero le chiavi nelle mani di al- «cuni; Mosè, Orfeo e Pitagora
additarono l'interno, e Gesù, il Cristo, presentò il Sancta
Sanctorum, l'intimo sacro penetrale. Sarebbe sciupare tutto il singolare
incanto del libro dello Schuré il volerne rac- contare il contenuto, nel
quale, così com'è ognuno dovrebbe profondarsi da sè. Ed, Schurè
accenna al fatto che pel tra- mite del Fondatore del Cristianesimo
le forze della sapienza dei Misteri sono state riversate nelle vene
spirituali dell’ umanità in forma tale, che le orecchie dell’
umanità hanno potuto udirla. E anche in questo ter- reno la verità
deve essere cercata pei sentieri che E. Schurè ci presenta. La forza. che
s' irradia dalla personalità di Gesù, è forza vivente nei cuori di tutti
coloro, che la lasciano fluire in sè stessi. Comprendere la vivente
Parola che in questa forza agi- | sce, può solo colui che se ne procaccia
la chiave, mercè la comprensione della sa- pienza dei Misteri. E a
ciò fornisce, per quanto è possibile, il fondamento Besant col suo cristianesimo
esoterico. E' questo un libro, per mezzo del quale l'occulto |
significato delle parole bibliche si svela al lettore che tutto vi si
abbandona, Sg VI Siffatti libri-chiave sono necessari ai
no. stri giorni. L'umanità era in condizione del F tutto diversa
dall’odierna, quando ricevè l’Evangelo, l'annunzio gioioso. Oggidì l’intelletto
ha ben altro allenamento che non ne avesse 19 secoli fa. Oggi l’uomo
‘può trasmutare in vita propria la forza vivente della parola
palese soltanto se riesce ad afferrare cotesta forza mediante la
propria facoltà ragionante. Ma ciò che è vero, resta $ vero
eternamente, anche se il modo come i l'uomo deve afferrarlo si cambia nel
corso i dei tempi. Che oggi l’ intelletto e il razio- 7555 }cinio
facciano valere i propri diritti è una necessità ; chi conosce
l’evoluzione umana sa che deve essere così. E perciò egli dà oggi
all’intelletto, ciò che secoli addietro è stato dato ad altre forze
dell'anima. Da que sta e da nessun’ altra cognizione dovrebbe
scaturire l'attività del vero teosofo , e così vuole essere interpretato
il “« Cristianesimo esoterico , di Besant. Il teosofo sa che nel
Cristianesimo c'è la Verità, e sa al- tresì che Gesù, nel quale s'incarnò
il Cristo, non è un “ Duce di morti , bensi un “ Duce di vivi ,. Il
teosofo intende la grande parola del Maestro. Io sono con voi tutti
i giorni, sino alla fine ,,. Alla Guida viven- Bla: £ @ÈS te,
non a quella dei ragguagli storici, si ri- volge anzitutto chi, come A.
Besant, vuole spiegare il Cristianesimo. Ciò che la “ Pa- rola
vivente , ancora oggi ,, annunzia al- l'orecchio che vuol porgerle
ascolto, è ciò che poi proietta la sua luce sul racconto
evangelico. Sì, certo, l' Annunziatore della Parola è rimasto qui fino ad
oggi e può dirci come dobbiamo intendere la lettera dei ragguagli
intorno ai Suoi atti e ai Suoi di- scorsi. “Le buone novelle
» debbono essere intese “ esotericamente cioè, bisogna, prima, che sia
svegliata dentro di noi la forza vivente, che imprime su di esse il
sigillo di . Gò che è “ Santo ,,. E poichè l'intelletto e il
razigcinio sono i grandi strumenti della civiltà d’oggi, bisogna ch’essi
vengano libe- rati dai lacci dell’ intendimento puramente sensistico
, della comprensione meramente “ positiva , della realtà. L'intelletto
stesso dell'umanità presente deve tuffarsi nel mare che lo riempie
di vera religiosità , giacchè non è esatto che l’assennato intelletto
non valga che a distruggere le “ illusioni , di cui il sentimento
religioso avvolge le cose. Ciò è opera solo dell'intelletto abbagliato
e inceppato dai successi riportati nella nozione ALI: 000
e nel dominio delle forze puramente mate- riali della natura. Gli
uomini del presente e con essi i nostri fisici, i nostri biologi e
i nostri storici, si credono Ziberi nel loro mondo intellettuale
unicamente edificato sul fatto positivo. In Verità essi vivono
sotto l’azione di una Suggestione dominante su tutto. Liberi, fino
a un certo punto, potre- ste diventare voi fisici, biologi e storici
di oggi, se voleste riconoscere che i vostri concetti di rea/tà anzi di
materie e di forze del mondo, di sforia umana e di evoluzione della
civiltà, non sono altro che « sugge- \stioni collettive ,. Un giorno vi
cadrà la benda dagli.occhi, e allora soltanto speri- meénterete fino
a qual punto è verità e non errore quel che voi pensate dell'elettricità
e della luce, della evoluzione animale ed umana; giacchè, notate
bene, anche i teosofi riguar- dano le vostre asserzioni non come
errori, ma come verità. Infatti anche la vostra in- terpretazione
della natura è per loro una “ professione di fede », e quando essi
di- cono “ di volere cercare il nucleò della ve- rità in tutte le
religioni ,, fanno ciò non solo riguardo a Buddha, Mosè e Cristo,
ma anche riguardo a Lamark, Darwin ed Hickel, ay ( (A E
opere come queile citate di Schuré e di Besant sono destinate a
togliervi la benda dagli occhi, debbono insegnarvi a veder chiaro
nelle “ vostre suggestioni ». Conseguentemente, in libri siffatti quel che
importa non è tanto il loro contenuto let- terale, quanto le occulte
forze che mossero la penna dei loro autori e che si trasfon- dono
nelle vene dei lettori, così che questi vengono tutti pervasi da un nuovo
“ senso della verità ». 1 lettori che subiscono il giu- sto effetto
di tali libri ricevono sotto un certo rispetto una /riziazione di tipo ,
diremo così, intellettuale. Chi a questa frase mon arriccia il naso, come
alla asserzione di un miracolo, chi è in grado di scorgervi,
invece, qualche cosa di più che una va- cua frase, potrà anche
comprendere, come — libri siffatti gli vengano presentati non già
per allettarlo a fare una delle solite letture, ma con l’altra ben
diversa mira ch' essi, per virtù delle forze con le quali sono stati
scritti, debbono suscitare in lui forze dor- menti, anche se a tutta
prima coteste forze possano essere soltanto quelle dell'arimia in-
tellettiva. Al nostro tempo, peraltro, non c’è vera Iniziazione,
che non passi per l' intelletto. Chi vuole in oggi condurre agl’arcani superiori
, evitando di passare per l' intel- letto, mon capisce nulla dei “ segni
dei | tempi , e non può far altro che porre sug- sa gestioni nuove
al posto delle antiche. Grice: “Of course, Austin
thought that the Saturday mornings should be held on Wednesday midnights at
Parson’s Pleasure – we were into initiation!”
Giovanni
Colazza. Keywords. dell’iniziazione, rito di passagio, rito di iniziazione,
iniziazione nel misterio, iniziazione, l’iniziazione di Bacco, la Baccanalia,
il sacrifizio di Bacco, sacrifizio come dolore e piacere, Prosimno, iniziazione
di Bacco, la reazione della religione romana al mistero bacchico, iniziazione,
iniziazione del giovane romano, la toga virile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Colazza” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Colecchi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Pescocostanzo –filosofia
aquilese – filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pescocostanzo).
Filosofo aquilese. Filosofo abruzzese. Filosofo
italiano. Pescocostanzo, L’Aquila, Abruzzo. Grice: “What I love about Colecchi
is that while he was a bad Kantian, he was an excellent Vicoian!” Studia ad
Ortona, dove sube diverse perquisizioni da parte dell'Inquisizione per la sua
tacita simpatia verso gli ideali rivoluzionari. Insegna alla Reale Accademia
Militare della Nunziatella. Venne mandato in missione in Russia, dove si dedica
alla filosofia speculative.Al ritorno, soggiorna a Königsberg, dove ebbe modo di
conoscere l'opera di Kant. Fu uno dei primi filosofi italiani a studiare Kant.Rientrato
in Italia, fonda a Napoli una scuola privata di filosofia ed ha tra i suoi
allievi i fratelli Spaventa, Sanctis, Settembrini e Caracciolo. Il suo merito
principale fu quello di essere, insieme a Galluppi, un assertore del criticismo
kantiano in Italia. Altre opere: “Se la
sola analisi sia un mezzo d'invenzione, o s'inventi colla sintesi ancora?” La
legge del pensiere; L’analisi e la sintesi; La legge morale, La legge della
ragione; “Se il raziocinio sia essenzialmente diverso dalla intuizione”; “Se
nell'invenzione eserciti maggior influenza la sintesi o l'analisi; “Se li
giudizi necessari sieno solamente gli analitici”; “Se l’identità formale del
raziocinio sia valevole a convertire il raziocinio empirico in raziocinio
misto?”; “Il principio sul quale poggia il raziocinio quando classifica e
quando istruisce”; “Quistioni ideologiche”; “Se diasi una logica pura, ed una
logica mista”; “Se una idea soggettiva non altro sia che una idea di un
rapporto, L’idea dello spazio e l’idea del tempo; Il primo problema di
filosofia: se la sensazione sia esterna di sua natura, o tale diventa in forza
del giudizio abituale? Alcune quistioni le più importanti della filosofia; Psicologia,
Logica applicata, Ideologia, Frammento apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi
al Galluppi. Ricerche storiche, Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia
della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, Firenze; Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a
cura dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F.
Tessitore, Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi
filosofici, Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa,
Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di
letteratura italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura,
filosofia e critica, Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis,
La lettereratura italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema
filosofico di C. (Tip. Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F. Amodeo, C., in «Atti
della Accademia Pontaniana», Discussioni biografiche e documenti inediti,
Ravenna); L'istruzione pubblica e privata nel Napoletano; Città di Castello, C.
filosofo e matematico: nuove notizie e nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese
di storia e d'arte», Gentile, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al
Galluppi, II, Milano); Pedagogisti ed
educatori, Milano); Capograssi, Nuovi documenti sull'accusa di ateismo a C., in
«Samnium», Romano, Un antagonista del Galluppi: C., in «Archivio storico per la
Calabria e la Lucania», A. Cristallini, C., un filosofo da riscoprire, Padova, G.
Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari; Garin, Storia
della filosofia italiana, III, Torino; F.
Tessitore, Colecchi e gli scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche,
Napoli; G. Cacciatore, Vico e Kant nella filosofia di C., Centro di studi
vichiani; Io e C.. Narrazione biografica in forma di anamnesi, Japadre Editore,
L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla tomba della setta
italica, tenendo dietro alle origini dell’antica lingua del Lazio – la lingua
romana -- trasse fuori VICO queste divine idee; ha lello forse BRUNO ancora,
perchè un’ombra d’idealismo copre spesso la sua filosofia, spezialmente nella scienza
nuova, dove l’uomo passa suo malgrado dalle selve allo stato civile per la
sola opera di una lupa (la lupa capitolina). Se non che l’uomo di VICO rimane
nello stesso stato in cui avealo lasciato ENEA. Devono le divine idee
rideslarsi all'occasione delle sensazioni; njun tentativo per ravvicinare la
sensazione all’idea; dovrebbe ciò fare l’induzione, ma la ragione è sempre
scontenta di quanto scopre l’induzione. Non ancora siera mostrato Kant per conciliar
insieme la sensazione (sensus) e l'idea o concetto. Con questa filosofia,
appoggiata all’induzione, si dispone VICO a crear il diritto universale della
nazione del Lazio – la nazione romana. Ma preoccupalo sempre delle civili cose
di Roma, brillando sempre nel suo spirito l'immagine di Roma, si risolge in
fine di stabilire Roma come modello di civiltà. Il perchè nella storia, della
mitologia, nelle lingue, nel blasone, e pe’ feudi pur anche del medio evo deesi
Roma ripelere, e la romana giurisprudenza diventar quel la di tutte le nazioni
del mondo. E come i fatti hanno a servir di occasione per ridestare la idea,
così il diritto di Roma, le XII Tavole, tutta la storia, tutta la mitologia
concorrer devono a risvegliar le idee del vero, del giusto, a dir breve
l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è che metafisica, logica, morale, educazione,
politica, geografia, astronomia si abbozzano prima della religione de’ padri in
mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla città di Roma; dove il senato si compone
degli stessi primi padri, riuniti in Ordini, per reprimere le ribellioni degli
ammutipali clienti. Di qui le lante critiche sulla storia positiva per
distruggerla. Sesostri e Tanai sono due simboli. La sapienza del poeta vera
immagine della sapienza o scienza del filosofo, L’Eneide confuse con la
sapienza dei romani. E tutto questo per via di etimologie stirale, di mili forzati,
di stranissime analogie. Egli è evidente che tal metodo d’interpretazione deesi
ridurre in fine ad una tortura, per isforzare tutt’imonumenti della storia e
delle favole a deporre in favore di un sistema. Siegue da questa osservazione
che quanlunque tutta la storia, tutta l’erudizione, per la potente sintesi di VICO,
pieghi sempre al modello DI ROMA, NO DI KOESINGBERGA, e la sua civiltà a poco a
poco siasi spenta, fino a che passato il medio evo, col risorgimento delle
lettere e delle scienze, ricomioci il suo corso; può non pertanto rimaner il
dubbio che il popolo romano altro forse non sia che un fatto isolato. Essendo
si in effetto limitato il Vico al uomo del Lazio.VICO, dobbiamo pur dirlo a
Gloria d'Italia,VICO è di gran lunga superiore ad Herder, il quale nella sua
Storia dell'umanità parla pur anche dell'origine e del progresso della civiltà
de’ popolo romano. Imperocchè se Herder, amico del sensismo, vede l’uomo del
Lazio nella natura, e dalla formazione del cristallo, per una ben lunga scala,
va sino all'uomo che è la corona dell'organizzazione. VICO, seguace di Platone e
non d’Aristotele, con maggior discernimento del ministro protestante, l’uomo
nell’uomo stesso contempla. E se l'analisi di Herder vivamente rallegra
l'immaginazione, la sintesi di VICO sembra lalmente falla l'intelligenza
per, che il lettore, in onla del suo linguaggio enigmalico e della
strapezza delle analogie, viene attirato potentemente dalla magica forza della
sua filosofia. Niuno più originale di VICO, e pare che l’originalità
dell’italico ingegno siesi sventuratamente nel VICO spenta. De’ suoi principii
intanlo, per quel che riguarda il nostro assunto, egli è facile di raccorre,
che avendo le legge per iscopo di metter freno alla passione umana, e di render
l'uomo migliore; ben possono per esse la *forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che
sono i tre vizi pe’ quali corre a trovarsi il genere umano, convertirsi in *valor
militare*, *prudente mercatanzia* e *savio governo*. La legislazione dunque,
considerando l’uomo qual é, se dirige ad usi migliori la passione, lo riforma e
trasmuta in quello che esser deve. La massima di VICO pertanto, ben lunga
dall’opporse alla legge morale, la conferm viemaggiormente e ne presuppone
l'esistenza. E qui credo far cosa grata a miei lettori, se da VICO stesso tolgo
le prove di questa mia assertiva. L’unico principio e fine del diritto è per VICOla
virtù del vero. E chiama virtù del vero l’umana ragione -- la vernunft di Kant
-- la quale è virtù in quanto combatte con la cupidità -- è giustizia in quanto
regola e pondera la utilità. La utilità non e per sè stesse ne onesta nè turpe;
ma turpitudine è la sua ineguaglianza, onestà la sua eguaglianza. L’utilità
privata di un singolare individuo, o anche nazione o popolo di due uomini, è
labile, perchè finisce con l'individuo la diada dei due uomo o con la nazione;
ma l’eguaglianza delle utilità, che è figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è
cosa immutabile ed eterna. Una cosa caduca non puo produrre l’immutabile, nè un
corpo dar nascimeoto a ciò che li trascende. Il sistema dunque dei futilitari utilitari,
con questi pochi molli del VICO, è distrutto. Ciò si conferma con quel celebre
detto di Pedio presso Ulpiano: quante volte una od altra cosa venne con la
legge introdotta è buona occasione supplire con la legge stessa le altre cose
che tendono alla stessa utilità. Una buona occasione adunque e alla divina
provvidenza l’umana debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro stessa
spontaneità, ritrasse gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere
socievoli, uguagliando tra loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da principio
per intera onestà, ma per una parte di onestà. Or, la società è una *comunione*
di mutua utilità che interviene tra eguali. Si la socielà ineguale è tra un
padre (superiore) e un figlio (inferiore); tra la potesta civile e di soggetti
– l’eguale è tra fratelli ROMOLO E REMO o i dioscure – Castores (dual), o Eurialo e
Niso, i due amici, tra due cittadini. Di qui due spezie di giustizia rellrice
ed equatrice. L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica* -- progressione
geometrica -- misura determinata, è il subietto della giustizia rettrice, della
giustizia *distributive*, la quale mira alla dignità delle due persone.
L'eguaglianza poi delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression
aritmetica -- misura, è materia della giustizia equatrice, volgarmente detta
giustizia *commutativa*, la quale si rapporta al mio ed al tuo – al nostro --
-- ed ba luogo in ogni società eguale.
Nè osta punto (come crede Grozio, il quale dital L'occasione poi, per la
quale una cosa accade, non è cagione della cosa stessa, il che Grozio non vide,
trattando dell'origine del diritto; e pur doveva ia questa disamina por mente
ad una osservazione tanto importante che ne è il cardine. L' utilità dunque non
fu produttrice del diritto, come piacque al greco Epicuro, al etrusco
Machiavelli, ad Obbes, i quali intesero per utilità la cessazione o del
bisogno, o della violenza, o del timore; ma fu l'occasione, per la le gli
uomini divisi, deboli, bisognosi tralti furono alla vita sociale.
qua. Siegue da ciò, che l'upa e l'altra giustizia la rellrice c l'equatrice
hanno per fondamento l'onestà, e che non può avervi giustizia senza morale:
conseguenza importautissima, dedotta dal VICO da vero suo priocipio, e sfuggita
al positivista CARMIGNANI, il quale fa della morale e del diritto due cose
talmente distinte, quasi non avessero nulla di comune tra loro. Elementi del
giusto diritto, per Vico, sono la prudenza, la temperanza, la fortezza. La
prudenle deslioazione io falti delle utilità, fatta con ragione, von come della
la cupidità, produce il dominio; il moderato uso delle cose utili genera la
libertà. La potenza regolala dalla fortezza partorisce la incolpala tutela. La
tutela de'seosi e la libertà degli affetti costituisce il diritto naturale, che
gli antichi interpreti dicono primitive, e gli stoici appellano il principio
della natura. Il dominio, la libertà, la tutela sono cose nalurali all’uomo, e
oale per le occasioni. Così la libertà del diritto era prima della guerra; ma
venne riconosciuta, ed ebb e il suo nome, introdoltasi, per la guerra, la
schiavitu. Similmente con la divisione de'campi siammisero I dominii delle cose
del suolo; ma il giure coosultodice: non essersii dominii
introdotli:essersisolamente distinti con la divisione. Finalmente dalla
potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso. distinzione
siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di daparo,
prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono parli di
lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della persona che
li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne avrebbe preso,
se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della ragione su
iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti chiamalo
secondario, e dal PORTICO conseguenti della natura. Rimontiamo col VICO all’origine
di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere, con la
sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio deriva
del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra con cui
vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere
agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi
quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode
col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a seguire
le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito nelle
utili, e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con
seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di
cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita:
diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di
respingere da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione
de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo
conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della
natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli
uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del diritto
domina la prima: di guise che quando POMPEO, impedito dalla tempesta a partire,
disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era siquesto suo
dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è necessario cioè dioperar
rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima parte del diritto naturale la
ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa vieta o comanda, e quello che
comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa seconda parte è immutabile
ancor la prima, non potendosi le cose lecite di lor natura vielar con le leggi,
non essendo in potere di queste di far sì che non sieno permesse. Vedano ora
imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del naturale diritto nel
principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o no rigettare! Rimembro
di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio aperlamente afferma:non
esser ella di alcun uso, sen za avvedersi, dice il nostro filosofo e
giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e della pace egli
stesso l'ammelte tacitamente; perchè in questo appunto il suo uso consiste, che
nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è da più del primo.
Ma bisogna un VICO per rilevar il merito dell’antica giurisprudenza, e mostrare
a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si reggeva! Il diritto naturale
primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni diritto volontario; il diritto
naturale secondario de costituisce la forma, la quale ove manchi, il diritto volontario
è nullo. Perciò Ulpiano define il diritto civile: per quello che nè al tutto
dal diritto naturale si diparte, nè inlullo adesso si uniforma; ma in parle
viaggiugne, inparte vitoglie. Il perchè la mente della legge e la ragione della
legge sono due cose distinte. Mente della legge è il legislatore; ragione dalla
legge è l'uniformità della legge al fatto. Possono si mutarsi i fatti, e la
mente della legge si muta; tutti può essa utilità riuscire tal fiata per
altri iniqua. equa, La ragione della legge fa che ella sia vera; il certo della
legge la fa vera in parte, e questa parte di vero sapno propria i legislatori,
per ottenere con l’autorità ciò che dal semplice pudore degli uomini conseguir
non possono; il che rende ragione della definizione del diritto civile, lestè
data da Ulpiano. Ond’è che in ogni fiozione della legge, la quale si rapporta
al diritto volontario, evvi due sono quindi i fonti della giurisprudenza: laragio
ne e l’autorità. Il vero e della ragione, il certo dell’autorità; ma non può
l'autorità opporsi in tutto alla ragione, altrimenti le leggi non sarebbero
leggi, ma si mostri di leggi. È dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità,
la qual, dettando una utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della
libertà e della tutela, che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza
per la quale è l'uomo da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio
sopra tutta la natura; dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza
del suo essere s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura
mortale si difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità,
seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al fatto
non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però si muta
o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la quale
variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità della legge
al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo aspello di
vero, che rende certa la legge, m a non del tutto vera; perchè qualche ragione
non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela Sviela ile; laditt
Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il diritto naturale
na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente dalla tulela,
nacque il diritto delle prime genti, che può dirsi; Diritto della violenza.
Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in diritto delle
genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si fondasse, e si
stabilissero le leggi: motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio, Marte, egli altri
numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali sichiamarono dei
delle genti maggiori.Geoli minori si dissero quelle che furono dopo fondale la
città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono quelli che
vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi. Pare a VICO che
tale divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè denominarono
patriziï delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da Romolo discesero,
e patrizii delle gentiminori quelliche trassero origine da'padri coscritti. Il diritto
delle genti maggioriè, come sidisse, il diritto della privata violenza, con che
gli uomini, senz’alcun freno di legge, toglievano con la propria mano, ed
usucapivano; con la forza si difendevano; il proprio uso o possesso rapivano, e
con la privata forza ricupera vano. Perciò i mancipii erano cose in realtà per
mano tolte; i debitori neri veramente legati; vere erano le mancipazioni,
usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi ne’rapimenti del possesso,
come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non già nella potestà de’ mariti,
usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà, la tutela ha origine
dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato, come Vico sostiene, si
manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta buona ragione asseriscano
che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale! per tre nolti
continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di unannonon passassero
in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi costar il vero della
ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed essere stale queste due
cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la libertà, la tulela in qualunque
stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi però notare che il diritto, come
che risulti sempre da questi tre elementi,fu non pertanto ne’ governi divini ed
eroici più certo che vero; negli umani più vero che certo.Or siccome col diritto
delle genti m a g giori,senza alcun freno di legge, lecose, come testè dicemmo,
si usu capivano, con l’uso e con la per pelua adesione del corpo si ollenevano,
con la forza si riacquistavano, ed accadevano per questa violenza frequenta
risse ed uccisione; si riunirono in ordini i padri di famiglia, e poco
fidandosi, per la licenza che tra gli uomini regnava, del loro nalural pudore,
conservarono per sè soli la forza, e posero termine ad ogni ulteriore disordine
in avvenire. Da ciò nacque la potestà civile; la quale poche cose pubblicamente
trallava con la forza: le punizioni cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad
essa potestà soggetti, fossero nelle lor pretensioni tranquilli, introdusse
certa corporea forma alla materia da lraltarsi in privato, e coosacrò certa
formola di parola, alle quali uniformar dovessero la loro ipfioila e svariata
volontà i cittadini. la forza di questa formola, di proposito e seriamente, non
per frode o inganno, polevano essi acquistare diritti, conservare le proprietà
o in altri trasferirle, con le quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di
privato diritto. In tal guisa la civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla
via ogni in certezza per la solennità de’ giudizi, riforma il costume, e
distribui fra i cittadini la cosa certa e civile, che in buona ed in gran parte
ricuperarono il vero ed il pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto
naturale. Da questa metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e
della tutela, per la quale il diritto da violento che era si trasmuta in
moderato, ebbe origine il diritto civile; e la patura medesima delle cose
insegna essere ciò avvenuto a ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori
vennero sollo la potestà civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del
diritto naturala all’uomo, dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori,
coo che il padre, posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la
terza acquisizione introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio,
la libertà, la tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il
privato diritto del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col
quale le cose che ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore
si ripetono; alla libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende;
all’azione, che allro non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita
questa dottrine, volgiamo da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani
Quiriti, e le vedremo mirabilmente confirmata. Chiama VICO il romano diritto un
serioso poema dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni,
delle quali è ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta
il diritto delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le
mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la
liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione
del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la
usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto
significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi,ma con certo
legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle mani
con una paglia, dellaper. Ciò da GELLIO festucaria. Pernon diral la fine di tanteal
tre, l’azione personale chiamata “condictio” non più e l’andar unito il
creditore al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice denunzia.
Le quali cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni si crede
il poeta il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e di
Anfione vero. Ella è questa, secondo VICO, l'origine ed il progresso dell’universale
diritto delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di VICO stesso, in
istretta amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente. Parlando in fatti
questo gran filosofo della giustizia universale afferma che siccome la virtù
universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza, perchè si oppongano
alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda alla prudenza, alla
temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità. Impone alla prudenza,
che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla temperanza di non
appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il proprio
diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto più
il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla verità
della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al pudor
della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer
anche meglio l’accordo della filosofia di VICO con la legge morale, basta
osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo
in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente
nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo VICO, una sola virtù,
e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica difatli,
che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come l'architetto
alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile potestà, e comanda a
latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre sì, come
particolare virtù, nell'animo del sapienle, c regola gli uffizi di tutte le
virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè, risponde VICO,
v'ha unica ragione che così della, unico vero bene, unica giustizia, e unico
diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle d'accordo il
principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso lui adottata
del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere il primo
nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della ragione: se
quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che comanda o
vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario altra cosa
non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere il diritto
civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa le genti
maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola seguendo che
quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto certo, tullo proprio
dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione. Il diritto però di
violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero diritto stato della repubblica
e della monarchia. Or, nel primo stato non altra guida ha l’uomo che quella
dell’istinto a cui ubbidisce come la pianta e l'animale; ma non è questo
certamente il suo destino; la sua facoltà lo chiama ad un bene essenzialmente
diverso da quello che dipender potrebbe dal solo istinto. Dev’egli per sè
stesso crear questo bene, e passare perciò dalla servitù dell’istinto allo stato
di libertà: a quella condizione cioè, per quale ubbidirebbe invariabilmenle
alla legge morale, come sino a quel punto ubbidito aveva all’istinto. Deve
l’uomo, a dir breve, diventar creatura libera, di automa trasformarsi in essere
morale, ed un tal passaggio deve menar lo all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno
di congiungersi condonna, e la nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione,
qualunque sia si ella stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe
egli con la compagna che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere
in entrambi una nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del
primo. La soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra
per l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero
il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era semplicemente
materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor coniugale che
è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne seguì, un terzo
ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli strinsero insensibilmente
tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo e Remo che non è punto
interessato. Stretti altri uomini dal bisogno, palleggiarono con questa prima famiglia
di prestar l'opera loro, a vantaggio lo tantocon l'avanzar de’lumitutt’il
membro della citta si crede idoneo alle funzione che prima da’ soli padri si
esercilavano, e sursero allora la repubblica e la monarchia, dove si ni in gran
parte il certo dell’autorita,e comincia il vero della legge. Sollo queste forme
di governo lulla si spiega la moralità dell’azione, perchè si dissero azione della
stessa, per una convenuta mercede. Surse allora la società tra padroni, dove il
padre comanda al proprio figlio, a questi famoli ancora; e tale società dal
nome de’ famoli si appellò famiglia. Dalla famiglia surse ben toslo un certo
naturale governo. Stabilita l’autorità paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto
e sui famoli ha già il fanciullo contratto l’abito di rispettare la volontà del
genitore. Quando fatto grande, il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i
di lui figli onorar colui verso il quale vedevano che gran rispetto porta il
padre loro; supposero quindi nell’avo un’autorità superiore a quella del
proprio padre. E perchè l’avo in ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo,
un taluso, per più a poi osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere
sovrano su tutt’i membri della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale,
che lungi dal puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a
garenlirla e consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità
riunite, costitusce la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i
cittadini dovellero amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a
Romolo, il capo delle tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della
famiglia presta all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di
vera stima verso gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado
disinteressata. Ma qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo VICO, nei
quattro stati su indicati noo altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di
solitudine in fatti cerca egli semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e
fatti figliuoli ama la sua salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile
ama la sua salvezza con la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri
popoli ama la sua salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace,
alleanza, commercio, ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano.
L'uomo, conchiude Vico, in ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il
perchè non da altriche dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar
con giustizia la familiare, l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle
soltanto che si facevano nell’interesse della morale, senza domandare
anticipatamente, seerano gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si
manifesta si ridusse ne’ goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che
propongono farsi la tal cosa o non farsi, e la volontà ne decide dietro la
legge della ragione, o è la ragione che prende l’iniziativa, e la volontà
ubbidisce, senza consultare il senso. governo. Così è, diciamo pur noi, ma
perchè l’utile che cerca l’uomo, tosto che si è reso superiore all’istinto, è
subordinato ro a quello della famiglia; secondo a quello della città; terzo
all’utile del paese; quarto all'utile di tutto il genere umano; l’utile che
cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati non èl'utile variabile, ma quelloche
è figlio dell’onestà, la quale, come Vico si esprime, talmente dirige e pondera
le cose utili che a tutti giovano egualmente. ma di Ma perVico, si torna a dire,
lulto questo è opera della provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro
però il diritto naturale del giurecosulto, di lunga mano di verso dal
diritto naturale del filosofo che alla norma della ragione eterna lo agguagliano
sempre. Ma essendo la repubblica degli ottimati quasi tutte ridotte in
democrazia o principali, le qualidue forme di governo vengono regolate più
secondo l’ordine naturale che secondo il civile; per queste cagioni venne a
rallentarsi la custodia del diritto delle genti maggiori più antiche, sul quale
diritto poggiavano sopratutto la re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di
quello stato la custodia delle palric consucludini. Vico della provvidenza è
l'umano arbitrio, che ha per regola la sapienza volgare, la quale è il senso comune
di ciascun popolo o nazione che dirige in società la nostra azione, sicchè
facciano acconcezza con ciò che ne sentono tuttidi quell popolo o nazione.
Quando poi le nazioni per commerci, per paci, per alleanze sono si conosciute,
la convenienza del senso comune de’popoli o nazioni tra loro, è per Vico la
sapienza del genere umano. Or, il senso comune di ogni popolo e di ogni
nazione, il quale deve dirigere in società la nostre azione, acciò si accordion
con tutto ciò che ne peosa il genere omano: che altro può esser mai se non è la
legge morale? per perciò VICO, seguendo GAIO, chiama diritto civile comu. de il
diritto comune di ogni popolo. Perchè GAIO, ove define il diritto civile, dice:
Ogni popolo che e governato da una legge e da una consuetudine, in parte si
serve del proprio diritto, in parte del comune diritto di lultigli uomini, e
ció per la divina provvidenza, che secondo la stessa opportunità delle cose lo
spiegò Ira la pazione separatamente, con la loro costumanza, per la
tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto spiegato con la comune
costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio, dalla libertà nacquero,
secondo VICO, tre pure forme dello stato. Quella DEGL’OTTIMATI, la regia, e la
libera. FONDAMENTO DELLO STATO DEGL’OTTIMATI È LA TUTELA DELL’ORDINE, con che
venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano gl’auspicii, il campo, la
gente, i connubî, i maestrati, gl’imperî, e presso legenti i sacerdoti. La regia
risplende pel dominio di un solo, ROMOLO, e pel sommo e formisura libero arbitrio
di esso solo in tutte le cose. La libera vien celebrata dall’eguaglianza
de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per l’eguale adito a ogni onore,
il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di essi comanda un solo,o come
vuole TACITO: uno essere il corpo della repubblica, e doversi governare con
l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però inciascun politico reggimento
colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo del pari che l’unico non si
può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati, benchè sieno da
quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro diverse; tultavolta
allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione, la volontà, il potere
risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale, e costituiscono irë
parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per tanto è l’anima di ogni
stato, perchè regna in quest’ordine il vero che all’ordine delle cose
corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il quale non è ordine, ma
sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale dello stato, dove il
prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille ubbidisce: quali furono
i primi principii dello stato, la famiglia, la clientela, gli antichissimi
stati degli ottimati pur ordine civile quello che per volere della legge
all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi ordine politico, misto di
civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati il senato si compone de’
sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il popolo viengo ver pato
dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio il principe ROMOLO si
vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può definirsi successione
dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole come per fede,
diligenza, solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di ascendere ad
onorale cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene promosso: di
guisa che i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi degl’inferiori e
li dirigano. Ma quando gli ottimati divennero nomi vani che li distinsero
dalla plebe, all’ordine naturale successe il civile, ed al vero seguì il certo,
il quale altro non è che la conformità all’ordine, non delle cose, ma della
parola, da cui nasce la coscienza dal dubilar sicura. Imperoc chè I primi
imperi degli ottimi o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni popolo
passarono, o a monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel
lignaggio come nell’aristocrazia, o nel censo come nella democrazia, o nella
casa regnante come nella monarchia. Ma de la nobiltà, né il patrimonio rende
sapienti. Il nascer orincipe è cosa fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome
però il certo è parte del vero, e la ragion civile nasce della stessa ragion
naturale per le cause di certo diritto, così l'ordine civile per natura sua fa
parte dell’ordine naturale in quanto è esso cagione della pubblica sicurezza,
ond'è che anche la citta la più corrolla da questo stesso civile ordine viene
conservata. Ed è per quanto però la mente è più verace del discorso,
altrellanto l’ordine e più stabili della legge; im pe rocchè la mente sempre
una cosa detta al parlare, ma pel giudizio, o sia per la volontà, noi più volte
falliamo, servendo spesso a ciò che dice il senso, senza ascoltar la mente. La
parola in oltre non viene sempre con prontezza alla mente, spesso non esprime i
suoi comcetto, mentre viene quella incessantemente spronala a raggiugnere
Ma questi ordini per la via della legge col timor delle pene, con la speranza
de un premio, impongono al cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual
cosa l’ordine e più stabile dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino
sull’ordine, e che questi conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il
quale è misto di ordine naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò
che Aristotele della legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E
come che la mente del popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa
mente stessa suole addivenir talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia commossa
da intestine turboleoze. Qual fu la mente del popolo di Atene, e quella del
popolo romano sconvolta dal demagogo, che indussero l'uno e l'altro popolo, con
particolare legge fuori l’ordine promulgate, a bandir dalla patria uomini di
chiara virtù, per elevare ad amplissimi onori immerite volissimi cittadini.
Vero, il la qual forza di vero altra cosa non è che la ragione. Or, la parola
sovenli volte elude questa forza di vero, per la perversa volontà di chi
ragiona. L'ordine perciò naturale e l'ordine misto è il solo che può con
giustizia amministrar il diritto, e questo avviene quando uomini per sapienza e
per virtù prestantissimi, giusta l’ordine naturale, e non secondo l'ordine
concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto chiamato da Grozio e Kelsen puro, e
da GAIO DIRITTO COMUNE a tutti i popoli,
altro non è ch e il diritto naturale, il quale h aperto della parola, o che
torna lo stess, non secondo il certo della legge, ma giusta il vero della legge
stessa, reggano gli stati. E perchè la leggr in moltissimi casi mancano ed è
necessaria l’interpretazione che a la deficienza supplisca; può accader ancora
che sollo la stessa autorità del diritto non solo qualche volta per ignoranza
si erri, ma la stessa legge con frode si eludano. Più felice dunque e quello
stato, nel quale il civile ordine e misto più secondo il naturale ordine o
secondo l'ordine del vero che secondo l’ordine del certo. Quindi ove si
conservino la legge imposta dall’ordine, e mollo più gli Ordini che le leggi si
cuslodiscano, verranno gli Stati conservati. Ma se le leggi mancano, gli stati rovinano.
Perciòsiamo servi della legge, diceva Tullio, per poter esser liberi.
Convertendo dunque la massima si dirà pure con verità: se ci libereremo dalla
legge, saremo naturalmenle servi. la legge morale; perchè, secondo Vico, non può
darsi diritto senza morale. Iolanlo è da nolarsi diligentemente che VICO
distingue il diritto io diritto vero, e diritto certo. Quello è per la ragione,
questo per l'autorità. Il primo dirige l'uomo libero, il secondo l'uomo che più
della liberlà segue l’istinto. Or cgli è evidente che negli stessi umani
governi la più gran parte degli uomini, tenendo più all’istinto che alla libera
elezione, si lascia più facilmente guidare dall’altrui autorità che dalla ragione.
Di qui la necessità di un diritto misto, secondo le esigenze de’ popoli e le
diverse forme di governo. Ma da ciò non segue che coloro i quali con la loro autorità
oe fondamento impongodo a’ popoli, essendo essii più sapienti, i più
prudenti, come vuole VICO, non si propongano per i scopo il diritto vero e che
non sieno al caso disco prirlo, senza darsi gran pena. La destinazione infalli del
l'uomo non può dipendere dall’istinto, e tosto che l'uomo si conosce libero e
la sua ragion consulta, questa gli ordina di conservarsi e di perfezionarsi: di
essere cioè savio, moderato, prudente; di collivar l’intellelto, e nel tumulto
de’ sensi e degli affetti di cautelare la volontà: nel che propriamente
consiste la libertà dell'uomo interiore. E perchè egli scopre in altri esseri,
a lui simiglianti, la stessa attività libera, gli considera tutti eguali, e tale
scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di lasciar i suoi simili nella loro
indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso giudica di non aver diritto su
di ciò che è stato da altri prima di lui occupalo, e ciò che ha egli occupato
il primo, giudica che a lui spella solamente, nel che sla il dominio. Di qui
reciprocità del diritto e del dovere; di qui l’origine della giustizia che
gareolisce la proprietà. Tulli gli anzidelli del diritto e del dovere,
perchè fondati sulla libertà, sul dominio, e sulla tutela, o che lorna lo
stesso, sulla natura dell’uomo, stanno per sè, prima che l’uomo entri con altri
in società. La legge non li creano, perchè già erano prima della legge. Questa
non altro fanno che conservarlo. Lo stesso diritto e lo stesso dovere servono
di fondamento alla società, che il legislatore non crea ma dirige, perchè la
società già era, quando il governo non era ancora. La libertà del diritto, dice VICO, fuprim a ch e
si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il dominio con la divisione
de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di operare infine nacque
tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che, ammellendo Vico nell’umana
mente al cuni semi del vero che con l'andar del tempo si sviluppano in
cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che tratto tratto si spiega la
massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli in gran parte seguace di
Platone intorno all’origine di quella verità che si dice necessaria. Or tale
verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche ed una pratica, diciamo, che
rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il quale per un alto di
spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione, appoggiato alle quattro
idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di cagione, riduce all’unità
tutto il vario della rappresentazione che a lui offer il senso. Riguardo poi alle
verita pratica, essendo elleno legge pratica o comando di fare, si contiene in
una massima universalisabile. Quando ti determini all’azione, esamina te stesso
e vedi se la tua volontà sia di accordo con la volontà generale di ogni
persona. Una tal massima universalisabile è la suprema legge della morale. Che
che sia però della filosofia di Vico, a noi basta di aver provato che le due
sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial la legge morale, la confermano
mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre elementi del diritto; tre
elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non può avervi diritto senza
morale. La filosofia perciò di VICO si accorda perfettamente con la morale. All natios bostna viSing to derive merit from the splendonr of their
original. And irhere history ii uleot, they fueiuenJiy anpply the defect with
fable, THE ROMANS were particnlaHy dcH^OB of being thought DESCENDED FROM THE
GODS, m if to hide the meaaDess of their real ancestry. Mueas, the Bon of Veona
AocUaei. having escaped ftvm the deitniotioii of Ttey, after'11MU17 adventures
and dangers, atrived octet a in Italy, where Aeneas was kindly received
by Latinus, king of the latins, who gave him his daughter Lavinia in marriage.
Italy was then, as it is now, divided into a number of small states,
independent of each other, and consequntly subject to frequent contentions
among themselves. Turnus, king of the Rutnti, is the first who
opposes Aeneas, he having long made pret^uions to Lavinia himself. A war
ensues, in which the Trojan hero is victorious, and Tornus sfadn. In
consequence of this, Aeneas built a city, which was eded Lavimnm,
in honour of his wife, and some time after, engaging in another war against
Hezentius, one of the petty Ungs of the country, he was vanquished in turn, and
died in battie, after a reign of four years. Ascanius, his son,
succeeds to the kingdom, and to him Silvius, a
second son,
^lom be had by lAvioia. It would be tedious
and unninterealing to recite a dry catalogue of the kings that
followed, and of whom we know little mtae than the names. It
will be sufficient to say, that the
sacoesnoD coatiDiied for near four hundred years
in the family, and that Numitor, the
fifteenth from Aeneas, is the last king
of Alba. Numitor, vho took posseBsitHi
of the kingdom in consequence of his father's
will, had abrpther named Amnlius, to whom are
left the treasures which had been brought from Troy. As riches but too
generally prev^ against right, Amolins made use of his wealth
to supplant his brother,a nd aooo foDod means top ossess himself of the kingdom,
ot content with the crime of usurpation, he added
that of murder also. Nnmitor's sons
first fell a sacrifice to his suspicions, and to remove all
apprehensions of being one day distorbed in his ill-gotten power, he caused
Rhea Silvia, his brother's only daughter, to become a
vestal virgin, which office obliging her to perpetual celibacy,
made him less uneasy as to the claims of posterity. His precautions, however,
are all frustrated in the event; for
Rhea Silvia, going to fetch wator frqip a Qeighbopring
grove, was met and ravished by a man, whom, pei^tqw to
palliate her offence, she avers to be MARTE, the god of war. Whoever
this lover of hers was, whether some person
had deceived her by assuming so great a name, or
Amnlins himself, as some writers are pleased to a£Srm, it matters not.Certain
it is, that, in due time she was broug:lit to bed of two boys, who were
no sooner bom than devoted by the usurper to destmction. The mother is
condemned to be buried alive -the usual punishment for vestals who had violated
their chasti^, and the twins are
ordered to be flung into tbe riverTiber.It
happens, however, at the time this
rigorous sentence was put into eieculion,
that the river had more than usually overflowed
its banks, so that the place where the children are thrown, being
at a distance from thei main cnirent, the water is too shallow to
drown them. In this ntoation, therefore, they continued without
harm; and that no
part of their
preservatioD might want
its wonders, we are told,
that they were for some time suckled there by a wolf, until Fanstulos, the
king's herdsman, finding
ihem exposed, brought them
home to Acca
Laurentia, his wife,
who brought them up
as her own. Some,
however, will have
it; tiiat tbe
nurse's name was
Lnpa, which gaya
rise to the
stoijr vt their
being nouriihed by
a wolf; but it is
needless to vfad
Do,l,,-cdtyS oirt a iwglH
MBpg«b«ba% fian 'venevntB
vbtfe die vkote «
omgrowB with ftUe.
Boraoloa and Bemna,
Ae twins thtu
strangely prcwcved. Memed
eariy to diacover
afai)iti«i uid desiret
above the me«i-
noH of thor
aapposed origiiuL The
ahepkenl's life be^an
to di^leaae them,
aod fnaa tending
the flock, or
hantiag wild beasts,
they soon tnmed
their strength agsinst
the robben lonnd the eonntry,
whom they efien atfipt of their [daader to share it among their feUew-shepherds. In one
of these ezcmnons
it was that
Remus is taken priaoner by
Nvmttor's berdsmen, who bring him before the
king, and aoensed
him of the
very crime which he bad ao t^tea attempted to sappresa. Bomnlaa, bowerer, beii^ informed 1^
FaiiBtaliu of his real birth, was
not remisa in
assembling ft munber
of hia fbllow^epherds, in
order to resooe
bis brother from
posoD, and foroe the kingdtmi from tbe
bands of tbe nsnrper.
Yet, being too feeble to act openly, he direcs bis followers to assemUe
near the place by different ways, while
Beniiis with eqnal
vigilaooe gm&ed npon
tbe dtiuua within. AmalioB, tfans
beaet on all sides, and not knowing iriiat expedient to thinkof for bit seoiuity, was,daring hia amasenent
and distraotion, taken
and daio, while Numitor who had been deposed forty-two years,
recognised bis grandscns, and is restored to the throne. Nnmitor
being tints in
qvet posiewion of the kingdom,
hot grandaou resolred
to bnild a
eify npoo those hills whoe they had formerly lived as
aheiriierda. The king had
too many oUigations
to them not
to approve their
des^; he appointed
tbem lands, and
gave pennisnoB to
.snoh of hia
subjects a» thoo proper
to settie in
their new colony.
Many of the
neil^draariiig shejdierda also,
and sncb as
were fond of
change, lepabed to
the intended dty,
and prepared to
raise. For the more speedy oarrybg on this
work, the people were
divided into two parts, each of whioh, it was sapposed, woidd
indoatriondy emnlate the otfaer. Bat what
was designed fi» an advantage proved nearly
fatal to this
infimt oolony: it gives birth to
two factions, one preferring Romulus, the other Remus,who themselves arenot agreed upon the spot where
the city shonld stand. To terminate this difference, they are recommended by
the kingto take an omen from the flight of birds; and that be, whose ome should
be most favoorable^ afaonld in
all reepeots direct die odier. In
ooatflSaaoe wiOl this advice,thej both take
their stations npon
diffra«nt hilk. To Remus
appear six vultures,
to Romulus, twice
that number, to
ttwt each party
thongfat itielf viotoriovi,
the one tiaviog
the *first* omen,
the other the
most nnmeroiu. Tbifl
prodnoed a contest,
whitdi ended ui a batde, wherein Bemoa is slain, and it is even said, that he was kiUed by his
brother, who, facingprovoked at his leaping contemptnoasly over the city wbU,
itrack him dead upon tbe
qrat, at the same time proKssio^, that nooe shonld
ever inanlt his walla withim punity.
Romoltu, being now sole
coHunuider, and eighteen yean of age,
b^an the fonndation of acity,
that was one day to give laws to the woild. It was called Rorne after
the uaaie of the founder, and bnilt npon the Palatine hill, on which he had
taken lus ancceflsfol omen. The city was
at first almost square, oontaining «bont a tlwiisand houss. It was near
a mile in compass, and commanded a small
territory ranod it
of about eight miles
over. However, smallas
it appears, it
was, ootwithstandiiy, vone
inhabited; and the
first method made
uae of to
increase its numbers
vaa the opemng
a sanctosry for
all male&otors, slaves,
aod snch as
wm« desirons of
novelty. These came in great multitudes, and
cootibated to increase
the number of our
legtslatoi'B new subjects. To
have a just
idea ther^re of Rome in its infant stale,
we have only to
iwsgine a coUec-
tion o( cottages,
sairotinded by a
feeble wall, rather
built to serve as
a military retreat,
than for the purposes
of civil >o-
cie^, rather filled with
a tnmoltuoas and
vicious rabble, thaD
with subjects bred
to obedience and control.We have only to conceive men bred
to rapine, Iwing
in a place
that merelj seemed
calculated for the
security of plonder;
and yet, to our astonishment, we
shall soon find
this tumulbioas coocouise
unit> ingin the
strictest bonds of
sode^; this lawless
rabble putting OB the most sincere regard for religion; end,
thouf^ composed of
the dr^s of
mankind, setting examples,
to all the worid, of
valour and riitne.
Doiii,,ih,. WWLOU SoARGB
mm tbe city rnsed
abore iti &niid«tioB. vhen
Hs rade mhalulsBtB
hegaa to tfauik
of gmag some
fonn to their. MoslitBtioii. Their first
object was to
unite lifoer^ and empire; to
fonn a kiod
of mixed monncby,
by irfaicfa all
power vw to
be dividad between
the prince and
the peopte. Bo- nlna, by an act of great geoeromtf, left them
at liberty to dwose whom they wonld for dieir king, and
tliey in gnrtitiide
eoBcmred to elect their founder;
be was accordingly acknowledged as
chief of dieir religion, sovereign magistrate of
Rorne, md geoeral of Ae army. Beside a guard to attend his person,
it was agreed that he should be preceded wherever be went by tweW e mCT, armed with axes tied
op in a
bnadle of rods, who were to serve
as execntioners of
the law, and to impress hii
new subjeots with an
idea of his authority. Yet stUl
tUa aKiboriQr was
ondw very great
restriotii»ig, as his
whole power CMisisted
in caQing the THE SENATEsenate togedier,
in assembling the
peo tMibstont and
fierce as the first
Romans, it was
wise to enforce obedience
t &6 most
reqnidte dnty. lie first care of the new-created king is to
attend to the
interests of religion,
and to endeavour to hnmantse his
subjects, by the notion of
other rewards and pnnishnients
than diose of hnman law. The
precise form of their worship
is nn- known; bat die greatest
part of the
religion of that
age con- siMed in
a firm relianoe
upon Ae credit of
their soothsi^ers, irito fvetended, from
observations on the flight
of birds and
the entrails of
beasts, to direct
the present, and
to dive into fntmrity. This pioos fhrad, wbich first
uvse from ignorance, soon became
a most usefnl
machine in the hands
of government. Romnlns, by
an express law,
commanded, that no
election should be
made, no enterprise undertaken,
witfa- flat first
conaolting die soothsayers. With equal
wisdom he ordained, that no new divinities should
be introdoced into
pnhlic worship, that
the priesthood should
continue for fif, and that Aone
shonM be elected into it
before the age
of fifty. He
fort>ade them to mix fable
witb the masteries
of their reUgion;
And, timt they
mi^t be quaKfied
to teach others, he ordered Aat
tiiey should be
tiie iHstoriographns of
tiie times; so
tiia^ while instructed
by priests Bk^ these,
the people cordd never
degenerate into total
barbarity. Of his other
laws we have
but few fragments remmnii. In these, however, we
learn, that wives
were forbid, upon
any pretext whatsoever,
to separate from tbeir husbands;
wUle, on the contrary,
the husbaod was empowered to repudiate the wife, and even
to put her to death
with the consent
of hef retatioQB,
in case she was detected in
adultery, in attempting to
poison, in making
false keys,. or even of having drunk too much
vine. His laws between children and
their parents w«'e
yet sdll more severe;
the father had
entire power over his
offspring, both of
fortune and fife;
he conid ell
them or imprison
them at any
time of their
lives, or in any ttations to which they
were arrived. The father
might expose his
clnldren, if bom
witii any deformities, having previoasly eommunicated bis
intentions to his five
next of kindred. Our lawgiver seemed moze
kind even to
his enemies, for his subjectswere
prt^hited from killing
them after they
bad surren- dM«d,
m even from
sdling them: his
ambition only aiaied at
.,Coo many endeaToiiTs
to inoraase bia
BnbjeotBi aad m
mmy Inra to
r^nlate them, he
next gave ordeis to ascertna
tbeir numbers. Tbb
whole amoanled bat
to three tbooMnd
foot, and about as many
bnndred horsemen, capable
of beari^ arms. These,
therdbre were divided
equally into three tribes, and
to each he
asiigaed a different
part of the
taty. Each of these
tribes were sabdivided
into ten cmin
or compame, consiBting of an hundred
men each, with a oentnrioB
to command it,
a priest c^ed
curio to perform
the sacrifioes, and
two of the principal inhatntants, called
duumviri, to distribute jnstioe. Aocordijigly to the number
of ooriv he
divided the lands into
thirty parts, reserving
one portion for
public uses, and
another for religiaus ceremonies. Tbo «m- phaty
and fingality of
tha times will
be best iindeistood
by observing, that
dach citizen had not id>ove
two ictea of ground
for his owB
subsistence. Of the
horsemen mentioned above,
dtere were chosen ten
from eei^ curia;
tfaey were particularly
appointed to fi^t
round the person
of the king;
of them hU
gaud was composed, and from tbeir
alacrity in battle, or
fhuB the >ame
of their first commander, ^ey
were called ceUrat,
a word equivalent to our light horsemen. A goremmcot thus
wisely instituted, it may be suppoaed, nduced numbers
to come and
live under it: each day added to
its strength, maltitudes
flocked in from
all the adjacent
towns, and it
only seemed to
waqt women to
ascertain its duration. In
this exiaeiatx, Romulus,
by the advice
of the senate, sent deputies among the Sabines, his
neighbours, entreatingtheir alliance,
and upon these terms-
ofiering to cement the
most strict confederacy
with them. The
Sabines, who were then considered as the
moat warlike people of
Italy, r^ected the proposition with disdain, and
some even added
raillery to the
refusal, demanding, that
as he had opened
a sanctuary for
fugitive slaves, why he
had not also opened
another for prostitute
women. Tbis answer quickly
raised the indignation
of the Rpmans; and the king, in
order to gratify
their resentaient, while
he at the
same time should
people hb ci^,
resolved to obtain
by force what
was denied to intrea^. For this
purpose he proclaimed
a feast, in
honour of N^tane,
diron^ut all the
nMghboitring villagea, and made
the meet KAPB OF
THK BABINBS. t
mmgaiAMat pnftamtkmi for
it Tbets feuta
wen guan^ preceded
by sacrifices, and ended in shows
of wreeden, ^ft-
diaton, and chariot-^onrses. The Salnnes, as
he had expected, were among the foremost who
came to be
spectalon^ fannging their
wives and daughters
with them to share
t^ pkasore of
the sight. The
inhabitants also of
maaj of tht
ueig^hoariDg to^os came, who
were received by
the RomaM with
marks of the most cordial hospitality. lo the mean
time the games began, and
while the strangers
were most intent
upon the spectacle,
a number of the
Roman yonth rushed
la mnoag them
wiUi drawn swords
seized the yotingedt
and meet beaatilid
women, and earned them off
by violence. ,
In vain the
parents protested against
this bre&cfa of
hospitali^; in vain
the virgins themselves
at first opposed
the attempts of
th^ raviBfaers; perseverance
and caresses obtained
those &• TOWS
which timidi^ at
firstdenied: so that
the betrayera, frma
being objects of aversion,
soon became partners
of their dearest
affections. But however the afiront might have been botne by them, it
was not
BO easily pnt up by
their parents; a bloody
war ei^ sued. The
cities of Cenioa, Antemna,
and Cnutuminm, wen
the &at who
resolved to revenge
the common cause,
which the Salnses
seemed too dilatory
in pursuing. These,
by making aeparate inroads,
becamea more easy
conquest to Romulus,
who first ovothrew
the Ceoinenses, slew
dieir king Acron
in sio combat, -and made an
offering of the royal spoils to Jupiter Feretrius, on the spot
where the capitol
was afterwards built
The Antemnates and
Crustuminians shared the
same. fate; their
armies were overthrowu, and their cities takes. The conqueror,
however, made the
most merciful use
of las victny;
for instead (rf destroying their towns,
or lessemi^l tbent
nnmbeis, he only
placed colonies of Romana
in them, to. serve
as a frontier to repress
more distant invasions.Tattos, king
of Cures, a
Sabine city, was
the last, althou^
the most formidable who undertook to cevuige the
disgrace his country
had suffered. He
entered the Roman
territoriea at the head of twenty-five thousand men| and not content with
a superiority of
forces, he added
stratagem also. Tarpeia, who was
daughter to the
commander of. the
Cajutolme hill, happened to
&11 into his hands, as
she went without
4>e walls of
the city to
fetch water. Upon her he
prevailed, by meant
of hrga pttuSaet,
to bebrajr aae of the
^^ates to his
army. Tlie i«<irwd
she eagdgei for
was vfaat the
soldiers wore on
their atteB, by
vfaich the meaot their bracelets.
They, however, cotber
miataking^ her meaning,
or wiUing to
panish her peifidy,
ttvew tlieir bncklera
upon her as
they entered, and
crushed ber to death beneath
them. The Sabines, being thus
possessed of the Capitoline, had the advantage
of continning the
War at tbeir
pleasure; and for
some time only
slight enconnters passed
between them. At
length, however, the
tedionsness of this
contest began to
weary out both
parties, so that
each wished, but neither would stoop to
sue for peace.
The desire of
peace ofteii gives
vigour to measures
in war ; wherefore
boUt sides resolving
to terminate their
doubts by a
detMsive action, a general engagement ensued, which
was renewed for
several days, with
almost equal success.
They both fon^t
for all that
was vEduable in
life, and neither
could think of
submitting: it was in the
valley between the Capitoline
and Qui- rinal
hills, that the
last engagement was
fought between the
Romans and the
Sabines. The engem«it
became general, and
the slaughter prod^ioua,
when the attention
of both sides
was suddenly turned from the scene of
horror before them,
to (mother infinitely
more striking. The Sabine women,
who h^
been carried off by the
Romans, were seen
with their hair loose
and iheir ornaments
neglected, fiying in
between tbe combatants, regardless of their own
danger, and with
loud outcries only
solicitous for that
of their parents,
their husbands, and
their cUIdren. "
If," cped ihey,
" you are
resolved upon daughter,
turn your atma
upon us, since
we only are the cause <tf
your animosity. If any must
die, let it
be us; since
if oar parents
orour husbands faU,
we must be
equally miserable in
being the surviving
cause." A spectacle
so moving could
not be resisted
by the combatants;
both sides for
a wtiile, as if
by mutual impulse, let fall their
weapons, and beheld
the distress -
in silent wnazement
The tears and
entreaties of thdr
wives and daughters
at length prevaUed;
an accommodation ensued,
by which it
was' agreed, that
Romulus and Tatius should
t«ign jointly in Rome, with equal power and
prerogative; diat an
bailed Sabines should
be admitted into
the senate; that
the city should
still retain its
farmer name, but
that As citizens
should bctdled Qnirites,
after Cures, the
principal town of
the Sabines; and that both nations being thus united. 11
•aoh of the
Sabtees u i^ose
it shoiM be
sdnAted to Bniad
eDJoy all the
privilegea of citizens
oi Rome. llaH
erery •torm, vhich
seemed to threateo
this growing empire,
only served to
increase itvigour. That army,
wfaich in die
mondug had resolved
upon its destruction,
came in the
evetlin^ with j(^
to be enrolled
uiDoag the number
of its ctttzens.
RomfoloB saw his
dominions and his
sul^ects increased by
more then half
in the space of
a few hours; and, as if fortune meant every way to assist his
greatness, Tatins, his
partner in the
govem- ment, was
killed about five
years after by
the Lavinians, for
having protected some
servants of his,
who had plundered
them and slain
their ambassadors; so that by this accident Romulus once more saw
himself sole monarch of Rome. Rome being
greatly strengthened by
this new acquisition
of power, began
to grow formidable
to her neighbours ;
and it -aiay be supposed, that pretexts
for war were
not wanting, when
prompted by jealousy
on their ride,
and by ambition on
that of the
Romans. Fidena and
Cameria, two oe^hbonring
cities, were stibdoed
and tAken. Veii also, one of the most power Ail states
of Etruria, shared nearly the same fate;
after two fierce engagements tiiey
sued ftM* a
peace and a
league, which was granted upon
giving np the seventh part of tbev dominions, their salt-pits near the river,
and hostages for greater security.
Successes like these produced an equal share of pride in the oonqneror. From
being contented with those limits which had been wisely fixed to his power he began to affect absolute sway, and
to govern those laws, to which he had himself formerly professed implicit
obedience. The senate was particularly displeased at his
conduct, finding themselves
only used as
instrom^its to ratify
the rigour of his commands. We are not told the precise manner which
they made use of to get rid of the
tyrant: some say that be was torn in pieces in the senate botise;
otiters that he disappeared while reviewing
his army: eertain
it is, that
from the secrecy
of the fact,
and the concealment of the body, tbey took occasion
to persuade the multitude, that he was taken np into heaven; thus him whom they
oonld not bear as a king, tbey were
contented to worship as a god: Romnlns
reigned tlnrty-seven yean, and after his death bad a temple
built to turn under the name
of Quirinus, one of the Hwrton wilwMly vffiiniaff, that be had appeared
to hm, and desired to be isTtAed by that tide. We see little more in the obaraeter
of this princ, than vhat mi^t be expected in andk an a^, great temperance and great
valour, wbich generally make
np the catalt^e
of sar^^e virtues. Howeva, the
gnndenr of an empire, admired by the whole irorid, creates
in u an adnuration of tiie founder, viftoat mnch raamimng'
hia. Grice: “Most of Colecchi’s essays are easily available, and it’s easy
enough to check his references to other Italian philosophers – not just Vico,
as I have done – but Rogmanosi, and even ancient Roman ones like Cicero – and
perhaps more importantly his influence on the so-called Neapolitan Hegelians!”
-- Ottavio Colecchi. Keywords: Vico, il Vico di Collecchi, Cacciatore,
Macchiaveli, Lazio, Romolo e Remo, Kant, categoric imperative, massima,
first-hand knowledge of Kant, Colecchi Kantiano, ma non aristotelico – il
kantismo di Colecchi – l’italiano kantiano di Colecchi – il vocabolario
kantiano in Colecchi – analitico – sintetico – sintetico a priori – giudizio
necessario – Romolo e Remo, diritto naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno,
Giove, etimologia di Vico, il Lazio, il senato romano, ottimati, storia di
Roma, diritto romano, psicologia razionale, psicologia filosofica, l'istinto,
la passione, la ragione, la sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione,
l’agire como reame della morale, massima d’azione, la regola di oro – la
rifutazione di Vico all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di
Bentham, lo caduco e lo no caduco, ius naturale, ius artificiale, ius como la
virtu unica, giustizia equittrice e rettrice, giustizia commutative e giustizia
distritutiva, l’ordine aritmetico e l’ordine geometrico – progression
arimmetica, progressioe geometrica, la base matematica della filosofia di
Colecchi, l’amore, amore interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo,
padre e figlio, uomo come cittadino, il genere umano, la massima universalisabile,
l’onesto, fortezza, prudenza, toleranza, virtu, vizio, il vero versus il certo,
la nascita della morale dal ordine agglomerazione sociale, la potesta naturale,
il dominio, la tutela, la liberta, libero arbitrio e passione, autorita e ragione,
forza, autorita e raggione, l’ubbidenza che il figio mostra al padre, il ruolo
dell’avo, la societa di equali, il modello della societa romana antica, la
societa dell’amicizia, Eurialo e Niso, L’Enneada, la lingua del contratto come
requisite del patto sociale, la parola e il concetto, la formola della parola,
verbum/res, res pubblica, communita, diritto comune, bene comune, l’ordine:
primo stato dell’uomo in solitudine, l’ordine della famiglia: societa di
inequali, padre/figlio, terzo stadio: la tribu di Romolo, la citta di Romolo,
il paese di Romolo, il genero umano, diritto universale di Vico e Kant,
Hampshire on Vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colecchi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Colletti: la ragione
conversazionale e l’implicatura
conversazionale dei curiazi, ovvero, politica romana – scuola di Roma –
filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Colletti
– he takes political philosophy seriously unlike we of the Lit. Hum, not PPE school, at Oxford! But then he is a Roman and has all the
Orazi and Curiazi traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a Roma.
“Partito Socialista Italiano”. Altre saggi: “Il marxismo e Hegel, in Lenin,
Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, Ideologia e società, Bari, Laterza,
Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo. Crollo o
sviluppo?, e con Claudio Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista politico-filosofica,
con un saggio su Marxismo e dialettica, Roma-Bari, Laterza, Il marxismo e il
"crollo" del capitalismo, a cura di, Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo
e no, Roma-Bari, Laterza, Tramonto dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a
oggi; Dialettica e non-contraddizione; Kelsen e il marxismo], Roma-Bari,
Laterza, Crisi delle ideologie. Intervista politico-filosofica, Il marxismo, Le
ideologie dal '68 a oggi, Milano, Club degli editori, Pagine di filosofia e
politica, Milano, Rizzoli, La logica di Benedetto Croce, Lungro di Cosenza,
Marco, Fine della filosofia e altri saggi, Roma, Ideazione, Lezioni tedesche.
Con Kant, alla ricerca di un'etica laica, Roma, Liberal, È morto C. voce
"contro" di Forza Italia, su repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo
Parlamentare di Forza Italia, Ricordo di C., Roma, Stampa e servizi, Orlando
Tambosi, Perché il marxismo ha fallito C. e la storia di una grande illusione,
Milano, Mondadori, Ministero per i beni e le attività culturali, C.: il cammino
di un filosofo contemporaneo, Roma, Essetre, Pino Bongiorno, Ricci, C. scienza
e libertà, Roma, Ideazione, Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma,
Manifesto libri. C., LaTreccani L'Enciclopedia Italiana. C. su Camera XIII legislatura, Parlamento
italiano. Lucio Colletti, su CameraXIV legislatura, Parlamento italiano. La
storia di C. di Preve, nel sito Kelebek Roma. Partito Comunista Italiano” Forza
Italia”. Il saggio di C. Marxismo e dialettica fu scritto «a chiarimento di
alcuni temi toccati» nell’intervista apparsa sulla “New Left Review”, e
pubblicato con la traduzione italiana dell’intervista. Più esattamente Colletti
si propone di chiarire la «differenza tra opposizione reale (la Realopposition
o Realrepugnanz di Kant) e contraddizione dialettica. Si tratta di opposizioni
radicalmente diverse: la prima è «senza contraddizione (ohne Widerspruch)», la
seconda è «per contraddizione (durch den Widerspruch). La opposizione
dialettica è espressa dalla formula A non-A, nella quale ciascun opposto è solo
la negazione dell’altro, ma non è niente in sé e per sé. I poli
dell’opposizione sono cioè ambedue negativi, più esattamente ciascuno è la
negazione dell’altro, ma solo all’interno dell’unità con l’altro. Quindi
«entrambi gli opposti sono negativi, nel senso che sono ir-reali, non-cose
(Undinge), ma idee». Ciascun opposto ha la sua essenza fuori di sé, nell’altro
di cui è la negazione. L’origine dell’opposizione dialettica, e della stessa
dialettica, è platonica: l’unità degli opposti è la koinona ton genon.
L’opposizione reale è espressa dalla formula A e B, nella quale ciascun opposto
sussiste di per sé, è positivo, e perciò è esclusivo dell’altro. La cosa più
importante è che Biscuso. Opposizione reale, contraddizione logica e
contraddizione dialettica 4 «nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà
(Gegenverhältnis), gli estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga
indicato come il contrario negativo dell’altro. Questo accade ad esempio quando
ci rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione
contraria: il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo
qualcosa possiamo rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di
contrarietà che è l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso
che uno dei due termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè
come non-essere». Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il pdnc,
proprio perché sono senza contraddizione (dove è già implicito, come sarà
confermato in seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il marxismo
non ha mai avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi generi di
opposizione, e non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con sufficiente
rigorosità il suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la dialettica
delle idee è al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso preciso che
è impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si presta
attenzione, si vede subito che il rapporto finito-infinito, essere-pensiero,
segue il modello della contraddizione A non-A. Fuori l’uno dell’altro, cioè al
di fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi astratti, irreali, e
l’unità che include il finito e il falso infinito (falso perché altrettanto
finito, in quanto limitato dalla sua opposizione al finito) è l’Idea, il vero
infinito. Dunque, commenta C., «dov’era la cosa è ora subentrata la
contraddizione logica (– si badi bene: contraddizione logica e non, come ci si
attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il «dramma del marxismo» è aver
«ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana della materia, scambiandola per
una forma superiore di materialismo. Dramma, perché quella dialettica era
volta: a) alla distruzione del finito, b) alla negazione del pdnc; cioè proprio
a ciò a cui la scienza non può rinunciare, anzi da cui si deve necessariamente
muovere (d’altronde la scienza, che si basa sul pdnc, «è il solo modo di
apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il mondo). Avvertiti di questa
difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni marxisti polacchi e tedesco-orientali
cercarono di mostrare che «ciò che i “materialisti dialettici” presentano come
contraddizioni nella natura sono, in realtà, contrarietà, cioè opposizioni ohne
Widerspruch; e che, dunque, il marxismo può benissimo continuare a parlare di
conflitti e di opposizioni oggettive, senza, per questo, essere costretto a
dichiarare guerra al principio di (non-)contraddizione e mettersi così in rotta
con la scienza. Tali risultati convergevano con quelli della ricerca di Volpe:
a costo di liquidare gran parte dell’opera filosofica di Engels in quanto fonte
del Diamat, sembrava però legittimarsi l’aspirazione del marxismo a costituirsi
come la fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società. In
realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a che fare
con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la sostantificazione
dell’astratto, filosofia-italiana.net l’inversione di soggetto e
predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto modi difettosi della
logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi che egli ritrovava nella
struttura e nel modo di funzionare della società capitalistica stessa. Vi sono
dunque «due Marx» (99): lo scienziato dell’economia politica e il critico
dell’economia politica. Questo significa riconoscere i limiti della stessa
lettura dellavolpiana, che condivide con molte altre letture marxiste il
difetto di non cogliere le due facce del pensiero di Marx. «Quando il marxismo
è una teoria scientifica del divenire sociale, è tutt’al più una “teoria del
crollo”1, ma non una teoria della rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria
della rivoluzione, essendo solo una “critica dell’economia politica”, rischia
di risultare il progetto di una soggettività utopica. Dunque per lo stesso Marx
le contraddizioni del capitalismo sono non opposizioni reali, bensì
contraddizioni dialettiche nel senso pieno della parola. Da un passo delle
Teorie sul plusvalore (la possibilità della crisi è la possibilità che momenti
che sono inseparabili si separino e quindi vengano riuniti violentemente)
Colletti conclude che i poli dell’opposizione, separandosi, si sono fatti
reali, pur non essendolo veramente: «sono, in breve, un prodotto
dell’alienazione, sono entità per sé irreali seppur reificate. Teoria
dell’alienazione e teoria della contraddizione, dunque, come una sola e
identica teoria. la contraddizione nasce dal fatto che l’aspetto individuale e
quello sociale del lavoro, pur essendo intimamente connessi, si danno
un’esistenza separata. È la contraddizione di individuo e genere, di natura e
cultura, già rilevata dai maggiori analisti della società civile borghese del
Settecento. «La società moderna è la società della divisione (alienazione,
contraddizione). Ciò che un tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È
rotta l’“unità originaria” dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo, dove
l’unità, essendo data, non deve essere spiegata, mentre è da spiegare la
divisione. «Seppure modificato, riaffiora lo schema della filosofia della
storia di Hegel. E questo, ci si scopre essere il secondo volto di Marx,
accanto a quello dello scienziato, naturalista e empirico. Hegel versuchte, um
die von ihm vertretene Dialektik (im Sinne einer Lehre von den Gegensätzen in
den Dingen) durchzusetzen, die Logik in einer Weise zu erweitern (sog.
dialektische Logik), die den Satz vom Widerspruch außer Geltung setzt. Damit
versuchte Hegel, die Kantische Widerlegung des sogenannten Dogmatismus in der
Metaphysik zu umgehen. Der Wissenschaftstheoretiker Karl Popper kommentiert:
„Diese Widerlegung Kants betrachtet Hegel als gültig nur für Systeme, die
metaphysisch in seinem engeren Sinne sind, jedoch nicht für den dialektischen
Rationalismus, der die Entwicklung der Vernunft berücksichtigt und deshalb
Widersprüche nicht zu fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische Kritik in
dieser Weise umgeht, stürzt er sich in ein äußerst gefährliches Abenteuer, das
zur Katastrophe führen muss; denn er argumentiert etwa folgendermaßen: ‚Kant
widerlegte den Rationalismus durch die Feststellung, er müsse zu Widersprüchen
führen. Dies gebe ich zu. Aber es ist klar, dass dieses Argument seine Stärke
aus dem Gesetz vom Widerspruch ableitet: es widerlegt nur solche Systeme, die
dieses Gesetz akzeptieren, also solche, die beabsichtigen, frei von
Widersprüchen zu sein. Das Argument ist nicht gefährlich für ein System wie das
meinige, das bereit ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für ein
dialektisches System.‘ Es besteht kein Zweifel, dass Hegels Argument einen
Dogmatismus von äußerst gefährlicher Art aufrichtet - einen Dogmatismus, der
keinerlei Angriff mehr zu fürchten braucht [siehe Immunisierungsstrategie].
Denn jeder Angriff, jede Kritik irgendwelcher Theorie muß sich auf die Methode
stützen, irgendwelche Widersprüche aufzuzeigen, entweder in einer Theorie
selbst oder zwischen einer Theorie und irgendwelchen Fakten. Logisches
Quadrat Das logische Quadrat Unter der Voraussetzung, dass ihre Subjekte
keine leeren Begriffe sind, bestehen zwischen den unterschiedlichen
Aussagentypen verschiedene Beziehungen: Zwei Aussagen bilden einen
kontradiktorischen Gegensatz genau dann, wenn beide weder gleichzeitig wahr
noch gleichzeitig falsch sein können, mit anderen Worten: Wenn beide
unterschiedliche Wahrheitswerte haben müssen. Das wiederum
ist genau dann der Fall, wenn die eine Aussage die Negation der anderen ist
(und umgekehrt). Für die syllogistischen Aussagentypen trifft das
kontradiktorische Verhältnis auf die Paare A–O und I–E zu. Zwei Aussagen bilden
einen konträren Gegensatz genau dann, wenn sie zwar nicht beide zugleich wahr,
wohl aber beide falsch sein können. In der Syllogistik steht nur das
Aussagenpaar A–E in konträrem Gegensatz. Zwei Aussagen bilden einen
subkonträren Gegensatz genau dann, wenn nicht beide zugleich falsch (wohl aber
beide zugleich wahr) sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar
I–O in subkonträrem Gegensatz. Zwischen den Aussagetypen A und I einerseits und
E und O andererseits besteht ein Folgerungszusammenhang (traditionell wird dieser
Folgerungszusammenhang im logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus A
folgt I, d. h., wenn alle S P sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P
sind; und aus E folgt O, d. h., wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich
S, die nicht P sind. Diese Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter
dem Namen „Logisches Quadrat“ bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung).
Die älteste bekannte Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem
zweiten nachchristlichen Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros
zugeschrieben. Orazi
e Curiazi figure leggendarie dell'antica Roma Lingua Segui Modifica Nota
disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Orazi
e Curiazi (disambigua). Gli Orazi e i Curiazi sono figure leggendarie della
Roma antica. Il giuramento degli Orazi, di David, Museo del Louvre
Leggenda Secondo la versione riportata da Tito Livio (Hist.), durante il regno
di Tullo Ostilio. Roma e Alba Longa entrarono in guerra, affrontandosi con gli
eserciti schierati lungo le Fossae Cluiliae(sull'attuale via Appia Antica), al
confine fra i loro territori. Ma Roma e Alba Longa condividevano
attraverso il mito di Romolo una sacra discendenza che rendeva empia questa
guerra, perciò i rispettivi sovrani decisero di affidare a due gruppi di rappresentanti
le sorti del conflitto fra le due città, evitando ulteriori spargimenti di
sangue. Furono scelti per Roma gli Orazi, tre fratelli figli di Publio
Orazio, e per Alba Longa i tre gemelli Curiazi, che si sarebbero affrontati a
duello alla spada. Livio afferma che gli storici non erano concordi nello
stabilire quale delle due triadi fosse quella romana; propende per gli Orazi
perché la maggior parte degli studiosi sceglie quella versione. Iniziato
il combattimento, quasi subito due Orazi furono uccisi, mentre due dei Curiazi
riportarono solo lievi ferite; il terzo Orazio, che non avrebbe potuto
affrontare da solo tre nemici, trovandosi in difficoltà, pensò di ricorrere
all'astuzia e finse di scappare verso Roma. Come aveva previsto, i tre Curiazi
lo inseguirono, ma nel correre si distanziarono fra loro, perché, feriti in
modo differente, inseguivano a velocità differenti. Per primo fu
raggiunto dal Curiazio che non era stato ferito e, voltandosi a sorpresa, lo
trafisse. Riprese a correre e fu raggiunto da ciascuno degli altri due, che a
causa delle ferite erano sfiniti, e gli fu facile ucciderli uno alla volta. La
vittoria dell'Orazio fu la vittoria di Roma, cui Alba Longa si sottomise.
Camilla Orazia, sorella dell'Orazio superstite, era promessa sposa di uno dei
Curiazi uccisi e rimproverò violentemente del delitto il fratello, tanto che
questi la uccise per farla tacere. Per purificarsi dovette passare sotto il
giogo del Tigillum Sororium, che da allora i Romani festeggiavano come rito di
purificazione dei soldati ogni 1º ottobre. Inoltre, per il processo al delitto
di perduellio (delitto contro le libertà del cittadino, reato che in realtà fu
istituito dopo la fase regia di Roma), di cui si era macchiato uccidendo
Camilla Orazia, la cui vita - essendo ella estranea al duello pattuito - era
sacra per legge, Tullo Ostilio istituì, secondo la leggenda rielaborata nel
tempo, dei giudici appositi: i duumviri perduellionis (anch'essi da ricondurre,
in realtà, alla successiva fase repubblicana). Le parentele fra Orazi e
Curiazi erano ulteriormente intrecciate, secondo versioni successive della
leggenda, essendo Sabina - nativa di Alba Longa ma romana d'adozione - sia
sorella di uno dei Curiazi sia moglie di Marco Orazio. Realtà storica Il
cosiddetto Sepolcro degli Orazi e Curiazi ad Albano Laziale Nell'antica Roma si
trovano testimonianze di età augustea attinenti alla leggenda, come una
colonnadel Foro alla quale sarebbero state appese le spoglie dei Curiazi e il
Mausoleo degli Orazi al sesto miglio della via Appia. Ad Albano Laziale,
lungo l'attuale via della Stella, si trova un sepolcro tardo-repubblicano detto
degli "Orazi e Curiazi", ma si ipotizza che sia tomba di altri
personaggi. Nella realtà la guerra fra Roma e Alba Longa fu cruenta e il
re della città sconfitta, Mezio Fufezio, venne squartato. C'è chi indica
San Giovanni in Campo Orazio, nel territorio di Poli, come luogo dove avvenne
la cruenta battaglia. Orazi e Curiazi nelle artiModifica Gli eroi di
questa disfida sono citati da Dante (Che i tre a' tre pugnar per lui ancora,
Par. VI, 39), a essi è dedicata la Sala degli Orazi e Curiazi del
Campidoglio. TeatroModifica Sulla vicenda degli Orazi e Curiazi si basano
alcune opere liriche: Gli Orazi e i Curiazi di Domenico Cimarosa, opera
in tre atti su libretto di Antonio Simeone Sografi, la cui prima esecuzione
ebbe luogo al Teatro La Fenice di Venezia Orazi e Curiazi di Saverio
Mercadante, opera in tre atti su libretto di Salvadore Cammarano, eseguita per
la prima volta al teatro San Carlo di Napoli. The Horatian - Three Songs di
Heiner Goebbels Orazi e Curiazi è anche uno dei drammi didattici scritti da
Bertold Brecht. CinemaModifica Orazi e Curiazi, cortometraggio muto. Orazi e
Curiazi, film di Ferdinando Baldi e Terence Young. Orazi e Curiazi, film-rivisitazione
in chiave farsesca del mito. Curiosità La vicenda dello scontro tra gli
Orazi e i Curiazi viene rievocata nella miniserie "L'ombra nera del
Vesuvio" di Steno con Massimo Ranieri, Carlo Giuffré e Claudio Amendola.
Molto evidente il riferimento al mito quando, per regolare i conti tra due
clan, si scelgono tre rappresentanti per ciascuna delle due organizzazioni
criminali: i fratelli Carità, figli del boss Don Peppe Carità, e i tre fratelli
Sposito per il clan di Gaetano Bonanno. Uno dei fratelli Carità è sposato con
la sorella degli Sposito, e la stessa sorella dei Carità era promessa come
sposa al più giovane degli Sposito. Anche le dinamiche del combattimento e le
relative conseguenze sono identiche. Livio, Ab Urbe condita libri, Is quibusdam
piacularibus sacrificiis factis quae deinde genti Horatiae tradita sunt,
transmisso per viam tigillo, capite adoperto velut sub iugum misit
iuvenem.Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, di
Bernardo Santalucia, Osservazioni sulla repressione criminale romana in età
regia, di Bernardo Santalucia, Orazi e Curiazi, su Enciclopedia Britannica,
Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma Portale Mitologia
Tullo Ostilio terzo re di Roma Gens Horatia famiglie romane che
condividevano il nomen Horatius Il giuramento degli Orazi dipinto di
Jacques-Louis David Grice: “Colletti takes negation more seriously than
Popper does. Colletti examines Hegel’s target, which is Kant’s
distinction between ‘real opposition’ or ‘real repugnance’ and ‘dialectical
contradiction.’ Both can combine. Hegel indeed wishes to go beyond the
principle of non-contradiction instituted in Velia by Parmenides. The Italian
language allows for some distinction that the English language doesn’t. There’s
the opposto, which is combined of posto, posto is cognate with ponere, as in
modus ponens, and it’s also the root for ‘positive’ (as opposed to negative, or
strictly, togliere, tollere modus tollens – to deny). So the the posto, we have
the opposto. On the other hand, there’s the ‘contra’, which translates Greek
‘anti’ – so that ‘apo-phasis’ becomes ‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is cognate
with ‘deixis,’ and so more to do with dictiveness and indicativeness than with
‘vocalisation’ qua ‘vox’ (if not with ‘vocation’ – cf. my extended use of
‘utterance’ to include the characterization of something that need not be
linguistic or conventional but a characterization of a deed or a product which
may be a ‘sound’ among others. The Germans deal with the ‘widerspruch’ but
that’s THEIR problem. So to the posto we have the opposto. But after Cicero,
the use of ‘contrario’ becomes important. Il contrario and l’opposto then
pretty much covered all I failed to see back with my ‘Negation and privation,’
and my later lectures on ‘Negation’ simpliciter. Both Kant, Hegel Colletti, and
I, allow for the good old tilde ‘~’ being all we need!” Lucio Colletti.
Keywords: curiazi, ovvero, filosofia romana, opposition, negazione, la
contraddizione dialettica e la non-contraddizione – hegel – Oxford Hegelian,
“Negation and Privation” “Negation” “Privation” “The Square of Opposition” Das
Quadrat – contradictum – the deicticness of the dictum – contra – counter –
anti – antithesis – apo-phasis – ob-positum – contrarium, il contrario,
l’opposto, contra-dictio and contrario, il contrario, il contradditorio,
dialettica ateniese, dialettica oxoniana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Colletti” – The Swimming-Pool Library. Colletti.
Grice e Colizzi: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Norcia – filosofia perugina
– filosofia umbra -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Norcia). Filosofo perugino. Filosofo umbro. Filosofo italiano. Norcia, Perugia,
Umbria. Grice:“By focusing on ‘desire,’ focuses Collizi on Thales who famously,
for fixing on the stars, de-fixed from the ground!” Grice: “If I had to chose
one philosophical word I adore is ‘desideratum,’ and Collizi tells it right –
while Short and Lewis doubt it, to desire is like to consider – and the ‘sidus’
is involved!” Compone
il saggio “De amore fundamenta mundis ac ethicae”. C. si è appreso attraverso i
riferimenti in Bruno e Mersenne. Il nucleo centrale dela sua filosofia consiste
nell'unione dell'idea di dio come amore con uno spunto, totalmente ri-adattato,
di derivazione platonica, secondo cui il reale è emanazione, a partire da
livelli di purezza e deità più elevati. Facendo dell'amore la caratteristica
principale di dio – IVS PATER, arriva a dire che il reale coincide con l'amore,
in forme più o meno degradate. Da questo concetto fa derivare una forte istanza
di svelamento. Nonostante l'apparente neutralità emotiva del reale, il vero
fondamento divino, e quindi dell'universo, è l'amore. Il vero si consegue
quindi applicando questo principio ad una apparenza fenomenica, in modo da
svelarne il vero essere, cioè il principio di amore – Grice: “Not to be
confused with my principle of conversational self-love!” -Il suo passo più
celebre, tuttavia, riguarda l'etimologia della parola “de-sider-ium”, che
collega all'espressione “de sidera”. Come una stella, infatti, un de-sider-io e
qualcosa che percepiamo con i sensi, ma senza potere esperire direttamente
l'amore che da loro scaturisce, così il “de-siderio” è mera APPARENZA sotto la
quale si cela un bisogno. Il “de-siderio,” questo tendere all'apparenza,
scompare completamente solo una volta compreso fino in fondo il fondamento
dell'essere, nella “mystica copulatio” raggiungibile attraverso la filosofia.
La sua filosofia quindi, sembra unire una forte istanza metafisica a un'altrettanto
forte istanza etica, cercando nel reale una fondamentale armonia di senso che è
compito di ogni uomo, scopertala, riprodurre e preservare. Cf. Bruno, “De
l'infinito, universo e mondi,” Bruno,“Praxis descensus seu applicatio
entis,”D.Cantimori,“Storia ereticale” (Laterza). Bolgiani, “Ortodossia ed
eresia : il problema storiografico nella storia e la situazione
ortodossia-eresia agli inizi della storia (CELID). A compimento di questo
settimo Libro ed in osservanza alla regola fin qui seguita, rimanci di far
menzione di que'nostri Concittadini, che per meriti di santità, o per dottrina,
ovvero per singolare valore nelle scienze,se ne resero meritevoli. E primo ci
si presenta il Ven. Fr. Agostino da Norcia della famiglia C., emulo delle virtù
del suo zio Fr. Giustino da noi ricordato Degl’eroici furori di Bruno
Letteratura italiana Einaudi Edizione di riferimento: Bruno Nolano,
De gli eroici furori.Parigi, appresso Baio, in Dialoghi filosofici italiani, a
cura di Ciliberto, Mondadori, Milano Letteratura italiana Einaudi Sommario
Argomento del Nolano Avertimento a’ lettori Iscusazion del Nolano de gli
Eroici Furori Dialogo primo Dialogo secondo Dialogo Dialogo Dialogo Seconda
parte de gli Eroici Furori Letteratura italiana Einaudi Al molto
illustre et eccellente cavalliero Signor Filippo Sidneo Letteratura italiana
Einaudi Bruno De gli eroici furori ARGOMENTO DEL NOLANO sopra GLI EROICI
FURORI: scritto al molto illustre SIGNOR FILIPPO SIDNEO È cosa veramente, o
generosissimo Cavalliero, da bas- so, bruto e sporco ingegno, d’essersi fatto
constante- mente studioso, et aver affisso un curioso pensiero circa o sopra la
bellezza d’un corpo femenile. Che spettacolo (o Dio buono) più vile et ignobile
può presentarsi ad un occhio di terso sentimento, che un uomo cogitabundo,
afflitto, tormentato, triste, maninconioso: per dovenir or freddo, or caldo, or
fervente, or tremante, or pallido, or rosso, or in mina di perplesso, or in
atto di risoluto; un che spende il meglior intervallo di tempo, e gli più
scelti frutti di sua vita corrente, destillando l’elixir del cervello con
mettere in concetto, scritto, e sigillar in publichi monumenti, quelle continue
torture, que’ gravi tormen- ti, que’ razionali discorsi, que’ faticosi
pensieri, e quelli amarissimi studi destinati sotto la tirannide d’una inde-
gna, imbecille, stolta e sozza sporcaria? Che tragicomedia? che atto, dico,
degno più di com- passione e riso può esserne ripresentato in questo teatro del
mondo, in questa scena delle nostre conscienze, che di tali e tanto numerosi
suppositi fatti penserosi, con- templativi, constanti, fermi, fideli, amanti,
coltori, ado- ratori e servi di cosa senza fede, priva d’ogni costanza,
destituta d’ogni ingegno, vacua d’ogni merito, senza ri- conoscenza e
gratitudine alcuna, dove non può capir più senso, intelletto e bontade, che
trovarsi possa in una statua, o imagine depinta al muro? e dove è più super-
bia, arroganza, protervia, orgoglio, ira, sdegno, falsitade, libidine,
avarizia, ingratitudine et altri crimi exiziali, che avessero possuto uscir
veneni et instrumenti di morte Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli
eroici furori dal vascello di Pandora, per aver pur troppo largo ricet- to
dentro il cervello di mostro tale? Ecco vergato in car- te, rinchiuso in libri,
messo avanti gli occhi, et intonato a gli orecchi un rumore, un strepito, un
fracasso d’inse- gne, d’imprese, de motti, d’epistole, de sonetti, d’epi-
grammi, de libri, de prolissi scartafazzi, de sudori estre- mi, de vite
consumate, con strida ch’assordiscon gli astri, lamenti che fanno ribombar gli
antri infernali, do- glie che fanno stupefar l’anime viventi, suspiri da far
exinanire e compatir gli dèi, per quegli occhi, per quelle guance, per quel
busto, per quel bianco, per quel vermi- glio, per quella lingua, per quel
dente, per quel labro, quel crine, quella veste, quel manto, quel guanto,
quella scarpetta, quella pianella, quella parsimonia, quel riset- to, quel
sdegnosetto, quella vedova fenestra, quell’eclis- sato sole, quel martello;
quel schifo, quel puzzo, quel se- polcro, quel cesso, quel mestruo, quella
carogna, quella febre quartana, quella estrema ingiuria e torto di natura: che
con una superficie, un’ombra, un fantasma, un sogno, un circeo incantesimo
ordinato al serviggio della generazione, ne inganna in specie di bellezza. La
quale insieme insieme viene e passa, nasce e muore, fiorisce e marcisce; et è
bella cossì un pochettino a l’esterno, che nel suo intrinseco vera e
stabilmente è contenuto un na- vilio, una bottega, una dogana, un mercato de
quante sporcarie, tossichi e veneni abbia possuti produre la no- stra madrigna natura;
la quale dopo aver riscosso quel seme di cui la si serva, ne viene sovente a
paga d’un lez- zo, d’un pentimento, d’una tristizia, d’una fiacchezza, d’un
dolor di capo, d’una lassitudine, d’altri et altri ma- lanni che son manifesti
a tutto il mondo; a fin che ama- ramente dolga, dove suavemente proriva. Ma che
fo io? che penso? son forse nemico della gene- razione? ho forse in odio il
sole? Rincrescemi forse il mio et altrui essere messo al mondo? Voglio forse
ridur gli uomini a non raccòrre quel più dolce pomo che può pro- Letteratura
italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori dur l’orto del nostro terrestre
paradiso? Son forse io per impedir l’instituto santo della natura? Debbo
tentare di suttrarmi io o altro dal dolce amaro giogo che n’ha messo al collo
la divina providenza? Ho forse da persuader a me et ad altri, che gli nostri
predecessori sieno nati per noi, e noi non siamo nati per gli nostri
successori? Non voglia, non voglia Dio che questo giamai abbia possuto cadermi
nel pensiero. Anzi aggiongo che per quanti re- gni e beatitudini mi s’abbiano
possuti proporre e nomi- nare, mai fui tanto savio o buono che mi potesse venir
voglia de castrarmi o dovenir eunuco. Anzi mi vergogna- rei se cossì come mi
trovo in apparenza, volesse cedere pur un pelo a qualsivoglia che mangia
degnamente il pa- ne per servire alla natura e Dio benedetto. E se alla buo- na
volontà soccorrer possano o soccorrano gl’instrumen- ti e gli lavori, lo lascio
considerar solo a chi ne può far giudicio e donar sentenza. Io non credo
d’esser legato: perché son certo che non bastarebbono tutte le stringhe e tutti
gli lacci che abbian saputo e sappian mai intessere et annodare quanti furo e
sono stringari e lacciaiuoli, (non so se posso dir) se fusse con essi la morte
istessa, che volessero maleficiarmi. Né credo d’esser freddo, se a refrigerar
il mio caldo non penso che bastarebbono le nevi del monte Caucaso o Rifeo. Or
vedete dumque se è la raggione o qualche difetto che mi fa parlare. Che dumque
voglio dire? che voglio conchiudere? che voglio determinare? Quel che voglio
conchiudere e dire, o Cavalliero illustre, è che quel ch’è di Cesare sia donato
a Cesare, e quel ch’è de Dio, sia renduto a Dio. Voglio dire che a le donne,
benché talvolta non bastino gli onori et ossequii divini, non perciò se gli
denno ono- ri et ossequii divini. Voglio che le donne siano cossì ono- rate et
amate, come denno essere amate et onorate le donne; per tal causa dico, e per
tanto, per quanto si deve a quel poco, a quel tempo e quella occasione, se non
hanno altra virtù che naturale, cioè di quella bellezza, di Letteratura
italiana Einaudi 4 Giordano Bruno - De gli eroici furori quel
splendore, di quel serviggio: senza il quale denno esser stimate più vanamente
nate al mondo che un mor- boso fungo, qual con pregiudicio de meglior piante
oc- cupa la terra; e più noiosamente che qualsivoglia napello o vipera che
caccia il capo fuor di quella. Voglio dire che tutte le cose de l’universo,
perché possano aver fer- mezza e consistenza, hanno gli suoi pondi, numeri,
ordi- ni e misure, a fin che siano dispensate e governate con ogni giustizia e
raggione. Là onde Sileno, Bacco, Pomo- na, Vertunno, il dio di Lampsaco, et
altri simili che son dèi da tinello, da cervosa forte e vino rinversato, come
non siedeno in cielo a bever nettare e gustar ambrosia nella mensa di Giove,
Saturno, Pallade, Febo et altri si- mili: cossì gli lor fani, tempii,
sacrificio e culti denno es- sere differenti da quelli de costoro. Voglio
finalmente dire che questi furori eroici otte- gnono suggetto et oggetto
eroico: e però non ponno più cadere in stima d’amori volgari e naturaleschi,
che veder si possano delfini su gli alberi de le selve, e porci cinghia- li
sotto gli marini scogli. Però per liberare tutti da tal su- spizione, avevo
pensato prima di donar a questo libro un titolo simile a quello di Salomone, il
quale sotto la scorza d’amori et affetti ordinaria, contiene similmente divini
et eroici furori, come interpretano gli mistici e cabalisti dot- tori: volevo
(per dirla) chiamarlo Cantica. Ma per più caggioni mi sono astenuto al fine: de
le quali ne voglio re- ferir due sole. L’una per il timor ch’ho conceputo dal
ri- goroso supercilio de certi farisei, che cossì mi stimarebo- no profano per
usurpar in mio naturale e fisico discorso titoli sacri e sopranaturali; come
essi sceleratissimi e mi- nistri d’ogni ribaldaria si usurpano più altamente
che dir si possa gli titoli de sacri, de santi, de divini oratori, de fi- gli
de Dio, de sacerdoti, de regi: stante che stiamo aspet- tando quel giudicio
divino che farà manifesta la lor mali- gna ignoranza et altrui dottrina, la
nostra simplice libertà e l’altrui maliciose regole, censure et instituzioni.
L’altra Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori per la grande
dissimilitudine che si vede fra il volto di questa opra e quella, quantunque
medesimo misterio e sustanza d’anima sia compreso sotto l’ombra dell’una e
l’altra: stante che là nessuno dubita che il primo instituto del sapiente fusse
più tosto di figurar cose divine che di presentar altro; perché ivi le figure
sono aperta e manife- stamente figure, et il senso metaforico è conosciuto di
sorte che non può esser negato per metaforico: dove odi quelli occhi di
colombe, quel collo di torre, quella lingua di latte, quella fragranzia
d’incenso, que’ denti che paio- no greggi de pecore che descendono dal
lavatoio, que’ capelli che sembrano le capre che vegnono giù da la montagna di
Galaad. Ma in questo poema non si scorge volto che cossì al vivo ti spinga a
cercar latente et occolto sentimento: atteso che per l’ordinario modo di
parlare e de similitudini più accomodate a gli sensi communi, che
ordinariamente fanno gli accorti amanti, e soglion mette- re in versi e rime
gli usati poeti, son simili a i sentimenti de coloro che parlarono a Citereida,
a Licori, a Dori, a Cinzia, a Lesbia, a Corinna, a Laura et altre simili: onde
facilmente ogn’uno potrebbe esser persuaso che la fon- damentale e prima
intenzion mia sia stata addirizzata da ordinario amore, che m’abbia dettati
concetti tali; il qua- le appresso per forza de sdegno s’abbia improntate l’ali
e dovenuto eroico; come è possibile di convertir qualsivo- glia fola, romanzo,
sogno e profetico enigma, e transfe- rirle in virtù di metafora e pretesto
d’allegoria a significar tutto quello che piace a chi più comodamente è atto a
sti- racchiar gli sentimenti: e far cossì tutto di tutto, come tutto essere in
tutto disse il profondo Anaxagora. Ma pensi chi vuol quel che gli pare e piace,
ch’alfine o voglia o non, per giustizia la deve ognuno intendere e definire
come l’intendo e definisco io, non io come l’intende e definisce lui: perché
come gli furori di quel sapiente Ebreo hanno gli proprii modi ordini e titolo
che nessuno ha possuto intendere e potrebbe meglio dichiarar che lui Bruno - De
gli eroici furori se fusse presente; cossì questi Cantici hanno il proprio ti-
tolo ordine e modo che nessun può meglio dechiarar et intendere che io medesimo
quando non sono absente. D’una cosa voglio che sia certo il mondo: che quello
per il che io mi essagito in questo proemiale argomento, dove singularmente
parlo a voi eccellente Signore, e ne gli Dialogi formati sopra gli seguenti
articoli, sonetti e stanze, è ch’io voglio ch’ogn’un sappia ch’io mi stimarei
molto vituperoso e bestialaccio, se con molto pensiero, studio e fatica mi
fusse mai delettato o delettasse de imi- tar (come dicono) un Orfeo circa il
culto d’una donna in vita, e dopo morte, se possibil fia, ricovrarla da
l’inferno: se a pena la stimarei degna, senza arrossir il volto, d’amarla sul
naturale di quell’istante del fiore della sua beltade, e facultà di far
figlioli alla natura e dio; tanto manca che vorrei parer simile a certi poeti e
versificanti in far trionfo d’una perpetua perseveranza di tale amore, come
d’una cossì pertinace pazzia, la qual sicuramente può competere con tutte
l’altre specie che possano far residenza in un cervello umano: tanto, dico, son
lontano da quella vanissima, vilissima e vituperosissima gloria, che non posso
credere ch’un uomo che si trova un gra- nello di senso e spirito, possa
spendere più amore in co- sa simile che io abbia speso al passato e possa
spendere al presente. E per mia fede, se io voglio adattarmi a de- fendere per
nobile l’ingegno di quel tosco poeta che si mostrò tanto spasimare alle rive di
Sorga per una di Val- clusa, e non voglio dire che sia stato un pazzo da
catene, donarommi a credere, e forzarommi di persuader ad al- tri, che lui per
non aver ingegno atto a cose megliori, volse studiosamente nodrir quella
melancolia, per cele- brar non meno il proprio ingegno su quella matassa, con
esplicar gli affetti d’un ostinato amor volgare, animale e bestiale, ch’abbiano
fatto gli altri ch’han parlato delle lodi della mosca, del scarafone, de
l’asino, de Sileno, de Priapo, scimie de quali son coloro ch’han poetato a’
nostri tempi delle lodi de gli orinali, de la piva, della fava, del letto,
delle bugie, del disonore, del forno, del martel- lo, della caristia, de la
peste; le quali non meno forse sen denno gir altere e superbe per la celebre bocca
de can- zonieri suoi, che debbano e possano le prefate et altre dame per gli
suoi. Or (perché non si faccia errore) qua [non] voglio che sia tassata la
dignità di quelle che son state e sono de- gnamente lodate e lodabili: non
quelle che possono es- sere e sono particolarmente in questo paese Britannico,
a cui doviamo la fideltà et amore ospitale: perché dove si biasimasse tutto
l’orbe, non si biasima questo che in tal proposito non è orbe, né parte d’orbe:
ma diviso da quello in tutto, come sapete; dove si raggionasse de tut- to il
sesso femenile, non si deve né può intendere de al- cune vostre, che non denno
esser stimate parte di quel sesso: perché non son femine, non son donne, ma (in
si- militudine di quelle) son nimfe, son dive, son di sustan- za celeste; tra
le quali è lecito di contemplar quell’unica Diana, che in questo numero e
proposito non voglio no- minare. Comprendasi dumque il geno ordinario. E di
quello ancora indegna et ingiustamente perseguitarci le persone: perciò che a
nessuna particolare deve essere impreparato l’imbecillità e condizion del
sesso, come né il difetto e vizio di complessione: atteso che se in ciò è fallo
et errore, deve essere attribuito per la specie alla natura, e non per
particolare a gl’individui. Certamente quello che circa tai supposti abomino è
quel studioso e disordinato amor venereo che sogliono alcuni spender- vi, de
maniera che se gli fanno servi con l’ingegno, e vi vegnono a cattivar le
potenze et atti più nobili de l’ani- ma intellettiva. Il qual intento essendo
considerato, non sarà donna casta et onesta che voglia per nostro naturale e
veridico discorso contrastarsi e farmisi più tosto irata, che sottoscrivendomi
amarmi di vantaggio, vituperando passivamente quell’amor nelle donne verso gli
uomini, che io attivamente riprovo ne gli uomini verso le donne. Tal dumque
essendo il mio animo, ingegno, parere e de- terminazione, mi protesto che il
mio primo e principale, mezzano et accessorio, ultimo e finale intento in
questa tessitura fu et è d’apportare contemplazion divina, e metter avanti a
gli occhi et orecchie altrui furori non de volgari, ma eroici amori, impiegati
in due parti: de le quali ciascuna è divisa in cinque dialogi. argomento de’
cinque dialogi de la prima parte Nel Primo dialogo della prima parte son cinque
arti- coli, dove per ordine: nel primo si mostrano le cause e principiii motivi
intrinseci sotto nome e figura del mon- te, e del fiume, e de muse che si
dechiarano presenti, non perché chiamate, invocate e cercate, ma più tosto come
quelle che più volte importunamente si sono offerte: on- de vegna significato
che la divina luce è sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama e batte a
le porte de nostri sensi et altre potenze cognoscitive et apprensive: come pure
è significato nella Cantica di Salomone dove si dice: «En ipse stat post
parietem nostrum, respiciens per cancel- los, et prospiciens per fenestras». La
qual spesso per varie occasioni et impedimenti avvien che rimagna esclusa fuori
e trattenuta. Nel secondo articolo si mostra quali sieno que’ suggetti,
oggetti, affetti, instrumenti et effetti per li quali s’introduce, si mostra e
prende il possesso nell’anima questa divina luce: perché la inalze e la con-
verta in Dio. Nel terzo il proponimento, definizione e de- terminazione che fa
l’anima ben informata circa l’uno, perfetto et ultimo fine. Nel quarto la
guerra civile che sé- guita e si discuopre contra il spirito dopo tal proponi-
mento; onde disse la Cantica: «Noli mirari quia nigra sum: decoloravit enim me
sol, quia fratres mei pugnave- runt contro me, quam posuerunt custodem in
vineis». Là sono esplicati solamente come quattro antesignani: l’Af- fetto,
l’Appulso fatale, la Specie del bene, et il Rimorso; che son seguitati da tante
coorte militari de tante, contra- rie, varie e diverse potenze, con gli lor
ministri, mezzi et organi che sono in questo composto. Nel quinto s’ispiega una
naturale contemplazione in cui si mostra che ogni contrarietà si riduce a
l’amicizia: o per vittoria de l’uno de’ contrarii, o per armonia e
contemperamento, o per qualch’altra raggione di vicissitudine; ogni lite alla
con- cordia, ogni diversità a l’unità: la qual dottrina è stata da noi distesa
ne gli discorsi d’altri dialogi. Nel Secondo dialogo viene più esplicatamente
de- scritto l’ordine et atto della milizia che si ritrova nella sustanza di
questa composizione del furioso; et ivi: nel primo articolo si mostrano tre
sorte di contrarietà: la prima d’un affetto et atto contra l’altro, come dove
son le speranze fredde e gli desideri caldi; la seconda de me- desimi affetti
et atti in se stessi, non solo in diversi, ma et in medesimi tempi; come quando
ciascuno non si con- tenta di sé, ma attende ad altro: et insieme insieme ama
et odia; la terza tra la potenza che séguita et aspira, e l’oggetto che fugge e
si suttrae. Nel secondo articolo si manifesta la contrarietà ch’è come di doi
contrari appul- si in generale; alli quali si rapportano tutte le particolari e
subalternate contrarietadi, mentre come a doi luoghi e sedie contrarie si monta
o scende: anzi il composto tutto per la diversità de le inclinazioni che son
nelle diverse parti, e varietà de disposizioni che accade nelle medesi- me,
viene insieme insieme a salire et abbassare, a farsi avanti et adietro, ad
allontanarsi da sé e tenersi ristretto in sé. Nel terzo articolo si discorre
circa la conseguenza da tal contrarietade. Nel Terzo dialogo si fa aperto
quanta forza abbia la volontarie in questa milizia, come quella a cui sola ap-
partiene ordinare, cominciare, exeguire e compire; cui vien intonato nella
Cantica: «Surge, propera, columba mea, et veni: iam enim hiems transiit, imber
abiit, flores apparuerunt in terra nostra; tempus putationis advenit». Questa
somministra forza ad altri in molte maniere, et a se medesima specialmente
quando si reflette in se stessa, e si radoppia; all’or che vuol volere, e gli
piace che vo- glia quel che vuole; o si ritratta, all’or che non vuol quel che
vuole, e gli dispiace che voglia quel che vuole: cossì in tutto e per tutto
approva quel ch’è bene e quel tanto che la natural legge e giustizia gli
definisce: e mai affatto approva quel che è altrimente. E questo è quanto si
esplica nel primo e secondo articolo. Nel terzo si vede il gemino frutto di tal
efficacia, secondo che (per conse- quenza de l’affetto che le attira e rapisce)
le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte; come per forza de
vertiginoso appulso e vicissitudinal successo dicono che la fiamma s’inspessa
in aere, vapore et acqua; e l’ac- qua s’assottiglia in vapore, aere e fiamma.
In sette articoli del Quarto dialogo si contempla l’im- peto e vigor de
l’intelletto, che rapisce l’affetto seco, et il progresso de pensieri del
furioso composto, e delle pas- sioni de l’anima che si trova al governo di
questa Repu- blica cossì turbulenta. Là non è oscuro chi sia il caccia- tore,
l’ucellatore, la fiera, gli cagnuoli, gli pulcini, la tana, il nido, la rocca,
la preda, il compimento de tante fatiche, la pace, riposo e bramato fine de sì
travaglioso conflitto. Nel Quinto dialogo si descrive il stato del furioso in
questo mentre, et è mostro l’ordine, raggione e condi- zion de studii e
fortune. Nel primo articolo per quanto appartiene a perseguitar l’oggetto che
si fa scarso di sé. Nel secondo quanto al continuo e non remittente con- corso
de gli affetti. Nel terzo quanto a gli alti e caldi, benché vani proponimenti.
Nel quarto quanto al volon- tario volere. Nel quinto quanto a gli pronti e
forti ripari e soccorsi. Ne gli seguenti si mostra variamente la condi- zion di
sua fortuna, studio e stato, con la raggione e convenienza di quelli, per le
antitesi, similitudini e compa- razioni espresse in ciascuno di essi articoli.
argomento de’ cinque dialogi della seconda parte Nel Primo dialogo della
seconda parte s’adduce un seminario delle maniere e raggioni del stato
dell’eroico furioso. Ove nel primo sonetto vien descritto il stato di quello
sotto la ruota del tempo. Nel secondo viene ad iscusarsi dalla stima d’ignobile
occupazione et indegna iattura della angustia e brevità del tempo. Nel terzo
ac- cusa l’impotenza de suoi studi gli quali quantunque all’interno sieno
illustrati dall’eccellenza de l’oggetto, questo per l’incontro viene ad essere
offoscato et annu- volato da quelli. Nel quarto è il compianto del sforzo senza
profitto delle facultadi de l’anima mentre cerca ri- sorgere con l’imparità de
le potenze a quel stato che pre- tende e mira. Nel quinto vien rammentata la
contrarietà e domestico conflitto che si trova in un suggetto, onde non possa
intieramente appigliarsi ad un termine o fine. Nel sesto vien espresso
l’affetto aspirante. Nel settimo vien messa in considerazione la mala
corrispondenza che si trova tra colui ch’aspira, e quello a cui s’aspira.
Nell’ottavo è messa avanti gli occhi la distrazzion dell’anima, conseguente
della contrarietà de cose ester- ne et interne tra loro, e de le cose interne
in se stesse, e de le cose esterne in se medesime. Nel nono è ispiegata l’etate
et il tempo del corso de la vita ordinaria all’atto de l’alta e profonda
contemplazione: per quel che non vi conturba il flusso o reflusso della
complessione vegetan- te, ma l’anima si trova, in condizione stazionaria e come
quieta. Nel decimo l’ordine e maniera in cui l’eroico amore tal’or ne assale,
fere e sveglia. Nell’undecimo la moltitudine delle specie et idee particolari
che mostrano l’eccellenza della marca dell’unico fonte di quelle, mediante le
quali vien incitato l’affetto verso alto. Nel duo- decimo s’esprime la
condizion del studio umano verso le divine imprese, perché molto si presume
prima che vi s’entri, e nell’entrare istesso: ma quando poi s’ingolfa e vassi
più verso il profondo, viene ad essere smorzato il fervido spirito di
presunzione, vegnono relassati i nervi, dismessi gli ordegni, inviliti gli
pensieri, svaniti tutti dis- segni, e riman l’animo confuso, vinto et
exinanito. Al qual proposito fu detto dal sapiente: «qui scrutator est
maiestatis, opprimetur a gloria». Nell’ultimo è più mani- festamente espresso
quello che nel duodecimo è mostra- to in similitudine e figura. Nel Secondo
dialogo è in un sonetto, et un discorso dialogale sopra di quello, specificato
il primo motivo che domò il forte, ramollò il duro, et il rese sotto l’amo-
roso imperio di Cupidine superiore, con celebrar tal vi- gilanza, studio,
elezzione e scopo. Nel Terzo dialogo in quattro proposte e quattro ri- sposte
del core a gli occhi, e de gli occhi al core, è di- chiarato l’essere e modo
delle potenze cognoscitive et appetitive. Là si manifesta qualmente la volontà
è risve- gliata, addirizzata, mossa e condotta dalla cognizione; e reciprocamente
la cognizione è suscitata, formata e rav- vivata dalla volontade, procedendo or
l’una da l’altra, or l’altra da l’una. Là si fa dubio se l’intelletto o
general- mente la potenza conoscitiva, o pur l’atto della cognizio- ne, sia
maggior de la volontà o generalmente della po- tenza appetitiva, o pur de
l’affetto: se non si può amare più che intendere, e tutto quello ch’in certo
modo si de- sidera, in certo modo ancora si conosce, e per il roverso; onde è
consueto di chiamar l’appetito “cognizione”, perché veggiamo che gli
Peripatetici nella dottrina de quali siamo allievati e nodriti in gioventù, sin
a l’appetito in potenza et atto naturale chiamano “cognizione”; onde tutti
effetti, fini e mezzi, principii, cause et elemen- ti distingueno in prima,
media, et ultimamente noti secondo la natura: nella quale fanno in conclusione
con- correre l’appetito e la cognizione. Là si propone infinita la potenza
della materia, et il soccorso dell’atto che non fa essere la potenza vana.
Laonde cossì non è terminato l’atto della volontà circa il bene, come è
infinito et inter- minabile l’atto della cognizione circa il vero: onde “en-
te”, “vero” e “buono” son presi per medesimo signifi- cante, circa medesima
cosa significata. Nel Quarto dialogo son figurate et alcunamente ispie- gate le
nove raggioni della inabilità, improporzionalità e difetto dell’umano sguardo e
potenza apprensiva de co- se divine. Dove nel primo cieco, che è da natività, è
no- tata la raggione ch’è per la natura che ne umilia et ab- bassa. Nel secondo
cieco per il tossico della gelosia è notata quella ch’è per l’irascibile e
concupiscibile che ne diverte e desvia. Nel terzo cieco per repentino appari-
mento d’intensa luce si mostra quella che procede dalla chiarezza de l’oggetto
che ne abbaglia. Nel quarto, allie- vato e nodrito a lungo a l’aspetto del
sole, quella che da troppo alta contemplazione de l’unità, che ne fura alla
moltitudine. Nel quinto, che sempre mai ha gli occhi colmi de spesse lacrime, è
designata l’improporzionalità de mezzi tra la potenza et oggetto che ne
impedisce. Nel sesto che per molto lacrimar have svanito l’umor organi- co
visivo, è figurato il mancamento de la vera pastura in- tellettuale che ne
indebolisce. Nel settimo cui gli occhi sono inceneriti da l’ardor del core, è
notato l’ardente af- fetto che disperge, attenua e divora tal volta la potenza
discretiva. Nell’ottavo, orbo per la ferita d’una punta di strale, quello che
proviene dall’istesso atto dell’unione della specie de l’oggetto; la qual
vince, altera e corrompe la potenza apprensiva, che è suppressa dal peso, e
cade sotto l’impeto de la presenza di quello; onde non senza raggion talvolta
la sua vista è figurata per l’aspetto di fol- gore penetrativo. Nel nono, che
per esser mutolo non può ispiegar la causa della sua cecitade, vien significata
Letteratura italiana Einaudi 14 Giordano Bruno - De gli eroici
furori la raggion de le raggioni, la quale è l’occolto giudicio di- vino che a
gli uomini ha donato questo studio e pensiero d’investigare, de sorte che non
possa mai gionger più al- to che alla cognizione della sua cecità et ignoranza,
e sti- mar più degno il silenzio ch’il parlare. Dal che non vien iscusata né
favorita l’ordinaria ignoranza; perché è dop- piamente cieco chi non vede la
sua cecità: e questa è la differenza tra gli profettivamente studiosi, e gli
ociosi in- sipienti: che questi son sepolti nel letargo della privazion del
giudicio di suo non vedere, e quelli sono accorti, sve- gliati e prudenti
giudici della sua cecità; e però son nell’inquisizione, e nelle porte de
l’acquisizione della lu- ce: delle quali son lungamente banditi gli altri.
argomento et allegoria del quinto dialogo Nel Quinto dialogo, perché vi sono
introdotte due donne, alle quali (secondo la consuetudine del mio pae- se) non
sta bene di commentare, argumentare, descife- rare, saper molto et esser
dottoresse per usurparsi uffi- cio d’insegnare e donar instituzione, regola e
dottrina a gli uomini; ma ben de divinar e profetar qualche volta che si
trovano il spirito in corpo: però gli ha bastato de farsi solamente recitatrici
della figura lasciando a qual- che maschio ingegno il pensiero e negocio di
chiarir la cosa significata. Al quale (per alleviar overamente tòrgli la
fatica) fo intendere qualmente questi nove ciechi, co- me in forma d’ufficio e
cause esterne, cossì con molte al- tre differenze suggettive correno con altra
significazio- ne, che gli nove del dialogo precedente: atteso che secondo la
volgare imaginazione delle nove sfere, mo- strano il numero, ordine e diversità
de tutte le cose che sono subsistenti infra unità absoluta, nelle quali e sopra
le quali tutte sono ordinate le proprie intelligenze che secondo certa
similitudine analogale dependono dalla prima et unica. Queste da Cabalisti, da
Caldei, da Ma- ghi, da Platonici e da cristiani teologi son distinte in no- ve
ordini per la perfezzione del numero che domina nell’università de le cose, et
in certa maniera formaliza il tutto: e però con semplice raggione fanno che si
signifi- che la divinità, e secondo la reflessione e quadratura in se stesso,
il numero e la sustanza de tutte le cose depen- denti. Tutti gli contemplatori
più illustri, o sieno filosofi, o siano teologi, o parlino per raggione e
proprio lume, o parlino per fede e lume superiore, intendano in queste
intelligenze il circolo di ascenso e descenso. Quindi di- cono gli Platonici
che per certa conversione accade che quelle che son sopra il fato si facciano
sotto il fato del tempo e mutazione, e da qua montano altre al luogo di quelle.
Medesima conversione è significata dal pitagori- co poeta, dove dice: Has omnes
ubi mille rotam volvere per annos Lethaeum ad fluvium deus evocat agmine magno:
rursus ut incipiant in corpora velle reverti. Questo (dicono alcuni) è
significato dove è detto in revelazione che il drago starà avvinto nelle catene
per mille anni, e passati quelli sarà disciolto. A cotal signifi- cazione
voglion che mirino molti altri luoghi dove il mil- lenario ora è espresso, ora
è significato per uno anno, ora per una etade, ora per un cubito, ora per una
et un’altra maniera. Oltre che certo il millenario istesso non si prende
secondo le rivoluzioni definite da gli anni del sole, ma secondo le diverse
raggioni delle diverse mi- sure et ordini con li quali son dispensate diverse
cose: perché cossì son differenti gli anni de gli astri, come le specie de
particolari non son medesime. Or quanto al fatto della rivoluzione, è divolgato
appresso gli cristiani teologi, che da ciascuno de’ nove ordini de spiriti
sieno trabalzate le moltitudini de legioni a queste basse et Letteratura
italiana Einaudi 16 Giordano Bruno - De gli eroici furori oscure
regioni; e che per non esser quelle sedie vacanti, vuole la divina providenza
che di queste anime che vivo- no in corpi umani siano assumpte a quella
eminenza. Ma tra filosofi Plotino solo ho visto dire espressamente come tutti
teologi grandi, che cotal rivoluzione non è de tutti, né sempre: ma una volta.
E tra teologi Origene so- lamente come tutti filosofi grandi, dopo gli
Saduchini et altri molti riprovati, have ardito de dire che la revoluzio- ne è
vicissitudinale e sempiterna; e che tutto quel mede- simo che ascende ha da
ricalar a basso: come si vede in tutti gli elementi e cose che sono nella
superficie, grem- bo e ventre de la natura. Et io per mia fede dico e con- fermo
per convenientissimo, con gli teologi e color che versano su le leggi et
instituzioni de popoli, quel senso loro: come non manco d’affirmare et accettar
questo senso di quei che parlano secondo la raggion naturale tra’ pochi, buoni
e sapienti. L’opinion de quali degna- mente è stata riprovata per esser
divolgata a gli occhi della moltitudine; la quale se a gran pena può essere re-
frenata da vizii e spronata ad atti virtuosi per la fede de pene sempiterne,
che sarrebe se la si persuadesse qual- che più leggiera condizione in premiar
gli eroici et uma- ni gesti, e castigare gli delitti e sceleragini? Ma per
veni- re alla conclusione di questo mio progresso: dico che da qua si prende la
raggione e discorso della cecità e luce di questi nove, or vedenti, or ciechi,
or illuminati; quali son rivali ora nell’ombre e vestigii della divina beltade,
or sono al tutto orbi, ora nella più aperta luce pacificamen- te si godeno.
All’or che sono nella prima condizione, son ridutti alla stanza di Circe, la
qual significa la omni- parente materia, et è detta figlia del sole, perché da
quel padre de le forme ha l’eredità e possesso di tutte quelle le quali con
l’aspersion de le acqui, cioè con l’atto della generazione, per forza
d’incanto, cioè d’occolta armoni- ca raggione, cangia il tutto, facendo dovenir
ciechi quel- li che vedeno: perché la generazione e corrozzione è Letteratura
italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori causa d’oblio e cecità, come
esplicano gli antichi con la figura de le anime che si bagnano et inebriano di
Lete. Quindi dove gli ciechi si lamentano dicendo: «Figlia e madre di tenebre
et orrore», è significata la conturba- zion e contristazion de l’anima che ha
perse l’ali, la qua- le se gli mitiga all’or che è messa in speranza di
ricovrar- le. Dove Circe dice: «Prendete un altro mio vase fatale», è
significato che seco portano il decreto e destino del suo cangiamento, il qual
però è detto essergli porgiuto dalla medesima Circe; perché un contrario è
original- mente nell’altro, quantunque non vi sia effettualmente: onde disse
lei, che sua medesima mano non vale aprirlo, ma commetterlo. Significa ancora
che son due sorte d’acqui: inferiori sotto il firmamento che acciecano, e
superiori, sopra il firmamento che illuminano: quelle che sono significate da
Pitagorici e Platonici nel descen- so da un tropico et ascenso da un altro. Là
dove dice «Per largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti gli
numerosi regni», significa che non è progresso immediato da una forma contraria
a l’altra, né regresso immediato da una forma a la medesima: però bisogna
trascorrere, se non tutte le forme che sono nella ruota delle specie naturali,
certamente molte e molte di quelle. Là s’intendeno illuminati da la vista de
l’oggetto, in cui concorre il ternario delle perfezzioni, che sono beltà, sa-
pienza e verità, per l’aspersion de l’acqui che negli sacri libri son dette
acqui de sapienza, fiumi d’acqua di vita etema. Queste non si trovano nel
continente del mondo, ma penitus toto divisim ab orbe, nel seno dell’Oceano,
dell’Amfitrite, della divinità, dove è quel fiume che ap- parve revelato
procedente dalla sedia divina, che have altro flusso che ordinario naturale.
Ivi son le Ninfe, cioè le beate e divine intelligenze che assistenti et ammini-
strano alla prima intelligenza, la quale è come la Diana tra le nimfe de gli
deserti. Quella sola tra tutte l’altre è per la triplicata virtude, potente ad
aprir ogni sigillo, asciòrre ogni nodo, a discuoprir ogni secreto, e disserrar
qualsivoglia cosa rinchiusa. Quella con la sua sola pre- senza e gemino
splendore del bene e vero, di bontà e bellezza appaga le volontadi e
gl’intelletti tutti: asper- gendoli con l’acqui salutifere di ripurgazione. Qua
è conseguente il canto e suono, dove son nove intelligen- ze, nove muse,
secondo l’ordine de nove sfere; dove pri- ma si contempla l’armonia di
ciascuna, che è continuata con l’armonia de l’altra; perché il fine et ultimo
della su- periore è principio e capo dell’inferiore, perché non sia mezzo e
vacuo tra l’una et altra: e l’ultimo de l’ultima per via de circolazione
concorre con il principio della prima. Perché medesimo è più chiaro e più
occolto, principio e fine, altissima luce e profondissimo abisso, infinita
potenza et infinito atto, secondo le raggioni e modi esplicati da noi in altri
luoghi. Appresso si con- templa l’armonia e consonanza de tutte le sfere,
intelli- genze, muse et instrumenti insieme; dove il cielo, il moto de’ mondi,
l’opre della natura, il discorso de gl’intelletti, la contemplazion della
mente, il decreto della divina providenza, tutti d’accordo celebrano l’alta e
magnifica vicissitudine che agguaglia l’acqui inferiori alle superio- ri,
cangia la notte col giorno, et il giorno con la notte, a fin che la divinità
sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l’infinita bontà
infinitamente si com- muniche secondo tutta la capacità de le cose. Questi son
que’ discorsi, gli quali a nessuno son parsi più convenevoli ad essere
addirizzati e raccomandati che a voi, Signor eccellente: a fin ch’io non vegna
a fare, come penso aver fatto alcuna volta per poca advertenza, e molti altri
fanno quasi per ordinario, come colui che presenta la lira ad un sordo et il
specchio ad un cieco. A voi dumque si presentano, perché l’Italiano raggioni
con chi l’intende; gli versi sien sotto la censura e protezzion d’un poeta; la
filosofia si mostre ignuda ad un sì terso in- gegno come il vostro; le cose
eroiche siano addirizzate Letteratura italiana Einaudi 19 Giordano
Bruno - De gli eroici furori ad un eroico e generoso animo, di qual vi mostrate
dota- to; gli officii s’offrano ad un suggetto sì grato, e gli osse- quii ad un
signor talmente degno qualmente vi siete ma- nifestato per sempre. E nel mio
particolare vi scorgo quello che con maggior magnanimità m’avete prevenuto ne
gli officii, che alcuni altri con riconoscenza m’abbia- no seguitato. vale.
avertimento a’ lettori Amico lettore, m’occorre al fine da obviare al rigore
d’alcuno a cui piacesse che tre de’ sonetti che si trovano nel primo dialogo
della seconda parte de’ Furori eroici, siano in forma simili a gli altri, che
sono nel medesimo dialogo: voglio che vi piaccia d’aggiongere a tutti tre gli
suoi tornelli. A quello che comincia Quel ch’il mio cor, giongete in fine: Onde
di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival
d’Endimion si duole. A quello che comincia Se da gli eroi, giongete in fine:
Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’e accende et èmmi a lato, farammi
illustre, potente e beato. A quello che comincia Avida di trovar, giongete al
fine: Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che lemmi a
lungo infortunato amante. Letteratura italiana Einaudi 20 Giordano
Bruno - De gli eroici furori alcuni errori di stampa piùurgenti Piacciavi,
benigno lettore, prima che leggere di corre- gere. Da A in sino a Q significano
gli quinterni; il nume- ro seguente quella lettera, significa la carta; f
significa la faccia prima o seconda; l significa la linea. A 1, f 2, l 2:
correte a’ miei dolori; A 2, f 1, li 12: rite- nendolo da cose; f 2, li 30:
homerica poesia; A 4, f 1, li 15: illustre mentre canto di morte cipressi et
inferni; A 7, f 1, li 4: la gelosia sconsola; li 11: di regione; B 1, f 2, li
7: potran ben soli con sua diva corte; C 2, f 1, li 2: sappia certo che se
quei; lin 4: seguite che parlino; li 23: son di- vini; C 7, f 2, l 15:
suspicientes in; D 8, f 1, [l 26]: Alti, profondi; f 2, l 10, compagni del mio
core; E 6, f 1, l 21: intrattiene in quel essere; F 1, f 1, li 16: dice
quell’altez- za; G 8, f 1, l 2: che fa volgar; I 2, f 1, li 17: per quanto mi
si diè; K 5, f 2, li 19: Del gratioso sguardo apri le por- te; L 6, f 2, li 21:
XII, Cesa; L 7, f 1, l 10: da cure mole- ste; M 4, f 1, li 15: ergo; Cor.; N 5,
f 1, lin penultima: Deucalion; O 3, f 1, li 14: hammi si crudament’ il spirto
infetto; O 4, f 2, li 10: Il Nil d’ogn’altro suon; O 5, f 2, li 13: intromettea
la luce; O 7, f 1, li 6: Aspra ferit’ empio ardor; li 13: appresso Dite; f 2,
li ultima: in quello aspira per certo più; O 8, f 2, li ultima: alli quali si
mostra, non proviene con misura di moto et tempo, come accade nelle; P 6, f 1,
li antepenultima: quale chiumque have in- gegno; P 7, f 1, li 12: Siam nove
spirti che molt’anni; Q 1, f 1, li 10: Ch’io possa esprimere. Q 4, f 1, l 1: De
le di- more alterne. Letteratura italiana Einaudi 21 Giordano Bruno
- De gli eroici furori ISCUSAZION DEL NOLANO alle più virituose e leggiadre dame
De l’Inghilterra o vaghe Ninfe e Belle, non voi ha nostro spirt’ in schif’, e
sdegna; né per mettervi giù suo stil s’ingegna, se non convien che femine
v’appelle. Né computar, né eccettuar da quelle, son certo che voi dive mi
convegna: se l’influsso commun in voi non regna, e siete in terra quel ch’in
ciel le stelle. De voi, o Dame, la beltà sovrana nostro rigor né morder può, né
vuole, che non fa mira a specie sopr’umana. Lungi arsenico tal quindi s’invole,
dove si scorge l’unica Diana, qual è tra voi quel che tra gli astri il sole.
L’ingegno, le parole e ’l mio (qualumque sia) vergar di carte
faranv’ossequios’il studio e l’arte.
PRIMA PARTE DE GLI EROICI FURORI Letteratura italiana Einaudi 23
Giordano Bruno - De gli eroici furori DIALOGO PRIMO interlocutori
Tansillo, Cicada. tansillo Gli furori dumque, atti più ad esser qua pri-
mieramente locati e considerati, son questi che ti pono avanti secondo l’ordine
a me parso più conveniente. cicada Cominciate pur a leggerli. tansillo [1] Muse
che tante volte ributtai, importune correte a’ miei dolori, per consolarmi sole
ne’ miei guai con tai versi, tai rime e tai furori, con quali ad altri vi
mostraste mai, che de mirti si vantan et allori; (2) or sia appo voi mia aura,
àncora e porto, se non mi lice altrov’ir a diporto. (3) O monte, o dive, o
fonte ov’abito, converso e mi nodrisco; dove quieto imparo et imbellisco; alzo,
avviv’, orno, il cor, il spirto e fronte: morte, cipressi, inferni cangiate in
vita, in lauri, in astri eterni. 1. È da credere che più volte e per più
caggioni le ributtasse, tra le quali possono esser queste. Prima perché, come
deve il sacerdote de le muse, non ha possut’esser ocioso: perché l’ocio non può
trovarsi là dove si combatte contra gli ministri e servi de l’invi- dia,
ignoranza e malignitade. Secondo, per non assi- stergli degni protectori e
difensori che l’assicurassero, iuxta quello: Letteratura italiana Einaudi
24 Giordano Bruno - De gli eroici furori Non mancaranno, o Flacco,
gli Maroni, se penuria non è de Mecenati. Appresso, per trovarsi ubligato alla
contemplazion, e studi de filosofia: li quali se non son più maturi, denno però
come parenti de le Muse esser predecessori a quelle. Oltre perché traendolo da
un canto la tragica Melpomene con più materia che vena, e la comica Ta- lia con
più vena che materia da l’altro, accadeva che l’una suffurandolo a l’altra, lui
rimanesse in mezzo più tosto neutrale e sfacendato, che comunmente negocio- so.
Finalmente per l’autorità de censori che ritenendo- lo da cose più degne et alte
alle quali era naturalmente inchinato, cattivavano il suo ingegno: perché da
libero sotto la virtù lo rendesser cattivo sott’una vilissima e stolta
ipocrisia. Al fine, nel maggior fervor de fastidi nelli quali incorse, è
avvenuto che non avend’altronde da consolarsi, accettasse l’invito di costoro,
che son dette inebriarlo de tai furori, versi e rime, con quali non si mostraro
ad altri: perché in quest’opra più rilu- ce d’invenzione che d’imitazione.
cicada Dite: che intende per quei che si vantano de mirti et allori? tansillo
Si vantano e possono vantarsi de mirto quei che cantano d’amori: alli quali (se
nobilmente si por- tano) tocca la corona di tal pianta consecrata a Vene- re,
dalla quale riconoscono il furore. Possono vantarsi d’allori quei che degnamente
cantano cose eroiche, instituendo gli animi eroici per la filosofia speculativa
e morale, overamente celebrandoli e mettendoli per specchio exemplare a gli
gesti politici e civili. cicada Dumque son più specie de poeti e de corone?
tansillo Non solamente quante son le muse, ma e di gran numero di vantaggio:
perché quantunque sieno certi geni, non possono però esser determinate certe
specie e modi d’ingegni umani. Letteratura italiana Einaudi 25
Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Son certi regolisti de
poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovi- dio,
Marziale, Exiodo, Lucrezio et altri molti in nu- mero de versificatori,
esaminandoli per le regole de la Poetica d’Aristotele. tansillo Sappi certo,
fratel mio, che questi son vere bestie: perché non considerano quelle regole
princi- palmente servir per pittura dell’omerica poesia o altra simile in
particolare; e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e
non per instituir al- tri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori,
equali, simili e maggiori, de diversi geni. cicada Sì che come Omero nel suo
geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che serveno a
coloro che son più atti ad imitare che ad in- ventare; e son state raccolte da
colui che non era poe- ta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole
di quell’una sorte, cioè dell’omerica poesia, in servig- gio di qualch’uno che
volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero: non di propria musa, ma
scimia de la musa altrui. tansillo Conchiudi bene, che la poesia non nasce da
le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le re- gole derivano da le
poesie: e però tanti son geni e spe- cie de vere regole, quanti son geni e
specie de veri poeti. cicada Or come dumque saranno conosciuti gli vera- mente
poeti? tansillo Dal cantar de versi: con questo, che cantan- do o vegnano a
delettare, o vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme. cicada A chi
dumque serveno le regole d’Aristotele? tansillo A chi non potesse come Omero,
Exiodo, Orfeo et altri poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver
propria musa, vuolesse far l’amore con quella d’Omero. Letteratura italiana
Einaudi 26 Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Dumque han
torto certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti
alcuni, o perché non apportino favole e metafore conformi, o perché non hanno
principii de libri e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non
osservano la consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno una istoria
o favola con l’altra, o perché [non] finisco- no gli canti epilogando di quel
ch’è detto e proponen- do per quel ch’è da dire; e per mille altre maniere
d’examine, per censure e regole in virtù di quel testo. Onde par che vogliano
conchiudere che essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia) sarrebono
gli ve- ri poeti, et arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto
non son altro che vermi che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per
rodere, in- sporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi
render celebri per propria virtude et inge- gno, cercano di mettersi avanti o a
dritto o a torto, per altrui vizio et errore. tansillo Or per tornar là donde
l’affezzione n’ha fat- to alquanto a lungo digredire: dico che sono e posso- no
essere tante sorte de poeti, quante possono essere e sono maniere de sentimenti
et invenzioni umane, al- li quali son possibili d’adattarsi ghirlande non solo
da tutti geni e specie de piante, ma et oltre d’altri geni e specie di materie.
Però corone a’ poeti non si fanno solamente de mirti e lauri: ma anco de
pampino per versi fescennini, d’edera per baccanali, d’oliva per sa- crifici e
leggi; di pioppa, olmo e spighe per l’agricol- tura; de cipresso per funerali:
e d’altre innumerabili per altre tante occasioni. E se vi piacesse anco di
quel- la materia che mostrò un galantuomo quando disse: O fra Porro poeta da
scazzate, ch’a Milano t’affibbi la ghirlanda di boldoni, busecche e cervellate.
Letteratura italiana Einaudi 27 Giordano Bruno - De gli eroici
furori cicada [2] Or dumque sicuramente costui per di- verse vene che mostra in
diversi propositi e sensi, po- trà infrascarsi de rami de diverse piante, e
potrà de- gnamente parlar con le “Muse”: perché sia appo loro sua “aura” con
cui si conforte, “ancora” in cui si su- stegna, e “porto” al qual si retire nel
tempo de fati- che, exagitazioni e tempeste. [3] Onde dice: O “mon- te” Parnaso
dove “abito”, Muse con le quali “converso”, “fonte” cliconio o altro dove mi
“nodri- sco”, monte che mi doni quieto aroggiamento, Muse che m’inspirate
profonda dottrina, fonte che mi fai ri- polito e terso; monte dove ascendendo
“inalzo” il co- re; Muse con le quali versando “avvivo” il “spirito”; fonte
sotto li cui arbori poggiando adorno la “fron- te”; “cangiate” la mia “morte”
in “vita”, gli miei “ci- pressi” in “lauri”, e gli miei “inferni” in cieli:
cioè de- stinatemi immortale, fatemi poeta, rendetemi illustre, mentre canto di
morte, cipressi et inferni. tansillo Bene, perché a color che son favoriti dal
cie- lo, gli più gran mali si converteno in beni tanto mag- giori: perché le
necessitadi parturiscono le fatiche e studi, e questi per il più de le volte la
gloria d’immor- tal splendore. cicada E la morte d’un secolo, fa vivo in tutti
gli altri. Séguita. tansillo Dice appresso: In luogo e forma di Parnaso ho ’l
core, dove per scampo mio convien ch’io monte; son mie muse i pensier ch’a
tutte l’ore mi fan presenti le bellezze conte; onde sovente versan gli occhi
fore lacrime molte, ho l’Eliconio fonte: per tai montagne, per tai ninfe et
acqui, com’ha piaciut’al ciel poeta nacqui. (2) Or non alcun de reggi,
Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori non favorevol man
d’imperatore, non sommo sacerdot’, e gran pastore, mi dien tai grazie, onori e
privileggi; ma di lauro m’infronde mio cor, gli miei pensieri, e le mie onde.
1. Qua dechiara: prima qual sia il suo monte, dicen- do esser l’alto affetto
del suo “core”; secondo, quai sieno le sue “muse”, dicendo esser le “bellezze”
e prorogative del suo oggetto; terzo, quai sieno gli fon- ti, e questi dice
esser le “lacrime”. In quel monte s’ac- cende l’affetto; da quelle bellezze si
concepe il furore; e da quelle lacrime il furioso affetto si dimostra. 2. Cossì
se stima di non posser essere meno illustre- mente coronato per via del suo
core, pensieri e lacri- me, che altri per man de “regi”, imperadori e papi.
cicada Dechiarami quel ch’intende per ciò che dice: “il core in forma di
Parnaso”. tansillo Perché cossì il cuor umano ha doi capi che vanno a
terminarsi a una radice, e spiritualmente da uno affetto del core procede
l’odio et amore di doi contrarii; come have sotto due teste una base il monte
Parnaso. cicada A l’altro. tansillo Dice: (1) Chiama per suon di tromb’ il
capitano tutti gli suoi guerrier sott’un’insegna; dove s’avvien che per alcun
in vano udir si faccia, perché pronto vegna, qual nemico l’uccide, o a qual
insano gli dona bando dal suo camp’e ’l sdegna: cossì l’alm’i dissegni non
accolti sott’un stendardo, o gli vuol morti, o tolti. (2) Un oggetto riguardo,
chi la mente m’ingombr’, è un sol viso, ad una beltà sola io resto affiso, chi
sì m’ha punt’il cor è un sol dardo, per un sol fuoco m’ardo, e non conosco più
ch’un paradiso. 1. Questo “capitano” è la voluntade umana che sie- de in poppa
de l’anima, con un picciol temone de la raggione governando gli affetti
d’alcune potenze inte- riori, contra l’onde de gli émpiti naturali. Egli con il
“suono de la tromba”, cioè della determinata elezzio- ne, chiama “tutti gli
guerrieri”, cioè provoca tutte le potenze (le quali s’appellano guerriere per
esserno in continua ripugnanza e contrasto) o pur gli effetti di quelle, che
son gli contrariia pensieri; de quali altri verso l’una, altri verso l’altra
parte inchinano: e cerca constituirgli tutti “sott’un’insegna” d’un determinato
fine. Dove s’accade ch’alcun d’essi vegna chiamato in vano a farsi prontamente
vedere ossequioso (massime quei che procedono dalle potenze naturali quali o
nullamente o poco ubediscono alla raggione), al me- no forzandosi d’impedir gli
loro atti, e dannar quei che non possono essere impediti, viene a mostrarsi
come uccidesse quelli, e donasse bando a questi: pro- cedendo contra gli altri
con la spada de l’ira, et altri con la sferza del sdegno. 2. Qua un “oggetto
riguarda”, a cui è volto con l’in- tenzione. Per “un viso”, con cui s’appaga
“ingombra la mente”. “In una sola beltade” si diletta e compiace; e dicesi
“restarvi affiso”, perché l’opra d’intelligenza non è operazion di moto, ma di
quiete. E da là sola- mente concepe quel “dardo” che l’uccide, cioè che gli
constituisce l’ultimo fine di perfezione. “Arde per un sol fuoco”, cioè
dolcemente si consuma in uno amore. cicada Perché l’amore è significato per il
fuoco? tansillo Lascio molte altre caggioni, bastiti per ora questa: perché
cossì la cosa amata l’amore converte Letteratura italiana Einaudi 30
Giordano Bruno - De gli eroici furori ne l’amante, come il fuoco tra
tutti gli elementi attivis- simo è potente a convertire tutti quell’altri
semplici e composti in se stesso. cicada Or séguita. tansillo “Conosce un
paradiso”: cioè un fine princi- pale, perché paradiso comunmente significa il fine,
il qual si distingue in quello ch’è absoluto, in verità et essenza, e l’altro
che è in similitudine, ombra e parti- cipazione. Del primo modo non può essere
più che uno, come non è più che uno l’ultimo et il primo be- ne. Del secondo
modo sono infiniti. Amor, sorte, l’oggetto e gelosia m’appaga, affanna,
content’e sconsola; il putto irrazional, la cieca e ria, l’alta bellezza, la
mia morte sola: mi mostr’il paradis’, il toglie via, ogni ben mi presenta, me
l’invola; tanto ch’il cor, la mente, il spirto, l’alma ha gioia, ha noia, ha
refrigerio, ha salma. Chi mi terrà di guerra? Chi mi farà fruir mio ben in
pace? Chi quel ch’annoia e quel che sì mi piacefarà lungi disgionti, per gradir
le mie fiamme e gli miei fonti? Mostra la caggion et origine onde si concepe il
furore e nasce l’entusiasmo, per solcar il campo de le muse, spargendo il seme
de suoi pensieri, aspirando a l’amo- rosa messe, scorgendo in sé il fervor de
gli affetti in vece del sole, e l’umor de gli occhi in luogo de le piogge.
Mette quattro cose avanti: l’“amore”, la “sor- te”, l’“oggetto”, la “gelosia”.
Dove l’amore non è un basso, ignobile et indegno motore, ma un eroico si- gnor
e duce de lui; la sorte non è altro che la disposi- Letteratura italiana
Einaudi 31 Giordano Bruno - De gli eroici furori zion fatale et
ordine d’accidenti, alli quali è suggetto per il suo destino; l’oggetto è la
cosa amabile, et il correlativo de l’amante; la gelosia è chiaro che sia un
zelo de l’amante circa la cosa amata, il quale non biso- gna donarlo a intendere
a chi ha gustato amore, et in vano ne forzaremo dechiararlo ad altri. L’amore
“ap- paga”: perché a chi ama, piace l’amare; e colui che ve- ramente ama non
vorrebbe non amare. Onde non vo- glio lasciar de referire quel che ne mostrai
in questo mio sonetto: Cara, soave et onorata piaga del più bel dardo che mai
scelse amore; alto, leggiadro e precioso ardore, che gir fai l’alma di
sempr’arder vaga: qual forza d’erba e virtù d’arte maga ti torrà mai dal centro
del mio core, se chi vi porge ogn’or fresco vigore quanto più mi tormenta, più
m’appaga? Dolce mio duol, novo nel mond’e raro, quando del peso tuo girò mai
scarco, s’il rimedio m’è noia, e ’l mal diretto? Occhi, del mio signor facelle
et arco, doppiate fiamme a l’alma e strali al petto, poich’il languir m’è dolce
e l’ardor caro. La sorte “affanna” per non felici e non bramati suc- cessi, o
perché faccia stimar il suggetto men degno de la fruizion de l’oggetto, e men
proporzionato a la di- gnità di quello; o perché non faccia reciproca correla-
zione, o per altre caggioni et impedimenti che s’attra- versano. L’oggetto
“contenta” il suggetto, che non si pasce d’altro, altro non cerca, non s’occupa
in altro, e per quello bandisce ogni altro pensiero. La gelosia “sconsola”,
perché quantunque sia figlia dell’amore da cui deriva, compagna di quello con
cui va sempre Letteratura italiana Einaudi 32 Giordano Bruno - De
gli eroici furori insieme, segno del medesimo, perché quello s’intende per
necessaria conseguenza dove lei si dimostra (co- me sen può far esperienza
nelle generazioni intiere, che per freddezza di regione, e tardezza d’ingegno,
meno apprendono, poco amano, e niente hanno di gelosia), tutta volta con la sua
figliolanza, compagnia e significazione vien a perturbar et attossicare tutto
quel che si trova di bello e buono nell’amore. Là onde dissi in un altro mio
sonetto: O d’invidia et amor figlia sì ria, che le gioie del padre volgi in
pene, caut’Argo al male, e cieca talpa al bene, ministra di tormento, Gelosia;
Tisifone infernal fetid’Arpia, che l’altrui dolce rapi et avvelene, austro
crudel per cui languir conviene il più bel fior de la speranza mia; fiera da te
medesma disamata, augel di duol non d’altro mai presago, pena, ch’entri nel cor
per mille porte: se si potesse a te chiuder l’entrata, tant’il regno d’amor
saria più vago, quant’il mondo senz’odio e senza morte. Giongi a quel ch’è
detto che la Gelosia non sol tal volta è la morte e ruina de l’amante, ma per
le spesse volte uccide l’istesso amore, massime quando parturi- sce il sdegno:
percioché viene ad essere talmente dal suo figlio affetta, che spinge l’amore e
mette in di- spreggio l’oggetto, anzi non lo fa più essere oggetto. cicada
Dechiara ora l’altre particole che siegueno, cioè perché l’amore si dice putto
irrazionale? tansillo Dirò tutto. “Putto irrazionale” si dice l’amore non
perché egli per sé sia tale; ma per ciò, che per il più fa tali suggetti, et è
in sugetti tali: atteso che in qualumque è più intellettuale e speculativo,
inalza più l’ingegno e più purifica l’intelletto, facendolo sveglia- to,
studioso e circonspetto, promovendolo ad un’ani- mositate eroica et emulazion
di virtudi e grandezza, per il desio di piacere e farsi degno della cosa amata.
In altri poi (che son la massima parte) s’intende pazzo e stolto, perché le fa
uscir de proprii sentimenti, e le precipita a far delle extravaganze, perché
ritrova il spirito, anima e corpo mal complessionati, et inetti a considerar e
distinguere quel che gli è decente da quel che le rende più sconci: facendoli
suggetto di di- spreggio, riso e vituperio. cicada Dicono volgarmente e per
proverbio, che l’amor fa dovenir gli vecchi pazzi, e gli giovani savii.
tansillo Questo inconveniente non accade a tutti vecchi, né quel conveniente a
tutti giovani; ma è vero de quelli ben complessionati, e de mal complessionati
quest’altri. E con questo è certo, che chi è avezzo nel- la gioventù d’amar
circonspettamente, amarà vecchio senza straviare. Ma il spasso e riso è di
quelli alli quali nella matura etade l’amor mette l’alfabeto in mano. cicada
Ditemi adesso, perché cieca e ria se dice la sor- te o fato? tansillo “Cieca” e
“ria” si dice la sorte ancora, non per sé, perché è l’istesso ordine de numeri
e misure de l’universo; ma per raggion de suggetti si dice et è cieca: perché
le rende ciechi al suo riguardo, per esser ella incertissima. È detta
similmente ria, perché nullo de mortali è che in qualche maniera lamentandosi e
querelandosi di lei, non la incolpe. Onde disse il pu- gliese poeta: Che vuol
dir, Mecenate, che nessuno al mondo appar contento de la sorte, che gli ha
porgiuta la raggion o cielo? Letteratura italiana Einaudi 34
Giordano Bruno - De gli eroici furori Cossì chiama l’oggetto “alta
bellezza”, perché a lui è unico e più eminente, et efficace per tirarlo a sé; e
però lo stima più degno, più nobile, e però sel sente predominante e superiore:
come lui gli vien fatto sud- dito e cattivo. “La mia morte sola” dice de la
gelosia, perché come l’amore non ha più stretta compagna che costei, cossì anco
non ha senso di maggior nemi- ca: come nessuna cosa è più nemica al ferro che
la ruggine, che nasce da lui medesimo. cicada Or poi ch’hai cominciato a far
cossì, séguita a mostrar parte per parte quel che resta. tansillo Cossì farò.
Dice appresso de l’amore: “Mi mostra il paradiso”; onde fa veder che l’amore
non è cieco in sé, e per sé non rende ciechi alcuni amanti, ma per l’ignobili
disposizioni del suggetto: qualmente avviene che gli ucelli notturni dovegnon
ciechi per la presenza del sole. Quanto a sé dumque l’amore illu- stra,
chiarisce, apre l’intelletto e fa penetrar il tutto e suscita miracolosi
effetti. cicada Molto mi par che questo il Nolano lo dimostre in un altro suo
sonetto: Amor per cui tant’alto il ver discerno, ch’apre le porte di diamante
nere, per gli occhi entra il mio nume, e per vedere nasce, vive, si nutre, ha
regno eterno; fa scorger quant’ha ’l ciel, terr’, et inferno; fa presenti
d’absenti effiggie vere, repiglia forze, e col trar dritto, fere; e impiaga
sempr’il cor, scuopre l’interno. O dumque, volgo vile, al vero attendi, porgi l’orecchio
al mio dir non fallace, apri, apri, se puoi, gli occhi, insano e bieco:
fanciullo il credi perché poco intendi, perché ratto ti cangi ei par fugace,
per esser orbo tu lo chiami cieco. Letteratura italiana Einaudi 35
Giordano Bruno - De gli eroici furori Mostra dumque il paradiso amore,
per far intendere, capire et effettuar cose altissime; o perché fa grandi
almeno in apparenza le cose amate. “Il toglie via”, di- ce de la sorte: perché
questa sovente, a mal grado de l’amante, non concede quel tanto che l’amor
dimo- stra, e quel che vede e brama, gli è lontano et adversa- rio. “Ogni ben
mi presenta”, dice de l’oggetto: perché questo che vien dimostrato da l’indice
de l’amore, gli par la cosa unica, principale, et il tutto. “Me l’invola”, dice
della Gelosia, non già per non farlo presente to- gliendolo d’avanti gli occhi;
ma in far ch’il bene non sia bene, ma un angoscioso male; il dolce non sia dol-
ce, ma un angoscioso languire. “Tanto ch’il cor”, cioè la volontà, “ha gioia”
nel suo volere per forza d’amo- re, qualunque sia il successo. “La mente”, cioè
la par- te intellettuale, ha “noia”, per l’apprension de la sor- te, qual non
aggradisce l’amante. “Il spirito”, cioè l’affetto naturale, ha “refrigerio”,
per esser rapito da quell’oggetto che dà gioia al core, e potrebbe aggradir la
mente. “L’alma”, cioè la sustanza passibile e sensi- tiva, “ha salma”, cioè si
trova oppressa dal grave peso de la gelosia che la tormenta. Appresso la
considera- zion del stato suo, soggionge il lacrimoso lamento, e dice: “Chi mi
torrà di guerra”, e metterammi in pace; o chi disunirà quel che m’annoia e
danna, da quel che sì mi piace et apremi le porte de cielo, perché gradite
sieno le fervide fiamme del mio core, e fortunati i fon- ti de gli occhi miei?
Appresso continuando il suo pro- posito, soggionge: Premi (oimè) gli altri, o
mia nemica sorte; vatten via, Gelosia, dal mondo fore: potran ben soli con sua
diva corte far tutto nobil faccia e vago amore. Lui mi tolga de vita, lei de
morte; lei me l’impenne, lui brugge il mio core; Letteratura italiana Einaudi
36 Giordano Bruno - De gli eroici furori lui me l’ancide, lei
ravvive l’alma; lei mio sustegno, lui mia grieve salma. Ma che dic’io d’amore?
se lui e lei son un suggetto o forma, se con medesm’imperio et una norma
fann’un vestigio al centro del mio core? Non son doi dumque: è una che fa
gioconda e triste mia fortuna. Quattro principii et estremi de due
contrarietadi vuol ridurre a doi principii et una contrarietade. Dice dumque:
“Premi (oimè) gli altri”, cioè basti a te, o mia sorte, d’avermi sin a tanto
oppresso, e (perché non puoi essere senza il tuo essercizio) volta altrove il
tuo sdegno. E “vatten via fuori del mondo”, tu, Gelo- sia: perché uno di que’
doi altri che rimagnono potrà supplire alle vostre vicende et offici; se pur
tu, mia sorte, non sei altro ch’il mio Amore, e tu Gelosia, non sei estranea
dalla sustanza del medesimo. Reste dum- que lui per privarmi de vita, per
bruggiarmi, per do- narmi la morte, e per salma de le mie ossa: con questo che
lei mi tolga di morte, mi impenne, mi avvive e mi sustente. Appresso, doi
principii et una contrarietade riduce ad un principio et una efficacia,
dicendo: “Ma che dich’io d’Amore”? Se questa faccia, questo ogget- to è
l’imperio suo, e non par altro che l’imperio de l’amore; la norma de l’amore è
la sua medesima nor- ma; l’impression d’amore ch’appare nella sustanza del cor
mio, non è certo altra impression che la sua: per- ché dumque dopo aver detto
“nobil faccia”, replico dicendo “vago amore”? tansillo Or qua comincia il
furioso a mostrar gli af- fetti suoi e discuoprir le piaghe che sono per segno
nel corpo, et in sustanza o in essenza nell’anima, e di- ce cossì: Io che porto
d’amor l’alto vessillo, gelate ho spene, e gli desir cuocenti: a un tempo
triemo, agghiaccio, ardo e sfavillo, son muto, e colmo il ciel de strida
ardenti; dal cor scintill’, e da gli occhi acqua stillo; e vivo e muoio, e fo
ris’e lamenti: son vive l’acqui, e l’incendio non more, ch’a gli occhi ho Teti,
et ho Vulcan al core, altr’amo, odio me stesso: ma s’io m’impiumo, altri si
cangia in sasso; poggi’altr’al ciel, s’io mi ripogno al basso; sempr’altri
fugge, s’io seguir non cesso; s’io chiamo, non risponde: e quant’io cerco più,
più mi s’asconde. A proposito di questo voglio seguitar quel che poco avanti ti
dicevo: che non bisogna affatigarsi per pro- vare quel che tanto manifestamente
si vede, cioè che nessuna cosa è pura e schetta (onde diceano alcuni, nessuna
cosa composta esser vero ente: come l’oro composto non è vero oro, il vino
composto non è pu- ro vero e mero vino); appresso, tutte le cose constano de
contrarii: da onde avviene che gli successi de li no- stri affetti per la
composizione ch’è nelle cose, non hanno mai delettazion alcuna senza
qualch’amaro; anzi dico, e noto di più, che se non fusse l’amaro nelle cose,
non sarrebe la delettazione, atteso che la fatica fa che troviamo delettazione
nel riposo; la separazio- Letteratura italiana Einaudi 38 Giordano
Bruno - De gli eroici furori ne è causa che troviamo piacere nella congiunzione:
e generalmente essaminando, si trovarà sempre che un contrario è caggione che
l’altro contrario sia bramato e piaccia. cicada Non è dumque delettazione senza
contrarietà? tansillo Certo non, come senza contrarietà non è do- lore,
qualmente manifesta quel pitagorico poeta quando dice: Hinc metuunt cupiuntque,
dolent gaudentque, nec auras respiciunt, clausae tenebris et carcere caeco.
Ecco dumque quel che caggiona la composizion de le cose. Quindi aviene che
nessuno s’appaga del stato suo, eccetto qualch’insensato e stolto, e tanto più
quanto più si ritrova nel maggior grado del fosco inter- vallo de la sua
pazzia: all’ora ha poca o nulla appren- sion del suo male, gode l’esser
presente senza temer del futuro; gioisce di quel ch’è e per quello in che si trova,
e non ha rimorso o cura di quel ch’è o può essere, et in fine non ha senso
della contrarietade la quale è figurata per l’arbore della scienza del bene e
del male. cicada Da qua si vede che l’ignoranza è madre della felicità e
beatitudine sensuale, e questa medesima è l’orto del paradiso de gli animali;
come si fa chiaro nelli dialogi de la Cabala del cavallo Pegaseo e per quel che
dice il sapiente Salomone: «chi aumenta sa- pienza, aumenta dolore». tansillo
Da qua avviene che l’amore eroico è un tor- mento, perché non gode del presente
come il brutale amore; ma e del futuro e de l’absente; e del contrario sente
l’ambizione, emulazione, suspetto e timore. In- di dicendo una sera dopo cena
un certo de nostri vici- ni: «Giamai fui tanto allegro quanto sono adesso» gli
rispose Gioan Bruno, padre del Nolano: «Mai fuste più pazzo che adesso». cicada
Volete dumque che colui che è triste sia savio, e quell’altro ch’è più triste,
sia più savio? tansillo Non, anzi intendo in questi essere un’altra specie di
pazzia, et oltre peggiore. cicada Chi dumque sarà savio, se pazzo è colui ch’è
contento, e pazzo è colui ch’è triste? tansillo Quel che non è contento né
triste. cicada Chi? quel che dome? quel ch’è privo di senti- mento? quel ch’è
morto? tansillo No: ma quel ch’è vivo, vegghia et intende; il quale
considerando il male et il bene, stimando l’uno e l’altro come cosa variabile e
consistente in moto, mutazione e vicissitudine (di sorte ch’il fine d’un con-
trario è principio de l’altro, e l’estremo de l’uno è co- minciamento de
l’altro), non si dismette, né si gonfia di spirito, vien continente
nell’inclinazioni e tempera- to nelle voluptadi: stante ch’a lui il piacere non
è pia- cere, per aver come presente il suo fine. Parimente la pena non gli è
pena, perché con la forza della consi- derazione ha presente il termine di
quella. Cossì il sa- piente ha tutte le cose mutabili come cose che non so- no,
et afferma quelle non esser altro che vanità et un niente: perché il tempo a
l’eternità ha proporzione come il punto a la linea. cicada Sì che mai possiamo
tener proposito d’esser contenti o mal contenti, senza tener proposito de la
nostra pazzia, la qual espressamente confessiamo; là onde nessun che ne
raggiona, e per conseguenza nes- sun che n’è partecipe, sarà savio: et infine
tutti gli omini saran pazzi. tansillo Non tendo ad inferir questo, perché dirò
mas- sime savio colui che potesse veramente dire talvolta il contrario di quel
che quell’altro: «Giamai fui men alle- gro che adesso» over: «Giamai fui men
triste che ora». cicada Come non fai due contrarie qualitadi dove son doi
affetti contrarii? perché, dico, intendi come due virtudi, e non come un vizio
et una virtude, l’esser mi- nimamente allegro, e l’esser minimamente triste?
tansillo Perché ambi doi li contrarii in eccesso (cioè per quanto vanno a dar
su quel più) son vizii, perché passano la linea; e gli medesimi in quanto vanno
a dar sul meno, vegnono ad esser virtude, perché si conte- gnono e rinchiudono
intra gli termini. cicada Come l’esser men contento e l’esser men triste non
son una virtù et uno vizio, ma son due virtudi? tansillo Anzi dico che son una
e medesima virtude: perché il vizio è là dove è la contrarietade; la contrarie-
tade è massime là dove è l’estremo; la contrarietà mag- giore è la più vicina all’estremo;
la minima o nulla è nel mezzo, dove gli contrarii convegnono e son uno et in-
differente: come tra il freddissimo e caldissimo è il più caldo et il più
freddo; e nel mezzo puntuale è quello che puoi dire o caldo e freddo, o né
caldo né freddo, senza contrarietade. In cotal modo chi è minimamente con-
tento e minimamente triste, è nel grado della indifferen- za, si trova nella
casa della temperanza, e là dove consi- ste la virtude e condizion d’un animo
forte, che non vien piegato da l’Austro né da l’Aquilone. Ecco dum- que (per
venir al proposito) come questo furor eroico, che si chiarisce nella presente
parte, è differente da gli altri furori più bassi, non come virtù dal vizio: ma
come un vizio ch’è in un suggetto più divino o divinamente, da un vizio ch’è in
un suggetto più ferino o ferinamente. Di maniera che la differenza è secondo
gli suggetti e modi differenti, e non secondo la forma de l’esser vizio. cicada
Molto ben posso da quel ch’avete detto, con- chiudere la condizion di questo eroico
furore che di- ce “gelate ho spene, e li desir cuocenti”; perché non è nella
temperanza della mediocrità, ma nell’eccesso delle contrarietadi ha l’anima
discordevole: se triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti desiri; è
per l’avidità «stridolo», «mutolo» per il timore; «Sfavilla dal core per cura
d’altrui», e per compassion sé versa lacrime da gli occhi; muore ne l’altrui
risa, vive ne’ proprii lamenti; e (come colui che non è più suo) altri ama,
odia se stesso: perché la materia (come dicono gli fisici) con quella misura
ch’ama la forma absente, odia la presente. E cossì conclude nell’ottava la
guer- ra ch’ha l’anima in se stessa; e poi quando dice ne la sestina “ma s’io
m’impiumo, altri si cangia in sasso” e quel che séguita, mostra le sue passioni
per la guerra ch’essercita con li contrarii esterni. Mi ricordo aver letto in
Iamblico, dove tratta de gli Egizii misterii, questa sentenza: «Impius animam
dissidentem habet: unde nec secum ipse convenire potest neque cum aliis».
tansillo Or odi un altro sonetto di senso consequen- te al detto: Ahi, qual
condizioni natura, o sorte: in viva morte morta vita vivo. Amor m’ha morto (ahi
lasso) di tal morte, che son di vit’insiem’e morte privo. Voto di spene,
d’inferno a le porte, e colmo di desio al ciel arrivo: talché suggetto a doi
contrarii eterno, bandito son dal ciel e da l’inferno. Non han mie pene
triegua, perch’in mezzo di due scorrenti ruote, de quai qua l’una, là l’altra
mi scuote, qual Ixion convien mi fugga e siegua: perché al dubbio discorso dan
lezzion contraria il sprone e ’l morso. Mostra qualmente patisca quel disquarto
e distrazio- ne in se medesimo: mentre l’affetto, lasciando il mez- zo e meta
de la temperanza, tende a l’uno e l’altro estremo; e talmente si trasporta alto
o a destra, che anco si trasporta a basso et a sinistra. Letteratura italiana
Einaudi Bruno - De gli eroici furori cicada Come con questo che non è proprio
de l’uno né de l’altro estremo, non viene ad essere in stato o termine di
virtude? tansillo All’ora è in stato di virtude, quando si tiene al mezzo
declinando da l’uno e l’altro contrario: ma quando tende a gli estremi
inchinando a l’uno e l’altr di quelli, tanto gli manca de esser virtude, che è
dop- pio vizio, il qual consiste in questo che la cosa recede dalla sua natura,
la perfezzion della quale consiste nell’unità: e là dove convegnono gli
contrarii, consta la composizione, e consiste la virtude. Ecco dumque come è
morto vivente, o vivo moriente; là onde dice: “in viva morte morta vita vivo”.
Non è morto, perché vive ne l’oggetto; non è vivo, perché è morto in se stesso:
privo di morte, perché parturisce pensieri in quello; privo di vita, perché non
vegeta o sente in se medesimo. Appresso è bassissimo per la considera- zion de
l’alto intelligibile e la compresa imbecillità della potenza; è altissimo per
l’aspirazione dell’eroico desio che trapassa di gran lunga gli suoi termini, et
è altissimo per l’appetito intellettuale che non ha modo e fine di gionger
numero a numero; è bassissimo per la violenza fattagli dal contrario sensuale
che verso l’inferno impiomba. Onde trovandosi talmente pog- giar e descendere,
sente ne l’alma il più gran dissidio che sentir si possa; e confuso rimane per
la ribellion del senso, che lo sprona là d’onde la raggion l’affrena, e per il
contrario. – Il medesimo affatto si dimostra nella seguente sentenza dove la
raggione in nome de Filenio dimanda, et il furioso risponde in nome di Pa-
store, che alla cura del gregge o armento de suoi pen- sieri si travaglia; quai
pasce in ossequio e serviggio de la sua ninfa, ch’è l’affezzione di
quell’oggetto alla cui osservanza è fatto cattivo: fileno Pastor. pastore Che
vuoi? Letteratura italiana Einaudi 43 fileno pastore fileno pastore
fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore
fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore
fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore
fileno pastore fileno Che fai? Doglio. Perché? Perché non m’ha per suo vita, né
morte. Chi fallo? Amor. Quel rio? Quel rio. Dov’è? Nel centro del mio cor se
tien sì forte. Che fa? Fere. Chi? Me. Te? Sì. Con che? Con gli occhi de
l’inferno e del ciel porte. Speri? Spero. Mercé? Mercé. Da chi? Da chi sì mi
martóra nott’e dì. Hanne? Non so. Sei folle. Che, se cotal follia a l’alma
piace? Promette? Non. Niega? Nemeno. Tace? Sì, perché ardir tant’onestà mi
tolle. Vaneggi. In che? Nei stenti. pastore Temo il suo sdegno, più che miei
tormenti. Qua dice che spasma: lamentasi dell’amore, non già perché ami (atteso
che a nessuno veramente amante dispiace l’amare), ma perché infelicemente ami:
men- tre escono que’ strali che son gli raggi di quei lumi, che medesimi
secondo che son protervi e ritrosi, ove- ramente benigni e graziosi, vegnono ad
esser porte che guidano al cielo, overamente a l’inferno. Con questo vien
mantenuto in speranza di futura et incer- ta mercé, et in effetto di presente e
certo martìre. E quantunque molto apertamente vegga la sua follia, non per
tanto avvien che in punto alcuno si correga, o che almen possa conciperne
dispiacere; perché tanto ne manca, che più tosto in essa si compiace, come
mostra dove dice: Mai fia che dell’amor io mi lamente, senza del qual non
vogli’esser felice. Appresso, mostra un’altra specie di furore parturita da
qualche lume di raggione, la qual suscita il timore, e supprime la già detta, a
fin che non proceda a fatto, che possa inasprir o sdegnar la cosa amata. Dice
dum- que la speranza esser fondata sul futuro, senza che co- sa alcuna se gli
prometta o nieghe: per che lui tace, e non dimanda, per téma d’offender
l’onestade. Non ardisce esplicarsi e proporsi, onde fia o con ripudio escluso,
overamente con promessa accettato: perché nel suo pensiero più contrapesa quel
che potrebbe es- ser di male in un caso, che bene in un altro. Mostrasi dumque
disposto di suffrir più presto per sempre il proprio tormento, che di poter
aprir la porta a l’occa- sione per la quale la cosa amata si turbe e contriste.
cicada Con questo dimostra l’amor suo esser vera- mente eroico: perché si
propone per più principal fi- ne la grazia del spirito e la inclinazion de
l’affetto, che la bellezza del corpo, in cui si termina quell’amor ch’ha del
divino. tansillo Sai bene che il rapto platonico è di tre spe- cie, de quali
l’uno tende alla vita contemplativa o spe- culativa, l’altro a l’attiva morale,
l’altro a l’ociosa e vo- luptuaria: cossì son tre specie d’amori; de quali
l’uno dall’aspetto della forma corporale s’inalza alla consi- derazione della
spirituale e divina; l’altro solamente persevera nella delettazion del vedere e
conversare; l’altro dal vedere va a precipitarsi nella concupiscenza del
toccare. Di questi tre modi si componenti altri, se- condo che o il primo
s’accompagna col secondo, o che s’accompagna col terzo, o che con correno tutti
tre modi insieme: de li quali ciascuno e tutti oltre si moltiplicano in altri,
secondo gli affetti de furiosi che tendeno o più verso l’obietto spirituale, o
più verso l’obietto corporale, o equalmente verso l’uno e l’altro. Onde avviene
che di quei che si ritrovano in questa milizia e son compresi nelle reti
d’amore, altri tende- no a fin del gusto che si prende dal raccòrre le poma da
l’arbore de la corporal bellezza, senz’il qual otten- to (o speranza al meno)
stimano degno di riso e vano ogn’amoroso studio: et in cotal modo corrono tutti
quei che son di barbaro ingegno, che non possono né cercano magnificarsi amando
cose degne, aspirando a cose illustri, e più alto a cose divine accomodando gli
suoi studi e gesti, a i quali non è chi possa più ricca e commodamente
suppeditar l’ali, che l’eroico amore. Altri si fanno avanti a fin del frutto
della delettazione che prendeno da l’aspetto della bellezza e grazia del
spirito che risplende e riluce nella leggiadria del cor- po; e de tali alcuni
benché amino il corpo e bramino assai d’esser uniti a quello, della cui
lontananza si la- gnano, e disunion s’attristano, tutta volta temeno che
presumendo in questo non vegnan privi di quell’affa- bilità, conversazione,
amicizia et accordo che gli è più Letteratura italiana Einaudi 46
Giordano Bruno - De gli eroici furori principale: essendo e dal tentare
non più può aver si- curezza di successo grato, che gran téma di cader da
quella grazia qual come cosa tanto gloriosa e degna gli versa avanti gli occhi
del pensiero. cicada È cosa degna, o Tansillo, per molte virtudi e perfezzioni
che quindi derivano nell’umano ingegno, cercar, accettar, nodrire e conservar
un simile amore: ma si deve ancora aver gran cura di non abbattersi ad
ubligarsi ad un oggetto indegno e basso, a fin che non vegna a farsi partecipe
della bassezza et indignità del medesimo; in proposito de quali intendo il
consiglio del poeta ferrarese: Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi
ritrarlo, e non v’inveschi l’ali. tansillo A dir il vero, l’oggetto ch’oltre la
bellezza del corpo non hav’altro splendore, non è degno d’esser amato ad altro
fine che di far (come dicono) la razza: e mi par cosa da porco o da cavallo di
tormentarvici su; et io (per me) mai fui più fascinato da cosa simile, che
potesse al presente esser fascinato da qualche sta- tua o pittura, dalle quali
mi pare indifferente. Sarebbe dumque un vituperio grande ad un animo generoso,
se d’un sporco, vile, bardo et ignobile ingegno (quan- tunque sotto eccellente
figura venesse ricuoperto) dica: “Temo il suo sdegno più ch’il mio tormento”. tansillo Poneno, e sono più specie de furori,
li quali tutti si riducono a doi geni: secondo che altri non mo- strano che
cecità, stupidità et impeto irrazionale, che tende al ferino insensato; altri
consistono in certa di- vina abstrazzione per cui dovegnono alcuni megliori in
fatto che uomini ordinarii. E questi sono de due specie perché: altri per
esserno fatti stanza de dèi o spiriti divini, dicono et operano cose mirabile
senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e tali per l’ordinario
sono promossi a questo da l’esser stati prima indisciplinati et ignoranti,
nelli quali come vòti di proprio spirito e senso, come in una stanza purga- ta,
s’intrude il senso e spirto divino; il qual meno può aver luogo e mostrarsi in
quei che son colmi de pro- pria raggione e senso, perché tal volta vuole ch’il
mondo sappia certo che se quei non parlano per pro- prio studio et esperienza
come è manifesto, séguite che parlino et oprino per intelligenza superiore: e
con questo la moltitudine de gli uomini in tali degnamen- te ha maggior
admirazion e fede. Altri, per essere avezzi o abili alla contemplazione, e per
aver innato un spirito lucido et intellettuale, da uno interno sti- molo e
fervor naturale suscitato da l’amor della divi- nitate, della giustizia, della
veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio dell’intenzione acuiscono
gli sensi, e nel solfro della cogitativa facultade accendo- no il lume
razionale con cui veggono più che ordina- riamente: e questi non vegnono al
fine a parlar et ope- rar come vasi et instrumenti, ma come principali artefici
et efficienti. cicada Di questi doi geni quali stimi megliori? tansillo Gli
primi hanno più dignità, potestà et effi- cacia in sé: perché hanno la
divinità. Gli secondi seri essi più degni, più potenti et efficaci, e son
divini. Gli primi son degni come l’asino che porta li sacramenti: gli secondi
come una cosa sacra. Nelli primi si consi- dera e vede in effetto la divinità e
quella s’admira, adora et obedisce. Ne gli secondi si considera e vede
l’eccellenza della propria umanitade. – Or venemo al proposito. Questi furori
de quali noi raggioniamo, e che veggiamo messi in esecuzione in queste
sentenze, non son oblio, ma una memoria; non son negligenze di se stesso, ma
amori e brame del bello e buono con cui si procure farsi perfetto con
transformarsi et asso- migliarsi a quello. Non è un raptamento sotto le leggi
d’un fato indegno, con gli lacci de ferine affezzioni: ma un impeto razionale
che siegue l’apprension intel- lettuale del buono e bello che conosce; a cui
vorrebbe conformandosi parimente piacere, di sorte che della nobiltà e luce di
quello viene ad accendersi, et inve- stirsi de qualitade e condizione per cui
appaia illustre e degno. Doviene un dio dal contatto intellettuale di quel nume
oggetto; e d’altro non ha pensiero che de cose divine, e mostrasi insensibile
et impassibile in quelle cose che comunmente massime senteno, e da le quali più
vegnon altri tormentati; niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli
altri piaceri, e non fa pensiero alcuno de la vita. Non è furor d’atra bile che
fuor di consiglio, raggione et atti di prudenza lo faccia vagare guidato dal
caso e rapito dalla disordi- nata tempesta; come quei ch’avendo prevaricato da
certa legge de la divina Adrastia vegnono condannati sotto la carnificina de le
Furie: acciò sieno essagitati da una dissonanza tanto corporale per sedizioni,
rui- ne e morbi, quanto spirituale per la iattura dell’armo- nia delle potenze
cognoscitive et appetitive. Ma è un calor acceso dal sole intelligenziale ne
l’anima et im- peto divino che gl’impronta l’ali: onde più e più avvi-
cinandosi al sole intelligenziale, rigettando la ruggine de le umane cure,
dovien un oro probato e puro, ha sentimento della divina et interna armonia,
concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte
le cose. Non come inebriato da le tazze di Circe va cespitando et urtando or in
questo, or in quell’altro fosso, or a questo or a quell’altro scoglio; o come
un Proteo vago or in questa or in quell’altra fac- cia cangiandosi, giamai
ritrova loco, modo, né mate- ria di fermarsi e stabilirsi. Ma senza distemprar
l’ar- monia vince e supera gli orrendi mostri; e per tanto che vegna a
dechinare, facilmente ritorna al sesto con quelli intimi instinti, che come
nove muse saltano e cantano circa il splender dell’universale Apolline: e sotto
l’imagini sensibili e cose materiali va compren- dendo divini ordini e
consegli. È vero che tal volta avendo per fida scorta l’amore, ch’è gemino, e
perché tal volta per occorrenti impedimenti si vede defrauda- to dal suo
sforzo, all’ora come insano e furioso mette in precipizio l’amor di quello che
non può compren- dere: onde confuso da l’abisso della divinità tal volta
dismette le mani, e poi ritorna pure a forzarsi con la voluntade verso là dove
non può arrivare con l’intel- letto. È vero pure che ordinariamente va
spasseggian- do, et or più in una, or più in un’altra forma del gemi- no Cupido
si trasporta; perché la lezzion principale che gli dona Amore è che in ombra
contempla (quan- do non puote in specchio) la divina beltate: e come gli proci
di Penelope s’intrattegna con le fante quando non gli lice conversar con la
padrona. Or dumque, per conchiudere, possete da quel ch’è detto compren- dere
qual sia questo furioso di cui l’imagine ne vien messa avanti, quando si dice:
Se la farfalla al suo splendor ameno vola, non sa cb’è fiamm’al fin discara; se
quand’il cervio per sete vien meno, al rio va, non sa della freccia amara; s’il
lioncorno corre al casto seno non vede il laccio che se gli prepara: i’al lum’,
al font’, al grembo del mio bene, veggio le fiamme, i strali e le catene. S’è
dolce il mio languire, perché quell’alta face sì m’appaga, perché l’arco divin
sì dolce impiaga, perché in quel nodo è avolto il mio desire: mi sien eterni
impacci fiamme al cor, strali al petto, a l’alma lacci. Dove dimostra l’amor
suo non esser come de la farfal- la, del cervio e del lioncorno, che
fuggirebono s’aves- ser giudizio del fuoco, della saetta e de gli lacci, e che
non han senso d’altro che del piacere: ma vien guida- to da un sensatissimo e
pur troppo oculato furore, che gli fa amare più quel fuoco che altro
refrigerio, più quella piaga che altra sanità, più que’ legami che altra
libertade. Perché questo male non è absoluta- mente male: ma per certo rispetto
al bene secondo l’opinione, e falso; quale il vecchio Saturno ha per condimento
nel devorar che fa de proprii figli. Perché questo male absolutamente ne
l’occhio de l’eternitade è compreso o per bene, o per guida che ne conduce a
quello; atteso che questo fuoco è l’ardente desio de le cose divine, questa
saetta è l’impression del raggio della beltade della superna luce, questi lacci
son le specie del vero che uniscono la nostra mente alla pri- ma verità: e le
specie del bene che ne fanno uniti e gionti al primo e sommo bene. A quel senso
io m’ac- costai quando dissi: D’un sì bel fuoco e d’un sì nobil laccio beltà
m’accende, et onestà m’annoda, ch’in fiamm’e servitù convien ch’io goda, fugga
la libertade e tema il ghiaccio; l’incendio è tal ch’io m’ard’e non mi sfaccio,
el nodo è tal ch’il mondo meco il loda, né mi gela timor, né duol mi snoda; ma
tranquill’è l’ardor, dolce l’impaccio. Scorgo tant’alto il lume che m’infiamma,
el laccio ordito di sì ricco stame, che nascend’il pensier, more il desio. Poiché
mi splend’al cor sì bella fiamma, e mi stringe il voler sì bel legame, sia
serva l’ombra, et arda il cener mio. Tutti gli amori (se sono eroici e non son
puri animali, che chiamano naturali e cattivi alla generazione, come
instrumenti de la natura in certo modo) hanno per oggetto la divinità, tendeno
alla divina bellezza, la quale prima si comunica all’anime e risplende in quel-
le, e da quelle poi o (per dir meglio) per quelle poi si comunica alli corpi:
onde è che l’affetto ben formato ama gli corpi o la corporal bellezza, per quel
che è in- dice della bellezza del spirito. Anzi quello che n’inna- mora del
corpo è una certa spiritualità che veggiamo in esso, la qual si chiama
bellezza; la qual non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non nelli
deter- minati colori o forme, ma in certa armonia e conso- nanza de membri e
colori . Questa mostra certa sensi- bile affinità col spirito a gli sensi più
acuti e penetrativi: onde séguita che tali più facilmente et in- tensamente
s’innamorano, et anco più facilmente si disamorano, e più intensamente si
sdegnano, con quella facilità et intensione, che potrebbe essere nel
cangiamento del spirito brutto, che in qualche gesto et espressa intenzione si
faccia aperto: di sorte che tal bruttezza trascorre da l’anima al corpo, a
farlo non apparir oltre come gli apparia bello. La beltà dumque del corpo ha
forza d’accendere; ma non già di legare e far che l’amante non possa fuggire,
se la grazia che si richiede nel spirito non soccorre, come la onestà, la
gratitudine, la cortesia, l’accortezza: però dissi bello quel fuoco che
m’accese, perché ancor fu nobile il laccio che m’annodava. cicada Non creder
sempre cossì, Tansillo; perché qualche volta quantunque discuopriamo vizioso il
spirito non lasciamo però di rimaner accesi et allac- ciati: di maniera che
quantunque la raggion veda il male et indignità di tale amore, non ha però
efficacia di alienar il disordinato appetito. Nella qual disposi- zion credo
che fusse il Nolano quando disse: Oimè che son constretto dal furore
d’appigliarmi al mio male, ch’apparir fammi un sommo ben Amore. Lasso, a l’alma
non cale ch’a contrarii consigli umqua ritenti; e del fero tiranno, che mi
nodrisce in stenti, e poté pormi da me stess’in bando, più che di libertad’ i’
son contento. Spiego le vele al vento, che mi suttraga a l’odioso bene: e
tempestoso al dolce danno amene. tansillo Questo accade, quando l’uno e l’altro
spirto è vizioso, e son tinti come di medesimo inchiostro, at- teso che dalla
conformità si suscita, accende e si con- firma l’amore. Cossì gli viziosi
facilmente concordano in atti di medesimo vizio. E non voglio lasciar de dire
ancora quel che per esperienza conosco, che quan- tunque in un animo abbia
discuoperti vizii molto abominati da me, com’è dire una sporca avarizia, una
vilissima ingordiggia sul danaio, irreconoscenza di ri- cevuti favori e
cortesie, un amor di persone al tutto vili (de quali vizii questo ultimo
massime dispiace perché toglie la speranza a l’amante che per esser egli, o
farsi più degno, possa da lei esser più accettato), tutta volta non mancava
ch’io ardesse per la beltà cor- porale. Ma che? io l’amavo senza buona volontà,
es- sendo che non per questo m’arrei più contristato che allegrato delle sue
disgrazie et infortunii. cicada Però è molto propria et a proposito quella di-
stinzion che fanno intra l’amare e voler bene. tansillo È vero, perché a molti
vogliamo bene, cioè desideramo che siano savii e giusti: ma non le amia- mo,
perché sono iniqui et ignoranti; molti amiamo perché son belli, ma non gli
vogliamo bene, perché non meritano: e tra l’altre cose che stima l’amante
quello non meritare, la prima è d’essere amato; e però benché non possa
astenersi d’amare, niente di meno gli ne rincresce e mostra il suo
rincrescimento: come costui che diceva, «Oimè ch’io son costretto dal furo- re
d’appigliarmi al mio male». In contraria disposizio- ne fu, o per altro oggetto
corporale in similitudine, o per suggetto divino in verità, quando disse:
Bench’a tanti martir mi fai suggetto, pur ti ringrazio, e assai ti deggio,
Amore, che con sì nobil piaga apriste il petto, e tal impadroniste del mio
core, per cui fia ver ch’un divo e viv’oggetto, de Dio più bella imago ’n terra
adore; pensi chi vuol ch’il mio destin sia rio, ch’uccid’in speme, e fa viv’in
desio. Pascomi in alta impresa; e bench’il fin bramato non consegua, e ’n tanto
studio l’alma si dilegua, basta che sia sì nobilment’ accesa: basta ch’alto mi
tolsi, e da l’ignobil numero mi sciolsi. L’amor suo qua è a fatto eroico e
divino, e per tale voglio intenderlo: benché per esso si dica suggetto a tanti
martìri; perché ogni amante ch’è disunito e se- parato da la cosa amata (alla
quale com’è congionto con l’affetto, vorrebe essere con l’effetto) si trova in
cordoglio e pena, si crucia e si tormenta: non già per- ché ami, atteso che
degnissima e nobilissimamente sente impiegato l’amore; ma perché è privo di
quella fruizione la quale ottenerebbe se fusse gionto a quel termine al qual
tende: non dole per il desio che ravvi- va, ma per la difficultà del studio ch’il
martora. Sti- minlo dumque altri a sua posta infelice per questa ap- parenza de
rio destino, come che l’abbia condannato a cotai pene: perché egli non lasciarà
per tanto de ri- conoscer l’obligo ch’have ad Amore, e rendergli gra- zie,
perché gli abbia presentato avanti gli occhi de la mente una specie
intelligibile, nella quale in questa terrena vita (rinchiuso in questa
priggione de la car- ne, et avvinto da questi nervi, e confirmato da queste
ossa) li sia lecito di contemplar più altamente la divi- nitade, che se altra
specie e similitudine di quella si fusse offerta. cicada Il “divo” dumque “e
vivo oggetto”, ch’ei dice, è la specie intelligibile più alta che egli s’abbia
possu- to formar della divinità; e non è qualche corporal bel- lezza che gli adombrasse
il pensiero come appare in superficie del senso? tansillo Vero: perché nessuna
cosa sensibile, né spe- cie di quella, può inalzarsi a tanta dignitade. cicada
Come dumque fa menzione di quella specie per oggetto, se (come mi pare) il vero
oggetto è la di- vinità istessa? tansillo La è oggetto finale, ultimo e
perfettissimo; non già in questo stato dove non possemo veder Dio se non come
in ombra e specchio, e però non ne può esser oggetto se non in qualche
similitudine; non tale Lequal possa esser abstratta et acquistata da bellezza
et eccellenza corporea per virtù del senso: ma qual può esser formata nella
mente per virtù de l’intelletto. Nel qual stato ritrovandosi, viene a perder
l’amore et af- fezzion d’ogni altra cosa tanto sensibile quanto intelli-
gibile; perché questa congionta a quel lume dovien lume essa ancora, e per
conseguenza si fa un Dio: per- ché contrae la divinità in sé essendo ella in
Dio per la intenzione con cui penetra nella divinità (per quanto si può), et
essendo Dio in ella, per quanto dopo aver penetrato viene a conciperla e (per
quanto si può) a ricettarla e comprenderla nel suo concetto. Or di queste
specie e similitudini si pasce l’intelletto umano da questo mondo inferiore,
sin tanto che non gli sia lecito de mirar con più puri occhi la bellezza della
di- vinitade: come accade a colui che è gionto a qualch’edificio
eccellentissimo et ornatissimo, mentre va considerando cosa per cosa in quello,
si aggrada, si contenta, si pasce d’una nobil maraviglia; ma se av- verà poi
che vegga il signor di quelle imagini, di bel- lezza incomparabilmente
maggiore, lasciata ogni cura e pensiero di esse, tutto è volto et intento a
considerar quell’uno. Ecco dumque come è differenza in questo stato dove
veggiamo la divina bellezza in specie intel- ligibili tolte da gli effetti,
opre, magisteri, ombre e si- militudini di quella, et in quell’altro stato dove
sia le- cito di vederla in propria presenza. – Dice appresso: “Pascomi
d’alt’impresa”, perché (come notano gli Pi- tagorici) cossì l’anima si versa e
muove circa Dio, co- me il corpo circa l’anima. cicada Dumque il corpo non è
luogo de l’anima? tansillo Non: perché l’anima non è nel corpo local- mente, ma
come forma intrinseca e formatore estrin- seco; come quella che fa gli membri,
e figura il com- posto da dentro e da fuori. Il corpo dumque è ne l’anima,
l’anima nella mente, la mente o è Dio, o è in Letteratura italiana Einaudi
56 Giordano Bruno - De gli eroici furori Dio, come disse Plotino:
cossì come per essenza è in Dio che è la sua vita, similmente per l’operazione
in- tellettuale e la voluntà conseguente dopo tale opera- zione, si riferisce
alla sua luce e beatifico oggetto. De- gnamente dumque questo affetto del
eroico furore si pasce de sì alta impresa. Né per questo che l’obietto è infinito,
in atto simplicissimo, e la nostra potenza in- tellettiva non può apprendere
l’infinito se non in di- scorso, o in certa maniera de discorso, com’è dire in
certa raggione potenziale o aptitudinale, è come colui che s’amena a la
consecuzion de l’immenso onde ve- gna a constituirse un fine dove non è fine.
cicada Degnamente, perché l’ultimo fine non deve aver fine, atteso che non
sarebe ultimo. È dumque in- finito in intenzione, in perfezzione, in essenza et
in qualsivoglia altra maniera d’esser fine. [tansillo] Dici il vero. Or in
questa vita tal pastura è di maniera tale, che più accende, che possa appagar
il desio, come ben mostra quel divino poeta che disse: «Bramando è lassa l’alma
a Dio vivente», et in altro luogo: «Attenuati sunt oculi mei suspicientes in
excel- sum». Però dice: «E bench’il fin bramato non conse- gua, E ’n tanto
studio l’alma si dilegua, Basta che sia sì nobilmente accesa»: vuol dire ch’in
tanto l’anima si consola e riceve tutta la gloria che può ricevere in co- tal
stato, e che sia partecipe di quel ultimo furor de l’uomo in quanto uomo di
questa condizione, nella qual si trova adesso, e come ne veggiamo. cicada Mi
par che gli peripatetici (come esplicò Aver- roe) vogliano intender questo
quando dicono la som- ma felicità de l’uomo consistere nella perfezzione per le
scienze speculative. tansillo È vero, e dicono molto bene: perché noi in questo
stato nel qual ne ritroviamo, non possiamo de- siderar né ottener maggior
perfezzione che quella in cui siamo quando il nostro intelletto mediante qual-
Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori che nobil specie
intelligibile s’unisce o alle sustanze seperate, come dicono costoro, o a la
divina mente, come è modo de dir de Platonici. Lascio per ora di raggionar de
l’anima o uomo in altro stato e modo di essere che possa trovarsi o credersi.
cicada Ma che perfezzione o satisfazzione può trovar l’uomo in quella
cognizione la quale non è perfetta? tansillo Non sarà mai perfetta per quanto
l’altissimo oggetto possa esser capito, ma per quanto l’intelletto nostro possa
capire: basta che in questo et altro stato gli sia presente la divina bellezza
per quanto s’estende l’orizonte della vista sua. cicada Ma de gli uomini non
tutti possono giongere a quello dove può arrivar uno o doi. tansillo Basta che
tutti corrano; assai è ch’ognun fac- cia il suo possibile; perché l’eroico
ingegno si conten- ta più tosto di cascar o mancar degnamente e nell’alte
imprese, dove mostre la dignità del suo ingegno, che riuscir a perfezzione in
cose men nobili e basse. cicada Certo che meglio è una degna et eroica morte,
che un indegno e vil trionfo. tansillo A cotal proposito feci questo sonetto:
Poi che spiegat’ho l’ali al bel desio, quanto più sott’il piè l’aria mi scorgo,
più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e vers’il ciel m’invio.
Né del figliuol di Dedalo il fin rio fa che giù pieghi, anzi via più risorgo;
ch’i’cadrò morto a terra ben m’accorgo: ma qual vita pareggia al morir mio? La
voce del mio cor per l’aria sento: «Ove mi porti, temerario? china, che raro è
senza duol tropp’ardimento»; «Non temer (respond’io) l’alta ruina. Fendi sicur
le nubi, e muor contento: s’il ciel sì illustre morte ne destina». cicada Io
intendo quel che dice: “basta ch’alto mi tol- si”; ma non quando dice: “e da
l’ignobil numero mi sciolsi”, s’egli non intende d’esser uscito fuor de l’an-
tro platonico, rimosso dalla condizion della sciocca et ignobilissima
moltitudine; essendo che quei che pro- fittano in questa contemplazione non
possono esser molti e numerosi. tansillo Intendi molto bene; oltre, per
“l’ignobil nu- mero” può intendere il corpo e sensual cognizione dalla quale
bisogna alzarsi e disciòrsi chi vuol unirsi alla natura di contrario geno.
cicada Dicono gli Platonici due sorte de nodi con gli quali l’anima è legata al
corpo. L’uno è certo atto vivi- fico che da l’anima come un raggio scende nel
corpo; l’altro è certa qualità vitale che da quell’atto resulta nel corpo. Or
questo numero nobilissimo movente ch’è l’anima, come intendete che sia
disciolto da l’ignobil numero ch’è il corpo? tansillo Certo non s’intendeva
secondo alcun modo di questi: ma secondo quel modo con cui le potenze che non
son comprese e cattivate nel grembo de la materia, e qualche volta come sopite
et inebriate si trovano quasi ancora esse occupate nella formazion della
materia e vivificazion del corpo; tal’or come ri- svegliate e ricordate di se
stesse riconoscendo il suo principio e geno, si voltano alle cose superiori, si
for- zano al mondo intelligibile come al natio soggiorno; quali tal volta da là
per la conversione alle cose infe- riori, si son trabalsate sotto il fato e
termini della ge- nerazione. Questi doi appolsi son figurati nelle due specie
de metamorfosi espresse nel presente articolo che dice: Quel dio che scuot’il
folgore sonoro, Asterie vedde furtivo aquilone, Mnemosine pastor, Danae oro,
Alcmena sposo, Antiopa caprone; fu di Cadmo a le suore bianco toro, a Leda
cigno, a Dolida dragane: io per l’altezza de l’oggetto mio da suggetto più vil
dovegno un dio. Fu cavallo Saturno, Nettun delfin, e vitello si tenne Ibi, e
pastor Mercurio dovenne, un’uva Bacco, Apollo un corvo furno: et io (mercé
d’amore) mi cangio in dio da cosa inferiore. Nella natura è una revoluzione et
un circolo per cui, per l’altrui perfezzione e soccorso, le cose superiori
s’inchinano all’inferiori, e per la propria eccellenza e felicitade le cose
inferiori s’inalzano alle superiori. Però vogliono i Pitagorici e Platonici
esser donato a l’anima ch’a certi tempi non solo per spontanea vo- luntà, la
qual le rivolta alla comprension de le nature, ma et anco della necessità d’una
legge interna scritta e registrata dal decreto fatale vanno a trovar la propria
sorte giustamente determinata. E dicono che l’anime non tanto per certa
determinazione e proprio volere come ribelle declinano dalla divinità, quanto
per cer- to ordine per cui vegnono affette verso la materia: on- de non come
per libera intenzione, ma come per certa occolta conseguenza vegnono a cadere;
e questa è l’inclinazion ch’hanno alla generazione, come a certo minor bene.
(Minor bene dico per quanto appartiene a quella natura particolare, non già per
quanto appar- tiene alla natura universale dove niente accade senza ottimo fine
che dispone il tutto secondo la giustizia.) Nella qual generazione ritrovandosi
(per la conversio- ne che vicissitudinalmente succede) de nuovo ritorna- no a
gli abiti superiori. cicada Sì che vogliono costoro che l’anime sieno spin- te
dalla necessità del fato, e non hanno proprio consi- glio che le guide a fatto?
tansillo Necessità, fato, natura, consiglio, voluntà, nelle cose giustamente e
senza errore ordinate, tutti concorrenti in uno. Oltre che (come riferisce
Ploti- no) vogliono alcuni che certe anime possono fuggir quel proprio male, le
quali prima che se gli confirme l’abito corporale, conoscendo il periglio
rifuggono alla mente. Perché la mente l’inalza alle cose sublimi, come
l’imaginazion l’abbassa alle cose inferiori: la mente le mantiene nel stato et
identità come l’imagi- nazione nel moto e diversità; la mente sempre inten- de
uno, come l’imaginazione sempre vassi fingendo varie imagini. In mezzo è la
facultà razionale la quale è composta de tutto, come quella in cui concorre
l’uno con la moltitudine, il medesimo col diverso, il moto col stato,
l’inferiore col superiore. – Or questa conversione e vicissitudine è figurata
nella ruota del- le metamorfosi, dove siede l’uomo nella parte emi- nente,
giace una bestia al fondo, un mezzo uomo e mezzo bestia descende dalla
sinistra, et un mezzo be- stia e mezzo uomo ascende da la destra. Questa con-
versione si mostra dove Giove, secondo la diversità de affetti e maniere di
quelli verso le cose inferiori, s’investisce de diverse figure dovenendo in
forma de bestie; e cossi gli altri dèi transmigrano in forme bas- se et aliene.
E per il contrario, per sentimento della propria nobiltà, ripigliano la propria
e divina forma: come il furioso eroico inalzandosi per la conceputa specie
della divina beltà e bontade, con l’ali de l’in- telletto e voluntade
intellettiva s’inalza alla divinitade lasciando la forma de suggetto più basso.
E però dis- se: “Da suggetto più vil dovegno un Dio, Mi cangio in Dio da cosa
inferiore”. tansillo Cossì si descrive
il discorso de l’amor eroico per quanto tende al proprio oggetto ch’è il sommo
bene; e l’eroico intelletto che gionger si studia al pro- prio oggetto che è il
primo vero o la verità absoluta. Or nel primo discorso apporta tutta la somma
di que- sto, e l’intenzione: l’ordine della quale vien descritto in cinque
altri seguenti. Dice dumque: Alle selve i mastini e i veltri slaccia il giovan
Atteon, quand’il destino gli drizz’il dubio et incauto camino, di boscareccie
fiere appo la traccia. Ecco tra l’acqui il più bel busto e faccia che veder
poss’il mortal e divino, in ostro et alabastro et oro fino vedde: e ’l gran
cacciator dovenne caccia. Il cervio ch’a’ più folti luoghi drizzav’i passi più
leggieri, ratto voraro i suoi gran cani e molti. I’allargo i miei pensieri ad
alta preda, et essi a me rivolti morte mi dan con morsi crudi e fieri. Atteone
significa l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza,
all’apprension della beltà divina. Costui slaccia “i mastini et i veltri”: de
quai questi son più veloci, quelli più forti. Perché l’operazion de
l’intelletto precede l’operazion della voluntade; ma questa è più vigorosa et
efficace che quella: atteso che a l’intelletto umano è più amabile che compren-
sibile la bontade e bellezza divina, oltre che l’amore è quello che muove e
spinge l’intelletto acciò che lo preceda come lanterna. “Alle selve”, luoghi
inculti e solitarii, visitati e perlustrati da pochissimi, e però dove non son
impresse l’orme de molti uomini, “il giovane” poco esperto e prattico, come
quello di cui la vita è breve et instabile il furore, “nel dubio cami- no” de
l’incerta et ancipite raggione et affetto desi- gnato nel carattere di
Pitagora, dove si vede più spi- noso, inculto e deserto il destro et arduo
camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la trac- cia di
boscareccie fiere che sono le specie intelligibili de concetti ideali, che sono
occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che non s’offreno a
tutti quelli che le cercano: “Ecco tra l’acqui”, cioè nel specchio de le
similitudini, nell’opre dove riluce l’ef- ficacia della bontade e splender
divino: le quali opre vegnon significate per il suggetto de l’acqui superiori
et inferiori, che son sotto e sopra il firmamento; “ve- de il più bel busto e
faccia”, cioè potenza et opera- zion esterna che vedersi possa per abito et
atto di contemplazione et applicazion di mente mortal o di- vina, d’uomo o dio
alcuno. cicada Credo che non faccia comparazione, e pena come in medesimo geno
la divina et umana appren- sione quanto al modo di comprendere, il quale è di-
versissimo, ma quanto al suggetto che è medesimo. tansillo Cossì è. Dice “in
ostro, alabastro et oro”, perché quello che in figura nella corporal bellezza è
vermiglio, bianco e biondo, nella divinità significa l’ostro della divina
vigorosa potenza, l’oro della divi- na sapienza, l’alabastro della beltade
divina, nella contemplazion della quale gli Pitagorici, Caldei, Pla- tonici et
altri al meglior modo che possono, s’inge- gnano d’inalzarsi. “Vedde il gran
cacciator”: com- prese quanto è possibile, e “dovenne caccia”: andava per
predare e rimase preda, questo cacciator per l’operazion de l’intelletto con
cui converte le cose ap- prese in sé.
(cicada Intendo, perché forma le specie intelligibili a suo modo e le
proporziona alla sua capacità, perché son ricevute a modo de chi le riceve.
tansillo) E questa caccia per l’operazion della volunta- de, per atto della
quale lui si converte nell’oggetto. cicada Intendo: perché lo amore transforma
e conver- te nella cosa amata. tansillo Sai bene che l’intelletto apprende le
cose in- telligibilmente, idest secondo il suo modo; e la vo- luntà perseguita
le cose naturalmente, cioè secondo la raggione con la quale sono in sé. Cossì
Atteone con que’ pensieri, que’ cani che cercavano estra di sé il be- ne, la
sapienza, la beltade, la fiera boscareccia, et in quel modo che giunse alla
presenza di quella, rapito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi
convertito in quel che cercava; e s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi
pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda, perché già avendola
contrat- ta in sé, non era necessario di cercare fuor di sé la di- vinità.
cicada Però ben si dice il regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in
noi per forza del riformato in- telletto e voluntade. tansillo Cossì è: ecco
dumque come l’Atteone, mes- so in preda de suoi cani, perseguitato da proprii
pen- sieri, corre e drizza i novi passi: è rinovato a procede- re divinamente e
più leggermente, cioè con maggior facilità e con una più efficace lena a’
luoghi più folti, alli deserti, alla reggion de cose incomprensibili; da quel
ch’era un uom volgare e commune, dovien raro et eroico, ha costumi e concetti
rari, e fa estraordina- ria vita. “Qua gli dan morte i suoi gran cani e molti”:
qua finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sen- suale, cieco e fantastico;
e comincia a vivere intellet- tualmente: vive vita de dèi, pascesi d’ambrosia
et ine- briasi di nettare. – Appresso sotto forma d’un’altra similitudine
descrive la maniera con cui s’arma alla ottenzion de l’oggetto, e dice: Mio
pàssar solitario, a quella parte ch’adombr’ e ingombra tutt’il mio pensiero,
tosto t’annida: ivi ogni tuo mestiero rafferma, ivi l’industria spendi, e
l’arte. Rinasci là, là su vogli allevarte gli tuoi vaghi pulcini omai ch’il
fiero destin hav’espedit’il cors’intiero contra l’impres’, onde solea ritrarte.
Và, più nobil ricetto bramo ti godi, e arai per guida un dio che da chi nulla
vede, è cieco detto. Và, ti sia sempre pio ogni nume di quest’ampio architetto,
e non tornar a me se non sei mio. Il progresso sopra significato per il
cacciator che agita gli suoi cani, vien qua ad esser figurato per un cuor
alato, che è inviato da la gabbia in cui si stava ocioso e quieto, ad annidarsi
alto, ad allievar gli pulcini suoi pensieri, essendo venuto il tempo in cui
cessano gli impedimenti che da fuori mille occasioni, e da dentro la natural
imbecillità subministravano. Licenzialo dumque per fargli più magnifica
condizione, appli- candolo a più alto proposito et intento, or che son più
fermamente impiumate quelle potenze de l’anima si- gnificate anco da Platonici
per le due ali. E gli com- mette per guida quel dio che dal cieco volgo è
stimato insano e cieco, cioè l’amore: il qual per mercé e favor del cielo è
potente di trasformarlo come in quell’altra natura alla quale aspira o quel
stato dal quale va pere- grinando bandito. Onde disse: “E non tornar a me che
non sei mio”, di sorte che non con indignità possa io dire con quell’altro: Lasciato
m’hai, cuor mio, e lume d’occhi miei non sei più meco. Appresso descrive la
morte de l’anima, che da Cabali- sti è chiamata “morte di bacio” figurata nella
Cantica di Salomone dove l’amica dice: Che mi bacie col bacio de sua bocca,
perché col suo ferire un troppo crudo amor mi fa languire. Da altri è chiamata
“sonno”, dove dice il Salmista: S’avverrà, ch’io dia sonno a gli occhi miei, e
le palpebre mie dormitaransi, arrò ’n colui pacifico riposo. Dice dumque cossì
l’alma, come languida per esser morta in sé, e viva ne l’oggetto: Abiate cur’ o
furiosi al core: ché tropp’ il mio da me fatto lontano, condotto in crud’e
dispietata mano, lieto soggiorn’ove si spasma e muore. Co i pensier mel
richiamo a tutte l’ore: et ei rubello qual girfalco insano, non più conosce
quell’amica mano, onde per non tornar è uscito fore. Bella fera, ch’in pene
tante contenti, il cor, spirt’, alma annodi con tue punte, tuoi vampi e tue
catene, de sguardi, accenti e modi; quel che languisc’et arde, e non riviene,
chi fia che saldi, refrigere e snodi? Ivi l’anima dolente non già per vera
discontentezza, ma con affetto di certo amoroso martìre parla come drizzando il
suo sermone a gli similmente appassiona- ti: come se non a felice suo grado
abbia donato con- gedo al core, che corre dove non può arrivare, si sten- de
dove non può giongere, e vuol abbracciare quel che non può comprendere; e con
ciò perché in vano s’allontana da lei, mai sempre più e più va accenden- dosi
verso l’infinito. cicada Onde procede, o Tansillo, che l’animo in tal progresso
s’appaga del suo tormento? onde procede quel sprone ch’il stimola sempre oltre
quel che pos- siede? tansillo Da questo che ti dirò adesso. Essendo l’in-
telletto divenuto all’apprension d’una certa e definita forma intelligibile, e
la volontà all’affezzione com- mensurata a tale apprensione, l’intelletto non
si ferma là: perché dal proprio lume è promosso a pensare a quello che contiene
in sé ogni geno de intelligibile et appetibile, sin che vegna ad apprendere con
l’intellet- to l’eminenza del fonte de l’idee, oceano d’ogni verità e bontade.
Indi aviene che qualunque specie gli vegna presentata e da lei vegna compresa:
da questo che è presentata e compresa, giudica che sopra essa è altra maggiore
e maggiore, con ciò sempre ritrovandosi in discorso e moto in certa maniera.
Perché sempre vede che quel tutto che possiede è cosa misurata, e però non può
essere bastante per sé, non buono da per sé, non bello da per sé; perché non è
l’universo, non è l’ente absoluto: ma contratto ad esser questa natura, ad
esser questa specie, questa forma rapresentata a l’intelletto e presente a
l’animo. Sempre dumque dal bello compreso, e per conseguenza misurato, e conse-
guentemente bello per participazione, fa progresso verso quello che è veramente
bello, che non ha margi- ne e circonscrizzione alcuna. cicada Questa
prosecuzione mi par vana. tansillo Anzi non, atteso che non è cosa naturale né tansillo
cicada tansillo conveniente che l’infinito sia compreso, né esso può donarsi
finito: percioché non sarrebe infinito; ma è conveniente e naturale che
l’infinito per essere infini- to sia infinitamente perseguitato (in quel modo
di persecuzione il quale non ha raggion di moto fisico, ma di certo moto
metafisica; et il quale non è da im- perfetto al perfetto: ma va circuendo per
gli gradi del- la perfezzione, per giongere a quel centro infinito il quale non
è formato né forma). cicada Vorrei sapere come circuendo si puo arrivare al
centro. Non posso saperlo. Perché lo dici? Perché posso dirlo, e lasciarvel
considerare. Se non volete dire che quel che perséguita l’in- finito, è come
colui che discorrendo per la circonfe- renza cerca il centro, io non so quel
che vogliate dire. tansillo Altro. cicada Or se non vuoi dechiararti, io non
voglio inten- derti. Ma dimmi, se ti piace: che intende per quel che di- ce il
core esser condotto “in cruda e dispietata mano”? tansillo Intende una
similitudine o metafora tolta da quel, che comunmente si dice crudele chi non
si lascia fruire o non pienamente fruire, e che è più in desio che in
possessione; onde per quel che possiede alcu- no, non al tutto lieto soggiorna,
perché brama, si spa- sma e muore. cicada Quali son quei pensieri che il
richiamano a dietro, per ritrarlo da sì generosa impresa? tansillo Gli affetti
sensitivi et altri naturali che guar- dano al regimento del corpo. cicada Che
hanno a far quelli di questo che in modo alcuno non può aggiutargli, né favorirgli?
tansillo Non hanno a far di lui, ma de l’anima: la quale essendo troppo intenta
ad una opra o studio, dovien remissa e poco sollecita ne l’altra. Letteratura
italiana Einaudi 68 cicada tansillo cicada sanno. Perché lo chiama
“qual insano”? Perché soprasape. Sogliono esser chiamati insani quei che men
tansillo Anzi insani son chiamati quelli che non san- no secondo l’ordinario, o
che tendano più basso per aver men senso, o che tendano più alto per aver più
intelletto. cicada M’accorgo che dici il vero. Or dimmi appres- so: quai sono
le “punte”, gli “vampi” e le “catene”? tansillo Punte son quelle nuove che
stimulano e ri- svegliano l’affetto perché attenda; vampi son gli raggi della
bellezza presente che accende quel che gli atten- de; catene son le parti e
circonstanze che tegnono fis- si gli occhi de l’attenzione et uniti insieme gli
oggetti e le potenze. cicada Che son gli “sguardi, accenti e modi”? tansillo
Sguardi son le raggioni con le quali l’oggetto (come ne mirasse) ci si fa
presente; accenti son le rag- gioni con le quali ci inspira et informa; modi
son le circonstanze con le quali ci piace sempre et aggrada. Di sorte ch’il cor
che dolcemente languisce, suave- mente arde e constantemente nell’opra
persevera; te- me che la sua ferita si salde, ch’il suo incendio si smorze e
che si sciolga il suo laccio. cicada Or recita quel che seguita. tansillo
ch’uscir volete da materne fasce de l’afflitt’alma, e siete acconci arcieri per
tirar al versagli’ onde vi nasce l’alto concetto: in questi erti sentieri
scontrarvi a cruda fier’il ciel non lasce. Sovvengav’il tornar, e richiamate il
cor ch’in man di dea selvaggia late. Armatevi d’amore di domestiche fiamme, et
il vedere reprimete sì forte, che straniere non vi rendan compagni del mio
core. Al men portate nuova di quel ch’a lui tanto diletta e giova. Qua descrive
la natural sollecitudine de l’anima atten- ta circa la generazione per l’amicizia
ch’ha contratta con la materia. Ispedisce gli armati pensieri che solle- citati
e spinti dalla querela della natura inferiore, son inviati a richiamar il core.
L’anima l’instruisce come si debbano portare perché invaghiti et attratti dal
ogget- to non facilmente vegnano anch’essi sedotti a rimaner cattivi e compagni
del core. Dice dumque che s’armi- no d’amore: di quello amore che accende con
dome- stiche fiamme, cioè quello che è amico della genera- zione alla quale son
ubligati, e nella cui legazione, ministerio e milizia si ritrovano. Appresso li
dà ordine che reprimano il vedere chiudendo gli occhi, perché non mirino altra
beltade o bontade che quella qual gli è presente, amica e madre. E conchiude al
fine che se per altro ufficio non vogliono farsi rivedere, rivegna- no al manco
per donargli saggio delle raggioni e stato del suo core. cicada Prima che
procediate ad altro, vorrei intender da voi che è quello che intende l’anima
quando dice a gli pensieri: “il vedere reprimete sì forte”. tansillo Ti dirò.
Ogni amore procede dal vedere: l’amore intelligibile dal vedere
intelligibilmente; il sensibile dal vedere sensibilmente. Or questo vedere ha
due significazioni: perché o significa la potenza vi- siva, cioè la vista, che
è l’intelletto, overamente senso; o significa l’atto di quella potenza, cioè
quell’applica- zione che fa l’occhio o l’intelletto a l’oggetto materia- le o
intellettuale. Quando dumque si consegliano gli pensieri di reprimere il
vedere, non s’intende del pri- Letteratura italiana Einaudi 70
Giordano Bruno - De gli eroici furori mo modo, ma del secondo; perché
questo è il padre della seguente affezzione del appetito sensitivo o in-
tellettivo. cicada Questo è quello ch’io volevo udir da voi. Or se l’atto della
potenza visiva è causa del male o bene che procede dal vedere, onde avviene che
amiamo e desi- deramo di vedere? Et onde avviene che nelle cose di- vine
abbiamo più amore che notizia? tansillo Desideriamo il vedere, perché in
qualche modo veggiamo la bontà del vedere; perché siamo informati che per
l’atto del vedere le cose belle s’of- freno: però desiderano quell’atto, perché
desideriamo le cose belle. cicada Desideriamo il bello e buono; ma il vedere
non è bello, né buono, anzi più tosto quello è parangone o luce per cui
veggiamo non solamente il bello e buono, ma anco il rio e brutto. Però mi pare
ch’il vedere tan- to può esser bello o buono, quanto la vista può esser bianco
o nero: se dumque la vista (la quale è atto) non è bello né buono, come può
cadere in desiderio? tansillo Se non per sé, certamente per altro è deside-
rata, essendo che l’apprension di quell’altro senza lei non si faccia. cicada
Che dirai se quell’altro non è in notizia di sen- so né d’intelletto? come,
dico, può esser desiderato almanco d’esser visto, se di esso non è notizia
alcuna, se verso quello né l’intelletto né il senso ha esercitato atto alcuno,
anzi è in dubio se sia intelligibile o sensi- bile, se sia cosa corporea o
incorporea, se sia uno o doi o più, d’una o d’un’altra maniera? tansillo
Rispondo che nel senso e l’intelletto è un ap- petito et appulso al sensibile
in generale; perché l’in- telletto vuol intender tutto il vero, perché
s’apprenda poi tutto quello che è bello o buono intelligibile: la potenza
sensitiva vuol informarsi de tutto il sensibile, per che s’apprenda poi quanto
è buono o bello sensi- Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici
furori bile. Indi aviene che non meno desiderano vedere le cose ignote e mai
viste, che le cose conosciute e viste. E da questo non séguita ch’il desiderio
non proceda da la cognizione, e che qualche cosa desideriamo che non è conosciuta;
ma dico che sta pur raro e fermo che non desideriamo cose incognite. Perché se
sono occorre quanto all’esser particulare, non sono occolte quanto a l’esser
generale: come in tutta la potenza vi- siva si trova tutto il visibile in
attitudine, nella intellet- tiva tutto l’intelligibile. Però come ne
l’attitudine è l’inclinazione a l’atto, aviene che l’una e l’altra poten- za è
inchinata a l’atto in universale, come a cosa natu- ralmente appresa per buona.
Non parlava dumque a sordi o ciechi l’anima, quando consultava con suoi
pensieri de reprimere il vedere, il quale quantunque non sia causa prossima del
volere, è però causa prima e principale. cicada Che intendete per questo
ultimamente detto? tansillo Intendo che non è la figura o la specie sensi- bilmente
o intelligibilmente representata, la quale per sé muove: perché mentre alcuno
sta mirando la figura manifesta a gli occhi, non viene ancora ad amare; ma da
quello instante che l’animo concipe in se stesso quella figurata non più
visibile ma cogitabile, non più dividua ma individua, non più sotto specie di
cosa, ma sotto specie di buono o bello, all’ora subito nasce l’amore. Or questo
è quel vedere dal quale l’anima vorrebbe divertir gli occhi de suoi pensieri.
Qua la vi- sta suole promuovere l’affetto ad amar più che non è quel che vede;
perché, come poco fa ho detto, sempre considera (per la notizia universale che
tiene del bello e buono) che oltre li gradi della compresa specie de buono e
bello, sono altri et altri in infinito. cicada Onde procede che dopo che siamo
informati de la specie del bello la quale è conceputa nell’animo, pure
desideriamo di pascere la vista esteriore? tansillo Da quel, che l’animo
vorrebbe sempre ama- re quel che ama, vuol sempre vedere quel che vede. Però
vuole che quella specie che gli è stata parturita dal vedere non vegna ad
attenuarsi, snervarsi e per- dersi. Vuol dumque sempre oltre et oltre vedere,
per- ché quello che potrebe oscurarsi nell’affetto interiore, vegna spesso
illustrato dall’aspetto esteriore: il quale come è principio de l’essere,
bisogna che sia principio del conservare. Proporzionalmente accade ne l’atto
del intendere e considerare: perché come la vista si ri- ferisce alle cose
visibili, cossì l’intelletto alle cose in- telligibili. Credo dumque ch’intendiate
a che fine et in che modo l’anima intenda quando dice: «repri- met’il vedere».
cicada Intendo molto bene. Or seguitate a riportar quel ch’avvenne di questi
pensieri. tansillo Séguita la querela de la madre contra gli det- ti figli li
quali, per aver contra l’ordinazion sua aperti gli occhi et affissigli al
splendor de l’oggetto, erano ri- masi in compagnia del core. Dice dumque: E voi
ancor a me figli crudeli, per più inasprir mia doglia, mi lasciaste; e perché
senza fin più mi quereli, ogni mia spene con voi n’amenaste. A che il senso
riman, o avari cieli? a che queste potenze tronche e guaste, se non per farmi
materia et essempio de sì grave martir, sì lungo scempio? Deh (per dio) cari
figli, lasciate pur mio fuoco alato in preda, e fate ch’io di voi alcun riveda
tornato a me da que’ tenaci artigli. Lassa, nessun riviene per tardo refrigerio
de mie pene. Eccomi misera priva del core, abandonata da gli pen- sieri,
lasciata da la speranza, la qual tutta avevo fissa in essi; altro non mi rimane
che il senso della mia po- vertà, infelicità e miseria. E perché non son oltre
la- sciata da questo? perché non mi soccorre la morte, ora che son priva de la
vita? A che mi trovo le potenze na- turali prive de gli atti suoi? Come potrò
io sol pascer- mi di specie intelligibili, come di pane intellettuale, se la
sustanza di questo supposito è composta? Come potrò io trattenirmi nella
domestichezza di queste amiche e care membra, che m’ho intessute in circa,
contemprandole con la simmetria de le qualitadi ele- mentari, se mi abandonano
gli miei pensieri tutti et af- fetti, intenti verso la cura del pane
immateriale e divi- no? Su su, o miei fugaci pensieri, o mio rubelle cuore:
viva il senso di cose sensibili e l’intelletto de cose intel- ligibili.
Soccorrasi al corpo con la materia e suggetto corporeo, e l’intelletto con gli
suoi oggetti s’appaghe: a fin che conste questa composizione, non si dissolva
questa machina, dove per mezzo del spirito l’anima è unita al corpo. Come,
misera, per opra domestica più tosto che per esterna violenza ho da veder
quest’orri- bil divorzio ne le mie parti e membra? Perché l’intel- letto
s’impaccia di donar legge al senso e privarlo de suoi cibi? e questo per il
contrario resiste a quello, vo- lendo vivere secondo gli proprii e non secondo
l’altrui statuti? perché questi e non quelli possono mantener- lo e bearlo,
percioché deve essere attento alla sua co- moditade e vita, non a l’altrui. Non
è armonia e con- cordia dove è unità, dove un essere vuol assorbir tutto
l’essere; ma dove è ordine et analogia di cose diverse; dove ogni cosa serva la
sua natura. Pascasi dumque il senso secondo la sua legge de cose sensibili, la
carne serva alla legge de la carne, il spirito alla legge del spi- rito, la
raggione a la legge de la raggione: non si confondano, non si conturbino. Basta
che uno non guaste o pregiudiche alla legge de l’altro, se non è giu- sto che
il senso oltragge alla legge della raggione. È pur cosa vituperosa che quella
tirannegge su la legge di questo, massime dove l’intelletto è più peregrino e
straniero, et il senso è più domestico e come in propria patria. – Ecco dumque,
o miei pensieri, come di voi, altri son ubligati di rimanere alla cura di casa,
et altri possono andar a procacciare altrove. Questa è legge di natura, questa
per conseguenza è legge dell’autore e principio della natura. Peccate dumque or
che tutti se- dotti dalla vaghezza de l’intelletto lasciate al periglio de la
morte l’altra parte di me. Onde vi è nato questo malencolico e perverso umore
di rompere le certe e naturali leggi de la vita vera che sta nelle vostre mani,
per una incerta e che non è se non in ombra oltre gli li- miti del fantastico
pensiero? Vi par cosa naturale che non vivano animale et umanamente, ma divina,
se elli non sono dèi ma uomini et animali? È legge del fato e della natura che
ogni cosa s’adopre secondo la condi- zion de l’esser suo: per che dumque mentre
persegui- tate il nettare avaro de gli dèi, perdete il vostro presen- te e
proprio, affligendovi forse sotto la vana speranza de l’altrui? Credete che non
si debba sdegnar la natu- ra di donarvi l’altro bene, se quello che
presentanear- nente v’offre tanto stoltamente dispreggiate? Sdegnarà il ciel
dar il secondo bene a chi ’l primiero don caro non tiene. Con queste e simili
raggioni l’anima prendendo la causa de la parte più inferma, cerca de richiamar
gli pensieri alla cura del corpo. Ma quelli (benché al tar- di) vegnono a
mostrarsegli non già di quella forma con cui si partiro, ma sol per
dichiarargli la sua ribel- lione, e forzarla tutta a seguitarli. Là onde in
questa forma si lagna la dolente: Ahi cani d’Atteon, o fiere ingrate, che
drizzai al ricetto de mia diva, e vòti di speranza mi tornate; anzi venendo a
la materna riva, tropp’infelice fio mi riportate: mi sbranate, e volete ch’i’
non viva. Lasciami, vita, ch’al mio sol rimonte, fatta gemino rio senz’il mio
fonte. Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi disciolga? Quand’avverrà
ch’anch’io da qua mi tolga, e ratt’a l’alt’oggetto mi sulleve; e insieme col
mio core e i communi pulcini ivi dimore? Vogliono gli Platonici che l’anima,
quanto alla parte superiore, sempre consista ne l’intelletto, dove ha rag-
gione d’intelligenza più che de anima: atteso che ani- ma è nomata per quanto
vivifica il corpo e lo sustenta. Cossì qua la medesima essenza che nodrisce e
mantie- ne li pensieri in alto insieme col magnificato cuore, se induce dalla
parte inferiore contrastarsi e richiamar quelli come ribelli. cicada Sì che non
sono due essenze contrarie, ma una suggetta a doi termini di contrarietade?
tansillo Cossì è a punto; come il raggio del sole il quale quindi tocca la
terra et è gionto a cose inferiori et oscure che illustra, vivifica et accende,
indi è gionto a l’elemento del fuoco, cioè a la stella da cui procede, ha
principio, è diffuso, et in cui ha propria et origina- le sussistenza: cossì
l’anima ch’è nell’orizonte della natura corporea et incorporea, ha con che
s’inalze alle cose superiori, et inchine a cose inferiori. E ciò puoi vedere
non accadere per raggion et ordine di moto lo- cale, ma solamente per appulso
d’una e d’un’altra po- tenza o facultade. Come quando il senso monta
all’imaginazione, l’imaginazione alla raggione, la rag- gione a l’intelletto,
l’intelletto a la mente, all’ora l’ani- ma tutta si converte in Dio, et abita il
mondo intelligi- bile. Onde per il contrario descende per conversion al mondo
sensibile per via de l’intelletto, raggione, ima- ginazione, senso,
vegetazione. cicada È vero ch’ho inteso che per trovarsi l’anima nell’ultimo
grado de cose divine, meritamente de- scende nel corpo mortale, e da questo
risale di nuovo alli divini gradi; e che son tre gradi d’intelligenze: per- ché
son altre nelle quali l’intellettuale supera l’anima- le, quali dicono essere
l’intelligenze celesti; altre nelle quali l’animale supera l’intellettuale,
quali son l’intel- ligenze umane; altre sono nelle quali l’uno e l’altro si
portano ugualmente, come quelle de demoni o eroi. tansillo Nell’apprender
dumque che fa la mente, non può desiderare se non quanto gli è vicino, prossi-
mo, noto e familiare. Cossì il porco non può deside- rar esser uomo, né quelle
cose che son convenienti all’appetito umano. Ama più d’isvoltarsi per la luta
che per un letto de bissino; ama d’unirsi ad una scro- fa, non a la più bella
donna che produca la natura: perché l’affetto séguita la raggion della specie
(e tra gli uomini si può vedere il simile, secondo che altri son più simili a
una specie de bruti animali, altri ad un’altra: questi hanno del quadrupede,
quelli [del] volatile; e forse hanno qualche vicinanza, la qual non voglio
dire, per cui si son trovati quei che sono affetti a certe sorte di bestie). Or
a la mente (che trovasi op- pressa dalla material congionzione de l’anima) se
fia lecito di alzarsi alla contemplazione d’un altro stato in cui l’anima può
arrivare, potrà certo far differenza da questo a quello, e per il futuro
spreggiar il presen- te. Come se una bestia avesse senso della differenza che è
tra le sue condizioni e quelle de l’uomo, e l’ignobiltà del stato suo dalla
nobiltà del stato umano, al quale non stimasse impossibile di poter pervenire;
amarebbe più la morte che li donasse quel camino et ispedizione, che la vita
quale l’intrattiene in quel es- sere presente. Qua dumque quando l’anima si
lagna dicendo “O cani d’Atteon”, viene introdotta come cosa che consta di
potenze inferiori solamente, e da cui la mente è ribellata con aver menato seco
il core, cioè gl’intieri affetti, con tutto l’exercito de pensieri: là onde per
apprension del stato presente et ignoran- za d’ogni altro stato, il quale non
più lo stima essere, che da lei possa esser conosciuto, si lamenta de pen-
sieri li quali al tardi convertendosi a lei vegnono per tirarla su più tosto
che a farsi ricettar da lei. E qua per la distrazzione che patisce dal commune
amore della materia e di cose intelligibili, si sente lacerare e sbranare di
sorte che bisogna al fine di cedere a l’ap- pulso più vigoroso e forte. Qua se
per virtù di con- templazione ascende o è rapita sopra l’orizonte de gli
affetti naturali, onde con più puro occhio apprenda la differenza de l’una e
l’altra vita, all’ora vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira
ad alto; e benché viva nel corpo, vi vegeta come morta, e vi è presente in atto
de animazione et absente in atto d’operazioni; non perché non vi operi mentre
il cor- po è vivo, ma perché l’operazioni del composto sono rimesse, fiacche e
come dispenserate. cicada Cossì un certo Teologo, che si disse rapito sin al
terzo cielo, invaghito da la vista di quello, disse che desiderava la
dissoluzione dal suo corpo. tansillo In questo modo, dove prima si lamentava
del core e querelavasi de pensieri, ora desidera d’al- zarsi con quelli in
alto, e mostra il rincrescimento suo per la communicazione e familiarità
contratta con la materia corporale, e dice: “Lasciami vita” corporale, e non
m’impacciar “ch’io rimonti” al mio più natio al- bergo, “al mio sole”: lasciami
ormai che più non verse Letteratura italiana Einaudi 78 Giordano
Bruno - De gli eroici furori pianto da gli occhi miei, o perché mal posso soccor-
rerli, o perché rimagno divisa dal mio bene; lasciami, che non è decente né
possibile che questi doi rivi scorrano “senza il suo fonte”, cioè senza il
core: non bisogna (dico), che io faccia dei fiumi de lacrime qua basso, se il
mio core il quale è fonte de tai fiumi, se n’è volato ad alto con le sue ninfe,
che son gli miei pen- sieri. Cossì a poco a poco, da quel disamore e rincre-
scimento procede a l’odio de cose inferiori; come quasi dimostra dicendo:
“Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi disciolga?” e quel che seguita
appresso. cicada Intendo molto bene questo, e quello che per questo volete
inferire a proposito della principale in- tenzione: cioè che son gli gradi de
gli amori, affezzio- ni e furori, secondo gli gradi di maggior o minore lu- me
di cognizione et intelligenza. tansillo Intendi bene. Da qua devi apprendere
quel- la dottrina che comunmente, tolta da’ Pitagorici e Platonici vuole che
l’anima fa gli doi progressi d’ascenso e descenso, per la cura ch’ha di sé e de
la materia; per quel ch’è mossa dal proprio appetito del bene, e per quel ch’è
spinta da la providenza del fato. cicada Ma di grazia dimmi brevemente quel che
in- tendi de l’anima del mondo: se ella ancora non può ascendere né descendere?
tansillo Se tu dimandi del mondo secondo la volgar significazione, cioè in
quanto significa l’universo, dico che quello per essere infinito e senza
dimensione o misura, viene a essere inmobile et inanimato et infor- me,
quantunque sia luogo de mondi infiniti mobili in esso, et abbia spacio
infinito, dove son tanti animali grandi che son chiamati astri. Se dimandi
secondo la significazione che tiene appresso gli veri filosofi, cioè in quanto
significa ogni globo, ogni astro, come è questa terra, il corpo del sole, luna
et altri, dico che tal anima non ascende né descende, ma si volta in cir- colo.
Cossì essendo composta de potenze superiori et inferiori, con le superiori
versa circa la divinitade, con l’inferiori circa la mole la qual viene da essa
vivificata e mantenuta intra gli tropici della generazione e cor- rozzione de
le cose viventi in essi mondi, servando la propria vita eternamente: perché
l’atto della divina providenza sempre con misura et ordine medesimo, con divino
calore e lume le conserva nell’ordinario e medesimo essere. cicada Mi basta
aver udito questo a tal proposito. tansillo Come dumque accade che queste anime
par- ticolari diversamente secondo diversi gradi d’ascenso e descenso vegnono
affette quanto a gli abiti et incli- nazioni, cossì vegnono a mostrar diverse
maniere et ordini de furori, amori e sensi: non solamente nella scala de la
natura, secondo gli ordini de diverse vite che prende l’anima in diversi corpi,
come vogliono espressamente gli Pitagorici, Saduchimi et altri, et im-
plicitamente Platone et alcuni che più profondano in esso; ma ancora nella
scala de gli affetti umani, la qua- le è cossì numerosa de gradi come la scala
della natu- ra, atteso che l’uomo in tutte le sue potenze mostra tutte le
specie de lo ente. cicada Però da le affezzioni si possono conoscer gli animi,
se vanno alto o basso, o se vegnono da alto o da basso, se procedono ad esser
bestie o pur ad essere divini, secondo lo essere specifico come intesero gli
Pitagorici, o secondo la similitudine de gli affetti sola- mente come
comunmente si crede: non dovendo la anima umana posser essere anima di bruto,
come ben disse Plotino, et altri Platonici secondo la sentenza del suo
principe. tansillo Bene. Or per venire al proposito, da furor animale questa
anima descritta è promossa a furor eroico, se la dice: “Quando averrà ch’al
alto oggetto mi sulleve, et ivi dimore in compagnia del mio core e miei e suoi
pulcini?” Questo medesimo proposito continova quando dice: Destin, quando sarà
ch’io monte monte, qual per bearm’a l’alte porte porte, che fan quelle bellezze
conte, conte, e ’l tenace dolor conforte forte chi fe’ le membra me disgionte,
gionte, né lascia mie potenze smorte morte? Mio spirto più ch’il suo rivale
vale, s’ove l’error non più l’assale, sale. Se dove attende, tende, e là ’ve
l’alto oggett’ascende, ascende: e se quel ben ch’un sol comprende, prende, per
cui convien che tante emende mende; esser felice lice, come chi sol tutto
predice dice. “O destino”, o fato, o divina immutabile providenza, “quando sarà
ch’io monte a quel monte”, cioè ch’io vegna a tanta altezza di mente, che mi
faccia toccar transportandomi quegli alti aditi e penetrali, che mi fanno
evidenti e come comprese e numerate quelle “conte”, cioè rare “bellezze”?
Quando sarà, che “for- te” et efficacemente “conforte il mio dolore” (scio-
gliendomi da gli strettissimi lacci de le cure, nelle quali mi trovo) “colui
che fe’ gionte” et unite “le mie membra”, ch’erano disunite e “sgionte”: cioè
l’amore che ha unito insieme queste corporee parti, ch’erano divise quanto un
contrario è diviso da l’altro, e che ancora queste “potenze” intellettuali,
quali ne gli atti suoi son “smorte”, non le “lascia” a fatto “morte”, fa-
cendole alquanto respirando aspirar in alto? Quan- do, dico, mi confortarà a
pieno, donando a queste li- bero et ispedito il volo, per cui possa la mia
sustanza tutta annidarsi là dove forzandomi convien ch’io emende tutte le mende
mie; dove pervenendo il “mio spirito”, “vale più ch’il rivale”, perché non v’è
oltrag- gio che li resista, non è contrarietà ch’il vinca, non v’è error che
l’assaglia? Oh se “tende” et arriva là dove forzandosi “attende”; et ascende e
perviene a quell’altezza, dove “ascende”, vuol star montato, alto et elevato il
suo oggetto: se fia che prenda quel bene che non può esser compreso da altro che
da uno, cioè da se stesso (atteso che ogn’altro l’have in misura del- la
propria capacità; e quel “solo” in tutta pienezza): all’ora avverrammi l’esser
felice in quel modo che “dice chi tutto predice”, cioè dice quella altezza
nella quale il dire tutto e far tutto è la medesima cosa; in quel modo che
“dice” o fa chi tutto “predice”, cioè chi è de tutte cose efficiente e
principio: di cui il dire [e] preordinare è il vero fare e principiare. Ecco
co- me per la scala de cose superiori et inferiori procede l’affetto de
l’amore, come l’intelletto o sentimento procede da questi oggetti intelligibili
o conoscibili a quelli; o da quelli a questi. cicada Cossì vogliono la più gran
parte de sapienti la natura compiacersi in questa vicissitudinale circola-
zione che si vede ne la vertigine de la sua ruota. cicada Fate pure ch’io veda, perché da me
stesso potrò considerar le condizioni di questi furori, per quel ch’appare
esplicato nell’ordine (in questa mili- zia) qua descritto. tansillo Vedi come
portano l’insegne de gli suoi af- fetti o fortune. Lasciamo di considerar su
gli lor nomi et abiti; basta che stiamo su la significazion de l’im- prese et
intelligenza de la scrittura, tanto quella che è messa per forma del corpo de
la imagine, quanto l’al- tra ch’è messa per il più de le volte a dechiarazion
de l’impresa. cicada Cossì farremo. Or ecco qua il primo che porta un scudo
distinto in quattro colori, dove nel cimiero è depinta la fiamma sotto la testa
di bronzo, da gli fora- mi della quale esce a gran forza un fumoso vento, e vi
è scritto in circa At regna senserunt tria. tansillo Per dichiarazion di questo
direi che per essere ivi il fuoco che per quel che si vede scalda il globo,
dentro il quale è l’acqua, avviene che questo umido ele- mento essendo
rarefatto et attenuato per la virtù del calore, e per conseguenza risoluto in
vapore, richieda molto maggior spacio per esser contenuto: là onde se non trova
facile exito, va con grandissima forza, strepi- to e ruina a crepare il vase.
Ma se vi è loco o facile exito d’onde possa evaporare, indi esce con violenza
minore a poco a poco; e secondo la misura con cui l’acqua se risolve in vapore,
soffiando svapora in aria. Qua vien significato il cor del furioso, dove come
in esca ben di- sposta essendo attaccato l’amoroso foco, accade che della
sustanza vitale altro sfaville in fuoco, altro si veda in forma de lacrimoso
pianto boglier nel petto, altro per l’exito di ventosi suspiri accender l’aria.
– E però dice «At regna senserunt tria». Dove quello “At” ha Letteratura italiana
Einaudi 83 II. tansillo Appresso è designato un che ha nel suo
scudo parimente destinto in quattro colori, il cimiero, dove è un sole che
distende gli raggi nel dorso de la terra; e vi è una nota che dice Idem semper
ubique to- tum. Giordano Bruno - De gli eroici furori virtù di supponere
differenza, o diversità, o contra- rietà: quasi dicesse che altro è che
potrebbe aver senso del medesimo, e non l’have. Il che è molto bene espli- cato
ne le rime seguenti sotto la figura: Dal mio gemino lume, io poca terra soglio
non parco umor porgere al mare; da quel che dentr’il petto mi si serra spirto
non scarso accolgon l’aure avare; e ’l vampo che dal cor mi si disserra si può
senza scemars’al ciel alzare: con lacrime, suspiri et ardor mio a l’acqua, a
l’aria, al fuoco rendo il fio. Accogli’acqu’, aria, foco qualche parte di me:
ma la mia dea si dimostra cotant’iniqua e rea, che né mio pianto appo lei trova
loco, né la mia voce ascolta, né piatos’al mi’ardor umqua si volta. Qua la
suggetta materia significata per la “terra” è la sustanza del furioso; versa
dal “gemino lume”, cioè da gli occhi, copiose lacrime che fluiscono al mare;
manda dal petto la grandezza e moltitudine de suspiri a l’aria capacissimo; et
il vampo del suo core non come piccio- la favilla o debil fiamma nel camino de
l’aria s’intepidi- sce, infuma e trasmigra in altro essere: ma come poten- te e
vigoroso (più tosto acquistando de l’altrui che perdendo del proprio) gionge
alla congenea sfera. cicada Ho ben compreso il tutto. A l’altro. cicada Vedo che
non può esser facile l’interpretazione. tansillo Tanto il senso è più
eccellente, quanto è men volgare: il qual vedrete essere solo, unico e non
stiracchiato. Dovete considerare che il sole benché al rispetto de diverse
regioni de la terra, per ciascuna, sia diverso, a tempi a tempi, a loco a loco,
a parte a parte; al riguardo però del globo tutto, come medesi- mo, sempre et
in cadaun loco fa tutto: atteso che, in qualunque punto de l’eclittica ch’egli
si trove, viene a far l’inverno, l’estade, l’autunno e la primavera; e
l’universal globo de la terra a ricevere in sé le dette quattro tempeste.
Perché mai è caldo a una parte che non sia freddo a l’altra; come quando fia a
noi nel tro- pico del Cancro caldissimo, è freddissimo al tropico del
Capricorno; di sorte che è a medesima raggione l’inverno a quella parte, con
cui a questa è l’estade, et a quelli che son nel mezzo è temperato, secondo la
di- sposizion vernale o autumnale. Cossì la terra sempre sente le piogge, li
venti, gli calori, gli freddi; anzi non sarebbe umida qua, se non disseccasse
in un’altra par- te, e non la scalderebe da questo lato il sole, se non avesse
lasciato d’iscaldarla da quell’altro. cicada Prima che finisci ad conchiudere,
io intendo quel che volete dire. Intendeva egli che come il sole sempre dona
tutte le impressioni a la terra, e questa sempre le riceve intiere e tutte:
cossì l’oggetto del fu- rioso col suo splendore attivamente lo fa suggetto
passivo de lacrime, che son l’acqui; de ardori, che son gl’incendii; e de
suspiri quai son certi vapori, che son mezzi che parteno dal fuoco e vanno a
l’acqui, o par- tono da l’acqui e vanno al fuoco. tansillo Assai bene s’esplica
appresso: Quando declin’il sol al Capricorno, fan più ricco le piogge ogni
torrente; se va per l’equinozzio o fa ritorno, Letteratura italiana Einaudi
85 Giordano Bruno - De gli eroici furori ogni postiglion d’Eolo più
si sente; e scalda più col più prolisso giorno, nel tempo che rimonta al Cancro
ardente: non van miei pianti, sospiri et ardori con tai freddi, temperie e
calori. Sempre equalmente in pianto, quantumqu’intensi sien suspiri e fiamme. E
benché troppo m’inacqui et infiamme, mai avvien ch’io suspire men che tanto:
infinito mi scaldo, equalment’a i suspiri e pianger saldo. cicada Questo non
tanto dechiara il senso de la divisa come il precedente discorso faceva: quanto
più tosto dice la conseguenza di quello, o l’accompagna. tansillo Dite
megliore, che la figura è latente ne la prima parte, et il motto è molto
esplicato ne la secon- da; come l’uno e l’altro è molto propriamente signifi-
cato nel tipo del sole e de la terra. cicada Passamo al terzo. III. tansillo Il
terzo nel scudo porta un fanciullo ignudo disteso sul verde prato, e che
appoggia la testa sollevata sul braccio con gli occhi rivoltati verso il cie-
lo a certi edificii de stanze, torri, giardini et orti che son sopra le nuvole,
e vi è un castello di cui la materia è fuoco; et in mezzo è la nota che dice
Mutuo fulcimur. cicada Che vuol dir questo? tansillo Intendi quel furioso
significato per il fan- ciullo ignudo come semplice, puro et esposto a tutti
gli accidenti di natura e di fortuna, qualmente con la forza del pensiero
edifica castegli in aria, e tra l’altre cose una torre di cui l’architettore è
l’amore, la mate- ria l’amoroso foco, et il fabricatore egli medesimo, che dice
«Mutuo fulcimu»: cioè io vi edifico e vi suste- gno là con il pensiero, e voi
mi sustenete qua con la Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici
furori speranza: voi non sareste in essere se non fusse l’ima- ginazione et il
pensiero con cui vi formo e sustegno, et io non sarrei in vita se non fusse il
refrigerio e conforto che per vostro mezzo ricevo. cicada È vero che non è cosa
tanto vana e tanto chi- merica fantasia, che non sia più reale e vera medicina
d’un furioso cuore, che qualsivoglia erba, pietra, oglio, o altra specie che
produca la natura. tansillo Più possono far gli maghi per mezzo della fede, che
gli medici per via de la verità: e ne gli più gravi morbi più vegnono giovati
gl’infermi con crede- re quel tanto che quelli dicono, che con intendere quel
tanto che questi facciono. Or legansi le rime: Sopra de nubi, a l’eminente
loco, quando tal volta vaneggiando avvampo, per di mio spirto refrigerio e
scampo, tal formo a l’aria castel de mio foco: s’il mio destin fatale china un
poco, a fin ch’intenda l’alta grazia il vampo in cui mi muoio, e non si sdegn’
o adire, o felice mia pena e mio morire. Quella de fiamme e lacci tuoi, o
garzon, che gli uomini e gli divi fan suspirar, e soglion far cattivi, l’ardor
non sente, né prova gl’impacci: ma può ’ntrodurt’, o Amore, man di pietà, se
mostri il mio dolore. cicada Mostra che quel che lo pasce in fantasia, e gli
fomenta il spirito, è che (essendo lui tanto privo d’ar- dire d’esplicarsi a
far conoscere la sua pena, quanto profondamente suggetto a tal martìre), se
avvenisse ch’il fato rigido e rubelle chinasse un poco (perché voglia il
destino al fin rasserenargli il volto), con far che senza sdegno o ira de
l’alto oggetto gli venesse Letteratura italiana Einaudi 87 Giordano
Bruno - De gli eroici furori manifesto, non stima egli gioia tanto felice, né
vita tanto beata, quanto per tal successo lui stime felice la sua pena, e beato
il suo morire. tansillo E con questo viene a dichiarar a l’Amore che la raggion
per cui possa aver adito in quel petto, non è quell’ordinaria de le armi con le
quali suol cattivar uomini e dèi; ma solamente con fargli aperto il cuor focoso
et il travagliato spirito de lui; a la vista del qua- le fia necessario che la
compassion possa aprirgli il passo et introdurlo a quella difficil stanza. IV.
cicada Che significa qua quella mosca che vola circa la fiamma e sta quasi
quasi per bruggiarsi, e che vuol dir quel motto: Hostis non hostis? tansillo
Non è molto difficile la significazione de la farfalla, che sedotta dalla
vaghezza del splendore, in- nocente et amica va ad incorrere nelle mortifere
fiam- me: onde “hostis” sta scritto per l’effetto del fuoco, “non hostis” per
l’affetto de la mosca. “Hostis” la mo- sca passivamente, “non hostis”
attivamente. “Hostis” la fiamma per l’ardore, “non hostis” per il splendore.
cicada Or che è quel che sta scritto nella tabella? tansillo Mai fia che de
l’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’ esser felice; sia pur ver che
per lui penoso stente, non vo’ non voler quel che si me lice; sia chiar o
fosch’il ciel, fredd’o ardente, sempr’un sarò ver l’unica fenice. Mal può
disfar altro destin o sorte quel nodo che non può sciòrre la morte. Al cor, al
spirt’, a l’alma non è piacer, o libertad’, o vita, qual tanto arrida, giove e
sia gradita, qual più sia dolce, graziosa et alma, Letteratura italiana Einaudi
88 Giordano Bruno - De gli eroici furori ch’il stento, giogo e
morte, ch’ho per natura, voluntade e sorte. Qua nella figura mostra la
similitudine che ha il furio- so con la farfalla affetta verso la sua luce; ne
gli carmi poi mostra più differenza e dissimilitudine che altro: essendo che
comunmente si crede che se quella mo- sca prevedesse la sua ruina non tanto ora
séguita la lu- ce quanto all’ora la fuggirebbe, stimando male di per- der
l’esser proprio risolvendosi in quel fuoco nemico. Ma a costui non men piace
svanir nelle fiamme de l’amoroso ardore, che essere abstratto a contemplar la
beltà di quel raro splendore, sotto il qual per inclina- zion di natura, per
elezzion di voluntade e disposizion del fato, stenta, serve e muore: più gaio,
più risoluto e più gagliardo, che sotto qualsivogli’altro piacer che s’offra al
core, libertà che si conceda al spirito, e vita che si ritrove ne l’alma.
cicada Dimmi, perché dice: “sempr’un sarò”? tansillo Perché gli par degno
d’apportar raggione della sua constanza, atteso che il sapiente si muta con la
luna, il stolto si muta come la luna. Cossì questo è unico con la fenice unica.
V. cicada Bene; ma che significa quella frasca di palma, circa la quale è il
motto: Caesar adest? tansillo Senza molto discorrere, tutto potrassi inten-
dere per quel che è scritto nella tavola: Trionfator invitto di Farsaglia,
essendo quasi estinti i tuoi guerrieri, al vederti, fortissimi ’n battaglia
sorser, e vinser suoi nemici altieri. Tal il mio ben, ch’al ben del ciel
s’agguaglia, fatto a la vista de gli miei pensieri, ch’eran da l’alma
disdegnosa spenti, Letteratura italiana Einaudi 89 Giordano Bruno -
De gli eroici furori le fa tornar più che l’amor possenti. La sua sola
presenza, o memoria di lei, sì le ravviva, che con imperio e potestade diva
dóman ogni contraria violenza. La mi governa in pace; né fa cessar quel laccio
e quella tace. Tal volta le potenze de l’anima inferiori, come un ga- gliardo e
nemico essercito che si trova nel proprio paese, prattico, esperto et
accomodato, insorge con- tra il peregrino adversario che dal monte de la intelli-
genza scende a frenar gli popoli de le valli e palustri pianure. Dove dal rigor
della presenza de nemici e difficultà de precipitosi fossi vansi perdendo, e
perde- riansi a fatto, se non fusse certa conversione al splen- dor de la
specie intelligibile mediante l’atto della con- templazione: mentre da gli
gradi inferiori si converte a gli gradi superiori. cicada Che gradi son questi?
tansillo Li gradi della contemplazione son come li gradi della luce, la quale
nullamente è nelle tenebre; alcunamente è ne l’ombra; megliormente è ne gli co-
lori secondo gli suoi ordini da l’un contrario ch’è il nero a l’altro che è il
bianco; più efficacemente è nel splendor diffuso su gli corpi tersi e
trasparenti, come nel specchio o nella luna; più vivamente ne gli raggi sparsi
dal sole; altissima e principalissimamente nel sole istesso. Or essendo cossì
ordinate le potenze ap- prensive et affettive de le quali sempre la prossima
conseguente have affinità con la prossima anteceden- te, e per la conversione a
quella che la sulleva, viene a rinforzarsi contra l’inferior che la deprime
(come la raggione per la conversione a l’intelletto non è sedot- ta o vinta
dalla notizia o apprensione et affetto sensiti- vo, ma più tosto secondo la
legge di quello viene a do- Letteratura italiana Einaudi 90
Giordano Bruno - De gli eroici furori mar e correger questo), accade che
quando l’appetito razionale contrasta con la concupiscenza sensuale, se a
quello per atto di conversione si presente a gli occhi la luce intelligenziale,
viene a repigliar la smarrita vir- tude, rinforzar i nervi, spaventa e mette in
rotta gli nemici. cicada In che maniera intendete che si faccia cotal
conversione? tansillo Con tre preparazioni che nota il contempla- tivo Plotino
nel libro Della bellezza intelligibile: de le quali «la prima è proporsi de
conformarsi d’una simi- litudine divina», divertendo la vista da cose che sono
infra la propria perfezzione, e commune alle specie uguali et inferiori;
«secondo è l’applicarsi con tutta l’intenzione et attenzione alle specie
superiori; terzo il cattivar tutta la voluntade et affetto a Dio». Perché da
qua avverrà che senza dubio gl’influisca la divinità la qual da per tutto è
presente e pronta ad ingerirsi a chi se gli volta con l’atto de l’intelletto,
et aperto se gli espone con l’affetto de la voluntade. cicada Non è dumque
corporal bellezza quella che in- vaghisce costui? tansillo Non certo, perché la
non è vera né constante bellezza, e però non può caggionar vero né constante
amore: la bellezza che si vede ne gli corpi è una cosa accidentale et umbratile
e come l’altre che sono assor- bite, alterate e guaste per la mutazione del
suggetto, il quale sovente da bello si fa brutto senza che altera- zion veruna
si faccia ne l’anima. La raggion dumque apprende il più vero bello per
conversione a quello che fa la beltade nel corpo, e viene a formarlo bello: e
questa è l’anima che l’ha talmente fabricato e infigu- rato. Appresso
l’intelletto s’inalza più, et apprende bene che l’anima è incomparabilmente
bella sopra la bellezza che possa esser ne gli corpi; ma non si per- suade che
sia bella da per sé e primitivamente: atteso Letteratura italiana Einaudi
91 Giordano Bruno - De gli eroici furori che non accaderebbe quella
differenza che si vede nel geno de le anime, onde altre son savie, amabili e
belle; altre stolte, odiose e brutte. Bisogna dumque alzarsi a quello
intelletto superiore il quale da per sé è bello e da per sé è buono. Questo è
quell’unico e supremo capitano, qual solo messo alla presenza de gli occhi de
militanti pensieri, le illustra, incoraggia, rinforza e rende vittoriosi sul
dispreggio d’ogn’altra bellezza e ripudio di qualsivogli’altro bene. Questa
dumque è la presenza che fa superar ogni difficultà e vincere ogni violenza.
cicada Intendo tutto. Ma che vuol dire “La mi gover- na in pace, Né fa cessar
quel laccio e quella face”? tansillo Intende e prova, che qualsivoglia sorte
d’amore quanto ha maggior imperio e più certo domìno, tanto fa sentir più
stretti i lacci, più fermo il giogo, e più ardenti le fiamme. Al contrario de
gli or- dinarii prencipi e tiranni, che usano maggior strettez- za e forza,
dove veggono aver minore imperio. cicada Passa oltre. VI. tansillo Appresso
veggio descritta la fantasia d’una fenice volante, alla quale è volto un
fanciullo che bruggia in mezzo le fiamme, e vi è il motto: Fata obstant. Ma
perché s’intenda meglior, leggasi la tavo- letta: Unico augel del sol, vaga
Fenice, ch’appareggi col mondo gli anni tui, quai colmi ne l’Arabia felice: tu
sei chi fuste, io son quel che non fui; io per caldo d’amor muoio infelice; ma
te ravviv’il sol co’ raggi sui; tu bruggi ’n un, et io in ogni loco; io da
Cupido, hai tu da Febo il foco. Hai termini prefissi Letteratura italiana
Einaudi 92 Giordano Bruno - De gli eroici furori di lunga vita, et
io ho breve fine, che pronto s’offre per mille ruine, né so quel che vivrò, né
quel che vissi. Me cieco fato adduce, tu certo torni a riveder tua luce. Dal
senso de gli versi si vede che nella figura si dise- gna l’antitesi de la sorte
de la fenice e del furioso; e che il motto “Fata obstant”, non è per significar
che gli fati siano contrarii o al fanciullo, o a la fenice, o a l’uno e
l’altro; ma che non son medesimi, ma diversi et oppositi gli decreti fatali de
l’uno e gli fatali decreti de l’altro: perché la fenice è quel che fu,
essendoché la medesima materia per il fuoco si rinova ad esser corpo di fenice,
e medesimo spirito et anima viene ad informarla; il furioso è quel che non fu,
perché il sug- getto che è d’uomo, prima fu di qualch’altra specie secondo
innumerabili differenze. Di sorte che si sa quel che fu la fenice, e si sa quel
che sarà: ma questo suggetto non può tornar se non per molti et incerti mezzi
ad investirsi de medesima o simil forma natura- le. Appresso, la fenice al
cospetto del sole cangia la morte con la vita; e questo nel cospetto d’amore
muta la vita con la morte. Oltre, quella su l’aromatico altare accende il foco;
e questo il trova e mena seco, ovum- que va. Quella ancora ha certi termini di
lunga vita; ma costui per infinite differenze di tempo et innume- rabili
caggioni de circonstanze, ha di breve vita termi- ni incerti. Quella s’accende
con certezza, questo con dubio de riveder il sole. cicada Che cosa credete voi
che possa figurar questo? tansillo La differenza ch’è tra l’intelletto
inferiore, che chiamano intelletto di potenza o possibile o passi- bile, il
quale è incerto, moltivario e moltiforme; e l’intelletto superiore, forse quale
è quel che da Peri- patetici è detto infima de l’intelligenze, e che
immediatamente influisce sopra tutti gl’individui dell’umana specie, e dicesi
intelletto agente et attuan- te. Questo intelletto unico specifico umano che ha
in- fluenza in tutti li individui, è come la luna, la quale non prende altra
specie che quella unica, la qual sem- pre se rinova per la conversion che fa al
sole che è la prima et universale intelligenza: ma l’intelletto umano
individuale e numeroso viene come gli occhi a voltar- si ad innumerabili e
diversissimi oggetti, onde secon- do infiniti gradi che son secondo tutte le
forme natu- rali viene informato. Là onde accade che sia furioso, vago et
incerto questo intelletto particolare; come quello universale è quieto, stabile
e certo, cossì secon- do l’appetito come secondo l’apprensione. O pur quindi
(come da per te stesso puoi facilmente descife- rare) vien significata la
natura dell’apprensione et ap- petito vario, vago, inconstante et incerto del
senso, e del concetto et appetito definito, fermo e stabile de l’intelligenza;
la differenza de l’amor sensuale che non ha certezza né discrezion de oggetti,
da l’amor intel- lettivo il qual ha mira ad un certo e solo, a cui si volta, da
cui è illuminato nel concetto, onde è acceso ne l’af- fetto, s’infiamma,
s’illustra et è mantenuto nell’unità, identità e stato. VII. cicada Ma che vuol
significare quell’imagine del sole con un circolo dentro, et un altro da fuori,
con il motto Circuit? tansillo La significazion di questo son certo che mai
arrei compresa, se non fusse che l’ho intesa dal mede- simo figuratone: or è da
sapere che quel “circuit” si referisce al moto del sole che fa per quel
circolo, il quale gli vien descritto dentro e fuori; a significare che quel
moto insieme insieme si fa et è fatto: onde per consequenza il sole viene
sempre ad ritrovarsi in tutti gli punti di quello. Perché s’egli si muove in
uno Letteratura italiana Einaudi 94 Giordano Bruno - De gli eroici
furori instante, séguita che insieme si muove et è mosso, e che è per tutta la
circonferenza del circolo equalmen- te, e che in esso convegna in uno il moto e
la quiete. cicada Questo ho compreso nelli dialogi De l’infinito, universo e
mondi innumerabili, e dove si dechiara co- me la divina sapienza è mobilissima
(come disse Salo- mone) e che la medesima sia stabilissima, come è det- to et
inteso da tutti quelli che intendono. Or séguita a farmi comprendere il
proposito. tansillo Vuol dire che il suo sole non è come questo, che (come
comunmente si crede) circuisce la terra col moto diurno in ventiquattro ore, e
col moto planetare in dodeci mesi; laonde fa distinti gli quattro tempi de
l’anno, secondo che a termini di quello si trova in quattro punti cardinali del
Zodiaco; ma è tale, che (per essere la eternità istessa e conseguentemente una
possessione insieme tutta e compita) insieme insieme comprende l’inverno, la
primavera, l’estade, l’autun- no, insieme insieme il giorno e la notte: perché
è tutto per tutti et in tutti gli punti e luoghi. cicada Or applicate quel che
dite alla figura. tansillo Qua, perché non è possibile designar il sol tutto in
tutti gli punti del circolo, vi son delineati doi circoli: l’un che ’l
comprenda per significar che si muove per quello; l’altro che sia da lui
compreso per mostrar che è mosso per quello. cicada Ma questa dimostrazione non
è troppo aperta e propria. tansillo Basta che sia la più aperta e propria che
lui abbia possuta fare: se voi la possete far megliore vi si dà autorità di
toglier quella e mettervi quell’altra; per- ché questa è stata messa solo a fin
che l’anima non fusse senza corpo. cicada Che dite di quel “Circuit”? tansillo
Quel motto, secondo tutta la sua significa- zione, significa la cosa quanto può
essere significato; Letteratura italiana Einaudi 95 Giordano Bruno
- De gli eroici furori atteso che significa che volta e che è voltato: cioè il
moto presente e perfetto. cicada Eccellentemente: e però que’ circoli li quali
malamente significano la circonstanza del moto e quiete tale, possiamo dire che
son messi a significar la sola circolazione. E cossì vegno contento del
suggetto e de la forma de l’impresa eroica. Or legansi le rime. tansillo Sol
che dal Tauro fai temprati lumi, e dal Leon tutto maturi e scaldi, e quando dal
pungente Scorpio allumi, de l’ardente vigor non poco faldi; poscia dal fier
Deucalion consumi tutto col fredd’, e i corp’umidi saldi: de primavera, estade,
autunno, inverno mi scald’ accend’ ard’ avvamp’in eterno. Ho sì caldo il desio,
che facilment’ a remirar m’accendo quell’alt’oggetto, per cui tant’ardendo, fo
sfavillar a gli astri il vampo mio: non han momento gli anni, che vegga variar
miei sordi affanni. Qua nota che gli quattro tempi de l’anno son signifi- cati
non per quattro segni mobili che son Ariete, Can- cro, Libra e Capricorno, ma
per gli quattro che chia- mano fissi, cioè Tauro, Leone, Scorpione et Aquario:
per significare la perfezzione, stato e fervor di quelle tempeste. Nota
appresso che in virtù di quelle apo- strofi che son nel verso ottavo, possete
leggere “mi scaldo, accendo, ardo, avampo”; over, “scaldi, accen- di, ardi,
avampi”; over “scalda, accende, arde, avvam- pa”. Hai oltre da considerare che
questi non son quattro sinonimi, ma quattro termini diversi che si- gnificano
tanti gradi de gli effetti del fuoco. Il qual Letteratura italiana Einaudi Bruno
- De gli eroici furori prima scalda, secondo accende, terzo bruggia, quarto
infiamma o invampa quel ch’ha scaldato, acceso e bruggiato. E cossì son
denotate nel furioso il desio, l’attenzione, il studio, l’affezzione, le quali
in nessun momento sente variare. cicada Perché le mette sotto titolo d’affanni?
tansillo Perché l’oggetto, ch’è la divina luce, in que- sta vita è più in
laborioso voto che in quieta fruizione: perché la nostra mente verso quella è
come gli occhi de gli uccelli notturni al sole. cicada Passa, perché ora da
quel ch’è detto posso comprender tutto. VIII. tansillo Nel cimiero seguente vi
sta depinta una luna piena col motto Talis mihi semper et astro. Vuol dir che a
l’astro, cioè al Sole, et a lui sempre è ta- le, come si mostra qua piena e
lucida nella circonferen- za intiera del circolo: il che acciò che meglio forse
in- tendi, voglio farti udire quel ch’è scritto nella tavoletta.
Lun’inconstante, luna varia, quale con corna or vere e tal’or piene svalli, or
l’orbe tuo bianc’or fosco risale, or Bora e de’ Rifei monti le valli fai
lustre, or torni per tue trite scale a chiarir l’Austro, e di Libia le spalli.
La luna mia per mia continua pena mai sempre è ferma, ci è mai sempre piena. È
tale la mia stella, che sempre mi si togli’ e mai si rende, che sempre tanto
bruggia e tanto splende, sempre tanto crudele e tanto bella: questa mia nobil
face sempre sì mi martora, e sì mi piace. Mi par che voglia dire che la sua
intelligenza particu- lare alla intelligenza universale è sempre “tale”: cioè
Letteratura italiana Einaudi 97 Giordano Bruno - De gli eroici
furori da quella viene eternamente illuminata in tutto l’emi- sfero; benché
alle potenze inferiori e secondo gl’in- flussi de gli atti suoi or viene
oscura, or più e meno lu- cida. O forse vuol significare che l’intelletto suo
speculativo (il quale è sempre in atto invariabilmente) è sempre volto et
affetto verso l’intelligenza umana si- gnificata per la “luna”, perché come
questa è detta in- fima de tutti gli astri et è più vicina a noi, cossì
l’intel- ligenza illuminatrice de tutti noi (in questo stato) è l’ultima in
ordine de l’altre intelligenze, come nota Averroe et altri più sottili
Peripatetici. Quella a l’in- telletto in potenza or tramonta, per quanto non è
in atto alcuno, or come “svallasse”, cioè sorgesse dal basso de l’occolto
emispero, si mostra or vacua or piena secondo che dona più o meno lume
d’intelli- genza; or ha “l’orbe oscuro or bianco”, perché talvol- ta mostra per
ombra, similitudine e vestigio, tal volta più e più apertamente; or declina a
l’“Austro”, or monta a “Borea”, cioè or ne si va più e più allonta- nando, or
più e più s’avvicina. Ma l’intelletto in atto con sua continua pena (percioché
questo non è per natura e condizione umana in cui si trova cossì trava- glioso,
combattuto, invitato, sollecitato, distratto e come lacerato dalle potenze
inferiori) sempre vede il suo oggetto fermo, fisso e constante, e sempre pieno
e nel medesimo splendor di bellezza. Cossì sempre se gli “toglie” per quanto
non se gli concede, sempre se gli “rende” per quanto se gli concede. “Sempre
tanto lo bruggia” ne l’affetto, come sempre “tanto gli splen- de” nel pensiero;
“sempre è tanto crudele” in suttrar- si per quel che si suttrae, come sempre è
“tanto bello” in comunicarsi per quel che gli se presenta. “Sempre lo martòra”,
perciò che è diviso per differenza locale da lui, come sempre gli “piace”,
percioché gli è con- gionto con l’affetto. cicada Or applicate l’intelligenza
al motto. Letteratura italiana Einaudi 98 Giordano Bruno - De gli
eroici furori tansillo Dice dumque“Talis mihi semper”, cioè per la mia continua
applicazione secondo l’intelletto, me- moria e volontarie (perché non voglio
altro rallentare, intendere, né desiderare) sempre mi è tale, e per quanto
posso capirla, al tutto presente, e non m’è di- visa per distrazzion de
pensiero, né me si fa più oscu- ra per difetto d’attenzione, perché non è
pensiero che mi divertisca da quella luce, e non è necessità di natu- ra qual
m’oblighi perché meno attenda. “Talis mihi semper” dal canto suo, perché la è
invariabile in su- stanza, in virtù, in bellezza et in effetto verso quelle
cose che sono constanti et invariabili verso lei. Dice appresso “ut astro”,
perché al rispetto del sole illumi- nator de quella sempre è ugualmente luminosa,
essen- do che sempre ugualmente gli è volta, e quello sem- pre parimente
diffonde gli suoi raggi: come fisicamente questa luna che veggiamo con gli
occhi, quantunque verso la terra or appaia tenebrosa or lu- cente, or più or
meno illustrata et illustrante, sempre però dal sole vien lei ugualmente
illuminata; perché sempre piglia gli raggi di quello al meno nel dorso del suo
emispero intiero. Come anco questa terra sempre è illuminata nell’emisfero
equalmente; quantunque da l’acquosa superficie cossì inequalmente a volte a
volte mande il suo splendore alla luna (qual come molti altri astri
innumerabili stimiamo un’altra terra) come aviene che quella mande a lei:
atteso la vicissitu- dine ch’hanno insieme de ritrovarsi or l’una or l’altra
più vicina al sole. cicada Come questa intelligenza è significata per la lu- na
che luce per l’emisfero? tansillo Tutte l’intelligenze son significate per la
luna, in quanto che son partecipi d’atto e di potenza, per quanto dico che
hanno la luce materialmente, e secon- do participazione, ricevendola da altro;
dico non es- sendo luci per sé e per sua natura: ma per risguardo Letteratura
italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori del sole ch’è la prima
intelligenza, la quale è pura et absoluta luce come anco è puro et absoluto
atto. cicada Tutte dumque le cose che hanno dependenza, e che non sono il primo
atto e causa, sono composte come di luce e tenebra, come di materia e forma, di
potenza et atto? tansillo Cossì è. Oltre, l’anima nostra secondo tutta la
sustanza è significata per la luna la quale splende per l’emispero delle
potenze superiori, onde è volta alla luce del mondo intelligibile, et è oscura
per le po- tenze inferiori, onde è occupata al governo della ma- teria. IX.
cicada E mi par che a quel ch’ora è detto abbia certa conseguenza e simbolo
l’impresa ch’io veggio nel seguente scudo, dove è una ruvida e ramosa quer- cia
piantata, contra la quale è un vento che soffia, et ha circonscritto il motto
Ut robori robur. Et appresso è affissa la tavola che dice: Annosa quercia, che
gli rami spandi a l’aria, e fermi le radici ’n terra: né terra smossa, né gli
spirti grandi che da l’aspro Aquilon il ciel disserra, né quanto fia ch’il
vern’orrido mandi, dal luog’ove stai salda mai ti sferra; mostri della mia fé
ritratto vero qual smossa mai stran’accidenti féro. Tu medesmo terreno mai
sempr’abbracci, fai colto e comprendi, e di lui per le viscere distendi radici
grate al generoso seno: i’ ad un sol oggetto ho fiss’il spirt’, il sens’e
l’intelletto. [tansillo] Il motto è aperto, per cui si vanta il furio- so
d’aver forza e robustezza, come la rovere; e come Letteratura italiana Einaudi
100 Giordano Bruno - De gli eroici furori quell’altro, essere
sempre uno al riguardo da l’unica fenice; e come il prossimo precedente
conformarsi a quella luna che sempre tanto splende, e tanto è bella; o pur non
assomigliarsi a questa antictona tra la no- stra terra et il sole in quanto
ch’è varia a’ nostri oc- chi: ma in quanto sempre riceve ugual porzion del
splendor solare in se stessa. E per ciò cossì rimaner constante e fermo contra
gli Aquiloni e tempestosi inverni per la fermezza ch’ha nel suo astro in cui è
piantato con l’affetto et intenzione, come la detta ra- dicosa pianta tiene
intessute le sue radici con le vene de la terra. cicada Più stimo io l’essere
in tranquillità e fuor di molestia che trovarsi in una sì forte toleranza.
tansillo È sentenza d’Epicurei la qual se sarà bene intesa, non sarà giudicata
tanto profana quanto la sti- mano gli ignoranti; atteso che non toglie che quel
ch’io ho detto sia virtù, né pregiudica alla perfezzione della constanza, ma
più tosto aggionge a quella per- fezzione che intendeno gli volgari: perché lui
non sti- ma vera e compita virtù di fortezza e constanza quella che sente e
comporta gl’incommodi: ma quella che non sentendoli le porta; non stima compìto
amor di- vino et eroico quello che sente il sprone, freno o ri- morso o pena
per altro amore, ma quello ch’a fatto non ha senso de gli altri affetti: onde
talmente è gion- to ad un piacere, che non è potente dispiacere alcuno a
distorlo o far cespitare in punto. E questo è toccar la somma beatitudine in
questo stato, l’aver la voluptà e non aver senso di dolore. cicada La volgare
opinione non crede questo senso d’Epicuro. tansillo Perché non leggono gli suoi
libri, né quelli che senza invidia apportano le sue sentenze, al con- trario di
color che leggono il corso de sua vita et il ter- mine de la sua morte. Dove
con queste paroli dettò il X. tansillo Guarda in quest’altro ch’ha la
fantasia di quella incudine e martello, circa la quale è il motto Ab Aetna. Ma
prima che la consideriamo, leggemo la stanza. Qua s’introduce di Vulcano la
prosopopea: Or non al monte mio siciliano torn’, ove tempri i folgori di Giove;
Giordano Bruno - De gli eroici furori principio del suo testamento: «Essendo ne
l’ultimo e medesimo felicissimo giorno de nostra vita, abbiamo ordinato questo
con mente quieta, sana e tranquilla; perché quantunque grandissimo dolor de
pietra ne tormentasse da un canto, quel tormento tutto venea assorbito dal
piacere de le nostre invenzioni e la con- siderazion del fine». Et è cosa
manifesta che non po- nea felicità più che dolore nel mangiare, bere, posare e
generare, ma in non sentir fame, né sete, né fatica, né libidine. Da qua
considera qual sia secondo noi la perfezzion de la constanza: non già in questo
che l’ar- bore non si fracasse, rompa o pieghe; ma in questo che né manco si
muova: alla cui similitudine costui tien fisso il spirto, senso et intelletto,
là dove non ha sentimento di tempestosi insulti. cicada Volete dumque che sia
cosa desiderabile il comportar de tormenti, perché è cosa da forte? tansillo
Questo che dite “comportare” è parte di constanza, e non è la virtude intiera;
ma questo che dico “fortemente comportare” et Epicuro disse “non sentire”. La
qual privazion di senso è caggionata da quel che tutto è stato absorto dalla
cura della virtude, vero bene e felicitade. Qualmente Regolo non ebbe senso de
l’arca, Lucrezia del pugnale, Socrate del ve- leno, Anaxarco de la pila,
Scevola del fuoco, Cocle de la voragine, et altri virtuosi d’altre cose che
massime tormentano e danno orrore a persone ordinarie e vili. cicada Or passate
oltre. Letteratura italiana Einaudi 102 Giordano Bruno - De gli
eroici furori qua mi rimagno scabroso Vulcano: qua più superbo gigante si
smuove, che contr’il ciel s’infiamm’e stizz’in vano, tentando nuovi studii e
varie prove; qua trovo meglior fabri e Mongibello, meglior fucina, incudine e
martello. Dov’un pett’ha suspiri che quai mantici avvivan la fornace, u’
l’alm’a tante scosse sottoghiace di que’ sì lunghi scempii e gran martìri; e
manda quel concento che fa volgar sì aspr’e rio tormento. Qua si mostrano le
pene et incomodi che son ne l’amore, massime nell’amor volgare, il quale non è
al- tro che l’officina di Vulcano: quel fabro che forma i folgori de Giove che
tormentano l’anime delinquenti. Perché il disordinato amore ha in sé il
principio della sua pena; attesoché Dio è vicino, è nosco, è dentro di noi. Si
trova in noi certa sacrata mente et intelligenza, cui subministra un proprio
affetto che ha il suo vendi- catore, che col rimorso di certa sinderesi al
meno, co- me con certo rigido martello flagella il spirito prevari- cante.
Quella osserva le nostre azzioni et affetti, e come è trattata da noi fa che
noi vengamo trattati da lei. In tutti gli amanti, dico, è questo fabro Vulcano:
come non è uomo che non abbia Dio in sé, non è amante che non abbia questo dio.
In tutti è Dio cer- tissimamente, ma qual dio sia in ciascuno non si sa cossì
facilmente; e se pur se può esaminare e distin- guere, altro non potrei credere
che possa chiarirlo che l’amore: come quello che spinge gli remi, gonfia la
vela e modera questo composto, onde vegna bene o malamente affetto. – Dico bene
o malamente affetto quanto a quel che mette in esecuzione per l’azzioni morali
e contemplazione; perché del resto tutti gli Letteratura italiana Einaudi
103 Giordano Bruno - De gli eroici furori amanti comunmente senteno
qualch’incomodo: es- sendoché come le cose son miste, non essendo bene alcuno
sotto concetto et affetto a cui non sia gionto o opposto il male, come né alcun
vero a cui non sia ap- posto e gionto il falso; cossì non è amore senza timo-
re, zelo, gelosia, rancore et altre passioni che proce- dono dal contrario che
ne perturba, se l’altro contrario ne appaga. Talmente venendo l’anima in
pensiero di ricovrar la bellezza naturale, studia pur- garsi, sanarsi,
riformarsi: e però adopra il fuoco, per- ché essendo come oro trameschiato a la
terra et infor- me, con certo rigor vuol liberarsi da impurità; il che
s’effettua quando l’intelletto vero fabro di Giove vi mette le mani
essercitandovi gli atti dell’intellettive potenze. cicada A questo mi par che
si riferisca quel che si tro- va nel Convito di Platone, dove dice che l’Amore
da la madre Penìa ha ereditato l’esser arido, magro, palli- do, discalzo,
summisso, senza letto e senza tetto: per le quali circonstanze vien significato
il tormento ch’ha l’anima travagliata da gli contrarii affetti. tansillo Cossì
è, perché il spirito affetto di tal furore viene da profondi pensieri
distratto, martellato da cu- re urgenti, scaldato da ferventi desii, insoffiato
da spesse occasioni: onde trovandosi l’anima suspesa, necessariamente viene ad
essere men diligente et ope- rosa al governo del corpo per gli atti della
potenza ve- getativa. Quindi il corpo è macilento, mal nodrito, estenuato, ha
difetto de sangue, copia di malancolici umori, li quali se non saranno
instrumenti de l’anima disciplinata o pure d’un spirito chiaro e lucido, mena-
no ad insania, stoltizia e furor brutale; o al meno a certa poca cura di sé e
dispreggio del esser proprio, il qual vien significato da Platone per gli piedi
discalzi. Va summisso l’amore e vola come rependo per la ter- ra, quando è
attaccato a cose basse; vola alto quando Letteratura italiana Einaudi 104
Giordano Bruno - De gli eroici furori vien intento a più generose imprese.
In conclusione et a proposito: qualunque sia l’amore, sempre è trava- gliato e
tormentato di sorte che non possa mancar d’esser materia nelle focine di
Vulcano; perché l’ani- ma essendo cosa divina, e naturalmente non serva, ma
signora della materia corporale, viene a conturbarsi ancor in quel che
volontariamente serve al corpo, do- ve non trova cosa che la contente. E
quantumque fis- sa nella cosa amata, sempre gli aviene che altretanto vegna ad
essagitarsi e fluttuar in mezzo gli soffii de le speranze, timori, dubii, zeli,
conscienze, rimorsi, osti- nazioni, pentimenti, et altri manigoldi che son gli
mantici, gli carboni, l’incudini, gli martelli, le tena- glie, et altri
stormenti che si ritrovano nella bottega di questo sordido e sporco consorte di
Venere. cicada Or assai è stato detto a questo proposito: piac- ciavi di veder
che cosa séguita appresso. XI. tansillo Qua è un pomo d’oro ricchissimamen- te,
con diverse preciosissime specie, smaltato. Et ha il motto in circa che dice
Pulchriori detur. cicada La allusione al fatto delle tre dee che si sotto-
posero al giudicio de Paride, è molto volgare: ma leg- gansi le rime che più
specificatamente ne facciano ca- paci de l’intenzione del furioso presente.
tansillo Venere, dea del terzo ciel, e madre del cieco arciero, domator
d’ogn’uno; l’altra, ch’ha ’l capo giovial per padre, e di Giove la mogli’
altera Giuno; il troiano pastor chiaman, che squadre de chi de lor più bell’è
l’aureo muno: se la mia diva al paragon s’appone, non di Venere, Pallad’, o
Giunone. Per belle membra è vaga Letteratura italiana EinaudiBruno - De gli
eroici furori la cipria dea, Minerva per l’ingegno, e la Saturnia piace con
quel degno splendor d’altezza, ch’il Tonante appaga; ma quest’ha quanto aggrade
di bel, d’intelligenza, e maestade. Ecco qualmente fa comparazione dal suo
oggetto il quale contiene tutte le circonstanze, condizioni e spe- cie di
bellezza come in un suggetto, ad altri che non ne mostrano più che una per
ciascuno; e tutte poi per di- versi suppositi: come avvenne nel geno solo della
cor- poral bellezza di cui le condizioni tutte non le poté ap- provare Apelle
in una, ma in più vergini. Or qua dove son tre geni di beltade, benché avvegna
che tutti si tro- veno in ciascuna de le tre dee, perché a Venere non manca
sapienza e maestade, in Giunone non è difetto di vaghezza e sapienza, et in
Pallade è pur notata la maestà con la vaghezza: tutta volta aviene che l’una
condizione supera le altre, onde quella viene ad esser stimata come proprietà,
e l’altre come accidenti com- muni, atteso che di que’ tre doni l’uno predomina
in una, e viene ad mostrarla et intitularla sovrana de l’al- tre. E la caggion
di cotal differenza è lo aver queste raggioni non per essenza e primitivamente,
ma per participazione e derivativamente. Come in tutte le co- se dependenti
sono le perfezzioni secondo gli gradi de maggiore e minore, più e meno. – Ma
nella simplicità della divina essenza è tutto totalmente, e non secondo misura:
e però non è più sapienza che bellezza, e mae- stade, non è più bontà che
fortezza: ma tutti gli attri- buti sono non solamente uguali, ma ancora
medesimi et una istessa cosa. Come nella sfera tutte le dimensio- ni sono non
solamente uguali (essendo tanta la lun- ghezza quanta è la profondità e
larghezza) ma anco medesime: atteso che quel che chiami profondo, me- desimo
puoi chiamar lungo e largo della sfera. Cossì è Letteratura italiana Einaudi
106 Giordano Bruno - De gli eroici furori nell’altezza de la
sapienza divina, la quale è medesimo che la profondità de la potenza, e
latitudine de la bon- tade. Tutte queste perfezzioni sono uguali perché so- no
infinite. Percioché necessariamente l’una è secondo la grandezza de l’altra,
atteso che dove queste cose son finite, avviene che sia più savio che bello e
buono, più buono e bello che savio, più savio e buono che poten- te, e più
potente che buono e savio. Ma dove è infinita sapienza, non può essere se non
infinita potenza: per- ché altrimenti non potrebbe saper infinitamente. Do- ve
è infinita bontà, bisogna infinita sapienza: perché altrimenti non saprebbe
essere infinitamente buono. Dove è infinita potenza, bisogna che sia infinita
bontà e sapienza, perché tanto ben si possa sapere e si sappia possere. Or
dumque vedi come l’oggetto di questo fu- rioso, quasi inebriato di bevanda de
dèi, sia più alto incomparabilmente che gli altri diversi da quello. Co- me,
voglio dire, la specie intelligibile della divina es- senza comprende la
perfezzione de tutte l’altre specie altissimamente, di sorte che, secondo il
grado che può esser partecipe di quella forma, potrà intender tutto e far tutto,
et esser cossì amico d’una, che vegna ad aver a dispreggio e tedio ogn’altra
bellezza. Però a quella si deve esser consecrato il sferico pomo, come chi è
tutto in tutto. Non a Venere bella che da Minerva è supera- ta in sapienza, e
da Giunone in maestà. Non a Pallade di cui Venere è più bella, e l’altra più
magnifica. Non a Giunone, che non è la dea dell’intelligenza et amore ancora.
cicada Certo come son gli gradi delle nature et essenze, cossì
proporzionalmente son gli gradi delle specie in- telligibili, e magnificenze de
gli amorosi affetti e furori. XII. cicada Il seguente porta una testa, ch’ha
quat- tro faccia che soffiano verso gli quattro angoli del cie- lo; e son
quattro venti in un suggetto, alli quali sopra- Letteratura italiana Einaudi Bruno
- De gli eroici furori stanno due stelle, et in mezzo il motto che dice Novae
ortae Aeoliae; vorrei sapere che cosa vegna significata. tansillo Mi pare ch’il
senso di questa divisa è conse- guente di quello de la prossima superiore.
Perché co- me là è predicata una infinita bellezza per oggetto, qua vien
protestata una tanta aspirazione, studio, af- fetto e desio; percioch’io credo
che questi venti son messi a significar gli suspiri; il che conosceremo, se
verremo a leggere la stanza: Figli d’Astreo Titan e de l’Aurora, che conturbate
il ciel, il mar e terra, quai spinti fuste dal Litigio fuora, perché facessi a’
dèi superba guerra: non più a l’Eolie spelunche dimora fate, ov’imperio mio vi
fren’e serra: ma rinchiusi vi siet’entra’a quel petto ch’i’ veggo a tanto
sospirar costretto. Voi socii turbulenti de le tempeste d’un et altro mare,
altro non è che vagli’ asserenare, che que’omicidi lumi et innocenti: quelli
apert’et ascosi vi renderan tranquilli et orgogliosi. Aperto si vede ch’è
introdotto Eolo parlar a i venti, quali non più dice esser da lui moderati
nell’Eolie ca- verne: ma da due stelle nel petto di questo furioso. Qua le due
stelle non significano gli doi occhi che son ne la bella fronte: ma le due
specie apprensibili della divina bellezza e bontade di quell’infinito
splendore, che talmente influiscono nel desio intellettuale e ra- zionale, che
lo fanno venire ad aspirar infinitamente, secondo il modo con cui infinitamente
grande, bello e buono apprende quell’eccellente lume. Perché l’amo- re mentre
sarà finito, appagato, e fisso a certa misura, Letteratura italiana Einaudi
108 tansillo cicada tansillo Giordano Bruno - De gli eroici furori
non sarà circa le specie della divina bellezza: ma altra formata; ma mentre
verrà sempre oltre et oltre aspi- rando, potrassi dire che versa circa
l’infinito. cicada Come comodamente l’aspirare è significato per il spirare?
che simbolo hanno i venti col deside- rio? tansillo Chi de noi in questo stato
aspira, quello su- spira, quello medesimo spira. E però la vehemenza
dell’aspirare è notata per quell’ieroglifico del forte spirare. cicada Ma è
differenza tra il sospirare e spirare. tansillo Però non vien significato l’uno
per l’altro co- me medesimo per il medesimo: ma come simile per il Simile.
cicada Seguitate dumque il vostro proposito. tansillo L’infinita aspirazion
dumque mostrata per gli suspiri, e significata per gli venti, è sotto il
governo non d’Eolo nell’Eolie, ma di detti doi lumi; li quali non solo
innocente, ma e benignissimamente uccido- no il furioso, facendolo per il
studioso affetto morire al riguardo d’ogn’altra cosa: con ciò che quelli che
chiusi et ascosi lo rendono tempestoso, aperti lo ren- deran tranquillo; atteso
che nella staggione che di nu- voloso velo adombra gli occhi de l’umana mente
in questo corpo, aviene che l’alma con tal studio vegna più tosto turbata e
travagliata: come essendo quello stracciato e spinto, doverrà tant’altamente
quieta, quanto baste ad appagar la condizion di sua natura. cicada Come
l’intelletto nostro finito può seguitar l’oggetto infinito? Con l’infinita
potenza ch’egli ha. Questa è vana, se mai sarrà in effetto. Sarrebe vana, se
fusse circa atto finito, dove l’infinita potenza sarrebe privativa; ma non già
circa l’atto infinito, dove l’infinita potenza è positiva per- fezzione.
Letteratura italiana Einaudi 109 Giordano Bruno - De gli eroici
furori cicada Se l’intelletto umano è una natura et atto fini- to, come e
perché ha potenza infinita? tansillo Perché è eterno, et acciò sempre si
dilette, e non abbia fine né misura la sua felicità; e perché come è finito in
sé, cossì sia infinito nell’oggetto. cicada Che differenza è tra la infinità de
l’oggetto et infinità della potenza? tansillo Questa è finitamente infinita,
quello infinita- mente infinito. Ma torniamo a noi. Dice dumque là il motto
“Novae partae Aeoliae”, perché par si possa credere che tutti gli venti (che
son negli antri voragi- nosi d’Eolo) sieno convertiti in suspiri, se vogliamo
numerar quelli che procedono da l’affetto che senza fine aspira al sommo bene
et infinita beltade. XIII. cicada Veggiamo appresso la significazione di quella
face ardente, circa la quale è scritto Ad vitam, non ad horam. tansillo La
perseveranza in tal amore et ardente desio del vero bene, in cui arde in questo
stato temporale il furioso. Questo credo che mostra la seguente tavola: Partesi
da la stanz’il contadino, quando il sen d’Oriente il giorno sgombra; e quand’il
sol ne fere più vicino, stanc’e cotto da caldo sied’a l’ombra; lavora poi, e
s’affatica insino ch’atra caligo l’emisfer ingombra; indi si posa: io sto a
continue botte mattina, mezo giorno, sera e notte. Questi focosi rai ch’escon
da que’ dei archi del mio sole, de l’alma mia (com’il mio destin vuole) dal
orizonte non si parton mai: bruggiand’a tutte l’ore dal suo meridian l’afflitto
core.cicada Questa tavola più vera che propriamente espli- ca il senso de la
figura. tansillo Non ho d’affaticarmi a farvi veder queste proprietadi, dove il
vedere non merita altro che più attenta considerazione. Gli “rai del sole” son
le rag- gioni con le quali la divina beltade e bontade si mani- festa a noi. E
son “focosi”, perché non possono essere appresi da l’intelletto, senza che
conseguentemente scaldeno l’affetto. “Doi archi del sole” son le due spe- cie
di revelazione che gli scolastici teologi chiamano «matutina» e «vespertina»;
onde l’intelligenza illumi- natrice di noi, come aere mediante, ne adduce
quella specie o in virtù che la admira in se stessa, o in effica- cia che la
contempla ne gli effetti. L’orizonte de l’al- ma in questo luogo è la parte
delle potenze superiori, dove a l’apprensione gagliarda de l’intelletto
soccorre il vigoroso appulso de l’affetto, significato per il core, che
“bruggiando a tutte l’ore” s’afflige; perché tutti gli frutti d’amore che
possiamo raccòrre in questo sta- to non son sì dolci che non siano più gionti a
certa af- flizzione, quella almeno che procede da l’apprension di non piena
fruizione. Come specialmente accade ne gli frutti de l’amor naturale, la
condizion de gli quali non saprei meglio esprimere, che come fe’ il poeta
epicureo: Ex hominis vero facie pulchroque colore nil datur in corpus praeter
simulacra fruendum tenuia, quae vento spes captat saepe misella. Ut bibere in
somnis sitiens cum quaerit, et humor non datur, ardorem in membris qui
stinguere possit; sed laticum simulacra petit frustraque laborat, in medioque
sitit torrenti flumine potans: sic in amore Venus simulacris ludit amantis, nec
satiare queunt spectando corpora coram, nec manibus quicquam teneris abradere
membris Letteratura italiana Einaudi 111 Giordano Bruno - De gli
eroici furori possunt, errantes incerti corpore toto. Denique cum membris
conlatis flore fruuntur aetatis; dum iam praesagit gaudia corpus, atque in eo
est Venus, ut muliebria conserat arva, adfigunt avide corpus iunguntque salivas
oris, et inspirant pressantes dentibus ora, nequicquam, quoniam nibil inde
abradere possunt, nec penetrare et abire in corpus corpore toto. Similmente
giudica nel geno del gusto che qua possia- mo aver de cose divine: mentre a
quelle ne forziamo penetrare et unirci, troviamo aver più afflizzione nel desio
che piacer nel concetto. E per questo può aver detto quel savio Ebreo, che chi
aggionge scienza ag- gionge dolore, perché dalla maggior apprensione na- sce
maggior e più alto desio, e da questo séguita mag- gior dispetto e doglia per
la privazione della cosa desiderata; là onde l’epicureo che séguita la più
tran- quilla vita, disse in proposito de l’amor volgare: Sed fugitare decet
simulacra, et pabula amoris abstergere sibi, atque alio convertere mentem, nec
servare sibi curam certumque dolorem: ulcus enim virescit el inveterascit
alendo, inque dies gliscit furor, atque erumna gravescit. Nec Veneris fructu
sarei is qui vitat amorem, sed potius quaes sunt sine paena commoda sumit.
cicada Che intende per il “meridiano del core”? tansillo La parte o region più
alta e più eminente de la volontà, dove più illustre, forte, efficace e retta-
mente è riscaldata. Intende che tale affetto non è co- me in principio che si
muova, né come in fine che si quiete, ma come al mezzo dove s’infervora. XIV.
cicada Ma che significa quel strale infocato che ha le fiamme in luogo di
ferrigna punta, circa il quale è avolto un laccio, et ha il motto Amor instat
ut instans? Dite che ne intendete. tansillo Mi par che voglia dire che l’amor
mai lo la- scia, e che eterno parimente l’affliga. cicada Vedo bene laccio,
strale e fuoco; intendo quel che sta scritto: “Amor instat”; ma quel che
séguita, non posso capirlo, cioè che l’amor come istante o in- sistente, inste:
che ha medesima penuria di proposito, che se uno dicesse: «questa impresa
costui la ha finta come finta, la porta come la porta, la intendo come la
intendo, la vale come la vale, la stimo come un che la stima». tansillo Più
facilmente determina e condanna chi manco considera. Quello “instans” non
significa adiettivamente dal verbo instare, ma è nome sustanti- vo preso per
l’instante del tempo. cicada Or che vuol dir che l’amor insta come l’instante?
tansillo Che vuol dire Aristotele nel suo libro Del tempo, quando dice che
l’eternità è uno instante, e che in tutto il tempo non è che uno instante?
cicada Come questo può essere se non è tanto mini- mo tempo che non abbia più
instanti? Vuol egli forse che in uno instante sia il diluvio, la guerra di
Troia, e noi che siamo adesso? Vorrei sapere come questo in- stante se divide
in tanti secoli et anni; e se per medesi- ma proporzione non possiamo dire che
la linea sia un punto. tansillo Sì come il tempo è uno, ma è in diversi sug-
getti temporali, cossì l’instante è uno in diverse e tutte le parti del tempo.
Come io son medesimo che fui, so- no e sarò; io medesimo son qua in casa, nel
tempio, nel campo e per tutto dove sono. cicada Perché volete che l’instante
sia tutto il tempo? tansillo Perché se non fusse l’instante, non sarrebe il
tempo: però il tempo in essenza e sustanza non è altro che instante. E questo
baste se l’intendi (perché non Letteratura italiana Einaudi 113
Giordano Bruno - De gli eroici furori ho da pedanteggiar sul quarto de la
Fisica); onde comprendi che voglia dire, che l’amor gli assista non meno che il
tempo tutto: perché questo “instans” non significa punto del tempo. cicada
Bisogna che questa significazione sia specifica- ta in qualche maniera, se non
vogliamo far che sia il motto vicioso in equivocazione, onde possiamo libe-
ramente intendere ch’egli voglia dire che l’amor suo sia d’uno instante, idest
d’un atomo di tempo e d’un niente: o che voglia dire che sia (come voi
interpreta- te) sempre. tansillo Certo se vi fussero inplicati questi doi sensi
contrarii, il motto sarrebe una baia. Ma non è cossì, se ben consideri, atteso
che in uno instante che è atomo o punto, che l’amore inste o insista non può
essere: ma bisogna necessariamente intendere l’instante in al- tra significazione.
E per uscir di scuola, leggasi la stanza: Un tempo sparge, et un tempo
raccoglie; un edifica, un strugge; un piange, un ride: un tempo ha triste, un
tempo ha liete voglie; un s’affatica, un posa; un stassi, un side: un tempo
porge, un tempo si ritoglie; un muove, un ferm’; un fa viv’, un occide: in
tutti gli anni, mesi, giorni et ore m’attende, fere, accend’e lega amore.
Continuo mi disperge, sempre mi strugg’e mi ritien in pianto, è mio triste
languir ogn’or pur tanto, in ogni tempo mi travagli’ et erge; tropp’in rubbarmi
è forte, mai non mi scuote, mai non mi dà morte. cicada Assai bene ho compreso
il senso: e confesso che tutte le cose accordano molto bene. Però mi par tempo
di procedere a l’altro. Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici
furori XV. tansillo Qua vedi un serpe ch’a la neve langui- sce dove l’avea
gittato un zappatore; et un fanciullo ignudo acceso in mezzo al fuoco, con
certe altre minute e circonstanze, con il motto che dice Idem, itidem, non
idem. Questo mi par più presto enigma che altro, però non mi confido
d’esplicarlo a fatto: pur crederei che vo- glia significar medesimo fato
molesto, che medesima- mente tormenta l’uno e l’altro (cioè inentissimamente,
senza misericordia, a morte) con diversi instrumenti o contrarii principio,
mostrandosi medesimo freddo e caldo. Ma questo mi par che richieda più lunga e
distin- ta considerazione. cicada Un’altra volta. Leggete la rima. [tansillo]
Languida serpe, a quell’umor sì denso ti rintorci, contrai, sullevi, inondi; e
per temprar il tuo doler intenso, al fredd’or quest’or quella parte ascondi;
s’il ghiaccio avesse per udirti senso, tu voce che propona o che rispondi,
credo ch’areste efficaci’ argumento per renderlo piatoso al tuo tormento. Io ne
l’eterno foco mi dibatto, mi struggo, scaldo, avvampo; e al ghiaccio de mia
diva per mio scampo né amor di me, né pietà trova loco: lasso, per che non
sente quant’è il rigor de la mia fiamma ardente. Angue cerchi fuggir, sei
impotente; ritenti a la tua buca, ell’è disciolta; proprie forze richiami, elle
son spente; attendi al sol, l’asconde nebbia folta; mercé chiedi al villan,
odia ’l tuo dente; fortuna invochi, non t’ode la stolta. Fuga, luogo, vigor,
astro, uom o sorte Letteratura italiana Einaudi 115 Giordano Bruno
- De gli eroici furori non è per darti scampo da la morte. Tu addensi, io
liquefaccio; io miro al rigor tuo, tu a l’ardor mio; tu brami questo mal, io
quel desio; n’io posso te, né tu me tòr d’impaccio. Or chiariti a bastanza del
fato rio, lasciamo ogni speranza. cicada Andiamone, perché per il camino
vedremo di snodar questo intrico, se si può. tansillo Bene. interlocutori Cesarino, Maricondo. cesarino
Cossì dicono che le cose megliori e più eccellenti sono nel mondo quando tutto
l’universo da ogni parte risponde eccellentemente: e questo stima- no allor che
tutti gli pianeti ottegnono l’Ariete, essen- do che quello de l’ottava sfera
ancora ottegna quello del firmamento invisibile e superiore dove è l’altro
zodiaco; le cose peggiori e più basse vogliono che ab- biano loco quando domina
la contraria disposizione et ordine: però per forza di vicissitudine accadeno
le eccessive mutazioni, dal simile al dissimile, dal con- trario a l’altro. La
revoluzion dumque et anno grande del mondo, è quel spacio di tempo in cui da
abiti et effetti diversissimi per gli oppositi mezzi e contraria si ritorna al
medesimo: come veggiamo ne gli anni parti- colari, qual è quello del sole, dove
il principio d’una disposizione contraria è fine de l’altra, et il fine di
questa è principio di quella: però ora che siamo stati nella feccia delle
scienze, che hanno parturita la feccia delle opinioni, le quali son causa della
feccia de gli co- stumi et opre, possiamo certo aspettare de ritornare a
meglior stati. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappi, fratel
mio, che questa successione et ordine de le cose è verissima e certissima: ma
al no- stro riguardo sempre, in qualsivoglia stato ordinario, il presente più
ne afflige che il passato, et ambi doi in- sieme manco possono appagarne che il
futuro, il qua- le è sempre in aspettazione e speranza, come ben puoi veder
designato in questa figura la quale è tolta dall’antiquità de gli Egizzii, che
fêrno cotal statua che Letteratura italiana Einaudi 118 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori sopra un busto simile a tutti tre puosero tre
teste, l’una di lupo che remirava a dietro, l’altra di leone che avea la faccia
volta in mezzo, e la terza di cane che guardava innanzi; per significare che le
cose passate affligono col pensiero, ma non tanto quanto le cose presenti che
in effetto ne tormentano: ma sempre per l’avenire ne promettemo meglio. Però là
è il lupo che urla, qua il leon che rugge, appresso il cane che ap- plaude.
cesarino Che contiene quel motto ch’è sopra scritto? maricondo Vedi che sopra
il lupo è Iam, sopra il leo- ne Modo, sopra il cane Praeterea, che son dizzioni
che significano le tre parti del tempo. cesarino Or leggete quel ch’è nella
tavola. maricondo Cossì farò. Un alan, un leon, un can appare a l’auror, al di
chiar, al vespr’oscuro quel che spesi, ritegno, e mi procuro, per quanto mi si
die’, si dà, può dare. Per quel che feci, faccio et ho da fare al passat’, al
presente et al futuro, mi pento, mi tormento, m’assicuro, nel perso, nel
soffrir, nell’aspettare. Con l’agro, con l’amaro, con il dolce l’esperienza, i
frutti, la speranza mi minacciò, m’affligono, mi molce. L’età che vissi, che
vivo, ch’avanza mi fa tremante, mi scuote, mi folce, in absenza, presenza, e
lontananza. Assai, troppo, a bastanza quel di già, quel di ora, quel d’appresso
m’hann’in timor, martir, e spene messo. cesarino Questa a punto è la testa d’un
furioso aman- te; quantunque sia de quasi tutti gli mortali in qualun-
Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori que maniera e modo
siano malamente affetti; perché non doviamo né possiamo dire che questo quadre
a tutti stati in generale, ma a quelli che furono e sono travagliosi: atteso
che ad un ch’ha cercato un regno et ora il possiede, conviene il timor di
perderlo; ad un ch’ha lavorato per acquistar gli frutti de il amore, co- me è
la particular grazia de la cosa amata, conviene il morso della gelosia e
suspizione. E quanto a gli stati del mondo, quando ne ritroviamo nelle tenebre
e ma- le, possiamo sicuramente profetizar la luce e prospe- ritade; quando
siamo nella felicità e disciplina, senza dubio possiamo aspettar il successo de
l’ignoranze e travagli: come avvenne a Mercurio Trimigisto che per veder
l’Egitto in tanto splender de scienze e divina- zioni, per le quali egli
stimava gli uomini consorti de gli demoni e dèi, e per conseguenza
religiosissimi, fe- ce quel profetico lamento ad Asclepio, dicendo che doveano
succedere le tenebre de nove religioni e cul- ti, e de cose presenti non dover
rimaner altro che fa- vole e materia di condannazione. Cossì gli Ebrei quando
erano schiavi nell’Egitto e banditi nelli deser- ti, erano confortati da lor
profeti con l’aspettazione de libertà et acquisto di patria. Quando furono in
sta- to di domìno e tranquillità, erano minacciati de di- spersione e
cattività. Oggi che non è male né vitupe- rio a cui non siano suggetti, non è
bene né onore che non si promettano. Similmente accade a tutte l’altre
generazioni e stati: li quali se durano e non sono an- nihilati a fatto, per
forza della vicissitudine delle cose, è necessario da ’l male vegnano al bene,
dal bene al male, dalla bassezza a l’altezza, da l’altezza alla bas- sezza, da
le oscuritadi al splendore, dal splendor alle oscuritadi. Perché questo
comporta l’ordine naturale: oltre il qual ordine, se si ritrova altro che lo
guaste o corregga, io lo credo, e non ho da disputarne, perché non raggiono con
altro spirito che naturale. Letteratura italiana Einaudi 120
Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappiamo che non fate il
teologo ma filo- sofo e che trattate filosofia non teologia. cesarino Cossì è.
Ma veggiamo quel che séguita. II. cesarino Veggio appresso un fumante turribolo
che è sostenuto da un braccio, et il motto che dice Il- lius aram; et appresso
l’articolo seguente: Or chi quell’aura de mia nobil brama d’un ossequio divin
credrà men degna s’in diverse tabelle ornata vegna da voti miei nel tempio de
la fama? Perch’altr’impres’eroica mi richiama, chi pensarà giamai che men convegna
ch’al suo culto cattivo mi ritegna quella ch’il ciel onora tanto et ama?
Lasciatemi, lasciate, altri desiri, importuni pensier, datemi pace. Perché
volete voi ch’io mi ritiri da l’aspetto del sol che sì mi piace? Dite di me
piatosi: «Perché miri quel, che per remirar si ti disface? perché di quella
face sei vago sì?» «Perché mi fa contento più ch’ogn’altro piacer, questo
tormento». maricondo A proposito di questo io ti dicevo che quantunque un
rimagna fisso su una corporal bellez- za e culto esterno, può onorevolmente e
degnamente trattenirsi: purché dalla bellezza materiale la quale è un raggio e
splender della forma, et atto spirituale, di cui è vestigio et ombra, vegna ad
inalzarsi alla consi- derazion e culto della divina bellezza, luce e maesta-
de: di maniera che da queste cose visibili vegna a ma- gnificar il core verso
quelle che son tanto più eccellenti in sé e grate a l’animo ripurgato, quanto
son più rimosse da la materia e senso. Oimè (dirà) se una bellezza umbratde,
fosca, corrente, depinta nella su- perficie de la materia corporale, tanto mi
piace e tan- to mi commuove l’affetto, m’imprime nel spirito non so che
riverenza di maestade, mi si cattiva, e tanto dolcemente mi lega e mi s’attira,
ch’io non trovo cosa che mi vegna messa avanti da gli sensi che tanto m’ap-
paghe: che sarà di quello che sustanzialmente, origi- nalmente, primitivamente
è bello; che sarà de l’anima mia, dell’intelletto divino, della regola de la
natura? Conviene dumque che la contemplazione di questo vestigio di luce mi amene
mediante la ripurgazion de l’animo mio all’imitazione, conformità e
participazio- ne di quella più degna et alta, in cui mi transforme et a cui mi
unisca: perché son certo che la natura che mi ha messa questa bellezza avanti
gli occhi, e mi ha do- tato di senso interiore, per cui posso argomentar bel-
lezza più profonda et incomparabilmente maggiore, voglia ch’io da qua basso
vegna promosso a l’altezza et eminenza di specie più eccellenti. Né credo che
il mio vero nume come me si mostra in vestigio et ima- gine, voglia sdegnarsi
che in imagine e vestigio vegna ad onorarlo, a sacrificargli, con questo ch’il
mio core et affetto sempre sia ordinato, e rimirare più alto: at- teso che chi
può esser quello che possa onorarlo in es- senza e propria sustanza, se in tal
maniera non può comprenderlo? cesarino Molto ben dimostri come a gli uomini di
eroico spirito tutte le cose si converteno in bene, e si sanno servire della
cattività in frutto di maggior liber- tade, e l’esser vinto una volta
convertiscono in occa- sione di maggior vittoria. Ben sai che l’amor di bellez-
za corporale a color che son ben disposti non solamente non apporta
ritardamento da imprese mag- giori, ma più tosto viene ad improntargli l’ali
per veni- re a quelle: allor che la necessità de l’amore è converti-
Letteratura italiana Einaudi 122 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori ta in virtuoso studio per cui l’amante si forza di venire a termine nel
quale sia degno della cosa amata, e forse di cosa maggiore, megliore e più
bella ancora; onde sia o che vegna contento d’aver guadagnato quel che bra- ma,
o sodisfatto dalla sua propria bellezza, per cui de- gnamente possa spregiar
l’altrui che viene ad esser da lui vinta e superata: onde o si ferma quieto, o
si volta ad aspirare ad oggetti più eccellenti e magnifichi. E cossì sempre
verrà tentando il spirito eroico, sin tanto che non si vede inalzato al
desiderio della divina bel- lezza in se stessa, senza similitudine, figura,
imagine e specie, se sia possibile: e più se sa arrivare a tanto. maricondo
Vedi dumque, Cesarino, come ha raggio- ne questo furioso di risentirsi contra
coloro che lo ri- prendono come cattivo de bassa bellezza a cui sparga voti et
appenda tabelle; di maniera che quindi non viene rubelle dalle voci che lo
richiamano a più alte imprese: essendo che come queste basse cose deriva- no da
quelle et hanno dipendenza, cossì da queste si può aver accesso a quelle come
per proprii gradi. Queste se non son Dio son cose divine, sono imagini sue
vive: nelle quali non si sente offeso se si vede ado- rare: perché abbiamo
ordine dal superno spirito che dice «Adorate scabellum pedum eius». Et altrove
disse un divino imbasciatore: «Adorabimus ubi steterunt pedes eius». cesarino
Dio, la divina bellezza e splendore riluce et è in tutte le cose; però non mi
pare errore d’admirarlo in tutte le cose secondo il modo che si comunica a
quelle: errore sarà certo se noi donaremo ad altri l’onor che tocca a lui solo.
Ma che vuol dir quando dice “Lasciatemi, lasciate, altri desiri”? maricondo
Bandisce da sé gli pensieri, che gli appresen- tano altri oggetti che non hanno
forza di commoverlo tanto; e che gli vogliono involar l’aspetto del sole, il
qual può presentarsegli da questa fenestra più che da l’altre. Letteratura
italiana Einaudi 123 Giordano Bruno - De gl’eroici furori cesarino
Come importunato da pensieri si sta con- stante a remirar quel splendor che lo
disface, e non lo fa di maniera contento che ancora non vegna forte- mente a
tormentarlo? maricondo Perché tutti gli nostri conforti in questo stato di
controversia non sono senza gli suoi di- sconforti cossì grandi come magnifici
son gli conforti. Come più grande è il timore d’un re che consiste su la
perdita d’un regno, che di un mendico che consiste sul periglio di perdere
dieci danaii; è più urgente la cura d’un prencipe sopra una republica, che d’un
ru- stico sopra un grege de porci: come gli piaceri e deli- cie di quelli forse
son più grandi che le delicie e piace- ri di questi. Però l’amare et aspirar
più alto, mena seco maggior gloria e maestà con maggior cura, pen- siero e
doglia: intendo in questo stato dove l’un con- trario sempre è congionto a
l’altro, trovandosi la mas- sima contrarietade sempre nel medesimo geno, e per
conseguenza circa medesimo suggetto, quantunque gli contraria non possano
essere insieme. E cossì pro- porzionalmente nell’amor di Cupido superiore, come
dechiarò l’epicureo poeta nel cupidinesco volgare e animale, quando disse:
Fluctuat incertis erroribus ardor amantum, nec constat quid primum oculis
manibusque fruantur: quod petiere premunit arte, faciuntque dolorem corporis,
et dentes inlidunt saepe labellis osculaque adfigunt, quia non est pura
voluptas, et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum, quodcumque est,
rabies, unde illa haec germina surgunt. Sed leviter paenas frangit Venus inter
amorem, blandaque refraenat morsus admixta voluptas, namque in eo spes est,
unde est ardoris origo, restingui quoque posse ab eodem corpore flammam.
Letteratura italiana Einaudi 124 Giordano Bruno - De gl’eroici furori
Ecco dumque con quali condimenti il magistero et arte della natura fa che un si
strugga sul piacer di quel che lo disface, e vegna contento in mezzo del
tormento, e tormentato in mezzo de tutte le conten- tezze: atteso che nulla si
fa assolutamente da un paci- fico principio, ma tutto da contrarii principii
per vit- toria e domìno d’una parte della contrarietade; e non è piacere di
generazione da un canto, senza dispiace- re di corrozzione da l’altro: e dove
queste cose che si generano e corrompono sono congionte e come in medesimo
suggetto composto, si trova il senso di de- lettazione e tristizia insieme. Di
sorte che vegna no- minata più presto delettazione che tristizia, se aviene che
la sia predominante, e con maggior forza possa sollecitare il senso. III. cesarino
Or consideriamo sopra questa imagine seguente, ch’è d’una fenice che arde al
sole, e con il suo fumo va quasi a oscurar il splender di quello, dal cui
calore vien infiammata et èvvi la nota che dice: Neque simile, nec par.
maricondo Leggasi l’articolo prima: Questa fenice ch’al bel sol s’accende, e a
dramm’a dramma consumando vassi, mentre di splender cint’ardendo stassi,
contrario fio al suo pianeta rende: perché quel che da lei al ciel ascende
tepido fumo et atra nebbia fassi, ond’i raggi a’ nostri occhi occolti lassi e
quello avvele, per cui arde e splende. Tal il mio spirto (ch’il divin splendore
accende e illustra) mentre va spiegando quel che tanto riluce nel pensiero,
manda da l’alto suo concetto fore rima, ch’il vago sol vad’oscurando, mentre mi
struggo e liquefaccio intiero. Oimè! questo adro e nero nuvol di foco infosca
col suo stile quel ch’aggrandir vorrebb’, e ’l rend’umile. cesarino Dice dumque
costui che come questa le nice venendo dal splendor del sole accesa, et
abituata d lu- ce e di fiamma, vien ella poi ad inviar al cielo quel fu- mo che
oscura quello che l’ha resa lucente: cossì egli infiammato et illuminato
furioso per quel che fa in lo- de d tanto illustre suggetto che gli have acceso
il core e gli splende nel pensiero, viene più tosto ad oscurarlo, che
ritribuirgli luce per luce, procedendo quel fumo, effetto di fiamme in cui si
risolve la sustanza di lui. maricondo Io senza che metta in bilancio e compara-
zione gli studi di costui, torno a dire quel che ti dice- vo l’altr’ieri, che
la lode è uno de gli più gran sacrificii che possa far un affetto umano ad un
oggetto. E per lasciar da parte il proposito del divino, ditemi: chi co-
noscerebbe Achille, Ulisse e tanti altri greci e troiani capitani, chi arrebe
notizia de tanti grandi soldati, sa- pienti et eroi de la terra, se non fussero
stati messi alle stelle e deificati per il sacrificio de laude, che nell’alta-
re del cor de illustri poeti et altri recitatori have acce- so il fuoco, con
questo che comunmente montasse al cielo il sacrificatore, la vittima et il
canonizato divo, per mano e voto di legitimo e degno sacerdote? cesarino Ben
dici di degno e legitimo sacerdote; per- ché de gli appostici n’è pieno oggi il
mondo, li quali come sono per ordinario indegni essi loro, cossì ve- gnono
sempre a celebrar altri indegni, di sorte che asini asinos fricant. Ma la
previdenza vuole che in luo- go d’andar gli uni e gli altri al cielo, sen vanno
gionta- mente alle tenebre de l’Orco: onde fia vana e la gloria di quel che
celebra, e di quel ch’è celebrato; perché l’uno ha intessuta una statua di
paglia, o insculpito un tronco di legno, o messo in getto un pezzo di calcina;
e l’altro idolo d’infamia e vituperio non sa che non gli bisogna aspettar gli
denti de l’evo e la falce di Saturno per esser messo giù: stante che dal suo
encomico me- desimo vien sepolto vivo all’ora all’ora propria che vien lodato,
salutato, nominato, presentato. Come per il contrario è accaduto alla prudenza
di quel tanto ce- lebrato Mecenate, il quale se non avesse avuto altro
splendore che de l’animo inchinato alla protezzione e favor delle Muse, sol per
questo meritò che gl’ingegni de tanti illustri poeti gli dovenessero ossequiosi
a met- terlo nel numero de più famosi eroi che abbiano cal- pestrato il dorso
de la terra. Gli proprii studii et il proprio splendore l’han reso chiaro e
nobilissimo, e non l’esser nato d’atavi regi, non l’esser gran segreta- rio e
consegliero d’Augusto. Quello dico che l’ha fat- to illustrissimo, è l’aversi
fatto degno dell’execuzion della promessa di quel poeta che disse: Fortunati
ambo, si quid mea carmina possuni, nulla dies unquam memori vos eximet aevo,
dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet, imperiumque pater Romanus
habebit. maricondo Mi sovviene di quel che dice Seneca in certa epistola dove
riferisce le paroli d’Epicuro ad un suo amico, che son queste: «Se amor di
gloria ti tocca il petto, più noto e chiaro ti renderanno le mie lettere che
tutte quest’altre cose che tu onori, e dalle quali sei onorato, e per le quali
ti puoi vantare». Similmen- te arria possuto dire Omero se si gli fusse
presentato avanti Achille o Ulisse, Vergilio a Enea et alla sua progenia;
perciò che, come ben suggionse quel filo- sofo morale, «è più conosciuto
Domenea per le lette- re d’Epicuro che tutti gli megistani satrapi e regi, dal-
li quali pendeva il titolo [di] Domenea, e la memoria Letteratura italiana
Einaudi Bruno - De gl’eroici furori de gli quali venea suppressa dall’alte
tenebre de l’oblio. Non vive Attico per essere genero d’Agrippa e progenero de
Tiberio, ma per l’epistole de Tullio. Druso pronepote di Cesare non si
troverebbe nel nu- mero de nomi tanto grandi, se non vi l’avesse inserito
Cicerone. Oh che ne sopraviene al capo una profon- da altezza di tempo, sopra
la quale non molti ingegni rizzaranno il capo». Or per venire al proposito di
questo furioso il quale vedendo una fenice accesa al sole, si rammenta del
proprio studio, e duolsi che co- me quella per luce et incendio che riceve, gli
rimanda oscuro e tepido fumo di lode dall’olocausto della sua liquefatta
sustanza. Qualmente giamai possiamo non sol raggionare, ma e né men pensare di
cose divine, che non vengamo a detraergli più tosto che aggion- gergli di
gloria: di sorte che la maggior cosa che far si possa al riguardo di quelle, è
che l’uomo in presenza de gli altri uomini vegna più tosto a magnificar se
stesso per il studio et ardire, che donar splendore ad altro per qualche
compita e perfetta azzione. Atteso che cotale non può aspettarsi dove si fa
progresso all’infinito, dove l’unità et infinità son la medesima cosa; e non
possono essere perseguitate dal altro nu- mero, perché non è unità, né da altra
unità perché non è numero, né da altro numero et unità: perché non sono
medesimo absoluto et infinito. Là onde ben disse un teologo che essendo che il
fonte della luce non solamente gli nostri intelletti, ma ancora gli divini di
gran lunga sopraavanza, è cosa conveniente che non con discorsi e paroli, ma
con silenzio vegna ad esser celebrata. cesarino Non già col silenzio de gli
animali bruti et altri che sono ad imagine e similitudine d’uomini: ma di
quelli, il silenzio de quali è più illustre che tutti gli eridi, rumori e
strepiti di costoro che possano esser uditi. Letteratura italiana Einaudi
128 Giordano Bruno - De gl’eroici furori IV. maricondo Ma
procediamo oltre a vedere quel che significa il resto. cesarino Dite se avete
prima considerato e visto quel che voglia dir questo fuoco in forma di core con
quat- tro ali, de le quali due hanno gli occhi, dove tutto il composto è cinto
de luminosi raggi, et hassi in circa scritta la questione: Nitimur in cassum?
maricondo Mi ricordo ben che significa il stato de la mente, core, spirito et
occhi del furioso; ma leggiamo l’articolo: Questa mente ch’aspira al splendor
santo, tant’alti studi disvelar non ponno; il cor, che recrear que’ pensier
vonno, da guai non può ritrarsi più che tanto; il spirto che devria posarsi
alquanto, d’un moment’al piacer non si fa donno; gli occhi ch’esser derrian
chiusi dal sonno tutta la notte son aperti al pianto. Oimè miei lumi con qual
studio et arti tranquillar posso i travagliati sensi? Spirto mio, in qual tempo
et in quai parti mitigarò gli tuoi dolori intensi? E tu, mio cor, come potrò
appagarti di quel ch’al grave tuo suffrir compensi? Quand’i debiti censi
daratti l’alma, o travagliata mente, col cor, col spirto e con gli occhi
dolente? Perché la mente aspira al splendor divino, fugge il consorzio de la
turba, si ritira dalla commune opinio- ne: non solo dico e tanto s’allontana
dalla moltitudine di suggetti, quanto dalla communità de studii, opinio- ni e
sentenze; atteso che per contraer vizii et ignoran- ze tanto è maggior
periglio, quanto è maggior il popo- lo a cui s’aggionge: «Nelli publici
spettacoli» disse il Letteratura italiana Einaudi 129 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori filosofo morale, «mediante il piacere più
facilmente gli vizii s’ingeriscono». Se aspira al splendor alto, riti- resi
quanto può all’unità, contrahasi quanto è possibi- le in se stesso, di sorte
che non sia simile a molti, per- ché son molti; e non sia nemico de molti,
perché son dissimili, se possibil fia serbar l’uno e l’altro bene: al- trimenti
s’appiglie a quel che gli par megliore. – Con- versa con quelli gli quali o lui
possa far megliori, o da gli quali lui possa essere fatto megliore: per
splendor che possa donar a quelli, o da quelli possa ricever lui. Contentesi
più d’uno idoneo che de l’inetta moltitu- dine; né stimarà d’aver acquistato
poco quando è do- venuto a tale che sia savio per sé, sovvenendogli quel che
dice Democrito: «Unus mihi pro populo est, et po- pulus pro uno»; e che disse
Epicuro ad un consorte de suoi studii scrivendo: «Haec tibi, non multis; satis
enim magnum alter alteri theatrum sumus». – La men- te dumque ch’aspira alto,
per la prima lascia la cura della moltitudine, considerando che quella luce
spreggia la fatica, e non si trova se non dove è l’intelli- genza; e non dove è
ogni intelligenza: ma quella che è, tra le poche, principali e prime, la prima,
principale et una. cesarino Come intendi che la mente aspira alto? ver-
bigrazia con guardar alle stelle? al cielo empireo? so- pra il cristallino?
maricondo Non certo, ma procedendo al profondo della mente per cui non fia
mistiero massime aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani, menar i passi al
tem- pio, intonar l’orecchie de simulacri, onde più si ve- gna exaudito: ma
venir al più intimo di sé, conside- rando che Dio è vicino, con sé e dentro di
sé, più ch’egli medesimo esser non si possa; come quello ch’è anima de le
anime, vita de le vite, essenza de le essenze: atteso poi che quello che vedi
alto o basso, o in circa (come ti piace dire) de gli astri, son corpi,
Letteratura italiana Einaudi 130 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori son fatture simili a questo globo in cui siamo noi, e nelli quali non
più né meno è la divinità presente che in questo nostro, o in noi medesimi.
Ecco dumque come bisogna fare primeramente de ritrarsi dalla moltitudine in se
stesso. Appresso deve dovenir a ta- le che non stime ma spreggie ogni fatica,
di sorte che quanto più gli affetti e vizii combattono da dentro, e gli viziosi
nemici contrastano di fuori, tanto più deve respirar e risorgere, e con uno
spirito (se possibil fia) superar questo clivoso monte. Qua non bisognano altre
armi e scudi che la grandezza d’un animo invit- to, e toleranza de spirito che
mantiene l’equalità e te- nor della vita, che procede dalla scienza, et è
regolato da l’arte di specolar le cose alte e basse, divine et umane, dove
consiste quel sommo bene. Per cui dis- se un filosofo morale che scrisse a
Lucilio: «non biso- gna tranar le Scille, le Cariddi, penetrar gli deserti de
Candavia et Apennini, o lasciarsi a dietro le Sirti: perché il camino è tanto
sicuro e giocondo quanto la natura medesima abbia possuto ordinare. Non è» di-
ce egli «l’oro et argento che faccia simile a Dio, per- ché non fa tesori
simili; non gli vestimenti, perché Dio è nudo; non la ostentazione e fama,
perché si mostra a pochissimi, e forse che nessuno lo conosce, e certo molti, e
più che molti hanno mala opinion de lui»; non tante e tante altre condizioni de
cose che noi ordinariamente admiriamo: perché non queste cose delle quali si
desidera la copia ne rendeno tal- mente ricchi, ma il dispreggio di quelle.
cesarino Bene: ma dimmi appresso in qual maniera costui “Tranquillarà gli
sensi”, “mitigarà gli dolori del spirito”, “appagarà il core” e “darà gli
proprii censi a la mente”, di sorte che con questo suo aspirare e stu- dii non
debba dire «Nitimur in cassum»? maricondo Talmente trovandosi presente al corpo
che con la meglior parte di sé sia da quello absente, Letteratura italiana
Einaudi 131 Giordano Bruno - De gl’eroici furori farsi come con
indissolubil sacramento congionto et alligato alle cose divine, di sorte che
non senta amor né odio di cose mortali, considerando d’esser maggio- re che
esser debba servo e schiavo del suo corpo: al quale non deve altrimente
riguardare che come carce- re che tien rinchiusa la sua libertade, vischio che
tiene impaniate le sue penne, catena che tien strette le sue mani, ceppi che
han fissi gli suo piedi, velo che gli tien abbagliata la vista. Ma con ciò no
sia servo, catti- vo, invecchiato, incatenato, discioperato, saldo e cie- co:
perché il corpo non gli può più tiranneggiare ch’egli medesimo si lasce; atteso
che cossì il spirito proporzionalmente gli è preposto, come il mondo corporeo e
materia è suggetta alla divinitade et a la natura. Cossì farassi forte contra
la fortuna, magnani- mo contra l’ingiurie, intrepido contra la povertà, morbi e
persecuzioni. cesarino Bene instituito il furioso eroico. V. cesarino Appresso
veggasi quel che seguita. Ec- co la ruota del tempo affissa, che si muove circa
il centro proprio: e vi è il motto: Manens moveor; che intendete per quella?
maricondo Questo vuol dire che si muove in circolo: dove il moto concorre con
la quiete, atteso che nel moto orbiculare sopra il proprio asse e circa il pro-
prio mezzo si comprende la quiete e fermezza secon- do il moto retto; over
quiete del tutto, e moto secon- do le parti; e da le parti che si muoveno in
circolo si apprendeno due differenze di Nazione, in quanto che successivamente
altre parti montano alla sommità, al- tre dalla sommità descendeno al basso;
altre ottegno- no le differenze medianti, altre tegnono l’estremo dell’alto e
del fondo. E questo tutto mi par che como- damente viene a significare quel
tanto che s’esplica nel seguente articolo: Letteratura italiana Einaudi Bruno -
De gl’eroici furori Quel ch’il mio cor aperto e ascoso tiene, beltà m’imprime
et onestà mi cassa; zelo ritiemmi, altra cura mi passa per là d’ond’ogni studio
a l’alma viene: quando penso suttrarmi da le pene, speme sustienmi, altrui
rigor mi lassa; amor m’inalz’e riverenz’abbassa allor ch’aspiro a l’alt’e sommo
bene. Alto pensier, pia voglia, studio intenso de l’ingegno, del cor, de le
fatiche, a l’ogetto inmortal, divin, inmenso fate ch’aggionga, m’appiglie e
nodriche; né più la mente, la raggion, il senso in altro attenda, discorra,
s’intriche. Onde di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole,
che fu rival d’Endimion si duole. Cossì come il continuo moto d’una parte
suppone e mena seco il moto del tutto, di maniera che dal ribut- tar le parti
anteriori sia conseguente il tirar de le parti posteriori: cossì il motivo de
le parti superiori resulta necessariamente nell’inferiori, e dal poggiar d’una
po- tenza opposita seguita l’abbassar de l’altra opposita. Quindi viene il cor
(che significa tutti l’affetti in gene- rale) ad essere ascoso et aperto;
ritenuto dal zelo, sol- levato da magnifico pensiero; rinforzato da la speran-
za, indebolito dal timore. Et in questo stato e condizione si vederà sempre che
trovarassi sotto il fa- to della generazione. VI. cesarino Tutto va bene;
vengamo a quel che sé- guita. Veggio una nave inchinata su il onde; et ha le
sarte attaccate a lido et ha il motto: Fluctuat in portu. Argumentate quel che
può significare: e se ne siete ri- soluto, esplicate. Letteratura italiana
Einaudi 133 Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo E la
figura et il motto ha certa parentela col precedente motto e figura, come si
può facilmente comprendere se alquanto si considera. Ma leggiamo l’articolo: Se
da gli eroi, da gli dèi, da le genti assicurato son che non desperi; né téma,
né dolor, né impedimenti de la morte, del corpo, de piaceri fia ch’oltre
apprendi, che soffrisca e senti; e perché chiari vegga i miei sentieri, faccian
dubio, dolor, tristezza spenti speranza, gioia e gli diletti intieri. Ma se
mirasse, facesse, ascoltasse miei pensier, miei desii e mie raggioni, chi le
rende sì ’ncerti, ardenti e casse, sì graditi concetti, atti, sermoni, non sa,
non fa, non ha qualumque stassi de l’orto, vita e morte a le maggioni. Ciel,
terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’, e accend’, et emmi a lato, farammi
illustre, potente e beato. Da quel che ne gli precedenti discorsi abbiamo
consi- derato e detto si può comprendere il sentimento di ciò, massime dove si
è dimostrato che il senso di cose basse è attenuato et annullato dove le
potenze supe- riori sono gagliardamente intente ad oggetto più ma- gnifico et
eroico. E tanta la virtù della contemplazio- ne (come nota lamblice) che accade
tal volta non solo che l’anima ripose da gli atti inferiori, ma et oltre la-
scie il corpo a fatto. Il che non voglio intendere altri- menti che in tante
maniere quali sono esplicate nel li- bro De’ trenta sigilli, dove son prodotti
tanti modi di contrazzione. De quali alcune vituperosa, altre eroica- mente
fanno che non s’apprenda téma di morte, non Letteratura italiana Einaudi Bruno
- De gl’eroici furori si soffrisca dolor di corpo, non si sentano impedimen- ti
di piaceri: onde la speranza, la gioia, e gli diletti del spirto superiore
siano di tal sorte intenti, che faccian spente le passioni tutte che possano
aver origine da dubbio, dolore e tristezza alcuna. cesarino Ma che cosa è
quella da cui richiede che mi- re a que’ pensieri ch’ha resi cossì incerti,
compisca gli suoi desii che fa sì ardenti, et ascolte le sue raggioni che rende
sì casse? maricondo Intende l’oggetto il quale allora il mira, quando esso se
gli fa presente; atteso che veder la di- vinità è l’esser visto da quella, come
vedere il sole concorre con l’esser visto dal sole; parimente essere ascoltato
dalla divinità è a punto ascoltar quella, et es- ser favorito da quella è il
medesimo esporsegli; dalla quale una medesima et immobile procedono pensieri
incerti e certi, desii ardenti et appagati, e raggioni exaudite e casse:
secondo che degna, o indegnamente l’uomo se gli presenta con l’intelletto,
affetto et azzio- ni. Come il medesimo nocchiero vien detto caggione della
summersione o salute della nave, per quanto che o è a quella presente, overo da
quella trovasi absente; eccetto che il nocchiero per suo diffetto o compimen-
to ruina e salva la nave: ma la divina potenza che è tutta in tutto, non si
porge o suttrae se non per altrui conversione o aversione. VII. maricondo Con
questa dumque mi par ch’abbia gran concatenazione e conseguenza la figura
seguen- te, dove son due stelle in forma de doi occhi radianti con il suo motto
che dice: Mors et vita. cesarino Leggete dumque l’articolo. maricondo Cossì
farò: Per man d’amor scritto veder potreste nel volto mio l’istoria de mie
pene; Letteratura italiana Einaudi 135 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori ma tu perché il tuo orgoglio non si affrene et io infelice
eternamente reste, a le palpebre belle a me moleste asconder fai le luci
tant’amene, ond’il turbato ciel non s’asserene, né caggian le nemiche ombre
funeste. Per la bellezza tua, per l’amor mio, ch’a quella (benché tanta) è
forse uguale, rèndite a la pietà (diva) per dio. Non prolongar il troppo
intenso male, ch’è del mio tanto amar indegno fio: non sia tanto rigor con
splender tale. Se ch’io viva ti cale, del grazioso sguardo apri le porte:
mirami, o bella, se vuoi darmi morte. Qua il “volto in cui riluce l’istoria de
sue pene”, è l’anima, in quanto che è esposta alla recepzion de do- ni
superiori, al riguardo de quali è in potenza et atti- tudine, senza compimento
di perfezzione et atto: il qual aspetta la ruggiada divina. Onde ben fu detto:
«Anima mea sicut terra sine aqua tibi». Et altrove: «Os meum aperui et attraxi
spiritum, quia mandata tua de- siderabam». Appresso, l’“orgoglio che non
s’affrena” è detto per metafora e similitudine (come de Dio tal volta si dice
gelosia, ira, sonno): e quello significa la difficultà con la quale egli fa
copia di far veder al me- no le sue spalli, che è il farsi conoscere mediante
le cose posteriori, et effetti. Cossì copre le luci con le palpebre, non
asserena il turbato cielo de la mente umana, per toglier via l’ombra de gli
enigmi e simili- tudini. – Oltre (perché non crede che tutto quel che non è non
possa essere) priega la divina luce che “per la sua bellezza” la quale non deve
essere a tutti occol- ta, almeno secondo la capacità de chi la mira, e “per il
suo amore che forse a tanta bellezza è uguale” (uguale Letteratura italiana
Einaudi 136 Giordano Bruno - De gl’eroici furori intende de la
beltade in quanto che la se gli può far comprensibile), che “si renda alla
pietà”, cioè che fac- cia come quelli che son piatosi, quali da ritrosi e schi-
vi si fanno graziosi et affabili: e che “non prolonghe il male” che avviene da
quella privazione; e non per- metta che il suo “splendor” per cui è desiderata,
ap- paia maggiore che il suo amore con cui si communi- che: stante che tutte le
perfezzioni in lei non solamente sono uguali, ma ancor medesime. – Al fine la
ripriega che non oltre l’attriste con la privazione; perché potrà ucciderlo con
la luce de suoi sguardi, e con que’medesimi donargli vita: e però non lo lasce
a la morte con ciò che le amene luci siano ascose da le palpebre. cesarino Vuol
dire quella morte de amanti che proce- de da somma gioia, chiamata da Cabalisti
mors oscu- ri? la qual medesima è vita eterna, che l’uomo può aver in
disposizione in questo tempo, et in effetto nell’eternità? maricondo Cossì è.
VIII. cesarino Ma è tempo di procedere a conside- rar il seguente dissegno
simile a questi prossimi avan- ti rapportati, con li quali ha certa
conseguenza. Vi è un’aquila che con due ali s’appiglia al cielo; ma non so come
e quanto vien ritardata dal pondo d’una pie- tra che tien legata a un piede. Et
èvvi il motto: Scindi- tur incertum. E certo significa la moltitudine, numero e
volgo delle potenze de l’anima; alla significazion della quale è preso quel
verso: Scinditur incertum studia in contraria vulgus. Il qual volgo tutto
generalmente è diviso in due faz- zioni (quantumque subordinate a queste non
manca- no de l’altre), de le quali altre invitano a l’alto dell’in- Letteratura
italiana Einaudi 137 Giordano Bruno - De gl’eroici furori
telligenza e splendore di giustizia; altre allettano, inci- tano e forzano in
certa maniera al basso, alle sporcizie delle voluttadi, e compiacimenti de
voglie naturali. Onde dice l’articolo: Bene far voglio, e non mi vien permesso;
meco il mio sol non è, bench’io sia seco, che per esser con lui, non son più
meco, ma da me lungi, quanto a lui più presso. Per goder una volta, piango
spesso; cercando gioia, afflizzion mi reco; perché veggio tropp’alto, son sì
cieco; per acquistar mio ben, perdo me stesso. Per amaro diletto, e dolce pena,
impiombo al centro, e vers’il ciel m’appiglio; necessità mi tien, bontà mi
mena; sorte m’affonda, m’inalza il consiglio; desio mi sprona, et il timor m’affrena;
cura m’accende, e fa tard’il periglio. Qual dritto o divertiglio mi darà pace,
e mi terrà de lite, s’avvien ch’un sì mi scacce, e l’altro invite? L’ascenso
procede nell’anima dalla facultà et appulso ch’è nell’ali, che son l’intelletto
et intellettiva volonta- de, per le quali essa naturalmente si riferisce et ha
la sua mira a Dio come a sommo bene e primo vero, co- me all’absoluta bontà e
bellezza. Cossì come ogni co- sa naturalmente ha impeto verso il suo principio
re- gressivamente, e progressivamente verso il suo fine e perfezzione, come ben
disse Empedocle; da la cui sentenza mi par che si possa inferire quel che disse
il Nolano in questa ottava: Convien ch’il sol d’onde parte raggiri, e al suo
principio i discorrenti lumi; Letteratura italiana Einaudi 138
Giordano Bruno - De gl’eroici furori e ’l ch’è di terra, a terra si
retiri, e al mar corran dal mar partiti fiumi, et ond’han spirto e nascon i
desiri aspiren come a venerandi numi: cossì dalla mia diva ogni pensiero nato,
che torne a mia diva è mistiero. La potenza intellettiva mai si quieta, mai
s’appaga in verità compresa, se non sempre oltre et oltre procede alla verità
incomprensibile: cossì la volontà che ségui- ta l’apprensione, veggiamo che mai
s’appaga per cosa finita. Onde per conseguenza non si riferisce l’essenza de
l’anima ad altro termine che al fonte della sua su- stanza et entità. Per le
potenze poi naturali, per le quali è convertita al favore e governo della
materia, viene a referirse et aver appulso, a giovare et a comu- nicar de la
sua perfezzione a cose inferiori, per la si- militudine che ha con la divinità,
che per la sua bon- tade si comunica o infinitamente producendo, idest
communicando l’essere a l’universo infinito, e mondi innumerabili in quello; o
finitamente, producendo so- lo questo universo suggetto alli nostri occhi e
comun raggione. Essendo dumque che nella essenza unica de l’anima se ritrovano
questi doi geni de potenze, se- condo che è ordinata et al proprio e l’altrui
bene, ac- cade che si depinga con un paio d’ali, mediante le quali è potente
verso l’oggetto delle prime et immate- riali potenze; e con un greve sasso, per
cui è atta et ef- ficace verso gli oggetti delle seconde e materiali po- tenze.
Là onde procede che l’affetto intiero del furioso sia ancipite, diviso,
travaglioso, e messo in fa- cilità de inchinare più al basso, che di forzarsi
ad alto: atteso che l’anima si trova nel paese basso e nemico, et ottiene la
regione lontana dal suo albergo più natu- rale, dove le sue forze son più
sceme. cesarino Credi che a questa difficultà si possa riparare? Letteratura
italiana Einaudi 139 Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo
Molto bene; ma il principio è durissimo, e secondo che si fa più e più
fruttifero progresso di contemplazione, si doviene a maggiore e maggior fa-
cilità. Come avviene a chi vola in alto, che quanto più s’estoglie da la terra,
vien ad aver più aria sotto che lo sustenta, e conseguentemente meno vien
fastidito dal- la gravità; anzi tanto può volar alto, che senza fatica de divider
l’aria non può tornar al basso, quantunque giudicasi che più facil sia divider
l’aria profondo ver- so la terra, che alto verso l’altre stelle. cesarino Tanto
che col progresso in questo geno, s’acquista sempre maggiore e maggiore
facilità di montare in alto? maricondo Cossì è; onde ben disse il Tansillo:
Quanto più sott’il pie l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e
spreggio il mondo, e verso il ciel m’invio. Come ogni parte de corpi e detti
elementi quanto più s’avvicina al suo luogo naturale, tanto con maggior impeto
e forza va, sin tanto che al fine (o voglia o non) bisogna che vi pervegna.
Qualmente dumque veggiam nelle parti de corpi a gli proprii corpi, cossì doviam
giudicare de le cose intellettive verso gli pro- prii oggetti, come proprii
luoghi, patrie e fini. Da qua facilmente possete comprendere il senso intiero
signi- ficato per la figura, per il motto e per gli carmi. cesarino Di sorte
che quanto vi s’aggiongesse, tanto mi parrebe soverchio. IX. cesarino Vedasi
ora quel che vien presentato per quelle due saette radianti sopra una targa,
circa la quale è scritto Vicit instans. maricondo La guerra continua tra
l’anima del furioso la qual gran tempo per la maggior familiarità che avea
Letteratura italiana Einaudi 140 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori con la materia, era più dura et inetta ad esser penetra- ta da gli raggi
del splendor della divina intelligenza e spezie della divina bontade; per il
qual spacio dice ch’il cor smaltato de diamante, cioè l’affetto duro et inetto ad
esser riscaldato e penetrato, ha fatto riparo a gli colpi d’amore che
aportavano gli assalti da parti innumerabili. Vuol dire non ha sentito
impiagarsi da quelle piaghe de vita eterna de le quali parla la Canti- ca
quando dice: «Vulnerasti cor meum, o dilecta, vul- nerasti cor meum». Le quali
piaghe non son di ferro, o d’altra materia, per vigor e forza de nervi; ma son
freccie de Diana o di Febo: cioè o della dea de gli de- serti della
contemplazione de la Veritade, cioè della Diana che è l’ordine di seconde
intelligenze che ri- portano il splender ricevuto dalla prima, per comuni-
carlo a gli altri che son privi de più aperta visione; o pur del nume più
principale Apollo, che con il pro- prio e non improntato splendore manda le sue
saette, cioè gli suoi raggi, da parti innumerabili tali e tante che son tutte
le specie delle cose, le quali son indica- trici della divina bontà,
intelligenza, beltade e sapien- za, secondo diversi ordini dall’apprension
dovenir fu- riosi amanti, percioché l’adamantino suggetto non ripercuota dalla
sua superficie il lume impresso: ma rammollato e domato dal calore e lume,
vegna a farsi tutto in sustanza luminoso, tutto luce, con ciò che ve- gna
penetrato entro l’affetto e concetto. Questo non è subito nel principio della
generazione quando l’anima di fresco esce ad esser inebriata di Lete et
imbibita de l’onde de l’oblio e confusione: onde il spirito vien più cattivato
al corpo e messo in essercizio della vegeta- zione, et a poco a poco si va
digerendo per esser atto a gli atti della sensitiva facultade, sin tanto che
per la razionale e discorsiva vegna a più pura intellettiva, onde può
introdursi a la mente e non più sentirsi an- nubilata per le fumositadi di
quell’umore che per Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori
l’exercizio di contemplazione non s’è putrefatto nel stomaco, ma è maturamente
digesto. – Nella qual di- sposizione il presente furioso mostra aver durato
“sei lustri”, nel discorso de quali non era venuto a quella purità di concetto
che potesse farsi capace abitazione delle specie peregrine, che offrendosi a
tutte ugual- mente batteno sempre alla porta de l’intelligenza. Al fine l’amore
che da diverse parti et in diverse volte l’avea assaltato come in vano
(qualmente il sole in va- no se dice lucere e scaldare a quelli che son nelle
vi- scere de la terra et opaco profondo), per essersi “ac- campato in quelle
luci sante”, cioè per aver mostrato per due specie intelligibili la divina
bellezza, la quale con la raggione di verità gli legò l’intelletto e con la
raggione di bontà scaldògli l’affetto, vennero superari gli “studi” materiali e
sensitivi che altre volte soleano come trionfare, rimanendo (a mal grado de
l’eccellen- za de l’anima) intatti; perché quelle luci che facea pre- sente
l’intelletto agente illuminatore e sole d’intelli- genza, ebbero “facile
entrata” per le sue luci (quella della verità per la porta de la potenza
intellettiva, quella della bontà per la porta della potenza appetiti- va) “al
core”, cioè alla sustanza del generale affetto. Questo fu “quel doppio strale
che venne” come “da man de guerriero irato”, cioè più pronto, più efficace, più
ardito, che per tanto tempo innanzi s’era dimo- strato come più debole o
negligente. Allora quando primieramente fu sì scaldato et illuminato nel
concet- to, fu quello vittorioso punto e momento, per cui è detto: “Vicit
instans”. Indi possete intendere il senso della proposta figura, motto, et
articolo che dice: Forte a i colpi d’amor feci riparo quand’assalti da parti
varie e tante soffers’il cor smaltato di diamante; ond’i miei studi de suoi
trionfare. Letteratura italiana Einaudi 142 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori Al fin (come gli cieli destinaro) un dì accampossi in quelle
luci sante, che per le mie sole tra tutte quante facil entrata al cor mio
ritrovare. Indi mi s’avventò quel doppio strale, che da man di guerrier irato
venne, qual sei lustri assalir mi seppe male: notò quel luogo, e forte vi si
tenne, piantò ’l trofeo di me là d’onde vale tener ristrette mie fugaci penne.
Indi con più sollenne apparecchio, mai cessano ferire mio cor, del mio dolce
nemico l’ire. Singular instante fu il termine del cominciamento e perfezzione
della vittoria. Singulari gemine specie fu- ron quelle, che sole tra tutte
quante trovaro facile en- trata; atteso che quelle contegnono in sé l’efficacia
e virtù de tutte l’altre: atteso che qual forma megliore e più eccellente può
presentarsi che di quella bellezza, bontà e verità, la quale è il fonte
d’ogn’altra verità, bontà, beltade? “Notò quel luogo”, prese possessione de
l’affetto, rimarcollo, impressevi il carattere di sé; “e forte vi si tenne”, e
se l’ha confirmato, stabilito, sancito di sorte che non possa più perderlo:
percio- ché è impossibile che uno possa voltarsi ad amar altra cosa quando una
volta ha compreso nel concetto la bellezza divina. Et è impossibile che possa
far di non amarla, come è impossibile che nell’appetito cada al- tro che bene o
specie di bene. E però massimamente deve convenire l’appetenzia del sommo bene.
Cossì “ristrette” son le “penne” che soleano esser “fugaci” concorrendo giù col
pondo della materia. Cossì da là “mai cessano ferire”, sollecitando l’affetto e
risve- gliando il pensiero, le “dolci ire”, che son gli efficaci assalti del
grazioso nemico, già tanto tempo ritenuto Letteratura italiana Einaudi
143 X. escluso, straniero e peregrino. È ora unico et intiero
possessore e disponitor de l’anima; perché ella non vuole, né vuol volere
altro; né gli piace, né vuol che gli piaccia altro, onde sovente dica: Dolci
ire, guerra dolce, dolci dardi, dolci mie piaghe, miei dolci dolori. cesarino
Non mi par che rimagna cosa da consi- derar oltre in proposito di questo.
Veggiamo ora que- sta faretra et arco d’amore, come mostrano le faville che
sono in circa, et il nodo del laccio che pende: con il motto che è, Subito,
clam. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Assai mi ricordo d’averlo
veduto espresso ne l’articolo; però leggiamolo prima: Avida di trovar bramato
pasto, l’aquila vers’il ciel ispiega l’ali, facend’accorti tutti gli animali,
ch’al terzo volo s’apparecchia al guasto. E del fiero leon ruggito vasto fa da
l’alta spelunca orror mortali, onde le belve presentando i mali fuggon a gli
antri il famelico impasto. E ’l ceto quando assalir vuol l’armento muto di
Proteo da gli antri di Teti, pria fa sentir quel spruzzo violento. Aquile ’n
ciel, leoni in terr’e i ceti signor’ in mar, non vanno a tradimento: ma gli
assalti d’amor vegnon secreti. Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia
d’un instante, che femmi a lungo infortunato amante. Tre sono le regioni de gli
animanti composti de più elementi: la terra, l’acqua, l’aria. Tre son gli geni
de Letteratura italiana Einaudi 144 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori quelli: fiere, pesci et ucelli. In tre specie sono gli prìn- cipi
conceduti e definiti dalla natura: ne l’aria l’aquila, ne la terra il leone, ne
l’acqua il ceto: de quali ciascu- no come dimostra più forza et imperio che gli
altri, viene anco a far aperto atto di magnanimità, o simile alla magnanimità.
Percioché è osservato che il leone, prima che esca a la caccia, manda un
ruggito forte che fa rintonar tutta la selva, come de l’erinnico cacciato- re
nota il poetico detto: At saeva e speculis tempus dea nacta nocendi, ardua
testa petit, stabuli et de culmine summo pastorale canit signum, cornuque
recurvo tartaream intendit vocem, qua protinus omne contremuit nemus, et silvae
intonuere profundae. De l’aquila ancora si sa che volendo procedere alla sua
venazione, prima s’alza per dritto dal nido per li- nea perpendicolare in alto,
e quasi per l’ordinario la terza volta si balza da alto con maggior impeto e
pre- stezza che se volasse per linea piana; onde dal tempo in cui cerca il
vantaggio della velocità del volo, pren- de anco comodità di specular da lungi
la preda, della quale o despera o si risolve dopo fatte tre remirate. cesarino
Potremmo conietturare per qual caggione, se alla prima si presentasse a gli
occhi la preda, non viene subito a lanciarsegli sopra? maricondo Non certo. Ma
forse che ella sin tanto di- stingue se si gli possa presentar megliore o più
como- da preda. Oltre non credo che ciò sia sempre, ma per il più ordinario. Or
venemo a noi. Del ceto o balena è cosa aperta che per essere un machinoso
animale non può divider l’acqui se non con far che la sua presenza sia
presentita dal ributto de l’onde: senza questo, che si trovano assai specie di
questo pesce che con il moto e respirar che fanno, egurgitano una ventosa
tempesta Letteratura italiana Einaudi 145 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori di spruzzo acquoso. Da tutte dumque le tre specie de principi
animali hanno facultà di prender tempo di scampo gli animali inferiori: di
sorte che non proce- dono come subdoli e traditori. Ma l’Amor che è più forte e
più grande, e che ha domìno supremo in cielo, in terra et in mare, e che per
similitudine di questi forse derrebe mostrar tanto più eccellente magnani- mità
quanto ha più forza, niente di manco assalta e fe- re a l’improvisto e subito.
Labitur totas furor in medullas, igne furtivo populante venas, nec habet latam
data plaga frontem; sed vorat tectas penitus medullas, virginum ignoto ferit
igne pectus. Come vedete, questo tragico poeta lo chiama “furtivo fuoco”,
“ignote fiamme”; Salomone lo chiama “acqui furtive”, Samuele lo nomò “sibilo d’aura
sottile”. Li quali tre significano con qual dolcezza, lenità et astu- zia, in
mare, in terra, in cielo, viene costui a (come) ti- ranneggiar l’universo.
cesarino Non è più grande imperio, non è tirannide peggiore, non è meglior
domino, non è potestà più necessaria, non è cosa più dolce e suave, non si
trova cibo che sia più austero et amaro, non si vede nume più violento, non è
dio più piacevole, non agente più traditore e finto, non autor più regale e
fidele, e (per finirla) mi par che l’amor sia tutto, e faccia tutto; e de lui
si possa dir tutto, e tutto possa attribuirsi a lui. maricondo Voi dite molto
bene. L’amor dumque (come quello che opra massime per la vista, la quale è
spiritua- lissimo de tutti gli sensi, per che subito monta sin alli appresi
margini del mondo, e senza dilazion di tempo si porge a tutto l’orizonte della
visibilità) viene ad esser presto, furtivo, improvisto e subito. Oltre è da
conside- Letteratura italiana Einaudi 146 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori rare quel che dicono gli antichi, che l’amor precede tut- ti
gli altri dèi; però non fia mestiero de fingere che Sa- turno gli mostre il
camino, se non con seguitarlo. Ap- presso, che bisogna cercar se l’amore appaia
e facciasi prevedere di fuori, se il suo alloggiamento è l’anima me- desima, il
suo letto è l’istesso core, e consiste nella me- desima composizione de nostra
sustanza, nel medesimo appulso de nostre potenze? Finalmente ogni cosa natu-
ralmente appete il bello e buono, e però non vi bisogna argumentare e discorrere
perché l’affetto si informe e conferme; ma subito et in uno instante l’appetito
s’ag- gionge a l’appetibile, come la vista al visibile. XI. cesarino Veggiamo
appresso che voglia dir quella ardente saetta circa la quale è avolto il motto:
Cui nova plaga loco?. Dechiarate che luogo cerca que- sta per ferire. maricondo
Non bisogna far altro che leggere l’artico- lo, che dice cossì: Che la
bogliente Puglia o Libia mieta tante spiche, et areste tante a i venti
commetta, e mande tanti rai lucenti da sua circonferenza il gran pianeta,
quanti a gravi doler quest’alma lieta (che sì triste si gode in dolci stenti)
accoglie da due stelle strali ardenti, ogni senso e raggion creder mi vieta.
Che tenti più, dolce nemico, Amore? qual studio a me ferir oltre ti muove, or
ch’una piaga è fatto tutto il core? Poiché né tu, né altro ha un punto, dove
per stampar cosa nuova, o punga, o fóre, volta volta sicur or l’arco altrove.
Non perder qua tue prove, per che, o bel dio, se non in vano, a torto oltre
tenti amazzar colui ch’è morto. Letteratura italiana Einaudi 147
Giordano Bruno - De gl’eroici furori Tutto questo senso è metaforico come
gli altri, e può es- ser inteso per il sentimento di quelli. Qua la moltitudine
de strali che hanno ferito e feriscono il core significa gl’innumerabili
individui e specie de cose, nelle quali ri- luce il splendor della divina
beltade, secondo gli gradi di quelle, et onde ne scalda l’affetto del proposto
et ap- preso bene. De quali l’un e l’altro per le raggioni de po- tenzia et
atto, de possibilità et effetto, e cruciano e con- solano, e donano senso di
dolce e fanno sentir l’amaro. Ma dove l’affetto intiero è tutto convertito a
Dio, cioè all’idea de le idee, dal lume de cose intelligibili la mente viene
exaltata alla unità super essenziale, è tutta amore, tutta una, non viene ad
sentirsi sollecitata da diversi og- getti che la distrahano: ma è una sola
piaga, nella quale concorre tutto l’affetto, e che viene ad essere la sua me-
desima affezzione. Allora non è amore o appetito di co- sa particolare che
possa sollecitare, né almeno farsi in- nanzi a la voluntade, perché non è cosa
più retta ch’il dritto, non è cosa più bella che la bellezza, non è più buono
che la bontà, non si trova più grande che la gran- dezza, né cosa più lucida
che quella luce, la quale con la sua presenza oscura e cassa gli lumi tutti.
cesarino Al perfetto, se è perfetto, non è cosa che si possa aggiongere: però
la volontà non è capace d’al- tro appetito, quando fiagli presente quello ch’è
del perfetto, sommo, e massimo. Intendere dumque pos- so la conclusione, dove
dice a l’amore: “Non perder qua tue prove; perché, se non in vano, a torto” (si
di- ce per certa similitudine e metafora) “tenti ammazzar colui ch’è morto”.
Cioè quello che non ha più vita né senso circa altri oggetti, onde da quelli
possa esser “punto” o “forato”; a che oltre viene ad essere espo- sto ad altre
specie? e questo lamento accade a colui che, avendo gusto de l’optima unità,
vorrebe essere al tutto exempto et abstratto dalla moltitudine. maricondo Intendete
molto bene. Letteratura italiana Einaudi 148 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori XII. cesarino Or ecco appresso un fanciullo dentro un battello
che sta ad ora ad ora per essere assorbito, da l’onde tempestose, che languido
e lasso ha aban- donati gli remi. Et èvvi circa lo motto Fronti nulla fi- des.
Non è dubio che questo significhe che lui dal se- reno aspetto de l’acqui fu
invitato a solcar il mare infido; il quale a l’improviso avendo inturbidato il
volto, per estremo e mortal spavento, e per impotenza di romper l’impeto, gli
ha fatto dismetter il capo, braccia, e la speranza. Ma veggiamo il resto:
Gentil garzon che dal lido scioglieste la pargoletta barca, e al remo frale,
vago del mar l’indotta man porgeste, or sei repente accorto del tuo male. Vedi
del traditor l’onde funeste la prora tua, ch’o troppo scend’o sale; né l’alma
vinta da cure moleste, contra gli obliqui e gonfii flutti vale. Cedi gli remi
al tuo fero nemico, e con minor pensier la morte aspetti, che per non la veder
gli occhi ti chiudi. Se non è presto alcun soccorso amico, sentirai certo or or
gli ultimi effetti de tuoi si rozzi e curiosi studi. Son gli miei fati crudi
simili a’ tuoi, perché vago d’Amore sento il rigor del più gran traditore. In
qual maniera e perché l’amore sia traditore e frodu- lento l’abbiamo poco
avanti veduto: ma perché veggio il seguente senza imagine e motto, credo che
abbia con- seguenza con il presente; però continuano leggendolo: Lasciato il
porto per prova e per poco, feriando da studi più maturi, Letteratura italiana
Einaudi 149 Giordano Bruno - De gl’eroici furori ero messo a mirar
quasi per gioco: quando viddi repente i fati duri. Quei sì m’han fatto violento
il foco, ch’in van ritento a i lidi più sicuri, in van per scampo man piatosa
invoco, perché al nemico mio ratto mi furi. Impotent’a suttrarmi, roco e lasso
io cedo al mio destino, e non più tento di far vani ripari a la mia morte:
facciami pur d’ogni altra vita casso, e non più tarde l’ultimo tormento, che
m’ha prescritto la mia fera sorte. Tipo di mio mal forte è quel che si commese
per trastullo al sen nemico, improvido fanciullo. Qua non mi confido de
intendere o determinar tutto quel che significa il furioso: pure è molto
espressa una strana condizione d’un animo dismesso dall’appren- sion della
difficultà de l’opra, grandezza della fatica, vastità del lavoro da un canto; e
da un altro, l’igno- ranza, privazion de l’arte, debolezza de nervi, e peri-
glio di morte. Non ha consiglio atto al negocio; non si sa d’onde e dove debba
voltarsi, non si mostra luogo di fuga o di rifugio; essendo che da ogni parte
minac- ciano l’onde de l’impeto spaventoso e mortale. «Igno- ranti portum,
nullus suus ventus est». Vede colui che molto e pur troppo s’è commesso a cose
fortuite, s’aver edificato la perturbazione, il carcere, la ruina, la
summersione. Vede come la fortuna si gioca di noi; la qual ciò che ne mette con
gentilezza in mano, o lo fa rompere facendolo versar da le mani istesse, o fa
che da l’altrui violenza ne sia tolto, o fa che ne suffo- che et avvelene, o ne
sollecita con la suspizione, timo- re e gelosia, a gran danno e ruina del
possessore. “Fortunae an ulla putatis dona carere dolis?” Or, per- Letteratura
italiana Einaudi 150 Giordano Bruno - De gl’eroici furori ché la
fortezza che non può far esperienza di sé, è cas- sa; la magnanimità che non
può prevalere, è nulla, et è vano il studio senza frutto; vede gli effetti del
timore del male, il quale è peggio ch’il male istesso: “Peior est morte timor
ipse mortis”. Già col timore patisce tutto quel che teme de patire, orror ne le
membra, imbecil- lità ne gli nervi, tremor del corpo, anxia del spirito; e si
fa presente quel che non gli è sopragionto ancora, et è certo peggiore che
sopragiongere gli possa: che cosa più stolta che dolere per cosa futura,
absente, e la qual presente non si sente? Queste son considera- zioni su la
superficie e l’istoriale de la figura. Ma il proposito del furioso eroico penso
che verse circa l’imbecillità de l’ingegno umano il quale attento a la divina
impresa in un subito talvolta si trova ingolfato nell’abisso della eccellenza
incomprensibile, onde il senso et imaginazione vien confusa et assorbita, che
non sapendo passar avanti, né tornar a dietro, né do- ve voltarsi, svanisce e
perde l’esser suo non altrimenti che una stilla d’acqua che svanisce nel mare,
o un pic- ciol spirito che s’attenua perdendo la propria sustan- za nell’aere
spacioso et inmenso. maricondo Bene: ma andiamone discorrendo verso la stanza,
perché è notte. fine del primo dialogo Letteratura italiana Einaudi mariconda
Qua vedete un giogo fiammeggiante et avolto de lacci, circa il quale è scritto
Levius aura; che vuol significar come l’amor divino non aggreva, non trasporta
il suo servo, cattivo e schiavo al basso, al fondo: ma l’inalza, lo sulleva, il
magnifica sopra qual- sivoglia libertade. cesarino Priegovi leggiamo presto
l’articolo, perché con più ordine, proprietà e brevità possiamo conside- rar il
senso, se pur in quello non si trova altro. mariconda Dice cossì: Chi femmi ad
alt’amor la mente desta, chi fammi ogn’altra diva e vile e vana, in cui beltad’
e la bontà sovrana unicamente più si manifesta; quell’è ch’io viddi uscir da la
foresta, cacciatrice di me la mia Diana, tra belle ninfe su l’aura Campana, per
cui dissi ad Amor: «Mi rendo a questa»; et egli a me: «O fortunato amante, o
dal tuo fato gradito consorte: che colei sola che tra tante e tante, quai ha
nel grembo la vit’e la morte, più adorna il mondo con le grazie sante,
ottenesti per studio e per sorte, ne l’amorosa corte sì altamente felice
cattivo, che non invidii a sciolt’ altr’uomo o divo». Vedi quanto sia contento
sotto tal giogo, tal coniugio, tal soma che l’ha cattivato a quella che vedde
uscir da la foresta, dal deserto, da la selva; cioè da parti rimos- se dalla
moltitudine, dalla conversazione, dal volgo, le Letteratura italiana Einaudi
152 Giordano Bruno - De gl’eroici furori quali son lustrate da
pochi. Diana splendor di specie intelligibili, è cacciatrice di sé, perché con
la sua bel- lezza e grazia l’ha ferito prima, e se l’ha legato poi; e tienio
sotto il suo imperio più contento che mai altri- menti avesse potuto essere.
Questa dice “tra belle nimfe”, cioè tra la moltitudine d’altre specie, forme et
idee; e “su l’aura Campana”, cioè quello ingegno e spirito che si mostrò a
Nola, che giace al piano del orizonte campano. A quella si rese, quella più
ch’altra gli venne lodata da l’amore, che per lei vuol che si te- gna tanto
fortunato, come quella che, tra tutte quante si fanno presenti et absenti da
gli occhi de mortali, più altamente adorna il mondo, fa l’uomo glorioso e
bello. Quindi dice aver sì “desta la mente” ad eccel- lente amore, che apprende
“ogni altra diva”, cioè cu- ra et osservanza d’ogni altra specie, “vile e
vana”. – Or in questo che dice aver desta la mente ad amor al- to, ne porge
essempio de magnificar tanto alto il core per gli pensieri, studii et opre,
quanto più possibil fia, e non intrattenerci a cose basse e messe sotto la
nostra facultade: come accade a coloro che o per avarizia, o per negligenza, o
pur altra dapocagine rimagnono in questo breve spacio de vita attaccati a cose
indegne. cesarino Bisogna che siano arteggiani, meccanici, agricoltori,
servitori, pedoni, ignobili, vili, poveri, pe- danti et altri simili: perché
altrimenti non potrebono essere filosofi, contemplativi, coltori degli animi,
pa- droni, capitani, nobili, illustri, ricchi, sapienti, et altri che siano
eroici simili a gli dèi. Però a che doviamo forzarci di corrompere il stato
della natura il quale ha distinto l’universo in cose maggiori e minori,
superio- ri et inferiori, illustri et oscure, degne et indegne, non solo fuor
di noi, ma et ancora dentro di noi, nella no- stra sustanza medesima, sin a
quella parte di sustanza che s’afferma inmateriale? Come delle intelligenze al-
tre son suggette, altre preminenti, altre serveno et Letteratura italiana
Einaudi Bruno - De gl’eroici furori ubediscono, altre comandano e governano.
Però io crederei che questo non deve esser messo per essem- pio a fin che li
sudditi volendo essere superiori, e gl’ignobili uguali a gli nobili, non vegna
a pervertirsi e confondersi l’ordine delle cose, che al fine succeda certa
neutralità e bestiale equalità, quale si ritrova in certe deserte et inculte
republiche. Non vedete oltre in quanta iattura siano venute le scienze per
questa caggione che gli pedanti hanno voluto essere filosofi, trattar cose
naturali, intromettersi a determinar di co- se divine? Chi non vede quanto male
è accaduto et accade per averno simili fatte “ad alti amori le menti deste”?
Chi ha buon senso, e non vede del profitto che fe’ Aristotele, che era maestro
de lettere umane ad Alessandro, quando applicò alto il suo spirito a
contrastare e muover guerra a la dottrina pitagorica e quella de filosofi
naturali, volendo con il suo racioci- nio logicale ponere diffinizioni,
nozioni, certe quinte entitadi et altri parti et aborsi de fantastica
cogitazio- ne per principio e sustanza di cose, studioso più della fede del
volgo e sciocca moltitudine, che viene più in- caminata e guidata con sofismi
et apparenze che si trovano nella superficie delle cose, che della verità che è
occolta nella sustanza di quelle, et è la sustanza medesima loro? Fece egli la
mente desta non a farsi contemplatore, ma giudice e sentenziatore di cose che
non avea studiate mai, né bene intese. Cossì a’ tempi nostri quel tanto di
buono ch’egli apporta e singolare di raggione inventiva, iudicativa e di
metafisica, per ministerio d’altri pedanti che lavorano col medesimo “sursum
corda”, vegnono instituite nove dialettiche e modi di formar la raggione: tanto
più vili di quello d’Aristotele quanto forse la filosofia d’Aristotele è in-
comparabilmente più vile di quella de gli antichi. Il che è pure avvenuto da
quel che certi grammatisti do- po che sono invecchiati nelle culine de
fanciulli e no- Letteratura italiana Einaudi 154 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori tomie de frasi e de vocaboli, ban voluto destar la mente a
far nuove logiche e metafisiche, giudicando e sentenziando quelle che mai
studiorno et ora non in- tendono: là onde cossì questi col favore della
ignoran- te moltitudine (al cui ingegno son più conformi), po- tranno cossì
bene donar il crollo alle umanitadi e raziocinio d’Aristotele, come questo fu
carnefice delle altrui divine filosofie. Vedi dumque a che suol pro- movere
questo consiglio, se tutti aspireno al splendor santo, et abbiano altre imprese
vili e vane. mariconda Ride si sapis, o puella, ride, pelignus (puto) dixerat
poeta; sed non dixerat omnibus puellis: et si dixerit omnibus puellis, non
dixit tibi. Tu puella non es. Cossì il “sursum corda” non è intonato a tutti,
ma a quelli ch’hanno l’ali. Veggiamo bene che mai la pe- dantaria è stata più
in esaltazione per governare il mondo, che a’ tempi nostri; la quale fa tanti
camini de vere specie intelligibili et oggetti de l’unica veritade infallibile,
quanti possano essere individui pedanti. Però a questo tempo massime denno
esser isvegliati gli ben nati spiriti armati dalla verità et illustrati dalla
divina intelligenza, di prender l’armi contra la fosca ignoranza, montando su
l’alta rocca et eminente torre della contemplazione. A costoro conviene d’aver
ogni altra impresa per vile e vana. Questi non denno in co- se leggieri e vane
spendere il tempo, la cui velocità è infinita: essendo che sì mirabilmente
precipitoso scorra il presente, e con la medesima prestezza s’acco- ste il futuro.
Quel che abbiamo vissuto è nulla, quel che viviamo è un punto, quel ch’abbiamo
a vivere non è ancora un punto, ma può essere un punto, il Letteratura italiana
Einaudi 155 Giordano Bruno - De gl’eroici furori quale insieme sarà
e sarà stato. E tra tanto questo s’in- tesse la memoria di genealogie, quello
attende a desci- ferar scritture, quell’altro sta occupato a moltiplicar
sofismi da fanciulli. Vedrai verbigrazia un volume pieno di: “Cor” est fons
vite, “nix” est alba: ergo “cornix” est fons vitae alba. Quell’altro garrisce
se il nome fu prima o il verbo, l’altro se il mare o gli fonti, l’altro vuol
rinovare gli vo- caboli absoleti che per esserno venuti una volta in uso e
proposito d’un scrittore antico, ora de nuovo le vuol far montar a gli astri; l’altro
sta su la falsa e vera orto- grafia, altri et altri sono sopra altre et altre
simili fra- scarie, le quali molto più degnamente son spreggiate che intese.
Qua diggiunano, qua ismagriscono, qua intisichiscono, qua arrugano la pelle,
qua allungano la barba, qua marciscono, qua poneno l’àncora del som- mo bene.
Con questo spreggiano la fortuna, con que- sto fan riparo e poneno il scudo
contra le lanciate del fato. Con tali e simili vilissimi pensieri credeno mon-
tar a gli astri, esser pari a gli dei, e comprendere il bel- lo e buono che
promette la filosofia. cesarino È gran cosa certo che il tempo che non può
bastarci manco alle cose necessarie, quantunque dili- gentissimamente guardato,
viene per la maggior parte ad esser speso in cose superflue, anzi cose vili e
vergo- gnose. – Non è da ridere di quello che fa lodabile Ar- chimede o altro
appresso alcuni, che a tempo che la cittade andava sottosopra, tutto era in
ruina, era acce- so il fuoco ne la sua stanza, gli nemici gli erano dentro la
camera a le spalli, nella discrezzion et arbitrio de quali consisteva de fargli
perdere l’arte, il cervello e la vita; e lui tra tanto avea perso il senso e
proposito di Letteratura italiana Einaudi 156 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori salvar la vita, per averlo lasciato a dietro a perseguitar
forse la proporzione de la curva a la retta, del diame- tro al circolo o altre
simili matesi, tanto degne per giovanotti quanto indegne d’uno che (se posseva)
de- vrebbe essere invecchiato et attento a cose più degne d’esser messe per
fine de l’umano studio. mariconda In proposito di questo mi piace quello che
voi medesimo poco avanti dicesti, che bisogna ch’il mondo sia pieno de tutte
sorte de persone, e che il numero de gl’imperfetti, brutti, poveri, indegni e
sce- lerati sia maggiore: et in conclusione non debba esse- re altrimenti che
come è. La età lunga e vechiaia d’Ar- chimede, Euclide, di Prisciano, di Donato
et altri che da la morte son stati trovati occupati sopra li numeri, le linee,
le dizzioni, le concordanze, scritture, dialecti, sillogismi formali, metodi,
modi de scienze, organi et altre isagogie, è stata ordinata al servizio della
gio- ventù e de’ fanciulli, gli quali apprender possano e ri- cevere gli frutti
della matura età di quelli, come con- viene che siano mangiati da questi nella
lor verde etade: a fin che più adulti vegnano senza impedimen- to atti e pronti
a cose maggiori. cesarino Io non son fuor del proposito che poco avanti ho
mosso: essendo in proposito di quei che fanno studio d’involar la fama e luogo
de gli antichi con far nove opre o peggiori, o non megliori de le già fatte, e
spendeno la vita su le considerazioni da mette- re avanti la lana di capra o
l’ombra de l’asino; et altri che in tutto il tempo de la vita studiano di farsi
esqui- siti in que’ studii che convegnono alla fanciullezza, e per la massima
parte il fanno senza proprio et altrui profitto. mariconda Or assai è detto
circa quelli che non pos- sono né debbono ardire d’aver “ad alt’amor la mente
desta”. Venemo ora a considerare della volontaria cattività, e dell’ameno giogo
sotto l’imperio de la det- Letteratura italiana Einaudi 157
Giordano Bruno - De gl’eroici furori ta Diana: quel giogo, dico, senza il
quale l’anima è im- potente de rimontar a quella altezza da la qual cadìo, percioché
la rende più leggiera et agile; e gli lacci la fanno più ispedita e sciolta.
cesarino Discorrete dumque. mariconda Per cominciar, continuar e conchiudere
con ordine, considero che tutto quel che vive, in quel modo che vive, conviene
che in qualche maniera si nodrisca, si pasca. Però a la natura intellettuale
non quadra altra pastura che intellettuale, come al corpo non altra che
corporale: atteso che il nodrimento non si prende per altro fine eccetto perché
vada in sustan- za de chi si nodrisce. Come dumque il corpo non si trasmuta in
spirito, né il spirito si trasmuta in corpo (perché ogni trasmutazione si fa
quando la materia che era sotto la forma de uno viene ad essere sotto la forma
de l’altro), cossì il spirito et il corpo non hanno materia commune, di sorte
che quello che era sogget- to a uno possa dovenire ad essere soggetto de
l’altro. cesarino Certo se l’anima se nodrisse de corpo si portarebe meglio
dove è la fecondità della materia (come argumenta Iamblico), di sorte che
quando ne si fa presente un corpo grasso e grosso, potremmo credere che sia
vase d’un animo gagliardo, fermo, pronto, eroico, e dire: «O anima grassa, o
fecondo spirito, o bello ingegno, o divina intelligenza, o men- te illustre, o
benedetta ipostasi da far un convito a gli leoni, over un banchetto a i dogs».
Cossì un vecchio, come appare marcido, debole e diminuito de forze, debba esser
stimato de poco sale, discorso e raggio- ne. Ma seguitate. mariconda Or l’esca
de la mente bisogna dire che sia quella sola che sempre da lei è bramata,
cercata, ab- bracciata, e volentieri più ch’altra cosa gustata, per cui
s’empie, s’appaga, ha prò e dovien megliore: cioè la verità alla quale in ogni
tempo, in ogni etade et in Letteratura italiana Einaudi 158
Giordano Bruno - De gl’eroici furori qualsivoglia stato che si trove
l’uomo, sempre aspira, e per cui suol spreggiar qualsivoglia fatica, tentar
ogni studio, non far caso del corpo, et aver in odio questa vita. Perché la
verità è cosa incorporea; per- ché nessuna, o sia fisica, o sia metafisica, o
sia mate- matica, si trova nel corpo; perché vedete che l’eterna essenza umana
non è ne gl’individui li quali nascono e muoiono. È la unità specifica (disse
Platone) non la moltitudine numerale che comporta la sustanza de le cose; però
chiamò l’idea uno e molti, stabile e mobi- le: perché come specie
incorrottibile, è cosa intelligi- bile et una, e come si communica alla materia
et è sotto il moto e generazione, è cosa sensibile e molti. In questo secondo
modo ha più de non ente che di ente: atteso che sempre è altro et altro, e
corre eterno per la privazione; nel primo modo è ente e vero. Ve- dete appresso
che gli matematici hanno per concedu- to che le vere figure non si trovano ne
gli corpi natu- rali, né vi possono essere per forza di natura né di arte.
Sapete ancora che la verità de sustanze soprana- turali è sopra la materia. –
Conchiudesi dumque che a chi cerca il vero, bisogna montar sopra la raggione de
cose corporee. Oltre di ciò è da considerare che tutto quel che si pasce, ha
certa mente e memoria na- turale del suo cibo, e sempre (massime quando fia più
necessario) ha presente la similitudine e specie di quello, tanto più
altamente, quanto è più alto e glo- rioso chi ambisce, e quello che si cerca.
Da questo, che ogni cosa ha innata la intelligenza de quelle cose che
appartegnono alla conservazione de l’individuo e specie, et oltre alla
perfezion sua finale, depende la industria di cercare il suo pasto per qualche
specie di venazione. – Conviene dumque che l’anima umana abbia il lume, l’ingegno
e gl’instrumenti atti alla sua caccia. Qua soccorre la contemplazione, qua
viene in uso la logica, altissimo organo alla venazione della Letteratura
italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori verità, per distinguere, trovare e
giudicare. Quindi si va lustrando la selva de le cose naturali dove son tan- ti
oggetti sotto l’ombra e manto, e come in spessa, densa e deserta solitudine la
verità suol aver gli antri e cavernosi ricetti; fatti intessuti de spine,
conchiusi de boscose, ruvide e frondose piante: dove con le raggioni più degne
et eccellenti maggiormente s’asconde, s’avvela e si profonda con diligenza mag-
giore, come noi sogliamo gli tesori più grandi celare con maggior diligenza e
cura, accioché dalla moltitu- dine e varietà de cacciatori (de quali altri son
più ex- quisiti et exercitati, altri meno) non vegna senza gran fatica
discuoperta. Qua andò Pitagora cercandola per le sue orme e vestigii impressi
nelle cose naturali, che son gli numeri li quali mostrano il suo progresso,
raggioni, modi et operazioni in certo modo: perché in numero de moltitudine,
numero de misure, e nu- mero de momento o pende, la verità e l’essere si tro-
va in tutte le cose. Qua andò Anaxagora et Empedo- cle che considerando che la
omnipotente et omniparente divinità empie il tutto, non trovavano cosa tanto
minima che non volessero che sotto quella fusse occolta secondo tutte le
raggioni, benché pro- cedessero sempre vèr là dove era predominante et espressa
secondo raggion più magnifica et alta. Qua gli Caldei la cercavano per via di
suttrazzione non sa- pendo che cosa di quella affirmare: e procedevano senza
cani de dimostrazioni e sillogismi; ma solamen- te si forzaro di profondare rimovendo,
zappando, isboscando per forza di negazione de tutte specie e predicati
comprensibili e secreti. Qua Platone anda- va como isvoltando, spastinando e
piantando ripari: perché le specie labili e fugaci rimanessero come nel- la
rete, e trattenute da le siepe de le definizioni, con- siderando le cose
superiori essere participativamen- te, e secondo similitudine speculare nelle
cose Letteratura italiana Einaudi 160 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori inferiori, e queste in quelle secondo maggior dignità et eccellenza; e
la verità essere ne l’une e l’altre se- condo certa analogia, ordine e scala,
nella quale sem- pre l’infimo de l’ordine superiore conviene con il su- premo
de l’ordine inferiore. E cossì si dava progresso dal infimo della natura al supremo
come dal male al bene, dalle tenebre alla luce, dalla pura potenza al puro
atto, per gli mezzi. Qua Aristotele si vanta pure da le orme e vestigii
impressi di posser pervenire alla desiderata preda, mentre da gli effetti vuol
amenarsi a le cause. Benché egli per il più (massime che tutti gli altri
ch’hanno occupato il studio a questa venazio- ne) abbia smarrito il camino, per
non saper a pena distinguere de le pedate. – Qua alcuni teologi nodriti in
alcune de le sette cercano la verità della natura in tutte le forme naturali
specifiche, nelle quali conside- rano l’essenza eterna e specifico sustantifico
perpe- tuator della sempiterna generazione e vicissitudine de le cose, che son
chiamate dèi conditori e fabrica- tori, sopra gli quali soprasiede la forma de
le forme, il fonte de la luce, verità de le veritadi, dio de gli dèi, per cui
tutto è pieno de divinità, verità, entità, bontà. Questa verità è cercata come
cosa inaccessibile, come oggetto inobiettabile, non sol che incomprensibile:
però a nessun pare possibile de vedere il sole, l’uni- versale Apolline e luce
absoluta per specie suprema et eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua
Diana, il mondo, l’universo, la natura che è nelle co- se, la luce che è
nell’opacità della materia: cioè quella in quanto splende nelle tenebre. De
molti dumque, che per dette vie et altre assai discorreno in questa deserta
selva, pochissimi son quelli che s’abbattono al fonte de Diana. Molti rimagnono
contenti de cac- cia de fiere selvatiche e meno illustri, e la massima parte
non trova da comprendere avendo tese le reti al vento, e trovandosi le mani
piene di mosche. Rarissi- Letteratura italiana Einaudi 161 Giordano
Bruno - De gl’eroici furori mi dico son gli Atteoni alli quali sia dato dal
destino di posser contemplar la Diana ignuda: e dovenir a ta- le che dalla
bella disposizione del corpo della natura invaghiti in tanto, e scorti da que’
doi lumi del gemi- no splendor de divina bontà e bellezza, vegnano tra-
sformati in cervio, per quanto non siano più caccia- tori ma caccia. Perché il
fine ultimo e finale di questa venazione è de venire allo acquisto di quella
fugace e selvaggia preda, per cui il predator dovegna preda, il cacciator
doventi caccia; perché in tutte le altre spe- cie di venaggione che si fa de cose
particolari, il cac- ciatore viene a cattivare a sé l’altre cose, assorbendo
quelle con la bocca de l’intelligenza propria; ma in quella divina et
universale viene talmente ad appren- dere che resta necessariamente ancora
compreso, as- sorbito, unito: onde da volgare, ordinario, civile e populare,
doviene selvatico come cervio, et incola del deserto; vive divamente sotto
quella procerità di selva, vive nelle stanze non artificiose di cavernosi
monti, dove admira gli capi de gli gran fiumi, dove vegeta intatto e puro da
ordinarie cupiditadi, dove più liberamente conversa la divinità, alla quale
aspi- rando tanti uomini che in terra hanno volsuto gustar vita celeste,
dissero con una voce: «Ecce elongavi fu- giens, et mansi in solitudine». Cossì
gli cani, pensieri de cose divine, vorano questo Atteone, facendolo morto al
volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal
carnal carcere della mate- ria; onde non più vegga come per forami e per fene-
stre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglia a ter- ra, è tutto occhio a
l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte che tutto guarda come uno, non vede più
per distinzioni e numeri, che secondo la diversità de sen- si, come de diverse
rime fanno veder et apprendere in confusione. Vede l’Amfitrite, il fonte de
tutti nu- meri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la Mo- Letteratura
italiana Einaudi 162 Giordano Bruno - De gl’eroici furori nade,
vera essenza de l’essere de tutti; e se non la ve- de in sua essenza, in absoluta
luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la sua imagine: perché
dalla monade che è la divinitade, procede questa mo- nade che è la natura,
l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia come il sole nella luna, me-
diante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emi- sfero delle sustanze
intellettuali. Questa è la Diana, quello uno che è l’istesso ente, quello ente
che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensi- bile, in cui
influisce il sole et il splendor della natura superiore secondo che la unità è
destinta nella gene- rata e generante, o producente e prodotta. Cossì da voi
medesimo potrete conchiudere il modo, la di- gnità, et il successo più degno
del cacciatore e de la caccia: onde il furioso si vanta d’esser preda della
Diana, a cui si rese, per cui si stima gradito consorte, e più felice cattivo e
suggiogato, che invidiar possa ad altro uomo che non ne può aver ch’altretanto,
o ad altro divo che ne have in tal specie quale è impos- sibile d’essere
ottenuta da natura inferiore, e per conseguenza non è conveniente d’essere
desiata, né meno può cadere in appetito. cesarino Ho ben compreso quanto avete
detto, e m’avete più che mediocremente satisfatto. Or è tem- po di ritornar a
casa. mariconda Bene. fine del secondo dialogo Letteratura italiana Einaudi
163 Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO TERZO
interlocutori Liberio, Laodonio. liberio Posando sotto l’ombra d’un cipresso il
furio- so, e trovandosi l’alma intermíttente da gli altri pen- sieri (cosa
mirabile), avvenne che (come fussero ani- mali e sustanze de distinte raggioni
e sensi) si parlassero insíeme il core e gli occhi: l’uno de l’altro
lamentandosi come quello che era principio di quel faticoso tormento che
consumava l’alma. laodonio Dite, se vi ricordate, le raggioni e le paroli.
liberio Cominciò il dialogo il core, il qual facendosi udir dal petto proruppe
in questi accenti: Prima proposta del core a gli occhi Come, occhi miei, sì
forte mi tormenta quel che da voi deriva ardente foco, ch’al mio mortal suggetto
mai allenta di serbar tal incendio, ch’ho per poco l’umor de l’Oceàn e di più
lenta artica stella il più gelato loco, perché ivi in punto si reprima il
vampo, o al men mi si prometta ombra di scampo? Voi mi féste cattivo d’una man
che mi tiene, e non mi vuole; per voi son entro al corpo, e fuor col sole, son
principio de vita, e non son vivo: non so quel che mi sia ch’appartegno a
quest’alma, e non è mia. laodonio Veramente l’intendere, il vedere, il conosce-
re è quel che accende il desio, e per conseguenza, per Letteratura italiana
Einaudi 164 Giordano Bruno - De gl’eroici furori ministerio de gli
occhi, vien infiammato il core: e quanto a quelli fia presente più alto e degno
oggetto, tanto più forte è il foco e più vivaci son le fiamme. Or qual esser
deve quella specie per cui tanto si sente ac- ceso il core, che non spera che
temprar possa il suo ardore tanto più fredda quanto più lenta stella che sia
conchiusa nell’artico cerchio, né rallentar il vampo l’umor intiero de
l’Occano? Quanta deve essere l’ec- cellenza di quello oggetto che l’ha reso
nemico de l’esser suo, rubello a l’alma propria, e contento di tal ribellione e
nemicicia, quantunque sia cattivo d’una man che ’l dispreggia e non lo vuole?
Ma fatemi udire se gli occhi risposero e che cosa dissero. liberio Quelli per
il contrario si lagnavano del core, come quello che era principio e caggione
per cui ver- sassero tante lacrime. Però a l’incontro gli proposero in questo
tenore: Prima proposta de gli occhi al core Come da te sorgon tant’acqui, o core,
da quante mai Nereidi alzar la fronte ch’ogni giorn’al bel sol rinasce e muore?
A par de l’Amfitrite il doppio fonte versar può sì gran fiumi al mondo fore,
che puoi dir che l’umor tanto surmonte, che gli fia picciol rio chi Egitto
inonda scorrend’al mar per sette doppia sponda. Die’ natura doi lumi a questo
picciol mondo per governo; tu perversor di quell’ordin eterno, le convertiste
in sempiterni fiumi. E questo il ciel non cura, ch’il natìo passa, el violento
dura. laodonio Certo ch’il cor acceso e compunto fa sorger lacrime da gli
occhi, onde come quelli accendono le Letteratura italiana Einaudi 165
Giordano Bruno - De gl’eroici furori fiamme in questo, quest’altro viene
a rigar quelli d’umore. Ma mi meraviglio de sì forte exaggerazione per cui
dicono che le Nereidi non alzano tanto bagna- ta fronte a l’oriente sole,
quanta possa appareggiar queste acqui; et oltre agguagliansi all’Oceano, non
perché versino, ma perché versar possano questi doi fonti, fiumi tali e tanti,
che computato a loro il Nilo apparirebbe una picciola lava distinta in sette
canali. liberio Non ti meravigliar della forte exaggerazione e di quella
potenza priva de l’atto; perché tutto inten- derete dopo intesa la conchiusione
de raggionamenti loro. Or odi come prima il core risponde alla propo- sta de
gli occhi. laodonio Priegovi fatemi intendere. liberio Prima risposta del core
a gli occhi Occhi, s’in me fiamma immortal s’alluma, et altro non son io che
fuoco ardente, se quel ch’a me s’avvicina, s’infuma, e veggio per mio incendio il
ciel fervente; come il gran vampo mio non vi consuma, ma l’effetto contrario in
voi si sente? Come vi bagno, e più tosto non cuoco, se non umor, ma è mia
sustanza fuoco? Credete ciechi voi che da sì ardente incendio derivi el doppio
varco, e que’ doi fonti vivi da Vulcan abbian gli elementi suoi, come tal
volt’acquista forza un contrario, se l’altro resista? Vede come non possea
persuadersi il core di posser da contraria causa e principio procedere forza di
con- trario effetto, sin a questo che non vuol affirmare il Letteratura
italiana Einaudi 166 Giordano Bruno - De gl’eroici furori modo
possibile, quando per via d’antiperistasi, che si- gnifica il vigor che
acquista il contrario da quel che fuggendo l’altro viene ad unirsi,
inspessarsi, inglobar- si e concentrarsi verso l’individuo della sua virtude,
la qual quanto più s’allontana dalle dimensioni, tanto si rende efficace di
vantaggio. laodonio Dite ora come gli occhi risposero al core. liberio Prima
risposta de gli occhi al core Ahi, cor, tua passion sì ti confonde, ch’hai
smarito il sentier di tutt’il vero. Quanto si vede in noi, quanto s’asconde, è
semenza de mari, onde l’intero Nettun potrà ricovrar non altronde, se per sorte
perdesse il grand’impero; come da noi deriva fiamma ardente, che siam del mare
il gemino parente? Sei sì privo di senso, che per noi credi la fiamma trapasse,
e tant’umide porte a dietro lasse, per far sentir a te l’arder immenso? Come
splender per vetri, crederai forse che per noi penétri? Qua non voglio
filosofare circa la coincidenza de contrarii, de la quale ho studiato nel libro
De princi- pio et uno; e voglio supponere quello che comun- mente si suppone,
che gli contraria nel medesimo ge- no son distantissimi, onde vegna più
facilmente appreso il sentimento di questa risposta, dove gli oc- chi si dicono
semi o fonti, nella virtual potenza de quali è il mare: di sorte che se Nettuno
perdesse tutte l’acqui, le potrebbe richiamar in atto dalla potenza loro, dove
sono come in principio agente e materiale. Letteratura italiana Einaudi
167 Giordano Bruno - De gl’eroici furori Però non metteno urgente
necessità quando dicono non posser essere che la fiamma per la lor stanza e
cortile trapasse al core con lasciarsi tant’acqui a die- tro, per due caggioni:
prima perché tal impedimento in atto non può essere se non posti in atto tali
oltrag- giosi ripari; secondo perché per quanto l’acqui sono attualmente ne gli
occhi, possono donar via al calore come alla luce: essendo che l’esperienza
dimostra che senza scaldar il specchio viene il luminoso raggio ad accendere
per via di reflessione qualche materia che gli vegna opposta; e per un vetro,
cristallo, o altro va- se pieno d’acqua, passa il raggio ad accendere una cosa
sottoposta senza che scalde il spesso corpo tra- mezzante: come è verisimile et
anco vero che caggio- ne secche et aduste impressioni nelle concavitadi del
profondo mare. Talmente per certa similitudine, se non per raggioni di medesimo
geno, si può conside- rare come fia possibile che per il senso lubrico et
oscuro de gli occhi possa esser scaldato et acceso di quella luce l’affetto, la
quale secondo medesima rag- gione non può essere nel mezzo. Come la luce del
so- le secondo altra raggione è nell’aria tramezzante, al- tra nel senso
vicino, et altra nel senso commune, et altra ne l’intelletto: quantunque da un
modo proceda l’altro modo di essere. laodonio Sonvi altri discorsi? liberio Sì,
perché l’uno e l’altro tentano di saper con qual modo quello contegna tante
fiamme, e quelli tante acqui. Fa dumque il core la seconda proposta: Seconda
proposta del core S’al mar spumoso fan concorso i fiumi, e da fiumi del mar il
cieco varco vien impregnato, ond’è che da voi lumi non è doppio torrente al
mondo scarco Letteratura italiana Einaudi 168 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori che cresca il regno a gli marini numi, scemando ad altri il
glorioso incarco? Perché non fia che si vegga quel giorno, ch’a i monti fa
Deucalion ritorno? Dove gli rivi sparsi? Dove il torrente che mia fiamma
smorze, o per ciò non posser più la rinforze? Goccia non scende a terra ad
inglobarsi, per cui fia ch’io non pensi che sia cossì, come mostrano i sensi?
Dimanda qual potenza è questa che non si pone in at- to; se tante son l’acqui,
perché Nettuno non viene a tiranneggiar su l’imperio de gli altri elementi? Ove
son gli inondanti rivi? Ove chi dia refrigerio al fuoco ardente? Dove è una
stilla onde io possa affirmar de gli occhi quel tanto che niegano i sensi? Ma
gli occhi di pari fanno un’altra dimanda: Seconda proposta de gli occhi al core
Se la materia convertita in foco acquista il moto di lieve elemento, e se ne
sale a l’eminente loco, onde avvien che veloce più che vento, tu ch’incendio
d’amor senti non poco, non ti fai gionto al sole in un momento? per che
soggiorni peregrino al basso, non t’aprendo per noi e l’aria il passo? Favilla
non si scorge uscir a l’aria aperto da quel busto, né corpo appar incenerit’o
adusto, né lacrimoso fumo ad alto sorge: tutt’è nel proprio intiero, né di
fiamma è raggion, sens’, o pensiero. Letteratura italiana Einaudi 169
Giordano Bruno - De gl’eroici furori laodonio Non ha più né meno
efficacia questa che quell’altra proposta: ma vengasi presto alle risposte, se
vi sono. liberio Vi son certamente e piene di succhio; udite: Seconda risposta
del core a gli occhi Sciocco è colui che sol per quanto appare al senso, et
oltre a la raggion non crede: il fuoco mio non puote alto volare, e l’infinito
incendio non si vede, perché de gli occhi ban sopraposto il mare, e un infinito
l’altro non eccede: la natura non vuol ch’il tutto pera, se basta tanto fuoco a
tanta sfera. Ditemi, occhi, per dio, qual mai partito prenderemo noi, onde far
possa aperto o io, o voi, per scampo suo, de l’alma il fato rio, se l’un e
l’altro ascoso mai potrà fargli il bel nume piatoso? laodonio Se non è vero, è
molto ben trovato: se non è cossì, è molto bene iscusato l’uno per l’altro, se
stante che dove son due forze de quali l’una non è maggior de l’altra, bisogna
che cesse l’operazion di questa e quella: essendo che tanto questa può
resistere quanto quella insistere; non meno quella ripugna, che possa oppugnar
questa. Se dumque è infinito il mare et in- mensa la forza de le lacrime che
sono ne gli occhi, non faranno giamai ch’apparir possa Cavillando o isvampando
l’impeto del fuoco ascoso nel petto; né quelli mandar potranno il gemino
torrente al mare, se con altretanto di vigore gli fa riparo il core: però acca-
de che il bel nume per apparenza di lacrima che stile Letteratura italiana
Einaudi 170 Giordano Bruno - De gl’eroici furori da gli occhi, o
favilla che si spicche dal petto, non possa esser invitato ad esser piatoso a
l’alma afflitta. [liberio] Or notate la conseguente risposta de gli oc- chi:
Seconda risposta de gli occhi al core Ahi per versar a l’elemento ondoso,
l’émpito de noi fonti al tutt’è casso; che contraria potenza il tien ascoso,
acciò non mande a rotilon per basso. L’infinito vigor del cor focoso a i pur
tropp’alti fiumi niega il passo; quindi gemino varco al mar non corre, ch’il
coperto terren natura aborre. Or dinne, afflitto core, che puoi opporti a noi
con altretanto vigor: chi fia giamai che porte il vanto d’esser precon di sì
’nfelice amore, s’il tuo e nostro male quant’è più grande, men mostrarsi vale?
Per essere infinito l’un e l’altro male, come doi ugual- mente vigorosi contraria
si ritegnono, si supprimeno; e non potrebbe esser cossì, se l’uno e l’altro
fosse fini- to, atteso che non si dà equalità puntuale nelle cose naturali, né
ancora sarebbe cossì se l’uno fusse finito e l’altro infinito: ma certo questo
assorbirebbe quello, et avverrebe che si mostrarebbono ambi doi, o al men l’uno
per l’altro. Sotto queste sentenze la filosofia na- turale et etica che vi sta
occolta, lascio cercarla, consi- derarla e comprenderla a chi vuole e puote.
Sol que- sto non voglio lasciare, che non senza raggione l’affezzion del core è
detta infinito mare dall’appren- sion de gli occhi: perché essendo infinito
l’oggetto de la mente, et a l’intelletto non essendo definito oggetto
Letteratura italiana Einaudi 171 Giordano Bruno - De gl’eroici furori
proposto, non può essere la volontarie appagata de fi- nito bene; ma se oltre a
quello si ritrova altro, il bra- ma, il cerca, perché (come è detto commune) il
sum- mo della specie inferiore è infimo e principio della specie superiore, o
si prendano gli gradi secondo le forme le quali non possiamo stimar che siano
infinite, o secondo gli modi e raggioni di quelle, nella qual ma- niera per
essere infinito il sommo bene, infinitamente credemo che si comunica secondo la
condizione delle cose alle quali si diffonde: però non è specie definita a
l’universo (parlo secondo la figura e mole), non è spe- cie definita a
l’intelletto, non è definita la specie de l’affetto. laodonio Dumque queste due
potenze de l’anima mai sono, né essere possono perfette per l’oggetto, se infi-
nitamente si riferiscono a quello. liberio Cossì sarrebe se questo infinito
fusse per pri- vazion negativa o negazion privativa de fine, come è per più
positiva affirmazione de fine infinito et inter- minato. laodonio Volete dir
dumque due specie d’infinità: l’una privativa la qual può essere verso qualche
cosa che è potenza, come infinite son le tenebre, il fine del- le quali è
posizione di luce; l’altra perfettiva la quale è circa l’atto e perfezzione,
come infinita è la luce, il fi- ne della quale sarebbe privazione e tenebre. In
questo dumque che l’intelletto concepe la luce, il bene, il bel- lo, per quanto
s’estende l’orizonte della sua capacità, e l’anima che beve del nettare divino
e de la fonte de vita eterna, per quanto comporta il vase proprio; si vede che
la luce è oltre la circonferenza del suo ori- zonte dove può andar sempre più e
più penetrando; et il nettare e fonte d’acqua viva è infinitamente fe- condo,
onde possa sempre oltre et oltre inebriarsi. [liberio] Da qua non séguita
imperfezzione nell’oggetto né poca satisfazzione nella potenza; ma che la
potenza Letteratura italiana Einaudi 172 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori sia compresa da l’oggetto e beatificamente assorbita da
quello. Qua gli occhi imprimeno nel core, cioè nell’intelligenza, suscitano
nella volontà un infinito tormento di suave amore, dove non è pena, perché non
s’abbia quel che si desidera: ma è felicità, perché sempre vi si trova quel che
si cerca; et in tanto non vi è sazietà, per quanto sempre s’abbia appetito, e
per conseguenza gusto: acciò non sia come nelli cibi del corpo il quale con la
sazietà perde il gusto, e non ha felicità prima che guste, né dopo ch’ha
gustato, ma nel gustar solamente: dove se passa certo termine e fi- ne, viene
ad aver fastidio e nausea. – Vedi dumque in certa similitudine qualmente il
sommo bene deve es- sere infinito, e l’appulso de l’affetto verso e circa
quello esser deggia anco infinito, acciò non vegna tal- volta a non esser bene:
come il cibo che è buono al corpo, se non ha modo, viene ad essere veleno. Ecco
come l’umor de l’Oceano non estingue quel vampo, et il rigor de l’Artico
cerchio non tempra quell’ardo- re. Cossì è cattivo d’una mano che il tiene e
non lo vuole: il tiene perché l’ha per suo, non lo vuole per- ché (come lo
fuggesse) tanto più se gli fa alto quanto più ascende a quella, quanto più la
séguita tanto più se gli mostra lontana per raggion de eminentissima
eccellenza, secondo quel detto: «Accedet homo ad cor altum, et exaltabitur
Deus». – Cotal felicità d’affetto comincia da questa vita, et in questo stato
ha il suo modo d’essere: onde può dire il core d’essere entro con il corpo, e
fuori col sole, in quanto che l’anima con la gemina facultade mette in
esecuzione doi uffi- ci: l’uno de vivificare et attuare il corpo animabile,
l’altro de contemplare le cose superiori; perché cossì lei è in potenza
receptiva da sopra, come è verso sotto al corpo in potenza attiva. Il corpo è
come morto e cosa privativa a l’anima la quale è sua vita e perfezzio- ne; e
l’anima è come morta e cosa privativa alla supe- Letteratura italiana Einaudi Bruno
- De gl’eroici furori riore illuminatrice intelligenza da cui l’intelletto è
re- so in abito e formato in atto. Quindi si dice il core es- sere prencipe de
vita, e non esser vivo; si dice appar- tenere a l’alma animante, e quella non
appartenergli: perché è infocato da l’amor divino, è convertito final- mente in
fuoco, che può accendere quello che si gli avicina: atteso che avendo contratta
in sé la divinita- de, è fatto divo, e conseguentemente con la sua specie può
innamorar altri: come nella luna può essere ad- mirato e magnificato il
splendor del sole. Per quel poi ch’appartiene al considerar de gli occhi,
sapete che nel presente discorso hanno doi ufficii: l’uno de im- primere nel
core, l’altro de ricevere l’impressione dal core; come anco questo ha doi
ufficii: l’uno de riceve- re l’impressioni da gli occhi, l’altro di imprimere
in quelli. Gli occhi apprendono le specie e le proponeno al core, il core le
brama et il suo bramare presenta a gli occhi: quelli concepeno la luce, la
diffondano, et accendono il fuoco in questo; questo scaldato et acce- so invia
il suo umore a quelli, perché lo digeriscano. Cossì primieramente la cognizione
muove l’affetto, et appresso l’affetto muove la cognizione. Gli occhi quando
moveno sono asciutti, perché fanno ufficio di specchio e di ripresentatore;
quando poi son mossi, son turbati et alterati; perché fanno ufficio de studio-
so executore: atteso che con l’intelletto speculativo prima si vede il bello e
buono, poi la voluntà l’appeti- sce, et appresso l’intelletto industrioso lo
procura, sé- guita e cerca. Gli occhi lacrimosi significano la diffi- cultà de
la separazione della cosa bramata dal bramante, la quale acciò non sazie, non
fastidisca, si porge come per studio infinito, il quale sempre ha e sempre
cerca: atteso che la felicità de dèi è descritta per il bevere non per l’aver
bevuto il nettare, per il gustare non per aver gustato l’ambrosia, con aver
continuo affetto al cibo et alla bevanda, e non con es- Letteratura italiana
Einaudi 174 Giordano Bruno - De gl’eroici furori ser satolli e
senza desio de quelli. Indi, hanno la sa- zietà come in moto et apprensione,
non come in quie- te e comprensione, non son satolli senza appetito, né sono
appetenti senza essere in certa maniera satolli. laodonio liberio laodonio
Esuries satiata satietas esuriens. Cossì a punto. Da qua posso intendere come
senza biasimo ma con gran verità et intelletto è stato detto che il di- vino
amore piange con gemiti inenarrabili, perché con questo che ha tutto ama tutto,
e con questo che ama tutto ha tutto. liberio Ma vi bisognano molte glose se
volessimo in- tendere de l’amor divino che è la istessa deità; e facil- mente
s’intende de l’amor divino per quanto si trova ne gli effetti e nella
subalternata natura; non (dico) quello che dalla divinità si diffonde alle
cose: ma quello delle cose che aspira alla divinità. laodonio Or di questo et
altro raggionaremo a più ag- gio appresso. Andiamone. fine del terzo dialogo
Letteratura italiana Einaudi 175 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori DIALOGO QUARTO interlocutori Severino, Minutolo. severino Vedrete dumque
la raggione de nove ciechi, li quali apportano nove principii e cause
particolari de sua cecità, benché tutti convegnano in una causa generale d’un
comun furore. minutolo Cominciate dal primo. severino Il primo di questi benché
per natura sia cie- co, nulladimeno per amore si lamenta, dicendo a gli altri
che non può persuadersi la natura esser stata più discortese a essi che a lui;
stante che quantunque non veggono, hanno però provato il vedere, e sono esperti
della dignità del senso e de l’eccellenza del sensibile, onde son dovenuti
orbi: ma egli è venuto come talpa al mondo a esser visto e non vedere, a bramar
quello che mai vedde. minutolo Si son trovati molti innamorati per sola fama.
severino Essi (dice egli) aver pur questa felicità de ri- tener quella imagine
divina nel conspetto de la mente, de maniera, che quantunque ciechi, hanno pure
in fantasia quel che lui non puote avere. Poi nella sestina si volta alla sua
guida, pregandola che lo mene in qualche precipizio, a fin che non sia oltre
orrido spet- tacolo del sdegno di natura. Dice dumque: Parla [il] primo cieco
Felici che talvolta visto avete, voi per la persa luce ora dolenti compagni che
dei lumi conoscete. Questi accesi non furo, né son spenti; Letteratura italiana
Einaudi 176 Giordano Bruno - De gl’eroici furori però più grieve
mal che non credete è il mio, e degno de più gran lamenti: perché, che fusse
torva la natura più a voi ch’a me, non è chi m’assicura. Al precipizio, o duce,
conducime, se vòi darmi contento, perché trove rimedio il mio tormento, ch’ad
esser visto, e non veder la luce, qual talpa uscivi al mondo, e per esser di
terra inutil pondo. Appresso séguita l’altro che morsicato dal serpe de la
gelosia, è venuto infetto nell’organo visuale. Va senza guida, se pur non ha la
gelosia per scorta: priega al- cun de circonstanti che se non è rimedio del suo
ma- le, faccia per pietà che non oltre aver possa senso del suo male; facendo
cossì lui occolto a se medesimo, co- me se gli è fatta occolta la sua luce: con
sepelir lui col proprio male. Dice dumque: Parla il secondo cieco Da la
tremenda chioma ha svèlto Aletto l’infernal verme, che col fiero morso hammi sì
crudament’il spirto infetto, ch’a tòrmi il senso principal è corso, privando de
sua guida l’intelletto: ch’in vano l’alma chiede altrui soccorso, sì cespitar
mi fa per ogni via quel rabido rancor di gelosia. Se non magico incanto, né
sacra pianta, né virtù de pietra, né soccorso divin scampo m’impetra, un di voi
sia (per dio) piatoso in tanto, che a me mi faccia occolto: con far meco il mio
mal tosto sepolto. Letteratura italiana Einaudi 177 Giordano Bruno
- De gl’eroici furori Succede l’altro il qual dice esser dovenuto cieco per
essere repentinamente promosso dalle tenebre a ve- der una gran luce; atteso
che essendo avezzo de mirar bellezze ordinarie, venne subito a presentarsegli
avan- ti gli occhi una beltà celeste, un divo sole: onde non altrimente si gli
è stemprata la vista e smorzatosegli il lume gemino che splende in prora a
l’alma (perché gli occhi son come doi fanali che guidano la nave) ch’ac- cader
suole a un allievato nelle oscuritadi cimmerie, se subito immediatamente affiga
gli occhi a sole. E nella sestina priega che gli sia donato libero passagio a
l’inferno, perché non altro che tenebre convegnono ad un supposito tenebroso.
Dice dumque cossì: Parla il terzo cieco S’appaia il gran pianeta di repente a
un uom nodrito in tenebre profonde, o sott’il ciel de la cimmeria gente, onde
lungi suoi rai il sol diffonde; gli spenge il lume gemino splendente in prora a
l’alma, e nemico s’asconde: cossì stemprate fur mie luci avezze a mirar
ordinarie bellezze. Fatemi a l’orco andare: perché morto discorro tra le genti?
perché ceppo infernal tra voi viventi misto men vo? Perché l’aure discare
sorbisco, in tante pene messo per aver visto il sommo bene? Fassi innanzi il
quarto cieco per simile, ma non già per medesima caggione orbo, con cui si
mostra il primo: perché come quello per repentino sguardo della luce, cossì
questo con spesso e frequente remi- rare, o pur per avervi troppo fissati gli
occhi, ha per- Letteratura italiana Einaudi 178 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori so il senso de tutte l’altre luci, e non si dice cieco per
conseguenza al risguardo di quella unica che l’ha oc- cecato; e dice il simile
del senso de la vista a quello ch’aviene al senso dell’udito, essendo che
coloro che han fatte l’orecchie a gran strepiti e rumori, non odeno gli
strepiti minori: come è cosa famosa de gli popoli cataduppici che son là d’onde
il gran fiume Nilo da una altissima montagna scende precipitoso alla pianura.
minutolo Cossì tutti color ch’hanno avezzo il corpo, l’animo a cose più
difficili e grandi, non sogliono sen- tir fastidio dalle difficultadi minori. E
costui non deve essere discontento della sua cecità. severino Non certo. Ma si
dice volontario orbo, a cui piace che ogn’altra cosa gli sia ascosa, come
l’attedia col divertirlo da mirar quello che vuol unicamente mirare. – Et in
questo mentre priega gli viandanti che si degnino de non farlo capitar male per
qualche mal rancontro, mentre va sì attento e cattivato ad un og- getto
principale. minutolo Riferite le sue paroli. severino Parla il quarto cieco
Precipitoso d’alto al gran profondo, il Nil d’ogn’altro suon il senso ha spento
de Cataduppi al popolo ingiocondo; cossì stand’io col spirto intiero attento
alla più viva luce ch’abbia il mondo, tutti i minor splendori umqua non sento:
or mentr’ella gli splende, l’altre cose sien pur a l’orbo volontario ascose. Priegovi,
da le scosse di qualche sasso, o fiera irrazionale, fatemi accorto, e se si
scende o sale: Letteratura italiana Einaudi 179 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori perché non caggian queste misere osse in luogo cavo e basso,
mentre privo de guida meno il passo. Al cieco che séguita, per il molto
lacrimare accade che siano talmente appannati gli occhi, che non si può
stendere il raggio visuale a compararsi le specie visibili, e principalmente
per riveder quel lume ch’a suo mal grado, per raggion di tante doglie una volta
vedde. Oltre che si stima la sua cecità non esser più disposizionale ma
abituale, et al tutto privativa; per- ché il fuoco luminoso che accende l’alma
nella pupil- la, troppo gran tempo e molto gagliardamente è stato riprimuto et
oppresso dal contrario umore: de manie- ra che quantunque cessasse il
lacrimare, non si per- suade che per ciò conseguisca il bramato vedere. Et
udirete quel che dice appresso alle brigate, perché lo facessero oltrepassare:
Parla il quinto cieco Occhi miei d’acqui sempremai pregnanti, quando fia che
del raggio visuale la scintilla se spicche fuor de tanti e sì densi ripari, e
vegna tale, che possa riveder que’ lumi santi, che fur principio del mio dolce
male? Lasso: credo che sia al tutto estinta, sì a lungo dal contrario oppressa
e vinta. Fate passar il cieco, e voltate vostr’occhi a questi fonti che vincon
gli altri tutti uniti e gionti; e s’è chi ardisce disputarne meco, è chi certo
lo rende ch’un de miei occhi un Oceàn comprende. Letteratura italiana Einaudi
180 Giordano Bruno - De gl’eroici furori Il sesto orbo è cieco,
perché per il soverchio pianto ha mandate tante lacrime che non gli è rimasto
umore, fin al ghiacio et umor per cui come per mezzo diafano il raggio visuale
era transmesso, e s’intromettea la luce esterna e specie visibile, di sorte che
talmente fu com- punto il core che tutta l’umida sustanza (il cui ufficio è de
tener unite ancora le diverse varie e contrarie) è digerita; e gli è rimasta
l’amorosa affezzione senza l’effetto de le lacrime, perché l’organo è stemprato
per la vittoria de gli altri elementi, et è rimasto conse- quentemente senza
vedere e senza constanza de le parti del corpo insieme. Poi propone a gli
circonstan- ti quel che intenderete: Parla il sesto cieco Occhi non occhi; fonti,
non più fonti, avete sparso già l’intiero umore, che tenne il corpo, il spirto
e l’alma gionti. E tu visual ghiaccio che di fore facevi tanti oggetti a l’alma
conti, sei digerito dal piagato core: cossì vèr l’infernale ombroso speco vo
menando i miei passi, arido cieco. Deh non mi siate scarsi a farmi pronto
andar, di me piatosi, che tanti fiumi a i giorni tenebrosi sol de mio pianto
m’appagando ho sparsi: or ch’ogni umor è casso, vers’il profondo oblio datemi
il passo. Sopragionge il seguente che ha perduta la vista dal in- tenso vampo
che procedendo dal core è andato prima a consumar gli occhi, et appresso a
leccar tutto il ri- manente umore de la sustanza de l’amante, de manie- ra che
tutto incinerito e messo in fiamma non è più Letteratura italiana Einaudi Bruno
- De gl’eroici furori lui: perché dal fuoco la cui virtù è de dissolvere gli
corpi tutti ne gli loro atomi, è convertito in polve non compaginabili, se per
virtù de l’acqua sola gli atomi d’altri corpi se inspessano e congiongono a far
un subsistente composto. Con tutto ciò non è privo del senso de l’intensissime
fiamme; però nella sestina con questo vuol farsi dar largo da passare: ché se
qual- ch’uno venesse tócco da le fiamme sue, dovenerebbe a tale che non arrebe
più senso delle fiamme infernali come di cosa calda, che come di fredda neve.
Dice dumque: Parla il settimo cieco La beltà che per gli occhi scorse al core
formò nel petto mio l’alta fornace ch’assorbì prima il visuale umore,
sgorgand’in alt’il suo vampo tenace; e poi vorando ogn’altro mio liquore, per
metter l’elemento secco in pace, m’ha reso non compaginabil polve, chi ne gli
atomi suoi tutto dissolve. Se d’infinito male avete orror, datemi piazza, o
gente; guardatevi dal mio fuoco cuocente; che se contagion di quel v’assale,
crederete che inverno sia, ritrovars’al fuoco de l’inferno. Succede l’ottavo,
la cecità del quale vien caggionata dalla saetta che Amore gli ha fatto
penetrare da gli oc- chi al core. Onde si lagna non solamente come cieco, ma et
oltre come ferito, et arso tanto altamente, quan- to non crede ch’altro esser
possa. Il cui senso è facil- mente espresso in questa sentenza: Letteratura
italiana Einaudi 182 Giordano Bruno - De gl’eroici furori Parla
l’ottavo cieco Assalto vil, ria pugna, iniqua palma, punt’acuta, esca edace,
forte nervo, aspra ferit’, empio ardor, cruda salma, stral, fuoco e laccio di
quel dio protervo, che puns’ gli occhi, arse il cor, legò l’alma, e femmi a un
punto cieco, amante e servo: talché orbo de mia piaga, incendio e nodo, ho ’l
senso in ogni tempo, loco e modo. Uomini, eroi e dèi, che siete in terra, o
appresso Dite o Giove, dite (vi priego) quando, come e dove provaste, udiste o
vedeste umqua omei medesmi, o tali, o tanti tra oppressi, tra dannati, tra gli
amanti? Viene al fine l’ultimo, il quale è ancor muto: perché non possendo (per
non aver ardire) dir quello che massime vorrebe senza offendere o provocar
sdegno, è privo di parlar di qualsivogli’altra cosa. Però non parla lui, ma la
sua guida produce la raggione circa la quale, per esser facile, non discorro,
ma solamente apporto la sentenza: Parla la guida del nono cieco Fortunati voi
altri ciechi amanti, che la caggion del vostro mal spiegate: esser possete, per
merto de pianti, graditi d’accoglienze caste e grate; di quel ch’io guido, qual
tra tutti quanti più altamente spasma, il vampo late, muto forse per falta
d’ardimento di far chiaro a sua diva il suo tormento. Aprite, aprite il passo,
Letteratura italiana Einaudi 183 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori siate benigni a questo vacuo volto de tristi impedimenti, o popol folto,
mentre ch’il busto travagliato e lasso va picchiando le porte di men penosa e
più profonda morte. Qua son significate nove caggioni per le quali accade che
l’umana mente sia cieca verso il divino oggetto, perché non possa fissar gli
occhi a quello. De le quali: La prima, allegorizata per il primo cieco, è la
natura della propria specie, che per quanto comporta il gra- do in cui si
trova, in quello aspira per certo più alto che apprender possa. minutolo Perché
nessun desiderio naturale è vano, possiamo certificarci de stato più eccellente
che con- viene a l’anima fuor di questo corpo in cui gli fia pos- sibile
d’unirsi o avvicinarsi più altamente al suo og- getto. severino Dici molto bene
che nessuna potenza et ap- pulso naturale è senza gran raggione, anzi è
l’istessa regola di natura la quale ordina le cose: per tanto è cosa verissima
e certissima a ben disposti ingegni, che l’animo umano (qualunque si mostre
mentre è nel corpo) per quel medesimo che fa apparire in questo stato, fa
espresso il suo esser peregrino in questa re- gione, perché aspira alla verità
e bene universale, e non si contenta di quello che viene a proposito e pro-
fitto della sua specie. La seconda, figurata per il secondo cieco, procede da
qualche perturbata affezzione, come in proposito de l’amore è la gelosia, la
quale è come tarlo che ha me- desimo suggetto, nemico e padre, cioè che rode il
panno o legno di cui è generato. Letteratura italiana Einaudi Bruno - De
gl’eroici furori minutolo Questa non mi par ch’abbia luogo nell’amor eroico.
severino Vero, secondo medesima raggione che vedesi nell’amor volgare: ma io
intendo secondo altra raggio- ne proporzionale a quella la quale accade in
color che amano la verità e bontà; e si mostra quando s’adirano tanto contra
quelli che la vogliono adulterare, guastare, corrompere, o che in altro modo
indegnamente voglio- no trattarla: come son trovati di quelli che si son
ridutti sino alla morte, alle pene et esser ignominiosamente trattati da gli
popoli ignoranti e sette volgari. minutolo Certo nessuno ama veramente il vero
e buono che non sia iracondo contra la moltitudine: co- me nessuno volgarmente
ama, che non sia geloso e ti- mido per la cosa amata. severino E con questo
vien ad esser cieco in molte co- se veramente, et affatto affatto secondo
l’opinion commune è stolto e pazzo. minutolo Ho notato un luogo che dice esser
stolti e pazzi tutti quelli che hanno senso fuor et estravagante dal senso
universale de gli altri uomini; ma cotal estravaganza è di due maniere, secondo
che si va estra o con ascender più alto che tutti e la maggior parte sa- gliano
o salir possano: e questi son gli inspirati de di- vino furore; o con
descendere più basso dove si trova- no coloro che hanno difetto di senso e di
raggione più che aver possano gli molti, gli più, e gli ordinaria: et in cotal
specie di pazzia, insensazione e cecità non si trovarà eroico geloso. severino
Quantumque gli vegna detto che le molte lettere lo fanno pazzo, non gli si può
dire ingiuria da dovero. La terza, figurata nel terzo cieco, procede da che la
divina verità, secondo raggione sopra naturale, detta metafisica, mostrandosi a
que’ pochi alli quali si mo- Letteratura italiana Einaudi 185
Giordano Bruno - De gl’eroici furori stra, non proviene con misura di
moto e tempo, come accade nelle scienze fisiche (cioè quelle che s’acqui- stano
per lume naturale, le quali discorrendo da una cosa nota secondo il senso o la
raggione, procedono alla notizia d’altra cosa ignota: il qual discorso è chia-
mato argumentazione), ma subito e repentinamente secondo il modo che conviene a
tale efficiente. Onde disse un divino: «Attenuati sunt oculi mei suspicientes
in excelsum». Onde non è richiesto van discorso di tempo, fatica de studio, et
atto d’inquisizione per averla: ma cossì prestamente s’ingerisce come propor-
zionalmente il lume solare senza dimora si fa presente a chi se gli volta e se
gli apre. minutolo Volete dumque che gli studiosi e filosofi non siano più atti
a questa luce che gli quantunque ignoranti? severino In certo modo non, et in
certo modo sì. Non è differenza quando la divina mente per sua provi- denza
viene a comunicarsi senza disposizione del sug- getto: voglio dire quando si
communica, perché ella cerca et eligge il suggetto; ma è gran differenza quan-
do aspetta e vuol esser cercata, e poi secondo il suo bene placito vuol farsi
ritrovare. In questo modo non appare a tutti, né può apparir ad altri che a
color che la cercano. Onde è detto: «Qui quaerunt me invenient me»; et in altro
loco: «Qui sitit, veniat, et bibat». minutolo Non si può negare che
l’apprensione del secondo modo si faccia in tempo. severino Voi non distinguete
tra la disposizione alla divina luce, e la apprensione di quella. Certo non nie-
go che al disporsi bisogna tempo, discorso, studio e fatica: ma come diciamo
che la alterazione si fa in tempo, e la generazione in instante; e come
veggiamo che con tempo s’aprono le fenestre, et il sole entra in un momento:
cossì accade proporzionalmente al pro- posito. Letteratura italiana Einaudi
186 Giordano Bruno - De gl’eroici furori La quarta, significata nel
seguente, non è veramente indegna, come quella che proviene dalla consuetudi-
ne di credere a false opinioni del volgo il quale è mol- to rimosso dalle
opinioni de filosofi: opur deriva dal studio de filosofie volgari le quali son
dalla moltitudi- ne tanto più stimate vere, quanto più accostano al senso
commune. E questa consuetudine è uno de grandissimi e fortissimi inconvenienti
che trovar si possano: perché (come exemplificò Alcazele et Aver- roe)
similmente accade a essi, che come a color che da puerizia e gioventù sono
consueti a mangiar veneno, quai son dovenuti a tale, che se gli è convertito in
sua- ve e proprio nutrimento; e per il contrario abominano le cose veramente
buone e dolci secondo la comun natura. Ma è dignissima, perché è fondata sopra
la consuetudine de mirar la vera luce (la qual consuetu- dine non può venir in
uso alla moltitudine come è detto). Questa cecità è eroica, et è tale, per
quale de- gnamente contentare si possa il presente furioso cie- co, il qual
tanto manca che si cure di quella, che viene veramente a spreggiare ogni altro
vedere, e da la co- munità non vorrebe impetrar altro che libero passa- gio e
progresso di contemplazione: come per ordina- rio suole patir insidie, e se gli
sogliono opporre intoppi mortali. La quinta, significata nel quinto, procede
dalla im- proporzionalità delli mezzi de nostra cognizione al cognoscibile;
essendo che per contemplar le cose di- vine, bisogna aprir gli occhi per mezzo
de figure, si- militudini et altre raggioni che gli Peripatetici com- prendono
sotto il nome de fantasmi; o per mezzo de l’essere procedere alla speculazion
de l’essenza: per via de gli effetti alla notizia della causa; gli quali mezzi
tanto manca che vagliano per l’assecuzion di cotal fi- ne, che più tosto è da
credere che siano impedimenti, Letteratura italiana Einaudi 187
Giordano Bruno - De gl’eroici furori se credere vogliamo che la più alta
e profonda cogni- zion de cose divine sia per negazione e non per affir-
mazione, conoscendo che la divina beltà e bontà non sia quello che può cader e
cade sotto il nostro concet- to: ma quello che è oltre et oltre
incomprensibile; massime in questo stato detto “speculator de fanta- smi” dal
filosofo, e dal teologo “vision per similitudi- ne speculare et enigma”; perché
veggiamo non gli ef- fetti veramente, e le vere specie de le cose, o la
sustanza de le idee, ma le ombre, vestigii e simulacri de quelle, come color che
son dentro l’antro et hanno da natività le spalli volte da l’entrata della
luce, e la faccia opposta al fondo: dove non vedeno quel che è veramente, ma le
ombre de ciò che fuor de l’antro su- stanzialmente si trova. – Però per la
aperta visione la quale ha persa, e conosce aver persa, un spirito simile o
meglior di quel di Platone piange desiderando l’exi- to da l’antro, onde non
per riflessione, ma per “imme- diata conversione” possa riveder sua luce.
minutolo Parmi che questo cieco non versa circa la difficultà che procede dalla
vista riflessiva: ma da quella che è caggionata dal mezzo tra la potenza visi-
va e l’oggetto. severino Questi doi modi quantunque siano distinti nella
cognizion sensitiva o vision oculare, tutta volta però concorrenti in uno nella
cognizione razionale o intellettiva. minutolo Parmi aver inteso e letto che in
ogni visione si richiede il mezzo over intermedio tra la potenza et oggetto.
Perché come per mezzo della luce diffusa ne l’aere e la similitudine della cosa
che in certa maniera procede da quel che è visto a quel che vede, si mette in
effetto l’atto del vedere: cossì nella regione intellet- tuale dove splende il
sole dell’intelletto agente me- diante la specie intelligibile formata e come
proce- dente da l’oggetto, viene a comprendere de la divinità Letteratura
italiana Einaudi 188 Giordano Bruno - De gl’eroici furori
l’intelletto nostro o altro inferiore a quella. Perché co- me l’occhio nostro
(quando veggiamo) non riceve la luce del foco et oro in sustanza, ma in
similitudine: cossì l’intelletto in qualunque stato che si trove, non riceve
sustanzialmente la divinità, onde sieno sostan- zialmente tanti dèi quante sono
intelligenze, ma in si- militudine; per cui non formalmente son dèi, ma de-
nominativamente divini, rimanendo la divinità e divina bellezza una et exaltata
sopra le cose tutte. severino Voi dite bene; ma per vostro dire bene non è
mistiero ch’io mi ritratte, perché non ho detto il contrario: ma bisogna che io
dechiare et expliche. Però prima dechiaro che la visione immediata, detta da
noi et intesa, non toglie quella sorte di mezzo che è la specie intelligibile,
né quella che è la luce; ma quel- la che è proporzionale alla spessezza e
densità del dia- fano, o pur corpo al tutto opaco tramezzante: come aviene a colui
che vede per mezzo de le acqui più e meno turbide, o aria nimboso e nebbioso;
il quale s’intenderebbe veder come senza mezzo quando gli venesse concesso de
mirar per l’aria puro, lucido e terso. Il che tutto avete come esplicato dove
si dice: “Spicche fuor di tanti e sì densi ripari”. Ma ritornia- mo al nostro
principale. La sesta, significata nel sequente, non è altrimenti caggionata che
dalla imbecillità et insubsistenza del corpo, il quale è in continuo moto,
mutazione et alte- razione; e le operazioni del quale bisogna che seguiti- no
la condizione della sua facultà, la quale è conse- quente dalla condizione
della natura et essere. Come volete voi che la immobilità, la sussistenza, la
entità, la verità sia compresa da quello che è sempre altro et al- tro, e
sempre fa et è fatto altri et altrimenti? Che ve- rità, che ritratto può star
depinto et impresso dove le pupille de gli occhi si dispergono in acqui,
l’acqui in Letteratura italiana Einaudi 189 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori vapore, il vapore in fiamma, la fiamma in aura, e que- sta in
altro et altro, senza fine discorrendo il suggetto del senso e cognizione per
la ruota delle mutazioni in infinito? minutolo Il moto è alterità, quel che si
muove sempre è altro et altro, quel che è tale, sempre altri et altri- mente si
porta et opra, per che il concetto et affetto séguita la raggione e condizione
del suggetto. E quel- lo che altro et altro, altri et altrimenti mira, bisogna
necessariamente che sia a fatto cieco al riguardo di quella bellezza che è
sempre una et unicamente, et è l’istessa unità et entità, identità. severino
Cossì è. La settima, contenuta allegoricamente nel sentimento del settimo
cieco, deriva dal fuoco dell’affezzione, on- de alcuni si fanno impotenti et
inabili ad apprendere il vero, con far che l’affetto precorra a l’intelletto.
Questi son coloro che prima hanno l’amare che l’in- tendere: onde gli avviene
che tutte le cose gli appaia- no secondo il colore della sua affezzione; stante
che chi vuole apprendere il vero per via di contemplazio- ne deve essere
ripurgatissimo nel pensiero. minutolo In verità si vede che sì come è diversità
de contemplatori et inquisitori per quel che altri (secon- do gli abiti de loro
prime e fondamentali discipline) procedeno per via de numeri, altri per via de
figure, altri per via de ordini o disordini, altri per via di com- posizione e
divisione, altri per via di separazione e congregazione, altri per via de
inquisizion e dubita- zione, altri per via de discorso e definizione, altri per
via de interpretazioni e desciferazion de voci, vocabo- li e dialecti: onde
altri son filosofi matematici, altri metafisici, altri logici, altri
grammatici; cossì è diver- sità de contemplatori che con diverse affezzioni si
metteno ad studiare et applicar l’intenzione alle sen- Letteratura italiana
Einaudi 190 Giordano Bruno - De gl’eroici furori tenze scritte:
onde si doviene sin a questo che medesi- ma luce di verità espressa in un
medesimo libro per medesime paroli, viene a servire al proposito di sette tanto
numerose, diverse e contrarie. severino Per questo è da dire che gli affetti
molto so- no potenti per impedir l’apprension del vero, quan- tumque gli
pazienti non se ne possano accorrere: qualmente aviene ad un stupido ammalato
che non dice il suo gusto amaricato, ma il cibo amaro. – Or tal specie de
cecità è notata per costui, gli occhi del qua- le son alterati e privi dal suo
naturale, per quel che dal core è stato inviato et impresso, potente non solo
ad alterar il senso, ma et oltre l’altre tutte facultadi de l’alma, come la
presente figura dimostra. Al significato per l’ottavo, cossì l’eccellente
intelligi- bile oggetto have occecato l’intelletto, come l’eccel- lente
sopraposto sensibile a costui ha corrotto il sen- so. Cossì avviene a chi vede
Giove in maestà, che perde la vita, e per conseguenza perde il senso. Cossì
avviene che chi alto guarda tal volta vegna oppresso da la maestà. Oltre quando
viene a penetrar la specie divina, la passa come strale: onde dicono gli
teologi il verbo divino essere più penetrativo che qualsivoglia punta di spada
o di coltello. Indi deriva la formazione et impressione del proprio vestigio,
sopra il quale al- tro non è che possa essere impresso o sigillato; là on- de
essendo tal forma ivi confirmata, e non possendo succedere la peregrina e nova,
senza che questa cieda, conseguentemente può dire che non ha più facultà di
prendere altro, se ha chi la riempie, o la disgrega per la necessaria
improporzionalitade. La nona caggione è notata per il nono che è cieco per
inconfidenza, per deiezzion de spirito, la quale è ad- ministrata e caggionata
pure da grande amore, perché Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici
furori con lo ardire teme de offendere; onde disse la Canti- ca: «Averte oculos
tuos a me, quia ipsi me avolare fece- re». E cossì supprime gli occhi da non
vedere quel che massime desidera e gode di vedere; come raffrena la lingua da
non parlare con chi massime brama di parlare, per téma che difetto di sguardo o
difettosa parola non lo avvilisca, o per qualche modo non lo metta in
disgrazia: e questo suol procedere da l’ap- prensione de l’excellenza de
l’oggetto sopra de la sua facultà potenziale, onde gli più profondi e divini
teo- logi dicono che più si onora et ama Dio per silenzio, che per parola; come
si vede più per chiuder gli occhi alle specie representate, che per aprirli:
onde è tanto celebre la teologia negativa de Pitagora e Dionisio, sopra quella
demostrativa de Aristotele e scolastici dottori. minutolo Andiamone raggionando
per il camino. severino Come ti piace. fine del quarto dialogo Letteratura
italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO QUINTO interlocutori
Laodomia, Giulia. laodomia Un’altra volta, o sorella, intenderai quel che
apporta tutto il successo di questi nove ciechi, quali eran prima nove
bellissimi et amorosi giovani, che essendo tanto ardenti della vaghezza del
vostro viso, e non avendo speranza de ricevere il bramato frutto de l’amore, e
temendo che tal disperazione le riducesse a qualche final ruina, partironsi dal
terreno della Campania felice, e d’accordo (quei che prima erano rivali) per la
tua beltade giuròrno di non la- sciarsi mai sin che avessero tentato tutto il
possibile per ritrovar cosa più de voi bella, o simile al meno; con ciò che
scuoprir si potesse in lei accompagnata quella mercé e pietade che non si
trovava nel vostro petto armato di fierezza: perché questo giudicavano unico
rimedio che divertir le potesse da quella cruda cattivitade. Il terzo giorno
dopo la lor sollenne parti- ta, passando vicini al monte Circeo, gli piacque
d’an- dar a veder quelle antiquitadi de gli antri e fani di quella dea. Dove
essendo gionti, dalla maestà del luogo ermo, de le ventose, eminenti e fragose
rupi, del mormorìo de l’onde maritime che vanno a fran- gersi in quelle
cavitadi, e di molte altre circonstanze che mostrava il luogo e la staggione,
vennero tutti co- me inspiritati; tra’ quali un (che ti dirò), più ardito
espresse queste paroli: «Oh se piacesse al cielo che a questi tempi ne si fesse
presente, come fu in altri se- coli più felici, qualche saga Circe che con le
piante, minerali, veneficii et incanti era potente di mettere come il freno
alla natura: certo crederei che ella, Letteratura italiana Einaudi Bruno - De
gl’eroici furori quantunque fiera, piatosa pur sarebbe al nostro ma- le. Ella
molto sollecitata da nostri supplichevoli la- menti, condiscenderebbe o a darne
rimedio, o ver a concederne grata vendetta contra la crudeltà di no- stra
nemica». A pena avea finito di proferir queste paroli, che a tutti si presentò
visibile un palaggio, il quale chiumque have ingegno di cose umane, possea
facdmente comprendere che non era manifattura d’uomo, né di natura: de la
figura e descrizzion de la quale ti dirò un’altra volta. Onde percossi da gran
maraviglia, e tòcchi da qualche speranza che qualche propizio nume (il qual ciò
gli mise avanti) volesse de- finire il stato de la lor fortuna, dissero ad una
voce che peggio non posseano incorrere che il morire, il quale stimavano minor
male che vivere in tale e tanta passione. Però vi entraro dentro non trovando
porta che fermata gli fosse, o portinaio che gli domandasse raggione; sin che
si ritrovano in una richissima et or- natissima sala, dove in quella regia maestade
(che puoi dire che Apolline fusse stato ritrovato da Feton- te) apparve quella
ch’è chiamata sua figlia; con l’ap- parir de la quale veddero sparire le
imagini de molti altri numi che gli administravano. Là con grazioso volto
accettati e confortati, si fero avanti: e vinti dal splendor di quella
maestade, piegaro le ginocchia in terra, e tutti insieme con quella diversità
de note che gli dettava il diverso ingegno, esposero gli lor voti al- la dea.
Dalla quale in conclusione furono talmente trattati, che ciechi, raminghi et
infortunatamente la- boriosi hanno varcati tutti mari, passati tutti fiumi,
superati tutti monti, discorse tutte pianure, per spa- cio de diece anni; al
termine de quali entrati sotto quel temperato cielo de l’isola britannica, gionti
al conspetto de le belle e graziose ninfe del padre Ta- mesi, dopoi aver essi
fatti gli atti di conveniente umil- tade, et accettati da quelle con gesti
d’onestissima Letteratura italiana Einaudi 194 Giordano Bruno - De
gl’eroici furori cortesia, uno tra loro, il principale, che altre volte ti sarà
nomato, con tragico e lamentevole accento espo- se la causa commune in questo
modo: Di que’, madonne, che col chiuso vase si fan presenti, et han trafitt’il
core, non per commesso da natur’ errore, ma d’una cruda sorte ch’in sì vivace
morte le tien astretti, ogn’un cieco rimase. Siam nove spirti che molt’anni,
erranti, per brama di saper, molti paesi abbiam discorsi, e fummo un dì
surpresi d’un rigid’accidente, per cui (se siete attente) direte: «O degni, et
o infelici amanti». Un’empia Circe, che si don’il vanto d’aver questo bel sol
progenitore, ne accolse dopo vario e lungo errore; e un certo vase aperse, de
le cui acqui insperse noi tutti, et a quel far giunse l’incanto. Noi
aspettand’il fine di tal opra, eravam con silenzio muto attenti, sin al punto
che disse: «O voi dolenti, itene ciechi in tutto; raccogliete quel frutto, che
trovan troppo attenti al che gli è sopra». «Figlia e madre di tenebre et orrore
– diss’ogn’un fatto cieco di repente, – dumque ti piacque cossì fieramente
trattar miseri amanti, che ti si fero avanti, facili forse a consecrart’il
core?» Ma poi ch’a i lassi fu sedato alquanto quel subito furor, ch’il novo
caso Letteratura italiana Einaudi 195 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori porse, ciascun più accolto in sé rimaso, mentr’ira al dolor cede,
voltossi alla mercede, con tali accenti accompagnand’il pianto: «Or dumque s’a
voi piace, o nobil maga, che zel di gloria forse il cor ti punga, o liquor di
pietà il lenisca et unga, farti piatosa a noi co’ medicami tuoi, saldand’al
nostro cuor l’impressa piaga; se la man bella è di soccorrer vaga, deh non sia
tanto la dimora lunga, che di noi triste alcun a morte giunga pria che per
gesti tuoi possiam unqua dir noi: tanto ne tormentò, ma più ne appaga». E lei
soggiunse: «O curiosi ingegni, prendete un altro mio vase fatale, che mia mano
medesma aprir non vale; per largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate
tutti i numerosi regni: perché vuol il destin che discuoperto mai vegna, se non
quando alta saggezza e nobil castità giunte a bellezza v’applicaran le mani;
d’altri i studi son vani per far questo liquor al ciel aperto. All’or, s’avvien
ch’aspergan le man belle chiumque a lor per remedio s’avicina, provar potrete
la virtù divina: ch’a mirabil contento cangiand’il rio tormento, vedrete due
più vaghe al mondo stelle. Tra tanto alcun di voi non si contriste, quantumque
a lungo in tenebre profonde Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici
furori quant’è sul firmamento se gli asconde: perché cotanto bene per
quantunque gran pene mai degnamente avverrà che s’acquiste. Per quell’a cui
cecità vi conduce, dovete aver a vil ogn’altro avere, e stimar tutti strazii un
gran piacere; che sperando mirare tai grazie uniche o rare, ben potrete
spreggiar ogni altra luce». Lassi, è troppo gran tempo che raminghe per tutt’il
terren globo nostre membra son ite, sì ch’al fine a tutti sembra che la fiera
sagace di speranza fallace il petto n’ingombrò con sue lusinghe. Miseri, ormai
siam (bench’al tardi) avisti ch’a quella maga, per più nostro male, tenerci a
bada eternamente cale; certo perché lei crede che donna non si vede sott’il
manto del ciel con tanti acquisti. Or benché sappiam vana ogni speranza, cedemo
al destin nostr’e siam contenti di non ritrarci da penosi stenti, e mai
fermando i passi (benché trepidi e lassi) languir tutta la vita che n’avanza.
Leggiadre Nimfe, ch’a l’erbose sponde del Tamesi gentil fate soggiorno, deh,
per dio, non abiate (o belle) a scorno tentar voi anco in vano con vostra
bianca mano di scuoprir quel ch’il nostro vase asconde. Chi sa? forse che in
queste spiaggie, dove con le Nereidi sue questo torrente Letteratura italiana
Einaudi 197 Giordano Bruno - De gl’eroici furori si vede che cossì
rapidamente da basso in su rimonte riserpendo al suo fonte, ha destinat’il ciel
ch’ella si trove. Prese una de le Ninfe il vase in mano, e senza altro tentare,
offrillo ad una per una, di sorte che non si trovò chi ardisse provar prima: ma
tutte de commun consentimento, dopo averlo solamente remirato, il ri- ferivano
e proponevano per rispetto e riverenza ad una sola; la quale finalmente non
tanto per far perico- lo di sua gloria, quanto per pietà e desìo di tentar il
soccorso di questi infelici, mentre dubbia lo contratta- va, come
spontaneamente s’aperse da se stesso. Che volete ch’io vi referisca quanto
fusse e quale l’applau- so de le Nimfe? Come possete credere ch’io possa
esprimere l’estrema allegrezza de nove ciechi, quando udiro del vase aperto, si
sentiro aspergere dell’acqui bramate, apriro gli occhi e veddero gli doi soli;
e tro- varono aver doppia felicitade: l’una della ricovrata già persa luce,
l’altra della nuovamente discuoperta, che sola possea mostrargli l’imagine del
sommo bene in terra? Come, dico, volete ch’io possa esprimere quella allegrezza
e tripudio de voci, di spirto e di corpo, che lor medesimi tutti insieme non
posseano esplicare? Fu per un pezzo il veder tanti furiosi debaccanti, in senso
di color che credono sognare, et in vista di quelli che non credeno quello che
apertamente veggono: sin tan- to che tranquillato essendo alquanto l’impeto del
furo- re, se misero in ordine di ruota, dove: Il primo cantava e sonava la
citara in questo tenore: O rupi, o fossi, o spine, o sterpi, o sassi, o monti,
o piani, o valli, o fiumi, o mari, quanto vi discuoprite grati e cari, ché
mercé vostra e merto n’ha fatt’il ciel aperto: o fortunatamente spesi passi. Il
secondo con la mandòra sua sonò e cantò: O fortunatamente spesi passi, o diva
Circe, o gloriosi affanni; o quanti n’affligeste mesi et anni, tante grazie
divine, se tal è nostro fine dopo che tanto travagliati e lassi. Il terzo con
la lira sonò e cantò. Dopo che tanto travagliati e lassi, se tal porto han
prescritto le tempeste, non fia ch’altro da far oltre ne reste che ringraziar
il cielo ch’oppose a gli occhi il velo, per cui presente al fin tal luce fassi.
Il quarto con la viola cantò: Per cui present’al fin tal luce fassi, cecità
degna più ch’altro vedere, cure suavi più ch’altro piacere; ch’a la più degna
luce vi siete fatte duce: con far men degni oggetti a l’alma cassi. Il quinto
con un timpano d’Ispagna cantò: Con far men degni oggetti a l’alma cassi, con
condir di speranza alto pensiero, fu chi ne spinse a l’unico sentiero, per cui
a noi si scuopra Letteratura italiana Einaudi 199 Giordano Bruno -
De gl’eroici furori de Dio la più bell’opra: cessi fato benigno a mostrar
vassi. Il sesto con un laùto cantò: Cossì fato benigno a mostrar vassi; perché
non vuol ch’il ben succeda al bene, o presagio di pene sien le pene; ma
svoltando la ruota, or inalze, ora scuota: com’a vicenda il dì e la notte
dassi. Il settimo con l’arpa d’Ibernia: Come a vicenda, il dì e la notte dassi,
mentr’il gran manto de faci notturne scolora il carro de fiamme diurne:
talmente chi governa con legge sempiterna supprime gli eminenti, e inalz’ i
bassi. L’ottavo con la viola ad arco: Supprime gli eminenti, e inalza i bassi,
chi l’infinite machini sustenta: e con veloce, mediocre e lenta vertigine
dispensa in questa mole immensa quant’occolto si rende e aperto stassi. Il nono
con una rebecchina: Quant’occolto si rend’e aperto stassi, o non nieghi, o
confermi che prevagli l’incomparabil fine a gli travagli campestri e montanari
Letteratura italiana Einaudi 200 Giordano Bruno - De gl’eroici
furori de stagni, fiumi, mari, de rupi, fossi, spine, sterpi, sassi. Dopo che
ciascuno in questa forma singularmente sonando il suo instrumento ebbe cantata
la sua sesti- na, tutti insieme ballando in ruota e sonando in lode de l’unica
Nimfa con un soavissimo concento canta- rono una canzona, la quale non so se
bene mi verrà a la memoria. giulia Non mancar (ti priego, sorella) di farmi
udire quel tanto che ti potrà sovvenire. laodomia Canzone de gl’illuminati «Non
oltre invidio, o Giove, al firmamento,» dice il padre Oceàn col ciglio altero,
«se tanto son contento per quel che godo nel proprio impero»; «Che superbia è
la tua?» Giove risponde, alle ricchezze tue che cosa è gionta? o dio de le insan’onde,
perché il tuo folle ardir tanto surmonta?» «Hai,» disse il dio de l’acqui, «in
tuo potere il fiammeggiante ciel, dov’è l’ardente zon’, in cui l’eminente coro
de tuoi pianeti puoi vedere. Tra quelli tutt’il mondo admira il sole, qual ti
so dir che tanto non risplende quanto lei che mi rende più glorioso dio de la
gran mole. Et io comprendo nel mio vasto seno tra gli altri quel paese, ove il
felice Tamesi veder lice, ch’ha de più vaghe ninfe il coro ameno. Tra quelle
ottegno tal fra tutte belle, i per far del mar più che del ciel amante te Giove
altitonante, cui tanto il sol non splende tra le stelle»; Giove responde: «O
dio d’ondosi mari, ch’altro si trove più di me beato non lo permetta il fato;
ma miei tesori e tuoi corrano al pari. Vagl’il sol tra tue ninfe per costei; e
per vigor de leggi sempiterne, de le dimore alterne, costei vaglia per sol tra
gli astri miei». Credo averla riportata interamente tutta. giulia Il puoi
conoscere, perché non vi manca senten- za che possa appartener alla perfezzion del
proposito; né rima che si richieda per compimento de le stanze. Or io, se per
grazia del cielo ottenni d’esser bella, maggior grazia e favor credo che mi sia
gionto: perché qualumque fusse la mia beltadel è stata in qualche maniera
principio per far discuoprir quell’unica e di- vina. Ringrazio gli dèi, perché
in quel tempo che io fui sì verde, che le amorose fiamme non si posseano
accendere nel petto mio, mediante la mia tanto restia quanto semplice et
innocente crudeltade, han preso mezzo per concedere incomparabilmente grazie
mag- giori a’ miei amanti, che altrimenti avessero possute ottenere per
quantunque grande mia benignitade. laodomia Quanto a gli animi di quelli
amanti, io ti as- sicuro ancora, che come non sono ingrati alla sua ma- ga
Circe, fosca cecitade, calamitosi pensieri et aspri travagli, per mezzo de
quali son gionti a tanto bene: cossì non potranno di te esser poco ben
riconoscenti. giulia Cossì desidero, e spero. Grice: “Agostino
da Norcia used to quote from Benedetto da Norcia’s emblematic maxim, praise the
lord AND WORK – it rymes in Italian: ORA e LABORA --. Not to be confused with “Benedetto da
Norcia”. Agostino da Perugia. Agostino da Norcia. Norcia. Agostino Colizzi.
Giovanni Colizzi. Colizzi. Keywords: implicatura, “De amore fundamenta mundis
ac ethicae”, eretici italiani, ortodossi italiani, dell’infinito, universo e mondi, praxis
descensus application entis, amore – l’amore come fondamento del mondo, l’amore
come fondamento dalla morale -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colizzi” – The
Swimming-Pool Library.
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