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Thursday, November 28, 2024

GRICE ITALO A/Z C COL

 

Grie e Colazza: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’iniziazione – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “Having gone to Clifton, I love Colazza – he is into ‘iniziazione’ – specially in the equites of ancient Rome, but not much different from mine!” Di una famiglia dell'alta borghesia romana, e istruito agli studi umanistici e si laurea a Roma. Cultore dell'esoterismo e delle dottrine massoniche e teosofiche. Fonda il club antroposofico in Italia. Dall'incontro con l'antroposofia C. apprese l'esigenza di seguire pratiche spirituali di concentrazione adatte al contesto occidentale, coltivando in particolare la «via del pensiero cosciente».  Altre opere: Dell’iniziazione (Tilopa); La magia del noi di Ur (Edizioni Mediterranee). Evola e l'esperienza del Gruppo di Ur.  A strong anthroposophical influence came from C. and Duke Giovanni Colonna di Cesard. Close to the group, which adopted the name UR, were Kremmerz, founder of the Fraternity of Myriam. Sedute spiritiche che si svolgevano in casa dell'amico C., e che talvolta si protraevano sino all'alba. SPUNTI DALLA CONFERENZA TENUTA IN ROMA CIRCA IL TEMA DELL’INIZIAZIONE. VENERAZIONE E CALMA INTERIORE”. Il saggio l’Iniziazione mi fu consigliato da Steiner in francese a Piazza Spagna, come un saggio importante, da tenere sempre presente come guida.  L’uomo così come nella vita quotidiana serve a poco o niente per il mondo dello spirito. Siguo Steiner più o meno il saggio, aggiungendo poi altri insegnamenti estremamente utili per ottenere reali risultati. La nostra persona, di cui siamo coscienti, è solo un riflesso del nostro ‘noi’. È molto utile per giungere alla conoscenza del nascosto ‘noi’, distinguere e separare in noi il pensare che p, il sentire che p e il volere che p. Cita l’aneddoto di Eurialo e Niso, che viveno nell’illusione di essere il suo ‘noi’ contingente. L’esoterismo e facile, se si conforta sempre donandoci personali indicazioni, circa gli esercizi e la pratica esoterica. Ma ora, invece dobbiamo cercare fedelmente e scrupolosamente quello che possiamo accogliere e applicare a noi stessi.   Si dice che è importantissimo cominciare sviluppando il sentimento di ‘venerare’. Non bisogna fraintendere il concetto di “venerazione” con uno stato di esaltazione interiore dovuto all’insegnamento che il tutor ci può dare e che noi accettiamo per co-ercizione intellettuale o sentimentale o per atto di fede: ma non è assolutamente questo. Il fatto da riconoscere è questo. Il calore dell’anima è vita stessa per l’anima. L’accogliere freddamente contenuti spirituali, ci riempie soltanto il ‘noi’ di nozioni, senza far penetrare la forza dello spirito. La venerazione e il calore di nostre anime sono l’attività di nostre anime stesse. Bisogna aprirsi a tali rivelazioni della psicologia filosofica come dottrina dell’anima, con atteggiamento di venerazione. I meravigliosi quadri circa l’evoluzione del cosmo devono risvegliare in noi ammirazione, meraviglia e riconoscenza per la gerarchia.  Tale stato di nostre anime destano in noi questo calore, la venerazione per co-esseri e fatti spirituali, ai quali siamo debitori.  Astenersi dalla critica e dal giudizio, cercare di cogliere nell’altro non il difetto, ma la qualità migliore, incoraggiare ciò che vi è di meglio. Il biasimo è energia perduta. Il sentimento positivo e buono e per le nostre anime come la qualità dell’aria che inspirando mettiamo in circolo nel corpo. Più è pura, più saremo sani. Il godimento rappresenta una lezione per l’uomo quanto il dolore, soltanto che è più difficile leggervi dentro. Non bisogna fermarsi alla sensazione del piacere, ma ricercare nel godimento il contenuto più elevato da cui promana, che ne è l’artefice e il senso, ma la sua essenza più intima. Occorre coltivare momenti di raccoglimento, lavorando sui ricordi: rievocare immagini mnemoniche di fatti passati, o della giornata trascorsa ricercando nelle nostre anime l’eco di ciò che aleggia in quelle passate percezioni. Bisogna passare in rassegna gli eventi con meticolosa analisi, oggettivarli, senza applicare alcuna speculazione né alcun giudizio; osservare tutte le concatenazioni, semplicemente contemplarle in modo neutro, lasciando che siano esse a svelarci qualcosa. Noi dobbiamo fare il silenzio. Tale lavoro equivale ad anticipare ciò che avviene nel sonno, quando la gerarchia penetrando nel nostro corpo astrale e nel ‘noi’, inseriscono i loro giudizi. L’impazienza è un perdere energie. Il tono generale della preparazione è quello di una ri-educazione su nuove basi, della vita di pensiero e di sentimento, tramite speciali esercizi. Bisogna entrare nel ritmo della ripetizione, senza lasciare che la nostra natura inferiore si ribelli, rifuggendo gli esercizi. La noia è un grande nemico. Bisogna osservare una pianta in pieno sviluppo afferrando tutti i dettagli; osservarla e riceverne una percezione così chiara che, chiudendo gli occhi, possa rimanere come chiara immagine interiore di fronte a noi. Esercitarsi con la forma esterna cercando ad occhi chiusi di ricordarla, visualizzandola. Quando si riceve un’esperienza non bisogna assolutamente tradurla in concetti con le parole: bensì mantenerla in sé e coltivarla. Altra cosa importante da fare è dirigere l’attenzione sul mondo dei suoni. Analizzare e realizzare la differenza fra i suoni di origine minerale immota, e quelli di natura vegetale o animale. Fra lo scroscio dell’acqua, il fruscio delle foglie nel vento, il rotolare di una pietra e il rumore di una macchina vi è una diversa manifestazione delle forze cosmiche. Cessato il suono, dobbiamo prolungare in noi il suo effetto, ma non attraverso l’udito, ma tramite l’orecchio dell’anima, senza immaginare nulla: aspettare in silenzio il sorgere di qualcosa. Le potenze spirituali non si trovano e si lasciano trovare come avviene nel mondo sensibile quando si va a monte di un effetto per ritrovarne la causa: sono Esse a decidere per loro deliberazione, se è lecito o no farsi percepire dal ricercatore. Sono Esse che devono e vogliono trovare l’uomo, solo se posto in un determinato stato di accoglimento interiore. Le percezioni immaginative si manifestano come impressioni interiori paragonabili ad impressioni suscitate in noi da un dato colore fisico; la percezione soprasensibile appare rivestita da un colore perché il suo contenuto animico è affine a ciò che quel dato colore equivale corrispondentemente come manifestazione animica. La percezione di un rosso osservato nel mondo fisico, genera in noi un particolare sentimento, contenente qualità animiche: l’Entità che ci appare immaginativamente se ha in sé del rosso, significa che contiene in lei delle qualità e dei contenuti animici affini a ciò che nel mondo fisico ci appare come rosso. E’ un grave errore ritenere che ci si deva attendere nel mondo spirituale come una “ripetizione” più sottile delle forme del mondo fisico. Lo spirituale ha qualità totalmente dissimili dal fisico. Bisogna sviluppare sempre più simpatia e compassione verso gli uomini e gli animali e sensibilità per la bellezza della natura. IL NON VEDERE RISULTATI DURANTE IL TIROCINIO. Spesso il discepolo non si avvede degli effetti e dei risultati derivanti dagli esercizi occulti. Ciò è dovuto al perché si tende a guardare fisso in una direzione, attendendosi di ricevere qualcosa solo da quella direzione, senza accorgersi che ciò che invece è arrivato, promanava a noi da un’altra direzione. Vi sono due gravi ostacoli nella percezione immaginativa: presupporre e attendersi in modo personale ciò deve avvenire; confondere le percezioni di colore con le sensazioni di colore fisico, quasi cercando con gli occhi all’esterno, ciò che invece può apparire solo interiormente. Le percezioni di colore o di forma, non promanano dall’ente osservato, ma sorgono in noi, nascendo dalla nostra interiorità. La conferma circa l’autenticità di aver avuto una vera esperienza spirituale è confermata dall’avvertire in sé il sentimento di aver come sperimentato uno stato già provato; non che l’immagine percepita ci è a noi nota, ma che il sentimento provato durante l’esperienza è un qualcosa di già vissuto, in un passato remotissimo (atlantideo o lemurico).  È un primo passo verso il riconoscere in coscienza il proprio primordiale passato, quando si era in completa unione con il mondo spirituale. ESERCIZIO DEL SEME. Osservare con gli occhi fisici un seme: forma, colore, peso, dimensioni, rapporti. Fatto ciò, occorre interiorizzare l’immagine, astraendosi dalla percezione fisica del seme, sforzandosi di visualizzarlo nel campo della propria coscienza, ad occhi chiusi. Si pensi che in esso è virtualmente presente in potenza l’intera pianta: vi è in lui un’Idea, una Legge naturale invisibile che lo governa, la quale manifesterà in un futuro sulla Terra la pianta in lui ora nascostamente contenuta. In lui dimora una potentissima forza vivente, che si cela alla nostra vista, invisibilmente. Rappresentarsi poi il processo temporale, di crescita in successione, nel triplice ritmo della sua costituzione: radice,  fusto, fogliame, fiori, frutto. Non è importante curare i dettagli, ma sentire la forza di questa manifestazione, la potenza creativa che si esprime nell’espansione dirompente delle forze insite nel seme. Quel che noi sentiremo come potenzialità espansiva è l’elemento invisibile del seme: la forza eterica. Il ritmo perenne del mondo vegetale trascende il seme stesso come dato immediatamente sensibile e percepibile. Ci si volga di nuovo al seme (aprendo gli occhi?) collegando ad esso l’intero processo immaginativo delle potenziali forme di crescita, dell’invisibile che è diventato visibile. La forza che ne risulterà si tradurrà in noi come facoltà di visione: una specie di nube luminosa, una specie di piccola fiamma di colore lilla-azzurro, aleggiante intorno al seme. Ciò è la vivente forza vitale che edificherà la pianta. ESERCIZIO DELLA PIANTA. Osservare una pianta in completo sviluppo, sforzandosi di vedere in essa immaginativamente l’attuarsi del ciclo seme-pianta-fiore-frutto seme, realizzando così un senso di perennità della vita vegetale, espressa nella sintesi della forma della pianta stessa.  In un certo senso, è come se dalla pianta-spazio momentanea, si estraesse la pianta-tempo, ossia l’Idea totale o Essere di specie vegetale a cui appartiene quella pianta. Pensare poi che vi sarà un tempo in cui questa pianta non esisterà più, sarà scomparsa. Questa pianta verrà annientata, ma non la sua specie: essa ha generato dei semi tramite i quali, l’Idea della specie continua l’esistenza in altre piante. Senza distogliersi dalla percezione spaziale fisica della pianta, bisogna sovrapporvi l’immagine di ciò che ella sarà nel futuro, che avvizzisce e che appassisce, disseccandosi, di quella realtà celata ai nostri occhi. La pianta morirà, ma non morirà l’idea o la legge che l’ha generata e fatta agglomerare. Questo trasportarsi nella dimensione delle potenzialità ora latenti, della pianta in oggetto, produrrà in noi la visione di una fiamma. Un’indicazione personale che voglio offrire, è di cercare di contemplare le forme, partendo da una diversa prospettiva rispetto quella usuale. Se si osserva una pianta, solitamente il fusto è perpendicolare all’asse degli occhi. Si provi a piegare la testa, in modo che esso diventi parallelo all’asse degli occhi. Il modificare il modo abituale di vedere, favorirà l’esperienza spirituale. L’obiettivo di questi esercizi è di trascendere l’oggetto percepito per arrivare al suo contenuto immaginativo. ESERCIZIO DELL’UOMO. Prendere in esame il ricordo di un evento in cui abbiamo assistito alla trasfigurazione nei movimenti e nei gesti di un individuo preda di un fortissimo desiderio. Sforzarsi di sentire in noi quel sentimento di brama o desiderio. Pur sorgendo, trasferendo in noi tale sentimento, esso deve rimanerci estraneo, tanto da poterlo osservare obiettivamente, senza parteciparvi con sentimenti e pensieri. Appariranno diverse gamme di sfumature di colori. Altro errore è di compiacersi inavvertitamente o di stupirsi nell’attimo in cui si ha un’esperienza spirituale: si genera difatti un’onda nel sentire che annega l’esperienza stessa. Altra qualità indispensabile da sviluppare è il coraggio o intrepidezza. Certe esperienze spirituali, dalle quali siamo ordinariamente protetti alla loro percezione, sono impossibili da sostenere senza tale qualità. Aver fiducia nelle potenze spirituali, è come aprire un varco ad esse verso di noi: se veramente desideriamo da loro un aiuto, attraverso la fiducia in esse verremo soccorsi e sostenuti. LA DIETA ESOTERICA. L’alcool è da evitare, anche durante i pasti e anche se assunto in piccole quantità: esso immette nel sangue un elemento anti-Io che si oppone all’autonomia dell’Io; una specie di neutralizzatore fisico dell’esperienza spirituale. L’alcool limita, distorce o impedisce la possibilità di giungere ad una percezione cosciente del mondo spirituale. Bisogna giungere a sentire spontaneamente ripugnanza, un naturale disgusto verso la carne; essa contiene sostanze che favoriscono l’irregolare autonomia di certe condizioni del corpo astrale. Inoltre essa paralizza le forze contenute nel ricambio, le quali sono di natura prettamente spirituale. I vegetali che si sviluppano sotto terra, senza la luce solare, come funghi, legumi, sono meno indicati di altri che si impregnano di luce solare, come i pomodori o le arance. GLI EFFETTI SUL CORPO FISICO SUSCITATI DAGL’ESERCIZI. Tutti gli esercizi antroposofici, tendono a realizzare una maggiore mobilità del corpo eterico: nell’antichità, per ottenere questo ci si aiutava attraverso particolari tecniche di respirazione. Oggigiorno, tali pratiche sono dannose: si realizzano difatti degli strappi fra l’eterico e il fisico; se tuttavia se si verificasse qualche esperienza spirituale, sarebbe priva di controllo, casuale. Le pratiche respiratorie sono sconsigliabili. A seguito degli esercizi antroposofici, la respirazione assume spontaneamente un nuovo ritmo. La mobilità del corpo eterico offre la possibilità di percepire il proprio corpo fisico come un elemento estraneo. Si possono, durante il tirocinio esoterico, avvertire delle trasformazioni che possono, ma non devono venir interpretate come anomalie patologiche. Si può avvertire, come non prima, il proprio sistema osseo interno come un peso. Un’altra sensazione è sperimentare i propri muscoli come percorsi da correnti; si sente scorrere qualcosa nel sistema muscolare, quale moto del corpo eterico. Si può poi avere la sensazione che la nostra coscienza sia distesa e diffusa non più solo nella testa, ma lungo tutto il sistema circolatorio, nel sangue ove vi è il nostro noi. Si avverte poi il il centro del proprio essere nel centro del cervello, mentre nella periferia di esso si percepisce la zona ove opera e agisce la memoria rappresentativa. Il sistema nervoso comincia a rendersi indipendente dalla corrente sanguigna. Si ha poi la percezione di avvertire l’indipendenza e l’individualità dei singoli organi interni. Ciò vale anche per gli organi di senso, che sembrano come “attaccati” al nostro essere. I SENSI. Il tatto non è un senso, ma un urto contro il mondo esterno; tramite gli altri sensi, evocando le relative percezioni di gusto, odore, suono e vista per poi cancellarle ispirativamente, è possibile ritrovare la loro origine spirituale. Il gusto è un organo di percezione dell’etere cosmico. L’olfatto fa percepire l’etere vitale. L’udito è l’involuzione di un organo dell’epoca lunare, allora predisposto per la percezione dell’armonia delle sfere. Il senso del calore ci rimanda all’antico Saturno. La vista ci permette di percepire la manifestazione dell’etere di luce. Un sintomo evidente dell’effetto degli esercizi è sulla memoria: essa viene man mano a perdersi, per venir sostituita da un’altra facoltà mnemonica non fondata come questa su ricordi visivi e uditivi, ma su ricordi o immaginazioni eteriche. Il vero serbatoio della memoria non è il cervello, ma il corpo eterico: qui ogni cosa viene registrata, racchiusa e conservata. Procedendo dal presente a ritroso, rievocando stati d’animo sperimentati, sarà possibile ritrovarvi eventi dimenticati. Nel sentire, si risveglia la memoria. Occorre sviluppare presenza di Spirito: abituarsi ad una grande autodeterminazione, imparando a decidere con immediatezza, senza esitazioni. Occorre poi di decidere responsabilmente di non tradire il mondo spirituale, una volta conseguite le facoltà iniziatiche. Il comunicare insegnamenti a qualcuno che non ne sia preparato, significa assumersi anche la responsabilità karmica delle eventuali conseguenze, circa il buono o cattivo uso che questi ne farà. Lo stare in segreto non deve significare darsi arie misteriose, ma solo non voler nuocere ad altri. Tutto ciò che ci porta alla nostalgia del nostro passato, è una tentazione luciferica. Bisogna cessare di contare i giorni, i mesi e gli anni trascorsi senza risultati nella disciplina. La parola chiave è “Pazienza”. L’impazienza rappresenta un ostacolo: il mondo spirituale per potersi rivelare, per aprirsi un varco, ha bisogno di trovare nel discepolo calma attesa, per potervisi riversare. MITEZZA E SILENZIO. Le potenze spirituali sono in continuo fermento, in perenne attesa per poter essere accolte dall’uomo, purché trovino le giuste condizioni che glielo consentano: esse, datrici di Amore eterno e altruista, trepidano nella fremente attesa di poter riabbracciare i loro fratelli minori. Più che anelare di muoversi incontro a loro, è più giusto intendere che la via giusta è sapersi aprire ad esse. Esse possono riversarsi in noi solo se trovano purezza interiore; esse sono sempre pronte, dai limiti della nostra coscienza, a connettersi con noi. Sono soltanto i veli della personalità soggettiva, l’irrequietezza, i timori, gli impulsi inferiori, a impedire loro di avvicinarsi. Ogni sforzo nel guardare o udire fisico, ogni reazione istintiva, paralizza i sensi spirituali. Bisogna rinunciare alla suscettibilità e alla collericità: tacitare le passioni e i desideri. Bisogna svincolarsi dalla forza del desiderio, che impedisce la percezione dello Spirito. Padronanza di sé: dominio dei sentimenti che sorgono spontaneamente in noi. È consigliabile nei rapporti con gli altri, non la durezza, ma la mitezza. La durezza erige una barriera invalicabile, spezzando un’ulteriore comunicazione. Mitezza e silenzio: positività e astensione dalla critica. Si consiglia di ritirarsi ogni tanto dall’ambiente della vita di tutti i giorni, per raccogliersi e meditare in mezzo alla Natura. Il rumore della vita quotidiana, può impedire il manifestarsi degli effetti degli esercizi. Il discepolo mano a mano si libera così della vita istintiva e dei caratteri ereditari della sua razza e famiglia: si svincola dall’azione delle entità spirituali corrispondenti. Occorre sempre chiedersi se si è degni di questa libertà interiore che si vuole conseguire e se si ritiene di avere le forze necessarie per sostenerla, affinché tale libertà agisca positivamente e correttamente. LE sette CONDIZIONI PER LA PREPARAZIONE ALLA VIA OCCULTA. La salute fisica è connessa al karma: molte volte occorre chiedersi se non vi sia qualche cosa nel campo morale che gravi sul fisico, da purificare o da espiare, che ne impedisca l’atteso miglioramento. Per la salute del corpo occorre sopratutto coltivare la chiarezza del pensare e del discernimento nelle impressioni ricevute dal mondo esterno. Prima di parlare o di esporre una propria considerazione o un’opinione, occorre stabilire con chiarezza il pensiero da formulare in immagini: non è bene difatti cercare a tutta prima le parole idonee, ma soprattutto la figura d’insieme da cui partire. È l’immagine che deve far scaturire l’espressione dialettica. Sentirsi un arto della vita universale, una parte di questa, superando ogni senso di separazione. La sostanza divina è solo apparentemente e necessariamente ripartita nel cosmo: lo scopo finale dell’evoluzione è comunque ricostituire un’unica entità spirituale. Bisogna aspirare ad essere ciò che si vorrebbe gli altri fossero. 3- Si deve divenire consapevoli che i pensieri e i sentimenti hanno la stessa valenza e importanza che le proprie azioni: il movimento del pensiero e dei sentimenti è altrettanto concreto quanto le azioni fisiche operate sul mondo esteriore. Ciò originerà responsabilità per il circostante ambiente animico e fisico. I pensieri permangono e si diffondono, comprendendo nei suoi effetti una moltitudine di esseri. Operare secondo i puri impulsi dell’Io superiore, non dell’Io inferiore. Si deve prendere coscienza che il corpo fisico, nel quale solitamente ci s’identifica, è solo uno specchio, un arto dell’interiorità. Educarsi al mantenimento di una decisione presa; il rinunciare è un cadere nel vuoto dell’incoerenza e dell’indeterminatezza: è mancanza di forza dell’Io. Non bisogna assolutamente mai, prendere decisioni o fissare regole, mentre ci si trova travolti dall’onda di un moto passionale o di un impulso emotivo. Occorre essere riconoscenti, grati al mondo esterno e allo Spirituale. Si deve ricordare che nell’era di Saturno, “Tutto era Uomo”, e che solo grazie al frutto del sacrificio di altri esseri spirituali e esseri fisici rimasti indietro nei regni inferiori, è stato possibile configurare l’umanità attuale. Ringraziare per il sostentamento giornaliero. Considerare la vita e agire in essa, secondo la direzione enunciata nelle precedenti condizioni: dare un’impronta unitaria ed equilibrata alla vita facendo in modo che le finalità delle proprie azioni siano determinate dalle attitudini sopra descritte. Molte cose devono essere abbandonate, e molte altre acquisite per porsi al servizio del divino. LA POSTURA NELLA MEDITAZIONE. La terra è percorsa perpendicolarmente e orizzontalmente da correnti, che possono favorire o ostacolare la meditazione. Le correnti perpendicolari favoriscono: occorre pertanto avere la colonna vertebrale verticale rispetto alla superficie terrestre. La posizione distesa, supina, invece accoglie le correnti orizzontali dirette alle specie animali, inducendo automaticamente ad un tipico stato semisognante. I FIORI DI LOTO. Il corpo eterico è percorso da innumerevoli correnti che muovono in senso longitudinale o circolare radiale. Durante la veglia, il corpo astrale rimane connesso spazialmente al corpo fisico; quando si apre nel discepolo la coscienza spirituale, il corpo astrale si espande in proporzione dello spazio che può essere percepito, ossia diviene grande quanto il suo campo di percezione. Non si parla diffusamente del loto a due petali, fra gli occhi, perché esso è connesso con il risveglio di forze che appartengono alla chiaroveggenza primitiva. Non vi è alcun cenno, per ragioni di sicurezza, del loto della zona basale “kundalini” e del loto”1000 petali”, sul capo.  In un lontano passato, i fiori di loto erano attivi; poi lentamente hanno cessato di funzionare. Attualmente solo la loro metà è attiva; con il lavoro interiore essi si ridestano, cominciando a muoversi e ad illuminarsi. I centri a sedici, (laringe) dodici (cuore)e dieci petali (stomaco), attivati, conferiscono la padronanza assoluta sull’Io inferiore. IL LOTO A SEDICI PETALI (laringe). Gli esercizi della preparazione e dell’illuminazione tendono ad attivare tale centro. Si tratta principalmente di lavorare nel campo delle idee, curando la moralità nell’uso delle parole e la qualità di buon fine delle proprie risoluzioni prese. Tale centro, attivato, conferisce la capacità di entrare in comunicazione con altri Esseri tramite il pensiero (telepatia). Le condizioni da realizzare sono otto, ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente: Formarsi rappresentazioni il più fedeli possibili del mondo esterno, prive di fantasia personale, eliminare l’impulsività, le reazioni dettate dall’emotività; le parole usate in un discorso devono essere sempre rigorosamente connesse all’argomento;  ogni gesto e atto deve essere sempre in piena coerenza alle idee e alle risoluzioni prese; organizzare, pianificare concretamente la propria vita; verificare la saldezza, la moralità e la giustezza delle proprie aspirazioni;  imparare ad osservare retrospettivamente gli eventi della vita;  la giornaliera meditazione per interrogarsi sulla propria fedeltà alla linea tracciata dalle sette condizioni precedenti. È di vitale importanza sviluppare la veridicità; dire sempre la verità promuovendo la perfetta corrispondenza fra mondo esteriore e mondo interiore.  A volte non è molto altruistico dire la verità, ma lo scopo morale non evita il senso di giustezza. Non mentire mai ai bambini e non fare loro mai promesse senza mantenerle. MORALITA’ E CONOSCENZA. Il loto a due petali, nel centro frontale, ha una particolarità: anziché ruotare come gli altri, una volta attivato, esplica la sua azione sporgendosi all’esterno, prolungandosi in direzione orizzontale in una forma a due rami, con il compito di “portare fuori” il corpo eterico. Per mezzo di tale centro, si formano sia le correnti eteriche che scendono verso la laringe e il cuore, sia quelle che muovendosi verso le mani, costituiranno il vero e proprio reticolo che renderà il corpo eterico, un intero organo di percezione.  Bisogna suscitare un rispettoso silenzio riguardo le proprie esperienze, sia con gli altri, sia con sé stessi: occorre accoglierle così come si presentano, senza tradurle in rappresentazioni.  Lo sviluppo dei Fiori di Loto tende a trasformare tutto quello che, nascendo come natura istintiva, si presenta incoerente e non ordinato in un volitivo campo d’azione per l’armonia delle forze spirituali. IL LOTO. A duodice PETALI (cuore). Tale loto conferisce la percezione delle “forme”.  Come gli altri, anche questo centro si sviluppa coltivando alcune qualità: le condizioni da realizzare sono sei (i sei esercizi fondamentali), ciascuna equivalente ad ogni petalo dormiente. Controllo del pensiero; connettere, partendo da un tema o da un oggetto comune, vari pensieri in modo logico e conseguente, distaccandosi così dall’usuale pensare automatico istintivo; in presenza di persone che parlano in modo automatico, superficiale o poco logico, bisogna non intervenire correggendole, ma comporre mentalmente la corrente dei pensieri deformi e correggerli dentro di sé, interiormente senza esporli fuori di sé. Controllo delle azioni; uniformare l’azione al pensiero, perdere l’automatismo dato dagli istinti, prestando attenzione ai propri gesti, alle posture, ai movimenti, in modo che non avvenga che le nostre azioni possano venire determinate da impulsi inconsci non passati al vaglio cosciente del nostro pensiero. Pratica della Perseveranza; perdere la volubilità, la lunaticità, compiendo e portando sempre a termine le decisioni, gli obiettivi, i metodi, gli esercizi o le determinazioni prese. Controllo della tolleranza; sviluppare la conoscenza dei motivi e dei limiti di chi sbaglia, per giungere alla comprensione degli errori altrui, onde sostituire l’istintivo impulso di criticare o giudicare; occorre far nascere in sé il desiderio di voler essere utili all’altro tramite consigli o considerazioni costruttive, non con giudizi che bloccano la sua evoluzione. Pratica dell’obiettività o spregiudicatezza; non respingere immediatamente qualcosa che ci venga detta, e parimenti non rifiutarsi di rivalutare o riconsiderare cose da noi già appianate e conosciute; Sviluppo dell’Imperturbabilità; equanimità, equilibrio degli esercizi sopracitati; esercitarsi a controllare o sospendere le normali reazioni emotive. Lo sviluppo dei fiori di Loto è una disciplina certamente difficile, ma non impossibile. ESERCIZIO CONTRO L’APPRENSIONE. Un buon esercizio è, durante la giornata, quando un pensiero particolarmente importante ci assilla, ci dà apprensione, divenire capaci di sostituirlo con un’altro pensiero completamente diverso, da noi prescelto. IL LOTO A diedici PETALI (Stomaco). Il risveglio di tale centro consente di percepire negli altri le potenzialità future e le capacità latenti di Esseri o Entità. Per il suo sviluppo non sono state predisposte qualità particolari da sviluppare, ma piuttosto si tratta di generare un equilibrio armonico, traendolo dall’intera condotta di Vita.  Occorre considerare la totalità del proprio mondo interiore: l’origine delle cosiddette idee spontanee, dei gusti personali, dei sentimenti di simpatia e antipatia. Per la coscienza ordinaria, l’Origine di tali suddette inclinazioni è ignota: esse risiedono nel corpo eterico, il quale registra molte impressioni che sfuggono alla nostra coscienza. Per divenire consapevoli delle cause che hanno originato tali inclinazioni occorre, riandando indietro nel tempo, risvegliare interiormente il ricordo di ciò che può averle determinate e sottilmente impresse in noi come tendenza del gusto, dell’istintività, dell’avversione o simpatia. In tal modo si produce anche un grande risveglio della memoria: ci si immette nella corrente della memoria eterica. IL LOTO A sei PETALI (all’interno dell’addome). Tramite esso, si può entrare in intimo contatto con esseri spirituali. Si sviluppa tramite l’armonica cooperazione di corpo, anima e spirito. Deve sorgere la spontaneità del pensare, del sentire e dell’agire immersi nello spirito: incedere senza combattere. Non è bene limitarsi e insistere nel lottare duramente contro una propria inclinazione o tendenza molto pronunciata; se tale difetto è così preponderante, a volte lo si può solo dominare o controllare, ma non annullarlo. Si consiglia piuttosto di nobilitare e sublimare le proprie passioni e istinti, anziché procedere con fustigazioni tendenti al voler tenerli a bada con lotte e rinunce. Occorre divenir capaci di sperimentare la gioia di servire nello spirito e per lo spirito. ALCUNE PARTICOLARITA’ SUL CORPO ETERICO E SUI CHAKRAS. L’intero corpo eterico è sempre in perenne movimento: è percorso da correnti che si muovono continuamente, seguendo la circolazione sanguigna. Il centro, o perno del corpo eterico è da localizzarsi nel Loto del Cuore: tramite esso tutti i processi si trasmettono agli altri centri, recando con sé ripercussioni della sua eventuale imperfezione. Esso è un organo di natura Solare. Nella zona centrale della testa vi è un punto specialissimo in cui corpo eterico e corpo fisico sono congiunti; qui inizialmente si formano le correnti del corpo eterico. Prima di rendere operativo il fiore a 12 petali, nel cuore, occorre predisporre un centro provvisorio nella testa, per rendere possibile uno sviluppo interiore condotto in piena coscienza. Successivamente, dopo aver raggiunto un giusto stadio di controllo cosciente delle attività di pensiero, tale centro dovrà venir trasferito nella sua vera sede, presso il Cuore. Gli esercizi di concentrazione e meditazione hanno lo scopo di attivare tale centro nella testa, per poi far discendere nella Laringe e poi nel Cuore l’attivazione. RIEPILOGO DELLE ESSENZIALI FACOLTA’ DA SVILUPPARE. Facoltà di discernere il vero dal falso. Capacità di valutare il giusto dallo sbagliato. I sei esercizi fondamentali. L’amore per la libertà interiore. CONSIDERAZIONI SULLA VIA INIZIATICA. Durante il cammino Iniziatico può capitare di avvertire una specie di senso di maturazione interiore, di compimento; sentire di essere pronti per qualche cosa.  E’ relativamente facile contemplare l’intero cammino iniziatico attraverso un libro, difficile però realizzarlo con la stessa continuità, puntualità, perseveranza e coerenza nella vita: nella vita non è come nel libro, dove un passo viene descritto uno dopo l’altro; a seconda delle occasioni e delle situazioni individuali ogni passo può svilupparsi prima o dopo, in modo assolutamente non conseguente. L’ESPERIENZA DELL’ NOI’ E LA “CONTINUITA’ DELLA COSCIENZA”. Il corpo eterico è di per sé, un principio spirituale: è connaturato con il tempo, è fatto di sostanza temporale. L’uomo non ha assolutamente alcun potere di interferire o di influenzare le forme pensiero, di sentimento, di desideri o passioni da lui generate. Una volta emanate, queste forme non possono più venire controllate. Durante lo sviluppo occulto, in un primo momento, il sé superiore si pone di fronte al proprio mondo inferiore, il suo Ego.  Si ha la percezione che tutto che era la nostra natura interiore, prende forme che tendono a venirci addosso, incontro dal di fuori. Si verifica un rovesciamento delle immagini, tipico del mondo astrale.  Il praticare esercizi in modo non corretto, disordinato o incosciente, senza essere sorretti da una solida base, potrebbe causare la percezione di queste forme pensiero in forme ossessionanti ed aggressive, quali animali o esseri orridi, traendone terrore e anche possessione. Ciò è la percezione della propria anima: tale evento è però indispensabile e necessario per la realizzazione del Sé superiore. E’ qui che comincia l’esperienza dell’Io. La vera realizzazione del Sé superiore comincia quando, si possa vedere la sua immagine. IL LOTO A due PETALI (Centro frontale). L’ esperienza immaginativa del Sé superiore viene attuata tramite il loto a 2 petali (fronte), il quale illumine gli enti e gli esseri spirituali.  Lo sviluppo del Loto a due petali si consegue tramite lo studio e la meditazione degli insegnamenti della scienza dello spirito, in particolar modo ciò che concerne la gerarchia. Tale facoltà rappresentativa, deve essere coltivata tramite l’immagine interiore dei quadri immaginativi forniti dall’Antroposofia, inerenti all’azione interattiva, passata, presente e futura della gerarchia nel cosmo, in tutto ciò che è rintracciabile come loro impronta. L’intero quadro cosmico dovrebbe venir sentito il più possibile come un panorama simultaneo. A poco a poco la realtà spirituale si sostituirà all’immagine, venendo da questa evocata, facendo apparire veri fatti e veri esseri spirituali. Tutti gli esercizi preparano nella coscienza la sede atta ad accogliere la realtà spirituale da raggiungere: costruiscono quasi la sua immagine, affinché questa possa poi diventare reale esperienza. Si arriva poi alla conoscenza delle proprie ripetute vite terrene: il karma. A questo punto l’anima si è congiunta con il Sè superiore, con la sorgente del proprio essere. Da questo momento il discepolo non torna più indietro perché, compenetrato dal Sé superiore, non sente più l’attrazione di quanto gli è inferiore. LE COMUNICAZIONI AL RISVEGLIO. Durante la vita di veglia, l’uomo si trova davanti ad un mondo incompleto, mentre durante il sonno ha la possibilità di vivere nel mondo delle cause, in una completezza. La coscienza di sonno senza sogni è una forma di conoscenza superiore; una facoltà percettiva corrispondente a quella uditiva. I primi messaggi di quel mondo si percepiscono come pronunciati da sé stessi a sé stessi. Si ha come la sensazione di parlare a sé stessi, di rispondersi, quando in realtà parlano in noi esseri spirituali. Tali sensazioni avvengono al mattino, nel risveglio: sono cenni del progresso spirituale. Prima si sperimenta solo l’impressione di aver ricevuto qualcosa, qualcosa che non si riesce a definire.  Poi, i rapporti con gli esseri spirituali assumono la caratteristica di domanda e risposta; si sente al risveglio una voce interna donante luce e chiarezza alla propria vita interiore e alla vita esteriore. Non è bene sforzarsi di ricordare le esperienze notturne di sogno, ma lasciarle sorgere spontaneamente. A poco a poco queste sensazioni al risveglio, questi messaggi diventeranno sempre più chiari, così da portare nella vita di veglia tutte le esperienze della vita spirituale vissuta durante la notte: si instaurerà la continuità fra lo stato di veglia e lo stato di sonno senza sogni. Una volta stabilita, tale continuità di coscienza verrà portata dal discepolo anche attraverso le porte della morte, e con essa la stessa pienezza del ricordo nella vita fra morte e nuova nascita. Condizione indispensabile per tale realizzazione è la pratica della concentrazione, meditazione e contemplazione. Il discepolo potrà porre delle domande in meditazione, durante lo stato di veglia: riceverà le risposte durante il sonno senza sogni: ciò è l’inizio di un colloquio fra esseri spirituali. Il vero scopo dell’Iniziazione consiste nell’instaurare la continuità della coscienza. Ciò è una mèta assai lontana, ma dirigendosi verso di essa si possono cogliere degli sprazzi di luce che indicano le tappe del cammino e ne danno la certezza. LA SEPARAZIONE DEL PENSARE, SENTIRE E VOLERE. Tale realizzazione pone il discepolo ad esperienze inevitabili, che sono dure e difficili; la liberazione delle tre facoltà umane è assolutamente necessaria per lo sviluppo degli organi spirituali. Sono tre i pericoli in cui si può incombere. Pericolo del Pensare: divenire astratti teorici pensanti, distaccati dalla vita, freddi e indifferenti nei confronti dell’esistenza, che trovano soddisfazione solo nel proprio pensare in solitudine; Pericolo del Sentire: una natura sensuale può sentirsi trasportata in un sentimento di devozione eccezionale, fanatica, in un estremo godimento del contenuto della propria coscienza mistica; Pericolo del Volere: divenire super-attivi, trovando appagamento solo nel modificare il mondo esteriore, lasciandosi dominare e trasportare da altri. LA LIBERTA’E L’INDIVIDUALISMO ETICO. Solitamente le tre forze dell’anima si esplicano in modo immediato, istintivo con un loro habitus personale; il discepolo deve distaccarsi da tale automatismo innato, predisposto in lui.  Il fatto di poter dominare le reazioni e i sentimenti conferisce a tutto l’essere un senso di forza e di stabilità, poiché le emozioni non hanno autorità sul suo equilibrio. L’equilibrio interiore si deve fondare su di una nuova personalità morale, il quale deve conferire al discepolo la coscienza di ciò che deve agli altri, di ciò che deve al mondo spirituale e a ciò a cui deve la ragione della propria esistenza. La Libertà prevede che si sia superato l’egoismo, che si sia raggiunto un tale grado di moralità e di equilibrio da poter cominciare a vivere non più per sé stessi, ma per l’umanità.Il discepolo diviene consapevole di dipendere dai mondi superiori, con la libera decisione di servire la Causa degli esseri spirituali. Solo in tal modo si può parlare di una Libertà pura e vera, che non porti danno a lui stesso e agli altri. IL GUARDIANO DELLA SOGLIA. Solo dopo aver liberato pensare, sentire e volere è possibile accedere all’esperienza del guardiano della soglia. LA SOGLIA. Il liberare le facoltà dell’anima significa assumersi direttamente la responsabilità delle proprie azioni. Avendo liberato il corpo eterico e il corpo astrale dagli automatismi del pensare, sentire e volere, si avvicina l’esperienza del guardiano della soglia: si rende obiettivamente visibile il grado a cui si è pervenuti attraverso gli esercizi. Il guardiano diviene un essere indipendente, al di fuori di noi. Mentre precedentemente si era intessuti con lui, ovvero con ciò che rappresenta cosmicamente il nostro essere, ora si presenta esteriormente la nostra interiorità. I propri moti interiori si traducono nella figura esteriore di questo essere. Il guardiano si presenta all’improvviso, appena i chakras cominciano ad attivarsi: è la prima esperienza soprasensibile. Tale esperienza, può suscitare terrore. Molti, al cospetto del guardiano, che palesa il grado di imperfezione e purezza da noi raggiunto sinora, riconoscono la propria inadeguatezza, la propria immaturità nel sopportarne la visione, quindi retrocedono. Si ravvisano le proprie limitazioni: i difetti assumono un carattere obiettivo. Solitamente questo essere si presenta per la prima volta al risveglio, la mattina, in un momento inaspettato, tanto da suscitare terrore. SIMILITUDINE FRA SPECCHIO E GUARDIANO. Supponiamo che un uomo con il viso deforme, pur sapendo di averlo non abbia mai potuto specchiarsi; quale sarà la sua reazione di fronte allo specchio, quando per la prima volta vedrà la sua deformità? Prendere coscienza della propria figura interiore è l’incontro con il guardiano: egli è noi, che ci appariamo all’esterno. IL GUARDIANO E IL KARMA INDIVIDUALE. Nel guardiano appare il nostro karma; la sua figura riassume il nostro passato vivente con tutte le cause di dolore e gioia. Qualora si trovi la forza d’intrepidezza di guardare in volto il guardiano, da quel momento ci si assume coscientemente la responsabilità di pagare i propri debiti karmici, quasi andando incontro a questi. Ci si accorge che ogni tentativo di evadere o di rimandare il pagamento del proprio karma, provoca un disastro nell’ordinamento spirituale. Ogni mancanza si riflette assumendo forma demoniaca. Occorre assolutamente a cagion di ciò, quali discepoli, superare il sentimento della paura.  Il coraggio di affrontare il guardiano è contemporaneamente il coraggio di prendere il proprio destino nelle proprie mani: dare coscientemente a sé stessi anche ciò che può causare dolore, rinuncia, peso. Smettere di evitare la direzione di vita che offre minore resistenza, per muoversi coscientemente incontro a quanto vi è di più difficile e arduo. Rimandare significa sempre, ritrovare. Il guardiano muterà di forma in modo direttamente proporzionale al nostro adempimento karmico, sino ad assumere figure luminosissime nella misura in cui ci saremo purificati. Fino al momento dell’incontro con il guardiano si ignorano quali e quanti pesi portiamo nel nostro fardello karmico; dopo non si è più gli stessi di prima, dopo aver visto la vera realtà spirituale di sé stessi. Non è più possibile ingannare sé stessi. Finché non si vede e si conosce il proprio karma, non si può dire di essere liberi; solo dopo aver allontanato la guida delle Potenze del karma per prendere noi stessi la responsabile guida di tale compito, solo allora si comprendono le parole. Il Cristo ci ha reso liberi. Ora le forze del Cristo si sostituiscono a quelle del karma. LO SCOPO DELL’UOMO NEI CONFRONTI DELLE GERARCHIE. Bisogna prender coscienza della missione dello spirito di popolo nel quale si è intessuti, il quale conferisce stimoli e impulsi animici che condizionano la nostra vita. Rinnegare il proprio ambiente spirituale, nel quale si è scelto di vivere, è rinnegare la missione di un arcangelo. Il riconoscimento delle intenzioni del proprio Spirito di popolo, e del motivo che ci ha spinti ad incarnaci in tale atmosfera animica, deve portarci a scorgere nel giusto modo cosa vuole dirci la sua forza spirituale, per cogliere appieno la direzione verso la quale dobbiamo spingerci. L’amato deve associarsi a quelle potenze spirituali che guidano sulla terra, nelle nazioni, gli uomini inconsapevoli, verso la stessa mèta che egli cerca oggi lui stesso di conseguire. Il mondo soprasensibile potrà continuare la sua strada soltanto se vi saranno sulla terra esseri capaci di comprendere la direzione. La gerarchia attende qualcosa dall’uomo. E’ la gerarchia umana che deve portare il senso spirituale nella materia. Dopo la morte fisica tutto ciò che l’uomo ha sperimentato durante la sua vita, in seguito alla dissoluzione del corpo eterico e dell’astrale, viene consegnato al mondo spirituale: ciò diviene coscienza del mondo spirituale. (leggenda dell’uomo che dà i nomi alle cose e il nome di “Adonai” a Dio) L’uomo deve portare la coscienza al mondo spirituale, la forza risorgente. Il superamento del mondo sensibile dovrà avvenire, ma i frutti dell’esperienza e i risultati tramite essa conseguiti durante l’evoluzione dell’umano, saranno incorporati dalle Gerarchie nei mondi spirituali. L’uomo nascendo e morendo sulla Terra, genera i germi della vita dell’avvenire: offrendo un nutrimento spirituale al cosmo intero, in modo direttamente proporzionale alle sue azioni pure e feconde. IL GRANDE GUARDIANO DELLA SOGLIA. Tale incontro avviene solo quando il discepolo, dopo aver già sperimentato le regioni spirituali inferiori e stabilito una continuità della coscienza fra veglia e sonno, ha attuato in sé la generazione di nuovi organi del pensare, sentire e volere. L’oltrepassare la soglia del secondo guardiano significa stabilire la continuità della coscienza fra la vita, la morte e la rinascita. La vera libertà è conoscere il proprio karma senza alcun veloe adempiervi in coscienza. All’incontro con il secondo guardiano si palesa una grande tentazione: quella di abbandonarsi alla beatitudine e al godimento procurato dalla possibilità di accedere ai mondi spirituali.Tale tentazione, anche se non detto esplicitamente, sembra essere indotta dagli Asura.  L’unica cosa che può salvare l’uomo da tale seduzione è sentire il dolore del mondo, il silenzio degli esseri umani nel mondo spirituale. Questo tremendo dolore impedisce di accogliere il sentimento egoistico della beatitudine; perché la gioia che egli ora ha, non è condivisa da altri. Se si supera tale ostacolo la liberazione è completa: l’Iniziato partecipa ora attivamente all’opera delle Gerarchie, nella liberazione di tutti gli esseri sulla Terra. La decisione di collaborare con i mondi spirituali porta finalmente l’uomo ad un piano in cui si può dire che la sua volontà ha compiuto tutto ciò che le era stato prescritto dal Principio. Leo. Breno. Kur. Giardino di Maturità , chiamano certi  antichi saggi il luogo, in cui pone piede  l'uomo allorchè gli divengon palesi gli arcani del mondo. Secondo quei saggi in quel  giardino non ci sarebbe fiore, che non recasse il suo frutto, non uovo, che non portasse .a maturità la vita in esso germinante.  Ma come oscure e- pericolose vengono al  tempo stesso descritte le vie che menano  alla «= Porta Stretta », la quale appunto chiu-  de quel giardino. Si assicura, però, che quel-  l'oscurità diviene più chiara del sole e che  quei pericoli non hanno potere contro le  forze di cui ferve l'anima di colui, al quale  queste vie sono mostrate con provvida mano da un “mistico” da un “niziato.” Tutto ciò come puerile concezione di un' e-  poca, in cui nulla si sapeva delle scienze  dei giorni nostri, viene ripudiato dall’ i/lu-  minato, che crede di saper distinguere fra  i vaneggiamenti di una fantasia  brancolante  e le ponderate vedute d'un intelletto “ scier- “i    So ca | oggi  tificamente disciplinato E chi, ciò nonostante, parla oggi di coteste concezioni, può Al star certo di vedere sul volto di molti dei  È , suoi contemporanei un sorriso, se. non di  di : ll sprezzo, per lo meno di compassione.   Ta Eppure, anche oggi, ciò malgrado, ci sono  I alcuni che, come quegli antichi saggi, par-  MAS lano del « rondo dell'anima , e della “ pa-  “N Cuina 7a dello spirito ». Costoro vengono riputati  | fe AMA ì È 3  | persone che parlano di un mondo immagi-  fa nario, figurato loro soltanto dalla propria » Sbrigliata fantasia. Si deplora perfino che essi,  LA in mezzo a un mondo che ha raggiunto  i tanto grandiosi risultati, grazie alla pura e  i, now austera logica, vadano brancolando come eb-  branco ‘@& bri, cui ad ogni momento viene meno la  li sicurezza, perchè non si attengono a ciò  È che esiste “ positivamente ,,.   Ora, che cosa dicono questi edbri stessi  i a codesti contradittori ? Quando si sentono  f arrivati all'alto punto, in cui è loro conferito  il diritto di parlare di sè, allora dalle loro   È labbra si odono uscire le parole seguenti :   È “ Noi comprendiamo benissimo voi, ‘che  dovete essere i nostri oppositori. Sappiamo  che molti di voi sono persone da bene, che  senza riserva si pongono al servizio del  Vero e del Buono; ma sappiamo altresì che Bee a), jr er =>    voi non ci potete capire, fin tanto che pen-  sate come appunto pensate. Sulle cose, delle  quali noi abbiamo da ragionare, potremo di-  iscorrere con voî, soltanto quando vi sarete  presi voi stessi la pena di apprendere il lin-  guaggio nostro. Dopo questa nostra dichia-  razione molti di voi, certo, non vorranno  più oltre occuparsi di noi, perchè crederanno  di aver riconosciuto che al farneticamento  della nostra fantasia si accoppia in noi an-  che un immedicabile orgoglio. Noi però  comprendiamo voi anche in siffatta affer-  mazione e sappiamo al tempo stesso che  dobbiamo essere non già superbi, ma mo-  desti. Per incitarvi a tentare di entrare nel  nostro ordine di idee non ci resta che una  cosa da dire: Credeteci, noi non ricono-  sciamo un vero diritto di parlare delle no-  stre conoscenze se non a colui, il quale sia  capace di sentire con voi ciò che vi co-  stringe alle vostre asserzioni, e che cono-  sca a fondo la forza, la potenza convincente  e la portata della vostra scienza. Colui che  non reca in sè la sicura consapevolezza di  poter pensare ponderatamente, scientifica  mente, come l’ astronomo o il botanico 0  lo zoologo più obbiettivo, costui in fatto di    vita spirituale, di conoscenze mistiche do-  9    e   = e    Re  vrebbe contentarsi di apprendere, e non  già volere insegnare. Ma non ci si frain-  ‘tenda: noi parliamo soltanto di insegnanti,    non di studiosi, Studioso di misticismo può    : divenire chiunque, giacchè nell’ anima di    ogni persona si trovano le facoltà, i poteri  presaghi, che si schiudono al ‘Vero. Il Mi-  stico dovrebbe parlare in modo comprensibile, anche pei più indotti; e a coloro, ai  quali, secondo il grado del loro intendimento,  egli non potrebbe dire un centesimo della  verità, ne dirà ‘solo un millesimo. Costoro  oggi riconoscono questa millesima parte ;  domani riconosceranno la centesima. Tutti  possono essere “ sfudiosi ,, ma “ insegnante ,,  non dovrebbe voler diventare nessuno, che  sia incapace di assoggettarsi alla disciplina  del più austero intelletto e della scienza' più  severa. Sono veri insegnanti di misticismo  soltanto coloro che sono stati precedente-  mente rigidi cultori della scienza, e che sanno  perciò che cosa viga nella scienza. Anche  il vero mistico ritiene visionario, inebriato,  chiunque non sia capace di deporre in qua-  lunque momento il solenne paludamento del  mistico per indossare la modesta tunica del  fisico, del chimico, del botanico “e dello  zoologo »,  sitori ;' con la massima modestia li assicura  ‘che intende il loro linguaggio e che non si  arrogherebbe il diritto di essere un mistico,  se si sapesse ignaro del loro linguaggio. Al-  lora, però, egli può anche aggiungere di sa-  f |pere, e di saperlo come si sanno i fatti della  Ù vita esteriore, che, qualora i suoi Opposi-  ® \tori imparassero il suo linguaggio, cesserebbero di essere suoi oppositori. Egli sa que-   sto come chiunque, il quale abbia studiato  chimica, sa che, date certe condizioni, dal-  l'ossigeno e dall' idrogeno si forma l' acqua.  Che Platone non volesse ammettere ai   gradi superiori della sapienza nessuno che   > mon conoscesse la geometria, non significa  «già che egli facesse suoi alunni soltanto i li  Y T Così parla il vero mistico ai suoi oppo-  A    9  U  L  dotti in geometria, ma significa che quei    suoi alunni dovevano essersi educati alla se-  vera, rigida, ed esatta investigazione, prima  che venissero loro schiusi gli arcani della  vita spirituale. Una tale esigenza ci appari  sce nella sua giusta luce se ‘riflettiamo che    nelle regioni trascendentali viene meno l'elemento di fatto, a cui si saggia e corregge  ad ogni piè sospinto l' investigazione ordi-  naria del mondo. Se il botanico si forma  “concetti erronei, subito i suoi sensi lo illu-    n  conci    Da  (UR IZA minano circa il suo errore. Tra lui e il mi-  stico corre il rapporto stesso che intercede  fra chi cammina su strada piana e chi ascende  una montagna: il primo può cadere a terra,  ma solo in casi eccezionali potrà causarsi  la morte ; all’ altro, invece, questo pericolo  sta sempre dinanzi, E certamente nessuno  che non abbia imparato a camminare può  ascendere una montagna. Poichè ; fatti spi-  rituali non correggono i concetti allo stesso  modo che li correggono i fatti del mondo  esteriore, un pensare rigorosissimo e degno  della massima attendibilità è un ovvio pre-  supposto per l'investigatore mistico.  Quando ci si dà tutti a pensieri siffatti,  si riconosce che cosa intendevano dire que-  gli antichi saggi, allorchè parlavano dei pe-  ricoli che minacciano chi voglia penetrare  negli arcani del mondo. Se alcuno si ap-  pressa a questi arcani con mente indiscipli-  nata, essi determinano nella sua anima deplorevoli disordini. Divengono pericolosi come  una bomba di dinamite nelle mani di un  fanciullo. Perciò da ogni investigatore mi-  stico si esige rigorosamente che la norma-  lità del suo pensare, di tutta, anzi, la sua  vita psichica, abbia saggiato le proprie forze  SE E    attorno a problemi gravi e spinosi, prima  che egli si appressi ai compiti più elevati.  Valga ciò come accenno a quel che il mi-  stico intenda dire, quando parla dei primi  gradi della Iniziazione nelle verità superiori. Moltissimi, i quali reputano di starsi SUI Mrfica    | più alti gradi della cultura moderna, stimano  che sano pensare e misticismo siano due  termini incolta   sano che una illuminata educazione scienti-  fica debba estirpare dall'individuo qualunque |  tendenza mistica. E costoro trovano in par- b cora di tali tendenze chi conosca gli impor»  tantissimi risultati della moderna scienza na-  | turale. Se avesse ragione chi la pensa così,  | si dovrebbe allora, certo, concedere che la  Mistica non abbia nel nostro tempo se non  | piccola probabilità di trovare accesso alle  anime dei nostri contemporanei; giacchè nes-  «suno, il quale abbia intendimento dei biso-  gni spirituali di questa nostra età, può du-  bitare che siano pienamente giustificati i  trionfi della scienza naturale già conseguiti.  e ancora da conseguire in avvenire. Biso- vi MER  Na bilmefite antitetici. Essi pen- K pate    ticolar modo incomprensibile che abbia an)  "fi  LI    Peli so  Naturalistici  itreprimibili do  u + Con una certa tr  ‘ zione cotesti insoddisfatti  <j O  Opère dei mistici, e ]} trovand ciò, I cui le”  oro anime han Sete: ]ì gj affaccia loro ino  Copiosa vena IÒ, di cui il loro Cuore ha bj.  Sogno: una effettiva aura di vita Spirituale! Si  In contatto con e Sa costoro sentono |  Propria Crescere; ivi tr aNo ciò che ] uomo |  eve incessanternente ce  vino! D’    rcare: l’ali  Ta parte, Però, essi sj   Petere ;l ito   diate a    monito: « Bj   ‘formarvi, mediante Ja cie  rale, un pen |  non vj    chiappanuvole vai   monito, l’anima loro sj inaridisce,  econdita , . tò, in fondo all’ an   ogni individuo Verità, e   i che grande maestra dell’uomo è la   ]    mande AIR    Chi potrebbe non dare, per intimo consenso,  ragione al Goethe, allorchè dice che dagli  errori e dalle disarmonie degli uomini egli  si ritira sempre con rinnovato contento, ri-  volgendosi alle eterne necessità della natu-  ra? E chi potrebbe leggere senza incondizionato consenso quelle parole, con le quali    il grande poeta descrive i sentimenti che lo    assalirono in una solitaria meditazione sulle  ferree leggi, secondo le quali la natura forma    le montagne?  Seduto su di un’ alta e nuda vetta, e  spaziando con l'occhio su di una vasta sottostante regione, io posso dirmi: “ qui tu  poggi immediatamente su di un suolo, che    ‘arriva fin giù ai più profondi strati della    terra. In_questo istante, in cui le eterne forze  di attrazione e di movimento della terra    quasi direttamente agiscono su di me, in cui più presso a me aliano e mi avvolgono    gli influssi del cielo, vengo come sospinto  a drizzare l'animo mio a studi più alti sulla  natura.... Così, dico fra me e me, mentre  da questa cima nuda volgo lo sguardo in  giù, così sentesi solitario chi voglia schiu-  dere l'anima propria unicamente ai più pri-  mordiali, più antichi e più profondi sentimenti del vero. Sì, egli può dire a se stesso:   SONG). pe    Qui, sull'antichissimo ed eterno altare, im-  mediatamente eretto sul punto più basso  della creazione, offro sacrifizio all'Essere di  tutti gli esseri. E' pur naturale che questa disposizione  d'animo, per cui si resta reverenti dinanzi  alla grande istruttrice Natura, si trasferisca  sulla scienza ‘che ne discorre.   Non deve esistere antinomia fra i senti-  menti che pervadono l'anima, quando essa  si approssima alle “ austere e profondissime  verità primordiali , circa la vita spirituale,  e quelli che v'irrompono, quando l'occhio si  posa sull'attività costruttrice della natura.   Manca forse intelletto al mistico per co-  testa armonia della natura coi sentimenti più  sacri all'anima umana? Tutt'altro; giacchè  al di sopra dell’altare, sul quale il vero mi-  stico offre i suoi sacrifizi, in ogni epoca,  in cui può spingersi l'indagine umana, stette  scritto a lettere di fuoco fiammante, come  legge. suprema: “ Natura è la grande guida  al divino, e la conscia ricerca umana delle  fonti del Vero deve seguire le orme della  sua recondita, volontà. Se i Mistici seguono questa loro norma  suprema, nessuna antitesi dovrebbe sussi-  stere fra le vie loro e quelle su cui camminano gli investigatori della Natura. E tanto   meno tale antitesi dovrebbe determinarsi in   un'epoca, che tanto deve alla scienza na-  turale.   Per intendere bene quest’ ordine di de  occorre domandarci: “ In che, dune ue  consistere l’ accordo fra la Scienza*fi Lie  e il Misticismo ? E in che potrebbe, invece,  aversi un'antitesi? ,,   Ebbene, l'accordo non può venir cercato |  se non nel fatto che le rappresentazioni che   ci facciamo intorno alla entità dell’ uomo  ‘non siano estranee a quelle che abbiamo in-  | torno agli altri esseri della natura; nel ravvisare, quindi, nel ’opera della natura e nella  — vita dell'uomo uno stesso e unico tipo di  “ ordine retto da leggi ,. L  Un'antitesi, invece, si avrebbe, se si vo-  lesse vedere nell’uomo un essere di specie  "completamente diversa dalle creature natu-  rali. Coloro che vogliono un' antitesi in tal  senso si sbigottirono fortemente quando, più  di 40 anni fa, il grande scienziato Huxley,  informandosi allo spirito stesso della scienza  — naturale moderna, sulla base della somi-  pigliante struttura anatomica, concluse la stretta  parentela fra l’uomo e gli animali supe-  ori con queste parole: “ Possiamo prendere in esame un sistema di organi qual-  siasi; l'esame comparativo di essi nella serie  delle scimie ci conduce sempre a questo me- È  desimo risultato: che le diversità anatomi-  che, per le quali l’uomo è distinto dal go-  rilla e dallo scimpanzè, non sono tanto grandi  quanto quelle che separano il gorilla dalle  altre scimie inferiori. Una. tale asserzione può, però, sbigottire  solamente quando la si riferisca in modo  errato all’ essezza dell'uomo. Certo ne può.  facilmente rampollare il pensiero: “ Ma come  è vicino, dunque, l’uomo alle bestie | , Questa stretta affinità non suscita però nel mi-  stico nessuna preoccupazione , giacchè per  lui ne balza subito anche l' altro pensiero: |  “A quali fini superiori, però, possono ser-  \vire gli organi che ritrovansi nelle bestie,   allorchè sono trasformati in organi umani! »  Il mistico sa che l'occulta volontà della na-  tura muta la percezione animale in percezione umana cofì lo sviluppare in altra forma  gli-organi animali. Egli segue le sicure orme  della natura e ne continua l'operato. Per lui  i l'opera della natura non è punto terminata  con ciò che essa gli ha donato. Egli diviene  un fido discepolo della natura per il fatto  appunto di portarne l’opera a maggiore al-    1  toi    tezza. La natura lo ha portato fino al pen-  sare e al sentire umano; egli, però, non  prende questo pensare e questo sentire come  qualcosa di fissato, d'immobile; ma li rende  capaci di attività superiori. Avviene per opera  della sua volontà ciò, che nell'ambiente na-  turale esteriore avviene indipendentemente  da essa. Gli occhi, come sono ora in lui,  attestano che gli organi visivi sono capaci  di ben altro ufficio di quello che compiono «® ©»  nelle scimie. Così l’ occhio può venir tra-  stormato. Le facoltà psichiche del mistico  evoluto sono, rispetto a quelle dell’ uomo  non evoluto, nello stesso rapporto in cui  sono gli occhi umani rispetto a quelli delle  scimie. Si capisce che chi non è mistico.in- pelende  tende l’anima del_ mistico nella stessa scarsa 64 liel  misura, in cui l’animale può intendere il, mote  pensare dell’uomo. E come alla creatura non  pensante si schiuderebbe tutto un nuovo  mondo, se potesse svolgere in sè la facoltà   del pensare, così il mistico, dopo lo svi-  luppo delle sue facoltà superiori acquista la  visione di un altro mondo. In questo “ altro  mondo ,, egli è “ iniziato ,. Chi_non_ di- Re  »Yiene Mistico rinnega la natura. Ègli non È   a progredire ciò che essa ha prodotto senza   di lui con la propria volontà occulta. Per-    di mati Vella lastare Mor pTa ene dPR ULOPY CELL. PI | Peg) AM e? lug las } "El n fe fest NL  Los ; mid : ni gd ed deli è y  villa mM ni collo i fiat 1a CA  di (ANI it pece  iò egli si pone in contrasto con la natura,    «giacchè questa trasmuta continuamente le   proprie forme: dal vecchio essa crea eterna-   mente il nuovo. Ora, chi, conformemente   %@. alla moderna scienza naturale, crede a que-   sta trasmutazione, crede a questa evoluzione   n) e, ciò nonostante, non vuole trasmutare se   esso , costui riconosce, sì, la natura, ma   A; nella sua propria vita si pone in contradi-   &l-zione con essa. Non si deve soltanto ricenoscere l'evoluzione, si seno ivato Non si   limitino, dunque, le facoltà della nostra vita   ;, col tener conto esclusivamente della nostra   ‘ parentela con gli altri esseri. A chi per edu-   cazione mistica diviene un fido alunno della   natura, si schiude il senso per la superiore  evoluzione.   A proposito di questi cenni sulla Mistica   e sulla /riziazione molti diranno: Ma che   ci giova questo discorrere di facoltà a noi   sconosciute! Dateci queste facoltà, e vi cre-   deremo ! ,. Nessuno, però, può dare a un   altro cosa che questi rifiuti. E il più delle   volte ciò che incontrano i nostri mistici è   . un brusco rifiuto. Al presente essi non pos-   sono fare. molto .di più che raccontare le   loro cognizioni mistiche a quelli che vo-   gliono prestare ascolto. Ciò , naturalmente n nt x  IE RAIPAT cn    potima tl — 29    C j Pa ENTI OT  le ero Art 1 er? che,  I, , a . = ì” \ wr    / a) i e. e 7  pederntdt    hern ci tCAns4- 1 È   à a tutta prima un volersela cavare col  RE ce raccontare che cosa c'è in America  a chi ci dicesse: “ Ajutatemi ad andarci! ,,.  Ma pare, non è realmente una scappatoja,  perchè i processi dello spirito sono diversi  da. quelli fisici Molto tempo prima che  l'uomo sia in grado di fissare la verità im  piena luce, egli ha la possibilità di intrave-  derla, e di accoglierla nel suo sentimento.  E questo sentimento stesso è una forza, che  lo può condurre più avanti. E' questa una  fase per cui è necessario passare Chi segue  con ricettivo abbandono la narrazione del  Mistico, già calca il sentiero che mena alle    verità superiori. Solo l' Iniziatof'comprende  completamente l’Iniziato: ma angie per  vero rende anche il non iniZiato ricettivo  alle parole del Mistico. E questa sua ricet-  tività è strumento con. cui egli lavora a schiu-  dere i propri organi mistici. Ciò che prima-,  mente occorre è che si abbia questo senso |  della possibilità di conoscenze superiori: al- |  lorà not si passa più incurantemente ac-  canto alle persone che di queste conoscenze  superiori tengono parola.   E' stato già detto che anche al presente  ci sono persone che si adoperano a rinno-  vare la vita mistica.    Up irene Kona    diteou@    crt    u  pe ud)    fasi cl    fa ine piftae 1 Om? eudere } fnmmale    tri rautwews i E    Qui vi voglio intrattenere di due esempi  di tal genere, cioè del libro “ // Cristiane-  simo esoterico, (o i Misteri minori) ,,, di  Annie Besant, (1), e su “ / grandi Iniziati »   el geniale pensatore e poeta francese Edoardo  Schuré (2). Ambedue queste opere gettano  luce sulla natura della così detta Iniziazione.  Annie Besant, mostra come il Cristianesimo  debba venire compreso quale risultato di  codesta Iniziazione. Edoardo Schuré tratteg-  gia le figure dei massimi duci spirituali della  umanità, fondandosi sulla convinzione che  le grandi confessioni religiose e le grandi  filosofie cosmologiche da quei duci dispen-    sate all'umanità, celano verità eferne, che si  possono cercare e re soltanto in  quelle dottrine filosofiche e religiose. Ambedue queste opere trovano la propria  giustificazione unicamente nel campo del Mi-  sticismo. Esse traggono la loro origine da  quella corrente spirituale dei tempi nostri,  che è destinata ad elevare l'umanità da un  incivilimento puramente esteriore all'altezza  Traduzione Italiana di D. e O. Calvari, Roma,  1904,   (2) Traduzione Italiana edita da G. Laterza, Bari, suh Tor ella Vea dii Conti |  RA    fOdeth4, nu pori? IU)    di vedute spirituali. Verrà tempo, in cui il  “pensiero scientifico,, non potrà più contrapporsi _ostilmente a questa corrente. La scienza naturale riconoscerà allora che non si comprendé lo spirito col.negarlo , e che  | non si contr lle leogi naturali col_cer-  re Treo © x iii dpi  uelle spirituali. Non si designeranno  iù i Mistici come oscurantisti , giacchè si  saprà che soltanto pei loro avversari il campo  di cui essi ragionano è oscuro.  E non s'irriderà più l' Iniziazione, come i  non si irride l'esigenza, che chi vuole inda- pla 2    gare la vita dei microrganismi deve prima 4, tyoex94    imparare a userei. microscopio. | "I vv trvalta  L'indagine implica la necessità di adem- ' 3    piere a certe condizioni preliminari. Queste  P** ic;  condizioni per l'aspirante mistico non con-  sistono , naturalmente, in pratiche di tecni- |  cismo esteriore, bensì na osservanza di  un determinato orientamento della..vita si- È  ‘ chica. Grazie a tale A si dischiude Tide  il senso per certe verità, le quali non con-  templano ciò che è FARA, ma ciò, di, A  cui, secondo le parole de Goethe “ ib.tran-\  itori v Bi n_simbolo ». In_s sid | oe  alla esistenza umana giacciono capacità,su- |  CRA i GIONO CA  \periori, come il frutto giace.in grembo al  fiore. E perciò nessuna creatura dovrebbe  TI YOMOMono wu € 0kL Lia  UT E E I ipa  ln Leno el muyert Sace    caprata farvi vtuel' fa P even   ord  LISI    (NE presumere di dire che “ nel suo mondo vi  i è qualche cosa di esauriente, di compiuto ».  Il Se un uonio ha tanta presunzione, assomi-  i glia al verme che ritiene_come orizzonte  i | della esistenza il mondo dei suoi sensi.   li —_ * Giardino di maturità » Chiamasi quel  IR luogo, dove divengono palesi gli arcani del  mondo. Per accedere a tal luogo bisogna  tI che l’individuo stesso. tenda la sua volontà  AU x al raggiungimento della propria maturità.  Ù" qultan Vé“ Bisogna che tu rompa e getti via da te  È, È quse: Vle 1 gusci del tuo essere quotidiano, e svegli  |   see $ ÎN te la vita intima nascosta, se vuoi en-  n trare per la “ Porta stretta » Nel “ Giardino  È di maturità ,.  TAR Come molti uomini insigni, anche il  p Goethe espresse numerose verità dalla pro-  fonda vena del suo intuito , enunciandole  non già in diffusi e circostanziati discorsi,  bensì in brevi e spesso enigmatici accenni.  sr Uno di tali accenni è in questo periodo:  dg “ Nelle opere dell’ uomo, come in quelle  n e della Natura, sono le intenzioni, che meri-   / tano specialmente la nostra attenzione ,,.   E' questo un aforisma che verrà com-  preso in tutta Ia sua profondità quando lo  Î si applichi ai più importanti fenomeni della  vita spirituale umana. Giacchè, come possiamo acquistarci senso e comprensione per  le azioni di un singolo individuo soltanto  quando ne veniamo a conoscere le_inten-  zioni, così ci accade anche per la storia del-  l'intiero genere umano. Ma che abisso intercede fra l' osservazione degli atti che si  svolgono palesemente alla luce del giorno,  e il riconoscimento delle intenzioni che giac-  ciono nelle regioni occulte dell'anima! Si  può essere addirittura rudimentali quanto a  intuito e a intendimento rispetto ‘a un altro  uomo, ed essere tuttavia capaci di osser-   varne le azioni; ma bisognerà avere almeno  un po' delle sue qualità di spirito e della sua  levatura psichica, se si vuole penetrarne le    intenzioni. Senza di ciò la sorgente del suo !    agire rimane un arcano, un enigma, alla cui  soluzione ci manca la chiave, Non accade  diversamente con i grandi fatti della storia  spirituale dell'umanità. Questi fatti stessi son  lì aperti davanti agli occhi dello storico; ma  le intenzioni giacciono in profondità molto  recondite. In queste profondità deve pene-  frare colui, che vuol procurarsi la chiave per  la comprensione. Orbene, l'iptenzione di un’a-  zione giacerà tanto più profondamente re-  condita, quanto più questa azione avrà im-  portanza e quanto più ampia sarà la sua portata. L'intenzione di un atto della vita  quotidiana non è difficile a penetratsi. Ma  non può essere così, naturalmente, di azioni,  la cui portata abbraccia una serie di secoli.  Chi a ciò pon mente giunge a presentire  che cosa siano i Misteri: giacchè in cotesti  Misteri sono riposte le irzfezzioni dei grandi  fatti dell’ umana evoluzione, involgenti il  mondo intero nella loro portata. E coloro  che conoscono queste intenzioni e posseno  con ciò conferire alle proprie azioni stesse  \ quel peso che le rende realmente efficaci per  lunga serie di secoli, sono gli /niziati.  Solo chi nella storia del mondo scorge  unicamente una mèra successione di casi  fortuiti, può negare l'esistenza dei Misteri e  degli Iniziati. In tal caso non c'è che da  attendere che un uomo siffatto si ponga un  bel giorno a studiare con occhio amorevole  i fatti della storia. Allora un po’ per volta  albeggerà al suo sguardo un significato, un  nesso, ed egli finirà per non più conside-  rare Tortuiti quei fatti storici, come non con-  sidera automa un individuo che veda muo-  versi ed agire. Giungerà così nella sua in-  vestigazione là, donde gli Iniziati dirigono  il progresso umano, secondo le conoscenze  the sono avvolte nell'ombra dei Misteri. AA vila AATZzat fer, i 40 dad    x x £ > it  hu v da ORI ig tivfeco Vellar11W; 7 Di cotesti Misteri parlano i testi religiosi  di tutti i tempi. E ad essi vengono condotti  coloro, che non si fermano alla vita estrin-  seca dei fondatori delle varie religioni , nè  alle vicende storiche del propagamento delle  loro dottrine; ma che, invece, cercano di  elevarsi_alle intenzioni di quei fondatori di |  religioni. Non dovrebbe eccitare stupore il  fatto che queste intenzioni rimangano avvolte in arcana oscurità e vengano comu-  nicate soltanto a degli eletti entro le scuole  di sapienza, che sono appunto i Misteri;  giacchè si fa opera saggia solo quando a  un individuo si comunica ciò che egli può  capire, o, con altre parole, quando gli si  comunica qualcosa, soltanto quando egli si  sia messo in condizione di capirla. Per compiere azioni che abbiano peso e valore occorre possedere un’alta sapienza, e per ap-  propriarsi un'alta sapienza bisogna passare  per un periodo lungo e arduo di prepara-  zione. Così avviene nei Misteri.   L’ evoluzione spirituale dell'umanità pro-  cede innanzi per opera delle varie religioni  e cosmologie. Chi coopera a questa evoluzione mette in movimento le forze spirituali  degli uomini. Bisogna che egli conosca le  leggi da cui dipende questo movimento,  DE: pri    come deve conoscere le leggi della chimica   chi vuol mescolare le sostanze con effettuale  risultato. Néi Misteri vengono insegnate le .  leggi supreme della vita spirituale; viene insegnata la chimica dell'anima. E bisogna   cercare di penetrare nella natura di queste   leggi, se si vogliono sorprendere , o anche  solo presentire, i moventi che stanno alla i  A base delle azioni dei grandi Istruttori della   umanità.   All'unisono con tutti coloro che cercano   di schiudersi per tale visione gli occhi spi-   rituali, Annie Besant parla nel suo libro « 7/   Cristianesimo esoterico, (0 I Misteri mino-   ré) », di un “ lato occulto delle religioni , A lea Nell’analisi dei mistici arcani del Cristiane-   1% simo, del così detto suo contenuto esoterico,   ne. essa luminosamente si addentra e trascina.   d il lettore nell'intimo della questione relativa  sperato! scopo delle religioni. ‘a questo pro- |  Posito l'autrice così scrive :..... “ Esse ven-   gono date al mondo da uomini più saggi    delle masse etniche , alle quali le religioni  Stesse sono dispensate e hanno appunto lo   Vedi pure «Il Cristianesimo come fattore mistico » di Rudolf Steiner. (Deposito presso l'Ed. Bem- 7  porad, Firenze).    Lolo scrullo du fevomeri    sia Pe i  Dul th h Ha DI ire  _ eSleeml J  > Uibftsore » Sé Lap de  scopo di accelerare l'evoluzione dell'umanità.    Per conseguire ciò effettivamente esse deb- di  bono giungere fino agli individui e avere in-  fluenza su loro. Orbene, gli uomini non sono î  tutti allo stesso livello di evoluzione, anzi i  l'evoluzione potrebbe venire rappresentata  come una scala ascendente di gradi, su ognuno       asLelo api    dei quali si trovano uomini. I massimamente  evoluti stanno di un gran tratto più su dei  meno evoluti, sia in intelligenza che in ca- A  rattere; ad ogni grado varia la capacità di 4  .. comprendere egualmente che quella di agire. }  E' perciò vano dare a tutti ii medesimo in- FE  _ segnamento religioso; quel che gioverebbe  all'uomo d'intelletto resterebbe inintelligibil  all'uomo ottuso, laddove ciò che leverebbe e  in estasi il santo lascerebbe del tutto indif- Ì  ferente il delinquente...2 LE  La religione deve essere graduata con l’e- =  voluzione, altrimenti essa manca al suc scopo SI  UGANB: Es. Chr.): ;  Il modo, dunque, in cui il maestro di re- :  ligione parla a uomini di grado evolutivo i -  . diverso, dipende dai bisogni dello spirito e (1  . del cuore di coloro, ai quali egli vuol giun- N  | gere. Per riuscirvi bisogna che egli stesso  | porti nell'anima propria il nocciolo della sa- "i  | pienza, per mezzo della quale egli ha da  START.    agire; e il modo come egli porta in sè que-  sto nocciolo deve essere tale da renderlo  capace di parlare ad ognuno secondo la sua  comprensione. Perciò chi studia i discorsi  degli Istruttori religiosi dal loro lato este-  riore, conosce soltanto un lato e precisa-  mente quello più estrinseco della loro sa-  pienza. Acutamente accenna a questi fatti  Edoardo Schuré nel suo libro sui “ Grandi  Iniziati ,. Ivi egli descrive i grandi Maestri  di sapienza: Rama, Krishna, Ermete, Mosè,  Orfeo , Pitagora, Platone, Gesù, da quello  investigatore intuitivo, da quel nobile artista  dei pensiero, da quell'anima satura di pro-  fondo sentimento religioso ch’ egli è. Così  nell'introduzione al libro egli espone il suo.  modo di vedere :   “ Tutte le grandi religioni hanno una sto-  ria esteriore ed una interiore; l'una visibile,  l'altra nascosta. Per istoria esteriore sono da  intendersi i dogmi & i miti pubblicamente  © insegnati nei fémpli e nelle” scuole, ricono-  sciuti nei culti e nelle superstizioni popolari.  Per istoria interiore è da intendersi la scienza  profonda, la dottrina segreta, l’occulto agire  dei grandi Iniziati, profeti o riformatori che  hanno istituite, sorrette e propagate le reli-  gioni predette. La prima la storia ufficiale, quella che si legge dovunque, si svolge alla  vista di tutti, ma non per questo è meno  oscura, complicata, contradittoria. — La se-  ‘conda, che io chiamo la tradizione esote- |,  rica, o dottrina dei misteri, è difficilissima €  Î a districare dai veli che l’avvolgono. Essa  infatti si svolge nei penetrali dei templi, nelle  segrete confraternite, e i suoi drammi più  appassionanti hanno intieramente per iscena  l’anima dei grandi profeti, che non hanno  mai nè fissato in pergamena, nè confidato  ‘a nessun discepolo le proprie crisi più acute,  o le proprie estasi più paradisiache. Questa  seconda storia vuole essere indovinata, ma  non appena si è scorta, apparisce luminosa,  organica, sempre in armonia con se stessa.  Potrebbe essere anche chiamata la storia  della religione eterna e universale. In essa  le cose mostrano il loro rovescio e la co-  scienza umana il suo diritto, mentre la sto-  ria non ne offre che il faticoso rovescio. In SD  questa seconda storia cogliamo il punto ge-N  netico della religione e della filosofia , che si ricongiungono all’ altro capo dell' ellisse 9/8,  per mezzo della Scienza integrale. Cotesto \T}  unto è costituito dalle verità trascendenti. N  vi troviamo la causa, l'origine e il fine del tene  prodigioso lavoro dei secoli, l'azione della  RES 1; RARO    provvidenza mediante i suoi agenti terre-  stri. ,,   Questi “ messaggeri terreni , lavorano  nell'officina Spiritualistica, nel laboratorio spi-  ritualistico della umanità. Ciò che li abilita  a questo lavoro sono le leggi imperiture della  chimica spirituale ed i processi chimici spi-  rituali che esse operano: vale a dire i grandi  prodotti intellettuali e morali della storia del  mondo. Ma ciò che fluisce dalle loro labbra  è soltanto simbolo, immagine della sapienza  superiore dimorante nella profondità delle  loro anime, immagini e simboli proporzio-  nati all'intendimento di coloro, che ad essi  porgono orecchio. Soltanto a coloro che  adempiono alle condizioni, che garantiscono  la comprensione e il “ reffo uso » della sa-  pienza superiore, questa può venire dischiusa.  E allora. nella Iniziazione mistica sentono  l'immediato contatto coi primordiali motivi  spirituali, con le potenze genitrici della esi-  stenza.   Ascoltisi ciò che dice un uomo tutto com-  penetrato di siffatti sentimenti: Clemente  Alessandrino, lo scrittore cristiano del 2° e  3° secolo della nostra èra , il quale prima  del suo battesimo fu un “ Misto ,, ossia  A EE  un alunno dei Misteri, esalta questi con le  seguenti parole :   “O veramente santi Misteri! O puris-  sima luce! Una face viene portata dinnanzi  a me allorquando rimiro il Cielo e Dio; io  sono santificato, allorchè ricevo la consacra-  zione. Gli arcani però .me li rivela lo spi-  rito primordiale e suggella in me l’Iniziato  con l'illuminazione; iniziato nella Fede mi  presenta al Tutt'Uno, affinchè io vega ser=  bato in grembo all’eternità. Tali sono le ce-  rimonie iniziatiche dei miei Misteri! Se tu  vuoi, fatti iniziare tu pure, e con le forze  spirituali dell'esistenza tu chiuderai la santa  carola attorno all’ increato, all'imperituro, al  tutt'uno spirito dei mondi, e la favella che  a te dal Cosmo viene inspirata intonerà  gl'inni di lode a questo Tutt'Uno ,..   . Si comprende la descrizione che fa Annie  Besant dei Misteri, se si riflette che gli Ini-  ziati devono parlare di sè come lo fa Cle-  mente Alessandrino con le parole suriferite:  “I Misteri d'Egitto, continua l’autrice, erano  il vanto di quella vetusta contrada e i più  nobili figli della Grecia, come ad esempio  | Platone, andavano a Sais e a Tebe per farsi  | iniziare nei Misteri dai maestri della sapienza  | iniziatica egizia. I Misteri Mithriaci dei Per. IDO. JIA    siani, i Misteri Orfici e quelli Bacchici, e  i posteriori pseudomisteri di Eleusi in Gre-  cia, i Misteri di Samotracia, della Scizia,  della Caldea, sono universalmente noti, al-  meno di nome, come le parole d'uso fami-  liare. Persino nella forma estremamente at-  tenuata dei Misteri eleusini il loro valore  viene altamente magnificato dai più eminenti  uomini della Grecia, come Pindaro, Sofocle,  Isocrate, Platone e Plutarco ,,. (1). E nei  Misteri non si mira soltanto all’ ampliamento  del sapere, alla sola spiegazione di cose  ignorate, ma alla elevazione di tutta la na-  tura umana, di modo ch’ essa si compene-  tri di quella “sacra disposizione iniziatica,  che pone in grado di comprendere le fonti  e principi del Cosmo. Il mistico non solo  conosce le cose superiori, ina oltre a ciò la  sua propria natura si fonde con esse. Egli  deve quindi essere preparato al fine di po-  tere accogliere come si deve le fonti di ogni  vita che in lui affluiscono. Appunto nel no-  stro tempo, in cui si vuol riconoscere come  attendibile soltanto ciò che è scientifico in  senso materiale, diviene difficile il credere  che, circa le cose supreme, quello, che im-  V. Esot. Chr. pag. 21, a    porta veramente è una disposizione d° a-  nimo. Per tal modo si fa della cognizione  un fatto intimo dell'anima umana: e tale  essa è per il Mistico. Si dica a qualcuno  la soluzione di tutti gli enigmi del mondo:  Il Mistico troverà sempre che una siffatta  esposizione è vuota risonanza, che sfiora l'o-  recchio e svanisce, se |’ anima non. è stata  prima preparata ed innalzata ad un livello  superiore ; egli troverà che il sentimento non  ne resta affatto toccato, se non è staîc di-  sposto a sentire l'accoglimenio della sapienza  come un “ Sacramento ,. Solo chi intende  ciò conosce |’ atmosfera spirituale dal’ alto  della quale discendono certe espressioni del  Mistico, come quelle di Filone: « Sovente,  allorchè mi_riscuoto dal sopore della corpo-4%  reità_e rientro in me, distogliendomi dal  mondo esteriore, e penetro dentro me stesso, .  scorgo una mirabile bellezza ; allora io sono  certo di essermi internato nella parte mi-  gliore di me; metto in attività la vita vera,  sono unito col divino e in lui fondato, e  conseguo la forza di trasferirmi nel mondo  trascendentale. Quando, poi, da codesta contemplazione dell’ Altissimo, e dopo questo  riposo nell’ elemento spirituale del mondo,  discendo nuovamente alla consueta formazione di pensieri, allora mi domando come  potè avvenire che l’ anima mia si impigliasse  nel vivere quotidiano, posto che la sua pa-  tria è pur quella dove testè mi sono sof-  fermato ! “ — Chi sa quale grado di puri-  ficazione del sentimento e della funzione  intellettiva sia necessario per arrivare a sen-  tire così conosce anche le ragioni per cui  la sapienza mistica, la sapienza consacrata  non può essere oggetto della vita consueta  quotidiana, nè dell’ insegnamento ordinario,  nè dei documenti della storia esteriore; e  perchè essa stia chiusa nell'anima dei divini messaggeri e debba costituire, come  dice Schurè, il riservato oggetto della  iniziazione in fratellanze appartate. Ma, quantunque questa immediata comprensione della  verità rimanga un fatto d’ insegnamento del  tutto intimo, pure tutti gli uomini parteci-  pano dei benefici della sapienza. Come i  benefici delle ferrovie elettriche ricadono su  tutta la popolazione, pur restando monopolio    degli elettrotecnici la conoscenza delle. leggi  Pe così avviene, quanto ai frutti,  ella efficacia e della sapienza dei Misteri,  E come il beneficio delle cognizioni tecni-    che si traduce nelle istituzioni esteriori della  civiltà. così quello della sapienza dei Mistici si esprime e distribuisce nel contenuto  spirituale della vita dell'umanità: cioè nei  suoi miti, nei concetti informatori delle sue  credenze e delle sue religioni, nel suo mondo  di leggende e di fiabe, non solo, ma altresì  nelle sue idee di morale e di diritto, e da  ultimo anche nella sua attività artistica, nelle  sue scienze e nelle sue filosofie. Il Mistico  mostra «che la sapienza più profonda della  umanità è la radice di tutti questi vari con-  tenuti della vita, rendendosi ben conto che  essi tutti possono trovare la loro vera spie-  gazione soltanto in quella sapienza. Clemente Alessandrino parla del fatto che un uomo può avere la fede seriza posse-  dere eru Izione ,, ma al tempo stesso pro-  clama essere impossibile che un uomo senza  sapienza comprenda gli oggetti che vengono  spiegati nella fede , (v. Besant, Esot. christ.).   Ogni Mistico conosce questo vero rapporto fra Fede re e sa che tra i  due non può esistere contraddizione j ma  anche alla Mistica egli può fare riconoscere  valore unicamente sulla base della vera scien-  za. Anche di ciò parla Clemente. Alcuni che si ritengono favoriti da na-  tura, non desiderano di occuparsi nè di filosofia, nè di logica; anzi essi non deside-  rano di studiare e imparare la scienza na-  turale; essi richiedono nuda fede soltanto. Io, pertanto, chiamo dotto veramente colui  che tutto mette a contributo per la verità,  così che traendo dalla geometria e dalla mu-  sica, dalla grammatica o dalla filosofia stessa,  ciò che è utile, difende la fede da ogni assalto. Quanto è necessario per chi desidera par-  tecipare dei poteri di Dio il trattare filosoficamente soggetti intellettuali! Lo gnostico (Mistico) si vale del rami  dello scibile vene di esercizi ausiliari vreparativi. (A. B. Es. Chr.). Chi ha colto questo profondo accordo della  Fede col Sapere si trova costretto a rile-  vare sempre di nuovo una caratteristica pe-  culiarità della nostra civiltà moderna, la quale  ha invece scavato un abisso tra Fede e  Scienza.   E. Schurè accenna a questo abisso fin dai  periodi introduttivi del suo libro :   “Il peggior male del nostro tempo è il  mostrarsi la Scienza e la Religione come  due forze nemiche e irreducibili. Infermità  intellettuale questa tanto più perniciosa in  quanto che deriva dall'alto e furtivamente s' infiltra, ma sicuramente, in tutte le mem-  bra, come un veleno sottile che si respiri  nell’ aria. Orbene ogni infermità dell’ iritelligenza diviene a lungo andare infermità  dell'anima e in conseguenza un male so-  ciale.   “« Fintanto che il Cristianesimo non fece  che affermare ingenuamente la fede cristiana in  seno a una Europa ancor semibarbara, come  era nel medio evo, esso fu la più grande  delle forze morali, e ha plasmato l’anima  dell'uomo moderno. Fin tanto che la scienza  sperimentale , apertamente ricostituitasi nel  secolo 16°, non fece che rivendicare i legit-  timi diritti della ragione e l’ illimitata sua  libertà, essa fu la più grande tra le forze  intellettuali; essa ha cambiato faccia al mondo, liberato l’uomo da secolari catene, e  fornito la mente umana di fondamenta in-  crollabili,,.   Non meno energicamente Annie Besant  accenna a questa peculiarità della civiltà  spirituale moderna. Per ognuno che studi l’ultimo imme-  diato quarantennio del secolo passato è chiaro  che persone meditative e morali sono in gran  numero esulate dalle chiesé perchè gl’ inse-  gnamenti che vi ricevevano urtavano, offendevano la loro intelligenza e il loro senso  morale.   E' vano pretendere che l’agnosticismo così  ue. largamente diffuso in questi tempi abbia ra-  : dice solo nella mancanza di moralità o in  È; una deliberata involuzione della mente. Chiun-  A que attentamente studi gli esposti fenomeni,  ammetterà che uomini di forte intelletto sono  stati allontanati dal seno del Cristianesimo  per via della rude goffaggine delle idee re-  ligiose loro presentate, delle contradizioni  negli insegnamenti delle varie autorità, nelle  vedute circa Dio, l'uomo e l’universo, idee  n che nessun intelletto colto e metodicamente  ; disciplinato potrebbe di leggeri accettare ».  a (A. B. Cris, esot.).   Alla domanda: “ Che cosa è da farsi in  questa direzione ? , Annie Besant risponde  inspirandosi alla veduta che anche la radice  del Cristianesimo giace in una sapienza oc-  culta e che la Fede deve, quindi, per sus-  I sistere risospingersi a questa radice:   “ Se il Cristianesimo vuol continuare a vi-    i co vere, deve ricuperare il sapere che ha e ria-  d | vere la propria Mise € l propri insegna-  sd cculti; deve di nuovo erigersi come. un istruttore autorevole di verità spirituali,  ma rivestito della sola autorità meritevole .. Me, ù   Mes    di essere alquanto apprezzata, l' autorità,  cicè, della conoscenza. Se questi insegna-  menti ‘verranno recuperati, la loro influenza  sarà subito constatabile nelle più ampie  e più profonde vedute che si avranno circa  la verità, dogmi che ora sembrano meri gusci ed impacci, saranno riconosciuti subito  quali parziali presentimenti di realtà fonda-  mentali. In primo luogo il Cristianesimo  esoterico riapparirà nel /uogo santo, nel Tem-  pio, così che tutti i capaci di riceverlo pos-  sano seguirne le linee di pensiero palese, e  secondariamente il Cristianesimo occulto ridiscenderà nell'adito celato dietro la Cortina  che custodisce il « Sancta Sanctorum , in  cui può entrare l’ iniziato soltanto. (A. B.  Es. Chris.).   Mediante il senso della vista l'uomo per-  cepisce la natura con cento e cento sfumature di luce è di colore. Sono i raggi della  luce solare che, riverberati dagli oggetti, ne  determinano gli aspetti cromatici variamente  sfumati. Sebbene per tal fatto la percezione  della luce solare sia una funzione abituale  dell'occhio, tuttavia questo non può impunemente fissare la fonte stessa de a luce:  Sole; esso viene accecato dal contatto im-  mediato, diretto, dei raggi solari. Ciò che   ‘ 0°    néi suoi effetti è adeguato al compito quo-  tidiano dell'occhio, dà occasione a una sof-  ferenza, quando, come causa in sè, colpisce  l'organo sensorio. Chi sa applicare nel giu-  sto modo questa immagine alla vita spiri-  tuale dell'uomo, comprende perchè “ coloro  che sanno » parlano di “ pericoli» della  Iniziazione ai Misteri. Cotesti pericoli esi-  stono innegabilmente; se non che, chi ne  parla non va preso alla lettera, interpretando  la parola « pericoli ,, nel senso usuale. La  intelligenza e la ragione umana sono tanto  poco assuefatte a riconoscere le fonti del  vero nel complesso totale del mondo, quanto  poco è capace l'occhio di fissare direttamente  il Sole. Come l'occhio sente a sè rispon-  denti gli effetti delia luce, così intelletto. e  ragione sentono a sè rispondenti gli effetti  della sapienza eterna nei fenomeni della na-  tura e nel decorso della storia degli uomini.  Ma come l'occhio viene meno. di.fronte.alla    sorgente stessa della luce, così l'intelligenza umana” vigne meno dinanzi alle fonti pri-  mordiali della sapienza. Questo umano inten-  dimento nel subito arretra, rinuncia. Or bi-  sogna assimilare nel debito modo ciò che  allora succede nell’ uomo , al fatto dell’ ab-  bacinamento chel’ occhio.subisce dal sole. veg 3 fer: Poichè l'uomo è assuefatto a scorgere nella  Natura e nell'attività dello spirito soltanto  il riflesso della Verità, e non questa imme-  diatamente , egli viene meno di fronte alla  verità stessa, quando questa gli si presenta.  Avvezzo a cogliere soltanto la realtà grossolana, che quotidianamente I prnia, l'uomo  sente le manifestazioni della sapienza supe-  riore come illusioni, come costruzioni di una  fantasiosità irreale: esse non gli possono dire  nulla, sono per lui come forme aeree che  svaniscono quando egli le vuole afferrare,  così come è solito afferrare gli oggetti della  realtà consueta. Questa lo avvince a sè con  mille lacci; ciò che essa gli può promettere  egli lo conosce, lo ha imparato ad apprez-  zare in mille modi. Chi qui vede giusta-  mente, comprende che cosa intendano dire  le leggende religiose quando parlano del  Tentatore, che promette tutte le magnifi-  cenze di guesto mondo a coloro, i quali vo-  gliono intraprendere il sentiero della illumi-  nazione superiore. Se noh è risvegliata in.  loro la forza di resistere a cotesto Tenta-  tore, essi cadono inesorabilmente in sua balia. Con ciò si accenna a quel che s'intende  per “ pericoli della soglia ,, che occorre  varcare, se si vuole calcare il “ sentiero,  della sapienza. Niuno può giungere a que-  sto sentiero se non intende valersi dell’ oc-  chio spirituale, dell'intelletto e della ragione,  diversamente da come vengono adoperati)  nella vita quotidiana. L'uomo deve porre il  piede sulla soglia come un trasmutato, come  "°° uno, il cni°occhio spirituale è stato raffor-  zato; ed è singolarmente difficile nell’ età  nostra attuale rinvigorire così.quest'occhio,    x giacchè appunto dalla nostra scienza esso  viene rivolto o a.ciò che è concreto  li tangibile. Per compiere le sue conquiste  nel campo delle forze naturali esteriori que-  , sta scienza dovè rendere quest'occhio cieco  alle potenze spirituali dell’esistenza. Non si  fraintenda tutto ciò, prendendolo per un  rimprovero! Chi vuol comprendere il mec-\l  canismo di un orologio non ha certo biso» i}  gno di risalire con l'indagine fino ai pen-/!   ). sieri dell’ inventore dell’ orologio ; egli può   mM bene attenersi a quanto ha imparato dalla   [RUN fisica; può comprendere l’ orologio dal suo   stesso meccanismo. a nessuno può com-   preridere come le forze e le cose che coo-   perano nell’ orologio siano state originaria-   mente combinate, se non va in traccia dello   | spirito che le ha combinate e non indaga   le ragioni per cui esse sono state così com-  f frze   Tmnon © SEXI ma ) fe   | fa meda; meo N el Mm NK ke  -- bt re e  € o’    uc gi Riti fet rextore9 Lo fel #0    A 0 è MT, ui gno PEA Vs. b- parte “li (a  È Logan Foe. SP RTTO el ppartnzs    ti dae  binate. Il naturalista può comprendere giu-  stamente la Natura solo se in lei stessa ri- le  cerca anzitutto le forze con cui essa opera. Se afferma che queste si sono combinate | ® cudl  da sè, assomiglia a colui che non si perita Y0Me flat  di pensare che un orologio si sia conge-  gnato da sè. S izione-è non il A | lo spirito Ge Le cose, bensì il trasferirlo  alla cieca me/le cose stesse. Superstizioso è,  non colui che cerca l'inventore dell’ orolo-    gio, ma colui che nell’orologio stesso im-  magina ‘uno spirito , il quale manda avanti Π le lancette. Soltanto quando in questo modo ||  sî fraintendono coloro che vanno in traccia  dello spirito dell'esistenza cosmica, si può  metterli in un fascio con quelli che a buon  diritto sono accusati di superstizione e che  cen altrettanto buon diritto vengono oggi  riguardati come turbapace, perchè compro-  mettono i “ benefizi , che la nostra coltura  scientifica ha prodotto. (Chi non ha l'occhio _  velato da. preconcetti saprà a chi si vuol  alludere nelle due categorie citate).  Chi-pone il piede sulla “ Sogliz » che d  accesso alla visione superiore, se vuole riu i "  scire ad avanzare, deve essere provvisto della 2 sN  forza che mena ad avvertire il Reale là dov@mnn  l'intelletto ordinario e la ragione solita scor- x    i  T] x  > l'intolegione I Lie ii pai de Pe Pe Pietà sa desti Ann ie —_ | siii nc e a | na ta A in x gono soltanto fantasticaggine ed illusione.   . Giacchè il perenne e l'eterno sono appunto,  là, dgye all'occhio rivolto soltanto al transi*  torio e temporaneo altro non appare che  fantasticaggine ed illusione. Nessun utile,  dunque, risentirà un uomo che venga con-  dotto dinnanzi alla sorgente della eterna sa-  pienza colgalo corredo.della.sua intelligenza  rdinaria. Perciò nei Misteri, il primo grado  d Iniziazione non consiste nell'impartire un  nuovo sapere intellettuale, ma nella com-  pleta trasmutazione delle forze conoscitive  dell’uomo. Con fine intuito pertanto, Edoardo  Scuré descrive nei suoi “ Grandi Iniziati ,  il cammino di chi tende al “ Sapere , me-  diante i Misteri:    ALE « L’ iniziazione era a leaneno  r, le di futfo l'essere umano _ad ascen-  lere le vette vertiginose dello spirito , dal-  l'alto delle quali si può dominare la vita. E più innanzi egli dice:   “«“ Per giungere a questa padronanza l’uomo  ha bisogno di una totale rifusione del pro-  prio essere fisico, morale e intellettuale. Or-  bene, questa rifusione non è possibile se  non mediante |’ esercizio simultaneo della  volontà, dell’intuito e del raziocinio. Mercè  il loro completo accordo l’ uomo può svi-    }  ;)  I    Fapiecinia TX. iNalonta       Ponso ;  I he sli    luppare le proprie facoltà fino a limiti in-  definibili. L’ anima ha sensi assopiti ; l' ini-  ziazione li risveglia. Mercè uno studio pro-  fondo e un'applicazione costante l’uomo può _  mettersi in rapporto cosciente con le forze  occulte dell'universo. Con uno sforzo por-  entoso egli puo raggiungere la percezione  spirituale diretta, schiudersi i sentieri che  portano. all’olt a, al superfisico, e di-  venire capace di regolarvisi. oltanto allora  può dire di aver vinto il destino e di es-  Sersi conquistato fin da quaggiù la propria  tiliberi divina. Soltanto allora l’iniziato può  vi divenire inizi.tore, profeta e teurgo, vale a  dire veggente e formatore di anime. Infatti  soltanto colui, che comanda a se stesso  può comandare agli altri, e soltanto chi è  libero può liberare ».   (Opera cit.).   La missione dei Misteri va intesa in tal  senso, per quel che si riferisce al loro primo  grado. ‘Non si trattava solo fi una DUOSA  scienza, ma della produzione di nuove forze   | pudore ‘L’individuo=doveva. trasmutarsi,    ivenire un altro, prima di venir condotto    al Sole spirituale, alla sorgente della sa-  pienza.  Colui, le cui forze non sono temprate allorchè pone il piede sulla “ Soglia ,,, non  sente la realtà dell’eterne. potenze spirituali, (}.  che quivi gli si fanno incontro. In luogo di —  entrare in rapporto con_un mondo supe-  riore egli ricade nel mondo inferiore. À que-  sto pericolo trovasi esposto chi va in cerca  delle sorgenti della sapienza. Se egli soc-  combe, allora ha temporaneamente ucciso  in sè l'eterno germe. Questo era per l'in-  nanzi dormente in lui, ma, pur così dor-  mente, era tuttavia ciò che nobilitava la  passeggera, inferiore natura e la trasfigura. Ingenuo ed inconsapevole, l' individuo  viveva con questo rudimento di spiritualità  superiore. Dal mal riuscito tentativo, di.ini-  ziazione quel latente rudimento JÉne. di-  strutto. All'individuo non resta che l'istinto    di vivere nel transitorio, di yivere «Soltanto  pel regno di guesto mondo. Per il fatto di.  avere sentito come_illusorio il “ divino spi-  rituale , , egli divinizza il « sensibile_mate-  riale ,. In tal modo, sulla “ Soglia ,, può  andare perduto per l'individuo il suo più  prezioso tesoro, la sua parte immortale. Que-  sto è il pericolo analogo all’ accecamento  dell'occhio nella similitudine su riferita.   E' ovvio che coloro, cui nei misteri in-  combeva l'ufficio d’iniziatori, erano per pro- .Wei  Rito  fonda consapevolezza della propria respon-  sabilità, estremamente esigenti verso i disce-  poli, giacchè tali esigenze dovevano servire  a temprare nel senso indicato le loro forze  spirituali. E. Schuré descrive la scala gra-    duale della Iniziazion ‘a_praticata I  riella scuola di Pitagora (a. 582-507 a. C.)    e-la sua descrizione è tutta improntata di  geniale senso d’arte e di mistica profondità.  Mi appoggerò appunto ad essa per parlare  di quei gradi iniziatici.   Erano ammessi all’Iniziazione soltanto co-  loro che offrivano sicurezza di riuscita per  la costituzione appropriata della loro natura  intellettuale, morale e spirituale. Per costoro  cominciava allora il periodo della « Prepa-  razione ,. Per molti anni essi diventavano   itori. Nel tempo nostro, in cui ciascuno  sf crede autorizzato a giudicare e criticare  mon appena abbia appreso qualche cosa, 0,  torse anche più sovente, quando non ha an-  cora imparato nulla, non è punto facile rendere simpatica l’idea" quel lungo udito-  rato. All'uditore era imposto il più assoluto  silenzio, inteso non nel senso esteriore di   ‘ astinenza da ogni parola, bensì nel senso di  | astinenza da qualsiasi critica, STdoveva  Accogliere del tutto spregiudicatamente l’istru-    due crilica   PESTO, gp    zione, senza turbare questa spregiudicatezza  con una prematura analisi critica. Il saggio  sapeva, e gli uditori avevano fiducia; per un  certo tempo non_.era loro Jlecito..criticare,  giacchè il sapere che ricevevano era appunto  ciò che occorreva per renderli maturi all  critica. Come è possibile che impari vera-  [mente chi vuole immediatamente criticare \{  quel che apprende? Con questo metodo di  ascoltare in silenzio i Pitagorici hanno reso  maggio a una massima, che sola può fare  ascendere i gradini della conoscenza. Chi  ha percorso la via della conoscenza lo sa.  Egli non può che sentire pietà per coloro,  che si creano intoppi su tale strada coi loro  giudizi prematuri e con le loro critiche. Il  nostro tempo è tutto pieno di questo_im-  maturo spirito di critica: basta osservare in-  torno a noi ciò che i nostri oratori dicono  e ciò che i nostri scrittori scrivono.,Se vi  fosse ai tempi nostri solo un pò di spirito  pitagorico, resterebbero. inespressi più dei  nove decimi di quanto vien detto e altret-  tanto rimarrebbe non stampato di quanto  vien pubblicato. Oggidì , chi ha messo insieme un paio di osservazioni, o si è ap-  piccicato in testa un paio d'idee, si crede  autorizzato a sputar sentenze e giudizi sui  sel  RARI TESE,    soggetti più essenziali. Invece un tale di-  ritto spetta soltanto a chi abbia imparato a  contenere per anni il suo giudizio e a por-  gere ascolto spregiudicat ea quanto i  savi dell'umanità hanno detto. “ Esaminate  tutto e tenetevi il meglio ,, è una fallace  norma dell'anima di chi non è maturo per  esaminare. Il nostro giudizio non vale pro-  prio nulla, nulla affatto di fronte alla Ve-  rità, fin tanto che non lo abbiamo fatto esaminare dalla verità stessa. Invece di dire. Io esamino tutto e voglio tenermi il meglio, molti dovrebbero dire. Io voglio fare esaminare me stesso dalla Verità, e  quando io sia sufficientemente buono per  essa, allora ch' essa mi prenda! Chi non  si è esercitato per anni ad adattare, a inalveare la propria vita in questo illimitato abbandono al giudizio delle sagge guide della  umanità, non arriverà mai a formulare giu-  dizi che siano più che fumo e vacua risonanza. Pa   Una norma siffatta è certamente invisa in  questo nostro tempo “ illuminato ,, in cui  dominano la pubblica criticaglia, e lo spi-  rito gazzettaio ; invece gli uditori pitagorici  si attenevano appunto a cotesta norma. Raggiunta la voluta maturità, l' uditore vedeva | 4 iena: acli    Neggiunto per lui il giorno d'oro col quale  cominciavano le rivelazioni sull'essenza della  natura e dello spirito umano. A poco a poco  i gli si fa comprendere la zomìa [“I am a zoologist – a philosophical zoologist” – Grice], le leggi della esistenza corporea e psichica. Be" 1 Voglia afferrare questa romia col non  raffinato intelletto ordinario non ne com-  prende nulla. Goethe una volta accennò  a questo. Allorchè nel SUO VIAGGIO PER L’ITALIA e per la Sicilia si era dato con tutta  lena allo studio delle piante, e si era formato quelle sue vedute tanto citate ma tanto  poco comprese sulla pianta archetipa,  scrive in Germania che avrebbe voluto  fare un viaggio in India, non per scoprire  qualche cosa di nuovo, bensi per guardare  a Suo..modo_.il già scoperto. Quel che importa, appunto, non è il conoscere le leggi  messe in luce dalla botanica “ intellettuale vi  bensi il penetrare coll’aiuto di queste leggi nell’intima essenza della vita vegetale. Si  fica essere un erudito professore di botanica e non capir nulla di questa vita vegetale. | nostri scienziati hauno veramente delle  strane idee a questo proposito. Essi o credono che, in genere, non si possa penetrare  nell'intimo della natura, o affermano che la  nosira indagine non è ancora fanto avanzata. Essi non sospettano che con questa  indagine mediante i sensi e l'intelletto possono, sì, moltiplicarsi con effetto benefico  le nostre cognizioni, ma che per investigare  (| « interno ,, è, invece, necessaria una maniera di pensare tutta diversa da quella che  essi mettono in pratica. Non vogliono saperne dell’inventore dell'orologio mentre studiano l'orologio alla stregua dei principi della fisica. Poichè non possono trovare nell'orologio nessuno spiritello che  spinge avanti le lancette, o negano lo spirito, che ha congegnato le ruote, o asseri-  scono che esso è inaccessibile all’umana co-  noscenza, 0 del tutto o fino ad oggi. Chi parla dello spirito della Natura viene  accusato di sbizzarrirsi in vane parole. Ma  non è colpa sua se gli accusatori non sentono in ciò altro che parole! I discepoli pi-  tagorici, al secondo grado della loro istru-  zione, venivano introdotti nelloSpirito della  Natura.   Soltanto: dopo RARO al questo grado,  potevano venir condotti alla “« grande Ini-  ziazione ». A questo punto erano maturi per  accogliere in sè i “ Segreti della esistenza»;  il loro occhio spirituale era ormai sufficientemente vigoroso; oramai non apprendevano  più a conoscere soltanto lo spirito delia na-  i tura, ma anche le intenzioni di questo spi-  i rito. Da questo punto in poi non sì può più  i parlare dei Misteri col solito linguaggio, ma  soltanto per via d'immagini, giacchè il no-  (a stro linguaggio è tutto adeguato all'intelletto e non ha parola adatta alla conoscenza superiore, di cui qui ci occupiamo. In questo  È senso va inteso pure quanto segue.   Prima di ogni altra cosa l'individuo ap-  prendeva a spingere lo sguardo oltre la pro-  pria esistenza personale. Da ciò traeva l' esperienza che quella sua vita era la ripeti-  iS . zione di vite anteriori a un nuovo gradino  dell'esistenza. Si poteva convincere che quel  i che è lecito chiamare anima , nel giusto  senso della parola, si rincarna ripetutamente,  e che le capacità, le vicende e le azioni della  Me sua vita presente erano da interpretarsi come  effetti di cause reperibili in quelle sue vite  antecedenti. Egli si rendeva anche conto che  i fatti e gli eventi di quella sua vita presente  dovevano produrre i loro effetti in esistenze  1 avvenire. i  ; Su ciò bastino qui questi pochi cenni,  da perchè ho intenzione di parlare in altro luogo esaurientemente delle grandi leggi della rincorporazione, e della legge cosmica, ovvero, in altre parole, della rincarnazione, e del Karma. Queste verità potevano divenir convin-  zioni per il discepolo dei Misteri, come è  verità per l'uomo comune che 2 x 2-4; perchè al terzo grado il discepolo era a ciò  maturo. Ma anche a questo grado si può  avere un giudizio completamente sicuro su  queste conoscenze, unicamente perchè si è  ormai acquistata la capacità di compren-  derne giustamente il significato. Anche oggi, come in ogni tempo, molto  si criticano tali concetti ;, ma ciò che viene  criticato in realtà sono soltanto le arbitrarie ,  concezioni dei critici stessi, che non hanno  alcuna importanza. Del resto, però, si deve  anche pienamente convenire che pure molti  seguaci della idea della rincarnazione non  hanno di essa concetti migliori di quelli dei  suoi oppositori. Non tutti coloro che oggi  difendono queste dottrine, le comprendono  veramente. Anche tra questi difensori ce ne  sono molti che sono troppo scansafatiche 0  troppo.... consci di sè per apprendere in  silenzio prima di far da insegnanti. 0° Cfr. dello stesso autore gli scritti maggiori Teosofia  Scienza occulta  e i minori Azione del Karma. Rincarnazione e Karma come leggi naturali. Ora, se non forse presso i Pitagorici,  c'era, però, in altri Misteri, dopo la grande  « Iniziazione rivelatoria ,, il grado della vera iniziazione mistica. In essa non soltanto  l'osservare e il pensare, ma tutto il vivere  conscio veniva esteso oltre l'immediata per-  sonalità dello individuo. Per essa il discepolo  non diveniva soltanto un sapiente, soltanto un  veggente. Egli ormai non percepiva l'essenza  delle cose, ma la viveva con esse. Molto  arduo è dare una idea di ciò, di cui qui si  tratta. Il veggente non ha soltanto la sensazione degli oggetti, bensì sente regoli oggetti stessi, trasferendosi nel loro interno;  egli non pensa circa la natura, bensì esce  di se medesimo e s'interna, pensando, re//a  natura. (E' questo un procedimento noto al  Teosofo, il quale lo chiama.“ lo schiudersi  dei sensi astrali. L'uomo intellettuale  non bada ai veggenti: essi debbono esser per  lui dei visionari, se non peggio. Chi, invece,  ha senso per le loro doti, li ascolta con pio  rispetto, giacchè sente parlare in loro non più  una persona umana, bensì la stessa Saggezza  vivente. Essi hanno fatto olocausto delle Cfr. dello stesso autore: Come si acquista co-  noscenza dei mondi trascendentali v. EA    proprie inclinazioni, simpatie, opinioni personali per poter prestare la propria bocca  all’eterno Verbo, mediante il quale furono fatte tutte le cose. Giacchè dove  parla ancora l'opinione umana, dove campeggiano ancora inclinazioni’e interessi, ivi  tace la sapienza eterna. E quando questa  giunge all'orecchio di coloro che non  ‘hanno ancora sentimento per essa, appare  loro soltanto come personale parola umana,  per quanto in essa possa chiudersi una forza  divina. Ma dai veggenti stessi, gli uomini  ‘potrebbero imparare ad ascoltare, giacchè il veggente fa tacere la sua umana per-  sonalità quando a lui parla la voce della Ve-  rità. Il suo giudizio tace, i suoi interessi, le  sue inclinazioni gli stanno dinanzi altrettanto insignificanti quanto il tavolino che  ha davanti a sè: egli è tutto assorto nel-  | l'ascoltazione interiore. Solo il veggente ascenderà al grado successivo, che gli antichi chiamavano del  teurgo e che nella nostra lingua può venire designato come quel grado, in cui  si opera una “ completa riversione, delle  facoltà umane. Forze che, di solito, affluiscono nell'individuo da/ di fuori, ora si ef-  fondono da /uîi. In certi campi, nei quali  5 RS a l’uomo è soltanto un servitore, diviene un  dominatore colui, le cui facoltà sono trasmutate. E poichè solo il veggente è in  grado di giudicare la portata e la maniera  “a d’'agire di coteste forze, l'uomo che ne verrà  Ti in possesso senza aver raggiunta la purità del veggente, ne farà mal uso. E questa  do « sapienza senza purità ,, è possibile a causa  w di un cencatenamento di circostanze, di cui  <a qui non è il caso di tener discorso. Sulla Ini-  ziazione superiore, a proposito dei Pitagorici, E. Schuré ha il seguente magnifico passo : 1  i BRANO Abbiamo, seguendo Pitagora, toccato la cima della iniziazione antica. Da  dr questa vetta la terra apparisce come im- cf ersa nell'ombra, come un astro morente. Di lì si schiudono le prospettive sideree e eri dispiega nel suo meraviglioso complesso. Le * Scegatao ii a n 1  la vista dall'alto, l'epifaria dell'universo. Ma \\®s4* scopo dell'insegnamento non era l’assorbire  VITA l'individuo nella contemplazione o nell'estasi.   È le regioni incommensurabili del Cosmo, li  UH aveva tuffati negli abissi dell'invisibile. I veri    pauroso pellegrinaggio fatti migliori, più forti  e meglio temprati pei cimenti della vita.  I, Il Maestro aveva condotto i discepoli per    iniziati dovevano ritornare sulla terra da quei î  =Sf ia Alla iniziazione della intelligenza doveva   seguire quella della volontà, ed era di tutte la più ardua, giacchè ora per il discepolo si  trattava di far discendere la verità nelle pro-  fonde latebre dell’ esser suo , e di porla in  azione nella pratica della vita.   Per raggiungere questo scopo ideale occorre secondo Pitagora riunire tre perfezioni: avere realmente la verità nell’intelletto,  la virtù nell'animo, la purezza nel corpo.  Un'igiene sapiente, una regolata continenza  dovevano serbare al corpo là purezza che si  richiedeva non come scopo, ma come mezzo. Ogni eccesso corporeo lascia una traccia e  quasi un imbratto nel corpo astrale, vivente  | organismo dell’ anima, e per conseguenza  anche nello spirito. A questa altezza l'individuo diviene un adepto, e, se possiede  bastante energia, entra in possesso di facoltà  e di poteri novelli. Si schiudono i sensi in-  terni animici, e la volontà si riversa radiosa  negli altri sensi.... (vedi Schuré).   Di tutto ciò che l'uomo compie prima di  raggiungere questo grado, le cause sono da  ricercare in regioni a lui completamente sco-  nosciute. Lo sguardo del teurgo , invece,  | spazia in coteste regioni, e “ in perfetta consapevolezza , egli irradia da sè quanto  nell'uomo dorme di solito “ inconsciamente , nelle più profonde latebre dell'anima,  Egli trovasi a faccia a faccia con la sua Guida, che per l’innanzi lo aveva diretto invisibilmente da tergo.  Col sussidio di siffatti pensieri si dovreb-  bero leggere periodi come il seguente, tratto dall'antico testo di sapienza chiamato il Mundakopanishad: “ Quando il veggente vede  l'aureo Creatore, il Signore, lo Spirito, il cui  grembo è Brahman, allora il savi o, dopo che  ha gettato via merito e demerito, raggiunge  immacolato l'unione suprema ».  Alle vette, dunque, che vengono così con-.  quistate drizza lo sguardo E. Schuré; e la  mistica fede nella fulgida forza di codeste  vette gli conferisce la capacità di trapassare.  alcuni dei nebulosi veli che nascondono la.  vera natura delle grandi Guide dell'Umani  tà. Ciò lo rende capace di descriverli, questi grandi iniziati,: Rama, Krishna, Ermete, Mosè, Orfeo, Pitagora di CROTONE, Platone e  Gesù. A grado a grado da coteste Guide  sono state irraggiate nell'umanità le forze a_  seconda della maturità raggiunta dal genere  umano nelle diverse epoche. Rama condusse  alla porta della sapienza; Krishna ed Er-.ai mete ne misero le chiavi nelle mani di al-  «cuni; Mosè, Orfeo e Pitagora additarono  l'interno, e Gesù, il Cristo, presentò il Sancta  Sanctorum, l'intimo sacro penetrale.  Sarebbe sciupare tutto il singolare incanto del libro dello Schuré il volerne rac-  contare il contenuto, nel quale, così com'è  ognuno dovrebbe profondarsi da sè.  Ed, Schurè accenna al fatto che pel tra-  mite del Fondatore del Cristianesimo le  forze della sapienza dei Misteri sono state  riversate nelle vene spirituali dell’ umanità  in forma tale, che le orecchie dell’ umanità  hanno potuto udirla. E anche in questo ter-  reno la verità deve essere cercata pei sentieri che E. Schurè ci presenta. La forza.  che s' irradia dalla personalità di Gesù, è  forza vivente nei cuori di tutti coloro, che  la lasciano fluire in sè stessi. Comprendere  la vivente Parola che in questa forza agi-  | sce, può solo colui che se ne procaccia la  chiave, mercè la comprensione della sa-  pienza dei Misteri. E a ciò fornisce, per  quanto è possibile, il fondamento Besant col suo cristianesimo esoterico. E' questo un libro, per mezzo del quale l'occulto  | significato delle parole bibliche si svela al  lettore che tutto vi si abbandona,  Sg VI Siffatti libri-chiave sono necessari ai no.  stri giorni. L'umanità era in condizione del  F tutto diversa dall’odierna, quando ricevè l’Evangelo, l'annunzio gioioso. Oggidì l’intelletto ha ben altro allenamento che non  ne avesse 19 secoli fa. Oggi l’uomo ‘può  trasmutare in vita propria la forza vivente  della parola palese soltanto se riesce ad  afferrare cotesta forza mediante la propria  facoltà ragionante. Ma ciò che è vero, resta  $ vero eternamente, anche se il modo come  i l'uomo deve afferrarlo si cambia nel corso  i dei tempi. Che oggi l’ intelletto e il razio-  7555 }cinio facciano valere i propri diritti è una  necessità ; chi conosce l’evoluzione umana sa che deve essere così. E perciò egli dà  oggi all’intelletto, ciò che secoli addietro è  stato dato ad altre forze dell'anima. Da que  sta e da nessun’ altra cognizione dovrebbe  scaturire l'attività del vero teosofo , e così  vuole essere interpretato il “« Cristianesimo  esoterico , di Besant. Il teosofo sa  che nel Cristianesimo c'è la Verità, e sa al-  tresì che Gesù, nel quale s'incarnò il Cristo, non è un “ Duce di morti , bensi un  “ Duce di vivi ,. Il teosofo intende la grande  parola del Maestro. Io sono con voi tutti  i giorni, sino alla fine ,,. Alla Guida viven- Bla: £ @ÈS    te, non a quella dei ragguagli storici, si ri-  volge anzitutto chi, come A. Besant, vuole  spiegare il Cristianesimo. Ciò che la “ Pa-  rola vivente , ancora oggi ,, annunzia al-  l'orecchio che vuol porgerle ascolto, è ciò  che poi proietta la sua luce sul racconto  evangelico. Sì, certo, l' Annunziatore della  Parola è rimasto qui fino ad oggi e può  dirci come dobbiamo intendere la lettera dei  ragguagli intorno ai Suoi atti e ai Suoi di-  scorsi.   “Le buone novelle » debbono essere  intese “ esotericamente cioè, bisogna, prima, che sia svegliata dentro di noi la forza  vivente, che imprime su di esse il sigillo di  . Gò che è “ Santo ,,. E poichè l'intelletto e  il razigcinio sono i grandi strumenti della  civiltà d’oggi, bisogna ch’essi vengano libe-  rati dai lacci dell’ intendimento puramente sensistico , della comprensione meramente  “ positiva , della realtà. L'intelletto stesso  dell'umanità presente deve tuffarsi nel mare  che lo riempie di vera religiosità , giacchè  non è esatto che l’assennato intelletto non  valga che a distruggere le “ illusioni , di  cui il sentimento religioso avvolge le cose.  Ciò è opera solo dell'intelletto abbagliato e  inceppato dai successi riportati nella nozione ALI: 000    e nel dominio delle forze puramente mate-  riali della natura. Gli uomini del presente  e con essi i nostri fisici, i nostri biologi e  i nostri storici, si credono Ziberi nel loro  mondo intellettuale unicamente edificato sul  fatto positivo. In Verità essi vivono sotto  l’azione di una Suggestione dominante su  tutto. Liberi, fino a un certo punto, potre-  ste diventare voi fisici, biologi e storici di oggi, se voleste riconoscere che i vostri concetti di rea/tà anzi di materie e di forze del  mondo, di sforia umana e di evoluzione  della civiltà, non sono altro che « sugge-  \stioni collettive ,. Un giorno vi cadrà la  benda dagli.occhi, e allora soltanto speri-  meénterete fino a qual punto è verità e non errore quel che voi pensate dell'elettricità e  della luce, della evoluzione animale ed umana;  giacchè, notate bene, anche i teosofi riguar-  dano le vostre asserzioni non come errori,  ma come verità. Infatti anche la vostra in-  terpretazione della natura è per loro una  “ professione di fede », e quando essi di-  cono “ di volere cercare il nucleò della ve-  rità in tutte le religioni ,, fanno ciò non  solo riguardo a Buddha, Mosè e Cristo,  ma anche riguardo a Lamark, Darwin ed  Hickel, ay ( (A   E opere come queile citate di Schuré e   di Besant sono destinate a togliervi  la benda dagli occhi, debbono insegnarvi a veder chiaro nelle “ vostre suggestioni ».  Conseguentemente, in libri siffatti quel che  importa non è tanto il loro contenuto let-  terale, quanto le occulte forze che mossero  la penna dei loro autori e che si trasfon-  dono nelle vene dei lettori, così che questi  vengono tutti pervasi da un nuovo “ senso  della verità ». 1 lettori che subiscono il giu-  sto effetto di tali libri ricevono sotto un  certo rispetto una /riziazione di tipo , diremo così, intellettuale. Chi a questa frase  mon arriccia il naso, come alla asserzione  di un miracolo, chi è in grado di scorgervi,  invece, qualche cosa di più che una va-  cua frase, potrà anche comprendere, come  — libri siffatti gli vengano presentati non già  per allettarlo a fare una delle solite letture,  ma con l’altra ben diversa mira ch' essi, per virtù delle forze con le quali sono stati  scritti, debbono suscitare in lui forze dor-  menti, anche se a tutta prima coteste forze  possano essere soltanto quelle dell'arimia in-  tellettiva.  Al nostro tempo, peraltro, non c’è vera  Iniziazione, che non passi per l' intelletto. Chi vuole in oggi condurre agl’arcani superiori , evitando di passare per l' intel-  letto, mon capisce nulla dei “ segni dei |  tempi , e non può far altro che porre sug-  sa gestioni nuove al posto delle antiche. Grice: “Of course, Austin thought that the Saturday mornings should be held on Wednesday midnights at Parson’s Pleasure – we were into initiation!”  Giovanni Colazza. Keywords. dell’iniziazione, rito di passagio, rito di iniziazione, iniziazione nel misterio, iniziazione, l’iniziazione di Bacco, la Baccanalia, il sacrifizio di Bacco, sacrifizio come dolore e piacere, Prosimno, iniziazione di Bacco, la reazione della religione romana al mistero bacchico, iniziazione, iniziazione del giovane romano, la toga virile. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colazza” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Colecchi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Pescocostanzo –filosofia aquilese – filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Pescocostanzo). Filosofo aquilese. Filosofo abruzzese. Filosofo italiano. Pescocostanzo, L’Aquila, Abruzzo. Grice: “What I love about Colecchi is that while he was a bad Kantian, he was an excellent Vicoian!” Studia ad Ortona, dove sube diverse perquisizioni da parte dell'Inquisizione per la sua tacita simpatia verso gli ideali rivoluzionari. Insegna alla Reale Accademia Militare della Nunziatella. Venne mandato in missione in Russia, dove si dedica alla filosofia speculative.Al ritorno, soggiorna a Königsberg, dove ebbe modo di conoscere l'opera di Kant. Fu uno dei primi filosofi italiani a studiare Kant.Rientrato in Italia, fonda a Napoli una scuola privata di filosofia ed ha tra i suoi allievi i fratelli Spaventa, Sanctis, Settembrini e Caracciolo. Il suo merito principale fu quello di essere, insieme a Galluppi, un assertore del criticismo kantiano in Italia.  Altre opere: “Se la sola analisi sia un mezzo d'invenzione, o s'inventi colla sintesi ancora?” La legge del pensiere; L’analisi e la sintesi; La legge morale, La legge della ragione; “Se il raziocinio sia essenzialmente diverso dalla intuizione”; “Se nell'invenzione eserciti maggior influenza la sintesi o l'analisi; “Se li giudizi necessari sieno solamente gli analitici”; “Se l’identità formale del raziocinio sia valevole a convertire il raziocinio empirico in raziocinio misto?”; “Il principio sul quale poggia il raziocinio quando classifica e quando istruisce”; “Quistioni ideologiche”; “Se diasi una logica pura, ed una logica mista”; “Se una idea soggettiva non altro sia che una idea di un rapporto, L’idea dello spazio e l’idea del tempo; Il primo problema di filosofia: se la sensazione sia esterna di sua natura, o tale diventa in forza del giudizio abituale? Alcune quistioni le più importanti della filosofia; Psicologia, Logica applicata, Ideologia, Frammento apologetico; in G. Gentile, Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche storiche, Edizioni della Critica, Napoli, e in Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi,  Firenze;  Tip. «All'insegna di Aldo Manuzio», Napoli); a cura dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, con introd. di F. Tessitore, Procaccini, Napoli); E. Pessina, Quadro storico dei sistemi filosofici, Milano); Necrologia in “Poliorama pittoresco” “Elogio funebre”; Spaventa, Studi sopra la filosofia di Hegel, Torino; L. Settembrini, Lezioni di letteratura italiana, Napoli; F. Fiorentino, Scritti vari di letteratura, filosofia e critica, Napoli; A. De Nino, Briciole letterarie, I, Lanciano; Sanctis, La lettereratura italiana nel secolo XIX, Napoli); Marchi, Il sistema filosofico di C. (Tip. Sociale di A. Eliseo, L'Aquila); F. Amodeo, C., in «Atti della Accademia Pontaniana», Discussioni biografiche e documenti inediti, Ravenna); L'istruzione pubblica e privata nel Napoletano; Città di Castello, C. filosofo e matematico: nuove notizie e nuovi documenti, in «Rassegna abruzzese di storia e d'arte», Gentile, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi,  II, Milano); Pedagogisti ed educatori, Milano); Capograssi, Nuovi documenti sull'accusa di ateismo a C., in «Samnium», Romano, Un antagonista del Galluppi: C., in «Archivio storico per la Calabria e la Lucania», A. Cristallini, C., un filosofo da riscoprire, Padova, G. Oldrini, La cultura filosofica napoletana dell'Ottocento, Bari; Garin, Storia della filosofia italiana,  III, Torino; F. Tessitore, Colecchi e gli scettici, in Introduzione a Quistioni filosofiche, Napoli; G. Cacciatore, Vico e Kant nella filosofia di C., Centro di studi vichiani; Io e C.. Narrazione biografica in forma di anamnesi, Japadre Editore, L'Aquila-Roma; Dizionario Biografico degli Italiani. Dalla tomba della setta italica, tenendo dietro alle origini dell’antica lingua del Lazio – la lingua romana -- trasse fuori VICO queste divine idee; ha lello forse BRUNO ancora, perchè un’ombra d’idealismo copre spesso la sua filosofia, spezialmente nella scienza nuova, dove l’uomo passa suo malgrado dalle selve allo stato civile per la sola opera di una lupa (la lupa capitolina). Se non che l’uomo di VICO rimane nello stesso stato in cui avealo lasciato ENEA. Devono le divine idee rideslarsi all'occasione delle sensazioni; njun tentativo per ravvicinare la sensazione all’idea; dovrebbe ciò fare l’induzione, ma la ragione è sempre scontenta di quanto scopre l’induzione. Non ancora siera mostrato Kant per conciliar insieme la sensazione (sensus) e l'idea o concetto. Con questa filosofia, appoggiata all’induzione, si dispone VICO a crear il diritto universale della nazione del Lazio – la nazione romana. Ma preoccupalo sempre delle civili cose di Roma, brillando sempre nel suo spirito l'immagine di Roma, si risolge in fine di stabilire Roma come modello di civiltà. Il perchè nella storia, della mitologia, nelle lingue, nel blasone, e pe’ feudi pur anche del medio evo deesi Roma ripelere, e la romana giurisprudenza diventar quel la di tutte le nazioni del mondo. E come i fatti hanno a servir di occasione per ridestare la idea, così il diritto di Roma, le XII Tavole, tutta la storia, tutta la mitologia concorrer devono a risvegliar le idee del vero, del giusto, a dir breve l’ideale dell’umanità per selta. Ond'è che metafisica, logica, morale, educazione, politica, geografia, astronomia si abbozzano prima della religione de’ padri in mezzo alle famiglie, e poscia in mezzo alla città di Roma; dove il senato si compone degli stessi primi padri, riuniti in Ordini, per reprimere le ribellioni degli ammutipali clienti. Di qui le lante critiche sulla storia positiva per distruggerla. Sesostri e Tanai sono due simboli. La sapienza del poeta vera immagine della sapienza o scienza del filosofo, L’Eneide confuse con la sapienza dei romani. E tutto questo per via di etimologie stirale, di mili forzati, di stranissime analogie. Egli è evidente che tal metodo d’interpretazione deesi ridurre in fine ad una tortura, per isforzare tutt’imonumenti della storia e delle favole a deporre in favore di un sistema. Siegue da questa osservazione che quanlunque tutta la storia, tutta l’erudizione, per la potente sintesi di VICO, pieghi sempre al modello DI ROMA, NO DI KOESINGBERGA, e la sua civiltà a poco a poco siasi spenta, fino a che passato il medio evo, col risorgimento delle lettere e delle scienze, ricomioci il suo corso; può non pertanto rimaner il dubbio che il popolo romano altro forse non sia che un fatto isolato. Essendo si in effetto limitato il Vico al uomo del Lazio.VICO, dobbiamo pur dirlo a Gloria d'Italia,VICO è di gran lunga superiore ad Herder, il quale nella sua Storia dell'umanità parla pur anche dell'origine e del progresso della civiltà de’ popolo romano. Imperocchè se Herder, amico del sensismo, vede l’uomo del Lazio nella natura, e dalla formazione del cristallo, per una ben lunga scala, va sino all'uomo che è la corona dell'organizzazione. VICO, seguace di Platone e non d’Aristotele, con maggior discernimento del ministro protestante, l’uomo nell’uomo stesso contempla. E se l'analisi di Herder vivamente rallegra l'immaginazione, la sintesi di VICO sembra lalmente falla l'intelligenza per, che il lettore, in onla del suo linguaggio enigmalico e della strapezza delle analogie, viene attirato potentemente dalla magica forza della sua filosofia. Niuno più originale di VICO, e pare che l’originalità dell’italico ingegno siesi sventuratamente nel VICO spenta. De’ suoi principii intanlo, per quel che riguarda il nostro assunto, egli è facile di raccorre, che avendo le legge per iscopo di metter freno alla passione umana, e di render l'uomo migliore; ben possono per esse la *forza*, l’*avarizia* e l’*ambizione* che sono i tre vizi pe’ quali corre a trovarsi il genere umano, convertirsi in *valor militare*, *prudente mercatanzia* e *savio governo*. La legislazione dunque, considerando l’uomo qual é, se dirige ad usi migliori la passione, lo riforma e trasmuta in quello che esser deve. La massima di VICO pertanto, ben lunga dall’opporse alla legge morale, la conferm viemaggiormente e ne presuppone l'esistenza. E qui credo far cosa grata a miei lettori, se da VICO stesso tolgo le prove di questa mia assertiva. L’unico principio e fine del diritto è per VICOla virtù del vero. E chiama virtù del vero l’umana ragione -- la vernunft di Kant -- la quale è virtù in quanto combatte con la cupidità -- è giustizia in quanto regola e pondera la utilità. La utilità non e per sè stesse ne onesta nè turpe; ma turpitudine è la sua ineguaglianza, onestà la sua eguaglianza. L’utilità privata di un singolare individuo, o anche nazione o popolo di due uomini, è labile, perchè finisce con l'individuo la diada dei due uomo o con la nazione; ma l’eguaglianza delle utilità, che è figlia dell’onestà, non è cosa caduca, è cosa immutabile ed eterna. Una cosa caduca non puo produrre l’immutabile, nè un corpo dar nascimeoto a ciò che li trascende. Il sistema dunque dei futilitari utilitari, con questi pochi molli del VICO, è distrutto. Ciò si conferma con quel celebre detto di Pedio presso Ulpiano: quante volte una od altra cosa venne con la legge introdotta è buona occasione supplire con la legge stessa le altre cose che tendono alla stessa utilità. Una buona occasione adunque e alla divina provvidenza l’umana debolezza e miseria, per le quali, secondo la loro stessa spontaneità, ritrasse gli uomini dallo stato ferino e bestiale ad essere socievoli, uguagliando tra loro le utilità, come chè ciò non avvenisse da principio per intera onestà, ma per una parte di onestà. Or, la società è una *comunione* di mutua utilità che interviene tra eguali. Si la socielà ineguale è tra un padre (superiore) e un figlio (inferiore); tra la potesta civile e di soggetti – l’eguale è tra fratelli ROMOLO E REMO  o i dioscure – Castores (dual), o Eurialo e Niso, i due amici, tra due cittadini. Di qui due spezie di giustizia rellrice ed equatrice. L'eguaglianza delle utilità, con *geometrica* -- progressione geometrica -- misura determinata, è il subietto della giustizia rettrice, della giustizia *distributive*, la quale mira alla dignità delle due persone. L'eguaglianza poi delle utilità, fatta con *aritmetica* -- progression aritmetica -- misura, è materia della giustizia equatrice, volgarmente detta giustizia *commutativa*, la quale si rapporta al mio ed al tuo – al nostro -- --  ed ba luogo in ogni società eguale. Nè osta punto (come crede Grozio, il quale dital  L'occasione poi, per la quale una cosa accade, non è cagione della cosa stessa, il che Grozio non vide, trattando dell'origine del diritto; e pur doveva ia questa disamina por mente ad una osservazione tanto importante che ne è il cardine. L' utilità dunque non fu produttrice del diritto, come piacque al greco Epicuro, al etrusco Machiavelli, ad Obbes, i quali intesero per utilità la cessazione o del bisogno, o della violenza, o del timore; ma fu l'occasione, per la le gli uomini divisi, deboli, bisognosi tralti furono alla vita sociale. qua. Siegue da ciò, che l'upa e l'altra giustizia la rellrice c l'equatrice hanno per fondamento l'onestà, e che non può avervi giustizia senza morale: conseguenza importautissima, dedotta dal VICO da vero suo priocipio, e sfuggita al positivista CARMIGNANI, il quale fa della morale e del diritto due cose talmente distinte, quasi non avessero nulla di comune tra loro. Elementi del giusto diritto, per Vico, sono la prudenza, la temperanza, la fortezza. La prudenle deslioazione io falti delle utilità, fatta con ragione, von come della la cupidità, produce il dominio; il moderato uso delle cose utili genera la libertà. La potenza regolala dalla fortezza partorisce la incolpala tutela. La tutela de'seosi e la libertà degli affetti costituisce il diritto naturale, che gli antichi interpreti dicono primitive, e gli stoici appellano il principio della natura. Il dominio, la libertà, la tutela sono cose nalurali all’uomo, e oale per le occasioni. Così la libertà del diritto era prima della guerra; ma venne riconosciuta, ed ebb e il suo nome, introdoltasi, per la guerra, la schiavitu. Similmente con la divisione de'campi siammisero I dominii delle cose del suolo; ma il giure coosultodice: non essersii dominii introdotli:essersisolamente distinti con la divisione. Finalmente dalla potenza, tosto col nascere, proviene la difesa di sè stesso. distinzione siburlarche avendo più socii posto in comune parli disuguali di daparo, prendano parti di lucro con geometrica misura; perciocchè prendono parli di lucro con semplice misura, essendo il daparo,e non la dignita della persona che li agguaglia. Jo falli tanto ciascun socio ne toglie, quanto ne avrebbe preso, se solo a quel negozio posto avesse il daparo. Il dominio della ragione su iseosi e sugli affetti è il diritto naturale dagli stessi interpreti chiamalo secondario, e dal PORTICO conseguenti della natura. Rimontiamo col VICO all’origine di questa distinzione. Iddio di è all'uomo conlapolenza l'essere, con la sapienza il conoscere, con la bontà il volere. Questo divino benefizio deriva del diritto naturale: l’una con cui l'uomo vuole il suo essere, l’altra con cui vuole il suo conoscere: ood'è che l’uomo lalvolla più il sapere chel’essere agogna. Or, nella parte con cui l’uomo desidera il suo essere contengonsi quelli che gli stoici dicono principio della natura; imperocchè egli appreode col pascere, mercè le sensazioni presenti e vive del piacere e del dolore, a seguire le cose utili alla vita, a schivare le nocevoli, e se venga impedito nelle utili, e sospinto nelle nocevoli, nè possa altrimenti quelle con seguire,questeevitare;con la forza allontani la forza, pel diritto che ha di cooservar il suo essere. Questa parte del diritto naturale vien definita: diritto che la natura a ogni animale apprese, e da essa nasce il diritto di respingere da noi la violenza, quello della unione de’due sessi, della procreazione de'bgli e della educazione loro. Ma nella parle con che l'uomo vuole il suo conoscere, contengonsi quelle cose che gli stoici dicono conseguenti della natura, e vien essa definita: per tutto quello che la ragione naturale fra gli uomini stabili ed egualmente fra le genti tutte si osserva.Questa parte del diritto domina la prima: di guise che quando POMPEO, impedito dalla tempesta a partire, disse: è necessario il navigare, e non necessario il vivere, era siquesto suo dello uoa legge che la ragione a talli gli uomini impone è necessario cioè dioperar rellamente,e non necessario il vivere. Nella prima parte del diritto naturale la ragione non riprova, ma permette: nell'altra essa vieta o comanda, e quello che comanda o vieta è immutabile; che anzi per questa seconda parte è immutabile ancor la prima, non potendosi le cose lecite di lor natura vielar con le leggi, non essendo in potere di queste di far sì che non sieno permesse. Vedano ora imoderoi scriltori di diritto: se la distinzione del naturale diritto nel principio della natura, e ne' suoi conseguenti debbasi o no rigettare! Rimembro di averne lello più di uno che la crede inutile. Grozio aperlamente afferma:non esser ella di alcun uso, sen za avvedersi, dice il nostro filosofo e giureconsulto, che nell'egregio suo trattato della guerra e della pace egli stesso l'ammelte tacitamente; perchè in questo appunto il suo uso consiste, che nella collisione dell'uno e dell'altro diritto, il secondo è da più del primo. Ma bisogna un VICO per rilevar il merito dell’antica giurisprudenza, e mostrare a Grozio spezialmente su quali salde basi ella si reggeva! Il diritto naturale primitivo è, secondo Vico, la materia di ogni diritto volontario; il diritto naturale secondario de costituisce la forma, la quale ove manchi, il diritto volontario è nullo. Perciò Ulpiano define il diritto civile: per quello che nè al tutto dal diritto naturale si diparte, nè inlullo adesso si uniforma; ma in parle viaggiugne, inparte vitoglie. Il perchè la mente della legge e la ragione della legge sono due cose distinte. Mente della legge è il legislatore; ragione dalla legge è l'uniformità della legge al fatto. Possono si mutarsi i fatti, e la mente della legge si muta; tutti può essa utilità riuscire tal fiata per altri iniqua. equa, La ragione della legge fa che ella sia vera; il certo della legge la fa vera in parte, e questa parte di vero sapno propria i legislatori, per ottenere con l’autorità ciò che dal semplice pudore degli uomini conseguir non possono; il che rende ragione della definizione del diritto civile, lestè data da Ulpiano. Ond’è che in ogni fiozione della legge, la quale si rapporta al diritto volontario, evvi due sono quindi i fonti della giurisprudenza: laragio ne e l’autorità. Il vero e della ragione, il certo dell’autorità; ma non può l'autorità opporsi in tutto alla ragione, altrimenti le leggi non sarebbero leggi, ma si mostri di leggi. È dunque inopportuna cosa cercar ragione dall'autorità, la qual, dettando una utilità per com ponesi l’autorità del dominio, della libertà e della tutela, che sono i tre fonti di lutti gli stati. Dalla conoscenza per la quale è l'uomo da più di ogni altra cosa mortale nasce il suodominio sopra tutta la natura; dal suo volere trae origine la libertà, dall’eccellenza del suo essere s’ingepera il diritto di tutela col quale contro tutta la natura mortale si difende. Se dunque il dominio, la libertà, latutela costituiscono l’autorità, seconda sorgente del diritto: se il dominio, la mal’uniformità della legge al fatto non si muta mai. Mutato il fatto cessa la ragione della legge; non però si muta o rivolge in contrario. La mente della legge riguarda l’utilità, la quale variando, fa variar la mente; ma la ragione della legge o l'uniformità della legge al fatto, riguarda l’onestà, e questa è immutabile sempre un certo aspello di vero, che rende certa la legge, m a non del tutto vera; perchè qualche ragione non concede che ella interamente sia tale. Tetessa walela Sviela ile; laditt Jembro Grozio deon, siela o,sed che ezli cololalores mate il diritto naturale na ni Callo. muu Da una parte dell’autorità, e propriamente dalla tulela, nacque il diritto delle prime genti, che può dirsi; Diritto della violenza. Divide Vico questo diritto in diritto delle genti maggiori e in diritto delle genti minori. Le genti maggiori furono prima che le città si fondasse, e si stabilissero le leggi: motivo per cui Saturno, Giove, Mercurio, Marte, egli altri numi della mitologia perchè antichissimi tra gli dei ripulali sichiamarono dei delle genti maggiori.Geoli minori si dissero quelle che furono dopo fondale la città e stabiliti i reami; ond’è che Dei minori si appellarono quelli che vennero dalle città consecrati, come Quirino, ed altri Eroi. Pare a VICO che tale divisione imitassero in certa guisa i Romani, allor chè denominarono patriziï delle genti maggiori quelli che da' padri scelti da Romolo discesero, e patrizii delle gentiminori quelliche trassero origine da'padri coscritti. Il diritto delle genti maggioriè, come sidisse, il diritto della privata violenza, con che gli uomini, senz’alcun freno di legge, toglievano con la propria mano, ed usucapivano; con la forza si difendevano; il proprio uso o possesso rapivano, e con la privata forza ricupera vano. Perciò i mancipii erano cose in realtà per mano tolte; i debitori neri veramente legati; vere erano le mancipazioni, usucapioni, vindicazioni, usurpazioni, o gli usi ne’rapimenti del possesso, come le mogli usurarie che erano nel possesso, e non già nella potestà de’ mariti, usurpavano lo spazio di tre nolli, cioè libertà, la tutela ha origine dalla naturale disposizione dell'uomo, ed in ogni stato, come Vico sostiene, si manifestano sempre; vedano Hume e Romagnosi con quanta buona ragione asseriscano che genitrice del diritto è l'aggregazione sociale!  per tre nolti continue illoro uso a’mariti rapivano, accið con la usucapione di unannonon passassero in mano, o sia nella poteslà di essi. Si disse ianaozi costar il vero della ragione della legge, il certo dell'aulorità di essa, ed essere stale queste due cose cagione del diritto; imperocchè il dominio, la libertà, la tulela in qualunque stato dell’uomo si manifestano sempre. De esi però notare che il diritto, come che risulti sempre da questi tre elementi,fu non pertanto ne’ governi divini ed eroici più certo che vero; negli umani più vero che certo.Or siccome col diritto delle genti m a g giori,senza alcun freno di legge, lecose, come testè dicemmo, si usu capivano, con l’uso e con la per pelua adesione del corpo si ollenevano, con la forza si riacquistavano, ed accadevano per questa violenza frequenta risse ed uccisione; si riunirono in ordini i padri di famiglia, e poco fidandosi, per la licenza che tra gli uomini regnava, del loro nalural pudore, conservarono per sè soli la forza, e posero termine ad ogni ulteriore disordine in avvenire. Da ciò nacque la potestà civile; la quale poche cose pubblicamente trallava con la forza: le punizioni cioè e le pene. Affinchè poi gli altri ad essa potestà soggetti, fossero nelle lor pretensioni tranquilli, introdusse certa corporea forma alla materia da lraltarsi in privato, e coosacrò certa formola di parola, alle quali uniformar dovessero la loro ipfioila e svariata volontà i cittadini. la forza di questa formola, di proposito e seriamente, non per frode o inganno, polevano essi acquistare diritti, conservare le proprietà o in altri trasferirle, con le quali tre cose ce lebrayasi ogni negozio di privato diritto. In tal guisa la civile potestà, rimossa ogni violenza, e tolla via ogni in certezza per la solennità de’ giudizi, riforma il costume, e distribui fra i cittadini la cosa certa e civile, che in buona ed in gran parte ricuperarono il vero ed il pudore, che sono i due perpetui aggiunti del diritto naturale. Da questa metamorfosi, per dir così, del dominio, della libertà e della tutela, per la quale il diritto da violento che era si trasmuta in moderato, ebbe origine il diritto civile; e la patura medesima delle cose insegna essere ciò avvenuto a ogni popolo, che dal diritto delle genti maggiori vennero sollo la potestà civile. Dopo dunque l’originaria acquisizione del diritto naturala all’uomo, dopo l’altra introdotta dal diritto delle genti maggiori, coo che il padre, posti i confini, distinsero il dominio delle terre, surse la terza acquisizione introdotta dal diritto civile. E qui sinotiche come il dominio, la libertà, la tutela costituiscono nella cosa pubblica l’autorità civile, il privato diritto del pari a questi tre sommi capi si riducono. Al dominio, col quale le cose che ci appartengono si vendicano, e contro qualunque possessore si ripetono; alla libertà, la quale ogni potere ed obbligazione comprende; all’azione, che allro non e suor chè tutela dalla legge prevedulc. Stabilita questa dottrine, volgiamo da ultimo un rapido sguardo sul diritto de’ romani Quiriti, e le vedremo mirabilmente confirmata. Chiama VICO il romano diritto un serioso poema dell’universale diritto delle genti, altese le tante Ginzioni, delle quali è ripieno. Il primo fondatore in fatto della romana repubblica muta il diritto delle genti maggiori io certe imitazioni di violenza, come sono le mancipazioni, con le quali quasi ogni atto legittimo si transige con la liberale tradizione del nodo, la úsucapione non era più la perpetua adesione del corpo al fondo occupato, ma il possesso con la volontà conservalo; la usurpazione non più consiste in una certa rapina d'uso, ma esprime col modesto significato di cilazione; l'obbligazione non più col nodo de’ corpi,ma con certo legame della parole si denota; la vindicazione col Gin lo attacco delle mani con una paglia, dellaper. Ciò da GELLIO festucaria. Pernon diral la fine di tanteal tre, l’azione personale chiamata “condictio” non più e l’andar unito il creditore al debitore, o alla cosa dovuta, ma face asi con la semplice denunzia. Le quali cose menano naturalmente a congetturare, che per talicagioni si crede il poeta il primo fondatore della città, come si è scritto di Orfeo e di Anfione vero. Ella è questa, secondo VICO, l'origine ed il progresso dell’universale diritto delle genti, il quale, tenendo fermo al principio di VICO stesso, in istretta amistà con la legge morale mostrasi perpetuamente. Parlando in fatti questo gran filosofo della giustizia universale afferma che siccome la virtù universale eccita la prudenza, la temperanza, la fortezza, perchè si oppongano alla cupidità; la giustizia universale del pari comanda alla prudenza, alla temperanza, alla fortezza, perchè dirigano le utilità. Impone alla prudenza, che ciascuno tratti avvisa la mente utili cose; alla temperanza di non appropriarsi l’altrui; alla forza di cautelar e difendere il proprio diritto. Per favole di tal natura è agevole di osservare, che quanto più il diritto civile da quello delle genti maggiori si allontana, o dalla verità della violenza; tanto maggiormeate al diritto naturale si avvicina, o al pudor della stessa giustizia rettrice ed equatrice, che come e per conoscer anche meglio l’accordo della filosofia di VICO con la legge morale, basta osservare che egli contempla l'uomo: primo nello slalo di solitudine; secondo in quello della famiglia; terzo nello stato aristocratico; quarto e finalmente nello speciali virtù si repulano, uopo è che sieno, secondo VICO, una sola virtù, e perciò universale virtù; la giustizia – il giure -- architettonica difatli, che Aristotele afferma cosi comandare alle inferiori virtù come l'architetto alle arti sue ministre, se risiede nell’animo della civile potestà, e comanda a latte la virtù che mena alla civile prosperità; risiede altre sì, come particolare virtù, nell'animo del sapienle, c regola gli uffizi di tutte le virtù per la privala tranquillilà della vita. E perchè ciò? perchè, risponde VICO, v'ha unica ragione che così della, unico vero bene, unica giustizia, e unico diritto. Ma una pruova luminosa, e senza replica, che melle d'accordo il principio di Vico con la legge morale si è la distinzione da esso lui adottata del diritto naturale primitivo e secondario. Se fa egli consistere il primo nella lu icla de’ sensi degli affetti, el'altro nel dominio della ragione: se quello solamente permette, e questo o vieta o comanda, e ciò che comanda o vieta è immutabile; chi osa negare che il diritto naturale secondario altra cosa non sia che la legge morale? Ne osta punto l’aver egli fatto sorgere il diritto civile dal diritto di violenza, che in tempi a noi remotissimi usa le genti maggiori; imperocchè tal diritto di violenza, non allra regola seguendo che quella del senso e dell’affetto, vero diritto non era, ma diritto certo, tullo proprio dicoloroche più tenevano all’istinto che alla riflessione. Il diritto però di violenza fu poscia l’occasione di far sorgere il vero diritto stato della repubblica e della monarchia. Or, nel primo stato non altra guida ha l’uomo che quella dell’istinto a cui ubbidisce come la pianta e l'animale; ma non è questo certamente il suo destino; la sua facoltà lo chiama ad un bene essenzialmente diverso da quello che dipender potrebbe dal solo istinto. Dev’egli per sè stesso crear questo bene, e passare perciò dalla servitù dell’istinto allo stato di libertà: a quella condizione cioè, per quale ubbidirebbe invariabilmenle alla legge morale, come sino a quel punto ubbidito aveva all’istinto. Deve l’uomo, a dir breve, diventar creatura libera, di automa trasformarsi in essere morale, ed un tal passaggio deve menar lo all’autocrazia la Sent il'uomo il bisogno di congiungersi condonna, e la nascita di un figlio, i suoi alimenti, la sua educazione, qualunque sia si ella stala, moltiplicarono I suoi doveri. Fin qui non conobbe egli con la compagna che un sol germe di amore, ma un nuovo oggetto fe’ nascere in entrambi una nuova relazione morale, un nuovo amore di spezie più pura del primo. La soddisfazione, il tenero interesse, la sollecitudine nella quale s’incontra per l’oggetto di questo AMORE apre in esso bellissimo tratto di morale, che resero il suo rapporto più dolce ed elevato: Ad un vincolo che da prima era semplicemente materiale si uni la stima e dall’amore interessato nacque l’amor coniugale che è sovranamente disinteressato. Ad un primo figlio un secondo ne seguì, un terzo ec, e fatti grandi questi figli, teneri legami di amicizia gli strinsero insensibilmente tra loro,e videsi nascere l'amor fraterno tra Romolo e Remo che non è punto interessato. Stretti altri uomini dal bisogno, palleggiarono con questa prima famiglia di prestar l'opera loro, a vantaggio lo tantocon l'avanzar de’lumitutt’il membro della citta si crede idoneo alle funzione che prima da’ soli padri si esercilavano, e sursero allora la repubblica e la monarchia, dove si ni in gran parte il certo dell’autorita,e comincia il vero della legge. Sollo queste forme di governo lulla si spiega la moralità dell’azione, perchè si dissero azione della stessa, per una convenuta mercede. Surse allora la società tra padroni, dove il padre comanda al proprio figlio, a questi famoli ancora; e tale società dal nome de’ famoli si appellò famiglia. Dalla famiglia surse ben toslo un certo naturale governo. Stabilita l’autorità paterna sul figliuolo bisognoso di aiuto e sui famoli ha già il fanciullo contratto l’abito di rispettare la volontà del genitore. Quando fatto grande, il figlio divenne padre ancor esso, doveltero i di lui figli onorar colui verso il quale vedevano che gran rispetto porta il padre loro; supposero quindi nell’avo un’autorità superiore a quella del proprio padre. E perchè l’avo in ogni litigio pronunzia sempre in tuon definitivo, un taluso, per più a poi osservato, stabili finalmenle in sua persona un potere sovrano su tutt’i membri della famiglia. Ebbe di qui origine il governo patriarcale, che lungi dal puocere all’altrui libertà ed eguaglianza, dovelte anzi valere a garenlirla e consolidarla. Più famiglie particolari, per comune utilità riunite, costitusce la tribù; più tribù di Romolo la citta di Romo, dove i cittadini dovellero amarsi come I fratelli di una stessa famiglia, e prestare a Romolo, il capo delle tribù riunita la stessa ubbidienza che ogni membro della famiglia presta all'avo. E perchè questa ubbidienza proviene da sentimento di vera stima verso gli aozi del capo, dovelte essere perciò in supremo grado disinteressata.  Ma qui potrebbe dirsi che l'uomo, secondo VICO, nei quattro stati su indicati noo altro cerca che l’utile proprio. Nello stato di solitudine in fatti cerca egli semplicemente la sua salvezza. Presa moglie e fatti figliuoli ama la sua salvezza con quella della famiglia.Venuto a vita civile ama la sua salvezza con la salvezza della città. Distesi gl’imperi sopra altri popoli ama la sua salvezza con la salvezza dal paese. Uniti i paese per pace, alleanza, commercio, ama la sua salvezza con la salvezza del genere umano. L'uomo, conchiude Vico, in ogni circostanza cerca principalmente l'utile proprio.Il perchè non da altriche dalla provvidenza divina può esser guidato a celebrar con giustizia la familiare, l’eroica e finalmente l’umana fori morali quelle soltanto che si facevano nell’interesse della morale, senza domandare anticipatamente, seerano gradevoli. Ogni aspetto sotto il quale la moralità si manifesta si ridusse ne’ goverai umani ai due seguenti. O sono il senso che propongono farsi la tal cosa o non farsi, e la volontà ne decide dietro la legge della ragione, o è la ragione che prende l’iniziativa, e la volontà ubbidisce, senza consultare il senso. governo. Così è, diciamo pur noi, ma perchè l’utile che cerca l’uomo, tosto che si è reso superiore all’istinto, è subordinato ro a quello della famiglia; secondo a quello della città; terzo all’utile del paese; quarto all'utile di tutto il genere umano; l’utile che cerca l’uomo in ogni stato su m e o tovati non èl'utile variabile, ma quelloche è figlio dell’onestà, la quale, come Vico si esprime, talmente dirige e pondera le cose utili che a tutti giovano egualmente. ma di Ma perVico, si torna a dire, lulto questo è opera della provvidenza. Dalla provvidenza è vero. Fabbro però il diritto naturale del giurecosulto, di lunga mano di verso dal diritto naturale del filosofo che alla norma della ragione eterna lo agguagliano sempre. Ma essendo la repubblica degli ottimati quasi tutte ridotte in democrazia o principali, le qualidue forme di governo vengono regolate più secondo l’ordine naturale che secondo il civile; per queste cagioni venne a rallentarsi la custodia del diritto delle genti maggiori più antiche, sul quale diritto poggiavano sopratutto la re-pubblica degli ottimi, essendo propricla di quello stato la custodia delle palric consucludini. Vico della provvidenza è l'umano arbitrio, che ha per regola la sapienza volgare, la quale è il senso comune di ciascun popolo o nazione che dirige in società la nostra azione, sicchè facciano acconcezza con ciò che ne sentono tuttidi quell popolo o nazione. Quando poi le nazioni per commerci, per paci, per alleanze sono si conosciute, la convenienza del senso comune de’popoli o nazioni tra loro, è per Vico la sapienza del genere umano. Or, il senso comune di ogni popolo e di ogni nazione, il quale deve dirigere in società la nostre azione, acciò si accordion con tutto ciò che ne peosa il genere omano: che altro può esser mai se non è la legge morale? per perciò VICO, seguendo GAIO, chiama diritto civile comu. de il diritto comune di ogni popolo. Perchè GAIO, ove define il diritto civile, dice: Ogni popolo che e governato da una legge e da una consuetudine, in parte si serve del proprio diritto, in parte del comune diritto di lultigli uomini, e ció per la divina provvidenza, che secondo la stessa opportunità delle cose lo spiegò Ira la pazione separatamente, con la loro costumanza, per la tranquillilà di ciascun popolo o nazione. Tale diritto spiegato con la comune costumanza del popolo è dalla tutela, dal dominio, dalla libertà nacquero, secondo VICO, tre pure forme dello stato. Quella DEGL’OTTIMATI, la regia, e la libera. FONDAMENTO DELLO STATO DEGL’OTTIMATI È LA TUTELA DELL’ORDINE, con che venne da prima stabilito che i soli patrizî siabbiano gl’auspicii, il campo, la gente, i connubî, i maestrati, gl’imperî, e presso legenti i sacerdoti. La regia risplende pel dominio di un solo, ROMOLO, e pel sommo e formisura libero arbitrio di esso solo in tutte le cose. La libera vien celebrata dall’eguaglianza de’suffragi, per la libertà delle opinioni, e per l’eguale adito a ogni onore, il quale adito è il censo. Imperocchè inciascuno di essi comanda un solo,o come vuole TACITO: uno essere il corpo della repubblica, e doversi governare con l'animo di un solo, o di piùa guisa di un solo. E però inciascun politico reggimento colui che è sommo è anche unico; perchè il sommo del pari che l’unico non si può moltiplicare. Ma queste tre forme pure di stati, benchè sieno da quelle particolari differenze teslè osservate, tra loro diverse; tultavolta allesa la loro origine, per virtù della quale la ragione, la volontà, il potere risiedono nell'uomo, sono strettamente tra lor collegale, e costituiscono irë parti di virtù fra loro commiste. L'ordine naturale per tanto è l’anima di ogni stato, perchè regna in quest’ordine il vero che all’ordine delle cose corrisponde, non a quello de’ nomi senza le cose, il quale non è ordine, ma sembianza di ordine. Quello dunque è l'ordine naturale dello stato, dove il prudente, il forte comanda e l’imprudente, l’imbecille ubbidisce: quali furono i primi principii dello stato, la famiglia, la clientela, gli antichissimi stati degli ottimati pur ordine civile quello che per volere della legge all’ordine naturale è frammesso, che può anche dirsi ordine politico, misto di civile e di nalurale, come nello stato degli ottimati il senato si compone de’ sapientissimi fra i patrizi; nello stato popolare il popolo viengo ver pato dall’autorità di un senato sapiente; nello stato regio il principe ROMOLO si vale del consiglio de’ sapienti. Quest’ordine misto può definirsi successione dell’onore, nella quale chi per una e chi per altra dole come per fede, diligenza, solerzia, valore, giustizia, vien riputato degno di ascendere ad onorale cariche, e dalle minori alle maggiori gradatamenle viene promosso: di guisa che i migliori sempre preseggano, e vigilino su I costumi degl’inferiori e li dirigano. Ma quando gli ottimati divennero nomi vani che li distinsero dalla plebe, all’ordine naturale successe il civile, ed al vero seguì il certo, il quale altro non è che la conformità all’ordine, non delle cose, ma della parola, da cui nasce la coscienza dal dubilar sicura. Imperoc chè I primi imperi degli ottimi o si manteonero ne’ loro discendenti, o in ogni popolo passarono, o a monarchici si ridussero. Perciò l'ordine civile o è nel lignaggio come nell’aristocrazia, o nel censo come nella democrazia, o nella casa regnante come nella monarchia. Ma de la nobiltà, né il patrimonio rende sapienti. Il nascer orincipe è cosa fortuita, dice Tacito, nè altra. Siccome però il certo è parte del vero, e la ragion civile nasce della stessa ragion naturale per le cause di certo diritto, così l'ordine civile per natura sua fa parte dell’ordine naturale in quanto è esso cagione della pubblica sicurezza, ond'è che anche la citta la più corrolla da questo stesso civile ordine viene conservata. Ed è per quanto però la mente è più verace del discorso, altrellanto l’ordine e più stabili della legge; im pe rocchè la mente sempre una cosa detta al parlare, ma pel giudizio, o sia per la volontà, noi più volte falliamo, servendo spesso a ciò che dice il senso, senza ascoltar la mente. La parola in oltre non viene sempre con prontezza alla mente, spesso non esprime i suoi comcetto, mentre viene quella incessantemente spronala a raggiugnere  Ma questi ordini per la via della legge col timor delle pene, con la speranza de un premio, impongono al cittadino di rettamente comportarsi. Per la qual cosa l’ordine e più stabile dalla leggr: onde avviene che la legge ri posino sull’ordine, e che questi conserva la legge; im. perocchè l’ordine politico, il quale è misto di ordine naturale e di ordine civile, con maggior ragione di ciò che Aristotele della legge disse, è verameole una mente scevera di affetti. E come che la mente del popolo io generale sia scevera di affetti, pure questa mente stessa suole addivenir talvolta turbatissima, sopra tutto ove sia commossa da intestine turboleoze. Qual fu la mente del popolo di Atene, e quella del popolo romano sconvolta dal demagogo, che indussero l'uno e l'altro popolo, con particolare legge fuori l’ordine promulgate, a bandir dalla patria uomini di chiara virtù, per elevare ad amplissimi onori immerite volissimi cittadini. Vero, il la qual forza di vero altra cosa non è che la ragione. Or, la parola sovenli volte elude questa forza di vero, per la perversa volontà di chi ragiona. L'ordine perciò naturale e l'ordine misto è il solo che può con giustizia amministrar il diritto, e questo avviene quando uomini per sapienza e per virtù prestantissimi, giusta l’ordine naturale, e non secondo l'ordine concepu. Siegue da tullo ciò che il diritto chiamato da Grozio e Kelsen puro, e da GAIO DIRITTO COMUNE  a tutti i popoli, altro non è ch e il diritto naturale, il quale h aperto della parola, o che torna lo stess, non secondo il certo della legge, ma giusta il vero della legge stessa, reggano gli stati. E perchè la leggr in moltissimi casi mancano ed è necessaria l’interpretazione che a la deficienza supplisca; può accader ancora che sollo la stessa autorità del diritto non solo qualche volta per ignoranza si erri, ma la stessa legge con frode si eludano. Più felice dunque e quello stato, nel quale il civile ordine e misto più secondo il naturale ordine o secondo l'ordine del vero che secondo l’ordine del certo. Quindi ove si conservino la legge imposta dall’ordine, e mollo più gli Ordini che le leggi si cuslodiscano, verranno gli Stati conservati. Ma se le leggi mancano, gli stati rovinano. Perciòsiamo servi della legge, diceva Tullio, per poter esser liberi. Convertendo dunque la massima si dirà pure con verità: se ci libereremo dalla legge, saremo naturalmenle servi. la legge morale; perchè, secondo Vico, non può darsi diritto senza morale. Iolanlo è da nolarsi diligentemente che VICO distingue il diritto io diritto vero, e diritto certo. Quello è per la ragione, questo per l'autorità. Il primo dirige l'uomo libero, il secondo l'uomo che più della liberlà segue l’istinto. Or cgli è evidente che negli stessi umani governi la più gran parte degli uomini, tenendo più all’istinto che alla libera elezione, si lascia più facilmente guidare dall’altrui autorità che dalla ragione. Di qui la necessità di un diritto misto, secondo le esigenze de’ popoli e le diverse forme di governo. Ma da ciò non segue che coloro i quali con la loro autorità oe fondamento impongodo a’ popoli, essendo essii più sapienti, i più prudenti, come vuole VICO, non si propongano per i scopo il diritto vero e che non sieno al caso disco prirlo, senza darsi gran pena. La destinazione infalli del l'uomo non può dipendere dall’istinto, e tosto che l'uomo si conosce libero e la sua ragion consulta, questa gli ordina di conservarsi e di perfezionarsi: di essere cioè savio, moderato, prudente; di collivar l’intellelto, e nel tumulto de’ sensi e degli affetti di cautelare la volontà: nel che propriamente consiste la libertà dell'uomo interiore. E perchè egli scopre in altri esseri, a lui simiglianti, la stessa attività libera, gli considera tutti eguali, e tale scoperta fa nascere in lui l’obbligazione di lasciar i suoi simili nella loro indipendenza, ed è questa la tutela. A ppresso giudica di non aver diritto su di ciò che è stato da altri prima di lui occupalo, e ciò che ha egli occupato il primo, giudica che a lui spella solamente, nel che sla il dominio. Di qui reciprocità del diritto e del dovere; di qui l’origine della giustizia che gareolisce la proprietà. Tulli gli anzidelli del diritto e del dovere, perchè fondati sulla libertà, sul dominio, e sulla tutela, o che lorna lo stesso, sulla natura dell’uomo, stanno per sè, prima che l’uomo entri con altri in società. La legge non li creano, perchè già erano prima della legge. Questa non altro fanno che conservarlo. Lo stesso diritto e lo stesso dovere servono di fondamento alla società, che il legislatore non crea ma dirige, perchè la società già era, quando il governo non era ancora.  La  libertà del diritto, dice VICO, fuprim a ch e si conoscesse la servitù. Non s’introduce già il dominio con la divisione de’campi, furono solamenle distinti. Dalla polegza di operare infine nacque tosto la tutela o difesa di sè stesso. Se non che, ammellendo Vico nell’umana mente al cuni semi del vero che con l'andar del tempo si sviluppano in cognizioni distinte ed alcuni germi del giusto che tratto tratto si spiega la massima incontrastabile di giustizia; mostrasi egli in gran parte seguace di Platone intorno all’origine di quella verità che si dice necessaria. Or tale verita, essendo per noi di due spezie, una teoretiche ed una pratica, diciamo, che rispetto alla prima, la verita teorica, l’io il quale per un alto di spontaneità si conosce e si rivela dell'appercezione, appoggiato alle quattro idee necessarie di spazio,di tempo,di sostanza e di cagione, riduce all’unità tutto il vario della rappresentazione che a lui offer il senso. Riguardo poi alle verita pratica, essendo elleno legge pratica o comando di fare, si contiene in una massima universalisabile. Quando ti determini all’azione, esamina te stesso e vedi se la tua volontà sia di accordo con la volontà generale di ogni persona. Una tal massima universalisabile è la suprema legge della morale. Che che sia però della filosofia di Vico, a noi basta di aver provato che le due sue digoilà Vl*e VII“, ben lungi dall’opporsial la legge morale, la confermano mirabilmente. Dominio, libertà, tutela tre elementi del diritto; tre elementi che costituiscono l'uomo morale. Perchè non può avervi diritto senza morale. La filosofia perciò di VICO si accorda perfettamente con la morale.  All natios bostna viSing to derive merit from the splendonr of their original. And irhere history ii uleot, they fueiuenJiy anpply the defect with fable, THE ROMANS were particnlaHy dcH^OB of being thought DESCENDED FROM THE GODS, m if to hide the meaaDess of their real ancestry. Mueas, the Bon of Veona AocUaei. having escaped ftvm the deitniotioii of Ttey, after'11MU17 adventures and dangers, atrived octet a in Italy, where  Aeneas was kindly received by Latinus, king of the latins, who gave him his daughter Lavinia in marriage. Italy was then, as it is now, divided into a number of small states, independent of each other, and consequntly subject to frequent contentions among themselves. Turnus, king of the Rutnti, is the first who opposes Aeneas, he having long made pret^uions to Lavinia himself. A war ensues,  in which the Trojan hero is victorious, and Tornus sfadn. In consequence of this, Aeneas built a city, which was eded  Lavimnm,  in honour of his wife, and some time after, engaging in another war against Hezentius, one of the petty Ungs of the country, he was vanquished in turn, and died in battie, after a reign of four years. Ascanius, his son,  succeeds to  the  kingdom,  and to him Silvius,  a second son,  ^lom be had by lAvioia. It would be tedious  and unninterealing to recite a dry catalogue of the kings that followed, and of whom we know little mtae than the names. It  will be sufficient to say,  that the  sacoesnoD coatiDiied  for  near  four  hundred years in the family,  and  that  Numitor,  the  fifteenth  from Aeneas,  is  the  last  king  of  Alba. Numitor,  vho  took  posseBsitHi  of  the  kingdom in consequence of  his  father's will, had abrpther named Amnlius, to whom are left the treasures which had been brought from Troy. As riches but too generally prev^  against  right,  Amolins made use of his wealth to supplant his brother,a nd aooo foDod means top ossess himself of the kingdom,  ot  content  with  the crime of usurpation,  he added  that  of  murder  also.  Nnmitor's  sons  first  fell  a sacrifice to his suspicions, and to remove all apprehensions of being one day distorbed in his ill-gotten power, he caused Rhea Silvia, his brother's  only  daughter,  to become a vestal virgin,  which office obliging her to perpetual celibacy,  made him less uneasy as to the claims of posterity. His precautions, however, are  all  frustrated  in  the  event;  for  Rhea Silvia,  going  to fetch wator  frqip  a  Qeighbopring grove, was met and ravished by a man,  whom,  pei^tqw  to palliate her offence, she avers to be MARTE,  the god of war. Whoever this lover  of  hers was,  whether  some  person  had deceived  her by  assuming  so great  a name, or Amnlins himself, as some writers are pleased to a£Srm, it matters not.Certain it is, that, in due time she was broug:lit  to bed of two boys, who were no sooner bom than devoted by the usurper to destmction. The mother is condemned to be buried alive -the usual punishment for vestals who had violated their  chasti^,  and  the  twins are  ordered to be flung into tbe riverTiber.It  happens,  however,  at  the  time  this  rigorous  sentence  was  put  into eieculion,  that  the  river  had  more than  usually overflowed  its  banks,  so that the place where the children are thrown, being at a distance from thei main cnirent,  the water is too  shallow to drown them. In this ntoation, therefore, they continued without harm; and  that  no  part  of  their  preservatioD  might  want  its  wonders,  we are told,  that  they were for some time  suckled there by a wolf,  until Fanstulos,  the  king's  herdsman,  finding  ihem  exposed, brought  them  home  to  Acca  Laurentia,  his  wife,  who  brought  them up  as her  own.  Some,  however,  will  have  it;  tiiat  tbe  nurse's  name  was  Lnpa,  which  gaya  rise  to  the  stoijr  vt  their  being  nouriihed  by  a  wolf;  but  it  is  needless  to  vfad    Do,l,,-cdtyS  oirt a  iwglH  MBpg«b«ba%  fian  'venevntB  vbtfe  die  vkote «  omgrowB  with  ftUe.   Boraoloa  and  Bemna,  Ae  twins  thtu  strangely  prcwcved.  Memed  eariy  to  diacover  afai)iti«i  uid  desiret  above  the  me«i-  noH  of  thor  aapposed  origiiuL  The  ahepkenl's  life  be^an  to  di^leaae  them,  aod  fnaa  tending  the  flock,  or  hantiag  wild  beasts,  they  soon  tnmed  their  strength  agsinst  the  robben lonnd the eonntry, whom they efien atfipt of their [daader to share it among their  feUew-shepherds.   In one  of  these  ezcmnons  it  was  that  Remus is  taken priaoner  by  Nvmttor's  berdsmen,  who bring him before  the  king,  and  aoensed  him  of  the  very  crime which he bad ao  t^tea attempted  to sappresa. Bomnlaa, bowerer, beii^  informed 1^  FaiiBtaliu  of his real birth, was not  remisa  in  assembling  ft  munber  of  hia  fbllow^epherds,  in  order  to  resooe  bis  brother  from  posoD,  and  foroe the kingdtmi from  tbe  bands of  tbe  nsnrper.  Yet, being too feeble to act openly, he direcs bis followers to assemUe near the place by different ways, while  Beniiis  with  eqnal  vigilaooe  gm&ed  npon  tbe  dtiuua  within. AmalioB,  tfans  beaet on all sides, and not knowing iriiat expedient to thinkof  for bit seoiuity, was,daring hia  amasenent  and  distraotion,  taken  and daio, while Numitor who had been deposed forty-two  years,  recognised  bis grandscns,  and is restored to the throne.  Nnmitor  being  tints  in  qvet  posiewion  of  the  kingdom,  hot  grandaou  resolred  to  bnild  a  eify  npoo  those hills whoe they had formerly lived as aheiriierda. The  king  had  too  many  oUigations  to  them  not  to  approve  their  des^;  he  appointed  tbem  lands,  and  gave  pennisnoB  to  .snoh  of  hia  subjects    thoo proper  to  settie  in  their  new  colony.  Many  of  the  neil^draariiig  shejdierda  also,  and  sncb  as  were  fond  of  change,  lepabed  to  the  intended  dty,  and  prepared  to  raise.  For the more  speedy oarrybg on  this  work, the  people  were  divided into two parts, each of whioh, it was sapposed, woidd indoatriondy emnlate the otfaer. Bat what  was  designed  fi»  an  advantage proved  nearly  fatal  to  this  infimt  oolony: it gives birth to two factions, one preferring Romulus, the other Remus,who  themselves arenot agreed upon the spot where the city shonld stand. To terminate this difference, they are recommended by the kingto take an omen from the flight of birds; and that be, whose ome should be most favoorable^  afaonld  in  all  reepeots direct die odier. In ooatflSaaoe wiOl this advice,thej both take   their  stations  npon  diffra«nt  hilk. To  Remus  appear  six  vultures,  to  Romulus,  twice  that  number,  to  ttwt  each  party  thongfat  itielf  viotoriovi,  the  one  tiaviog  the  *first*  omen,  the  other  the  most  nnmeroiu.  Tbifl  prodnoed  a  contest,  whitdi  ended  ui a batde, wherein Bemoa is slain,  and it is even said, that he was kiUed by his brother, who, facingprovoked at his leaping contemptnoasly over the city  wbU,  itrack  him dead upon  tbe  qrat,  at  the same time proKssio^, that nooe shonld ever inanlt his walla withim punity.  Romoltu, being now sole  coHunuider,  and  eighteen yean of  age,  b^an  the fonndation of  acity,  that was one day to give laws to the woild. It was called Rorne after the uaaie of the founder, and bnilt npon the Palatine hill, on which he had taken lus ancceflsfol omen. The city was  at first almost square, oontaining «bont a tlwiisand houss. It was near a mile in compass,  and commanded  a small  territory  ranod  it  of  about eight  miles  over.  However,  smallas  it  appears,  it  was,  ootwithstandiiy,  vone  inhabited;  and  the  first  method  made  uae  of  to  increase  its  numbers  vaa  the  opemng  a  sanctosry  for  all  male&otors,  slaves,  aod  snch  as  wm«  desirons  of  novelty.  These came in  great multitudes,  and  cootibated  to  increase  the  number  of our  legtslatoi'B  new  subjects. To  have  a  just  idea  ther^re of  Rome in its infant  stale,  we have  only  to  iwsgine  a  coUec-  tion  o(  cottages,  sairotinded  by  a  feeble  wall,  rather  built to  serve  as  a  military  retreat,  than  for the  purposes  of  civil  >o-  cie^,  rather filled  with  a  tnmoltuoas  and  vicious  rabble,  thaD  with  subjects  bred  to obedience  and  control.We have only to conceive men bred to  rapine,  Iwing  in  a  place  that  merelj  seemed  calculated  for  the  security  of  plonder;  and  yet,  to our astonishment,  we  shall  soon  find  this  tumulbioas  coocouise  unit>  ingin  the  strictest  bonds  of  sode^;  this  lawless  rabble putting OB the most sincere regard for religion;  end,  thouf^  composed  of  the  dr^s  of  mankind,  setting  examples,  to all  the  worid, of  valour  and  riitne.    Doiii,,ih,.   WWLOU   SoARGB  mm  tbe  city rnsed  abore  iti  &niid«tioB.  vhen  Hs  rade  mhalulsBtB  hegaa  to  tfauik  of  gmag  some  fonn  to  their. MoslitBtioii.  Their first  object  was  to  unite  lifoer^  and  empire;  to  fonn  a  kiod  of  mixed  monncby,  by  irfaicfa  all  power  vw  to  be  dividad  between  the  prince  and  the  peopte.  Bo- nlna, by an act of  great geoeromtf, left  them  at  liberty  to dwose whom they wonld for dieir king,  and  tliey  in  gnrtitiide  eoBcmred  to elect their founder; be was accordingly acknowledged as  chief  of  dieir religion, sovereign magistrate of Rorne,  md geoeral of  Ae army. Beside a guard to attend his person, it was agreed that he should be preceded wherever be went by tweW e mCT,  armed with axes  tied  op  in  a  bnadle  of  rods, who were to  serve  as  execntioners  of  the  law,  and to impress  hii  new subjeots  with  an  idea of his authority.  Yet  stUl  tUa  aKiboriQr  was  ondw very  great restriotii»ig,  as  his  whole  power  CMisisted  in  caQing  the THE SENATEsenate  togedier,  in  assembling  the  peo  tMibstont  and  fierce  as  the first  Romans,  it  was  wise  to enforce  obedience  t  &6  most  reqnidte  dnty.  lie first care of the new-created  king is to  attend  to  the  interests  of  religion,  and to endeavour to  hnmantse  his  subjects, by the notion of  other  rewards and pnnishnients than diose  of hnman  law. The  precise form of  their  worship  is nn- known;  bat  die greatest  part  of  the  religion  of  that  age con-  siMed  in  a  firm  relianoe  upon  Ae  credit of  their  soothsi^ers,  irito fvetended,  from  observations  on  the flight  of  birds  and  the  entrails  of  beasts,  to  direct  the  present,  and  to  dive into  fntmrity. This pioos fhrad, wbich  first  uvse  from  ignorance, soon  became  a  most  usefnl  machine  in the  hands  of  government.  Romnlns, by  an  express  law,  commanded,  that  no  election  should  be  made,  no enterprise  undertaken,  witfa-  flat  first  conaolting  die  soothsayers. With  equal  wisdom  he ordained, that no new divinities  should  be  introdoced  into  pnhlic  worship,  that  the  priesthood  should  continue  for fif,  and that Aone  shonM be  elected  into it  before  the  age  of  fifty.  He  fort>ade  them to mix  fable  witb  the  masteries  of  their  reUgion;  And,  timt  they  mi^t  be  quaKfied  to teach others, he  ordered  Aat  tiiey  should  be  tiie  iHstoriographns  of  tiie  times;  so  tiia^  while  instructed  by priests  Bk^  these,  the people  cordd  never  degenerate  into  total  barbarity. Of  his  other  laws  we  have  but few  fragments  remmnii. In these, however,  we  learn,  that  wives  were  forbid,  upon  any  pretext  whatsoever,  to separate from  tbeir  husbands;  wUle,  on  the contrary,  the  husbaod  was empowered to repudiate the wife, and  even  to  put  her  to  death  with  the  consent  of  hef  retatioQB,  in case  she was detected  in  adultery,  in  attempting to  poison,  in  making  false  keys,. or even of  having drunk too  much  vine. His laws  between  children and  their  parents  w«'e  yet sdll  more  severe;  the  father  had  entire power over his  offspring,  both  of  fortune  and  fife;  he  conid  ell  them  or  imprison  them  at  any  time  of  their  lives, or in any ttations to which they  were  arrived. The  father  might  expose  his  clnldren,  if  bom  witii  any  deformities, having previoasly eommunicated  bis  intentions  to  his five  next  of  kindred. Our lawgiver  seemed moze  kind  even  to  his  enemies, for his subjectswere prt^hited  from  killing  them  after  they  bad  surren-  dM«d,  m  even  from  sdling  them:  his  ambition only aiaied at    .,Coo  many  endeaToiiTs  to  inoraase  bia  BnbjeotBi  aad  m  mmy  Inra  to  r^nlate  them,  he  next gave ordeis  to  ascertna  tbeir  numbers.  Tbb  whole  amoanled  bat  to  three  tbooMnd  foot,  and about as  many  bnndred  horsemen,  capable  of  beari^  arms. These,  therdbre   were   divided   equally   into   three tribes,  and  to  each  he  asiigaed  a  different  part  of  the  taty. Each  of  these  tribes  were  sabdivided  into  ten  cmin  or  compame,  consiBting of an  hundred  men  each,  with  a  oentnrioB  to  command  it,  a  priest  c^ed  curio  to  perform  the  sacrifioes,  and  two of  the  principal inhatntants,  called  duumviri,  to  distribute jnstioe. Aocordijigly to the  number  of  ooriv  he  divided the  lands  into  thirty  parts,  reserving  one  portion  for  public  uses,  and  another  for  religiaus ceremonies. Tbo  «m- phaty  and  fingality  of  tha  times  will  be  best  iindeistood  by  observing,  that  dach citizen had  not  id>ove  two  ictea of  ground  for  his  owB  subsistence.  Of  the  horsemen  mentioned  above,  dtere were  chosen  ten  from  eei^  curia;  tfaey  were  particularly  appointed  to  fi^t  round  the  person  of  the  king;  of  them  hU  gaud  was composed, and from  tbeir  alacrity  in  battle, or  fhuB  the  >ame  of  their  first commander,  ^ey  were  called  ceUrat,  a word  equivalent to  our light horsemen. A goremmcot  thus  wisely instituted,  it may  be suppoaed, nduced  numbers  to  come  and  live under it:  each day  added to  its  strength,  maltitudes  flocked  in  from  all  the  adjacent  towns,  and  it  only  seemed  to  waqt  women  to  ascertain  its  duration. In  this  exiaeiatx,  Romulus,  by  the  advice  of  the  senate, sent deputies among the  Sabines, his  neighbours,  entreatingtheir  alliance,  and upon  these  terms-  ofiering  to cement  the  most  strict  confederacy  with  them.  The  Sabines, who were then considered as the  moat warlike  people  of  Italy,  r^ected  the proposition with disdain,  and  some  even  added  raillery  to  the  refusal,  demanding,  that  as he  had  opened  a  sanctuary  for  fugitive slaves,  why  he  had  not  also opened  another  for  prostitute  women. Tbis  answer  quickly  raised  the  indignation  of  the  Rpmans; and the  king, in  order  to  gratify  their  resentaient,  while  he  at  the  same  time  should  people  hb  ci^,  resolved  to  obtain  by  force  what  was  denied  to intrea^. For  this  purpose  he  proclaimed  a  feast,  in  honour  of  N^tane,  diron^ut  all  the  nMghboitring villagea, and made  the  meet KAPB  OF  THK  BABINBS.  t   mmgaiAMat  pnftamtkmi  for  it  Tbets  feuta  wen  guan^  preceded  by  sacrifices, and ended in shows of  wreeden,  ^ft-  diaton, and  chariot-^onrses. The  Salnnes, as  he  had  expected, were among the foremost  who  came  to  be  spectalon^  fannging  their  wives  and  daughters  with  them  to share  t^  pkasore  of  the  sight.  The  inhabitants  also  of  maaj  of  tht  ueig^hoariDg  to^os  came, who  were  received  by  the  RomaM  with  marks  of  the most cordial  hospitality. lo the  mean  time the  games  began, and  while  the  strangers  were  most  intent  upon  the  spectacle,  a number  of  the  Roman  yonth  rushed  la  mnoag  them  wiUi  drawn  swords  seized  the  yotingedt  and  meet  beaatilid  women, and earned them off  by  violence.  ,  In  vain  the  parents  protested  against  this  bre&cfa  of  hospitali^;  in  vain  the  virgins  themselves  at  first  opposed  the  attempts  of  th^  raviBfaers;  perseverance  and  caresses  obtained  those  &•  TOWS  which  timidi^ at firstdenied:  so  that  the  betrayera,  frma  being  objects of  aversion,  soon  became  partners  of  their  dearest  affections. But however the afiront might have been botne by them, it was  not  BO easily pnt  up  by  their  parents;  a bloody  war  ei^  sued. The  cities of  Cenioa,  Antemna,  and  Cnutuminm,  wen  the  &at  who  resolved  to  revenge  the  common  cause,  which  the  Salnses  seemed  too  dilatory  in  pursuing.  These,  by  making aeparate inroads, becamea  more  easy  conquest  to  Romulus,  who  first  ovothrew  the  Ceoinenses,  slew  dieir  king  Acron  in  sio combat, -and made an offering of the royal spoils to Jupiter Feretrius, on the  spot  where  the  capitol  was  afterwards  built  The  Antemnates  and  Crustuminians  shared  the  same.  fate;  their  armies  were  overthrowu, and their cities takes. The conqueror, however,  made  the  most  merciful  use  of  las  victny;  for  instead (rf  destroying their  towns,  or  lessemi^l  tbent  nnmbeis,  he  only  placed  colonies of  Romana  in  them,  to. serve  as a frontier  to  repress  more  distant  invasions.Tattos,  king  of  Cures,  a  Sabine  city,  was  the  last,  althou^  the  most  formidable who undertook to cevuige  the  disgrace  his  country  had  suffered.  He  entered  the  Roman  territoriea at  the  head of twenty-five thousand  men| and not content  with  a  superiority  of  forces,  he  added  stratagem  also. Tarpeia, who  was  daughter  to  the  commander  of.  the  Cajutolme  hill,  happened to  &11  into his hands,  as  she  went  without  4>e  walls  of  the  city  to  fetch  water. Upon her  he  prevailed,  by  meant  of   hrga  pttuSaet,  to  bebrajr  aae  of  the  ^^ates  to  his  army.  Tlie  i«<irwd  she  eagdgei  for  was  vfaat  the  soldiers  wore  on  their  atteB,  by  vfaich  the meaot their  bracelets.  They,  however,  cotber  miataking^  her  meaning,  or  wiUing  to  panish  her  peifidy,  ttvew  tlieir  bncklera  upon  her  as  they  entered,  and  crushed  ber to  death beneath  them. The  Sabines, being  thus  possessed of  the  Capitoline, had the  advantage  of  continning  the  War  at  tbeir  pleasure;  and  for  some  time  only  slight  enconnters  passed  between  them.  At  length,  however,  the  tedionsness  of  this  contest  began  to  weary  out  both  parties,  so  that  each wished,  but  neither would stoop  to  sue  for  peace.  The  desire  of  peace  ofteii  gives  vigour  to  measures  in  war ;  wherefore  boUt  sides  resolving  to  terminate  their  doubts  by  a  detMsive  action, a  general engagement ensued,  which  was  renewed  for  several  days,  with  almost  equal  success.  They  both  fon^t  for  all  that  was  vEduable  in  life,  and  neither  could  think  of  submitting: it  was  in  the valley between  the  Capitoline  and  Qui-  rinal  hills,  that  the  last  engagement  was  fought  between  the  Romans  and  the  Sabines.  The  engem«it  became  general,  and  the  slaughter  prod^ioua,  when  the  attention  of  both  sides  was suddenly  turned  from the scene  of  horror  before  them,  to  (mother  infinitely  more  striking. The Sabine women, who  h^  been carried off  by  the  Romans,  were  seen  with their  hair  loose  and  iheir  ornaments  neglected,  fiying  in  between  tbe  combatants, regardless of their  own  danger,  and  with  loud  outcries  only  solicitous  for  that  of  their  parents,  their  husbands,  and  their  cUIdren.  "  If,"  cped  ihey,  "  you  are  resolved  upon  daughter,  turn  your  atma  upon  us,  since  we  only  are  the  cause <tf  your  animosity. If any  must  die,  let  it  be  us;  since  if  oar  parents  orour  husbands  faU,  we  must  be  equally  miserable  in  being  the  surviving  cause."  A  spectacle  so  moving  could  not  be  resisted  by  the  combatants;  both  sides  for  a  wtiile,  as  if by  mutual  impulse, let fall  their  weapons,  and  beheld  the  distress  -  in  silent  wnazement  The  tears  and  entreaties  of  thdr  wives  and  daughters  at  length  prevaUed;  an  accommodation  ensued,  by  which  it  was'  agreed,  that  Romulus  and  Tatius should  t«ign  jointly  in Rome, with equal power and prerogative;  diat  an  bailed  Sabines  should  be  admitted  into  the  senate;  that  the  city  should  still  retain  its  farmer  name,  but  that  As  citizens  should  bctdled  Qnirites,  after  Cures,  the  principal  town  of  the  Sabines; and that both  nations being thus united.   11   •aoh  of  the  Sabtees  u  i^ose  it  shoiM  be  sdnAted  to  Bniad   eDJoy  all  the  privilegea  of  citizens  oi  Rome.  llaH  erery  •torm,  vhich  seemed  to  threateo  this  growing  empire,  only  served  to  increase itvigour.  That army, wfaich  in  die  mondug  had  resolved  upon  its  destruction,  came  in  the  evetlin^  with  j(^  to  be  enrolled  uiDoag  the  number  of  its  ctttzens.  RomfoloB  saw  his  dominions  and  his  sul^ects  increased  by  more  then  half  in  the  space of  a  few  hours; and, as if  fortune meant every way to assist his greatness,  Tatins,  his  partner  in  the  govem-  ment,  was  killed  about  five  years  after  by  the  Lavinians,  for  having  protected  some  servants  of  his,  who  had  plundered  them  and  slain  their ambassadors; so that by this accident Romulus once more saw himself sole monarch of Rome.   Rome  being  greatly  strengthened  by  this  new  acquisition  of  power,  began  to  grow  formidable  to  her  neighbours ;  and  it -aiay  be supposed, that  pretexts  for  war  were  not  wanting,  when  prompted  by  jealousy  on  their  ride,  and  by ambition  on  that  of  the  Romans.  Fidena  and  Cameria,  two  oe^hbonring  cities,  were  stibdoed  and  tAken.  Veii also, one of the most power Ail states of Etruria, shared nearly the same fate;  after  two  fierce engagements  tiiey  sued  ftM*  a  peace  and  a  league,  which was granted upon giving np the seventh part of tbev dominions, their salt-pits near the river, and  hostages for greater security. Successes like these produced an equal share of pride in the oonqneror. From being contented with those limits which had been wisely fixed to his  power he began to affect absolute sway, and to govern those laws, to which he had himself formerly professed implicit obedience. The senate was particularly displeased at  his  conduct,  finding  themselves  only  used  as  instrom^its  to  ratify  the rigour of his commands. We are not told the precise manner which they made use of to get rid  of  the  tyrant: some say that be was torn in pieces in the senate botise; otiters that he disappeared  while  reviewing  his  army:  eertain  it  is,  that  from  the  secrecy  of  the  fact,  and  the  concealment of the body, tbey took occasion to persuade the multitude, that he was taken np into heaven; thus him whom they oonld not bear as a king,  tbey were contented to worship as  a god: Romnlns reigned tlnrty-seven yean, and after his death bad  a temple  built  to turn under the name of  Quirinus, one of  the Hwrton wilwMly vffiiniaff, that be had appeared to hm, and desired to be isTtAed by that tide. We see little more in the obaraeter of this princ, than vhat mi^t be expected in andk an a^, great temperance and great valour, wbich  generally  make  np  the  catalt^e  of  sar^^e  virtues. Howeva,  the  gnndenr of an empire, admired by the whole irorid, creates in  u an adnuration of tiie founder,  viftoat mnch raamimng' hia. Grice: “Most of Colecchi’s essays are easily available, and it’s easy enough to check his references to other Italian philosophers – not just Vico, as I have done – but Rogmanosi, and even ancient Roman ones like Cicero – and perhaps more importantly his influence on the so-called Neapolitan Hegelians!” -- Ottavio Colecchi. Keywords: Vico, il Vico di Collecchi, Cacciatore, Macchiaveli, Lazio, Romolo e Remo, Kant, categoric imperative, massima, first-hand knowledge of Kant, Colecchi Kantiano, ma non aristotelico – il kantismo di Colecchi – l’italiano kantiano di Colecchi – il vocabolario kantiano in Colecchi – analitico – sintetico – sintetico a priori – giudizio necessario – Romolo e Remo, diritto naturale, lingua e nazione, Marte, Saturno, Giove, etimologia di Vico, il Lazio, il senato romano, ottimati, storia di Roma, diritto romano, psicologia razionale, psicologia filosofica, l'istinto, la passione, la ragione, la sensazione, l’intelletto, spazio-tempo, l’azione, l’agire como reame della morale, massima d’azione, la regola di oro – la rifutazione di Vico all’eudaimonismo di Aristotele e al utilitarismo di Bentham, lo caduco e lo no caduco, ius naturale, ius artificiale, ius como la virtu unica, giustizia equittrice e rettrice, giustizia commutative e giustizia distritutiva, l’ordine aritmetico e l’ordine geometrico – progression arimmetica, progressioe geometrica, la base matematica della filosofia di Colecchi, l’amore, amore interessato, amore disinteresatto, salvezza, uomo, padre e figlio, uomo come cittadino, il genere umano, la massima universalisabile, l’onesto, fortezza, prudenza, toleranza, virtu, vizio, il vero versus il certo, la nascita della morale dal ordine agglomerazione sociale, la potesta naturale, il dominio, la tutela, la liberta, libero arbitrio e passione, autorita e ragione, forza, autorita e raggione, l’ubbidenza che il figio mostra al padre, il ruolo dell’avo, la societa di equali, il modello della societa romana antica, la societa dell’amicizia, Eurialo e Niso, L’Enneada, la lingua del contratto come requisite del patto sociale, la parola e il concetto, la formola della parola, verbum/res, res pubblica, communita, diritto comune, bene comune, l’ordine: primo stato dell’uomo in solitudine, l’ordine della famiglia: societa di inequali, padre/figlio, terzo stadio: la tribu di Romolo, la citta di Romolo, il paese di Romolo, il genero umano, diritto universale di Vico e Kant, Hampshire on Vico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colecchi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice e Colletti: la ragione conversazionale e  l’implicatura conversazionale dei curiazi, ovvero, politica romana – scuola di Roma – filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo romano. Filosofo lazio. Filosofo italiano. Roma, Lazio. Grice: “I like Colletti – he takes political philosophy seriously unlike we of the Lit. Hum, not PPE school, at Oxford! But then he is a Roman and has all the Orazi and Curiazi traditions!” Si laurea sotto Volpe. Insegna a Roma. “Partito Socialista Italiano”. Altre saggi: “Il marxismo e Hegel, in Lenin, Quaderni filosofici, Milano, Feltrinelli, Ideologia e società, Bari, Laterza, Il marxismo e Hegel, Bari, Laterza, Il futuro del capitalismo. Crollo o sviluppo?, e con Claudio Napoleoni, Bari, Laterza, Intervista politico-filosofica, con un saggio su Marxismo e dialettica, Roma-Bari, Laterza, Il marxismo e il "crollo" del capitalismo, a cura di, Roma-Bari, Laterza, Tra marxismo e no, Roma-Bari, Laterza, Tramonto dell'ideologia. [Le ideologie dal '68 a oggi; Dialettica e non-contraddizione; Kelsen e il marxismo], Roma-Bari, Laterza, Crisi delle ideologie. Intervista politico-filosofica, Il marxismo, Le ideologie dal '68 a oggi, Milano, Club degli editori, Pagine di filosofia e politica, Milano, Rizzoli, La logica di Benedetto Croce, Lungro di Cosenza, Marco, Fine della filosofia e altri saggi, Roma, Ideazione, Lezioni tedesche. Con Kant, alla ricerca di un'etica laica, Roma, Liberal, È morto C. voce "contro" di Forza Italia, su repubblica, Camera dei Deputati, Gruppo Parlamentare di Forza Italia, Ricordo di C., Roma, Stampa e servizi, Orlando Tambosi, Perché il marxismo ha fallito C. e la storia di una grande illusione, Milano, Mondadori, Ministero per i beni e le attività culturali, C.: il cammino di un filosofo contemporaneo, Roma, Essetre, Pino Bongiorno, Ricci, C. scienza e libertà, Roma, Ideazione, Corradi, Storia dei marxismi in Italia, Roma, Manifesto libri. C., LaTreccani L'Enciclopedia Italiana.  C. su Camera XIII legislatura, Parlamento italiano. Lucio Colletti, su CameraXIV legislatura, Parlamento italiano. La storia di C. di Preve, nel sito Kelebek Roma. Partito Comunista Italiano” Forza Italia”. Il saggio di C. Marxismo e dialettica fu scritto «a chiarimento di alcuni temi toccati» nell’intervista apparsa sulla “New Left Review”, e pubblicato con la traduzione italiana dell’intervista. Più esattamente Colletti si propone di chiarire la «differenza tra opposizione reale (la Realopposition o Realrepugnanz di Kant) e contraddizione dialettica. Si tratta di opposizioni radicalmente diverse: la prima è «senza contraddizione (ohne Widerspruch)», la seconda è «per contraddizione (durch den Widerspruch). La opposizione dialettica è espressa dalla formula A non-A, nella quale ciascun opposto è solo la negazione dell’altro, ma non è niente in sé e per sé. I poli dell’opposizione sono cioè ambedue negativi, più esattamente ciascuno è la negazione dell’altro, ma solo all’interno dell’unità con l’altro. Quindi «entrambi gli opposti sono negativi, nel senso che sono ir-reali, non-cose (Undinge), ma idee». Ciascun opposto ha la sua essenza fuori di sé, nell’altro di cui è la negazione. L’origine dell’opposizione dialettica, e della stessa dialettica, è platonica: l’unità degli opposti è la koinona ton genon. L’opposizione reale è espressa dalla formula A e B, nella quale ciascun opposto sussiste di per sé, è positivo, e perciò è esclusivo dell’altro. La cosa più importante è che Biscuso. Opposizione reale, contraddizione logica e contraddizione dialettica 4 «nell’opposizione reale o rapporto di contrarietà (Gegenverhältnis), gli estremi sono entrambi positivi, anche quando l’uno venga indicato come il contrario negativo dell’altro. Questo accade ad esempio quando ci rappresentiamo due forze eguali che muovono due corpi in direzione contraria: il risultato è la quiete, cioè comunque qualcosa (ed essendo qualcosa possiamo rappresentarcelo). «In altre parole, nella relazione di contrarietà che è l’opposizione reale, vi è, sì, negazione, ma non nel senso che uno dei due termini possa essere considerato come negativo di per sé, cioè come non-essere». Le opposizioni reali non minano, anzi confermano il pdnc, proprio perché sono senza contraddizione (dove è già implicito, come sarà confermato in seguito, che l’opposizione dialettica nega il pdnc). Il marxismo non ha mai avuto le idee chiare intorno a questi due diversissimi generi di opposizione, e non le ha avute anche perché non ha mai chiarito con sufficiente rigorosità il suo rapporto con la dialettica hegeliana. In Hegel la dialettica delle idee è al tempo stesso la dialettica della materia, nel senso preciso che è impossibile in Hegel separare le idee dalla materia: «Se si presta attenzione, si vede subito che il rapporto finito-infinito, essere-pensiero, segue il modello della contraddizione A non-A. Fuori l’uno dell’altro, cioè al di fuori dell’Unità, finito e infinito sono entrambi astratti, irreali, e l’unità che include il finito e il falso infinito (falso perché altrettanto finito, in quanto limitato dalla sua opposizione al finito) è l’Idea, il vero infinito. Dunque, commenta C., «dov’era la cosa è ora subentrata la contraddizione logica (– si badi bene: contraddizione logica e non, come ci si attenderebbe, contraddizione dialettica). Ora, il «dramma del marxismo» è aver «ripreso alla lettera» la dialettica hegeliana della materia, scambiandola per una forma superiore di materialismo. Dramma, perché quella dialettica era volta: a) alla distruzione del finito, b) alla negazione del pdnc; cioè proprio a ciò a cui la scienza non può rinunciare, anzi da cui si deve necessariamente muovere (d’altronde la scienza, che si basa sul pdnc, «è il solo modo di apprendere la realtà, il solo modo di conoscere il mondo). Avvertiti di questa difficoltà, negli anni Cinquanta alcuni marxisti polacchi e tedesco-orientali cercarono di mostrare che «ciò che i “materialisti dialettici” presentano come contraddizioni nella natura sono, in realtà, contrarietà, cioè opposizioni ohne Widerspruch; e che, dunque, il marxismo può benissimo continuare a parlare di conflitti e di opposizioni oggettive, senza, per questo, essere costretto a dichiarare guerra al principio di (non-)contraddizione e mettersi così in rotta con la scienza. Tali risultati convergevano con quelli della ricerca di Volpe: a costo di liquidare gran parte dell’opera filosofica di Engels in quanto fonte del Diamat, sembrava però legittimarsi l’aspirazione del marxismo a costituirsi come la fondazione delle scienze sociali, cioè come la scienza della società. In realtà non era possibile ritenere che il Capitale non avesse nulla a che fare con Hegel: infatti «i processi di ipostatizzazione, la sostantificazione dell’astratto, filosofia-italiana.net l’inversione di soggetto e predicato, ecc., lungi dall’essere per Marx soltanto modi difettosi della logica di Hegel di riflettere la realtà, erano processi che egli ritrovava nella struttura e nel modo di funzionare della società capitalistica stessa. Vi sono dunque «due Marx» (99): lo scienziato dell’economia politica e il critico dell’economia politica. Questo significa riconoscere i limiti della stessa lettura dellavolpiana, che condivide con molte altre letture marxiste il difetto di non cogliere le due facce del pensiero di Marx. «Quando il marxismo è una teoria scientifica del divenire sociale, è tutt’al più una “teoria del crollo”1, ma non una teoria della rivoluzione; quando, viceversa, è una teoria della rivoluzione, essendo solo una “critica dell’economia politica”, rischia di risultare il progetto di una soggettività utopica. Dunque per lo stesso Marx le contraddizioni del capitalismo sono non opposizioni reali, bensì contraddizioni dialettiche nel senso pieno della parola. Da un passo delle Teorie sul plusvalore (la possibilità della crisi è la possibilità che momenti che sono inseparabili si separino e quindi vengano riuniti violentemente) Colletti conclude che i poli dell’opposizione, separandosi, si sono fatti reali, pur non essendolo veramente: «sono, in breve, un prodotto dell’alienazione, sono entità per sé irreali seppur reificate. Teoria dell’alienazione e teoria della contraddizione, dunque, come una sola e identica teoria. la contraddizione nasce dal fatto che l’aspetto individuale e quello sociale del lavoro, pur essendo intimamente connessi, si danno un’esistenza separata. È la contraddizione di individuo e genere, di natura e cultura, già rilevata dai maggiori analisti della società civile borghese del Settecento. «La società moderna è la società della divisione (alienazione, contraddizione). Ciò che un tempo era unito, si è ora spezzato e separato. È rotta l’“unità originaria” dell’uomo con la natura e dell’uomo con l’uomo, dove l’unità, essendo data, non deve essere spiegata, mentre è da spiegare la divisione. «Seppure modificato, riaffiora lo schema della filosofia della storia di Hegel. E questo, ci si scopre essere il secondo volto di Marx, accanto a quello dello scienziato, naturalista e empirico. Hegel versuchte, um die von ihm vertretene Dialektik (im Sinne einer Lehre von den Gegensätzen in den Dingen) durchzusetzen, die Logik in einer Weise zu erweitern (sog. dialektische Logik), die den Satz vom Widerspruch außer Geltung setzt. Damit versuchte Hegel, die Kantische Widerlegung des sogenannten Dogmatismus in der Metaphysik zu umgehen. Der Wissenschaftstheoretiker Karl Popper kommentiert: „Diese Widerlegung Kants betrachtet Hegel als gültig nur für Systeme, die metaphysisch in seinem engeren Sinne sind, jedoch nicht für den dialektischen Rationalismus, der die Entwicklung der Vernunft berücksichtigt und deshalb Widersprüche nicht zu fürchten braucht. Indem Hegel die Kantische Kritik in dieser Weise umgeht, stürzt er sich in ein äußerst gefährliches Abenteuer, das zur Katastrophe führen muss; denn er argumentiert etwa folgendermaßen: ‚Kant widerlegte den Rationalismus durch die Feststellung, er müsse zu Widersprüchen führen. Dies gebe ich zu. Aber es ist klar, dass dieses Argument seine Stärke aus dem Gesetz vom Widerspruch ableitet: es widerlegt nur solche Systeme, die dieses Gesetz akzeptieren, also solche, die beabsichtigen, frei von Widersprüchen zu sein. Das Argument ist nicht gefährlich für ein System wie das meinige, das bereit ist, Widersprüche zu akzeptieren – d.h. für ein dialektisches System.‘ Es besteht kein Zweifel, dass Hegels Argument einen Dogmatismus von äußerst gefährlicher Art aufrichtet - einen Dogmatismus, der keinerlei Angriff mehr zu fürchten braucht [siehe Immunisierungsstrategie]. Denn jeder Angriff, jede Kritik irgendwelcher Theorie muß sich auf die Methode stützen, irgendwelche Widersprüche aufzuzeigen, entweder in einer Theorie selbst oder zwischen einer Theorie und irgendwelchen Fakten. Logisches Quadrat  Das logische Quadrat Unter der Voraussetzung, dass ihre Subjekte keine leeren Begriffe sind, bestehen zwischen den unterschiedlichen Aussagentypen verschiedene Beziehungen:  Zwei Aussagen bilden einen kontradiktorischen Gegensatz genau dann, wenn beide weder gleichzeitig wahr noch gleichzeitig falsch sein können, mit anderen Worten: Wenn beide unterschiedliche Wahrheitswerte haben müssen. Das wiederum ist genau dann der Fall, wenn die eine Aussage die Negation der anderen ist (und umgekehrt). Für die syllogistischen Aussagentypen trifft das kontradiktorische Verhältnis auf die Paare A–O und I–E zu. Zwei Aussagen bilden einen konträren Gegensatz genau dann, wenn sie zwar nicht beide zugleich wahr, wohl aber beide falsch sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar A–E in konträrem Gegensatz. Zwei Aussagen bilden einen subkonträren Gegensatz genau dann, wenn nicht beide zugleich falsch (wohl aber beide zugleich wahr) sein können. In der Syllogistik steht nur das Aussagenpaar I–O in subkonträrem Gegensatz. Zwischen den Aussagetypen A und I einerseits und E und O andererseits besteht ein Folgerungszusammenhang (traditionell wird dieser Folgerungszusammenhang im logischen Quadrat Subalternation genannt): Aus A folgt I, d. h., wenn alle S P sind, dann gibt es auch tatsächlich S, die P sind; und aus E folgt O, d. h., wenn keine S P sind, dann gibt es tatsächlich S, die nicht P sind. Diese Zusammenhänge werden oft in einem Schema, das unter dem Namen „Logisches Quadrat“ bekannt wurde, zusammengefasst (siehe Abbildung). Die älteste bekannte Niederschrift des logischen Quadrats stammt aus dem zweiten nachchristlichen Jahrhundert und wird Apuleius von Madauros zugeschrieben. Orazi e Curiazi figure leggendarie dell'antica Roma Lingua Segui Modifica Nota disambigua.svg Disambiguazione – Se stai cercando altri significati, vedi Orazi e Curiazi (disambigua). Gli Orazi e i Curiazi sono figure leggendarie della Roma antica.   Il giuramento degli Orazi, di David, Museo del Louvre Leggenda Secondo la versione riportata da Tito Livio (Hist.), durante il regno di Tullo Ostilio. Roma e Alba Longa entrarono in guerra, affrontandosi con gli eserciti schierati lungo le Fossae Cluiliae(sull'attuale via Appia Antica), al confine fra i loro territori.  Ma Roma e Alba Longa condividevano attraverso il mito di Romolo una sacra discendenza che rendeva empia questa guerra, perciò i rispettivi sovrani decisero di affidare a due gruppi di rappresentanti le sorti del conflitto fra le due città, evitando ulteriori spargimenti di sangue.  Furono scelti per Roma gli Orazi, tre fratelli figli di Publio Orazio, e per Alba Longa i tre gemelli Curiazi, che si sarebbero affrontati a duello alla spada. Livio afferma che gli storici non erano concordi nello stabilire quale delle due triadi fosse quella romana; propende per gli Orazi perché la maggior parte degli studiosi sceglie quella versione.  Iniziato il combattimento, quasi subito due Orazi furono uccisi, mentre due dei Curiazi riportarono solo lievi ferite; il terzo Orazio, che non avrebbe potuto affrontare da solo tre nemici, trovandosi in difficoltà, pensò di ricorrere all'astuzia e finse di scappare verso Roma. Come aveva previsto, i tre Curiazi lo inseguirono, ma nel correre si distanziarono fra loro, perché, feriti in modo differente, inseguivano a velocità differenti.  Per primo fu raggiunto dal Curiazio che non era stato ferito e, voltandosi a sorpresa, lo trafisse. Riprese a correre e fu raggiunto da ciascuno degli altri due, che a causa delle ferite erano sfiniti, e gli fu facile ucciderli uno alla volta. La vittoria dell'Orazio fu la vittoria di Roma, cui Alba Longa si sottomise.  Camilla Orazia, sorella dell'Orazio superstite, era promessa sposa di uno dei Curiazi uccisi e rimproverò violentemente del delitto il fratello, tanto che questi la uccise per farla tacere. Per purificarsi dovette passare sotto il giogo del Tigillum Sororium, che da allora i Romani festeggiavano come rito di purificazione dei soldati ogni 1º ottobre. Inoltre, per il processo al delitto di perduellio (delitto contro le libertà del cittadino, reato che in realtà fu istituito dopo la fase regia di Roma), di cui si era macchiato uccidendo Camilla Orazia, la cui vita - essendo ella estranea al duello pattuito - era sacra per legge, Tullo Ostilio istituì, secondo la leggenda rielaborata nel tempo, dei giudici appositi: i duumviri perduellionis (anch'essi da ricondurre, in realtà, alla successiva fase repubblicana).  Le parentele fra Orazi e Curiazi erano ulteriormente intrecciate, secondo versioni successive della leggenda, essendo Sabina - nativa di Alba Longa ma romana d'adozione - sia sorella di uno dei Curiazi sia moglie di Marco Orazio.  Realtà storica Il cosiddetto Sepolcro degli Orazi e Curiazi ad Albano Laziale Nell'antica Roma si trovano testimonianze di età augustea attinenti alla leggenda, come una colonnadel Foro alla quale sarebbero state appese le spoglie dei Curiazi e il Mausoleo degli Orazi al sesto miglio della via Appia.  Ad Albano Laziale, lungo l'attuale via della Stella, si trova un sepolcro tardo-repubblicano detto degli "Orazi e Curiazi", ma si ipotizza che sia tomba di altri personaggi.  Nella realtà la guerra fra Roma e Alba Longa fu cruenta e il re della città sconfitta, Mezio Fufezio, venne squartato.  C'è chi indica San Giovanni in Campo Orazio, nel territorio di Poli, come luogo dove avvenne la cruenta battaglia.  Orazi e Curiazi nelle artiModifica Gli eroi di questa disfida sono citati da Dante (Che i tre a' tre pugnar per lui ancora, Par. VI, 39), a essi è dedicata la Sala degli Orazi e Curiazi del Campidoglio.  TeatroModifica Sulla vicenda degli Orazi e Curiazi si basano alcune opere liriche:  Gli Orazi e i Curiazi di Domenico Cimarosa, opera in tre atti su libretto di Antonio Simeone Sografi, la cui prima esecuzione ebbe luogo al Teatro La Fenice di Venezia Orazi e Curiazi di Saverio Mercadante, opera in tre atti su libretto di Salvadore Cammarano, eseguita per la prima volta al teatro San Carlo di Napoli. The Horatian - Three Songs di Heiner Goebbels Orazi e Curiazi è anche uno dei drammi didattici scritti da Bertold Brecht. CinemaModifica Orazi e Curiazi, cortometraggio muto. Orazi e Curiazi, film di Ferdinando Baldi e Terence Young. Orazi e Curiazi, film-rivisitazione in chiave farsesca del mito. Curiosità  La vicenda dello scontro tra gli Orazi e i Curiazi viene rievocata nella miniserie "L'ombra nera del Vesuvio" di Steno con Massimo Ranieri, Carlo Giuffré e Claudio Amendola. Molto evidente il riferimento al mito quando, per regolare i conti tra due clan, si scelgono tre rappresentanti per ciascuna delle due organizzazioni criminali: i fratelli Carità, figli del boss Don Peppe Carità, e i tre fratelli Sposito per il clan di Gaetano Bonanno. Uno dei fratelli Carità è sposato con la sorella degli Sposito, e la stessa sorella dei Carità era promessa come sposa al più giovane degli Sposito. Anche le dinamiche del combattimento e le relative conseguenze sono identiche. Livio, Ab Urbe condita libri, Is quibusdam piacularibus sacrificiis factis quae deinde genti Horatiae tradita sunt, transmisso per viam tigillo, capite adoperto velut sub iugum misit iuvenem.Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, di Bernardo Santalucia, Osservazioni sulla repressione criminale romana in età regia, di Bernardo Santalucia, Orazi e Curiazi, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Portale Antica Roma   Portale Mitologia Tullo Ostilio terzo re di Roma  Gens Horatia famiglie romane che condividevano il nomen Horatius  Il giuramento degli Orazi dipinto di Jacques-Louis David  Grice: “Colletti takes negation more seriously than Popper does. Colletti examines Hegel’s target, which is Kant’s distinction between ‘real opposition’ or ‘real repugnance’ and ‘dialectical contradiction.’ Both can combine. Hegel indeed wishes to go beyond the principle of non-contradiction instituted in Velia by Parmenides. The Italian language allows for some distinction that the English language doesn’t. There’s the opposto, which is combined of posto, posto is cognate with ponere, as in modus ponens, and it’s also the root for ‘positive’ (as opposed to negative, or strictly, togliere, tollere modus tollens – to deny). So the the posto, we have the opposto. On the other hand, there’s the ‘contra’, which translates Greek ‘anti’ – so that ‘apo-phasis’ becomes ‘contra-dictio’ where ‘dictio’ is cognate with ‘deixis,’ and so more to do with dictiveness and indicativeness than with ‘vocalisation’ qua ‘vox’ (if not with ‘vocation’ – cf. my extended use of ‘utterance’ to include the characterization of something that need not be linguistic or conventional but a characterization of a deed or a product which may be a ‘sound’ among others. The Germans deal with the ‘widerspruch’ but that’s THEIR problem. So to the posto we have the opposto. But after Cicero, the use of ‘contrario’ becomes important. Il contrario and l’opposto then pretty much covered all I failed to see back with my ‘Negation and privation,’ and my later lectures on ‘Negation’ simpliciter. Both Kant, Hegel Colletti, and I, allow for the good old tilde ‘~’ being all we need!” Lucio Colletti. Keywords: curiazi, ovvero, filosofia romana, opposition, negazione, la contraddizione dialettica e la non-contraddizione – hegel – Oxford Hegelian, “Negation and Privation” “Negation” “Privation” “The Square of Opposition” Das Quadrat – contradictum – the deicticness of the dictum – contra – counter – anti – antithesis – apo-phasis – ob-positum – contrarium, il contrario, l’opposto, contra-dictio and contrario, il contrario, il contradditorio, dialettica ateniese, dialettica oxoniana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colletti” – The Swimming-Pool Library. Colletti.

 

Grice e Colizzi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – scuola di Norcia – filosofia perugina – filosofia umbra -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Norcia). Filosofo perugino. Filosofo umbro. Filosofo italiano. Norcia, Perugia, Umbria. Grice:“By focusing on ‘desire,’ focuses Collizi on Thales who famously, for fixing on the stars, de-fixed from the ground!” Grice: “If I had to chose one philosophical word I adore is ‘desideratum,’ and Collizi tells it right – while Short and Lewis doubt it, to desire is like to consider – and the ‘sidus’ is involved!” Compone il saggio “De amore fundamenta mundis ac ethicae”. C. si è appreso attraverso i riferimenti in Bruno e Mersenne. Il nucleo centrale dela sua filosofia consiste nell'unione dell'idea di dio come amore con uno spunto, totalmente ri-adattato, di derivazione platonica, secondo cui il reale è emanazione, a partire da livelli di purezza e deità più elevati. Facendo dell'amore la caratteristica principale di dio – IVS PATER, arriva a dire che il reale coincide con l'amore, in forme più o meno degradate. Da questo concetto fa derivare una forte istanza di svelamento. Nonostante l'apparente neutralità emotiva del reale, il vero fondamento divino, e quindi dell'universo, è l'amore. Il vero si consegue quindi applicando questo principio ad una apparenza fenomenica, in modo da svelarne il vero essere, cioè il principio di amore – Grice: “Not to be confused with my principle of conversational self-love!” -Il suo passo più celebre, tuttavia, riguarda l'etimologia della parola “de-sider-ium”, che collega all'espressione “de sidera”. Come una stella, infatti, un de-sider-io e qualcosa che percepiamo con i sensi, ma senza potere esperire direttamente l'amore che da loro scaturisce, così il “de-siderio” è mera APPARENZA sotto la quale si cela un bisogno. Il “de-siderio,” questo tendere all'apparenza, scompare completamente solo una volta compreso fino in fondo il fondamento dell'essere, nella “mystica copulatio” raggiungibile attraverso la filosofia. La sua filosofia quindi, sembra unire una forte istanza metafisica a un'altrettanto forte istanza etica, cercando nel reale una fondamentale armonia di senso che è compito di ogni uomo, scopertala, riprodurre e preservare. Cf. Bruno, “De l'infinito, universo e mondi,” Bruno,“Praxis descensus seu applicatio entis,”D.Cantimori,“Storia ereticale” (Laterza). Bolgiani, “Ortodossia ed eresia : il problema storiografico nella storia e la situazione ortodossia-eresia agli inizi della storia (CELID). A compimento di questo settimo Libro ed in osservanza alla regola fin qui seguita, rimanci di far menzione di que'nostri Concittadini, che per meriti di santità, o per dottrina, ovvero per singolare valore nelle scienze,se ne resero meritevoli. E primo ci si presenta il Ven. Fr. Agostino da Norcia della famiglia C., emulo delle virtù del suo zio Fr. Giustino da noi ricordato Degl’eroici furori di Bruno Letteratura italiana Einaudi   Edizione di riferimento: Bruno Nolano, De gli eroici furori.Parigi, appresso Baio, in Dialoghi filosofici italiani, a cura di Ciliberto, Mondadori, Milano Letteratura italiana Einaudi Sommario Argomento del Nolano Avertimento a’ lettori Iscusazion  del Nolano de gli Eroici Furori Dialogo primo Dialogo secondo Dialogo Dialogo Dialogo Seconda parte de gli Eroici Furori Letteratura italiana Einaudi   Al molto illustre et eccellente cavalliero Signor Filippo Sidneo Letteratura italiana Einaudi Bruno De gli eroici furori ARGOMENTO DEL NOLANO sopra GLI EROICI FURORI: scritto al molto illustre SIGNOR FILIPPO SIDNEO È cosa veramente, o generosissimo Cavalliero, da bas- so, bruto e sporco ingegno, d’essersi fatto constante- mente studioso, et aver affisso un curioso pensiero circa o sopra la bellezza d’un corpo femenile. Che spettacolo (o Dio buono) più vile et ignobile può presentarsi ad un occhio di terso sentimento, che un uomo cogitabundo, afflitto, tormentato, triste, maninconioso: per dovenir or freddo, or caldo, or fervente, or tremante, or pallido, or rosso, or in mina di perplesso, or in atto di risoluto; un che spende il meglior intervallo di tempo, e gli più scelti frutti di sua vita corrente, destillando l’elixir del cervello con mettere in concetto, scritto, e sigillar in publichi monumenti, quelle continue torture, que’ gravi tormen- ti, que’ razionali discorsi, que’ faticosi pensieri, e quelli amarissimi studi destinati sotto la tirannide d’una inde- gna, imbecille, stolta e sozza sporcaria? Che tragicomedia? che atto, dico, degno più di com- passione e riso può esserne ripresentato in questo teatro del mondo, in questa scena delle nostre conscienze, che di tali e tanto numerosi suppositi fatti penserosi, con- templativi, constanti, fermi, fideli, amanti, coltori, ado- ratori e servi di cosa senza fede, priva d’ogni costanza, destituta d’ogni ingegno, vacua d’ogni merito, senza ri- conoscenza e gratitudine alcuna, dove non può capir più senso, intelletto e bontade, che trovarsi possa in una statua, o imagine depinta al muro? e dove è più super- bia, arroganza, protervia, orgoglio, ira, sdegno, falsitade, libidine, avarizia, ingratitudine et altri crimi exiziali, che avessero possuto uscir veneni et instrumenti di morte Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori dal vascello di Pandora, per aver pur troppo largo ricet- to dentro il cervello di mostro tale? Ecco vergato in car- te, rinchiuso in libri, messo avanti gli occhi, et intonato a gli orecchi un rumore, un strepito, un fracasso d’inse- gne, d’imprese, de motti, d’epistole, de sonetti, d’epi- grammi, de libri, de prolissi scartafazzi, de sudori estre- mi, de vite consumate, con strida ch’assordiscon gli astri, lamenti che fanno ribombar gli antri infernali, do- glie che fanno stupefar l’anime viventi, suspiri da far exinanire e compatir gli dèi, per quegli occhi, per quelle guance, per quel busto, per quel bianco, per quel vermi- glio, per quella lingua, per quel dente, per quel labro, quel crine, quella veste, quel manto, quel guanto, quella scarpetta, quella pianella, quella parsimonia, quel riset- to, quel sdegnosetto, quella vedova fenestra, quell’eclis- sato sole, quel martello; quel schifo, quel puzzo, quel se- polcro, quel cesso, quel mestruo, quella carogna, quella febre quartana, quella estrema ingiuria e torto di natura: che con una superficie, un’ombra, un fantasma, un sogno, un circeo incantesimo ordinato al serviggio della generazione, ne inganna in specie di bellezza. La quale insieme insieme viene e passa, nasce e muore, fiorisce e marcisce; et è bella cossì un pochettino a l’esterno, che nel suo intrinseco vera e stabilmente è contenuto un na- vilio, una bottega, una dogana, un mercato de quante sporcarie, tossichi e veneni abbia possuti produre la no- stra madrigna natura; la quale dopo aver riscosso quel seme di cui la si serva, ne viene sovente a paga d’un lez- zo, d’un pentimento, d’una tristizia, d’una fiacchezza, d’un dolor di capo, d’una lassitudine, d’altri et altri ma- lanni che son manifesti a tutto il mondo; a fin che ama- ramente dolga, dove suavemente proriva. Ma che fo io? che penso? son forse nemico della gene- razione? ho forse in odio il sole? Rincrescemi forse il mio et altrui essere messo al mondo? Voglio forse ridur gli uomini a non raccòrre quel più dolce pomo che può pro- Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori dur l’orto del nostro terrestre paradiso? Son forse io per impedir l’instituto santo della natura? Debbo tentare di suttrarmi io o altro dal dolce amaro giogo che n’ha messo al collo la divina providenza? Ho forse da persuader a me et ad altri, che gli nostri predecessori sieno nati per noi, e noi non siamo nati per gli nostri successori? Non voglia, non voglia Dio che questo giamai abbia possuto cadermi nel pensiero. Anzi aggiongo che per quanti re- gni e beatitudini mi s’abbiano possuti proporre e nomi- nare, mai fui tanto savio o buono che mi potesse venir voglia de castrarmi o dovenir eunuco. Anzi mi vergogna- rei se cossì come mi trovo in apparenza, volesse cedere pur un pelo a qualsivoglia che mangia degnamente il pa- ne per servire alla natura e Dio benedetto. E se alla buo- na volontà soccorrer possano o soccorrano gl’instrumen- ti e gli lavori, lo lascio considerar solo a chi ne può far giudicio e donar sentenza. Io non credo d’esser legato: perché son certo che non bastarebbono tutte le stringhe e tutti gli lacci che abbian saputo e sappian mai intessere et annodare quanti furo e sono stringari e lacciaiuoli, (non so se posso dir) se fusse con essi la morte istessa, che volessero maleficiarmi. Né credo d’esser freddo, se a refrigerar il mio caldo non penso che bastarebbono le nevi del monte Caucaso o Rifeo. Or vedete dumque se è la raggione o qualche difetto che mi fa parlare. Che dumque voglio dire? che voglio conchiudere? che voglio determinare? Quel che voglio conchiudere e dire, o Cavalliero illustre, è che quel ch’è di Cesare sia donato a Cesare, e quel ch’è de Dio, sia renduto a Dio. Voglio dire che a le donne, benché talvolta non bastino gli onori et ossequii divini, non perciò se gli denno ono- ri et ossequii divini. Voglio che le donne siano cossì ono- rate et amate, come denno essere amate et onorate le donne; per tal causa dico, e per tanto, per quanto si deve a quel poco, a quel tempo e quella occasione, se non hanno altra virtù che naturale, cioè di quella bellezza, di Letteratura italiana Einaudi 4   Giordano Bruno - De gli eroici furori quel splendore, di quel serviggio: senza il quale denno esser stimate più vanamente nate al mondo che un mor- boso fungo, qual con pregiudicio de meglior piante oc- cupa la terra; e più noiosamente che qualsivoglia napello o vipera che caccia il capo fuor di quella. Voglio dire che tutte le cose de l’universo, perché possano aver fer- mezza e consistenza, hanno gli suoi pondi, numeri, ordi- ni e misure, a fin che siano dispensate e governate con ogni giustizia e raggione. Là onde Sileno, Bacco, Pomo- na, Vertunno, il dio di Lampsaco, et altri simili che son dèi da tinello, da cervosa forte e vino rinversato, come non siedeno in cielo a bever nettare e gustar ambrosia nella mensa di Giove, Saturno, Pallade, Febo et altri si- mili: cossì gli lor fani, tempii, sacrificio e culti denno es- sere differenti da quelli de costoro. Voglio finalmente dire che questi furori eroici otte- gnono suggetto et oggetto eroico: e però non ponno più cadere in stima d’amori volgari e naturaleschi, che veder si possano delfini su gli alberi de le selve, e porci cinghia- li sotto gli marini scogli. Però per liberare tutti da tal su- spizione, avevo pensato prima di donar a questo libro un titolo simile a quello di Salomone, il quale sotto la scorza d’amori et affetti ordinaria, contiene similmente divini et eroici furori, come interpretano gli mistici e cabalisti dot- tori: volevo (per dirla) chiamarlo Cantica. Ma per più caggioni mi sono astenuto al fine: de le quali ne voglio re- ferir due sole. L’una per il timor ch’ho conceputo dal ri- goroso supercilio de certi farisei, che cossì mi stimarebo- no profano per usurpar in mio naturale e fisico discorso titoli sacri e sopranaturali; come essi sceleratissimi e mi- nistri d’ogni ribaldaria si usurpano più altamente che dir si possa gli titoli de sacri, de santi, de divini oratori, de fi- gli de Dio, de sacerdoti, de regi: stante che stiamo aspet- tando quel giudicio divino che farà manifesta la lor mali- gna ignoranza et altrui dottrina, la nostra simplice libertà e l’altrui maliciose regole, censure et instituzioni. L’altra Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori per la grande dissimilitudine che si vede fra il volto di questa opra e quella, quantunque medesimo misterio e sustanza d’anima sia compreso sotto l’ombra dell’una e l’altra: stante che là nessuno dubita che il primo instituto del sapiente fusse più tosto di figurar cose divine che di presentar altro; perché ivi le figure sono aperta e manife- stamente figure, et il senso metaforico è conosciuto di sorte che non può esser negato per metaforico: dove odi quelli occhi di colombe, quel collo di torre, quella lingua di latte, quella fragranzia d’incenso, que’ denti che paio- no greggi de pecore che descendono dal lavatoio, que’ capelli che sembrano le capre che vegnono giù da la montagna di Galaad. Ma in questo poema non si scorge volto che cossì al vivo ti spinga a cercar latente et occolto sentimento: atteso che per l’ordinario modo di parlare e de similitudini più accomodate a gli sensi communi, che ordinariamente fanno gli accorti amanti, e soglion mette- re in versi e rime gli usati poeti, son simili a i sentimenti de coloro che parlarono a Citereida, a Licori, a Dori, a Cinzia, a Lesbia, a Corinna, a Laura et altre simili: onde facilmente ogn’uno potrebbe esser persuaso che la fon- damentale e prima intenzion mia sia stata addirizzata da ordinario amore, che m’abbia dettati concetti tali; il qua- le appresso per forza de sdegno s’abbia improntate l’ali e dovenuto eroico; come è possibile di convertir qualsivo- glia fola, romanzo, sogno e profetico enigma, e transfe- rirle in virtù di metafora e pretesto d’allegoria a significar tutto quello che piace a chi più comodamente è atto a sti- racchiar gli sentimenti: e far cossì tutto di tutto, come tutto essere in tutto disse il profondo Anaxagora. Ma pensi chi vuol quel che gli pare e piace, ch’alfine o voglia o non, per giustizia la deve ognuno intendere e definire come l’intendo e definisco io, non io come l’intende e definisce lui: perché come gli furori di quel sapiente Ebreo hanno gli proprii modi ordini e titolo che nessuno ha possuto intendere e potrebbe meglio dichiarar che lui Bruno - De gli eroici furori se fusse presente; cossì questi Cantici hanno il proprio ti- tolo ordine e modo che nessun può meglio dechiarar et intendere che io medesimo quando non sono absente. D’una cosa voglio che sia certo il mondo: che quello per il che io mi essagito in questo proemiale argomento, dove singularmente parlo a voi eccellente Signore, e ne gli Dialogi formati sopra gli seguenti articoli, sonetti e stanze, è ch’io voglio ch’ogn’un sappia ch’io mi stimarei molto vituperoso e bestialaccio, se con molto pensiero, studio e fatica mi fusse mai delettato o delettasse de imi- tar (come dicono) un Orfeo circa il culto d’una donna in vita, e dopo morte, se possibil fia, ricovrarla da l’inferno: se a pena la stimarei degna, senza arrossir il volto, d’amarla sul naturale di quell’istante del fiore della sua beltade, e facultà di far figlioli alla natura e dio; tanto manca che vorrei parer simile a certi poeti e versificanti in far trionfo d’una perpetua perseveranza di tale amore, come d’una cossì pertinace pazzia, la qual sicuramente può competere con tutte l’altre specie che possano far residenza in un cervello umano: tanto, dico, son lontano da quella vanissima, vilissima e vituperosissima gloria, che non posso credere ch’un uomo che si trova un gra- nello di senso e spirito, possa spendere più amore in co- sa simile che io abbia speso al passato e possa spendere al presente. E per mia fede, se io voglio adattarmi a de- fendere per nobile l’ingegno di quel tosco poeta che si mostrò tanto spasimare alle rive di Sorga per una di Val- clusa, e non voglio dire che sia stato un pazzo da catene, donarommi a credere, e forzarommi di persuader ad al- tri, che lui per non aver ingegno atto a cose megliori, volse studiosamente nodrir quella melancolia, per cele- brar non meno il proprio ingegno su quella matassa, con esplicar gli affetti d’un ostinato amor volgare, animale e bestiale, ch’abbiano fatto gli altri ch’han parlato delle lodi della mosca, del scarafone, de l’asino, de Sileno, de Priapo, scimie de quali son coloro ch’han poetato a’ nostri tempi delle lodi de gli orinali, de la piva, della fava, del letto, delle bugie, del disonore, del forno, del martel- lo, della caristia, de la peste; le quali non meno forse sen denno gir altere e superbe per la celebre bocca de can- zonieri suoi, che debbano e possano le prefate et altre dame per gli suoi. Or (perché non si faccia errore) qua [non] voglio che sia tassata la dignità di quelle che son state e sono de- gnamente lodate e lodabili: non quelle che possono es- sere e sono particolarmente in questo paese Britannico, a cui doviamo la fideltà et amore ospitale: perché dove si biasimasse tutto l’orbe, non si biasima questo che in tal proposito non è orbe, né parte d’orbe: ma diviso da quello in tutto, come sapete; dove si raggionasse de tut- to il sesso femenile, non si deve né può intendere de al- cune vostre, che non denno esser stimate parte di quel sesso: perché non son femine, non son donne, ma (in si- militudine di quelle) son nimfe, son dive, son di sustan- za celeste; tra le quali è lecito di contemplar quell’unica Diana, che in questo numero e proposito non voglio no- minare. Comprendasi dumque il geno ordinario. E di quello ancora indegna et ingiustamente perseguitarci le persone: perciò che a nessuna particolare deve essere impreparato l’imbecillità e condizion del sesso, come né il difetto e vizio di complessione: atteso che se in ciò è fallo et errore, deve essere attribuito per la specie alla natura, e non per particolare a gl’individui. Certamente quello che circa tai supposti abomino è quel studioso e disordinato amor venereo che sogliono alcuni spender- vi, de maniera che se gli fanno servi con l’ingegno, e vi vegnono a cattivar le potenze et atti più nobili de l’ani- ma intellettiva. Il qual intento essendo considerato, non sarà donna casta et onesta che voglia per nostro naturale e veridico discorso contrastarsi e farmisi più tosto irata, che sottoscrivendomi amarmi di vantaggio, vituperando passivamente quell’amor nelle donne verso gli uomini, che io attivamente riprovo ne gli uomini verso le donne. Tal dumque essendo il mio animo, ingegno, parere e de- terminazione, mi protesto che il mio primo e principale, mezzano et accessorio, ultimo e finale intento in questa tessitura fu et è d’apportare contemplazion divina, e metter avanti a gli occhi et orecchie altrui furori non de volgari, ma eroici amori, impiegati in due parti: de le quali ciascuna è divisa in cinque dialogi. argomento de’ cinque dialogi de la prima parte Nel Primo dialogo della prima parte son cinque arti- coli, dove per ordine: nel primo si mostrano le cause e principiii motivi intrinseci sotto nome e figura del mon- te, e del fiume, e de muse che si dechiarano presenti, non perché chiamate, invocate e cercate, ma più tosto come quelle che più volte importunamente si sono offerte: on- de vegna significato che la divina luce è sempre presente; s’offre sempre, sempre chiama e batte a le porte de nostri sensi et altre potenze cognoscitive et apprensive: come pure è significato nella Cantica di Salomone dove si dice: «En ipse stat post parietem nostrum, respiciens per cancel- los, et prospiciens per fenestras». La qual spesso per varie occasioni et impedimenti avvien che rimagna esclusa fuori e trattenuta. Nel secondo articolo si mostra quali sieno que’ suggetti, oggetti, affetti, instrumenti et effetti per li quali s’introduce, si mostra e prende il possesso nell’anima questa divina luce: perché la inalze e la con- verta in Dio. Nel terzo il proponimento, definizione e de- terminazione che fa l’anima ben informata circa l’uno, perfetto et ultimo fine. Nel quarto la guerra civile che sé- guita e si discuopre contra il spirito dopo tal proponi- mento; onde disse la Cantica: «Noli mirari quia nigra sum: decoloravit enim me sol, quia fratres mei pugnave- runt contro me, quam posuerunt custodem in vineis». Là sono esplicati solamente come quattro antesignani: l’Af- fetto, l’Appulso fatale, la Specie del bene, et il Rimorso; che son seguitati da tante coorte militari de tante, contra- rie, varie e diverse potenze, con gli lor ministri, mezzi et organi che sono in questo composto. Nel quinto s’ispiega una naturale contemplazione in cui si mostra che ogni contrarietà si riduce a l’amicizia: o per vittoria de l’uno de’ contrarii, o per armonia e contemperamento, o per qualch’altra raggione di vicissitudine; ogni lite alla con- cordia, ogni diversità a l’unità: la qual dottrina è stata da noi distesa ne gli discorsi d’altri dialogi. Nel Secondo dialogo viene più esplicatamente de- scritto l’ordine et atto della milizia che si ritrova nella sustanza di questa composizione del furioso; et ivi: nel primo articolo si mostrano tre sorte di contrarietà: la prima d’un affetto et atto contra l’altro, come dove son le speranze fredde e gli desideri caldi; la seconda de me- desimi affetti et atti in se stessi, non solo in diversi, ma et in medesimi tempi; come quando ciascuno non si con- tenta di sé, ma attende ad altro: et insieme insieme ama et odia; la terza tra la potenza che séguita et aspira, e l’oggetto che fugge e si suttrae. Nel secondo articolo si manifesta la contrarietà ch’è come di doi contrari appul- si in generale; alli quali si rapportano tutte le particolari e subalternate contrarietadi, mentre come a doi luoghi e sedie contrarie si monta o scende: anzi il composto tutto per la diversità de le inclinazioni che son nelle diverse parti, e varietà de disposizioni che accade nelle medesi- me, viene insieme insieme a salire et abbassare, a farsi avanti et adietro, ad allontanarsi da sé e tenersi ristretto in sé. Nel terzo articolo si discorre circa la conseguenza da tal contrarietade. Nel Terzo dialogo si fa aperto quanta forza abbia la volontarie in questa milizia, come quella a cui sola ap- partiene ordinare, cominciare, exeguire e compire; cui vien intonato nella Cantica: «Surge, propera, columba mea, et veni: iam enim hiems transiit, imber abiit, flores apparuerunt in terra nostra; tempus putationis advenit». Questa somministra forza ad altri in molte maniere, et a se medesima specialmente quando si reflette in se stessa, e si radoppia; all’or che vuol volere, e gli piace che vo- glia quel che vuole; o si ritratta, all’or che non vuol quel che vuole, e gli dispiace che voglia quel che vuole: cossì in tutto e per tutto approva quel ch’è bene e quel tanto che la natural legge e giustizia gli definisce: e mai affatto approva quel che è altrimente. E questo è quanto si esplica nel primo e secondo articolo. Nel terzo si vede il gemino frutto di tal efficacia, secondo che (per conse- quenza de l’affetto che le attira e rapisce) le cose alte si fanno basse, e le basse dovegnono alte; come per forza de vertiginoso appulso e vicissitudinal successo dicono che la fiamma s’inspessa in aere, vapore et acqua; e l’ac- qua s’assottiglia in vapore, aere e fiamma. In sette articoli del Quarto dialogo si contempla l’im- peto e vigor de l’intelletto, che rapisce l’affetto seco, et il progresso de pensieri del furioso composto, e delle pas- sioni de l’anima che si trova al governo di questa Repu- blica cossì turbulenta. Là non è oscuro chi sia il caccia- tore, l’ucellatore, la fiera, gli cagnuoli, gli pulcini, la tana, il nido, la rocca, la preda, il compimento de tante fatiche, la pace, riposo e bramato fine de sì travaglioso conflitto. Nel Quinto dialogo si descrive il stato del furioso in questo mentre, et è mostro l’ordine, raggione e condi- zion de studii e fortune. Nel primo articolo per quanto appartiene a perseguitar l’oggetto che si fa scarso di sé. Nel secondo quanto al continuo e non remittente con- corso de gli affetti. Nel terzo quanto a gli alti e caldi, benché vani proponimenti. Nel quarto quanto al volon- tario volere. Nel quinto quanto a gli pronti e forti ripari e soccorsi. Ne gli seguenti si mostra variamente la condi- zion di sua fortuna, studio e stato, con la raggione e convenienza di quelli, per le antitesi, similitudini e compa- razioni espresse in ciascuno di essi articoli. argomento de’ cinque dialogi della seconda parte Nel Primo dialogo della seconda parte s’adduce un seminario delle maniere e raggioni del stato dell’eroico furioso. Ove nel primo sonetto vien descritto il stato di quello sotto la ruota del tempo. Nel secondo viene ad iscusarsi dalla stima d’ignobile occupazione et indegna iattura della angustia e brevità del tempo. Nel terzo ac- cusa l’impotenza de suoi studi gli quali quantunque all’interno sieno illustrati dall’eccellenza de l’oggetto, questo per l’incontro viene ad essere offoscato et annu- volato da quelli. Nel quarto è il compianto del sforzo senza profitto delle facultadi de l’anima mentre cerca ri- sorgere con l’imparità de le potenze a quel stato che pre- tende e mira. Nel quinto vien rammentata la contrarietà e domestico conflitto che si trova in un suggetto, onde non possa intieramente appigliarsi ad un termine o fine. Nel sesto vien espresso l’affetto aspirante. Nel settimo vien messa in considerazione la mala corrispondenza che si trova tra colui ch’aspira, e quello a cui s’aspira. Nell’ottavo è messa avanti gli occhi la distrazzion dell’anima, conseguente della contrarietà de cose ester- ne et interne tra loro, e de le cose interne in se stesse, e de le cose esterne in se medesime. Nel nono è ispiegata l’etate et il tempo del corso de la vita ordinaria all’atto de l’alta e profonda contemplazione: per quel che non vi conturba il flusso o reflusso della complessione vegetan- te, ma l’anima si trova, in condizione stazionaria e come quieta. Nel decimo l’ordine e maniera in cui l’eroico amore tal’or ne assale, fere e sveglia. Nell’undecimo la moltitudine delle specie et idee particolari che mostrano l’eccellenza della marca dell’unico fonte di quelle, mediante le quali vien incitato l’affetto verso alto. Nel duo- decimo s’esprime la condizion del studio umano verso le divine imprese, perché molto si presume prima che vi s’entri, e nell’entrare istesso: ma quando poi s’ingolfa e vassi più verso il profondo, viene ad essere smorzato il fervido spirito di presunzione, vegnono relassati i nervi, dismessi gli ordegni, inviliti gli pensieri, svaniti tutti dis- segni, e riman l’animo confuso, vinto et exinanito. Al qual proposito fu detto dal sapiente: «qui scrutator est maiestatis, opprimetur a gloria». Nell’ultimo è più mani- festamente espresso quello che nel duodecimo è mostra- to in similitudine e figura. Nel Secondo dialogo è in un sonetto, et un discorso dialogale sopra di quello, specificato il primo motivo che domò il forte, ramollò il duro, et il rese sotto l’amo- roso imperio di Cupidine superiore, con celebrar tal vi- gilanza, studio, elezzione e scopo. Nel Terzo dialogo in quattro proposte e quattro ri- sposte del core a gli occhi, e de gli occhi al core, è di- chiarato l’essere e modo delle potenze cognoscitive et appetitive. Là si manifesta qualmente la volontà è risve- gliata, addirizzata, mossa e condotta dalla cognizione; e reciprocamente la cognizione è suscitata, formata e rav- vivata dalla volontade, procedendo or l’una da l’altra, or l’altra da l’una. Là si fa dubio se l’intelletto o general- mente la potenza conoscitiva, o pur l’atto della cognizio- ne, sia maggior de la volontà o generalmente della po- tenza appetitiva, o pur de l’affetto: se non si può amare più che intendere, e tutto quello ch’in certo modo si de- sidera, in certo modo ancora si conosce, e per il roverso; onde è consueto di chiamar l’appetito “cognizione”, perché veggiamo che gli Peripatetici nella dottrina de quali siamo allievati e nodriti in gioventù, sin a l’appetito in potenza et atto naturale chiamano “cognizione”; onde tutti effetti, fini e mezzi, principii, cause et elemen- ti distingueno in prima, media, et ultimamente noti secondo la natura: nella quale fanno in conclusione con- correre l’appetito e la cognizione. Là si propone infinita la potenza della materia, et il soccorso dell’atto che non fa essere la potenza vana. Laonde cossì non è terminato l’atto della volontà circa il bene, come è infinito et inter- minabile l’atto della cognizione circa il vero: onde “en- te”, “vero” e “buono” son presi per medesimo signifi- cante, circa medesima cosa significata. Nel Quarto dialogo son figurate et alcunamente ispie- gate le nove raggioni della inabilità, improporzionalità e difetto dell’umano sguardo e potenza apprensiva de co- se divine. Dove nel primo cieco, che è da natività, è no- tata la raggione ch’è per la natura che ne umilia et ab- bassa. Nel secondo cieco per il tossico della gelosia è notata quella ch’è per l’irascibile e concupiscibile che ne diverte e desvia. Nel terzo cieco per repentino appari- mento d’intensa luce si mostra quella che procede dalla chiarezza de l’oggetto che ne abbaglia. Nel quarto, allie- vato e nodrito a lungo a l’aspetto del sole, quella che da troppo alta contemplazione de l’unità, che ne fura alla moltitudine. Nel quinto, che sempre mai ha gli occhi colmi de spesse lacrime, è designata l’improporzionalità de mezzi tra la potenza et oggetto che ne impedisce. Nel sesto che per molto lacrimar have svanito l’umor organi- co visivo, è figurato il mancamento de la vera pastura in- tellettuale che ne indebolisce. Nel settimo cui gli occhi sono inceneriti da l’ardor del core, è notato l’ardente af- fetto che disperge, attenua e divora tal volta la potenza discretiva. Nell’ottavo, orbo per la ferita d’una punta di strale, quello che proviene dall’istesso atto dell’unione della specie de l’oggetto; la qual vince, altera e corrompe la potenza apprensiva, che è suppressa dal peso, e cade sotto l’impeto de la presenza di quello; onde non senza raggion talvolta la sua vista è figurata per l’aspetto di fol- gore penetrativo. Nel nono, che per esser mutolo non può ispiegar la causa della sua cecitade, vien significata Letteratura italiana Einaudi 14   Giordano Bruno - De gli eroici furori la raggion de le raggioni, la quale è l’occolto giudicio di- vino che a gli uomini ha donato questo studio e pensiero d’investigare, de sorte che non possa mai gionger più al- to che alla cognizione della sua cecità et ignoranza, e sti- mar più degno il silenzio ch’il parlare. Dal che non vien iscusata né favorita l’ordinaria ignoranza; perché è dop- piamente cieco chi non vede la sua cecità: e questa è la differenza tra gli profettivamente studiosi, e gli ociosi in- sipienti: che questi son sepolti nel letargo della privazion del giudicio di suo non vedere, e quelli sono accorti, sve- gliati e prudenti giudici della sua cecità; e però son nell’inquisizione, e nelle porte de l’acquisizione della lu- ce: delle quali son lungamente banditi gli altri. argomento et allegoria del quinto dialogo Nel Quinto dialogo, perché vi sono introdotte due donne, alle quali (secondo la consuetudine del mio pae- se) non sta bene di commentare, argumentare, descife- rare, saper molto et esser dottoresse per usurparsi uffi- cio d’insegnare e donar instituzione, regola e dottrina a gli uomini; ma ben de divinar e profetar qualche volta che si trovano il spirito in corpo: però gli ha bastato de farsi solamente recitatrici della figura lasciando a qual- che maschio ingegno il pensiero e negocio di chiarir la cosa significata. Al quale (per alleviar overamente tòrgli la fatica) fo intendere qualmente questi nove ciechi, co- me in forma d’ufficio e cause esterne, cossì con molte al- tre differenze suggettive correno con altra significazio- ne, che gli nove del dialogo precedente: atteso che secondo la volgare imaginazione delle nove sfere, mo- strano il numero, ordine e diversità de tutte le cose che sono subsistenti infra unità absoluta, nelle quali e sopra le quali tutte sono ordinate le proprie intelligenze che secondo certa similitudine analogale dependono dalla prima et unica. Queste da Cabalisti, da Caldei, da Ma- ghi, da Platonici e da cristiani teologi son distinte in no- ve ordini per la perfezzione del numero che domina nell’università de le cose, et in certa maniera formaliza il tutto: e però con semplice raggione fanno che si signifi- che la divinità, e secondo la reflessione e quadratura in se stesso, il numero e la sustanza de tutte le cose depen- denti. Tutti gli contemplatori più illustri, o sieno filosofi, o siano teologi, o parlino per raggione e proprio lume, o parlino per fede e lume superiore, intendano in queste intelligenze il circolo di ascenso e descenso. Quindi di- cono gli Platonici che per certa conversione accade che quelle che son sopra il fato si facciano sotto il fato del tempo e mutazione, e da qua montano altre al luogo di quelle. Medesima conversione è significata dal pitagori- co poeta, dove dice: Has omnes ubi mille rotam volvere per annos Lethaeum ad fluvium deus evocat agmine magno: rursus ut incipiant in corpora velle reverti. Questo (dicono alcuni) è significato dove è detto in revelazione che il drago starà avvinto nelle catene per mille anni, e passati quelli sarà disciolto. A cotal signifi- cazione voglion che mirino molti altri luoghi dove il mil- lenario ora è espresso, ora è significato per uno anno, ora per una etade, ora per un cubito, ora per una et un’altra maniera. Oltre che certo il millenario istesso non si prende secondo le rivoluzioni definite da gli anni del sole, ma secondo le diverse raggioni delle diverse mi- sure et ordini con li quali son dispensate diverse cose: perché cossì son differenti gli anni de gli astri, come le specie de particolari non son medesime. Or quanto al fatto della rivoluzione, è divolgato appresso gli cristiani teologi, che da ciascuno de’ nove ordini de spiriti sieno trabalzate le moltitudini de legioni a queste basse et Letteratura italiana Einaudi 16   Giordano Bruno - De gli eroici furori oscure regioni; e che per non esser quelle sedie vacanti, vuole la divina providenza che di queste anime che vivo- no in corpi umani siano assumpte a quella eminenza. Ma tra filosofi Plotino solo ho visto dire espressamente come tutti teologi grandi, che cotal rivoluzione non è de tutti, né sempre: ma una volta. E tra teologi Origene so- lamente come tutti filosofi grandi, dopo gli Saduchini et altri molti riprovati, have ardito de dire che la revoluzio- ne è vicissitudinale e sempiterna; e che tutto quel mede- simo che ascende ha da ricalar a basso: come si vede in tutti gli elementi e cose che sono nella superficie, grem- bo e ventre de la natura. Et io per mia fede dico e con- fermo per convenientissimo, con gli teologi e color che versano su le leggi et instituzioni de popoli, quel senso loro: come non manco d’affirmare et accettar questo senso di quei che parlano secondo la raggion naturale tra’ pochi, buoni e sapienti. L’opinion de quali degna- mente è stata riprovata per esser divolgata a gli occhi della moltitudine; la quale se a gran pena può essere re- frenata da vizii e spronata ad atti virtuosi per la fede de pene sempiterne, che sarrebe se la si persuadesse qual- che più leggiera condizione in premiar gli eroici et uma- ni gesti, e castigare gli delitti e sceleragini? Ma per veni- re alla conclusione di questo mio progresso: dico che da qua si prende la raggione e discorso della cecità e luce di questi nove, or vedenti, or ciechi, or illuminati; quali son rivali ora nell’ombre e vestigii della divina beltade, or sono al tutto orbi, ora nella più aperta luce pacificamen- te si godeno. All’or che sono nella prima condizione, son ridutti alla stanza di Circe, la qual significa la omni- parente materia, et è detta figlia del sole, perché da quel padre de le forme ha l’eredità e possesso di tutte quelle le quali con l’aspersion de le acqui, cioè con l’atto della generazione, per forza d’incanto, cioè d’occolta armoni- ca raggione, cangia il tutto, facendo dovenir ciechi quel- li che vedeno: perché la generazione e corrozzione è Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori causa d’oblio e cecità, come esplicano gli antichi con la figura de le anime che si bagnano et inebriano di Lete. Quindi dove gli ciechi si lamentano dicendo: «Figlia e madre di tenebre et orrore», è significata la conturba- zion e contristazion de l’anima che ha perse l’ali, la qua- le se gli mitiga all’or che è messa in speranza di ricovrar- le. Dove Circe dice: «Prendete un altro mio vase fatale», è significato che seco portano il decreto e destino del suo cangiamento, il qual però è detto essergli porgiuto dalla medesima Circe; perché un contrario è original- mente nell’altro, quantunque non vi sia effettualmente: onde disse lei, che sua medesima mano non vale aprirlo, ma commetterlo. Significa ancora che son due sorte d’acqui: inferiori sotto il firmamento che acciecano, e superiori, sopra il firmamento che illuminano: quelle che sono significate da Pitagorici e Platonici nel descen- so da un tropico et ascenso da un altro. Là dove dice «Per largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti gli numerosi regni», significa che non è progresso immediato da una forma contraria a l’altra, né regresso immediato da una forma a la medesima: però bisogna trascorrere, se non tutte le forme che sono nella ruota delle specie naturali, certamente molte e molte di quelle. Là s’intendeno illuminati da la vista de l’oggetto, in cui concorre il ternario delle perfezzioni, che sono beltà, sa- pienza e verità, per l’aspersion de l’acqui che negli sacri libri son dette acqui de sapienza, fiumi d’acqua di vita etema. Queste non si trovano nel continente del mondo, ma penitus toto divisim ab orbe, nel seno dell’Oceano, dell’Amfitrite, della divinità, dove è quel fiume che ap- parve revelato procedente dalla sedia divina, che have altro flusso che ordinario naturale. Ivi son le Ninfe, cioè le beate e divine intelligenze che assistenti et ammini- strano alla prima intelligenza, la quale è come la Diana tra le nimfe de gli deserti. Quella sola tra tutte l’altre è per la triplicata virtude, potente ad aprir ogni sigillo, asciòrre ogni nodo, a discuoprir ogni secreto, e disserrar qualsivoglia cosa rinchiusa. Quella con la sua sola pre- senza e gemino splendore del bene e vero, di bontà e bellezza appaga le volontadi e gl’intelletti tutti: asper- gendoli con l’acqui salutifere di ripurgazione. Qua è conseguente il canto e suono, dove son nove intelligen- ze, nove muse, secondo l’ordine de nove sfere; dove pri- ma si contempla l’armonia di ciascuna, che è continuata con l’armonia de l’altra; perché il fine et ultimo della su- periore è principio e capo dell’inferiore, perché non sia mezzo e vacuo tra l’una et altra: e l’ultimo de l’ultima per via de circolazione concorre con il principio della prima. Perché medesimo è più chiaro e più occolto, principio e fine, altissima luce e profondissimo abisso, infinita potenza et infinito atto, secondo le raggioni e modi esplicati da noi in altri luoghi. Appresso si con- templa l’armonia e consonanza de tutte le sfere, intelli- genze, muse et instrumenti insieme; dove il cielo, il moto de’ mondi, l’opre della natura, il discorso de gl’intelletti, la contemplazion della mente, il decreto della divina providenza, tutti d’accordo celebrano l’alta e magnifica vicissitudine che agguaglia l’acqui inferiori alle superio- ri, cangia la notte col giorno, et il giorno con la notte, a fin che la divinità sia in tutto, nel modo con cui tutto è capace di tutto, e l’infinita bontà infinitamente si com- muniche secondo tutta la capacità de le cose. Questi son que’ discorsi, gli quali a nessuno son parsi più convenevoli ad essere addirizzati e raccomandati che a voi, Signor eccellente: a fin ch’io non vegna a fare, come penso aver fatto alcuna volta per poca advertenza, e molti altri fanno quasi per ordinario, come colui che presenta la lira ad un sordo et il specchio ad un cieco. A voi dumque si presentano, perché l’Italiano raggioni con chi l’intende; gli versi sien sotto la censura e protezzion d’un poeta; la filosofia si mostre ignuda ad un sì terso in- gegno come il vostro; le cose eroiche siano addirizzate Letteratura italiana Einaudi 19   Giordano Bruno - De gli eroici furori ad un eroico e generoso animo, di qual vi mostrate dota- to; gli officii s’offrano ad un suggetto sì grato, e gli osse- quii ad un signor talmente degno qualmente vi siete ma- nifestato per sempre. E nel mio particolare vi scorgo quello che con maggior magnanimità m’avete prevenuto ne gli officii, che alcuni altri con riconoscenza m’abbia- no seguitato. vale. avertimento a’ lettori Amico lettore, m’occorre al fine da obviare al rigore d’alcuno a cui piacesse che tre de’ sonetti che si trovano nel primo dialogo della seconda parte de’ Furori eroici, siano in forma simili a gli altri, che sono nel medesimo dialogo: voglio che vi piaccia d’aggiongere a tutti tre gli suoi tornelli. A quello che comincia Quel ch’il mio cor, giongete in fine: Onde di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival d’Endimion si duole. A quello che comincia Se da gli eroi, giongete in fine: Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’e accende et èmmi a lato, farammi illustre, potente e beato. A quello che comincia Avida di trovar, giongete al fine: Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che lemmi a lungo infortunato amante. Letteratura italiana Einaudi 20   Giordano Bruno - De gli eroici furori alcuni errori di stampa piùurgenti Piacciavi, benigno lettore, prima che leggere di corre- gere. Da A in sino a Q significano gli quinterni; il nume- ro seguente quella lettera, significa la carta; f significa la faccia prima o seconda; l significa la linea. A 1, f 2, l 2: correte a’ miei dolori; A 2, f 1, li 12: rite- nendolo da cose; f 2, li 30: homerica poesia; A 4, f 1, li 15: illustre mentre canto di morte cipressi et inferni; A 7, f 1, li 4: la gelosia sconsola; li 11: di regione; B 1, f 2, li 7: potran ben soli con sua diva corte; C 2, f 1, li 2: sappia certo che se quei; lin 4: seguite che parlino; li 23: son di- vini; C 7, f 2, l 15: suspicientes in; D 8, f 1, [l 26]: Alti, profondi; f 2, l 10, compagni del mio core; E 6, f 1, l 21: intrattiene in quel essere; F 1, f 1, li 16: dice quell’altez- za; G 8, f 1, l 2: che fa volgar; I 2, f 1, li 17: per quanto mi si diè; K 5, f 2, li 19: Del gratioso sguardo apri le por- te; L 6, f 2, li 21: XII, Cesa; L 7, f 1, l 10: da cure mole- ste; M 4, f 1, li 15: ergo; Cor.; N 5, f 1, lin penultima: Deucalion; O 3, f 1, li 14: hammi si crudament’ il spirto infetto; O 4, f 2, li 10: Il Nil d’ogn’altro suon; O 5, f 2, li 13: intromettea la luce; O 7, f 1, li 6: Aspra ferit’ empio ardor; li 13: appresso Dite; f 2, li ultima: in quello aspira per certo più; O 8, f 2, li ultima: alli quali si mostra, non proviene con misura di moto et tempo, come accade nelle; P 6, f 1, li antepenultima: quale chiumque have in- gegno; P 7, f 1, li 12: Siam nove spirti che molt’anni; Q 1, f 1, li 10: Ch’io possa esprimere. Q 4, f 1, l 1: De le di- more alterne. Letteratura italiana Einaudi 21   Giordano Bruno - De gli eroici furori ISCUSAZION DEL NOLANO alle più virituose e leggiadre dame De l’Inghilterra o vaghe Ninfe e Belle, non voi ha nostro spirt’ in schif’, e sdegna; né per mettervi giù suo stil s’ingegna, se non convien che femine v’appelle. Né computar, né eccettuar da quelle, son certo che voi dive mi convegna: se l’influsso commun in voi non regna, e siete in terra quel ch’in ciel le stelle. De voi, o Dame, la beltà sovrana nostro rigor né morder può, né vuole, che non fa mira a specie sopr’umana. Lungi arsenico tal quindi s’invole, dove si scorge l’unica Diana, qual è tra voi quel che tra gli astri il sole. L’ingegno, le parole e ’l mio (qualumque sia) vergar di carte faranv’ossequios’il studio e l’arte.  PRIMA PARTE DE GLI EROICI FURORI Letteratura italiana Einaudi 23   Giordano Bruno - De gli eroici furori DIALOGO PRIMO interlocutori Tansillo, Cicada. tansillo Gli furori dumque, atti più ad esser qua pri- mieramente locati e considerati, son questi che ti pono avanti secondo l’ordine a me parso più conveniente. cicada Cominciate pur a leggerli. tansillo [1] Muse che tante volte ributtai, importune correte a’ miei dolori, per consolarmi sole ne’ miei guai con tai versi, tai rime e tai furori, con quali ad altri vi mostraste mai, che de mirti si vantan et allori; (2) or sia appo voi mia aura, àncora e porto, se non mi lice altrov’ir a diporto. (3) O monte, o dive, o fonte ov’abito, converso e mi nodrisco; dove quieto imparo et imbellisco; alzo, avviv’, orno, il cor, il spirto e fronte: morte, cipressi, inferni cangiate in vita, in lauri, in astri eterni. 1. È da credere che più volte e per più caggioni le ributtasse, tra le quali possono esser queste. Prima perché, come deve il sacerdote de le muse, non ha possut’esser ocioso: perché l’ocio non può trovarsi là dove si combatte contra gli ministri e servi de l’invi- dia, ignoranza e malignitade. Secondo, per non assi- stergli degni protectori e difensori che l’assicurassero, iuxta quello: Letteratura italiana Einaudi 24   Giordano Bruno - De gli eroici furori Non mancaranno, o Flacco, gli Maroni, se penuria non è de Mecenati. Appresso, per trovarsi ubligato alla contemplazion, e studi de filosofia: li quali se non son più maturi, denno però come parenti de le Muse esser predecessori a quelle. Oltre perché traendolo da un canto la tragica Melpomene con più materia che vena, e la comica Ta- lia con più vena che materia da l’altro, accadeva che l’una suffurandolo a l’altra, lui rimanesse in mezzo più tosto neutrale e sfacendato, che comunmente negocio- so. Finalmente per l’autorità de censori che ritenendo- lo da cose più degne et alte alle quali era naturalmente inchinato, cattivavano il suo ingegno: perché da libero sotto la virtù lo rendesser cattivo sott’una vilissima e stolta ipocrisia. Al fine, nel maggior fervor de fastidi nelli quali incorse, è avvenuto che non avend’altronde da consolarsi, accettasse l’invito di costoro, che son dette inebriarlo de tai furori, versi e rime, con quali non si mostraro ad altri: perché in quest’opra più rilu- ce d’invenzione che d’imitazione. cicada Dite: che intende per quei che si vantano de mirti et allori? tansillo Si vantano e possono vantarsi de mirto quei che cantano d’amori: alli quali (se nobilmente si por- tano) tocca la corona di tal pianta consecrata a Vene- re, dalla quale riconoscono il furore. Possono vantarsi d’allori quei che degnamente cantano cose eroiche, instituendo gli animi eroici per la filosofia speculativa e morale, overamente celebrandoli e mettendoli per specchio exemplare a gli gesti politici e civili. cicada Dumque son più specie de poeti e de corone? tansillo Non solamente quante son le muse, ma e di gran numero di vantaggio: perché quantunque sieno certi geni, non possono però esser determinate certe specie e modi d’ingegni umani. Letteratura italiana Einaudi 25   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Son certi regolisti de poesia che a gran pena passano per poeta Omero, riponendo Vergilio, Ovi- dio, Marziale, Exiodo, Lucrezio et altri molti in nu- mero de versificatori, esaminandoli per le regole de la Poetica d’Aristotele. tansillo Sappi certo, fratel mio, che questi son vere bestie: perché non considerano quelle regole princi- palmente servir per pittura dell’omerica poesia o altra simile in particolare; e son per mostrar tal volta un poeta eroico tal qual fu Omero, e non per instituir al- tri che potrebbero essere, con altre vene, arti e furori, equali, simili e maggiori, de diversi geni. cicada Sì che come Omero nel suo geno non fu poeta che pendesse da regole, ma è causa delle regole che serveno a coloro che son più atti ad imitare che ad in- ventare; e son state raccolte da colui che non era poe- ta di sorte alcuna, ma che seppe raccogliere le regole di quell’una sorte, cioè dell’omerica poesia, in servig- gio di qualch’uno che volesse doventar non un altro poeta, ma un come Omero: non di propria musa, ma scimia de la musa altrui. tansillo Conchiudi bene, che la poesia non nasce da le regole, se non per leggerissimo accidente; ma le re- gole derivano da le poesie: e però tanti son geni e spe- cie de vere regole, quanti son geni e specie de veri poeti. cicada Or come dumque saranno conosciuti gli vera- mente poeti? tansillo Dal cantar de versi: con questo, che cantan- do o vegnano a delettare, o vegnano a giovare, o a giovare e delettare insieme. cicada A chi dumque serveno le regole d’Aristotele? tansillo A chi non potesse come Omero, Exiodo, Orfeo et altri poetare senza le regole d’Aristotele; e che per non aver propria musa, vuolesse far l’amore con quella d’Omero. Letteratura italiana Einaudi 26   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Dumque han torto certi pedantacci de tempi nostri, che excludeno dal numero de poeti alcuni, o perché non apportino favole e metafore conformi, o perché non hanno principii de libri e canti conformi a quei d’Omero e Vergilio, o perché non osservano la consuetudine di far l’invocazione, o perché intesseno una istoria o favola con l’altra, o perché [non] finisco- no gli canti epilogando di quel ch’è detto e proponen- do per quel ch’è da dire; e per mille altre maniere d’examine, per censure e regole in virtù di quel testo. Onde par che vogliano conchiudere che essi loro a un proposito (se gli venesse de fantasia) sarrebono gli ve- ri poeti, et arrivarebbono là, dove questi si forzano: e poi in fatto non son altro che vermi che non san far cosa di buono, ma son nati solamente per rodere, in- sporcare e stercorar gli altrui studi e fatiche; e non possendosi render celebri per propria virtude et inge- gno, cercano di mettersi avanti o a dritto o a torto, per altrui vizio et errore. tansillo Or per tornar là donde l’affezzione n’ha fat- to alquanto a lungo digredire: dico che sono e posso- no essere tante sorte de poeti, quante possono essere e sono maniere de sentimenti et invenzioni umane, al- li quali son possibili d’adattarsi ghirlande non solo da tutti geni e specie de piante, ma et oltre d’altri geni e specie di materie. Però corone a’ poeti non si fanno solamente de mirti e lauri: ma anco de pampino per versi fescennini, d’edera per baccanali, d’oliva per sa- crifici e leggi; di pioppa, olmo e spighe per l’agricol- tura; de cipresso per funerali: e d’altre innumerabili per altre tante occasioni. E se vi piacesse anco di quel- la materia che mostrò un galantuomo quando disse: O fra Porro poeta da scazzate, ch’a Milano t’affibbi la ghirlanda di boldoni, busecche e cervellate. Letteratura italiana Einaudi 27   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada [2] Or dumque sicuramente costui per di- verse vene che mostra in diversi propositi e sensi, po- trà infrascarsi de rami de diverse piante, e potrà de- gnamente parlar con le “Muse”: perché sia appo loro sua “aura” con cui si conforte, “ancora” in cui si su- stegna, e “porto” al qual si retire nel tempo de fati- che, exagitazioni e tempeste. [3] Onde dice: O “mon- te” Parnaso dove “abito”, Muse con le quali “converso”, “fonte” cliconio o altro dove mi “nodri- sco”, monte che mi doni quieto aroggiamento, Muse che m’inspirate profonda dottrina, fonte che mi fai ri- polito e terso; monte dove ascendendo “inalzo” il co- re; Muse con le quali versando “avvivo” il “spirito”; fonte sotto li cui arbori poggiando adorno la “fron- te”; “cangiate” la mia “morte” in “vita”, gli miei “ci- pressi” in “lauri”, e gli miei “inferni” in cieli: cioè de- stinatemi immortale, fatemi poeta, rendetemi illustre, mentre canto di morte, cipressi et inferni. tansillo Bene, perché a color che son favoriti dal cie- lo, gli più gran mali si converteno in beni tanto mag- giori: perché le necessitadi parturiscono le fatiche e studi, e questi per il più de le volte la gloria d’immor- tal splendore. cicada E la morte d’un secolo, fa vivo in tutti gli altri. Séguita. tansillo Dice appresso: In luogo e forma di Parnaso ho ’l core, dove per scampo mio convien ch’io monte; son mie muse i pensier ch’a tutte l’ore mi fan presenti le bellezze conte; onde sovente versan gli occhi fore lacrime molte, ho l’Eliconio fonte: per tai montagne, per tai ninfe et acqui, com’ha piaciut’al ciel poeta nacqui. (2) Or non alcun de reggi, Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori non favorevol man d’imperatore, non sommo sacerdot’, e gran pastore, mi dien tai grazie, onori e privileggi; ma di lauro m’infronde mio cor, gli miei pensieri, e le mie onde. 1. Qua dechiara: prima qual sia il suo monte, dicen- do esser l’alto affetto del suo “core”; secondo, quai sieno le sue “muse”, dicendo esser le “bellezze” e prorogative del suo oggetto; terzo, quai sieno gli fon- ti, e questi dice esser le “lacrime”. In quel monte s’ac- cende l’affetto; da quelle bellezze si concepe il furore; e da quelle lacrime il furioso affetto si dimostra. 2. Cossì se stima di non posser essere meno illustre- mente coronato per via del suo core, pensieri e lacri- me, che altri per man de “regi”, imperadori e papi. cicada Dechiarami quel ch’intende per ciò che dice: “il core in forma di Parnaso”. tansillo Perché cossì il cuor umano ha doi capi che vanno a terminarsi a una radice, e spiritualmente da uno affetto del core procede l’odio et amore di doi contrarii; come have sotto due teste una base il monte Parnaso. cicada A l’altro. tansillo Dice: (1) Chiama per suon di tromb’ il capitano tutti gli suoi guerrier sott’un’insegna; dove s’avvien che per alcun in vano udir si faccia, perché pronto vegna, qual nemico l’uccide, o a qual insano gli dona bando dal suo camp’e ’l sdegna: cossì l’alm’i dissegni non accolti sott’un stendardo, o gli vuol morti, o tolti. (2) Un oggetto riguardo, chi la mente m’ingombr’, è un sol viso, ad una beltà sola io resto affiso, chi sì m’ha punt’il cor è un sol dardo, per un sol fuoco m’ardo, e non conosco più ch’un paradiso. 1. Questo “capitano” è la voluntade umana che sie- de in poppa de l’anima, con un picciol temone de la raggione governando gli affetti d’alcune potenze inte- riori, contra l’onde de gli émpiti naturali. Egli con il “suono de la tromba”, cioè della determinata elezzio- ne, chiama “tutti gli guerrieri”, cioè provoca tutte le potenze (le quali s’appellano guerriere per esserno in continua ripugnanza e contrasto) o pur gli effetti di quelle, che son gli contrariia pensieri; de quali altri verso l’una, altri verso l’altra parte inchinano: e cerca constituirgli tutti “sott’un’insegna” d’un determinato fine. Dove s’accade ch’alcun d’essi vegna chiamato in vano a farsi prontamente vedere ossequioso (massime quei che procedono dalle potenze naturali quali o nullamente o poco ubediscono alla raggione), al me- no forzandosi d’impedir gli loro atti, e dannar quei che non possono essere impediti, viene a mostrarsi come uccidesse quelli, e donasse bando a questi: pro- cedendo contra gli altri con la spada de l’ira, et altri con la sferza del sdegno. 2. Qua un “oggetto riguarda”, a cui è volto con l’in- tenzione. Per “un viso”, con cui s’appaga “ingombra la mente”. “In una sola beltade” si diletta e compiace; e dicesi “restarvi affiso”, perché l’opra d’intelligenza non è operazion di moto, ma di quiete. E da là sola- mente concepe quel “dardo” che l’uccide, cioè che gli constituisce l’ultimo fine di perfezione. “Arde per un sol fuoco”, cioè dolcemente si consuma in uno amore. cicada Perché l’amore è significato per il fuoco? tansillo Lascio molte altre caggioni, bastiti per ora questa: perché cossì la cosa amata l’amore converte Letteratura italiana Einaudi 30   Giordano Bruno - De gli eroici furori ne l’amante, come il fuoco tra tutti gli elementi attivis- simo è potente a convertire tutti quell’altri semplici e composti in se stesso. cicada Or séguita. tansillo “Conosce un paradiso”: cioè un fine princi- pale, perché paradiso comunmente significa il fine, il qual si distingue in quello ch’è absoluto, in verità et essenza, e l’altro che è in similitudine, ombra e parti- cipazione. Del primo modo non può essere più che uno, come non è più che uno l’ultimo et il primo be- ne. Del secondo modo sono infiniti. Amor, sorte, l’oggetto e gelosia m’appaga, affanna, content’e sconsola; il putto irrazional, la cieca e ria, l’alta bellezza, la mia morte sola: mi mostr’il paradis’, il toglie via, ogni ben mi presenta, me l’invola; tanto ch’il cor, la mente, il spirto, l’alma ha gioia, ha noia, ha refrigerio, ha salma. Chi mi terrà di guerra? Chi mi farà fruir mio ben in pace? Chi quel ch’annoia e quel che sì mi piacefarà lungi disgionti, per gradir le mie fiamme e gli miei fonti? Mostra la caggion et origine onde si concepe il furore e nasce l’entusiasmo, per solcar il campo de le muse, spargendo il seme de suoi pensieri, aspirando a l’amo- rosa messe, scorgendo in sé il fervor de gli affetti in vece del sole, e l’umor de gli occhi in luogo de le piogge. Mette quattro cose avanti: l’“amore”, la “sor- te”, l’“oggetto”, la “gelosia”. Dove l’amore non è un basso, ignobile et indegno motore, ma un eroico si- gnor e duce de lui; la sorte non è altro che la disposi- Letteratura italiana Einaudi 31   Giordano Bruno - De gli eroici furori zion fatale et ordine d’accidenti, alli quali è suggetto per il suo destino; l’oggetto è la cosa amabile, et il correlativo de l’amante; la gelosia è chiaro che sia un zelo de l’amante circa la cosa amata, il quale non biso- gna donarlo a intendere a chi ha gustato amore, et in vano ne forzaremo dechiararlo ad altri. L’amore “ap- paga”: perché a chi ama, piace l’amare; e colui che ve- ramente ama non vorrebbe non amare. Onde non vo- glio lasciar de referire quel che ne mostrai in questo mio sonetto: Cara, soave et onorata piaga del più bel dardo che mai scelse amore; alto, leggiadro e precioso ardore, che gir fai l’alma di sempr’arder vaga: qual forza d’erba e virtù d’arte maga ti torrà mai dal centro del mio core, se chi vi porge ogn’or fresco vigore quanto più mi tormenta, più m’appaga? Dolce mio duol, novo nel mond’e raro, quando del peso tuo girò mai scarco, s’il rimedio m’è noia, e ’l mal diretto? Occhi, del mio signor facelle et arco, doppiate fiamme a l’alma e strali al petto, poich’il languir m’è dolce e l’ardor caro. La sorte “affanna” per non felici e non bramati suc- cessi, o perché faccia stimar il suggetto men degno de la fruizion de l’oggetto, e men proporzionato a la di- gnità di quello; o perché non faccia reciproca correla- zione, o per altre caggioni et impedimenti che s’attra- versano. L’oggetto “contenta” il suggetto, che non si pasce d’altro, altro non cerca, non s’occupa in altro, e per quello bandisce ogni altro pensiero. La gelosia “sconsola”, perché quantunque sia figlia dell’amore da cui deriva, compagna di quello con cui va sempre Letteratura italiana Einaudi 32   Giordano Bruno - De gli eroici furori insieme, segno del medesimo, perché quello s’intende per necessaria conseguenza dove lei si dimostra (co- me sen può far esperienza nelle generazioni intiere, che per freddezza di regione, e tardezza d’ingegno, meno apprendono, poco amano, e niente hanno di gelosia), tutta volta con la sua figliolanza, compagnia e significazione vien a perturbar et attossicare tutto quel che si trova di bello e buono nell’amore. Là onde dissi in un altro mio sonetto: O d’invidia et amor figlia sì ria, che le gioie del padre volgi in pene, caut’Argo al male, e cieca talpa al bene, ministra di tormento, Gelosia; Tisifone infernal fetid’Arpia, che l’altrui dolce rapi et avvelene, austro crudel per cui languir conviene il più bel fior de la speranza mia; fiera da te medesma disamata, augel di duol non d’altro mai presago, pena, ch’entri nel cor per mille porte: se si potesse a te chiuder l’entrata, tant’il regno d’amor saria più vago, quant’il mondo senz’odio e senza morte. Giongi a quel ch’è detto che la Gelosia non sol tal volta è la morte e ruina de l’amante, ma per le spesse volte uccide l’istesso amore, massime quando parturi- sce il sdegno: percioché viene ad essere talmente dal suo figlio affetta, che spinge l’amore e mette in di- spreggio l’oggetto, anzi non lo fa più essere oggetto. cicada Dechiara ora l’altre particole che siegueno, cioè perché l’amore si dice putto irrazionale? tansillo Dirò tutto. “Putto irrazionale” si dice l’amore non perché egli per sé sia tale; ma per ciò, che per il più fa tali suggetti, et è in sugetti tali: atteso che in qualumque è più intellettuale e speculativo, inalza più l’ingegno e più purifica l’intelletto, facendolo sveglia- to, studioso e circonspetto, promovendolo ad un’ani- mositate eroica et emulazion di virtudi e grandezza, per il desio di piacere e farsi degno della cosa amata. In altri poi (che son la massima parte) s’intende pazzo e stolto, perché le fa uscir de proprii sentimenti, e le precipita a far delle extravaganze, perché ritrova il spirito, anima e corpo mal complessionati, et inetti a considerar e distinguere quel che gli è decente da quel che le rende più sconci: facendoli suggetto di di- spreggio, riso e vituperio. cicada Dicono volgarmente e per proverbio, che l’amor fa dovenir gli vecchi pazzi, e gli giovani savii. tansillo Questo inconveniente non accade a tutti vecchi, né quel conveniente a tutti giovani; ma è vero de quelli ben complessionati, e de mal complessionati quest’altri. E con questo è certo, che chi è avezzo nel- la gioventù d’amar circonspettamente, amarà vecchio senza straviare. Ma il spasso e riso è di quelli alli quali nella matura etade l’amor mette l’alfabeto in mano. cicada Ditemi adesso, perché cieca e ria se dice la sor- te o fato? tansillo “Cieca” e “ria” si dice la sorte ancora, non per sé, perché è l’istesso ordine de numeri e misure de l’universo; ma per raggion de suggetti si dice et è cieca: perché le rende ciechi al suo riguardo, per esser ella incertissima. È detta similmente ria, perché nullo de mortali è che in qualche maniera lamentandosi e querelandosi di lei, non la incolpe. Onde disse il pu- gliese poeta: Che vuol dir, Mecenate, che nessuno al mondo appar contento de la sorte, che gli ha porgiuta la raggion o cielo? Letteratura italiana Einaudi 34   Giordano Bruno - De gli eroici furori Cossì chiama l’oggetto “alta bellezza”, perché a lui è unico e più eminente, et efficace per tirarlo a sé; e però lo stima più degno, più nobile, e però sel sente predominante e superiore: come lui gli vien fatto sud- dito e cattivo. “La mia morte sola” dice de la gelosia, perché come l’amore non ha più stretta compagna che costei, cossì anco non ha senso di maggior nemi- ca: come nessuna cosa è più nemica al ferro che la ruggine, che nasce da lui medesimo. cicada Or poi ch’hai cominciato a far cossì, séguita a mostrar parte per parte quel che resta. tansillo Cossì farò. Dice appresso de l’amore: “Mi mostra il paradiso”; onde fa veder che l’amore non è cieco in sé, e per sé non rende ciechi alcuni amanti, ma per l’ignobili disposizioni del suggetto: qualmente avviene che gli ucelli notturni dovegnon ciechi per la presenza del sole. Quanto a sé dumque l’amore illu- stra, chiarisce, apre l’intelletto e fa penetrar il tutto e suscita miracolosi effetti. cicada Molto mi par che questo il Nolano lo dimostre in un altro suo sonetto: Amor per cui tant’alto il ver discerno, ch’apre le porte di diamante nere, per gli occhi entra il mio nume, e per vedere nasce, vive, si nutre, ha regno eterno; fa scorger quant’ha ’l ciel, terr’, et inferno; fa presenti d’absenti effiggie vere, repiglia forze, e col trar dritto, fere; e impiaga sempr’il cor, scuopre l’interno. O dumque, volgo vile, al vero attendi, porgi l’orecchio al mio dir non fallace, apri, apri, se puoi, gli occhi, insano e bieco: fanciullo il credi perché poco intendi, perché ratto ti cangi ei par fugace, per esser orbo tu lo chiami cieco. Letteratura italiana Einaudi 35   Giordano Bruno - De gli eroici furori Mostra dumque il paradiso amore, per far intendere, capire et effettuar cose altissime; o perché fa grandi almeno in apparenza le cose amate. “Il toglie via”, di- ce de la sorte: perché questa sovente, a mal grado de l’amante, non concede quel tanto che l’amor dimo- stra, e quel che vede e brama, gli è lontano et adversa- rio. “Ogni ben mi presenta”, dice de l’oggetto: perché questo che vien dimostrato da l’indice de l’amore, gli par la cosa unica, principale, et il tutto. “Me l’invola”, dice della Gelosia, non già per non farlo presente to- gliendolo d’avanti gli occhi; ma in far ch’il bene non sia bene, ma un angoscioso male; il dolce non sia dol- ce, ma un angoscioso languire. “Tanto ch’il cor”, cioè la volontà, “ha gioia” nel suo volere per forza d’amo- re, qualunque sia il successo. “La mente”, cioè la par- te intellettuale, ha “noia”, per l’apprension de la sor- te, qual non aggradisce l’amante. “Il spirito”, cioè l’affetto naturale, ha “refrigerio”, per esser rapito da quell’oggetto che dà gioia al core, e potrebbe aggradir la mente. “L’alma”, cioè la sustanza passibile e sensi- tiva, “ha salma”, cioè si trova oppressa dal grave peso de la gelosia che la tormenta. Appresso la considera- zion del stato suo, soggionge il lacrimoso lamento, e dice: “Chi mi torrà di guerra”, e metterammi in pace; o chi disunirà quel che m’annoia e danna, da quel che sì mi piace et apremi le porte de cielo, perché gradite sieno le fervide fiamme del mio core, e fortunati i fon- ti de gli occhi miei? Appresso continuando il suo pro- posito, soggionge: Premi (oimè) gli altri, o mia nemica sorte; vatten via, Gelosia, dal mondo fore: potran ben soli con sua diva corte far tutto nobil faccia e vago amore. Lui mi tolga de vita, lei de morte; lei me l’impenne, lui brugge il mio core; Letteratura italiana Einaudi 36   Giordano Bruno - De gli eroici furori lui me l’ancide, lei ravvive l’alma; lei mio sustegno, lui mia grieve salma. Ma che dic’io d’amore? se lui e lei son un suggetto o forma, se con medesm’imperio et una norma fann’un vestigio al centro del mio core? Non son doi dumque: è una che fa gioconda e triste mia fortuna. Quattro principii et estremi de due contrarietadi vuol ridurre a doi principii et una contrarietade. Dice dumque: “Premi (oimè) gli altri”, cioè basti a te, o mia sorte, d’avermi sin a tanto oppresso, e (perché non puoi essere senza il tuo essercizio) volta altrove il tuo sdegno. E “vatten via fuori del mondo”, tu, Gelo- sia: perché uno di que’ doi altri che rimagnono potrà supplire alle vostre vicende et offici; se pur tu, mia sorte, non sei altro ch’il mio Amore, e tu Gelosia, non sei estranea dalla sustanza del medesimo. Reste dum- que lui per privarmi de vita, per bruggiarmi, per do- narmi la morte, e per salma de le mie ossa: con questo che lei mi tolga di morte, mi impenne, mi avvive e mi sustente. Appresso, doi principii et una contrarietade riduce ad un principio et una efficacia, dicendo: “Ma che dich’io d’Amore”? Se questa faccia, questo ogget- to è l’imperio suo, e non par altro che l’imperio de l’amore; la norma de l’amore è la sua medesima nor- ma; l’impression d’amore ch’appare nella sustanza del cor mio, non è certo altra impression che la sua: per- ché dumque dopo aver detto “nobil faccia”, replico dicendo “vago amore”? tansillo Or qua comincia il furioso a mostrar gli af- fetti suoi e discuoprir le piaghe che sono per segno nel corpo, et in sustanza o in essenza nell’anima, e di- ce cossì: Io che porto d’amor l’alto vessillo, gelate ho spene, e gli desir cuocenti: a un tempo triemo, agghiaccio, ardo e sfavillo, son muto, e colmo il ciel de strida ardenti; dal cor scintill’, e da gli occhi acqua stillo; e vivo e muoio, e fo ris’e lamenti: son vive l’acqui, e l’incendio non more, ch’a gli occhi ho Teti, et ho Vulcan al core, altr’amo, odio me stesso: ma s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso; poggi’altr’al ciel, s’io mi ripogno al basso; sempr’altri fugge, s’io seguir non cesso; s’io chiamo, non risponde: e quant’io cerco più, più mi s’asconde. A proposito di questo voglio seguitar quel che poco avanti ti dicevo: che non bisogna affatigarsi per pro- vare quel che tanto manifestamente si vede, cioè che nessuna cosa è pura e schetta (onde diceano alcuni, nessuna cosa composta esser vero ente: come l’oro composto non è vero oro, il vino composto non è pu- ro vero e mero vino); appresso, tutte le cose constano de contrarii: da onde avviene che gli successi de li no- stri affetti per la composizione ch’è nelle cose, non hanno mai delettazion alcuna senza qualch’amaro; anzi dico, e noto di più, che se non fusse l’amaro nelle cose, non sarrebe la delettazione, atteso che la fatica fa che troviamo delettazione nel riposo; la separazio- Letteratura italiana Einaudi 38   Giordano Bruno - De gli eroici furori ne è causa che troviamo piacere nella congiunzione: e generalmente essaminando, si trovarà sempre che un contrario è caggione che l’altro contrario sia bramato e piaccia. cicada Non è dumque delettazione senza contrarietà? tansillo Certo non, come senza contrarietà non è do- lore, qualmente manifesta quel pitagorico poeta quando dice: Hinc metuunt cupiuntque, dolent gaudentque, nec auras respiciunt, clausae tenebris et carcere caeco. Ecco dumque quel che caggiona la composizion de le cose. Quindi aviene che nessuno s’appaga del stato suo, eccetto qualch’insensato e stolto, e tanto più quanto più si ritrova nel maggior grado del fosco inter- vallo de la sua pazzia: all’ora ha poca o nulla appren- sion del suo male, gode l’esser presente senza temer del futuro; gioisce di quel ch’è e per quello in che si trova, e non ha rimorso o cura di quel ch’è o può essere, et in fine non ha senso della contrarietade la quale è figurata per l’arbore della scienza del bene e del male. cicada Da qua si vede che l’ignoranza è madre della felicità e beatitudine sensuale, e questa medesima è l’orto del paradiso de gli animali; come si fa chiaro nelli dialogi de la Cabala del cavallo Pegaseo e per quel che dice il sapiente Salomone: «chi aumenta sa- pienza, aumenta dolore». tansillo Da qua avviene che l’amore eroico è un tor- mento, perché non gode del presente come il brutale amore; ma e del futuro e de l’absente; e del contrario sente l’ambizione, emulazione, suspetto e timore. In- di dicendo una sera dopo cena un certo de nostri vici- ni: «Giamai fui tanto allegro quanto sono adesso» gli rispose Gioan Bruno, padre del Nolano: «Mai fuste più pazzo che adesso». cicada Volete dumque che colui che è triste sia savio, e quell’altro ch’è più triste, sia più savio? tansillo Non, anzi intendo in questi essere un’altra specie di pazzia, et oltre peggiore. cicada Chi dumque sarà savio, se pazzo è colui ch’è contento, e pazzo è colui ch’è triste? tansillo Quel che non è contento né triste. cicada Chi? quel che dome? quel ch’è privo di senti- mento? quel ch’è morto? tansillo No: ma quel ch’è vivo, vegghia et intende; il quale considerando il male et il bene, stimando l’uno e l’altro come cosa variabile e consistente in moto, mutazione e vicissitudine (di sorte ch’il fine d’un con- trario è principio de l’altro, e l’estremo de l’uno è co- minciamento de l’altro), non si dismette, né si gonfia di spirito, vien continente nell’inclinazioni e tempera- to nelle voluptadi: stante ch’a lui il piacere non è pia- cere, per aver come presente il suo fine. Parimente la pena non gli è pena, perché con la forza della consi- derazione ha presente il termine di quella. Cossì il sa- piente ha tutte le cose mutabili come cose che non so- no, et afferma quelle non esser altro che vanità et un niente: perché il tempo a l’eternità ha proporzione come il punto a la linea. cicada Sì che mai possiamo tener proposito d’esser contenti o mal contenti, senza tener proposito de la nostra pazzia, la qual espressamente confessiamo; là onde nessun che ne raggiona, e per conseguenza nes- sun che n’è partecipe, sarà savio: et infine tutti gli omini saran pazzi. tansillo Non tendo ad inferir questo, perché dirò mas- sime savio colui che potesse veramente dire talvolta il contrario di quel che quell’altro: «Giamai fui men alle- gro che adesso» over: «Giamai fui men triste che ora». cicada Come non fai due contrarie qualitadi dove son doi affetti contrarii? perché, dico, intendi come due virtudi, e non come un vizio et una virtude, l’esser mi- nimamente allegro, e l’esser minimamente triste? tansillo Perché ambi doi li contrarii in eccesso (cioè per quanto vanno a dar su quel più) son vizii, perché passano la linea; e gli medesimi in quanto vanno a dar sul meno, vegnono ad esser virtude, perché si conte- gnono e rinchiudono intra gli termini. cicada Come l’esser men contento e l’esser men triste non son una virtù et uno vizio, ma son due virtudi? tansillo Anzi dico che son una e medesima virtude: perché il vizio è là dove è la contrarietade; la contrarie- tade è massime là dove è l’estremo; la contrarietà mag- giore è la più vicina all’estremo; la minima o nulla è nel mezzo, dove gli contrarii convegnono e son uno et in- differente: come tra il freddissimo e caldissimo è il più caldo et il più freddo; e nel mezzo puntuale è quello che puoi dire o caldo e freddo, o né caldo né freddo, senza contrarietade. In cotal modo chi è minimamente con- tento e minimamente triste, è nel grado della indifferen- za, si trova nella casa della temperanza, e là dove consi- ste la virtude e condizion d’un animo forte, che non vien piegato da l’Austro né da l’Aquilone. Ecco dum- que (per venir al proposito) come questo furor eroico, che si chiarisce nella presente parte, è differente da gli altri furori più bassi, non come virtù dal vizio: ma come un vizio ch’è in un suggetto più divino o divinamente, da un vizio ch’è in un suggetto più ferino o ferinamente. Di maniera che la differenza è secondo gli suggetti e modi differenti, e non secondo la forma de l’esser vizio. cicada Molto ben posso da quel ch’avete detto, con- chiudere la condizion di questo eroico furore che di- ce “gelate ho spene, e li desir cuocenti”; perché non è nella temperanza della mediocrità, ma nell’eccesso delle contrarietadi ha l’anima discordevole: se triema nelle gelate speranze, arde negli cuocenti desiri; è per l’avidità «stridolo», «mutolo» per il timore; «Sfavilla dal core per cura d’altrui», e per compassion sé versa lacrime da gli occhi; muore ne l’altrui risa, vive ne’ proprii lamenti; e (come colui che non è più suo) altri ama, odia se stesso: perché la materia (come dicono gli fisici) con quella misura ch’ama la forma absente, odia la presente. E cossì conclude nell’ottava la guer- ra ch’ha l’anima in se stessa; e poi quando dice ne la sestina “ma s’io m’impiumo, altri si cangia in sasso” e quel che séguita, mostra le sue passioni per la guerra ch’essercita con li contrarii esterni. Mi ricordo aver letto in Iamblico, dove tratta de gli Egizii misterii, questa sentenza: «Impius animam dissidentem habet: unde nec secum ipse convenire potest neque cum aliis». tansillo Or odi un altro sonetto di senso consequen- te al detto: Ahi, qual condizioni natura, o sorte: in viva morte morta vita vivo. Amor m’ha morto (ahi lasso) di tal morte, che son di vit’insiem’e morte privo. Voto di spene, d’inferno a le porte, e colmo di desio al ciel arrivo: talché suggetto a doi contrarii eterno, bandito son dal ciel e da l’inferno. Non han mie pene triegua, perch’in mezzo di due scorrenti ruote, de quai qua l’una, là l’altra mi scuote, qual Ixion convien mi fugga e siegua: perché al dubbio discorso dan lezzion contraria il sprone e ’l morso. Mostra qualmente patisca quel disquarto e distrazio- ne in se medesimo: mentre l’affetto, lasciando il mez- zo e meta de la temperanza, tende a l’uno e l’altro estremo; e talmente si trasporta alto o a destra, che anco si trasporta a basso et a sinistra. Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori cicada Come con questo che non è proprio de l’uno né de l’altro estremo, non viene ad essere in stato o termine di virtude? tansillo All’ora è in stato di virtude, quando si tiene al mezzo declinando da l’uno e l’altro contrario: ma quando tende a gli estremi inchinando a l’uno e l’altr di quelli, tanto gli manca de esser virtude, che è dop- pio vizio, il qual consiste in questo che la cosa recede dalla sua natura, la perfezzion della quale consiste nell’unità: e là dove convegnono gli contrarii, consta la composizione, e consiste la virtude. Ecco dumque come è morto vivente, o vivo moriente; là onde dice: “in viva morte morta vita vivo”. Non è morto, perché vive ne l’oggetto; non è vivo, perché è morto in se stesso: privo di morte, perché parturisce pensieri in quello; privo di vita, perché non vegeta o sente in se medesimo. Appresso è bassissimo per la considera- zion de l’alto intelligibile e la compresa imbecillità della potenza; è altissimo per l’aspirazione dell’eroico desio che trapassa di gran lunga gli suoi termini, et è altissimo per l’appetito intellettuale che non ha modo e fine di gionger numero a numero; è bassissimo per la violenza fattagli dal contrario sensuale che verso l’inferno impiomba. Onde trovandosi talmente pog- giar e descendere, sente ne l’alma il più gran dissidio che sentir si possa; e confuso rimane per la ribellion del senso, che lo sprona là d’onde la raggion l’affrena, e per il contrario. – Il medesimo affatto si dimostra nella seguente sentenza dove la raggione in nome de Filenio dimanda, et il furioso risponde in nome di Pa- store, che alla cura del gregge o armento de suoi pen- sieri si travaglia; quai pasce in ossequio e serviggio de la sua ninfa, ch’è l’affezzione di quell’oggetto alla cui osservanza è fatto cattivo: fileno Pastor. pastore Che vuoi? Letteratura italiana Einaudi 43   fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno pastore fileno Che fai? Doglio. Perché? Perché non m’ha per suo vita, né morte. Chi fallo? Amor. Quel rio? Quel rio. Dov’è? Nel centro del mio cor se tien sì forte. Che fa? Fere. Chi? Me. Te? Sì. Con che? Con gli occhi de l’inferno e del ciel porte. Speri? Spero. Mercé? Mercé. Da chi? Da chi sì mi martóra nott’e dì. Hanne? Non so. Sei folle. Che, se cotal follia a l’alma piace? Promette? Non. Niega? Nemeno. Tace? Sì, perché ardir tant’onestà mi tolle. Vaneggi. In che? Nei stenti. pastore Temo il suo sdegno, più che miei tormenti. Qua dice che spasma: lamentasi dell’amore, non già perché ami (atteso che a nessuno veramente amante dispiace l’amare), ma perché infelicemente ami: men- tre escono que’ strali che son gli raggi di quei lumi, che medesimi secondo che son protervi e ritrosi, ove- ramente benigni e graziosi, vegnono ad esser porte che guidano al cielo, overamente a l’inferno. Con questo vien mantenuto in speranza di futura et incer- ta mercé, et in effetto di presente e certo martìre. E quantunque molto apertamente vegga la sua follia, non per tanto avvien che in punto alcuno si correga, o che almen possa conciperne dispiacere; perché tanto ne manca, che più tosto in essa si compiace, come mostra dove dice: Mai fia che dell’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’esser felice. Appresso, mostra un’altra specie di furore parturita da qualche lume di raggione, la qual suscita il timore, e supprime la già detta, a fin che non proceda a fatto, che possa inasprir o sdegnar la cosa amata. Dice dum- que la speranza esser fondata sul futuro, senza che co- sa alcuna se gli prometta o nieghe: per che lui tace, e non dimanda, per téma d’offender l’onestade. Non ardisce esplicarsi e proporsi, onde fia o con ripudio escluso, overamente con promessa accettato: perché nel suo pensiero più contrapesa quel che potrebbe es- ser di male in un caso, che bene in un altro. Mostrasi dumque disposto di suffrir più presto per sempre il proprio tormento, che di poter aprir la porta a l’occa- sione per la quale la cosa amata si turbe e contriste. cicada Con questo dimostra l’amor suo esser vera- mente eroico: perché si propone per più principal fi- ne la grazia del spirito e la inclinazion de l’affetto, che la bellezza del corpo, in cui si termina quell’amor ch’ha del divino. tansillo Sai bene che il rapto platonico è di tre spe- cie, de quali l’uno tende alla vita contemplativa o spe- culativa, l’altro a l’attiva morale, l’altro a l’ociosa e vo- luptuaria: cossì son tre specie d’amori; de quali l’uno dall’aspetto della forma corporale s’inalza alla consi- derazione della spirituale e divina; l’altro solamente persevera nella delettazion del vedere e conversare; l’altro dal vedere va a precipitarsi nella concupiscenza del toccare. Di questi tre modi si componenti altri, se- condo che o il primo s’accompagna col secondo, o che s’accompagna col terzo, o che con correno tutti tre modi insieme: de li quali ciascuno e tutti oltre si moltiplicano in altri, secondo gli affetti de furiosi che tendeno o più verso l’obietto spirituale, o più verso l’obietto corporale, o equalmente verso l’uno e l’altro. Onde avviene che di quei che si ritrovano in questa milizia e son compresi nelle reti d’amore, altri tende- no a fin del gusto che si prende dal raccòrre le poma da l’arbore de la corporal bellezza, senz’il qual otten- to (o speranza al meno) stimano degno di riso e vano ogn’amoroso studio: et in cotal modo corrono tutti quei che son di barbaro ingegno, che non possono né cercano magnificarsi amando cose degne, aspirando a cose illustri, e più alto a cose divine accomodando gli suoi studi e gesti, a i quali non è chi possa più ricca e commodamente suppeditar l’ali, che l’eroico amore. Altri si fanno avanti a fin del frutto della delettazione che prendeno da l’aspetto della bellezza e grazia del spirito che risplende e riluce nella leggiadria del cor- po; e de tali alcuni benché amino il corpo e bramino assai d’esser uniti a quello, della cui lontananza si la- gnano, e disunion s’attristano, tutta volta temeno che presumendo in questo non vegnan privi di quell’affa- bilità, conversazione, amicizia et accordo che gli è più Letteratura italiana Einaudi 46   Giordano Bruno - De gli eroici furori principale: essendo e dal tentare non più può aver si- curezza di successo grato, che gran téma di cader da quella grazia qual come cosa tanto gloriosa e degna gli versa avanti gli occhi del pensiero. cicada È cosa degna, o Tansillo, per molte virtudi e perfezzioni che quindi derivano nell’umano ingegno, cercar, accettar, nodrire e conservar un simile amore: ma si deve ancora aver gran cura di non abbattersi ad ubligarsi ad un oggetto indegno e basso, a fin che non vegna a farsi partecipe della bassezza et indignità del medesimo; in proposito de quali intendo il consiglio del poeta ferrarese: Chi mette il piè su l’amorosa pania, cerchi ritrarlo, e non v’inveschi l’ali. tansillo A dir il vero, l’oggetto ch’oltre la bellezza del corpo non hav’altro splendore, non è degno d’esser amato ad altro fine che di far (come dicono) la razza: e mi par cosa da porco o da cavallo di tormentarvici su; et io (per me) mai fui più fascinato da cosa simile, che potesse al presente esser fascinato da qualche sta- tua o pittura, dalle quali mi pare indifferente. Sarebbe dumque un vituperio grande ad un animo generoso, se d’un sporco, vile, bardo et ignobile ingegno (quan- tunque sotto eccellente figura venesse ricuoperto) dica: “Temo il suo sdegno più ch’il mio tormento”.  tansillo Poneno, e sono più specie de furori, li quali tutti si riducono a doi geni: secondo che altri non mo- strano che cecità, stupidità et impeto irrazionale, che tende al ferino insensato; altri consistono in certa di- vina abstrazzione per cui dovegnono alcuni megliori in fatto che uomini ordinarii. E questi sono de due specie perché: altri per esserno fatti stanza de dèi o spiriti divini, dicono et operano cose mirabile senza che di quelle essi o altri intendano la raggione; e tali per l’ordinario sono promossi a questo da l’esser stati prima indisciplinati et ignoranti, nelli quali come vòti di proprio spirito e senso, come in una stanza purga- ta, s’intrude il senso e spirto divino; il qual meno può aver luogo e mostrarsi in quei che son colmi de pro- pria raggione e senso, perché tal volta vuole ch’il mondo sappia certo che se quei non parlano per pro- prio studio et esperienza come è manifesto, séguite che parlino et oprino per intelligenza superiore: e con questo la moltitudine de gli uomini in tali degnamen- te ha maggior admirazion e fede. Altri, per essere avezzi o abili alla contemplazione, e per aver innato un spirito lucido et intellettuale, da uno interno sti- molo e fervor naturale suscitato da l’amor della divi- nitate, della giustizia, della veritade, della gloria, dal fuoco del desio e soffio dell’intenzione acuiscono gli sensi, e nel solfro della cogitativa facultade accendo- no il lume razionale con cui veggono più che ordina- riamente: e questi non vegnono al fine a parlar et ope- rar come vasi et instrumenti, ma come principali artefici et efficienti. cicada Di questi doi geni quali stimi megliori? tansillo Gli primi hanno più dignità, potestà et effi- cacia in sé: perché hanno la divinità. Gli secondi seri essi più degni, più potenti et efficaci, e son divini. Gli primi son degni come l’asino che porta li sacramenti: gli secondi come una cosa sacra. Nelli primi si consi- dera e vede in effetto la divinità e quella s’admira, adora et obedisce. Ne gli secondi si considera e vede l’eccellenza della propria umanitade. – Or venemo al proposito. Questi furori de quali noi raggioniamo, e che veggiamo messi in esecuzione in queste sentenze, non son oblio, ma una memoria; non son negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e buono con cui si procure farsi perfetto con transformarsi et asso- migliarsi a quello. Non è un raptamento sotto le leggi d’un fato indegno, con gli lacci de ferine affezzioni: ma un impeto razionale che siegue l’apprension intel- lettuale del buono e bello che conosce; a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere, di sorte che della nobiltà e luce di quello viene ad accendersi, et inve- stirsi de qualitade e condizione per cui appaia illustre e degno. Doviene un dio dal contatto intellettuale di quel nume oggetto; e d’altro non ha pensiero che de cose divine, e mostrasi insensibile et impassibile in quelle cose che comunmente massime senteno, e da le quali più vegnon altri tormentati; niente teme, e per amor della divinitade spreggia gli altri piaceri, e non fa pensiero alcuno de la vita. Non è furor d’atra bile che fuor di consiglio, raggione et atti di prudenza lo faccia vagare guidato dal caso e rapito dalla disordi- nata tempesta; come quei ch’avendo prevaricato da certa legge de la divina Adrastia vegnono condannati sotto la carnificina de le Furie: acciò sieno essagitati da una dissonanza tanto corporale per sedizioni, rui- ne e morbi, quanto spirituale per la iattura dell’armo- nia delle potenze cognoscitive et appetitive. Ma è un calor acceso dal sole intelligenziale ne l’anima et im- peto divino che gl’impronta l’ali: onde più e più avvi- cinandosi al sole intelligenziale, rigettando la ruggine de le umane cure, dovien un oro probato e puro, ha sentimento della divina et interna armonia, concorda gli suoi pensieri e gesti con la simmetria della legge insita in tutte le cose. Non come inebriato da le tazze di Circe va cespitando et urtando or in questo, or in quell’altro fosso, or a questo or a quell’altro scoglio; o come un Proteo vago or in questa or in quell’altra fac- cia cangiandosi, giamai ritrova loco, modo, né mate- ria di fermarsi e stabilirsi. Ma senza distemprar l’ar- monia vince e supera gli orrendi mostri; e per tanto che vegna a dechinare, facilmente ritorna al sesto con quelli intimi instinti, che come nove muse saltano e cantano circa il splender dell’universale Apolline: e sotto l’imagini sensibili e cose materiali va compren- dendo divini ordini e consegli. È vero che tal volta avendo per fida scorta l’amore, ch’è gemino, e perché tal volta per occorrenti impedimenti si vede defrauda- to dal suo sforzo, all’ora come insano e furioso mette in precipizio l’amor di quello che non può compren- dere: onde confuso da l’abisso della divinità tal volta dismette le mani, e poi ritorna pure a forzarsi con la voluntade verso là dove non può arrivare con l’intel- letto. È vero pure che ordinariamente va spasseggian- do, et or più in una, or più in un’altra forma del gemi- no Cupido si trasporta; perché la lezzion principale che gli dona Amore è che in ombra contempla (quan- do non puote in specchio) la divina beltate: e come gli proci di Penelope s’intrattegna con le fante quando non gli lice conversar con la padrona. Or dumque, per conchiudere, possete da quel ch’è detto compren- dere qual sia questo furioso di cui l’imagine ne vien messa avanti, quando si dice: Se la farfalla al suo splendor ameno vola, non sa cb’è fiamm’al fin discara; se quand’il cervio per sete vien meno, al rio va, non sa della freccia amara; s’il lioncorno corre al casto seno non vede il laccio che se gli prepara: i’al lum’, al font’, al grembo del mio bene, veggio le fiamme, i strali e le catene. S’è dolce il mio languire, perché quell’alta face sì m’appaga, perché l’arco divin sì dolce impiaga, perché in quel nodo è avolto il mio desire: mi sien eterni impacci fiamme al cor, strali al petto, a l’alma lacci. Dove dimostra l’amor suo non esser come de la farfal- la, del cervio e del lioncorno, che fuggirebono s’aves- ser giudizio del fuoco, della saetta e de gli lacci, e che non han senso d’altro che del piacere: ma vien guida- to da un sensatissimo e pur troppo oculato furore, che gli fa amare più quel fuoco che altro refrigerio, più quella piaga che altra sanità, più que’ legami che altra libertade. Perché questo male non è absoluta- mente male: ma per certo rispetto al bene secondo l’opinione, e falso; quale il vecchio Saturno ha per condimento nel devorar che fa de proprii figli. Perché questo male absolutamente ne l’occhio de l’eternitade è compreso o per bene, o per guida che ne conduce a quello; atteso che questo fuoco è l’ardente desio de le cose divine, questa saetta è l’impression del raggio della beltade della superna luce, questi lacci son le specie del vero che uniscono la nostra mente alla pri- ma verità: e le specie del bene che ne fanno uniti e gionti al primo e sommo bene. A quel senso io m’ac- costai quando dissi: D’un sì bel fuoco e d’un sì nobil laccio beltà m’accende, et onestà m’annoda, ch’in fiamm’e servitù convien ch’io goda, fugga la libertade e tema il ghiaccio; l’incendio è tal ch’io m’ard’e non mi sfaccio, el nodo è tal ch’il mondo meco il loda, né mi gela timor, né duol mi snoda; ma tranquill’è l’ardor, dolce l’impaccio. Scorgo tant’alto il lume che m’infiamma, el laccio ordito di sì ricco stame, che nascend’il pensier, more il desio. Poiché mi splend’al cor sì bella fiamma, e mi stringe il voler sì bel legame, sia serva l’ombra, et arda il cener mio. Tutti gli amori (se sono eroici e non son puri animali, che chiamano naturali e cattivi alla generazione, come instrumenti de la natura in certo modo) hanno per oggetto la divinità, tendeno alla divina bellezza, la quale prima si comunica all’anime e risplende in quel- le, e da quelle poi o (per dir meglio) per quelle poi si comunica alli corpi: onde è che l’affetto ben formato ama gli corpi o la corporal bellezza, per quel che è in- dice della bellezza del spirito. Anzi quello che n’inna- mora del corpo è una certa spiritualità che veggiamo in esso, la qual si chiama bellezza; la qual non consiste nelle dimensioni maggiori o minori, non nelli deter- minati colori o forme, ma in certa armonia e conso- nanza de membri e colori . Questa mostra certa sensi- bile affinità col spirito a gli sensi più acuti e penetrativi: onde séguita che tali più facilmente et in- tensamente s’innamorano, et anco più facilmente si disamorano, e più intensamente si sdegnano, con quella facilità et intensione, che potrebbe essere nel cangiamento del spirito brutto, che in qualche gesto et espressa intenzione si faccia aperto: di sorte che tal bruttezza trascorre da l’anima al corpo, a farlo non apparir oltre come gli apparia bello. La beltà dumque del corpo ha forza d’accendere; ma non già di legare e far che l’amante non possa fuggire, se la grazia che si richiede nel spirito non soccorre, come la onestà, la gratitudine, la cortesia, l’accortezza: però dissi bello quel fuoco che m’accese, perché ancor fu nobile il laccio che m’annodava. cicada Non creder sempre cossì, Tansillo; perché qualche volta quantunque discuopriamo vizioso il spirito non lasciamo però di rimaner accesi et allac- ciati: di maniera che quantunque la raggion veda il male et indignità di tale amore, non ha però efficacia di alienar il disordinato appetito. Nella qual disposi- zion credo che fusse il Nolano quando disse: Oimè che son constretto dal furore d’appigliarmi al mio male, ch’apparir fammi un sommo ben Amore. Lasso, a l’alma non cale ch’a contrarii consigli umqua ritenti; e del fero tiranno, che mi nodrisce in stenti, e poté pormi da me stess’in bando, più che di libertad’ i’ son contento. Spiego le vele al vento, che mi suttraga a l’odioso bene: e tempestoso al dolce danno amene. tansillo Questo accade, quando l’uno e l’altro spirto è vizioso, e son tinti come di medesimo inchiostro, at- teso che dalla conformità si suscita, accende e si con- firma l’amore. Cossì gli viziosi facilmente concordano in atti di medesimo vizio. E non voglio lasciar de dire ancora quel che per esperienza conosco, che quan- tunque in un animo abbia discuoperti vizii molto abominati da me, com’è dire una sporca avarizia, una vilissima ingordiggia sul danaio, irreconoscenza di ri- cevuti favori e cortesie, un amor di persone al tutto vili (de quali vizii questo ultimo massime dispiace perché toglie la speranza a l’amante che per esser egli, o farsi più degno, possa da lei esser più accettato), tutta volta non mancava ch’io ardesse per la beltà cor- porale. Ma che? io l’amavo senza buona volontà, es- sendo che non per questo m’arrei più contristato che allegrato delle sue disgrazie et infortunii. cicada Però è molto propria et a proposito quella di- stinzion che fanno intra l’amare e voler bene. tansillo È vero, perché a molti vogliamo bene, cioè desideramo che siano savii e giusti: ma non le amia- mo, perché sono iniqui et ignoranti; molti amiamo perché son belli, ma non gli vogliamo bene, perché non meritano: e tra l’altre cose che stima l’amante quello non meritare, la prima è d’essere amato; e però benché non possa astenersi d’amare, niente di meno gli ne rincresce e mostra il suo rincrescimento: come costui che diceva, «Oimè ch’io son costretto dal furo- re d’appigliarmi al mio male». In contraria disposizio- ne fu, o per altro oggetto corporale in similitudine, o per suggetto divino in verità, quando disse: Bench’a tanti martir mi fai suggetto, pur ti ringrazio, e assai ti deggio, Amore, che con sì nobil piaga apriste il petto, e tal impadroniste del mio core, per cui fia ver ch’un divo e viv’oggetto, de Dio più bella imago ’n terra adore; pensi chi vuol ch’il mio destin sia rio, ch’uccid’in speme, e fa viv’in desio. Pascomi in alta impresa; e bench’il fin bramato non consegua, e ’n tanto studio l’alma si dilegua, basta che sia sì nobilment’ accesa: basta ch’alto mi tolsi, e da l’ignobil numero mi sciolsi. L’amor suo qua è a fatto eroico e divino, e per tale voglio intenderlo: benché per esso si dica suggetto a tanti martìri; perché ogni amante ch’è disunito e se- parato da la cosa amata (alla quale com’è congionto con l’affetto, vorrebe essere con l’effetto) si trova in cordoglio e pena, si crucia e si tormenta: non già per- ché ami, atteso che degnissima e nobilissimamente sente impiegato l’amore; ma perché è privo di quella fruizione la quale ottenerebbe se fusse gionto a quel termine al qual tende: non dole per il desio che ravvi- va, ma per la difficultà del studio ch’il martora. Sti- minlo dumque altri a sua posta infelice per questa ap- parenza de rio destino, come che l’abbia condannato a cotai pene: perché egli non lasciarà per tanto de ri- conoscer l’obligo ch’have ad Amore, e rendergli gra- zie, perché gli abbia presentato avanti gli occhi de la mente una specie intelligibile, nella quale in questa terrena vita (rinchiuso in questa priggione de la car- ne, et avvinto da questi nervi, e confirmato da queste ossa) li sia lecito di contemplar più altamente la divi- nitade, che se altra specie e similitudine di quella si fusse offerta. cicada Il “divo” dumque “e vivo oggetto”, ch’ei dice, è la specie intelligibile più alta che egli s’abbia possu- to formar della divinità; e non è qualche corporal bel- lezza che gli adombrasse il pensiero come appare in superficie del senso? tansillo Vero: perché nessuna cosa sensibile, né spe- cie di quella, può inalzarsi a tanta dignitade. cicada Come dumque fa menzione di quella specie per oggetto, se (come mi pare) il vero oggetto è la di- vinità istessa? tansillo La è oggetto finale, ultimo e perfettissimo; non già in questo stato dove non possemo veder Dio se non come in ombra e specchio, e però non ne può esser oggetto se non in qualche similitudine; non tale Lequal possa esser abstratta et acquistata da bellezza et eccellenza corporea per virtù del senso: ma qual può esser formata nella mente per virtù de l’intelletto. Nel qual stato ritrovandosi, viene a perder l’amore et af- fezzion d’ogni altra cosa tanto sensibile quanto intelli- gibile; perché questa congionta a quel lume dovien lume essa ancora, e per conseguenza si fa un Dio: per- ché contrae la divinità in sé essendo ella in Dio per la intenzione con cui penetra nella divinità (per quanto si può), et essendo Dio in ella, per quanto dopo aver penetrato viene a conciperla e (per quanto si può) a ricettarla e comprenderla nel suo concetto. Or di queste specie e similitudini si pasce l’intelletto umano da questo mondo inferiore, sin tanto che non gli sia lecito de mirar con più puri occhi la bellezza della di- vinitade: come accade a colui che è gionto a qualch’edificio eccellentissimo et ornatissimo, mentre va considerando cosa per cosa in quello, si aggrada, si contenta, si pasce d’una nobil maraviglia; ma se av- verà poi che vegga il signor di quelle imagini, di bel- lezza incomparabilmente maggiore, lasciata ogni cura e pensiero di esse, tutto è volto et intento a considerar quell’uno. Ecco dumque come è differenza in questo stato dove veggiamo la divina bellezza in specie intel- ligibili tolte da gli effetti, opre, magisteri, ombre e si- militudini di quella, et in quell’altro stato dove sia le- cito di vederla in propria presenza. – Dice appresso: “Pascomi d’alt’impresa”, perché (come notano gli Pi- tagorici) cossì l’anima si versa e muove circa Dio, co- me il corpo circa l’anima. cicada Dumque il corpo non è luogo de l’anima? tansillo Non: perché l’anima non è nel corpo local- mente, ma come forma intrinseca e formatore estrin- seco; come quella che fa gli membri, e figura il com- posto da dentro e da fuori. Il corpo dumque è ne l’anima, l’anima nella mente, la mente o è Dio, o è in Letteratura italiana Einaudi 56   Giordano Bruno - De gli eroici furori Dio, come disse Plotino: cossì come per essenza è in Dio che è la sua vita, similmente per l’operazione in- tellettuale e la voluntà conseguente dopo tale opera- zione, si riferisce alla sua luce e beatifico oggetto. De- gnamente dumque questo affetto del eroico furore si pasce de sì alta impresa. Né per questo che l’obietto è infinito, in atto simplicissimo, e la nostra potenza in- tellettiva non può apprendere l’infinito se non in di- scorso, o in certa maniera de discorso, com’è dire in certa raggione potenziale o aptitudinale, è come colui che s’amena a la consecuzion de l’immenso onde ve- gna a constituirse un fine dove non è fine. cicada Degnamente, perché l’ultimo fine non deve aver fine, atteso che non sarebe ultimo. È dumque in- finito in intenzione, in perfezzione, in essenza et in qualsivoglia altra maniera d’esser fine. [tansillo] Dici il vero. Or in questa vita tal pastura è di maniera tale, che più accende, che possa appagar il desio, come ben mostra quel divino poeta che disse: «Bramando è lassa l’alma a Dio vivente», et in altro luogo: «Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excel- sum». Però dice: «E bench’il fin bramato non conse- gua, E ’n tanto studio l’alma si dilegua, Basta che sia sì nobilmente accesa»: vuol dire ch’in tanto l’anima si consola e riceve tutta la gloria che può ricevere in co- tal stato, e che sia partecipe di quel ultimo furor de l’uomo in quanto uomo di questa condizione, nella qual si trova adesso, e come ne veggiamo. cicada Mi par che gli peripatetici (come esplicò Aver- roe) vogliano intender questo quando dicono la som- ma felicità de l’uomo consistere nella perfezzione per le scienze speculative. tansillo È vero, e dicono molto bene: perché noi in questo stato nel qual ne ritroviamo, non possiamo de- siderar né ottener maggior perfezzione che quella in cui siamo quando il nostro intelletto mediante qual- Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori che nobil specie intelligibile s’unisce o alle sustanze seperate, come dicono costoro, o a la divina mente, come è modo de dir de Platonici. Lascio per ora di raggionar de l’anima o uomo in altro stato e modo di essere che possa trovarsi o credersi. cicada Ma che perfezzione o satisfazzione può trovar l’uomo in quella cognizione la quale non è perfetta? tansillo Non sarà mai perfetta per quanto l’altissimo oggetto possa esser capito, ma per quanto l’intelletto nostro possa capire: basta che in questo et altro stato gli sia presente la divina bellezza per quanto s’estende l’orizonte della vista sua. cicada Ma de gli uomini non tutti possono giongere a quello dove può arrivar uno o doi. tansillo Basta che tutti corrano; assai è ch’ognun fac- cia il suo possibile; perché l’eroico ingegno si conten- ta più tosto di cascar o mancar degnamente e nell’alte imprese, dove mostre la dignità del suo ingegno, che riuscir a perfezzione in cose men nobili e basse. cicada Certo che meglio è una degna et eroica morte, che un indegno e vil trionfo. tansillo A cotal proposito feci questo sonetto: Poi che spiegat’ho l’ali al bel desio, quanto più sott’il piè l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e vers’il ciel m’invio. Né del figliuol di Dedalo il fin rio fa che giù pieghi, anzi via più risorgo; ch’i’cadrò morto a terra ben m’accorgo: ma qual vita pareggia al morir mio? La voce del mio cor per l’aria sento: «Ove mi porti, temerario? china, che raro è senza duol tropp’ardimento»; «Non temer (respond’io) l’alta ruina. Fendi sicur le nubi, e muor contento: s’il ciel sì illustre morte ne destina». cicada Io intendo quel che dice: “basta ch’alto mi tol- si”; ma non quando dice: “e da l’ignobil numero mi sciolsi”, s’egli non intende d’esser uscito fuor de l’an- tro platonico, rimosso dalla condizion della sciocca et ignobilissima moltitudine; essendo che quei che pro- fittano in questa contemplazione non possono esser molti e numerosi. tansillo Intendi molto bene; oltre, per “l’ignobil nu- mero” può intendere il corpo e sensual cognizione dalla quale bisogna alzarsi e disciòrsi chi vuol unirsi alla natura di contrario geno. cicada Dicono gli Platonici due sorte de nodi con gli quali l’anima è legata al corpo. L’uno è certo atto vivi- fico che da l’anima come un raggio scende nel corpo; l’altro è certa qualità vitale che da quell’atto resulta nel corpo. Or questo numero nobilissimo movente ch’è l’anima, come intendete che sia disciolto da l’ignobil numero ch’è il corpo? tansillo Certo non s’intendeva secondo alcun modo di questi: ma secondo quel modo con cui le potenze che non son comprese e cattivate nel grembo de la materia, e qualche volta come sopite et inebriate si trovano quasi ancora esse occupate nella formazion della materia e vivificazion del corpo; tal’or come ri- svegliate e ricordate di se stesse riconoscendo il suo principio e geno, si voltano alle cose superiori, si for- zano al mondo intelligibile come al natio soggiorno; quali tal volta da là per la conversione alle cose infe- riori, si son trabalsate sotto il fato e termini della ge- nerazione. Questi doi appolsi son figurati nelle due specie de metamorfosi espresse nel presente articolo che dice: Quel dio che scuot’il folgore sonoro, Asterie vedde furtivo aquilone, Mnemosine pastor, Danae oro, Alcmena sposo, Antiopa caprone; fu di Cadmo a le suore bianco toro, a Leda cigno, a Dolida dragane: io per l’altezza de l’oggetto mio da suggetto più vil dovegno un dio. Fu cavallo Saturno, Nettun delfin, e vitello si tenne Ibi, e pastor Mercurio dovenne, un’uva Bacco, Apollo un corvo furno: et io (mercé d’amore) mi cangio in dio da cosa inferiore. Nella natura è una revoluzione et un circolo per cui, per l’altrui perfezzione e soccorso, le cose superiori s’inchinano all’inferiori, e per la propria eccellenza e felicitade le cose inferiori s’inalzano alle superiori. Però vogliono i Pitagorici e Platonici esser donato a l’anima ch’a certi tempi non solo per spontanea vo- luntà, la qual le rivolta alla comprension de le nature, ma et anco della necessità d’una legge interna scritta e registrata dal decreto fatale vanno a trovar la propria sorte giustamente determinata. E dicono che l’anime non tanto per certa determinazione e proprio volere come ribelle declinano dalla divinità, quanto per cer- to ordine per cui vegnono affette verso la materia: on- de non come per libera intenzione, ma come per certa occolta conseguenza vegnono a cadere; e questa è l’inclinazion ch’hanno alla generazione, come a certo minor bene. (Minor bene dico per quanto appartiene a quella natura particolare, non già per quanto appar- tiene alla natura universale dove niente accade senza ottimo fine che dispone il tutto secondo la giustizia.) Nella qual generazione ritrovandosi (per la conversio- ne che vicissitudinalmente succede) de nuovo ritorna- no a gli abiti superiori. cicada Sì che vogliono costoro che l’anime sieno spin- te dalla necessità del fato, e non hanno proprio consi- glio che le guide a fatto? tansillo Necessità, fato, natura, consiglio, voluntà, nelle cose giustamente e senza errore ordinate, tutti concorrenti in uno. Oltre che (come riferisce Ploti- no) vogliono alcuni che certe anime possono fuggir quel proprio male, le quali prima che se gli confirme l’abito corporale, conoscendo il periglio rifuggono alla mente. Perché la mente l’inalza alle cose sublimi, come l’imaginazion l’abbassa alle cose inferiori: la mente le mantiene nel stato et identità come l’imagi- nazione nel moto e diversità; la mente sempre inten- de uno, come l’imaginazione sempre vassi fingendo varie imagini. In mezzo è la facultà razionale la quale è composta de tutto, come quella in cui concorre l’uno con la moltitudine, il medesimo col diverso, il moto col stato, l’inferiore col superiore. – Or questa conversione e vicissitudine è figurata nella ruota del- le metamorfosi, dove siede l’uomo nella parte emi- nente, giace una bestia al fondo, un mezzo uomo e mezzo bestia descende dalla sinistra, et un mezzo be- stia e mezzo uomo ascende da la destra. Questa con- versione si mostra dove Giove, secondo la diversità de affetti e maniere di quelli verso le cose inferiori, s’investisce de diverse figure dovenendo in forma de bestie; e cossi gli altri dèi transmigrano in forme bas- se et aliene. E per il contrario, per sentimento della propria nobiltà, ripigliano la propria e divina forma: come il furioso eroico inalzandosi per la conceputa specie della divina beltà e bontade, con l’ali de l’in- telletto e voluntade intellettiva s’inalza alla divinitade lasciando la forma de suggetto più basso. E però dis- se: “Da suggetto più vil dovegno un Dio, Mi cangio in Dio da cosa inferiore”.  tansillo Cossì si descrive il discorso de l’amor eroico per quanto tende al proprio oggetto ch’è il sommo bene; e l’eroico intelletto che gionger si studia al pro- prio oggetto che è il primo vero o la verità absoluta. Or nel primo discorso apporta tutta la somma di que- sto, e l’intenzione: l’ordine della quale vien descritto in cinque altri seguenti. Dice dumque: Alle selve i mastini e i veltri slaccia il giovan Atteon, quand’il destino gli drizz’il dubio et incauto camino, di boscareccie fiere appo la traccia. Ecco tra l’acqui il più bel busto e faccia che veder poss’il mortal e divino, in ostro et alabastro et oro fino vedde: e ’l gran cacciator dovenne caccia. Il cervio ch’a’ più folti luoghi drizzav’i passi più leggieri, ratto voraro i suoi gran cani e molti. I’allargo i miei pensieri ad alta preda, et essi a me rivolti morte mi dan con morsi crudi e fieri. Atteone significa l’intelletto intento alla caccia della divina sapienza, all’apprension della beltà divina. Costui slaccia “i mastini et i veltri”: de quai questi son più veloci, quelli più forti. Perché l’operazion de l’intelletto precede l’operazion della voluntade; ma questa è più vigorosa et efficace che quella: atteso che a l’intelletto umano è più amabile che compren- sibile la bontade e bellezza divina, oltre che l’amore è quello che muove e spinge l’intelletto acciò che lo preceda come lanterna. “Alle selve”, luoghi inculti e solitarii, visitati e perlustrati da pochissimi, e però dove non son impresse l’orme de molti uomini, “il giovane” poco esperto e prattico, come quello di cui la vita è breve et instabile il furore, “nel dubio cami- no” de l’incerta et ancipite raggione et affetto desi- gnato nel carattere di Pitagora, dove si vede più spi- noso, inculto e deserto il destro et arduo camino, e per dove costui slaccia i veltri e mastini appo la trac- cia di boscareccie fiere che sono le specie intelligibili de concetti ideali, che sono occolte, perseguitate da pochi, visitate da rarissimi, e che non s’offreno a tutti quelli che le cercano: “Ecco tra l’acqui”, cioè nel specchio de le similitudini, nell’opre dove riluce l’ef- ficacia della bontade e splender divino: le quali opre vegnon significate per il suggetto de l’acqui superiori et inferiori, che son sotto e sopra il firmamento; “ve- de il più bel busto e faccia”, cioè potenza et opera- zion esterna che vedersi possa per abito et atto di contemplazione et applicazion di mente mortal o di- vina, d’uomo o dio alcuno. cicada Credo che non faccia comparazione, e pena come in medesimo geno la divina et umana appren- sione quanto al modo di comprendere, il quale è di- versissimo, ma quanto al suggetto che è medesimo. tansillo Cossì è. Dice “in ostro, alabastro et oro”, perché quello che in figura nella corporal bellezza è vermiglio, bianco e biondo, nella divinità significa l’ostro della divina vigorosa potenza, l’oro della divi- na sapienza, l’alabastro della beltade divina, nella contemplazion della quale gli Pitagorici, Caldei, Pla- tonici et altri al meglior modo che possono, s’inge- gnano d’inalzarsi. “Vedde il gran cacciator”: com- prese quanto è possibile, e “dovenne caccia”: andava per predare e rimase preda, questo cacciator per l’operazion de l’intelletto con cui converte le cose ap- prese in sé.  (cicada Intendo, perché forma le specie intelligibili a suo modo e le proporziona alla sua capacità, perché son ricevute a modo de chi le riceve. tansillo) E questa caccia per l’operazion della volunta- de, per atto della quale lui si converte nell’oggetto. cicada Intendo: perché lo amore transforma e conver- te nella cosa amata. tansillo Sai bene che l’intelletto apprende le cose in- telligibilmente, idest secondo il suo modo; e la vo- luntà perseguita le cose naturalmente, cioè secondo la raggione con la quale sono in sé. Cossì Atteone con que’ pensieri, que’ cani che cercavano estra di sé il be- ne, la sapienza, la beltade, la fiera boscareccia, et in quel modo che giunse alla presenza di quella, rapito fuor di sé da tanta bellezza, dovenne preda, veddesi convertito in quel che cercava; e s’accorse che de gli suoi cani, de gli suoi pensieri egli medesimo venea ad essere la bramata preda, perché già avendola contrat- ta in sé, non era necessario di cercare fuor di sé la di- vinità. cicada Però ben si dice il regno de Dio esser in noi, e la divinitade abitar in noi per forza del riformato in- telletto e voluntade. tansillo Cossì è: ecco dumque come l’Atteone, mes- so in preda de suoi cani, perseguitato da proprii pen- sieri, corre e drizza i novi passi: è rinovato a procede- re divinamente e più leggermente, cioè con maggior facilità e con una più efficace lena a’ luoghi più folti, alli deserti, alla reggion de cose incomprensibili; da quel ch’era un uom volgare e commune, dovien raro et eroico, ha costumi e concetti rari, e fa estraordina- ria vita. “Qua gli dan morte i suoi gran cani e molti”: qua finisce la sua vita secondo il mondo pazzo, sen- suale, cieco e fantastico; e comincia a vivere intellet- tualmente: vive vita de dèi, pascesi d’ambrosia et ine- briasi di nettare. – Appresso sotto forma d’un’altra similitudine descrive la maniera con cui s’arma alla ottenzion de l’oggetto, e dice: Mio pàssar solitario, a quella parte ch’adombr’ e ingombra tutt’il mio pensiero, tosto t’annida: ivi ogni tuo mestiero rafferma, ivi l’industria spendi, e l’arte. Rinasci là, là su vogli allevarte gli tuoi vaghi pulcini omai ch’il fiero destin hav’espedit’il cors’intiero contra l’impres’, onde solea ritrarte. Và, più nobil ricetto bramo ti godi, e arai per guida un dio che da chi nulla vede, è cieco detto. Và, ti sia sempre pio ogni nume di quest’ampio architetto, e non tornar a me se non sei mio. Il progresso sopra significato per il cacciator che agita gli suoi cani, vien qua ad esser figurato per un cuor alato, che è inviato da la gabbia in cui si stava ocioso e quieto, ad annidarsi alto, ad allievar gli pulcini suoi pensieri, essendo venuto il tempo in cui cessano gli impedimenti che da fuori mille occasioni, e da dentro la natural imbecillità subministravano. Licenzialo dumque per fargli più magnifica condizione, appli- candolo a più alto proposito et intento, or che son più fermamente impiumate quelle potenze de l’anima si- gnificate anco da Platonici per le due ali. E gli com- mette per guida quel dio che dal cieco volgo è stimato insano e cieco, cioè l’amore: il qual per mercé e favor del cielo è potente di trasformarlo come in quell’altra natura alla quale aspira o quel stato dal quale va pere- grinando bandito. Onde disse: “E non tornar a me che non sei mio”, di sorte che non con indignità possa io dire con quell’altro: Lasciato m’hai, cuor mio, e lume d’occhi miei non sei più meco. Appresso descrive la morte de l’anima, che da Cabali- sti è chiamata “morte di bacio” figurata nella Cantica di Salomone dove l’amica dice: Che mi bacie col bacio de sua bocca, perché col suo ferire un troppo crudo amor mi fa languire. Da altri è chiamata “sonno”, dove dice il Salmista: S’avverrà, ch’io dia sonno a gli occhi miei, e le palpebre mie dormitaransi, arrò ’n colui pacifico riposo. Dice dumque cossì l’alma, come languida per esser morta in sé, e viva ne l’oggetto: Abiate cur’ o furiosi al core: ché tropp’ il mio da me fatto lontano, condotto in crud’e dispietata mano, lieto soggiorn’ove si spasma e muore. Co i pensier mel richiamo a tutte l’ore: et ei rubello qual girfalco insano, non più conosce quell’amica mano, onde per non tornar è uscito fore. Bella fera, ch’in pene tante contenti, il cor, spirt’, alma annodi con tue punte, tuoi vampi e tue catene, de sguardi, accenti e modi; quel che languisc’et arde, e non riviene, chi fia che saldi, refrigere e snodi? Ivi l’anima dolente non già per vera discontentezza, ma con affetto di certo amoroso martìre parla come drizzando il suo sermone a gli similmente appassiona- ti: come se non a felice suo grado abbia donato con- gedo al core, che corre dove non può arrivare, si sten- de dove non può giongere, e vuol abbracciare quel che non può comprendere; e con ciò perché in vano s’allontana da lei, mai sempre più e più va accenden- dosi verso l’infinito. cicada Onde procede, o Tansillo, che l’animo in tal progresso s’appaga del suo tormento? onde procede quel sprone ch’il stimola sempre oltre quel che pos- siede? tansillo Da questo che ti dirò adesso. Essendo l’in- telletto divenuto all’apprension d’una certa e definita forma intelligibile, e la volontà all’affezzione com- mensurata a tale apprensione, l’intelletto non si ferma là: perché dal proprio lume è promosso a pensare a quello che contiene in sé ogni geno de intelligibile et appetibile, sin che vegna ad apprendere con l’intellet- to l’eminenza del fonte de l’idee, oceano d’ogni verità e bontade. Indi aviene che qualunque specie gli vegna presentata e da lei vegna compresa: da questo che è presentata e compresa, giudica che sopra essa è altra maggiore e maggiore, con ciò sempre ritrovandosi in discorso e moto in certa maniera. Perché sempre vede che quel tutto che possiede è cosa misurata, e però non può essere bastante per sé, non buono da per sé, non bello da per sé; perché non è l’universo, non è l’ente absoluto: ma contratto ad esser questa natura, ad esser questa specie, questa forma rapresentata a l’intelletto e presente a l’animo. Sempre dumque dal bello compreso, e per conseguenza misurato, e conse- guentemente bello per participazione, fa progresso verso quello che è veramente bello, che non ha margi- ne e circonscrizzione alcuna. cicada Questa prosecuzione mi par vana. tansillo Anzi non, atteso che non è cosa naturale né tansillo cicada tansillo conveniente che l’infinito sia compreso, né esso può donarsi finito: percioché non sarrebe infinito; ma è conveniente e naturale che l’infinito per essere infini- to sia infinitamente perseguitato (in quel modo di persecuzione il quale non ha raggion di moto fisico, ma di certo moto metafisica; et il quale non è da im- perfetto al perfetto: ma va circuendo per gli gradi del- la perfezzione, per giongere a quel centro infinito il quale non è formato né forma). cicada Vorrei sapere come circuendo si puo arrivare al centro. Non posso saperlo. Perché lo dici? Perché posso dirlo, e lasciarvel considerare. Se non volete dire che quel che perséguita l’in- finito, è come colui che discorrendo per la circonfe- renza cerca il centro, io non so quel che vogliate dire. tansillo Altro. cicada Or se non vuoi dechiararti, io non voglio inten- derti. Ma dimmi, se ti piace: che intende per quel che di- ce il core esser condotto “in cruda e dispietata mano”? tansillo Intende una similitudine o metafora tolta da quel, che comunmente si dice crudele chi non si lascia fruire o non pienamente fruire, e che è più in desio che in possessione; onde per quel che possiede alcu- no, non al tutto lieto soggiorna, perché brama, si spa- sma e muore. cicada Quali son quei pensieri che il richiamano a dietro, per ritrarlo da sì generosa impresa? tansillo Gli affetti sensitivi et altri naturali che guar- dano al regimento del corpo. cicada Che hanno a far quelli di questo che in modo alcuno non può aggiutargli, né favorirgli? tansillo Non hanno a far di lui, ma de l’anima: la quale essendo troppo intenta ad una opra o studio, dovien remissa e poco sollecita ne l’altra. Letteratura italiana Einaudi 68   cicada tansillo cicada sanno. Perché lo chiama “qual insano”? Perché soprasape. Sogliono esser chiamati insani quei che men tansillo Anzi insani son chiamati quelli che non san- no secondo l’ordinario, o che tendano più basso per aver men senso, o che tendano più alto per aver più intelletto. cicada M’accorgo che dici il vero. Or dimmi appres- so: quai sono le “punte”, gli “vampi” e le “catene”? tansillo Punte son quelle nuove che stimulano e ri- svegliano l’affetto perché attenda; vampi son gli raggi della bellezza presente che accende quel che gli atten- de; catene son le parti e circonstanze che tegnono fis- si gli occhi de l’attenzione et uniti insieme gli oggetti e le potenze. cicada Che son gli “sguardi, accenti e modi”? tansillo Sguardi son le raggioni con le quali l’oggetto (come ne mirasse) ci si fa presente; accenti son le rag- gioni con le quali ci inspira et informa; modi son le circonstanze con le quali ci piace sempre et aggrada. Di sorte ch’il cor che dolcemente languisce, suave- mente arde e constantemente nell’opra persevera; te- me che la sua ferita si salde, ch’il suo incendio si smorze e che si sciolga il suo laccio. cicada Or recita quel che seguita. tansillo ch’uscir volete da materne fasce de l’afflitt’alma, e siete acconci arcieri per tirar al versagli’ onde vi nasce l’alto concetto: in questi erti sentieri scontrarvi a cruda fier’il ciel non lasce. Sovvengav’il tornar, e richiamate il cor ch’in man di dea selvaggia late. Armatevi d’amore di domestiche fiamme, et il vedere reprimete sì forte, che straniere non vi rendan compagni del mio core. Al men portate nuova di quel ch’a lui tanto diletta e giova. Qua descrive la natural sollecitudine de l’anima atten- ta circa la generazione per l’amicizia ch’ha contratta con la materia. Ispedisce gli armati pensieri che solle- citati e spinti dalla querela della natura inferiore, son inviati a richiamar il core. L’anima l’instruisce come si debbano portare perché invaghiti et attratti dal ogget- to non facilmente vegnano anch’essi sedotti a rimaner cattivi e compagni del core. Dice dumque che s’armi- no d’amore: di quello amore che accende con dome- stiche fiamme, cioè quello che è amico della genera- zione alla quale son ubligati, e nella cui legazione, ministerio e milizia si ritrovano. Appresso li dà ordine che reprimano il vedere chiudendo gli occhi, perché non mirino altra beltade o bontade che quella qual gli è presente, amica e madre. E conchiude al fine che se per altro ufficio non vogliono farsi rivedere, rivegna- no al manco per donargli saggio delle raggioni e stato del suo core. cicada Prima che procediate ad altro, vorrei intender da voi che è quello che intende l’anima quando dice a gli pensieri: “il vedere reprimete sì forte”. tansillo Ti dirò. Ogni amore procede dal vedere: l’amore intelligibile dal vedere intelligibilmente; il sensibile dal vedere sensibilmente. Or questo vedere ha due significazioni: perché o significa la potenza vi- siva, cioè la vista, che è l’intelletto, overamente senso; o significa l’atto di quella potenza, cioè quell’applica- zione che fa l’occhio o l’intelletto a l’oggetto materia- le o intellettuale. Quando dumque si consegliano gli pensieri di reprimere il vedere, non s’intende del pri- Letteratura italiana Einaudi 70   Giordano Bruno - De gli eroici furori mo modo, ma del secondo; perché questo è il padre della seguente affezzione del appetito sensitivo o in- tellettivo. cicada Questo è quello ch’io volevo udir da voi. Or se l’atto della potenza visiva è causa del male o bene che procede dal vedere, onde avviene che amiamo e desi- deramo di vedere? Et onde avviene che nelle cose di- vine abbiamo più amore che notizia? tansillo Desideriamo il vedere, perché in qualche modo veggiamo la bontà del vedere; perché siamo informati che per l’atto del vedere le cose belle s’of- freno: però desiderano quell’atto, perché desideriamo le cose belle. cicada Desideriamo il bello e buono; ma il vedere non è bello, né buono, anzi più tosto quello è parangone o luce per cui veggiamo non solamente il bello e buono, ma anco il rio e brutto. Però mi pare ch’il vedere tan- to può esser bello o buono, quanto la vista può esser bianco o nero: se dumque la vista (la quale è atto) non è bello né buono, come può cadere in desiderio? tansillo Se non per sé, certamente per altro è deside- rata, essendo che l’apprension di quell’altro senza lei non si faccia. cicada Che dirai se quell’altro non è in notizia di sen- so né d’intelletto? come, dico, può esser desiderato almanco d’esser visto, se di esso non è notizia alcuna, se verso quello né l’intelletto né il senso ha esercitato atto alcuno, anzi è in dubio se sia intelligibile o sensi- bile, se sia cosa corporea o incorporea, se sia uno o doi o più, d’una o d’un’altra maniera? tansillo Rispondo che nel senso e l’intelletto è un ap- petito et appulso al sensibile in generale; perché l’in- telletto vuol intender tutto il vero, perché s’apprenda poi tutto quello che è bello o buono intelligibile: la potenza sensitiva vuol informarsi de tutto il sensibile, per che s’apprenda poi quanto è buono o bello sensi- Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori bile. Indi aviene che non meno desiderano vedere le cose ignote e mai viste, che le cose conosciute e viste. E da questo non séguita ch’il desiderio non proceda da la cognizione, e che qualche cosa desideriamo che non è conosciuta; ma dico che sta pur raro e fermo che non desideriamo cose incognite. Perché se sono occorre quanto all’esser particulare, non sono occolte quanto a l’esser generale: come in tutta la potenza vi- siva si trova tutto il visibile in attitudine, nella intellet- tiva tutto l’intelligibile. Però come ne l’attitudine è l’inclinazione a l’atto, aviene che l’una e l’altra poten- za è inchinata a l’atto in universale, come a cosa natu- ralmente appresa per buona. Non parlava dumque a sordi o ciechi l’anima, quando consultava con suoi pensieri de reprimere il vedere, il quale quantunque non sia causa prossima del volere, è però causa prima e principale. cicada Che intendete per questo ultimamente detto? tansillo Intendo che non è la figura o la specie sensi- bilmente o intelligibilmente representata, la quale per sé muove: perché mentre alcuno sta mirando la figura manifesta a gli occhi, non viene ancora ad amare; ma da quello instante che l’animo concipe in se stesso quella figurata non più visibile ma cogitabile, non più dividua ma individua, non più sotto specie di cosa, ma sotto specie di buono o bello, all’ora subito nasce l’amore. Or questo è quel vedere dal quale l’anima vorrebbe divertir gli occhi de suoi pensieri. Qua la vi- sta suole promuovere l’affetto ad amar più che non è quel che vede; perché, come poco fa ho detto, sempre considera (per la notizia universale che tiene del bello e buono) che oltre li gradi della compresa specie de buono e bello, sono altri et altri in infinito. cicada Onde procede che dopo che siamo informati de la specie del bello la quale è conceputa nell’animo, pure desideriamo di pascere la vista esteriore? tansillo Da quel, che l’animo vorrebbe sempre ama- re quel che ama, vuol sempre vedere quel che vede. Però vuole che quella specie che gli è stata parturita dal vedere non vegna ad attenuarsi, snervarsi e per- dersi. Vuol dumque sempre oltre et oltre vedere, per- ché quello che potrebe oscurarsi nell’affetto interiore, vegna spesso illustrato dall’aspetto esteriore: il quale come è principio de l’essere, bisogna che sia principio del conservare. Proporzionalmente accade ne l’atto del intendere e considerare: perché come la vista si ri- ferisce alle cose visibili, cossì l’intelletto alle cose in- telligibili. Credo dumque ch’intendiate a che fine et in che modo l’anima intenda quando dice: «repri- met’il vedere». cicada Intendo molto bene. Or seguitate a riportar quel ch’avvenne di questi pensieri. tansillo Séguita la querela de la madre contra gli det- ti figli li quali, per aver contra l’ordinazion sua aperti gli occhi et affissigli al splendor de l’oggetto, erano ri- masi in compagnia del core. Dice dumque: E voi ancor a me figli crudeli, per più inasprir mia doglia, mi lasciaste; e perché senza fin più mi quereli, ogni mia spene con voi n’amenaste. A che il senso riman, o avari cieli? a che queste potenze tronche e guaste, se non per farmi materia et essempio de sì grave martir, sì lungo scempio? Deh (per dio) cari figli, lasciate pur mio fuoco alato in preda, e fate ch’io di voi alcun riveda tornato a me da que’ tenaci artigli. Lassa, nessun riviene per tardo refrigerio de mie pene. Eccomi misera priva del core, abandonata da gli pen- sieri, lasciata da la speranza, la qual tutta avevo fissa in essi; altro non mi rimane che il senso della mia po- vertà, infelicità e miseria. E perché non son oltre la- sciata da questo? perché non mi soccorre la morte, ora che son priva de la vita? A che mi trovo le potenze na- turali prive de gli atti suoi? Come potrò io sol pascer- mi di specie intelligibili, come di pane intellettuale, se la sustanza di questo supposito è composta? Come potrò io trattenirmi nella domestichezza di queste amiche e care membra, che m’ho intessute in circa, contemprandole con la simmetria de le qualitadi ele- mentari, se mi abandonano gli miei pensieri tutti et af- fetti, intenti verso la cura del pane immateriale e divi- no? Su su, o miei fugaci pensieri, o mio rubelle cuore: viva il senso di cose sensibili e l’intelletto de cose intel- ligibili. Soccorrasi al corpo con la materia e suggetto corporeo, e l’intelletto con gli suoi oggetti s’appaghe: a fin che conste questa composizione, non si dissolva questa machina, dove per mezzo del spirito l’anima è unita al corpo. Come, misera, per opra domestica più tosto che per esterna violenza ho da veder quest’orri- bil divorzio ne le mie parti e membra? Perché l’intel- letto s’impaccia di donar legge al senso e privarlo de suoi cibi? e questo per il contrario resiste a quello, vo- lendo vivere secondo gli proprii e non secondo l’altrui statuti? perché questi e non quelli possono mantener- lo e bearlo, percioché deve essere attento alla sua co- moditade e vita, non a l’altrui. Non è armonia e con- cordia dove è unità, dove un essere vuol assorbir tutto l’essere; ma dove è ordine et analogia di cose diverse; dove ogni cosa serva la sua natura. Pascasi dumque il senso secondo la sua legge de cose sensibili, la carne serva alla legge de la carne, il spirito alla legge del spi- rito, la raggione a la legge de la raggione: non si confondano, non si conturbino. Basta che uno non guaste o pregiudiche alla legge de l’altro, se non è giu- sto che il senso oltragge alla legge della raggione. È pur cosa vituperosa che quella tirannegge su la legge di questo, massime dove l’intelletto è più peregrino e straniero, et il senso è più domestico e come in propria patria. – Ecco dumque, o miei pensieri, come di voi, altri son ubligati di rimanere alla cura di casa, et altri possono andar a procacciare altrove. Questa è legge di natura, questa per conseguenza è legge dell’autore e principio della natura. Peccate dumque or che tutti se- dotti dalla vaghezza de l’intelletto lasciate al periglio de la morte l’altra parte di me. Onde vi è nato questo malencolico e perverso umore di rompere le certe e naturali leggi de la vita vera che sta nelle vostre mani, per una incerta e che non è se non in ombra oltre gli li- miti del fantastico pensiero? Vi par cosa naturale che non vivano animale et umanamente, ma divina, se elli non sono dèi ma uomini et animali? È legge del fato e della natura che ogni cosa s’adopre secondo la condi- zion de l’esser suo: per che dumque mentre persegui- tate il nettare avaro de gli dèi, perdete il vostro presen- te e proprio, affligendovi forse sotto la vana speranza de l’altrui? Credete che non si debba sdegnar la natu- ra di donarvi l’altro bene, se quello che presentanear- nente v’offre tanto stoltamente dispreggiate? Sdegnarà il ciel dar il secondo bene a chi ’l primiero don caro non tiene. Con queste e simili raggioni l’anima prendendo la causa de la parte più inferma, cerca de richiamar gli pensieri alla cura del corpo. Ma quelli (benché al tar- di) vegnono a mostrarsegli non già di quella forma con cui si partiro, ma sol per dichiarargli la sua ribel- lione, e forzarla tutta a seguitarli. Là onde in questa forma si lagna la dolente: Ahi cani d’Atteon, o fiere ingrate, che drizzai al ricetto de mia diva, e vòti di speranza mi tornate; anzi venendo a la materna riva, tropp’infelice fio mi riportate: mi sbranate, e volete ch’i’ non viva. Lasciami, vita, ch’al mio sol rimonte, fatta gemino rio senz’il mio fonte. Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi disciolga? Quand’avverrà ch’anch’io da qua mi tolga, e ratt’a l’alt’oggetto mi sulleve; e insieme col mio core e i communi pulcini ivi dimore? Vogliono gli Platonici che l’anima, quanto alla parte superiore, sempre consista ne l’intelletto, dove ha rag- gione d’intelligenza più che de anima: atteso che ani- ma è nomata per quanto vivifica il corpo e lo sustenta. Cossì qua la medesima essenza che nodrisce e mantie- ne li pensieri in alto insieme col magnificato cuore, se induce dalla parte inferiore contrastarsi e richiamar quelli come ribelli. cicada Sì che non sono due essenze contrarie, ma una suggetta a doi termini di contrarietade? tansillo Cossì è a punto; come il raggio del sole il quale quindi tocca la terra et è gionto a cose inferiori et oscure che illustra, vivifica et accende, indi è gionto a l’elemento del fuoco, cioè a la stella da cui procede, ha principio, è diffuso, et in cui ha propria et origina- le sussistenza: cossì l’anima ch’è nell’orizonte della natura corporea et incorporea, ha con che s’inalze alle cose superiori, et inchine a cose inferiori. E ciò puoi vedere non accadere per raggion et ordine di moto lo- cale, ma solamente per appulso d’una e d’un’altra po- tenza o facultade. Come quando il senso monta all’imaginazione, l’imaginazione alla raggione, la rag- gione a l’intelletto, l’intelletto a la mente, all’ora l’ani- ma tutta si converte in Dio, et abita il mondo intelligi- bile. Onde per il contrario descende per conversion al mondo sensibile per via de l’intelletto, raggione, ima- ginazione, senso, vegetazione. cicada È vero ch’ho inteso che per trovarsi l’anima nell’ultimo grado de cose divine, meritamente de- scende nel corpo mortale, e da questo risale di nuovo alli divini gradi; e che son tre gradi d’intelligenze: per- ché son altre nelle quali l’intellettuale supera l’anima- le, quali dicono essere l’intelligenze celesti; altre nelle quali l’animale supera l’intellettuale, quali son l’intel- ligenze umane; altre sono nelle quali l’uno e l’altro si portano ugualmente, come quelle de demoni o eroi. tansillo Nell’apprender dumque che fa la mente, non può desiderare se non quanto gli è vicino, prossi- mo, noto e familiare. Cossì il porco non può deside- rar esser uomo, né quelle cose che son convenienti all’appetito umano. Ama più d’isvoltarsi per la luta che per un letto de bissino; ama d’unirsi ad una scro- fa, non a la più bella donna che produca la natura: perché l’affetto séguita la raggion della specie (e tra gli uomini si può vedere il simile, secondo che altri son più simili a una specie de bruti animali, altri ad un’altra: questi hanno del quadrupede, quelli [del] volatile; e forse hanno qualche vicinanza, la qual non voglio dire, per cui si son trovati quei che sono affetti a certe sorte di bestie). Or a la mente (che trovasi op- pressa dalla material congionzione de l’anima) se fia lecito di alzarsi alla contemplazione d’un altro stato in cui l’anima può arrivare, potrà certo far differenza da questo a quello, e per il futuro spreggiar il presen- te. Come se una bestia avesse senso della differenza che è tra le sue condizioni e quelle de l’uomo, e l’ignobiltà del stato suo dalla nobiltà del stato umano, al quale non stimasse impossibile di poter pervenire; amarebbe più la morte che li donasse quel camino et ispedizione, che la vita quale l’intrattiene in quel es- sere presente. Qua dumque quando l’anima si lagna dicendo “O cani d’Atteon”, viene introdotta come cosa che consta di potenze inferiori solamente, e da cui la mente è ribellata con aver menato seco il core, cioè gl’intieri affetti, con tutto l’exercito de pensieri: là onde per apprension del stato presente et ignoran- za d’ogni altro stato, il quale non più lo stima essere, che da lei possa esser conosciuto, si lamenta de pen- sieri li quali al tardi convertendosi a lei vegnono per tirarla su più tosto che a farsi ricettar da lei. E qua per la distrazzione che patisce dal commune amore della materia e di cose intelligibili, si sente lacerare e sbranare di sorte che bisogna al fine di cedere a l’ap- pulso più vigoroso e forte. Qua se per virtù di con- templazione ascende o è rapita sopra l’orizonte de gli affetti naturali, onde con più puro occhio apprenda la differenza de l’una e l’altra vita, all’ora vinta da gli alti pensieri, come morta al corpo, aspira ad alto; e benché viva nel corpo, vi vegeta come morta, e vi è presente in atto de animazione et absente in atto d’operazioni; non perché non vi operi mentre il cor- po è vivo, ma perché l’operazioni del composto sono rimesse, fiacche e come dispenserate. cicada Cossì un certo Teologo, che si disse rapito sin al terzo cielo, invaghito da la vista di quello, disse che desiderava la dissoluzione dal suo corpo. tansillo In questo modo, dove prima si lamentava del core e querelavasi de pensieri, ora desidera d’al- zarsi con quelli in alto, e mostra il rincrescimento suo per la communicazione e familiarità contratta con la materia corporale, e dice: “Lasciami vita” corporale, e non m’impacciar “ch’io rimonti” al mio più natio al- bergo, “al mio sole”: lasciami ormai che più non verse Letteratura italiana Einaudi 78   Giordano Bruno - De gli eroici furori pianto da gli occhi miei, o perché mal posso soccor- rerli, o perché rimagno divisa dal mio bene; lasciami, che non è decente né possibile che questi doi rivi scorrano “senza il suo fonte”, cioè senza il core: non bisogna (dico), che io faccia dei fiumi de lacrime qua basso, se il mio core il quale è fonte de tai fiumi, se n’è volato ad alto con le sue ninfe, che son gli miei pen- sieri. Cossì a poco a poco, da quel disamore e rincre- scimento procede a l’odio de cose inferiori; come quasi dimostra dicendo: “Quand’il mio pondo greve converrà che natura mi disciolga?” e quel che seguita appresso. cicada Intendo molto bene questo, e quello che per questo volete inferire a proposito della principale in- tenzione: cioè che son gli gradi de gli amori, affezzio- ni e furori, secondo gli gradi di maggior o minore lu- me di cognizione et intelligenza. tansillo Intendi bene. Da qua devi apprendere quel- la dottrina che comunmente, tolta da’ Pitagorici e Platonici vuole che l’anima fa gli doi progressi d’ascenso e descenso, per la cura ch’ha di sé e de la materia; per quel ch’è mossa dal proprio appetito del bene, e per quel ch’è spinta da la providenza del fato. cicada Ma di grazia dimmi brevemente quel che in- tendi de l’anima del mondo: se ella ancora non può ascendere né descendere? tansillo Se tu dimandi del mondo secondo la volgar significazione, cioè in quanto significa l’universo, dico che quello per essere infinito e senza dimensione o misura, viene a essere inmobile et inanimato et infor- me, quantunque sia luogo de mondi infiniti mobili in esso, et abbia spacio infinito, dove son tanti animali grandi che son chiamati astri. Se dimandi secondo la significazione che tiene appresso gli veri filosofi, cioè in quanto significa ogni globo, ogni astro, come è questa terra, il corpo del sole, luna et altri, dico che tal anima non ascende né descende, ma si volta in cir- colo. Cossì essendo composta de potenze superiori et inferiori, con le superiori versa circa la divinitade, con l’inferiori circa la mole la qual viene da essa vivificata e mantenuta intra gli tropici della generazione e cor- rozzione de le cose viventi in essi mondi, servando la propria vita eternamente: perché l’atto della divina providenza sempre con misura et ordine medesimo, con divino calore e lume le conserva nell’ordinario e medesimo essere. cicada Mi basta aver udito questo a tal proposito. tansillo Come dumque accade che queste anime par- ticolari diversamente secondo diversi gradi d’ascenso e descenso vegnono affette quanto a gli abiti et incli- nazioni, cossì vegnono a mostrar diverse maniere et ordini de furori, amori e sensi: non solamente nella scala de la natura, secondo gli ordini de diverse vite che prende l’anima in diversi corpi, come vogliono espressamente gli Pitagorici, Saduchimi et altri, et im- plicitamente Platone et alcuni che più profondano in esso; ma ancora nella scala de gli affetti umani, la qua- le è cossì numerosa de gradi come la scala della natu- ra, atteso che l’uomo in tutte le sue potenze mostra tutte le specie de lo ente. cicada Però da le affezzioni si possono conoscer gli animi, se vanno alto o basso, o se vegnono da alto o da basso, se procedono ad esser bestie o pur ad essere divini, secondo lo essere specifico come intesero gli Pitagorici, o secondo la similitudine de gli affetti sola- mente come comunmente si crede: non dovendo la anima umana posser essere anima di bruto, come ben disse Plotino, et altri Platonici secondo la sentenza del suo principe. tansillo Bene. Or per venire al proposito, da furor animale questa anima descritta è promossa a furor eroico, se la dice: “Quando averrà ch’al alto oggetto mi sulleve, et ivi dimore in compagnia del mio core e miei e suoi pulcini?” Questo medesimo proposito continova quando dice: Destin, quando sarà ch’io monte monte, qual per bearm’a l’alte porte porte, che fan quelle bellezze conte, conte, e ’l tenace dolor conforte forte chi fe’ le membra me disgionte, gionte, né lascia mie potenze smorte morte? Mio spirto più ch’il suo rivale vale, s’ove l’error non più l’assale, sale. Se dove attende, tende, e là ’ve l’alto oggett’ascende, ascende: e se quel ben ch’un sol comprende, prende, per cui convien che tante emende mende; esser felice lice, come chi sol tutto predice dice. “O destino”, o fato, o divina immutabile providenza, “quando sarà ch’io monte a quel monte”, cioè ch’io vegna a tanta altezza di mente, che mi faccia toccar transportandomi quegli alti aditi e penetrali, che mi fanno evidenti e come comprese e numerate quelle “conte”, cioè rare “bellezze”? Quando sarà, che “for- te” et efficacemente “conforte il mio dolore” (scio- gliendomi da gli strettissimi lacci de le cure, nelle quali mi trovo) “colui che fe’ gionte” et unite “le mie membra”, ch’erano disunite e “sgionte”: cioè l’amore che ha unito insieme queste corporee parti, ch’erano divise quanto un contrario è diviso da l’altro, e che ancora queste “potenze” intellettuali, quali ne gli atti suoi son “smorte”, non le “lascia” a fatto “morte”, fa- cendole alquanto respirando aspirar in alto? Quan- do, dico, mi confortarà a pieno, donando a queste li- bero et ispedito il volo, per cui possa la mia sustanza tutta annidarsi là dove forzandomi convien ch’io emende tutte le mende mie; dove pervenendo il “mio spirito”, “vale più ch’il rivale”, perché non v’è oltrag- gio che li resista, non è contrarietà ch’il vinca, non v’è error che l’assaglia? Oh se “tende” et arriva là dove forzandosi “attende”; et ascende e perviene a quell’altezza, dove “ascende”, vuol star montato, alto et elevato il suo oggetto: se fia che prenda quel bene che non può esser compreso da altro che da uno, cioè da se stesso (atteso che ogn’altro l’have in misura del- la propria capacità; e quel “solo” in tutta pienezza): all’ora avverrammi l’esser felice in quel modo che “dice chi tutto predice”, cioè dice quella altezza nella quale il dire tutto e far tutto è la medesima cosa; in quel modo che “dice” o fa chi tutto “predice”, cioè chi è de tutte cose efficiente e principio: di cui il dire [e] preordinare è il vero fare e principiare. Ecco co- me per la scala de cose superiori et inferiori procede l’affetto de l’amore, come l’intelletto o sentimento procede da questi oggetti intelligibili o conoscibili a quelli; o da quelli a questi. cicada Cossì vogliono la più gran parte de sapienti la natura compiacersi in questa vicissitudinale circola- zione che si vede ne la vertigine de la sua ruota.  cicada Fate pure ch’io veda, perché da me stesso potrò considerar le condizioni di questi furori, per quel ch’appare esplicato nell’ordine (in questa mili- zia) qua descritto. tansillo Vedi come portano l’insegne de gli suoi af- fetti o fortune. Lasciamo di considerar su gli lor nomi et abiti; basta che stiamo su la significazion de l’im- prese et intelligenza de la scrittura, tanto quella che è messa per forma del corpo de la imagine, quanto l’al- tra ch’è messa per il più de le volte a dechiarazion de l’impresa. cicada Cossì farremo. Or ecco qua il primo che porta un scudo distinto in quattro colori, dove nel cimiero è depinta la fiamma sotto la testa di bronzo, da gli fora- mi della quale esce a gran forza un fumoso vento, e vi è scritto in circa At regna senserunt tria. tansillo Per dichiarazion di questo direi che per essere ivi il fuoco che per quel che si vede scalda il globo, dentro il quale è l’acqua, avviene che questo umido ele- mento essendo rarefatto et attenuato per la virtù del calore, e per conseguenza risoluto in vapore, richieda molto maggior spacio per esser contenuto: là onde se non trova facile exito, va con grandissima forza, strepi- to e ruina a crepare il vase. Ma se vi è loco o facile exito d’onde possa evaporare, indi esce con violenza minore a poco a poco; e secondo la misura con cui l’acqua se risolve in vapore, soffiando svapora in aria. Qua vien significato il cor del furioso, dove come in esca ben di- sposta essendo attaccato l’amoroso foco, accade che della sustanza vitale altro sfaville in fuoco, altro si veda in forma de lacrimoso pianto boglier nel petto, altro per l’exito di ventosi suspiri accender l’aria. – E però dice «At regna senserunt tria». Dove quello “At” ha Letteratura italiana Einaudi 83   II. tansillo Appresso è designato un che ha nel suo scudo parimente destinto in quattro colori, il cimiero, dove è un sole che distende gli raggi nel dorso de la terra; e vi è una nota che dice Idem semper ubique to- tum. Giordano Bruno - De gli eroici furori virtù di supponere differenza, o diversità, o contra- rietà: quasi dicesse che altro è che potrebbe aver senso del medesimo, e non l’have. Il che è molto bene espli- cato ne le rime seguenti sotto la figura: Dal mio gemino lume, io poca terra soglio non parco umor porgere al mare; da quel che dentr’il petto mi si serra spirto non scarso accolgon l’aure avare; e ’l vampo che dal cor mi si disserra si può senza scemars’al ciel alzare: con lacrime, suspiri et ardor mio a l’acqua, a l’aria, al fuoco rendo il fio. Accogli’acqu’, aria, foco qualche parte di me: ma la mia dea si dimostra cotant’iniqua e rea, che né mio pianto appo lei trova loco, né la mia voce ascolta, né piatos’al mi’ardor umqua si volta. Qua la suggetta materia significata per la “terra” è la sustanza del furioso; versa dal “gemino lume”, cioè da gli occhi, copiose lacrime che fluiscono al mare; manda dal petto la grandezza e moltitudine de suspiri a l’aria capacissimo; et il vampo del suo core non come piccio- la favilla o debil fiamma nel camino de l’aria s’intepidi- sce, infuma e trasmigra in altro essere: ma come poten- te e vigoroso (più tosto acquistando de l’altrui che perdendo del proprio) gionge alla congenea sfera. cicada Ho ben compreso il tutto. A l’altro. cicada Vedo che non può esser facile l’interpretazione. tansillo Tanto il senso è più eccellente, quanto è men volgare: il qual vedrete essere solo, unico e non stiracchiato. Dovete considerare che il sole benché al rispetto de diverse regioni de la terra, per ciascuna, sia diverso, a tempi a tempi, a loco a loco, a parte a parte; al riguardo però del globo tutto, come medesi- mo, sempre et in cadaun loco fa tutto: atteso che, in qualunque punto de l’eclittica ch’egli si trove, viene a far l’inverno, l’estade, l’autunno e la primavera; e l’universal globo de la terra a ricevere in sé le dette quattro tempeste. Perché mai è caldo a una parte che non sia freddo a l’altra; come quando fia a noi nel tro- pico del Cancro caldissimo, è freddissimo al tropico del Capricorno; di sorte che è a medesima raggione l’inverno a quella parte, con cui a questa è l’estade, et a quelli che son nel mezzo è temperato, secondo la di- sposizion vernale o autumnale. Cossì la terra sempre sente le piogge, li venti, gli calori, gli freddi; anzi non sarebbe umida qua, se non disseccasse in un’altra par- te, e non la scalderebe da questo lato il sole, se non avesse lasciato d’iscaldarla da quell’altro. cicada Prima che finisci ad conchiudere, io intendo quel che volete dire. Intendeva egli che come il sole sempre dona tutte le impressioni a la terra, e questa sempre le riceve intiere e tutte: cossì l’oggetto del fu- rioso col suo splendore attivamente lo fa suggetto passivo de lacrime, che son l’acqui; de ardori, che son gl’incendii; e de suspiri quai son certi vapori, che son mezzi che parteno dal fuoco e vanno a l’acqui, o par- tono da l’acqui e vanno al fuoco. tansillo Assai bene s’esplica appresso: Quando declin’il sol al Capricorno, fan più ricco le piogge ogni torrente; se va per l’equinozzio o fa ritorno, Letteratura italiana Einaudi 85   Giordano Bruno - De gli eroici furori ogni postiglion d’Eolo più si sente; e scalda più col più prolisso giorno, nel tempo che rimonta al Cancro ardente: non van miei pianti, sospiri et ardori con tai freddi, temperie e calori. Sempre equalmente in pianto, quantumqu’intensi sien suspiri e fiamme. E benché troppo m’inacqui et infiamme, mai avvien ch’io suspire men che tanto: infinito mi scaldo, equalment’a i suspiri e pianger saldo. cicada Questo non tanto dechiara il senso de la divisa come il precedente discorso faceva: quanto più tosto dice la conseguenza di quello, o l’accompagna. tansillo Dite megliore, che la figura è latente ne la prima parte, et il motto è molto esplicato ne la secon- da; come l’uno e l’altro è molto propriamente signifi- cato nel tipo del sole e de la terra. cicada Passamo al terzo. III. tansillo Il terzo nel scudo porta un fanciullo ignudo disteso sul verde prato, e che appoggia la testa sollevata sul braccio con gli occhi rivoltati verso il cie- lo a certi edificii de stanze, torri, giardini et orti che son sopra le nuvole, e vi è un castello di cui la materia è fuoco; et in mezzo è la nota che dice Mutuo fulcimur. cicada Che vuol dir questo? tansillo Intendi quel furioso significato per il fan- ciullo ignudo come semplice, puro et esposto a tutti gli accidenti di natura e di fortuna, qualmente con la forza del pensiero edifica castegli in aria, e tra l’altre cose una torre di cui l’architettore è l’amore, la mate- ria l’amoroso foco, et il fabricatore egli medesimo, che dice «Mutuo fulcimu»: cioè io vi edifico e vi suste- gno là con il pensiero, e voi mi sustenete qua con la Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori speranza: voi non sareste in essere se non fusse l’ima- ginazione et il pensiero con cui vi formo e sustegno, et io non sarrei in vita se non fusse il refrigerio e conforto che per vostro mezzo ricevo. cicada È vero che non è cosa tanto vana e tanto chi- merica fantasia, che non sia più reale e vera medicina d’un furioso cuore, che qualsivoglia erba, pietra, oglio, o altra specie che produca la natura. tansillo Più possono far gli maghi per mezzo della fede, che gli medici per via de la verità: e ne gli più gravi morbi più vegnono giovati gl’infermi con crede- re quel tanto che quelli dicono, che con intendere quel tanto che questi facciono. Or legansi le rime: Sopra de nubi, a l’eminente loco, quando tal volta vaneggiando avvampo, per di mio spirto refrigerio e scampo, tal formo a l’aria castel de mio foco: s’il mio destin fatale china un poco, a fin ch’intenda l’alta grazia il vampo in cui mi muoio, e non si sdegn’ o adire, o felice mia pena e mio morire. Quella de fiamme e lacci tuoi, o garzon, che gli uomini e gli divi fan suspirar, e soglion far cattivi, l’ardor non sente, né prova gl’impacci: ma può ’ntrodurt’, o Amore, man di pietà, se mostri il mio dolore. cicada Mostra che quel che lo pasce in fantasia, e gli fomenta il spirito, è che (essendo lui tanto privo d’ar- dire d’esplicarsi a far conoscere la sua pena, quanto profondamente suggetto a tal martìre), se avvenisse ch’il fato rigido e rubelle chinasse un poco (perché voglia il destino al fin rasserenargli il volto), con far che senza sdegno o ira de l’alto oggetto gli venesse Letteratura italiana Einaudi 87   Giordano Bruno - De gli eroici furori manifesto, non stima egli gioia tanto felice, né vita tanto beata, quanto per tal successo lui stime felice la sua pena, e beato il suo morire. tansillo E con questo viene a dichiarar a l’Amore che la raggion per cui possa aver adito in quel petto, non è quell’ordinaria de le armi con le quali suol cattivar uomini e dèi; ma solamente con fargli aperto il cuor focoso et il travagliato spirito de lui; a la vista del qua- le fia necessario che la compassion possa aprirgli il passo et introdurlo a quella difficil stanza. IV. cicada Che significa qua quella mosca che vola circa la fiamma e sta quasi quasi per bruggiarsi, e che vuol dir quel motto: Hostis non hostis? tansillo Non è molto difficile la significazione de la farfalla, che sedotta dalla vaghezza del splendore, in- nocente et amica va ad incorrere nelle mortifere fiam- me: onde “hostis” sta scritto per l’effetto del fuoco, “non hostis” per l’affetto de la mosca. “Hostis” la mo- sca passivamente, “non hostis” attivamente. “Hostis” la fiamma per l’ardore, “non hostis” per il splendore. cicada Or che è quel che sta scritto nella tabella? tansillo Mai fia che de l’amor io mi lamente, senza del qual non vogli’ esser felice; sia pur ver che per lui penoso stente, non vo’ non voler quel che si me lice; sia chiar o fosch’il ciel, fredd’o ardente, sempr’un sarò ver l’unica fenice. Mal può disfar altro destin o sorte quel nodo che non può sciòrre la morte. Al cor, al spirt’, a l’alma non è piacer, o libertad’, o vita, qual tanto arrida, giove e sia gradita, qual più sia dolce, graziosa et alma, Letteratura italiana Einaudi 88   Giordano Bruno - De gli eroici furori ch’il stento, giogo e morte, ch’ho per natura, voluntade e sorte. Qua nella figura mostra la similitudine che ha il furio- so con la farfalla affetta verso la sua luce; ne gli carmi poi mostra più differenza e dissimilitudine che altro: essendo che comunmente si crede che se quella mo- sca prevedesse la sua ruina non tanto ora séguita la lu- ce quanto all’ora la fuggirebbe, stimando male di per- der l’esser proprio risolvendosi in quel fuoco nemico. Ma a costui non men piace svanir nelle fiamme de l’amoroso ardore, che essere abstratto a contemplar la beltà di quel raro splendore, sotto il qual per inclina- zion di natura, per elezzion di voluntade e disposizion del fato, stenta, serve e muore: più gaio, più risoluto e più gagliardo, che sotto qualsivogli’altro piacer che s’offra al core, libertà che si conceda al spirito, e vita che si ritrove ne l’alma. cicada Dimmi, perché dice: “sempr’un sarò”? tansillo Perché gli par degno d’apportar raggione della sua constanza, atteso che il sapiente si muta con la luna, il stolto si muta come la luna. Cossì questo è unico con la fenice unica. V. cicada Bene; ma che significa quella frasca di palma, circa la quale è il motto: Caesar adest? tansillo Senza molto discorrere, tutto potrassi inten- dere per quel che è scritto nella tavola: Trionfator invitto di Farsaglia, essendo quasi estinti i tuoi guerrieri, al vederti, fortissimi ’n battaglia sorser, e vinser suoi nemici altieri. Tal il mio ben, ch’al ben del ciel s’agguaglia, fatto a la vista de gli miei pensieri, ch’eran da l’alma disdegnosa spenti, Letteratura italiana Einaudi 89   Giordano Bruno - De gli eroici furori le fa tornar più che l’amor possenti. La sua sola presenza, o memoria di lei, sì le ravviva, che con imperio e potestade diva dóman ogni contraria violenza. La mi governa in pace; né fa cessar quel laccio e quella tace. Tal volta le potenze de l’anima inferiori, come un ga- gliardo e nemico essercito che si trova nel proprio paese, prattico, esperto et accomodato, insorge con- tra il peregrino adversario che dal monte de la intelli- genza scende a frenar gli popoli de le valli e palustri pianure. Dove dal rigor della presenza de nemici e difficultà de precipitosi fossi vansi perdendo, e perde- riansi a fatto, se non fusse certa conversione al splen- dor de la specie intelligibile mediante l’atto della con- templazione: mentre da gli gradi inferiori si converte a gli gradi superiori. cicada Che gradi son questi? tansillo Li gradi della contemplazione son come li gradi della luce, la quale nullamente è nelle tenebre; alcunamente è ne l’ombra; megliormente è ne gli co- lori secondo gli suoi ordini da l’un contrario ch’è il nero a l’altro che è il bianco; più efficacemente è nel splendor diffuso su gli corpi tersi e trasparenti, come nel specchio o nella luna; più vivamente ne gli raggi sparsi dal sole; altissima e principalissimamente nel sole istesso. Or essendo cossì ordinate le potenze ap- prensive et affettive de le quali sempre la prossima conseguente have affinità con la prossima anteceden- te, e per la conversione a quella che la sulleva, viene a rinforzarsi contra l’inferior che la deprime (come la raggione per la conversione a l’intelletto non è sedot- ta o vinta dalla notizia o apprensione et affetto sensiti- vo, ma più tosto secondo la legge di quello viene a do- Letteratura italiana Einaudi 90   Giordano Bruno - De gli eroici furori mar e correger questo), accade che quando l’appetito razionale contrasta con la concupiscenza sensuale, se a quello per atto di conversione si presente a gli occhi la luce intelligenziale, viene a repigliar la smarrita vir- tude, rinforzar i nervi, spaventa e mette in rotta gli nemici. cicada In che maniera intendete che si faccia cotal conversione? tansillo Con tre preparazioni che nota il contempla- tivo Plotino nel libro Della bellezza intelligibile: de le quali «la prima è proporsi de conformarsi d’una simi- litudine divina», divertendo la vista da cose che sono infra la propria perfezzione, e commune alle specie uguali et inferiori; «secondo è l’applicarsi con tutta l’intenzione et attenzione alle specie superiori; terzo il cattivar tutta la voluntade et affetto a Dio». Perché da qua avverrà che senza dubio gl’influisca la divinità la qual da per tutto è presente e pronta ad ingerirsi a chi se gli volta con l’atto de l’intelletto, et aperto se gli espone con l’affetto de la voluntade. cicada Non è dumque corporal bellezza quella che in- vaghisce costui? tansillo Non certo, perché la non è vera né constante bellezza, e però non può caggionar vero né constante amore: la bellezza che si vede ne gli corpi è una cosa accidentale et umbratile e come l’altre che sono assor- bite, alterate e guaste per la mutazione del suggetto, il quale sovente da bello si fa brutto senza che altera- zion veruna si faccia ne l’anima. La raggion dumque apprende il più vero bello per conversione a quello che fa la beltade nel corpo, e viene a formarlo bello: e questa è l’anima che l’ha talmente fabricato e infigu- rato. Appresso l’intelletto s’inalza più, et apprende bene che l’anima è incomparabilmente bella sopra la bellezza che possa esser ne gli corpi; ma non si per- suade che sia bella da per sé e primitivamente: atteso Letteratura italiana Einaudi 91   Giordano Bruno - De gli eroici furori che non accaderebbe quella differenza che si vede nel geno de le anime, onde altre son savie, amabili e belle; altre stolte, odiose e brutte. Bisogna dumque alzarsi a quello intelletto superiore il quale da per sé è bello e da per sé è buono. Questo è quell’unico e supremo capitano, qual solo messo alla presenza de gli occhi de militanti pensieri, le illustra, incoraggia, rinforza e rende vittoriosi sul dispreggio d’ogn’altra bellezza e ripudio di qualsivogli’altro bene. Questa dumque è la presenza che fa superar ogni difficultà e vincere ogni violenza. cicada Intendo tutto. Ma che vuol dire “La mi gover- na in pace, Né fa cessar quel laccio e quella face”? tansillo Intende e prova, che qualsivoglia sorte d’amore quanto ha maggior imperio e più certo domìno, tanto fa sentir più stretti i lacci, più fermo il giogo, e più ardenti le fiamme. Al contrario de gli or- dinarii prencipi e tiranni, che usano maggior strettez- za e forza, dove veggono aver minore imperio. cicada Passa oltre. VI. tansillo Appresso veggio descritta la fantasia d’una fenice volante, alla quale è volto un fanciullo che bruggia in mezzo le fiamme, e vi è il motto: Fata obstant. Ma perché s’intenda meglior, leggasi la tavo- letta: Unico augel del sol, vaga Fenice, ch’appareggi col mondo gli anni tui, quai colmi ne l’Arabia felice: tu sei chi fuste, io son quel che non fui; io per caldo d’amor muoio infelice; ma te ravviv’il sol co’ raggi sui; tu bruggi ’n un, et io in ogni loco; io da Cupido, hai tu da Febo il foco. Hai termini prefissi Letteratura italiana Einaudi 92   Giordano Bruno - De gli eroici furori di lunga vita, et io ho breve fine, che pronto s’offre per mille ruine, né so quel che vivrò, né quel che vissi. Me cieco fato adduce, tu certo torni a riveder tua luce. Dal senso de gli versi si vede che nella figura si dise- gna l’antitesi de la sorte de la fenice e del furioso; e che il motto “Fata obstant”, non è per significar che gli fati siano contrarii o al fanciullo, o a la fenice, o a l’uno e l’altro; ma che non son medesimi, ma diversi et oppositi gli decreti fatali de l’uno e gli fatali decreti de l’altro: perché la fenice è quel che fu, essendoché la medesima materia per il fuoco si rinova ad esser corpo di fenice, e medesimo spirito et anima viene ad informarla; il furioso è quel che non fu, perché il sug- getto che è d’uomo, prima fu di qualch’altra specie secondo innumerabili differenze. Di sorte che si sa quel che fu la fenice, e si sa quel che sarà: ma questo suggetto non può tornar se non per molti et incerti mezzi ad investirsi de medesima o simil forma natura- le. Appresso, la fenice al cospetto del sole cangia la morte con la vita; e questo nel cospetto d’amore muta la vita con la morte. Oltre, quella su l’aromatico altare accende il foco; e questo il trova e mena seco, ovum- que va. Quella ancora ha certi termini di lunga vita; ma costui per infinite differenze di tempo et innume- rabili caggioni de circonstanze, ha di breve vita termi- ni incerti. Quella s’accende con certezza, questo con dubio de riveder il sole. cicada Che cosa credete voi che possa figurar questo? tansillo La differenza ch’è tra l’intelletto inferiore, che chiamano intelletto di potenza o possibile o passi- bile, il quale è incerto, moltivario e moltiforme; e l’intelletto superiore, forse quale è quel che da Peri- patetici è detto infima de l’intelligenze, e che immediatamente influisce sopra tutti gl’individui dell’umana specie, e dicesi intelletto agente et attuan- te. Questo intelletto unico specifico umano che ha in- fluenza in tutti li individui, è come la luna, la quale non prende altra specie che quella unica, la qual sem- pre se rinova per la conversion che fa al sole che è la prima et universale intelligenza: ma l’intelletto umano individuale e numeroso viene come gli occhi a voltar- si ad innumerabili e diversissimi oggetti, onde secon- do infiniti gradi che son secondo tutte le forme natu- rali viene informato. Là onde accade che sia furioso, vago et incerto questo intelletto particolare; come quello universale è quieto, stabile e certo, cossì secon- do l’appetito come secondo l’apprensione. O pur quindi (come da per te stesso puoi facilmente descife- rare) vien significata la natura dell’apprensione et ap- petito vario, vago, inconstante et incerto del senso, e del concetto et appetito definito, fermo e stabile de l’intelligenza; la differenza de l’amor sensuale che non ha certezza né discrezion de oggetti, da l’amor intel- lettivo il qual ha mira ad un certo e solo, a cui si volta, da cui è illuminato nel concetto, onde è acceso ne l’af- fetto, s’infiamma, s’illustra et è mantenuto nell’unità, identità e stato. VII. cicada Ma che vuol significare quell’imagine del sole con un circolo dentro, et un altro da fuori, con il motto Circuit? tansillo La significazion di questo son certo che mai arrei compresa, se non fusse che l’ho intesa dal mede- simo figuratone: or è da sapere che quel “circuit” si referisce al moto del sole che fa per quel circolo, il quale gli vien descritto dentro e fuori; a significare che quel moto insieme insieme si fa et è fatto: onde per consequenza il sole viene sempre ad ritrovarsi in tutti gli punti di quello. Perché s’egli si muove in uno Letteratura italiana Einaudi 94   Giordano Bruno - De gli eroici furori instante, séguita che insieme si muove et è mosso, e che è per tutta la circonferenza del circolo equalmen- te, e che in esso convegna in uno il moto e la quiete. cicada Questo ho compreso nelli dialogi De l’infinito, universo e mondi innumerabili, e dove si dechiara co- me la divina sapienza è mobilissima (come disse Salo- mone) e che la medesima sia stabilissima, come è det- to et inteso da tutti quelli che intendono. Or séguita a farmi comprendere il proposito. tansillo Vuol dire che il suo sole non è come questo, che (come comunmente si crede) circuisce la terra col moto diurno in ventiquattro ore, e col moto planetare in dodeci mesi; laonde fa distinti gli quattro tempi de l’anno, secondo che a termini di quello si trova in quattro punti cardinali del Zodiaco; ma è tale, che (per essere la eternità istessa e conseguentemente una possessione insieme tutta e compita) insieme insieme comprende l’inverno, la primavera, l’estade, l’autun- no, insieme insieme il giorno e la notte: perché è tutto per tutti et in tutti gli punti e luoghi. cicada Or applicate quel che dite alla figura. tansillo Qua, perché non è possibile designar il sol tutto in tutti gli punti del circolo, vi son delineati doi circoli: l’un che ’l comprenda per significar che si muove per quello; l’altro che sia da lui compreso per mostrar che è mosso per quello. cicada Ma questa dimostrazione non è troppo aperta e propria. tansillo Basta che sia la più aperta e propria che lui abbia possuta fare: se voi la possete far megliore vi si dà autorità di toglier quella e mettervi quell’altra; per- ché questa è stata messa solo a fin che l’anima non fusse senza corpo. cicada Che dite di quel “Circuit”? tansillo Quel motto, secondo tutta la sua significa- zione, significa la cosa quanto può essere significato; Letteratura italiana Einaudi 95   Giordano Bruno - De gli eroici furori atteso che significa che volta e che è voltato: cioè il moto presente e perfetto. cicada Eccellentemente: e però que’ circoli li quali malamente significano la circonstanza del moto e quiete tale, possiamo dire che son messi a significar la sola circolazione. E cossì vegno contento del suggetto e de la forma de l’impresa eroica. Or legansi le rime. tansillo Sol che dal Tauro fai temprati lumi, e dal Leon tutto maturi e scaldi, e quando dal pungente Scorpio allumi, de l’ardente vigor non poco faldi; poscia dal fier Deucalion consumi tutto col fredd’, e i corp’umidi saldi: de primavera, estade, autunno, inverno mi scald’ accend’ ard’ avvamp’in eterno. Ho sì caldo il desio, che facilment’ a remirar m’accendo quell’alt’oggetto, per cui tant’ardendo, fo sfavillar a gli astri il vampo mio: non han momento gli anni, che vegga variar miei sordi affanni. Qua nota che gli quattro tempi de l’anno son signifi- cati non per quattro segni mobili che son Ariete, Can- cro, Libra e Capricorno, ma per gli quattro che chia- mano fissi, cioè Tauro, Leone, Scorpione et Aquario: per significare la perfezzione, stato e fervor di quelle tempeste. Nota appresso che in virtù di quelle apo- strofi che son nel verso ottavo, possete leggere “mi scaldo, accendo, ardo, avampo”; over, “scaldi, accen- di, ardi, avampi”; over “scalda, accende, arde, avvam- pa”. Hai oltre da considerare che questi non son quattro sinonimi, ma quattro termini diversi che si- gnificano tanti gradi de gli effetti del fuoco. Il qual Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori prima scalda, secondo accende, terzo bruggia, quarto infiamma o invampa quel ch’ha scaldato, acceso e bruggiato. E cossì son denotate nel furioso il desio, l’attenzione, il studio, l’affezzione, le quali in nessun momento sente variare. cicada Perché le mette sotto titolo d’affanni? tansillo Perché l’oggetto, ch’è la divina luce, in que- sta vita è più in laborioso voto che in quieta fruizione: perché la nostra mente verso quella è come gli occhi de gli uccelli notturni al sole. cicada Passa, perché ora da quel ch’è detto posso comprender tutto. VIII. tansillo Nel cimiero seguente vi sta depinta una luna piena col motto Talis mihi semper et astro. Vuol dir che a l’astro, cioè al Sole, et a lui sempre è ta- le, come si mostra qua piena e lucida nella circonferen- za intiera del circolo: il che acciò che meglio forse in- tendi, voglio farti udire quel ch’è scritto nella tavoletta. Lun’inconstante, luna varia, quale con corna or vere e tal’or piene svalli, or l’orbe tuo bianc’or fosco risale, or Bora e de’ Rifei monti le valli fai lustre, or torni per tue trite scale a chiarir l’Austro, e di Libia le spalli. La luna mia per mia continua pena mai sempre è ferma, ci è mai sempre piena. È tale la mia stella, che sempre mi si togli’ e mai si rende, che sempre tanto bruggia e tanto splende, sempre tanto crudele e tanto bella: questa mia nobil face sempre sì mi martora, e sì mi piace. Mi par che voglia dire che la sua intelligenza particu- lare alla intelligenza universale è sempre “tale”: cioè Letteratura italiana Einaudi 97   Giordano Bruno - De gli eroici furori da quella viene eternamente illuminata in tutto l’emi- sfero; benché alle potenze inferiori e secondo gl’in- flussi de gli atti suoi or viene oscura, or più e meno lu- cida. O forse vuol significare che l’intelletto suo speculativo (il quale è sempre in atto invariabilmente) è sempre volto et affetto verso l’intelligenza umana si- gnificata per la “luna”, perché come questa è detta in- fima de tutti gli astri et è più vicina a noi, cossì l’intel- ligenza illuminatrice de tutti noi (in questo stato) è l’ultima in ordine de l’altre intelligenze, come nota Averroe et altri più sottili Peripatetici. Quella a l’in- telletto in potenza or tramonta, per quanto non è in atto alcuno, or come “svallasse”, cioè sorgesse dal basso de l’occolto emispero, si mostra or vacua or piena secondo che dona più o meno lume d’intelli- genza; or ha “l’orbe oscuro or bianco”, perché talvol- ta mostra per ombra, similitudine e vestigio, tal volta più e più apertamente; or declina a l’“Austro”, or monta a “Borea”, cioè or ne si va più e più allonta- nando, or più e più s’avvicina. Ma l’intelletto in atto con sua continua pena (percioché questo non è per natura e condizione umana in cui si trova cossì trava- glioso, combattuto, invitato, sollecitato, distratto e come lacerato dalle potenze inferiori) sempre vede il suo oggetto fermo, fisso e constante, e sempre pieno e nel medesimo splendor di bellezza. Cossì sempre se gli “toglie” per quanto non se gli concede, sempre se gli “rende” per quanto se gli concede. “Sempre tanto lo bruggia” ne l’affetto, come sempre “tanto gli splen- de” nel pensiero; “sempre è tanto crudele” in suttrar- si per quel che si suttrae, come sempre è “tanto bello” in comunicarsi per quel che gli se presenta. “Sempre lo martòra”, perciò che è diviso per differenza locale da lui, come sempre gli “piace”, percioché gli è con- gionto con l’affetto. cicada Or applicate l’intelligenza al motto. Letteratura italiana Einaudi 98   Giordano Bruno - De gli eroici furori tansillo Dice dumque“Talis mihi semper”, cioè per la mia continua applicazione secondo l’intelletto, me- moria e volontarie (perché non voglio altro rallentare, intendere, né desiderare) sempre mi è tale, e per quanto posso capirla, al tutto presente, e non m’è di- visa per distrazzion de pensiero, né me si fa più oscu- ra per difetto d’attenzione, perché non è pensiero che mi divertisca da quella luce, e non è necessità di natu- ra qual m’oblighi perché meno attenda. “Talis mihi semper” dal canto suo, perché la è invariabile in su- stanza, in virtù, in bellezza et in effetto verso quelle cose che sono constanti et invariabili verso lei. Dice appresso “ut astro”, perché al rispetto del sole illumi- nator de quella sempre è ugualmente luminosa, essen- do che sempre ugualmente gli è volta, e quello sem- pre parimente diffonde gli suoi raggi: come fisicamente questa luna che veggiamo con gli occhi, quantunque verso la terra or appaia tenebrosa or lu- cente, or più or meno illustrata et illustrante, sempre però dal sole vien lei ugualmente illuminata; perché sempre piglia gli raggi di quello al meno nel dorso del suo emispero intiero. Come anco questa terra sempre è illuminata nell’emisfero equalmente; quantunque da l’acquosa superficie cossì inequalmente a volte a volte mande il suo splendore alla luna (qual come molti altri astri innumerabili stimiamo un’altra terra) come aviene che quella mande a lei: atteso la vicissitu- dine ch’hanno insieme de ritrovarsi or l’una or l’altra più vicina al sole. cicada Come questa intelligenza è significata per la lu- na che luce per l’emisfero? tansillo Tutte l’intelligenze son significate per la luna, in quanto che son partecipi d’atto e di potenza, per quanto dico che hanno la luce materialmente, e secon- do participazione, ricevendola da altro; dico non es- sendo luci per sé e per sua natura: ma per risguardo Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori del sole ch’è la prima intelligenza, la quale è pura et absoluta luce come anco è puro et absoluto atto. cicada Tutte dumque le cose che hanno dependenza, e che non sono il primo atto e causa, sono composte come di luce e tenebra, come di materia e forma, di potenza et atto? tansillo Cossì è. Oltre, l’anima nostra secondo tutta la sustanza è significata per la luna la quale splende per l’emispero delle potenze superiori, onde è volta alla luce del mondo intelligibile, et è oscura per le po- tenze inferiori, onde è occupata al governo della ma- teria. IX. cicada E mi par che a quel ch’ora è detto abbia certa conseguenza e simbolo l’impresa ch’io veggio nel seguente scudo, dove è una ruvida e ramosa quer- cia piantata, contra la quale è un vento che soffia, et ha circonscritto il motto Ut robori robur. Et appresso è affissa la tavola che dice: Annosa quercia, che gli rami spandi a l’aria, e fermi le radici ’n terra: né terra smossa, né gli spirti grandi che da l’aspro Aquilon il ciel disserra, né quanto fia ch’il vern’orrido mandi, dal luog’ove stai salda mai ti sferra; mostri della mia fé ritratto vero qual smossa mai stran’accidenti féro. Tu medesmo terreno mai sempr’abbracci, fai colto e comprendi, e di lui per le viscere distendi radici grate al generoso seno: i’ ad un sol oggetto ho fiss’il spirt’, il sens’e l’intelletto. [tansillo] Il motto è aperto, per cui si vanta il furio- so d’aver forza e robustezza, come la rovere; e come Letteratura italiana Einaudi 100   Giordano Bruno - De gli eroici furori quell’altro, essere sempre uno al riguardo da l’unica fenice; e come il prossimo precedente conformarsi a quella luna che sempre tanto splende, e tanto è bella; o pur non assomigliarsi a questa antictona tra la no- stra terra et il sole in quanto ch’è varia a’ nostri oc- chi: ma in quanto sempre riceve ugual porzion del splendor solare in se stessa. E per ciò cossì rimaner constante e fermo contra gli Aquiloni e tempestosi inverni per la fermezza ch’ha nel suo astro in cui è piantato con l’affetto et intenzione, come la detta ra- dicosa pianta tiene intessute le sue radici con le vene de la terra. cicada Più stimo io l’essere in tranquillità e fuor di molestia che trovarsi in una sì forte toleranza. tansillo È sentenza d’Epicurei la qual se sarà bene intesa, non sarà giudicata tanto profana quanto la sti- mano gli ignoranti; atteso che non toglie che quel ch’io ho detto sia virtù, né pregiudica alla perfezzione della constanza, ma più tosto aggionge a quella per- fezzione che intendeno gli volgari: perché lui non sti- ma vera e compita virtù di fortezza e constanza quella che sente e comporta gl’incommodi: ma quella che non sentendoli le porta; non stima compìto amor di- vino et eroico quello che sente il sprone, freno o ri- morso o pena per altro amore, ma quello ch’a fatto non ha senso de gli altri affetti: onde talmente è gion- to ad un piacere, che non è potente dispiacere alcuno a distorlo o far cespitare in punto. E questo è toccar la somma beatitudine in questo stato, l’aver la voluptà e non aver senso di dolore. cicada La volgare opinione non crede questo senso d’Epicuro. tansillo Perché non leggono gli suoi libri, né quelli che senza invidia apportano le sue sentenze, al con- trario di color che leggono il corso de sua vita et il ter- mine de la sua morte. Dove con queste paroli dettò il  X. tansillo Guarda in quest’altro ch’ha la fantasia di quella incudine e martello, circa la quale è il motto Ab Aetna. Ma prima che la consideriamo, leggemo la stanza. Qua s’introduce di Vulcano la prosopopea: Or non al monte mio siciliano torn’, ove tempri i folgori di Giove; Giordano Bruno - De gli eroici furori principio del suo testamento: «Essendo ne l’ultimo e medesimo felicissimo giorno de nostra vita, abbiamo ordinato questo con mente quieta, sana e tranquilla; perché quantunque grandissimo dolor de pietra ne tormentasse da un canto, quel tormento tutto venea assorbito dal piacere de le nostre invenzioni e la con- siderazion del fine». Et è cosa manifesta che non po- nea felicità più che dolore nel mangiare, bere, posare e generare, ma in non sentir fame, né sete, né fatica, né libidine. Da qua considera qual sia secondo noi la perfezzion de la constanza: non già in questo che l’ar- bore non si fracasse, rompa o pieghe; ma in questo che né manco si muova: alla cui similitudine costui tien fisso il spirto, senso et intelletto, là dove non ha sentimento di tempestosi insulti. cicada Volete dumque che sia cosa desiderabile il comportar de tormenti, perché è cosa da forte? tansillo Questo che dite “comportare” è parte di constanza, e non è la virtude intiera; ma questo che dico “fortemente comportare” et Epicuro disse “non sentire”. La qual privazion di senso è caggionata da quel che tutto è stato absorto dalla cura della virtude, vero bene e felicitade. Qualmente Regolo non ebbe senso de l’arca, Lucrezia del pugnale, Socrate del ve- leno, Anaxarco de la pila, Scevola del fuoco, Cocle de la voragine, et altri virtuosi d’altre cose che massime tormentano e danno orrore a persone ordinarie e vili. cicada Or passate oltre. Letteratura italiana Einaudi 102   Giordano Bruno - De gli eroici furori qua mi rimagno scabroso Vulcano: qua più superbo gigante si smuove, che contr’il ciel s’infiamm’e stizz’in vano, tentando nuovi studii e varie prove; qua trovo meglior fabri e Mongibello, meglior fucina, incudine e martello. Dov’un pett’ha suspiri che quai mantici avvivan la fornace, u’ l’alm’a tante scosse sottoghiace di que’ sì lunghi scempii e gran martìri; e manda quel concento che fa volgar sì aspr’e rio tormento. Qua si mostrano le pene et incomodi che son ne l’amore, massime nell’amor volgare, il quale non è al- tro che l’officina di Vulcano: quel fabro che forma i folgori de Giove che tormentano l’anime delinquenti. Perché il disordinato amore ha in sé il principio della sua pena; attesoché Dio è vicino, è nosco, è dentro di noi. Si trova in noi certa sacrata mente et intelligenza, cui subministra un proprio affetto che ha il suo vendi- catore, che col rimorso di certa sinderesi al meno, co- me con certo rigido martello flagella il spirito prevari- cante. Quella osserva le nostre azzioni et affetti, e come è trattata da noi fa che noi vengamo trattati da lei. In tutti gli amanti, dico, è questo fabro Vulcano: come non è uomo che non abbia Dio in sé, non è amante che non abbia questo dio. In tutti è Dio cer- tissimamente, ma qual dio sia in ciascuno non si sa cossì facilmente; e se pur se può esaminare e distin- guere, altro non potrei credere che possa chiarirlo che l’amore: come quello che spinge gli remi, gonfia la vela e modera questo composto, onde vegna bene o malamente affetto. – Dico bene o malamente affetto quanto a quel che mette in esecuzione per l’azzioni morali e contemplazione; perché del resto tutti gli Letteratura italiana Einaudi 103   Giordano Bruno - De gli eroici furori amanti comunmente senteno qualch’incomodo: es- sendoché come le cose son miste, non essendo bene alcuno sotto concetto et affetto a cui non sia gionto o opposto il male, come né alcun vero a cui non sia ap- posto e gionto il falso; cossì non è amore senza timo- re, zelo, gelosia, rancore et altre passioni che proce- dono dal contrario che ne perturba, se l’altro contrario ne appaga. Talmente venendo l’anima in pensiero di ricovrar la bellezza naturale, studia pur- garsi, sanarsi, riformarsi: e però adopra il fuoco, per- ché essendo come oro trameschiato a la terra et infor- me, con certo rigor vuol liberarsi da impurità; il che s’effettua quando l’intelletto vero fabro di Giove vi mette le mani essercitandovi gli atti dell’intellettive potenze. cicada A questo mi par che si riferisca quel che si tro- va nel Convito di Platone, dove dice che l’Amore da la madre Penìa ha ereditato l’esser arido, magro, palli- do, discalzo, summisso, senza letto e senza tetto: per le quali circonstanze vien significato il tormento ch’ha l’anima travagliata da gli contrarii affetti. tansillo Cossì è, perché il spirito affetto di tal furore viene da profondi pensieri distratto, martellato da cu- re urgenti, scaldato da ferventi desii, insoffiato da spesse occasioni: onde trovandosi l’anima suspesa, necessariamente viene ad essere men diligente et ope- rosa al governo del corpo per gli atti della potenza ve- getativa. Quindi il corpo è macilento, mal nodrito, estenuato, ha difetto de sangue, copia di malancolici umori, li quali se non saranno instrumenti de l’anima disciplinata o pure d’un spirito chiaro e lucido, mena- no ad insania, stoltizia e furor brutale; o al meno a certa poca cura di sé e dispreggio del esser proprio, il qual vien significato da Platone per gli piedi discalzi. Va summisso l’amore e vola come rependo per la ter- ra, quando è attaccato a cose basse; vola alto quando Letteratura italiana Einaudi 104   Giordano Bruno - De gli eroici furori vien intento a più generose imprese. In conclusione et a proposito: qualunque sia l’amore, sempre è trava- gliato e tormentato di sorte che non possa mancar d’esser materia nelle focine di Vulcano; perché l’ani- ma essendo cosa divina, e naturalmente non serva, ma signora della materia corporale, viene a conturbarsi ancor in quel che volontariamente serve al corpo, do- ve non trova cosa che la contente. E quantumque fis- sa nella cosa amata, sempre gli aviene che altretanto vegna ad essagitarsi e fluttuar in mezzo gli soffii de le speranze, timori, dubii, zeli, conscienze, rimorsi, osti- nazioni, pentimenti, et altri manigoldi che son gli mantici, gli carboni, l’incudini, gli martelli, le tena- glie, et altri stormenti che si ritrovano nella bottega di questo sordido e sporco consorte di Venere. cicada Or assai è stato detto a questo proposito: piac- ciavi di veder che cosa séguita appresso. XI. tansillo Qua è un pomo d’oro ricchissimamen- te, con diverse preciosissime specie, smaltato. Et ha il motto in circa che dice Pulchriori detur. cicada La allusione al fatto delle tre dee che si sotto- posero al giudicio de Paride, è molto volgare: ma leg- gansi le rime che più specificatamente ne facciano ca- paci de l’intenzione del furioso presente. tansillo Venere, dea del terzo ciel, e madre del cieco arciero, domator d’ogn’uno; l’altra, ch’ha ’l capo giovial per padre, e di Giove la mogli’ altera Giuno; il troiano pastor chiaman, che squadre de chi de lor più bell’è l’aureo muno: se la mia diva al paragon s’appone, non di Venere, Pallad’, o Giunone. Per belle membra è vaga Letteratura italiana EinaudiBruno - De gli eroici furori la cipria dea, Minerva per l’ingegno, e la Saturnia piace con quel degno splendor d’altezza, ch’il Tonante appaga; ma quest’ha quanto aggrade di bel, d’intelligenza, e maestade. Ecco qualmente fa comparazione dal suo oggetto il quale contiene tutte le circonstanze, condizioni e spe- cie di bellezza come in un suggetto, ad altri che non ne mostrano più che una per ciascuno; e tutte poi per di- versi suppositi: come avvenne nel geno solo della cor- poral bellezza di cui le condizioni tutte non le poté ap- provare Apelle in una, ma in più vergini. Or qua dove son tre geni di beltade, benché avvegna che tutti si tro- veno in ciascuna de le tre dee, perché a Venere non manca sapienza e maestade, in Giunone non è difetto di vaghezza e sapienza, et in Pallade è pur notata la maestà con la vaghezza: tutta volta aviene che l’una condizione supera le altre, onde quella viene ad esser stimata come proprietà, e l’altre come accidenti com- muni, atteso che di que’ tre doni l’uno predomina in una, e viene ad mostrarla et intitularla sovrana de l’al- tre. E la caggion di cotal differenza è lo aver queste raggioni non per essenza e primitivamente, ma per participazione e derivativamente. Come in tutte le co- se dependenti sono le perfezzioni secondo gli gradi de maggiore e minore, più e meno. – Ma nella simplicità della divina essenza è tutto totalmente, e non secondo misura: e però non è più sapienza che bellezza, e mae- stade, non è più bontà che fortezza: ma tutti gli attri- buti sono non solamente uguali, ma ancora medesimi et una istessa cosa. Come nella sfera tutte le dimensio- ni sono non solamente uguali (essendo tanta la lun- ghezza quanta è la profondità e larghezza) ma anco medesime: atteso che quel che chiami profondo, me- desimo puoi chiamar lungo e largo della sfera. Cossì è Letteratura italiana Einaudi 106   Giordano Bruno - De gli eroici furori nell’altezza de la sapienza divina, la quale è medesimo che la profondità de la potenza, e latitudine de la bon- tade. Tutte queste perfezzioni sono uguali perché so- no infinite. Percioché necessariamente l’una è secondo la grandezza de l’altra, atteso che dove queste cose son finite, avviene che sia più savio che bello e buono, più buono e bello che savio, più savio e buono che poten- te, e più potente che buono e savio. Ma dove è infinita sapienza, non può essere se non infinita potenza: per- ché altrimenti non potrebbe saper infinitamente. Do- ve è infinita bontà, bisogna infinita sapienza: perché altrimenti non saprebbe essere infinitamente buono. Dove è infinita potenza, bisogna che sia infinita bontà e sapienza, perché tanto ben si possa sapere e si sappia possere. Or dumque vedi come l’oggetto di questo fu- rioso, quasi inebriato di bevanda de dèi, sia più alto incomparabilmente che gli altri diversi da quello. Co- me, voglio dire, la specie intelligibile della divina es- senza comprende la perfezzione de tutte l’altre specie altissimamente, di sorte che, secondo il grado che può esser partecipe di quella forma, potrà intender tutto e far tutto, et esser cossì amico d’una, che vegna ad aver a dispreggio e tedio ogn’altra bellezza. Però a quella si deve esser consecrato il sferico pomo, come chi è tutto in tutto. Non a Venere bella che da Minerva è supera- ta in sapienza, e da Giunone in maestà. Non a Pallade di cui Venere è più bella, e l’altra più magnifica. Non a Giunone, che non è la dea dell’intelligenza et amore ancora. cicada Certo come son gli gradi delle nature et essenze, cossì proporzionalmente son gli gradi delle specie in- telligibili, e magnificenze de gli amorosi affetti e furori. XII. cicada Il seguente porta una testa, ch’ha quat- tro faccia che soffiano verso gli quattro angoli del cie- lo; e son quattro venti in un suggetto, alli quali sopra- Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori stanno due stelle, et in mezzo il motto che dice Novae ortae Aeoliae; vorrei sapere che cosa vegna significata. tansillo Mi pare ch’il senso di questa divisa è conse- guente di quello de la prossima superiore. Perché co- me là è predicata una infinita bellezza per oggetto, qua vien protestata una tanta aspirazione, studio, af- fetto e desio; percioch’io credo che questi venti son messi a significar gli suspiri; il che conosceremo, se verremo a leggere la stanza: Figli d’Astreo Titan e de l’Aurora, che conturbate il ciel, il mar e terra, quai spinti fuste dal Litigio fuora, perché facessi a’ dèi superba guerra: non più a l’Eolie spelunche dimora fate, ov’imperio mio vi fren’e serra: ma rinchiusi vi siet’entra’a quel petto ch’i’ veggo a tanto sospirar costretto. Voi socii turbulenti de le tempeste d’un et altro mare, altro non è che vagli’ asserenare, che que’omicidi lumi et innocenti: quelli apert’et ascosi vi renderan tranquilli et orgogliosi. Aperto si vede ch’è introdotto Eolo parlar a i venti, quali non più dice esser da lui moderati nell’Eolie ca- verne: ma da due stelle nel petto di questo furioso. Qua le due stelle non significano gli doi occhi che son ne la bella fronte: ma le due specie apprensibili della divina bellezza e bontade di quell’infinito splendore, che talmente influiscono nel desio intellettuale e ra- zionale, che lo fanno venire ad aspirar infinitamente, secondo il modo con cui infinitamente grande, bello e buono apprende quell’eccellente lume. Perché l’amo- re mentre sarà finito, appagato, e fisso a certa misura, Letteratura italiana Einaudi 108   tansillo cicada tansillo Giordano Bruno - De gli eroici furori non sarà circa le specie della divina bellezza: ma altra formata; ma mentre verrà sempre oltre et oltre aspi- rando, potrassi dire che versa circa l’infinito. cicada Come comodamente l’aspirare è significato per il spirare? che simbolo hanno i venti col deside- rio? tansillo Chi de noi in questo stato aspira, quello su- spira, quello medesimo spira. E però la vehemenza dell’aspirare è notata per quell’ieroglifico del forte spirare. cicada Ma è differenza tra il sospirare e spirare. tansillo Però non vien significato l’uno per l’altro co- me medesimo per il medesimo: ma come simile per il Simile. cicada Seguitate dumque il vostro proposito. tansillo L’infinita aspirazion dumque mostrata per gli suspiri, e significata per gli venti, è sotto il governo non d’Eolo nell’Eolie, ma di detti doi lumi; li quali non solo innocente, ma e benignissimamente uccido- no il furioso, facendolo per il studioso affetto morire al riguardo d’ogn’altra cosa: con ciò che quelli che chiusi et ascosi lo rendono tempestoso, aperti lo ren- deran tranquillo; atteso che nella staggione che di nu- voloso velo adombra gli occhi de l’umana mente in questo corpo, aviene che l’alma con tal studio vegna più tosto turbata e travagliata: come essendo quello stracciato e spinto, doverrà tant’altamente quieta, quanto baste ad appagar la condizion di sua natura. cicada Come l’intelletto nostro finito può seguitar l’oggetto infinito? Con l’infinita potenza ch’egli ha. Questa è vana, se mai sarrà in effetto. Sarrebe vana, se fusse circa atto finito, dove l’infinita potenza sarrebe privativa; ma non già circa l’atto infinito, dove l’infinita potenza è positiva per- fezzione. Letteratura italiana Einaudi 109   Giordano Bruno - De gli eroici furori cicada Se l’intelletto umano è una natura et atto fini- to, come e perché ha potenza infinita? tansillo Perché è eterno, et acciò sempre si dilette, e non abbia fine né misura la sua felicità; e perché come è finito in sé, cossì sia infinito nell’oggetto. cicada Che differenza è tra la infinità de l’oggetto et infinità della potenza? tansillo Questa è finitamente infinita, quello infinita- mente infinito. Ma torniamo a noi. Dice dumque là il motto “Novae partae Aeoliae”, perché par si possa credere che tutti gli venti (che son negli antri voragi- nosi d’Eolo) sieno convertiti in suspiri, se vogliamo numerar quelli che procedono da l’affetto che senza fine aspira al sommo bene et infinita beltade. XIII. cicada Veggiamo appresso la significazione di quella face ardente, circa la quale è scritto Ad vitam, non ad horam. tansillo La perseveranza in tal amore et ardente desio del vero bene, in cui arde in questo stato temporale il furioso. Questo credo che mostra la seguente tavola: Partesi da la stanz’il contadino, quando il sen d’Oriente il giorno sgombra; e quand’il sol ne fere più vicino, stanc’e cotto da caldo sied’a l’ombra; lavora poi, e s’affatica insino ch’atra caligo l’emisfer ingombra; indi si posa: io sto a continue botte mattina, mezo giorno, sera e notte. Questi focosi rai ch’escon da que’ dei archi del mio sole, de l’alma mia (com’il mio destin vuole) dal orizonte non si parton mai: bruggiand’a tutte l’ore dal suo meridian l’afflitto core.cicada Questa tavola più vera che propriamente espli- ca il senso de la figura. tansillo Non ho d’affaticarmi a farvi veder queste proprietadi, dove il vedere non merita altro che più attenta considerazione. Gli “rai del sole” son le rag- gioni con le quali la divina beltade e bontade si mani- festa a noi. E son “focosi”, perché non possono essere appresi da l’intelletto, senza che conseguentemente scaldeno l’affetto. “Doi archi del sole” son le due spe- cie di revelazione che gli scolastici teologi chiamano «matutina» e «vespertina»; onde l’intelligenza illumi- natrice di noi, come aere mediante, ne adduce quella specie o in virtù che la admira in se stessa, o in effica- cia che la contempla ne gli effetti. L’orizonte de l’al- ma in questo luogo è la parte delle potenze superiori, dove a l’apprensione gagliarda de l’intelletto soccorre il vigoroso appulso de l’affetto, significato per il core, che “bruggiando a tutte l’ore” s’afflige; perché tutti gli frutti d’amore che possiamo raccòrre in questo sta- to non son sì dolci che non siano più gionti a certa af- flizzione, quella almeno che procede da l’apprension di non piena fruizione. Come specialmente accade ne gli frutti de l’amor naturale, la condizion de gli quali non saprei meglio esprimere, che come fe’ il poeta epicureo: Ex hominis vero facie pulchroque colore nil datur in corpus praeter simulacra fruendum tenuia, quae vento spes captat saepe misella. Ut bibere in somnis sitiens cum quaerit, et humor non datur, ardorem in membris qui stinguere possit; sed laticum simulacra petit frustraque laborat, in medioque sitit torrenti flumine potans: sic in amore Venus simulacris ludit amantis, nec satiare queunt spectando corpora coram, nec manibus quicquam teneris abradere membris Letteratura italiana Einaudi 111   Giordano Bruno - De gli eroici furori possunt, errantes incerti corpore toto. Denique cum membris conlatis flore fruuntur aetatis; dum iam praesagit gaudia corpus, atque in eo est Venus, ut muliebria conserat arva, adfigunt avide corpus iunguntque salivas oris, et inspirant pressantes dentibus ora, nequicquam, quoniam nibil inde abradere possunt, nec penetrare et abire in corpus corpore toto. Similmente giudica nel geno del gusto che qua possia- mo aver de cose divine: mentre a quelle ne forziamo penetrare et unirci, troviamo aver più afflizzione nel desio che piacer nel concetto. E per questo può aver detto quel savio Ebreo, che chi aggionge scienza ag- gionge dolore, perché dalla maggior apprensione na- sce maggior e più alto desio, e da questo séguita mag- gior dispetto e doglia per la privazione della cosa desiderata; là onde l’epicureo che séguita la più tran- quilla vita, disse in proposito de l’amor volgare: Sed fugitare decet simulacra, et pabula amoris abstergere sibi, atque alio convertere mentem, nec servare sibi curam certumque dolorem: ulcus enim virescit el inveterascit alendo, inque dies gliscit furor, atque erumna gravescit. Nec Veneris fructu sarei is qui vitat amorem, sed potius quaes sunt sine paena commoda sumit. cicada Che intende per il “meridiano del core”? tansillo La parte o region più alta e più eminente de la volontà, dove più illustre, forte, efficace e retta- mente è riscaldata. Intende che tale affetto non è co- me in principio che si muova, né come in fine che si quiete, ma come al mezzo dove s’infervora. XIV. cicada Ma che significa quel strale infocato che ha le fiamme in luogo di ferrigna punta, circa il quale è avolto un laccio, et ha il motto Amor instat ut instans? Dite che ne intendete. tansillo Mi par che voglia dire che l’amor mai lo la- scia, e che eterno parimente l’affliga. cicada Vedo bene laccio, strale e fuoco; intendo quel che sta scritto: “Amor instat”; ma quel che séguita, non posso capirlo, cioè che l’amor come istante o in- sistente, inste: che ha medesima penuria di proposito, che se uno dicesse: «questa impresa costui la ha finta come finta, la porta come la porta, la intendo come la intendo, la vale come la vale, la stimo come un che la stima». tansillo Più facilmente determina e condanna chi manco considera. Quello “instans” non significa adiettivamente dal verbo instare, ma è nome sustanti- vo preso per l’instante del tempo. cicada Or che vuol dir che l’amor insta come l’instante? tansillo Che vuol dire Aristotele nel suo libro Del tempo, quando dice che l’eternità è uno instante, e che in tutto il tempo non è che uno instante? cicada Come questo può essere se non è tanto mini- mo tempo che non abbia più instanti? Vuol egli forse che in uno instante sia il diluvio, la guerra di Troia, e noi che siamo adesso? Vorrei sapere come questo in- stante se divide in tanti secoli et anni; e se per medesi- ma proporzione non possiamo dire che la linea sia un punto. tansillo Sì come il tempo è uno, ma è in diversi sug- getti temporali, cossì l’instante è uno in diverse e tutte le parti del tempo. Come io son medesimo che fui, so- no e sarò; io medesimo son qua in casa, nel tempio, nel campo e per tutto dove sono. cicada Perché volete che l’instante sia tutto il tempo? tansillo Perché se non fusse l’instante, non sarrebe il tempo: però il tempo in essenza e sustanza non è altro che instante. E questo baste se l’intendi (perché non Letteratura italiana Einaudi 113   Giordano Bruno - De gli eroici furori ho da pedanteggiar sul quarto de la Fisica); onde comprendi che voglia dire, che l’amor gli assista non meno che il tempo tutto: perché questo “instans” non significa punto del tempo. cicada Bisogna che questa significazione sia specifica- ta in qualche maniera, se non vogliamo far che sia il motto vicioso in equivocazione, onde possiamo libe- ramente intendere ch’egli voglia dire che l’amor suo sia d’uno instante, idest d’un atomo di tempo e d’un niente: o che voglia dire che sia (come voi interpreta- te) sempre. tansillo Certo se vi fussero inplicati questi doi sensi contrarii, il motto sarrebe una baia. Ma non è cossì, se ben consideri, atteso che in uno instante che è atomo o punto, che l’amore inste o insista non può essere: ma bisogna necessariamente intendere l’instante in al- tra significazione. E per uscir di scuola, leggasi la stanza: Un tempo sparge, et un tempo raccoglie; un edifica, un strugge; un piange, un ride: un tempo ha triste, un tempo ha liete voglie; un s’affatica, un posa; un stassi, un side: un tempo porge, un tempo si ritoglie; un muove, un ferm’; un fa viv’, un occide: in tutti gli anni, mesi, giorni et ore m’attende, fere, accend’e lega amore. Continuo mi disperge, sempre mi strugg’e mi ritien in pianto, è mio triste languir ogn’or pur tanto, in ogni tempo mi travagli’ et erge; tropp’in rubbarmi è forte, mai non mi scuote, mai non mi dà morte. cicada Assai bene ho compreso il senso: e confesso che tutte le cose accordano molto bene. Però mi par tempo di procedere a l’altro. Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gli eroici furori XV. tansillo Qua vedi un serpe ch’a la neve langui- sce dove l’avea gittato un zappatore; et un fanciullo ignudo acceso in mezzo al fuoco, con certe altre minute e circonstanze, con il motto che dice Idem, itidem, non idem. Questo mi par più presto enigma che altro, però non mi confido d’esplicarlo a fatto: pur crederei che vo- glia significar medesimo fato molesto, che medesima- mente tormenta l’uno e l’altro (cioè inentissimamente, senza misericordia, a morte) con diversi instrumenti o contrarii principio, mostrandosi medesimo freddo e caldo. Ma questo mi par che richieda più lunga e distin- ta considerazione. cicada Un’altra volta. Leggete la rima. [tansillo] Languida serpe, a quell’umor sì denso ti rintorci, contrai, sullevi, inondi; e per temprar il tuo doler intenso, al fredd’or quest’or quella parte ascondi; s’il ghiaccio avesse per udirti senso, tu voce che propona o che rispondi, credo ch’areste efficaci’ argumento per renderlo piatoso al tuo tormento. Io ne l’eterno foco mi dibatto, mi struggo, scaldo, avvampo; e al ghiaccio de mia diva per mio scampo né amor di me, né pietà trova loco: lasso, per che non sente quant’è il rigor de la mia fiamma ardente. Angue cerchi fuggir, sei impotente; ritenti a la tua buca, ell’è disciolta; proprie forze richiami, elle son spente; attendi al sol, l’asconde nebbia folta; mercé chiedi al villan, odia ’l tuo dente; fortuna invochi, non t’ode la stolta. Fuga, luogo, vigor, astro, uom o sorte Letteratura italiana Einaudi 115   Giordano Bruno - De gli eroici furori non è per darti scampo da la morte. Tu addensi, io liquefaccio; io miro al rigor tuo, tu a l’ardor mio; tu brami questo mal, io quel desio; n’io posso te, né tu me tòr d’impaccio. Or chiariti a bastanza del fato rio, lasciamo ogni speranza. cicada Andiamone, perché per il camino vedremo di snodar questo intrico, se si può. tansillo Bene.  interlocutori Cesarino, Maricondo. cesarino Cossì dicono che le cose megliori e più eccellenti sono nel mondo quando tutto l’universo da ogni parte risponde eccellentemente: e questo stima- no allor che tutti gli pianeti ottegnono l’Ariete, essen- do che quello de l’ottava sfera ancora ottegna quello del firmamento invisibile e superiore dove è l’altro zodiaco; le cose peggiori e più basse vogliono che ab- biano loco quando domina la contraria disposizione et ordine: però per forza di vicissitudine accadeno le eccessive mutazioni, dal simile al dissimile, dal con- trario a l’altro. La revoluzion dumque et anno grande del mondo, è quel spacio di tempo in cui da abiti et effetti diversissimi per gli oppositi mezzi e contraria si ritorna al medesimo: come veggiamo ne gli anni parti- colari, qual è quello del sole, dove il principio d’una disposizione contraria è fine de l’altra, et il fine di questa è principio di quella: però ora che siamo stati nella feccia delle scienze, che hanno parturita la feccia delle opinioni, le quali son causa della feccia de gli co- stumi et opre, possiamo certo aspettare de ritornare a meglior stati. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappi, fratel mio, che questa successione et ordine de le cose è verissima e certissima: ma al no- stro riguardo sempre, in qualsivoglia stato ordinario, il presente più ne afflige che il passato, et ambi doi in- sieme manco possono appagarne che il futuro, il qua- le è sempre in aspettazione e speranza, come ben puoi veder designato in questa figura la quale è tolta dall’antiquità de gli Egizzii, che fêrno cotal statua che Letteratura italiana Einaudi 118   Giordano Bruno - De gl’eroici furori sopra un busto simile a tutti tre puosero tre teste, l’una di lupo che remirava a dietro, l’altra di leone che avea la faccia volta in mezzo, e la terza di cane che guardava innanzi; per significare che le cose passate affligono col pensiero, ma non tanto quanto le cose presenti che in effetto ne tormentano: ma sempre per l’avenire ne promettemo meglio. Però là è il lupo che urla, qua il leon che rugge, appresso il cane che ap- plaude. cesarino Che contiene quel motto ch’è sopra scritto? maricondo Vedi che sopra il lupo è Iam, sopra il leo- ne Modo, sopra il cane Praeterea, che son dizzioni che significano le tre parti del tempo. cesarino Or leggete quel ch’è nella tavola. maricondo Cossì farò. Un alan, un leon, un can appare a l’auror, al di chiar, al vespr’oscuro quel che spesi, ritegno, e mi procuro, per quanto mi si die’, si dà, può dare. Per quel che feci, faccio et ho da fare al passat’, al presente et al futuro, mi pento, mi tormento, m’assicuro, nel perso, nel soffrir, nell’aspettare. Con l’agro, con l’amaro, con il dolce l’esperienza, i frutti, la speranza mi minacciò, m’affligono, mi molce. L’età che vissi, che vivo, ch’avanza mi fa tremante, mi scuote, mi folce, in absenza, presenza, e lontananza. Assai, troppo, a bastanza quel di già, quel di ora, quel d’appresso m’hann’in timor, martir, e spene messo. cesarino Questa a punto è la testa d’un furioso aman- te; quantunque sia de quasi tutti gli mortali in qualun- Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori que maniera e modo siano malamente affetti; perché non doviamo né possiamo dire che questo quadre a tutti stati in generale, ma a quelli che furono e sono travagliosi: atteso che ad un ch’ha cercato un regno et ora il possiede, conviene il timor di perderlo; ad un ch’ha lavorato per acquistar gli frutti de il amore, co- me è la particular grazia de la cosa amata, conviene il morso della gelosia e suspizione. E quanto a gli stati del mondo, quando ne ritroviamo nelle tenebre e ma- le, possiamo sicuramente profetizar la luce e prospe- ritade; quando siamo nella felicità e disciplina, senza dubio possiamo aspettar il successo de l’ignoranze e travagli: come avvenne a Mercurio Trimigisto che per veder l’Egitto in tanto splender de scienze e divina- zioni, per le quali egli stimava gli uomini consorti de gli demoni e dèi, e per conseguenza religiosissimi, fe- ce quel profetico lamento ad Asclepio, dicendo che doveano succedere le tenebre de nove religioni e cul- ti, e de cose presenti non dover rimaner altro che fa- vole e materia di condannazione. Cossì gli Ebrei quando erano schiavi nell’Egitto e banditi nelli deser- ti, erano confortati da lor profeti con l’aspettazione de libertà et acquisto di patria. Quando furono in sta- to di domìno e tranquillità, erano minacciati de di- spersione e cattività. Oggi che non è male né vitupe- rio a cui non siano suggetti, non è bene né onore che non si promettano. Similmente accade a tutte l’altre generazioni e stati: li quali se durano e non sono an- nihilati a fatto, per forza della vicissitudine delle cose, è necessario da ’l male vegnano al bene, dal bene al male, dalla bassezza a l’altezza, da l’altezza alla bas- sezza, da le oscuritadi al splendore, dal splendor alle oscuritadi. Perché questo comporta l’ordine naturale: oltre il qual ordine, se si ritrova altro che lo guaste o corregga, io lo credo, e non ho da disputarne, perché non raggiono con altro spirito che naturale. Letteratura italiana Einaudi 120   Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Sappiamo che non fate il teologo ma filo- sofo e che trattate filosofia non teologia. cesarino Cossì è. Ma veggiamo quel che séguita. II. cesarino Veggio appresso un fumante turribolo che è sostenuto da un braccio, et il motto che dice Il- lius aram; et appresso l’articolo seguente: Or chi quell’aura de mia nobil brama d’un ossequio divin credrà men degna s’in diverse tabelle ornata vegna da voti miei nel tempio de la fama? Perch’altr’impres’eroica mi richiama, chi pensarà giamai che men convegna ch’al suo culto cattivo mi ritegna quella ch’il ciel onora tanto et ama? Lasciatemi, lasciate, altri desiri, importuni pensier, datemi pace. Perché volete voi ch’io mi ritiri da l’aspetto del sol che sì mi piace? Dite di me piatosi: «Perché miri quel, che per remirar si ti disface? perché di quella face sei vago sì?» «Perché mi fa contento più ch’ogn’altro piacer, questo tormento». maricondo A proposito di questo io ti dicevo che quantunque un rimagna fisso su una corporal bellez- za e culto esterno, può onorevolmente e degnamente trattenirsi: purché dalla bellezza materiale la quale è un raggio e splender della forma, et atto spirituale, di cui è vestigio et ombra, vegna ad inalzarsi alla consi- derazion e culto della divina bellezza, luce e maesta- de: di maniera che da queste cose visibili vegna a ma- gnificar il core verso quelle che son tanto più eccellenti in sé e grate a l’animo ripurgato, quanto son più rimosse da la materia e senso. Oimè (dirà) se una bellezza umbratde, fosca, corrente, depinta nella su- perficie de la materia corporale, tanto mi piace e tan- to mi commuove l’affetto, m’imprime nel spirito non so che riverenza di maestade, mi si cattiva, e tanto dolcemente mi lega e mi s’attira, ch’io non trovo cosa che mi vegna messa avanti da gli sensi che tanto m’ap- paghe: che sarà di quello che sustanzialmente, origi- nalmente, primitivamente è bello; che sarà de l’anima mia, dell’intelletto divino, della regola de la natura? Conviene dumque che la contemplazione di questo vestigio di luce mi amene mediante la ripurgazion de l’animo mio all’imitazione, conformità e participazio- ne di quella più degna et alta, in cui mi transforme et a cui mi unisca: perché son certo che la natura che mi ha messa questa bellezza avanti gli occhi, e mi ha do- tato di senso interiore, per cui posso argomentar bel- lezza più profonda et incomparabilmente maggiore, voglia ch’io da qua basso vegna promosso a l’altezza et eminenza di specie più eccellenti. Né credo che il mio vero nume come me si mostra in vestigio et ima- gine, voglia sdegnarsi che in imagine e vestigio vegna ad onorarlo, a sacrificargli, con questo ch’il mio core et affetto sempre sia ordinato, e rimirare più alto: at- teso che chi può esser quello che possa onorarlo in es- senza e propria sustanza, se in tal maniera non può comprenderlo? cesarino Molto ben dimostri come a gli uomini di eroico spirito tutte le cose si converteno in bene, e si sanno servire della cattività in frutto di maggior liber- tade, e l’esser vinto una volta convertiscono in occa- sione di maggior vittoria. Ben sai che l’amor di bellez- za corporale a color che son ben disposti non solamente non apporta ritardamento da imprese mag- giori, ma più tosto viene ad improntargli l’ali per veni- re a quelle: allor che la necessità de l’amore è converti- Letteratura italiana Einaudi 122   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ta in virtuoso studio per cui l’amante si forza di venire a termine nel quale sia degno della cosa amata, e forse di cosa maggiore, megliore e più bella ancora; onde sia o che vegna contento d’aver guadagnato quel che bra- ma, o sodisfatto dalla sua propria bellezza, per cui de- gnamente possa spregiar l’altrui che viene ad esser da lui vinta e superata: onde o si ferma quieto, o si volta ad aspirare ad oggetti più eccellenti e magnifichi. E cossì sempre verrà tentando il spirito eroico, sin tanto che non si vede inalzato al desiderio della divina bel- lezza in se stessa, senza similitudine, figura, imagine e specie, se sia possibile: e più se sa arrivare a tanto. maricondo Vedi dumque, Cesarino, come ha raggio- ne questo furioso di risentirsi contra coloro che lo ri- prendono come cattivo de bassa bellezza a cui sparga voti et appenda tabelle; di maniera che quindi non viene rubelle dalle voci che lo richiamano a più alte imprese: essendo che come queste basse cose deriva- no da quelle et hanno dipendenza, cossì da queste si può aver accesso a quelle come per proprii gradi. Queste se non son Dio son cose divine, sono imagini sue vive: nelle quali non si sente offeso se si vede ado- rare: perché abbiamo ordine dal superno spirito che dice «Adorate scabellum pedum eius». Et altrove disse un divino imbasciatore: «Adorabimus ubi steterunt pedes eius». cesarino Dio, la divina bellezza e splendore riluce et è in tutte le cose; però non mi pare errore d’admirarlo in tutte le cose secondo il modo che si comunica a quelle: errore sarà certo se noi donaremo ad altri l’onor che tocca a lui solo. Ma che vuol dir quando dice “Lasciatemi, lasciate, altri desiri”? maricondo Bandisce da sé gli pensieri, che gli appresen- tano altri oggetti che non hanno forza di commoverlo tanto; e che gli vogliono involar l’aspetto del sole, il qual può presentarsegli da questa fenestra più che da l’altre. Letteratura italiana Einaudi 123   Giordano Bruno - De gl’eroici furori cesarino Come importunato da pensieri si sta con- stante a remirar quel splendor che lo disface, e non lo fa di maniera contento che ancora non vegna forte- mente a tormentarlo? maricondo Perché tutti gli nostri conforti in questo stato di controversia non sono senza gli suoi di- sconforti cossì grandi come magnifici son gli conforti. Come più grande è il timore d’un re che consiste su la perdita d’un regno, che di un mendico che consiste sul periglio di perdere dieci danaii; è più urgente la cura d’un prencipe sopra una republica, che d’un ru- stico sopra un grege de porci: come gli piaceri e deli- cie di quelli forse son più grandi che le delicie e piace- ri di questi. Però l’amare et aspirar più alto, mena seco maggior gloria e maestà con maggior cura, pen- siero e doglia: intendo in questo stato dove l’un con- trario sempre è congionto a l’altro, trovandosi la mas- sima contrarietade sempre nel medesimo geno, e per conseguenza circa medesimo suggetto, quantunque gli contraria non possano essere insieme. E cossì pro- porzionalmente nell’amor di Cupido superiore, come dechiarò l’epicureo poeta nel cupidinesco volgare e animale, quando disse: Fluctuat incertis erroribus ardor amantum, nec constat quid primum oculis manibusque fruantur: quod petiere premunit arte, faciuntque dolorem corporis, et dentes inlidunt saepe labellis osculaque adfigunt, quia non est pura voluptas, et stimuli subsunt qui instigant laedere id ipsum, quodcumque est, rabies, unde illa haec germina surgunt. Sed leviter paenas frangit Venus inter amorem, blandaque refraenat morsus admixta voluptas, namque in eo spes est, unde est ardoris origo, restingui quoque posse ab eodem corpore flammam. Letteratura italiana Einaudi 124   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Ecco dumque con quali condimenti il magistero et arte della natura fa che un si strugga sul piacer di quel che lo disface, e vegna contento in mezzo del tormento, e tormentato in mezzo de tutte le conten- tezze: atteso che nulla si fa assolutamente da un paci- fico principio, ma tutto da contrarii principii per vit- toria e domìno d’una parte della contrarietade; e non è piacere di generazione da un canto, senza dispiace- re di corrozzione da l’altro: e dove queste cose che si generano e corrompono sono congionte e come in medesimo suggetto composto, si trova il senso di de- lettazione e tristizia insieme. Di sorte che vegna no- minata più presto delettazione che tristizia, se aviene che la sia predominante, e con maggior forza possa sollecitare il senso. III. cesarino Or consideriamo sopra questa imagine seguente, ch’è d’una fenice che arde al sole, e con il suo fumo va quasi a oscurar il splender di quello, dal cui calore vien infiammata et èvvi la nota che dice: Neque simile, nec par. maricondo Leggasi l’articolo prima: Questa fenice ch’al bel sol s’accende, e a dramm’a dramma consumando vassi, mentre di splender cint’ardendo stassi, contrario fio al suo pianeta rende: perché quel che da lei al ciel ascende tepido fumo et atra nebbia fassi, ond’i raggi a’ nostri occhi occolti lassi e quello avvele, per cui arde e splende. Tal il mio spirto (ch’il divin splendore accende e illustra) mentre va spiegando quel che tanto riluce nel pensiero, manda da l’alto suo concetto fore rima, ch’il vago sol vad’oscurando, mentre mi struggo e liquefaccio intiero. Oimè! questo adro e nero nuvol di foco infosca col suo stile quel ch’aggrandir vorrebb’, e ’l rend’umile. cesarino Dice dumque costui che come questa le nice venendo dal splendor del sole accesa, et abituata d lu- ce e di fiamma, vien ella poi ad inviar al cielo quel fu- mo che oscura quello che l’ha resa lucente: cossì egli infiammato et illuminato furioso per quel che fa in lo- de d tanto illustre suggetto che gli have acceso il core e gli splende nel pensiero, viene più tosto ad oscurarlo, che ritribuirgli luce per luce, procedendo quel fumo, effetto di fiamme in cui si risolve la sustanza di lui. maricondo Io senza che metta in bilancio e compara- zione gli studi di costui, torno a dire quel che ti dice- vo l’altr’ieri, che la lode è uno de gli più gran sacrificii che possa far un affetto umano ad un oggetto. E per lasciar da parte il proposito del divino, ditemi: chi co- noscerebbe Achille, Ulisse e tanti altri greci e troiani capitani, chi arrebe notizia de tanti grandi soldati, sa- pienti et eroi de la terra, se non fussero stati messi alle stelle e deificati per il sacrificio de laude, che nell’alta- re del cor de illustri poeti et altri recitatori have acce- so il fuoco, con questo che comunmente montasse al cielo il sacrificatore, la vittima et il canonizato divo, per mano e voto di legitimo e degno sacerdote? cesarino Ben dici di degno e legitimo sacerdote; per- ché de gli appostici n’è pieno oggi il mondo, li quali come sono per ordinario indegni essi loro, cossì ve- gnono sempre a celebrar altri indegni, di sorte che asini asinos fricant. Ma la previdenza vuole che in luo- go d’andar gli uni e gli altri al cielo, sen vanno gionta- mente alle tenebre de l’Orco: onde fia vana e la gloria di quel che celebra, e di quel ch’è celebrato; perché l’uno ha intessuta una statua di paglia, o insculpito un tronco di legno, o messo in getto un pezzo di calcina; e l’altro idolo d’infamia e vituperio non sa che non gli bisogna aspettar gli denti de l’evo e la falce di Saturno per esser messo giù: stante che dal suo encomico me- desimo vien sepolto vivo all’ora all’ora propria che vien lodato, salutato, nominato, presentato. Come per il contrario è accaduto alla prudenza di quel tanto ce- lebrato Mecenate, il quale se non avesse avuto altro splendore che de l’animo inchinato alla protezzione e favor delle Muse, sol per questo meritò che gl’ingegni de tanti illustri poeti gli dovenessero ossequiosi a met- terlo nel numero de più famosi eroi che abbiano cal- pestrato il dorso de la terra. Gli proprii studii et il proprio splendore l’han reso chiaro e nobilissimo, e non l’esser nato d’atavi regi, non l’esser gran segreta- rio e consegliero d’Augusto. Quello dico che l’ha fat- to illustrissimo, è l’aversi fatto degno dell’execuzion della promessa di quel poeta che disse: Fortunati ambo, si quid mea carmina possuni, nulla dies unquam memori vos eximet aevo, dum domus Aeneae Capitoli immobile saxum accolet, imperiumque pater Romanus habebit. maricondo Mi sovviene di quel che dice Seneca in certa epistola dove riferisce le paroli d’Epicuro ad un suo amico, che son queste: «Se amor di gloria ti tocca il petto, più noto e chiaro ti renderanno le mie lettere che tutte quest’altre cose che tu onori, e dalle quali sei onorato, e per le quali ti puoi vantare». Similmen- te arria possuto dire Omero se si gli fusse presentato avanti Achille o Ulisse, Vergilio a Enea et alla sua progenia; perciò che, come ben suggionse quel filo- sofo morale, «è più conosciuto Domenea per le lette- re d’Epicuro che tutti gli megistani satrapi e regi, dal- li quali pendeva il titolo [di] Domenea, e la memoria Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori de gli quali venea suppressa dall’alte tenebre de l’oblio. Non vive Attico per essere genero d’Agrippa e progenero de Tiberio, ma per l’epistole de Tullio. Druso pronepote di Cesare non si troverebbe nel nu- mero de nomi tanto grandi, se non vi l’avesse inserito Cicerone. Oh che ne sopraviene al capo una profon- da altezza di tempo, sopra la quale non molti ingegni rizzaranno il capo». Or per venire al proposito di questo furioso il quale vedendo una fenice accesa al sole, si rammenta del proprio studio, e duolsi che co- me quella per luce et incendio che riceve, gli rimanda oscuro e tepido fumo di lode dall’olocausto della sua liquefatta sustanza. Qualmente giamai possiamo non sol raggionare, ma e né men pensare di cose divine, che non vengamo a detraergli più tosto che aggion- gergli di gloria: di sorte che la maggior cosa che far si possa al riguardo di quelle, è che l’uomo in presenza de gli altri uomini vegna più tosto a magnificar se stesso per il studio et ardire, che donar splendore ad altro per qualche compita e perfetta azzione. Atteso che cotale non può aspettarsi dove si fa progresso all’infinito, dove l’unità et infinità son la medesima cosa; e non possono essere perseguitate dal altro nu- mero, perché non è unità, né da altra unità perché non è numero, né da altro numero et unità: perché non sono medesimo absoluto et infinito. Là onde ben disse un teologo che essendo che il fonte della luce non solamente gli nostri intelletti, ma ancora gli divini di gran lunga sopraavanza, è cosa conveniente che non con discorsi e paroli, ma con silenzio vegna ad esser celebrata. cesarino Non già col silenzio de gli animali bruti et altri che sono ad imagine e similitudine d’uomini: ma di quelli, il silenzio de quali è più illustre che tutti gli eridi, rumori e strepiti di costoro che possano esser uditi. Letteratura italiana Einaudi 128   Giordano Bruno - De gl’eroici furori IV. maricondo Ma procediamo oltre a vedere quel che significa il resto. cesarino Dite se avete prima considerato e visto quel che voglia dir questo fuoco in forma di core con quat- tro ali, de le quali due hanno gli occhi, dove tutto il composto è cinto de luminosi raggi, et hassi in circa scritta la questione: Nitimur in cassum? maricondo Mi ricordo ben che significa il stato de la mente, core, spirito et occhi del furioso; ma leggiamo l’articolo: Questa mente ch’aspira al splendor santo, tant’alti studi disvelar non ponno; il cor, che recrear que’ pensier vonno, da guai non può ritrarsi più che tanto; il spirto che devria posarsi alquanto, d’un moment’al piacer non si fa donno; gli occhi ch’esser derrian chiusi dal sonno tutta la notte son aperti al pianto. Oimè miei lumi con qual studio et arti tranquillar posso i travagliati sensi? Spirto mio, in qual tempo et in quai parti mitigarò gli tuoi dolori intensi? E tu, mio cor, come potrò appagarti di quel ch’al grave tuo suffrir compensi? Quand’i debiti censi daratti l’alma, o travagliata mente, col cor, col spirto e con gli occhi dolente? Perché la mente aspira al splendor divino, fugge il consorzio de la turba, si ritira dalla commune opinio- ne: non solo dico e tanto s’allontana dalla moltitudine di suggetti, quanto dalla communità de studii, opinio- ni e sentenze; atteso che per contraer vizii et ignoran- ze tanto è maggior periglio, quanto è maggior il popo- lo a cui s’aggionge: «Nelli publici spettacoli» disse il Letteratura italiana Einaudi 129   Giordano Bruno - De gl’eroici furori filosofo morale, «mediante il piacere più facilmente gli vizii s’ingeriscono». Se aspira al splendor alto, riti- resi quanto può all’unità, contrahasi quanto è possibi- le in se stesso, di sorte che non sia simile a molti, per- ché son molti; e non sia nemico de molti, perché son dissimili, se possibil fia serbar l’uno e l’altro bene: al- trimenti s’appiglie a quel che gli par megliore. – Con- versa con quelli gli quali o lui possa far megliori, o da gli quali lui possa essere fatto megliore: per splendor che possa donar a quelli, o da quelli possa ricever lui. Contentesi più d’uno idoneo che de l’inetta moltitu- dine; né stimarà d’aver acquistato poco quando è do- venuto a tale che sia savio per sé, sovvenendogli quel che dice Democrito: «Unus mihi pro populo est, et po- pulus pro uno»; e che disse Epicuro ad un consorte de suoi studii scrivendo: «Haec tibi, non multis; satis enim magnum alter alteri theatrum sumus». – La men- te dumque ch’aspira alto, per la prima lascia la cura della moltitudine, considerando che quella luce spreggia la fatica, e non si trova se non dove è l’intelli- genza; e non dove è ogni intelligenza: ma quella che è, tra le poche, principali e prime, la prima, principale et una. cesarino Come intendi che la mente aspira alto? ver- bigrazia con guardar alle stelle? al cielo empireo? so- pra il cristallino? maricondo Non certo, ma procedendo al profondo della mente per cui non fia mistiero massime aprir gli occhi al cielo, alzar alto le mani, menar i passi al tem- pio, intonar l’orecchie de simulacri, onde più si ve- gna exaudito: ma venir al più intimo di sé, conside- rando che Dio è vicino, con sé e dentro di sé, più ch’egli medesimo esser non si possa; come quello ch’è anima de le anime, vita de le vite, essenza de le essenze: atteso poi che quello che vedi alto o basso, o in circa (come ti piace dire) de gli astri, son corpi, Letteratura italiana Einaudi 130   Giordano Bruno - De gl’eroici furori son fatture simili a questo globo in cui siamo noi, e nelli quali non più né meno è la divinità presente che in questo nostro, o in noi medesimi. Ecco dumque come bisogna fare primeramente de ritrarsi dalla moltitudine in se stesso. Appresso deve dovenir a ta- le che non stime ma spreggie ogni fatica, di sorte che quanto più gli affetti e vizii combattono da dentro, e gli viziosi nemici contrastano di fuori, tanto più deve respirar e risorgere, e con uno spirito (se possibil fia) superar questo clivoso monte. Qua non bisognano altre armi e scudi che la grandezza d’un animo invit- to, e toleranza de spirito che mantiene l’equalità e te- nor della vita, che procede dalla scienza, et è regolato da l’arte di specolar le cose alte e basse, divine et umane, dove consiste quel sommo bene. Per cui dis- se un filosofo morale che scrisse a Lucilio: «non biso- gna tranar le Scille, le Cariddi, penetrar gli deserti de Candavia et Apennini, o lasciarsi a dietro le Sirti: perché il camino è tanto sicuro e giocondo quanto la natura medesima abbia possuto ordinare. Non è» di- ce egli «l’oro et argento che faccia simile a Dio, per- ché non fa tesori simili; non gli vestimenti, perché Dio è nudo; non la ostentazione e fama, perché si mostra a pochissimi, e forse che nessuno lo conosce, e certo molti, e più che molti hanno mala opinion de lui»; non tante e tante altre condizioni de cose che noi ordinariamente admiriamo: perché non queste cose delle quali si desidera la copia ne rendeno tal- mente ricchi, ma il dispreggio di quelle. cesarino Bene: ma dimmi appresso in qual maniera costui “Tranquillarà gli sensi”, “mitigarà gli dolori del spirito”, “appagarà il core” e “darà gli proprii censi a la mente”, di sorte che con questo suo aspirare e stu- dii non debba dire «Nitimur in cassum»? maricondo Talmente trovandosi presente al corpo che con la meglior parte di sé sia da quello absente, Letteratura italiana Einaudi 131   Giordano Bruno - De gl’eroici furori farsi come con indissolubil sacramento congionto et alligato alle cose divine, di sorte che non senta amor né odio di cose mortali, considerando d’esser maggio- re che esser debba servo e schiavo del suo corpo: al quale non deve altrimente riguardare che come carce- re che tien rinchiusa la sua libertade, vischio che tiene impaniate le sue penne, catena che tien strette le sue mani, ceppi che han fissi gli suo piedi, velo che gli tien abbagliata la vista. Ma con ciò no sia servo, catti- vo, invecchiato, incatenato, discioperato, saldo e cie- co: perché il corpo non gli può più tiranneggiare ch’egli medesimo si lasce; atteso che cossì il spirito proporzionalmente gli è preposto, come il mondo corporeo e materia è suggetta alla divinitade et a la natura. Cossì farassi forte contra la fortuna, magnani- mo contra l’ingiurie, intrepido contra la povertà, morbi e persecuzioni. cesarino Bene instituito il furioso eroico. V. cesarino Appresso veggasi quel che seguita. Ec- co la ruota del tempo affissa, che si muove circa il centro proprio: e vi è il motto: Manens moveor; che intendete per quella? maricondo Questo vuol dire che si muove in circolo: dove il moto concorre con la quiete, atteso che nel moto orbiculare sopra il proprio asse e circa il pro- prio mezzo si comprende la quiete e fermezza secon- do il moto retto; over quiete del tutto, e moto secon- do le parti; e da le parti che si muoveno in circolo si apprendeno due differenze di Nazione, in quanto che successivamente altre parti montano alla sommità, al- tre dalla sommità descendeno al basso; altre ottegno- no le differenze medianti, altre tegnono l’estremo dell’alto e del fondo. E questo tutto mi par che como- damente viene a significare quel tanto che s’esplica nel seguente articolo: Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori Quel ch’il mio cor aperto e ascoso tiene, beltà m’imprime et onestà mi cassa; zelo ritiemmi, altra cura mi passa per là d’ond’ogni studio a l’alma viene: quando penso suttrarmi da le pene, speme sustienmi, altrui rigor mi lassa; amor m’inalz’e riverenz’abbassa allor ch’aspiro a l’alt’e sommo bene. Alto pensier, pia voglia, studio intenso de l’ingegno, del cor, de le fatiche, a l’ogetto inmortal, divin, inmenso fate ch’aggionga, m’appiglie e nodriche; né più la mente, la raggion, il senso in altro attenda, discorra, s’intriche. Onde di me si diche: costui or ch’hav’affissi gli occhi al sole, che fu rival d’Endimion si duole. Cossì come il continuo moto d’una parte suppone e mena seco il moto del tutto, di maniera che dal ribut- tar le parti anteriori sia conseguente il tirar de le parti posteriori: cossì il motivo de le parti superiori resulta necessariamente nell’inferiori, e dal poggiar d’una po- tenza opposita seguita l’abbassar de l’altra opposita. Quindi viene il cor (che significa tutti l’affetti in gene- rale) ad essere ascoso et aperto; ritenuto dal zelo, sol- levato da magnifico pensiero; rinforzato da la speran- za, indebolito dal timore. Et in questo stato e condizione si vederà sempre che trovarassi sotto il fa- to della generazione. VI. cesarino Tutto va bene; vengamo a quel che sé- guita. Veggio una nave inchinata su il onde; et ha le sarte attaccate a lido et ha il motto: Fluctuat in portu. Argumentate quel che può significare: e se ne siete ri- soluto, esplicate. Letteratura italiana Einaudi 133   Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo E la figura et il motto ha certa parentela col precedente motto e figura, come si può facilmente comprendere se alquanto si considera. Ma leggiamo l’articolo: Se da gli eroi, da gli dèi, da le genti assicurato son che non desperi; né téma, né dolor, né impedimenti de la morte, del corpo, de piaceri fia ch’oltre apprendi, che soffrisca e senti; e perché chiari vegga i miei sentieri, faccian dubio, dolor, tristezza spenti speranza, gioia e gli diletti intieri. Ma se mirasse, facesse, ascoltasse miei pensier, miei desii e mie raggioni, chi le rende sì ’ncerti, ardenti e casse, sì graditi concetti, atti, sermoni, non sa, non fa, non ha qualumque stassi de l’orto, vita e morte a le maggioni. Ciel, terr’, orco s’opponi; s’ella mi splend’, e accend’, et emmi a lato, farammi illustre, potente e beato. Da quel che ne gli precedenti discorsi abbiamo consi- derato e detto si può comprendere il sentimento di ciò, massime dove si è dimostrato che il senso di cose basse è attenuato et annullato dove le potenze supe- riori sono gagliardamente intente ad oggetto più ma- gnifico et eroico. E tanta la virtù della contemplazio- ne (come nota lamblice) che accade tal volta non solo che l’anima ripose da gli atti inferiori, ma et oltre la- scie il corpo a fatto. Il che non voglio intendere altri- menti che in tante maniere quali sono esplicate nel li- bro De’ trenta sigilli, dove son prodotti tanti modi di contrazzione. De quali alcune vituperosa, altre eroica- mente fanno che non s’apprenda téma di morte, non Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori si soffrisca dolor di corpo, non si sentano impedimen- ti di piaceri: onde la speranza, la gioia, e gli diletti del spirto superiore siano di tal sorte intenti, che faccian spente le passioni tutte che possano aver origine da dubbio, dolore e tristezza alcuna. cesarino Ma che cosa è quella da cui richiede che mi- re a que’ pensieri ch’ha resi cossì incerti, compisca gli suoi desii che fa sì ardenti, et ascolte le sue raggioni che rende sì casse? maricondo Intende l’oggetto il quale allora il mira, quando esso se gli fa presente; atteso che veder la di- vinità è l’esser visto da quella, come vedere il sole concorre con l’esser visto dal sole; parimente essere ascoltato dalla divinità è a punto ascoltar quella, et es- ser favorito da quella è il medesimo esporsegli; dalla quale una medesima et immobile procedono pensieri incerti e certi, desii ardenti et appagati, e raggioni exaudite e casse: secondo che degna, o indegnamente l’uomo se gli presenta con l’intelletto, affetto et azzio- ni. Come il medesimo nocchiero vien detto caggione della summersione o salute della nave, per quanto che o è a quella presente, overo da quella trovasi absente; eccetto che il nocchiero per suo diffetto o compimen- to ruina e salva la nave: ma la divina potenza che è tutta in tutto, non si porge o suttrae se non per altrui conversione o aversione. VII. maricondo Con questa dumque mi par ch’abbia gran concatenazione e conseguenza la figura seguen- te, dove son due stelle in forma de doi occhi radianti con il suo motto che dice: Mors et vita. cesarino Leggete dumque l’articolo. maricondo Cossì farò: Per man d’amor scritto veder potreste nel volto mio l’istoria de mie pene; Letteratura italiana Einaudi 135   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ma tu perché il tuo orgoglio non si affrene et io infelice eternamente reste, a le palpebre belle a me moleste asconder fai le luci tant’amene, ond’il turbato ciel non s’asserene, né caggian le nemiche ombre funeste. Per la bellezza tua, per l’amor mio, ch’a quella (benché tanta) è forse uguale, rèndite a la pietà (diva) per dio. Non prolongar il troppo intenso male, ch’è del mio tanto amar indegno fio: non sia tanto rigor con splender tale. Se ch’io viva ti cale, del grazioso sguardo apri le porte: mirami, o bella, se vuoi darmi morte. Qua il “volto in cui riluce l’istoria de sue pene”, è l’anima, in quanto che è esposta alla recepzion de do- ni superiori, al riguardo de quali è in potenza et atti- tudine, senza compimento di perfezzione et atto: il qual aspetta la ruggiada divina. Onde ben fu detto: «Anima mea sicut terra sine aqua tibi». Et altrove: «Os meum aperui et attraxi spiritum, quia mandata tua de- siderabam». Appresso, l’“orgoglio che non s’affrena” è detto per metafora e similitudine (come de Dio tal volta si dice gelosia, ira, sonno): e quello significa la difficultà con la quale egli fa copia di far veder al me- no le sue spalli, che è il farsi conoscere mediante le cose posteriori, et effetti. Cossì copre le luci con le palpebre, non asserena il turbato cielo de la mente umana, per toglier via l’ombra de gli enigmi e simili- tudini. – Oltre (perché non crede che tutto quel che non è non possa essere) priega la divina luce che “per la sua bellezza” la quale non deve essere a tutti occol- ta, almeno secondo la capacità de chi la mira, e “per il suo amore che forse a tanta bellezza è uguale” (uguale Letteratura italiana Einaudi 136   Giordano Bruno - De gl’eroici furori intende de la beltade in quanto che la se gli può far comprensibile), che “si renda alla pietà”, cioè che fac- cia come quelli che son piatosi, quali da ritrosi e schi- vi si fanno graziosi et affabili: e che “non prolonghe il male” che avviene da quella privazione; e non per- metta che il suo “splendor” per cui è desiderata, ap- paia maggiore che il suo amore con cui si communi- che: stante che tutte le perfezzioni in lei non solamente sono uguali, ma ancor medesime. – Al fine la ripriega che non oltre l’attriste con la privazione; perché potrà ucciderlo con la luce de suoi sguardi, e con que’medesimi donargli vita: e però non lo lasce a la morte con ciò che le amene luci siano ascose da le palpebre. cesarino Vuol dire quella morte de amanti che proce- de da somma gioia, chiamata da Cabalisti mors oscu- ri? la qual medesima è vita eterna, che l’uomo può aver in disposizione in questo tempo, et in effetto nell’eternità? maricondo Cossì è. VIII. cesarino Ma è tempo di procedere a conside- rar il seguente dissegno simile a questi prossimi avan- ti rapportati, con li quali ha certa conseguenza. Vi è un’aquila che con due ali s’appiglia al cielo; ma non so come e quanto vien ritardata dal pondo d’una pie- tra che tien legata a un piede. Et èvvi il motto: Scindi- tur incertum. E certo significa la moltitudine, numero e volgo delle potenze de l’anima; alla significazion della quale è preso quel verso: Scinditur incertum studia in contraria vulgus. Il qual volgo tutto generalmente è diviso in due faz- zioni (quantumque subordinate a queste non manca- no de l’altre), de le quali altre invitano a l’alto dell’in- Letteratura italiana Einaudi 137   Giordano Bruno - De gl’eroici furori telligenza e splendore di giustizia; altre allettano, inci- tano e forzano in certa maniera al basso, alle sporcizie delle voluttadi, e compiacimenti de voglie naturali. Onde dice l’articolo: Bene far voglio, e non mi vien permesso; meco il mio sol non è, bench’io sia seco, che per esser con lui, non son più meco, ma da me lungi, quanto a lui più presso. Per goder una volta, piango spesso; cercando gioia, afflizzion mi reco; perché veggio tropp’alto, son sì cieco; per acquistar mio ben, perdo me stesso. Per amaro diletto, e dolce pena, impiombo al centro, e vers’il ciel m’appiglio; necessità mi tien, bontà mi mena; sorte m’affonda, m’inalza il consiglio; desio mi sprona, et il timor m’affrena; cura m’accende, e fa tard’il periglio. Qual dritto o divertiglio mi darà pace, e mi terrà de lite, s’avvien ch’un sì mi scacce, e l’altro invite? L’ascenso procede nell’anima dalla facultà et appulso ch’è nell’ali, che son l’intelletto et intellettiva volonta- de, per le quali essa naturalmente si riferisce et ha la sua mira a Dio come a sommo bene e primo vero, co- me all’absoluta bontà e bellezza. Cossì come ogni co- sa naturalmente ha impeto verso il suo principio re- gressivamente, e progressivamente verso il suo fine e perfezzione, come ben disse Empedocle; da la cui sentenza mi par che si possa inferire quel che disse il Nolano in questa ottava: Convien ch’il sol d’onde parte raggiri, e al suo principio i discorrenti lumi; Letteratura italiana Einaudi 138   Giordano Bruno - De gl’eroici furori e ’l ch’è di terra, a terra si retiri, e al mar corran dal mar partiti fiumi, et ond’han spirto e nascon i desiri aspiren come a venerandi numi: cossì dalla mia diva ogni pensiero nato, che torne a mia diva è mistiero. La potenza intellettiva mai si quieta, mai s’appaga in verità compresa, se non sempre oltre et oltre procede alla verità incomprensibile: cossì la volontà che ségui- ta l’apprensione, veggiamo che mai s’appaga per cosa finita. Onde per conseguenza non si riferisce l’essenza de l’anima ad altro termine che al fonte della sua su- stanza et entità. Per le potenze poi naturali, per le quali è convertita al favore e governo della materia, viene a referirse et aver appulso, a giovare et a comu- nicar de la sua perfezzione a cose inferiori, per la si- militudine che ha con la divinità, che per la sua bon- tade si comunica o infinitamente producendo, idest communicando l’essere a l’universo infinito, e mondi innumerabili in quello; o finitamente, producendo so- lo questo universo suggetto alli nostri occhi e comun raggione. Essendo dumque che nella essenza unica de l’anima se ritrovano questi doi geni de potenze, se- condo che è ordinata et al proprio e l’altrui bene, ac- cade che si depinga con un paio d’ali, mediante le quali è potente verso l’oggetto delle prime et immate- riali potenze; e con un greve sasso, per cui è atta et ef- ficace verso gli oggetti delle seconde e materiali po- tenze. Là onde procede che l’affetto intiero del furioso sia ancipite, diviso, travaglioso, e messo in fa- cilità de inchinare più al basso, che di forzarsi ad alto: atteso che l’anima si trova nel paese basso e nemico, et ottiene la regione lontana dal suo albergo più natu- rale, dove le sue forze son più sceme. cesarino Credi che a questa difficultà si possa riparare? Letteratura italiana Einaudi 139   Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Molto bene; ma il principio è durissimo, e secondo che si fa più e più fruttifero progresso di contemplazione, si doviene a maggiore e maggior fa- cilità. Come avviene a chi vola in alto, che quanto più s’estoglie da la terra, vien ad aver più aria sotto che lo sustenta, e conseguentemente meno vien fastidito dal- la gravità; anzi tanto può volar alto, che senza fatica de divider l’aria non può tornar al basso, quantunque giudicasi che più facil sia divider l’aria profondo ver- so la terra, che alto verso l’altre stelle. cesarino Tanto che col progresso in questo geno, s’acquista sempre maggiore e maggiore facilità di montare in alto? maricondo Cossì è; onde ben disse il Tansillo: Quanto più sott’il pie l’aria mi scorgo, più le veloci penne al vento porgo: e spreggio il mondo, e verso il ciel m’invio. Come ogni parte de corpi e detti elementi quanto più s’avvicina al suo luogo naturale, tanto con maggior impeto e forza va, sin tanto che al fine (o voglia o non) bisogna che vi pervegna. Qualmente dumque veggiam nelle parti de corpi a gli proprii corpi, cossì doviam giudicare de le cose intellettive verso gli pro- prii oggetti, come proprii luoghi, patrie e fini. Da qua facilmente possete comprendere il senso intiero signi- ficato per la figura, per il motto e per gli carmi. cesarino Di sorte che quanto vi s’aggiongesse, tanto mi parrebe soverchio. IX. cesarino Vedasi ora quel che vien presentato per quelle due saette radianti sopra una targa, circa la quale è scritto Vicit instans. maricondo La guerra continua tra l’anima del furioso la qual gran tempo per la maggior familiarità che avea Letteratura italiana Einaudi 140   Giordano Bruno - De gl’eroici furori con la materia, era più dura et inetta ad esser penetra- ta da gli raggi del splendor della divina intelligenza e spezie della divina bontade; per il qual spacio dice ch’il cor smaltato de diamante, cioè l’affetto duro et inetto ad esser riscaldato e penetrato, ha fatto riparo a gli colpi d’amore che aportavano gli assalti da parti innumerabili. Vuol dire non ha sentito impiagarsi da quelle piaghe de vita eterna de le quali parla la Canti- ca quando dice: «Vulnerasti cor meum, o dilecta, vul- nerasti cor meum». Le quali piaghe non son di ferro, o d’altra materia, per vigor e forza de nervi; ma son freccie de Diana o di Febo: cioè o della dea de gli de- serti della contemplazione de la Veritade, cioè della Diana che è l’ordine di seconde intelligenze che ri- portano il splender ricevuto dalla prima, per comuni- carlo a gli altri che son privi de più aperta visione; o pur del nume più principale Apollo, che con il pro- prio e non improntato splendore manda le sue saette, cioè gli suoi raggi, da parti innumerabili tali e tante che son tutte le specie delle cose, le quali son indica- trici della divina bontà, intelligenza, beltade e sapien- za, secondo diversi ordini dall’apprension dovenir fu- riosi amanti, percioché l’adamantino suggetto non ripercuota dalla sua superficie il lume impresso: ma rammollato e domato dal calore e lume, vegna a farsi tutto in sustanza luminoso, tutto luce, con ciò che ve- gna penetrato entro l’affetto e concetto. Questo non è subito nel principio della generazione quando l’anima di fresco esce ad esser inebriata di Lete et imbibita de l’onde de l’oblio e confusione: onde il spirito vien più cattivato al corpo e messo in essercizio della vegeta- zione, et a poco a poco si va digerendo per esser atto a gli atti della sensitiva facultade, sin tanto che per la razionale e discorsiva vegna a più pura intellettiva, onde può introdursi a la mente e non più sentirsi an- nubilata per le fumositadi di quell’umore che per Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori l’exercizio di contemplazione non s’è putrefatto nel stomaco, ma è maturamente digesto. – Nella qual di- sposizione il presente furioso mostra aver durato “sei lustri”, nel discorso de quali non era venuto a quella purità di concetto che potesse farsi capace abitazione delle specie peregrine, che offrendosi a tutte ugual- mente batteno sempre alla porta de l’intelligenza. Al fine l’amore che da diverse parti et in diverse volte l’avea assaltato come in vano (qualmente il sole in va- no se dice lucere e scaldare a quelli che son nelle vi- scere de la terra et opaco profondo), per essersi “ac- campato in quelle luci sante”, cioè per aver mostrato per due specie intelligibili la divina bellezza, la quale con la raggione di verità gli legò l’intelletto e con la raggione di bontà scaldògli l’affetto, vennero superari gli “studi” materiali e sensitivi che altre volte soleano come trionfare, rimanendo (a mal grado de l’eccellen- za de l’anima) intatti; perché quelle luci che facea pre- sente l’intelletto agente illuminatore e sole d’intelli- genza, ebbero “facile entrata” per le sue luci (quella della verità per la porta de la potenza intellettiva, quella della bontà per la porta della potenza appetiti- va) “al core”, cioè alla sustanza del generale affetto. Questo fu “quel doppio strale che venne” come “da man de guerriero irato”, cioè più pronto, più efficace, più ardito, che per tanto tempo innanzi s’era dimo- strato come più debole o negligente. Allora quando primieramente fu sì scaldato et illuminato nel concet- to, fu quello vittorioso punto e momento, per cui è detto: “Vicit instans”. Indi possete intendere il senso della proposta figura, motto, et articolo che dice: Forte a i colpi d’amor feci riparo quand’assalti da parti varie e tante soffers’il cor smaltato di diamante; ond’i miei studi de suoi trionfare. Letteratura italiana Einaudi 142   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Al fin (come gli cieli destinaro) un dì accampossi in quelle luci sante, che per le mie sole tra tutte quante facil entrata al cor mio ritrovare. Indi mi s’avventò quel doppio strale, che da man di guerrier irato venne, qual sei lustri assalir mi seppe male: notò quel luogo, e forte vi si tenne, piantò ’l trofeo di me là d’onde vale tener ristrette mie fugaci penne. Indi con più sollenne apparecchio, mai cessano ferire mio cor, del mio dolce nemico l’ire. Singular instante fu il termine del cominciamento e perfezzione della vittoria. Singulari gemine specie fu- ron quelle, che sole tra tutte quante trovaro facile en- trata; atteso che quelle contegnono in sé l’efficacia e virtù de tutte l’altre: atteso che qual forma megliore e più eccellente può presentarsi che di quella bellezza, bontà e verità, la quale è il fonte d’ogn’altra verità, bontà, beltade? “Notò quel luogo”, prese possessione de l’affetto, rimarcollo, impressevi il carattere di sé; “e forte vi si tenne”, e se l’ha confirmato, stabilito, sancito di sorte che non possa più perderlo: percio- ché è impossibile che uno possa voltarsi ad amar altra cosa quando una volta ha compreso nel concetto la bellezza divina. Et è impossibile che possa far di non amarla, come è impossibile che nell’appetito cada al- tro che bene o specie di bene. E però massimamente deve convenire l’appetenzia del sommo bene. Cossì “ristrette” son le “penne” che soleano esser “fugaci” concorrendo giù col pondo della materia. Cossì da là “mai cessano ferire”, sollecitando l’affetto e risve- gliando il pensiero, le “dolci ire”, che son gli efficaci assalti del grazioso nemico, già tanto tempo ritenuto Letteratura italiana Einaudi 143   X. escluso, straniero e peregrino. È ora unico et intiero possessore e disponitor de l’anima; perché ella non vuole, né vuol volere altro; né gli piace, né vuol che gli piaccia altro, onde sovente dica: Dolci ire, guerra dolce, dolci dardi, dolci mie piaghe, miei dolci dolori. cesarino Non mi par che rimagna cosa da consi- derar oltre in proposito di questo. Veggiamo ora que- sta faretra et arco d’amore, come mostrano le faville che sono in circa, et il nodo del laccio che pende: con il motto che è, Subito, clam. Giordano Bruno - De gl’eroici furori maricondo Assai mi ricordo d’averlo veduto espresso ne l’articolo; però leggiamolo prima: Avida di trovar bramato pasto, l’aquila vers’il ciel ispiega l’ali, facend’accorti tutti gli animali, ch’al terzo volo s’apparecchia al guasto. E del fiero leon ruggito vasto fa da l’alta spelunca orror mortali, onde le belve presentando i mali fuggon a gli antri il famelico impasto. E ’l ceto quando assalir vuol l’armento muto di Proteo da gli antri di Teti, pria fa sentir quel spruzzo violento. Aquile ’n ciel, leoni in terr’e i ceti signor’ in mar, non vanno a tradimento: ma gli assalti d’amor vegnon secreti. Lasso, que’ giorni lieti troncommi l’efficacia d’un instante, che femmi a lungo infortunato amante. Tre sono le regioni de gli animanti composti de più elementi: la terra, l’acqua, l’aria. Tre son gli geni de Letteratura italiana Einaudi 144   Giordano Bruno - De gl’eroici furori quelli: fiere, pesci et ucelli. In tre specie sono gli prìn- cipi conceduti e definiti dalla natura: ne l’aria l’aquila, ne la terra il leone, ne l’acqua il ceto: de quali ciascu- no come dimostra più forza et imperio che gli altri, viene anco a far aperto atto di magnanimità, o simile alla magnanimità. Percioché è osservato che il leone, prima che esca a la caccia, manda un ruggito forte che fa rintonar tutta la selva, come de l’erinnico cacciato- re nota il poetico detto: At saeva e speculis tempus dea nacta nocendi, ardua testa petit, stabuli et de culmine summo pastorale canit signum, cornuque recurvo tartaream intendit vocem, qua protinus omne contremuit nemus, et silvae intonuere profundae. De l’aquila ancora si sa che volendo procedere alla sua venazione, prima s’alza per dritto dal nido per li- nea perpendicolare in alto, e quasi per l’ordinario la terza volta si balza da alto con maggior impeto e pre- stezza che se volasse per linea piana; onde dal tempo in cui cerca il vantaggio della velocità del volo, pren- de anco comodità di specular da lungi la preda, della quale o despera o si risolve dopo fatte tre remirate. cesarino Potremmo conietturare per qual caggione, se alla prima si presentasse a gli occhi la preda, non viene subito a lanciarsegli sopra? maricondo Non certo. Ma forse che ella sin tanto di- stingue se si gli possa presentar megliore o più como- da preda. Oltre non credo che ciò sia sempre, ma per il più ordinario. Or venemo a noi. Del ceto o balena è cosa aperta che per essere un machinoso animale non può divider l’acqui se non con far che la sua presenza sia presentita dal ributto de l’onde: senza questo, che si trovano assai specie di questo pesce che con il moto e respirar che fanno, egurgitano una ventosa tempesta Letteratura italiana Einaudi 145   Giordano Bruno - De gl’eroici furori di spruzzo acquoso. Da tutte dumque le tre specie de principi animali hanno facultà di prender tempo di scampo gli animali inferiori: di sorte che non proce- dono come subdoli e traditori. Ma l’Amor che è più forte e più grande, e che ha domìno supremo in cielo, in terra et in mare, e che per similitudine di questi forse derrebe mostrar tanto più eccellente magnani- mità quanto ha più forza, niente di manco assalta e fe- re a l’improvisto e subito. Labitur totas furor in medullas, igne furtivo populante venas, nec habet latam data plaga frontem; sed vorat tectas penitus medullas, virginum ignoto ferit igne pectus. Come vedete, questo tragico poeta lo chiama “furtivo fuoco”, “ignote fiamme”; Salomone lo chiama “acqui furtive”, Samuele lo nomò “sibilo d’aura sottile”. Li quali tre significano con qual dolcezza, lenità et astu- zia, in mare, in terra, in cielo, viene costui a (come) ti- ranneggiar l’universo. cesarino Non è più grande imperio, non è tirannide peggiore, non è meglior domino, non è potestà più necessaria, non è cosa più dolce e suave, non si trova cibo che sia più austero et amaro, non si vede nume più violento, non è dio più piacevole, non agente più traditore e finto, non autor più regale e fidele, e (per finirla) mi par che l’amor sia tutto, e faccia tutto; e de lui si possa dir tutto, e tutto possa attribuirsi a lui. maricondo Voi dite molto bene. L’amor dumque (come quello che opra massime per la vista, la quale è spiritua- lissimo de tutti gli sensi, per che subito monta sin alli appresi margini del mondo, e senza dilazion di tempo si porge a tutto l’orizonte della visibilità) viene ad esser presto, furtivo, improvisto e subito. Oltre è da conside- Letteratura italiana Einaudi 146   Giordano Bruno - De gl’eroici furori rare quel che dicono gli antichi, che l’amor precede tut- ti gli altri dèi; però non fia mestiero de fingere che Sa- turno gli mostre il camino, se non con seguitarlo. Ap- presso, che bisogna cercar se l’amore appaia e facciasi prevedere di fuori, se il suo alloggiamento è l’anima me- desima, il suo letto è l’istesso core, e consiste nella me- desima composizione de nostra sustanza, nel medesimo appulso de nostre potenze? Finalmente ogni cosa natu- ralmente appete il bello e buono, e però non vi bisogna argumentare e discorrere perché l’affetto si informe e conferme; ma subito et in uno instante l’appetito s’ag- gionge a l’appetibile, come la vista al visibile. XI. cesarino Veggiamo appresso che voglia dir quella ardente saetta circa la quale è avolto il motto: Cui nova plaga loco?. Dechiarate che luogo cerca que- sta per ferire. maricondo Non bisogna far altro che leggere l’artico- lo, che dice cossì: Che la bogliente Puglia o Libia mieta tante spiche, et areste tante a i venti commetta, e mande tanti rai lucenti da sua circonferenza il gran pianeta, quanti a gravi doler quest’alma lieta (che sì triste si gode in dolci stenti) accoglie da due stelle strali ardenti, ogni senso e raggion creder mi vieta. Che tenti più, dolce nemico, Amore? qual studio a me ferir oltre ti muove, or ch’una piaga è fatto tutto il core? Poiché né tu, né altro ha un punto, dove per stampar cosa nuova, o punga, o fóre, volta volta sicur or l’arco altrove. Non perder qua tue prove, per che, o bel dio, se non in vano, a torto oltre tenti amazzar colui ch’è morto. Letteratura italiana Einaudi 147   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Tutto questo senso è metaforico come gli altri, e può es- ser inteso per il sentimento di quelli. Qua la moltitudine de strali che hanno ferito e feriscono il core significa gl’innumerabili individui e specie de cose, nelle quali ri- luce il splendor della divina beltade, secondo gli gradi di quelle, et onde ne scalda l’affetto del proposto et ap- preso bene. De quali l’un e l’altro per le raggioni de po- tenzia et atto, de possibilità et effetto, e cruciano e con- solano, e donano senso di dolce e fanno sentir l’amaro. Ma dove l’affetto intiero è tutto convertito a Dio, cioè all’idea de le idee, dal lume de cose intelligibili la mente viene exaltata alla unità super essenziale, è tutta amore, tutta una, non viene ad sentirsi sollecitata da diversi og- getti che la distrahano: ma è una sola piaga, nella quale concorre tutto l’affetto, e che viene ad essere la sua me- desima affezzione. Allora non è amore o appetito di co- sa particolare che possa sollecitare, né almeno farsi in- nanzi a la voluntade, perché non è cosa più retta ch’il dritto, non è cosa più bella che la bellezza, non è più buono che la bontà, non si trova più grande che la gran- dezza, né cosa più lucida che quella luce, la quale con la sua presenza oscura e cassa gli lumi tutti. cesarino Al perfetto, se è perfetto, non è cosa che si possa aggiongere: però la volontà non è capace d’al- tro appetito, quando fiagli presente quello ch’è del perfetto, sommo, e massimo. Intendere dumque pos- so la conclusione, dove dice a l’amore: “Non perder qua tue prove; perché, se non in vano, a torto” (si di- ce per certa similitudine e metafora) “tenti ammazzar colui ch’è morto”. Cioè quello che non ha più vita né senso circa altri oggetti, onde da quelli possa esser “punto” o “forato”; a che oltre viene ad essere espo- sto ad altre specie? e questo lamento accade a colui che, avendo gusto de l’optima unità, vorrebe essere al tutto exempto et abstratto dalla moltitudine. maricondo Intendete molto bene. Letteratura italiana Einaudi 148   Giordano Bruno - De gl’eroici furori XII. cesarino Or ecco appresso un fanciullo dentro un battello che sta ad ora ad ora per essere assorbito, da l’onde tempestose, che languido e lasso ha aban- donati gli remi. Et èvvi circa lo motto Fronti nulla fi- des. Non è dubio che questo significhe che lui dal se- reno aspetto de l’acqui fu invitato a solcar il mare infido; il quale a l’improviso avendo inturbidato il volto, per estremo e mortal spavento, e per impotenza di romper l’impeto, gli ha fatto dismetter il capo, braccia, e la speranza. Ma veggiamo il resto: Gentil garzon che dal lido scioglieste la pargoletta barca, e al remo frale, vago del mar l’indotta man porgeste, or sei repente accorto del tuo male. Vedi del traditor l’onde funeste la prora tua, ch’o troppo scend’o sale; né l’alma vinta da cure moleste, contra gli obliqui e gonfii flutti vale. Cedi gli remi al tuo fero nemico, e con minor pensier la morte aspetti, che per non la veder gli occhi ti chiudi. Se non è presto alcun soccorso amico, sentirai certo or or gli ultimi effetti de tuoi si rozzi e curiosi studi. Son gli miei fati crudi simili a’ tuoi, perché vago d’Amore sento il rigor del più gran traditore. In qual maniera e perché l’amore sia traditore e frodu- lento l’abbiamo poco avanti veduto: ma perché veggio il seguente senza imagine e motto, credo che abbia con- seguenza con il presente; però continuano leggendolo: Lasciato il porto per prova e per poco, feriando da studi più maturi, Letteratura italiana Einaudi 149   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ero messo a mirar quasi per gioco: quando viddi repente i fati duri. Quei sì m’han fatto violento il foco, ch’in van ritento a i lidi più sicuri, in van per scampo man piatosa invoco, perché al nemico mio ratto mi furi. Impotent’a suttrarmi, roco e lasso io cedo al mio destino, e non più tento di far vani ripari a la mia morte: facciami pur d’ogni altra vita casso, e non più tarde l’ultimo tormento, che m’ha prescritto la mia fera sorte. Tipo di mio mal forte è quel che si commese per trastullo al sen nemico, improvido fanciullo. Qua non mi confido de intendere o determinar tutto quel che significa il furioso: pure è molto espressa una strana condizione d’un animo dismesso dall’appren- sion della difficultà de l’opra, grandezza della fatica, vastità del lavoro da un canto; e da un altro, l’igno- ranza, privazion de l’arte, debolezza de nervi, e peri- glio di morte. Non ha consiglio atto al negocio; non si sa d’onde e dove debba voltarsi, non si mostra luogo di fuga o di rifugio; essendo che da ogni parte minac- ciano l’onde de l’impeto spaventoso e mortale. «Igno- ranti portum, nullus suus ventus est». Vede colui che molto e pur troppo s’è commesso a cose fortuite, s’aver edificato la perturbazione, il carcere, la ruina, la summersione. Vede come la fortuna si gioca di noi; la qual ciò che ne mette con gentilezza in mano, o lo fa rompere facendolo versar da le mani istesse, o fa che da l’altrui violenza ne sia tolto, o fa che ne suffo- che et avvelene, o ne sollecita con la suspizione, timo- re e gelosia, a gran danno e ruina del possessore. “Fortunae an ulla putatis dona carere dolis?” Or, per- Letteratura italiana Einaudi 150   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ché la fortezza che non può far esperienza di sé, è cas- sa; la magnanimità che non può prevalere, è nulla, et è vano il studio senza frutto; vede gli effetti del timore del male, il quale è peggio ch’il male istesso: “Peior est morte timor ipse mortis”. Già col timore patisce tutto quel che teme de patire, orror ne le membra, imbecil- lità ne gli nervi, tremor del corpo, anxia del spirito; e si fa presente quel che non gli è sopragionto ancora, et è certo peggiore che sopragiongere gli possa: che cosa più stolta che dolere per cosa futura, absente, e la qual presente non si sente? Queste son considera- zioni su la superficie e l’istoriale de la figura. Ma il proposito del furioso eroico penso che verse circa l’imbecillità de l’ingegno umano il quale attento a la divina impresa in un subito talvolta si trova ingolfato nell’abisso della eccellenza incomprensibile, onde il senso et imaginazione vien confusa et assorbita, che non sapendo passar avanti, né tornar a dietro, né do- ve voltarsi, svanisce e perde l’esser suo non altrimenti che una stilla d’acqua che svanisce nel mare, o un pic- ciol spirito che s’attenua perdendo la propria sustan- za nell’aere spacioso et inmenso. maricondo Bene: ma andiamone discorrendo verso la stanza, perché è notte. fine del primo dialogo Letteratura italiana Einaudi mariconda Qua vedete un giogo fiammeggiante et avolto de lacci, circa il quale è scritto Levius aura; che vuol significar come l’amor divino non aggreva, non trasporta il suo servo, cattivo e schiavo al basso, al fondo: ma l’inalza, lo sulleva, il magnifica sopra qual- sivoglia libertade. cesarino Priegovi leggiamo presto l’articolo, perché con più ordine, proprietà e brevità possiamo conside- rar il senso, se pur in quello non si trova altro. mariconda Dice cossì: Chi femmi ad alt’amor la mente desta, chi fammi ogn’altra diva e vile e vana, in cui beltad’ e la bontà sovrana unicamente più si manifesta; quell’è ch’io viddi uscir da la foresta, cacciatrice di me la mia Diana, tra belle ninfe su l’aura Campana, per cui dissi ad Amor: «Mi rendo a questa»; et egli a me: «O fortunato amante, o dal tuo fato gradito consorte: che colei sola che tra tante e tante, quai ha nel grembo la vit’e la morte, più adorna il mondo con le grazie sante, ottenesti per studio e per sorte, ne l’amorosa corte sì altamente felice cattivo, che non invidii a sciolt’ altr’uomo o divo». Vedi quanto sia contento sotto tal giogo, tal coniugio, tal soma che l’ha cattivato a quella che vedde uscir da la foresta, dal deserto, da la selva; cioè da parti rimos- se dalla moltitudine, dalla conversazione, dal volgo, le Letteratura italiana Einaudi 152   Giordano Bruno - De gl’eroici furori quali son lustrate da pochi. Diana splendor di specie intelligibili, è cacciatrice di sé, perché con la sua bel- lezza e grazia l’ha ferito prima, e se l’ha legato poi; e tienio sotto il suo imperio più contento che mai altri- menti avesse potuto essere. Questa dice “tra belle nimfe”, cioè tra la moltitudine d’altre specie, forme et idee; e “su l’aura Campana”, cioè quello ingegno e spirito che si mostrò a Nola, che giace al piano del orizonte campano. A quella si rese, quella più ch’altra gli venne lodata da l’amore, che per lei vuol che si te- gna tanto fortunato, come quella che, tra tutte quante si fanno presenti et absenti da gli occhi de mortali, più altamente adorna il mondo, fa l’uomo glorioso e bello. Quindi dice aver sì “desta la mente” ad eccel- lente amore, che apprende “ogni altra diva”, cioè cu- ra et osservanza d’ogni altra specie, “vile e vana”. – Or in questo che dice aver desta la mente ad amor al- to, ne porge essempio de magnificar tanto alto il core per gli pensieri, studii et opre, quanto più possibil fia, e non intrattenerci a cose basse e messe sotto la nostra facultade: come accade a coloro che o per avarizia, o per negligenza, o pur altra dapocagine rimagnono in questo breve spacio de vita attaccati a cose indegne. cesarino Bisogna che siano arteggiani, meccanici, agricoltori, servitori, pedoni, ignobili, vili, poveri, pe- danti et altri simili: perché altrimenti non potrebono essere filosofi, contemplativi, coltori degli animi, pa- droni, capitani, nobili, illustri, ricchi, sapienti, et altri che siano eroici simili a gli dèi. Però a che doviamo forzarci di corrompere il stato della natura il quale ha distinto l’universo in cose maggiori e minori, superio- ri et inferiori, illustri et oscure, degne et indegne, non solo fuor di noi, ma et ancora dentro di noi, nella no- stra sustanza medesima, sin a quella parte di sustanza che s’afferma inmateriale? Come delle intelligenze al- tre son suggette, altre preminenti, altre serveno et Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori ubediscono, altre comandano e governano. Però io crederei che questo non deve esser messo per essem- pio a fin che li sudditi volendo essere superiori, e gl’ignobili uguali a gli nobili, non vegna a pervertirsi e confondersi l’ordine delle cose, che al fine succeda certa neutralità e bestiale equalità, quale si ritrova in certe deserte et inculte republiche. Non vedete oltre in quanta iattura siano venute le scienze per questa caggione che gli pedanti hanno voluto essere filosofi, trattar cose naturali, intromettersi a determinar di co- se divine? Chi non vede quanto male è accaduto et accade per averno simili fatte “ad alti amori le menti deste”? Chi ha buon senso, e non vede del profitto che fe’ Aristotele, che era maestro de lettere umane ad Alessandro, quando applicò alto il suo spirito a contrastare e muover guerra a la dottrina pitagorica e quella de filosofi naturali, volendo con il suo racioci- nio logicale ponere diffinizioni, nozioni, certe quinte entitadi et altri parti et aborsi de fantastica cogitazio- ne per principio e sustanza di cose, studioso più della fede del volgo e sciocca moltitudine, che viene più in- caminata e guidata con sofismi et apparenze che si trovano nella superficie delle cose, che della verità che è occolta nella sustanza di quelle, et è la sustanza medesima loro? Fece egli la mente desta non a farsi contemplatore, ma giudice e sentenziatore di cose che non avea studiate mai, né bene intese. Cossì a’ tempi nostri quel tanto di buono ch’egli apporta e singolare di raggione inventiva, iudicativa e di metafisica, per ministerio d’altri pedanti che lavorano col medesimo “sursum corda”, vegnono instituite nove dialettiche e modi di formar la raggione: tanto più vili di quello d’Aristotele quanto forse la filosofia d’Aristotele è in- comparabilmente più vile di quella de gli antichi. Il che è pure avvenuto da quel che certi grammatisti do- po che sono invecchiati nelle culine de fanciulli e no- Letteratura italiana Einaudi 154   Giordano Bruno - De gl’eroici furori tomie de frasi e de vocaboli, ban voluto destar la mente a far nuove logiche e metafisiche, giudicando e sentenziando quelle che mai studiorno et ora non in- tendono: là onde cossì questi col favore della ignoran- te moltitudine (al cui ingegno son più conformi), po- tranno cossì bene donar il crollo alle umanitadi e raziocinio d’Aristotele, come questo fu carnefice delle altrui divine filosofie. Vedi dumque a che suol pro- movere questo consiglio, se tutti aspireno al splendor santo, et abbiano altre imprese vili e vane. mariconda Ride si sapis, o puella, ride, pelignus (puto) dixerat poeta; sed non dixerat omnibus puellis: et si dixerit omnibus puellis, non dixit tibi. Tu puella non es. Cossì il “sursum corda” non è intonato a tutti, ma a quelli ch’hanno l’ali. Veggiamo bene che mai la pe- dantaria è stata più in esaltazione per governare il mondo, che a’ tempi nostri; la quale fa tanti camini de vere specie intelligibili et oggetti de l’unica veritade infallibile, quanti possano essere individui pedanti. Però a questo tempo massime denno esser isvegliati gli ben nati spiriti armati dalla verità et illustrati dalla divina intelligenza, di prender l’armi contra la fosca ignoranza, montando su l’alta rocca et eminente torre della contemplazione. A costoro conviene d’aver ogni altra impresa per vile e vana. Questi non denno in co- se leggieri e vane spendere il tempo, la cui velocità è infinita: essendo che sì mirabilmente precipitoso scorra il presente, e con la medesima prestezza s’acco- ste il futuro. Quel che abbiamo vissuto è nulla, quel che viviamo è un punto, quel ch’abbiamo a vivere non è ancora un punto, ma può essere un punto, il Letteratura italiana Einaudi 155   Giordano Bruno - De gl’eroici furori quale insieme sarà e sarà stato. E tra tanto questo s’in- tesse la memoria di genealogie, quello attende a desci- ferar scritture, quell’altro sta occupato a moltiplicar sofismi da fanciulli. Vedrai verbigrazia un volume pieno di: “Cor” est fons vite, “nix” est alba: ergo “cornix” est fons vitae alba. Quell’altro garrisce se il nome fu prima o il verbo, l’altro se il mare o gli fonti, l’altro vuol rinovare gli vo- caboli absoleti che per esserno venuti una volta in uso e proposito d’un scrittore antico, ora de nuovo le vuol far montar a gli astri; l’altro sta su la falsa e vera orto- grafia, altri et altri sono sopra altre et altre simili fra- scarie, le quali molto più degnamente son spreggiate che intese. Qua diggiunano, qua ismagriscono, qua intisichiscono, qua arrugano la pelle, qua allungano la barba, qua marciscono, qua poneno l’àncora del som- mo bene. Con questo spreggiano la fortuna, con que- sto fan riparo e poneno il scudo contra le lanciate del fato. Con tali e simili vilissimi pensieri credeno mon- tar a gli astri, esser pari a gli dei, e comprendere il bel- lo e buono che promette la filosofia. cesarino È gran cosa certo che il tempo che non può bastarci manco alle cose necessarie, quantunque dili- gentissimamente guardato, viene per la maggior parte ad esser speso in cose superflue, anzi cose vili e vergo- gnose. – Non è da ridere di quello che fa lodabile Ar- chimede o altro appresso alcuni, che a tempo che la cittade andava sottosopra, tutto era in ruina, era acce- so il fuoco ne la sua stanza, gli nemici gli erano dentro la camera a le spalli, nella discrezzion et arbitrio de quali consisteva de fargli perdere l’arte, il cervello e la vita; e lui tra tanto avea perso il senso e proposito di Letteratura italiana Einaudi 156   Giordano Bruno - De gl’eroici furori salvar la vita, per averlo lasciato a dietro a perseguitar forse la proporzione de la curva a la retta, del diame- tro al circolo o altre simili matesi, tanto degne per giovanotti quanto indegne d’uno che (se posseva) de- vrebbe essere invecchiato et attento a cose più degne d’esser messe per fine de l’umano studio. mariconda In proposito di questo mi piace quello che voi medesimo poco avanti dicesti, che bisogna ch’il mondo sia pieno de tutte sorte de persone, e che il numero de gl’imperfetti, brutti, poveri, indegni e sce- lerati sia maggiore: et in conclusione non debba esse- re altrimenti che come è. La età lunga e vechiaia d’Ar- chimede, Euclide, di Prisciano, di Donato et altri che da la morte son stati trovati occupati sopra li numeri, le linee, le dizzioni, le concordanze, scritture, dialecti, sillogismi formali, metodi, modi de scienze, organi et altre isagogie, è stata ordinata al servizio della gio- ventù e de’ fanciulli, gli quali apprender possano e ri- cevere gli frutti della matura età di quelli, come con- viene che siano mangiati da questi nella lor verde etade: a fin che più adulti vegnano senza impedimen- to atti e pronti a cose maggiori. cesarino Io non son fuor del proposito che poco avanti ho mosso: essendo in proposito di quei che fanno studio d’involar la fama e luogo de gli antichi con far nove opre o peggiori, o non megliori de le già fatte, e spendeno la vita su le considerazioni da mette- re avanti la lana di capra o l’ombra de l’asino; et altri che in tutto il tempo de la vita studiano di farsi esqui- siti in que’ studii che convegnono alla fanciullezza, e per la massima parte il fanno senza proprio et altrui profitto. mariconda Or assai è detto circa quelli che non pos- sono né debbono ardire d’aver “ad alt’amor la mente desta”. Venemo ora a considerare della volontaria cattività, e dell’ameno giogo sotto l’imperio de la det- Letteratura italiana Einaudi 157   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ta Diana: quel giogo, dico, senza il quale l’anima è im- potente de rimontar a quella altezza da la qual cadìo, percioché la rende più leggiera et agile; e gli lacci la fanno più ispedita e sciolta. cesarino Discorrete dumque. mariconda Per cominciar, continuar e conchiudere con ordine, considero che tutto quel che vive, in quel modo che vive, conviene che in qualche maniera si nodrisca, si pasca. Però a la natura intellettuale non quadra altra pastura che intellettuale, come al corpo non altra che corporale: atteso che il nodrimento non si prende per altro fine eccetto perché vada in sustan- za de chi si nodrisce. Come dumque il corpo non si trasmuta in spirito, né il spirito si trasmuta in corpo (perché ogni trasmutazione si fa quando la materia che era sotto la forma de uno viene ad essere sotto la forma de l’altro), cossì il spirito et il corpo non hanno materia commune, di sorte che quello che era sogget- to a uno possa dovenire ad essere soggetto de l’altro. cesarino Certo se l’anima se nodrisse de corpo si portarebe meglio dove è la fecondità della materia (come argumenta Iamblico), di sorte che quando ne si fa presente un corpo grasso e grosso, potremmo credere che sia vase d’un animo gagliardo, fermo, pronto, eroico, e dire: «O anima grassa, o fecondo spirito, o bello ingegno, o divina intelligenza, o men- te illustre, o benedetta ipostasi da far un convito a gli leoni, over un banchetto a i dogs». Cossì un vecchio, come appare marcido, debole e diminuito de forze, debba esser stimato de poco sale, discorso e raggio- ne. Ma seguitate. mariconda Or l’esca de la mente bisogna dire che sia quella sola che sempre da lei è bramata, cercata, ab- bracciata, e volentieri più ch’altra cosa gustata, per cui s’empie, s’appaga, ha prò e dovien megliore: cioè la verità alla quale in ogni tempo, in ogni etade et in Letteratura italiana Einaudi 158   Giordano Bruno - De gl’eroici furori qualsivoglia stato che si trove l’uomo, sempre aspira, e per cui suol spreggiar qualsivoglia fatica, tentar ogni studio, non far caso del corpo, et aver in odio questa vita. Perché la verità è cosa incorporea; per- ché nessuna, o sia fisica, o sia metafisica, o sia mate- matica, si trova nel corpo; perché vedete che l’eterna essenza umana non è ne gl’individui li quali nascono e muoiono. È la unità specifica (disse Platone) non la moltitudine numerale che comporta la sustanza de le cose; però chiamò l’idea uno e molti, stabile e mobi- le: perché come specie incorrottibile, è cosa intelligi- bile et una, e come si communica alla materia et è sotto il moto e generazione, è cosa sensibile e molti. In questo secondo modo ha più de non ente che di ente: atteso che sempre è altro et altro, e corre eterno per la privazione; nel primo modo è ente e vero. Ve- dete appresso che gli matematici hanno per concedu- to che le vere figure non si trovano ne gli corpi natu- rali, né vi possono essere per forza di natura né di arte. Sapete ancora che la verità de sustanze soprana- turali è sopra la materia. – Conchiudesi dumque che a chi cerca il vero, bisogna montar sopra la raggione de cose corporee. Oltre di ciò è da considerare che tutto quel che si pasce, ha certa mente e memoria na- turale del suo cibo, e sempre (massime quando fia più necessario) ha presente la similitudine e specie di quello, tanto più altamente, quanto è più alto e glo- rioso chi ambisce, e quello che si cerca. Da questo, che ogni cosa ha innata la intelligenza de quelle cose che appartegnono alla conservazione de l’individuo e specie, et oltre alla perfezion sua finale, depende la industria di cercare il suo pasto per qualche specie di venazione. – Conviene dumque che l’anima umana abbia il lume, l’ingegno e gl’instrumenti atti alla sua caccia. Qua soccorre la contemplazione, qua viene in uso la logica, altissimo organo alla venazione della Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori verità, per distinguere, trovare e giudicare. Quindi si va lustrando la selva de le cose naturali dove son tan- ti oggetti sotto l’ombra e manto, e come in spessa, densa e deserta solitudine la verità suol aver gli antri e cavernosi ricetti; fatti intessuti de spine, conchiusi de boscose, ruvide e frondose piante: dove con le raggioni più degne et eccellenti maggiormente s’asconde, s’avvela e si profonda con diligenza mag- giore, come noi sogliamo gli tesori più grandi celare con maggior diligenza e cura, accioché dalla moltitu- dine e varietà de cacciatori (de quali altri son più ex- quisiti et exercitati, altri meno) non vegna senza gran fatica discuoperta. Qua andò Pitagora cercandola per le sue orme e vestigii impressi nelle cose naturali, che son gli numeri li quali mostrano il suo progresso, raggioni, modi et operazioni in certo modo: perché in numero de moltitudine, numero de misure, e nu- mero de momento o pende, la verità e l’essere si tro- va in tutte le cose. Qua andò Anaxagora et Empedo- cle che considerando che la omnipotente et omniparente divinità empie il tutto, non trovavano cosa tanto minima che non volessero che sotto quella fusse occolta secondo tutte le raggioni, benché pro- cedessero sempre vèr là dove era predominante et espressa secondo raggion più magnifica et alta. Qua gli Caldei la cercavano per via di suttrazzione non sa- pendo che cosa di quella affirmare: e procedevano senza cani de dimostrazioni e sillogismi; ma solamen- te si forzaro di profondare rimovendo, zappando, isboscando per forza di negazione de tutte specie e predicati comprensibili e secreti. Qua Platone anda- va como isvoltando, spastinando e piantando ripari: perché le specie labili e fugaci rimanessero come nel- la rete, e trattenute da le siepe de le definizioni, con- siderando le cose superiori essere participativamen- te, e secondo similitudine speculare nelle cose Letteratura italiana Einaudi 160   Giordano Bruno - De gl’eroici furori inferiori, e queste in quelle secondo maggior dignità et eccellenza; e la verità essere ne l’une e l’altre se- condo certa analogia, ordine e scala, nella quale sem- pre l’infimo de l’ordine superiore conviene con il su- premo de l’ordine inferiore. E cossì si dava progresso dal infimo della natura al supremo come dal male al bene, dalle tenebre alla luce, dalla pura potenza al puro atto, per gli mezzi. Qua Aristotele si vanta pure da le orme e vestigii impressi di posser pervenire alla desiderata preda, mentre da gli effetti vuol amenarsi a le cause. Benché egli per il più (massime che tutti gli altri ch’hanno occupato il studio a questa venazio- ne) abbia smarrito il camino, per non saper a pena distinguere de le pedate. – Qua alcuni teologi nodriti in alcune de le sette cercano la verità della natura in tutte le forme naturali specifiche, nelle quali conside- rano l’essenza eterna e specifico sustantifico perpe- tuator della sempiterna generazione e vicissitudine de le cose, che son chiamate dèi conditori e fabrica- tori, sopra gli quali soprasiede la forma de le forme, il fonte de la luce, verità de le veritadi, dio de gli dèi, per cui tutto è pieno de divinità, verità, entità, bontà. Questa verità è cercata come cosa inaccessibile, come oggetto inobiettabile, non sol che incomprensibile: però a nessun pare possibile de vedere il sole, l’uni- versale Apolline e luce absoluta per specie suprema et eccellentissima; ma sì bene la sua ombra, la sua Diana, il mondo, l’universo, la natura che è nelle co- se, la luce che è nell’opacità della materia: cioè quella in quanto splende nelle tenebre. De molti dumque, che per dette vie et altre assai discorreno in questa deserta selva, pochissimi son quelli che s’abbattono al fonte de Diana. Molti rimagnono contenti de cac- cia de fiere selvatiche e meno illustri, e la massima parte non trova da comprendere avendo tese le reti al vento, e trovandosi le mani piene di mosche. Rarissi- Letteratura italiana Einaudi 161   Giordano Bruno - De gl’eroici furori mi dico son gli Atteoni alli quali sia dato dal destino di posser contemplar la Diana ignuda: e dovenir a ta- le che dalla bella disposizione del corpo della natura invaghiti in tanto, e scorti da que’ doi lumi del gemi- no splendor de divina bontà e bellezza, vegnano tra- sformati in cervio, per quanto non siano più caccia- tori ma caccia. Perché il fine ultimo e finale di questa venazione è de venire allo acquisto di quella fugace e selvaggia preda, per cui il predator dovegna preda, il cacciator doventi caccia; perché in tutte le altre spe- cie di venaggione che si fa de cose particolari, il cac- ciatore viene a cattivare a sé l’altre cose, assorbendo quelle con la bocca de l’intelligenza propria; ma in quella divina et universale viene talmente ad appren- dere che resta necessariamente ancora compreso, as- sorbito, unito: onde da volgare, ordinario, civile e populare, doviene selvatico come cervio, et incola del deserto; vive divamente sotto quella procerità di selva, vive nelle stanze non artificiose di cavernosi monti, dove admira gli capi de gli gran fiumi, dove vegeta intatto e puro da ordinarie cupiditadi, dove più liberamente conversa la divinità, alla quale aspi- rando tanti uomini che in terra hanno volsuto gustar vita celeste, dissero con una voce: «Ecce elongavi fu- giens, et mansi in solitudine». Cossì gli cani, pensieri de cose divine, vorano questo Atteone, facendolo morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal carnal carcere della mate- ria; onde non più vegga come per forami e per fene- stre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglia a ter- ra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte che tutto guarda come uno, non vede più per distinzioni e numeri, che secondo la diversità de sen- si, come de diverse rime fanno veder et apprendere in confusione. Vede l’Amfitrite, il fonte de tutti nu- meri, de tutte specie, de tutte raggioni, che è la Mo- Letteratura italiana Einaudi 162   Giordano Bruno - De gl’eroici furori nade, vera essenza de l’essere de tutti; e se non la ve- de in sua essenza, in absoluta luce, la vede nella sua genitura che gli è simile, che è la sua imagine: perché dalla monade che è la divinitade, procede questa mo- nade che è la natura, l’universo, il mondo; dove si contempla e specchia come il sole nella luna, me- diante la quale ne illumina trovandosi egli nell’emi- sfero delle sustanze intellettuali. Questa è la Diana, quello uno che è l’istesso ente, quello ente che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensi- bile, in cui influisce il sole et il splendor della natura superiore secondo che la unità è destinta nella gene- rata e generante, o producente e prodotta. Cossì da voi medesimo potrete conchiudere il modo, la di- gnità, et il successo più degno del cacciatore e de la caccia: onde il furioso si vanta d’esser preda della Diana, a cui si rese, per cui si stima gradito consorte, e più felice cattivo e suggiogato, che invidiar possa ad altro uomo che non ne può aver ch’altretanto, o ad altro divo che ne have in tal specie quale è impos- sibile d’essere ottenuta da natura inferiore, e per conseguenza non è conveniente d’essere desiata, né meno può cadere in appetito. cesarino Ho ben compreso quanto avete detto, e m’avete più che mediocremente satisfatto. Or è tem- po di ritornar a casa. mariconda Bene. fine del secondo dialogo Letteratura italiana Einaudi 163   Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO TERZO interlocutori Liberio, Laodonio. liberio Posando sotto l’ombra d’un cipresso il furio- so, e trovandosi l’alma intermíttente da gli altri pen- sieri (cosa mirabile), avvenne che (come fussero ani- mali e sustanze de distinte raggioni e sensi) si parlassero insíeme il core e gli occhi: l’uno de l’altro lamentandosi come quello che era principio di quel faticoso tormento che consumava l’alma. laodonio Dite, se vi ricordate, le raggioni e le paroli. liberio Cominciò il dialogo il core, il qual facendosi udir dal petto proruppe in questi accenti: Prima proposta del core a gli occhi Come, occhi miei, sì forte mi tormenta quel che da voi deriva ardente foco, ch’al mio mortal suggetto mai allenta di serbar tal incendio, ch’ho per poco l’umor de l’Oceàn e di più lenta artica stella il più gelato loco, perché ivi in punto si reprima il vampo, o al men mi si prometta ombra di scampo? Voi mi féste cattivo d’una man che mi tiene, e non mi vuole; per voi son entro al corpo, e fuor col sole, son principio de vita, e non son vivo: non so quel che mi sia ch’appartegno a quest’alma, e non è mia. laodonio Veramente l’intendere, il vedere, il conosce- re è quel che accende il desio, e per conseguenza, per Letteratura italiana Einaudi 164   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ministerio de gli occhi, vien infiammato il core: e quanto a quelli fia presente più alto e degno oggetto, tanto più forte è il foco e più vivaci son le fiamme. Or qual esser deve quella specie per cui tanto si sente ac- ceso il core, che non spera che temprar possa il suo ardore tanto più fredda quanto più lenta stella che sia conchiusa nell’artico cerchio, né rallentar il vampo l’umor intiero de l’Occano? Quanta deve essere l’ec- cellenza di quello oggetto che l’ha reso nemico de l’esser suo, rubello a l’alma propria, e contento di tal ribellione e nemicicia, quantunque sia cattivo d’una man che ’l dispreggia e non lo vuole? Ma fatemi udire se gli occhi risposero e che cosa dissero. liberio Quelli per il contrario si lagnavano del core, come quello che era principio e caggione per cui ver- sassero tante lacrime. Però a l’incontro gli proposero in questo tenore: Prima proposta de gli occhi al core Come da te sorgon tant’acqui, o core, da quante mai Nereidi alzar la fronte ch’ogni giorn’al bel sol rinasce e muore? A par de l’Amfitrite il doppio fonte versar può sì gran fiumi al mondo fore, che puoi dir che l’umor tanto surmonte, che gli fia picciol rio chi Egitto inonda scorrend’al mar per sette doppia sponda. Die’ natura doi lumi a questo picciol mondo per governo; tu perversor di quell’ordin eterno, le convertiste in sempiterni fiumi. E questo il ciel non cura, ch’il natìo passa, el violento dura. laodonio Certo ch’il cor acceso e compunto fa sorger lacrime da gli occhi, onde come quelli accendono le Letteratura italiana Einaudi 165   Giordano Bruno - De gl’eroici furori fiamme in questo, quest’altro viene a rigar quelli d’umore. Ma mi meraviglio de sì forte exaggerazione per cui dicono che le Nereidi non alzano tanto bagna- ta fronte a l’oriente sole, quanta possa appareggiar queste acqui; et oltre agguagliansi all’Oceano, non perché versino, ma perché versar possano questi doi fonti, fiumi tali e tanti, che computato a loro il Nilo apparirebbe una picciola lava distinta in sette canali. liberio Non ti meravigliar della forte exaggerazione e di quella potenza priva de l’atto; perché tutto inten- derete dopo intesa la conchiusione de raggionamenti loro. Or odi come prima il core risponde alla propo- sta de gli occhi. laodonio Priegovi fatemi intendere. liberio Prima risposta del core a gli occhi Occhi, s’in me fiamma immortal s’alluma, et altro non son io che fuoco ardente, se quel ch’a me s’avvicina, s’infuma, e veggio per mio incendio il ciel fervente; come il gran vampo mio non vi consuma, ma l’effetto contrario in voi si sente? Come vi bagno, e più tosto non cuoco, se non umor, ma è mia sustanza fuoco? Credete ciechi voi che da sì ardente incendio derivi el doppio varco, e que’ doi fonti vivi da Vulcan abbian gli elementi suoi, come tal volt’acquista forza un contrario, se l’altro resista? Vede come non possea persuadersi il core di posser da contraria causa e principio procedere forza di con- trario effetto, sin a questo che non vuol affirmare il Letteratura italiana Einaudi 166   Giordano Bruno - De gl’eroici furori modo possibile, quando per via d’antiperistasi, che si- gnifica il vigor che acquista il contrario da quel che fuggendo l’altro viene ad unirsi, inspessarsi, inglobar- si e concentrarsi verso l’individuo della sua virtude, la qual quanto più s’allontana dalle dimensioni, tanto si rende efficace di vantaggio. laodonio Dite ora come gli occhi risposero al core. liberio Prima risposta de gli occhi al core Ahi, cor, tua passion sì ti confonde, ch’hai smarito il sentier di tutt’il vero. Quanto si vede in noi, quanto s’asconde, è semenza de mari, onde l’intero Nettun potrà ricovrar non altronde, se per sorte perdesse il grand’impero; come da noi deriva fiamma ardente, che siam del mare il gemino parente? Sei sì privo di senso, che per noi credi la fiamma trapasse, e tant’umide porte a dietro lasse, per far sentir a te l’arder immenso? Come splender per vetri, crederai forse che per noi penétri? Qua non voglio filosofare circa la coincidenza de contrarii, de la quale ho studiato nel libro De princi- pio et uno; e voglio supponere quello che comun- mente si suppone, che gli contraria nel medesimo ge- no son distantissimi, onde vegna più facilmente appreso il sentimento di questa risposta, dove gli oc- chi si dicono semi o fonti, nella virtual potenza de quali è il mare: di sorte che se Nettuno perdesse tutte l’acqui, le potrebbe richiamar in atto dalla potenza loro, dove sono come in principio agente e materiale. Letteratura italiana Einaudi 167   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Però non metteno urgente necessità quando dicono non posser essere che la fiamma per la lor stanza e cortile trapasse al core con lasciarsi tant’acqui a die- tro, per due caggioni: prima perché tal impedimento in atto non può essere se non posti in atto tali oltrag- giosi ripari; secondo perché per quanto l’acqui sono attualmente ne gli occhi, possono donar via al calore come alla luce: essendo che l’esperienza dimostra che senza scaldar il specchio viene il luminoso raggio ad accendere per via di reflessione qualche materia che gli vegna opposta; e per un vetro, cristallo, o altro va- se pieno d’acqua, passa il raggio ad accendere una cosa sottoposta senza che scalde il spesso corpo tra- mezzante: come è verisimile et anco vero che caggio- ne secche et aduste impressioni nelle concavitadi del profondo mare. Talmente per certa similitudine, se non per raggioni di medesimo geno, si può conside- rare come fia possibile che per il senso lubrico et oscuro de gli occhi possa esser scaldato et acceso di quella luce l’affetto, la quale secondo medesima rag- gione non può essere nel mezzo. Come la luce del so- le secondo altra raggione è nell’aria tramezzante, al- tra nel senso vicino, et altra nel senso commune, et altra ne l’intelletto: quantunque da un modo proceda l’altro modo di essere. laodonio Sonvi altri discorsi? liberio Sì, perché l’uno e l’altro tentano di saper con qual modo quello contegna tante fiamme, e quelli tante acqui. Fa dumque il core la seconda proposta: Seconda proposta del core S’al mar spumoso fan concorso i fiumi, e da fiumi del mar il cieco varco vien impregnato, ond’è che da voi lumi non è doppio torrente al mondo scarco Letteratura italiana Einaudi 168   Giordano Bruno - De gl’eroici furori che cresca il regno a gli marini numi, scemando ad altri il glorioso incarco? Perché non fia che si vegga quel giorno, ch’a i monti fa Deucalion ritorno? Dove gli rivi sparsi? Dove il torrente che mia fiamma smorze, o per ciò non posser più la rinforze? Goccia non scende a terra ad inglobarsi, per cui fia ch’io non pensi che sia cossì, come mostrano i sensi? Dimanda qual potenza è questa che non si pone in at- to; se tante son l’acqui, perché Nettuno non viene a tiranneggiar su l’imperio de gli altri elementi? Ove son gli inondanti rivi? Ove chi dia refrigerio al fuoco ardente? Dove è una stilla onde io possa affirmar de gli occhi quel tanto che niegano i sensi? Ma gli occhi di pari fanno un’altra dimanda: Seconda proposta de gli occhi al core Se la materia convertita in foco acquista il moto di lieve elemento, e se ne sale a l’eminente loco, onde avvien che veloce più che vento, tu ch’incendio d’amor senti non poco, non ti fai gionto al sole in un momento? per che soggiorni peregrino al basso, non t’aprendo per noi e l’aria il passo? Favilla non si scorge uscir a l’aria aperto da quel busto, né corpo appar incenerit’o adusto, né lacrimoso fumo ad alto sorge: tutt’è nel proprio intiero, né di fiamma è raggion, sens’, o pensiero. Letteratura italiana Einaudi 169   Giordano Bruno - De gl’eroici furori laodonio Non ha più né meno efficacia questa che quell’altra proposta: ma vengasi presto alle risposte, se vi sono. liberio Vi son certamente e piene di succhio; udite: Seconda risposta del core a gli occhi Sciocco è colui che sol per quanto appare al senso, et oltre a la raggion non crede: il fuoco mio non puote alto volare, e l’infinito incendio non si vede, perché de gli occhi ban sopraposto il mare, e un infinito l’altro non eccede: la natura non vuol ch’il tutto pera, se basta tanto fuoco a tanta sfera. Ditemi, occhi, per dio, qual mai partito prenderemo noi, onde far possa aperto o io, o voi, per scampo suo, de l’alma il fato rio, se l’un e l’altro ascoso mai potrà fargli il bel nume piatoso? laodonio Se non è vero, è molto ben trovato: se non è cossì, è molto bene iscusato l’uno per l’altro, se stante che dove son due forze de quali l’una non è maggior de l’altra, bisogna che cesse l’operazion di questa e quella: essendo che tanto questa può resistere quanto quella insistere; non meno quella ripugna, che possa oppugnar questa. Se dumque è infinito il mare et in- mensa la forza de le lacrime che sono ne gli occhi, non faranno giamai ch’apparir possa Cavillando o isvampando l’impeto del fuoco ascoso nel petto; né quelli mandar potranno il gemino torrente al mare, se con altretanto di vigore gli fa riparo il core: però acca- de che il bel nume per apparenza di lacrima che stile Letteratura italiana Einaudi 170   Giordano Bruno - De gl’eroici furori da gli occhi, o favilla che si spicche dal petto, non possa esser invitato ad esser piatoso a l’alma afflitta. [liberio] Or notate la conseguente risposta de gli oc- chi: Seconda risposta de gli occhi al core Ahi per versar a l’elemento ondoso, l’émpito de noi fonti al tutt’è casso; che contraria potenza il tien ascoso, acciò non mande a rotilon per basso. L’infinito vigor del cor focoso a i pur tropp’alti fiumi niega il passo; quindi gemino varco al mar non corre, ch’il coperto terren natura aborre. Or dinne, afflitto core, che puoi opporti a noi con altretanto vigor: chi fia giamai che porte il vanto d’esser precon di sì ’nfelice amore, s’il tuo e nostro male quant’è più grande, men mostrarsi vale? Per essere infinito l’un e l’altro male, come doi ugual- mente vigorosi contraria si ritegnono, si supprimeno; e non potrebbe esser cossì, se l’uno e l’altro fosse fini- to, atteso che non si dà equalità puntuale nelle cose naturali, né ancora sarebbe cossì se l’uno fusse finito e l’altro infinito: ma certo questo assorbirebbe quello, et avverrebe che si mostrarebbono ambi doi, o al men l’uno per l’altro. Sotto queste sentenze la filosofia na- turale et etica che vi sta occolta, lascio cercarla, consi- derarla e comprenderla a chi vuole e puote. Sol que- sto non voglio lasciare, che non senza raggione l’affezzion del core è detta infinito mare dall’appren- sion de gli occhi: perché essendo infinito l’oggetto de la mente, et a l’intelletto non essendo definito oggetto Letteratura italiana Einaudi 171   Giordano Bruno - De gl’eroici furori proposto, non può essere la volontarie appagata de fi- nito bene; ma se oltre a quello si ritrova altro, il bra- ma, il cerca, perché (come è detto commune) il sum- mo della specie inferiore è infimo e principio della specie superiore, o si prendano gli gradi secondo le forme le quali non possiamo stimar che siano infinite, o secondo gli modi e raggioni di quelle, nella qual ma- niera per essere infinito il sommo bene, infinitamente credemo che si comunica secondo la condizione delle cose alle quali si diffonde: però non è specie definita a l’universo (parlo secondo la figura e mole), non è spe- cie definita a l’intelletto, non è definita la specie de l’affetto. laodonio Dumque queste due potenze de l’anima mai sono, né essere possono perfette per l’oggetto, se infi- nitamente si riferiscono a quello. liberio Cossì sarrebe se questo infinito fusse per pri- vazion negativa o negazion privativa de fine, come è per più positiva affirmazione de fine infinito et inter- minato. laodonio Volete dir dumque due specie d’infinità: l’una privativa la qual può essere verso qualche cosa che è potenza, come infinite son le tenebre, il fine del- le quali è posizione di luce; l’altra perfettiva la quale è circa l’atto e perfezzione, come infinita è la luce, il fi- ne della quale sarebbe privazione e tenebre. In questo dumque che l’intelletto concepe la luce, il bene, il bel- lo, per quanto s’estende l’orizonte della sua capacità, e l’anima che beve del nettare divino e de la fonte de vita eterna, per quanto comporta il vase proprio; si vede che la luce è oltre la circonferenza del suo ori- zonte dove può andar sempre più e più penetrando; et il nettare e fonte d’acqua viva è infinitamente fe- condo, onde possa sempre oltre et oltre inebriarsi. [liberio] Da qua non séguita imperfezzione nell’oggetto né poca satisfazzione nella potenza; ma che la potenza Letteratura italiana Einaudi 172   Giordano Bruno - De gl’eroici furori sia compresa da l’oggetto e beatificamente assorbita da quello. Qua gli occhi imprimeno nel core, cioè nell’intelligenza, suscitano nella volontà un infinito tormento di suave amore, dove non è pena, perché non s’abbia quel che si desidera: ma è felicità, perché sempre vi si trova quel che si cerca; et in tanto non vi è sazietà, per quanto sempre s’abbia appetito, e per conseguenza gusto: acciò non sia come nelli cibi del corpo il quale con la sazietà perde il gusto, e non ha felicità prima che guste, né dopo ch’ha gustato, ma nel gustar solamente: dove se passa certo termine e fi- ne, viene ad aver fastidio e nausea. – Vedi dumque in certa similitudine qualmente il sommo bene deve es- sere infinito, e l’appulso de l’affetto verso e circa quello esser deggia anco infinito, acciò non vegna tal- volta a non esser bene: come il cibo che è buono al corpo, se non ha modo, viene ad essere veleno. Ecco come l’umor de l’Oceano non estingue quel vampo, et il rigor de l’Artico cerchio non tempra quell’ardo- re. Cossì è cattivo d’una mano che il tiene e non lo vuole: il tiene perché l’ha per suo, non lo vuole per- ché (come lo fuggesse) tanto più se gli fa alto quanto più ascende a quella, quanto più la séguita tanto più se gli mostra lontana per raggion de eminentissima eccellenza, secondo quel detto: «Accedet homo ad cor altum, et exaltabitur Deus». – Cotal felicità d’affetto comincia da questa vita, et in questo stato ha il suo modo d’essere: onde può dire il core d’essere entro con il corpo, e fuori col sole, in quanto che l’anima con la gemina facultade mette in esecuzione doi uffi- ci: l’uno de vivificare et attuare il corpo animabile, l’altro de contemplare le cose superiori; perché cossì lei è in potenza receptiva da sopra, come è verso sotto al corpo in potenza attiva. Il corpo è come morto e cosa privativa a l’anima la quale è sua vita e perfezzio- ne; e l’anima è come morta e cosa privativa alla supe- Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori riore illuminatrice intelligenza da cui l’intelletto è re- so in abito e formato in atto. Quindi si dice il core es- sere prencipe de vita, e non esser vivo; si dice appar- tenere a l’alma animante, e quella non appartenergli: perché è infocato da l’amor divino, è convertito final- mente in fuoco, che può accendere quello che si gli avicina: atteso che avendo contratta in sé la divinita- de, è fatto divo, e conseguentemente con la sua specie può innamorar altri: come nella luna può essere ad- mirato e magnificato il splendor del sole. Per quel poi ch’appartiene al considerar de gli occhi, sapete che nel presente discorso hanno doi ufficii: l’uno de im- primere nel core, l’altro de ricevere l’impressione dal core; come anco questo ha doi ufficii: l’uno de riceve- re l’impressioni da gli occhi, l’altro di imprimere in quelli. Gli occhi apprendono le specie e le proponeno al core, il core le brama et il suo bramare presenta a gli occhi: quelli concepeno la luce, la diffondano, et accendono il fuoco in questo; questo scaldato et acce- so invia il suo umore a quelli, perché lo digeriscano. Cossì primieramente la cognizione muove l’affetto, et appresso l’affetto muove la cognizione. Gli occhi quando moveno sono asciutti, perché fanno ufficio di specchio e di ripresentatore; quando poi son mossi, son turbati et alterati; perché fanno ufficio de studio- so executore: atteso che con l’intelletto speculativo prima si vede il bello e buono, poi la voluntà l’appeti- sce, et appresso l’intelletto industrioso lo procura, sé- guita e cerca. Gli occhi lacrimosi significano la diffi- cultà de la separazione della cosa bramata dal bramante, la quale acciò non sazie, non fastidisca, si porge come per studio infinito, il quale sempre ha e sempre cerca: atteso che la felicità de dèi è descritta per il bevere non per l’aver bevuto il nettare, per il gustare non per aver gustato l’ambrosia, con aver continuo affetto al cibo et alla bevanda, e non con es- Letteratura italiana Einaudi 174   Giordano Bruno - De gl’eroici furori ser satolli e senza desio de quelli. Indi, hanno la sa- zietà come in moto et apprensione, non come in quie- te e comprensione, non son satolli senza appetito, né sono appetenti senza essere in certa maniera satolli. laodonio liberio laodonio Esuries satiata satietas esuriens. Cossì a punto. Da qua posso intendere come senza biasimo ma con gran verità et intelletto è stato detto che il di- vino amore piange con gemiti inenarrabili, perché con questo che ha tutto ama tutto, e con questo che ama tutto ha tutto. liberio Ma vi bisognano molte glose se volessimo in- tendere de l’amor divino che è la istessa deità; e facil- mente s’intende de l’amor divino per quanto si trova ne gli effetti e nella subalternata natura; non (dico) quello che dalla divinità si diffonde alle cose: ma quello delle cose che aspira alla divinità. laodonio Or di questo et altro raggionaremo a più ag- gio appresso. Andiamone. fine del terzo dialogo Letteratura italiana Einaudi 175   Giordano Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO QUARTO interlocutori Severino, Minutolo. severino Vedrete dumque la raggione de nove ciechi, li quali apportano nove principii e cause particolari de sua cecità, benché tutti convegnano in una causa generale d’un comun furore. minutolo Cominciate dal primo. severino Il primo di questi benché per natura sia cie- co, nulladimeno per amore si lamenta, dicendo a gli altri che non può persuadersi la natura esser stata più discortese a essi che a lui; stante che quantunque non veggono, hanno però provato il vedere, e sono esperti della dignità del senso e de l’eccellenza del sensibile, onde son dovenuti orbi: ma egli è venuto come talpa al mondo a esser visto e non vedere, a bramar quello che mai vedde. minutolo Si son trovati molti innamorati per sola fama. severino Essi (dice egli) aver pur questa felicità de ri- tener quella imagine divina nel conspetto de la mente, de maniera, che quantunque ciechi, hanno pure in fantasia quel che lui non puote avere. Poi nella sestina si volta alla sua guida, pregandola che lo mene in qualche precipizio, a fin che non sia oltre orrido spet- tacolo del sdegno di natura. Dice dumque: Parla [il] primo cieco Felici che talvolta visto avete, voi per la persa luce ora dolenti compagni che dei lumi conoscete. Questi accesi non furo, né son spenti; Letteratura italiana Einaudi 176   Giordano Bruno - De gl’eroici furori però più grieve mal che non credete è il mio, e degno de più gran lamenti: perché, che fusse torva la natura più a voi ch’a me, non è chi m’assicura. Al precipizio, o duce, conducime, se vòi darmi contento, perché trove rimedio il mio tormento, ch’ad esser visto, e non veder la luce, qual talpa uscivi al mondo, e per esser di terra inutil pondo. Appresso séguita l’altro che morsicato dal serpe de la gelosia, è venuto infetto nell’organo visuale. Va senza guida, se pur non ha la gelosia per scorta: priega al- cun de circonstanti che se non è rimedio del suo ma- le, faccia per pietà che non oltre aver possa senso del suo male; facendo cossì lui occolto a se medesimo, co- me se gli è fatta occolta la sua luce: con sepelir lui col proprio male. Dice dumque: Parla il secondo cieco Da la tremenda chioma ha svèlto Aletto l’infernal verme, che col fiero morso hammi sì crudament’il spirto infetto, ch’a tòrmi il senso principal è corso, privando de sua guida l’intelletto: ch’in vano l’alma chiede altrui soccorso, sì cespitar mi fa per ogni via quel rabido rancor di gelosia. Se non magico incanto, né sacra pianta, né virtù de pietra, né soccorso divin scampo m’impetra, un di voi sia (per dio) piatoso in tanto, che a me mi faccia occolto: con far meco il mio mal tosto sepolto. Letteratura italiana Einaudi 177   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Succede l’altro il qual dice esser dovenuto cieco per essere repentinamente promosso dalle tenebre a ve- der una gran luce; atteso che essendo avezzo de mirar bellezze ordinarie, venne subito a presentarsegli avan- ti gli occhi una beltà celeste, un divo sole: onde non altrimente si gli è stemprata la vista e smorzatosegli il lume gemino che splende in prora a l’alma (perché gli occhi son come doi fanali che guidano la nave) ch’ac- cader suole a un allievato nelle oscuritadi cimmerie, se subito immediatamente affiga gli occhi a sole. E nella sestina priega che gli sia donato libero passagio a l’inferno, perché non altro che tenebre convegnono ad un supposito tenebroso. Dice dumque cossì: Parla il terzo cieco S’appaia il gran pianeta di repente a un uom nodrito in tenebre profonde, o sott’il ciel de la cimmeria gente, onde lungi suoi rai il sol diffonde; gli spenge il lume gemino splendente in prora a l’alma, e nemico s’asconde: cossì stemprate fur mie luci avezze a mirar ordinarie bellezze. Fatemi a l’orco andare: perché morto discorro tra le genti? perché ceppo infernal tra voi viventi misto men vo? Perché l’aure discare sorbisco, in tante pene messo per aver visto il sommo bene? Fassi innanzi il quarto cieco per simile, ma non già per medesima caggione orbo, con cui si mostra il primo: perché come quello per repentino sguardo della luce, cossì questo con spesso e frequente remi- rare, o pur per avervi troppo fissati gli occhi, ha per- Letteratura italiana Einaudi 178   Giordano Bruno - De gl’eroici furori so il senso de tutte l’altre luci, e non si dice cieco per conseguenza al risguardo di quella unica che l’ha oc- cecato; e dice il simile del senso de la vista a quello ch’aviene al senso dell’udito, essendo che coloro che han fatte l’orecchie a gran strepiti e rumori, non odeno gli strepiti minori: come è cosa famosa de gli popoli cataduppici che son là d’onde il gran fiume Nilo da una altissima montagna scende precipitoso alla pianura. minutolo Cossì tutti color ch’hanno avezzo il corpo, l’animo a cose più difficili e grandi, non sogliono sen- tir fastidio dalle difficultadi minori. E costui non deve essere discontento della sua cecità. severino Non certo. Ma si dice volontario orbo, a cui piace che ogn’altra cosa gli sia ascosa, come l’attedia col divertirlo da mirar quello che vuol unicamente mirare. – Et in questo mentre priega gli viandanti che si degnino de non farlo capitar male per qualche mal rancontro, mentre va sì attento e cattivato ad un og- getto principale. minutolo Riferite le sue paroli. severino Parla il quarto cieco Precipitoso d’alto al gran profondo, il Nil d’ogn’altro suon il senso ha spento de Cataduppi al popolo ingiocondo; cossì stand’io col spirto intiero attento alla più viva luce ch’abbia il mondo, tutti i minor splendori umqua non sento: or mentr’ella gli splende, l’altre cose sien pur a l’orbo volontario ascose. Priegovi, da le scosse di qualche sasso, o fiera irrazionale, fatemi accorto, e se si scende o sale: Letteratura italiana Einaudi 179   Giordano Bruno - De gl’eroici furori perché non caggian queste misere osse in luogo cavo e basso, mentre privo de guida meno il passo. Al cieco che séguita, per il molto lacrimare accade che siano talmente appannati gli occhi, che non si può stendere il raggio visuale a compararsi le specie visibili, e principalmente per riveder quel lume ch’a suo mal grado, per raggion di tante doglie una volta vedde. Oltre che si stima la sua cecità non esser più disposizionale ma abituale, et al tutto privativa; per- ché il fuoco luminoso che accende l’alma nella pupil- la, troppo gran tempo e molto gagliardamente è stato riprimuto et oppresso dal contrario umore: de manie- ra che quantunque cessasse il lacrimare, non si per- suade che per ciò conseguisca il bramato vedere. Et udirete quel che dice appresso alle brigate, perché lo facessero oltrepassare: Parla il quinto cieco Occhi miei d’acqui sempremai pregnanti, quando fia che del raggio visuale la scintilla se spicche fuor de tanti e sì densi ripari, e vegna tale, che possa riveder que’ lumi santi, che fur principio del mio dolce male? Lasso: credo che sia al tutto estinta, sì a lungo dal contrario oppressa e vinta. Fate passar il cieco, e voltate vostr’occhi a questi fonti che vincon gli altri tutti uniti e gionti; e s’è chi ardisce disputarne meco, è chi certo lo rende ch’un de miei occhi un Oceàn comprende. Letteratura italiana Einaudi 180   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Il sesto orbo è cieco, perché per il soverchio pianto ha mandate tante lacrime che non gli è rimasto umore, fin al ghiacio et umor per cui come per mezzo diafano il raggio visuale era transmesso, e s’intromettea la luce esterna e specie visibile, di sorte che talmente fu com- punto il core che tutta l’umida sustanza (il cui ufficio è de tener unite ancora le diverse varie e contrarie) è digerita; e gli è rimasta l’amorosa affezzione senza l’effetto de le lacrime, perché l’organo è stemprato per la vittoria de gli altri elementi, et è rimasto conse- quentemente senza vedere e senza constanza de le parti del corpo insieme. Poi propone a gli circonstan- ti quel che intenderete: Parla il sesto cieco Occhi non occhi; fonti, non più fonti, avete sparso già l’intiero umore, che tenne il corpo, il spirto e l’alma gionti. E tu visual ghiaccio che di fore facevi tanti oggetti a l’alma conti, sei digerito dal piagato core: cossì vèr l’infernale ombroso speco vo menando i miei passi, arido cieco. Deh non mi siate scarsi a farmi pronto andar, di me piatosi, che tanti fiumi a i giorni tenebrosi sol de mio pianto m’appagando ho sparsi: or ch’ogni umor è casso, vers’il profondo oblio datemi il passo. Sopragionge il seguente che ha perduta la vista dal in- tenso vampo che procedendo dal core è andato prima a consumar gli occhi, et appresso a leccar tutto il ri- manente umore de la sustanza de l’amante, de manie- ra che tutto incinerito e messo in fiamma non è più Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori lui: perché dal fuoco la cui virtù è de dissolvere gli corpi tutti ne gli loro atomi, è convertito in polve non compaginabili, se per virtù de l’acqua sola gli atomi d’altri corpi se inspessano e congiongono a far un subsistente composto. Con tutto ciò non è privo del senso de l’intensissime fiamme; però nella sestina con questo vuol farsi dar largo da passare: ché se qual- ch’uno venesse tócco da le fiamme sue, dovenerebbe a tale che non arrebe più senso delle fiamme infernali come di cosa calda, che come di fredda neve. Dice dumque: Parla il settimo cieco La beltà che per gli occhi scorse al core formò nel petto mio l’alta fornace ch’assorbì prima il visuale umore, sgorgand’in alt’il suo vampo tenace; e poi vorando ogn’altro mio liquore, per metter l’elemento secco in pace, m’ha reso non compaginabil polve, chi ne gli atomi suoi tutto dissolve. Se d’infinito male avete orror, datemi piazza, o gente; guardatevi dal mio fuoco cuocente; che se contagion di quel v’assale, crederete che inverno sia, ritrovars’al fuoco de l’inferno. Succede l’ottavo, la cecità del quale vien caggionata dalla saetta che Amore gli ha fatto penetrare da gli oc- chi al core. Onde si lagna non solamente come cieco, ma et oltre come ferito, et arso tanto altamente, quan- to non crede ch’altro esser possa. Il cui senso è facil- mente espresso in questa sentenza: Letteratura italiana Einaudi 182   Giordano Bruno - De gl’eroici furori Parla l’ottavo cieco Assalto vil, ria pugna, iniqua palma, punt’acuta, esca edace, forte nervo, aspra ferit’, empio ardor, cruda salma, stral, fuoco e laccio di quel dio protervo, che puns’ gli occhi, arse il cor, legò l’alma, e femmi a un punto cieco, amante e servo: talché orbo de mia piaga, incendio e nodo, ho ’l senso in ogni tempo, loco e modo. Uomini, eroi e dèi, che siete in terra, o appresso Dite o Giove, dite (vi priego) quando, come e dove provaste, udiste o vedeste umqua omei medesmi, o tali, o tanti tra oppressi, tra dannati, tra gli amanti? Viene al fine l’ultimo, il quale è ancor muto: perché non possendo (per non aver ardire) dir quello che massime vorrebe senza offendere o provocar sdegno, è privo di parlar di qualsivogli’altra cosa. Però non parla lui, ma la sua guida produce la raggione circa la quale, per esser facile, non discorro, ma solamente apporto la sentenza: Parla la guida del nono cieco Fortunati voi altri ciechi amanti, che la caggion del vostro mal spiegate: esser possete, per merto de pianti, graditi d’accoglienze caste e grate; di quel ch’io guido, qual tra tutti quanti più altamente spasma, il vampo late, muto forse per falta d’ardimento di far chiaro a sua diva il suo tormento. Aprite, aprite il passo, Letteratura italiana Einaudi 183   Giordano Bruno - De gl’eroici furori siate benigni a questo vacuo volto de tristi impedimenti, o popol folto, mentre ch’il busto travagliato e lasso va picchiando le porte di men penosa e più profonda morte. Qua son significate nove caggioni per le quali accade che l’umana mente sia cieca verso il divino oggetto, perché non possa fissar gli occhi a quello. De le quali: La prima, allegorizata per il primo cieco, è la natura della propria specie, che per quanto comporta il gra- do in cui si trova, in quello aspira per certo più alto che apprender possa. minutolo Perché nessun desiderio naturale è vano, possiamo certificarci de stato più eccellente che con- viene a l’anima fuor di questo corpo in cui gli fia pos- sibile d’unirsi o avvicinarsi più altamente al suo og- getto. severino Dici molto bene che nessuna potenza et ap- pulso naturale è senza gran raggione, anzi è l’istessa regola di natura la quale ordina le cose: per tanto è cosa verissima e certissima a ben disposti ingegni, che l’animo umano (qualunque si mostre mentre è nel corpo) per quel medesimo che fa apparire in questo stato, fa espresso il suo esser peregrino in questa re- gione, perché aspira alla verità e bene universale, e non si contenta di quello che viene a proposito e pro- fitto della sua specie. La seconda, figurata per il secondo cieco, procede da qualche perturbata affezzione, come in proposito de l’amore è la gelosia, la quale è come tarlo che ha me- desimo suggetto, nemico e padre, cioè che rode il panno o legno di cui è generato. Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori minutolo Questa non mi par ch’abbia luogo nell’amor eroico. severino Vero, secondo medesima raggione che vedesi nell’amor volgare: ma io intendo secondo altra raggio- ne proporzionale a quella la quale accade in color che amano la verità e bontà; e si mostra quando s’adirano tanto contra quelli che la vogliono adulterare, guastare, corrompere, o che in altro modo indegnamente voglio- no trattarla: come son trovati di quelli che si son ridutti sino alla morte, alle pene et esser ignominiosamente trattati da gli popoli ignoranti e sette volgari. minutolo Certo nessuno ama veramente il vero e buono che non sia iracondo contra la moltitudine: co- me nessuno volgarmente ama, che non sia geloso e ti- mido per la cosa amata. severino E con questo vien ad esser cieco in molte co- se veramente, et affatto affatto secondo l’opinion commune è stolto e pazzo. minutolo Ho notato un luogo che dice esser stolti e pazzi tutti quelli che hanno senso fuor et estravagante dal senso universale de gli altri uomini; ma cotal estravaganza è di due maniere, secondo che si va estra o con ascender più alto che tutti e la maggior parte sa- gliano o salir possano: e questi son gli inspirati de di- vino furore; o con descendere più basso dove si trova- no coloro che hanno difetto di senso e di raggione più che aver possano gli molti, gli più, e gli ordinaria: et in cotal specie di pazzia, insensazione e cecità non si trovarà eroico geloso. severino Quantumque gli vegna detto che le molte lettere lo fanno pazzo, non gli si può dire ingiuria da dovero. La terza, figurata nel terzo cieco, procede da che la divina verità, secondo raggione sopra naturale, detta metafisica, mostrandosi a que’ pochi alli quali si mo- Letteratura italiana Einaudi 185   Giordano Bruno - De gl’eroici furori stra, non proviene con misura di moto e tempo, come accade nelle scienze fisiche (cioè quelle che s’acqui- stano per lume naturale, le quali discorrendo da una cosa nota secondo il senso o la raggione, procedono alla notizia d’altra cosa ignota: il qual discorso è chia- mato argumentazione), ma subito e repentinamente secondo il modo che conviene a tale efficiente. Onde disse un divino: «Attenuati sunt oculi mei suspicientes in excelsum». Onde non è richiesto van discorso di tempo, fatica de studio, et atto d’inquisizione per averla: ma cossì prestamente s’ingerisce come propor- zionalmente il lume solare senza dimora si fa presente a chi se gli volta e se gli apre. minutolo Volete dumque che gli studiosi e filosofi non siano più atti a questa luce che gli quantunque ignoranti? severino In certo modo non, et in certo modo sì. Non è differenza quando la divina mente per sua provi- denza viene a comunicarsi senza disposizione del sug- getto: voglio dire quando si communica, perché ella cerca et eligge il suggetto; ma è gran differenza quan- do aspetta e vuol esser cercata, e poi secondo il suo bene placito vuol farsi ritrovare. In questo modo non appare a tutti, né può apparir ad altri che a color che la cercano. Onde è detto: «Qui quaerunt me invenient me»; et in altro loco: «Qui sitit, veniat, et bibat». minutolo Non si può negare che l’apprensione del secondo modo si faccia in tempo. severino Voi non distinguete tra la disposizione alla divina luce, e la apprensione di quella. Certo non nie- go che al disporsi bisogna tempo, discorso, studio e fatica: ma come diciamo che la alterazione si fa in tempo, e la generazione in instante; e come veggiamo che con tempo s’aprono le fenestre, et il sole entra in un momento: cossì accade proporzionalmente al pro- posito. Letteratura italiana Einaudi 186   Giordano Bruno - De gl’eroici furori La quarta, significata nel seguente, non è veramente indegna, come quella che proviene dalla consuetudi- ne di credere a false opinioni del volgo il quale è mol- to rimosso dalle opinioni de filosofi: opur deriva dal studio de filosofie volgari le quali son dalla moltitudi- ne tanto più stimate vere, quanto più accostano al senso commune. E questa consuetudine è uno de grandissimi e fortissimi inconvenienti che trovar si possano: perché (come exemplificò Alcazele et Aver- roe) similmente accade a essi, che come a color che da puerizia e gioventù sono consueti a mangiar veneno, quai son dovenuti a tale, che se gli è convertito in sua- ve e proprio nutrimento; e per il contrario abominano le cose veramente buone e dolci secondo la comun natura. Ma è dignissima, perché è fondata sopra la consuetudine de mirar la vera luce (la qual consuetu- dine non può venir in uso alla moltitudine come è detto). Questa cecità è eroica, et è tale, per quale de- gnamente contentare si possa il presente furioso cie- co, il qual tanto manca che si cure di quella, che viene veramente a spreggiare ogni altro vedere, e da la co- munità non vorrebe impetrar altro che libero passa- gio e progresso di contemplazione: come per ordina- rio suole patir insidie, e se gli sogliono opporre intoppi mortali. La quinta, significata nel quinto, procede dalla im- proporzionalità delli mezzi de nostra cognizione al cognoscibile; essendo che per contemplar le cose di- vine, bisogna aprir gli occhi per mezzo de figure, si- militudini et altre raggioni che gli Peripatetici com- prendono sotto il nome de fantasmi; o per mezzo de l’essere procedere alla speculazion de l’essenza: per via de gli effetti alla notizia della causa; gli quali mezzi tanto manca che vagliano per l’assecuzion di cotal fi- ne, che più tosto è da credere che siano impedimenti, Letteratura italiana Einaudi 187   Giordano Bruno - De gl’eroici furori se credere vogliamo che la più alta e profonda cogni- zion de cose divine sia per negazione e non per affir- mazione, conoscendo che la divina beltà e bontà non sia quello che può cader e cade sotto il nostro concet- to: ma quello che è oltre et oltre incomprensibile; massime in questo stato detto “speculator de fanta- smi” dal filosofo, e dal teologo “vision per similitudi- ne speculare et enigma”; perché veggiamo non gli ef- fetti veramente, e le vere specie de le cose, o la sustanza de le idee, ma le ombre, vestigii e simulacri de quelle, come color che son dentro l’antro et hanno da natività le spalli volte da l’entrata della luce, e la faccia opposta al fondo: dove non vedeno quel che è veramente, ma le ombre de ciò che fuor de l’antro su- stanzialmente si trova. – Però per la aperta visione la quale ha persa, e conosce aver persa, un spirito simile o meglior di quel di Platone piange desiderando l’exi- to da l’antro, onde non per riflessione, ma per “imme- diata conversione” possa riveder sua luce. minutolo Parmi che questo cieco non versa circa la difficultà che procede dalla vista riflessiva: ma da quella che è caggionata dal mezzo tra la potenza visi- va e l’oggetto. severino Questi doi modi quantunque siano distinti nella cognizion sensitiva o vision oculare, tutta volta però concorrenti in uno nella cognizione razionale o intellettiva. minutolo Parmi aver inteso e letto che in ogni visione si richiede il mezzo over intermedio tra la potenza et oggetto. Perché come per mezzo della luce diffusa ne l’aere e la similitudine della cosa che in certa maniera procede da quel che è visto a quel che vede, si mette in effetto l’atto del vedere: cossì nella regione intellet- tuale dove splende il sole dell’intelletto agente me- diante la specie intelligibile formata e come proce- dente da l’oggetto, viene a comprendere de la divinità Letteratura italiana Einaudi 188   Giordano Bruno - De gl’eroici furori l’intelletto nostro o altro inferiore a quella. Perché co- me l’occhio nostro (quando veggiamo) non riceve la luce del foco et oro in sustanza, ma in similitudine: cossì l’intelletto in qualunque stato che si trove, non riceve sustanzialmente la divinità, onde sieno sostan- zialmente tanti dèi quante sono intelligenze, ma in si- militudine; per cui non formalmente son dèi, ma de- nominativamente divini, rimanendo la divinità e divina bellezza una et exaltata sopra le cose tutte. severino Voi dite bene; ma per vostro dire bene non è mistiero ch’io mi ritratte, perché non ho detto il contrario: ma bisogna che io dechiare et expliche. Però prima dechiaro che la visione immediata, detta da noi et intesa, non toglie quella sorte di mezzo che è la specie intelligibile, né quella che è la luce; ma quel- la che è proporzionale alla spessezza e densità del dia- fano, o pur corpo al tutto opaco tramezzante: come aviene a colui che vede per mezzo de le acqui più e meno turbide, o aria nimboso e nebbioso; il quale s’intenderebbe veder come senza mezzo quando gli venesse concesso de mirar per l’aria puro, lucido e terso. Il che tutto avete come esplicato dove si dice: “Spicche fuor di tanti e sì densi ripari”. Ma ritornia- mo al nostro principale. La sesta, significata nel sequente, non è altrimenti caggionata che dalla imbecillità et insubsistenza del corpo, il quale è in continuo moto, mutazione et alte- razione; e le operazioni del quale bisogna che seguiti- no la condizione della sua facultà, la quale è conse- quente dalla condizione della natura et essere. Come volete voi che la immobilità, la sussistenza, la entità, la verità sia compresa da quello che è sempre altro et al- tro, e sempre fa et è fatto altri et altrimenti? Che ve- rità, che ritratto può star depinto et impresso dove le pupille de gli occhi si dispergono in acqui, l’acqui in Letteratura italiana Einaudi 189   Giordano Bruno - De gl’eroici furori vapore, il vapore in fiamma, la fiamma in aura, e que- sta in altro et altro, senza fine discorrendo il suggetto del senso e cognizione per la ruota delle mutazioni in infinito? minutolo Il moto è alterità, quel che si muove sempre è altro et altro, quel che è tale, sempre altri et altri- mente si porta et opra, per che il concetto et affetto séguita la raggione e condizione del suggetto. E quel- lo che altro et altro, altri et altrimenti mira, bisogna necessariamente che sia a fatto cieco al riguardo di quella bellezza che è sempre una et unicamente, et è l’istessa unità et entità, identità. severino Cossì è. La settima, contenuta allegoricamente nel sentimento del settimo cieco, deriva dal fuoco dell’affezzione, on- de alcuni si fanno impotenti et inabili ad apprendere il vero, con far che l’affetto precorra a l’intelletto. Questi son coloro che prima hanno l’amare che l’in- tendere: onde gli avviene che tutte le cose gli appaia- no secondo il colore della sua affezzione; stante che chi vuole apprendere il vero per via di contemplazio- ne deve essere ripurgatissimo nel pensiero. minutolo In verità si vede che sì come è diversità de contemplatori et inquisitori per quel che altri (secon- do gli abiti de loro prime e fondamentali discipline) procedeno per via de numeri, altri per via de figure, altri per via de ordini o disordini, altri per via di com- posizione e divisione, altri per via di separazione e congregazione, altri per via de inquisizion e dubita- zione, altri per via de discorso e definizione, altri per via de interpretazioni e desciferazion de voci, vocabo- li e dialecti: onde altri son filosofi matematici, altri metafisici, altri logici, altri grammatici; cossì è diver- sità de contemplatori che con diverse affezzioni si metteno ad studiare et applicar l’intenzione alle sen- Letteratura italiana Einaudi 190   Giordano Bruno - De gl’eroici furori tenze scritte: onde si doviene sin a questo che medesi- ma luce di verità espressa in un medesimo libro per medesime paroli, viene a servire al proposito di sette tanto numerose, diverse e contrarie. severino Per questo è da dire che gli affetti molto so- no potenti per impedir l’apprension del vero, quan- tumque gli pazienti non se ne possano accorrere: qualmente aviene ad un stupido ammalato che non dice il suo gusto amaricato, ma il cibo amaro. – Or tal specie de cecità è notata per costui, gli occhi del qua- le son alterati e privi dal suo naturale, per quel che dal core è stato inviato et impresso, potente non solo ad alterar il senso, ma et oltre l’altre tutte facultadi de l’alma, come la presente figura dimostra. Al significato per l’ottavo, cossì l’eccellente intelligi- bile oggetto have occecato l’intelletto, come l’eccel- lente sopraposto sensibile a costui ha corrotto il sen- so. Cossì avviene a chi vede Giove in maestà, che perde la vita, e per conseguenza perde il senso. Cossì avviene che chi alto guarda tal volta vegna oppresso da la maestà. Oltre quando viene a penetrar la specie divina, la passa come strale: onde dicono gli teologi il verbo divino essere più penetrativo che qualsivoglia punta di spada o di coltello. Indi deriva la formazione et impressione del proprio vestigio, sopra il quale al- tro non è che possa essere impresso o sigillato; là on- de essendo tal forma ivi confirmata, e non possendo succedere la peregrina e nova, senza che questa cieda, conseguentemente può dire che non ha più facultà di prendere altro, se ha chi la riempie, o la disgrega per la necessaria improporzionalitade. La nona caggione è notata per il nono che è cieco per inconfidenza, per deiezzion de spirito, la quale è ad- ministrata e caggionata pure da grande amore, perché Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori con lo ardire teme de offendere; onde disse la Canti- ca: «Averte oculos tuos a me, quia ipsi me avolare fece- re». E cossì supprime gli occhi da non vedere quel che massime desidera e gode di vedere; come raffrena la lingua da non parlare con chi massime brama di parlare, per téma che difetto di sguardo o difettosa parola non lo avvilisca, o per qualche modo non lo metta in disgrazia: e questo suol procedere da l’ap- prensione de l’excellenza de l’oggetto sopra de la sua facultà potenziale, onde gli più profondi e divini teo- logi dicono che più si onora et ama Dio per silenzio, che per parola; come si vede più per chiuder gli occhi alle specie representate, che per aprirli: onde è tanto celebre la teologia negativa de Pitagora e Dionisio, sopra quella demostrativa de Aristotele e scolastici dottori. minutolo Andiamone raggionando per il camino. severino Come ti piace. fine del quarto dialogo Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori DIALOGO QUINTO interlocutori Laodomia, Giulia. laodomia Un’altra volta, o sorella, intenderai quel che apporta tutto il successo di questi nove ciechi, quali eran prima nove bellissimi et amorosi giovani, che essendo tanto ardenti della vaghezza del vostro viso, e non avendo speranza de ricevere il bramato frutto de l’amore, e temendo che tal disperazione le riducesse a qualche final ruina, partironsi dal terreno della Campania felice, e d’accordo (quei che prima erano rivali) per la tua beltade giuròrno di non la- sciarsi mai sin che avessero tentato tutto il possibile per ritrovar cosa più de voi bella, o simile al meno; con ciò che scuoprir si potesse in lei accompagnata quella mercé e pietade che non si trovava nel vostro petto armato di fierezza: perché questo giudicavano unico rimedio che divertir le potesse da quella cruda cattivitade. Il terzo giorno dopo la lor sollenne parti- ta, passando vicini al monte Circeo, gli piacque d’an- dar a veder quelle antiquitadi de gli antri e fani di quella dea. Dove essendo gionti, dalla maestà del luogo ermo, de le ventose, eminenti e fragose rupi, del mormorìo de l’onde maritime che vanno a fran- gersi in quelle cavitadi, e di molte altre circonstanze che mostrava il luogo e la staggione, vennero tutti co- me inspiritati; tra’ quali un (che ti dirò), più ardito espresse queste paroli: «Oh se piacesse al cielo che a questi tempi ne si fesse presente, come fu in altri se- coli più felici, qualche saga Circe che con le piante, minerali, veneficii et incanti era potente di mettere come il freno alla natura: certo crederei che ella, Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori quantunque fiera, piatosa pur sarebbe al nostro ma- le. Ella molto sollecitata da nostri supplichevoli la- menti, condiscenderebbe o a darne rimedio, o ver a concederne grata vendetta contra la crudeltà di no- stra nemica». A pena avea finito di proferir queste paroli, che a tutti si presentò visibile un palaggio, il quale chiumque have ingegno di cose umane, possea facdmente comprendere che non era manifattura d’uomo, né di natura: de la figura e descrizzion de la quale ti dirò un’altra volta. Onde percossi da gran maraviglia, e tòcchi da qualche speranza che qualche propizio nume (il qual ciò gli mise avanti) volesse de- finire il stato de la lor fortuna, dissero ad una voce che peggio non posseano incorrere che il morire, il quale stimavano minor male che vivere in tale e tanta passione. Però vi entraro dentro non trovando porta che fermata gli fosse, o portinaio che gli domandasse raggione; sin che si ritrovano in una richissima et or- natissima sala, dove in quella regia maestade (che puoi dire che Apolline fusse stato ritrovato da Feton- te) apparve quella ch’è chiamata sua figlia; con l’ap- parir de la quale veddero sparire le imagini de molti altri numi che gli administravano. Là con grazioso volto accettati e confortati, si fero avanti: e vinti dal splendor di quella maestade, piegaro le ginocchia in terra, e tutti insieme con quella diversità de note che gli dettava il diverso ingegno, esposero gli lor voti al- la dea. Dalla quale in conclusione furono talmente trattati, che ciechi, raminghi et infortunatamente la- boriosi hanno varcati tutti mari, passati tutti fiumi, superati tutti monti, discorse tutte pianure, per spa- cio de diece anni; al termine de quali entrati sotto quel temperato cielo de l’isola britannica, gionti al conspetto de le belle e graziose ninfe del padre Ta- mesi, dopoi aver essi fatti gli atti di conveniente umil- tade, et accettati da quelle con gesti d’onestissima Letteratura italiana Einaudi 194   Giordano Bruno - De gl’eroici furori cortesia, uno tra loro, il principale, che altre volte ti sarà nomato, con tragico e lamentevole accento espo- se la causa commune in questo modo: Di que’, madonne, che col chiuso vase si fan presenti, et han trafitt’il core, non per commesso da natur’ errore, ma d’una cruda sorte ch’in sì vivace morte le tien astretti, ogn’un cieco rimase. Siam nove spirti che molt’anni, erranti, per brama di saper, molti paesi abbiam discorsi, e fummo un dì surpresi d’un rigid’accidente, per cui (se siete attente) direte: «O degni, et o infelici amanti». Un’empia Circe, che si don’il vanto d’aver questo bel sol progenitore, ne accolse dopo vario e lungo errore; e un certo vase aperse, de le cui acqui insperse noi tutti, et a quel far giunse l’incanto. Noi aspettand’il fine di tal opra, eravam con silenzio muto attenti, sin al punto che disse: «O voi dolenti, itene ciechi in tutto; raccogliete quel frutto, che trovan troppo attenti al che gli è sopra». «Figlia e madre di tenebre et orrore – diss’ogn’un fatto cieco di repente, – dumque ti piacque cossì fieramente trattar miseri amanti, che ti si fero avanti, facili forse a consecrart’il core?» Ma poi ch’a i lassi fu sedato alquanto quel subito furor, ch’il novo caso Letteratura italiana Einaudi 195   Giordano Bruno - De gl’eroici furori porse, ciascun più accolto in sé rimaso, mentr’ira al dolor cede, voltossi alla mercede, con tali accenti accompagnand’il pianto: «Or dumque s’a voi piace, o nobil maga, che zel di gloria forse il cor ti punga, o liquor di pietà il lenisca et unga, farti piatosa a noi co’ medicami tuoi, saldand’al nostro cuor l’impressa piaga; se la man bella è di soccorrer vaga, deh non sia tanto la dimora lunga, che di noi triste alcun a morte giunga pria che per gesti tuoi possiam unqua dir noi: tanto ne tormentò, ma più ne appaga». E lei soggiunse: «O curiosi ingegni, prendete un altro mio vase fatale, che mia mano medesma aprir non vale; per largo e per profondo peregrinate il mondo, cercate tutti i numerosi regni: perché vuol il destin che discuoperto mai vegna, se non quando alta saggezza e nobil castità giunte a bellezza v’applicaran le mani; d’altri i studi son vani per far questo liquor al ciel aperto. All’or, s’avvien ch’aspergan le man belle chiumque a lor per remedio s’avicina, provar potrete la virtù divina: ch’a mirabil contento cangiand’il rio tormento, vedrete due più vaghe al mondo stelle. Tra tanto alcun di voi non si contriste, quantumque a lungo in tenebre profonde Letteratura italiana Einaudi Bruno - De gl’eroici furori quant’è sul firmamento se gli asconde: perché cotanto bene per quantunque gran pene mai degnamente avverrà che s’acquiste. Per quell’a cui cecità vi conduce, dovete aver a vil ogn’altro avere, e stimar tutti strazii un gran piacere; che sperando mirare tai grazie uniche o rare, ben potrete spreggiar ogni altra luce». Lassi, è troppo gran tempo che raminghe per tutt’il terren globo nostre membra son ite, sì ch’al fine a tutti sembra che la fiera sagace di speranza fallace il petto n’ingombrò con sue lusinghe. Miseri, ormai siam (bench’al tardi) avisti ch’a quella maga, per più nostro male, tenerci a bada eternamente cale; certo perché lei crede che donna non si vede sott’il manto del ciel con tanti acquisti. Or benché sappiam vana ogni speranza, cedemo al destin nostr’e siam contenti di non ritrarci da penosi stenti, e mai fermando i passi (benché trepidi e lassi) languir tutta la vita che n’avanza. Leggiadre Nimfe, ch’a l’erbose sponde del Tamesi gentil fate soggiorno, deh, per dio, non abiate (o belle) a scorno tentar voi anco in vano con vostra bianca mano di scuoprir quel ch’il nostro vase asconde. Chi sa? forse che in queste spiaggie, dove con le Nereidi sue questo torrente Letteratura italiana Einaudi 197   Giordano Bruno - De gl’eroici furori si vede che cossì rapidamente da basso in su rimonte riserpendo al suo fonte, ha destinat’il ciel ch’ella si trove. Prese una de le Ninfe il vase in mano, e senza altro tentare, offrillo ad una per una, di sorte che non si trovò chi ardisse provar prima: ma tutte de commun consentimento, dopo averlo solamente remirato, il ri- ferivano e proponevano per rispetto e riverenza ad una sola; la quale finalmente non tanto per far perico- lo di sua gloria, quanto per pietà e desìo di tentar il soccorso di questi infelici, mentre dubbia lo contratta- va, come spontaneamente s’aperse da se stesso. Che volete ch’io vi referisca quanto fusse e quale l’applau- so de le Nimfe? Come possete credere ch’io possa esprimere l’estrema allegrezza de nove ciechi, quando udiro del vase aperto, si sentiro aspergere dell’acqui bramate, apriro gli occhi e veddero gli doi soli; e tro- varono aver doppia felicitade: l’una della ricovrata già persa luce, l’altra della nuovamente discuoperta, che sola possea mostrargli l’imagine del sommo bene in terra? Come, dico, volete ch’io possa esprimere quella allegrezza e tripudio de voci, di spirto e di corpo, che lor medesimi tutti insieme non posseano esplicare? Fu per un pezzo il veder tanti furiosi debaccanti, in senso di color che credono sognare, et in vista di quelli che non credeno quello che apertamente veggono: sin tan- to che tranquillato essendo alquanto l’impeto del furo- re, se misero in ordine di ruota, dove: Il primo cantava e sonava la citara in questo tenore: O rupi, o fossi, o spine, o sterpi, o sassi, o monti, o piani, o valli, o fiumi, o mari, quanto vi discuoprite grati e cari, ché mercé vostra e merto n’ha fatt’il ciel aperto: o fortunatamente spesi passi. Il secondo con la mandòra sua sonò e cantò: O fortunatamente spesi passi, o diva Circe, o gloriosi affanni; o quanti n’affligeste mesi et anni, tante grazie divine, se tal è nostro fine dopo che tanto travagliati e lassi. Il terzo con la lira sonò e cantò. Dopo che tanto travagliati e lassi, se tal porto han prescritto le tempeste, non fia ch’altro da far oltre ne reste che ringraziar il cielo ch’oppose a gli occhi il velo, per cui presente al fin tal luce fassi. Il quarto con la viola cantò: Per cui present’al fin tal luce fassi, cecità degna più ch’altro vedere, cure suavi più ch’altro piacere; ch’a la più degna luce vi siete fatte duce: con far men degni oggetti a l’alma cassi. Il quinto con un timpano d’Ispagna cantò: Con far men degni oggetti a l’alma cassi, con condir di speranza alto pensiero, fu chi ne spinse a l’unico sentiero, per cui a noi si scuopra Letteratura italiana Einaudi 199   Giordano Bruno - De gl’eroici furori de Dio la più bell’opra: cessi fato benigno a mostrar vassi. Il sesto con un laùto cantò: Cossì fato benigno a mostrar vassi; perché non vuol ch’il ben succeda al bene, o presagio di pene sien le pene; ma svoltando la ruota, or inalze, ora scuota: com’a vicenda il dì e la notte dassi. Il settimo con l’arpa d’Ibernia: Come a vicenda, il dì e la notte dassi, mentr’il gran manto de faci notturne scolora il carro de fiamme diurne: talmente chi governa con legge sempiterna supprime gli eminenti, e inalz’ i bassi. L’ottavo con la viola ad arco: Supprime gli eminenti, e inalza i bassi, chi l’infinite machini sustenta: e con veloce, mediocre e lenta vertigine dispensa in questa mole immensa quant’occolto si rende e aperto stassi. Il nono con una rebecchina: Quant’occolto si rend’e aperto stassi, o non nieghi, o confermi che prevagli l’incomparabil fine a gli travagli campestri e montanari Letteratura italiana Einaudi 200   Giordano Bruno - De gl’eroici furori de stagni, fiumi, mari, de rupi, fossi, spine, sterpi, sassi. Dopo che ciascuno in questa forma singularmente sonando il suo instrumento ebbe cantata la sua sesti- na, tutti insieme ballando in ruota e sonando in lode de l’unica Nimfa con un soavissimo concento canta- rono una canzona, la quale non so se bene mi verrà a la memoria. giulia Non mancar (ti priego, sorella) di farmi udire quel tanto che ti potrà sovvenire. laodomia Canzone de gl’illuminati «Non oltre invidio, o Giove, al firmamento,» dice il padre Oceàn col ciglio altero, «se tanto son contento per quel che godo nel proprio impero»; «Che superbia è la tua?» Giove risponde, alle ricchezze tue che cosa è gionta? o dio de le insan’onde, perché il tuo folle ardir tanto surmonta?» «Hai,» disse il dio de l’acqui, «in tuo potere il fiammeggiante ciel, dov’è l’ardente zon’, in cui l’eminente coro de tuoi pianeti puoi vedere. Tra quelli tutt’il mondo admira il sole, qual ti so dir che tanto non risplende quanto lei che mi rende più glorioso dio de la gran mole. Et io comprendo nel mio vasto seno tra gli altri quel paese, ove il felice Tamesi veder lice, ch’ha de più vaghe ninfe il coro ameno. Tra quelle ottegno tal fra tutte belle, i per far del mar più che del ciel amante te Giove altitonante, cui tanto il sol non splende tra le stelle»; Giove responde: «O dio d’ondosi mari, ch’altro si trove più di me beato non lo permetta il fato; ma miei tesori e tuoi corrano al pari. Vagl’il sol tra tue ninfe per costei; e per vigor de leggi sempiterne, de le dimore alterne, costei vaglia per sol tra gli astri miei». Credo averla riportata interamente tutta. giulia Il puoi conoscere, perché non vi manca senten- za che possa appartener alla perfezzion del proposito; né rima che si richieda per compimento de le stanze. Or io, se per grazia del cielo ottenni d’esser bella, maggior grazia e favor credo che mi sia gionto: perché qualumque fusse la mia beltadel è stata in qualche maniera principio per far discuoprir quell’unica e di- vina. Ringrazio gli dèi, perché in quel tempo che io fui sì verde, che le amorose fiamme non si posseano accendere nel petto mio, mediante la mia tanto restia quanto semplice et innocente crudeltade, han preso mezzo per concedere incomparabilmente grazie mag- giori a’ miei amanti, che altrimenti avessero possute ottenere per quantunque grande mia benignitade. laodomia Quanto a gli animi di quelli amanti, io ti as- sicuro ancora, che come non sono ingrati alla sua ma- ga Circe, fosca cecitade, calamitosi pensieri et aspri travagli, per mezzo de quali son gionti a tanto bene: cossì non potranno di te esser poco ben riconoscenti. giulia Cossì desidero, e spero. Grice: “Agostino da Norcia used to quote from Benedetto da Norcia’s emblematic maxim, praise the lord AND WORK – it rymes in Italian: ORA e LABORA --.  Not to be confused with “Benedetto da Norcia”. Agostino da Perugia. Agostino da Norcia. Norcia. Agostino Colizzi. Giovanni Colizzi. Colizzi. Keywords: implicatura, “De amore fundamenta mundis ac ethicae”, eretici italiani, ortodossi italiani,  dell’infinito, universo e mondi, praxis descensus application entis, amore – l’amore come fondamento del mondo, l’amore come fondamento dalla morale -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Colizzi” – The Swimming-Pool Library.

 

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