Grice e Cicerone: l’implicatura conversazionale
di Marc’Antonio – scuola di Ponte Olmo -- scuola d’Arpino – scuola di Frosinone
– scuola di Roma -- filosofia romana – filosofia lazia -- filosofia italiana --
Luigi Speranza – (Italia). Filosofo
italiano. Ponte Olmo, Abbazia di San Domenico, Arpino, Frosinone, Lazio. Ciceronian implicaturum: Grice:
“One has to be careful: an Italian philosopher might argue that Cicerone ain’t
Italian, but Roman! – so the keywords: ‘filosofo italiano’ ‘filosofo romano’ –
matter!” Grice: “However, whatever the discussion, provided Cicerone IS
discussed by this or that undeniable *Italian* philosopher is enough to provide
us with some nice secondary literature!” – Grice: “As an example, I would
mention the two-volume of the ‘Storia della filosofia’ – if you check for the
“Roman chapter,” it’s mainly all about Cicerone – with some footnote to
Lucrezio and Aurelio!” – Grice: “Recall that Roman-Roman philosophy is pretty
recent: due to the embassy by the three Greek philosophers who arrived in Rome
in 183 a. u. c., and – philosophy then became the pastime of the leisurely
class, notably the Scipioni!” -- della
cultura greca, attraverso la sua opera i Romani poterono anche acquisire una
migliore conoscenza della filosofia greca. Tra i suoi maggiori contributi alla cultura latina, vi
fu la creazione di un lessico filosofico latino: Cicerone si impegnò, infatti,
a trovare il corrispondente vocabolo in latino per ogni termine specifico del
linguaggio filosofico greco. Tra le opere fondamentali per la comprensione del
mondo latino si collocano, invece, le Lettere/Epistulae (in particolar modo,
quelle all'amico Tito Pomponio Attico) che offrono numerose riflessioni su ogni
avvenimento, permettendo così di comprendere quali fossero le reali linee
politiche dell'aristocrazia romana. C.
occupò, per molti anni, anche un ruolo di primaria importanza nel mondo della
politica romana: dopo aver salvato la repubblica dal tentativo eversivo di
Lucio Sergio Catilina (e aver così ottenuto l'appellativo di pater patriae,
padre della patria), fu un membro eminente della fazione degli Optimates.
Infatti, nelle guerre civili, difese strenuamente, fino alla morte, una
repubblica giunta ormai all'ultimo respiro e destinata a trasformarsi nel
principatus augusteo. C. nacque a Ponte Olmo, in prossimità del fiume Fibreno
accanto al comune di Arpinum (area attualmente occupata dall'Abbazia di San
Domenico. Gli Arpinati ricevettero la civitas sine suffragio nel IV secolo a.C.
e i pieni diritti di cittadinanza nel 188 a.C.; in seguito, la città ottenne
anche lo status di municipium.[5] La lingua latina era in uso già da lungo
tempo[6]; tuttavia, ad Arpino, era diffuso anche l'insegnamento della lingua
greca, che l'élite senatoriale romana preferiva spesso a quella latina,
riconoscendone la maggiore raffinatezza e precisione.[7] L'assimilazione, da
parte dei Romani, delle comunità italiche vicine a Roma (avvenuta tra il II e
il I secolo a.C.), permise a Cicerone di diventare scrittore, statista e
oratore. Cicerone apparteneva alla
classe equestre (la piccola nobiltà locale) e, anche se lontanamente
imparentato con Gaio Mario (il corifèo dei Populares durante la guerra civile
contro gli optimates di Lucio Cornelio Silla[8]), non aveva alcun legame con
l'oligarchia senatoriale romana; era dunque un homo novus. La famiglia era
composta dal padre Marco Tullio Cicerone il Vecchio, uomo colto ma di origine
sconosciuta; dalla madre Elvia, di nobile casato e integri costumi[9] e dal
fratello Quinto. Il cognomen Cicero è il
soprannome di un suo antenato abbastanza noto per un'escrescenza carnosa sul
naso (presumibilmente, una verruca) che ricorda un cece -- cicer, ciceris è il
termine latino per cece. Quando Marco presenta, per la prima volta, la propria
candidatura a un ufficio pubblico, alcuni amici gli sconsigliarono l'utilizzo
del suo cognomen ma egli rispose che «avrebbe fatto sì che esso diventasse più
noto di quello degli Scauri e dei Catuli.
céce e cécio nap. cecere, ven. cesere, c. ciciru, sard.
cixiri; prov. cezer; fr. ceire; ted. kicher (pruss. kockers ¡sello):
dallat. cicer (= ciR-crR) - acc. ci- CEREM - che il Curtius deriva dalla
ra KAR esser duro, onde il sser. KAR-EAR-duro e come sost. osso ed anche
pisell KHAR-AS duro, ruvido, KAR-AKA noce cocco o il gr. KAR-KAROS duro e come
s stant. pisello (cfr. Ardito). - Ad altri il vece sembra affine al lat. cicus
involuca del seme dei frutti (cfr. Chicco), ovyero gr. KEKis escrescenza. - Specie
di legun in torma di granello alquanto appuntat che secco indurisce assai e si
mangia cott Deriv. Cecerèllo; Ceciarollo; Ceciato. Cfr. G cèrbita;
Cicérchia; ¿cerone.Studi Fanciullo
che legge Cicerone di Vincenzo Foppa, Collezione Wallace di Londra. Cicerone si
rivelò subito un fanciullo dotato di una straordinaria intelligenza (tanto da
distinguersi, a scuola, dai propri coetanei) che gli fece accumulare fama e
onore.[11] Il padre, auspicando una
brillante carriera forense e politica per i figli, li condusse a Roma dove
Marco venne introdotto nel circolo dei migliori oratori (e protettori della sua
famiglia): Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio Oratore; Crasso ebbe particolare
influenza su Cicerone che lo considerò sempre un modello di oratore e di
statista. A Roma, poté anche formarsi nella giurisprudenza, grazie alla scuola
di Quinto Mucio Scevola[12]. Tra i suoi compagni, ci furono anche Gaio Mario il
Giovane, Servio Sulpicio Rufo (destinato a divenire un celebre avvocato,
nonché, uno dei pochi che Cicerone considerò superiori a sé stesso) e Tito
Pomponio (che prese poi il cognomen di Attico, dopo una lunga permanenza ad
Atene, e che divenne intimo amico di Cicerone; infatti, gli scrisse in una
lettera: «Sei per me come un secondo fratello, un alter ego al quale posso dire
ogni cosa»[13]). In questo periodo,
Cicerone si avvicinò anche alla poesia[14]: in particolare, si cimentò nella
traduzione delle opere di Omero e dei Fenomeni di Arato (opere che, in seguito,
influenzarono le Georgiche di Virgilio).
Particolarmente attratto dalla filosofia,[15] alla quale avrebbe dato
grandi contributi (tra i quali, la creazione del vocabolario filosofico in
lingua latina), nel 91 a.C. incontrò, assieme all'amico Tito Pomponio, il
filosofo epicureo Fedro in visita a Roma; entrambi ne rimasero affascinati ma
solo Pomponio rimase, per tutta la vita, seguace della dottrina epicurea. Tra
il 79 e il 77 a.C., conobbe il maestro di retorica Apollonio Molone[16] (che
istruì, pochi anni dopo, anche Gaio Giulio Cesare) e l'accademico Filone di
Larissa che esercitò su di lui, un'influenza profonda: infatti, era a capo
dell'Accademia di Atene che Platone aveva fondato circa trecento anni prima; di
conseguenza, grazie a lui, Cicerone assimilò la filosofia platonica, tanto che
arrivò spesso a definire Platone come il proprio dio (pur rigettando la sua
teoria delle idee). Poco tempo dopo,
Cicerone incontrò Diodoto, esponente dello stoicismo; tale movimento era già
stato precedentemente introdotto a Roma, dove aveva ricevuto larghi consensi
grazie all'enfasi posta sul controllo delle emozioni e sulla forza di volontà
(in linea con gli ideali romani). Cicerone non adottò completamente l'austera
filosofia stoica ma preferì uno stoicismo modificato; in seguito, Diodoto
divenne un protetto di Cicerone, dal quale fu ospitato fino alla
morte[15]. Cursus honorum Prime
esperienze Il sogno di infanzia di Cicerone era quello di "essere sempre
il migliore ed eccellere sugli altri", in linea con gli ideali omerici:
infatti, desiderava dignitas e auctoritas, simboleggiati dalla toga pretesta e
dalla verga dei littori; c'era un solo modo per ottenerli: percorrere i gradini
del cursus honorum. Nel 90 a.C., tuttavia, era ancora troppo giovane per
approdare a qualsiasi carica del cursus honorum ma non per acquisire
l'esperienza preliminare in guerra che una carriera politica richiedeva. Tra il
90 a.C. e l'88 a.C., Cicerone servì sotto Gneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio
Silla durante le campagne della guerra sociale sebbene non provasse alcuna
attrazione per la vita militare dato che si sentiva un intellettuale (infatti,
molti anni dopo, scrisse al suo amico Attico che stava raccogliendo statue
marmoree per le ville di Cicerone, "Perché mi spedisci una statua di
Marte? Sai che io sono un pacifista!"[17]). L'ingresso di Cicerone nella carriera forense
avvenne ufficialmente nell'81 a.C. con la sua prima orazione pubblica, la Pro
Quinctio, per una causa in cui ebbe come avversario il più celebre oratore del
tempo, Quinto Ortensio Ortalo. Ma il suo vero esordio nell'oratoria a carattere
politico (almeno secondo le testimonianze scritte pervenute), si ebbe con la
Pro Roscio Amerino che conserva molto di scolastico nello stile
esuberante[18][19]: nell'orazione, difese, con successo, un figlio
ingiustamente accusato di parricidio, dimostrando grande coraggio
nell'assumersene la difesa (il parricidio era, infatti, considerato tra i
crimini peggiori a Roma) mentre i veri colpevoli erano sostenuti dal liberto di
Silla, Lucio Cornelio Crisogono. Se Silla avesse voluto, sarebbe stato fin
troppo facile eliminare Cicerone, proprio alla sua prima apparizione nei
tribunali. Lucio Cornelio Silla
Cicerone divise le sue argomentazioni in tre parti: nella prima, difese Roscio
e tentò di provare che non era stato lui a commettere l'assassinio; nella
seconda, attaccò quelli che avevano realmente commesso il crimine (tra cui,
anche un parente dello stesso Roscio) e dimostrò come l'assassinio favoriva più
loro che Roscio; nella terza, attaccò direttamente Crisogono, affermando che il
padre di Roscio fosse stato assassinato per ottenere i suoi terreni a un prezzo
conveniente, una volta messi all'asta. In forza di queste argomentazioni, Roscio
fu assolto. Per sfuggire a una probabile
vendetta di Silla[20], tra il 79 e il 77 a.C., Cicerone si recò, accompagnato
dal fratello Quinto, dal cugino Lucio e probabilmente anche dall'amico Servio
Sulpicio Rufo, in Grecia e in Asia Minore[21]: particolarmente significativa fu
la sua permanenza ad Atene dove incontrò nuovamente l'amico Attico che, fuggito
da un'Italia sconvolta dalle guerre, si era rifugiato in Grecia; Attico, in
seguito, divenne cittadino onorario di Atene e poté presentare a Cicerone, alcune
tra le più importanti personalità ateniesi del tempo. Ad Atene, inoltre,
Cicerone visitò quelli che erano i luoghi sacri della filosofia, a cominciare
dall'Accademia di Platone (di cui era allora a capo Antioco di Ascalona). Di
quest'ultimo, Cicerone ammirò la facilità di parola, senza tuttavia
condividerne le idee filosofiche (ben differenti da quelle di Filone di
Larissa, delle quali era convinto ammiratore[22][23]). Dopo un breve soggiorno
a Rodi, dove conobbe lo stoico Posidonio, tornò in Grecia (dove fu iniziato ai
misteri eleusini, che lo impressionarono molto) e dove poté visitare l'Oracolo
di Delfi; in quell'occasione, domandò alla Pizia in quale modo avrebbe potuto
raggiungere la gloria ed ella gli rispose che avrebbe dovuto seguire il suo istinto
invece dei suggerimenti che riceveva[24].
Ingresso in politica Busto di
Cicerone Tornato a Roma dopo la morte di Silla, Cicerone iniziò la sua vera e
propria carriera politica, in un ambiente sostanzialmente favorevole: nel 76
a.C., dopo aver pronunciato la celebre orazione Pro Roscio comoedo, si presentò
come candidato alla questura, la prima magistratura del cursus honorum.[25] I
questori, eletti per un massimo di venti membri, si occupavano della gestione
finanziaria o assistevano propretori e proconsoli nel governo delle province.
Eletto alla carica per la città di Lilibeo (l'odierna Marsala), nella Sicilia
occidentale, svolse il proprio lavoro con scrupolo e onestà (tanto da
guadagnarsi la fiducia degli abitanti del luogo). Durante la permanenza in
Sicilia, visitò la tomba di Archimede a Siracusa: grazie al suo interesse per
l'uomo, sono state rinvenute alcune importanti informazioni sullo scienziato
(in particolare, per quanto riguardi il suo planetario). Al termine del mandato, i siciliani gli
affidarono la causa contro il propretore Verre, colpevole di aver tiranneggiato
l'isola nel triennio 73-71 a.C.[26][27]. Cicerone raccolse le prove della
colpevolezza, pronunciò due orazioni preliminari (Divinatio in Quintum
Caecilium e Actio prima in Verrem) e l'ex-governatore, attaccato da prove
schiaccianti, scelse l'esilio volontario[28]. Le cinque orazioni preparate per
le successive fasi del processo (che costituiscono l'Actio secunda), furono
pubblicate in seguito e costituiscono un'importante prova del malgoverno che
l'oligarchia senatoria esercitava a seguito delle riforme di Silla. Attaccando
Verre, Cicerone attaccò la prepotenza della nobiltà corrotta ma non
l'istituzione senatoria stessa (anzi, fece appello proprio alla dignità di tale
ordine affinché ne estromettesse i membri indegni). Acquisì, inoltre, un enorme
prestigio perché a difendere Verre era Quinto Ortensio Ortalo, considerato il
più grande avvocato dell'epoca[29]: "sconfitto", Ortensio dovette
accettare che il suo posto venisse preso da Cicerone (il quale, si guadagnò il
titolo di "Principe del Foro"); nonostante l'episodio, tuttavia, i
due oratori strinsero, in seguito, un buon legame di amicizia (infatti, proprio
a Ortalo che elogiò anche nel Brutus, Cicerone dedicò un'intera opera non
pervenuta, l'Hortensius). A Roma,
l'oratoria e l'attività forense erano uno dei principali mezzi di propaganda
per i politici emergenti, poiché non esistevano documenti scritti di argomento
politico (con l'eccezione degli Acta Diurna che, però, godevano di scarsa
diffusione). Contro Cicerone, tuttavia, rimaneva la diffidenza dei nobili verso
gli homines novi, accresciuta dal fatto che l'ultimo homo novus ad acquisire
rilevante peso politico fosse stato un concittadino dello stesso Cicerone, Gaio
Mario. Tuttavia, anche lo stesso Silla, fiero oppositore di Mario, aveva preso
alcuni provvedimenti che permettevano e facilitavano l'ingresso degli equites
nella vita politica, dando così a Cicerone la possibilità di raggiungere le
vette del cursus honorum. Il successo
ottenuto da quelle orazioni (che vennero poi chiamate Verrine), anticipatrici
dei principi di un governo umano e ispirato a onestà e filantropia, portò
Cicerone in primo piano sulla scena politica: nel 69 a.C., venne eletto alla
carica di edile curule[30] e, nel 66 a.C., diventò anche pretore con una
elezione all'unanimità[31]. Nello stesso anno, pronunciò il suo primo discorso
politico, Pro lege Manilia de imperio Cn. Pompei, in favore del conferimento
dei pieni poteri a Pompeo per la guerra mitridatica; in quell'occasione, Pompeo
era appoggiato dai cavalieri, interessati alla rapida risoluzione della guerra
in Asia, mentre gli era contraria la maggioranza del Senato[32]. Il motivo
dell'impegno di Cicerone in una causa ostile all'alta aristocrazia (che,
d'altronde, era restìa ad accoglierlo tra le proprie file) stava probabilmente
nell'importanza che essa aveva per i pubblicani (titolari degli appalti
pubblici e della riscossione delle imposte) e gli affaristi, minacciati nei
loro interessi da Mitridate VI. La provincia dell'Asia Minore, minacciata dal
sovrano del Ponto, era, infatti, particolarmente attiva dal punto di vista
dell'economia e del commercio.
Consolato Cicerone denuncia
Catilina, affresco di Cesare Maccari a Palazzo Madama in Roma che raffigura
Cicerone mentre pronuncia una delle orazioni contro Catilina Nel 65 a.C.
Cicerone presentò la candidatura al consolato. Nel 64 venne eletto console per
l'anno successivo (ossia il 63 a.C.). La sua posizione venne illustrata dal
fratello Quinto in un'opera (di dubbia attribuzione: la scrisse lo stesso
Cicerone?), Commentariolum petitionis, scritta per consigliarlo nella campagna
elettorale. Per un gioco delle classi, Cicerone risultò eletto con il voto di
tutte le centurie.[33] Assieme a lui risultò eletto il patrizio Gaio Antonio
Ibrida, zio di Marco Antonio, futuro triumviro e acerrimo nemico dell'arpinate,
accusato dallo stesso Cicerone (In toga candida, orazione - pervenutaci in
condizioni frammentarie - tenuta in Senato come candidato poco prima delle
elezioni del 64) di essere collusore di Lucio Sergio Catilina.[34] La fiducia
riposta in Cicerone dalla classe equestre venne ripagata già all'inizio del
consolato con la pronuncia di quattro orazioni (De lege agraria) contro la
proposta di redistribuzione delle terre del tribuno Publio Servilio
Rullo.[35] Durante il proprio consolato
Cicerone dovette contrastare il tentativo di congiura messo in atto da
Catilina. Questi era un nobile impoverito che, dopo aver combattuto insieme a
Silla e aver completato il cursus honorum, aspirava a diventare console.
Catilina si candidò a console tre volte e tre volte venne fermato con processi
dubbi o con possibili brogli elettorali e infine ordì una congiura per
rovesciare la repubblica.[36] Catilina contava soprattutto sull'appoggio della
plebe, a cui prometteva radicali riforme, e sugli altri nobili decaduti, ai
quali prospettava un vantaggioso sovvertimento dell'ordine costituito, che lo
avrebbe probabilmente portato ad assumere un potere monarchico o quasi, inoltre
sembrerebbe fosse stato supportato politicamente da Gaio Giulio Cesare che
venne però tenuto fuori dallo stesso Cicerone e non ebbe conseguenze.[37]
Venuto a conoscenza del pericolo che la Repubblica correva grazie alla soffiata
di Fulvia, amante del congiurato Quinto Curio,[38] Cicerone fece promulgare dal
Senato un senatus consultum ultimum de re publica defendenda, cioè un
provvedimento con cui si attribuivano, come era previsto in situazioni di
particolare gravità, poteri speciali ai consoli.[39][40] Sfuggito poi a un
attentato da parte dei congiurati,[41] Cicerone convocò il Senato nel tempio di
Giove Statore, dove pronunciò una violenta accusa a Catilina, con il discorso
noto come Prima Catilinaria[42][43], che si apre con il celebre incipit (LA) «Quousque tandem abutere, Catilina,
patientia nostra?» (IT) «Fino a quando,
Catilina, abuserai della nostra pazienza?»
(Marco Tullio Cicerone, Catilinarie I,1)
Catilina, visti i suoi piani svelati, fu costretto a lasciare Roma per
ritirarsi in Etruria presso il suo sostenitore Gaio Manlio, lasciando la guida
della congiura ad alcuni uomini di fiducia, Lentulo Sura e Cetego.[44][45] Grazie alla collaborazione di una delegazione
di ambasciatori inviati a Roma dai Galli Allobrogi, Cicerone poté però trascinare
anche Lentulo e Cetego davanti al Senato: gli ambasciatori, incontratisi con i
congiurati, che avevano dato loro documenti scritti in cui promettevano grandi
benefici se avessero appoggiato Catilina, furono arrestati fittiziamente e i
documenti caddero nelle mani di Cicerone. Questi portò Cetego, Lentulo e gli
altri davanti al Senato, ma nel decidere quale pena dovesse essere applicata,
si scatenò un acceso dibattito: dopo che molti avevano sostenuto la pena
capitale, Gaio Giulio Cesare propose di punire i congiurati con il confino e la
confisca dei beni. Il discorso di Cesare provocò scalpore, e avrebbe
probabilmente convinto i senatori se Marco Porcio Catone Uticense non avesse
pronunciato un altrettanto acceso discorso in favore della pena di morte. I
congiurati furono quindi giustiziati, e Cicerone annunziò la loro morte al
popolo con la formula: (LA)
«Vixerunt» (IT) «Vissero» (Marco Tullio Cicerone) poiché era considerato di cattivo auspicio
pronunciare la parola "morte" (ed espressioni di significato affine
come "sono morti") nel foro. Catilina fu poi sconfitto, nel gennaio
62, in battaglia assieme al suo esercito.
Cicerone, che non smise mai di vantare il proprio ruolo determinante per
la salvezza dello Stato (si ricordi il famoso verso di Cicerone sul suo
consolato: Cedant arma togae, trad: "che le armi lascino il posto alla
toga [del magistrato]"), grazie al ruolo svolto nel reprimere la congiura,
ottenne un prestigio incredibile, che gli valse addirittura l'appellativo di
pater patriae. Nonostante ciò, la scelta di autorizzare la condanna a morte dei
congiurati senza concedere loro la provocatio ad populum (ovvero l'appello al
popolo, che poteva decretare la commutazione della pena capitale in una pena
detentiva) gli sarebbe costata cara soltanto pochi anni dopo. Durante la guerra civile Dal primo
triumvirato alle Idi di Marzo Gaio
Giulio Cesare (Musei Vaticani) A seguito del riemergere dei contrasti tra
senatori e populares, e dell'accordo tra Cesare e Pompeo ai danni
dell'oligarchia senatoria, Cicerone fu messo da parte. L'ultima possibilità di
rientrare nel gioco politico gli fu offerta nel 60 a.C. dai tre più potenti
uomini del momento, ovvero Pompeo, Cesare e Crasso, alla conclusione
dell'accordo per il primo triumvirato: essi chiesero a Cicerone di appoggiare
la legge agraria a favore dei veterani di Pompeo e della plebe meno abbiente.
Cicerone, tuttavia, rifiutò non solo per non apparire un traditore
dell'aristocrazia, ma anche per l'attaccamento all'ordine legale e sociale di
cui gli ottimati si proclamavano difensori.[46]
Dopo questo rifiuto e la costituzione del primo triumvirato, Cicerone si
tenne fuori dalla politica ma ciò non bastò a salvarlo dalle vendette dei
populares: all'inizio del 58 a.C. il tribuno della plebe Clodio Pulcro, nemico
di Cicerone per un precedente processo per sacrilegio,[47] fece approvare una
legge con valore retroattivo che condannava all'esilio chiunque avesse mandato
a morte un cittadino romano senza concedergli la provocatio ad populum. Si
trattava, in realtà, di un'abilissima mossa politica di Cesare (che per
l'appunto prima di partire per la Gallia attese che Cicerone fosse fuggito da
Roma) che, attraverso il suo alleato Clodio, eliminava così dalla scena
politica uno dei suoi avversari più tenaci, che avrebbero potuto osteggiarlo
durante la sua ascesa al potere. Cicerone fu dunque processato per la sua
condotta durante il processo ai Catilinari Lentulo e Cetego[48] e costretto
all'esilio. Lasciò Roma la notte tra il 19 e il 20 marzo di quell'anno e si
recò a Vibona, sperando di portarsi in Sicilia, ma il pretore Virgilio - benché
suo vecchio amico - non glielo consentì: in effetti l'isola distava da Roma
meno delle 500 miglia prescritte dal bando e pertanto Cicerone optò per la
città di Brindisi, dove soggiornò tredici giorni negli orti di Lenio Flacco
prima di salpare per Durazzo. In più occasioni nei suoi scritti l'oratore loda
l'ospitalità e l'amicizia dei brindisini e della famiglia di Lenio Flacco. Nei
mesi dell'esilio Cicerone non si diede pace, implorando le sue conoscenze
perché favorissero il suo ritorno. Clodio, però, fece approvare anche una serie
di altre leggi che prevedevano che Cicerone non si potesse neppure avvicinare
al confine dell'Italia, e che le sue proprietà venissero confiscate[49] In
realtà la villa sul Colle Palatino fu addirittura distrutta, e una sorte simile
toccò poco dopo a quelle di Formia e di Tusculum[50][51]. Nel 57 a.C. la
situazione a Roma migliorò, allorché i nobili e Pompeo posero un freno alle
iniziative di Clodio Pulcro: Cicerone poté dunque rientrare in Italia e,
proveniente da Durazzo, giunse nuovamente a Brindisi - come narra lui stesso -
il 5 agosto: nel porto oltre ai suoi familiari e la figlia Tullia che
festeggiava il compleanno, c'era anche Lenio Flacco; le accoglienze tributate
al retore furono raddoppiate dal fatto che nella città quel giorno ricorreva
anche l'anniversario della deduzione a colonia.
Tornato a Roma riprese la sua lotta contro il tribuno della plebe[52][53].
Simpatizzante degli optimates per via anche della sua personale amicizia con
Milone, uno dei capi della fazione, tenne tre orazioni in difesa di tre
optimates. Nel 56 a.C. Cicerone pronunciò l'orazione Pro Sestio in cui
allargava il suo precedente ideale politico: l'alleanza tra cavalieri e
senatori a suo avviso non era più sufficiente per stabilizzare la situazione
politica. Occorreva, quindi, un fronte comune di tutti i possidenti per opporsi
alla sovversione tentata dai populares: tale proposta prende il nome di
consensus omnium bonorum. Sempre lo stesso anno tenne l’orazione Pro Caelio con
cui Cicerone si trova a difendere Marco Celio Rufo dall’accusa di tentato
avvelenamento della sua amante, Clodia (sorella del tribuno della plebe Clodio
Pulcro e identificata dagli studiosi come la Lesbia di Catullo). Nonostante la
donna venisse dipinta come colei che per prima aveva tentato di uccidere
l’amante in quanto avversario politico del fratello le accuse erano
inconsistenti e Cicerone spiegò il gesto compiuto da Marco Celio Rufo come un errore
di gioventù. Nel 55 a.C. scrive In Pisonem, orazione contro il governatore di
Macedonia Lucio Calpurnio Pisone, suocero di Cesare. Patrizi e plebe si
scontravano con l'uso di bande armate, e in uno di questi scontri, più
precisamente sulla via Appia, Milone, organizzatore delle bande dei possidenti,
uccise il tribuno Clodio.[54][55] Al processo per omicidio, tenutosi nel 52
a.C., Cicerone difese Milone improntando la sua orazione sulla differenza tra
tirannicidio e omicidio; in questo caso sarebbe stato tirannicidio e per tanto
giustificabile. Ma, non riuscendo a pronunciare il suo discorso con la giusta
forza per il clamore della folla e per il timore che gli incutevano i
partigiani di Clodio nel foro, Milone venne condannato all'esilio a Marsiglia
(una versione della Pro Milone venne pubblicata solo successivamente, dando
modo di verificare come fosse un'orazione tra le più abili e sottili sul piano
giuridico). Il mondo romano allo
scoppio della guerra civile (1 gennaio 49 a.C.). Sono inoltre evidenziate le
legioni distribuite per provincia Dopo essere stato nominato augure nel 53 a.C.
al posto di Crasso,[56] nel 51 a.C. come proconsole si recò in Cilicia,[56]
proprio mentre i rapporti tra Cesare e Pompeo si inasprivano. Durante il
soggiorno lontano da Roma, i pensieri dell'oratore furono rivolti alla minaccia
della guerra civile. Tornato in patria, non cessò di invitare le parti alla
moderazione ed alla conciliazione, ma i suoi inviti caddero nel vuoto anche a
causa del fanatismo che spingeva Pompeo all'intransigenza nei confronti delle
richieste di Cesare. Quando Cesare varcò il Rubicone, Cicerone cercò di
accattivarsene il favore, ma poi decise ugualmente di lasciare l'Italia per
unirsi a Pompeo.[57][58] Sbarcò, dunque, a Dyrrachium, ma, raggiunti i Pompeiani,
si accorse di quanto le speranze che egli riponeva in loro quali salvatori
della repubblica fossero infondate: ognuno di loro era lì non in difesa degli
ideali, ma soltanto per tentare di trarre profitto dalla guerra. Dopo la grande
vittoria di Cesare nella battaglia di Farsalo, nel 48 a.C., Cicerone decise di
tornare a Roma, dove ottenne il perdono dello stesso Cesare nel 47
a.C.[59] Cicerone rivelava nelle sue
opere ed in lettere ad amici come Cornelio Nepote, riguardo alla personalità di
Cesare: «Non vedo a chi Cesare debba
cedere il passo. Ha un modo di esporre elegante, brillante ed anche, in un
certo modo si pronuncia in modo elegante e splendido... Chi gli vorresti
anteporre, anche tra gli oratori di professione? Chi è più acuto o ricco nei concetti?
Chi più ornato o elegante nell'esposizione?»
(Svetonio, Vite dei Cesari, Cesare, 55.)
La speranza di Cicerone di collaborare al governo di Cesare venne
troncata dalla piega assolutistica e monarchica presa dal potere[60]. L'oratore
si ritirò, iniziando la stesura di opere di carattere filosofico ed oratorio. A
questo si aggiunse il divorzio dalla moglie Terenzia e la morte della figlia
Tullia, seguita dalla separazione dalla seconda moglie Publilia, una
giovinetta. Quando Cesare fu ucciso, il
15 marzo del 44 a.C., a seguito della congiura ordita da Marco Giunio Bruto e
Gaio Cassio Longino, per Roma, e per lo stesso Cicerone, si avviò una nuova
fase politica, che avrebbe avuto termine solo con l'avvento dell'impero. L'opposizione ad Antonio e la morte Cicerone
non fu, certamente, colto di sorpresa dall'assassinio, da parte dei
Liberatores, di Giulio Cesare: era sicuramente al corrente della congiura che
si andava tessendo, ma decise sempre di tenersene al di fuori, pur manifestando
una grande ammirazione per l'uomo che era destinato a divenire il simbolo
stesso della congiura, Bruto. E lo stesso Bruto, infatti, con il pugnale sporco
del sangue di Cesare ancora in mano, additò Cicerone definendolo l'uomo che
avrebbe ristabilito l'ordine nella repubblica.[61] Scrisse a Lucio Minucio Basilo, uno dei
cesaricidi, una lettera per congratularsi dell'assassinio di Cesare: (LA) «Tibi gratulor, mihi gaudeo; te amo, tua
tueor; a te amari et, quid agas quidque agatur, certior fieri volo.» (IT) «Con te mi congratulo, per me sono
contento; ti sono vicino, ho cura delle tue cose; ti chiedo di volermi bene e
di farmi sapere che cosa fai e che cosa succede.» (Cicerone, Ad Familiares, vi, 15) La data della missiva non è conosciuta, ma
viene solitamente ritenuta vicinissima o coincidente alla congiura.[62]
L'espressione «quid agas quidque agatur» la indicherebbe[62] come scritta prima
che Cicerone si recasse al Campidoglio, dove i cospiratori avevano trovato
rifugio dopo l'assassinio, asserragliati nel tempio capitolino e protetti dai
gladiatori di Bruto.[63] Cicerone,
infatti, tornò ad essere anche di fatto uno dei maggiori rappresentanti della
fazione degli optimates, mentre Marco Antonio, luogotenente e magister equitum
di Cesare, prendeva le redini della fazione dei populares. Antonio tentò di
fare in modo che il senato decidesse di organizzare una spedizione contro i
Liberatores (che intanto si erano trasferiti nella penisola balcanica), ma
Cicerone fu promotore di un accordo che, assicurando il riconoscimento di tutti
i provvedimenti presi da Cesare nel corso della sua dittatura, garantiva
l'impunità a Bruto e Cassio.[64] Poco dopo, i due, assieme agli altri
congiurati, fuggirono verso la penisola ellenica.[65] Statua di Augusto comunemente detta Augusto
di Prima Porta, custodita ai Musei Vaticani. Tra Cicerone ed Antonio, comunque,
i rapporti non erano dei migliori, e i due, d'altra parte, si trovavano
all'esatto opposto in ambito politico: Cicerone era il difensore degli
interessi dell'oligarchia senatoriale, convinto sostenitore della repubblica
monopolizzata dai ricchi, mentre Antonio avrebbe voluto fare suoi i progetti di
Cesare ed assumere gradualmente un potere monocratico.[66] Intanto, un'altra
figura si andava affermando dal nulla nel panorama politico di Roma, la figura
del giovane Ottaviano (destinato a diventare Augusto), pronipote di Cesare e
suo erede designato nel testamento.[67][68] Ottaviano decise di adottare una
politica filosenatoriale, senza mostrare nessuna volontà di imitare le mosse di
Cesare. Cicerone, allora, si schierò
ancora più apertamente contro Antonio, definendo Ottaviano come vero erede
politico di Cesare, e come uomo mandato dagli dèi per ristabilire l'ordine.[69]
Cicerone sperava, infatti, nell'affermazione di un giovane princeps in re
publica che, assistito da un membro del senato di grande esperienza, come lo
stesso Cicerone, riportasse la pace e riformasse la repubblica.[70] Iniziò,
inoltre, tra il 44 a.C. e il 43 a.C., a pronunciare contro Antonio una serie di
orazioni, note con il nome di Filippiche in quanto richiamavano quelle omonime
pronunciate da Demostene contro Filippo II di Macedonia. Intanto, Antonio,
nella volontà di condurre una nuova guerra in Gallia per accrescere il proprio
prestigio, decise di marciare contro Decimo Giunio Bruto Albino, governatore
della Gallia Cisalpina, e lo assediò nella città di Modena. Qui Antonio fu però
raggiunto dagli eserciti consolari guidati da Aulo Irzio, Gaio Vibio Pansa e
dallo stesso Ottaviano, che lo sconfissero.[71]
Tornato a Roma, Ottaviano si trovò nella situazione di dover scegliere
tra il totale abbandono della politica cesariana, che avrebbe tenuto in vita
l'agonizzante repubblica, e l'allontanamento dal Senato, al quale rischiava di
asservirsi totalmente.[72] Scelse di proseguire almeno in parte la politica
cesariana, e costituì, assieme ad Antonio e a Marco Emilio Lepido, il secondo
triumvirato, un accordo politico secondo il quale i tre uomini avrebbero dovuto
compiere una profonda opera di riforma della repubblica.[73] Cicerone fu
costretto ad accettare che sarebbe ora stato impossibile attuare il suo piano
di un princeps, ma non per questo ritirò le severe accuse rivolte ad Antonio
nelle Filippiche. Quest'ultimo, allora, nonostante la fievole opposizione di
Ottaviano, decise di inserire Cicerone nelle liste di proscrizione, decretando,
così, la sua condanna a morte.[74]
Cicerone lasciò allora Roma e si ritirò nella sua villa di Formia, che
aveva ricostruito dopo gli episodi legati a Clodio. A Formia, però, fu
raggiunto da alcuni sicari inviati da Antonio, che, aiutati da un liberto di
nome Filologo,[75] poterono trovarlo fin troppo facilmente. Cicerone, accortosi
dell'arrivo dei suoi assassini, non tentò di difendersi, ma si rassegnò alla
sua sorte, e venne decapitato. Tale località prese il nome di Vindicio (dal
latino "vindicta", vendetta), attuale frazione di Formia.[76] Una
volta ucciso, per ordine di Antonio, gli furono tagliate anche le mani (o forse
soltanto la mano destra, usata per scrivere ed indicare durante i discorsi),
con cui aveva scritto le Filippiche,[77] che furono esposte in senato insieme
alla testa, appese ai rostri che si trovavano sopra la tribuna da cui i
senatori tenevano le loro orazioni, come monito per gli oppositori del
triumvirato.[78][79] (LA) «Prominenti ex
lectica praebentique immotam cervicem caput praecisum est. Nec satis stolidae
crudelitati militum fuit: manus quoque scripsisse aliquid in Antonium
exprobrantes praeciderunt.» (IT)
«Sporgendosi dalla lettiga ed offrendo il collo senza tremare, gli fu recisa la
testa. E ciò non bastò alla sciocca crudeltà dei soldati: essi gli tagliarono
anche le mani, rimproverandole di aver scritto qualcosa contro Antonio.» (Livio - Ab Urbe condita libri, CXX - cit. in
Seneca il Vecchio, Suasoriae, 6,17)
(GRC) «Αὐτὸς δ' ὥσπερ εἰώθει τῇ ἀριστερᾷ χειρὶ τῶν γενείων ἁπτόμενος,
ἀτενὲς ἐνεώρα τοῖς σφαγεῦσιν, αὐχμοῦ καὶ κόμης ἀνάπλεως καὶ συντετηκὼς ὑπὸ
φροντίδων τὸ πρόσωπον, ὥστε τοὺς πλείστους ἐγκαλύψασθαι τοῦ Ἑρεννίου σφάζοντος
αὐτόν. Ἐσφάγη δὲ τὸν τράχηλον ἐκ τοῦ φορείου προτείνας, ἔτος ἐκεῖνο γεγονὼς
ἑξηκοστὸν καὶ τέταρτον. Τὴν δὲ κεφαλὴν ἀπέκοψαν αὐτοῦ καὶ τὰς χεῖρας, Ἀντωνίου
κελεύσαντος, αἷς τοὺς Φιλιππικοὺς ἔγραψεν. Αὐτός τε γὰρ ὁ Κικέρων τοὺς κατ'
Ἀντωνίου λόγους Φιλιππικοὺς ἐπέγραψε, καὶ μέχρι νῦν Φιλιππικοὶ καλοῦνται.» (IT) «Ed egli, come era solito, toccandosi le
guance con la mano sinistra, impassibilmente rivolse lo sguardo ai sicari,
ricoperto dal sudore e dalla capigliatura e disfatto nel volto dalle preoccupazioni,
tanto che i più si coprirono il volto mentre Erennio lo uccideva. E fu ucciso
mentre sporgeva il collo dalla lettiga, quando quello che trascorreva era il
suo sessantaquattresimo anno. E, per ordine di Antonio, tagliarono la sua testa
e le sue mani, con le quali aveva scritto le Filippiche. Cicerone stesso
infatti intitolò Filippiche le orazioni contro Antonio e tuttora sono chiamate
Filippiche.» (Plutarco, Vite parallele,
Vita di Cicerone, 48, 4-6) Una volta
sconfitto Antonio, Ottaviano scelse Marco, figlio di Cicerone, come collega per
il consolato, e proprio Marco comminò le pene ad Antonio, facendone abbattere
le statue e decretando che nessun membro della gens Antonia avrebbe più potuto
essere chiamato Marco.[80] Plutarco
racconta che quando, tempo dopo, insignito del titolo di Augusto, Ottaviano
trovò un nipote che leggeva le opere di Cicerone, gli prese il libro, e ne
lesse una parte. Una volta che glielo ebbe restituito, disse: "Era un
saggio, ragazzo mio, un saggio, e amava la patria".[81] Vita privata Matrimoni Cicerone probabilmente
sposò Terenzia all'età di 29 anni, nel 77 a.C. Il matrimonio - di convenienza -
fu piuttosto armonioso per 30 anni. Terenzia era di famiglia patrizia ed era
una ricca ereditiera, entrambi fattori particolarmente importanti per il
giovane ambizioso che era Cicerone. Da Terenzia Cicerone avrà due figli: Marco
Tullio Cicerone, che come il padre diventerà un politico a Roma, e Tullia o «la
dolce Tulliola», come appunto viene descritta da Cicerone in una delle sue
innumerevoli lettere; che sposò prima con un Pisone Frugi e poi in seconde
nozze con Publio Cornelio Dolabella dal quale divorzierà perché il padre
sosteneva la fazione degli ottimati mentre Dolabella era luogotenente di
Cesare, infine morirà molto giovane all'età di 34 anni. Una delle sorelle o
cugina di Terenzia era stata scelta come vergine Vestale, il che costituiva un
grandissimo onore. Terenzia era una donna dal carattere forte e prese parte
alla carriera politica di suo marito più di quanto permise a lui di prenderne
negli affari di famiglia. Non condivise, tuttavia, gli interessi intellettuali
di Cicerone né il suo agnosticismo. Cicerone lamenta a Terenzia in una lettera
scritta durante il suo esilio in Grecia che «...né gli dei che Lei ha adorato
con tale devozione né gli uomini che io ho servito hanno mostrato il più
piccolo segno di gratitudine nei nostri confronti».[82] Terenzia era una donna
devota e probabilmente piuttosto materialista.
Alla fine del 47 a.C. o all'inizio del 46 a.C. Cicerone ripudiò
Terenzia.[83] I motivi del distacco sono ignoti, ma Cicerone accusò la moglie
di averlo trascurato durante la guerra, di non essere neppure venuta ad
accoglierlo al suo ritorno e di avergli restituito la casa gravata di forti
debiti.[84] Verso la fine del 46 a.C.
Cicerone sposò Publilia, giovane e ricca fanciulla orfana di padre, che viveva
sola con la madre.[85] Secondo Terenzia (che accusava Publilia di essere la
causa del suo divorzio), la giovinezza della fanciulla avrebbe causato l'innamoramento
di Cicerone, mentre secondo Tirone, liberto dell'oratore, dietro la decisione
ci sarebbe stato il desiderio di usufruire dei beni della giovane[86]; Cicerone
peraltro era già stato nominato tutore di Publilia, e ne amministrava le
ricchezze.[87] Poco dopo il matrimonio, Tullia, figlia di Cicerone, morì di
parto.[88] Egli rimase fortemente colpito e nel luglio del 45 a.C., mentre gli
amici gli recavano conforto, decise di ripudiare Publilia colpevole di essersi
rallegrata della morte di Tullia, dopo soli sette mesi di matrimonio.[89] Il divorzio dalla storica consorte Terenzia e
le seconde nozze con Publilia, destinate anch'esse alla rottura, resero
Cicerone oggetto di feroci critiche, come quelle rivoltegli da Antonio nelle
repliche alle Filippiche. Entrambe le
mogli di Cicerone morirono in tardissima età, cosa insolita per quei tempi
(Terenzia addirittura centenaria; in quanto a Publilia, era ancora viva durante
l'impero di Tiberio, avendo sposato in seconde nozze il console Gaio Vibio
Rufo, secondo quanto afferma Cassio Dione).
Prole È universalmente noto l'amore di Cicerone per la figlia Tullia,
sebbene il matrimonio con Terenzia, da cui lei era nata, fosse stato un
matrimonio di convenienza. Tullia era l'unica persona che Cicerone non criticò
mai. La descrive così in una lettera al fratello Quinto: «Com'è affettuosa,
com'è modesta, com'è intelligente!»[82] Quando lei si ammalò improvvisamente
nel febbraio del 45 a.C. e morì, dopo che era sembrato che potesse guarire,
dando alla luce un figlio, Cicerone scrisse ad Attico: «Ho perso l'unica cosa
che mi legava alla vita».[17] Attico
invitò Cicerone ad andarlo a trovare nelle prime settimane dopo la morte di
Tullia per poterlo consolare. Nella grande biblioteca di Attico, Cicerone lesse
tutto quello che i filosofi greci avevano scritto circa il superamento del
dolore, «...ma il mio dolore sconfigge ogni consolazione».[90] Cesare e Bruto
gli spedirono lettere di condoglianze, e così fece anche il suo vecchio amico e
collega, l'avvocato Servio Sulpicio Rufo. Questi spedì una lettera che in seguito
è stata molto apprezzata, piena di riflessioni sulla fugacità di tutte le
cose. Dopo un po', Cicerone decise di
abbandonare ogni compagnia per ritirarsi in solitudine nella sua villa di
Astura, appena acquistata. Si trovava in un bosco solitario, ma non lontano da
Napoli, e per molti mesi non fece altro che camminare per il bosco, piangendo.
Scrisse ad Attico: «Io mi immergo là nel bosco selvatico e fitto la mattina
presto, e vi soggiorno fino a sera».[17] Più tardi decise di scrivere un libro
per insegnare a se stesso come superare il dolore; questo libro, intitolato
Consolatio, fu estremamente apprezzato in antichità (in particolare da
Sant'Agostino), ma sfortunatamente è andato perduto, e ne restano solo pochi
frammenti. In seguito Cicerone progettò anche di far erigere un piccolo tempio
alla memoria di Tullia, la "sua incomparabile" figlia, ma poi non
portò a termine il progetto, per ragioni ignote. Cicerone sperava che il figlio Marco
scegliesse di diventare filosofo come lui, ma era un'aspettativa priva di basi:
Marco, per conto suo, desiderava intraprendere la carriera militare, e nel 49
a.C. si unì a Pompeo ed al suo esercito, e partì con loro per la penisola
ellenica. Quando nel 48 a.C., dopo la disastrosa sconfitta dei pompeiani a
Farsalo, Marco si presentò a Cesare, questi lo perdonò. Cicerone, allora, non
perse tempo, e lo mandò ad Atene a formarsi nella scuola del filosofo
peripatetico Cratippo, ma Marco, ben distante dall'occhio vigile del padre,
passò il tempo a mangiare, bere e divertirsi, seguendo le lezioni del retore
Gorgia. Dopo l'assassinio del padre,
Marco si unì all'esercito dei Liberatores, guidati da Marco Giunio Bruto e Gaio
Cassio Longino, ma dopo la sconfitta nella battaglia di Filippi, nel 42 a.C.,
fu perdonato da Ottaviano. Questi, infatti, sentendosi in colpa per aver
permesso che Cicerone fosse inserito nelle liste di proscrizione del secondo
triumvirato, decise di favorire la carriera del giovane Marco. Quest'ultimo
divenne, dunque, augure, e fu poi nominato prima console nel 30 a.C. assieme
allo stesso Ottaviano, e poi proconsole in Siria e nella provincia d'Asia. L'umorismo ciceroniano [91] Vedendo un busto marmoreo che raffigurava suo
fratello Quinto, uomo di bassa statura, Cicerone osservò: "Che strano! Mio
fratello è più grande quando è mezzo che quando è intero" Anche il marito
della figlia non era alto, e vedendolo indossare l’armatura e le armi di
legionario Cicerone chiese ai presenti: "Chi ha legato mio genero alla
spada?". Un certo Vibio Curione aveva il vezzo di abbassarsi l'età e
Cicerone: "Ma allora quando andavamo a scuola insieme non eri ancora
nato?". Saputo che Fabia Dolabella asseriva di avere trent’anni, Cicerone
assentì: "È vero! Sono vent’anni che glielo sento dire." Cicerone non
aveva nobili natali per cui il patrizio Metello Nepote lo derideva, durante le
udienze in tribunale, chiedendogli chi era suo padre. Ma Cicerone: "Per
quanto ti riguarda, invece, tua madre ti ha reso difficile rispondere a questa
domanda!" Ad un avversario disonesto che lo attaccò in Senato
domandandogli: "Perché abbai tanto?", Cicerone rispose: "Perché
vedo un ladro!" Cicerone politico
Lo stesso argomento in dettaglio: Pensiero politico di Cicerone. Busto di Cicerone (LA) «Potestas in populo,
auctoritas in senatu» (IT) «Il potere è
del popolo, l'autorità del senato»
(Marco Tullio Cicerone, De Legibus,3,12)
Come uomo politico, Cicerone è sempre stato bersaglio della critica di
antichi e moderni. Le accuse mossegli vanno dall'incoerenza alla vanità, alla
poca lungimiranza. Ma la sua conduzione oggettivamente può essere giustificata
se la si contestualizza nella politica del tempo, fatta in un mobile gioco di
accordi e conflitti tra gruppi di potere e famiglie nobili, che sfruttavano le
etichette di partito per mire personali.
«Cicerone era attaccato al governo repubblicano per tradizione e per
ricordo, rammentando le grandi cose che esso aveva fatto e a cui egli, come
molte altre persone, doveva le sue dignità, il suo grado sociale e il nome. Non
poteva dunque pensare a rassegnarsi così facilmente alla sua caduta, anche se
la libertà effettiva non esisteva più a Roma, e non ne restava che l'ombra. Non
bisogna biasimare coloro, come Cicerone, che vi s'attaccano e fanno sforzi
disperati per non lasciarla perire, poiché quest'ombra, questa apparenza li
consola della libertà perduta e infonde loro qualche speranza di
riconquistarla. Questo era ciò che pensavano i Romani che, come Cicerone, dopo
matura riflessione, senza entusiasmo, senza passione, e senza speranza,
andarono a raggiungere Pompeo»; questo è ciò che Lucano fa dire a Catone in
quei versi ammirevoli che esprimono i sentimenti di tutti coloro che, senza
nascondere la triste condizione della Repubblica, si ostinarono a difenderla
fino alla fine: «Come un padre, che ha or ora perduto il figlio, prova una
sorta di piacere a dirigere i riti funebri, accende con le sue mani il rogo,
non lo lascia che a malincuore e il più tardi possibile, così, Roma, io non
t'abbandonerò prima di averti tenuta morta tra le mie braccia. Io seguirò fino
alla fine il tuo solo nome, o libertà, anche quando non sarai più che un'ombra
vana».[92] Preoccupazione costante di
Cicerone fu la difesa dello status quo e dei diritti della grande proprietà
latifondista, desideroso soprattutto di acquisire presso i notabili romani il
credito necessario per entrare a far parte della classe dirigente. Egli si
adoperò quindi per la conservazione del potere e dei privilegi di cui godeva la
classe degli optimates, secondo una formula che, in sostanza, significava sicurezza
e tranquillità (otium) per tutti i possidenti, e che implicava che il potere
(dignitas) rimanesse nelle mani di un'oligarchia. Il suo preteso desiderio che
in questa élite si entrasse per "merito" e non per nascita,
quand'anche non lo si voglia meramente intendere come un sottinteso riferimento
alle sue vicende personali, rimase comunque un'astrazione teorica, un'utopia,
anche per l'assenza, allora come oggi, di una vera modifica nel tessuto
politico e sociale della Repubblica.[93]
Cicerone fu, inoltre, sostenitore dell'ideale politico della concordia
ordinum (intesa tra il ceto equestre e senatorio divenuta poi concordia omnium
bonorum, ovvero concordia di tutti i cittadini onesti), e la esaltò, in
particolare, nella quarta orazione contro Catilina: allora, per la prima volta
nella storia tardo repubblicana, i senatori, i cavalieri ed il popolo si
trovarono d'accordo sulle decisioni da prendere, decisioni dalle quali
dipendeva la salvezza dello stato. Cicerone auspicava che la concordia potesse
durare per sempre, pur capendo che essa era nata, in quel particolare
frangente, solo per la pressione emotiva: d'altronde, la concordia non faceva
leva su un particolare progetto politico, ma solamente su motivi di carattere
sentimentale ed economico.[94] Cicerone
filosofo Per le opere, vedi l'apposita sezione
La filosofia prima di Cicerone
Ritratto di Cicerone Cicerone fu il primo degli autori romani a comporre
opere filosofiche in latino: ne andava, infatti, molto fiero, ma si scusava,
allo stesso tempo, di aver dedicato alla filosofia così tanto tempo.[15]
Alcuni, infatti, ritenevano che fosse disdicevole per un uomo romano dedicarsi
alla filosofia, altri pensavano che comunque non bisognasse dedicarle più di un
certo tempo. Altri ancora, infine, erano convinti sostenitori della totale
superiorità della filosofia greca e consideravano per l'appunto solo le opere
greche degne di essere lette.[95]
Cicerone era però convinto che, se i Romani si fossero dedicati seriamente
alla filosofia, avrebbero allora raggiunto le stesse vette dei Greci, che già
avevano eguagliato nella retorica. Ma il gusto per le speculazioni filosofiche
era totalmente estraneo alla società romana: il vir era, d'altronde, un uomo
d'azione. I Romani conobbero la filosofia grazie al contatto con i Greci, ma
consideravano inutile, se non addirittura deleteria, una vita spesa alla
continua ricerca di un sapere che non portava nessuna gloria alla patria né
alcuna ricchezza. Il Senato arrivò, infatti, addirittura ad espellere dall'Urbe
i filosofi ateniesi che vi erano giunti in visita nel 155 a.C., Carneade,
Diogene e Critolao.[95] La stessa
nobilitas senatoriale non voleva, poi, che il popolo e i giovani si
interessassero alla filosofia (che avrebbe prodotto in loro un certo amore per
l'otium, allontanandoli dalla vita reale), ma furono costretti ad ammettere che
nessun uomo degno di tale nome poteva restare estraneo a questa scienza. I
senatori decisero di richiamare a Roma i filosofi che avevano scacciato per
prendere da loro delle vere e proprie lezioni di filosofia, vietando, comunque,
loro di insegnare la filosofia pubblicamente. Persino Marco Porcio Catone,
fiero oppositore della penetrazione della cultura greco-ellenistica a Roma,[96]
studiò la filosofia greca, come tutti gli esponenti dell'oligarchia senatoriale
del tempo.[95] A riscuotere un
istantaneo successo a Roma fu lo stoicismo, ma presto ad esso si unirono le
altre dottrine, i cui esponenti arrivarono "in massa" a Roma nel
corso del I secolo a.C. In poco tempo, dunque, la situazione aveva subito un
totale ribaltamento e non esisteva più uomo estraneo alla filosofia.[95] Formazione filosofica di Cicerone Cicerone
non si comportò diversamente dai suoi contemporanei, ma, almeno in gioventù,
studiò la filosofia convinto che si trattasse esclusivamente di un valido
supporto per la retorica: iniziò a comporre opere filosofiche, infatti,
soltanto in tarda età, quando solo la composizione, appunto, poteva essere
l'impiego del suo tempo libero. Nella filosofia Cicerone cercò e seppe trovare
la consolazione di cui aveva bisogno, il rimedio somministratogli dall'antica
saggezza.[95] Da giovane, Cicerone
studiò d'impulso l'epicureismo, dottrina che aveva avuto numerosi discepoli
anche a Roma, tra cui Amafinio, Cazio e Lucrezio. In principio, Cicerone fu,
infatti, allievo di filosofi epicurei, quali Fedro e Zenone. Più tardi, sotto
l'influsso di altri maestri, abbracciò, almeno in parte, lo stoicismo, ma non
ne fu mai un convinto sostenitore: come altri al suo tempo, elaborò una
personale fusione tra le due filosofie, in modo eclettico.[95] Mostrò,
tuttavia, forti preferenze per la dottrina accademica insegnatagli da Filone:
la teoria del probabilismo e del verosimile si adattavano perfettamente ad una
personalità quale quella di Cicerone, a cui si addiceva perfettamente anche
l'elevazione morale dello stoicismo. Questa particolare mescolanza fra più
filosofie fu la vera filosofia di Cicerone.[95]
Opere Marci Tullii Ciceronis
Opera Omnia, 1566 Scritti filosofici
Frontespizio di una stampa del De officiis; Christopher Froschouer, 1560
Le opere filosofiche di Cicerone costituiscono un'importante fonte su teorie
filosofiche ellenistiche poco documentate direttamente. In particolare gli
Academica sono una testimonianza essenziale sullo scetticismo della media
Accademia. In molti casi Cicerone traduce per la prima volta in latino termini
filosofici greci.[97] Ad esempio i termini probabile e probabilità, usati con
leggere varianti in tutte le lingue occidentali per indicare concetti
filosofici e scientifici, traggono il loro significato attuale dalla scelta di
Cicerone di tradurre con il latino probabilis il termine πιθανὸς (pithanòs),
nel senso in cui esso è usato da Carneade.[98]
Il De re publica e il De legibus, e la traduzione del Timeo e del
Protagora contribuirono a diffondere a Roma il Platonismo.[99] Panoramica alfabetica di tutte le opere
filosofiche Academica priora (prima stesura dei libri sulla dottrina della conoscenza
dell'accademia platonica). Catulus (Dialogo), la prima parte dell'Academica
priora, perduto. Lucullus (Dialogo), la seconda parte dell'Academica priora,
conservato. Academici libri oppure Academica posteriora (versione tarda del
trattato sulla dottrina della conoscenza dell'accademia platonica, in quattro
libri). Cato Maior de senectute ("Catone il censore,
sull'anzianità"). Cicerone immagina Catone il Censore all'età di 84 anni
ed esprime la sua nostalgia del buon tempo antico, quando a Roma l'uomo
politico eminente poteva mantenere prestigio e autorevolezza fino alla più tarda
età. Consolatio: una consolazione a sé stesso scritta alla morte dell'amata
figlia Tullia, in cui Cicerone esorta a considerare la caducità di ogni cosa e
l'importanza della filosofia. L'opera è andata perduta. De Divinatione
("Sulle profezie"): Quest'opera, probabilmente la più originale tra
tutte quelle composte da Cicerone, mette in luce un'opinione molto esplicita
sulla fiducia che bisogna riporre nell'arte aruspicina. Sebbene discuta anche
delle opinioni stoiche al riguardo, si nota che Cicerone tratta gli argomenti
con la dimestichezza di chi ha potuto osservare da vicino il funzionamento
della religione romana (nelle vesti di augure), e può trarne un lucido
giudizio, che non può non essere negativo. Da quest'opera e dal terzo libro del
De natura deorum i primi cristiani attinsero argomenti per combattere il
politeismo. De finibus bonorum et malorum ("Sui confini del bene e del
male"). È un dialogo in cinque libri che si pone il problema di cosa sia
il sommo bene, tenendo in considerazione le due filosofie antiche stoica ed
epicurea che, rispettivamente, lo classificavano come virtù e piacere. De Fato
("Sul Fato"), giuntoci non integralmente. Viene argomentata la
dottrina provvidenzialistica degli stoici. De natura deorum ("Sull'essenza
degli dei"): Il De natura deorum fu scritto nel 44 a.C., subito prima
della morte di Cesare, ed inviato a Bruto. Cicerone orchestra una conversazione
tra un epicureo, Velleio, uno stoico, Balbo, ed un accademico, Cotta, che
espongono e discutono le opinioni dei vecchi filosofi sugli dei e sulla
Provvidenza. L'ateismo dissimulato di Epicuro viene confutato da Cotta, che
sembra rappresentare lo stesso Cicerone. Cotta prende, poi, la parola, per
confutare anche il pensiero stoico riguardo alla Provvidenza. Se Cicerone respingeva
con certezza il parere degli epicurei al riguardo, non possiamo, invece, sapere
con altrettanta certezza cosa pensasse della religiosità dello stoicismo: le
parole di Cotta, pervenuteci, tra l'altro, solo in parte, non contengono
nessuna riflessione dello stesso Cicerone. Si è però ipotizzato che Cicerone
abbracciasse almeno in parte il probabilismo accademico, sebbene suoi
ammiratori fossero invece convinti che si fosse allontanato del tutto dallo
scetticismo. Comunque, è importante il poter constatare l'estrema discrezione
dell'atteggiamento di Cicerone: egli è persuaso che il culto nell'esistenza
degli dei e nella loro azione sul mondo debba esercitare una profonda influenza
sulla vita, e che è, dunque, di un'importanza fondamentale per il governo di
uno stato. Esso deve, perciò, essere mantenuto vivo nel popolo. Sono il
politico e l'augure che parlano. Cicerone non trova gli argomenti degli stoici
molto convincenti, e li confuta per mezzo di Cotta. Infine, si dice incline a
credere che gli dei esistano e che governino il mondo: lo crede, perché è
un'opinione comune a tutti i popoli. Questo" accordo" universale
equivale per lui ad una legge della natura (consensus omnium populorum lex
naturae putanda est). In quanto alla pluralità degli dei, sebbene non si
esprima categoricamente su questo punto, sembra che non ci creda, o per lo meno
che, come gli stoici, consideri gli dei come nient'altro, per così dire, che le
emanazioni del Dio unico. Concepisce poi questo Dio unico come uno spirito
libero e privo di qualsiasi elemento mortale, all'origine di tutto. Non
risparmia, invece, i racconti mitici del politeismo greco-romano; schernisce e
condanna le leggende comuni a tutti i popoli. Era soprattutto questa parte
dell'opera, il terzo libro, ad affascinare i filosofi del XVIII secolo: non era
difficile mettere in luce gli aspetti ridicoli della religione popolare, e si
può dire che anche al tempo di Cicerone ciò era diventato un luogo comune
filosofico. Gli uni, respingendo con disprezzo queste favole, che giudicavano
grossolane, respingevano anche ogni credenza; gli altri adottavano la dottrina
stoica. A Cicerone, invece, l'esistenza degli dei appariva come necessaria:
tutti i popoli credevano, e di conseguenza credeva anche lui. Pressappoco nello
stesso modo, Cicerone analizza, poi, il tema dell'immortalità dell'anima,
prendendo in prestito molte delle opinioni espresse a questo proposito da
Platone.[100] De officiis ("Sui doveri"): Il De officis, che - pare -
fu scritto dopo la morte di Cesare, nel 44 a.C., è l'ultima opera filosofica di
Cicerone, che la dedicò al figlio Marco, che si trovava ad Atene. L'opera,
ispirata ad un lavoro dello stoico Panezio, è divisa in tre libri: il primo
tratta di ciò che è onesto, il secondo di ciò che utile, ed il terzo traccia
una comparazione tra utile ed onesto. Nell'opera, Cicerone non fornisce
profonde spiegazioni con rigore scientifico, ma enuncia una serie di ottimi
precetti, indispensabili per fare di un uomo un buon cittadino romano, ligio ai
suoi doveri e dunque in grado di vivere nell'ottica della virtus. Hortensius:
sorta di protrettico ovvero esortazione alla filosofia, modellata su un'analoga
opera perduta di Aristotele. Come testimoniato dal proemio al II libro del De
divinatione, in essa appariva Quinto Ortensio Ortalo, il quale svalutava
l'attività filosofica; contro questa tesi si pronunciava Cicerone. L'opera fu
assai apprezzata nell'antichità, specie da Agostino; essa è andata perduta e
gli unici frammenti pervenutici provengono da citazioni che ne fa appunto
Agostino. Laelius seu de amicitia ("Lelio" o
"sull'amicizia"). Paradoxa Stoicorum (Teoremi di spiegazione dei
paradossi etici della scuola degli stoici): Si tratta di esercitazioni di
casistica oratoria, spesso giudicate di basso livello dalla critica. Tusculanae
disputationes ("Conversazioni a Tusculum"): Le Tusculanae
disputationes furono composte nel 45 a.C., sotto la dittatura di Cesare, quando
Catone Uticense era già stato costretto al suicidio e la repubblica aveva, in
fin dei conti, cessato di esistere. Il dittatore si era dimostrato clemente, ma
aveva dato a intendere agli intellettuali che non avrebbe accettato una loro
"insubordinazione": a Cicerone, che aveva scritto un libro in memoria
di Catone, Cesare aveva risposto con l'Anticato ("Anticatone"), in
cui criticava l'illustre morto, mostrando quale sarebbe stato il suo
atteggiamento verso gli oppositori. Per Cicerone la situazione era davvero
complicata: sua figlia Tullia era appena morta, e la vita politica aveva perso
ogni senso. L'oratore decise dunque di ritirarsi nella villa di Tusculum,
particolarmente amata da Tullia, dove si dedicò allo studio della filosofia.
Gli argomenti delle disputationes rispecchiano dunque il suo stato d'animo:
cos'è la morte? Cos'è il dolore? C'è un modo per alleviare le afflizioni
dell'animo? Cosa sono le passioni? Come si deve confrontare il saggio nei
confronti di questi elementi turbatori della propria imperturbabilità? Infine:
cos'è la virtù? Basta a rendere felice una vita? Tra le ultime riflessioni ve
n'è anche una a proposito del suicidio, inteso come mezzo per eludere la morte.
Cicerone tratta questi temi con il suo solito stile eloquente, ma vi si
intravede un forte senso d'impotenza: è evidente che il suo pensiero è sempre
rivolto, nonostante tutto, a Roma ed alla politica. De re publica ("Sulla
repubblica"), sul modello della Repubblica di Platone. De legibus
("Sulle leggi"): Il De legibus fu composto probabilmente nel 52 a.C.,
dopo che Cicerone era stato nominato augure. Si tratta di uno scritto che può
considerarsi complementare del De re publica, del quale ricalca pregi e
difetti: non è un lavoro puramente filosofico, né un semplice trattato di
giurisprudenza, ma piuttosto un compromesso tra le due scienze. Nel primo
libro, ispirato all'omonima opera di Platone e al trattato Sulle leggi di
Crisippo, Cicerone dimostra con una grande elevazione di pensiero e di stile
l'esistenza di una legge universale, eterna, immutabile, conforme alla ragione
divina, che si confonde con lei. Proprio la ragione divina, infatti,
costituisce il diritto naturale, che esisteva prima di tutti gli ordinamenti.
Dopo quest'avvio, Cicerone passa all'analisi delle leggi in rapporto alle varie
forme di governo, così come farà, molto tempo dopo, Montesquieu. Non avendo a
disposizione altra repubblica all'infuori di quella romana, Cicerone non
immagina leggi diverse da quelle romane: esse sono le leggi perfette. Terminata
l'analisi, Cicerone si limita, nel secondo libro, ad enunciare le poche che
possono essere considerate imperfette, soprattutto tra quelle che regolano il
culto. L'attenta analisi delle consuetudini religiose appare, alla luce della
data di pubblicazione, come un'attenta manovra di propaganda, con la quale
Cicerone appare ai suoi concittadini come uomo ben degno della carica
sacerdotale che gli è stata affidata. Nel terzo libro, di cui sono andati
perduti alcuni passi, Cicerone analizza la natura e l'organizzazione del
potere, il carattere delle diverse funzioni dello stato e l'antagonismo
salutare che deve esistere tra le forze che lo costituiscono. Queste domande,
di interesse generale così vivo poiché toccavano direttamente il problema della
libertà politica, avevano un'importanza considerevole per i contemporanei di
Cicerone. Quale doveva essere la parte dell'aristocrazia o del senato, e quale
quella del popolo nel governo della repubblica? Non era lontano il tempo in cui
Cesare avrebbe dato la risposta definitiva a questo quesito, e tutti coloro che
presagivano ciò che sarebbe accaduto tentavano di rafforzare l'autorità della
nobilitas e del senato. Nell'opera, il fratello di Cicerone, Quinto, è
fortemente contrario al tribunato della plebe, carica che ritiene
potenzialmente troppo pericolosa: Cicerone, pur discostandosi dalle opinioni
del fratello, riconosce il pericolo che il tribunato della plebe costituisce
per il mantenimento della calma e della pace. Possediamo solamente i primi tre
libri del De legibus: ce n'erano probabilmente sei. Il quarto era dedicato
all'esame del diritto politico, il quinto al diritto criminale, il sesto al
diritto civile. Si trattava di opere particolarmente preziose, perché Cicerone
non ha mai trattato altrove gli stessi argomenti. Non dimentichiamo che i
trattati De re publica e De legibus furono scritti in un'epoca durante la quale
la costituzione romana era ancora in piedi, prima della guerra civile e la fine
dell'antica libertà. Questa circostanza spiega il carattere dei due lavori:
sono al tempo stesso libri teorici e pratici, ed anche tecnici. Dopo l'avvento
di Cesare, l'elemento speculativo dominerà nella filosofia di Cicerone, che
infatti fuggirà la vita pubblica per ritirarsi nella contemplazione.[101]
Orazioni Cicerone mentre pronuncia
un'orazione in Senato. Particolare, Cesare Maccari, 1882-1888, Villa Madama,
Roma. (LA) «In principiis dicendi tota mente atque artubus contremisco.» (IT) «All'inizio di un discorso mi tremano le
gambe, le braccia e la mente.» (Marco
Tullio Cicerone) Cicerone è certamente
il più celebre oratore dell'antica Roma.[102][103] Nel Brutus egli ritiene
completato con se stesso (non senza un certo fine autocelebrativo) lo sviluppo
dell'arte oratoria latina, e già da Quintiliano la fama di Cicerone quale
modello classico dell'oratore è ormai incontrastata. Cicerone ha pubblicato da
sé la maggior parte dei suoi discorsi; cinquantotto orazioni (alcune
parzialmente lacunose) sono state rinvenute nella versione originale mentre
circa cento sono conosciute per il titolo o per alcuni frammenti. I testi si
possono dividere tra orazioni pronunciate di fronte al Senato (o al popolo) e
tra le arringhe pronunciate in qualità di - utilizzando termini moderni -
avvocato difensore o pubblica accusa, nonostante anche questi ultimi abbiano
spesso un forte substrato politico come nel celeberrimo caso contro Gaio Verre
(unica volta in cui Cicerone compare come accusatore in un processo penale). Il
suo successo è dovuto alla sua abilità argomentatoria e stilistica, che si sa
adattare perfettamente all'oggetto dell'orazione e al pubblico,[104]
soprattutto alla sua tattica astuta, che si adatta di volta in volta al
particolare uditorio, appoggiando appropriatamente diverse scuole filosofiche o
politiche, al fine di convincere il pubblico contrario e raggiungere il proprio
scopo. Tecniche di memorizzazione Per
memorizzare i suoi discorsi Cicerone utilizzava una tecnica associativa che
venne chiamata tecnica dei loci o tecnica delle stanze.[105] Egli scomponeva il
discorso in parole chiave e parole concetto che gli permettessero di parlare
dell'argomento desiderato e associava queste parole, nell'ordine desiderato,
alle stanze di una casa o di un palazzo che conosceva bene, in modo creativo e
insolito. Durante l'orazione egli immaginava di percorrere le stanze di quel
palazzo o di quella casa, e questo faceva sì che le parole concetto del suo
discorso gli venissero in mente nella sequenza desiderata. È da questo metodo
di memorizzazione che derivano le locuzioni italiane "in primo
luogo", "in secondo luogo" e così via. Panoramica alfabetica di tutte le orazioni De
domo sua ad pontifices ("Sulla propria casa, al collegio
pontificale", 57 a.C.): arringa pronunciata per uno scopo particolare:
durante l'esilio di Cicerone il suo avversario Clodio aveva consacrato una
parte della proprietà di Cicerone sul Palatino alla dea Libertas; Cicerone dichiara
questa consacrazione invalida per ottenerne la restituzione. È da tale contesto
che nasce la locuzione Cicero pro domo sua. De haruspicum responsis ("Sul
responso degli aruspici", 56 a.C.): Clodio redige un passo sulla
profanazione di alcune reliquie durante una perizia degli aruspici sul terreno
di Cicerone sul Palatino e chiede la demolizione di una casa di Cicerone ivi in
costruzione. Contro questa ed altre accuse Cicerone si rivolge con un appello
al Senato, nel quale spiega, che la maggior parte delle accuse di Clodio si
basano su indagini dolosamente carenti. De imperio Cn. Pompei (De lege Manilia)
("Sul comando di Gneo Pompeo (sulla legge Manilia)", 66 a.C.),
orazione di carattere politico pronunciata di fronte al popolo in occasione
dell'attribuzione, effettuata su proposta del tribuno della plebe Gaio Manilio,
a Gneo Pompeo di poteri speciali per la conduzione di una campagna militare
contro il re del Ponto Mitridate VI. De lege agraria (Contra Rullum) I–III
("Sulla legge agraria (contro Rullo)", 63 a.C.): orazione pronunciata
durante l'anno di consolato, tenuta in Senato (I) e davanti al popolo (II/III);
un quarto dell'orazione è stato perduto. De provinciis consularibus
("Sulle province consolari", 56 a.C.), orazione pronunciata in senato
riguardo alle province consolari romane. De Sullae bonis ("Sui beni di
Silla", 66 a.C.). Divinatio in Caecilium ("Dibattito contro
Cecilio", 70 a.C.), dibattito riguardo all'assunzione del ruolo di
accusatore nel processo contro Verre. Quinto Cecilio Nigro fu sotto Verre
questore in Sicilia e presentò la propria candidatura nel ruolo di accusatore.
Per Cicerone egli era infatti invischiato nelle macchinazioni di Verre. In L.
Calpurnium Pisonem ("Contro Lucio Calpurnio Pisone", 55 a.C.),
orazione d'accusa politica contro Lucio Calpurnio Pisone Cesonino. In Catilinam
I–IV ("Contro Catilina I-IV" ovvero "Le Catilinarie", 63
a.C.), orazioni contro Lucio Sergio Catilina: i discorsi del 7 e dell'8
novembre 63 a.C. pronunciati di fronte al Senato (I) e al popolo (II); i
discorsi della scoperta e della condanna dei seguaci di Catilina, del 3
dicembre di fronte al popolo (III) e del 5 dicembre di fronte al Senato (IV) In
P. Vatinium ("Contro Publio Vatinio", 56 a.C.), orazione accusatoria
contro P.Vatinio riguardo all'interrogatorio nel processo contro P.Sestio. In
Verrem actio prima ("Prima accusa contro Verre", 70 a.C.), orazione
accusatoria nel processo contro Verre, accusato di concussione (crimen
pecuniarum repetundarum) In Verrem actio secunda I–V ("Seconda accusa contro
Verre I–V", 70 a.C.), questi cinque discorsi non sono mai stati
pronunciati a causa dell'esilio volontario di Verre, ma vennero comunque
pubblicati in forma scritta. Oratio cum populo gratias egit
("Ringraziamento al popolo", 57 a.C.), ringraziamento a tutti coloro
che hanno appoggiato il ritorno di Cicerone dall'esilio, e gli hanno permesso
il rientro nella vita politica. Oratio cum senatui gratias egit
("Ringraziamento al senato", 57 a.C.), ringraziamento a tutti coloro che
in Senato hanno appoggiato il ritorno di Cicerone dall'esilio, e gli hanno
permesso il rientro nella vita politica. Philippicae orationes I – XIV
("Le filippiche", 44 a.C./43 a.C.), orazioni contro Marco Antonio.
Pro M. Aemilio Scauro ("In difesa di M. Emilio Scauro", 54 a.C.),
orazione pronunciata nel ruolo di difensore di Marco Emilio Scauro. Pro T.
Annio Milone ("In difesa di Tito Annio Milone", 52 a.C.), orazione
difensiva, originariamente diversa dalla versione pubblicata, non sortì il
proprio effetto in quanto la curia era assediata dai fedeli della fazione
clodiana. Dopo l'esilio di Milone subirà profonde modifiche per essere
pubblicata quale ci è pervenuta: la più bella orazione di Cicerone. Contiene
tra l'altro la celebre citazione "Inter arma enim silent leges" Pro
Archia ("In difesa di Archia", 62 a.C.), orazione pronunciata nel
ruolo di difensore del poeta antiochiano Aulo Licinio Archia. Pro Aulo Caecina
("In difesa di Aulo Cecina", 69 a.C./ca. 71 a.C.), orazione tenuta
per il querelante in un processo civile per un'azione di rivendicazione. Il
fondamento giuridico è l'interdetto de vi armata (rimedio del possessore contro
lo spossessamento violento). Sostenitore della parte avversa è Gaio Calpurnio
Pisone; entrambe le parti fanno ricorso manifestamente all'autorevolezza del
giurista Gaio Aquilio Gallo. Pro M. Caelio ("In difesa di M. Celio",
56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro A. Cluentio Habito
("In difesa di Aulo Cluenzio Abito", 66 a.C.), orazione pronunciata
nel ruolo di difensore. Pro G. Cornelio ("In difesa di Gaio
Cornelio", 65 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro L.
Cornelio Balbo ("In difesa di Lucio Cornelio Balbo", 56 a.C.),
orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro P. Cornelio Sulla ("In
difesa di Publio Cornelio Silla", 62 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo
di difensore. Pro Marco Fonteio ("In difesa di Marco Fonteio", 69
a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Q. Ligario ("In
difesa di Quinto Ligario" 46 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di
difensore di Quinto Ligario, indirizzata a Cesare in quanto dittatore. Pro
Marco Marcello ("In difesa di Marco Marcello", 46 a.C.), orazione
pronunciata nel ruolo di difensore di Marco Marcello, indirizzata a Cesare in
quanto dittatore. Pro muliere Arretina ("In difesa di una donna di
Arezzo", 80 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Lucio
Murena ("A favore di Murena", 63 a.C.), orazione pronunciata nel
ruolo di difensore in un processo di corruzione elettorale. Pro Gneo Plancio
("In difesa di Gneo Plancio", 54 a.C.), orazione pronunciata nel
ruolo di difensore. Pro Publio Quinctio ("In difesa di Publio
Quinzio", 81 a.C.), il più antico discorso giuridico tradizionale di
Cicerone a favore del querelante in un processo civile. Oggetto del contendere
è la legittimità dell'azione di sequestro preventivo eseguita dal convenuto
Sesto Nevio contro il cliente di Cicerone Publio Quinto. Difensore della parte
avversa è Quinto Ortensio Ortalo, giudice è Gaio Aquilio Gallo. Pro C. Rabirio
perduellionis reo ("In difesa di Gaio Rabirio, colpevole di alto
tradimento", 63 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro
Rabirio Postumo ("In difesa di Rabirio Postumo"), 54 a.C./53 a.C.
oppure 53 a.C./52 a.C.), orazione difensiva pronunciata nella fase
pregiudiziale del processo contro Aulo Gabinio a causa di concussione nelle
province. Verte attorno alla presenza di "bustarelle" in connessione
con la reintegrazione al trono d'Egitto di Tolomeo XII Aulete. Pro rege Deiotaro
("In difesa del re Deiotaro", 45 a.C.), orazione in difesa del Re
Deiotaro, rivolta a Cesare Pro Sex. Roscio Amerino ("In difesa di Sesto
Roscio da Amelia", 80 a.C.), orazione di difesa, è la prima arringa di
Cicerone in un processo per omicidio. Sesto Roscio era accusato di parricidio.
Durante la guerra civile un parente si era impossessato del patrimonio del
padre di Roscio e ora cercava di assicurarsi il maltolto, il quale apparteneva
ai legittimi eredi del deceduto. Cicerone ottenne l'assoluzione. Pro Q. Roscio
Comoedo ("In difesa dell'attore Quinto Roscio", circa 77 a.C. o 76
a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore. Pro P. Sestio ("In
difesa di Publio Sestio", 56 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di
difensore. Pro Titinia ("In difesa di Titinia", 79 a.C.), orazione
pronunciata nel ruolo di difensore. Pro Marco Tullio ("In difesa di Marco
Tullio", 72 a.C./71 a.C.), orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
Pro L. Valerio Flacco ("In difesa di Lucio Valerio Flacco", 59 a.C.),
orazione pronunciata nel ruolo di difensore.
Miniatura quattrocentesca del De oratore. Scritti di retorica Lo stesso argomento in dettaglio: Retorica
latina. Così come per Cicerone è difficile distinguere tra vita ed opere, così
in particolare differenziare tra scritti filosofici e retorici è sì pratico e
chiaro, tuttavia non rappresenta pienamente la concezione e l'opinione di
Cicerone. Già nella sua prima opera conservata (De inventione I 1-5) chiarisce
che la sapienza, l'eloquenza e l'arte del governare hanno sviluppato un legame
naturale, che indubbiamente ha contribuito allo sviluppo della cultura degli
uomini e che dev'essere ristabilito. Egli ha in mente quest'unità come modello
ideale sia negli scritti teoretici sia anche nella sua propria vita activa al
servizio della Repubblica - o almeno è così che egli ha voluto idealizzare e
vedere la propria realtà. Perciò non è
affatto sorprendente se Cicerone ha sviluppato i suoi scritti filosofici con i
mezzi della retorica e strutturato le sue teorie della retorica su principi
filosofici. La separazione tra sapienza ed eloquenza Cicerone l'addossa alla
"rottura tra linguaggio e intelletto" compiuta dalla filosofia
socratica (De oratore III 61) e tenta attraverso i suoi scritti di
"risanare" questa frattura; e quindi per una migliore attuazione la
filosofia e la retorica secondo lui devono essere dipendenti l'una dall'altra
(v. p.e. De oratore III 54-143); Cicerone stesso dichiara che "io sono
diventato un oratore [...] non nelle scuole dei retori ma nei saloni dell'Accademia":
con ciò allude alla sua formazione sulle dottrine della Nuova Accademia di
Carneade e Filone di Larissa, suo maestro.
Panoramica alfabetica delle opere sulla retorica pervenuteci Brutus: il
libro dedicato a Marco Giunio Bruto venne scritto all'inizio del 46 a.C. e
tratta, nella forma di un dialogo tra Cicerone, Bruto ed Attico, la storia
dell'arte retorica romana fino a Cicerone stesso. Dopo un'introduzione (1-9)
Cicerone inizia un confronto con la retorica greca (25-31) e sottolinea che
l'arte oratoria poiché è la più complessa di tutte le arti solo tardi giunse
alla perfezione. Mentre ritiene gli antichi oratori romani appena mediocri,
parla di Catone come base della propria esperienza. Lucio Licinio Crasso e
Marco Antonio Oratore, entrambi protagonisti del De oratore, sono
dettagliatamente confrontati (139 e ss.). Dopo un'escursione sull'importanza
del giudizio del pubblico (183-200) e una riflessione sull'oratore Ortensio
(201-283), Cicerone respinge fermamente il modello dell'Atticismo (284-300).
L'opera culmina in confronto tra l'arte oratoria di Ortensio e di Cicerone
stesso, non senza una notevole dose di autocelebrazione (301-328), egli infatti
presenta se stesso come il punto d'arrivo di un processo di sviluppo dell'arte
oratoria. Punto principale dell'opera è la critica alla diffusione nello stile
neoattico, a cui anche il giovane Bruto appartiene, difendendo il suo stile,
assai più ricco e magniloquente, dalla critica di essere un esempio dello stile
asiano. De inventione: ("L'invenzione retorica"): sviluppato tra l'85
a.C. e l'80 a.C. questo è il primo di due libri di una descrizione globale
della retorica, mai completata. Cicerone rinunciò a completarla, per dedicarsi
ad una più accattivante rappresentazione nel De oratore, e tuttavia l'opera
servì, nonostante il carattere frammentario, come testo d'insegnamento fino al
Medioevo. La parte completata tratta nel primo libro dei concetti principali
della retorica (I 5-9), la dottrina dell'insegnamento della retorica in
riferimento ad Ermagora di Temno (I 10-19) nonché il ruolo dell'oratore (I
19-109); il secondo libro tratta delle tecniche d'argomentazione, soprattutto
nelle arringhe giuridiche (II 11-154) nonché brevemente delle orazioni di
fronte al popolo (II 157-176) e in occasione di celebrazioni (II 177-178). Le
dichiarazioni di Cicerone per quanto riguarda il contenuto dell'opera
presentano molte somiglianze con la Rhetorica ad Herennium, ma per lungo tempo
erratamente ritenuta sua, cosa che ha portato a numerose discussioni tra gli
studiosi riguardo al rapporto tra le due opere. Entrambi gli scritti sono
all'incirca dello stesso periodo e si basano direttamente o indirettamente
sulle medesime o su affini fonti greche. Inoltre c'è una notevole somiglianza
letterale in alcuni periodi, cosa che suggerisce probabilmente anche una comune
fonte latina, forse originata da un comune insegnamento dottrinario che ha
mediato il preponderante contenuto di origine greca. De optimo genere oratorum
("Sulla miglior arte dell'oratoria"): questa breve opera, scritta probabilmente
nel 46 a.C. o, secondo altri pareri, già nel 50 a.C., è un'introduzione alla
traduzione delle orazioni di Demostene ed Eschine, per e contro Ctesifonte.
L'introduzione verte soprattutto sugli atticisti romani, all'incirca con le
stesse argomentazioni dell'Orator. La traduzione comunque non ci è pervenuta, e
non è chiaro se Cicerone l'abbia mai effettivamente completata. L'autenticità
dell'opera è stata più volte messa in discussione, ma oggi è per lo più
accettata. De oratore (Sull'oratore): la più importante opera sulla retorica di
Cicerone non dev'essere confusa con l'opera quasi omonima Orator. È un'opera
composta nel 55 a.C. in forma di dialogo, così come per il Brutus. I
protagonisti stavolta sono Lucio Licinio Crasso e Marco Antonio, esempi,
secondo Cicerone, dei più grandi oratori della generazione precedente. Nel I
libro è Crasso (portavoce di Cicerone) ad esporre la tesi principale dell'opera
ossia che il buon oratore deve avere un'approfondita conoscenza dell'argomento
di cui vuole trattare, osteggiando la concezione di alcuni retori greci che
ritenevano sufficiente una formazione basata su regole, tecnicismi ed esercizi
per affrontare qualsiasi discorso. Il II libro tratta invece delle
"parti" in cui si suddivide la retorica, cioè l'inventio, la
dispositio e la memoria; nel III libro si parla dello stile, cioè l'elocutio, e
dell'actio, cioè il modo in cui l'oratore deve comportarsi durante l'orazione.
Il de oratore è considerata l'opera di Cicerone scritta con più cura formale e
per questo motivo è sempre stata utilizzata e studiata come modello primo dello
stile ciceroniano. Orator ("L'oratore"): Venne scritta nell'estate
del 46 a.C. ed è anche questa dedicata a Marco Giunio Bruto e descrive un
modello ideale del perfetto oratore, riprendendo molti dei temi già trattati
nel De oratore. Contrariamente alla disputa di quel tempo tra gli atticisti,
che - come Bruto - pretendono dall'oratore uno stile sobrio e preciso, e gli
asiani, che prediligono uno stile molto ricercato e magniloquente, Cicerone
ritiene che il perfetto oratore, come Demostene, deve dominare tutti gli stili
e saper passare da uno all'altro con naturalezza. Per questo motivo bisogna
dedicarsi soprattutto alla formazione filosofica: solo così potranno svolgere i
tre compiti dell'oratore: probare, delectare, flectere (dimostrare, divertire,
convincere), i quali vengono bene ordinati e descritti (76-99). Cicerone parla
anche qui brevemente dell'inventio (44-49), della dispositio (50) ma tratta
soprattutto dell'elocutio (51-236), soffermandosi sulle figure retoriche e
sulla costruzione ritmica del periodo. Partitiones oratoriae ("Partizione
dell'arte oratoria"): Quest'opera venne scritta nel 54 a.C., quando il
figlio di Cicerone, Marco, stava studiando la retorica, ed è ideata come una
sorta di 'catechismo', trattando la teoria della retorica, soprattutto con
divisioni schematiche, nella forma di domanda e risposta tra padre e figlio.
L'originalità di Cicerone in quest'opera spicca molto meno, a causa dello stile
molto semplice e delle poche novità introdotte. I Topica (44 a.C.): scritti nel
corso del viaggio in Grecia, su sollecitazione dell'amico Trebazio, trattano
della dottrina dell'inventio divulgata da Aristotele, ovvero l'arte di saper
trovare gli argomenti. In questa produzione retorica vengono considerati i
luoghi (topoi) come ottimo spunto per ogni genere di argomento ed utilizzabili
per qualunque disciplina (poesia, politica, retorica, filosofia, ecc.) Opere
perdute Tra le opere tardive di Cicerone si possono annoverare scritti consolatori,
contributi alla storiografia, poesie (alcune anche sul suo periodo di
consolato) e traduzioni. Queste opere sono per la maggior parte perdute. Delle
poesie ci rimangono comunque svariate citazioni anche in altri lavori dello
stesso Cicerone. Questi frammenti dimostrano l'influenza di uno dei più
importanti poeti latini, Catullo e di altri neoterici. Panoramica alfabetica delle opere poetiche ed
epico-storiche di Cicerone Alcyones: epillio composto da Cicerone dopo il 92
a.C. nel quale veniva cantato il mito di Alcione e del marito Ceice. Dato che
questi si paragonavano a Giove e Giunone per la loro ricchezza, sfarzosità e
potenza, gli dei fecero fare loro naufragio durante un tragitto in mare. Dato
che Ceice morì nella tempesta, Alcione si lasciò annegare per il dolore, così
Giove tramutò entrambi i defunti in uccelli alcioni. Aratea: libera traduzione
giovanile dei Fenomeni celesti del poeta ellenistico Arato di Soli. De
consulatu suo: poemetto autobiografico composto da Cicerone tra il 60 a.C. e il
55 a.C. in cui si parla dell'ascesa al consolato dell'autore e della sua
vittoria nel processo contro Lucio Sergio Catilina. De temporibus suis: altra
opera autobiografica perduta scritta nel 54 a.C. in cui Cicerone celebrava i
suoi interventi migliori durante il consolato. Epigrammata
("Epigrammi"): componimenti satirici scritti da Cicerone quando aveva
circa vent'anni. Stando alle testimonianze di Quintiliano, l'opera era di
genere comico e ironico e trattava di vari argomenti fantastici e reali. Līmōn:
il titolo deriva dal sostantivo greco Λειμών, "prato"; ciò
sottolineava il carattere variegato dell'opera, un poema in esametri in cui
venivano trattati diversi argomenti letterali e sociali. Infatti una
testimonianza di Svetonio riporta un giudizio severo dell'autore riguardo a
un'opera del commediografo Terenzio. Marius: poema epico-storico in cui
Cicerone parla delle imprese del console Gaio Mario. L'opera è importante per
il passaggio dell'autore dal genere alessandrino a quello storico mescolato
alla poesia, cioè epico. Nilus: opera quasi sconosciuta. Si pensa che Cicerone
l'abbia scritta per lodare le qualità del fiume Nilo dell'Egitto. Pontius
Glaucus: componimento in stile alessandrino di Cicerone. Scritto circa nel 93
a.C., l'opera trattava del mito di Glauco, il quale dopo aver mangiato un'erba
afrodisiaca dai poteri magici, si trasformò in un animale marino. Tymhaeus:
vasti frammenti del lavoro compiuto sul Timeo di Platone, che Cicerone
presumibilmente non ha mai pubblicato, preparando semplicemente abbozzi di
traduzione. Uxorius: opera nota quasi esclusivamente attraverso il titolo, che
significa Il marito devoto (alla moglie); si ritiene avesse argomento leggero e
carattere scherzoso, se non apertamente comico. Epistolario Edizione delle Epistole agli amici, Venezia
1547 Le epistole di Cicerone furono riscoperte tra il 1345 e il 1389 da
Petrarca e dal cancelliere e umanista Coluccio Salutati. Complessivamente
furono ritrovate circa 864 lettere, delle quali una novantina furono scritte da
corrispondenti, e ciò inizialmente provocò un grande entusiasmo, temperato
successivamente dal fatto che l'immagine che traspariva di Cicerone non era
quella dello strenuo eroe difensore della Repubblica, come si era sempre
dipinto nelle sue opere e nelle sue orazioni, ma una versione molto più umana,
con le sue debolezze e i suoi aspetti meno retorici, ma certamente affascinanti
nella loro genuinità. Le epistole furono
raccolte e archiviate dal segretario di Cicerone, Tirone, fra il 48 e il 43
a.C. Si dividono in 4 categorie:
Epistole agli amici (Epistulae ad familiares) (16 libri) Epistole al
fratello Quinto (Epistulae ad Quintum fratrem) (3 libri) Epistole a Marco
Giunio Bruto ([106]) (2 libri) Epistole ad Attico (Epistulae ad Atticum) (16
libri) Memoria Presente in tutto il Medioevo, il ricordo di Cicerone fiorì
durante il Rinascimento[107]; Giovanni I di Brandeburgo principe elettore del
Brandeburgo nel XV secolo, venne ricordato, dopo la sua morte, con
l'appellativo di Cicerone, proprio a causa della sua eloquenza. Negli Stati Uniti d'America vi sono ben
quattro città cui è stato dato il nome "Cicero" in onore di Marco
Tullio Cicerone. Inoltre l'espressione latina Cicero pro domo sua viene
utilizzata per descrivere chi parla sostenendo il proprio tornaconto, ma che
maschera più o meno bene il fine del suo discorso come perorazione per altra
causa. Essa deriva da un'orazione tenuta da Marco Tullio nel 57 a.C. per
ottenere la restituzione della propria casa, requisitagli durante
l'esilio.[108] Il nome di Cicerone è
diventato un'antonomasia per indicare la guida che accompagna i turisti nella
visita a monumenti e luoghi illustrando loro ciò che stanno visitando.[108]
Parimenti con il nome Cicerone vengono identificate le marche da bollo, di
diverso valore (e colore), ma tutte riportanti l'effigie del busto di Marco
Tullio Cicerone, da apporre agli atti giudiziari, il cui ricavato alimenta il
Fondo di previdenza degli avvocati.[108]
Note ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 40, 2. ^ Plutarco, Vita di Cicerone,
2, 1. ^ Dionigi Antonelli, Abbazie, prepositure e priorati benedettini nella
diocesi di Sora nel Medioevo, Pontificia Università Lateranense, Roma, 1986,
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Tipografia dell’Abbazia di Casamari, Veroli 1981, pp. 19-24 Narducci 2009, p. 19. ^ Rawson, p. 1. ^
Rawson, pp. 7-8. ^ Rawson, pp. 2-3. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 1, 1. ^
Plutarco, Vita di Cicerone, 1, 3-5. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 2, 2. ^ Plutarco,
Vita di Cicerone, 3, 2. ^ Rawson, pp. 14-15. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 2,
3. Rawson, p. 18. ^ Plutarco, Vita di
Cicerone, 4, 5. Cicerone, Lettere ad
Attico ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 3, 5. ^ Rawson, p. 22. ^ Plutarco, Vita di
Cicerone, 3, 6. ^ Haskell, p. 83. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 4, 1-2. ^
Rawson, p. 27. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 5, 1. ^ Plutarco, Vita di
Cicerone, 6, 1. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 7, 3. ^ Plutarco, Vita di
Cicerone, 7, 4. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 7, 5-7. ^ Plutarco, Vita di
Cicerone, 7, 8. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 8, 2. ^ Plutarco, Vita di
Cicerone, 9, 1. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 9, 4-7. ^ Plutarco, Vita di
Cicerone, 10, 1. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 11, 2. ^ Plutarco, Vita di
Cicerone, 12, 2. ^ Sallustio, De Catilinae coniuratione, 5 ^ Plutarco, Vita di
Cicerone, 10, 3-4. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 16, 2. ^ Sallustio, De
Catilinae coniuratione, 29,2 ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 15, 5. ^ Sallustio,
De Catilinae coniuratione, 28,1-3 ^ Sallustio, De Catilinae coniuratione, 31,6
^ Plutarco, Vita di Cicerone, 16, 4-5. ^ Sallustio, De Catilinae coniuratione,
32,1 ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 16, 6. ^ Rawson, p. 106. ^ Plutarco, Vita di
Cicerone, 28, 2 - 29, 1. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 30, 5. ^ Plutarco, Vita
di Cicerone, 32, 1. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 33, 1. ^ Haskell, p. 201. ^
Plutarco, Vita di Cicerone, 33, 7. ^ Haskell, p. 204. ^ Plutarco, Vita di
Cicerone, 35, 1. ^ Rawson, p. 329.
Plutarco, Vita di Cicerone, 36, 1. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 38, 1.
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di Cicerone, 42, 3. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 42, 5. ^ Plutarco, Vita di
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Cesari, Augusto 83,2 ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 44, 3-7. ^ Plutarco, Vita di
Cicerone, 44, 1-2. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 45, 4. ^ Plutarco, Vita di
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Cicerone, 46, 3-6. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 48, 2. ^ Plutarco, Vita di
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Cicerone, 49, 1-2. ^ Lucio Anneo Seneca il vecchio, Suasoriae, trascrizione di
un frammento di Tito Livio, Ab Urbe condita libri, 120 ^ Plutarco, Vita di
Cicerone, 49, 6. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 49, 5. Cicerone, Lettere ai familiari ^ Plutarco,
Vita di Cicerone, 41, 2. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 41, 3. ^ Cicerone,
Lettere ad Attico,12,18b,2 ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 41, 4. ^ Plutarco,
Vita di Cicerone, 41, 5. ^ Plutarco, Vita di Cicerone, 41, 7. ^ Plutarco, Vita
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Tra filosofia greca e ideologia aristocratica romana. ^ Tito Livio, Ab Urbe
condita libri, XXXIX,40 ^ Vedere: Claudio Moreschini, "Osservazioni sul
lessico filosofico di Cicerone", Annali della Scuola Normale Superiore di
Pisa. Classe
di Lettere e Filosofia, Serie III, Vol. 9, No. 1 (1979), pp. 99-178 e Alain
Michel, "Cicéron et la langue philosophique : problèmes d'éthique et
d'esthétique", in: La langue latine, langue de la philosophie, Actes du
colloque de Rome (17-19 mai 1990), Rome : École Française de Rome, 1992. pp.
77-89. ^ Le notizie riguardanti le
opere di Cicerone sono tratte dalle opere stesse ^ La Bottega dei Traduttori,
Traduttori del passato: Cicerone e la traduzione nel mondo antico, su La
bottega dei traduttori, 21 dicembre 2023. URL consultato il 1º marzo 2024. ^
Perelli, p. 152. ^ Perelli, p. 149. ^ Rawson, p. 303. ^ Haskell, pp. 300-301. ^
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Reconstruction of the Past, Cambridge University Press, 1992, Capitolo 3:
Cicero, pp. 39-59. ^ Marcus
Tullius Cicero, L'Epistole di M. Tullio Cicerone scritte a Marco Bruto, Aldus,
1556. URL
consultato il 9 marzo 2023. ^ Virginia Cox, John O. Ward (eds.), The Rhetoric
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Enciclopedia Italiana, vol. I, 1997 Bibliografia Fonti primarie Per le opere
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pensiero romano, su tulliana.eu, Sito ufficiale della Società Internazionale
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frequenza, su intratext.com. (EN) Raphael Woolf, Cicero, in Edward N. Zalta (a
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Tullio Cicerone, [Opere]. 1, Parisiis, Ex officina Iacobi du Puys, sub signo
Samaritanae, 1566. (LA) Marco Tullio Cicerone, [Opere]. 2, Lutetiae, Ex
officina Iacobi du Puis, sub signo Samaritanae, è regione collegii
Cameracensis, 1565. (LA) Marco Tullio Cicerone, Orationes, Lutetiae, Ex
officina Iacobi Dupuys è regione collegii Cameracensis sub Samaritanae insigni,
1565. (LA) Marco Tullio Cicerone, Orationes (antologie), Mediolani, Regiis
typis, 1817. (PT) Opere di Cícero presso la Biblioteca Nazionale del Portogallo
Predecessore Fasti
consulares Successore Lucio Giulio Cesare Gaio
Marcio Figulo 63 a.C. con Gaio
Antonio Ibrida Decimo
Giunio Silano Lucio Licinio Murena
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D · M Guerra civile romana (44-31 a.C.) V · D · M Poeti epici antichi V · D · M
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eleusiniDecapitazioneStudiosi di traduzioneRetori romani[altre] . L'interesse
per la problematica semiotica nel mondo ro mano fa parte di quel processo di
costante e progressiva ac quisizione del patrimonio culturale greco, che
inizia nel III secolo a.C. Ma, nel passaggio dal mondo greco a quello ro mano,
il paradigma semiotico abbandona il campo della fi losofia in senso stretto,
per installarsi, in maniera centrale, nell'ambito retorico-giuridico. In Grecia
la conoscenza attraverso i segni era divenuta, soprattutto nelle scuole
postaristoteliche, il modello stesso della conoscenza in generale e, a partire
dagli stoici, aveva trovato la sua collocazione ali'interno della dialettica,
una delle branche più astratte della filosofia, in quanto sotto partizione
della stessa logica. Invece i Romani, aderendo a interessi maggiormente
orientati in direzione pragmatica, avevano bensì colto l'estremo interesse del
paradigma se miotico, ma lo avevano subito piegato ai fini, a loro più
congeniali, del dibattito politico e giudiziario, dibattito de stinato a
essere condotto con gli strumenti forniti appunto dalla retorica. Per rendersi
conto, nel modo più chiaro, del cambiamen to di prospettiva, basta mettere a
confronto l'atteggiamento di Aristotele con quello di Cicerone nei riguardi
della retori ca. Aristotele aveva fatto di questa disciplina l'argomento di un
suo importante trattato, la Retorica, e al suo interno aveva affrontato il tema
dei segni; ma, come era già avve- 202 9. RETORICA LATINA nuto nei Primi
analitici, aveva tentato di ridurre la forma dei vari tipi di segno a quella
dei tipi di sillogismo. Cosi fa cendo, aveva indicato un percorso ben preciso:
la logica stabilisce le forme fondamentali del ragionamento, che de vono
rimanere un punto di riferimento anche quando l'inte resse si sposta, come nel
caso della retorica, dal discorso scientifico a quello persuasivo, dai segni
referenziali a quelli efficaci . In Cicerone, e in genere nella trattatistica
retorica roma na, si registra un'inversione nell'ordine di priorità: la retori
ca non occupa più il secondo posto, rispetto a un primato della logica, ma, al
contrario, è la filosofia nel suo insieme che diviene scienza ancillare, il cui
scopo è quello di contri buire alla formazione del buon oratore. Tuttavia è
l'elo quenza l'espressione più alta dell'attività intellettuale. Un passo del
De oratore (Il, 159-160) mostra abbastanza chia ramente l'opinione di Cicerone
circa i rapporti tra dialettica e retorica, quando per bocca di Antonio viene
detto che i dialettici sono soltanto capaci di criticare degli enunciati, ma
non di produrne. In effetti, per Cicerone la retorica costituisce il
"corona mento" della filosofia, dalla quale non può essere
dissociata (De orat., III, 59-61), e non deve essere considerata una tec nica
capace di aggiungere un'espressione elegante a un pen siero già formato. Come
mettono bene in luce Mare Baratin e Françoise Desbordes (1981: 50), in Cicerone
agisce un principio, sempre sfumato, ma costantemente affermato, che, se si
parla bene, si pensa anche bene o, in altre parole, che non si pensa veramente
bene se non quando si parla ve ramente bene. Tuttavia la retorica,
indiscutibilmente, presenta anche un aspetto tecnico, e ogni trattatista mostra
che essa è organiz zata secondo due tipi di assi. Il primo concerne i tipi di
di scorso: il discorso dei tribunali (giuridico); il discorso del l'assemblea
(politico); il discorso delle cerimonie pubbliche (dimostrativo). Il secondo
riguarda le parti della retorica, ovvero i tipi di procedimenti che devono
essere messi in atto per strutturare progressivamente un discorso: inventio (ri
cerca degli argomenti); dispositio (ordinamento di quel che 9.l LA
«RHETORICA AD HERENNIUM» 203 è stato trovato); elocutio (resa degli argomenti
in forma or nata); memoria (procedimenti mnemotecnici); actio (recita zione
del discorso: gesti e dizione). La problematica riguardante il segno si colloca
nel cuore della inventio, quando cioè si devono "trovare" le prove
che convincano l'uditorio della colpevolezza o dell'innocenza di un imputato.
Le prove, in retorica, hanno una loro propria forza, muovono dal ragionamento e
si inseriscono nel pro gramma rivolto a convincere (/idem facere), il primo
dei due programmi in cui si articola l'inventio. L'altro pro gramma è il
commuovere (animos impellere) e consiste nel porre l'accento non sul messaggio
o sulla sua forza proba toria, ma sulle emozioni del destinatario. Tuttavia,
come sottolinea Barthes (1970: tr. it. 60), si ha un certo disagio a usare
l'espressione "prova" per indicare le probationes (pfsteis)
retoriche, in quanto questa parola ha oggi una conno tazione scientifica la
cui assenza appunto definisce le "pro ve" retoriche. Tuttavia, un
merito che va riconosciuto alla retorica è proprio quello di aver tentato di
dare una classifi cazione del diverso grado probatorio e della diversa forza
argomentativa delle "prove" stesse. Compito, quest'ultimo, che ogni
autore ha assolto in ma niera particolare, proponendo una classificazione che
non coincide, se non parzialmente, con quella data dagli altri. Nei prossimi
paragrafi, così, cercheremo di illustrare le li nee secondo le quali i tre
grandi autori della trattatistica re torica romana, cioè Cornificio (autore
della Rhetorica ad Herennium) , Cicerone e Quintiliano , ricostruiscono nelle
rispettive opere la struttura del paradigma indiziario, cia scuno secondo
diverse modalità. 9.1 La "Rhetorica ad Herennium" di Comificio Una
documentazione diretta della retorica latina la si ha soltanto con i trattati
del I secolo a.C., tra cui la Rhetorica ad Herennium , attribuita un tempo a
Cicerone sulla scorta dell'autorità dei manoscritti, ma la cui paternità è oggi
asse gnata a Cornificio (Calboli: 1969). 204 9. RETORICA LATINA La
problematica semiotica viene sviluppata da Cornificio all'interno della
constitutio coniecturalis dove, per verifica re se sia stata commessa o no una
determinata azione da un certo imputato, si segni che ne mostrino la col
pevolezza o Pinnocenza. L'elemento non conoscibile diret tamente a cui i segni
devono rimandare non è il fatto o rea to, che è ovviamente noto, ma l'agente
responsabile di tale fatto, oppure le relazioni tra un certo individuo e un
certo fatto. Questo aspetto è abbastanza peculiare della semiotica giuridica ed
è ben illustrato dall'esempio di Cornificio: Aiace in un bosco, dopo essersi
reso conto di quello che aveva compiuto durante la sua pazzia, si gettò sulla
spada. Sopravviene Ulisse e lo vede morto; estrae dal suo corpo l'arma
insanguinata. Sopravviene Teucro, vede il fratello ucciso e il nemico del fratello
con la spada insanguinata. Lo accusa di assassinio. Qui si cerca la verità per
congettura. (Rhet. adHer., l, 18) Ma ciò che è in questione nell'esempio Oa
colpevolezza o meno di Ulisse) per i retori romani non può scaturire da una
intuizione spontanea, né da una abduzione fulminea. La retorica antica, come ha
sottolineato Barthes (1970: tr. it. 59), nutriva una fiducia incrollabile nel
metodo ed era ossessionata dali'idea che lo spontaneo e l'ametodico non
portavano a niente di buono. Così Cornificio, con il suo ti pico procedimento
diairetico, suddivide lo stato congettura le in sei parti, sei diverse vie per
arrivare alla verità (Il, 3): probabile (probabilità), conlatio (confronto),
signum (pro cedimento indiziario), argumentum (segno), consecutio
(conseguenza), adprobatio (conferma). 9. 1 . 1 La probabilità Troviamo qui una
terminologia in parte familiare, in quanto probabile può essere considerata la
trasposizione la tina di eik6s, e signum quella di smefon, per limitarci solo
a questi due casi. Ma i contenuti delle espressioni latine so- 9.l LA
«RHETORICA AD HERENNIUM» 205 no completamente difformi dalle corrispondenti
nozioni greche. Infatti il probabile è "ciò attraverso cui si dimostra che
era utile commettere il crimine e che l'imputato non si è mai astenuto da
comportamenti di tale turpitudine" (Il, 3), defi nizione nella quale non
rimane molto deli'eik6s aristotelico. Piuttosto la nozione di probabile è
connessa alla caratteriz zazione psicologica dell'individuo in questione (''Se
[l'accu satore] dirà che ha agito per denaro, mostri che egli è sem pre stato
avaro, se per una carica, ambizioso; così potrà far combaciare il difetto
congenito con il motivo del crimine", Il, 5) e, come si può cogliere dalla
sua ulteriore suddivisione in causa e vita, oscilla tra la nozione di
"movente" e quella di "precedenti". 9.1.2 Il procedimento
indiziario La nozione di signum viene definita da Cornificio come "ciò che
serve a mostrare come è stata cercata un'occasione favorevole ali'esecuzione
(del crimine)" (II, 6). Non ritro viamo nemmeno qui la nozione greca di
smeion. Piuttosto il signum costituisce l'insieme di quei procedimenti indizia
ri, di pertinenza dell'investigatore, che permettono di rico struire il fatto
scomponendolo, come suggerisce di fare Cornificio, in tanti oggetti di indagine
separata: sul luogo del delitto, sul tempo, sull'occasione, sulla speranza di
por tare a esecuzione il fatto, sulla speranza di tenerlo celato. 9.1.3 Il
segno Una nozione che presenta maggiore interesse è quella di argumentum. Se la
sua definizione non è ancora molto elo quente ("Argumentum è ciò
attraverso cui il crimine viene confermato con segni [argumentis] più precisi e
con un so spetto più sicuro", II, 8), gli esempi che vengono forniti ci
tolgono ogni dubbio che si tratti del segno come singolo fe nomeno
percepibile, che rimanda a un fatto non conoscibile 206 9. RETORICA
LATINA direttamente; la sua struttura è quella in ferenziale, espressa da
un periodo ipotetico: "Se il corpo del morto s'è alterato nel colore per
gonfiore o lividezza, significa che è stato uc ciso da una dose di
veleno" (Il, 8); se si trova del sangue sulle vesti dell'imputato, se è
stato visto sul luogo del delit to, significa che egli è colpevole (ibidem)
ecc. Caratteristicamente l'argumentum viene suddiviso in tre tipi, in relazione
al rapporto temporale (anteriorità, con temporaneità, posteriorità) che si
instaura fra antecedente e conseguente del segno; classificazione, questa, che
risale al la retorica prearistotelica (si trova a esempio nella Rhetori ca ad
Alexandrum, 1430 b, 30 e sgg.) e giunge almeno fino a Quintiliano. 9. 1 .4 Le
reazioni fisiche non controllabili Un'altra nozione interessante è quella di
consecutio, che Calboli (1969: 232) mette in relazione ai sjmptoma della
terminologia medica. Si tratta, come dice Cornificio, dei "segni (signa)
che solitamente presentano i colpevoli e gli innocenti" (II, 8), come, a
esempio, che l'imputato, quando si è giunti a interrogarlo, "sia
arrossito, sia impallidito, ab bia titubato, sia caduto in contraddizione, si
sia smarrito, abbia fatto qualche promessa, che sono segni di coscienza non
tranquilla" (ibidem). Sono dunque delle reazioni fisi che non
controllabili, dei segni involontari che possono ve nire messi in relazione,
in maniera abbastanza codificata, con degli stati d'animo (come il senso di
colpa). Questi se gni, per quanto non siano facilmente dissimulabili, sono pe
rò manipolabili a livello di interpretazione: infatti l'avvoca to difensore
può intervenire sulla loro presenza sostenendo che l'imputato, a esempio, si è
turbato per la gravità del pe ricolo e non per la coscienza della colpa;
d'altro canto, l'ac cusatore può intervenire sull'assenza di segni di tal
genere sostenendo che l' imputato aveva a tal punto premeditato la cosa da
presentare la massima sicurezza, ragione che rende l'assenza di turbamento
"segno di sicurezza, non d'inno cenza" (ibidem). probabile
causa - vita conlatio alii nemini bonum - neminem alium potuisse slgnum occasio
- spes per- ficiendi spes celandi l argumentum consecudo adprobatio -
praeteritum - signa 9.1 LA «RHETORICA AD HERENNIUM» 207 9. 1 .5 La
classificazione e la forza argomentativa Come si può vedere, il procedimento
indiziario che viene messo in atto in ambito retorico-giuridico gioca su vari
li velli: (i) innanzitutto, ci sono i segni della premeditazione. che nella
tassonomia di Cornificio sono distribuiti tra il probabile, la conlatio (che
consisteva nel dimostrare che l'imputato aveva più di ogni altro ragioni e possibilità
di commettere il delitto) e il signum; (ii) in secondo luogo ci sono i segni
delfatto stesso, che sono rappresentati dagli ar gumenta: essi mettono in
relazione diretta l'imputato con il reato; (iii) in terzo luogo c'è quella
sorta di segniproducibili quasi sperimentalmente, che si traggono dal
comportamen to dell'imputato osservato in un momento diverso e succes sivo
rispetto a quello dell'evento criminoso. Possiamo illustrare complessivamente
la classificazione della materia congetturale effettuata da Cornificio con il
se guente schema (Curcio 1900): - locus - tempus - spatium -
consequens Se messa a paragone con quella della Retorica aristoteli
ca, la classificazione di Cornificio appare filosoficamente meno coerente e non
saldamente fondata. Tuttavia, con temporaneamente, appare molto più aderente
alla materia instans conscientiae - signe confidentiae - signa
innocentiae 208 9. RETORICA LATINA cui è destinata ad applicarsi e non
priva di una logica inter na nel suo seguire i segni deli'imputato in un
percorso che parte dal momento precedente il crimine e culmina nel pro cesso .
Cornificio discute anche della forza argomentativa dei se gni, quando propone
di organizzare in una struttura logica gli argomenti trovati. E, a questo
proposito, nota che ci so no dei segni che non garantiscono nessuna certezza
come a esempio: uoeve aver partorito, poiché porta in braccio un bimbo
piccolo", oppure: "Dal momento che è pallido, deve essere
ammalato" (Il, 39). Come si può notare, si tratta di segni che
corrispondono a quelli in 2a figura di Aristotele: essi non sono sicuri perché,
a esempio, il pallore può bensi indicare malattia, ma anche una quantità di
altre cose. Quello che è però interessante è che Cornificio non li rifiu ta,
ma sottolinea un loro valore argomentativo nel caso che compaiano in gran
numero ("se però vi si aggiungono an che tutti gli altri, tali segni
hanno un certo peso per accre scere il sospetto", ibidem). 9.2 Cicerone
Cicerone affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti
della sua produzione teorica: (i) le opere di argomento retorico; (ii) le opere
che parlano dei se gni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di
questo ambi to, possiamo osservare che l'interesse per i segni non è
ugualmente centrale in tutti i testi. Infatti, da una parte, ci sono il De
oratore, I'Orator, il Brutus, il De optimo genere oratorum che affrontano una
problematica a carattere so cio-politico, volta a definire la figura
deli'oratore perfetto, il suo ruolo nella società romana, la sua posizione
rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo; in queste opere tut to ciò
che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della retorica (e con esso
anche la problematica sui segni e sulle prove indiziarie) appare non tanto
trascurato, quanto dato per scontato: esso si confi:ura come un vasto campo
di competenza che rimane implicito sullo sfondo e affiora solo nei termini
di un uso personalissimo che ne fa l'autore, in prima persona o attraverso i
personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci sono, poi, il De inventione, le
Partitio nes oratoriae e i Topica, opere molto diverse tra loro, ma accomunate
dalla caratteristica di prendere in considerazio ne e di sistematizzare la
gran massa delle nozioni che com pongono l'apparato tecnico della retorica. Un
limite di que ste opere, in generale, è rintracciabile nella minuziosità del
procedimento classificatorio, che raggiunge talvolta il pa rossismo, come nel
De inventione, e che spesso non trova un'adeguta giustificazione teoretica.
Tuttavia è proprio ali'interno di queste opere che è dato rintracciare gli
spunti e i documenti per la ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno.
9.2. 1 Il "De inventione" Il De inventione è un'opera giovanile di
Cicerone e con densa l'ampia tradizione retorica che da Aristotele giunge fino
a Ermagora: è quindi naturale che al suo interno si tro vino riprodotti alcuni
aspetti della concezione del segno che in quell'ambito si era sedimentata. In
particolare è presente la concezione del segno in forma proposizionale, come an
tecedente che permette di scoprire un conseguente. Viene poi confermata
l'attenzione verso i segni involontari (l'im pallidire, l'arrossire, il
balbettare dell'imputato) come indi zi di colpevolezza. Infine compare la
classica divisione degli indizi secondo la loro relazione temporale con il
fatto crimi noso (anteriorità, contemporaneità, posteriorità). Questi i punti
di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche dire che la classificazione dei
segni proposta da Cice rone è in larga misura diversa da quelle precedenti.
Essa ap pare infatti all'interno della teoria della argumentatio (ar
gomentazione), cioè del procedimento attraverso il quale vengono addotte delle
prove per confermare una certa tesi: "L'argomentazione sembra essere
qualche cosa che si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra cosa in
maniera RETORICA LATINA probabile (probabiliter ostendens) , o la dimostra
in . un mo do necessario (necessarie demonstrans)" (De inv., I, 44).
Anche se non viene usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in
questa definizione è proprio il meccanismo del segno: infatti, qualcosa che è
stato trovato (un indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato)
rinvia a qualcos'altro. Compare, a questo punto, la distinzione (già
aristotelica) tra una forza argomentativa debole (probabili ter ostendens) e
un'inferenza necessaria (necessarie demon strans) . 9.2 . 1 . 1 Rinvio
necessario e non necessario I segni necessari sono così definiti: "Viene
dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere pro vato
diversamente da come viene detto" (ibidem). Ne sono esempi: "Se ha
partorito, è stata con un uomo" (ibidem); "Se respira, è vivo",
"Se è giorno, c'è luce" (De inv. , l, 86). Come Cicerone spiega in un
altro passo, in casi di questo genere l'antecedente e il conseguente sono
legati da una re lazione inscindibile (cum priore necessario posterius cohae
rere videtur, De inv., l. 86). Il rapporto di rinvio non necessario viene poi
cosi defini to: "Probabile è poi ciò che suole generalmente accadere, o
che è basato sulla comune opinione, o che ha in sé qualche somiglianza con
questa qualità, sia esso vero o sia falso" (De inv., l, 46). Con questa
definizione Cicerone mette in evidenza due caratteri: (i) quello probabilistico
e (ii) quello doxastico; il primo di questi era da Aristotele attribuito
peculiarmente all'eikos (verisimile). E infatti i primi due esempi sono di un
tipo che Aristotele avrebbe classificato come eikos: "Se è madre, ama suo
figlio", "Se è avido, non fa gran caso del giuramento" (De inv.,
I, 46). In essi compare anche il tipico rapporto di generalizzazio ne che per
Aristotele definisce il verosimile (Arist., Rhet., 1357 a). C'è però un terzo
esempio, "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente reduce da un
viaggio" (De inv. , 9.2 CICERONE 21 1 I, 47), che non sembra dello
stesso tipo, ma è più vicino al smeion aristotelico. 9.2. 1 .2 L'indizio La
categoria di signum, poi, compare come una sottopar tizione dei segni non
necessari, accanto al credibile (credibi le), ali'iudicatum (giudicato) e al
comparabile (paragonabi le). Se le ultime tre nozioni appaiono distinte in
base a crite ri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive), il
signum corrisponde a una categoria di fenomeni abbastan za particolare:
"Segno è ciò che cade sotto qualcuno dei no stri sensi e indica
(significar) un qualcosa che sembra deri vato dal fatto stesso, e che può
essere verificato prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e
tuttavia ha bisogno di una prova e di una conferma più sicura" (De inv. ,
I, 48). Ne sono esempi: "il sangue", "il pallore", "la
fuga", "la poivere". Si tratta, come si vede, degli indizi,
intesi come fenomeni percepibili, scarsamente codificati e generalmente non vo
lontari. Qui sono presentati in una forma non proposizio nale; ma niente vieta
che vengano sviluppati in proposizio ni, come dimostra il caso deli'indizio
"polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente
reduce da un viaggio". Gli indizi, infine, vengono suddivisi secondo la
nota relazione temporale con il fatto criminoso. Possiamo quindi schematizzare
la classificazione propo sta nel De inventione (cfr. p. 212). 9.2.2
"Partitiones oratoriae" Le Partitiones oratoriae sono un'opera della
tarda matu rità di Cicerone, nella quale la classificazione della materia
semiotica presenta alcune differenze e peculiarità rispetto al trattato
giovanile. Innanzitutto la terminologia si sgancia completamente da quella dei
modelli greci e viene completa mente latinizzata. In secondo luogo gli indizi
(qui chiamati 212 9. RETORICA LATINA argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero solet fiori
élut quod in opi nione positum est") es.: .. "pallore'",
..polvere" vestigiafactl) non compaiono più come sottopartizione di
un'altra categoria, ma assumono un ruolo autonomo. (·ea quae alitar ac
discuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se ha partorito, è
stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et quiddam sig
nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue", ·ruga"',
Sa è madre, ama suo fi\]lio --- ---
- l "'·-- signum erodibile indicBtLm comparabile / -- -- Infine
viene accettata la distinzione aristotelica tra "luo ghi estrinseci"
(corrispondenti alle "prove extratecniche", titechnol) e "luoghi
intrinseci'' (corrispondenti alle "prove tecniche", éntechno1), che
veniva criticata nel De inventione (Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei
Topica. È curioso notare come tra i luoghi estrinseci (sine arte) trovino
posto, accanto alle testirnonianze umane, anche quelle "divine": gli
oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di sacerdoti, aruspici,
interpreti onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è sicuramente un residuo di una
concezione orda lica e antichissima deli'amministrazione della giustizia; tut
tavia è anche un indizio di un continuo riaffiorare del para digma divinatorio
all'interno dei fatti semiolici, anche quando ormai i segni si sono
completamente laicizzati. 9.2 CICERONE 213 Né questo è un caso isolato in
ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura greca, si ricorderà L
,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si esprimeva:
"Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane l'avete
udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche dai
segni che vengono dagli dei" (V, 81; Lanza 1979: l05). 9.2.2. 1 Il
verisimile e il segno caratteristico I segni umani sono invece trattati tra gli
argomenti intrin seci, in particolare tra quelli che riguardano lo stato di
cau sa congetturale. Infatti la congettura può essere tratta da due tipi di
segni: i verisimilia (verisimili) e le notaepropriae rerum (segni
caratteristici delle cose). Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che
accade per lo più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è
incline al piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corri
sponde ali'eik6s aristotelico, di cui ha il carattere probabili stico e
generalizzante. La nnta propria rei viene definita come "una prova che non
si verifica mai direttamente e indica una cosa certa, co me il fumo indica il
fuoco" (Part. or., 34). Si tratta, evi dentemente, del segno necessario,
come è dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo proprius, che
riman da alla nozione di fdion smeion (segno proprio). Per Ari stotele il
segno proprio era la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad
esempio, il fatto che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio
(An. Pr., 70 b, 11-38). Per le scuole postaristoteliche il segno proprio aveva
carat tere di necessità e si definiva come quel segno che non può esistere se
non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De si gnis, l, 12-16). 9.2.2.2 Gli
indizi di fatto Ci sono, poi, i vestigia facti (indizi di fatto), dei
quali 214 9. RETORICA LATINA vengono dati questi esempi: "un'arma,
macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor
so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione,
le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non definisce QUf)tO tipo di segni, se
non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratte ristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, e dagli argumenta di Cor nificio (Rhet. adHer., II,
8). I commentatori si sono chiesti se i vestigiafacti siano più in relazione
con i segni necessari (notae propriae rerum) o con i verisimili (verisimile)
(Crapis 1986: 61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma
non avendo la necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi che degli
ultimi. È plausibile che essa corrisponda alla cate goria dei semefa
aristotelici, diversi tanto dai tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo
delle Partitiones oratoriae (1 14), dove ricorrono esempi analoghi, i
vestigiafacti (chiamati lì anche signa) vengono definiti come consequentia,
cioè inferenze che si traggono dal conseguente, caratteristica che definiva
appunto, per Aristotele, i segni non necessari. Ma mentre Aristotele condannava
i smefa da un punto di vista episte mologico per la loro insicurezza, Cicerone
è pronto a rico noscerne l'efficacia qualora si presentino in gran numero
(coacervata proficiunt, 40). Possiamo quindi schematizzare la classificazione
cicero niana nelle Partitiones oratoriae (cfr. p. 215). 9.2.3 Le opere sulla
divinazione Molte cose collegano la retorica giudiziaria alla divina zione.
Innanzitutto il fatto che entrambe si avvalgano dei segni per arrivare alla
conoscenza di fatti non direttamente accessibili alla percezione. In secondo
luogo, in entrambe viene operata una distinzione tra aspetti che sono eminente
mente congetturali e altri aspetti che sono invece naturali o trt•)
(·sensu percipi potest•) es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza
inclinazione alla libidine · 9.2 CICERONE 215 coniecturs ---- l -----
verisimilie (•quod plerumque rta notse proprise rerum (•quod numquam alrter frt
certumque declarat•) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa dati: alla
dicotomia retorica tra prove tecniche (o congettu rali) e prove extratecniche
corrisponde la distinzione tra di vinazione artificiale (basata
sull'interpretazione e sulla con gettura) e divinazione naturale. Infine, come
Cicerone pole micamente rileva (De div. , II, 55), i segni della divinazione
sono talvolta interpretati in maniera diametralmente oppo sta, proprio come
avviene nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto
due interpretazioni di verse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i
metodi deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei
confronti della di vinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di
intellet tuali della sua epoca, educati ai metodi di indagine della fi
losofia greca, a fondamento razionalistico, e contempora neamente impegnato in
politica, sente l'esigenza di operare una distinzione netta tra religione e
superstizione, di cui la divinazione fa, per lui, parte. La religione
appartiene alla più antica tradizione romana e, posta come è ai fondamenti
dello stato, deve essere conservata, pena la disgregazione dello stato stso; la
superstizione, invece, costituita dal coacervo degli elementi spuri che
inquinano e rendono poco credibile la religione stessa, dev'essere respinta,
anche per ché non venga limitata la libertà del cittadino romano nel suo
impegno di gestione della repubblica. 216 9. RETORICA LATINA Cicerone
affronta questi argomenti nel De natura deo rum, nel De fato e, soprattutto,
nel De divinatione. Que st'ultima opera è scritta in forma di dialogo tra
l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte divinatoria basandosi
sulle teorie storiche che legavano la divinazione all'esistenza degli dei. Le
osservazioni di Cicerone contro la teoria soste nuta da Quinto sono
particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e propria critica a
un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in negativo, a una
concezione generale del segno. 9.2.3. 1 La divinazione "artificiale"
Secondo la teoria di Quinto, gli dei si pongono come fon te dell'informazione
e come emittenti nei processi di comu nicazione divinatoria, dei quali gli
uomini sono i destinata ri. Ma, a seconda dei due specifici tipi di
divinazione, il pro cesso comunicativo si struttura in modo differente. Il
primo tipo è costituito dalla divinatio artificialis, in cui l'interpretazione
dei segni è legata a un'ars, ovvero a una tecnica professionale di
decriptazione, demandata a specia listi, ciascuno esperto in un settore:
extispices (esaminatori delle viscere), interpretes monstrorum et fu/gurum
(inter preti dei fatti prodigiosi e dei fulmini), augures (interpreti del volo
degli uccelli), astrologi (interpreti delle stelle), in terpretes sortium
(interpreti delle combinazioni di tavolette mescolate in un'urna ed estratte a
caso). In tale divinazione l'informazione proveniente dalla divinità si
materializza prima di tutto in una sostanza espressiva percepibile, a cui l'ars
permetterà di abbinare un contenuto semantico. I presupposti su cui si basano
le interpretazioni di questo tipo sono dati dalla teoria, di origine stoica,
secondo cui tutti i fenomeni sono legati tra di loro in una catena di cau se
ed effetti, senza soluzione di continuità. Questa catena che ha come fondamento
primo il /6gos divino e costituisce il fato (heimarmén), non è conoscibile per
intero da parte degli uomini, dato che l'onniscienza è prerogativa della sola
divinità (De div., I, 125-127). 9.2 CICERONE 217 Tuttavia viene prevista
l'esistenza di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo
srotolarsi di una gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete
sempre quantoprimaèaccaduto"(Dediv.,l, 127).Questofasìche gli uomini,
attraverso l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si
ripetono e, pur non potendo conoscere direttamente le cause, possono però
arrivare a coglierne gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas
cernunt) (ibidem). Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle con
nessioni passate, si crea un vero e proprio codice basato sul la iteratività.
Si può schematizzare così il processo: emittente divino-segni di cause-eventi
futuri codice basato sulla iterattività 9.2.3.2 La divinazione
"naturale" Il secondo tipo di divinazione è quello definito
naturalis, in quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma
derivante piuttosto da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso
la mediazione di un segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di
preveggenza derivan ti da invasamento profetico, cioè le vaticinationes e
quelle derivanti dai sogni. Il palinsesto filosofico ·a cui è legato questo
secondo tipo di divinazione è quello delle teorie peri patetiche (Dicearco e
Cratippo vengono esplicitamente no minati, De div. , II, 100), secondo le
quali l'anima, per il suo legame naturale con la divinità, una volta che sia
spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che la legano al
corpo, partecipa direttamente della conoscenza del dio. Il ruolo del codice è
in questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema:
218 9. RETORICA LATINA emittente divino - segno interno - evento futuro
.... ricevente umano 9.2.3 .3 Critiche "semiologiche" contro i segni
divinatori Le obiezioni che Cicerone muove ai sostenitori della divi nazione
si basano su argomenti specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la
quale Cicerone nega valore alla divinazione, è che essa non abbia veramente
carattere semiotico, e cioè che i fenomeni che essa interpreta come se gni non
siano veramente tali, ovvero che non si comportino veramente come degli
antecedenti rispetto a dei conse guenti. Per distinguere i segni veri rispetto
a quelli presunti della divinazione, Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche
scientifiche (come la medicina, la meteorologia, la nautica, la tecnica
previsionale del contadino e deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i
casi è in gioco la predizione del futuro a partire da certi indizi; ma, mentre
le pratiche pro fessionali adottano una vera e propria metodologia che
comporta "scienza (ars), ragionamento (ratio), esperienza (usus) e
congettura (coniectura)" (De div. , II, 14), le prati che divinatorie si
basano sul "capriccio della sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra
che possa avere, fra le sue prerogative, quella di sapere quali fatti il caso
farà accade re" (De div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in
definitiva, è il codice (anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla
frequenza statistica) e il caso è del resto la stessa con cui i medici ip
pocratici tendevano a distinguere la propria scienza profes sionale dalla
divinazione e dalla medicina magica (Antica medicina, cap. XII). Cicerone poi
si sbarazza in termini razionalistici della teoria secondo cui anche nel caso
della divinazione tecnica si farebbe appello ali'osservazione iterata delle
coincidenze, ritenendola ridicola e insostenibile (De div., II, 28).
9.3 QUINTILIANO 219 Ma ci sono altri gravi difetti che la divinazione
presenta dal punto di vista semiotico: (i) le interpretazioni di uno stesso
segno sono spesso diametralmente opposte (De div.); (ii) si verificano
frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente, per cui un
certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio so, ma a
ben diverse cause naturali (De div.); l'interpretazione avviene a posteriori e così
toglie ogni ne cessità di rapporto tra antecedente e conseguente (De div. ,
II, 66); (iv) in certi casi l'interpretazione è motivata da ra gioni di
faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74). 9.3
Quintiliano All'epoca di Quintiliano, la trasformazione del regime politico
dalla repubblica all'impero aveva fatto si che la re torica divenisse
inutilizzabile come mezzo di agitazione po litica e sociale: per questo, da
strumento pragmatico quale l'aveva essenzialmente concepita Cicerone, era
divenuta so prattutto materia teorica. In questo quadro Quintiliano è colui
che espone i principi dell'arte retorica nella maniera migliore e più completa
di chiunque altro e contemporanea mente registra il processo di
cadaverizzazione che l'elo quenza stava subendo. Nella sua Institutio oratoria
tratta un programma completo del ciclo educativo del perfetto orato re, in cui
la competenza semiotica ha una posizione di rilie vo. Gran parte degli
elementi che compongono l'opera di Quintiliano hanno indiscutibilmente una
pertinenza semio tica; ma nella lnstitutio è presente anche una sezione speci
ficamente dedicata ai segni, come era ormai consuetudine per ogni trattato di
retorica. Vaie anche nel caso di Quintiliano la considerazione fatta a
proposito degli altri trattatisti di retorica, e cioè che la ri flessione sul
segno è saldamente inquadrata all'interno del l'ottica giuridica con cui viene
trattata la materia. I segni in fatti fanno parte delle probationes
artificiales, cioè delle 220 9. RETORICA LA... INA prove che l'abilità
(ars) dell'oratore saprà trovare per far assolvere o condannare un imputato.
D'altro canto, le pro bationes inartificiales sono quegli elementi che
derivano dali'esterno del processo e vengono consegnati ali'oratore insieme al
suo dossier. Il seguente schema ne mostra l'inventario completo: 9.3. 1
Orientamento della retorica di Quintiliano probstiones (prove) i n a rt i
f i c/i a l tJ s praejudicia (pregiudizi) rumores (voce pubblica) tormenta ,
quaesita ( inter rogatorio sotto tortura) tabulae (scritture, atti, contratti
ecc.) jusjursndum (giuramento) testimonia (testimonianze) a rt i f i c i s l e
s formale Va pure detto che la retorica di Quintiliano, accanto a un
orientamento giuridico, ne presenta anche uno fortemente teorico, che tende a
inquadrare la materia il più possibile in termini logici e formali (anche se è
stato rilevato che Quinti liano non si trova del tutto a suo agio in questo
campo) (Kennedy). Così tutti e tre i tipi di prove tecniche (signa, argumenta,
exempla) vengono inquadrati in un reticolo di relazioni lo giche vicine al
genere deli'implicazione, ovvero del rappor to "se p, allora q".
Infatti il meccanismo di avvaloramento signum (segno, prova di fatto)
argumentum (prova di ragionamento) exemplum (esempio) ed epistemologico QUINTlIANO
221 delle prove deve assumere una forma logica che coincide con uno dei
seguenti quattro tipi: (i) il concludere dalPesse re una cosa che un'altra non
sia (p-+ - q) ("È giorno, dun que non è notte"); (ii) il concludere
dall'essere una cosa che un,altra sia (p-+q) (''Il sole splende sulla terra,
dunque è giorno"); (iii) il concludere dal non essere qualcosa che
qualcos'altro sia ( -p-+q) (''Non è notte, quindi è giorno"); (iv) il
concludere dal non essere qualcosa che un'altra sia ( -p-+ - q) ("Non è un
essere razionale, quindi non è un uomo") (lnst. or. , V, 8, 7). Analizzati
ali'interno di questa griglia, i segni tendono a configurarsi come degli
antecedenti rispetto a dei conse guenti; nozione, questa, che Quintiliano non
ha bisogno nemmeno di rendere esplicita, in quanto attinta direttamen te dalla
tradizione della retorica e della logica greca. Dallo stesso ambito, del resto,
verranno attinti anche molti esem pi, tra cui l'ormai celebre "Se una
donna ha partorito, si è unita con un uomo", che, più o meno variato,
ritorna in tutti i trattatisti del segno. Come Aristotele, a cui fa costante
riferimento, Quintilia no è orientato verso un'ottica epistemologica,
piuttosto che di calcolo logico: ciò che lo interessa è soprattutto la possi
bilità di acquisire una conoscenza a partire da un segno. Scrive Eco (1984: 38)
a questo proposito: "Aristotele, inte ressato ad argomentazioni che in
qualche modo rendessero ragione dei legami di necessità che reggono i fatti,
poneva distinzioni di forza epistemologica tra segni necessari e se gni
deboli. Gli stoici, interessati a puri meccanismi formali dell'inferenza,
evitano il problema. Sarà Quintiliano, inte ressato alle reazioni di
un'udienza forense, a cercare di giu stificare, secondo una gerarchia di
validità epistemologica, ogni tipo di segno che in qualche misura risulti
'persua sivo' ". A proposito del carattere persuasivo dei signa,
Quintilia no fa una precisazione preliminare: i signa hanno molto in comune
con le prove extratecniche, in quanto, a esempio, una veste insanguinata, le
grida o i livori non vengono esco gitati dali'arte deli'oratore, ma gli
vengono consegnati nel dossier. Inoltre, se esi rimandano a un significato
inequi- 222 9. RETORICA LATINA vocabile, scompare la possibilità di
argomentazione; se, in vece, essi sono ambigui, non sono delle prove ma
necessita no essi stessi di prove (lnst. or.). Per questa ragione i segni
devono essere divisi innanzitut to in necessari e non necessari. 9 . 3 . 2 I
segni necessari l signa necessaria sono quelli che, come dice Quintiliano,
"aliter se habere non possunt" (lnst. or. , V, 9, 3), cioè sono degli
antecedenti che rimandano in maniera necessaria a dei conseguenti, e vengono
messi in corrispondenza con i tekmria della tradizione greca. Si tratta di
segni insolubili (alyta smefa), ovvero legati inscindibilmente ai conseguen
ti. L'informazione che se ne ricava è sicura e incontroverti bile . La furia
classificatoria, tipica del mondo antico, porta inoltre Quintiliano a
sottoclassificare questo tipo di segni in base al fatto che i loro conseguenti
siano individuabili nel tempo passato ("Se una donna ha partorito, si è
unita con un uomo"), nel presente (''Se soffia un forte vento sul ma re,
si formano su di esso le onde"), nel futuro ("Se uno è stato ferito
al cuore, morirà") (lnst. or., V, 9, 5). Questi segni vengono, poi,
sottoposti anche a un altro ti po di classificazione basata sul criterio di
reversibilità dei termini: ci sono relazioni segniche, come "Se vive,
respira", che mantengono la relazione di necessità anche invertendo
antecedente e conseguente: "Se respira, allora vive"; ma vi sono
anche relazioni segniche in cui la reversibilità non è possibile, come in
"Se cammina, si muove", "Se ha partori to, si è unita con un
uomo", "Se è ferito al cuore, morirà", "Se si è raccolta la
messe, si è seminato", "Se è stato ferito dalla spada, ha una cicatrice"
(lnst. or. , V, 9, 7). Quintilia no sembra sollevare qui il problema della
"conversazione" (antistréphein), che per Aristotele (An. Pr. , 70 b,
32 e sgg.) è condizione del segno proprio, cioè dell'"esserci un unico
segno di un'unica cosa". QUINTllANO 9.3.3 I segni non necessari 223
I signa non necessaria, che Quintiliano mette in corri spondenza con gli
eik6ta greci, sono le verisimiglianze, cioè quei fatti su cui vi è comunemente
accordo, quelli che, se condo Eco (1984: 40), potendo essere altrettanto
convincen ti di un segno necessario, dipendono dai codici e dalle sce
neggiature che una certa comunità registra come "buone". Quintiliano
ne distingue tre tipi fondamentali, in base al l'intensità del legame che si
stabilisce fra antecedente e con seguente: firmissimum (sicurissimo),
corrispondente alla norma statistica, come "Se sono genitori, amano i
propri fi gli"; propensius (molto probabile), come "Se uno sta bene
in salute, allora giungerà fino al giorno successivo"; non re pugnans
(non contraddittorio), cioè non contrastante con il senso comune, come "Se
c'è stato un furto dentro la casa, allora è stato fatto da chi era in
casa". Nessuna di queste inferenze presenta un grado di certezza
accettabile. Ma nell'ottica del discorso persuasivo esse pos sono essere molto
efficaci, soprattutto nel caso che si pre sentino in gran numero avvalorandosi
a vicenda (lnst. or. , V, 9, 8), poiché ricostruiscono una tessitura isomorfa a
quella dell'opinione pubblica. 9.3.4 Gli indizi materiali Nel contesto dei
signa non necessaria (lnst. or.) Quintiliano parla del signum senza altra
determinazione (messo in corrispondenza sia con indicium e vestigium, sia con
il greco smeion). Non si capisce bene se esso venga considerato una categoria
autonoma rispetto alle due prece denti (segni necessari e verisimiglianze),
come del resto av veniva nella fonte aristotelica, o se Quintiliano consideri
analoghi eik6ta e smeia. Nella seconda ipotesi si potrebbe parlare di un vero e
proprio errore di Quintiliano, come fa Cousin (1936). Tuttavia il fatto che consideri
un sinonimo l'espressione vestigium e ricorra all'esempio del sangue che
permette di scoprire l'uccisione, spinge a stabilire un parallelo con i
vestigia facti delle Partitiones oratoriae (39) cice roniane, dove compariva
lo stesso esempio. Si tratterebbe, in definitiva, della abituale categoria
degli indizi materiali (lividi., enfiagioni, ferite ecc.) (lnst. or., V, 9, I
l) percepibili sensorialmente. Quintiliano li definisce come quelli "attraverso
cui si comprende un'altra cosa, (per quod alia res inte/ligitur, V, 9, 9),
sottolineando che con essi si stabilisce un rapporto di significazione, che
parte da un sensibile per arrivare a qualcos'altro. Nella precedente categoria
(quella dci signa non necessa ria == eik6ta) venivano classificati fatti o
proprictfi che forni vano un'informazione non sicura, perché non convalidabile
dal punto di vista sciePtifico (se uno sta bene oggi, non è scient((ica1nente
sicuro che arriverà a domani); nella cate goria dei signa sono classificati
fatti che sono insicuri per ché ambigui (una macchia di sangue su una veste
può ri mandare tanto bene a un omicidio, come a una epistassi o allo schizzare
del sangue di una vitti1na durante un sacrifi cio). La classificazione,
allora, dovrebbe essere così formu lata: necessaria relazione necessaria tra
a'ltecadente e cons&guento es.: "Se una donna ha partorito, si è unita
con un uomo· l ------- signa non necssaria verisimiglianze non
conva!idabili scienti ficamente es.: "Se uno sta bene in salute, giungerà
fino al g iorno successivo" signa indizi materiali ambigui es.: ..Se
macchia di sangue, allora omi cidio, o epistassi, o sacrificio· Questo spiega
anche come mai Quintiliano chiami signa non necessaria dei casi chiari di
verisimiglianza (e non si gna), come gli esempi che egli riprende da Ermagora
e che 9.3 QUINTILIANO 225 critica: "Tra le cose che sono segni, ma
non necessari, Er magora ritiene questo, che non sia vergine Atalanta perché
vaga nei boschi con i giovani" (lnst. or., V, 9, 12). Quinti liano ha una
certa riluttanza a considerare questo e altri esempi di verisimiglianze molto
deboli come elementi pro banti in un processo: "Ma se accoglieremo questo
come se gno, temo che si ritengano come segni tutte le conseguenze che si
traggono da un fatto". Tuttavia, egli aggiunge, "essi si trattano
allo stesso modo dei segni" (ibidem). Quella che viene descritta è la
condizione tipica della semiotica giuridi ca, in perenne dialettica tra la
forza oggettivamente proba toria degli argomenti e l'abilità dell'avvocato di
fare un uso persuasivo anche di segni debolissimi. Naturalmente, in un'ottica
semiotica generale, non c'è al cun problema a considerare come segni
"tutte le conseguen ze che si traggono da un fatto". Le proprietà
che l'enciclo pedia registra a proposito di un certo oggetto o fatto sono
tutte, a buon diritto, dei segni di questo oggetto o di questo fatto. Saranno
poi le relazioni circostanziali e contestuali a garantire le differenze nella
forza probatoria: una pis.tola può essere segno di un delitto, ma diversi sono
i casi in cui essa venga rinvenuta in casa di un presunto terrorista, di un
poliziotto, di un armaiolo (Eco 1984: 39). E forse questo era stato oscuramente
intuito dalla retori ca antica, già da Aristotele, ma ancor più da
Quintiliano, i quali, da una parte ponevano una distinzione netta tra "cer
tezza scientifica" e "certezza legata ai codici socio-cultura
li", ma, dall'altra, utilizzavano entrambe, caso mai racco mandando, nel
secondo caso, l'assunzione congiunta di più prove che si rafforzassero a
vicenda. AGOSTINO 10.0 Unificazione delle teorie del segno e del lin guaggio
Con Agostino si opera, per la prima volta e in maniera esplicita, una completa
saldatura fra la teoria del segno e quella del linguaggio. Per trovare una
altrettanto rigorosa presa di posizione teorica bisogna aspettare il Corso di
lin guistica generale di Saussure, scritto quindici secoli dopo. La grande
importanza che la tematica semiolinguistica ha in Agostino deriva in gran parte
dal suo assorbimento della lezione stoica, come del resto testimonia il
trattato giovanile De dialectica: in esso sono riassunti molti dei principali
temi stoici in materia semiotica, tra cui il princi pio che la conoscenza è,
in linea generale, conoscenza attra verso segni (Simone). Ma vari elementi
differenziano l'impostazione agostinia na da quella stoica. In primo luogo,
infatti, gli stoici, racco gliendo e formalizzando una lunga tradizione di
origine so prattutto medica e mantica, consideravano propriamente segni
(smeia) solo i segni non verbali, come il fumo che svela il fuoco e la
cicatrice che rinvia a una precedente feri ta. Agostino, invece, per primo
nell'antichità, include nella categoria dei signa non solo i segni non verbali
come i gesti, le insegne militari, le fanfare, la pantomima ecc., ma anche le
espressioni del linguaggio parlato (''Noi diciamo in gene rale segno tutto ciò
che significa qualche cosa, e fra questi abbiamo anche le parole", De
Magistro). STRATIFICAZIONE TERMINOLOGICA 227 In secondo luogo, gli stoici
avevano individuato nell'e nunciato il punto di congiunzione tra il
significante (semaf non) e il significato (semain6menon), elemento che comun
que non coincideva con il segno (semefon). Agostino, inve ce, individua nella
singola espressione linguistica, cioè nel verbum (''parola"), l'elemento
in cui significante e signifi cato si fondono, e considera questa fusione un
segno di qualcos'altro ("Quindi, dopo aver sufficientemente assoda to che
le parole [verba] non sono nient'altro che segni [si gna] e che non può essere
segno ciò che non significhi [si gniflcet] qualcosa, tu hai proposto un verso
di cui io mi sforzassi di mostrare che cosa significhino le singole paro
le", De Mag., 7.19). In terzo luogo, gli stoici avevano elaborato una
teoria del linguaggio che aveva le due caratteristiche di essere formale (il
lekt6n non coincideva con alcuna sostanza) e centrata sulla significazione.
Agostino, invece, elabora una teoria del segno linguistico che ha un carattere
psicologistico (i si gnificati si trovano nell'animo) e comunicazionale
(passano nell'animo dell'ascoltatore) (Todorov; Markus). 10.1 n triangolo
semiotico e la stratificazione ter minologie& È del resto con l'analisi
della nozione stessa di parola (verbum simplex) che si apre il De dia/ectica ed
è con questa nozione che si inaugura una serie interessante di distinzioni
terminologiche. Al capitolo V, Agostino elabora una triplice distinzione che
possiamo mettere in corrispondenza con i moderni con cetti di significato,
significante e referente. Infatti individua in primo luogo la vox articu/ata (o
il sonus) della parola, cioè quello che è percepito dali'orecchio quando la
parola viene pronunciata. In secondo luogo individua il dicibi/e1
(corrispondente, anche dal punto di vista della trasposizio ne linguistica, al
/ekt6n stoico), definito come ciò che viene avvertito dall'animo e che è in
esso contenuto. In terzo luo- 228 10. AGOSTINO go, infine, distingue la
res, che viene definita come un og getto qualsiasi, percepibile con i sensi, o
con l'intelletto, op pure che sfugge alla percezione (De dialect. , cap. V). È
così possibile ricostruire il triangolo semiotico nei se guenti termini:
dicibile vox articulata (o sonus) res Ma Agostino guarda ai segni anche
dal punto di vista del loro potere di designazione, oltre che da quello della
signifi cazione. Questo lo spinge a elaborare un'ulteriore suddivi sione
terminologica in corrispondenza dei due aspetti che può assumere il referente
di una parola: (i) può infatti avve nire che la parola rimandi a se stessa
come proprio referente (fatto che si verifica nel caso della citazione, ovvero
della designazione metalinguistica), e allora prende il nome di verbum;2 (ii)
oppure può avvenire che la parola, intesa co me combinazione del significante
e del significato, abbia come referente una cosa diversa da se stessa (come
avviene con l'uso denotativo del linguaggio), nel qual caso prende il nome di
dictio.3 È precisamente la nozione di dictio che, come ha osserva to Baratin (
198 1 ), costituisce l'elemento di congiunzione tra la teoria del linguaggio e
quella del segno. E ciò in virtù di uno sfasamento semantico che la nozione
stoica di léxis (si gnificante articolato, ma senza essere necessariamente por
tatore di significato) ha subìto nel corso degli studi lingui stici
antichi. RELAZIONE D'EQUIVALENZA E D'IMPLICAZIONE 229 Dictio è traduzione
di léxis; ma non ha lo stesso significa to che le attribuivano gli stoici,
bensì quello che le davano i grammatici alessandrini, in particolare Dionisio
Trace, che definiva la léxis come "la più piccola parte dell'enunciato
costruito" (Grammatici graeci), a metà strada tra le lettere e le sillabe,
da una parte, e l'enunciato, dall'al tra. Questa sua particolare posizione fa
sì che la léxis venga considerata come portatrice di un significato (in
contrappo sizione alle lettere e alle sillabe che non lo posseggono), ma
incompleto (in opposizione all'enunciato che porta un sen so completo). Lo
spostamento di fuoco dalla centralità stoica dell'e nunciato alla centralità
alessandrina della singola parola, fa sì che quest'ultima assuma al(\une delle
funzioni prima spet tanti solo all'enunciato. In particolare, quella di essere
un segno.4 Agostino definisce decisamente la parola come un segno al cap. V del
De dialectica: "La parola è, per ciascuna cosa, un segno che, enunciato
dal locutore, può essere compreso dall'ascoltatore". E, del resto, il
segno viene definito come "ciò che presentandosi in quanto tale alla
percezione sensi bile, presenta anche qualche cosa alla percezione intellet
tuale (animus)" (ibidem). 10.2 Relazione di equivalenza e relazione di im
plicazione Ponendo l'accento sulla parola, anziché sull'enunciato, Agostino
ritrova l'opposizione platonica tra parole e cose. Incontro non casuale, in
quanto Platone è l'unico, prima di Agostino, ad avere una concezione semiotica
del linguag gio; per Platone, infatti, il nome era d/Oma, svelamento di
qualcosa che non è direttamente percepibile, ovvero dell'es senza della cosa.
Ma mentre nel Crati/o platonico si discute se il rapporto tra nome e cosa sia
un rapporto iconico (pe raltro con la soluzione che conosciamo, cfr. cap. 4),
in Agostino tale rapporto - configura subito come una rela zione di
significazione: il nomt "significa" una cosa (nozio- 230 10.
AGOSTINO ne equivalente a quella di "essere segno di" una cosa). Nel
momento in cui Agostino propone la sua concezione della parola come segno, si
producono alcune modificazio ni teoriche, conseguenti allo spostamento di
prospettiva. In effetti nelle teorie linguistiche precedenti a quella di Agosti
no il rapporto tra le espressioni linguistiche e i loro conte nuti era stato
concepito come una relazione di equivalenza. La ragione, come noto, era di
carattere epistemologico e ri guardava la possibilità di lavorare direttamente
sul linguag gio, in sostituzione degli oggetti della realtà, dato che il lin
guaggio veniva concepito come un sistema di rappresenta zione del reale (per
quanto mediato dall'anima). Al contrario, il rapporto tra un segno e ciò a cui
esso rin via era stato concepito come una relazione di implicazione, per cui
il primo termine permetteva, per lo stesso fatto di esistere, di arrivare alla
conoscenza del secondo. Eco ha suggerito che, nell'enunciato stoico, i rapporti
tra la relazione segnica e quella linguistica possono essere illustra ti da
uno schema in cui il livello implicazionale si regge su quello
equazionale: onIE=>c m_E:! c
dove E indica "espressione", C "contenuto", ::J
"implica" e == "è equivalente a". In Agostino
l'unificazione tra le due prospettive avviene a livello della singola parola e
senza chiamare in causa rapporti di equivalenza. Caso mai la dic tio, che è
rappresentabile con il livello i, è costituita dali'u nione, o prodotto
logico, di una vox (significante) e di un dicibile (significato), unità che
diviene segno di qualcos'al tro (livello ii). 10.3 UNmCAZIONE
DELLE PROSPETI 231 10.3 Conseguenze dell'unificazione delle prospet tive La
prima conseguenza dell'unificazione agostiniana, co me sottolinea Eco (1984:
33), è che la lingua comincia a tro varsi a disagio all'interno del quadro
implicativo. Essa in fatti costituisce un sistema troppo forte e troppo
strutturato per sottomettersi a una teoria dei segni nata per descrivere
rapporti così elusivi e generici, come quelli che si ritrovano, a esempio,
nelle classificazioni della retorica greca e roma na. Infatti l'implicazione
semiotica era aperta alla possibili tà di percorrere l'intero continuum dei
rapporti di necessità e di debolezza. Inoltre la lingua, come del resto
Agostino mette in risalto nel De Magistro, possiede un carattere peculiare
rispetto agli altri sistemi di segni, corrispondente al fatto di essere un
"sistema modellizzante primario",5 cioè tale che qualun que altro
sistema semiotico può essere tradotto in esso. La forza e l'importanza della
lingua fanno sì che i rapporti con gli altri sistemi di segni si rovescino, e
che essa, da specie, divenga genere: a poco a poco, il modello del segno lingui
stico finirà per essere senz'altro il modello semiotico per ec cellenza. Ma
quando il processo evolutivo arriva a Saussure, che ne rappresenta il punto
culminante, si è ormai venuto a per dere il carattere implicativo, e il segno
linguistico si è cri stallizzato nella forma degradata del modello
dizionariale, in cui il rapporto tra la parola e il suo contenuto è concepito
come situazione sinonimica o definizione essenziale. La seconda importante
conseguenza dell'innovazione agostiniana riguarda il problema della fondazione
della dia lettica e della scienza (Baratin 1 98 1 : 266 e sgg.). Fintanto ché
il rapporto tra linguaggio e oggetto del reale era conce pito nei termini
dell'equivalenza, il primo non appariva di rettamente responsabile della
conoscenza del secondo. Ma nel momento in cui si attribuisce un carattere di
segno alle espressioni linguistiche, la conoscenza delle parole sembra
implicare, di per se stessa, e a priori, la conoscenza delle co se di cui esse
sono segno. Tutta la grande tradizione serniotica, del resto, convergeva nel
considerare il segno come il punto di accesso, senza ulteriori mediazioni, alla
conoscen za dell'oggetto di riferimento. Il problema che si pone ad Agostino è
allora quello di prendere una posizione rispetto alla questione se il linguag
gio fornisca o meno , di per se stesso , informazioni sulle co se che
significa. Linguaggio e informazione Agostino affronta la questione del
carattere informativo dei segni linguistici nel De Magistro. L'opera, in forma
di dialogo tra Agostino e il figlio Adeodato, inizia stabilendo due
fondamentali funzioni del linguaggio: in· segnare (docere) e richiamare alla
memoria (commemorare), sia propria sia degli altri. Si tratta di funzioni con
temporaneamente informative e comunicative, in quanto coinvolgono in maniera
centrale la presenza del destinatario nel momento in cui forniscono
informazione. La prima parte del dialogo è tesa a dimostrare che queste
funzioni, principalmente quella informativa, sono svolte dal linguaggio in
quanto sistema di segni. Sono le parole, infatti, che, in qualità di segni,
danno informazione sulle cose, senza che nient'altro possa assolvere alla
medesima funzione. Nella seconda parte del dialogo, però, Agostino ritorna
sull'argomento e cambia completamente la sua prospettiva. Fondandosi ancora una
volta sul fatto che la lingua è un in sieme di segni, egli mostra che si
possono presentare due ca si: il primo caso è quello in cui il locutore
produce un se gno che si riferisce a una cosa sconosciuta al destinatario; in
tale situazione il segno non è in grado, di per se stesso, di fornire
informazione, come dimostra l'esempio, riportato da Agostino, dell'espressione
saraballae, la quale, se non precedentemente nota, non permetterà di
comprendere il ri ferimento ai "copricapr', che essa effettua; il secondo
caso è quello in cui il locutore produce un segno che si rife risce a qualcosa
che è già noto al destinatario; e nemmeno COMUNICAZIONE DEL VERBO
INTERIORE 233 in questa evenienza si potrà parlare di un vero e proprio
processo di conoscenza (De Mag.). Alla fine Agostino conclude invertendo il
rapporto cono scitivo tra segno e oggetto, e stabilendo che è necessario co
noscere preliminarmente l'oggetto di riferimento per poter dire che una parola
ne è un segno. È la conoscenza della co sa che informa sulla presenza del
segno e non viceversa. La soluzione ha una ascendenza chiaramente platonica, e
a es sa si collega anche la presa di posizione, di marca ugual mente
platonica, che la conoscenza delle cose deve essere pregiata maggiormente della
conoscenza dei segni, perché "qualunque cosa sta per un'altra, è
necessario che valga meno di quella per cui essa sta" (De Mag., 9.25). Ma
se per le cose sensibili (sensibilia) sono gli oggetti esterni che ci
permettono di arrivare alla conoscenza, non altrettanto avviene nel caso delle
cose puramente intelligibi li (intelligibilia). Per queste ultime Agostino
individua una soluzione "teologica": la loro conoscenza deriva dalla
rive lazione che viene fatta dal Maestro interiore, il quale è ga ranzia
tanto deli'informazione quanto della verità (De Mag., 12.39). Ma anche con
questa soluzione "teologica" del problema linguistico, al linguaggio
è lasciato uno spazio, che in parte coincide con la funzione del segno
rammemorativo, ma in parte la supera: quando conosciamo già l'oggetto di riferi
mento, le parole ci ricordano l'informazione; quando non lo conosciamo , ci
spingono a cercare (De Mag.). Espressione e comunicazione del verbo inte riore
In Agostino la soluzione teologica non è una scappatoia per uscire da
un'impasse teorica. Al contrario, essa mette capo a nuove problematiche. È nel
De Trinitate (415) che viene affrontato il tema dell'espressione del verbo
interiore, una volta che sia stato concepito nella profondità dell'ani mo. In
effetti, per poter comunicare con gli altri, gli uomini si servono della parola
o di un segno sensibile, per poter 234 10. AGOSTINO provocare nell'anima
dell'interlocutore un verbo simile a quello che si trova nel loro animo mentre
parlano (De Trin., IX, VII, 12). D'altra parte Agostino sottolinea la natura
prelinguistica del verbo interiore, il quale non appartiene a nessuna delle
lingue naturali, ma deve essere codificato in un segno quan do ha bisogno di
essere espresso e portato alla comprensio ne dei destinatari. Il verbo
interiore ha, del resto, una duplice origine: da una parte esso costituisce una
conoscenza immanente, la cui sorgente è Dio stesso; dall'altra esso è
determinato dalle im pronte lasciate neli'anima dagli oggetti di conoscenza.
Ma anche in questo secondo caso esso è riconducibile a Dio, in quanto il mondo
è il linguaggio attraverso il quale Dio si esprime. Si trovano qui gli embrioni
del simbolismo univer sale, che tanta parte avrà nella cultura del Medioevo.
Quello che comunque emerge con sempre maggiore chia rezza è il carattere
comunicativo della semiologia agostinia na, che è individuabile anche nello
schema riassuntivo pro posto da Todorov (1977: 42): oggetti di conoscenza
potenza !Immanente verbo verbo verbo divina interiore - esteriore - esteriore
pensato proferito sa pere 10.6 Le classificazioni È comunque
innegabile, come sottolinea Simone (1969: 96 n. 2), che se la semiologia
agostiniana presenta un aspet to "teologico", connesso al problema
del verbo divino, tut tavia possiede anche un ben individuato e autonomo aspet
to laico, che prende in considerazione i caratteri che il segno ha di per se
stesso. Fanno parte di quest'ultimo aspetto le varie classificazioni dei segni,
alle quali Agostino si dedica soprattutto nel trattato De doctrina Christiana,
l . 2. 3. 4. 5. secondo il modo di trasmissione: vista/udito secondo l'origine
e l'uso: segni naturali/segni intenzio nali secondo lo statuto sociale: segni
naturali/segni conven zionali secondo la natura del rapporto simbolico:
proprio/tra slato secondo la natura del designato: segno/cosa LE
CLASSffiCAZIONI 235 con aggiunte più tarde), ma che ritorna anche in varie
altre opere . Todorov (1977: 43 e sgg.) individua e analizza cinque tipi di
classificazione a cui Agostino sottopone la nozione di se gno : Todorov
lamenta il fatto che Agostino giustappone quel lo che in realtà avrebbe potuto
articolare, in quanto gene ralmente queste opposizioni sono tra di loro
irrelate. Questo non è però del tutto vero, perché (soprattutto nel De
Magistro) c'è un tentativo di dare una classificazione combinata di alcuni
aspetti del segno. A questo proposito è possibile ricostruire tale classifica
zione ordinandola secondo uno schema arboriforme (Ber nardelli 1987), secondo
il modello dell'albero di Porfirio (Eco 1984: 91 e sgg.); cfr. p. 236. La
classificazione di Agostino non è totalmente a inclu sione, come tende a
essere quella porfiriana; e si può osser vare che se venissero sviluppati i
rami collaterali, si vedreb bero comparire, una seconda volta, alcune
categorie elenca te sotto il ramo principale. Tuttavia è Agostino stesso a
metterei sulla strada di una classificazione inclusiva da ge nere a specie
quando definisce la relazione tra nome e paro la come "la stessa che c'è
tra cavallo e animale" e includen do la categoria delle parole in quella
più ampia dei segni (DeMag., 4.9). genen· e specie AES SEGNO PAROLA NOME
-- segno udibile di cose (funzione denotativa) res sensibili (Romulus, Roma,
fluvius) differenze significanti qualcosa verbale (voce articolata)
differenze ( s i g n i fi c s b i l i s l non significanti
nome in senso particolare non verbale (gesti. insegne, lettere, tromba
militare ecc.) altra parte del discorso (si, ve/, ex, nsmque, neve, ergo,
quonism ecc.) segno udibile di segni udibili (funzione metalinguistìca) res
intelligibili ( virtus) SIGNIFICANTE delle .. AES"
10.6 LE CLASSIFICAZIONI 237 10.6. 1 "Res" e "signa"
La prima relazione interessante è quella tra res e signa. Per quanto il mondo
sostanziahnente venga diviso in cose e segni, tuttavia, Agostino non concepisce
tale distinzione co me ontologica, bensì come funzionale e relativa. Infatti
anche i segni sono delle res e l'uomo è libero di as sumere come segno una res
che fino a quel momento era sprovvista di quella dignità. Anzi, la stessa
nozione di res viene definita in termini rigorosamente semiologici (Simone
1969: 105): "In senso proprio ho chiamato cose (res) quegli oggetti che
non sono impiegati per essere segni di qualche cosa: per esempio i legno, la
pietra, il bestiame" (De doctr. Christ. , I, Il, 2). Ma, immediatamente
dopo, cosciente del la pervasività dei processi di semiosi, aggiunge: "Ma
non quel legno che, leggiamo, Mosè gettò nelle acque amare per dissipare la
loro amarezza (Esodo, XV, 25); né quella pietra sulla quale Giacobbe riposò la
sua testa (Gen., XXVIII, I l); né quella pecora che Abramo immolò al posto di
suo figlio (id., XXII, 13)". L'articolazione che esiste tra segni e cose è
analoga a quella dei due processi essenziali: usare (ut1) e godere (jrul) (De
doctr. Christ. , l, IV, 4). Le cose di cui si usa sono tran sitive, come i
segni, che sono strumenti per giungere a qual cos'altro; le cose di cui si
gode sono intransitive, cioè sono prese in considerazione per se stesse
(Todorov 1977: 39). Nel De Magistro (4.8) Agostino propone anche un nome per le
cose che non sono usate come segni, ma sono signifi cate attraverso segni:
significabilia. Niente toglie che in un secondo momento anche quest'ultime
possano essere assun te con funzione significante. Dopo aver così articolato i
rapporti tra segni e cose, Ago stino propone questa definizione di segno nel
De doctrina Christiana. Il segno è una cosa (res) che, al di là
dell'impressione che produce sui sensi, di per se stessa, fa venire in mente
(in cogitationem) qualcos'altro". 238 10. AGOSTINO 10.6.2 Segni
verbali e non verbali Nel nostro albero porfiriano abbiamo deciso di ricostrui
re la principale suddivisione agostiniana dei segni secondo la dicotomia
verbale/non verbale, anche se altre opzioni, ugualmente esplicite nei testi di
Agostino, erano disponibili. Questa decisione è autorizzata da un passo del De
doctrina Christiana (Il, IV, 4) in cui, a conclusione di un'analisi dei vari
tipi di segni, Agostino sostiene: "Infatti di tutti quei se gni, di cui
ho brevemente abbozzato la tipologia, ho potuto parlare attraverso le parole;
ma le parole in nessun modo avrei potuto enunciarle attraverso quei
segni". Viene esplicitamente fatto riferimento al carattere, tipico del
linguaggio verbale, di essere un sistema modellizzante primario, e tale
carattere viene assunto come criterio della divisione fondamentale dei segni.
I0.6.3 Segni classificati in base al canale di perce zione Una classificazione
incrociata rispetto alla precedente è quella effettuata in base al canale di
percezione. Agostino infatti sostiene che "tra i segni di cui gli uomini
si servono per comunicare tra di loro ciò che provano, certi dipendono dalla
vista, la maggior parte dali'udito, pochissimi dagli al tri sensi" (De
doctr. Christ., Il, III, 4). Tra i segni che vengono percepiti con l'udito ci
sono quel li, fondamentalmente estetici, emessi dagli strumenti musi cali,
come il flauto e la cetra, o anche quelli essenzialmente comunicativi emessi
dalla tromba militare. Naturalmente, ritroviamo tra i segni percepìbili con
l'udito, in una posizio ne dominante, anche le parole: "Le parole, in
effetti, hanno ottenuto tra gli uomini il primissimo posto per l'espressione
dei pensieri di ogni genere, che ciascuno di essi vuole ester nare"
(Dedoctr. Christ.). Tra i segni percepibili con la vista Agostino elenca i
cenni della testa, i gesti, i movimenti corporei degli attori, le ban diere e
le insegne militari, le lettere. LE CLASSIFICAZIONI Infine vengono presi
in considerazione i segni che riguar dano altri sensi, come l'odorato (l'odore
dell'unguento sparso sui piedi di Cristo), il gusto (il sacramento dell'euca
ristia), il tatto (il gesto della donna che toccò la veste di Cri sto e fu
guarita). 10.6.4 "Signa naturalia" e "signa data"
Sicuramente fondamentale, anche se non direttamente integrabile al nostro
albero inclusivo, risulta lo schema di classificazione che oppone i signa
naturalia ai signa data. I primi sono "quelli che senza intenzione, né
desiderio di si gnificare, fanno conoscere qualcos'altro, oltre a se stessi,
come il fumo significa il fuoco" (De doctr. Christ.). Ne sono esempi anche
le tracce lasciate da un animale e le espressioni facciali che rivelano,
inintenzionalmente, irrita zione o gioia . Dopo averli definiti , Agostino
dichiara di non volerli trattare ulteriormente. È invece maggiormente
interessato ai signa data, in quan to a questa categoria appartengono anche i
segni della Sa cra Scrittura. Essi vengono definiti come "quelli che
tutti gli esseri viventi si fanno, gli uni agli altri, per mostrare, per quanto
possono, i movimenti della loro anima, cioè tutto ciò che essi sentono e
pensano" (De doctr. Christ.). Gli esempi sono soprattutto i segni
linguistici umani (le pa role) . Ma Agostino, curiosamente, include in questa
classe an che i segni emessi dagli animali, come quelli che si hanno quando il
gallo segnala alla gallina di aver trovato il cibo (ibidem). Questo crea una
marcata differenza rispetto ad Aristotele, che include i gridi degli animali
tra i segni natu rali (De int., 16 a). Ma Aristotele opponeva
"naturale" a "convenzionale", mentre i signa data non sono
i "segni convenzionali", come Markus aveva suggerito (e come del
resto era sta to proposto dalla traduzione francese di G. Combès e J. Farges).
I signa data sono i "segni intenzionali" (Engels 1962: 367; Darrel
Jackson 1969: 14), e corrispondono a 1:1na 240 10. AGOSTINO ben precisa
intenzione comunicativa (De doctr. Christ.). È del resto il carattere
intenzionale che permette ad Agostino di includere tra i signa data quelli
emessi dagli animali, anche se egli non si pronuncia sulla natura di que sta
intenzionalità animale (Eco 1987: 78). Del resto, come nota Todorov (1977: 46),
porre l'accento sull'idea di intenzione corrisponde al progetto semiologico
generale di Agostino, orientato verso la comunicazione. I segni intenzionali, o
meglio, creati espressamente in vista della comunicazione, possono essere messi
in corrisponden za del syrnbolon di Aristotele e della combinazione stoica di
un significante con un significato; quelli naturali, ovvero già esistenti come
cose, corrispondono invece ai smeia, sia aristotelici che stoici. 10.7 Semiosi
illimitata a modello "istruzionale" Uno dei punti fondamentali della
semiologia agostiniana, infine, è costituito dalla ricerca dei modi in cui si
può stabi lire il significato dei segni. Tale indagine è condotta soprat
tutto nel De Magistro, dove si può rintracciare una conce zione semantica che
si avvicina al tipo della "semiosi illimi tata" di Peirce. Come ha
rilevato anche Markus (1957: 66), il significato di un segno, per Agostino, può
essere stabilito o espresso mediante altri segni, per esempio: fornendo dei
sinonimi; attraverso l'indicazione con il dito puntato; per mezzo di gesti;
tramite astensione (De Mag. , III e VII). Questa concezione del significato si
rende possibile sol tanto nel momento in cui viene abbandonato lo schema
equazionale del simbolo, per adottare, come fa Agostino, quello implicazionale
del segno. La teoria semiologica ago stiniana si apre così, come ha messo in
evidenza Eco, verso un modello "istruzionale" della descrizione
semantica. Se ne può cogliere un esempio neIl'analisi che Agostino conduce
insieme ad Adeodato del verso virgiliano "si nihil ex tanta superis placet
urbe relinqui" (De Mag.). Esso viene definito come composto di otto segni,
dei quali, appunto si cerca il significato. SEMIOSI ILLIMITATA L'indagine
comincia da l si l , di cui si riconosce che espri me un significato di
"dubbio", dopo aver tuttavia sottoli neato che non si è trovato un
altro termine da sostituire al primo per illustrare lo stesso concetto. Si
passa, poi, a lni hi/1 , il cui significato viene individuato come
!'"affezione dell'animo" che si verifica quando, non vedendo una
cosa, se ne riconosce l'assenza. In seguito Agostino chiede ad Adeodato il
significato di lexl ed esso propone una definizione sinonimica: lexl sa rebbe
equivalente a l de l . Agostino non è soddisfatto di questa soluzione e
argomenta che il secondo termine è certo un'interpretazione del primo, ma ha
bisogno di essere a sua volta interpretato. La solu2ione finale è che l ex l
significa "una separazione" da un oggetto. A questa conclusione, pe
rò, viene aggiunta anche una successiva istruzione per la sua decodifica
contestuale: il termine può esprimere separa zione rispetto a qualcosa che non
esiste più, come nel caso della città di Troia a cui si allude nel verso
virgiliano; oppu re il termine può esprimere separazione da qualcosa che è
ancora esistente, come quando diciamo che in Africa ci so no alcuni negozianti
provenienti da Roma. Il significato di un termine, allora, "è un blocco
(una se rie, un sistema) di istruzioni per le sue possibili inserzioni
contestuali, e per i suoi diversi esiti semantici in contesti di versi (ma
tutti ugualmente registrabili in termini di codice)" (Eco 1984: 34). La
struttura implicativa permette regole del tipo "Se A appare nei contesti
x, y, allora significa B; ma se B, allora C; ecc.", regole che sono comuni
tanto al modello istruzio nale quanto alla semiosi illimitata. In definitiva,
è proprio grazie ali'assunzione generalizza ta del modello implicazionale che
la semiologia agostiniana riesce a porsi sia come sintesi delle acquisizioni
semiolingui stiche del mondo antico (teoria della parola come segno), sia come
potente anticipazione di alcune delle più recenti tendenze della ricerca
attuale in campo semantico (modello istruzionale) . NOTE 1 Anche se non è
ancora possibile stabilire se e in quale misura la cultura greca sia debitrice
a quella mesopotamica della nozione di segno, secondo lo schema implicativo, in
generale, è possibile, però, rilevare una connes sione storicamente
documentabile tra le due culture in ambiti di uso parti colare del segno. A
esempio nelPambito della medicina viene fatto ricorso allo schema del segno
implicativo ("se..., allora...") nella presentazione dei complessi
eziologici tanto nei trattati mesopotamici quanto in quelli greci, ambito in
cui si sa che ci sono stati contatti positivi tra le due culture (cfr. Di
Benedetto-Lami 1983: I l). 2 Barthes e Marty (1980: 71) collocano nel 3500 a.C.
la nascita dei primi germi della scrittura in Mesopotamia. Alcuni, come Cardona
(1981: 70), fanno risalire al 3500 l'invenzione degli stessi caratteri
cuneiformi. Bottero (1974: tr. it. 155) posticipa molto la data, sostenendo che
"la scrittura cu neiforme è stata inventata nella bassa Mesopotamia verso
il 2850 avanti la nostra era"; cfr. anche Barthes e Mauriès (1981: 602). 3
Si veda il sumerogramma n. 73 del manuale di Labat (1948: 69). È cu rioso
notare come si registri qui un gioco simile a quello omografico greco tra bios
(''vita") e bios (''arco"), presente nel frammento 48 (D-K) di Era
clito: "L'arco (bios) ha dunque per nome vita (bios) e per opera
morte". 4 In ciascun esempio dividiamo la protasi dali'apodosi con un
trattino, allo scopo di far meglio risaltare la distinzione. Per questi esempi,
come per la maggioranza dei testi mesopotamici riportati nel corso di questo ca
pitolo, siamo debitori al ricchissimo e ben documentato saggio di Bottero
(1974). Qui, una volta per tutte, rimandiamo a esso per l'indicazione delle
fonti primarie e delle edizioni critiche. Anche per gran parte delle notizie
contenute in questo capitolo si fa riferimento a quel saggio. Si potevano contare oltre cento oracoli per
tavoletta, e alcune raccolte potevano arrivare a un numero di circa venti
tavolette. 244 NOTE CAPITOLO 2. 1 Infatti da un'analisi del vocabolario
dell'azione oracolare compiuta da Crahay risulta che alcuni vocaboli presentano il
testo della rivelazione come un segno, molto spesso un segno anticipatorio, in
quanto orientano l'azione verso l'avvenire. Tra questi si ricordino i due verbi
smafno e prosmafnO (cioè "informare in anticipo con segni") e l'ag
gettivo di origine verbale pr6phanton che esprime l'idea di un'informazio ne
prima del fatto. 2 Ciò è tanto più evidente se si opera un confronto con
civiltà come quella mesopotamica che mettevano la divinazione al centro della
vita pubblica (Vernant 1974) e ne estendevano il modello formale anche a tutti
gli altri ambiti culturali (a esempio, alla medicina e alla giurisprudenza). 3
Cfr . anche //. , I I I , 277 . Per i passi citati sono utilizzate, nel corso
del l'intero testo, traduzioni correnti, talvolta parzialmente modificate. 4
Traduco dal testo in inglese di Romeo (1976: 86): "The lord, who has the
oracle in Delphi, l neither discloses nor hides his thought, l but indica tes
it through signs". s Infatti la divinazione è indissolubilmente legata ad
Apollo, e Apollo è indissolubilmente legato alla sapienza. La sapienza del dio
è totale e simul tanea e non ha bisogno di essere frammentata in parole.
Tuttavia agli uo mini egli concede, invece, solo la frammentazione della
parola oracolare, oscura e incomprensibile, in quanto in essa la sapienza
divina appare come follia dell'uomo invasato. La follia, del resto, che Platone
ritiene essere l'essenza stessa della mantica, riconnettendo nel Fedro (244
a-c) l'etimolo gia di mantiké a maniké ("arte folle"), non è altro
che la sapienza vista dal l'esterno. 6 Ma si veda anche Amandry (1950) per la
presenza di possibili procedi menti anche di cleromanzia (divinazione
attraverso il lancio delle sorti) presso l'oracolo di Delfi. 7 Talvolta certi
fenomeni naturali potevano perdere il carattere di ca sualità ed essere
sottoposti a un processo di istituzionalizzazione, come av veniva nel caso
dell'oracolo di Dodona, dove si interpretavano i segni dati dallo stormire del
vento tra le fronde di una quercia sacra a Zeus (come pure, probabilmente, il
tubare e il volo dei piccioni sacri e iJ mormorio di una fonte, gli echi di un
gong). Per gli oracoli in generale, si vedano Ferri (1916) e Parke (1967); per
una disamina generale e approfondita dei vari ti pi di divinazione i testi
basilari sono Bouché-Leclercq ( 1 879-82) e Halliday (1913). 8
"Lobo", "vescichette" e "porte" erano i termini
tecnici designanti par ti che gli specialisti di questo tipo di divinazione
prendevano come segni da cui elaborare interpretazioni; cfr. Arist., Historia
anima/ium, l, 17, 496 b 32· Eurip., E/ectra, 826-828. 9 Le forme della
consultazione oracolare ci sono note attraverso un cer to numero di iscrizioni
epigrafiche, provenienti principalmente da Delfi e da Dodona; cfr.
Parke-Wormell e Fontenrose. Quest'ultima categoria fa ovvio riferimento alla
nozione di enigma, come era presente nella cultura greca: esso comportava, come
vedremo NOTE 245 meglio più avanti, sia un aspetto di sfida (da parte del
dio all'uomo), sia la presenza nascosta di un secondo senso, sia, infine,
l'idea che il primo senso doveva essere immediatamente scontato. Il termine
"modo", poi, pone l'accento sul fatto che non vi è presenza di un
unico meccanismo, ma di una galassia di procedimenti espressivi molto eterogenei,
che vanno dalla banale omonimia, alla metafora (metasememi), allo scambio di
prospetti va (metalogismi) ecc. L'espressione "modo" enigmatico fa
naturalmente riferimento alla categoria di modo simbolico elaborata da Eco. Pur
troppo non è qui possibile usare direttamente quella categoria perché essa, pur
avendo molti punti in comune con questa che qui proponiamo, se ne discosta per
la presenza di alcuni caratteri specifici (rapporto stretto tra si gnificante
e significato, nebulosa di sensi multipli tendenzialmente coesi stenti ecc.)
che qui non si ritrovano. È un peccato, perché ci sarebbe sem brato
appropriato definire "simbolico" il modo di parlare del dio. 1 1 Il
meccanismo retorico dell'enallage ricorda il meccanismo oracolare usato dalla
Sibilla cumana, nella descrizione di Virgilio (Aen. , VI): la sa cerdotessa di
Apollo scrive le varie parti del responso su delle foglie, se guendo l'ordine
sintagmatico del linguaggio umano; poi lascia quelle fo glie al vento, che
scompiglia l'ordine precedente, creandone un altro, in cui i riferimenti
incrociati fra i ternlini rendono oscuro il testo e difficile
l'interpretazione. 12 L'ambiguità del dio è simbolizzata dai due attributi
antitetici della li ra e dell'arco: la lira rappresenta la faccia benigna ed
esaltante (quella che compare nell'interpretazione di Nietzsche); l'arco,
quella maligna e deva stante. Del resto l'etimologia stessa del suo nome
suggerisce il significato di "colui che distrugge totalmente", ed è
sotto questo aspetto che Apollo si presenta all'inizio dell'Iliade, dove le sue
frecce portano lutto e distruzione nel campo degli Achei (Colli). Per una
nozione complessa e articolata della nozione di "verità" nel mondo
antico, si veda Detienne (1967). In particolare, sulla concezione di a/theia
come "sintesi del passato, del presente e del futuro", comune al
poeti ispirati, agli indovini e agli ambienti filosofico-religiosi, Detienne. D'ora
in avanti ci riferiremo al Corpus Hippocraticum con la sigla C.H. Naturalmente,
per una documentazione completa sulla medicina gre ca, dovrebbero essere prese
in specifica considerazione almeno anche le opere di Galeno; tuttavia queste
ultime, appartenendo a un'epoca molto più recente (II sec. d.C.) e attingendo a
una tradizione filosofica (quella aristotelica e stoica) che aveva già portato
molto avanti lo studio sul segno, si situano in parte al di fuori del discorso
che stiamo svolgendo . Rimandia mo, comunque, a Manuli (1980). 2 La massiccia
attribuzione dei trattati di medicina del V e lV secolo 246 NOTE 3 Si
possono distinguere all'interno del C.H. gruppi omogenei di opere. Innanzitutto
il gruppo di trattati tecnico-terapeutici (Sulle affezioni inter ne, il libro
II delle Malattie (A), il libro III delle Malattie, la parte più ar caica del
trattato Sulle malattie delle donne), caratterizzati da un carattere spiccato
di arcaicità e da una maggiore attenzione all'aspetto terapeutico della medicina
(Di Benedetto 1986: 5 e 80). In secondo luogo, un gruppo di trattati in cui
appaiono maggiormente approfonditi i principi teorici e me todologici della
medicina. Vegetti (1976: 21 e sgg.) ha proposto di definire convenzionalmente
"pensiero ippocratico" queJJo che da questi ultimi ri sulta
(indipendentemente dal fatto che essi siano attribuibili a molti autori e
probabilmente tutti diversi dali'lppocrate storico vissuto tra il 460 e il 370
a.C.). Questi testi, collocabili cronologicamente nella seconda metà del V
secolo a.C., sono: Antica medicina, Le arie, le acque, i luoghi, Il 4 Cfr.
Jaeger (1947: tr. it. 3). s Cfr. Vegetti (1976: 65 ss.); Vegetti (1967: 78). 6
Anche se, come mette in evidenza Lloyd (1979), la medicina ippocrati ca non
arriverà mai a essere sperimentale in senso compiuto. 7 Per le traduzioni ci
atteniamo al criterio di usare versioni correnti, tal volta apportandovi delle
modifiche. 8 Solo più tardi, con la Scuola di Alessandria, sarà stabilita una
distin zione fornaie tra anamnsis, relativa ai fenomeni collocati nel passato,
diaghnOsis, ovvero individuazionc dello stato presente, e pr6ghnOsis, cioè
previsione deJJ'andamento futuro della malattia; cfr. Di Benedetto-Lami (1983:
166). Sulla pr6ghnOsis si veda anche Grmek (1983: tr. it. 499 ss.). Si deve poi
segnalare che Irigoin (1983: 179) collega il prefisso pro-, unito ai verbi di
"dire", con il significato di "pubblicamente ", anziché con
un si gnificato di "anticipazione". a.C . a lppocrate avviene
nell'ambito della biblioteca di Alessandria nel I I I secolo a.C.; cfr. Di
Benedetto (1986: 81). prognostico, Il regime nelle malattie acute, il Male
sacro, Le epidemie l e III, e poi le maggiori opere chirurgiche (Leferite nella
testa, Le articola zioni, Lefratture). 9 Cfr. Detienne (1967: tr. it. 99 n.).
10 In certi casi, il vocabolario usato per indicare la previsione medica ri
calca queJJo della divinazione, come nel cap. 9 delle Articolazioni in cui si
dice che è compito del medico "vaticinare" (katamante-Usasthal) certi
pro cessi relativi allo stato di salute. 1 1 Si tratta di una concezione (vale
la pena sottolineado) che affonda le radici in una religione preolimpica,
animistica e demonica; cfr. Lanata (1967); Detienne (1963: 32 e sgg.); Dodds
(1951); Lloyd (1979); Parker ( 1 983) . Un'ampia panoramica sul movimento
magico e catartico era già stata fornita dagli studi del Rohde (1890-94: tr.
it. 1982). 12 Cfr. Diog. Laert., Vitae, VIII, 32 D-K, 58 B la. Va notato, di
sfug gita, che il carattere molto arcaico della concezione espressa dal brano
è garantito dal riferimento al bestiame coinvolto nelle stesse vicende della
comunità umana: c'è la rappresentazione di una comunità agricola in cui uomini
e bestie formano una unità inscindibile; cfr. Deticnne (1963: 32). n Un esempio
assolutamente analogo a questo si trova nel cap. 21 del = NOTE 247
trattato Le arie, le acque, i luoghi, dove si confuta, usando i1 modus tol
/ens, la tesi secondo cui l'impotenza che colpisce certuni degli Sciti sia do
vuta a causa divina, in quanto colpisce i ricchi (che vanno a cavallo, essen
do questa, per l'autore, la causa della malattia) e non i più poveri. Se fosse
di origine divina, continua l'autore, colpirebbe indifferentemente tutti.
1"' Si pensi a questo proposito all'indebolimento dei sensi durante il son
no di cui parla Platone nel Timeo e a1la diminuzione dei turbamenti nell'aria
che rende possibile il sorgere dei sogni secondo Aristotele (De di vinatione
per somnum) . •s Per la nozione di "omomaterico", cfr. Eco (1975:
295): per "omoma tericità" si intende il fenomeno per cui
"l'oggetto, visto come pura espres sione, è fatto della stessa materia
del suo possibile referente. Cfr. anche Lichtenthaeler (1983) e Wenskus (1983).
17 Cfr. Vegetti (1976: 48); Manuli (1985: 233). 18 Sull'abduzione si vedano
Thagard; Proni (1981); Eco (1983); Bonfantini-Proni; Bonfantini; Peirce; Eco. Di
Benedetto (1986) ha messo in luce, in maniera molto convincente, i rapporti tra
i moduli espressivi di presentazione della malattia nella medi cina greca e
quelli dei trattati mesopotamici ed egiziani; cfr. anche Di Be nedetto-Lami
(1983). 2° Cfr. Campbell Thompson (1937: 285, I, 1). 2 1 Per questa nozione,
cfr. Conte. Cfr. Hjelmslev. Cfr. Arist., An. Pr., Il, 70 a-b; Rhet., Cfr.
Arist., Rhet., l, 1358 a, 36 e sgg. 3 Cfr.Arist., De int.,16a; An.Pr.,11,70a-b.
"' Su questa nozione cfr. Di Cesare. s Cfr. Eco. Cfr. Heinimann. 7 Cfr.
Eco-Lambertini-Manno-Tabarroni (1984); Eco. Emerge qui, per quanto
nebulosamente, il tema della doppia articola zione del linguaggio umano, che
verrà poi sviluppato in epoca contempo ranea da André Martinet (1960). 9 Anche
se Aristotele non dà esplicitamente questa definizione, tuttavia nella Retorica
(1, 1357 a, 14-22) c'è un passo che suggerisce l'idea dell'enti mema come
sillogismo accorciato. Inoltre, in un passo dei Primi analitici 248 NOTE
(Il, 70 a, 24-25), Aristotele tenta anche di distinguere il segno dal sillogi
smo in base al numero di premesse assunte (una sola nel primo caso, due nel
secondo). 1ella Retorica infatti il tekmirion verrà definito esplicitamente
"neces sario" (anankaion), mentre il smefon è definito ..non
necessario" (mè anankafon) (Rhet.). 1 1 Lo stesso punto di vista e la
stessa terminologia ricorrono anche nel passo parallelo della Retorica. 12
Quanto al carattere di confutabilità di questo tipo di segno, Aristote le così
commenta l'esempio dato negli Analitici; "D'altra parte il sillogi smo
che si sviluppa attraverso la figura intermedia risulterà sempre confu tabile
(ljsimos), senza eccezione. In realtà, quando i termini si comporta no come si
è detto sopra, non si costituirà mai un sillogismo: se infatti la donna gravida
è pallida, e se inoltre una determinata donna è pallida, non per questo sarà
necessario che questa determinata donna sia gravida"' (An. Pr.J Il, 70 a,
34-37). 1 Dei segni quello necessario è la prova, quello non necessario non ha
un nome corrispondente a questa differenza. Intendo per necessarie le
proposizioni da cui derivano sillogismi. Perciò anche dei segni quello che è
tale è la prova: quando infatti si ritiene che non è possibile confutare la
proposizione enunciata, allora si pensa di apportare una prova, che si ritie
ne dimostrata e compiuta; nella lingua antica infatti tékmar (prova) e pé ras
Ccompimento') significavano la stessa cosa" (Rhet.). Si deve tuttavia
segnalare il fatto che, se negli Analitici e nella Retorica la di stinzione
tra tekmrion e semeion è rigida e netta, l'uso che Aristotele fa di questi
termini nei trattati scientifici sembra essere molto più fluido, senza
distinzioni speciali tra l'uno e l'altro termine. Si trova anche impiegato un
terzo termine, martyrion, in un senso analogo a quello di semeion; cfr. Le Blond.
Cfr. Arist., An
Pr., II, 70 b,'7-14. I!!. Cfr. Arist., An. Post., II, 98 b, 25-30. È del resto sulla base delle
immagini prodotte nella mente dagli oggetti esterni, in particolare su certi
tipi di immagini, chegli stoici chiamano ka talptikaì phantasfai, che viene
basato il "criterio di verità", cioè "ciò a cui ci atteniamo
nell'affermare che alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate
sono vere ( = sono il caso) e certe altre sono false ( = non sono il
caso)" (Sext. Emp., Adversus Mathematicos, VII, 29); cfr. Mi gnucci;
Sandbach; "The crite rion of truth" di Rist. Cfr. anche Sext. Emp. ,
A dv. Math. 1 Si deve sottolineare che /ekt6n è l'aggettivo verbale del verbo
/éghein. 6
Cfr. Diog. Lart., Vitae, VII, 51; Long Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII,
11-12. 8 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 70. 9 Cfr. Diog. Lart., Vitae, Vll , NOTE 249 A questo proposito
si ricorderà che, come sostiene Diogene Laerzio ( Vitae, VII, 57), gli stoici
distinguevano tra il "proferire" (prophéresthal), che consisteva nel
puro emettere dei suoni, e il "dire" (léghein), che consisteva nel
fare ciò in modo da significare (sma{nein) lo stato delle cose in mente; cfr.
anche Sext. Emp., Adv. Math. , VIII, 80. Long (1971 a: 77) sostiene di
preferire, per lekt6n, la traduzione "what is said" rispetto a quella
propo sta da Mates e dai Kneale, "what is meant", in quanto la prima
è più gene rale e permette al lekt6n di essere interpretato come avente
funzione tanto logica quanto grammaticale. 4 Si deve tuttavia sottolineare che
vi è una tradizione, risalente al Crati lo platonico, secondo la quale
nominare qualcuno equivale a dire "questo è il suo nome". In questo
caso anche l'esempio di Sesto dovrebbe essere compreso nei termini di una
proposizione implicita come "'Dione è il nome di costui" oppure
"Questo è Dione"; cfr. Long (1971 a: 107 n. 1 1). ..s I lekta
venivano classificati dagli stoici in completi e incompleti; cia scuno dei due
tipi dava luogo a una sottoclassificazione, anche molto com plessa, che non
prenderemo qui in considerazione; si veda a questo proposito Mates. 63. 1°
Cfr. Mates (1953: 1 1-12): Mates infatti concepisce i lekta come signi ficato
delle parole e avvicina la loro definizione a quella di Sinn di Frege e a uella
di intension di Carnap. 1 Cfr. Zeller (1865: 78-79). 12 Cfr. Bréhier. 13 Cfr.
Mignucci (1965: 96). 14 Una definizione del criterio di verità la fornisce
Sesto (A dv. Math. , VII, 29): "Ciò a cui ci atteniamo nell'affermare che
alcune cose esistono e altre no e che certe cose determinate sono vere e certe
altre sono false". Sul problema del criterio di verità, cfr. Rist (1969:
133-151); Sandbach (1971 a: 9 e sgg.); Mignucci (1966). 17 Cfr. anche Adv.
Math., VIII, 245-257. 18 Cfr. Diels-Kranz, 75, B 2. 19 Si veda, a proposito di
questa questione terminologica, la esaustiva 1 Cfr. Platone, Th., 190 a (206
d); Soph., 263 a. 16 In effetti il "discorso interno" (endiathetos
/6gos), a differenza delle espressioni emesse materialment (prophorikòs 16gos),
è un fattore che si dimostra capace di distinguere l'uomo dagli animali. Dice
infatti Sesto (Adv. Math. , VIII, 275-276): "(Gli stoici) dicono che
l'uomo differisce da gli animali irrazionali a causa del discorso interno, non
a causa di quello pronunciato, in quanto corvi, pappagalli e gazze pronunciano
suoni arti colati"; cfr. anche Pohlenz (1959, 1: 61-62). trattazione di
Conte (1972: XXXV), curatore dcll'edizione italiana dei Kneale (1962). 20 Cfr.
Sext. Emp., Hyp. Pirrh., Il, 95-96. 21 Ibidem: "anche la dimostrazione in
quanto al genere è, a quel che pa- 250 NOTE re, un segno"; cfr.
anche Adv. Math., VIII, 180. 22 Il testo del De signis, con traduzione inglese,
è contenuto in Ph . e E.A. De Lacy (1978). 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 144; Hyp. Pyrrh., Il, 97. lA Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 147; Hyp.
Pyrrh., II, 97. 2'
Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 145; Hyp. Pyrrh., II, 98. 26 Cfr. Sext.
Emp., Adv. Math., VIII, 146; Hyp. Pyrrh., Il, 98. 27 Cfr. anche Adv. Math., VIII, 151-155. 28 Tale
tripartizione verrà esplicitamente teorizzata nella retorica roma- na: vedi il
capitolo relativo. 29
Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 152-153. 30 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 154. 11 Cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., VIII, 156. Al di là del carattere pole mico, l'osservazione di Sesto è
interessante perché, citando "medici" e "fi losofi", fissa
i due punti estremi di un ciclo di sviluppo deli'interesse verso il segno:
l'introduzione di tale interesse da parte dei medici (come, poi, di mostrano
anche i numerosi esempi di carattere medico presenti in tutte le trattazioni) e
lo studio sistematico del segno da parte dei filosofi. 12 Cfr. Diog. Latrt.,
Vitae, VII, 71. 13 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 104-105; Adv. Math., VIII,
245- 247 . 34 Cfr.
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 245. 1' Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 248;
Hyp. Pyrrh., Il, 106. 16 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 249-250; Hyp.
Pyrrh., Il, 106. 37 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 250-251. 11 Cfr. Sext.
Emp., Hyp. Pyrrh., Il, 106-107; Adv. Math., VIII, 252- 253 . 39 Cfr. Sext.
Emp., Hyp. Pyrrh., Il, IlO-I12. Qui
prenderemo in consi derazione solo i primi tre criteri, perché il quarto
sembra avere un'origine diversa dalla scuola megarico-stoica. 4() Cfr. Sext.
Emp., Hyp. Pyrrh., Il, lIO-I12; Adv. Math., VIII, 115- 117. •U Sono state
proposte varie interpretazioni del condizionale diodoreo, che non possiamo qui
prendere in considerazione. Segnaliamo tuttavia i saggi di Hurst (1935), di
Mates (1949 a), dei Kneale (1962) e di Mignucci (1966), che affrontano
l'argomento in una successione cronologica e teo rica. "2 Cfr. Phil., De
signis, XIV, 11-14= 19; Xl, 32-XII, 1 = 17. l numeri romani, relativi ai
paragrafi del testo greco, sono messi in correlazione con il segno " =
" ai capitoli della traduzione inglese dei De Lacy (1978). "3 Cfr.
Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 275-276; 287.
Cfr. Goldschmidt (1953: 79 e sgg.); Verbeke (1978: 401-402); Manuli
(1986: 262). ..s Sul rapporto tra filosofia e divinazione, Verbeke (1978: 402)
osserva molto opportunamente che per gli stoici il filosofo "est le
médecin de cet organisme vivant qu'est le monde; il est aussi une sorte de
prophète, un de vin, un exégète, un interprète des signes qu'il observe".
46 Cfr. Cic., De
divinatione, I, 125-127. 49 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., 309. CAPITOLO 7.
NOTE 251 "7 Cfr. Sext. Emp., Hyp. Pyrrh., II, 140; Adv. Math., VIII, 305. 48 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math.,
VIII, 180: "D'altronde anche la dimo strazione è, in linea generale, un
segno, giacché essa è considerata come di svelatrice della conclusione".
1 Il testo di Filodemo, giunto a noi attraverso il papiro ercolanese 1065, è
ora disponibile nell'ottima edizione critica dei De Lacy (1978); d'ora in poi
citeremo quest'opera con il titolo latino De signis: a essa è dedicato il
prossimo capitolo. 2 Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 31; cfr. ancheEpic.,
EpistulaadHerodo tum (d'ora in poi Ep. Hdt.), 38; Kyriai Doxai (d'ora in poi
K.D.), XXIV. 3 Cfr.Phil.,Designis,fr.l. " Cfr. Diog. Laert., Vitae, X, 33;
Epic., Nat., XXVIII, fr. 4, col. III, in Arrighetti (1960: 296-297). Long (1971
b: 1 14) sostiene che un simile rap porto tra linguaggio e pro/essi è
presupposto anche nella Ep. Hdt. , 37-38.
Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr. Epic., Ep. Pyth., Cfr. Epic., Ep. Hdt., Cfr.
Diog. Laert., Vitae, Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., Cfr. Diog. Laert., Vitae, Cfr.
Diog. Laert., Vitae, Cfr. Epic., Ep. Hdt., Cfr. Epic., Ep. Hdt., 48. 1"
Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VII, 211. 15 Cfr. Epic., K.D., XXIV. 16 Cfr. Sext.
Emp., Adv. Math., VII, 211. 1 7 La congettura semiotica è espressa dal verbo
smeiolJ (Ep. Hdt. , 38) e prende la forma dell'induzione nella teoria epicurea.
Il sostantivo da esso derivato, smeilJsis, non direttamente attestato negli
scritti di Epicuro, avrà ampio spazio nel trattato di Filodemo. 18 Cfr. Sext.
Emp., Adv. Math. , VII, 21 3-214. 19 Come vedremo nel prossimo capitolo, il
criterio della "non incompa tibilità" con i fatti conosciuti è
centrale nella teoria dell'inferenza come è esosta nel De signis di Filodemo. ° Cfr. Diog. Laert., Vitae, X,
33. 21 Cfr. Sext. Emp., Adv. Math., VIII, 13; 258; Plut., Adversus Colo tem,
1119f. 22 Si deve segnalare
l'articolo di Glidden (1983) che tratta il problema semantico in Epicuro in
termini molto diversi da quelli in cui lo abbiamo trattato qui e recupera,
sostanzialmente, le posizioni di Sesto e di Plutarco, sostenendo che non esiste
nella filosofia linguistica epicurea un livello spe- 252 NOTE cifico del
"significato" in termini intensionali. 23 Cfr. Sedley (1973: 17-18);
il testo di Sedley in parte si discosta da quello di Arrighetti. Come veniva
evitato, nel Crati/o platonico, tanto da Cratilo quanto da Socrate. Cfr.
capitolo relativo a Platone in questo libro. 26 Cfr. Plat., Crat., 421 d, 435
c; cfr. Sedley. La data di composizione del trattato, che è controversa,
oscilla tra il 542e il 40 a.C.; cfr. De Lacy (1978: 163-164). Il titolo greco,
essendo il testo in parte corrotto, è frutto della conget tura di T. Gompers;
altre congetture sono state proposte. D'ora in poi ci riferiremo a esso nella
sua versione latina De signis; cfr. De Lacy. Nella prima sezione vengono
riportate le risposte di Zenone di Sidone alle critiche stoiche; nella seconda
viene esposta la versione di Bromio del l'enumerazione e confutazione di
Zenone degli argomenti contro l'inferen za empirica; nella terza viene
riportata l'enumerazione di Demetrio di La conia degli errori comuni degli
antagonisti del metodo analogico; la quarta sezione, che espone una seconda
lista degli errori degli oppositori, è anoni ma, ma, con molta probabilità, è
anch'essa da attribuire a Demetrio. .. Cfr. Marquand; Deledalle. Cfr. Phil., Designis, coll.VIII,32-IX,3= cap.13).
Il riferimentobi bliografico al trattato di Filodemo è dato in maniera
duplice, indicando prima la colonna e il numero delle righe del testo greco del
papiro, poi il numero del capitolo corrispondente nella traduzione inglese
effettuata dai De Lacy. 6 Come è a più riprese ribadito anche nella terza
sezione che riporta il pensiero di Demetrio; cfr. col. XXVIII, 13-25 = cap. 45,
e col. XXXVII, 12-24=cap. 57. 7 Cfr.col.XIII,1-15=cap.18. 8 Cfr. col. I, 1-12 9
Cfr. col. I, 12-16=cap. 2. 1° Cfr. col. XII, 14-31=cap. 17. 11 In Peirce (1980:
140), del resto, c'è a proposito dell'icona anche un'interessante
considerazione (sulla possibilità che l'oggetto del segno iconico esista o non
esista), la quale sembra riproporre, in epoca contem poranea, una tematica
simile a quella stoica ed epicurea circa la distinzione dei segni in propri e
comuni: "Un'Icona è un segno che si riferisce all'Og getto che essa
denota semplicemente in virtù di caratteri suoi propri, e che essa possiede
nello stesso identico modo sia che un tale Oggetto esista ef fettivamente, sia
che non esista. È vero che, a meno che vi sia realmente un tale Oggetto,
l'Icona non agisce come segno". = cap . 2,ecol.XIV,4-11=cap. 19.
NOTE 12 Cfr. Preti 1956: 13; si veda anche il cap. VI del presente lavoro. Cfr.
col. II, 25·36=cap. 5. ... Cfr. col. III, 4-8= cap. 5. 1Cfr. col. III, 30-34 =
cap. 6. 16 Cfr. coli. XXXV, 35 - XXXVI, 7=cap. 53. 17 Le risposte alle
obiezioni stoiche sono, nella sezione di Zenone, alle coli. XVI, 4 · XVII, 28 =
capp. 23-24, e, nella sezione di Bromio, alle coli. XXII, 28 - XXIII, 7=cap.
38. 18 Cfr. col. XVII, 3-7=cap. 24. 19 Una discussione attribuita ai
"dogmatici" sul problema della defini zione come combinazione di
attributi, a esempio "animale", "mortale",
"ragionevole" rispetto a uomo, è presente anche in Sesto Empirico,
Adv. Math., VII, 276-277. 2° Cfr.col.IV,3-5=cap.6. 21 Cfr. col. XVII, 1 1-28 =
cap. 24. 22 Cfr.V,l-7=cap.7. 21 Cfr. col. XVII, 29-36=cap. 25. 2A Cfr. coli.
XVII, 37 - XVIII, 3 = cap. 25. 2 Cfr. col. XVIII, I0-16=cap. 25. 26 Cfr. coll.
XXIII, 13 - XXIV, 8=cap. 39. 27 Cfr. col. XXIV, 10-17 = cap. 40. 28 Cfr. col.
XXVI, 6-9=cap. 41. 29 La tradizione continua dopo gli epicurei, e nella tarda
antichità le de finizioni vengono talvolta combinate; cosi si ha quella di
Galeno: "animali razionali, cioè provvisti di ragione" (De P/ac.
Hipp. et Plat., IX, 3); e quella di Sesto Empirico: "animale razionale
mortale, provvisto di intelli genza e razionalità" (Adv. Math., VII,
269). 3° Cfr. 11 Cfr. 12 Cfr. 31 Cfr. 34 Cfr. 1 Cfr. 36 Cfr. l7 Cfr. 18
Cfr.coli.I,19-II,3=cap.3. 39 Cfr. coli. XIV, 28 - XV, 13=Cfr.coli.XX,32-XXI,3= cap.35.
coli. XXXIII, 35 - XXXIV, 5=cap. 52. Eco (1984: 130 e sgg.). Groupe p. (1970:
100). col . col. col . col. col. XXXIV, 5-7 = cap. 52. XXXIV, 11-15=cap. 52.
XXI , 27-29 = cap. 36. XXX, 27-31 =cap. 47. XVIII, 23-29=cap. 26. CAPITOLO 9. 1
A questo proposito Cicerone parla di "regolarità della ragione"
(ratio et constantia) contrapposta alla "sorte" (fortuna) (De div. ,
I l , 1 8) In altre opere, al posto di dicibile troviamo l'espressione
significatio; a esempio in De Magistro, 10.34. 2 Si deve notare che Agostino
adopera l'espressione verbum in due sen si: (i) uno tecnico e specifico, che è
quello dell'uso metalinguistico della pa rola; (ii) uno generale, che
corrisponde alla nozione ampia di "parola", co me "segno di
ciascuna cosa che, proferito dal parlante, possa essere inteso
dalJ'ascoltatore" (cap. V). 1 La natura della nozione di dictio, come
composizione di significante e significato, è messa chiaramente in risalto
dalla definizione del cap. V da De dialectica: Quel che ho detto dictio è una
parola, ma una parola che significhi ormaj le due unità precedenti
conten1poraneamente, la parola (verbum) stessa e ciò che è prodotto nell'animo
per mezzo della parola [di cibile]". La dictio, inoltre, "non
procede per se stessa, ma per significare qualcosa d'altro" (ibidem). 4 Si
ricorderà che dagli stoici un segno era concepito, in termini propo sizionali,
come un antecedente che rimandava a un conseguente; cfr. Sext. Emp., Adv.
Math., VliI, 245. s Per questa nozione, cfr. Lotman-Uspenskij Les Storcien.s et
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not so much for formulating individual philosophical arguments as for
expositions of the doctrines of the major schools of Hellenistic philosophy,
and for, as he put it, “teaching philosophy to speak Latin.” The significance
of the latter can hardly be overestimated. Cicero’s coinages helped shape the
philosophical vocabulary of the Latin-speaking West well into the early modern
period. The most characteristic feature of Cicero’s thought is his attempt to
unify philosophy and rhetoric. His first major trilogy, On the Orator, On the
Republic, and On the Laws, presents a vision of wise statesmen-philosophers
whose greatest achievement is guiding political affairs through rhetorical
persuasion rather than violence. Philosophy, Cicero argues, needs rhetoric to
effect its most important practical goals, while rhetoric is useless without
the psychological, moral, and logical justification provided by philosophy.
This combination of eloquence and philosophy constitutes what he calls
humanitas a coinage whose enduring
influence is attested in later revivals of humanism and it alone provides the foundation for
constitutional governments; it is acquired, moreover, only through broad
training in those subjects worthy of free citizens artes liberales. In
philosophy of education, this Ciceronian conception of a humane education
encompassing poetry, rhetoric, history, morals, and politics endured as an
ideal, especially for those convinced that instruction in the liberal
disciplines is essential for citizens if their rational autonomy is to be
expressed in ways that are culturally and politically beneficial. A major aim
of Cicero’s earlier works is to appropriate for Roman high culture one of
Greece’s most distinctive products, philosophical theory, and to demonstrate
Roman superiority. He thus insists that Rome’s laws and political institutions
successfully embody the best in Grecian political theory, whereas the Grecians
themselves were inadequate to the crucial task of putting their theories into
practice. Taking over the Stoic conception of the universe as a rational whole,
governed by divine reason, he argues that human societies must be grounded in
natural law. For Cicero, nature’s law possesses the characteristics of a legal
code; in particular, it is formulable in a comparatively extended set of rules
against which existing societal institutions can be measured. Indeed, since
they so closely mirror the requirements of nature, Roman laws and institutions
furnish a nearly perfect paradigm for human societies. Cicero’s overall theory,
if not its particular details, established a lasting framework for
anti-positivist theories of law and morality, including those of Aquinas,
Grotius, Suárez, and Locke. The final two years of his life saw the creation of
a series of dialogue-treatises that provide an encyclopedic survey of
Hellenistic philosophy. Cicero himself follows the moderate fallibilism of
Philo of Larissa and the New Academy. Holding that philosophy is a method and
not a set of dogmas, he endorses an attitude of systematic doubt. However,
unlike Cartesian doubt, Cicero’s does not extend to the real world behind
phenomena, since he does not envision the possibility of strict phenomenalism.
Nor does he believe that systematic doubt leads to radical skepticism about
knowledge. Although no infallible criterion for distinguishing true from false
impressions is available, some impressions, he argues, are more “persuasive”
probabile and can be relied on to guide action. In Academics he offers detailed
accounts of Hellenistic epistemological debates, steering a middle course
between dogmatism and radical skepticism. A similar strategy governs the rest
of his later writings. Cicero presents the views of the major schools, submits
them to criticism, and tentatively supports any positions he finds
“persuasive.” Three connected works, On Divination, On Fate, and On the Nature
of the Gods, survey Epicurean, Stoic, and Academic arguments about theology and
natural philosophy. Much of the treatment of religious thought and practice is
cool, witty, and skeptically detached
much in the manner of eighteenth-century philosophes who, along with
Hume, found much in Cicero to emulate. However, he concedes that Stoic
arguments for providence are “persuasive.” So too in ethics, he criticizes
Epicurean, Stoic, and Peripatetic doctrines in On Ends 45 and their views on
death, pain, irrational emotions, and happiChurch-Turing thesis Cicero, Marcus
Tullius ness in Tusculan Disputations Yet, a final work, On Duties, offers a
practical ethical system based on Stoic principles. Although sometimes
dismissed as the eclecticism of an amateur, Cicero’s method of selectively
choosing from what had become authoritative professional systems often displays
considerable reflectiveness and originality.
“Cicero = Tully” Grice: “Actually, ‘Cicero’ and ‘Tully’ mean different
things! ‘Cicero’ is more of a description than a name!” La morte di Cicerone.
Cicero proscribed by the triumvirate. Cicero killed by Marco Antonio, one of
the three ‘vires’, along with Ottaviano. Cicero offered his hands, with which
he had written the Filippiche. His head and hands were displayed at the Senate.
The Romans never quite liked him because he was only a provincial nobility and
never displayed courage. Cicerone
affronta e sviluppa la problematica semiotica in due importanti ambiti della
sua produzione teorica: le opere di argomento retorico; e le opere che parlano
dei segni divinatori. Se prendiamo in considerazione il primo di questo ambito
– le opera de argomento retorico --, possiamo osservare che l'interesse per il
concetto di segno non è ugualmente centrale in tutte queste opere. Infatti, da
una parte, ci sono il “De oratore”, I'”Orator”, il “Brutus”, il “De optimo
genere oratorum” -- che affrontano una problematica a carattere socio-politico,
volta a definire la figura dell’oratore perfetto, il suo ruolo nella società
romana, la sua posizione rispetto alla scuola attica e a quella di Pergamo. In
queste opere tutto ciò che costituisce l'apparato tecnico tradizionale della
retorica -- e con esso anche la problematica sul concetto di segnio e di prova
indiziaria) appare non tanto trascurato, quanto dato per scontato: esso si
configura come un vasto campo di competenza che rimane implicito sullo
sfondo e affiora solo nei termini di un uso personalissimo che ne fa l'autore,
in prima persona o attraverso i personaggi del dialogo. Dall'altra parte ci
sono, poi, il “De inventione”, le “Partitiones oratoriae” e i “Topica”, opere
molto diverse tra loro, ma accomunate dalla caratteristica di prendere in
considerazione e di sistematizzare la gran massa delle nozioni che compongono
l'apparato tecnico della retorica. Un limite di queste opere, in generale, è
rintracciabile nella minuziosità del procedimento classificatorio, che
raggiunge talvolta il parossismo, come nel “De inventione”, e che spesso non
trova un'adeguta giustificazione teoretica. Tuttavia è proprio all'interno di
queste opere che è dato rintracciare gli spunti e i documenti per la
ricostruzione di una teoria ciceroniana del segno. Il “De inventione” condensa
l'ampia tradizione retorica che dal Liceo giunge fino a Ermagora -- è quindi naturale
che al suo interno si trovano riprodotti alcuni aspetti della concezione del
segno che in quell'ambito si sedimenta. In particolare, è presente la
concezione del segno in forma proposizionale, come antecedente p che permette
discoprire un conseguente q. Viene poi confermata l'attenzione verso il segno involontario
-- l'impallidire, l'arrossire, il balbettare dell'imputato -- come indizio di
colpevolezza. Infine, compare la classica divisione del indizo secondo la sua
relazione temporale con il fatto criminoso -- anteriorità, contemporaneità,
posteriorità. Questi i punti di contatto con la tradizione. Ma bisogna anche
dire che la classificazione del segno proposta da Cicerone è in larga misura
diversa da quelle precedenti. Essa appare infatti all'interno della teoria
dell’ “argumentation”, cioè del procedimento attraverso il quale vengono
addotte delle prove per confermare una certa tesi. L'argomentazione sembra
essere qualche cosa che si esco gita da qualche genere e che rivela un'altra
cosa in maniera probabile – “probabiliter ostendens” -- ) , o la dimostra
in un modo necessario – “necessarie demonstrans” -- De inv. Anche se non viene
usato il normale lessico semiotico, ciò che è in gioco in questa definizione è
proprio il meccanismo del segno. Infatti, qualcosa che è stato trovato (un
indizio che viene depositato nel dossier deli'avvocato) rinvia a qualcos'altro.
Compare, a questo punto, la distinzione, già aristotelica, tra una forza
argomentativa debole – “probabiliter ostendens” -- e un'inferenza necessaria –
“necessarie demon strans”. Il segno necessario e così definite. "Viene
dimostrato in modo necessario ciò che non può verificarsi né essere provato
diversamente da come viene detto.” Ne sono esempi: "Se ha partorito, è
stata con un uomo.” “Se respira, è vivo” – “Se è giorno, c'è luce” -- De inv. ,
l, 86. Come Cicerone spiega in un altro passo, in casi di questo genere
l'antecedente e il conseguente sono legati da una relazione inscindibile – “cum
priore necessario posterius cohaerere videtur” -- De inv., l. 86. Il rapporto
di rinvio *non* necessario viene poi cosi defini to: "Probabile è poi ciò
che suole generalmente accadere, o che è basato sulla comune opinione, o che ha
in sé qualche somiglianza con questa qualità, sia esso vero o sia falso" --
De inv., l, 46. Con questa definizione, Cicerone mette in evidenza due
caratteri: quello probabilistico e quello doxastico. Il primo di questi e da
Aristotele attribuito peculiarmente all'”eikos” -- verisimile. E infatti i
primi due esempi sono di un tipo che Aristotele classifica come “eikos”. “e è
madre, ama suo figlio” – “Se è avido, non fa gran caso del giuramento.” (De inv., I, 46). In essi compare anche il
tipico rapporto di generalizzazione che per Aristotele definine il verosimile --
Arist., Rhet.. C'è però un terzo esempio. "Se c'era molta polvere nei
calzari, era sicuramente reduce da un viaggio" -- De inv.- che non sembra
dello stesso tipo, ma è più vicino al semeion aristotelico. La categoria di “signum”,
poi, compare come una sottopartizione del segno non necessario, accanto al “credibile”
-- all’ “iudicatum” e al “comparabile.” Se
le ultime tre nozioni – credibile, iudicatum, comparabile -- appaiono distinte
in base a criteri estrinseci (e scompariranno nelle trattazioni successive),
il “signum” corrisponde a una categoria di fenomeni abbastanza particolare. "Segno
è ciò che cade sotto qualcuno dei nostri sensi e indica (significa) un
qualcosa che sembra derivato dal fatto stesso, e che può essere verificato
prima del fatto, durante il fatto, o può averlo seguito, e tuttavia ha bisogno
di una prova e di una conferma più sicura" -- De inv. , I, 48. Ne sono
esempi: "il sangue", "il pallore", "la fuga",
"la poivere". Si tratta, come si vede, dell’indizio, inteso come
fenomeno percepibile, scarsamente codificato e generalmente non volontario.
Qui sono presentati in una forma non proposizionale. Ma niente vieta che venga
sviluppato in proposizio ni, come dimostra il caso dell’indizio
"polvere": "Se c'era molta polvere nei calzari, era sicuramente
reduce da un viaggio". L’indizio, infine, venne suddiviso secondo la nota
relazione temporale con il fatto criminoso. Nelle “Partitiones oratoriae”a
classificazione della materia semiotica presenta alcune differenze e
peculiarità. Innanzitutto la terminologia viene completa mente latinizzata. Dall’altre,
l’indizio -- qui chiamato “argumentatio necessaria probsbilis (·quod fero
solet fiori élut quod in opi nione positum est") es.: ..
"pallore'", ..polvere" vestigiafactl) non compaia come
sottopartizione di un'altra categoria. Il concetto asume un ruolo autonomo.
(·ea quae alitar ac discuntur nec fieri nec probari pos sunt"l es . : ·se
ha partorito, è stata con un uomo'" (.,quod sub sensum aliquem cadit, et
quiddam sig nificat , quod ex ipso profectum est'") es.: ·sangue",
·ruga"', Sa è madre, ama suo fi\]lio---signum erodibile indicBtLm
comparabile / -- --. Infine, viene accettata la distinzione aristotelica tra
"luoghi estrinseci" -- corrispondenti alle "prove
extratecniche", titechnol) e "luoghi intrinseci'' -- corrispondenti
alle "prove tecniche", éntechno1’ -- che venne criticata nel “De inventione”
(Il, 47) e che invece sarà sviluppata nei “Topica”. È curioso notare come tra i
luoghi estrinseci (sine arte) trovino posto, accanto alle testirnonianze umane,
anche quelle divine: gli oracoli, gli auspici, i vaticini, i responsi sacri (di
sacerdoti, aruspici, interpreti onirici) (Part. or. , 6). Tutto ciò è
sicuramente un residuo di una concezione ordalica e antichissima
deli'amministrazione della giustizia. Tuttavia è anche un indizio di un
continuo riaffiorare del paradigma divinatorio all'interno del fatto semiotico,
anche quando ormai il segno si e completamente “laicizzato”. Né questo è
un caso isolato in ambito giuridico. Per quel che riguarda la cultura, si
ricorderà L ,orazione per /,uccisione di Erode, in cui Antifonte così si
esprime: "Tutto quel che era provabile con indizi e testimonianze umane
l'avete udito, ma in questo caso dovete votare dopo aver trattato indizi anche
dai segni che vengono dagli dei" (Lanza). Il verisimile e il segno
caratteristico. Il segno umano e invece trattato come un argomento intrinseco,
in particolare tra quello che riguarda lo stato di causa congetturale. La
congettura può essere tratta da due tipi di segni: il verisimilie e la nota propria
rei ( Il verisimile, come dice Cicerone, è "ciò che accade per lo
più" (Part. or., 34), come a esempio "la gioventù è incline al
piacere in modo particolare". Questo tipo di segno corrisponde all’”eikos”
aristotelico, di cui ha il carattere probabilistico e generalizzante. La “nota
propria rei” e definita come "una prova che non si verifica mai
direttamente e indica una cosa certa, come il fumo indica il fuoco"
(Part. or., 34). Si tratta, evidentemente, del segno necessario, come è
dimostrato anche dall'esempio e dall'uso dell'aggettivo “propria”, che rimanda
alla nozione di fdion semeion -- segno proprio. Per Aristotele, segno proprio
e la caratteristica specifica di un certo genere, come, ad esempio, il fatto
che i leoni avessero grandi estremità, segno del coraggio (An. Pr.). Il segno
proprio ha puo carattere di necessità e si define come quel segno che non può
esistere se non esiste la cosa a cui rimanda (Philod., De signis, l, 12-16).
Ci e, poi, il “vestigium facti,” dei quali venneno dati questi esempi -- "un'arma,
macchie di sangue, grida, lamenti, imbarazzo, alterazione del colorito, discor
so contraddittorio, tremore [...], gli indizi materiali della premeditazione,
le confidenze sulle intenzioni delittuose, le risultanze visive, uditive,
rivelate" (Pari. or., 39). Cicerone non define QUf)tO tipo di segni, se
non dicendo che si tratta di ''fenomeni avvertibili con i sensi" (ibidem),
caratteristica condivisa anche dai signa del De inventione (l, 48), in cui
ricorrono esempi analoghi, ed agli argumenta di Cornificio (Rhet. adHer., II,
8). I commentatori si sono chiesti se i vestigium facti e più in relazione con
il segno necessario (nota propria rei) o con il verisimile) (Crapis 1986:
61-62). In realtà questa sembra una categoria abbastanza autonoma non avendo la
necessità dei primi, ma nemmeno le caratteristi che degli ultimi. È plausibile
che essa corrisponda alla categoria dei semefa aristotelici, diversi tanto dai
tekmria quanto dagli eik6ta. Da un altro passo delle “Partitiones oratoriae” (1
14), dove ricorrono esempi analoghi, il vestigium facti (chiamato lì anche signum)
vennne definiti come “consequentia”, cioè inferenze che si traggono dal
conseguente, caratteristica che define appunto, per Aristotele, il segno non
necessario. Ma mentre Aristotele condanna i smefa da un punto di vista epistemologico
per la sua insicurezza, Cicerone è pronto a riconoscerne l'efficacia qualora
si presentino in gran numero (coacervata proficiunt, 40). Molte cose collegano
la retorica giudiziaria alla divinazione. Innanzitutto, il fatto che entrambe
si avvalgano del segno per arrivare alla conoscenza di un fatto non
direttamente accessibile alla percezione. In secondo luogo, in entrambe viene
operata una distinzione tra aspetti che sono eminentemente congetturali e
altri aspetti che sono invece naturali o trt•) (·sensu percipi potest•)
es . : ·sangue - uccisione· es.: •adolescenza inclinazione alla libidine ·
coniecturs -verisimilie (quod plerumque rta notse proprise rerum (quod numquam
alrter frt certumque declarat) es.: '"fumo-fuoco· vestigia fecti o signa
dati: alla dicotomia retorica tra prove tecniche (o congetturali) e prova
extratecnica corrisponde la distinzione tra divinazione artificiale (basata
sull'interpretazione e sulla congettura) e divinazione naturale. Infine, come
Cicerone polemicamente rileva (De div. , II, 55), il segno della divinazione e
talvolta interpretati in maniera diametralmente opposta, proprio come avviene
nel processo, in cui l'accusa e la difesa propongono dello stesso fatto due
interpretazioni diverse ed entrambe plausibili. Ma Cicerone apprezza i metodi
deli'indagine giudiziaria, mentre nutre una diffidenza enorme nei confronti
della divinazione. In linea, infatti, con un vasto gruppo di intellettuali
della sua epoca, educati ai metodi di indagine della filosofia a fondamento
razionalistico, e contemporaneamente impegnato in politica, sente l'esigenza
di operare una distinzione netta tra religione e superstizione, di cui la
divinazione fa, per lui, parte. La religione appartiene alla più antica
tradizione romana e, posta come è ai fondamenti dello stato, deve essere
conservata, pena la disgregazione dello stato stesso. La superstizione, invece,
costituita dal coacervo degli elementi spuri che inquinano e rendono poco
credibile la religione stessa, dev'essere respinta, anche per ché non venga
limitata la libertà del cittadino romano nel suo impegno di gestione della
repubblica. Cicerone affronta questi argomenti nel De natura deorum, nel
De fato e, soprattutto, nel De divinatione. Que st'ultima opera è scritta in
forma di dialogo tra l'autore e il fratello Quinto, il quale difende l'arte
divinatoria basandosi sulle teorie storiche che legavano la divinazione
all'esistenza degli dei. Le osservazioni di Cicerone contro la teoria sostenuta
da Quinto sono particolarmente interessanti perché costituiscono una vera e
propria critica a un meccanismo semiotico settoriale e contribuiscono, in
negativo, a una concezione generale del segno. Secondo la teoria di Quinto, gli
dei si pongono come fonte dell'informazione e come emittenti nei processi di
comunicazione divinatoria, dei quali gli uomini sono i destinatari. Ma, a
seconda dei due specifici tipi di divinazione, il processo comunicativo si
struttura in modo differente. Il primo tipo è costituito dalla “divinatio
artificialis”, in cui l'interpretazione del segno è legata a un'ars, ovvero a
una tecnica professionale di decrizione, demandata a specialisti, ciascuno
esperto in un settore: extispices -- esaminatori delle viscere --, interpretes
monstrorum et fu/gurum (interpreti dei fatti prodigiosi e dei fulmini),
augures -- interpreti del volo degli uccelli --, astrologi -- interpreti delle
stelle --, interpretes sortium -- interpreti delle combinazioni di tavolette
mescolate in un'urna ed estratte a caso. In tale divinazione, l'informazione
proveniente dal divino si materializza prima di tutto in una sostanza
espressiva percepibile, a cui l'ars permetterà di abbinare un contenuto
semantico. I presupposti su cui si basano le interpretazioni di questo tipo
sono dati dalla teoria, di origine del Portico secondo cui tutti i fenomeni
sono legati tra di loro in una catena di cause ed effetti, senza soluzione di
continuità. Questa catena che ha come fondamento primo il logos divino e costituisce il fato (heimarméne),
non è conoscibile per intero da parte degl’uomini, dato che l'onniscienza è
prerogativa della sola divinità (De div.). Tuttavia viene prevista l'esistenza
di un tempo ciclico che "può essere paragonato con lo srotolarsi di una
gomena, in quanto non dà mai luogo a fatti nuovi, ma ripete sempre
quantoprimaèaccaduto"(De div.).Questofasìche gli uomini, attraverso
l'osservazione attenta, colgano il mo do in cui gli eventi si ripetono e, pur
non potendo conoscere direttamente le cause, possono però arrivare a coglierne
gli indizi caratteristici (signa tamc.z causarum et notas cernunt) (ibidem).
Dato poi che è possibile tramandare memoria dalle connessioni passate, si crea
un vero e proprio codice basato sul la iteratività. Si può schematizzare così
il processo: emittente divino-segni di cause-eventi futuri codice basato sulla
iterattività. Il secondo tipo di divinazione è quello definito naturalis, in
quanto indipendente da qualunque tecnica professionale, ma derivante piuttosto
da una diretta ispirazione divina, senza passare attraverso la mediazione di un
segno esterno. Fanno parte di questo tipo le forme di preveggenza derivanti da
invasamento profetico, cioè le vaticinationes e quelle derivanti dai sogni. Il
palinsesto filosofico ·a cui è legato questo secondo tipo di divinazione è
quello delle teorie del Liceo (Dicearco e Cratippo vengono esplicitamente nominati,
De div.), secondo le quali l'anima, per il suo legame naturale col divino, una
volta che sia spinta da una divina follia o sciolta, nel sonno, dai vincoli che
la legano al corpo, partecipa direttamente del divino. Il ruolo del codice è in
questo caso ridotto, se non addirittura sostituito da una parziale
identificazione tra emittente e ricevente, secondo lo schema: emittente
divino - segno interno - evento futuro .... ricevente umano. Le obiezioni che
Cicerone muove ai sostenitori della divinazione si basano su argomenti
specificamente semiotici. La tesi generale, mediante la quale Cicerone nega
valore alla divinazione, è che essa non ha veramente carattere semiotico, e
cioè che i fenomeni che essa interpreta come segno non e tale, ovvero che non
si comporta veramente come d’antecedente rispetto a di conseguente. Per
distinguere un segno vero rispetto a quello presunti della divinazione,
Cicerone istituisce un paragone tra le tecniche scientifiche (come la medicina,
la meteorologia, la nautica, la tecnica previsionale del contadino e
deli'astronomo) e la divinazione. In entrambi i casi è in gioco la predizione
del futuro a partire da certi indizi. Ma, mentre le pratiche professionali
adottano una vera e propria metodologia che comporta "scienza (ars),
ragionamento (ratio), esperienza (usus) e congettura (coniectura)" (De
div. , II, 14), le prati che divinatorie si basano sul "capriccio della
sorte, tanto che nemmeno la divinità sembra che possa avere, fra le sue
prerogative, quella di sapere quali fatti il caso farà accade re" (De
div., II, 18). Questa opposizione tra ciò che, in definitiva, è il codice
(anche se 1si tratta di legami naturali basati sulla frequenza statistica) e il
caso è del resto la stessa con cui i medici ippocratici tendevano a
distinguere la propria scienza professionale dalla divinazione e dalla
medicina magica (Antica medicina). C. poi si sbarazza in termini razionalistici
della teoria secondo cui anche nel caso della divinazione tecnica si farebbe
appello ali'osservazione iterata delle coincidenze, ritenendola ridicola e
insostenibile (De div., II, 28). Ma ci sono altri gravi difetti che la
divinazione presenta dal punto di vista semiotico. Le interpretazioni di uno
stesso segno sono spesso diametralmente opposte (De div. , Il, 83). Si
verificano frequentemente fenomeni di falsa identificazione dell'antecedente,
per cui un certo evento non è connesso a quello individuato come segno prodigio
so, ma a ben diverse cause naturali (De div.). L'interpretazione avviene a
posteriori e così toglie ogni necessità di rapporto tra antecedente e
conseguente (De div.). In certi casi l'interpretazione è motivata da ragioni
di faziosità politica e quindi è priva di oggettività (De div., II, 74).Grice:
“Most English gentlemen knew Cicero via the Macmillan’s Loeb Classical Library,
a book fit for the gentleman’s pocket! One at a time, since there are quite a few volumes
dedicated to Cicero! Mr Chips makes fun of the revised pronounciation,
/kikero/!” Grice: “Cicero was quite confused, sexually. His favourite target of
attack was Marcantonio, which paid him good, since Marcantonio sent someone to
cut his hands (‘for all the dirty lies you wrote about me’). He accuses
Marcantonio of various things which did not fit Cicero’s ideal of VIRTUS –
virtus is what modern scholars refer to as ‘masculinity’ if you look for it in
keywords – or even better masculinities in the plural. The sexuality side to
the masculinity was of little importance to the Romans and Cicero – the
‘masculinity’ side WAS. Cicero’s main classification is between ROMAN MEN and
future Roman men. A Roman man is aged 20+ (has already dedicated his first
beard to the gods), and obviously freeborn. Freed citizens do not count since a
lot of calamities could have occurred to these ‘freed’ men BEFORE becoming
free. So, even though, while becoming free they attained the rights of the
Roman man, they were yet considered NON-MAN by the Roman man. The FUTURE man is
a Roman male under 20. They were considered sacred. The erotic pleasure a ROMAN
man wanted to find he could rely on two very practical institutions – one was that
of SLAVERY. A male slave was used as recipient of sexual desire. The ROMAN
man’s desire and his satisfaction counts, but he cannot pretend that his
SLAVE’s does – by definition, a slave does not have a will – or he would not be
a slave. Slave he has become by the circumstances, not by will, and if this
‘job’ included in the job description that of satisfy a Roman man’s desire, it
was the job description of a job he never applied to. The other very useful
institution was that of the PROSTIBULUM. The Roman man distinguishes lexically
between MERETRICX, a female prostitute, and a PROSTIBULUM. There is some
overlap here. While a ROMAN MAN could have passed as a prostitute, there’s no
reason why he should. OH THE OTHER HAND, a slave could be put into prostitution
by a pimp – so slave – nonliberus – and prostibulum were not exclusionary.
Again, in the case of PROSTIBULUM, it would be idiotic of the Roman man to
pretend that the desires of the PROSTIBULUM counted. They were there to please.
Brothels – there was one called Ganymede, in Ostia – quite popular, next to a
latrine – had all the amenities of bedrooms, locked doors, etc.. WHAT MATTERED
to the ROMAN man was that his REPUTATION OF VIRTUS – or masculinity as
self-control – kept untouched, so that the receptive role in the sexual act
would have no witnesses if it occurred at all. Cicero was well aware of all
this. But it would be idiotic to focus just on CICERO. The keyword should be
ROMAN MASCULINITIES, and Ancient Rome. In this way, we can cover the periods of
the archaic regal period, the republic – Cicero and Cesare – and the Empire.
When it comes to professional philosophers one has to be careful in that they
were a breed apart. They catered to the very elite, so their views did not
represent ‘popular’ morality. Roman law is another trick. Cicero mentions a law
against ‘stuprum’ – which is best understood as ‘stuprum’ against any of the
two sexes. The evidence for the philosopher should include visual, and
literary. Virgil and his national epic count large – and the Hellenistic
references he makes to Ganymede and his Niso ed Eurialo being erastes and
eromenos would be understood to his audience. And so would Hadiran’s affair
with this foreigner (a replica of the Ganymede myth – and Cicero calls
Marcantonio a ‘ganymede’ --. Like Zeus, Adrian was the MASCULINE VIR VIRTUOUS,
dominant and controlling. Like Ganymede, Antinous was the foreigner
subservient!” Manetti has explored the semiotics of CICERO in some detail. In
general, he approaches first CORNIFICIO, who is the author of a treatise on
rhetoric for long attributed to Cicero. The semiotic of Cicero is lawyer-based.
His idea is that if x, y. x is a sign of
y. y is the cause of x. x is the effect of y. He is interested in semiotics as
part of the analytica – or demonstration which is not necessary. It is
interesting to compare Cicero’s semiotics with one by this Spaniard,
Quinitilian. Quintilian, possibly a homosexual, had an obsession with what
signs qualify as naturally meaning that the person is a homosexual. He said
there were none. It is in this discussion that semiotics works. Grice: “Cicero
was quoted twice at the Mostra augustea della romanita – a sentence, and
Svetonio’s description of the birth of Augustus under his consulship.” A topic
of analysis if ‘natura’. There are natural tendencies in man. And some which
are CONTRA NATURAM. Oddly, semioticisans like Cicero and Quintilian refer a lot
to these ‘contra-naturam’ conventions – or non-naturale. Grice: “Austin liked
Cicero because he made ordinary Latin into extraordinary philosophese!” Il Cicerone di Rensi. Spero enim homines
mtellecturos quanto sit omnibus odio crudelitas et quanto amori
probitas et clementia. C. Cassio in Cic., Ad farri. XV, 14
C. Renisi . Vita parallele ,li due filosofi
4 Cicerone era vicino ai sessantanni, quando lo Stato legale
romano, che già precedentemente a- veva subito terribili scosse, ma che
mediante una saggia riforma avrebbe potuto rinvigorirsi sul suo
stesso tronco senza frattura o soluzione di conti¬ nuità, riceveva da
Cesare il colpo di grazia... Non è più necessario rivendicare la
grandezza di Cicerone contro le denigrazioni del Mommsen e di altri
due o tre storici tedeschi (I). Egli non era una ràbula e un politico
superficiale. Bensì un uomo di Stato dallo sguardo ampio e sicuro,
nel cui animo si radicava e viveva di vita vigo¬ rosissima tutta la
grande tradizione politica romana, Una bella e vivace confutazione del
Mommsen si può leggere nel saggio di A. Horncffer, Cicero und die
Gegenwarl, contenuto nel volume Das Klassische Ideal (Lipsia, Klinkhardt,
1909). L' Horneffer però rivendica solo il valore di Cicerone come
epistolografo e oratore, non come filosofo. e pur senza che l’animo servilmente vi
soggiacesse, ma, anzi, insieme, con la chiara coscienza della nuova
direzione che quella tradizione doveva pren¬ dere, e della misura e forma
in cui doveva prenderla, per svilupparsi fecondamente e superarsi
vivificandosi. Accanto a ciò, mente che s’era impadronita di tutta la più alta
cultura dell'epoca : Demostene e Platone insieme pel suo paese,
come riconosce Wilamowitz-Moellendorf Accanto a ciò, una
squisitissima sensibilità artistica e una passione vivacissima per le
cose d’arte ; basta vedere quanto “ vehementer „, com’egli stesso dice,
attendeva che Attico gli mandasse sculture ed oggetti artistici greci: “genus
hoc est voluptatis rneæ (Ad Att.) ; e basta aver letto
attentamente le sue orazioni e aver scorto il perfetto senso d’arte con
cui sono costruite e che vi circola. Accanto a ciò, infine, una
sensibilità in generale per le cose, le persone, gli eventi, gli affetti,
così moderna, che in lui, nella sua pronta e multiforme
impressionabilità, ritroviamo interamente noi stessi : e il suo dolore
erompente e pieno di accenti passionali per la morte della figlia
Tullia, è il palpito d’un cuore dei nostri tempi. Uomo, in una parola;
assolutamente completo. Platon, ed. cit., voi. I, p. 745. (2) Un
pensatore di così sottile e sicuro buon gusto e di cosi grande
penetrazione storica (e particolarmente Il rimprovero che gli si fa di
debolezze e incertezze è uno dei soliti rimproveri che gli eroi di
poltrona hanno quasi sempre occasione di ri¬ volgere al grande che si è
trovato a dover dav¬ vero vivere avvolto da un gigantesco turbine
di avvenimenti, e che nemmeno se fosse stato mille volte più grande
poteva abbracciarne tutte le fila, come è invece agevole a quelli che non
fanno se non pacificamente rileggerli nel loro tranquillo gabinetto
venti secoli dopo. Egli non fu debole ed incerto nè nella repressione
della congiura di Catilina, nè nella lotta per la salvezza della
costituzione con¬ tro il cesarismo rinvelenito da Antonio, lotta
che chiuse cosi gloriosamente la sua carriera mortale. Le sue
incertezze di altri momenti sono unicamente frutto della sua profonda
moralità. Perché l’uomo fondamentalmente morale e intelligente, in
mezzo a cataclismi enormi che travolgono gli individui come
fuscelli, quali quelli in cui Cicerone si trovò, mentre non può operare
contro coscienza, e per questa, che pure sarebbe l’unica via possibile,
salvarsi o tornare a grandeggiare, però avverte anche i pencoli micidiali
a cui espone sè ed 1 suoi o- perando secondo coscienza : e la condotta
risultante è necessariamente quella che tracciano le fluttuazioni di tale
angoscioso conflitto interno. circa la storia romana) come Montesquieu ne
dà questo giudizio. Ciceron, selon moi, est un des plus grands espnts
qui aient jamais été (Pensées diVerses), Ab illis est periculum si peccare, ab
hoc si recte fecero, nec ullum in his malis consilium periculo
vacuimi inveniri potest „ {Ad Att, X, 8). Quando i frangenti in cui un uomo si trova
realmente a vivere sono davvero quelli così delineati, si può
domandarsi se sia umanamente possibile la rettilineità che esigono da lui
coloro che poi spulciano comodamente gli eventi della sua vita. Sicuro
e diritto, in tali circostanze, è l'uomo amorale che non sente
scrupoli : il cinico ed elegante arrivista Celio Rufo, che a Cicerone da questo
consiglio {Ad. Di'». Vili, 14): “ Suppongo che non ti sfugga come
nelle discordie politiche interne gli uomini debbano seguire, finché si
lotta senz’armi, la parie più onesta, ma la più forte quando vengono in
gioco guerre ed eserciti, e stabilire che è migliore ciò che è più sicuro
„ (Celio Rufo, del resto ottimo scrittore, tanto che per molti uma¬
nisti ed altri dotti è ancor oggi il miglior modello di stile). Ma
Cicerone era un uomo di coscienza. Questa soltanto, non la sua incapacità
mentale, la causa della sua rovina. Egli era andato con
Pompeo, non già sedotto dalla speranza della vittoria, ma quando la
causa di costui era ormai pressoché perduta e con la piena nozione
di tale condizione di cose, e mentre Cesare, Antonio, Celio, per cercar
di trattenerlo almeno neutrale, gli facevano offerte larghissime :
secuti non spem, sed officium „ {Ad Div. X 5). Vi era andato
essendo consapevole, non solo dell’inettitudine e impreparazione di Pompeo e
di quelli che erano con lui, ma altresi del fatto che poco o nulla
c era da sperare da essi circa la restaurazione della legalità, animati
come costoro erano da propositi di persecuzione sillana (Ad Att.; Ad
D/v.), e chiaro ormai essendo che dai pompeiani non meno che
dai cesariani non si pensava che a far man bassa dello Stato: “ regnandi
contendo est » (Ad Att.), “ dominatio quaesita ab utroque est, non
id actum beata et honesta civitas ut esset. Vi era andato straziato dall’
idea d una guerra civile e unicamente in obbedienza a
considerazioni d ordine morale. E’ la coscienza che ci costringe, scrive
ad Attico (X ,8), a stac¬ carci da Cesare più ancora se vincitore che
se vinto, per non essere solidali con ciò che seguirà alla sua
vittoria, stragi, estorsioni, violenze “ et turpissimorum honores, et
regnum non modo Ro¬ mano homini, sed ne Persae quidem cuiquam to-
lerabile Era andato da Pompeo, senza illusioni e speranze, unicamente per
senso del dovere. Sed valuit (scrive più tardi a Cecina) apud
me plus pudor meus quam timor ; veritus sum deesse Pompeii saluti,
cum ille aliquando non defuisset meae. ltaque vel officio, vel fama bonorum,
vel pudore victus, ut in fabulis Amphiaraus, sic ego prudens ac
sciens, ad pestem ante oculos positam sum profectus (Ad Div.). Egli
sapeva cioè di andare alla rovina e vi andò in obbedienza a yu
principio d'onore (pudor) e di gratitudine, per quel poco che Pompeo
aveva fatto onde richiamarlo dall’esilio. “ Pudori tamen malui famae¬ que
cedere quam salutis meae rationem ducere riconferma a M. Mario. E
ritornando più tardi in una lettera a Torquato, che aveva anch’egli
seguito la parte pompeiana, su quell’episodio a entrambi comune, sente di poter
ricordare in cospetto al correligionario politico nec nos victoriae
praemiis ductos patriam olim et liberos et fortunas reliquisse, sed quoddam
nobis officium iustum et pium et debitum reipublicae nostraeque
dìgnitati videbamur sequi, nec cum id faciebamur tam eramus amentes ut
explorata nobis esset victoria. Ne è questa un’opportunistica
configurazione postuma della sua condotta di quel tempo. Basta percorrere la
sua corrispondenza con Attico (suo amico intimo e suo editore, uomo
consumato nell’ impresa di tener il piede in più staffe e nella difficile
arte di conservarsi amici i vincitori senza inimicarsi i vinti) per
constatare che tale veramente, cioè il senso del dovere, era il nobile
sentimento da cui fu mosso. Officu me deliberalo cruciat, cruciavitque
adhuc ; cautior certe est mansio ; honestior existi- matur traiectio (Ad
Alt.). E quando Pompeo è pressoché spacciato e stretto da tutte le
parti, e Cicerone è ritornato in Italia, egli si cruccia proprio di
questo suo atto da cui gli sarebbe derivato vantaggio e che poteva
quindi essere reputato abile, e si rammarica di non essere stato con
Pompeo sino alla fine; “ numquam enim illus victoriae socius esse volui ;
calamitatis mallem fuisse „ (Ad Att.). Il principio, insomma, che
in un’altra posteriore circostanza, piena di pericoli mortali, nella sua
lotta contro Antonio, egli enuncia a Planco così : “ mihi ma- ximae
curae est, non de mea quidem vita, cui sa¬ tisfeci vel aetate vel factis
vel gloria, sed me patria sollicitat ( Jld Dio.), questo è il principio che
domina costantemente nell’animo di Cicerone, insieme con l’insormontabile
ripugnanza, o meglio con 1’ impossibilità, di venir meno al
rispetto verso se stesso. Allorché, essendo Cesare incontrastato padrone,
l’accomodante Attico gli dà il consiglio di obbedire ai vincitori, “
non mihi quidem (egli risponde) cui sunt multa po- tiora „ (Ad
Att.). Certo, un uomo mosso prevalentemente da sen¬ timenti di tale
natura, nelle tragiche vicende pub¬ bliche da cui si trovò avvolto
Cicerone, va al fondo. Resta a vedere se ciò sia un indice di
inferiorità o se non lo sia piuttosto quel successo che è raggiunto (e la
cosa è facile) in grazia del¬ l’assenza di tali sentimenti, della
mancanza d’ogni freno etico, dell insensibilità ad ogni scrupolo di
coscienza, della nessuna riluttanza a violare cinicamente ogni principio di
diritto e di morale. Nè r uomo che aveva cominciato la sua carriera
attaccando coraggiosamente nell’orazione prò Roselo un favorito
potentissimo di Siila, era un pavido. Dimostrò ancora di non esserlo e
nel suo conso¬ lato e nell’ultima fase della sua vita. L’apparenza
di timidità da lui talvolta offerta, deriva da ciò che egli, come disse
di sè, si preoccupava grandemente dei pericoli nella rappresentazione e
raffigurazione mentale anticipata di essi, non già che titubasse poi ad
affrontarli nella realtà. Quintiliano narra : “ Parum fortis videtur
quisbusdam : quibus optime respondit ipse, non se timidum in susci-
piendis, sed in providendis periculis. E’ press’a poco ciò che egli scrive a
Toranio: mi accusavano di essere timido, “ eram piane, timebam
enim, ne evenirent, quae acciderunt „ ; mi dicevano timido, “ quia
dicebamus ea futura, quae facta sunt „ (Ad Dio.). Nè è giusto
accusarlo di non aver saputo intuire con chiarezza le situazioni e di
essersi per questa deficienza di sguardo gettato a corpo perduto a
combattere per soluzioni che la realtà escludeva. È questa la solita
iniqua condanna che ì posteri, aggiungendosi ai contemporanei
nell’incensare i vincitori e nel dare il calcio dell’asino ai vinti,
pronunciano contro colui che difese la causa rimasta storicamente
soccombente. Quasiché il fatto che una causa sia rimasta storicamente sconfitta
dimostri anche che era giusto e logico che essa lo fosse ; quasiché il
mero fatto, il fatto del successo, sia anche verdetto di giustizia
e logicità ; quasiché assai spesso la causa storicamente prostrata non
sia quella che avrebbe dovuto vincere. Che la cosa stia così nel caso
di C., lo dimostra il fatto che la causa da lui combattuta e che
vinse costituì la rovina della vita di Roma : basta per accertarsene
constatare che nella stessa nostra memoria di posteri la vita di
Roma resta chiaramente presente e attira la nostra appassionata
attenzione appunto sino ad Augusto; ci rimangono ancora come appendice
già torbida i primi imperatori ; poi tutto ci si confonde di¬ nanzi
in un lungo stato comatoso chiazzato di continui sussulti sanguigni, in
cui (se non siamo sto¬ rici di professione) non distinguiamo piu ne
nomi, nè persone, nè eventi, di cui non ricordiamo, nè c’importa
ricordare, più nulla. Si rammenti come, per es., scorgeva Roma Massimo d’Azeglio.
“ Fra tutti gli Stati dell’antichità è Roma quello che ho in maggior
stima, fino all’epoca dei Gracchi, intendiamoci ! lo ammiro que’ tempi
durante i quali dominò la legge ; durante i quali le più bollenti
passioni agitate dai più vitali interessi, non cercavano altr armi nè
altre vittorie che un voto ne’ Comizi „. E poco prima : Se è giusto
e vero il principio fondamentale delle Società moderne, essere la
legalità di un governo dipendente dalla volontà del popolo che vi è
governato, vorrei sapere se 1’umanità consultata avrebbe ne’ tempi dei
Romani votato [Nemmeno i mezzi che egli aveva messo in opera per
sostenere la causa che soccombette, soo inadeguati. Tutto, invece, egli aveva
provvisto ; tutto quanto era necessario perchè essa vincesse: aveva
cercato di assicurare ad essa l’appoggio e la fedeltà dei maggiori
personaggi militari e politici ; aveva costituito e messo in campo
eserciti poderosi ; con la sua parola teneva altissimo il tono
morale del popolo all’ interno. Se la causa non vinse, lo si deve, non a
un fato storico, a condizioni incoercibili insite nella realtà e
sfuggite allo sguardo di C., o al logos immanente nella storia ; ma
unicamente a due o tre puri casi, che potevano accadere diversamente e in
tal modo rovesciare la situazione. Dice in qualche luogo Rosmini
che “ uno de’ mezzi, co’ quali 1’ uomo può sciogliere la propria mente da
molti pregiudizi e da’ legami delle consuetudini sensibili, si è
l’esercitarsi a considerare le cose non solo come sono, ma come
potrebbero essere. Se vogliamo applicare questo precetto al periodo di
storia in discorso (come Renouvier in Uchwnie l’ha applicato in modo
grandemente interessante a tutta la storia occidentale dagli Antonini in
poi), scorgeremo agevolmente che due o tre futili casi, per
l'impero (Miei Ricordi, Barbera). Antologia Pedagogica a cura di G.
Pusinieri, Rovereto, Mario] i quali fossero avvenuti diversamente,
sarebbero bastati a cambiare del tutto la faccia delle cose; se, p.
e., Lepido non avesse tradito, o se un gia¬ vellotto l’avesse ucciso
quando egli si mosse per portar soccorso ad Antonio ormai disfatto, se Planco
non avesse fatto il doppio giuoco, ciò sarebbe bastato per far di C. il capo
dello Stato romano, e perchè egli occupasse nella politica di Roma
d’allora, e nella storia, il posto d’Augusto. E quanto lo Stato romano e
la posterità sareb¬ bero stati più fortunati se il potere fosse
venuto in mano ad un uomo di rettitudine profonda e di vivo senso
del diritto e del dovere, come C., anziché ad un uomo la cui bassezza d animo è
provata luminosamente dal fatto che, avendo cominciato ancora puer o
adolescens, come sempre Cicerone lo chiama, (sed est piane puer n
\Ad Att. XVI, 11), ad essere qualcosa solo per 1 appoggio datogli appunto
da C. e con lo strisciarsi umilmente ai suoi piedi (“a me postulat primum
ut clam conloquatur mecum Capuae vel non longe a Capua ducem se
profitetur nec nos sibi putat deesse oportere „ ; binae uno die
mihi litterae ab Octaviano; “ deinde ab Octaviano cotidie litterae,
ut negotium susciperem, Capuani venirem, iterum rem publicam servarem » ;
mihi totus deditus „ ; “ nobiscum hinc perhonorifice et amice
Octavius „ Ad Jltt. XVI, 8, 9, 11,
XIV, 11, 12), non si trattenne dal sacrificare ad una propria maggiore
ascesa la vita di colui che l’aveva sorretto nei suoi primi passi. Uomo
egli, si, veramente, pusillanime, che vinse le guerre solo per
mezzo dei suoi generali e specialmente di A- grippa (1), e non aveva il
coraggio di presentarsi nel campo se non dopo che Agrippa gli annunziava
la vittoria (Svet. Aug. 16). Fondamental¬ mente istrione e poseur come
risulta dal fatto, narrato da Svetonio (Aug. 84), che non comunica mai
nemmeno con sua moglie senza scrivere prima e leggere ciò che voleva dire,
nonché dall’altro, sempre narrato da Svetonio, che egli amava
stilizzare a particolare espressività e luminosità i suoi occhi, “ quibus etiam
existimari volebat inesse quiddam divini vigoris, gaudebatque
[Octave lui [a Sesto Pompeo) fit deux guerres laborieuses ; et
après bien de mauvais succès il le vain- quit por i’habilité d’Agrippa...
Je crois qu’
Octave est le seul de tous les capitaines romains qui ait gagné 1
affection des soldals en leuv donnant sans cesse des marques d’une
làcheté naturelle „ (Montesquieu, Grandeur et Dócadence des Romains. Tanto Cesare quanto Augusto avevano
l’abitudine di citare dei versi delle Fenicie di Euripide. E la citazione
che l’uno e l’altro aveva scelto è rivelatrice del loro rispettivo
carattere. Cesare amava citare i versi 524-525 : “se c' è un caso in cui
sia bello violare il diritto, è quando lo si viola per conseguire
la tirannide citazione signifìcatiice dello spirito violento e
illegale. Augusto amava citare il verso 559: è meglio per un generale
procedere al sicuro (àacpaÀr/c) che es¬ sere ardito (ihf aouc) „ ;
citazione significatrice della vi¬ gliaccheria (cfr. Cicer. De Off. Ili,
21, 82 e Svetonio Aug.] si qui sibi acrius contuenti quasi ad fulgorem
solis vultum summiteret e infine in modo palmare dalle parole (“
ecquid iis videretur mimum vitae commode transigisse „) e dalla citazione greca
richiedente 1 applauso per la commedia ben riuscita, con cu; egli chiuse
la sua esistenza (ib. 99). Uomo che desta particolare antipatia
precisamente in grazia del suo proposito di moralizzare la vita
romana ; perchè niente è più ripugnante del dissoluto che si da il compito di
costringere gli altri alla virtù e posa a restauratore della morale
pubblica ; e Augusto aveva cambiato tre mogli prendendo 1 ultima al manto sotto
ì suoi stessi occhi, conducendola con sé in un altra stanza donde
era ritornata spettinata e con gli orecchi rossi, e poi
introducendola in casa propria incinta d’un altro; aveva commesso le oscenità
che narra Svetonio, irripetibili, tranne forse una : “ adultena
quidem exercuisse ne amici quidem negant; e dopo ciò faceva udire le
parole am¬ monitrici di vita austera e imprendeva a ricondurre i
costumi alla prisca severità (I). La scandalosa condotta di sua figlia e di sua nipote,
che condusse [A cool head, an unfeeling hcart, and a cowardly
disposition, promtcd finn al thè age of nmeieen, to assume thè maske of
hypocrisy, which he never afterwards laid aside. With thè saine hand, and
proba’bly with thè same temper, he signed thè proscription of Cicero and
thè pardon of Cinna. His
virtues, and even his vices, were artifìcial „ (Gibbon, Decime and Fall] all’esilio
di entrambe, e di Ovidio complice o pronubo, dimostra che nella sua famiglia
stessa si aveva il senso netto del come si poteva prendere sul
serio una riforma morale che pretendeva at¬ tuare un individuo di
siffatta ìndole e di siffatti precedenti. Non ostante che all’epoca del
trionfo di Cesare si avvicinasse alla sessantina, C. non. era uomo
che non sapesse comprendere i tempi. Li comprendeva benissimo, più
profondamente e sapientemente di Cesare e di Ottavio. La sua mente era in
pieno vigore. Subito dopo quell epoca egli poteva scrivere quei suoi
libri di filosofia che su¬ scitarono l’ammirazione dei contemporanei e
furono e saranno letti con entusiasmo o rispetto da tutte Coglie
veramente nel segno Aurelio Vittore : Cum esset luxuriae serviens erat
eiusdem vitii severissimus ultor, more hominum, qui in ulciscendis
vitiis, quibus ipsi velie- menter indulgent, acres sunt . (cap. 1). E s. può dire
d. lui quel che il Boissier dice di Domiziano : 1 ar malheur,
ce prince si sevère pour les defauts des autres, etait lui- mème
très vicieux. 11 avait fait des lois rigoureuses contre l’adultere et il vivait
publiquement avec sa mèce, la bile de Titus, qu’ il avait enlevée à son
mari et dont il causa la mort en essayant de la taire avorter. Ce
contraste etait choquant, et il n’ ignorait pas qu’on en etait indigne
(Tacite] le generazioni successive (I). Poco più oltre egli svolgeva anzi la sua azione politica più
abile, più decisa, piu energica e più importante, e, insieme, con
le filippiche raggiungeva un’altezza da lui ancora non tocca nella forma
d’arte che gli era propria : “ divina „ chiama giustamente un
giudice certo non facile, Giovenale (X, 125), la seconda di esse.
La sua idea di portare alla luce del mondo politico, sotto la sua
direzione, il pronipote e figlio adottivo di Cesare, ancora ragazzo
(aveva appena diciannove anni), accordandogli anche onori che a molti parevano
eccessivi, e di riuscire così giovandosi del nome di Ottavio a far
rientrare il ribollente partito cesariano nell’ordine costituzionale e a
dominare in tal modo una si- Inazione difficilissima, era una idea
geniale, abi¬ lissima, da politico grandemente avveduto, l’unica
(I) Sull immensa influenza esercitata da C. sui a t“ di
tutti ' tempi ' veg § asi ‘'furiente r “, Z r fe ,v C f er , 0 o ™ Wandel
dcr Jahrhunderte I d-' P r a ' ed ;. lj^ 9 ) Strachan-Davidson
nella sua Vita di Cicerone ( Heroes of thè Nations Series „) dice
giustamente che se si dovesse decidere quale degli scrittori antichi
maggiormente influì sul mondo moderno, la decisione sarebbe ,n favore di
Plutarco e C. hrasmo, scrivendo ad un amico, diceva che, se da
giovane aonr enVa rf matUra era andato sempre più
apprezzando Cicerone. Ld è proprio giusto il noto giu- d. Z
.o di Quintiliano : “ Ille se profecisse sciat, (e s. può aggiungere:
tanto gusto letterario, quanto in retti Jne etico-politica) cui Cicero
valde placebit. G. Sensi . y ita paratiti « di due fila.ofi ] idea
che in quel terribile cataclisma poteva dar buoni frutti. Non è sua colpa
se 1 idea non riuscì, e proprio sopratulto per la perfidia senza
scrupoli del futuro Augusto. Per quanto avveduto e gran¬ demente
intelligente, un uomo di Stato fondamen¬ talmente onesto come C., non fa
entrare nel suo giuoco la supposizione di una perfidia enorme, di
gran lunga travalicante la media ne¬ quizia umana, come fu quella di
Augusto; nè si può accusarlo di incapacità se non ve la fa entrare,
e se essa gli si rizza impensatamente dinanzi man¬ dando a picco i suoi
piani più accortamente e sapientemente elaborati (1). Fra il 4 1 e il 40
a. C., cioè all’età di circa sessantaqualtro anni, Cicerone assume
risolutamente, nel momento più pieno di vicissitudini e pericoli, la
parte di leader del Senato e del popolo romano, come egli stesso scrive a
Cornificio, “ me principem Senatui populoque romano professus sum (Ad
Dio. Xll, 24 2) ; spiega un’attività prodigiosa, tanto verso gli
eserciti quanto rispetto alla situazione interna, per dirigere
(I) Giustamente Platone osserva (Rep.) che le persone oneste sono
facili ad essere ingannate dai malvagi perchè non hanno in sé il modulo
dei sentimenti di costoro (fire oòv. s'/ovre? èv éaotoT; ^ 7
iapaos'y|J.axa óp. 0 i 07 ia{H) tot; nove^oi?) ; mentre però il malvagio,
a- bilissimo nel suo comportamento coi malvagi, resta ingan¬ nato
quando tratta coi buoni, perchè, giudicando da se, e ignorando le indoli
onesti, vede dappertutto inganni (àruaT&v Tiapà xaipòv xaì àYVOtòv
uytè; fjU'o;)] la lotta contro Antonio ; getta di nuovo, attesta
scrivendo ancora a Cornificio, 1 fondamenti dello Stato con la prima
Filippica: “ fundamenta ieci reipublicae „ (Ad D/v. XII, XXV, 1); e al
gio¬ condo Peto conferma quanto abbia fatto, quanto faccia e come
ritenga che se dovesse in tale sua azione perdere la vita l’avrebbe spesa
bene ; “ sic tibi, mi Peto, persuade, me dies et noctes mini aliud
agere, nihil curare, nisi ut mei cives salvi liberique sint : nullum
locum praetermitto mo- nendi, agendi, providendi : hoc demque animo
sum, ut si in hac cura atque admistratione vita mihi ponenda sit,
praeclare actum mecum putem „ (Ad T)iv. IX, XXIV, 3). “ In questi primi
mesi del 43, C. fu veramente il princeps, ch’egli aveva idealizzato
nel De republica : consigliere, esortatore, ispiratore del Senato, dei
consoli, dei governatori delle provincie „ (1). Non è questa la
condotta d un uomo le cui facoltà spirituali siano illanguidite.
Ma, sopratutto, a prova della sua esatta com¬ prensione dei tempi,
basta ricordare come la ri¬ forma che occorreva allo Stato romano,
pessima¬ mente attuata, secondo attestò la susseguente vita F,
Amateli, C. (Bari, Laterza).
Jamais C. n a joue. un plus grande róle politique qu à ce moment ;
jamais il n’a mieux mérité ce nom d’hom- me d Etat que ces ennemis lui
refusent „ (Boissier, Cr- céron et ses amis] dell’Impero, da Cesare e da
Augusto, fosse stata prospettata per primo da C. nel De Repubblica. L’introduzione, cioè, d’un nuovo e più
fermo principio d’autorità sotto forma di un rector rerumpublicarum d’un
“ moderator reipublicae d’un “ princeps civitatis » (De Ti,ep.).
Senonchè C., con molto maggior senso della necessaria continuità di
sviluppo dello Stato romano e con molta maggior disinteressata cura di
esso, non intendeva che questa riforma dovesse rivolgersi a distruzione
della costituzione esistente, bensì che dovesse ingranarsi in essa e
formarne un naturale complemento e uno svolgimento spontaneo e logico ; “
homines non tarai commutandarum quam evertandarum rerum cupidos „ , egli
giudica i cesariani .(De Off.), mentre per lui la costituzione
romana, come esattamente nota lo Zielinski, è “ capace di ogni progresso
in quanto questo conducesse all’accettazione e allo sviluppo di
idee feconde (fordeTnder), non di idee distruttive. La differenza tra il modo
con cui egli concepiva la riforma e il modo con cui la attuarono Cesare
ed Augusto è si può dire scolpito dalle seguenti sue due proposizioni: “
me nunquam voluisse plus quemquam posse quam uni- versam rempublicam „
(jdd Div.); “ ego sum, qui nullius vim plus valere volui, quam ho-
nestum otium. Ovvero: la differenza tra la concezione ciceroniana del
princeps e la pratica applicazione fattane da Cesare è resa nel
bell’ emistichio con cui Lucano descrive il modo di operare di quest’ultimo : gaudens
viam fecisse ruina. Basta riflettere a tutto ciò per scorgere tosto che
non solo la mente di C. era nel suo pieno vigore, ma altresì la sua
comprensione dei tempi (se per questa s’intende, non già furbesca
valutazione personalmente opportunistica delle circostanze, ma avvertimento
delle necessità profonde che ad un dato momento si presentano nella
vita sociale e politica d’un paese) era perfetta. Il * ‘
sovversivismo „ di Cesare è provato dal dolore che per la sua morte
manifestarono sopratutto gli Ebrei (“ qui etiam noctibus continuis bustum
frequentabant„ Svet, Caes.), cioè precisamente coloro che nel seno
nello Stato romano, da essi violentemente odiato, costituivano la catapulta
diretta a farlo saltare, e che, sotto la veste del Cristianesimo, a farlo
saltare effettivamente riusci¬ rono. Si può anzi con sicurezza dire che
l’impero romano si deve agli ebrei, perchè furono i loro lunghi tetri lamenti
intorno al cadavere di Cesare che suscitarono nella plebaglia quella sommossa
per e attorno al rogo del dittatore, la quale fece prender nuova forza al
cesarismo. “ É noto come per la commozione popolare che lo
straziante rito ebreo provocò colle sue lugubri lamentazioni
orientali, se ne ingenerò quel tumulto che doveva mutare la faccia de!
mondo, mandando in fumo i diplomatici accordi con Bruto e Cassio, che
dovettero fuggire in Illirio : sicché ne vennero le lunghe guerre civili
e l’Imperio di Augusto „ (Ottolenghi, Voci JOriente, Lugano] Mente
possente, senso politico sicuro, compren¬ sione dei tempi piena. Non si
può dunque attribuire a deficienze intellettuali il modo con cui C.
valutò Cesare e il movimento da costui capeggiato. Egli non vide
certamente Cesare come la sua figura si è plasmata nella storia, che
corona con eternità d’ apoteosi tutto ciò che ha trovato in ogni
presente la consacrazione del bruto suc¬ cesso di (atto. Lo vide come
glielo presentava la realtà immediata. Lo vide come lo vide
Catullo: Pulcre convenit improbis cinaedis, Mainurrae
pathicoque Caesarique ; E questo Caesar era proprio Caio Giulio Cesare e
quel Mamurra (da Catullo soprannominato Men- tula) il suo generale del
genio. A permettere al quale di “ mangiare „ (il verbo si usava anche
in latino con questo preciso significato) milioni su milioni, il
commovimento politico aveva principalmente servito. Doveva essere una cosa nota
a tutti, se Catullo la mette correntemente in versi: Cinaede
Romule, haec videbis et feres ? Es inipudicus et vorax et aleo. Eone
nomine, imperator unice, Fuisti in ultima occidentis insula.
Ut ista vostra diffutata Mentula Ducenties comesset aut trecenties
?] Cinaede Romule Romolo debosciato, impudico, vorace e giuocatore : cosi
Catullo vede Cesare. E press’a poco così lo vede C. Egli non scorge
Cesare, quale il fanatismo interessato dei seguaci e poi gli storici l’hanno
co¬ struito: gli storici, i quali (in generale) non fanno mai altro
se non aggiungere, per supino servilismo postumo, la loro adulatrice
consacrazione al successo di fatto e di solito non osano mai, per la
paura di passar per “singolari,,, sviscerare il clamoroso successo di
fatto ottenuto da un “ grande „ nella età in cui visse, mettendone
coraggiosamente in luce le vere molle, spessissimo casuali, o
basse, o vili, ma sempre invece per essi è “ grande „ colui che
nella sua epoca le circostanze, o la perfidia, o i misfatti hanno portato
in alto. Si vous avez une vue nouvelle, une idée origi¬ nale, si vous
présentez !es hommes et les choses sous un aspect inattendu, vous
surprenez le lecteur. Et le le- cteur n’aime pas à ótre surpris. Il ne
cherche jamais dans une histoire que les sottises qu’ il sait dejà.
Si vous essayez de l’instruire, vous ne ferez que l’humilier et le
fàcher. Ne tentez pas de l’éclairer, il criera que vous insultez à ses
croyances... Un historien originai est 1 objet de la défiance, du mépris
et du dégoùt universels». Questo
è l’abituale comportarsi degli storici, secondo la satira,
aggiustatissima, che ne schizza A. France (L’ ile des Pingouins, préf.).
Ci sarebbe solo da ag¬ giungere che spesso il servilismo degli storici
verso i personaggi della storia che scrivono serve al loro servilismo
verso i personaggi della storia che vivono. C. vede Cesare muoversi
davanti ai suoi occhi, nella vita vera, non nella luce abbagliante
del mito. Esso gli appare screditato, corrotto, senza senso di
morale nè privata nè pubblica, uomo la cui vita, i cui costumi danno la
certezza che si condurrà male : e sopratutto la danno la gente che
lo circonda. “ O Dii, qui comitatus ! in qua erat area scelerum! scrive
ad Attico, dopo uno dei suoi abboccamenti con lui. Egli sa che
Cesare aveva cominciato a costruirsi la sua potenza accaparrandosi e
tenendo alle proprie dipendenze i manigoldi audaci e bisognosi. Egli
scorge ( I ) Nell' interessantissima antologia di pagine
storiche di Chateaubriand, testé pubblicata dall’editore Tallandier
sotto il titolo Scénes et portrails historiques, si legge. Tout personnage qui doit
vivre ne va point aux générations futures tei qu’ il était en réalité : a
quelque distance de lui, son epopèe commence : on idéalise ce
personnage, on le transfigure ; on lui attribue une puissance, des vices
et des vertus qu’ il n’eut jamais ; on arrange les hasards de sa vie, on
les violente, on les coordonne à un système, Les biographes répètent ces
mensonges ; les peintres fixent sur la toile ces inventions et la
posterité adopte le fantóme. Bien fou qui croit à l’histoire. L’histoire
est une pure tromperie „. E Montesquieu, dal canto suo aveva già
osservato : “ Les places que la posterité donne sont sujettes, corame les
autres, aux caprices de la fortune ( Grandeur et décadence des Romains. Habebat
hoc omnino Caesar: quem piane perditum aere alieno egentemque, si eumdem nequam
hominem audacemque cognorat, hunc in familiaritatem liben- tissime
recipiebat „ (Fi/. Il,] radunata attorno a Cesare tutta la gente
equivoca e sospetta, violenta e disperata, tutte le anime dannate, vexu
(<x (Ad Att.), “ omnes damnatos, omnes ignominia affectos, omnes
damnatione igno- miniaque dignos, omnem fere inventutem, omnem
illam urbanam et perditam plebem „ (Ad Att.), tutti i giovani circa i quali
pensava che “ma¬ ximas republicas ab adolescentibus labefactas,,
(De Seti. VI), tutti coloro ch’egli chiamava « perdita iuventus »
(Ad Att. VII, 7) e poc’anzi « barba¬ tuli iuvenes, grex Catilinæ,
«feccia di Romolo, i precursori di quella che poi Giovenale denomina
«turba Remi; cosicché, egli scrive ad Attico, intorno a Cesare è
raggruppato tutto il canagliume della penisola, « cave autem putes
quemquam hominem in Italia turpem esse, qui hinc absit; osservazione
identica a quella che è costretto a fare il cesariano Sallustio: “
occupandae reipublicae in spem adducti homines, quibus omnia probo ac
luxu- ria polluta erant, concorrere in castra tua,, (De Rep. Ord.).
Come Catullo, C. vede con disgusto i cesariani ormai dominatori darsi al
lusso ed al fasto, giuochi, cene, delizie, mentre Balbo (altro
comandante del genio di Cesare e sua longa manus in Roma) si costruisce
dei palazzi, “quae coenae? quae deliciae? at Balbus aedificat (Ad
Att.), e Antonio scorrazza l’Italia confi) Val la pena di riportare tutto il
passo perchè esso ducendosi dietro in una lettiga aperta la sua
amante in un’altra sua moglie, septem praeterea coniunctæ lecticæ
amicarum sunt an amicorum ? „ l^/JJ Att. X, IO) (I). Tutto ciò desta in C.
una nausea invincibile: “ nosti enim non modo sto¬ machi mei, sed etiam
oculorum, in hominum inso- contiene un’osservazione di indole psicologica
e morale eternamente vera e colta da Cicerone dalla vita stessa che
lo circondava : “ At Balbus aedificat ; tl yàp «ÒTfij péÀst ; Verum si
quaeris, homini non recta sed vulupta- ria quaerenti nonne [kfifwTai ? „
Cioè: “ Balbo pensa a costruirsi palazzi. Che importa a lui di tutto ciò
? E in verità, se a un uomo non sta a cuore la dignità e la co¬
scienza, ma solo il suo interesse, fa bene a far così : può dire ho
vissuto La ributtante figura d’Antonio risalta scolpita non solo
nelle lettere di Cicerone, ma, più ancora nelle Filippiche (v. specialmente FU.
He. 18 e s.). Pagine che stanno a dimostrare una volta di più come, in
una situazione politica tirannica ed eslege, anche persone notoriamente
turpi possano salire ai più alti gradi, perchè il controllo dell opinione
pubblica e la possibilità di censure sono soppresse dalla forza e la gente
costretta al silenzio. Non
ostante, in un primo tempo C., usando l’avveduta prudenza dell’uomo
politico, aveva cercato di persuadere quasi amichevolmente Antonio a
rimanere nell'orbita della legge. Ciò con la Fil. I, di cui è il caso di
citare le seguenti righe : “ Sin consuetudinem meam, quam in repu- blicam
semper habui, tenuero, id est, si libere, quae sen- tiam, de republica
dixero; primum deprecor ne irascatur, deinde, si haec non impetro, peto
ut sic irascatur, ut civi] lentium indignitate, fastidium™ (Ad T)iv.] Quanto a
Cesare, egli è per C. “ hominem amentem et miserum che non ha mai
conosciuta neppur l’ombra dell'onestà, che considera la tiran¬ nide
come il maggior dono degli Dei, (Ad Alt. VII, 1 1 ), capace di ogni
scelleraggine, “ omnia taeter- rime facturum, uomo del quale “
vita, mores, ante facta, ratio suscepti negotii, so¬ di „ fanno ritenere
che non potrà comportarsi se non “perdite,, (ib. IX 2 A, alias 2, § 2 e
s.) La sua condotta sarà anche resa peggiore di quel che per
l’indole di lui sarebbe, dal fatto che il vincitore nella guerra civile
deve pur contro sua volontà operare ad arbitrio di coloro che l’hanno
aiutato a vincere. “ Omnia (scrive a Marcello) sunt misera in
bellis civilibus ; sed miserius nihil, quam ipsa victoria : quae
etiamsi ad meliores venit, tamen eos fero- La stessa ripulsione, e per la
stessa ragione, Filippo destava in Demostene. È circondato (egli dice) da
ladri, da adulatori, da gente che si abbandona a immoralità che non oso neanche
ripetere (01. 11, 19). E De¬ mostene si illudeva che anche perciò Filippo
sarebbe caduto. Geloso e ambizioso com' è (egli dice) allontana gli
uomini di valore, che gli danno ombra ; gli uomini assen¬ nati e
morigerati, che sono rivoltati dalle sue immoralità (àxpaafav xoO pioti
-/.al xal xopSaxia|jioOs) sono da lui cacciati e ridotti a nulla,
TrapEwaHa'. xal sv Ò'jSevò; s!va'. |ispei (ib. 18). Ma pur troppo i
fatti hanno sempre provato che è vana speranza contare che que¬ ste
ragioni facciano cadere un uomo dal potere. L’esigenza morale non trova
sanzione nella storia e nella politica.]ciores impotentioresque (più sfrenati)
reddit ; ut etiamsi natura tales non sint, necessitate esse co-
gantur ; multa enim victori eorum arbitrio per quos vicit, etiam invito,
facienda sunt„ (Ad Div. IV, 9). E su questo stesso pensiero insiste anche
con Cornificio (Ad ©iv. Xil, 18) : “ Bellorum enim civilium hi semper exitus
sunt, ut non ea soium fiant, quae velit victor, sed etiam, ut iis mos
gerendus sit, quibus adiutoribus sit parta victoria „. La situazione
scaturita dalla vittoria di Cesare appare a C. un mostruoso sfacelo
dell’eticità pubblica. “ Tutto allora in Roma precipitava a rovina,
religione, costumi, esercito, cittadinanza, popolo, senato, magistrati, privati
; e in quel rovescio d’ogni cosa umana e divina, poneva i
fondamenti sanguinari la tirannia degli imperatori „ (2). C. vede come
non appena Cesare, annientati i suoi avversari, e rimasto solo sulla
scena politica, ha messo violentemente le mani sullo Stato, e in
Il modo genuinamente italiano di considerare Cesare è quello che un
veramente grande italiano, il Carducci, ci presenta nei due sonetti II
Cesarismo , che cominciano con le parole, estremamente significanti e
pregnanti, Giove ha Cesare in cura. Ei dal delitto Svolge il
diritto, e dal misfatto il fatto. Entrambi i sonetti mentano di
essere attentemente letti, con la nota al v. 14 del secondo, che li
accompagna. BARZELOTTI (si veda), DELLE DOTTRINE FILOSOFICHE NEI LIBRI DI
C.] seguito a ciò “ omnia delata ad unum sunt „ (jdd Div. IV, 9) al punto
che Cesare redige in casa sua, a suo libito, quelli che devono apparire
come senatusconsulta (Ad Div.), si formi un’atmosfera di falsità, di
servilismo, di adulazione uni¬ versale, tanto da parte di privati quanto
di enti pubblici, cosicché non si distingue più il sentimento
sincero dalla simulazione, “ signa perturbantur, quibus voluntas a simulatione
distingui posset « (Ad Att. Vili, 9); (1) quell’adulazione e quel
servilismo, che, diventati poi a poco a poco ora¬ mai di rito, Lucano,
più tardi sotto Nerone, sti¬ gmatizza con magnifici versi, facendone
risalire 1' inizio appunto al dominio di Cesare : V Cette abjection
de la patrie releva I’ àme de C. par l’indignation et par la honte. La victoire de
Cesar, au lieu de l’en rapprocher, l’en éloigna. Le succès, qui est la
raison du vulgaire, est le scandale des grandes àmes (Lamartine, C.,
Calmati-Levy). È un saggio, poco
conosciuto, in cui Lamartine, in forma simpaticamente piana e scevra da
ogni erudizione, presenta, nella sua nobile luce, e con accenti assai
elevati, la figura di Cicerone. Ne vogliamo, a conferma di prece¬
denti osservazioni, estrarre ancora due passi. “ Les ambi- tieux, les
factieux, les séditieux, les corrupteurs et les cor- rompus, la jeunesse,
la populace et la soldatesque, les barbares mèmes enrólés dans les
Gaules, étaient avec Cesar. “ Coriolan... n’avait rien fait de plus
monstrueux... et cependant l’histoire a flétri Coriolan et a déifié
Cesar. Voilà la justice des hommes irréfléchis, qui prennent le succès
pour juge de la moralité des événe- ments „ (154).] Namque omnes voces,
per quas iam tempore tanto Mentimur dominis, haec primum repperit
aetas. Qua, sibi ne ferri ius ullum, Caesar, abesset,
Ausonias voluit gladiis miscere secures, Addidit et fasces
aquilis et nomen inane Imperii rapiens signavit tempore digna Maestà
nota (I). C. vede
come, appena risultò che Cesare era saldamente stabilito al potere, non
solo i “sovver¬ sivi ma anche gli “ ottimati le vecchie figure V.
386, —Si avverte che la parola “ imperium „ qui non significa il nostro “
impero „ ma “ officio pub¬ blico legale Lucano vuol dire che Cesare copri
l’usurpazione, assumendo falsamente il semplice nome d’un officio
pubblico legale. Come è noto, è sopratutto col nome di potestà tribunicia
che ( usurpazione si effettuò. Nel libro, ricco di dottrina e di acume,
di G. Niccolint, Il Tribu¬ nato della Plebe (Hoepli, 1932) si mostra che
1’ impero si costitui deformando e nell’ istesso tempo assorbendo
la potestà tribunicia. « L'impero non era, in ultima analisi, che
il trionfo della democrazia [più esatto sarebbe dire : demagogia], e se
chi aveva fondato il suo potere sul partito democratico, non poteva
abolire la pericolosa magistratura, non gli restava che appropiarsela
nella sua sostanza, se non nella forma esteriore... Cosi la temuta
magistratura, nata per difendere la libertà del popolo, che
conteneva perciò elementi di sovranità atti a svilupparsi in
tirannide... costituiva ora l’essenza del potere civile del monarca
» (pag. 1 59). — 11 contegno adulatorio e vilmente opportu¬ nistico
comincia con gli uomini il cui prototipo è Attico. “ C’est assurément ce
qui nous répugne le plus dans sa vie ; il a mis un empressement fàcheux à
s’accomoder au regime nouveau „ (Boissier, Cicéron et ses amis.] politiche,
abili a restar sempre a galla, “ huic se dent, se daturi sint „, sia pure
perchè terrorizzati, sebbene essi ora dicano che lo erano quando
os¬ sequiavano Pompeo (Ad Alt.); come essi se^ venditant „ a lui,
mentre i'municipi fanno di lm vero Deum „ (ib. Vili, 16), e il grosso
del pubblico sta inerte, passivo, indifferente, non pensa che alla
propria tranquillità (“ otium „), non rifiuta, come non ha mai rifiutato,
nemmeno la tirannide dummodo otiosi essent, non si occupa che dei
campi, delle ville, dei quattrini, nihil prorsus aliud curant nisi agros,
nisi villulas, msi nummolos suos „ (ib. Vili, 13) ; atonia che si
aggravo ancora più tardi quando diventava po^ tenie Antonio : “ mihi
stomachi et molestiae est populum romanum manus suas non in
defendenda YA/I own , " plaudendo consumere (Ad Att. AV|
. lU- Ma questa prosternazione e adula- (I) Anche qui si riscontra
un parallelo nella potente e \ ibrante invettiva di Demostene per
l’inerzia dei Greci del suo tempo. Non e senza ragione (egli dice) che
i Greci una volta avevano a cuore la libertà e ora invece hanno a
cuore la servitù. Gli è che allora (prosegue) vi iTera^ C ° Sa 'vi
^ ^ Persian ° e fece la Grecia def rarH mVlnC |! bl 6 “ T* ® “ mare
: ed era la fermezza (Filla 36 C 37ìT 81 asciavano corrompere e
comprare uiterr di bene ** Gr “ j .' , , 1 era un tempo
non avere fil ventre el’ ^ “7 qUa 'Ì la misura della felicità
e il ventre e 1 inguine (xig yaatpl jisxpoOvtsc xaì iole V ' l0X °
tS Tr ' v £tJ °aqtovtav) l a libertà fu bevuta alla ] zione universale,
questo continuo panegirismo ormai diventato di prammatica, non è, per C.,
se non un’universale falsificazione di coscienza, quella stessa per cui
più tardi egli osservava che i cittadini gementi sotto l’oppressione
avevano dato a Cesare colpevole dell’ orrendo parricidio della
patria il titolo di parens patriae : “ potest cuiquam esse utile
faedissimum et taeterrimum parricidium patriae, quamvis ìs, qui se eo
abstnnxerit, ab op¬ pressi civibus parens nominaretur ? ,, {De Ojf.
Ili, 83) (1). Questa situazione che fa fremere d’or¬ rore C. (2), nella
quale egli trova che non c e salute di Filippo e di Alessandro. E,
data questa vostra viltà e servilità, (dice altrove) è mutile che
speriate nella malattia o nella morte di Filippo : anche se muore,
vi creerete tosto voi stessi un altro Filippo, "ay^Éu; upet;
gxepov OIXiotvov Tìsir/ae-re (Fil.). In questo stesso luogo, volendo Cicerone
dimostrare che l'utile e il giusto non possono distinguersi, scrive
fra l'altro : « Hanc cupiditatem [quella di Cesare di voler
dominare tirannicamente la patria] si honestam quis esse dicit, amens est
; probat enim legum et libertatem mteritum, earumque oppressionem taetram
et detestabilem glonosam putat ». Come, aggiunge, può essere ciò utile
all usurpatore? Anche i re legittimi hanno avversari ; « quanto plures ei
regi putas, qui exercitu popuh romani populum ipsum romanum oppressisset
? Ricco com’era d’un pathos etico affine a quello di Kant, si intuisce
chiaramente dalle sue lettere e dai suoi scritti che egli sentiva
profondamente, come il filosofo tedesco, che il “ dovere relativo alla
dignità dell umanità in noi, e che è per conseguenza un dovere verso
noi piu posto“ non modo pudori, probitati, virtuti, rec- tis
studiis, bonis artibus, sed omnino Iibertati ac Dh - V. 16), gli
appare sopraia!,„ basata sulla menzogna e sul falso, perchè sotto 1
adesione, 1 adulazione, l’apoteosi che l’atmosfera ufficiale orma,
impone, circola larghissimamente quel malcontento e quell’esecrazione
generale verso ì distruttori dello Stato legale, che egli
constatava già precedentemente quando essi avevano iniziata tale
loro opera di demolizione (“ sumiTITJm odium omnium hominum in eos qui
tenent omnia ; mu- tationis tamen spes nulla Ad Alt. Il, 22). Questa
esecrazione generale, sotto le parvenze dell’ossequio più profondo, s’è ora
concentrata in Cesare, il quale, dopo poco tempo di dominio, ormai
in realta persino “ egenti ac perditae multiludini in odium
acerbissimum venerit. Invero, Cesare stesso sapeva d’essere odiato e di
dover esserlo, sopratutto per la posizione di superiorità e
distanza, così urtante al senso cittadinesco ro¬ mano, che egli aveva
finito per prendere : dopo la sua uccisione, Mazio racconta a Cicerone
che stess., può esprimersi in modo più o meno chiaro nei
seguent, precetti: non siate schiavi degli uomini: non permettete che ,
vostri diritti siano impunemente calpestati „ (Dottr. della Virtù). Che è, del
resto, il precetto evangelico : \ii) r £veafre SotW.c- àv&pdmwv
(1, SU V1 ’ 2 ' 3 1 t V Xeu ^ e P t( É Xptaxòs
UylCWXw!]) ^ ” 4Xlv tu r» G. Reati . Vita parallele di due
filosofi avendo dovuto una volta Cesare far fare anticamera a quest
ultimo, aveva detto : se un uomo come C. deve attendere per essere
introdotto da me e non può a piacer suo parlarmi, “ ego dubitem
quin summo in odio sim „ ? (Ad Att. XIV, 1 e 2) (I). (1) A
proposito dell’uccisione di Cesare. Vi sono molti i quali pensano che
perchè Bruto era stato « perdonato » da Cesare e poi anzi « beneficato »,
egli dirigendo « il tradimento e l’uccisione del suo benefattore », abbia
dato « perfido esempio di cuore ingrato e irreverente » (Corradi). Questa
opinione è la tipica prova della completa mancanza d’ogni senso di ciò
che è diritto. Proprio il fatto che Cesare gli aveva * perdonato »,
doveva essere per Bruto una giusta ed onesta ragione di più per
abbonirlo. Bruto aveva preso le armi contro Cesare in difesa dello
Stato legale : dunque conforme al diritto. Decidere sul suo caso,
condannarlo od assolverlo, spettava alle autorità legali (Senato), non a
un individuo. Il solo fatto che non già le leggi o le autorità legalmente
costituite, ma l’individuo Cesare, potesse a suo beneplacito interrompere
o far proseguire i processi, ordinare condanne o assoluzione,
assolvere Bruto, « perdonare » a Bruto (quasiché condannare od assolvere,
e, peggio, « perdonare », supposto si trattasse di delitto, fosse di
competenza d’un individuo, e quasiché questo stesso fatto non comprovasse
lo sfasciamento dello stato legale compiuto da Cesare) era una ragione di
più per avversare e condannare legittimamente l’uomo e il sistema,
e per ricorrere ad ogni mezzo onde liberarsene. — Che, per citare un
altro fatto, onde far ritornane Marcello dall esilio ì senatori abbiano
dovuto pregare un individuo, gettarsi ai piedi d un individuo, dell'
individuo Cesare, è un fatto che doveva legittimamente suonar condanna
per [Era, insomma, la situazione che un filologo ita¬ liano
contemporaneo descriveva di recente crn tutta esattezza così : “ La
crescente potenza di Cesare, il quale, dopo la funesta giornata di
Far- salo, erigendosi a signore assoluto, e sopprimendo la libertà
della vita politica di Roma, aveva, per primo, inaugurato la lunga e
mostruosa serie degli questo individuo, che si sovrapponeva in tal
guisa alle leggi : condanna, anche quando « perdonava », perchè
precisamente così dimostrava che dipendeva, non più dalle leggi assolvere
o condannare, ma da lui perdonare o no. Piena ragione ha Seneca quando in
un capitoletto pieno di considerazioni interessanti circa l’atto di
Bruto, dice che egli non aveva ragione di gratitudine verso Cesare,
perchè questi non aveva acquistato il diritto di fare il bene se
non violando il diritto e perchè chi non uccide non arreca un beneficio,
ma si astiene da un maleficio : in ius dandi beneficii iniuria venerai;
non enim servavit is, qui non interficit, nec, beneficiun dedit, sed
missionem » (De Benef.). Del pari piena ragione ha C., il quale, ad
Antonio, che gli rinfacciava come un benefizio usatogli di non averlo
ucciso al suo sbarco a Brindisi, rispondeva : questo è lo stesso
beneficio di cui potrebbe vantarsi un assassino per non aver ucciso
taluno : quod est aliud beneficium latronum, nisi ut commemorare possint
iis se dedisse vitam, quibus non ademerint ? » (Fil. II, C. 111). E
si noti ancora che Seneca e Lucano, vivendo entrambi alla corte di
Nerone, il quale, pure, era della casa Giulia, poterono il primo dare a
Bruto la massima delle lodi facendo dire da Marcello a sè stesso : “ tu
vive Bruto miratore contentus „ (Ad Helviam), il secondo dipingere
nel suo poema con smaglianti colori di gran¬ dezza morale “ magnanimi
pectora Bruti „ (11, 234 e s.). ] imperatori romani ; la viltà degli
adulatori, che disertavano il partito dei vinti per quello più van-
taggioso dei vincitori ; le mene degli ambiziosi, che, r er trar partito
dalle circostanze ad accumular potenza e ricchezze, pullulavano su su dal
fondo di quella corrotta società, come marcida fungaia dal fondo d’un’
acqua stagnante ; le cru¬ deltà dei prepotenti, che volevano, anche a
mezzo di violenze e di sangue, aprirsi un varco nella folla dei
concorrenti a quella specie d’albero della cuccagna ch’erano le
usurpazioni dei poteri dello Stato con le loro mille seduzioni e promesse
di dominio e di saccheggio dei beni pubblici e pri¬ vati ; il vivo
cordoglio e l’abbandono sconsolato in cui vivevano, nell’esilio
volontario o non volon¬ tario, le anime dei virtuosi e degli onesti,
fautori del partito repubblicano ; tutto insomma contribuiva a
mostrare l’immagine dell’irreparabile catastrofe... Anziché assopirsi,
cresce a dismisura nelle classi non mai dome nel loro caratteristico
orgoglio, il malcontento per il nuovo regime... La miseria intanto cresce
spaventosamente in Roma e nella provincia ; lo spettro della fame
s’aggira nelle campagne desolate e incolte dell’ Italia ; le classi
medie e il popolino sono ridotti alla miseria ed alla disperazione...
Torme di miserabili si vedono per ogni dove languire d’ozio e di fame „
(I) (1) U. Moricca, Introd. a C. De Finibus, Torino,
Chiantore,. Ora, tanto appare a Cicerone falsa e menzognera la
situazione che egli è certo che non può durare. La maschera di clemenza
di Cesare e le sue bugie circa la restaurazione finanziaria (divitiarum
in aerario „) sono cadute; è impossibile che egli e i suoi, non
d’altro capaci che di scialacquare, rie¬ scano ad amministrare
soddisfacentemente le pro- vincie e lo Stato ; cadranno da sè, per gli
errori propri, “ per se, etiam languentibus nobis ,,, “ aut per
adversarios aut ipse per se, qui quidem sibi est adversarius unus
acerrimus „ ; questa tirannide non può reggere sei mesi, “ iam intelliges
id re¬ gnimi vix semenstre esse posse. Probabilmente, ciò di
cui Cicerone avrebbe sopra¬ tutto incolpati i cesariani è che essi
cadevano in quel¬ l’errore che il Romagnosi descrive così : “ La temerità
e l’intolleranza sono i vizi che sogliono guastare questo pro¬ cedimento
[inventivo dell’ incivilimento). Si pecca di teme¬ rità allorché si
tentano innovazioni o rifiutate dalla natura o non preparate sia nei
fondamenti, sia dal tempo. Si pecca d’intolleranza allorché si vuole
seminare e racco¬ gliere ad un sol tratto, e però si passa ad infierire
con¬ tro attriti che da se stessi vanno cessando in forza della
riforma fondamentale già praticata. Siate severi nel man¬ tenere la
giustizia, e nel rimanente lasciate operare il tempo sul fondo ben
disposto. 1 vostri stimoli artificiali, le vostre correzioni minute,
invece di giovare nuociono, invece di affrettare ritardano; e se per caso
avrete un frutto precoce, ne avrete mille falliti » {Dell’ Indole e
dei Fattori dell’ Incivilimento, Avvertimento finale). Auree pa¬
role d’uno dei nostri massimi pensatori politici, che an¬ drebbero anche
oggi meditate e tenute presenti. Alle] Tale previsione di C. andò incontro
ad nna smentita colossale. Quella “ divinatio „ del¬ l’andamento
degli eventi che egli, ricavatala dallo studio e dalla pratica, aveva la
coscienza di pos¬ sedere ( 1 ), qui gli fallì del tutto. E' vero che
Cesare quali vanno accostate, sempre ad illustrazione del sentimento
politico, che, in quelle perturbate circostanze, si sprigionava vivo in C.,
le seguenti: “ guai a quel popolo, nel quale, spento il punto d’onore,
non prevalgono che poteri individuali! „ (/„,/. di Ciò. FU Giurispr.
T e ° r \. P \ 1,1 C - 1V ): nonché la sua affermazione dei diritti
dell uomo, da lui chiamati originaria padronanza naturale di ogni individuo. Quelli
che vennero appellati diritti dell'uomo formano appunto il
complesso di questa originaria padronanza. L’indipendenza, la
libertà 1 eguale inviolabilità e il diritto di difesa e di farsi
render ragione, sono tutte condizioni di questa originaria padronanza „
(Lett. a G. Valeri). Cu, quidem divinationi hoc plus confidimus,
quod ea nos mhil in his tam obscuris rebus tamque perturbatis
umquam omnmo fefellit. Dicerem, quae ante futura dixissem, ni vererer ne
ex eventis fìngere viderer. Ad Dio.Exitus, quem ego tam video animo, quam ea
quae ocuiis cemimus. Ad Dio.Tamquam ex aliqua specula prospexi
tempestatem futuram „ (Ib. IV, 3). Questa sicura previsione degli eventi,
questo sicuro presentimento, C. lo possedeva in effetto. Anche nella
circostanza suaccennata egli prevedeva giusto, preveveva cioè
quello che tutto faceva ritenere dover accadere. Se i fatti si
svolsero in senso del tutto opposto alla sua previsione, si può, in
un certo senso, dire che ebbero torto i fatti, non C. Cioè che la realtà è
irrazionale e casuale, e che mai vi tu un periodo di storia che sia stato
come quello irrazionale e casuale.] è ucciso poco dopo e probabilmente lo
fu quando e perchè divenne chiara a tutti l’impossibilità in cui
egli era di dominare la situazione, di riordinare cioè seriamente lo Stato e di
soddisfare insieme le brame dei suoi seguaci (1), cosicché Mazio — uno
dei pochi cesariani onesti, che, come risulta da una sua nobilissima
lettera (Ad T)iv. XI, 28), non aveva sfruttato Cesare vivo, e che
gli rimase fedele anche morto, e anche durante quel momento in cui,
subito dopo l’uccisione del dittatore, il cesarismo sembrava crollato e i
cesa¬ riani in pericolo — diceva, deplorandone la morte: che
catastrofe ! non c’è più rimedio ; se lui, con 1’ ingegno che aveva, non
trovava la via d’u¬ scita, (exitum non reperiebat), chi la troverà
ora ? ,, (Ad Att. XIV, I ). Ma dopo la morte di Cesare, come appunto
prevedeva Mazio le cose finirono per peggiorare rapidamente. Anche C. è costretto a
constatarlo. Il tiranno perì (egli dice) ma vive la tirannia (Ad Att.); Va
però tenuta presente anche la profondissima osservazione di Montesquieu :
« Il étoit bien difficile que Cesar pùt défendre sa vie ; la plupart des
conjurés étoient de son parti ou avaient été par lui comblés de bienfaits
: et la raison en est bien naturelle. Ils avoient trouvé de grands
avantages dans sa victoire : mais plus leur fortune devenoit meilleure,
plus ils commen 9 oient à avoir part au malheur commun : car, à un homme
qui n’ a rien, il importe peu à certains égards en quel gouvernement
il vive » (Grandeur et décadence cfr. XI). ] d siamo liberali dal re
dai regno (yìj Di,. ’ /aj' fi
marzo non consolano più come pnma (Ad AH.): " stolta L iZZ
Martmrum consolano, animis usi sumus virilibus cooubs puenbbus ; excisa
est arbor, non avulsa ^ i, fi ; e st . a ‘° Iasc,al ° vi vo in
Antonio 1 erede del regno (ih. XIV, 21); si poteva con piu
libertà parlare contra illas nefarias partes xiv r vivo che non
ucci - tó ' X V ’ 1 : lnfine crebbe meglio che Cesare
vivesse ancora “ nonnumquam Caesar desiderandus. Infatti, la situazione
era di¬ ventata quale la descrive ad Attico così • “ S ed vides
magistrati ; si quidem illi magistratus'; vides tyranni satellites m
impems ; vides eiusdem exer- cniis ; vides in latere veteranos. In
conseguenza il sistema di governo che Cicerone prevedeva non poter durare
un semestre, durò invece, continuamente aggravandosi o peggiorando
per quattordici secoli, cioè per quanto visse l’im¬ pero bizantino.
Ma la fallacia di questa previste la torio all. mente di
Cicerone. E' la fallacia propria delle menti profondamente razionali,
che hanno una fede inconcussa nella ragione ; e la mente di
Cicerone era appunto secondo la felice dennizione che ne dà Io Zielinski,
un “ Aufkà- rungsvers tand» (I). A codeste menti è impossibile
(I) O. c. P . 147. ammettere che la mostruosità, l’irrazionalità, l’assurdo
vengano a tradursi permanentemente nel fatto, si facciano solida e
stabile realtà. "Ciò è assurdo, quindi è impossibile „ ; questo è
per siffatte menti un canone assolutamente insopprimibile,
sradicando il quale essa sentirebbero di strappar le proprie
medesime radici. A cagione della stessa forza della loro compagine
razionale, è ad esse impossibile riconoscere che il fatto che una cosa
sia assurda non impedisce menomamente che essa divenga realtà e che
anzi quasi sempre nella storia umana avviene che ciò che all’ inizio la
mente scorgeva come cosa “ assurda », “ pazzesca „, implacabil¬
mente ciò non ostante si realizza. Come buon platonico C. non poteva a
meno di essere fermamente convinto che oòx eattv Sit àv xij |a£r;ov
xoótotj xaxòv TTaìfoi y) Xóyou? (juar^aag (Fed. 89 d.). Nel logos egli
aveva indefettibile fede. Egli scorgeva dietro a sè, fin dove 1 occhio
della memoria poteva giungere, soltanto governo di popolo. Questo era
per lui una conquista permanente» della civiltà, la ci¬ viltà
stessa, la civiltà che non può perire. Con tale forma di governo il suo
spirito si era immedesi¬ mato ; essa faceva parte essenziale della sua
co¬ scienza d uomo, formava il cardine su cui poggiava tutta la sua
vita spirituale. Pensare che tale [Che tale stato d'animo fosse non
solo “ cicero¬ niano „ ma “romano,,, emerge anche da ciò che l’in¬
dignazione per la caduta di quella forma di governo si formi potesse
crollare e permanentemente scom- parire, era come pensare che potesse
precipitare tutto ciò che si è sempre visto stabile, la terra, il
sistema solare, ciò che è l’incarnazione di un’e¬ terna legge della
natura. Sempre gli uomini quan- o si sono trovati in una fase di
cangiamento analoga a quella in cui si trovò Cicerone_e
tanto più quanto più la loro mente era fortemente razionale hanno
emesso la medesima errata pre¬ visione di lui ; ciò è assurdo, quindi
impossibile, quindi non può durare. prolunga sino in S. Ambrogio, in cui,
da signore romano d antica razza quale era, la romanità viveva ancora, “
Hic erat pulchemmus rerum status, nec insolescebat quisquam
perpetua potestate, nec diuturno servitio frangebatur. Nemo audebat alium
servitio premere, cuius sibi successuri in honorem mutua forent subeunda
fastidia; nemini labor gravis quem dignitas «ecutura relevaret. Sed
postquam do- mmandi libido vindicare coepit indebitas et ineptas
nolle deponere potestates... continua et diuturna potentia gignit
msolentiam. Quem invenias Hominem qui sponte deponat impenum et ducatus
sui cedat insigne, fiatqe volens nu- mero postremus ex primo ? „
{Hexameron, XV). ... osa
& nota : lo stesso errore, la stessa illusione— nobilissimo
errore ! — troviamo, come già si e rilevato, in Demostene, il dramma
della cui vita fa esattamente riscontro a quello di Cicerone. Anche
Demo- j. en „ e . p - e - ne,,a seconda Olintiaca prevedeva che la
potenza di rilippo era alla fine ; npÒQ a ùvfjv tfy.ec ~riv
teXsut^v t« «payiiax aòttji (§ 5). E questa previsione era per lui
principalmente fondata appunto sul fatto che una potenza costrutta sulla
malvagità non può durare. Oò yàp gcmv, ] Il dramma, terribile dramma,
della vita di Ci¬ cerone, è appunto questo. II dramma dell’uomo
oìjy. laxiv, u> àvopEg ’Avrjvatoi, àSixoùvta -/.al èruop- xoOvxa
xa: ^£'joÓ|ìsvov Sóvajuv j3ej3aiav XTiqaaad’at... xwv jrpà^ewv xàg
àp%à<; xxl xàg ÒTtofliaeig àX^S-sT; xa’. òtxaiag Etvai /tpcaTjxei (§
10). E nemmeno dieci anni dopo Filippo trionfava definitivamente a
Cheronea. Ad ogni momento troviamo questi pensieri nelle orazioni
di Demostene, che perciò sono cosi istruttive circa le illusioni in cui
il « razionalismo » induce gli uomini. Ma neppure la battaglia di
Cheronea guarì Demostene dal1 illusione. Plutarco narra che quando Filippo fu
assassinato, Demostene comparve nell’assemblea, raggiante,
tpatSpòg, splendidamente vestito, incoronato : con la morte
dell’uomo, secondo lui, la costruzione improvvisata ed effimera doveva
certo crollare. E quando Alessandro si fece avanti a sorreggerla Demostene
rideva di quel ragazzo imbecille, ndsioa xai |ia T txT)V (Plot., Dem. §
23). Ma la costruzione fondata sulla perfidia, e che perciò, secondo
Demostene, non poteva reggersi, sboccò invece nel trionfo
addirittura fantastico ottenuto appunto da Alessandro. Gli uomini
non possono rassegnarsi a credere che una politica malvag-a possa
ottenere un successo duraturo, che il male trionfi permanentemente. Pur
troppo, invece, è questa una pia illusione; e le cose vanno precisamente
cosi. E gli astrattisti, 1 « razionalisti », gli spiritualisti, non
sanno ricavare dal male che sotto ì loro occhi permanente trionfa,
neppure quell unico bene che vi si potrebbe ricavare : quello cioè
di essere definitivamente istrutti dell andamento assoluta- mente
arazionale, alogo, ateo, del mondo e della vita. Chiusi nel loro mondo
dei meri concetti, è a quelli e alle deduzioni da quelli che continuano a
credere, anziché aprire gli occhi ai fatti. < Sapiunt alieno ex ore
petuntque res ex auditis potius quam sensibus ipsis » (Lucr.). che
con disperazione vede rovinare intorno a sè senza possibilità di salvezza
il mondo civile di cui la sua più intima vita stessa era intessuta,
il mondo razionale e trionfare ineluttabilmente, in causa impia,
victoria etiam foedior „ ( T)e Off. 11, c. Vili), l’ingiustizia ed il
male, una forma di mondo umano impensabile assurda,,. 11 dramma
della coscienza eticamente desta che vede con orrore ciò che essa giudica
aberrazione morale e iniquità acquistare ufficialmente il carattere di
nobiltà, grandezza, elevazione, e avviarsi a restare definitivamente
sotto questo aspetto nella storia. Quando si fa a poco a poco chiaro
nella mente di C. 1 ineluttabilità dell’evento, quando egli è ormai
costretto a vedere che non c’è più speranza, a domandarsi: “ quae potest
spes esse in ea republica, in qua hominis impotentissimi (violento)
atque intemperantissimi armis oppressa sunt omnia ? „ (Ad Div. XI);
quando deve con¬ statare che “ tot tantìsque rebus urgemur, nullam
ut allevationem quisquam non stultissimus sperare debeat „ (Ad Div.), il
suo strazio non ha confini- Ciò che già precedentemente, quando
tale condizione di cose si delineava, egli cominciava a sentire,
civem mehercule non puto esse qui temporibus his ridere possit „ (Ad.
Div. II, 4), diventa ora il suo stato d’animo permanente. La vita
non ha più sorriso : “ hilaritas illa nostra erepla mihi omnis est. Il
suo grido è quello del coro degli Spiriti nel Fausi. Du hast
zerstòrt Die schòne Welt Mit màchtiger Faust ;
Sie stiirzt, sie zerfàllt ! Ein Halbgott hat sie zerschlagen !
Wir tragen Die Triimmern ins Nichts hinuber Und
kiagen Uber die verlorne Schòne. Questo dramma strappa a C. espressioni di dolore
profondamente dilacerante. E la sua corrispondenza è forse la lettura più
viva che l’antichità e probabilmente la letteratura d’ogni tempo ci
offra, appunto perchè, come in nessun altro scrit¬ to, vi si scorge con
l’immediata evidenza della vita vissuta e quasi vedessimo la cosa
svolgersi giorno per giorno sotto i nostri occhi, come sotto quel
dramma sanguini il cuore d’un uomo. Certo anche la terribilità della sua
rovina personale affligge gravemente C.: “ natus enim ad agendum
semper aliquid dignum viro, nunc non modo a- gendi rationem
nullam habeo, sed ne cogitandi quidem „ (Ad Div.) ; ed egli ha
ragione di deplorare di essere stato travolto proprio nel
momento in cui avrebbe potuto e dovuto, cogliendo il frutto dell’opera
della sua vita, toccare l’apice della sua carriera. “ Omnis me et
industriae meae fructus et fortunae perdidisse. “ Casu nescio quo
in ea tempora aetas nostra incidit, ut cum maxime florere nos oporteret,
tum vivere edam puderet. Certo anche la ro¬ vina che incombe sulla
sua famiglia e specialmente sulla sua figlia lo tortura. “ Quibus in
miseriis una est prò omnibus quod istam miseram patre, patrimonio,
fortuna omni spoliatam relinquam (Ad Att.). Ma ciò che forma il
crepacuore di Cicerone non è la sua situazione personale, bensì il
baratro in cui è precipitato lo Stato.' “ Sed tamen ipsa republica nihil
mihi est carius (Ad Dio.). Ego enim is sum, qui nihil umquam mea
potius, quam meorum ci- vium causa fecerim. Ma ora ? “ Ego vero,
qui, si loquor de re publica, quod oportet, insanus, si, quod opus est,
servus existimor, si taceo, oppressus et captus, quo dolore esse debeo ? „ (Ad Att.). Due sono sopratutto le note
in cui erompe 1 espressione di questo suo strazio. In primo luogo,
andarsene, andarsene dovunque, pur di non veder più simili cose: “
evolare cupio et aliquo pervenire ubi nec ‘Pelopidarum nomea nec facta
audiam „ egli ripete con un tragico antico (Ad Att.); “ ac mihi
quidem iam pridem venit in mentem bellum esso aliquo exire, ut ea
quae agebantur hic, quaeque dice- bantur, nec viderem nec audirem „ (Ad
‘Dio. ); “ longius etiam cogitabam ab urbe discedere, cuius iam etiam
nomen invitus audio. Tu mi sembravi pazzo (scrive a Curio) quando
abbandonasti Roma per la Grecia, ora veggo che sei “ non solum sapiens,
qui hinc absis, sed etiam beatus : quamquam quis, qui aliquid sapiat,
nunc esse beatus potest ? „ (Ad Db.). E’ il desiderio che si fa
strada persino nei suoi trattati, p. e. nelle Tusculane, dove parlando di Damarato.
Io giustifica cosi : “ num stulte anteposuit exilii libertatem domesticae
servituti ? O, se andarsene non si può, almeno ritirarsi in
solitudine : “ nunc fugientes conspectum scelerato- rum, quibus omnia
redundant, abdimus nos, quam- tum licet, et saepe soli sumus „ (De Off.).
In secondo luogo, morire. “ Perire satius est, quam hos videre „
(Jd Db.) < Mortem] quam etiam beati contemnere debebamus, prop-
terea quod nullum sensum esset habitura (I), nunc [Che cosa pensi
intimamente C. della vita futura, risulta, non già dal quadro, avente
scopi puramente estrinseci, che traccia nel Somnium Scipionis. ma
dalla sua corrispondenza Oltre il passo sopra ricordato, e due
altri, (Ad Dw.) ricordati più innanzi, basterà citare: « Fraesertim cum
impendeat, in quo non modo ^ or ,*. v erum finis etiam doloris futurus
sit » (ib. Vi, 4). E anche in altre opere di Cicerone questo suo
vero pensiero si manifesta. Cosi nelle Tusculane: Mors. aeternum nihil
sentienti receptaculum ». Cosi in Pro Marcello c Q uo d (la fine) cum
venit, omnis voluptas preterita prò mhilo est, quia postea nulla
est futura» Cosi in Pro Cluentio (cap. LXI § 171): «quid ei tamdem
almd mors eripuit, praeter sensum doloris ?] sic affecti, non modo contemnere debeamus,
sed etiam optare » ( ib. V. 21); la filosofia sembra <
exprobrare quod in ea vita maneam, in qua nihil insit, nisi propagatio
miserrimi temporis > ; non si sa < si aut hoc lucrum est aut
haec vita, superstitem reipublicae vivere >; « nam mori millies praestitit
quam haec pati > (Ad. AH.) ; « eis conficior curis, ut ipsum
quod maneam in vita, peccare me exi- stimem > (Ad Div. IV. 13); «
mortem cur con- sciscerem causa non visa est, cur optarem, multae
causae > (ib. VII, 3). In uno spirito, così pro¬ fondamente romano,
cioè volto all’attività pratica e civica, la desolazione dello Stato
faceva spun¬ tare questo pensiero : « Ipsi enim quid sumus ? aut
cum diu haec curaturi sumus ? » (jdd Att. XII, li); * quid vanitatis in
vita non dubito quin cogites > (Ad Div.). Cosi, pur nell'atto
che prevede la prossima caduta del cesarismo, dice : Allo
stesso modo la pensava Cesare, il quale nel discorso, riferito da
Sallustio, da lui tenuto in Senato circa la pena da darsi ai complici di
Catilina, si oppose alla pena di morte appunto perchè con questa cessa la
coscienza e quindi ogni male : « Eam cuncta mortalia dissolvere ;
ultra neque curae neque gaudio locum esse» (Cat. LI). Va però
notato che C. dà un’altra interpretazione a questo punto del discorso di
Cesare. Cesare cioè era contrario alla pena di morte. Egli « intelligit,
mortem a diis immortalibus non esse supplici causa constitutam, sed
aut necessitatem naturae, aut laborum ac miseriarum quietem esse » (In S.
Catilinam).] id spero vivis nobis fore ; quamquam tempus est nos de illa
perpetua iam, non de hac exigua vita cogitare » (Ad. Att.). E il pensiero
della morte come unico scampo e rifugio viene a gran¬ deggiargli
dinanzi in modo, che bene spesso lo vediamo insinuarsi anche nei suoi
scritti teorici : così, p. e., nel proemio del terzo libro del De
Oratore: sed 11 tamen rei publicae casus secuti sunt, ut mihi non erepta
L. Crasso a dis immor- talibus vita, sed donata mors esse videatur >
(IH, 2); e così nelle Tusculane : « multa mihi ipsi ad mortem
tempestiva fuerunt, quam utinam potuis- sem obire ! nihil enim iam
acquirebatur, cumu¬ lata erant officia vitae, cum fortuna bella restabant.
Morte per sè, morte per coloro che amiamo ; questo soltanto è ciò che lo
« status ipse nostrae civitatis » ci costringe a desiderare : « cum
beatissimi sint qui liberi non susceperunt, minus autem miseri qui his
temporibus amiserunt, quam si eosdem, bona, aut denique ahqua
republica, perdidissent... non, mehercule, quemquam audivi hoc
gravissimo, pestilentissimo anno adolescentulum aut puerum mortuum, qui
mihi non a Diis immorta- libus ereptus ex his miseriis atque ex
iniquissima conditione vitae videretur > (Ad Div.V. 16).
Ne solo nell animo di C. il trovarsi « in tantis tenebris et quasi
parietinis rei publicæ induce il desiderio di sfuggire a questo sfacelo
con la morte ; ma tale sentimento era certo diffuso. Nella bellissima
lettera con cui G. Renai • Vita parallele di due filosofi] Servio
Sulpicio cerca di consolare C. per la morte della figlia, 1 argomento
principale che egli fa valere e, nelle circostanze presenti, “ non
pessime cum iis esse actum, quibus sine dolore licitum est mortem cum
vita commutare „ e che Tullia visse finché visse lo Stato, “una cum
repu- blica fuisse „ (Ad Dio.) ; al che Cicerone dolorosamente
risponde che l’attività pubblica lo consolava dei dolori domestici,
l’affettuosa intimità con la famiglia delle traversie pubbliche, ma
ora “ nec eum dolorem quem a re publica capio do- mus iam consolari
potest, nec domesticum res pu¬ blica „ (ib. IV, 6). Ed anche in Catullo,
il disgusto invincibile suscitatogli dai “ turpissimorum honores „,
disgusto che faceva gemere dal suo canto C., cosi ; “ o tempora ! fore
cum du- bitet Curtius consulatum petere ? „ (Ad Att. XII, 49, e
circa Vatinio II, 9) suscita 1’ aspirazione alla morte (LII) :
Quid est, Catulle ? quid moraris emori ? Sella in curulei
struma Nomus sedet, Per consulatum peierat Vatinius ;
Quid est, Catulle ? Quid moraris emori ? Donde attinge C. qualche
conforto in questa immensa iattura ? Non dal foro che egli
(interessante confessione) dichiara di non aver mai amato e nel quale del
resto oggi non c’è più nulla da tare : “ quod me in forum vocas, eo
vocas, unde, etiam bonis meis rebus, fugiebam : quid enim mihi cum
foro, sine iudiciis, sine curia ? „ (Jld Jltt. XII, 21). Era il momento
in cui i vincitori della violenta lotta politica, giravano per Roma
baldanzosi ed allegri, e i sostenitori dello Stato legale, battuti, erano
melanconici : “ Mane salutarne domi et bonos viros multos sed tristes, et
hos laetos victores, qui me quidem perofficiose et peramenter observant „
{Ad Div.). Due di essi, anzi, Irzio e Dolabella, si erano messi a
prender lezioni d’eloquenza da lui, o forse, con questo pretesto, lo
sorvegliavano per conto di Ce¬ sare. Anche queste lezioni recano a C.
qualche sollievo {yld Di\>. IX, 18). In maggior mi¬ sura, egli ne
ricava dal far udire, quando e come era possibile, qualche parola di
ammonimento. Così, pur avendo risoluto di non più parlare in
Senato, allorché sulla universale istanza di questo, Cesare
amnistia Marcello (che non aveva fatto nessun passo per essere richiamato
e sembrava non desiderarlo e che fu, del
resto, assassinato da un suo impiegato nel momento in cui stava per partire
alla volta di Roma), C. prende la pa- (0 La voce dei gaudenti
sfruttatori di situazioni im¬ morali rinfaccia sempre a coloro che le
condannano, come un torto, di essere afflitti o melanconici. Cosi quella
voce si fa udire, secondo Seneca : c Istos tristes et superciliosos
alienae vitae censores, suae hostes, publicos paedagogos assis ne feceris
» (Ep.). ] rola per ringraziare il dittatore ; ma sa anche at¬ traverso i
ringraziamenti esporgli il parere più libero e ^coraggioso che forse mai
Cesare abbia sentito. “ Quodsi rerum tuarum immortalium (egli ha 1
ardue di significargli) hic exitus futurus fuit, ut devictis adversariis
rem publicam in eo statù relinqueres, in quo nane est, vide quaeso, ne
tua divina virtus admirationis plus sit habitura quam glonae „.
(Pro Marc. Vili). Tu devi, egli incalza, preoccuparti della vera gloria,
del giudizio che daranno i posteri sulle tue azioni, saper considerare
ciò che tu fai, non cogli occhi abbacinati dei contemporanei, ma con quelli di
coloro che giudiche¬ ranno le cose a distanza, nell’avvenire. Se tu
non avrai ristabilito la vera legalità nello Stato, tu sa¬ rai
certo sempre ricordato, ma non con giudizio concorde : “ erit inter eos
etiam, qui nascentur, sicut mter nos fuit, magna dissensio, cum alii
lau- dibus ad caelum res tuas gestas efferent, alii for- tasse
ahquid requirent, idque vel maximum, nisi belli cmlis incendium salute
patriae restinxeris, ut illud fati fuisse videatur, hoc consilii „ (ib.
IX). E questo un nobilissimo linguaggio da cittadino onesto e
d’animo forte ; linguaggio che, bisogna riconoscerlo, Cesare sa
ascoltare, come altri e ben più vivaci attacchi contro di lui, con
tolleranza ed equanimità, “civili animo,, (Svet,, Caes., 75). Anche C.
nella sua corrispondenza talvolta constata che Cesare andava orientandosi
a mitezza. P. e.:] L intolleranza, 1 oppressione, 1 uso del potere per
far tacere censure al detentore di esso, e persino per impedire di
rispondere agli attacchi, comincia con Augusto ; ed è ciò che fa uscire
Asinio Pol- lione (lo stesso, alla nascita del cui figlio il
servile Virgilio, pronto a vendersi a tutti i potenti e a
prostituire poi il suo genio a colui che tra questi occupa nella storia
per bassezza e nequizia uno degli “ nam et ipse, qui plurimum
potest, quotidie mihi delabi ad acquitatem et ad rerum naturam videtur „
Ad Dio. VI, 10!, Che cosi fosse (ed è la stessa cosa che accadde
con Augusto) è naturale, perchè, se un uomo non è straordinariamente perverso,
il suo grande successo e trionfo personale lo rende incline alla
benevolenza verso gli altri, a diffondere anche intorno il sentimento di
felicità che il successo gli dà. Solo un uomo dal cuore fondamentalmente
malvagio nel suo più pieno e grandioso trionfo, quando ogni cosa gli va a
seconda, diventa sempre più duro e crudele, e non è pago se non condisce
quel trionfo col darsi la sensazione di poter a suo beneplacito tormentare,
perseguitare, far soffrire altri uomini. Tale era Siila, secondo le
parole che Sallustio mette in bocca ad Emilio Lepido : “ Cuncta saevus
iste Romulus, quasi ab externis rapta, tenet, non tot exercituum clade
neque consuhs et aliorum principum, quos fortuna belli consumpse- rat,
satiatus : sed tum crudelior, curri plerosque secundae res in
miserationem ex ira vertunt „ (Hist. Fragni.). Raramente, si, ma però talvolta
avviene che un uomo, favorito dalia più straordinaria fortuna, diventi sempre
più bramoso di far del male agli altri. “ Felicitas in tali ingenio
avaritiam, superbiam ceteraque occulta mala pate- fecit „ (Tac., Hist.] Itimi
posti, Ottavio, dedica la sconciamente cortigiana e piagg.atr.ee Egloga)
nell’elegante epigramma, riportato da Macrobio (Satura II 4) che
non si può più scrivere dove in risposti si può proscrivere : temporibus
triumviralibus PoIIio cuna fescenmnos ,n eum Augustus scripsisset,
ait: g taceo ; non est emm facile in eum scribere qui potest
proscribere (2) Più ampio conforto ricavò C. dagli studi,
bbene una volta fuggevolmente accenni che forse senza la sua cultura
sarebbe più atto a resistale! exculto emm animo nihil agreste, nihil
inhuma- Si vegga nel libro diV. Alfieri D»/ p • , » I J1 '> e la dimostrazione che questa
viltà ha in Virg.ho guastato l’arte. “Quella parte divTna e ha per
base il vero robusto pensare e sentire tm-,1 niente manca in VIRGILIO (si
eda) „ (L.) “ V -esse avuto nell’animo quella P napesco,
assai maggiore sarebbe stato egli stesso e quindi assai maggiore il suo
libro „ (L. II C VI • vegga anche il C. Vili) E il Canti 1 . Ci j ;• , C S ‘ uh. ed. I. 582 n
94.«V- r ÌU '. Sorla de S^ Italiani, V l D < ’ VIRGILIO (si veda) si lascia traricchire anche
Boissier, Lopposition sous tes Césars p. I3Ì” RnU 1 j- qUe f°, . t
epigramma ’ senza citare la fonte il Les e Rom P - r0ba . b,,mente
a memor ia, la seguente versione: Les Komains disaient avec raison qu’ il
est rare mi’ num est „. (Ad Alt.) ; e sopratutto dallo studio della
filosofìa, la passione per la eguale '’quo- tidie ita ingravescit, credo
et aetatis maturitate ad prudentiam et his temporum vitiis, ut nulla res
alia levare animum molestiis possit. „ (Ad Dio. IV, 4). Le sue
lettere di questo periodo sono piene delle sue attestazioni che non vive
se non negli studi filosofici e non trae conforto che da essi. Ad
aumentare questo conforto, ad aiutarlo a stornare il pensiero dalle
calamita dello Stato, s aggiunge la sua attività di scrittore. Sono questi gli
anni della sua intensa e feconda produzione filosofica. Nisi mihi
hoc venisset in mente, scribere ita nescio quae, quo verterem me non
haberem „ (Jld Alt.) Equidem credibile non est, quantum scribam die, quin
etiam noctibus, nihil enim sommi. “ Nullo enim alio modo a miseria quasi
aberrare possum. Vero è che le afflizioni e le ìnquietitudmi, I
incertezza dell’avvenire, derivanti dal pessimo andamento degli affari
pubblici, non permettono piena pace nemmeno nello studio : Utinam quietis
temporibus, atque aliquo, si non bono, at saltem certo statu civitatis,
haec inter nos studia exercere possemus ! „ Però, appunto in tali
circostanze, “ sine his cur vivere ve- limus ? „ (Ad Dio. IX, 8). Così
nascono i trat¬ tati di filosofia di Cicerone, circa i quali si
cita sempre per aiutare a deprezzarli la fuggevole frase “ sono
copie „ cascatagli dalla penna scrivendo al suo amico e certo come
convenzionale espressioni t Xlì Vf fr ° nte j 1Iammiraz ' on e di
lui (Ad X ’ ’ ma 51 dimentica di affrontare tale fra e con le sue
numerose e consuete esternaziom dalle quali risulta che ben altra era la
stima ch’egli off" 3 de ‘ pr0pr ;. scrltti ' “ Res difficiles
„ (ib. XII 38) egli dice di star scrivendo ; quanto alle Jìc-
G Q rto -5 C ° nVInt ,° “ U ‘, Ìn f3lÌ 8 enere ne aVud , cos quidem
simile quidquam „ - le chiama “ argutolos libros „ ^ XIli.Y 8
,00^ XIII 19? ac n ra ? posset supra ” r/4. ); 1 libri del De
Oratore gli sono “ ve - hementer probati (ib.) e così il De Finibus
ib ?AJ ÀI XvT i , soddisfa Attico bl v ’ im7 e M) e
l0ra,OT L'P'a (M AA- ( ’ 8 ^ eSpnme anehe ,a sua Propria soddisfazione
per queste due opere ; » mihi vakle pbcent, maHem tibi dice dei
libri, perduti d! Giona (Ad Ali XVI, 2). In particolare, i| e sua
opere filosofiche le Tusculane, che facilmente si prendono per un mero
esercizio letterario, sono invece un libro profondamente vissuto,
rampollato da a tragica realtà di vita i„ cui C." si di¬
batteva e che come tale, come idoneo cioè a for¬ nir conforto e forza in
quelle circostanze doveva essere generalmente sentito, e certo da Attico
se Cicerone gl, scrive : “ quod prima disputatio Tuscu ana te confirmat,
sane gaudeo : neque enim ndhim est perfugium aut melius aut paratius
,, (XV, 2 e v. anche XV, 4). Bel libro, che in ogni epoca, nelle
medesime circostanze da cui esso è nato, è servito allo scopo per cui era
stato scritto : “die Eroica der romischen Philosophie „ come con
calzante espressione lo definisce lo Zielinski. Ma il supremo conforto di
Cicerone è un altro. Esso consiste non tanto nell’ immergersi
nella filosofia come un’occupazione mentale opportuna a distornare
il pensiero da quello che poi Lucano, il grande poeta anticesariano,
definirà “ ius sceleri datum, quanto nel rivivere in sè i con¬
cetti della filosofia come atti a fornire forza d'animo per affrontare e
sopportare le sciagure derivanti da una situazione politica e sociale
particolarmente triste : filosofia cioè non come “ostentationem scientiae, sed
legem vitae „ ( Tusc.). Anche in lui, per usare l’espressione di cui poi
si servì Marco Aurelio zi 5 óypaia. Giustissimamente Moricca. Saremmo
forse anche noi tentati di ritenere l’operetta tulliana un’amplificazione
rettorica, se non pensassimo che quelle parole... furono scritte per una
generazione d’uomini... nelle cui orecchie esse... andavano diritte al cuore
„. Un libro di morale dell’epoca di Cicerone è da considerarsi non come
una fredda e vuota argomentazione rettorica bensi come un’eco squillante
delle voci del pas¬ sato, che sale dalle tombe e vince i secoli. Secondo
il testo di Trannoy, Les Belles Lettres. bisogno di vivere tali precetti
A' i ,• . ventar succo e sangue e il f T l d ‘ faHl dl gere a ciò,
Cicerone Lnl f" 0 S ° rZ ° per 8 iun ' maniera singola,«sima,
scnVoSo^v"' 0 i'I “ na consolazione a se stesso “ D • Un ^ ro
dl profecto anfe me TeZ. ^Z 'T consolarer ; que m librum jf . me
per i‘ tera s serint librari; affirmo tibi^nuLm” 3 " 1 S
‘,^'P' esso talem ; totos die® U c °nsolationem quid, sed t
n^sper 1 C ; ,b ° 5 T“ qU ° proflci ™ XII 14) p t,sper im P e dior,
relaxor „ (Ad 4tt « 'a ll'Tlzr ™ di r'* d«„e
meditazioni morali!^ e8mam0 le Mslre '4«fr-r v lLStó et,r°d servire
4 stoicismo, di cui poi in ,CaZI ° ne Pra ' ÌCa de,, ° e d
oppressivi, uomm Lme° Tm "p" ^ tehi vid.o Prisco
fornirono ° Peto ed EI ’ e che successivamente si anc ° Ta p ‘ù
insigni, .1 hiosofo :z :L: r , ai ^ cristiano, il
sacerdnie • ’ p ° SCIa> n el mondo c„i i,Tat'„ e ' „x:; a ” d f
« molti tenevano costantemente in d m ° nre ’ anZI rettoredi
coscienza e confortatore, iHoro ZofoOX .(I) Plauto, fatto morire
da Neron» • mi istanti assistito e confortato dai “ / V ‘ ene " ei
3U0 ' u,tl Cerano e Musonio (Tac., Ann. XwTv)), Trlse^’’] O Socrates et
socratici viri ! (esclama Cice¬ rone, qui, veramente riguardo a traversie
di carattere privato). Numquam vobis gratiam referam Un immortales quam m
ihi ista prò nihilo,, (Ad Alt. XIV, 9). Attico (egli scrive al suo
liberto e segretario Tirone) mi vide agitato, crede che sia sem¬ pre lo
stesso, “nec videt quibus presidii philosophiae septus sim „ (Ad Div.).
La disperata e rovinosa condizione dello Stato “ quidem ego non
ferrem nisi me in philosophiae portum con- tulissem „ (ib. VII, 30). “
Equidem et haec et omnia quae homini accidere possunt sic fero ut
philosophiae magnam habeam gratiam, quae me non modo ab sollecitudine
abducit, sed etiam con- tra omnes fortunae impetus armat, tibique
idem censeo faciendum, nec, a quo culpa absit, quid- quam m malis
numerandum „ (Ad Di\>. XII, 23) E noi vediamo veramente questo
pensiero centrale dello stoicismo, cioè lo sforzo di distornare il
proprio interesse da ogni cosa esteriore per concentrarlo unicamente nel nostro
comportamento, e m ciò trovare appagamento e pace (questo, come si
può chiamare, ottimismo della disperazione, che e il solo che resta nei
momenti di maggiormente infelici condizioni esterne, perchè vuole
appunto, riconoscendo tale inguaribile infelicità, trovare an-
Demetrio: e Seneca dice di Cano. dato al supplizio da Caligola, “
prosequebatur illuni Losophus suus „ (De Tranq. An.). man-
phi- ] cora una tavola di salvezza), vediamo questo pen¬ siero
centrale dello stoicismo svelarsi sempre più chiaro agli occhi di
Cicerone e proprio come po¬ stogli innanzi delle circostanze di fatto. “
Sic enim sentio, id demum, aut potius id solum esse mi- serum quod
turpe est „ (Ad Att. Vili, 8 e v. anche X, 4). “ Video philosophis
placuisse iis qui mihi soli videntur vim virtutis tenere, nihil
esse sapientis praestare nisi culpam „ (Jld Dio. IX, 19). Cogliamo
il procedere di questa appassionante tra¬ gedia, per cui un uomo di
indole ilare e disposto a gioire delle cose, degli spettacoli naturali,
del- I arte, della letteratura, delle relazioni sociali, del- I
attività pubblica e anche della ricchezza, è, a poco a poco, dal rovinio
politico, risospinto entro se stesso e costretto a vedere e cercare la
feli¬ cita soltanto nel proprio retto comportarsi. Le meditazioni
filosofiche (scrive a Varrone) ci recano ora maggior frutto “ sive quia nulla
nunc in re alia acquiescimus, sive quod gravitas morbi tacit, ut
medicmae egeamus eaque nunc appareat, cuius vim non sentiebamus cum
valebamus (Ad r i0 ’ IX> 3 \ Naturalmente con questo alto sen¬
timento a cui Cicerone è ora pervenuto, il pensiero della morte, qui fonte
anchesso di consola¬ zione e forza, viene a intrecciarsi. “ Nunc
vero, eversis omnibus rebus, una ratio videtur, quicquid e veni t
ferre moderate praeserlim cum omnium rerum mors sit extremum... magna enim
consolatio est cum recordere etiamsi secus acciderit te tamen recta vereque
sensisse (Ad Div.). “ Nec enim dum ero angar alia re, cum omni vacem
culpa ; et si non ero, sensu omnino carebo „ (ib. VI, 3) Il crollo
dello Stato è cosa gravissima, “ tamen ita viximus et id aetatis iam
sumus, ut omnia quae non nostra culpa nobis accident, fortiter ferre
de- beamus „ (Jld Div. VI, 20). E tali pensieri, tali alti ed
austeri conforti ed incoraggiamenti, i grandi spiriti di quel periodo
si scambiavano tra di loro, prova, sia di quanto il dolore per la
catastrofe dello stato era largamente sentito, sia dell’estensione che a
lenimento di questo dolore siffatto ordine di pensieri allora
aveva preso. È la genuina visuale stoica a cui i nefasti avvenimenti
politici ha tutti guidati. Non aliundo pendere, nec extrinsecus aut bene aut
male vivendi suspensas habere rationes (Ad Div.). Se Cicerone ad ogni momento
ripete di sè quidquid acciderit, a quo mea culpa absit, animo forti feram
(Ad Div.), nec esse ullum magnum malum praeter culpam. Sed tamen vacare
culpa magnum est solatium. Se per sè pensa -- fortunato, quam existimo
levem et imbecillam, animo firmo et gravi, tamquam fluctum a saxo
frangi oportere. Se l’esperienza di quella dolorosissima fase lo fa
approdare alla definitiva conclusione che -- in omni vita sua quemque a
recta conscientia transversum unguem non oportet discedere (Ad Att.) —
queste sono amici, « a Lucccio7“'“ 8 “ 1
humanas contemnentem et opule Cont r 7 c„ g „„ vi „ {Ad0 7
casu, et deiicto h Z ,n non aP r l “ 1U,piludi ”' non veri „ (ih V
|7) ’ M a i ° rum ln,una commo- Pme.;/ cu,pl'ai picca,tT'° ; "
“ÌJ digni et Ss TstrrdublteTo; ea maxime conducant ! P ° SSimus
’ V. 19 ) : e a Torquato ‘ ‘ f T Tectl8s (A. praesertim quae absit a
ancora a Torauato “ P ) e
delio Stato) vereor ne I ^ n 3 ' (,a rovina teperiri, praete, i||
am q “ a TtaMa"e“ “ P °7 “r: e, atque noTZIt,»
questi sentimenti ogni IralToìtTd' !“l “ 7 ° a anch’egli aveva
bisogno ’’No|!\e oh 7 ? scrive Sulpicio in morte di Tullia)
Cicerón 1 et eum aui a Ine ' '-' ,cer
°nem esse 9 ' 3l,,S COnsuer,s Praecpere et dare con-
Ili silium quae alns praecipere soles, ea tute tibi subirne,
atque apud animum propone; vidimus ali- quotiens secundam pulcherrime te
ferre fortunam fac ahquando intelligamus adversam quoque té aeque
ferre posse. Dalle lettere di Cicerone si potrebbe così ricavare un antologia
di massime di vita stoica da servire efficacemente in ogni tempo al
ripresenarsi di analoghe circostanze (e tale è forse sopratutto la ragione per
cui queste lettere suscitarono in ogni tempo I ammirazione, anzi il culto
di nobili animi), pm efficacemente ancora che non i suoi trattati, come
le Tusculane e il De Officiis, ove egli dava sistemazione teorica alle
medesime idee 1 qual, però appunto perchè non contengono se’ non quelle
dee morali che, suscitate in Cicerone dalle vicende di ogni giorno,
riempiono la sua cor¬ rispondenza, ci si ridimostrano, non mere
eserci¬ tazioni letterarie, ma anzi libri cresciuti su dalla vita
vera e scritti col sangue che le ferite inferte da questa facevano
stillare dal suo cuore. « Herzenphilosophen > chiama giustamente C. lo] Plutarco
racconta (Oc 49) che un giorno OTTAVIANO essendosi accorto che un suo nipote
scorgendolo nascondeva impaurito un libro sotto la oga, glielo prese, e
visto che era di Cicerone ne lesse un tratto, poi lo reshtui al ragazzo,
dicendo • uomo dotto e amante della patria, Xó r ,o : *vl' ?. «rat,
io T ,o £ *«l Tardo (come al so’ hto) riconoscimento del meriti di
colui che egli ave¬ va raggirato, tradito, abbandonato al carnefice
Ma Cicerone e qualcosa di più. Spirito altissimo e st'anzetn
m n “'T'? 1 "” da »! le circo- ero \ „ j " 6 r 1 ' **' vivere,
espres. sero, m ragione di tale sua sensibilità, una soma
d dolore enorme, egli seppe da questa esperienza d, dolore trarre
un-espenenza morale di elevazione e di purificazione del dolore
stesso nel fuoco della filosofia intesa come via, di cui molti e b
dTrendl' ' aPaC '' QUeS '° * P a,ll “ la "”ente ciò che rende
appassionatamente attraente la sua grande figura alla quale
veramenle-secondo un penTero che trova eco sino m Giovenale (Vili,
243)-e Roma' ltf !a " “ u la 8erva arl “lazione lo dava
Sr p a,t a , a, ' ebl> ' a,hibl,Ì, ° N di ' P ad Sed Roma
parentem, Roma patrem patriae Ciceronem libera
dixit. Platone Cicerone Ultime pubblicazioni dello
stesso Autore Pesco Piente Fu , un [Mi|an0i
CogliariJ. f? Ap ° r ' e Jella R'Hgiont [Catania, - Etna 1 Motwl
Spirituali Platonici [Milano, Gilardi e Noto] nSTT, d ' W Jr aZl0nalim0
|N«poli. Guida], Materialismo C„„ c0 [R om ., CaS a Pagine di Diario
: Scheggio [Rieti, Biblioteca Editr.J, Cicute [Todi,
Atanórj. Impronte [Genova, Libt. Ed. Italia] Sguardi [Roma.
La Laziale], Scolli [Torino, Montes, 1934],
Imminenti : Critica deir Amore e del Lavoro [Catania.
Critica della Morale [Catania, “ Etna ..Etna. Cicerone. Keywords: Marc’Antonio,
untranslatable, signans/signatum, signans, signatum. Cicerone, Cicero = Tully.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Cicerone” – The Swimming-Pool Library.
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