Grice e Ciliberto: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale del principe -- il suo
principato– scuola di Napoli – filosofia napoletana – filosofia campanese. filosofia
italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo napoletano.
Filosofo campanese. Filosofo italiano. Napoli, Campania. Grice: “I like
Cilberto; he philosophised on Machiavelli – in an interesting way: confronting
his ‘reason’ with the ‘irrational’; myself, I have not explored the irrational,
too much – but I suppose Strawson might implicate that everything I say ON
reason is an implicature on the irrational – Ciliberto uses the vernacular for
the ‘irratinal,’ to wit: pazzia!” – Uno dei massimi esperti del pensiero di BRUNO
(si veda). Si
laurea a Firenze sotto GARIN (si veda) con “MACHIAVELLO (si veda)”. “Lessico
Intellettuale Europeo”. Insegna a Trieste, Pisa. Istituto di Studi sul
Rinascimento, Firenze. Presidente di I. R. I. S. A. Associazione di Biblioteche
Storico-Artistiche e Umanistiche di Firenze. Lince. Al centro della sua
filosofia sono tre problemi: il rinascimento con speciale attenzione a Bruno e
Machiavelli, la ‘tradizione’ no-analitica, no-continntale, ma la ‘tradizione
italiana’ (Gramsci, Croce, Gentile, Cantimori, Garin); e la filosofia politica
e in maniera specifica la crisi della democrazia rappresentativa. Altre
opere: “Il rinascimento. Storia di un dibattito” (Firenze, La Nuova Italia); “Intellettuali
e fascismo” (Bari, De Donato); “Lessico di Bruno” (Roma, Edizioni dell'Ateneo
& Bizzarri); “Come lavora Gramsci. Varianti vichiane, Livorno); “Filosofia
e politica nel Novecento italiano. Da Labriola a «Società», Bari, De Donato); “La
ruota del tempo. Interpretazione di Bruno, Roma, Editori Riuniti); Bruno,
Roma-Bari, Laterza); Bruno, Roma-Bari, Laterza); “Umbra profunda” (Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura); “Implicatura in chiaroscuro” Roma, Edizioni
di Storia e Letteratura); “Il dialogo recitato” “Preliminari a una nuova
edizione del Bruno volgare, Firenze, Olschki); “La morte di Atteone”(Roma,
Edizioni di Storia e Letteratura); “I contrari”; “Disincanto e utopia nel
Rinascimento” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “Il teatro della vita”
(Milano, Mondadori); “Il laico” “Il libero” dell'Italia moderna, Roma-Bari,
Laterza); “Democrazia dispotica” – etimologia di dispotismo – (Roma-Bari,
Laterza); “Intellettuale nel Novecento, Roma-Bari, Laterza), “Parola, immagine,
concetto” (Edizioni della Normale, Pisa); “Croce e Gentile” “La cultura
italiana e l'Europa, (direzione) Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani,.
Rinascimento, Pisa, Edizioni della Normale; Il nuovo Umanesimo, neo-classicismo,
neo-umanesimo”, classicism, neo-classicismo come ironia” (Roma-Bari, Laterza);
“Pazzia e ragione” (Roma-Bari, Laterza); “Il sapiente furore” (Collana gli
Adelphi, Milano, Adelphi) C., Lessico di BRUNO (si veda). Preludio a
MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda) Mre a dh e im h ol Un TT “‘i 0
annunciato da Imola dalle legioni
chiavelli ‘Tri T n J | d0n ° d ‘- Una Spada COn inciso U motto di Ma
’ 1 Cum parole non si mantengono li Stati”. Ciò troncò gli
ndugi e determino senz altro la scelta del tema che oggi sottopongo ?
0tre !, chi 7 an ?f l0 Commento dell’anno 1924 Il Principe di MACHIAVELLO
MACHIAVELLI (si veda), al libro che io vorrei cHamare Vade
ZldlZtfìl U °™° dt g0 u m0 * Debbo inoltre ' P er debito di °nestà
Slfia ’ a . 8glU f? e ? e cbe ? uesto mio Wo ha una scarsa biblio-
ftreTdJI VCdra “3 r 8UÌt0 f H ° rilett ° attentame nte il Principe
loe7olnf »Z P ? e dd 8rande S , e8r f tari °’ ma mi è mancat0 tem -
po e voionta per leggere tutto ciò che si è scritto in Italia e nel
Ma chiavelli.Ho voluto mettere il minor numero possi- velh ^ mt0rmedlari vecchl
e nn °vi, italiani e stranieri, tra il Machia- dottrin, e’l^ non .8
uastare la di contatto diretta fra la sua dottrina e la mia vita vissuta,
fra le sue e le mie osservazioni di n0mmi , e f° Se ’ 3 SU f C k
mia pratica di governo. Quella che mi )t0 ,\ le Z 8e ™ no « f quindi una
fredda dissertazione scolastica irta di citaziom altrui, è piuttosto un
dramma, se può considerarsi come io credo, m un certo senso drammatico il
tentativo di gettare NorL d te^fo: abisso deUe genera2ioni ° ^
cveuti La domanda si pone: a quattro secoli di distanza che cosa
c’è an- cora di vivo nel Prmcipe? I consigli di MACHIAVELLI potrebbero
ave- * Da “Gerarchia”, I ,i
. •>\fruzione del regime i. iniit
t|ualsiasi utilità anche per i reggitori degli Stati moderni? II tl.iic
del sistema politico del Principe è circoscritto all’epoca in >
111 1 11 scritto il saggio, quindi necessariamente limitato e in parte
> I.luco, o non è invece universale e attuale? Specialmente
attuale? I i inin tesi risponde a queste domande. Io affermo che la
dottrina • li MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda) è viva oggi piu di
quattro secoli fa, poiché se gli nnpctti esteriori della nostra vita sono
grandemente cangiati, non si h« i(io vcrificate profonde varia^ioni nello
spirito degli individui e dei itopoli. ln politica è l’arte di governare
gli uomini, cioè di orientare, uti- li znre, educare le loro passioni, i
loro egoismi, i loro interessi in < nin di scopi d’ordine generale che
trascendono quasi sempre la i'iin individuale perché si proiettano nel
futuro, se questa è la poli- lioi, non v’è dubbio che l’elemento
fondamentale di essa arte, è l’iiomo. Di qui bisogna partire. Che cosa
sono gli uomini nel siste- inn politico di Machiavelli? Che cosa pensa
Machiavelli degli uominl? E egli ottimista o pessimista? E dicendo “uomini”
dobbiamo Inlcrpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè
degli Ilnliani che Machiavelli conosceva e pesava come suoi
contempora- nci o nel senso degli uomini al di là del tempo e dello
spazio o pcr dirla in gergo acquisito “sotto la specie della eternità”? Mi
pare ilic prima di procedere a un piu analitico esame del sistema di
po- lllica machiavellica, così come ci appare condensato nel
Principe, oecorra esattamente stabilire quale concetto avesse Machiavelli
degli uomini in genere e, forse, degli italiani in particolare. Orbene,
t|iicl che risulta manifesto, anche da una superficiale lettura del
Vrincipe, è l’acuto pessimismo del Machiavelli nei confronti della nntura
umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di continuo e vasto
commercio coi propri simili, Machiavelli è uno Kpregiatore degli uomini e
ama presentarceli, come verrò fra poco documentando, nei loro aspetti piu
negativi e mortificanti. (,li uomini, secondo Machiavelli, sono
tristi, piu affezionati alle cose chc al loro stesso sangue, pronti a
cambiare sentimenti e passioni. Nel Principe, Machiavelli così si
esprime: perrché delli uomini si può dire questo generalmente: che siano
ingrati, volubili .imulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno
e mentre fai loro bene, ->uno tutti tuoi, offerenti il sangue, la
roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi, .piando el bisogno è
discosto, ma quando ti si appressa, e’ si rivoltano... E quel
l>rincipe che si è tutto fondato sulle parole loro, trovandosi nudo di altre
prepa- rn/ioni, rovina. Li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che
si faccia mnnre, che uno che si faccia temere, perché l’Amore è tenuto da
uno vincolo di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni
occasione di propria utilità (• rotto, ma il timore è tenuto da una paura
di pena che non abbandona mai. Per quanto concerne gli egoismi umani,
trovo fra le Carte varie quanto segue. Gli uomini si dolgono piu di un
podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro
morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La
ragione ò pronta; perche ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno
fratello non può risuscitare, ma e’ può bene riavere il suo podere. E al
capitolo terzo dei Discorsi. Come dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere
civile e come ne è prenia di esempii ogni storia, è necessario a chi
dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli
uomini essere cattivi e che li abbiano sempre a usare la malignità
dell’animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione. Gli uomini non
operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e
che vi può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusione e di
disordine. Le citazioni potrebbero continuare, ma non è necessario. I brani
riportati sono sufficienti per dimostrare cbe il giudizio negativo su-
gli uomini, non è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È
in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di
questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire
tutti i successivi sviluppi dei pensiero di Machiavelli. È anche evidente
che il Machiavelli, giudicando come giudicava gl’uomini, non si riferiva
soltanto a quelli del suo tempo, ai fiorentini ma agl’uomini senza limitazione
di spazio e di tempi tempo ne e passato, ma se mi fosse lecito giudicare i
miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare
il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non
si illude e non illude il Principe. L’antitesi fra Principe e POPOLO, fra
STATO e individuo è nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu
chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce
logicamente da questa posizione iniziale. La parola “principe” deve intendersi
come STATO. Nel concetto di Machiavelli il principe è lo stato. Mentre gl’individui
tendono, sospinti dai loro egoismi, all’atonismo sociale, LO STATO
rappresenta una organizzazione e una limitazione. L’individuo tende a evadere
continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a
non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi [nelle parole di
Urmson – H. P. Grice] — che sacrificano il proprio io sull’altare dello STATO.
Tutti gl’altri sono in istato di rivolta potenziale contro LO STATO. Le
rivoluzioni hanno tentato di risolvere questo dissidio che è alla base di
ogni organizzazione sociale statale, facendo sorgere il potere come hii.i enianazione della libera volontà del POPOLO.
C’è una finzione .• tma illusione di piu. Prima di tutto IL POPOLO non è
mai definito. I una entità meramente astratta, come entità
politica. Non si sa iltivc cominci esattamente, né dove finisca.
L’aggettivo di “sovrano” applicato a “popolo” è una tragica burla. II POPOLO
tutto al piu, DELEGA, ma non può certo ESERCITARE SOVRANITÀ alcuna. I sistemi “rapprenntativi”
appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove
questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore
solenni in cui non si domanda piu nulla al POPOLO, perché si sente che la
risposta sarebbe fatale; gli si strappnno le corone cartacee della sovranità —
buone per i tempi normali — e gli si ordina senz’altro o di accettare una rivoluzione
o una pace o di marciare verso l’ignoto di una guerra. Al POPOLO
non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete
che la sovranità elargita graziosamente al POPOLO gli viene sottratta
nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno. Gli viene lasciata
solo quando è innocua o è reputata tale, cioè nei momenti di
ordinaria ainministrazione. Vi immaginate voi una guerra proclamata per
referendum? II referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il
luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio. Ma quando gl’interessi
supremi di un POPOLO sono in giuoco, anche i governi ultra-democratici si
guardano bene dal rimetterli al giudizio del POPOLO stesso. V’è dunque
immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati dall’Enciclopedia
— che pecca, attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo —
il dissidio fra forza organizzata dello STATO e il frammentarismo dei
singoli e dei gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai
esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima del
mio oramai famoso articolo “Forza e consenso”, Machiavelli scrive nel
Principe. Di qui nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati
ruinarono. Perché la natura dei popoli è varia ed è facile persuadere loro
una cosa, ma è difficile fermarli in quella persuasione. E però
conviene essere ordinato in modo, che quando non credono piu si possa far
credere loro per forza. Moise, Ciro, Teseo, ROMOLO non avrebbero potuto
fare osservare lungamente le loro costituzioni, se fussino stati
disarmati. IL SINGOLARE SAGGIO SU MACHIAVELLI DI MUSSOLINI. "PRELUDIO"
DI MUSSOLINI POI "FORZA E CONSENSO" + NOTA DE SANCTIS POI UN
ARTICOLO SU MACHIAVELLI DI FUSARO CON UN ARTICOLO – Pellegrino. Mangieri
ED INFINE ANCHE IL TESTO INTEGRALE DE "IL
PRINCIPE" PREMESSA: Nell'Europa dei secc. XVI e XVII è
strettamente connessa con alcuni nodi centrali della storia del pensiero
politico. A parte una serie di revisioni critiche dei giudizi tradizionali
fatti da dotti fiorentini nel periodo del granduca Leopoldo, un grosso
contributo del movimento riformatore e una rivalutazione del grande fiorentino,
lo si deve a G.M. Galanti, autore di un "Elogio di MACHIAVELLI".
Galanti fa propria quell'interpretazione repubblicana di Machiavelli che già
era stata consacrata nell'articolo "machiavelisme"
dell'"Encyclopededie" (scritto attribuito a Diderot) e nel
"Contratto sociale" di Rousseau ("Fingendo di dare lezioni ai
re, egli ne ha date di importanti ai popoli. Il Principe di Machiavelli è il
libro dei repubblicani"). Nè fu da meno il Foscolo con i suoi famosi versi
in "Dei sepolcri". Contro questa interpretazione Vincenzo
Cuoco, con trasparente riferimento alle condizioni dell'Italia napoleonica,
mise in luce il realismo politico di Machiavelli, che aveva indicato in una
monarchia o Stato forte, l'unica prospettiva di superamento delle lotte tra i
partiti. Fuori dall'Italia, Fichte e Hegel interpretavano le tesi
machiavelliche come risposta a una particolare situazione storica e, al tempo
stesso, vedevano nell'autore del Principe un precursore dello stato etico che
doveva godere di lunga fortuna nello storicismo tedesco. In Italia
nell'età risorgimentale l'interpretazione continuò a oscillare tra la condanna
dell'"immoralità" di Machiavelli e la sua "esaltazione"
come profeta della riscossa nazionale. Il superamento di tali posizioni
si possono considerare le pagine appassionate di Sanctis (saggio che fra breve
riporteremo qui integralmente - e che come diremo più avanti fu poi molto
(pretestuosamente) utile a Mussolini - leggendolo capiremo perchè). A De
Sanctis, Machiavelli appariva non solo come il profeta dell'idea di nazione ma
come "fondatore dei tempi moderni", come interprete lucido e
impietoso della crisi degli istituti e delle concezioni medievali, e autore di
una rivoluzione copernicana nelle considerazioni dell'uomo, che "ha in
terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi". Poi anche per Benedetto
Croce scrisse che l'autore del Principe è lo scopritore della politica come
attività autonoma dello spirito. Entrammo poi nel
"Ventennio" fascista e qui una facile strumentalizzazione di
Machiavelli e del suo mito fu fatta da Mussolini che prima un suo articolo lo
scrive su "Gerarchia", poi cura a prefazione (che chiama
"PRELUDIO") di una edizione del Principe, adornandola
opportunisticamente con il saggio - citato sopra – di Sanctis). In queste
pagine su MACHIAVELLI, è piuttosto singolare che per fornire una comprensione
al machiavellismo, andiamo a scomodare MUSSOLINI. Ma singolare non lo è
affatto, perchè riusciremo a capire meglio l'opera di Machiavelli ma anche lo
stesso Mussolini e il suo Fascismo. In queste tre paginette del preludio, c'è
tutto il Mussolini, e c'è anche tutta l'essenza del suo fascismo. Ovvero l'idea
di una educazione del POPOLO a un nuovo fascismo !! (prima ve ne sono molti di “fasci”,
creati dai socialisti violenti, che incitano a ribellarsi con i vari scioperi i
lavoratori e i contadini). Il curioso, raro e singolare libretto che possediamo
lo riportiamo integralmente, perchè all'interno Mussolini fa alcune singolari
affermazioni (tutte fascistiche) sulla dubbia validità del potere esercitato
dalla "sovranità POPOLARE", e sulla stessa utopica "democrazia POPOLARE".
Per Mussolini il Principe del suo tempo è LO STATO. E LO STATO è il Principe,
cioè - nei tempi moderni - che dopo aver preso il potere doveva essere Lui e
solo Lui. (Siamo lontani da quando prima come anarchico poi come socialista -
lui esalta il proletariato come futura classe dominante, e fa l'apologia della
rivoluzione violenta indicata dalla dottrina di Hegel che presenta nella sua
teoria la "morte dello Stato.” E nell'organizzare gli scioperi, lui è un
vero e proprio fascista socialista violento, così chiamano fin dai primi fasci
i socialisti violenti. ( ampie note di quei tempi sono QUI in Togliatti E nel
farli gli scioperi Mussolini, prima della 1ma G.M. anche lui era un violento
socialista, e anda più volte anche in galera come sovversivo. Poi
improvvisamente lui diventa inter-ventista nei confronti dei suoi ex socialisti
che come ANTI-inter-ventisti si opponeno a quella guerra che diceno voluta
dalla più becera borghesia con nessun vataggio per IL POPOLO ANALFABETO
chiamato SOLO A DARE IL SUO SANGUE. Segue la famosa rottura di Mussolini con i
suoi ex socialisti, uscendo dal giornale "Avanti" che dirige – ed è
poi perfino cacciato dal partito socialista. Poi durante e dopo la guerra
- soprattutto per come finisce il conflitto per l'Italia - lui va a fondare i
suoi "fasci", cercando di riunire tutti gli scontenti, gli ex
soldati, i lavoratori e anche una certa nuova borghesia, che ora guardano a lui
che mira a un socialismo sociale e non a quell' eterno conflitto sviluppatisi
fra operai e industriali -- soprattutto nelle sciagurate Settimane Rosse. Dove
o per i loro scioperi, o per le serrate degli industriali, a pagare sono gl’operai
sempre più a spasso, ovviamente senza stipendi e a fare la fame. "La
sovranità, al popolo - afferma Mussolini - gli viene lasciata tutto al più solo
quando è innocua -- es. quando deve scegliere il luogo dove collocare la
fontana del villaggio. Mentre quando gl’interessi supremi sono in gioco, anche
i governi ultra-democratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del
popolo. La sovranità applicata al popolo é una loro tragica burla. Il popolo
tutto al più delega, ma non può certo esercitare sovranità alcuna. Mussolini
inizia a guardare proprio alla forza, che prima è usata dagl’inconcludenti
socialisti, proseguita poi in peggio anche dai nuovi comunisti. Ci vediamo in
questo suo preludio su Machivelli un opportunistico utilizzo di Mussolini del principe;
e come detto sopra, appoggiandosi pure al saggio Sanctis. Abbiamo detto “utilizzo”,
perchè Machiavelli è stato l'uomo che ha intuito una nuova forma di filosofia
umana che supera la concezione dell'individuo per inserirlo nella collettività,
nello STATO, il quale così diventa uno Stato etico. È evidente quindi che in tal
modo lo Stato non può che far appello alla rinuncia del singolo individuo al
proprio utile per l'utile generale dello stato, concezione questa che viene a
giustificare tutti i mezzi utili allo Stato stesso -- es. "usare la
forza" -- dando origine a quel mito
del "machiavellismo" che è stato via via da alcuni esaltato, mentre
da altri ritenuto infamante appunto per questo suo voler annullare la
personalità del singolo uomo. Insomma Mussolini fa del Principe il suo
vademecum. Sbagliando però. La sua storia è poi infatti molto diversa. Lui
stesso - nel fidarsi troppo di quella gente che lo circonda - finì molto male e
sbaglia proprio sul POPOLO, che alcune volte nella storia con la sua vituperata
irrazionalità "fa quello che vuole". E suona dunque privo d’effetto
quel volerci ricordare Mussolini una massima di Machiavelli. Quando non credono
più, bisogna ricorrere alla forza. È questo sì l'espediente del suo Fascismo,
forse fin dalla sua nascita, ma poi è perdente. Perchè la sua forza inizia a
farla con i suoi imbelli gerarchi e a dire lui solo tante parole, parole,
parole, seguite da riti, proclami, dottrine, vangeli -- oltre ...le
pagliacciate di STARACES. Lui - in questo Preludio - cita due frasi di
Machiavelli, ma non ne sa coglierne l'essenza. Cum parole non si mantengono li
Stati. Quel Principe che si é tutto fondato sulle parole, trovandosi nudo,
rovina --- che profezia!!! E Mussolini nudo si ritrova prima in quel famoso 25
luglio. Lui si aspetta una reazione al suo arresto. Ma fu una realtà molto
amara. Ma come, dice preoccupato, mi hanno abbandonato anche i 150.000 arditi, di
assoluta provata fede? Si, eccellenza, tutti uccel di bosco - anzi i loro
comandanti hanno telefonato a Badoglio mettendosi e mettendoli a sua disposizione.
Lo aveva abbandonato perfino suo genero: CIANO. Ma poi - perso per strada anche
gli altri "amici", andò ancora peggio il 27 aprile del '45, quando il
popolo (o una parte di esso, irrazionalmente) nel fare "quello che
voleva" lo appese a un distributore a Piazzale Loreto. "Non
sono affatto abnormi e inutili tutti i comportamenti umani che non hanno una
razionalità.. E per fortuna che ogni tanto nella grande storia dell'umanità ci
sono anche queste contraddizioni. E sono del resto queste che ci distinguono
dagli animali e soprattutto dal capo branco che - illudendosi - li vorrebbe
guidare come belanti pecore". "I meccanismi politico-sociali ed
economici realistici degli Uomini, non sono uguali a quelli delle formiche,
perchè altrimenti si vaneggia, e non si conoscono bene nè le formiche nè gli
uomini. "L'individuo umano ha sempre rappresentato un costoso
investimento di studio e di cultura, ma giacchè è possibile al potente di turno
disfarsi dell'enorme vantaggio dell'istruzione e servirsi di altro materiale
per organizzare lo "Stato" delle formiche, questo dio che si crede
onnipotente, si rende responsabile di una degradazione della natura stessa
dell'uomo e che se un essere umano è condannato a svolgere le funzioni limitate
della formica, non soltanto cesserà di essere un uomo ma non sara' neppure una
buona formica". E ancora ("non sempre nell'asservimento (l'azione),
la retroazione è controllabile"). Questo non è il ragionamento di un
filosofo, ma del Padre della Cibernetica moderna (Teorie dell'informazione):
Norbert Wiener - Mussolini usò tante parole. "Ma quale
fortuna (Mussolini) se alle virtù oratorie avesse accompagnato la civile
prudenza machiavellica !!!. Ma non dimentichiamo anche il grande Napoleone:
"qual fortuna per lui se alle virtù militari avesse accompagnata la civil
prudenza machiavellica" Paradossalmente proprio su Napoleone,
Mussolini aveva dato un impietoso giudizio: "lui fallì miseramente perchè
aveva creduto troppo negli uomini". Solo lui credeva di aver capito
gli uomini, credendolo "suo il popolo": "devono solo Credere,
Obbedire, Combattere". e "Quando mancasse il consenso, c'è la
forza" ..."Per tutti i provvedimenti anche i più duri che il Governo
prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo dilemma: o accettarli per alto
spirito di patriottismo o subirli". (Disc. Risposta al Ministero delle
Finanze, 7 marzo 1923 - S. e D., vol III, pag 82 E pensare che un Mussolini più
razionale aveva scritto un giorno "Io grande? Io forte? Io potente? basta
un titolo su un giornale e ti ritrovi nella polvere". A Piazzale Loreto
andò peggio! Fu un cattivo profeta di se stesso. * ecco qui sotto
il "preludio" di Mussolini * subito dopo il saggio di F. De Sanctis
(datato ma ancora molto attuale) * seguono alcune note sulla vita, le opere e
il contesto storico di Machiavelli. Mussolini: " Accadde che
un giorno mi fu annunciato da Imola - dalle legioni nere di Imola - il dono di
una spada con inciso il motto di Machiavelli "Cum parole non si mantengono
li Stati". Ciò troncò gli indugi e determinò senz'altro la scelta del tema
che oggi sottopongo ai vostri suffragi. Potrei chiamarlo un "Commento
dell'anno 1924, al «Principe» di Machiavelli, al libro che io vorrei chiamare:
Vademecum per l'uomo di governo". Debbo inoltre, per debito di onestà
intellettuale, aggiungere che questo mio lavoro ha una scarsa bibliografia,
come si vedrà in seguito. Ho riletto attentamente il Principe e il resto delle
opere del grande Segretario, ma mi è mancato tempo e volontà per leggere tutto
ciò che si è scritto in Italia e nel mondo su Machiavelli. Ho voluto mettere il
minor numero possibile di intermediari vecchi o nuovi, italiani e stranieri,
tra il Machiavelli e me, per non guastare la presa di contatto diretta fra la
sua dottrina e la mia vita vissuta, fra le sue e le mie osservazioni di uomini
e cose, fra la sua e la mia pratica di governo. Quella che mi onoro
di leggervi non é quindi una fredda dissertazione scolastica, irta di citazioni
altrui, é piuttosto un dramma, se può considerarsi, come io credo, in un certo
senso drammatico il tentativo di gettare il ponte dello spirito sull'abisso
delle generazioni e degli eventi. Non dirò nulla di nuovo. La domanda si
pone: A quattro secoli di distanza che cosa c'è ancora di vivo nel Principe? I
consigli del Machiavelli potrebbero avere una qualsiasi utilità anche per i
reggitori degli Stati moderni? Il valore del sistema politico del Principe é
circoscritto all'epoca in cui fu scritto il volume, quindi necessariamente
limitato e in parte caduco, o non é invece universale e attuale? Specialmente
attuale? La mia tesi risponde a queste domande. Io affermo che la dottrina di
Machiavelli é viva oggi più di quattro secoli fa, poiché se gli aspetti
esteriori della nostra vita sono grandemente cangiati, non si sono verificate
profonde le variazioni nello spirito degli individui e dei popoli. Se la
politica é l'arte di governare gli uomini, cioè di orientare, utilizzare,
educare le loro passioni, i loro egoismi, i loro interessi in vista di scopi
d'ordine generale che trascendono quasi sempre la vita individuale perché si
proiettano nel futuro, se questa è la politica, non v'è dubbio che l'elemento
fondamentale di essa arte, é l'uomo. Di qui bisogna partire. Che cosa
sono gli uomini nel sistema politico di Machiavelli? Che cosa pensa Machiavelli
degli uomini? È egli ottimista o pessimista? E dicendo «uomini » dobbiamo
interpretare la parola nel senso ristretto degli uomini, cioè degli italiani
che Machiavelli conosceva e pensava come suoi contemporanei o nel senso degli
uomini al di là del tempo e dello spazio o per dirla in gergo acquisito
"sotto la specie della eternità" ? Mi pare che prima di
procedere a un più analitico esame del sistema di politica machiavellica, così
come ci appare condensato nel Principe, occorra esattamente stabilire quale
concetto avesse Machiavelli degli uomini in genere e, forse, degli italiani in
particolare. Orbene, quel che risulta manifesto, anche da una
superficiale lettura del Principe, é l'acuto pessimismo del Machiavelli nei
confronti della natura umana. Come tutti coloro che hanno avuto occasione di
continuo e vasto commercio coi propri simili, Machiavelli é uno spregiatore
degli uomini e ama presentarceli - come verrò fra poco documentando - nei loro
aspetti più negativi e mortificanti. Gli uomini, secondo Machiavelli,
sono tristi, più affezionati alle cose che al loro stesso sangue, pronti a
cambiare sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del Principe, Machiavelli così
si esprime: "Perchè delli uomini si può dire questo generalmente: che
siano ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di guadagno
e mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il sangue, la roba, la vita,
i figlioli, come di sopra dissi quando el bisogno é discosto, ma quando ti si
appressa, e' (essi) si rivoltano... E quel principe che si é tutto fondato
sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini
hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che si faccia
temere, perché l'Amore é tenuto da un vincolo di obbligo, il quale per essere
li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità é rotto, ma il timore é
tenuto da una paura di pena che non abbandona mai". Per quanto concerne
gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue: "Gli uomini si
dolgono più di un podere che sia loro tolto, che di uno fratello o padre che
fosse loro morto, perché la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La
ragione é pronta, perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato, uno fratello
non può risuscitare, ma e' (egli) può bene riavere il suo podere".
E al Capitolo III dei Discorsi: "Come dimostrano tutti coloro che
ragionano del vivere civile e come ne é prenia di esempi ogni storia, é
necessario a chi dispone una Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre
tutti gli uomini essere cattivi e che li abbino sempre a usare la malignità
dell'animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli uomini non
operano mai nulla bene se non per necessità, ma dove la libertà abbonda e che vi
può essere licenzia si riempie subito ogni cosa di confusioni e di disordine ».
Le citazioni potrebbero continuare, ma !ion é necessario. I brani riportati
sono sufficienti per dimostrare che il giudizio negativo sugli uomini, non è
incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È in tutte le sue
opere. Rappresenta una meritata e sconsolata convinzione. Di questo punto
iniziale ed essenziale bisogna tener conto, per seguire tutti i successivi
sviluppi del pensiero di Machiavelli. E' anche evidente che il
Machiavelli, giudicando come giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a
quelli del suo tempo, ai fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo
fra il XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza limitazione di spazio e di
tempo. Di tempo ne é passato, ma se mi fosse lecito giudicare i miei simili e
contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare il giudizio di
Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli non si illude e
non illude il Principe. L'antitesi fra Principe e popolo, fra Stato e individuo
é nel concetto di Machiavelli fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo,
pragmatismo, cinismo machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione
iniziale. La parola Principe deve intendersi come Stato. Nel concetto
di Machiavelli il Principe é lo Stato. Mentre gli individui tendono, sospinti
dai loro egoismi, all'atonismo sociale, lo Stato rappresenta una organizzazione
e una limitazione. L'individuo tende a evadere continuamente. Tende a
disubbidire alle leggi, a non pagare i tributi, a non fare la guerra.
Pochi sono coloro -eroi o santi - che sacrificano il proprio io
sull'altare dello Stato. Tutti gli altri sono in istato di rivolta potenziale
contro lo Stato. Le Rivoluzioni dei secoli XVII eXVIII hanno tentato di
risolvere questo dissidio che é alla base di ogni organizzazione sociale
statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera volontà del
popolo. C'é una finzione e una illusione di più. Prima di tutto il popolo
non fu mai definito. E' una entità meramente astratta, come entità politica.
Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca. L'aggettivo di sovrano
applicato al popolo é una tragica burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non
può certo esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappresentativi
appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei paesi dove questi
meccanismi sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui
non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe
fatale; gli si strappano le corone cartacce delle sovranità - buone per i tempi
normali - e gli si ordina senz'altro o di accettare una Rivoluzione o una pace
o di marciare verso l'ignoto di una guerra. Al popolo non resta che
un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita
graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe
sentirne il bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o é reputata
tale, cioè nei momenti diordinaria amministrazione. Vi immaginate
voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si
tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del
villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in gioco, anche i
governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo
stesso. V'è dunque immanente, anche nei regimi quali ci sono stati confezionati
dalla Enciclopedia - che peccava, attraverso Rousseau, di un eccesso
incommensurabile di ottimismo - il dissidio fra forza organizzata dello Stato e
frammentarismo dei singoli e dei gruppi. Regimi esclusivamente
consensuali non sono mai esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente
mai. Ben prima del mio ormai famoso articolo "Forza e consenso"
(vedi subito sotto) Machiavelli scriveva nel Principe, pagina 32: "Di qui
nacque che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono. Perché la
natura dei popoli é varia ed é facile persuadere loro una cosa, ma é difficile
fermarli in quella persuasione. E però conviene essere ordinato in modo, che
quando non credono più, si possa far credere loro per forza. Moise, Ciro,
Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare lungamente le loro
costituzioni, se lussino (fossero) stati disarmati". POCHI MESI PRIMA
DI QUESTO ARTICOLO SU MACHIAVELLI E SEMPRE SU "GERARCHIA" MUSSOLINI
NEL '23 L'ARTICOLO "FORZA E CONSENSO" E MERITA DI LEGGERE ANCHE
QUESTO ACCENNO CHE LUI FA SU MACHIAVELLI Mussolini, da Gerarchia. Forza
e consenso. Certo liberalismo italiano, che si ritiene unico depositario degli
autentici, immortali principi, rassomiglia straordinariamente al socialismo
mezzo defunto, poiché anche esso, come quest'ultimo, crede di possedere
"scientificamente" una verità indiscutibile, buona per tutti i tempi,
luoghi e situazioni. Qui é l'assurdo. Il liberalismo non é l'ultima parola, non
rappresenta la definitiva formula, in tema di arte di governo. Non c'è in
quest'arte difficile e delicata, che lavora la piú refrattaria delle materie e
in stato di movimento, poiché lavora sui vivi e non sui morti; non c'è
nell'arte politica l'unità aristotelica del tempo, del luogo,
dell'azione. Gli uomini sono stati piú o meno fortunatamente
governati, in mille modi diversi. Il liberalismo é il portato e il metodo del
XIX secolo, che non é stupido, come opina Daudet, poiché non ci sono secoli
stupidi o secoli intelligenti, ma ci sono intelligenza e stupidità alternata,
in maggiori o minori proporzioni, in ogni secolo. Non é detto che il
liberalismo, metodo di governo, buono per il secolo XIX, per un secolo, cioè,
dominato da due fenomeni essenziali come lo sviluppo del capitalismo e
l'affermarsi del sentimento di nazionalità, debba necessariamente essere adatto
al secolo XX, che si annuncia già con caratteri assai diversi da quelli che
individuarono il secolo precedente. Il fatto vale piú del libro; l'esperienza
piú della dottrina. Ora le piú grandi esperienze del dopoguerra, quelle
che sono in stato di movimento sotto i nostri occhi, segnano la sconfitta del
liberalismo. In Russia e in Italia si é dimostrato che si può governare al di
fuori, al disopra e contro tutta la ideologia liberale. Il comunismo e il
fascismo sono al di fuori del liberalismo. Ma insomma, in che cosa
consiste questo liberalismo per il quale piú o meno obliquamente si infiammano
oggi tutti i nemici del fascismo? Significa il Liberalismo suffragio universale
e generi affini? Significa tenere aperta in permanenza la Camera, perché offra
l'indecente spettacolo che aveva sollevato la nausea generale? Significa in
nome della libertà lasciare ai pochi la libertà di uccidere la libertà di
tutti? Significa fare largo a coloro che dichiarano la loro ostilità allo
Stato e lavorano attivamente per demolirlo? E' questo il
liberalismo? Ebbene, se questo è il liberalismo, esso é una teoria e una
pratica di abiezione e di rovina. La libertà non é un fine; è un mezzo. Come
mezzo deve essere controllato e dominato. Qui cade il discorso
della "forza". I signori liberali sono pregati di dirmi se mai nella
storia vi fu governo che si basasse esclusivamente sul consenso dei popoli e
rinunciasse a qualsiasi impiego della forza. Un governo siffatto non c'è mai
stato, non ci sarà mai. Il consenso é mutevole come le formazioni della sabbia
in riva al mare. Non ci può essere sempre. Né mai può essere totale. Nessun
governo é mai esistito che abbia reso felici tutti i suoi governati. Qualunque
soluzione vi accada di dare a qualsiasi problema, voi - e foste anche partecipi
della saggezza divina! - creerete inevitabilmente una categoria di malcontenti.
Se finora non c'è arrivata la geometria, la politica meno ancora é riuscita a
quadrare il circolo. Posto come assiomatico che qualsiasi
provvedimento di governo crea dei malcontenti, come eviterete che questo
malcontento dilaghi e costituisca un pericolo per la solidità dello Stato? Lo
eviterete colla forza. Coll'impiegare questa forza, inesorabilmente, quando si
renda necessario. Togliete a un Governo qualsiasi la forza - e si intende forza
fisica, forza armata - e lasciategli soltanto i suoi immortali principi, e quel
Governo sarà alla mercé del primo gruppo organizzato e deciso ad
abbatterlo. Ora il fascismo getta al macero queste teorie antivitali.
Quando un gruppo o un partito é al potere, esso ha l'obbligo di fortificarvisi
e di difendersi contro tutti. La verità palese oramai agli occhi di chiunque
non li abbia bendati dal dogmatismo, é che gli uomini sono forse stanchi di
libertà. Ne hanno fatto un'orgia. La libertà non é oggi piú la vergine
casta e severa per la quale combatterono e morirono le generazioni della prima
metà del secolo scorso. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si
affacciano al crepuscolo mattinale della nuova storia ci sono altre parole che
esercitano un fascino molto maggiore, e sono: ordine, gerarchia, disciplina.
Questo povero liberalismo italiano, che va gemendo e battagliando per una
piú grande libertà, è singolarmente in ritardo. È completamente al di fuori di
ogni comprensione e possibilità. Si parla di semi che ritroveranno la
primavera. Facezie! Certi semi muoiono sotto la coltre invernale.
Il fascismo, che non ha temuto di chiamarsi reazionario quando molti dei
liberali odierni erano proni davanti alla bestia trionfante, non ha oggi
ritegno alcuno di dichiararsi illiberale e antiliberale. Il fascismo non cade
vittima di certi trucchi dozzinali. Si sappia dunque, una volta per
tutte, che il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è già passato e,
se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul corpo piú o meno
decomposto della Dea Libertà". Benito Mussolini, da Gerarchia. SAGGIO
DI DESANCTIS CHE MUSSOLINI VOLLE INCLUDERE scrivendo la nuova edizione de
"IL PRINCIPE" Testo integrale originale (che è comunque un
ottimo saggio, proprio utile per capire il ns. passato) DE SANCTIS:
"Dicesi che Machiavelli fosse in Roma quando, il 1515, uscì in luce
l'Orlando furioso. Lodò il poema, ma non celò il suo dispiacere di essere
dimenticato dall'Ariosto nella lunga lista, ch'egli stese nell'ultimo canto,
dei poeti italiani. Questi due grandi uomini, che dovevano rappresentare il
secolo nella sua doppia faccia, ancorchè contemporanei e conoscenti, sembrano
ignoti l'uno all'altro. Niccolò Machiavelli, ne' suoi tratti apparenti, è una
fisionomia essenzialmente fiorentina ed ha molta somiglianza con Lorenzo de'
Medici. Era un piacevolone, che se la spassava ben volentieri tra le
confraternite e le liete brigate, verseggiando e motteggiando, con quello
spirito arguto e beffardo che vede nel Boccaccio e nel Sacchetti e nel Pulce e
in Lorenzo e nel Berni. Poco agiato nei beni della fortuna, nel
corso ordinario delle cose sarebbe riuscito un letterato fra i tanti
stipendiati a Roma o a Firenze, e dello stesso stampo. Ma, caduti i Medici,
restaurata la repubblica e nominato segretario, ebbe parte principalissima
nelle pubbliche faccende, esercitò molte legazioni in Italia e fuori,
acquistando esperienza degli uomini e delle cose, e si affezionò alla
repubblica, per la quale non gli parve molto il sostenere le torture, poiché
tornarono i Medici. In quegli uffici e in quelle lotte si raffermò le sue
tempra e si formò il suo spirito. Tolto alle pubbliche faccende, nel suo ozio
di San Casciano meditò sui fati dell'antica Roma e sulle sorti di Firenze, anzi
d'Italia. Ebbe chiarissimo il concetto che l'Italia non potesse mentenere le
sue indipendenza se non fosse unita, tutta o gran parte, sotto un solo
principe. E sperò che casa Medici, potente a Roma e a Firenze, volesse pigliare
l'imprese. Sperò pure che volesse accettare i suoi servigi e trarlo di ozio e
di miserie. All'ultimo, poco e male adoperato dei Medici, finì la vita
tristemente, lasciando non altra eredità ai figliuoli che il nome. Di lui fu
scritto: "Tanto nomini nullum par elogium". I suoi Decennali,
arida cronaca delle « fatiche d'Italia di dieci anni », scritte in quindici dì;
i suoi otto capitoli dell'Asino d'oro, sotto nome di bestie satira dei degeneri
fiorentini; gli altri suoi capitoli dell'Occasione, delle Fortuna,
dell'Ingratitudine, dell'Ambizione; i suoi canti carnascialeschi, alcune sue
stanze, o serenate, o sonetti, o canzoni, sono lavori letterari sui quali è
impressa le fisionomia di quel tempo: alcuni tra il licenzioso e il beffardo,
altri allegorici o sentenziosi, sempre aridi. Il verso rasenta le prose; il
colorito è sobrio e spesso monco; scarse e comuni sono le immagini. Ma in
questo fondo comune e sgraziato appaiono le vestigie di un nuovo essere, una
profondità insolita di giudizio e di osservazione. Manca l'immaginativa:
sovrabbonda lo spirito. C è il critico: non c è il poeta, non c è l'uomo nello
stato di spontaneità che compone e fantastica, come era Ludovico Ariosto. C è
l'uomo che si osserva anche soffrendo, e sentenzia sulle sorti sue e
dell'universo con tranquillità filosofica: il suo poetare è un discorrere: Io spero,
e lo sperar cresce il tormento; io piango, e il pianger ciba il lasso
core; io rido, e il rider mio non passa drento; io ardo, e l'arsion non
par di fuore; io temo ciò ch'io veggo e ciò ch'io sento; ogni cosa
mi dà nuovo dolore: così sperando piango, rido e ardo, e paura ho
di ciò ch'i' odo o guardo. Tali sono pure le sue osservazioni sul variare delle
cose mondane nel capitolo della Fortuna. Delle sue poesie cosa è rimasto?
Qualche verso ingegnoso, come nei Decennali: la voce d'un Cappon tra cento
Galli, .....e qualche sentenza o concetto profondo, come nel canto De' diavoli
o de' romiti. Il suo capolavoro è il capitolo dell'Occasione, massime la
chiusa, che ti colpisce d'improvviso e ti fa pensoso. Nel poeta si sente la
scrittore del Principe e dei Discorsi. Anche in prosa Machiavelli ebbe
pretensioni letterarie, secondo le idee che correvano in quella età. Talora si
mette la giornea e boccacceggia, come nelle sue prediche alle confraternite,
nella descrizione della peste e ne' discorsi che mette in bocca ai suoi
personaggi storici. Vedi ad esempio il suo incontro con una donna in chiesa al
tempo della peste, dove abbondano i lenocini della retorica e gli artifici
dello stile; ciò che si chiamava "eleganza". Ma nel Principe, nei
Discorsi, nelle lettere, nelle Relazioni, nei Dialoghi sulla milizia, nelle
Storie, Machiavelli scrive come gli viene, tutto inteso alle cose, e con l'aria
di chi reputi indegno della sua gravità correre appresso alle parole e ai'
periodi. Dove non pensò alla forma riuscì maestro della forma. E senza cercarla
trovò la prosa italiana. E' visibile in Niccolò Machiavelli lo spirito
incredulo e beffardo di Lorenzo, impresso sulla fronte della borghesia italiana
in quel tempo. E aver pure quel senso pratico, quella intelligenza degli uomini
e delle cose, che rese Lorenzo eminente fra i principi, e che troviamo
generalmente negli statisti italiani a Venezia, a Firenze, a Roma, a Milano, a
Napoli, quando viveva Ferdinando d'Aragona, Alessandro sesto, Ludovico il moro,
e gli ambasciatori veneziani scrivevano ritratti così vivi e sagaci delle corti
presso le quali dimoravano. C' era l'arte: mancava la scienza. Lorenzo era
l'artista: Machiavelli doveva essere il critico. Firenze era ancora il cuore
d'Italia: lì c' erano ancora i lineamenti di un popolo, c' era l'immagine della
patria. La libertà non voleva ancora morire. L'idea ghibellina e guelfa era
spenta, ma c' era invece l'idea repubblicana alla romana, effetto della coltura
classica, che, fortificata dall'amore tradizionale del viver libero e dalle
memorie gloriose del passato, resisteva ai Medici. L'uso della libertà e le
lotte politiche mantenevano salda la tempra dell'animo, e rendevano possibile
Savonarola, Capponi, Michelangelo, Ferruccio e l'immortale resistenza agli
eserciti papali-imperiali. L'indipendenza e la gloria della patria e l'amore
della libertà erano forze morali, tra quella corruzione medicea rese ancora più
acute e vivaci dal contrasto. Machiavelli, per la sua coltura letteraria, per
la vita licenziosa, per lo spirito beffardo e motteggevole e comico, si lega al
Boccaccio, a Lorenzo e a tutta la nuova letteratura. Non crede a nessuna
religione, e perciò le accetta tutte, e, magnificando la morale in astratto, vi
passa sopra nella pratica della vita. Ma ha l'animo fortemente temprato e
rinvigorito negli uffici e nelle lotte politiche, aguzzato negli ozi ingrati e
solitari. E la sua coscienza non è vuota. C è lì dentro la libertà e
l'indipendenza della patria. Il suo ingegno superiore e pratico non gli
consentiva le illusioni, e lo teneva ne' limiti del possibile. E quando vide
perduta la libertà, pensò all'indipendenza e cercò negli stessi Medici lo
strumento della salvezza. Certo, anche questa era un'utopia o una illusione,
un'ultima tavola alla quale si afferra il misero nell'inevitabile naufragio; ma
un'utopia che rivelava la forza e la giovinezza della sua anima e la vivacità
della sua fede. Se Francesco Guicciardini vide più giusto e con più
esatto sentimento delle condizioni d'Italia, è che la sua coscienza era già
vuota e petrificata. L'immagine del Machiavelli è giunta ai posteri simpatica e
circondata di una aureola poetica per la forte tempra e la sincerità del
patriottismo e l'elevatezza del linguaggio, e per quella sua aria di virilità e
di dignità fra tanta folla di letterati venderecci. La sua influenza non fu
pari al suo merito. Era tenuto uomo di penna e di tavolino, come si direbbe
oggi, più che uomo di Stato e di azione. E la sua povertà, la vita scorretta,
le "abitudini plebee e fuori della regola", come gli rimproverava il
correttissimo Guicciardini, non gli aumentavano reputazione. Consapevole della
sua grandezza, disprezzava quelle esteriorità delle forme e quei mezzi
artificiali di farsi via nel mondo, che sono sì familiari e sì facili ai
mediocri. Ma la sua influenza è stata grandissima nella posterità, e la sua
fama si è ita sempre ingrandendo tra gli odii degli uni e le glorificazioni
degli altri. Il suo nome è rimasto la bandiera intorno alla quale hanno
battagliato le nuove generazioni, nel loro contraddittorio movimento ora
indietro ora innanzi. C è un piccolo libro del Machiavelli, tradotto in tutte
le lingue, il Principe, che ha gettato nell'ombra le altre sue opere. L'autore
è stato giudicato da questo libro, e questo libro è stato giudicato non nel suo
valore logico e scientifico, ma nel suo valore morale. E hanno trovato che
questo libro è un codice della tirannia, fondato sulla turpe massima che il
fine giustifica i mezzi e il successo loda l'opera. E hanno chiamato
"machiavellismo" questa dottrina. Molte difese si sono fatte di
questo libro, ingegnosissime, attribuendosi all'autore questa o quella
intenzione più o meno lodevole. Così n'è uscita una discussione limitata e un
Machiavelli rimpiccinito. Questa critica non è che una pedanteria. Ed è
anche una meschinità porre la grandezza di quell'uomo nella sua utopia italica,
oggi cosa reale. Noi vogliamo costruire tutta intera l'immagine, e cercarvi i
fondamenti della sua grandezza. Niccolò Machiavelli è innanzi tutto la
coscienza chiara e seria di tutto quel movimento, che, nella sua spontaneità,
dal Petrarca e dal Boccaccio si stende sino alla seconda metà del Cinquecento.
In lui comincia veramente la prosa, cioè a dire la coscienza e la riflessione
della vita. Anche lui è in mezzo a quel movimento, e vi piglia parte, ne ha le
passioni e le tendenze. Ma, passato il momento dell'azione, ridotto in
solitudine, pensoso sopra i volumi di Livio e di Tacito, ha la forza di
staccarsi dalla sua società e interrogarla: - Cosa sei? dove vai? -
L'Italia aveva ancora il suo orgoglio tradizionale, e guardava l'Europa con
l'occhio di Dante e del Petrarca, giudicando barbare tutte le nazioni oltre le
Alpi. Il suo modello era il mondo greco e romano, che si studiava di
assimilarsi. Sovrastava per coltura, per industrie, per ricchezze, per opere
d'arti e d'ingegno: teneva senza contrasto il primato intellettivo in
Europa. Grave fu lo sgomento negl'italiani quando ebbero gli
stranieri in casa; ma vi si abituarono e trescarono con quelli, confidando di
cacciarli via tutti con la superiorità dell'ingegno. Spettacolo pieno di
ammaestramento è vedere, tra lanzi, svizzeri, tedeschi e francesi e spagnoli,
l'alto e spensierato riso di letterati, artisti, latinisti, novellieri e
buffoni nelle eleganti corti italiane. Fin nei campi i sonettisti assediavano i
principi: Giovanni de' Medici cadeva tra i lazzi di Pietro Aretino. Gli
stranieri guardavano attoniti le meraviglie di Firenze, di Venezia, di Roma e
tanti miracoli dell'ingegno; e i loro principi regalavano e corteggiavano i
letterati, che con la stessa indifferenza celebravano Francesco primo e Carlo
quinto. L'Italia era inchinata e studiata dai suoi devastatori, come la Grecia
fu dai romani. Fra tanto fiore di civiltà e in tanta apparenza di forza e
di grandezza mise lo sguardo acuto Niccolò Machiavelli, e vide la malattia dove
altri vedevano la più prospera salute. Quello che oggi diciamo « decadenza »
egli disse « corruttela », e base di tutte le sue speculazioni fu questo fatto:
la corruttela della razza italiana, anzi latina, e la sanità della germanica.
La forma più grossolana di questa corruttela era la licenza de' costumi e del
linguaggio, massime nel clero: corruttela che già destò l'ira di Dante e di
Caterina, ed ora messa in mostra nei dipinti e negli scritti, penetrata in
tutte le classi della società e in tutte le forme della letteratura, divenuta
come una salsa piccante che dava sapore alla vita. La licenza,
accompagnata con l'empietà e l'incredulità, aveva a suo principal centro la
corte romana, protagonisti Alessandro sesto e Leone decimo. Fu la vista di
quella corte che infiammò le ire di Savonarola e stimolò alla separazione
Lutero e i suoi concittadini. Nondimeno il clero per abito tradizionale
tuonava dal pergamo contro quella licenza. Il Vangelo rimaneva sempre un ideale
non contrastato, salvo a non tenerne alcun conto nella vita pratica: il
pensiero non era più la parola, e la parola non era più l'azione; non c'era
armonia nella vita. In questa disarmonia era il principale motivo comico del
Boccaccio e degli altri scrittori di commedie, di novelle e di capitoli. Nessun
italiano, parlando in astratto, poteva trovar lodevole quella licenza, ai cui
allettamenti pur non sapeva resistere. Altra era la teoria, altra la pratica. E
nessuno poteva , non desiderare una riforma de' costumi, una restaurazione
della coscienza. Sentimenti e desideri vani, affogati nel rumore di quei
baccanali. Non c' era il tempo di piegarsi in sé, di considerare la vita
seriamente. Pure erano sentimenti e desideri che più tardi fruttificarono e
agevolarono l'opera del concilio di Trento e la reazione cattolica.
Rifare il medioevo e ottenere la riforma de' costumi e delle coscienze con una
ristaurazione religiosa e morale, era stato il concetto di Geronimo Savonarola,
ripreso poi e purgato nel concilio di Trento. Era il concetto più accessibile
alle moltitudini e più facile a presentarsi. I volghi cercano la medicina a'
loro mali nel passato. Machiavelli, pensoso e inquieto in mezzo a quel
carnevale italiano, giudicava quella corruttela da un punto di vista più alto.
Essa era non altro che lo stesso medio evo in putrefazione, morto già nella
coscienza, vivo ancora nelle forme e nelle istituzioni. E perciò, non che
pensasse di ricondurre indietro l'Italia e di restaurare. il medio evo,
concorse alla sua demolizione. L'altro mondo, la cavalleria, l'amore
platonico sono i tre concetti fondamentali, intorno ai quali si aggira la
letteratura nel medio evo, de' quali la nuova letteratura è la parodia più o
meno consapevole. Anche nella faccia del Machiavelli sorprendi un momento
ironico quando parla del medio evo, sopratutto allora che affetta maggior
serietà. La misura del linguaggio rende più terribili i suoi colpi. Nella sua
opera demolitiva è visibile la sua parentela col Boccaccio e col Magnifico. Il
suo Belfegor è della stessa razza dalla quale era uscito Astarotte. Ma la sua
negazione non è pura buffoneria, puro effetto comico, uscito da coscienza
vuota. In quella negazione c'è un'affermazione, un altro mondo sorto nella sua
coscienza. E perciò la sua negazione è seria ed eloquente. Papato e impero,
guelfismo e ghibellinismo, ordini feudali e comunali, tutte queste istituzioni
sono demolite nel suo spirito. E sono demolite, perchè nel suo spirito è sorto
un nuovo edificio sociale e politico. Le idee che generarono quelle
istituzioni sono morte, non hanno più efficacia di sorta sulla coscienza,
rimasta vuota. E in quest'ozio interno è la radice della corruttela italiana.
Questo popolo non si può rinnovare se non rifacendosi una coscienza. Ed è a
questo che attende Machiavelli. Con una mano distrugge, con l'altra edifica. Da
lui comincia, in mezzo alla negazione universale e vuota, la
ricostruzione. Non è possibile seguire la sua dottrina nel particolare.
Basti qui accennare la idea fondamentale. Il medio evo riposa sopra questa
base: che il peccato è attaccarsi a questa vita come cosa sostanziale, e la
virtù è negazione della vita terrena e contemplazione dell'altra; che questa
vita non è la realtà o la verità, ma ombra e apparenza; e che la realtà è non
quello che è, ma quello che deve essere, e perciò il suo vero contenuto è
l'altro mondo, l'inferno, il purgatorio, il paradiso, il mondo conforme alla
verità e alla giustizia. Da questo concetto della vita, teologico-etico, uscì la
Divina commedia e tutta la letteratura del Duecento e del Trecento. Il
simbolismo e lo scolasticismo sono le forme naturali di questo concetto. La
realtà terrena è simbolica: Beatrice è un simbolo, l'amore è un simbolo. E
l'uomo e la natura hanno la loro spiegazione e la loro radice negli enti o
nelle universali, forze estramondane, che sono la maggiore del sillogismo,
l'universale da cui esce il particolare. Tutto questo, forma e concetto, era
già dal Boccaccio in qua negato, caricato, parodiato, materia di sollazzo e di
passatempo: pura negazione nella sua forma cinica e licenziosa, che aveva a
base la glorificazione della carne o del peccato, la voluttà, l'epicureismo,
reazione all'ascetismo. Andavano insieme teologi e astrologi e poeti, tutti
visionari: conclusione geniale della Maccaronea, ispirata al Folengo dal mondo
della luna ariostesco. In teoria c' era una piena indifferenza, e in pratica
una piena licenza. Machiavelli vive in questo mondo e vi partecipa. La stessa
licenza nella vita e la stessa indifferenza nella teoria. La sua coltura non è
straordinaria: molti a quel tempo avanzavano lui e l'Ariosto di dottrina e di
erudizione. Di speculazioni filosofiche sembra così digiuno come di
enunciazioni scolastiche e teologiche. E, a ogni modo, non se ne cura. Il suo
spirito è tutto nella vita pratica. Nelle scienze naturali non sembra sia
molto avanti, quando vediamo che in alcuni casi accenna all'influsso delle
stelle. Battista Alberti avea certo una coltura più vasta e più compiuta.
Niccolò non è filosofo della natura: è filosofo dell'uomo. Ma il suo ingegno
oltrepassa l'argomento e prepara Galileo. L'uomo, come Machiavelli lo
concepisce, non ha la faccia estatica e contemplativa del medio evo e non ha la
faccia tranquilla e idillica del Risorgimento. Ha la faccia moderna dell'uomo
che opera e lavora intorno ad uno scopo. Ciascun uomo ha la sua missione su
questa terra, secondo le sue attitudini. La vita non è un giuoco
d'immaginazione e non è contemplazione. Non è teologia e non è neppure arte. Essa
ha in terra la sua serietà, il suo scopo e i suoi mezzi.
Riabilitare la vita terrena, darle uno scopo, rifare la coscienza,
ricreare le forze interiori, restituire l'uomo nella sua serietà e nella sua
attività : questo è lo spirito che aleggia in tutte le opere del Machiavelli.
E' negazione del medio evo, e insieme negazione del Risorgimento. La
contemplazione divina lo soddisfa così poco come la contemplazione artistica.
La coltura e l'arte gli paiono cose belle, non tali però che debbano e possano
costituire lo scopo della vita. Combatte l'immaginazione come il nemico
più pericoloso, e quel veder le cose in immaginazione e non in realtà gli par
proprio esser la malattia che si ha da curare. Ripete ad ogni tratto che
bisogna giudicar le cose come sono e non come debbono essere. Quel «dover
essere», a cui tende il contenuto nel medio evo e la forma nel Risorgimento,
deve far luogo all' « essere » o, com'egli dice, alla verità « effettuale ».
Subordinare il mondo dell'immaginazione, come religione e come arte, al mondo
reale, quale ci è posto dall'esperienza e dall'osservazione: questa è la base
del Machiavelli. Risecati tutti gli elementi sopraumani e soprannaturali, pone
a fondamento della vita la patria. La missione dell'uomo su questa terra, il
suo primo dovere è il patriottismo, la gloria, la grandezza, la libertà della
patria. Nel medio evo non c' era il concetto di patria: c' era il concetto di
fedeltà e di sudditanza. Gli uomini nascevano tutti sudditi del papa e
dell'imperatore, rappresentanti di Dio: l'uno era lo spirito, l'altro il corpo
della società. Intorno a questi due « Soli » stavano gli astri minori: re,
principi, duchi, baroni, a cui stavano di contro in antagonismo naturale i
comuni liberi. Ma la libertà era privilegio papale e imperiale, e i comuni
esistevano anch'essi per la grazia di Dio, e perciò del papa o dell'imperatore,
e spesso imploravano legati apostolici o imperiali a tutela e pacificazione.
Savonarola proclamò re di Firenze Gesù Cristo, ben inteso lasciando a sè il
diritto di rappresentarlo e interpretarlo. E' un tratto che illumina tutte le
idee di quel tempo. C'era ancora il papa e c'era l'imperatore; ma
l'opinione, sulla quale si fondava la loro potenza, non c'era più nelle classi
colte d'Italia. Il papa stesso e l'imperatore avevano smesso l'antico
linguaggio: il papa ingrandito di territorio, diminuito di autorità;
l'imperatore, debole e impacciato a casa. Di papato e d'impero, di guelfi e
ghibellini non si parlava in Italia che per riderne, a quel modo che della cavalleria
e di tutte le altre istituzioni. Di quel mondo rimanevano avanzi, in Italia, il
papa, i gentiluomini e gli avventurieri o mercenari. Il Machiavelli vede nel
papato temporale non solo un sistema di governo assurdo e ignobile, ma il
principale pericolo dell'Italia. Combatte il concetto di un governo stretto, e
tratta assai aspramente i gentiluomini, reminiscenze feudali. E vede ne'
mercenari o avventurieri la prima cagione della debolezza italiana incontro
allo straniero, e propone e svolge largamente il concetto di una milizia
nazionale. Nel papato temporale, nei gentiluomini, negli avventurieri combatte
gli ultimi vestigi del medio evo. La «patria» del Machiavelli è naturalmente il
Comune libero, libero per sua virtù e non per grazia del papa e dell'imperatore,
governo di tutti nell'interesse di tutti. Ma, osservatore sagace, non gli può
sfuggire il fenomeno storico de' grandi Stati che si erano formati in Europa, e
come il Comune era destinato anch'esso a sparire con tutte le altre istituzioni
del medio evo. Il suo Comune gli par cosa troppo piccola e non possibile a
durare davanti a quelle potenti agglomerazioni delle stirpi, che si chiamavano
"Stati" o "Nazioni". Già Lorenzo, mosso dallo stesso
pensiero, avea tentato una grande lega italica, che assicurasse l' « equilibrio
» tra i vari Stati e la mutua difesa, e che pure non riuscì ad impedire
l'invasione di Carlo ottavo. Niccolò propone addirittura la costituzione
di un grande Stato italiano, che sia baluardo d'Italia contro lo straniero. Il
concetto di patria gli si allarga. Patria non è solo il piccolo comune, ma è
tutta la nazione. L'Italia nell'utopia dantesca è il «giardino dell'impero»;
nell'utopia del Machiavelli è la « patria », nazione autonoma e
indipendente. La « patria » del Machiavelli è una divinità, superiore
anche alla moralità e alla legge. A quel modo che il Dio degli ascetici
assorbiva in sè l'individuo, e in nome di Dio gl'inquisitori bruciavano gli
eretici; per la patria tutto era lecito, e le azioni, che nella vita privata sono
delitti, diventavano magnanime nella vita pubblica. «Ragion di Stato» e «salute
pubblica» erano le formule volgari, nelle quali si esprimeva questo diritto
della patria, superiore ad ogni diritto. La divinità era scesa di cielo in
terra e si chiamava la « patria », ed era non meno terribile. La sua volontà e
il suo interesse era «suprema lex». Era sempre l'individuo assorbito
nell'essere collettivo. E quando questo essere collettivo era assorbito a sua
volta nella volontà di un solo o di pochi, avevi la servitù. Libertà era
la partecipazione più o meno larga de' cittadini alla cosa pubblica. I dritti
dell'uomo non entravano ancora nel codice della libertà. L'uomo non era un
essere autonomo e di fine a se stesso: era lo strumento della patria o, ciò che
è peggio, dello Stato: parola generica, sotto la quale si comprendeva ogni
specie di governo, anche il dispotico, fondato sull'arbitrio di uno solo.
PATRIA era dove tutti concorrevano più o meno al governo e, se tutti
ubbidivano, tutti comandavano: ciò dicevasi "repubblica". E dicevasi
"principato" dove uno comandava e tutti ubbidivano. Ma, repubblica o
principato, patria o Stato, il concetto era sempre l'individuo assorbito nella
società o, come fu detto poi, l'onnipotenza dello Stato. Queste idee sono
enunciate dal Machiavelli non come da lui trovate e analizzate, ma come già per
lunga tradizione ammesse e fortificate dalla coltura classica. C è lì dentro lo
spirito dell'antica Roma, che con la sua immagine di gloria e di libertà
attirava tutte le immaginazioni, e si porgeva alle menti modello non solo
nell'arte e nella letteratura, ma ancora nello Stato. La patria assorbe anche
una religione. Uno Stato non può vivere senza una religione. E se il
Machiavelli si duole della corte romana, non è solo perchè a difesa del suo
dominio temporale è costretta a chiamar gli stranieri, ma ancora perché coi
suoi costumi disordinati e licenziosi ha diminuita nel popolo l'autorità della
religione. Ma egli vuole una religione di Stato, che sia in mano
del principe un mezzo di governo. Della religione si era perduto il senso, ed
era arte presso i letterati e istrumento politico negli statisti. Anche la
moralità gli piace, e loda la generosità, la clemenza, l'osservanza della fede,
la sincerità e le altre virtù, ma a patto che ne venga bene alla patria; e se
le incontra sulla sua via non come istrumenti ma come ostacoli, li spezza.
Leggi spesso lodi magnifiche della religione e delle altre virtù de' buoni
principi; ma c è un po' odore di rettorica, che spicca più in quel fondo ignudo
della sua prosa. Non è in lui e non è in nessuno de' suoi contemporanei un
sentimento religioso e morale schietto e semplice. Noi, che vediamo le cose di
lontano, troviamo in queste dottrine lo Stato laico, che si emancipa dalla
teocrazia e diviene a sua volta invadente. Ma allora la lotta era ancor viva, e
'una esagerazione portava l'altra. Togliendo le esagerazioni, ciò che esce
dalla lotta è l'autonomia e l'indipendenza del potere civile, che ha la sua
legittimità in se stesso, sciolto ogni vincolo di vassallaggio e di
subordinazione a Roma. Nel Machiavelli non c è alcun vestigio di diritto
divino. Il fondamento delle repubbliche è «vox populi», il consenso di tutti. E
il fondamento de' principati è la forza, o la conquista legittima assicurata
dal buon governo. Un po' di cielo e un po' di papa c'entra pure, ma come forze
atte a mantenere i popoli nell'ubbidienza e nell'osservanza delle leggi.
Stabilito il centro della vita in terra e attorno alla patria, al Machiavelli
non possono piacere le virtù monacali dell'umiltà e della pazienza, che hanno «
disarmato il cielo ed effeminato il mondo » e che rendono l'uomo più atto a «
sopportare le ingiurie che a vendicarle». « Agere et pati fortia romanum est
». Il cattolicesimo, male interpretato, rende l'uomo più atto a patire
che a fare. Il Machiavelli attribuisce a questa educazione ascetica e
contemplativa la fiacchezza del corpo e dell'animo, che rende gl'italiani
inetti a cacciar via gli stranieri e a fondare la libertà e l'indipendenza
della patria. La virtù è da lui intesa nel senso romano, e significa «
forza », « energia », che renda gli uomini atti ai grandi sacrifici e alle
grandi imprese. Non è che agl'italiani manchi il valore; anzi ne' singolari
incontri riescono spesso vittoriosì: manca l'educazione o la disciplina o, come
egli dice, « i buoni ordini e le buone armi », che fanno gagliardi e liberi i
popoli. Alla virtù premio è la gloria. «Patria», « virtù », « gloria », sono le
tre parole sacre, la triplice base di questo mondo. Come gl'individui hanno la
loro missione in terra, così anche le nazioni. Gl'individui senza patria, senza
virtù, senza gloria sono atomi perduti, «numerus fruges consumere nati». E
parimente ci sono nazioni oziose e vuote, che non lasciano alcun vestigio di sè
nel mondo. Nazioni storiche sono quelle che hanno adempiuto un ufficio
nell'umanità o, come dicevasi allora, nel « genere umano », come Assiria,
Persia, Grecia e Roma. Ciò che rende grandi le nazioni è la virtù o la tempra,
gagliardia intellettuale e corporale, che forma il carattere o la forza morale.
Ma, come gl'individui, così le nazioni hanno la loro vecchiezza, quando le idee
che le hanno costituite s'indeboliscono nella coscienza e la tempra si fiacca.
E l'indirizzo del mondo fugge loro dalle mani e' passa ad altre nazioni. Il
mondo non è regolato da forze soprannaturali o casuali, ma dallo spirito umano,
che procede secondo le sue leggi organiche e perciò fatali. Il fato storico non
è la provvidenza e non è la fortuna, ma la « forza delle cose », determinata dalle
leggi dello spirito e della na tura. Lo spirito è immutabile nelle sue facoltà
ed immortale nella sua produzione. Perciò la storia non è accozzamento di fatti
fortuiti o provvidenziali, ma concatenazione necessaria di cause e di effetti,
il risultato delle forze messe in moto dalle opinioni, dalle passioni e
dagl'interessi degli uomini. La politica o l'arte del governare ha per suo
campo non un mondo etico, determinato dalle leggi ideali della moralità, ma il
mondo reale, come si trova nel tal luogo e nel tal tempo. Governare è intendere
e regolare le forze che muovono il mondo. Uomo di Stato è colui che sa
calcolare e maneggiare queste forze e volgerle a' suoi fini. La grandezza
e la caduta delle nazioni non sono dunque accidenti o miracoli, ma sono effetti
necessari, che hanno le loro cause nella qualità delle forze che le muovono. E
quando queste forze sono in tutto logore, esse muoiono. E a governare, quelli
che stanno solo a fare i leoni, non se ne intendono. Ci vuole anche la volpe o
la prudenza, cioè l'intelligenza, il calcolo e il maneggio delle forze che
muovono gli Stati. Come gl'individui, così le nazioni hanno legami tra loro,
diritti e doveri. E come c è un diritto privato, così c è un diritto pubblico o
diritto delle genti, o, come dicesi oggi, diritto internazionale. Anche la
guerra ha le sue leggi. Le nazioni muoiono. Ma lo spirito umano non muore mai.
Eternamente giovane; passa da una nazione a un'altra, e continua secondo le sue
leggi organiche la storia del genere umano. C'è dunque non solo la storia di
questa o quella nazione, ma la storia del mondo, anch'essa fatale o logica,
determinata nel suo corso dalle leggi organiche dello spirito. La storia del
genere umano non è che la storia dello spirito o del pensiero. Di qui esce ciò
che poi fu detto « filosofia della storia ». Di questa filosofia della storia e
di un dritto delle genti non c è nel Machiavelli che la semplice base
scientifica, un punto di partenza segnato con chiarezza e indicato a' suoi
successori. Il suo campo chiuso è la politica e la storia. Questi
concetti non sono nuovi. I concetti filosofici, come i poetici, suppongono una
lunga elaborazione. Ci si vede qui dentro le conseguenze naturali di quel
grande movimento, sotto forme classiche realista, ch'era in fondo l'emancipazione
dell'uomo dagli elementi soprannaturali e fantastici, e la conoscenza e il
possesso di se stesso. E ai contemporanei non parvero nuovi nè audaci, vedendo
ivi formulato quello che in tutti era sentimento vago. L'influenza del mondo
pagano è visibile anche nel medio evo: anche in Dante Roma è presente allo
spirito. Ma lì è Roma provvidenziale e imperiale, la Roma di Cesare; e qui è
Roma repubblicana, e Cesare vi è severamente giudicato. Dante chiama le
gloriose imprese della repubblica « miracoli della provvidenza », come
preparazione all'impero: dove per il Machiavelli non ci sono miracoli, o i
miracoli sono i buoni ordini; e se alcuna parte dà alla fortuna, la dà
principalmente alla virtù. Di lui è questo motto profondo: « I buoni ordini
fanno buona fortuna, e dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle
imprese ». Il classicismo dunque era la semplice scorza, sotto alla quale le
due età inviluppavano le loro tendenze. Sotto al classicismo di Dante c'è il
misticismo, il ghibellinismo: la corteccia è c lassica, il nocciolo è
medievale. E sotto al classicismo del Machiavelli c' è lo spirito moderno che
ivi cerca e trova se stesso. Ammira Roma, quando biasima i suoi tempi, dove «
non è cosa alcuna che gli ricomperi di ogni estrema miseria, infamia vituperio,
e non vi è osservanza di religione, non di leggi e non di milizia, ma sono
maculati di ogni ragione bruttura ». Crede con gli ordini e i
costumi di Roma antica di poter rifare quella grandezza e ritemprare i suoi
tempi, e in molte proposte e in molte sentenze senti le vestigia di
quell'antica sapienza. Da Roma gli viene anche la nobiltà dell'ispirazione e
una certa elevatezza morale. Talora ti pare un romano avvolto nel pallio, in
quella sua gravità; ma guardalo bene, e ci troverai il borghese del
Risorgimento, con quel suo risolino equivoco. Savonarola è una
reminiscenza del medio evo, profeta e apostolo a modo dantesco; Machiavelli in
quella sua veste romana è vero borghese moderno, sceso dal piedistallo, uguale
tra uguali, che ti parla alla buona e al naturale. E' in lui lo spirito ironico
del Risorgimento con lineamenti molto precisi de' tempi moderni. Il medio
evo qui crolla in tutte le sue basi: religiosa, morale, politica,
intellettuale. E non è solo negazione vuota. E' affermazione, è il verbo. Di
contro a ciascuna negazione sorge un' affermazione. Non è la caduta del mondo:
è il suo rinnovamento. Dirimpetto alla teocrazia sorge l'autonomia e
l'indipendenza dello Stato. Tra l'impero e la città o il feudo, le due unità
politiche del medio evo, sorge un nuovo ente, la nazione, alla quale il
Machiavelli assegna i suoi caratteri distintivi; la razza, la lingua, la
storia, i confini. Tra le repubbliche e i principati spunta già una
specie di governo medio o misto, che riunisca i vantaggi delle une e degli
altri e assicuri a un tempo la libertà e la stabilità: governo che è un
presentimento dei nostri ordini costituzionali, e di cui il Machiavelli dà i
primi lineamenti nel suo progetto per la riforma degli ordini politici in
Firenze. E' tutto un nuovo mondo politico che appare. Si veda, fra l'altro,
dove il Machiavelli parla della formazione de' grandi Stati, e sopratutto della
Francia. Anche la base religiosa è mutata. Il Machiavelli vuole recisa dalla
religione ogni temporalità e, come Dante, combatte la confusione de' due
reggimenti, e fa una descrizione de' principati ecclesiastici, notabile per la
profondità dell'ironia. La religione, ricondotta nella sua sfera
spirituale, è da lui considerata, non meno che l'educazione e l'istruzione,
come strumento di grandezza nazionale. E' in fondo l'idea di una Chiesa
nazionale, dipendente dallo Stato e accomodata ai fini e agli interessi della
nazione. Altra è pure la base morale. Il fine etico del medio evo è la
santificazione dell'anima, e il mezzo è la mortificazione della carne. Il
Machiavelli, se biasima la licenza de' costumi invalsa al suo tempo, non è meno
severo verso l'educazione ascetica. La sua dea non è Rachele, ma è Lia : non è
la vita contemplativa, ma la vita attiva. E perciò la virtù è per lui la
vita attiva, vita di azione e in servizio della patria. I suoi santi sono più
simili agli eroi dell'antica Roma che agl'iscritti nel calendario romano. O,
per dir meglio, il nuovo tipo morale non è il santo, ma è il patriota. E si rinnova
pure la base intellettuale. Secondo il gergo di allora, il Machiavelli non
combatte la verità della fede, ma la lascia da parte, non se ne occupa, e,
quando vi s'incontra, ne parla con un'aria equivoca di rispetto. Risecata dal
suo mondo ogni causa soprannaturale e provvidenziale, vi mette a base
l'immutabilità e l'immortalità del pensiero o dello spirito umano, fattore
della storia. Questo è già tutta una rivoluzione. E' il famoso «cogito », nel
quale s'inizia la scienza moderna. E' l'uomo emancipato dal mondo
soprannaturale e sopraumano, che, come lo Stato, proclama la sua autonomia e la
sua indipendenza e prende possesso del mondo. E si rinnova il metodo. Il
Machiavelli non riconosce verità a priori e princìpi astratti, e non riconosce
autorità di nessuno come criterio del vero. Di teologia e di filosofia e di
etica fa stima uguale: mondi d'immaginazione, fuori della realtà. La verità è
la cosa effettuale; e perciò il modo di cercarla è l'esperienza accompagnata
con l'osservazione, lo studio intelligente dei fatti. Tutto il formolario
scolastico va giù. A quel vuoto meccanismo fondato sulle combinazioni astratte
dell'intelletto, incardinate nella pretesa esistenza degli universali,
sostituisce la forma ordinaria del parlare diritta e naturale. Le proposizioni
generali, le « maggiori » del sillogismo, sono capovolte, e compaiono in ultimo
come risultati di una esperienza illuminata dalla riflessione. In luogo del
sillogismo hai la «serie », cioè a dire concatenazione di fatti, che sono
insieme causa ed effetto, come si vede in questo esempio: Avendo la città di
Firenze... perduta parte di terre del suo imperio, come Pisa e altre terre, fu
necessitata a fare guerra a coloro che le occupavano, e perché chi le occupava
era potente, ne seguiva che si spendeva molto nella guerra senza alcun
risultato: dallo spendere molto ne risultava molte imposte, imposte infinite,
insofferenze del popolo; e poichè questa guerra era amministrata da una
magistratura di dieci cittadini... la moltitudine cominciò ad arrabbiarsi con loro
come se fossero cagione e della guerra e delle spese di essa. Qui i fatti sono
schierati in modo che si appoggiano e si spiegano a vicenda: sono una doppia
serie, l'una complicata, che ti dà le cause vere, visibile solo all'uomo
intelligente; l'altra semplicissima, che ti dà la causa apparente e
superficiale, e che pure è quella che trascina ad opere inconsulte
l'universale, con una serietà ed una sicurezza che rende profondamente ironica
la conclusione. I fatti saltan fuori a quel modo stesso che si sviluppano nella
natura e nell'uomo : non vi senti alcuno artificio. Ma è un'apparenza. Essi
sono legati, subordinati, coordinati dalla riflessione, sì che ciascuno ha il
suo posto, ha il suo valore di causa e di effetto, ha il suo ufficio in tutta
la catena: il fatto non è solo fatto o accidente, ma è ragione, considerazione:
sotto la narrazione si cela l'argomentazione. Così l'autore ha potuto in poche
pagine condensare tutta la storia del medio evo e farne magnifico vestibulo
alla sua storia di Firenze. I suoi ragionamenti sono anche essi fatti
intellettuali, e perciò l'autore si contenta di enunciare e non dimostra
nulla. Sono fatti cavati dalla storia, dall'esperienza del mondo, da
un'acuta osservazione, e presentati con semplicità pari all'energia. Molti di
questi fatti intellettuali sono rimasti anche oggi popolari nella bocca di
tutti, com'è quel « ritirare le cose ai loro princìpi », o quell'ironia de' «
profeti disarmati », o « gli uomini si stuccano del bene, e del male si
affliggono », o « gli uomini bisogna carezzarli o spegnerli ». Di queste
sentenze o pensieri ce ne sono molte raccolte. E sono un intero arsenale, dove
hanno attinto gli scrittori, vestiti delle sue spoglie. Come
esempio di questi fatti intellettuali usciti da una mente elevata e peregrina,
ricordo la famosa dedica de' suoi Discorsi. Con la forma scolastica rovina la
forma letteraria, fondata sul periodo. Ne' lavori didascalici il periodo era
una forma sillogistica dissimulata, una proposizione corteggiata dalla sua
«maggiore» e dalle sue idee medie: ciò che dicevasi «dimostrazione », se la
materia era intellettuale, o « descrizione », se la materia era di puri fatti.
Machiavelli ti dà semplici proposizioni, ripudiato ogni corteggio: non descrive
e non dimostra; narra o enuncia, e perciò non ha artificio di periodo. Non solo
uccide la forma letteraria, ma uccide la forma stessa come forma; e fa questo
nel secolo della forma, la sola divinità riconosciuta. Appunto
perchè ha piena la coscienza di un nuovo contenuto, per lui il contenuto è
tutto e la forma è nulla. O, per dire più corretto, la forma è essa medesima la
cosa nella sua verità effettuale, cioè nella sua esistenza intellettuale o
materiale. Ciò che a lui importa, non è che la cosa sia ragionevole o morale o
bella, ma che la sia. Il mondo è così e così; e si vuol pigliarlo com'è, ed è
inutile cercare se possa o debba essere altrimenti. La base della vita, e
perciò del sapere, è il « Nosce te ipsum », la conoscenza del mondo nella sua
realtà. Il fantasticare, il dimostrare, il descrivere, il moralizzare
sono frutto d'intelletti collocati fuori della vita e abbandonati
all'immaginazione. Perciò il Machiavelli purga la sua prosa di ogni elemento
astratto, etico e poetico. Guardando il mondo con uno sguardo superiore, il suo
motto è: « Nil admirari ». Non si meraviglia e non si appassiona, perchè
comprende; come non dimostra e non descrive, perchè vede e tocca. Investe la
cosa direttamente, e fugge le perifrasi, le circonlocuzioni, le amplificazioni,
le argomentazioni, le frasi e le figure, i periodi e gli ornamenti, come
ostacoli e indugi alla visione. Sceglie la via più breve, e perciò la diritta:
non si distrae e non distrae. Ti dà una serie stretta e rapida di
proposizioni e di fatti, soppresse tutte le idee medie, tutti gli accidenti e
tutti gli episodi. Ha l'aria del pretore, che «non curat de minimis », di un
uomo occupato in cose gravi, che non ha tempo nè voglia di guardarsi attorno.
Quella sua rapidità, quel suo condensare non è un artificio, come talora è in
Tacito e sempre è nel Davanzati; ma è naturale chiarezza di visione, che gli
rende inutili tutte quelle idee medie, di cui gli spiriti mediocri hanno
bisogno per giungere faticosamente ad una conseguenza, ed è insieme pienezza di
cose, che non gli fa sentire necessità di riempiere gli spazi vuoti con
belletti e impolpature, che tanto piacciono a' cervelli oziosi. La sua
semplicità talora è negligenza, la sua sobrietà talora è magrezza: difetti
delle sue qualità. E sono pedanti quelli che cercano il pel nell'uovo, e
gonfiano le gote in aria di pedagoghi, quando in quella divina prosa trovino
latinismi, slegature, scorrezioni e simili negligenze. La prosa del
Trecento manca di organismo, e perciò non ha ossatura, non interna coesione vi
abbonda l'affetto e l'immaginativa, vi scarseggia l'intelletto. Nella prosa del
Cinquecento hai l'apparenza, anzi l'affettazione dell'ossatura, la cui
espressione è il periodo. Ma l'ossatura non è che esteriore, e quel lusso di
congiunzioni e di membri e d'incisi mal dissimula il vuoto e la dissoluzione
interna. Il vuoto non è nell'intelletto, ma nella coscienza, indifferente e
scettica. Perciò il lavoro intellettivo è tutto al di fuori, frasche e fiori.
Gli argomenti più frivoli sono trattati con la stessa serietà degli argomenti
gravi, perchè la coscienza è indifferente ad ogni specie di argomento, grave o
frivolo. Ma la serietà è apparente, è tutta formale e perciò retorica: l'animo
vi rimane profondamente indifferente. Monsignor della Casa scrive l'orazione a
Carlo quinto con lo stesso animo che scrive il capitolo sul forno: salvo che
qui è nella sua natura e ti riesce cinico, lì è fuori della sua natura e ti
riesce falso. Il Galateo e il Cortigiano sono le due migliori prose di quel
tempo, come rappresentazione di una società pulita ed elegante, tutta al di
fuori, in mezzo alla quale vivevano il Casa e il Castiglione, e che poneva la
principale importanza della vita ne' costumi e ne' modi. Anche
l'intelletto, in quella sua virilità oziosa, poneva la principale importanza
della composizione ne' costumi e ne' modi ovvero nell'abito.
Quell'abbigliamento boccaccevole e ciceroniano divenne in breve convenzionale,
un meccanismo tutto d'imitazione, a cui l'intelletto stesso rimaneva estraneo.
I filosofi non avevano ancora smesse le loro forme scolastiche; i poeti
petrarcheggiavano; i prosatori usavano un genere bastardo, poetico e retorico,
con l'imitazione esteriore del Boccaccio: la malattia era una, la passività o
indifferenza dell'intelletto, del cuore, dell'immaginazione, cioè a dire di
tutta l'anima. C' era lo scrittore, non c' era l'uomo. E fin d'allora fu
considerato lo scrivere come un mestiere, consistente in un meccanismo che
dicevasi « forma letteraria », nella piena indifferenza dell'animo: divorzio
compiuto tra l'uomo e lo scrittore. Fra tanto infuriare di prose
rettoriche e poetiche, comparve la prosa del Machiavelli, presentimento della
prosa moderna. Qui l'uomo è tutto, e non c è lo scrittore, o c è solo in quanto
uomo. Il Machiavelli sembra quasi ignori che ci sia un'arte dello scrivere,
ammessa generalmente e divenuta moda o convenzione. Talora ci si prova e ci
riesce maestro; ed è, quando vuol fare il letterato, anche lui. L'uomo è in lui
tutto. Quello che scrive è - una produzione immediata del suo cervello, esce
caldo caldo dal di dentro: cose e impressioni, spesso condensate in una parola.
Perché è un uomo che pensa e sente, distrugge e crea, osserva e riflette, con
lo spirito sempre attivo e presente. Cerca la cosa, non il suo colore: pure la
cosa vien fuori insieme con le impressioni fatte nel suo cervello, perciò
naturalmente colorita, traversata d'ironia, di malinconia, di indignazione, di
dignità, ma principalmente lei nella sua chiarezza plastica. Quella prosa è
chiara e piena come un marmo, ma un marmo qua è là venato. E' la grande maniera
di Dante che vive là dentro. Parlando dei mutamenti introdotti dal
medio evo nei nomi delle cose e degli uomini, finisce così: «Gli uomini ancora,
di Cesari e Pompei, Pieri, Giovanni e Mattei diventarono ». Qui non c è che il
marmo, la cosa ignuda; ma quante vene in questo marmo! Ci senti tutte le
impressioni fatte da quell'immagine nel suo cervello, l'ammirazione per quei
Cesari e Pompei il disprezzo per quei Pieri e Mattei, lo sdegno di quel
mutamento; e lo vedi alla scelta caratteristica dei nomi, al loro collocamento
in contrasto come nemici, e a quell'ultimo ed energico "diventarono",
che accenna a mutamenti non solo di nomi ma di animi. Questa prosa,
asciutta, precisa e concisa, tutta pensiero e tutta cose, annunzia l'intelletto
già adulto, emancipato da elementi mistici, etici e poetici, e divenuto il
supremo regolatore del mondo: la logica o la forza delle cose, il fato moderno.
Questo è in effetti il senso intimo del mondo, come il Machiavelli lo
concepisce. Lasciando da parte le sue origini, il mondo è quello che è: un
attrito di forze umane e naturali, dotate di leggi proprie. Ciò che dicesi
«fato», non è altro che la logica, il risultato necessario di queste forze,
appetiti, istinti, passioni, opinioni, fantasie, interessi, mosse e regolate da
una forza superiore, lo spirito umano, il pensiero, l'intelletto. Il Dio di
Dante è l'amore, forza unitiva dell'intelletto e dell'atto: il risultato era
sapienza. Il Dio di Machiavelli è l'intelletto, l'intelligenza e la regola delle
forze mondane: il risultato è scienza. - Bisogna amare - dice Dante. - Bisogna
intendere - dice Machiavelli. L'anima del mondo dantesco è il cuore, l'anima
del mondo machiavellico è il cervello. Quel mondo è essenzialmente
mistico ed etico: questo è essenzialmente umano e logico. La virtù muta il suo
significato: non è sentimento morale, ma è semplicemente forzao energia, la
tempra dell'animo; e Cesare Borgia è virtuoso perchè avea la forza di operare
secondo logica, cioè di accettare i mezzi quando aveva accettato lo scopo. Se
l'anima del mondo è il cervello, hai una prosa che è tutta e sola
cervello. Ora possiamo comprendere il Machiavelli nelle sue applicazioni.
La storia di Firenze sotto forma narrativa è una logica degli avvenimenti. Dino
scrive col cuore commosso, con l'immaginazione colpita: tutto gli par nuovo,
tutto offende il suo senso morale. Vi domina il sentimento etico, come in
Dante, nel Mussato, in tutti i trecentisti. Ma ciò che interessa il Machiavelli
è la spiegazione de' fatti nelle forze motrici degli uomini, e narra calmo e
meditativo, a modo di filosofo che ti dia l'interpretazione del mondo. I
personaggi non sono còlti nel caldo dell'affetto e nel tumulto dell'azione: non
è una storia drammatica. L'autore non è sulla scena nè dietro la scena,
ma è nella sua camera, e, mentre i fatti gli sfilano avanti, cerca afferrarne i
motivi. La sua apatia non è che preoccupazione di filosofo, inteso a spiegare e
tutto raccolto in questo lavoro intellettivo, non distratto da emozioni e
impressioni. E' l'apatia dell'ingegno superiore, che guarda con compassione a'
moti convulsi e nervosi delle passioni. Ne' Discorsi ci è maggior vita
intellettuale. L'intelletto si stacca da' fatti, e vi torna per attingervi lena
e ispirazione. I fatti sono il punto fermo intorno a cui gira. Narra breve,
come chi ricordi quello che tutti sanno ed ha fretta di uscirne. Ma, appena
finito il racconto, comincia il discorso. L'intelletto, come rinvigorito a
quella fonte, se ne spicca tutto pieno d'ispirazioni originali, sorpreso e
contento insieme. Senti lì il piacere di quell'esercizio intellettuale e di
quella originalità, di quel dir cose che a' volgari sembrano paradossi.
Quei pensieri sono come una schiera ben serrata, dove non penetra niente dal di
fuori a turbarvi l'ordine. Non è una mente agitata nel calore della produzione,
tra quel flutto d'immaginazioni e di emozioni che ti annunzia la fermentazione,
come avviene talora anche ai più grandi pensatori. E' l'intelletto pieno di
gioventù e di freschezza, tranquillo nella sua forza e in sospetto di tutto ciò
che non è lui. Digressioni, immagini, effetti, paragoni, giri viziosi,
perplessità di posizioni: tutto è bandito in queste serie disciplinate d'idee,
mobili e generative, venute fuori da un vigor d'analisi insolito e legate da
una logica inflessibile. Tutto è profondo, ed è così chiaro e semplice
che ti pare superficiale. Il fondamento dei' Discorsi è questo: che gli
uomini « non sanno essere nè in tutto buoni nè in tutto tristi », e perciò non
hanno tempra logica, non hanno virtù. Hanno velleità, non hanno volontà.
Immaginazioni, paure, speranze, vane cogitazioni, superstizioni tolgono loro la
risolutezza. Perciò « stanno » volentieri «in sull'ambiguo», e scelgono le «vie
di mezzo», e «seguono le apparenze ». C è nello spirito umano uno stimolo o
appetito insaziabile, che lo tiene in continua opera e produce il progresso
storico. Ond'è che gli uomini non sono tranquilli e salgono di un'ambizione a
un'altra, e prima si difendono e poi offendono, e più uno ha, più desidera.
Sicchè negli scopi gli uomini sono infiniti, e ne' mezzi sono perplessi e
incerti. Quello che degli individui, si può dire anche dell'uomo collettivo,
come famiglia o classe. Nella società non c' è in fondo che due sole classi:
degli « abbienti » e de' «non abbienti», de' ricchi e de' poveri. E la storia
non è se non l'eterna lotta tra chi ha e chi non ha. Gli ordini
politici sono mezzi di equilibrio tra le classi. E sono liberi quando hanno a
fondamento l' « equalità ». Perciò libertà non può essere dove sono «
gentiluomini » o classi privilegiate. E' chiaro che una scienza o arte politica
non è possibile quando non abbia per base la conoscenza della materia su che si
ha a esercitare, cioè dell'uomo come individuo e come classe. Perciò una gran
parte di questi Discorsi sono ritratti sociali delle moltitudini o delle plebi,
degli ottimati o gentiluomini, de' principi, de' francesi, de' tedeschi, degli
spagnoli, d'individui e di popoli. Sono ritratti finissimi per originalità di
osservazione ed evidenza di esposizione, ne' quali vien fuori il « carattere »,
cioè quelle forze che muovono individui e popoli o classi ad operare così o
così. Le sue osservazioni sono frutto di una esperienza propria e immediata, e
perciò freschissime e vive anche oggi. Poiché il carattere umano ha
questa base comune, che i desidèri o appetiti sono infiniti, e debole ed
esitante è la virtù di conseguirli, hai sproporzione tra lo scopo e i mezzi;
onde nascono le oscillazioni e i disordini della storia. Perciò la scienza
politica o l'arte di condurre e governare gli uomini ha per base la precisione
dello scopo e la virtù de' mezzi; e in questa consonanza è quella energia
intellettuale, che fa grandi gli uomini e le nazioni. La logica governa il
mondo. Questo punto di vista logico, preponderante nella storia, comunica
all'esposizione una calma intellettuale piena di forza e di sicurezza, come di
uomo che sa e vuole. Il cuore dell'uomo s'ingrandisce col cervello. Più uno sa
e più osa. Quando la tempra è fiacca, di' pure che l'intelletto è oscuro.
L'uomo allora non sa quello che vuole, tirato in qua e in là dalla sua
immaginazione e dalle sue passioni, com'è proprio del volgo. Un'applicazione di
questa implacabile logica è il Principe. Machiavelli biasima i principi che per
frode o per forza tolgono la libertà ai popoli. Ma, avuto lo Stato, indica loro
con quali mezzi debbano mantenerlo. Lo scopo non è qui la difesa della patria,
ma la conservazione del principe: se non che il principe provvede a se stesso,
provvedendo allo Stato. L'interesse pubblico è il suo interesse. Libertà non
può dare, ma può dare buone leggi che assicurino l'onore, la vita, là sostanza
de' cittadini. Deve mirare a procacciarsi il favore e la grazia del popolo,
tenendo in freno i gentiluomini e gli uomini turbolenti. Governi i sudditi, non
ammazzandoli, ma studiandoli e comprendendoli: «non ingannato da loro, ma
ingannando loro». Come stanno alle apparenze, il principe deve darsi tutte le
buone apparenze, e, non volendo essere, parere almeno religioso, buono,
clemente, protettore delle arti e degl'ingegni. Nè tema d'essere scoperto;
perchè gli uomini sono naturalmente semplici e creduli. Ciò che in loro ha più
efficacia è la paura: perciò il principe miri a farsi temere più che amare.
Sopratutto eviti di rendersi odioso o spregevole. Chi legge il trattato De
regimine principum di Egidio Colonna, vi troverà un magnifico mondo etico,
senza alcun riscontro con la vita reale. Chi legge questo Principe del
Machiavelli, vi troverà un crudele mondo logico, fondato sullo studio dell'uomo
e della vita. L'uomo vi è, come natura, sottoposto nella sua azione a leggi
immutabili, non secondo criteri morali, ma secondo criteri logici. Ciò che gli
si deve domandare non è se quello che egli fa sia buono o bello, ma se sia ragionevole
o logico, se ci sia coerenza tra i mezzi e lo scopo. Il mondo non è governato
dalla forza come forza, ma dalla forza come intelligenza. L'Italia non ti
poteva dare più un mondo divino ed etico: ti dà un mondo logico. Ciò che era in
lei ancora intatto era l'intelletto; e il Machiavelli ti dà il mondo
dell'intelletto, purgato dalle passioni e dalle immaginazioni. Machiavelli
bisogna giudicarlo da quest'alto punto di vista. Ciò a cui mira è la serietà
intellettuale, cioè la precisione dello scopo, e la virtù di andarvi diritto
senza guardare a destra e a manca e lasciarsi indugiare o traviare da riguardi
accessorii o estranei. La chiarezza dell'intelletto, non intorbidito da
elementi soprannaturali o fantastici o sentimentali, è il suo ideale. E
il suo eroe è il domatore dell'uomo e della natura, colui che comprende e
regola le forze naturali e umane, e le fa suoi istrumenti. Lo scopo può essere
lodevole o biasimevole; e se è degno di biasimo, è lui il primo ad alzare la
voce e protestare in nome del genere umano.Vedasi il capitolo decimo, una delle
proteste più eloquenti che siano uscite da un gran cuore, Ma, posto lo scopo,
la sua ammirazione è senza misura per colui che ha voluto e saputo conseguirlo.
La responsabilità morale è nello scopo, non è nei mezzi. Quanto ai mezzi, la
responsabilità è nel non sapere o nel non volere, nell'ignoranza o nella
fiacchezza. Ammette il terribile; non ammette l'odioso o lo spregevole.
L'odioso è il male fatto per libidine o per passione o per fanatismo, senza scopo.
Lo spregevole è la debolezza della tempra, che non ti fa andare là dove
l'intelletto ti dice che pur bisogna andare. Quando Machiavelli
scriveva queste cose, l'Italia si trastullava nei romanzi e nelle novelle, con
lo straniero in casa. Era il popolo meno serio del mondo e meno disciplinato.
La tempra era rotta. Tutti volevano cacciare lo straniero, a tutti «puzzava il
barbaro dominio»; ma erano solo velleità. E si comprende come il
Machiavelli miri principalmente a ristorare la tempra, attaccando il male nella
sua radice. Senza tempra, moralità, religione, libertà, virtù sono frasi. Al
contrario, quando la tempra si rifà, si rifà tutto l'altro. E Machiavelli
glorifica la tempra anche del male. Innanzi a lui è più uomo Cesare Borgia,
intelletto chiaro e animo fermo, ancorachè destituito d'ogni senso morale, che
il buon Pier Soderini, cima di galantuomo, ma. «anima sciocca», che per la sua
incapacità e la sua fiacchezza perdette la repubblica. Ma, se in Italia
la tempra era infiacchita, lo spirito era integro. Se da una parte Machiavelli
poneva a base della vita l'essere « uomo », iniziando l"età virile della
forza intelligente, d'altra parte il motivo principale comico dello spirito
italiano nella sua letteratura romanzesca era appunto la forza incoerente, cioè
a dire indisciplinata e senza scopo. Il tipo cavalleresco, com'era concepito in
Italia, era ridicolo per questo: che si presentava all'immaginazione come un
esercizio incomposto di una forza gigantesca, senza serietà di scopo e di
mezzi, la forza come forza, e tutta la forza nei fini più seri e più frivoli:
ciò che rende così comici Morgane, Mandricardo, Fracassa. C' erano certo i fini
cavallereschi, come la tutela delle donne, la difesa degli oppressi; ma che
parevano a quel pubblico intelligente e scettico comici non altrimenti che
quegli effetti straordinari di forza corporale. Si può dire, di quei cavalieri
foggiati dallo spirito italiano, quello che Doralice dicea a Mandricardo,
quando lo vedea intestato a fare per una spada e uno scudo quello che aveva
fatto per impossessarsi di lei: - Non fu amore che ti mosse: « fu naturale
ferità di core ». - Lo spirito italiano dunque da una parte metteva in
caricatura il medio evo come un giuoco disordinato di forze, e dall'altra
gettava la base di una nuova età su questo principio virile: che la forza è
intelligenza, serietà di scopo e di mezzi. Ciò che l'Italia distruggeva, ciò
che creava, rivelava una potenza intellettuale, che precorreva l'Europa di un
secolo. Ma in Italia c'era l'intelligenza e non c'era la forza. E si
credeva con la superiorità intellettuale di potere cacciar gli stranieri. Era
una intelligenza adulta, svegliatissima ma astratta, una logica formale nella
piena indifferenza dello scopo. Era la scienza per la scienza, come l'arte per
l'arte. Nella coscienza non c'era più uno scopo nè un contenuto. E quando la
coscienza è vuota, il cuore è freddo, e la tempra è fiacca, anche nella
maggiore virilità dell'intelletto. Il movimento dello spirito era stato
assolutamente negativo e comico. Agl'italiani era più facile ridere delle forze
indisciplinate che disciplinarsi, e più facile ridere degli stranieri che
mandarli via. Il frizzo era l'attestato della loro superiorità intellettuale e
della loro decadenza morale. Mancava non la forza fisica e non il coraggio che
ne è la conseguenza, ma la forza morale, che ci tenga stretti intorno ad una
idea e risoluti a vivere e a morire per quella. Machiavelli ebbe una
coscienza chiarissima di questa decadenza o, com'egli diceva, «corruttela»: Qui
- scrive - è virtù grande nelle membra, quando la non mancasse nei capi.
Specchiatevi nei duelli e nei congressi de' pochi, quanto gl'italiani siano
superiori con le forze, con la destrezza, con l'ingegno. Pure l'Italia era
corrotta, perchè difettava di forze morali, e perciò di un degno scopo che
riempisse di sè la coscienza nazionale. Di lui è questo grande concetto: che il
nerbo della guerra non sono i danari nè le fortezze nè i soldati, ma le forze
morali o, com'egli dice, il patriottismo e la disciplina. Di quella corruzione
italiana la principal causa era il pervertimento religioso. Abbiamo di lui
queste memorabili parole, di cui Lutero era il comento: "La... religione,
se nei principi della repubblica cristiana si fusse mantenuta secondo che dal
datore d'essa ne fu ordinato, sarebbero gli Stati e le repubbliche più unite e
più felici assai ch'elle non sono. Nè si può fare altra maggiore congettura
della declinazione d'essa, quanto è vedere come quelli popoli che sono più
propinqui alla Chiesa romana, capo della religione nostra, hanno meno
religione. E chi considerasse i fondamenti suoi e vedesse l'uso presente quanto
è diverso da quelli, giudicherebbe esser propinquo senza dubbio o la rovina o
il flagello". Certo, non è ufficio grato dire dolorose verità al proprio
paese, ma è un dovere di cui l'illustre uomo sente tutta la grandezza:
"Chi nasce in Italia e in Grecia, e non sia divenuto in Italia
oltramontano e in Grecia turco, ha ragione di biasimare i tempi
suoi". Per lui è questo una sacra missione, un atto di patriottismo.
Il suo sguardo abbraccia tutta la storia del mondo. Vede tanta gloria in
Assiria, in Media, in Persia, in Grecia, in Italia e Roma. Celebra il regno de'
franchi, il regno de' turchi, quello del soldano, e le geste della « setta
saracina », e le virtù « de' popoli della Magna al tempo suo. Lo spirito umano,
immutabile e immortale, passa di gente in gente e vi mostra la sua virtù. E
quando getta l'occhio sull'Italia, il paragone lo strazia. Le sue più belle
pagine storiche sono dove narra la decadenza di Genova, di Venezia, di altre
città italiane, in tanto fiorire degli Stati europei. Non adulare il suo paese,
ma dirgli il vero, fargli sentire la propria decadenza, perchè ne abbia
vergogna e stimolo, descrivere la malattia e notare i rimedi, gli pare ufficio
di uomo dabbene. Questo sentimento del dovere dà alle sue parole una grande
elevatezza morale: "Se la virtù che allora regnava e il vizio che ora
regna non fussero più chiari che il sole, andrei col parlare più rattenuto. Ma,
essendo la cosa così manifesta che ciascuno la vede, sarò animoso in dire
manifestamente quello che intenderò di quelli e di questi tempi, acciocchè gli
animi de' giovani, che questi miei scritti leggeranno, possano fuggire questi e
prepararsi ad imitar quelli... Perchè gli è ufficio d'uomo buono quel bene, che
per la malignità de' tempi e della fortuna tu non hai potuto operare,
insegnarlo ad altri, acciocchè, essendone molti capaci, alcuno di quelli più
amati dal cielo possa operarlo". Queste parole sono un monumento. Ci si
sente dentro lo spirito di Dante. Machiavelli tiene la sua promessa. Giudica
con severità uomini e cose. Del papato tutti sanno quello che ha scritto. Nè è
più indulgente verso i principi: "Questi nostri principi, che erano stati
molti anni nel principato loro, per averlo dipoi perso non accusino la fortuna,
ma l'ignavia loro; perchè, non avendo mai ne' tempi quieti pensato che possano
mutarsi... quando poi vennero i tempi avversi, pensarono a fuggirsi e non a
difendersi". Degli avventurieri De Sanctis scrive: "Il fine
della loro virtù è stato che (Italia) è stata corsa da Carlo, predata da Luigi,
forzata da Ferrando e vituperata dai svizzeri;... tanto che essi hanno condotta
Italia schiava e vituperata". Ne è meno severo verso i gentiluomini,
avanzi feudali, rimasti vivi ed eterni in questa maravigliosa pittura "
"Gentiluomini" sono chiamati quelli che oziosi vivono dei proventi
delle loro possessioni abbondantemente, senza avere alcuna cura o di coltivare
o di alcun'altra necessaria fatica a vivere. Questi tali sono perniciosi in
ogni repubblica ed in ogni provincia : ma più perniciosi sono quelli che, oltre
alle predette fortune, comandano a castella ed hanno sudditi che ubbidiscono a
loro. Di queste due sorti di uomini ne sono pieni il regno di Napoli, terra di
Roma, la Romagna e la Lombardia. Di qui nasce che in quelle provincie non è mai
stata alcuna repubblica nè alcuno vivere politico, perchè tali generazioni
d'uomini sono nemici di ogni civiltà". Degna di nota è qui l'idea, tutta
moderna, che il fine dell'uomo è il lavoro e che il maggior nemico della
civiltà è l'ozio: principio che ha gettato giù i conventi ed ha rovinato dalla
radice non solo il sistema ascetico o contemplativo, ma anche il sistema
feudale, fondato su questo fatto: che l'ozio dei pochi viveva del lavoro dei
molti. Un uomo, che con una sagacia pari alla franchezza nota tutte le cause
della decadenza italiana, poteva ben dire, accennando a Savonarola: "Ond'è
che a Carlo, re di Francia, fu lecito pigliare Italia col gesso; e chi diceva
come di questo ne erano cagione i peccati nostri, diceva il vero; ma non erano
già quelli che credeva, ma questi ch'io ho narrati". Gli oziosi sono
fatalisti. Spiegano tutto con la fortuna o la sfortuna. Anche allora dei mali
d'Italia accusavano la mala sorte. Machiavelli scrive: "La fortuna...
dimostra la sua potenza dove non è ordinata virtù a resisterle, e quivi rivolge
i suoi impeti dove sa che sono fatti gli argini e i ripari a tenerla. E se voi
considererete l'Italia, che è la sede di queste variazioni e quella che ha dato
loro il moto, vedrete essere una campagna senza argini e senza alcun
riparo". Essendo l'Italia in quella corruttela, Machiavelli invoca
un redentore, un principe italiano, che, come Teseo o Ciro o Mosè o Romolo, la
riordini, persuaso che a riordinare uno Stato si richieda l'opera di uno solo,
a governarlo l'opera di tutti. Ne' grandi pericoli i romani nominavano un
dittatore: nell'estremo della corruzione Machiavelli non vede altro scampo che
nella dittatura: "Cercando un principe la gloria del mondo, dovrebbe
desiderare di possedere una città corrotta, non per guastarla in tutto, come
Cesare, ma per riordinarla, come Romolo". Di Cesare -scrive un giudizio
originale rimasto celebre: "Nè sia alcuno che s'inganni per la gloria di
Cesare, sentendo le massime celebrate dagli scrittori; perchè questi che lo
laudano sono corrotti dalla fortuna sua e spauriti dalla lunghezza
dell'imperio, il quale, reggendosi sotto quel nome, non permetteva che gli
scrittori parlassero liberamente di lui. Ma chi vuole conoscere quello che gli
scrittori liberi ne direbbero, veda quello che dicono di Catilina. E tanto è
più detestabile Cesare, quanto è più da biasimare quello che ha fatto che
quello che ha voluto fare un male. Vedasi pure con quante laudi celebrano
Bruto; talchè, non potendo biasimare quello per la sua potenza, essi celebrano
il nemico suo... E conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma, Italia e il
mondo abbia con Cesare". Machiavelli promette, a chi prende lo Stato con
la forza, non solo l'amnistia, ma la gloria, quando sappia ordinarlo:
"Considerino quelli a chi i cieli dànno tale occasione, come sono loro
proposte due vie: l'una che li fa vivere sicuri, e dopo la morte lì rende
gloriosi; l'altra li fa vivere in continue angustie, e dopo la morte lasciare di
sè una sempiterna infamia". Invoca egli dunque un qualche amato dal cielo,
che sani l'Italia dalle sue ferite, «e ponga fine... a' sacchi di Lombardia,
alle espilazioni e taglie del Reame e di Toscana, e la guarisca di quelle sue
piaghe già per lungo tempo infistolite » E' l'idea tradizionale del redentore o
del messia. Anche Dante invocava un messia politico, il veltro. Se non
che, il salvatore di Dante ghibellino era Arrigo di Lussemburgo, perchè la sua
Italia era il giardino dell'impero: dove il salvatore di Machiavelli doveva
essere un principe italiano, perchè la sua Italia era nazione autonoma, e tutto
ciò che era fuori di essa era straniero, barbaro, «oltramontano ». Chi vuol
vedere il progresso dello spirito italiano da Dante a Machiavelli, paragoni la
mistica e scolastica Monarchia dell'uno col Principe dell'altro, così moderno
ne' concetti e nella forma. L'idea del Machiavelli riuscì un'utopia, non
meno che l'idea di Dante. Ed oggi è facile assegnarne le ragioni. Patria, «
libertà », « Italia », « buoni ordini », « buone armi », erano parole per le
moltitudini, dove non era penetrato alcun raggio d'istruzione e di
educazione. Le classi colte, ritiratesi da lungo tempo nella vita
privata, tra ozi idillici e letterari, erano cosmopolite, animate dagli
interessi generali dell'arte e della scienza, che non hanno patria.
Quell'Italia di letterati corteggiati e cortigiani perdeva la sua indipendenza,
e non aveva quasi aria di accorgersene. Gli stranieri prima la spaventarono con
la ferocia degli atti e dei modi; poi la vinsero con le moine, inchinandola e
celebrando la sua sapienza. E per lungo tempo gl'italiani, perduta
libertà e indipendenza, continuarono a vantarsi, per bocca dei' loro poeti,
signori del mondo e a ricordare le avite glorie. Odio contro gli
stranieri ce n' era, ed anche buona volontà di liberarsene. Ma c'era così poca
fibra, che di una redenzione italica non ci fu neppure il tentativo. Nello
stesso Machiavelli fu una idea, e non sappiamo che abbia fatto altro di serio,
per giungere alla sua attuazione, che di scrivere un magnifico capitolo, in un
linguaggio rettorico e poetico fuori del suo solito, e che testimonia più le
aspirazioni di un nobile cuore che la calma persuasione di un uomo politico.
Furono illusioni. Vedeva l'Italia un po' di traverso dai suoi desidèri. Il suo
onore, come cittadino, è di avere avuto queste illusioni. E la sua gloria, come
pensatore, è di avere stabilito la sua utopia sopra elementi veri e durevoli
della società moderna e della nazione italiana, destinati a svilupparsi in un
avvenire più o meno lontano, del quale egli tracciava la via. Le illusioni del
presente erano la verità del futuro. Non è meraviglia che il Machiavelli, con
tanta esperienza del mondo, con tanta sagacia d'osservazione, abbia avuto
illusioni, perchè nella sua natura c'è entrato molto del poetico. Vedilo
nell'osteria giocare con l'oste, con un mugnaio, con due fornaciari a « picca »
e a « trie trac »: "E... nascono mille contese e mille dispetti di parole
ingiuriose, e il più delle volte si combatte un quattrino, e siamo sentiti
nondimanco gridare da San Casciano". Questo non è che plebeo, ma
diviene profondamente poetico nel comento appostovi: "Rinvolto in quella
viltà, traggo il cervello di muffa e sfogo la malignità di questa mia sorte,
sendo contento mi calpesti per quella via, per vedere se la se ne
vergognasse". Vedilo tutto solo per il bosco, con un Petrarca o con un
Dante, « libertineggiare » con lo spirito, fantasticare, abbandonalo alle onde
dell'immaginazione: "Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio
scrittoio; ed in sull'uscio mi spoglio quella vesta contadina piena di fango e
di loto, e mi metto panni reali e curiali, e rivestito decentemente entro nelle
antiche corti degli antichi uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi
pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi
vergogno parlare con loro e domandare della ragione delle loro azioni, ed essi
per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna
noia, e dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la
morte: tutto mi trasferisco in loro". Quel « trasferirsi in loro », quel «
libertineggiare » sono frasi energiche di uno spirito contemplativo, estatico,
entusiastico. C'è una parentela tra Dante e Machiavelli. Ma è un Dante nato
dopo Lorenzo de' Medici, nutrito dello spirito del Boccaccio, che si beffa
della « divina commedia » e cerca la commedia in questo mondo. Nella sua utopia
è visibile una esaltazione dello spirito, poetica e divinatrice. Ecco il
principe leva la bandiera, grida : - Fuori i barbari! --- a modo di Giulio. Il
poeta è lì; assiste allo spettacolo della sua immaginazione: Quali porte se gli
serrerebbero? quali popoli gli negherebbero l'ubbidienza? quale invidia se gli
opporrebbe? quale italiano gli negherebbe l'ossequio? E finisce co' versi del
Petrarca "Virtù contro al Furore prenderà l'arme, e fia il combatter
corto : chè l'antico valore negl'italici cuor non è ancor morto". Ma furono
brevi illusioni. C'era nel suo spirito la bella immagine di un mondo morale e
civile e di un popolo virtuoso e disciplinato, ispirata dall'antica Roma: ciò
che lo fa eloquente ne' suoi biasimi e nelle sue lodi. Ma era un mondo poetico
troppo disforme alla realtà, ed egli medesimo è troppo lontano da quel tipo,
troppo simile per molte parti ai suoi contemporanei. Ond'è che la sua vera musa
non è l'entusiasmo: è l'ironia. La sua aria beffarda, congiunta con la sagacia
dell'osservazione, lo chiariscono uomo del Risorgimento. De' principi
ecclesiastici scrive: "Costoro soli hanno Stati e non li difendono,
hanno sudditi e non li governano, e gli Stati per essere indifesi non sono loro
tolti, e i sudditi per non essere governati non se ne curano, nè pensano nè
possono alienarsi da loro... Essendo quelli retti da cagione superiore, alla
quale la mente umana non aggiugne, lascerò il parlarne; perchè, essendo
esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe ufficio d'uomo presuntuoso e temerario il
discorrerne". In tanta riverenza di parole, non è difficile sorprendere
sulle labbra di chi scrive quel piglio ironico che trovi nei contemporanei.
Famosi sono i suoi ritratti per l'originalità e vivacità dell' osservazione.
Dei francesi e spagnuoli scrive: "Il francese ruberia con lo alito, per
mangiarselo e mandarlo a male, e goderselo con colui a chi lo ha rubato. Natura
contraria alla spagnuola, che di quello che ti ruba mai ne vedi niente".
Da questo profondo ed originale talento di osservazione, da questo spirito
ironico uscì la Mandragola: l'alto riso nel quale finirono le sue illusioni e i
suoi disinganni. Dopo i primi tentativi idillici, la commedia si era
chiusa nelle forme di Plauto e di Terenzio. L'Ariosto scriveva per la corte di
Ferrara; il Cardinale di Bibbiena scriveva per le corti di Urbino e di Roma. Vi
si rappresentavano anche con molta magnificenza traduzioni dal latino. Talora
gli attori erano fanciulli. "Fu pur troppo nuova cosa - scrive il
Castiglione - vedere vecchiettini lunghi un palmo servare quella gravità, quelli
gesti così severi, [simular] parassiti e ciò che fece mai Menandro".
Accompagnamento alla commedia era la musica, e intermezzi o intromesse erano le
«moresche», balli mimici. Le decorazioni magnifiche. "Nella
rappresentazione della Calandria in Urbino vedevi un tempio... tanto ben finito
- dice il Castiglione, - che... non saria possibile a credere che fosse fatto
in quattro mesi: tutto lavorato di stucco, con istorie bellissime: finte le
finestre d'alabastro: tutti gli architravi e le cornici d'oro fino e azzurro oltramarino...:
figure intorno tonde finte di marmo...: colonnette lavorate... Da un de' capi
era un arco trionfale... Era finta di marmo, ma era pittura, la istoria delli
tre Orazi, bellissima... In cima dell'arco era una figura equestre bellissima,
tutta tonda, armata, con un bello atto, che feria con un'asta un nudo che gli
era a' piedi". L'Italia si vagheggiava colà in tutta la pompa delle
sue arti: architettura, scultura, pittura. Musiche bizzarre, tutte nascoste e
in diversi luoghi. Quattro intromesse, una «moresca di Iasòn» o Giasone, un
carro di Venere, un carro di Nettuno, un carro di Giunone. La prima intromessa
è così descritta dal Castiglione: "La prima fu una moresca di Iasòn, il
quale comparse nella scena da un capo ballando, armato all'antica, bello, con
la spada e una targa bellissima; dall'altro furon visti in un tratto due tori,
tanto simili al vero che alcuni pensaron che fosser veri, che gittavano fuoco
dalla bocca, ecc. A questi s'accostò il buon Iasòn, e feceli arare, posto loro il
giogo e l'aratro; e poi seminò i denti del dracone: e nacquero appoco appoco,
del palco, uomini armati all'antica, tanto bene quanto credo io che si possa. E
questi ballarono una fiera moresca, per ammazzar Iasòn; e poi, quando furono
all'entrare, s'ammazzavano ad uno ad uno, ma non si vedeano morire. Dietro ad
essi se n'entrò Iasòn, e subito uscì col vello d'oro alle spalle, ballando
eccellentissimamente. E questo era il Moro, e questa fu la prima intromessa.
Finita la commedia nacque sul palco all'improvvisto un amorino, che dichiarò
con alcune stanze il significato delle intromesse. Poi s'udì una musica nascosa
di quattro viole, e poi quattro voci con le viole, che cantarono una stanza con
un bello aere di musica, quasi una orazione ad Amore; e così fu finita la
festa, con grande satisfazione e piacere di chi la vide"; .....dice
sempre il Castiglione, l'autore del Cortigiano, che ci ebbe non piccola parte
ad ordinarla. Cosa era questa Calandria, nella cui rappresentazione Urbino e
poi Roma sfoggiarono tanto lusso ed eleganza? Il protagonista è Calandro, un
facsimile di Calandrino, il marito sciocco: motivo comico del Decamerone,
rimasto proverbiale in tutte le commedie e novelle. Non vi manca il negromante
o l'astrologo che vive a spese de' gonzi. L'intreccio nasce da un fratello e
una sorella similissimi di figura, che, vestiti or da uomo or da donna,
generano equivoci curiosissimi. Dov'è lo sciocco c' è anche il furbo, e il
furbo è Fessenio, licenzioso, arguto, cinico, che fa il mezzano al padrone, il
cui pedagogo ci perde le sue lezioni. Molto bella è una scena tra il pedagogo e
Fessenio: il pedagogo che moralizza, e Fessenio che gli dà la baia. Come
si vede, l'argomento è di Plauto e il pensiero è del Boccaccio. La tela è
antica, lo spirito è moderno. Assisti ad una rappresentazione di una delle più
ciniche novelle del Decamerone. Caratteri, costumi, lingua e stile, tutto è
vivo e fresco: ci senti la scuola fiorentina del Berni e del Lasca, l'alito di
Lorenzo de’MEDICI (si veda). E' uno sguardo allegro e superficiale gettato sul
mondo. I caratteri vi sono appena sbozzati; domina il caso e il capriccio; gli
accidenti più strani si addossano gli uni sugli altri, crudi, senza sviluppo,
più simili a' balli mimici delle intromesse che a vere e serie
rappresentazioni. Pare che quegli uomini non avessero tempo di pensare e non di
sentire, e che tutta la loro vita fosse esteriore, come la vita teatrale in
certi tempi è stata tutta nelle gole dei cantanti e nelle gambe delle
ballerine. Queste erano le commedie dette « d'intreccio », sullo stesso stampo
delle novelle. A prima vista, ti pare qualcosa di simile la Mandragola. Anche
qui vi è grande varietà d'intreccio, con accidenti i più comici e più strani.
Ma niente è lasciato al caso. Machiavelli concepisce la commedia come ha
concepito la storia. Il suo mondo comico è un gioco di forze, dotate ciascuna
di qualità proprie, che debbono condurre inevitabilmente al tale risultato.
L'interesse è perciò tutto nei caratteri e nel loro sviluppo. Il protagonista è
il solito marito sciocco. Il suo Calandrino o Calandro è il dottor Nicia, uomo
istruito e che sa di latino, gabbato facilmente da uomini, che hanno minor
dottrina dì lui ma più pratica del mondo. C è già qui un concetto assai più
profondo che non in Calandro: si sente il grande pensatore. L'obbiettivo
dell'azione comica è la moglie, virtuosissima e prudentissima donna, vera
Lucrezia. E si tratta di vincerla non con la forza, ma con l'astuzia. Gli
antecedenti sono simili a quelli della Lucrezia romana. Callimaco, come Sesto,
sente vantar la sua bellezza, e lascia Parigi e torna a Firenze sua patria,
risoluto di farla sua. La tragedia romana si trasforma nella commedia
fiorentina. Il mondo è mutato e rimpiccinito, Collatino è divenuto Nicia. Come
Machiavelli ha potuto esercitare il suo ingegno a scriver commedie?
Scusatelo con questo: che s'ingegna con questi van pensieri fare il
suo tristo tempo più soave, perchè altrove non ave dove voltare il
viso; chè gli è stato interciso mostrar con altre imprese altre
virtue, non sendo premio alle fatiche sue. Cattivi versi, ma strazianti.
Il suo riso è frutto di malinconia. Mentre Carlo ottavo correva Italia, Piero
de' Medici e Federigo d'Aragona si scrivevano i loro intrighi d'amore; il cardinale
da Bibbiena, « assassinato di amore », e il Bembo esalavano in lettere i loro
sospiri, e l'uno scrivea gli Asolanie l'altro la Calandria; e Machiavelli
parlava al deserto, ammonendo, consigliando; e non udito e non curato, fece
come gli altri: scrisse commedie, ed ebbe l'onore di far ridere molto il papa e
i cardinali. Callimaco, l'innamorato di Lucrezia, si associa all'impresa
Ligurio, un parassito che usava in casa Nicia. Lo sciocco è Nicia: il furbo è
Ligurio, l'amico di casa, come si direbbe oggi. Ligurio tiene le fila in mano,
e fa muovere tutti gli attori a suo gusto, perchè conosce il loro carattere,
ciò che li muove. Ligurio è un essere destituito d'ogni senso morale e che per
un buon boccone tradirebbe Cristo. Non ha bisogno di essere Jago, perchè Nicia
non è Otello. E' un volgare mariuolo, che con un po' più di spirito farebbe
ridere. Riesce odioso e spregevole, il peggior tipo di uomo che abbia nel
Principe concepito Machiavelli. Fessenio è più allegro e più spiritoso, perciò
più tollerabile. Ciò che muove Ligurio e gli aguzza lo spirito è la pancia:
finisce le sue geste in cantina. Ma questo suo lato comico è appena indicato, e
questa figura ti riesce volgare e fredda. Un altro associato di Callimaco è il
suo servo Siro. Costui ha poca parte, ma è assai ben disegnato. Ode tutto, vede
tutto, capisce tutto; ed ha aria di non udire, non vedere e non capire: fa
l'asino in mezzo ai' suoni. Ma questo lato comico è poco sviluppato, e ti
riesce anche lui freddo: ciò che non guasta nulla, essendo una parte
secondaria. Colui, che è dietro la scena e fa ballare i suoi figurini, è
Ligurio. E sembra che l'ambizione di questo furfante sia di nascondere sè e
mettere in vista tutto il suo mondo. Poco interessante per se stesso, lo ammiri
nella sua opera e perdi lui di vista. Callimaco è un innamorato: per aver la
sua bella farebbe monete false. La parte odiosa è riversata sul capo di
Ligurio. A lui le smanie e i deliri. Non è amore petrarchesco e non è cinica
volgarità: è vero amor naturale coi colori suoi, rappresentato con una
esagerazione e una bonomia che lo rende comico "... Mi fo di buon cuore,
ma io ci sto poco su; perchè d'ogni parte mi assalta tanto desio d'essere una
volta con costei, che io mi sento dalle piante dei piè al capo tutto alterare :
le gambe tremano, le viscere si commuovono, il cuore mi si sbarba del petto, le
braccia si abbandonano, la lingua diventa muta, gli occhi abbarbagliano, il
cervello mi gira". Ma queste sono figure secondarie. L'interesse è tutto
intorno al dottor Nicia, il marito sciocco, sì sciocco che diviene istrumento
inconsapevole dell'innamorato e lo conduce lui stesso al letto nuziale.
L'autore, molto sobrio intorno alle figure accessorie, concentra il suo spirito
comico attorno a costui e lo situa ne' modi più acconci a metterlo in lume. La
sua semplicità è accompagnata con tanta presunzione di saviezza e con tanta
sicurezza di condotta, che l'effetto comico se ne accresce. E Ligurio non solo
lo gabba, ma ci si spassa, e gli tiene sempre la candela sul viso per farlo ben
vedere agli spettatori. Nelle ultime scene c' è una forza e originalità comica
che ha pochi riscontri nel teatro antico e moderno. Il difficile non era
gabbare Nicia, ma persuadere Lucrezia. L'azione, così comica per rispetto a
Nicia, qui s'illumina di una luce fosca e ti rivela inesplorate profondità. Gli
strumenti adoperati a vincer Lucrezia sono il confessore e la madre, la
venalità dell'uno, l'ignoranza superstiziosa dell'altra. E Machiavelli,
non che voglia palliare, qui è terribilmente ignudo: scopre senza pietà quel
putridume. Sostrata, la madre, in poche pennellate è ammirabilmente dipinta. E'
una brava donna, ma di poco criterio, e avvezza a pensare col cervello del suo
confessore. Alle ragioni della figliuola risponde: - « Io non ti so
dir tante cose, figliuola mia. Tu parlerai al frate, vedrai quello che ti dirà,
e farai quello che tu dipoi sarai consigliata da lui, da noi e da chi ti vuol
bene». - E non si parte mai di là: è la sua idea fissa, la sua sola idea: - «
Io t'ho detto e ridicoti che, se fra Timoteo ti dice che non ci sia carico di
coscienza, che tu lo faccia senza pensarvi ». - Il confessore sa perfettamente
che madre è questa. - « ... E'... una bestia - dice - e mi sarà un grande aiuto
a condurla (Lucrezia) alle mie voglie ». Il carattere più
interessante è fra Timoteo, precursore di Tartufo: meno artificiale, anzi tutto
naturale. Fa bottega della chiesa, della Madonna, del purgatorio. Ma gli uomini
non ci credono più, e la bottega redde poco. E lui aguzza l'ingegno. Se la
prende co' frati, che non sanno mantenere la reputazione all'immagine
miracolosa della Madonna: "Io dissi il matutino, lessi una Vita de' santi
padri, andai in chiesa, ed accesi una lampada ch'era spenta, mutai il velo ad
una Madonna che fa miracoli. Quante volte ho io detto a questi frati che la
tengano pulita? E si meravigliano poi se la devozione manca... Oh quanto poco
cervello è in questi miei frati!" Il suo primo ingresso sulla scena è
pieno di significato: colto sul fatto in un dialogo con una sua penitente:
pittura di costumi profonda della sua semplicità. Sta spesso in chiesa, perché
"in chiesa vale più la sua mercanzia". E' di mediocre levatura, buono
a uccellar donne: " ...Madonna Lucrezia è savia e buona. Ma io la giungerò
in su la bontà, e tutte le donne hanno poco cervello; e come n'è una che sappia
dire due parole, e' se de predica; perché in terra di ciechi chi ha un occhio è
signore". Conosce bene i suoi polli: "Le più caritative persone che
ci siano son le donne, e le più fastidiose. Chi le scaccia, fugge i fastidi e
l'utile; chi le intrattiene, ha l'utile e i fastidi insieme. Ed è il vero che
non c è il miele senza le mosche". Biascica paternostri e avemarie, e usa
i modi e il linguaggio del mestiere con la facilità indifferente e meccanica
dell'abitudine. A Ligurio, che, promettendo larga lemosina, gli richiede che
procuri un aborto, risponde: - « Sia col nome di Dio, si faccia ciò che volete,
e per Dio e per carità sia fatta ogni cosa... Datemi... cotesti denari, da
poter cominciare a far qualche bene ». - Parla spesso solo, e sì fa il
suo esame, e si dà l'assoluzione, sempre che gliene venga utile: " Messer
Nicia e Callimaco son ricchi, e da ciascuno per diversi rispetti sono per
trarre assai. La cosa conviene che sia segreta, perchè l'importa così a loro
dirla come a me. Sia come si voglia, io non me ne pento". Se mostra
inquietudine, è per paura che si sappia "Dio sa ch'io non pensava a
ingiuriare persona: stavami nella mia cella, diceva il mio officio,
intratteneva i miei devoti. Mi capitò innanzi questo diavolo di Ligurio, che mi
fece intíngere il dito in un errore, donde io vi ho messo il braccio e tutta la
persona, e non so ancora dove io m'abbia a capitare. Pure mi conforto che,
quando una cosa importa a molti, molti ne hanno aver cura". Questo è l'uomo
a cui la madre conduce la figliuola. Il frate impiega tutta la sua industria a
persuaderla, e non si fa coscienza di adoperarvi quel poco che sa del Vangelo e
della storia sacra: "Io son contenta - conclude Lucrezia; - ma non credo
mai esser viva domattina". E il frate risponde: "Non dubitare,
figliuola mia, io pregherò Dio per te, io dirò l'orazione dell'angiol
Raffaello, che t'accompagni. Andate in buon'ora, e preparatevi a questo
misterio, chè si fa sera". "Rimanete in pace, padre" - dice la
madre; e la povera Lucrezia, che non è ben persuasa, sospira "Dio m'aiuti
e la Nostra Donna ch'io non càpiti male". Quel fatto il frate lo chiama un
« misterio », e il mezzano è l'« angiol Raffaello » ! Queste cose movevano
indignazione in Germania e provocavano la Riforma. In Italia faceva invece
ridere. E il primo a ridere era il papa. Quando un male diviene così sparso
dappertutto e così ordinario che se ne ride, è cancrena e non vi è rimedio.
Tutti ridevano. Ma il riso di tutti era buffoneria, passatempo. Nel riso del
Machiavelli c'è alcunchè di tristo e di serio, che oltrepassa la caricatura e
nuoce all'arte. Evidentemente, il poeta non piglia confidenza con Timoteo, non
lo situa come fa di Nicia, non ci si spassa, se ne sta lontano, quasi abbia
ribrezzo. Timoteo è anima secca, volgare e stupida, senz'immaginazione e senza
spirito: non è abbastanza idealizzato, ha colori troppo crudi e cinici. Lo
stile, nudo e naturale, ha aria più di discorso che di dialogo. Senti meno il
poeta che il critico, il grande osservatore e ritrattista. Appunto perciò
la Mandragola è una commedia che ha fatto il suo tempo. E' troppo incorporata
in quella società, in ciò ch'ella ha di più reale e particolare. Quei
sentimenti e quelle impressioni, che la ispirarono, non li trovi oggi più. La
depravazione del prete e la sua terribile influenza sulla donna e sulla
famiglia appare a noi un argomento pieno di sangue non possiamo farne una
commedia. Machiavelli stesso, che trova tanti lazzi nella pittura di Nicia, qui
perde il suo buon umore e la sua grazia, e mi assomiglia piuttosto un anatomico
che snuda le carni e mostra i nervi e i tendini. Nella sua immaginazione
non c'è il riso e non c'è l'indignazione al cospetto di Timoteo: c'è quella
spaventevole freddezza con la quale ritrae il principe o l'avventuriero o il
gentiluomo. Sono come animali strani, che, curioso osservatore, egli analizza e
descrive, quasi faccia uno studio, estraneo alle emozioni e alle
impressioni. La Mandragola è la base di tutta una nuova letteratura. E'
un mondo mobile e vivace, che ha varietà, sveltezza, curiosità, come un mondo
governato dal caso. Ma sotto queste apparenze frivole si nascondono le più
profonde combinazioni della vita interiore. L'impulso dell'azione viene da
forze spirituali, inevitabili come il fato. Basta conoscere i personaggi per
indovinare la fine. Il mondo è rappresentato come una conseguenza, le cui
premesse sono nello spirito o nel carattere, nelle forze che lo movono. E chi
meglio sa calcolarle, colui vince. Il soprannaturale, il meraviglioso, il caso
sono detronizzati. Succede il carattere. Quello, che Machiavelli è nella storia
e nella politica, è ancora nell'arte. Si distinsero due specie di commedie :
«d'intrecci» e di caratter». «Commedia d'intrecci» fu detta dove l'interesse
nasce dagli sviluppi dell'azione, come erano tutte le commedie e novelle di
quel tempo e anche tragedie. Si cercava l'effetto nella stranezza e nella
complicazione degli accidenti. « Commedia di carattere » fu detta dove l'azione
è mezzo a mettere in mostra un carattere. E sono definizioni viziose. Hai da
una parte commedie sbardellate per troppo cumulo d'intrighi, dall'altra
commedie scarne per troppa povertà d'azione. Machiavelli riunisce le due
qualità. La sua commedia è una vera e propria azione, vivacissima di movimenti
e di situazioni, animata da forze interiori, che ci stanno come forze o
istrumenti e non come fini o risultati. Il carattere è messo in vista vivo,
come forza operante, non come qualità astratta. Ciò che di più profondo ha il
pensiero esce fuori sotto le forme più allegre e più corpulente, fino della più
volgare e cinica buffoneria, come è il « don Cuccù », e la « palla di aloè ».
C'è lì tutto Machiavelli, l'uomo che giocava all'osteria e l'uomo che meditava
allo scrittoio. Di ogni scrittore muore una parte. E anche del
Machiavelli una parte è morta: quella per la quale è venuto a triste celebrità.
E' la sua parte più grossolana, è la sua scoria quella che ordinariamente è
tenuta parte sua vitale, così vitale che è stata detta il «machiavellismo».
Anche oggi, quando uno straniero vuol dire un complimento all'Italia, la chiama
«patria di Dante e di Savonarola», e tace di Machiavelli. Noi stessi non osiamo
chiamarci «figli di Machiavelli». Tra il grande uomo e noi c'è il
machiavellismo. E' una parola, ma una parola consacrata dal tempo, che
parla all'immaginazione e ti spaventa come fosse l'orco. Del Machiavelli è
avvenuto quello che del Petrarca. Si è chiamato «petrarchismo » quello che in
lui è un incidente ed è il tutto ne' suoi imitatori. E si è chiamato
«machiavellismo » quello che nella sua dottrina è accessorio e relativo, e si è
dimenticato quello che vi è di assoluto e di permanente. Così è nato un
Machiavelli di convenzione, veduto da un lato solo e dal meno interessante. E'
tempo di rintegrare l'immagine. C'è nel Machiavelli una logica formale e
c'è un contenuto. La sua logica ha per base la serietà dello scopo, ciò
ch'egli chiama « virtù »: Proporti uno scopo quando non puoi o non vuoi
conseguirlo, è da femmina. «Essere uomo» significa «marciare allo scopo». Ma
nella loro marcia gli uomini errano spesso, perchè hanno l'intelletto e la
volontà intorbidata da fantasmi e da sentimenti, e giudicano secondo le
apparenze. Sono spiriti fiacchi e deboli quelli che stimano le cose come le
paiono e non come le sono, a quel modo che fa la plebe. Cacciar via
dunque tutte le vane apparenze e andare allo scopo con lucidità di mente e
fermezza di volontà, questo è essere un uomo, aver la stoffa d'uomo. Quest'uomo
può essere un tiranno o un cittadino, un uomo buono o un tristo. Ciò è fuori
dell'argomento, è un altro aspetto dell'uomo. Ciò che riguarda Machiavelli è di
vedere se è un uomo: ciò che mira è rifare le radici alla pianta « uomo », in
declinazione. In questa sua logica la virtù è il carattere o la tempra, e il
vizio è l'incoerenza, la paura, l'oscillazione. Si comprende che in questa
generalità c'è lezioni per tutti, per ibuoni e per i birbanti, e che lo stesso
libro sembra agli uni il codice dei tiranni e agli altri il codice degli uomini
liberi. Ciò che vi s'impara è di essere un uomo, come base di tutto il
resto. Vi s'impara che la storia, come la natura, non è regolata dal caso, ma
da forze intelligenti e calcolabili, fondate sulla concordanza dello scopo e
de' mezzi; e che l'uomo, come essere collettivo o individuo, non è degno di
questo nome se non sia anche esso una forza intelligente, coerenza di scopo e
di mezzi. Da questa base esce l'età virile del mondo, sottratta possibilmente
all'influsso dell'immaginazione e delle passioni, con uno scopo chiaro e serio
e con mezzi precisi. Questo è il concetto fondamentale, l'obbiettivo del
Machiavelli. Ma non è principio astratto e ozioso: c'è un contenuto, che
abbiamo già delineato ne' tratti essenziali. La serietà della vita
terrestre col suo strumento, il lavoro; col suo obbiettivo, la patria; col suo
principio, l'eguaglianza e la libertà; col suo vincolo morale, la nazione; col
suo fattore, lo spirito o il pensiero umano, immutabile ed immortale; col suo
organismo, lo Stato, autonomo e indipendente; con la disciplina delle forze;
con l'equilibrio degl'interessi: ecco ciò che vi è di assoluto e di permanente
nel mondo del Machiavelli, a cui è di corona la gloria, cioè l'approvazione del
genere umano, ed è di base la virtù o il carattere: « altere et pati fortia ».
Il fondamento scientifico di questo mondo è la cosa effettuale, come te la
porge l'esperienza e l'osservazione. L'immaginazione, il sentimento,
l'astrazione sono così perniciosi nella scienza come nella vita. Muore la
scolastica : nasce la scienza. Questo è il vero machiavellismo, vivo, anzi
giovane ancora. E' il programma del mondo moderno, sviluppato, corretto,
ampliato, più o meno realizzato. E sono grandi le nazioni che più vi si
avvicinano. Siano dunque alteri del nostro Machiavelli. Gloria a lui quando
crolla alcuna parte dell'antico edificio, e gloria a lui quando si fabbrica
alcuna parte del nuovo ! In questo momento che scrivo (1870), le campane
suonano a distesa e annunziano l'entrata degl'italiani a Roma. Il potere
temporale crolla, e si grida il «viva » all'unità d'Italia. Sia gloria al
Machiavelli ! Scrittore non solo profondo, ma simpatico. Perchè nelle sue
transazioni politiche discerni sempre le sue vere inclinazioni. Antipapale,
antifeudale, civile, moderno. E quando, stretto dal suo scopo, propone certi
mezzi, non di rado s'interrompe, protesta, ha quasi aria di chiederti scusa e
di dirti: - Guarda che siamo in tempi corrotti; e se i mezzi son questi e il
mondo è fatto così, la colpa non è mia. Ciò che è morto del Machiavelli
non e il sistema, è la sua esagerazione. La sua «patria» mi rassomiglia troppo
l'antica divinità, e assorbe in sè religione, moralità, individualità. Il suo «
Stato » non è contento di essere esso autonomo, ma toglie l'autonomia a tutto
il rimanente. Ci sono i dritti dello Stato: mancano i dritti dell'uomo. La «
ragione di Stato » ebbe le sue forche, come l'Inquisizione ebbe i suoi roghi, e
la «salute pubblica» le sue mannaie. Fu Stato di guerra, e in quel
furore di lotte religiose e politiche ebbe la sua culla sanguinosa il mondo
moderno. Dalla forza uscì la giustizia. Da quelle lotte uscì la libertà di
coscienza, l'indipendenza del potere civile e più tardi la libertà e la
nazionalità. E se chiamate «machiavellismo» quei mezzi, vogliate chiamare «machiavellismo»
quei fini. Ma i mezzi sono relativi e si trasformano, sono la parte che muore:
i fini rimangono eterni. Gloria del Machiavelli è il suo programma; e non
è sua colpa che l'intelletto gli abbia indicati de' mezzi, i quali la storia
posteriore dimostrò conformi alla logica del mondo. Fu più facile il biasimarli
che sceglierne altri. «Dura lex, sed ita lex ». Certo, oggi il mondo è
migliorato in questo aspetto. Certi mezzi non sarebbero più tollerati e
produrrebbero un effetto opposto a quello che se ne attendeva Machiavelli:
allontanerebbero dallo scopo. L'assassinio politico, il tradimento, la frode,
le sètte, le congiure sono mezzi che tendono a scomparire. Presentiamo già
tempi più umani e civili, dove non sono più possibili la guerra, il duello, le
rivoluzioni, le reazioni, la ragion di Stato e la salute pubblica. Sarà l'età
dell'oro. Le nazioni saranno confederate, e non ci sarà altra gara che
d'industrie, di commerci e di studi. E' un bel programma. E quantunque sembri
un'utopia, non dispero. Ciò che lo spirito concepisce, presto o tardi viene a
maturità. Ho fede nel progresso e nell'avvenire. Ma siamo ben lontani dal
Machiavelli. E anche dai nostri tempi. E non è con i criteri di un mondo
nascosto ancora nelle ombre dell'avvenire che possiamo giudicare e condannare
Machiavelli. Anche oggi siamo costretti a dire: - Crudele è la logica della
storia; ma quella è. Nel machiavellismo c'è una parte variabile nella
qualità e nella quantità, relativa al tempo, al luogo, allo stato della coltura,
alle condizioni morali de' popoli. Questa parte, che riguarda i mezzi, è molto
mutata, e muterà in tutto, quando la società sarà radicalmente rinnovata. Ma la
teoria de' mezzi è assoluta ed eterna, perchè fondata sulle qualità immutabili
della natura umana. Il principio, dal quale si sviluppa quella teoria, è
questo: che i mezzi debbono avere per base l'intelligenza e il calcolo delle
forze che muovono gli uomini. E' chiaro che in queste forze c'è l'assoluto e il
relativo; e il torto del Machiavelli, comunissimo a tutti i grandi pensatori, è
di avere espresso in modo assoluto tutto, anche ciò che è essenzialmente
relativo e variabile. Il machiavellismo, in ciò che ha di assoluto o di
sostanziale, è l'uomo considerato come un essere autonomo e bastante a se stesso,
che ha nella sua natura i suoi fini e i suoi mezzi, le leggi del suo sviluppo,
della sua grandezza e della sua decadenza, come uomo e come società. Su questa
base sorgono la storia, la politica, e tutte le scienze sociali. Gli inizi
della scienza sono ritratti, discorsi, osservazioni di uomo che alla coltura
classica unisca esperienza grande e un intelletto chiaro e libero. Questo è il
machiavellismo, come scienza e come metodo. Ivi il pensiero moderno trova la
sua base e il suo linguaggio. Come contenuto, il machiavellismo sui rottami del
medio evo abbozza un mondo intenzionale, visibile tra le transazioni e i
vacillamenti dell'uomo politico: un mondo fondato sulla patria, sulla
nazionalità, sulla libertà, sull'uguaglianza, sul lavoro, sulla virilità e
serietà dell'uomo. In letteratura, l'effetto immediato del machiavellismo è la
storia e la politica emancipate da elementi fantastici, etici, sentimentali, e
condotte in forma razionale; è il pensiero volto agli studi positivi dell'uomo
e della natura, messe da parte le speculazioni teologiche e ontologiche; è il
linguaggio purificato della scoria scolastica e del meccanismo classico, e
ridotto nella forma spedita e naturale della conversazione e del discorso. E'
l'ultimo e più maturo frutto del genio toscano. Su questa via incontriamo prima
Francesco Guicciardini, con tutti gli scrittori politici della scuola
fiorentina e veneta; poi GALILEI (si veda), con la sua illustre coorte di
naturalisti. GUICCIARDINI (si veda), di pochi anni più giovane di Machiavelli e
di BUONARROTI (si eda), già non sembra della stessa generazione. Senti in lui
il precursore di una generazione più fiacca e più corrotta, della quale egli ha
scritto il vangelo ne' suoi Ricordi. Ha le stesse aspirazioni del Machiavelli.
Odia i preti. Odia lo straniero. Vuole l'Italia unita. Vuole anche la libertà,
concepita a modo suo, con una immagine di governo stretto e temperato, che si
avvicina ai presenti ordini costituzionali o misti. Ma sono semplici desidèri,
e non metterebbe un dito a realizzarli. "Tre cose - scrive -
desidero vedere innanzi alla mia morte; ma dubito che io viva molto, da non
vederne alcuna: uno vivere in una repubblica bene ordinata nella città nostra;
l'Italia liberata da tutti i barbari; e liberato il mondo della tirannide di
questi scellerati preti". Una libertà bene ordinata, l'indipendenza e
l'autonomia delle nazioni, l'affrancamento del laicato: ecco il programma del
Machiavelli, divenuto il testamento del Guicciardini, e che oggi è ancora la
bandiera di tutta la parte civile europea. Si può credere che questi fossero i
desidèri anche delle classi colte. Ma erano amori platonici, senza influsso
nella pratica della vita. Il ritratto di quella società è il Guicciardini, che
scrive: « Conoscere non è mettere in atto ». Altro è desiderare, altro è fare.
La teoria non è la pratica. Pensa come vuoi, ma fai come ti torna. La regola
della vita è « l'interesse proprio », «il tuo particulare ». Il Guicciardini
biasima « l'ambizione, l'avarizia e la mollezza de' preti » e il dominio
temporale ecclesiastico; ama Martino Lutero, per vedere ridurre « questa
caterva di scellerati ai tempi debiti, a restare o senza vizi o senza autorità
» ; ma «per il suo particulare » è necessitato amare la grandezza de' pontefici
e servire ai preti e al dominio temporale. Vuole emendata la religione in
molte parti; ma non ci si mescola, lui, « non combatte con la religione nè con
le cose che pare che dipendono da Dio, perchè questo ha troppa forza nella
mente delli sciocchi ». Ama la gloria e desidera di fare «cose grandi ed eccelse
», ma a patto che non sia «con suo danno o incomodità ». Ama la patria, e, se
perisce, gliene duole, non per lei, perchè « così ha a essere », ma per sè, «
nato in tempi di tanta infelicità ». E' zelante del ben pubblico, ma « non
s'ingolfa tanto nello Stato » da mettere in quello tutta la sua fortuna. Vuole
la libertà, ma, quando la sia perduta, non è bene fare mutazioni, perchè «
mutano i visi delle persone, non le cose, e non puoi fare fondamento sul popolo
», e, quando la vada male, ti tocca « la vita spregiata del fuoruscito ».
Miglior consiglio è portarsi in modo che quelli che « governano non ti abbiano
in sospetto e neppure ti pongano fra' malcontenti». Quelli che altrimenti fanno
sono uomini « leggeri ». Molti, è vero, gridano « libertà », ma « in quasi
tutti prepondera il rispetto dell'interesse suo ». Essendo il mondo fatto così,
devi pigliare il mondo com'è, e far in modo che non te ne venga danno, anzi la
maggiore comodità possibile. Così fanno gli uomini « savi ». La
corruttela italiana era appunto in questo: che la coscienza era vuota e mancava
ogni degno scopo alla vita. Machiavelli ti addita in fondo al cammino della
vita terrestre la patria, la nazione, la libertà. Non c'è più il cielo per lui,
ma c'è ancora la terra. Il Guicciardini ammette anche lui questi fini,
come cose belle e buone e desiderabili; ma li ammette sub conditione, a patto
che sieno conciliabili col tuo « particulare », come dice, cioè col tuo
interesse personale. Non crede alla virtù, alla generosità, al patriottismo, al
sacrificio, al disinteresse. Ne' più prepondera l'interesse proprio, e mette sè
francamente tra questi più, che sono i «savi »; gli altri li chiama « pazzi »,
come furono i fiorentini, che « vollero contro ogni ragione opporsi », quando «
i savi di Firenze avrebbono ceduto alla tempesta », e intende dell'assedio di
Firenze, illustrato dall'eroica resistenza di quei pazzi, tra' quali erano
Michelangelo e Ferruccio. Machiavelli combatte la corruttela italiana e non
dispera del suo paese. Ha le illusioni di un nobile cuore. Appartiene a quella
generazione di patrioti fiorentini, che in tanta rovina cercavano i rimedi, e
non si rassegnavano, e illustrarono l'Italia con la loro caduta. Nel
Guicciardini compare una generazione già rassegnata. Non ha illusioni. E perché
non vede rimedio a quella corruttela, vi si avvolge egli pure e ne fa la sua
saviezza e la sua aureola. I suoi Ricordi sono la corruttela italiana
codificata e innalzata a regola della vita. Il Dio del Guicciardini è il suo
particolare. Ed è un Dio non meno assorbente che il Dio degli ascetici o lo
Stato del Machiavelli. Tutti gl'ideali scompaiono. Ogni vincolo religioso,
morale, politico, che tiene insieme un popolo, è spezzato. Non rimane sulla
scena del mondo che l'individuo. Ciascuno per sè, verso e contro tutti. Questo
non è più corruzione, contro la quale si gridi: è saviezza, è dottrina
predicata e inculcata, è l'arte della vita. Il Guicciardini si crede più savio
del Machiavelli, perché non ha le sue illusioni. Quel venir fuori sempre con l'antica
Roma lo infastidisce, e rompe in questo motto sanguinoso: "Quanto si
ingannano coloro che ad ogni parola allegano e' romani! Bisognerebbe avere una
città condizionata come era la loro, e poi governarsi secondo quello esemplo:
il quale a chi ha le qualità disproporzionali è tanto disproporzionato, quanto
sarebbe volere che uno asino facesse il corso di un cavallo". In
questo concetto della vita il Guicciardini è di così buona fede, che non sente
rimorso e non mostra la minima esitazione, e guarda con un'aria di superiorità
sprezzante gli uomini che fanno altrimenti. Il che avviene, a suo avviso, non
per virtù o altezza d'animo, ma « per debolezza di cervello », avendo offuscato
lo spirito dalle apparenze, dalle impressioni, dalle vane immaginazioni e dalle
passioni. Ci si vede l'ultimo risultato a cui giunge lo spirito italiano, già
adulto e progredito, che caccia via l'immaginazione e l'affetto e la fede, ed è
tutto e solo cervello o, come dice il Guicciardini, « ingegno positivo». Perché
l'ingegno sia positivo si richiede la « prudenza naturale », la « dottrina »
che dà le regole, l' « esperienza » che dà gli esempli, e il « naturale buono
», tale cioè che stia al reale e non abbia illusioni. E non basta.
Si richiede anche la « discrezione » o il discernimento, perché è «
grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e,
per dire così, per regola, perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione, e
queste distinzioni e eccezioni non si trovano scritte in su' libri, ma bisogna
le insegni la discrezione ». Il vero libro della vita è dunque « il libro della
discrezione », a leggere il quale si richiede da natura « buono e perspicace
occhio ». La dottrina sola non basta, e non è bene « stare al giudicio di
quelli che scrivono, e in ogni cosa volere vedere ognuno che scrive: così
quello tempo che s'arebbe a mettere in speculare, si consuma a leggere libri
con stracchezza d'animo e di corpo, in modo che l'ha quasi più similitudine a
una fatica di facchini che di dotti». L'uomo positivo vede il mondo
diverso da quello che « ai volgari » pare. Non crede agli astrologi, ai
teologi, ai filosofi e a tutti quelli che scrivono le cose sopra natura o che
non si vedono « e dicono mille pazzie » : perchè in effetti gli uomini sono al
buio delle cose, e questa indagine ha servito e serve più a esercitare gli
ingegni che a trovare la verità. Questa base intellettuale è quella medesima
del Machiavelli: l'esperienza e l'osservazione, il fatto e lo « speculare » o
l'osservare. Nè altro è il sistema. Il Guicciardini nega tutto quello che il
Machiavelli nega, e in forma anche più recisa; e ammette quello che il
Machiavelli ammette. Ma è più logico e più conseguente. Poichè la base è il
mondo com'è, crede un illusione a volerlo riformare, e volergli dare le gambe
di cavallo quando esso le ha di asino; e lo piglia com'è, e vi si acconcia, e
ne fa la sua regola e il suo istrumento. Conoscere non è mettere in atto. Ciò
che è nella tua mente e nella tua coscienza non può essere di regola alla tua
vita. Vivere è conoscere il mondo e voltarlo a benefizio tuo. Tienti bene con
tutti, perchè « gli uomini si riscontrano ». Stai con chi vince, perchè « te ne
viene parte di lode e di premio ». «Abbi appetito della roba », perchè la ti dà
reputazione, e la povertà è spregiata. Sii schietto, perchè, « quando sia il
caso di simulare, più facilmente acquisti fede ». Sii stretto nello spendere,
perchè « più onore ti fa uno ducato che tu hai in borsa, che dieci che tu ne
hai spesi ». Studia di « parer buono », perchè « il buon nome vale più che
molte ricchezze ». Non meritarti nome di sospettoso; ma, perchè più sono i
cattivi che i buoni, « credi poco e fidati poco ». Questo è il
succo dell'arte della vita seguita da' più, ancorchè con qualche ipocrisia, come
se ne vergognassero. Ma il Guicciardini ne fa un codice, fondato sul divorzio
tra l'uomo e la coscienza e sull'interesse individuale. E' il codice di quella
borghesia italiana, tranquilla, scettica, intelligente, e positiva, succeduto
ai codici d'amore e alle regole della cavalleria. Ma il Guicciardini, con tutta
la sua saggezza, trovò un altro più saggio di lui, e, volendo usare Cosimo a
benefizio suo, avvenne che fu lui istrumento di Cosimo. Così finì la vita, come
il Machiavelli, nella solitudine e nell'abbandono. Ebbe anche lui le sue
illusioni e i suoi disinganni, meno nobili, meno degni della posterità, perchè
si riferivano al suo particolare. Ritirato nella sua villa d'Arcetri, il
Guicciardini usò gli ozi a scrivere la Storia d'Italia. Se guardiamo alla
potenza intellettuale, è il lavoro più importante che sia uscito da da mente
italiana. Ciò che lo interessa non è la scena, la parte teatrale o poetica,
sulla quale facevano i loro esercizi rettorici il Giovio, il Varchi, il
Giambullari e gli altri storici. I fatti più meravigliosi o commoventi sono da
lui raccontati con una certa sprezzatura, come di uomo che ne ha viste assai e
non si maraviglia e non si commuove più di nulla. Non ha simpatie o antipatie,
non ha tenerezze e indignazioni, e neppure ha programmi o preconcetti intorno
ai risultati generali dei fatti e alle sorti del suo paese. Il suo intelletto
chiaro e tranquillo è chiuso in sè, e non vi entra nulla dal di fuori che lo
turbi o lo svii. E' l'intelletto positivo, con quelle qualità che abbiamo notate
e che in lui sono egregie: la prudenza naturale, la dottrina, l'esperienza, il
naturale buono e la discrezione. Meravigliosa è soprattutto la sua
discrezione nel non riconoscere principi nè regole assolute, e giudicare caso
per caso, guardando in ciascun fatto la sua individualità, quel complesso di
circostanze sue proprie, che lo fanno esser quello e non un altro; dov'è la
vera distinzione tra il pedante e l'uomo d'ingegno. Con queste disposizioni, è
naturale che lo interessa meno la scena che il dietroscena, dove penetra con
sicurezza il suo occhio perspicace. Ha comune col Machiavelli il disprezzo
della superficie, di ciò che si vede e si dice il parere; e lo studio
dell'essere, di ciò che è al di sotto e che non si vede. Hai innanzi non la
sola descrizione de' fatti, ma la loro genesi e la loro preparazione: li vedi
nascere e svilupparsi. I motivi più occulti e vergognosi sono rivelati con la
stessa calma di spirito che i motivi più nobili. Ciò che l'interessa non è il
carattere etico o morale di quelli, ma la loro azione sui fatti. Il motivo
determinante è l'interesse, ed è sagacissimo nell'indagine non meno
degl'interessi privati che degl'interessi detti pubblici, e sono interessi di
re e di corti. Ma gl'interessi hanno la loro ipocrisia, e si nascondono
sotto il manto di fini più nobili, come la gloria, l'onore, la libertà,
l'indipendenza: fini che escono in mezzo quando si vuol cattivare i popoli o
gli eserciti. Di che nasce, massime nelle concioni, una specie di rettorica ad
usum delphini, voglio dire ad uso dei volgari, che non guardano nel fondo e si
lasciano trarre alle belle apparenze. I popoli e gli eserciti vi stanno come
strumenti, e i veri e principali attori sono pochi uomini, che li muovono con
la violenza e con l'astuzia, e li usano ai fini loro. Lo storico avea
intenzioni letterarie. La sua prosa, massime nei Ricordi, ha la precisione
lapidaria di Machiavelli, con quella rapidità e semplicità e perfetta evidenza
che l'avvicina agli esempli più finiti della prosa francese, senza che ne abbia
i difetti. Lo stile e la lingua in questi due scrittori giunge per vigore
intellettuale ad un grado di perfezione che non è stato più raggiunto. Ma GUICCIARDINI
(si veda), di un giudizio così sano nell'andamento de' fatti umani, aveva de'
preconcetti in letteratura: opinioni ammesse senza esame, solo perchè ammesse
da tutti. Lo scrivere è per lui, come per i letterati di quel tempo, la
tradizione del parlare e del discorso naturale in un certo meccanismo molto
complicato e a lui faticoso, quasi vi facesse allora per la prima volta le sue
prove. Molti uomini mediocri, quali il Casa e il Castiglione e il
Salviati e lo Speroni, vi riescono con minore difficoltà, come disciplinati ed
educati a quella forma. La sua chiarezza intellettuale e la sua rapida
percezione è in visibile contrasto con quei giri avviluppati e affannosi del
suo periodo. Li diresti quasi artifici diplomatici per inviluppare in quelle
pieghe i suoi concetti e le sue intenzioni, se non fosse manifesta la sua
franchezza spinta sino al cinismo. Sono artifici puramente letterari e
rettorici. E sono rettorica le sue circonlocuzioni, le sue descrizioni, le sue
orazioni, le sue sentenze morali, un certo calore d'immaginazione e di
sentimento, una certa solennità di tuono. Al di sotto di questi splendori
artificiali trovi un mondo di una ossatura solida e di un perfetto organismo,
freddo come la logica ed esatto come la meccanica, e che non è forse in fondo
se non un corso di forze e d'interessi seguiti nei loro più intimi recessi da
un intelletto superiore. La Storia d'Italia comincia con la calata di Carlo
ottavo: finisce con la caduta di Firenze. Appare in ultimo, come un funebre
annunzio di tempi peggiori, Paolo terzo, il papa della Inquisizione e del
concilio di Trento. Questo periodo storico si può chiamare la « tragedia italiana
», perchè in questo spazio di tempo l'Italia dopo un vano dibattersi passa in
potestà dello straniero. Ma lo storico non ha pur sentore
dell'unità e del significato di questa tragedia; e il protagonista non è
l'Italia e non è il popolo italiano. La tragedia c'è, e sono le grandi calamità
che colpiscono gl'individui: le arcioni, le prede, gli stupri, tutti i mali
della guerra. Avvolto fra tanti « atrocissimi accidenti », sagacissimo a
indagarne i più riposti motivi nel carattere degli attori e nelle loro forze,
l'insieme gli fugge. La Riforma, la calata di Carlo, la lotta tra Carlo
quinto e Francesco primo, la trasformazione del papato, la caduta di Firenze, e
l'Italia bilanciata di Lorenzo divenuta un'Italia definitivamente smembrata e
soggetta: questi fatti generali preoccupano meno lo storico che l'assedio di
Pisa e i più oscuri pettegolezzi tra' principi. Sembra un naturalista, che
studi e classifichi erbe, piante e minerali, e indaghi la loro struttura
interna e la loro fisiologia, che li fa essere così o così. L'uomo vi
appare come un essere naturale, che operi così fatalmente come un animale,
determinato all'azione da passioni, opinioni, interessi, dalla sua natura o
carattere, con la stessa necessità che l'animale è determinato da' suoi istinti
e qualunque essere vivente dalle sue leggi costitutive.
Considerando l'uomo a questo modo, lo storico conserva quella calma
dell'intelletto, quell'apatia e indifferenza che ha un filosofo nella
spiegazione de' fenomeni naturali. Ferruccio e Malatesta gl'ispirano lo stesso
interesse; anzi Malatesta è più interessante, perchè la sua azione è meno
spiegabile e attira più la sua attenzione intellettuale. Di che si stacca
questo concetto della storia: che l'uomo, ancora che sembri nelle sue azioni
libero, è determinato da motivi interni o dal suo carattere, e si può calcolare
quello che farà e come riuscirà, quasi con quella sicurezza che si ha nella
storia naturale. Perciò chi perde ha sempre torto, dovendo recarne la causa a
se stesso, che ha mal calcolato le sue forze e quelle degli altri. Questa
specie di fisica storica non oltrepassa gl'individui, i quali ci appaiono qui
come una specie di macchinette, maravigliose, anzi miracolose alla plebe: a noi
poco interessanti, perchè sappiamo il segreto, conosciamo l'ingegno da cui
escono quei miracoli, e tutto il nostro interesse è concentrato nello studio
dell'ingegno. Il Machiavelli va più in là. Egli intravede una specie di
fisica sociale, come si direbbe oggi, un complesso di leggi che regolano non solo
gli individui, ma la società e il genere umano. Perciò patria, libertà,
nazione, umanità, classi sociali sono per lui fatti non meno interessanti che
le passioni, gli interessi, le opinioni, le forze che muovono gl'individui. E
se vogliamo trovare lo spirito o il significato di questa epoca, molto abbiamo
da imparare nelle sue opere. Indi è che, come carattere morale, il
segretario fiorentino ispira anche oggi vive simpatie in tutti gl'intelletti
elevati, che sanno mirare al di là della scorza nel fondo delle sue dottrine;
e, come forza intellettuale, unisce alla profonda analisi del Guicciardini una
virtù sintetica, una larghezza di vedute, che manca in quello. E' un punto di
partenza nella storia, destinato a svilupparsi. Francesco De Sanctis. Nel 1512
quando ormai aveva più di quarant'anni (era nato a Firenze il 3 maggio 1469, da
antica e nobile famiglia) Niccolò Machiavelli veniva privato del suo ufficio e
veniva inviato al confino per un anno. Il provvedimento era abbastanza logico
perchè tutta l'attività diplomatica e politica di Machiavelli si era svolta al
servizio del regime repubblicano di Firenze e la sua continuazione non poteva
riuscire gradita ai Medici che rientravano nella loro città al seguito delle
vittoriose truppe spagnole. Machiavelli, dopo una giovinezza ( tra i grandi
scrittori italiani dedicata in parte agli studi e in parte agli svaghi, aveva
iniziato la sua attività pubblica nel maggio del 1498 (quando si era conclusa
col rogo l'avventura savonaroliana) , ottenendo l'incarico di segretario della
seconda Cancelleria . Tale attività non aveva mai avuto un grande rilievo sul
piano della politica pratica, ma aveva permesso al segretario fiorentino di
acquistare esperienza diretta degli avvenimenti e dei rivolgimenti politici di
quegli anni tumultuosi che videro il crollo del sistema di stati italiani e
della nostra indipendenza e lo scontro , sul nostro territorio , delle due
nuove potenze europee, la Francia e la Spagna. E in Francia Machiavelli si recò
numerose volte, tanto da conoscere molto bene la struttura di questo stato e da
poter analizzare con precisione le ragioni della forza e del prestigio dei
Francesi e, insieme , le cause dei loro insuccessi. Ma non meno importanti
furono le esperienze che egli potè fare presso Cesare Borgia , l'inquieto
spregiudicato e ambizioso figlio naturale del papa Alessandro VI , che aspirava
alla creazione di un forte stato nell'Italia centrale e minacciava direttamente
e indirettamente Firenze. Presso il Valentino (così era chiamato il
Borgia) Machiavelli si recò due volte nel giugno e nell'ottobre del 1502 in
occasione della ribellione della Valle di Chiana contro il dominio fiorentino (
ribellione fomentata dal Valentino stesso ) e da tali legazioni potè trarre
argomento di ammirazione per l'energia, l'audacia, le capacità diplomatiche di
questo signore "molto splendido e magnifico" che diverrà poi quasi
l'incarnazione del suo principe. D'altra parte egli non fu solo testimone della
fortuna del Valentino, ma anche del crollo di tutte le sue ambizioni , perchè,
dopo l'improvvisa morte di Alessandro VI e il brevissimo pontificato di Pio III
, fu inviato dal governo fiorentino a Roma per seguire il conclave e potè
assistere all'elezione di Giulio II, nemico di Cesare Borgia e sua "
ultima ruina " . In quella occasione , e in una successiva legazione nel
1506 , il Machiavelli potè anche rendersi conto del temperamento del nuovo papa
, dell'energia e del " furore " che lo misero al centro degli
avvenimenti politici di quegli anni . Se si aggiunge che il 1507 il nostro
segretario si recò in Germania presso la corte imperiale ( rimanendovi per
oltre sei mesi ) , che nel 1509 assistette alla resa di Pisa e soprattutto,
alla disfatta della maggiore potenza italiana, Venezia, e che , dal 1506 in poi
, negli intervalli fra una legazione e l'altra, fu incaricato di arruolare e
istruire un corpo di truppa cittadina, si vedrà quanto varia e complessa fosse
l'esperienza di Machiavelli. I problemi di fondo della politica europea
gli si erano così progressivamente chiariti: la necessità di uno stato unitario
moderno, la necessità di truppe non mercenarie, il dramma della divisione
italiana e della inettitudine della nostra classe dirigente. Questi problemi
egli era già venuto elaborando in una serie di scritti minori : Descrizione del
modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto
da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini; Del modo di trattare i
popoli della Valdichiana ribellati; Parole da dire sopra la provvisione del
denaio fatto in loco di pèroemio e di scusa; Discorso dell'ordinare lo stato di
Firenze in armi; Discorso sopra l'ordinanza e la milizia fiorentina; Ritratto
delle cose della Magna; Ritratto delle cose di Francia; il Decennale primo e il
Decennale secondo . E' del tutto comprensibile il cruccio del Machiavelli
vedendosi mettere da parte proprio nel momento in cui era giunto alla sua
completa maturità e poteva guardare le cose dall' alto di una ricchissima
esperienza . Ma i Medici furono inflessibili : in un primo tempo addirittura lo
imprigionarono ( e lo torturarono pure ) , sospettando che avesse partecipato
alla congiura del Boscoli , poi lo tennero inoperoso per quasi otto anni , sino
al 1520 , e infine gli assegnarono qualche incarico minore : di esprimere un
parere a riguardo della costituzione fiorentina ( e lui scrisse il Discorso
sopra il riformare lo stato di Firenze ) , di narrare la storia della città (
di qui le Istorie fiorentine ) , di andare come ambasciatore presso la "
repubblica degli Zoccoli " , cioè presso il capitolo dei Frati minori di
Carpi . Solo nel 1526 gli venne affidato un incarico importante :
quello di cancelliere dei Procuratori delle mura , preposti alla difesa di
Firenze . Ma i Medici vennero di nuovo scacciati e Machiavelli, sospettato
anche dal regime repubblicano, fu lasciato da parte. Durante gli anni del suo
ozio forzato, Machiavelli si ritira in una villa presso San Casciano. Qui egli
passava la giornata a caccia di uccelli, o nella lettura dei poeti latini, o
imbestialendosi nel giocare a tric-trac con l'oste, il mugnaio, il beccaio, o
infine standosene sulla porta dell'osteria e scambiando impressioni e notizie
coi passanti. Ma la sera si ritirava nel suo studio e leggeva le antiche storie
e interrogava gli antichi scrittori: "e non sento per quattro ore di tempo
alcuna noia, dimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la
morte; tutto mi trasferisco in loro". E' dalle meditazioni che ispira
questa frequentazione con i vivi e con i morti, coi passanti e i loro
"vari gusti e diverse fantasie e coi grandi uomini dell'antichità, che
nascono quasi d'un sol getto le grandi opere machiavelliane: il Principe, i
Discorsi sopra la prima Deca di LIVIO (si veda), i dialoghi Dell'arte della
guerra, la Vita di Castracani, La Mandragola. Frequentazione con i vivi e
con i morti, abbiamo detto. Ed è questo che fa grande il Machiavelli, che gli
permette di essere la coscienza più alta del Rinascimento e di rappresentarlo
nei suoi elementi dinamici, nel suo dramma profondo, e non soltanto - come
accadeva al Castiglione e al Bembo - nei suoi elementi grandiosi ma statici. Il
fatto, cioè, che egli sa stabilire, nello stesso tempo, un contatto diretto col
mondo classico e con le persone che lo circondano. Per lui, rivolgersi
all'antico non significa evadere dal presente. Anzi. I problemi che affronta
Machiavelli non sono mai problemi astratti (anche quando sembra che lo siano ),
non sono mai problemi che si pongono sul piano delle categorie universali
(moralità, utilità, politicità, e così via), ma sono problemi collegati alla
valutazione e alla soluzione di una situazione storico-politica concreta,
quella dell'Italia nei primi decenni del sec. XVI Per questo non è la scoperta
della categoria dell'utile diversa e distinta dalla categoria della morale
l'elemento caratterizzante del pensiero machiavelliano: Non già che il problema
dell'autonomia della politica, rispetto alla morale, non sia stato
effettivamente da lui posto. Basterebbe pensare al capitolo del principe dedicato
a coloro "che per scelleranza sono venuti al Principato" con gli
esempi di Agatocle e di Oliverotto da Fermo, all'esaltazione del Valentino -
ammirato nella sua abilità politica indipendentemente dai suoi delitti - o al
capitolo XVIII della stessa opera dove si pone il problema se i principi
debbano mantenere gli impegni presi. E se parlando di Agatocle il Machiavelli
sembrava ancora oscillare non sentendosela di identificare la "virtù"
- sia pure nella particolare accezione in cui egli usava questo termine di
"energia" e "capacità" - con le scelleratezze di Agatocle e
di altri, qui egli non manifesta più dubbi. La politica ha alcune
leggi che non coincidono sempre con con quella della morale: essere buono può
sovente procurare la "ruina" di un principe, al contrario, mancare di
parola, ingannare, assassinare spesso può salvare uno stato. Di qui l'accusa di
immoralità che gli venne presto rivolta, e la formula del "fine che
giustifica i mezzi" che gli viene attribuita. In realtà Machiavelli si
limita a costatare scientificamente le due sfere diverse in cui agiscono
politica e morale. Si rende conto con chiarezza dell'autonomia di una rispetto
all'altra, non ne individua il punto di congiunzione. Ma il secondo problema
non lo interessava: la "realtà effettuale" italiana non suggeriva
certo un discorso sulla morale. Per questo l'interesse del Principe si accentra
tutto, invece, sulla figura del "principe nuovo" come la sola che
possa sciogliere positivamente la complessa trama della crisi italiana: anzi
fra l' elogio del Valentino e la condanna di Cesare . Contraddizioni
inesistenti se si considera che Il principe poneva soprattutto il problema
della creazione di uno stato nuovo nella situazione italiana di quel periodo e
i Discorsi pongono soprattutto il problema del mantenimento dello stato , dei
suoi ordinamenti migliori . Per la stessa ragione nei Discorsi al popolo si dà
un posto che non ha mai nel Principe , fino all'affermazione che il popolo é
" più prudente , più stabile e di migliore giudizio che un principe "
e che " se i principi sono superiori a' popoli nello ordinare le leggi ,
formare vite civili , ordinare statuti ed ordini nuovi , i popoli sono tanto
superiori nel mantenere le cose ordinate " . Così Machiavelli può arrivare
a una stupefacente scoperta che sembra preludere alle concezioni politiche
moderne : che cioè le lotte fra patrizi e plebei non indebolirono Roma , ma le
permisero di raggiungere ordinamenti sempre più perfetti . Insomma nei Discorsi
l' argomentazione é più distesa e distaccata e può , quindi , abbracciare un
campo più vasto anche se meno omogeneo . Così Machiavelli può riprendere il
discorso sulla religione non tanto considerandola uno strumento del potere
costituito , quanto un costume morale che regola i rapporti civili fra i
cittadini come individui privati e , di conseguenza , rende più ordinati e
stabiliti i rapporti fra il cittadino e lo stato . Può riprendere anche il
discorso sulle milizie e sulla necessità di uno stato di ampliarsi , ripudiando
in questo modo definitivamente il concetto di città - stato e sostenendo la
necessità di uno stato con una larga base territoriale . Tale collegamento alle
cose e il carattere di ricerca della sua speculazione si rivelano pienamente
" nella prosa e nello stile stesso " del segretario fiorentino , in
" questo tipo nuovo e liberale di prosa " in cui la sintassi " é
già consapevole della sua libertà ed individualità " e il "
ragionamento a piramide degli scolastici " cede il posto al "
ragionamento a catena " della prosa scientifica moderna . Il lettore ha
costantemente l' impressione di assistere e di essere chiamato a partecipare a
un laborioso processo di ricerca , irto di dubbi e di contraddizioni .
La prosa del Machiavelli non assomiglia mai a quella del maestro che
squaderna agli occhi del proprio allievo una verità della quale egli solo era
in possesso ; essa piuttosto sollecita a provoca il lettore , cui si rivolge ,
di frequente , con un " tu " perentorio e aggressivo, a farsi
compagno e sodale del suo autore, lo immedesima nei dubbi e nelle incertezze di
questo . In tal senso la prosa di MACHIAVELLO MACHIAVELLI (si veda) é
eminentemente moderna . E quando d' improvviso il periodare serrato e
incalzante del segretario fiorentino s' impenna e si apre in una di quelle
rappresentazioni o formule condensate e chiarissime che sono tipiche della sua
opera , il lettore ha la sensazione di assistere al germinare di un' intuizione
nuova preparata e resa possibile da un lungo e penoso lavoro intellettuale , si
sente partecipe della gioia della scoperta e , al tempo stesso , stupito della
semplicità rivoluzionario della medesima . Insomma Machiavelli ha di fronte a
sè una realtà mortificante , la " ruina d' Italia " , nelle sue
istituzioni comunali o signorili , nei costumi dei suoi principi , nell'
avvilimento del popolo . Di qui il pessimismo della sua intelligenza , quel contemplare
distaccato e disgustare un mondo sordido e canagliesco , impastato di bassi
appetiti , di astuzie meschine , di stupidità e di ingordigia che sta al fondo
della Mandragola , il capolavoro del teatro del '500 . Egli , però , ha
compreso l' importanza delle grandi formazioni di stati unitari verificatisi in
Europa, sa che in questa direzione si muove la storia e il progresso ed é
consapevole che il grande patrimonio della civiltà italiana potrebbe esprimere
il principe capace di imprimere un suggello su quella materia informe e
corrotta . Machiavelli non è un puro teorico , inteso a costruire
freddamente una teoria politica per così dire " in laboratorio" : le
sue concezioni scaturiscono dal rapporto diretto con la realtà storica , in cui
egli é impegnato in prima persona grazie agli incarichi che ricopre nella
Repubblica fiorentina , e mirano a loro volta ad incidere in quella realtà ,
modificandola secondo determinate prospettive . Il suo pensiero si presenta
così come una stretta fusione di teoria e prassi : la teoria nasce dalla prassi
e tende a risolversi in essa . Alla base di tutta la riflessione di Machiavelli
vi é la coscienza lucida e sofferta della crisi che l' Italia contemporanea sta
attraversando : una crisi politica , in quanto l' Italia non presenta quei
solidi organismi statali unitari che caratterizzano le maggiori potenze europee
e appare frammentata in una serie di Stati regionali e cittadini deboli e
instabili ; crisi militare , in quanto si fonda ancora su milizie mercenarie e
compagnie di ventura , anzichè su eserciti " cittadini " , che soli
possono garantire la fedeltà , l' ubbidienza , la serietà di impegno ; ma anche
crisi morale , perchè sono scomparsi , o comunque si sono molto affievoliti ,
tutti quei valori che danno fondamento saldo ad un vivere civile , e che per
Machiavelli sono rappresentati esemplarmente dall' antica Roma , l' amore per
la patria , il senso civico , lo spirito di sacrificio e lo slancio eroico , l'
orgoglio e il senso dell' onore , e sono stati sostituiti da un atteggiamento
scettico e rinunciatario , che induce ad abbandonarsi fatalisticamente al
capriccio mutevole della fortuna , senza reagire e senza lottare . Perciò
, come hanno dimostrato le guerre che si sono succedute dopo la calata dei
Francesi, gli Stati italiani sono prossimi a perdere la loro indipendenza
politica e a divenire satelliti delle potenze europee che si stanno disputando
il territorio della penisola. Per Machiavelli l' unica via d' uscita da
una così straordinaria " gravità de' tempi " é un principe dalla
straordinaria "virtù" capace di organizzare le energie che
potenzialmente ancora sussistono nelle genti italiane e di costruire una
compagine statale abbastanza forte da contrastare le mire espansionistiche
degli Stati vicini . A questo obiettivo storicamente concreto é indirizzata
tutta le teorizzazione politica di Machiavelli , la quale perciò si riempie del
calore passionale e dello slancio di chi partecipa con fervore ad un momento
decisivo della storia del proprio paese . Ignorare queste radici pratiche
immediate del pensiero machiavelliano porterebbe a travisarne completamente il
senso. Tuttavia quel pensiero non resta limitato a quel campo così contingente
, poichè altrimenti non avrebbe la forza di sollecitare ancora tanto interesse
: partendo da quella situazione particolare , cercando di dare una risposta
immediata ed efficace a quei problemi di traumatica urgenza , Machiavelli
elabora una teoria che aspira ad avere una portata universale , a fondarsi su
leggi valide in tutti i tempi e tutti i luoghi . Le radici pratiche immediate
danno al suo pensiero quel calore , quella passione che lo rendono affascinante
e che conferiscono alle sue opere uno straordinario valore letterario , ma poi
la sua speculazione assume anche la fisionomia di una vera teoria scientifica. Concordemente
Machiavelli é stato definito come il fondatore della moderna scienza politica:
innanzitutto egli determina nettamente il campo di questa scienza ,
distinguendolo da quello di altre discipline che si occupano ugualmente dell'
agire dell' uomo , come l' etica . Machiavelli , poi , rivendica vigorosamente
l' autonomia del campo dell' azione politica : essa possiede delle proprie
leggi specifiche , e l' agire degli uomini di Stato va studiato e valutato in
base a tali leggi : occorre cioè , nell' analisi dell' operato di un principe ,
valutare esclusivamente se esso ha saputo raggiungere i fini che devono essere
propri della politica , rafforzare e mantenere lo Stato , garantire il bene dei
cittadini . Ogni altro criterio , se il sovrano sia stato giusto e mite o
violento e crudele , se sia stato fedele o abbia mancato alla parola data , non
é pertinente alla valutazione politica del suo operato . E' una teoria di
sconvolgente novità, veramente rivoluzionaria nel contesto della cultura
occidentale . Machiavelli ha il coraggio di mettere in luce ciò che
avviene realmente nella politica , non di delineare degli Stati ideali "
che non si sono mai visti essere in vero . Proclama infatti di voler andar
dietro alla " verità effettuale della cosa" anzichè all'immaginazione
di essa, proprio perchè non gli interessa mettere insieme una bella costruzione
teorica , ma scrivere un' opera " utile a chi la intenda " , fornire
uno strumento concettuale di immediata applicabilità alla politica reale e di
sicura efficacia . Oltre al campo autonomo su cui applica la nuova scienza ,
Machiavelli ne delinea chiaramente il metodo. Esso ha il suo principio
fondamentale nell' aderenza alla " verità effettuale " : proprio
perchè vuole agire sulla realtà ne deve tener conto e quindi per ogni sua
costruzione teorica parte sempre dall' indagine sulla realtà concreta , empiricamente
verificabile , mai da assiomi universali e astratti . Solo mettendo insieme
tutte le varie esperienze si può poi giungere a costruire principi generali .
L' esperienza per Machiavelli può essere di due tipi : quella diretta ,
ricavata dalla partecipazione personale alle vicende presenti , e quella
ricavata dalla lettura degli autori antichi . Machiavelli le definisce (
nella dedica del Principe ) rispettivamente " esperienza delle cose
moderne " e " lezione delle antique " . In realtà si tratta solo
apparentemente di due forme diverse perchè studiare il comportamento di un
politico contemporaneo o di uno vissuto cento anni fa é la stessa cosa , cambia
solo il veicolo della trasmissione dei dati , dell' informazione su cui
lavorare , ma il contenuto é lo stesso. Alla base di questo modo di accostarsi
alla storia vi é una concezione tipicamente naturalistica : Machiavelli é
convinto che l' uomo sia un fenomeno naturale al pari di altri e che quindi i
suoi comportamenti non variino nel tempo , come non variano il corso del sole e
delle stelle . Per questo ha fiducia nel fatto che , studiando il
comportamento umano attraverso le fonti storiche o l' esperienza diretta , si
possa arrivare a formulare delle vere e proprie leggi di validità universale . Proprio
per questo la sua storia é costellata di esempi tratti dalla storia antica :
essi sono la prova che il comportamento umano non varia e che quindi l' agire
degli antichi può essere di modello. Per lui gl’uomini " camminano sempre
per vie battute da altri, perciò propone il principio tipicamente
rinascimentale dell' imitazione : Machiavelli nota che ai suoi tempi l'
imitazione degli antichi é pratica costante nelle arti figurative , nella
medicina , nel diritto e depreca quindi che lo stesso non avvenga nella
politica. Da questa visione naturalistica scaturisce la fiducia di
Machiavelli in una teoria razionale dell' agire politico , che sappia
individuare le leggi a cui i fatti politici rispondono necessariamente e quindi
sappia suggerire le sicure linee di condotta statistica . Il punto di partenza
per la formulazione di tali leggi é una visione crudamente pessimistica dell'
uomo come essere morale : l' uomo agli occhi di Machiavelli é malvagio : non ne
teorizza filosoficamente le cause , non indaga se lo sia per natura o in
conseguenza ad una colpa originariamente commessa , ma si limita a constatare
empiricamente gli effetti della sua malvagità sulla realtà . Gli uomini sono
" ingrati , volubili , simulatori e dissimulatori , fuggitori de' pericoli
, cupidi di guadagno " e dimenticano più facilmente l' uccisione del padre
che la perdita del patrimonio : la molla che li spinge é l' interesse materiale
e non sono i valori sentimentali disinteressati e nobili . Tra tanti uomini
malvagi il principe non deve nè può " fare in tutte le parti la
professione di buono " perchè andrebbe incontro alla rovina : deve anche
sapere essere " non buono " laddove lo richiedano le necessità dello
Stato . Il vero politico agli occhi di Machiavelli deve essere un centauro , ossia
un essere metà uomo e metà animale , deve cioè essere umano o feroce come una
bestia a seconda delle situazioni . Tuttavia Machiavelli sa bene
come il venir meno alla parola data o l' uccidere spietatamente i nemici per un
principe siano cose ripugnanti moralmente : tuttavia se il principe eticamente
é malvagio in politica diventa buono , perchè uccide per difendere lo Stato e
le sue istituzioni ; allo stesso modo i buoni moralmente sarebbero cattivi
" politicamente perchè non uccidendo e non compiendo azioni malvagie
lascerebbe perire lo Stato . Machiavelli quindi non é il fondatore di una nuova
morale , anzi , moralmente parlando é un tradizionalista e considera "
cattivo " chi uccide o non mantiene la parola data ; egli semplicemente
individua un ordine di giudizi autonomi che si regolano su altri criteri , non
il bene o il male , ma l' utile o il danno politico . E' interessante notare
che Machiavelli distingue tra principi e tiranni : principe é chi usa metodi
riprovevoli a fin di bene , in favore dello Stato ; tiranno , invece , é chi li
usa senza che ci sia necessità . E' solo lo Stato che può costituire un rimedio
alla malvagità dell' uomo , al suo egoismo che disgregherebbe ogni comunità in
un caos di spinte individualiste contrapposte le une alle altre . Per
quel che riguarda il rapporto con la religione , a Machiavelli non interessa
nella sua prospettiva concettuale , come contenuto di verità , nè tanto meno
nella sua dimensione spirituale , come garanzia di salvezza , ma solo ed
esclusivamente come " instrumentum regni " , ossia come strumento di
governo . La religione , in quanto fede in certi principi comuni , obbliga i
cittadini a rispettarsi reciprocamente e a mantenere la parola data : questa
era la funzione che la religione rivestiva già ai tempi degli antichi Romani ,
secondo Machiavelli . Tuttavia nei Discorsi Machiavelli muove anche un biasimo
alla religione , accusandola di essere spesso stata colpevole di rendere gli
uomini miti e rassegnati , di far sì che essi svalutassero le cose terrene per
guardare solo al cielo . La forma di governo che meglio compendia in sè l' idea
di Stato per Machiavelli é quella repubblicana , che argina e disciplina le
forze anarchiche dell' uomo . Il principato é per Machiavelli una forma d'
eccezione e transitoria , indispensabile solo in certi momenti , come quello
che l' Italia sta vivendo ai suoi tempi , per costruire uno Stato
sufficientemente saldo . La forma repubblicana é la migliore perchè non si
fonda su un solo uomo , ma ha istituzioni stabili e durature. Dall' esilio
dell' Albergaccio , Machiavelli annunciava all' amico Vettori di aver composto
un " opuscolo de principatibus, in cui si trattava " che cosa é
principato , di quale spetie sono , come e' si mantengono , perchè e' si
perdono " . L' indicazione fissa il momento in cui l' opera può dirsi
compiuta , ma lascia aperti altri problemi di datazione : in quale periodo sia
stata composta , se sia stata scritta unitariamente o in fasi diverse e
soprattutto quali siano i rapporti che legano ai "Discorsi sopra la prima
deca di LIVIO (si veda)" . Oggi gli studiosi tendono a collocare la
composizione in una stesura di getto , mentre si ritiene che posteriormente sia
stata scritta la dedica a Lorenzo de' MEDICI (si veda) e probabilmente anche il
capitolo finale che , nel suo carattere di appassionata esortazione a liberare
l' Italia dai " barbari " , sembra staccarsi dal tono lucidamente
argomentativo del resto del trattato . Per quanto riguarda i rapporti con I
Discorsi si é pensato che la stesura di tale opera sia iniziata precedentemente
e sia stata interrotta nel luglio per far posto alla composizione del
trattatello , che rispondeva a bisogni di maggiore urgenza , agganciandosi
direttamente ai problemi attuali della situazione italiana. Il principe é
un' operetta molto breve , scritta in forma concisa e incalzante , ma
densissima di pensiero . Si articola in 26 capitoli , di lunghezza variabile ,
che recano dei titoli in latino come è usanza dell' epoca. La materia é divisa
in diverse sezioni . Esamina i vari tipi di principato e mirano a individuare i
mezzi che consentono di conquistarlo e di mantenerlo , conferendogli forza e
stabilità . Machiavelli distingue tra principati ereditari ( a cui é dedicato
il capitolo II ) e nuovi ; questi ultimi a loro volta possono essere misti ,
aggiunti come membri allo Stato ereditario di un principe o del tutto nuovi; a
loro volta questi possono essere conquistati con la virtù e con armi proprie ,
oppure basandosi sulla fortuna e su armi altrui ( capitolo VII , in cui si
propone come esempio il duca Valentino ) . Tratta di coloro che giungono al
principato attraverso scelleratezze , e qui Machiavelli distingue tra la
crudeltà " bene e male usata " : la prima é quella impiegata solo per
stati di assoluta necessità e che si converte nella maggiore utilità possibile
per i sudditi ; male usata invece é quella che cresce con il tempo anzichè
cessare ed é compiuta per l' esclusivo vantaggio del tiranno . Machiavelli
affronta il principato " civile " , in cui cioè il principe riceve
potere dai cittadini stessi ; nel X si esamina come si debbano misurare le
forze dei principati e nell' XI si tratta dei principati ecclesiastici , in cui
il potere é detenuto dall' autorità religiosa , come nel caso dello Stato della
Chiesa . I capitoli XII - XIV sono dedicati al problema delle milizie :
Machiavelli giudica negativamente l' uso degli eserciti mercenari ( cosa che
per altro aveva fatto già Petrarca ) , abituale nell' Italia del tempo , perchè
essi combattendo solo per denaro sono infidi e pertanto costituiscono una delle
cause principali della debolezza degli Stati italiani e delle pesanti sconfitte
subite nelle recenti guerre ; di conseguenza , per lui , la forza di uno Stato
consiste soprattutto nel poter contare su armi proprie , su un esercito
composto dagli stessi cittadini in armi , che combattano per difendere i loro
averi e la loro vita stessa . Machiavelli tratta dei modi di comportarsi del
principe con i sudditi e con gli amici . E' questa la parte in cui il
rovesciamento degli schemi della trattatistica precedente é più radicale e
polemico , in cui Machiavelli , anzichè esibire il catalogo delle virtù morali
che sarebbero auspicabili in un principe va dietro alla " verità
effettuale della cosa " : poichè gli uomini sono malvagi , avidi ,
mancatori della fede e violenti , il principe che é costretto ad agire tra loro
non può seguire in tutto le leggi morali , ma deve imparare anche ad essere
" non buono " , dove le circostanze lo esigano ; deve guardare al
fine , che é vincere e mantenere lo Stato: i mezzi se vincerà saranno sempre
considerati onorevoli . Sono questi i capitoli che hanno immediatamente
suscitato più scalpore , ed hanno attirato per secoli su Machiavelli l'
esecrazione e la condanna . Il capitolo XXIV esamina le cause per cui i principi
italiani , nella crisi (il crollo della libertà italiana ) hanno perso i loro
Stati. La causa per lo scrittore é essenzialmente l' " ignavia " dei
principi , che nei tempi quieti non hanno saputo prevedere la tempesta che si
preparava ( solo Savonarola aveva avuto l' intuizione ) e porvi i necessari
ripari . Di qui scaturisce naturalmente l' argomento, il rapporto tra virtù e
fortuna , cioè la capacità , che deve essere propria del politico , di porre
argini alle variazioni della fortuna , paragonata a un fiume in piena che
quando straripa allaga le campagne e devasta i raccolti e gli abitati . L' ultimo
capitolo é , come accennato , un' appassionata esortazione ad un principe nuovo
, accorto ed energico , che sappia porsi a capo del popolo italiano e liberare
l' Italia dai barbari. (il testo sopra è di F. - visitate il suo sito di
filosofia ) .filosofico. Pellegrino. Mangieri IL PENSIERO POLITICO
DI MACHIAVELLI OPPURE SE L'AVETE GIA LETTA ANDIAMO ALLORA DIRETTAMENTE
ALL'OPERA INTEGRALE IL PRINCIPE. STORIOLOGIA. Grice: “When I
created Deutero-Esperanto, I felt like the principato senza il principe!” --. Michele
Ciliberto. Keywords: il principe, intelletuale fascista, lessico, lessico di
Bruno, lessico di grice, lessico filosofico europeo, umbra profunda,
implicatura in chiaroscuro, i contrari, il laico, il libero, despotismo,
immagine e concetto, parola, immagine, e concetto, il pazzo, il ragionato, istituto
su studi sul rinascimento, la tradizione italiana, la tradizione filosofica
italiana, democrazia rappresentativa, concetto di rappresentazione, Grice e
Ciliberto sulla rappresentazione. Il primo ministro britannico ripresenta suoi
costituenti. Il barone della camera alta del parlamento, parlamento ed
implicamento, il team di cricket rippresenta Inghilterra: fa per Inghilterra
quello che Inghilterra non puo fare: gioccare cricket. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Ciliberto” – The Swimming-Pool Library. Ciliberto.
Grice
e Cilone: la setta di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). According to Giamblico. C. seeks to join the circle of Pythagoras. He is
rejected because Pythagoras sees in him a tendency to violence and tyranny. In
response, C. leads the people of Crotone in a campaign against the sect -- as a
result of which Pythagoras has to decamp to Metaponto. “At least he left with
his judgment vindicated – Pythagoras did.” Archita said. Cilone.
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