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Tuesday, November 26, 2024

GRICE E CESAROTTI

 Grice e Cesarotti: implicatura conversazionale e ragione conversazionale – scuola di Padova – filosofia padovana – filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library  (Padova). Filosofo padovano. Filosofo veneto. Filosofo italiano. Padova, Veneto.   Melchiorre Cesarotti  Voce Discussione Leggi Modifica Modifica wikitesto Cronologia  Strumenti Aspetto nascondi Testo  Piccolo  Standard  Grande Larghezza  Standard  Largo  Busto di Melchiorre C., opera di Romano Petrelli precedente al 1847. Il busto fa parte del Panteon Veneto, conservato presso Palazzo Loredan, Campo Santo Stefano, Venezia. Melchiorre C. (Padova, 15 maggio 1730 – Padova, 4 novembre 1808) è stato uno scrittore, traduttore, linguista e poeta italiano.  Biografia Infanzia e giovinezza Figlio di Giovanni (Zanne) - prima avvocato e poi funzionario pubblico[1] - e di Medea Bacuchi, C. nacque nel 1730 a Padova da una famiglia di antica origine nobile ma da tempo entrata nel "ceto civile".  Studiò nel seminario della sua città, dove ebbe come guida il matematico Giuseppe Toaldo, di cui divenne amico.[1] Qui ottenne il titolo e il privilegio di abate[1] - prese gli ordini minori senza diventare sacerdote[2] -, e fu poi accolto come giovanissimo professore di retorica[1] e belle lettere nei primi anni cinquanta del Settecento.  Nel 1750 divenne membro dell'Accademia dei Ricovrati.[1]  Nel novembre 1760 lasciò Padova per trasferirsi a Venezia come precettore presso la famiglia Grimani, incarico che mantenne per otto anni.[1] Qui entrò in contatto con le personalità più in vista nel mondo culturale come Angelo Emo, i fratelli Gasparo e Carlo Gozzi, Carlo Goldoni e Angelo Querini.  Esordi e fama  Pietro Longhi, Ritratto di Melchiorre C., precettore dei Grimani di San Luca, XVIII secolo. Maturò nell'ambiente culturale veneziano l'esperienza che gli diede una fama europea, ovvero la traduzione in italiano dei Canti di Ossian (Poems of Ossian), pubblicati tre anni prima dallo scozzese James Macpherson;[1] a quest'opera dedicò oltre un decennio, pubblicando una prima edizione incompleta nel 1763 e poi quella, definitiva e completa, nel 1772.  Nel 1762 pubblicò a Venezia un volume[3] che conteneva, oltre alle traduzioni di due tragedie di Voltaire (La morte di Cesare e Maometto), due dissertazioni teoriche intitolate Ragionamento sopra il diletto della Tragedia e Ragionamento sopra l'origine e i progressi dell'arte poetica, quest'ultimo poi ripudiato ed escluso dall'edizione definitiva delle Opere (1808). L'edizione del 1762 presentava anche un Ragionamento sopra il Cesare e un Ragionamento sopra il Maometto, a partire dai quali, probabilmente, l'abate era giunto alla stesura del saggio di carattere generale[4] Era infine incluso un componimento in giambi latini, Mercurius. De Poetis tragicis, opera che, passando in rassegna la storia delle varie letterature, assegnava a Voltaire la corona di miglior tragico.  Nel 1768 venne nominato professore di lingua greca ed ebraica presso l'Università di Padova,[1] cattedra che mantenne fino al 1797 quando passò, sempre nella stessa università a quella di belle lettere, ovvero di eloquenza. Appartengono a questo periodo le sue opere più note: come traduttore dal greco (Demostene, Omero, cfr. infra), e dalle lingue moderne (ancora l'Ossian, Gessner, Young), e come teorico dell'estetica (Saggio sulla filosofia del gusto, 1784) e della lingua (Saggio sopra la lingua italiana, 1785).  Dopo aver ottenuto la cattedra presso lo Studio patavino, i Riformatori dell'Università commissionarono a C. la traduzione di opere greche. L'abate si applicò quindi alle versioni di Demostene, che videro la luce in sei volumi tra il 1774 e il 1778, edite da Penada a Padova[5]. In margine a questo lavoro C. scrisse numerosi testi critici, tra cui la Lettera ai Riformatori (scritta nel 1775 ma, dato il suo carattere letterariamente audace, pubblicata solo nel 1807 all'interno degli Opera omnia di C.) e una lettera anteposta al sesto tomo del Demostene, dove, criticando le traduzioni letterali, aveva modo di enunciare i difetti dell'oratoria demostenica[6], tanto da comunicare la rinuncia, nel secondo testo citato, a tradurre ogni singola orazione di Demostene. Di quelle non tradotte erano stati volti in italiano i passi ritenuti meritevoli di lode[7].  Appena concluso il lavoro su Demostene, C. «presentò al magistrato degli studi un Piano sistematico relativo allo spirito delle traduzioni e agli autori greci»[8], in cui l'abate «denominava Corso ragionato di letteratura greca la progettata "scelta giudiziosa"»[9] di una serie di traduzioni dal greco. C. si proponeva di pescare a piene mani nel vasto panorama degli autori greci e volgarizzare squarci tratti dagli scritti politici, filosofici, dialogici e dalle epistole. Il progetto rimase incompiuto, al punto che l'abate tradusse solo i testi di argomento politico, apparsi nei due volumi del Corso ragionato di letteratura greca (edito nel 1781 a Padova in due volumi). Il Piano ragionato di traduzioni dal greco, redatto probabilmente nel 1778, rimase inedito fino al 1882 quando fu pubblicato da Guido Mazzoni.[10]  Nel 1779 divenne segretario a vita della classe di belle lettere del nuovo Istituto di scienze, lettere ed arti (che aveva sostituito l'Accademia dei Ricovrati), assumendo di fatto il controllo dell'istituzione.[1]  Al principio degli anni ottanta molti discepoli si erano ormai radunati attorno al maestro, in quella che fu una sorta di "famiglia". La fama di C. era diffusa a livello internazionale, come dimostra la sua vasta corrispondenza con illustri intellettuali di tutta Europa e il ricorso alla sua autorità in riviste e scritti stranieri. Di indole sedentaria, l'abate non aveva mai lasciato la Repubblica di Venezia sino al 1783, quando accettò l'invito a Roma dell'ambasciatore veneto Andrea Memmo. Nella città capitolina fu nell'Accademia dell'Arcadia (nel 1777 era entrato a farne parte con il nome arcadico di Meronte Larisseo) e frequentò il salotto della contessa d'Albany. Conobbe inoltre Antonio Canova, il quale gli fece visitare la basilica di San Pietro e i Musei Vaticani[11].  Rapporto con Alfieri  Vittorio Alfieri Nel giugno di quello stesso 1783, C. aveva incontrato a Padova Vittorio Alfieri, che quell'anno dava alle stampe le sue prime dieci tragedie. Alfieri, ammiratore della traduzione ossianica, cercava dall'abate lumi per impossessarsi di uno stile tragico: le loro personalità, opposte sul piano umano e artistico, si scontrarono inevitabilmente. Davanti a C. e alla sua scuola Alfieri lesse La congiura de' Pazzi, tragedia lontanissima dal modello C.ano - fondato sulla ragione e sulla moderazione -, e il professore padovano la criticò in una missiva che l'Astigiano negò di aver ricevuto. Due anni dopo la loro contrapposizione artistica si espresse più chiaramente: C. scrisse una lettera su Ottavia, Timoleone e Merope, cui il drammaturgo rispose[12].  A questo punto calò il silenzio, rotto solo nel 1796 quando l'abate scrisse ad Alfieri una lettera di presentazione per Isabella Teotochi Albrizzi, animatrice di un celebre salotto veneziano - frequentato negli anni dallo stesso C. -, missiva non immune da una vena di sarcasmo riscontrabile anche nella replica dell'Astigiano. Il biografo ottocentesco Giuseppe Vedova affermò che una nota presente nella Dissertazione sopra la tragedia cittadinesca dell'abate Pier Antonio Meneghelli, pubblicata nel 1795, e apertamente ostile nei riguardi di Alfieri, fosse opera di C., un'ipotesi tuttavia non dimostrabile[13].  Moderato impegno civile Da sempre sostenitore delle idee illuministe, C. fu come molti spiazzato dall'esito violento della Rivoluzione francese. All'arrivo delle truppe napoleoniche in Italia si schierò in favore di Bonaparte:[1] per lui scrisse nel 1797 un sonetto encomiastico, e fece anche parte della delegazione inviata ad accogliere il generale vittorioso. Entrò nella Municipalità di Padova come membro «aggiunto libero» del Comitato di Pubblica Istruzione. In questa veste scrisse nel 1797 l'Istruzione d'un cittadino a' suoi fratelli meno istrutti, testo pensato per il popolo e decisamente lontano dalle idee radicali

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