Grice e Mastrofini: l’implicatura conversazionale e l’implicatura
verbale di Romolo – la scuola di Roma – la scuola di Monte Compatri – filosofia
lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, The Swimming-Pool Library, Villa Speranza (Monte Compatri). Filosofo romano. Filosofo Lazio.
Filosofo italiano. Monte Compatri, Roma, Lazio. Grice: “I like Mastrofini; for one, he found how old
Roman evolves into what we may call new Roman, or Italian!” – Grice: “And of
course as a philosopher, he focused on the philosophical terminology – it takes
a PHILOSOPHER to translate a philosophical text!” – Grice: “What I like about
Mastrofini” is that he mostly kept with the cognates. La Crusca adores him!” Noto soprattutto per il volume
“Le discussioni sull'usura” in cui sostenne che non è reato far fruttare il
danaro e che né la Sacra Scrittura, né i Vangeli, né la tradizione
ecclesiastica vietavano di ottenere un giusto interesse per danaro dato a
prestito. Questo diede luogo a molte discussioni ma anche apprezzamenti
lusinghieri da economisti dell'epoca e dall'opinione pubblica. In precedenza aveva scritto un'opera di
economia finanziaria, il Piano per riparare la moneta erosa relativa
all'inflazione nello Stato Pontificio, opera largamente utilizzata per la
riforma finanziaria dello Stato, intrapresa da Pio VII. L'edificio del Collegio
Romano ove insegna. Insegna a Frascatii.
Nel pieno della crisi della Repubblica Romana, si trasfere a Roma dove venne
nominato professore di eloquenza presso il Collegio Romano.Torna a a Frascati. Si
trasfere definitivamente a Roma dove assume la carica di consultore della
"Nuova Congregazione cardinalizia per gli affari totius orbis". Produce le traduzioni dei capolavori di Floro,
“Sulle cose romane,” e di Ampelio, “Sulle cose memorabili del mondo e degli
imperi.” Traduce “Le Antichità romane” di Dionigi. Pubblica “Teoria e
prospetto; ossia, dipinto critico dei verbi italiani coniugati, specialmente
degli anomali o mal noti nelle cadenze,” opera che porta un grande contributo
allo studio dell'italiano, utilizzata dall'Accademia della Crusca nella
revisione del dizionario della lingua italiana. Pubblica “Della maniera di
misurare le lesioni enormi nei contratti e uno studio sulla patria potestà e
filiazione, che ha larga eco nei circoli giuridici romani, essendo allora in
corso una causa di riconoscimento di paternità per successione tra i Torlonia e
i Cesarini. Piazza di Monte Citorio. Nell'edificio
dove abita e muore, in piazza di Monte Citorio il Comune di Roma appose una
lapide con il seguente ricordo: Abita in questa casa -- filosofo assai più
grande che celebrato fissa le incerte leggi dei verbi investiga felicemente con
l’uso della ragione i misteri della scienza divina S.P.Q.R.» “Dissertazione
filosofica” (Roma); “Piano per riparare la moneta erosa” (Roma); “Ritratti
poetici, storici, critici dei personaggi più famosi nell'antico e nuovo
Testamento” (Floro); “Sulle cose romane” (Roma, Ampelio); “Sulle cose
memorabili del mondo e degli imperi” (Roma); Dionigi di Alicarnasso “Le
Antichità romane”, Roma, “Dizionario dei verbi italiani” (Roma); “Metaphisica
sublimior de Deo triun et uno,” Roma, Appiano “Storia delle guerre civili dei Romani",
Roma, Arriano “La Storia”, Roma, ristampata da Sonzongo con il titolo “Delle
cose d'Italia” “Le usure,” Roma, “Amplissimi frutti da raccogliere sul
calendario gregoriano,” Roma, “L'anima umana e i suoi stati,” Roma, “Teorica dei nomi,” Roma, “Teorica e prospetto
de' verbi italiani conjgeniti,” Roma. Dizionario Biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Il primo fondatore di Roma, e dell'impero
e ROMOLO, generato da MARTE, e da Rea Silvia. Tanto nella sua gravidanza confessa
di sèquesta sacerdotessa: nè la fama ne dubita quando poco appresso il fanciullo
gettato con Remo suo fratello nella corrente per ancenno di Amulio, non potè soffocarsi.
Imperoc chè il padre Tevere ritira dal lido le acque ed una lupa, lasciati i suoi
parti, e seguendo il suono de'vagiti, inboccò li sue mamelle a' fanciulli,
presentando in se stessa una madre. Cosi trovatili un regio pastore presso di
un'arbore, e portatili in casa (2 gli educa. Di que' giorni Alba, opera di
Giulo, e capitale nel Lazio chè avea quegli dispregiata Lavinia, città del suo
padre Amulio. Sopra ttutto sembra inc satto l'intervallo da Augusto fino a Trajano
Eglilo crededi anni duecento ; laddove è di anni cento due a!l'incircd. Ma
forse vi è sbaglio nel testo e dee leggersi cento in lungo di duecento (1) Rea
Silvia figliuola di Numitore presedeva al sacerdo zio di Vesta Quindi è dettaSacerdotessa.
Nel testo in casam: questa voce può sign'ficare capan Tuttavia par verisimile
che l'abituro di un regio pastore fosse alquanto migliore di una capanna.
L'espressione italiana comprende ogni abitazione fosse capanna o no . av.
Cr av. R. 26. na ENEA dopo finita la guerra con Turno foudo la città cui
chiamò Lavinia dal nome della moglie . Ascanio, ossia Giulo, peròdi
luifigliuolo dopolamortediEneafabbricò A!. ba Lunga la quale tu capitale del
regno per trecento anni Ani. dik . 3.av. Cr. essi viregnava, avendonecacciato
il germane suo Numitore, dalla cui figlia Romolo era n..to . Adunque co stui
nel primi bollore degli anni caccia Imulio suo zio dal principato, el'avoloviri
pone. In tanto egli amante del fiume e de’monti, vicino a'quali era stato educato,
meditava lemura di una nuovacitt). Ma l'unoe l'altro essendo gemelli; p acque
loro consultare gl'ld dj, qual de’due le fondasse e vi dominasse . Per tanto REMO
andossene al monte Aventino, el altro al Palatino. Colui pel primo vide VI avoitoj:
posteriormente videne l'altro, ma XII: e vincitore negli augurji nal Area fin
quì fatto un'ABOZZO di citta, piuttosto che una città; mancandole gli abitanti.
Ma siccome riina neale vicino un bosco;eg! 2feceunasilo; edisubia tovisi adund
moltitudine prodigiosa di uomini, Latini, e Toscani pastori, eGo ancotras
marini, sia de ' Frigj venuti con ENEA, sia degl’Arcadi con Evantro. Cosi
quasida varii eleinenti, ne trasse un corpo solo; ed e per lui creato IL POPOLO
ROMANO. Vi quel popolo di uomini e cosa di una sola generazione. Si chiesero
dunque de’matrimoni da'confinanti; e sccome non si otteneano, sono con la forza
espugnati. Imperocchè finti de 'giuochi equestri, le vergini accorse per lo
spets 747. incirca. Finalinente ROMOLO inalza Roma che diverrebbeca. C o
. za una città pieno di speranza, che guerriera diverrebbe; tanto
ripromettendogli quegli uccelli, consueti a 7 LIBio sangue e prede. Sembra che
in difesa della puova cit tá basterebbe un vallo; se non che deridendo Remo le
angustie di questo, anzi condannandole con saltarle, e trucidato; è dubbio se
per comando del fratello; ma certo ei ne fu la prima delle vittime; e CONSACrA
COL SANGUE SUO e fortificazioni della nuova città . Av. Cr. R.2 so 52 7> ro
dell'Italia e del mondo, PRIMO 13 (+) Spoglie opine eran quelle che
un comandante toglie all'imperadore o supremo comandante nemico uccidendolo di
sua mano. Queste sono così rare; che se ne contano appena tre. Le prime le
riporta Romolo contro di Acrone. Le seconde Cornelio Cosso contro di Tolunnio.
E le terza Marco Marcello su Viridomaro. Giove poi e detto Feretrie o perchè a
lui ferebantur si portavano le spoglie opime, o perchè ferisce col fulmine; o
perchè nell'acquistare le spoglie opime un capitano ferisce l'altro con la
spada. E questo un bel mantenere le promesse e intendere di dare alla donzella
gli scudi perchè gli scudi le vibravano opprimendola . Questo metodo di
mantenere le promesse, ras somiglia a quello usato dalla fanciulla per
consegnare una porta creduta da Floro senza inganno o cone noi abbiamo tradotto,
senza malizia, perchè non chiedeva danaro, ma gli scudi o li braccialetti.
Potrà inai persuadere questa ragione? La vergine, che quisi addita, secondo
Valerio Massimo e figliuola di Spur.Tarpejo il quale a tempi di Romolo presede
alla fortezza: c coleiera uscita per prenderc acqua pe’santi riti,
tacolo, furon preda, e cagione immediata di guerre. Furono I Vejentire spinti e
fugati: la città di Cenina fu presae diroccata: inoltre lo stesso monarca ne riporta
con le sue mani a Giove Feretrio le spoglie ooiine del re. Ma le nostre porte
furon date a Sabini per una donzella; nè già con malizia: ma chiesto avendone
la fanciulla in ricompensa ciocchè essi portavano alle sinistre, gli scudi
forse o li braccialetti; coloro e per man tenere a leila promessa e per
vendicarsene la oppressero congli scudi. Ricevuti in tal modo fra le mura i
nemici ne sorse nel foro medesim »un'atroce battaglia; tanto che ROMOLO prega
Giove che arrestasse la fuga vi tuperosa de’ suoi. Quindi ha origine il tempio,
e Giove Statore . Finalmente le donzelle in lacere chiome s'intrammisero ad essi
che infierivano. Così fu la pace riordinata, e stabilita l'alleanza con Fazio.
Donde ne.diR. Cr. bandonati i lor domicilj, sen passarono alla nuova città,
consociando co'nuovi generi loro gli aviti beni perdote. Accresciute in poco
tempo le forze da il sapientissimo re quest: forma alla Repubblica. E la
gioventù divisa in tribà con cavalli ed armi perchè sorgesse nelle subire
guerre: fosse il consiglio su pubblici affari ne’ seniori, i quali si chiamano pari
arringando dinanzi la città presso la palude della capra, e di repente levato
di vista. Alcuni pensano che i senatori lo trucidassero per la ferocia
dell'indole di lui. Dopo la morte di ROMOLO il trono resta privo di sovrano per
un'anno, comandando in tanto a vicenda i senatori di cinque in cinque giorni. Quello
spazio e chiamato interregno. Il magistrato a forma d'interregno ha luogo
ancora ne'se. coli posteriori quando I consoli occupati in lontane azioni non
potevano intervenire ai coinızj;o quando erano costretti a depor. 14
LIBRO dir. seguitò, cioc chèè portentoso a dire, che inemiciab 7.av. Cr. diR.
38. l'autorità, ma per la eta S.nuto. Ordinate in tal modo le cose, egli SI
CONDO Tav. 37 av 713 so non che la tempesta e l'oscurarsi del sole
presentaroncincid le imnagini con e di una santa operazione: alla nuale poco
appresso diè credito GIULIO Proculo coll'offermare; che ROMOLO si era a lui
dato a vedere Cr 743. informa più augusta della consueta; e che imponeva che
per Dio se lo prendessero. Piacere a Numi che egli sichiami Virinoin sul cielo.
Con tal mezo Roma conquisterebbe le genti. E' natura del Verbo di esprimere l'afermazione
e la negazione. E siccome Essere e non essere esprimono appunto per se stessi
l'affermazione e la negazione; ne seguita che il verbo Essere preso nudamente,
o preceduto dalla particella “non”, è verbo per natura e per eccellenza.
Comunemente la voce essere è nota col nome di verbo sostantivo, perchè esprime
l'esistere, o L’ESSERE di sostanza. Le qualità che si affermano o negano
possono aversi distinte o no, dall'affermazione,o negazione. Nel primo caso
l'affermazione o negazione si addita col verbo essere, come si è detto. Ma nel
secondo caso risulta un nuovo ordine di verbi più composti; appunto per chè in
essi è riunita l'affermazione o negazione colle qualità che si affermano o
negano: tali sono amare, godere, odiare, piangere et cetera, che significano
essere nell'amore, nel gaudio, tra l'odio, o tra 'l pianto. Questo secondo genere
di verbi ha servito incredibilmente a variare e fecondare il discorso, in somma
alla dolcezza dell’eloquenza, e della Poesia. Chi afferma e nega, o afferma e
nega dise stesso, che si chi a ma persona prima, o di altri a cui parla, che si
chiama persona seconda, o di soggetto a cui non si parla, e si chiama persona
terza. Per altro queste persone possono essere una, o più, cioè possono
riguardarsi in singolare, duale, o plurale. E 'naturale che tanto nella nostra
quanto nella più parte delle lingue s'introducesse l'uso di finire il verbo
diversamente secondo la diversità delle persone,e del numero. E quindi abbiamo
amo ami ama amiamo amate amano. E potendo il discorso riguardare cose presenti,
cose cominciate e non finite, cose passate, più che passate, e future; fubene varia.
Anzi siccome le proprietà si affermano o negano assolutamente, o sotto certi
rapporti e condizioni. Cosi li verbi divennero parole terminate diversamente
secondo la persona, il numero, i tempi, e i modi di affermazioni e negazioni
assolute o relative. S. 1. re il verbo secondo la persona, il numero, e i
tempi. a I 6. Questi modisono cinque: Indicativo, Imperativo,
Ottativo, Congiuntivo, ed Infinito. L'indicativo dimostra assolutamente che una
cosa è, fu, sara; e perd vien detto ancora assoluto e dimostrativo. Cosi Pietro
ama amò amerà. le scienze, forme tutte dell'Indicativo, dichiarano che Pietro
amo, ama, ed amerà, assolutamente. L'Imperativo esprime comando, preghiera, avviso,
consiglio, esortazione di far qualche cosa, e con una sola voce si vuol
esprimere il comando, preghiera et cetera, e l'azion e che deve farsi. Tale
sarebbe ama tu, amerai til, ameremo noi et cetera. Per tanto si esprime
l'azione ed il modo col quale si fa, cioè per comando, preghiera et cetera;
laddove nell'Indicativo mancano questi rapporti. L'Ottativo esprime desiderio
di fare una cosa, giusta i varii tempi; e per questo è detto ancora
desiderativo, e tale sarebbe, “O se amassi, io amerei, O avessi amato, lo
avreiamato et cetera. Il congiuntivo è così detto perché si adopera quando si
vuo le congiungere il discorso con altre cose precedenti, e perd siegue le
particole sebbene, quantunque, conciossiacosache et cetera. Tále è quel di PETRARCA
Italia mia, benchè il parlar sia indarno et c. E talequel di BOCCACCIO. .6.7.n.2.
per l'amore di Dio, come chè il fatto sia et cetera. Tra i Greci l'Ottativo ha
le sue desinenze tutte diverse dal congiuntivo: ma nella lingua latina e nella
nostra L’OTTATIVO ADOPERA LE STESSE VOCI DEL CONGIUNTIVO, se ben si rifletta. Il
verbo si dice di modo finito o determinato finchè si concepisce indicativo, imperativo,
ottativo, congiuntivo. Ma talvolta esprime indeterminatamente qualche proprietà
senz'additare ne persona, nè numero, come amare, leggere, et cetera, ed allora
si chiama di modo infinito cioè indefinito ossia non determinato. La varia desinenza
di un verbo secondo le persone, il numero, i tempi, ed i modi si chiama conjugazione.
Ed i verbi si dicono di una conjugazione medesima o diversa, secondo che
rassomigliano o no nel complesso di queste desinenze. E siccome queste si diversificano
secondo la diversità dell'infinito; e l'infinito puo terminare in -are, in -ere
-- lungo e breve --, ed in -ire; cosi III sono le conjugazioni della nostra
lingua. Tutti gl’infiniti terminati in -are si dicono della prima conjugazione
come amare, balzare, danzare. Tutti quelli terminati in -ere sichiamano della
seconda, o l'infinito sia lungo o breve, come temère,cadère, giacère, et cetera,
e come credere, discendere, volgere, ecc.. I latini di queste due desinenze ne
faceano II CONGIUGAZIONI diverse, come docère e legere. Nè mancato è pur tra
gl'Italiani chi abbia concepite diverse le conjugazioni secondo l'infinito lungo
o breve. Ma siccome, tolta la pronunzia lunga e breve dell' infinito, non vi
sono altri di vari, parlando regolarmente; e siccome la pronunzia concerne il modo
di significarlo in voce, non la forma del verbo; così piùra gionevoli sono quelli
che rinniscono in una conjugazione gl'infiniti in -ere, lunghi o brevi.
Spettano alla terza tutti i verbi terminati in -ire, come sentire, uscire ecc.
Chi si propone per iscopo di presentare il prospetto de'verbi italiani dee
porre sott'occhio le varie desinenze di essi giusta i modi, I tempi, il numero,
e le persone nelle varie conjugazioni. E cið ė propriamente che noi cercheremo
di eseguire. Per vedere però più da presso il suggetto, anzi fin dalle origini,
ed in tutta l'ampiezza sua, divideremo quesť opera in due parti. La prima e
tutta di Teoria e di Prospetto generale; ed esporremo in essa come le conjugazioni
latine sian si trasformate e si trasformino nelle presenti d'Italia; la
dipendenza comune de' nostri verbi dall'infinito, e per ogni conjugazione il prospetto
di qualche verbo che serve di norma in tutti i simili e regolari -- come del
verbo “amare” per la prima, de'verbi “temere” e “credere” per la seconda, e de’
'verbi “sentire” ed “aborrire” per la terza. Anteporremo per altro a tutti il
verbo “essere” come principio di ogni verbo, e quindi il verbo “avere” che
prossimo gli succede, esprimendo la sostanza, che passa ad ottenere in generale
delle proprietà. E ciò tanto più dee farsi; che senza questi due verbi, però
detti “ausiliari”, non possono formarsi le tre conjugazioni divisate degl’altri
verbi. Dato cosi principio e norma al prospetto di tutti i verbi regolari, verremo
alla seconda parte ed esporremo ad uno ad uno per ordine alfabetico i
principali tra' verbi anomali cioè quelli che in qualche tempo escono dalla
legge consueta, ed i quali servono spesso di regola per altri anomali non
dissimili. Il prospetto e distinto in quattro colonne. Nella prima si avranno
le voci corrette, nella seconda le antiche, nella terza le poetiche, e nella
quarta le non ben certe, gl'IDIOTISMI e gl’errori. Si avverta che non tutte le
antiche sono affatto dismesse, anzi talvolta usate a tempo adornano la
scrittura: come pur le poetiche non tutte sono così della poesia che non servano
talora alla prosa. Il che si conoscerà dalle note. GLI ERRORI SON SEMPRE
ERRORI. Gl'idiotismi poi sono voci usate nel parlare e nello scrivere
familiare, non però nelle belle scritture, sebbene talvolta vi scorrano per
incuria e per arbitrio degli scrittori che le decidon per buone, o vogliono
nobilitarle con la fama già da essi acquistata. Per compimento dell'opera
spesso porremo in fine del prospetto il participio ed il gerundio. Il primo é
propriamente un nome tratto dal verbo. Dicesi participio perchè partecipa del
nome e del verbo: e come nome si declina, e come tratto dal verbo esprime un
qual che significato di questo. Tali sarebbono “amante” ed “amato”. Tra’Latini
si aveano participii presenti, passati, e future: “amans”, “amatus” “amatVRVS”
(cf. IMPLICATVRVM). Presso noi, non si
hanno che li presenti, e li passati che sono “amante”, “amato,” temente,
temuto. Tra’nostri antichi furono ideati anche i futuri come fatturo, perituro
ecc, ma non ebbero buon successo, nè più vi si pensa. Il participio passato e
descritto per lo più nella formazione de' tempi PIU CHE passati: laddove il
participio presente si troverà nel fine de' prospetti. Un tal participio può
essere messo informa di aggiunto e di attributo come se io dicessi: la virtù
possente, e la virtù a2 3 . Il participio si riguarda anzi come
adjettivo, che qual participio. Per chè sia participio con ogni proprietà, dee,
quando si risolva, significare come i participj latini: come se dicesi canto
possente a diletta re: schiere seguenti le altre ecc. E ciò rileva conoscere
perchè non di raro si anno gl’esempj anzi di adjettivi che di participi, e noi
pur he useremo in mancanza di participi, tali per ogni rispetto. Gerundio tra
noi e tra' latini è una voce tratta dal verbo, la qual significa le affezioni
di questo, ma la quale non si declina come il nome, nel che differisce dal participio:
come amando, credenádo, temendo, sentendo. Da'quali esempj risulta che il Gerundio
delle prime conjugazioni finisce in -ando e delle altre in -endo. L'uso di tali
gerundi è frequentissimo nell'italiano in luogo ancora de'participj presenti. Ma
veniamo all'argomento, Come le congiugazioni latine siansi trasformate e si
trasformina nelle conjugazioni presenti d'Italia. TUTTE LE VOCALI LATINE,
FINALI DI PAROLE INTERE, NE SEGUITE DA CONSONANTI, SI CONSERVANO. Così, in AMO
ed AMARE, si conserva l'O di amo, e l'E di amare. Tutte le consonanti finali si
tralasciano o mutano. Le consonanti sono M, S, T, NT, ST. Nel caso di NT si cambia
il T in O, e però non si lascia che il T amant amano, amarunt amarono: ma
talvolta tutto l'NT si muta in RO : amassent amassero: sebbe ne in questo e
simili casi può sempre rimanere la regola di mutare il solo T in o dicendosi
ancora “amassono”. Vedi il prospetto di amare.Tutti gli “U” finali seguiti da M
o da S si cambiano in 0: POSSVM > POSSO. amamus amiamo: ma se gli U sono
seguiti da NT si cambiano in o nei presenti e nei passati, ma nei futuri in AN.
Così da legunt si trae leggono, e da amabunt ameranno. Tutti gli A ovvero gli E
precedenti immediatamente l'S finale SI MUTANO IN “I”: amas > ami; times
temi: e cosi da timeas abbiamo tu temi, e da legas tu legghi. Il che basta a
conservare la regola, ma ora si dice anche “tu tema”, e “tu legga”. Tutti gli
E, ogl'I precedent gli A, oppure gli O finali, si lasciano affatto. Timea temo,
timeam icma. Sentio sento: sentiam io senta, 4 è possente: il fuoco
bruciante, e il fuoco è bruciante: ma in tal caso NOZIONI ARCHEOLOGICHE. Non dee sperar di comprendere il trattato che
qui soggiungo se non chi conosce per le gli altri ne differiscano la lettura.
sue regole l'idioma Latino e l'Italiano: 3. non si $. Tutti gl'I precedenti gli
S finali in singolare si conservano assumendo nel futuro un A precedente: legis
leggi: a ma bisamerai, ed in plurale si mutano in E: legitis leggele. Tutti gl'I
seguiti dal solo T finale subiscono un cambiamento secondo i tempi. Ne'presenti
si cambiano in E, e ne’ futuri in A accentatolegiilegge, creditcrede: amabit ameră,
timebio temerà. Per i preteriti perfetti ne diremo più innanzi. Tutti i B
avantil'afinalene gl'imperfettisi cambiano in “V” consonante, ed avanti l'O, l'I,o
l'U finale del futuro, li B. caratteristichi della conjugazione del tempo si
cambiano in R. Quindi si trae amerò da “amabo”, ma da belabo si forma belerò
senza mutarne il primo B; perchè questo è proprio del verbo, e non della
formazione del futuro. Queste regole sono ordinarie. Vediamolo. LATINO amatis
est amamo reg. 3. e 2, ora amianio sono sono Ed eccone la maniera. Dalle regole
3. e 2. è chiaro che la prima persona debba essere so e l'ultima sono. Ora dee
sapersi che appunto tra gl’antichi si trova non poche volte “so” per “sono” in
prima persona. B. Jacop. Poes. Spirit. Venez. 1617. lib. 4. cant. 28. stanz. 12. sei amamus es еè sumus somo
este credit et c. ama reg. 2 credi reg. 2. amas sentit et c. Amo reg.i. Vedo
reg.4. vedi reg. 4. vede reg. 2. senti reg.2: Amo amat amant amano reg. Dicasi
altrettanto di Video vides videt et c. credo ITALIANO ami reg. 4. e 2. 3.
Applichiamo queste regole al presente del verbo sostantivo : Sum amate reg. 5.
e 2, sente reg.6. credis credo So e finalmente Sono i 5 se, estis semo siamo
sunt sete siete sentio sentis crede reg. 6. sento reg. 4. lo so nulla: ho
peccalo: Mi exalto quantoposso. e cant. 3. st. 2. del lib, stes. A
pinger laer so dato. E GIUSTO de Conti nella bella mano pag. 39. La seconda
persona es fu trasposta e non altro, facendo prece dere l'S. Quindi gl’antichi
dicevano comunissimamente se anche senz'apostrofo per seconda persona: come
Petrarca, Boccacci, Albertano, ed altri: ALBERTAN. ediz. di Fir. cap.23. Selegaloa moglie? non domandare di
scioglierti. Se sciolto da moglie? non domandar di legarti. E più sotto: e sìselenulo
di tanto amarla moglie. PETRARC. canz. 26. v. 77. ediz. Comminiana Spirto
beato, quale 6 Se, quando altrui fai tale? e altrove più e più volte. Il Decamerone
secondo la ediz.1718. col la data di Asterdam ne è pieno. Senza questa origine
che facono scerecheseper seconda persona è voce interae non accorciata, non
s'intenderebbe, perchè gl’antichi spesso non l'apostrofassero. Tutta via per distinguerla
a prima vista da se pronome, e condizionale, convenne in qualche modo
contrassegnarla, e si fece uso dell'apostrofo: e servendo questo a notare le
voci scorciate; si riguardo se persona seconda, come scorciata, quando non era:
e perchè tutte le seconde persone singolari presenti dell'indicativo terminano
in I Reg. 4.e seguendo le leggi generali, tal persona nel verbo sostantivo avrebbe
dovuto essere un I. Così poco a poco si ricongiunse se ed i in sei, ed ora si
crede questa la voce intera di tal persona. E cid supposto quando si scrive se
per indicarla, si apostrofa, quasi fosse uno scorcio di Signor non è giovato
Mostrarmi cortesia: Tanto so slato ingrato ! e altrove spessissimo. E GUIDO
Guinzelli Rime antic. appresso la bel la mano ediz. di Firenz. 1715. Come io so
avvolto nel Lenace visco; e se ne hanno esempj ancora nelle lettere di S. CATERINA,
in Fr. Gi.ROLAMO da Siena nel1. Tom. delle delizie degli eruditi Toscani, ed in
altri: vedi vocab. di S.CATER. alla voce essere: ma so trovasi parimente
persona del verbo sapere, nata da sapio > sapo > sao > so: ovvero da
scio regola 5. scosso so: la prima derivazione è di Menagio: a m e piacerebbe la
seconda. Ma torniamo all'intento: siccomeso era voce ancora del verbo sapere, e
SICCOME IL SAPER VERO E DI TANTO POSTERIORE ALL’ESSERE. Così per togliere ogni
equivoco, si volle piuttosto ridurre il “so” del verbo essere in sono, che
lasciarlo indistinto col “so” del verbo sapere. Chi dunque considera che il primo
verbo italiano “essere” ha la voce “sono” per esprimere la prima singolare e la
terza plurale, sappia che questo è stato UN MALE DI ORIGINE, voglio dire è
provenuto dalla FIGLIOLANZA della Italiana dalla lingua latina, in forza delle
leggi universali, che per tanta combinazione di circostanze cooperarono a trasmutare
l'una nell'altra . s e i : nè chi procede con tal veduta può
riprendersi: ma in origine non vi era bisogno, e più che apostrofarsi, avrebbe
dovuto accentarsi. sero eepere.ALBERTAN. Giud. cap. 51. Dal savio uomo eeda
temere lo nimico. Or cid fecesi per distinguere e del verbo, dalla congiunzione
e, come pure dal pronome ei solito ad apostofrarsi, e dalla congiunzione e
seguita dall'articolo plurale ili quali due e iriunitisi rende anopere: ma col tempo,
la varietà dell'apostrofe e dell'accento pote contrassegnare e diversificare abbastanza
l’e del verbo dagli e di altro valore: vedi esseren.Trovasi ancora fra gl’antichi
este per è ma rarissime volte: vedi Gradidi S. GIROLAM. ediz. Fir.1729. in fine
alla voce este; finchè prevalsero le regole generali anzidette. Da “sumus”
uscirebbe sumo o somo, e non semo. Ma siccome tutte le prime persone plurali
dell'indicativo presente nelle seconde conjugazioni presero la desinenza in “-emo,”
come avemo, tememo, ecc.,così da “sumus” e tratto semo. Ovvero siccome tutte le
persone prime plurali ora pe'rincontri della forma loro anno rapporto con la seconda
persona singolare tanto che sono un composto di questa con qualche a g giunta,
come “amiamo” da ami ed amo, temiamo da temi ed amo et c;e siccome tal seconda
singolare era se nel presente indicativo di essere, quindi ne uscisemo e poisiamo.
Chi conosce gl’antichi sa quanto è familiare l'uso di “semo”. Ne allego un
esempio dalla vita nuova di ALIGHIERI: Per chè semo noi venuti a queste donne?
E Fra Jacop. lib. 1. sat, 5. Uomo pensa di che semo. Di che fummo, et a che
gimo. Vedi il prospetto del verbo Essere In forza delle regole generali, la
seconda plurale sarebbe “estes”. Ma trasponendo l'savanti l'E come nel singolare
per uniformità maggiore con “sono”, “sei”, “siamo”. Sen'ebbe sele, e questa
appunto è la voce degl’antichi: si consulti il verbo essere not. 5. FINALMENTE
SI AGGGIUNSE UN “I” PER DOLCEZZA (“se” > “sei”) o per distinguere tal voce
da alcuni sostantivi e sen ebbe siete, che ora è la voce più propria di questa
persona. Apparisce dunque per quali gradi e per quali mutamenti siasi formato
il presente come ora si usa del verbo essere, La terza persona si esprime con
la voce “e”, che appunto RISPONDE all’ “EST” latino, lasciatene le consonanti SECONDO
LA REGOLA 2. ma gl’antichi, prima che la lingua si modellasse in tutto, non di
raro dis 7 Preferiti Imperfetti Amabam amabas amabat amabamus amabatis
amabant Amaya reg.2.7. amavireg.2.4.7. amava reg.2.7. amavamo reg.7.3. 2.
amavate reg.7.5.2. amayano reg.7. 2. Temeva &c. legebam leggeva
e e da sentiebam lasciatone l’I che è quel di sentio reg. 4. si ha sen leva com
e era nelle origini prime, nelle quali, tutto risentiva di conjugazione seconda
tra gl'italiani ne' verbi provenienti DALLA QUARTA DE’LATINI. Non è raro che “senteva”
si oda anche ora tra' CONTADINI PIU CORROTI CHE SONO GLI ULTIMI A CORREGGERSI.
E finalmente fu detto sentiya sentivi et c.lasciando l'E per l'I. Per queste
regole e questi progressi apparisce che la prima persona dell'imperfetto doveva
terminare in A amava temeva legge va sentiva. Al presente i filosofi ed i
gramatici si meravigliano, per chè la prima e terza persona singolare
combinino, e perchè la prima non siasi terminata in O. Ma la meraviglia cessa,
se riflettasi che al cambiarsi del latino nell'italiano, si prendevano di netto
I vocaboli antichi, nè si aveano di mira che certe regole, come le indicate di
sopra, per contornarli di nuovo. E siccome tutte le prime singolari degli
imperfetti levatane la terminazione latina in M ; restavano amaba legeba ec;
cosi mutato il “B” in “V” non poté farsi a meno d'incorrere nel lo scoglio
anzidetto. Molto più che in que'tempi non faceasi poco, se le parole non
sapevano di latino. Veduto come siasi introdotto l'equivoco, ora tocca ai filosofi
di emendarlo. Ttanto più che non siamo poi scarsissimi di esempii antichi
pe'quali si compionoin o le persone prime singolari dell'inperfetto: de'quali
mi piace allegarne qui alcuni riserbandone altri ailor verbi nel prospetto. Petrar.
Vit. De Pontef. Ed Imperadori: VITA DI CALIGOLA, lo PREGAVO ogni giorno che
Tiberio morissi. Così pure leggiamo in Fr. Jacop. 1. 4.can. 38. La cagion del mal
FUGGIVO. Cavalc. Epist. di S. Girol. ad Eusloch. cap. 3. ediz. Rom.. E
vedendomi io venir meno quasi ogni rimedio ed esser privato di ogni ajuto, GITTAVOMI
a' piedi di Cristo &c.... iratoame medesimo erigido, solomi mettevo per li
diserti, e dove io trovavo più oscure e aspre e profonde valli, e aspri monti o
scogli pungenti o luoghi più aspri e spinosi; ivi mi ponevo in orazione. Pulci.
Morg. c. 3. 62. lo mi posavo in queste selve strane. Da Timebam così pure
si ebbe C. XI. 83. Tal ch'io pensavo d'aver acquistato. 8 ec.16.44 Per Dio, cugin,
ch'i'sognavo al presente, Che un gran lion mi veniva assalire. Onď io gridavo,
echiamavo altra gente E però E con Frusberta il volevo ferire. e altrove più volte.
Letter. San. CATER. di Sien. ediz. di Aldo pag. 14. a tergo. Dicevo: Signor mio
io ti priego et c. e pag. 20. vi aggiunsi anzi che io volevo in voi la
perfezione della carità pag. 92.
desideravo divedervi: anzi tal voce desideravo si legge molte volte
inquelle lettere. Vita B. COLOMBIN. ediz. di Roma pag.9. lo gode voé voi non mi
lascia testare, e pag. 96. ad irviilveroio andavo a posarmi; pag.167. 0
figliuoli, e fratelli miei io non meritavo di es ser padre di tanta buona
gente; pag. 174. E questa la compagnia che io dal e speravo, e pag. 299. Pensavo
che quanto è maggiore la soggezione e l'unità ; tanto si vien piuttosto ad aver
libertà : Vedi ero n.6. verbo essere:e n. 6. avere. Eram Erant Erate reg. 5. e
2. e quindi Eravate avevano reg. 7. 2. Imperocchè ben è facilissimo concepire,
che se cambiavasi in questo tempo in V il B precedente l'A finale, potevasi
cambiare in V parimente anche l'altro B: anzi parea troppo ragionevole, perchè
non si notasse tanto di variodi usi in parole medesime, e si familiari. E' poi
noto, che tutto il verbo “avere” si scrivea ne’ principi, e si scrisse a n cor
dopo per lunghissimo tempo con l’ “H”” precedente: ed ora per un progresso, non
saprei quanto considerato, si tralascia ancora nelle vo ci, che forse ne
abbisognano. Ma giova esaminare ancora come siansi trasformati
gl'imperfetti de'verbi ausiliari: Eccolo 9. Si possono da tutto ciò comprendere
le cause de'cambiamenti prodotti nel presente di habco: seguiamoli via via,
che'non sarà inutile la ricerca Lasciato l'E di habeo reg. 4, e le altre
consonanti, e cambiatele giusta le altre regole, risulta 9 Era reg. 2. Eramo ed
erale presentano Erano reg. 2. le voci come si traevano dal latino in ottima
forma. Ma il va inserito eramus ed eratis Eras Era reg. 2. in eravamo, ed
eravate negli altri verbi, mentre in suppongono il B cambiato in V, come dunque
di vainera questa consonante. Tale aggiunta affatto manca la origine, nè fu,
che una intrusione vamo ed eravate è contro per di altri verbi, che usciva,
nato dal sentire le voci consimili isbaglio amayate &c. Il peggio no in
quel modo, come amavamo, non dandosi quell'aggiunta fu che si anche alle voci
era tolse la uniformità tiranno delle lingue, autorizza erano et c. Non dimeno
l'uso, quel, più che le semplicie naturali vamoederavale essere, n. 6. Ma
diciamo si trovino pur queste. Vedi que risultasse. Eccone la maniera fetto di
avere, è come Haveva 8. Habebam habebas Habeva habevi era eramo erate, quantun
dell'imper Aveva reg.7. 2. habebamus aveva reg. 7. 2. habebat habeva habevamo
habevate habevano haveva havevamo avevamo reg.7.3.2. avevate reg. 7. 5. 2.
habebatis habebant havevate havevano Erat Eramus Eratis Eri reg. 4. e 2. Eramo
reg.3. e 2.e quindi Eravamo havevi avevireg.7. 4. 2. b abbemo
abbiamo &c. Forseil B fu raddoppiato per compensare la perdita dell'E nell’
“habeo.” Sia comunque, abbosi legge ancora in ALIGHIER, Infer. 25. E quanto io
l'ABBO ingrado mentre io viva: E negl iAMMAESTRAMENTI degl’antichi certamente
abbo provato; e più sotto: ripenso la seraa quello che iolo di abbo detto.E
nelle Vite de’ SS.PP.e diz. Man.Fir, 1731., nella VITA DI GIOSAFATTE ediz. Rom.,
e nelle Noyelle antiche Fir, 1572 l'uso di “ABBO” è comune . Abbi è rimaso nel
Congiuntivo. E 'poi noto, che gl’antichi usavano la seconda singolare presente
dell'Indicativo ancora nel Congiuntivo, come resta tuttora in molti verbi, Così
ami serve in tutti due i tempi alle due seconde persone singolari,e cosi temi
può servire ancora, sebbene ora vi siano dei divarj. Sopravvanza nell'uso
comune abbiamo; e siccome gl’antichi finivano le voci per tali persone in eino,
cosi non vi è dubbio che ne'principj si dicesse “ABBEMO,” quantunque negli
scritti forse non si trovi, per la rapidità di altri cambiamenti succeduti.
Certamente l'uso di scambiare tutti i B nell'imperfetto di “HABERE,” di buon
pra scorse in alcune, o in tutte le voci del presente, e si trasse da Habo Avo
habi ave avemo avete habono avono ave resta tuttora tra’ poeti, e fu non meno
della prosa. Vedi questa voce nel prospetto di avere. Avemo é comunissima tra
gli’antichi. Avete rimane per ogni scrittura. Le altre tre voci presto furono
cambiate: perchè siccome l'V consonante ha un suono come di vi, o di un i
sibiloso; così specialmente se l'V sia doppio, l'avo, oppure avvo per abbo, fe
sentire nella pronunzia questo i quasi doppio.E quindi è che il B. JACOPONE
lib. 1. satir. 9. scrive Nè ferma fede per esempio ch'AJA; Franc. BARBERINI
edizion. Roman. pag.189. Non veggio ancor chi contento AJA il core. E Francesco
SACCHBTTI disse ajolo per lo ajo, cioè per lohu. S'insinud tal cambiamento
nella seconda persona avi, é mutato l'V in I, se ne habet abbi 1 habemus
habe habemo habete abbe avi da Habeo Abbo habes Ch'io n'ajo una si dura e più
sotto: ajo portato in core et c, ed altrove più volte: anzi usa “AJA” per
abbia:lib.1.sat. 12.3. 10 Illuminato mostromi fore, E ch'AJA umilitate nel
core. ALIGHIERI, Parad,17. fece huii, e col tempo hai. E questa è
la causa, per la quale ora ci troviamo con “hai”, seconda persona del presente
dell'Indicativo, senza che volgarmente se ne intenda la origine. Può notarsi
però che in forza della provenienza di hai l’i finale è risultato da un doppio
i; e quindi seguendo le origini, avrebbe dovuto scriversi “haj”: e ciò sa rebbe
stato opportunissimo pe' giorni nostri, ne'quali vuolsi lasciare anche l'h
precedente. Imperciocchè chiarissimamente si distinguerebbe che “aj” è del
verbo, senza pericolo alcuno che si confondesse con l'articolo plurale “ai.” La
mutazione del doppio B in V ed in I doppio o lungo, al meno quanto al suono,
porto l'altro cambiamento in aggio, aggi, aggiamo, aggia, aggiano: essendonoto
che l'J lungo si cambia spessissimo in tal modo:e questa è la causa parimente, per
cui si dice veg go veggiamo et c. Imperciocchè nelle prime origini si disse
ancora vejo vej veje per vedo vedivede: si consulti il prospetto di vedere.
Quindi 'Imperador Feder. Rim. ant. 114. Rispondimi Signor ch'altro non chiejo.
Da crejo è propriamente quello scorcio, che pur si usd tra'poeti di cre' per “credo”,
quasi crejo fosse cre io. Vedi il prospetto di credere. Ant. Pucci nel suo
Centiloquio can. XI. terz. 27. scrive: Gli comandò che giù sedesse al piano.
L'ultimo verso assai dimostra, che sie fu detto per siedi: E siccome in ALIGHIERI
Inf. 27.53. si trovasi e'per siede; parchiaro che ambedue de rivino da sejo.
Allego un esempio di “trajamo”: BOCCACCIO: g.8. n.5. lo voglio che noi gli TRAJAMO
quelle brache del tutto: da ciò ben apparisce la origine di traggiamo &c.
12. Ridotto havi ad hai; dovea sembrare che fosse di netto stato levato l'V
consonante, quando erasi inviscerato nell'j: e cið comparendo, era facile di
lasciarlo pure nella terza persona have, e formar ne hae come si trova in Fr.
Jacop., in Guid. Giud., in ALBERTANO, Di voi,chiaritaspera. Rim .Allac.
408 Ciulo dal Camo Cose da non parlare. anzi avverto, che tra gl’antichi si
trova ancora crejo, chiejo, sejo, trajamo, donde sono creggio, chieggio, seggo,
lraggiamo &c,enon dalla mutazione del D in G come si tiene, forse meno propriamente
dai Grammatici. Cosi Fr. Jac. lib. 5. c.3.12. secondo che io crejo: e nelleno
te vi si legge: crejo,creggio,credo, e lib. 5. can.25. 12. II E vejo li
sembjanti Quando ci passo e vejoti. F. Jac. lib. sat. 3.9. la sera il vei
seccato. lib. 6. can. 45. 4. Che vee con vista acuda disse l'anziano: Sie giù a
pena di cento fiorini: E volendo pagare a mano a mano, E l'anziano a pena di
dugento b2 12 e generalmente negl’antichi. Cost Albertan. al càp.
12. L'avar7 sempre ha e le mani di stesepertorre. ..ivi l'avaronon haesicura
vita. I Grammatici han creduto che quell 'E sia stato sopraggiunto all'ha per
genio della lingua, che non amava finire le parole in accento. Ma questo sarebbevero,
quando la parola originale della terza persona fosseha, ciòche è falso; essendo
questa habet, habe, have. Hae dun que non èche have, toltone ”v per simiglianza
di quanto era accaduto in hai, ed in hajo. 13. A questo proposito avverte, che
non di raro fra gl’antichi si legge dae, fae, slae per dà, fa, sta, come
leggesi trae, e come hne per ha. Anche gli E di dae, fae,stae, si credono
aggiunti per la ragione medesima: ma egli è FALSO UGUALMENTE; perchè dai ruderi antichi della lingua può
concludersi ta esistenza degl'infiniti, daire, faire, staire, come esiste
traire. Ora da quegl' infiniti daire et c. sorge naturalissimamente dae, fae, stae,
cometrae, che ancorc irimane da trai re:vedi S. III. di questa Prima Parte
sotto il titolo Dipendenza delle conjugazioni italiane dall'infinito, n.2.E
quindi pure sono le voci dai, fai, stai, come trai, che altronde sono
inesplicabili. A dichiarare quanto dico sappiasi, che Fr. Jacop. lib.6.c.10.st.
20.scrive A chi gli dice villania et c. Fra duo ladri allo staia. e lib. 4. c.
1o. E che al povero dala. elib.6.c.43.5. Ch'egli è il daenteeti il ricevitore:
e lib.7. c.9. II. Staendo in quest'altura dello mare: Vita S.Maria Mad. É
cosistaendola poverettasì per l'amore che gid ave v a con celto di Gesù Cristo,
si per la doglia ; cominciò a piangere. Parimente in Fr. Guitt. si legge più volte
faite alla pag. 36, e faie alla pag.54. E nel TESORETTO: ponelemente al beneche
faite per usaggio: e Franc. BARBERINO pag. 17. Faesselei di quel pregio degnare.
Nei GRADI di S. Girolamo alla voce Fa il e nell'indice si dichiara, chel’idi faiteè
un aggiunto,e non più:ma faie, faesse, e le voci slaca, daia &c. ne'verbi
simili palesano il contrario: e Traire si legge in Fr. Guit. lett.2. pag.9, ma
traers spiega ugualmente la origine di trae, come fae sorgerebbe ancora da
faere, del quale fece uso Franc. BARBERINO nel verso allegato. Per tanto gli E
di dae, fae, stae NON SONO AGGIUNTI, come si pensa, MA SONO NATURALI; ed ora
non si è cessato diaggiungerli, ma sono stati tolti. Tornando alle voci hai ed
hae, siccome in queste era perito \'u consonante; così poco a poco si tento,ma
non riusci, di farlo pe rire nelle vociavemo, avete: e non è infrequente di
udire aemo, aele; e nel futuro dell'Indicativo, e negl'imperfetti dell'Ottativo
trovasi scritto arò, arai, arei, aresti' &c.come vedremo. Non prevalendo
pero quel tentativo, siri serbarono le voci avemo, avete, e talvolta aviamo,
aviate, aggiamo, aggiate. Essendosi creduto, che l’E di hae fosse ag giunto;
presto fu stabilita ha per terza persona; talchè le prime tre fossero ho, hai, ha.
La terza plurale divenne harno; perchè dall’ “habent” sifece haveno, haeno,
hano, hanno,ed esistono ancora'esempi di dano, fano et c. per danno e fanno,
voci similissime nella origine, com me è chiaro: vedi S. III. 12. 15. Ma
passiamo ad esaminare come dai perfetti de'verbi latini si traessero quelli
presenti d'Italia. Potrà ciò conoscersi ne'verbi comuni ad ambe le lingue, ma
terminati secondo i metodi di ciascuna: E noi su questi rifletteremo. I Latini
sincopizzavano il perfetto in più voci, togliendone il VI, o il Ve. Per avere
dai perfetti latini l’italiano corrispondente, silasciil VI, o Ve in tutte lepersone
per quanto si può senza contradire alle regole generali del s. I. Quindi nel la
persona prima singolare dee lasciarsi il solo V, non potendosi togliere l'I
finale, secondo la regola prima. Si noti, che la terza singolare risulterebbe
simile ad alcuna voce del presente, e quindi nelle origini si accentava: ma ora
se la voce finisce in A, si muta in O accentato. La prima plurale sarebbe amamo
come nel presente, e quin di I'M si è raddoppiato. Del resto in Gio. VILLANI
nella edizione fatta procurare da Remigio Fiorentino in Venezia si vede gran
quan tità di persone prime plurali dei perfetti, scritte con un semplice M :
come tememo per tememmo. Altrettanto si osserva in Fazzo degli Uber ti, nel
Cavaliere Jacopo SALVIATI Tom . 18. Delizie degli eruditi Toscani, nella
Cronica del Pitti, ed in altr’antichi; indizio che per tali vie si passava dal
latino all'italiano in questo tempo. Anzi Celso CITTAD I ninelle sue Origini della
Toscana favella osserva al cap. 6. che i Sanesi in tali persone non davano asentire
che un M, quasi pronunziando facemo, dicemo &c, ed egli con pari ortografia
scrisse tali voci. Ma Girolamo Gigli nel suo Vocabolario di S. Caterina noto
alla lettera M, che a'suoi tempi (vuol dire un secolo dopo il Cittadini)
quell'uso era perduto. Serbate dunque anche le regole generali del n. primo,
avre di Ama(v)i ama (viisti ama(vit) ama(vi)mus ama(vi)stis ama (verunt Amai
amasti amd amamo amammo amaste amarono. Dai Latini si disse ancora amávere:
toltone il ve, si ebbe Vita Lano amare, e perché non si confondesse con
l'Infinito, si muto l'E i n o, e si ebbe amaro per altra terza persona plurale.
I Grammatici han ereduto che amaro sia precisamente una sincope di amarono,
toltone il no. Á me però sembra che amaro sia voce intera in sestessa, e
provenuta altronde, come ho dichiarato. E questa è la ragione, per cui amaro
può troncarsi ancora, e dirsi amàr per amaro, laddove le troncature delle
troncature non sono consuete, almeno nella lingua, come ora si trova. 13
mo 17. II P. Bartoli nella sua Ortografia riguarda come un incanto che le terze
plurali del Perfetto indicativo scorciate tre volte s e m 14 pre
significhino lo stesso con quadrupla desinenza: amarono, amaron, amaro, amàr. Ma
l'incanto, se ben si consideri, non è che un caro abbaglio di un animo, che al veder
primo si appaga, stanco delle molestie di riflettere. Imperocchè da amarono
sitragge amaron, e qui cesserebbe la troncatura: ma perchè levato anche l'N ci
troviamo da amaron in amaro, desinenza ancor buona; si è creduto, che tal bontà
risulti in forza di uno scorcio: laddove amaro già era legittima desinenza in
se stessa: e perchè tale, ammettevasi; non perchè nata da amaron, levatone l'N.
A parlar dunque propriamente si hanno due desinenze, amaro, ed amarono, ed ognuna
ammette uno scorcio, ama rono porgendo amaron, ed amaro la voce amar, col vago
incidente, che se da amaron si spicca l'N finale; ci troviamo alla desinenza
seconda, la quale è amaro. E siccome amaro è desinenza intera in se stessa; di
qui nasce che gli scrittori del buon secolo, ed alcuni ancora del cinquecento,
come il DAVANZATI ne fecero tanto uso: laddove le altre sincopi amar ed amaron
sono assai più rare, spacialmente in prosa. Anzi si noti, che nelle NOVELLE
'ANTICHE la desinenza in aro è quasi la comune, laddove l'altra in arono vi è
scarsa, e meno pregiata. Ma proseguiamo l'esame de perfetti: e prima nella
terza conjugazione. Audi(vi audi(ve)runt Audii audisti audi audimmo audirono
udiste udiro. proviene udiro dall'audivere, come amaro dall'amavere. E'poi noto,
che nelle origini della lingua si disse in italiano anche “audire” finchè l' “au”
si chiuse in “o”, cone nelle voci aurum, tesaurus,dalle quali si trasse “oro”, “tesoro”
&c, e se n’ebbe udii, udisti &c.Vedi questo verbo nel prospetto. Debui
debuimus debuerunt Devei, . Pertanto abbiamo da dové doveste udisti
audi(vi)t udi audi(vi)mus udimm o audi(vi)stis. Riguardo alle seconde
conjugazioni, avanti l'I finale vi è l'U vocale, e non consonante, quindi
regolarmente parlando tutto l'UI o l'UE si muta in E semplice, avvertendo, che
l'1 finale nella prima persona dee conservarsi secondo i canoni generali
debuisti Dovei deve, audiro devemmo, deveste, deverono, audi(vi)sti audi(vere)
debuit debuistis debuere doverono dovero. audiste devesti, dovesti devero,
Siccomel'U fu cambiato in E(dovei) gravato di accento, quindi nella terza
persona non potea non dirsi se non dovè seguendo le regole ge Udii udirono
dovemmo nerali, o “dovèt”, trascurando la regola sulle consonanti
finali; e da que. sto nacque che per istrascico di pronunzia fu detto ancora
dovette, come dalla voce Giudit PETRARC. Trionf. fam . c. 2. v. 119. Non fia
Guidit la vedovellaardita, si è fatto Giuditta, e come da Josafat, DANTE Infer.
10.v. 8.Quando da Josafat qui torneranno, si è prodotto Giosafalte comunemente.
Fattosi dovei, dovė, o davèt, fecesi quindi per coerenza doveltero e dovelti: e
cosi questi preteriti ebbero doppia desinenza: e si disse temci e temetti, teme
e temette, temerono e temettero. E' poi tanto vero, che questa è la origine di
temetti, tèmel te et c, che siccome lo stesso argomento vale per le terze
conjugazioni; così talvolta si scontra ancor questa desinenza applicata alle
medesime. Ond'è che trovasi fuggi, fuggi et c; e nelle Vire de SS.PP. ediz. Man.tom.1.pag.20.
fuggitte,e nella pag.125 salitlepersa li: una nolle, essendo questi ito, alla
casa di una vergine Cristiana o per rubare, o per altromalfare, salitte con
certi ingegni il tetto della casa. Anzi questa ragione è sì certa che
spessissimo le desinenze in ilte come salitle et c. furono modellate affatto a
norma delle altre in elle, cioè di temelle,credette et c. Quindi è che nel
medesimo tom. 1. delle Vit.deSS.PP. se in alcuni esemplarisi legge fuggitte, in
altri, sihafuggelte: allapag. 101 ediz. citat. Vi è fuggetti per fuggii: nella
62, uscite per uscì, nella 71 irrigi delle per irrigidi, nella 73 finette per
fini, ed Pucci versificatore famoso del trecento nel suo Centiloquio al can. 2.
st. 69 ha sentelle per senti; ed Oito impe rador che ciò sentette, e così altre
se ne veggono in altre pagine ed opere. Simile terminazione non potevaaver
luogo nella prima conjugazione, perchè l'amavit, secondol'uso di cavarne il volgare,
cessadove è il secondo a, dicendosi amo,e non cessanell'I con farsentire un
amavit: il che direttamente gli avrebbe causato la uniformità, che'mai non
ottenne: ora la desinenza in illi ed etti et c.è del tutto abolita per le terze
conjugazioni: rimane ancora la cadenza in etti e dette, &c. per le seconde
conjugazioni; ma forse, almeno in più verbi,è men cara che nelle origini della
lingua, come potrà rilevarsi dal prospetto de' verbi, che soggiungeremo. E
giacchè consideriamo il rapporto fra le desinenze delle terze persone de’ preteriti
dell'indicativo, piacemi dilatare ancor più la serie delle riflessioni, picciole
sì, ma pur necessarie per chi brami co noscere intimamente la lingua, e suoi
movimenti. Ho detto di sopra, che dall'amavit, debuit, audivit si tragge amò, dove,
udi, abolendoin tutto, quel vit finale: ma questa è piuttostola regola, che ora
predo, mina. Del resto quando la lingua pendeva incerta sul fissare le sue
desinenze, talvolta tentò rendere queste, tutte simili alla cadenza del. la
prima conjugazione, e tal altra a quella della seconda. E certo quell'amavit
ebbe talorauna desinenza come amao: di che produco un esempio luminoso di FR. Jacop.
lib. 2.can. 2. Quando che in prima l'uomo peccdo Si guastò l'ordin lullo
dell'amore: E questa è la causa, per la quale ora diciamo “amarono”, lassaro
no, e non “amorono”, lassorono et c. vuol dire questa è la causa, per la quale
la sillaba antipenultima è un a, e non un o. Tutte le terze plurali nascono nel
preterito con aggiungere alla terza singolare un rono, o un semplice ro,
ne'perfettianomali, o simili aglianoma li. Così diciamo sentirono, temèrono, crederono,
sparsero, videro et c. Pardunque la original terza persona quella de'contadini
“amà,” “lassà”, et c. e quindi sen ebbe
amarono, lassarono, e non amorono, las sorono &c.desinenza che leggesi in
molti antichi: Così nelle Vite de’ Pontefici di PETRARCA visileggeandorono, seccorono, e simili
ordinariamente. Venturi traduttore di Dionigi di Alicarnasso è pie no di tali
cadenze. Forse a dire amarono, lassarono &c.vi contribui pur LA DOLCEZZA per
non avere insieme tre o finali amorono, lasso rono et c. Nel modo poi che il
vit era supplito da un o nella prima conjugazione; lo fi pure nelle seconde e
nelle terze: e quindi sono le voci temeo, credeo, poteo, aprio, finio, udio, e
simili, tanto frequenti ne gli Scrittori. Ora queste desinenze, per le prime
conjugazioni sono spente in tutto: ma nelle altre conjugazioni rimangono
tuttavia per li poeti, e l'uso moderato può riuscire utile non meno che
dilettevole. Chi non bene conosce le primizie della lingua, meravigliasi che
imo di poteo, lemeo, udio &c. fossero comunissimi. I Grammatici dissero che
l'o finale SI AGGUNSE PER LICENZA POETICA. Ma cið non ispiega perchè voci di
questo conio abbiansi frequentissime ne'vecchi prosatori, come nelle Storie dei
Villani, nel Davanzati, ed in altri. Dir finalmente che l’o si accresceva per
non finire in accento, era un luogo comune, un parlar di abitudine, e nulla più.
Si doveva avvertire, che quest'ori ceveasi da tutte le conjugazioni nelle terze
persone singolari de'pre 16 Nell'amor proprio tanto l'abbracciao ; Che
n'antepose se al creatore. E la Giustizia tanto s'indignao; Che la spogliò di
tutto suo onore: Ciascheduna virtù l'abbandonao, Gli fu il demonio dato
possessore: Nel tom. 12 degli Scrittor. Ital. Del MURATORI trovasi inserita la Memoria
di Messer Lodovico di Buon Conto Monaldesti su la coronazione del Petrarca: costui,
che lavidediperse, cosìscrive:Poi comparve lo Sena tore in mezzo a muti
(molti)cittadini, e portao allo capo soio (suo) na corona di lauro,ese assettao
alla sedia, e poi s'inginocchiaoallo senatore et c. Si vede in questi esempi,
che si accento l a preceden te il vit,e questo vit fu supplito con un o.Più
volteho notato, che presso alcuni contadini appunto ne'dintorni di Roma dicesi
difforme mente amà,lassà,&c.per amò, lasciò come ora è laregola: Tocca al
filologo accorto di rintracciarne le provenienze:esse non sono che per lo
scorcio naturale,che si faceva della lingua parlata sotto questo cie lo
da'nostri antenati. teriti, e la uniformità medesima avrebbe fatto
conoscere, che era un supplemento del vil, risecato dalle voci
latinecorrispondenti, o pure una proprietàdi cadenza;e con cið sarebbesi
dichiarato perchégliAn tichiusassero temeo, udio,e simili,promiscuamente in
ogni scrittura, senzascrupolodiriprensioni. E'poitantomanifestochequell'O non
si aggiungeva per non finire in accento, che nel Dittamondo si tro va unito
anche alle prime persone della terza conjugazione, leggen dovisi nel 3 lib.
cap. 15 udio per udii : 22. Tornando al nostro principio, apparisce dal fin qui
detto che sitento chiudere in tutte le conjugazioni con desinenza simile
allaprima:ma perchè l'uso non eraancora ben fissoe comune, si tento per eguale
maniera terminare tutte le terze singolari d e' prete ritiinE,comein E finisce la
terza singolare nella seconda conjugazione. Quindi è che troviamo amoe, teme, finie,
e similicon tan ta abbondanza di esempj. Faz. Dittam. lib. 4 cap. 20 23. La chiusa
delle terze persone tutteinO,ovverotutteinE,de riyava dallevoci corrispondenti
latine, finite tutte in un modoamavil, timuit,audivit.Era difficile abbandonare
ogni somiglianza nell'italiano,с 17 Passato poi Suasina, io udio et c. e
cap. 16 Secondo ch'io udio, e'l nome prese e cosi nel lib. 4 cap. 4 vi si legge
sentiu per io sentii, e nella Vin LadiGiosaf.pag.31 uno essemplo tidico chel'udio
direa uno molto savio uomo : e pag. 34 lo ritornerò nella mia casa onde io
uscio. Novell.ANTIC. Firenz.1572 novel. 20 lo poi che mi partio,abbo avuto
moglie efigliuoli. Etic.di Arist. compend. da Ser BRUNET.ediz. Lion. pag. 100 quando
io udio le loro parole, non mido lea &c. Gli o dunque di udio,finio, lemeo
et c. in terza persona, non sono licenze di poeti,non aggiunteper iscansare
gliaccenti,ma regole o modi di terminazione, e risultati di una lingua, che in
altra si trasmutava,come or ora meglio dichiareremo. Che amoe si;che'lsipuò dir
percerto. e cap. 20. Che rifutoe l'onor di tanta manna . Vit. de S S . P P. inciampo e in una pietra, e fece alcuno
strepito: pag.10 con molte lagrime cantoe salmi, e pag.6 ľani male si levoe a
corsa, e fuggie:pag. 43 per la sele l'uno morie,e pag. 47 udie una voce che gli
disse et c.'Or questa uniformità fa vede re,come dianzi ho pur detto,una
proprietà di cadenza nelle terze persone singolari del preterito in su le
origini della lingua, e quin di è che se ne abbiatanta copia ancora
ne'prosatori;e tanto èlun gi che l'E si aggiungesse perevitare l'accento,che ci
è facile tro yare temè,ma non temee; se non forse per la rima.Cosl Dante dis
sePurg.3212 senza la vista al quanto essermife e permife,voce interain
sestessa,come vedremo nella seconda parte al num.6 del verbo Fare .
dopo che le altre persone omologhe del preterito si erano concordate
nella desinenza.Così tutte le prime escono in I,amai, temei,udii, tutte le seconde
in sti, amasti,temesti,udisti:e tuttelepluralihan pari concordia di finale. Or
come poteasi tralasciare quesť armonia nelle sole terze del singolare? Questa è
la origine vera degli O e degli E che si aggiungevano, e non le sognate fra le minuzie
di una grammatica, che inaridisce. Col progressodel tempo sivolle trascurare
quellaparitàdicadenza, e le voci sichiuseroin 0, in E, inI,ac centandole
finalmente, sebbene quelle chiuse in O si trovino spesso tra gli Antichi
senz'accento comeinFazio degli UBERTI, e nelle NoVELLE ANTICHE.Ed
oranoi,lucidiesseridi unsecolointelligente, go diamo su la idea dolcissima di
una lingua perfezionata. Ma i gravis simiAntichi,colle mire ch'essi
aveano,questi Antichi io dico, risor gendo,ne sarebbero in tutto persuasi? E cid su le terze persone singolari
de'preteriti: ora torniamo al verbo temere o dovere, dalle considerazioni del
quale siamo qui per venuti. Si noti che doverono e temerono ammettono le tre
solite scor ciature Lemeron, temero,temer,come amaron, amaro, amàr,perchè da
lemeron ci troviamo all'altra desinenza intera temèro prodotta da ti muere,come
dovèro dadebuere: laddovedovellerononsopportacheuna scorciatura
appena,potendosi faredovetter, ma non proceder più oltre; perchè le nuove
scorciature non ci fanno casualmente trovare in altra desinenza compiuta in se
stessa.Tanto è vero quelloche siadditonel 3. 17. E'certo che ne'perfetti delle
seconde conjugazioni italianeso no le irregolarità più grandi: ma non ho veduto
che altri notasse in esse un incontro curioso: cioè la irregolarità non
concerne mai se non la prima persona singolare,e le dueterze singolare e
plurale,mentre tutte le altre persone si trovan sempre comela regola
chiederebbe. Cosi nel preterito rompere abbiamo ruppi, ruppe, ruppero anomale; e
le altrevocisono rompesti,rompemmo,rompeste,come vorrebbe la indo le di un
perfetto italiano regolare rompei, rompè et c. Tal cosa è so vente osservata e
confermata con esempj nel prospetto. E m m i più vol. te nato il prurito
d'indovinare onde sia talearcano di lingua. A me ne sembra la origine
dall'avere le terze persone plurali una seconda desinenza derivatadal latino,per
esempio rupere ond'èruppero,enon daruperunton d'èrupperono, oromperonoBo'i
reg.2, chepursitro ya negli Antichi: vedi ilprospetto di questo verbo.
Romperono ha l'ac cento,che riposa in su l’E: e quindila terza singolare non
può es. sereche rompe, e la prima rompei; laddo veruppero hal'accento nell'U,
restandobrevelaE.Quindi perleggedicorrispondenzalaterzasin golaredee tenere
l'accento anch'essa nella vocale precedente, e non nella finale; altrettanto
dee succedere nella prima singolare: e per ciddeemancarel'E diEInella desinenza,
giacchèl'E diEIintutte le conjugazioni seconde è gravato di accento; efinalmentedee
cavar seneruppi, ruppe,ruppero. Ma rompesti, rompeste,rompemmo non pos.
18 già 26. Ma diciamo qualchecosa de'perfetti de'verbiausiliari.Nascono
fuit fusti fosti C2 sono non avere l'accento sull'E in forza dellaformazione
loro,essen do in esse la E seguitata dalla doppia consonante S T, M M . Quindi
non possono non esser tali come romperono, quantunque poco o nulla usate, come
avviene in molti se provenissero da rompei, rompe, verbi irregolari. E per cið
l'anomalia de'preteriti non può concer nere se non la prima singolare, e le due
terze persone singolare e plurale de'perfetti. Questo discorso vale eziandio
ne'verbi ano mali di terza conjugazione ; dicendo dell'I quanto si è detto
dell'E. Potremo da ciðtantomeglio persuadersi, cheamaro, temero,&c. sono
desinenze piene in se stesse, e non sincopi di amarono merono et c. fuisti Fui
da Fui fuistis fuerunt fuere fummo fuste foste furono 19 fuimus furo Questo
tempo somiglia in tutto al preterito debui o timui della se conda conjugazione
latina,alla quale appartiene ilverbo esse,o pure essere secondo che leggesi in
Plauto. Pure esso nelle persone non ha subito la legge di mutare l'UI:ma ciò
non è stato senza una ragio ne: Imperocchè dando luogo a tal mutazione, sarebbe
risultato fei, fe sti,fe et c, e questo è il preterito appunto del verbo fare:
purtroppo si osservano tra gli Antichi talvolta le voci del preterito del verbo
sostantivo piegate in quelle del verbo fare: Cosi Fazio degli UBERTI nelsuo Ditcam.1.4c.8
dissefoperfu. Per il diluvio chefositene broso:Filip.Vil,nelprologo
allesueStorie:con lo stile che aluifo possibile:e Faz. Nel Ditlam. lib.3 cap.22
infinescrivefonno perfurono,e Fr.Guitt.let.12, scrivefoe per fu:e Fra Jacop.1.2
can.172 scrive fom per fummo.Per nonconfondere dunque una cosa con lealtre,non
doveasi praticarela legge anzidetta: nei tempi debui,debuisti periva in.
tuttele persone l'UI,eccetto l'Ifinalenellaprima perfareil cambiamen
toindicato. Infuisti, fuimus &c. sièritenuto l'U, edèperitol'I:edin fuerunt
è peritol'E. Si noti cheil fuit dagli Antichi si rendeva,e nesonopienii libri, perfue.
Igrammaticihancreduto l'Edifue come una giunta per non terminare quell'E non è
che la E nella quale dovea mutarsi l'UI, supplita in questo luogo per dare alla
terza singolare del perfetto la desinenza in E,comune a tutte le persone simili
di altri verbi di questa con jugazione, dicendosi lemè, iemelte, crede, ruppe
et c. Tanto siam dunque lontani che l'e di fue siasi una giunta, che anzi era
lettera distinti va della persona, ed una conseguenza dellamutazione, che
aveasi a faredelUI in E, come più si poteva. E quando sparì quell'E, sitol fue
fu in accento la semplicefu:mą serealmente,non si cesso di
aggiungerla.Ed ora ci rimane il sem plice fu, voce cheesce affatto da ogni
regola di terminazione. da Habui E le voci avesti, aveste, avemmo sono
comunissime: delle altre avei, avè, averono, se pur furono in uso, non ho
presente nemmeno un esempio; e solamente mi ricordo che in Fr. Jacop.si legge
avi per ebbi, ed avvero per ebbero. Di buon ora s'introdusse la irregolarità,
la qua le concerne, come ho detto, la sola prima singolare, e le due terze
singolare e plurale, e si fece ebbi, ebbe, ebbero; presa la occasione c o m e
s'intende pel S. 17 dal habuere: perché se ne dovea cavare ha . bero,con
lapenultima breve,donde ne seguitava habe per terza sin golare, ed habi per
prima; e somigliando queste due voci ad altre dell'antico presente abbo, abb i
et c, non potè non cambiarsi l’A in E, condirsiebi,ebe,ebero,ebbi,ebbe
ebbero.IPoetitalvoltaco me PETRARCA Trionfo Fam.cap. : ora investighiamo, come
da’pre teriti più che perfetti latini ne derivassero gl'italiani, che tanto sem
brano differenti. E certamente i Latini esprimevano col tempo la qua lità che
si affermava, ossia la cosa che siera fatta: e tali erano a m a
yeram,fueram,habueram.Ma negliitaliani sidecomposero gliattri buti, e si disse
io aveva amato,io aveva avuto,io era stato.Possiamo però conoscere che
tra'Latini medesimi si aveano i semi di simili riso. luzioni. Cosi Cic. nel 15
Fam . 20 disse, quantum ex tuis litteris h a beo cognitum per cognovi:od in
Verr.7 63 hodie sic homines ha bent persuasum: cosìnel 4 Ac. comprehensum animo
habere atque perceptum; ed altrove assai volte. Pertanto nel passare
da'preteriti più che perfetti latini agliitaliani,nonsifeceche ampliareciocchè
giàsi usavadai Latinimedesimi. Abbiamopiù voltenotato,che 20 per la rima
scrivo. no ebe con un b solo:qualche Antico ciò praticava quasi per abitu dine,
come può vedersi nel Dittamondo di Fazio degli UBERTI l'uso finalmente ha
stabilito ebbi, ebbe : ma,ebbero:vociche varianonel principio e nel fine come
appunto i preteriti greci. 28.Ma bastisu'preteritisemplici avesti ayè avemmo
aveste averono avero. 27.Seguendo le leggi descritte dovea nascere ancora
Habuisti Habuit Habuimus Habuistis Habuerunt Habuere I Ayei v.92, li che
incominciano ad imparare il latino quel lo scordano, facilmente,o che per
disusoin parte esprimono le azioni trapassate col verbo habe re,e col
participiopassato latino. va linguagl'Italiani erano Or siccome nelle
originidella in rispetto della lingua latina nuo punto chi principia ad apprenderla
come ap, o chi per disuso l'ha quasi di menticata; così l'analogia e
la voglia di esprimersi inqualche modo gl'indusseade comporre,edireioavevaamato,io
avevaavuto. &c; lasciando in amalus ed habitus gli S finali, e mutando gli
U in 0 secondoleleggidelş ireg:2e3, dalle qualiappuntorisultaamalo ed ayuto con
i cambiamenti suggeriti appresso dall'uso. 29. Quanto al verbo essere:il più
che perfetto latino è fu -eram, fu-eras,fu-erat&c:t alivocisonocompostedi
eram,eras,erat,e fuo fuit: quasi dicasi io erafu:tu eri fu &c.Seguendo
pertanto l'indole del tempo aveasi ad indicare tal nozione che spontanea si
presenta: cioè dovevasi indicare che questo era spettante alfueram; non era
indeterminato,e pendente come chiamano i Grammaticil'imperfetto, ma era
piuttosto di un tempo definito e certo. E'noto che i Latini appuntocon la voce
status, stata, statum upita al giorno o tempo accennavano i giorni e tempi
definiti. Cic. Offic.37 status diessit cum hoste:o come Plinio disse stato tempore.
Quindiin tempo che la lingua degenerava o si decomponeva si disse io era
stato,cioè in tempogiàfisso, giàpassato,e non pendente:tueristalo,cioèintempo
fisso et c, egli era stato, &c. La voce stato fu dunque come una giunta o
segno di cosa passata, e non altro:ed in seguito si aggiunse a tutti itempi,che
lo richiedevano nel verbo essere.I Grammatici han creduto, che stato sia il
participio del verbo stare applicato al verbo essere. M a non dee presumersi
che la formazione del verbo stare pre ceda quella di essere, che èil primo
de’verbi,e verbo per essenza: edaggiungo che sto,stas tra'Latini,da'quali
derivava in gran parte la lingua,se non è privo diparticipio, certamente ne
somministrava un uso ben raro, come può intendersi, consultando il Forcellini
sul verbo sto sta.Per taliriflessièda concepire,cheilverbo esserenon abbia
participio se non quello dedotto da stalus, stala et c. usato in principio come
segno e non più, di cose precedenti e consumate. 30. E da ciò nacque, che a
poco a poco si tentò creare un par ticipio proprio di essere,facendosi
essuto,issulo, o suto. Quindi AlBERTAN. Giud.cap.44pag.100
ediz.Fir.1610maggioronoreglisareb be essuto s'egli se ne fosse rimaso. Amm AESTRAM
. degli Antic.pag.93 Nella Grecia la Filosofia non sarebbe stata in tanto onore
s'ellanon fosse essuta invigorita per contenzione. Collaz. Ab. Isac. pag. 59 E
se l'uomo avesseconosciuto lasua infermilate nelprincipio e avessela veduta ;
non sarebbe essuto negligente. Questo participio pareva il più naturale: pur si
disse anche issuto; ma più di raro: AMMAESTRAM.de gli Antic. pag. 303 la nuora
il seguente di che è issuta menata, di. manda &c.Ma più di tutti fu in uso
ilparticipio sutopiùanalogo a sono,sei &c,e molti nesonogliesempj in
Boccaccio,nelle Croniche diLionardo MORELLI, nelMorgante del Pulci, nell'ARIOSTO,
ed in altri: ne allego un solo tratto da' FIORETTI di S. Francesco cap. 38 a.me
si è suto rivelato che tu et c. A fronte di tali sforzi non irragionevoli
lavocestato, laquale nonera che unsegno,divenneilparticipio legittimo,
esclusone ogni altro, 21 Ed eccone gli esempj. Fra JACOP. Poes,
Spirit. lib.1satir.i averanno reg.2, 3,7 perchè se nell'habebo si cambiavano i
due B in Vrisultava havevo e quindi havevi,haveva &c.come
nell'imperfetto:nonvolendosi dun que ritenere il secondo B, fu necessità
cambiarlo in altra consonante, e fu questa la R, e se n'ebbe averò, averai,
averà et c. in forza delle regole generali citate: mapresto
sitolseanchel'Eintermedio,esi fece Ayrd Avremo ayrai 22 Sempre serai in
tenebria Ditlamon.lib.icap,25 eris erit erimus eritis erunt avrete ayrà avranno
serai sera seremo Serete seranno. LATINO habebis AveròS.Ireg.7 31. Venendo ai
futuri dirò prima come derivassero quelli de’ver bi ausiliari. Nel verbo essere
è il futuro Ben serai crudo se gli occhi non bagni. FBA Guit, let. 3_pag. 13,e
anche sera di molti. Dittamon. 1.2 c.31 L'ITALIANO nelle origini Sero Le cose
quivi ne seran più conte. Novell,ANTIC,99 seranno queste le novelle che io porterò.
Chileg. gegli Antichi trova questeésimili vocinon infrequenti.Manifesta mente
dunque derivano dalle latine con la giunta di un S in prin cipio per
uniformarle con sono, sei, siamo et c. Del resto eris,erit, giusta le regole,
danno erai, erà,S. 1, e quindi serai, serà. Presso al cuni popoli ancora si ode
ladesinenza serimo, serile, che presto fu ridotta in seremo, serețe et c. Al
presente si trova cangiato anche il pri mo E,dicendosisarò,sarai.Questo
cambiamento è1'usuale,ma non forse il migliore, secondo le regole. Vedi il
verbo essere n. 13. Quanto al futuro di avere era il habebit averaiS.Ireg.5,e7
averemo reg.2, 3 habebitis LATINO Ero Habebo habebimus avera S. i reg 6, 7
averete reg. 2,5, 7 habebunt L'ITALIANO e talvolta a simiglianza
delle mutazioni occorse nel presente si tolse anche l'V,esen'ebbe Aremo arai
arete arà E stabilita una volta la cadenza de'futuri ne’primi verbiessereed
avere inserò, sarò, arò per continuadiscendenza dallatino;qualmeravi. glia che
siestendesseposcia ai futuri di ogni verbo, esi dicesse
amar),amerò,temerò&c. 32. Può nondimeno assegnarsi altra origine dei nostri
futuri, sem-" plice al paro che universale. Nel nascere della lingua si
scrisse raggioper amarò,faraggio per farò come leggonel B.Jacop. lib.2c.15,
elio faraggio questa convenenza: edice raggio per dirò come lostesso autore
scriye lib. 2.c. 25 or m 'udite in cortesia Però crudele, villano, e nemico
Sarabbo, amor,sempre ver te se vale &c. In alcuni villaggi d'intorno a Roma
si ode anch'oggi la desinenza in ajo, come farajo, amerajo et c. A ben
riflettervi tali voci non senoncheamar-aggio, dicer-aggio,far-aggio
&c:vuoldire aggioa fare,aggio a dire,aggio adamare:formole intutto del
futuro:per chè colui,il quale ha afare, non ha fatto, nè fa, ma riserbasia
fare: cioè dichiara l'azione sua come futura. E perché in luogo di aggio si
disse ancora ajo; quindi è che si hanno pur le cadenze amerajo, farajo&c.Ma
siccome in progresso abbo, aggio, ajo degenerarono nelle più semplici ho, hai,
ha, avemo, ayete, e per sincope aemo, aele, han no;cosìda ultimosifeceaver-ho, aver-hai,aver-ha,
enelpluraleaver emo, averele, lasciato l'a del dittongo in aemo, ed aete, e
finalmente aver-hanno:ed eposto l'hozioso nel mezzo di tali composizioni,sieb
be aver-o,aver-ai&c.Ma perchèho, ha,come monosillabe han suono tutto
raccolto in esse,e grave come per accento; quindi è che poco a poco simise ancorl'accentonelleprimee
terzesingolari,dicendo si averò, averà et c. Pari è la origine di serò, serai,
serà et c.voci del futuro del verbo sostantivo, quali usarono da principio per
sarò, sarai, sarà et c. Risultavano dall'infinito essere,troncatene le due
prime let tereES,come insono, sei &c, tanto che se ne avessesere,equindi
aranno, come si scorge ne'libri degli Antichi: Così Lell. 5 tra quelle del B.
GIOVANNI delle Celle: solo tanto l'arò a immutare, e nella letter. XI a Guido,
arai Dio teco, e più sotto, dove arai a stare in eterno, e lett. 13, che mai
non arannofine. FR. JACOP. lib. 2. cant. 3 pianto harete é dolore: tali yoci si
hanno pure ne' GRADI di S. Girolamo nell'Eneida di Annibal Ca'Ro, e nel
Cavalca, e comunissimamente nell'Orlando del BERNI. Diceraggiovi via via.
FraGuit. ediz.Rom.1745lett,3 lamoremioparteraggio,elett.16 folle acquisto far
mi guarderaggio: e tal volta ne'scuri principj della lingua s'incontra la
desinenzain abbo,farabbo,amerabbo et c.per il futuro. GUITTON. d'Arez.Son. ame
23 Ard sono ser-ho, ser-lai, ser-ha, ser-emo, ser-ete, ser-hanno:e
finalmente sarò, sa rai,sarà&c.Siapplichi lateoria dichiarata ancheagli altriverbi,
ed avremo amar-ò,amar-ai,amar-à,amar-emo,amar-ele,amai-anno, comesidisse
originalmente: le Letteredi $.Caterina di Siena ediz. di Aldo son piene di
questa desinenza,ed ilVarchi,egregio maestro di lingua, ne fa uso ben grande
nelle opere sue.Ora l'A precedente l'R fina. lesicambia inE,non sapreiperqual
vezzoirragionevole(vediama re nel futuro del prospetto:) e siè prodotto
amer-ò,amer-ai,amer-à, amer-emo &c. Dicasi cid proporzionatamente di
temerò,temer-ai,sentir-ò,sentir-ai et c. 33. Si noti, che la terza singolare
del presente di avere era have, hae, ha. Spesso inluogodiadoperarehanelcomporre
ilfuturo,fu adoperata la voce hae,con dire aver-lae, aver-ae, amer-hae, amer
-ae, far-hae,far-ae. Questadesinenzaè frequentissimain alcuniantichi Scrittori.
I nostri Grammatici han creduto che l'Ediaverae,farae &c. fosse un
aggiunta, per genio della lingua, che non soffriva di termi nareinaccento:ma
essa non èchelaE dihave,hae; etantoèlun gichefosseun'aggiunta,che
anzidicendosiora averà,amerà,non già si è cessato di aggiungerla,ma si è tolta
propriamente laE spet tante all'have,hae.Siapplichi quanto ho detto alla
desinenzaameroe per amerò lemeroe,per temerò et c. E'difficile trovar parola
italiana terminata in anno,la quale si scorci,eccetto le terze persone hanno, danno,
fanno, stanno,vanno, formate tutte a simiglianza di hanno. Quindi le terze
plurali avran no, ameranno &c.non si dovrebbero troncare;ma perchèson
esseun composto di aver-hanno,amar-hanno;cosi queste voci non han po tuto
perdere lo scorciamento particolare di hanno, e degli altri dan no, fanno et c.
foggiati a simiglianza di esso, come si vedrà nel trat tare partitamente
de'verbi.Anzi aggiungo,che hanno, fanno, slan no &c.intanto si scorciano
perchè nelle origini si diceva fano,stano, e così forse hano:voci idonee tutte
agli scorci,restando han, fan, dan:e siccome pur queste sirinvengono mozzando
hanno,fanno&c, perciò sono ricevute. Chi volesse notomizzare più
sottilmente questa materia, potrebbe trovare forse le tracce del futuro del presente
nel futuro del congiuntivo. Cosi lasciato da amavero, celavero &c. ilve per
simiglianza di quan to si pratico nel fissare la derivazione dei preteriti, si
avrebbe ed accentandoli celaro 24 54. Riguardando a tal seconda
spiegazione,i nostri futuri non sa rebbero quei de'Latini trasmutati:ma solo
deriverebbero quanto ne derivano gl'infiniti de'verbi,ed il presente del verbo
ave re, che ne sono gli elementi componenti. dal latino da Ama(ve)ro cela(ve)ro
amaro et c. 55. Quanto agl'imperativi ognun vede che l'amato, il timelo, il
legito, el'auditode'Latini,altrononèche l'amatu,temitu,leggi Amaro
lu,odi lu degl'Italiani. Le altre voci italiane sono pur le latine tra
dotte:ma perchè questesono lestessedei presenti,partedelcongiuntivo, eparte
dell'indicativo,overo del futuro dell'indicativo; cosìnon bi sogna se non
investigare come que'tempi si diramino dal latino,cioc chè si è fatto, e si
farà tuttavia. 36. Eccomi pertanto ad esaminare il congiuntivo de'Latini,dal
quale hanno origine tutte le voci del nostro ottativo e congiuntivo. Ames Amet
Amemus Ametis Ament Nelle voci amemus, ametis l’E si volge in IA, perchè nel
tradurle si riguardanotalivocicomedipendenti dalla seconda singolare conlagiun
t a d i a m o o diate, ami - amo, ami -a l e . Del resto sebbene l ’ E finale
avanti la S dovea mutarsi in I; e la E di amem o di amet dovea secondo leregole
conservarsi; pure ne'principj non erano questi limiti abbastanza riconosciuti:
e diceasi promiscuamente io ame,tu ame, que gliame:desinenza era questa originale,
perchè meno distante dalla latina, taciutene le consonanti in fine, e resta
tuttavia tra’ Poeti, spe cialmente per la rima: nondimeno si crede che questa
sia termina zione di licenza, e non primitiva e spontanea. Tale è ilprogresso
delle cose,c h e dimentichiamo gli usi più naturali, sostituendone altri men
proprj,che poscia il tempo caratterizza come legittimi!Vedi amare num. 14.
Nelle altre conjugazioni, lasciate o mutate le consonanti finali se condo le
regole S. 1, e lasciato l'E, o l'I precedente l’A finale, S. I reg.4,risulta
dal LATINO Timeas Timeat Timeamus Timeatis Timeant Tema Temi, e poi tema Tema
Temiamo Temiate Creda d 25 1 Timeam ITALIANO Ame,ed ora ami L'ITALIANO
LATINO Amem Credam Temano Credi, e poi creda Creda Crediamo Crediate Credano
Credas Credat Credamus Credatis Credant Ami Reg. 4 e 2 Ame,ed ora ami Amiamo
Amiate Amino. E ne verbi ausiliari. Nel qual mutamento l'EdiHabeam
et c.èdivenuta per eccezione o dolcez. za un I, ed ilB siè raddoppiato,
osservate ancora le regole generali. Quanto alsim, sis, sit, simus, sitis, sint,
siccome il verbo essereè di seconda conjugazione, e tutte le seconde
conjugazioni anno il presente del congiuntivo terminato in A nel singolare,
almeno nella prima e terza persona; quindiè che si fece iosia, tusia,o
sii,quegli sia, noi siamo, siate, siano. 37. Ma perchè nelle origini della
lingua non era ben decisa la terminazione, con cui chiudere levocidel presente
nel congiunti vo, si tento talvolta, o si dubito modificarle in tutte le
conjugazioni, come nella prima. E siccome la prima era terminata in io ame
ovvero 38. Così pure essendosi terminata la prima conjugazione in I nel
presente del congiuntivo,siterminarono talvoltain Ipurlevoci delle altre: e si
trova abbi per abbia, giunghi per giunga, vadi per vada &c,in terzapersona:
Lett.S. Cat.pag.31. Deh!nonsirendi più il cuor nostro ambiguo,cieco, e
negligente.E quindi è che tra'Cin quecentisti generalmente le terze plurali
abbiano,temano,leggano fu Abbia Habeam 26 tu ame Ilabeas Habeat Habeamus
Habeatis Habeant Abbi ed abbia Abbia Abbiamo Abbiate Abbiano io ami quegli ame
quindi èche si quegli ami; trovano anche i verbi di altreconjugazioni figurati.
Così AB. Isac. Collaz. cap.2. cosi con scrive,abbie preziosa operazione: e cap.
12 abbie paura della superbia, ed ALBERTANO Giudice l'uno de Scrittori più
antichi assegnato all' anno 1260 in circa, scrive vece diabbia al principio del
cap. in 6 tu abbie: e si dice abbie cari tade e fa ciò che tu vuoi, e cap.9 dci
render lo beneficio all'amico con usura se puoi:e se no; abbie spesso lo
beneficio a te dato memoria: e cosi nel cap. 3 usa in pieper diche per dichi,
enel 5 in finesap sappi: e nel cap. 9 sie per sia. Sie largo di dar mangiare Tuoi
conti ecari amici,e nel alli cap• 38 de'tuoi beni e dello stato che Dio l'ha
dato ţi stie contento.Tali formole parrebbono a chi non guarda alle origini,
tutte licenziose, laddove ri naturali,quando erano modi primitivi e la lingua
pendeva ancora indecisa circa la desinen za.Ora eccettosie efie,le quali pur
vogliono gran parsimonia piùnon siuserebbono talivoci. Vediesserenot.17,
avverto che tali voci abbie Del resto io non all'imperativo,sie&c.spettano
al congiuntivo come . tu amirono abbino, temino, leggh i n o et c ., che poi
l'uso ragionevolmente 27 ha ri pudiate, perchè rimanesse un divario tra le
cadenze, onde riconoscer ne le conjugazioni. ec.1491. Are ( avrebbe) quelcolpo
gillatigiù mille. E qual sare'colei che nol facessi? In questo esempio il primo
sare sta per sarei, e l'altro per sarebbe . Eguali manieresiscontranoancora,ma
più rare assai,nell'Orlanda del BERNI:così nel c.5.16 39. Quanto all'imperfetto amarem,amares,amaret;
taciutene le consonanti finali risultava amare, voce non distinta
dall'infinito: si aggiunse per cið un I finale, e si fece amerei:e siccome il
per fetto dell'indicativo termina in I, dicendosi amai, temei, sentii, e da
questa si ebbe per seconda persona amasti, temesli, sentisti; cosi fu con
progresso consimile terminata la seconda di questo tempo, dicen dosiameresti, temeresti,
sentirestiaggiunto un TI ad amares,timeres, sentires,il quale in origine non
era che un lu, e perciò trovasi tal volta ameres-tu, vederes-tu per amaresti,
vederesti &c.Cosi PASSAVAN ti nel suoSpecchio di Penitenza pag.107. Avrestuoffeso
intaleolal cosa?&c.Laterzaamaret,gittatoilT,divenneamare nuovamente, e per
distinguerla si fece amerie,ovvero ameria per essere ne' prin cipii non ben
precisa la vocale distintiva da aggiungersi. Quindi in FRA Jacop.lib.4
cantic.30 silegge fariemiconsumare,permifaria consumare;e nellib.5can.27 si ha
vorrielo perlo vorria,eDan.Par. 29: 49 usa giungeriesi per sigiungeria. Nel
Morgante del Pulci s’in contra un uso speciale, ma certo molto analogo a
dimostrare la ori gine di questa persona.Egli più volte in vece di modificare
diver samente la voce, o desinenza amare, aggiunge un apostrofe,e scrive
amere',sare',potre'perameria,saria,potria.Vedi c.12,13,c.13, 13 e 38. E son qui
per provarquelchel'hodetto. 'Amaremus diede ameremo mutatol'us in mo secondo le
regole generali: ma perchè ameremo è pur del futuro, si aggiunse un'M,
facendosiameremmo:amaretisdiedeamereste,come da amarespro viene ameresti; o
come da amasti proviene amaste. amerieno da amerie; ovvero mutato il T di
amarent in secondo le regole,siccomerisultaamereno;cosi
coll'inserirviun'I,sen'ebbe amerieno. Amerie, ovvero ameria, ecostamerienosonodunque
desi nenze originali:e questa è laragione, per cui ne' Prosatori antichi, come
ne'Poeti, si trova tante volte la cadenza inieno,amarieno,te merieno,farieno:
la quale ora è mutata in iano, ameriano, temeria AO et c.da ameria, cemeria,
che prevalse sopra di amerie, temerie E disse sare'io, ch'era pursaggia, Che a
cosi degno amante non piacessi, Purchè mai tempo e luogo accaggia; Ancormi dare
il cord'uscirne nello, ipo d2 chissimo usate fin da principio.I
Poeti,sovrani conoscitoridella dol cezza degl'idiomi, ritengono tuttora, usandola
amplissimamente,la terminazione in ia ed iano. I Prosatori l'hanno quasi
dismessa: nè io credo che ciò seguisse con piena ragione: giacchè si
allontanarono davoci, le quali presentano laoriginelorodallalingualatina che ne
era lamadre:e potevano variare con ogni dolcezza il discorso. Inluogo di
ameria,ameriano sottentraronole altre amerebbe,ame rebbero, ovvero amerebbono.
Queste voci a somiglianza di quelle del futuro sono composte ancor esse, ma
dall'infinito e dalle terze del perfetto diavere, amar-ebbe, amar-ebbero,ovvero
amar-ebbono.Può no tarsilamarciaincostantedegli uomini:mentre sonostatiesclusi
tantiB dagl'imperfetti, e dai futuri,qui ne sono stati riprodotti con usura: la
desinenza è divenuta più lunga, e talvolta quasi indistinta, essen dovi alcune
terze. Resta a dire qualche cosa intorno la desinenza amassi, temes
si&c.laqualeesprimeilpresentedell'ottativo,e l'imperfetto del congiuntivo.
E 'manisesto che questo tempo è tratto dalle voci sincopizzate del più ch perfetto de’ latini nel CONGIUNTIVO, tolto n
e il v i come nel perfetto dell'indicativo, e serbate leregole generiche delle
vocali finali, lasciato l'M, e mutata l'E in I et c. Amassi Amasse Amassimo
Amaste Amasseno . del perfetto, che somigliano, come crebbe, increbbe, bebbe,
ecc. E poco vedo cosa abbia a fare ebbe e debbero, vocidel perfetto, convocidel
soggiuntivo, lequalihannodell'imperfet persone to, cioè che resta da fare.
Possono osservarsi al verbo amare, dove trattasi della desinenza in ia, ed
iano, altre incongruenze. Ma l’uso ha già prevaluto, e chi parla dee parlare
conl'uso. Tale appunto sorse la terza plurale: ed ancora n e restano degli
esempj Fra Guit. let.I pag.8 se'reiabitasseno,elett.2ev'entrassenoalcore.
PETRAR. son. 154 che andassen sempre lei sola cantando&c.Ma posteriormente
di “amasseno” si fa “amassono”, ed ora dicesi “amassero’ co munissimamente. Si
noti che la seconda plurale amaste involge una mancanza di lingua: perchè non
più vi resta il ssi o sse, caratteristi co di questo tempo, e perché amaste è
voce plurale ancora nel perfetto dell'INDICATIVO. Ed è certo un difetto con una
voce stessa esprimere tempi, emodi tanto differenti. Forse è natodaciòchetalvolta
s'in contra voi avessi per voi aveste, come in Antonio Pucci Centiloquio
cant.69 terz.58. Se voi in qua non m'avessi menato. Anzi ho notato che
MACCHIAVELLI tanto conoscitore della sua lin Amassi nel suo 28 Ama (vi)ssem Ama
(vi)sses Ama (vi)sset Ama (vi)ssemus Ama (vi)ssetis Ama (vi)ssent
Ma primach'iosentissetalruina&c. FRA JACOP.lib.6 c. 18. 28. 42. E
siccome questo tempo nell'italiano esprime il presente dell'OTTATIVO, e
l'imperfetto del congiuntivo, i quali non E cosìnella Gerus. 8.24. : "Quel
partissi addita azione già fatta. 29 gua, spesso in tal tempo usa la
seconda singolare per la plurale con premettervi il pronome.Cosi nell'Arle
della guerra ediz. Cosmopoli Far este voi differenza di qual arte voi li scegliessi,
e pag.63 iodcsiderereichevoivenissiaqualcheesempio,pag.233.so lovorrei che
voimi solvessiquesti dubbj,e 236 vorrei chemi dices si&c.Un tale scriveresidirebbeartifiziosoonegli
gente?Glieru diti decideranno se forse era meno male così scrivere. Certo se
replichiamo nel singolare io amassi, tu amassi,perchè non farlo nel plurale?
Amassetesarebbestata,parmi,lavoce idoneae conseguente:ma sealtri la dicesse ora,
sarebbe uno sgraziato, un imperito . Tanta è la prepon deranza degl’abusi, resi
venerandi per vecchiezza. L'origine di questo tempo è similissima in tutti gli
altri verbi.Così da timuissem è temessi, da legissem è leggessi, da audivissem
udissi, &c.e nezliausiliaridafuissemfossi,dahabuissem avessi,mu tato al
solito il B in V, e ľ U I in É come in “timuissem”, timui ecc. e tutti
soggiacciono all'inconveniente anzidetto.Del resto ne'principj della lingua
pendette incerto alcun poco se avesse a farsi amassio amasse di amassem, e così
sentissi o sentisse di sensissem. Quindi Fazio nel Dittam. lib. 1 loro
discordano, ma PROVIENE DAL LATINO, che era un più che passato. Così le di lui
voci medesime scorrono a significare cose passate non senza un pocodi
confusione:ma egliè male di origine, esivuol condonare:peress.SEGNERI
Predic.358.10Visovviend'altroreo,che mai tollerasse una o più tragica o più tirannica
forma di tribunale? E'chiaro che quel collerasse esprime cosa passata:tale è
pur quello nelle Vit. De'SS.PP. tom.1pag.83.E allora conosceretechefuil meglio
per m e ch' io m i partissi molto fra D'amarli e di servir, quant'io potesse.
BARBER ch'io gli mandasse a quello. Giosafat ed io non sarei savio se io tale
cosa manifestasse. Novell. ANTIC.37 s'iovolesse dire una mia novella&c.Nel
primo tom.delle Delizie degli Erudili Toscani pag. CL.sinotanoaltriesempj disi
mili desinenze. E se piaciuto pur fosse là sopra ch'iovi morissi, il meritai
coll'opra. Quanto agli altri tempi amaverim, amavero et c. sono decom posti
negl'italiani,che io abbia amato, o io avrò amato et c. Sicchè non vi resta
presso a poco da osservare, se non quanto si disse in torno di habueram, fueram
ecc DIPENDENZA delle conjugazioni italiane dall'infinito, e loro somiglianza
generalissima. Conjugare i verbi italiani non èchevariarediversamentel'in
finito,secondoimodi,itempi,lepersone,inumeri,come altrove si è detto. Or
volendo conoscere queste variazioni e somiglianza loro generale, si avverta. Ogni
infinito termina in “-RE”: “amare”, “lemere”, “credere”, “sentire”; e quasi
tutte le variazioni succedono appunto in questo RE finale:solamente talvolta
subisce de cambiamenti anche la vocale precedenteilRE.Cos)per avere I participj
presenti, il “-RE” si muta in “-NTE” nelle prime e seconde conjugazioni: “amante”,
“credente” &c.E nelle terze tutto l'IRE, per ess. di sent-ire si muta in
ente, sentente; ovveroilREsimuta inENTE;obedi-re,obedi-ente.Per avereil par
ticipio passato,aparlar generalmente, basta nella prima e terza con jugazione mutare
il “-RE” in “-TO”: “ama-re” > “ama-to”,senti-re,senti-lo.nelle
altreconjugazionisicambiatuttol'EREinUTO lem-ere,tem-ulo, cred-ere, cred-uto.
2. Quanto ai tempi per avere il presente singolare si lascia il RE
dell'infinito, e lavocale precedente il “-RE” simuta in “-O” per le prime persone,
e dove bisogna in Iperleseconde;ma perle ter ze persone, tolto ilRE, I'lsicambiainE
nelleterzeconiugazioni: nelle altre non bisogna variazione ulteriore. Ama-re
teme-re Crede-re a m a teme crede senti ne’plurali il “-RE” dell'infinito si muta
in “-MO”, “-TE”, e “-NO”, per le prime seconde,e terze persone. Ama-mo Teme-mo
Crede-mo ama-te teme-te crede-te senti-te a m a -n o teme-no crede-no
Senti-mo 30 E cosi trovansi presso gli Antichi terminate le prime e terze
plurali. E per dare qui un qual ch'esempio su le terze plurali, CASTIGLIONE nel
suo perfetto cortigiano usa commoveno, rivesteno, discerneno, occorreno,
cadeno, moveno, serveno, ed altre moltissime. Nell’archisihagiaceno,
soggiaceno,ed altre. Ma ora l'uso porta che anche le vocali precedenti il “-RE”
hanno subito de'cambiamenti, dicendosi tutte le prime persone amiamo, temiamo, crediamo,
sentiamo:enelleultimedue conjugazioni terminandosi le terze persone plurali in
ono, temono, cre sente -n o 1 S. III. 1. amo temo credo sento ami temi credi
Senti-re sente. Quanto ai verbi della terza conjugazione, ne’’ qualivi è la
doppia cadenzacome abborroeabborrisco (vediquestoverboinfine della prima parte
) sappiasi che la cadenza in isco esce di regola nei pre senti dell'indicativo,
imperativo,e congiuntivo. Tutto il divario è che in questi presenti le persone,
prima, seconda, e terza singolare, si formano come prima secondo le regole, e
che poi alla vocale fi nale si antepone la sillaba ISC in ognuna di queste
solamente, on de si abbia: la terza plurale si trae dalla prima così mutata, aggiuntole
il “-N O”, segno della pluralità ne'verbi. “Abborrisco-no.” Ossia all'infinito
abborri re, tolto il R E si congiunge sco, sci, sce, scono, abborri-sco, abbor
ri-sci, abborri-sce,abborri-scono. 4. Il Re dell'infinito si muta in VA VI VA
pel singolare a m a -re teme-re crede-re senti-re ama-va teme-va crede-va
sentiva Ne plurali alla prima, o terza di ciascun singolare si aggiungono le
distintive dette di sopra MO,TE,NO. amaya-mo temeva-mo sentiva-mo amava -te
temeva-te credeva-te credeva-no sentiva.no Perfetti dell'indicativo per la terza
persona l'ultimo “A” di “amasi” muta in “-O” accentato. Nelle altre
conjugazioni si accentuano la E o l'I; masiaggiunge MMO 31 dono,sentono
&c, come se aggiungasi ilNO alle prime persone, temo, temono,credo,credono,sento,sentono,laddove
essendole terze plurali un multiplo di terza e non di prima persona singolare, non
dove asiaggiungere il NO, segnodipluralità,senonallaterza sin golare, come
dicesi ama, amano, e non amono. amava-no temeya -no STE 1) sentiva -te ama-vi
ama -va t e m e -vi teme-ya “senti-va” credevi sentivi Imperfetti
dell'Indicativo 2 ) personeplurali, RONO 3 crede-va credeva -m o abborr (isco
abborr(isc)i abborr(isc)e 5.ToltoilRe
dell'infinitosiaggiungeIperlaprima,eSTIper laseconda persona: per le
senti-sti senti ama-mmo teme-mmo crede-mmo senti. mmo amo teme crede
ama-ste teme.ste crede-ste a m a -rono teme-rono 6.Ma nelle seconde
conjugazioni,come in temere e credere, ol tre la legge universale,il RE
dell'infinito spesso si muta per le pri m e in singolari in T T I; per le terze
singolari in T T E, e per le terze plurali in TTERO ovvero in TTONO dicendosi
Temei temetti Credei credetti Temė Futuri dell'Indicativo 7. Il solo E finale
dell'infinito si muta, o cresce in O accentato 1 ) A I nelle amar-o temer-6
sentire amar-ete creder-emo sentir-emo Presenti dell'Ottativo IIRE si muta in “senti-ste”
crede-rono senti-rono creder-o 33 ama-re tem e - re cred e -r e ama-sti
teme-sti crede-sti amar-emo temer-emo temer-ete creder -ete sentir-ete
amar-anno temer-anno I SSI SSI SSIMO SSE . STE SSERO SSONO sentir-à senti i
amar-ai temer-ai creder-ai sentir-ó amar-a temer-à creder-à sentir-ai ama-i
teme-i crede-i amar-e temer-e creder-e Credé Temerono temettero temettono
Crederono credettero credettono 2 ) del singolare A accentato 3 EMO ETE nelle2)
delplur. ANNO 3) temette credette Si noti che ora si volge in E anche l'ultimo
A di amare, almeno dagli Scrittori, non senza equivoco. Vedi amare nel
prospetto not. 9. crederanno sentiranno sentire ama-re teme-re crede-re a
m a -sse teme-sse crede-sse crede-ssimo ama-ste teme-ste senti-ssi
serti-ssimocic. BBERO solamente nella prima conjugazione si è preso il COSTUME
– forse NON RAGIONEVOLE – di cambiare 1A precedenteilRE dell'infinitoinE.
sentire sentire-i credere-sti credere -bbe credere-mmo sentire-mmo credere-ste
sentire -ste credere-bbero sentire-bbero credere-bbono sentire-bbono Si noti
che le aggiunte che qui si fanno per le due prime per sone singolari eplurali
sonole stesse dei perfettie che quelle che si fanno per le terze sono, direi,
le terze del perfetto di avere, ebbe, ebbero,ciocchè facilita di molto la
formazione di questo tempo, presente del congiuntivo AMO ATE credere credere -i
sentire-sti sentire-bbe ama-ssi a m a -ssi teme-ssi teme-ssi crede-ssi
crede-ssi senti-re senti-ssi ama-ssimo teme-ssimo Amare Io ami Imperfetto
dell'Ottativo Conjugazione 1." Si toglie il RE dell'infinito, e la vocale precedente
il “-RE” si muta in I, e nel plurale si aggiunge 3 1 sentisse credeste, amassero
amassono temessero temessono credessero credessono 33 I alla 1) S T I 2 ) del
singolare BBE 3) MMO I) STE 2)delplurale amare amere-i amere-sti amere-bbe
amere-m m o “amere-ste” amere-bbero amere -bbono 9. L'infinito resta immutabile
e si aggiungono Tu ami Colui ami Ami-amo Ami-ate Ami-no temere temere -i
temere-sti temere -bbe temere-m m o temere-ste temere -bbero temerebbono NO 2
person . La vocale precedente il -re dell'infinito si muta in “a” in
tutto il singolare, e nella terza plurale. Il resto è come nella prima :anzilla
seconda singolare può terminare come nella prima conjugazione; i che sarà
considerato ne verbi rispettivi. Credere Creda Creda o Credi Creda Crediamo
Crediate Credano. Queste sono le variazioni. Gl’altri tempi composti risultano
da alcuno de' tempi già esposti, presi da'verbi essere ed avere, e dal
participio passato del verbo particolare, il quale si usa; e però non occorrono
nuovi cambiamenti nell'infinito. Quindi si dovranno cercare nel prospetto.
Intanto si potranno raccogliere alcune regole, e sono: Tutte le prime persone singolari
dell'indicativo eccetto il perfetto e l'imperfetto finiscono in 0. Tutte le seconde
in I in ogni tempo. Tutte le prime plurali in ogni tempo e modo in “-mo”, e le
seconde in “-te”, e le terzein “-no” o “-ro” in alcuni tempi. Ma in tutte le prime
plurali dei presenti di ogni modo, degl'imperfetti, e futuri dell'indicativola Mè
semplice: amiamo, amassimo, amavamo, ameremo, temiamo, temessimo, temevamo, temeremo,
&c. Ma ne'perfetti dell'indicativo e negl'imperfetti dell'ottativo la “m” è
doppia: “amammo”, ameremmo, temeremmo, crederemmo, &c., e cosi le seconde
plurali in que stid u e tempi ed anche nel presente dell'ottativo anno la “s”
avanti ilTe finale dicendo siamásle amereste &c.!,le altre anno il semplice
“-te.” Parimente, questi tre tempi possono finire in “-no” ed in “-ro” nelle
terze plurali: amaro, amarono, amerebbero amerebbono, amas, amaranno, amarino. Gli.
BIBLIOTECA- LVCCHESI -PALLI- BIBLIOTECA LUCCHESI • PALLI III.» SALA Scaffale.
Pluteo. N.» CATENA. h Digitized by Google Digitized by Gopgle COLLANA DEGLI
ANTICHI STORICI GRECI VOLGARIZZATI. Digitized by Google Digitized by Google
Dìgitized by Google Digit zec! ov \Vo3^ LE ANTICHITÀ ROMANE I DI DIONIGI
D’ALIGARNASSO VOLGARIZZATE DALL’ AB. MARCO MASTROFINI già’ frofessore di
matematica e di filosofia NEL SEMINARIO DI FRASCATI MtmOKX KOrJMMKTt USCOKTIUTÀ
COI TM3T0 BAh TKÀBVTTOBt TOMO PRIMO MILANO DALLA TIPOGRAFIA De’ FRATELLI
SONZOCMO M. Dionigi di Alessandro fu d’Alicarnasso, reggia un tempo della Caria,
della quale pur furono Eraclito il poeta ed Erodoto di gr^ca istoria padre come
Petrarca lo intitola nel terzo de' capitoli sul trionfo della Fama. E difficile
determinare V anno, non che il giorno della sua nascita. Fozio nella sua
Biblioteca (cod. ^4) dice che egli precedette Dione Cassio, ed Appiano
Alessandrino, espositori aneli essi di Storie Romane. Errico Dodwello che
meditò gra- vemente quelt argomento non seppe ristringersi ad altra
particolarità, se non a questa, che Dionigi debbo essere nato fra t anno
(i"G e ^oo di Roma calcolali alla maniera di V airone. DIOyiGI, toma ^ ‘,
X / 2 I(. Dionigi sentiva in sè la nobiltà del cor suo] c si mosse verso la
capitale del mondo, e venne a Roma nelt anno F^arroniano ja5, cioè finita la
guerra interna di Augusto contro di Antonio ; domd è che egli non vi giunse
prima dell' anno suo venticinque- simo. Fi si trattenne 22 anni: vi compose le
opere critiche, e vi apprese intanto diligentemente C idioma del popolo
vincitore su la mira di leggerne gli antichi monumenti nazionali, e di
scriverne infine con greco stile una stona per uso de’ Greci suoi che troppo la
ignoravano. Egli riusci nell intento, e la scrisse, e la divulgò nell anno Fcu
roniano y47 sotto il nome di Antichità Romane come l ebreo Giuseppe Jion molto
dipoi, forse ad imitazione di lui, e certo con più proprietà, pubblicò sotto il
titolo di Antichità Giudai- che la storia del popolo ebreo, la quale era insieme
la storia della origine stessa del mondo. III. Par che Dionigi delineasse la
storia col di- segno stesso con cui Firgilio cantava la Eneida: vuol dire l uno
e l altro spargevano fiori appiè de’ trion- fatori non senza il lusinghevole
desiderio di guada- gnarne la grazia : non leggera conquista per uomini inermi,
autorevoli solo per sillabe, per parole, e per periodi ! 'Dionigi fece sapere
a’ suoi che il popolo del Campidoglio non era poi barbaro ; anzi che era pur
esso greco di origine, e che assai conosceva leggi e costumi ; e ciò perchè
riuscisse il comando romano, se non pregevole, certo men duro nella Grecia d’
Asia e di Europa, paesi che una volta orati patria e tempio di fortezza e di
libertà. Digilized by Google 3 IV. Egli distese il suo scrino in venti liLri ;
ma non sopravanzano che i primi dieci e parte dell’ un- decimo; tutto il resto
perì per la ingiuria de' tempi. Per quanto ci racconta Fozio (i) che aveala
letta per intero, scorre ane la narrazione dagli Aborigeni e dalla venuta di
Enea nella Italia fino alla guerra de’ lio- mani con Pirro, monarca degli
Epiroti ; perchè ivi appunto comincia la storia Romana deli altro greco scriuor
precedente, Polibio da Megalopoli. Quest or- dine di storie si consideri
diligentemente ; perchè da indi apparisce che Dionigi dee precedere c non se-
guire Polibio, come parve al primo che dispose la Col- lana Greca, e come trovo
fatto pur questa volta irre- parabilmente su Cantico disegno (a). Siccome un
estero per la novità che v incontra, può notare ì. costumi varj de' popoli
meglio che il nazionale che cresce e invecchia con essi ; così questi due Greci
conversando co’ Romani seppero distinguervi e descriver più cose che i Romani
stessi non han descritto e trasmesso con la successione de’ tempi ai tardi
nipoti. Or ciò dovea tanto più seguitarne quanto che scrivean quelli pel greco
il quale non avrebbe gustata nè intesa la loro narrazione se non esponevano
minatamente le cose notissime tra Romani. E quindi è che Polibio delincò su la
milizia romana quello che non si legge in niuno de’ romani scrittori medesimi:
e Dionigi toccò tante picciole circostanze che meglio dichiarano le ori-,gmi,
il complesso, ed il termine degli eventi: cioc- (i) Bihiiotre. cod. 8f>. ( 1
) Ediz. romana di Vinccoio Pojryiuli delT anno Digilìzed by Google che ne ha
rendalo, e ne renderà sempre, preziosis- simo quanto sopravanza delle storie di
lui. V. Livio rimpelto a Dionigi è come il compendio rimpello all' opera estesa
; tanto che il primo racco- glie in tre libri ciocché l’altro dilata in undici.
Nè io saprei dolermi su tanta espansione quando le cose vi fossero state
moltiplicale in proporzione. Ma per dirne ciocché io ne penso, e dare intanto
il paragone degli autori fin qui da me volgarizzati che sono Sallustio, Quinto
Curzio, Lucio Floro, e Dionigi ; mi è sem- pre parato che in Sallustio non
capano i sentimenti dentro le parole, che in Curzio si pareggino compiu-
tamente gli uni alle altre, che in Floro le parole su- perino alquanto i
sentimenti, e che in Dionigi fincd- mente- ( siami cosi lecito di esprimermi)
le sentenze galleggino affatto tra le parole. Sallustio é come il fior vivo,
che di sé promette gran cose, ma stretto in parte ancora dalla sua buccia :
Curzio è il fior copioso, odoralo, aperto graziosamente al sole che 10
vagheggia ; Floro è il fior vago, ma tutto spam- panato con molte le f rendette
e poco t odore; e Dio- nigi finalmente è il fiore delle ampie e libere frondi
11 quale sot^ di sé nasconde il picciolo guscio che ravvolgevalo, e par sorgere
pomposo e vario tra le aure che lo investono, ma troppo, se lo stringi, è
minore delle belle apparenze. Dionigi era un greco dell jfsia, e fa sentire in
sé la prolissità propria di quella vastissima parte del globo. Le parlate in
lui sono lunghissime, e per ordinario non ripetono se non ciò che presentano le
storiche narrazioni ; laddoue in,Tilo Livio sono lampi e folgori, sentenze e
risultati. V ultimo lascia a pensare, il primo li lascia senza pensieri prima
che finisca di parlare ; nelV uno senti il capitano ed il console, nell altro
lo storico «d il declamatore : quegli è pieno di entusiasmo e di fuoco su gt
interessi della sua nazione, /’ altro vi si spazia sopra come il panegirista
che loda non per affetto, ma in vista di ricompense, o per moda. Forse tanta
loquacità non piacque nemmeno tra' suoi nazionali; e Dionigi voglioso di essere
letto, s’indusse a ristringere in un compendio di cinque libri quanto avea
steso in venti. Fozio nella sua Biblioteca [cod. ^4) parla eziandio di un tale
compendio ; e lo dice più utile per questo, che non contiene se non le cose
necessarie alla storia. Egli paragona Dionigi in quel nuovo scritto ad un re
che giudica e tiene intanto in mano lo scettro; e sentenzia ma con la
precisione e col tuono di chi comanda (i). Vr. Quanto allo stile i giudizj ne
sono difformi : vi è chi lo chiama scrittor soave, scrittore elegante ; e non
vi è dubbio che e"li abbia de' bei tratti, dei pellegrini concetti, e
gravissimi documenti. Nondimeno vi è chi dice risolutamente che Dionigi
rimpetlo a Senofonte è come il duro e licenzioso jépulejo rim- pclto alle
maniere delicate e spontanee di Livio. Dio- nigi fa pur troppo conoscervi che
egli non era nativo deir Attica. Fra le sue formole ne occorrono alcune (i) La
prcsealc versione fu stampala in Roma l’anno i8ia. Dopo quest’ anno il
Compendio fu creduto rilrovato in Milano. Se ne patterà nel tomo quarlo là dove
sono i fiammcnli. Digitized by Google G nuove, Ialine (T indole, o certo non
abbastanza monde da solecismo ; tantoché vi si violano le regole prò- poste da
esso medesimo nelle opere sue critiche per gli storici e per gli oratori. Ad
ogni modo Dionigi é come la miniera ampia di oro, e come V archivio ricco di
monumenti preziosi in mezzo di altri che sono anzi un ingombro ; dond è che un
tale scrittore, come ho toccato dianzi, sarà caro finché saran care le storie.
Ora diciamo qualche cosa delle versioni del nostro Autore. VII. Lapo lìira^o
fiorentino il primo diede una versione latina di Dionigi. Questa fu pubblicata
la prima volta in Trevigi Hanno i48o, e poi di nuovo in Basilea nel i53a. Il
Glareano ebbe cura di tal seconda edizione e la purificò da sei mila errori co-
ni egli dice. Boberto Stefano vedendo pubblicato Dio- nigi nella lingua non
sua, trasse il greco originalo dalla Biblioteca dei re di Francia, e lo mise in
luce l’anno ì5^(i. Il Gelenio divulgò colle stampe in Ba- silea [ anno iS/fg
una nuova versione latina de’ dieci primi libri. Silburgio rettificò con
critica squisitezza le tante lezioni non sane che ci aveano nel greco dello
Stefano, e nel latino del Gelenio, e congiunse i due testi e li stampò V anno
i586 in Francfort. In questa edizione vi é la traduzione dell’ undecimo libro
fattu da Silburgio medesimo, li frammenti ricorielti delle Legazioni già
pubblicale da Fulvio Ursino, ed un libro di annotazioni in fine. Mentre
apparecchia- vasi o compivasi da Silburgio questa edizione ; Emilio Porto diede
su t originale dello Stefano una nuova Dìgilized by Googlc 7 traduzione latina
delle antichità con amplissime an- notazioni, imprimendo anche il libro delle
legazioni con la trina interpretazione dì Stefano, di Sitburgio e di Porto.
JSel 1704 si ebbe la vaghissima edizione fatta in Oxford la quale comprende il
testo greco di Dionigi colla versione di Porto, emendata dove nera il bisogno,
e le legazioni secondo la impressione fat- tane da falesie riunite a quelle già
pubblicate da Ursino. Si cominciò finalmente nel 1774» ^ ^i com- piè nel 1777
lO' edizione riputata la più corretta di Lipsia colle note varie di Errico
Stefano, di Silbur- gio, di Porto, di Casaubono, di Fulvio Ursino, e di
Giangiacomo Peiscke. Vili. Francesco Venturi fiorentino ci diede nel 1545 colle
stampe venete la prima versione italiana delle sole antichità di Dionigi. In
quell'epoca il testo greco non era nè stampato nè rettificato, e quindi avendo
egli lavorato su di ^un manoscritto, frequen- tissime sono le aberrazioni dcd
vero senso. Aggiungasi che lo stile è contorto, implicato, nè sempre regolare:
in somma risente tutte le imperfezioni del primo tra- duttore latino Lapo
Birago : nè questi potè sempre capire il senso del testo, ma dove ciò non potè
fu contento di volgarizzare le parole greche, appunto come significavano, una
per una. Il signor Desiderj nel continuare in Roma V anno 1 794 la edizion sua
della Collana Greca ideava, parmi, riprodurre la ver- sione stessa del Venturi;
ed il primo periodo di questa è del V snturi in gran parte ; ma fatto accorto
che grande ne era la oscurità, e poca la naturalezza. \ .Dìgitized by Google 8
continuò a pubblicare non il resto del Venturi, ma una traduzione di traduzione;
t'uol dire, diede alla Italia un Dionigi tradotto, forse non sempre ade-
guatamente, e certo non sempre con purità di stile, sopra la traduzione
francese, e non sid greco origi- nale. Al primo leggere il Dionigi del Desiderj
mi parve ravvisarvi una fisionomia anzi francese che gre- ca. Adunque paragonai
la versione framese del padre Francesco la Jai Gesuita con la produzione del
De- siderj a luogo a luogo, e fui convinto che era ciò veramente che io
sospettava. Questa immagine éT im- magine, questa eco di eco che scolora le
fattezze, e deprime sempre più la energia dell originale, questa stampa non
greca, non francese, e forse non italia- na, non dee numerarsi tra le versioni,
degna almeno di un tal nome ; tanto più che quella versione fraru- cese essa
stessa non lascia gustare la vena ampia, continua, maestosa del greco originale,
ma presenta la inquietudine, lo scintillamento, e come la spezi satura consueta
delle parli. IX. Che io sappia niun altro ha poi volgarizzalo tra noi Dionigi.
La mia versione è diretta su la edi- zione di quest' autore intrapresa in
Lipsia nel i Chi vuol ragione di ciascuna delle mie interpretazioni dee
consultare il testo greco, la versione latina, le note in piè di pagina, ed in
fine de’ tomi. Spesso a fissare i sensi ho consideralo anche la versione fran-
cese, supplitami dalla Biblioteca del Collegio Romano nella nuova mia
dolcissima dimora in quel luogo nel- l’ anno 1 8 1 1, la quale mi concedè calma
profondis- Digilized by Google 9 sima da compiervi quasi per intero la traduzione
che ora presento. Sarebbemi piaciuto ugualmente di con- sultale la traduzione
inglese di Eduard Spelman im- pressa in Londra t anno 1759; ma per quanto la
ricercassi tra le Biblioteche, tra i libraj e tra gli amatori di libri, non mi
venne fatto di rinvenirla in Roma. Aveva io già presso che terminato questo mio
travaglio quando mi ju significalo che in Francia si pubblica una nuova
versione di Dionigi: ho il piacere che l'Italia he veda contemporaneamente un
altra sua, lavorata quasi tutta in Roma, ove lo storico di Ali-, carnasso
stendevano già t originale. Roma i8ia . 1 1 I. UANTU^QUE alieno io ne sia, pur
sono astretlo ad una prefazione, com’ usa nelle storie, e sopra di mfe ; non
già per diffondermi nelle lodi mie proprie, che so quanto, udite, dispiacciano,
o nelle accuse di altri scrittori, come fecero Teopompo ed Anassilao gli sto-
rici, ne’ prologhi loro ; ma solo per dichiarare le cagioni per le quali mi
diedi a .quest’opera, e per dire de’ mezzi, onde io seppi ciocché son per
iscrivere. E certamente chi risolve lasciare a’ posteri monumenti d’ ingegno, i
quali, come i corpi, non vengano meno per anni, e molto più chi scrive le
istorie, nelle quali, tutti conce- piamo che siavi la verità, principio del
sapere e della prudenza ; costui dee per mio sentimento, scegliere argomenti
vaghi e magnifici, come bene fruttuosi a chi legge ; e poi dee preparare le
materie opportune al subjelto con assai previdenza e lavoro. Imperocché chi
ponesi a trattare di cose vili, abominate, indegne delle cure di una storia,
sia che brami rendersi chiaro, ed acquistare comunque una fama, sia che voglia
manife- stare la idoneità sua nell’ arte del dire, non sarà mai da’ posteri né
invidiato per la fama sua, né per 1’ arte encomialo ; lasciando a chi leggelo
da sospettare che egli amasse nel vivere le maniere appunto che descrisse ; per
essere gli scritti la immagine de’ cuori, come da tutti si giudica. Colui ^ poi
che ottimo sceglie l’argo- mento; ma ne scrive scioperatamente, e come per caso,
seguendo i ronoorl del volgo, nemmen’ esso ne ottiene lo- de niuna ; imperocché
si spregiano, se negligenti sle- no e confuse le storie delle città famose e
de’ principi. Or pensando Io per uno storico esser questi I canoni sommi ed
inviolabili, ed avendone tenuto cura gelosa ; non volli nè trasandare il
discorso su di essi, nè com- partirlo altrove, che nel proemio. II. £ che io
scelsi argomento, bello, grandioso, uti-' lissimo; non bisognano, credo, molte
parole a con- vincerne chi non affatto Ignora la storia comune. Im- perocché se
alcuno recando 41 pensiero su’ governi an- tichissimi delle città e delle genti
e contemplandoli, parte a parte, o nel paragone dell’ uno coll’ altro, vo- glia
saperne qual di esse fondasse principato più grande, o che più splendesse per
azioni belle, in guerra ed in pace; vedrà che la signoria di Roma sorpassò di
gran lunga quante prima di lei se ne additano, non solo jper grandezza d’impero
e per luce d’imprese, cui niuno mai lodò' quanto basta, ma per la durazione
ancora del tempo che abbraccia, 6no al presente. Fu pur antica la signoria
degli Assirj, e ne chiama fino ai secoli fa- volosi ; ma non comandò che su
picciola parte dell’Asia. Abbattè la monarchia de’ Medi quella degli Assiri, e
crebbe a potenza maggiore sì, non però molto diutur- na, cadendo alla quarta
successione. I Persiani fiacca* t ono il Medo, e dominarono infine quasi per
tutto nel* r Asia ; ben si gettarono poi su gli Europei, ma noti molto vi
profittarono, e tennero poco più che dugen- t’ anqi II comando. Il Macedone,
vinti li Persiani, su- però colla sua tutte le dominazioni che precederono :
Don però fiorì lungo tempo, comiuciaiido a declinare alla morte appunto di
Alessandro : imperocché smem- brato da’ successori il potere in molti principi,
sosten- nesi la monarchia fino alla terza o quarta generazione ; ma resa debole
per sé stessa, fu distrutta finalmente dai Romani : nou tenne poi mai servi
tutti i mari e le ter* re : che non vinse in Africa se non l’ Egitto, il quale
non è vasto, nè sottomise tutta l’Europa ; ma nel set- tentrione di questa si
estese alla Tracia, e nell’ occaso fino all’ Adriatico. III. Pertanto i più
famosi degl’ imperj che precede- rono, giunti, come sappiam dalla storia, a
tanta forza e grandezza, rovinarono. Con essi non sono poi da pa- ragonare le
Greche potenze le quali nè spiegarono mai si ampia la signoria, nè lo splendore
si diuturno. Gii Ateniesi quando più poterono in mare, ne dominaro- no per anni
sessantotto la spiaggia, e non tutta, ma quella solamente tra l’ Eusino ed il
mar di Pamfilìa. E gli Spartani impadronitisi del Peloponneso e del resto della
Grecia stesero fino alla Macedonia le leggi; ma non prevalsero che per quarant’
anni (i) nemmeno in- teri, e trovarono ne’Tebani chi li depresse. Ma la Re-
pubblica romana signoreggia tutta la terra, non già la (i) testa uri o?ici in
TpmiccfTx: cioè nemmeuo iuteri treo- t’aimi. Isacco Casaubono vi saslilui
rinrxfxi'oyTX cioè quaranta. Pur questa emenda fu tolta, nè so perchè :
concedendosi comune- mente che gli Spartani dopo vinti gli .Ateniesi al fìuinc
Egio furono gli arbitri più che 33 anni. Ciò stando non può dirsi nel testo
m-m- meno interi treni’ anni, ma usando un numero rotondo, dovremo leggere
quaranta come il Casaubono. l4 PROEMIO, deserta, ma quanta ne è 1’ abitata :
signoreggia tutto il mare non solo nai
mente Oenotro diciassette generazioni avanti che a Troja si combattesse. E
questa è l’epoca nella quale mandarono i Greci nella Italia una colonia.
Oenotro poi si levò di Grecia ; perché non pago della sua parte : giacché nati
essendo a Licaone ventidue figli; aveasi l’Ai^ cidia a dividere in altrettanti.
Per tale cagione lasciando OcDOiro il Peloponneso, passò con fiotta gié
preparata il mar Ionio, e passavalo teco Peucezio l’uno de' fratelli di lui.
Navigavano con essi molti della sua gente, po^ pelosissima, come si dice, nelle
origini ; e quanti altri de’ Greci non aveano terreno ^he loro bastasse.
Peucezio pigliò sede in sul promontorio Japigio, appunto ove prima sbarcò nella
Italia, cacciando chi v’ era, e da lui furono Pcucezj chiamati quanti abitarono
que’ luoghi. Oenotro guidando seco il più dell’ esercito, venne ad altro seno
più occidentale d’Italia, Ausonio allora chia- mato dagli Ausonj, che la
spiaggia nc popolavano. Ma quando i Tirreni diventarono i padroni de' mari
prese il nome che tien di presente. IV. E trovando la regione bonissima da
pascolarvi o da ararvi, ma deserta in moltissimi tratti, anzi con poco popolo
ov’ era abitata j dìé la caccia a’ barbari in tina parte della medesima, e
fondò citt.ì non grandi Digilized by Google a4 DELLE antichità’ ROMANE si, ma
frequenti in sui mouli ; com’era stile antichissi> mo, di situarsi. Così
tutta la regione fu detta Oenotria, essendone amplissimo lo spazio occupalo ;
ed Oeuotr) pure si dissero gli uomini tutti a’quali comandava, mu- tando nome
per la terza volta ; mentre Ezei si chiama- vano dominandoli Ezeo, e poi subito
Licaonj quando al governo succedè Ligaone. Menati però nella Italia da Oenotro,
Oenotrj si nominarono per un tempo : nel che Sofocle il tragico mi è testimonio
net suo Tripto- Icmo : perciocché vi s’ inU'oduce la madre degli Dei che
dimostra a Triptolcmo quanto spazio debba trascorrere per seminare i semi eh’
ella dati gli aveva. Or ella, mentovato prima l’ oriente d’Italia dal
promontorio J.i- pigio 6uo allo stretto Siciliano, e poscia additata la Si-
cilia che sta dirimpetto; volgasi tosto alla Italia occi- dentale, e numera i
popoli più grandi della spiaggia, cominciando dagli Oenotrj: ma bastino le sole
cose da lei dette ne’ jambj, percl)è dice : Questo é do tergo ; a destra siegue
tutto La Oenotrìa, il mar Tirreno, e la Liguria. Antioco di Siracusa, scrittore
antichissimo, annoverando i primi ad abitare la Italia e le parli occupale da
ognu- no, afferma che gli Oenotri in questo precederono ogni altro di cui
s’abbia ricordo, dicendo: jéntioco il fi- gliuolo di Zenofanle compilò su la
Italia queste cose, le più credibili e più manifeste ira vecchi monumenti', la
terra che ora Italia dimandasi la ebbero antkhism simamente gli Oenotri : poi
discorre in qual modo la governassero, e come Italo un tempo divenisse re loro
. 35 cd Itali ue fossero oomioati : e poi Morgili per essere a Morgite venato
quel principato. E siccome stando Sicolo per ospite presso Morgite, e tentando
appro- priarsene la signoria, ne divise le genti ; conclude : cosi gli Oenotri
divennero e Sicoli e Morgiti ed Italiani. V. Ora dichiareremo quanta fosse la
gente degli Oenotri allegando per testimonio nn altro vecchissimo autore, io
dico Ferecide, non secondo a niuno degK Ateniesi che trattasse delie
genealogie. Egli fa su quelli che dominaron 1’ Arcadia questo discorso: nacque
Li- caoue da Pelasgo e Dejanira e sposò Cillene, una ninfa dell» Najadi dalla
quale ebbe nome il monte Cillene: poi divisando i generati da questi e quai
luoghi cia- scuno abitasse, fa menzione di Oenotro, e di Peucezio dicendo :
Oenotro, donde Oenolrj son detti gli abi- tatori Italia ; e Peucezio onde sono
i Peucezj lungo il golfo Ionio. Tali sono le cose dette da’ vècchj poeti e
mitologi sul popolarsi d’Italia, e su la origine degli Oenotri. In forza di
che, se greca veramente è la stirpe degli Aborigeni, come disse Catone, e
Sempronio e molti altri ; io penso che provenisse da questi Oenotrj : perocché
trovo e Pelasgbi e Cretesi, e quanti altri abi- taron l’ Italia, venuti in
tempi di poi : nè so vedere spedizione più antica di questa, che si recasse
dalla Qrecia alle parti occidentali di Europa. Giudico poi che gli Oenotri
occupassero molti luoghi d’Italia, o deserti, o poco popolati, e parte
smembrati ancora dalle terre degli Umbri, e che Aborigeni si chiamassero per le
abitazioni, come gli antichi le amavano, prese ne’ monti: cosi pur v’ ebbero in
Atene que’ della spiaggia e dd monti. Che ie alcuni per indole non ricevono di
subito senza prove quanto si afferma su cose antiche, nem- men subito decidano
esser questi, o Liguri ovvero Um- bri, o tali altri de’ barbari : ma
sospendendo finché apprendano le cose che restano, giudichino poi da tutte qual
ne sia la più verìsimile. VI. Delie città che furono degli Aborigeni, poche ora
ne sopravanzano : perocché premute la maggior parte dalle guerre, o da altri
mali che straziano, fini- rono in solitudini. E secoudo che Terrenzio Varrone
scrisse nelle anlichilà, ve ne erano nell’ agro Reatino non lungi dagli
Appennini ; e le meno disgiunte da Roma, ne disiavano per lo viaggio di un
giorno. Di esse io ridirò le più celebri secondo la storia di lui. Palazio è l’
una, lontana venticinque stadj da Rieti, cittade abitata da’ Romani fino a miei
giorni, presso la strada Quinzia. Siede Trebula a sessanta stadj pur da Rieti,
su dolce collina : e da Trebula con pari inter- vallo disgiungesi Vesbola
dicontro a’ monti CerauBj: lad- dove quaranta stadj ne è lungi Soana, città
famosa con antichissimo tempio di Marte. Discostavasi Mifula da Soana per
trenta stadj, e se ne additano ancora le ror vine, e le vestigia de’ muri. A
quaranta stadj da Mifula elevavasi Orvinio, città, quanto altra mai, chiara e
grande in que’ luoghi : e segno ancora ne sono i fondamenti delle mura di lei
come le tombe di antica struttura, e li recinti pe’ cimiterj comuni su’ monti
altissimi : e là pure vedessi nella sommità di lei 1’ antico tempio di Minerva
: lungi dieci miglia da Rieti, procedendo per la strada Giulia, là presso il
monte Corito v’ era Car- arbari, e soprattutto ai Sicoli, loro conGnanti. E sa
le prime pochi bravi, quasi giovani sacri mandati da genitori in traccia de’
bisogni della vita, nscirono se- guendo un primitivo costume, che pur vedo
seguito da molti de’ Barbari e de’ Greci. Imperocché quante volte le città
moltiplicavano tanto in popolo che non più bastassero ad esse i proprj viveri ;
quante volte fa terra danneggiata dalle mutazioni del cielo rendea meno
dell’usato; e quante volte altro caso non dissimile buono o rio le necessitava
a minorarsi di gente ; consacrando allora agl’ Idd^ d’anno in anno una serie di
discendeuti Digitized by Google libro I. 2g gii armavano, e li congedavano. E
con fausti augurii gli accompagnavano se giusta le patrie leggi sacrificando,
rendevano grazie ai cieli per la generazione copiosa, o per le vittorie tra
Tarmi : laddove se pregavano i Numi irati a rimovere da loro i mali che
tolleravano ; li di- mettevano pure slmilmente, ma rattristandosi, e chie-
dendo die loro si perdonasse. E quei sen partivano quasi non più avendo una
patria, se pure altra non sen facevano che li raccogliesse o per amicizia, o
combat- tendo, e vincendo ; ed il Nume al quale i congedati eran sacri parca
per lo più cooperare con essi, ed al- zarne sopra la espettazione le colonie.
Su tale consue- tudine gli Aborigeni, floridi allora in popolazione, e schivi,
perchè noi credeano il meno de* mali, di ucci- dete alcuno de’ posteri,
consacravano agl’ Iddii d’ anno io anno le generazioni, e via via dimetteano
gli allievi, già grandi fatti, dalla patria. Uscitine questi non desi- sterono
di far contro i Sicoli, e derubarli. Ma non si tosto conquistarono alcuna delle
contrade inimiche ; di- venutine ornai più sicuri ancora gli altri Aborigeni i
quali bisognavano di terreno, insorsero parte a parte su’ confinanti : e
fondarono alcune città, e quelle, abi- tate ancor di presente, degli Antemnati,
de’ Tellenesi, e de’ Ficolesi presso i monti Cornicli nominati, e dei Tiburtini
finalmente, tra’ quali evvi un luogo della città che pure a dì nostri si chiama
Siciliano. Nè furono ad altro vicino più molesti che incontro de’ Sicoli. Sorse
da tali contrasti guerra con tutte le genti ; talché mai non fu per addietro la
più grande in Italia, e v’ infierì lungo tempo. Dopo questo alcuni de’ Pelasgbi
che abitavano la regione ora detta Tessaglia costretti di trasmigrarne,
divenuei'o gli ospiti degli Aborigeni ; ed i compagni di arme, contro
de’SicoIi. Gli accolsero gli Aborigeni forse {icr la speranza, io penso, di un
utile, ma più per la comunanza di origine: perocché son pure i Pelasgbi un
greco lignaggio, antichissimo del Peloponneso : quan» tunque sciaurati per
molte cose e principalmente per la vita errante, nè mai stabile in sede ninna.
E certo, come molli affermano su di essi, abitarono su le prime la città che
ora chiamasi Argo di Acaja ; traendo il nome di Pelasgbi da Pelasgo, loro
sovrano, generato da Giove e da Niobe la figlia di F oroneo, quando il Dio si
congiunse la prima volta con donna mortale, come è ndle favole. Poi nella sesta
generazione lasciato il Peloponneso, passarono nella Emonia che ora Tessa* glia
si nomina ; e duci furono del passaggio Acheo e F tio, e Pelasgo, figli di
Larissa e di Nettuno. Giunti nella Emonia ne cacciarono i barbari che 1’
abitavano, e la divisero in tre regioni cognominandole da’ condot* tieri, F
liotide, Acaja, e Pelasgiote. Fissi colà da cin- que generazioni, lungamente vi
prosperavano, profit- tando pur de’ campi migliori della Tessaglia: ma intorno
la sesta generazione ne furono espulsi da Cureti, e da Lelegi che ora sono gli
Eioli ed i Locri, e da più altri che abitavano intorno del Parnasso, guidando i
nemici Dencalione il figlio di Prometeo e di Glimene nata dall’ Oceano. ' X.
Dispersi nella fuga, altri vennero io Creta, altri ottennero alcune deile
Cicladi. Alcuni abitarono la re* Digitized by Google LIBRO I. 3 1 gione intorno
di Olimpo e di Ossa, ora detta Estiotidc: ed altri furon portati nella Beozia,
nella Focide e nella Eiubea : alcuni tragittandosi in Asia occuparono molte
delle spiagge deli’ Ellesponto e molte delle isole dirim> petto, e quella
che ora Lesbo si chiama, mescolatisi alla colonia che prima andavaci dalla
Grecia sotto gU auspizj di Macaro Gglio di Criaso. La maggior parte però dirigeudosi
entro terra a’ loro parenti i quali al- bergavano in Dodona, ed a' quali, come
sacri, niuno facea guerra, abitarono quivi alcun tempo : ma poiché si avvidero
che eran di aggravio, non bastando la terra a nutrire tutti in comune, se ne
involarono, mossi dal- r oracolo che ordinava loro di navigare in verso la Ita-
lia, allora chiamata Saturnia. E fatto apparecchio in copia di navi, passarono
il mar Jonio, procurando giun- gere in parti presso la Italia. Ma pel vento di
mezzo- giorno, e per la imperizia de’ luoghi, portati più oltre capitarono ad
una delle bocche del Pò chiamata Spi” itelo e quivi lasciarono le navi, e la
turba meno idonea ai travagli con un presidio, per avervi una ritirata, se i
disegni non riuscivano. Or questi rimanendo in quella regione circondarono di
muro il campo dell’ esercito, cd introdussero colle navi copia di vettovaglie.
E poi che videro succedere loro le cose come voleano, fab- bricarono una città
coLnome appunto della- bocca del fiume. Quindi prosperando più che tutti su le
spiagge dell’ Jonio, e prevalendo lungo tempo sulle onde, por- tarono quant’
altri mai, decime vistosissime in Delfo alla Divinità, de’ beni tratti dal
mare. Da ultimo però ve- nendo amplissima guerra su loro da’ barbari intorno, '
losciarono la città, donde anche i barbari furono dopo nn tempo cacciati da’
Romani. Cosi mancarono i Pela minandola da Larissa, metropoli loro nel
Peloponneso. Delle altre città ne resta pure alcuna fino a miei giorni,
quantunque variati spesso gli abitatori: ma Larissa è di- strutta già (la gran
tempo : nè presenta dell’ antica esi- stenza altro segno più manifesto che il
nome, e nem- meno questo è noto a moltissimi. Era non lontana dal foro chiamato
Popilio. Finalmente possederono, toglien- doli a Sicoli, molti altri luoghi
entro terra, o lungo la spiaggia. XIII. I Sicoli ornai non più valevoli a
resistere ai Pelasghi ed agli Aborigeni, riunendo i figli e le mogli e quanto
aveano di moneta in oro ed argento, si leva- rono in tutto da quella terra.
Ripiegatisi a’ monti verso del mezzogiorno, e trascorsa tutta l’ Italia
inferiore, siccome dovunque erano discacciati, apparecchiarono in fine delle
barche nello stretto, e notandovi il flusso e (piando era fausto, passarono
dalla Italia in su l’ isola vicina. Allora i Sicani, Spagnuoli di origine, la
poue- devano, nè da gran tempo vi erano stati ammessi, cer- cando uno scampo
dai Liguri; e già per essi era detta Sicania l’isola un tempo chiamata
Trinacria^ per la fi- gura sua di triangolo. Non molti erano in questa gran-
d’isola gli abitatori; ma la più gran parte vedeasi ancora deserta. Giunti i
Sicoli ad essa, ne abitarono su le prime i luoghi occidentali, e mano a mano
più altri, talché l’isola ne fu detta Sicilia. Cosi la gente de’ Sicoli
abbandonò la Italia ', tre generazioni, come Ellanico di Lesbo scrive, prima
delle cose trojane, correndo in Argo r anno vigesimo sesto del sacerdozio di
Alcione. Perciocché stabilisce due passaggi fatti dalla Italia nella Sicilia il
primo degli Elimei cacciati dagli Oenotri, e l’altro dopo cinque anni degli
Ausoni, che fuggivano i Japigi. Dice che re di questi fu Sicolo, donde ebbero
il nome gli uomini e 1’ isola. Filisto però di Siracusa scrisse che 1’ anno di
quella discesa fu 1’ otuntesimo in- nanzi la guerra trojana: e che non Sicoli,
non Ausonj, non Elimei, ma Liguri furono gli uomini trasportati dalla Italia,
conducendoli Sicolo, figliuolo di Italo, e che dalla signoria di quello furono
Sicoli nominati. La- sciavano i Liguri le patrie terre, astrettivi dagli Umbri
e da’ Pelasghi. Antioco di Siracusa non distingue il tempo del tragitto; ma
Sicoli dichiara quelli che tra- gittarono, premuti dagli Oenotrj e dagli Umbri,
piglia- tosi nel trasmigrare Sicolo per condottiero. Tucidide scrive che Sicoli
furono i profughi, e Opici quelli che li fugavano, per altro molti anni dopo la
guerra di Troja. E queste sono le cose che affermansi da uomini riguardevoli
intorno de’ Sicoli, passati dalla Italia nella Sicilia. XIV. Impadronitisi i
Pelasghi di una regione ampia e bella, ne ebbero pur le città ; poi fondandone
altre ancor essi, crebbero presto e molto in forze, in ric- chezze, ed altri
beni ; non però ne goderono lungo tempo. Ma sembrando floridi troppo per ogni
parte fu- rono sbattuti dall’ ira de’ celesti, e quali ne perirono per divine
calamità, quali pe’ barbari confinanti : e la parte più grande ne fu dispersa
tra’ barbari, o nuova- mente Ira’ Greci, e lungo ne sarebbe il discorso se per
Digitized by Coogle tninuto seguissi un tal fatto. Pochi ne sopravanzaronc
nella Italia per cura degli Aborigeni. Parve alle città che la origine prima di
un tale struggersi di famiglie fosse la siccità che intristiva la terra, talché
non restava frutto alcuno Gno al maturarsi negli arbori; ma innanzi tempo
cadevano 5 nè i semi che sbucciavano in germi, vegetavano Gnchè le spighe
floride si empiessero nei tempi naturali, nè bastavano i pascoli alle greggio.
Non più le fonti eran atte a toglier la sete, guaste, impic- ciolite o spente
dagli estivi calori. Consentivano con ciò le vicende delle bestie e delle donne
nel generare : e quale sconciavasi in aborti, e quale dava Agli, morenti nel
parto, o fatali nell’ utero ancora alle madri. Se scampavano 1 pericoli del
parto, mutili, o storpi, o manchevoli per altro disagio, non eran’ utili, onde
si allevassero. L’ altra moltitudine poi, specialmente la più vegeta era colta
da mali, e da morti frequenti più del- r usato. E consultando l’ oracolo per
quale violazione di genj o di Nomi questo patissero, e per quali pratiche mai
fosse da sperare una calma in tanti orrori, udirono ciò essere perchè esauditi
ne’ loro desiderj, non aveano penduto quanto promisero ; ma dovevano ancora
agli Dei cose preziosissime. Imperocché li Pelasghi l’idotti a penuria di ogni
cosa nelle loro terre, si votarono a Giove, ad Apollo, ed ai Cabiri (i) di
santiGcare ad essi le decime di ogni prodotto. Appagati nella pre- ghiera
presero ed offerirono agli Dei parte delle messi e de' frutti, quasi votati si
fossero per questo soltanto. (i) Forte Castore e Polluce. E certo che erano Dei
di Sanietracia. Digilized by Google 38 DELLE Antichità’ romane Mii'silo di
Le$bo scrive ciò quasi con le parole medesi- me, toltone, che egli chiama
Tirreni e non Pelasghi quegli uomini, di che dirò più sotto le cause. XV.
Ascoltato 1’ oracolo non sapevano interpretarlo. Fra dubbj loro un più vecchio,
raccogliendone i sensi, disse che erravano affatto, se credevano che gli Dei li
punissero a torto : volere il diritto ed il giusto, che si desse loro la
primizia di tutto : nondimeno aspettavano ancora parte della generazione degli
uomini, cosa più che tutte ad essi accettissima: se avessero questa, l’ora-
colo sarebbe adempito. Parve ad altri che costui parlasse rettamente ; ad altri
che tendesse delle insidie. E pro- ponendo un tale che s’ interrogasse il Dio se
gradiva che si facessero per lui le decime, ancora degli uomini ; inandarono i
sacri vati per questo, e rispose che si fa- cessero. Quand’ecco sedizione fra
loro sul modo di de- cimarsi : e prima surse a vicenda tra’ capi della città ;
poi l’altra moltitudine prese i suoi magistrati io sospetto: nè già
sollevavansi con regola alcuna, ma come per en- tusiasmo e per divino furore.
Cosi molte case furono abbandonate, trasmigrandosi parte di essi, nè sostenendo
gli attenenti di essere abbandonati dai loro carissimi, e restarsene tra i più
crudi nemici. Primi questi levandosi dall’ Italia errarono per la Grecia, e
molto tra’ barbari: quindi ancor altri incorsero ne’ mali medesimi, conti-
nuandosi ogni anno la decima. Nè i magistrati la so- spendevano, ma sceglievano
le primizie de’ giovani più robusti pe’Numi, quantunque nel proposito di
soddisfare agli Dei, temessero i moti di chiusciva a sorte per vittima. Erano
ancora non pochi espulsi dagli avversar) . 3^ per nimiclzia, lutto che sotto
specie di oneste cagioni. Laonde spessissime furono la partenze ; e la gente
Pe- lasga errò dispersa in più terre. XVI. Erano i Pelasghi, vivendo in mezzo a
genti bellicose tra cure e pericoli, divenuti assai buoni nelle armi, e più
ancora nella nautica per avere coabitato co’ Tirreni. La necessiti che ne’
stenti della vita ispira coraggio, fu loro maestra e direttrice in tutti i
cimenti. Perciò non difUcilmente dovunque ne andavano vince- vano. Erano
chiamati ad un tempo Pelasghi e Tirreni dagli altri uomini si pel nome delia regione
donde par* ti vano, come in memoria della origine antica. Ora io dico ciò
perchè alcuno udendoli chiamati Pelasghi e Tirreni da’ poeti e dagli storici,
non meraviglisi come abbiano ambedue le denominazioni. Tucidide in Atte di
Tracia fa menzione di loro e delle città che vi era* no, abitate da uomini
bilingui : e questo è il dir suo su’ Pelasghi. Ivi sono de Calcidesi, ma i più
sono Pelasghi, cioè que’ Tirreni che abilarono un tempo Lemno ed Atene. E
Sofocle nel dramma suo dell’ I- naco fa questi versi detti dal coro : Inaco
genitor, figlio de' fonti Bel padre Oceano, assai splendendo, reggi Le terre d’
Argo e di Giunone i colli E i Tirreni Pelasghi. Quindi il nome de’Tirreni
risuonava in que’ tempi nella Grecia : e tutta la Italia occidentale lo assunse
ancora per sé, lasciando i nomi speciali de’ suoi popoli. Oc- corse già pari
vicenda nella Grecia e nella regione ora detta Peloponneso: giacché dagli
Achei, che eran Tuno de* popoli che v’ abitavano, fu detta Acaja tutta la Pe«
nisola ov’ erano gli Arcadj, c li Jonj, ed altre nazioni non poche. XVII. L'
epoca nella quale cominciarono i Pelasghi a decadere fu quasi nella seconda
generazione innanzi la guerra di Troja, e durarono, direi, dopo ancora di
questa 6nchè si ridussero ad un gruppo di gente. E, salvo la città di Crotone,
famosa nell’ Umbria, e tale altra, se pur v’ ebbe, data loro ad abitare dagli
Abori- geni, perirono tutte le rimanenti de’ Pelasghi. Crotone serbò lungo
tempo l’antica sua forma, ora non è molto, ha mutato nome ed abitatori, e divenuta
colonia ro- mana, si chiama Cortona (i). Varj poi furono c molti che occuparono
le sedi abbandonate da’ Pelasghi secondo che ciascuno vi confinava ; ma le
migliori e le più si rimasero pe’ Tirreni. Quanto ai Tirreni v’ è chi li dice
naturali d’ Italia e chi forestieri. E quei che li stimano propri della regione,
affermano che si diè loro quel nome per gli edifizj sicuri, che essi i primi di
quanti vi erano, si fabbricarono : imperocché le abitazioni con muri e con
tetto son tirseis chiamate dai Tirreni come da’ Greci. Cosi pensano imposto
loro quel nome per accidente come nell’ Asia ai MosinIcI dalle mosine che sono
le case di legno abitate da essi, altissime in for- ma di torri. XVIII. Ma
quelli che favoleggiano che i Tiireni sono stranieri, additano un tale, detto
Tirreno, che fa (i) Ssronito altri Cotorni'n . 4 1 duce della colonia, e dal
quale ebbe nome la nazione. Dicono che originario fosse di Lidia, chiamata già
Meonia; e che da indi antichissimamente si trasmigrasse; e che egli fosse il
quinto dopo di Giove. Imperocché narrano che da Giove e dalla terra nacque Mani,
il primo a regnare in que’ luoghi : che da questo e da Calliroe. figlia dell’
Oceano nascesse Coti ; che da Coti sposatosi con Alle, figlia di Tulio, uomo
paesano, germinassero due figli Adie ed Ati : che da Ati e da Callitea
figliuola di Coreo sorgessero Lido e Tirreno : e che Lido rimastosi in que’
luoghi succedesse al regno paterno, e Lidia lo denominasse dal suo nome ; ma
che Tirreno fattosi duce di una colonia occupò gran parte d’Italia, Tirreni
chiamando il luogo, e quanti lo seguitarono. Erodoto però dice che Tirreno
nacque da Ati figlio di Manco, e che P andarsene de’ Meonj nel- r Italia non fu
volontario. Imperciocché narra che re- gnando Ati si mise la penuria tra Meonj
: che gli uo- mini ritenuti dall’ amore della regione si argomentarono in più
modi a vincer quel male, taluni di colla parsi- monia, e tal altri con 1’
astinenza : ma che prorogan- dosi la sciagura, tutto il popolo diviso in due,
decise per le sorti chi dovesse di là trasmigrarsi, e chi rima- nere y e che
perciò 1’ un figlio di Ati si stette, parten- dosi r altro : la moltitudine che
pendeva da Lido trasse colle sorti il suo meglio, e si stette ; ma 1’ altra pi-
gliando quanto le si dovea per le sorti in danaro, na- vigò verso r occidente
d’ Italia, e postasi dove erano gli Umbri, vi fondò città che duravano ancora
al suo tempo. Ben so che altri non pochi scrissero, ap- punto come io scrissi,
della origine de’ Tirreni ; ma che altri ne variano il fondatore ed il tempo.
Imperoc- ché dissero alcuni che Tirreno era figlio di Ercole e di Onfale Lidia
: che venuto questo in Italia, espuke i Pelasghi dalle loro città, non però da
tutte, ma da qnelle poste di là del Tevere su le parti boreali. Altri però ci
fan vedere in Tirreno un figliuolo di Telefo venuto in Italia dopo la rovina di
Troja. Zanto lidio perito quant’ altri mai delle storie antiche, e creduto
nelle patrie non inferiore a niuno, nè mentova in parte alcuna de’ suoi scritti
un tirreno signore de’ Lidj, nè conosce passaggio alcuno de’Meonj nella Italia,
nè parla mai de’ Tirreni come di Lipia colonia, sebbene parlasse di cose ancora
bassissime. Dice che Ati generò Lido e Toribo, che dividendosi il regno paterno
si rimasero ambedue nell’ Asia, c che diedero il nome loro a’ po- poli su’
quali comandavano. Imperocché scrive: da Lido si fecero i Lidj, e da Toriho i
Toribi 5 poco d’ am- bedue differisce l’ idioma, e gii uni, come li Jonj e li
Doriesi, usano a vicenda le parole degli altri : Ellanico di Lesbo dice che i
Tirreni chiamati già Pelasghi as- sunsero il nome che or hanno, quando
abitarono la Italia ; imperocché nel suo Foronide (i) scrive, da Pelasgo re
loro, e da Menippe figliuola di Peneo nacque Fraslore, da questo surse Amintore,
che diede Teutamide, e da Teutamide ebbesi Nanas j regnando il quale i Pelasghi,
profughi dalla Grecia (1) Opaieolo di Ellaaieo; ne fa meniione Ateneo nel lib.
9. . 4^ lasciarono le navi dove il fiume Spineto esce nel mare Ionio (i), ed
invasero entro terra la città di Crotone; e di là movendosi fondarono quella
che Tirrenia ora si chiama. Mirsilo sponendo come Ellauico le altre co- se,
dice tuttavia che i Tirreni quando erravano profu- ghi dalla patria, furono
detti Pelasghi per certa somi- glianza loro con le cicogne, pelarghi chiamate;
giacché passavano in truppa per le terre de’ Greci e de’ barbari: aggiunge che
essi alzarono il muro detto Pelargico in- torno la rocca di Atene. XX. A me
però sembra che s’ ingannino quanti si persuasero che i Tirreni e i Pelasghi
non sieno che una gente ; perciocché non è meraviglia che alcuni ab- bian
talvolta il nome di altri, mentre in pari vicenda incorsero ancora altri popoli
greci o barbari come i Trojani ed i F rigi, perchè prossimi di regione. Eppure
molti fanno di questi due popoli Un solo, quasi distinti di nomi, non di
lignaggio. I popoli poi d’Italia, nom« meno che quei d’altri luoghi, furono
confusi ne’ nomi. E v’ ebbe un tempo quando Latini, Umbri, Ausoni, e molti
altri si chiamavano Tirreni da’ Greci ; riuscendo ogni ricerca di questi men
chiara per la lontananza di que’ popoli : anzi molti degli scrittori pigliarono
Roma ancora per città de’ Tirreni. Io dunque penso che que- ste genti mutassero
il nome, variandosi fino il vivere : non penso però che una fosse la origine di
ambedue, per molte cagioni, e più per le voci loro non simili, (i) Qui si
estende il nome di ionio all’interno dell’ Adriatico. Spesso gli storici
antichi cosi praticarono contro 1’ uso de’ geografi che distinguono 1’ uno
dall’ altro mare. ma diversissime. Imperciocché nè li Crotoniati (i) come
scrive Erodoto, nè li Piaciani ne’ proprj luoghi parlan la lingua dei
circonvicini ; ma una ne parlano tutta lor propria; donde è manifesto che
serbano i caratteri del- r idioma che aveano quando in que’ luoghi si traslata-
rono. Meraviglisi poscia chi può che li Crotonlati somi- glino nell’ idioma al
Piaciani, popoli ne’ lidi dell’ Elle- sponto, nè somiglino intanto a’ vicini
Tirreni. Erano que’ primi ambedue Pelasghl ne’ principj loro : e se la unità di
origine prendesi per causa della uniformità nei linguaggi ; dunque la
differenza di origine è pur causa del divario di essi ; non dando un principio
medesimo contrarj gli effetti. Certamente, se avvenga, ben è ra- gionevole
quello, cioè che uomini di una gente mede- sima domiciliatisi lontani fra loro
non conservino i ca- ratteri de’ proprj idiomi per lo conversar col vicini; ma
che poi negl’idiomi non somiglino popoli di una origine istessa, e d’ istesse
contrade, ciò non è ragionevole per ninna maniera. XXI. Seguendo tali indizj
convincomi che differi- scono i Pelasghi dai Tirreni ; nè credo i Tireeni un
tralcio de’ Lidj ; perocché nè parlano la lingua mede- sima, nè può dirsi che
se non la parlano, ritengono almeno alcuni vestigi della teiTa materna, nè
tengono per IdJj que’ che da’ Lidj si tengono ; nè li somigliano per leggi o
per abitudini, ma in ciò dai Lidj si diver- sificano più, che da’ Pelasghi.
Pertanto sembrano più verisimili quelli, che dicono un tal popolo, naturale ( I
) Cortoncsi . Digilized by Google LIBRO I. 4^ della contrada, non venutovi
altronde : pérciocchè si rinviene antico in tutto ; nè simile ad altri nel
parlare, o nel vivere : e niente ripugna che avesse un tal nome da’Greci o per
le abitazioni fortissime (i) o per l’uomo ancora che li dominava. Ma i Romani
con altri nomi li chiamano Etruschi dalla Etruria, regione dove un tempo
abitarono : ed ora li dicono Toschi men pro- priamente, avendoli come i Greci,
nominali prima con più verità Tioscovi per lo magistero nelle cerimonie del
culto divino, nelle quali sorpassano lutti, Que’ po- poli inoltre distinguono
sè stessi dal nome di Rasenna r uno già de’ loro comandanti. Sarà poi
dichiarato in altro libro quali città fossero abitate dai Tirreni e con / quali
forme di governo, quanta fosse di tutti insieme la potenza, e quali, se pur
degne ne ebbero di ricor- danza, le azioni ne fossero, e le vicende. 1 Pelasghi
che non perirono, nè si disgiunsero per fare colonie, si rimasero, pochi di
molti, con gli Aborigeni, sotto le leggi de’ luoghi ne’ quali si lasciavano, e
ne’ quali col volger degli anui i posteri loro fondarono Roma. E tali sono le
novelle intorno de’ Pelasghi. XXII. Dopo non molto tempo, nell’ anno, al più,
sessantesimo come narrano i Romani, prima della guerra trojana, capitò ne’
luoghi medesimi un’ altra spedizione di Greci la quale abbandonava il Pallanteo,
città del- r Arcadia. Il duce erane Evandro, figlio di Mercurio, e di una ninfa,
abitatrice di Arcadia. I Greci la ten- gono per ispirata da’ Numi, e la
chiamano Temide ; (i) Tirseis delle di *opa J xvii. ma Carmeiita è delta nella
patria lingua da’ romani che scrissero le antichità di Roma: perocché la ninfa
avrebbesi a dir propriamente Tespi-ode con greca pa- rola : ma le odi chiamansi
carmi da’ Romani, e quindi è Carmenta : si consente poi che tal donna presa
dallo spirito divino presagisse, cantandole, le cose avvenire ai popoli. Non
venne quella spedizione di comun senti- mento; ma nata sedizione del popolo, la
parte inferiore, di voler suo si spatriò. Dominava di que’ tempi su gli
Aborigeni Fauno, un discendente come dicono di Marte, uomo di azione e di
prudenza, e riverito da’ Romani con sagrifìzj e con inni come un genio del
loco. Ricevè' costui con assai benevolenza gli Arcadi che erano po- chi, e
diede loro della sua terra, quanta ne vollero ; ed essi, come Temide gli avea,
vaticinando, ammae- strati, presero un colle poco lontano dal Tevere, il quale
ora è nel mezzo di Roma, e tanto vi fabbrica- rono, che bastasse alle genti
venute con le due navi dalla Grecia. Era questo il principio segnato dai.
destini per formare col volger degli anni una città, non pareg- giala mai da
greca o barbara città per grandezza di abitazioni, di comando, e di ogni bene,
e certamente memorabile soprattutto finché dureranno i mortali. Pal- lanteo
chiamarono quel fabbricato come la metropoli loro in Arcadia: ora Palagio è
detto da’ Romani per la confusione che inducono i tempi ; e ciò diede a molti
la occasione di stolte etimologie. XXIIl. Dicono molti, e tra questi Polibio di
Me- galopoli, che quel nome viene da Pallante, un giovi- netto ivi morto, nato
da Ercole e da Cauna la 6glia Digitized by Google LIBRO I. 4? di Evandro:
perchè facendogli questo avolo materno in quel colle un sepolcro, chiamò '
Pallanteo, quel luogo dal giovinetto. Io nè mirai in Roma la tomba di Fal-
lante, nè conobbi che vi si praticassero funebri onori, nè potei conoscere
nulla di slmile : quantunque la fami- glia di lui non sia dimenticata, nè priva
del culto col quale i semidei sono venerali dagli uomini. Perocché vidi che i
Romani faceano gelosamente ogni anno pub- blici sacriGzj ad Evandro e a
Carmenta, come agli altri genj ed eroi : e vidi gli altari dedicali a Carmenta
appiè del Campidoglio presso la porta carmentale, e quelli dedicali ad Evandro
appiè dell’ altro colle detto Aven- tino, non lungi dalla porta trigemina ; nè
vidi intanto cosa ninna di queste latta inverso Fallante. Gli Arcadi i quali
coabitavano appiè del colle, eressero pure altri monumenti nelle forme della
patria, e santi riti v’ isti- tuirono ; ma per ispirazione di Temide, innanzi
lutti a Pane Liceo, Nume il più antico e più riverito tra quelli di Arcadia, in
sito idoneo, che i Romani chiamano Lupercale, e noi diremmo Liceo. Ora empiuto
essen- dosi di abitazioni il suolo intorno ; non è facile rintrac- ciarne la
natura del luogo. Era questo, come dicono, appiè del colle, una spelonca,
vetusta, grande, coperta da una querce, ramosa qual bosco : profonde bulicavano
le fonti abbasso delle pietre ; e lo spazio appresso ai dirupi era opaco per
arbori, altissime e folte. Qui col- locando un altare a quel Nume compierono il
patrio sagriGzio, che i Romani, non mutando cosa alcuna delle antiche allora
fatte, ripetono ancora di presente dopo il solstizio d’ inverno nel mese di
febbrajo. La maniera del sagrìGzio sarà detta più innanzi. Ergendo poi su le
cime del colle un tempio alla Vittoria, stabi- lirono in questo ancora annui
sagriGzj che i Romani tributano ancora. XXIV. Gli Arcadi favoleggiano che
questa sia figlia di Fallante generata da Licaone : e Minerva, fece, che
ricevesse da’ mortali gli onori che le si rendono ; impe- rocché fu essa
educata colla Dea, giacché la Dea nata appena fu consegnata da Giove a
Fallante, e presso lui fu nudrita finché ascese alle stelle. Fondaronoancora un
tempio a Cerere ed il sagrifizio, che faceano le donne ma non usate al vino,
com' era la pratica de' Greci : nel che 1’ andare del tempo non ha cagionato
muta- zioni, fino a miei giorni. E Nettuno Ippio ebbe pure il suo tempio e le
feste, dette Ippocratie da’ Greci, ma ConsucUi da' Romani: e Roma in esse
libera per uso dal travaglio cavalli e muli, e ne incorona le teste di fiori.
Consecraronu similmente altri tempj, altri al- tari, altri simulacri,
costituendo purificazioni e sacri- fici, ritenuti ancora ne’ modi medesimi. Né
già sarei meravigliato se alcune di queste cose neglette, come antiche troppo,
non avessero più ricordanza tra’ po- steri : nondimeno le consuetudini presenti
danno ancora assai da congetturare su’ riti arcadici d’ allora, de’ quali
diremo altrove più pienamente. Dicesi che gli Arcadi recassero i primi nella
Italia 1’ uso delle lettere greche, note ad essi da poco, e la musica della
lira, della ti- bia e del trigono, non sonandosi ivi altri armonici stromenti
che le sampogne de’ pastori : e dicesi che vi introducessero le leggi, vi
raddolcissero le maniere del vivere, 6ere in gran parte, e che vi diflondessero
le arti, e le istruzioni, ed altre utili cose in gran nume* ro« onde assai ne
furono rispettati dagli ospiti. Questa greca moltitudine, seuouda dopo i
Pelasghi, giunta nella Italia ebbe comune 1’ abitazione con gli Aborigeni in
uno de’ bonissimi luoghi di Roma. XXV. Pochi anni dopo degli Arcadi vennero
nella Italia altri Greci, guidati da Ercole il quale avea do- mato la Spagna, e
le parti, fiu dove il sole tramonta. Alcuni di loro, implorato da Ercole il
congedo dalla milizia, si fermarono in questi luoghi ; e trovando un colle opportuno,
lontano al più tre sladj dal Pallanteo, vi si accasarono : chiamalo alloca
Saturnio, o Crònio come i greci direbbono, ora si chiama Capitolino. Erano quei
che rimasero per la più parte del Pelopon- neso, io dico i F enueati, e gli
Epei della EUide, di- samorati di viaggiare in verso la patria, perchè deva-
stata nella guerra con Ercole. Mescolavansi ad essi al- cuni de’ Trojani
&tti prigionieri quando Èrcole prese già Troja, regnandovi Laomedonte. E
pormi che in quei luogo si annidassero ancora tutti di quell’esercito, quanti o
stanchi dalla fatica, o dal rigirarsi ottennero levarsi dalla milizia. Alcuni,
come ho detto, stimano antico il nome del colle ; tanto che gli Epei gli si
affezionarono nommeno in memoria del colle, Gronio chiamato nella Elide in su
le terre di Pisa lungo le rive dell’ Alfeo. Gii Elicsi riputando quel poggio
loro sacro a Saturno vi si adunano in fìssi tempi, e l’onorano con sacriGzj e
con altro colto. Nondimeno Eusseno, ed altri mitologi VIOlfJGT, tomo I. i 5o
nr.Italiani pensano che i Pisani per la simiglianza del Cro- mo loro dessero il
nome anche all’ altro : che gli Epei con Ercole erigessero a Saturno l’ altare
che trovasi alle falde del colle presso la via che mena dal Foro al Campidoglio
: e che essi istituissero il sagriCzio che i Romani v’ immolano ancora con
greche cerimonie. Ma io, paragonando, trovo » che prima della venuta di Ercole
nella Italia quel luogo era sacro a Saturno, e Saturnio chiamavasi da’
terrazzani : e che tutta 1’ altra regione, che ora dimandasi Italia, era
dedicata ancor essa a quel Nume, e Saturnia nominavasi dagli abitanti, come
trovasi detto nelle risposte date dalle sibille o da altri Iddii. Eid in molti
luoghi di questa sonovi de’tempj alzati a quel Nume, ed alcune città da lui si
denomi- nano, come allora tutta la Italia: e portano ancora il nome del Dio
molti luoghi, singolarmente i monti e le rupi. XXVL Col volger degli anni fu
detta Italia per un uom potentissimo, Italo nominato. Antioco di Siracusa lo
dipinge per uomo destro e filosofo, il quale convin- cendo molti popoli col
dire e molti colla forza, ridusse in poter suo quanto v’ è tra ’l golfo
Napitino (i) e quello di Scilla : e quel tratto fu il primo che Italia da Italo
si dicesse. Dopo ciò scrive che divenuto più forte, fece che molti altri gli
ubbidissero; perocché mise il cuore su’confinanti, e ne prese molte città: e
scrive finalmente eh’ egli era Qenotro di nazione. Ella- (l) Cluverio in tini.
Aniiq. I. IV crede die deliba Irgf’ersi La- me/in* in Tece di IVrpitino.
Filoguno k di parere die Lamet città di Lucania desse nome a questo golfo.
Digitized by Google MBRO J. !) I iiko di Lesbo narra die Ercole coiiJucevasi i
bovi di Gerione alia volta di Argo, ma che essendo già nell' I- talia il tenero
figlio di una vacca spiccossegli dall’ ar- mento, e profugo vi errò da per
tutto ; finché solcalo il mare interpostp giunse nella Sicilia : che cercando
Ercole quell’ animale, e chiedendo ovunque capitava, se alcuno lo avesse veduto
de’ paesani, siccome poco intendevano il greco, e da’ segni lo chiamavano come
aneli’ oggi si chiama nella patria lingua vitello ; cosi Vilalia chiamò tutta
la regione da questo percorsa. Non è poi meraviglia che uu tal nome si
tramutasse com' è di presente ; mentre tanti greci nomi eziandio subirono pari
vicende. Ma, sia che prendesse quel no- me, come dice Antioco, dal condottiero,
il che forse è più probabile, sia ebe dal vitello come pensa Ella- nico ;
raccogliesi da ambedue che lo prese intorno ai tempi di Ercole, o poco prima ;
essendo chiamala iu- nanzi Esperia ed Ausonia dai Greci, e Saturnia da [laesani,
come di sopra fu detto. XXVII. Coutasi ancora tra qne’ popoli la novella ebe
innanzi al principato di Giove ivi Saturno regnasse: e che tra loro più che
altrove si avesse quella vita sì famosa, beata per tutti i beni, quanti le
stagioni ne apportano. Ma se alcuno risecando ciocch’è di favoloso nel discorso,
vaglia Intenderne la bontà di quella gioite, dalla quale il genere umano, sorto
di recente dalla terra, come è vecchia fama, o d’ altronde, ne raccolse
vantaggi moitissiini, e giocondissimi ; non tro- verà [>cr tal fine suolo
pili acconcio di questo. Iiiipe- rocciiè se paragonisi una terra con altra di
eguale gran- àezza, T Italia pei* mio giudizio è la migliore neU' Eu- ropa, e
dovunque. Non ignoro clie io sembrerò dir cose incredibili a molti, i quali
risguardano l’Egitto, la Li- bia, e Babilonia, e quante altre vi sono beate
contrade: ma io non pongo la ricchezza della terra in una specie sola di
prodotti, nè invidierei di abitare dove pingui sono le campagne, nè vi si
scorge altro bene se non tenuissimo: ma quella regione chiamo la migliore la
^ale sia bastantissima a sé Stessa, e che meno abbisogni deir altrui. Sono poi
persuaso che la Italia paragonata con altra qualunque, appunto sia la terra
datrice di ogni frutto, e di ogni utile* XXVIII. E certamente, se comprende
campagne fe- lici e molte, non perchè madre è di messi, è men propizia per gli
arbori : e se vale assai per ogni genere di alberi, non perchè tale, è poco
ubertosa^ nel semi- narvi: o s’ è bonissima per ambedue questi usi, non per
questo è men propria pe’ bestiami : nè perchè varia si dimostri ne’ prodotti e
ne’ pascoli è disamena poi se vi si abita. Ma direi che di ogni agio
soprabbonda e di ogni diletto. E qual terra mai frumentaria vince le terre
dette della Campania, bagnate dalle acque non de’fiumi, ma del cielo f Io vi
contemplai campagne che davano tre raccolte nudrendo dopo i semi del verno,
quelli per la state, e dopo gli estivi, gli altri in 6ne per 1' autunno. Quale coltivazione
supera in olio quella dei Messapj, de’ Daunj, de’ Sabini e di altri? Qual mai
suolo con vigne sorp rende più che il Tirreno, l’Albano e il Falerno 7 il quale
ama così le viti, che ne porge col tnen di lavoro amplissimi frutti e
bonissimi. Ma oltre le terre che si lavorano, ivi molte pur se ue tro- vano,
riservate per le capre e per le pecore ; ma più mirabili ancora sono quelle da
pascervi le mandre dei cavalli e de’ bovi: imperocché soprabbondandovi l’erba
palustre c dei prati, e riuscendovi fresca e rugiadosa nelle parti che si
coltivano, dan pascoli senza limite in tutta l’estate, e mantengono in fiore
gli armenti. Qual dolce spettacolo ivi sono le selve per balze, per valli, per
colli non culti, e di qnale e quanto niateriale per le navi e per altre
operazioni ì Nè già cosa alcuna di queste è dilTìcile ad ottenerla, nè rimota
dall’uso degli ^ uomic» : ma tutte sono pianissime, e tutte facili a tras-
mettersi per la moltitudine de’ fiumi, i quali scorrono tutta la regione : e li
quali con utile vi agevolano i tra- sporti e le permute dei prodotti della
terra. Vi si tro- vano ancora in più luoghi delie acque calde, propriis- sime
a’ bagni, e bonissime per le cure di mali diu- turni. E metalli vi sono d‘ ogni
genere, e cacce d’ani- mali in copia, e mari fecondissimi, come pure altre cose
moltissime ; e più utili e più meravigliose. Benis- simo soprattutto ne è 1’
aere per la dolce sua temperie secondo le stagioni, e poco opponesi con calori
o freddi eccessivi al formarsi de’ fratti, ed al vivere degli animali. XXIX.
Non è dunque da meravigliarsi che gli an- tichi prendessero quella terra per
sacra a Crono, o Saturno; concependo che questo Dio vi fornisse, e sa- ziasse i
mortali d’ogni bene. Ma sia che chiamisi Crono come da’ Greci, sia che Saturno
(i) come da’Romaui; (i) Stefano r fiasaubono credono ebr qui fosse nel testo
K«^ac Digilìzed by Google ìy!^ dkt.i.t; Antichità’ koma^e •omprenJeitilo
ciascuno di essi la natura tutta delle cose ; tu lo nomina come più vuoi.
Nemmeno è da meravigliarsi cbe contemplando in quella ogni abbon- danza e
delizia, commoventissime cose, ne credessero ogni luogo più acconcio, degno
degli Dei, com' era de’ mortali ; e li monti e le selve si ascrivessero a Pane,
i prati e floridi luoghi alle ninfe, e le rive e le isole ai geuj marini, ed
ogni altra parte ad un genio o a un Dio, come più couvenivagli. È fama che gli
antichi im- molassero a Crono umane vittime, come in Cartagine, ^ mentre esistè,
come tra’ Celti, e come in mezzo di altri occidentali ; e che Ercole volendo
precludere U barbarie di quel sacrificio, innalzasse l’ altare nel colle
Saturnio, e facesse che vittime pure vi si ardessero con puro fuoco. E perchè
que' popoli non sen corucciassero quasi spregiasse i patrj sacrifizj, è fama
die gli ammo- nisse a placare l’ira di quel Nume; e piuttosto che gli uomini
gettare nel Tevere legati nelle mani e ne’piedi, a gettarvi i simulacri loro,
vestiti appunto com’ essi. Egli serbava una immagine degli antichi costumi,
per- chè si sterpasse alfine, quanta superstizione, ' restava an- cora ne’
cuori. Conservavano i Romani tal pratica ancor ucl mio tempo, rlnovandola poco
appresso all’equinozio di primavera nel mese di maggio nelle idi che chia-
mano, le quali vogliono che ricorrano il giorno aj>- punto, cbe è il ipezzo
del mese della luna (i). In questo il che «linde > «azieti, e bcDÌssiraa
corrisponde alla pa- rola Ialina di Saturno i e perh di sopra abbiamo usala il
verbo sa- ziata. Crono poi non h che il tempo ; cd il tempo lutto prepara, a di
tallo ioruiicc ^li iiooiini col suo corso. (i) 1 fiamapi «Inp» \nraa regolavano
l’anuo sul corsa delia Urna, . DD i ponteGci, vale a dire i primi tra’
sacerdoti, come le vérgini, custodi del fuoco inestinguibile, i pretori, e gli
altri che esser possono all’ opera santa, dopo avere com- piuti secondo la
legge il sagriGzio, gettano del ponte sublicio nel Tevere, trenta simulacri in
forma umana Argei (i) nominati. Ma de’ sagriGzj e delle altre divine
cerimonie^di Roma, nazionali o greche di maniere, diremo in altro libro ;
richiedendo ora il subjetto che più riposatamente seguitiamo Ercole nella sua
venuta in Italia, nè trasandiamo cosa da lui fattavi, degna di lode. ! XXX. E
su questo Dio diconsi delle cose, quali più vere e quali più favolose : e cosi
stanno le favolose. Ercole, oltre gli altri travagli, comandato da Eurisleo di
condurgli da Eritea li bon di Gerione in Argo, tornando dalla impresa in sua
casa, venne in molte parti d’ Italia e della terra degli Aborigeni, prossima ai
Pallanteo. E trovandovi copioso e buon pascolo, vi addusse i bovi, ed egli,
quasi stanco dalle fatiche, die* desi al sonno. Intanto un ladro paesano, Caco
di nome, capitò tra’ bovi, pascolanti senza custòde, e se ne in-' vaghi. Ben
conobbe che Ercole si riposava ; ma vide che> nè puteali tutti involare
occultamente, nè facile ne sarebbe la impresa. Quindi ne ascose pochi solamente
ed il principio della nuora luna era principio insieme del nnoT» mete. Di qui
nasce che faceano combinare te idi di maggia c«l plenilunio o col mezzo del
mese lunare. (i) Queste figure erauo di giuoco: si chiamavano Argei, qnsai
rappreseiilasscro tanti Argivi che si slarmioavann come nemici degli Arcadi.
nell’ antro vicino, dov’ egli vivea, traendoveli via via retrogradi per la coda,
perché vedendovisi le pedate contrarie all’ ingresso, potesse render vano ogni
argo- mento sa di essi. Ma levatosi Ercole poco appresso, e numerati i suoi
bovi ; come vide che ne mancavano, dubitò su le prime, ove fossero andati, e li
cercò mano a a mano come erranti da’pascoli. Nè raggiungendoli ancora ; venne
alla spelonca sebbene sconsigliatovi dalle pedate, niente meno pensando, quanto
che ivi ne ritroverebbe il covile. Standone Caco dinanzi l’entrata, e richie-
stone, dicendo non averle vedute, nè volere che ivi più si cercassero ; anzi
convocando clamorosamente i vicini, quasi patisse violenza dal forestiero ;
Ercole, dubbioso in prima come istrigarsela, prende in fine a ' dirigere all’
antro ancor gli altri bovi. Ma non sì tosto quegli da entro sentirono la nota
voce e 1’ odore, la- sciarono verso gli altri di fnora un muggito, e fu quel
muggito r accusatore del furto. Caco, vedutosi reo ma- nifestamente, ricone
alla forza convocando tutti i suoi compastori. Ecco Alcide investirlo colla
clava, ed ucci- derlo e sprigionarne i suoi bovi: poi vedendo, com’era la
spelonca un refugio opportuno pe’ rubatori, la dirupò. Quindi, parificatosi con
Tonde del fiume dalla strage, inalzò presso quel luogo a Giove ritrovatore un
altare, ora visibile in Roma nella porta trigemina ; sacrifican- dovi un
vitello al Nume onde ringraziarlo su’ bovi ricu-, perati. Roma porge ancora
quel sacrificio, tutto con greci riti, come Ercole lo istituì. XXXI. Gli
Aborigeni e quegli Arcadi che abitavano il Pallanteo come seppero della morte
di Caco, c mirarono Èrcole, nemici già del primo per le rapine, siu> pirano
all’ aspetto del secondo, credendo non so che divino in lui per la grande
avventura sua nella vittoria. I poveri tra loro spiccando ramnscelli di alloro,
copioso in que’luoghi, ne coronarono Ercole e sè stessi ; ed accorrendo i loro
monarchi lo invitarono ad ospizio. Come poi dal dir suo ne conobbero il nome,
il lignag- gio, e le imprese ; prolferivano a lui per benevolenza il i-egno e
sé stessi. Ed Evandro che anticamente udito avea da Temide stessa, volere il
destino che Erctde, il figlio di Giove e di Alcmena, cambiasse per la virtù la
natura mortale colla immortale, appena ravvisò chi egli fosse, ansioso di
prevenire tutti e di rendersi propizio l’eroe con gli onori de’ Numi, alzò di
repente con assai cura un alure, sacrificandogli dove l' oracolo avea già
significato, un giovenco, intatto ancora di giogo, e supplicandolo a ricevere
da lui le primizie di un culto. Meravigliatosi Ercole delle accoglienze, tenne
il popolo a convito, immolando parte de* bovi, e separando per ciò le decime
delle altre prede : poi donò a quei re che assai Io bramavano, molte delle
terre de’ Liguri ^ e di altri confinanti, cacciando da esse alquanti ribaldi.
Dicesi ancora che egli fe’ la ricerca, giacché i primi de’ paesani lo tenevano
per un’ Iddio, che gli perpe- tuassero quegli onori, sagrificandogli ciascun
anno un giovenco non domo, e santificandone l’azione con gre- che cerimonie : e
dicesi che insegnasse queste a due famiglie le più riguardevoli perchè vittime
in tutto ac- cette gli si offerissero: essere poi quelle de’Potizj e dei Pinarj,
le famiglie allora istruite del greco rito, e le loro generaziout aver lungo
tempo continuata la cam de’ sagriiìzj, come v’ erano da colui depuute : talché
i Potizj erano i capi nella santa operazione, ed aveano le primizie al
bruciarsi delle vittime; laddove i Pinarj non ammetteansi a parte delle viscere,
e teneano sem- pre i secondi onori nelle cose comuni ad ambedue. E cagione a
questi della onorificenza minore fu la tardanza loro nel presentarsi; giacché
comandati di venire sul far del mattino, giunsero essendo già consumate le
viscere. Ora r incarico del santo ministero non è più de’ posteri loro: ma di
servi comperali dal pubblico. Dirò poi nel suo luogo le cause per le quali il
costume fu varialo, e le significazioni del Dio quando i santi ministri si
permutarono (i). L’ara ov’ Ercole offerì le sue decime, chiamasi Massima da’
Romani, e trovasi presso al foro detto boario, veneratissima, quanto altra mai,
da’ pae- sani : imperocché su questa fa patti e giuramenti chiun- que vuole
stabilità negli accordi ; e su questa si offrono spesso ancora le decime a
compimento de’ voti. Nondi- meno un tale altare nelle fattezze è minore della
sua gloria. Vi ha de’ tempj di questo Nume altrove ancora in più luoghi d’
Italia ; e gli'altari ne sono per le città e per le strade: e diffìcilmente
trovcrebbesi una popo- lazione che non lo adorasse. E questo ci tramandan le
favole intorno di Ercole. (i) Il testo ove DioDÌp spiegava tali cose è perito.
Potrà veder- seue ciocché ne scrive Livio oel libro nouo. Egli dice occorsa la
mutaiioDc quando Appio Claudio esercitava le funxinni di censore. Allora in un
anno perirono dei Potizj trenta tnaschj abili a rinovaro le famiglie, a cosi la
stirpe virile corse al suo termine. Ma il più vero è quest’ altro : e molti die
scrissero le imprese di lui, cosi nella storia lo delinca- rono. Ercole
divenuto potentissimo in arme tra tutti dei suo tempo, e postosi con esercito
numeroso scorse tutta la terra cinta dall’ Oceano, levando, se ce ne aveano,
qualunque tirannide, grave e molesta ai sudditi, e qua- lunque impero di città
contumelioso e nocevole agli altri vicini colla condotta dura e colle uccisioni
ingiuste degli ospiti, e stabilendo monarchi onesti, governi savj, c costumi
socievoli ed umani. Scorse ancora tra’ Greci e tra’barbari, neirinterno de’
mari e delle terre, in mezzo popoli infidi, intrattabili : fondò città .su
luoghi deserti, diresse fiumi che inondavano i campi, aprì vie su monti
impraticabili, e mille cose fece onde i mari tutti e le terre si comunicassero
ogni vantaggio. Giunse finalmente in Italia ma non già solo, nè con mandre di
bovi ; perocché non è questa regione in senti«‘o per chi viene dalle Spagne in
Argo, nè conseguito ci avrebbe tanti onori per causa di un passaggio. Egli vi
giungea dalle Spagne conquistate, ma con esercito amplissimo per sot- toporsela,
e dominarvi. Se non che fu costretto a con- sumarvi gran tempo, e perchè
lontana era la sua fiotta, stanti le bnrrasche ree dell’ inverno, e perchè le
genti d’ Italia, non tutte spontanee gli si abbassavano. E per non dire di
altri barbari, i Liguri, popolo numeroso e guerriero, posto ne’ passi delle
Alpi, tentarono d’impe- dirgli colle arme 1’ ingresso nella Italia, e là s’
ebbero i Greci battaglia fierissima, esaurendovi tutti gli strali. Eschilo,
poeta antichissimo, menziona questa battaglia nel suo Prometeo disciolto (i).
Ivi inducesi Prometeo (he presagisce ad Ercole non che le altre vicende, quelle
che gli sovrastavano nella spedizione contro di Gerione, e nella guerra co’
Liguri, certamente non fo- cile : e questi ne sono li versi : À fronte là de"
Liguri starai. Imperterrita gente : onta e rammarco Non ti fa guerreggiarli, e
per destino, Pugnanda, ti vedrai mancar gli strali. XXXIII. Ma poiché, vincendo,
s’ impadronì di quei passi ; alcuni, specialmente se greci di origine, o non
valevoli a resistere, sottomisero volontai^' le loro città ; ma i più vi furono
astretti con le arme e con gli as- sedj. Quanto ai vinti in battaglia, dicesi
che Caco, quel si noto per le favole de’ Romani, barbaro principe di barbara
gente, gli si opponesse perchè dominava luoghi assai forti, il che lo rendeva
molesto ancora ai vicini. Costui poiché seppe che Ercole si accampava ne’ piani
contigui apparecchiatosi all’ uso de’ ladroni, appari con subita scorreria su
1' esercito di lui che dormiva, e ne involò le prede, quante ne erano senza
guardia. i Ma rinchiuso poscia per assedio da’ Greci che ne espugnavano le
fortezze, finalmente anch’ egli soggiacque, e nel mezzo de’ suoi baluardi. 1
suoi castelli furono rovesciati; ed i compagni di Ercole, Evandro con gli
Arcadi, . c Fauno con gli Aborigeni suoi pigliarono ciascuno per (i) Eboliìlo
sdisse il suo Proiueleo ignìfera, il suo Promeleo legato, ed il Prometeo
seioUo. Strabono nel lib. i, Ateneo nel 14 liarlarono dell’ ultimo. Il secondo
ci resta ancora. I.' 6l 9Ò parte delle
terre del vinto. Ma ben può taluno im- magnare che i Greci rimasti in quella
regione furono gli Epei, e gli Arcadi originar) della città di Feneo, e li
Trojani, lasciativi a presidiarla. Perocché tra le arti imperiali di Ercole fu
pur quella nommeno sorprendente che le altre, di sospingere tra le sue milizie
uomini divelti a forza dalle città conquistate, e di metterli al- fine, se
animosi combattessero, ad abitare le terre in- vase, arricchendoli dell’
altrui. Per tali cagioni, e non per II viaggio che niente area di rispettabile,
il nome e la fama di Ercole divenne grandissima nell’ Italia. XXXIV. Aggiungono
alcuni, che ne’ luoghi ora abi- tati ^a’Komani egli vi lasciasse due suoi
figliuoli gen^ retigli da due donne. Pallente era 1’ uno natogli da Launa (i)
la figlia di Evandro: Latino è l’altro, natogli da una donzella boreale. Egli
la conduceva seco dataci dal padre in ostaggio, e custodivaia finché candida si
maritasse ; navigando però verso 1’ Italia ne fu vinto dall’ amore, e la
fecondò. Ma essendo egli ornai per tornarsene in Argo concedè che si restasse
sposa di F anno, re degli Aborigeni ; e per tale cagione molti tengono Latino
per figlio di Fauno, e non di Elrcole. Narrano che PaUante morisse nel fiore
primo degli anni: ma che Latino, adulto fatto, succedesse al comando degli
Aborigeni : e che venuto lui meno senza stirpe virile, il regno, per la
battaglia co’Rutòli confinanti, restasse al figlio di Anchise, vale a dire ad
Enea, che (i) Quesu nel S Zini, precedeatemente è chiamata Canna, ed ora «
chiama Launa. Forse non k che la tanto nota Lavinia detta da Greci Launa,
Labina, Laiinia, o Laouinia. iliveuae
suo genero'; ma queste cose accaddero in altro tempo. XXXV. Ercole, ordinate
come volea, le cose tutte d’Italia, e giuntagli la flotta, salva dalle Spagne,
ofTerl con sagrifizio agl’ Iddii le dècime delle sue prede, e là, dove
alloggiavasi la milizia navale, eresse una piccola città, dandole il nome di sè
stesso (i), la quale ora albergaci Romani, e giace tra Pompeiano e tra Napoli
con porto sicurissimo per ogni tempo. Cosi divenuto tra gl’ Italiani simile ad
un Dio per gloria, per emu> lazione, per onori, fece vela per la Sicilia.
Gli uomini lasciali custodi ed abitatori dell’ Italia, là, d’ intorno al colle
di Saturno, si ressero un tempo da sè stessi : ma non molto dopo compartendo i
proprj costumi, le leggi, i santi riti agii Aborigeni, come già fecero gli
Arcadi, e prima i Pelasgbi, divennero coudttadini degli Abo- rigeni, talché
sembrarono in (ine una gente medesima. E questo sia dettò su la spedizione di
Ercole nella Ita- lia, e su quei del Peloponneso che vi restarono. Nella
seconda generazione dopo la partenza di Ercole, nel- r anno cinquautesimoquinto
al più regnava su gli Abo- rigeni ornai da trentacinque anni Latino il Aglio di
Fauno il discendente di quel magnanimo. XXXVI. In quel tempo i Trojani fuggendo
con Enea da Ilio già debellata approdarono a Laurento, .spiaggia degli
Aborigeni in sul mare Tirreno non lon- tano dalle bocche del Tevere. Ed avendo
da’ paesani'uu luogo per abitarvi, c quanto chiedevano, alzarono poco (i)
(^uMia citi à di Ercole, si crede dorè ora è la torre del Grt-cu nel gulfe di
lungi dal mare in un colie uqa città cui chiamarono Lavinia. Ma da indi ’ a non
molto, cedendo 1’ antico nome, ebbero quello di Latini dal re di que’ luoghi ;
e levandosi da Lavinia insieme co’ terrazzani fondarono una città più grande,
Alba denominata. Donde uscendo di tempo io tempo fabbricarono molte e molte
delle città de’vecchj Latini, abitate in grandissima parte ancor di presente.
Sedici generazioni 'dopo la presa di Troja spedirono- una colonia nel Pallanteo,
e nella Saturnia, dove già fabbricato avcano i Pelopounesj e gli Arcadi, e dove
erano pur le reliquie di essi, e fecero che vi ^ abitasse. Allora cinto di mura
il Pallanteo prese la prima volta la forma di una città. Allora ebbe il nome di
Ro- ma dal duce della colonia, io dico da Romolo, dicias- settesimo tra’
posteri di Enea. Ma, perciocché gli scrit- tori, parte ignorano, e parte
ricordano variamente quanto è della venuta di Enea nella Italia, non io vo'
trattarne come di fuga, ma prendendo ciò dalle storie, almeno più accreditate
de’ Greci e de’ Romani. Ora tali sono le cose narrate su quell’ argomento.
XXXVII. Espugnato ilio da’ Greci .sia per l’ inganno del cavallo di legno, come
è presso di Omero, sia pel tradimento degli Aulcnoridi, o per altra maniera,
perirono in città la popolazione, e gli alleati, sorpresi ancora nelle camere
loro ; sembrando che la sciagura gii assalisse, non guardandosene, tra la
notte. Enea e con esso i Trojani venuti da Dardano c da Olrinio a soccorrere
gl’lliesi, c quanti altri conobbero in tempo la sciagura, che era preso il
basso della città, fuggendo a luoghi più forti di Pergamo occuparono il
castello, Digilized by Coogle 64 DELLE Antichità’ romane difeso da proprj muri,
ove, come ia saldissima parte, erano le sante cose di Troja, e danaro in copia,
in- sieme col fior dell’ esercito. Standosi colà respingevano chi tentava di
espugnarveli; ma per la perizia ne’ sot- terranei vi riceveano chi vi si
riparava dalia città già pigliata. Così più furono quelli che ne scamparono,
che non quelli che caddero prigionieri. Con tal metodo Enea conseguì che l'
impeto col quale i nemici ovunque infuriavano, non comprendesse in un tempo
ogni cosa. Poi calcolando nelle sue probabilità l’avvenire, siccome era
impossibile conservare la città, perdutane già la più gran parte, si rivolse al
partito di cedere le mura ai nemici, e di salvare almeno le persone, e le sante
cose della patria, e quanto potea trasportarsi di danaro. Così deliberato,
comandò che fanciulli, e donne, e vecchj, e quanti abbisognavano di pausa nel
fuggire, s’ incam- minassero intanto verso le cime dell’ Ida ; mentre ~gli
Achei tra T ardore di espugnar la fortezza non curereb- bero d’insegnire la
moltitudine che levavasi dalla città: destinò parte di milizie in guardia di
ehi si avviava perchè la fuga riuscisse più certa, e nello stato presente men
dura; avvertendoli insieme che occupassero i luoghi più forti dell’ Ida.
Intanto ( col resto dell’ esercito, ed era il più rilevante ) egli persistendo
su le mura, te- neavi dis’ ratti i nemici che le attaccavano, e rendeva meno
disagiato lo scampo ai suoi, che sfilavano : se non che salendo poi Neptolemo
co’ suoi la fortezza, e convocandovi d’ ogn’ intorno i Greci perchè lo ajutas-
sero; Enea finalmente si ritirò. Spalancate le porte, . 6 !) deuominate perla
fuga di tanti (i), anch’egli uscì per esse, ma in ordine di batiaglia tra
quelli che gli re- stavano, portando su di ottime bighe il genitore, i pa- trj
Dei, la sua donna, i figli, e quante v’ erano per- sone, o suppellettili più
riguardevoli. XXXVIII. Intanto gli Achei, presa di for/.a la città, spaziandosi
intorno la preda, lasciavano ai fuggitivi grande comodità di salvarsi. Enea
raggiungeva via via gli altri suoi, finché raccoltisi tutti in un corpo, occu-
parono i luoghi più forti deir Ida. Sopravvennero ivi ancora quelli che
abitavano in Cardano ; perocché ve- dendo lanciarsi da Ilio fiamme copiose fuor
dell' usato, abbandonarono tra la notte insieme la loro città, leva- tine gli
altri, i quali partirono prima coti Elimo ed Egesto, avendosi apparecchiate
delle navi. Poi vi giunse tutto il popolo della città di Ofrinio, e vi giunsero
dalle altre città Trojane quanti aveansi cara la libertà, sicché in poco tempo
la milizia vi divenne grandissima. Ora questi', fuggiti con Enea dal cader
prigionieri, tenen- dosi in quei luoghi sperarono di rendersi dopo non molto
alle patrie, appena i Greui via navigherebbero : ma i Greci sottomettendo Troja
e le adjacenze, e de- vastandone le fortezze, apparecchiavansi a porre sotto
giogo ì rifuggiti ancora ne’ monti. E mandando questi gli araldi perchè
desistessero, nè li necessitassero alla guerra, si venne per le suppliche a
trattative, e tali ne furono gli accordi. Enea e li suoi recandosi tjuanlQ (i)
ni/Asf ^vyciéits, porle de' fu(;giiÌTÌ. s DIOAIGI t l. aveano salvalo nella fuga
partissero in dato tempo dalla Traode, e consegnassero le fortezze : i Greci in
apposito ovunque dominavano in mare ed in ter- ra, vi procurassero la sicurezza
à Trojani che viag~ giovano a norma de’ patti. Enea consentendo a lai leggi,
anzi bonissime riputandole per le circostanze ; manda Ascaiiio il più grande
de’ figli con banda di milizie per 10 più frigie, alla terra detta Dascilite
ove ora è il lago uiscanio, perchè invitatovi da’ paesani a prendervi 11
comando. Ascanio andò, e vi stette ; ma non molto : perocché giugneudogli dalla
Grecia Scamandrio e gli altri Ettoridi, rilasciativi da Necptolemo, egli
guidan- doli ne’ regni paterni, si rimise in Troja. E tanto è quello che si
narra di Ascanio. Enea però com’ ebbe pronta la flotta, vj assunse gli altri
figli, il padre, le cose auguste de’ Numi, e navigò su 1’ Ellesponto alla
penisola vicina, chiamata Pallene, la quale giace dirim* petto di Europia (i).
Ivi un popolo ci avea, di Traci si, detto Cruseo, ma bellicoso e fidissimo tra
quanti erano gli alleati de’ Trojani nella guerra. XXXIX. Tale è il racconto il
più verisimile fatto da Ellanico, scrittore antichissimo, intorno la fuga di Enea
1 (i) Nel teilo si legge: ZufUTns Europa: ciocebè ha prodotto degli equivoci:
la vera lezione deve essere cioè di Europia la quale h regione della Macedonia
che prende nn tal nome dal fiume Europo. Pailene talvolta è detta ancora città
di Tracia, per- chè li Traci vi comandarono. Del resto essa è pib distante che
la Tracia a quelli che navigano dall’ Asia per 1’ Ellesponto. E Dionigi Den
propriamente 1’ ha chiamala vicinissima per questi, essendo tale pinitesto la
Tracia. Digitized by Gopgle là dove tratta delle cose Trojane. Se ne hanno
ancora degli altri e non simili in altre leggende, ma non si, come io penso,
persuasivi. Decidane chi gli ode, come più vuole. Sofocle il tragico nel suo
dramma su Lao« coonte, esseudo già Troja in sul termine, rappresenta Enea che
va con le sue robe in sull’ Ida, seguendo i voleri del padre Anchise, pieno dei
ricordi di Venere, e mirando la distruzione ornai della patria ne’ freschi
portenti avvenuti su’ figli di Laomedonte. E tali souo i versi di lui ma
pronunziati da altra persona : £cco il fgliuol di tenere alle porte ; In dorso
ha il padre, a cui di [bisso pende Cerulea veste dalle spalle, tocche Dalla
folgore un tempo ; intorno intorno Gli fin turba i domestici, e le schiere Non
si grande però, come tu pensi, De‘ Frigi, amanti d’ aver sede altrove.
Menecrate di Zante fa saperci che Enea mise la patria nelle mani de’ Greci,
tradendola per l’odio suo contro di Alessandro, e che gli Achei per tal merito
gli con* cederono che salvasse la sua casa (i). Egli comincia la sua storia
dalla sepoltura di Achille in tal modo. Erano gli Achei liete afflizione,
sembrando a sè stessi co- me privi del capo della milizia. Nondimeno ergendo-
gli una tomba guerreggiavano di tutta lena ; finché Ti'P]a fu presa per
tradimento di Enea. Quest’ uomo, perche spregiato da Alessando, ed escluso
dagli onori (i) Piccolo dooo aozi nullo: raentte Enea aveva luLio questo, c più
ancora, sema il iradìmento: yorrei dire che Meuecraie non è savio, uel tulio
aluaeuo de’iUCt;outì, e quindi cUc poco stm» da aiifudarsi. sacerdolali,
rovesciò la reggia di Priamo, e divenne per tali opere come uno de' Greci.
Altri però narrano eh’ Enea di quel tempo si trovava dove ferme si stava- no le
inavi trojane, ed altri che nella Frigia, spedi- tovi da Priamo con soldatesca
pe’ bisogni della guerra ; anzi evvi pure chi; assai piò favoleggia su la
partenza di Enea : ma ne senta ognuno come vien persuaso. XL. Le vicende di lui
dopo la partenza mettono più incertezza ancora in molti; perciocché taluni gui-
dandolo in Tracia dicono che ivi compiesse la vita ; e tra questi sono Cefalone
Gergitio, ed Egesippo il quale scrìsse intorno Pelleiie, antichi entrambi e
rispettabili. Altri ripigliandolo dalla Tracia lo sieguono 6no all’ Ar- cadia ;
e dicono che abitasse in Orcomeno di Arcadia, e nel luogo, che, sebbene entro
terra, cangiossi in isola, per le paludi e pel fiume, che le colonie che ora
chiamansi Cafie sursero per Enea e pe’ compagni, ma Gamie nominandosi allora da
Capi trojano. Sono questi racconti di varj e di Aristo che scrisse le cose
degli Arcadi. Novelleggiasi ancora eh’ Enea capitasse veramente in que’ luoghi,
non però che in essi moris- se, ma nell’ Italia : e ciò da molti attestali,
come da Agatillo, Arcade poeta, nelle elegie scrivendo : Feline in Arcadia e
generò nell’ isola Con le due donne Antèmone e Codone, ■ Due,/iglie ; e scorse
nell' Italia, e quivi Del gran Romolo suo padre divenne. La venuta di Enea e
de’ Trojani nella Italia la sosten- gono tutti i Romani ; e monumento ne sono
le pratiche nelle feste e ne’ sagi'ifizj, i libri sibillini, gli oracoli Pitici,
e ben altre cose, le quali niuno trascurerà, quasi aggiunte per ornamento. In
Grecia ne restano tuttora molti indizj notissimi, come il porto nel quale
approdarono, ed i luoghi ne’ quali si . trattennero, non essendo il mare
navigabile. Siccome dunque sono tanti, io ne farò come posso menzione, ma
breve. Primiera- mente dunque vennero in Tracia approdando alla pe- nisola
detta Pailene, tenuta, come indicai, da’ barbari chiamati Crusei, e v’ ebbero
ospizio sicuro. Passando ivi r inverno edificarono in un promontorio un tempio
a Venere, e fondarono la città di Enea, dove lascia* rono quanti non poteano
pe’ disagi più navigare, o quanti voleano rimanere, vivendovisi come nella
patria. Questa durò fino al regno de’ successori di. Alessapdro, ma nel regno
poi di Cassandro fu distrutta, quando sorse Tes.salonica : e gli Eneati e molti
altri passarono alla nuova città., ; XLI. Salpando da Pailene vennero i Trojani
a Deio, ove Anio signoreggiava. E, finché - Deio fu popolata r e (lorida, molti
erano gl’ indizj della venuta di • Enea, e de’ compagni nell’ isola. Dalla
quale navigando a Cite- rà (1) aUra isola incontro del Peloponneso ’ vi
edifica- rono un tempio a Venere. Da Citerà tornandosi al mare e trovando morto
non lungi varono i Trojani con Eleno. Ottenuto l’ oracolo sulla nuova loro
sede, offersero al Dio cose trojane, e tra queste crateri di bronzo, de’ quali
alcuni manifestano ancora con iscrizioni antichissime gli oblatori : e quindi
si ricondussero camminando quattro giorni alle navi. Intendesi la venuta de’
Trojani a Butrinlo da un colle ove accamparono, che ancora chiamasi Troja. Da
Bu> trinto sospinti lido lido Gno al porto detto, dopo un tal fatto, di uincitise
ed ora chiamato con nome men chia* ro (a), eressero ancor ivi un tempio di
Venere : e pas- sarono il mar Ionio avendo per guida della navigazione molli,
che volontari li seguitavano, e li quali menava- no con sé Patrone da Turi con
la sua genie ; ma li più di questi, giunta l’ armata nell’ Italia, tornaronsi
alle patrie : rimasero però nella flotta Patrone ed alquanti de’ suoi mossi a
far causa con Enea, nel cercar nuove sedi ; quantunque alcuni dicano che il
domicilio mettes- sero in Alunzio di Sicilia. In memoria di tal beneGzio col
volger del tempo i Romani donarono agli Acarnani Leucade ed Auaitorio,
togliendole ai Corintii ; e per- misero ad essi che lo bramavano, di rimettere
ne’ pro- (i) Regia dirimpetto a Corfb dalla qnale è lontana 13 miglia. (a) Il
Casaubono crede questo porto quello che da Tolomeo h chiamato Onchesmo, e da
Strabone Oochismo ; il quale incontra- Tasi dopo Butriuto e Cassiope ( ora
Januia ); crede che in principio si chiamasse di Anchise, poi di Anchesmo, o
d^i Anchismo, e quindi men chiaramente, di Onchesmo, o di Oncbismo. Digilìzed
by Google 7^ nm.LE antichità’ romane prj averi gli Oniadi, e di godere in
comune con gli Etoli il frutto delle isole Ecliioadi. Calarono i compagni di
Enea, ma non tutti in un luogo a terra ; approdan- do coi più delle navi al
capo japigio, detto allora dei SalenUni ; e con le altre al lido, prossimo a
quello cliiamato di Minerva nel quale Enea stesso sbarcò. Era questo sito
ancora un promontorio ma con porto estivo denominato di Venere, appunto dopo
quel giorno. Poi navigarono, quasi col piè sulla terra, fino allo stretto di
Sicilia, lasciando, ovunque andavano, de’ monumenti, e tra questi là nel tempio
di Giunone, la caraffa me* fallica, la quale con antichissimo scritto manifesta
4I nome di Enea che porgevala in dono alla Diva. XLIII. Fattisi ornai vicini,
eccoli nella Sicilia final- mente a Drepano, dir non saprei, se portativi per
di- segno di sbarcare, o se per le burrasche de’ venti, con- suete in quel
mare. Qui s’imbatterono coi compagni di Elimo e di Egesto fuggiti prima di loro
da Troja. Fa- voriti questi da’ venti propizj e dalla sorte, nè gi'avati di
molte bagaglio, erano in poco tempo approdati in Sicilia, e fabbricato aveano
intorno al fiume Crimiso in una terra che i Sicani aveano amorevolmente ad essi
ceduta, per essere Egeste nodrito già nella Sicilia e congiunto col sangue di
loro per questo Caso. Uno dei maggiori suoi, famoso trojano, cadde nell’ ira di
Lao- medonte, e quel re pigliandolo, certo per una incol- pazione, lo uccise,
uccidendo nemmeno tutta la stirpe virile di lui perchè alfine non • sen
vendicasse ; ma le vergini figlie giudicò bensì cosa non degna lo ucciderle, ma
uon sicura nemmeno a permettersi che si accasassero. 73 eoa Trujani. Pertanto
le diede a mercadanti con ordine che lontanissime le portassero. Or queste
rimovendosi navigò con esse un cospicno garzone, il quale preso già dall’amore
di una maritollasi, e trassela nella Sicilia; e là dimorandosi nacque di loro
il fanciullo Egesle nomi- nato. Apprese i costumi e la lingua del loco : infine
morendogli i genitori, e dominando Priamo in Troja, brigossi per lo ritorno. E
militò pur egli contro gli Achei ; ma prendendosi ornai la città, navigò di
nuovo per la Sicilia, fuggendo con Elimo su tre navi, usate già da Achille
quando saccheggiava la Troade, e poi da esso abbandonale perché portn bello ^ o buono, ma nel co- dice
Valicano ai La porto cattivo: il che varia la àeuicuta quali finge Nettuno che
presagisca la grandezza avvenire «li Enea, come de’ posteri, con tali maniere :
Ifo, non i dubbio ; la virtù di Enea /leggerà li Troiani, e re^ranli Be’ figli
i fgli, e chi verrà da loro. G^ncependo da ciò, che Omero conosciuto avesse che
questi regnavano nella Frigia ; inventarono qnel ritorno di Enea, quasi fosse
impossibile che abitando nella Italia dominassero genti trojaue. Eppure ben
poteano coman- dare a Trojani già diretti nei viaggio e stabilitisi altrove: vi
saranno forse altre cause per le quali diasi a vedere r inganno. XLY. Che se
alcuni sien turbati da questo : che la tomba di Enea si dica e si additi in più
luoghi, non potendo in più luoghi esser lui tumulato ; riflettano es- ser tal
dubbio comune su molti uomini, specialmente su gli insigni per sorte, e vivuti
sotto cielo ognor va- rio : e sappiano che una è 1’ urna che accoglie i loro
cadaveri, ma molti tra le nazioni li monumenti per gra- titudine sul bene che
vi operarono, massimamente se tra quelle esistano stirpe o città che da essi
provengano, o se lungo vi fecero ed amorevol soggiorno. Or tali ap- punto
conosciamo che furono i casi che del nostro eroe si novelleggiano. Costui dopo
aver operato che Ilio nel- r esser preso non fosse totalmente distrutto, dopo
aver operato che gli alleati si ritirassero salvi in Bebricia che chiamano;
lasciò sovrano della Frigia 'Ascanio suo figlio, eresse in Pailene una città
col nome di sé medesimo, maritò la figlia nell’ Arcadia, e fissò parte de’suoi
nella Sicilia : e sembrando che segnalato avesse la sua dimora in più altre
parti, beneficandovi ; ne acquistò la bene- vola propensione per la quale gli
eroi quando cessano la vita dell' uomo si onorano, e con pompa di monu- menti
in più luoghi. £ veramente quali altre cause mai potrebbe alcuno ideare de’
monumenti di lui nell’ Italia ? Ma di ciò sarà detto nuovamente secondo che le
materie de’ subjetti si dorran rischiarare. XLVI. Che poi l’armata trojana non
veleggiasse verso parti più remote di Europa, ne furono cagione gli ora- coli,
i quali prendéano compimento appunto in quei luoghi, e la divinità che tante
volte avea rivelato, cioc- ché si volesse. Laonde approdati a Laurento alzarono
le tende in sul lido. Ma stentandovi su le prime per la sete, perchè il luogo
mancava di acque ; ecco vedonsi, ( dico ciò che ne udii tra’ paesani )
prorompere dalla terra spontanei rampolli di acque dolci, dalle quali fu tutto
abbeverato 1’ esercito, ed irriguo ne divenne quel campo, scorrendo co’ rivoli
loro dalle sorgenti fino a gettarsi nel mare. Ora però non si le acque
abbondano che ne trascorrano, ma scarsissime, si restano in un cavo luogo,
credute da’ paesani sacre al sole : e presso queste si additano due altari,
trojani monumenti, rivolto r nno all’oriente l’altro all’occaso, ove
favoleggiano che Enea facesse il primo sagrifizio in ringraziamento al Nume per
le fonti che scaturirono. Poi sedutisi in terra per desinarvi, posero i cibi
secondo molti su degli strati di appio come su le tavole ; ma secondo altri,
per mondezza maggiore, li posero su focacce di farina : se non che finitisi i
cibi apparecchiati, prima 1’ urto, indi r altro mangiava già 1’ appio o le
focacce sottoposte ; quando com’ è fama, uno de’ Ggli, o certo della tenda
slessa di Enea disse : oh ! Gn le tavole ci divoriamo. Destossi all’ udir ciò
fra tutti un entusiasmo, uno stre- pito, come allora si compiessero i primi
oracoli che riceverono : essendo già fatto ad essi un presagio, in Dodona
secondo alcuni, o come altri dicono in En- tra (i) nelle vicinanze dell’Ida ove
sta la Sibilla, fatidica ninfa di que’luoghi. Questa annunziò loro che navigas-
sero verso /’ occidente, finché giungevano in luogo, dove sarebbero mangiale le
mense : e che prendesse- ro, quando vedeano ciò verificaio, per guida un qua-
drupede, e dove stanco del viaggio sdrajavasi, ivi fon- dassero una città.
Ricordevoli di quest’oracolo, chi per comando di Enea portava custoditi com’
erano i simu- lacri de’ Numi dalle uavi a luogo destinalo, e chi pre- parava
basi ed altari per essi. Le donne accompagna- vano le sante cose con ululati e
con danze. InGne es- sendo già tutto pronto pei sacriGzio, i compagni di Enea
stavano coronati intorno l’ altare. XLVII. E già questi facevano de’ voti,
quando la porca già pronta pel sagriGzio,gravida nè lontana dal parto,
dibattendosi tra le mani de’ sacri ministri che la tenevano, fuggissene in
parti più remote del mare. Enea concependo esser questa il quadrupede di cui 1’
oracolo signiGcò che sarebbe loro di guida le tiene dietro, non (i) Vi ebbero
pià Lrilre ; I’ una in Beoiia l’altra in Tessaglia; (jui si parla della terza
nella Jooia tra Llazomcns c Teon. Ma questa Krilra non era poi cosi vicina
dell’ Ida : il che fa vedere che il testo non è puro abbastanza : seppure la
idea di vicinanza non è qui relativa a distanze beo grandi. Digitized by
Google legni e cose di rustico
apparecchio su le quali appariva che dolentissimo ne sarebbe chi ne era
privato. In quel tempo Latino re guerreggiava co’ Rutoli, suoi vicini, ma con
poca pro- sperità nelle battaglie. In tale suo stato gli annunziano, esagerando
le imprese di Enea : che un esercito di fo- restieri gli devastava tutto il
litlorale: che se non davasi presto a riutuzzarlo, avrebbe poi manifestamente
guerra più aspra con essi, che non co’ vicini. Temè Latino a tal nuova, e ben
tosto, sospesa la guerra presente, mosse con esercito poderoso contro a’
Trojani. Ma ve- deudoli armali alla greca, intrepidi, in buon ordine, aspettare
il cimento, si arrestò, difGdando di poterli sottomettere in un colpo, come
avea già speralo nel moversi contro di essi. Ed accampatosi in un colle pensò
che dovevaiuuanzi tutto ricrear le milizie dalla molta fatica, sostenuta nel
lungo e coutinuo travaglio. Adunque ivi riposò quella notte; ma disegnò di
lanciarsi al fare del giorno sul nemico. Fra tali risoluzioni un genio del loco
venne a lui tra ’l sonno, e gl’ impose di ammettere i Greci che venivano a
grande utilità di Latino, e bene comune degli Aborìgeni. Parimenti i Dei
patrii, svelandosi tra la notte ad Enea, suggerivano che inducesse Latino a
concedergli spontaneamente una sede nel luogo che bramava, e rendersi i Greci
alleati, e non competitori nelle arme. Tal sogno contenne l’uno e r altro dal
cominciar la battaglia. E non si tosto fu giorno, elle milizie mossero in
campo; ecco gli araldi venire da ambe le parti ai capitani per chiedere un vi-
cendevole parlamento; e si tenne.* XLIX. Latino il primo querelatosi della
guerra im- provisa e non intimata, chiedeva ad Enea che dicesse chi fosse, e
con quale disegno invadeva e derubava que’ luoghi, non avendone mai ricevuto
alcun danno, e non ignorando che gli assaliti rispingono gli autori della
guerra. E laddove tutto esibivasi a lui se moderate ne erano le dimande, e
potea rinvenire tutto nella cor- tesia degli abitanti ; egli violando la
giustizia comune degli uomini, voile impudentemente anzi che da ono- rato,
arrogarsi ogni cosa colla forza. Enea rispose : Noi siamo Trojani di lignaggio,
e veniamo da una città non ignota affatto tra Greci. Essi espugnandola con
gueira di dieci anni ce la tolsero ; ed ora vaga- bondi ci rigiriamo, sema
città, senza regione, ove prendere sede finalmente. Siamo qui venuti seguendo i
voleri de' Numi ; annunziandoci gli oracoli che que-_ Digitized by Gopglc LIBRO
I. 8 I »ta è la tota terra che ci lascia come requie da tanti errori, Abbiam
preso dalle wstre terre quanto ri era bisogno ; Noi provvedevamo anzi alla
nostra infelicità che al decoro, lutto che non volessimo far cosa meno di
questa, come novizj in tai luoghi. Ma ne daremo copiose e buone ricompense. Vi
offeriamo i nostri corpi, le nostre anime, costumati ahbaslanza ai tra- vagli.
Comunque usar ne vogliale ; noi custodiremo come inviolabili le vostre tene,
noi ci lanceremo ad acquistarvi quelle de' nemici. Noi vi supplichiamo che non
ascriviate ad odio le cose operate; non avendole noi fatte per ingiuriarvi ma
dalla necessità violentati; e ciò che non è volontario è pur degno di scusa. E
se ora ce ne scusiamo, se ne imploriamo voi sten- dendovi le mani
supplichevoli; già non si conviene che ci destiniate alcun male, Altrimente
invocheremo gli Dei, invocheremo gli Genj di queste terre perchè ci condonino
quanto abbiamo fatto o necessitati faremo. Noi tenteremo respingervi la guerra
se ce la incominciate ; chè non è questa la prima nè la massima di quante ne
abbiamo sostenute. Latino ciò udendo sog- giunse : Io sono propenso inverso di
tutti i Greci e mi struggono il cuore i mali necessarj degli uomini. E pregerei
moltissimo di salvarvi se poteste mai far- mi chiaro che qua venite bisognosi
di una sede, per aver parte nelle nostre terre e su quanto vi sarà dato per
amicizia, non per involarmi colle armi il coman- do. Se questo dir vostro è
vero ; se ne dia, chiedo, la vostra fede e se ne riceva la nostra : e saranno
queste le mallevadrici pure de' patii. Dtomet, Hmt r. s L. Enea encomiò quel parlare ; e si giurarono
tali patti tra i due popoli : Darebbero gli Aboiigeiti ai Trojani quanta terra
volessero in qualunque parte del colle, dentro il giro di cinque miglia da
questo. Li Trojani entrerebbero a parte della guerra che gli Abo- rigeni aveano
tra le mani, e militerebbero con essi in qualunque altra li chiamerebbero.
Farebbero in co- mune ambedue col senno e colla mano t utile vicen- devole.
Stabiliti tali patti, e confermatili con gli ostaggi, combatterono insieme
contro le città dei Rutoli : e sog- giogando in brevissimo tempo ogni cosa,
presentaronsi ad ultimare la trojana città non compiuta, e tutti con un ardore
vi fabbricavano. Enea le diè nome di Lavi- nia, come dicono i romani scrittori,
dalla figlia di Latino, chiamata anch’ essa Lavinia; e secondo alcuni de' greci
mitologi dalla figlia di Anio re tra Deliesi, Lavinia nominata ugualmente :
perchè morendo questa nel primo costruirsi degli edifizj, e datale sepoltura
ap- punto nello spazio dove Enea fabbricava (i), la città ne era il monumento.
Dicesi che navigasse co’ Trojani conceduta dal padre alle istanze di Enea, come
donna di senno e di profezie. È fama che i Trojani nel fab- bricare Lavinia ne
avessero questi segni. Accesosi jl fuoco da sè stesso in una valle, narrano che
un lupo vi traesse colla bocca e gittassevi aride materie ; e che (i) si spiega
per infermarsi, travagliarsi, quasi Dionigi dica che la donna fu sepolta dove
infermava ; ma tal voce significa ancora fabbricare e rende il senso pib acconcio
e concorde. Altronde non è facile che uno seppeliscasi nel luogo appunto o
aiansa. o tenda dove si ammala. Digitized by Gopgle LIBKO I. 83 no’ aquila
volaado, Vi eccitasse le (ìamtue col battere delb ale ; ma che una volpe in
contrario si desse ad estinguerle colla coda, bagnatala iu un Hume : e die ora
vincendo chi accendeva ed ora chi ammorzava, al> fine, prevalessero le due
ale, partendosi la volpe senza che nulla più vi potesse: che Enea da quello
spettacolo conchiudessc, come la colonia diverrebbe magniCca, meravigliosa,
celeberrima ; darebbe il crescere di essa invidia ed affanno ai vicini ; ma ne
vincerebbe ogni ostacolo, ricevendo dagl’ Idùii fortuna più potente del- l’odio
de’ mortali in combatterla. Questi sono i portenti famosi, nati colla città : e
per memoria se ne custodi- scono ancora da tempo antichissimo in mezzo al foro
di Lavinia le immagini metalliche di quegli animali. LI. Poiché fu compiuta la
città de’ Trojani entrò desiderio in tutti di giovarsi a vicenda ; e primi ne
die- dero r esempio i monarchi accomunando pe’ matriinonj il grado de* paesani
e de’ forestieri, e sposando Latino la sua figlia Lavinia ad Enea. Quindi presi
ancor gli altri da brama eguale, dandosi in breve a gara 1’ uno all’al- tro
leggi, costumi, sacrifici, congiungendosi in città di cure e di consorzio, e
divenendone tutti un corpo e chiamandosene Latini dal re degli Aborigeni,
osser- varono con tal fermezza gli accordi, che uiun tempo mai più li divise.
.Tali sono le genti che vennero e si congiunsero, e dalle quali è la stirpe de’
Romani, pri- ma che si fondasse la città che otn gli alberga. Erano i primi gli
Aborigeni, i quali cacciarono dalle proprie .sedi i Sicoli 4 greci antichissimi
del Peloponneso, di quelli, io credo, spatriatisi con Eouotro dalle terre ora Digilized
by Coogle 84 DELLE Antichità’ romane dette di Arcadia . erano secondi ì
Pelasghi, usciti dal>' r Emonia, ora chiamata Tessaglia : ed erano terzi
quei che vennero con Evandro nell’ Italia dalla città del Pal- lanteo. Si
ebbero dopo questi gli Epei ed i Feneati del Peloponneso, militari di Ercole, a
quali si mescolava- no alquanti Trojani; e gli ultimi furono i Trojani scam-
pati con Enea da Ilio, da Cardano e da altre loro città. LII. Che poi li
Trojani ancora fossero Greci, prin- cipalmente di orìgine, usciti un tempo dal
Peloponneso fu già detto da molti, ed io pure lo dirò brevemente: e cosi stà
quel racconto. Atlante divenuto primo re dell* Arcadia che ora chiamano,
abitava intorno al monte detto Taumasio. Sette erano le figlie di questo ora
tras- ferite, dicesi, nel cielo col nome di Plejadi. Giove sposandosi 1’ una di
esse vi generò Giasone e Cardano: Glasoue si tenne celibe, ma Cardano sposò
Crise la fi- glia di Palante, e gli nacquero Ideo e Cimante, i quali due
regnarono nell’Arcadia, succedendo al trono di Atlante. Poscia avvenendo il
gran diluvio in Arcadia ; i campi ne divennero paludosi, nò più coltivabili per
lungo tempo. Gli uomini ridottisi ad abitare nei monti, e con scarsi viveri,
consentendo ad una voce che le terre intorno non erano più bastanti a nutrirli,
si divi- sero in due. Rimastisi gli uni nell’Arcadia crearono so- vrano Cimante
il figlio di Cardano > gli arltri partirono su gran flotta dal Peloponneso ;
e direttisi in verso di Europia giunsero al golfo detto di Me lane, recandosi
ad un* isola della Tracia, non saprei se abitata allora o deserta, cui
chiamarono Samo Tracia con nome com- posto dal duce e dal luogo, per essere
questo nella Digilized by Google usno I. 85 Tracia, e Samone 1’ altro, figlio
di Mercurio e di Re- ne, ninfa Gillenide. Ma non a lungo vi dimorarono ; cbé
non era ivi una facile cosa la vita, avendosi a lot« tare con terre ingrate e
mare disastroso. Adunque la- sciando un gruppo di loro nell’ isola, li più se
ne mos- sero nuovamente inverso dell’ Asia sotto gli Auspicj di Bardano ;
perocché Giasone era morto fulminato nell’ i- sola per avervi appetito il
concubito con Cerere. Ve- nuti al mare chiamato Ellesponto, e sbarcatine,
abita- rono la terra detta poi di Frigia. Ideo con la parte da lui retta della
milizia di Bardano, abitò ne’ monti che • Idei si appellano da lui, ne’ quali
ergendo un tempio alla madre degl’ Iddii v’ istituì misteri e sacrifici, du- revoli
ancora in tutta la Frigia: e Bardano nella Troa- de che dicono, fondandovi la
città coi nome di sé me- desimo, e ricevendone delle campagne da Teucro re, dal
quale Teucria fu nominata la terra. Molti, tra’ quali Faiiodimo che scrisse
delle antichità dell’ Attica, nar- rano che Teucro ancora passasse dall’ Attica
nell’ Asia, e regnasse in sul popolo di Zipeta ; allegando su ciò molti
argomenti. Quivi dominando egli campagna am- pia p buona, ma non molto popolata,
desiderò di ve- dere Bardano, e li Greci con esso venuti, si per avergli
alleati nelle guerre co’ barbari, sì perchè la sua terra non giacesse deserta.
LIU. Ora porta il subjetto eh’ espongasi da quali Enea discendesse : ed io ciò
laro ; ma brevemente. Bardano morendogli Crise la figlia dL Fallante dalla
quale avea due fanciulli, si sposò òon Batia la figlia di Teucro. Di lei
nacqn^li Elrittooio, creduto tra’ mortali felidssif Digitized by Gopglc 86
dt:lle antichità’ eomane mo per la*cloppia eredità della signoria paterna, come
deli’ altra fondata dall’avo materno. Da Erittonio e de Callii’oe figlia di
Scamandro nacque Troe dal quale ebbe nome la nazione. Da Troe e da Acalide
fisiia di O Euniida sorse Assaraco : e da questo e da Glitodora figlia di
Laomedonte ebbes! Capi. Poi questo e la ninfa, Kaide chiamata, generarono
Anchise: e di Anchise e di Venere è figlio Enea. Cosi avrò dichiarato che i
Tro- iani siano Greci di origine. LIV. Su 1’ epoca della fondazione di Lavinia
scrivesi variamente : a me sembrano piò verisimiii quelli che r assegnano all’
anno secondo dopo la partenza da Troja. Imperocché Ilio fu preso nel fine della
primavera, il giorno diciassettesimo prima del solstizio estivo, mancan- dovi
otto giorni a compiersi il mese Targhilione secon- do la cronologia di Atene: e
dopo il solstizio rimaneanci venti giorni a terminare quel giro di anno.
Pertanto nei trentasette giorni decorsi dopo quella presa io stimo che gli
Achei provvedessero su le cose della città, che rice- vessero le ambascerie di
quelli che erano usciti, e giu- rassero dei patti con essi. Nell’ anno seguente
e primo dopo la espugnazione, i Trojani salpando da quella terra circa l’
equinozio autunnale passarono 1’ Ellesponto: e portati nella Tracia ivi
dimorarono quell’ inverno, rac^ cogliendo gli altri che giungevano ancora dalla
fuga, e preparando la navigazione. Levandosi dalla Tracia in sul fare biella
primavera tragittarono fino alla Sicilia dove riparatisi spirò intanto quell’
anno : ivi spesero il secondo inverno fabbricando città con gli Elimi. Ma
divenuto il pela^ navigabile fecero vela dall’ isola, e Digitized by
GoogieLIBRO I. 87 valicando il mare Tirreno vennero finalmente sul mezzo della
estate a Laurento, spiaggia marittima degli Abo- rigeni, e presavi terra, vi
fabbricarono Lavinia mentre compievano 1’ anno secondo dopo la invasione di
Troja. Per tali detti sarà chiaro quanto io su ciò concepisco. LV. Enea
fornendo la nuova città di tempj e di altri edifizj i più de’ quali
persistevano ancora a’ miei giorni, alfine nell' anno seguente, terzo della sua
emigrazione, regnò ma su’ Trojani solamente. Morendo però Latino nel quarto,
ebbe anche il regno di questo si per 1’ af- finità sua con esso, di cui Lavinia
era la erede, si per essere lui già duce degli eserciti nella guerra coi
vicini. Imperocché li Rutoli si erano di bel nuovo ri- bellati da Latino
scegliendosi per capitano Turno un disertore di Latino, e cugino di Amata,
regia moglie di lui. Questo giovine alle nozze di Lavinia comccia- tosi dell’
affine suo che tenesse anzi cura degli esteri che de’ parenti, e sospinto da
Amata e da altri, andò cM>lle milizie delle quali era capo, e si congiunse
coi Rutoli. E mossasi per tali richiami la guerra perirono in battaglia
vivissima Latino e Turno e molli altri ; trionfandone Enea. Da quell’ epoca
ebbe questi lo scet- tro del suocero, e regnò dopo la morte di lui tre anni
ancora ; ma nel quarto morì combattendo : perocché gli uscirono contro dalle
loro città tutti in arme li Rutoli e Mezenzio re de’ Tirreni che per le sue
regioni te- meva, conturbato al vedere che la greca poteuza via via si
ampliava. Si dié la battaglia, ma fortissima non lungi da Lavinia;
soccombendone molti da ambe le parti, finché la notte sopravvenendo, divise gli
eserciti. ENEA più non apparve ; e chi lo disse trasferito Ira’ Numi, chi
perito nel fiume, presso cui fu la pugna. I Latini gli eressero un tempietto
iscrivendolo : del Padre e Dio del loco il quale regge il corso del Jiume
Numicio. Pur vi è chi dice edificato il tempio da Enea per An* chise, morto P
anno avanti tal guerra. L’ edifizio è non grande : ma tiene arbori
ordinatamente intorno degne da vedersi. LVI. Passando Enea da questa vita, al
più I’ anno settimo dopo la presa di Troja, assunse il comando su’ Latini
Eurileone, quegli che . nella fuga intitolavasi Ascanio. Erano allora i Trojan!
chiusi tra le mora, e la forza nemica ognora più spaventava ; nè bastavano i
Latini a soccorrere gli assediati a Lavinia. Ascanio dun» que il primo chiese
pace e condizioni onorate ai ne» mici : ma non giovando la inchiesta, fu
costretto ren» dersi pienamente, e finire la guerra come il vincitore ne
giudicasse. Ma siccome il monarca de’ Tirreni oltre le tante cose intollerabili
comandava come agli schiavi che si recasse ogni anno ai Tirreni quanto vino
pro- ducerasi dalla campagna latina ; cosi per la ìndegnissi» ma condizione
Ascanio prima, e dopo lui li Trojani dichiararono co’ decreti loro sacro' a
Giove ogni frutto della vite. E confortandosi gli uni gli altri ad impren- dere
da valentuomini, e chiamando i Numi a parte dei loro pericoli, si mossero di
città ma tra notte non chiara per luna. E sopravvenendo improvvisamente,
presero in un subito il campo nemico il più vicino alla città, ri- putato
antemurale ancora delle altre milizie, perchè te- nuto su luogo forte e difeso
dal fiore de’ giovani tir- Digitized by Google LIBRO I. 89 reni, comandati da
Lauso, figlio di Mezenzio, Intanto che questo luogo espugnavasi le soldatesche
attendate nei piani vedendo la luce insolita, ed ascoltando le voci degli
oppressi fuggirono ai monti. Ivi sorse fra loro paura e strepito grande qual
suole tra schiere mosse di notte, che apprendano già già di essere assalite, ma
nè ordinate uè provvedute abbastanza. I Latini all’ opposito poiché vinsero per
assalto quel presidio, e conobbero lo scompiglio deir altra milizia, le furon
sopra incal- zando e trucidando : e questa non potea nemmeno sa- pere i suoi
mali; non che pensasse ricorrere alla forza. Quindi confusi, incerti che fare
chi s’ avvia tra .dirupi e ne soccombe, chi tra luoghi cavi ma senza esito, ed
è preso. Li più non distinguendosi tra loro si trattaro- no ira le tenebre a
vicenda come uemicì ; e ben fu la sciagi>ra micidialissima. Mezenzio
occupato un colle con pochi, poiché vi seppe la morte del figlio, quanto eset-
cito gli fosse perito, ed in quai luoghi ora si fosse iin tempo in cui fu
costrutta la città, signora al presente delle cose. Ma quali ne fossero i
fondatori, con quali vicende recassero la colonia, o le fondassero la città,
molti già lo narrarono, discordandone alcuni in più casi. Io sceglierò da'
monumenti le cose più persuade- voli ; te quali sqn queste. LXYIl. Dopo che
Amulio usurpò colla forza la reggia di Alba eliminando dagli onori paterni
Numitore il fra- tello. più grande, scorse ad altre infamie col molto abuso dei
diritti, macchinando all’ultimo distruggere la stirpe di Numitore per timore di
subirne la vendetta, e per desideri^ di perpetuarsene il principato. E
macchinando ciò da gran tempo, notò primieramente dove recavasi alla caccia Egeste
il figlio già pubescente di Numitore, e, fattegli delle insidie nel meno
visibile di que’luoghi, lo uccisse appunto che inseguiva le fiere, dando opera
che si dicesse poi, che il giovine fu vittima de’ladroni. Ma tal voce
artificiosa uon potè soffocare la verità che . lacevasi; perocché molli ebbero
cuore di palesarla, con pericolo ancora. Ben conobbe Nunillore il successo ; ma
tollerando con saviezza bonissima fìnse non conoscerlo per differirne i
risentimenti a tempo meno pericoloso. Amulio tenendo la vicenda per occulta,
fece ancora, che la figlia di IVumitore detta Rea secondo alcuni, e poscia Ilia
quando fu matura per le nozze, si dedicasse al sacerdozio di Vesta perchè
andando subito a marito noti partorisse un vindice della sua gente. Dee iren-
l’anni, e nommeuo rimanersi candida da cose maritali lina donzella messa alla
cura del fuoco inestinguibile, o per altro religioso ministero serbato per
legge alle sue pari. Compieva Amulio tutto ciò co’ bei nomi di onorare c
distinguere il parentado : perchè non avevane egli introdotto la legge : anzi
essendo già praticata non astringeva il fratello, sicché la prima volta esso
tra’ no- bili si valettse di quelli onori. E pregiavasi tra g]i Al- bani che le
donzelle più nobili ministrassero a*\^esia. Ben vedea Numitorc che il fratello
non facea Ciò per amore del meglio: tuttavia non espresse l’ira* sua, ma tacque
profondamente ancora su questa ingiuria per .non esserne malmenato dal popolo. Dopo
quattro anni Ilia recatasi al bosco sacro di Marte ad attingervi limpide acque
pc’ sacriGzj vi fu violentala da uno, dicono, de’ giovani innamorato della
donzella : o da Amulio non si per amori che per in- ganni, tutto in arme, e
travisatosi quanto poteva, onde essere terribilissimo a vedere. Molli però
novelleggiano che fu in persona il Nume del loco, acconciando a tal fatto varie
circostanze divine, e che il sole se ne ascose.
I()3 e le tenebre si spnrsero in cielo. Essersi,la immagine di quel Dio
presentata augusta più che la umana per la mole e per la bellezza. Aggiungono
che colui che aveala violata ( e da ciò conchiudono che fosse un Id- dio)
dicesse alla fanciulla che si consolasse, non si afflig- gesse per la vicenda*
essere a lei fatte le cose de’ma- trimonj dall’ unirsele del genio del loco :
ne partorirebbe due figli y potentissimi in arme. Narrano che, ciò di- cendo,
nna nuvola lo circondasse, e che spiccatosi di terra, si elevasse per 1’ aere.
Non è poi questo il luogo, ma bastino i detti de’ filosofi, per discutere la
sentenza da aversi su queste cose, cioè se debbano dispregiarsi come opere
umane imputate agli Dei, la natura de’quali felice nè corruttibile non subisce
niente d’ indegno ; o se debbano riceversene le narrazioni, perchè 1’ universo
è un composto di tutte le sostanze, tra le quali haccene pure una intermedia
tra la umana e divina, che ora mescendosi agli uomini, ora ai Numi, genera la
stirpe degli eroi. La donzella dopo la violenza si diè per in- ferma :
consigliatavi dalla madre per la sicurezza di lei, come per la riverenza de’
Numi : nè più andava alle sante cose,' ma se dovea porgervi l’ opera sua,
supplivano le vergini, compagne nel ministero. LXIX. Amulio, sia che mosso
dalla coscienza, sia che da’ concetti del verisimile, spiava attentissimo le
ca* gioni per le quali tcneasi tanto tempo lontana da’ riti divini. E mandò de’
medici su’ quali fidava moltissimo : ma pretestando le donne non essere un tal
male da presentarsi ai maschj, mise la moglie sua per guardia della fanciulla.
Ma non si tosto colei gli accusò la in(loie del male, conghietlurando da indizj
muliebri, ignoti alle altre ; egli fe’ custodire co’ soldati la donzella:
perchè il parto, ornai prossimo, non si occultasse. £ chiamando a collocjuio il
fratello, disse la violazione recondita, dolendosi che i genitori vi stessero a
parte con la fanciulla, e comandò che non tacessero, anzi pub- blicassero il
fatto. Asseriva Numitore eh’ egli udiva cosa incredibile: ma che egli era
innocente in tutto, e chie- dea tempo per chiarire la verità. £d ottenutolo a
stento, poiché seppe dalla moglie la cosa come erale narrata in principio dalla
fanciulla, gli riferì la violenza fatta dal Nume, e le cose dette su’ due
gemelli, e dimandò che si prestasse fede a tanto, se da quel parto nasceane la
]>role cora’ era presagita dal Nume. Non essendo ornai lontano il parto ;
egli non sarebbene deluso lungamente : intanto esibiva donne in custodia della
figlia, nè ricu- savasi a prova ninna. Acconsentivano quanti erano in
parlamento: Amiilio però diceva che non aveaci punto di buono in que’ detti, e
diedesi per ogni guisa a pci^ dere la lànciulla. Intanto presentansi gl’
incaricati per invi- gilare su quel parto, e narrano aver lei dato in luce due
maschi. Insistè Numitore ben tosto in dimostrare che a'veaci. r opera del Nume,
e richiedÈva che oltraggio non si facesse alla vergine incolpabile. Amulio
nondimeno concepiva che ci avesse della cabala umana anche nel parto mer desimo,
con essersi procurato 1’ uno de’ fanciulli da al- tra donua, ignorandolo o
cooperandovi le custodi ; e molto su ciò fu disputato. Come i consiglieri
videro che il re piegavasi ad ira inesorabile, sentenziarono an- eh’ essi, com’
egli volea ; che si applicasse la legge, la quale ordina che uccidasi, battuta
con verghe, la ver* gine profanata nel corpo, e gettisi ciò che è nato da lei
ndla corrente del fiume. Ora però le leggi per le sacre cose prescrivono che
tali donne seppelliscansi vive. LXX. Fin qui la più parte degli scrittori
narrano le cose medesime o con picciolo divario, altri seguendo più la favola,
ed altri la verisimiglianza. Ben però discordano su ciò che vi rimane ; dicendo
altri che la condannata fu tolta immantinente di mezzo, ed altri che serbata in
carcere oscura fe’ nascere nel volgo la idea della oc- culta morte di lei.
Scrivono che Amulio a ciò s’indu- cesse vinto dalla figlia supplichevole che
chiedevagli in dono la cugina ; già nudrite insieme, e pari di età vo- leansi
il bene di sorelle. Amulio che non avea se non quella figlia, gliela concedette
; nè più compiè la morte di Ilia, ma tennela rinchiusa, nè visibile; finché fu
li- berata col morir del medesimo. Cosi le antiche scritture discordano intorno
di Ilia, ma tutte presentano un ap- parenza di vero ; e perciò ne ho fatta
menzione. Chi legge intenderà da sè stesso quale sia più credibile. Quanto ai
figli d’Ilia cosi scrive Fabio detto il Pit- tore, cui seguirono Lucio Cincio,
Porcio Catone, Cal- purnio Pisone, e la più degli storici. « Alcuni de’ mini-
stri prendendo per comando di Amulio i fanciulli, posti in un cestello, ve li
U'asportavano per gettarli nel fiu- me, lontano quasi cento venti stadii dalla
città. Ma co- me vi si approssimarono e videro che il Tevere per le pioggie
incessanti usciva dall’ alveo suo naturale in su i campi, discesero dalle cime
del Pallanteo fino alle acque più vicine ; uè polendo avanzarsi più oltre,
deposero il cestello appunto ove il fiume toccava, inon- dando le falde del
monte. Ondeggiò quello alcun tem- po ] ma poi ritirandosi la fiumana dalle
parti più ester> ne, il vasello percosse in un sasso, e deviatone, tra-
volse i fanciulli ^ che vagendo in sol fango si dimena- vano. Quando apparendo
una lupa, fresca di parto» e gonfie le mammelle di latte ne porse i capi alle
te- nere bocche de’ medesimi, tergendoli via via colla lingua dal loto onde
erano intrisi. Frattanto sopravvengono dei pastori che guidavano le greggi ai
pascoli ; potendosi già per que’ luoghi camminare. Al vedere 1’ uno di essi
come la bestia carezzava que’ pargoletti, restossi estati- co per lo spavento e
per la incredibilità dello spettacolo. Quindi ( perciocché non era col solo
dire creduto ) an- dando, e raccogliendo quanti potea de’ vicini pastori, li
con* duce a mirare il portento. Approssimatisi questi, e vedendo come la bestia
molcea que’ pargoletti, e come i pargoletti usavano colla bestia quasi colla
madre, parvero a sé st«si presenti a celeste meraviglia : ma congregatisi e
proce- duti ancora più oltre tentarono col tuonare delle grida impaurire la
lupa. E questa non incrudita affatto dal giungere degli uomini, ma quasi
domestica fosse, riti- randosi passo passo da’ fanciulli, si levò ( mutoli
restan- done ) dalla vista de’ pastori, essendovi non lungi un luogo sacro,
opaco per selva profonda, ove le fonti sgorgavano da pietre cave. Dicesi che
quello fosse il bosco di Pane ; ed un allare’per lui vi sorgeva. In que- sto
venne la fiera e si ascose. Ora il bosco non è più: ma ben additasi 1’ antro
dal quale scorrevano le acque, in vicinanza del Pallanteo, lungo la via che
mena al- } 107 r Ippodromo ( 1 ) :
scorgesi ivi prossimo un tempietto ov’ è j come effigie del fatto, una lupa che
offre a due fànciullini le poppe ; metallico e di antico lavoro è quel
monumento. Era questo luogo, com’ è fama, sacro per gli Ai'^ cadi che vi si
accasarono con Evandro. Allontanatasi la fiera, i pastori presero i
fanciulletti provvedendo che si allevassero appunto, come se volessero gli Dèi
che si conservassero. Era tra questi un placido uomo, il capo de’ regj pastori,
F austolo nominato, il quale trovavasi in città per alcun suo bisogno, nel
tempo che lo stu- pro vi si riprendeva ed il parto d' Ilia.' Dopo ciò men- tre
erano que’ teneri putti portati al fiume, egli nel tornare ài Pallanteo, tenne
per incontro divino la stra- da medesima di quelli che li portavano. E non
dando vista di sapere principio alcuno del fatto, dimandò per sè que’ miserelli,
e presili con voto comune, e recan- doseli, venne alla moglie. E trovatala che
avea parto- rito, e dolente, che il parto erale morto, la racconsolò, e le
diede que’ fanciulli da sostituirsi ; contandole dalle origini la vicenda che
li riguardava. Poi crescendo, chia- mò r uno di essi Romolo e Remo 1’ altro.
Fatti adulti / non somigliavano per la bellezza dell’ aspetto e della prudenza
a pastore niuno di gregge immonde o di bo- vi, ma chiunque numerati li avrebbe
tra’ regj figli, specialmente tra quelli creduti di generazione divina, come in
Roma cantano ancora nelle patrie canzoni. Era la vita loro fra’ pastori, e col
travaglio la sostenevano, (i) Cirro oTc -garrpgiavasi col corso Je’
cavalli. fissando per lo più su’ monti e
legni e canne in guisa che dessero in un tempo alloggio e tetto. Ed ancora nel
lato che dal Pallanteo piegasi verso l’ Ippodromo V sopravanza 1’ uno di questi
abituri, detto di Romolo > cui guardano come sacro, ma nulla vi aggiungono
on-, de renderlo più venerando. Che se parte alcuna ne vi6a meno per anni o
tempeste, la suppliscono, riparando- la, quanto possono con simiglianza. Giunti
a’ diciotto anni ebbero dispute su de’ pascoli co’ pastori di Numi- tore i
quali tenevano i loro bovili sull’ Aventino, colle situato rimpetto del
Pallanteo. Ricbiamavansi spesso gli uni su gli altri, che pascessero i campi
non proprj, o soli si tenessero i campi comuni, o per cose altrettali, se ne
avvenivano. Davansi per tali dissidj colpfdi mani e di armi ; e ricevendone da’
giovani assai li servi di Numitore, e perdendovi alcuni di loro, ed essendone
esclusi a forza dalle campagne, cosi macchinarono. Dis- posero in valle occulta
le insidie su’ giovani, e concor- dato con quei che le disponevano il tempo di
eseguirle, gli altri intanto andarono in folla alle roandre de’ me- desimi.
Romolo di quel tempo crasi co’ paesani più ri- guardevoii recato alla città
detta Genina per farvi a no^ me della comune i patrj sacrifizj. Avvedutosi Remo
della incursione volò per la difesa, prendendo in un subito le armi, e li pochi
venuti a lui per unirsegli dal vil- laggio. Non aspettarono quelli, ma
fuggirono per tirar- seli dietro, dove rivolgendosi a proposito gli
assalissero. Ignaro della trama, seguitandoli Remo lungamente, si ingolfò nel
luogo delle insidie ; e le insidie proruppero e li fuggitivi si rivolsero ; e
circondando lui co’ seguaci . 1 09 e tempestando co’ sassi, gli arrestarono,
com’ era il co- mando de’ loro padroni che volevano vivi que’ giovani nelle
mani. Cosi 'fu Remo condotto prigioniero.Ma Elio Tuberone uomo grave, e ben
cauto nel tessere le istorie scrìve : che avendo que’ di Numi- tore preveduto
che i due garzoncelli erano per ofTerire a Pane ne’ lupercali 1’ arcade
sagriGzio come era isti- tuito da Evandro, tesero gli agguati pel tempo appunto
del santo ministero, quando bisognava che I giovani, abitanti il Pallanteo,
correswro dopo le oblazioni nudi per la terra, e velati solo nel sesso con le
pelli recenti delle vittime. Era questo un tal rito patrio di espiazio^ ne,
praticato ancora di presente. Standosi nel più an- gusto de’ sentieri i nemici
a tempo per le insidie su quei facitori di sante cose, ecco venirsene ad essi
la prima banda con Remo, seguitando più tarda 1’ altra con Romolo per essersi
la gente loro divisa in tre masse, e distanze. Non aspettando quelli il
giungere degli al- tri, dato un grido, uscirono in folla sa’ primi, e cir-
condatili, gl’ investirono > chi con dardi e chi con sassi o con altro,
comunque gli era alle mani. Sbalorditi questi dall’ inaspettato assalto, e mal
sapendo che fare, inermi contro gli armati, furono assai facilmente arre-
stati. Con tal modo, o con quello tramandatoci da Fa- bio, divenuto Remo il
prigioniero de’ nemici, fu tratto in Alba. Romolo, al conoscere le ingiurie sul
fratello, pensò dover subito tenergli dietro col Bore de’ suoi pa- stori, quasi
a ricuperarselo ancora tra via : ma ne fu distolto da Faustolo che vedea la
insania del disegno. Era F austolo ancora tenuto come padre, avendo sempre
occultato ai due garzoacelli i loro primi tempi, perchè non si mettessero di
slancio a’ pericoli, prima della robustezza degli anni. Allora peiTò vinto
dalla ne- cessità rivela, solo a solo, a Romolo ogni cosa. E Ro- molo in udire
tutta la sciagura che areali involti 6n dalla nascita, impietosito per la madre
venne in grande ansietà verso di Nnmitore. E molto consultandosi con Faustolo
conchiuse che doveva allora contenersi da ogni impeto ; sorgere poi con
apparato più grande di forze a redimere la sua famiglia dalle ingiustizie di
Amulio, e subire fin 1’ ultimo rischio in vista de’ grandi risul- tati,
operando col padre della madre, quanto egli nc risolvesse. LXXII. Stabilito ciò
per lo m^lio, Romolo convo- cando i paesani, e pregandoli a recarsi di subito
in Alba, non però tutti io folla, nè ad una porta perchè non si eccitasse in
città sospetto di loro, c a tenersi nel foro, pronti per eseguire, s’ incamminò
per il pri- mo verso di quella. Intanto quei che menavano Remo presentatolo ai
regj tribunali, ve lo accusavano delle in- giurie, quante ne aveano da lui
ricevute, e vi addita- .vano le ferite dei loro protestando che
abbandonerebbero tutte le manche, se non erano vendicati. Amulio vo- lendo fare
cosa grata alla moltitudine accorsa, come a Numitore, forse presente ad
incolparlo per altri (i), volen- do la tranquillità del paese, e stimando
insieme sospetta la baldanza del giovane, imperterrito in sue parole ; lo ( i)
Secondo Dionigi, Numitorc ignaro della condiziona di lìcmti, lo accusava a nome
de’ suoi clienti. . Ili .condannò con rendere Numitore 1’ arbitro del castigo,
e con dire che chi fa ree cose, non dee rintuzzarsene da altri quanto da chi le
ha sostenute. Intanto che Re- mo era condotto con le mani addietro legate, ed
erane vilipeso da’ pastori (i) che sei conducevano Numitore postoglisi appresso
ne ammirava la bellezza delle forme che aveano molto del regio, e ne
contemplava la no- biltà de’ sentimenti, che egli conservava in mezzo an- cora
a terribili cose, non volgendosi a far compassione nè importunando, come tutti
fanno in simili casi, ma procedendo con silenzio maestoso al suo termine.
Giunto in sua casa, Numitore fece che gli altri si ritirassero, ed egli, solo
con solo, chiese a Remo chi fosse, e da quali parenti ; non potendo lui, :
ootal giovine, essere da ignobile stirpe. E soggiungendo Remo quanto ne sapea
dal suo nutritore., come dopo la nascita era stato esposto bambino nella selva
col germano, gemello di lui, come raccolto da’ pastori fosse poi stato allevato
; colui, sospesone alcun tempo, alfine, sia che in ciò vedesse vole sospettando che egli non pensasse come
parlava, cosi rispose : I giovani, come è loro mestieri, vanno pasturando de'
bovi pe' monti. Io men veniva in no- me di essi cdla madre per dichiararle come
stieno i loro fatti. Ma udendo come tu fai guardare questa donna, io dirigevami
a supplicare la figlia tua perché a lei m' introducesse. E questo cestello, io
recavalo meco per certificare i miei detti. Ora poiché tur sei fermo di
ricondurre qua li garzoncelli, ne esulto ; e manda con me chi vuoi, che io
dimostreroUi, perchè loro si annunzino gli ordini tuoi. Cosi dunque diceva per
allontanare la morte de’ giovani, e sperando egli insieme fuggire da quelli che
sei menavano, quando sa- rebbe ne’ monti. Amulio immantinente invia con esso i
più fidi tra’ suoi militari, ordinando però segretamente che afferrino, e gli
rechino quelli che il pastore dimo- strerebbe. Intanto deliberò chiamare il
fratello e farlo custodire, ma senza catene finché 1’ affare presente se gli
acconciasse. Lo chiamò dunque ma in vista ben di altre cose. Mosso l’ araldo
speditogli, dalla benevolenza e dalia compassione de’ mali di lui che
pericolava non tacque i disegni di Amulio a Numitore : e questo ma- nifestando
a’ giovani l’ infortunio che pendeva su loro, e confortandoli a farla da
valentuomini, -andò alla reg» già tra le arme di clienti, di amici, e di non
pochi servi fedeli ; e lasciato il mercato pel qual erano venuti in città, vi
andarono ancora co’ pugnali sotto degli abiti i contadini, gente robustissima.
£ forzando tutti con impeto comune l’ ingressa, non presidiato da molli, I. I l5 bea tosto uccisero Amulio, e presero
poi la fortezza. Cosi Fabio ne racconta su ciò. ' LXXV. Altri però giudicando
non convenirsi punto di favoloso alla storia dicono inverisimile che la
proje> zione de’ fanciulli non seguisse com’ era ordinata ; e di- cono che
l’amorevolezza della lupa che porge le- mam- melle ai fanciulli è piena di
comiche incoerenze. Rac- contano invece che Nnmitore al conoscere la gravidanza
d’ Uia, ne tramutasse poi nel parto i figliuoletti, sup- plendovene altri nati
di fresco ; e dandoli in fine ai cu- stodi della parturieute, perchè al re li
recassero. Sia che la fedeltà di questi fosse comperata con oro, sia che la
sostituzione fosse compiuta per mezzo di fem- mine ; ad ogni modo Amulio prese
ed uccise gli spurj; laddove i figli d’ llia cari più che ogni cosa a Numito-
re, furono da lui salvati, e consegnati a Faustolo. As- seriscono che un tal F
austolo era un Arcade, originato da’ compagni di Evandro, alloggiato in sul
Pallanteo colla cura degli armenti di Amulio ; e che condiscen- desse di
allevare i figli di Numitore, indottovi da Fau- stino (i), fratello sno,
presidente de’ bestiami di ]Vn- mitore i quali pascolavano per 1’ Aventino :
essere stata la nudrice, la esibitrice delle poppe sue, non la lupa, ma com’^
verisimile la moglie di Faustino detta Lau- renza, e Lupa con soprannome da
quei del Pallanteo perchè prostituiva il suo corpo. Certamente era questo (i)
Questo nome si legge Tariaroenle. Plutarco io Rumalo Io chiama PUiacino. Altri
Io ha chiamalo Fausto: perchè tra Faustolo e Fausto siavi somiglianza come tra
Romolo e Remo : ed altri con molla con- fusione lo chiama Faustolo come il
fratello. il greco aatico ^ soprannome per le femmine le quali si vendono ne’
riti di amore, e le quali ora con più gen- til nome, amiche si appellano. E
«quindi alcuni che ciò non sapevano ne tesserono la fàvola della Lupa, cosi
chiamandosi quella bestia tra’ Latini. Aggiungono che i fanciulli slattati
appena, filrono dagli aj loro man- dati a Gabio città non lontana dal Pallanteo
perchè vi prendessero greca istruzione ; e che nudriti colà presso gli ospiti
di Faustolo Gno alla pubertà furono ammae- strati nelle lettere, nel canto, e
nell’ uso greco delle armi ; che rivenendo poscia ai padri loro putativi bri-
garonsi co’ pastori di Numitore intorno de' pascoli co- muni, e li percossero,
e gli allontanarono colle greg- gie : essere tali cose state fatte col volere
di Numitore perché si avesse un principio di ridami, ed una causa onde la turba
de’ pastori in città si recasse : che dopo dò Numitore fe’ lamentanze contro di
Amulio, quasi per grave danno e ruberie de’ pastori di lui ; diman- dando che
se egli non avead parte, gli desse nelle mani il porcajo, reo delia lite, e li
Ggli di quello : che Amulio a rimuovere da sè quella . incolpazione, ordinasse
a tutti gli accusati, ed a quanti si dicevano essere stati presenti al successo
di comparire in giudizio per Numi- tore : che insieme concorrendo molti altri
sul pretesto di quella causa, Numitore dicesse a’ nipoti quanta, scia- gura gli
avea perseguitali : e dimostrando^ lui che quella, se altra mai ve ne fu,
quella appunto era 1’ ora della vendetta, iramautiuenle volarono colla turba
de’ pastori all’ assalto. E queste sono le memorie su la origine e su la
educaziouc de’ fondatori di Roma. Ecco poi le cose avvenute nella fondazione:
ciò clic mi resta anche a scrivere, ed ora mi vi accin- go. Poiché Numitore col
morirsi di Amulio riebbe il principato ; spese breve tempo a riordinare su le
anti- che maniere la città, già premuta colla tirannide, e ben tosto
fabbricandone un’ altra, meditava di crearvi anche un regno pe’ figli. Pareagli
bello, essendosi il po- polo suo troppo moltiplicato, levarne totalmente la
parte almeno già sua contraria, per non più sospet- tarne. E comunicatosi co’
figli, ed essendone questi di- lettati ; diè loro, perchè vi regnassero, le
terre dove erano stali allevati, e la parte del popolo divenuta a lui sospetta,
e disposta ancora per fare innovazioni, e quanti voleano spontaneamente mutar
sede. Ci avca tra questi, come per una città che si mova, molti della plebe, e
buon numero de’ più potenti, anzi pure dei Trojani reputati più nobili, de’
quali esistevano ancora a’ miei giorni, almeno cinquanta famiglie. Diede a’
gio- vani danaro, arme, frumento, schiavi, bestie pe’ tras- porti, è quanto
ricercasi per la fondazione di una cit- tà. Poiché questi ebbero cavato da Alba
il popolo loro, aggregarono ad esso quanti rimaneano nel Pallanteo e nella
Saturnia, e ne divisero tutta la massa in due parti. Sembrava loro che ciò
desterebbe dell’ ardore nella gara di compiere più speditamente un lavoro ;
quando fu causa del pessimo de’ mali, cioè di una sedizione. Im- perocché
celebrando le due parli il suo capo, ciascuna lo inalzava come il più idoneo al
comando di tutti: al-tronde li due capi non più avendo una mente e non quella
di fratelli, ma di soprastanti 1’ uno su 1’ altro, ornai non curavano 1’
eguaglianza, e moltissimo ambi'^ hivano. Celatasi fin qui, proruppe finalmente
la loro ambizione per questo incontro. Non piaceva ugualmente a ciascun d'essi
il luogo per fabbricarvi la città : vdleala Romolo sul Pallanteo per più cause,
e per la prospe- rità del luogo, essendovi stati salvati e nudriti : ma
sembrava a Remo da edificarsi nella sponda che ora da lui lìomoria si addi
manda (i). Ben erane il luogo ac- concio per una città, su di un colle non
lontano dal Tevere, in distanza di circa trenta stadj da Roma. Da tal gara
appalesaronsi ben tosto le voglie di soprastarsi; apparendo assai chiaro che
qual, di essi prevaleva sul- r altro dominerebbe ancora su tutti. Passato
intanto alcun tempo, nè sceman. dosi punto il dissidio, parve ad ambedue da
rimetter- sene all’ avo materno, e si recarono in Alba. E colui suggerì che
lasciassero giudicare agli Dei, quale di loro due desse nome e comandi alia
colonia. E predestinan* do ad essi il giorno, ordinò che si trovasserò di buon
mattino separatamente ciascuno nel luogo ove 'bramava porre la sede : e che
sagrificandovi prima secondo le usanze agl’ Iddii vi osservassero gli uccelli
propizj : e qudlo di loro due per cui sarebbero gli uccelli più fausti, quello
comandasse la colonia. •! giovani lodato il consiglio partirono, e trovaronsi
poi nel giorno deci- sivo, appunto come avevano convenuto. Prendeva Ro- molo
gli augurj sui Pallanteo dove ujeditava fissare la (i) Pesto con altri colloca
Komeria nelle cime dell’ Arentino : ma Dionigi sembra collocarla più lontana.
Sarebbero mai state due que- ste Romnrie, o Remurie t colonia : ma Remo nel
colle contiguo, detto Aventino, o Romoria, come altri raccontano. Erano con
essi le guardie, perchè non permettessero che alcuno de’ due dicesse altre cose
che le vedute. Postisi ambedue nei luoghi convenienti ; Romolo dopo un poco,
per ansia, -e per invidia del fratello, e più che per invidia, per impulso
forse di un qualche Nume, innanzi di avere osservato alcun segno, quasi il
primo avesse veduto lo augurio lieto, spedi messaggeri al fratello, perchè a
lui ne 'venisse prontamente. Ma non accellerandosi questi, perchè vergognosi di
portare un inganno p intanto sei avvoltoi, volandogli a destra, apparirono a
Remo. Era costui lietissimo delia veduta, ma dopo non molto gli inviati da
Romolo, movendolo, sei menarono al Pallaa" teo. Dove giunti, Remo chiedeva
da Romolo, quali uccelli avesse veduto : e dubitando Romolo come rispon- dere ;
ecco dodici avvoltoi, propizj col volo gli si mo- strarono. Inanimato al
vederli disse, addiundoii a Re- mo: che cerchi tu s pel tempio, e per gli usi
del comune. Tale era la partizione fatta da Romolo ne’ terreni e negli uo* mini
diretta alla massima eguaglianza comune. Vili. Ora dirò della partizione degli
uomini per con- cedere privilegi ed onori secondo la dignità di ciascu- no.
Scevrò gli uomini cospicui per nascita, o lodati per virtù, o comodi secondo
quel tempo per danaro, pur- ché avessero prole, dagl’ ignobili, dagli abietti e
dai bisognosi. E plebei nominò quelli di sorte deteriore, che il greco
appellerebbe dimolici ; ma intitolò padri quei di fortuna migliore sia che per
la età maggioreg- giassero su gli altri, sia perchè avessero figli, sia per la
chiarezza della prosapia, sia per tutte queste cagioni ; pigliando, come può
congetturarsi, 1’ esempio dalla repubblica degli Ateniesi, quale esisteva in
quel tem- po. Imperocché questi chiamavano Eupatridi principal- mente o patrizj
li più distinti per nascita, e più potenti per danaro, a’ quali afQdavasi la
cura della repubblica : e chiamavano agrici, o rustici gli altri che di niente
eran arbitri sul comune: ma col volger degli anni fu- rono ancor essi elevati
agli onori. Per tali cagioni di- cono gli scrittori più credibili delle cose
romane che Padri fossero nominati que’ valentuomini, e patrizj i squadre de*
cavalieri erano divise in decurie come i chiaro da Var- rooe e da Polibio. li. i35 loro discendenti. Ma coloro che
guardano 1’ affare con occhio d’ invidia, e malignano su le origini vili di Ror
ma, non dicono che i patrizj avessero questo nome per tali cagioni, ma perchè
soli potevano additare gli autori della loro generazione ; quasi gli altri non
fossero che vagabondi, o senza liberi padri. E davano per sicuro argomento di
ciò, che quando piaceva al re di convo> care i patrizj, gli araldi gl’
intimavano pel nome loro e per quello ancora de’ padri ; laddove pochi
banditori invitavano alle adunanze i plebei rinfusamente col buc- cinare de’
corni da bove : ma nè la intimazione per mezzo di araldi è buon segno degl’
ingenui natali, nè il snon della buccina è simbolo della ignobilità de’plebei:
ma la prima recavasi per onorificenza ; spandevasi l’altro per compendio ; non
riuscendo invitare in poco tempo a nome tutta la moltitudine. IX. Poiché Romolo
segregò li più degni dai men ri- guardevoli, ordinò per leggi le incombenze
degli uni e degli altri. Adunque stabili che i patrizj intenti con esso alle
cure pubbliche fossero i sacerdoti, i magistrati, i giudici, ma che li plebei,
liberi da tali sollecitudini per la imperizia e per la penuria, lavorassero le
terre, al- levassero i bestiami, ed esercitassero le arti mercenarie, perchè
non sorgesse fra loro sedizione, come in altre città, quando gli uomini di
grado spregiano gli igno- bili, o quando i vili c poveri invidiano la
preminenza degli altri. Affidò, qual deposito, a’ patrizj i plebei, concedendo
a ciascuno di questi di eleggersi liberamente tra quelli un patrono. Greca
antica consuetudine era questa ritenuta lungamente da’ Tessali, e dagli
Ateniesi quando ancora conoscevano il
meglio : ma poi declina** rono al peggio, ed insolentirono su’ clienti;
comandando loro cose non degne di uomini ingenui, minacciandoli di battiture se
non ubbidivano, ed abusandoli con altre maniere, quasi schiavi comperati- Gli
Ateniesi chiama- vano Thitas pe’ servigi che rendevano, i Clienti, ed i Tessali
li chiamavano Ponesti (i) vituperandone fin col nome stesso la condizione. Ma
Romolo fregiò con nome conveniente, chiamandola patronato, la garanzia de’ bi-
sognosi e degl’ infimi : e date all’ uno ed all’ altro utili cure, ne rendè la
congiunzione benevola veramente e cittadina. X. Le obbligazioni stabilite da
lui sul patronato e conservatesi lungo tempo tra’ Romani erano queste: do-
veano i patrizj informare i clienti della legge che igno- ravano, doveano prender
cura di loro ugualmente, fos- sero o no presenti, e far su di essi come i padri
su’ figli, quanto alla roba, ed ai contratti su la medesima ; mo- vendo liti
pe’ clienti se altri ne era danneggialo, su contratti, e subendola, se altri la
moveano. E per dir molto in poco, doveano proctware. ad essi tutta la ti'an-
quillità della quale abbisognavano nelle cose domestiche e nelle pubbliche. I
clienti a vicenda se i patroni scar- seggiavano di beni doveano coadiuvarli,
maritandosene le figlie : doveano riscattarli da’ nemici se alcuno di essi (i)
Diouigi qui paragona i clienii Romani, i TMti drgli Ateniesi ed i Penesti dei
Tessali : ma i Thili erano almeno liberi, e servi- vano per la miseria o pe'
debiti. 1 Penesù dei Tessali erano un in- termedio tra gli schiavi e gli uomini
liberi. Non era cosi de’ c.ieuti Romani. Questi non di raro parteggiavano o
superavano la fortuna dc'pauoui. ir. 187
o de’ figli rtmaDeva prigioniero : pagare del proprio per loro non a titolo di
prestito, ma di gratitudine le liù perdute, e le pubbliche multe tassate in
moneta : e con- correre quasi ne spettassero alle famiglie, nelle spese di essi
per le magistrature, per gli onori, e per le altre pubbliche dimostrazioni.
Quanto ad ambedue poi non era lecito o giusto pe’ clienti o patroni che gli uni
ac- cusassero gli altri ; che si dessero testimonianze e voti contrari ; o si
lasciassero cercare gli uni per nemici degli altri. E se alcuno era convinto di
aver fatto l’opposito, soggiaceva alle leggi di tradigione promulgate da Ro- molo
: ed era per chiunque santa cosa lo ucciderlo, come vittima a Dite ; costumando
i Romani di consa- grare agl’Iddj, spezialmente infernali, le persone alle
quali volevano impunemente dare la morte, come fece allora anche Romolo.
Adunque perseverarono per molto tempo tramandandosi da figlio Jn figlio le
congiunzioni dei patroni e dei clienti, senza che niente differissero dai
ligami strettissimi di parentela. Ed era gran lode per uomini d’ inclita stirpe
aver clienti in più numero, cu- stodendo i patrocini lasciati loro dagli
antenati, ed acquistandone altri ancora colla propria virtù. E mera- vigliosa
era la gara di ambedue per non lasciarsi vin- cere gli uni dagli altri nella
benevolenza ; proferendosi li clienti a far quanto potevano verso de’ patroni ;
nè volendo i patrizi dar loro molestia con riceverne da- nari in dono. Così era
tra loro il vivere condito con ogni diletto ; e . la virtù non la sorte era la
misura della felicità. XI. Non solamente poi vivea sotto l’ ombra de’ patrizi
i38 la plebe di Roma; ma quella delle colonie di lei, quella delle città
confederate ed amiche, e quella ancora delie conquistate colle armi tenevasi
per custode e protettore qual più voleva de' Romani. E più volte il senato ri-
mettendo ai protettori le controversie di città e di na- zioni confermò le
sentenze date da essi. Anzi era tanta la concordia de’ Romani cominciando dall’
ora che Ro- molo ne fondava i costumi, che mai per secento venti anni
tumultuarono con stragi e sangue, sebbene nasces* sero intorno del comune molte
e gravi dispute tra la plebe e li magistrati, come nascono in tutte le città,
picciole o popolose : ma illuminandosi, e persuadendosi a vicenda, e parte
concedendo, parte ottenendo racche- tavano le interne dissensioni. Dacché però
Cajo Gracco, divenuto tribuno, sconvolse 1’ armonia della città, non cessano
dal sopraffarsi colle stragi e con gli esilj ; nè risparmiano misfatto per
vincersi. Ma per dir tanti mali avrem poi luogo più acconcio. XII. Ordinate
tali cose, ben tosto Romolo deliberò di creare i consiglieri co’ quali dividere
le pubbliche cure, e trascelse cento de’ patrizj cosi facendone la se-
parazione. Prima nominò fra tutti il più idoneo, a cui si afBdasse lo stato,
quando egli coll’ esercito uscireb- bene dai confini. Quindi prescrisse a
ciascuna tribù di scegliersi tre uomini, savissimi per età come insigni per
nascita. Fissati questi nove impose ancora che ciascuna delle curie eleggesse
tre li più opportuni fra li patrizj. Infine unendo ai primi nove dichiarati
dalle tribù li novanta determinati col voto delle curie, e facendo pre- sidente
di tutti quell’unico prescelto da lui ; compiè la Digitized by Google LIBRO II.
1 39 serie di cento consiglieri. Potrebbe il consesso di «pesti signiBcare tra’
Greci un senato, e con tal nome chia- masi appunto tra’ Romani. Nè io saprei
deGnire se un tal nome se lo acquistasse per la età senile, o per la virtù dei
membri che vi furono incorporati. Certo so- lcano gli antichi dir seniori i più
maturi negli anni e nelle opere. Quanti ebbero luogo in senato furono chia-
mati e si chiamano ancora Padri Coscritti. Greca isti-tuzione era questa : perocché
quanti regnavano, sia pei^ chè succeduti a’ diritti paterni, sia perchè nominati
capi dalla moltitudine, aveano un consiglio di ottimi uomini, come attestalo
Omero, e poeti antichissimi : nè le mo- narchie primitive de’ principi erano,
come ora, assolute, e Gsse agli arbitrj di un solo. XIII. Ordinato il consiglio
de’ cento seniori, vedendo che egli avea bisogno di una gioventù regolata da
usarla in guardia del corpo suo, come per incumbenze di af- fari pressanti, unì
trecento i più robusti delle più in- signi famiglie. Le curie nominarono
ciascuna dieci di questi giovani come aveano nominato li senatori ; ed egli
tenea sempre con sè tali uomini. E tutti, panti erano stabiliti in quella
schiera, aveano il nome di Ce- leri, come dai più si scrive, per la speditezza
ne’ loro servizj ; chiamandosi Celeri dai Romani gli uomini pronti e spedili
nell’ operare. Ma Valerio Anziate dice che lo derivarono dal duce loro, Celere
nominato. Era un tal duce riguardevolissimo nel suo grado ; ed a lui ubbidi-
vano tre centurioni, ed a’ centurioni altri capitani mi- nori. Questi lo
accompagnavano per la città colle aste, pronù ai suoi cenni: ma nel campo erano
propugnatori e custodi : e spesso dirigevano a buon fine ia battaglia,- primi a
cominciarla, ed ultimi a levarsene. Combatte- vano, dove il luogo consenti vaio,
a. cavallo; ma appiè, dove era aspro, nè proprio da cavalcarvi. Sembrami cbe un
tal uso lo derivasse da’Lacedemoni coll’intendere die tra quelli vegliavano
alla custodia dei re, e li pro- teggevano nelle guerre giovani generosissimi,
buoni per militare a cavallo ed appiede. XIV. Composte in tal modo le cose,
comparti gli onori ed i poteri cbe volevano in ciascuno ; presceglien- done
tali primizie pe’ monarchi. Volle dunque cbe avesse il -re primieramente la
presidenza de’ templi e de’ sagri- fizj, e che tutte per lui si compiessero le
sante cose in verso de’ Numi : cbe fosse il custode delle leggi e dei patrj
costumi: che avesse cura dei diritti provenienti dalla natura o dai patti : che
esso giudicasse delle in- giustizie capitali ; ma rimettesse il giudizio su le
altre ai senatori, e provvedesse che niente si peccasse ne’ tri- bunali:
cannasse il Senato, convocasse il popolo, e pri- mo vi dicesse il parer suo, ma
seguitasse quello dei più. Tali sono le prerogative che egli riservò pe’ mo-
narchi, oltre quella di un comando indipendente nelle guerre. Al consesso poi
de’ senatori attribuì questi onori, e questa autorità : cioè, che esaminassero
le cose che il re proporrebbe, e ne votassero, ma vi prevalesse la sentenza dei
più. Trasse quest’ uso ancora da' Lacede- moni : perciocché li re de’
Lacedemoni non si pre- ponderavano da fare a lor modo, ma l’ autorità su-t
prema terminavasi nel senato. Lasciò da ultimo al popolo il potere di eleggere
i magistrali, di appro-, l4l Tare le leggi e discutere intorno la guerra quando
al re ne paresse, non però deOnitivamcnte se contrario tosse il senato. Il
popolo dava i sufTragj non tutto in un corpo, ma convocato per curie ; e
riferivasi poscia al senato ciocché le più sentenziavano. Ora cangiata è la
consuetudine ; imperocché non è il senato che ratifica le sentenze del popolo ;
ma il popolo è 1’ arbitro delle sentenze, del senato. Io lascio, che chi vuole
esamini quale di queste due consuetudini sia la migliore. Con tali
scompartimenti le cose civili prendeano marcia savia e regolata, e le militari
altresì la prendeano docile e pronta. Imperocché quando fosse piaciuto al re di
muo- ver l’ esercito, non aveansi a creare i tribuni dalle tri- bù, nè li
centurioni dalle centurie, nè li maestri dai cavalieri ; nè restava àd alcuno
di essere coscritto, o scelto, o di ricevere il posto che gli conveniva. Ma il
re intimava i tribuni, e li tribuni i centurioni. All’ av- viso di questi
ciascuno dei decurioni cavava i soldati, subordinati a sé stesso. Così per un
solo comando la milizia, secondo che era chiamata, in parte o del tutto,
presentavasi colle arme al luogo destinato. Xy. Romolo abilitando la città
pienamente per la pace e per la guerra con tali istituzioni, la rendè con esse
grande e popolosa : obbligò primieramente gli abi- tanti ad allevare tutta la
prole virile, e le primogenite delle femmine, con ordine che non uccidessero
niun in- fante più recente di tre anni, se pure non era storpio, o mostruoso
fin dalia nascita. Tali sconci bambini non proibì che via si esponessero, se
presentatigli a cinque uomini dei più vicini, vi consentissero. E per chi vio-
Digitized by Google i43 delle Antichità’ romane lasse questa legge stabili fra
le altre pene la con6sca di una metà delle loro sostanze. Considerando poi che
molle delle città d’ Italia erano miseramente premute dalla tirannide di uno o
di pochi; procurò di ricevere e di tirare a sè li tanti che ^ne fuggivano,
purché fos- sero liberi, senza esaminarne i pregiudizi, o la sorte, e tutto per
ampliare la potenza romana, e diminuire quella de’ vicini. Adunque fe’ ciò
cogliendone una bella occa- sione su le apparenze di onorare gl’ Iddi!.
Fondatovi un tempio, non saprei deci ferace a quale de’ Numi, o dei genj,
dichiarò come asilo per chi ricorrevaci il luogo tra ’l Campidoglio e la
fortezza, ora detto nell’ idioma de’ Romani il basso tra le due selve, e
nominato allora cosi, per essere quinci e quindi coperto dalle ombre delle
piante amplissime delle terre contigue ai due colli. Inoltre per la riverenza
de’ Numi, promise a chi rifug- givasi al santo luogo che non ci avrebbe
molestie dai nemici, anzi, che se voleva albergare presso di lui,
parteciperebbe ai diritti sociali, ed alle terre che leve- rebbe altrui
guerreggiando. Pertanto vi si affollavano d’ ogn’ intorno uomini che fuggivano
i mali domestici ; nè altrove poi si trasferivano allettati dai colloquj, e
dalle cortesi maniere di lui. XVI. La terza istituzione di Romolo, degna
soprat- tutto che i Greci la osservassero, e certo la migliore, come io penso
di tutte, la quale fu principio della li- bertà stabile de’ Romani, nè poco
contribuì per la for- mazione dell’ impero, la terza istituzione fu di non uc-
cidere tutta la pubertà delie città debellate, nè di ri- durre queste come
terre da pascervi, ma di mandare \ li: 1 43 in esse chi se ne avesse in parte i
campi, e di ren- derle, quando erano vinte, colonie de’ Romani, e tal- volta
ancora di ammetterle ai diritti stessi di Roma. Introducendo queste e simili
pratiche fe' grande la co- lonia sua di picciola, come la cosa stessa
dichiaralo. Imperocché quelli che fondarono Roma con esso, erano non più che
tremila fanti nè meno che trecento cava- lieri ; laddove quando egli spari
dagli uomini vi lasciò quarantaseimila fanti, e poco meno che mille cavalieri.
Ma se egli basò tali regole, le custodirono poscia i re die gli succederono, e
dopo i re li magistrali che pi- gliavano di anno in anno il comando,
aggiungendone altre per modo, che il popolo romano trovasi non in- feriore a
niuno tra quanti sembrano i più numerosi. XVII. Ora paragonando con questi i
Greci costumi, non so come lodare le pratiche de’ Lacedemoni, dei Tebani, e
degli Ateniesi che tanto pregiano sé stessi per sapere. Essi gelosi troppo
dell’ incorrotto loro li- gnaggio, non comunicarono se non a pochi i diritti
della propria repubblica, per non dire che taluni ripu- diavano anche gli
ospiti. Da tale arroganza però non solo non raccolsero alcun bene, ma
gravissimamente ne scapitarono. Cosi gli Spartani battuti nella pugna di Leut-
tra con perdervi mille settecento de’ suoi : non solo non poterono mai più
rilevarsi da quel danno, ma deposero turpemente il comando : e cosi li Tebani,
e gli Ate- niesi per la sola sconfitta riportata in Cberonea furono in un tempo
spogliati da’ Macedoni e della preminenza su la Grecia, e della libertà. Ma
Roma, brigata in guerre gravissime nella Spagna e nella Italia, brigata a
i44 ricuperare la Sicilia e la Sardegna
che le si erano ribel-' late, quando ardevano tutte in arme contro lei la
Grecia e la Macedonia, quando Cartagine eie varasi novamente a disputarle il
comando, quando l’ Italia, non che essere quasi tutta in rivolta, trae vale
addosso la guerra detta di Annibaie ; Roma in mezzo a tanti pericoli, quasi
contemporanei, non solo non si abbattè ; ma ne rac- colse forze maggiori che
dianzi, proporzionandosi fino per contrapporle a tutti i mali. Ne consegui già
questo per favore di sorte propizia come alcuni sospettano ; mentre per conto
della sorte sarebbe andata in rovina con la sola sciagura di Canne ^ quando di
sei mila suoi cavalieri ne rimasero appena trecentosettanta, e di ot- tanta
mila soldati ne scamparono pochi più che tre mila. Ora queste e le cose che io
son per aggiun- gerne fanno che io prenda meraviglia su Romolo. Im- perocché
avendo concepito che le cause dello stato flo- rido di una città sono quelle
che tutti decantano, ma pochi seguitano, cioè primieramente la carità verso gli
Iddii, colla quale tutte le cose degli uomini si risolvono in bene, e
secondariamente la temperanza e la giustizia, per la quale men si offendono e
più concordano fra loro, nè misurano la felicità co’ sozzi piaceri, ma colla
rettitudine, e finalmente la fortezza nel combattere, la quale rende utili a
chi le possiede anche le altre virtù ; ciò, dico, avendo Romolo concepito, non
pensò che tali perfezioni provenissero per sè stesse, ma conobbe che le leggi
provvide, e la bella emulazione nel disci- plinarsi, formano appunto una città
pia, prudente, giu- sta, bellicosa. Adunque molto in ciò vigilando, cominciò
dal cullo de’ genj e de’ Numi : e seguendo le leggi migliori de’ Greci mise in
pregio le sanie cose, io dico i templi, gli altari, le statue, le immagini, i
simboli, le forze, i doni co’ quali gli Dei ci beneGcano, e le feste
convenevoli per ogni genio o Nume; e li sacriGzj coi quali gradiscono essere
venerati dagli uomini, e le ces- sazioni dalle arme, e li concorsi, e li riposi
dalle fati- che, e quanto si addita di simile. Ripudiò le favole che sen
divulgano, sparse di bestemmie e di accuse contro di loro, giudicandole ree,
dannevoH, obbrobriose, in- degne di un uomo dabbene non che de’ Numi ; e ri-
dusse gli uomini a dire e sentire magniGcamente su’Nu^ mi, non a gravarli di
cure aliene da una natura beata. XIX. Già non si ode tra’ Romani nè Gelo
castrato da' Agli, nè Crono che stermina i figli per timore di essere da loro
assalito, nè Giove che scioglie il regno di Crono, e rinchiude il suo genitore
nella prigione del Tartaro. Non le guerre vi si odono, non le ferite, e le
catene e le servitù degli Dei presso gli uomini : non feste vi si usano atre e
dolorose per gli cluiaii e per il lituo di femmine che piangono gli Dei levati
loro, come in Grecia il ratto si piange di Proserpina, e le avventure di Bacco,
e cose altrettali. E quantun- que ornai li costumi vi si corrompano, niuno
ravvisa colà nè uomini invasali da’ Numi, nè furie di coribanti, nè baccanali,
nè misteri iuelfjbili, nè veglie notturne di femmine e raaschj nei templi, nè
osservanze consi- mili, ma ravvisa tutto praticarvisi e dirvisi verso gli Dei
con tanta pietà con quanta non si pratica o dice BIONICI, tomo I. tra’ Greci o tra’ Barbari. Eid io vi ho
soprattutto ammi- rato, che sebbene sieno venute a Roma tante migllaja di
esteri necessitati a venerare ciascuno i suoi Dii coi riti delle patrie loro ;
pure mai questa, come pur troppo succedette ad altre città, non venne in
desiderio di ri- ceverne pubblicamente il culto peregrino : e seper le risposte
degli oracoli introdusse talvolta sante cose come quelle della madre Idea, le
onorò co’ riti suoi propri!, escludendone quanto ci avea di superstizione e di
favola. Quindi i pretori ogni anno apprestano alla diva Idea sagrifizj e
giuochi secondo le leggi romane : ma un fri- gio, ed una donna, fHgia ancor
essa, le immolano il sacriGzio. Questi la recano in giro per la città que-
stuando per la dea come è loro costume, fregiati di immaginette ne’ petti,
movendo il passo, e percotendo i timpani intanto che altri gli accompagnano col
suono delle tibie, e cantano gl’ inni della gran madre : ma ninuo de’ Romani
nativi ornato con veste di vario co- lore va per la città questuando o sonando
di tibia, o venerando con frigie adorazioni la diva (i) ; e tutto è secondo le
leggi ed il voto del senato. Tanto è cauta la città su gli usi forestieri
interno de’ Numi ; e tanto ne ripudia le osservanze vane nè decorose ! (i)
Questo (ratto su la madre Idea non è ben chiaro. Sembra che il culto de lei
fosse ricerulo ed eseguito in una parte solamente colle leggi romane. Quei riti
che non erano ricevati non poteano esercitarsi dai Romani. Dei resto Dionigi
forse afferma senza verità che gli Dei forestieri adottati in Roma non si
veneravano co' riti ancora de' forestieri . Arnob. lib. a e Valerio Massimo
lib. primo possono dimostrare il contrario. . 147 XX. Nè credasi che io non
sappia che alcune delle favole greche sono utili agli uomini. Certamente talune
dimostrano allegoricamente le opere della natura : e ta- lune furono
simboleggiate per confortarci ne’mali; altre levano i 'turbamenti ed i terrori
dell’ animo, e lo pur- gano dalle opinioni non sane, ed altre ancora per altro
buon termine furono immaginate. Ma quantunque io nommeno che gli altri, conosca
tali cose, pure vi sono assai cauto, ed ammetto piuttosto la teologia de’ Roma-
ni; considerando che tenui sono i beni derivati dalle favole greche e che non
possono far utile se non a pochi, a quelli cioè che investigano le cagioni per
le quali furono inventate. Ora ben rari possiedono questa fìloso6a ; ma la
moltitudine ignorante suole rivolgere al peggio i discorsi che se ne fanno, e
patirne 1’ una o l’altra miseria, cioè di spregiare gl’ Iddii come implicati in
'tanto malfare, o di non contenersi m.ii più da in- giustizie e da vituperi,
vedendo die sono questi gli esercizi de’ Numi. XXI. Ma lascisi ciò da
contemplare a quelli che que« sta parte sola si appropriano di filosofia.
Quanto al go- verno istituito da Romolo io reputo degne della storia queste
cose ancora : e primieramente il numero delle persone che egli deputò per le
cure religiose. Certo niuno potrebbe additare in altra nuova città stabilitovi
fin da’, principi .tanto sacerdozio e tanto ministero dei Numi. Per non dire
de’ sacerdoti gentilizi, furono sotto il regno di lui creafi sessanta
'sacerdoti che fornissero le pubbli- che divine funzioni delle curie e delle
tribù. Nè io qui ridico non le cose che descrisse nelle sue antichità t
Terrenzio Varrone, peritissimo tra quanti Borirono ai suoi tempi. Poi siccome
altri per lo più fanno ineonsi- deratamente, e malamente la scelta de’ sacri
ministri ; siccome altri ne mettono a prezzo le dignità per la voce de’
banditori; e siccome altri infine le compartono a sorte; egli non volle che
fossero il premio dell’argento, o della sorte, ma decretò che si nominassero da
' ogni curia due uomini, maggiori di cinquanta anni -, pteemi- nenti di
lignaggio, insigni pe’ meriti, agiati abbastanza di averi, nè difettosi in
parte della persona. E comandò che questi avessero quegli onori non a tempo ma
du- rante la vita, e che essendo per la età già liberi dalle cure militari, lo
fossero per legge dalle politiche. E siccome alcuni sagrifizj si aveano a fare
dalle femmine, ed altri da’ giovani, aventi tuttavia pa- dre e madre ; cosi
perchè questi ancora degnamente si amministrassero, ordinò che le donne de’
sacerdoti fos- sero le compagne de’ mariti ancora nel sacerdozio ; che esse
compiessero le sante cose che le leggi della patria non permettevano agli
uomini, ed i figli loro prestassero il servigio, proprio de’ giovani: Che se
non avevano prole scegliessero dalle altre case nella curia loro i più graziosi
tra’ fanciulli e fanciulle, perchè ministrassero, quelli fino alla pubertà,
queste finché erano pure senza le nozze (i). Io credo che Romolo derivasse
questé pra- tiche ancora da’ Greci ; mentre ciò che ne’ Greci sacri- (i) Qnesii
fanciulli cosi eleni anche dalle altrui case erano chia- mati Camillì e Camille.
Plutarco nella vita di Numa accenna elio cosi chiamavansi que’giovinelti che
ministravano «1 sacerdote di Giove, . 1 49 ficj forniscono quelle che Canifore
si domandano, lo compiono tra’ Romani quelle che Camille (i) son dette, cinte
di ghirlande la testa, come da’ Greci la testa in- ghirlandasi delle statue di
Diana Efesina. E quanto èse- guivano un tempo fra’ Tirreni e prima già fra’
Pelasghi i Cadolj nelle adorazioni dei Cnreti e degli Dei Grandi, lo
ministravano nel modo medesimo ai sacerdoti i garzon* celli nominati Camilli
tra’ Romani. Prescrisse inoltre che intervenisse da ciascuna tribù ne’ sagriGzj
un indovino, che noi chiameremmo Jeroscopo, ed i Romani chia- mano aruspice,
serbando in qualche tenue parte la de- nominazione primitiva ; e statuì, che li
sacerdoti ed i ministri loro fossero tutti nominati dalle curie, ma con-
fermati da quelli che interpretavano i voleri de’ Numi colla divinazione. XX
[II. Ordinate tali cose intorno al servigio divino, divise ancora, secondo che
era per cosi dire opportuno, alle curie le sante cose, destinando a ciascuna i
Numi ed i genj che in perpetuo adorerebbe ; e tassò per le sante cose le spese
che aveansi a supplire dal pubblico. Celebravano coi sacerdoti le curie i
sagriGzj a loro as- segna ti. facendo per le feste il convito nelle case delle
curie.' Perocché vi era in ciascuna curia un cenacolo, ed insieme vi era un’
edifizio comune, consacrato per tutte ; -.come i Pritanei tra’ Greci. Que’
cenacoli, quegli edifizj, curie si, chiamavano, e si chiamano, come le
partizioni stesse del popolo (a). E tale istituzione sem- . (j) La voce Camille
manca nel tetto : ma par troppo coerente colla totalità del senso, Canifore vai
quanto portatrici de' canestri. (a) Varroiie uellil>. 4 della lingua latina
diceche gli edirizj ciita- brami che Romolo se l’ avesse dalla disciplina che
fio- riva allora tra’ Lacedemoni ne’ riti sociali. Licurgo avea ciò, fluttua
quella fra le tempeste ; e che però debbe un uomo savio di stato, legislatore o
sovrano che sia dar leggi che rendano i privati prudenti e giusti nei vivere;
Ma qon tutti mi sembra che vedessero egxial- mente còn quali industrie e leggi
si rendessero tali, e sembrami che alcuni assai, per non dire interamente,
mancassero, nelle parti essenziali e primarie della legi- .slazione.; come
subito ne’sposalizj e nel convivere colle femmine, donde un legislatore dee
cominciare, come ne cominciò la natura l’ ordine armonioso di noi tutti.
Imperciocché taluni pigliando esempio dalle bestie vol- lero i congiungimenti
del maschio colla femmina pro- miscui e liberi, quasi fossero cosi per liberare
la vita Digitized by Google i52 delle Antichità’ homane dalle furie amorose, e
preservarla dalie gelosie che uc> cidono, e rimoverla dai tanti mali che per
causa delie femmine invadono le intere città, non che le famiglie. Altri
esclusero dalla città tali silvestri e ferali eoocu» bili accordando un uomo
per una donna : in custodia però delle nozze, e della moderazione delle mogli,
non tentarono più o meno far leggi, ma se ne asten- nero; quasi impossibile
fosse il contrario. Aluri nè la- sciarono, come taluni de' barbari, le cose
amorose senza leggi, nè le mogli senza premunirle come i Lacedenào- ni, ma vi
promulgarono molte e castissime regole. E vi furono pur quelli che fondarono un
magistrato che invigilasse intorno la purità femminile : ma non bastarono tali
provvidenze alla cura. Fu quel magistrato languido più del dovere, nè potè
ridurre a pudicizia chi mal ci avea contemperata la natura. XXV. Ma Romolo non
dando azione all’uomo contro donna se adulterava, o se abbandonavagli la casa ;
nè dandola alla femmina che accusava l’uomo di pes- sima amministrazione o d’
ingiusto ripudio ; non for- mando leggi sul ricevere e sul restituirsi della
dote, nè definendo altra cosa qualunque, consimili a queste; ne stabilì
solamente una, migliore assai ( come il fatto dichiarò) delle altre, colla
quale fe’ le donne' savie e pudiche e di ogni onoralo contegno. E la legge fu:
che la femmina maritala la quale secondo le sacre leggi recavasi alt uomo,
divenisse partecipe de’ beni e delle sacre cose di lui. Gli antichi chiamavano
con formola romana nozze sacre e legittime la confarrea- zioiie per l’uso
conume del farro .che . noi Zea chia- . I 53 nilamo. E come noi Greci tenendo
l’orzo per antichis- simo diam principio con esso a’ sagrifìzj ; ed que- sto.
cliiamiamo: cosi li Romani giudicando cibo primi- tivo e pregevolissimo il
farro; incomincian col farro, quante volte una vittima si abbruci. E ul rito
persiste, nè si compensò con altre squisite primizie. L’ essere le donne fatte
partecipi con gli uomini di un cibo il più sacro e primitivo, e della sorte di
essi, qualunque fosse, aveva un nome dalla comunanza del farro, e ciò por- tava
un ligame indissolubile di appropriazione, e niente polca disfare quel
matrimonio. Questa legge necessitava le mogli eome prive d' altro rifugio a
vivere co’ modi di chi aveasele maritate, e faceva agli uomini tenere le donne
come cose proprie nè separabili. Quindi una moglie pudica e docile in tutto al
marito, era appunto come r.uorao, l’ arbitra della casa. Morendo 1' uomo, ne
era la erede, come la figlia del padre : se moriva senza figli e senza
testamento, essa era la padrona di ogqi cosa lasciata da lui, ma se avea de’
figli essa era coerede di parte eguali con questi. Che se colei pec- cava,
avealo giudice della delinquenza, cd arbitro della grandezza della .pena : se
non che li parenti ancora in- sieme coir uomo la giudicavano fra le altre reità,
se avea contaminato il suo corpo, o se bevuto del vino, mancanza certo nel
parere de’ Greci tenuissima. Ambe- due queste colpe, come le estreme delle
colpe femminili, ordinò Romolo che si -castigassero : la contaminazione qual
priimipio d’ insania, e la briachezza qual principio della contaminazione. E
lungo tempo seguirono ambe- due queste colpe ad avere odio implacabile
tra’Romani. Ora che buona fosse questa legge su le donne; lo at> testa la
esistenza lunga di essa ; consentendosi che per dnquecento venti anni non si
sciolse in Roma niun matrimonio. Solamente narrasi, che sotto il consolato di
Marco Pomponio, e di Cajo Papinio, nella olimpiade centesima trentesima settima
Spurio Garvilio, uomo non ignobile, il primo lasciasse la moglie, costretto In-
nanzi però dai censori di giurare, che la donna sua non abitava in sua casa per
generare con esso. Certa- mente la sua donna era sterile: ma egli per quest’ o-
pera, quantunque la necessità ve lo' inducesse, ne ‘in- corse r odio perpetuo
del popolo. Tali sono le leggi egregie di Romolo colle quali rendè le donne piu
disposte inverso de’ -mariti. Assai più gravi e più convenienti di queste e
molto diverse dalle nostre sono le leggi sul rispetto e su la corrispondenza
de’ 6gli, perchè onorino I genitori col dire e col fare quanto comandano.
Coloro che ordina- rono i governi de’ Greci, istituirono che i' figli rima-
nessero un tempo, troppo breve, sotto la potestà dei loro padri: vuol dire
istituirono alcuni che vi restassero tre anni dopo la pubertà ; altri, fin che
erano celibi ; ed altri finché non erano scritti nelle curie pubbliche: e
questo a norma della legislazione appresa da Soloné, da Pittaco, da Caronda,
uomini di sapienza riconosciuta. Preordinarono ancora delle pene ; ma non gravi
su'figli indocili, permettendo ai padri di espellerli e diseredarli e non
altro. Ma le pene miti uon bastano a correggere la precipitanza e la caparbietà
de’ gióvani, nè a ren- derli nel bene attenti di trascurati. Dond’ è che assai
. l55 vlluperii si commettono da’ Ogli contro de’ padri nella Grecia. Ma il
legislatore di Roma diede a’ padri sul • figlio per tutta la vita autorità
compiuta di escluderlo, di batterlo, di vincolarlo a’ lavori campestri, e di
ucci- derlo ancora se cosi volessero, quantunque il figlio già trattasse le
cose pubbliche, già sedesse tra’ magistrati supremi, e già si avesse gli
applausi per lo zelo suo verso del popolo. In forza di questa legge uomini rag-
guardevoli concionando da’ rostri su cose contrarie al ' senato', e care al
popolo e divenuti perciò famosi, fu- ròno di là staccati e rapiti altrove da’
padri, perchè su- bissero la pena che iie voleano ; e traendoseli per lo foro,
ninno potea liberarli non il console, non il tri- buno, e non la plebe da essi
adulata, sebbene questa *■ valutasse tutti men che sé stessa in potere. Ometto
di dire quanto i padri uccidessero de’ valentuomini, spin- tisi per virtù e per
ardore a far magnanime imprese ma diverse da quelle prescritte dai padri, come
abbia- mo di Mallio Torquato e di altri, de’ qnali diremo a suo tempo. Né il
legislatore di Roma ristrinse a questo soltanto i padri; ma permise loro anche
di vendere i figli, niente attendendo che altri vinto dalla sua tene- rezza
riprendesse la concessione come dura e gravosa. SopratUttto, chi fu allevato
colle maniere molli de’Greci riguarderà come a(Cerbo e tirannico, che lasciasse
i pa- dri utilizzare su’ figli eoi venderli fino a tre volte, dando licenza più
grande a’ padri sn’ figli che non a’ padroni su gli schiavi. -.Perocché il
servo venduto una volta se riacquista poi la libertà rimane in seguito padrone
di sè : ma il figlio venduto dal padre se diviene libero ri-' cade di nuovo
sotto il padre: e quantunque rivenduto e liberatosi per la seconda volta; pur
trovavasi ancora servo del padre come in principio ; ma dopo la terza vendita
più non era del padre. Osservavano da principio i re questa legge stimandola
rilevantissima, scritta o non scritta che fosse, ciocché non posso decidere.
Disciolta poi la monarchia, quando piacque ai Romani che si affiggessero nel
foro, manifeste ad ogni cittadino., tutte le leggi e le consuetudini patrie e
quelle ricevute di fuori, perchè il diritto comune non finisse col potere de’
magistrati ; i Decemviri che erano incaricati dal ' po- polo di compilarle, e
distenderle, scrissero ancora questa legge colle altre: e trovasi nella quarta
delle dodici ta- vole, che chiamano, che essi esposero nel .fòro. Che * poi li
decemviri, eletti trecento t^nni appresso per la ordinazione delle leggi, non
diedero essi i primi questa legge ai Romani, ma che ricevutala come antica
molto, non osarono toglierla, lo deduciamo da molle fonti,- e principalmente
dai decreti di Numa tra’quali era scritto; Se un padre conceda al figlio di
prender moglie la quale secondo le leggi sia partecipe delle cose sacre e de'
beni, questo padre non avrà fin dt. allora più facoltà di vendere il figlio. Or
ciò non avrebbe., cosi scritto, se per le leggi antecedenti non era permesso af
padri di vendere i figli. Ma basti su 'ciò : frattanto vo- glio dcllneare come
in compendio la . bella istituzione colla quale Romolo ordinò la vita de’
privati. XXVIII. Vedendo che le adunanze politiche, ove i più sono indocili,
non si riJucouo con magistero di . iSj parole a vivere temperantemente, a
preferire il giusto all’ utile, a dumr la fatica, nè riputare cosa alcuna più
onorata del retto procedere ; ma che piuttosto si dirigono ad ogni virtù colle
consuetudini buone ; e vedendo che quelli ohe si disciplinano anzi di forza che
spontanea- mente, ben presto, se niente impediscali, ritornano ai geiij loro;
non concedette che ai servi ed a’ forestieri di esercitare le arti sedentarie,
illiberali, fautrici dei turpi desideri, come quelle che guastano e profanano i
corpi e le anime di chi vi si applica. E lungo tempo rimasero queste ingloriose
tra’ Romani, e ninno che nativo fosse di que’ luoghi, vi rivolse le industrie
sue. Lasciò solamente per gl’ ingenui le due cure della cam> pagna e delle
armi ; perocché vide che con tali maniere di vivere gli uomini signoreggiano il
ventre, e meno languiscono tra gli estri amorosi, nè sieguono quella voglia di
arricchire che dissocia i cittadini a vicenda, ma quella che trae 1’ utile
dalle terre o da’ nemici. Ri- putando imperfette, anzi litigiose queste vite se
disgiunte, non ordinò già che una parte si desse ai lavori del campi, e 1’
altra andasse e derubasse i nemici come la legge disponeva tra’ Lacedemoni; ma
prescrisse in co- mune li rustici e li militari travagli. Se godea pace, ;
costumavali a star tutti intenti per le campagne, salvo il giorno ( ed erari da
lui destinato ogni nono giorno ) • in cui faceano mercato ; perchè allora amava
che accor- rendo iu città vi commerciassero. Ma se prorompeva la guerra,
addestravali a farla, e non cedere gli uni agli altri nel faticarvi o lucrarvi;
pèrocchè divideva tra loro ugualmente, quanto involava al nemico, campi,
schiavi, danari, e xciidcali con ciò volenterosi ad imprendere. Spediva, non
prolungava i giudizj su le of- fese scambievoli ; c quando giudicavale da sé
medesimo e quando per mezzo di altri: e proporzionava ai delitti le pene.
Considerando che la paura più* che tutto re- spinge gli uomini dalle
scelleraggini, coordinò più cose per incuterla, come un tribunale, ove sedea
giudicando, nel più visibile luogo del foro, imponentissimo l’ appa- rato de’
soldati, trecento di numero, che lo seguivano, e le verghe e le scuri portate
da dodici uomini li quali nel foro stesso batteano chi avea colpe degne di
batti- ture, o nella' pubblica luce lo decapitavano, se altri ne avesse più
grandi. Tale fu l’ ordine del governo in- dotto da Romolo, e da queste cose ben
si può con- ghietturare su le altre. XXX. Quanto alle altre opere civili o
beUiche di un tal uomo, queste ne furono tramandate, degne che si intessano ad
una storia. Siccome i popoli circonvicini a Roma erano molti, e grandi, e
bellicosi, nè punto amici di essa ; deliberò conciliarseli co’ matrimoni, mezzo
gii>* dicato dagli antichi saldissimo di procacciar le amicizie.
Considerando però che tali genti non si unirebbero spontaneamente con loro,
nuovi di colonia, impotenti per danaro, e privi d’ ogni gloria di belle
operazioni, e che altronde cederebbero violentati, se oltraggiosa non fosse la
violenza; risolvè, (ciocché avea NumitOre l’avo suo materno già suggerito) di
faré, ed in copia, i 'ma- trimòni col ratto delle vergini. Cosi risoluto, fe’
Voti al Dio guidatore dei disegni reconditi, che se la prova gli riusciva
appunto come la ideava, gli tributereUie ogni anno e feste e sagrifizj. Quindi
riferito il .disegno in li. 1 5() senato,
e comprovatovi, propose di celebrare giuochi solenni a Nettuno, e ne sparse la
nuova per le città vicine ; invitando chiunque al concorso ed ai giuochi, che
giuochi sarebbero moltiplici di cavalli e di uomini. iVenuii forestieri in
copia alla festa insieme colle mogli e co’ figli, e compiti già li sagriCzj a
Nettuno e li giuo- chi, infine nell’ ultimo giorno quando era per dimettere la
moltitudine fe’ intendere ai giovini che al dare di un segno certo, tutti
involassero quante a loro ne capita- vano, le vergine accorse agli spettacoli,
le custodissero però quella notte inviolate, ed a lui le recassero nel pros-
simo giorno. Compartitisi i giovani in truppe non si tosto videro elevato il
segno convenuto ; si volsero a far preda di vergini. Sorgene un tumulto un
damore de’ forestieri che maggiore ne sospettavano il male. Condottegli nel
prossimo giorno le vergini, Romolo consolavale disani- mate, con dire che
tendea quel ratto a maritarle non a vilipenderle. £ dichiarando che Greco, e
primitivo, e nobilissimo era il modo tenuto da lui tra tutti i modi co’ quali
si procurano le nozze alle femmine ; invitavale ad amare gli uomini che la
sorte ad essi offeriva. Dopo ciò numerando le donzelle e trovandole secenlo
ottan- talrè ; scelse bentosto altrettanti de’ suoi non maritati, e con essi
congiunsele. Egli legandole colle nozze se- condo il rito della patria,
rendeale partecipi dell’ acqua stessa, e del foco ; e quel rito mantienesi
ancora. Alquanti scrivono che avvenne un tal fatto nell’ anno primo del regno
di Romolo : Gneo Gellio lo assegna nell’ anno terzo, e ciò pare più verisimile.
Im- perocché non è- probabile che il capo di una città uascente si accingesse a
tal opera prima clic ne avesse costituito il governo. Altri stimano cagione di
quel ra- pimento la scarsità delle femmine, altri l'impulso a far guerra; ed
altri più persuasivi, a’ quali io m’attengo, la necessità di aver amicizia
cogli abitanti vicini. Ripe- tevano i Romani anche al mio tempo la festa allora
consacrata da Romolo chiamandola Consuali (t). In essa un altare sotterraneo,
scalzato intorno intorno di terra,, posto vicino al circo massimo, onorasi con
sagriOzj, e primizie che bruciansi. Evvi corsa di cavalli sciolti, o congiunti
ai carri. Conso chiamasi da’ Romani il Nu- me a cui tributano questi onori : e
taluni con greca interpretazione dicono che sia Nettuno, scotitore della terra,
e che si venera appunto in altari sotterranei, perchè questo Dio possiede la
terra : ma io ne so’ pure altra origine perchè udii che la festa era celebrata
per Nettuno, e per Nettuno li s giuochi equestri; ma che r altare sotterraneo
era stato consecrato infine ad un genio ineffabile, guidatore e custode de’
segreti disegni. E certamente Nettuno in niun luogo tiene altari invi- sibili
inalzatigli da’ Greci o da’ barbai'i. Pure è difficile a diffinire come stiasi
la verità. Come la fama del rapimento delle vergini e gli eventi de’ giuochi si
sparsero per le città vicine; altre si corucciaron su 1’ opera, ed altre
invesugando 1’ af- fetto ed il fine ond’era avvenuta, la sopporlavanu in (i) I
giuochi isliluili da Romolo nel ratto delle Sabine furono chia- mali Consuali
perchè fatti in onore del Dio Conso. Appresso furono detti Circensi quando
Tarquinio Prisco fece il circo massimo. Sem- bra che la prima volta fossero
celebrali nel campo Marso. . l6l pace. In fine però ne proruppero delle guerre,
alcune sicuriiniente ben facili ; ma grave e disastrosa fu cjuella co’ Sabini.
Felice fu l’esito di tutte, come prima che si cominciassero ne aveano presagito
gli oracoli, i quali significavano che grandi ne sarebbero i travagli, ed i
pericoli, ina lietissimo il fine. Le città che prime si misero a tal guerra
furono Genina, ed Ànlemna, e Crustumero, in apparenza pel ratto delle vergini e
jicr vendicarsene ; ma la cagione vera che ve le spingeva era la fondazione,
era il créscere di Roma divenuta grande in poco tempo, e la voglia di non
trascurare che più si estendesse quel male, comune a tutti i vi- cini. Ben
tosto dunque spedendo ambasciatori ai Sa- bini gl’ invitarono perchè fossero i
capi nella guerra, essi che erano i più polenti di arme e di danaro, de- gni di
comandare ai vicini, nè oltraggiali menu degli altri; essendo le vergini rapite
per la maggior parte Sabine. Ma poiché niente profittavano, pere he gli
ambasciadori di Romolo contrariavano, ed appiacevoli- vano con parole e con
opere quella gente ; stanche al- fine di perdere più tempo coi Sabini i quali
esitavano c rimettevano ognora a tempo più rinioto il consiglio di guerra,
destinarono fra loro di combattere esse i Romani; pensando che avrebbono
suificieiiza in sè stesse di forza, se univansi tutte tre, per invadere una
città sola, nè grande. Così dunque si coiicerlarouo ; ma non si espedirono già
per concentrarsi tutti in un esercito ; insorgendo innanzi gli altri i Ceuiuesl,
pi'imarj già nel volere la guerra. Ora avendo questi mossa l’ armata, e
devastando il campo contiguo, Romolo usci colle sue truppe : e piombando
repentinamente su' nemici che non seu guardavano ; ben presto ne espugnò gli
alloggia- menti, che appena erano formati. Poi gettatosi appressa quelli i
quali si rifuggivano nella città, dove non crasi udita ancora la sciagura dei
suoi, non trovandovi nè guardate le mura, nè chiuse le porle ; la invase a pri-
mo impeto, ed uccise, combattendo, e spogliò colle sue mani delle arme il re di
essa venutogli incontro con forz^ poderosa, Cosi prendendo e* comandando la
città che gli consegnasse le armi, e togliendosene per ostaggio, que’ gioviui
che più volle; marciò contro gli Antemnati. Rendutosj colla subita incursione
padrone delle milizie di questi, sbandate ancora a far preda, come crasi pa-
drone renduto delle precedenti, e trattati i vinti nella maniera medesima;
ricondusse a casa l'esercito, recando le spoglie degli oppressi in battaglia, e
le pripiizie delle prede ai Numi i quali onorò con assai sagriSzj. Andava-,
massimo della pompa egli stesso in veste di porpora, e coronato di alloro le
tempie, ma su di una qua- driga (i) per serbare la dignità di monarca.
Seguivano (i) Plutarco scrive c>;e Dipoigi uon dice bene quando afferma che
Romolo veniva su di un carro. FwyueAer it vac piia-tt Aisrue-rur. Tito Livio
scrive che Roipolo spo- lia ducis hostiunt cacti tuspensa, fabrieato ad id apté
ferculo, ge- rent, i/t capholium asce/idit. Il Casaubono pensa che Dionigi per
la non piena peiizia delia lingua latiua interpretasse quel ferculum di ^vio,
dal quale derivava tali racconti, per cocchio;' quando eia ir. ' i63 le milizie
de’ fanti e de’ cavalieri, ornate secondo i loro gradi, magnifìcando gl’ Iddii
colle patrie canzoni, ed il capitano con gli slanci di versi improvvisi. Quelli
della citii recatisi loro incontro colie mogli e co’ figli, e schie- rai isi
quinci e quindi per le vie si congraiulavano con essi per la vittoria, e davano
ogni altro segno di ami- ^ cizia. Entrata la truppa in città trovò crateri
spumanti di vino e mense colme di ogni varieià di cibi appiè delle case più
riguardev.oli pei’chè a piacere vi sì saziasse. Cosi andava con trofei e
sagrifizj la pompa della vit- toria istituita la prima volta da Koniolo, e
chiamata dai Romani trionfo : ma ora, trascendendo ogni antica sem- plicità,
spiegasi magnifica e clamorosa come in tragico rito, anzi per gala di ricchezze
che in prova di virtù. Dopo la pompa e dopo i sagrificj Romolo edificò su le
cime del cimpidoglio un tempio a Giove detto Fé-, retilo da’ Romani : Non era
grande il sàiito edificio ; apparendone ancora i primi vestigi, e vedendosene!
iati maggiori meno lunghi oi dal vero chi voglia questo (jiove Feretrio a cui
Romolo offerse le anni, chiamarlo il Dio che tiene i trofei, o che porge come
altri dicono, le spo- glie de’ nemici, o il Dio preeminente, perché supera ed
abbraccia tutta intorno la natura ed il movimento degli Esseri. piutlo.s(o come
iuterprela Plulaico ciocché ni direbbe trnfeo. Lo stesso Plutarco ìoscgiia che
Lucio Taripiaio Piiscu fu il (irinio che tiiuufasse sul cairu. Poiché Romolo ebbe
tributalo agl’ Iddìi le primizie ed i sagrifìzj di ringraziamento, deliberò,
pri- ma di far al irò, col senato, com’erano da trattarsi le città debellate ;
ed esso il primo ne dichiarò la sentenza che ottima riputava. E piaciuta questa
come la più si- cura e la più luminosa a quanti erano in quel consesso, ed
encomiatone pe’ vantaggi che a Roma ne risultavano non pur di presente, ma in
ogni avvenire; comandò che venissero a lui le donne di Cenina e di Antemna
cadute prigioniere con altre. Riunitesi sconsolaté^, e pro- stratesi, e
piangendo esse la sorte della patria; accennò che frenassero i pianti e
tacessero e poi disse: hen do- vrebbero i vostri padri, i vostri fratelli, e le
intere vostre città subire ogni male, perchè scelsero anzi che r amicizia la guerra,
e guerra non necessaria nè one- sta. Nondimeno abbiamo noi deliberato di essere
cle- menti con essi per molle cagioni, e perchè appren- diamo la vendetta de'
Numi, pronta contro i superbi, e perchè temiamo la indignazione degli uomini, e
perchè giudichiamo essere la compassione compenso non lieve de' mali comuni,
noi che già la dimanda- vamo dagt altri : e finalmente perchè pensiamo che ciò
non sarà caro e grazioso poco per voi, congiunte finquì co' vostri mariti senza
che possano querelar- sene. Condoniamo questo delitto, nè togliamo a’ vo- stri
cittadini non la libertà, non i poderi, non altro bene qualunque. Lasciamo noi
dunque ( nè già se ne avranno a pentire) lasciamo libera a tutti la scelta di
rimanere in patria se il vogliono, o di traslatar- sene. Ala perchè niente pià
faccia abberrare le vostre città, perchè
niente più trovisi in esse che possa ri- dividerle dcdla nostra amicizia’,
rìputianio espedientis- simo e saluberrimo per la concordia e sicurezza di
ambedue se le rendiamo colonie di Roma, e se da Roma vi mandiamo abitanti che
bastino. Àndcde : statevi di buon animo : moltiplicatevi nelt ossequio e nella
benevolenza de’ vostri mariti; tra’l dolce senti- mento che liberi per voi sono
i vostri figli, liberi i vostri fratelli, libere le patrie vostre finalmente.
Ti-i- pudiando in udir questo le donne e lagrimando viva^ niente di gioja
partirono dal Foro. Romolo mandò in ciascuna città trecento uomini e le città
cederono ad essi, dividendolo a sorte, il terzo de’ loro terreni. In opposito
menò in Roma quanti Antemnati e Ce- ninesi vollero trasferirvisi, e raeuovveli
colle mogli e co’ figli mentre ritenevano in que’ luoghi i campi ad essi
toccati, e portavano seco il danaro che possede- vano. Li descrisse il re ben
tosto nelle curie e nelle tribù ; nè furono men di tre mila : tanto che ne’
cata-^ loghi romani si numerarono allora la prima volta sei mila fanti. Genina
ed Antemna città non ignobili avean greco lignaggio : imperocché tolte ai
Sicoli caddero in potere degli Aborigeni, i quali erano una parte degli
Oeijoirj, venuti già dall’ Arcadia, come nel primo li- bro fu detto, ma ora
finita la guerra divennero colonie romane. Romolo dopo ciò condusse Tesercito incon- tro
de’ Crustumerini, apparecchiati meglio che i primi : e vintili, quautiinque
stati fortissimi (i), nella battaglia (i) Qui Dionigi è contrario a Livio il
qnale scrive:' Poi t’in- \ in campo e
su’ muri, non volle che patissero più oltre; ma fece della città, come delie
altre una colonia ro- mana. Era Cruslumero colonia degli Albani speditavi mollo
tempo innanzi di Roma. Divulgando la fama in molte città la fortezza militare
del capitano e la cle- menza in verso de’ vinti; si congiunsero ad esso ancora
non pochi valentuomini ; i quali con tutte le famiglie a lui trasferendosi, gli
recarono forze non dispregevoll. Ed uno de’ colli di Roma ancora chiamasi Celio,
da Celio che uno fu di que’capi venuti dalla Etruria. Anzi a lui si diedero
Intere città, cominciando dalla città dei Medullini, le quali divennero colonie
romane. I Sabini al veder ciò se ne conturbarono, accusandosi a vicenda che non
avessero messo iiu argine alla monarchia dei Romani in sul nascere, o che si
avessero a brigare con lei fatta già grande. Nondimeno parve ad essi che fosse
da correggere il primo errore collo spedire un esercito rispettabile. E
riunitisi a congresso In Curi la più co- spicua e la più imponente delle loro
città, vi decisero co’ loro voti la guerra ; creaudone generalissimo Tito Tazio
re dei Cureli. Deliberato ciò ripatiiaronsl e pre- pararono i Sabini la guerra
per marciate In su la nuova stagione con esercito poderoso contra Roma. Intanto
Romolo si apparecchiò fortlsslma- mente onde jìsosplugere uomini fiorentissimi
in arme. Elevando le mura del Palatino e torrioni più alti di camminò contro
de* Crustomenesi g i quali portavano la guerra z ftia qui ci ebbe men di
contrasto perchè già gli animi erano abbaia tuli per le sconfitte degli
altri» 1 67 esse perché dentro vi si
stessè con sicurezza, e circon- dando con fossi e irincere 1’ Avventino, ed il
Campi- doglio che ora chiamano, colli ambedue dirimpetto dei primo, e
presidiandone l’uno e l’altro con salda guar- nigione; ordinò che nella notte
vi si riparassero e greg- gio e villani. Munì similmente con fossi e palizzate,
e guardie ogni altro luogo opportuno per la loro sal- vezza. Intanto Lucumone,
divenuto amico suo non molto di prima, Lucumone uomo operoso ed insigne nelle
arme, venne a lui con buon sussidiodi Toscani da Vetulonia ; e vennero pure da
Albano in copia, ( e mandavagli 1’ avo materno ) combattitori . commis- sari,
arteBci di militari stromenti. Diè loro frumento ed arme e quanto facea di
mestieri, e largamente ne diede per ogni vicenda. Poiché furono apparecchiati
ambedue per r impresa, i Sabini al sorgere della primavera, ornai sul pnnto di
cavar le milizie, deliberarono di spedire, e spedirono prima a’ nemici un
ambasceria la quale esigesse le donne e la soddisfazione della rapinà di esse ;
perchè se ’l giusto non ottenevano, apparisse che spinti dalla necessità davano
alle arme. Romolo pregò in opposito che si permettesse alle donne rima- nersene
con quelli a’ quali si erano maritate giacché re- stie non ci convivevano: che
se abbisognavano di altra cosa, volessero da lui riceverla come da un amico,
non lo investissero colla guerra. I Sabini non contentati in alcuna dimanda
menarono in campo venticinque mila pedoni e quasi mille cavalli. Non molto
differiva dalla milizia sabina la romana ; numerosa di ventimila fanti, e di
ottocenfp cavalieri, ed accampatasi divisa in due parli dinanzi la città,
teneva con una parte il colle Esquilino sotto gli auspicj di Romolo, e con
l’altra il Quirinale ( che allora non avea questo nome ), e Lu- cumone il
Tin'eiio erane il capitano. Al conoscere tali disposizioni Tazio re dei Sabini
levandosi di notte, traversò coll’ esercito la campagna, non già per
danneggiarla, ina per mettersi prima del nascer del sole in sul campo tra ’l
Quirinale ed il Campidoglio. Ma vedendo che tutto era custodito dalle guardie
vigili de’ nemici, e che non ci avea luogo sicuro per lui, cadde in gravi
dubitazioni senza rinve- nire intanto come avea da usare quel tempo. Fra tante
dubitazioni sorsegli una prosperità non pensata ; essen- dogli consegnato un
de’ luoghi fortissimi con questo successo. Rigirandosi appiè del colle
Capitolino i Sabini per esplorare se ci avea parte niuua, donde potesse
espugnarsi con sorpresa, o di forza ; videli dall’ alto Tarpeja, una vergine
cosi nominata, figlia del valente uomo al quale era la cura hdata di que’
luoghi : s’ in- vaghì la donzella, come scrive Fabio e Ciucio, dei braccialetti
che que’ Sabini s’ aveano intorno la sinistra, e s’ invaghì degli anelli.
Brillavano allora di oro i Sa- bini, molli nommen che i Tirreni nel vivere. Ma
Lucio pisone il censore narra che la fanciulla ciò fece sul bel desiderio di
esporre ai cittadini i nemici, nudi delle arme colle quali si difendevano. Ben
può da quel che siegue raccogliersi qual sia di queste due cose la più
verisimile. Mandando fuora una serva per una tal por- ticina che niun si avvide
che fosse aperta, fe’ richiedere il monarca Sabino che venisse a lei senza
compagni per nn colloquio ; ed essa parlerebbegli di cosa grande e necessaria.
Accettò Tazio l’ invito su la speranza di un tradimento, e recatosi al luogo
additatogli, e venutavi ( che ben lo potè ) la donzella, disse che il padre suo
quella notte si era allontanato per un tal bisogno dalla fortezza, e che le
chiavi delle portò erano presso di lei : consegnerebbele se a lei venissero
quella notte, e se in premio della consegna le si dessero quelle fulgide cose
che ì Sabini portavano tutti nella sinistra. Piacque a Tazio 11 partito, e
contraccambiatasi ambedue la pro- messa con giuramento di non illudersi ne’
patti ; la ver- gine distinse la parte per la quale avrebbero a venire a quel
fortissimo luogo, e distinse 1’ ora della notte in che meno s' invigila ; e poi
ritornossene, nè quelli che eran dentro ne seppero. Concordano Gn qui ma non
già nel resto gli storici romani. Pisone il censorino del quale abbiam detto di
sopra scrive che Tarpeja spedì quella notte un messaggiero che signiGcasse a
Romolo gli accordi fatti tra i Sabini e tra lei ; e come ella esigerebbe le
arme difensive di essi, deludendoli coll’ ambiguità de’ trattati : egli dunque
mandasse altra milizia nella fortezza, e vi sorprenderebbe i nemici col
capitano spogliati di arme. Aggiunge però che il messaggero fuggendosi presso
il re de’ Sabini gii accusasse i disegni di Tarpeja. Ma nè F abio nè Cincio
dicono che ciò avvenisse, e sostengono che la donzella mantenesse i patti del
tradimento. Dopo ciò continuano tutti la storia con slmiglianza. Imper- ciocché
narrano che avvicinatosi il re dei Sabini col Gor dell’ esercito colei per
adempiere le promesse aprisse a’ nemici la piccola porla concordata, e che
destate le guardie del luogo le stimolasse a scampare sollecita- mente per
tragitti ignoti ai Sabini che ornai possedeano la fortezza. Narrano inoltre che
i Sabini al fuggire di quelli, trovatene le porte aperte, occupassero la
fortezza abbandonata ; e che la donna avendo prestato i servigi pattuiti, ne
chiedesse il premio secondo i giuramenti. XL. Dopo ciò scrive Pisene che
essendo i Sabini pronti di dare l’oro di che riluceano ne’bracci sinistri;
Tarpeja la donzella ue pretendesse non i fregi ma gli scudi : che Tazio andasse
in collera per l’inganno, ma pur si guardasse dal violare i trattati : che era
a lui sembrato perciò che si dessero alla vergine le arme ri- chieste ma per
modo, che ricevutele non potesse va- lersene : che ben tosto dunque, comandando
di essere imitato dagli altri, lanciasse lo scudo con quanta avea forza contro
Tarpeja : la quale investita d’ ogn’ intorno e sopraffatta da tanti colpi e si
gravi succumbè sotto delia tempesta. Ma Fabio ascrive a’ Sabini la frodolenza
su’ trattati. Perocché dovendo secondo i patti dare a Tarpeja le auree cose che
dimandava, rattristatine per la grandezza di esse, scagliarono su lei le arme
colle quali si difendevano, quasi scagliar le medesime fosse un darle come
aveano promesso quanto giurarono. Se non che sembra che i fatti consecutivi
rendano più ve- risimile il giudizio ultimo di Pisone. Certamente fu la
giovine, dove cadde, onorata di tomba, e la tomba sta nel più augusto de’ sette
colli, e Roma ivi le replica ogni anno sacre libagioni. Io dico ciocché scrive
Pisone. Cioè se ella fosse morta tradendo la sua patria non avrebbe ottenuto
niuno di questi due onori nè da quelli che ne erano traditi, nè da quelli che
ne furono gli uccisori : anzi se avanzo mai v’ era del tuo cadavere sarebbe
stato poi disotterralo e gittato per atternre i posteri, e respingerli da
simili operazioni. XLI. Tazio e li Sabini impadronitisi di quella for- tezza, e
pigliato senza disagi il più degli appareccbj de* Romani, facevano ornai la
guerra da luogo sicuro. Cosi tenendosi dunque ambedue le armate dirimpetto a
piccola distanza fra di loro, molti erano in molte occasioni li tentativi e gli
attacchi senza grandi risultati di danno o di utile per ninna delle parti. Due
furono le battaglie più rilevanti date con tutte le milizie, schierate 1’ una
contro l’ altra; e grande ne fu la strage vicendevole. Ma tirandosi in lungo,
ambedue li re con- corsero nel sentimento di venire a decisiva giornata. E
recatisi nello spazio intermedio ai due accampamenti i capitani migliori nelle
armi ed i soldati già sperimentati in mille cimenti fecero memorabili prove
dando e ri- battendo gli assalti, e traendosene e rimettendovisi ugualmente. Coloro
i quali contemplavano da luogo munito la equilibrata battaglia, e che d’ora in
ora pie- gava dall’ una o dall’ altra parte, incitando, ed accla- mando
incoraggivano chi vi si distingueva ; o con pre- ghiere e pianti richiamavano
chi vacillava o lasciavasi ornai sopraffare, perchè vile sempre non rimanesse.
Dond’ è che gli uni e gli altri erano necessitati a so- stenere travagli,
maggiori delle forze . Cosi tenuta avendo la battaglia nel giorno con sorte
eguale ; alfine essendo già notte si ravviarono lieti ai proprj alloggia-
menti. Ne’ di seguenti dando sepoltura ai morti rista- bilirono i feriti, e
procurarono insieme altre forze. Poiché parve loro di farsi nuovamente alle
mani, tor- nati jiel luogo medesimo vi combatterono fino alla notte. Prevalsero
i Romani in ambe le ale; reggendone Romolo stesso la destra, e Lucumone il
tirreno la si- nistra. Ma restando dubbia ancora nei centro la sorte delle armi
; Mezio, cognominato il Curzio, uomo me- raviglioso per le forze del corpo,
magnanimo nelle arme, e chiaro soprattutto perchè noa turbavasi a pe- ricoli o
terrori, impedì la disfatta totale de’ Sabini e portò di nuovo contro de’
vincitori le schiere che sor- vanzavano. Costui messo a dirigere 1’ armata del
centro avea già vinto i nemici che gli stavano a fronte. Vo- lendo poi
ripristinare lo stato delle ale sabine ornai sbattute, e presso a dar volta,
esortandovi la sua mi- lizia si mise ad inseguire i nemici che fuggivano sban-
dati da lui, cacciandoli fino alle porte, cosicché Romolo fu costretto a lasciare
imperfetta la sua vittoria, e ri- volgersi ad accorrere contro la parte de’
nemici che era vincitrice. Cosi quel corpo de’Sabini il quale pericolava si
riebbe j allontanaudosegli Romolo colla sua gente : e tutto il nembo si
raccolse inverso di Curzio e de’ suoi che erano già vittoriosi, e questi
tenendo fronte per un tempo ai Romani combatterono luminosamente. Ma poi
rovesciandosi troppi su loro ; piegarono e rìpararousi negli alloggiamenti,
assai contribuendo Curzio alio scampo col ritirarli grado a grado, non col
fargli in- seguire in disordine. Egli flesso arrestavasi in arme, e. facea
fi'onte a Romolo che lo investiva. E grande e . 1^3 bella a vedere fu la gara
de’ capitani che si attaccavano. Alfine essendo già Cur/io ferito, già esausto
di sangue, riucnlava poco a poco, quando eccogli addietro una palude profonda ;
difficile da girarla intorno, perchè cinta da’ nemici, e dilficilissima da
traversarla per lo fango che ammassavasene alle sponde, e per le acque, che
altissime vi erano in mezzo. Inoltratosi dunque vi si lanciò con tutte le arme.
E Romolo sul pensiero che colui quanto prima perirebbe nella palude non poten-
dovisi perseguitare pel fango e per le molte acque ; si rivolse contro degli
altri. Ma Curzio dopo molti e lun> ghi stenti emerse finalmente còlle arme
dalla palude, e fu portato a’proprj alloggiamenti. Rimanea la palude nel mezzo
quasi del foro romano, e lago chiamasi di Curzio dalia vicenda ; ma ora è tutta
ricoperta dalla terra. Romolo inseguendo gli altri avvicinasi al Cam- pidoglio.
Spaziava nella speranza di rivendicarselo : ma travagliato da molte ferite, e
più da un colpo di pietra lanciatogli dall’alto nelle tempia fu preso ornai
semivivo da’ compagni, e riportato dentro le mura. Sbigottirono i Romani più
non vedendo il capitano, e dicdesi l’ala destra alla fuga. Sostenevasi ancora
la sinistra diretta da Lucumone, uomo chiarissimo nelle arme, e segnalatosi per
molte e belle imprese in tal guerra. Ma nemmeno questa più resse alfine ;
quando colpito in un fianco da'Sabini cadde pur Lucumone rifinito di forze.
Allora la fuga fu universale. I Sabini imbaldanziti gl’ incalza- vano verso le
mura: se non che giungendo alle porte pe furono respinti, sboccandone contro
loro i giovani a’ quali aveva il re dato in guardia le mura. Ed a(Yrct-
taiidosi quanto potè per soccorrerli Romolo stesso, ria- vutosi già dalla
percossa ; la sorte assai ne variò della battaglia. Imperocché li fuggitivi
mirando iuaspettata- ineute il sovrano, risorti dalla paura, si riordinarono,
uè più s’ indugiarono a volar su’ nemici. Questi che aveano finora pressato i
Romani e concluso non esservi schermo, che impedisse di prendere la loro città
culla forza ; non si tosto videro il cambiamento inopinato e* repentino,
pensarono come scampare sè stessi. Il ritorno al campo era precipitoso per essi,
inseguiti dall' alto, e per istrada profonda. Quindi grande fu la strage loro
in questa ritirala. Cosi pugnato avendo quel gioruo da pari a pari, ma
involgendosi ambedue tra casi inaspet- tati ; alfine ornai tramontando il sole,
si divisero. XLIV. Ne’ di seguenti consultarono i Sabini se aves- sono a
ricondurre in patria l’esercito devastando intanto il più che poteano le
campagne nemiche, o se di là ne chiamassero un altro, ivi trattenendosi cd
insistendo fiuchè dessero buon fine alla guerra. Ben era misera cosa per essi
partire, donde mauifeslcrebbcsi la infamia che niente aveano conseguilo; ed era
misera cosa noni- meno il rimanersi non riuscendo loro disegno alcuno come
speravano. Concepivano poi, che venire a trattali co’ nemici, unica maniera
conveniente a levarsi di gueiv ra, gioverebbe anzi a’ Romani che a loro.
Tuttavia uon meno, anzi assai più che i Sabini, erano i Romani caduti in gran
dubbio intorno le cose da fare. Imperoc- ché nè volevano rendere nè riteuere le
donne ; riputando la prima cosa un seguito di uua [lerdila mauilcsta, cd n. 175 un preludio di aversi nccessariamenle
a sottomeltere an- che ad altri coaiaudi : ma 1’ altra cosa presentava molli e
gravi mali, distrutte le patrie campagne, e la gio> ventò più florida
trucidata. Se faceansi a trattar coi Sabini, parca loro che questi non ser
berebbero alcuna misura, per molte cagioni e principalmente perchè i superbi
insolentiscono non condiscendono col nemico che volgesi agli ossequj. XLV.
Mentre ambedue cosi cogitabondi, e così di- sanimati dal cominciare o battaglie
o discorsi di ricon- ciliazione dispergevano il tempo ; le mogli de’ Romani,
quelle che erano sabine di origine, quelle per le quali ardeva la guerra,
congregatesi ed abboccatesi fra loro in un luogo medesimo risolverono d’
intramettersi con ambi per la pace. Dava tal partito alle altre Ersilia, non
ignobile di legnaggio tra’ Sabini. Di lei dicono che rapita già come vergine
con altre donzelle, ora fosse maritala. lN|a più verisimile è chi scrive che
ella si fosse rimasa spontaneamente colla unigenita sua, 1’ una delle derubate.
Riunitesi a tal sentimento andarono le donne in Senato, ed ottenutovi di
parlare, ve lo diffusero, chiedendo di uscir per un colloquio co’ loro parenti.
Annunziavano che aveano molte e belle speranze di fiduiTe unanimi le due genti
e stringerle di amicizia. Come udirono ciò quelli i quali consultavano col mo-
narca assai ne furono dilettati, riputando che questo fosse r unico spediente
in tanto inviluppo di cose. Adunque si decretò che quante Sabine avean Agli
tante lasciando questi co’ mariti, avessero la potestà di an- darne oralrici ai
lor nazionali: che quelle però le quali eran madri di più 6gli ne recassero con
sè la parte che più volcano, e trattassero la riconciliazione de’ po- poli.
Uscirono dopo ciò tra lugubri vesti, e talune coi teneri Ggliuoletti. Giunte al
campo sabino mossero col piangere e col prostrarsi appiè di chiunque
iucontravale tanta compassione, che ninno de’ riguardanti potea rat- tenere le
lagrime. E Tannatosi per esse il fior del Se- nato, e comandate dal re che
dicessero le cagioni della venuta; Ersilia, autrice e guida della S])edizioue,
feceiie una lunga e patetica sposizione, implorando che do- nassero pace a’
mariti appunto in grazia di esse per le quali dicevano intimata la guerra. Si
adunassero i prin- cipi loro; ed essi, veduto 1’ utile puliblico, discutessero
le condizioni,per le quali cessassero le discordie. XLVI. Ciò detto caddero
prostese co’ teneri figli ap- piè del sovrano e vi si tennero, finché quelli
che erano presenti non le rilevarono da terra con promettere che farebbono
quanto era onesto e possibile. Fattele uscire dal Senato, e consultando fra
loro, si decisero per la pace. E prima si fece la tregua : poi riunendosi i re,
si concordò su la pace ancora. E tali ne furono le convenzioni che sen
giurarono. Sarebbero ambedue re dei Romani Romolo e Tazio con eguali poteri ed
onori. La città serbando il nome del suo fondatore chiamerebbesi Roma, e romano
ogni suo cittadino come per l’addietiv- Ma tutti insieme si chiameiiano
generalmente Quiriti desuntone il nome dalla patria di Tazio. Si
domicilierebbero que’ Sabini che voleano, in Roma, ma comunicandosi le sante
cose, c pren- dondo luogo nello tribù c nelle curie. Giurate questo cose, ed
eretti gli altari ove far 1’ alleanza, in mezzo quasi della Via 1 Sacra, si
mesoolarono insieme. Poi rao* cogliendo ogni duce li suoi, tornarono alle
proprie magioni. Si rimasero in Roma Tazio il monarca e con esso tre de’ più,
riguardevoli Valerio Voleso, Tallo, soprannominalo il Tiranno, ed in fine Mezio
Curzio, quegli che : avea colle armi trapassato la palude, e vi ebbero gli
onori che i discendenti loro pur vi godcronow Anzi con questi si rimasero amici,
consanguinei, e clienti, non minori di numero agli altri di Roma. Mentre
ordinavano queste cose parve ai so» vrani di raddoppiare il numero de’ patrizj
per essersi la popolazione moltissimo arnpbata. Adunque segnando in X catalogo
colle famiglie più nobili tanti cittadini novelli, quanti erano i primi,
chiamarono patrizj ancor’ essi. Poi trascelli cento di «questi col voto delle
curie gli connumerarono ai senatori antichi. E su ciò concordano presso a poco
tutti gli scrittori delle cose romane : dif- ferisce taluno sul: numero de’
sopraggiunti : dicendo che non cento cui cinquanta furono gl’ inseriti al
Senato. Non consentono però gli storici romani su F onore che i re concederono
alle donne perchè gli aveano rioou» dotti aUa pace. Perocché scrivono alquanti
che diedero ad esse distintivo grande e moltiplice non pure i prin- dpi, ma le
curie : le quali essendo trenta, come già dissi, presero nome ognuna da queste,
giacché trenta furono ancora le oratrici. Ma Terrenzio Varrone si di» scosta da
questi in tal capo, aflermando che i nomi erano stati imposti -alle curie
anteriormente da Romolo, quando divise la prima volta il suo popolo: c die quei
nomi furono desumi da’ capi di esse, o dalle antiche lor patrie. Aggiunge che
le femmine andate amba- sciadrici non furono trenta ma cinqueceutotrentatrè :
dond’ è che noti sia verisimile che il re concedesse ad alcune poche di esse
quell’onore, escludendone le altre. A me nè tali son parute queste cose da non
farne pa- rola, nè tali da scriverne dtra il bisogno. Ora l’ordine stesso della
narrazione dimanda che io dica quali e donde fossero i Cureti alla città de’
quali apparteneva Tazio, e quei eh’ eran seco. Noi cosi ne sappiamo. Nel tempo
che gli Aborigeni posse- deano 1’ agro Reatino una vergine nobilissima natia di
que’ luoghi entrò, per danzarvi, il tempio di Enialio. Enialio lo chiamano
Quirino i Sabini, ed, ammae- strati da essi, i Romani, senza che sappiano dire
più oltre s' egli sia Marte, o tal altro, eguale a Marte in onore. £ li primi
pensano che 1’ uno e 1’ altro nome dicasi del Nume arbitro delle guerre ; ma
gli altri che sia quel doppio nome non di uno, ma di due Dei bel* licosi. La
vergine danzando già nel tempio fu dallo spirito investita del Nume; e lasciale
le danze si ritirò ne’ penetrali santi di lui, dove, come a tutti sembra,
fecondatane, diede un fanciullo, che Modio fu detto, ed ebbe soprannome di
Fabidio (i). Or questi, adulto (i) Vi è chi pensa che il Modio Fabidio sia il
Afe £>iuj Fidius de’ fìoinaui, forinola colla quale riguardavaisi il Nume
tutelare della fede, o pure Ercole figlio di Giove. Se ciò lesse, Diouigi
avrebbe malameuie iuierpiaato quella formula Romana di giura- mento.. 179 feuo
nella persona, ebbe forma non umana, ma divina, e combattè con preemiuenza di
tutti i valentuomini. Preso poi dal desiderio di abitare una città che avesse
la origine da lui, congregando gente io copia da luoghi d’intorno, eresse in
tempo assai breve quella che Curi addimandasi, denominandola, come narrano
alcuni, dal Nume, dal quale è &ma che egli fosse generato, e come altri
asseriscono dall’ asta, poiché Curi chiamasi 1* asta in. Sabina. Cosi scrive
Terrenzio Yarrone. XLIX. Ma Zenodoto Troizinio uno scrittore del- l’Umbria,
narra che le genti di essa furono prima abi- tatrici de’ campi detti Rèalini :
che espulse da’ Pelasghi se ne vennero alla terra dove ora soggiornano, e dove
mutato nome coi luoghi, si chiamarono Sabini per Umbri. Porzio Catone dice
imposto tal nOme ai Sabini da un Nume di que’ luoghi Stoino ( 1 ) Sanco, e che
Sanco per alcuni vai quanto Dio Fidio, Dice che fii domicilio primitivo di essi
un villaggio nominato Te- strina presso la città di Amiterna ; che movendosi da
questo inondarono i Sabini 1’ Agro ReatioQ abitato al- (1) Silio nel libro
ottavo scrive. Ibant et laeti pars
tanctum voce canehanl, Auetorem genlis, pars laudes ore ferebant, Sahe, Uuis,
qui de patrio cognomine primus . Dixisli
poputos magna ditione Sabinos. Forse dunque nel testo di Dionigi dee leggersi
Sabo e non Sabino. Festo e Yarrone additano che Sanco tra’ Sabini siguifìca
Ercole. Ora Plutarco nel suo Noma e Servio nel libro 8 dell’ Eneide de- rivano
i Sabiui dagli Spartani, e gli Spartani da Ercole. Quindi quel Sabo Sanco non
sarebbe che Ercole ; tanto più che Sanco '«redesi il me Diut Fiditu, c questa
par furatola per additare Ercole. e lora dagli Aborigeni, e da Pelasghi : e che
ne otten- nero colla forza delle armi Colina la loro città più cospicua : che
spedendo dal contado Reatino delle co- lonie fondarono altre città non poche,
ove, senza cin- gerle di mura, si viveano ; e tra queste la città che Curi fu
nominata : che occuparono campagne lontano circa dugento ottanta stadj dall’
AdrìaUco, e dugento quaranta dal mare Tirreno: e dice che stendeasi la lun-
ghezza di quelle poco meno che mille stadj. Secondo le storie paesane intorno
de’ Sabini abitavano con essi già dei Lacedemoni quando Licurgo tutore di
Eunomo, nipote suo, . dava a Sparta le leggi : e questo perchè impazientiti
alcuni dalia dura legislazione di lui, stac- caùsi da’ compagni abbandonarono
affatto la città ; e corso ampio tratto di mare, e desiderosi ornai di pren-
dere terra dovunque, si legarono per voto cogl’Iddii di abitare quella appunto
ove imprima giungerebbero. Ve- nuti nell’ Italia ai campi detti Pomentini
nominarono, dal mare che aveali portati, Feronia il luogo dove prima
approdarono, e vi eressero un tempio alia Diva Feronia alla quale aveano fatto
i lor voti ; e la quale mutatane una lettera ora Faronia si chiama. Alcuni da
indi rimovendosi ne andarono a dimorar tra’ Sabini : e però spartane sono molte
delle loro istituzioni, spartani principalmente gli amori per la guerra ; la
parsimonia e la durezza nelle opere tutte della vita. Ma ciò basti su la
origine de’ Sabini. L. Ben tosto Romolo e Tazio ampliarono la città
congiungendole altri due colli, 1’ uno chiamato Quiri- nale, e Celio r altro. E
ponendo separatamente le case . 1 8 1 viveasi ognuno nelle sedi sue. Avessi
Rouiolo il monte Palatino ed il Celio, monte contiguo col primo. ^azÌo avevasi
il Campidoglio, occupato già ne’ principi da esso, ed il Quirinale. Recisa la
selva la quale spande- vasi appiè del Campidoglio, e ricoperta in gran parte di
terra la palude, la quale per la concavità dei sito rooltiplicavasi dalle acque
scese da’ monti, fecero ivi il foro, dei quale servonsi ancora i Romani. E là
tenendo le adunanze, consultavano nel tempio di Vulcano, cbe quasi al foro
sovrasta. Inalzarono i tem^q, e consacra- rono gli altari ai Numi, a’ quali gli
aveano promessi co’ voti nelle battaglie. Romolo ne eresse uno a Giove Statore
presso la porta òe Muggiti la quale mena dalla via sacra al Palatino, perché
quel Nume esaudendo i voti di Romolo fe’ cbe l’ esercito suo già fuggitivo si
arrestasse,, e si volgesse a fronte dei nimico. Tazio ne eresse al Sole, alla
Luna, a Crono, a Rea, ' come pure a Vesta, a Vulcano, a Diana, ad Eniàlio ed
altri difScili a nominarsi con greca parola. Mise in tutte le Curie le mense
per Giunone Quirizia (i) le quali esi- stono ancora. Dominarono cinque anni
insieme senza dissidio, e compierono in quel tempo con impresa co- mune la
spedizione contro de’ Camerini. Impercioccbè questi mandando delle masnade
assai danneggiavano loro il paese : e tuttoché chiamativi non erano mai
comparsi a darne ragione. Adunque schieratisi a fronte di essi, e vintili in
campo, e poi nell’ assalto delle mura, gli astrinsero a cedere le arme e la
terza parte della re- (i) Secondo Pesto vuol dire Giunone coW atta, vedi $ 4^
prc- oedenle. • Digitized by Google iSa PFLLE Antichità’ romane gione.
Continuando nondimeno i Camerini ad Infestarla riuscirono nel terzo giorno I re
coll’ armata e li fuga-, rono, e ne divisero ogni cosa ai proprii soldati, con-
cedendo solamente che quelli, se volevano, si domici- liassero in Roma.
Quattromila quasi ve ii’ ebbero, e lì compartirono tra le curie. E Camaria,
sorta già tanto tempo prima di Roma, Camaria già domicìiio famoso degli
Aborigeni, e poscia di un ramo di Albani, fu ridotta colonia de’ Romani. Tornò,
nei sesto anno il comando a Romolo so- damente, morendo Tazio per le insidie
de’ primarj tra Laurenlini tesegli per questa cagione. Scorsi gli amici di
Tazio a far preda nel territorio de’ Laurenlini ne aveano rapito danari in
copia, e menato via de’ be- stiami t uccidendo o ferendo chiunque presentavasi
a rivendicarseli. Spedita quindi dagli offesi una legazione a reclamar la
giustizia, Romolo sentenziò che gli o^ fensori le si consegnassero. Tazio però
sollecito degli amici, non istimava bene che si desse alcun cittadino perchè si
portasse in giudizio tra forestieri e nemici. Laonde intimò che quanti si
richiamavano della ingiuria venissero e discutesserla ne’trihunali di Roma.
Cosi non trovando giustizia partirono indispettiti gli ambasciadori. Ma datisi
per isdegno alcuni Sabini a seguitarli gli assalirono, che dormivano tra le
tende lungo la via sorpresivi dalla notte : e spogliatili di ogni cosa, ne
scannarono quanti giaceansi ancora ne’ letti. Si ricon- dussero alia loro città
quauti si avvidero a tempo dei- r insidie e fuggirono. Dopo ciò venendo
ambasciadori da Laurento e da molte città si dolsero su’ diritti vio- lati, ed
intimarono la guerra, se non erano compensati. LITtP.O IT. l83 LII. Sembrava a
Romolo, com’ era, terribile 1’ ol- traggio d(^li ambasdadori e degno di una
subita espia- zione, es:;endosi profanata una legge santa. E vedendo che Tazio
tcneane picciolo conto, egli senza più indu- gio presi e legati i complici, li
diede agli ambasciadori \ ortato a Roma ebbe magnifica se- poltura, e la città
gii rinnova ogni anno pubblici sa- grifizj. LUI, Romolo trovandosi un’ altra
volta solo nel prin- cipato purificò la infamia commessa contro gli amba-
sciatori pubblicandone privi dell’ ncque e del fuoco gli autori, faggitt già
tutti da Roma al primo udire la morte di Tazio. In opposito essendogli
conseguati da Laurento ero la vittoria per saviezza del capitano, il quale
occupato di notte un monte non molto lontano da’ nemici teneavi in agguato il
fiore de’cavalieri, e dei fanti, giuntigli ultimamente da Roma. Tornati in
campo ambedue per combattervi come prima, non si tosto diè Romolo il segno
convenuto a quelli del monte, corsero schiamazzando dalle insidie alle spalle
de' Vejentani : e piombando essi, freschi ancora su uomini stanchi, non
durarono lunga fatica a travolgerli. Pochi ne morirono in campo ; ma molti piò
nellt; acque del Tevere, il qual fiume scorre presso Fidene, lanciativisi per
iscampare nuotandovi. Perocché parte per le ferite e la stanchezza non resse a
compiere il transito, e parte per la impe- rizia del nuoto e la confusione
dell’ animo in vista dei pericoli soccombè tra’ vortici non preveduti. Se i
Vejen- tani avessero ponderato seco stessi, quanto furono scon- sigliati la
prima volta, e se avessero dall’ora in poi cei^ cato la calma, non sarebbero
incorsi in disastri, più gravi ancora. Ma sjierando di riaversi de’ mali
passati, e pensando che vincerebbero di leggeri, se uscissero con apparato
maggiore ; bentosto arrolate milizie in copia dalla città loro, e procuratene
presso de’ nazionali secondo i trattati di amicizia, marciarono per la seconda
volta con- tro de’ Romani. Si combattè di nuovo ferocemente presso piiuii. iiy
Ci( •• LIBBO II. ' 187 Fidene ; e di nuovo i Bonnani vi superarono i Yejenti, e
ve ne uccisero, e più ancora ve ne imprigionarono. F 11 invasa la loro
trincierà piena di danari, di arme, di S( biavi: furono prese le barche
lluviali cariche di vetto- vaglia copiosa e con queste per lo fiume trasportati
in Roma li prigionieri. Fu questo il terao trionfo di Romo- lo ma più brillante
assai de’precedcnti. Venne dopo non molto un' ambasceria de’ Vejenli per
chetare la guerra e chiedere perdono de’ mancamenti, e Romolo ne se- condò le
istanze imponendo : che cedessero i terreni contigui al Tevere nominati
Setlepagi : che non si ac- costassero alle saline presso le bocche del Jiume :
e che dessero cinquanta ostaggi in pegno, che non fa- rebbero innovamenti. Si
rimisero i Vejeiiti alle leggi: e Romolo fece tregua con essi per cento anni, e
ne scolpi su più colonne le condizioni. Rilasciò senza com- penso i prigionieri
vogliosi di andarsene ; ma rendè cit- tadini di Roma quanti pregiarono di
rimanersene, ed erano più numerosi degli altri, e li comparti fra le cu- rie, e
diè loro in sorte le campagne di qua del Tevere. . Quest» furono le guerre di
Romolo degne di stima e di ricordanza : e parmi, che se egli non sotto- mise
ancora altri popoli vicini, ne fosse cagione la fine prematura di lui, quando
era florido ancora per le armi. Di questa fine varj e molli ne sono i racconti.
Coloro .che più ne favoleggiano dicono, che intanto che arin- gava le milizie,
abbujatosi l’ aere sereno, e fattasi pro- cella terrìbile, Romolo diventasse
invisibile, e che Marte il suo genitore in alto se lo rapisse. Ma chi scrive
cose più vcrisimili dice che da’ suoi cittadini fu morto ; e dice elle gliene
fu cagione 1’ aver egli restituito senza il voto del popolo, contro la
consuetudine, gli osti^gi presi gii da' Vedenti ; il non serbare la eguaglianza
tra i cittadini antichi e novelli, ponendo i primi in altis- simo onore, e
trascurando gli ultimi: e Gnalmente Tin- crudelire nelle pene dei delitti, e lo
insuperbire. Impe- rocché sentenziando, solo, da sé comandò che fossero
precipitati dalla rupe non pochi nè ignobili uomini, in- colpati di essere
scorsi a predare i vicini. Ma soprat- tutto,ne fu cagione, 1’ essersi ornai
renduto pesante, e dispotico f e tiranno, anzi che principe. Per questo,
narrano, che i patrizj, congiuratisi, ne decisero la mor- te, e la eseguirono
nel Senato ; e che divisone in brani il cadavere, perclté non se ne sapesse,
uscirono occul- tandone sotto le vesti ognuno la parte sua, che pdi
seppellirono, onde renderle invisibili. Altri però nar- rano che egli aringando
fosse tolto di mezzo da’ citta- dini nuovi di Roma ; e che m lanciassero ad
ucciderlo quando appunto abbuiatosi il cielo, crasi il popolo di- leguato, ed
egli rimasto senza guardia : e però dicono che un tal giorno tien nome da quel
dissiparsi di po- polo, chiamandosi tuttavia fuga della moltitudine. Sem- bra
che gli eventi ordinati da’ Numi sui concepimento e sul termine di quest’ uomo
diano non piccola occasione a coloro che fanno de’ mortali un Iddio, e che ne
spin- gono al cielo le anime più segnalate. Perocché nella .compressione della
madre di lui sia per uno Dio, sia per un nomo, affermano che il soie si
ecclissasse, e che tenebre, totali come nella notte, coprissero la terra; e che
il simile avvenisse por nella morte. ROMOLO IL FUNDATORE DI ROMA, il primo,
assunto da lei perchè la do- mioasse, cosi narrasi che finisse. E tutlodiè
nella età di cioquanlactnque anni, e già monarca da trentasette non lasciò
rampolli di sua generazione. Novello in tutto del- r impero de’ popoli, se lo
ebbe nell’ anno suo diciotte- simo come unanimi lo ripetono gli storici di
queste cose. LVII. Nell’anno seguente non si fece alcun re dei Ro- mani : ma
vigilava su la comune un magistrato detto interré, costituito in questa maniera
(1). I Patrìzj ascritti da Romolo in Senato, dugento, come dissi, di numero si
divisero io decadi. Poi traendo le sorti diedero la reggenza sovrana a que’
dieci che primi erano favoriti dalle sorti ; non già che i dieci reggessero
tutti in un tempo, ma successivamente ciascuno cinque giorni, nei quali avea
con sé li fasci, e gli altri simboli del regio comando. Il primo cedeva il
comando ai secondo, que- sti al terzo e cosi fino all’ ultimo. Decorso lo
spazio dei cinquanta giorni, fisso . pe’ dieci, primi nel comandare, succedea
la decade seconda al governo, e poi le altre via via. Finalmente piacque al
popolo di abolire questi decemvirati, essendo ornai stanco da tanto trasmutarsi
di comandanti, varj nella natura e ne’ genj. Allora dun- que i Senatori
convocando l’ adunanza del popolo per tribù e per curie renderono ad esso il
potere di discutere la forma del governo, cioè se volevano un re ; o se an- nui
magistrati. Ed il po[K>lo non decise già esso, ma fece che scegliessero i
Senatori, pronto di attemperarsi (i) Ciò fu nell’anno 713 avanti Cristo :
secondo Catone nell’ an- no 38 e secondo Varrone nel 4 ° di Roma] all’ ordìae
che approverebbei'o. Parve a tutti di fondare la regia domiuasione ; ma non
tutti concordavano tra i quali si avesse ad eleggere il futuro monarca : e chi
pen- sava che tra vecchi e chi volea che tra’ novi Senatori ossia tra gli
aggiunti di poi, à dovesse trascegliere il |>er8onaggio che regnerebbe su
Roma. LYIII. Procedendo la disputa, si convenne finalmente su questi due punti
: che i Senatori antichi scegliessero il monarca non però del ceto loro, ma
qualunque altro ue giudicassero idoneo; o che farebbono ciò li Senatori
novelli. Presero essi la scelta i Senatori più antichi, e molto consultandone
stabilirono ; di non dare, giacché essi ne erano esclusi, il principato a niuno
degli emuli, ma di creare monarca un personaggio cercato ed intro> dotto di
fuori, nè aderente ad alcuno de’ due > princi- palmente perchè semi non ci
avessero di discordie. Ciò deliberato, destinarono co’ voti loro, il figlio del
chia- rissimo nomo, Pompilio Pomone, Sabino di lignaggio, Numa di nome, e per
età prudentissimo, come non mollo lontano dall’ anno quarantesimo. Regia ne em
la dignità dell’ aspetto ; e grandissima la riputazione per la sapienza non pur
tra’ Cureti ma tra popoli intorno. Pertanto riuniti in questa sentenza aduna-
rono il popolo ; e fattosi in mezzo l’ uno di loro, in- terré di que’ giorni,
disse : che piaceva a tutti i Se- natori di fondare un regio governo : e che
egli inca- ricalo di trascegliere chi lo assumesse trasceglieva in Numa
Pompilio il monarca di Roma. Dopo ciò de- putando dei Patrizj ; gli spedi
perchè invitaswro il va- lentuomo alla Reggia. E fu questo nell’ anno terzo
della Digitized by Google gemati da Romolo per non essere stati con'esso in
guerra niuna, non godevano terre, nè utile alcuno. Questi senza case, e vaganti
per la miseria, erano di neces- siti nemid ai più ricchi, e vogliosi di
mutamenti. Fra tali agitamenti fluttuava Roma quando Numa ne prese le redini, e
su le prime ricreò la classe de* poveri, compartendo loro porzione delle
campagne possedute da ROMOLO, ed un tal poco ancora de’ terreni dei pubbln co.
Non togliendo quanto godeano, ai patrizj fondatori di ‘Roma, e concedendo ai
patrizj più recenti altri onori, ne chetò le discordie. Proporzionata come uno
stromento tutta la moltitudine all’ oggetto unico del pubblicò bene; ed
ampliato il giro della città con inchiudervi II Quiri- . naie, colle non ancora
cinto di mura, si rivolse ad al- tre istituzioni. E concependo che grande e
beata diver- rebbe la città che se ne adorna ; procurava queste due cose : la
pietà primieramente, insegnando agli uomini, che gl’ Iddi! sono i datori e li
custodi di ogni bene alla mortale natura ; e poi la giustizia, dimostrando che
per essa i beni dispensati da’ Numi arrecano delizioso godi- mento a chi li
possiede. Non reputo però che slan tutte da scrivere le leggi e le pratiche per
le quali consegui 1’ uno e l’altro intento e con tanta amplitudine; perchè temo
la pro- lissità de’ racconti, uè la vedo necessaria ad una storia pe’GrecI.
Solo ne dirò sommariamente le cose principai lissime, idonee a dimostrare la
mente di un tanto uoimo, cominciando dalle disposizioni di lui sul culto
divino. Lasciò nel pieno vigore lé consuetudini e le leggi die trovò fondate da ROMOLO, credendole benissimo
istitoite: ne supplì quante ne erano state da lui pretermesse ; e diè sacri
luoghi a’ Numi, non adorati ancora, c fece al- tari e tempj, e compartì feste
per ognnnp, e ministri per le sante cose. Finalmente ne ordinò colle leggi la
illibatezza, le espiazioni, le suppliche e tante altre ono- ri Gcenze e tanto
culto ; quanto non mai ne ebbe non- barbara gente, nè Greca, nemmeno delle più
famose un tempo per la pietà. Comandò che Romolo ancora, di- venuto più che
uomo, s’ intitolasse Quirino, e si ono- rasse con templi e con annui sacrifizj.
Perocché non sa- pendosi ancora come Romolo fosse sparito, se per di- vina
provvidenza, o se per Iraude umana ; venne in mezzo del F oro un tal Giulio, un
agricoltore della stirpe di Ascanio, uomo incolpabile di costumi, nè capace di
mentire per utile alcuno. Ora costui disse che tornan- dosi di campagna vide
Romolo che partivasi di città colle arme ; e che fattoglisi più da vicino gl’
intimava : O Giulio va, riferisci in mio nome ai Romani ; che il Genio che ni
ebbe in sorte per custodirmi quando io nacqui ; questo, ora che io compiei la
mortale car- riera, mi solleva tra Numi, e che io sorto Quirino, Noma stese in
iscritto tutte le ordinazioni su le cose divine, dividendole in otto classi,
quante erano quelle de’ sacerdoti. Diè l’ incarico primo delle funzioni
religiose ai trenta Curioni de’ quali io diceva che coinr pieano i sacrifizj
comuni delle curie : diè 1’ altro si Ste- fanofori detti da’ Greci, e Flamini
dai Romani, cosi nominati dai portare delle berrette e delle bende ( 1 ) le (i)
Nel usto PUot e stemma. 0 ptimo era una specie di berretta quali portano ancora,
e le quali Flama si chiamano : diede il terzo ai capitani dei Celeri, soldati
come addi- tai, che combàttono a piedi e a cavallo in guardia dei monarchi; e
certo que’ capitani ancora fornivano divini ordinati esercizj : diede il quarto
a quelli che interpe- trano i segni mandati dal cielo, e dichiarano se con-
ceróOno private o pubbliche cose. I Romani chiamangli Auguri dall’ indole dei
precetti dell’ arte loro, e noi OionopoU li chiameremmo, uomini scenziati in
ogni di- vinazione de’ segni del cielo, dell’ aere, e della terra. Il quinto
alle vergini, custodi del fuoco sacro, appellate Vestali fra loro dal nome
della Diva a cui servono. Noma il primo fondò il tempio di Vesta, e misevi
delle vergini che ministrassero nel culto di lei. Su che rileva che io dica
alcune poche còse le più necessarie ; diman- dandole il sobjetto ; perocché
degna ne è la ricerca, e degna pur si stima da’ romani scrittori in questo luo
30 a consola di una tomba, non 1’ esequie, non altro rito niuno legittimo.
Molti sono gl’ indiz) di mancanza nel santo ministero, e principalmente lo
spegnersi del fuoco: accidente che i Romani temono più di tutti i mali, pi-
gliandolo, e sia qualunque Torigine di esso, come pre- sagio della rovina
ultima di Roma. E molto ossequiando e placandolo; di nuovo riconducono il fuoco
nel tem- pio. Ma di ciò sarà detto a suo luogo. > LXVIIL Ben è degna che
raccontisi l’assistenza ma- nifestata delia Dea per le vergini indegnamente
accusate. Credesi questa da Romani, quantunque ioconcepibile, e molto gli
scrittori ne ragionarono. Quei che vansene a ma- niera degli Atei filosofando,
se filosofare dee dirsi mai que- sto, ripudiano tutte le assistenze de’ Numi
avvenute tra Greci e tra Barbari, e molto ne deridono i racconti, ascrivendole
a ghiattanza nmana, quasi niuno de’ celesti prenda cura delle cose de* mortali.
Ma quelli che non levano agl’ Iddi! questa cura, e li giudicano propiz) ai
buoni, e malafifetU a’malvagj, venendosene con istorie moltissime, non prendono
per impossibili tali divine manifestazioni. Narrasi dunque che smorzandosi un
tempo il fuoco per poco avvedimento di Emilia, che allora ne era la guardiana,
perocché ne avea trasmessa la cura ad una compagna novella, e di fresco
ammaestrata ; Borsene in città turbamento ben grande, e si cercò dai pontefici
se violazione ci avesse nel ministero santo del fuoco. Allora, dicono, che
Emilia, la incolpabile Emi- lia, non sapendo che farsi nell’evento stendesse io
pre- senza de’ sacerdoti e delle vergini le mani in su l’altare e dicesse: o
Vesta, o tu Dea, custode di Roma, se 2o5 io santamente, e debitamente compiei
le sacre tue cerimonie ornai da treni anni, se pura l anima mia, se immacolate
ti si presentarono le membra di questo mio corpo, deh ! tu soccorrimi, nè
volere trascurare^ che la tua sacerdotessa miserandamente si muoja. Ma se io
pur commisi alcuna cosa men pia, deh ! che nelle pene mie la pena si dissipi di
Roma. Ciò detto è fama che spiccando il lembo dalla veste di lino onde era
coperta lo gittasse in so 1’ altare : e che dopo la preghiera, essendo la
cenere già fredda, e già senza favilla ninna, brillasse di.su per quel lembo
una damma copiosa, talché più non abbisognò la città né di puri'* ficaztoni, né
di fuoco novello. Più meraviglioso ancora e più somigliante ad una favola è ciò
che io sono per dire. Narrano che un tale accusasse Tuzìa 1’ una delle vergini
ma «>n alle» gazioni non vere di congetture e di testimonj ; non polendo
affermare che fosse per lei venuto meno il ìkoco : e che la vergine comandata
rispondere dicesse che smentirebbe co’ fatti le calunnie : che ciò detto in-
vocata la Dea perché le fosse guida nelle sue vie, s’in? camminasse verso del
Tevere concedendolo i pontefici, seguita dalla moltitudine: che giunta in riva
del fiume, si ponesse a cimento impossibile, ora passato in pro- verbio : cioè,
che prendesse acqua con un vaglio vuoto e ve la recasse fino al Foro, quivi ai
piedi spargendola de* pontefici. E narrano che dopo ciò 1’ accusatore di lei,
per quante ne fossero le ricerche, né vivo più nè morto si ritrovasse. Ma
quantunque dell’ intramettersi della Dea potrei soggiungere più cose ; reputo
che ba- stino le dette finora. 2o4 delle Antichità’ romane La sesta parte delie
istituzioni religiose fa quella intorno àe Salii che chiamansi In Roma. Numa
stesso li nominò scegliendo dodici decentissimi giovani patiizj. Stansi le
sacre loro cose nel palazzo ; ed essi ne sono chiamati Palatini. Ma gli Agonali,
de’ quali serbansi le sacre cose nel poggio Collina, questi co- gnominati Salj
Collini, furono istituiti dopo Noma da Ostilio re pel voto fatto da lui nella
guerra co’ Sabini. Del resto i Salii tutti sono danzatori e lodatori dei Numi
delle arme. Tornano le loro solennità arca i tempi delle nostre Panalenee nel
mese detto di marzo : si celebrano a pubbliche spese per piò giorni, ed in
questi guidano per la città cori di saltatori al Foro, al Campidoglio, ed altri
luoghi speciali, o comuni. Va- riopinte ne brillano le toniche traversate con
cinture di rame ; ed affibbiate sono le trahee loro che chiamano, luminose di
porpora intorno. Sono le trahee in Roma pregiatissime, e proprie del luogo.
Torreggiano loro sul capo tiare (i) alte con forma di cono, apici dette fra
loro, ma cirbasie tra’ Greci. Ognuno è cinto di spada; stringe colla destra
mano un’asta o verga, o cosa con- simile ; e colla sinistra uno scudo
romboidale, stretto ne’ lati, quale è quello de’ Traci, e quale, dicesi che in
Grecia lo portino quelli che vi celebrano le 'sacre cose dei Curetl. I Salj,
per quanto io conosco, sareb- bero con greca Interpetrazione I Cureli,
denominati (i) Nel testo sono detti piUi, ma le cirbasie erano specie di tiare
secondo Esicbio la lesione dello scudo romboidale è del codice V a- ticano e
par la migliore. . 2o5 cosi tra noi dalla età giovanile (i) ; ma tra’ Romani
hanno quel nome dal moversi faticoso : perocché spio carsi e battere co’ piè la
terra tra lor si chiama salire. Per questa ragione medesima quanti altri noi
chiame- remmo dallo spiccarsi e battere con tal modo, essi gli chiamano
salitorì con voce originata dai Salj (a). Che poi dirittamente io do questi
nomi, può chi vuole, concluderlo dalle cose che fanno. Movonsi colle arme
regolatamente al suono delle tibie, ora insieme, ora a vicenda, e danzando
intuonano patrie canzoni. Ora se dee con antichi monumenti procedersi, i Gureti
furono primi che insegnarono a danzare armati tripudiando e battendo con le
spade gli scudi : nè bisogna che io ri- peta ciocché ha la fàvola su loro,
essendo noto poco meno che a mtti. Ben molti sono gli scudi che portano i Salj,
0 che i loro ministri portano sospesi in su de’bastoni: ma tra questi uno ce ne
ha che dicesi caduto dal cielo. È fama che fosse nella reggia ritrovato di Numa,
non avendovelo recato ninno, anzi neppur conoscendosene la forma nella Italia.
Argomentarono da tali due segni 1 Romani che fosse quell’ arme celeste di
origine. E volendo, Numa che lo scudo si onorasse, e recasse nei dì solenni per
la città da’ giovani cospicuissimi, e ri- scotesse annui sagrifizj ; e temendo
che i nemici in oc* (i) Quasi aiaao Ktft$ gioTaoi, ma forte ebbero cuti nome
^wi rnt cioè dalla tontora : perchè erano tosi nella parte an- teriore del
capo. (a) Si saltava anche prima de’ Salj, però la voce salùores che pre- cede
non è pptieriote al nome de’ Salj. culto lo ÌDsidiassero e rapisserio; dicono
che fabbricasse molti scudi uniformi a quello caduto dal cielo, accin- gendosi
Mamorìo artefice a questo, che f arme divina per la somiglianza egualissima con
altre umane non più potesse contrassegnarsi e riconoscersi da chiunque vi
macchinasse un inganno. Ebbe quel rito de* Cureti ac- coglienza e pregio tra’
Romani, come io lo deduco da più seghi, e principalmente dai spettacoli nel
circo e nei teatri. Ne’ quali spettacoli giovinetti già puberi, ac- conci d’
abito con cimiero, con spada, e con scudo, moTonsi come con le leggi di un
ritmo armonioso; e £u- tlioni chiamansi i duci della pompa, dalla invenzione
fattane, sembra, nella Lidia. Questi sono, a me pare, immagine de’ Salj ;
perocché non fanno appunto come i Salj cosa ninna in foggia de’ Cureti sia
negl’ inni sia ne’ salti; e prendonsi da ogni condizione; laddove i Salj
deggiono esser liberi e naturali del luogo, e ricchi di padre e di madre. Ma
perché mai rigirarmi più a lungd su queste cose? È la settima parte delle leggi
sacre indiritta a dar ordine a’Feciali che chiamano. Questi con greca
significazione giudici si direbbono della pace : scelgonsi tra le più illustri
famiglie, e restansi per tutta la vita ht santo ministero. Numa anch’egli dava
la prima volu ai Romani tal ceto venerando. Io non so definire sé egli ne
derivasse l’esempio dagli Equicoli, come alcuni pensano, o se, come Gelilo
scrive, da Ardea : bastami dir solamente che innanzi Numa non erano Feciali tra
i Romani. Numa quando era per dar guerra a’ Fidenati, perchè aveano fatto
scorsa e ruberia nel territorìu'dt lui ;
Numa gl’ ioslitul, perchè vedessero se voleano pa> ciGcarsegli senza le
arme, come vinti dalia necessità poi fecero. E poiché non ci ha nella Grecia
tribunale di Feciali; giudico necessario di adombrare quante e quali De sieno
le incombenze; perchè coloro che ignorano la pietà che i Romani coltivano, non
si meraviglino che tutte ad ottimo fine riuscissero le guerre loro : certa-
mente imprendeano queste con prìncipj e cagioni one- stissime, dond’è che
aveano propizj gl’ Iddi! ne’ pericoli. Non è già fiicile, per la moltitudine,
comprendere le cure tutte de’ Feciali. A delinearle però con tocco lieve son
tali : debbono cioè provvedere ' che i Romani non movano guerre ingiuste a
ninna città confederata ; che cominciando taluna a rompere i trattati verso
loro, vadano ambasciatori, e ne dimandino il giusto prima con parole, poi v’
intimin la guerra, se non ubbidi- scono. Similmente se mai confederati alcuni
dicendosi offesi da’ Romani chiedano de’ compensi, debbono i Feciali
riconoscere, se quelli han sofferto contro dei patti; e se par loro che
lamentinsi con diritto fan pren- dere e consegnare i colpevoli ai danneggiati.
Giudicano su gli oltraggi degli ambasciadori, e vegliano per la Osservanza
fedele dei trattati : fan le paci o le annulla- no, se fatte sieno contro le
leggi sacre : decidono ed espiano, quante sono, le violazioni fatte de’
giuramenti e delie alleanze' da’ capitani : ma di ciò dirò ne’ suoi Inoghi.
Quanto ali’ andarsen’ essi come araldi per esigere soddisfazione da città che
sembrino offenditrici, ne ho conosciuto (peste cose, non indegne ancor esse che
si risappiano, per la molta cura che involgono della giu-." sUzia e della
pietà. Uno de’ Feciali eletti a voti dagli altri, cinto degli abiti e delle
insegne sacre perchè fra tutti distingnasi, vassene alla città rea: ai primo
toc- carne i conGni, attesta Giove ed altri dumi che egli' viene perchè Roma
sia compensata : poi giurando che, dirigesi alla città colpevole, ed invocando
s’ei mentisce, maledizioni terribili contro sè stesso e contro Roma, slanciasi
olure i conGni. Quindi protestandosi ancora col primo che gli s’ imbatte,
rustico o cittadino che sia, C; ripetendo l’ esecrazioni medesime, continua di
andare iu città ; ma prima di entrarvi protestatosi nel modo ine>. desimo
col portinajo e con qual’ altro nelle porte gli capita il primo, s’inoltra sino
al Foro; ove giunto parlamenta co’ magistrati ; aggiungendo tratto .tratto giur
ramenti, ed imprecazioni. Se danno soddisfazione con- segnandogli li colpevoli,
egli menali seco e vassene, amico già, dagli amici. Che se dimandano tempo per
consultarsi, ripresentasi dopo dieci giorni, e pazienta Gno alla terza dimanda.
Decorsi trenta di se la città non siegue il dover suo, egli invocati i Numi
celesti e grinfemali se ne parte, questo solo dicendo, che Roma deciderebbe,
tra la sua calma, su loro. Poi recatosi cogli altri Feciali in Senato,
dichiaravi come tutto fu compiuto secondo le leggi sacre, quanto convenivasi :
e che se vogliono risolversi per la guerra niente vi si oppone dal canto degl’
Iddii. Senza tali pratiche nè il popolo, nè il Senato può conchiudere col voto
suo j la guerra. Questo è quanto abbiamo risaputo su’ Feciali. Nelle
ordinazioni di Numa intorno le,, cose divine v’ ebbe in ultimo la classe la .
quale ottennero quanti aveano in Roma sacerdozio ed autorità superiore. Questi
con patria voce si chiamano pontefici dal rifarsi di un ponte di legno che è
uno degl’ incarichi loro ; s son gli arbitri di cose grandissime. Imperocché
giudi- cano tutte le cause sacre de' privati, de’ magistrati e de’ ministri de’
Numi : fissano le cose religiose non scritte nè solite ; scegliendo le leggi, e
le consuetudini che stimano più acconcie : esaminano tutti i magistrati o tutti
i sacerdoti a’ quali è fidata la cura de’sagrificj e ' della venerazione de’
Numi: provvedono che i loro mi- nistri e cooperatori non violino punto le sacre
leggi : espongono ed interpetrano il culto de’ Numi e de’ Genj a’ privati che
lo ignorano; e se colgono alcuno, disub- bidiente agli ordini loro, lo
puniscono secondo i delitti: ma essi non soggiacciono nè a giudizio nè a multe,
non rendendo ragione nè al Senato nè al popolo. Non travierà poi dal vero
chiunque vuole chiamare tali sa- cerdoti o dottori, o dispensatori, o custodi,
oppure interpetri delle sante cose. Mancando ad alcuno di loro la vita gli
viene sostituito un altro, il più idoneo ripu* .tato tra’ cittadini ; nè già il
popolo sceglielo ; ma essi medesimi : 1’ eletto però piglia il sacerdozio,
quando propizj gli siano gli augurj. E tali sono, oltre alcune più piccole, le
leggi più grandi e cospicue di Numa sulla pietà, compartite secondo i rami varj
del culto, per le quali Roma ne divenne più religiosa. Moltissime poi sono le
leggi che guidano r uomo a vita frugale e temperata, e che ingenerano r amore
della giustizia' la quale custodisce in città la coacordia : altre però di queste
sono scritte, ed altre non scritte ma passate pel lungo esercizio in abitudini.
E lungo sarebbe a dire di tutte ; ma basterà dire di due più degne di
ricordanza, e cbe sono argomento delle altre. La legge su’ confini da’ poderi
fu causa che oguuno si contentasse de’ proprj ; non gli altrui deside- rasse.
Imperocché comandando a ciascuno di marcare intorno i proprj poderi, e di porvi
de’ sassi per ter- mini, dichiarò sagri que’ sassi a Giove Terminatore, e volle
che tutti periodicamente ogni anno recatisi in sul luogo vi facessero sopra
de’sagrifizj, e stabili parimente una festa in onore degli Dei termini. I
Romani chia- mano la festa Terminali, da que’ sassi o termòni, che essi con
simiglianza al nostro idioma, chiamano termini ^ mutata una lettera soia. E se
alcuno involava o traspo- neva que’ termini fu per legge sacro agl’ Iddii ;
talché potesse, chiunque volevalo, uccidere qual sacrilego im- punemente, e
senza macchia di colpa. Nè stabili tal diritto su’ poderi de’ privati solamente,
ma su quelli del pubblico eziandio, circondandoli di con&ni ; perchè gii
Dei termini tenessero distinte le terre comuni dalie in- dividuali, e quelle
de’ Romani dalle altre de’ convicini. Praticano i Romani pur ne’ miei tempi un
tal rito, al- meno per apparenza, come ricordatore de’ tempi : pe- rocché
riguardano i termini come Numi, e sagrificano ad essi focacce di fior di farina,
ed altre primizie di frutti, e non già cose animate ; essendo profanità ri-
putata insanguinarne le pietre. E bisogna che rispettino la cagione medesima
per la quale fecero d’ogni termine un Dio, contenti de’ poderi proprj, non
arrogandosi gli altrui colla forza, o coll’ inganno. Ora però con- trassegnano
i propri ma a propagare la giustizia e
la moderazione ; e con questi tenne il comune di Roma ordinato più ancora di
una famiglia. Con quello poi che ora io sono per dire egli fe’ Roma sollecita
procnratrice delle cose necessarie e delle dilettevoli. Considerando il
valentuomo che una città istituita per amar la giustizia e serbare la tempe- ranza
non dovea penuriare delle cose necessarie ; divise tutta la campagna in
porzioni chiamate pagi, assegnando per ciascuna un capo che la visitasse e
curasse. Questi recandovisi di tempo in tempo, e notandovi i buoni o tristi
cultori, ne riferivano poscia al sovrano ; ed il sovrano ricompensava i buoni
con lodi e con altre gen- tili maniere ; e svergognava i tristi o mullavali,
onde accenderli a cultura migliore. Quelli dunque che sciolti dalle core della
guerra o della città sen vivevano in ampio ozio, pagandone col vitupero o colle
multe la pena, diventavano tutti operosi in lor bene, e riputa- vano la
ricchezza della terra che è la più giusta di tutte, essere ancora più dolce
della militare, che incerta fluttua ognora. Segui da ciò che Numa fu amato dai
sudditi, emulato da' vicini, e celebrato da’ posteri. Per opera di lui nè
sedizione interna disunì la città, nè guerra esterna la distolse dalla
disciplina sua bonissima e mirabilissima. E tanto i circonvicini furono alieni
da prendere la calma inerme de’ Romani come occasione d’ invaderli; che se
prorompea guerra alcuna tra quelli, assumevano i Romani per mediatori; e
deliberavano di spegnere le inimicizie su le condizioni date da Numa. Pertanto
io non prenderei vergogna di collocare questo uomo tra’ più famosi per sorte
beata. Nato di regia stirpe ebbe regia presenza, e si esercitò nelle discipline
non già di lettere vane, ma in quelle donde apprese la pietà verso i Numi, e la
pratica di altre virtù. Giovine fu riputato degno di prendere il comando di
Roma : ed invitatovi a prenderlo per la bella fama delle sue virtù, regnò per
tutta la vita su popolo docilissimo. Complesso com' era di persona ^ nè
danneggiatone mai dalla sorte, giunse a lunghissima età. Finalmente con- sumato
dalla vecchiaja venne meno a sé stesso con morte placidissima. Quel medesimo
genio di felicità che gli era toccato da principio, quello sempre lo accom-
pagnò finch’ egli non fu tolto dall’ aspetto de’ mortali. Visse più di
ottant’anni, regnandone quaranlatrè. Di lui restarono, come i più scrivono,
quattro figli, ed una figlia, de’ quali conservasi ancora la discendenza : ma
Gellio scrive che egli non lasciò che una figlia, dalla quale nacque Anco Marzo,
terzo re di Roma dopo lui. Tutta la città si abbandonò, lui morendo al dolore ;
facendogli nobilissima sepoltura. Egli riposa nel Gianicolo di là dal Tevere. E
tali sono le (jose che ‘ abbiamo risapute su Numa. IVEancatO Numa Pompilio, i
Senatori arbitri nuo- vamente de’ pubblici affari deliberarono di conservare il
governo medesimo: nè già il popolo era di altro avviso. Adunque deputarono un
numero certo de’ Seniori i quali comandassero intanto nell’ interregno. Da
questi, approvandolo tutto il popolo, fu nominato re Tulio, Ostilio, di cui la
origine fu, come siegue. Un tale, Ostilio di nome, uomo nobile e facoltoso di
Medullia, città fondata dagli Albani, presa a condizioni da Ro- molo e venduta
colonia romana, trasportatosi, per do- miciliarvisi, a Roma, vi tolse in moglie
una sabina, la figlia appunto di quella Ersilia, la quale, ardendo la guerra
co’ Sabini, consigliò le sue nazionali di ao-
libro in. 2 i 5 darne oralrici ai padri loro su de’ mariti, e la quale
sembra la cagion principale che i due popoli si rac- chetassero. Compagno
costui di Romolo in più guerre, e segnalatovisi per opere grandi ; moti
finalmente, la- sciando un unico figlio, nel combattere co’ Sabini, e fu
sepolto dai re (i) nella parte più insigne del Foro, onorato di una iscrizione,
che la virtù ne ricordava. Cresciuto 1’ unigenito suo, e legatosi con nobile
matri- monio, ne ebbe un figliuolo; e Tulio Ostilio fu questi, uomo elBcace.
Dichiarato monarca dal voto, dato se- condo le leggi dal popolo; i Numi ne
approvarono con augurj propizi la scelta. Quando egli prese il comando, volgea
r anno secondo della olimpiade vigesima settima nella quale Euriboto ateniese
vinse nello stadio essendo arconte Leostrato (a). E nello stringere appena lo
sceu tro si affezionò la classe de’ mercenari e de’ poveri con questa
liberalissima azione. Aveansi i re predecessori eletto ampio e bel territorio,
colle rendite del quale fornivano i templi di sagrifiz), e le regie case di ab-
bondanza moltiplice. Romolo avealo tolto a’ primi pos- sessori colla legge
delle armi : e morendosi lui senza figli, aveaselo goduto Numa che gli
succedette nel re^ gno. Laonde non era allora quel podere del popolo ; ma
perpetuamente dei re. Tulio nondimeno concedè che si compartisse tra’ Romani
privi in tutto di campa- gna; dicendo essere a lui sufficienti le sostanze
paterne per le cose de’ Numi, e della regia famiglia. Sollevò (i) Romolo e
Tazio. ( 3 ) Anni di Roma 84 secondo Varrone, 8 a secondo Catone, avanti Cristo
670.] Goa questa beneGcenza li cittadini bisognosi ; tanto che non più
stentassero in servigio degli altri. E perché ninno fosse privo di alloggio
aggiunse a Roma il monte Celio chiamato. Ivi quanti non aveano magione se la
fabbricarono, pigliatovi sito che bastasse : ed egli stesso la sua residenza vi
collocò. E tali sono le operazioni urbane di quest' uomo degne di ricordanza.
II. Ma delle militari molte se ne raccontano, ed io mi accingo a parlarne,
cominciando dalla gueiTa di lui con gli Albani. Gluvilio, un Albano, allora
magi- strato supremo, fu cagione che i dne popoli consan- guinei si scindessero,
e separassero. Punto da invidia, e mal più la invidia potendo rattemperare su
la pro- sperità de’ Romani, come superbo e maligno per indole, risolvè d’
implicare i due popoli in guerra vicendevole. Non sapendo però come volgere gli
Albani a commet- tergli che portasse 1’ esercito contro Roma ; altronde non
avendone alcuna causa giusta e necessaria; macchinò' questa o simile trama.
Concitò, promessane la impunità, li più poveri e li più baldanzosi degli Albani
a far preda su’ campi romani: dond’ è che seguendo un gua- dagno senza pericolo
molti che tra ’l pericolo ancora seguito r avrebbero, empierono le terre vicine
di assalti e di latrocinj. E ciò fece con disegno non alieno, come r evento
stesso lo dimostrò. Perciocché prevedea che i Romani non sofierendo le rapine
correrebbono all’ armi, che egli potrebbe accusarli al suo popolo come primi a
romper la guerra : e prevedea che moltissimi Albanesi invidiosi delia
prosperità della colonia, riceverebbero C6n piacere le accuse, e farebbero la
guerra contro di senti se fosse da accettarsi il partito. A16ne, ascoltatine i
roti, tornò nel consesso e disse: A noi non sembra o Tulio che abbiamo a
lasciare solitaria la nostra pa- tria, deserti i templi paterni, vuote le case
degli an- tenati, e desolata infine quella sede che i nostri padri tennero
quasi per cinquecento anni; tanto più che nè guerra ce ne bandisce, nè flagello
niuno del cielo. Non però ci dispiace che formisi un Senato, e che una sia la
città che domini, sut altra ancora. Scrivasi questo se così vi pare, tra le
condizioni, e levisi ogni seme di guerra. Concordi 6n qui, difTerivano poi sa
la città che prenderebbe il comando. E molti furono i discorsi quinci e quindi
tenuti, giustificando ognuno che dorea la propria città signoreggiare su l’
altra. L’ Al- bano insisteva su questo diritto : Noi o Tulio siam da- gni di comandare
anche al resto d Italia, perchè una gente siamo di Grecia, e la più potente che
qui in» torno si alloggi. Crediamo giusto di precedere i La- tini almeno, se
non altri, nè già senza cagione; ma per la legge comune data dalla natura a
tutti gli uomi- ni, che 1 padri comandino ai figli : crediamo che ci si
convenga il Comando su la vostra città, piucchè su le altre, che pur sono
nostre colonie, delle quali non possiamo finora dolerci. Noi abbiamo inviato la
colo- nia nella vostra ; nè già da tanto tempo che siane per t antichità
svanito ogni legame di sangue ; ma indietro da tre generazioni. Quando la
natura avrà capovolte le leggi umane facendo che i giovani mag- gioreggino su
veechj, e li posteri su gli antenati; al- lora, e non prima, noi sottoporremo
la nostra città madre perchè sia governata dalla colonia. Questo è ìuno de'
titoli della nostra superiorità, nè questo mai ce- deremo spontaneamente. Il
secondo è tale. Voi lo pren- dete, detto non come per calunnia o doglianza, ma
per sola necessità. Il popolo di Alba mantienesi an- cora qual era sotto de'
fondatori : nè può alcuno ad- ditarvi altro ramo di uomini, se non Greci o
Latini, partecipi della nostra repubblica: ma voi avete con- traffatto la sì
gran purità della vostra cittadinanza in- trinsicandovi Tirreni e Sabini, ed
altri barbari molti, erranti e senza patrj lari. Tanto che poco soprawanzavi di
quell ingenuo lignaggio che da noi vi si diramava, ed è questo, come un solo,
tra i moltissimi, rice- vuti dt altronde. Se noi vi cediamo il comando; il ».
non ingenuo comanderà su l ingenuo, il barbaro al Greco, i estero al patriota.
Nè già potreste voi dire che non permettete a peregrini di amministrare il co-
mune, e che voi, naturali del luogo, voi presiedete e regnate : voi creale re
forestieri, e senatori in gran parte di altri popoli. Dite: v'inducete a ciò di
vostro volere? Ma chi mai di voler suo f chi se più sia va- leni uomo
abbandonasi cd governo dei meno riguarde- voli ? E se apparisce, che voi siete
a ciò sospinti da necessità, ben sarebbe grande tj pravità, grande la manìa
nostra se volontarj a tanto c inchinassimo. Da ultimo così dico ; in Alba niuna
parte ancora si è smossa della repubblica : corre già, da che vi si abita la
decima ottava generazione ; e V ordine ancora vi si mantiene, e le abitudini
primitive. Ma la vostra città senza buorì ordine e senza bel complesso, come
nuo- va, e sorta da più genti, assai bisogna di tempo e di vicende, perchè
inferma e scissa, com’ ella è, sì articoli e calmisi. Tutti poi concederanno
che deono le cose ordinate antistare alle disordinate, le cose note alle ignote,
e le sane alle inferme. Voi dunque chie- dendoci in contrario ; non bene
adoperate. A Fuffezio che cosi ragionava sottentrando Tul.> lo rispose, o
Fuffezio, o uomini di Alba noi li ab- biamo uguali con voi li diritti della
natura e del me- rito de* progenitori ; perocché vantiamo ambedue la origine da
capi medesimi. Quindi niuno è di noi da meno, o da più dell’altro. Noi non
istimiamo nè vero nè giusto che debbano le città madri, quasi per legge
indispensabile della natura, dominare su le colonie. E molte sono le nazioni
dove le città madri servono, non comandano alle colonie. Massimo, luminosissimo
aSi esempio del proposito mio si è Sporta, elevatasi a comandare non pur gli
altri Greci: ma fino i Do- riesi da’ quali discendeva. Sebbene e che giova dir
su gli altri? Voi stessi, voi padri della colonia che fece tlioma, voi non
siete che un tralcio de’ Laviniesi. Quindi se diritto è della natura che le
città madri regnino su le colonie, non saranno con precedenza i Laviniesi li
legislatori de’ nostri popoli ? E ciò sia detto sul primo de’ vostri titoli sì
bello nelle appa- renze. Siccome tu poscia o Fuffezio ti davi a contrapporre r
una all’ altra città, quali sono, dicendo che il puro lignaggio di Alba
rimanesi tale ancora; laddove il nostro si è degenerato col tanto
soprajfondervi de' fo- restieri, e che non sono degni i non ingenui di co-
mandare agli ingenui, nè i forestieri agl’ interni ; vedi, quanto anche in ciò
ti sei deviato. Tanto è lungi che noi vogliamo vergognarci di rendere la patria
no- stra comune a chi vuole; che anzi,, di ciò moltissimo ci gloriamo : nè già
siamo noi gli autori di tale isti- tuzione : ma ce ne diede Atene l’esempio,
Atene tra Greci famosissima per questo, almeno in parte se non in tutto. E
questa pratica è sorgente a noi di molti beni non che ci dia rimprovero e
pentimento, quasi per essa, mancassimo. Tra noi comanda e prov- vede, e tali
altri onori si gode chi di essi è degno non chi tiene il molto oro, nè chi può
la serie ad- ditare degli avi sempre nazionali : perciocché non po- niamo in
altro la nobiltà che nella virtù. ; l'altra mol- titudine non è che il corpo
della città il quale somministra potenza e forza a savissimi consiglieri. Con
tale benevolenza si è la nostra città fatta grande di piccola, e formidabile d'
ignobile tra’ popoli intorno, ed è cominciata tra noi la forma di signoria, che
tu o Fuffezio condanni, e che niuna ornai de’ latini può disputarci'; perocché
sta la potenza delle città nella forza delle armi ^ e la forza delle armi nella
moltitudine delle persone. Ma le città piccole, e spo- polate, e però deboli
non comandano le altre, anzi nemmeno sé stesse. Jo generalmente stabilisco che
uno debbe esaltare il proprio governo e riprovare quello degli altri, quando
può dimostrare che la sua città col metodo che le ascrive, diviene glande e
felice, e che le altre se ne decadono e sconciansi appunto col non seguirlo.
Ora così vanno le cose; la vostra città già nel fior della gloria, già ricca di
molti beni, si è ridotta ad uno scarso abitato ; e noi movendoci da piccioli
principi abbiamo tra non molto tempo ingran- dito Roma più d’ ogni altra città
vicina, e colle isti- tuzioni che tu ne biasimi. Le. nostre sedizioni, poiché
di queste ancora tu ne in- colpi o Fuffezio, nontendono alla depressione o
rovina, ma sibbene alla salvezza ed incremento del comune. I giovani vi
contendono co’ schiari, i nuovi con gli an- tichi cittadini chi più debba
operare il pubblico bene. E per dir tutto in breve, spettano alla città che dee
comandare le due qualità, forza nel guerreggiare, e saviezza nel risolvere; e
queste tra noi sono ambe- due. Né ce ne fa testimonianza un millantarsene vano,
ma il fatto che supera ogni dire. Imperocché non era ni. 233 possibile che la nostra città nella
terza generazione appena dopo la origine, fosse già divenuta sì grande e'
potente, se non abbondavano in lei senno e valore. Argomentano la nostra
potenza le tante città. Ialine le quali sebbene da voi fondate, pure voi
dispregiane do, si concederono a noi per essere comandate anzi da Roma che da
Alba. E questo perchè potevamo noi prosperare gii amici e por già gl’ inimici ;
ma non potfiono gli Albani altrettanto. Ben altre cose e for- tissime o
Fuff&sio potrei rispondere ai diritti che ne presentasti. Ma considerando
che vano è il disten- dersi, perciocché il dir breve vale quanto il prolisso
con voi che siete i competitori, ed i giudici; cesso tT insistere. Aggiungo
soltanto, e finisco, che io penso che tunica maniera, bonissima per togliere le
nostre controversie, della quale si valsero greci e barbari ne’ dissidj di
principato edi territorj sia questa, cioè che gli uni e gli altri veniamo a
battaglia con una parte solamente dell’esercito, vincolando la sorte della
guerra alla vita di pochissimi, e concediamo che la città che co’ suoi guenneri
vince i guerrieri delt emu- la, quella domini ancora. Ben è giusto che ove le
parole non vogliono, i brandi decidano. Tali furono le dispute di que’ due
principi su la preminenza delle città : ma il seguito delle dispute non fu se
non quello suggerito dal Romano. Imperocché quelli di Alba e di Roma presenti
al colloquio cercando ^ un sollecito fine alla guerra ; deliberarono di
risolver la lite colle armi. G)ncluso ciò, si ebbe controversia intorno ai
numero de combattenti; non sentendone ambedue li capilani in un modo.
Imperocché Tulio voleva che si de- cidesse la gara col menomo delle persone,
contrappo- nendo per combattere uno de’ più riguardevoli Àlbahi ad altro simile
de’ Romani : ed egli stesso era pronto a spendersi per la patria, invitando
TAlbano ad emularlo. Diceva che era pur bello che quelii che prendono il
comando delle schiere, prendano pur la tenzone pel comando e pel principato o
vincano de’’ valent' uomini, o vinti ne siano. E qui ricordava quanti capitani
e quanti re cimentarono la vita loro per lo comune, tenendo essi a vii cosa di
partecipare al più degli onori, ed al men della guerra. L’ Albano credea ben
detto che do- vessero le due città rischiarsi con pochi: discordava però su la
battaglia di un solo contro di un solo. Esponeva che bello, anzi pur necessario
è il combattimento da solo a solo intorno la sovranità pe’ capi degli eserciti
quando fondano la propria potenza; ma che stolido anzi vituperoso è ne’ suoi
pericoli quando ne disputano due città sia che sperimentino sorte propizia sia
che malva- gia. Adunque consigliava che tre valent’ uomini dell’una e tre
deU’allra città pugnassero in vista di tutti gli Al- bani e Romani ; essendo
questo numero, come avente principio, mezzo e fine, propriissimo alla total
decisione della controversia. Ciò stabilito per voto de’ Romani e degli Albani
il congresso fu sciolto ; e ciascuno ritornò nei proprj 'alloggiamenti. Poi
convocando i capitani ciascuno le loro mi- lizie a parlamento, riferirono la
disputa vicendevole, e le condizioni ricevute per la soluzion della guerra. Ap-
provarono vivamente gli eserciti i patti di ambedue li capitani ; e gara
meravigliosa di onore comprese centu- rioni e soldati ; desiderando moltissimi
di riportare la palma di quel combattimento, e studiandovisi non pur con parole,
ma profTerendovisi con preludj di bell' ar- dore ; tantoché si rendette
malagevole ai duci il giudi- ziosu quelli che erano i più idonei. Se alcuno vi
era nobile per luce di origine, o forte per gagliardia di corpo, o cospicuo pe’
fatti di arme, o segnalato co- munque per eventi ed ardire, insisteva che
mettessero lui primo fra i U'e. Ma tali fiamme di emulazione che più e più si
dilatavano in ambedue gli eserciti le ri- presse il capitano di Alba col
riflettere che la provvi- denza celeste antivedendo già da tanto tempo la
tenzone che sarebbe tra le due città, ne avea preordinato che quelli che vi si
cimenterebbero fossero non ignobili di lignaggio, buoni in guerra, belli a
vedere, nè simili a molti pe’ casi della nascita rara, meravigliosa, impen-
sata. Sicinio un di Alba avea nel tempo medesimo ma- ritato due figlie gemelle,
1’ una ad Orazio Romano, e r altra a Curazio (i) un Albano di popolo.
Ingravida- rono ancora ambedue queste donne in un tempo, ed ambedue diedero nel
primo parto prole virile, e trige- mina. I genitori pigliandone buon augurio
per sé, per le famiglie, e per le patrie allevarono e perfezionarono tutti que’
gemelli. Iddio, come io dicea da principio, diè loro beltade, robustezza,
magnanimità; talché non cedeauo a niuno de’ben avventurati per indole. A questi
(i) Mei testo Corazio. Sigonìo crede che vada bene e che in Tito Livio si debba
leggere Curazio, com' egli ha trovato in un mano- scritto e non Cariazio come
comnnementesi legge. deliberò FufTezio di appropiare la battaglia sa la pre-
minenza de’ popoli. Quindi invitando vid un colloquio il re di Roma gli disse:
XIV. Un Dio, sembrcuni o Tulio che provvedendo le nostre città, dia loro segni
manifesti di benevo- lenza in p ià cose; come su la tenzone imminente. Cer- to
ben dee parere in tutto opera divina e meravigliosa che si rinvengano per
combatterci uomini non inferiori a niuno di prosapia, buoni nelle armi, belli a
ve- dere j originati da un padre, nati da una madre sola, e venuti', ciò che è
pià singolare, in ungiamo stesso alla luce ; e tali sono gli Orazj fra voi,
tali fra noi li Curazj. Che dunque non abbracciamo una tale provvidenza divina,
e non assumiamo ambedue per questa gara di sovranità que trigemini ?
Bisplendono tn essi ancora le doti sublimi, quante altre mai ne brameremmo in
chi fosse per uscire al paragone delle armi; ed essi pià che tutti gli Albani e
Romani han pure il bene che essendo fratelli non abbandoneranno, pericolano, i
compagni nella impresa. Cesserà su- bitamente rimpetto a loro la emulazione
difficile a calmarsi per altra maniera in altri giovani, de' quali tnolti tra
voi penso che di virtà competerebbero, come Ji'a gli Albani competono. Noi
persuaderemo questi di leggeri, se additeremo loro come la bontà Divina ba
prevenuto le sollecitudini umane, dandoci con. egualità chi decida con le armi
le contese della pa- tria. Nè già crederanno di essere superati dalla virtit
dè' fratelli trigemini; ma da certa prosperità di na- tura ed opportunità di
fortezza eguale in essi per competere. Cosi disse Fuffezio, e comune ne fa I’
appro- vazione, quantunque presenti vi fossero i più bravi di Alba e di Roma.
Soprappensò Tulio un poco, e se- guì : Ben sembra o Fuffezio che abbi tu
saviamente concepito. Imperocché meravigliosa è la sorte che ha dato in questa
generazione ad ambedue le città prole tanto simile; quanta altra volta mai non
vi s’incontrò. Mi sembra però che non abbi tu considerato che as- sai
rattristeremo i giovani se chiediamo che fra loro dontendano. Imperocché la
madre degli Orazj nostri è sorella della madre de' vostri Curazj : e questi
cre- sciuti giovanetti nel seno di tali due donne si carez- zano ed amansi come
fratelli. Bada che non sia forse, indegna cosa dare le armi e sospingere gli
uni alla morte degli altri, questi, congiunti per fratellanza e per educazione.
Il sangue se vi si astringono, il san- gue di cui si lordano ritornerà su noi
che ve li astrin- giamo. Replicò F ufTezio ; iVbn ignoro o Tulio, il pa-
rentado de’ giovani ; nè io già, se li ricusano, sono per violentare i cugini
alla battaglia. Ma non sì tosto mi venne in pensiero di mandare dal canto mio
li Curazj di Alba io gli investigai se porrebbonsi vo- lentieri al cimento. E
ricevendo essi il dir mio con enfasi incredibile e meravigliosa, io fui deliberato
allora di svelare e proporre quel mio sentimento. Sug- geriscoti che anche tu
facci altrettanto chiamando quei tuoi trigemini, ed esplorandone i cuori. Che
se vor- ranno anch’ essi esponersi per la patria, tu ne ac- cetta la
benevolenza : ma se ricusano, tu per niun modo non isforzarvegli. Io di loro
presagiscoti cioc- c/l’ è degli altri miei. Se come abbiamo ascoltato ( giac~
chè venuta è fino a noi la fama della loro virtà ) sa~ migliano i pochi
bennati, e se bellicosi ancor sono per indole ; abbracceranno prontissimi, e
senza che niuno ve li necessiti, di combattere per la patria. XVI. Accolse
Tulio il suggerimento : e conchiusa una tregua di dieci giorni per consultarsi,
e tentare 1’ animo degli Orazj, e risponderne ; si ricondusse a Roma. Deli-
beratosi ne’ primi sei giorni co’ migliori, e vedutili per lo più propensi agl’
inviti di Fufiezio; chiamò li fratelli trigemini, e disse : Fu/fezio o uomini
Orazj, abboc- catosi meco nell' ultimo congresso nel campo, mi annunziò, che
crasi fatto per la provvidenza degli Iddii, che si cimenterebbero per V una e
per V altra città tre bravi, de quali invano ne cercheremmo altri più.
valorosi, o più idonei, cioè li Curazj per Alba, e voi pe'Jìomani. Ciò
conoscendo, mi disse, che aveva egli primo investigato, se que vostri cugini si
espor- rebbero volontari per la patria : e trovatili che ar- dentissimi
correrebbono ad ogn impresa, inanimatone mi propose V evento, invitandomi
perchè io vedessi di voi parimente, se voleste offerirvi per la patria, e
rispondere in campo ai Curazj, o se lasciaste ad altri tanta emulazione. Ben io
mi argomentava che voi per lo valore dell’ animo, e per la possanza delle mani,
doti in voi non occulte, spontanei più che tutti, vi rischiereste per trionfare
: ma temendo che la con- sanguinità vostra co’ tre gemelli di Alba non fosse un
impedimento al vostro ardore, chiesi tempo a ri- solvermene, e feci tregua con
lui di dieci giorni. Restituitomi in Roma adunai li senatori, e proposi l’qf-
fare sicché ne discutessero. Parve al più, di loro che se voi spontanei vi
mettereste alla impresa, bella e degna di voi, impresa che io già voleva, solo
io per tutti combatterla ; allora ve n esaltassi e v ac-^ cettasi. Ma se voi,
restii contro al sangue de vostri, e non già confessandovi pusillanimi,
dimandereste al- tri fuori della vostra famiglia ; allora, parve loro, che io
non dovessi farvene la menoma violenza. Così pronunziava il Senato : nè già ne
avrà egli ramma- rico se voi riguarderete la impresa come grave: ma non picciola
è la gratitudine che dovravvene, se voi pre- gierete la patria più de’ parenti.
Or su ponderate col bene vostro, ciocché siate per farvi. Udendo i giovani
questo ; si ritirarono, e con- ferirono brevemente. Tornatisi quindi a
rispondere cosi disse il maggiore fra loro : Se noi fossimo liberi; se fossimo
gli arbitri unici delle nostre risoluzioni; e tu ci avessi o Tulio incaricato
di consultarci su la pu- gna contro i nostri cugini: già ti avremmo risposto
de' nostri voleri. Ma perocché vive il nostro genitore senza cui niente vorremo
dire nè fare ; preghiamoti che ci concedi alcuna requie a risponderti, finché
ce ne intendiamo con esso. Encomiando Tulio la pietà loro, e volendo che cosi
appunto facessero ; partirono in verso dei padre. Dichiaratogli l' invito di F
uffezio, il colloquio di Tulio con essi, e la risposta vendutagli ; alfine
insisterono perchè dicesse ciocch'egli ne sentisse. E colui sottenlrando disse
: Pietosamente o figli ado- peraste riserbandovi al padre, nè risolvendovi
senza a4o lui. Ma ò tempo ornai che voi pure vi manifestiate idonei a tali
consigli : concepite già venuto il fine dei miei giorni; palesatemi ciocché
scegliereste di fare, deliberandovi tra voi sema del padre : Allora cosi
rispose il maggiore: Noi o padre assumeremmo a noi di combattere per la
preminenza di Roma, e ci por- remmo alle vicende che a Dio si piacessero;
bramosi anzi di morire che di vivere indegni di te e degli oìv- tenatì. Il
ligame del sangue co’ nostri cugini non lo avremo noi sciolto i primi; ma come sciolto
già dalla sorte, placidi lo mireremo : perocché se i Corcai; sti- mano la
parentela men che il benfare ; nemmeno agli Orca] parrà quella più. onorevole
della virtiu Come il padre conobbe i loro sentimenti, divenutone lietissi- mo,
e sollevando le mani al cielo, parve che rendesse copiose grazie agl’Iddii,
perchè gli avessero dato figli onesti e generosi. Quindi prendendoli uno per
uno, e dando loro soavissimi amplessi e baci di amore, voi vi avete, disse,
magnanimi figli, anche il mio voto. An- • date j rispondete a Tulio i pietosi e
belli sentimenti. Allora giojosi quelli per le ammonizioni paterne si di-
visero, e corsi al monarca accettarono la battaglia. E colui convocato il
Senato, e mollo encomiativi i gio- vani spedisce messaggeri alPAIbano per
dichiarargli che i Romani sieguono,il suo volere, e pongono gli Oraz) per
combattere sul principato. Ora dimandando il subbletlo che rappresentisi
diligentemente la forma della battaglia, nè scorrasi di volo su’ casi che la
seguirono, simili a quelli di una tragedia, tenterò di pareggiare, quanto io
posso, coi detti ogni cosa. Venuto il tempo di compiere le con- disioni,
uscirono tutte in campo le milizie romane, e dopo le milizie, fatte prima
suppliche ai Numi, usci- rono i giovani. Essi ne andavano compagni del re,
mentre il popolo per tutta la città gli acclamava, e spargeva loro de’ fiori
sui capo. Erano già uscite an- ch’esse le schiere albane. Collocatesi le une in
vicinanza delle altre destinarono per teatro dell’ azione il campo che separa i
confini di Alba e di Roma ove già s’ al- loggiavano entrambi gli eserciti.
Quivi sagrificando giu- rarono anzi tutto Romani ed Albani su le vittime che
ardevano di essere contenti della sorte la quale per r una e per l’altra città
risulterebbe dal combattere dei cugini, e di osservare santamente i patti senza
mescervi inganno, essi nè i posteri. Compiuti tali sacri riti in verso de’ Numi
si avanzarono in arme dal proprio campo, spettatori gli uni e gli altri della
battaglia ; la- sciando, tre stadj o quattro di spazio intermedio pei
combattitori. Prescntaronsi indi a non molto il capitano di Alba ed il re di
Roma conducendo quello i Curazj, e questo gli Orazj, armati splendidissimameute,
e con apparato quale il prendono, uomini destinati alla morte. Giunti gli uni
vicino agli altri consegnarono le loro spade agli scudieri ; e corsero e si
abbracciarono, pian- gendo vicendevolmente, e chiamandosi co’ più teneri nomi;
talché datbi tutti intorno alagrimare, accusavano la grande inumanità loro, e
de’ capitani, perché po- tendo definire la lite con altri, l’ aveano ridotta al
sangue de’ parenti ed ai contaminarsene delle famiglie. Staccatisi CDalmente i
giovani dagli amplessi, ripigliale dagli scudieri le spade, e già ritiratisi
quanti s’ aveano intorno, si contrapposero secondo la statura, e si av-
ventarono. . XIX. Stavansi Gn qui le milizie placide e senza cla- mori : ma poi
da ambedue proruppero grida frequenti, esortazioni scambievoli per chi avea da
combattere e voti e rammarichi, e continui suoni di voce, varj se- condo r
ondeggiare vario della mischia, quali per le cose fatte e vedute dall’ una e
dall’ altra parte, e quali per le cose future o pronosticale : ma più dalle
imma- ginazioni ne derivavano che dai successi ; perocché la visione fatta in
tanta distanza non era ben chiara ; e passionandosi tutù pe’loro combattenti,
prendeano come avvenuto quanto ideavano. E gli assalti incessanù, le ritirate
degli emuli, e li passaggi rapidi, e li rivolgi- menù (i) degli uni in su i
luoghi degli altri levavano ai riguardanù la forza del distinguere. Durò tal
vicenda gran tempo; perocché gli uni e gli altri aveano pari le forze del corpo,
pari la generosità degli animi, e bo- nlssime le armi che li circondavano; nè
rimaneano loro membra alcune indifese ; tanto che feritivi, subito ne
morissero. In tale stato molti Romani e molti Albani in mezzo all’ansia di
vincere e nel commovei'si pe’loro atleti, s’ inGammavano, elGgiandosi appunto
con gli affetti di quelli, quasi volessero anzi star nel conflitto, che
rimirarlo. AlGne il maggiore degli Albani serratosi col Romano che stavagli a
fronte, e dando e ricevendo (1) Cioè il voiiat della taccia, molalo luogo.
colpi su’ colpi ; immerse non so come la spada nel> r anguinaja dell’ emulo.
Questi ingrevilo già da altre ferite ai riceverne l’ ultima e mortale, cadde,
rilascian* dosi nelle membra, e spirò. Alzarono a tal vista gli spettatori
tutti le grida ; gli Albani come già vineitori, e li Romani quasi già vinti ;
concependo i due loro fàcilissimi da essere conquisi dai tre degli Albani.
Frat' tanto il Romano che era per soccorrere il caduto com> pagno y vedendo
quanto l’Albano rabbellivasi ai fausto evento, si spiccò come un lampo su lui,
e menando e riportando ferite in copia, alfine gli cacciò la spada nella gola e
lo uccise. Ricambiatisi in poco d’ ora i successi de’ combattenu, e le
affezioni degli spettatori, elevandosi i Romani dal primo abbassamento, e per^
dendo gli Albani la esultazione ; un’ altra volta ancora la sorte spirò
contraria ai Romani, e ne umiliò le spe concio ; por zoppicandone, ed
appoggiandosi via via su lo scudo, reggeva ancora, e si ritirava presso del
fra- tello rimastogli, che starasi alle prese col Romano. Re- stava a questo F
uno de' contrarj a fronte, venendogli r altro da tergo. Allora temendo che
avendola a fare con due che da due lati lo investivano, sarcbbenc facilmente
rlnthiuso : e trovandosi invulnei^to ancona ; pensò di separare i nemici e
combatterne . 1’ uno dopo r altro. Concepì che avrebbeli facilmente disgiunti
se facesse vista di fuggire; non potendo ambedue segui* tarlo, giacché vedeane
l’ uno infermo del piede. Cosi deliberato fuggi con quanto avea di velocità, nè
gli vennero meno le speranze. L’ albano che non avea piaga mortale, tennegli
immantinente appresso; ma l’ invalido a camminare si rimase più addietro che
non dovea. Qui gli Albani confortavano i suoi : riprendevano i Romani il
proprio guerriero : anzi cantavano quelli e si magui- fìcavano, come sul
termine glorioso della impresa ; ma s addoloravano gli altri come non più
potesse la for- tuna rasserenarsi verso di loro. Quando ecco il Roma- no,
coltone il punto, si rivoltò rapidissimo ; e prima che r Albano potesse
guardarsene, gli diè colla spada in un braccio, e spiccoglielo nel gomito.
Fattagli . ca- dere la mano e colla mano la spada gli sopraggiunse un colpo, e
con questo la morte. Quindi si lanciò su r ultimo albano e lui già derelitto,
già semivivo scannò. Poi spogliati i cadaveri de’ cugini, corse in città ;
volendo esso il primo dare al padre la nuova della vittoria. Portavano però i
destini che essendo mortale anch’ egli non avesse prospera ogni cosa ; ma
sentisse i morsi ancora della invidiosa fortuna. Lo avea questa iu pochi
momenti venduto grande di picciolo, e sollevato a chiarezza inaspettata e
mirabile, e questa appunto nel medesimo giorno lo gittò dentro amara sciagura,
spin- gendolo ad uccidere la sorella. Come egli fu vicino alle porte di Roma,
videvi moltitudine immensa che fuori se, ne versava, e vide accorsa con essa
ancor la sorella.^ Tnrbato ài primo vederla perchè essa, donzella ornai nubile,
ave^ lasciato la custodia materna, e si fosse esposta in mezzo di turba
incognita ; ne formava pen- sieri funesti: ma si rivolse alfine ad altri più
miti e be« nevoli, quasi ella cedendo al muliebre genio avesse ne*, gletto il
decoro per desiderio dì salutare primieramente il fratello salvo, e d’
intenderne i fatti virtuosi degli' e- stinti. Colei però s’era ardila di
mettersi alla insòlita via non' per desiderio del fratello ma vinta dall’ amore
di uno de’cugini, col quale aveale il padre fuo concordate le. nozze. Celavano
colei l’ ineffabile afletto ; ma poiché seppe da un tal dell’ esercito gli
eventi della giornata ; non più lo contenne : ma lasciati i domestici lari
corse come furiosa alle porle di Roma, nemmeno volgendosi alla nutrice che la
seguiva, e la richiamava. Uscita dalla città come vide il fratello festevole
colle ghiriande trion- fali dntegli dalle regie mani, e gli amici che portavano
le spoglie degli estinti, e tra le spoglie ancora 1’ am- manto vario, che essa
avea colla madre tessuto e màh- dato in pegno delle nozze allo sposo, giacché
usano gli sposi futuri tra’Latini abbigliarsi di ammanto vario; come vide il
caro suo dono macchiato di sangue ; si lacerò le vesti, si battè con ambe le
mani il petto; ululò, richiamò l’ amato cugino ; tanto che grande stupore ne
invase quanti in quel luogo si stavano. £ pianto il destino dello sposo folgorò
col fisso sguardo sul fratello, e gridò: Tu esulti o sozzissimo uomo su la
occisione decagoni, e tu, scellerato, tu privasti con ciò dello sposo la mi-
sera sorella tua. Nè pietà senti de’ trafitti parenti che pure chiamavi
fratelli tuoi; ma f innebrj di gioja quasi per buonissima impresa y e vai fra
tanti mali coronato. E qual cuore è mai il tuo ? forse di una fera ? ■■ anzi,
colui replicò, di un cittadino che ama la patria ; di uno che punisce chi le
vuol male, siasi egli un estraneo o siasi un domestico. E tra questi colloco te
pure, te' che vedendo i beni grandissimi, e i grandissimi mali in un tempo
awemUici, la vit- toria della patria che io qui ti presento, e la morte de tuoi
fratelli ; già non esulti o malvada pe’ beni comuni della 'patria, nè ti
addolori pe’ domestici in- fortuni > spregiati i fratelli, non sospiri che
lo sposo ; e profani te stessa non fra le tenebre ; ma nel pubblico aspetto di
tutti. A me la mia virtù, rimproveri, a me le mie corone ! O non vergine, non
‘sorella, e non degna degli avi! Poiché dun- que non piangi i fratelli ma lo
sposo ; poiché tieni il corpo co’ vivi, ma V anima colf estinto ; va, ten corri
a lui che richiami, nè più. disonorare il geni- ' tare, e i fratelli. Cosi
dicendo, più non serbò misura nell’ odio della scellerata ; ma le immerse con
quanto area d* ira la spada ne’Ganchi; ed uccisala andossene al padre. I
costumi e gli animi de’ Romani erano allora cosi pieni dell’odio del male, e
cosi fermi in questo; che se alcuno li voglia paragonare co’ nostri, dirà che
erano aspri e duri, nè diversi molto da quei delle fiere. Il padre udita la
spaventevole uccisione non -solo non se ne corrucciò ; ma la tenne come debita
e decorosa ; perciocché nè permise che fosse portata nella sua casa ; nè
procurò che la seppellissero nelle tombe degli avi ; nè clic fosse con esequie e fregi, c
conianque coTunebri riti onorata. Ma coloro che passavano dove giacevasi uc>
mettono che uccidasi alcuno impunemente, e riferendo gli esempi dati dagl’iddi!
su le, città che non vendicano gli scellerati. Faceva il padre le difese del
giovine, ed incolpava la Gglia ; pretestando eh’ ella non ebbe morte, ma
castigo : che niuno era nella domestica sciagura giu- dice più acconcio di lui
come genitore di ambedue. Mol- tiplicandosi da arabe le parti i discorsi, assai
fu per- plesso il monarca come avesse a terminare il giudizio. Eigli per non
portare la colpa, e la maledizione nella magione sua da quella dell’ autore di
esse credea bene che non si assolvesse chi dichiaravasi reo del sangue della
sorella, sparso prima di ogni condanna, e per ca- gioni per le quali vietano le
leggi che uccidasi : non ammettea però che si avesse ad immolare come un
omi> cida chi avea scelto di cimentarsi per la patria e tanta signoria le
avea procacciato, mentre nou tenealo per colpevole il padre stesso a cui la
natura e la legge danntT ' i primi diritti di risentimento per la figlia.
Incerto come decidersi, tenne da ultimo per lo meglio rimetterne al popolo la
sentenza. Il popolo Romano divenuto allora la prima volta giudice di un omicida
si attenne alle de-^ siinazioni del padre, ed assolvette il suo liberatore
dalla morte. Pure non istimava il re che' bastasse a chi volea mantenere la
pietà verso i Numi tal giudizio venduto dagli uomini: ma chiamati i pontefici
commise loro .che placassero i Geni! e gl’ Iddi!, e mondassero il giovine colle
espiazioni le quali purificano da morti involontarie. . a 49 E quelli eressero
due altari, l’uno a Giunone, Dea difenditrice delle sorelle, e 1’ altro ad uno
Dio, chia- mato (i) Genio da’ nazionali, col nome appunto de’cu- gini Curazj
uccisi dal giovane. E facendo su questi de’ sagrifìzj, ed usando nondimeno
altre espiazioni, da ul- timo passarono 1’ Orazio sotto il giogo. Costumano i
Ro- mani, quando diventano gli arbitri di nemici che ab- bassano le armi, di
piantare due aste diritte, acconcian- done una terza supina su di esse ; e poi
di passarvi sotto li prigionieri, e dimetterli alfine liberi verso le patrie
loro. E questo è ciò che chiamasi giogo. Coloro che lustra- rono J1 giovane si
valsero di tal ultimo rito nel puri- ficarlo. I Romani tutti stimano sacro il
luogo della città dove fu praticata la cerimonia. Rimane questo nell’ an- gusta
via che mena giù dalle Carene coloro che ven- gono all’angusta via Cipria. Ivi
sorgono altari allora edi- ficati, e su gli altari stendesi 1’ asta supina
confitta ai due muri contrapposti: pende questa sul capo di quelli che ne
escono, e chiamasi nel parlar de’ Romani asta o legno della sorella. Questo
luogo onorato con annui sagrifizj ricorda in Roma ancora la sciagura del
giovane: ma ricorda il valor suo tra la battaglia la colonna an- golare che è
principio del portico secondo nel Foro dalla quale pendevano già le spoglie
de’trigemini Albani. Le armi vennero meno per gli anni ; ma la colonna ser-
bane ancora la denominazione chiamandosi pilastro Ora- zio. Che anzi evvi in
Roma una legge nata da tal fatto, (i) Genio Curazia: fu così detto perchè
destinato a placare le ombre de' Coratj . Ed Orazio meritava appunto di essere
espiato dal sangue della sorella e de’ cugini.
ed osservatavi pur nel mio tempo, a riverenza e gloria de’ giovani
immortali, la quale ordina che nascendo dei tiigemini si dispensino per essi a
pubbliche spese i vi* veri Gno alla pubertà. Tal Gne ebbe la serie delle cose
degli Oraz] iniessuta d’ inaspettate e meravigliose vi- cende. Indugiatosi il
re de’ Romani per un anno onde apparecchiare quanto era d’uopo alla guerra;
inGne de- liberò di avanzar coll’ esercito contro Fidene. Preodea le cagioni di
guerra da questo, che invitau i ciuadioi di essa a giustiGcarsi circa le
insidie ordite su gli Al- bani e Romani non aveano ubbidito, anzi dando in un
subito alle armi e chiudendo le porte e congregando le schiere ausiliarie de’
Yejenti, erai^si manifestamente ri- bellati. Aggiungevasi, che andati gli
oratori per inten* dervi le ragioni della rivolta, i Fidenati non altro ri-
sposero, se non che non aveano essi cosa alcuna co- mune co’ Romani Gn dalla
morte di Romolo al quale si erano, giurando, congiunti di amicizia. Su tali ca-
gioni armò le sye milizie, e fe’ richiedere le conJede- rate, delle quali Mezio
F uffezio recava da Alba le più numerose in apparato bellissimo ; tantoché
superava ogni altra forza amica. Tulio commendò Mezio, come detet^ minato a
prendere seco lui la guerra ardentissimamente, in ogni miglior modo ; e Io
rendè consapevole di tutti i disegni. Ma quest’ uomo incolpato già da’ suoi
come rio capitano di guerra, anzi calunniato di tradimento ; questo dopo che si
era tenuto per tre anni sotto 1’ au- torità suprema di Tulio, alGne sdegnando
un princi- pato schiavo dell’ altrui principato, e di essere diretto . s5l
pimtosto che dirigere; macchinò cosa non degna. Im- perocché mandati messaggeri
segreti a’ nemici de’ Ro- mani, irresoluti anewa per la ribellione, gl’
infiammò ^, che non piò dubitassero ; promettendo che in mezzo della battaglia
investirebbe egli stesso i Romani. E tali cose macchinando e facendo ; potè
rimanersene occulto. Tulio apparecchiate le milizie sue e quelle de’ com-i
pagni le portò su’ nemici, e valicato il fiume Aniene si pose non lungi da
Fidene : ma scoprendo innanzi di questa io ordinanza un gran numero di Fidenati
e loro compagni si tenne in calma tutto quel giorno: nel se- guente convocando
1’ albano F nlfezio, ed altri de’ piò intimi amici ponderò con essi com’era da
praticare la guerra ; e poiché parve loro che fosse da combattere spe>
ditamente, senza indugiarvisi ; egli preaccennando i po- sti e r ordine che
ognuno prenderebbe, e destinando per la zuffa il prossimo giorno, congedò l’
adunanza. Quindi FufFezio che ancora tenevasi occulto con molti degli amici sul
tradimento che meditava, fatti a sé ve- nire i più cmpicui tra’ suoi centurioni
e tribuni disse: Tribuni, centurioni, io sono per comuni- carvi grandi,
inaspettate cose, che vi tacqui finora. Vi raccomando se non volete
distruggermi che voi pure le taciate : anzi che miei cooperatori vi siate, se
utili a compiersi vi parranno. Il tempo angusto non consente che io
distesamente vi parli di ogni cosa; e ristringomi alle primarie. Io per tutto V
intervallo che fummo subordinati a' Romani fino a questo giorno ; io m’ ebbi
una vita piena di vergogna e di ramma- rico j eppure fui onorato dal monoica
loro della ma- aSa gisàratitra 'suprema,
oggimaì da tre anni, è lo sarò' nemmeno per sempre se il voglio. Ma perciocché
mi parca t estremo de* vituperj che io' solo mi fossi felice' nella sciagura
comune ; e vedeva intanto io bene che eravamo stati spogliati della sovranità
contro tutti i diritti sacri dell’ uomo ; cosi mi diedi a considerare come
potessimo ricuperarla, ma senza rischiarvi gran fatto. E discorrendola io meco
moltissimo ti-ovai una via sola facile nè pericolosa che guiderebbe all’ in-
tento, cioè che sorgesse loro una guerra da confinanti. Imperocché prevedeva io
che i Romani avrebbono a chiamare le truppe ausiliarie, e le nostre massima-
mente, e prevedeva dopo ciò che non avrei gran bi- sogno di persuadervi che
più. bello, e più giusto è combattere per la nostra libertà, che per
istahilire' r impero de’ Romani. Spinto da tali pensieri produssi a’ Romani la
guerra de’ sudditi loro Fidenati e Ve- jenti risolvendoli alle arme con esibire
che io pren- derei parte con essi. Fin qui si rimase occulta a’ Ro- mani la
pratica ; ed io provvidi intanto per me la occasione di assalirli. Ora
considerate quanto sia questo opportuno. Primieramente, grande in una ri-
bellione manifesta, sarebbe il pericolo o di avventu- rare ogni cosa mentre
siamo sprovveduti per la fret- ta, e contiamo unicamente su ciò che potrebbero
le nostre forze ; o di essere sorpresi da essi già pronti mentre ci
apparecchiamo e ci procuriamo dagli altri un ajuto. Noi però così non
manifestandoci non cor-- reremo nè V uno nè V altro disastro,• e ne avremo
raccolto almen questo bene. Secondariamente noi non. . a53ci daremo a
percuotere la grande, la bellicosissima potenza e fortuna degli emuli con le
violente manie- re, ma si bene colle artijiziose e scaltre, con le quali si
prendono finalmente le cose trascendenti, e meno facili a battersi colla forza
; nè già saremo a far questo i primi, o li soli. Inoltre siccome le nostre
milizie mal potrebbero schierarsi in campo a fronte di quelle de’ Romani e
degli alleati ; così abbiamo congiunto a noi le forze sì grandi, come vedete,
dei Veìenti e de Fidenati. Anzi si è da me provveduto che le ardite schiere di
questi ne diano con effetto il soccorso che ne ho cercato. Imperocché già non
sarà J.a pugna nelle nostre campagne; ma battendosi i Fidenati per le proprie,
difenderanno in esse an~ coro le nostre. E quello che riesce dolcissimo agli
uomini, quello che di raro occorse ne’ tempi andati ; questo ancora per voi si
combina : noi giovati dai nostri alleati sembreremo di avere ad essi giovato, E
se r affare si termina a piacer nostro, come par ve- risimile; i Fejenti e li
Fidenati che avranno liberato noi da un durissimo giogo, essi noi
ringrazieranno quasi col favor nostro ottengano un pari benefizio. .Questi sono
i successi che da me con gran diligenza procurati mi sembrano bastare ad
ispirarvi confiden- za, e viva prontezza ad insorgere. Ora udite in qual modo
io voglia por mano alla impresa. Tulio mi ha destinato appiè del monte ; perchè
io vi governi luna delle ale. Ma quando sa- remo per attaccarci co’ nemici ; io
non attendendo allora tale destinazione ; mi ritirerò poco a poco sul monte.
Voi seguitemi allora ordincUamente. Giunto alle cime ed in salvo, udite come io
continuerò. Quando vedrò le cose che qui dico riuscirmi come io le disegno ;
quando vedrò infiammati di corono i nemici perchè noi cooperiamo con essi,
umiliati e spaventati come traditi i Romani ; e come è verisi- mile, già più.
intenti a pensare la fuga che le difese; allora io starò su loro : ed io
coprirò de’ loro cada- veri il campo ; perocché scendendo dcdC altura destra a
basso, mi gitterò su di essi sbigottiti e dispersi con esercito pieno di beW
ardore e di ordine. 'Rile- vantissima è nelle guerre la fama sparsa di un tra-
dimento anche falso degli alleati, o del giung.'re di altri nemici ; e sappiamo
che grandi eserciti furono totalmente da tali vane apprensioni rovinati, più
che da altri spaventosissimi casi. Il nostro adoperare però già non sarà fama
vana, nè arcano spauri- mento ; ma cosa più che tutte terribile a vedersi e
provarsi. Ma ( dicansi pur le cose consuete a pre- sentarsi contro la
espettazione, giacché la vita ne involge molte, nè verisimili ) se gli eventi
riusciranno contro i disegni ; anch’ io farò cose ben altre da quelle che in
mente io ravvolgevami. Allora io piom- berò co’ Romani su nemici ; co’ Romani
raccoglierò la vittoria, simulando di aver prese le alture per cingere gt
inimici. Ben avran fede i miei detti con- cordandosi le opere colle finzioni :
tanto che noi non comunicheremo cogP infortuni di niuno, e solo par- teciperemo
lo belle vicende dell’ uno o delC altro. Io tali cose ho deliberato : e tali
cose eseguirò col favorB degV Iddii come bonissime non solo per gli AU boni ma
per tutti i Latini. Bisogna che voi guardiaie prima che tutto il silenzio :
poi, che serbiate il buon ordine, che vi prestiate immantinente ai comandi, che
guerrieri vi siate pieni di bell’ ardore, e che tali rendiate pur quelli che vi
ubbidiscono ; considerando che il combattere nostro per la libertà non somiglia
al combattervi degli altri, consueti ad essere coman- dati, e lasciati da loro
padri in tale condizione. Noi liberi siamo naU dai liberi : anzi i nostri avi
ci han tramandato il comando su vicini ; serbarono questa forma per cinquecento
anni ; nè di questa si trove*- ranno per noi spogliati li posteri. Nè tema chi
vuole far questo, quasi rompa i trattati, e violi i giura- menti fatti sopra di
essi: pensi piuttosto che egli i diritti ripristina rotti e violati da' Romani
: nè già i tenui diritti ma quelli che la natura ci ha dato degli uomini,
quelli che la legge ha fondato comune ai Greci ed ai Barbari, vuol dire che i
padri coman- dino j i padri dian leggi ai figli, e le città madri alle colonie.
Questi sacri diritti che mai saranno cancellati dalla natura degli uomini,
questi noi vo- lendo che siano perpetuati, nè frangiamo alleanza fàuna, nè genj
nè Dii ci si potran corrucciate quasi non sante cose facciamo, se mal pià
comportiamo servire cì nostri discendenti. Cnloro però che li hanno conculcato
i primi, e che con opera indegna han ten- tato di far prevalere la umana alla
le^e divina ; coloro, corn è giusto, e non già noi, s' avranno a fronte V ira
de’ Numi, c su di essi non su noi soi't
gerà la vendetta degli uomini. Pertanto se queste vi sembrano le cose
migliori / eseguiamole, e chiamia^ movi protettori gl’ Iddii. Ma se alcuno
sente in con- trario e sente o t una o t altra delle due cose ; vuol dire o che
più, non debba ricuperarsi t antica dignità della patria ; o che debbasi
aspettare un tempo pià acconcio del presente ^ e differire; costui' non esiti,
a dire i suoi pareri; e quello sarà fatto che a tuui sembri il migliore. Alfìae
lodato nel dir suo dagli astanti, e pro- mettendosi questi a far tutto ; esso
ne obbligò ciascuno col giuramento, e dimise radunanza. Nel prossimo giorno
all’ uscire appunto del sole, uscirono da’ proprj allog- giamenti le milizie
de’ Fidenati e degli alleati, e si schie- rarono per la battaglia: vennero
nemmeno di fronte i Romani, e si ordinarono. Tulio stesso e i Romani si
opponeano coll’ala sinistra ai Vejenti i quali formavano la destra nel corpo
loro. Nell’ ala destra dei Romani si stava Mezio Fuffezio e gli Albani presso
del monte in- contra de’ Fidenati. Rendutisi ornai vicino gli uni degli altri,
gli Albani prima di essere a tiro si staccarono dal resto dell’ esercito,
ascendendo ordinatamentè sul monte: I Fidenati ciò vedendo e cerziorandosi
della realtà del tradimento promesso dagli Albani si portarono più bal- danzosi
contro de’ Romani. L’ala destra de’ Romani, es- sendosene tolti gli alleati,
erane ornai rotta e molto in pericolo. Combattea però bravissimamente 1’ ala
sinistra e Tulio con essa in mezzo di scelti cavalieri. Quan- d’ ecco un
cavaliere affrettandosi verso quelli i quali pugnavano presso del monarca, o
Tulio, disse, la nastra ala destra è sul perdersi : gli jilbani, abban-
donatala, ascendono il monte, ed i Fidenali che li teneano schierati dinanzi,
ora preponderando a fronte ilelt ala tanto indebolita j già la circondano. I
Ro- mani ciò ndcmlu, e vedendo T accelerarsi degli Albani in sul monte;
temerono di essere avviluppali da' nemici, taulu che non aveano cuore nè di
combattere, nè di restare in quel luogo. Or qui, dicesi, che Tulio niente
commosso all* aspetto di un male si grave e tanto ina- spettato facesse uso
dell’ avvedutezza : e che salvasse con questa 1* esercito ornai nel pericolo
manifesto di essere circondato; c disfacesse e terminasse tutto il bene degli
inimici. ltn[>erocchè non si tosto il messaggero ebbe det- to; egli a gran
voce sicché i nemici, la udissero, o Bo- mani, esclamò, li nemici son vinti.
Gli Albani sul mio comando hanno occupato come vedete il monte prossimo a noi
per piombare alle spalle de' nimici. Mirale ! gli abbiamo pin e al nostro buon
punto gli impiegabili awersaij. Noi siamo loro dirimpetto, e gli Albani alle
spalle : pià non possono aveutzare, ISO retiocedei e. Dall' uno de' lati
rinserrali il fiume, dall’ altro il monte : ci daran pure le pene meritate.
Andate : avventatevi intrepidamente su loro. Cosi esclamando ne andava tra le
milizie. E ben presto i Fidenati furono presi dalla paura che quel tra>
dimenio, si rivolgesse fìnalmente su loro per frodolenza del capo degli Albani
: perchè nè lo vedeano schierarsi contro i Romani, nè fulminarsi contro di essi
come avea già promesso. Altronde avea quel parlare iniiammati di VIOSIGI,
P>m» l. ir ardire e riempiuti di confidenza i Romani. Adunque scop« piando
in un grido e ristrettisi lanciarousi all’ inimico. Piegarono allora, e
fuggirono i Fidenati in disordine alla loro città. Il re de’ Romani rilasciando
la cavalleria su questi atterriti e turbati li perseguitò qualche tempo; ma
vedutili poi sbandati, senza animo di raccogliersi e senza forza, permise che
fuggissero ; e si rivolse con- tro r altra parte de’ nemici ancora ordinata.
Ivi era bat- taglia viva tra’fanti; e più viva ancora tra’ cavalieri. Im-
perocché li Yejenti quivi schierati non che sbigottirsi e dar volta,
resistevano all’ impeto de’ cavalli romani. Alfine vedendo che l’ ala loro
sinistra era battuta, e che- l’esercito de’Fidenati e degli alleati fuggiva
tutto precipitosa- mente, anch’cssi per timore di non essere colti in mezzo da’
nemici che tornavano da inseguire gli altri, diedero volta, e si scomposero e
tentarono di salvarsi a traverso del fiume. I più robusti, e men carichi di
ferite, nè impotenti a nuotare passarono senza le armi il fiume e scamparono:
ma quanti non aveano l’uno o l’altro di que’ requisiti, affondavano tra’
vortici ; essendo il Te- vere presso Fidene rapido e tortuoso. Tulio intanto
impose a parte de’ cavalieri di uccidere i nemici che . accorrevano al fiume,
ed egli conducendo il resto del- r esercito assali gli accampamenti de’ Vejenti
e gl’ in- vase. E tali sono le operazioni che diedero, a’ Romani salute
inaspettata. Quando il re d’Alba vide manifestamente vit- toriose le milizie di
Tulio ; egli per dare a vedere che faceala da alleato, calando dal monte le sue,
le menò contro de’Fideuuti che fuggivano ; e molli in tale stalo. ... a!xg ne
uccise. Tulio vedendo il suo fare, ed esecrando la nuova sua tradigione,
dissimulò di presente, finché lo avesse nelle mani : ansi diè vista di lodare
tra* molli come l>onissima l’ andata di lui su pel monte : e spc- una banda
di cavalieri lo richiese che desse ultimi contrassegni di zelo, incaricandolo,
che cercasse con diligenza, e trucidasse que’ Fidenati che non po- tendo
ripararsi tra le mura, vagavano dispersi intorno • in tanto numero per la
campagna. Colui quasi avesse, già conseguila Tana delle due cose che sperava, e
quasi, fosse accetto veramente a T ullo, ne fu dilettato ; e ca- valcando gran
tempo per que’ campi fe’ strazio, de’ prò-, fughi i quali sopraggiungeva. E già
tramontato il sole, condusse i suoi squadroni da tale persecuzione al campo
Romano, c vi festeggiò con gli altri la notte. Tulio di-, inoratosi nell’
accam|)amento de’ Vejenti fino alla prima vigilia vi esplorava da’ prigionieri
più riguarderoli quali fossero mai stati li capi della rivolta. Come poi seppe
che ci avea tra congiurati anche 1’ Albano Mezio Fuf- fezio, gli parve che i
fatti di lui concordassero colle in- dicazioni de’ prigionieri. Adunque montato
in sella si ri-, condusse cavalcando in città fra lo stuolo dc’suoi più fidi. E
prima della mezza notte convocando dalle case loro i Senatori ; disse del
tradimento degli Albani, dandone |)er teàlimonj li prigionieri ; e narrò gli
artcGzj co’ quali egli avea deluso i nemici e li Fideuali. E poiché la guerra
avea fine bonissimo ; invitò loro a discutere come si avessero a punire i
traditori, perchè Alba si rendesse |>iù savia per 1’ avvciiire. Parve a
tulli giusto anzi ne- cessario che si ['Unissero quanti si erano messi ad
ojteia tanto «cellerata. Si ondeggiò però molto intorno la ma-' oiera facile e
sicura della esecuzione. Sembrava loro im> possibile che tanti cospicui
Albani si potessero involare con morte tenebrosa e nascosta. Che se tentassero
arre- starli e punirli palesemente, torneasi che quel popolo, piuttosto che ciò
non curare, volasse alle armi. Non voleano poi combattere in nn tempo co’
Fidenati/ coi Tirreni, e con gli Albani loro consocj.- Ora non espe- dendosi
essi ; diè Tulio in6ne uu suo parere cui tutti en- comiarono. Io ne dirò dopo
un poco. Siccome non era Fidene distante da Roma se non cinque miglia ; ' cosi
egli eccitando con tutto r ardore il cavallo si restituì negli alloggiamenti :
e pri- ma che il giorno brillasse’ laminoso, chiamando Marco Orazio il
superstite de’ trigemini, e dandogli li fanti e li cavalieri piò scelti, ordinò
che marciasse con questi ad Alba, che vi s’ introducesse in sembianza di amico
; che, quando ne avesse in sua balia gli abitatori rovinasse da’ fondamenti la
città, non risparmiando edifizio alcuno privato o pubblico, se non i tempj: non
vi uccidesse però nè vi oltraggiasse uomo ninno, ma consentisse che ognuno
s’avesse le sue cose. Spedito questo egli aduna tribuni e centurioni, palesa ad
essi il decreto del senato, e forma di loro la guardia del corpo suo. Si
presentò dopo non molto 1’ Albano in gaudio per la vittoria co* mune, e per
congratularsene con Tulio t e Tulio ser- bando tuttavia li segreti suoi, Io
encomiava, confessa- valo degno di gran doni, ed invitavalo a scrivere i nomi
de’ valentuomini che si erano più distinti nel combat- tere e portarglieli
perchè tutti partecipassero ai beni della villoria. Inondatone costui dal
jnacere diè su di una tavoletu in iscritto i nomi de’ suoi più fedeli, de’
quali si era valuto ne’ disegni reconditi. Allora il re di Roma invita a
radunarsi lutti, senza le arme, e radunatisi ; fece che il duce degli Albani,
come li centurioni e tri- buni si collocassero presso di lui, e che gli altri
Al- bani ordinatamente si compartissero ; ponendo dopo lo- ro il resto degli
alleati e dietro tuui infine circolai-- mente i Romani, tra’ quali ce ne avea
de’ magnanimi, co’ brandi sotto degli abiti Quando poi gli sembrò di avere a
suo bell’ agio i nemici ; sorgendo cosi ragionò : Romani, amici, compagni di
arme, fi- nalmente abbiamo col favore degl' Iddìi portala la vendetta su Fidene
e su quanti partigiani di lei, fu- rono arditi investirci con guerra manifesta.
Seguirà da questo t una delle due, vale a dire che quanti ci molestavano si
cheteranno ; o ne daranno pene tanto più spaventose. Ora venule già le prime
nostre im- prese a buon termine, é tempo iche puniamo quei guerrieri che
avendosi il nome di amici nostri, ed assunti a questa guerra da noi perchè
facessero con- tro (i nemici comuni, abbandonarono la loro fedeltà verso noi,
si strinsero con patti segreti a nemici, e macchinarono la universale nostra
rovina. Ben sono essi peggiori de' nemici manifesti, e perciò degni di pena più
grande. Imperocché facile cosa è deludere le insidiose lor trame, e ribattere
si possono se ci assaliscono come nemici : ma né riesce di leggeri cautelai si
da amici che la fan da nemici, né si pos- sono risospingere se ci prevengano.
Ora tali sono i guerrieri che Alba ci manda\>n : ingannevoli alleali !
eppure non danneggiati, ma beneficati grandemente, e in tante cose da noi. Noi,
ramo già della lor gente, non toglievamo punto della lor signoria, ma 'la
nostra forza, la nostra potenza fondavamo qol domare i nostri nemici.
Premunendo di mura la no- stra patria contro genti amplissime e bellicosissime
abbiamo prodotto ad essi un alta sicurezza in fra le guerre de’ Tirreni e de’
Sabini : tantoché serbandosi la nostra città prosperamente, dovean essi
rallegrar- sene principalmente ; e decadendo questa non dovean meno
rattristarsene che per la propria città. Essi però si ostinarono ad invidiare
non solamente il nostro ben • esseio, ma il proprio ancora nel nostro : e da
ultimo non potendosi più Iodio nascondere, ci hanno premeditato la guerra. Ma
perciocché vedeano noi benissimo acconci a ripeivoterli, non essendo essi
valevoli contro di noi, c invitarono a trattati ed ami- cizia, e richiesero che
la lite sul principato si deci- desse con la tenzone di tre combattenti.
Acoetlammo t invito e vincemmo ; e ci fu la loro città sottomessa. Or, dite :
che abbiamo noi fatto dopo questo ? Po- tendo noi ricevere gli ostaggi da Alba,
polendo met- tervi guarnigiotìe, e qual’ uccidervi, qual cacciarne de’
principali a por dissidio tra t uno e t altro po- polo; potendo cambiarvi in
favor nostro la forma del governo, smembrarne il territorio, prescrivervi de’
tri- buti, e torlo infine le arme ciocché era facilissimo, ed avrebbe tanto più
noi convalidato ; polendo noi tutte queste cose ; non abbiamo pur voluto
farvene in. 263 nemmeno una, mossi anzi dalla pietà versò loro, che dalla
sicurezza del nostro principato. E preferendo cioccK era il decoio all’ utile
abbiamo conceduto che si godesse ogni suo bene. Permettevamo che Mezio
Fujfezio, che essi avevano elevato à primi gradi come il più degno, vi
amministrasse ancora la repubblica. Ed essi ( ascoltate qual .contraccambio ce
ne rende- rono quando più bisognavamo dell’ amicizia, e delle armi loro ) ! si
convennero in segreto col nemico co- mune di assalirci insieme tra la battàglia
; e quando t inimico e noi eravamo già già sul combattere ; essi lasciando il
posto della ordinanza, corsero a’ monti vicini onde preoccuparne le alture più
forti. E se la cosa andava loro a seconda, niente avrebbe impedito che noi
tutti perissimo 'circondati dagli amici e dai nemici ; e che tulli i
combattimenti da noi sostenuti per la signoria della nostra città, tutti in un
giorno, ■svanissero. Ma poiché tal disegno riuscì vano primie- ramente per
disposizione benefica degV Iddìi da quali ripeto quanto io fo mai di buono e di
bello, e poi per t avvedimento mio che non poco valse a scorag- gir t inimico
ed accendere i nostri, essendo stato mio stratagemma il dire che gli Albani ^
ordine' mio preoccupavano il monte per cingere t inimico ; poiché t affare si
terminò coll utile nostro ; noi non sarenp- mo, quali essere ci conviene, se
non punissimo i traditori ; quelli io dico i quali, doveano se non per altro,
almeno pe' ligami di parentado serbare gli ac- cordi ed i giuramenti, fattici
di recente, e li quali non temendo gl Jddii che fecero testimonj de’ loro
trattati, non riverendo la giustizia stessa, non la ri- provazione degli
uomini, non calcolando la grandezza del pericolo se il tradimento sconciavasi,
tentarono in miseranda maniera di perdere noi progenie, noi be- nefattori loro,
essi nostri fondatori, e congiurali con gt implacabili nostri nemici. Dicendo
lui queste cose prorompeano gli Albani in gemiti, e preghiere d’ogni modo.
ÀHermavail popolo non aver lui saputo niente dei disegni di Me- zio :
simulavano' i capitani non aver conosciuta la mao chinazione, se non che nel
darsi della battaglia, quando più non era in poter loro d’ impedire, o non fare
i comandi. Riferivano altri il lor fatto alla insuperabile necessità di
congiunzione e di parentado ; quando il re, fatto silenzio disse: niente,.
Albani, niente ignoro, di quanto allegate per iscusannivi. E penso che il più
di voi noi sapesse quel tradimento, perchè dove molti sono i consapevoli, non
si tacciono, neppur brevissi- mo tempo le cose : penso che de’ tribuni e de’
centu- rioni la parte minore fosse la complice ; ma che la più grande non era
che aggirata, e ridotta a passi non volontari . Che se niente di ciò fosse vero
; se voi tutti Albani, quanti qui siete, e quanti si rima- sero in Alba, vi
aveste in cuore di danneggiarci, nè già da ora, ma da tempo antichissimo ; pur
s avrebbe il liomano nella sua parentela una ben forte cagione a pazientarne le
ingiurie. Perchè però non più vi aduniate a consulte ingiuriose contro noi, non
più violentati, non più sedotti vi troviate da’ capi della vostra città ; ito
abbiamo pure sebbene unico, questo rimedio : vale a dire che divenendo tutti
cittadini di una città riguardiamo - questa sola per patria, e par- tecipiamo
ciascuno ai beni e mali di tei, coma essa ne incorre. Finché saranno come ora
discordi i pa- reri, finché disputeremo su la preminenza; non sor- gerà mai
stabile pace fra noi ; principalmente se gli uni i primi siano per insidiare
gli altri con vista di dominare vincendo, o di essere come parenti impuniti se
perdono. Imperocché quelli die sono assalili ten- teranno riscuotersi coll
estremo de' mali, nè fuggi- ranno modo alcuno onde nuocere gli tdtri quali ne-
mici, come ora addivenne. Pertanto sappiate: avendo io nella scorsa notte
adunalo il SeruUo, i Romani per bocca sua emanavano, ed io firmava il decreto
che la vostra città fosse disfalla, nè si permettesse che vi restasse in piedi
edifizio niuno privato nè pubblico alf infuori de' templi : che quelli che vi
abi- tano ritenendo ogni bene, non ispogUali di schiavi, non di bestiami, non
di oro pongano da ora innanzi la sede in Roma: che gli Albani poi, che non
hanno campo alcuno se lo abbiano, purché non sia de' po- deri sacri co’ quali
si procacciano i sagrifizj : che io provveda i luoghi della città dove le
abitazioni si fondino degli emigrati, e supplisca a chiunque di voi più ne
ahbisogna, i mezzi onde tompierle : che tutta la vostra moltitudine prenda la
forma del nostro po- .polo ; comportasi in, curie e tribù; abbia parte nel
Senato e nelle magistrature più insigni, e si ascrivano alle famiglie patrizie
le famiglie de'Giulj, de' Servi Ij, de Geranj, de Metelj, de’ Corazj, de’
Quintìlj (i), e de’ Cluvilj ; che finalmente Alezio e quanti delibe- rarono con
esso il tradimento, se ne abbiano le pe- ne, e noi le stabiliremo queste,
giudici sedendo di ogni causa ; mentre a ninno dee negarsi giustizia e difesa.
XXXI. Intanto che Tulio cosi diceva i poveri tra gli Albani gradendo di essere
fatti abitatori di Roma, e di parteciparne le campagne, lo acclamavano a gran
voce. All’ opposito i più cospicui per grado o più agiati per sorte si
affliggeano che avessero ad abbandonare la pro- pria città, e le case paterne,
e vivere per 1’ avvenire in terra altrui; nè più sapean che dire in tanto
orribile necessità. Poiché Tulio ebbe investigato i pareri della moltitudine,
impose a Mezio, che allegasse, volendo, le sue giustiBcazioni r e costui non
sapendo che repli- care alle accuse ed alle testimonianze t disse che il Se-
nato di Alba avealo segretamente incaricato di far ciò quando usci per
guerreggiare; e pregava gli Albani ai quali avea tentato di racquistare il
comando, che lo soccorressero, nè guardassero con indifferenza la patria che
rovinava, e tanti cittadini degnissimi che erano strascinati al supplizio. E
già nasceane tumulto nella moltitudine, e volavano alcuni ad afferrare le armi
; quando i Romani che circondavano l’adunanza sguaina- rouo, datone il segno,
le spade : ed essendone tutti aiierriti ; sorse Tulio un'altra volta e disse:
Albani, non qui vi è dato d' insorgere, nè di trawiarvi: giac‘ (i) Lrsino, e
Patino de Famil. Romanor. leggono Quinzf.
’ ^6'J cJtè tulli, se ariìiste commovervi, sareste trucidali da questi :
( E cosi dicendo additava le spade de’ suoi ). Prendete ciocché vi si dona,
diventale fin da oggi Romani. È per voi necessità, domicitiaivi in Roma, o non
avere più patria sulla terra. Marco Orazio andò sulC ordine mio fin dalC aurora
per abbattere la vostra città dai fondamenti, e condurne in Roma gli abitanti.
Ora sapendo che ornai questo è fatto, non vogliate correre alla morte;
ubbidite. Metio Fuffezio, quesf occulto nostro insidiatore, che nemmen ora te-
me d’ invitare alle armi i turbolenti e li sediziosi'; questo ne darà le pene,
degne del perfido cuore e scellerato. Sbigottì ciò udeudo la parie irritata
degli adunali, come vinta da insuperabile necessità. Fremea Fufiezio per l’
opposi to, e vociferava, ma solo, e re- clamava r alleanza, egli che era
accusato di averla tra- dita, nè perdea la baldanza, anche in mezzo de’ mali ;
quando i littoii per comando di Tulio afferrandolo gli squarciano in dosso le
vesti e lo caricano di battiture. Poi quando parve che ornai quel supplizio
bastasse ^ avvicinando due carri, legarono con lunghe redini le braccia di lui
nell’ uno di questi, e li piedi nell’ altro. Allora spingendo gli aurighi
quinci e quindi i due carri ; egli strascinato e tirato in parti contrarie, fu
subitamente ridotto in brani. Tale fu il termine mise- rando e vergognoso di
Mezio. Infine io stesso re mise un tribunale per gli amici e complici di lui
nel tradi- mendo ; punendoli, come li scopriva rei, colla morte >, a norma
delle leggi su’ disertori e su’ traditori. Intanto che si laccano tali cose,
Marco Orazio spedilo innanzi con scelta milizia a distruggere Alba compiè’ ben
tosto la marcia, e se ne impadroni ; tro- vandovi le porte non chiuse, nè
difese le mura. Poi convocando la moltitudine le palesò quanto era acca- duto
nella battaglia, e quanto il Senato di Roma ne decretava. Contrariavano quelli,
e dimandavano tempo almeno per ispedire degli ambasciadori. Ma costui senza
indugio spianò case, muri ; e tutti in somma i privati e pubblici ediGzj ;
scortandone con assai diligenza a Ro- ma gli abitatori, che menavano e
portavano ogni loro bene con sé. Tulio ritornato dal campo gli comparti ira le
curie e tribù romane, li coadjuvò per fabbricare ne’ luoghi, che sceglievano in
Roma, le case : dispensò porzione sufGciente de’ terreni del pubblico fra i
loro meroenarj, e sen cattivò con altre amorevolezze la mol- titudine. Ma la
città di Alba già fondata da Ascanio nato da Enea figlio di Anchise, e da
Creusa figlia di Priamo, quella che per quattrocento ottanlasette anni dalla
sua fondazione era tanto cresciuta di popolo, di ricchezze, di ogni ben essere,
quella che aveva pro- pagato trenta colonie in trenta città del Lazio e che era
sempre stata la capitale della nazione, quella alfine vit- tima ^i) dell’
ultima delle sue colonie giace squallida an- cora e desolata. Prese requie
nell’ inverno il re Tulio ; ma nel sorgere della primavera cavò nuovamente l’
eser- cito contro Fidene. Non era venuto a’ Fidenati, nè lo pretendeano,
pubblico soccorso ninno dalle città confe- derate : solamente da più luoghi
erano venuti de’ mer- (i) Anni di Roma 88 secoodo Catone; 90 secondo Varane, e
G 6 f aTanli Cristo] cenar} ; e contando su questi osarono un’ altra volta
esporsi in campo. Schierativisi, uccisero molti de’ nemi- ci; ma poi furono
rispinti di nuovo tra le mura. Come però Tulio cingendo la città di argini e
fosse la ridusse alle ultime angustie ; vinti dalla necessità, si renderono a
discrezione. Divenuto costui padrone della città vi uccise nemmeno gli autori
della ribellione. Lasciò gli altri a sé stessi ; concedendo ebe godessero i lor
beni : e restituendo ad essi la forma che aveano di reggenza, congedò 1’
armata. Restituitosi a Roma onorò gl’ Iddii con la pompa trionfale e co’
sagrilìzj promessi, e fu questa la seconda volta che trionfò. Si eccitò dopo
questa a’ Romani la guerra de’ Sabini ; e tale ne fu la cagione. Onorasi da’
Latini e Sabini in comune il tempio, sacrosanto più che ogni altro, della Dea
nominata Feronia, che taluni con greca interpetrazione chiamano la portatrice
de’ fiori ^ 0 r amica dei serti, o Proserpina. Essendosene an- nunziate le
feste, erano dalle eittà d’ intorno venuti molti per supplicare, e sagrificare
alla Dea, e molti, mercadanti, artefici, agricoltori per guadagnare nel
concorso ; ivi tenendosi fiera famosissima più che in altri luoghi d’ Italia.
Recavansi per avventura a questa luogo alquanti non ignobili tra’ Romani,
quando alcuni Sabini concertatisi, li circondarono e derubarono. E 1 quantunque
si spedissero de’ messaggeri, non voleano su questo i Sabini rendere la
giustizia : ma riteneansi 1 danari e le persone degli arrestali ; imperocché
dole- vansi anch’ essi de’ Romani che avessero dato ricetto ai fuggitivi de’
Sabini, costituendo il sacro asilo, come si dicliiarò nel primo libro.
InSammanciosi da tali queri> monie alla guerra uscirono con moltissime
schiere in campo aperto. Fecesi ordinata battaglia, e pari splen- deavi il
coraggio de’ combattenti ; tanto che separatine dalla notte lasciarono la
vittoria indecisa. Ke’ giórni ap- ]>res$o considerando ambedue la mohitudiue
degli estinti c de' feriti, ricusarono ogni altro cimento ; ed abban- donando
gli accampamenti, si ritirarono. Ma tenutisi iu cylma per quell’ anno uscirousi
di nuovo a fronte con. forze più formidabili. Si appiccò la zuffa presso di
Erelo lontana centoquaranta sladj da Roma, c molti vi soccombeano da ambe le
parli. E pendendo questa zuffa ancora lungo tempo sospesa, Tulio elevò le mani
al cielo, votandosi che se vinceva in quel giorno i Sabini istituirebbe delle
feste a Saturno ed a Rea con pubblica s])esa. Celebrano ogni anno i Romani tali
feste dopo che barino riportato tutti i frutti della terra. Egli facea voto
insieme che raddoppierebbe il numero de’ Salj. Derivano questi da nobile
prosapia,, e ne’ debiti tempi si cingono di arme, e saltano accordando al suono
delle tibie i salti, e cantando patrie canzoni, come ho spiegalo nel bbro
primo. A quel volo si mise tanto ar* dorè ne’ Romani che questi pressando, come
freschi soldati, gli stanchi, ne ruppero le schiere in sul man- care del giorno,
e ridussero gli stessi capitani a dar principio alla fuga. E seguendo essi li
fuggitivi ai pro- pri irincieramcnli, ne raggiunsero la maggior parte vi- cino
alle fosse. Tuttavia nemmeno dopo ciò retrocede- rono : ma rimanendosi ivi
nella notte imminente, e respingendo i uciuici che pugnavano da entro il vallo,
. 271 invasero alRne gli accampamenti. Trasportaronsi dopo ciò quanta preda
voleano dalle campagne sabine : e sic- come niuno più presenlavasi a
combatterli, si ricon> dussero in casa. Fece il re per questa battaglia il
terzo trionfo. Quindi per le molle ambascerie de’ nemici de- pose le armi,
avendone da essi li suoi disertori, e li soldati suoi caduti prigionieri ne’
pascoli; ed esigendone la multa decretata contro loro dal Senato di Roma il
quale avea calcolato in argento r danni ricevuti da’ ne- mici negli armenti,
nelle bestie da giogo, e nelle altre cose tolte ai coltivatori dei cttmpi di
lei. Fransi cosi scioiii dalla guerra i Sabini : e scrittine su colonnette i
trattali, gli aveauo collocati nei tempj. Ma suscitatasi per le cagioni che tra
poco dire- mo, la guerra di Roma con le città latine, congiurate fra loro,
guerra che non parea da essere ultimata nè con prestezza nè con facilità ; li
Sabini afferrarono di Lenissima voglia tale occasione, e dimenticarono quasi
non fatti, i giuramenti e i trattati. E reputando esser questo il buon punto da
rivendicare anche il multiplo del danaro sborsato a’ Romani ; uscirono su le
prime, in pochi, ed occulti a predarne le campagne vicine. E succedendo in
principio il disegno secondo il desiderio, perchè non accorreva milizia ninna
in difesa de’ colti- vatori ; si adunarono in gran numero e palesemente : e
spregiato l’ inimico macchinarono di recarsi fino su Ro- ma. Adunque
congregarono le soldatesche da ogni loro città, brigando di congiungersi
co’Laiini. Ma non venne lor fallo di ottenere nè amicizia uè lega ninna con
quella gente. Imperocché Tulio veduti i loro peusieri, fe tregua colle città
latine, e deliberò di volgere le* annate contro di essi. Egli aveva in arme il
doppio di allora, quando mosse alla presa di Alba, ed aveà rac* colto il più
che potea di sussidj dagli alleati. Già 1’ esorcito de’ Sabini crasi
concentrato. Quindi avvicinatisi- entrambi alla selva della dei malfaUori (i)
si accam-t parono a picciola distanza fra loro. Nei giorno appresso
investendosi, combatterono, ma con dubbia sorte gran tempo ; finché violentati
al far della sera i Saliini dalla ’ cavalleria romana piegarono ; e molta ne fu
nella ' fuga ' la uccisione; spogliarono i vincitori i cadaveri de’ iie->
mici ; invasero quanto ci avea di danaro negli alloggia- menti ; e conducendosi
dalle campagne il fiore delie prede, tornaronsi a casa. Tal fine ebbe pe'
Romani la guerra Sabina nel regno di Tulio. Erano le città Latine divenute
allora per la prima volta discordi da Roma, perchè essendo distnitta Alba,
ricusavano fidare il comando di sé stesse ai Ro- mani che ne erano i
distruttori. Tulio, volgendo l’anno quindicesimo dalla caduta di Alba avea
spedito amba- seladori alle città filiali, o suddite di questa le quali eran
trenta, per chiedere che ubbidissero ai Romani, pa- droni di ogni cosa degli
Albani, e con ciò dell’ imperio ancora - su’ Latini. DIcea che due sono i
titoli pe’ quali gli uomini diventano gli arbitri di altrui : la libera de-
dizione e la necessaria : e che i Romani se gli aveano ' tutti due per dominare
le città già ligie degli Albani : [tercliè i primi avevano vinto i secondi
dichiaratisi loro (1) Livio la chiama tj-lva malUiom.. 2*; 3 nemici, e fra le
arme, ed aveano poscia accomunato Roma ad essi che aveano perduto la patria.
Ora da ciò seguitava che gli Albani o vinti o volontarj cedeano ai Romani
l’imperio de’sndditi loro. Non risposero le città Latine una per una agli
oratori : ma congregatesi pei deputati a Ferentino decisero co’ voti loro d^
non sotto- mettersi a’ Romani ; e crearono immantinente due capi- tani arbitri
della guerra e della pace, 1’ uno Anco Pu- blicio della città di Cori, e 1’
altro Spurio Vecilio di Lavinia. Si fece per queste cagioni guerra tra* Romani
e tra’ popoli di una gente medesima : continuò cinque anni ma quasi civilmente
secondo 1’ antica temperanza. Imperocché venendo le intere milizie degli uni a
batta- glia ordinata con le intere milizie degli altri, mai non si fece gran
danno, nè piena occisione ; nè mai ninna loro città vinta in guerra, soggiacque
alla distruzione, alla schiavitù, o ad altre insanabili disavventure. Ma
gettandoti gli uni ne’ territori degli altri ne’ tempi della raccolta
pascolavano e predavano e ritiravansi in casa, e cambiavansi lì prigionieri.
Tulio solamente cinse di as- sedio Medullia città latina, divenuta come fu
detto nel libro antecedente fin da’ tempi di Romolo colonia dei Romani, ed ora
congiuratasi co’ suoi nazionali, e con ciò la ridusse a non più tentare
innovamenti. Non oo- corse a ninna delle due parti alcun altro de’ mali con-
sueti nella guerra perché le guerre de’ Romani di quei giorni eran subite, e
per la subitezza non iochiudevano tanto rancore. Cosi adoperava nel suo
principato Tulio Osiiiio, r uuo de’ pochi uomini degni di lode per l’ar>
dire felice tra le arme, e per la saviezza ne’ pericoli ; c più che per tali
due cause, per ciò che egli non era precipitoso a far gueire, ma postovi si,
non mirava che a silperare in tutto i nemici. Dopo uu regno di trenta due anni
mori per l’ incendio della sua casa, e con lui pur morirono nel fuoco medesimo
la moglie, i figli, i domestici. Vi è chi dice che la casa di lui fu messa in
fiamme dai fulmine ; essendoglisi irritato il Nume per alcuna sua non curanza
di sante cose, perchè si erano sotto lui tralasciati dei sagrifizj della patria,
introdu- cendovisi in parte gli altrui. Ma i più raccontano che fu quel
disastro per insidia degli uomini ; ascrivendolo a Marzio, re, successore di
lui : perocché Marzio sde* guavasi, dicono, che egli nato di regio lignaggio
dalia figlia di Numa Pompilio vivesse tra’ privati : e vedendo già grande la
prole di Tulio, altamente ne sospettas’a, che' se costui periva, passasse il
regno a’ figli di lui. Fra tali concetti insidiava da gran tempo la regia vita.
£d essendogli molti Romani, fautori per dargli lo scet- tro, e Tulio essendogli
amico, ed era creduto fidissi- mo; spiava la occasione di sorprenderlo. Era
Tulio per fare in sua casa un sagrilizio al quale non volea pre- senti che i
suoi più congiunti; ma divenuto per avven- tura quei giorno ferale per tenebre,
per pioggia, per nembi, le guardie aveano lasciato deserti gii atrj della
reggia. Parendo questo il buon punto s’introdusse Mar- zio e i compagni co’
brandi sotto degli abiti : uccisero il monarca, i figli e quanti vi erano : vi
appiccarono il fuoco in più bande e poi divulgarono la novella del fuoco. Ma io
non ricevo la novella, perocché, nè vera la credo, nè verìsimile : e piuttosto
m’ appìglio 'alla prima opinione, e penso che quest’ uomo per ira degli Iddìi
corresse tal sorte. Imperocché non è facile che la congiura, operandola molti,
si resusse occulta : nè il capo di essa era sicuro che egli sarebbe proclamato
monarca da’ Romani dopo la morte di Tulio Ostilio: e quando fosse tutto stato
sicuro per lui dal canto degli «omini, non potessi confidare che
somiglierebbero i divini agli umani pensieri. Bisognava dopo il voto delle
tribù che propizj gli augurj comprovassero il regno per lui. Qual genio o qual
Nume avrebbe mai sopportato ebe un uomo cosi lordo di delitti e di sangue si
acco> stasse agli altari suoi per compiervi de’sagrifizj, o altre pie
cerimonie ? Per tali cagioni io riferisco quell’ evento agl’ Iddìi, non alle
trame degli uomini. Tuttavia ne giudichi ognuno come più vuole. Dopo la morte
di Tulio Ostilio fu creato secondo i patrj costumi l’ interré dal Senato ; e l’
in- terré dichiarò sovrano della città Marzio, che Anco denominavasi. E Marzio,
dopo confermati i decreti del Senato dal popolo, dopo renduti agli Iddii quanto
a loro si conveniva, e compiuta a norma delle leggi ogni cosa, assunse il
comando nell’ anno secondo della ohm- \ piade 35 .* nella quale vinse Sfero
spartano, nel tempo che Damasìa esercitava in Atene l’annuo magistrato (i). Ora
osservando questo re la trascuraggìne delle pratiche religiose istituite da
Noma, avolo suo materno, esser- ti ) Anni 114 secondo Catone, e 116 secondo
Varroae dalla foa- dasione di Ruma e 638 aTanti Crist] vando die il più de’
Romani erano divenuti guèrrieri è dediti a vili guadagni, nè più si volgeano
come prima ai lavori della terra; chiamati tutti a parlaménto, esortò che
ripigliassero il culto degl’ Iddii come a’ tempi di Numa ; dimostrando che per
tali negligenze delle sante cose erano venuti in città morbi e pestilenze ed
alu'i Hagelli che ne aveano desolata parte non picciola : e che lo stesso re
Tulio perchè non vegliavane quanto doveva alla custodia, travagliato per molti
anni da tutti i generi de’ mali, nè più essendo padrone della stia mente, ma
decadutagli questa come il corpo, incone in catastrofi miserande egli nemmeno
che la sua stirpe." E lodando a’ Romani la pubblica forma indotta da Nu-
ma come egregia e savia, e generatrice di abbondanza quotidiana per giustissime
cause ; raccomandò che la ravvivassero e volgessero l’ opera loro, a coltivare
le terre, ad allevare i bestiami, e ad altri lavori, liberi dalle ingiustizie
della violenza e della rapina, e spre- giassero in fine le utilità che nascono
dalla guerra. Con questi e simili detti risvegliava iu tutti il dolce trasporto
per la calma, aliena dalle armi, e per la in- dustria sapiente. Convocando poi
li pontefici, e pren- dendone le leggi delineate da Numa intorno le cose divine,
le scrisse ed esposele in su tavolette nel Foro a chiunque volesse vederle. Ora
quelle tavolette vennero meno: perocché non usavano ancora le colonne di me-
tallo ; ma scriveansi in tavole di querce le leggi del fero e de’ templi. Dopo
la cacciala dei re furono H- prodolte in pubblico dal pontefice Cajo Papirio,
il quale avea la cura suprema delle cose divine. Rendendo il suo splendore ai
ministeri negletti de’ sacerdoti, e rendendo ai lavori suoi la turba oziosa ;
encomiò gli utili agricol- tori, e ne biasimò gl’improvidi, come cittadini non
veri. Lusingavasi al favore di tali istituzioni di vivere sempre libero da
guerre e disastri come 1’ avo materno : tuttavia non ebbe pari ai desiderj la
sorte ; ma in onta del cuor suo fu necessitato alle arme, e ravvolto in tutta
la vita fra turbolenze e pericoli. Im> perocché nel primo ascendere al
comando appena diede calma allo stato, i Latini ve Io dispregiarono : e pen-
sandolo per codardia non idoneo alla guetra; tutti man- darono entro i confini
di lui bande di rubatori, che ' assai danneggiarono molti Romani. E spedendo il
so- vrano degli arobasciadori a chiedere compensagioni pei Romani secondo i
trattati, finsero ignorare in lutto quei latrocini, non die fossero con
pubblica autorità con- certati. Diceano pertanto non dovere di cosa alcuna ri-
sponderne a’Romani; tanto più che i trattati erano con Tulio e non co’
presenti; e Tulio mancato, erano periti con esso gli accordi. Necessitato da
tali pretesti e cavil- lazioni de’ Latini Marzio portò conti'O loro l’
esercito. Postosi all’ assedio della città di Politorio, la prese a condizioni
prima che i soccorsi le giugnessero de’ Latini. Non infierì già cogli abitanti,
ma portossegli tutti a Roma co’ beni che avean seco, aggregandogli alle tribù.
Ma siccome i Latini mandarono nell’ anno seguente nuovi abitanti a Politorio, e
ne coltivavano i campi, così Marzio pigliando I’ eserdto lo ricondusse contro
di loro. Uscirono dalle mura i Latini e combat- terono; ma egli li vinse, e
prese la città per la seconda volta. E peixìhè più non fosse un richiamo de’
nemici . nè più lavorassero i campi di lei, ne abbattè le mura, ne incendiò gli
edi6zj, e parli. Recaronsi nell’anno ap- presso i Latini a Mednllia ov’ erano
de’ coloni romani, e dandole d’ ogn’iniomo l’assalto la espugnarono. Maiv 'zio
andato di quel tempo contro la città di Tillene e divenuto vincitore in campo,
c poi su le mura, la sottomise. Non tolse a’ prigionieri nulla di quanto
aveano: ma li trasse in Roma ove. diè loro de’ luoghi perchè vi edi6cassero le
abitazioni. Soggiacque Medullia per tre anni ai Latini, ma nel quarto la
riconquistò con molle e grandi battaglie. Espugnò dopo non molto Fidene(i),
città presa tre anni addietro per condizioni ; e ne 4ra- sferl tutto il popolo
a Roma ; e non danneggiando la città più oltre, parve che si diportasse anzi
con man» sneludine che con' prudenza. Imperocché li Latini vi supplirono nuovi
abitanti; e sen tennero e sen goderono il tet^ritorio ; tanto che fu Marzio
costretto di accorrervi per la seconda volta; e divenutone per la seconda volta
padrone a grande fatica ; ne abbandonò le case alle fiamme, e ne devastò le
mura. XL. Occorsero dopo ciò due battaglie tra’ Latini e Romani. Durò la prima
lungo tempo : e gli uni sem- brandovi eguali agli altri, si distaccarono, e
ritiraronsi a’ proprj alloggiamenti. Nella seconda i Romani vinsero i Latini e
gl’ incalzarono fino alle trinciere. Dopo ciò più non vi ebbe fra loro
battaglia ordinata : ma conti- nue furono le scorrerie degli uni su le terre
vicine degli (i) Vi i ehi legga Ficolara per Fidrue. E verameaie più sotto si
parla della ribtIlioBe di Fideue. . 279 altri ; > econtinua le scaramucce
tra cavalieri e fanti che volteggiavano; ma per lo più colla meglio de’ Romani
i quali teneano in campo aperto appiè di castelli oppor- tuni un armata sotto
gli ordini di Tarquinio Toscano. Ribellaronsi intanto que’ di Fidene da’ Romani,
nè già' dichiarando guerra manifesta ; ma danneggiandone a poco a poco con
occulte incursioni le campagne. Marzio' però presentandosi loro con esercito
ben fornito innanzi che si apparecchiassero alla guerra si accampò d’appresso
alia città. Fingeano i magistrati non supere per quali affronti i Romani
fossero venuti contro di loro : e di-- chiarando il re che veniva per aver
soddisfazione dei latrocinj e danni fatti da essi nella sua terra ; si escu-
sarono che niente era stato con pubblica autorità, e chiesero tempo per
esaminare e discernere i complici delle ingiustizie. Procrastinavano intanto,
non adempie- vano gli obblighi loro, adunando in segreto de’ sussidj, e
travagliando all’ apparecchio delle arme. Marzio conosciutine i disegni scavò
de' cunicoli dal suo campo fino alla città : e compiutone il lavoro suscitò le
schiere, conducendole con molte scale e mac^ chine e stromenti proprj per gli
assalti, alle mura, non' però dove riuscivano sotto queste le vie sotterranee,
ma in tutt’ altra parte. Accorsi in folla i Fidenati dove era- r assalto,
bravamente lo rispingevano, quando ì Romani incaricatine, dato 1’ ultimo
traforo ai cunicoli, sboc- carono dentro la città; e trucidando chiunque
capitava, spalancarono le porte agli assalitori. Soccomberono nella presa della
città molti de’ Fidenati; Marzio impose agli altri che cedessero le armi : poi
fattili per la voce dei banditori congregare in luogo certo, ne battè con Ter-
ghe e ne uccise alcuni pochi, autori della ribellione ; e concedè che i soldati
saccheggiassero le case di tatti. ÀlSne lasciato quivi un presidio marciò coll’
esercito contro de’ Sabini. Nemmeno questi eransi tenuti ai patti conchiusi con
Tulio ; ma gettandosi nelle terre de' Romani ne aveano devastato le più vicine.
Marzio, cono» sciato dagli esploratori e dai disertori il tempo acconcio ad
investirli, andò con i suoi iànti, e mentre i Sabini spargeansi a predar le
campagne prese di assalto le loro trincierò, fornite di pochi difensori ;
ordinando intanto che Tarquiuio piombasse con la cavalleria su i nemici che
divisi rubavano. Al vedere la cavalleria ro- mana verso loro lasciarono i
Sabini la preda e quanto seco portavano o conducevano di proficuo, e fuggirono
agli alloggiamenti. Ma non sì tosto mirarono questi hr potere de’ fanti ;
dubitarono dove rivolgersi, finché si sparsero per le selve e per le montagne.
Perseguitati pelò da* soldati leggeri e da' cavalieri, ne scamparono pochi,
soccombendone la parte più numerosa. Spedirono dopo ciò nuovi ambasciadori a
Roma ed ottennero l’a- micizia che voleano. Imperocché la guerra, permanente
ancora, co’ Latini rendea necessaria la tregua o la pace con gli altri nemici.
Xl.II. Intorno al quarto anno dopo questa guerra Marzio il re de’ Romani andò
colle sue milizie e col più che potè delle ausiliarie contro de’ Vejenti, e de-
vastò gran parte della loro campagna; imperocché questi si erano i primi
gettati nell’ anno precedente sul terri- torio romano; e molto vi
saccheggiarono, e vi uccisero. Ben uscirono
sperità, grandi oltre il dire, su le prime si diedero in pochi a
scorrerne e derubarne le campagne : poi lusin- gati dal guadagno misero
palesemente in piede un eser- cito ; e le desolarono. Ma non riuscì loro di
portarsi via que’ guadagni, nè di partire impuniti. Imperocché venuto
provvidamente il re de’ Romani, e posto il stio presso al campo de’nemici, gli
astrinse a fare giornata. Sorse dunque battaglia terribile, e molti perirono da
ambe le parti : nondimeno per la sperienza, e per la tolleranza de’ travagli,
antica fra loro, prevalsero finale mente di gran lunga i Romani, e fecero ampia
ucci- sione, seguitando immantinente i Sabini che disordinati e disgiunti
riparavansi agli alloggiamenti. Poscia inva- dendo pur questi pieni di ogni
ricchezza, e ricuperando i prigionieri usurpati da’ Sabini quando predavano ;
sen tornarono in patria. Tali si dicono le gesta guerriere di questo re,
credute degne di ricordanza, e di stima da’ Romani : sono poi le politiche,
quelle che mi ac- cingo a narrare. Primieramente aggiunse alla città non
piccìola parte rinchiudendo fra le mura 1’ Aventino. E questo un colle alto
leggermente, con perimetro di circa stadj diciotto : r occupavano allora piante
di ogni genere e più che tutto lauri bellissimi, dond’ è che una parte di esso
chiamasi laureto da’ Romani : ora è tutto ingom- brato di case, e tra’ molti
edi6zj, il tempio sorgevi di Diana. Dividevalo valle angusta e profonda dal
colle della città ^ chiamato Palatino, dove fu Roma nel na «cer suo collocata :
ma ne’ tempi appresso l’ intervallo tra* due colli fu riempiuto di terra : ora
vedendo che un tal colle sarebbe un luogo forte per un* armata ne- mica se nini
si avvicinasse, lo circondò di mura e fossi, e inisevi ad abitare le genti
trasportate da Telline, da Poiilorio, e da altre città soggiogate. Celebrasi
tale istituzione del re come utile e bella, perchè Roma ne divenne più ampia, e
meno espugnabile per quanti nemici mai le soprastassero. Migliore del
regolamento anzidetto è 1’ altro che la rendè più felice nel vivere, e la mise
ad im- prese più generose. Imperocché scendendo il fiume Te- vere dai monti
Appennini, passando appiè di Roma, e scaricandosi attraverso de’ lidi del mare
Tirreno, dirotti e senza porti, rende alla città picciolo bene, e certo non
memorabile, perchè dove si scarica non evvi un emporio il quale riceva e cambj
a’ mercadanti le merci portatevi dal mare, e giù colla corrente stessa del
fiume. Altronde essendo il Tevere navigabile fin dalle origini con barche
fluviali mezzane, e dal mare fino a Roma co’ legni grossi da trasporto ; egli
deliberò di fare ivi un luogo da ricever le navi, servendosi della imboc-
catura come di porto ; tanto più che ivi il fiume si spande amplissimo, e
formavi gran seni appunto come ne’ siti de’ porti migliori. E, ciò che porge
più mera- viglia, il Tevere non è traversato nella sua foce da cu- muli di
arene, come altri gran fiumi, nè dilagasi in stagni o paludi, nè consumasi con
altre maniere prima che giintga nel mare : ma sempre navigabile si scarica per
una sola bocca naturale, separando a forza le acque marine, quantun(]ue ivi
spiri un vento occidentaie grande e malagevole. Adunque le navi lunghe per
quanto grandi, e quelle da carico, capaci ancora di tre mila misure, si
avanzano per la bocca del medesimo e giungono a Roma, sospintevi con remi e
funi : ma le navi maggiori fermate colle ancore presso la imboc- catura si
vuotano su barche fluviali, che succedono ai trasporU. Tra lo spazio cui
cingono il mare ed il Gume con forma di cubito, il re fece erigere una città
chia- mandola Ostia, o come noi diremmo, porta dall’ uso che presta, rendendo
con ciò Roma mediterranea e marittima, talché godesse i beni ancora d’
oltremare Inoltre cinse dì muro il Gianicolo che è un colle alto di là dal
Tevere, e posevi guarnigione che bastasse per difendere chi navigava in sul
Game ; im- perocché li Tirreni tenendo lutto il tratto di là dal Gume infestavano
e derubavano i mercadanti. E dicesi che egli soprapponesse al Tevere il ponte
Sublicìo, il quale dee per legge esser tutto di legno, senza rame nè ferro, ed
il quale, perchè sacro lo estimano, con- servasi ancora. E se parte alcuna ne
pericola, i ponteGci la curano, compiendo insieme patrj sagriGzj mentre
riparasi. Operate nel suo principato tali cose degne di storia. Marzio dopo un
regno di ventiquattro anni moti, lasciando Roma non poco migliore di quello che
aves- sela ricevuta, e lasciando due Ggli 1’ uno fanciullo an- cora, r altro di
più anni, e già nubile. Dopo la morte di Marzio, il popolo rimise al Senato la
scelta del governo che più bramava ; ed il Senato Gssò di litenerne la forma
consueta. Adunque furono gl’ interré dichiarati ; e questi riunirono pe’ coi^
mizj la moltitudine, e scelsero Lucio Tarquiuìo per monarca (i). E confermando
i segni divinf la elezióne della moltitudine ; egli assunse il regno nella
olim- piade nella quale Cleonida tebano vinse nello sta- dio, mentre era
arconte in Atene il figliuolo di Enioco. Ora, secondo che io ne trovo negli
scritti di que’ luo- ghi, dirò di quali parenti, e di qual patria fosse questo
Tarquinio, per quali cagioni venisse in Roma, e per quali arti giugnesse al
comando. Un tale di Corinto, ( Demarato ne era il nome ) della stirpe de’
Bacchiadi, risolutosi di commerciare navigò per la Italia con nave propria e
proprie merci. Vendutele nelle città tirrene allora le più prosperose d’ Italia,
e fattovi assai guada- gno, non volle più rigirarsi per altri porti ; ma tenne
continuamente lo stesso mare, portando le greche cose ai Tirreni, e le tirrene
ai Greci ; donde ricchissimo né divenne. Nata però sedizione in Corinto, e
postasi la tirannide di Cipselo attorno de’ Bacchiadi, egli ricco uomo, e del
grado degli ottimati, più non credendo sicuri col tiranno i suoi 'giorni,
raccolse quanto potea di sue robe, e fece vela per sempre da Corinto. E perchè
stante il commercio continuato egli aveva amici molti Tirreni, anche
riguardevoli; specialmente in Tar> quinia, città, grande allora e felice,
quivi si domiciliò,' prendendovi una nobile donna per moglie. Da questa
nacquero a lui due figli, chiamandone con tirreni nomi Aronle 1’ uno, e 1’
alu'O Lucumone. Diè loro greca é (i) Anni di Roma l3S secondo Catone, i^o
secondo Varrone, e 6i4 acanti Cristo] tirreoa istituzione, e adulti fatti, li
cougìaute per ma- trimonio colle più insigni famiglie. Mori non molto dopo il
primogenito suo, non avendosi ancora di lui prole distinta (i). Da indi a po-
chi giorni si mori per l’ ambascia Demaralo ancb’ esso destinando erede di ogni
sua cosa Lucumone il Aglio superstite. Investito questi de’ beni paterni, che
erano assai grandi, desiderò di essere nom pubblico, di ma- neggiare il comune,
e Ggurare co’ primi della città. Ma respinto in ogni parte da’ paesani, e non
aggregato non dico a’ primarj ma nemmen co’ mediocri, mai sopportò quel
dispregio. E sentendo come Roma accogliea con beneplacito i forestieri, e
facevali cittadini, e gli onorava secondo i lor gradi ; risolvette di
trasferirvisi. E raccolte per ogni modo le cose sue menò seco moglie, amici, e
domestici quanti ne vollero ; e molti vollero con lui trasmigrarsi. Giunto al
colle chiamato Gìanicolo, che è quello donde Roma presentasi in prima a chi
.vien di Toscana, un aquila calatasi di repente, gli ghermisce il pileo che
tieu sul capo, e sollevatasi, roteandosi a volo, si occolu al Aae nell’ allo
delK aere : poi d’ improvviso rimise in capo a Lucumone il suo pileo come eravi
quando sei portava. Riuscì tal segno inaspettato e me- raviglioso a tutti: e
Tanaqaila (che tale ne era il nome) la' moglie di Lucumone, sperimentata assai
nell’ arte pa- tema degli auguri > menatolo in disparte . lo abbracciò
colmandolo di belle speranze, come se dalla condizione de’ privati a quella
gingnerebbe dei re. Desse dunque (i) Latoiò la moglie graeiJa : e da essa
aacrjua poscia Arunlc dopo la morie di Demaralo]. opera, moitranJosene degno,
di ricererc il comando dai Romani spontaneamente. Lieto Lucumone de’ successi,
ornai presso alle porte, supplicò gl’ Iddi! che verificassero gli augurj ;
supplicò che gli dessero un* ingresso felice, e si mise dentro la città. Quindi
venuto a colloquio con Marzio il regnante indicò primieramente chi egli fosse,
poi co> ni’ egli era deliberato domiciliarsi in Roma ; che avea perciò
portate seco le paterne sostanze, delle quali pos* sedendone piucché un privato,
esibivale fin d’ allora in servigio de' Romani e del re. Lo accoke questi di
buon grado, ascrivendo lui co’ Tirreni compagni in una curia e tribò. Cosi
fabbricò Lucumone in città la sua casa, avutone in sorte il sito che bastasse,
e ricevutane pure' una parte di campagna. Ciò fatto, e divenuto del nu->
mero de’ cittadini, osservando come ogni Romano ha un nome comune, ed inoltre
uno patronimico e gentilizio, e volendo in ciò conformarsi, assunse, per suo
nome comune quello di Lucio in luogo di Lucumone, e pel gentilizio quello di
Tarquinio dalla città dove ebbe i natali e la educazione. In breve divenne 1’
amico del sovrano, donandogli ciocché si avvedea che più gli bisognava, e
porgendogli danari, quanti ne erano di mestieri per la guerra. Combattitore
benissimo a piede e a cavallo contavasi per sapientissimo quante volte bi«
sognassero opportuni consigli. Nè già col divenire caro al monarca aveasi
perduto la benevolenza de’ Romani, ma si vincolò molti de’ patrizj co’ beneficj,
e tentò di affezionarsi la plebe col chiamarla, e salutarla, e con- versarla
piacevolmente, e col porgerle danari ed altre significazioni di amore. Tale era
Tarqulnio, e per tali cagioni vivendo Marzio divenne il più cospicuo de’ Romani
; e morendo questo fu da tutti proclamato degno del trono. Salitovi fece guerra
in principio con gli Apiolani, popolo non ignobile del Lazio. Imperocché gli
Apiolani, come tatti del Lazio, credendosi colla mone di Marzio sciolti dai
trattati di concordia devastavano le campagne romane pasturandovi, e
saccheggiandovi. Di che volendo Tar- quinio farli pentiti usci con grande
armata, e disfece quanto era il meglio del territorio di quelli. Ben so-
pravvenne gran soccorso per gli Apiolani da’ popoli vi- cini del Lazio : ma
egli attaccò due volte battaglia con essi, e vintala due volte, si ristrinse
all’ assedio della città, spingendovi a mano a mano delle schiere 6n alle mura.
In opposito dovendo quelli della città combattere pochi di numero e senza
intermissione contro i molti e freschi, soccomberono alfine. Presa la città di
forza, i più degli Apiolani morirono con le arme in pugno : e se taluni le
cederono, furono venduti colle altre prede. Furono le donne e i fanciulli
condotti schiavi da’ Ro- mani : fu la città lasciata al saccheggio, e dopo il
sac- cheggio alle fiamme. Il re dopo' questo, e dopo rove- sciate le mura
da’fondamenti ricondusse in casa le milizie; rivolgendole poi contro la città
de'Crustumerini: colonia anch’ essa de* Latini, la quale erasi ceduta a’Romani
nel tempo di Romolo : ma cominciava di nuovo a tenersela co’ Latini, dacché
Tarquinio prese il comando. Nè già bisognarono a questo assedj e travagli per
umiliarsela. Imperocché li Crustumerini vedendo la moltitudine ve- nuta contro
loro, la debolezza propria, e la niuna aita de’ Latini verso di essi, aprirono
le porte ; ed uscitine i più anziani e più riveriti consegnarono a lui la citld,
supplicandolo che usa^e moderazione e clemenza. Ben fu l’ evento propizio ai
desiderj: perciocché andato quel inotutrca in città non vi uccise ninno, ma
banditine per sempre alcuni pociù, amatori della ribellione, concedè che gli
altri ritenessero i beni loro, e partecipassero come) prima alla cittadinanza
romana. Ma perchè più non si rimovessero, lasciò de’ Romani con essi. LI. Egual
sorte incontrarono i Nomentani datisi a pari consigli. Imperocché spedendo
bande di ladroni ne’ campi de’ Romani si costituirono aperti loro nemici ;
coutidaudu nella confederazione de’Latini. Ma giuguendo Tarquinio su loro, e
tardando il soccorso latino, e non b.isiando essi contro tanti nemici, uscirono
'di città coi simboli di pace, e si renderono. Gli abitanti di Collazia 111
archi narono far battaglia co’Romani ed emersero dalle mura di essa : ma
superati in tutti gli attacchi e molto danneggiatine ; furono costi-etti rifuggirsi
tra le mura, e spedirono alle città de’ Latini per chiederne truppe compagne.
Ma indugiandosi questi, e presentando i ne terre, ninno resistendovi, e messo
il campo dinanzi la città, ne invitava gli abitanti a far pace. Ma ricusando
questi, e confidando su le fortibcaziooi dei ricinti, e concependo che
-verrebbero per loro schiere confederate d’ogn’ intorno, il re ne circondò con
truppe le mura, e le assalì. Resisterono lungo tempo i Corni- colani
combattendo virilmente, e coprendo di ferite gli assalitori, ma stanchi pei
dalla continuità de’ travagli, e piò stanchi eziandio dalla discordia, perchè
non erano più unanimi fra loro volendo altri la resa, ed altri la difesa della
città Gno agli estremi ; furono alGne espu- gnati. Li più generosi di loro
perirono fra le arme nella presa della città : gli altri, salvatisi come
ignobili, fu- rono venduti schiavi insieme co' fanciulli, e colle donne, la
città fu prima abbandonata al saccheggio, e quindi alle Gamme. Dicchè
malcontenti i Latini deliberarono con voto comune di uscire io campo contro a’
Romani: e fatto grande apparecchio di forze, si gettarono su le terre più buone
di essi, e v’ invasero assai prigionieri, e vi divennero signori di amplissime
prede. Volò Tar> quinio contr essi coll’ esercito spedito e pronto : nè po*
tendo raggiungerli, portò su le terre loro simili cala- mità. Cosi per le
vicendevoli incursioni ne’ campi vicini. . 2()r molle lerano le perdite e gli
acquisti di ambedue. Ven- nesi con tutte le forze a battaglia ordinata presso
Fi^ deoc; e molti ne perirono da ambe le parti; ma vin- cendo inCne i Romani,
costrinsero i Latini a lasciare il campo, e fuggirsene tra la notte alle loro
città. Dopo quel comlntti mento marciò Tarquinio colle milizie schierate alle
città de’ Latini esibendo ad essi la pace. E queste non avendo né riunite le
forze' comuni, nè ben confidando su’ proprj apparècchj, accettarono batteano questi nell’ ala destra ed aveano
già fugato gli emuli che eran con essi alle mani, ma l’ inaspettato presentarsi
di lui li sorprese e sconvolse. Intanto la fanteria romana riavutasi dalla
paura piombò su’ nemici. Allora grande fu la strage de’ Tirreni, e piena la
rotta dell’ala destra. Tarquinio dato avviso ai duci della fau> teria di
tenergli appresso in buon ordine, e passo passo, spinse di tutta lena i cavalli
in su gli alloggiamenti ne* mici; e gl’ invase a prìm’ impeto, prevenendo quelli
che vi si riparavano dalla fuga. Imperocché quelli che ne erano in guardia non
avendo prima saputa la sciagura che invalse su i loro, né potuto distinguere
per la ra- pidità del corso quali cavalli venivano, lasciarono che entrassero.
Invasi gli alloggiamenti de’ Latini, quelli che dalla fuga vi accorrevano come
ad asilo, vi erano sor- presi ed uccisi da’ cavalieri che lo aveano preoccupato
: e se altri si fossero affrettati di là verso il piano s’ im- battevano' colla
fanteria romana, e ne perivano : li più di loro spintisi e concnlcatisi a
vicenda soccomberono con ignobile e miserabile fino intra i valli, e li fossi.
Dond’ è che quanti vi sopravanzavano non avendo via ninna di salvezza erano
costretti di rendersi ai vincitori. Tarquinio impadronitosi di persone, e robe
in copia vendè le prime, e concedè le seconde in premio ai soldati. LV. F allo
ciò si diresse alla città de’ Latini onde prendere combattendo quelle che a lui
non si davano : non però vi fu bisogno di assalti : ma si rivolsero tutte alle
umiliazioni ed alle preghiere ; e mandando oratori a nome del comune
supplicarono che desse fine alla gtierra co’ patti che gli piacevano, e si
renderono. 11 re divenutoi cosi l’arbitro delle città fu moderatissimo e
mitissimo verso di tutte : perocché non uccise, non bandì, nè multò niuno de’
Latini. Lasciò che godessero -le terre loro, e conservassero le leggi delia
patria : ma comandò che rendessero ai Romani i disertori ed i pri- gionieri
senza prezzo ninno: che restituissero ai padroni i servi, quanti presi ne
aveano nel fare le prede, agli agricoltori il danaro quanto ne aveano derubato
; e compensassero tutti gli altri danni o guasti, se causati ne aveano nelle
scorrerie. Fatto ciò dichiarò che sareb-- bero gli amici e li confederati de'
Romani se pronti sarebbero in tutto ai loro comandi. A tal fine venne la guerra
de’ Romani co’ Latini ; e cosi Tarquinio vinse e trionfò. L’ anno appresso
prendendo 1’ esercito, lo conduce contro i Sabini, avvedatisi già molto innanzi
dei disegni e de’ preparamenti suoi contro di loro. Non aspettarono questi che
la guerra passasse in sul proprio territorio ; ma premunitisi di forze
sufilcienti si avanza- rono tutti ad un luogo. Fattasi ne’ confini battaglia
fino a sera non vinsero né gli uni uè gli altri, anzi molto ne furono
afiaticati. Quindi ne’ giorni appresso nè il duce Sabino nè il re dei Romani
cavarono le milizie dagli accampamenti: ma via via trasmutandoli, senza
danneggiare le terre, si ricondussero in casa ; ambedue coi disegno di piombare
nella primavera con armata più grande 1’ uno nel territorio dell’ altro. Poiché
furono ambedue preparali, primi si mossero i Sabini fiancheg- giati da sussidio
sufficiente di Tirreni, e collocarousi presso Fidene, dove l’ Aniene concorre
col Tevere. Fecero questi due campi, l’uno dirimpetto, e come in continuazione
dell’altro; avendoci tra tutti due 1’ alveo delle correnti riunite, e sull’
alveo un ponte di legno congegnato di picciole barche, il quale rendea spedito
il transito dall’ uno all’ altro campo, anzi rendeali di due uno solo.
Tarquinio uditane la irruzione aach’ egli cavò le sue genti, e si trincerò
presso 1’ Aniene, al- quanto più sopra di loro in una munita collina. Erano
venuti ambedue con tutto l’ardore a tal guerra ^ por non vi ebbe ninna
battaglia ordinata, non grande nè picciola. Imperocché Tarquinio con
iscaltrezza di capi- tano prevenne ed isconciò tutte le opere de’ Sabini, e ne
distrusse l’ uno e l’ altro campo. Lo stratagemma fa questo. Preparate e
riempiute piociole barche fluviali di legna aride e di zolfo e di |>cce *ul
fiame presso al quale esso accampava, e poi colto uii vento propizio, ordinò
che nella vigilia mattuliiia si desse fuoco a qnei combustibili e si
lasciassero le navi a seconda della Cor- rente. Queste scorrendo iu breve tempo
la distanza in- termedia percossero il ponte, e vi comunicarono ' in più luoghi
r incendio. Accorsi per ajuto i Sabini a tanta fiamma improvvisa, e datisi a
far tutto, quanto giovasse ad estinguerla, ecco intanto gingnere su l’alba
Tarquinio coU’eseixito in ordinanza; ed investire l’nno de’ campi, deserto di
guardie, andate in gran parte contro del fuoco. Pochi dunque sorsero a
resistervi ; talché senza fatica gl’ invase. Mei tempo di tale opera- zione
altre milizie romane sopravvenendo espugnarono anche il campo Sabino posto di
là dal fiume: premesse da Tarquinio nella prima vigilia erano su piccioli na-
vigli valicate da sponda a spanda, laddove fattosi di due fiumi uno solo,
rimarrebbero invisibili nel passaggio. Appena poi videro il ponte iu fiamme
piombarono ( che tale ne era l’ accordo ) in sul campo dei Sabini : ove quanti
ne erano o combattendo caddero appiè dei Romani, o gittatisi a nuoto nella
'confluenza de’ fiumi nè resistendone all’ impeto, si affondaron tra’ vortici :
peri nou picciola .parte ancora per liberarne il ponte, tra le fiamme.
Tarquinio, preso l’uno, e l’altro cam- po, diede a’ soldati . le robe che vi
erano percltè se le compartissero, ma ' condusse in Roma e guardò ’ con molta
diligenza li prigionieri ; ben molti in tutto, Sabini e Tirreni. Sentirono a
tale sciagura i Sabini la propria debolezza, e mandando gli ambasciadorì
concbiusero, 00 ’ Romani una tregua di sei anni. I Tirreni mal sop-, porundo
che fossero tante volte vinti, e che Tarquinio j»er quante istanze ne facevano,
non s rendesse i loro prigionieri, anzi li ritenesse come ostaggi ; decretarono
di spingere tulle generalmente le città Tirrene in guerra contro de’ Romani e
di non più riguardarla come al- leata, se taluna se ne ricusava. Cosi
deliberati cavarono in campo le milizie, e tragittato il Tevere si trincie-
rarono presso Fidene. E prima s’ impadronirono di questa con frodoienza, per
esservi sedizione tra’ citta- dini: poi fatti prigionieri in buon numero, e
condottesi via via gran prede dal territorio romano ^ tornarono in patria.
Fidene sembrava loro una piazza bonissima d'ar* me in tal guerra; e vi
lasciarono guernigioue quanta ne bastasse. Ma Tarquinio mettendo per la
stagione se- guente in arme tutti i Romani, e congregando il più che poteva di
alleali marciò sui giugnere della prima- vera contro i nemici prima che
riunitisi dalle varie città venissero su lui come 1’ anno d’ innanzi. Dividendo
in due parti tu'.ia 1’ armata, egli stesso ne andò colla mi- lizia romana
contro le città de’ Tirreni : e fidate le truppe ausiliarie, per lo più latine,
ad Egerio il suo consanguineo, gl’ ingiunse di marciare conU'O Fidene. E queste
piene di disprezzo per l’ inimico, accampatesi in luogo non ben sicuro presso
delia città ; non fiirono per poco tutte disfatte. Imperocché le guardie di
Fideue procuratosi un rinforzo occulto dai Tirreni, e spiatone il tempo
opportuno, fecero una sortita ed invasero il campo nemico non bene difeso, e
grande fu la strage di qaein che erano usciti per foragghtre. la opposito la
milizia romana sotto gli ordini di Tarquinio, mano- metteva e depredava le
terre di Vejo, e traevane molti vantaggi. Ben si riunirono poi grandi snssidj
da tutte le cittA de'Tirreni in sostegno di Vejo : ma Tarqnioio diede ad essi
battaglia, restandone non dnbbiamente vincitore. Poi scorrendo a bell’ agio il
paese nemico lo devastò : Cnalmente lattivi molti prigionieri, e presevi assai
cose come in terre felici, essendo ornai per finire la state, si ricondusse in
casa. Straziati i Vejenti da quella battaglia non usci- vano più di città, ma
dentro vi si teneano, mirando intanto sterminarsi le loro campagne : Perocché
Tarquinio uscito per la terza volta, privavali per il terzo anno dei prodotti
delle loro campagne, desolandole in gran parte : e non avendo poi come più
danneggiarli condusse 1’ eser- cito alla città di Cere, sigilla chiamavasi la
città quando i Pelasghi ne erano gli abitanti, ma soggiacendo poscia ai Tirreni
fu Cere nominata. Era questa felice e popolata quanto altra mai fra’ Tirreni.
Quindi ne uscì valido esercito a combattere per le proprie campagne, e molti vi
straziò de’ nemici ; ma perdendovi più ancora de' suoi, rifug- gissene alla
città- Rimasti i Romani padroni di una terra la quale somministrava tutto in
abbondanza vi si trattenero molti giorni ; finché venuto il tempo di
ritirarsene me- narono con sé quanta preda potevano, e si ridussero in casa.
Riuscitegli come desiderava le operazioni su Vejo, Tarquinio ricavò l’esercito
contro i nemici di Fidene per cacciameli, con ansia di punire quei che aveano
la ci ttà consegnata a’ Tirreni. Vi fu batttaglia tra’Romani Digitized by
Google LÌBRO III. 299 tf tra le ihilizie ascile da Fidene, e' poi darò
contrasto nell’ assalto delle 'mura. Fu la città pigliata di forza, e tatti li
prigionieri Tirreni legati e custoditi. Dei Fidenaii giudicati autori della
rivolta quale ne fu battuto pub- blieatnente e poi decapitato, e quale bandito
per sem- pre. I Romani lasciativi per abitatori e custodi della città misero a
sorte e se ne appropriarono i beui. ■ LX. Occorse l’ ultima battaglia fra
Romani e Tir- rani' presso di Ereto nella Sabina. Imperocché lì Tirreni erano
venuti attraverso di questa incontro al Romano persuasi dai potenti di que'
luoghi che i Sabini militereb- bero insieme con essi. E certamente già era
spirata la tregua sessennale conchiusa da questi con Tarquinio, e molti
ardevano dal desiderio di emendare le antiche dis- fatte, essendo già cresciuta
nelle città gioventù numerosa. Non pelò succedette ciò come ideavano : perchè
ben to- sto si presentò l’esercito Romano, nè potè farsi che ab cuna delle
città mandasse un soccorso ai Tirreni ; e solo vi si congiunsero alquanti
volontari, e pochi reclutali a gran soldo. Fu questa guerra la più grande di
quante ne sorsero infra loro ; ed i Romani ne crebbero mera- vigliosamente,
riportandovi una segnalata vittoria, ed il Senato ed il popolo decretarono a
Tarquinio il trionfo, lu opposito lo spirito ue decadde ne’ Tirreni ; perchè
avendo spedito da ogni loro città tutte le milizie, non riebbero salvi, se non
pochi di tanti; gii altri o perirono tra la battaglia, o fuggiti in luoghi non
idonei per Io scampo, si arresero. Colpiti da tanta sciagura i primarj delle
città la fecero da savj ; perchè prendendo Tarquinio una nuova spedizione su
loro, essi riunitisi a consiglio deliberarono trattare della pace ; e mandarono
da ogni città plenipotensiarj anziani e riipettabili per concilitiderla. Teneano
questi al re che gli udiva ragionamenti, induttivi a misericordia e moderazione,
e ricordavano il parentado di lui colla lor gente; quando Tarquinio disse che
volea sapere unicamente, se disputavano ancora intorno ai diritti e venivano
per fare la pace con certe riserve ; o se confessavausi vinti, e rendevano a
lui le proprie città. E rispondendo questi che le rendevano, e che desideravano
la pace comunque loro si concedesse, egli dilettatone disse : ascoltale con
quali condizioni sono per dare la pace, e quali benefizj vi dispenso con essa.
Non io rn ho già nelt animo di uccidere, o bandire, o multare alcuno de'
Tirreni. Lascio Ifs vostre città senza guarnigioni, senza tributi : lascio che
vivano arbilre di sè stesse, e colla forma primi- Uva di governo. Ma per tante
cose che io concedo a voi giudico che questa sola da voi mi si dia, cioè che io
m'abbia la direzione suprema che pur ni avrei delle vostre città quand anche
voi noi voleste, finché io sono il vincitore. Piacemi aver questo da voi sporta
taneamerUe anziché di mai animo. Andate, riferitene alle vostre città, lo vi
prometto sospendere le armi, finché torniate. Ricevute queste risposte andarono
di volo gli ambasciadori; e dopo pochi giorni ritornarono portando non già
parole nude, ma i fregi stessi del comando coi (i) Anni di Roma i 65 «ecoado
Caioae, 177 secondo Varrone, 587 avanli Cristo] ' 3oi qnali adornano i proprj
monarchi, la areano seguali di giogo e di esecrasione. Ma se acquistano in
guerra una vittoria ; se il irj di ogni città : e prima che 1’ armata de’
Romani venisse nelle terre loro, essi menarono la propria nelle campagne di
quelli. Come il re Tarquinio udì che t Sabiui aveano passato 1’ Aniene e che
devastavano per tutto intorno de’ loro accampamenti, prese : i giovani ro nani
più spediti e piombò di tutta fretta su’ nemici sparsi a predare. Ed uccisine
molli, e ritolta loro la preda che si recavano, mise il campo suo presso del
loro. Passati cosi pochi giorni, finché gli era di città venuto il resto delle
milizie, e le truppe ausiliarie dagli alleali, presentò la battaglia. LXV.
Vedendo i Sabini i Romani venuti con ardore per combattere, cavarono la propria
armata ancor essi, non inferiori nè di numero, nè di valore. Investitisi
combatterono con tntto 1’ aadire fin eh’ ebbero a fare coi soli schierati di
fronte : ma poi fatti accorti che mar- ciava loro alle spalle un altro esercito
ordinato e ben fornito; abbandonarono le bandiere e dieronsi alla fuga. Era di
Romani 1’ esercito che apparve alle spalle, fanti lutti e cavalieri scelti,
disposti insidiosamente da Tar- quinio tra la notte in luoghi opportuni.
Spaventali i Sabini da questi nomini inaspettati che li raggiungevano non
fecero più ninna bella azione ; ma quasi colti dagli inganni de’ nemici, ornai
sotto il nembo di danno irre- parabile, tentarono chi d’ una e chi d’ altra via
salvare sè stessi. Allora appunto però soggiacquero a strage grandissima
inseguiti e rinchiusi d’ ogn intorno dalla cavalleria de’ Romani ; tanto che
pochi in lutto si ri- pararono nelle città vicine : gli altri, quanti non cad-
dero combattendo, rimasero prigionieri. Imperocché que« gli lasciati negli
alloggiamenti nè ardivano respingere r assalto de’ nemici, nè uscire in
battaglia : ma cosier- pati dal male impensato renderono senza combattere sè
stessi e quel posto. Le città de’ Sabini vinte come dai stratagemmi e dagl’
inganni non dalia virtù dei nemici, si accinsero a mandare ben tosto milizie
più copiose, e capitano piu sperimentato, Tarqajuio vedendo il loro dise^o,
guidò soliecitameotc l’ esercito, e passò 1’ A- nieue prima che quelli si
potessero tutti riuuire. A tal nuova il duce Saltino andò prestissimo quanto
polea colla nuova armata e mise il suo presso al campo ro- mano su di un colle
erto e dirotto : non giudicava però ben fatto dar battaglia se prima a lui non
giungevano le altre milizie de’ Sabini. Solamente spedendo • delle bande de’
cavalieri, e postando delle coorti nelle balze e nelle selve contro quelli che
uscivano a foraggiare, impedì che i Romani infestassero colle scorrerìe la
campagna. Per tal sua condotta di guerra molte erano le scaramucce, ma di pochi
fanti e cavalli, e niuna la battaglia universale. Adunque temporeggiandosi, e
sde- gnandosi Tarquinio dell’ indugio, risolvè di andare col- r esercito alle
trinciere de’ nemici, e più volte ne fece l’assalto: ma vedendo che non era
farìle espugnarli per la fortezza del luogo, destinò di abbatterli colla penu-
ria. E stabilendo delle guardie su tutte le vie che me- navano’ al colle, nè
permettendo che i nemici andassero a far legna, e recassero foraggi pe’ cavalli,
o prendes- sero altro che facea di mestieri dalla regione; li ridusse a gravi
disagi. Tanto che furono costretti, cogliendo uoa notte burrascosa per vento e
pioggia, lasciare vergogno* samenle quel luogo; abbandonandovi giumenti e
tende, e feriti, ed ogni apparecchio militare. I Romani cono*; seiutane al
nuovo giorno la partenza, e lattisi padroni del campo senza contbattete vi
predarono tende, e giu- menti ed ogni cosa, e conducendosi i prigionieri si
rav- viarono a Roma. Continuò questa guerra cinque anai, 3o5 c gli uni
(levasUnJo le campagne degli altri; .diedero via via delle battaglie piu o men
grandi, vinte di raro da’ Sabini, e spessissimo da’ Romani : i ma nell’ ultimo
cimento ebbe interamente il suo termine. Imperocché li Sabini non già di aumo
in mano come dianzi ma quanti per la età ' lo poteano, erano tutti in uh tempo
stesso marciati alla, guerra. In opposito i Romani tutti, raccolte le forze
aosiliarìe latine, tirrene, ed in genere degli alleati erano venuti a fronlè
del nemico. 11 duce Sabino dividendo le milizie ne avea fatto due campi :
aveale il re dei Romani compartite in tre corpi in tre campi non molto lontani
fra loro, ed egli comandava i Romani; dato ad Aruntc figliuolo del suo fratello
il governo de’ Tirreni, e quel de’ Latini e degli altri ad un valentuomo per
consiglio e per arme, ma forestiero e privo della patria. Servio era il nome di
lui, e Tullio quello della sua stirpe : e fu quegli appunto cui dopo Tarquinio,
morto senza prole virile, i Romani inalza- rono ai trono per amore del suo ben
lare tra le arme e nell’ uso della repubblica. Io sporrò ma nel suo luogo la
prosapia, la educazione, le avventure di quest’ uo- mo, c come gl’ Iddii per
lui si manifestassero. Allora dunque, poiché gli uni e gli altri vi * furono
apparecchiati, diedero la battaglia. Avevano i Romani l' ala sinistra, i
Tirreni la destra standosi i Latini schierati nel centro. Durò vivissima tutto
il giorno la battaglia finché viuserla di gran lunga i Romani. Uccisero molti
de’ nemici segnalatisi nell’azione; e più ancora ne presero prigionieri tra la
fuga. Espugnatone INTONICI y t *»n> T, >0 l’uao e r altro accampamento ne
ammassarono ricchezze in copia, e signoreggiarono senza timore Hitla la cam-
pagna: e messala a ferro e fuoco, e distruttivi gli al- loggiamenti sen
tornarono a casa ornai tramontando la estate. Tarquinio a questa vittoria
trionfò per la terza volta nel suo principato. E preparando nelf anno se-
guente r esercito nuovamente per condurlo contro le. città de’ Sabini, non più
concepirono questi nulla di magnanimò e di grande, ma deliberaronsi tutti per
la pace prima di mettere a pericolo sè stessi dei giogo, e le patrie della
rovina. Pertanto vennero da ogni città li Sabini principali a Tarquinio uscito
con tutta 1' ar- mata, e cederongli le terre loro supplicandolo di miti
condizioni : e colui propensissimo ricevendo, perchè senza pericolo, il
sottomettersi di quella gente, fe’ tregua e pace ed amicizia co’ modi appunto
co’ quali aveala in- nanzi fatta co’ Tirreni, e rendè loro pur senza prezzo li
prigionieri. Tali sono le imprese militari di Tarquinio: le urbane e pacifiche
son come sieguono; che già non voglio passarle senza ricordo. Giunto appena ai
comando desiderando, come aveano fatto i re predecessori, di conciliarsi la
plebe, se la conciliò con questa benefi- cenza. Scelti fra tutto il popolo
cento nomini a’ quali il pubblico grido accordava virtù guerriere, o civil sa-
pienza, li nominò patrizj aggregandoli a’ senatori : i quali essendo fin’
allora dugento ampliaronsi al numero di trecento fra’ Romani. Poi, quattro
essendo le vergini (i) Ad. di Boom 171 secoudo Catone, 173 secondo Varronc, e.
58 i avanti Cristo] 3o7 custodi del fuoco inestinguibile egli ve ne
sopraggiunse altre due: imperocché cresciuti i pubblici sagrifizj ai quali
doveano intervenire le vergini Vestali ; non parve che quattro più ne
bastassero. Seguirono la istituzion di Tarquinio ancor gli altri principi, e
sei pur ne’ miei tempi si additano le vergini ministre di Vesta. Ed egli sembra
il primo, che guidato dalla ragione, o forse; dalle insinuazioni de’ sogni come
pensano alcuni, ideò li castighi co’ quali i sacerdoti puniscono quelle che la
verginità non conservano : e gl’interpreti delle sante coso dicono che que’
castighi si rinvennero dopo la morte di lui ne’ libri delle Sibille. Certo ne’
giorni suoi fu ravvi- sato che Pinaria Vergine, la figliuola di Pubblio, an-
(lavasi con membra non pure ai sacri ministeri. Ho poi già dichiaralo nel libro
innanzi qual sia di tali castighi la forma. Egli abbellì circondando di
officine di arte- fici, c di altri apparecchi il Foro ove si arringa e si
giudica, e compionsi altre pubbliche cose : egli il primo deliberò di costruire
con gran pietre lavorate a misura i muri della città, già vili e grossolani: ed
egli prese a cavar la cloaca o canali sotterranei pe’ quali tutto, quanto scola
dalle strade, vasseiie a scaricare nel Te- vere : meraviglioso è questo
edifizio, e maggior di ogni dire. Io tengo in Roma per tre magnificentissime
cose, c donde la potenza rilevisi dell’ impero ; gli acquedotti, i lastricati
delle strade, e le cloache ; non già che io ne rifletta la utilità della quale
dirò ne’suoi luoghi, ma si bene 1’ amplissima spesa. E ben può questa argomen-
tarla taluno da un fatto solo del quale io nc fo mal- levadore Cajo Aquilio.
Scrive costui che non più scorrendo, perchè negligentale, le cloache, i censori
le diedero a spurgare e racconciarle per mille talenti. F e pur Tarquiuio il
circo massimo tra ’l colle Aventino e tra’l Palatino costruendovi il primo
intorno intorno sedili coperti. Certamente il popolo per addietro starasi in
piede agli spettacoli in cima a’ palchi, fon- dati su cavalletti di legno.
Compartì similmente il luogo in trenta spazj assegnandone uno per ogni curia,
per^ chè ciascuna sedesse e mirasse dal posto che le si do- veva. Anche questo
edifìzio sarebbe col volger degli anni numerato tra le meraviglie bellissime
della città. Perocché stcndesi il circo per lungo tre stadj e mezzo,
spandendosi quattro jugeri per largo. Cinge i due lati maggiori ed uno de’
minori una fossa profonda e larga dieci piedi per raccogliere le acque, e dopo
la fossa i portici sorgono con tre piani. I portici terreni han di pietra e
poco elevati i sedili come ne’ teatri ; ma di le- gno sono ne’ portici più
alti. Concorrono i due lati maggiori ad un tutto e congiungonsi fra di loro per
via del minore che formato in guisa di luna li termina: cosicché risulta da tre
ordini un sol porticato amGtea- trale di otto stadj capace di cento
cinquantamila persone. L’altro de’ lati minori che restasi aperto contiene !e
mosse donde i cavalli si rilasciano, spalancandosi tutte in un tempo, ad un
suono. • F uori dell’ amfìteatro evvi pure altro portico ma di un piano solo,
il quale in sè contiene le òfTGcine c sopra le officine le abitazioni. In
ognuna delle officine sonovi 'ingressi e scale per chi viene agli spettacoli ;
e con ciò' nOri siegue confusione tra tante migliaja che vanno e tornano. Si
accluse il re similineatc a iàbbricare il tempio di Giove, di Glaaoue, di
Minerva per adem> plere il voto da lui fatto a quegl’ Iddìi nell’ ultima
guerra co’ Sabini. Ma siccome il colle destinato per la santa magione
abbisognava di radili travagli, perché non era questo agevole da salirlo nè
eguale, ma scosceso e tutto ' acuto in su la cima; eg^i ponendo intorno intorno
altri ripari, e tra’ ripari e la cima assai terra lo rendè piana ed acconcio!
pel tempio. Non però s’ebbe il tempo di metterne le fondamenta, Tnon essendo
egli vissuto che quattro anni dopo il fin della guerra. Molti anui ap>
presso, Tarquinio terzo re dopo lui, quegli che fu espulso dal trono, ne gitlò
le fondamenta, facendo gran parte del sacro edilìzio : ma noi compiè nemmen'
egli, e solo ebbe il tempio il suo termine sotto gli annui magisirati da’
consoli dell’ anno terzo. Ben’ è convenevole che le cose ricordinsi accadute
prima della erezione di questo, come pur le ricordano quanti scrìssero la
storia di quei luoghi. Deliberatosi Tarquinio a far qnel tempio impose
primieramente agli auguri, convocandoli, che spiassero co’ divini riti quale in
città ne fosse il loco più accon* do e più caro a que’Numi. E riferendo esser
questo il colle che sovrasta al Foro, colle detto Tarpeo di quei giorni, ed ora
del Campidoglio, comandò che replicati i riti santi additassero in qual parte
principalmente del Campidoglio aveansene a porre le fondamenta. Non era ciò
cosi fàcile a definirsi ; perchè sorgendo io sul colie a riverenza de’ genj, e
de’ Numi altari in gran nume* ro ; doveasi trasportare questi, e lasciar libera
l’ area pel tempio novello degl’ altri Iddìi. Parve agli auguri di fare le
divinazioni loro so di ogni altare, e poi moverlo se il proprio Nome Io
concedeva. Consentirono alquanti genj e Numi che i loro altari fossero altrove
portati : ma il Dio Termine è la dea Gioventù per quanto gli auguri pregassero
e ripregassero non gli udirono ; nè condiscesoro a cedere il luogo. Adunque
furono gli altari loro inchiusi nel tempio che destinavasi: ed ora r uno resta
nel vestibolo, e l’altro nel sacro ricinto stesso di Minerva presso al
simulacro di lei. Presagi- rono da ciò gl’ indovini che ninna età mai nè li
ter- mini moverebbe né il florido stato di Roma : ciocché si é già verificato
fino a’ di miei per ventiquattro ge- nerazioni. Nevio chiamavasi per nome
proprio, ed Azio col nome della prosapia il più insigne degli auguri, che
trasferì quegli altari, definì il tempio di Giove, ed altre celesti cose
ridisse per la sua divinazione al po- polo. Si consente che carissimo egli
fosse agl’ Iddii fi:a tutti del santo suo ministero, e che conseguito avesse
riputazione grandissima per le prove da lui date incre- dibili e trascendenti
nell’arte sua divinatoria. Io ne ri- corderò solamente una la quale mi fu
meravigliosissima infra tutte, dicendo innanzi per quale incontro di casi, e
per quali divine occasioni venne in tanta chiarezza che fe’ tutti li coetanei
comparir dispregevoli. Povero fu il padre di lui, cultore d’ ignobile
campicello. Nevio il suo figliuoletto porgeagli l’opera sua, quanta per la .età
ne poteva, e guidava de’ porci, e pascevali. Caduto una volta nel sonno, nè più
rinvenendo al riscuotersi alcuni di quegli animali, ne pianse per timore de’
paterni castighl. Ma poJ venendo al tempietto sacro agli eroi nel suo
campicello, pregò che a lui concedessero di trovare le perdute cose ; egli
prometteva loro se ciò concedes- sero il grappolo più grande del suo poderetto.
Trovò indi a poco gli animali, e volea recare i promessi doni agli eroi: ma
'grande era 1’ ambiguità sua nel decidere il maggiore ira’ grappoli. Adunque
conturbatone suppli- cava gl’ Iddii che volessero col mezzo palesargli degli
uccelli ciò che cercava. Or qui per divino favore gli venne in mente di
dividere la vigna in parte destra e sinistra, e notare gli auspicj che in
ognuna occoire»- sero. Apparsi in una delle parti gli uccelli com’esso ve li
bramava, suddivise pur questa in due considerando gli uccelli che vi
capitassero. Determinandosi con tale distinzione di luoghi, e venendo da ultimo
alla vite in- dicala dagli uccelli: ebbe un tal grappo incredibile nella sua
forma. Egli recavalo appiè delle immagini sante degli eroi, quando il padre lo
vide. E meravigliato questi di una tal mole del frutto, e domandando d’ onde se
lo avesse : il figlio narrò dalle origini tutto il successo. Concependo colui,
ciocch’ era, che fossero questi na- turali preludi della divinazione nel figlio,
lo condusse in città, e lo sottomise a’ maestri delie lettere. E poiché fu
nelle comuni discipline istrutto quanto bastava, af- fidollo all’ augure più
dotto fra’ Tirreni perchè Io eru- disse nel suo sapere. Nevio che avea naturali
lumi per la divinazione, aggiungendovi pur gli altri de’ Tirreni ; superò di
gran lunga quanti erano intesi agli anspicj. Quindi nelle consultazioni sul
pubblico tutti gli auguri della città v’ invitavano lui quantunque non fosse
del Digitized by Google 3i2 delle Antichità’ romane ceto loro, per la
reltitudiae sua nel pronosticare, ti« cosa mai vaticinavano, se non ' approvata
da lui. Ora volendo Tarquinio creare tre nove cen- turie (i) di cavalieri da
lui scelti, ed intitolarle dal nome suo e degli amici, questo Nevio il solo magna-
nimamente gli resisti, non permettendo che alcuna si alterasse delle
istituzioni di Romolo. Disgustato per la proibizione il sovrano, e sdegnato con
Nevio diedesi a vilipenderne 1’ arte come di nn vano nè veridico parla- tore.
Con tale intendimento chiamò Nevio nel suo tri- bunale essendovi moltissimi
presenti del Foro.. Egli avea già divisato con qnei che lo circondavano i modi
onde convincere l’aagure di menzogna: e lacendosegli questo dinanzi lo accolse
con degnevoli salutazioni : ed ora, disse, o Nevio è il tempo di mostrare il
potere del- f arie tua divinatoria. Siccome io macchino di pormi ad una gran
cosa ; vorrei per f arte tua risapere se possa riuscirmi. Or va : consultane
co' riti tuoi, o toma il più presto per dirmene : io qui su questa sede ti
aspetto. Esegui l’ augure i comandi, e dopo non molto tornò dicendo che propizj
erano gli auspicj, e fattibile £ intento di lui. Diè Tarquinio in un riso a
tali voci, e cavando dal seno una cote ed un rasojo gli disse: ora ben
apparisce o Nevio che tu mi deludi, deluso che se’ manifestamente dagl Iddii,
dacché ar- disci anrutnziarmi possibili, le impossibili cose : per- (i) Nel
testo ^vXmt tribù : ma i chiaro che parlandosi di cava- lieri non debba
pensarsi a tribù : Forse vi ò qualche sbaglio. Gli altri storici in questo
luogo chiamano centurie quelle che Dionigi chiama tribù ciocché io meditava se
potessi col rasojo fendere que- sta cote per mezzo : ridevano tutti d’ intorno,
e Nevio niente commosso dalla beffa e dallo strepito : ferisci, disse, o Tarquinio
animosamente come ideavi la cote: perciocché ne sarà divisa, e se no ; mi ti
offero ad ogni pena. Sorpreso il re della confidenza dell’augure mena il rasojo
su la cote, e l’ acume del ferro ne pe- netra r interno e dividela, incidendo
anche in parte la mano che la teneva. Esclamarono per la novità quanti
contemplavano la incredil.'ile e meravigliosissima cosa. Tarquinio vergognatosi
del cimento dato a quell’ arte, c voglioso di emendare la indecenza de’
vilipendj ^ pri- mieramente cessò da que’ suoi tentativi su 1’ ampliar le
centurie ; poi risoluto di onorare Nevio come il più caro di tutti i mortali ai
celesti, obbligosselo con pegni vari e copiosi di benevolenza ; e perchè la
memoria se ne perpetuasse tra’ posteri collocò la statua di lui, fab- bricala
in rame, nel Foro : e questa, più picciola di nn uomo mezzano, e velata il capo,
esisteva pur nel mio tempo dinanzi la curia, da presso del fico sacro. Dicesi
che poco lungi del fico sia la cote sepolta ed il rasojo sotto di un’ ara
sotterranea ; e quel luogo chia- masi il pozzo da’ Romani. Tali sono i ricordi
che si hanno su questo indovino. Tarquinio ornai chetavasi dalla guerra, vec-
chio già di ottanta anni ; quando mori tra gl’ inganni de’ figli di Anco
Marzio. Aveano questi macchinato fin da principio di balzarlo dal trono, e più
volte vi si erano adoperali su la speranza che, balzatone lui, di- verrebbe di
loro come trono un tempo del padre, e die (li leggieri ad essi darebbonlo i
cittadini. Delusi via via dalla speranza gli ordirono alfine insidie
insuperabili che gii Dei non permisero che restassero impninite. Io narrerò la
forma delle insidie. Quel Nevio del quale io dissi che erasi opposto al re che
volea di meno far più le centurie, questi (piando più per le arti sue Boriva,
quando potea sopra tutti i Romani come augure nobi- lissimo, allora sia per
invidia degli emuli, sia per in- sidie de’ nemici, sia per altra sciagura,
spari di subito da’ mortali ; nè alcuno potè de’ congiunti indovinare il
destino di lui, nè più trovarne il cadavere. Addolora- tone il popolo, e mal
sopportando il suo danno, e molto sospettando di molti; i figli di Marzio ne
ristrin- sero su Tarquinio l’ accasa. E non potendo allegare ar- gomenti e non
segni della calunnia ; insisterono su queste due ombre di ragione. Era la prima,
che volea Tarcpiinio far molti e gravi attentati contro le pubbliche norme ; e
che però si era tolto d’ intorno chi sarebbe •per contrapporsegli come per
l’addietro : la seconda era poi, perchè succeduto tanto infortunio non aveane
fatta niuna ricerca, ma trasandavalo in tutto : nè avrebbe mai cosi praticato
chi non era tra’ complici. E fattosi col dispensare de’ loro beni, gran seguito
di patrizj e di plebei diedero gravissima accusa a Tarquinio, e sti- molarono
il popolo a non trascurare un tanto scellerato che stendea le mani su le sante
cose, e la regia auto- rità contaminava ; molto più che egli non era un ro-
mano, ma un estero, anzi uno senza patria. Tali cose dicendo nel Foro uomini ;
autorevoli nè infacondi ; con- citarono molti plebei perchè lo rispingessero se
venivaci come impuro da quel luogo. Ora cosi fecero, perchè nè poleano
combattere la verità nè persuadere al popolo che dal trono il cacciassero. Se
non che dissipando lui con difesa validissima le incolpaeioni, e Tullio il
genero suo, potentissimo tra la moltitudine, risvegliando verso lui la
tenerezza de* Romani ; furono quelli avuti per calunniatori e scellerati, e
carichi di vergogna partirono dal Foro. Sconciati in tal tentativo, ma tuttavia
per> donati per opera degli amici, perchè Tarquinio conte- nevasi a fronte
di tanta perfidia in vista de’benefizj pa gravidasse, e ne partorisse poi
Tullio. Certamente non par la novella affatto credibile : pur la rende
inverisi- mile meno un tal altro segno divino inopinato e mera- viglioso
intorno di quest’ uomo. Imperocché sedendosi un' tempo egli di mezzodì nella
regia camera, e presovi dal sonno ; una fiamma gli usci balenando dal capo.
Videro questa la madre di esso e la regia consorte, che per la camera
passeggiavano, e quanti erano presenti alle donne : e luminosa gli si tenne
intorno intorno del capo finché accorsa la madre riscosselo. Allora insieme c
ciansi nemmeno le picciolo ingiustizie, e solleverai li poveri co’ benefizj, e
co’ doni ; e quando ne parrà tempo, (diora diremo che Tarquìnio è morto ;
allora gli daremo pubblica sepoltura. O Tullio ! tu nudrilo, tu educalo, tu
renduto partecipe da noi di tanti beni quanti ne derivano i figli da padri e
deUle madri, tu congiunto alla nostra figliuola, tu se mai divieni, o Tullio,
re de’ Romani, è giusto che almeno in riguardo mio la quale tanto in ciò ti
coadjuvai, presenti la benevolenza di un padre verso questi teneri fanciuU
letti : e che quando siano già grandi, quando già bastanti a regnare, tu renda
(diora al primogenito la corona di Roma. V. Così dicendo diede' 1’ uno e 1’
altro fanciullo in braccio alia 6glia ed a! genero : e risvegliò tenera com-
passione verso di ambedue ; poi quando ne fu tempo, uscita di camera impose ai
domestici che assistessero, come richiedeasi, per la cura, e convocassero i me-
dici. Lasciala passare la notte, siccome nel giorno ap- presso accorse gran
turba alia reggia ; ella si fe’ vedere alle finestre che rispondono alla via
dinanzi dell* atrio : e su le prime scoperse quelli che aveano congiurata la
morte del sovrano, e quindi presentò tra le catene i sicai'j mandati per
compierla : e quando vide il popolo in pianto per la sciagura, quando videlo
fremere contro de’ malvagi ; alfine gli disse, che pur non era la perfida trama
riuscita, e che potuto non avevano trucidare Tar* quinio. Confortavansi tutti
all’ annunzio ; quando ella mostra in Tullio il personaggio eletto dal re,
finché guariscasi, per curare le private sue cose, e le pubbli- che. Adunque
andossene il popolo, lieto come se il re non avesse niente patito di terribile,
e gran tempo si rimase con questo concetto. Tullio cinto da’ regj littori
marciò con valida schiera al Foro, e fece pe’ banditori intimare che venissero
i Marzj al giudizio. E siccome questi non ascoltarono ; ne proclamò 1’ esilio
perpetuo, ne confiscò li beni ; e cosi tenne sicuro lo scettro di Tarquinio. Ma
sospendendo alquanto la narrazione, vo’ dir le cause per le quali io nè con
Fabio consento nè con quanti scrivono che i fanciulletti lasciati da Tarquinio
eran suoi figli ; perchè se altri si avviene in quei scritti non creda che io
improvvisi quando non figli li chiamo, ma nipoti. Essi divulgarono ciò su que’
garzoncelli, ma per' negligenza ; niente considerando gli assurdi eie im cuni
Storici Romani levarli con altri assurdi, e dissero che non era già madre de’
fanciulli Tanaquilla ma Ge- gania, una donna, di cui nulla additarono le istorie.
Ma in tal caso riesce improprio il matrimonio di Tar> quinio nella età quasi
di ottanta anni, e certo inverisi- mile riesce in quella età la generazione di
figli. Nè già egli era mancante di prole ; tanto che ne languisse pei desiderio
: ma egli avea due figliuole e queste già ma- ritate. In forza di tali assurdi
e di tali impossibilità dico che que’ fanciulli non eran figli ma nipoti di
Tacqui- nio ; nel che sieguo Lucio Pisene, uomo savio, e funi- i co che ciò
scriva ne’ suoi annali. Ma forse eran questi, nipoti a Tarquinio per nascita, e
figli per adozione, e forse fu questa la origine dell’ abbaglio di tutti gli
Sto- rici delle cose Romane. Or dopo un tal prologo egli è tempo di ripigliare
la narrazione. Vili. Poiché Tullio prese le redini del ^ornando, e dileguata la
fazione de’ Marzj, giudicò di averselo con- solidato ; fe’ con magnifica pompa
trasportare Tarquinio, come spirato alfine per le ferite ; condeoorandolo di un
cospicuo monumento e di altri onori : e tutore essendo de’ regi fanciulli ; e curò
e guardò fin d’ allora le pri- vale loro cosce le pubbliche (i). Non andavano
tai fatti a grado de’ patrizj, ma doleansi e sdegnavansi, mal sof- fiando eh’
egli a sé stabilisse il regio potere senza le (i) Addì, di Roma sec. Catone,
179 scc. Varrooe : e 577 avanti Cristo] forme prescritte dalle leggi. E
riunendosi più volte i più potenti, trattavano fra loro de’ mezzi onde
abbattere TiU legittimo governo. Ora parve ad essi, come fossero la prima volta
adunati, per tenere il Senato, da Tallio di violentarlo a lasciare i littori e
le altre insegne del comando ; e fatto ciò di nominare gl’ interré da’ quali si
scegliesse regolarmente chi dominasse. Tallio, risa- puto il disegno, si diede
a favorire il popolo, c soc- correrne i poveri, sperando coll’ opera sua di
ritenere r impero. £ chiamata la moltitudine a concinne, pre- sentò dinanzi la
ringhiera i fanciulli ; e poi disse : IX. Molle cause o cittadini ihi
astrinsero a prender cura di questi teneri garzoncelli. Perciocché Tarquinio l
m>olo loro accolse e curò me privo di padre e di patria, nè fecemi punto
meno che a un figlio; ma diedemi la sua Jìgliuola in isposa, e mi amò finché
visse, e mi onorò sempre, come sapete, quasi fossi da lui generato : e poiché
fu colto dalle insidie egli affidatami in caso di morte la cura de'
fanciullettì. Ora e chi mi stimerebbe pietoso verso gl Iddf, chi giusto verso
gli uomini, se io trascurassi e tradissi questi oifani a quali tanto io sono
debitore? Ma nè io tradirò la mia fede, né darò per quanto è da me, 1 ultimo
abbandono, a fanciulli già derelitti. Ben è giusto che ricordiate voi li
benefizj che l avolo suo dispensava su voi quando a voi subordinava tante città
Latine emide del vostro principato, quando vi umiliava i Tirreni i pià potenti
tra tutti i vicini, e quando neces^ sitava al vostro giogo i Sabini ;
procurandovi ognuna di tali cose in mezzo a grandi pericoli. Speltavasi a voi
per tanta sua beneficenza di essere grati a lui finché visse, e di esserlo dopo
la morte in verso dei posteri -suoi, e non già di seppellire coi cadaveri dei
benefattóri la memoria ancora delle opere. Pensatevi dunque tutti eletti
custodi de’ fanciulli, reusicurate per essi il regnò che t avo ad essi
lasciava. Già non tanto bene- risentiranno essi dalle cure di me che son uno,
quanto ‘dal soccorso, comune di voi tutti. Io mi vedo necessitato a dir questo
; sentendo che > alcurù com- movonsi contro loro, e vogliono dare ad altri
il co» mandò. Io vi. supplico o Romani, che memori ancora siate de'
combattimenti che .io feci pel vostro princù» pato, i quali np pochi sono nè
piccoli. Ma ben sa^ pendolo voi, non occorre che altro io vi dica, se non che
rivolgiafe su questi fanciulli gli obblighi che me ne avete. Imperocché non io
per me fabbrico il prir^ cipato : nè se io mel cercassi, ne era già meno degno
degli altri; piacemi solamente amministrare il comune in sussidio della stirpe
di Tarquinio. Io vi raccomando che non vogliate ahbtmdonare a sé stessi questi
farin ciuUi ora che il regno ne pericola : sarebbero anche espulsi da Poma, sé
fauste riuscissero le prime mosse ai nemici. Ma non debbo io più dilungarmi su
ciò, mentre sapete voi quello che dee farsi, anzi siete per fare quanto
conviene. . Ora udite il bene, che io a voi apparecchio, e pel qua- le qui vi
adunai. Quanti a debiti saziacele nè potete levarvene per la indigenza,, tutti
sarete da me soccorsi come cittadini, e come già tanto affaticati, in servigio
della patria; pert;hè voi che avete fondata la libertà di lei, la vostra non
perdiate : io porgerò del mio da- naro onde i debiti estinguiate. Inoltre
quanti torranno ad imprestilo io non più soffrirò che sieno imprigio- nati per
debito : ma porrò per legge che niuno dia de' prestiti assicurandoli su la
persona di uomini li- beri, mentre io penso che basti agli Usuraj di riva-
lersi su bèni de' contraenti. E perchè da 'ora in poi sosteniate più di leggeri
il tributo pubblico, pel quale i poveri sono gravati, e ridotti a far debito ;
coman- derò che si registrino tutti i beni, e che ciascuno dia secondo l' aver
suo, come odo che si pratica rtelle città più grandi e meglio ordinate ; mentre
ancK. io credo più giusto e più vantaggioso al Comune che chi più possiede più
paghi, e meno chi meno, Piacemi inoltre che il terreno pubblico f quello che
avete cors- quislato colle Urrtse > non sia come ora de* più impu- denti, nè
che per compera ve lo abbiate, nè indarno: ma che quelli se lo abbiano infra
voi che privi sono di terre : perchè voi liberi essendo non serviate, nè
coltiviate le campagne altrui, ma le pròprie ; imperoc- ché già non allignano
generosi pensièri' ov’è disagio del vitto quotidiano. Soprattutto ho deliberalo
render pari e fàcile il governo per tutti, e dàce a tutti eguale azione contro
chiunque; perciocché sono alcuni venuti in tanta baldanza che oltraggiano il
popolo, nè. liberi stimano i poveri fra voi. Ora perchè i più grandi nem- meno
che gl’ infimi esigano' e Soffrano il giusto;, io farò leggi proibitive della
violenza, e lonservOtrici dei diritti lomuni: nè mai lascciò di provvedere a
questa libera procedura di lutti conlto tutti. Sorsero, lui cosi dicendo,
grandi elogj tra la moloi gli esuli, e di ceden’i ai figli di Marzio, a quelH
che vi lumno ucciso Tarquinio, quel re si buono, e sì amico di Roma, a quelli
che macchiatisi in tanta scelleraggine, non osando risponderne in giudizio, si
tolsero a voi colla fuga, a quelli in fine a quaU avete voi t acqua interdetta
ed il fuoco. E se ben tosto non vòlavane a me t avviso, tali patrizj eccitando
una forza straniera, avrebbero di bel nuovo introdotto nel cuor della notte i
fuorusciti in Roma. Ben vedete voi quan- tunque io le taccia, le seguile, come
i Marzj favoriti da' patrizj sarebbonsi impadroniti senza fatica di tutto,
atsalendo primieramente me che il custode sono della regia prole, me che t
autore fui del giudizio contro di loro, e spegnendo finalmente i regj
fanciulli, e tutti I consanguinei, e tutti gli amici, quanti ve ne resta- no,
di Tarquinio. Misere le nostri ritogli, le nostre madri, le nostre figlie, e
misere le femmine tra noi! le avrebbero que' ribaldi ( tanta lumno di brutale e
di tirannico ! ) terwie in' conto di schiave. Ora se tanto o popolani piace a
voi pure, che qua si riammettano, anzi che re si proclamino i parricidi, e che
i figli se rie scaccino de’ vostri benefattori, e dal trotto .« tol- gano che V
avo ad essi lasciava ; se tanto, dico, a voi piace ; io mi cheto su destini. Ma
deh ! per gli Iddj, deh / pe’ genj tutti, quanti le mortali cose ri- guardano (
e noi colle nostre donne, noi co’ nostri figli supplichiamo voi pe’ tanti benefizj
ancora che Tar quinio su voi spondeo perpetuamente, e pe’ tanti, eh’ io stesso
vi procurava ), deh ! coruredeteci questo dono ; manifestateci i vostri voleri
una volta. Se voi credete altri più degni di noi di tale onore ; questi
fanciulli f e tutto il parentado di Tarquinio, partiran- Ho, abbandoneranno la
vostra città. Io poi ben altri più generosi consigli ho per me ! Ahbcatanza
vissi alla virtù, abbastanza alla gloria : mancatami la vostra be^ nevolenza,
quella che io pregiava più che tutti i beni, già non voglio io vivere
indecorosamente presso di ab- tri. Prendete i vostri fasci, dateli, se così
piacevi, ai patrizj. Io mel vedrò, -nè mi oppongo. Cosi dicendo, e già standosi
in atto di ritirarsi sorse un clamor vivo per tatto, nn pregare, an pian- gere,
perchè restasse, e governasse nè temesse. Allora alcuni, sparsi ad arte qua e
là pel Foro, gridarono che si creasse re, che si convocassero le curie, e sen
chie- dessero i voti. Così preordinato T evento; ben tosto il popolo tutto vi
propendè. Tallio ciò vedendo non tra- scurava la occasione: ma professandosi ad
essi obbliga- tissimo che memori fossero de’ benefizj, e prometten- done più
ancora se re lo creasseró ; prescrisse il gionu> de’ comizj ; ordinando che
v’intervenissero lutti dalla cam- pagna. Accorso il popolo ; egli chiamando una
per una le curie consegnava ad esse i lor voti. E giudicato da tutte le curie
degno del trono ; vi ascese. : nè curò del Senato che non volle come solea
ratificare la scelta del popolo. Cosi re divenuto fondò molte altre
istituzioni, e fece grande e memorabile guerra co’ Tirreni. Io dirò prima delle
istituzioni. Appena strinse lo scettro comparti tra’ merce- narj Romani le
terre del comune : poi fe’ comprovare le leggi su i contralti e su le
ingiustizie dalle curie, estese ^illora a cinquanta, quantunque non sia ora ciò
da ricordare. Aggiunse a Ronia il Viminale, e l’Esqui- lino due colli, cosi
nominati, capaci T uno e 1’ altro di nna città liguardevole, dispensandoli
parte a parte ai Romani privi di case, perché ivi se le fabbricassero ; anzi
egli stesso ivi ediCcò la sua nel sito più idoneo delle Elsquilie, Fu questo 1’
uhimo re che ampliò il cir- cuito, della città, congiungendo ai cinque gli
altri due colli, dopo avere presi gli aiigurj e compiute le usate pie cerimonie
inverso gl' Iddj. Non poi la citti mise mai più da largo le sue mura ; non
avendolo, come dicono, permesso i destini : ma tutti intorno i sobborghi che
pur sono molti e grandi, si resuno so>perti, non chiusi da mura, ed
espostissimi, se nemico mai sopravvengavi. Che se alcuno mirando a questi,
voglia la grandezza racco-r glierne di Roma ; egli errerà certamente : perocché
noo avrà nino certo seguo, dal quale discernere fin dove la città si oontinua o
dove si termina. Cosi bene que’ sob- borghi al fabbricato inleroo si
congiungono, che pre- sentano a chi li contempla la immagine come di una città
che stendesi all’ iii6nito. Ma se taluno prendendo regola dalle mura,
certamente malagevoli a distinguersi per le molte case fabbricatevi intorno, ma
che pur sevv bano via via de’ vestigj dell' aulica loro struttura voglia
risaperne il circuito in ristretto dei circuito di Alene; vedrà che il ricinto
di Roma non molto eccede quello di Atene. Ma quanto alla grandezza e bellezza
che Rpma presenta a miei giorni ; avremo appresso luogo più ac- concio a
discorrerne. Poiché Tullio comprese entro un giro solo di oiura i sette coili ;
divise la città in quattro parti ; - de-' nominandole da que’ colli, 1’ una
Palatina ^ l’ altra Sii- burrana, la terza Collina, e 1* ultima Esquilina. Cosi
distese a quattro le tribù che erau tre sole. Intimò poi che chiunque abitava
1’ una delle quattro parti, quasi paesano di quella nè portasse in altra il suo
domicìlio, nè in altra desse il nome suo pe' cataloglù militari, nè il tributo
per le spese della guerra : in somma che noi^ rendesse in altra i servigi che
doveansi pel comune; nè più ordinò le milizie secondo le tre tribù disposte come
prima per genti ( i ) ma secondo le quattro da lui create e compartite ne’varj
luoghi ; destinando per ciascuna un capo qual sarebbe un tribuno o prefetto, il
quale dor vesse conoscere il domicilio di ognuno. Quindi ordinò che in ogni
quadrivio si facessero da’ vicini picciole sa- cre cappelle agli Dei lari
custodi della contrada, isti- tuendo per legge che ogni anno si onorassero di
aa- grifizj, e che ciascuna famiglia porgesse loro le obbla-- zioni sue :
comandò che assistessero e ministrassero à chi facea tal sagri6zio non gl’
ingenui ma i sèrvi ; di- lettandosi quegl’ Idd) del ministero di questi.
Continuano i Romani pur nel mio tempo pochi giorni dopo de’Sa* tumali tal festa,
veneranda in tutto e magniBca, e detta compitale da’ quadrivi che compiti da
.loro si chiamano. (i) Romolo fece ire tribù eecondo te diverse genti : erano
la tribù, la prima Ramnentù dei Romani posti ad abitare nel Pala- tino, la
seconda TatUnsU da Tasio, ebbe il monte Capitolluq, e la tersa dei Luceri a
luco o dal bosco dato per asilo i era degli stranieri che aveano ivi cercato nn
rifugio. Col progresso del tempo siccome la gente aggregala a Roma superara il
popolo primitiro ; COSI Tullio fece una nuova divisione di tribù. . a 5 Serbano
nel* sagrifìzio 1’ anticx) rito, placaodo gl* Iddj Lari con intrametlervi i
servi, a’ quali tolgono in quei giorni quanto tien forma di servile; perchè
riconfortati da tali dolci maniere ove è misto del grande e dell’ono*, riGco sì
affezionino più vivamente ai padroni e men sen> tano il peso della loro
condizione. Inoltre, come Fabio scrive, divise tntla la cam- pagna io ventisei
parti, chiamandole tribù parimente : e congiunte queste alle quattro urbane se
ne ebbero trenta inAutte : ma Yenonio dice che se ne ebbero tren- tuna :
laddove Catone ben più autorevole di essi (,) af- ferma che le tribù ne’ tempi
di Tullio furon tutte, non però distinguene il numero. Tullio dunque secondo
gli atupizj divisa la campagna in tante parti, quante mai furono, apparecchiò
su luoghi montuosi e fortissimi de- gli asih\ chiamandoli pagos con greco nome
o castelii, onde renderne salvi i coloni. Imperocché .quivi tutti si
rifuggivano ndle irruzioni de’ nemici, e quivi spessis- simo pernottavano. Ci
aveano in questi de’ presidi inca- ricati di conoscere i nomi de’ coloni,
conti*ihnenti a quel borgo, e li poderi su quali viveano. E se mai portava il
bisogno di convocare que’ contadini per le arme, o di esigere da ciascuno le
lasse ; questi li congregavano, o ne raccoglievano le somme. £ perchè la
moltitudine non fosse difGcile a trovarsi, ma facile a descriversi e palese;
fece erigere degli altari ai Numi contemplatori e custodi del luogo, perché
quella ogni anno vi si riu- nisse e ve gli onorasse con pubblici sacri Gzj,
istituendo (i) Di Fabio • di Venonio.
tal (ine la festa soleanissima delta dei viUagi (i)."^Anzi intorno
a tali sagrifizj scrisse leggi che i Romani ser* bano ancora. Per tal sagriSzio,
per tal celebrità volle cbe contribuissero tulli una data moneta, altra però
gli uomini, altra le donne, ed alu'a gl’ impuberi : talché numerandosi queste
dai, presidi delle sante cose rileva- vasi il totale degl’ individui secondo il
sesso e la . 6tà. E volendo, come scrive Lucio Pisone nel primo degli annali,
conoscere quanti erano domiciliati in Roma, quanti vi nasceano o vi morivano, o
toccavano * la età virile; stabili qual moneta dovessero i parenti vergare per
ognun che nasceva nell’ erario di Eileitia, detta dai Romani Giunone Lucifera,
o in quello che chiamano di Venere Libitina, là nel bosco, per ognun che mo-
riva, o in quello della Dea Gioventù per ognuno che alla virile età perveniva.
Da queste monete intendeasi ogni anno quanti erano in tutto, e quanti aveano
ido- neità militare. Ciò fatto diede ordine, che i Romani. re- gistrassero,
apprezzandoli inargento, i lor beni, e giu- rando di apprezzarli come dee 1’
uomo candido e buo- no t e che insieme dichiarassero quanta era la età loro,
quali i padri loro, le mogli, ed i figli ; aggiungendovi dove in città
soggiornassero, o in quale de’ villaggi d^Ho campagna ; e chi non &cea pari
stima era in pena spo- gliato de’ beni, flagellato e Venduto. Dorò questa legge
lungo tempo tra Romani. XVI. Cosi prese da tutti 'le stime, e rilevatone il nu-
mero di essi, e la grandezza de’ beni loro introdusse (l) Ciut Paganaliu. una
instituzione savissima che fu poi larga fonte di beat a’ Romani, come il fatto
stesso Io dimostrò. La islit»* zione fu di segregare dal resto del popolo quei
che aveano sostanze più grandi non però minori di cento mine, e di ordinarli in
ottanta centurie (1), le quali, armandosi, portassero scudo argolico, elmo di
bronzo, corazza, stivali, asta e spada. Poi separandole tutte in due parti
formò quaranta centurie di giovani per le spe> dizioni in campo aperto, e
quaranta de’ più adulti, le quali in città si restassero per custodirla quando
le altre uscivano per la guerra. E questa era la milizia, prima di ordine ; per
altro i giovani aveano sempre il primo luogo onde proteggere tutta l’armata.
Dal residuo quindi del popolo segiegò quelli ancora che aveano meno di cento
mine non però più scarse di settantacinque, compar» lendoli in venti centurie
che portassero arme, simili a quelle de’ primi, toltane la corazza e dato ad
essi lo scudo lungo in luogo dell’ argolico (u). E dividendo quelli di oltre
quarantacinque anni dagli altri che aveano età militare formò dieci centurie di
giovani, le quali an- (1) Nel Cesto Xt^gn: questa roce k ambigua: può
sigaificare cen- turia, manipolo, coorte. Il traduttore latino la interpreta
per cen- turia : e questa pare la nozioue piti acconcia : ma deve riflettersi
che cengia: vai quanto compagnia di cento, laddove in questo luogo non
significa cento esattamente ; ansi ne] paragrafo iS di questo libro significa
ben altro che cento. Tra I LATINI ci ebbe io Cfypeut e lo tculuni. Il primo era
detto «cevrir da’* Greci, ed il secondo Bv/i»f i il primo era più breve e
sièrico, l’altro piò lungo. La nostra lingua, come di un popolo che più non usa
quelle armi non ba forse parole ben disliute o note pet indicare la doppia
forma. Targa, Rotella o Broccbiero può forse dirsi il C/fpeus, e scudo è voce
generica di ogni sorta di quelle armi. Digitìzed by Google a8 DELis Antichità’
romane dassero in guerra per la patria, « dieci di anziani che in gtiardia
rimanessero delie mura. Era questa la mili- zia, seconda di ordine, e prendea
luogo dopo de' primi nella battaglia. Una terza ne fece di quelli che aveano
meno di settantacinque mine non però sotto le cinquanta; ma ne minorò T
armatura non solo delle corazze come alla seconda; ma de’ stivali ancora.
Descrisse pur questi in venti centurie dividendoli parimente secondo 1’ età,
talché se ne avessero dieci de’ più gióvani, e dieci de’ più maturi. Era il
luogo loro nelle battaglie appunto do- po quelli che seguivano i primi. XVII.
Trasse un quart’ ordine di soldati da quelli che avean meno di cinquanta, e non
meno mai di ven- ticinque mine; disponendolo in venti centurie, dieci dei
floridi, dieci de’ provetti per anni, come avea fletto co- gli altri ; e dando
loro per arme scudi, aste, e spade, e r ultimo posto nelle battaglie. Reclutò
la quinta mi- lizia da quelli che avean meno di venticinque mine, non però meno
di dodici e . mezzo, acconciandola k- condo gii anni di ognuno in trenta
centurie, quindici de’ più avanzati, e quindici de’ più giovani. Diè loro
strali e Sonde, ma luogo fuori deli’ esercito, Uiesso in battaglia. Comandò che
quattro centurie allatto inermi accompagnassero tutte le altre : cioè due di
annajuoli, di falegnami, e di altri per altro militare lavoro, e due di
sonatori di trombe e timpani e di altri stromenti pe’ bellici segni. Ma gli
arteflci seguitavano la miUzia dà second’ ordine : e distinti anch* essi per
età, quali se . guitavano le bande de’ giovani, e quali degli anziani. I^addove
i sonatori di trombe e di timpani lenean die- tro alla miUzia quarta di ordine
; distribuiti anch’ eglino in giovani e vecchi. Erano li centurioni tmcelti
fra' tutti li più insigni nelle arme; e reggea' ciascuno la sua cen- turia
docilissima ai cenni. Tale era il metodo onde avessi la soldatesca legionaria e
leggera. Scelse poi la cavallerìa dai più facoltosi, e più cospicui di
lignaggio, e formatene di- ciotto centurie le dié compagne alle prime ottanta
cen- turie de’ legionarj. Erano pur di queste diciolto, chia- rissimi lì
centnrioni. Finalmente ridusse ad una centu- ria gli altri tutti, ben più numerosi
de’ primi che aveano men che dodici mine e mezzo, e gli escluse dalla mi- lizia
e li rese immuni da ogni tributo. Cosi risuitaron sei ordini che i Romani
dicono classi denominandoli con greca parola : imperocché quello che noi
signifi- chiamo colla voce imperativa colei ( chiama ) lo signifi- can essi coll’altra
cala (>) ed anticamente caleseis pro- nunziavano in vece di classi.
Comprendeano queste classi cento novanutrè centurie. Formavano la prima
Bovantotto centurie compresevi quelle de' cavalieri : ven- tidue cogli artefici
la seconda : venti la terza : di nuovo ventidue co’ sonatori di trombe e di
timpani la quarta ; trenta la quinta : ed era dopo queste una centuria uuica la
classe de’ poveri (a). (i) Calo catas tt» antico veibo latino por chiamare j
donde pur cbbesi la noce Calerule. (a) Classe prima. - 9S -- seconda aa '
tersa. ao quarta aa quinta 3 o - sesta. Introdotto un tale sistema, iatimava i
soldati per la guerra secondo le centurie, e li tributi secondo li beni. Quante
volte a lui bisognassero dieci o venti- mila soldati ; avendo distinta la
moltitndine in cento novantatrè centurie, imponea ebe desse ognuna la sua
parte. Calcolando, le spese da farsi pe’ frumenti e per gli bisogni di guerra ;
egli stesso le compartiva secondo gli averi di ognuna tra le centurie, ordinate
in cento no- vantatrè. Seguitò da questo ebe i possidenti piò grandi essendo
minori di numero ma divisi io più centurie fossero sensa requie astretti a più
guet're, e vi contri- buissero danaro più ohe altri : laddove i possidenti mez-
xani e piccioli quantunque più numerosi, ridotti in meno centurie, non
combatteano che alternativamente e di raro, né pagavano se non leggeri tributi
; e quelli che non possedeano quanto rìchiedevasi, erano intatti da ogni
molestia. Nè ciò facea senza causa ; ma persuaso che gli averi sono per 1* uomo
il premio della guerra, . e ohe ciascuno travaglia per difenderseli ; riputò
giusta cosa, ohe chi pericola su più beni, più ancora al pe- ricolo si opponga
colla robba e colla persona : che men di molestia risenta in ambedue chi men
perderebbe: e finalmente che chi non teme per cosa ninna non sia nemmeno in
cosa alcuna aggravato, immune da’ tributi perchè bisognoso, e libero dalla
guerra perchè libero da’ tributi. Imperocché li soldati Romani militavano al-
lora, ciascuno a spese sue non lo stipendio riceveano dal pubblico ; nè pensava
altronde che avesse a contri- buire chi non aveane i mezzi e stentava il vitto
quoti- diano : nè che colui che non contribuiva militasse a spese altrui qual
mercenario. G)sl rivolse Ai più ticchi tatto il carico de’ pe« ricoli e delle
spese : vedendo però che sen disgustavano^ nè raddolcì per altro modo il mal
contento, e ne rat* temperò lo sdegno, concedendo ad ewi tal prerogativa per
cui gli arbitri sarebbero del pubblico esclusine i poveri. Nè comprese il
popolo di ciò che facessi le con* srguenze. Era la prerogativa ne’ comitj, ove
dai popolo risolveansi. le cose le più gravi. Ho già detto di sopra come il
popolo secondò le antiche l^gi era 1’ arbitro di tre cose grandissime e
necessarissime : cioè di eieg> gere i suoi capi in città e nel campo, di
ammettere o di abrogare le leggi, e di conchiudere la guerra o la pace.' E tali
cose discuteva, e decidevate il popolo per curie, parrggiandovisi il voto del
grande a quello del picciolo possidente. ^ E siccome pochi, come avviene, erano
i facoltosi ; ma più assai li poveri; cosi preva» leano questi ne’ comlej.
Tullio ciò vedendo trasferì nei ricchi la prepotenza de’ voti. Imperocché
quando pare» vagli di' far creare i Magistrati o discutere le leggi, o
Conchiudere la guerra teneva i comizj non più per ci^ rie, ma secondo le
centurie anzidette. E prima chia» mava a dare il Suo volo le centurie di
maggior possi» densa le quali èrano ottanta di fanti e diciotto di ca- valieri.
Or' queste più numerose che le altre di Un tre (i) quando fossero unanimi,
superavano le altre ; e la di» scussione avea fine. Che se non si univano
queste in uu parere ; invitava allora le ventidue scritte nel se* coud’
ordine*., £ se i voti sciudcvansi ancora ; soprac» (i) Erauo noTanioUo, e le
altre tutte novauUoinijue. cbianuva le centarie di terz’ ordine : iodi quelle
del quarto, e cosi via via, finché novantasette centurie si trovassera
consentanee (i). Che se ciò non ottenessi nep- pure colla quinta, chiamata, ma
le cento novantadue centurie si contrapponeano con parti eguali.; invitava
allora 1’ ultima centuria che era de’ bisognosi, e però libera dai tributi e
dalla milizia. E qualunque fosse la parte alla quale accostavasi questa
centuria ; quella pre- ponderava. Ma ciò era ben raro a succedere, per non dire
impossibile ; mentre il più delle discussioni termi** navasi col chiamar de’
primi ordini senza procedere al quarto. Doud’ è che l’ invito de’ quinti e
degli ultimi superduo riusciva. Istituendo tal sistema e tal prerogativa
inverso de’ ricchi, Tullio deluse, come ho detto i poveri ; né sei conobbero, e
furono esclusi dalle cariche. Immagi- navano questi che essendo richiesti un
per uno a dare il suo voto, ciascuno nella sua centuria, avessero egual parte
nel tutto : ma s’ ingannavano : perchè uno era il voto della intera centuria, e
qual centuria conteuea . men cittadini e quale più i^sai ; e perchè prime vota-
vano le centurie più ricche, più numerose per serie, quantunque con men
cittadini. Aggiungi che un solo era il voto de’ bisognosi, quantunque fossero i
molti ; ed aggiungi che ultimi si chiamavano. Per tal metodo i ric- chi,
quatunque assai soggiacessero a spese, né avessero mai requie da’ perìcoli
della guerra, men sentivano il (i) Erano le centurie senza l’ultima 193. numero
la cui metà è 96. Affinchè dunque vi, fusse preponderanza doveva un parlilo
nascere almeno da 97 e I' alito da 96 ocniutia.peso ; perchè erano gli ariìitri
divenuti di gravissime cose, ed aveano tolto agli altri tutto il potere.
Altronde i poveri se non aveano che la minima parte nelle pab- bliche cure sei
comportavano placidi e ebeti, perchè li- beri dai tributi e dalla guerra. Dond*
è che que’ mede- simi i quali consigliavano ciocché era da fare ; quegli
appunto se ne mettevano ai pericoli ed alle opere. Durò tal sistema per molte
età tra’ Romani. Ma ne’ tempi miei fu variato, e renduto più popolare per forza
di grandi necessità, non perché le centurie fossero disciotte ; ma perchè non
più serbavasi 1* antica diligenza nel chia- marle; come io stesso, presente più
volte ai comizj, ho veduto.: ma non è questo il tempo conveniente a parlar di
ciò. Tullio data cosi regola al censo, comandò che tutti i cittadini andassero
colie armi al campo più grande dinanzi Roma : e là, messi in squadre i
cavalieri, or- dinati li fanti in battaglia, e ridotti i soldati leggeri,
ciascuno nelle proprie centurie ; li espiò con un toro, un ariete ed un capro.
Egli fatte condurre prima tre volte le vittime intorno dell’ esercito le sagri
Beò poscia a Marte, Nome sovrano di quel luogo. Anche a miei giorni vengono i
Romani purificati con egual cerimo- nia, che essi chiamano lustro, dopo
&tto il censo, da que’ che n’ esercitano' il magistrato santissimo. Come
ri- levasi da’ libri de’ censori, il, catalogo de’ Romani che si registrarono
ascese allora ad ottantaqnattro mila set- tecento. Prese questo re non picciola
provvidenza per ampliare le classi del popolo, ideandone de' mezzi sfnggiti a
suol predecessori. Imperocché provvidero questi a far moltitudine ricevendo i
forestieri e consociandoseli senza divario di natali o di sorte. Ma Tullio
concedè che entrassero a parte della repubblica pur gli schiavi Fenduti liberi,
se mai non volevano ripatriare. Àdon« que permettendo che registrassero le loro
sostanze iu- sieme con gii altri uomini ingenui gli ascrive fra le tribù urbane
che erano quattro fra le quali ritrovasi aa« cora la discendenza dai liberti, e
fece che vi godessero quanto gli altri vi godeano di diritti. Disgustandosi di questo e mal sopportandolo i
Patrizj ; egli convocatane la moltitudine disse : cho meravigUctvasi
primieramente de' malcontenti se credei vano che t uomo libero differisse dal
servo per natura piuttosto che per la, sorte : e secondariamente se mv~
stiravano gli uomini degni di onori non dai costumi né dalle maniere, ma dalla
prosperità, vedendo quanto caduca, e quanto mutabile sia la prosperità, mentre
TÙuno, nemmeno de’ più felici, può dire quanto tempo gli durerà. Considerassero
quante città barbare e gre^ che erano di serve divenute libere, e di libere
serve. E qui condannava la grande loro incongruenza mentre rendevano liberi
uomini degni di esserlo, e poscia ad essi invidiavano la cittadinanza : e
consigliavali piuttosto a non liberarli, se malvagi li riputavano: ma -se ripa*
tavanli buoni, non li vilipendessero quantunque fore- stieri. Dicea, che ben
era informe nè savia cosa che essi ammettessero alla loro cittadinanza tutti i
forestieri, senza distinguerne la sorte, o por mente, se erano servi divenuii
liberi ; e poi tenessero come indegni di tal graeia ^elli stessi che erano da
loro liberati : e dicea, che essi i quali credeano più saperne che gli altri
non ve- deano poi le cose presenti, elementari, e piane anche ai più inetti':
cioè che assai penserebbero i padroni anon rendere liberi cosi di leggeri i
servi se poi do- veano accomunarseli alle cose più grandi fra gli uomi- ni : e
che i 'servi assai più si studierebbero di far Fatile de’ padroni, se capivano
che resi liberi sarebbero an- cora cittadini di una città grande e beata ; e
che am- bedue questi beni Se gli avrebbero appunto dai padroni. Da ultimo
fattosi a ragionare su F utile pubblico ricor- dava a chi io sapeva, ed a chi
noi sapeva insegnava, che una città che aspiri al comando, una città che pre*
pansi alle grandi cose, non dee niun bene cercare quanto F aumentò del popolo,
onde aver forze contro tutte le guerre, e non distruggere Ferario con assoldare
gli estra- nei, perciò dicendo che i primi re concedevano a fo- restieri la
cittadinanza. Che se ora adottavano la sua legge; aggiungeva che per loro via
via crescerebbe una gioventù numerosa, nè sarebbero mai scarsi di soldati ;
anzi che ne avrebbero abbastanza quantunque fossero astretti far guerra contro
di tutti. Vi sarebbero ancora oltre le pubbliche, altra utilità non poche pe’
ricchi se lasciavano che gli schiavi renduti liberi avesser parte nelle
adunanze ; mentre ne sarebbero in queste nel mag- giore bisogno favoriti co’
voti o con altre decenze, e la* scerebbero ne’ discendenti di essi altrettanti
clienti ai posteri loro. Consentirono a tal dire i patrizj che si am>
mettesse un tal uso in repubblica: e vi persevera anco- ra, custodito come una
delle leggi sacre ed inviolabili. E poiché son venuto a tal parie di narrawoue
; parmi necessario adombrare i costami de’ Romani in que’ tempi sopra gli
schiavi ; perchè niuno riprenda nè il re che tentò volgere in cittadini gli
schiavi già li- beri, né quei che la legge ne ammisero, quasi abbiano
incautamente abolito istituzioni bellissime. Ottenevano i Romani dei schiavi
per giustissime guise:' imperocché gli aveano o comperandoli dal pubblico che
metteali qual preda all’ incanto, o concedendo un capitano che si
appropriassero i presi in gnerra insieme con altre cosej o redimendoli da altri
che gli aveano . con eguali mar- niere acquistati. Mé Tallio che lo introdusse,
nè gli altri che lo riceverono e serbarono; tennero come vituperoso e nocivo al
pubblico il costume pel quale si ridonasse la libertà e la patria da chi
possedeali come schiavi, a quegli uomini che spogliati in guerra di patria e di
li- bertà si erano utili dimostrati verso i primi che gii aveano soggiogati, o
verso altri che gii avevano comperati dai primi. Ricuperavano moltissimi la
libertà gratuitamente in vista deir onesto e bel procedere loro : e questo era
il più onoridco mezzo onde riaversi : pochi ne sborsa- vano un prezzo,
accozzato con legittime e caste fatiche. Non è però così di presente, ma sono
le cose in tanta confusione, e cosi belle virtù de’ Romani sono invilite e
bruttate; che chiunque trae danaro da crassazionl^ da sfasci, da prostituzioni
o per altre ree guise, costui con tal prezzo redimesi, e diviene un Romano.
Otten- gono altri un tal dono dai loro padroni, divenutine i complici degli
avvelenamenti, delle uccisioni, e. delle in- giustizie contro la : repubblica e
contro gl’ Iddj : tal altri Digitized by Goo e de’ Veietiti, -già prime ad
insorgere, e colpevoli di aver mosso le altre alla guerra co’ Romani, queste in
pena le multa della campagna, coi divise in sorte tra gli ammessi di fresco
alla cittadinanza di Roma. Compiate tali cose in guerra ' ed in pace, e fondati
due tempj l’uno nel Foro boario, e l’altro in riva del Tevere alla Fortuna
sembratagli propizia tutti i suoi giorni, e da lui chiamata Kirile come
chiamasi ancora (i) ; alGne provetto assai per età, nè lontano ornai dal suo
termine, morì tra le insidie dei genero suo e della Gglia. Io dirò di queste
insidie ma ripigliandone il GIo alquanto da lungi. Avea Tullio due Gglie,
nategli da Tarqui- nia, sposata a lui dal re Tarquinio medesimo. Divenute
nubili le donzelle, cugine dal canto materno a’ nipoti di Tarquinio, diedele
appunto a questi per mogli, la più grande al più grande, e la minore al minore
; cosi pa- rendogli che meglio converrebbobo a chi le prendeva ; (i) Tullio
fondò piò che due tempj. Fiutar, in quest. Rom. 74 * Ma la fortuna ViriU fu
coosccrata da Anco e non da Serrio secondo lo stesso Plutarco De Fortuna Roman,
se non che per la diflbrmità de’ costami si trovò ì’ua genero e l’ altro
accoppiato col sao contrario. Lucio il maggiore, baldanzoso, caparbio, tiranno
per indole, ebbesi la fanciulla, savia ^ mansueta, piena di amore paterno:
laddove Arunle il più tenero, mite molto per genio e tutto affabile, se ne ebbe
la iniqua, e tutta ardire, e tutta odio contro del padre. Ora seguiva che
movendosi ognuno a seconda del genio suo venivane ripiegato in contrae rio
dalla sua donna. Ardea lo scellerato dal desiderio di balzare il suocero dalla
reggia : ma intanto che a tale disegno applicavasi, erane dai voti contrariato
e dal pianto della consorte. In opposito il mite sposo, fermo in cuor suo che
non aveasi ad offender il suocero ma che do* veasi aspettare che la natura ne
consumasse la vita, ni tollerando che il fratello commettesse quella
ingiustizia, era spinto in contrario dalia ribalda sua compagna, che lo
istigava e garrivalo, rimproverandolo come vile. E poiché niente poteano nè le
suppliche della savia donna che insinuava il suo meglio al non giusto suo sposo,
nè le istigazioni della malvagia che provocava ai delitti Taomo suo, che non
era temperato a commetterne; ma ciascuno seguiva l’indole sua tenendo per
molesta la compagna perchè non avea desiderj uniformi ; la prima ne piangeva,
ma comportava l’acerbo suo caso, quando l’altra fremevane audacissima, e
cercava come togliersi dal sno camerata. Or qui levatasi di mente la
scellerata, considerando quanto bene a lei si confarebbe il marito della sua
germana, sei fa eh iamare, quasi per abboc* carsegli di necessarie cose. E
poiché fu venuto; ordinando che si rititasserò quanti eran seco per discorrere
sola con solo» Or su, disse, o Tarquinio posso io liberamente e senza pericolo
ridire quanto medito pel bene di am- bedue ? Lo celerai tu quanto sei per udire
? o vai meglio che io taccia, nè palesi V arcano' consiglio ?, £d invitandola
Tarquinio à dire, e certificandola coi giuramenti, qualunque ne volesse,
cbe-taóerebbe i di- scorsi ; ella non più contenuta dalla verecondia >neO‘
amici che abbondano, ed altre comodità copiose e grandi per imprendere. Che
più, dunque t’ indugj ? u4 spetti forse il tempo che per sé stesso venga e ti
dia la corona senza che pur te ne brighi ? Quando ? dopo la morte di Tullio ?
Jippunto la fortuna riguarda gl’ indugj degl’ uomini, appunto la natura pon
fine alle vite secondo la pro- porzione degli anni ! Anzi oscuro,
incomprensibile è f esito delle cose mortali. Sebbene, io lo dirò pur
francamente, quandi anche tu me ne chiami temera- ria, una a me sembra, una la
causa per la quale niente commoveti, non l’ amor degli onori non della gloria.
Hai tu donna mal conforme a tuoi modi; e questa li lusinga, e t’ incanta, £
ammollisce : e da questa rendalo men che uomo diverrai finalmente un ignoto.
Così pure quel marito eh’ è meco, tutto paura, e senza nulla di virile, quegli
ha depresso me ch’era nata alle grandi cose, quegli ha fatto il fiore lan- guir
di bellezza che mi avvivava. Se portava il de- stino che tu prendessi me per
moglie ed io te per marito, già non saremmo tanto tempo vivati nella ignobilità
de’ privati. Che dunque non emendiamo le colpe della sorte ? che non
trasmutiamo il matrimo- nio ? che non togli tu dalla vita cotesta tua donna ?
Io sì che apparecchio per quel mio marito /’ egual trattamento. E quando,
spenti questi ^ ci sarem con- jugcUi y allora consulteremo con 'sicurezza sul
resto, liberi già dagli ostacoli che ci conturbavano. Che so altri per cUtre
cause teme la ingiustizia ; già non è da riprendersi chi tutto ardisce per
dominate. Mentre Tullia cosi diceva, ne ascoltava Tai> quinio con diletto i
disegni : e dando immantinente e ricevendo i pegni di fede, e le primizie dell’
empie noz- ze, si ritirò. Non andò guari tempo ; .e perirono p^ eguale sventura
la primogenita di Tullio, ed il minor de’ Tarquinj. E qui sono astretto a far
parola di nuovo di Fabio, e riprenderne la negligenza nell’esame dei tempi.
Imperocché fattosi alla morte di Arante non. pecca per questo capo solo come io
dinanzi dicea, che deaeri- velo per figlio di Tarqninio ; ma per l’ altro
ancora che narra, che mortosi Arunte fu sepolto dalla madre Ta- naquilla, la
quale non potea di que’ tempi più vivere. Conciossiachè giù di sopra fu
dimostrato che costei nu- merava settantacinque anni, quando mori Tarquinio.
Ora aggiungi a questi altri quarant’ anni, giacché sap- piam dagli annali che
Arunte mancò nell’ anno quaran- tesimo del regno di Tullio; e saran gli anni di
Tana- quilla cento quindici. Tanto picciola nelle storie di que^ st’ uomo é la
cura intorno la ricerca del vero ! Dopo ciò Tarquinio senza indugio riprese in
Tullia una mo- glie, ricevendo lei da lei stessa, e senza che la madre
approvasse, o consolidasse il padre quelle nozze. E come que’ due impurissimi,
come que’ due micidiali si con- giunsero, tentarono di cacciare se noi cedea di
buon grado, Tullio dal trono: e teneano perciò delle conventicole, e raunavano
que’ senatori che aveano cuore alieno da lui e dalie forme di un governo’
popolare, e comperavano i più bisognosi della città quei che non Bveau cura
ninna della giustizia, facendo intanto tutto senza nasconderlo. Tullio vedendo
ciò, ne fu contur» baio, e temette di essere sorpreso da qualche infortu- nio.
Nè dovrebbesi meno se dovesse far guerra alla figlia ed ai genero, e pigliarne
vendetta come di nemiri. Adunque invitò molte volte Tarquinio a discorso in
mezzo degli amici ; ora redarguendolo, ora ammonendolo ed ora esortandolo a non
far contra lui mancamento. Poiché però costui non lo attendeva, e pretestava
che direbbe in Senato i suoi diritti; egli stesso adunando il Senato,
incominciò : Tarquinio o senatori ( e ben mi è ciò manifesto ) Tarquinio tien
dei congressi; Tar~ quinio m insidia lo scettro. Io da lui voglio, pre- senti
voi, risapere, qual privata ingiuria ha da me sostenuta, o qual vede che io ne
ho fatta sul pub- blico per insidiarmi. Rispondi Tarquinio, non '{infin- gere,
di che avresti tu mai per incolparmene? È que- sto il Senato, ove di essere
udito desideravi. E Tarquinio replicò : Breve o Tullio sarà il dir mio, ma
giusto ; e però voleva io profferirlo tra questi. Tarquinio V avolo mio possedè
la reggia di Roma, e molti e grandi travagli sostenne per essa. £ lui morto, io,
gli debbo succedere secondo le leggi comuni de’ Greci e de Barbari. E
convenivasi, come si conviene a quei che succedono agli avi, che io ne
ereditassi non pur le monete, ma la reggia : e tu mi davi le une, come lasciate
da esso, e mi toglievi la reggia, e già da tempo la tieni, senza averla mai
ricevuta a norma delle leggi : perocché nè gl’ interré vi ti scelsero, nè i
senatori mai per te davano il voto, nè assunto vi eri dacomizj legittimi come
l’avo mio e come tutti i re precedenti. Tu andavi al trono,- e comperando e
subornando per ogni modo una turba di vagabondi e di miseri, una turba rovinata
nella stima per le accuse e pe’ debiti, una turba infine niente sollecita del
pubblico bene : e così andandovi nemmeno dicevi di stabilirlo per te, ma davi'
le viste di custodirlo per noi orfani e pargoletti: e dichiaravi, udendolo
tutti, che quando saremmo già adulti, lo renderesti a me che sono il pià
grande. Se dunque volevi tu far la giustizia, quando mi consegnavi la casa,
quando il danaro dell’ avo ; dovevi tu conse- gnarmene nommeno la reggia
seguendo V esempio dei tutori onorati e dabbene, i quali ponendosi alla cura
de’ regi figli, orfani de loro padi’i, rendono ad essi appena son grandi
puntualmente e santamente la si- gnoria degli antenati. Che se ancora non io
semhra- vati idoneo a pensieri convenienti, ìiè bastante pei giovani anni a
città si popolosa, dovevi almeno re- stituirmene il governo quando io giunsi ai
treni anni che son gli anni vegeti del corpo e della mente, e ne’ quali tu mi
davi la tua figlia in isposa. Avevi pur tu questa età quando prendevi la cura
della no- stra casa e del regno. Ti sarebbe, cosi facendo, accaduto di esserne
detto pietoso e giusto, di essere il partecipe de’ miei consigli, il partecipe
degli onori, e di udirmiti chiamar padre, e benefattore « e salvatore ; e con
ogni bel nome, quanti ne sono destinati dagli uomini per le assioni le pià
preziose ; nè io già da quaran- taquattr anni sarei privo del regno, io non
informe di corpo, io non disadatto di mente. E ciò stando y osi pur dimandarmi
quale aggravio io ne senta, sicché io labbia per inimico, e te ne accusi? Anzi
dX, Tullio, dì per qual causa non mi stimi tu degno degli onori delt avo ; dì,
qual ne trovi, qual ten ^ngi buon ti- tolo di tal mia privazione ? Non pensi
forse che io sia germe puro di quella stirpe, ma intrusovi e spu- rio ? Come
dunque tu curavi un estraneo da quella famiglia ? o come, quando ei crebbe,
gliene rendevi la casa ? O pensi che io non lontano molto dai cin- quant’ anni
> io pur siegua ad essere un orfano ? un incapace ed moneti del pubblico ?
Lascia dunque gli schemi di domande invereconde; cessa una volta di esser
malvagio. Che se hai giuste cose a rispondere io, son pronto di rimetterle a
questi giudici, de’ quali tu non potresti ih città rinvenirne altri migliori.
Ma se di qua levandoti ricorri tu, come sempre solevi, a quella tua ligia
moltitudine ; già non sarà che io mel soffra. Io qui sono appeaecchiato
disputare sul giusto ; ma lo sono ugualmente per eseguirmelo, se non mi-
ascolti. Al tacere di lai ripigliando Tullio il discorso, così disse : Quanto è
vero o senatori che dee t uomo aspettarsi ogtd caso pià impensato nè crederne
as- surdo rduno, se fn questo Tarquinia sta per levarmi dal pritKÌpato : questo
Tqrquinio, else io prendea, che io salvava fanciulletto da’ nemici che lo
insidia- vano, che io educava e crésceva, e cresciuto, ' com- piaceami di
avermelo a genero, ed erede infine di tutto se io patissi umana vicenda. Ma
poiché tutto mi riesce in contrario, e che ne sono ami accusato come ingiusto ;
serberommi a piangere la mia sorte, rispondendo ora su miei diritti a fronte di
lui. O Tar- quinio, io presi la cura di voi lasciati fanciullini : nè già di
voler mio, ma costrettovi dalle brighe, la presi. Imperocché si dicea che
quelli ette aveano ma- nifestamente ucciso I avolo vostro onde riprendersi il
tròno, avrebbero occultamente insidiato • anche tutto il parentado : e quanti a
voi per sangue si riferi- scono, tutti confessano, che se quelli restavan gli
arbitri del comando, non avrebbero pur seme la- sciato della stirpe de’
Tarquinj. Non ci avea curar tore, non tutore ninno di voi se non una donna, la
madre del vostro padre, . bisognosa ancor essa di alr tri curatori per la
cadente età siui. Rimanevate vm solo a me corifidati, custode unico dell
orbitade vo- stra, a me che ora chiami un estraneo, un che niente a voi si
appartiene. Jn tali turbolenze ponendomi al comando io punii gli uccisori' deU’
avolo vostro', e ’ voi crebbi allo stato di uomini, nè avendomi prole virile,
io vi eleggea ^perchè à me succedeste. E que- sto o Tarquinio il discarico
della mia ‘cura; nè già potresti in parte alcuna imputarmene di menzogna, . Ma
quanto al regno, poiché di questo mi accusi, odi come io me ìo abbia^ e le
Cause per le quali non a voi lo ceda, nè ad altri. Quando io presi 11 governo,
avvedutomi che mi si tramavano delle insidie, volea nelle mani riporlo del
popolo. E chia- mando tutti a concioAe, io già faceami a cedere il comando per
cambiare con una vita di calma e senza pericoli^ la vita del comcmdare, la
quale è piena di invidia, e sparsa pià di amarezze che di piaceri. Non
comportarono i Romani che io tanto eseguissi, nè vollero alcun altro sul Comune,
e me ritennero, ed a me diedero col consenso de’ voti, il régno, quel possesso
loro, o Tarquinia, e non vostro. Così pure l'Oveano già dato all’ avolo vostro
tuttoché forestiero, e niente congiunto col re precedente ; sebbene Anco Marzio
lasciava de’ figli maschi e floridi per anni ^ e non de’ nipoti, e piccioli,
come Tarquinio voi la- sciò. Se legge è comune di tutti, che chi eredita le
sostanze e i danari dei rei che cessano, debba in- sieme r,iceverne il regno,
dunque non fu Tarquinio l’ avolo vostro che al morire di Anco ottenne là co-
tona, ma il figlio primogenito di questo. Ma il po- polo di Roma chiama al
comando t uomo degno di averlo, e non il successore del p’adre. Imperciocché
giudica che le sostanze sieno di chi le possiede, ma che il regno sia di quelli
che il diedero ; giudica con- venirsi che ottengano quelle gli eredi per sangue
o per testamento se i padroni sén muojono, e che tomi l’ altro a chi ’l diede
se vien meno chi preselo a reg- gere •; se non forse hai tu da contrappormi che
I avolo tuo ricevette il regno con tal condizione che non po- tesse pià
tortegli, e che lo tramandasse a voi suoi discendenti; sicché non fosse pià t
arbitro esso po- polo, di conferirlo a m«, levandolo a voi. Ma se hai tu punto
di simile, che noi produci? Ma non gli hai tu questi patti. Che se io non ebbi
il regno per buona via come dici, non- eletto dagf interré, noti portato dai
senatori agli cffari, né compiendo il re- sto a norma dette leggi; questi
dunque, .questi ho 10 vilipesi e non te : e questi e non tu, saria giusto che V
autorità men finissero. Ma nè io violai questi, né cdtro chiunque. Jl tempo tn
é buon testimonio’, che 11 potere mi fu dato legittimamente, e che legittima^
mente mel tengo. Imperocché già ne volge I armo quarantesimo e niun Romano pensò
mai che io com- mettessi, avendolo, una ingiustizia ; e non il po- polo, non il
Senato mai si mosse a spogliarmene. Ma lascisi pur tutto ità : diasi pur luogo
alle tue ragioni. Se io te privava di un deposito del- t avo, se io mi ascrissi
il tuo regno contro . tutti i diritti degli uomini, convenivasi che tu a quelli
ne andassi che mel diedero : che con quelli ti ramari- cassi e garrissi che io
mi tenga te cose non 'mie ; è che essi mi si obbligarono col dispensarmi t.
altrui: e se tu il vero dicevi; di teneri gli [avresti persiut- si. Che se tu
non certificavi ciò co- tuoi parlari ; e tuttavia pensavi, indebita cosa che io
regnassi, e che tu sei pià acconcio al maneggio del pubblico ; potevi almeno,
fatta ricerca diligente de miei errori, e nu- merate le belle tue gesta,
riclamartene giuridicamente la precedenza. Ma tu non hai fatta, nè luna nè F
al- tra cosa; e dopo tanto tempo, finalmente, quasi riavendati da lunga
ebbrietà, vieni per accusarmene » e nemmen ora dove si dee. Canciossiachè, già
non con- viene che queste cose qui dichi ( e voi non ve ne sde- gnate o Padri.,
mentre io cosi parlo non perchè vi si tolga questa causa, ma per dichiararvi li
costui vanilotfuj ), ma conveniva che preaccennandomi tu. che aduneresti il
popolo a conciane là mi accusassi. Ora ciocché hai tu schivato, lo supplirò io
questo per te :• convocherò il popolo, lo Jarò giudice delle Mense che òuoi :
lascerò che decida di nuovo, qual sia pià idoneo di nói per comandare ; e
quello che là desti- nasi, quello adempirò. Ma basti il fin qui detto a
risponderti : perciocché toma allo stesso dir poche o molte ra^ni eon emoli che
non le apprezzano, men-, tre questi per indole nemmen soffrono ciocché li per-,
suada ad essere umani. Ben io mi meravigliava o senatóri che sdeuni di voi (se
ve ne sono ) volendo depor me, co- spirassero con costui. F^olentieri udirei da
loro per qual mia ingiustizia mi fan guerra, o da quale mio trattò inaspriti.
Sanno essi forse che assai nel mio principato, perirono senza essere uditi,
assai furono spogliati, di patria, assai delle sostanze, o con altro sciagure
affitti ? o non avendo a ridire su me niun tirànnico modo di questi, sono essi
forse conseqtevoli delle, mogli lóro da ma disonorate ; delle prof ansate loro
verini figlie, o di tal altra mia incontinenza su ingenue persone ? Egli è
giusto se in me sorto tali eplpe, che io sia, nonuì del regno privato, che
della vita. O può .dire alcuno che un superbo io sono, un esoso per la mia
durezza, un-iiHollerabile per la mia caparbietà nel governare ? Qual mai dei re
predecessori fu così moderato, così umano nel suo potere,« o qual fu con tutti
come me, quasi un tenero patire co’ figli? Io quel potere che voi mi deste, voi
custodi di ciò che avete dagli avi ricevuto io non lo volli questo nemmen per
intero : ma creai leggi, ( e voi le approvaste queste leggi) su cose
principalissime,• e le intimai perchè tutti esigeste e rendeste cots-esse i
diritti, ed io stesso il primo mi vi sottoposi, docile come un privato agli
ordini, che io dava per nitri. Che più : non io mi tenni giudice di tutte le
ingiusti-‘ zie ; ma commisi che voi stessi giudicaste delle pri-, vate} ciocché
ninno uvea fatto dei re precedenti. ^Laon* de, non vedesi in me colpa sicché
altri me ne con- trarino. O turbano voi forse i benefizf miei verso del popolo
? Ma non sarebbe così pensare un offendeivi ! se già tante volte con voi me ne
giustificai. Se non- ché niente bisognano discorsi tali : se a voi pare che-
questo Tarquinio, preso il govermo, sia per ammii- nistrarvelo anche meglio :
io non invidio a . Roma .il suo miglior principe. Restituendo il comandò al
po-^ polo che mel diede, e tornandomi tra privati, farò che vedasi chiaramente
che io sapea tanto, ben' «io» minare, ' quanto io posso dignitosamente servire^
. 55 ascese in tribuna, e tennevi un patetico e Inngo ragio- namento óve numerò
le gesta militari eh’ egli iece men- tre viveva Tarquinio e dopo, e .ricordò
mano a mano le istitnaioni donde sembrava il Cornane prosperato di, molte ; e
grandi utilità. E venendogli dal dir di ogni fatto -amplissime lodi, e
desiderando ornai tutti sapere perchè li ridicesse, palesò finalmente come
Tarquinio accusa- • vaio di' egli tenesse a torto un regno che a lui si do-
veva : e come apaigeva che l’avolo gli avea nel morire lasciato con le
ricchezze anche, il regno, e che non po-, teva il popolo concedere ciocché suo
non era. E qui -^Vegliatosi in tutti clamore, ed. indignazione, egli inti-
mando silenzio, piega vali, che non impazientissero nè tumultuassero a quel
dire : ma chiamassero Tarquimo, e se. forse aveva giuste cose da esporre le
conoscessero: e se lo trovassero offeso, e se. piò idoneo a reggere, gli
affidassero pure il comando di Roma : egli se ne al- lontanerebbe, e
renderebbelo ad essi da’ quali lo .ebbe. Cosi lui dicendo e movendosi già per,i
iscendere dalla ' tribiina,, proruppe da tutti un grido, un gemito, un pregar
vivo ebe non cederne ad alui.il comando. E ci avea por chi esclamava elve si
avesse a tempestare Tar- qninio : e colui, vista in fremito la moltitudine,
temendo che non gli desser di mano ; foggiasene cogli amici in casa. Allora
tripudiando tutto il popolo ricondusse tra gli applausi e le acclamazioai
Tullio alla reggia. Tarquinio, veuutogK meno, quel tentativo, fremè dal
rancore, che il Senato non gli dess^ alcnn aiuto, quàndo egli fidava su questo
principalmente; e teuniesi per alcun* tempo in casa non conversandolo che gli
amici. Quando la donna sua gli si fece a dire elle più non dovea star mollemente
a bada, ma ebe dovea^ lasciate le parole, Tenire ai fatti, e primieramente cer-
car pace per mezzo degli amici da Tnib'o, perché co- lui credendoselo
riconciliato, meno il guardasse. E pa- rendogli eh’ ella ben consigliasse,
finse di esser pentito, e più volle per .mezzo degli amici Orò caldamente Tul-
lio affinchè lo perdonasse ; né difficilmente ve lo indusse, essendo
placabilissimo per indole, ed alieno da nna guerra inestinguibile colla figlia
e col genero. Ma venutogli po- scia il buon ponto, essendo il popolo sparso ne’
campi per la raccolta, egli usci cìnto di amici co’pngnali sotto ' d^li abiti:
dati i fasci ad alcuni de’ servi, e* presa per se regia veste ed altri simboli
del comando, si recò net F oro ; e standosi dinanzi la Curia, intimò che il
ban- ditore convocasse il Senato. E siccome ci aveanO già pel Foro
appostatàmente molti de’Patrizj consapevoli ed isti- gatori del delitto ;
allora si concentrarono. Intanto corso alcuno in casa di Tullio lo informa come
Tarquinio' ersi uscito con regie vesti, e chiamava i Padri a consiglio.
Stupitosi Tullio dell’ ardimento andò tra piccfolo seguito con più velocità che
saviezza: e giunto nella Curia) e vedutolo in sul trono, e con gli altri distintivi
reali, chi, disse, chi, scelleratissimo uomo, ti concedè que- sti onori? e
colui, /ìi, replicò, l’ardire tuo; fu la tua inverecondia o J\dlio ; perocché
non essendo tu libero, ma servo nato da serva « e posseduto qual pri- gioniero
dalT avolo mio, ti arrogasti il comando di Roma. Tullio, ciò udendo,
inaspritone, à biqciò fnor di proposito su lui, come per isbalzaflo dal trono.
Vide . 5'J TaitjaÌDio ciò con diletto ^ e sorgendo dalla regia sede afferra e
trasportasi Ini vecchio, che grida, ed invoca i suoi. Giunto fuori della Curia
egli florido e forte, le* vaio in alto > e trabalzalo giù per le scale che
mettono al luogo de* contizj. Alzatosi appena dalla caduta il vec- chio, cóme
vide intorno, pieno tutto de* partigiaui di Tarquioio, e deserto e vuoto de*
cari suoi, partesene malconcio e mesto con pochi che lo sostengono, e ri-
coóducoDO, mentre riga intanto la via di sangue.Narransi dopo ciò le opere
dell’ empia e barbara figlia, tremende ad udirsi, come portentose nè credibili
a farsi. Costei sentendo che il padre era ito in Senato vogliosissima di
conoscerne la fine, venne in sul cocchio nel Foro : e conosciutavela, e veduto
Tarqui- nio in su le scale della Curia, essa la prima a gran voce lo salutò
monarcA, supplicando gF Iddii, che il regno di hii riuscisse propizio a Roma. E
salutandolo monarca altri ancora de’ cooperatori suoi, • lo trasse in disparte
e di^se: Le prime cose o Tarquinia te hai Ut faUe come àoveansL Ma finché vive
TuUio non potrpi renderli stabile il regno. Egli se abbia picciolo tempo di
questo giorno ; ecciterattene incontro il po- polo ; e tu sai’ quanto il popolo
tutto è per lui. Su dunque' prima ih* ei torni in casa, manda chi lo uo cida ;
te ne libera. Ciò detto, e sedutasi di nuovo in sul cocchio,. parti. Tarquinio
convinto che la iniquis- sima donna ben consigliava, spediscegli contro
alquanti de’ suoi co* brandi : e quelli
trascorrendo rapidissima- ménte la via raggiunsero Tullio pressò la casa, e lo
uccisero. Abbandonato palpitavane ancora il cadavere per la strage recente ;
quando la figlia sopraggiunge : ma stretta essendo la via donde avessi à
passare le mule a tal vista si spaventarono : e 1’ auriga stesso .che le
guidava mosso da compassione si fermò e si volse a colei. La quale
dimandandogli perchè mai non pro- cedesse : Non vedi, disse, o Tullia, che qui
giace U morto tuo padre, nè vi è transito fuorché, sul cada-* vere suo ? E
sdegnatasene quella, e levatosi lo scAbello da’ piedi e lanciatoglielo disse :
’E non le guidi o stolto in sul morto ? E colni gemendo anzi per la compas-
sione elle per la percossa spinse forzosamente le mole so del cadavere: E la
via chiamata Olbia (i) per ad- dietro, fu dopo il tragico e barfiAro caso,
detta nélF idioma de* Romani scellerata. Tale è il termine di Tullio dopo quaranta-
quattro anni di regno. Dicono che qnest’nomo il primo alterasse ì patrii
costnmi e le leggi .ricevendo il prin- cipato non' dal Senato insieme, e dal
popolo come tatti i re precedenti ma dal popolo . sedo, guadagnane dosene la
classe > indige nte con' distribnzione e'donii, ^ altri sedncimentL E cosi
sta la'veritè; perciocché' nei •> *- (l) OAjStar >0 greco saU fiUce,
firtunaUn sareiiba il teina che la vìa ftlice fortunata fu delta scelterata pel
delitto. Alcuni leggono »va-fi»s io luogo di tXfittf, certamente, secondo che
scrive Varrime nel lib. ^, de lingua laiina, i Sabini quando tinnirono ai Ro-
mani, chiamarono Cipria la contrada di Roma nella quale si allog- giarono come
per buono angario, perché Cjrprwn tra’ SaiNui tigniScava il bene. E secondo ciò
la contrada, detta Cipria o. buona dni Sabiui pel buon augurio, sarebbe appunto
quella ghe fu. poi della scrllerata per la empietà commessavi. Ma Varrone
.scrive che questa contrade cran prossime, e non già le. medesime. . prifni
tempi quando un re moriva, il popolo dava al corpo del Senato la podestà di
stabilire la forma che pià volessero di governo, ed il Senato nominava gl’in-
terré, e gl’ interré sceglievano per sovrano 1’ uom più pregevole sia de’
cittadini, sia de’ nazionali, sia de’ fo- restieri : e se il Senato ’ne
approvava la scelta, se il po- polo co^ voti suoi r aotorizzava, se gli anspizj
la con- fermavano, còlui prendeva il comando. Che se mancava alcuna di queste
condizioni, ne; nominavano nn 'secon- do ; e poi un terzo, se avveniva che il
secondo non avesse propiziò quanto era d’ uopo dal cielo e dagli' notami. Ma
Tullio, come innanzi fu detto, assumendo in ■principiò il carattere di regio
tutore, e poi guada- gnandosi il popolo con gli amorevoli modi', fu -re no-
minata solamente da quello* Poi • diportandosi come uo- mo temperato e clemente
fe' colle opere successive ta- cere le accuse*, che non avesse* adempita ogni
cosa a norma delle Ipggi ; lasciando a > molti il 'sospetto, che se non era
presto > levata; avrebbe' ridotto- lo Stato- a forma di una repubblica. E
(|nesta é la cagion princi- pale. per «ui dicesi che alenai de’ palrizj lo
insidiassero^ Pionr potendo con altro modo hnirne il comando, ini- sero
-TarqUinie alla impresa e gli cooperarono il regno^ per voglia di deprimere -il
•'popolo fornài troppo potente pel ' governo
tura un giorno ; nella prossima notte spirò. S’ ignorava però da molti
la maniera del termine suo. Diceano al- cuni eh' ella stessa aveasi data da sé
la morte, an- teponendola al vivere. Altri però diceano che era stata uccisa
dalla figlia e dal genero come troppo ad- dolorata e benevola inverso lo sposo.
Per queste ca- gioni il corpo di Tullio fii privo di regj funerali, e di
magnifico monumento : conseguì però coUe opere sue memoria perenne in tutti, i
tempi. Anzi quanto iegU | fosse caro agl’ Iddìi lo., fece eziandio palése nu
se- gno celeste : dond’ è che alcuni tennero ancora per vera la opinione
incredibile e fiivolosa intorno la nascita sua come dianzi fa detto.
Appiccatosi il fuoco id tempio delia fortuna, che egli area già fabbricato,
mentre tutto era preda delle fiamme ne rimase intatta solamente la statua di
lui in legno dorato. . Il tempio e quanto .è' nel tempio rifabbricati dopo l’
incendip sul modo antico presentano le traccie di un’ arte recente: ma la
statua, antica com* era nelle fattezz^. vi riscuote ancora il qulto dai Romani.
E ciò è quanto abbiamo ricevuto sopra Tullio. Dopo di lui prese la siguoria di
Roma Laicìo Tar^illnio non gi^ fecondo le log^ ma colle armi nel- r anno quarto
dell* olimpiade sessantesima prima nella quale vinse nello stadio Agatarco,
essendo arconte di Atene Tericleo (i). Cosmi spigando la popolar mol- titudine,
spregiando i patria] da’ quali era stato con- dotto al trono, e confondendo e
sconciando ogni co- stume- e legge e disciplina colla quale i re precedenti
ave'ano dato forma a Roma; rivolse il governo in nna manifesta tirannide. E primieramente
mise intorno a sé guardie di bravi, naaionali ed esteri, con spade e lan* ce, i
quali vegliando di notte negli atrj della reggia, é scortandolo di giorno,
ovnnqne ne andasse, lo scber» missero appieno dalle insidie.' Inoltre non
usciva nè di continuo, né con periodo certo, ma di raro, e quando non
aspettavasi. Deliberava su le cose comuni molto in sua casa, e poco nel F oro,
in mezzo a’ parenti più stretti cbe lo guardavano. Non concedette che alcuno di
quei che il volevano si presentasse a Ini se noi chiamava : e presentatoglisi,
non era giè con esso, compiacevole e mite, ma grave ed aspro ' come un ti-
ranno, e terrìbile ansi che gioviale a vedere. Definiva le controversie su’
contratti in conformità de’ costumi suoi, non delle leggi e del dritto. Per le
quali cagioni i Romani lo denominaron superbo, ciocché nell’idioma nostro vuoi
dire soperchiatore contrassegnando l’ avo col soprannome di Prisco, o come noi
diremo antico per nascita, giacché quello aveva i nomi appunto del giovine. (i)
NelP annp »e di Roma secondo Catone, a» seconde Vat- reus, e &3a avanti
Cristo. Qaaado poi concepì di aver già consolidato il suo regno,
concertandosene co’ più ribaldi de’ suoi ami> d, avviluppò tra accuse
capitali i piò cospicui de’ cit- tadini ; e primieramente i contrari suoi, quei
che già non^voleano che Tullio si levasse dal trono, e quindi altri li quali
immaginavaseli malcontenti del cambia- mento, o li quali abbondassero di
riccbezae. Coloro che in giudizio li riducevano, gli accusavano l’un dopo
l’altro con delitti falsi, e con quello specialmente che tendevano insidie al
re che ne era il giudice. Ed egli quali ne condannava alla morte, e quali all’
esilio: e confiscati i beni degU uccisi o banditi, dispensavane alcun poco tra
gli accusatori, serbandone la piò gran parte per sè. Pertanto molli de’primar}
vedendo le ca> gioni per le quali erano insidiati, lasciarono, prima di
essere complicati in delitti, Roma tutta al Uranno. Vi furono pure alcuni
sorpresi ed oppressi di furto da lui nelle case o ne’ campi : uomini ben degni
di riguardo, ma non piò sen trovarono nemmeno i cadaveri. Di- Btrutla così la
maggior parte del Senato con su*agi e con esilii perpetui la supplì con
chiamare agli onori di quei che mancavano i propri amici: nè però concedette
loro di fare o dire se non quanto egli avesse prescritto. Tanto che li senatori
già scelti da Tullio, e superstiti ancora nel Senato, e contrarj fin’allora al
popolo sul concetto che la mutazione tornerebbe in lor bene per le promesse
avutene da Tarquinio ingannevoli e tradi- uici, vedendo infine che non aveano
piò parte nelle pubbliche cose, anzi che aveano' come il popcdo per* dula la
libertà ne sospiravano : ma temendo un avvenire ancor più tetribile, nè potendo
impedire «pianto faceagi, chctaronsi necessariamente a’ mali presenti. Or
vedendo il popolo dò, pensava che stesse lor bene, e godea sul «Hintraccambio,
quasi là tt> rannida foste per essere 'grave a quelli soltanto e non
pericolosa per lui ; quando non molto dopo ne vennero i mali ancora più su di
esso : imperocché Tarquinio annullò tutte le leggi di Tallio per le quali il
popolo rendeva ed esigeva il giusto con diritti eguali senza es> seme come
prima sovverchiato da’ patria) ne’ contratti : né lasciò pur le tavole dove
erano scritte, ma fattele levare dal Foro le distrusse. Poi tolse i daz),
propoiv zionevoli ai registri delle sostanze, tassandoli novamente sul modo
antico. E se mai bisognavano a lui denari, Contribuivane il più ' povero quanto
il più ricco. Or tale regolamento esaurì subito colla prima imposizione gran
parte dei popolo; essendo astretti a pagare dieci dramme a testa. Intimò 'che
non più si facessero quei concor», quanti sen facevano per villaggi, per
curie', o per vicinati, a Roma, o nella campagna in occasione di feste o
sagri6zj comuni, perchè riuneudovisi molti non vi macchinassero occultamente
fra loro di abbattere il principato. Ci aveano qua e là disseminati, ignoti
osservatori e spie dei detti e de’ fatti, e questi intra punto contro il
governo scandagliavano gli animi: e se scoprivano alcuno esasperato da’ mali
introdotti lo in- (xilpavano presso del tiranno: ed aspre» irreparabili ne
erano le pene, se restava convinto. Né gli bastò di abusate m tal modo' del
popolo : ma raccogliendo dal meazo di esso quanti ci area 6di e proprj per la
gnerra, astrinse gli altri a lavorare in città, riputando che i re moltinimo
pericolano, ae i più scellerati e poveri stieno oziosi. E desiderando vi-
vamente che si ultimassero nel suo regno le opere la- sciate imperfètte dall’
avo suo, che si continuassero; fino al fiume le cloache cominciate da quello e
si circondasse di portici coperti il Circo Massimo il quale -non aveane che le
gradinate; si applicarono a questo lavoro; e ne i ottennero parco frumento i
poveri, altri tagliandone i materiali, altri guidando i carri che li
trasportavano, ed altri portando su le spalle i pesi. Chi scavava sotterra- nei
canali e largure : chi facea volte in essi ; e chi sn. Tarquinio perché aveasi
scelto Mamilio per genero e non lui, fece uda lunga accusa di Tarquinio nmne-
randone le op^re di orgoglio e di soperchieria, come il nou essere venuto in
consiglio, dove eran già tutti, e dove gli aveva esso • stesso invitati.
Difendealo Ma- roilio, imputando l’ indugio a cause urgenti^ime, e chie- dea
che diiferissero ; e differirono il consiglio al prossi- mo giorno, indotti dai
suo parlare i Latini. (t) Livio nel lib. i dice che era della Aiceia : Tur /mi
Herdo- »iui ai Arida. Forte la gran vicinanta di Coriolo e dell'.tfr(cM Ccce
prender l’nna per l’altro. Coriolo era fra i terrìtorj Amiate, Ardcatinp, ed
Aricino, tal monte Giov». toJOttlQGiunto nel giorno appresso Tarquinio, e con-
gregato il consiglio, e toccato di volo l’ ittjiagio suo ^ fecesi a discorrere
della preminenea che a lui cecnpe-* teva come posseduta già dall’avo per la
forza delle armi; e presentò gli accordi delle città fatti ctm quello. Lungo fu
il suo ragionamento intorno dei diritti -e def patti; e grandi le premesse di
beneficare le città se amiche gli si tenessero, e provocavale infine a far
guerra con esso ai Sabini. Come dié fine al dir suo. Turno recatosi in- nanzi
accusava la tardanza di lui, nè permetteva che li compagni gli cedessero il
principato, perchè nè dovuto a lui per giustizia, nè possibile a darsegli con
utile dei Latini. E molto ragionò su l’nna e su l’altra cosa dicendo che i
patti che avean segnati ccfll’avo suo quando gli ac- cordarono la sovranità
finirono colla sua morte, per non essere scritto in quelli che il dono
esienderebbesi anche ai posteri suoi. E qui dimostrava eh' egli chè pretendeva
succedere ai diritti dell’avo, era il più ingiusto, e mal- vagio ' de’ mortali
: e ne allegava le opere da lui latte per aversi il comando di Roma. Adunque
scorrende^ i tremendi e molti suoi delitti, conchiuse infine che egli non tenea
legittimamente nemmeno Roma, non aven- dola come i re precedenti ricevuta
da’sudditi spontanei.; Egli t lui presa, disse, colla violenza e ' colle armi:
et fondatavi la tirannide, uccide, esilia, confisca, e tò- glievi fin la
libertà di parlare, non che quella del vi~ vere. Ben sarebbe grande la
stoltezza, grande la in- giuria inverso gli Iddj ripwmetlersi mai tratti umani
e benevoli da un empio e da uno scellerato, e cre- dere che chi non ha
perdonato nemmeno agi intimi Digilized by Googl LIBRO IV. 67 ruoi j nemmeno al
suo sangue, risparmi poi gli altri. Esorlavali dunqne giacché noa eransi ancora
sottoposti al giogo, a combatto^ per non sottoporvisi. Da ciò che pativano gli
altri di terribile argomentassero ciocché sa* rdibero essi per sopportare. Vaiatosi
Turno di questo discorso, ed assai commossine i più; Tarqainio dimandò per
difendersene il giorno seguente, e lo ebbe. E sciolto appena il con- siglio ;
convocati i suoi più intimi, esaminò con essi ciocch’ era utile a farsi. £
quali suggerivano le ruposte di apologia, quali ragionavano fra loro de’ mezzi
onde era da blandirsi la moltitudine. Soggiunse Tarquinio che niente di ciò
bisognava, e disse il parer suo di le* vare l’accusatore, anziché di purgarsi
dalle accuse. E lo« datone da tutti e concertatosi con essi; pigliò tali vie
per l’intento, quali non sarebbero cadute in mente di uomo che macchina o si
difende. Imperciocché cercati U servi più rei che menavano i giumenti o
curavano le robbe di Turno, e corrottili con argento, gl’ indusse a prendere da
sé stesso nella notte assai spade e portarle nell’ ospizio del padrone e
nasconderle, e lasciargliele tra le bagaglio. Poi nel giorno appresso,
riunitosi il consiglio, e venutovi : Breve è, disse, topologia su le mie colpe,
e giudice ne stabilisco t accusatore mede^ simo. Questo Turno, o compagni,
giudice stabilito delle reitadi che ora mi ascrive, questo da tutte as-
solveami già, quando chiese in isposa la mia figlia. Ma poiché ne fu rigettato,
com' era ben giusto ( im- perocché qual savio mai rispinto avrebbe Mamilio, un
si nobile, un sì potente Latino, e prescelto avrebbe per genero costui, che mal
può delincar la sua stirpe, fino al trisavolo ? ) poiché ne fu rigettato,
indispetti- tone mi assalisce colle accuse. Doveva, se per tale mi conoscea
qual mi accusa, non desiderarmi per suo- cero : o se mi tenea per onesto quando
mi chiese ‘la figlia, non doveami ora come un ribaldo accusare. E ciò basti su
mei perciocché non si debbe ora più discutere se buono o malvagio io mi sia,
quando voi, o compagni, voi correte il più grave de’pericoli. E. su me potete
aruor dopo chiarirvi : ben ora dee colla sal- vezza vostra la libertà
provvedersi della patria. 1 pri- marj delle città, quei che ne maneggiano il
pubblico, tutti sono insidiati da questo bel capo-popolo, il quale
apparecchiasi, uccidendo i più cospicui, torsi il regno del Lazio. E questo,
questo é il fine che qua lo menava. Né già io parlo immaginando, ma di pienis-
sima scienza, datami nella notte andata da uno dei complici della congiura. E
se voi vorrete meco alt ospi- zio di costui venire, io ven darò documento
infallibile del dir mio, le armi che vi occxdla. Or lui cosi parlando
sciamarono tutti, e chie> sero, temendo per sè, che certificasse il fatto, .
non gK illudesse. E Torno, come lui che non avea preveduto le insidie, disse
che volentieri ricevea la inquisizione, e chiamò li primarj per compierla,
aggiungendo che se- guirebbe l’una delle due, o che egli morirebbe se il
trovassero con apparecchio di altre arme che pel viag- gio, o che le pene sue
subirebbe chi lo calunniava. Cosi piacque ; ed andarono e trovarono nelf
albergo cU liti tra le bagaglie le spade na$costevi da’ servi. ÀUora Dòn
lasciando nemmen che parlasse gillarono Turno in UDS voragine, e coprendolo,
vivo ancora, di terra lo aterminaron sul fatto. Ed encomiando nell’adunanza
Tar> quinio come benefattore comune delle città, perchè ne àvea salvalo gli
ottimati, lo crearono capo della nazione co’ diritti appunto co’ quali ne
aveano già creato Tarqui« nio r avolo suo, e poi Tullio. Scrissero in su
colonne que’ patti, e datosene il giuramento per la osservanza, si congedarono.
Tarquinio divenuto capo de’ Latini spedì mes- saggeri alle città degli Eroici e
de’ Yolsci invitandoli a far seco amicizia ed alleanza. Ma de’ Volaci due sole
cittadi Echetra, ed Anzio secondarono l’ invito ; laddove gli Eroici si decisero
tutti per 1’ alleanza. Ora curando Tarquinio che gli accordi colle città si
conservassero in ogni volger di tempo ; deliberò fissare un tempio co- mune ai
Romani, ai Latini, agli Eroici ed ai Volaci confederatisi, perchè riunendosi
ogni anno al luogo de- stinato vi mercantassero, e banchettassero, partecipando
de’sagrifizj medesimi. Ed ascolundone tutti con piacere la idea, scelse quanto
era possibile in mezzo de’ popoli per luogo della riunione il monte sublime, il
quale so- vrasta alla città di Alba : e dichiarò per legge che in questo fbsser
le fiere, in questo fosse triegua di tutti in verso di tutti, e conviti si
facessero e sacrifizi co- muni a Giove detto Laziale, prescrivendo quanta parte
dovesse ogni città contribuire per essi, e quanta rice- verne. QuaranUsette
furono le città compartecipi delle feste e de’ sacrifizj ; e tali sagrifizj e
tali feste le conti* nuano ancoc di presente i Romani che Laiine le chiamaoo.
I^e città compagne nel sagrificare portano agnelli^' o cacio, o latte, o tal’
altra oblazione in fratti e fari- ne. Immolandosi però da tutte un sol toro,
ciascuna prendeane per sè la parte stabilitale. Il sagnfizio è per tutti, ma
presiedono al rito santo i Romani. ^ L. Poi cb’ ebbe rassodato il regno con
tali confedera- zioni ; risolvè di porure Tarmata contro i Sabini. E re-
clutando de’ Romani quei che men sospettava che fareb- bonsi liberi se
otteuevau le armi, e conginngendo con essi truppe alleate, più numerose ancora
delle* sue, de- vastò le campagne Sabine : e vintivi quei che vennero con esso
a battaglia ; menò l’esercito contro de’ Pomen- tini. Abitavano questi la città
di Sessa e pareano i più felici de’ conBnanti, anzi per la felicità molesti e
gravi a tutti. Avendo egli già reclamato ad essi per alquante rapine e prede, e
richiestili che dessero de’ compensi, non aveano dato che orgogliose risposte:
e quindi po- stisi in arme aspettavano pronti la guerra. Adunque ve- nuto con
essi in sul conBne alle mani, ed uccisine molti ; ne respinse e rinchiuse gli
altri fra le mura : e poiché non più ne riuscivano, accampatosi dirimpetto, li
circondò di fossa e vallo, investendo la città con as- salti continui.
Resisterono quei che v’erano dentro, durando assai tempo fra stenti luttuosi.
Ma poi venendo ad essi meno ogni mezzo, infiacchendo ne’ corpi, e non ricevendo
soccorsi, nè requie mai, anzi travagliando di e notte ; furono sopraffatti
dalia forza. Impadronitosi della città trucidò quanti vi stavan colle amie:
lasciò che i soldati rapissero donne, fanciulli, quanti sop- portavano di cader
prigionieri, e moltitudine non facile a calcolarsi di servi : e concedè' che
invadessero e si portassero qnant’ altro veniva loro ' alle mani sia nella
città, sia per la campagna : ma 1’ oro e l’argento, quanto se ne trovò, lo fe’
tutto rammassare in un luogo, e de- cimatolo per la fondazione del tempio, ne
divise il re- sto fra le milizie. Tanta poi ne fu la somma che ogni soldato
rioevè cinque mine di argento e la decima per gr iddj non fu minore di
quattrocento talenti di ar' gento. LI. Ancora egli stavasi a Sessa quando gli
giunse un messaggio, eh' era uscita la gioventù horentissiroa dei Sabini: che
gettatasi in dne corpi nelle terre de’ Ro- mani devastavano le campagne, l’ uno
tenendosi presso di Ereto, e 1’ altro presso di Fidene : e che se una forza non
le si opponesse, ben tosto tutto soccombe- rebbe. G>m’ ebbe ciò udito lasciò
picciola parte dell’eser- cito in Sessa con ordine che vi guardasse le prede e
bagaglie : e prendendo con sé il resto della milizia, spedita e leggera, e
marciando contro quei che erano accampati presso di Ereto, si trincerò su le
alture a pic- ciolo intervallo da essi. Decisero i due Sabini dar la bat-
taglia in sul mattino; e spedirono perchè venisse l’eser- cito ancor di Fidene.
Ma scuoprl Tarquinio il disegno per essere stato preso chi portava le lettere
dagli uni agli altri. Per tal successo ei si valse di questo accorgi- mento.
Divise r esercito in due parti, e ne mandò l’ una fra la notte di nascosto de’
nemici su la via che viene da Fidene, e schierando l’ altra in sul brillare del
gior- no, la menò dagli alloggiamenti alla battaglia. Corag- giosi gli uscirono
incontro i Sabini non vedendo gran serie de' nemici, e credendo non altro
mancare aliare mata di Fidene, se non di gingnere. Coti venutisi que-> sti a
fronte combatterono, e la pugna pendè gran tempo dubbiosa, quando li soldati
spediti nella notte da Tarquinio ripiegarono la marcia, e correvano a tergo dei
Sabini. Sbalordirono questi al vederli, e ravvisarli dalle insegne e dalle armi,
e gettando le proprie» tentarono di salvarsi : ma il tentativo rìnsd
difHcilissimo, essendo essi circondati da’ nemici e rinchiusi dalia* cavalleria
dei Romani postata d' ogn intorno. Pertanto pdchi ne scam- parono e tra duri
casi : i più ne perirono, o cederono. Quelli eh’ erano lasciad agli
alloggiamenti non li sosten- nero ; e quel luogo di sicurezza fu invaso al
primo as- salto. Furono qui prese le robbe de’Sabini, e qui molti de*
prigionieri, e qui le robbe de’ Romani quante ne erano intatte, e tutto fìi
salvato per chi le aveva perdute; LIL Riuscito il primo saggio a Tarquinio
secondo il cuor suo, prese 1’ esercito, e ne andò contro i Sabini accampati giù
in Fidene, a’ quali non era ancor nota la disfatta dei loro. Usciti questi
dagli steccati erano per avventura tra via: ma non si tosto furono più da
vicino e videro le teste de’loro capitani confitte alle aste ( che ve le aveano
i Romani confitte ed ostentavanle per ispa- ventare i nemici); conoscendo
com’era l’altro lor campo distrutto, più non tentarono nulla di generoso, ma
ri- voltisi alle suppliche ed alle umiliazioni si resero. Cosi devastati
miseramente, e vituperosamente nell’ uno e nell’ altro esercito, e ridotti i
Sabini a speranze tenuis- sime, anzi timorosi che fossero le loro città
pigliate di assalto ; spedirono ambasciadori per la pace., profierendosi per
sudditi e tributar). Pertauto lasciò la guerra, e ricevute appunto «>a tali
coudizioni le loro città, si ri- condusse a Sessa ; e ritiratene le milizie
lasciatevi, e le prede ed ogni bagaglio, tornossene a Roma coll’ eser- cito
carico di ricchezze. Poscia fe’ molte incursioni su le terre de’ Yolsci, quando
con tutte le forze, e quando con parte, ne ottenne gran prede. Ma riuscitegli
per lo più le cose a voler suo ; gli si eccitò una guerra coi con&nanti*
ben lunga pel tempo, giacché durò sette anni continui, e ben grande pe’ casi
inaspettati e terribili. Ora io dirò brevemente le cagioni per le quali nacque,
e qual ne fu 1’ esito, essendo stata terminata per in- ganni e per stratagemmi
non preveduti. LUI. Una città, Latina di gente, e colonia già degli Albani,
lontana cento stadj da Roma ( Gabio ne era il nome) sorgeva in su la via che
mena a Palestrina. Città popolosa allora e grande qnant’ altre, ora non tutta
si abita, ma solo presso la strada per uso degli alloggi. E ben può
raccoglierne la grandezza e la ma- gnificenza, chi mira le rovine in più luoghi
delle case ed il giro delle, mora, che in gran parte esistono an- cora. Eransi
qua concentrati alquanti involatisi da Sessa, quando fu presa da Tarquinio, e
molti fhggiti da Ro- ma. Or questi supplicavano e pressavano quei di Gabio a
prendere vendetta di loro, promettendo gran doni se ai beni proprj tornassero ;
e dimostrando possibile e fa- cile la distruzione del tiranno. Adunque ve
gl’indossero sul riflesso che in Roma a ciò coopererebbero, e che lì Volsci
erano ad altrettanto animati; giacché mandate aveano delle ambascerie,
bisognosi anch’essi di ajutO’ per imprendere la guerra contro di Tarquinio. Si
fe^ cero dopo questo irruzioni con eserciti poderósi, fi scorrerie su 1’ altrui
territorio e battaglie, com’ è Veri»» simile, ora di pochi con pochi, ora di
tutti contro di tutti: e quando i Gal^, respinti fino alle porte i Ro- mani, ed
uccidendone diedero intrepidamente il guasto ai lor campi ; e quando i Romani
incalzando i Gabj e rinchiudendoli nella loro città, • sen portavano schiavi, e
preda copiosa. . • . • . LIV. Or ciò facendosi di continuo, fu l’una e l’altra
parte costretta a cinger di mura, e presidiare i luoghi forti delle proprie
terre in ricovero de’ contadini. Di là prorompevano su’ predatori, e scendendo
folti, stra- ziavano, se ne vedeano, i piccoli corpi staccati dal resto dell’
esercito, o li disordinati per poca apprensìon de’ nimici, come accade nei
pascere. Similmente te- mendo r una parte gli assalti improvvisi dell’ altra fu
costretta a munire dì fosse e di muri le città facili a scalarsi ed a
prendersi. Adoperavasi in ciò principal- mente Tarquinio : e rassicurò con
molte fortificazioni il tratto intorno la porta la quale menava a Gabio, sca-
vandovi fosse più larghe, elevandone più alte le mura, e coronandole di torri
più spesse : imperocché la città sembrava in tal canto men solida, quando era
nel resto dei suo circuito sicura abbastanza, nè facile da inva- derla. Se non
che si fece in ambedue le città penuria di ogni vettovaglia, e costernazione
gravissima per l’av- venire, essendo le campagne diserte per le incursioni
incessanti de’ nemici, né più somministrando de’ frutti come accade a’ popoli
avvolti in guerre diuturne. 11 disagio però’ stringeva i Romani più che i Gabj
; tanto che U poveri infra quelli, angustiatine più che gli al- tri,
giudicavano essere da venire a trattati, e far pace comunque coi Gabj, se la
volessero. LV. Or dolendoti Tarquinio altamente de* successi, e non sofierendo
di' deporre obbrobriosamente le armi^ nè polendo altronde resistere più inmmzi
; volgevasi a tutte le prove, a tutti gl’ inganni. Quando il figlio più grande
( Sesto ne era il nome (i) ) scoperse al padre un suo disegno. Egli parea
mettersi ad impresa audace quanto pericolosa ; pur non essendo impossibile,
con- cedettegli il padre che operasse di voler suo. Sesto dun- que ‘fintosi in
discordia col padre per voglia di por fine alla guerra : ne fu battuto colle
verghe nei F oro, e con altri modi oltraggiato ; tanto che se ne sparse in-
torno la fama. E su le prime inviò come profughi i suoi più fidi perchè
dicessero occultamente ai Gabj che egli deliberava far guerra al padre, e che
ne anderebbe tra loro se gli desser parola di proteggerlo come gli altri
refugiaii Romani, senza renderlo ai padre per isperanza di finir col suo danno
le proprie nimicizie. Udirono con diletto quei di Gabio il discorso, e con-
cordandosi di non offenderlo, egli venne, e con lui molti compagni e clienti
come fuggitivi; e per meglio (i) Tito Lirio dà questo nome e' questa impresa al
figlio minore : ma il disparere col padre e l’ incarico assunto pare più
yerisimile in chi area più diritto di succedere ad un regno . direnuLo assolu-
to, e tale era il figlio maggiore. Pertanto il racconto di Uiouigi sembra più
naturale, qualunque fosse il nome del finto rilielle. Vedi S 65 di questo
'libro. accreditare la ribellione sua dal padre portò seco molto di argento e
di oro. Dopo ciò sotto velo di fuggir lar tirannide molti a lui confluirono ;
tanto che ornai glie n’ era intorno un corpo ben forte. Concepivano quei di
Gabio che avrebbono grande incremento dal giu- gnere di tanti ad essi, e
lusingavansi che tra non molto .avrebbono suddita Roma, illusi ancor più dalle
opere di quel ribelle, il quale scorrendo di continuo la cam* pagna,
raccoglievane prede ubertose. Ed il padre ap- punto, risapendo prima in quai
luoghi il figlio verreb- be, ubertose glie le apprestava, e senza guardia se
noa di scelti cittadini che egli v’ inviava come a lui sospetti per farli
distruggere. Su tali significazioni molti creden- dolo amico fido, e buon
capitano, e molti arrenden- dosi all' oro suo ; lo inalzarono al comando
supremo delle milizie. Sesto divenuto per frodi e per illusioni T ar- bitrò di
un tanto potere spedi, senza che i Gabj se ne avvedessero, un tale de’ servi
suoi per dichiarare al pa- dre r autorità che avea preso, e per udirne
ciocch’era da fare. Tarquinio volendo che il servo non intendesse ciocché
ordinava al figlio di fare, venne ( e conducea seco il messo ) al giardino,
congiunto al regio palagio. Aveaci là de’ papaveri nati spontaneamente, già
pieni di frutto, e maturi per la raccolta. Or tra que’ papa- veri aggirandosi e
dando co’ bastoni in su le tòste de’ più alti, abbattevali. Congedò ciò fatto
il messaggiCro niente rispondendogli, quantunque interrogato ne fosse più
volte. Egli imitava per quanto a me sembra la prudenza di Trasibulo Milesio.
Imperocché chiesto da Periandro, allora tiranno di Corinto, per via di un
messaggiero, con quali modi possederebbe più saldamente il coman- do, non
rispose pur sillaba, ma fatto cenno all’ inviato die lo seguitasse, il.
condusse in un campo di biade, ed ivi percosse le spiche più eminenti, le
atterrò ; signiBcaudo che. cosi dovea pur egli troncare, e di- smettere i
-primi delle città. Or facendo Tarquinio al- lora somigliantemente. Sesto ne
intese le mire, e co- me ordinavagli di por giù li più insigni di Gabio. E
convocò la moltitudine, e le tenne un lungo ragiona- mento su questo, ehe egli
ricorso cogli amici alla, lor buona fede, rischiava ornai di esser preso da
alcuni, e dato al padre: ma che era pronto a deporre il co^ mando, an^i che
Lucerebbe la città prima di cadere in tanto infortunio ; e qui lagrimava e
deplorava la sorte sua, come quelli che di cuore si dolgouo su’mali estremi.,
Lyil. Irritatane la moltitudine, e ricercando sollecita quali mai fossero per,
tradirlo, esso nomina Antisiio Petrone, il personaggio più distinto di Gabio.
Egli erane il più insigne divenuto pe* molti belli suoi rego- lamenti in pace,
e pe’ molti capitanati in campo eser- citati. Reclamando intanto quest’ uomo,
ed offerendosi come Hbero da’ rimorsi ad ogni esame, disse 1’ altro che volea
che se ne investigasse la casa: e che vi manderebbe perciò degli amici: egli
intanto aspet- tasse TtelP adunanza finché ritornassero. Imperocché già era
Sesto riuscito a corrompere con argento alquanti servi di lui perché
prendessero e ponessero in sua casa lettere contrassegnate co’ sigilli paterni,
e macchinate in Digiiìzed by Google --8 DELLE Antichità’ romane rovina di
Pelrone. Or come gl’ inviali alla indagine (che non aveala Pelrone contradetla
ma concednla) vi rinvennero le carie occulutevi, tornarono recando al-
l’adunanza molte lettere indicatrici, e quella scritta ad Anlistio; e dicendo
Sesto che vi riconosceva il sigillo del padre la sciolse; e la diede allo
scriba perchè la recitasse. Scriveasi in questa che gli consegnasse il fi- glio,
vivo principalmente ; o se ciò non poteasi, almeno glie ne mandasse la testa
recisa. Diceva, che darebbe ad esso ed d complici, oltre le taglie promesse già
pri- ma, la cittadinanza di Roma : che gli ascriverebbe tutti frd patrizj ^ ed
aggiungerebbe case e poderi e doni, grandi e copiosi. Arsero dallo sdegno i
Gibinj ; dialordtva Antistio dalla sciagura impensata, mancando-* gli fin la
voce: ma quelli co’ sassi lo tempestano e lo uccidono ; lasciando a Sesto la
cura di far la ricerca e la vendetta su gli altri, compartecipi in ciò di
Petrone. E Sesto fidando le porte agli amici suoi perchè gl’ in- colpali non s’
involassero mandò per le mise- più illa- stri, e vi uccise molli de’
valentuomini. Intanto che ciò faceasi ed era in Gahio tuiv- bolenza pe’ sì gran
mali ; Tarquinio avvertitone per lettere vi marciò coll’ esercito, e giunto
prima della mezza notte ed apertegli le porte da uomini posti ad arte per
questo, ed entratele ; s’ impadronì senza stento della città. Come il male fu
ravvisato, deploravano tutti sè stessi, e le stragi, e la schiavitù che
patirebbono, e temeano insieme gli orrori, quanti ne vengono su por poli
sorpresi da’ tiranni. Quando pur li trattasse mitis- simameute ; immaginavansi
la perdita della libertà, e de’ beni, e cose altrettali. Pure Tarquinio sebbene
scel- lerato, sebbene implacabile in punir gl’ inimici non fe’ ntilla di ciò
che aspettavano e temevano ; nè uccise, nè liandl, nè disonorò, nè multò
persona ninna di Ga- bio. Ma convocando la moltitudine, e prendendo regie
maniere in luogo delle tiranniche sue, disse che re- stituiva la propria città
; che concedeva ad essa i lor beni; e che donava inoltre a tutti cittadinanza
quale appunto r avevano i Romani : non già che ciò facesse per benevolenza
inverso de’ Gabj ; ma per consolidare a sè con essi .la signoria su’ Romani;
pensando che di- verrebbe presidio stabi^imo per sè e pe’ figli la fe- deltà di
un popolo che fuori di ogni speranza era salvo, e ricuperava tutti i suoi beni.
E perchè non più temessero per 1’ avvenire nè dubitassero se stabili sareb-
.bero. tali parole ; scrisse le condizioni colle quali sareb- bero* amici,' e
le giurò subito nell’ adunanza, e poi toccando gli altari e le vittime.
Monumento di quest’al- leanza esiste in Roma nel tempio di Giove Fidio, chia-
mato Sango da’.Ròmani, uno scudo circondato colla pelle del bue sagrlGcato
allora appunto per compierne il giuramento, su la quale scritte ne sono con
antichi caratteri le condizioni. Ciò fatto, e dichiarato Sesto re di Gabio,
ritirò le milizie; e tal fine ebbe la guerra con quella città. Dopo ciò
Tarquinio dando requie al popolo dalle cose militari e dalle battaglie; si mise
alla ere- zione de’ templi, desideroso di compiere i voti dell’avo. Erasi
questi nell’ ultima guerra co’ Sabini votato a Gio- ve, a Giunone, a Minerva di
fondare ad essi de’ tempii se vincesse. E già, come fu detto nel libro prece»
dente, avea con grandi ripari e con terra|)ieni accori» data l’altura ove
destinava di erigerli; ma non potè' poi compierne la impresa. Deliberatosi
Tarcpilnio di ultimarla colle decime delle spoglie raccolte in Sessa posevi a
lavorare tutti gli artefici. Or qui narrasi che. accadesse un meraviglioso
portento sotterra, doè che scavandosi per le fondamenta, e che già molto
essendo gli scavi profondati, si rinvenisse la testa di un uomo ucciso come di
recente, con faccia simile a quella dei vivi, stillandone ancora dalla ferita
un sangue tepido e fresco. In vista di tale prodigioi^arquinio comandò gli
opera) che sospendessero lo scavo : e convocando gli indovini della patria
dimandò che mai dir volesse quel segno. Ma non rispondendone, anzi dando' essi
la scienza di tali cose ai Tirreni, ricercò da loro e seppe qual fosse fra’
Tirreni l’ interprete più famoso de’ por» tenti ; ed a questo inviò messaggieri
i più pregievoli cittadini. Giunti i valentuomini alia casa dell’ augure, si le
loro incontra un giovinetto a cui dissero di essere ambasciatori di Roma,
vogliosi di consultare il vate, e pregavano che a lui li presentasse. Il
giovine allora : Colui, disse, che ricercate, è mio padre: egli è di presente
occupato : ma presto a lui passerete. Ora intanto che lo aspettate, ditemi
perchè mai ne venite. Così voi se mai per imperizia foste per ishagliar la
dimanda; istruiti da me non errerete. E le giuste interrogazioni non sono già
la minima cosa nell arte de’ vaticini . Or piacque a coloro di secondarlo, e
sveUrono a lui quel portento. Ckime il giovine gli ebbe ndiù, sopraslando breve
tempo, ascoltate, disse o Bo- ntani. Il mio padre ve lo interpreterà tal
prodigio, e senza menzogne ; che certo ad un vMe non si con- vengono. Ma perchè
neppur voi erriate, nè mentiate su le cose che direte o risponderete ;
apprendete da me questo > che assai rileva che vel sappiate. Quando esposta
gli avrete la meraviglia ; ei soggiungendo di non intendere appieno ciò che vi
dite, descriverà colla verga quanto un picciolo tratto di terra, e poi vi dirà
: seco la svrs tarsìa qvzsta nè la partx CMS GUARDA l' ORISNTS, quSSTA CBS L
OCCASO: QUS- STA È LA PARTS SOREALS, QUSSTA LA OPPOSTA. Ed indicandole intanto
colla verga vi chiederà da qual canto fu tiltvenuta la testa. Or che vi esorto
io che rispondiate ? appunto che non concediate che fosse trovata in alcuna
delle parti eh' egli addita colla ver^ ga, e ve ri interroga, ma che in Eotna
tra voi fu veduta su la rupe Tarpea. Se tali risposte serberete; se punto col
dir suo non ve ne allontanate; allora egli ravvisando che il fato non può
cangiarsi, vi sve- lerà, non vi occulterà quel prodigio che volete, che
interpetri. LXL Ammaestrali in tal modo i legati, «piando il vate ne ebbe
comodità, venne un tale che a lui li con- dusse, e parlarono del portento. Ora
lui sofisticando, e descrivendo in terra circonferenze e linee rette, e facendo
in ogni quadrante interrogazioni sul trovamento, non si turbarono punto di
mente i legali, ma tennero la ridata, come aveala suggerita il 6glio dell’
indo- Tino, nominando sempre Roma e la rupe Tarpea, e pregando l’interprete che
non travolgesse il segno, ma ne dicesse a proposito, e schiettissimamente. Cosi
non potendo il vate nè illudere gli oratori, nè imbrogliarè r augurio,
soggiunse ; Andate, annunziate o Romàni a vostri concittadini, portare il
destino che il luògo dove avete il teschio trovato sia capitale di tutta l’I-
talia. Dall’ ora in poi capitolino fu detto il luogo del travamento; capi
chiamando i Romani le teste. Tai>i quinio udendo ciò da’ legati rimise gli
opera] su'lavori; e molto fece del tempio, ma noi compiè, cadendo 'in breve dal
regno. Roma alfine lo perfezionò nel terzo consolato. Fu basato il tempio su di
una altura la quale aveva un circuito di otto plettri, ed ogni lato di esso
apprassimavasi ai dugento piedi col picciolo divario nem- meno di quindici
piedi interi tra la lunghezza e la la- titudine. Perciocché il tempio
riedificato dopo l’incendio a’ tempi de’ nostri padri su’ fondamenti medesimi
diffe- risce dall’ antico per la sola preziosità della materia. Dalla parte
della facciata che guarda il mezzogiorno circondalo un ordine triplice . di
colonne : ma doppio solamente è quell’ordine nei lati. Tre sono’ in uno i
templi, e paralleli, e divisi da mura comuni. Sacro è quello di mezzo a Giove,
e quindi è l’ altro . di Giu- none, e quinci di Minerva : ed un solo tetto, di
un comignolo solo li ricopra. Questo tempio terminara a Iriargolo : la cima
del. triangolo in tutto il tetto ossia il colmo del letto è ciò che cbiamasi
comì- gnolo. Uno de’ nostri lempj a tre narate sotto un tetto comune può
foeilitare t’ intelligenza di questo luogo. Dicesi che nel regno di Tarquinio
occorresse ai Romani un’ altra propizia e meravigliosa avventura sia per dono
di un nume sia di un genio, la quale salvò la città non per poco tempo ma
finché visse, più volte, da gravi mali. Una donna, nè già nazionale, venne al
tiranno, vogliosa di vendergli nove libri di oracoli Si- bilini : ma ricusando
Tarquinio comperarli al prezzo cei> catogli ; colei partita ne spiccò tre
libri e li arse. Ri- porundo dopo alquanto i libri superstiti gli ofierl sul
prezzo medesimo. Riputatane stolta, e derisane perchè di minori volumi n’esigea
la somma appunto che non aveane potuto ricevere quando erano più; si ritirò
nuo- vamente e bruciò metà dello scritto che rimaneva. Tornò quindi co’ tre
libri ancor salvi, e chiese l’oro di prima. Attonito Tarquinio su i disegni
della donna fece cercar gl’ indovini, e narrò 1’ evento, e dimandò ciò ch’era
da fare. Or questi conoscendo da alquanti segni che ripu- diavasi un bene
mandato dal cielo, e dichiarando che grande era la sciagura che non avesse
comperato tutti i volumi ; comandò che si numerasse alla donna il valor
dimandato, e che gli astanti prendesser gli oracoli. La donna che avea dato
que’ libri, inculcò che si custodis- sero con diligenza, e sparve dagli uomini.
Tarquinio creando tra’ cittadini i duumviri o due riguardevoli per-i aonaggi, e
subordinando ad essi due ministri pubblici ; diè loro la’cura de’ libri : ma
poi cucitolo io una otre bovina gettò nel mare Marco Acilio 1’ uno de’ due ri-
gnardevoli perchè parea sfregiare la buona fede, ed era accusato di pai-ricidio
da uno de’pubblici ministri. Dopo la cacciata dei re, fattasi la repubblica a
sostenere gli Oracoli, nominò custodi loro, durante la vita, personaggi
chiarissimi, liberi da ogni militare e civile incomben 2 a, consociando ad essi
ancor altri pubblici uomini, senza i quali non poteano i primi consultare
que’scritti. A dirla in breve, i Romani non guardano ninna cosa con tanto zelo
non i poderi sacri, non i tempj, quanto le rispo- ste divine delle Sibille.
Yalgonsi di queste i Romani quando il Senato sta per votare in tempo di civil
sedi- zione, o di grave infortunio in guerra, o di portenti e grandi visioni,
malagevoli ad intendersi, come avven- ne più volte. Fino alla guerra chiamata
Marsica gli ora- coli posti in un’ ama marmorea ne’ sotterranei del tem- pio di
Giove Capitolino furono custoditi dai decemviri. Ma braciandosi poi questo dopo
1’ olimpiade centesima settantesima terza sia per insidie, come pensano alcuni,
sia per caso ; arsero colle votive cose del nume, anche i libri. C gli oracoli
che ora si hanno, furono.' portati in Roma da più luoghi, quali dalle città d’
Italia, quali da Eritra dell’Asia, speditivi per decreto del Senato Com-
missarj a trascriverli, e quali da altre città, trascrittivi da' privati. Ma
sen trovano confusi co’ Sibillini anche aluri, come convincesi da que’ che
acrostici si diman- dano. Io qui dico ciocché Terrenzio Varrone ha scritto
nelle sue teologiche trattazioui. Avea Tarquinio operate queste cose in guerra
ed in pace ; avea fondate due colonie, l’uja Cioè Segni, per caso, perché
svernando ivi i suoi soldati aveansi il campo come una città ridotto ; e la
seconda Circea-per disegno, perché ponessi nella campagna Pomentina, la più
grande intorno del Lazio, e contigua col mare, in bel sito, alto discretamente,
che sporge quasi penisola nel mare Tirreno ; ed abitato già com’ è fama da
Circe la figlia del Sole : avea dato qnesle due colonie a due figli suoi che ne
erano i fondatori, Circea ad Anmte, e Segni a Tito. Ma quando in niun modo
temea del suo principato ; allora per la ingiuria fatta ad una donna da Sesto
il suo primogenito, fu cacciato dai principato e da Roma. Àveano gl’ Iddj dato
il segno della calamità futura della sua famiglia con molti augurj de’ quali
qu^ sto, fu l’ultimo. Venute nella primavera delle aquile in un luogo adjacente
alla reggia fecero il nido su di un’alta palma : mentre però teneano i figli
ancor senza penne, volandovi in folla degli avoltoi disfecero il nido: ed uc«
cisane la prole, e bezzicando e ferendo co’rostri e colle ali, respinsero dalla
palma le aquile che tomavan dal pascolo. Vide Tarquinio l’augurio, e vegliava
per istor- name se poteva il destino: ma non potè superarne la forza ; e
perdette il regno, congiurando su lui li pa» trizj, e cooperandovi il popolo.
Io tenterò dichiarar bre- vemente gli autori della congiura ; e come si fecero
ad eseguirla. Guerreggiava Tarquinio colla città di Ardea sul pretesto che
ricettava i fuggitivi da Roma, e mac- chinava di rimetterli in patria : ma in
realtà perchè ne aspirava le ricchezze come di una delle città più felici d’
Italia. Ribbattendolo però gli Ardeatini generosamente, e prolungandosi
l’assedio loro; stanchi quei del campo per la diuturnità della guerra e quei di
Roma impotenti a più contribuirvi; si disposero a ribellarglisi, appena ve ne
fosse un principio. Intanto Sesto il primogenito de’ figli di Tarquiaio spedito
dal padre nella cittì chiamata Collazia per compiervi talune incombenze
militari si al- loggiò presso il congiunto suo Lucio Tarquinio detto Collatino.
Fabio delinea quest’uomo come figlio di Ege- rio, del quale ho sopra dichiarato
ch’era figlio dei fra- tello di Tarquinio l’antico, re de’Romani. Da lui messo
al governo di Collazia ne fu chiamato Collatino, la- sciandone la denominazione
anche a’ posteri suoi. Io sono persuaso che questi era nipote ad Egerio se avea
la eti conforme ai figli di Tarquinio, come Fabio ha scritto e molti con esso ;
e la cronologia conferma tal mio concetto. In que’ giorni Collatino era nel
campo. Adunque la moglie di esso, una Romana, figlia di Lu crezia riposava, e
colla spada in mano vi penetrò, non sentito nemmeno da quelli che prossimi alla
porta dor- mivano della camera. F attesi al letto, e svegliatasi la donna col
giu- gnere delle insidie, e chiedendo chi fosse, colui svela il nome ; e
comanda che taccia e resti nella camera, minacciando lei della vita, se tentava
fuggire, o gri- dare. Cosi, sbalorditala, propose alla donna di scegliere .qual
più le piacesse o lieta vita, o morte infame, ó'e t’ induci, disse, a
compiacermi, io te farò mia spo~ sa y e tu regnenù meco, ora s.u la città che
mio par- dre mi assegna, e dopo la morie del padre sii Ro- 'mani, sii, Latini,
sii Tirreni e su quanti egli domi- na. Io, tu lo sai, primogenito de' suoi
figli, io sarò t erede del regno, come à ben giusto. E quali beni inondano i
re, de' quali' tutti sarai tu meco possedi- trice ; che giova che io qui ti
additi, se tu ne sei pe- ritissima? Che se tenti resistermi per salvare la tua
pudicizia, ucciderò te prima, poi scannando un dei servi porrovene a lato i
cadaveri, e dirò che sorpresa avendoti in obbrobrio col servo, io vi punii
tutti due per vendicare la ingiuria del mio congiunto ; tanto che turpe,
ignominiosa sarà la tua fine, nè la morta Uia spoglia saià di sepolcro onorata
nè di altre funebri cerimonie. Ora siccome assai minacciava, insisteva, giu>
rava a^ ogni suo detto ; Lucrezia sbigottita di una morte infame venne nella
necessità di cedere agli arbiirj amo- rosi di lui. Fattosi giorno; costui sazio
della voglia scel- lerata e Ainesta, tornossene al campo : Lucrezia però
corucciata per l’evento ascese quanto potè frettolosa in sul carro, e venne a
Roma, cinta di lugubri vesti, ed occultandovi sotto il pugnale; non salutando,
salutata, negl’ incontri, né rispondendo a chi voleva intendere de’ suoi mali,
tutta cogitabonda, e mesta, e lagrimosa. Giunta a casa dal padre '( e ci aveano
alquanti parenti ) ella prostratasi e stregasi ai ginocchi del padre vi sin-
ghiozzò, ma senza parole : e sollevandola e stimolandola il padre a dire
ciocché solTerto avesse: Padre, disse, ecco la supplichevole tuai se tremenda,
se insanabile è tonta mia, padre la vendica: non trascurare Ut figlia tua, in-
corsa in mali più gravi della morte. Stupitosi il padre, e con esso par gli
altri, eccitavala a dire chi offesa 1’ a- vesse, e di qual modo. E colei ripigliava:
Le udirai le mie ingiurie ; ma hrevissimamenle o padre: e solo or tu mi concedi
questa grazia che prima te ne chie- do. Convoca gli amici, e i parenti che puoi,
perché da me la odano, da me, non da altri la calamità che io patii. Quando
tavrai conosciuta la terribile, la ver-, gognosa necessità ch’io sostenni; tu
deciderai con essi la vendetta che dei per me fare e per te. Ma deh / non
indugiarmi tu lungamente. Corsi all’ invito sollecito 'e premurosissimo i più
riguardevoli nella casa com’ ella dimandava, narrò loro, pigliandolo dalle
origini, tutto l’ evento. E qui abbracciandosi ai padre, e molto lui
supplicando, e gli astanti e gl’Iddj, eli patri! lari che solleciti la
scioglie»* sero dalla vita ; trasse il pugnale che celava sotto le ve* sti e,
portandosene una piaga sui petto, 6no al cuore se lo internò. Clamore intanto e
gemiti e femmineo tu- multo turbando tutta la casa ^ il padre avviatosene al
corpo la circondava, la richiamava, la curava quasi po- tesse redimerla dalia
ferita : ma colei tra le sue braccia palpitando e spirando Gai. Parve il caso
agli astanti si terribile e si miserando che una fu la voce di tutti che era
mille volte meglio morire per la libertà che patire ingiurie siffatte dai
tiranni. Era tra questi Publio Vale- rio, discendente da uno de’ Sabini venuti
con Tazio a Roma, uomo intraprendente e destro. Costai fu da loro spedito in
campo perchè narrasse al marito di Lucrezia r evento, e perchè ribellassero,
uniti, le milizie dal ti- ranno. Uscito appena dalle porte eccogli per
avventura incontro Collatino il quale veniva dall* armata a Roma ignaro de’
mali che straziavano la sua casa ; e Lucio Giu- nio soprannominato Bnilò cioè
stolido se tal nome ne interpetri con greche maniere. E poiché li Romani ad-
ditano quest’ultimo come principalissimo nell’ abolir la tirannide; porta il
pregio che preaccennisi brevemente chi, di qual sangue egli fosse, e come
sortisse un tal nome . niente a lui consentaneo. Di costui fu padre Marco
Giunio, prove- niente da uno di que’ che menarono con Enea la co- lonia, e
distintissimo per la sua virtù tra’ Romani : fu la madre Tarquinia, figlia di
Tarquinio 1’ antico. Egli ricevè la educazione, e tutta la coltura nazionale,
nè la indole sua contrariavasi a niun de’ bei pregi. Dappoiché Tarquinio ebbe
ucciso Tullio levò segretamente di mezzo con molti uomini probi anche il padre
di lui non già pe’ delitti, ma per la ingordigia d’ invaderne le ric- chezze
ereditate da pingue, antico patrimonio di fami- glia : levò similmente con esso
il figlio primogenito di lui nel quale appariva non so che di generoso, e che
sofferto non avrebbe invendicata la morte del padre. Bruto giovinetto ancora,
-e privo in tutto del soccorso de’ parenti si rivolse al mezzo savissimo di
fingersi, stolido divenuto. Dall’ ora in poi, finché non gli sem- brò di averne
il buon tempo, ritenne le apparenze dello stolido ; e se n’ ebbe il soprannome,
ma si liberò con questo dalle ire del tiranno, mentre tanti egregj uomini ne
soccombetrano. Tarquinio trascurandone la demenza apparente e non vera,
spogliatolo di tutti i beni paterni, e da- togli un tal poco pel vitto
quotidiano, lo custodi presso di sé, come garzoncello orfano, e bisognoso di
chi lo qurasse, e concedè che oo’ figli suoi conversasse ; nè già per onorarlo
qual congiunto suo, come fingea tra’ pa- renti, ma perchè desse da ridere a’
propj figli, dicendo costui le mille frivole cose, e facendone le simili agli
stolidi veramente. Anzi quando mandò li due figli Àronte e Tito per interrogare
1' oracolo di Delfo su la peste ( giacché nel regno suo proruppe una peste
insolita su le vergini e su i fanciulli che in copia ne perivano, e più
terribile ancora e men curabile su le gravide, che morte cadeano col proprio
feto in su le vie ) quando io dico mandò questi per conoscere dal nume le cause
del male e lo scampo, allora congiunse ancor lui co’ figli che gliel chiedeano
perchè avessero intanto chi beffare e deridere. Giunti all’oracolo i giovani ed
ascoltatolo su la causa ond’ erano inviati porsero sacri doni al nu- me, e
lungamente risero di Bruto che avea consecrato ad Apollo una bacchetta di legno
; ma colui trapanatala tutta come una fistola aveaci offerto, senza che ninno
ne sapesse, una verga di oro. Poi consultando essi il nume chi mai, portavano i
destini, che divenisse re di Roma ;-^rispose che il primo che bacerehhe la
madre. E non intendendo i giovani la mente dell’ oracolo concor- darono di
baciare insieme la madre onde regnare in co- mune. Bruto però penetrato ciocché
1’ oracolo volea significare, non si tosto discese nell’ Italia, prostratosi,
ne baciò la terra, giudicando questa la madre di tutti. £ tali SODO i fatti
precedenti di quest’uomo. Come Bruto udi da Valerio i successi di Lo» eresia e
la storia della morte di lei sollevando le mani al cielo disse: O Giove, o Dei
tutti, quanti vegliate su la vita de’ mortali, è dunque giunto finalmente il
tempo per aspettare il quale io contrafeci finora me stesso ? Fuole dunque il
destino che Roma sia da me liberata e per me dalla insojfribil tirannide ? E
ciò dicendo vassene sollecito in casa insieme con Collatino e Valerio. Entrata
la quale, appena Collatino videvi Lucrezia stesa nel .mezzo, col padre allato,
scoppiando in copi ge« miti la slringea, la baciava, la chiamava, e fra tanta
sciagura uscito di mente tenea colla estinta il discorso, quasi fosse ancor
viva. Or essendo lui tutto in pianto, e con esso il padre a vicenda, e tutta rimbombando
la casa di lamenti e di gemiti; Bruto, rimirandoli disse: O Lucrezio, o
Collatino, o voi tutti, parenti di que^ sta donna, beri avrete altra volta il
tempo di piangerla. Ora ( e ciò deesi alla ingiuria presente ) pensiamo ^ come
vendicarla. Egli sembrava dir giusto : adunque se* dendo soli fra sè, sgombrata
immantinente ogni turba dimestica, esaminarono ciò ch’era da fare. Bruto comin-
ciando il primo a dire sopra sestesso che la sua demenza non fu vera, qual
parve a molti, ma simulata ; e sve- laudo le cause per le quali diedesi a
fingerla, e giu- dicatone savbsimo infra tutti ; alfine, allegatene molte, ed
acconcio ragioni, animò tutti al parer suo di cac- (t) Plinio sul fine del
libro XV. scrive che Bruto baciò la terra di Delia, a non dall* Italia. dare
Tarquinio e li figli da Roma. E vedmili ornai tatti consentanei, disse Che non
era pià tempo di parole e promesse, ma di opere; e che egli imprenderebbela il
primo se cosa alcuna fosse da imprendere. Ciò di- cendo, e stringendo il
pugnale con cui la donna fini sestessa, e venuto al cadavere di lei, che
giaceva an- cora spettacolo compassionevole a tutti, giurò su Marte, e su gli
altri Dei Che farebbe tutto, quanto potea, per abbattere la tirannide di
Tarquinio, che non pià si riconcilierebbe co' lii'anni, nè permetterebbe che
altri si riconciliasse con essi: ma terrebbe per nimico, chiunque non volesse
fare altrettanto ; e perseguite-^ rebbe fino alla morte la tirannide e li
partigiani di essa. Che se mancava a quel giuramento, imprecava per sè e pe’
figli un termine della vita, quale il ter- mine fu della donna. Ciò detto
invitò pur gli altri a simile giura- mento : e quelli, niente esitandone,
levaronsi, e dandosi a mano a mano il pfignale giurarono, ed investigarono poi
qual fosse la maniera di dar principio all’ impresa. Bruto cosi consigliò :
Primieramente poniam le guardie alle porte, perchè Tarquinio non penetri niente
di ciò che in Roma si dice o si opera contro la tirannide, innanzi che noi
siamo ben preparati. Quindi portando il cadavere della donna, lordo comi è di
sangue, nel Foro, ed esponendovelo, chiamiamovi a parlemento il popolo. E
quando siavisi congregalo, quando ne vedremo già piena ( adunanza; allora
Lucrezio e Collatino pre- sentandosi narrino H orribile caso, e deplorino la
loro sciagura ; poi qualunque altro facciasi innanzi ed oc- f)3 ousi la
^tirannide, e provochi li cittadini a liberarsene. Oh! come avran caro di veder
noi patrizj insorgere i primi perla libertà. Stanchi del Tiranno, e de’ molti e
terribili mali che ne han sofferto, non abbisognano die St un primo impulso
appena. Quando vedremo la moltitudine in furia per togliere la monarchia ; far-
remo c^ risolva co' voti, che Tarquinio non dee più regnare su Roma, e
solleciti ne spediremo il decreto in campo all' esercita- Ivi quando coloro che
han tarmi conosceranno che tutta si è la città ribellata da Tar- quinio,
infiammeransi per la libertà della patria, in- sensibili a tutti i doni del
tiranno, essi che non più reggono agli affronti de' f gli, e degli adulatori
del perfido. Or avendo lui cosi detto soggiunse Valerio: Tu mi sembri o Giunio
che abbi giustamente parlato su le altre cose ; ma quanto ai comizj vorrei da
te sor pere chi li potrà convocare legittimamente, e chi dare alle curie i voti;
essendo questo offizio de' magistrati, e niun di noi trovandosi magistrato.
Ripigliando allora Giunio : o Valerio, io, gridò, sono tale; imperocché sono il
tribuno de Celeri, e per legge mi è dato d inti- mare quando voglio le
adunanze. Tarquinio dava tal massimo incoi ico, a me come stolido, e che
appresa non ne avrei la potenza, o che se appresa V avessi, non saprei
prevalermene. Ma io mi son quegli che il primo arringherò contro del tiranno. Detto
ciò lo applaudivano tutti come lui che prendeva le mosse da principio legittimo
e buono ; e lo pressavano a dirne anche il seguito ; ed egli disse : E poiché
ci piace far questo, vediamo ancora qual ma- Digitized by Google J)4 delle
antichità* romane gistrato, e da chi mai crealo, debba reggerci dopo Ut
espulsione dei re : anzi vediamo qual Jorma daremo allo Stato f liberi dalla
tirannide ; imperciocché prima ài accingersi ad opera siffatta vai meglio di
avere de» liberata ogni cosa, anzi che se ne lasci alcuna non discussa, né
premeditata. Ora dica ciascuri di voi su tali cose ciocché ne pensa. Dopo ciò
si tennero molti discorsi e da molti. Chi numerando i gran beni fatti da tutti
i re precedenti, amava che si riordinasse la regia dominazione; e chi
ricordando le tiranniche ingiustizie di altri e di Tarquinio finalmente su’
proprj cittadini, non voleva il Comune sotto di un solo, ma che piuttosto
arbitro se ne dichiarasse il Senato come in molte delle greche città : varj
però non anteponeano nè 1’ uno né r altro, ma consigliavano che si fondasse un
governo popolare, conne in Atene, esponendo le ingiurie, le . avanìe de’ pochi
^ e le sedizioni de’ miseri contro de’ po- tenti, e dichiarando che in città
libera il comando più sicuro e più degno è quello delle leggi, eguali per
tutti. Ma sembrando a tutti malagevole ed arduo il giudizio su la scelta pe’
mali che sieguono da ogni governo ; alfine Bruto, ripigliando disse : O
Lucrezio, o Collatino, o voi tutti, quanti qui siete, uomini buoni, e JigU
ancora di buoni-, io quanto a me non penso che noi dobbiam di presente dar nuova
forma allo Stato. Troppo é picciolo il tempo a cui siamo ri- dotti, perché ci
sia facile staBilirvela armoniosa ; lu- brico altronde, e pericoloso, é tentar
di cambiarvela, quantunque benissimo su di essa avessimo risoluto. Quando ci
saremo levati dallà tirannide, allora po- trem finalmente, consultandoci con
più agio e più feria, trascegliere il governo migliore a fronte de' menò buoni
j seppur avvene uno migliore di guei'^ che 7?o- molo e Numa e gli altri re
successivi stabilirono e ci "lasciarono, donde la città ne crebbe e ne
prosperò, signora fin qui di più popoli. Solamente vi esorto che si emendino, e
che provvedasi ora che più non v ab- biano i mali terribili solili prorompere
dalle monar- chie, pe’ quali si mutano in tirannidi crude, e pe' quali tutti le
abborrono. Ma quali son queste provvidenze ? Primieramente giacché molti
attendono ai nomi, è secondo i nomi vanno al male o fuggono t utile ; e siccome
è succeduto che ora molto attendasi a quello di monarchia; vi consiglio che il
nome cangiate del governo, fe che da ora in poi quelli che vi comandano non più
re li chiamiate, non più monarchi, ma con appellazione più discreta ed umana :
poi, che non più rendiate un sol uomo arbitro di ogni cosa, ma fidiate a due la
potenza dei re, come odo che i Lacedemoni fanno da molte generazioni, e che
perciò ne hanno più di tutti i Greci leggi buone, e stato felice. Diviso il
comando in due, e l’ uno potendo appunto quanto F altro ; meno acconci saranno
a violarci, e meno ad opprimerci: anzi da tale egualità dee seguirne princi-
palmente la verecondia, il ritegno vicendevole dell’uno per F altro, sicché
noti si sfrenino, ed una viva gara per la fama della giustizia. E poiché molti
sono li regii distintivi, io giudico che y impiccioliscano o tolgano quelli che
àddolorano a rimirarli o sdegnano il popolo, io dico gli scettri, dico le
corone di oro ^ e le clamidi eli oro intessute e di porpora, se non forse si
asswnono ne' giorni festivi e ne’ trionfali per magnificare g/i Jddj ; mentre
usate di raro non offendono. In oppo- sito penso che si conservi a questi
uomini la sedir curule ove siedono rendendo ragione, e la veste can- dida cinta
intorno di porpora, e li dodici fasci che il venir loro precedano. Oltracciò perchè
quelli che prendono il comando non molto ne abusino, io penso utilissima e
principalissima cosa, che non lascinsì comandare tutta la vita. Imperciocché
riesce a tutd grave un comando ind^nito, uft comando che non pià dia di sè
ragione ; e di qua vien la tirannide. Ma si limiti come tra gli Ateniesi f
autorità del co- mando ad un anno. Quel- comandare a vicenda e quell' essere
comandato, quel deporre il pMere prima che il pensar vi si guasti, preoccupa le
indoli vane, nè lascia che vi / inebbrino. Se .così stabiliamo, go- deremo i
beni che sono il frutto di una regia domi- nazione, e schiveremo i mali che né
conseguitano. E perchè il nome regio, consueto già tra' nostri avi, ed
introdotto in questa città co t gli augurj propizj degl Jddj che lo favorivano,
ti custodisca, almeno per tale riguardo ; si faccia continuamente, a vita, ed
onorisi un re del Culto ^ un che libero dalle cure militari in questo solo si
occupi e non in altro, cioè che abbia, quasi re ne fosse, l’ arbitrio sovrano
de’ sacrifizj. Ora udite come fia ciascuna di queste cose. ’ Io, poiché dalle leggi mi si concede, io
raccoglierò, come diceva, l’adunanza del popolo, e riesporrò la mia mente di
bandire Tarquinia colla moglie e coi figli da Roma e suo territorio,
escludendoneli per sempre essi e la lor discendenza. Quando avran ciò stabilito
co’ voti, io dichiarando allora il governo che pensiamo fondare, eleggerò V
interré, il qual nomini quelli che prendano le redini della repubblica. Quindi
io deporrò la prefettura dei Celeri; e V interré da me creato, proporrà gl’
idonei all’ annua preminenza, rimettendoli al voto de’ cittadini : e se il pià
delle centurie ne tien buona la proposta, se propizj gli oracoli la favoriscono,
assumano i fasci e le insegne del potere sovrano, e provvedano che libera
abitiamo la patria, nè pià li Tarquinj vi ritornino. Imperoc- ché questi,
abbiatelo per certo, se non invigiliamo su loro, tenteranno colla persuasiva,
colla forza, coll’ inganno, per ogni via finalmente, rimettersi nell impero.
Queste sono le somme, le principalis- sime cose, che io dir posso e raccomandar
di pre- sente. Quelli poi che avranno il comando devono, come io giudico,
esaminare una per una, le cose particolari, giacché troppe, nè facili a
discutersi pie- namente ; e noi siamo stretti dal tempo: anzi'deono, come
usavano i re ponderarle col corpo del Senato, non concludendone alcuna senza
noi ; e quando siano approvate dal Senato, rapportarle, come f accasi tra i
nostri maggiori, al popolo non levandogli niun diritto di quanti s’ avea nel
principio. Così le sue magistrature saranno sicurissime e bellissime. DIOSIGI,
tomo ir, - Digilized by Google DELLE antichità’ ROMÀNE LXXVI. Proferendo Giunio
Bruto tal suo parere tutti lo commendanino ; e datisi ben tosto a consultare,
de- cisero che si nominasse interré Spurio Lucrezio il padre di colei che
uccise sestessa: e che da lui si scegliessero per avere il potere dei re Lucio
Giunio Bruto, e Lu- cio Tarqninio Collatino. Stabiliscono che tali sopra- stanti
nell’ idioma loro si chiamassero Consoli, vnol dire consiglieri o capi del
ronsiglio, interpetrando in greco tal nome, giacché i Romani ciocché noi
simbou- las diremmo chiaman consiglio. Coi volgere però del tempo i consoli
furono per l’ ampiezza del potere chia- mati Ypati dalia Grecia, comandando
essi a tutti e t^ neodo.il più sublime de* gradi; e chiamandosi da’ nostri
antichi Ipaton quanto sopralzasi, e maggioreggia. Dopo tali consulte e tali
istituzioni supplicarono co’ voti gli Iddj che fossero propizj ad essi .intenti
ad opera si giu non colla sepoltura a norma delle leggi : e Tarquinia la donna
di que- sto ch’egli dovea venerare qual . madre, come sorella del padre,
Tarquinia già tanto .sollecita in suo bene, % egli la strangolava, sì, questa
misera, innanzi che prendesse il lutto, e che rendesse in su la tomba al marito
gli ultimi onori. Così contraccambiava quelli da quali fa salvo, da quali fu
nudrito, ed. a quali avrebbe pur succeduto sol che avesse un poco aspet- tato
finché venisse loro naturalmente^ la morte. Ma perchè più, su questo riprendolo,
quan- do, oltre i delitti contro de’ consan^inei e de’ suo- ceri, ho pur da
accusarne le tante prevaricazioni contro la patria, e contro noi tutti, se
prevarica- zioni son queste, e non sovversioni e rovine di ogni costume e di
ogni legge. E per comiiKiare subito ^dal regno, come lo prese egli questo ?
forse come i re precedenti? ma quando mai? molto nè egli lontano. Imperocché
quei tutti furono da voi portati al trono secondo i patrj costumi e le leggi,
prima col decreto del ' Senato che è il capo di ogni pubblica delibera- zione,
poi degl’ interré scelti ed incaricati dal Senato per nominare il pià idoneo al
comando f e co’ voti dati ne' comizj dal popolo, da cui, la legge vuole, che si
ratifichi ogni cosa più rilevante, e finalmente cogli augurj f colle vittime, e
con altri segni propizj senza i quali niente giovano i maneggi e le previ-
denze degli uomini. Or dite, qual di voi mai vide una parte almeno fatta di ciò
quando Tarquinio prese il comando ? qual vide decreto preliminare del Senato?
quale scelta degl’ interré? quali suffiragj del popolo ? per non dire dov è
tutto questo ? quantun- que se egli voleva il regno lecitamente, non dovea
parte ninna pretermettersi di quanto chiedesi dalle leggi. Certo se alcuno può
dimostrarmene fatta pur una di queste cose, più non vo’ che si brontoli su le
altre che si tralasciarono. Come dunque egli si spinse al trono ? colle arme,
come i tiranni, colla violenza, colla congiura degli scellerati, noi riprovan-
dolo, e dolendocene, E fattosi re, comunque ciò fosse, la sosteneva egli V
autoràà tua regalmente ? Emulava i suoi predecessori i quali co’ detti e co’
fatti costanti così ressero, che lasciarono a’ posteri la città più felice e
più grande che presa non V avessero ? Chi, se pure è sano di mente, chi potrà
mai dir ciò, vedendo quanto miseramente e scelleratamente siamo stati da lui
malmenati. Tacio le sciagure di noi senatori, le quali, pur un nemico, udendole,
ne piangerebbe, e come siam pochi rimasi di molti, come rendati abbietti di
granài, e come venuti a disagio e stento, cadendo dai tanti e sì ampj beni.
Que’ grati j que’ potenti,. Io3 que cospicui uomini, po' quali questa nostra
città era un tempo magnifica, quelli perirono, o fuggono la patria. E le vostre
cose y o popolo, come stan esse ? Non ha tolto . a voi le leggi ? non i
concorsi soliti per le feste e pe’ sacrifizj ? Non ha fatto ces- sare i comkj,
i suffragj, e le adunanze tutte su le pubbliche cose? Ridotti siete, quali
schiavi comperati, ai vilipendi di tagliare, di portare pietre ed arbori, di logorarvi
tra gli antri e i baratri senza requie mai, neppur tenuissima dai mali. Or
quando avran fine mai tali strazj ? fino a quando li starem soppor- tando ?
Quando la patria libertà vendicheremo ? .. . Al morir del tiranno ? Appunto !
Dite ci sarà allora pià facile ? E perchè non piuttosto assai meno ? se per un
Tarquinio ne avrem tre molto pià scellerati? Se chi di privato è divenuto
monarca, se chi tardi ha cominciato a nuocere, ha percorsa tutta la mal- vagità
de’ tiranni, quali, pensate, esser debbono i discendenti da lui, scellerati di
stirpe, scellerati di educazione, che mai non poterono vedere nè appren- dere
in città misure politiche di moderazione ? E per- chè non per congetture, ma
intimamente conosciate la perversità loro, e quai cani latratori alleva contro
voi la tirannide di Tarquinio ; specchiatevi in un a- zione sola del
primogenito. E questa la figlia di Spurio Lucrezio, lasciato prffetto in Roma
dal Tiranno nelP andare alla guerra, e moglie insieme di Tarquinio Colla- Uno,
del consanguineo de’ tiranni che pur tanto ha da loro sopportato. Or questa per
serbarsi pudica. e tutta agli amori del suo marito, come fanno le virtuose,
avendo Sesto qual parente preso ospizio appo lei, mentre Collatino era lungi
nelt armata, non potè schivare nella passata notte le onte. sfre- nate della
tirannide; ma violentata come una schù^va sostenne ciocché libera donna non
dee. Pertanto esa- cerbatane, e presa la ingiuria per insoffribile, dopo che
ebbe narrato al padre e a congiunti le vicende ree che la desolarono, dopo che
ebbe pregato e scon- giurato che la vendicassero per tanti mali; alfine traendo
il pugnale che celava nel seno, profondos- selo, e vedendola il padre j o
Romani, nelle viscere. O tu certo mirabile, o tu di encomj degnissima per la
nobile ' risoluzione ! t’ involasti, moristi non reg- gendo agli obbrobri del
tiranno, e ricusasti le dol- cezze tutte
del vivere perchè simile calamità non ti avvenisse. Avrai tu dunque o Lucrezia
nella tua fem- minil condizione K avuto il. cuore de’ valentuomini, e noi,
uomini - nati, noi saremo in viltà men che le femmine ? Tu perchè predata a
forza del fiore im- macolato della tua pudicizia, avrai tu reputato la morte
pià dolce e pià beata della vita; e noi non avrem pur nell’ animo, che
Tarquinio non da una notte, ma già da venticinque anni ci opprime, e ci ha
colla libertà levato gli agi tutti del vivere ? No ; pià non dobbiamo, o Romani,
noi vivere avvolgen- doci in tanti pericoli, noi che discendenti siamo di que
bravi, che vollero fondare i diritti fin per gli altri, e lanciaronsi a tanti
.pericoli per la sovranità e la gloria : ma V una delle due si dee scegliere o
libera vita, o morte onorata. È pur venuto il tempo che bramavamo ; perchè
lungi è il tiranno dalla città, e perchè duci sono della impresa i patrizj, e
perchè se con animo pronto ci facciamo ad imprendere, non abbisogniamo di cosa
niuna non di uomini, non di danari, non di arme, non di capitani, non di altro
apparecchio militare ; essendone Roma pienissima. Siaci pure una volta vergognà
che noi che cerchiamo signoreggiare i Volsci, i Sabini, ed altri moltissimi^
noi stiamo • ad altri servendo, e che mentre tante guerre imprendiamo per
in^andire Tarquinio, niuna per la nostra liberuì ne facciamo.Ma di quali
incora^menti ci varrem per la impresa, di quai leghe ? È questo che rima- nenti
a dire. Primieramente c incoraggiremo su la speranza negl’ Iddj de’ quali
Tarquinio viola le sante cose, i templi, gli altari, libando e sacrificando con
mani lorde di sangue, e di ogni scelleraggine contró de cittadini; appresso c
incoraggiremo su la speranza che abbiam su noi stessi che nè pochi siamo, nè
inesperti di gierra ; e finalmente sul rinforzo di que- gli alleati i quali non
ardiranno far novità se noi non ve 'gV invitiamo ; ma se vedono che noi il
valor nostro raccendiamo, lietissimi ci si uniran per com- battere ; nemico
essendo della tirannide chiunque vuole esser libero. Che se alcuno di voi teme
quei cittadini che in campo si porran con Tarquinio per militare con esso
contro noi ;• non bene teme costui. Anche ad essi è grave la tirannide, ed
ingènito in tutti è V amore della libertà : ed ogni occasione di mutamento
basta a chi è misero necessariamente. Che se voi li chiamerete col voto vostro
a soccorrer la pa- tria, non timore li riterrà co’ tiranni, non grazia, e non
cosa ninna la quale sforzi o persuada, a mal fare. E se in alcuni si è per la
ria natura, e la trista educazione abbarbicato V amor dei tiranni ; ri- durremo
ancor essi, che molti non sono, con insu- perabile necessità sicché utili ci
divengano i malevoli ; perciocché teniamo in città quali ostaggi i loro figli,
le mogli, i parenti, pegni carissimi che ognuno pre- gia più che la vita. Or se
noi prometteremo di ren- dere questi, se decreteremo per essi la impunità
quando distacchinsi dal tìrannno ; di leggeri li per- suaderemo. Cosicché
fatevi cuore o Romani, concepite belle speranze per V avvenire, uscite per una
guerra, certo la più gloriosa di quante mai ne imprendeste. Si, palrj Dei,
propizj curatori di questa terra, sì Genj, tutelari già de nostri padri, sì,
città caris- sima infra tutte ai Celesti nella quale nascemmo e cresciamo, sì
noi vi difenderemo co’ pensieri, colle parole, colle opere, colla vita ; pronti
a tutto sof- frire, quanto la fortuna porti ed il fato. Presagi- scorni che
alla impresa buona seguirà fine bonissinto. Possano quanti confidano, quanti
decidonsi come noi, voi salvare ed essere da voi salvati parimente. Mentre
Bruto aringava, faceansi ad ogni suo detto acclamazioni dal popolo in
signiBcazione, che esso appunto cosi voleva, e comandava. Ed i più sen- tendo
quel parlare maraviglioso ed inaspettato lagrima- vano per tenerezza.
Inondavano passioni varie nè punto 1 07 amSi ogni petto: e dove il rancore,
dove la gioja trion- favano, là pe’ mali già sostenuti, qua pe’ beni che si
aspettavano. Dove era audacia, dove timidità, quella che incitava a non curar
sicurezsa contro i subjetti, odiati perchè intenti a far male ; e T altra che
oppo» neasi agl’ impeti delia prima, perchè vedea non facile la rovina della tirannide.
Ma non sì tosto colui cessò dal parlare ; tutti, quasi con una bocca, ad una
voce esclamarono, che guidassegli alle arme. E Bruto dilet- tatone, sì, disse,
ma quando prima avrete udito, e confermata co’ voti vostri i decreti del
Senato. E noi decretiamo CHS i TAsqvatj s tutta la consangvu HIT a' loro
svogano ROMA E QUANTO È Ds' ROMAICI : CBS NIUNO FOSSA DIRE O BRIGARE SUL
RITORNO DEI tiranni; e se contravviene; si" uccida. Or se volete che un
tal parere si adotti ; compartitevi in curie, e datene i voti. Questo incominci
per voi li diritti della' vostra libertà. Disse ; e cosi fu hitto : e poiché
tutte le Curie ebbero decretato 1’ esilio del ti- ranno ; Bruto fattosi innanzi,
ripigliò : Giacché avete voi ratificato quanto deesi, le prime cose ; ascoltate
U resto che abbiam deliberata su lo Stata. Esami- nando noi qual magistrata
esser dee V arbitro del comando, ci è piaciuto, non già di rinnovare il co-
mando di un solo, ma di creare ogm anno due capi con regio potere, che voi
stessi eleggerete ne’ comizj, votandovi per centurie. Or se volete anche ciò ;
da- tene il voto. Il popolo lodò questo ugualmente; nè vi fu pur un voto
contrario. Quindi ripresentatosi Bruto, nominò Spurio Lucrezio per interré,
perchè secondo le patrie leggi prendesse cura de’comisj. Costui sciogliendo ' r
adunanza, ordinò che tutti subito si recassero in arme al campo, dove solcano
tenere i comizj. Recativisi ; scelse due Bruto e Gollatino che facessero quanto
fa- cevano i re. Ed il 'popolo chiamato per centurie con» fermò la magistratura
a que’ due. Tali sono le cose ai» lora fatte in città. Tarqninio come udì da
messaggeri sottrat» tisi per avventura da Roma prima che le porte se ne
chiudessero, che Bruto (perché narravano questo solo) fattosi capo-popolo,
aringava i cittadini, e suscitavali a rendersi liberi, parti senza dirne le
cause, prendendo se^o i figli, ed altri più fidi, e correndo a briglie sciolte
onde prevenire la ribellione. Ma trovando chiuse le porte, e piene le mura di
arme, tornossene, quanto potè, veloce nel campo affligendosi e lagrimando : se
non che già le sue cose erano qui pure in iscompigUo. Imperocché li consoli
antivedendo la sollecita venuta di lui verso Roma aveano per altra via spedito
all’armata, invitandola a togliersi dal tiranno, ed annunziandole i decreti di
quei della città. Or Tito Erminio e Marco Orazio lasciati dal tiranno nel campo
prendendo quelle lettere le recitarono nell’ adunanza : e dimandando via via
per centurie ciò che era da fare, e piaciuto a tutti che si ratificassero le
deliberazioni della città ; più non riceverono Tarquinio che tornavasi a loro.
E caduto pur da questa speranza fuggisseue con pochi alla città di Gabio f
della quale, come ho detto di sopra, avea creato monarca, Sesto il suo
primogenito. Esso già ca- nuto per anni avea tenuto per cinque lustri il
comando. Digilized by Google LIBRO IV, 1 09 Erminio ed Orazio, concbiusa una
tregua di quindici anni cogli ÀrdeatinI, ricondussero in patria le milizie. Per
tali cause e da tali uomini fu tolta in Roma la regia dominazione,
conservatavisi per dugcnto quaranla- quattr’ anni dalla sua fondazione, e
divenuta in fine tirannide sotto 1’ ultimo re. OloMSERVATASl in Roma la regia
dominazione per dugento quarantaquatlr anni e cangiatavisi poscia in ti-
rannide sotto r ultimo re fa per le cagioni anzidette abolita da tali uomini
(i) sul principio della olimpiade sessagesima ottava, nella quale Iscomaco da
Crotone vinse allo stadio, mentre Isagora esercitava in Atene r aunuo
magistrato. Ed istituitasi la signoria de’ pochi, mancando quattro mesi al
compiersi di quell’anno, as- sunsero i primi il comando supremo, Lucio Giunio
Bruto e Lucio Tarquioio Collatino col nome di consoli, (i) Anni 345 fecondo
Catone e i 47 'ecjndo Varrone dalla fonda- ilone di Roìna, e So; avanli Cristo]
cosi chiamandosi da* Romani, come già dissi, nel patrio idioma i capi del
Senato. Poi congiungendo questi a sè gli altri che numerosi tornavano dal campo
in città dopo conchiosa la tregua con gli Àrdeatini ; e pochi giorni appresso
la espulsione del Tiranno convocando il popolo a parlamento, e ragionando
copiosamente su la concor* dia ; fecero di bel nuovo decretare co’ voti, come
già quelli che erano in Roma lo avevano decretato, bando perpetuo ai Tarquinj.
Dopo ciò puri6cando la città, fattone sacrifizio ; essi i primi, stando intorno
le vitti- me, giurarono, e ccndussero pur gli altri a giurare, che mai più dal
bando richiamerebbero il re Tarquinio, nè la prole di lui, nè i figli de’ figli
: anzi che non più iarebbono re ninno in Roma, nè tollererebbono chi far cel
volesse. Cosi giurarono su’ Tarquinj, su* figli, e su la prosapia loro. E,
couciossiachè pareano i re, stati autori di molti e gran beni inverso del
pubblico, deli- beratisi a conservare il nome almeno di tal signoria, finché
Roma durava, comandarono ai pontefici ed agli auguri di eleggere il più idoneo
tra’seniori, perchè tolto da tutte le cure, se non dalle religiose, presedesse
in sul culto, e Me si chiamasse non delle politiche, non delle militari, . ma
delle sante cose. Per tanto fu delle sante cose nominato re per il primo Manio
Papirio, uomo patrizio e dedito alla dolce calma (i). II. Stabilito ciò,
temendo, io credo, che non si ge- nerasse negli altri sui nuovo governo la idea
non vera, che in luogo di uno dominavano due re la città mentre Secondo Feslo
il primo re tacriJieuUu, fa Sicinnio Beliulo, ed in cfò discorda da Dionigi e
da Livio. Ir uno e 1’ altro de’ consoli avca come un tempo i re le dodici scuri
; deliberarono preoccupar tal concetto, e sce- mare la invidia del comando, e
fecero cbe l’uno de’con- soli portasse dodici scuri, e F altro dodici littori
colle verghe coronate solamente (i) come narrano alcuni: tal- ché le scuri le
assumesse e recasse ora l’uno ora F altro vi- cendevolmente per un mese
intiero. Animarono con que- sto F umile plebe a conservar quel governo ; e con
simili cose non poche. Imperocché rinnovarono tutte le leggi scritte da Tullio
su’ contratti ; le quali si tenean per umane e popolari, e Tarquinio aveale
tutte soppresse : e comandarono che si facessero come a’ tempi di Tullio, i
sagriGzj che in città si faceaiio o nella campagna, riu- iiendovisi que’ di
Roma e de’ villaggi. Concederono che il popolo si radunasse per le cose più
rilevanti, e desse il voto, e ripigliasse a voler suo gli usi primitivi. Pia-
ceano tali cose alla moltitudine ravvivatasi dal servir lungo a libertà non
aspettata. Nondimeno ci ebbero al- quanti i quali desiderosi de’ mali della
tirannide per de- menza o per avarizia congiurarono di tradire la patria e
richiamarvi i Tarquinj, trucidandone i consoli : ed io dirò quali ne fossero i
capi, e come im provvedutamente scoperti, mentre credeansi occulti a- tutti, ma
riassumerò le cose alquanto più addietro. III. Caduto Tarquinio dal trono, si
tenne per un tempo, non lungo, in Gabio, raccogliendo quanti a (i) Il lesto non
è ben fìsso : e fotse dee leggersi verghe curve o grosse nella lesta. Il codice
Valicano avendola voce xafvtat e noa xtfà/tttt favorisce la idea di verghe
grosse in testa. Silburgio pro- pende per le verghe ricurve iu cima lui ne
venivano amici della tirannide pià che delia li- bertà, e confortandovisi in su
le speranze de’ Latini, quasi potessero questi ricondurlo alla reggia. Ma
poscia che le città non io ascoltavano nè voleano per lui fare una guerra ai
Romani ; disperandone alfìne il soccorso fuggissene a Tarquinj città Tirrena,
donde era la ma- terna origine sua. E cattivandosi que’ cittadini co’ doni, e
prodotto da essi in piena adunanza, rinnovò 1’ antica congiunzione con loro, e
commemorò li benefizj deU r aiuolo suo con tutte le città Tirrene, e gli
accordi che avean fatto con lui. Poi si lamentò con tutti della sciagura che
avealo preso, e come travolto in un sol giorno da lietissima condizione, ora
profugo con tre 6gli e bisognoso fin del necessario, era costretto ricór- rere
a popoli, un tempo, sudditi suoi. Scorrendo su tali cose pateticamente e con
molte lagrime, indusse il* popolo a spedire il primo a Roma uomini che portas»
sero parole di pace per lui, quasi i potenti ivi fossero per favorirlo, ed
ajutarlo* al ritorno. Nominati quelli eh’ egli volle per ambasciadori, ed
istruitili delie cose che erano da dire e da fare gli spedi con alquanto di oro
e con lettere de’ fuorusciti con esso dirette con preghiere agli amici e
domestici loro. IV. Venuti questi a Roma dissero hi Senato : che chiedea
Tarquinia la franchigia di venire con pochi prima in Senato, e poi, quando ciò
fossegli conce-- duto dal Senato, nell adunanza del popolo per darvi conto
delle opere sue fin dai principj del regno, falline giudici tutti i Romani, se
alcuno mai lo accusasse. Che se appien si giustifica, se persuade che egli non
ha colpe degne dell esilio ; allora se gUel concedano, regnerà novamente con
que' limiti che gli prescriveranno : se poi decreteranno di non voler più. come
per l’ addietro la sovranità dei re, ma di fon-^ darne un altra qualunque, egli
uniformandovisi al pari degli altri reslerassene colla sua famiglia in Ro- ma,
sua patria, libero almeno della vita degli erranti, e de' profughi. E ciò detto
supplicavano il Senato pei comuni diritti che vogliono che niun si condanni
senza discolpe e giudizj, a concedere una difesa della quale essi
giudicherebbero. Che se ciò non volevano a lui concedere, fossero compiacevoli
almeno in vista della città la quale s' intrametteva. Compiacendola, tutto- ché
senza discapito loro, assai onorerebbero la città che ciò conseguiva. Uomini
essendo, non si elevassero sopra la sorte degli uomini: nè serbassero immortali
sdegni in cuori mortali : ma in grazia degt inter- cessori si sforzassero anche
contro lor voglia di usare mansuetudine ; considerando eh' egli è da savio con-
donare le inimicizie per le amicizie ; ma da stello e da barbaro volgere in
nemici gli amici. V. Aveano ciò detto, quando Bruto sorgendo re- plicò : Sul
ritorno de' Tarquinj in Roma cessate o Tirreni di più ragionarne. Imperciocché
già si è qui J volato irreparabilmente per l'esilio loro: ed abbiamo tutti
^giurato agC Iddj di non restituire i tiranni, e di non tollerare che altri ce
li restituisse. Ma se chie- deste con altra moderazione a cui nè le leggi nè li
giuramenti si oppongono', manifestatevi. Or qui faitùi innanzi gli
ambasciadoi’i soggiunsero : Terminale ci sono contro la espettazione le prime
dimandet am- basciadori per uno che si raccomanda, per uno che vuole dare a voi
conto di sè stesso, abbiamo chiesto qual grazia ciocch’ era diritto per lutti :
nè potemmo ottenerlo. Ora poiché ve n è parato così ; non più vi presseremo sul
tornar de' Tarquinj. J\oi facciamo istanza per un altro diritto di cui la
patria c incari- cava, e su cui non legge, non giuramento impedi- scavi, cioè
che rendiate al monarca i beni clm [ avolo suo possedeva senza toglierli a voi
nè di forza nè in occulto, ma portati qui avendoli, come ereditati dal padre. A
lui basterà, se lo ricupera, il suo, per vi- vere altrove Jelicemente, senza
vostra molestia. Riti- raroDsi ciò detto gli ambasciadorì. Bruto T uno de’ con-
soli suggeriva che si ritenesser que' beni in compenso delle ingiustizie sì
gravi e sì numerose dei tiranni contra del pubblico, e per util di Stato :
perchè non si dessero ad essi de mezzi co’ quali far guerra ; preammonendo, che
nè si affezionerebbero ad essi i Tarquinj col riavere i lor beni nè
sosterrebbero una vita privata, ma porterebbero su Romani le arme di altri
popoli, e tenterebbero di tornare colla forza al comando. Collatino però
consigliava il contrario, di- cendo che non gli averi, ma le persone dei
tiranni noceano la città. Pertanto scongiuravali a guardarsi prima dalC
incorrere nella rea fama di avere espulso i Tarquinj per invaderne i beni, e
poi dal porgere ad essi cosi spogliandoli, giusta occasione di guerra : dicea
che non era chiaro, che ricuperando i beni si accingerebbe^ ancora ad una
guerra con essi, lad- dove era ben manifesto, che non ricuperandoli f rion si
cheterebbero. VI. Cosi dicendo i consoli ; e molti sentendola col- r uno e coir
altro ; il Senato dubitò come avesse a ri- solvere. E ripigliandone per più
giorni l’ esame, e pa- rendogli che Bruto consigliasse il più utile, ma Colla-
tino il più giusto ; in ultimo deliberò che giudice ne fosse il popolo. Or qui
dette essendo più cosedairnno> e dall’ altro de’ consoli, e venendo alBne le
curie, che eran trenta di numero, ai voli, preponderarono le une alle altre con
si piccini divario che quelle le quali in- timavano che si rendessero i beni
superarono di uà sol voto le altre le quali voleano che si ritenessero. I
Tirreni avuta la risposta dai consoli : e molto lodando' la città che
anteponesse all’ utile il giusto ; spedirono a Tarquinio perchè mandasse chi
ricevesse i beni di lui ; frattanto essi resiavansi a Roma sul titolo del
trasporto de’ mobili, o di dar sesto a ciò che non potessi menar via j nè
carreggiare : ma in realtà spiando e brigandovi, come il tiranno aveali
incaricali. Perocché ricapitarono' le lettere de’ profughi agli attinenti loro
; pigliandone le altre di replica. E conversando, e studiando le affe- zioni di
molti, se ne trovavano alcuni facili ad essere guadagnati per la poca fermezza,
per la inopia, o pel desiderio di 'empiersi nella tirannide, davansi a subor-
narli coir oro e con ampliarne le belle speranze. Vi sarebbero secondo le
apparenze in città si grande e si popolata, alquanti non degl’ infimi solo ma
de’riguar- devoli i quali anteporrebbono il governo men buono al migliore 'y or
furono tra questi i due Giunj Tito e Ti> berio, figli di Bruto il console,
puberi appena, e con essi i due Geli] (i) Marco e Manio fratelli della moglie
di Bruto, idonei a’ pubblici affari : Lucio e Marco Aquìlio, figli ambedue
della sorella di Collatino, altro consolo, e conformi di anni al figli di Bruto,
presso a’ quali, non più vivendo il lor padre, per lo più si adunavano e
ctmcertavano sul ritorno de’ tiranni. VII. Tra le molte cose, per le quali a me
sembra che Roma giugnesse per la provvidenza de’nnmi a stato si prospero, non
sono le infime quelle che avvennero allora. Imperocché si mise in que’
sciaurati tanta de- .menza, e tanta cecità, che osarono fino scrivere al
tiranno di propria mano lettere che indicavano il nu- mero copioso de’
congiurati ed il tempo nel quale as- salirebbero r uno e r altro console,
lusingati dalle epi- stole del perfido ad essi per le quali volea sapere i
.compensi che avrebbe a dare, tornando in trono, al Romani. Ebbero i consoli
queste lettere per tale in- contro. Eransi i prlmarj de’ complici riuniti in
casa, degli Aquilj nati dalla sorella di Collatino, invitativi come a sante
cose e sagrifizj. Dopo il convito ordi- nando che quei che lo aveano ministrato
uscissero e si • tenessero nell’ anticamera; confabulavano infra loro su • la
rintegrazione del tiranno, e segnavano ciascuno, i .mezzi che glien parevano di
mano propria in lettere che gli Aquilj doveano far giungere ai messaggeri Tir-
reni, e questi a Tarquinio. Intanto uno schiavo (Vin- (i) Sigonio ne* scogtj
LÌTiani pone Vitel^ in luogo di Gellj se- guendo le antoriià di Livio e di
Plnisrco. dicio ne era il nome ) della città di Genina, il quale fervito gli
avea di bevanda, sospettando dalla remoaione de’ servi che coloro macchinassero
qualche scelleraggine, si stette solo fuori della porta, ed applicatovisi in
una fessura ben lucida, ne udì li discorsi, e ne vide le lettere che vi si
scrivevan da ognuno. Quindi a notte avanzala uscendo come in servigio de’
padroni, non ardi di andare ai consoli sol timore che volessero per r amor de’
congiunti che il fatto si occultasse, e ' levas~ sero di mezzo chi porgea la
dinunzia : ma recatosi a Pubblio Valerio l’ uno de’ quattro, primarj nel tor la
tirannide y congiunsero a vicenda la destra, e giuratagli da lui sicurezza, gli
svelò quanto odi, e quanto vide. Colui, saputo il fatto, si presentò • senza
indugio su r alba in casa degli Aquilj con valida schiera di clienti e di amici,
e penetrandone senza «>ntesa le porte co- me per tutt’aliro affare,
s’impadronl delle lettere men- tre pur v’ eran que’ giovani, i quali menò seoo
innanzi de’ consoli. Vili. Ora essendo io per dire le sublimi, e meravi- gliose
gesta di Bruto di che tanto i Romani si magni- ficano, temo che sembrino
austere troppo nè credibili ai Greci, giacché tutti sogliono per natura
giudicare le cose che di altri si dicono dalle proprie, e secondo queste
aversele per credibili o non credibili. Nondimeno io le dirò. Non si tosto fu
giorno, sedutosi Bruto in tribunale, ed esaminando le lettere de' congiurati,
ap- pena scopri quelle de’ figli distinguendole dai sigilli, e dopo rotti i
sigilli, dai caratteri; ordinò primieramente •he lo scriba leggessene 1’ una e
l’ altra, sicché tutti le udissero, e quindi che i Ggli dicessero su ciò se vo-
leano. Niuno de’ due ardiva rivolgersi impudentemente a negarle per sue, ma
quasi avessero già condannato sè stessi, piangevano. Egli soprastando breve
tempo sorse ; ed intimalo silenzio, ed aspettando tutti qual ne sarebbe la flne,
disse, che condannavali a morte. Or qui alzarono tutti la voce, alienissimi,
che avesse un tal uomo a punire sè stesso colla morte loro, e voleano condonare
al padre la vita de’ figli. Ma egli non com- portando nè le voci nè i pianti comandò
a’ satelliti che di là rimovessero i giovani che lagrimavano e supplica- vano e
co’ nomi più teneri lo chiamavano. Riusciva spettacolo meraviglioso a tutti che
un tal uomo niente piegato si fosse nè per le preghiere de’ cittadini, nè per
la commi aerazione inverso de’ figli : assai però parve più portentosa 1'
austerità di lui circa il supplizio. Imperoc- ché nè permise che si uccidessero
i figli allontanati dal cospetto del popolo, nè egli, almeno per fuggirne la
terribile vista, si ritirò dal Foro finché non furono pu- niti : nè condiscese
pure, che subissero, non disonorati co’ flagelli almeno, la morte destinata. Ma
custodendo tutte le consuetudini, e tutte le leggi quante ve n’ ha su’
malfattori, egli stesso nel Foro tra la pubblica vista presente a tutto,
fattili prima straziar colle verghe ; concedette alfine che con le scurì si
decapitassero. Sor- prendente soprattutto, inconcepibile era in quest’ uomo la
immobilità degli sguardi senza indizio nemmeno di compassione. Tanto che
piangendo tutti, egli solo fu visto non piangere sul destino de’ figli: nè
sospirò per sè stesso, nè per la solitudine la quale facevasi nella sua casa,
nè diè segno in tutto di debolezza: ma senza lagrime, senza lamenti, e come
inalterabile, portò ma- gnanimamente la sua sciagura. Tanto era forte di ani-
mo, tanto costante in compiere le risoluzioni, e tanto superiore agli affetti
che turbano la ragione ! IX. Uccisi i &gli fe’ chiamare immantinente gli
Aqui- Ij, 6gli della sorella dell’ altro console, presso a’ quali teneansi i
congressi de’ congiurati. E comandando alle scriba che ne leggesse l’ epistole
sicché tutti le udis- sero ; intimò ad essi che sen difendessero. Ma i giovani
venuti dinanzi al tribunale, sia che ammoniti ne fossero dagli amici, sia che
di per sè lo risolvessero, si gitta- rono a piedi dello zio per essere da lui
salvati. Ma co- mandando Bruto ai littori che li svellessero, e li traes- sero
se non voleano giustificarsi alla morte ; Collatino sopraggiunse a questi, che
sospendessero alquanto fin- ché abboccavasi col collega, e pigliatolo da solo a
solo orò lungamente pe’ garzoncelli ; parte escusandoli che fossero caduti in
tale stoltezza per inesperienza e per compagnie triste di amici, e parte
eccitandolo a con- donare la vita di parenti, dimandandolo in grazia lui che
non d’altro mai più lo vesserebbe, e parte facendo riflettere che turberebbesi
il popolo tutto se davausi ad uccidere chiunque sembrato fosse tenersela co’
fuoru- sciti perchè ritornassero ; imperocché dicea eh’ eran molti, e parecchi
non ignobili di lignaggio. Ma non venendogli di persuaderlo; ne chiese almeno
pena più mite che non la morte, dicendo: mal convenirsi che i complici si
avesser la morte, mentre il tiranno non so- stenea che l’ esilio. E perciocché
Bruto ripugnava da pene più mi», nè voleva (ciocché chiedeva da ultimo il suo
collega ) nemmeno differire il giudizio de’ colpe- voli, e minacciava, e
giurava di darli tutti appunto iu quel giorno alla morte ; Coliatino sdegnatosi
in fine che niente ottenea ; soggiunse : io, pari tuo, to scamperò que' giovini
se tu se tanto intrattabile e duro : E Bruto indispettitone, no, disse,
Coliatino ; non potrai finché 10 vivo far salvi i traditori della patria : anzi
tu pure darai tra non molto le pene che meritL X. Ciò detto, e messa una
guardia su’ giovani chiamò 11 popolo a parlamento : e riempiutosi il Foro,
perchè il supplizio de’ figli suoi, già si era in città divulgato, egli
facendosi in mezzo, cinto da’ più cospicui de’ se- natori disse : lo vorrei o
Cittadini, che Collatino, questo mio compagno, fosse concorde con me su tutto,
ed odiasse e combattesse i tiranni non pur colla voce, ma colle opere. Ora
poiché lo trovo manifestamente contrario e congiunto in tutto a' Tarquinj di
sangue, di voglie, e di brighe onde riconciliarceli, anzi col-- [ utile suo che
del comune ; io sono risoluto di op~ pormegli perché non compia le ree sue
macchinazioni, e perciò vi ho qua convocati. Io dirò primieramente in qitanto
pericolo sia la città ; poi come t uno e t altro di noi siasi diportato. Biunitisi
alquanti in casa degli Aquila nati dalla sorella di Collatino, e tra questi
ambedue li miei figli e li fratelli della mia moglie, ed altri non ignobili ;
stabilirono, e congiit- rarono la mia morte, e di restituirvi in Tarquinio il
monarca. E già erano per mandare ei fuorusciti /efr- tere contrassegnate da
loro caratteri e sigilli. Ma si fe ciò, la Dio mercede, a noi manifesto,
indican- docelo questo uomo, che è un servo degli jiquilj, di quelli presso i
quali si adunarono e scrissero nella notte precedente le lettere ; e noi, le
abbiamo noi, queste lettere. Io già ne punii Tito e Tiberio miei figli : e
niente, non leggi, non giuramenti, furono da me violati per la clemenza di un
padre. Ma Col- latino mi ritoglica dalle mani gli Aquilj con dire che non
soffrirebbe che partecipassero la sorte de' miei figli, se partecipato ne
aveano i disegni. Ma se co- storo non soggiacìono a pena, nemmen dunque vi
dovran soggiacere non i fratelli della mia moglie, non quanti sono, i traditori
della patria. E qual di- ritto più grande avrò io contro questi, se
risparmiatisi quelli ? Dite, qual contrassegno c mai questo, di amici della
patria, o del tiranno, di conferma del giuramento che avete voi tutti prestato
noi preceden- dovi, o di sconvolgimento e di perfidia ? Se egli ri- manevasi
occulto, pur sarebbe in preda alle fune e sotto la vendetta degli Dei che
spergiurava. Ora poi- ché vi si è palesalo a voi si spetta, a voi di punirlo.
Vi persuadea costui pochi giorni addietro che rende- ste i suoi beni al tiranno,
non perchè la città se gli avesse per usarne in guerra contro i nemici, ma per-
chè li nemici gli avessero per usarne contro la città. Ed ora si arroga di
esentare dalle pene i congiurati a restituirvi i tiranni, in favore come è
chiaro di questi, perchè se mai tornano, sia di forza, sia per tradimento egli
in vista di tanti servigj ne ottengcL come amico, quanto dimanda. Ed io che non
ho perdonato a’ figli miei, io dovrò, o Collatino, te rispar- miare, che sei
con noi di presenza, ma coll’ animo tra’ nemici ? E tu che salvi i traditori
della patria, tu me che per essa travagiiomi, ucciderai ? Or potrà farsi ? Eh !
che lontani siamo di molto. E perchè non possi nulla di simile, ti levo dal
consolato e cornandoti che in altra città ti conduciti. E voi o citi- iadini
voi chiamerò ben tosto per centurie, e presi i voti, deciderete se dobbiam così
fare. Intanto, (e vivissimamente avvertitelo ) voi l' una delle due mi dovete,
escludere Collatino, o Bruto. XI. Or lui cosi dicendo ; Gollatino esclamando ed
angustiandosi, cbiamavalo di cosa in cosa calunniatore e traditore degli amici
: e purgandosi dalle incolpazioni contro di lui, pregava intanto pe’ fìgii
della sorella: ma perciocché non permettea che si dispensassero i voti contro
di lui ; inferocivane il popolo, levandosi a re- more in ogni suo dire. Ora
essendo cosi inferocito nè soffrendo discolpe, nè volendo preghiere ma solo che
si dispensassero i voti ; ed interponendosene il suocero Spurio Lucrezio, uom
pregiatissimo, per timore che Collatino non perdesse ignominiosa mente ad un
tempo il magistrato e la patria, chiese da ambi i consoli fa- coltà di parlare.
Ed ottenutala, esso il primo, come dicono gli storici Romani, giacché non v*
era ancor r uso che un privato aringasse il comune ; diedesi pub- blicarrtente
a pregare 1’ uno e 1’ altro de’ consoli, Col- latino perché non si ostinasse e
non ritenesse il comando a mal cuore de’ cittadini, che spontanei gliel diedero
; ma se pareva a que’ che gliel diedero di ripeterlo, volontanamente lo
restituisse, e levasse co’ fatti, non coi detti le accuse contro di lui :
prendesse le sue cobbe e si recasse ad abiure altrove, dovunque voleva, Gnchè
10 Stato non era in salvo ; cosi porUndo 1’ utile pub- blico : riflettesse come
in altre ingiustizie gli uomini se ne sdegnano, quando sono commesse : ma che
sospet- undosi di tradimenti stimano anzi saviezza temerne in- vano e guardarsene',
che trascurarli e lasciarsene rovi- nare. Persuadeva poi Bruto, che non
cacciasse dalla città con vergogna e con vitupero quel magistrato com> pagno
col quale avea preso le risoluzioni più belle {>ér la patria : ma che desse
a lui, s’ avea cuore di lasciare 11 suo grado e di trasmigrarsi, tutto 1’ agio
a raccor le sue robbe, e gli aggiungesse a nome del popolo un dono come pegno
di consolazione nelle sue calamità. Cosi consigliando quel valentuomo, inUnto
che il popolo ne lodava i discorsi, Collatlno depose la sua dignità,
contristato che per la pietà de’ parenti era astretto a lasciare e senza
demeriti la patria. All’ oppo- sito encomiavalo Bruto perchè risolveva il
migliore per la sua Roma e per sè, e pregavalo a non. disamorarsi nè verso di
lui, nè della patria : trasportando al- trove la sede, considerasse ancor sua,
la patria che lasciava, nè si meschiasse a’ nemici contro lei non colle parole,
non colle opere. Considerasse in somma questo transito suo qual pellegrinalo,
non qual bando, o fuga: tenesse il corpo presso quei .che lo ricevevano, ma V
affetto suo, lo . tenesse questo, presso quei che lo mandavano. Or, cosi avendo
am- monito quest’ uomo persuase il popolo a regalarlo di.’ laS venti talenti,
con aggiungerne egli cinque del suo. Ca» duto Tarquinio Cotlaiino in tale
disgrazia si ritirò a Lavinia, antica madre de’> Latini dove carico di anni
mori. Bmto non sopportando di essere solo al comando, per non dare sospetto,
che levato avesse il compagno dalia patria per fervisi re, chiamò bentosto il
popolo al campo dove usava eleggere i sovrani- e gli altri magi» strali, e creò
per collega nel consolato Pubblio Yale» rio, uno dei discendenti, come sopra fu
detto, dai Sabini, uom degno di ammirazione e di lode per le molle suo doli, e
principalmente per la sobria sua vita. Egli trovando in sé stesso una luce
naturale di filosofia, la fece brillare in più affari, come poco ap» presso
diremo. Unanimi questi in tutto, immantinente diedero a morte, quanti erano, i
congiurati al ritorno de’ fuom» sciti, e dichiararono libero e cittadino il
servo . che aveali denunziali, colmandolo di oro. Poi fecero tre bellissimi ed
utilissimi regolamenti, che la città con- temperarono a pensare tutta di un
modo, sminuendo il favor pe' nemici. Il primo spediente fu di scegliere i
migliori della plebe e di crearli patrizj, onde compier con essi un Senato di
trecento. Appresso esposero al pubblico le suppellettili del tiranno,
concedendo che ognuno se ne avesse, quanto toglievano ; e comparti- rono i
terreni di esso a chi non aveane, riservandone unicamente il campo tra ’l fiume
e tra la città, dedi- cato già dal voto degli antenati a Marte, come prato
benissimo pe’ cavalli e per gli esercizj de’ giovani in arme. Tarquinio però, sebbene
prima di lui fosse già sacro a qnel nume, aveaselo appropiato, e sem inavaci :
di che è sommo argomento la risoluzione allora presa da’ consoli sul ricollo
che sen ebbe. Imperocché sebbene avessero conceduto al popolo di prendere e
portarsi quanto era del tiranno, non però consentirono che al- cuno si
arrogasse il grano germogliatovi, sia che fosse nelle spighe, sia che nell’ aja,
sia che già lavorato ; ma decretarono che si gettasse nel fiume come esecraa*
do, né degno che se lo avessero in casa. £ di tal giuo sopravvanza ancora,
monumento famoso, la isoletta sa- cra ad Esculapio, bagnata intorno dal fiume,
prodotta, dicono, dagli ammassi delle paglie corrotte, e dai fango che vi si
appiccò nel correr delie acque. Rispetto a quelli che eransi fuggiti a
Tarquinio accordarono ad essi generale perdono, e ritorno sicurissimo in patria
fra venti giorni, intimando a chi venuto non fosse in quel termiue, 1’ esilio
perpetuo e la confisca de’ beni. Or tali provvedimenti impegnarono ad ogni
cimento quei che godeano le robe, quante mai fossero del ti- ranno, sul timore
che non venisse ior meno l’utile che ne aveano; come impegnarono a favorire non
più la tirannide ma la patria, que’ lutti che per le gesta loro sotto dei
despoti, eransi esiliati da sé stessi, per timore di non pagarne le pene. Ciò
fallo, si diedero co* pensieri alia guerra te- nendo intanto 1’ esercito in
campo presso di Roma sotto le insegne e li capitani per addestrarvelo ; perchè
aveano udito che i fuornscili apparecchiavano centra loro ua armata dalle città
dell’ Etruria, e che quelle de’ Tar- quinj e de’ Vejenii, potentissime ambedue,
cooperavano manifettamente al ritorno di essi, mentre gli amici loro adunavano
dalle altre de’ stipendiati e de’ volontarj. Ma non si tosto seppero che l’ inimico
moveasi, delibera- rono di farsegli incontra ; e passando prima di esso il
fiume, s' inoltrarono e si accamparono vicino ai Tirreni nel prato Giunio,
presso la selva sacra ai genj di Ora- to (i). Trovaronsi ambedue le milizie
quasi pari di nu- mero con ardore eguale per combattere. £ su le prime, surse,
appena si videro, picciola mischia tra’ cavalieri, innanzi che le fanterie
prendessero campo. Cosi gli uni sperimentarono gli altri, e non vincitori e non
vinti si ritirarono ciascuno al corpo de’ suoi. Quindi messa la fanteria nel
centro, e la cavalleria nelle ale si mossero da ambe le parti coll' ordine
stesso fanti e cavalli gli uni contro degli altri. Conducea l’ala destra
Valerio il console, contrapponendosi a’ Yejeuti : Bruto reggea la sinistra
avendo a fronte la n^ilizia de’ Tarquiniesi co- mandata da’ figli del tiranno.
XV. Erano già già per venire alle mani quando ' avanzandosi dalle fila de’
Tarquiniesi 1’ uno de’ figli del tiranno, ( Aruute ne era il nome) il più vago
di aspet- to, e più magnanimo de’ fratelli, e spinto il cavallo verso i Romani
in parte, dove tutti ne intendesser la voce, coperse d’ ingiuria il duce Romano,
chiamandolo fe- rino, selvaggio, lordo del sangue de’ figli, imbelle e vile, e
lo sfidò per tutti a combattere solo. E colui non (i) Cosi nel Codice
V.iticano. Alcuni peto leggono jirslo in luogo di Orato, perchè secondo Tilo
Livio e Valerio Massimo jfrtia si idiiamava la selva. più bastando alle
ingiurie, spronò dal suo posto il ca- vallo senz' attendere gli amici che nel distoglievano,
correndo fortissimamente alla morte che eragli apparec- chiata dai fati. Rapiti
ambedue da pari ardore, intenti a ciò che era da fare non a ciò che ne
patirebbono, avventano impetuosamente i cavalli uno a fronte dell’al- tro, e
vibransi colle aste colpi vicendevoli, non reparabili cogli scudi, nè con gli
usberghi, immergendone la punta chi nelle coste, e chi nelle viscere. Urtatisi
per la foga del corso i cavalli nel petto, eievaronsi su pie’ di dietro, e
girandosi colla cervice rovesciarono i cavalieri. Cosi caduti giaceansi
versando sangue in copia dalle ferite, e lottando colla morte. Come le milizie
videro caduti i duci loro, spiccaronsi tra clamori e stre- pito, e sorsene
battaglia, quant’ altre mai ferocissima, di fanti e di cavalieri ; con sorte
non dissimile. Impe- rocché li Romani dell’ ala destra comandati da Valerio
console vinsero li Vejenti, ed incalzandoli 6no agli alloggiamenti, copersero
il campo di stragi. Per l’ opposito i Tirreni dell’ ala destra guidata da Tito
e da Sesto figli del tiranno misero in volta i Romani dell’ala sinistra, e
corsi presso alle loro trincierò usarono per- fino tentare se poteano in quell’
impeto primo espu- gnarle. Ma contrastati e feriti assai da quei che v’ erano
dentro, si ripiegarono. Àveanci di guardia i Triarj, cosi detti, veterani
peritissimi di guerra pel lungo eser- cizio, e soliti riservarsi pe’ cimenti
più gravi, quando ogn’ altra speranza vien meno. XVI. E fattosi già il sole
presso l’ occaso, tornarono gli uni e gli altri a’ proprj alloggiamenti non ti
lieti per la viuoria, che doleati per la moltitudine de’ per- duti compagni. E
se doveasi far nuova battaglia non credeano bastarvi quanti erano intatti fra
loro ; essendo i più feriti : se non che più grande era I’ abbattimento, e la
diffidenza ne’ Romani per la morte del comandante; in guisa che venne a molti
in pensiero che fosse il loro migliore di abbandonare prima del di le
trìnciere. Ma intanto che cosi pensavano e dicevano usci circa la prima vigilia
dal bosco presso al quale accampavano una voce, sia del genio tutelare del
bosco medesimo, sia di Fauno che chiamano, la quale rimbombò su l’uno e l’altro
esercito, sensibilissima a tutù. A Fauno ascriveano i Romani i panici timori, e
tutte le visioni che varie ne’ luoghi varj presentansi spaventosamente ai
mortali : e di questo Dio dicono che sian opera le chia* mate fatte dal cielo,
le quali tanto perturbano chi le ascolta. Animava questa voce i Romani a bene
operare quasi avessero vinto, significando come era morto uno di più tra’
nemici : e dicono che levatosi a tal voce Valerio ne andasse nel cuor della
notte agli alloggia- menti de’ Tirreni, e che uccidendoveli per la più parte, o
fugandoneli s’ impadronisse del campo. Tal fu l’esito di questa battaglia. Nel
giorno appresso i Romani spogliarono i cadaveri de’ nemici ; • seppelliti
quelli de’ suoi, partirono. I migliori de’ cava- lieri, presolo con molta
onorificenza e con lagnme, riportavano a Roma il corpo di Bruto in mezzo ai
fregi della propria virtù. Mossero all’ incontro di essi il Se- nato che avea
decretato che si portasse il duce con pompa trionfale, ed il popolo che ricevè
l’ esercito con BIOaiGl, torneai. crateri colmi di vino e con mense. Giunti
nella città ; il console ne trionfò come i re soleano, quando solen- nizzavano
i sagriBzj e le pompe pe’ trofei ; ed offerse a’ numi le spoglie, e fe' di quei
giorno una festa, convitando i più riguardevoli de* cittadini. Pigliata nel
giorno appresso lugubre veste, ed esposto il cadavere di Bruto su magnidco
letto in splendido ornamento nel F oro, vi convocò la moltitudine, e salito in
palco, ve ne recitò 1’ elogio funebre. Io non so ben discemere se Valerio il
primo introdusse in Roma quel costume, o se dai re io desunse : ben so che
ti*a* Romani antichis- sima é la istituzione degli elogi nella morte de’
valentuo- mini ; e so da’ pubblici documenti di poeti antichi, e di storici
famosissimi che non i Greci i primi la fon- darono. Imperocché le vecchie
storie danno a conoscere che ci aveano in morte di uomini insigni, combatti-
menti equestri e ginnici, come Achille ne fe’ su Pa- troclo, e come Ercole,
prima ancora, su Pelope : ma che gli encomj se ne recitassero, ninno lo scrive
se non i tragici di Atene, i quali adulando la propria città, favoleggiarono
che avesse ciò luogo nei sepolti da Teseo. Laddove tardi istituirono gli
Ateniesi per legge le funebri laudazioni ; sia che le incominciassero su quelli
che morirono per la patria ad Artemisio, a Sa- lamina, a Platea, sia che su
quelli i quali caddero a .Maratona. E la impresa di Maratona, se in quella sì
cominciarono gli elogj pe’ defonti, è più tarda della morte di Bruto per sedici
anni. Che se alcuno, lasciando d’ investigare quali stabilissero prima i
lugubri encomi, voglia esaminare presso chi sia la legge meglio ordinata ; la
troverà tanto più savia tra questi che tra quelli, quanto che gli Ateniesi
introdussero i pubblici elogi mortuali, pe’ defunti in battaglia, quasi
estimassero la bontà del solo termine glorioso della vita, sebbene al>
tronde indegnissima : laddove i Komani destinarono tal6 onore non al soli
estinti nel combattere, ma a tutti gli uomini, insigni per sublimi consigli, o
per belle operazioni, sia che in città, sia che in guerra avessero comandato,
ovunque morissero, giudicando che debbansi i valentuomini celebrare non per la
sola morte luminosa, ma per tutte le virtù della vita. Così muore Giuoio Bruto,
colui che schiantò la tirannia, che primo fu console dichiarato, che tardi
rendutosi illustre 6orl sì, piccini tempo, ma fortissimo parve fra tutti. Non
lasciò prole non di maschi non di femmine, come scrivono gli storici i quali
esaminarono le cose de’ Romani, ancor le più chiare : di che ne allegano molti
argomenti ; e questo infra gli altri non facile a vincersi, che egli era dell’
ordine de’ patrizj ; laddove quei che si dicono originati da lui li Giunj e li
Bruti eran tutti plebei, perocché conseguivano le ca- riche degli edili e de’
tribuni, che son quelle che per legge a’ plebei si permettono, e non il
consolato, cui niun conseguiva fuorché li Patrizj. E quando questa di- gnità si
concedette ancora a’ plebei coloro non la otten- nero se non tardi. Ma lasciamo
che discutano ciò quelli a’ quali si appartiene conoscerlo più chiaramente.
XIX. Dopo la morte di Bruto, Valerio il collega suo, divenne sospetto al popolo
quasi cercasse lo scet- tro ; primieramente perchè tenea solo il comando,
dovendo far subito eleggersi un compagno, come quando Bruto ripudiò Gollatino ;
e poi perchè aveasi fabbricato la casa in sito invidiato, preso nella parte
alta e dirotta del colle, il quale chiamasi Yelio e domina il Foro. Convinto
però da' suoi come ciò dispiaceva al popolo, pre&sse il giorno pe’ comizj e
fe’ darsi un compagno in Spurio Lucrezio. E morendo costui dopo pochi giorni
della sua magistratura, sostituì Marc' Orazio ; e trasferì r abitazione sua
dalle cime alle radici del colle, perchè i Jtomani, come ei disse concionando,
potessero tem- pestarlo co* sassi date alto se trovavano eh* ei facesse
ingiustizia. E volendo rendere il popolo più certo della sua libertà levò le
scuri dai fàsci, dando ai consoli sue* cessivi il costume, durevole pur ne’
miei giorni, di usare le scuri quando escono di città, ma di non por- tare nell’
interno di essa che i fasci soli. Fondò leggi piene di amicizia e di sollievo
inverso del popolo; proi- bendo con una manifestamente che niun de’ Romani
andasse alle magistrature se dal popolo non le prendeva; con pena di morte a
chi contravvenisse, e licenza a tutti di ucciderlo. Con altra legge si
decretava : Se un magistrato Romano voglia uccidere, o battere, o mul- tare
alcuno in danari; possa f uomo privato appel- larne al popolo senza che intanto
niente ne soffra dal magistrato finché il popolo ne sentenzii. Or sic- come
onoravasi con tali regolamenti il popolo ; cosi ne diedero al console il nome
di poplicola, che in greco appunto significa curatore del popolò. E tali sono
le cose fatte in quell’ anno dai consoli. Nell* anno seguente è di nuovo creato
console VALERIO, e con esso LUCREZIO: ma non si fece nulla di memorabile se non
il censo de’ beni, e la tas* sazion dei tributi per la guerra secondo le
istituzioni di Tullio re : cose tutte sospese nel regno di Tarquinio, e
rinovate da essi la prima volta. Trovaronsi in Roma idonei alle arme cento
trenta mila : e fu spedito un esercito per guardia a Sincerio (z), luogo di
frontiera contro i Latini e gli Ernie! da’ quali si aspettava la guerra. Creali
consoli (3) Valerio detto Poplicola per la terza volta e Marc’ Orazio con esso
per la seconda, 'Laro, re di Chiusi nell’ Etrurìa, quegli che Porsena si
cognominava, promise ai Tarquinj ricorsi a lui, 1’ una di queste due cose, o di
riconciliarli co’ Romani pel ritorno, e la ricuperazion del comando o che
ripiglie» rebbe e renderebbe ad essi i beni de’ quali erano stati spogliati.
Imperocché spediti 1’ anno precedente amba>> sciadori a Roma, i quali
portavano preghiere miste a minacce, non aveaci ottenuto nè la riconciliazione,
nè il ritorno de’ Tarquinj; pretestando il Senato le impre- cazioni e li
giuramenti fatti contro di questi, nè aveaiie riavuto i beni, negando
restituirli coloro che se gli aveano divisi, e godevanli. E non contentato in
niuna delle domande, e chiamandosene vilipeso e conculcato, (i) a46 secondo
Catone e a4S secondo Varrone dalla fondazione di Roma, e 5o6 STanti Cristo. (a)
Nel Codice Vaticano sì legge Tiiionirio. (3) a47 sec. Ceti e a4g see. Var.
dalla fondazione di Boma, e 5o5 avanti Cristo] arrogante altronde, e briaco per
1’ ampiezza delle sue ricchezze e dominio, credette avere cagioni assai per
abbattere la signoria de’ Romani, come già per addie- tro desiderava, ed intimò
loro la guerra. A lui si con* giunse Ottavio Mnmilio il genero di Tarquinio sul
di- segnò di mostrare tutto 1' ardore suo per la guerra. Egli si mosse dalla
città del Tuscolo e menò seco i Carne - rifai, e gli Antemnati, lignaggio
latino, alienali già pa- lesemente da’ Romani, e molti volontarj suoi fautori,
delle altre genti Latine le quali ricusavansi ad una guerra manifesta contro di
una città confederata, e tanto po- derosa. Saputo ciò li consoli romani
ordinarono a’tml- tivatori di portare masserìzie, bestiami, e schiavi ai monti vicini,
fabbricandovi -ne’ luoghi forti de’ castelli, opportuni a difendere chi vi si
riparava. Quindi pre- munirono con più potenti maniere e con guarnigioni il
Gianicolo, alto colle, cosi chiamato, nelle vicinanze di Roma di là dal Tevere,
e provvidero con ogni diligenza perchè non divenisse un baluardo pe’ nemici
contro la città, e vi depositarono gli apparecchi per la guerra. Quanto alle
cose interne della città le disposero, ancor più propiziamente verso del popolo,
diffondendo assai beneficenze su’ poveri, perchè questi non si ripiegas- sero
in verso de’ tiranni, nè tradissero per 1’ utile proprio, il comune ;
imperocché decretarono che fos- sero immani da’ tributi pubblici, quanti al
tempo dei te ne pagavano, nè soggiacessero a spese di milizia e guerra,
giudicandoli assai contribuirvi se la persona esponevano per la patria.
Collocarono nel campo dinanzi Roma la milizia preparata ed esercitata già da
gran tempo. Giunto il re Porsena coll’ esercito espugnò di assalto il Gianicolo,
spaventandovi i Romani che lo presidiavano, e sostituendovi guarnigione
tirrena. Quindi marciò verso la città quasi avesse a prenderla senza fa* tica.
Ma fattosi ornai prossimo al ponte, e visti accam- pati i Romani nella riva a
lui più vicina del fiume - si apparecchiò per combattere, in guisa da
sopraffarli col numero, e spinse assai spregiantemente innanzi la mi- lizia.
Reggeano l’ ala sinistra Tito e Sesto figli di Tar- quinio, tenendo sotto gli
ordini loro i fuorusciti da Roma, il fiore della gente di Gabio, e stranieri, e
mercenari non pochi. Mamilio il genero di Tarqninio comandava la destra ov’
erano i Latini ribellatisi da’ Ro- mani: finalmente il re Porsena avea la
fanteria schierata nel centro. Ma Spurio Largio, e Tito Erminio teneano l’ala
destra de’ Romani contro ai Tarquinj: Marco Va* lerio, fratello del console
Poplicola, e Tito Lucrezio il console dell’ anno precedente stavano colla
sinistra a fronte di Mamilio e de’ Latini. Moveano tutti due i consoli il corpo
fra le due ale. Fattasi alle mani combattè virilmente l’una e l’altra milizia
con lunga resistenza; superando i Romani per esperienza e fortezza i Tirreni e
i Latini ; ma po- tendo questi assai più de’ primi col numero. Alfine ca-
dendone quinci e quindi in gran copia s’ intimorirono prima i Romani dell’ aia
sinistra in vedere i loro duci Valerio e Lucrezio feriti, e portati fuori della
batta- glia ; e poi, quando mirarono in piega i loro compa- gni, sbigoltironai
aneli’ essi, quei dell’ala destra sebbene ornai vincitori delle schiere de’
Tarqainj. E fuggendosi tutti alla città, |>recipitosi, in folla, su per un
ponte solo ; piombavAno intanto su loro ferocissimi gl’ inimici : e poco
mancato sarebbevi che Roma priva di mura dalla banda del fiume, fosse espugnata,
se i vincitori investita 1’ avessero misti co’ fuggitivi. Se non che so-
stennero r inimico, e salvarono tutto 1’ esercito tre uo- mini, due seniori,
Spurio Largio, e Tito Erminio, appunto i duci dell’ ala destra, e Publio Orazio,
un giovine, il più beilo, il più valoroso de’ mortali Coclite detto dallo
strazio degli occhi, per essergliene stato di* velto uno in battaglia. Era
questi figlio dei fratello di Marc’ Orazio console, e traeva la origine sua
generosa da Marco Orazio 1' uno de’ trigemiai che vinse già li tre Albani,.
quando le città guerreggiando per la pre- minenza . accordaronsi a non
cimentarsi con tutte le forze, ma con soli tre uomini, come fu dichiarato nei
libri antecedenti. Questi soli fattisi alla lesta del ponte disputarono gran
tempo il passo al nimico, fermi sul posto medesimo, in mezzo a nembo di strali
e tra ’l fulminar delle spade, finché tutta l’armata ripassò di qua dal fiume.
Come però videro in salvo i suoi, Erminio e Largio, laceri già nell’ armatura
pe’ colpi incessanti, si ritirarono a grado a grado. Orazio però, sebbene dalla
città lo richiamassero i cittadini ed il console, e tentassero per ogni via di
salvare un tal uomo ai pa- renti e alla patria, Orazio solo non ubbidì, ma nel
posto suo si rimase come dianzi, raccomandando ad Erminio di dire in suo nome
ai consoli che tagliassero verso la città, quanto prima potevano il ponte. Era
di quel tempo il ponte uno solo e di legno, con tavole congiunte per sè stesse
e non per ferrei grappi, quale custodiscesi tuttavia dai Romani : raccomandò
nemmeno che quando avessero sconnesso il più del ponte, quando picciola parte
resterebbe a disfarne, a lui lo dichiaras- sero con certi segni, o con sonora
voce. Lasciassero a lui poi la cura del resto. Cosi ricordando a que’due si
tenne in snl ponte, e parte col ferir della spada, parte col dar dello scudo,
ne respinse, quanti investendolo, vi si avventavano. E già quelli che
perseguitavano il romano non ardivano più venire alle mani con esso, come preso
da furore e fermo di morire *, molto più che non era facile andar fino a lui,
che aveva a destra e a sinistra il fiume, e dinanzi un monte di cadaveri e di
armi : ma tenendosegli discosti Io bersagliavano in folla con lance, e dardi, e
sassi quali empirebbon la mano ; o coi brandi e coi scudi degli estinti, se non
aveano i primi stromenti. Resistea colui colle armi loro medesime : tirando su
la moltitudine ; sempre, com’ è verisimile, colpiva alcuno. E già percosso, già
carico egli era di ferite in più parti del corpo, già un colpo portatogli
direttamente per la coscia alla testa del fe- more, lo addolorava e
difficoltava nel caminare; quando, udendo gridarsegli addietro essere il ponte
nella sua più gran parte disciolto, si gettò di un salto colle arme nel fiume.
E valicatolo a stento, perchè divenuto rapido e molto vorticoso per le travi che
già sostenevano il pon* te, e che ora abbattute rompevano il corso delle acque,
fecesi a terra finalmente senza avere in quel tragitto perduta niuna delle armi.
Tale azione produsse a lui gloria immortale : e li Romani coronandolo lo
portarono immantinente per la città com’ nno degli eroi tra’ cantici
trion&li. RU versavasi la urbana moltitudine, finché le era permesso, per
desiderio di vederlo, almeno nell’ ultimo presentar- sele; sembrandole che tra
non molto morirebbe per le ferite. Scampò tuttavia da morte; ed il popolo mise
nella parte più cospicua del Foro la statua metallica di lui com’ era fra le
armi ; e diedegli del terreno pub- blico quanto ne potrebbe in un giorno un
pajo di buovi arare d’ intorno ; e senza contare i pubblici doni, ogni uomo o
donna, i quali erano insieme più che trecento mila, gli recarono ciascuno il
vitto di nn giorno men- tre era fra tutti terribile la peuorta. Orazio
dimostrala in tal tempo tanu virtù parve più che tutti i Romani invidiabile. C
quantunque, divenuto perchè zoppo, inu- tile ad altr’ incarichi nou potesse in
vista di tale scia- gura conseguire nè il consolato, nè altre militari presi-
denze ; nondimeno per le gesta meravigliose fatte da lui, vedendolo tutti ì
Romani, in quella battaglia, me- rita di esserne encomiato quanto mai lo fosse
ciascuno de’ più famosi per la fortezza. Cajo Muzio, sopranno- minato Cordo,
sceso da chiari antenati, anch’ egli si mise ad una nobilissima impresa. Io ne
dirò tra poco dopo esposti i mali che allora ingombravano Roma. Dopo quella
battaglia il re dei Tirreni col- locatosi nel monte vicino, dal quale avea
discacciato il presidio romano, dominava tutta la campagna di là dal Tevere. Li
figli di Tarquinio, e Mamilio il genero di lui tragittando le milizie loro
picciole barche aU . ' i3y r altra riva per cui vasai a Roma, accampamsi in
luogo ben forte. Donde slauciandosi davano ilguasto alle terre, ed agli alloggi
pe’ bestiami, e piomavano su’ bestiami stessi che uscivano dai sicuri luo^i per
pascere. Ora essendo tutto 1* aperto in balìa el iie» mico, nè più di qua, nè
più sopra il fiume reandoai in città le merci se non scarsissime; vi riuscì be
tosto carestia gravissima ; consumandovi tante raigliaja Iprov- vigioni già
fattevi, che non erano copiose. Allea gli schiavi, abbandonandoli ogni giorno,
in buon nttiero, disertavano dai padroni, e li più malvagi del ppolo
trasferivansi alle parti del tiranno. In vista di ciò arve ai consoli di
supplicare i Latini i quali riverivano' le> gami del sangue, e sembravano
fidi ancora, che ian> dassero come prima potean de’ rinforzi : e di spjire
ambasciadori a Cuma nella Campania, ed alle itià Fomentine per ottenerne dei
grani. Non sovvenneri ad essi i Latini ; come quelli che non credevano giusti
far guerra con Tarquinio nè co’ Romani, avendo con m- bedue vincolo di amicizia
: ma Erminio e Largio pe- diti commissari pel trasporto de’ frumenti, avendo
trin- cate da’ campi Pomentini più barche di ogni vettva- glia, le introdussero
in una notte senza luna dal tare EU pel fiume, in occulto de’ nemici. Ma venuta
mno ben tosto pur questa provvigione, e ridottisi gli uoainì ai disagi di prima
; Porsena chiarito dai disertori cime, que’ eh’ eran dentro vi penuriavano,
mandò arabi ad essi intimando che ricevessero Tarquinio se veleno li- berarsi
dalla guerra e dalla fame. Non comportarono i Romani il coaando, risola
piuttosto di subirne ogni male. Ma prevedendo > Musi' che l’una delle due ne
seguirebbe, o che vinti dal bogno non terrebbono gran tempo la parola, o che
aendola ne perirebbono sgraziatissimamente; pregò li coioli che gli adunassero
il Senato, come volesse proprgli grandi e rilevantissime cose : e radunatosegli,
disse Io medito o senatori una impresa, donde il popo nostro s’involi da’ mali
presenti. Ardita molto ella ì questa, ma facile, io penso, da compierla. Beri,
riuscendomi, poco, ower nulla io spero su la mie vita. Ora essendo io per
espormi a tali pericoli, anaaiovi da speranze sublimi, non ho voluto che,
voitutti lo ignoraste ; perchè se mi accada di mancar la trova, io sitine
celebrato almeno per V azione bel- lis.ma, e me ne abbia gloria eterna in luogo
del capo mortale. Già non era sicuro palesar quanto mcchino al popolo, perchè
niuno spinto dall util suo ne riferisse à nemici, quando è ciò da nascondersi
cote arcano indicibile. Pertanto a voi primi e soli ma- niestolo, i quali, ne
confido, lo tacerete: gli altri da vo r udiranno a suo tempo. La impresa che io
medito è mesta : Fintomi disertore, andrommene al campo Treno. Se non mi
ciedono e muojo, voi non avrete peduto che un cittadino : laddove se mi riesce
intro- dumi in quel campo ; io vi prometto di uccidervi il sue re. Caduto
Porsena, sarà per voi finita la guerra. Io pronto sono ad ogni sorte, qualunque
gli Dei me ne òstinino : e tenendo voi per consapevoli e tesli- monj miei
presso del popolo, e pigliando il genio buoni della patria per guida, portomi^
e vado. Encomiatone dai senatori presenti, ed avuti gli augurj propizj per la
impresa, passa il Tevere : e giunto agli alloggiamenti de’ Tirreni, ne penetra
come nno di essi le porte, deludendone le guardie : perchè non portava arme
visibili, e perchè parlava alla tir> rena, come eravi fanciullo stato
istruito dalla sua na- trice tirrena. Approssimatosi al Foro ed alla tecda del
principe vedevi un uomo cospicuo per grandezza e complessione di membra seduto
in veste di porpora nel tribunale in mezzo a molti che armati lo circondavano.
Or pensò, ma indarno, che costui fosse Porsena, non avendo altra volta mai
veduto il re de’ Tirreni : ma egli non era che il regio scriba il quale sedea
nel tri- bunale e numerava i soldati, e registravano i paga- menti. Inoltrasi a
tal vista tra la moltitudine fino allo scriba, e salito, senza esserne impedito
perchè inerme, snl tribunale, cava il pugnale che celava sotto l’abito, e
daglielo in capo. Ucciso con un colpo lo scriba, egli è preso immantinente e
portato al re già consapevole della strage. Il quale vedutolo appena, Ah
scelleralis- simo ! esclama, pagherai ben presto le pene che me- ritasti. Dì,
chi sei ? donde vieni ? e su qual confi- denza osasti un tanto attentato ?
Destinavi la sola morte delio scriba, o la mia parimente ? quali com- pagni hai
tu della perfidia? Non celarmelo, o li tor- menti vi ti forzeranno. E Muzio non
presentando pur un segno di paura non col variar del colore, non colla fissezza
dei pensieri, nè con altre affezioni solite in chi dee punirsi (li morte gli
rispose : lo sono un Romano: venni qual diserlom ed tuo campo, nè già per causa
vile, ma per liberare la patria dalla guerra, lo voleva uccidere te, qu$nUmque
io non ignorava che o riuscissi o fai' lèssi tujl colpo io ne dovrei morire :
io destinava con' secrard alta patria la vita, e lasciarle pel corpo che essa
àveami dato, una gloria sempiterna. Errai : e causa ifelT errore furono la
porpora, lo scanno, e le altre irfsegne del comando. Uccisi chi non voleva ! .
. lo scriba tuo per te stesso. Pertanto io non ricuso la morte thè io decretava
a me medesimo nell accingermi a rfuesta impresa. Che se tu giuri per gli Dei di
ri- sparmiarmi li tormenti e gli ohbrobrj ; io prometto che ti svelerò cose,
gravissime per la tua salvezza. Cosi Muzio diceva per deluderlo. E colui come
attonito, e temendo pericoli non veri da molti, glie lo giurò. Muzio allora
ideato un inganno del quale non potea convincersi : disse : O re, trecento
Romani tutti a ma pari di età, tutti patrizj di condizione, abbiamo mac'
chinata di ucciderli, dandocene vicendevoli giuramenti. Pavé, a noi quando ci
consultavamo su le maniere insìiiarli, che non tutti insieme ci ponessimo a
questa impresa, ma ciascuno da sà, tacendo perfno ai compagni, quando, dove,
come, e con quale oc- casione £ investirebbe, acciocché facile ci fosse di
occulterei. Cosi macchinando, ci demmo le sorti, ed io me la ebbi il primo per
cominciare la impresa. Istruito tu dunque che tanti valentuomini hanno sete
egiude di gloria, e che forse alcuno la sazierà con successo più fausto del mio
; deh ! considera se possi more mai guardia abbastanza che ti d fenda. Il re
ciò udendo comanda al «atelliti che in- calenino costui, se lo menino, e lo
custodiscano diii> gentissimamente : egli poi convocando i più amici, e
facendo che Arunte il figlio suo gli sedesse da presso, ragionò con essi le
maniere da far vane le insidie : ma suggerendone gli altri picciole cose ; non
pareano co- gliere il punto : quando il figlio suo propose un consi- glio,
superiore all’ età ; perciocché volea che non si pensasse a guardie onde
precludere i mali, ma piuttosto a far quello per cui le guardie non
bisognassero. E maravigliandosi tutti del suo consiglio, e desiderando sapere
come lo eseguirebbe ; col farci, ei disse, amici i nemici, e col pregiare o
padre, la salvezza tua più che il ritorno degli esuli. Soggiunse il re: cìut
egli ben diceva, ma essere da consultare come consdignità si pacificassero.
Sarebbe gran vitupero, se egli che uvea superato in battaglia, e tenea
ristretti i Romani fra le mura si ritirava, senza compiere quanto avea pro-
messo ai Tarquinj, quasi vinto dai vinti, e quasi fuggisse chi non ardiva
nemmeno uscire dalle porte. Facea conoscere che l’unico mezzo da togliere le
ni- niicizie sarebbe, se gli avversar) mandassero ambasciadori per trattare gli
accordi. Cosi disse in quel giorno agli astanti ed al figlio: tuttavia pochi
giorni dipoi fu necessitato egli il primo a fare proposizioni di pace per
questa cagione. Sbandatisi intorno i suoi militari, e datisi a predar di
continuo quei che recavano in città le merci; i consoli Romani se ne misero in
buon luogo alle insidie, e molti ue uccisero, e più ancora ne imprigionarono.
Di Digitìzed by Coogle i44 DELLE Antichità’ romane ohè nuioontenti i Tirreni ne
facean crocchio e sussurro iocolpaodo il monarca e i duci suoi sul tanto
prolungarsi della guerra, e sfogandosi in desiderj di rendersi alle lor case.
Or vedendo come tutti gradirebbero ma* nilestamente la pace spedi per trattarla
i più intimi suoi. Scrissero alcuni che fu con essi spedito anche Muzio sul
giuramento di tornare poscia al monarca: ma vo* glion altri che fosse piuttosto
custodito come ostaggio nel campo fino alla pace : il che forse è più
verisimile.' Questi poi furono gli ordini che il re diede a’ commise sarj ; non
dicessero parola sul ritorno de Tarquinj ; ma ne raddomandassero i beni,
principalmente gli ereditar] dal canto di Tarquinio P antico, già posse- duti
da essi bitoncunenle : e se ciò ricusatasi; dessero almeno, quant’ era
possibile, i compensi delle case, de' bestiami, de' campi,» delle raccolte,
come purea loro espediente, col danaro del pubblico, o de' pos- sessori, ed
usufruttuarj atlucdi de' beni. E ciò quanto ad essi. Chiedessero poi > per
lui che deponea le inimi- cizie li sette pagi, cosi detti, antico luogo dell'
Etru- ria, invaso da Romani nella guerra e tolto aproprielarj, e finalmente chiedessero
de' giovani delle famiglie più insigni, per ostaggio, che i Romaai si
terrebbono amici costanti de' Tirreni.Venuti i deputati a Roma, il Senato per
in* sinuazione di Poplicoia console si risolvè di accordarne tutte le dimande
in vista della penuria che alHigeva il popolo e . la classe de* poveri ; onde
accettissima sarebbe loro una pace, giusta nelle condizioni. Il popolo ratificò
tutti gli articoli del decreto del Senato; non soffri però die si vendessero i
beni, o si desse a’ Tarquinj dana- ro, privato nè pubblico, e volle che si
mandassero am- basciatori a Porsena perchè si contentasse degli ostaggi e della
regione che dimandava. Quanto ai beni egli giudice fosse tra’ Romani e tra
Tarquinio, udisse 1’ una e r altra parte, e ne sentenziasse non per favore nè
per nimicizia. Partirono i Tirreni con questa risposta, e con essi gli
ambasciadori del popolo i quali condu- ceano per ostaggi venti giovani delle
famiglie più illu- stri, avendo i primi dato i consoli Marco Orazio il 6gl lo,
e Publio Valerio la figlia, idonea già per le nozze. Pervenuti questi nel campo,
il re dilettatone, e molto- lodati i Romani, conchiuse una tregua per un numero
certo di giorni, e prese a giudicare la causa. Baltristaronsi però li Tarquinj,
caduti dalle speranze più lusinghiere, che avrebbegli quel monarca ricondotti
sui trono ; e per necessità dovéttero acconciarsi alle circostanze, e prendere
clocch’era lor conceduto. Giunti da Roma al tempo ordinato i più anziani de’
senatori e gii oratori della eausa ; il re sedutosi cogli amici nel tribunale,
ed assunto anche il figlio per giudice ; intimò che parlassero. Trattavasi
ancora la causa, quando un tale annunziò che gli ostaggi s’ eran fuggiti.
Perciocché le donzelle tra' questi, avuta come la chiedeano, la facoltà di
andare e di bagnarsi nel fiume, andatevi, dissero agli uomini che alquanto se
ne discQstassero, finché la- vate e rivestite si fossero, sicché non le
vedessero nude. Or questi cosi facendo ; quelle gitlatesi a nuoto ripara- ronsi
a Roma, eccitatevi da Clelia che le precedeva. A ul nuova Tarqutnto assai
rimproverava li Romani di iperginro e di mala fede, e provocava il sovrano per-
chè più non gli adisse, come divenuto il giuoco dei loro tradimenti.
Esciisavasi il console, dicendo queir opera, tutta delle donzelle, senza voler
del Senato: e che pre- sto dimostrerebbe che niente era per inganno. Persua-
sone il re concedè che andasse e rimeuasse come prò- mettea le fanciulle. Andò
Valerio appunto con tal fine: Dia Tarquinio e il genero macchinarono in onta di
ogni diritto un opera infanóissima, e spedirono in su la strada una banda di
cavalieri per sorprendere le fanciulle ri- condotte, il console, e quanti
tornavano al campo, e ritenersene le persone pe’ beni tolti da’ Romani a’ Tar-
qninj, senz’ aspettare il fine del giudizio. Ma non per- misero gl’ IJdj che
succedesse loro secondo il disegno : perché mentre gl’ insidiatori uscivano dal
.campo Latino per sopraffarsi a que’ che venivano, il console romano era già
passato innanzi colle fanciulle : e già era alle porte degli alloggiamenti
Tirreni quando fu sopraggiunte da’ persecutori. Si fe’ qui mischia fra loro, ma
ben pre- sto fu nota a’ Tirreni, e ne corsero frettolosissimi in ajuto il
figlio del re con de’ cavalieri, e la schiera dei fanti che stava di guardia
innanzi del campo. Sdegnatosi di ciò Porsena convocò li Tir- reni > e narrò
come essendo egli fatto giudice da’ Ro- mani di quello ond’ erano accusati da
Tarquinio ; gli espulsi, e bene a
diritto, da loro, aveano tentato di violare, le persone sacre degli ambasciadori
e degli ostag- gi, in tempo di tregua, e prima che si decidesse la causa. Dond’
è che i Tirreni assolvettero su di ogni richiamo i Romani, e togliendosi all*
amicizia di Ma- nilio e di Tarquinio, intimarono loro cb’ entro il pros* rimo
giorno si ritirassero. Così lì Tarquinj » pieni in principio di belle speranze
per 1’ ajuto de* Tirreni, o di essere di nuovo i tiranni di Roma, o di
ricuperare*! loro beni, perderono 1* uno e 1* altro per la offesa degli ostaggi
e degli ambasciatori, e partirono con infamia, e con odio dai campo. Il re poi
de* Tirreni facendosi condurre gli ostaggi dinanzi dei tribunale gli rendette
al console, dicendogli che pregiava la fedeltà de' Ro- mani più di ogni
ostaggio. R lodando Clelia, che avea persuaso le compagne di passare a nuoto il
fiume, come ne* suoi pensieri maggiore del sesso e della età, e feli* citando
Roma perchè allevava non pure de* valentuo* mini ma delle eroine, regalò la
donzella di un cavallo generoso, e magniCcamente bardato. Sciolta radunanza fe’
cogli ambasciatori de* Romani gli accordi e li giura- menti di pace e di
amicizia, e li onorò come ospiti, e restituì senza prezzo, perchè li recassero
in dono alla loro città, tutti li prigionieri, che eran pur molti : or- dinò
che rimanessero com* erano i padiglioni suoi, fatti non come per breve durata
su le terre altrui, ma fre- giati, quasi una città, con private e pubbliche
spese; quantunque i Tirreni dopo avervi alloggiato, usassero di. t noti serbarli. E fu questo, se in danaro si
.calcola, non picciolo dono pe* Romani, come lo di* chiarò la vendita fattane
da* questori dopo la partenza del re. Tal fu la fine della guerra de’ Tirreni e
di Laro Porsena la quale avea ridotto i Romani a tanti Dopo la partenza de’
Tirreni adunatosi il Senato Romano decretò che si mandasse a Porsena.il trono
di avorio, lo scettro, il diadema e la veste trion- fale colla quale i re si
adornavano: e che Muzio, espo* stosi alla morte per la patria, e cagione
principalissima del termine della guerra, si premiasse a spese del pub- blico,>
come già Orazio che resistè sul ponte, con tanto terreno; di là dal Tevere,
quanto poteane in un giorno solcare intorno coll’ aratro : e questo è il
terreno che pur nel mio tempo si chiama il prato di Muzio. Cosi fu decretato su
gli uomini. Quanto a Clelia concede- rono che una statua di metallo se le
innalzasse, ed i, padri 'delle donzelle glie la innalzarono nella via sacra,'
dove mette al Foro : tifa noi non più ve l’ abbiamo tro- vata ; e dicesi che
mancò per un incendio delle case d’intorno (i). Fu quest’anno compiuto il
tempio di Giove Capitolino, dei quale partitamente abbiamo scritto nel libro
antecedente. E Marco Orazio console lo con- sacrò, e lo intitolò prima che
potesse tornare Valerio il compagno, uscito per avventura dalla città coll’
esercito, per difenderne la campagna : perocché Mamilio speden- dovi a far
preda, assai vi danneggiava li coltivatori éhe vi si erano di fresco
l'icondótti, lasciate le fortezze. -E questo è ne’ fasti dèi terzo consolato. Spurio
Largio e Tito Erniinio consoli del- l’anno' quarto (2) io compierono senza
guerra. Morì nel 1 • ; I • • • (i| Plutarco sclibenè poslèriore a Dionigi dice
che la statua di Clelia esisteva aucora su la via sacra là donde vasai isf
e-asAttrter in palatiwn. Casaub. (3) Ad. 348 secondo Catone, e aSo secondo
Vatrone dalla fuuda- sioue di Roma, e 5o4 avanti Cristo] 149 loro consolato
Aruote il 6glio di Porsena re de' Tirreni» Assediava già da due anni, la città
della Riccia, per- ché conchiusa appena 1’ alleanza co’ Romani, prese dal padre
metà dell’ esercito, e marciò contro quella città per sottoporsela, e
dominarvi. Ma essendo ornai per espugnarla, sopravvennero a questa de’soccorsi
da Anzio, . dal Tuscolo, e da Cuma della Campania. Egli schierò le milizie sue'
minori contro le più numerose: ma dopo respinti, dopo incalzati gli altri 6no
alla città, peri finalmente, vinto egli stesso dai CumanI condotti dalr r
Aristodemo, che Malaco si chiamava. Fuggi, non sostennesi a tale caduta 1’
armata di lui. Molti ne ^ soc- comberono incalzati da’ Cumaui ; ma più ancot^ :
sban- dati ; ridotti senz' arme, nè più Idonei per le ferite a. fuga più lunga,
ripararonsi nel territorio non lontano di Roma. Se li menarono i Romani dalle
.campagne' in citté^ nelle proprie case, portandovene i più malconci a
cavallo., o su carri, o su cocchi: e ciascuno a proprie spese li nudrirono, e
curarono, e ristorarongll con sol-, lecitudine molto affettuosa. Di talché
molti di loro le- gati da tanta benevolenza desiderarono non di tornarsene in
patria, ma di rimanersi fra tali benefattori ; ed il Senato assegnò loro
perclié vi si fabbricasser le case, la valle tra ’l Palanteo, ed il
Campidoglio, lunga presso a quattro stadj. Chiamasi questa anch’ oggi nell’
idioma de' Romani la contrada Tirrena ; e vi si passa venendo dal Foro al circo
massimo. E per tali cortesi maniere ebbero dal re di quella gente dono non
lieve, e che assai li dilettava, la campagna di là dal fiume, ce- duta già da
essi quando ne ottenner la pace. Cori iSó trìbuUroao agl’ Iddj li sagnfiz)
magoìBci che aveano già promesso co’ voti se ricuperavano mai li sette pagi.
Correa nell’ anno quinto dopo la espulsione dei re la Olimpiade sessantesima
nona, nella quale Iscomaco Crotoniate vinse allo stadio, Acestoride fa 1*
arconte di Atene per la seconda volta, e furono con- soli Romani Marco Yalerìo,
fratello di Valerio Popli- cola, e Publio Postumio, detto Tuberto (i). Arse nel
loro consolato un’ altra guerra co’ vicini, la quale co- minciò colle prede, e
procedette a numerose e grandi battaglie : finché cessò da indi a quattro
consolati, dopo essersi nel tempo intermedio sempre stato fra le arme.
Imperocché alcuni Sabini considerando Roma indebolita per gl’ incontri suoi co’
Tirreni, quasi non dovesse mai più ricuperare l’antica dignità, ne assalirono,
affin di predarli, e certo molto ne danneggiarono, li coltiva- tori, i quali
calavano di bel nuovo dai luoghi forti alla campagna. I Romani prima di
prendere le armi spedi* rono ambasciadori a chiedere conto e soddisfazione,
tal> ché non più molestassero chi lavorava i terreni. Ma non ricevendone che
orgogliose risposte, intimarono ad essi la guerra. Valerio il console il piimo
con truppe eque- stri e con fiore di milizie leggere scorse tu que’ ruba- tori
de’ campi, e grande fu la uccisione de' sorpresi nri pascoli, sbandati, com’ è
verisimile, nè provvidi del venir de’ nemici. E spedendo i Sabini contr’essi un
(i) An. a49 ài Rom. ucondo Caioae, e aSi secondo Varronr, e &o3 «vanii
Criaio, Digitized by Google LiBno V. 1 5 1 esercito sotto un duce perito di
guerra, i Romani usci* rono di bel nuovo con tutte le forze, dirette da ambi li
consoli. Postumio mise il campo nelle alture prossime a Roma, pei'cbi uon vi si
facesse una subita irruzione da’ fuorusciti. Ma Valerio marciò di fronte al
nemico iu riva all’ Aniene, fiume che nella città di Tivoli casca da rupe
altissima, e poi corre, dividendoli fra loro, i campi de’ Romani e de’ Sabini,
finché vago in vista e dolce a beverne, scende nel Tevere. Erano i Sabini dall’
altra parte del fiume non lungi dalla corrente su di un colle non molto forte,
e che poco a poco degrada. In principio gli uni rispet- tando gli altri
esitavano a passare il fiume e farsi alle mani. Ma poi non per calcolo e
previdenza di beni, ma rapiti dfiir ira e dall’ ardor di combattere, furono
alle prese. Imperocché venuti ad abbeverare i cavalli e far acqua, inoltraronsi
molto entro il fiume, vmile allon nel suo corso, perché non accresciuto dalle
acque in* vernali : e siccome bagnavali appena, poco più su delle ginocchia ;
lo trapassarono. Attaccatisi in su le prime pochi con pochi, ecco accorrere
altri a difenderli, ognuno dai proprj alloggiamenti, e via via sopraggiun-
gerne di rinforzo, come questi o quelli erano superati. E quando i Romani
respingevano i Sabini dal fiume, e quando i Sabini ne toglievano l’uso ai
Romani. E molti uccisi e feritivi, ed eccitativisi tutti a combat- tere, come
avviene nelle scaramucce fortuite, sorse ar- dore eguale di passare il fiume
ne’ duci stessi degli eserciti. E primo passandolo il console Romano e con esso
r armata sua, ' piombò su li Sabini. Non eransi questi ancora nè bene armati,
uè schierati ; pure non esitarono ad accettar la battaglia, inanimiti molto è
spregianti, perchè non arcano a farla nè con ambi li consoli, nè con tutte le
milizie Romane, e slanciatisi, combatterono con furia di baldanza e di odj. Ardea rivissi ma la battaglia ; ma se 1’ ala
destra, or’ era Postnmio il console, superava gli avversar] ed avanzavasi ; la
sinistra ‘era travagliata e respinta al fiume. Or saputo ciò 1’ altro console
usci coll’ esercito suo : marciava egli pian piano colla fanteria, ma fe’
precedere in fretta colla cavalleria Spurio Largio Se- niore, e console dell’
anno precedente. Andato costui di tutta briglia passò facilmente il fiume, che
non era guardato da alcuno, e giratosi attorno l ala destra dei toemici pigliò
di fianco la cavalleria de’ Sabini., Or qui sorse battaglia diuturna e grave di
cavalleria con caval- leria. Frattanto avvicinatosi anche Postumio co’ suoi
fanti a queU’ ala ed investitala, molti ne uccise, e molti ne disordinò : di
modo che se non sopravveniva la notte, i Sabini avviluppati da’ Romani che già
prevalevano, sa- rebbero stati del tutto disfatti : ma le ombre occultarono
qùei'che fuggivano dalla battaglia come inermi e radi, e salvi si ricondussero
alle lor case. Impadronironsi i consoli senza combattervi de’ loro
alloggiamenti, abban- donati dalle guardie al veder quella fuga : ed occupa-
tevi molte suppellettili, e datele in preda all’esercito, *lo rimenarono in
patria. Cosi riavutasi Roma, allora la prima volta, da’ inali suoi co’ Tirreni,
senti lo spirito antico, ardi come prima arrogarsi 1’ impero su’ vicini,
decretò pe’ due 'consoli insieme un trionfo, e di più che si desse a Valerio
che era I’udo di questi, un sito nella parte- più distinta del Pallanteo, dove
gli si fon- dasse una casa a spese del pubblico. Questa è la casa innanzi alla
quale sta il toro di bronzo, e questa tra tutti i privati e pubblici ediCzj è
la sola che ha le porte che aperte si girano in fuori (i). XL. Presero dopo
questi il consolato Publio Valerio Poplicola per la quarta volta, e Tito
Lucrezio, di bel nuovo collega suo (a). Quest’ anno le città Sabine, te- nuto
un congresso comune, decretarono far guerra ai Romani, quasi fosse finita 1’
alleanza loro, per essere caduto dal trono. Tarquinio a cui 1’ aveano giurata.
Aveale indotte a ciò,1’ uno de’ figli di Tarquinio, Sesto di nome, il quale
coll’ onorare e supplicarne i citta- dini primari di ognuna, metteva in tutte
un animo per la guerra : anzi aveva a sé guadagnate, e consociate a queste pur
le due città Camcria e Fidene, ribellatele da’ Romani. In contraccambio le
città lo elessero gene- ralissimo loro con facoltà di reclutare milizia da
ognuna, come quelle che aveano perduta la prima battaglia per la insufficienza
delle forze, e del capitano. Ed in ciò si adoperavano questi : ma la fortuna
volendo contrap- pcsare i beni al mali di Roma, le diede in luogo degli alleati
che le si eranp tolti, un rinforzo, quale non 1(■) Tra i Greci era grande
onarificenia aver le porte che ai apria- aero au.la pubblica strada; e questa
servitù della pubblica strada coiopcravasi a gran presso: come è chiaro da ciò
che si legge d’I- ficrate presso di Aristotele negli Economici. (a|)'An. di
Bom. aSo secondo Catone, e aSa secondo Varrone, e 5oa av. Cristo] imperava dal
canto de’ nemici. Tito Claudio, un Sid>mo domiciliato a Regillu, nobile e
denaroso, fuggissene in seno di lei menando con sé gran parentado, ed amici e
clienti in copia, i quali spatriavano con le famiglie ; tanto che tra, questi
ce ne avea cinque mila buoni per le arme. E questa dicesi la cagion cbe lo
spinse a tra» sferire in Roma la sede. I primar) delle città più cospi- cue
alienatisi da lui -lo aveano incolpato di poca affe- zione verso il pubblico
bene, citandolo qual traditore ; come r unico che mal soffriva la guerra, e che
avea ripugnato in consiglio a quei che voleano sciolta 1’ al- leanza, nè
permise che i suoi cittadini AtiGcassero il decreto degli altri. Or temendo
egli un giudizio, ove le non sue città sentenzierebbero della sua sorte, rac-
colse le sue robe, e gli amici, e si congiunse ai Ro- mani, non senza picciolo
sbilancio degli affari ; talché parve a tutti la cagion principale dell’ esito
propizio della guerra. Per tanto il Senato ed il popolo lo ascris- sero tra’
patrizj, lasciandogli in città quanto sito volle per fabbricarvi ; e gli
donarono i terreni pubblici tra Fidene e Picenza perchè li • compartisse co’
suoi com- pagni, da’ quali risultò poi la tribù Claudia che ancora tiene quel
nome. Apparecchiatasi appuntp l’ una e 1’ altra parte, li Sabini i primi
cavarono le milizie e fecero due ac- campamenti, r uno all’ aere aperto non
lungi da F ide- ne, r altro in Fidene a difesa del popolo, come in ri- fugio
dell’ esercito esterno in caso di sciagura. I consoli Romani al sapere la
venuta de’ Sabini contra loro,• usci- rono anch’ essi con floride scltiere, e
presero campo, separati T ano dall' altro, Valerio a fronte degli allog» '
giatnenti sabini all’ aere aperto, e Lncreaio poco più di sopra, in un* altura
donde potea vedere l’ armata com- . pagna. Era disegno de’ Romani di venire
quanto prima a giornata per decidere subitamente, e visibilmente la guerra. Ma'
il capitano Sabino temendo di attaccare in pieno giorno la baldanza e la
robustezza romana, sem- pre ferma, contro ai casi anche più duri, deliberò di
investirla di notte. Quindi facendo preparare quanto era necessari a riempire
le fosse, e trascendere il vailo, quando ebbe pronto tutto, voleva tor seco il
6or deU r esercito, ed assalire nel primo sonno le trincee de’Ro* mani. Su tal
disegno avea fatto intendere all’ armata di Fidene che quando si avvedessero
del giunger suo ve- nissero anch’ essi dalla città, ma con armi leggere : ed
avea posto in luoghi opportuni gli agguati con ordine, che se andavano dei
rinforzi a Valerio dall’altro campo, uscissero loro alle spalle e gli
assaltassero fra strepito di voci e di arme. Sesto con tale risoluzione,
istruitine e trovativi pronti li centurioni, non aspettava che la opporiobità.
Ma un suo disertore venuto al campo ro- mano disse di quella trama al console.
Giunsero non molto dopo i cavalieri con dei Sabini che usciti a far legna
furono presi. Interrogati questi separatamente c/te mai preparasse il lor capo,
risposero, che scale e ponti : ma che dove, o quando fosse per valersene, non
lo sapeano. Valerio ciò udendo spedi Marco al- r altra armata per divisare a
Lucrezio che vi comandava r animo dei nemici, e come si dovessero questi
assalire. Poi chiamando egli stesso tribuni e centurioni, dicendo quanto avea
raccolto dal disertore, e da’ prigionieri ; confortandoli ad esser magnanimi, e
credere cb’ era giunto alfine il tempo sospirato onde prendere' su’ ne» mici
una luminosa vendetta ; prescrisse ciocché doves- sero fare, diede i segni, e
rinviò ciascuno alla sua schiera., XLII. Non era ancora la notte a mezzo,
quando il duce Sabino fatti levare i soldati, ne condusse il fiore al campo
romano, imponendo, a tutti che, taciti, avan- zassero senza strepito di arme ;
perchè i nemici non si avvedessero di loro prima che fossero giunti. Or come i
primi a procedere furono vicini al campo, nè videro ivi lume di fuochi, nè voci
vi udirono di sentinelle, assai riprendeano di stoltezza i Romani, quasi
tralasciata ogni gtiardia, se la dormissero : c già riempiute le fosse in gran
parte, le passavano senza ostacolo alcuno. I Romani però si teneano, non veduti
si per le tenebre, ma schierati nello spazio tra i valli e le fosse, e quando
chi le passava era loro alle mani, uccidevanlo. Rimase alcun tempo occulta la
rovina di chi precedeva a quei, che seguivano. Ma non si tosto quei eh' erano
vicini alle iosse videro col chiarore della luna che nasceva, i mucchi incontro
de’ cadaveri de’ compagni, e le schiere valide de’ nemici che resistevano;
gettarono le armi, e fuggirono. Allora alzato i Romani un altissimo- grido,
perchè quel grido era segno all’ altra armata, corsero in folla su loro.
Lucrezio a quei clamori, spediti su- bito 1 cavalieri per ispiare se ci aveàno
insidie nemi- che, si mosse indi a poco egli stesso col fiore della fanteria.
Imbattutisi i cavalieri con gli usciti da Fidene per insidiare, li fugarono: ma
la fanteria perseguitava) ed uccidevali, : ornai disordinati e sena’ arme,
quelli che erano venuti ad assalire il campo romano^ Morirono in teli
òombaltimenti circa tredici mila tra Sabini ed al* leali, rimanendone
prigionieri! quattro mila dugento: ed il campo loro fu preso nel giorno
medesimo. la stoltezza, e chia- mandoli
degni di morte quanti ve ne erano, giacché nè erano grati pe’ beneGzj, nè
faceano senno pe’ mali ; ne batterono alla vista del pubblico culle verghe, e
poi vi uccisero i più cospicui per nobiltà. Quanto agli altri lasciarono che
albergassero come prima, ponendo a coa- bitare con. essi la guarnigione che era
decretata dal Se- nato, e dandole parte de' terreni tolti a quelli. Dopo ciò
ritirarono le truppe dalle teiTe nemiche, e trionfa- «• rono secondo il decreto
del Senato. E tali furono le geste di, questo consolalo. Creato consolo Publio
Postumio Tuberto per la seconda volta, e con esso Menenio Agrippa Lana- to (i),
fecesi ma con piu schiere la tersa Irmzione dei Sabini prima che i Romani se n
avvedessero, e pro> cedette 6n presso le mura di Roma, Risultarono da questa
molte uccisioni non solo di agricoltori romani, colti repentinamente da nembo
che non aspettavtno prima di ricoverarsi ne’ castelli vicini, ma di quelli
eziandio che in città dimoravano. Imperocché Postumio il console riputando
insopportabile quella ingiuria; uscì di tutta fretta, con truppe comunque per
soccorrere i suoi, pih animoso in vero che savio. I Sabini, visto con quanto
dispregio, disordinati, e sbandati si avan- zassero verso loro, e latto disegno
di ampliarne ancor più la negligenza, partirono con marcia più che ordir naria,
quasi fuggissero addietro, finché giunsero ad una selva profonda ove il resto
celavasi delle loro milizie. Or qui voltando faccia contrastettero a chi
gl'inseguiva; ^ come pure gli occultati nel bosco ne uscirono, vocife- rando.
Ed essendo essi in buon ordine e molti, pro- stesero gli altri che combattevano
disordinati, sbandati, ansanti per lo viaggio ; e rinchiusero in una pendice
deserta quanti ne fuggirono, con preoccupare le vie che menavano a Roma. E
perocché già la luce era mancata ; posero le arme presso di quésti
invigilandoli tutta la notte, sicché taciti non s’ involassero. Saputosi in
città r informnio, vi fu gran turbamento, e concorso * ai muri, e. timor
comune, che i nemici trasportati, dal successo propizio, si presentassero in
quella notte a (i) An. di Rom. aSi secoado CaioDe, a53 secondo Varrone, e Sol
av. Crino. . 1 5g Roma: e là com piange vans! i morti; qua »i commise- ravano
li sopra vanzatt, come quelli che 'se nop erano immaniineote soccorsi,
caderebbero prigionieri per la penuria. Passatasi con tanto mal' in cuore senza
sonno la notte, Menenio, nato il giorno, armò li più floridi per anni, e li
guidò ben forniti e con ordine a liberare gli assediali nel monte. I Sabini al
vedere che ti avan> cavano non li aspettarono ; e tolto il campo si ritira-
rono, pensando che bastassero loro i vantaggi presenti: e senza indugiarsi gran
tempo, tornarono festeggiando alle patrie, ricchi di bestiami, di schiavi, di
danari. XLV. Rattristati i Romani dal danno, e credendolo causato da Postumio
il console ; deliberarono di mar> ciane sollecitamente con tutte le forze
contro la Sabina, desiderosi di rifarsi della perdita inaspettata ' e turpe j
molto più che assaissimo gli aveva esulcerati 1’ amba- sceria recente e contumeliosa
e superba colla quale i nemici, come già vincitori, e prenditori senza
contrasto di Roma se non erano ubbiditi, comandav.vno che ren- dessero ai
Tarqninj la patria, cedessero ai vincitori r imperio, e stabilissero il goverho
e le leggi, come sarebbero ordinate da questi. Aveano i Romani replicato a tali
messaggi, che annunziassero alle loro comuni che i Romani comandavano ai Sabini,
di deporre le armi, di sottomettere le loro città, di ubbidire,come per
addietro, e ciò fatto di venir supplichevoli per iscusarsi dalle ingiustizie e
da’ mali onde gli aveano violati nelle incursioni passate, se voleano pace ed
amici- zia : ma se ricusa vansi a tanto, aspettassero tra non molto la guerra
su le loro città. Cosi comandando e comandati a vicenda, quando ebbero tutto in
pronto ; uscirono per la guerra. Conducevano i Sabini il -fiore de’ giovani di
ogni città con arme bellissime : e li Ro- mani tutta la milizia urbana e le
guarnigioni, conce- pendo che i domestici e li schiavi, e quanti superavano ^
la età militare, bastassero in difesa di Roma e dei ca- stelli della campagna.
Cosi concentrati si accamparono ambedue con breve intervallo fra loro non lungi
da Ereto, città de’ Sabini. Come gli uni sepper degli altri o per con~ gettura
dall’ampiezza degli alloggiamenti, o per ciò che ne udivano da’ prigionieri ;
si eccitò ne’ Sabini confi* denza e disprezzo inverso la scarsezza degl'
inimici ; ma timore ne’ Romani per la moltitudine di essi. Pur fe- pero cuo^e,
e pigliarono qualche speranza su la vittoria pe’ segni mandati loro dal cielo,
e per 1’ ultima visione, quando erano 'per ischierarsi, che fu questa : Su le
punte dei lanciotti (sono queste le armi che i Romani scagliano nel farsi alle
mani; bastoni grossi che ti em- pion le mani, e lunghi, con ferrei spuntoni
nell’ uno e nell’ altro estremo, diritti, nè minori di tre piedi, tanto che le
armi, compresovi il ferro, somigliano ad aste mezzane ) su le ferree ponte di .
questi lanciotti, piantati tra padiglioni, brillarono delle fiamme ; talché per
tutto il campo fu luce continua come di accesi fa- nali, gran tempo delia
notte. Ora come gli auguri - di- chiaravano ( nè già era difficile intenderlo ),
concepirono che gli Dei con tal visione annunziassero loro una sol- lecita e
luminosa vittoria : imperocché tutto cede al fuoco, nè cosa vi è che per esso
non consumisi. E _ Dpercfac le fiamme brillarono su le armi loro; uscirono con
assai fiducia dalle trinciere, e nell’ estero di tale fi* ducia, attaccatisi
combatterono, sebbene di tanto mi- nori, co' Sabini. La sperienza eh’ era in
essi col vivo amor dei travagli, elevava li a spregiare ogni pericolo. Postumio
il primo ebe guidava 1’ ala sinistra, inteso a riparare la passata disfalla
urtò 1’ ala destra de’ nemici, non curando la vita per la vittoria : e come chi
rapito è da furore, e fermo per ogni via di morire, si lanciò nel mezzo di
essi. Allora i soldati i quali erano nell’ al* tr’ ala con Menenio ornai
stanchi, ornai cacciati di po* sto, al conoscere che que’ di Postumio
prevalevano su gli emoli, rimbaldanzirono e turbinaronsi su gli avver- sar]
loro. Cosi piegò 1’ una e 1’ altr’ ala de' Sabini, e diedesi pienamente alla
fuga. E dopo la perdita delle ale nemmeno quelli che erano ordinati nel centro
per* sislerono, ma forzati dalla cavalleria Romana che gli assaliva si misero
in volta. Tutti al proprio alloggia- mento si riparavano, ma i Romani seguendo
e inve- stendo, ne invasero 1’ uno e 1’ altro. C se l’esercito ne* mico non fu
totalmente distrutto, ne fu cagione la notte ed il luogo della sconfitta, che
era nella Sabina. Impe- rocché per la perizia de’ siti chi fuggiva salvavasi in
casa più facilmente di quello che lo potesse, per la imperizia sua, sorprendere
chi 1’ inseguiva. Nel prossimo giorno i consoli, bruciati i ca- daveri dei loro,
e raccolte le spoglie, e tra queste le armi abbandonate dai vivi nel fuggire, e
trasportando seco non pochi fatti prigionieri, c le robe invase' (non
compresevi quelle tolte da’ soldati ) colla pubblica vendita delle quali cose
ogaaao riebbe i prestiti, contri'* baiti per la spedizione ; tornarono con una
luminosa vittoria nella patria. Quindi per decreto del Senato Tubo e r altro ne
trionfarono ; Menenio col trionfo primario sedendo su regio carro, Postumio col
secondario, e men grandioso, che chiamano della ovazione, altera'- tone il nome
che era greco, sicché più non distin- guesi (i). Conciossiaché per quanto io ne
concepisco o ne trovo in molli degli storici Romani questo trionfo chiamavasi
nelle origini Evezione da ciò che vi si pra- ticava : ed il Senato, come
Licinio racconta, ora per la prima volta ne ideò la pompa. Differisce quest’
onor secondario dall’ altro, primieramente perchè chi sei gode, entra la dttà
colle schiere a piedi e non sul carro come in quello: e poi, perchè non porta
come l’altro la toga contraddistinta pe’ ricami varj e per l’oro ; nè la corona
pur di oro; ma la toga candida contornata di porpora, la quale è l’ abito
nazionale de’ comandanti e de’ con- soli, e la corona di alloro (a) : e se tien
le altre cose ; in questo cede al primo trionfante, che noU va collo sceturo.
Postumio poi, sebbene più che altri segnalato (i) OTaxione tu detta
originalmente evatio ; qnindi % !a voce di Virgilio I. 6. Ea. Evantes orgia
circum ducehat Phrygias. Questo ovari era dal greco tva^nt il qnale esprimeva
le accismasioni fotte con dire s«s lasserò Tarquinio, Mamilio, gli Aricini, e
cbiunqae davasi per accusatore di quella, iìuchè uditili tutti, seu- tenziarono
essere stata l’alleanza rotta dai Romani; e fecero intendere a Valerio che col
suo tempo discute- rebbero come aveano a vendicarsi di loro che aveano i
diritti calpestati del sangue. In mezzo a tali vicende congiurarono molti servi
d’ invadere i luoghi riguarde- voli di Roma, e d’ incendiarla in più parti. Se
non che datone indizio da’ complici, ne furono ben tosto chiuse le porte dai
consoli, e preoccupati i siti forti dai ca- valieri. Allora quaiiU erano
denunziati partecipi della congiura presi immantinente tra i domestici, o
portati dalla campagna, perirono tutti, battuti, tormentati, crociGssi. E tali
sono le cose operate in quel con- solato. Sotlentrati a tal dignità Servio ^
Sulpizio Came- rino, e Manio Tullio Longo (i), alcuni di Fidene con* vooando
de’ soldati dal popolo de’ Tarquiniesi occupa- rono il castello di essa, e
parte uccidendo, parte esi* liando quelli che si opponevano, ribellarono di
nuovo Fidene ai Romani. Venutivi degli ambasciadori da Ro- ma, erano per
malmenarli come nemici: ma contenutine da’ seniori, gii esclusero dalla città
senza udir nè ri- spondere. Il Senato quando seppe tali cose' non voleva ancor
far guerra co’ Latini, perchè aveva udito che non a tutti piaceano le
risoluzioni del congresso, che i po- ti) An. di Roma 354 secondo Catone, aS 6
secondo Varrone, a 498 STtnli Cristo] poli ia ogni città vi si ricusavano, e
perchè certo di- ceansi più quelli che voleano mantenere 1’ alleanza, che gli
altri i quali sciogliere la voleano. Pertanto decretò che Manio un de’ consoli
marciasse con armata poderosa contro Fidene: e questi, depredatane
impunissimamente la campagna senza che niuno gli si opponesse, ne andò coir
esercito fin sotto le mura, e provvide che non più vettovaglie vi s’
introducessero, nè armi, nè soccorso niuno. Ridottisi i Fidenati a guardare le
mura, spedi- rono alle città de’ Latini per implorarne solleciti ajuti.
Convocarono i capi di quelle un congresso comune di tutte : e datavi di bel
nuovo facoltà di parlare ai Tar- quinj come agli altri che venivano dagli
assediati, invi- tarono i consiglieri, cominciando da’ seniori e più co- spicui,
a djcbiarare il lor voto, e come aveasi a far guerra ai Romani. Dicendovisi
molte cose, e prima su la guerra se dovesse ratificarsi, i più torbidi fra i
con- siglieri insistevano perchè si riconducesse Tarquìnio al trono, e sì
volasse in soccorso di Fidene. Essi miravano con questo ad ottenere cariche di
comando militare, e mescersi ai grandi affari ; e quelli vi miravano soprat-
tutto, i quali cercavano in patria preminenza, e tiran- nide, lusingati che
avrebbero ad essi ciò procacciato i Tarquinj se ricuperavano il regno. Ma i più
agiati e miti ( ed eran questi i più accreditati nel popolo ) chie- deano che
si stesse ai patti, non si corresse ciecamente alle armi. Respinti quei che
brigavansi per la guerra dai consiglieri di pace, persuasero all’ adunanza che
mandasse almeno oratori a Roma perchè la pregassero, ed esortassero a ricevere
i Tarquinj e gli altri fuoruscili senza pena e senza memoria d’ Ingiurie :
giurasse que» ' sto, e si governasse poi di suo modo. Ritirasse però r armata
da Fidene ; non potendo essi guardare con Indifferenza che i parenti ed amici
loro si spogliassero della patria.' Ma se ricusasse far 1’ una e l’altra di
que- ste cose, le s’ intimasse, che deciderebbonsi per la guerra. Non
ignoravano costoro che Roma non pieghe* rebbesi nè all’ una nè all’ altra
dimanda : ma cercavano pretesti decorosi onde romperla, sperando Intanto di
rendersi col tempo e colla buona grazia benevoli i loro contrarj. Concluso
questo, fissarono un anno, ai Ro- mani per deliberarsi, come a sè per
apparecchiarsi : e nominati gli ambasciadori come parve ai Tarquinj; sciol*
sero r adunanza. Separatisi i Latini, ognuno per la sua patria, Mamilio e
Tarquinlo vedendo che i popoli propende- vano alla pacej deposero le speranze
che aveano su loro come istabili in tutto. E cangialo consiglio si rivolsero a
mettere in Roma stessa una guerra interna, nè pre- veduta, svegliandovi
sedizione tra’ ricchi e tra’ poveri. Imperocché già disunita vi si era, nè più
riguardava al ben pubblico una gran parte del popolo, quella princi- palmente
dei bisognosi e degli oppressi dai debiti; e ciò appunto per 'gli usura) che
non usavano moderazione ne’ crediti, ma fin carceravano e malmenavano i debi-
tori come schiavi comperati. Su tale notizia spedì Tar- quinio a Roma Insieme
co’ messaggeri latini persone non sospette con oro. Intramettendosi questi co’
poveri e coi baldanzosi, e parte dando, e parte promettendo se ivi il re sen
tornasse; aveano subornato moltissimi. Àdunque fecesi contro i3e’ potenti una
congtnra de’ poveri ingenui, e de’ servi màlvagi, i quali stimolati dal desi-
derio di esser liberi, e disamoratisi de’ padroni perchè aveano punito nell’
anno antecedente i loro conservi, gl’ insidiavano. Ed essendo malcreduti e
sospetti, come se venutone il tempo essi pure gli assalirebbero ; con piacere
si diedero a chi gl’ invitava. Il disegno poi della congiura era tale. Doveano
i capi di essa occupare in una notte senza luna i luoghi eminenti e forti della
città ; gli altri poi come intenderebbero dai gridi che gitteriano, aver loro
già preso que’ siti opportuni, do- veano uccidere tra ’l sonno i proprj padroni,
saccheg- giare le case doviziose, e spalancare ai tiranni le porte. Ma la
providenaa celeste la quale in ogni tempo ha salvato, e salva tuttavia Roma y
fe’ traspirare i di- segni al consolo Sulpizio. À lui ne diedero indizio due
già propensi a Tarquinio, anzi principalissimi nella con> giura, Publio e
Marco fratelli, della città di Laurento necessitati da impulso divino.
Imperocché si presenta- rono loro tra’l sonno visioni spaventevoli,
minacciandolt di pena gravissima, se non si chetavano e toglievansi dall’
impresa. E già parca loro che i rei genj gl’ incal- sassero, li battessero, e
sterpassero loro gli occhi, col- mandoli di altri mali terribili. Dond’ è che
spaventati e tremanti destaronsi, nè più poterono pel turbamento aver calma nel
sonno. E su le prime per togliei'si ai genj rei che li conculcavano, tentarono
i sagrifizj di propiziazione co’ quali si allontanano i mali. Non traen>
done però niun frutto, si rivolsero alla divinazione : e celando lì disegni,
perchè non eran da dirsi, cercarono solamente d’intendere se tempo fosse da
compiere cioc' chè volevano. Ma rispondendo l’oracolo eh’ essi teneano via di
delitto e di perdizione, e che se non mntavan proposito, ne perirebbero
infamissimamente; investiti dal timore che altri non li prevenisse nel portare
in luce l’arcano, lo indicarono essi medesimi al consolo che in città si
trovava. Costui lodatili, con promessa grande ancora di beneficarli se il dir
loro a’ fatti corrispondesse; li ritenne ambedue presso di sè y tacendone con
chiun- que. Allora introdotti in Senato i deputali latini, tenuti a bada fino a
quel giorno per la risposta, disse di con- certo co' padri : amici, compagni,
andate, riferite al comun dei Latini che il popolo di Roma non condi- scese
prima il ritorno al tiranno su le istanze dei Tdrguiniesi, nè punto appresso vi
si commosse irt forza di tutti i Tirreni che ciò domandavano, e gui- dati da
Porsena ci portavano la pià orribile delle guerre; ma che seppe vedere i suoi
campi manomessi, ed arsivi li casolari, e perfino ridursi a difendere le sole
sue mura per esser libero, e non comandato a fare ciò che non vuole. Dite, che
meravigliati ci sia^ mo che sapendo voi ciò, siale venuti a comandarci che
ricevessimo il tiranno, e ci levassimo dall assedio di Fidene, con intimarci la
guerra se ricusassimo. Cessino di opporci ornai più tali pretesti, fiacchi, im-
persuasibili, di nimicitia. Nondimeno se vogliono per questo scindersi dalla
nostra alleanza e far guerra, più non s’ indugino. Data tale risposta agli
ambasciadori, ed accom- pagnatili per significazione di onore fuori della città,
poi disse in Senato delia occulta cospirazione ciocché aveane appreso dai
delatori : ed avutane autorità piena d’ investigare L complici, e trovarli, e
punirli, non tenne già mezzi orgogliosi e tirannici, come un altro ridotto a
tale necessità gli avrebbe tenuti, ma si rivolse a mezzi ragionati, salutevoli,
e convenienti al governo d' allora. Imperocché non deliberò che i satelliti
snoi svellessero per le case i cittadini dall’ amplesso delle mogli, de’ figli,
e de’ padri, e li traessero a morte ; considerando quanta pietà ne sarebbe tra
gli attinenti nel distacco de’ cari lor pegni, e temendo che alcuni,
disperatisi, corressero alle arme, e si necessitassero ai male a costo di
sangue civile. Non deliberò che si eri- gessero de’uribunali contro di essi;
riflettendo come tutti negherebbero, e come non avrebbero i giudici argo- menti
incontrastabili e saldi, ma semplici denunzie, e colle quali, se credeansi,
dovrebbero sentwaziare la morte de’ cittadini. Ma per sorprendere i novatori
ideò tal metodo, per cui li capi si adunassero prima spon- taneamente in un
luogo, e quindi arrestati vi fossero per argomenti indubitabili, che non
lasciavano mezzo a discolpe : ideò che fosse questo luogo di unione non una
solitudine, o ritiro, dove pochi osservassero, e convincessero; ma il Foro,
talché scoperti alla presenza di tutti ne fossero in proporzione puniti, nè
sorgesse in città turbamento nè sollevazione degli altri, come suole ne’
castigi de’ congiurati, massimamente in tempi pericolosi. Forse un altro, quasi
poco sia bisogno di pre- cisione in tai cose, penserà che basti dir
sommarianieute che arrestò tutti i complici de’ maneggi secreti, e gli uccise;
ma io riputando degna che ricordisi la maniera onde furono presi, ho risoluto
non tralasciarla; percioc- ché giudico che non basti all’ utile di chi legge le
storie conoscere il termine solo de' fatti, (piando brama piut- tosto ognuno
che gli si espongane le cagioni, le guise delle operaxioni, i pensieri di chi
praticavate, e come i Numi li favorissero ; nè gli si taciano le conseguenze
che per natura vi si congiungono. Molto più ch’io vedo essere tali cognizioni
necessarie agli uomini di Stato, perchè abbiano d^lì esempj co’ (piali
dirigersi ne’ varj casi. Or questa fu la maniera ideata dal console per
l’arresto de’ congiurati. Chiamati i più validi de’ senatori ordinò che al
segno convenuto occupassero in città con seguito di amici e di parenti i luoghi
forti ne’ (piali per avventura abitavano : istruì poi li cavalieri a tenersi
ar- mati nelL' case più acconcie intorno del Foro, e com- piere ciocché sarebbe
lor comandato. E perchè nella presa de’ cittadini i loro fautori non si
elevassero, nè ci avessero interne stragi nel tumulto, scrisse al console che
assediava Fideoe, perché al far della notte mar- ciasse col fior dell’ esercito
alla volta di Roma, e lo accampasse nelle alture intorno de’ muri. Ciò
preparato; impose ai delatori che venissero circa la mezza notte nei Foro ai
capi de’ congiurati con i compagni loro più fidi come a ricevervi 1’ ordine, il
posto, ed il segno, in somma come per udirvi ciascuno ciocché avrebbe egli a
fare. Or ciò appunto si fece. E poiché tutti questi si furono accolli nel Foro;
imman- tinente al darsene di un segno arcano per essi, i luoghi foni farooo
pieni di uomini, armatisi per la patria ; e r intorno del F oro fu guardato da’
cavalieri, sen.ia che via vi lasciassero per chi volea ritirarsene. Intanto
Manio r altro console si presentò coll’ armata in campo Marzo. Nato appena il
giorno i consoli, cinti da uomini di arme, recaronsi ai tribunali, e fecero che
i banditori ~ invitassero pe’ quadrivi il popolo a parlamento. Concorsa la
moltitudine, le rivelano il maneggio sul ritorno del tiranno, e le presentano i
delatori. Quindi concedendo che si difendesse chiunque volea per ambigua 1’
accusa, nè volgendosi pur uno a respingerla ; passarono dal Foro in Senato per
chiedervene la sentenza dai padri: e presa e scrittavela ; tornati al popolo
gliela pubblica- rono, e tale ne era il tenore. Si desse ai due denun- ziatori
la cittadinanza, e dieci mila dramme di ar- gento a testa, e venti jugeri de’
terreni del pubblico ^ e se così ne paresse al popolo si prendessero i com-
plici della congiura, e si uccidessero. E ratificando il popolo quel decreto,
ordinarono che uscissero dal Foro quanti vi erano per 1’ adunanza : e chiamati
i littori colle arme, intimarono che dessero morte a tutti li congiurati : e
quelli, circondandoli ; appunto ov’ eran già chiusi, trucidarono li colpevoli.
Uccisi questi, non che ammettere le incolpazioni su degli altri partecipi, ne
assolvettero qualunque era salvo ancora dal suppli- zio ; e ciò per togliere
ogni turbolenza da Roma. Cosi finirono quei che aveano macchinata la congiura.
Ap- presso il Senato ordinò che tutti si purificassero per essere stati ridotti
a sentenziare la morte de’ conci ttadini : nè concedersi loro d’intervenire
alle sante cose ed ai sagrifizj, prima di esserne rendati mondi e tersi colle
espiazioni consuete. E poiché da quei che dirigono le cose divine, a norma
delle leggi della patria fu com- piuto quanto ricercavasi per sanliGcarli,
decretò che ia rendimento di grazie si facessero sagriGcj e giuochi agonali per
tre giorni. In questi giuochi sacri e deno- minati di Roma Mauio Tullio 1’ uno
de’ consoli caduto tra la pompa dal carro sacro nei circo, ne mori da indi a
tre giorni : e perchè poco rimaneva dell’ an- no, Sulpizio tenne in questo
tempo il consolato senza collega. Furono designati consoli per l’anno seguente
Publio Veturio, e Publio Ebuzio Elva (i). E di questi Ebuzio fu incaricato
delle cose politiche le quali sem- bravano abbisognare di cure non tenui,
perchè i poveri non facesservi mutamento. Veturio poi menando seco metà dell!
esercito, devastò le campagne de’ Fidenati senza che ninno gli ostasse : e
postosi all’ assedio della città, davate assalti continui. Ma non potendola
espu- gnare con questi, la cinse di vallo intorno e di fosse per sottometterla
colla fame. E già ne eran gli abitanti nelle angustie, quando venne un soccorso
di Latini spedito da Sesto Tarquinio, e grano, ed arme, ed altre cose utili per
ia guerra. Cosi ringagliarditi osarono uscire dalla città con forze non piccole,
e mettersi in campo aperto. Allora non più giovò pe’ Romani la cir«
convallazione ; ma parve che vi bisognasse una battaglia. Diedesi questa vicino
alla città ; pendendone qualche (i) Ad. di Roma aS5 secondo Catone, 357 secondo
Varrone, s 4 o 7 av. Cristo. . l'jj tempo dopo l’ esito incerto. Infine,
quantunque più co- piosi di numero, sopraiTatti i Fidenati dalla fermezza
Romana ne’ travagli, acquistata col molto esercizio, fu> rono ridotti alla
foga. Non fu la strage loro copiosa, per essersi tra non molt^ ritornati in
città mentre gli altri respingevano dalle mura chi gl’ incalzava. Dissipa- tesi
dopo ciò le truppe ausiliarie sen partirono senza avere punto giovato gli
assediati ; e la città ricadde ne’ mali e nella penuria di prima. Intanto Sesto
Tar- quinio marciò con un armata Latina sopra di Segni do- minata da’ Romani
come per occuparla a prira’ impeto^ Ma resistendogli da entro
generosissimamente, tentò di stringerli ad abbandonarla almeno per la fame. Se
non che spesovi gran tempo senza opera niuna degna di ri- cordanza, e giunte
vettovaglie e rinforzi dal canto ? dei consoli ; ne perde la speranza ; e
ritirandone 1’ armata, ne sciolse l' assedio. > • LIX. Nell’ anno seguente i
Romani elessero consoli Tito Largio Flavo e Quinto delio Sicolo. delio, dolce
per indole e popolare, fu messo dal Senato con metà dell’ armata su le cose
politiche per vegliare contro dei novatori: Largio ordinate milizie e stromenti
da impren- der gli assedj, parti per la guerra co’ Fidenati (i); E spossatili
colla diuturnità dell’ assedio, e col disagio di ogni cosa, desolavali ognora
più, minando i muri, ei^ gendo terrapieni, avvicinando macchine, nè lasciando
di e notte di stringerli, tanto che sen prometteva in breve il t. I i (i) All.
>li Roma lS6 secondo Catone, aSR eecondo Varroue, • /Jg6 avanti Cristo] di
espugnarli. Né le città Latine, su le quali contando ì Fidenati trovavansi in
guerra, potevano ornai più sal- varli. Imperocché niuna città bastava sola da
sé per li- berarli dall' assedio: nè le forze comuni di tutte si erano riunite
ancora : ma li capi del|e città Latine a’ frequenti messaggi de’ Fidenati
rispondeano sempre di un modo, cioè che presto giungerebbe loro il soccorso:
non però mai nino fatto moveasi pronto su le promesse, né le speranze
scintillavano più in là delie parole. Nondimeno i Fidenati non diffidavano in
tutto de’ Latini: ma per- sistevano su la espettazione di essi affronte di
tutti i mali, sopialtutto della fame, la quale facea senza com- battere strazio
grande degli uomini. Spedirono, è vero, alfine come stanchi da’ mali a chiedere
al console tregua di un numero certo di giorni per deliberare intanto su la
pace co’ Romani, e sui modi onde riordinarla. In realtà però ciò non cbiedeano
per deliberare, ma per fornirsi di compagni di arme, come alcuni diser- tati di
fresco da essi indicarono, giaoché nella notte innanzi aveano spedito i
cittadini loro più cospicui, e più validi tra’ Latini, perchè iu forma di
oratori sup- pbcassero quel popolo. Largio, ciò saputo, ingiunse agli ora tori
che deponessero le armi e spalancassero le porte, e poi fa- vellasser di tregua
: iu altro modo non pace, non armi- stizio, non moderazione, non umanità
presumessero dai Romani. Frattanto provvide che gli ambasciadori deputati ai
Latini . non rientrassero in città ; preoccupando con guardie rigorosissime le
vie che vi conducevario. Tal che diffidatisi gli assediati di un ajuto
qualunque degli alleali si videro astretti a pregar veramente l’iaimico. B
riunitisi, conohiusero di soiTrire la pace, comunque il vincitore la desse.
Altronde il console ( tanto i costumi de’ capitani di que’ tempi respiravano 1’
amor della pa> tria, e tanto erano lontani dalle maniere tiranniche che
pochi san fuggire de’ capitani presenti, invaniti dal C 0 i mando I ) il
console sebbene prendesse la città niente vi permutò di voler suo : ma fattala
deporre le armi, e presidiatala, conducendosi a Roma e convocando il 3^ nato,
lasciò che esso ne deliberasse. Lieti i Padri del rispetto del valentuomo verso
loro dichiararono che i più nobili dj Fidene secondo che il console li giudi» -
casse capi della ribellione, si battessero colle verghe, e ei decapitassero :
su gli altri poi disponesse egli stesso come glien parrebbe. Largio divenuto 1’
arbitro di tutti sparse in vista del pubblico il sangue, e confiscò li beni di
alcuni pochi accusati dal partito contrarlo; ma con- cedè che gli altri
ritenessero la patria e le robe loro, e solamente ne dimezzò le campagne, poi
dispensate a sorte tra’ Romani lasciati in guardia della fortezza. Alfine dopo
ciò ricondusse in casa 1’ esercito. LXI. Risaputasi fra’ Latini la espugnazione
di Fidene, ogni città ne fu sospesa e tremante, e mal soddisfatta de' capi suoi
; come tradito avessero li confederati. C fattosi consiglio in Ferentino, quei
che persuadevano la guerra, assai vi accusarono gli altri che la dissuadevano.
Erano de’ primi Tarqulnìo, e Mamilio il genero di lui e li capi tra gli
Aricini. Rapiti dal dir loro, quanti erano i Latini, vollero generalmente la
guerra contro de' Ro- mani, e diedero scambievole giuramento, che tiiuua l8o
città tradirebbe il comune, nè farebbe pace sema il consenso delie altre
decretando : che qualunque non os-> servasse i patti decadesse dalla lega
alla esecrazione e nimicizia di tutti. Sottoscrissero e giurarono questi patti
i deputati degli Àrdeati, degli Aricini, dei Boiaiani, dei Bubentani, dei
Coresi, dei Corventani, dei Gabj, dei Lavrentini, de' Laviniesi, dei Labiniani,
de' Labi- cani, de' Nomentani, de' Moreani, de' Prenestini, de' Pedani, dei
Querquetulani, de' Satricesi, de' Scap- tini, de’ Sezzesi, de' Teliini, de'
Tiburtini, de'. Tu- scolani, de' Tolerini, de' Trienni, de' Veliterni (i).
Doveansi scegliere tra gl’ idonei alle armi, tanti in ogni città quanti ne
parrebbono ad Ottavio Mamilio e Sesto ^ Tarquinio, i quali erano generalissimi
nominati. E per giustifìcare ancor più li titoli della guerra spedirono a Roma
da ogni città li personaggi più insigni come ora- tori. Venuti questi in Senato
dissero : che quei della Riccia si richiamavan di Roma, perchè ■ qucuido i Tir-
reni mossero contro loro la guerra, essa non solo die a’ primi libero il passo
per le sue terre, ma li coadjuvò su quanto era d' uopo, ricoverandoli mentre
poi ne fuggivano e salvandoli tutti, inermi e feriti : eppure non ignorava che
quelli portavano guerra al corpo tutto della nazione : e che se avessero domalo
(i) Dioaigi nel namerare questi popoli siegue l’ordine dell’ alfa- beto latino
e non del greco : del resto numera popoli quando nn tal Bruto nel lib. VI. di
quest' opera § 74 dice ebe furono trenta i popoli latini concorsi a tal guerra.
Dovrebbero dunque additarsene altri sei. Nel codice Vaticano si numerano ancora
i Tolerini che noi abbiamo ugualmente allegali nel testo. La nomenclatura per
quanto aia stata emendala non par libera ancora da ogni storpiatura. . ' i8r la
Riccia; niente pià gli avrebbe impediti, sicché non soggiogassero le altre
città. Pertanto annunziavano che se Roma voleva darne conto a quei della Riccia
nel tribunale comune de’ Latini, e rimettervisi al giu- dizio di tutti, non
avrebbon essi cagioni di guerra. Ma se tenendosi all alterigia sua consueta
ricusava affatto condiscendere sul giusto e su V onesto inverso de’ confederati
; minacciavano che i Latini tutti la moverebbero con tutte le forze la guerra.
LXn. A tale invito il Senato alieno di fare cogli Ari* cini una causa dov’ essi
giudicherebbero, e dove preve- deva che i nemici non sentenzierebbero di questo
sola* mente, ma vi aggiungerebbero ordinazioni ancora più gravi, decise che
accettava la guerra. Argomentava dal valore e dalla sperienza de’ suoi tra le
arme che Roma non incorrerebbe in danno ninno: apprendendo però la moltitudine
de’ nemici, sollecitò più volte con ambascia* tori le città vicine per
confederarsele ; se non che spe* divano i Latini ancora nelle stesse città
legazioni che accusassero a lungo Roma, e la contrariassero. Gli Err nici
adunati a consiglio di stato diedero all’ una e al- r altra ambasceria risposte
sospette nè salutevoli, dicendo che per ora non si vincolavano con alcuno; ma
voleano posatamente discutere qual de’ popoli seguisse causa più giusta, e
prendeansi per discuterne un anno. I Rutoli in contrario promisero senza arcano
mandare soccorsi ai Latini : ma dissero che se Roma volea deporre le ini-
micizie, essi mansuefar ebbono i Latini, e ne concilie- rebbono gli accordi.
Risposero i Volaci che si stupivano della impudenza de’ Romani ; perciocché
sapendo essi quante volle gli avessero offzzl conTenlftnti a «pcgnere ^elfa
tnrblo ratiBcò; dando t principj certi di una tirannide a norma : Quindi i capi del Senato si fecero a
conside- rare lungamente e providamente il personaggio che avreb- be a
comandare. Paiea loro che vi fosse necessità di un nomo espedito negli affari,
più che perito nell’ arme, e savio, e temperato, sicché poi non > delirasse
per l’am- piezza del comando; insorama di uno il quale oltre le belle doti,
quante ai buoni comandanti si convengono, sapesse presieder con fortezza, nè
cedere mollemente alle istanze. Di un uomo tale appunto abbisognavasi allora.
.Videro concorrere doti siffatte quante seu chiedeano in Tito Largio, uno de’
consoli ; laddove delio il colle- ga, uomo altronde buonissimo, non era nè
attivo, nè bellicoso, nè imponente, nè temuto, ma edite troppo in punire chi
non ubbidiva. Nondimeno il Senato pren- dea .verecondia di levare a que^o
un’autorità che aveva secondo le leggi, e di concentrare .nell’ altro il potere
di ambedue, anzi un poter più che. regio. .Teniea per qualche maniera che delio
riflettendovi, non si gravasse della rimozione sua, come disonorato dai Padri ;
e camhiale le maniere del vivere, si ponesse alla testa del popolo, c turbasse
dal fondo la repubblica. Esitando tutti, e gran tempo, per la verecondia di
proporre ciocché ideavano, un seniore, venerabilissimo tra gli uo- mini
consolari, diede un tal suo parere, per cui fu salvo l'onore di ambedue li
consoli, scegliendo essi ap- punto il personaggio più acconcio al comando.
Diceva : Poiché il Senato ha risoluto, ed il popolo ha ratifi- cato che il
poter del comando si affidi ad un solo, restano ai Padri due cure non picciole
: chi debba sottentrare ad una autorità pari alia monarchia, e chi possa
legittimamente nomiruuvelo. Or egli suggeriva che l’uno de’ consoli sia per
cessione, sia per sorte', eleggesse il romano più idoneo, a far 1’ utile e il
bene della patria: giacché trovandosi allora in città magistrati sacrosanti,
non vi abbisognavano gl’ interré come nella monarchia, per eleggere di accordo
chi succedesse al comando. ' i Applaudivano tutti al partito, quando leva- tosi
un altro disse : Ali sembra o Padri che debbasi alia sentenza aggiungere: che
reggendo di presente la repubblica, due valentuomini, de’ quali non trovereste
i migliori, V uno 'debba dare la nomina, e l’ altro riceverla, talché scelgati
essi fra loro il più idoneo ; e C uno e i altro se ne abbia onore e
soddisfazione uguale, quello perchè sceglie nel collega il più degno, c questa
perchè scelto sen trova : dolcissime e bonis- sime cose ambedue. Ben vedo che
sebbene io non avessi ciò aggiunto ; pure avrebbono i consoli così DWaiGI, toma
II. il praticalo ; egli è meglio^ nondimeno che il facciano eziandio col vostro
volere. Parve a tutti ciò detto a proposito, e niuno più notandovi altra cosa,
ne decre- tarono. I consoli ricevuto il potere di eleggere fra loro il più
idoneo al comando, fecero una mirabilissima cosa, e ben varia dalle affezioni
dell’ uomo. A vicenda r uno dicea 1’ altro, e non sè, degno del comando : così
passarono tutto quel giorno, encomiando l’ un l’altro, e insistendo ciascuno
per non comandare: tanto che gli astanti in Senato ne furono in grandi perples-
sità. Sciolto il Senato, i parenti più prossimi di cia- scuno, e li Padri più
venerabili recatisi a Largio assai lo stimolarono £no a notte avanzata,
dichlaraùdogli come il Senato poneva in esso ogni speranza, e di- cendo che le
sue ritrosie volgevansi in pubblico danno: egli tuttavia ricusava, ora
supplicando, ed ora contra- dicendo. Adunatosi nel prossimo giorno il Senato,
mentre colui ripugnava, nè levavasi ancora dal suo pa- rere su le istanze
comuni, Clelio sorge, e lo nomina, come gl’interré solevano nominare, e lascia
il consolato. Fu questi il primo che, solo, fu reso àr- bitro in Roma della
guerra, della pace, d’ ogni affare, col nome di Dittatore (i) sia per la
podestà di ordi- nare e dettare leggi su’ diritti e sul bene degli altri, come
glien pareva e piaceva, chiamandosi da’ Romani Editti gli ordini e prescrizioni
sul giusto e su l’ ingiu- sto : sia per essere allora un tal. uomo detto e
dichia- rato da un solo e non dal popolo secondo i riti della (i) Ad. di Roma
aS6 socondo Catone, a58 secondo Varrone, • ar. Cristo] patria, perché
comandasse. Guardaronsi dal dare al magistrato di una città libera un nome
esecrabile e grave per rispetto di quelli che ubbidivano, sicché in odio del
titolo non si conturbassero, e per rispetto di chi prendeva il comando, sicché
nè fosse costui offeso dagli altri senza saperlo, uè gli offendesse egli co’
modi consueti nel grande potere. E certo il nome di dittatore non bene l’
ampiezza ne significa del potere ; non es- sendo la dittatura che un Dispotismo
elettivo. Sembra che i Romani ne traessero pur da’ Greci la istituzione.
Imperocché gli Esimneti che chiamavansi antichissima- mente tra loro erano,
come dichiara Teofrasto nel libro intorno del regno, despoti elettivi. Li
creavano le città non per tempO' indefinito o perpetuo, ma nella circo- stanza,
e fin quando sembrava che giovassero loro, come li Mitilenei già scelsero
Pittaco contro gli esuli, compagni di Alceo poeta. Tennero questo metodo I
primi che aveano appreso per esperienza ciò che giovava. Imperocché nelle
origini era ogni greca città sovraneggiata, non però dispoticamente come tra’
barbari, ma secondo le leggi e le patrie consuetudini : ed un re si avea tanto
più per potente quanto era più giusto, e più fido alle leggi, e men schivo de’
patrii costumi : ciocché s’ in- tende per Omero il quaì nomina i sovrani,
vindici del diritto, e de/f onesto (i). Tennesi lungo tempo la si- gnoria dei
re come quella de’ Lacedemoni sotto fisse (i) Mèi testo: intarrtXnt, e
SiftttTttrtXuf. cioè che si rer- uuio sul giusto e su C onesto . costituzioni. Ma cominciando poi taluni di
questi a tra- scendere gli usati poteri, poco concedendo alle leggi e molto ai
genj loro ; ne furono i popoli in tutto disgu- stati, e rovesciarono 1’
autorità de’ monarchi, e le loro maniere : e stabilendo leggi e creando
magistrati, as- sunsero questi come custodi delle città. Ma perciocché non
bastavano nè a proteggere il giusto le leggi poste da essi, nè a coadjuvare le
leggi li magistrati o li co- missarj che avean cura di queste ; e percioccliè
il tempo col volger suo mena tanta varietade ; furono astretti a fare
stabilimenti non ottimi si, ma certo i più consen- tanei alle vicende che li
sorprendevano o di sciagure abborrite, o di smoderate prosperità. Per le '
quali con- fondendosi ' lo stato della città, e bisognandovi un pronto riparo
ed un arbitro immediato, furono necessitati a rialzare l’autorità dei monarchi
e dei re, velandone coi nomi la esistenza. Cosi li Tessali denominarono Tettar'
~ chi questi arbitri, e gli Spartani li chiamarono Armosti per timore d’
intitolarli tiranni o monarchi : aggiungi . che teneano per cosa scellerata
rinovare poteri abattuti tra giuramenti ed esecrazioni su 1’ oracolo de’ numi.
Quindi, come ho detto, a me sembra che i Romani prendessero da' Greci
l’esempio: Licinio però crede che i Romani ideassero un dittatore a norma degli
Albani ; scrivendo cbe questi, venuta meno la regia discendenza dopo la morte
di Numitore e di Amulio, eleggessero annui presidenti col potere appunto dei
re, ma con ti- tolo di dittatori. Io non ho voluto esaminare onde Ro- ma
derivasse il nome, ma sibbene onde pigliasse la idea dell’ autorità che in tal
nome si ' addita. Se uon che forsb non è pregio dell' opera che scrivasi di ciò
più luDgameate. Ora dirò brevemente ciocché Largio il primo dittatore facesse,
e con quale apparato decorasse la sua dignità ; persuadendomi che siano più
utili ai lettori le materie appunto che porgono in copia esempj splendidi ed
opportuni pe’ legislatori, e capi de’ popoli, in somma per quanti vogliono
governare e maneggiare il pubblico» Imperciocché non io prendo a descrivere le
istituzioni > e li modi di una città vite e negletta, né li consigli e le
pratiche di uomini ignobili e di niuna espettazione, sicché lo studio mio su
tenui e volgari cose paja ad altri frivolezza e molestia : ma di una città
legislatrice di tutti, e di capitani che la sollevarono a tanto potere; cose
tutte che se un amante della sapienza giunga a non ignorare ; ne sarà per
politico ravvisato. Investito Largio appena del suo potere dichiarò maestro de’
ca- valieri Spurio Cassio, già console nella olimpiade 70.* Osservavasi tal
costume da’ Romani fino a’ miei giorni, e ninno mai, scelto per dittatore, ne
tenne la dignità senza maestro de’ cavalieri. Quindi a rilevare la potenza di
una tal dignità, per imporre piuttosto che per osar- ne, ordinò che i littori
marciassero per la città con fasci e scuri secondo il costume ivi proprio de’
re, tra- lasciato poscia da’ consoli, e primieramente da Valerio Poplicola per
diminuire la odiosità del comando. Spa- ventati con questo ed* altri segni di
regia dominazione i turbolenti eà i novatori, comandò a lutti i Romani di
adempiere la migliore delle leggi .di Servio Tullio, sovrano popolarissimo,
cioè di assegnare per tribù li loro beni, li nomi delle mogli e de’ figli, e la
età loro e de’figli. Terminato in breve il registro per la severità de’
castighi, perdendosi da’ contravventori i beni e la cittadinanza ; si
rinvennero cento cinquanta mila sette- cento e più Romani adulti. Poi separando
gli uomini di età militare dai provetti, e riducendoli in centurie ; li divise
tutti, fanti e cavalieri in quattro parti : e ri- tenutane una, che era la
migliore, per sé, fece che delio già suo collega nel consolato se ne eleggesse
un altra qualunque tra le rimanenti : che Spurio Cassio il prefetto de’
cavalieri avesse la terza, e Spurio Largio il fratello la quarta ; la quale fu
comandata trattenersi e presidiare insieme co’ vecchi la città. Egli poi, com’
ebbe pronto quanto biso- gnava per la guerra, menò le milizie in campo aperto;
appostando tre armate ne’luoghi appunto donde sospet- tava che i Latini
uscirebbono. E considerando esser proprio de’ savj capitani fortificare le sue
cose come debilitare quelle del nemico, e terminare le guerre senza battaglie e
stenti, o certo col minimo danno delle milizie ; anzi considerando che
sciauratissime e luttuo- sissime più che tutte sono le guerre tra’ popoli amici
e congiunti ; concludeva che si aveau queste a finire con tratti di clemenza
piuttosto, che di rigore. Adunque spedendo occultamente persone non sospette ai
più ri- guardevoli de’ Latini, li persuase a rendere la pace alle loro città: e
spedendo insieme apertamente ambasciadori ad ogni città, come alla
rappresentanfa generale di tutte; ottenne senza difficoltà che non tutti
avessero più l’antico ardore per la guerra; alienandoli principalmente cogli
ossequiosi modi e co’ benedzj dai duci loro. In opposilo Mamilio e Sesto, che
aveano da’ Latini rice« TUto il generai comando, riunite nel Tnscolo le forze,
si apparecchiavano come per piombare su Roma ; se non che spesero su ciò gran
tempo o che aspettassero le città le quali tardavano, o che non buoni apparis-
sero loro gli auguri santi. Intanto alcuni di loro spic- catisi dall' esercito
devastavano la campagna romana. Largio, risaputolo, spedi delio su loro col
fiore dei cavalieri e de’ soldati leggieri : e costui, presentatosi
inaspettatamente, gli assalì, e ne uccise, imprigionan- done la più gran parte.
Largio curatine li feriti, e gua- dagnatiseli con altre amorevolezze li rinviò
senza offesa o prezzo al Tuscolo ; mandando riguardevolissimi ro- mani ton essi
per ambasciadori. Or questi operarono che si sciogliesse l' armata latina, e si
facesse tra le città la tregua di un anno. Largio, ciò fatto, ricondusse l’
armata dalla campagna: e designando i consoli depose prima che ne spirasse il
tempo la dittatura senz’ avere ucciso, o ban- dito, o ridotto comunque a gravi
mali un romano. Cominciato T invidiabile esempio da un tal uomo si mantenne in
quanti ottennero poi quella dignità fino alla terza generazione prima della
mia. Imperocché la storia fino a quest’ epoca non presenta ninno il quale non
esercitasse quella dignità moderatamente e qual cit- tadino, quantunque Roma
fosse astretta più volte a sospendere le magistrature ordinarie, e concentrare
tutto nelle mani di un solo. E non sarebbe gran meraviglia se personaggi ottimi
della patria pigliando la dittatura solamente nelle guerre cogli esteri si
fossero tenuti in- corrotti nella grandezza del potere: ma pigliandola nelle
sedizioni interne, grandi e molte, per togliere I sospetti di regni e tirannidi
rinascenti, o per altra sciagura, lutti, quanti la ottennero, conservaron
sestessi iqinia- colati, e simili al primo dei dittatori. Tanto che tutti
unanimemente conclusero che la dittatura era 1’ unico rimedio contro de’ mali
intrattabili, e 1’ ultima speranza dii salute quando sparse sono le altre
speranze . dalla procella. Quattrocento anni però dopo la dittatura di Tito
Largioj a memoria de’ Padri nostri parve tal carica biasimevole ed esecranda
per Lucio Cornelio Siila che primo ne abusò, vendicativo e 6ero : talché li
Romani allora sentirono a prova, ciocché aveano prima igno- rato, che la
signoria de' dittatori non era se,, notk liran* nide : imperocché costui ordinò
un* Senato di uomini comunque, infìacchi 1’ autorità del tribunato, devastò
città intere, distrusse e creò regni, ed altre cose fece e disfece dispoticamente,
le quali lungo sarebbe a rac- contare. Oltre i cittadini uccisi in battaglia,
ne trucidò nemmeno di quaranta mila, datisi a lui prigionieri, dopo averne
prima tormentati alcuni. !Non è questo il tempo di discutere se egli fe’ ciò
necessitato o per utile del comune : solamente ho voluto dimostrare che ne
divenne abominato c spaventevole il nome di dittatore: ciocché pur succede ad
altre cose ammirale e disputate dagli uomini, non che alle sole dominazioni:
perciocché tulle le cose appariscono belle e giovevoli se bene si .adoperino,
come danncvoli c turpi se mal si dirigano ; di (he ne è causa la natura che in
lutti i beni ha sparso i germi dei male ; se noa die di tali cose di- remo
altrove più propriamente. L’ anno prossimo a questo nella olimpiade 'j i ^
nella quale vinse allo stadio Tisicrate Croloniatej- essendo Ipparco F arconte
di Ale* ne, presero il consolato Aulo Sempronio Atratino e Marco Minucio. DELLE
ANTICHITÀ ROMANE D I DIONIGI ALICARNASSEO Li anno prossimo a questo nella
olimpiade 71.* nella quale vinse allo stadio Tisicrate Crotoniate essendo
Ipparco arconte di Atene, presero il consolato Aulo Sempronio Atralino e Marco
Minucio (i), ma niente vi operarono degno di ricordanza, nè in città nè fra le
armi : perciocché la tregua co’ Latini dava loro placida calma cogli esteri, e
la legge decretata dal Senato di sospendere la esazione dei prestiti, finché la
guerra imminente avesse buon termine, avea sopito le som- fi) Àn. di Roma aS7
secondo Catone, 259 secondo Vairone, • 4 recchi per la guerra. Il complesso de’
Romani era vo-* lentei'oso e propensissimo a combattere ; ma il più dei Latini
eravi disanimato e forzato : dominando per le città uomini quasi tutti corrotti
dai doni e dalle prò» messe di Tarquinio, e di Mamilio, rimossi dalle cure
pubbliche quanti favorivano il popolo e ripudiàvan la guerra. Cosi non più
dandosi a chi la volea la facoltà (li discorrere, si ridussero i più corucciati
a lasciare in copia la patria, e fuggirsene in Roma. Nè quelli che dominavano
ve gl’ impedivano, ma teneansi obbligatis- simi ai competitori, dell’ esilio
spontaneo. Li riceveano i Romani e compartivano tra le milizie interne, e me-
scbiavano alle coorti urbane quanti ne venivano con mogli e figli, ma spedivano
gli altri a' castelli intorno e per le colonie, sopravvegliando intanto che non
fa- cessero' mutamenti. E consentendo tutti che bisognavaci novamente un
arbitro assoluto il qual potesse ordinare a suo modo ogni cosa, fu nominato
dittatore Aulo Poslumio il console più giovine da Virginio il collega : e costui,
come già 1’ altro dittatore scelse per suo maestro de’ cavalieri Tito Ebuzio
Elva, e registrati in poco tempo tutti i Romani già puberi, ordinò la mi- lizia
in quattro parti, reggendone egli 1’ una, dandone a reggere la seconda a
Virginio il compagno nel con- solato, la terza ad Ebuzio il maestro de’
cavalieri, c (i) An. di Roma aSS secoado Catone, aCo secondo Varrone, • 4e essi
agevole- rebbero ossea più le cose loro. Se non che mentre de- liberavano
ancora giunse coll’ armata sua da Roma Tito iVirgiuio r altro console, marciato
improvvisamente nella notte dinanzi : e prese anch’ egli campo in altra altura
assai forte. Di modo che i Latini rimasero intracchiusi, nè più idonei ad un
assalto, avendo a sinistra il con- sole e a destra il dittatore. Adunque tanto
più sen con- turbarono tra quelli i capitani i quali non voleano se non partiti
sicuri, e temerono che tardando si ridu- cessero a consumare le loro
provvigioni, le quali non erano molle. Postumio notando quanta fosse la impe-
rizia loro nel comandare spedi Tito Ebuzio maestro dei cavalieri col nerbo de’
cavalli e de’ soldati leggeri ad .occupare un monte rilevantissimo in su la via,
per la quale recavansi i viveri dalle loro terre ai Latini. Andò questa milizia
espedita con la cavalleria, e condotta di notte tra selve non frequentate ;
prese il monte prima che i nemici se ne avvedessero. V. I capitani nenuci
osservando invasi anche i posti forti che erano loro alle spalle, nè più avendo
spe- ranze buone sul trasporto indubitato de’ viveri da’ paesi loro,
deliberarono respingere i Romani dal monte prima che vi si assicurassero ancora
cogli steccati. Adunque Sesto r un d’ essi presa la cavalleria vi si lanciò con
impeto ; quasi la cavalleria Romana non si tenesse a ribatterlo : ma tenendosi
questa bravissimamente contro gli assalitori, Sesto durò qualche tempo ora
dando voi* ta, ora tornandole a fronte. Ma perciocché quel luogo riusciva
opportunissimo a chi ne avea le alture, e co- stava assai travagli e ferite a
chi vi si recava dabbasso ; e perciocché giungeva ai Romani un soccorso di
milizia legionaria mandata appresso da Postumio ; egli ritirò, non potendo
altro fare, la cavalleria negli alloggiamenti. I Romani impadronitisi appieno
del luogo, si misero a fortificarlo pubblicamente. Dopo ciò parve a Sesto e
Mamilio ndn essere più da indugiare gran tempo, ma doversi decidere la sorte
con una pronta battaglia : e parve allora anche al dittatore di esporvisi,
quantunque avesse ne’ principi ideato di dar fine alla guerra senza combattere,
sperando giungere a ciò, specialmente per la imperizia de’ capitani.
Imperciocché da’ cavalieri cu- stodi delle strade furono sorpresi de’
messaggeri che an- davano dai Yolsci a’ Latini con lettere di avviso che, indi
a tre giorni al più, verrebbe milizia copiosa di rinforzo da loro, come altra
dagli Eroici. Or ciò ri- dusse i duci Romani a venire, sebbene contro il
proposilo, a pronta giornata. Datosi da ambe le parti il segno della battaglia
; si avanzarono gli uni e gli altri al campo intermedio, e cosi vi ordinarono
le armate. Sesto Tarquinio ebbe a reggere 1’ ala sinistra de’ Latini, ed
Ottavio Mamilio la destra. Tito 1’ altro figliuolo di Tarquinio comandava il
centro óve erano i disertori e fuorusciti Romani. La cavalleria divisa in tre
parti fu dispensata alle ale ed al centro. In opposito Tito Ebuzio ebbe 1’ ala
sinistra de’ Romani contro di Ottavio Mami- lio, e Tito Virginio il console si
contrappose colla de* stra a Sesto Tarquinio; Empiva de’ genj suoi Postumio
stesso il dittatore 1’ armata di mezzo, e moveala contro Tito Tarquinio ^ e gli
esuli da Roma j i quali eran con lui. Il complesso delle milizie venute a
combattere erano ventiquattro mila fanti e tre mila cavalieri nella parte
Romana, e quaranu niila fanti, e tre mila cavalieri nella Latina. VI. Quando
erano per andare a combattere i capitani Latini, aringando ognuno i suoi,
diedero mille ecci- tamenti di coraggio, e ricordarono lungamente cioc- ché
bisogna al soldato. Dall' altra parte il Romano ve- dendo cbe i suoi temeano
come quelli che cimentavansi con gente assai più numerosa, e volendoli
sollevare da quella paura, fe’ radunarli, e poi tra corona di sena- tori,
onorabili per anni e per credito, cosi concionò : Gli Dei cogli aitgurj, colle
viltime, con ogni segno divinatorio promettono alla nosti'a patria Li libertà,
ed una propizia vittoria; contraccambiandoci della pietà verso loro, e della
giustizia esercitata da noi verso gli altri in tutta la vita : per lo contrario,
inìmici sono, come deano, de' nostri nemici, perchè tante volte e tanto da noi
beneficali, essi parenti, essi amici nostri ', essi legatisi a noi di
giuramento per avere appunto gli amici stessi ^ i nemici, ora spregiato ogni
vincolo, ci movono una guerra ingiusta non per decidere qual di noi si abbia la
preminenza e il comando, ciocché sarebbe il meno de mali ; ma in favor dei
timnni, e per fare la patria nostra che è libera', schiava ai Tarquinj. Ora
intendendo voi o centurioni e soldati, che militano con voi gli Dei, quelli
stessi che hanno sempre difesa Roma, si con^ viene che rnagnanimi vi
dimostriate in questa bat- taglia : molto più che ben sapete che gli Dei fa-
voriscono i bravi combaltitori, quelli che quanto è da loro fan tutto per
vincere, e non quelli che fig- gono i 'pericoli, md quelli che li sostengono
per sal- vare' sè stessfi Inoltie a voi sono apparecchiati dalla sorte altri
mezzi non pochi per la vittoria, e tre so- prattutto manifèstissimi. Vn. Il
primo è la fedeltà scambievole, requisito principaliss'tmo in chi disegna
vincere l’ inimico ; im- p^ciocchè non' dee già cominciar • questo giorno a
rendervi amici fidi e costanti; ma la patria ha da tanto tempo preparato' a voi
tutti un tal bene. V oi allevati in urta terra, educati di una maniera sagri- ficate
agl’ Iddj su di altari medesimi : . e voi avete fin qui partecipato i tanti
beni e sperimentato in- sieme i tanti mali, i quali rinforzano, anzi rendono
indissolubili, le amicizie fra gli uomini, quante volte presentasi loro un
cimento comune su gravissime cose. In secondo luogo, se voi soggiacerete .ai
nemici, già non sarà che alcuni di voi restino immuni, altri su- biscano r
estrema degl' infortunj ; ma tutti, sì, tutti perderete la gloria vostra, f
impero, ' la libertà j noit più padroni delle mogli, non più de' figli, non più
_ •' delle sostanze, non più altro bene vostro qualunque. ^ E li vostri capi,
li vostri pubblici magistrati ‘ miseran- damente moriranno tra flagelli e
tormenti. Se già non offesi da voi punto nè poco, fecero a voi tutti ogni maniera
cT ingiurie ; e che mai potete aspeltarvene ora se vincano, nella memoria che
hanno de’ mali ; che gli avete ridotti fuori della patria, che gli avete
spogliati de’ beni, nè consentile che tornino alle case, paterne ? L’ ultimo
de’ mezzi indicàtir, nè minore de- gli altri se rettamente sen giudichi,, è che
noi troviamo le cose tra’ nemici men prospere che non pensavamo. E certo vedete
voi da voi stessi che tolto gli Anziati, niuno è qui per soccorrerli nella
guerra. Noi conce- pivamo che verrebbero per essi tutti i Eolsci ; e Sa- bini
ed Ernici in copia, e mille altre vane paure ci i fingevamo. Erano questi tutti
sogni de’ Latini, imma- I ginati su promesse vane, su speranze senza base.
Quindi altri nel meglio ne abbandona la causa, spre- giando r euUorità de’ sì
belli capitani:, altri li terranno ^ anzi a bada che li soccorreranno,
temporeggiandoli con lusinghe ; e quelli che or si apparecchiano, come tardi
per la battaglia, inutili diverranno. Che se alcuni di voi pensano che giusto
sia I ciocché io dico, eppur temono . la quantità de' nemici, j . a I I €onoscanò per una breve iilruzione, o
piuttosto ricordo, che essi temono non temibili cose. E prima conside\ tino che
il pià di' loro è stato forzato alle arme con- tro di ìtoi, come ce lo ha con
tante opere e detti mànìfestato ; e che gli spontanei, quelli che di lor pia-
cere combattono pe’ tiranni sono ben pochi, e piut- tosto una parte insensibile
rimpetto di voi. Appresso considerino che le guerre guidale a buon successo non
la superiorità' nel numero, ma nella fortezza. E lun- ghissima opera sarebbe
ricordar quanti eserciti di bar- bari, quanti di Greci, tuttoché preminenti di
numero, siano stati disfatti da piccioli corpi e quasi non cre- dibili a dir.
Ma tralascio gli esempj altrui : dite ^ quante guerre non avete voi ben
guerreggiato con ar- mata minore della presente, e contro apparecchi assai pià
potenti di questi ? Dite ; voi fin qui teiribili agli altri che avete
combattuti e vinti, siete ora voi dispre- geiSbli a questi Latini, ai Folsci loro
alleati, perchè non vi han essi mai sperimentato Jra le arme ? Sa- pete pure
voi tutti quante volte i nostri padri gli hanno in campo superati ambedue. E vi
par verisimile che la condizione da’ vinti sia dopo tante perdite migliore, e
peggiore sia quella de' vincitori dopo tanti bellis- simi fatti ? E chi,' se
abbia mente, chi mai dirà questo ? Anzi ben io mi 'stupirei se alcuno di voi
paventasse questa turba ove si pochi sono li bravi, e spregiasse la milizia
nostra si forte e si numerosa ; che nè pai' numerosa nè pià forte mai ne
abbiamo finora schierato in battaglia. Che pià : deve, o cittadini ì esservi
impulso grandissimo a non temere, nè ricusare i pericoli t ej- sere come vedete
qui pronti ai pericoli, e correre con voi la sorte stessa delle arme i primarj
de’ senatori, quelli che la età o la legge gli esenta dalla milizia. Che^sl;
che egli sarebbe vituperoso che -uomini nel fior degli anni temessero i
pericoli quando i provetti gli affrontano, Avran cuore i vecchi di ricevere per
la patria la morte se dare non là possono ai nemici; e voi li sì . vegeti, voi
che ben potete • f una e l’ altra cosa, o salvarvi e vincere senza danno, o certo
ma- gnanimamente operare, e soffrire, voi non vorrete nè cimentare la sorte, nè
la Jama .procacciarvi de’ va- lorosi F No, ciò di vói non è degno, o Homani, ai
quali sopravvanzan tante mirabilissime gesta degli an- tenati, le quali niuno
loderebbe mai quanto basta : e se voi vincerete questa guerra, i vostri posteri
an- cora si gioveranno di tante vostre gloriosissime im- prese. Ma perchè nè
sia senza frutto chi si delibera K alle grandi azioni ; nè si trovi col danno
chi ne teme i rischj oltra il debito, udite prima d incorrerla, Indite qual
sarà la sorte dell’ uno e delt altro. Chiun- que ìlei combattere imprende belle
e magnanime gesta ne sarà da chi ’l vede encomiato ; ed io, quando di- spenserò
li premj che .ciascuno' -dee raccoglierne. se- condo il costume della patria j
quando. darò insorte le, terre pubbliche, io costui ne appagherv, sicché pià di
nulla abbisogni. Al contrario chiunque nel cuor suo vile, offensivo de’ numi,
si deciderà per la fuga, costui si troverà per me colla morte che fogge ; chè
ben è meglio per esso e per altri che un tale cittadina perisca : e così
perendo, non che attere i fune- bri onori eia tomba ^ si resterà, non emulato'
nè pianto, in abbandono agli uccelli e alle fiere. Con ioli previdenze, andate
: combattete alacremente ; e V abbiate per guida alle grandi azioni la speranza
buona, chè dato a questo cimento un termine gene- roso, come tutti desideriamo,
avrete ottenuto amplis- simi beni, avrete liberato voi dal timor dei tiranni,
avrete, come doyeasi, corrisposto alla patria, che chiedea la gratitudine
vostra per avervi generati e nudriti, avrete operato eh» i teneri vostri figli,
le vostre mogli non sqffrano oltraggio da nemici, e che ì vecchi vostri
genitori vivano in calma il picciolo avanzo di vita. Felici voi d quali
riservasi tornare da questa guerra col trionfo, mentre li figli vostri' ve ne
aspettano, e le spose, e li genitori. Quanto sa- rete celebrati, quanto '
invidiati pel coraggio di dare voi stessi per là patria ! Tutti deano morire
valen- tuomini o no] ma il moribe con dignità' e CON GLORIA NON È PROPRIO CHE
DE' VALENTUOlilNI- Ancora egli continuava tali detti magnanimi ; quando ecco
spargersi nell’ esercito un ardore divino, e tutti ad una voce gridare :
ardisci, e guidaci. E qui Postuniio encomiando la loro prontezza; e votandosi
agl’ Iddj, se avea buon successo nella guerra, di fare grandi e sontupsi
sagrilìzj, e ^lendidissimi giuochi da rinnovarsi in. Roma ogn’ anno rilasciò le
milizie perchè si oi'dimssero. Quindi come i duci diedero il segno e le, trombe
l’invito a ^mbattere; lanciaronsij gridando, quinci c quindi prima i soldati
leggeri e li oavalietà, e poi le lej^ioni le quali aveano schierameotd ed armi
consimili. Fecesi di tutti una mischia vivissima, ^dottasi tutta al dar delle
mani. Tennesi questa lungo tempo contraria alla espcttazione di ambedue,
sperando gli Ubj e gli altri che non avrebbero nemmeno a combattere, ma che a
prim’ impeto forarebbero, ed intimorirebbero rinunieo; i Latini alhdati alla
cavalleria loro numerosa quasi i’ urto ne fosse irreparabile alla cavalleria
Romana; e li Romani aU’andarne audaci c spregianti ai perìcoli, quasi cosi
avessero a soprailare l’ inimico. Non ostanti tali primitivi concetti degli uni
su gli altri, vedeano tutti seguire il contrario. Quindi considerando che il
mezzo di salvarsi e di vincere era la propria fortezza non la paura de’ nemici
; militarono bravlssimamente anche so- pra le forze ; e varie ne furono le
vicende e le sorti. XI. Primieramente li Romani del centro dov’ era il fiore
de* cavalli con Postumio dittatore, e'dove combat- teva egli stesso tra’ primi,
cacciano di posto i loro com- pettitori dopo ferito con uno strale in una
spalla, cd inabilitato a valersene, Tito l’ uno de’ figli di Tarqur- nio ;
sebbene Licinio c Gellio senza esaminare le cose verisimili e possibili,
suppongano esser questo che mili- tando a cavallo restò ferito lo stesso re
Tarquinio, uomo più che nonagenario (i). Caduto Tito, le sue milizie (i)
.\nofaa Tito Lhrio i di - questo parere, quantunque avesse considerata la
difficoltà degli anni : ^li scrìve in Postumiwn prima inacìesuos aiihortantem
i/utruentemtfua, Tarquinius super but quam- quam jam alate et viribus crai
graiùar equnm infestas admitil. Nà SODO mancsti altri re che in quella ^
fornivano tutti gl' incarichi del regno o còmbattevano. Massiuissa fu I’ uno
di.questi, cd .àntea re degli 'Setti mori combattendo, vecchio pi4 (he di
novant’anni tennero fronte alcun tempo, e sollecite ne raccolsero vivo il corpo,
non però fecero altro più di generoso, ma rinculavano incalzate via via da’
Romani, 6nchè soccorse da Sesto l’ altro 6glio di Tarquinio co’ fuoru- sciti
Romani, e da truppa scelta di cavalieri si arresta- fono, e tornarono su l’ inimico.
Cosi ripigliato Corano combattevano questi nuovamente. Intanto negli altri
coi> pi (i) segnalandosi più che tutti i duci Ebuzio e Ma- milio, fugando
ovunque volgeansi chi resisteva, e rior* dinando i loro se scompigliavans! ;
vennero a disfida in fra loro : lanciatisi 1’ uno su l’ altro portaronsi colpi
gra- vissimi, ma non mortali, Ebuzio spingendo 1’ asta per la corazza al petto
di Mamilio, c Mamilio traforando il braccio destro di Ebuzio: tanto che ne
caddero ambedue da cavallo. Portali amedue fuori della battaglia Marco Va*
lerio che era un’ altra volta luogotenente anzi il più vecchio, prese le veci
di Ebuzio maestro de’ cavalieri : ma contrastando colla sua la cavalleria
nemica, e contenen* dola per breve tempo, infine fu violentato e respinto assai
lungi ; perocché gèinsero in ajuto al nemico i fuorusciti Romani a cavallo, o
di milizia leggera: e Maiadìo stesso riavutosi dalla percossa era tornato in
campo con caval- eon Filippo Macedooe. E Luciioo scrive che Tarqptinio superbo
più che nonagenario viveva robustissimo in Coma. Forse Licinio e Gellio non son
dà riprendere. Dee poi notarsi, che Tarquinio; anche secondo Dionigi, visse più
di novani’anni. Vedi § ai di questo libro. ' (i) Cioù Mamilio nell’ ala destra
de’ Latini ed Ebutio nella si- nistra de’ Romani, percbù già stavano appunto in
queste aie ; uù Diouigi lia (inora dello che avessero cambiato posto. Digitized
by Googlc 2i6 delle Antichità.’ romane lerla numerosa e col nerbo de’ soldati
espeditì ; anai in questa pugna cadde trafìtto da un’ asta Io stesso luogo-
tenente Valerio (i) quegli che il primo avea trionfato de’ Sabini, e rialzato
lo spirito di Roma infìacchito pei danni ricevuti da’ Tirreni : e con lui pur
caddero altri molti nobili e valorosi Romani. Sorse sul caduto corpo di esso
una lotta vivissima facendosi scudo allo zio li due Publio e Marco, fìgli di
Poplicola. Or questi con- segnandolo intatto colle armi sue, mentre respirava
an- cora, ai scudieri perchè Io riportassero agli alloggia- menti; lanciarono
sestessi in mezzo al nemico spinti dall’onta ricevuta e dall’ardore dell’ animo
: ma piom- bando d’ ogn’ intorno i fuoruscili su loro, alfine carico r uno e r
altro di ferite mori (a). Dopo tale infortunio r armala Romana fu cacciala di
posto, ed assai mal- menata dalla sinistra fino al centro. Il dittatore al co-
noscere che i suoi fuggivano, ben tosto si staccò per soccorrerli con i
cavalieri che aveva d’ intorno : e dato ordine a Tito Erminio di andare coll’
ala della caval- (i) Intende il Valerio fratello di Valerio l’oplicola: però il
pri- mo Valerio è detto tio de’ fìgli di -Poplicola. Il Valerio del i- gotliti,
li menò contro 1’ armata di IMamilio, ed egli stesso avventandosi addosso di
lui die era il più grande e più gagliardo di quanti gli erano a fronte, lo
uccise; ma fattosene a spogliare il cadavere, egli ancora vi soc- combò
trafitto .dal brando di un tale in un lato.* Sesto Tarquinio, duce dell’ala
sinistra Latina, resistendo tut- tavia tra tanti mali, avea cacciata di posto
1’ ala destra de’ Romani : come però vide Postumio venire su lui col uei'bo de’
cavalieri, disperatosi corse in mezzo a’ nemici. E qui circondato da’ fanti e
da’ cavalieri ed investito, quasi una fiera d’ ogu’ intorno, mori, ma non senza
averne anche egli stesi molti di quelli che lo investi- vano. Caduti i duci,
pienissima fu la fuga de’ Latini, e la presa de’ loro alloggiamenti,
abbandonati pur dalle, guardie. Dicchè i Romani se n’ebbero molti e belli van-
taggi. Gravissima fu la perdita de’ Latini, tanto che moltissimo ne decaddero :
e la strage fu tanta, quanta mai più per addietro ; imperocché di quaranta mila
fanti e tre mila cavalli, come ho detto di sopra, nemmeno dieci mila tornarono
salvi alle case. XIII. È fama che in questa battaglia si rendesser vi- _sibili
al dittatore, ed al seguito suo due cavalieri adorni del Gore primo di
giovinezza, grandi e belli assai più 2i8 delle antichità.’ romane che la
condizione non sostiene dell’ uomo ; e che po- nendosi alla testa della
cavalleria romana, peKotessero colle aste i Latini che le si avventavano, o' li
sospin- gessero a rapidissima fuga. E fama è similmente che dopo la fuga de’
Latini, e la presa de’ loro alloggia- menti, presso al crepuscolo vespertino,
appunto quando la zuffa ebbe fine, si dessero a vedere in abito militare nel F
oro romano due giovani altissimi, e vaghissimi ', spirando in volto ancora 1’
ardore della battaglia, dalla quale venivano, e reggendo cavalli, molli di
sudore. Dicesi che smontati l’ uno e 1’ altro da’ cavalli, lavavansi nell’onda,
la quale sorgendo presso il tempio di Vesta forma una lacuna, picciola si, ni»
profonda : ma che fattisi molli intorno di loro, e chiedendone se punto
recassero di nuovo dall’ esercito, rilevarono ad e»i Ciocch’era della
battaglia, e come 1’ aveano guadagnata: e che partiti poscia dal Foro non più
furono veduti da alcuno, tuttoché seu facesse ricerca grandissima dal
comandante lasciato in Roma« Come però nel giorno appresso riceverono i capi
della città lettere dal ditta- tore, e conobbero 1’ assistenza dei due numi, e
tutti i successi della battaglia ; giudicarono che i .due perso- naggi apparsi
fossero, com’ era verisimile, gl’ Iddii stessi, e conchiusero che erano le
immagini di Polluce e di Castore. Attestano la comparigione inaspettata e
meravigliosa di questi Numi, molti segni ancora, come il tempio fondalo a
Castore e Polluce nel Foro, ap- punto dove comparvero j e la fonte vicina,
chiamati c creduta sacra finora, e li sagrifizj magnifici che il po- polo ne
celebra ogni aqno per mezzo de’ a fare
nè 1’ una nè l’ altra di queste due cose: che. era bensì, da giovine iL
trasporto d’ allora per combattere ; ma che assai più biasimevole sarebbe' il
fuggirsene a casa : e che qualunque de’ due parliti seguissero, andrebbe a
genio de’ nemici. Era il parere di questi, cbe di presenta 'si triucierassero e
preparas- sero quanto bisognava per la battaglia, e clic intanto spedissero ai
Volaci per chiedere che inviassero nuove forze onde pareggiare quelle de’
Romani, o che richia- massero le altre già’inviate. La sentenza però sembrata
più persuasiva e ratificata da’ capi fu di mandare al campo romano alcuni
osservatori col nome di amba- sciadori onde preservarli, li quali,
complimentandolo, dicessero al capitano, che il comune de' Volsci man- davali
per ajuto de'Bomani: si doleano però che giunti tardi per la battaglia non
troverebbero uemmen grati- tudine di tanto amore, vedendo come l’aveano già
vinta a grande lor sorte, anche senza degli alleati. Con tali dolci maniere
illudendo, c dandosi per amici, andas- sero, spiassero, conoscessero la
moltitudine de’ nemici, le arme, gli appareccbj, i disegni. Conosciuto ciò,
discuterebbesi qual fosse il migliore, lo aspettare nuove truppe, o menare le
presenti all’ assalto. Poiché si riunirono tutti in questa sentenza, ne
andarono gli oratori eletti da essi al dittatore : e poiché recati nell’
adunanza vi esposero gl’ insidiosi loro discorsi ; Postumio soprastando alcun
tempo, alfine ri- spose: Voi siete o Volsci venuti qua con rei consigli sotto
belle parole,: nemici nelle opere, volete presso noi la stima di amici. Voi
foste inviati dal vostro comune ai Latini per combatterci. Ora. non essendo voi
giunti a tempo per • la bat&iglia ; anzi vedendo questi già vinti, cercale
deluderci con dirne cose con- trarie a quelle che eravate per Jdré. Ma nè
sincera è r amicìzia del parlare che assiunete in vista del tempo presente, nè
sincero il titolo della vostra le- gazione ; ma pieno è di malizia e d’
inganno. Non voi veniste sensibili pe nostri beni, ma per investi- gare qual
sia lo stato tra' noi di debolezza 'e di forza. Messaggeri ne' detti, voi non
siete che esplo- ratori nè fatti. E negando questi, ogni cosa, soggiunse che
presto li convincerebbe. E qui produsse le lettere dei Volsci intercettate da
lui prima delia battaglia, e chi le portava ai duci dei Latini, nelle quali
prometteano mandare a questi un soccorso. Riconosciute le lettere, e palesato
dai prigionieri il comando che aveano ; arse la moltitudine di manometter que’
Volsci, quali spie sorprese nel delitto. Non però volle Postumio che essi,
nomini probi, si diportassero come i malvagi ; dicendo esser meglio
serbare permesso a quelli a’, quali
solcasi, che die^fes^ i loro pareti ; Tito Largio, il primo de’ dittatoti
create già per l’anno antecèdente (i) consigliò che ■usassero'*^ la sorte
sobbria- mente. Diceva ' essere encomio grahdissimo per una città come per un
uomo se rion lasciandosi corrom- pere dalle prosperità, le sostiene con regola
e con dignità : odiarsi tutte le prosperità, quelle principal- mente per le
quali possono ingiuriarsi, e gravarsi i (i) Vuol dire tre anni addietro: come
fu notalo da Silburgio. miseri e li sottomessi. iVon confidassero su la sorte,
essi che àveano sperimentato tante volte ne’ beni, e ne' mali proprj, quanto
fosse mal ferma e mutabile: nè Kiducessero i nemici 'alla necessità di pericolo
estremo per la qualè ipesso gli uomini s’ innalzano, e combattono sopra le
forze. Temessero, se prèn- deano pene irreparabili e dure su chi avea mancato,
di provocarsene f ira comune di ogni popolo sul quale aspiravano di comandare ;
imperocché decaduti dalle maniere consuete colle quali eransi rendati chiari di
oscuri parrèbbono aver fatto ' della sovranità una ti- rannide, nqn lìn governo
éd un patrocinio. Dieea che mezzana non irremisibile è la colpa, se città già
li- bere,• anzi usate al comando, nOn sanno dall’ antico grado discendere. Se
quei che anelano il meglio, siano sé falliscono il colpo, vendicati
immedicabil- mente ^ niente ipipedirà, che gli uomini, generati tutti con
intimo amore della libertà si distravano gli uni cogli altri. ^AggiuDgefra che
assai piti nobile, assai piti fenho è il principato^ che amministrasi tenendo i
sudditi colld beneficenza ' non co’ supplizf : perciocché dà quella' nasce la
benevolenza, e dà questi il timore > e ciocché si teme, ^^si odia vivàmente
per ne- cessità di natura. Da ultimo pregayali a pigliar per esempio le opere
bellissime pqr le quali gli antenati loro'tajfto erano encomiati'^ ' e qui
ridiceva com' èssi aveano niàgnificatò" Bonia ^à piccola, non diroccando
le città prese',' nè Spopolandole nè spegnendovi al- meno gli adulti, ma
riducendqle colonie di Bofna, e concedendo la cittàdLinanza a tutti i yinti che
in Jtoina vollero domiciliarsi. Tilo Largib mirava col dir sao principalmente a
questo, che si riqovasse co’ Latini l’alleanza, com’ eravi staU,'nè più
ingiuria dcun% di qualunque città si ricordasse. Servio Sulpizio punto non
contradisse intorno la pace e la rinovazione dell’ alleanza. Siccome di oomini
che aveano tr^viatot E costui pigliandone -vesti e cibi per r esercita, ^e .
scegliendone trecento .. ostaggi, dalle famiglie più cospicue, _ parti come ^
avesse dissipata la guerra. Non però fu, questo un dissolver!^ 'ma .piuttosto
un dlHerirla, e dar causa di apparecclij ad essi, preoc- cupati dal giungere
loro inaspettato. Ritiratosi l'esercito romano, si accinsero i Volaci di bel
nuovo alla guerra, e munirono e meglio presidiarono le città, ed ogni luogo
acconcio da rifuggirvisi. Si consociarono con essi per l'impresa i Sabini, e
gli Ernie! svelatamente ; ma segretamente molti altri ancora. I Latini, essendo
venuti ad essi a,mbasciadori per chiederne 1’ alleanza, li lega- rono e
menarono a Roma. Fu sensibile il Senato alla / costanza della lor fede, e più
ancora alla prontezza colla quale > solcano spontaneamente per esso
cimentarsi, e combattere, ^^iudi restituì loro gratuitamente, cioc- ché pur
vedea di’ essi desideravano, ma vergognavansi dimandare, intorno atbeimila
fatti prigionieri nelle guerre eoa essi : e perchè il dono, prendesse una forma
degna de’ parenti, -li rivestì tutti con abiti proprj di uomini liberi. Del
resto fece intendere che non abbisognavasi di sòccorso latino, dicendo che
bastavano a Roma le proprie forze . per vendicarsi de’ ribelli. E cosi risposto
- ai Latini'^ decretò la guerra contro de’Volsci. Ancorò il 'Senato sedeva
nella Curia, ancora considerava quali milizie destinasse a marciare ; quando fu
visto nel Foro un uomo che antichissimo di anni, sordido ne’ vestimenti, e
ha^'buto ^ capelluto ., gridava ed invocava soccorso dagli uomini, Accorsa la
moltitu- dine Intorno; égli postosi in luogo donde fosse visibile disse: Io.
generato libero y dopo. 'èssere finché n era la ptà., marciato in tutte le
spedizioni, dopo averi' sostenuto vent’ otto battaglie ^ e riportato pià volte,i
premj militari.,' alfine quando sopravvennero i tempi che strinsero Jìonm alle
ultime angustie fui necessi- tato a prendere wi prestilo per supplire al
tributo che mi si chiedeva: perchè il mio campicetlo' era desolato da’ nemici,
e le' rendite urbane tutte. per la penuria de’ viveri mi si consumavano. Cosi
non avendo come più redimere il debito, fui condotto dal pre- statore con due
miei figliuoli a servire. Comandan- domi poi quel padrone non facili cose io
contraddis- si ; e ne fui con moltissimi talpi battuto^ E così di- cendo
squarciò la lurida veste ;,e mostrò pieno il petto di ferite, e grondanti le
spalle di sangue. E. qui ulu- lando, e piangendone la moltitudine .?' ^1
Serrato si di- sciolse : e tutta la città fu percorsa da’ poveri che. de-
ploravano la infelice lor swte, ^ cliiedeano soccorso da’ vicini. Uscirono
allora dalle Case (i) tutti quelli che erari servi pe’ debiti, «abbuffati le
chiome, e la maggior parte colle catene alle mani,,' e co’ ceppi nei piedi,
senza che alcuno osasse reprimerli: e so altri osava pur toccarli, erane
manomesso co’ dU'ittL della, forza. Tanta rabbia in quel punto invase il'
popolo ! Nè molto dopo il popolo fu pieno di uomini che fuggivano la forza di
chi signoreggiavali.. Appio a, come .autore non ignoto de’ mali, temette coutfa
di sè le ffe della moltitudine, e s’involò, fuggendo, dal-Foro. Ma Servilio
deposta la veste contornata di porpora, e gettatosi lagrimando ap- pie di
ciascuno ; a stento li persnase a contenersi per quel giorno, e tornar; nel
seguente, mentre il Serrato
provvederebbe iij qualche modo su loto. Cosi dipendo, Ds’ creditori e
comandando al banditore di proclamare, die ninno de’ creditori potesse trar
seco pe’ debiti alcun cittadino, finché il Senato su ciò deliberasse, e che
tutti gli astanti 'ne andassero ove più /deano senza timore ; chetò la
turbolenza. Partirono allora dal Foro: ma nel prossimo giorno vi' si riunì non
solo la moltitudine della città, ma r altra ancora de’ campi vicini; tanto che
sull’ alba già .il Foro ne ribolliva. Adunatosi il Senato per discu» te re
ciocché era da fare, Appio chiamava il compagno adulatore del popolo e capo'
della insolenza de’ poveri : e Servilio rimproverava lui come austero, caparbio,
e fabbro de’ mali che pativano: nè ci avea niun fine alla disputa; Intanto
latini cavalieri spronando vivissimamente i cavalli si apprésentarono al Foro,
annunziando essere già usciti 1 nemici con -.esèrcito poderoso, e già sovra-
staìre alle cime -de’ monti loro. Cosi dissero questi : e li cavalieri, e
quanti avéano ricchezze e gloria ereditaria, armaronsi in fretta, come.su.
pericolo estremo; laddove i poveri ;• sjngolarmenle gravati da’ debiti, nè
toccavan armi, né -soccorrevano in alcun* modo a’ pubblici biso- gni: anzi
gioivano, ed accoglievano con desiderio la guerra esterna, come quella che
redimerebbe loro dai mali presenti. E se altri, gli' esortava a respingere gli
inimici, mòstràvanò a lui le catene é. li ceppi, e lo confondevano
addinrtandando, se Cosse mai degno com- battere per difendersi tanto benefizio.
Anzi taluni osa- rono perfino dire., esser meglio servire ai -Volsci, che
soffrire i vilipendj de’ patrizj. Infine., era tutta la città ripiena di
ululàti; di tumulti, e di ogni lutto di femmine. A tale spettacolo i senatori
pregarono ii console Servilio, come più autorevole presso del popolo, a
soccorrer la patria. E costui convocandolo al Foro, dimostrò la urgenza del
tempo presente, e coiùe non ammettesse discordie civili : pregava e supplicava
che piombassero unanimi tutti sul nemico, non che tol- lerassero che rovinasse
la patria, ov’ èrano le divi- nità paterne, e le tombe. degli antenati, cose
prezio- sissime tutte presso i mortali. Sentissero verecondia pe genitori
incapaci a difendersi per la vecchiezza ; e pietà delle donne che bentosto
sarebbero astretti a subire gravi ed inesplicabili affronti : ioprattiitto
commiscrassero che teneri figliuoletti, cèrto non edu- cati a tale speranza,
avessero a finir tra' le ingiio'ie e i vilipendj spietati. Quando tutti al paio
concordi, tutti al paro infiammati, avessero tolto il rischio presente; allora
discutessero comèra da ordinare un governo eguale, comune, salutevole a tulli,
e 'tale, che nè i poveri insidiassero ''agli averi, del. ricco,, nè il ricco i
poveri ne conculcasse ^ cose tutte in società dannosissime. Allora discutessero
con quale pubblica discrezione fosse da provvèdere ai poveri, con quale agli
altri li quali dopo - dati i prestiti per soccorrere, ora ne erano ingiuriati :
nè dalla sola Roma si le- verebbe la fede do contralti, bene principalissimo
tra gli uopiini e cuslóde dell' armouia nel corpo delle città. Dette queste e
slmili cose, quali convenivano al tempo, da ultimo provò com’ era la
benevolenza sua stala sempre costante verso del popolo^ e.pregò'che in
contragcamblo, almeno di questa, si unissero per la spedizione j essendo a' lui
data ^'.amministrazione della guerra, e quella di Ron^a alt compagno.
Protestava che la sorte avÉvd così destinate a Ipro le. parti : che il Senato
tn>evalo\ assicurato di cpncedere quanto egli prometteva al popolò;,.'e- che
egli aveva assicurato il Senato cìie\ il .pòpolo non tradirebbe la patria ai
nemici. Ciò detto ido^ose al banditore dì pubblicare che hiunof poiessé-
arrogarsi le case di quelli che rnilitassètó. oon lui. ccfntro.^i Vblshi, nè
venderle, nè impegnarle^ nè. rendet .sérVQ' pe' contratti alcuno della stirpe
di èostbro, np impedire : veruno a guerreggiare : perwtessero pei^' Sècjondò^ i
patti le 'azioni de’ pre^ stamri.'coutre'qaellijche -noli, prendeano le armi.
Co- me i pòveri ódirono tiòj. decisero, e lanciaronsi tutti, pienirdi ardore
aUa guerra'; vchi stimolato dalla ape- rto» dì, guadàgnare ; cbi ..dalla
benevolenza pel capi- tano,,^ et gVan'.-p.firte' per. levarsi da ‘Appio e dai
vilipendi; ^ersQ q^^rv lllnrra et » ! màli : finché, vinsero no- Ro- fecero che
lungo tempo si 'oppo’neàiercr ai sopravvenendo’ ài ^Rqmani'laVlèro cavalleria
vamente 'i, Sabini r ’e fatta'assai' strage, ttfrnaroho a Ro- ma conducendo
seéo'in’’cópia li prigidhl«n.''ETmpnb^oi cei/cati e messi nella 'carcere
feSabln^éhefècaùsi a. Roina sul titolo, di veder gli ^spettàcoli, dóveariq’
se^rido Tac- cordo all’ avvicinàrsi*'aéi lóro, prebccuparne ^ T luoghi piu
forti :* e li sagnfizj ihterrbttK per' (a guerra fiiroho per decreto del Senato
raddoppiati ; talché oc fu ^oju e riposo nel popolo. Ancora festeggiavano 1
quand’ ecco ambascia- dori dagli Arunci, popolo che occupava i più be’ luo- ghi
della Campania. Presentatisi questi in Senato diman- davano' il territorio
tolto dai Romani ai Volsci Eccetrani e dispensato agli nomini mandativi per
guardia della nazione : dimandavano insieme che tal guardia si richia- masse;
altrimenti verrebbero quanto prima gli Arunci su’ Romani, e vendicherebbero
tutti i mali che aveano causato ai loco vicini. Replicarono a ciò li Romani.
Ambasciadori, annunziate agli Arunci che noi Tlo- mani teniamo per ^uslo che
altri lasci a’ posteri suoi ciocché ha conquistato per valore su nemici : che
la guerra degli Arunci non la temiamo ; giacché non è questa per noi nè la
prima nè la più terribile : che noi costumiamo combattere con chi vuóle per t
impero e pel bene ; e se la cosa riducasi ora all arme, in- trepidamente all
arme verremo. Dopo ciò movendosi gli Arunci con esercito poderoso, e li Romani
con quello che aveano sotto gli ordini di Servilio ; si scon- trarono presso la
Riccia città lontana centoventi stadj (1) da Roma. Accamparonsi ambedue su di
alture forti, e poco distanti fra loro: e poiché vi ebbero trincierati gli
alloggiamenti, scesero al piano per combattere. Avendo Appio cosi detto, ed
acclamando- velo strepitosamente i giovani, quasi egli desse il ben della
patria ; Servilio ed altri seniori sorsero per con- traddirlo : furono però
sopraffatti da* giovani che erano venuti preparati ed insistevano con forza
grande; tan- toché prevalse inGne la sentenza di Appio. Dopo ciò li consoli,
sebbene i più volessero Appio per dittatore, come l’unico da por freno alle
sedizioni, pure lo esclu- sero di concerto, ed elessero Marco .Valerio frateDo
di Pubblio già primo console, uomo anriano e popolaris- simo di credito,
persuasi che a lui basterebbe la terri- bilità della sua carica; e che si
abbisognasse più che tutto di un uomo placido, perchè non si ^cessero delle
innovazioni (i). ^ XL. Valerio investito della sua dignità, e scelto per
maestro de’ cavalieri Quinto Servilio fratello d> Servi- lio, collega di
Appio pel consolato ; ordinò che il po^ polo si radunasse a parlamento. E
raduna tovisi albra la prima volta ed in gran moltitudine, da che guidato all’
armata erasi poi scisso manifestamente al dimettersi di Servilio dai magistrato
; Valerio ascese in ringhiera e (i) Qursto Valeria nel § 13 delMibro presente
si dice ucciso in baiiaali* ; ed ora si desorWe colile diitaiore. Vedi la nota
al S 11 ciiaia. disse : Sappiamo o cittadini che sempre di vostro buon grado
hanno a voi comandato alcuni della stirpe dei p^alerj, da' quali liberati dalla
dura tirannide, non foste mai rigettati nelle' oneste domande^ nè temeste
violenza ; affidandovi a quelli che sembravano e sono popolarissimi infra
tutti. Pertanto non io qui parlo y quasi voi abbisognate di essere illuminati
che noi convalideremo al popolo la libertà la quale gli ab- biamo da principio
vendicato : io parlo per ammo- nirvi solo brevemente affinchè siate pur certi
che vi manterremo quanto promettiamo. Non ammette che vi deludiamo V età nostra
venuta alla perfezione ^e men sostiene che vi ri^riamo, il grado supremo che
ab- biamo, e finalmente dMbianm pur vivere V avanzo dei nostri giorni tra voi
per iscontarvela se parremo di avervi abusati. Io tralascio però queste cose
giac- ché non abbisognano di molto discorso tra voi che le conoscete. Ma ciò
che avendo voi sopportato dagli altri, pormi che dobbiate ragionevolmente
temerlo da tutti, nel vedere che sempre il console che v’invitava contro i
nemici, prometteavi dal innato, senza man- tenervele mai, le cose, per voi
necessarie ; questo io vi convincerò che non dovete di me sospettarlo,
principalmente per tali due argomenti : prima perchè a deludervi in tal modo'
mai sarebbesi il Senato abu- sato di me che amantissimo sono del popolo, aven-
done altri più. acconci : e poi perchè non mi avrebbe mai condecorato della
dittatura per la quale io posso concedervi anche senza di lui ciocché il vostro
meglio mi sembra. Digitized by Googli !ì5o delle Antichità’ romane. Non
crediate che io dia mano al Senato per ingannarvi f nè che io consultando con
esso vinsidii. E se voi così giudicate ; fate ciocché pià volete di me, come
del più, scellerato tra’ mortali. Ma liberate, datemi udienza, da tale sospetto
gli animi vostri : ripiegate la collera dagli amici su vostri nemici che
vengono per levarvi la patria, e per fare voi schiavi di liberi, sollecitandosi
a premervi con tutti i mali y riputati gravissimi dagli uomini. Già non lontani
si dicono dalle nostre campagne. Sorgete, accingetevi, mostrate loro che la
milizia Romana in discordia, tissai pià vale della loro, tutta unanime. Se
presi noi tutti da un ardore, piomberemo su loro ; o non ci aspetteranno, o prenderanno
le pene degne del^ r audacia loro. Considerate che i nemici che a voi portano
la guerra sono i Fblsci, sono i Sabini, quelli che tante volte avete combattuti
e vinti: e che non ora han fatto pià grande il corpo nè pià generoso di prima
il cuore ; ma che ben altro se lo hanno ; tuttoché ci disprezzino per le patrie
gare. Quando avrete punito V inimico, io vi prometto che il Senato darà buon
fine alle vostre contese pe’ debiti, ed alle oneste dimando secondo la virtù
che mostrerete nella guerra. Intanto libere siano le sostanze, libere le
persone, libera la fama de’ cittadini Romani dalle azioni de’ prestiti, e di
ogni altro contratto. Per quelli poi che combatterai!, con impegno bellissima
corona fia la patria ridiriaata, luminosa la gloria tra com- pagni, e pari la
nostra ricompensa a vivificar le fa- miglie, c magnificarne cogli onori la
stirpe. Siavi aSi esempio, ve n’ esorto,
V ardor nùo verso de' pericoli : io stesso come imo combatterò de’ pià robusti
tra voi. Udì tali detti, coDsoIandosi il popolo, e come quello che non più
sarebbe deluso, promise di arrokrsi per la guerra; e sen fecero dieci corpi
militari, ciascuno di quattromila uomini (i). Prese ogni console tre di questi
corpi con quanta cavalleria gli fu compartita. Il dittatore prese gli altri
quattro col resto de’ cavalli. Ed apparecchiatisi ben tosto, marciarono a gran
fretta Tito Velurio contro gli Equi, Aulo Verginio contro i Vol- aci, ed il
dotatore Valerio contro de’ Sabini; rimanendo a guardia della città Tito Largio
co’ più vecchi, e con piccolo corpo di giovani. La guerra co' Volsci ebbe
prontissima risoluzione : imperocché necessitati a com- battere, pensando gli
antichi mali, e come aveano mi- lizia più numerosa, piombarono i primi, anzi
pronti che savj, su’ Romani, appena si videro accampati, gli uni dirimpetto
degli altri. Attaccatasi vivissima la batta- glia, fecero molte magnanime cose
; ma scontramdone ancor più terribili, fuggirono finalmente. Il loro campo fu
preso, e Velletri loro città principale fu ridotta per assedio. Lo spirito poi
de’ Sabini fu invilito ancor esso in brevissimo tempo, essendosi 1’ una e 1’
altra parte deliberata a campale battaglia. Dopo ciò la campagna fu
saccheggiata, e presi alcuni villaggi, ove i soldati acquistarono schiavi e
roba in copia. Gli Equi all’udire la fine de’ compagni, riflettendo la propria
debolezza (i) An. iti Roma a 6 o secondo Catone, 363 secondo Varrone, a Ì93 av.
Cristo. si misero su luoghi forti ; e ritirandosi alia meglio per le cime di
monti e balze presero tempo e mantennero alcun poco la guerra. 'Non però poterono
ricondurre illeso r esercito, perchè sopravvenendo i Romani ardi- tissimamente
su pe’ dirupi ; ne espugnarono a forza il campo. Dond’ è che fuggirono dalle
terre de’ Latini, e le città si ridiedero colla facilità, colla quale erano^
già state prese al giungere del nemico. Alcune però furono espugnate, non
cedendone le guarnigioni ostinate il comando. Riuscitagli la guerra secondo il
disegno, Va* lerio trionfò, com’ era 1’ uso, per la vittori^ e congedò la
milizia, quantunque non paressene al Senato tempo ancora, afBnchè i poveri non
esigessero le promesse. Quindi a diminuire la sedizione in Roma, scelse al-
quanti di questi, e li mandò nelle terre acquistate colle arme 'e tolte ai
Volsci, perchè le possedessero, e le presidiassero. Ciò fatto chiese ai Padri
che avendo avuto il popolo tanto pronto a combattere, gli osservassero le
promesse. Non però davano questi udienza, ma si op- ponevano come dianzi all’
intento,; perchè li giovani e più violenti e più numerosi tra loro, fatto
partito, brigavano ancora in contrario, e chiamavano con alta voce la prosapia
di-^ lui adulatrice del popolo, e con- duci trice alle ree leggi, tanto care ai
Valer] su le adu- nanze e su’ tribunali; 'malignando che aveano con queste
annientato tutto il potere de’ patrizj (i). Esacerbatone (i) Allude alla legfi^
falla da Valerio 1’ aano 347 di Roma se- condo Catone, colla quale davasi ad un
privato il diritto di ap- pellare al popolo dai magistrali che lo aveano
condannalo. Vedi 1. 5, S «9- molto Valerio, e dolutosi come se calunniato a
torto patisse pel popolo, compianse il vicino fin d’ essi cbe cosi
consigliavano : e com’ è verìsimile nel suo caso, presagendo loro pi& cose,
altre per passione, altre per intendimento maggiore degli altri, s’involò dalla
Curia, « convocato il popolo disse : Cittadini, dovendovi io piena riconoscenza
per la prontezza colla quale mi vi deste per In guerra ; e più. per la virtù la
quale dimostraste in combattere ; io molto mi adoperai perchè foste voi
ricompensati con ogni modo, princi- palmente col non essere delusi nelle
promesse che io vi feci a nome de’ Padri, quando fui scelto con- siglierò ed
arbitro di ambe le partì, onde ridurvi al- lora scissi, a concordia. Nondimeno
ora sono impe- dito di soddisfarvi da uomini che non mirano il bene della
'comune ma solo il proprio, almen di presente. Questi prevalendo di numero
prevagliono con una potenza che ad essi la gioventù concede più che la perizia
degli affari.' Ed io, sono vecchio come -.vedete e vecchi pur sono i miei
compagni buoni solo nel consigliare, ed invalidi per eseguire, e la provvidenza
su la repubblica sembra ridotta propriamente a que- sto, che r una parte
pregiudichi V altra. Io sembro al Senato un vostro fautore, e voi mi accusate
come benevolo troppo verso del Senato. 5e il popolo innanzi carezzato da me
fosse venuto meno alle promesse del Senato, sarebbe la giustif razione mia, che
voi. siete i mancatori, e non io. Ora però non mantenendosi i patti dal Senato,
mi è necessario dichiarare che è senza mia parte quanto patite, e che io
medesimo sono come voi, anzi più, di voi, circonvenuto e deluso. Imperocché .
non solo io sono offeso con ingiuria a tutti comune, ma in ispecie con quante
mormorazioni di me vanno facendo. Di me si mormora che io per far f utile de’
privati dispensai senza il voto del Senato a’ poveri Va voi le spoglie prese
nella guerra ; che io rendei del popolo ciocché era di tutti, e che per
impedire che il Senato vi malmenasse, licenziai, ripugnandovi lui, la milizia
che dovea tenersi ancora nelle terre nemiche fra le marce, e i Vavagli. Mi si
rimprovera la spedizion de’ coloni nella regione de’ V^olsci, per- chè ho io
comportilo una terra ampia e buona a po- veri Va voi, piuttosto che donarla a
pcUrizj ed a ca- valieri. Soprattutto mi si provoca indignazione moltis- sima
perchè io nel fare la leva ho assunto più che quattrocento do’ vostri tra
cavalieri ; don^ è che ricchi ne son divenuti. Se ciò mi avveniva quando fiorivano
gli anni, ben avrei insegnato co’ fatti a’ nemici, qual uomo avessero vilipeso.
Ora essendo io più che set- tuagenario, invalido a provedere fino a me stesso,
e reggendo che non più la vostra sedizione può da me racchetarsi ; rinunzio la'
dittatura : e chi vuole, io gliel concedo, faccia di me come giudica, se
crederi comunque da me danneggiato, XLY. Intenerirousi tutti a que’ detti e gli
fecero se* gulto quando parti dal Foro. Ma questo appunto esa- sperò contro lui
li senatori: e ben tosto ebbe tali con- seguenze. I poreri non più celatamente
nè di notte, come per addietro, ma pubblicisshnamente riunÌTansi,c trattavano
di scindersi da’ patrizj. Il Senato, disegnando impedirneli, diede ordine ai
consoli di non dimetter r esercito. Certamente eran questi arbitri ancora delle
reclute, come sacre pe’ ligami de’ giuramenti militari. £ per questi vincoli
ninno attentavasi di abbondonaroe le insegne ; tanto la riverenza potea de’
giuramenti ! Alle^ gavasi per titolo della ritenzione, che gli Equi e li Sa^
bini eransi convenuti per la guerra contro de’ Romani. Ora essendo i consoli
usciti colle schiere, ed essendosi accampati non lontani 1' uno dall’ altro, i
soldati radu* naronsi tutti in un luogo colle arme, e per istigazione di un tal
Sicinio Belluto se ne ribellarono ; appropian- dosi le insegne, cose tra’
Romani onoratissime e sante, come simulacri di Numi (i). E creatisi nuovi
centurioni, ed un capo in Sicinio Belluto; occuparono non lontano da Roma
presso 1’ Aniene un monte che sacro si chia- ma 6n da queir epoca. Pregando,
sospirando, prornet- tendo, li richiamavano i consoli ed i centurioni ; ma
Sicinio replicò: Qual fare è il vostro o Patrizj che ora vogliate richiamare
quelli che avete espulso dalla patria, e che di liberi gli avete schiavi
rendati ? Con qual credito mai ci assicurerete le promesse, le quali siete
rimproverati di aver tante volte tradito? Piutto- sto, poiché volete in città,
soli, aver tutto ; andate ; abbialevelo : non vi angustiate pe' bisognosi, e pe
miseri. Per noi sarà buona ogni terra; e qualunque ne terremo per patria,
solchè vi si abbia la libertà. Annunziatesi tali cose in Roma, tutto vi fu (i)
.\n. dì Roma a 6 o tccoudo Catone, 263 secóndo Varrone, e 49 ^ «T. Cristo.
romore e pianto: e là correva il popolo, intento a la> sciar la città, qua
li patrizj cbe voleano alienameli, colla forza ancora, se ricusavano.
Soprattutto eravi clamore e pianto alle porte ; ed ingiurie vi si facevano,
come tra’ nemici, con parole e con opere, niun più riverendo nè la età, nè l’
amicizia, nè la gloiia della virtù. Non potendo però, come scarsi, i soldati di
guar- dia destinativi dal Senato custodire le uscite, le abban- donarono,
sopraffatti dalla moltitudine. Allora versando- sene fuora gran popolo ; parca
lo spettacolo, còme la città fosse presa. Gemeano, si rimproveravano quelli che
' restavano, vedendo che desolavasi. Dopo ciò si fecero molte consultazioni ;
si accusarono gli autori delia sepa- razione; ed intanto correano li nemici,
depredando la campagna, 6no a Roma. Li fuorusciti presero i viveri necessarj
drile terre intorno, nè punto più le danneg- giarono. Tenendosi in campo aperto
accoglievano quanti venivano da Roma, o da’ castelli intorno ; tanto che ne
divennero numerosi ; perciocché vi concorrevano, non solamente quelli che
voleano levarsi dai debiti, dai giu- dizj, e da altri; angustie imminenti, ma
tutti eziandio gl’ inBngardi, gli oziosi, i malcontenti ; quelli che in malfar
si emulavano, che Invidiavano l’ altrui ben essere, o che per altri mali, e
cause comunque, discordavano dal governo. XLVII. Adunque si eccitò ne’ patrizj
turbazione, ed angustia grande, e paura, come se li fuorusciti e li ne- mici
stranieri fossero per venire quanto prima contro di Roma. Poi, quasi tutti ad
un segno, prendendo coi loro clienti le armi, altri corsero alle strade donde
pensavano clie giungessero gl’ inimici, altri ai castelli per difenderne i
posti forti, ed altri ai campi innanzi la città per trincerarvisi, e quei che
per la vecchiaja non poterono iàr nulla di ciò, furono distribuiti per le mura.
Come però seppero che i fuoruscili nè si univano coi nemici, nè saccheggiavano
la campagna, né faceano al- tro danno considerabile, respirarono dalla paura ;
e mu- tato pensiero, esaminarono come si riconciliassero. Sug- gerirono i capi
del Senato mezzi di ogni genere, di- versi per lo più fra loro; ma li più
anziani suggerirono i più discreti, e più convenienti ai tempi ; facendo ri-
flettere che il popolo twn ti era separalo da loro per malizia, ma in forza de
proprj mali, o delle pro- messe non mantenutegli, e che auca così risoluto V u-
tile suo piuttosto tra la collera che tra la calma della ragione, vizio
consueto nella ignoranza. Aggiungevano che i più di questi conoscevano di avere
mal delibe- rato, e cercavano emendarsene, se il buon punto ne avessero iiche
già ne' ei^an le opere come di chi si pente ; e che volentieri tornerebbero
nella patria se potessero, augumrvisi un avvenire felice, dando loro il Senato
perdono, e pace decorosa. In mezzo a tali consigli supplicavano che essi che
erano i gratuli non sentisser la ira più che i minori’, nè differissero stolti
a riconciliarsi allora .quando fossero necessitati a far senno, e curare il
male più piccolo col più grande, vuol dire, quando' avessero a tedere le armi,
e le per- sone, e togliersi da sè stessi la libertà : cose tutte quasi
impossibili a farsi. Usassero moderazione, pròponessero i primi gC ulili
consigli, e la riunione, av- vertendo che se era proprio de' patriiù] comandare
e dirigerò ; era propria ancora de' buoni C amicizia e la pace. Mostravano che
la dignità del Senato non mi- norasi quando provede alla sicuiozza col
sopportare pazientemente le perdite necessarie ; ma quando op- ponesi tanto
ostinatamente alla sorte che la repub- blica ne rovini : gli stolli trascurare
la sicurezza per amor del decoro : ben essere da ceivare ambedue queste cose :
ma dove sia da cedere V una o C altra, doversi la salvezza riputare più
necessaria. Era l’intento «li tali consiglieri che si mandasse a fuorusciti per
trattar della pace non altrimente che se la colpa loro non fosse insanabile.
Piacque cosi appunto al Senato ; e scelti per- sonaggi accontissimi, li diresse
a quelli che erano in campo con ordine d’ intenderne i bisogni e le condi- '
zioni colle quali volessero in cittlt ritornare ; perciocché se fossero
discrete e fattibili, jl Senato non le rigette- rebbe : intanto se depenessero
le arme, e tornassero in Roma, promettea loro perdono e dimenticanza perpe* tua
di tutto il passato : come belle ed ntili le ricom- pense a chi servisse
valoroso, ed affrontasse ardente- mente i pericoli per la patria. Recarono gli
oratori e comunicarono tali voleri al campo, aggiungendovi cose consentanee.
Non accettarono' i fuorusciti l’ invito : anzi rimproverarono a’ patrizi T
orgoglio, la dnrezza, le si- mulazioni loro perchè fingevano ignorare i bisogni
del popolo, e quelli pe’ quali si era separato. Ci assolvono, diceauo, da ogni
pena per la ribellione, come fossero i padroni, essi che abbisognano dell’
ajulo nostro. Quando giunga su loro, e sarà tra non molto, con tutte le forze
il nemico ; non potranno alzare nem- men lo sguardo contr esso, e pur ci
voglion far cre- dere che non sia bene loro t esser difesi ; ma felicità di chi
si unisce a difenderli. Aggiunsero a tal dire che se vedevano già le angustie
di Roma ; comprendereb-* bero poi meglio con quali nemici avessero a guerreg-
giare : e qui minacciarono molto e veementemente. Non contraddissero a ciò, ma
partirono, e dichiararono i legati a’ patrizj le risposte dei segregati: e
Roma, uditele, se ne turbò ; e temette più che per addietro. Il Senato non
sapendo come espedirsi o diffenrc, si disciolse, dopo avere più giorni
ascoltate le infamazioni e le ac> cose vicendevoli de’ suoi capi fra loro.
Il popolo rimasto in Roma per benevolenza verso de’ patrizj, o per de- siderio
della ..patria più non somigliava sestesso; dile- guandosene gran parte
nascostamente o in pubblico > nè sembrandone il resto affatto più stabile.
Fra tali vi- cende i consoli, avendo poco più tempo per coman- dare, fissarono
il giorno pe’ comizj. Venuto il tempo nel quale aveansi a riunire nel campo
Marzo e scegliere i proprj magistrati; ninno ambiva, nè sostenea di esser
consolo. Adunque nella Olimpiade setlantesÌDa seconda nella quale Tisicrate da
Crotone vinse allo stadio, essendo arconte in Atene Diogneto ; il popolo
rielesse al consolato due vecchi consoli Postumio Gominio e 'Spurio Cassio,
uomini cari alla moltitudine ed ar grandi, da' quali già domati i Sabini aveano
lasciato di competere dell’ impero con Roma. Or questi riassumendo il loro
grado alle calende di settembre, vale a dire prima del tempo consueto ai
consoli precedenti, convocarono innanzi tutto il Senato per deliberarvi sul
ritorno del popolo (i). CbieslO' il’ parere di tutti ; invitarono a dire
Menenio Agrippa, uomo allora venerabile per età, credulo più che gliaU tri
insigne in prudenza, e lodato principlmente' per loi scelta de’ suoi
regolamenti, perchè teneasi^al mezzo non fomentando 1’ arroganza de’ nobili, nè
lasciando che i| popolo operasse tutto a suo modo. Or questi esortando il
Senato alla riconciliazione, disse r Se quanti qui siamo o Padri Coscritti
fossimo tutti di un animo; e se niuno si opponesse a far pace col popolo,
comtm- que la facessimo, per giuste o per ingiuste condizùy- ^ ni ; e se questo
fosse proposto unicamente d diseu^ tere ; dichiarerei, con poche parole dà che
ne penso. Ma perciocché alcuni giudicano che sia dà ponderare ancora se forse
riesca più utile far guerra a fuoru- sciti ; non credo che io possa in ^ poco-
insinuare dà che dee farsi: ma sento il bisogno tt istruir ampia- mente su la
pace quanti tra voi ne discordano. Im- perocché questi conducono a cose
contraddittorie ; spa- ventano voi, che già ne temete, su mdli da nulla o lievi
a curarsi, e trascurano gl' immedicabili e gravi. Certamente cosi propongono
perchè non decidono del- r utile colla ragione, ma col furore e coll’ impelo. E
come si direbbe che essi provvedono le cose proficue, o fattibili almeno,
quando stimano che Roma, una (i) A^oi di Roma a6t «ceoodo Catóne, o63 secondo
Varrone,e 4{)t arami Critu». a6i città
si grande, ed arbitra di tante genti ^ e già in~ yidiata e molestata da’ vicini,
possa ritenerle e difen- derle facilmente senza il suo popolo, o che possa in
luogo del suo sì scellerato introdurre altro popolo che per lei combatta del
principato ; che con lei sia di buon accordo su la repubblica, e sempre
moderato in pace ed in guerra ? Eppure non altro potrebbono dirvi quei che
tentano dissuadervi dalla pace. L. Ma qual sia la più stolta di queste cose,
vorrei che voi stessi lo decideste dalle opere. Considerate, che alienatisi da
voi li più poveri perchè abusaste della loro infelicità senza modestia e senza
politica, e che recatisi appena fuori della città senza farvi o macchi- narvi
altro mede, col solo intento di averne una pace non ingloriosa, molti de’
vostri nemici abbracciarono con trasporto questa occasione come dono della
sorte, e riedzan lo spirito, e credono venuto per loro fitud- mente il tempo
felice da battere il vostro impero, di Equi, i Eolsci, i Sabini, gli Etnici,
questi che mai si alienano eìal farci la guerra, esatperali ora dalle sconfitte
recenti, già devastano le nostre campagne. Que’ Campani, que Tirreni die
vacillavano nella no- stra soggezione ora parte fi abbandonano matdf està- mente,
parte in occulto • vi si preparano. E gli stessi LeUirti, quantunque nostri
congiunti, a me non sem- ■hran procedere di buona fede, costanti neW amicizia;
ma odo che guasti sono in gran numero per amore di un cambiamento, che tanto
gli uomini alletta. Noi die abbiamo fin qui portato in campo aperto la guerra
su gli altri; noi ci stiamo or qui dentro, difensori delle mur^; lasciando
senza seminarli i nostri terreni, anzi 1 vedendovi saccheggiali i villaggi, via
levale le predo, e fuggirsene di per sestessi gli schiavi, senza che abbiamo
rimedj a tanti mali. Non pertanto noi ' tutto soffriamo, perchè speriamo ancora
che il popolo ci si riconcilj, ben sapendo che da noi dipende il togliere- con
un solo decreto la sedizione. Ma se pessimo è lo stato nostro in campagna;, non
è meno funesto e terribile dentro le mura. Noi ' non ci siamo .apparecchiati
già da gran tempo, come per un assedio, nè bastiamo di numero contro tanti
nemici. La nostra gente è poca, nè da guerra, e ple- bea, per gran parte, merce
nar f, clienti, artefici, cu- stodi tton affatto saldi dello stato turbato
degli Otti- mali : e le continue loro diserzioni verso de’ fuorusciti ce li
hanno rendati tutti sospetti. Soprattutto essendo le nostre campagne dominate
da nemici, ed impossi- bilitato il trasporto de’ viveri ; abbiamo a temer di
una fame : e quando a tal disagio saremo; tanto più ci spaventerà la guerra, la
quale senza questo ancora non concede mai calma allo spirito. Quello poi che
supera tutti i mali è vedere le donne dei segregati, vedere i teneri figli, i
padri cadenti, che sqqallidi e miserandi si rigiran pel Foro e per le vie, che
pian- gono e supplicano e stringono a ciascuno la destra e i ginocchi, e
deplorano la solitudine loro presente e più ancor la futura, spettacolo in véro
desolante ed insopportabile ! Niuno è si barbaro che non s inte- nerisca a
mirarlo, e non si appassioni sul destino de- gli uomini. Che se abbiamo a
diffidar su plebei ; dofremo rimoverne gt individui, altri come inutili nel- r
assedio, ed altri come amici non saldi. Or se questi rimovansi, quid forza
rimane in guardia di Roma ? o da quale soccorso animati ardiremo star contro
dei mali ? V unico nostro rifugio, P unica nostra buona speranza è la gioventù
patrizia : ma poca come vedete ella è questa, nè bastante a darci i grandiosi
disegni. Che dunque impazzano, quei che propongon la guer^ ra, o perchè mai ci
deludono, e non consigliano piut~ tosto di cedere fin da ora senz ar^ustie, e
senza sangue Roma ai nemici ? Ma forse io ciò dicendo son cieco, e predico per
terribili, cose che non son da temere. Roma non corre altro rischio che di un
cambiamento, cosa certo non difficile ; potendovisi facilissimamente introdurre
mercenarj e ' clienti in copia da ogni gente e luogo, posi van divulgando molli
de* contrarj al popolo, uo- mini, viva . Dio y non dispregievolì. A tanta
stoltezza vengono alcuni ; che non propongono già consigli sa- lutevoli, ma
desideri impossibili I Ora io volentieri dimanderei questi uomini quode tempo
mai ne si, dia per far tali cose, essendone tanto vicini i nemici : qtude
condiscendenza alt indugio o al ritardo del giu- gnere degli alleali in mezzo à
mali che non tempo- reggiano, nè aspettano ? Qual uomo, o qual Dio mai vi terrà
sicuri, o congreghem da ogni luogo in gran calma, e qui ci porterà de’ sussidj
?. Inoltre e quali tuoi saran. ' quelli che lasceranno la patria per venir-
sene a noi ? Quelli forse che haruus case e Dii Lari € viveri ed onori tra
proprj cittadini per la nobiltà degli antenati, o quelli che per la gloria
risplendono de' pnoprj meriti ? E chi mai sosterrebbe di abhem- donare i proprj
commodi, e partecipare vergognosa^ mente i mali altrui ? Eppure a noi si
verrebbe non per dividere con noi la pace e le delizie, ma la guerra e i
pericoli, e questi incerti, se a bene riescano ! Convocheremo forse una -turba,
qual fu quella riget- tata da noi, plebea e senza lari? Ben è chiaro che pe'
disagi suoi, io dico pe’ debiti, per le penalità, c per cause altrettali
prenderà volentierissima . dovunque una sede : ma sebbene questa plebe sia
utile, c ( per concederle questo ancora ) sebbene sia moderata ; tuttavia ci
riuscirà generalmente, assai, meno 'buona della nostra, perchè non è rutta tra
nci, nè come noi disciplinata, e perchè ignora i nostri costumi, le no- stre
leggi, e le nostre maniere. celebrasi la
vostra clemenza, il quale nè manda a noi
per conciliarcisi esso che à C offensore, nè porge risposte umane e socievoli a
quelli che noi stessi gli abbiamo inviati : ma s’ inal- bera e minaccia, nè
lascia conoscere quello che vo- glia. Udite voi dunque ciò che iò consiglio
che^ fac- ciasi. lo nè penso il popolo irreconciliabile a noi > nè > ohe
mai farà quanto mincucip, ; dióchà mi sono buon argomento le opere sue che a’
detti non somi- gliano. -Dond’ è che io lo credo assai piò che ■ noi sollecito
di pacificarsi. Certamente noi abitiamo una patria onoratissima, e teniamo irt
poter nostro le so- stanze di lui, le case, i genitori, a tutte le cose pià
preziose : ed egli si trova senza patria, senza ma- gioni, senza i pegni suoi
più, cari, e senta V abbon- danza ancora del .^vivere quotidiano. Che se alcuno
mi chieda perchè mai fra tanti patimenti egli nè ac- cetti gl inviti nostri, nè
mandi a noi per istanza niuna, rispondo s ciò essere manifestamente, perchè
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che parole senza ve- derne poi le opere o di benevolenza o di modera- zione ; e
perchè crede di essere stato molte volte in- gannato da noi che promettevamo di
provvedere su lui, senza avervi mai provveduto. Non ci spedisce am- basciadori
perchè son qui tanti che ce» lo accusano, e perchè teme non ottenere ciò che
dimanda : e forse così gli suggerisce un ambizione non bene conside- rata; nè
già è meraviglia. Imperocché son pure tra noi non pochi, difficili, contenziosi,
i quali colle brighe loro non vogliono che cedasi punto ai cóntrarf, e cercano
per ogni via di sopraffarli senza mai con- discendere essi i primi, finché loro
non sottomettasi chi vuole essere beneficato. Or ciò considerando io penso che
debbansi spedire al popolo ambàsciadori, principalmente di stia confidenza : e
consiglio che questi ambasciadori siano plenipotenziarj, perchè le- vino la
sedizione coi patti che essi terranno per giu- sti, senza rimettersene al
Senato. Questo popolo che ora vi pare sì spregiante e grave, questo darà loro
utlienza, al vedere che voi cercate veramente la con- cordia, e ridurrassi a
condizioni più mitij senza chie- derne alcuna vituperosa, o non fattibile.
Imperocché tutti, e specialmente i plebei, ne’ dissidj s' irf urtano con chi su
loro insolentisce ; ma si ammansano con chi li blandisce. Cosi disse Menenio; e
levossene in Senato gran romore, parlandovi ciascnno alia sua volta. I fautori
del popolo esortaVansi a vicenda a dar tutta la mano per- chè rlpatriasse,
avendo per capo di questo consiglio il pii riguardevole de* patrizj. Per
Topposìto quegli ottimati die cercavano che nulla si alterasse de’ costumi
della patria mal sapeàno ciò che avessero a fare, nò voleano condiscendere; nè
poteano ostinarsi. Nondimeno uomini integerrimi né caldi per l' uno o 1’ altro
partito voleano la pace, intenti a questo di non essere assediati tra le mura.
Or qui fattosi da tutti silenzio il più anziano dei 'ìonsoli encomiò Menenio
della sua generosità, stimo» landò anche gli altri a somigliarlo nella cura
della re- pubblica, a dir francamente ciocché ne sentissero, e compiere senza
strepitò ciocché sen decidesse: indi nel modo stesso cercandolo dei suo parere,
chiamò per nome Manio Valerio, nomo infra tutti gli ottimati ca- rissimo ài
popolo, e fratello all’uno di quelli che aveano liberato Roiòa dai tiranni.
Costui levatosi in piede ricordò ai Padri i suoi provvedimenti, e come avendo
egli presagito più volte i terribili casi avvenire, ne tennero pochissimo conto
: poscia esortò li contrari discutere ornai su la moderazione, ma solo a vedere
( giacché non aveano permesso che si estirpasse quando era ancor piccola ) di
racchetare ora, comunque, il pià presto, la sedizione, perchè, trascurata, non
proce- desse pià oltre, e non divenisse incurabile f o presso che incurabile, e
sorgente di mali senta fine. Di- chiarò che le dimande del popolo non sarebbero
come per r avanti; e pronosticò che non si accorderebbe colle condizioni di
prima insistendo per la sola re- missione dei debiti, ma che vorrebbe forse un
qual- che difensore, onde tenersi illeso nell' avvenire : af- fermava che dopo
introdotta la dittatHra era venuta- meno la le^e tutelare della Uhtrià la quale
non per^ metteva a’ patrizj di uccidere alcun cittadino non giu- dicato, nè di
cederlo giudicato reo nelle mani de’ loro- contradditori, e la quale concedeva
a chi volea V ap- pelto f di portare le cause al popolo da’ patrizj f tanto che
quello si eseguisse che il popolo ne decidesse^ Poco mancarvi che non fosse
statà tolta al popolo tutta la potenza esercitela già da esso ne' tempi ad* dietro,
quando non potè ottenere dal Senato per le imprese rmlitari il trionfo a
Pubblio Servilio Prisco, uomo infra tutti degnissimo di quest’ onore. Pertanto-
ben essere verisimile che il popolo cosi ojfeso sconfortisi nè abbia se non
triste speranze della sua sicurezzaj Non il console, non il dittatore aver
potuto soccorrerà il popolo, quantunque il volessero,; .anzi averne par-
tecipale le incurie e V avvilimento, perchè studia» vansi provvedere su lui.
Essersi poi cospirati per im» pedirli non uomini autorevolissimi fra li patrizj,
ma uomini oltraggiosi, avari, . acerrimi ne’ rei guadagni, « quali, pe’ grandi
prestiti a grandi usure, aveano ridotto schiavi ì pià de’ cittadini ; dicea che
questi facendo loro leggi dure, orgogliose . aveano alienata tutta la plebe da
patrizj ; e che datosi per capo Ap- pio Claudio, odiatore della plebe, e
propizio ai po- chi y rimescolavano tulli gli affari di Roma. E se la parte
savia del Senato non si contrapponesse, la repubblica pericolerebbe di essere
schiava o distrutta. Da ultimo dichiarò ben fatto valersi del parer di Me-
nenio, e chiese che si spedisse al popolo qiumto prima: procurassero i deputati
quanto volessero la calma della sedizione : ma se il popolo non accet- tava le
dimando loro, essi quelle accettassero del LIX. Sorse, invitato, dopo lai Appio
Claudio, uomo contrario al popolo, e grande estimatore di sestesso, nè senza
cagione. Perocché nel vivere suo quotidiano era moderato e santo, nobile nella
scelta de' provvedimenti, e tale da conservare la dignità de’ patrizj. Costui
pren« dendo occasione dell’ aringa di Valerio, disse : Certa- mente sarebbe
Valerio men riprensibile se palesava unicamente il suo parere, senza condannare
quello de’ contrarj ; giacché non avrebbe nemmen egli ascoU tato i suoi vizj.
Siccome però non fu pago di dar consigli onde renderci schiavi ai cittadini
pili vili, ma sferzò pure i suoi contrarj, cimentando anche me ; così vedomi
necessitato assai di rispondere, e di respingere primieramente le calunnie a me
fatte. Son io rimproverato di una condotta nè' sociale, nè decorosa, quasi io
cerchi per ogni via far danari, quasi spogli molti de’ poveri della libertà, e
quasi da me sia derivata in gran parte la separazione del popolo. Ben vi è
facile però di conoscere che niente di ciò è vero, niente probabile. Or su,
dimmi, o Valerio, quali sono quelli che ho io ridotti servi pei debiti, quali i
cittadini che ora tengo nella carcere ? (filale dei fuorusciti si è privato
della patria per la durezza e per V avarizia mia ? Certo non potrai tu dirlo.
.Anzi tanto è lungi che alcuno sia da me ri- ilotto servo pe’ debiti che. io
sparsi tra molti V aver mio, nè mi rendei schiavo, nè disonorai niuno di quei
che mi hanno defraudato : ma tutù ne son U- beri, e tutti me ne ringraziano, e
stansi nel numero degli anici e de clienti miei pià familiari. Nè ciò dico per
incolpare chi non opera come me, nè per ingiuriare chi ha faUo cose concedute
dalle leggi; nta solo per levas'e da me le calunnie. In ciò poi che mi accusa
della durezza e del patrocinio mio sui scellerati, chiamandomi odUpopolo ed
oligarca perchè favorisco il comando de’ pochi, in ciò son io da riprendere
quanto voi che avete ricu- sato, come pià riguardevoU, di soggiacere ai men
degni, e di lasciarvi togliere il comando dei vo- stri antenati da una
democrazia, pessimo infra tutti i governi. Nè già perchè egli soprannomina oli-
garchia il comando de’ pochi dovrà questo disciogliersi per le beffe del nome.
E pià giustamente e propria- mente possiamo noi riprendere lui come un
adulatore del popolo, ed un ambizioso di tiranneggiare. Per- ciocché niuno
ignora che la tirannide nasce dalle adu- lazioni della plebe : e che la via
speditissima a ren- dere le città schiave è quella che mena al comando col
mezzo de’ cittadini peggiori. Or egli ha fin qui carezzato costoro, nè tuttavia
cessa di carezzarli. Ben vedete che questi abietti, questi miseri, non avreb-
bero . mai ardito d’ insolentire in tal modo se non fossero stati eccitati' da
questo sì riguardevole e bello amatore della patria, come se l’ tali trattare, Abhiam per ostaggi le loro
mogli, i loro padri, e tutto il parentado, dei quali non potremmo ckiedtrne
altri migliori dd\Numi, Questi, li collocheremo • nói, questi al cospetto dei
loro congiunti, minacciando, se tentano assafirti, di uc- ciderli con estremi
supplizj: ina, credetemi, dove ciò sappiano, voi li riceverete inermi',
supffikhevoli, pian- genti, pronti ad ogni pena. Terribili sono tali neces-
sità, e frangono, ed annientano ogni baldanza.E questi sonod riflessi -^pd
quali non dob- biamo la guerra temere degli esuli. Le mirtacce poi di altri
popoli rum ora Ut prima volta si trovarono fnire in paroUf; ma 'per ^addietro
ancora ci si sco- prirono sempre rtùnori delt apparenza quante volte i popoli
fecero di noi paragone. M quelli che tengono per insufficienti le intime nostre
forze, e però temono appunto la guerra, quelli non bene le han calcolate. Ai
citrini da noi separati, se il vogliamo, possiamo contrapporre scegliendoli e
liberandoli, il ' fiore de’ servi. Certamente vai meglio donare a questi la
libertà, che lasciarsi torre da quelli il comando : tanto più che stati essendo
questi tante volte presenti ne’ nostri campi hanno sperienza che basta di
guerra. Per com- battere poi cogli esteri usciremo ' noi stessi pieni di ardore
e meneremo con noi tutti i clienti, e tutto il resto del popolo : e perchè sia
questo ' cspedito a ci- menti, rilasceremp ciascuno privatamente, e non max per
legge, ad esso i suoi debiti. Se dobbiamo in vista de’ tempi cedere in parte e
temperarci; non dee mai farsi questo con cittadini che ci s' inimicano, ma
cogli amici, perché sappiasi che noi concediamo grar zie, eomthossi e non
violentali’, che se queste non bastino, se bisognino altre fòrze, f arem
venirne dai presidii e dalle colonie: e quanta sia- la moltitudine loro, è
facile raccoglierlo dalC ultimo censo. 1 .Romani atti (die arme son cento
trenta mila, e di questi appena la settima tparte è fuggita ' da noi ( 1 ). Non
commentoro qui le' trenta città de’ Latini, le quali come voitre alleate ^
combatteranno di bonissima vo- glia per voi, sol che decretiate di ammetterle
alla vostra cittadinanza che > sempre .vi hanno domandata. Ora vi aggiungo'
(.e finisco ) quello che ri- leva fra le arme assaissimo, e che voi non avete
av- vertito, o certo niun dice de’ Padri. Chi cerca il buon esito delle guerre,
di niente ha tanto bisogno, quanto di egregi capitani. Or di questi la nostra
città soprob- [Questo ceuso non par quello fatto da T. Largio primo dituiorr,
ma l’altro fissato da Sigouio oell’ anno sGu di Roma, ov« dice eba furono
numerati più che centodieci mila ciuaUini. benda, ma scarsissime ne sono quelle
de' nemici. Lè grandi milizie se ricevano duci mal atti alle arme, si
svergognano, e rovinano di per sestesse con danno tanto maggiore, quanto sono
più numerose: ma i buoni condottieri presto rendono grandi anche picciole ar-
mate. Di qua seguita che fiiìchà avrem uomirU buoni al comando, mai avremo
penuria di quelli che fac» cianci comandare. Or ciò considerati^, e ricordando
voi le imprese di Roma ; certo mai non porrete de- creti meschini, vili,
indegni. Che dunque, se alcuno tnel chiede, ( e già forse bramate da gran tempo
sa- perlo ) che dunque io propongo che facciasi ? Io pro-> pongo che nè
spediscansi ambaseiadori d fuorusciti ^ nè sen decida arti, finché raccolto il
voto de’ se- natori SI dedicassero ai voleri dei più. Se violato 1’ uno e r
altro di questi cousigli, faceano di lor voglia la pace ; protestavano che noi
permetterebbero, ma vi si opporrebbono di tutto lor animo, colle parole finché
dovevasi, o colle arme in ultimo se bisognava. Era que> sto partito J1 più
forte, aderendovi quasi tutta la gio« ventù palriaia. In opposito piegavano al
partito di Me-s uenio e di Valerio tutù quelli che aveano cara la pace, p cbe
torneano soprattutto per 1’ età loro, considerando quanti siano .nelle città li
mali delle guerre civili. Mossi però dai clamori e dai tumulto dei giovani,
adombrati dall’ ambizione loro, e dall’ arroganza contro de’ consoli, e
timorosi che indi a poco si venisse alle mani se nou cedevano; si volsero in
ultimo a piangere, e supplii care, piangendo, i conirarj. Sopitosi coi tempo lo
strepito, e tornato il silenzio, i consoli abboccatisi fra loro, cosi
conchiusero. Noi vorremmQ primieramente o Padri Coscritti, che voi tutti foste
unanimi d intelligenza e di volere in^ torno la salvezza del comune : se no,
che i più gio^ vani almeno cedessero, non ripugnassero d seniori, considerando,
che ancK essi giunti alT età di questi avran pari onori dai discendenti. Ora
siccome vediamo voi caduti in una discordia, rovinosissima fra i mali umani, e
sorgere qui mollo f arroganza de’ giovani ; e siccome poco ornai soprawanza del
giorno, nè pos- sono aver fine le discussioni ; ritiratevi dal SeruUo :
tornerete in cUtra adunanza più placidi e con sentenze migliori. Che se qui
persevera l’ amore delle contese, non più ci varremo de' giovani por giudici,
né per consiglieri su ' quello che giova : ma precluderemo il disordine con una
legge ; determinando la età che aver dee chi consiglia. Quanto a’ seniori se
non si uniscono ne' sentimenti ; torneremo a dar loro la pa- rola, e ne
risolveremo le dispute per una via spedi- tissima, la quale è meglio che voi
udiate e conosciate precedentemente. Voi sapete che noi abbiamo fin dalla
fondazione di Roma, che il Senato è t arbitro, è vero, di ogni cosa, ma non di
creare- i magistrati, rum di fare le leggi, rum di portare ■ o cesseue la
guerra ; le quali tre cose il popolo le difinisce in "ul- timo col suo
voto. E siccome ora non consultiamo che su la guerra e la pace ; cosi debbe il
popolo, li- berissittur ne' suoi voti ratificare indispensabilmente i vostri
decreti. Quando voi dunque avrete dichiarato i vostri pareri, ru>i scguerulo
questa legge, inviteremo la moltitudine al Foro, perchè ne sentenza. Così le'
contese avran fine ; mentre ciò che la pluralità dei voti destinavi, quello
abhracceremo. Senza dubbio son degni di quest’ onore quelli che si tennero
finora he- naffetti alla patria, io dico i compartecipi de' nostri beni e de
mali. Sciolsero, ciò detto, radunania. Fecera nei giorni appresso annunziare a
tutti de’ villaggi e della campagna che si presentassero, e similmente al
Senato che si riunisse nel di stabilito ; e qnaudo videro la città riempita di
popola, e gli animi de’ patrizj mossi dalle preghiere fatte tra le lagrime, e
tra’ lamenti de’ vecchi genitori, e de’ teneri '6gli de’ profughi, recaronsi
nel tempo destinato sul finir della notte al Foro, angusto a tutta ia
moltitudine. Venuti al tempio di Vulcano donde solcano aringar l' adunanza,
lodarono primiera- mente Il popolo dello zelo e della prontezza nell* accor-
rere in tanta frequenza: quindi lo esortarono che aspet- tasse in calma la
risoluzione del Senato; animando in- tanto gli attenenti de' profughi a buone
speranze, come quelli che riarrebbero tra non molto i loro pegni dol- cissimi.
Dopo ciò passando in Senato vi tennero benigni e modesti ragionamenti, ed
invitarono ancor gli altri a proporre consigli vantaggiosi, ed umani.
Chiamarono innanzi tutti Menenio, il quale alzatosi in piede rivenne ai
suggerimenti di prima stimolando il Senato alla pace : e riproponendo che si
deputassero ai segregati bentosto de’ personaggi, arbitri di concordare. Invitati
poi secondo 1’ età sorsero a mano a mano gli uomini consolari: parve a tutti
questi che fosse da seguire il parer di Menenio ; finché toccò ad Appio di
favellare. Or questi sorgendo t'eggo, disse, o Padri Coscritti che piace ai
consoli e poco meno che a tutti di rimpatriare- il popolo colle condizioni eh’
ei vuole: che fra tutti i contrarj della pace or io rimangomi solo, esposto aie
odio di quello, e niente utile a voi. Ala non per questo rimovomi dalle mie
prime deli- berazioni : nè ripudio da me stesso ciò che intendo su la
repubblica. Quanto piò. restomi derelitto da quelli i quali come me ne
sentivano ; tanto piò col volger degli anni ne sarò pregiato tra voi, sarò in
vita coronato di gloria, e morto sarò benedetto dalla ricordanza de posteri. Sia
pure o Giove Capitolino, o Dei presidenti della nostra città, o eroi e genj, e
quanti in guardia avete il suolo Romano, sia pur Diomcj, urna IT. i** a8a
. hello ed utile a tutti il ritorno de
fuorusciti, e de- lusa resti la espettazione eh’ io ni' avea su 1’ avvenire. Ma
se pe’ consigli presenti dee venire (e fia ciò pa- lese tra non molto ) alcun
disastro su Roma, deh ! rettyicateli voi prestamente, e fate la nostra
salvezza. Deh ! siate benevoli e propizj a me che non avendo mai voluto dir le
piacevoli per le utili cose, non tradirò nemmen’’ ora il comune per la mia
sicurezza. Io così volgomi a pregare gV Iddj ; perchè non abbiso- gnano più,
parole. Ripeto la sentenza di prima : as- solvasi IL POPOLO RIMASTO IN CITTa’
DAI DEBITI ; MA COMBATTANSI CON TUTTO L ARDORE I FUORUSCITI TINCBÈ STARANNO SU
LE ARMI. E ciò detto Gnl. Poiché le sentenze de’ seniori concordaronsi con
quella di Menenio, e poiché venne il discorso ai giovani ; standosi tutti in
espettazione, sorse Spurio Nauzio, un rampollo della prosapia nobi- liasima
originata da quel Mauzio compagno di Enea nel guidar la colonia, e sacerdote di
Minerva m'bana, il quale nel trasmigrare aveane portato seco il divin simu-
lacro, dato poi successivamente in custodia a’ suoi di- scendenti (i). Ora
Nauzio che parea per le sue belle doti più nobile ancora di tutti i giovani, nè
lontano mollo dall’ ottenere la dignità consolare, cominciò la difesa comune di
questi : diceva che quando nel Senato (i) Anche Virginio fa meniioue di questo Nauxio,
che egli chia- ma Pfautt, nel libro 5. Tum senior PfaMes, unum Triionia Paìlas,
Quaeitt docuit, muUaqus insignem reddidit arte, Haec responsa datai precedente
avetmo pronunziato in contrco'io de' padri non fu già per amore di contendere o
insuperbire con essi, ma solo mancando, se aveano pur mancato, per inesperienza
di anni : e qui soggiunse che fareb- bero fede di ciò col variar sentimento :
che lascia- vano a loro come più savj decidere co’ voti il ben del comune :
essi non contrarierebbono, ma secon' darebbero i seniori. E dichiarando Io
stesso ancor gli alni giovani, toltine pochi, legati di parentado con Appio ; i
consoli ne lodarono la verecondia ; ed esorta» tili ad essere sempre tali ne'
maneggi ' pubblici, elessero tra’ seniori piÀ cospicui dieci deputati, uomini
consolari tutti, fuori che uno. Furono gli eletti, Manio Valerio, Tito Largio,
Agrippa Menenio figlinolo di Gajo, Publio Servilio figliq di Publio, Postutnio
Tuberto figlio di Quinto, Tito.Ebuzio Flavio figlio di Tito, Servio Sul» picio
Camerino figliuolo di Publio, Aulo Postumio Albo prima alle tose loro quei che le aveano
lasciate. Presi tali ordini, partirono i deputati nel giorno (1^ Nel testo si
omeltoDO Maoio Valerio, Tito Largio, e si no- lano altre maacaaxe in questo
luogo. Noi alitiamo seguita la lesione di Porlo medesimo. Precedè la fama il
giunger loro, divulgando nel campo tutte le cose fatte in città : dond’ è che
la- sciando tutti le fortificazioni uscirono immantinente in- contro a’
deputati che erano in via. Aveaci nel campo un uomo turbolento affatto \ e
sedizioso, acuto a preve- der da lontano ciocché avverrebbe, nè insufficiente,
come parlator lusinghiero, a dirne quanto ne pensava. Chiamavasi questi Lucio
Giunio col nome appunto di lui che tolse i tiranni : e voglioso di assumerne il
nome per intero, facessi intitolare Bruto ancora. Rideano i più su la cura vana
di esso^ e Bruto il chiamavano quando pungere lo volevano. Or questi mise in
cuore a Sicinio, duce dell’ esercito, che il bene del popolo non istava nel rendersi
troppo facilmente, sicché men degno ne fosse il ritorno per le umili condizioni
; ma nel re- sistere lungamente, simulando come in tvia tragedia. E
profferendosi egli a Sicinio di parlare in favore del po- polo, e suggerendogli
altre cose che erano da fare o dire, lo persuase. Dopo ciò Sicinio, convocato
il po- polo, impose a’ legati che dicessero le cagioni per le quali
venivano.Recatosi in mezzo Manio Valerio come il più provetto e popolare, e
contestatagli dalla moltitudine la sua benevolenza con grida e saluti
amichevoli, alfine, fatto silenzio, disse: Niente, o popolo proibisce che vi
riconduciate alle vostre case, niente che vi paci- fichiate co’ Patrizi . Il
Settato ha per voi decretato' un ritorno utile e decoroso j e di non pià
ricordare o vendicare il fatto finora. E noi che vedeva propen- sissimi per voi,
come da voi rispettati, ha qui deputato con poteri assoluti di concordare :
affinchc noi non opinando nè congetturando su vostri desiderj, ma udendo da voi
stessi con quali condizioni chie- dete riconciliarvici, ve le accordassimo se
moderate, se non impossibili, nè impedite da indecenza insa- nabile, sene’
aspettare il voto de’ Padri, e senza in- tristire V affare colle dilazioni, e
colla invidia dei contrari (i). Avendo il complesso de’ Padri così per voi
decretato ; ricevetene il dono lieti, pronti, e benevoli s pregiandone
degnamente una sorte sì bella, e rin- graziando vivamente gV Iddj che Roma, la
domina- trice di tanti popoli, che il Senato, regolatore di tutto il bene che è
in essa, mentre V usanza della patria non permette che cedasi ad alcuno, cedano
alle istanze vostre solamente, nè pretendano come i più. grandi su’ men grandi
discutere minutamente quanto conviene ad ambedue, ma primi essi vi spe- discano
per . la pace : che non piglìasser con ira le risposte imperiose da voi fatte
ai primi ambascia- dori, ma pazientassero alt orgoglio e fierezza di una
ostinazione giovanile, come il buon padre sul figlio non savio : che volessero
indirizzarvi una seconda ambasceria, diminuire i loro diritti', e rimettervisi
dove la moderazione il consente. Giunti a tanta felicità non esitate a dime
ciocché bisognavi, e non esorbitate o cittadini : lasciate le sedizioni :
tornatevi giubilando alla terra che vi ha generati e nudriti : (i) Allude ai
scDatorì che arrebbono perorato in contrario nei Senato. Già non le deste voi
li trofei e le ricompense pià belle, riducendola quanto è da voi solitaria, o
come un campo da pascolarvi. Se trascurate questa oc- casione, forse ne
richiamerete pià volte la somi- gliante. Taciotosi Valerio fècest innanzi
Sicinio, e I disse, che chi ben consulta non riguarda V utile da una banda sola,
ma lo contempla nel suo rovescio ancora, principalmente in affare di tanta
importanza. Pertanto comandò che chi volea rispondesse a ciò, deponendo ogni
verecondia e timore. Non permettere la natura delle cose che essi benché
ridotti a tante angustie cedessero per paura o per vergogna : E qui, fatto
silenzio, e gli uni riguardando su gli altri, e cer- cando chi perorasse pel
comune; ninno si presentò. Ma replicando Sia aio altre volte l’ istanza venne
alfine in mezzo secondo gii accordi quel Ludo Ginnio desideroso di essere
cognominato Bruto : ed avuto a far dò grandi significazioni dalla moltitudine,
tenne questo ragiona- mento : Il timore che avevate de’ Patrizj o compagni è
scolpito ancora per quanto vedo, e triorfa negli animi vostri. Abbattuti da
questo timore esitate far qui, udendovi tutti, i discorsi che usavate tra voi.
Forse ciascuno confida che il vicino suo aringherà sul comune, e che piuttosto
incorrerà tra’ perìcoli ogni altro e non egli : ami che egli tenendosi in sal-
vo, goderà senza perìcoli parte del bene che possa mai nascere dall ardire
degli altri : ma stolto è que- sto concetto. Imperocché se tutti aspettiamo la
stessa cosa, la codardia di ciascuno sarà nocevole a tutti; c dove ognuno
figurasi la sua sicurezza; ivi insieme con tutti rovinerà la comune. Ma se non
avete ap- preso finora che per le arme ci togliemmo la paura, e per le arme
avete consolidata la vostra libertà ; conoscetelo ora almeno, ed i Patrizj,
essi stessi ve 10 insegnino. Questi orgogliosi, questi durissimi uo~ mini, non
vengono come prima comandando e mi- nacciando, ma supplicandoci, ed esortandoci
a tor- nare alle nostre case : e già cominciano a trattarci come liberi
veramente. Che dunque or più vi anne- ghittite e tacetq ? Che non la Jote da
liberi uomini ? c se avete già scosso il freno : che non dite qui ora
pubblicamente ciocchò avete sopportato da loro ? O miseri ! e quali patimenti
temete ? se io stesso v in- vito a parlar francamente ? Io dunque, io stesso mi
rischierò di dire liberamente per voi ciocché è ffusto, senza niente occultare.
E poiché Valerio dice che niente proibisce che vi rendiale alle case vostre
conceden- dovisi dal Senato il ritorno, ed essendosi decretato di non
perseguitarvi ; io risponderò a lui cose nem- meno vere che necessarie a dire.
Oltre i motivi ben grandi e varj, tre ne sono o Valerio fortissimi e
chiarissimi che c impe- discono di rimetterci a voi deponendo le armi. Il primo
è che venite a noi per esortarci come traviati; e Radicate beneficenza vostra
accordarci il ritorno : 11 secondo è che invitando noi a pacificarvici, niente
dichiarate le condizioni compiacevoli o giuste su le quali possiamo ciò fare :
è poi ! ultimo che niente di quanto ci promettete sarà per essere stabile,
giacchè avete continuato a rigirarci e deluderci tante volte. Discorrerò di
ciascuna di queste cose, incominciando dai diritti ; giacché sempre dai diritti
si vuol comin- ciare sia che trattinsi le cose private, sia che le pub- bliche.
Noi dunque se ve ne abbiamo mai fatte, noi non chiediamo nè impunità nè
dimenticanza delle in- giurie. E non yorremo piò. rio starci a parte della
vostra città, ma dandoci in balia della sorte e dei genj che ci guidino, ci
fermeremo là dove .porta il destino. Ma se per colpa vostra noi siamo ridotti
alla condizione in cui ci troviamo ; e percpè non confes- sate che voi li quali
foste gli oltraggiatori, voi abbi- sognate anzi di perdono e di dimenticanza ?
Come dite di accordarci voi questa ; quando avreste a di- mandarcela ? Come
così vi magnificate quasi voi cal- miate lo sdegno verso di noi, quando
dovreste cer- care che noi verso di voi lo placassimo ? Cosi con- fondete la
natura della verità, così la dignità dei diritti pervertite ! Che poi non siate
voi gli offesi ma offensori; che voi beneficati tante volte e tanto dal popolo
per fondare la libertà e V impero, lo abbiate non bene contraccambiato ;
uditelo, e convincetevene. Io non parlerò se non di cose che voi sapete, e se
alcuna mai sarà falsa ; reclamate per gli Dei ve ne prego, non che stiate a
bada pazientando. Il nostro governo primitivo fu monarchico, e lo abbiamo
conservato per sette generazioni. In tutti que’ principati il popolo non fu mai
conculcato dai re, specialmente dagli ultimi. Anzi lascio di dire che derivò da
quel dominio molti e segnalati vantaggi; . a8g impemcchè per obbligarlo a
sestessi e console porgeva al popolo, noi non più memori verso di voi dei mali
antichi, noi pieni di lusinghiere speranze per f avvenire, ci dedicammo tutti a
voi stessi; e dissipate in poco tempo tutte le guerre, tornammo con seguito
folto di schiavi e di prede bellissime. E voi, ne avete voi dato ricompense
giuste, o degne de’ pericoli ? ma quando mai ? troppo lungi ne siamo. Anzi ne
avete tradito le promesse che imponevate al console di farci a nome del co-
mune. E quest’ uomo bonissimo, del quale abusavate per deluderci, lo avete .
questo privato del trionfo, quando degnissimo ne era più che tutti i mortali.
Nò già per altra cagione così ancor lo spregiaste, se \ non perchè vi dimandava
che adempiste le pro- messe, e perchè sdegnato mostravasi che ci bef- faste.
Ultimamente ( vi aggiungo questo solo intorno al diritto, e finisco ) quando
gli Equi, i 5a- bini, i Volsci insorsero di comun voto, e concitarono ancor gli
altri, non foste ridotti, voi venerabili e gravi, a ricorrere a noi negletti e
vili, colmandoci di promesse per iscamparvela ? e non volendo parer d’
ingannarci come altre volte, trovaste per coprir la impostura questo Mania
Falerio, uomo amantissimo della plebe. E noi credendogli come a uomo dal quale
non saremnw traditi perchè dittatore, ed ami- cissimo nostro f ci consociammo
novamente a voi per questa guerra, e vincemmo i nemici con ‘ battaglie non
poche, nè pieciole, nè ignobili Ridotta la guerra a bellissimo fine prima
ancora delle sperante comuni, tanto foste alieni da renderne grazie, e ben
copiose al popolo, else cercavate ritenerlo anche senza voglia, sotto le
insegne e fra V armi, per trasandar le pro- messe, come trasandarle destinavate
fin dal princi- pio. E non tollerando il valentuomo la beffa, nè la infamia
delV opera, e riportando in città le bandiere, e rilasciando tistti per le
proprie case ; voi, presone motivo onde non far la giustizia, ingiuriaste lui,
nè serbaste a noi veruna delle convenzioni con tre abusi gravissimi, perchè
profanaste la maestà del Senato, annientaste il credito di un tal uomo, e
rendeste inutile cC vostri benefattori il merito delle fatiche. Omj potendo noi
dir queste e simili cose non poche, non abbiamo o Patrizj voluto piegarci (die
umiliazioni ed alle preghiere, nè accettare come i rei di gravissime colpe, il
ritorno su la obblivion del passato. Seb- bene, essendoci noi qui riuniti per
concordare ; non dobbiamo ora investigare pià sottilmente queste cose, ma
vociamo trascurarle e dimenticarle, • e tener- cele. Che non dite voi dunque
palesemente a qual fine siete qui deputati, e qual cosa venite per chiederne ?
Su quali speranze volete in città ricon- durci ? Qual sorte abbiamo a prendere
per guida del nostro ritorno ? Qual giubilo, quale benevolenza ci aspetta ? Fin
qui non abbiamo punto ascoltate esibi- zioni umane e benefiche, non onori, non
magistra- ture, non sollevamento dalla indigenza, nè altre cose qualunque,
sebbcn tenuissime. Quantunque non dovea già dùcisi ciocché siete per fare, ma
ciò che fate, perchè sperimentandovi subito benevoli nelle opere vostre, vi
argomentiamo ancor tali per l’ avvenire. Ma io penso che voi risponderete a ciò,
che voi siete qui plenipotenziari, e che qualunque^ cosa ci persua- deremo a
vicenda, sarà stabilita. Or_ sia ciò vero; e ne sieguano conformi gli effetti ;
niente vi contraddico. Bramo però sapere le cose che da loro ci si faranno dopo
queste. Vale a dùe, quemdo avremo noi detto su quali condizioni vogliamo il
ritorno ; e quando ci saran concedute ; chi ci sarà di esse - mallevadore ? Su
quale sicurezza deporremo le armi, e metteremo le nostre persone di bel nuovo
nelle lor mtmi ? Su quella forse dei decreti che si faran dal Senato, non
essendovene ancora ? Ma qual cosa mai impedirà che annullino questi con altri
decreti, quando così paja ad Appio e ad altri che pensan com’ egli ? Con^
teremo forse su la dignità dei deputati che ne por- gono in pegno la fede loro
? Ma prima ancora ci han deluso colla interposizione di tali uomini. Riposeremo
forse ne trattati fatti innanzi agV Iddj, e confermati da loro co' giuraménti?
Ma io temo di ogni fede umana consimile, vedendola da quei che comandano
vilipesa. E so, nè già ora per la prima volta, che i trattati forzosi tra chi
brama esser libero e chi vuol dominare han vigore soltanto finché la necessità
così porta. Or quale è queir amicizia e quella fede nella quale siamo costretti
ad ossequiarci contro voglia, insidiando t uno il tempo dell' altro ? Allora
inces- santi i sospetti e le calunnie; allora le invidie e gli od] ed ogni
maniera di mali: allora la gara di preoc- cuparsi a distruggere V emolo ;
riuscendo ogn indugio a mal termine. Non vi è, come tutti sanno, guerra più.
trista della civile : questa i vinti fa miseri, ed in- giusti li vincitori : e
li 'vinti han dagli amici i lor mali, i vincitori agli amici li causano. Or voi
dun- que o Patrizi vogliate chiamar noi a pari cir- costanze, a pari bisogno
non desiderabile ; e noi o plebei non ci rendiamo loro mai più: ma come la
sorte ci ha divisi, così teniamoci in calma. Abbian pur essi tutta Roma, senza
noi se la godano, e ne raccolgano soli ogni bene, essi che han ridotto fuor
della patria noi miseri, noi disonorati plebei. E noi andiamocene pure dove gt
Iddj ei guidano, conside- rando che non la nostra ma t altrui città lasciamo.
Niuno di noi qui lascia non campagne proprie, non abitazioni paterne, non
sacerdozi, non ‘ magistrature comuni come in sua patria per t esercizio delle
quali siavi ritenuto pur contro voglia ; anzi nemmeno la- sciammo qui per noi
la libertà, quella che ci ave- vamo colle arme e con tanti travagli acquistata.
Im- perocché parte i nemici, parte la miseria quotidiana, parte V alterigia
degli usurieri ci han guasto e con- sunto e tolto ogni cosa : tanto che noi-
miseri eravamo ridotti a coltivare le terre di questi zappando, pian- tando,
arando, pasturando, divenuti conservi degli schiavi loro da noi presi colle
arme; e chi di noi portavamo catene alle mani, chi ne piedi, chi nella cervice
finalmente, come fere intrattabili. E qui non ricordo le ferite, gli
avvilimenti, le battiture, le fa- tiche da notte a notte (i), ed ogni altra
sevizia, e non le ingiurie, e non C orgoglio che ne abbiam so- stenuto.
Liberati, la Dio mercè, da tanti e sì gran nudi, fuggiamo ben contenti quanto
possiamo e sap- piamo, e prendiamo per. duci della fuga la sorte e gl’ Jddj li
quali veglian per noi, considerando come patria nostra la libertà, e la virtù
còme nostrà ric- chezza. Ogni popolo nè, ammetterà, sì perchè non molesti, come
perchè utili a chi ne riceve. E ci siano in ciò' di esenqtio molti Greci, (i)
Dal tempo prima dell’alba fiuo a aera. e
molti barbari, e principalmente gli antenati tii quelli e di noi. Gli antenati
nostri passando con Enea dal£ Asia nelC Europa fondaronsi nel Lazio una patria
: e poi spiccandosi da Alba sotto gli au» spicj di Romolo che guidava la
colonia, pigliarono sede ne' luoghi appunto abbandonati da noi. Abbiamo noi
forze non già poco maggiori che essi, ma tripli- cate, e celione molto più
giusta di trasmigrare. Quelli partivan da Ilio perseguitati da nemici, e noi di
quà dagli amici : e ben è più misera cosa essere espulsi dai domestici, che
dagli estranei. Quei che a Romolo si ligaroho per compagni trascurarono la
patria per cercare terre migliori : ma noi lasciamo un vivere senza città, un
vivere senza case paterne quando re- chiamo la colonia : e certo la rechiamo
non odiosa agl Idàj, non molesta agli uomini, nè gravosa a terra niuna ; non
rei' del sangue e della strage de’ cit- tadini che ci han discacciati, non rei
del ferro o del fuoco messo ai campi che abbandoniamo, nè di altro monumento
qualunque fondatovi di eterna inimicizia; come spinti da necessità sconsigliata
rei se ne fanno i popoli traditi nett aUeanza. Noi chiamati in testi- monio i
genj e gl' Iddj che guidano con giustizia le cose mortali, e lasciandQ'che essi
prendano per noi la vendetta, abbiamo chiesto unicamente di riavere i nostri
teneri figli, i (secchi Padri, che in città si ri- masero, e le mogli in fine,
se alcune pur vogliono dividere con noi la nostra sorte. Contenti di ricevere
questo, non altro dimandiamo da Roma, E voi tanto impolitici f tanto
insocievoli verso de' miseri, vivete felici, e come più desiderate. Appeaa
Bruto ebbe ciò '' detto si tacque. Parve agli astanti tutto vero quanto disse
intorno ai diritti, e quanto per accusare la superbia de’ senatori,
principalmente quando dichiarò che la semplicità dei patti era tutta piena d’
intrico e d’inganni: ma quando infine delineò gli alTronti che aveaoo patito
dagli usucierì, e ciascuno ricordò li suoi mali ; niup v* ebbe sì fermo di
animo, che non si desse a piangere, e lamentare i danni comuni. Nè
impietosirono già sol essi, ma fino gl’ inviati dal Senato. Non poteano que’
seniori conte- nere le lagrime, pensando la calamità per la separazione de'
citudini : e rimasero gran tempo tra 1’ afflizione, e tra ’l pianto senza
sapere ornai che più dire. Cessali gli alti gemiti, e tornato il silenzio nell’
adunanza, proce- cedelte per farvi le difese Tito Largio autorevole sopra tutti
i citudini per anni, e per dignità, come lui che due volte console, e già
rivestito della ditutura, avea con esercitarla bene più che gli altri, renduu
venera- bile, e sanu una carica altronde odiata. £ datgsi a par- lare sopra i
diritti, e ulvolta incolpando gli usuraj per- chè aveano operate cose durg, e
disumàne ; talalira rimproverando i poveri come non giusti nel' chiedere che si
rimettessero ad essi i debiti per forza anzi che per grazia, e nell’
esacerbarsi col Senato piuttosto che con quelli che impedivano che
si'ccmcedesse loro alcuna cosa anche moderaU; e dippiù tentando mostrare cl^e
pic- ciola era la parte del . popolo, .ingiuriosa suo mal grado, e necessiuta a
dimandate per la igopia gravissima la condonaeione dei debiti, ma più grande
assai la parte la quale esigeva ciò perche viveasi scorretta, insolente,
voluttuosa, e preparata a supplire co’ furti alle sue pas- sioni, talché '
doveansi ben distinguere i poveri dai ri- baldi, quelli che erano da compatire
da quelli che erano da odiare ; ed aggiungendo in (ine discorsi consimili, veri
si ma non grati generalmente; non soddisfece tutta la udienza. Dond’ è che
sorsene strepito grande di voce, altri sdegnandosi . quasi rincrudisse loro gli
affanni, ed altri confessando che dicea pur troppo il vero. Ma per- ciocché gli
ultimi erano assai minori di numero, scom- parivano tra la moltitudine degli
altri, e prevaleano soprattutto i clamori degli adirati. À queste cose ne
aggiugnea Largio poche altre su la partenza e precipitanza loro, quando ripi-
gliando la parola Sicinio il capo del popolo ne riaccese assai più lo sdegno
con dire : che ben poleano da un tal parlare, comprendere quali onori e quali
ringra- ziamenti ne avrebbero, se tornassero nella patria. Se quelli che slansi
nel colmo de’ pericoli, ed abbiso- gnano del braccio del popolo, e per questo a
lui vengono, non san trovare nemmen ora discorsi mo- derati ed umani; qual
animo dee credersi che avranno quando siano .le cose riuscite loro secondo il
disegno, e quando chi offendono ora colle parole, sia sotto- messo loto ancora
nelle opere ? Da quali insolenze mai si conterranno ? da qual; flagelli, o da
quali tiranniche sevizie ? Se a voi dà il cuore, ei dicea, di servire tutta la
vita incatenati, battuti, straziati col ferro, col fuoco, colla fame, con ogni
guisa di maU; su, non perdete tempo,
gettate le armi, seguitateli. Ma se V è pure in voi desiderio di libertà ; non
pa- zientate ornai più. Ambasciadori ! o dite su quali corti- dizioni ci
richiamate ; o partite daW adunanza ; per- chè non lasceremo più che vi
parliate. E qui tacendosi lui, tutti gli astanti ne strepitarono, acclamandolo,
perchè area detto a propo- sito. Restituitasi quindi la calma Menenio 'Agrippa
il quale areva interloquito in Senato sul popolo, e pro- posto e fatto
principalmente che gli s’ inviasse un’ am- basceria plenipotenziaria, fe’ cenno
di volere aneli’ egli discorrere. Riuscì la richiesta gratissima ; e parea come
r augurio che udirebbe nsi allora Analmente condizioni giuste, e salutevoli ad
ambe le parti. E subito escla- marono tutti a gran voce, che parlasse. Poi si
chetaro- no, e si profondamente, quasi fessevi solitudine. Parve uu tal uomo,
com’ era verisimile, assai persuasivo nei suoi discorsi, e tutto confacevole ai
voleri della udienza: è' fama però che in ultimo proponesse una tal favola sul
gusto delle Esopiane espressivissima delle circostanze, e che con questa
principalmente li guadagnasse. Dond’ è che la favola fu creduta degna di
ricordanza, e rap- portasi io tutte le storie antiche. L’, aringa di lui fu
questa : Popolo, noi veniamo dal Senato a voi, non per difendere lui, nè per
accusarne voi: nè già pormi che il tempo ciò chieda, nè che ciò sia
prosperevole per la sorte della .repubbUca. Ma noi veniamo con tutto f ardore e
V efficacia per 'levar le discordie, e rimettere la > repubblica nel 'buon
ordine primitivo^ rivestiti per ciò fare di^ un potere assoluto. Pertanto non
pensiamo che,sian ora da esaminare i diritti > come fece con orazione
lunghissima questo Giunio ; pensiamo piuttosto che debbansi con gli amorevoli
modi ricongiunger gli spiriti. Qual fede sia poi per garantire le nostre
convenzioni, ve lo esporremo, appunto come ne cibiamo deliberato. Considerando
noi else le sedizioni si curario in ogni città col to« gliere i semi delle
discordie, abbiamo giudicato ne» cessarlo di conoscere e spegnere le cause
produttrici della divisione. Or trovando noi che le esazioni dure de’ presuli
sono la origine de’ mali presenti ; così le correggiamo. Decretiamo che quanti
soggiacciono a debiti, nè possono estinguerli, ne siano del tutto as- soluti.
Decretiamo Uberi tutti, quanti son detenuti per aver differite le paghe oltre i
tempi legittimi, e de- cretiamo liberi infine quanti furono in mano conse-
gnati dei creditori per sentenze speciali di giudici^ annullando noi queste
totalmente. Cosi ripariamo ai contralti precedenti tenuti come causa della
sedizione: ma quanto a centratti avvenire facciasi come ne or- dinerà la legge
che sarà costituita da voi, da tutto il popolo, dal Senato. Dite, non erano
queste le cose che vi alienas>ano da’ Patrizf ? Non giudicavate voi che
sareste conienti, e che altro di più non brame- reste, se le impetravate Oggi
vi si concedono ; an- date, tornatevi' gittiilando alla patria. I riti poi- che
convalideranno ed assicu- reranno questi trattati saran quelli appunto delle
leggi, usati nel depórsi delle inimicizie. Il Senato appro- verà pur egli
questi trattati ^ e darà loro forza di Digilized by Google 3o2 delle Antichità’
romane leggi quando scritti gli avremo. Anzi schiviamoli qui noi come ne piace
; ed il Senato vi sarà sottomesso. E che questi si rimarranno indelebili ; che
il Senato non potrà mai sopraggiungervi nulla in contrario, noi qui deputati,
noi li primi ne facciam garanzia sul corpo, e vita, e stirpe nostra, e con noi
pure ve ne fan garanzìa li senatori che firmeranno il decreto. Imperocché mai,
ripugnandovi noi si decreterà cosa niuna contro del popolo ; giacché noi -siamo
li primi del Senato, e noi li primi a dichiarare i nostri pa- reri’. ven farà
da ultimo garanzia la fede comune atutti i Greci, e a tutti i Barbari, quella
che niun tempo mai potrà cancellare, quella che con giura- menti, e libagióni
rende i Numi vindici degli accordi, e su la quale chetaronsi tante, e non
picciole nimi- cizie de’ privati, e tante guerre di repubblica con re-
pubblica. Or questa fede ricevetela ancora voi ; sia che vogliate permettere a
noi, pochi si, ma capi del Senato, di giurarvi a nome di questo,^sia che vo-
gliate che tutti i Padri sottoscrivano *e giurino con rito santo di serbarvene
i patti inviolati. E tu, o Bruto, non incolpare il pegno delle destre, non le
libagioni, non la fede data invocandone i Numi, né togliere tali espedienti
bellissinii degli uomini: e voi non vogliate tollerare che costui ricordi le
promesse tradite dai scellerati e dai tiranni, da quali tanto è lontana la
virtà de’ Romani. Or lasciate, che io soggiunga (e terminò) una cosa non
ignorata i fiè controversa da rtiun dei/ mortali. Ma quale è mai questa? Essa
importa >'t utit colmine, . e saU/a le parti f una colt altra : essa è r
unica e sola che ci raccolse già tutti in un corpo, e che mai farà separarci.
Abbisogna, nè mai cesserà di abbisognare la moltitudine imperita di sas>j
che la dirigano ; come un complesso di savj idonei a dirigere abbisogna di chi
lascisi governare. Nè ciò per imma- ginazioni sappiamo, ma per esperienza. Che
dunque ci riduciàmo a tremare brigandoci gli uni con gli al- tri ; o che ci
logoriamo in triste ^parole ; essendoci facilissimo tornare alt utile nostro ?
Che dunque non ci espandiamo, ed abbracciamo, e voliamo (dia pa- tria, aUe
antiche delizie, agli oggetti di tanti dolcis- simi e soavissimi nostri
desiderj ? A che cercare im- possibili assicw'ozioni? A che fidanze malfide^
come in guerra nemici fierissimi che in tutto sospettano il peggio ? A noi, o
plebei, a noi membri del Senato, basta la sola vostra parola, clte non sarete
se tornate iniqui con noi: e perchè ? perchè sappiamo il vostro buon
allevamento, la istituzione legittima, e le altre virtù che avete in guerra ed
in pace dimostrate. E se i contratti oggi ottengono a nome del comune una
riforma, così dimandando la fedeltà, così la speranza, degli uni verso degli
altri ; teniam certo ancora che siano per corrispondere in voi le altre buone
doti : e niente da voi cerchi (uno ^i giuramenti, niente gli ostag- gi, nè
altro pegno qualunque di sicurezza ; nè però mai contrarieremo le vostre
dimande. Ma ciò basti su la fedeltà intorno • la quale Bruto c incolpava. Che
se in voi resta aricora alcuna, invidia non degna, che vi àccita a pensar'
pravanten^s del Senato •, io dùò pur. di questa : e voi attenti, in calma,
ascoltatemi o plebei. 1 ' Somiglia ad un corpo umano una repub- blica :
perciocché l uno e t cdtra risultano da più par- ti ; nè ciascuna delle parti
in essi ha forze eguali, né porge un uso medesimo. Adunque se le membra del
corpo umano ricevessero tutte, come il senso, la voce, e poi nascesse discordia
fra loro congiurandosi tutte le altre ad una ad una contro del ventre, e, li
piè si dolessero che il corpo intero poggia- su loro, le mani che solo esse
traltan le arti, procacciano il ne- cessario, combattono co’ nemici, e pongono
molti t^ri beni in comune-, gli omeri perchè p'orVan essi ogni peso, la bocca
perchè parla, la testa percitè vede, perchè ode, e perchè comprende tutti i
sensi onde il complesso vive del corpo ; e se quindi dicessero, or tu buon
ventre fai tu niuna di queste cose ? quale riconoscenza, qual utile tu ci
rendi? Anzi tanto sei lon- tano dal cooperare e dal compiere con nei alcun
utile comune ; che ne impedisci e conturbi, e quel che è più intollerabile, ci
necessiti a servirti, e portarti di ogn intorno quanto ti sazj negli appetiti
tuoi. Orsù; chè non ci rendiamo noi liberi, nè cessiamo dalle cure che .in
grazia di lui sosteniamo ? Se così piacesse loro, se nhtna parte più fornisse
le proprie funzioni-, or potrebbe il corpo a lungo 'sussisterne ? Anzi in pochi
dì consumerebbesi dsdla fame, pessimo fra tutti i mali ; e niuno può dirne il
contrario. Or concepite pure altrettanto di una repubblica. Compiono questa
molti generi di persone niente, infra li>r,sornigUanti'; e ciaicùno le porge
un uso proprio di lui t come le nsembra lo porgono al corpo. Chi coltiva i
campi f chi pe' campi combatte co' nemici : chi ne reca assai beni tr^Jicando
pe' mari ; e chi travaglia in su le arti necessarie. Se ciascun genere di
queste persone- insorga contro il Senato, che è l’ ordine degli otti- mali, e
dica ; qual cosa, o Senato, tu ci fai di be- ne ? e per qual causa, non
avendone tu alcuna; vuoi, comandare su- gii altri? Non ci terremo una volta da
questa tirànnide tua ? nè vivremo indipendenti ? Se con tali pensieri si
levasse ognuno dalle usate incombente ; cosa impedirà che una tale sconcia re-
pubblica miseramente- perisca per la fame, per la guerra, per ogni male ?
Istruiti dunque, o voi del popolo, che come ne' corpi nosU'i il ventre accusata
a torto da molti, nudrito nudrisce, conservato con- serva ; e quasi uim
dispensa universale, porge ad ogmino il' suo bene, e la sussistenza in un tutto
; così nelle repubbliche il Senato che matteria il co- mune e provvede a
ciascuno V utile suo, tutto salva e custodisce e dUrige ; cessate di lanciar
contro lui voci ccUunniose, quasi per lui siate fuori della pa- tria, e ne
andiate raminghi e mendici. Il Senato non volle mai questo, nè farawelo : anzi
vi chiama, evi supplica, e vi stende le mani, e vi spalanca le porte, e
raccoglievi. Intanto che Menpnìo concionava, sorgeano ad ora ad ora voci varie
e molte da^i astanti. Ma pai> chè sul fine del suo ragionatiteoto si diede a
comma» veri!, e 'deplorare le disgrazie e la sorte immiucnle su DlOUtai, lomo
II. a* di ambedue, su quelli rimasi in città e su gli altri che ne erano usciti
; si misero tutti a piangere, ed unanimi ad una voce gridarono che li
riconducesse alla patria, né più s’ indugiasse. E poco mancò che partissero
tutti a furia dall’ adunanza ; rimettendo ogni cosa ai deputati senea brigarsi
più oltre della sicurezza. Se non che Bruto facendosi innanzi ritardò l’ impeto
loro, dicendo : che erano pur buone per quei del popolo le promesse del Senato,
e chiedendo che grazie appieno gli si ren- dessero per le cose a loro
concedute. Aggiungeva an- cora di temere per l’ avvenire che uomini una volta
oppressivi, si dessero, venutone il tempo, a ricor- dare, e punire le cose
operate dal popolo. Jtimanervi una sicurezza sola per quelli che temono questo
dagli Ottimati, cioè quella di rendere indubitato che, se vogliono, non posson
piii offenderli. Finché sta in essi il poter danneggiare, non mancheran de mal-
vagi che il vogliano. Pertanto se il popolo ottenga tal sicurezza ^ -non altro
resteragli da chiedere. Ripi- gliando Menenio, ed invitandolo a dire qual
sicurezza pensava che al popolo bisognasse, concedeteci, disse, che noi ci
scegliamo ogni anno dall' ordine nostro alcuni magistrati i quali non siano ad
altro autoriz- zati che a proteggere gli oltraggiati, e gli oppressi nel popolo,
nè lascino che alcimo sia defraudato de' suoi diritti. Alle^ cose accordateci
aggiungete in grazia ancor questa, ve ne preghiamo, ve ne suppli- chiamo, se la
pace esser dee non in parole, ma in fatti. . 11 popolo udendo un tal dire lo
accompagnò con grandi e lunghe acclamazioni, raccomaiidau* dosi ai deputati che
gli concedessero anche questo. I deputati ritirandosi daU’adunanza, e
conferendo alquanto in fra loro, vi ritornarono dopo jion molto. Taciutisi
tutti, Menenio fattosi iunanzi disse : La dimanda è grande e piena o plebei di
enormi sospetti. A noi viene timore ed ansietà che non abbinasi a fare due
città di una sola. Quanto è da noi, nemmeno in ciò vi ci opporremo, or voi
compiaceteci (tende anche (Que- sto al ben vostro ) date a tre deputati che
tornino in Aonuif e narrino al . Senato la richiesta. Non ci arr roghiamo noi
di risolverne > quantunque abbiamo da esso U potere di concordare come ne
piace, arbitri in tutto di prafnettere.. Siccome il caso che ci occorre è
inaspettato e nuovo ; così ce ne riportiamo ai Pa- dri, quasi in esso V
autorità ci si limiti. Ci persua- diamo, pelò ‘ che essi ne sentiran come noi.
Frattanto io qui resto >, e con me parte dei deputati. Valerio e gli altri
onderanno. Stabilito ciò gl’ incaricati d’ infor- mare il - Senato spronarono i
cavalli alia volta di Roma. Proponendo i consoli in Senato la richiesta;
Valerio opinò che si concedesse. Appio, nimico Gn da princi- pio di ogni,
accordo, contraddisse anche allora chiaris- simameute, esclamando e rilevando,
chiamatine in te- stimonio i Numi, i germi dei mali che impiantavano alla
repubblica. Non però convinse la pluralità, desi- derosa, come ho detto, di
.spegnere la discordia. Adun- que il Senato autorizzò con suo decreto lè
promesse dei deputati ai popolo, come pure che gii accordas- sero la sicurezza
che dimandava. Fatto ciò tornando il giorno ap|>resso i deputati nei vi
eapoM0a4.";^HH Ieri del Senato. Quindi esortando ' Menenio- U'^poii^lD
d’inviare alquanti a’ quali il Senato desse la Sull' ftdé ; fu spedito Lucio
Giuùo Bruto, del qnale abbiÀtt'i^no di sopra, e Marco Decio, e Spurio Icilio
con esso. Andò metà dei deputati compagna di Bruto in Roma. Agrippa, pregatone,
si rimase nel campo, per istender la legge a norma delia quale il popolo
creerebbe i suoi magistrati. 'Nel di seguente Bruto rìlortiò già fatti i patti
col Senato per mezzo de’ Feciali, che cfaia> mano. Divisosi allora il popolo
in Fratrie, * come ah tri qui nominerebbe quelle che essi dipono Curie,
dichiarò suoi, magistrati dell’ anno Lucùr Gìnnio Bruto, « Cajo Sicinio
Belluto, 6 no a > quel di loro capi, e con essi ancora Ca}o e Publio Licinio
ì e Cap Icilio Ru- ga (i). Assunsero questi cinque- i primi' la^ potestà tribu-
nizia, quattro giorni avanti le idi di ’decembre {%), CO 7 me pur nel mio tempo
si pratica. Firttterle ’eiéEÌoni'parve a’ deputati del Senato, adempito l’
intento della loro mis- sione. Ma Bruto, convocata l’ adunanza ' del popolò,
con- sigliò che dichiarassero i suoi magistrati Santi ed: invìo- (1) Lìtio,
Dionigi, ed altri storirn antichi non ben si accordano sn la nomina di questi
magistrati. Livio dice che i due i primi no- minati furono Cajo Licinio, e L.
Alhiud . e che questi poi si scef- aero tre colleglli tra quali fiv Sicinio V
autore delia seditìone. -Ma^ Dionigi pone per primi Lucio. _Giunio Bru^o, e C.
Sicinio Bellirto : a quindi C. e Fuhiio Liciuro, e C. Icilio Ruga. (3) Anni di
Roma 361 secondo Catene, s63 aeeondo Varrona, a 491 avanti Cristo. . 3o9 labili
slabilenilone la sicurezza colle leggi e co’giiiramenti. Piacque ciò a tutti, e
si fece su lui e su collcghi la legge : che niuno forzaste un tribuno ) come un
altro qualunque a far mai cantra sua voglia ; ni lo bat- tette, ni lo uccidesse,
né ordinasse ad altri di bal- te rio, o di ucciderlo. Che te alcuno a dà
contravvenga anche in parte ; itane reo capitale ; se ne diano a Cerere -i beni
: e chiunque lo uccide, abbiasi coma puro dalla strage. E perchè non si potesse
mai più far cessare questa legge, ma restasse immobile iu ogni ar« venire ^ si
stabili che ì Romani giurassero tutti co’ riti santi dì osservarla ' essi, ed i
posteri loro perpetuamente.E si aggiunse ai giuramenti la preghiera, che gli
Dei superni, ed inferni fossero propizj a' chiunque favoriva la legge, ma
contrarj a quanti la violavano, come coo- taminati di delitto gravissimo. Da
indi sorse ne’ Romani il-cosWme che persevera pur ne’ miei giorni, di riguai^
dare le persone de’ tribuni come sacrosante. XC. Concordato dò, fecero un
aitare su le dme della montagna ovo s’^erano accampati, e lo denomina» rono
nell’ idioma, loro, l’altare di Giove la cito su la fiducia di respingere i
nemici che si avan* zavano ; ma costretti bruttamente a fuggire^ prima di dare
alcuna nobile prova, nemmen fecero punto di ger nevoso combattendo poi su le
mura. Adunque i Ro> mani in un sol gioruo s’ impadronirono sehzà tere dei
lor territorio, e, ne presero a forza la citti, nè con molto travaglio. Il
comandante Romano concedè ' . .. 'V (t) Vuoi' (lire Edile. Era qacsto vócaboìo
proprio d«’ RoroasK' che le miline si approp lasserò le robe invase; e presi»
diala la città, ne andò col resto deli’ esercito contro l'altra città de’
Volsci, chiamata Polusca, non molto lontana da Longola. Nè osando alcuno di
uscirgli in- contro, percorse facilissimamente U campagna, e ne investi le
maia. E datisi i soldati, chi a spezzare le porte, chi a scalare le mura ed
ascenderle; Polusca anch’essa fu presa nel giorno medesimo. Il console scel-,
tivi alcuni pochi, autori della ribellione, li fe’ morire : e multati gli,
altri in danari, e spogliatili delle arme; gli astrinse a dipendere in avvenire
dai Romani. Lasciato anche in guardia di
Digitized by Google 3aa Delle antichità’ romane ni. Volgendo la
olimpiade sessantesima quarta, in-' tanto che Milziade 'era arconte di Atene, i
Tirreni dei contorni del golfo Jonio, cacciati poscia di là dai Galli, e gli
Umbri con essi, e li Dauuj, ed altri barbari in copia tentarono distruggere
Cuma, Greca città tra gli Opici fondata dagli Eretrj e da’ Calcidesi (i), senz’
al- tra vera cagione, se non che ne odiavano la prosperità. Imperocché Cuma
famosissima di quei tempi in tutta r Italia per la ricchezza, per la potenza, e
per molti altri beni, avea le terre le più fruttuose della Campa- nia, con
porti utilissimi presso al Miseno. Invidiandone i barbari il si gran bene, le
mossero incontro con di- ciotto mila cavalli e con cinquecento mila fanti (a),
e non meno. Accampatisi questi non lungi dalla città surse un portento
meraviglioso, quale non ricordasi accaduto mai nè tra’ Greci dovunque, nè tra’
barbari. I fiumi che scorreano presso gli alloggiamenti ( Volturno no- minavasi
1’ uno, e l' altro il Ciani (3) ) lasciando lo (i) Gli Eretrj ed i Calcidesi
erano popoli dell’ Eukea o Ne^o* ponte. Elrelrìa era distante venti miglia da
Calcide. Vi erano dus altre Eretrie. Vedi tom. i, la not. al S 4^» parla della
prima. (a) Par troppo torrente contro di una città : forse vi à d>aglio nei
numeri . (3) Vi sono altri lìami di pari nome. Questo à quello additato da
Virgilio 1. a, Georg., Vicina Veitvo Ora jugo,el vaeutt Ctanius non aeqmt
acervis. Antonio Boudrand: (vedi novum Lexicon Geographic.) chiama que- sto
fiume Agno ; e dice che passa presso di Acerra, di Aversa e Mintomo. Forse il
Ciani h quello stesso fiume che ora chiamasi JPatria nelle catte geografiche scendere
lor natarale » si ripiegarono, rifluendo gran tempo dall’ imboccatura alle
fonti. Vista la meraviglia, fecero core i Cnmani di piombare su’ barbari, come
se i Numi fossero per deprimere l’altezza di quelli, e per sublimare loro che
depressi ornai ne pareano. Pertanto dividendo in tre corpi la gente militare,
con uno guaiw darono la città, con altro le navi, e coi terzo, «:hie- ratoio
avanti le mura, aspettarono l’ inimico che inoU travasi. Seicento erano i
cavalli Cumani, e quattro mila cinquecento i fanti : pure si pochi di numero
tennero fronte a tante migliaja I IV. Ck>me i barbari seppero che eransi
appareo:hiati per combattere, dato un grido, coi*sero in barbara for> ma,
disordinati e misti, cavalli e fanfl, appunto per annientarli tutti in un
colpo. Il luogo, dove innanzi la città si affrontarono, era una valle angusta,
rinchiusa da lagune, e da’ monti, propizia al valor de’ Cumani, ma nemica alla
fdUa de’ barbari. Dond’ è che, travolgendosi e calcandosi questi, gli uni gli
altri in più luoghi, e principalmente su pel fango intorno la palude, si di-
strussero in gran parte fra loro, senza pur venire aUe mani colia Greca milizia
di Cuma : e quell’ esercito ap- piedi si numeroso, e disfatto, e sbaragliato da
sestesso, fini qua e là fuggitivo, senz’ avere operato nulla di generoso. Li
cavalieri però si avventarono, e molto tra- vagliarono i Greci : ma non potendo
circondar l’ inimico per r angustia del loco, e temendo i destini che com-
batteano per Cuma colle piogge, co’ tuoni, co’ fulmini, si diedero anch’ essi
alla fuga. In questa battaglia i ca- valieri Cumani militarono tutti
luminosamente, ricono- Digiiized by Google 3a4 delle Antichità’ bomane sciutine
quindi come autori della vittoria. Si distinse so»' pra tutti Aristodemo
cTiiamato Màlaco ; imperocché solo opponendosi, uccise il capitano nemico, e
molti valo- rosi. Finita la guerra porgeansi sagriGzj di ringrazia- mento ai
numi, e davasi magnifica sepoltura agli estinti in battaglia : ma quando si
ebbe a decidere a chi si dovesse la corona, come al più forte ; assai se ne di-
sputò. Li giudici più ingenui, e con essi anche il po- polo, voleano che ad
Aristodemo si concedesse ; ma i più potenti, e con loro tutto il Senato, ad
Ippo'me- donte, duce de’ cavalieri. Di que’ tempi era in Guma il governo degli
ottimati, nè molto il popolo vi potea : ma natavi sedizione appunto per tal
controversia, i se- niori temendo che tanta ambizione finisse colle armi e
colle stragi, persuasero ambedue li partiti di dar "pari onore all' uno e
all’ altro di que’ valorosi. Da quell’ ora divenne Aristodemo Malaco il
protettore del popolo : e poiché ‘si avea procacciato una persuasiva nei
discorsi di Stato, commovea con questa la moltitudine, allet- tando lei con
stabilimenti gradevoli, beneficando coll’aver suo molti ' de' poveri, e
rimproverando i potenti che si appropiavano ciocché era del comune. Dond’ é che
ne divenne ai primi degli ottimati molesto e terribile., V. Venti anni dopo la
battaglia co’ barbari vennero ambasciadori dalla Riccia co’ simboli di pace al
Cumani per supplicare che li soccorressero nella guerra contro i Tirreni.
Imperocché Porsena re di questi dopo la pace con Roma dando metà dell’ esercito,
come esposi ne’li- bri antecedenti, ad Arunte suo figlio, lo aveva inviato,
voglioso che n’era, ad acquistarsi un dominio : e costui di quel tempo appunto
assediava gli Arieini rifugiatisi tra le ;nura, sulla idea di prenderne tra non
molto la città colla fame. A tale ambasceria li primi degli otti- mati odiando
Aristodemo e temendo che non causasse alcun male al governo ; concepirono di
avere il buon punto di levarsel d’ intorno con delicate maniere.v Per- suadendo
il popolo a spedire due mila per soccorso de- gli Aricini, e nominandone
capitano Aristodemo come il più insigne nelle armi, fecero poi tal maneggio,
nde iusingarsi che colui perirebbe o per le battaglie co’ ne- mici, o per le
fortune di mare. Imperocché resi dal Senato arbitri di scegliere quei che
dovrebbero andare di rinforzo, non v’ inchiusero alcuno de’ più famosi e più
riguardevoli ; ma reclutando i più poveri e più scel- lerati .da’ quali aveano
sospettato sempre delle sommosse, ordinarono con questi l’ armata, e riducendo
in mare dieci navi antiche, pessime a correr le acque, e dan- done il comando a
Cumani poverissimi, ve la soprap- posero, con minacciare di morte chiunque ne
disertasse. VI. Aristodemo, dicendo unicamente che non igno- rava le mire degli
avversar) che in apparenza Io man- davano per soccorrere, ma in realtà per
farlo soccom- bere ; assunse il comando dell’ esercito. E facendo ben tosto
vela co’ deputati Aricini, e superando a stento e con pericolo il tratto
interposte, di mare, approdò sui lidi più prossimi dell’ Aricia. E lasciata
guarnigione sufBciente alle navi, e fatto nella prima notte il cam- mino il
quale vi restava, che certo non era lungo, si presentò su 1’ alba inaspettato
agli Aricini. Accampatosi presso di loro, e persuasi gli assediati di uscire
all’ aperto sfidò ben tosto i Tirreni a battaglia. Schieratisi ed attaccatisi,
gli Aricini resisterono piòciolo' teinpo, e piegarono e rifuggironsi in folla
tra le mura. Aristodemo però coi pochi scelti Gumani che avea d’ intorno, so~
Bienne tutto il forte della battaglia, ed uccisone di sua Diano il duce, mise
in fuga i Tirreni, riportandone una vittoria nobilissima. Ciò fatto, e
magnificato dagli Aricini con doni copiosi rinavigò speditamente verso Cuma
peressere egli stesso nunzio della vittoria. Teneano dietro a lui molte barche
Aricine colle spoglie e coi schiavi presi ai Tirreni. Avvicinatosi a Cuma e
messe a proda le navi, concionò tra 1’ armata. E molto accusando i capi della
città, e molto encomiando quelli che si erano se- gnalati nella battaglia, e
dispensando argento e parteci» pando a ciascuno i doni degli Aricini; pregò che
di tali beneficenze si ricordassero, quando sbarcherebbero nella patria, e lo
fiancheggiassero se mai gli ottimati gli creavan pericolo. Confessandosi tutti
obbligatissimi per la salvezza insperata che aveano da lui ricevuta, come
perchè tornavano colle mani non vuote in fami- glia ; e protestando che
darebbero a' nemici anzi sestessi che lui ; Aristodemo, rirtgrazionneli, e
sciolse 1’ adu- nanza. Quindi chiamandone al suo padiglione i più ma* liziosi e
prodi, e guadagnandoli tutti co' doni, co' bei discorsi, e colle spc>anze
lusinghiere, li fé* pronti a mutare il governo che vi era. VII. Presi questi
per ministri e per combattitori, istruitili parte a parte su ciò che avessero a
fare, e messi in libertà gli schiavi che conduceva per obbligarsi ancor essi,
viaggiò piò oltre colle navi coronate (i) 6no ai porti di Cuma. I padri e le
madri de’militari, tutto il parentado, i Ogli insieme e le mogli, venutili ad
in- contrare mentre scendevano a terra, lagrimavano, gli abbracciavano,. li
baciavano, li chiamavano con teneris- simi nomi. Tutto il resto della
moltitudine urbana rice- vette fra tripudj ed acclamazioni il capitano,
accompa- gnandolo fino alla casa. Di che dolenti i capi della cittò, quelli
principalmente che gli aveano affidato 1’ armata e ne aveano con altri modi
tramato la rovina, facean tristi colloqui su T avvenire. Aristodemo lasciati
decor- rere alquanti giorni onde rendere agi’ Iddj li suoi voti ^ e ricevute
intanto le sue navi da carico rimaste indietro, alfine venutone il tempo, disse
voler esporre in Senato le cose operate nella guerra e mostrargli le prede
ripor- tatene. Riunitisi in numero i primarj, ed i magistrati nel Senato, egli
fattosi innanzi prese a dire e narrare tutte le cose operate nella battaglia :
quando gli uomini apparecchiati da lui per 1* impresa, accorsi in folla nel
Senato co' pugnali sotto gli ‘ abiti, vi uccisero tutti gli ottimati. Si
diedero allora a fuggire e correre, chi alle proprie case, chi fuori delia
città, quanti erano al Foro, eccetto i complici del disegno, i qnali avevano
occupato la fortezza, il porto, ed ogni luogo monito delia città. Nella notte
seguente sprigionando quanti vi erano ( e molti ve ne erano ) dalle pubbliche
carceri, destinati alla morte, ed armandoli con altri suoi amici, tra* quali
(t) In segno della -riltoria riportala. G>si ae’trionfì ai coronavano ancora
LI FASCI erano gli Schiavi Tirreni, ne fece un corpo di guardia per la sua
persona. Fatto giorno, convocato il popolo a parlamento, ed accusativi a lungo
gli uccisi, disse che erano stati meritamente % puniti ; avendo per tante volte
insidiata a lui la vita : ma che, quanto agli altri .cittadini, egli darebbe
loro la libertà, la eguaglianza .dei diritti, ed altri beni copiosi Vili. Ciò
dicendo, ed elevando tutto il popolo a speranze meravigliose, stabili due
regolamenti, pessimi tra tutti i regolamenti ^ ed iniziativi di ogni tirannide,
io dico la nuova division delle terre e la remissione dei debiti. Figli
promettea provvedere su l’una e l’altra cosa, purché fosse eletto comandante
assoluto, finché il comune fosse in salvo, e v’ordinassero uno stato popolare.
Con piacere ud) la plebe e tutti i peggiori che avrebbonsi a ghermire i beni
degli altri: ed egli, avutone un potere indipen- dente, aggiunse un nuovo
decreto col quale deludendo ancor essi, alfine tolse a tutti la libertà.
Imperocché fingendo temere torbidi e sedizioni de’ nobili contro dei .plebei
per le assoluzioni dai debiti e per le divisioni nuove de’ terreni, disse che a
precludere una guerra ed un eccidio civile, trovava un solo rimedio, cioè che,
tutti prima di ridursi a tal male, recassero dalle loro case le arme, e le
consacrassero agl’ Iddj per averle nel bisogno pronte contro i nemici esterni
se ne venivano, e non contro sestessi: pertanto esser bonissima cosa che
stessero quelle presso de' Numi. Persuasi di tanto i Cu> mani ; egli nel
giorno stesso ebbe le armi di tutti, e negli altri appresso fe’ cercare le case
di • ognuno, \ic- cldendovi molti buoni, sul pretesto che non avessero portate
ai Numi tutte le armi. Dopo ciò fortificò la ti- rannide sua con tre generi di
guardie : il primo fu di que’ vilissimi e reissimi cittadini co’ quali tolse 1’
auto- rità degli ottimati : il secondo fu de’ servi indegnissimi renduti liberi
da esso perchè aveano trucidati i loro pa> droni : ed il terzo furono i
militari assoldati da’ barbari più inumani. Erano questi nommen di due mila, e
va- lidissimi più che gli altri nelle arme. Tolse le immagini degli uccisi da
ogni luogo sacro e profano supplendovi in vece loro le sue. Le case, i campi,
ogni avere di questi lo donò tutto ai complici suoi nel preparargli la corona,
riservando per sè l’ oro e 1’ argento, e quanto altro è base della tirannide.
Ma li doni più numerosi e più grandi li profuse tra gli assassini dei loro
padroni ; i quali chiesero perfino in moglie le donne e le figlie de’ padroni
medesimi. Quantunque però niente avesse in principio cu- rata la stirpe virile
degli uccisi, alfine si accinse a ster- minarla tutta in un giorno, sia che per
un qualche oracolo, sia che per computi verisimili concludesse che perpetuava
con questa a sestesso uno spavento non pic- colo. Ma perciocché vivamente nel
distoglievano quelli (i) presso a’, quali dimoravano i figli e le madri, egli
vo-lando concedere loro* un tal dono, gli assolvè, sebbene contro sua voglia,
dalla morte. Per cautelarsi però da loro sicché congiurandosi non .insorgessero
contro il suo regno ; comandò che uscissero tutti dalla città chi verso r uno e
chi verso l’ altro luogo : e vivessero per le (i) I Saidliti del tiraoDu alli
quali egli stesso le area mariiate campagne senza istruzione e coltura, propria
di liberi giovinetti, con pascer le greggi o con altri campestri esercizi,
minacciando di morte chiunque di loro in città fosse preso. Cosi quelli,
abbandonati I patri > so- steneansi come schiavi per le campagne, servendo
agli uccisori medesimi de’ padri loro. E perchè niente) pi& ci avesse di
virile o di generoso prese ad effeminare colle Istituzioni sue tutta la
gioventù Cumana, toglien- dole I ginnasi e gli esercizi militai, e variandone
le maniere già consuete del vivere. Volle che I giovani come le donzelle
nudrisser la chioma, e bionda la ri- ducessero e ricciasserla, e ricciata di
reti lievi la cii^ condassero ; e portassero toghe talari e ricamate, e clamidi
sottili e molli, vivendosi all’ ombra. Donne, educatrici loro, li
accompagnavano, recando parasoli e ventagli ai spettacoli di suono e danza e
simiglianti musiche dissolutezze: ed esse li lavavano, esse porta- vano ai
bagni i pettini, e gli alabastri con gli unguenti, e gli specchj. Con tal modo
ammorbidiva i giovani fino ai venti anni, concedendo allora che passasser tra
gli uomini. Ma egli che avea cosi vituperato e danneggiato i Cumani, egli che
non avea risparmiato loro nè im- pudenze, nè sevizie, egli alfine già vecchio,
quando si credea sicuro nella tirannide, Sterminato con tutti, i suoi, ne pagò
le giustissime pene ai Numi ed agli uo- mini. X. I prodi che insorgendo
liberarono la patria dalla tirannia di lui furono i figli de’ cittadini uccisi
: quelli che egli avea risoluto in principio di trucidare tutti in nn giorno,
ma che poi risparmiò, come ho detto, vinto dalle istanze de’ satelliti suoi,
maritati da lui colle ma- dri loro, comandando che abitassero per le campagne.
Pochi anni appresso viaggiando egli pel contado e ve- dendoli già adulti e
molti e floridi ; temè che non n congiurassero ed assalisserlo : e macchinò di
prevenirli ed ucciderli tutti prima che niuno se ne avvedesse. Adunque
consultandosene • cogli amici, deliberava con essi le maniere sollecite e piane
ma occultamente, onde spegnerli. Sepperlo que’ giovinetti per indizio forse di
alcuno che ne era consapevole, e, forse mossi da con» getture probabili,
fuggironsi ai monti, dando di piglio ai fèrri degli agricoltori. Corsero ben
presto in ajuto loro i fuorusciti Cumani rifugiati in Capua, tra’ quali erano i
più cospicui, e seguiti in gran parte dagli ospiti loro Campani, i figli d’
Ippomedonte, di quello che nella guerra Tirrena avea comandato la cavalleria.
Essi armati recavano a’ compagni le armi con una truppa non picciola di amici e
di mercenarj della Campania. Alfine riunitisi scorrevano e turbavano predando i
campi nemici, ritoglievano gli schiavi dai padroni, ed ogni altro qualunque
dalle carceri, e gli armavano, e quanto, non poteano trasportare o menar seco
lo davano alle fiamme, o alla mòrte. Ansio dubitava il tiranno come avesse a
combatterli, perchè nè sapeasi quando impren» derebbero, nè teneansi fermi
sempre in luoghi mede- simi, ma regolavano le loro incursioni o colla notte
fino all’ aurora, o col giorno fino alla notte. Avendo più volte spedito
milizie ma' indarno a guardia delle cani» pagne, a lui ne venne un tale degli
esuli malconcio di battiture, spedito ad arte da essi quasi un disertore.
Costui chiedendo la impunità promise al tiranno di guidare 1’ armata che
manderebbe con lui, nel luogo appunto ove quelli sarebbero nella notte
imminente. In- dotto il tiranno a credergli perchè non chiedea verun premio, e
porgea sestesso in ostaggio, spedi li suoi duci più fidi, seguiti da molli
cavalieri e da’ mercenari, con ordine di conduire a lui, legati almeno, i più,
se non tutti quegli esuli. Il disertore eh’ erasi a ciò posto menò tutta la
notte 1’ armata a disagi gravissimi per vie non trite e per boschi, in parti le
più lontane dalla città. Come i ribelli e l profughi posti per le insidie
intorno all’ Averno, monte vicino alla città, conobbero pe’segnali dati dagli
esploratori che l’armata del tiranno era uscita, mandarono circa sessanta i più
arditi di loro che cinti da irte pelli portavano fi)sci di sarmehti. Or que-
sti nell’ ora, quando accendonsi i lumi, chi per l’ una e chi per 1’ altra
parte entrarono, quasi opera), la città senza essere conosciuti; ed entrali
cavarono da’ sarmenti le spade che vi occultavano, e si raccolsero tulli ad un
luogo. Donde marciando in schiera alle porte che me- nano all’Averuo, ne
uccisero i custodi che dormivano, e spalancatele, v’ introdussero tutti i loro
che v’ eran già prossimi, nè per tanto il fatto ^ ravvisa vasi ancora.
Scontravasi per sorte in quella notte una pubblica festa, ond’ è che tutti
oziavano per tutto in città tra le bevande ed altri diletti. Or ciò diè loro gran
sicurezza di trascorrere tutte le vie che guidavano alla casa del ti- ranno : e
nemineu qui trovando nelle entrate molti, nè .vigilanti, ve gli uccisero senza
stento, oppressi dal sonno o dai vino : ed internatisi in folla trucidarono
nell’ abi- tazione, quasi una greggia, tutti gli altri, ornai pei vino non più
arbitri de’ corpi nè degli animi loro. Or qni preso Aristodemo, i figli, e
tutti i parenti, e battutili gran parte della notte, e torturatili, e
devastatili con ogni male, gli uccisero finalmente. Cosi sterminando dalle
radici quella stirpe di tiranni fino a non lasciarvi non fanciulli, non donne,
non consanguineo ninno ; e rintracciati tutta la notte tutti li cooperatori a
fondar la tirannide ; andarono, nato il giorno, nel F oro, e con* Tocatovi il
popolo, e depostevi le arme, renderono la patria a scstessa. Or questo
Aristodemo nel quartodecimo anno della sua tirannide in Cuma, questo vulcano
gii esuli compagni di Tarquinio cbe giudicasse tra loro e la pa- tria.
Ripugnarono alcun tempo i deputati de’ Romani, come quelli cbe nè erano a tal
fine venuti, nè avevano dal Senato i poteri per difendere ivi Roma. Non pro-
fittando però niente, anzi vedendo quel despota pro- pendere in contrario per
le brighe, e per le istanze degli esuli ; chiesero un tempo per le difese, e
deposi- tarono una somma per garanzia di eseguirle essi stessi. Ma poi nel
correre di questo tempo, quando niuno più vegliava su loro, fuggirono,
ritenendosi il tiranno gli schiavi, li giumenti, e li danari che aveano portalo
per comperare de’ viveri. Tali furono gl’ incontri di queste legazioni, e così
riuscì loro di tornarsene in patria seb- bene senza l’ intento. Ma la legazione
spedita neU’Etruria comperatovi miglio e farro lo trasportò su barche fluviali
a Roma, e Roma ne fu nudrita sebbene per
poco ; fiocbè consumatili, ricadde ne’ disagi medesimi. Non erari genere
di alimenti a cui non si rivolgesse. Dond’è che non pochi tra la scarsezza, e
la inconve- ' nienza de’ cibi non soliti, s’ avean male nella persona, o
diventavano a tutto impotenti, non soccorsi nella pcv- vertà. Come ciò seppero
i Yolsci domati di fresco, s’ isti- garono con vicendevoli occulti messaggi a
riprender le armi, quasi fosse impossibile che i Eomaui resistessero
bersagliali dalla guerra e dalla fame. Ma i numi propiz) che vegliavano perchè
non rimanessero in preda a’ ne- mici, ne dimostrarono allora più chiaramente la
prote- zione. Di repente si mise tra^Volsci una tal pestilenza, quanta non
leggesi mai stata in Greche o barbare terre, disfacendoli promiscuamente di
ogni età, di ogni fortu- na, di ogni temperamento, validi o invalidi. Mostrò
soprattutto gli eccessi del, male Yelletri, città insigne, de’ Yolsci, e grande
allora e popolosa. La peste appena ne rispailniò la decima parte, investendovi
e consu- mandovene le altre. Ond’ è che i superstiti a tanto in- fortunio,
mandati ambasciadori, e dichiarata a' Romani la loro solitudine, sottomisero fa
città. E siccome aveano prima ricevuto de’ coloni da essi ; ne chiedeano di
pre- sente ancor altri. XIII. Impietoùrono, sapendoli, ai loro mali i Ro- mani
; nè pensarono che si avessero a premere come nemici fra tanta sciagura, dacché
pagavano agl’ Iddj le pene per ciò che voleano fare su Roma. Piacque loro, di
riammetter Yelletri, e spedirvi numero non picciolo di coloni presagendone
sommi vantaggi. Parea che il posto, se presidiavasi acconciamente, sarebbe
ostacolo grande e ritardo a chiunqae si voleva rimescolare e sommoversi. E
concepivasi che la penuria di Roma non poco si scemerebbe se una parte notabile
di popolo al- trove si trasferisse. Inducevali soprattutto a spedire una
colonia la sedizione che vi si riproduceva, non essen- dovi ancora sopita in
tutto la prima. Imperocché il po- polo discordava un altra volta come per
addietro, e ne odiava i Patrizj : e molta era 1’ amarezza dei discorsi co'
quali accusavano la poca cura, e la scioperatezza di essi perchè non aveano a
tempo preveduta nè riparata la penuria futura, dicendo alcuni perfino che ad
arte aveano procurato la caresua per astio e desiderio di af- fliggerne il
popolo in memoria della ribellione. Per tali riguardi sollecitissima fu la
spedizione della colonia, de* slinativi dal Senato tre condottieri. Da
principio udiva il popolo con diletto che trarrebbonsi a sorte i coloni, perchè
sarebbe cosi levato dalla fame, e perchè vive- rebbe in terra felice : ma
poiché rifletté che la peste ge* aeratasi nella città che gli avrebbe a ricevere
aveva di- strutto i suoi cittadini, e temè che in tal modo ancora
maltratterebbe i coloni, variò poco a poco di sentimento. Tantoché non molò,
anzi meno assai che il Senato ne permetteva, esibironsi per la colonia : e
questi bentosto ne furon pentiti come sconsigliati, e scansavano di usci- re.
Da tale vincolo erano trattenuti questi e quanti al- tri non più si
acconciavano ad andare. Ma dertretato avendo il Senato che la colonia si ricavasse
dal com- plesso di tutti i Romani secondo le sorti, e stabilendo dure ed
irreparabili pene per chi ricusava ; alfine fu per tale necessità condotto il
numero conveniente in iVelle- Digitized by Googl 336 DELLE antichità’ ROMANE
tri. Noo raoUi giorni appresso un’ altra colonia fu tra> sferita in Norba,
città non ignobile dei Latini -(i). XrV. Non però segui da ciò ninna delle cose
con~ gbietturate da’ patrizj secondo la speranza di spegnere- le discordie.
Imperocché la plebe rimasta intrisi più an- cora, vociferando con assai clamore
contro de’ padri nelle adunanze prima di pochi, indi di molti, per la fame
divenuta gravissima; e concorrendo al Foro vol- geasi lamentosa ai tribuni suoi
perchè 1’ aiutassero. Or tenendo questi adunanza, fattosi innanzi Spurio Icilio
allora capo di essi perorò lungamente contro de’ padri aumentandone quanto potè
la malvolenza. Egli istigò pur altri a dire pubblicamente ciocché sentivano, e
prin- cipalmente Siccinio e Bruto allora edili, invitandoveli a nome, appunto
come capi già del popolo nella prima sedizione, ed inventori, anzi magistrati
la prima volta della podestà tribunizia. Presentatisi dissero anch’essi,
udendoli il popolo vogliosissimamente, malignissime cose già da molto tempo
premeditate, come se la carestia fosse procurata per malizia de’ ricchi, perchè
il popolo- avea loro malgrado, ricuperata colla sedizione la libertà. Dissero
che i ricchi non aveano pur la miaima parte del disagio dei poveri : molta
essere la loro non curanza de’ mali, perchè aveano cibi occulti e danari onde
com- perarli se introducevansi, laddove i plebei mancavano di ognuna di queste
due cose: protestarono che mandare i coloni a’ luoghi contagiosi, era un
avviarli a rovina visibile e funestissima, aggravando quanto più poteana (i) A
tempo di Plinio era nn ammasso di rovine. Restava circa sei miglia lontana da
Segni a- measogiomo. con parole il male. Chiedeano qual sarebbe il fine a tante
sciagure, e richiamavano loro in memoria gli an> tichi Hagelli, ond’ erano
stati malmenati da’ ricchi ; ag> giungendo ancora iinpuuissimamenie cose
consimili. Da ultimo Bruto la Gni minacciando, dicendo cioè, che se secondavano,
egli necessiterebbe quanto prima a spe- gner r incendio quelli stessi che
eccitato Taveano. E così r adunanza fu sciolta. XV. Intimoriti i consoli su
tali innovazioni, e solle- citi che le adulazioni di Bruto verso del popolo
iiou terminassero in grandi sciagure, intimarono nel prossi- mo giorno il
Senato. Ivi si fecero discorsi molti e varj da essi, come dagli altri seniori.
Pensavano alcuni che si dovesse blaudire i plebei con ogni dolcezza di parole e
promessa di opere, e renderne i capi più moderali con esporre lo stato delle
cose, e convocarli e consul- tare insieme il bene comune : io opposito altri
consiglia- vano che non cedessero, uè si abbassassero verso del popolo : essere
la moltitudine, imperita, e caparbia : in- solente, incredibile 1’ ardore dei
capi che 1’ adulano : facessero piuttosto costare che non ci avea ne’ patrizj
colpa ninna, c promettessero ovviare, quanto potè vasi, al male. Redarguissero
e miuacciassero di pene conde- gne i sommovitori dei [K>polo, se nou si
chetavano. .\p- pio era il primo in tal sentimento, e prevalse in mezzo alle
grandi opposizioni de’ padri. Tanto che il popolo turbalo all’ udirne tanto da
lungi i clamori accorse alla curia, e tutta la città fu sospesa nella
espeltazione. Dopo ciò li consoli usciti adunarono il popolo, restandovi breve
DlOXlGi t Zumo 21.parte del giorno, e tentarono di esporgli i voleri del
Senato. Contraddissero i tribuni, nè già fu vicendevole nè ordinato il
colloquio. Gridavano, interrompevansi ; tanto che non era facile agli astanti
distinguere i loro pensieri, e ciò che volessero. Diceano i consoli cb’essi
come di autorità pre- mineute doveano comandare in tutto alla città ; laddove i
tribuni replicavano che i consoli avean dritto in Se- nato, ma su le adunanze
del popolo i tribuni : questi aver tutto il potere su quanto si dee discutere e
sen- tenziare da’ voti del popolo. Prendea parte, vociferava per essi la
moltitudine, pronta ad assalire se bisognava, chiunque ostasse loro. Altronde i
patrizj acclamavano, e davan animo ai consoli, circondandoli. Vivissima era la
contesa per non cedere gli uni agli altri ; quasi allora appunto si cedessero i
diritti una volta per sempre. Già il sole era per tramontare, e tuttavia
concorrea dalle case nuovo popolo al Foro: e se la notte non li tron- cava,
forse i dissidj* finivano a colpi, ancora di pietre. Bruto perchè ciò non
seguisse, fecesi innanzi, e chiese ai consoli di parlare ; promettendo di
sedare il tumulto. Concederono questi che parlasse, parendo loro che si
deferisse ai consoli mentre quel capipopolo ciò chiedeva da essi, presenti i
trihuui. Fatto silenzio, Bruto senza dir altro interrogò li consoli di tal
modo: Ki ricordale voi che lasciando noi le divisioni, ci accordavate per^
diritto che quando i tribuni adunassero sotto qualun- que fine il popolo, i
patrizj nè intervenissero all’ a- dunanza, nè la turbassero ? Ce ne ricordiamo,
disse Geganio. E Bruto ripigliò : qual male aveste voi dunqué da noi che c
impedite, nè permettete che i tri- buni dicano ciocché vogliono? E Geganio
rispose: per- chè non voi, ma noi consoli avevamo chiamato il popolo a
parlamento. Se fosse stalo invitalo da voi, non V impediremmo ; anzi nemmeno
curiosi ci brighe- remmo in ciò che si tratta : ora essendo da noi con- vocalo,
non v' impediamo che Jdvelliale ; ma che noi ne siamo impediti, ciò non è
giusto. Allora Bruto, abbiamo vinto, disse, o popolo: concedesi a noi dagli
awersarj q> anlo chiedes’amo : ora desistete, chetatevi, ritiratevi : domani
promettevi dichiarare quanta forza V abbiale. E voi tribuni cedete ad essi di
presente nel Foro : non sempre già qui cederete qiumdo ab- biate compreso ( e
presto lo comprenderete, io pro- metto chiarirvene ) il potere del vostro
magislialo. Abbasserete cotanta loro preminenza : e se troverete che io V abbia
deluso, fate ciocché vi piace di me. XVII. E uiuno più contraddicendo,
ritiravausi tutti dall’ adunanza : non però gli uni e gli altri con pari
divisaniento. Credeano i poveri che avesse Bruto ideato qualche nobile impresa,
e che non indarno la promet' lesse : ma i patrizj trascuravano la leggerezza di
lui, pensando che T audacia delle promesse non andasse più in lò delle parole;
non essendo conceduta dal Senato ai tribuni altra autorità che di proteggere il
popolo, se non facevasi ad esso ragione. Non però la cosa parca spregevole a
tutti, specialmente ai seniori, ma che do- vesse attendersi che la manìa di un
tal uomo non ge- nerasse mali insanabili. Bruto la notte appresso svelato il
parer suo fra i tribuni, e raccolta una massa non tenue di popolo, ne andò di
conserva nel Foro : e prima clie si facesse di chiaro, occupato il tempio di
Vulcano donde eglino soleano concionare, invitarono il popolo a parlamento.
Empiutosi il Foro di un concorso, quale mai più V* era stato, presentasi Icilio
il tribuno, e par- lavi luughissimamente contro de’padri. Egli commemora quanto
han latto in danno del popolo, e come nel giorno addietro aveano impedito lui
fin di parlare con- tro i poteri ancora della sua dignità. E qui disse : e di
che altro tarem più padroni se noi siam di parlare ? Come potremo soccorrere
voi se ojffesi, quando ci si toglie la libertà di adunarvi ? Son le parole i
preludj delle operazioni : nè ignorasi che quelli che non pos- sono dir ciocché
pensano, nemmen possono far cioc- ché vogliono. Pertanto o ripigliatevi, disse,
la potestà che ci deste, se non volete mantenercela inviolabile; o proibite con
legge che alcuno più ci si opponga. A tal dire provocavalo il popolo che egli
stendesse la leg- ge : e siccome teneala già scritta, la lesse. £, dispen- sati
i voti, fe’ che il popolo immantinente ne decidesse ; parendogli non esser
questo un affare da esitarne, o differirlo, perchè non avesse altri inciampi
dai consoli. La legge era questa : Concionando un tribuno al po- polo, niuno
aringhi in contrario, nè interrompalo : e se alcwio contravvenga, dia
mallevadori ai tribuni di pagare, chiamatone in giudizio, la multa che gl im-
porranno : e non dandoli, egli sia punito di morte, li beni di lui sien sacri,
e tutte le controversie su tali multe spettino al popolo. I tribuni confermata
coi voli la legge dimisero 1’ adunanza : ed il popolo si ritì rò, tatto di bu
on anirno, e pieno di riconoscenza per Bruto, come per 1’ autore della legge.
Dopo ciò li tribuni ripugnavano ai consoli molto, e su molte cose : nè il
popolo ratificava i de- creti del Senato, nè il Senato approvava decisione
niuna della plebe. Cosi teneansi contrapposti e sospetti. Non però r odio loro,
come avviene in simili turbolenze, procedette a danni irreparabili. Imperoccbè
nè i poveri investirono mai le case de’ ricchi ove concepivano che troverebhon
de’ cibi riservali ; nè mai si lanciarono su pa- lesi merci per involarle : ma
pazienti comperavano a gran costo il poco, e sostcneansi di radici e di erbe se
pe- nuriavan di argento. Nè mai li ricchi per dominare soli nella città
violentarono colla forza propria, o de’ clienti, (eh’ era pur molta) la classe
indigente, esiliandone o trucidandone ; ma conduceansi come padri savissimi in-
verso de’ figli, con cuore sempre benevolo e premuroso tra le lor delinquenze.
Or tale essendo lo stato di Roma, le città vicine invitavano qual più volealo
de’ Romani tt traslatarsi nel seno di esse, allettandoli con dar loro la
cittadinanza, ed altre propizie speranze : ma le une in- vitavano mosse dai bei
genj per benevolenza e pietà nei mali altrui, le altre (ed eran le più !) per
invidia della prosperità passata della repubblica. E furono ben molli quei che
partirono con tutte le famiglie, e posero al- trove il soggiorno : ma taluni di
questi, riordinato lo stato, ripatrìarono, e tal’ altri mai più. Or ciò vedendo
i consoli parve loro, per voler del Senato, che avesse a farsi una iscrizione
di soldati, e porre in campo un esercito. Prendeano occasione speciosa a tanto
dall’ essere la campagna tante volte dan- neggiata dalle scorrerie, e saccheggi
de’ nemici ; calco- lando ancora i beni che nascerebbero dall’ inviare un
esercito di là da’ confìni : mentre quei che restavano avrebbero, come
diminuiti, le vettovaglie in più copia: e gli altri colle arme vivrebbero io
siti più abbondanti a spese dell’ inimico, e la sedizion tacerebbe, almen
quanto si tenesse in piedi l’armata. Tanto più poi sem- brava che
resùiuirebbcsi la calma tra patrizj e plebei, quanto che dovrebbei'o militare
insieme, e partecipare i beni e i mali a fronte de’ pericoli. Non però la mol-
titudine ubbidiva, nè si presentava spontanea, come al- tre volte, per essere
iscritta. Non vollero i consoli foi^ zare secondo le leggi i renitenti : ma
alcuni patrizj s’iscris- sero volontarj co' loro clienti, congiungendosi ad
essi che uscivano, anche picciola parte di popolo per mili- tare. Era duce di
quest’ esercito quel Caio Marcio, il quale espugnò la città de’ Coriolani, e
riportò la corona dei forti nella pugna cogli Anziati. Or vedendo lui per
capitano, i più de’ plebei che aveano piglialo le anni vi si confermarono,
altri per benevolenza, altri per la speranza di esserne diretti a buon fine.
Imperocché famosissimo egli era quest’ uomo, e gran- tal esercito fino ad Anzio
; impadronendosi di schiavi ^ e di bestiami in copia, senza dirne il mollo
grano che era ne’ campi ; tornandone indi a non molto ricchissimo fatto di
viveri : tanto che quei che s’ eran rimasti, eran mesti e dolenti verso de’
tribuni, pe’ quali sembravano privi di un tanto bene : cosi Geganio e Miuucio
consoli di queir anno trovatisi in tempeste varie e grandi, e più volte in
pericolo di rovinar la cilli, non operarono nulla con troppa efficacia : pur
salvarono la repubblica più savj che prosperi nell* uso delle circostanze. XX.
Marco Minucio Augurino, ed Aulo Sempronio Atraiino eletti consoli dopo loro,
presero per la se- conda volta quel grado (i). Non imperiti nell’arme, e nel
dire, empierono con assai provvidenza la città di grano e di ogni maniera di
viveri, come si ristringesse all’ abbondanza la concordia del popolo. Non però
po- terono ottenere 1' uno e 1’ altro bene ; ma venne colla sazietà pur
l’orgoglio in quelli eh’ eran saziati. E quando meno pareva, allora fu su Roma
il pericolo maggiore che mai per addietro. I commìssarj spediti pe’ grani,
comperatone negli emporj entro terra o sul mare, lo aveano già trasportato a'
pubblici serbato)'. Quand’ ecco i negozianti pure di viveri ne condussero d’
ogn’ intorno in Roma : e Roma comperando a pubbliche spese i lor carichi, li
custodiva. Vennero i primi i commissarj spe- diti in Sicilia, Geganio e Valerio
con piene assai bar- che ; portavano in esse cinquanta mila moggia siciliane di
grano, metà procacciato a lievissimo costo, e metà regalato e mandato a spese
sue dal tiranno. Nunziatosi in città 1’ arrivo delle navi portatrici de’ grani
siciliani ; discussero i patrizj longamente come avesse a dispor- sene. I più
moderati e popolari fra loro, considerata la pubblica calamità, consigliavano
che il grano donato dal re si donasse ancora a tutti del popolo, e che 1’ altro
(i) Anni iti Roma 263 seconda Catone, 265 secondo Varone, e 469 avanti
Cristo. tìet.le Antichità’ hotmane
comperato coll’ erario, si vendesse loro a picciol mer- cato, ricordando clie
per tali beneficenze principalmente si ammansano gli onimi de’ poveri verso de’
ricchi. Per r opposito i più arroganti fra loro, ed amici del co- mando dei
pochi, sentenziavano che aveasi con tutto r ardore e l’ ingegno a deprimere il
popolo, ed eccita- vano a non fargliene se non carissima la vendita, per- chè
la necessità li rendesse per innanzi più savj e più conformi alle leggi. Fra
questi amici del comando de’ pochi era pur quel Marcio, chiamato Coriolano, uè
già dicea come gli altri in occulto e con riguardo i proprj sentimenti, ma di
proposito, e con ardore, sicché molti del popolo lo udirono. Avea costui non
che le cause comuni con- tro del popolo, motivi privati e recenti onde parer di
odiarlo meritamente. Cercando esso ne’ comizj ultimi il consolato, il popolo
se. gli oppose, ad onta de’ padri che lo sostenevano, nè permise che lo
conseguisse ; per- chè sospettava che un tal uomo colla chiarezza ed ar- dire
suo prendesse ad abbattere il tribunato ; e tanto più ne temea che vedeva che
tutti i patrizj aderivansi a lui, come a niun altro mai per addietro. Inbammato
costui dalla ingiuria, e macchinando riordinar la repubblica su le antiche
maniere, adoperavasi, come ho detto, pale- semente, incitandovi pur gli altri,
aU’annientamento del popolo. Lui cingeva un seguito di molti nobili e ric-
chissimi giovani, e per lui stavano molti clienti, pro- speratine già nella
guerra. Esaltato da questi, andavano fastoso, e minaccievole, e fra tutti
chiarissimo; non però ne ebbe termine fortunato. Adunatosi pe’ casi presenti il
Senato e proponendo, com’ è costume, il pro- prio parere prima li seniori, tra
quali non molti con* trariarono manifestamente la plebe ; alfine ridottasi la
disputa ai giovani, egli chiese da’ consoli il poter dire ciocché voleva : e
tra ’l favor grande, e la grande atten- zione di tutti cosi contro del popolo
ragionò. Che U popolo non siasi ribellato per neces- sitA e per disagi, ma
sollevalo dalla rea speranza di abbattere il comando de' pochi, e farsi egli
stesso l’ arbitro del comune ; credo ornai che lo abbiate o padri compreso voi
tutti, considerando la inconten- tabilità sua nel pacificarcisi. Non era il
solo disegno suo di violare la fede de' contratti, e di abolire le leggi che la
garantivano, senza passare più oltre. Esso per levare il magistrato de' consoli,
ne fondava un altro nuovo, c lo rendeva sacrosanto ed immune per legge, ed ora,
e voi non vel conoscete, lo ha con un ple- biscito recente immedesimato al
poter dei tiranni. E per certo, quando gC incaricati di un tal magistrato col
pretestare i bei titoli di proteggci'e i plebei mal- menati opereranno con esso
e disporranno come a lor piace, quando niuno, non uomo privato, non pub- blico,
potrà impedirne gli abusi per timor della legge la qual toglie anche il dire
non che il fare, minac- ciando la morte a chi pur lascia fuggirsi una libera
voce in contrario ; dite, e qual altro nome dee met- tere allora chi ha senno a
tal magistrato se non quello di ciò che è veramente, e che voi tutti
confesserete, quello cioè di una tirannide ? Siasi un solo che tiran- tt^ggia,
siasi il popolo tutto, e qual divario ? quando uno appunto è l’operar di
ambedue? Era ottimissima cosa non lasciare mai che il seme s’ introducesse di
un simil potere y e soffrir prima tutto, come il valo- rosissimo jéppio voleva,
antivedendone da lauto tempo le ree conseguenze. Ma giacché ciò non si fece,
ora almeno sradichiamolo, gettiamolo dalla città mentre è debole ancora, e
facile da superarlo. Certo voi non siete, o padri coscritti, nè i primi, nè i
soli a’ quali tocchi ciò fare ; quando molti già tante volte deviando dalle
buone risoluzioni su di affari gravissimi ; e rav- voltisi in necessità
sconsigliate, tentarono estinguere il mal già cresciuto, se impedito nel
nascere non lo avcano. E quantunque la penitenza di chi lardi fa senno sia da
meno della previdenza ; tuttavia sott’ al- tro rispetto apparisce non inferiore,
rmnullando V er- rar già commesso coll’ impedir che si termini. Se alcuni di
voi han per gravi le opera- zioni del popolo, se pensano doversi lui prevenire
sicché più non esorbiti, ma vien loro la verecondia di parere i primi a rompere
i patti e li giuramenti; sap- piano, che se fan ciò, saranno incolpabili
innanzi gl’ Iddj, e compiran la giustizia col? utile proprio ; giacché non
eomincian essi /’ oltraggio ma lo respin- gono, non tolgon essi i patti, ma chi
prima li tolse puniscono. E grandissimo argomento siavi che non voi cominciate
a rompere i patti, non voi l’alleanza, ma il popolo il quale non più soffre le
leggi colle quali ottenne il ritorno. Non chiese già egli i tribuni per
danneggiare il Senato ; ma per non essere dan- neggiato. Eppure or ne usa non
per ciò che lo dee^ nè per ciò che fu crealo, ma per turbare e confon- dere lo
stalo della repubblica. Ben vi ricorda dell ul- tima adunanza, e delle cose
dettevi dot tribuni, e quanta euroganza e quale disordine vi dimostrassero. Ed
ora, niente più savj, quanto fasto non menano al vedere, che tutta la forza
della città sta ne’ voti, e ne’ voti ci vincon essi, tanto maggiori di numero ?
Se dunque han essi incomincialo a frangere i patti e le leggi; che dobbiamo noi
fare se non rispinger la ingiuria p se non ripigliarci giustamente ciocché
ingiu- stamente ci han tolto ? e frena' tante lor pretensioni ognora più
grandi? e ringraziare gl Iddj che non han permesso che essi coll acquisto del
primo potere di- venissero savj per t avvenire ; ma gli han ridotti a tal
vituperio e briga per la quale voi di necessità tentaste ri- cuperare il
perduto, e custodir ciocché resta, come si dee? Se volete riavervi; non altra
occasione mai fia così buona, quanto la presente. Ora la più parte di essi è
vinta dalla fame, e /’ altra non potrà resi- stere lungamente per l indigenza,
se abbia i viveri scarsi e cari. Li più rei, quelli non mai propensi al comando
de’ pochi, ridurransi a lasciarci, ma gli altri più miti diverranno ancora più
docili, nè mai più vi turberanno. Custodite dunque, non iscemate di prezzo i
viveri, e fate che vendansi il più caro che mai. Voi ne avete oneste occasioni,
e pretesti lodevoli nella ingratitudine di un popolo che mormora, quasi ab-
biate voi prodotta la carestia, nata dalla ribellione loro, e dal guasto che
diedero alle campagne, levan- done e trasportandone ciocché vollero come da
terre nemiclie, e nelle spese dell’ erario per la spedizione de’ commissarj in
cerca di viveri, e nelle tante altre ingiurie, onde foste oltraggiali.
Conoscansi fin da ora quali sono i mali co’ quali ci afliggeranno, se non
facciamo tutto a piacere del popolo, come i capi loro dicono per atterrirci. Se
vi lasciate fuggir di mano questa occasione ; ne sospirerete le mille volte una
simile. E se il popolo sappia una volta che voi mac- chinavate di abbattere
tanta sua forza, ma ne desi-, steste ; tanto più vi si renderà gravoso,
tenendovi nei vostri voleri come nemici, e come impotenti ne’vostri timori. Si
divisero a tal dire di Marcio i pareri, e molto si romoreggiò nel Senato.
Imperocché quelli che da principio contrariavan la plebe, e ne ammisero mal-
grado loro la pace, tra quali erano i giovani, quasi tutti, e li più ricchi e
più riguardevoli de’ seniori ; esasperandosi della impudenza di essa,
encomiavan que- st’ uomo come generoso, come amico della patria, e che parlava
il ben del comune. Ma quelli che propen- deano, come prima, verso del popolo,
nè stimavano le ricchezze oltre il dovere, nè credevano cosa alcuna necessaria
quanto la pace, eransi corucciati a tal dire, non che vi aderissero. Volevano
che si vincessero i po- veri colle dolci, non colla violenza : essere la
dolcezza una cosa non solo conveniente ma necessaria ; prin- cipalmente per la
benevolenza verso de’ eittadini : e chiamavano que’suoi consigli non libertà di
detti, e di opere ; ma delirj : nondimeno questo partito, come pic- ciolo e
debole, era sopraffatto dall’ altro più forte. Oi! dò vedendo i tribuni ( eran
questi presenti, invitati in Sonato da’ consoli ) gridarono e fremerono,
chiamando Marcio peste e rovina della città ; come lui cbe usciva in discorsi
si rei contro del popolo. E se i patrizj non lo frenavano coll’ esilio o con la
morte, mentre svegliava in Roma una guerra civile, essi, diceano, che lo pu-
nirebbero. Or qui nato un tumulto ancora più vivo pei discorsi dei tribuni,
principalmente dal cauto dei gio- vani cbe mal sopportavano quelle minacce ;
Marcio ani- matone parlò più veemente ancora e più risoluto. Io, diceva, io se
voi non la finite di far qui turbolenza, e di sommovere i poveri; io da ora
innanzi mi farò can- tra voi non colle parole, ma colle opere. Or qui
riscaldatosi più ancora il Senato, i tri- buni vedendo che più erano quelli che
volevano richia- mare, che serbare i poteri conceduti alla plebe, fug- girono
dal Senato gridando, e protestando gl’ Iddj, vin non fate voi parer vere le
calunnie che di voi si spar^ gono ? e che savj sono pel pubblico, quanti consi-
gliano che non pià crescer si lasci questa vostra po- tenza violatrice delle
leggi ? A me così par certa- mente. Afa se vorrete far cose, contrarie a quelle
delle quali vi accusano, moderatevi, ve ne consiglio : ricevete a cor placido,
e non con ira, i discorsi dai quali siete investiti. F’oi se così fate, ne
parrete uo- mini dabbene, e coloro che vi odiano, ne saran/w pentiti. Avendovi
cojè noi fatto ragione amplis- sima come pensiamo, non siate, ve n esortiamo,
indegni di voi. Folendovi noi implacidire non esa- sperare ; miti, umane furono
le opere colle quali vi abbiamo trottato : io dico, per tacere le antiche,
quelle fattevi di recente pel vostro ritorno. Certa- mente sarebbe pur giusto
che voi vi ricordaste di queste ; mentre noi vorremmo dimenticarcene. Tuttavia
la necessità ci stringe a ricordarvele per chiedervi in contraccambio di tanti
e grandi benefizj che noi già concedevamo alle istanze vostre, che nè si uccida,
nè bandiscasi Un uomo amantissimo della patria, e nobilissimo infra tutti nella
guerra. Non poca sarebbe la perdita, voi lo vedete, se Roma fosse privata di
tanta virtà. Egli è giusto che mitighiate lo sdegno verso lui, risgiiardando
almeno quanti ne salvò di voi nella guerra, e ripetendone le belle sue gesta,
non perseguitandone lé vane parole. Niente vi hanno i detti nociuto di lui, ma
moltissimo i fatti vi giovarvno. ' Che se pur siete inflessibili in suo
riguarda, donatelo almeno a noi, donatelo al Senato che vel chiede : rendete
una volta la stabile calma, e la sua unità primitiva alla patria. E se voi non
vi piegherete alle nostre persuasive ; riflettete che neppur noi ce- deremo alle
vostre violenze. Così il popolo messone a prova o sarà cagione a tutti di
amicizia sincera e di beni maggiori; o nuovo principio di una guerra civile, e
di gravissimi mali. I tribaoi, avendo Minuzio cosi perorato, consideratane la
moderazion del dire, e come la plebe mossa dalia dolcezza delle sue promesse,
ne furono sdegnati e dolenti, e soprattutti Cajo Sicinio Belluto, quegli che
avea suscitato i poveri a ribellarsi da’ patrizj ed erane stato nominato
capitano, 6nchè fìiron su Tar- mi. Nemicissimo degli ottimati, era perciò stato
portato a grande chiarezza da’ cittadini. Ora creato per la se- conda volta
tribuno giudicava che a ninno giovasse men che a lui che la città fosse appieno
concorde, e ripigliasse la forma antica. Imperocché vedeva che se governavano
gli ottimati, egli nato e cresciuto ignobile, senza luce alcuna d’ imprese in
pace o in guerra, non avrebbe più gli onori, nè la influenza medesima ; anzi
che correrebbe pericoli estremi, come sommovitore dei popolo, ed autore di
tanti suoi mali. Fissato adunque ciocché avrebbe a dire e fare, e
consultatosene co’ tri- buni compagni, poiché li ebbe unanimi, sorse, e la-
mentata brevemente la disgrazia del popolo, lodò li consoli perchè degnati si
fossero di rendere ragione ai plebei, senza spregiarne la loro bassezza : e
d'sse che rìngraziava i patrizj ancora, perchè nasceva finaluaente in' essi la
cura della salate de' poveri ; e che molto più egli ciò contesterebbe 'a nome
di tutti i colleghi, quando darebbero pur le operc> simili ai hitti. Cosi
proemiando, e parendone anzi sedato, e propenso alla pace, si volse a Marcio
presente ai con- soli V e disse i E tu o valentuomo niente ti difendi coi tuoi
cittadini su quanto hai detto in Senato ? Chè non supplichi piuttosto, e ne
plachi lo sdegno, sic*’ chò miti sieno nel sentenziartene ? Già non 'vorrei che
tu negassi un tale tuo fallo, avendolo tarili ve* ; nè che, tu Marcio, tu pià
altero in cor tuo che un privato, ti volgessi ad invereconde difese. Sarà
parato non indegno ai consoli ed ai patrizj di aringare essi in tuo bene, nè
parrà per te degno che tu lo facci su te stesso? Or cosi parlava -costui ; ben
conoscendo che quel generoso non soffrirebbe mai di essere T accusator di
sestesso, e chiedere come col- pevole la esenzion della pena, nè mai contro l’
indole sua ricorrerebbe alle umiliazioni ed alle suppliche: ma che o
ricuserebbe fare ogni difesa ; o facendola coll’ in- nato ardimento suo, niente
tempererebbe nè il popolo, nè il dire. E cosi fu ; perchè taciutisi, e presi i
plebei, quasi tutti, da bel desiderio di liberarlo, purché- egli ne
&vorisse la occasione, manifestò tanta insolenza e dispregio per essi ; che
nè, presentatosi, negò le parole da lui dette in Senato, nè come pentitone, si
diede ad impietosirli e placarli: ma fin sul principio non li volle, come privi
di autorità competente per giudici di cosa ninna, pronto per altro a
sottomettersi, com* era la legge, al
tribunolc de’ consoli, se alcuno volesse ac> cusarvelo, e cbiederoe
soddisfazione pe’deui, o per le, opere. Diceva eh’ egli era, colà venuto,
giacché vel chia- marono, parte per riprendere le loro prevaricazioni, e la
incoutentabiUlà j manifeslala aemprepiù nella separa- zione y e dopo il riiomo
; e parte per consigliarli, per fiammata, soffiandovi, 1’ ira del popolo,
concluse l’ao cosa, che il tribunato ne sentenziava la morte, per r oltraggio
fìtto agli edili, che egli percosse e respinse, mentre per ordin suo lo
arrestavano il di precedente: non finire che su chi gC incarica, gli oltraggi
de’ mi- nistri, E così dicendo ordinò che portassero Marcio al* l’altura che
sovrasta sul Foro. È questa un dirupo ro> vinoso e vasto donde solcano
precipitare i rei condan* nati alla morte. Corsero gli edili per prenderlo: ma
dato un altissimo strido, si levarono conira loro in folla i patrizj, e quindi
contro de’ patrizj il popolo : e molto era in arabe le parti il disordine,
molto lo in* giuriarsi. Io spingersi, Tassalirsi. Se non che gli autori di un
tanto moto furouo rattenuti e necessitati a mo- derarsi dai consoli i quali,
cacciatisi in mezzo, coman* darono ai littori di rimover la turba. Tanta era
allora negli uomini la riverenza per quel magistrato, e tanto il pregio deir
autorità suprema ! Intanto Sicinio non piò saldo, ma perturbato, e timoroso di
ridurre i partiti a respingere forza con forza, non volendo lasciare, nè
potendo continuare la impresa una volta tentata, era pensierosissimo su >ciò
che fosse da fare. Or lui vedendo in tanti dubbj Lucio Gin* nio Bruto, quel
capipopolo che ideò le condizioni della concordia, uomo acuto specialmente in
trovare, ove mancano, gli espedienti, venne, e solo con solo, sug- gerì che non
si ostinasse in una disputa ardente, nè legittima : mirasse tutti i patrizj
irritati, e tutti pronti alle armi se vi fossero invitati dai consoli, ma
dubbiosa la parte migliore del popolo, nè ben animata a permettere senza previo
giudizio la morte dell' uomo più. insigne di Roma : cedesse per allora, egli
così consigliava; badasse a non combattere i consoli per non eccitare mali
manieri : piuttosto in- dicesse a un tal uomo, fissandone un tempo qua- lunque,
di perorar la sua causa, i cittadini votas- sero per tribù su lui: e ciò sen
facesse che la plu- ralità de’ voti dichiarerebbe. Non competere che ai tiranni
la violenza che ora minacciavasi, facendosi il tribuno accusatore in un tempo e
giudice ed arbi- tro della pena : ma in una repubblica doversi agli accusati le
difese come voglion le leggi, ed il gastigo secondo il voto dei più. Cedette
Sicioio a tale consi- glio non trovandone altri migliori, e fattosi innanzi
disse : Foi vedete o plebei V entusiasmo de’ patrizj per la violenza e le
stragi : vedete come tengon voi tutti da meno che un solo caparbio che oltra^a
una intera repubblica. Non conviene che noi li somigliamo e corriamo alla
nostra rovina, cominciando o respin- gendo una guerra. Ma perciocché alcuni di
loto al- legano, come onorevol pretesto, la legge la qual non permette che
uccidasi un cittadino ' senza previo giu- dizio, ed allegandola ci tolgono d
infliger le pene ; diasi pur luogo alla legge ; quantunque ne’ nostri di- sagi
abbiamo noi mai sofferto nè cose giuste, nè secondo le leggi da essi.
Dimostriamoci anzi probi colle clementi maniere, che del numero de’ vostri of-
Digitized by Google Linno VII. 36 1 Jénsori colla violenza. Ritiratevi ;
aspettate, nè già sarà molto, il tempo avvenire. Noi preparando in^ tanto le
cose che importano, fisseremo a codest’ uomo un tempo perchè si difenda, e non
eseguiremo se non la vostra sentenza. Quando v' avrete in mano i suffragi
secondo la legge, votatene allora la pena che merita. E ciò basti su questo
proposito : Che poi giustissima facciasi la compra e la distribuzione dèi grani,
noi vi provvederemo, se questi (\) ed il Se- nato non vi provvedono. E ciò
detto disciolse i' adu- nanza. Dopo questo evento i consoli convocando il
Senato considerarono posatamente come dar fine alla discordia presente. Sembrò
loro primieramente che do- vessero cattivarsi il popolo con vendergli i viveri
a pic- ciolo e fàcil mercato, e poi persuadere i lor capi a che- tarsi in
grazia dei Senato, nè astringere più Marcio al giudizio, e temporeggiare in
fine lunghissimamente, se non lasciassero persuadersi, finché l’ ira del popolo
si diminnissc. Ciò decretato portarono e proclamarono al popolo tra pubblici
applausi l’ editto su i viveri cosi concepito che : sarebbero i prezzi de'
generi necessari al vitto quotidiano, tenuissimi come innanzi la sedi- zione.
Poi col molto insistere presso de’ tribuni ebbero per Marcio dilazion quanta
vollero, se non piena asso- luzione. Anzi essi stessi gli procacciarono altro
indugio, valendosi di questa occasione. Gli anziati, spedita una banda di
pirati, aveano predato non lu ngi dal lido, (i) I CoDsvii.mentre tornavano in
casa, le navi e i deputati del re di Sicilia, che aveano recalo i grani in dono
ai Ro- mani, e volgendone ogni cosa come di nemici ad olile, ne teneano in
carcere le persone. I consoli, ciò saputo, spedirono agli Anziati : ma non
potendone per ambasciadori ottener la giustizia, decisero marciare colle armi
su loro. Adunque fatto il ruolo di tutti gl’ie- gli ninna delle cose ordinate
dalle leggi su de’ giudizj. Pareva ai consoli, deliberatisi col Senato, che non
fosse da permettere che il popolo s’ impadronisse di un tanto potere. Or si diè
loro un titolo giusto e legittimo d’im- pedirneli ; e credeano, usandolo, di
renderne vani lutti i disegni ; tanto che invitarono a colloquio tutti i capi
del popolo. Congregitisi cou quanti erauo gli opportuni per essi, Minucio disse
: Tribuni, ci è piaciuto decre- tare che bandiscasi la sedizione da Jloma con
tutte le forze, nè più nudrasi contesa ninna col popqlo ; vedendo voi
principalmente che tornavate dalla vio- lenza alla giustizia ed alla ragione.
Or noi lodando voi di questo proposito, abbiamo reputato che il Se- nato, come
è patria usanza, vi precedesse co’ suoi decreti. E potete contestare voi stessi
che dalP ora che i nosU'i avi fondarono Roma, il Senato che la ebbe, ritenne
sempre questa precedenza : e che il popolo senza la previa risoluzione idi lui
mai nò giu- dicò, nè votò non solo in questi tempi, ma nemmeno in quelli dei
re. Tanto che li re non rimettevano al popolo, se non le cose decise in Senato,
e così le confermavano. Non vogliate dunque levarci questo di- ritto, nè
abolire tal bella istituzione primitiva. Preanv- monile il Senato, se avete il
bisogtto di cose mode- rate e giuste, e quello che il Senato ne avrà giudi-
cato, quello notificate al popolo, e ne decida. Cosi discorrendola i consoli,
Sicinio mal sopportavali, nò volea render aibitro di cosa ninna il Senato. Ma
gli altri, eguali a lui di potere, seguendo i suggerimenti di Lucio (i)
consentirono che si facesse questo previo decreto. Imperoccbé ancor essi
avevano (i)- Lucio Bruto: forte come pensa il Ccleoio, dee leggersi Decia in
luogo di Imcìo, .Certamente in questi affari elibe parte anche De- ciò nominato
prima e poi da Dionigi: vedi I. fi, § 8S. Bruto aveva, tt vero il pronome di
Lucio ; Ma Dion'gi nou lo ha mai contratte* guato ancora col solo pronome. r)ELLr* antichità’ romane falla ( nè i
consoli la esclusero ) la istanza ragionevole ; Che il Senato desse la parola
anche ai tribuni, che sono i procuratori del popolo, come agli altri che
volevano aringare favorendo, o contrariando; e che infine, dopo udite le
discussioni di tutti, -allóra cia- scun padre porgesse il suo voto, premesso il
giura- mento legittimo, come ne’ giudizj, e dichiarasse cioc- ché gli paresse
il giusto e V utile della repubblica : e quello si tenesse per valido che i
più. preferissero. Concedendo i tribuni che si decretasse come i consoli
dimandavano ; si divisero. Raccoltisi nel giorno appresso i padri in Senato, i
consoli vi esposero le convenzioni: e quindi chiamando i tribuni gl’ invitarono
a dire le cause per le quali venivano. £ qui fattosi innanzi Lu- cio, colui che
avea condisceso che si facesse il previo decreto, disse : Potete ravvisare o
padri ciocché sia per suc- cedere, vuol dire che noi saremo accusati appresso
il popolo dell’ essere qui venuti, e che V accusatore sarà quel nostro collega,
per quel previo decreto che V abbiam conceduto. Pensava costui che -non doves-
simo noi chiedere da voi quello che ci attribuiscon le leggi, nè prendere per
benefizio quanto avevamo per diritto. Chiamali in giudizio correremo in rischio
non tenue, che condannati, abbiamo a soffrire bruttissi- mamente come chi
diserta, e tradisce. Ma quantun- que ciò sapessimo ; noi siamo qui venuti,
superiori a noi stessi j confidando su la rettitudine della cau- sa, e mirando
ai giuramenti secondo i quali voi do- ' 'vete dirigere le vostre sentenze. Noi
tenui siamo, e disacconci pià assai che non conviene, a parlar di tali cose,
che piccole certamente non sono. Porgeteci non pertanto udienza y e se queste
vi parranno giuste ed utili, e vi a^iungo, necessarie ancora pel conw ne,
vogliate spontaneamente concedercele. Primieramente dirò sul diritto. Quando o
se- natori cacciaste i monarchi avendo noi compagni nel- r opera, e fondaste il
governo nel quale ora siamo, ed il quale noi non riproviamo, voi vedendo i
plebei aggravati ne’ giudizj se mai li facevano ( e molti scn facevano ) co’
patrizj, emanaste per suggerimento di Publio Valerio consolo una le^e per la
quale per- mettevasi a tutti i plebei sowerchiati da quelli di ap- pellare al
popolo : e per niun altra, quanto per que- sta legge, procacciaste la concordia
di Soma, e re- spingeste i re che vi tornavano in seno. Jn forza di questa l^ge
citiamo codesto Caio Marcio dinanzi al popolo, e gli prescriviamo che risponda
su cose nelle quali tutti ci diciamo da lui sowerchiati ed offesi. Nè su questo
abbisognavi previo decreto del Senato. Imperocché voi siete gli arbitri di
deliberare i primi, ed il popolo di confermare co’ voti quello su cui le le^i
non pollano ; ma dove ci han le leggi, sono immobili, e debbono osservarsi,
quantunque niente ora voi, perchè si osservino, decretaste. Già non dirà ninno
che in caso di aggravio ne’ giudizj un privato appelli validamente al popolo,
nè valida- mente v’ appellino i tribuni. E forti per tale conces- sion della
legge, veniamo qui, non senza pericolo, ad esser sotto voi giudici. Pel diritto
della natura, diritto che non è scritto, nè introdotto come le altra leggi, noi
vogliamo che il popolo non sia nè da pià nè da meno di voi : mentre con questo
diritto ha con voi sostenute molte e grandissime guerre, e mostrato ardore
vivissimo per compierle, contribuendo non poco perchè Roma le desse, non
ricevesse da alwi le leggi. Or voi farete che noi non siamo da meno che voi se
frenerete col terror di un giudizio chiunque attenta contro le nostre persone e
la libertà. Pen- siamo che i magistrati, le precedenze, gli onori deb- bansi
compartire ai primi e pià virtuosi tra voi : ma pensiamo pure ben giusto che
essendo tutti sotto un governo, tutti dobbiamo ugualmente e senza riserva o non
essere offesi ^ o riceverne pari soddisfazione. Come dunque a voi concediamo
que’ gradi sublimi e luminosi, così non vogliamo esser privi dei diritti eguali
e comuni. Ma sebbene potrebbero aggiungersi le mille cose, bastino le dette fin
qui sul diritto. Or quanto sian utili queste cose, quanto il popolo le apprezzi
se faccianst, lasciate che io bre- vemente ve lo esponga. Su dunque : se alcuno
vi di- mandi qual pensiate il pià grande de’ mali, quale la cagioH pià pìonta
della roiàna delle città ; non di~ reste che sia questa la dissensione? certo
che sì. Or chi è si stolido, chi sì fatto a rovescio, chi sì ne“ mico della eguaglianza, il qual non
veda, che se concedasi al popola di giudicare le cause che gli spettano, avrem
la concordia ; ma se gli si neghi, leverete a noi per fino la libertà ( chè la
libertà si toglie, a chi le leggi si tolgono e li giudizj ), e ci ridurrete ad
insorgere nuovamente, e combattervi ? Certo che nelle città dalle quali si
escludono i giu- dizj e le leggi, la discordia soUentra e la guerra. Chi non si
è trovato in guerre civili non è meraviglia che per la inesperienza non senta
ribrezzo de mah antecedenti, nò precluda i futuri. Ma quelli, che caduti come
voi tra pericoli estremi, felicemente se ne liberarono, sgombrando i mali come
permetlevasi dalle circostanze ; quelli, io dico, se vi ricadono, qual mai
scusa aver possono sufficiente e decorosa ? Chi non condannerebbe la stoltezza
e delirio vostro grandissimo, considerando che voi li quali per non avere la
plebe discorde vi piegaste, non ha gìiari t a tante concessioni, forse non
tutte convenevoli ed utili, ora vogliate in discordia tornarvela, tutto che non
siate offesi negli averi, nelf onore, o in altre pubbliche cose, e solo per
favorir chi la odia ? Se non che voi ciò non farete se savj. Con piacere io V
interrogherei quali concetti erano i vostri quando ci concedevate il ritorno
colle condizioni che chietle- vamo. Ne apprendevate voi forse ragionando un be-
ne ? o fu necessità che vi ridusse a cedere ? Se ne apprendevate il bene di
Roma, e perchè ora non vi ci attenete ? se fu necessità, se impossibilità di
es- sere diversamente, or che vi dolete del fatto ? Biso- gnava, se pur tanto
potevate, non cedere forse da principio ; ma ceduto avendo una volta, non
dovete più rimproverarvene. A me sembra o padri che voi seguiste il vostro
migliore nel paci/icarvici : ma se fu necessità di scendere a condizioni; ella
è pure necessità man- tenercele. Voi gV Iddj chiamaste vindici degli accor- di,
imprecando molte e terribili pene a chiunque li violava di voi o de nipoti in
perpetuo. Ora io non Pedo perchè dobbiamo tediare pih a lungo voi che tanto
bene il sapete, con dire che giuste ed utili sono le nostre dimande, e molta la
necessità che vi astringe a corrisponderle, se memori siete de Mura- menti. Voi
capite, o piuttosto ( giacché io non dico cosa che voi non sappiate ) voi
tenete presente che rileva per noi non poco il non desistere dalla impresa per
violenza o per inganno, e che un fortissimo sti- molo ci ha qui condotti,
offesi gravemente, e pià che gravemente, da quest’ uomo. Date dunque su quanto
ho detto il vostro voto, ma, dandolo, consi- derate qual sarebbe il vostro
animo verso quel ple- beo, se alcuno pur ve ne fosse, il quale tentasse dire o
fare centra voi nelle adunanze, ciò che qui codesto Marcio ha pur tentato di
dire. Le convenzioni della pace sacrosante al Senato, quelle che munite più
-che con vincoli ada- mantini j ninno di voi, per averle giureUe, nè de’ vostri
discendenti può sciogliere, finché Roma fia Ro- ma ; quelle ha il primo codesto
Marcio tentato di rovesciarle, non essendo nemmen quattro anni che si
conclusero, e tentato ha di rovesciarle non col silen- zio, non da oscurissimo
luogo, ma qui, pubblicissi- mamente, al cospetto di voi tutti', sentenziando,
che non dovea più lasciarsi, ma ritogliersi a noi la po- destà tribunizia, che
è la primaria ed unica difesa della libertà, e col mezzo della quale potemmo
ri^ congiungersi. Nè qui C ardinsento finì del suo dire, ina vi consigliava a
ritorcela ; divulgando come una ingiuria la libertà dei poveri, e tirannide
nominando r uguaglianza. Risovvengavi ( era questa la più infame delle istanze
sue ) com’ egli disse allora, che era pur venuto il tempo di ricordar tutte le
ingiurie del po- polo nella prima discordia, e come esortava quindi a mantenere
la stessa penuria di viveri, giacché il popolo, logoro dai disagf diuturni si
ridurrebbe a cedere in tutto ai patrizj. Non resisterebbero i poveri gran tempo
comperando a carissimo prezzo cibi scar-^ sissimi ma parte se ne andrebbero
lasciando la cUtà, e parte rimanendovi, perirebbero infelicissimamerUe, E così
delirava, così era in ira ogF Iddj ciò persua~ dandovi; che non discerneva che
oltre i tanti mali co* quali travagliavasi per annientare i trattati del Se-
nato, quando avrebbe ridotto i poveri i quali eran pur tanti, alle angustie de*
viveri, questi poveri ap- punto farebbonsi addosso agli autori delle angustie,
non più tenendoli per amici. Tanto che se voi pur delirando approvavate il suo
parere; non restava più mezzo : ma ne andava la rovina intera del popolo, o de*
patrizj. Imperocché non ci saremmo già dati quasi schiavi a spatriare o morire
: ma chiamando i genj ed i numi in testimonio de' mòli che soffriva- mo ;
avremmo riempiute, ben lo intendete, le piazze, e le vie di ukdergogne ; sin
che tu abbi un altra difesa qua^ Itlnque; scendi da quel tuo enlusiatmo
orgoglioso e tirannico, toma, o sciaurato, ai concetti del popolo : renditi
simile agli altri', prendi come chi ha peccato e raccomandasi, un abito
dismesso, addolorcvole * conforme ai disastri, e cerca il tuo scampo ; umilian-
doti, non insolentendo dinanzi gli oltraggiali da te. Sianti esempio di bella
moderazione^ le opere, le quali se tu avessi ùnitalo, non saresti ora ripreso
dai tuoi cittadini, io dico, quelle di tanti buoni, quanti qui ne vedi,
segnalati per tante virtù militari e ci- vili, quante non sarebbe facile
nemmeno in grati tempo pen.orrere. Li quali quantunque grandi e ris- spettabili
; niente mai fecero di duro, niente di or^ goglioso contro noi si tenui e bassi,
e primi intromiì- sero discorsi di pace, primi la pace offerirono, quando la
sorte ci avea separati, e concedcron la pace non su le condizioni che essi
riputavan migliori, ma su quelle che noi chiedevamo ; dandosi infine premura
grandissima di levcu'e i disgusti recenti su la dispenstt de' grani per la
quale noi gli accusavamo. Ma tralasciando le altre cose, quali ptc*- ghiere non
fecero per te, nel tuo superno acceca- mento, presso tutti, e presso ciascuno
del popolo per involarti alla pena? Appresso i consoli ed il Settato, i>
quali invigilano su questa, tanto grande città, cre- deron bene che al giudizio
ti sottomettessi del pò- polo, nè tu o Marcio a bene lo tieni ? Questi tutti
non han per un biasimo il pregare per tuo scampo il popolo, e tu per biasimo
tei prenderai? JVè ciò li bastava, o magnanimo ; ma quasi fatta una belV o»
pera, ne vai con fronte altera e magmfìcandoti, e niente adoperandoti a
mansuefarli? per non dire che insulti, che rimproveri, che minacci la plebe. E
pre- tendendo lui quanto niuno di voi ; non vi sdegnerete, o Padri, a tanto
orgoglio ? Se voi tutti risolveste di accingervi ad una guerra per esso ; egli
dovrebbe amarvene, e tenersi tutto pronto per voi, non accet- tar però mai un
tal bene privato col danno comune, ma sottomettersi alle difese, alla sentenza,
a tutte infine le pene, se bisognasse. Questo- sarebbe l’ ob- bligo di un vero
cittadino, di uno che vuole il bene colle opere, non colle parole. Ma le
violenze pre- senti qual ne additano mai C indole sua, quale la inclinazione ?
quella appunto di violare i giuramenti, di tradire la fede, di rescinder gli
accordi, di far guerra al popolo, di oltraggiare le persone dei ma- gistrati,
di non sottometter la propria per niuna mai di queste cause, e di girarsela
franchissimamente, non come un eguale di tanti cittadini, ma come uno che niun
teme, e di niuno abbisogna, immunissimo in tutto da tribunali e discolpe. Or
non è questo un vi- vere alla tirannica? certo che jì / Eppure a conforto di
quest’ uomo spargono aure lievi e suoni dolci, al- cuni tra voi che pieni di
odio implacabile verso del popolo non san vedere che questo male si termina
anzi contro de’ nobili che degl’ ignobili, e credonsi affatto sicuri, sol che
deprimano il partito che è loro contrario per natura. Ma non così sta il vero,
ingan- nati che siete. Prendete a maestra la esperienza che Marcio stesso vi
somministra, prendetene il corso dei tempi: illuminatevi per gli esempj
stranieri insieme e domestici.^ e ravvisale, che la tirannia la qual nu- dtesi
contro i plebei, contro tutta la città si alimene ta: e che la tirannia che ora
contea noi s’ incornine eia, fortificatasi, contea tutti ruggirà. Ragionate
queste cose da Oecio, e supplite da’ triboni compagni quelle che mancar vi
sembravano, quando il Senato nè dovè sentenziare, levaronsi i primi in piedi i
seniori tra gii uomini consolari, inviati se- condo r ordjne consueto dai
consoli, e quindi via via gli altri men riguardevoli per queste qualità :
seguirono ultimi i giovani, ma non disser parola ; perocché ci avea di que’
giorni ancora tra’ Romani la verecondia, che niun giovane si arrogava saperne
più degli anziani. Pertanto accostaronsi essi alle sentenze de’consolarì. Erasi
preordinato che i senatori presenti giurassero prima, come ne’ tribunali, e poi
dessero il voto. Appio Clau- dio il patrizio, come ho detto, più acerbo col
popolo, e che mai non aveva approvato che si concordasse con esso, mal soffriva
che ora si facesse un pari decreto, e disse : Avi'ei veramente voluto, e più
voltf ne ho supplicato i numi, essermi sbagliato io circa il sentimento su la
pace col popolo, vede a dire che il ritorno de’ fi frusciti non era nè giusto,
nè decoroso, nè utile; tanto che quante volte sen prese a trattare^ tante io
primo ed ultimo mi vi opposi, anche abbona donalo da tutti. Anzi avrei voluto o
padri, che voi li quali per le speranze concepute del meglio, cora-^ Digilized
by Google 3-y4 delle Antichità.* boriane (UscendesCe ed popolo sul giusto e su
t ingiusto, He compariste ora più savi di me. Hiuscitevi però le cose, non come
io desiderava, anche pregando_ne i numi, ma come io prevedeva, e cangialevisi
le beneficente in vilipendio ed odio ; io lascerò, come estraneo a ciò che dee
farsi, di riprendervi e di contristarvi in vano per le vostre mancanze,
quantunque sarebbe pur facile, ed è pur questo f uso dei più. Dirò piut- tosto
ciò che può rettificare le cose passate, quelle almeno che non sono in tutto
insanabili, e renderci più savj circa le presenti. Quantunque non ignoro, che
dicendo io liberamente i miei sentimenti, parrò farneticare e sagrifìearmi, ad
alcuni di voi, li quali considerino quanto sia disastroso il parlar
francamente, e riflettano la calamità di Mcuxio, il quale non per altra cagione
ora corre perìcolo della vita. Ma io non penso che la cura della propria
salvezza sia da pre- giarsi più che il pubblico bene. Già questa mia per- sona
è tutta pe’ vostri pericoli, tutta pe' cimenti della patria ; tanto che gl’
incontrerò generosissimamenle, come piace agl’ Iddj, con tutti voi, o con pochi
^ e solo ancora, se bisogna. Nè finché io vivo, mai mi terrà la paura dal dire
quello che io penso. E primieramente io voglio elte vi persua- diate una volta
senza eccezioni che il popolo è ma- laffetto, e nemico al governo presente f e
che qua- lunque cosa gli avete, coma deboli, corueduta, £ avete spesa
vanissimamente, e vi è stala cagione di vilipen- dio, quasi conceduta £ abbiate
per forza, non a ra- gion veduta, c per beneplacito. Considerate come il popolo
si appartò da voi, pigliando le armi, e come ardi mostrarvìsi palesissimamente
per inimico, non o^eso da voi realmente, ma fingendosi offeso : per- chè non
polca corrispondere a suoi creditori, e di- cendo, che se decreten ate la
remissione dei debiti, e la condonazione delle colpe commesse per la sedi-
zione, non desidererebbe più oltre. 1 più di voi, non però tutti, sedotti da
vani consiglieri ( cosi /atto mai non lo avessero ! ) deliberarono di anntdUire
le leggi, mallevadrici della fede pubblica, nè più ricordane, nè perseguitare
l’ esorbitanze passate. Egli però non si tenne già contento di questa
concessione, pel solo bisogno della quale diceva di essersi ribellato ; ma ben
tosto pretese altra prerogativa più grande, e meno legittima : io dico quella
di eleggersi ogni anno dal- t ordin suo i tribuni, pretestando il troppo nostro
potere, peichè fossero scudo e rf i^io d poveri oltrag- giati ed oppressi, ma
in realtà tendendo insidie alio stato delta repubblica, e volendola ridurre
democra- tica. Adunque vi persuasero questi consiglieri a la- sciare che
entrasse in repubblica il tr ibunato ; come in fatti vi entrò per isciagura
comune, e princìfxd- mente in onta del Senato, mentre io, se bene ve ne ricorda,
tanto ne schiamazzava, protestando ai numi ed agli uomini, che introdurreste
tra voi una guerra interna ed implacabile, e presagendovi tutti i mali, quanti
ve ne avvengono. E questo buon popolo che vi ha egli fatto dopo che gli avole
conceduto il tribunato? Non ha già va- luta’o degnamente tanto dono, anzi
nemmeno da voi prese con prudenza, e con verecondia, come so glie lo abbiate
accordato, premuti e costernali dalle forze di lui. Ha detto che aveasi a
rendere sacro, inviolabile, sicuro pe giuramenti, ed ha pretesa un autorità
migliore che rwn quella da voi destinata pei consoli. E voi avete tollerato
ancor questo, e là tra le vittime giuravate la roidna di voi e de’ vostri di--
scendenti. E dopo questo ancora che vi ha fatto egli mai questo popolo ? In
luogo di riconoscervene, dolora per le
altrui sciagure, e sa compatire gli uomini costituiti in dignità, se la sorte
loro travolgasi. Tuttavia diresse a Marcio la maggior parte del discorso mista
di ammonimenti, di esortazioni, e di preghiere che face- vano violenza. E
giacché egli era la causa . della discor- danza del popolo dal Senato, e
calunniavasi come ti- rannica la esuberanza delle sue maniere, e temeasi che
per lui si desse principio alle sedizioni e ai mali gra- vissimi, quanti ne
sorgono dalle guerre civili; pregavalo a non verificare, o non confermare
almeno le incolpa- zioni e le paure con quel suo nou gradito contegno :
assumesse un abito più umiliato : sottomettesse la sua persona per dar conto a
quelli che chiamavausi oltrag- giati da lui : si presentasse alle difese contro
di un ac- cusa ingiusta si, ma che in giudizio appunto si annul- lerebbe.
Sarebbe un tal fare più sicuro per la salvezza, più splendido per la fama che
desiderava, e più con- sentaneo colie opere antecedenti. Dichiarava che se
ostinavasi anziché raddolcirsi, e se riduceva, persua- dendoli, i padri a
subire ogni pericolo per òsso, mi- sera sarebbe per loro se vinti la perdita,
ma turpissima se vincitori, la vittoria. E qui tutto davasi al pianto,
riepilogando i mali gravi e non dubbj che straziano nelle discordie le città.
LY. Tali cose esponendo con molte lagrime non artificiose 'e noa finte, ina
vere, egli venerabillstima per anni e per meriti, come videne commosso tutto il
Senato, cosi con più confidenza seguitò, dicendo : Se alcuno di voi conturbasi,
o padri, pensando che in- troducesi un tristo costume nel concedere al popolo
di votar su patrizj, e che non produrrà niun bene f autorità de' tribuni che
tanto si fortifica, sappiate che voi siete errici, e v ideate il contrario di
quel che conviene Imperocché se mai vi sarà metodo sa- lutare, metodo per cui
non si tolga né la libertà nè le forze a Romec, e per cui le si conservi in
perpetuo la concordia ; senza dubbio il metodo principalissimo sarà quello che
assumasi anche il popolo al goverrto, talché non sìa questo nè pretta
oligarchia, nè demo- crazia, ma un tal misto di tutti. E questa la forma che
più che tutte ne giovi ; perchè ciascuna delle al- tre, applicata sola, com* è
per sestessa, scorre faci- lissimamente alle insolenze ed alle ingiustizie;
laddove quando una forma si abbia ben contemperata da tutte, allora se una
parte commovesi ed esce dal- r orditi suo, vien contenuta sempre dall altra,
che è savia, e tiensi al dovere. La monarchia divenuta dura^ superba, tirannica,
suole abbattersi da pochi valenti uomini : la oligarchia, qual voi t avete al
presente, se troppo s' innalza per le ricchezze e per le ade- renze, nè più
tien conto della giustizia e della virtùf si annienta da un popolo savio : un
popolo savio e che vive secondo le leggi, se poi volgesi ai disordini ed alle
ingiustizie; è sopraffatto dalle arme, e rimesso piomat, tamo II. ' . j5
Digìtized by Google 386 DELLE antichità’ ROMANE in dovere dal pià forte. Voi
trovaste, o padri, rimedj efficaci perchè il potere di un solo non si mutasse i
n tirannide. Voi scegliendo in luogo di un solo due capi della repubblica, e
dando loro il comando non per un tempo illimitato, ma per un anno; destinaste
oltracciò per invigilarli i trecento patrizf, i più anziani e più grandi, da'
quali è composto il Senato. Ma voi, per quanto si vede, non avete fin qui messo
per voi niun che vi osservi, e tenga in dovere. CeT’~ tornente io finora non
temei che vi corrompeste ancor voi tra t abbondanza, e la grandezza dei beni,
per-- chè non è molto che avete liberato Roma da una vecchia tirannide ; nè aveste
mai comodo di scapric- ciarvi e cC insolentire per le guerre continue e lunghe.
Ma riflettendo io ciocché può succedere dopo voi, e quante mutazioni suol
produrre la diuturnità dei tempi ; temo che i potenti del Senato si
rimescolino, e riducano per occulte vie finalmente il governo in tirannide. Ma
se comunicherete il comando col popolo, non sorgerà quindi alcun male. E se
altri ( giacché tutto dee prevedersi da chi consulta su la repubblica) se altri
tenti elevarsi più de’ colleghi e del Senato, procacciandosi un seguito di
uomini pronti a congiu- rare e ad offendere ; costui citato dai tribuni al po-
polo, per quanto egli sia grande e magnifico, renderà conto ai negletti ed ai
poveri : e trovatosi reo, ne subirà le pene che merita. Ma perchè il popolo con
tal potere non insolentisca nemmen esso, nè guidato da capi rei s’ inalberi
contro de' buoni, tiranneggiando che nasce tmcìie nel popolo la tirannide ) ;
lo invi- gilerà, nè pennellerà che ne abusi un uomo distin- tissimo per
saviezza. Un dittatore eletto da voi con potere assoluto, inappellabile,
separerà dalla città la parte infetta di popolo, nè lascerà che la sana se ne
corrompa. Egli, riordinati i costumi e le preclare maniere del vivere, nominati
i magistrali, che giudica savissimi per la cura del pubblico, ed eseguili tali
cose in sei mesi, rientri di bel nuovo nella classe de’ privati, conservando
per sè t onore, e non più. Pertanto considercutdo vqì questo, e giudicando bo-
nissima tal forma di repubblica, non vogliate da ciò che chiede escludere il
popolo. Ala come avete attri- buito al popolo che scelga ogni anno i magistrali
che regolino, che ratifichi o annulli le leggi, e decida della guerra e della
pace, cose tutte rilevantissime e principali tra quante in uno stato sen
facciano ; nè avete di niuna di esse lasciato cubitro indipendente il Senato ;
cosi chiamale anche il popolo a parte dei giudizj, massimamente se alcuno sia
accusato di of- fendere la stessa repubblica, eccitando sedizioni, pre- parando
la tirannide, convenendosi co’ nemici di tra- dirci, e macchinando mali
consimili. Imperocché quanto più renderete terribile agl indocili ed ai superbi
la trasgression delle leggi, e le innovazioni di Stato, mostrando intenti su
loro più occhi e più guardie ; tanto più la repubblica starà nel suo fiore.
Dette queste e cose consimili, tacque. Con- vennero nel parere medesimo gli
altri senatori sorti dopo lui, eccettuatine pochi. E standosene ornai per
formare il decreto ; chiese Marcio la parola e disse : Quale, o padri coscritti,
io sia stato verso la repub^ blica, come io sia venuto in tanto pericolo per la
benevolenza mia verso di voi, e come ora io ne sia da voi contraccambiato fuori
della mia espettazione, voi tutti il vedete, e meglio lo intenderete ancora
dopo dato un fine alle mie cose. Ed oh ! se come la sentenza di Valerio prevale
; così vi giovasse, ed io mi sbagliassi nelle mie congetture sul futuro. Al-
meno però perchè voi che siete per emanare il de- creto, conosciate le cause
p^r le quali mi consegniate al popolo, nè io ignori su che sarà combattuto nel-
t adunanza di esso ; intimale ai tribuni che dicano alla presenza vostra la
ingiustizia su la quale mi ac- cuseranno, e qual titolo diasi a questo
giudizio. LVin. Egli cosi diceva, perchè congetturava che a* vrebbe a
difendersi appunto pe’ discorsi fatti in Senato, e perchè voleva che i tribuni
convenissero che su que» sto appunto verserebbe l’azione. Ma i tribuni
consulta- tisi lo accusarono che brigato avesse la tirannide, e su. questa
accusa chiedevano che venisse a difendersi. (Schivi di restringere 1’ accusa ad
una sola causa, e questa nè valida nè cara ai Senato ; riserbavansi il potere
di ac- cusarlo su quanto volevano > pensando che resterebbe così Marcio
spogliato di tutto il soccorso del Senato ). Marcio dunque replicò: se io debbo
essere giudicato su questa calunnia, mi sottometto ed giudizio del popolo, nò
mi oppongo che ne stenda il Senato 'il decreto. Piaceva al più de’ padri che su
ciò si rigi- rasse l’accusa e per due fini: perchè da indi in poi non più
sarebbe un senatore incolpato per dire cioc> chè pensava nelle consultazioni
; e perché di leggieri quel valentuomo se ne purgherebbe, sobbriissimo altron«
de, ed irreprensibile nella vita. F u dunque, secoudo ciò, steso il decreto pel
giudizio : e dato a Marcio tem* po per preparar le difese da indi al terzo
mercato. Te- nevasi allora, e tuttavia si tiene da’ Romani il mercato in ogni
nono giorno. In questi adunandosi i plebei dalle campagne in città ; vi
cambiavan le merci, e vi discu- tevano le liti private : e ricevendo i voti ;
sentenziavano su le cause pubbliche, riservate loro dalle leggi, o dal Senato.
Negli otto giorni intermedj a’ mercati viveansi nelle campagne, essendone i più
di loro lavoratori e poveri. I tribuni preso il decreto, e recatisi al Foro,
v’adunàrono il popolo : e lodatovi con ampj encomj il Senato, e lettavene la
sentenza ; intimarono il giorno nel quale si finirebbe quella causa ;
raccomandando a tutti d’ intervenire, perchè discuterebbono importantis- sime
cose. LIX. Divulgato ciò ; vivissime furono le cure e i ma* neggi de’ plebei e
de’ patrizj ; di quelli come per punire un arrogante, e di questi perchè non
restasse all’ arbi- trio de’ loro avversar] il difensore del comando de’ po-
chi. Pareva ad ambi che si mettessero in quella causa a pericolo i diritti
tutti della vita e della libertà. Giunto il terzo mercato, si ridusse dalle
campagne in città tanta moltitudine, quanta mai più per addietro, occu- pando infino
dall’ alba il Foro. I tribuni la invitarono a riunirsi per tribù, separando con
funi il sito dove ciascuna si alluogherebbe. L’ adunanza su quest’ uomo fu la
prima la quale votasse per tribù ( i ), sebbene as- sai si opponessero i
palrizj perchè ciò si facesse ; chie- dendo che si tenessero, com’era l’uso
della patria, i comizj per centurie. Imperocché ne’ primi ten>pi se il
popolo dovea votare su di una causa qualunque rimes- sagli dal Senato ; i
consoli adunavano i comizj per cen- turie, compiendo prima i sagrifìzj
legittimi, che in parte si compiono ancora. Il popolo ordinato come nei tempi
di guerra sotto i centurioni e le insegne, adu- navasi nel campo di Marte posto
innanzi della città. Quivi non prendevano e davano tatti insieme il lor voto ;
ma ciascuno nella propria centuria, secondo che eran chiamate dai consoli. Ed
essendo le centurie cento novanta tre, e dividendosi queste in sci classi,
chiama- vasi innanzi tutte, e dava il suo voto la prima classe, la quale
formata dei più riguardevoli per sostanze, e primi negli ordini militari,
comprendeva diciotto cen- turie equestri, ed ottanta appiedi. Appressò votava
1’ al- tra classe la quale men comoda per sostanze, seconda nell’ ordine della
battaglia, e men cospicua de' primi per armatura, formava venti centurie;
aggiuntene ancor due di artefici, i quali apprestano legni e ierro, ed ogni
altra macchina militare. Costituivano i chiamati nella terza classe venti
centurie, inferiori tutte nell’ onore, nell’ ordine della battaglia, e nelle
armi, non simili a quelle de’ precedenti. Gli altri chiamati appresso, rispet-
tabili anche meno in pregio di sostanze e di armi, ma più sicuri di posto nella
battaglia, divideausi ugualmente (i) Anni di Roma a63 secoado Catone, aR5
secondo Varrone, a 4^ ae- Cristo. ia
venti centurie ; alle quali se ne univano altre due y di suonatori di corni e
di trombe. Qiiamavasi per quIn-i>. 4 t S'So j ù tratta la materia medesima.
I soldati che qui si dicoDo immuni dai cataloghi militari, erano certameule
liberi dalle coscrizioni: peral- tro potevano militare se volevano. (a) Nella
prima classe ci aveano ottanta centnrie appiedi a diciotto a cavallo, ìu lutto
novanlollo vedi loco citato. Le altre classi in tutto costituivano
novantacinque centurie : perchè la seconda classe com- prendeva venlidua
centurie: la terza venti: la quarta di nuovo ven* lidne : e la quinta trenta;
risultaudo la sesta da una sola. Digitized by Google 3q2 delle antichità’
romane bio da ricorrere al voto fioale de’ poveri. Era questo il refìigio
estreirio, se mai le cento novantadue centu- rie scindeansi in parti eguali ; e
ne preponderava la parte alla quale quell’ ultimo voto si volgeva. Chiedeano i
difensori di Marcio che si adunassero i comizj ordinati secondo gli averi,
immaginandosi forse che il valentuomo sarebbe liberato dalle novantotto
centurie' della prima classe quando le chiamavano, o dalie altre almeno della
seconda o della terza. Ma sospettando eziandio ciò li tribuni, conclusero che
si avesse a riunire il popolo per tribù, e così renderlo giudice della contesa
; perchè nè i poveri ci avessero men potere dei ricchi, nè i soldati leggeri
men di quelli di grave armatura, nè la molti- tudine, differita per 1’ ultima
chiamata, fosse impedita a dare egnal voto. Divenuti tutti pari nell’ onore . e
nel voto, avrebbero ad una sola chiamata dato i loro suf- fragi tribù. Or
pareano i tribuni più giusti che gli altri, col pensare che il giudizio del
popolo fosse ve- ramente del popolo, non della parte fautrice degli ot- timati
; e che su le offese di tutti, tutti dovessero sen- tenziare. Conceduto ciò con
stento da’ patrizj, essendosi ornai per disputare la causa, Minucio 1’ altro
de' con- soli ascese il primo in ringhiera, e disse quanto eragli stato
commesso dal Senato. E prima ricordò tutte le be- neficenze, quante il popolo
ne avea ricevute da’ patri- zi : e poi chiese in contraccambio di queste, eh’
eran pur tante, che il popob concedesse una grazia, neces- saria ad essi che la
domandavano, pel pubblico bene : quindi lodò la concordia e la pace e rilevò di
quanti beni Sten causa I’ una e T altra nelle citUi: condannò le sedizioni e le
guerre intestine; e mostrò, che ne erano stale distrutte le città con gli
abitanti, anzi le • intere nazioni : raccomandò che secondando l’ira non
isceglies* sero il peggio per lo migliore: che provredessero il fu- turo con
saviezza, non si valessero in consultazioni gra» vissime dèi consiglio de*
cittadini più tristi, ma di quelli che tenean per bonissimi, da’ quali sapeano
«sere stata tanto giovata in guerra ed in pace la patria, e de’ quali non era
giusto che diffidassero, quasi avessero già mu- tato > natura. Era 1’
intento di tanti discorsi, che non dessero niun voto contro di Marcio, ma in
vista prin- dpal mente di essi assolvessero quel valentuomo ; ricoi> dandosi
quale egli era stato per la repubblica, quante guerre avea portato a buon
termine per. la libertà e per r impèro di Roma, e come non farebbero cosa nè
pia; nè giusta, nè degna di . loro, se ingrati alle opere segna- late di lui ne
punissero le vane parole. Esservi bellis- sima la opportunità di dimetterlo ;
giacché egli presen* tava la sua pmeona ai nemici, per subirne in pace il
giudizio che di lùi formerebbero. E se non che ricon- ciliarsegli, persistevano
duri, implacabili con esso, al- meno giacché il Senato trecento i: più insigni
della città, facevasi a supplioudì, s’ impietosissero e mansuefacessero, ciò
considerando ; nè per punire un nemico ributtassero le {««ghiere di tanti amici,
ma in grazia di tanti va- lealuomini condonassero la pena di un solo. Dette
que- ste consimili cose, aggiunse in ultimo, che se assol- vesserò dopo dati i
voti un tal uomo, parrebbouo ril.i- aciarlo per non esser stato un ofTeusore
del popolo : ma se proibivano di prosegniroe il giudieio, mostrerebbero di
donarlo a tanti che per lui supplicavano. E qui taciutosi Minucio, fecesi
innanzi Sicinio il tribuno, e disse: che. uè egli tradirebbe la libertà del
popolo, nè permetterebbe di buon grado che altri la tradissero. Pertanto se i
patiizj sottomettevano realmente un tal uomo al giudizio del pòpolo, iàrebbe
che su lui si votasse, nè punto da ciò i si scosterebbe. ^ E; qui su- bentrando
Minucio replicava : Poiché- siete o tribuni fermi in tutto eli dare il voto su
quest’uomo; almeno non lo accusale di altro che della offesa imputatagli. K
poiché lo dinunziaste reo di ambita tirannide di* chiarate e convincete, ciò
con gli argomenti t ma' non vogliate .nè ricordare nè accusare le parole, le
quali 10 incolpavate, di^ carer . detto in Senato.^ Imperocché 11 Senato lo
dichiarava immune da que'sta colpa j e sentenziò phe al popolo si. presentasse
'..per le cause convenute. E qui lesse la seuteoBa. E pò,bn gli altri più
potati de’ tfibutii. Ma- non eà' tosto' tocoù atMarciu-di perórare, combaciando
da capo, numttò quante spedizioni mili- tari avea sostenuto dalla prima età
sua>per.^ blica, quante corone trionfali avea' riportate da saoi cc.^^
mandanti, quanti erano i nemici presi da lui prigionie- ri, quanti li Cittadini
salvati nelle battaglie. E ad ogni dir suo mostrava i premj dati al suo valore,
e ne profferiva io testimonio I capitani, e ne chiamava a nome i cittadini
liberati. E questi si presentavano sospirando e supplicando i cittadini a non
uccidere, nè distruggere come nemico chi era la causa della loro salvezza ;
chie- dendo la vita di un solo per quella di tanti, ed esi- bendo in luogo di lui
sestessi, perchè come più vo- leano ne disponessero. Erano i più di loro del
popolo » anzi al popolo utilissimi. E preso il popolo da verecon- dia all’
aspetto ed alle lagrime di tanti ne impietosi, e ne pianse. Quando Marcio
squarciandosi 1’ abito, mo- strò pieno il petto, piene le altre membra di
cicatrici, e dimandò se credeano poter esser le opere di un uomo stesso salvare
il popolo in guerra dà nemici, e saU alo opprimerlo nella pace : e se chi fonda
una rannlde, caccia dalla città una porle del popolo, dal (filale
principalmente la tirannide si alimenta e cor- rohora. E lui parlando ancora,
tutti i più mansueti, e più umani del popolo esclamavano, che si rilasciasse: e
vergognavansi che stesse fio dal principio in giudizio per simil cagione un
uomo che avea tante volte spre- giata la propria salvezza per quella di tutti.
Ma tutti i più invidiosi, tutti i più malevoli ai buoni, e più pronti alle
sedizioni, soffrivano di mai in cuore di avere a li- berare un tal uomo :
tuttavia non sapeano che più fare, non apparendo in esso indizj nè di tirannide,
nè di ambizion di tirannide, e su ciò dovessi giudicare. Or ciò vedendo quel
Decio che avea ragio- nato in Senato, e procurato che si stendesse il decreto
per la causa, levatosi in piede fece silenzio e disse : Poiché, o popolo, i
patrizj hanno assoluto Marcio dalle parole dette in Senato, e da fatti violenti
e superbi che le seguirono: nè vi hanno lasciato mezzi onde accusarlo ; udite,
non le parole, no, ma la egregia cosa che questo valentuomo vi apparecchiava ;
uditene £ orgoglio, la sovverchieria, e conoscete qual vostra legge, egli
privatissimo uomo, violasse. Koi tutti sapete che quante spoglie nemiche ci
riesce di acquistar col valore, tutte per legge son del comune, e che niuno,
nemmeno lo stesso capitano, non che un privato, ne è £ arbitro ; sapete che il
questore le prende, le vende, e, fattone danaro, lo versa nel pubblico erario.
Or questa legge che niuno da cheRoma è Roma non solo non ha mai violato, ma
nemmeno ha ripreso come non buona ; questa già firmala, invalsa, questa ha £
unico Marcio con- culcata, appropriando le prede che erano del comune, £ anno
scaduto, e non prima. Imperocché essendo noi scorsi su le terre degli Anziati,
e pigliato aven- dovi prigionieri, e bestiami, e frumenti, ed altro in copia ;
egli non depositò già tutto' nelle mani del questore: e nemmeno, alienandolo,
ne mise il prezzo nel£ erario : ma divise in dono agli amici suoi per
cattivarseli, tutta la preda ; or questo io dico eh’ egli è argomento
certissimo di tirannide. E come no ? Costui beneficava col tesoro pubblico li
suoi adulatori, li custodi della sua persona, li cooperatori della ti- rannide.
E vi affermo che questo fu come un abro- gare manifestamente la legge. Or su,
facciasi pure innanzi Marcio, e dimostri £ una o £ altra delle due; omelie egli
non compartì le belliche prede a’ suoi amici ; o che se bene ciò fece, non
ruppe la legge. Ma egli non potrà dire ninna di queste due cose. Imperocché voi
sapete ( una e V altra, la legge e t opera : Nè mai potrete coll assolverlo,
dar vista di conoscere i diritti ed i giuramenti. Lascia o Marcio le corone ed
i premj, lascia le ferite ed ogni osten- tazione, e rispondi a questo, su che
li concedo ornai che tu parli. Cagionò tale accusa grande mutazione; e li più
dolci, e più premurosi per I’ assoluzione di questo uomo si rallentaron ciò
udendo. E li più perfidi, quali erano i più della plebe, deliberati allatto di
perderlo, vi si ostinarono ancor più, per una occasione si gran- de, e si-
manifesta. EU’ era ben vera la distribuzion della preda, non era però fatta per
mal genio, nè in vista di una tirannide, come Decio calunniava, ma solo con
fine benissimo, con quello cioè di riparare ai mali della repubblica : perchè
essendo allora il popolo di- scorde ed alienato da’patrizj, i nemici
dispregiandoli, ne scorrevano e ne predavano di continuo le campagne. E quante
volle parve al Senato di spedire una forza che li reprimesse, ninno usciva del
popolo, anzi giubbilava contemplando i casi d’ intorno, nè le forze dei patrizj
ba- stavano a contrapporsi. Or ciò vedendo Marcio promise ai consoli, se lo
creavano capitano, di portar su' nemici un’ar- mata spontanea, e di pigliarne
ben tosto vendetta. Ottenuto Marcio il potere, congregò li clienti, gli amici,
e quanti voleano partecipare le sue fortune, e la sua gloria nelle armi. E
quando parvegli che si fosse raccolta milizia suf- ficiente ; la menò su’
nemici che niente ne prevedeano. Scorso in region doviziosissima, ed arbitro
divenuto di amplissima preda, permise alle sue milizie che tutta se la
dividessero, afUnchè li compagni dell’ impresa, rac- coltone il frutto,
andassero pronti anche agli altri ci- menti : e quelli, che impigrivano in
casa, considerando da quanti beni, a’ quali poteano partecipare, gli allon-
tanasse la sedizione; divenissero più savj per le spedi- zioni seguenti. Tale
era su ciò la idea del valentuomo. Ma la turba invida e tenebrosa,
considerandone con malvolere le operazioni, credette vedere in esse un pre-
dominio, nna largizione tirannica. Dond’ è che il Foro si riempié di clamori e
di tumulto : nè più Marcio, nè il consolo, nè alcun altro sapeano che
rispondere, riu- scendo la incolpazione inaspettata ed improvvisa. Poi- ché
dunque ninno più faceane le difese; i tribuni di- spensarono alle tribù li
suffragi, proponendo per pena del delitto Y' esilio perpetuo, io credo perchè
temevano, che se proponevano la morte, non sarebbevi stato con- dannato. Dato
da tutti il voto, e numeratili, non vi fu gran divario. Imperocché essendo
allora ventuna le tribù le quali ottennero il voto, nove si decisero per la li-
berazione di Marcio, tanto che se altre due vi si ag- giungevano, sarebbe stato,
còme ordina la legge, libe- rato per la uguaglianza (i). (i) Se le trìbCk erano
at, e nove si dichiararono per Marcio: dunque dodici lo condannarono; e però
ire o non due altre trilnt ci Toleano per uguagliare i Voli della condanna e
dell’ assoluzione. Forse Dionigi Tuoi dire che se la tribù condaunaTauo cd
undici assolvevano, l’efHcacia de’ voli era la stessa in guisa, che per uu voto
di più non cnndannavasi il reo, ma si rilasciava. Se ciò è, nel lesto non vi è
discordia, ma la voce dovrà tradursi I Fu questa la prima oitasione di un
patrizio al popolo per esserne giudicato : e d’ allora in poi fu stabilito il
costume che i tribuni chiamano chi lor piace de’ cittadini a subire il giudizio
del popolo. £ dopo tal fatto ancora assai il popolo si elevò, decadendo nom-
tneno il potere de’ pochi, perché ne furono ridotti ad ammettere > plebei
nel Senato, a concedere che aspi- rassero agli onori, a non vietare che
prendessero i sa- cerdozi, e a dividere con essi per forza e loro malgra- do, o
per provvidenza e saviezza, i tanti bei pregi, un tempo proprj solo de’ patrizj,
come ne’ luoghi op- portuni diremo. Del resto l’ uso di citare i cittadini pri-
mai'j al giudizio della moltitudine può somministrare ma- teria ben ampia di
discorso a chi vuol biasimarlo o lo- darlo ; perciocché molli uomini probi ed
egregj ne so- stennero cose non degne della loro virtù, fatti inglòrio- sameute
uccidere e malvagiamente pe’ tribuni : e per r opposito ne pagarono pnre la
debita pena molti uomini aiToganti e tirannici, astretti a dar conto del vivere
e procedere loro. Quando dunque vi si faceano con cor buono le discussioni, e
vi si reprimevano le esorbitanze dei graudi, quella sembrava mirabilissima
cosa, ed erano da tulli lodata : ma quando a torto il merito vi si pro- strava
de’ valentuomini egregj nel governo del comune ; sembrava orribilissima, e gli
autori se he accusavano non per la uguaglianza de' voti come abbiamo (allo ma
per la effi- cacia de’ voti. Sappiasi in fioe che talono de’ critici afferma
che le tribù allora erano 3i, e non 3i ; ma il Sigonio de civiiate Rom. G. 3,
ed Onofrio Vanvlno al c. 8, sostengono che erano realmente Tcntuna. della
coDsnetudtne. Esaminarono, evvero, più volte i Romani se la dovessero annullare,
o custodire come r aveano ricevuta dagli antenati ; ma non diedero mai fine
all’ esame. E se pur io debbo dirne ciocché ne pen- so, a me ne sembra la
istituzione, se per sé si consi- deri, vantaggiosa, anzi necessariissima a Roma
; esservi però più o mcn bene riuscita, secondo il carattere dei tribuni.
Imperocché se scontravansi savj, giusti, e sol- leciti del pubblico, più che
del proprio lor bene, e se chi offendeva la patria ne era, come dovea,
castigato; in tal caso un timor vivo frenava ancor gli altri dai fare
altrettanto. E 1’ uomo buono, 1’ uomo avvanzatosi eoo cuore puro ai maneggi
pubblici né subiva pene vergo- gnose, né gìudizj, alieni dal procedere suo. Ma
quando aveansi il poter tribunizio nomini scellerati, intempe- ranti, avari,
succedeane tutto l’opposito. Tantoché non dovessi rettificar come erronea la
consuetudine, ma curar piuttosto come si avesser tribuni probi ed onesti, senza
che tanta autorità temerariamente si conferisse. Tali furono le cagioni, e tale
il termine della prima sedizione de* Romani dopo la espulsione dei re. Io ne
parlai lungamente, perché ninno si meravigli come i patrizj permisero che il
popolo si attribuisse tanto po- tere, nè succedessero intanto come in alure
città, gli eccidj e le fughe degli ottimati.' Ciascuno brama cono- scere delle
insolite cose la cagione ; proporzionandosene a questa la credibilità. Dond’è
che io conclusi che non sarei stato creduto in gran parte o in tutto, se io di-
ceva nudamente, e senza allegarne le cause*, che i pa- trizj aveano ceduto ai
plebei la primazia ; e che polendo dominare come nei comando dei pochi, aveano
fenduto il popolo arbitro di affari gravissimi: e cosi concludendo ; volli
esprimerle tutte. E poiché ira loro non si violentarono e necessitarono colle
armi, ma coo- cordaronsi colla persuasiva, giudicai portare il pregio dell’
opera, che si esponessero soprattutto i discorsi te- nuti allor dai primari
ciascun dei partiti. E ben io mi stupirei che taluni pensassero doversi i falli
della guerra descrivere minutissimamente, e taivoha consu- massero tante parole
intorno di una sola battaglia di- cendo la natura de’ luoghi, la proprietà
delle armi, la forma delle ordinanae, le ammonizioni del capitano, e tatti i
motivi, quanti coadiuvarono la vittoria ; nè poi credessero che narrando i
movimenti, e le sedizioni ci- vili sen dovessero insieme riferire i discorsi
pe* quali si operarono impensate e maravigliosissime imprese. Certa-' mente se
nel governo de’ Romani vi fu portento degno di encomi, e della emulazione di
tutti, fu questo a parer mio, famosissimo più che i tanti, che pur vi fu- rono
stupendissimi, vuol dire che i plebei spregiando i patrizi non si avventa sser
su loro, uccidendone in co- pia i più insigni, ed usurpandone i beni, e che
quelli che esercitavan le cariche non conquidessero di per sestessi o co’
soccorsi di fuori tutto il popolo, rimanen- dosene poi liberi da paure in città
; ma che a guisa di fratelli co’ fratelli, e di figli co' padri in una savia
fa- miglia, la discorresser fra loro su’ diritti comuni, e finis- sero le
controversie col dialogo e colia persuasione, senza permettersi gli nni contro
degli altri azione alcuna inir DtOSttGl, tomo //• iG qua ed insanabile, come
nelle loro sedizioni ne fecero i Corciresi, come gli Argivi, i Milesj, e la
Sicilia in- tera, e tant’aliri. E jier queste cause io volli anzi esten- derne
che ristringerne la narrazione ; e ciascuno ne pensi come glien pare. . Avuto
allora il giudizio un tal esito, il po- polo si parti con una vana ghiattauza;
concependo aver tolto il comando dei pochi. Altronde i patrizj ne an- davano
umiliati e mesti, ed incolpavano Valerio per suggerimento del quale avevano
rimessa al popolo la sentenza. E quelli che riconducevano Marcio, impieto- siti,
ne sospiravano e ne lagrimavano : non però ve- deasi Marcio né piangere, nè
lamentare la sorte sua, nè dire o fare cosa qualunque, non degna de’ sublimi
suoi genj : anzi dimostrò più ancora la generosità e for- tezza deir animo suo,
quando giunto in casa ridevi la moglie e la madre che aveansi squarciata la
veste, e pesto il petto, e gridavano, come sogliono in simili casi, donne
separate dai loro più cari per 1’ esilio, o per la morte : niente invili tra le
lagrime, niente tra’ clamori delle donne. Ma dato loro un amplesso, le animava
a tollerar virilmente la disgrazia, raccomandando ad esse i suoi figli. Grande
era 1’ uno di dieci anni, ma sosteneano l’ altro colle braccia ancora. E senza
dare al- tri pegni della sua benevolenza, e senza tor seco cioc- ché
bisognavagli per 1’ esilio, usci sollecitamente dalle porte, non indicando a
ninno, dove si trasferiva.,Venuto pochi giorni appresso il tempo de’co- mizj,
furono dal popolo scelti consoli Quinto Sulpicio Camerino e Spurio Largio Flayo
per la seconda volta. Turbarono quest’anno la città molti segni di ce- lesti
terrori. Imperocché apparvero a molti visioni inso- lite, e voci si udirono
senza niun che parlasse ; le ge- nerazioni degli uomini e delle bestie assai
scostandosi dal naturale tendevano al mostruoso ed all’ incredibile: e si
udivano m più luoghi risonare gli oracoli, e donne da divino furor sorprese
annunziavano alla città lamen- tevoli e terribili sorti. Si aggiunse a tanto un
tal contagio nella- moltitudine. Fece questo assai strage di bestiame, ma non
molta fu la mortalità degli uomini, non esten- dendosi il morbo più in là che a
far dei malati. E chi diceva succedere l’ infortunio per disegno de’ numi i
quali si vendicavano dell’essere espulso dalla patria il migliore de’ cittadini
; e chi dicea che gli eventi non erano opera divina, ma fortuiti, come tutte le
vicende degli uomi- ni. Poi si presentò, portatovi in una lettiga, un infer- mo,
chiamato Tito Latino di nome, vecchissimo d’anni, fornito a sufficienza di beni,
e che avea per lo più vi- vuto nella campagna, lavorandola colie sue mani. Co-
stui venuto in Senato rivelò che avea tra il sonno ve- duto Giove Capitolino
che standogli a fronte, ua, disse ; fa intendere d tuoi cittadini che nelT
ultima pompa che mi celebrarono, non mi diedero un buon capo per la danza.
Pertanto mi ripetano, e compiano un altra festa di nuovo, non avendo io accett
ata la pri- ma. Dicea costui che risvegliatosi non faeea verun caso delia
visione, ma teneala come una delle comuni ed il- lusorie. Quando ecco infine
gli si presentò nel sonno (i) Anni di Roma a64 secondo Catone, *66 secondo
Varrone, e 48iS av. Cristo. la immagiue stessa, e bieca e sdegnata, che non
avesse annunziato i comandi al Senato, e minacciandolo, se non gli annunziava
immantinente che apprenderebbe con grave suo danno a non trascurare gt IddJ.
Que- sta seconda visione, egli disse, che la riguardò come la prima,
vergognandosi di assumer rincarico, egli vec- chio e lavoratore, di portare al
Senato i sogni suoi, pieni di augnrio e di terrore, perchè non vi fosse de-
riso. Or pochi giorni appresso il vago e giovine suo figlio, senza malattia, e
senza niuna causa sensibile fu rapito da morte improvvisa. E ben tosto il
simulacro stesso del nome apparendogli nel sonno gli dichiarò che egli area già
colla perdita del figlio subita la pena della sua trascuraggine, e del
dispregio delle celesti voci, ma che ben tosto ne subirebbe ancor altre. Udendo
tali cose disse che contentissimo ne accettava Uannun- tio, Se avesse a morirsi,
non più curando la vita: che non gli diede il nume però questa pena, ma che
gl'in- ternò per tutto il corpo dolori acutissimi ed insoffri-^ bili, non
potendone movere parte alcuna senza tor- mento estremo. E che allora infine
comunicato ^evento agli amici, venivane per consiglio loro al Senato. Pa- t^a,
ciò dicendo, che poco a poco si riavesse dal do- lore. Alfine compiuto il
discorso, usci di lettiga, ed in- vocato il nume, ne andò per la città libero e
sano in sua casa. Il Senato ne fu spaventato ed attonito (i), (i) Questo fatto
è riportato aoclie da Livio. Cicerone Io allega nel lib. I de Dininalione.
Quanto è facile sognare con chi sogna l Ma il Senato avea bisoguo d’ illudere
un popolo superstiiiuso, e ne secoudò li delirj . Per tali vie la verità si
confonde, e si allouuna! nè sapeva inf]ovinare ciocché il nume signifìcasse, e
qual fosse nella festa antecedente il duce, de’ salti che buono a lui non
paresse. Àlfìne un tale, memore del- r evento, lo disse ; e tutti se gli
accordarono. Qr fu r evento cosi : Un Romano non ignobile consegnando un suo
schiavo agli altri conservi perchè lo menassero alla morte, ordinò per renderne
più romorosa la pena, che lo traessero, flagellandolo, pel Foro, e per tutti,
quanti erano, i luoghi più insigni della città. Precedè costui la festa che la
città avea prescritto che si facesse in quei tempi a tal nume. Coloro che lo
spingevano al supplizio slargandogli e legandogli ambedue le mani ad un legno,
postogli dietro il petto e diretto per le spalle fino agli estremi delle
braccia, lo seguivano, e lo bat- tevano nudo co’ flagelli. Stretto costui da
tale necessità gridava e con sconce voci, quali il dolore gliele sug- geriva, e
tra salti indecenti, per le battiture. Or questo giudicarono tutti che fosse il
saltatore non buono indi- cato dai nume. E giacché sono a tal parte d’ istoria
penso non dover tralasciare i riti che nella festa si tengono dai Romani: non
perchè più bella ne sia la narrazione per giunte teatrali e per fioriti
discorsi, ma perchè sia più credibile il proposito rilevantissimo, vuol dire,
che greche furono le colonie fondatrici di Roma, e venute da famosissimi luoghi,
e non barbare e non prive di case, come alcuni hanno esposto. Imperocché nel
fine del primo libro, tessuto da me su la origine sua, pro- misi convalidarla
con mille forti argomenti di leggi, di costumi, d' industrie che vi persistono
ancora, quali si ricevette dagli avi ; nè giudico che basti a chi scrive le
storie antiche de’ luoghi delioearle come degne di fede perchè tali si odono
da’ paesani, ma per l’ opposito giudico che a renderle credibili abbisognino
queste di altri documenti invincibili, quali 'sono principalissima* mente le
cerimonie, ed il cullo usato in ognr città verso i numi e i genj patrj.
Certamente li Greci e li barbari custodiscono queste gelosamente per
lunghissimo tempo frenati dalla riverenza de’ numi vendicatori. E ciò fanno i
barbari soprattutto per molte cagioni da non essere qni ricordate. E ninno ha
mai persuaso a dimenticare o corrómpere alcuna delle divine cose gii Egizj, i
Lìbj, li Celti j gli Sciti, gl’ Indi # e general- mente tutti i barbari,
seppure caduti sotto il comando di altri non furono necessitati ancora di volgersi
ai riti loro. Roma però non fu mai ridotta a tal sorte, anzi essa diede agli
altri le leggi perpetuamente. Se traeva da’ barbari l’origin sua, dovette pur
da’barbari derivare s le istituzioni nazionali, per le quali g[iunse a tanta
for- tuna : e quindi dovette astringere tutti i sudditi a ve- nerare gl' Iddj
con le forme Romane come niigliori. Se dunque i Romani eran barbari, niente
poteva ritardare che barbara si rendesse tutta la Grecia che ornai da sette
generazioni ne porta il giogo. Alcuno forse crederà che bastino per segno non
piccolo delle pratiche antiche, quelle che ancor vi si usano. Ma perchè altri
noi prenda come insufhciente per la opinione non giusta, che i Romani quando
vinser la Grecia, con piacere ne assunsero i costumi come migliori, ripudiando
i proprj ; ho deliberato aiv _ gomentar dal tempo quando essi non ci dominavano
ancora, nè avevano olire mare 1’ impero, valendomi deir autorità di Quinto
Fabio senza che altra me ne bisogni. Imperocché antichissimo tra quanti
scrissero le cose ror.. .u., ce le accredita -non solo perciò che ne ha udito,
ma perciò che ne ha veduto ancora. Il Senato, come ho detto di sopra, aveva
decretato quella lesta, per adempiere il voto fattone da Aulo Postumio
dittatore, quando fu per combattere le cittàribellatesi de’Latini, che
tentavano rimettere Tarquinio sul trono: ed aveva decretato che si applicassero
ogni anno pt*r li sagriGcj e pe’ giuochi cinquecento mine di argento ; e
puntualmente ve le applicarono fino alla guerra con i Cartaginesi. In questi
sacri giorni si faceano molte cose conformi alle greche usanze circa il
concorso, 1’ acco- glienza de’ forestieri, e le immunità, cose tutte > ben
difficili a descriversi. Le cose poi, che concernono la pompa, i sagrifizj, ed
i certami, erano come sieguono, e ben da queste si possono argomentare, quali
fossero ancora, le tante cbe sen taciono. Prima cbe si desse principio ai
giuochi, le persone che aveano il potere più graude, avviavano dal Campidoglio
la pompa, conducendola pel Foro al Circo Massimo : e nella pompa eran primi i
lor figli prossimi alla pubertà : ma que’ garzoncelli che poteano per 1’ età
far parte della pompa ne andavano a cavallo se fossero di equestre famiglia, o
a piedi, se a piedi dovessero mili^'U'e; e .quali nc andavano ad ale e caterve,
e quali a corpi ed ordinanze maggiori come per essere istruiti: e ciò ptrcliò
fosse visibile ai forestieri la gioventù Romana che era per giungere alla età
militare, e quanto ne fosse il numero^ e quanta la bellezza. Venivano ap-
presso loro i guidatori di quadrighe, di bighe, ed altri che pompeggiavano su
cavalli non aggiogati. Seguivano quindi i combattitori di certami leggeri o
gravi; e nudi si vedevano, se non quanto velavano le parti del sesso. E tal
costume conservasi ancor tra' Romani come nei prìncipi aveasi pure tra’ Greci,
finché tra’ Greci vi fu tolto dai Spartani: Perchè il primo che prese a nudarsi
il corpo e nudo corse ne’ giuochi Olimpici nella olim- piade decimaquinta fu
Acanto di Lacedemonia; laddove innanzi lui vergognavansi i Gi'eci di avere
tolto nudo il corpo ne’ spettacoli, come certifica Omero scrittore antichissimo
e degnissimo più che tutti di fede, il quale introduce gli eroi cinti da una
zona. Quindi descrìvendo il certame di Ajace e di Ulisse ne’ funebri onori di
Pa- troclo disse : Sceser cimi di zona ambi alla pugna. E ciò dichiara ancor
più nell’ Odissea, narrando il pu- gilato di Irò e di Ulisse in tal modo : SI
disse ; e tulli encomiaro Ulisse, E di una zona circondàndo i lombi, Gli ampi e
voghi suoi femori scopria, ' E nude Sen vedean le vaste spalle,, Nudo il petto
t e le braccia. Ed introducendo quel misero che non volea combattere, ma ne
temea ; scrive : Cosi diceano : ad Irò il cor si scosse .• . Cinserlo i proci
di una zona, e tutto Tremante lo sospinsero alla pugna. Tal costume primitivo
de’ Gred serbato fino ali’ ultimo tempo dai Romani dimostra che questi non lo
appresero ultimamente da noi, anzi che non lo mutaron col • tempo, come abbiamo
noi fatto. Teneau dietro agli atleti, cori di saltatori divisi in tre bande :
erano i primi adulti, imberbi gli altri, e giovani gli ultimi ; venivano quindi
sonatori che davan fiato a tibie di an- tica forma, e picciole, come costumasi
ancora, e cita- redi che toccavan col plettro lire eburnee di sette corde, ed
altre ancora di più, barbiti nominati. DI questi era mancato l’uso ne’ miei
tempi tra’ Greci quantunque fosse lor proprio : ma tra’ Romani conservasi In
tutti i sagri- fizj 'di antico rito. Erano 1’ apparato de’ saltatori pur- puree
toniche, cinte con metalliche fasce, e spade che ne pendeano, ed aste anzi
corte che giuste : vedeasi negli altri uomini elmo di bronzo con cimieri vaghi,
e pcnnacchj che P adornavano. Era di ogni coro il duce un uomo il qual dava
agli altri la forma del ballo ; rappresentando moti marziali e vivi, con ritmo
per lo più proceleusmatico. Era greca antichissima pratica anche quella di
saltare colle armi e Pirrica si chiamava, sia che Minerva cominciasse la prima
dopo la disfatta de’ Titani a danzare e saltare colle arme tra cantici
trionfali per la vittoria ; sia che prima ancora fosse il (i) Proceleusmatico
cbiamaTasi no piè metrico di quattro sillabe brevi : e quiudi si diceauo fttrfi
i versi che conteueano que' piedi. Forse furono cosi detti perché soleano pre-
mettersi, caulandoli, r»7r rttXtvrfitiTt vuol dire alle esortazioni o comandi.
Quindi il ritmo proceleusmatico ne’ balli dovrebbe avere allusione a tali piedi
o versi, ed esortazioni. rito Introdotto da’ Cureti, quando educando Giova vo-
leano carezzarlo col suono delle arme, e con lièti moti e cadenze, come la
favola narra. Omero più volte, e principalmente nella foiDiazione dello' scudo
che dice * donato da Vulcano ad Achille, mostra l’ antichità • di questo rito,
e la nascita sua tra’ Greci. Imperocché rap- presentando in esso due città, l'
una ornata di pace bella, e l’ altra straziata dalla guerra, delinea, com’era
naturale, la felicità di quella con feste, con matrimonj, e conviti, e dice :
Faeton la danza i (Rovani, e frattanto Vdiati il suon di tibie, e cetre ; e
tutte, Meravigliando ai limitar di casa, Stavan le donne. E di nuovo elogiando
con vago ornamento nello scudo un altro coro di giovani e di vergini Cretesi
dice : Aveaci espresso V inclito Vulcano Un vario coro somigliante a quello .
Che Dedalo formò per Arianna, Che in si bei ricci avea la chioma attorta : Qui
giovinetti e ver^nelle vaghe. Tenendosi per man, facean lor dama. Ed esponendo
1’ ornamento di questo coro per dichia- rare che i giovani saltavano colle arme,
scrive ' E quelle 'avean vaghe ghirlande, e questi Aurate spade a cinti
argentei appese. E parlando dei duci del salto loro, di quelli che da- vano
agli altri le prime mosse, dice : . Il popolo prendea dolce diletto Intorno al
coro; e due de' saltatori Clan cantando e danzando a tutti in mezzo, Nè solo
potrem yedere la somiglianza co’ greci riti da qnf*sie danze marziali ed
ordinale, usate da' Romani ne’sagrifìcj e nelle pompe, ma dalle danze ancora
sati* ricFie e derisorie. Dopo i cori armati vedeansi in mostra cori imitatori
de’ satiri, non dissimili dalla greca Sicin- ne (i). L’abito in chi
Vappresentava un Sileno erano ispide vesti, chiamale da alcuni Cortee (2) ; e
manti con ogni varietà di fiori: in quelli poi che somigliavano un satiro erano
perizomi e pelli caprine, e sui capo criniere irte di lioni, e cose altrettali.
Or questi beffa- vano e contraffaceano serj moti, spargendovi del ridi- colo :
e gli andamenti de’ trionfi assai palesano che era antico e proprio de’ Romani
il motteggio e la satira. Imperocché permettevasi u quelli che segui van la
pompa lanciar beffe e giambi so gli uomini più riguardevoli, c fino su’
comandanti ; siccome un tempo in Alene era^ permesso che nè lanciasser quelli
che sul carro se^i- tavau la pompa, e che ora cantan versi improvvisi. Eid io
ne’ funerali di personaggi cospicui, specialmente se già fortunati, vidi tra le
altre pompe cori in forma di satiri che precedevano il feretro, e saltavano
come nella Sicinne. Che poi il gioco e la danza alla guisa de’ satiri non fu
ritrovamento de’ Liguri nè degli Umbri nè di altri barbari, abitanti dell’
Italia, ma de’ Greci ; temo di sembrare molesto, volendo a lungo convincere una
cosa della quale già si conviene. Dopo questi cori pas- A (1) Vossio scrive più
cose intorno a qeeslo genere di saltasione nel I. a c. 19. lusiiiul. Poei. (a)
Cortee proviene questa voce da ^cfTts r:hc siguitica Jìeno, er- ba CC. ’ » e
savano molti sonatori di tìbie e di cetere : e poi quelli che portavano profumi
di aromi e d’ Incensi, e quelli che portavano lavori meravigliosi di oro e di
argento sia de’templi, sia del comune. Venivano In ukimo della pompa recati su
le spalle di nomini I simulacri divini foggiati come quelli de’ Greci quanto
alla forma, agli, abiti, al simboli ed al doni, secondo che que’ numi es-‘
sendooe stati I trovatori, gli aveano, ciascuno., donati ai mortali, nè solo v’
erano I simulacri di Giove, di Giunone, di Minerva, di Nettuno, e degli altri
che li Greci contano tra I dodici numi (i); ma di altri più antichi da’ quali
la favola origina i dodici ; io dico i simulacri di Saturno, di Rea, di Temide,
di Làlona, delle Parche, di Miiemosine, in somma di lotti, quanti hao templi,
ed are fra i Greci, come quelli de’ numi che favoleggiansi nati dopo che Giove
ottenne l’impero, vuol dire quelli di Proserpina, di Lucina, delle Ninfe, delle
Muse, delle Ore, delle Grazie, di Bacco, e quelli de’ semidei, l’ anime de'
quali spogliate de.l corporeo frale diceansi andate in cielo, e goilervi onori
simili ai divini, cioè quelli di Ercole, di Esculapio, di Castore e Poi* luce,
di Elena, di Pane, e di altri mille. Se dunque i fondatori di Roma eran
barbari, e se v’istituiron tal festa; com’era possibile mai che adorassero
tutti I numi e genj della Grecia, negligentando I propr) ? Almeno mi si
dimostri un altra gente non greca, la quale avesse (i) Erodoto narra nel libro
seconda che: i Greci derivarono que- sti dodici Numi dagli Egiij. L’interprete
di Apollonio scrive die questi erano : Giove, Apollo, Mercurio, Nettuno, Marte,
Vulcano, Giunone, Diana, Pallade, Cerere, Venere, e Vesta. tali sante cose come
nazionali ; ed allora si condanni la mia dimostrazione come non buona.
Terminata la pompa facean sagri Gzio i consoli e que’ sacerdoti a’ quali spet-
tavasi, e la forma del santo rito era quale appunto tra noi. Lavatesi le mani,
lustrate le vittime con acqua pura, sparsi i frutti di Cerere sul capo di esse,
e poi fatti de’ voti, comandavano infine ai loro ministri d’ im- molarle. E
quale di questi mentre la vittima era in piede ancora ne percotea le tempia
colla mazza, e quale nel cadere la trafiggeva colle coltella. E poi scor-
ticandola c squartandola prendean le primiziedi cia- scuno de’ visceri e di
ogni membro : e sparsele con fa- rina di fiiTo, le portavano ne’ bacini a
quelli che sa- grilìcavano : e questi soprappostele all’ altare, le arde-^
vano, e spruzzavano intanto di vino. E poi facile in- tendere dalle poesie di
Omero essersi ciascuna di queste cose fatta secondo le leggi istituite da’
Greci pe’sagrifizj: perciocché descrive gli eroi che si lavan le mani ed usano
farina di farro con sale dicendo : E lavaron le mani, e sparser farro : E che
ne tagliano i capelli e li gittano al foco in quei detti : Ma cominciando il
santo rito getta 1 capelli sul foco ; E li descrive che colpiscono colle mazze
in fronte le vittime, e che cadute le immolano come fa nel sagri- fizio di
Emeo. Percotela, di quercia alzando un tronco, Cui rapido poi lascia ; e lascia
insieme Lo spirito la vittima, e qui gli altri Miseria in inani, e ne arrostino.
E descriveli che pigliano le primizie delle viscere, e di altri membri, e le
infarinano, e le bruciano su gli altari: come fa nel sagri fì ciò medesimo. E
da ogni parie le primìzie piglia Be’ membri tutù, e crudi ancor li copre Di
grasso, e di farina ; e dagli al foco . Ora io so per averlo veduto, che i
Romani osservano ancora tali riti ne' loro sagrificj : e su questo argomento,
anche solo, mi rendei certo, clie i fondatori di Roma non furono barbari, ma
grecivenuti da tutte le parti. Ben può essere che alcuni baiiiari somiglino in
pane ai Greci nelle istituzioni de’ sagriliz), e delle feste ; ma che in tutto
somiglino loro, ciò non è verisimile. Mi resta ora di dir brevemente de’
giuochi che faceano dopo la pompa. Era prima la corsa delie quadrighe, delle
bighe, e dei cavalli sciolti, come nei giuochi Olimpiaci e Pitiaci de’ Greci in
antico, e fiu di presente. Ne’ certami equestri si conservano ancora tra’
Romani due istituzioni antiche, come furono fon- date in principio, quella cioè
de’ carri a tre cavalli, la quale ora in Grecia è cessata ; sebben vi fosse an-
ticbissima e già ne’ tempi eroici ; introducendo Omero de’ Greci che ne usarono
nelle battaglie. Imperocché essendo due cavalli congiunti come nelle bighe un
terzo accompagnavali contenuto e tratto colle redini, e chia- mato parioron
appunto dall’ esser più libero ; e non come gli altri in biga. L’ altra cosa di
cui restano an- cor le vesiigie ne’ riti aniichi di alcune poche città di
Grecia è la corsa di quelli che anduvau su’ Carri ; peroccliè finite le gare a
cavallo, smontati dal carro quelli clt e sedere
presso del focolare
in silensio era un
aulichissioia maniera di
supplicare. Addita anche
ciò Tucidide nel t libro,
discorrendo di Temistocle:
e si vede un
tal rito piò chiaramente io
Plutarco nella vita di Coriolano, appunto
iu questo luogo. le
calamità che lo
(lageilavaDO, e lo
ìnchinaTano a ri- correre
perfino ai nemici, pregavalo ad
avere idee miti e benevole verso
chi rivolgevasi a lui, non
a tenerlo, mentre davaglisi nelle
mani, come avvemrio, nè a mostrar
la sua forza
contro gl' infelici
e depressi, e ri* flettere
piuttosto quanto istabili
fossero le sorti
degli uomini. £ ciò puoi, disse, apprendere principidmente da me, che
già potentissimo fra
tutti in città
grandis- sima, ora
derelitto, infelice, bandito,
senza patria, debbo correr
la sorte che
vuoi tu destinarmi.
Io, se tu amico me
ne rendi, io ti
prometto far tanto
bene ai Volsci, quanto male
ad essi cagionai, mentre ne era
nemico. Ala se
prevedi tuU' altro
di me, siegui r ira tua, dammi
in sulC atto
la morte, immolando colle stesse
tue mani il
supplichevole tuo, presso a’ tuoi
focolari. IL Or lui
cosi dicendo, Tulio gli
stese la destra, e sollevandolo, animavaio a confidare
; perocché non sof^ frirebbe
cose indegne della
sua virtù : professavasi in- sieme obbligatissimo che
avesse ricorso a lui,
per essere questa non
picciola significazione di
onore : promise che renderebbegli
amici tutti i Volsci, cominciando dalla patria
sua, nè mentite ne
furono le parole.
Dopo non molto tempo
deliberandone da solo a
solo, Marcio e Tulio, conchiuscro
di movere la
guerra, Tulio, con- centrando tutte le
forze de' Volsci, voleva
marciare im- mantinente su Roma,
mentre era agitata
ancora dalla sedizione, e
sotto consoli imbelli.
Marcio in opposito pensava che
vi abbisognasse prima
un titolo onesto
e giusto di guerra
; dicendo che gl’
Iddj mcschiavansi a tulle
le cose, e panico Urmenle
a quelle della guerra quanto
sono più rilevanti, ed
oscure nell’ esito.
Aveaci allora tra’ Volsci e tra' Romani
sospension d’arme, e tregua
ed amicizia, conchiusa poco
innanzi per due anni.
Se tnovi, disse,
inconsideratamente e precipito- samente
la guerra, tu sarai
colpevole di aver
rotti gli accordi, nè
te ne avrai
propizj gVIddj ; ma
se aspetti che i Eomani
ciò facciano ; si
giudicherà che tu ri-
sospingali, e protegga la confederazione che
violano. Ben ho io
con assai provvidenza
trovato come ciò
fac- ciasi, e come essi i primi
volgansi alle arme, e noi siam giudicati
et imprendere una
guerra giusta e san- ta. Bisogna che
per maneggio nostro
essi i primi of- fendano il giusto
: e tale è questo maneggio
che io finora ho
celato profondamente,
aspettandone il tem- po, e che ora
di necessità, sollecitissimo,
ti svelo, procurandone tu
la esecuzione. Debbono
i Romani far sagrifizj e giuochi
assai sontuosi e magnifici,
e molti accorreranno di
fuori agli spettacoli.
Attendi la occasione, ed
accorri tu pure a
tanto apparato, dando opera insieme,
che vi accorra, il
più che per
te si possa de’
Volsci. Come tu
sia in città, fa
che alcuno degli intimi
tuoi vadane ai
consoli, e dica loro secretissi- mamente, che i Volsci
tra la notte
assaliranno Ro- ma, e che perciò
vengono in tanta
moltitudine. Tu ben sai
quanto apprezzeranno la
nuova : vi cacceran senza indugio
da Roma, e vi porgeranno
un titolo giusto di
risentimento. HI. Esultò Tulio
meravigliosamente, ciò
udendo : e differito il
tempo d’ imprendere ; diedesi
ad apparecchiare la
gnerra. Approssimatisi poi
gli spettacoli, ed essendo
già consoli Giulio
e' Pinario ; am>rsevi
da tutte le città
la gioventà più
florida dei Yolsei, come
Tulio bramava. La maggior
parte non avendo
ricetto ndle case e pre»o
degli ospiti, presero alloggio
in sacri e pubblici
luoghi; e quando giravansi
per le strade,
ne andavano a crocchi e moltitudini
: tantoché già su
loro in città si
faceauo discorsi e sospetti
non buoni. In
que- sto mezzo venne ai
consoli un delatore
apparecchiato da Tulio, come avea
Marcio suggerito : e quasi
avesse a svelare a' nemici
una pratirà arcana
in danno degli amici
suoi, strinse ’i consoli
a giurare di salvar
lui, né mai dire
ad alcuno de’ Yolsei
chi avesse ciò
pale- sato, e poi dinuneiò gli
assalti mentiti. Parve
ai con- soli vero il
racconto, e ben tosto invitati
i senatori ad uno ad uno,
si congregarono. Presentatovi
il delatore, ed avutene
le eguali promesse, replicò la
dinunzia me- desima. Coloro a’
quali parea già
cosa piena di
sospetto che venuta fosse
agii spettacoli tanta
gioventù di una sola
nazione nemica, assai più
ne temerono, aggiun-
gendovisi ora una
dinunzia della quale
ignoravano la frodolenza. Parve
a tutti che si
cacciasser di città
quei forestieri prima che
il di tramontasse
con bando di morte
a chi non ubbidisse;
e che li consoli
invigilas- sero sicché
tranquilla ne fosse
la uscita, e senza offese. lY.
Decretato ciò dal
Senato, altri scorrendo le
strade intimavano ai Yolsei
di partire immantinente
tutti per la porta
detta Capena, ed altri
con i consoli li
scor- tavano, mentre
partivano. Or qui
più che altrove
si conobbe quanta mai
fosse, e quanta vigorosa quella moltiiadine ; uscendo
In un tempo
tutu per una
porU. Usci sollecitissimo Tulio
prima che tutti, e prese non lungi
da Roma un tal posto, dove
raccogliere gli altri che
seguitavano. E quando tutti
furono giunti, convo>
catane l' adunanza, assai v’
incolpò li Romani, dichia> rando grave
ed indicibile 1’
affronto de* Volsci, unici
ad essere espulsi fra
tanti forestieri : ed
eccitandoli tulli perchè ciascuno
lo raccontasse in
sua patria, e vi trat- tassero le maniere
di vendicarsene e reprimere
per l’av- venire tanta insolenza
ne’ Romani. Cosi
dicendo ed in- fiammandoli, dolenti già
per 1’ oltraggio, sciolse 1’ u-
dienza. Ricondottisi in
patria, ridissero ciascuno ai compagni
la ingiuria, esaggerandola,
unto che
ne fu- rono tutti esacerbali, nè poleano
rattemperarne lo sde- gno. E spedendo una
città all’ altra
degli ambasciadori, chiesero un
congresso generale, per concordarvisi
in- torno la guerra. Succedeva
tutto ciò per
briga di Tulio principalmente. Cosi
li magistrati di
tutte le città, e moltitudine grande
ancora di altri
adunaronsi nella città di
Eccetra, ripuUU la più
acconcia per congregarvisi. Dettevi assai
cose dai capi
di ogni città, si
dispensa- rono i voli finalmente,
e prevalse il partito
di mover la guerra, avendo primi
i Romani conculcato gli
ac- cordi. Y. E qui proponendo
i magistrati varj che
si discu- tesse la maniera
di fare la
guerra, presentatosi Tulio consigliò che
si chiamasse Marcio, e da
lui si udissero i metodi di
abbattere la potenza
Romana ; giacché ninno più
di lui conoscea
da qual lato
questa fosse inferma, e da
quale vigorosa. Il
consiglio piacque e tutti
cscla- I I tnarono che si chiamasse
immantinente il valentuomo. Marcio ottenuta
l’ occasion che volea, presentatosi mesto e piangente (i)
soprastette alcun tempo
e poi disse: Se 10
vedessi che tutti
pensaste ad un
modo su la mia
disgrazia, giudicherei non essere
necessario difender- mene.
Ma considerando che
Ira indoli tante
e varie ev- vene forse
alcuna che forma
concetti né veri
nè degni sopra di me,
quasi il
popolo m' abbia
per cagioni so- lide e giuste espulso
di patria ; debbo
innanzi tutto dir qui
tra voi circa
il mio esigilo.
E voi che ben sapete
P infortunio che io
m’ ho da'
nemici, e come indegnamente
io sia perseguitalo
dalla sorte, voi, mentre
qui lo espongo,
contenetevi, prego, nè
vogliate desiderare d
intendere ciocché dee
farsi, prima che ne abbiate
compreso chi sia
che i^i consiglia.
Breve ne sarà il
discorso quantunque pigliato
dalle origini. Era 11
governo Romano da
principio un tal
misto del co- mando di
un solo e dei
pochi ; fnchè Tarquinio, r ultimo de'
monarchi, tentò volgerlo tutto
in tiran- nide. Adunque i capi
nel comando de’
pochi insorgen- done, lo espulsero
: e subentrando essi al
maneggio del pubblico, basai orto
una reggenza più
savia per confessione di
tutti, e più buona. Ma
da ora in die-
tro non più che
Ire o quattf anni, i più
miseri, e li più oziosi de'
cittadini, dandosi capi scelerati,
ne co- perser d ingiurie
; tentando infine di
abbattere l' au- lì] Queste lagrime
forse le TÌile
più Io storico
che Marcio. It contegno
Ji >{uesto valoroso
era stalo hen
altro coi tribuni
e col popolo «li Roma
come apparisce dal
libro antecclcnte j e 'come
può coucloJersi dal $ del
presente. /oriUÌ de
pochi. I capi del
Senato ne incollerirono tutti, e cercarono come
reprimere la insolenza
de' ri- voltosi. Di mezzo
a c/uegli ottimati udppio
C uno dei seniori,
degnissimo di lode
per tanti titoli, ed
io V uno de’ giovani, parlammo sempre
liberissimamente non per combattere
il popolo, ma perchè
sospetta ci era la
prepotenza de' ribaldi;
non per rendere
schiavo niuno, ma per garantire
a tutti la libertà, come
ai migliori il comando
sul pubblico. VI. Or
ciò vedendo que’
tristissimi capipopolo vol- lero in
priruipio tor di
mezzo noi franchissimi
oppo- sitori : e gittarono
le mani, non già
su tutti due in
un tempo
perchè il fatto
non fosse grave
troppo ed esoso, ma su
me primieramente che
era il più
gio- vane, e men dijfcile da
opprimere. Cosi tentarono
di perdere me prima
senz' (uUorità di
giudizio, e poi mi chiesero dal
Senato per la
morte. Ala venuti
lor meno ambedue que
tentativi ; mi citarono
ad un giu- dizio ( ed essi
aveano ad esserne
i giudici ) per in- colpazioni
di bramala tirannide
; nè videro che
rùun tiranno tenendosela co’
pochi combatte il
popolo, e che piuttosto egli
col popolo conquide
il partito più valido
nella città. Un
giudizio mi destinarono
non per centurie, com’ era C
uso della patria,
ma un giu- dizio come tutti
consentono, iniquissimo, e,
la prima e f unica volta, su
me praticato, un giudizio
dove i merccnarj, li vagabondi, e quanti insidiano
gli averi altrui,
preponderavano su' boni
che voleano salvi
i diritti ed il
pubblico. E tante erano
in me le
ragioni per non esserne
condannato, che sottomesso ai
giu- 1.3 ditj di
una turba, odiatrice in
gran parte de' buoni, e però mia
nemica^ non fui
sopraffatto che per
due voti: sebbene i tribuni
divulgassero che assai
sareb- bero disonorali nel loro
comando, e patirebbono da me l estremo
de mali se
io fossi assoluto, ed
insi^ stessero intanto contro
me con tutto
F ardore e la sollecitudine nella
causa. Così malmenato
damici cit^ ladini, reputai che
più non sarebbe
vita la mia, se non
prendessi di loro
vendetta. Quindi sebbene
il potessi, ricusai vivere
senza cure, o tra’ parenti nelle città
de’ Latini, o nelle colonie
fondale di recente dà
miei maggiori : e tra
voi mi ricorsi, che
io ben sapeva essere
tanto -offesi da’ Romani
e nemicissimi loro, per
farne con voi
quanto -potessi le
vendette colle parole, se le parole
vi bisognavano ; o colle opere, se
le opere. Intanto
io vi rendo
amplissime grazie ; perchè mi
avete voi ricevuto, e perchè mi
date tali significazioni di
onore, niente ricordando, nò
contando i mali che
un tempo voi
rtemici miei, avete da
me sostenuto fra
le arme. VU. Or
dite, e qual genio sarei
io mai se
spo- gliato da uomini per
me beneficati, della riputazione e degli onori
quali tra miei
mi si competevano,
e privato della patria, della
famiglia, degli amici, dei
numi patemi, delle tombe
avite e di ogni
altro bene; se ritrovate
tra voi tutte
queste cose per
le quali già in
grazia ài essi v
infestai colia guerra
; ora terribile non mi
dimostrassi con quelli
che nemici mi
furono in luogo di
cittadini, e propizio agli
altri che amici mi
si rerìdono di
nemici ? Io sicuramente
non terrei nemmeno per
uomo chiunque nè
ax>esse nitnicizia per chicli
fa guerra, nè
benevolenza per chi
lo ha salitilo
:■non iilitno mia
patria una città
che mi ha
ripntliato, ma quella, dove sehben
forestiero divengovi cittadino
: nè già reputo
amica la terra
ove sono oltraggiato, ma quella ove
trovo la sicurezza.
E se Dio ne
porga il favor suo, e voi
pronta, com’ è giusto, C
opera vo- stra ; seguiranno, spero,
grandi e subiti cambiamenti, foi ben
sapete che i Romani
cimentatisi con tanti nemici
non han temuto
niun più che
voi ; e che niente cercati più
attenti quanto indebolire
Ya vostra nazione. E pigliandole colle
arme, e devUmdovele colle spe- ranze di
amicizia, ritengonsi le vostre
città per que- sto, appunto, perchè unendovi
tutti in un
corpo non portiate su
loro la guerra.
Se voi dunque
a vicenda persevererete
procurando il contrario
; e se avrete co- me ora, tutti un
animo per la
guerra ; Jacìlmente
abbcUterete la loro
potenza. Vili. E poiché ricercale
il parer mio
sul modo di entrate
in campo e dirigervi,
sia per attestato
della esperienza mia, sia della
vostra benevolenza, sia per [ uno
e { altro ; io dirò
tutto, e senza velo. Primie- ramente vi esorto
a vedere che vi
abbiate una causa religiosa e giusta
di guerra. E come
religiosa, come giusta, come utile
insieme ve l’ abbiate
( in udite. Pic- ciolo, sterile, aveano da
principio i Romani il lor
territorio, ma vasto, e buono è quel
che vi aggiun- seio, togliendolo a’
vicini ; e se ciascuno dei
derubati tipela il suo,
tiiutia città diverrà
quanto Roma pic- ciola, debole, bisognosa. Or
io penso che
voi doiHate i primi
cominciare. Spedite ambasciadori
che richiedano le vostre
città, quante ne tengono, e che intimino loro
di abbandonare, quanto han
fabbricato per le vostre
campagne, e li premano a rendervi, quanto si
hanno di vostro
appropriato colle armi:
nè vogliate prima che
vi rispondano, romper la
guerra. Cosi facendo otterrete
V una o t altra delle
cose che più bramate.
Vuol dire, o ricupererete le
cose vostre, senza pericoli
e spese ; o rinvenuto avrete
il titolo onesto e giusto
di prender le
arme : giacché tutti confesseran per
bellissima la condotta
di non chieder r altrui, ma il
proprio; e di combattere
in fine se non
ottengasi. Or su, qual
cosa pensate, faranno i Eomani
a tali vostre proposte
? che renderanno forse le
vosUe regioni ? ma
qual cosa impedirebbe
più mai che lasciasser
tutto t altrui? se
verrebbero poi gli Equi
e gli Albani, se i Tirreni
e tanti altri a ripe- tere ognun le
sue terre. O pensate
che riterranno le vostre
cose, nè vorranno affatto
la giustizia ? Così appunto io
ne penso. Voi
dunque protestandovi, i primi,
offesi da loro;
e volgervi per sola
necessità alla guerra ; avrete
compagni, quanti spogliati de’ beni hanno fin
qui disperalo ricuperarli
altrimenti, che per le arme.
Bellissima è poi la
occasione, e di cui non
avrete mai più
la simile per
andar su Bomani, preparata fuori
di ogni speranza
dalla sorte propizia agli
offesi; perciocché li
Romani, discordi e sospetti fra loro a
vicenda, nemmeno luin
capi idonei per la
guerra. E questo è quanto
io poteva suggerire
e rac- comandar con parole agli
amici, detto lutto
con cuor sincero e benevolo
: quanto poi si
dovrà provvedere e compier
colle opere, lasciate
che i duci deli
armata lo curino. RispeUo
a me son per
voi, comunque di me disponiate;
e mi sforzerò di
non riuscirvi U pm ignobile
sia de’ soldati
sia de’ centurioni, sia de'
ca- pitani. Spendetemi dove pià vi son
uUle, e tenetevi cerio, che io,
che già contro
voi guerreggiando, tanto vi
ho danneggiato; ora,
per voi combattendo altret- tanto vi gioverò. IX.
Marcio cosi disse, e U Volsci, menlre parlata ancora, davan segno
di gradirne i discorsi
: ma poi che ucque, miti a gran
voce allesUrono che
benissimo consigliava ; e
senza concedere che
altri più disputasse, ratificarono il
parer suo. Quindi
stesone il decreto,
e scelti immantinente i personaggi
più riguardevoli di
ogni cillA, gl’ inviarono ambasciadori
a Roma : dichiararono Marcio membro
de’ consigli in ogni
città, e lo auumz- zarono
a conseguire in ciascuna
le magistrature e gli onori
più grandi che
vi erano. Per
altro anche innanzi le
risposte de’ Romani, si
diedero agli apparecchi
di guerra. E quanti erano
ancora disaaimali per le perdite nelle
battaglie antecedenti, tutù si
rincorarono quasi fossero per
abbattere la potenza
Romana. Gli oratori spediti a Roma, presentali al
Senato, dissero, che sa- rebbe
a’ FoLsci carissimo
cessare le controversie
coi Romani, e viverne da ora
innanzi alleati ed
amici senz artifici ed
inganni : e dichiarano che
stabile sarà questa fede e
quest' amicizia, se riabbiano
le terre e le
città che furono
tolta loro da’
Romani : laddove in altro
modo nò pace
mai vi sarà, né
amicizia coslan- . 1-j te
; giacché V offeso è naturalmente in
guerra perpe- tua colf offensore.
Cliiecleaao pertanto di
non essere colla esclusione
delle giuste dimcuide
necessitati alla guerra. X. Detto
dò, fecero i padri ritirar
gli oratori, e consullaron fra
loro. E cónchiusa la
risposta ^ li riobia> maroQO in Senato,
e dissero : Conosciamo o Fólsci che
voi non f amicizia
cercate ; ma pretesti
splendidi di guerra : perocché
ben vedete che
mai vi saran concedute le
dimande, per le quali
venite, indegne, inammissibili.
Se voi date
ci aveste da
voi stessi e pentitine'
poi ci raddomandaste
le vostre terre
; non sareste affatto oltraggiati, non riavendole.
Ora però voi oltraggiate
noi, pretendendo ciocché è degli
altri: giacché non eravate
voi gli arbitri
delle terre, se la légge
delle armi ve le toglieva.
^ noi teniam per giustissimo quanto
possediamo . per le vittorie
: nè primi noi abbiamo
fondata questa legge, nè
la cre- diamo degli uomini, anziché degli
Dei. E se i Greci, se
i barbari tutti se
ne valgono ; noi
non tlaremo già in
ciò segrà di
debolezza, nè renderemo punto
delle nostre conquiste. Imperocché
ben sarebbe vituperosis- sima cosa lasciarsi
per timore e per
stoltezza rito- gliere ciò che
per senno e per
nuignanimità si pos- siede. Noi nè a
combattere vi necessitiamo, se non volete
; nè se volete, ve
ne ritiriamo. La
rispingere- mo, se ce la
incominciate, la guerra. Riportate
ai Folsci queste risposte,
e dite, che se
pigliano essi i primi le
arme, noi gli ultimi
lo deporremo, Diomai, tomo ut. Prese
qpeste risposle Je
riferirono gli tmibascia* dori al
Comune de* Volaci.
E convocato di bel
nuovo U Consiglio, si concbiuse
in fine d’ intimare
a nome di tutta la
nazione la guerra
ai Romani. Quindi
scelsero Tulio e Marcio con
assoluto potere capitani
di tutta 1’ ar-
mata, e decretarono che si
ascrivesser milizie, si con- tribuisser danari, c si
facessero altri apparecchi,
quanti ne vedean necessarj
per la impresa. 'E
già essendo per isciogliersi l’ adunanza
; Mar*.io levatosi in
piè disse e Bonissimo
è quanto si è qui
decretato dal vostro
Co- mune ; e facciasi pur tutto
a suo tempo. Intanto
però che qui scrivonsi
le milizie, e preparansi le
altre cose che dimandano
cura e tempo ; io e
Tulio ci
porremo in su r opera..
Seguite noi, quanti
volete, saccheg- giando le
campagne nemiche, partecipare a gran
prede. Io vi prometto, se
il del ne
ajuta, molti e grandi
vantaggi. Li Romani
non sonasi ancora
apparecchiati, vedendo che noi
non abbiamo riunito
le forze; sicché potremo senza
paura scorrere a nostro
bell agio tutte le
loro campagne. Accettato da’ Volsci
anche questo partito,
j duci uscirono immantinente, e
prima che in
Roma se- ne sapesse, con molta
soldatesca volontaria. Tulio
si gettò con parte
di essa nel
territorio latino per
impedire i soccorsi che
di là ne
andrebbero al nemici, e Marcio guidò le
altre aUe campagne
di Roma. 11
male giunse improvviso a quelli
che vi erano
; e . caddero in poter de' nemici molti
ingenui Romani e molti
schiavi; e bovi e giumenti’,
ed altro bestiame
non poco. Quanto era
derelitto di grano, di
ferramenti, o di altro onde la
terra cohirasi, tutto fu
predato, o disfatto. Dii uU timo
recando 'fino il
fuoco, lo gettarono i Volscl
pe’ca» sali ; tanto che
quelli che ne
furono spogliati, non po3
secondo Varrone c 486
aranii Cristo. perocché ne
andarono ai Volsci
appena si ebbe
la guep. ra, e concordarono, e
giurarono T alleanza. Or
questi spedirono a Marcio la
milizia più numerosa
e più riso- lutai. Dato
da questi un
principio, molti altri ancora favorivano occultamente
i Volsci ; mandando loro
dei sussidi non però
per decreto o pubblica
approvazione. E se taluno de’
loro voleva a quelli
coogiungersi', 've gl’ incitavano, non che
gl’ impedissero. Dond’
è che i Volsci accozzarono
in breve tempo
tanta milizia, quanta mai
più per addietro, nemmen quando
le loro città
più 6orìvano. Marcio che
ne era il
duce la gittò
di bel nuovo su
le campagne di
Roma ; e tenendovisi molti
giorni, devastò quanto crasi
lasciato nella prima
incursione. Non prése però
questa volta prigionieri
molti ingenui uo- mini, giacché, raccolte
le cose più
pregévoli, «ransl questi ritirati^
in Roma o ne’ castelli
più vicini, e me- glio
fortiGcalj. Ma depredò
il bestiame che
non arcano potpto ridurre
altrove, e gli uomini che
lo pasturavano, come il
grano tenuto ancora
nelle aje ed
altri prodotti che raccoglie vanSi o che erano
già pe’ grana). Cosi
de- rubata 6' guastata ogni
cosa, non osando alcuno
di conlrapporglisi, riportò nuovamente
in patria 1’
esercito, carico di grandi
acquisti, e quindi lento
in sua marcia.
I Volsci veduto'!’ ampio guadagno,
e convin- tisi dell’
abbattimento de’ Romani, che
predatori già delle robbe
altrui, miravano ora devastarsi
impunemente le proprie; ne
imbaldanzirono soprammodo, e conce- pirono pur la
speranza di dominare, quasi fosse
per loro facilissima e vicinissima
cosa annientare il
potere degli avversar]. Adunque
facaano agl’ Iddj
sacriBzj di nngrauamento,
oraavapo i templi ed i
pubblici fori di spoglie
che dedicavano. E tutti
iu feste, in
sollazzi, ammiravano e
celebravano Marcio, qual uomo
ipsignit- aimo fra gli
altri nella guerra, e qual duce
cui ntun pareggiava non
Romano, non Greco,
non barbaro cajii- tano. . Soprattutto lo
felicitavano della sua
prosperità ; vedendo che
quanto intraprendeva,
riuscivagji tutto speditissimamenle,
secondo i disegni. Tanto
che ninn v’era di
età militare il
qual, volesse non esser
con lui; ma spiccavansi,
e venivano da tutte
le città per
aver parte nelle sue
gesta . Il duce, corroborato ]’
ardore dei Volici, e
depresso il coor
de’ nemici, e ridottolo ad irrisolutezza indegna
de’ valentuomini, marciò coll’
e- sereito contro le
città che alleate
di essi teneansi
ajncora fedeli:. ed avendo ben
tosto apparecchiato quanto
ricer- cavasi per gli
assedj, piombò su’ Tolerini, gente del, Lazio.
I Tolerini, preparatisi
molto prima per
la gueiv ra, e portalo in
dllà, quanto^ bisognavacl della
cam- pagna, ne scontraron l’ assalto.
Ben resisterono alcup tempo, combattendo e ferendo
ip copia i nemici,
dalle mura, ma risospinti è travagliati
poi fino a sera
dai feombolierì, le
abbandonarono in gran
parte. Marcio, compreso ciò, diede
ordine ad altri
che applicasser le scalchila
parte derelitta del
ricinto: ed egli
ne àndò col fior
de’ bravi alle
porte ; sebbene infestato
cogli strali dalle torri
: e là ^^zzali *i
serragli, il primo si mise
in città: ma
perciocché si era
disposta alle porte una
schiera folla e poderosa
di nemici; questi
lo rice- verono virilmente ; disputandogli lungo
tempo intrepidi r intento,
finché perdutine molti, dieder
volta, e sbanduiì fuj^ronsi jier
le vie. Gl*
insegoi Marno, acciden-
(Ione c|uanli ne
sopraggiangeva ; se 'gettate
le anni non volgeansi
alle preghiera. lolanto
gli asc^i per
le scale impadronironsi delle
mura. Cosi la
città fu presa, e Mar- cio separò dalle
prede quanto era
donativo pe' numi, o decorazione per
le città de’
Yolsci, abbandonando il re- a’
soldati, Aveanci nell’acquisto
uomini, danari, grani; tanto
cUe non riuKl
facil cosa a vincitori
tor via tutto in
un giorno. Adunque
menandoselo, o trasportandolo successivamente di
per seslessi, assalto, prese ad
investirne in gran
parte le mura. I Bolani, aspettatane 1’
ora conveniente, spa- lancano
le mura
; e sboccandone in numero, a schiera, e con ordine
; si avventano su
quelli che stavano
a fronte: ed uccisone molti, e più
antera feritine, e ridotti gli altri
a turpissima fuga,
cioulraron le mura.
Marcio, che non era presente
al sito dell’
inforinnio, conosciuta la fuga de
Volsci accorse di
tutta fretta con
pochi : e raccogliendo quei che
vagavan dispersi, li ticongiun^
e rìaoimò : poi
riordinatili, e- dimostrato ciocch’ era
da fare; comandò loro
di attaccar la
città verso le
porte appunto. Ricor- sero i Bedani a’
tentativi medesimi,
emergendo in gran mollitudine dalie
porte. Non gli
aspettarono i Volsci, ma ripiegandosi
fuggirono giù pel
declivio come il
duce avea già suggerito.
Non videro i Bolani
l’ inganno, e tnoltissime li seguitarono
: quando slontanatisi già
dalle mura ; Marcio che
avea seco il
fiore de’ giovani, diede su loro :
e qui molta ne fu la
uccisione ; fuggissero o resistessero. Seguitando
poi li respinti
fino alle porte, li prevenne; internandovisi a 'forza,
prima che si
richiu- dessero. Impadronito^si
il duce appeua
delle porte ; ecco giugnere altra
moltitudine di Volaci.
Li Bolani abban- donate le mura, rìpararonsi nelle
case. Divenuto in tal
modo r arbitro anche
di questa città, concedette a’
sol- dati di farne schiavi
gli uomini, e di porne
a sacco le robe. E trasportatane, come altre
volte, successivamen- te, a grand’
agio, tutta la preda, abbandonò la
città finalmente alle fiamme. Pigliando quindi
1’ esercite, ne andò
su’ Labi- càni. Eran
questi, come altri, 'Colonia già
degli Albani, ma popolo
allora ancb’ esso
dei Latini. Or
egli per at- terrirli fin denti*o
le mura, sparse, giuntovi appena, su’Joro campi
il fuoco, principalmente in
quelli donde era .per
essere più visibile.
Ma i Labicani, avendo ben fortificate le
mora nè sbigottirono
p?r 1’ arrivo
di lui, nè diedero
segno alcuno di
debolezza : ma si
opposero e pugnarono
generosamente; trabalzandoli piùjvolte
fin da sopra le
mura. Non però
resisterono ' con successo;
combattendo pochi contro
di molli, e senza requie
mai, nemmen picciolissima i giacché 'frequenti erano
intorno la città gli
assalti successivi de’
Volsci ; ritirandosene via via
gli stanchi, e cimentandosi altri
l'ecpnti. Adunque data per un intero
giorno battaglia, nè
fattasi pausa «emmen su la notte-,
furono dalla stanchezza
astretti a lasciare in
fine le mura.
Marcio, espugnatele, ne
rendè é schiavi li cittadini, e dté tutto
in preda a’
soldati. Di là trasferendo 1’
esèrcito io ordinanza
contro la città'
de’ Pe- dani, Latina anch’
essa di popolo, la
pigliò di forza, giuntovi appena.
E trattatala come le'
altre già prese, levandone in
su 1’ alba
le truppe, le menò
béntotfto sa Corbione. Ma
nell' approssirharvisi gli
abitanti 1’ apersero, ed
uscirongli incontro,
presentando simboli di
pace, e la ' resa loro
senza combattcrè. Ed
egli, encomiatili come savj nel
provvedere a séslessi,
comandò che gli
portas- sero grano ed argento, come
l’ esercito ne bisognava
; e ricevuto tutto secondo
i comandi, marciò co* snoi
con- tro Coriolo. Gederonò gli
abitanti pur questa
senza re- sistenza ; ma perciocché
con pienissima propensione
sup- plirono viveri, danari, e quanto
Kn chiese, nè ritirò 1*
armata ; come su
territorio àmico. E per
fermo ; egli procurava! con
ogni sollecitudine che
quelli che si
ren- devano non subissero i mali
causati dalla guerra
; ma riacquistassero,
intatte le loro
terre, e li bestiami, e gli
schiavi che aveano
lasciati ne’ loro
poderi : nè permet- teva che le
truppe alloggiassero belle
città di essi ;
per- chè non fossevi danno
di furti o prede, ma
le accam- pava presso' le
mura. XX. Di 'qua mosse
l’esercito verso Bovilla
(1) città cospicua allora
è contata tra le
primarie de’ Ladini, che (1)
Nel lesto dice
Boia: ma forse
dee leggersi Bovilta
\ percbl;' Co- riolgoo già era
stato ai Toleriai, a Bota, a Labico, a Pedo, a Cor- bipne, ed a Coriolo. -Potrebbe dubiigrsi
se sia scritto
Bovilla nel $180 nel
presente di questo
libro : Si descrivono
tulle due come so
r alture ; parlandovisi di
declivj ; e Boriila eia
nella via Appia in
piano, secondo Cloretio. erair pochissime.
Nod Io accolsero
già quei che
v’ erano dentro,' confidati
nelle fortificazioni 'assai vàlide,
e nel numero dei difensori.
Adunque egli eccitando
le trupper a combattere generosanaente, e proponendo amplissimi premj . a’ primi che
ne salisser le
mura; si accinse
all’as^ salto. Or qui
vivissima sava ; n^i
perchè, spalancate le porte ne
uscirono in furia ed
in copia, e ne incalzarono'
abbasso quanti ne erano
a fronte. Assai perirono
di Voisci in
quella sorti- ta, e diuturna fu
la zuffa sopra
le mura ; sicché
mai più speravano d’ invaderle.
Ma il duce
supplendo nuovi soldati non
fe’ conoscere la perdita
degli altri: e raccese l’ardore dei
vacillanti; portandosi egli ‘stesso
alla parte di esercito
che pericolava : Nè
spiravano coraggio i delti soli, ma i fatti
ancora 'di lui :
corse a tutti I pericoli, nè lasciò
tebtativo, finché non si
preser le mura.
Iril- padronitosi poi della
città, messa parte
dei vinti a 61
di spada per. le
leggi dei forti, e parte rendulala
schiava, ricotadusse f
esercito. E^Ii rimenavalo
dopo una segnalala vittoria c^'co
di spoglie bellissime,
e ricco de’ tanti
da- nari, ivi presi, quanti in
ninna delle città
coqquistate. Dopo ciò tutta
la regione percorsa
'Era in po* ter
sùo, nè più gli
resisteva ninna 'città
se non Lavinia, la -prima delle
città fondate da’ Trojani
approdati con Enea nell’
Italia, dalla quale dm
vano i Romani come di
sopra fu dichiarato.
Gli abitanti pensavano
dover pri- ma incontrare ogni
male, che 'mancar
di fede ai
discen- denti loro. Adunque vi
ebbero attacchi terribili
su le mura, e battaglie
veementi per le
forltficazioiu:^non però sì espugnarono
a prini* impeto ; ma
parve abbisògnarvt assedio, e
tempo. Postosene Marcio
all’ assedio cinse intorno
la dtià di
vailo e fossa, e guardò le
strade, perché non le
si recassero esterni
soccorsi e viveri. I Romani
udita la rovina
delle città vinte, compresa la necessità
delle Fendutesi a Marcio, pressati da’
messaggi quoiidiaid delle altre, fedeli
ancora, che imploravano
ajulo,, spaventati insieme
dalla circonvallazione che
tira- vasi intorno Lavinia, e convinti che
se cadea questo iurte
> la guerra verrebbe
addirittura su loro, crederono uno solo
il rimedio a tanti
mali, decretare il ritorno
di Marcio. Tutto il
popolo, gridava questo, e li
tribuni voleano lare . una legge
per annullarne la
condanna : ma^ li patrizj
si opposero, ricusando
che si ' annullassé al- cuna sentenza enianàta.
E petuo. Che dunque
impedisce che rivenghi
alla dolce, alla carissima
vista de' tuoi pià
congiunti, e ricuperi t
amatissima patria, e comandi, come
ti si conviene, a chi comanda,
e sii duce de' duci,
e ne lasci C am- plissima gloria a'
tuoi figli e nipoti
? E che tali e tante
promesse avran prontissimo
effetto, noi, quanti qui
vedi, noi tutti ne
siamo i mallevadori. Finché
nè stai di fronte
col campo e colla
guerra, non parve al Senato
nè al popolo
far su te
decisione ninna di clemenza
e di moderazione ; ma
se ti levi
dalle ar- me, avrai, né tardi, e noi
lo porteremo, il decreto del
tuo ritorno. Tali sono i
beni se
alla patria ti
riconcilii: ma se ti
ostini, se t odio non
deponi verso noi ;
dure e molte ne
saranno le conseguenze
: ed io due le
pià manifeste te
ne addito ; vuol
dire : la prima che
avresti il barbaro
amore di un'ardua
anzi im- possibile cosa, di abbattere
cioè la potenza
di Ro- ma, e colle arme
de' Volsci : C altra
che quando pure tu
ben ^ indirizzi e riesca
alf intento, ne sa- rai creduto il
pià sciaurato de'
mortali. E perchè io così
congetturi su te ;
lo ascolta o Marcio, nè
t’ ina- cerbare sul
franco mio dire.
E prima ne intendi
la impossibilità. Molta è in
Roma, e tu U> sai,
la gio- ventìi paesana
: e se le si
tolga ( e torrassele per la
necessità presente in tal guerra
) la sedizione, rac- chetando
il timore comune
tutti i dissidj, non pià li
V jIscì, ma niuna gente
d’ Italia ci abbatterrà.
Molte sono le milizie
de* Latirù, molte quelle
degli alleati, coloni di
Roma, le quali aspettati
che in breve
giun- gano per soccorrerci. 1 capitani, come te, seniori
o giovani, tand sono di
moltitudine, quanti in tutte
lo altre città non
sono. Ma t ajuto
pià grande di
tutti, quello che non ei ha
mai deluso ne’ grandi
accidenti, e che pili vale
di tutte le
forze degli uomini,
è la beneifolenza de’ numi, per
la quale teniamo
questa città già da
otto generazioni non
pur libera, ma fe-
lice, ed arbitra di
tante nazioni, JVon
pareggiarci ai Pedani, ai Tollerim, agli altri
popoletti, de’ quali
sormontasti le cittadelle.
Anche un altro
duce minore di te, e con
esercita minore che
questa tuo, violen- tato
avrebbe tali fiacche
e poco presidiate munizioni. Ma
considera la grandezza
della nostra città, la luce sua
per tante imprese
guerriere, e C ajuto di- vino
pel quale, già picchia, tanto s’
inff-andì : nè concepire che si diversifichi
codesta tua forza
colla quale vieni a tanta
cimenta : anzi ricordati
che un esercita meni
di Folsci e di
Equi che noi
stessi ab- biam vinta
in tanto battaglie
in quante osarono
di affrontarci : Talché ben
vedi che porti
a combattere i men forti contro
i pià valorosi, e chi
sempre per- dette contro vincitori
costanti, E quand’ anche
fosse il contrario ; pur
sarebbe da meravigliare, che tu perita
di guerra non
sappi, che ne' pericoli
non è pari r artlire
in ehi difende
i suoi beni, ed in chi
cerca gli altrui
; che questi se
non vincono, niente vi scapitano;
ma niente agli
altri pià resta,
se perdono- E questa principalmente è la
causa che le
grandi armate svaniscono contro
le piccole, e le
migliori . contro le men
buone. Chè può
la terribile necessità, ponno i pericoli
estremi spirare' corono
anche ad indoli che
non ne abbiano.
E quanto alC arduità deb r impresa
potrei dire piò
cose, ma bastino queste. Mi
resta a fare un
solo discorso, cui se
accompagnerai colla ragione
non colf ira, vedrai
che esso è giusto, e ti verrà
pentimento del procedere tuo
: ma quat è mai
questo discorso ? Gli
Dei non concessero a niuno
che nasce mortale
solida scienza delt avvenire
: nè troverai da
tutti i secoli alcuno
cui tutto riuscisse propizio
senza mai contrarietà
della sorte. Perciò li piò awanzati
in prudenza, quale il vivere
lungo e la molta
esperienza la recano, deano prima di
accingersi ad una
impresa considerarne il termine,
non solo se
riesca come pur
lo vorrebbono, ma nel
caso ancora che
devii dai disegni:
e ciò deano i comandanti principalmente delle
‘ guerre, a' quali, quanto piò
essi dispongono gravissimi
affari, tanto piò tutti
ascrivon la origine
de' buoni o tristi
suc- cessi ; tal che se
vedono esser niuno, o ristretto e piccolo
il danno dell'
azione se la
sbagliano, allora la
intraprendono, ma se vario
e grande lo vedono, la
tralasciano. Or fa
tu similmente ; prevedi
avanti di operare ciocché
sia per incontrarti, se manchi, o se
tutto non ti
viene a seconda nella
guerra. Tu sa- rai colpevole presso
gli ospiti tuoi
di aver tentato
im- prese, grandi piò che
eseguibili. Concepisci ( nè
già lasceremo impuniti quelli
che han preso
ad offen- derci ) che r esercito
nostro vengavi novamente
^ e devasti le loro
campagne : non potrai
evitare, 0 di essere
obbrobriosamente trucidato da
quelli a’ quali sei
causa di mali
sì grandi, o da noi
che ora vieni per
uccidere e per soggiogare.
Forse essi stessi
in- nanzi di patirne alcun
male, tentando far pace
con noi dovran consegnarti
alla patria che
ti punisca : e già
Greci e barbari assai,
ridotti a pari vicende, dm'ettero ciò
sopportare. Or ti
pajono queste picciolo cose, non degne
a discorrerle, o tali che debbansi trascurare, o non piuttosto
mali estremi a patirsi
^ fra tutti i mali? XXVni. Ma
via; n abbi tu
pure il buon
termine; e qual frutto allora
ne avrai così
desiderabile, così meraviglioso ?
qual mai
gloria ne avrai
? Deh ! con- sidera questo ancora.
Ti succederà primieramente
di esser privo degli
obbietti che piò,
ami, e piò ti ap- partengono ; io dico
della madre alla
quale porgi amara la
ricompensa di averti
generato e nudrito, e de'
tanti travagli che
sostenne per te :
dico della sa- via consorte la
qual vedova e solitaria
sta desideran- doti, e
deplorando dì e notte
il tuo esilio
: e final- mente de' due tuoi
figli a quali aspettavasi, come ai posteri
di egregj progenitori, che ne
percepissero pieni di fama
buona gli onori
se la patria
fosse fe- lice. Di questi
tutti sarai costretto
a vedere le dolo- rose e sfortunate catastrofi, se ardirai
sospingere fino alle mura
la guerra ; giacché
a ninno de' tuoi
perdo- neranno gli altri che
temono pe' ctai
loro, e che pa- tiscono
disastri eguali da
te. Concitati dalla
propria calamità doranti terribilmente
e spietatamente a balterli, ad
ingiuriarli, e far loro
ogni specie di
vili- pendj : e di ciò
non questi che
il fanno ma
tu ne sei r autore, che
ve gli astringi.
Tali i frutti sono che
gusterai, se ti giunge
V intento. Or su
contempla la lode che
te ne avrai, la
emulazione, gli onori,
cose tutte desiderevoli a buoni:
Z’ uccisore sarai
nominato della madre, C uccisore de'
figli, il traditore della consorte y la
rovina della patria.
£ ninno buono, niun giusto
vorrà, dovunque tu capiti,
partecipare ai tuoi sagrifizj, alle tue
libagiorU, al tuo consorzio
: nè sarai caro a
quelli nemmeno per
la benevolenza de’ quali
ciò fai : ma
godendo dascun d'essi
il frutto della tua
empietà, detesteranno la ostinazion
del tuo cuore. Lascio
di dire come
senza /’ odio
che avrai fin da
piò miti, ti sarà
intorno la invidia
[non piccola degli eguali, il
sospetto degl’ inferiori, e per queste due
emise, le insidie, c ta/ui altri
infortunj, quanti è verisimile
che sopravvengano ad
un uomo, privo
di amici in terra
di estranei. Lascio
di dire le
furie che ispiransi da’
numi e da’ genj
negli empj e ne’
faci- norosi, dalle quali, straziati
ne’ corpi e nelC
anima, vivono sciaurata la
vita, aspettandone misera ancora la
fine. Tali cose
considerando o Marcio ' correggiti
; e cessa d’ inseguir la
tua patria. Riguardando
la sorte come autrice
de’ mali che
hai da noi
tollerato, ■ o fatto a noi,
toma felicissimo a'
tuoi, ricevi gli empiessi carissimi
della tua madre, le
amorevolezze soavissime
della tua sposa, ed
i baci dolcissimi dei • tuoi
figli : almen
simili cose di
sè. Ma qual
altro può gloriarsi o centurione, o comandante d aver
presa come io la
città de’ Coriolani
(i)f O qual altro
in un giorno stesso
ruppe f annetta nemica
come io ruppi quella
degli .daziati, che
veniva per soccorrere
gli assediati 7 Lascio di
ricordare che dopo
tesi pegni di tnrtà
potendo io prendere
in copia dalle
prede oro, argettto,
schiavi, giumenti, gceggie, e terre vaste,
e feconde, non volli : ma
intento a serbarmi principal- mente senza invidia,
pigliai per me
solamente dalle prede un
cavallo militare, e da prigionieri
t ospite mio, ponendo tutto il
resto ad util
comune. Dite : era
io per tanto
degno di premj
o di pene ? Dovea subire la
legge da’ vilissimi
cittadini, o darla io lo- ro ? O non mi
espulse il popolo
pcf questo, ma per- (i)
La lode h,
perebt Coriolano prese
con pochi la
città, sema essere ni
ooniaodanle, nà tribuno,
a' qMii sarebbe alato
unto piti facile invaderla
colle milisie dipendenti.
chè io era
nel retto della
vita, un intemperante, un suntuoso, un
senza leggi? Ma chi potrà
dimostrarmi un solo, pe*
miei piacer non
legittimi esule dalla
pa^ trio, spogliato dalla
libertà, privato degli
averi, o ridotto ad
altra sciagura qualunque
? se nemmeno i nemici
mai di tali
cose m’ incolparono
o calunniaro- no, contestando
anzi tutti come
irreprensibile la vita mia
quotidiana? La scelta,
dirà taluno, abbonila de
tuoi governamenti ti
procacciò questo male ;
Ut polendo eleggere il
meglio ti appigliavi
al peggiore : e dicesti
e facesti tutto perchè
in patria cadesse
il comando degli Ottimati,
e s' impadronisse del comune la
moltitudine imperita, e
scellerata, O Minucio ! Ben
io mi adoperava
in contrario, e provvedeva che il
Senato, maneggiasse in
perpetuo il comune, e re- stasse la patria
forma di governo.
Per tali belli
sta- bilimenti, creduti sì pregievoli
da’ nostri antenati, io me n ebbi
dalla patria la si fausta
e beata ricom- pensa,
cacciatone non solo
dal popolo, o Minucio, ma molto
innanzi pur dal
Senato, il quale, quando io
mi opposi a'
tribuni che m incolpavano
di tiran- nide, mi animò
da principio con
vane speranze, quasi osso
fosse per operare
la mia sicurezza, ma
poi te- mendo de’ plebei
mi si distolse, e mi cedette
a’ ne- mici. O Minucio ! tu
eri console quando
faceveui il previo decreto
pel giudizio, e quando
Falerio, cita tanto ne
fu lodato, esortava col
dir suo, che io fossi
al popolo consegnato.
Ed io temendo
dal Se- nato un decreto
che mi consegnasse
; condiscesi, e promisi di andare
f e presentarmi io stesso
in giudizio. Ma dP
Minucio, rispondi : parvi al po-
polo solo, o pure al Senato
ancora io parvi
degno di castigo per
lo buon inaneggio
e condotta mia pub- blica ? Se così
edlora a tutti ne
parve ; e tutti mi scacciavate; egli è
chiaro che quanti
così deliberavate, odiavate allora
la giustizia, nò
restava in Roma
al- cun luogo che sostenesse
il bene. Che
se il Senato, violentato, si rendette
al popolo, e quella fu
/’ o- pera della
necessità non del
cuore ; confessate che
siete il gioco degli
scellerati, nè resta
al Senato podestà niuna
su qurmto mai
scelga, E ciò stando, mi
chie- derete che io men
venga ad una
città dove i buoni son
vittima dei ribaldi?
Troppo di stolidità
mi con- dannate ! Or su:
diamo che io
persuadami, e che deposta,
come chiedete, la guerra, ne
andiamo ; qual sarà
dopo ciò f animo
mio ? quale la
vita ? Sebbene eletto
il partito piò
sicuro e meno pericolo- so t cercando io poi li
magistrati, gli onori,
ed al- tro che io
credo competermi, soffrirò di
adulare la turba che li dispensa?
vilissimo diventerei di
magna- nimo, e niente più V antica
virtù mi gioverebbe.
O restando ne’ miei
costumi, e serbando le istituzioni mie del
viver civile mi
opporrò a quelli che
diverse ne sieguono ? Or
non è manifesto che
il popolo di nuovo
mi combatterebbe, che a nuove
pene mi cite- rebbe, cominciando l'accusa
da questo, che
io rido- nato da esso
alla patria, pure ai
piaceri di lui
non mi conformo ? Certo
non dee dirsi
cdtrimente. E qui sorgerà tal
altro insolente tribuno
che simile agl'Icilj ed
ai Decj m incolpi
di scindere i cittadini
fra lorOf d insidiare il
popolo, di tradire la
patria a' nemici, di
tentare, come Decio me
ne imputava, la tiran- nide, o taC altra
ingiustizia, come ad esso
ne paja; giacché non
mancano a chi ti
odia i pretesti. Pro» durransi
dopo queste, nè già
tardi, le imputazioni ancora su
le cose da
me fatte in
tal guerra, che io
percossi la vostra
regione, che rapii
prede, che espu- gnai città, che
di quelli che
le difendevano parte
ne uccisi, e parte a’
nemici li consegnai.
E se gli accu- satori allegheran tali
cause ; che dirò
io per ispedir- mene
? o con quale soccorso
sosterrommi ? Non è dunque
chiaro o. Minucio
che belle v' avete, ma
pur finte le
parole, e che un bel
velo date ad un
impuro disegno ? Non
a me concedete il ritorno
; ma vittima al
popolo me portate
; e forse ( giacché buone idee
su voi non
mi vengono ) vi
siete concertali a ciò fare, seppure
ciò non voleste,
senza prevedere ( e vi si
accordi ) i mali che
ne avrei da soffrire.
Or che varrebbemi
la vostra ignoranza
? che la vostra
stoltezza ? se non
potreste, anche vo- lendo,
niente impedire, necessitati di
concedere an- che questa colle
altre cose alla
plebe. Se non
che non piti bisognan
parole a mostrare che
questa, che io chiamo
via prontissima di
rovina : niente, sebben voi la
chiamate ritorno, gioverammi per
la salvezza. Che poi (
giacche m' invitavi
a riguardare ancor que- sto ) niente o Minucio
mi giovi per
la buona fama, niente
per P onore, niente per
la pietade, anzi che io
opererei turpissimamente ed
empiiss imamente se a voi
mi rendessi; ascoltalo
dalla mia parte.
Io mili- tai già contro
questi Folsci, e molto nel
militare li danneggiai ; procacciando alla
patria impero, forza,
chiarezza. Non convenivasi
thè io fossi
onorato dai beneficati, ed abborrito
dagli offesi ? jdppunto
; se a ragion si operava.
Ma la sorte
perverti tutto, e rivolse ciocché
t uno e C altro mi
doveano in con- trario. Voi per
le cose onde
io era a questi
nemico, mi spogliaste di tutto
il mio, e, quasi
ciò fosse nul- la, mi
bandiste : laddove, questi che
avean tanto infortunio da me,
mi raccolsero questi
nelle proprie città povero, abbietto, senta casa e
senza patria- Nè bastando
loro questo splendido, questo genero- sissimo tratto ; mi
han conceduto cittadinanza, ma- gistrature y onori,
quanti ven sono
piti grandi in
tutte le loro città.
Ma lasciamo questo
: ora mi han
fatto comandante assoluto delV
esercito posto oltra
iete a chiedere, e non 4^ me,
la pace
o la tregua. Tuttavìa non vi do
questa risposta : ma
venerando gl’ Jddj patenti, rispettando le
tombe avite, commi- serando
la terra
ove nacqui, le femmine, i fanciulli non degni
che su di
essi ricadano le
colpe de’ geni- tori e degli altri
; e j nommen che per
questo o Mi- nucio, in grazia
di voi che
foste qua deputati
dalla città ; vi rispondo, che
se i Romani rendono
ai fol- sci le
terre tolte loro, e le
città che ne
tengono, ri- chiamandone i proprj
coloni; se fanno
pace con essi « comunanza perpetua
di diritti, come co’
Latini, e giuramenti ed esecrazioni
contro de’ violatori
de’ patti; io do
fine alla guerra.
Annunziate primieramente ad essi
questo, poi, come avete presso
me perorato, aringate presso
loro sul giusto
: e quanto è bella cosa che
ognun s’ abbia il suo,
e vivasi in pace :
quanto pregevole che
niun tema nè i
nemici, nè i tempi : e come
è biasimevole che chi
ritiene l’ altrui si
esponga senza necessità
alla guerra con
pericolo delle cose anche
proprie. Dimostrale loro
che non eguali sono i
premj vincendo o perdendo
per chi ap- petisce r altrui : e se
vi piace aggiungete, che quelli che
han voluto prendere
le città degli
oltraggixti, se infine poi non
prevalgono, perdono pur la
terra, e la città loro, e vedono malmenate
obbrobriosamente le mogli, portati
i figli agli affronti,
e li padri lorOj fatti
schiavi di liberi, nelC
estrema vecchiezza ; Per- suadete insieme il
Senato che dovrà
tanti mali alla stoltezza sua
non a Marcio. Terocchè
potendo fcàre il giusto
; potendo non incorrer
ne’ mali ; corrono
agli ultimi rischi,
aspirando sentpre alC
altrui. Questa è la
risposta; nè potreste
altra averne dame:
andate, ponderate ciocché a fare
v abbiate : io vi
do trenta giorni per
decidervi. In questo
tempo ritiro o Minw- ciò
in riguardo tuo e
degli altri t esercito
da questi campi, che
asscù se vi
rinuuiesse, ne sarebbero
dan- neggiati, Al ventesimo giorno
mi ci aspettate
a pi- gliarne la risposta. Ciò detto
sorse, e sciolse 1’ adunanza
: e nella notte seguente
presso 1’ ultima
vigilia levò l' eser- cito, e lo condusse
OMilro le altre
città Latine, sia ebe realmente
fosse persuaso che di là
verrebbono de’ sussid) a’
Romani, come 1’ ambasciadore
avea detto, sia che egli
ne spargesse la
voce per non
sembrare d* interrom- per la guerra
in grazia de’
nemici. E piombando sopra Longola, ed impadronitosene senza
fatica, e fattovi come nelle altre,
dei schiavi, e delle prede;
venne alla città de’
Satrìcani. Presala, e
tenutovisi pitxiolo tempo, ordinò
che parte dell’
esercito recasse le
spoglie raccolte da ambedue
queste città in
Eccetra, ed egli marciando coir altra
parte venne a Ceda,
che chiamano. Otte* nutala, e derubatala -,
si gittò nel
teiritono de’ Polu« scani
(1). Non valsero
nemmen questi a resistere
; ed espugnatili, si avanzò verso
le altre città
: prese di as- (i)
Questa Toce è aiqbigaa.
Lirio nooiioa Tiebbia
; ed altri ia questo
luogo di Oiooigi
vorrebbe por Silia
Seste : ma questa
par troppo lootaaa pel
viaggio di Marcio. (ij
Lapo parve leggere
Ttuelarù. salto gli Albieti
ed i MugiUaui ; e ricevette
a patti i Corani. Divenuto in
trenta giorni padrone
di sette citti ; si
rivolse a Roma con
più milizie che
prima : e fermandosene lontano
poco più che
trenta stadj, si ac- campò presso la
via Tuscoiana. Intanto
che prendeva ed univa
a sé le città
de’ Latini, parve ai
Romani, con- sultale lungamente
le proposte di lai,
di non
far cosa indegna della
repubblica. Pertanto, se i Yolsci
partis- sero dal territorio loro, degli
alleati e de’ sudditi, e lasciasser la guerra e spedissero
ambasciadori per trattare la
pace ; il Senato
decidesse allora e ne
riferisse al po- polo le
condizioni : non decidesse
però mai nulla
di umauo su loro, finché
stavano con ostili
maniere su le campagne
di Roma e degli
alleati. Couciossiachè li Ro-
mani (Muervarono sempre altamente
di non far
mai nulla pe* comandi, nè
pel terror de’
nemici ; ma di
compia- cere, e contentare
gli avversar] pacificatisi,
e rendutisi, nelle dimande se
fosser discrete. E Roma
ha mantenuto tale sublimità
di carattere in
molti e grandi pericoli, nelle guerre
co* cittadini e cogli
esteri, e tuttavia lo mantiene.
Deliberate tali cose, il
Senato scelse am- )>asciadori altri
dieci tra’ consolari, perchè dimandassero a Marcio che
non desse ordini
duri nè indegni
di Ro- (i) Silbnrgio
sospetta ebe io
luogo di Albiètì
debba leggersi La- hitiiati
ciot Laviniaui di
Lauinio, la presa del
quale era stata
tra- lasciata, come si t veduto
di sopra. Il
cognome di Lucio
l'apirio Mugillaoo prova che
vi ebbe una
città Multila di
nome, donde tono i MugiUani.
montai . ama Ili. t Digitized
by Google 5o DELLE
Antichità’ romane ma, ma deponessc
le nimicizie, ritirasse le
truppe dal territorio, e
cercasse di trattare
con modi persuasivi
e conciliativi, se voleva che
gli accordi tra
due popoli fossero permanenti
ed eterni ; giacché
gli accordi sia privati, sia pubblici, conceduti per
la necessità e pei tempi,
finiscono appunto co’ tempi
e colla necessità. Or questi, eletti ambasciadori, non si
tosto . udirono l’ ar- rivo
di Marcio, andatine a lui, dissero assai
cose atte a guadagnarlo,
badando di non
offendere co' discorsi
la maestà della repubblica.
Marcio però non
rispose altro se non
che consigliavali ( e questa
era 1’ unica
tregua che dava ) a tornar
fra tre giorni
con deliberazioni mi- gliori. E volendo essi
replicare ; non lo
permise : ma impose che
partissero immantinente dal
campo. E mi- nacciando che li
tratterebbe come spie
se non ubbidi- vano ; quelli ammutoliti
partirono incontanente. I sena- tori quantunque udite
le risposte ostinate
e le minacce di Marcio, pnre
non decretarono di
portare 1’ esercito di
là dai confini, sia
che ne temessero, come raccolto in
gran parte di
fresco, la inesperienza, sia che
1’ ab- battimento temessero dei
consoli, poco intraprendenti
per sestessi, e giudicassero pericoloso
il cimento ; sia che
i segni celesti interdicessero loro
quella uscita per mezzo
degli uccelli, degli oracoli
Sibillini, o di altra
visione : cose che
non sapeano gli
uomini di allora, come
i presenti, trascendere.
Adunque deliberarono di guardare
la città con
vigilantissima cura, e di
respingere dalle
fortificazioni gli aggressori. Ciò fatto
e preparato ; nè tuttavia
dispe- rando di piegar Marcio, se
lo pressassero con
deputazione più augusta
e più grande, decretarono che
pon- tefici ed auguri, e quanti
arcano sacri onori
e ministeri nelle pubbliche divine
cose ( e molti sono
fra loro e sacerdoti
e santi ministri, e questi i più
cospicui pel sangue paterno,
o pel merito proprio)
andassero in copia co’ simboli delle
divinità riverite e festeggiate
in Roma, e cinti di
sacre vesti, al campo
nemico, e vi replicas- sero
gli stessi discorsi.
Giunti questi, e dettovi quanto aveano
dal Senato, Marcio non
rispose nemmeno ad essi
per ciò che
chiedevano; ma consigliò
che partendo adempissero gli
ordini se volevan
la pace; o la
guerra in città si
aspettassero : del resto
intimò che non
più ritornassero a lui per
far parlamento. Caduti
ancora di questo tentativo, e deposta ogni
speranza di pace, si apparecchiavano i Romani
per 1’ assedio
;, collocando i giovani più
vigorosi alle fosse
ed alle porte, e li
ve- terani già licenziati ma
pur buoni ancor
per le armi, alle
murai Le mogli loro, quasi
approssimatasi già la tempesta, lasciato il
decoro col quale
si tenevano in casa, correano ai
templi piangendo ed
abbracciandosi a’ simulacri de’
numi. Ed ogni
sacra magione, special-
mente quella di
Giove in Campidoglio,
risonava di ie* minei
ululati e di suppliche
: in questa una
matrona preminente per lignaggio
e per dignità trovandosi
allora nei meglio degli
anni, attissima a provveder ciocché deesi
(Valeria ne era
il nome) sorella
di quel Popli- cola
il quale aveali
già liberati dai
tiranni', eccitata da istinto
divino, si fermò nel
grado più alto
del tempio, convocate le
donne compagne,
primieramente le consolò
ed animò a non
smarrini ne’ mali, poi
diede a vedere che
restavaci una speranza
di scampo, riposta in
loro nniramente, se faceano
quanto era d'uopo.
Al- lora r una di esse
ripigliò : Con quale
opera nostra mai potremo
noi donne salvcwe
la patria, non sa- pendo
più fare ciò
gli uomini ? E qual
forza ah- hiam noi,
deboli, sciaurate F E
Valeria, non le
arme, disse, abbisognano, non
le mani ; dispensandoci da ciò
la natura, ma
le arnorevolezze e la
persuasiva. Or qui, fàltusi clamore, e pregandola tutte
a svelarlo se pur ci
avea rimedio alcuno, disse
: In questo lutto, in
questo disordine di
vestimenti prendete compagne anche altre
donne, e menando con
voi li vostri
figli, ne andiamo in
casa di Veturia
la madre di
Marcio. E ponendo i nostri figli
dinanzi le ginocchia
di essa, e lagrimando ; scongiuriamola che
impietosita di noi non
colpevoli di male
ninno, e della patria
ridotta in pericolo estremo, vada
al campo nemico
; e vi meni i suoi nipoti,
la madre loro e
noi tutte, le
quali la seguiremo co'
nostri figlioletti : e che
interceditrice presso del figlio,
lo dimandi, lo
supplichi a non fare la
calamità della patria.
Lei piangendo e rimovendo- lo; nascerà forse
alcuna compassione o mite
pensiero in quesF uomo, che
già non ha si
duro ed impene- trabile il cuore
da respingere fin la madre
che ab- braccigli le giruscchia. XL. Poiché
le astanti ne
approvarono il dire;
ella supplicando i numi di
dare persuasiva e grazia
alle istanze, loro pari)
dal tempio. La
seguitarono le altre
; e prese dopo ciò per
comp-igne alti’e donne, ne
andarono in fòlla alla
casa della madre
di Marcio. Volannia
la mo» glie di
Marcio seduta presso
la suocera si
meravigliò nel vederle, e
disse : E che possiamo
noi farvi, o donne, cito in
tanta moltitudine venite
ad una casa di
sciagura e di aflizione?
E Valeria soggiunse: i?t- doUe
a pericoli estremi noi,
con questi fanciullelli, veniamo a te
supplichevoli, o Feturia, per
implorare^ tonico e solo ajulo,
e primieramente che abbi
pietà della patria non
mai fin qui
stata in man
de' nemici, eicchè non
vegli soffrire che
ora la libertà
le si tolga dai
Folsci; seppur conquistando
la patria la
rispar~ mieranno, non la
struggeranno dai Jondamenti.
Dipoi per noi preghiamo
e per questi miseri
fgU, sicché non veniamo
tra gli strazj
degf inimici, noi
niente ree de mali
accaduti. Se un
cuor ti resta
in parte al- meno, clemente ed
umano; deh! tu
ne compassiona, o F fluria,
tu donna, e tu partecipe
de' diritti sacri, inviolati delle
donne (i): prendi
teco Folunnia, que- sta ottima donna,
e con essa i suoi
figli, prendi coi figli
nostri pur noi
supplichevoli a un tempo
e ma- gnanime, e vieni al tuo
figlio, persuadi, insisti, ni dar
fine alle suppliche, finché pe'
tanti benefizj tuoi non
ottieni da lui
che si rappacifichi
co’ suoi citta- dini, e rendasi alla
patria che lo
ridomanda'. Ut, ben 10
sai, trionferai di
lui, che pietoso,
certo te non dispregierà prostrata
a’ suoi piedi.
E tu riconducendo 11 figlio
tuo alta patria,
ne avrai, corni
è giusto, splendore sempiterno,
perchè C avrai liberala
da tale ()) Meli’
uso della Religione
comune rischio e terrore: e sarai
cagione a noi di
essere oHo~ rate presso
degli uomini ; perchè
avremo sciolta la guerra
che non potè
da essi dissiparsi.
Parremo cojI le discendenti
veramente delle femmine
che mediatrici terminarono la
guerra di Romolo
co’ Sabini ; e conm giunsero duci e
nazioni, e grande renderono
di piedola la
città (i). Magnìfica
sarà t impresa, o Fetu- ria, d' aver seco riportato il
figlio, d’aver liberata la patria
> salvate le sue
concittadine ; e di lasciare
ai posteri suoi luce
indelebile di virtù.
Dacci, o Fetum ria, con cuore
spontaneo e vivido questa
grazia ; vieni, ti accelera
; poiché grande, imminente il pe-
ricolo non ammette più
indugio, o consiglio. XLI.
Giù detto, tutta in
pianto, si tacque. E pian- gendo pur esse,
e pregando vivamente le
compagne; iVeturia, vinta dalle
lagrime, dopo breve
silenzio, disse: Foi seguite, o Falena, leggera e fiacca
speranza ; promettendovi un
ajulo da noi ;
donne infelici. Ben abbiamo
tenerezza per la
patria, e volontà di saL'ore I cittadini, qualunque
mai siano; ma
la potenza e la efficacia ne
mancano per compiere
ciocché vogliamo. Marcio, o F
ileria, ne rifugge da
che il popolo
fe’ di lui r amara
condanna, ed odia tutta
la casa in- sieme colla patria.
E ciò diciamo, sapendolo da
Mar- cio stesso', non da
altri; perocché quando
soggiaciuto alla condanna venne
in casa in
mezzo agli amici, trovando noi
addolorate, abbattute, co’
figli suoi su le
ginocchia, e che piangevamo,
corri era giusto, e (i)
Vedi 1. a, $
4^ » espone disicsantenle
tale storia deploravamo la
sorte che ci
soprastava nel perderlo
; egli fermatosi alquanto
da noi lontano,
insensibile come una pietra,
e co’ sguardi fissi,
partesi, disse ^ Marcio
da voi, o madre, o Volunnia
donna bonissima, cacciato
dai suoi cittadini perchè
prode, perchè amico
della repubblica, e perchè subito
ha tanti travagli
per la patria.
Voi so- stenete, come si
conviene a femmine virtuose, tanta calamità, non facendo
mai nulla d’ indegno, mai nulla di
vile: consolandovi in
questi fanciulli sulla
mia priva- zione, educateli degni
di noi, e della stirpe.
Gli Dei concedano ad
essi, uomini divenuti, sorte più
buona ; ma virtù
non minore. Addio.
Io vado, e lascio questa città
che più non
cape gli onesti
uomini. Addio numi tutelari, e tu
Vesta, paterna divinità,
e voi quanti siete Dei
di questo luogo.
Appena ciò disse, noi
misere, noi dal dolore
impedite, scoppiando in
gemiti, e per^ cotendoci il
petto portai'amo a lui,
per riceverli an~ cara, gli
amplessi estremi : ed
io menava meco
il maggiore de’ figli, e la
madre avevasi in
braccio il minore. Quando
egli, ritirandosi e rispingendoci, disse: Da
ora innanzi Marcio
non più sarà
tuo figlio, o ma- dre,
togliendoti la patria
in esso il
sostenitore della tua cadente
età, nè più sarà
da questo giorno
il tuo spo- so, o Volunnia: ma sii pur
felice, un altro
cercan- dotene più di me
fortunato : nè più
sarà padre vostro o figli carissimi:
ma orfani e solitarj
presso queste cre- scete fino agli
anni virili. Ciò
detto, nè soggiungendo
altro, nè comandando,
e non significando nemmeno ove
andasse, uscì di casa, o donne, solo, senza servi, in disagio, senza portare
seco delC aver
suo neppure il vitto
di un giorno.
E già volge t anno quarto
eh’ egli fuggì
dalla patria, e riguarda
noi tutto come straniere, niente scrivendo, niente mandandoci a dire, e niente
volendo di noi
risapere. Or presso un
cuore si duro, si
impenetrabile, o Troieria, qual forza
avranno le preghiere
di noi alle
quali non dava, partendo £ ultima
volta, non un amplesso, non
un bacio, non significazione niuna
dì affetto? Che se
tuttavia domandate voi
questo, e vo- lete in tutto vederne
wniliate ; concepite, che io e
Volunnia a lui ci
presentiamo co’ figli.
Quali discorsi io madre, dirìgo
la prima, quali preghiere
porgo al mio figlio
? Dite, ammaestratemi.
Chiederò che per^ doni
a suoi cittadini da
quali ( e senza che
offesi gli Oi’esse ) fu
privato della patria
F Chiederò che inte- neriscasi o compassioni la
plebe, che su
lui non seppe intenerirsi, tré compassionarlo? Che
abbandoni e tra- disca
quelli che esule
lo hanno raccolto, i quali seb- bene malmenati già
un tempo da
lui tanto e sì
fe- ralmente, pur non £ odio
gli mostrarono di
nemici, ma la benevolenza
di amici e di
congiunti ? E con qual cuore
pregherei io mai
questo mio figlio
che amasse chi lo
sterminava, ed oltraggiasse
chi lo sal- vava ? Non sono
questi i discorsi di
una madre savia al
suo figlio, non di
una moglie al
marito : nè voi ci
astringete, o donne, che
imploriamo da lui
cose non giuste presso
degli uomini, nè
pietose presso gli Iddii:
piuttosto lasciate noi
misere nella umiliamone ove siamo
per la sorte, senza
che noi pure svergfs- gniamo piu
ancora noi stesse. Taciutasi lei,
surse un tanto
lamentarsi di femmine, e tale
un pianto ne
riinbotnbò, che udendo- sene i • clamori per
gran parte della
cUlà, si empierono di popolo
le vie d’ intorno
la casa. Poi
rinovando Va- leria più lunghe
e più commoventi preghiere, le
altre donne, com’ erano congiunte
di amicizia o di
sangue con r una o l’ altra
di loro, supplicavano ancora
in atto di stringerne
le ginocchia. Tantoché
non più re«- stendo
per l’ afflizione fra
tanto piangere e supplicare; cedette infine
Vetutla, e promise di andarne
oratrice per la patria
co' figli e colla
moglie di Marcio, 'e^
con quante cittadine voleano.
Racconsolatesi allora vivaiùeuté, ed invocati
i numi a favorire le
loro speranze, parti- rono
dàlia casa, e nunziarono ai
consoli il fatto.
E questi, lodandone là
buona volontà, convocarono
ed interrogarono i padri, se fosse
da concedere che le
femmine ^uscissero. Or
molto, e da molti
se ue disputò; tanto che
giunti a sera dubitavano
ancora ciocché fosse da
fare. Dicevano molti
non essere piccolo
cimento per- mettere che le
donne andassero co’
figli al campo
dei nemici; imperocché se
questi, spregiando le
leggi sacre degli ambasciadori
e de’ supplichevoli,
volessero che le femmine
non più 'rìtornassero, prenderebbono Roma senza
combattere. Pertanto consigliavano
che si lascias- sero andare a Marcio
solamente le donne
che a lui si appartenevano insieme
cu’ figli. Altri
però giudicavano che non
si concedesse che
andassero nemmeno rpieste; anzi
esortavano di custodirle
gelosamente, e di consi- derai
le come
ostaggi sicuiissimi, perchè
la città nou
subuse grave disastro.
Per l’ opposito altri
proponevano che si accordasse
a quante donne volevano, di
uscire, perchè^ le donne
congiunte a Marcio,
fornissero con ' più
dignità la mediazion
per la patria.
Dicevano che non succederebbe
ad esse niente
di sinistro; giacché
ne sarebbero mallevadori primieramente
i numi col favore santo
de’ quali si
moveàno ad intercedere
; e poscia il duce stesso
al quale ne
andavano, come uomo puro ed
inviolato in sua
vita da ogni
ingiusto ed empio
at- tentato. Vinse
finalmente il partito
che accordava alle dònne
di andare, e còn
decoro amplissimo di
ambedue; del Senato come
savio, perchè vide ciocché
era a farsi il migliore, senza punto
turbarsi al grande
perìcolo ; e di Marcio
finalmente per la
sua pietà, perché
fh confi- dato, che niènte
oliraggerebbe tal parte
imbelle, espostasi a lui quantunque
egli fosse nemico.
Steso il decreto, e recausi l consoli
al Foro, e raccoltovi
il popolo, essendo già
notte, vi palesarouò il
voler del Senato, e preor- dinarono, che tutti
al nuovo giorno
accorresserò alle porte per
accompagnarvi le donne
che uscireld)ero. Busi frattanto, diceano,
che curerebbero quanto
era d'uopo. Era ornai
l’alba vicina;, quando
le donne por- tando i figli loro, andarono colle
faci, e presa in sua casa
Vcinrìa, la condussero alle
porte. I consoli idle- sUte
mule da tiro,
e carri, ed altri trasporti
moltissi- mi, ve le acconciarono,
e seguironle per, lungo tratto: le
accommiatavano intanto i senatori
ed altri in
buon numero con auguri,
con preghiere, con
eocomj, ren- dendone cosi
più dignitoso il
viaggio. Come si
potè dal campo distinguere, che donne, lontane ancora, si àvanzavano, Marcio spedi
de’ cavalieri per
apprendere che fosse quella
moltitudine, e perehé dalla catti
ne veoisse. E risapendo da
loro che venivano
le donne Romane oo*
6gli, e che innanzi -di
tutte era la
madre di lui, e la
moglie co’ figli
suoi; stupì da
principio che femmine potessero
aver cuore di
avanzarsi co’ Ggli
senza guardie al campo
nemico, e darsi a vederè ad
uomini insoliti, lasciata la verecondia
conveniente * a matrone
ingenue e pudiche, e la paura
del pericolo nel
quale incorrerebbero, se
questi volgendosi airutile
più che al giusto, volessero acquistarle, . e giovarsene. Ma
poscia- cbè furono vicine, deliberò di
uscire* dal campo
con alquanti ' verso la
madre, comandando ai littori
che quapdo le fossero
dappresso deponessero le
scuri, e le abbassassero i
fasci. Usavano i Romani
questo rito quando i magistrati minori
s’ incontravano co’
maggiori ; ed il rito
persevera ancora. Osservò
Marcio allora tal
pratica, e rimosse tutti i segnali
dell’ autorità sua ;
quasi egli dovesse presentarsi
ad una autorità
maggiore : tanta fa la
riverenza, tanta' la sollecitudine
sua per la
pietà verso la madre.' XLV.
Fattisi ornai vicini, si
avanzò la prima
per riceverlo la madre, ahi
! quanto miseranda, squallida
vestunenti, e logora gli occhi
dal piatito. Come
la vide, Marcio, duro, imperturbabile
fin’ allóra contro tutti
gli assalti, non più
valse a persistere nel
propo- sito suo: ma vinto
dagli affetti del
cuore umano corse, la
strinse, la baciò, la chiamò
con tenerissimi nomi:
e molto lagrimandone, e
curandone ; la sostenne,
mentre venuta meno abbandonavasi
a terra. Soddisfiitta la
tenerezza sna verso
la madre, ricevendo la
donna sna che sea
veniva co’ figli
disse ^ Fornisti o Koluimia
gli of- fizj di
ottima donna, > uh’endoli presso
la mia geni- trice: ed io
godo come su
dono dolcissimo infia tutti,
che non t qhbandonasli nella
sua solitudine. Dopo ciò
chiamato a sé 1’
uno e l’altro de’
figli, e ca- rezzatili come
si conveniva ; si
rivolse noVamente alla madre,
invitandola a dire per
qual fine veniva:
ed ella soggiunse che
il direbbe, udendola tutti
; giacché non chiederebbe se non giustissime
cose. Lo esortava
dunque che sedesse nel
luogo appunto dal
quale solea far
giu- stizia a’ suoi militari.
Con piacere udì
Marcio la propo- sta, pen hé
varrebbesi di assai
più regioni per
rispon- dere alle istanze .di
essa, e darebbe dv opportunissimo luogo fra
la turba la
risposta (i). Adunque
recatosi al tribunal militare
fe* da indi
rimovere e calarne al
pian- teiTeno la sedia, giudicando non
dover lui tenersi
p’ù alto che la
madre, nè còn maestà
niuna contro di
lei. Poi fatti sedere
presso di sé
li più cospicui
de’ capitani e dei centurioni, e lasciando che
intervenissero quanti
volevano ; significò alla
madre che incominciasse. Veluria, poste innanzi
del tribunale la
donna di Marcio co’
figli e le altre
più ragguardevoli tra le
Romane, ' pHmieramente rivolti gli
occhi alla terra, pianse
lungamente, p mosse tenera compassione
negli astanti : poi raccogliendo
sé stessa disse
: Le donne, o (i) Perché
sarebbe siala risposta
pubblica; udendolo cbi
Tclcea ; e perché cjuel
luogo stesso, di
dignità e di comando
aerebbé ricor- dalo «Ila madre
le ubbligaiionf Che
egli arcTa co'
Votaci. (a) Anni di
Roma a06 sccoodu
Calorie, a63 secondo
Varoue, e 4^ arami Criaio. Marcio figlio,
considerando gC info rtunj
che su di esse
piomberebbero se la
città divenisse de
nemici, diffidatesi di ogn
altro soccorso, poiché tu
davi le sì dure,
le jì ostinate
risposte agU uomini
che chiedeano un fine
alla guerra ; queste
donne, o Marcio ^co’ /?-
glioletti, in questo lugubre
apparato ricorsero a me tuà
madre, ed a V olunnia tua
sposa per supplicarci 'a non
permettere che avessero
tanto male ‘da
te, più che da
ogn altro, esse cfie
non ci aveano
offeso punto nè pocO',
e che grande ci
aveano dimostrata la benevolenza
nella nostra sorte
felice, e viva nom- meno
la compassione quando
ne dec'ademmo. Noi
ben possiamo testificarti che
dalf ora che
tu lasciavi la patria, daW ora
che noi restavamo
derelitte nella so- litudine, e nel nulla, esse
di continuo ci
visitarono, ci consoletrono, e
piansero al pianto
nostro. Memori di tanto
io e questa tua
donna, coabilatHce mia, non abbiamo
già ripudiato le
loro preghiere, ma preso abbiam
cuore di cercarti
; e pregarti, corno ci
atìdimandavano, per la patria. E lei
parlan(h> ancord, Marcio ripigliava
: rnadre ! se' tu
venuta per un
impossibile, venendomi a chiedere, che
io Iralisca quelli
che mi hanno
ri- cettato a quelli che mi
bandivano, quelli che mi do-
navann i beni, più
grandi fra gli
uomini a quelli che tutto
il mio rn
involavano. Io pigliando
questo cofnan- do, dos a
malle\'adori i genj ed i
numi,, che non
avrei tiadito gU ospiti
miei, nè finita
la guerra se
cosi non fosse piaciuto
a tutti i Volsci. Pertanto
adorando gt Iddìi su
quali giurai, riverendò
gli uomini a quali vincolai la
mia fede, guerreggieiò
fino alla decisione co'
Romani. Se renderanno
mì f^olsci le
terre che" ne possiedono
colla forza ; e se
amici se ne
fwanno, accomunando ad essi
tutto, come co' Latini
; deporrò ' le armi : altrimente
mai contro di
essi le deporrò
/ Voi dunque andatene.,
o donne, riferite ai
vostri un tal dire, e persuadeteli a non
pretendere ingiusta- mente [
altrui, ma contentarsi
del prpprio, quando altri lascia
che lo abbiano.
Non aspettino che
si ri- tolga loro colla
guerra, quanto colla guerra
usurpa- rono ai. Volsci; perocché
li vincitori non
saranno già paghi di
ricuperate i lor beni,
ma vorranno quelli ancora
de’, vinti. Se
ritenendosi, e difendendo ostina- tamente ciocché lor
uon si spetta,
vanno incontro m pericoli,
accusino sestessi, e non
Marcio, e non altri de'
mali che piomberanno
su loro. E tu
-daW altra parte', o madre, io
figlio tuo le
ne prego, non mi sollecitare a cose
non degne, nè
giuste; nè, unendoti d miei e tuoi
malevolissimi, volete
credere a te con- trarj
quelli che ■'ti
sono per natura
amicissimi : ma standoti,
coni è ragìc^nevole, presso me, vegli
riguar- dare per patria quella
che io riguardo',
e possedere per' casa quella
che io possiedo,
e godere con me gli
onori miei, e la mia
riputazióne, presi per parenti, per
amici e nemici tuoi,,
quelli appunto cK
io pren- dami. Bandisci, o misera, f afiìanno sostenuto
finora per la mia
fuga, e pesfa in
tale tua forma
.di aflig- germi. Gli altri
beni, o madre, più belli della
spe- ranza, più grandi del
desiderio mi son
dati da mimi, e dagli
ùomini. L’affanno che
io prendea su
te, non contraccambiandoti col
nudrirli ne' senili
tuoi giorni, diffuso per le mie
viscere, amareggiava e levava
la mia vita da
ogni bene. Se
meco ti rimani,
se parte- cipe ti fai
di ogni mia
cosa; più non
mi mancherà alcuno -tra L mortali. XLVIII. E qui
taciutosi lui, Veturia sopraslando breve tempo
&nchè, cessassero le lodi
cbe molte e grandi gli
si fecero da’ circostanti, soggiunse:
Non io. Marcio figlio, ti voglio
il traditore de'
Volsci, che ricevitori tuoi nelC
esìlio, ti onorarono in
iMtte guise, e ti affidarono il
comando di ses tessi
; nè voglio che.
tu da te solo
finisca senza il
voto comune, la
guerra contro i patti e i giuramenti, chè
facevi loro, quando prendevi armata
: nè temere che
la madre tua
siasi di tanta malvagità
riempiuta ; ‘ che inviti
C unigenito e carissimo
figlio a cose vituperose
e non giuste: ma cJtiedo
che tu levi
col pubblico voto la guerra, ridu^ cendo i V ytsci
a temperanza, e ponendo tra le due
genti pace ì>ella
e decorosa. E ciò sarà
fatto, se al presente movi t
armata e la ritiri,
e fai tregua per un
anno ; perocché spedendo
e ricevendo in questo tempo
ambasciadori, procaccerai
pace stabile, e vera
amicizia. Tu ben
-sai che f Romani, se
il disonore, o la impossibilità
non lo vieta
; faranno vinti dalle persuasive ogni
cpsa : laddove violentali, come ora vuoi
tu violentarli, non concederanno
mai cosa pic- ciola
o grande, come puoi tu
conviruertene da tanti esempj, ed ultimamente
dalle cose concedute
ai La- tini che deposeco
le ormL 1 Volsci,
dirai, sono assai
' più pertinaci, come
avviene ai gran
fortunati. Ma se ricordi
loro che ogni
pace vai più
della guerra: e che più
stabile è quella che
si fa per
amicizia la quale rende
i cuori propizj, che non, f
altra la
quila per necessità si
riceve: esser proprio
de’ sa>’i moderare la sorte,
quando stimano averla;
non però mai
ft^ cosa indegna nelle
vicende infelici e meste
; se dirai loro gli
altri documenti quanti
sen trovano ( notissimi
a voi che il pubblico
maneggiate ) per indurre a dolcezza
a mansuetudine ; scenderanno dalt
eUterigia ove sono, e concederanno che
facci quanto credi
a loro giove- vole, Ma se
resister^anno, se non ammetteranno
il dir tuo, sollevati dalle
belle Jbrluna provenute
da te e dal tuo
comandare, cqme siati quéste
immutabili ; rendi loro
palesemente co lesto
tuo capitanato, nè il traditore
sii di chi te lo
afJidcR>a, nè il combattitore de’ congiuntissimi tuoi ;
cose, T una e t altra inde- gnissimo. Queste soao, o Marcio figlio, le
cose che io vengo
a supplicarti che sian
fatte da te, non
im- possibili come tu dici,
ma pure da
ogni '' rimorso di ingiustizia, e
di malvagità. Tu temi
'( sono questi
i titoli che vai
ma- gn'ficanio col discorso
) tu temi d’
incorrere sé fai quanto
consiglioU, la taccia
rea come d’ ingrato
versa i tuoi benefaUori, i
quali ti
accolser nimico, e ti a
nmisero a tutti i-loro
beni, quali se gli
hanno co^ loro che
nacquero cittadini. Ma
dì j non hai
tu len- dulo toro
il molliplice e bel
contraccambio ? non hai suj'ferato i benefizj
loro colt amplitudine immensa
dei tuoi? Costoro che
leneano pel sommo
e pel più ama- bil
de beni viversi
liberi usila patria
; gli hai tu
ridutU (fuesti non
solo arbitri stabilmente
di sestessi, ma tali
infine da bilanciare, se tornasse
lor megliò, di abbattere
la potenza de' Romani,
o di partecipare, ugualmente alla
repubblica che Roma
ha fondato. Lascio' di
dire con quante
spoglie abbi ornalo
le loro città per la guerra,
e con quanta ricchezza
premiato quelli che vi
militav vedo che^ gU
orgogliosi che quei che'
spregiano le preghiere
-de supplichevoli, cor- rono all
ira de' numi ed alia
sciagura finalmente. Certo gl'
Jddii • istituirono e ne
dierono tale costume,- essi i pruni
ptrdanano s e fqcili si
rappaciane';, e molti si. placarono
già pe’ voti j
e' pe'
sagrifizj verso di uomini,
lontani per grandi
reità da loro".
Quando o A/arcio tu tioti
vagli che. l’
irà de’ celesti
sia mor-^ tale, ma immortale
quella, degli 'uoniini ; • forai
con rettitudine f e con dignità
tua o della patria, se
ne condoni gli errori, essa
già correggendosene, e pla-
candotisi, e rendendoti quanto prima
ti levava. LI. Che
se implacabile ti
rimani, rendimi questo
deposito, questo benefizio y i quali niun altro può
ri- peterti i e pe’ quùli hai tu non
le minime, ma* le auiplissinte è pregiatissime doti,' onde
tutto ottenesti,, rendimi il
corpo tuò e l’ànima.
Derivate le hai
que- ste da ma; ; nè
luogo o tempo, nè beneficenze, nè • grazie
di Fblsci o di
altri mai tanto
' eccederanno e saliran fino^
ai cieli ;.
che tu possi»
csmcellar la natu- ra,,nò
pù't udirne i diritti.
Mio sarai pur
tu semproj e sempre il
bene del vivere
a me dovrai per- la
pri- ma, e 'farai senza scusartend
quanto ti additnando- Ciò prescrive
la natura ai
viventi che sentono
e che ragionano { >e di
ciò confidata puf io,
ti supplico o Marcio
figlio a non portaré
guerra alla patria;,
o qui sto per
oppormiti se le
fai violenza. O me
tua madre che mi ti oppongo
sagrijicherai prjma di tua
mano alle furie, e cosi
darai principio alla
guerra; o, se temi
la infamia di
matricida, cedi o figlio
alla madrfi tua ; dammi, flie
il puoi, questa grazia.
Se questa leg^e che
niun tempo ha
mai tolto, mi
assiste, mi protegge > non
è giusto o Marcio che
io sola sia da
te priva degli
onori che essà
mi concede. Ma
Ics- sciando questa legge, ricordati la
tanta e gran sc^ie de'miei
benefizj. Io prendendo
a curar te fanciulletto, orfano del
padre tuo védova me
ne rimasi, e gli stenti tutti
soffersi onde allevasi,
madre tua non solo, ma
padre in ur[
tempo, educatore é sorella
dimoetrandomiti, ed ogni altra
spficie . di teneri
.og- getti. Divenuto tu grande,
potendo io liberarmi
dalle • cure, nutritandomi
ad •altri, e darmi nuovi
figli e nuove speranze
sostenitrici della vecchiezza;
non volli, hià restài
ne' tuoi lari
'domestici, contenta della vita medésima, e ristringendo a 'te
sólo ogni mia
conso- lazione, ogni bene. Di
questi ine. ne privasti-
tu, parte di voler
tuo, parte senza volerlo, rendendomi infe- licissima tra le
madri. ^ qual tempo,
da che toccasti l' età •virile, qual
tempo io pissr
mai sene’ agitazioni e terrori? e quando
ebbi, mai l' anintà
tranquilla so- ' pra di te,
vedendo che acciimolavi
guerra a guerra, che passavi
da battaglia a battaglia,
e ricevevi ferite su ferite
? . . Lll. E quando ti
desti alla repubblica
cd al ma- Digilized
by Google ’ - Lifino vm. 69
ncggìo de' pubblici
affari, gustai forse io
tua madre diletto alcuno
? Eh ! Che ne
divenni allora più
mi- sera, mirandoti in mezzo
alla civil sedizione.
Impe- rocché le uìe provvidenze
pér le quali
più sembravi valere, e per le
quali sostenendo i patrizj, spiravi indignazione contro
del popolo, queste mi
spaventa- vano tutta, considerando, per
quanto tenui motivi tramutasi la
sorte degli uomini:
e sapendo dai tanti casi
uditi che qualche
ira, divina traversa
i valentuo- mini, e la
invidia umana li
perseguita. E_ così
non fossi stata, come io '
m' era
troppo vera indovina degli eventi!
fa civile, invidia t' assalì,
ti sopraf/kee, ti sifclse
dalla patria,. Il
refto della vita
mia, se vita può
dirsi da che
partendoti ' mi lasciasti
co' figli tui, passò
tra questa desolazione.,
Va questo apparato
di lutto. Per tutto
questo io che
molèsta mai non
ti fui, nè ti
sarò finché vivo, ti
prego che vagli
serenarti una volta co' tuoi
cittadini f' c finir C Ira
acerbissima che nudri contro
la paù'kt. E con
ciò di cosa
io ti prego non
buona per me
solq, ma per
ambedue. Per le Se
tea persuadi, nè scorri
ad azioni non
degne ; perchè avrai
C anima immacolata e libera
da ogn’ ira, da
ogni^ terrore di
furie persecutrici, e p6r me poi,
perchè la fama
che men yetrà, mentre
vivo, dai cittadini, e dalle
cittadine. Tenderà beati
i miei .gior- ni f e quella che mi sarà
dispensata come io
presa- gisco, dopo^ morte,
renderà sempiterno il
mio nome. E se 'dopo
morte riceve alcun
luogo le anime
sciolte da corpi; riOn
riceverà già la
mia quel sotterràneo rp tenebroso ove
dicono che i detnoni
soggiornano ; nq 1 il ampo
che chianìdn di
Lete; ma C etere
sublime e puro, ove
dicono che albergano
con prospera e beata sorte
i JigUifoli de’ numi.
JB’ià divulgando anima min
la pietà e le
grazie onde m’hai
riverita, ten chie- derà per sempre
dagt Iddii la
degna- ricompensa. LUI. Ma se dispregi
la madre tua, se
inonorata la' rimandi n
per me fortunata nò
per le, la
quale hai salvato
la patria, e perduto insieme il
pietoso ed amantissimo
tuo figliuolo. Cosi detto, si ritirò
ne' siioi padiglioni
; comandando che lo seguitassero la
inoglie; la madre
-,, i fi^i : é vi
si. tenne tutto il
resto dei giorno, eonsultaudo, con esse
ciocché era da fare.
Enrono le risoluzioni
: che nè il
Senato proponetse al popolo, nè
il popolo decretasse
nulla del suo ritorno, prima che
.si persuadesse aWolsci r amicizia e la
cessaziofs della guèrra.
Egli leverebbe e ritirerebbe /'
esercito, marciando cofne tu
terre di amici: Dato
conto del suo
capitanato, e dimostratina - i beni;
pregherebbe quelli. che glie
lo aveano càtfi» flato,
a’ volersi ricongiungere
per giuste condizioni
ai nemici,. ed incarieore
lui pefchè vi
fosse ne patti
t o- fpùtà, senza niuna fmdolenza.
Che - se protervi
pei successi filici non
aecettósser la. pace; egli
si spoglie* rebì>e del
comando. In. tal
caso o non sosterrebbero essi di
^leggete un altro
per ^mancanza di
buoni capi* ioni ; o cimentandosi di
'affidare le forze
ad un altro qualunque, imparerebbero
a grande lor danno,
ciocchi era V utile a Jare.
Tali sono le
deliberazioni ira loro tenute,
e riconosciute per eque e
giuste, e capaci presso tutti
di buona faina,
oggetto principalissimo delle
cure del valenluomo. Ben
erano essi agitati
da- un timido
sospetto che la turba
irragionevole speraozala di
debellar riiiinii* co, delusane,
alfìne infuriasse; e setiz’amihctter discorso trucidasse come
traditore' quel suo capitarlo;
tuttavia deli- berarono
d’inedutrere non pur
questo ma ogn^allro
più tetro pericolo, e serbare
vh-tuosameule la fede.
E poiché il giorno piegava
a sera; datesi vicendevoli
signiflcaziout di affetto,
uscirono da' padiglioni, e quindi le
donne tornarono a Rema. Esitose
Marcio agli astanti
le cause che lo
inducevano a scioglier là,guerra, e pregò lun- gamente t sòldan che'gb'el
condqnassero, e che tornati
in patria, ricordevoli de’
suoi beneQzj,. non''
permettes- sero essi
compagni suoi, che subisse
alcun reo tratta- mento dagli altri.
Ej ragionate altre
cose, tutte persua- sive,
t:omandò che iaces^erq
le b^gagHe, oude partire la
notte 'seguentPi LVi Coinè
seppero dalla fama,' percorsa alle, donne, die Icvavasi
il pericolo loro, uscirono lietissimi
i Ro- mani dalia dtlà per
incohlcarle; dicendo e fàcendo
ora a cori, ora ad
uno ad uno,
salutazioni e' cantici e tri- pudj, quali gli
latino e li dicono
quelli che' da
rischio terribile passano » prosperità
non pensata. Si
menò poi Ja notte
tutta' In feste
e conviti : nel giórno
appresso il Senato adunato
da consoli su
Marcio dichiarò che si
differisse in tempo
più acconcio a risolver
gli onori da farseglt
: ma. che per
lo zelo ditnostrato
sì desse alle donne
nc’ pubblici antichi registri
un elogio che
ne'por- tasse eterna la
memoria, tra’ posteri, ed un
donativo, qual sarebbe il
pti\ car ed ' ' i Romani
-colende ; giorno appunto
che disciolse la 1 “ ^, (i)
Cotiolano si approssioiò.due volte
a Roma j 'la prima
volU ai accampò preaso
le fosse delle
Cluvìlie.-io distaosa di
ciitipie mi- glia, e la seconda
io luogo anche
piò vicino a Roma,
iiitburgio scrive, che io
questo secondò luogo
appunlo fu eretto
il tempio delta Fortiuia Mulirhrc.
A questa sci\tei]sa sembra
corritpondero ricchezze,
noh ricéVò con
dispiacere la iùtérro* zvon
della guerra, e^ favorendo
il valentuomo, escu- savàlo se
non la dltlmava,
mosso daUe prègbieve
e dalla compassion della madre.
Ma la gioveUtù
rimaka nelle città,, tocca
da invidia per.
le grandi prede
fatte dalFe» scrci'to, e’
delusa delle speranze
che aveva, se
prendei»^ dosi Roma ne
era Oaccàto l’orgoglio;
ne fremette, e fi esulcerò
contrd'del capitano. £ finalmente
assunti, per ca|)i della
scellcrsgginc uomini- .potentissimi
tra quelle genti, imbarbarì, e commise nn
indégnissimo fatto. Isti- gavala
aoprattattO Azzio Tulio
circondato da non
pochi di ogni città.
Costui non polendo
più la invidia
sua contro ‘Marcio*; aveva già
da uii tempo
risolato di uc- ciderlo occultamente e frt^dolentemeote, se quel
duce xiuscendo ne’ disegni e 6accando Roma
tort^Va - dal sottometterla ai
Volsci, o di darlo manifestamente ai suoi
partigiani ^d ucciderlo
come traditore, se
falliva nella impresa, è
tornavane senza l’ intento.
Ora ciò fece appunto.
Imperocché ' convocando
gente non poca;
le accusò quel .valentuomo
argomentando dal vero
il falso, e conghietturando dalle
cose già' state, quelle -che
non sarebbero mai t poi
comandò che deponesse
il comando, e desse conto
del suo capitanato.
Once costui delle truppe
rimaste nelle città, come
ho detto di
sopra, ‘era l’arbitro di
raccogliere le adunanze,
e di chiaipare chi voleva
in giudizio. Marcio
giudicava non* dover
contrapporsi a ninna delle
dué intimazio.ni ; solamente
discordava nel metodo di
soddisfarvi ; 'credendo che
égli dovesse prima dar
conto de’ fatti
della ' guerra, e pqi deporre, se così paresse
a tutti i 'Volséi, il comando.
Affermava che non dovesse
di tanto esser
arbitra una sola
città corrotta in gran,
parte 'da Tulio; ma
tutta la nazione, raccolta in
comizj legittimi, ove fossero
spediti deputati da 'ogni
. città, come portava
il 'costucrie, quando
aveansi a discutere i grandi jeffari.
Opponevasi a ciò Tulio,' ben vedendo cbe
se Marcio, ahroòde parlatore, facciasi tra la
pompa di capitano
a dar conto delle 'tante
e belle sue gesta trionferebbe^ della moltitudine
; c non' cbe suhire le
pene • de’ traditori, ne diverrebbe
più onorato e )>iù
grande. Impe^occbé ’ sarebbero
per concedergli tutti che
solo finisse a piacer
suo la guerra, ed
arbitro re» stereljbe di
ogni cosa. Adunque
per molto tetnpo
se no suscitarono ogni
giorno dicerie vicendevoli, e reclami in Senato,
éd altercazioni vive
nel Foro ; uou
essendo lecito a niun di
essi 'far violenza all’ altro, garautito dalla dignità
pari della magistratura,. Or
poiché non dovasi fine,
alla disputa ; Tulio
comandò a Marcio di venire
in dato giorno
a deporre il suo
gradò, e sotto- mettersi ai proressi
di tradimento, E sollevati
eon lu- singhe' di benefizi
> uomini audacissimi, e
messili per capi della
scellcraggiuc indegna; si
portò nel Foro
de- stinato. 'Asceso ' nel tribunale
accusò Marcio con
tòòlte incolpazioni ; ed istigò
la moltitudine a'
degradarlo a fo4'za, se spontaneo
non lasciava il
comando. ' LIX, Accese Marcio
anch’ esso per;,
far le difese
; ma ì grandi clamori de’ seguaci
di Tulio gli
tolsero di par- lare. Dopo ciò
gridandosi: {ira, ferisci,
lo efreonJa- ' rouo, e con .nembo
di sassi lo,
uccisero uomini inso-, lentissimi. Ed
essendo lui strascinato
Foro, quelli che erano presenti
allo spettacolo, e quelli
che Vi so- pravvennero dopo eh’
egli erst spirato, deplorarono il valeniaoiiio ; perchè'
non degna avea
da loro la
ricatu- pensa. E Hdiceano quanto
bene avea fatto
al comune, e r arresto'
.voleanO degli uccisoci,
perchè dato.aveano esempio di
opèra. ingiusta, e lesiva
delle '.città, spe- gnendo senz’iimmelterne le
difese violentemente un di
loro, c questo,, comaudante. Ne fremeauo
soprattutto i compagni di lui
uclle spedizioni. Epoiché
non erano stati da
tanto d’ impedirne i mali-
mentre viveva ; delU berarono riconoscerlo
de’benefizj, almeno dopo
la mor- te; recando al
Foro quanto alla
deliha onorificenza ri- cluedesT
de’'valentoomini. Quando lutto
fu pronto > col- locarono lui con
veste di capitano, su
letto vaghissima- mente
ornato : poi facendo
precedere quelli che
reca- vano le prede, le
spoglie, le cotone,
le immagini delle citli
prese da lui ;
ne sollevarono il
feretro i giovani più segnalati
fra le armi.
Lo portarono al
sobborgo più ragguardevole,
accompagnandone il cadavere
i 'cittadini tutti con gemiti
e la^inDe. uomo il.
più grande di tutti
'al suo tgmpo'
nelle armi. Continente
da lutti i pacetri
che traspòrUmo i giovani, seguiva 'la giustizia ifon involontario
per le leggi
che forzano col
timore de’ supplizi', ma spontaneo,
come per inclinazione
d’in- dole bennata. Non tenea
per virtù non
offendere ; e bramava non solo di
esser puro egli
stestd da ogni malfare,
ma credea giusto
di astringervi -anche gli '^allri. Magnanimo', liberale,
intentissimo a soccorrere quando cpnoscevalo, il bisogno
degli amici, npn era
inferiore a ninno de’ patrizj
nel roaneggio.del- pnbblico.
C se fa sedizione della
città non lo
avesse impedito da'
pubblici Digitized by LIBRO Vili.•(Tari, forse' Roma
preso avrebbe da'
regolamenti suoi grande aògumeolo
d’iiQpero. Ma'già. non
può farsi cbe tuKe le
virtù si uniscanó
nella natura di
un nomò ; nè da
seme mortala e caduco
sorgerà mai niutlo
per ogni parte peidetto. LXI. Il
‘destino che ' propizio
area sparso in
esso i germi di
tali virtù«^ vé
ne mise alfiri
ancora di sciagure e dì
mali. Non era
dolcezza nè illarità
ne’ suoi modi, non degnevolezza
ne* salmi e ne’
colloqui, .. non' facilità di
placarsi, non moderazione nell’
ira se contro
alcnno la concepisse, grazia in6ne,
quella «die adorna
tmte le nmane cose.
¥élnto lo avresti
sempre difficile, e sempre
acerbo, f^ocquero a lui
mólto tali maniere,
e soprattutto la severità
sua ^moderata,' incredibile, e senza scintilla mai
di chnuenza ne|)ar
custodia dei giusto
e delle leggi. Ma ben
sembra vero il
detto^d^ filosofi antichi, che
le virtù specialmente
quelle delia giustizia, . sono moderàzioni, e non estremità
de costumi : perocché sia che
la ginstizia manchi
dal mezzo, sia 'che
lo ec- ceda ; non più
giova i mortali, cagionando talvolta
gran danni, e ridùcendo a
stragi > miserande, ed immedica- bili inali. Nè
fu cbe la
troppo sollecita e troppo
austera esigenza del giusto
la quale ridusse
Marcio fuori della patria,
e senza il frutto
delle altre belle
sue doti. Po- tendo- piegarsi per
atòunà maniera al
popolo, e lasciare qualche cosa
af loro desiderj
e divenire il primo
fra loro ; non volle
: ma contrariandoli in
qualunque cosà ' la
quale ad essi
non si dovea,
se ne concilò
l’ odio, c fu cacciato dalla -patria. Potendo,
appena ^ sciolse la guerra, lasciare
il comando deifarmata,
e trasferire al- et 8o trove
la sua dirnora, Gncbè gli
fossi! conceduto il ri«
torno alU patria,
anzi 'che esporre ^ stesso
à nemici, ed alle stoltezze
della moltitudine ; ne
vide la necessità di ‘farlo, e non volle.
Ma giudicando 'dovere affidare sè
stesso a chi gli
aveva affidata T armata, .c
conto del suo capitanalo,
e se irovavasi. reo
di co.sa alcuna subirne le
pene secondo le
leggi; raccolse amaro
U frano di tanta
giustizia. Pertanto sé
col disciogìiersi de’
corpi aiicUo l’anima, qualunque' cosa ella
sia, si discioglic,
né punto ne so^ravvanza;
io non vedo
come.- chiamare beati quelli elle
non goderono della
loro virtù niun
frutto, anzi pci*^ essa
perirono. M.i se
le anime nostre
’Soprav-* vivono Immortali affatto
come pensano alcuni
;'0 qùal- ebe tempo
almeno dopo la
.-partenza' loro dal
corpo, il più lungo
quelle do’, buon;, ed
.il più breye
quelle dei malvagi (it;
certo parrà beq
grande ai. virtuosi
l’ onore che li seguita,
loipérocclié sebbene la
fortuo»' stasi loro contrapposta; avranno
buona fama e langbissima
la ri« cordanza tra’ vi vanti, come
appunto ' accadde a questo uomo. Perocché
non solaincute ’mofto
io piansero e Io onorarono, i Yolsci
come virtuosissimo; ma
li Romaui, conosciutone appena
il caso, riputandolo sciagura
altis- sima di Roma, ne fecero
pnvalo e pultbJ/co lutto.
Le donne come usano
in morie dei
domestici loro amaiis- s.ifni, lasciarono da
un canto l’ oro, la
porpora, ei • V . (i) [1 Vossio
nel lil>* i ^ de
IJoloturia dctltice d»
f|iicslo passo ch^ Diouigi
crcdctle che le
auhne esùtono J«pu
!a tnofie del
colpo ma solo -per
un tempo limitalo
; e per ciò lo
ridice nella classe
dt (|iicl!i che pensavano
quaulu alla durazioue
delle anime come
gU Stoici» \ 8 I atterono
fra loro senza
re- gola, senza comando, misti
e confusi: tanto che
grande ne fu la
strage in ambe
le parti ; e forse
totale ne sa- rebbe stata la
rovina, se il sole
non tramontava. Ma cedendo, loro malgrado, alla notte, che
inipedivali di contendere,
separaronsi, ed alloggiaronsi ciascuno
nel (i) Aa. di
Ruma aGG secondu
Catoue, aGS secoudu
V'arrooe, e 48G 8T. Cristo.DJONICI . tomo Iti.
fi proprio campo. La
maltina i duci lerando
le truppe si ricondussero alle
loro case. Udirono
i consoli dai diser.- tori
e da altri divenuti
prigionieri col fuggire
dalla bat- taglia, qual furia
e quale flagello divino
fosse nell’eser- cito; non però
colsero la occasione
tanto a proposito per essi
non lontani più
di trenta stadi,
nè gl’ incalza- rono nella ritirata
: nel qual tempo
se essi freschi, in buon ordine, avessero perseguitato
gli emoli stanchi, feriti, confusi,
e già pochi di
molti, di leggieri
gli avrebbero totalmente distmtu.
Sciogliendo aneli’ essi
il campo, tornarono in
patria sia che
fossero paghi del bene
dato loro dalla
fortuna, sia che non
fidassero su r annata loro
non disciplinata, sia che
assai valutassero il perdere
anche pochi soldati.
Ma giunti in
città vi furono vituperati, riportandovi fama
di pusillanimi per tale
condotta. Mè facendo
altra spedizione, rassegnarono
il poter
loro a’ consoli
susseguenti. Presero l’ anno appresso
il consolato Cajo i^quilio
e Tito Siccio, uomini periti
di guerra (i). E
facendo questi proposizioni
di guerra; il
Senato decretò che si
spedisse un’ ambasceria
per chiedere soddisfazione secondo le
leggi dagli Ernici,
popolo amico e confede- rato, il quale
aveva offesa Roma
nel tempo della
guerra de’ Volsci e degli
Equi con prede
e scorrerie su le terre
contigue : e decretò che
intanto che ne
avessero la risposta i consoli
iscrivessero milizie quante
ne pote- vano, convocassero con
messaggi gli alleati, ed
appa- recchiassero sollecitamente
col mezzo di
molti ministri Ao.
di Roma a07
secondo Catone, 369
secondo Varrooe, e 485 av.
Cristo. Digitized by Google LiDno
vili. 83 armi, grano, (lanari, e
quanto è necessario ()cr
la guerra. Tornali, cspcKero gli
ambasciadori le risposte degli Ernia,
i quali diceano non
esservi pubbliche con- venzioni tra loro e
tra’ Romani, e che pensavano
già sciolte quelle che vi furono
tra loro e tra
Tarquinio, come detronizzato, e
morto in
terra straniera : che
le prede e le incursioni
non furono ingiustizie
del pub- blico, ma di
privati intesi al
guadagno: e che non
do- veano però nemmeno
gii autori di
quelle consegnarsi al supplizio:
e lamentandosi che avessero
anche gli Eroici patito
altrettanto ; signiQcavano che
volentieri accette- rebbero
la guerra. Il
Senato, ciò udendo, decretò che si
dividessero in tre
parti le nuove
reclute descritte: che il
console Cajo Aquilio
marciasse coll’ una
sugli Eruict già in
arme aneli’ essi: che
Tito Siccio, l’altro
console, ne andasse coll’ altra
su i Volsci : che
Spurio Largio, nominato da’
consoli comandante della
città, prend cero ciò primi
li Volsci ; e ben
tosto la ottennero
; dando l' argento multato
dal console, e somministrando
quani’ altro bisognava
all’ esercito ; dopo
avere promesso che sarebbero
ì sudditi de’ Romani,
né più da
tali ao> cordi si
leverebbono. In ultimo
gli Eroici vedutisi
rima- sti soli, trattarono
coi console di
amicizia e di pace. Ma
Cassio assai richiamandosi
di essi con
gli ambascia- dori, disse,
che prima doyeano
far quanto conviene ai
vinti ed ai
sudditi, e poi discorrer
di pace; e soggiungendo gli
ambasciadori che lo
farehhono se moderata e possibile
ne fosse la
esecuzione, co- mandò loro
che gli portassero
in grasce i viveri
di un mese, ed
in argento la
somma onde stipeudiarue
t sol- dati secondo il solito
per sei mesi:
e definendo un nu- mero di
giorni entro cui
potessero tutto apprestatali
; concedette intanto ad
essi una tregua.
Presentarono gli Ernici ogni
cosa con prestezza
ed impegno, e spedirono di bel
nuovo i parlamentar] di
pace. Li lodò
Cassio c li rimise
al Senato. Ne
deliberarono i padri a lungo;
e piacque loro che
si ammettessero questi
all’ amicizia, c Cassio il
console esaminasse, e
decidesse le condizioni de’ trattati
da conchiudersi. Approverebbero i padri
cioo- ch’ egli ne
stabiliva. Prescritto ciò dal
Senato; Cassio tornando
in città chiedeva un
secondo trionfo per
aver sottomesso i popoli più
riguardevoli : ant>gavasi però
quest’ onore per le
aderenze, piuttosto che di
giustizia lo ricevesse tinperocchc non
avendo nè prese
città per assalto,
nè disfatti eserciti in
campo aperto ; non
potca menar seco in
spettacolo i prigionieri e le
spoglie che sono
gli or- namenti dei trionfi.
Ma lo amare
il piacer suo ;
non le risoluzioni simili
a quelle degli altri, gli
concitò subi- tissima
invidia. Impetrato il
trionfo pubblicò la
concor- dia, com’ aveala firmala
con gli Eroici.
Erano le con- dizioni trascritte da
quella conchiusa già
co’ Latini. Dicchè mollo
si dolsero i più
provetti ed autorevoli, e tennero lui
per sospetto, sdegnati che
gli Eroici, estra- neo popolo,
fossero pareggiati di
onore ai Latini
loro congiunti ; e quelli che
dato non aveano
neppur minimo segno di
benevolenza partecipassero le
cortesi retribu- zioni di chi
tanti dati ne
avea. Soffrivano ancora
di mal' animo la
superbia di quest’
uomo, perché onorato dal Senato
non aveali a vicenda
onorati, fissando e
pultblicando i patti come
glie ne parve
; non di concerto comune coi
padri. Così la
troppa felicità nuoce, non giova ; divenendo
insensiòilmente per molli
cagione di orgoglio incredibile,
e stimolo di desiderj
superiori alla natura; come
avvenne a costui. Condecorato
al- lora dalla città egli
solo fra tutti
con tre consolati
e due trionfi ampliava l’ onorificenza sua, ambizioso del
regio potere. Considerando però
che la via
più sicura per
chi ambisce il regno
e la tirannide è quella
di guadagnare il popolo
co’benefizj, e di costumarlo
ad essere alinien» tato
da chi dispensa
le pubbliche cose ;
a questa si ri- volse, e senza manifestarsene ad
alcuno. E perocché ci aveva
un terreno amplissimo
del comune ma
trascurato e goduto da^ ricchi
; deliberò di compartire
questo tra’l popolo. E se
contentato si fosse
di procedere fin
qui ; forse riuscito
sarebbe ue’ disegni. Ma
trasportatosi a trop- po ;
cagionò sedizione nou
picciola, e fine sciaurato a sestesso.
Imperocché presunse congiungere
alla divisioa del terreno
non pure i Latini
; ma gli Ernici, ricevuti ultimamente per
cittadini. Tali cose ideando
a conciliarsi quelle nazioni, convocò nel
glotoo dopo il
trionfo il popolo
a parla- mento. Quindi
asceso in tribuna
com’ è 1’ uso
de’ trion- fatori, prima dié
conto delle opere
sue, delle quali
era la sostanza : che
fatto console Ut
prima %>oUa vinse
i Sabini, e li rendè
sudditi a Roma alla
quale dispu- tavano il comando
: che fatto console
per la seconda, racchetò la
civil sedizione, e restituì la
plebe alla pa- tria : e ridusse amici
e (compartecipi della cittadinanza di Roma,
i Latini che erano
consanguinei, ed emoli eterni
delt impero e della
gloria di lei;
tantoché non più la
contrariarono, ma
riguardarono Roma come patria
loro. Chiamato la
terza volta al
consolato ne- cessitò li V ilsci
ad essere amici, di
nemici che erano, colle
armi, e sottomise spontanei
gli Ernici, popolo vicino, grande,
potente, ed attissimo
a nuocer molto, o giovare. Eisponendo
queste e simili cose
chiedeva al popolo che
attendesse a lui, provido soprattutti
ora e per sempre
della repubblica, e
chiudendo il discorso disse che
farebbe e tra non
molto tali e tante
benefi- cenze che
supererebbe quanti erano
encomiati di aver amato
e salvato il popolo.
Oisciolta 1' adunanza
invitò nel giorno appresso
a raccogliersi il Senato
sospeso e timoroso pe’ delti
antecedenti di lui.
Prima di ogni
altra cosa propose un
tal suo sentimento
tenuto occulto alla plebe, e chiese ai
padri che giacché
questa era stata
si utile per la
libertà dando mano a
farli dominare su gli
altri, prendessero cura di
lei e le dispensassero
il ter- reno, pubblico in
sestesso per essere
acquistalo colle armi, ma goduto
in fatti senza
niun dritto da
patrizj impudentissimi : e
poi chiese che
si rendesse dal
pubiuale fu sopraimominaiu Poplicola. potenti per
aderenze e ricchezze, e
tutto che giovani, non
inferiori a niun pari
loro nei trattare
le pubbliche cose esercitavano
la questura. Ed
arbitri per questo -di intimar le
adunanze accusarono al
popolo con incolpa» zioni di
tirannide Spurio Cassio
il console dell’
anno precedente, che osò
d’introdurre le leggi
su la partizione delle campagne
; e • preGggendogli il giorno,
lo citarono a giustiCcarsene presso
del popolo. Adunatasi
nei giorno prescritto gran
gente essi invitandola
ad ascoltare di- mostrarono che le
opere manifeste di
quest’ uomo non comprendeano nulla
di buono : primieramente perchè mentre
i Latini appagavansi di
essere ammessi alla
cit- tadinanza, e riputavano
sommo il favore
se la ottene- vano; egli console
non solamente concedè
la cittadinanza che dimandavano,
ma decretò che
si desse loco
il terzo delie spoglie
della guerra, se in comune
la sostenessero:
secondariamente perché rendette
amici in luogo
di sud- diti, concittadini in
luogo di tributar)
gli Eroici che, vinti, doveano ben
esser contenti se non erano
dan- neggiati collo smembramento
delle lor terre;
anzi ordinò che si
desse loro pur
la terza parte
delle prede e 'Tlelle campagne che
fossero mai per
conquisure. Tanto che divisa
la preda in
tre parti doveano
i sudditi e foresuerì
pigliarne due parli, ed
i paesani e padroni una
sola. Dimostravano che da
questi due assurdi
ne segnirebbe r uno o altro, se
volessero pe’ molti
e segnalati servigi
condecorare un altro
popolo come i Latini,
o come gli Eroici che
ninno prestato ne
aveano, vuol dire:
o che non avrebbero che
dar loro (i), o se
volessero pareg- (i) Il
lesto di Rciske
si togUmero e confiscassero i beni
del padre che
ne avea svelato
le brighe per la
tirannide ; e per questo
io decidomi piut- tosto per la
prima narrazione. Le
ho nondimeno riferite ambedue, perchè
coloro che leggono
aderiscano a quale più vogliono. Insistendo poscia
alcuni perché si
uccides- sero i figli ancora di
Cassio; parve al
Senato aspra la inchiesta
nè utile. E congregatosi decretò
che si rila- sciassero, c vivessero sicurissimi
da esilj, da infamie, da
ogni sciagura. Da
quel fatto si
stabili tra’ Romani r uso, custoditovi fino
a’ miei giorni, che
vadano im- muni da ogni
pena i figli di
padri delinquenti, sian essi figli
di tiranni, di parricidi
o di traditori, che tra loro
è il massimo dei
delitti. E quelli che
vicini al no- stro tempo, circa il
fine della guerra
Marsia, e della guerra
civile dandosi ad
abolire quest’ uso, impedirono finché dominarono
che i figli dei
proscritti da Siila giungessero agli
onori paterni e prendessero
posto in Senato, sembrarono far
opera degna della
esecrazione degli uomini, e
della vendetta de’
numi. Perocché col volger
degli anni raggiunse
loro la giustizia, vendica- trice non riprovata, per la quale furono
dal colmo della gloria
precipitati ai fondo
delia miseria; non
lasciandosi del lignaggio loro
se non la
prole nata di
femmine. E colui (i)
che li distrusse
riordinò quei costume
com’era ne’ prìncipi. Pfeaso di
alquanti greci però
non è così mite il
costume; perchè alcuni
credono giusto che i
gli de’
tiranni co’ tiranni
finiscano; ed altri
con perpetuo esilio li
punistxtno; quasi non
consenta la natura
che sorgano figli buoni
da’ padri rei ;
nè figli
rei da buoni padri.
Ma su ciò
lascio che altri
discuta, se migliore
è l’uso; de’ Greci
o migliore quel de’
Romani : ed io
pro- sieguo la storia. Dopo
la morte di
Cassio i fautori del
co- mando de’ pochi
divennero più baldanzosi,
e spregiatori del popolo. Laonde
gl’ ignobili per
nome e sostanze se ne
abbatterono ; accusando molto
sestessi di stoltezza, perchè aveano
colla condanna' di lui distmito
il custode fidissimo della
fazion popolare. Era
questa la causa
per la quale i consoli
non eseguivano il
decreto de’ senatori pel quale
doveano eleggere i dieci
che determinassero la terra
pubblica, e riferire in Senato
quanta parte ne fosse
da dividere, ed a quali
persone. Adunque si te-
nean de’
crocchi mormorandovisi in
ciascuno so l’ in- ganno, ed incolpandovisi più
che tutti i tribuni
pre- cedenti come traditori del
comune ; slmilmente faceansi dai
tribuni d’ allora
continue le adunanze
e le richieste della promessa.
Or ciò vedendo
i consoli deliberarono
rimovere col pretesto
di guerra la
parte sediziosa della (1)
Aagatto. città ; percccbé di
qae* tempi il
territorio era iofesiato da’
ladronecci, e dalle
scorrerie de* popoli
circonvicini. Adunque per far
la vendetta degli
aggressori aveano inalberato i segnali
di guerra, ed iscriveano
le milizie della città.
Ma, non dando i poveri
il nome loro,
non • potevano astringervi
a nonna delle leggi
gl* indocili, {jerocchè li
tribuni proteggevano la
moltitudine, e lo avrebbero
impedito, se altri
tentava portar la
violenza su le persone, o le
robe di chi
ricusava. Adunque lanciarono i consoli
molte minacce, che non
permette» rebbero che alcuno
rivoltasse la moltitudine
; e sveglia- rono ne’ cuori un
secreto sospetto che
nominerebbero un dittatore il
quale sospendesse tutti
gli altri magistrati, ed avesse
egli solo un
potere supremo ed
irrefragabile. In tale apprensione
i plebei temendo che
il dittatore fosse Appio, uomo
duro e dlflìcile, piegaronsi a sof- frire ogni cosa, piuttosto che
questa. Descrittone il molo, i consoli presero
le milizie, e marciarono su l’ inimico.
Gettatosi Cornelio nel territorio
de’Vejenti ne portò
via la preda
sorpre- savi. Allora i
Yejenti spedirono ambasciadori, ed egli rilasciò
loro i prigionieri per
date somme, e concedè la
tregua di un
anno. Fabio coU’altr armata
piombò su la terra
degli Equi, e quindi su
quella de’ Volsci.
Pa- zientarouo i Yolsci alcun
tempo, ma non
molto, che fossero i campi
loro predati e devastati:
poi spregiando i Romani come venuti
con armata non
grande impu- gnarono in buon
numero le armi, ed
uscirono su le terre
degli Anziati per
Incontrarli : se non
che ne an- darono anzi precipitosi
che savj : perocché
se giungevano inaspettati,
e K>rprendeano i Romani mentre
erano qua e là dispersi;
ne avrebbero assai
variato le vicende; ma
il console istruito
del giunger loro
dagli esploratori, richiamò bentosto
i suoi, sbandati com’ erano, da’
fo- raggi, e dié loro la
ordinanza conveniente alla
guerra. Come i Volaci che
.-venivano confidando e spregiando, videro fuori
dell’ imaginazione tutte
le forze nemiche ordinate e raccolte, sbalordirono alio
spettacolo inopi- nato : nè più
curando la salvezza
comune, provvide ognuno alla sua, e
dando volta, con
quanto aveàno di velocità,
fuggirono tutti chi
per una e chi
per altra via; salvandosene la
maggior parte nella
città (i). Solamente nu
picciolo corpo il
quale era più
che gli altri
ordinato ritirandosi alla cima
di un monte, quivi
pose le armi e vi
pernottò. Ma ne’
giorni seguenti essendo
dal con- sole circondala 1’
altura e chiusene tutte
le uscite, ne- cessitato
dalla fame si
sottomise, e cedette le arme.
11 I console fe’ vendere
pe’ questori quanto
vi era, prede, spoglie, prigionieri,
onde riportarne danaro
alla patria. Non molto
dopo levò 1’
esercito dalle terre
nemiche e a suoi lo
ricondusse, ornai standosi 1’
anno per termi- nare. Giunto il
tempo da creare
i magistrati, i patrizj che vedevano il
popolo irritato e pentito
della condanna di Cassio, deliberarono di
sopravvegliare perchè non facesse
movimenti elevato di
nuovo a speranze di do-
nativi e di divisioni di
terre da taluno
che prendesse gli onori
consolari pieno della
facondia per aringarlo e travolgerlo. Parve
loro che se
il popolo desiderasse ponto di
ciò, potesse impedirsegli
con eleggere un
console ad esso
non £tvorevole. Ck>nchiuso
ciò confortano perchè aspirino
al consolato Fabio
Cesone 1’ uno
degli accusatori di Cassio»
fratello di Quinto,
console attuale^ e Lucio Emilio
» altro patrizio propensi^mo
agli Otti» mali. Non
potendo il popolo
impedir questi due
che aspirassero al consolato, usci dal
campo e si levò
dai comizj. Perciocché ne’comizj
centuriati tutto il
poter de’snfiragj
assorbivasi da’ cittadini più
illustri e primi di ordine
; e di raro cosa
alcuna si decideva
col voto an- cora delle centurie
intermedie di ordine:
la classe estre- ma poi
nrila quale votava
la parte più
misera e più numerosa non
avea, come innanzi fii
detto, se non un
voto solo, il quale
era 1’ ultimo. Adunque negli
anni dugento settanta
dalla fondazione di Roma
(i) essendo Nicodemo
1’ arconte di Atene
divennero consoli Lucio
Emilio figliuolo di Ma-
merco, e Fabio Cesone
figliuolo 'di Cesone. Ora
suc- cedette loro secondo il
desiderio di non
essere pertui> bati da
sedizioni civili; per
essere la repubblica
investita di fuori. E le
cessazioni delle guerre
esterne sogliono rieccitare le
nazionali, e dimestiche tra’ Greci, tra’
bar* bari, e dovunque, principalmente tra’ popoli
che vivono Ira le
armi e i travagli per
amore della bbertà
e del comando ; perchè gli
animi avvezzi a bramare
ognora più, ridotti senza gli
esercizj consueti difficilmente
si contengono. Su tal
vista comandanti savissimi
fomentano sempre alcuna discordia
cogli esteri; giudicando
migliori le guerre nelle
regioni altrui che
nella propria. Allora (i)
Anni di Roma
^70 secondo Giatonc,
373 secondo Varrone, e Cristo] I 1 I fecondo
il genio appunto
de’ consoli, occorsero come bo
detto, le insurrezioni
de’ sudditi. Imperocché li
Volsci sia che hdassero
ne’juoti interni di
Roma, contendendo il popolo
co’ magistrati ; sia
che fremessero per
la infa- mia della precedente
disfatta, ricevuta senza
combattere; sia che insuperbissero per
le forze loro
che eran gran- dissime;* sia che
seguissero tutte insieme
queste cagioni; aveano deliberato
ikr guerra ai
Romani. E raccogliendo i
giovani da tutte
le dtté marciarono
con parte dell’e- sercito contro le
città de’ Latini
e degli Ernici, e col- l’
altra che era
la più numerosa
e più forte teneansi pronti a ribattere
chiunque si avanzasse
contro le loro. 1 Romani ciò
saputo deliberarono dividere
1’ armata in due
corpi, e guardare con
uno le terre
degli Ernici e de’
Latini, e correre coll’ altro
a depredare quelle dei iVolsd. Avendo i consoli, com’ è loro
costume, tirato a sorte le
milizie ; Fabio Cesone
assunse il co- mando di
quelle che andavano
a soccorrere gli alleati, e Lucio marciò
colle altre contro
la città degli
Anxiati. Avvicinatosene ai confini, e vedutevi le
armi nemiche, si accampò
su di un
colle a fronte di
^e. Ma uscendo i nemici ne’
giorni consecutivi più volte in
campo, e sfidando alia battaglia;
egli credette avere
il buon pun- to, e cavò le sue schiere.
Ed ammonitele, e riammo- nitele
prima del cimento
; alfine diedene il^egno
e le avventò. Bentosto i soldati
alzato il grido
consueto della battaglia pugnarono
folli, a schiere e coorti. Esaurite poi
le lance, i dac;di cd
ogni arme da
tiro si scaglia- rono, rotando le
spade, gli uni
su gli altri
con ardire e desiderio eguale
di misurarsi. Era iu ambedue simi« lissima
la maniera di
combattere : nè maggiore
tra* Ro* mani la
saviezza e la sperieuza
che gli aveva
rendati già più volte
vincitori, nè maggiore la
costanza e la sofferenza per
1* esercizio di
tante battaglie ; ma
le doti stessissime brillavano
pur tra’ nemici
6n dall’ ora, che fu
duce loro Marcio,
famosissimo duce romano.
Adun- (jne gii uni
resistevano agli altri
senza cedere il
posto preso in principio.
Ma dopo alquanto
i Volaci a poco a poco si
ritirano, schierati, e con ordine,
tenendo fronte ai Romani.
Tendea quel movimento
a dividere le milizie di
questi e combatterle da
lut^o elevato. In opposito
i Romani credendo che
questi principiasser la fuga
tennero anch’ essi a
passo a passo in buon
ordine dietro loro
che si ritiravano.
Ma poiché videro che a
rilancio conevano agli
alloggiamenti an- ch’ essi rapidissimi, in disordine
li seguitarono. Intanto le
centurie estreme e la
retroguardia, quasi già vinci- trici, spogliavano i morti, e davansi a predare
la re- gione. Vedendo ciò li Voisci
che facean credere
di fuggire, giunti appena alle
Urincee, voltata faccia, si
contrapposero : e quelli che
erano negli alloggiamenti, spalancate le
porle, accorsero numerosi da
più parti. Or qui
cambiarono le vicende
della battaglia : chi
per- seguitava fugge, e chi
fuggiva perseguita. Perirono, com’ è naturale, molti bravi
Romani incalzati giù
pel declivio, e circondati ;
essi pochi, dai molti.
Non dis- simile sorte incontrarono
quanti eransi dati a
spogliare e predare, impediti di retrocedere
schierati e con oi^ dine
; imperocché sopraHatti ancor
essi da' nemici
restavano iracidali o prìgiooierì. Quanti
però di questi
o di quelli respinti giù
pel monte fuggivano
in salvo ; soc- corsi, benché tardi,
dalia cavalleria, tornavano
al6ne a’ proprj alloggiamenti
: e parve che a non
essere intc-ramenie distratti
giovasse loro un’acqua
dirottissima dal cielo, ed un
bujo qual formasi
per nebbia profondissi- ma ; perocché non
potendo i nemici vedere
più di lon« tano, infkslidirottsi a seguitarli
più oltre. La
noue ap- presso il console
movendo l’ armata la
ritirò cheta, in buon ordine, sicché 1’
inimico noi comprendesse.
Al tornar della sera
mise il campo
presso la ciué
di Lon- gòla t scegliendo
un’altura idonea, onde. respingerne gli assalitori. E qui
fermatosi curava gli
egri .dalle ferite, e rianimava gli
aiHitti dalla vergogna
delia disfatta im- pensata. Tale er^
lo stato de’
Romani. Li Volacipoi
come al nascere
dei giorno conobbero
che quelli eransi di
loggiati; portarono più
da vicino il
campo loro. Quindi spogliato
avendo i cadaveri de’
nemici, raccolto i semivivi
che davano speransa
di guarigione, e seppel- lito
gli estinti loro
compagni, rientrarono la città
di Anzio che prossima
rimaneva. Qui cantando
inni e por- gendo in ogni
tempio sagrifìzi per la vittoria, si
diedero ne’ giorni seguenti ai
conviti e piaceri. E se
teneansi a quella vittoria,
né intraprendevano altra
cosa; la guerra avrebbe avuto
per essi nn
esito fortunato. Imperocché li
Romani non aveano
cuore di uscire
dagli alloggiamenti per combattere
; anzi desideravano di
lasciare le terre nemiche, anteponendo nna
fuga ingloriosa ad una morte DIOIfJGI, tomo ut.
manifesu. Infiammati però
da speranae maggiori, per- deroDO la
gloria ancora della
prima vittoria. Udendo
da- gli eipioratori e dai disertori
che i Rbmani andati
salvi eran pochi, e per lo
più feriti ; ne
concepirono disprezzo grandissimo,
ed impugnate le
armi marciaron sa
loroi Li seguitarono senza
1’ armi moiri
della città per
vedor la batuglia, e per fare
insieme prede e guadagni.
Ma quando giunti all*
altura circondarono gli
alloggiamenti, e presero a
svellerne gli steccati
; proruppero prima su di
essi i oivalieri Romani, postiti a piede
per la con- dizione del luogo,
e poi li triarj, schieratisi strettissimi. Sono questi
i veterani a’ quali
si dà la guardia degli
al- loggiamenti, se le milizie
escono per combattere, ed a’ quali
per mancanza di
altri ripari si
ha restrerao in- dispensahil ricorso
quando avviene strage
funesta de’ gio- vani. Ne
sostennero i iVolsci la
irruzione e pugnarono gran tempo
pieni di valore.
Ma non favoriti
poi dalla natura del
aito se ne
rimossero : e fatto a’
nemici danno tenue, nè
degno di memoria,
e ricevutolo essi più grande
ancora; calarono alia
pianura. Messi quivi
gli alloggiamenti, schierarono
ne’ giorni appresso
1’ armata, e provocarono i Romani
alla battaglia : nè
pertanto usci- rono questi al
paragone. 1 Volsci vedendo
ciò li spre- giarono : e convocate le
milizie dalle loro
città ; si ap* pareccbiarono per
espugnarne le trincee
colla moltitu- dine. E ben erano
per fare alcuna
cosa di grande
ri- ducendo per patri e colla
forza il console
e i suoi che già penuriavano
; ma giunse prima
di loro il
soccorso Romano, e furono
traversati da compiere
con bellissimo (ìpe la
guerra. Imperocché Fabio
Cesoue l’altro console, .
I I 5 Mpen rono compartiti pe’
corpi varj. I consoli
dopo avere sup> plite
le coorti mancanti, tirarono a sorte
il comando degli eserciti.
Prese F abio l’ esercito
sostenitore degli alleati, e
Valerio 1’ altro
che * accampava tra’Yolsci
; re- candovi le nuove reclute.
I nemici saputo il
giugner di lui, deliberarono far
venir nuove troppe, trinderarsi in luogo
più forte, nè
coìrere, come prima, per
lo di- spregio rovinose vicende.
F orqirono i duci tutto
ciò spe- ditissimàmente,
intenti l’ uno, e l’ altro a guardare
le trincere sue dagli
assalti, non ad assalir
le inimiche, per espugnarle.
Cosi decorse non
poco tempo fra
ter- ror vicendevole che
1’ ano 1’
altro investisse. Non
pote- rono però l’uno e l’altro
osservare sino al
fine il pro- posito. Imperocché quante
volte spedivasi alcuna
parte di esercito pe’
frumenti o per altro
bisogno ; davansi at- tacchi e percosse, con
esito non sempre
vittorioso per ' (i) Cesare (a)
Altenlare so’ Iribaoi
era delitto graTÌssimo, perchè le
per- sone loro si riguardavano
come sacre ed
inviolabili : Quindi Cice- rone nel lib. 3 de legibns
scrive: quodque ii
prohibessint, quod- que
plcbem rogaisint ralitm
està ^ taneiique turno.
vin.
I ig UD de' partiti.
Ne perirono in
tante scaramacce non
po- chi ; restandone feriti ancor
più. Non riparava
le perdite Romane alcun
nuovo rinforzo venuto
altronde ; mentre i Volsci,
sopravvenendo ad essi
schiere su schiere, si erano moltissimo
ampliati. Dond’è che
animatine i duci loro,
cavarono dalle trincee
1’ esercito per
la battaglia. Usciti i Romani
nommeno e schieratisi a fronte,
insorse una mischia
grandissima di cavalli,
di fanti, di soldati
leggeri, pieni tutti di
ardore e di > sperienza e ciascuno col
disegno che dipendesse
da lui solamente la
vittoria. Cadutine dall’
una e dall’ altra
parte molti estinti, e piò ancor
semivivi ; si ridussero
a pochi quelli che tuttavia
rimanevano tra la
mischia e il pericolo.
Or non potendo questi
fare le azioni
di guerra perchè
gli scodi destinati a difendere, pieni di
dardi conGccativi ^ aggravavano
la sinistra, né permettevano
che si tenesse ferma
in atto di
ripercotere i colpi, e
perchè le spade erano
ornai spuntate, rotte, - inutili ; tanto
più che il combattere
di tutto il
giorno gli aveva
stancati, mer^ vati,
illanguiditi a ferire, e la sete,
il sudore, l’aiTanno
travagliavali come chi
combatte a lungo nelle
ardentis- sime ore di estate;
la battaglia non
prese termine me* morando, ma 1’
nnò e l’ altro duce
ritirarono ben vo* lentieri
le armate : e tornarono
a’ proprj alloggiamenti^ Non uscivano
più gli uni o
gli altri a combattere,
ma standosi dirimpetto spiavano
a vicenda le sortite
degli emoli pe’ bisogni
di guerra. Parve
nondimeno, e molto in Roma se
ne discorse, che la
milizia Romana, po- tendolo,
non facesse nulla
di luminoso per
odio contro del console, e per indignazione
su’ patrizj, mentitori nella dÌTÌsione
delle terre. In
opposito i soldati acctisa» vano
il console come
insulficiente ; scrìvendone ognuno lettere ai
suoi. Tali furono
gli eventi nel
campo in Roma intanto
molti segni celesti
annunziarono l’ira divina
con voci, e viste inusitate. E tutti
i segni concorrevano a questo, come i vati
e gli spositorì delle
sante cose, te» nutone consiglio, interpretavano, che alcuni
de’ numi erano esacerbati, perché non
riceveano gli onori
legit* timi, o riceveano sagrifizj
non puri, nè
pii. Faceasi dunque grande
ricerca, 6nchè diedesi
indizio a’ sacerdoti che
l’ una delie vergini, custodi del
fuoco sacro ( Opi- mia
n’ era il nome)
avea la verginità
contaminato, e con la
virginità le sante
cose. Or questi
con indagini e discussioni chiarìtlsi
.esser vero pur troppo il
fello in- dicato,
spogliarono quella delie
sacre bende, e condot- tala di su
|»1 foro, la
seppellirono viva tra
sotterranee pareti.
Flagellarono poi nella
pubblica luce ed
uccisero due convinti del
fello con essa.
E ben tosto favorevoli le
sante cose, e favorevoli si
ebbero le risposte
degl’in- dovini, come per la
pace venduta da’
numi. - XC; Giunto il
tempo de’comizj, e venutivi i consoli, ebberì briga
e contenzione assai viva
tra’ patrìzj e tra
’l popolo su’ personaggi
che avrebbero da
pigiare il co- mando. Voleano quelli
promovere al consolalo
giovani intraprendenti né amici
della plebe ; e per
insinuazione loro chiedevalo il
figlio di Appio
Claudio, di quello ri- putato già si
contrario al popolo
; ed era questo
figlio pieno di orgoglio
e di audacia, e potente per
amicizie e clientele più che
lutti dell’ età
sua. Per l’ opposito
il popolo nominava a far
l’ utile pubblico e volea
per con- vm: 1
3 1 soli personaggi anziani, notissimi per
le d^ci maniete sole
vi marciasse colle
armate. Fu tal
decreto un sub> bjetto di
contraddizioni : perocché molti
non lasciavano che la
guerra uscisse, ricordando a’
plebei la partizion delle terre
decisa già da
cinque anni dal
Senato, e come tra le belle
speranze furono defraudati, e protestando che non
particolare ma comune
sarebbe quella guerra, se
la Etruria tutta
levavasi unanime a soccorrere
ì suoi nazionali. Non poterono
però nulla tali
sediziosi discorsi;
imperocché per le
insinuazioni di Spurio
Largio anche il popolo
ratiScò la sentenza
de’ padri : pertanto
i con- soh* cavarono gli
eserciti, e gli accamparono separati r uno dall’
altro, non lungi da
Yejo. Si tennero
in tal modo più
giorni: non uscendone
però l’inimico coll’ar- mata
; datisi a saccheggiarne i campi, sen
tornarono con quanta poteano
più preda in
patria. Or ciò e
non altro vi ebbe
di memorabile sotto
questi consoli. L JLj
anno appresso nacque
disparere tra ’l
popolo e tra i senatori
su la scelta
de' consoli : imperocché
que- sti voleano promovere al
consolato due di
cuore patri- zio, laddove la
moltitudine due ne
volea popolareschi. Arse la
disputa finché tra
loro si persuasero,
che am- bedue le parti
dovessero nominare, ciascuna,
un console. Pertanto il
Senato elesse Fabio
Cesene per la
seconda volta, quello
appunto che aveva
accusato Cassio come reo
di tirannide, ed il popolo
creò Spurio Furio
(i) (i) Anno di
Roma s;3 tecoado
Catone, 375 Mcoodo
Vairone, c 479 av.
Cristo. . laS nella olimpiade
settantesima quinta ; essendo
Calliade Arconte in Atene, al
tempo appunto che
Serse fece la sua
spedizione contro della
Grecia. Or avendo
questi preso appena il
comando, yennero in Senato
gli am- basciadori Latini
per supplicarvi, che
si mandasse loro coir
esercito l’ uno de’
consoli, il quale non
permettesse che la insolenza
degli Equi procedesse
più oltre. An- nunziavasì insieme
che la Etruria
tutta era in
moto, e che tra non
molto uscirebbe colle
armi per essersi
già riunita in (x>mizj
generali : come pure
che avendo i Vejenti
insistito per congiungersele contro
i Romani, ne aveano Gnalmente
ottenuto, che potesse ogni
Tirreno parucipare alla impresa:
dond’ è che fatto, si
era un corpo riguardevole
di Vejenti volontari, per militarvi. Or
ciò vedendo i magistrati
Romani deliberarono che si
recintasser le armate, e che
li consoli uscissero
con esse r uno per
combattere gli Equi, ed
esser il vindice
dei Latini ; e l' altro per
marciare contro l’ Etruria.
Oppo- nessi a ciò Spurio Sidnio
(i) l’uno de’tribnoi,
è con* gregando ogni giorno
il popolo a conclone
raddoman- dava le promesse
dal Senato, e protestava che
non pen> metterebbe, che si
eseguisse niuna delle
cose decretate da’ padri
su’ nemid o su
la dttà, se
prima non creavano i Died, per deBnire
le terre del
pubblico, e non le compartivano,
come eransi obbligati
in verso dd
popolo. Implicavasi, nè
sapeva che fare
il Senato ; quando
Ap> (i) In atconì
codici ti legge
Icilio: e Lirio stesso
nel lib. 4, dice
: auetoret fuitte tam
Uberi popolo mffrayì
leitios accipio, ex famitia
i/ifeetUtima patribue Irei
in eam antuun
Uibunot plebù ereaioi.
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DELLK Antichità’ romane pio
Claudio suggerì che
si procurasse la
dissensione tra questo e gli
altri Tribuni ; perciocché
vedea, eh' essendo r
oppositore inviolabile, ed
impedendo col poter
dei^ leggi i decreti de’ padri,
non rimaneva altra
via da rin- tuzuraelo, se
non quella che
un altro di
eguale onore e potenza operasse
in conurario, e proibisse ciocch’
egli proibiva: consigliava inoltre
che quanti prenderebbero successivamente il
consolato si adoperassero, e mirassero sempre ad
avere iàmigliari ed
amici de’' tribuni, ripe»
tendo non esservi
altr’ arte da
iuvalidame il potere, se non quella
di ridurli discordi. II.
Parve ai consoli
che Appio ben
consigliasse, ed essi, e gii altri
de’più potenti si
afiàticarono vivamente,
perchè quattro de’
tribuni si dessero
ai voleri del
Se> nato. Or questi
cercarono alcun tempo
persuadere colle parole Sicinio
a desistere dalla mira
che i terreni si' di- videssero innanzi la fin della
guerra. Ripugnando e giu- rando, e dicendo però
costui protervissimamente, che
vorrebbe piuttosto vedere
la città caduta
in poter dei Tirreni
e di altri nemici, che
lasciare placidi a sestessi que’ che
godeansi le terre
del pubblico, pensarono di prender
quindi la bella
occasione di parlare, e di
ope- rare contro tanta arroganza, non udita
con piacere, nemmeno dal
popolo. Adunque dichiararono
che gliel proibivano ; e fecero
svelatamente, quanto piacque al Senato, ed
ai consoli. Dond’
é che Sicinio rimasto
solo non era più 1’ arbitro
di cosa niuna.
Fecesi dopo ciò la
iscrizion dell’ annata, e si
apparecchiarono dai pri- vati, e dal pubblico
con ogni diligenza
le cose tutte necessarie per
la guerra. I consoli, tirata a sorte
la spe- . 127 dÌEioQ
loro, uscirono ben
(osto all'aperto, Spurio
Furio contro le città
degli Equi, e Fabio Casone
contro i Tirreni. Corrispondevano i successi
appunto ai disegni
di Spurio ; non avendo
i nemici nemmen cuore
di venire alle mani :
e potè di quella
spedizione raccogliere da- nari e prigionieri in
buon numero ; imperocché
per poco non scorse
tutto il territorio
nemico, menando o por- tando
via. Concedè tutte
le prede in
dono ai soldati
: e se parea già
da gran tempo
l’amico del popolo;
più che mai se
lo accarezzò con
tal suo capitanato.
Del quale, finito il tempo, ricondusse l’ esercito
intero, in- violato,
ricchissimo divenuto, alla patria. IIL
Fabio Cesone diresse
nemmeno bene il
comando deir armata, por andò
privo delle lodi
delle opere, non per colpa
sua, ma perchè fin d’
allora che fe’
giudicare, e dare a morte Cassio
il console, come
intento alla ti- rannide, non avea
più lafiètto del
popolo. Donde che li
soldati suoi non
erano disposti nè
ad ubbidire colla prestezza la
quale abbisogna al
duce, che ordina, nè ad espugnare
con ardore quantunque
muniti di fòrze convenienti, nè a guadagnare
colle insidie i posti
op- portuni al buon successo, nè
a fare cosa niuna
dalla quale raccogliesse onore
e fama buona pe’
comandi che dava. Le
altre iocongruenze poi
colle quali spregiavano esso capitano
erano per lui
meno gravi, nè di
tanta ro- vina per la
patria. Se non
che quel che
fecero in ultimo creò
pericolo non lieve,
e grande ignominia per
ambe> due. Imperocché scesi
a battaglia campale fra i
due colli su quali
alloggiavano diedero molte
e splendide prove di valore, fin
a scingere i nemici a dar
volta ; non però gl'
inseguirono nella fuga, sebbene
il capitano ve gli
scongiurasse, né vollero con
fermezza asserliame gli alloggiamenli
; ma lasciata la
bell* opera imperfetta, si ritirarono
alle proprie trincee.
Anzi tentando il
con- sole capitano dire alcune
cose (i): molti
a gran voce ne lo
beffarono, e redarguironlo che
avesse per la
im> perizia sua nei
comandare, fatto tra
lor la rovina
di tanti valentuommi: ed
aggiungendo altre maldicenze
e querele, esigerono che sciogliesse
il campo, e li ricon- ducesse a Roma, come insufficienti
ad una seconda
bat- taglia, se il nemico
su loro tornasse.
Nè puntò si
pie* garouo per le
ammonizioni, nè si commossero
pe’ g»> miti, e per le
suppliche di lui, nè
le grandi minaccie ne
riverirono { ma sd^nandosene
ognora più si
osti- narono. Per le quali
cose tanta, e tanto universale
fu la insubordinazione, e il dispregio
pel capitano; che
le-vatisi intorno la mezza
notte, dismisero le tende, e rac- colsero le armi ;
trasportandone li feriti, senza
comando ninno. ly. Il duce
vedendo ciò fu
costretto dare il
segno per tutti della
partenza ; temendo 1*
audacia e l’ anarchia loro : ed
essi come salvatisi
colla fuga, pervennero in gran
fretta su 1’
alba presso di
Roma. Le guardie
delle mura ignorando che
fossero amici, brandirono le
armi, e chiamaronsi a
vicenda ; e tutto il
resto della ciltè
si empiè di confusione
e tumulto, come per grande
scia- gura : nè si aprirono
le porte, se non a
di luminoso, quando si
ravvisò eh’ era 1’ esercito
loro. Questo poi, (i)
Secondo ua’ altra leiione
il teaio Mrebbe
: ami tentando ai- euni
dare ai cotuoU
nome d' Imptradore ec. per
tacere la infamia
deli' abbandono del campo,
corse a riscbio non lieve, traversando disordinatamente di notte
le terre nemiche.
Imperocché se gli
emoli se ne avvedevano, e lo inseguivano, niente impediva
che lo sterminassero. Cagione, come
ho detto, di questa
irra- gionevol partenza, o fuga,
fu l’odio del
popolo contr» dei capitano,
e la invidia su
la onoriBcenza di
lui, af> finché più
autorevole non divenisse
per la gloria
del trionfo. I Tirreni conosciutane
al quovo di la rimozione, spogliarono i cadaveri
de’ Romani, presero e trasporta- rono i feriti, e
saccheggiarono nelle trincee
tutti gli apparecchi,
certamente ben grandi, come
per guerra diuturna . Alfine dopo
avere, quasi vincitori, depredate le
terre nemiche più
prossime, ricondussero in patria 1’
armata . V. Creati consoli
dopo questi Cajo
Malllo, e Marco F abio per la
seconda volta, siccome il
Senato decretò, che marciassero
contro Vejo con
armata quanta po> teano
numerosa, intimarono il giorno
per la iscrizioa dei
soldati. Ben pose
loro Impedimento per
questa Ti- l>erio Pontificio
T uno dei tribuni
con reclamare il
de-creto su la partizione
delle terre : ma
essi, come aveano fatto
i consoli antecedenti,
guadagnando altri de’
tribu- ni, disunirono que' magistrati, e cosi diedero
esecnzlone pienissima ai voleri
del Senato. Finita
in pochi di la
coscrizion militare, uscirono contro
de’ nemici ; condu- cendo ciascuno due
legioni, reclutate dalf interno
di Anno di
Roma a^4 secondo
Catone, 376^ tecoado Varrons ■ av.
Cristo] Roma, e milizia non minore
; spedita dalle colonie
e da’ sudditi. Giunse
dai Latini e dagli
Emici il doppio del
soccorso intimato, non però
li consoli lo
usarono tutto, ma
rimandandone la metà, li
ringraziarono am- plissimamente
di tanto
buon animo. Accamparono
in- nanzi di Roma una
terza armata floridissima
di due le- gioni, per guardia
del territorio, se mai
vi si presen- tasse altro esercito
nemico improvviso ; e lasciarono a difenderne
le fortezze e le
mura gli altri
non più com- presi nella iscrizion
militare, ma validi
ancora per le armi.
Quindi guidando gli
eserciti fin presso
di Vejo ne misero
il campo su
due colli non
molto lontani fra loro.
Accampavasi davanti la
città l’armata nemica, nu- merosa e buona pur
essa ; anzi maggiore
non poco della Romana
per esservi accorsi
i primarj di tutta
la Etmria co'lor dipendenti.
All’aspetto di tanta
moltitudine, allo splendore delle
armi, assai temerono i consoli
di non listare a vincere, se
metteano l’ esercito loro
non bene concorde a fronte
dell’ esercito unanime de’ nemici.
Adun- que deliberarono i
consoli fortificare il
campo, e pren- der tempo, finché
l’ audacia nemica, elevata da
un ir- ragionevol disprezzo, desse loro
la opportunità di ben
fare. Seguivano dopo
ciò preludj continui
di battaglie, e brevi scaramucce
di soldati leggeri
; non però mai nulla
di grande o di
lumino»). VI. Mal soffrendo
t Tirreni la dilazion
della guerra accusavano i Romani
di viltà perchè
non uscivano a bat- taglia, e magnifica vansi, quasi avessero
questi ceduta loro r aperta
campagna. Anzi tanto
più si elevavano
a spregiare le milizie
nemiche e vilipenderne i consoli
; . 1 3 I quanto che
credeano gl’ Iddj
combattere pc’ Tirreni.
E certo caduto un
fulmine nel quartiere
di Cajo Mallio ]'
uno de’ consoli,
ne abbattè la
tenda, ne mandò sosso* pra
i focolari, ne macchiò le
arme, le bruciò d’
intor* no, o in tutto glie
le distrusse ; e ne
uccise il più
co» spicuo de’ cavalli
dei quali valessi
nel combattere, ed alquanti de’
servi. E condossiacbè gl’
indovini diceano che i numi
annunziavano la presa
del suo campo,
e la rovina de’ personaggi
più riguardevoli ; Mallio
levò l’ e* centrò nel campo
stesso del compagno.
I Tirreni co- nosciuta la traslazione, ed uditane
la causa da’
prigio- nieri, s’ ingrandirono
tanto più nel
cuor loro, quasi
il c*ielo ancora guerreggiasse
i Romani; e moltissimo con- fidarono di vincerli.
E gl’indovini loro i quali
sembrano aver meglio che
quelli di altri
popoli esaminato i segni superni, e d’onde
scoppino i fulmini, e dove
finiscano dopo il colpo,
da qual Dio
vengano, e con quale pre- sagio di
bene o dì male;
esortavano che si
andasse al nemico,
inlerpetrando il segno
avvenuto a’ Romani
in tal modo : poiché
il fulmine cadde
nella tenda con- solare ov' è il
centro del comando, e disfecevi tutto insino
ai focolari ; egli
è indizio divino a tutto
l’ e- sercilo deir
abbandono del campo
espugnato a forza, e della rovina
de' più riguardevoli.
Se dunque, di- ceano, coloro che
ebbero U fulmine restavansi
nel luogo fulminato, nè
trasportavano ciocci* erano
signi- ficato infra gli altri
; la presa di
un campo, e la distruzione di
un’armata sola avrebbe
appagato lo sdegno del
nume cite U contrariava. Ma
perciocché cercando
precedere col senno
gli Dei si
trassero aiì aluo campo,
lasciato deserto il
proprio, quasi il
segno celeste fosse pel
luogo non per
gli uomini ; quindi è che [ ira
' dà' ina fulminerà lutti
e chi trasmutatasi, e chi li
raccolse. E siccome mentre
la necessità divina prenunziava la
presa del campo
essi non aspettarono, ma lo
cederono di per
sestessi a nemici, così non il
campo abbandonato sarà
preso di forza, ma
quello che ricettò chi
lo abbandonava. I Tirreni, udite
tali cose dagl’indovini, invasero con
parte dell’ esercito
il campo derelitto
da’ Romani, per valersene, contro dell’
altro. Erane il
luogo ben forte, e mollo
accomodato per impedire
chi da Roma andava
all’ esercito. Fatte
poi diligentemente altre
cose colle quali superar
l’ inimico, recarono in campo
1’ ar- mata. Ma standosene
i Romani in calma, i più
audaci fra loro scorsi
e fermatisi a cavallo presso
le trincee, rampognarono tutti, quasi
femmine : e dicendo simili
i duci loro agli
animali più timidi, gli
sbeffavano, e chiedeano l’
una delle due, vuol
dire ; che se
disputa- vano altrui la gloria
delle armi ; scendessero
in campo, e ne decidessero
con una sola
battaglia : ma se
ricono- sceansi per codardi
; cedessero le arme
ai più forti, subissero la
pena delle opere,
nè più aspirassero
a nulla di grande. Replicavano
altrettanto ogni giorno:
ma per* ciocché niente
ne proGttavano ; deliberarono rinserrarli intorno intorno
con muro, per
astringerli, almeno colla fame,
alla resa. consoli
lungo tempo guardarono
so- lamente ciocché facevasi non per codardia
nè per mol- Icsza,
essendo Tuno e l’ altro
animoso e guerriero; ma perchè
temevano il mal
talento, e la ritrosia
nata e perpetuatasi ne’
soldati plebei fin d’
allora che il
popolo tumultuò per la
division delle terre.
Ancora stavano loro su gli orecchi, e su
gli occhi le
cose che avea fatte
nell’ anno precedente
per astio sul
console, vitu- perose né
degne di Roma,
cedendo la vittoria
ai vinti, e sostenendo fin
gli obbrobrj di
una fuga non
vera, affinchè colui non
trionfasse. Vili. Volendo tor
vii» finalmente dall’
esercito la se- dizione e richiamare alla
concordia primitiva la
molti- tudine ; e dirigendo a
ciò tutti i disegni
e le providen- Ee ; poiché
non poteano ravvederla
uè co’ supplizj
par- EÌali come protervissima
ed armata, nè co’
discorsi come insofferente di
essere persuasa, concepirono che
due vie rimarrebbero per la riconciliazione; vuol
dire; la infamia di
essere vilipeso da’ nemici
per gli uomini
(che pur ce ne
avea ) d’ indole
moderata, e la necessitò,
coi tutti paventano, per gl’
indocili al bene.
Adunque per effettuare ambedue
queste cose, lasciarono
che i nemici li
disonorassero colle parole, biasimando la
cal- ma loro come la
calma de’ vili ;
e li necessitassero coi fatti
pieni di arroganza
e disprezzo a tornar valentuo- mini, se tali
non dimostravansi per
sestessi. Speravano, se ciò
faceasi, grandemente che accorrerebbero tutti
al quarlier generale fremendo, gridando, ed istando
di esser condotti al
nemico. Or ciò
appunto addivenne ; imperocché
non si tosto
prese il nemico
a rinchiudere con fossa e steccalo
le uscite dal
campo, i Romani considerata
la indegnità dell’
opera, ne andarono prima in
pochi, indi in folla
alle tende dui
consoli, c vi
schiamazzarono, e come di
tradimento li redarguirono; protestando infine
die se niun
de’ due li
guidava, essi di per sestessi
volerebbero colle armi
alla roano su gli
avversar). Ciò fatto
da tutti, giudicando
i consoli venuta alfine la
opportunità che aspettavano, imposero agli araldi
di chiamarli a parlamento.
Allora Fabio recatosi innanzi disse
: IX. Sohìati, capitani, tarda
è la vostra indigna- zione su vilipendj
che vi si
Jan da’ nemici
; nè più in tempo
è la volontà che
at'ete di combatterli,
pei'- che m annestatasi troppo
dopo il bisogno.
Allora do- veasi ciò
fare quaruìo li
vedeste la prima
volta scen- dete dalle trincee, e cercar la
batiaglia: jdllora bello era
il combattere pel
comando, e degno della subli- mità de’ Romani.
Ora necessario ne
si è reso, e certo non
di egtuile decoro, quatulo ancora
vincessimo. Nondimeno sta pur
bene che vogliate
una volta ri- ' scuotervi, e riavervi
delle occasioni tralasciate,
E molto siete lodevoli per
tale ardore verso
le nobili gesta
; imperocché procede da
virtù, e vai meglio cominciar ciocché deesi
aruhe tardi, che
mai. Ed oh!
cosi tutti V abbiate sentimenti
consimili per t util
vostro, e vi animi tutti uno
zelo medesimo per
combattere. Pa- ventiamo noi però
che i trasporti de’
plebei contro de’ magist
rati per la
division delle terre,
siano cagione al pubblico
di sciagure, E ciò
noi paventiamo, perché i clamori, e le istanze, e la
insofferenza per uscire, non
è forse in tutti
t ejffctto di un
disegno medesimo. Ma quali
di voi anelale
uscir dai campo
per punir f inimico ; e quali
per fuggirvenc. E cagione
del tintor nostro
non sono già
gl’indovini, non le
conget- ture; ma fetui più
che notorj e non
antichi, anzi fre- schi delt anno
precedente, come tutti
sapete, quando uscendo contro
questi nemici medesimi
un esercito nostro numeroso
e forte, e pigliando fn la
prima battaglia un esito
propizio per noi, mentre
Cesane mio fratello, console
condottiero poteva espugnare
gli alloggiamenti loro e riportare
alla patria una
vittoria luminosa, alquanti presi
da invidia della
gloria di lui perchè
nè era popolare
nè mirava nel
suo governo a far
le voglie de’
poveri, levarono le tende
la notte stessa dopo
la battaglia, e fuggirono fuori
di ogni comando, senza
valutare il pericolo
che comprendevali nelf andare
privi di ordine
e di capitano per
le terre nemiche, e fra la
notte, e senza riguardare quanta vergogna ri
avrebbero, perchè quanto era
in loro, cedevano C impero
a nemici, essi già
vincitori ai viziti. Tribuni, centurioni, soldati ! in
vista di tali
uomini, non buoni nè
per dominare, nè per
farsi dominare, che pur
sono molti e caparbii, e colle armi, non abbiamo noi
fin qui voluto
la battaglia, nè osiamo ancora
per tali compagni
decidere in campo
la somma delle cose, perchè
non sian essi
tT impedimento e di danno
a chi presenta tutto
il buon animo.
Ma se la divinità
richiami ancor essi a
buon senno, se,
lasciate da parte le
discordie per le
quali ha il nostro comune tanti
mali e sì gravi, e differitele ai
tempi di pace, vorranno redimere
ora col valore
{ obbmbrio passalo: niente impedisce
che ne andiamo
caldi di belle
spe- ranze al nemico. Oltre
le tante opportunità
di vinrere, le più.
grandi e più solide
ce le porge
la stoli^ dità degli
avversar] medesimi. Costoro
superiori a noi di molto
nel n limerò, ed
atti con ciò
solo a contrah- hilanciare t animosità
e perizia nostra, han privato sestessi fin
di quest’ unico
vantaggio, consumando il più delle
milizie in guardia
delle loro fortezze.
Ap-presso, quantunque
dovrebbero fare ogni
cosa con diligenza e saviezza
considerando con quali
e quanti grand uomini abbiano
a misurarsi, pur vanno
conarroganza ed incuria
al cimento, come sian
essi in- vincibili, e noi sopraffatti
dal terrore di
essi. E le fosse con
che ci cingevano, e le corse
a cavallo fin sotto ai
nostri alloggiamenti, e tan^ altre
ingiurie colle parole e colle
opere, questo appunto
dimostrano. Or via dunque,
ciò riguardando e le
tante e sì belle antiche
battaglie nelle quali
gli avete vinti
: andatene con ardore a questa
ancora. E quel luogo
dove cia- scuno sarà collocato, quello concepisca
essere la casa, i poderi, la patria
sua : concepisca che
chi salva il vicino
in battaglia salva
sè ancora: e che
abbandona sestesso a nemici chi
abbandona il compagno.
Ilam- mentatevi soprattutto che
di quelli che
persistono va- lorosi e
combattono, pochi no soccombono
; laddove pochi ne scampano,
e a stento, di quelli
che piegano, e figgano. X. Egli
seguitava ancora, in mezzo
a lagrime co- piose, tal discorso
animatore, e chiamava a nome cia- scuno de’ tribuni, de’
centurioni, e de’ soldati, nolo a
lui per
le belle prove
di valore date
nel combattere, e prometteva a chi
più segnalato sarebbesi
nella batlaglia molti
e gran pegni di
benevolenza, onori, r;c> cliezze, soccorsi d’
ogni guisa in
parità delle imprese
; quando proruppe da
tutti una voce
che inviuvalo a con6dare, e portarli al
nemico. Cessata questa, gli
si fece innanzi dalla
moltitudine Marco Flavoleio, plebeo di condizione
ed arteGcc, non vile
però, ma per le sue
virtù pregiato, e prode in
guerra ; e per tali
due rispetti condecorato in
campo di una
presidenza lumi- nosa, cui sieguono
ed ubbidiscano per
legge sessanta centurie. I Romani
chiamano primipili nel
patrio idio- ma tali condottieri.
Or quest’ uomo, altronde grande
e bello, postosi in parte,
donde fosse a lutti
visibile, al- fine disse: K oi
temete, o consoli, che
le opere nostre non
corrispondano alle parole
? Io per il
primo vi darò su
mestesso le assicurazioni
meno equivoche della mia
promessa. E voi cittadini, voi compagni della sorte
medesima, voi che avete
risoluto di pa- reggiare ai detti
le opere, non sbaglierete
facendo quanto io fo. E
qui, sollevando la spada, giurò
con formola sacra e solenne
ai Romani, per la
sua buona fede, di non
tornare, se non dopo
vinti i nemici, alla patria.
Sorsero al giuramento
di Flavoleio lodi
amplis- sime d’ogn’intorno. Fecero
bentosto altrettanto i consoli e mano a mano
i duci minori, tribuni e centurioni
; e la moltitudine finalmente.
Yidesi dopo ciò
molto buon animo in
tutti, molta benevolenza
fra loro, molta con- fidenza, e fermezza. Partiti
dall’ adunanza, chi metteva il
freno ai cavalli,
chi le spade
aguzzava e le lance
; e chi riforbiva gli
scudi ; ond’ è che
tra poco tutta
1’ ar- mala fu in
pronto per la
battaglia. I consoli,
invocali gl' Iddìi con
voti, con ugrifizj, con
suppliche, perchè fossero i duci
essi stessi di
quella uscita, portavano
fuori degli steccati
l’esercito, schierato in
buon ordine. I Tirreni vedutili
scendere dalle loro
trincee, ne stu- pirono, e
vennero ad incontrarli
con tutte le
forze, XI. Come furono
gli uni e gli
altri sul campo,
e le trombe annunziarono il
seguo delta battaglia, corsero quinci e quindi
con alti clamori.
E fattisi i cavalieri su i cavalieri,
ed i fanti so i
fanti; pugnarono, e molu fu
la occisione in
ambe le parti.
I Bomani dell’ala de- stra comandati dal
console Mallìo malmenavano
il corpo che li
contrastava, e smontati da cavallo
combattevano appiedo: ma quelli
dell’ala sinistra erano
circondali dal corno destro
de’ nemici. Imperocdiè
essendo ivi la mi-
lizia tirrena più elevata
e più numerosa, i Romani ne erano
battuti, e coperti di
ferite. Comandava in
questo corno Quinto Fabio
luogotenente e già due
volte con- sole. Egli resistè
lungo tempo, ricevendovi ferite
sopra ferite ; ma poi
trafitto da una
lancia nel petto
fino alle viscere, esangue ne
stramazzù. Come ciò
udì Marco Fabio il
console che crasi
ordinalo nel centro, pigliò seco i più
bravi, e, chiamato
Fabio Cesone l’uno
dei fratelli, marciò verso 1’
altro Fabio (i). E
proceduto buon tratto, e trascorso
all’ala destra de’ nemici,
venne a quelli che circoudavano
i suoi. Dato l'assalto,
causò strage cupa a quanti
avea tra le
mani, e fuga ad
altri che erano da
lontano. Trovato il
fratello che respirava (i)
Il ferito. Par
questo il senso
migliore. Nel testo
si legge in luogo
di Fabio. Qui
dunque si hanno
tre Fabj, Marco, Quinto, c
Cesone, fiaiclli lutti
tre. ancora, lo
soUcTÒ; ma questi
non molto sopravvivendo, morì. Crebbe
qui l’ira a’ vendicatori suoi
su’ nemici. Nè più riguardando
la propria salvezza
lanciatisi in piccieda sebiera nel
mezzo di essi, dove
erano più folti, vi
al- zarono monti di cadaveri.
Pericolò da questa
|>arte la milizia toscana, ed
essa che prima
incalzava en incal- zata dai vinti.
Per l’ opposto c|oelli
dell’ala sinistra che gii
crollavano, e gii meticvansi in
piega li dove
era Mallio, quelli fugarono
i Romani contrapposti. Imperoo cbè
trafitto Mallio con
una lancia da
banda a banda in un
ginocchi o, c riportato da’
suoi che lo
circondavano agli
alloggiamenti ; i nemici lo
credettero estinto, e se ne animarono
; ed assistiti pur da altri
forzavano i Ro- mani,
ridotti senza duce.
I Fal^ dunque lasdalo
il corno sinistro furono
di nuovo astretti
a soccorrere il destro. I Tirreni, vistfli che
venivano con esercito
po- deroso, desisterono
dall’ inseguire : e strettisi
fra loro, combatterono io
ordinanza, perdendovi molti de’
loro ; e molti nocidendovi
de’ Romani. XII. Intanto
i Tirreni ebe avevano
invaso gli allog- gia menti lasciati
da Mallio, aizaione il
segnale dal ca- pitano, marciarono con
gran fretta ed
ardore verso gli altri
alloggiamenti Romani perchè
non bene forniti
di guardie. Era il
loro concetto verissimo
; perché tolti i triarj
e pochi giovani, non
v’ erano se
non mercadanii, e servi, ed artefici.
Ma ristringendosi molti
in picciolo spazio presso
le porte, ebbevi
una viva e terribile
zuffa con strage copiosa
e vicendevole. Accotzo con i
cavalieri Mallio il console
per ajuto ; cadde
col cavallo, nò po-
tendo risorgere per le
molle ferite vi
morì. Perirono ancora intorno
a lui molti giovani
valorosi : e per tale infortunio gli
alloggiamenti furono espugnati
; vcriGcan* dosi cosi li
vaticini fatti ai
Tirreni. E se avessero
ben usato la sorte
presente, e guardato quegli
alloggiamenti; sarebbero stati gli
arbitri delle provvigioni
de’ Romani e gli
avrebbero costretti a partire
obbrobriosamente : ma datisi a predare
le cose rimastevi, e li più a
ristorarsi ancora, lasciaronsi
fuggir di roano
una bella occasione. Imperocché nunziatasi
appena all’ altro
console la presa del
campo, accorsevi co' fanti
e cavalieri migliori. Li Tirreni
saputo che veniva
cinsero le trincee
; e fecesi battaglia
ardentissima tra chi
voleva ricuperar le sue
cose, e chi temea, se ricuperavansi, 1’ ultimo
eccidio. Ma traendosi in
lungo, e riuscendovi
migliore assai la condizione
de' Tirreni, perchè combatteano
da luogo elevato contra
uomini stanchi dal
'combattere di tutto
il giorno; Tito Siccio
legato e propretore, consigliatosene con il
console, intimò la ritirata
; e che si riunissero ed
attaccassero tutti le
trincee dal canto
più facile. Trascurò la
banda verso le
porte per un
discorso plau- sibile che non
lo ingannò; per
questo cioè, che i
Tir- reni sperando salvaf&i, ne uscirebbero
: laddove se di ciò
disperavano circondati da
nemici senza uscita
niuna; sarebbero necessitati a far
cuore. Portatosi in
una sola parte l’assalto;
non più si
diedero i Tirreni a resistere; ma spalancate
le porte, salvaronsi ne’
proprj alloggia- menti. II console, rimosso il
pericolo, scese di nuovo a dar
soccorso nel piano.
Dicesi che questa
battaglia de’ Romani fu
maggiore di tutte
le antecedenti per la
mollltudine degli uomini, per
la durazione del
tempo, e per l’ alleraarvi della
sorte ; imperocché venti
mila erano i fanti, tutti
di Roma, floridi
e scelti, oltre mille dugento
cavalli che univansi
alle quattro legioni
; ed aU trettanta era la milizia
de’ coloni, e degli alleati.
La }>attaglia conunciaia poco
prima del mezzogiorno
si estese 6no air
occaso, e la sorte ondeggiò
quinci e quindi gran tempo
tra vittorie e tra
perdite. Occorsevi la
morte di un console, di
un legato, stato due
volte console, e di tanti
altri capitani, tribuni, e
centurioni, quanti mai piu per
addietro. Il buon
esito della giornata
fu creduto de’ Romani
non per altro, se
non perché li Tirreni
fra la notte
lasciarono il proprio
campo, e pas- sarono
altrove. Il giorno
appresso fattisi i Romani
a saccheggiare il campo
Tirreno abbandonato, e seppel-
lire le morte spoglie
dei loro,tornarono agli
alloggia- menti. Dove
riunitisi a parlamento diedero
i premj di onore a quelli
che avevano combattuto
da valorosi, e primieramente a Fabio
Gesone fratello del
console, che avea fatto
grandi, e meravigliose gesta : in
secondo luogo a Siedo, cagione
che gli alloggiamenti
si ricu- perassero ; ed in
terzo a Marco Flavoleio
duce di una legione,
si pel giuramento,
che per la
magnanimità sua tra* pericoli.
Rimasero dopo ciò
per alquanti giorni
nel campo ; ma ninno
più dimostrandosi per
combatterli tor- narono alla patria.
In Roma per
battaglia si grande
laquale prendea fine
bellissimo, voleano tutti aggiungere r onor del
trionfo al console
che tornava : ma
il con- sole stesso noi
consentì, dicendo, non essere
pia cosa, nè giusta, che
egli s’ avesse
pompa e corona trionfale per
la morte del
fratello e del collega.
E qui lasciate le insegne, e congedalo 1’
esercito, depose ancora i) consolato
due mesi prima
del termine suo, non
po> tendo ornai più
sostenerlo per la
grande finta che lo
travagliava e riduoevalo in
letto. Il Senato scelse
gl’ interré pe’
comizj, e convo- cando il
secondo interré la
moltitudine nel campo
Mar- zo, vi fu nominato
console Tito Yerginio, e per la terza
volta Fabio Cesone,
colui che ebbe i
primi premj della battaglia
ed era fratello
insieme del console, che avea deposto
il comando. Questi,
decidendo ciascuno per sé
l’esercito col mezzo
ddle sorti, uscirono
in campo, Yerginio per
combattere i Yejenti e Fabio
gli Equi che scorrevano, depredando,
le campagne Latine
(i). Gli Equi all’
udire che i Romani
venivano, si levarono iu fretta
dalle terre nemiche, e ritiraronsi alle
proprie città, sopportando che si derubassero
le terre loro :
tanto che il console
col subito venir
suo s* impadroni
di danari, di persone,
e di altre prede
in copia. Si
tennero i Ve- jenti in
principio tra le
mura ; ma quando
parve loro di avere
il buon ponto, usarono su’
Romani sbandati, ed intenti
alla rapina delie
campagne. E perciocché
piombarono numerosi, in buon
ordine contro di
essi, non sedo ue
ritolser le prede;
ma uccisero, o fugarono quanti si
opposero. E se Tito
Siccio legato non
accor- reva, e li frenava,
con soldatesca ordinata
appiedi e a cavallo, niente .impediva
che I’ esercito
in tutto si di-
struggesse. Ma giunto lui
per impedir ciò,
si affretta- ci) Adoo di
Room 37S aecaudo
Catone, 377 secondo
Marrone e 479 av.
Cristo] I 43 rono a rlunirsegli, senza eccettuarne
alcuno, tutti i di- spersi.
Coocenlralisi tutti occuparono
a sera un colle,
e vi pernottarono. Animati
dalla prosperità li
Vejenti ac- camparonsi presso
del colle e chiamarono
altri dalla città, quasi
avessero addotti i Romani
in luogo, privo
in tutto de’ viveri, e poiessero tra
non molto necessitarli
ad ar- rendersi. Accorsavi gran
moltitudine, si misero due campi
ne’ lati possibili
ad espugnarsi del
colle ; ed altre picciole guarnigioni
in siti men
facili ; tanto che
tutto ribbolliva di armati.
Fabio l’ altro console
intendendo per le lettere
del compagno che
gli assediati nel
colle erano agli estremi,
e sul punto ornai
di rendersi per la
fame, se alcuno non
li soccorreva ; raccolse
1’ esercito, e corse su’
Vejenti. E se giungeva
un giorno più
tardi; niente gli sarebbe
valuto, ma trovato avrebbe
l’ esercito rovinato.
Imperocché quei del
colle costretti dalla
pe- nuria ne uscirono per
correre a morte più
onorata ; e fattisi alle
prese co’ nemici, combattevano esausti
dalla fame, dalla sete,
dalla veglia, da ogni
disagio. Ma dopo non
molto, quando videsi
l’esercito di Fabio
che giungeva numeroso, in
buon ordine, tornò
la conBdenza ne’ Romani, e la
paura negli avversar).
Dond’ è che i Tirreni
più non estimandosi
acconci per fare
giornata cx>ntro di un
esercito fresco e potente, abbandonarono l’ impresa, e
partirono. Ma non
si tosto le
due armate Romane si
ricongiunsero, fecero un amplisnmo
campo in luogo munito
presso della città.
Trattenutisi quivi più giorni, e saccheggiatone il
meglio del territorio
di Vejo; rimenarono in
‘patria gli eserciti.
Avvedutisi i Vejenti che
le milizie Romane
eransi levate dalle
insegne, presa ia gioventù
più spedita che
essi tenevano ia arme, e quanta ne
era presente de’
loro vicini, si get- tarono su campi
confinanti, e li depredarono pieni
di fratti, di bestiami, di uomini
; per essere i contadini calati da’
castelli a pascere i bestiami
c lavorare le terre su
la fiducia che
aveano nell’ esercito
Romano trincie- rato innanzi
di loro. Non
eransi questi ai
partir dell’e- sercito
affrettati a ritirarsi colle
cose loro, non
temendo che i Vejenti, tanto danneggiati, dessero cosi
pronta la ripercossa a’ nemici.
Fu la irruzione
de’ Vejepti pic- cola se
se ne guardi
il tempo ; ma
grandissima per la quantità
de’ campi saccheggiati
: ed avanzatasi fino
al Tevere verso il
monte Gianicolo a meno
di venti stadj da
Roma ; le recò
dolore e vergogna insolita
; non es- sendovi sotto le
insegne milizie che
impedissero a quella di estendersi.
Cosi l’esercito de’
Vejenti prima che
que- ste si riunissero ed
ordinassero, corse desolando, e
parti. XV. Adunatisi quindi
il Senato e i consoli, c datisi a considerare in
qual modo fosse
da far guerra
a’ Vc- jenti ; prevalse
il partito di
tener ne’ conOni
milizie di osservazione pronte
sempre in campo
per la difesa
del territorio. Couturbavali che
grande ne diverrebbe
il di- spendio, laddove l’ erario
era esausto per le imprese continue, nè più
bastavano i beni ai
tributi ; e molto più contnrbavali
la recluta di
tali presidj da
spedirsi * perocché ninno
voleva star in
guardia per tutti:
doven- dosi travagliare non a volta
a volta, ma sempre.
Essen- do per tali due
cause mesto il
Senato; i due Fabj
(a) (i) 1 due Fabj
sono Marco Fabio,
e Fabio Cesoue nomiaati
di topna.; 145 convocarono qnanti
partecipavano il loro
lignaggio. Con* saltatisi, promisero
al Senato di
andare spontaneamente essi per
tutti a tal rischio, conducendo seco
amici e clienti, e
militandovi a proprie spese
; finché durerebbe la guerra.
Ed esaltandoli per
la disposizion generosa, e contando tutti
di vincere anche
per (jnesta opera
sola, pigliarono essi famosi
in città le
aripe tra’sagrifizj e tra i voti,
e ne uscirono. Era
duce loro Marco
Fabio il console dell’
anno precedente, quegli
che vinse i Tirreni in
batuglia. Esso menava
presso a poco quattro
mila, clienti per la
maggior parte ed, amici, ma
trecento sei ve n’ erano
delia stirpe de’Fabj.
Usci non molto
dopo su le orme
loro l’armata Romana,
comandata da Fabio Cesone,
Tuno de’ consoli. Avvicinatisi
al Cremerà, fiume non
molto discosto da
Vejo, fordficaroiio su di una
balza precipitosa e dirotta
un castello opportuno
a di- fendere tante milizie, e vi
scavarono intorno doppie fosse, e vi elevarono
torri froquenti. Cremerà
fu nomi- nato ancor esso
il castello dal
fiume. E conciosnachè molti esercitavano,
ed il console
stesso coadiuvava quel lavoro, fu terminato
prima che noi
pensassero. Allora cavò r esercito, e marciò su
1’ altra parte
alle terre dei yejenti, poste incontra
al resto della
Etruria, dove quelli
tenevano i bestiami, non aspettandovi
mai l’arme Romane. Fattavi
gran preda se
la recò nel
nuovo ca- stello,
esultandone per due
cause, cioè per la
vendetta non tarda pigliata
su’ nemici, e per 1’
abbondanza che dava copiosissima
ai soldati che
lo presidiavano, percioc-
« chè niente ne
riservò per l’
erario, o ne dispensò tra lo
DIONIGZ, tomo in. 1«
sue milizie, ma
tulio concedette a quelli
che guarda^ vano la
regione, greggi, giumenti,
gioghi di buoi, ferramenti, e quanto era
utile per la
coltura. E dopo ciò rlmenò
1’ esercito a Roma.
Erano dopo fondato
il cartello i Vejenti a mal
termine ; non polendo
nè lavo* t^re con
sicurezza le terre, nè
ricevere esterne vetto> vaglie. Imperocché
li Fabj (i)
diviso in quattro
parti la gente loro, con
una difendevano il
castello, e le tre altre scorrevano
la regione nemica
pigliando, e traspor>
landò. E quantunque molte
volte i Vejenti gli
assalirono con truppe non
poche nell’ aperto, e se
li tirarono dietro in
terre piene d' insidie
; essi nondimeno vinsero r uno
e r altro pericolo ; e fatta
glande uccisione, n
ricondussero salvi al
castello. Pertanto non
osavano più li nemici
d’ investirli, ma tenendosi per
Ib più tra le
mura, np faceano furtive
sortite. E cosi ne
andò quel* r inverno. XVI. Entrati
l’anno appresso (a)
in consolato Lucio Emilio, e Cajo Servilio, fu
nunziato a’ Romani, che i Volsci e gli
Equi eransi convenuti
di portare su
loro la guerra, e d’ invaderne tra
non molto le
terre; e ve- rissimo ne era
1’ annunzio. Imperocché, armatisi gli
uni e gli altri prima
dell’ aspettazione, corsero, e
devasta- rono, ciascuno, la regione vicina
a sestesso, persuasi che non potrebbono
i Romani combattere in
un tempo i Tirreni, e
rispiiigere altri che
gli assalissero. Poi
so- (i) Cioè quelli
i quali prcaidiavauo il
casiello aoUo gli
auspicj di Marco Fabio. (a)
Addo di Roma
37C lecoudo Catone,
3^8 lecoodo Varroae
; e 476 *v. Cristo] {iravveiiendo altri
ridicevano che I’
Elriiiia tutta levavasi in
guerra coulro i Romani, e preparavasi di
s[>edire ia comune un
soccorso a’ Vejenti.
Or lo avevano
i Ve> jenti f incapaci di
espugnare il castello, imploralo qu»> sto
soccorso ; commemorando la
unità del sangue, 1’
a- micizia, e le tante
guerre che aveano
insieme combat- tute. Anzi aVeano
dimandata l’ alleanza loro
nella guerra co’ Romani
non si per
questi riflessi, come per
quello ancora, che i Vejenti erano
su la frontiera
dell’ Etra- ria ; e
frenavano una guerra, che
versavasi da Roma
su tutta la nazione.
Convinti di tanto
i Tirreni promisero mandare tutti
i sussidj che richiedevano.
Per 1’opposto il Senato,
informatone, risolvette spedire
tre eserciti. Ed arrolate
in fretta le
milizie; fu spedito
Lucio Emilio sa i Tirreni.
Usci pur con
esso Fabio Ceso
ne, colui che avea di
fresco deposto il
comando, ottenuta dal .Senato la
facoltà di ricongiungersi in
Cremerà, e partecipare t
pericoli della guerra
colle genti Fabie
che il fratello aveaci condotte
in difesa del
luogo : ma egli
v’ andava co’ suoi
compagni ornato di
autorità proconsolare. Cajo Srrvilio
l'altro console marciò
contro i Volsci, e Servio Furio proconsole
contro gli Equi.
Seguivano ciascun di essi
due legioni Romane, e truppe alleate
non minori di Eroici, di
Latini, e di altri. Servio
il proconsole espedì la
guerra con termine
rapido e lieto ; perciocché fugò gli
Equi con una
battaglia, e senza stento ; im- paurendoli al primo
investirli : e poi rifuggitisi
questi ne’ luoghi forti ; ne
devastò le campagne.
Ma Serviliu il console
fattosi a combattere con
fretta ed orgoglio,
in- contrò ben altra sorte
da quella che
ne aspettava: Opposiiglisi
i Volsci bravissimameote, vi perdette
molti va* lentuomini: tanto
che si fidasse
a non far più
battaglia: ma standosi negli
alloggiamenti, deliberò di mantenere la
guerra con tenui
mosse e scaramuccie de’ soldati
leg- geri. Lucio Emilio mandato
nell’ Etruria, trovando accampati innanzi della
città li Yefenti
con grandi rinforzi di
quella nazione, non indugiò
per imprendere : ma dopo
un giorno da
che erasi trincerato, presentò le schiere
in battaglia. Vi si lanciarono'
i Vejenti arditis- simamente:
ma divenuta questa
eguale in ambe
le parti; prese i cavalieri, e. gli
avventò su 1’
ala destra de’
ne- mici ; e perturbatala;
corse su la
sinistra, combattendo a
cavallo dov’era luogo
da cavalcarvi, e dove
no, smon- tando, e
combattendo a piede. Venute
in travaglio am- bedue le
ale, nemmeno ' il centro
potè più sostenersi, forzato dalla
fanteria : e fuggirono tutti
verso gli allog- gitrmenti. Emilio
allora gl’ inseguì
con le milizie
ordi- nate, e molti ne uccise.
Giunto presso gli
alloggiamenti diedevi con mute
continue 1’ assalto, ostinandovisi tutto quel
giorno e la notte
seguente : finché nel
giorno ap- presso languendo i nemici
pel travaglio, per le
ferite, e per la veglia, se
ne impadronì. Quando
i Tirreni videro i Romani trascendere
le trincee, le abbandona- rono, e fuggirono quali
in città, e quali
a’ monti vicini. Tennesì il
console per quel
di negli alloggiamenti
ne- mici ; ma nel giorno
prossimo onorò con
doni conve- nienti i più segnalati
in combattere, e concedette
a’ sol- dati quanto era ivi
stato lasciato, giumenti, schiavi,
c tende piene di
ogni ricchezza. E 1’
esercito Romano se ne
ricolmò quanto non
mai per altra*
battaglia; impe- 1 4p rDcclièJi Tirreni
vivono vita delicata
e sontuosa in pa- tria, ed
in campo ; e portan
seco, non che le
cose necessarie, suppelletlili
ancora di pregio
e di artifizio, ond’ esserne
in piaceri e delizie. Ne’ giorni
appresso stanchi da’
mali i Vejenti spedirono ambasciadorì
i più anziani della
città cq^ modi de’ supplichevoli per
trattare intorno la
pace col console. Or
questi sospirando, prostrandosi^
e dicendo,^ tra molte lagrime, quante
cose mai sogliono
impietosire; indus- sero il console
a questo, che permettesse
loro d’inviare oratori a Roma
per dar fine
in Senato alla guerra : e che
non danneggiasse in
tanto la terra
loro, finché ne tornassero colie
risposte. Ad ottenerne
però questo, pro- misero, come volle
il vincitore, dar grano
per due mesi, e danari per
sei pe’ stipeudj
di tutta V armata.
E portate, e ricevute, e dispensate
tra' suoi tali
cose, il console conchìuse con
essi la tregua.
Il Senato, uditi gii ambasciadori, viste le
lettere del console
che molto pregava, e raccomandava che
si finisse il
più presto la guerra
co’ Tirreni ; deliberò
dar la pace
che dimanda- vasi : e che
nel darla il
console Lucio Emilio
stabilisse le condizioni che
gli sembrasser migliori.
Il console a tale
risposta si concordò
co’ Vejenti, facendo una
pace anzi umana, che utile
pe’ vincitori, senza riserbare
per essi delle terre, senza
impor nuòve multe,
nè garantire i patti cogli
ostaggi. Or ciò
lo mise in
grand’ odio, e fu causa
che non avesse
dal Senato ringraziamenti, come savio
nel procedere suo.
Imperocché chiese il
trionfo; ed i padri si
opposero ; incolpando 1'
arbitrio de' suoi trattati, definiti senza
il pubblico voto.
AlìGaché però nou sei
prendesse ad ingiuria, nè
sen corucciasse ; lo destinarono a portare
le armi contro
de’ Volaci in
soc- corso dell’altro
console, perchè, come
fortissimo nomo eh’ egli
era, desse ivi, se poteasi, buon
fine alla guer- ra, e dissipasse 1’
odio dell’ azion
precedente. Ma costui sdegnato sa
la negazion degli
onori fece presso
del po- polo lunga accasa
de’ senatori, cpiasi dolesse
loro che spenta fosse
la 'guerra co’
Tirreni. Diceva, che ciò
fa- cevano ad arte in
conculcaménto de* poveri, perchè i poveri, delusine già
tanto tempo, non
insistessero per la division
delle terre, se tornavano
dalle guerre di fuori.
Queste e simili contumelie
lanciò con indigna- zione vivissima su’
patrizj, e sciolse 1* armata
che avea con lui
combattuto, e richiamò, e congedò
1’ altra che era
tra gii Eqni
sotto Furio proconsole.
Con die re- nelle con- ti ricchi i poveri. Presero quindi
il consolato Cajo
Orazio, e Tito Menenio (t)
nella olimpiade settantesima
sesta, quando vinse allo
stadio Scamandro da
Mitilene, es- sendo in Atene
Fedone P arconte^ Il
torbido interno impedì questi
a principio ne* fatti
del comune, fremendo la
moltitudine, nè tollerando che
si fornisse niuna
pub- blica cosa innanzi la
divisione delle terre.
Ma poi, vinto il
popolo dalla necessità, lasciò quanto
facea sommossa e tumulto, e
ne andò
spontaneo in sul
campo. Impe- rocché le undici
popolazioni Tirrene non
comprese nella ( I ) Anno di
Roma 377 secondo
Catone, 27;) secondo Varrone, e 4y5 av.
Cristo. stimi molto potere
ai tribuni di
malignare doni contro del
Senato,, e di alienare
n ciò principio alla
guerra. Levaronsi, ciò
convenuto, dal par-»
lamento. Indi a non
mollo spedirono i Yejenti
a raddo» mandare' da’ F abj
il castello, e già tutta
1' Etruria era sa
r arme. I Romani, conosciuto ciò
per lettere spedite da’
F abj, decretarono che uscissero
ambedue i consoli r uno alla
guerra che sorgea
dall’ Etruria, e 1’ altro
a quella che ardeva
già co’ Yolsci.
Orazio marciò con
due legioni e con truppe
alleate ben forti
contro de’ Yolsci, Menenio dovea
con altrettanta soldatesca
incamminarsi contro r
Etraria. Ma intanto
che si apparecchia,
e s’in> dogia ; il castello
di Cremerà fu
preso, e distratta la stirpe de’ F
abj. La
sciagura de’ quali-
si narra a due modi
r uno non persUadevole, 1’ altro
piò prossimo al vero.
Io gli esporrò
tutti due, come gli
ebbi. XIX. Narraoo alcuni
che sovrastando no
patno sa- grideio che
doveasi porger da’Fabj,
uscirono gli uomini con
pochi clienti per
compierlo, ed andarono, senza
esplorare le strade, non
ordinati sotto le
insegne, ma incauti e negligenti,
quasi passassero terre
amiche, nei giorni lieti della
pace. I Tirreni, saputane anzi
tempo r andata, disposero
tra via le
insidie con parte
dell* e> sercito, mentre 1’
altra parte veniva
in ordinanza non molto
addietro. Approssimatisi i Fabj,
sorsero i Tirreni dalle insidie, e gl’ invasero
di fronte, e di fianco
; as- salendogli non molto dopo
da tergo il
resto de’ Tirreni.
Circondatili d’ ogn’
intorno con fionde, con
archi, e dardi, e lance ;
gli uccisero tutti
colla moltitudine dei colpi.
Or tale racconto
a me sembra poco
persuasivo. Imperocché non par
verisimile, che tali
uomini, addetti com’ erano
alla milizia, ne
andassero dal campo
in città senza il
voto del Senato
per sagrìficarvi ; potendo
il santo rito fornirsi
per altri del
lignaggio medesimo, già provetti
negli anni. Che
se tutti erano
partiti d» Roma senza
che stesse ne’patrj
lari alcuno de’ Fabj;
nemmeno può credersi, che uscissero
dal castello quanti
di questi il guardavano;
imperciocché se ne
andavano tre o quat* tro, bastavano a compiere
il santo rito
per tutta la
pro- sapia. Per tali cagioni
a me non sembra
credibile questo racconto. L’ altro
che io reputo
piò verisimile su
la di- struzione di essi, come
su la presa
del cartello, così procede. Andando
questi di tempo
in tempo per
forag- giare, e. spandendosi ognora
più da largo,
come quelli che prosperavano
ne' tentativi ; i Tirreni, raccolte gran forze,,
si accamparono, senza
che il nemico
ne sapesse, in luoghi
vicini : poi facendo
uscire da’ castelli
masse di pecore, di buoi, di
cavalli, come per pascere, accen- devano i Fabj ad
invaderli: ond’ è che venendo
questi predavano i pastori, e
menavano seco i bestiami.
Davano i Tirreni di continuo
tal »ca, traendo i nemici
sempre piii lontani dal
campo : or quando
ebbero con gli
allst- lameoti perpetui dell’
utile rallentate le
provvidenze loro per la
sicurezza; misero di
notte gli agguati
in luoghi opportuni, intanto che
altri stavano su le allure
per esplorare. Nel giorno
appresso mandali innanzi
alcuni soldati, come per difesa
de’ pastori, cavarono
mollo be- stiame da’ castelli.
Come fu nunziato
ai Fabj, che se andavano
di ià dai
colli vicini, troverebbero ben
tosto il piano ripieno
d* ogni bestiame
senza valida guardia
: lasciarono nel castello
un idoneo presidio, e vi si di-
ressero. E trascorrendo frettolosi,
ardenti veri, e dicendo
opera loro, quanto
è l’opera di 'una sorte improvveduta, ed inevitabile
; li renderono inso- lenti, se già
erano esasperati. Fra
tanti mali i consoli spedirono con
molti danari chi
comperasse grano dai luoghi
vicini : e comandarono che
chi teneane in
casa oltre i bisogni moderati
della vita, lo recasse
al pub- blico: e destinatone i prezzi
convenienti, e fatte queste e cose
altrettali, ammansarono i
poveri che si
sfrena- vano, e si rivobero di
bel nuovo agli
apparecchiamenti delia guerra. E
certo tardando a giugnere
le vettovaglie di fuori, e finite in
breve le interne,
non aveaci altro scampo
da’ mali: ma doveasi
nece»ariamente o rischiare
tntte le
forze e snidare i nemici
dai territorio, o morire tra
le mura per
le discordie e la
fame. Adunque eles- sero farsi incontro
ai nemici, come al
meno dei mali. E levatbi di
città coll'esercito valicarono
circa la mezza notte
su picciole barche
il fiume, e prima
che il giorno fosse
luminoso, già teneano il
campo presso a’
nemici. Donde cavato nel
giorno appresso 1’
esercito, 1’ ordiua- (i) Di
ani illiberali • sordide.
Silbtirgio inleade (|r«.
Quindi è che se dividasi
390U per laS
risulta -i6. Casaub. le trasmutarono
in, àlire di
pecore e’ buoi, tassato
an- che il numero di
questi per le
ammende avveniife, che i
magistrati imporrebbero su’ privati.
La condanna di Menenio
fa causa che i
patriaj si sdegoas'sero
col p- polo, nè più
gli permettevano di
fare la divisione
delle terre, nè voleano in
cosa ninna condiscendergli. Ma tra
non' molto lu potilo
il pplo de’ suoi
giudizj, appunto nell’ udire la
morte di Menenio..
Imperocché non crasi questi
mal p(ù veduto
nelle adunanze, o" ne’
pubblici luoghi: e polendo pagare
l'ammenda (giacché non
po- chi de’ suoi eran
pronti a soddisfarla pr
esso ), e con ciò non
perdere' niun pubblico
diritto j non volle
: ma giudicando pri la
ingiuria alla morte;
si tenne in
casa, nè più ammise
prsona, e rifinito dal dolore
e dalla ’ fame ' abbandonò la
vita. E tali sono
le ■ Operazioni di quest’
anno. Divenuti consoli
Pulsilo Valerio Poplicòla
e Cajo Nauzio, fa
condotto a giudizio capitale
anche un altro patrizio
Servio Servilio, console
dell’anno pre- cedente, non laokò
-dopo che aveva
lasciato il coma'udo. Due
tribuni Ludo Cedicio, e.Tito Stazk)
erano quelli che lo
accusavano’ al popolo-
chiedendo ragione non d' ingiustizia alcuna, ma
degl’ infortuni suoi, perchè nella ballagUa
co’ Tirreni spintosi
egU fin sotto
alle trin- cee nemiche con
più ardirò che
prudenza, e- rincal- zatone
da quei
d’ entro' che ne uscirono
in copia, vi prJetle il
meglio de’ giovani.
Questo giudizio parve
ai patrizi il più
duro di tutti.' E congregavansì, e doleansi, (i) Abdo
di Roma 979
Mcoado Catoast aSi
secondo Varrone, e 473 >r.
Cristo] lG5 è teneano per gran
male se il
bell’ ardire, e il non
ri* cu sarsi ai
pericoli accusarasi ne’
capitani che non
tro* vavan propizia la.
sorte, e da quelli
che non erano nemmeno
stati ne’ perìcoli
: dicevano, che qne’ giudizj aarebbero, coni’ era
verìsimile, cagione di timori
e di ignavia ne’ comandanti, e di
non &r loro
mai piu con* cepire
nuovi trovameoti : che
perita ne sa.rebbe
la li- bertà, come annientata.!’ antorità del
capitano. Ed in- sistevano caldamente presso
la plebe >. perchè
non con- rebbe il . danno
se puoi vanti
i dttci > pe’ successi
non buoni. Venuto il
tempo del giudizio, fattosi innanzi Lneio* Cedicio,
uno de’ tribuni, accusò
Servilio di avere per
imprudenza ed imperizia
di comando menata
i’ ar- mata incontro a pericoli
manifesti, e rovinato il Bore della
repubbnca : tanto ohe
se informalo beo
tosto il console ' compagno della
sciagura volando a lui
coll’e- sercito, non respingeva
i nemici, e salvava i suoi;
niente impediva che non
fosse disfatta anche
tutta 1’ altra
mi- lizia, e che in avvenire
per metà decadesse, non che si
ampliasse la'' potenza di
Ronìa. E cosi dicendo
presen- tava per testimOnj i centurioni, quanti ve
n’ erano, èd alcuni soldati,
i quali, volendo rilevare
sestessi dall’ infa- mia della disfatta
e della foga, d’
allora, versavano sul
capitano là colpa
degl’ infortito) del
combattimetnto. Quindi
inspirando viva compassione,
verso gli estinti
in quella giornata, exl
esagerando quel male,
ne ricordò con. molto
.disprezzo ancor altri, i quali detti
in comune contro i ' patrìzj, scoraggiavano chiunque
di loro volesse intercedere per
Servilla ; é dopo ciò
gli concedè la dii- E Servilio pigliando
a difendersi disse ^ Cif- tadini, se mi
chiamale al giudizio,
e cìuedete ragione del "mio
capitanalo ; san pronto,
a renderla : ma se mi
oliiàmate ad una
pena già risoluta, e'
mente pift giova eh’
io dimostri che
non v oJ[esi; prendete
fusa-, temi come avete
già stabilito. .Egli'è
pur meglio eh’ io mora
non giudicato cK
ottener le difese,
nè persua-, dervele ; perciocché
■ sembrerei patir con
giustizia ogni cosa che
su me sentenziaste.
Altronde voi meno
sa~ rete colpevoli, se
togliendomi le difese,
jnentre oscura ancora c la
mia colpa, se colpa
ho mai fatta
; secon- date 1 vostri
risentimenti. Il pensier
vostro' dalla vostra udienza mi
-sarà chiaro : il
silenzio o' il
tumulto mi saran d argomento
se m’ avete alle
^scolpo chiamato, o alla pena.
E biò detto si
tacque. E fatto silenzio,
e gridando ben molli
che facesse, cuore, e dicesse ciocché voleva, cosi
ripigliò: Cittadini, se
.voi siete i‘ giudici, non i nemici
miei ; di leggeri
spero XOftVincervi, che non v’
oj^esì ; e comincio da ciò cito' tutti
sapete. Io fui scelto
console ’coll ottimo
V-erginio, quando i Tir^
reni fortificatisi nel
colle imminente a Ronìà, domi» navano, tutta
intorno la campagna,
sperandosi di abo- lire ben
tosto, ambe il
vostro f principato. Eravi in città
fante, discordia, defeienza onde
risolvette. In- contratomi
in tempi
così . turbati e terribili ruppi, unito
al collega, due volte
in battaglia i nemici, e gli astrinsi
a lasciare, il castello, 'che guardavano. Feci dopo
non molto cessare
la fame, ricondotta t
abbondanza npl ■ Foro, e consegnai d consoli
susse- guenti sgombro da’ nemici
il territorio che
n’ era pie-HO,
e Roma sana da
tutti i mali politici, i cot pipopoU l’
avea/io inabissata. So
dunque non è de^ litio
vincere gt inimici, e di
che mai son
io ’^lpevole presso vai ?
O conte ha Servilio
offeso il popolo',
se alcuni bravi incontraron
la morte col,
maU:hio combai* tere ? Già
non v’ è niun
Dio che asiicuri
ai capitani la vita
de* suoi militari
; nè prendiamo, d, comando
con- patti e formale
di vincer lutti
i nemici ^ e non perdervi aldino
de' nostri. E chi
mai, s egli è uomo^ chi si
offrirebbe di riunire
in sè tutti
i bei tratti di consiglio
buono, e di sorte ? Anzi
i grandi risuUad con pericoli
grandi s' ottengono. Nè
già io- sono
il primo éte
m’ avessi tale ÒKonlro
in combattere, ma
se l ebbero, dOei,
quanti fecero pericolose battaglie
con poche schiere
contro lè molte nemiche.
Incalzarono alctzni i nemici, e poi furono incalzati:
ne uccisero, e ne
furono decisi, an- che in
più nurhero.- siri capitani, riuscitici altri
con termine buotto, ‘altri con doloroso
? E perchè dunque^ lasciate
gli altri, e me 'giudicale
; se a norma - ponderale
delle leggi le opere, non
degne della sapienma
e del capitanato ? Quante
imprese più audaci
ancor della' mia cadde
in pensiero capitani^ di
compierle, quando la circo- stanza non ammetteva
consigli sicuri,' é già
maturati^ Chi strappando le
insegne dalle . mgni de'
soldati, le gittò fra nemici, perchè i suoi
scoraggiati ed intimo- riti » d -rìànimassero a-
forza, istruiti, che chi non salvatale
ne avrebbe morte
ingloriosa dal comandante, jiltri scorrendo
sul territorio nemico, ucdicarono e ruppero
i ponti de' fiumi
valicati, perchè i soldati
non . vedessero scampo nella
fuga, se la
tramavano, e com^battessero
coji ardore e ferrnezza.
Altri- dando alle fiamme
le bagagUe e le
tende, necessitarono ' i suoi a
ritrovare nelle terre
nemiche quanto lor
bisogna- va. 'Lascio' mille altre
imprese', audaci tutte, ed ideate da
capitani, che ió .potrei
pur dire 'su
la sto- ria, e su la
sperienza, e per le quali
ninno mai, faUilagli .la
prova, soggiacque alle
pena E già niuno può
redarguirmi che mettendo
i compagni ad aperto pericolo, io xnen
tenessi lontano. Se io mi vi
esposi cogli .altri, se ultimo
me ne ritolsi, se
vi 'corsi la sorte
comune di tutti
; e di~che • sono io reo ? Ma basti
il fin qui
detto su me. Voglio
ora dirvi alóune
poche cose intorno del
Senato e de’ patrizj, perocché f odio
pubblico contro di loro
per la division
sospesa àeUe terre
deot* neggìa eutcora a me,
nè l accusatore mio
occultò que-^ sto
facendomene parte non
piccola delt accusa.
E questo dir mio
sarà libero ; giacché
diversamente nè io saprei
parlarvi, né > voi
profittarne» Popolo! voi nè
giusti siete nè
retti non rendendo grazie
al Senato de' tanti
e 'grandi benefit j che ne
aveste ; e sdegnan- dovi che non
'per invidia ma
per calcolo di
ben pub- blico, vi si
oppone .in cosa
che'- dimandate, la quid conceduta tusai
nocerebbe '.al comune.
Piuttosto do- vevate
accettarne i consigli pome' nati -da principj
sol* dissimi, pel bene di',
tutti, e tenervi dalle sedizioni'} 0 se non potevate con
tal sano discorso
frenar gli appetiti, t non
sani, dovevate implorar te
dimande, persuadendo, non
violentando, Imfièroechè li
doni spontanei titnpettp de’
violenti son più
cari per chi li
dona y e più stabilì
per . chi. H riceve..
Or • voi, viva Dio, non ' avete
ciò cónsiderato : nia
commossi ed inaspriti dai
capipopolo,. come il mare
dai venti che insorgano, F un.
dopo F altro, non avete
lasciato che la patria
riposasse, nemmen picciolo- tempo.,, tra la xoima, 'e
il sereno. Dondt
è che. noi. dobbiam
pensare migliore per noi la guerra,
che la pace
;^iacchà nella guerra maltrattiamo
i nemici, ma gli
amici nella pace. Se
voi lipulate tutti
burnii e lutti utili,
come sono, 1 decreti del
Senato ; perchè, non
avete riputato tale anche
questo ? E se credete
che il Senato
non prov- veda con semplicità,
mq che male,
e vituperosamente amministri, 'perché
noi degradate / voi
tutto, e ven prendete le cariche, e consultate e guerreggiale voi
per la potenza
di Roma, ma, lo stuzzicate, e lo in- debolite poco a poco, chiamandone i personaggi
più illustri in giudizio?
Certo sarebbe pur
meglio che fos» situo
tutti insieme combattuti, che càìunmati
ad -uno ad uno. Sebbene, non
siete voi, con»’ io
diceva, la cagione di ciò,
ma i capi del
popolo che vi
sommo- vano, non sapet^o essi
nè ubbidire y nè
comandare. E per ciò che
spetta alla loro
imprudenza ed impe^ rizia',
già più volte
sarebbefi la nave
rove^aicita. Ep- pure il Senato
che ha riparato
tante volle i loro
sba- che. fa che
la vostra repubblica
navighi rettamente, ' ascolta
^ peggio della maldicenza
da loro. Or
queste cose, vi piacciano o no-,
le ardisca io
dire con ogni verità:
e vorrei piuttosto morire;,
videndorm di una libertà
'profittevole ab pubblico
{ . che salvarmi adu- landovi. G}si, dicendo,, senza volgei^i
a lamentare o deplorar la sciagura,
senza uniilianti a suppliche,
e pro- slrai^ioni non degne
y e senza' ..palesai^ affezione
alcuna men che generosa, lasciò che
parlassero gli altri, 'do- gliosi di ' coadiuvarlo arringando,
o testificando: Lui di** scolpavano, molti
che eran presenti, singoK\rmente Ver* giuio, gii cpnsòle.
co'n euo lui, riputato
l’autore della vittoria! Coitui
non solamente dimostrò
Servilio irre- prensibile,
ma degno
che si encomiasse
‘ed otiofasse come peritissimo
in guerra, e savissimo tra’
capitani. Diceva che se
credeano buono iì
termine della gaerra dovevano ringraziar
lutti due ; o tutti
dile punirli se sci
aurato ; giacché avevano
.tntti;.dne avuto 'doiiiu ni i
consìgli, le opere, la fortuna.
Commovea non solo
il discorso di lui
ma la vita intera, speriménUtta
in tutte le belle
ationi. A^iungevasi, ciocché ispirò
piò com- passione, la forma
addoloievole, (piai suoL essere
in qiielli che han
sofferto, o siano per-
soffrire tamii ter- ribilL
Tanto che li' congiunti
degU uccisi, quelli
che pareano più .
implacabili contro 1*
autore tl^l danuo, Ia sciaronsi vincere-,
e deposer lo sdegno
che ne aveano manifestato ; imperocché
qinna tribù nel
dare il voto
ló diede per la
condanna. E tal fu
la fine de’
pericoli di Servilio. Marciò
non mólto dòpo
contro i Tirreni r armata Romana
sotto gli auspicj
dei console Pubfio Valerio, perocché
si era d^
bei nuovo levau
in arme la città
di Vejo, ubendpsde i Sabini, alieni fino a
quei giorno di unirsele, quasi aspirasse
cose impossibili : quando
però vider(> Menenio
in fuga e presidiato
il monte prossimo a Roma, giudicando ^ scadute
le forze Romane, e
sbaldanzito 1’ animo
di quella 'repuUilica, eoncertaronsi co’
Tirreni, spedendo loro milizie
nume- rose. I Vejenti
confidati su le
schiere proprie e su
quelle giunte di fresco^
da’ Sabini frattanto
che aspettavano le ausiliarie
degli altri Tirreni
anelavtino, di volarsene a Roma
col più dell’
esercito, quasi ninno, ne
uscirebbe a combattere, ma dovessero
per assalto espugnarla, o ri- durla con la
fame. Indugiandosi però
essi ed aspettando i confederati, lehti
a ingiungersi, Valerio ne
prevenne i disegni, guidato
contra loro il
fiore de’ Romani, .e gli alleati,
con sortita non
manifesta, ma occulta
quanto polevasi. Imperocché .uscito
da Roma sul
far della sera, e valicato il
Tevere ; si accampò
non lontano dalla
città. Poi levando F esercito
su la mezza
notte, si avanzò con marcia
oi-dinata; e prima che
fosse il giorno,
investi r nna de’ campi
nemici. Erano due
questi campi ; di^ sgiunti, ma non
molto, fra loro, l’ uno de’
Tirreni, r altro, de’
Sabini. Fattosi primieramente
stil campo Sa* bino,
assalirlo fb prenderlo
; ''dormendovi i più senza' guardia sufficiente,
'come in terra-
amica, e liberi da ogni sospetto, nwntre non
si annoqziavano in
parte ai* cuna i nemici.- Preso il
campo, quali furono uccisi
tra il sonno, quali ^orti
appena’, o mentre si
armavano, e quali armati già, mal
resistendo disordinati e dispersi: la -più parte
peri, fuggendo verso
.1’ altro campo,' sor- presa dalla cavalleria. Valerio', invaso'
il 'campo Sabino, marciò su r altro
de’ Vejenti, postisi in
luogo non- abbastanza
si- curo: ma non poteano
più gli assalitori
ghingeM oc-' culti, per essere
il giorno già
chiaro ; e datoyi da
fng- gitivi r avviso della
strage Sabina, e di quella
immi- nente ai Tirreni. Pertanto
eca necemario andar
con fortezza al nemico.
'Ecco dunque resistere
con ardore sommo i. Tirreni
avanti j^i alleggia'menti, e fervisi' aspra tenzone e strage
vicendevole.; stando 'lungo
tempo in- cert^ e pendendo
or quinci Or
quindi la sorte
della guerra. Alfine dan
volta i Tirreni, sospinti dalla
ca- valleria Rpmana, e ricacciansi
tra le uincee. . Segueli il consolé, ed
approssimatosi alle trinclere
nè* ben for- mate, nè
in. luogo, come ho
detto, abbastanza sicuro, le assaU
da più parti
; travagliandovi tutto il
resto del giorno, nè desistendone
por nella notte
appresso. I Tir- renivinti da’
mali incessanti / a'bbandonano su l’
alba il CAmpo ; altri
in città iuggeo4o$i, altri dispergendosi
pei boschi vicini. Il
console, invaso par questo
campo, diè riposo ; in
quel giorno all’
esercito : e net seguènte
com> parti la preda
copiosa de’ due alloggiameuti
tra le Site milizie, coronando co*
premi ^ usati chiunque
s’ era più segnalato nel
'combattere. SenrUio il
console dell’ anno precedente, quegli che
sfuggi le ^ne
popolari, man- dato ora
luogdtenente di Valerio,
parsé aver pià
che tatti risplenduto fra le arme,-
e sospinto i Vejeqti alla fuga;
è per tale SUO
merito ne ebbe
il primo i premj, riputati' più grandi
tra' Roiliani. 'Fatti quindi spogliare
i cadaveri nemici, e> seppellire
quelli de’suoi, marciando, e
venendo il console
coll’ esercito ne’
campi prosskni a Vejo;
sfidò quelli d’
entro per la
battaglia. Ma non
pre- sentandovisi alcono, e
conoscendo altronde esser
cosa ben ardua pigliarli
di assalto, come chiusi
in città for- tissima, scorse in- gran
parte il lor
territorio, e si glttò su
s quello dé’ Sabini.
E saccfaeggikto pei^., più
giorni', pur questo, ^ che era
ancora intatto ; ricondusse
l’ eser- cito carico di prede
àmplissimi in patria.
‘ Usci di città molto
a dilungo per incontrarlo
' il popolo cintp
di ghir ciò Furio
(i); il Senalo
decretò che Tnino
de’due mar*, classe ^contro
di Vejo, ed essi
decisero, come u$ayasi, colle sortì,
chi andasse. E 'toccato
a Malliq, vdlò col- r armata, e mise
il campo presso
a’ nemici. I Vejenti
ristrettisi fra le
mora, resisteroùO intanto,. e spedirono alle città
Tirrene, _ ed ai Sabini,'
recenti loro ' alleati,
chiedendone che mandassero
sollecito ajuto, .Ma
percioc- ché non furono secondati -e
consumarono .tra poco i
viveri ; alfine ^ necessitati
dalla fame, uscirono, i perso- naggi più
provetti e 'più veóer;iodi
e co’ simboli di. pa- ce, ne
andarono ambasaiadori ai
console per intercedere
' da esso il fin della
guerra. M^o comandò
che poetas- sero a lui li
viveri di due
mesi per'.tulta.rarmsui). o tanto
di argento da
stipendiamela per un’anno,
e ciò . (i) Anno di
Roma a&u secoado
.fatoae^ aSa secoado
Vacroae, 4t 473 av.
Cristo. fatto, «perirebbero
al Senato per
trattarvi la pace.
Ac> cattarono i Vejenti le
condiaioai, e dati beu^tosl»
gli stipendi, e per
concession del console, anche in
luogo del grano il suo prezzo, ne
andarono a Roma. Intro- dotti in Senato
cercarono perdono t delle
cose operate fin’ allora, e requie
dalla guerra in
tu.tio. l’ avvenire. Disputate più
cose per l’una
e l'atra sentenza, al
line prevalse quella che
insinuava la riconciliazione, e ven- nesi ad
Una tregua di
quaraot* anni., Gli
oratori, avuta la pace,
assai de ringraziarono
Roofa, e partirono. In
opposito Mallio vi
tornò finita la
guerra, e vi chiese, e
n’ebbe il trionfo
a piede (i). Fecesi,
reggendo questi consoli, il censo
; ed i cittadini che
assegnarono sè Stessi, i beni,
e li figli '^ià puberi,
fotono, poco più. che
cento fneUta' mila;
Giunti dbpo quesU
al consolato . Lucio Emilio Mamertx)
per la terza
volta e Giulio Yopisco nella
olimpiade settantesima settima
(a), nella quale vinsè allo
stadio Date Argivo, mentre Caritè
era l’a» ' conte- di
Atene ; ebbero assai
travaglioso e turbato il comando, sebben tacesse.
la guerra di
fuori. Standosi ogni nemico
in calma ; ineprsero
per le se4izìoni
in- terne, in pbricoti,
prossimi a rovinar la
repubblica. Sciolto il popolo
dalia otilizia insistè
ben tosto per la
division delle' lem. 'Imperocché
fra i tribuni aveacene uno
baldanzoso, nè disacconcio
alle arringhe. Gneo Genuzib.eia deiso,
l’ istigatore dei popolo.
Egli ad ora (1)
L’ovatiooe. *' ‘ (a)
Aano di Roma
aSi secondo Catone,
aS3 secondo Varrauc, e 471 a».
Cristo] . 177 nJ ora
adunauJolo, per conciliarsi i poveri
; pressava i consoli all eseguire
il decreto del
Senato sa la
divi» sion delle terre.
E questi ricusavano dicendo, non
es- serne la esecuzione stabilita
pel consolato loro, ma
per quello di Vergiiiio, e di Cassio
a’ quali era diretto
il decreto : similmente che
gli ordini del
Senato non erau leggi
perpetue, ma previdenze,
valide per un
anno. In mezzo a tali
pretesti non potendo
costringere i con- soli che aveano
autorità più grande
della sua ; diedesi a protervi consigli.
Mise in pubblica
accasa Mallio e Lucio, consoli dell’
anno precedente, e
prescrisse loro il giorno
nel quale dovésse
giudicarsene, pronunziando svelatamente
per titolo dell'
accasa, ch’essi aveano offeso il
popolo col non
avere nominati i decemviri, com'era il decreto
del Senato, per dividere
finalmente i terreni. Che se non menava
in giudizio altri
consoli quando dodici erano
i consolati dalla emanazione
del decreto, ma faceva
rei, questi due soli, della
promessa tradita; davano per
cagione la mansuetudine
sua. In ultimo
disse; che i consoli attuali
allora unicamente ridurrebbonsi
a divìder le terre, quando
vedessero alcuni de’
trasgres- sori puniti dal popolo, considerando che
avverrebbe anche ad essi
altrettanto. Ciò detto,
esortati tutti a venir
pel giu- dizio, giurò per
le sante cose, che
egli osserverebbe il proposito, ed insisterebbe
con tutto l’ardore
su la con- danna di
quelli, e prefisse il
giorno in cui
sen farebbe la causa.
I patrizj, ciò udito,
caddero in molto
timore e sollecitudine, come
dovessero liberare que’
due, e reprimere 1’ audacia
del tribuno. Deliberarono
resistere DIOXIGI . tomt Iti.
i> al popolo fortissimameote, e bisogoandovi, colie armi ancora, né permettergli
cosa ninna, se mai
la decre- tasse contro la
dignità consolare. Non
però vi bisognò violenza ninna, cessando il
pericolo con risoluzione
ina- spettata e repentina.
Imperocché quando mancava
al giudizio un giorno
solo; Genuzio fu
rinvenuto morto nel suo
letto p senza indizio
niuno di uccisione
non per isu-azio, o capestro, o
veleno, nè per altre
insidiose maniere.
Risaputosi il caso, e portatone il
cadavere nel Foro, parve questo
come un impedimento
divino, e ben tostò il
giudizio fu tolto.
Imperocché niun tribuno osò
di riaccendere la
sedizione, anzi molto condannò
le lune di Genuzio.
' Se dunque i consoli
quando il cielo chetò
la discordia avessero
ceduto, non insistito
in con- trario ; non sarebbero
incorsi in altro
pericolo. Ma da- tisi ad
insolentire e spregiare il
popolo, e fatti vogliosi di
mostrargli quanto era
il potere del
loro comando ; causarono
mali gravissimi. Intimata
una iscrizioa mili- tare, e forzandovi chi
ricusava, con multe e verghe
: ridussero il più
del popolo alla
disperazione, principal- mente
per tali
motivi. Publio Valerone, un plebeo, d’
altronde illustre fra le
arme, e già capitano
di centurie nelle guerre
precedenti, fu segnato da
essi per semplice
le- gionario. Or lui reclamando, e ricusando un
posto che lo disonorava
quando non aveva
demeriti anteriori, sde- gnaronsi
i consoli de’ liberi
modi, e comandarono ai
Kttori di nudarlo
a forza, e di batterlo. Il
giovine in- vocava i tribuni, e
chiedeva, se era colpevole, di
es- sere giudicato dal popolo.
Ma non udendolo, ed
insistendo i consoli perchè
i latori sei menassero, e lo bal^ lessero;
egli riguardò la
ingiuria come insoffribile,
e divenne appunto il
vindice di sè
stesso. Imperocché, fortissimo eh’
egli era, trae de’
pugni in faccia, ed
at- terra il littore che
primo lo investe, e poi l’ altro.
Esa- sperandosene iconsoli, e
comandando a tutti insieme
i satelliti di avventarsegli
; parve raiion superbissima
ai plebei ebe eran
presenti. E congregandosi ; e schiamaz- zando per
istigarsi 1’ uno V
altro alla vendetta;
ritolsero il govane, e respinsero
colle percosse i littori.
Alfine si spiccavan su i
consoli, e se questi non
isparivan dai F oro ; sarebbevisi
fatto male gravissimo.
Per tale evento tutta
la città se ne scinde
; ed i tribuni placidi
fin’ al- lora, fremendo ne
accusano i consoli : e le
contese per la ditnsion
de’ terreni cangiaronsi
in altra più
grave su la forma
del governo. Imperocché
irritandosi i paU-isj come i consoli, quasi fosse
l’ antorilà conculcata di questi
; voleano precipiur dalla
rupe l’ audace che
in- sorse su i littori. Per
1’ opposi to i plebei
riuni vansi, e vociferavano e
conciUvansi a non tradire
la libertà. Si rimettesse
la causa al
Senato, vi si accusassero
i con- soli, e se n esigesse un
castigo, perchè non lasciarono goder de’
suoi dritti, e traturono come
uno schiavo, e diedero
a battere un uomo
libero, un cittadino, che
chiedeva l’ ajuto de’
tribuni, e di essere, se fosse
reo, giudicato dai popolo.
Fra tali contrasti
e ritrosie di ce- dere gli
uni agli altri, decorse tutto
il tempo di
quel consolato senza fatti
di guerra, o di
governo, belli e memorandi. Xh. Venuto
il tempo de’comizj
furono dichiarati consoli Lucio
Pina rio e Publio
Furio (i). In
principio di quest’ anno
la cilià fu
piena ben tosto
di religiosi e divini
terrori pe’ molli
portenti e segni che
apparvero. £ li vali, e gl' interpreti
delle sante cose,
dichiaravano tutti, esser
questi gl’ indizj
dello sdegno celeste
per al- cuna sacra cosa, fatta
con ministero non
pio, nè puro. E dopo non
mollo ne venne
su le donne
un morbo, chiamato contagioso, e tanta moruliià
per le gravide principalmente, quanta mai
più per addietro.
Imperoc- ché partorendo
prole immatura e già
morta, perivan con essa. IVè
le suppliche ne’
templi e nelle are
de’nu- mi, nè i sagrifizj
di espiazione fatti
a scampo della pa- tria o delle famiglie, portarono un
fine ai mali.
In tal rio stato
un servo diè
cenno a’ pontefici, che una
delle vergini sacre, custodi del
foco inestinguibile, ( Orbilia
ne era
il nome ) avea
la sua verginità
estinta, e che non pura sagrificava
; ed essi traendola
dai Santiìario, e dandola a giudicare
; poiché per gli
argomenti fu rea manifesta, la batterono, e condottala con
pompa lugu- bre per la
città, la seppellirono viva.
Di quelli poi
che ebbero il mal'
affar colla vergine, 1’
uno si diè
la morte di per
sè stesso; l’altro
fu preso nel
Foro pe’ sopra- stanti delle sante
case, e flagellato come uno
schiavo, ed ucciso. Dopo
ciò fini ben
tosto la infermità
soprav- venuta alle femmine, e
la tanto
lor perdita. La sedizione
già si diuturna
in Roma de’plebet co’
patrizii, vi ribolli per
opera di Publio
Valerone tri- buno, quello che
ntll' anno precedente
aveva disubbi- |i) Anno
di Roma aSa
secoudo Catone, aS;
secondo Varrone, e 4^0
av. Cristo] dito i consoli
Emilio e Giulio quando
il segnavano per legionario,
di centurione che
era. Costui nato
di stirpe vilissima, e
cresciuto in grande
oscurità e disa- gio, fu creato
tribuno dal ceto
de' poveri, appunto perchè sembrava
che avesse il
primo tra’ privati
umi- liato il grado consolare, autorevole Gu’
allora come quello dei
monarchi, 'e molto
più per le
promesse che dava di
togliere, giurilo al tribunato, la
potenza de’ patrizj. Costai quando
l' ira del cielo
era cheta, convocando il popolo,
fece uba legge
su le elezioni
popolari trasmu- tando i
comizj che i Romani
chiamano per curie
in quelli per tribù.
Io sporrò qual
sia la differenza
degli uni e degli altrL
Li comizj curiati
perchè fossero va^ lidi, conveniva che precedesseli
il decreto del
Senato, che il popolo
vi desse il
voto di curia
in curia ; e che oltre
questi due requisiti, niun segno, nè
augurio ce- leste vi si
opponesse : laddove gii
altri comizj compi- vansi
dalle tribù con
un giorno solo
senza decreti an- teriori del Senato, senza
sagriGzj, e senza le divinazioni degli auguri.
Due degli altri
quattro tribuni volean
co- m’ egli la legge
; ed esso tenendosi
amici que’ due ;
ne andava superiore a fronte
degli altri che
la ricusavano i quali eran
meno. I consoli, il Senato, i patrizj in- tendeano
tutti a distoglierla e renderla
vana. E recatisi in folla
al Foro nel
giorno preGsso dai
tribuni per fon- dare la
legge, vi furono aringhe
di consoli, di sena- tori provetti, e di chiunque
il volle, per dimostrare
gli assurdi di essa.
Risposero i tribuni, e di bel
nuovo i consoli ; e prolungandosi mollo
le altercazioni, fecesi notte, e
l’ adunanza fu sciolta.
Proposero nuovamente i
tribuni pel terzo
mercato la diacussion
su la legge
; ma concorsavi gente anche
in pi et copia, se
n’ebbe un fine simile
al precedente. Or
ciò vedendo Publio,
de- liberò di non permettere
ai consoli di
accasare la legge, nè
al patrizj di
trovarsi al dar
de’ sufiì'agj. Perocché questi co’
loro amici e clienti
non pochi, ingombravano gran parte
del F oro, facendo animo
a chi denigrava la legge, e remore a chi
difendevala, e cose altrettali
che nel
dar dei voti
sono indizio di
violenza e disordine. XLII. Se
non che ne
interruppe i disegni tirannici nn’ altra calamhé
mandata dal cielo.
Imperocché sorse in città
nn morbo pestilente
che infuriò pnr
nel resto d’ Italia ; non
però quanto in
Roma. Nè valeva
per gii infermi soccorso
umano, morendovi del pari e
chi era con ogni
diligenza curato, e chi
non lo era.
Nemmeno giovarono allora suppliche, sagrifizj, espiazioni private o pubbliche, alle quali
necessitati si rivolgono
gli uo- mini io tali
casi per estremo
rimedio. Il male
non di- stinse non età, non
sesso, non vigore, non debolezza, non arte, non
cosa ninna di
quelle che pajono
ren- derlo più leggero; ma
comprendea del paro
Uomini e donne, giovani e vecchi.
Non però durò
gran tempo, e questo impedì
che la città
ne perisse totalmente.
Si gettò come torrente
o incendio su gli
nomini con im- peto furibondo, ma passeggero.
Quando il male
diè requie ; Publio era
per uscire di
carica. E siccome non potea
stabilire in quel,
resto di tempo
la legge ; soprastando
i comizj j chiese di
nuovo il tribunato
per l’anno seguente, fatte
molte e grandi promesse
al po- polo: e di nuovo
se lo ebbe
egli, e due de’ compagni. Per Topposito
i patrizj tentarono far
console un uomo aspro,
odiatore del popolo,
e che non lascerebbe
punto diminuire l’ autorità de’ pochi : io
dico Àppio Claudio, 6glio di
queir Appio eh’
crasi tanto opposto
al ritorno del popolo.
Or quest’uomo che
moltissimo contraddiceva alla scelta
dei tribuni, questo che
non avea nemmeno voluto venire
al campo p«’ comic],
sei crearono con-* sole, quantunque assente, avutone precedentemente il decreto
del Senato. Terminati ben
tosto i comic] > per
esserne partiti i poveri appena
udito il nome
di Appio ; pre^ sero
il consolalo Tito
Qninuo Capitolino ed
Appio Claudio Sabino, nomini
non simili di
caratteri e di voglie (i).
Perocché Appio voleva
distrarre tra le mi-
lizie di fuori il
popolo ozioso e povero, afGnchè coi suoi
travagli guadagnasse dai
beni ' del nemico
il vitto giornaliero, di cui
tanto penuriava, e rendendo UliK servigi
alla patria, non fosse
malafFelto e molesto a’ pa-
dri che governano il
comune. Dicea che
avrebbe puiv le cagioni
plausibili di guerra
una città che
si procac- ciava il comando, e che era
da tutti invidiata
: chie- deva che
argomentassero dalle cose
passate le future, esponendo quanti
moti erano stati'
in città, e come sempre nella
cessazion della guerra.
Quinzio però non pensava
di portare ad
altri guerra : dichiarando
che do- vea bastar
loro quando il
popolo ubbidiva chiamato contro ai
pericoli esterni, che sopravvengono
e strin- gono, e dimostrando, che
se forzassero nel
caso pre- ti) Anno di
Roma a83 secondo
Catone, aSS secondo Varrone, av.
Cristo] sente gl' indocili, indurrebbero la
disperazione come i consoli
precedenti 1’ avevano
indotta. Dont}* è che
por- rebbonsi essi a repentaglio
o di opprimere la
sedizione col sangue e colle
stragi, o di scendere con
vitupero ad appiacevolire la
plebe. Comandava Quinzio
in quel me- se ; tantoché non
potea 1’ altro
console far nulla
senza il consenso di
esso.. Ma Publio
e li compagni ripiglia- rono senza indugio
la legge, che non
aveano potuto stabilire nell'
anno precedente, aggiungendo a questa, che
si creassero ne'
comizj stessi ancora
gli edili: o che tutto
in fine, quanto
si trattava o risolveva
dal popolo, si trattasse
e risolvesse nel modo
medesimo con i co- mizj per trìbùr
Or ciò era l’
annientamento manifesto del Senato, e l’ inalzamento del
popolo. A tale notizia mpensierirono, e discussero i consoli,
come togliere pronti
e sicuri la sommossa
e la sedizione. Appio
consigliava che si
chiamassero al- r armi quanti
volean salva la
forma della repubblica
; e che si numerassero
tra’ nemici quanti
si opporrebbero ad essi
che le impugnavano.
Ma Quinzio giudicava
che si dovesse prendere
il po[x>lo colla
persuasiva, e con- .vincerlo
die per ignoranza
de’ -veri interessi sla
nciavansi a rovinose
risoluzioni. Dicea esser
t estremo 'della de^ menta
estorcere colla forza
da’ cittadini ritrosi
ciocché aver ne poteano
di buorr grado.
Ora approvando pur gli
altri senatori il parere di
Quinzio ; i consoli ne an-
darono al Foro, e chiesero
da’ tribuni un’aringa, ed il
giorno in cui
farla. Ottenuta a stento
l’una e l’altra istanza, venuto
il giorno richiesto,
e concorsa al Poro moltitudine d’ ogni
genere preparata per
opera de’ due magistrati in
favor loro, presenlaronsì i consoli
per cen- surarvi la legge.
Quinzio, uomo altronde discreto, e persuaso che
il popolo avessi
a guadagnar col discor- rere, chiese il
primo udienza, e ragionò cose a
propo* sito, e con piacere di
tutti ; cosicché li
fautori delia legge impotenti
a dir cose pii^
giuste o benigne, assai ne
furono imbarazzati. B se
il console collega
non la- vasi ancora troppo
gran moto ; forse
i plebei ricono- scendo che non
cercavano nè il
giusto, nò il bene
ri- pudiavan la ■ legge.
Ma perciocché colui
tenne un discorso superbo, e grave ad
udirsi da’poveri ; il
popolo ne fu crocciato, implacabile, e discorde,
quanto mai piò
per addietro. Non parlò
costui come a uomini
liberi, a cit- tadini
arbìtri di fare e
disfare le leggi
: ma quasi par- lasse con nomini
vili, forestieri, né liberi solidamente; vi lanciò
detti amari, insoffribili:
vi lamentò le
assolu- zioni dei debiti, e
ricordò la separazione
dai consoli ; quando
dato di piglio
alle insegne, che pur
sono, san- tissima cosa, abbandonarono
il campo, volgendosi ad un
esilio volontario. Richiamò
li giuramenti che
avean fatti, quando presero per
la patria le
armi, che poi contro lei
sollevarono. Pertanto diceva
che non sarebbe meraviglia se
essi che avevano
spergiurato gl’iddj, lasciato i
capitani, e diserta, quanto era in
loro, la p^ttria, e che vi
erano tornati, confusavi
la buona fede,
e sov- vertitevi le leggi ed
il governo, ora non
si dimostras- sero moderali ed
utili cittadini : mai
incitati da nuòvi desideri ed
eccessi, talvolta
chiedessero magistrati pro- prj, scelti dall’ordin
loro, e questi iudipendentì, in- violabih ; tal’
altra chiamassero in
giudizio per cagioni turpissime que’palrizj
che loro paressero,
trasferendo dal celo più
puro al più
sordido i poteri con
cui Roma faceva un
tempo giudicare sull’
esilio e la morte;
e ta- lora i mercenari e
privi de’ palrj
lari com’ erano, fis- sassero leggi ingiuste
ed oppressive contea
i bennati, senza lasciare al
Senato la facoltà
di proporle prima col
sno decreto, tolta ad
esso una prerogativa
che aveva V sempre avuta
senza contrasto, fin
sotto de’monarchi, e de'
tiranni. E dette molte
altre cose consimili, senza lasciare indietro
memorie amare, nè
risparmiare nomi ingiuriosi ; alfine
pronunziò questo ancora
per cni tntto il
popolo ne infuriò, vale
a dire che mai
la città che* terebbesi totalmente
dalle sedizioni ma
che sempre in- fermerebbesi per
nuovi mali, finché fossevi
il poter dei tribuni
; affermando che negli
affari politici si
dee ve- dere che i principi
sian buoni e giusti, giacché da
buon seme si ha
frutto buono e felice,
ma infelice e reo da
reo seme. XLV. Diceva
: se questo potere
fosse erttraio in città
di buon accordo
per ulil comune;
venutovi col favor degli
augurj e della religione, sarebbe stalo
a noi causa di
molti e gran beni, di
unione, di leggi savie,- di speranze
belle dal ctmto
dé’ numi, e di mille altre
cose. Avendovelo però
introdotto la violenza,
la prevaricazione, la discordia,
il timore di
una guerra interna, e tutti
i mali più odiati
fra gli uomimf
come con tali principii
ne sarà mai
fausto e salutare? Ben è superfìua cosa
cercar farmachi e cure
quante sen possono ai
mali che ne
germogliano finché restavi
la radice viziata. Nè
mai vi sarà
termine, mai requie alcuna dallo
sdegno celeste, finché ques^
invìdia, in» saziabile furia in
città s’ annida, e lorda, ed infra- cida tutto. Ma
per tali cose
vi sarà discorso,
e tempo più acconcio. Ora,
poiché si vuole
rimediare alle còse presenti
; io lasciando ogni
acerbità, vi dico : « N& » questa legge,
nè altra qualunque
non approvata prima » dal
Senato sarà mai
valida nei mio
consolato. Ma so> n Sterrò con
parole gli ottimati, e quaudo anche
1’ o- » pere vi
bisognino, nemmeno in queste
sarò vinto » dagli avversar).
E se non prima
ayete saputo quanta » sia
r /lutorità de' consoli, nel
mio consolato lo sa-
a prete, a Àppio cosi
disse, quando Cajo Lettorio
il piò provetto e più
venerabile de’ tribuni, uomo
rico- nosciuto non ignobile in
guerra, e buono al maneggio degli affari, sorse
e replicò, cominciando da alto, e ragionando a luogo
sul popolo, quante diftìcili
spedi- zioni avessero
intrapreso i poveri, da lui
vilipesi, non- solo nel tempo
dei re, quando forse
era necesiiià, ma dopo la
espulsione loro per
acquistare alla patria
la libertà e il comando.
Pur non ebbero, dicea, ricom- pensa ninna da
palrizj, né goderono alcuno
de' pub- blici beni; ma
quasi presi in
guerra, furono privati
injino della libertà
: e se volevano conservarsela
do- vettero . abbandonare la patria, cercando una
terra ove non fossero, essi
liberi uomini, insultati^ Senza violentare, senza obbligare
colle arme il
Senato, eb- bero nella
patria il ritorno, condiscendendo a lui
che chiedeva e pregava che si rendessero
alle abbandonate lor cose,
fi qui spose
i giuramenti, e rammentò gii
accordi fatti per
questo ritorno; tra’ quali
v’era I* amni- stia di tutto
il passato, e la
concessione a’ poveri
di eleggersi magistrati i quali
proteggessero loro, e resi-
stessero a chiunque volesse mai
conculcarli. Scorrendo su ^li
subjetd, aunoverò le leggi
fondate poco prima dal
popolo ; come quella
su la iraslasion
dei giudizj per la
quale il Senato
cedeva ài popolo
che chiamasse in giudizio
qual più volesse
de’ patrizj ; e 1’
altra sul dar dei
suffragi, la qual
rendeva arbitri de’ voti
i comìzj per tribù, non quelli
per centurie. E così ragionato
Sul popolo ; rivolgendosi ad Appio
disse : E tu ardisci
et insultar quelli
pe’ quali la repubblica
divenne di piccola
grande, e luminosa d' ignobile ?
tu chiami sediziosi
gli altri ^ e rimproveri loro tome
fuorusciti ? Quasi non
tutti rammentino ancora ciocché
avvenne tra noi, vuol
dire che gli
avi tuoi levarono il
capo contro de’
magistrati, abbando- naron
Ut patria, e supplichevoli qui s'
alloggiarono. Se non forse
voi che avete
abbandonala la patria
per amore della libertà, voi
v avete fatto un
opera belìa^ fié ^ella
è quella de’ Romani
che han fatto
altret- tanto, Tu ardisci calunniare
l’ autorità de’ tribuni conte introdotta a mal
fatto ; e persuadi qui
noi che c in- voliamo questo sacro, questo
immobile rifugio de’
po- veri, confermatoci da numi a
dagli uomini per
tanto grandi cagioni ? Ta
tirannissimo, ninUcissimo che
sei del
popolo ! E non giungi
nemmeno dunque a vedere, che
ciò dicendo, oltraggi il
Senato, oltraggi la tua mùgislratura
? Insorse pure ' tutto
il Senato contro dei re,
più non
potendo so ferirne
la superbia c gli affronti
; e fondò il consolalo, e prima di
ban- dirli da Rema f coesi
altri ministri del
regio potere. 2'antochè ciò
che dici contro
del tribunato come
in- trodotto mal fato, per
la origine sediziosa,
ciò dici ancora contro
del consolato ; giacché
non altra causa il
fé nascere se
rwri lo scuotersi
de’ patrie j contro dei re.
Ma che parlo
io di queste
cose con te
quasi con cittadino buono
e Moderato, quando tutti sanno
che tu sei di^ stirpe
mal grazioso, anzi acerbo, anzi
in- festo al popolo, nè buono
da ingentilire la
salvati- chezea tua ? X)
perchè non pospongo
i detti, e ^ in- vesto co’ fatti,
e ti mostro che
tu che non
ti vergogni di chiamare
il popolo un
sordido, e senza casa, tu
non sai
quanta sia la
forza di lui ?
quanta quella del suo
magistrato a cui le
leggi ti obbligano
di dar luo- go e di
cedere ? ma già
lasciati 1 rammaricìd delle parole, comìncio le
opere. E ciò detto giurò
col giuramealo, più rive* reado
infra loro, di sostenere
la legge; o di
morire. E qui taciutisi
lutti, e latti empiutisi di
ansietà su ciò che
farebbe : comandò che
Appio ne andasse
dall* adu- nanza. E
perciocché non ubbidiva, ma
cingendosi coi littori e colia
turba che aveasì
perciò condotto di
casa, ripugnava ad andare
; Lettorio, intimato pe’ banditori silenzio, consigliò
che i tribuni facessero
portare il con- sole nella carcere.
E qui la guardia
di lui si
avanzò, comandata, come ad arrestarlo
; ma il littore, che
il primo se la
ebbe innanzi, la battè
e respinse. E levatosi romor grande
e rammarico; v’accorse lo
stesso Lettorìo, eccitando la
turba in ' suo
ajulo. Se gli
oppose Appio con giovani
bravi e numerosi; ed
eccone quinci e quindi viluperauoni, grida, spinte ; talché
la contesa divenivane
zuflà, ornai cominciandovisi il
trar delle pietre. Se
non che ripresse
tali colpi, e fece chn
il male non procedesse più
oltre Quinzio l’ altro
console, caccian- dosi egli c
li più
anziani de’ senatori, tra
le minacce, e supplicando e scongiurando tutti
a desistere. Non avanzava allora
se non picciola
parte del giorno,
e però si divisero finalmente, ma di
mal’ animo. Incoiparonsi i magistrati a vicenda
ne’ giorni appresso
: il console accusava i tribuni
che tentassero di
annientare il suo grado
col volere in
carcere chi lo
rappresentava ; ed i tribuui
il console, pe’ colpi
portati su persone, sacre ed inviolabili
per la legge
; e de’ colpi avea
Lettorio i segni manifesti
nel' sembiante. Intanto
stavasi la città scissa
e fremente. I tribuni ed il popolo
occuparono il Campidoglio, non
tralasciandone mai la
guardia, giorno' e notte : il
Senato adunatosi tenne
lunga e travagliosa discussione intorno
ai modi di
chetar la discordia, con- siderando la gravezza
del pericolo, e come nemmeno
i consoli fossero uniti
fra loo); giacché
volea Quinzio conr^dere al
popolo le istanze
• moderate, ed Appio vi ripugnava, a costo ancora della
vita. E poiché ninna cosa
avea termine, Quinzio presi nn
per uno i tribuni
ed Appio, orando, scongiurando,
raccomandava loro di
antepoiTe il ben
pub- blico al proprio. E vedendo
alfine ornai rimplacidili quelli, ma
duro in sua
caparbietà il console
compagno; persuase Leitòrio e i seguaci
di lui, sicché
rimettessero al Senato l’esame
de’ privati e pubblici risentimenti.
ConTocato quindi il
Senato, lodativi ampiamente
i tribuni, e scongiurato il compagno
a non contrastare la
salvezza pubblica, invitò tutti,
secondo il solito, a dirne il pa-
rer suo. Invitato per il primo
Publio Valerio Poplicola, disse: che
doveansi dal pubblico
condonare, non por- tare in
giudizio le incolpazioni
vicendevoli de' tribuni e del
console su quanto
s’ avean fatto o sofferto
nel tumulto; perchè non
erosi fatto per
mal animo, nè per
ben propiro, ma per
gara di preminenza
in re- pubblica: quanto alla
legge poi sen
facesse previo decreto in
Senato ; giacché Appio
console non voleva che
senza questo al
popolo si proponesse.
Del resto provvedessero tribuni
e cofisoli insieme il
buon ordino, e C armonia de'
cittadini nel dar
de' suffragi. Appro- varono lutti quel
dire ; e ben tosto
Quinzio fe’ dare
il volo a’ senatori
su la legge.
AcCusolla Appio per
più capi, e -molto i tribuni
se gli opposero,
ma vinse (ìnal- mente
di gran lunga
il partito per
introdurla ì stesone il decreto
del Senato, ne
tacquero le gare
de’ magistrati, il popplo di
buon grado lo
accolse, e fece co’ sufTragj suoi
la legge. Da>quelip
(i) fino a miei
tempi i comizj per tribù
decidono col volo
loro la scelta
de’ tribuni e degli
edili ^enza dipendenza
ninna dagli augurj^e
dalle cose di religione.
E tal fu la
soluzione de’ dissidj
che di que’ giorni conturbarono
Roma. L. Piacque dopo
non molto ai
Romani di arrolar
le milizie, e spedire ambedue ^ consoli
contro gli Equi e
li Volsci: perocché
nunziavasi loro eh’ erano
uscite truppe (i) Addo
di Roma a83
secondo Catone, a85
secondo Varrone, * 4^ UT.
Cristo] in gran numero
deli’ uno e dell’
altro popolo e depre- davano gli
alleati Romani. Apparecchiati
dunque in fretta gli
eserciti, e sceltone colle sorti
il comando ; Quinzio marciò contro
gli Equi, ed
Appio contro de’Volsci.
Ma ciascun dei due
consoli v’ ebbe
le vicende che
meritava. Imperocché
l’armata di Quinzio
benevola al vaientQomo per la
moderazione, e per la dolcezza
di lui, ne ubbi- diva pronta i comandi, e le più
volte anche senza
co- mandi affrontava i pericoli,
per acquistargli fama
ed onore. Dond’è che
scorse in gran
parte, saccheggiando, la region
de’ nemici ; senza
eh’ ardissero questi
venirne alle mani : e raccoltevi amplissime
prede, e vantaggi, e dimoratavi
alcun tempo scevra
in tutto da
mali; si pre- sentò di
bel nuovo in
patria, rimenandovi il suo
capi- tano luminóso per le
belle azioni. Ma
1’ arntata, anda- tane con Appio, lasciò
per odio di
lui ipulti patrj
do- véri; perocché fu mal
animata in ogni
spedizione e poco curante il
suo duce: e quando
le bisognò far
battaglia co’ Volscl, schieratavi
da . esso, ricusò
di venire alle mani.
Centurioni ed antesignani, chi lasciò
la schiera sua, chi gettò
1’ insegna, e rifuggironsi agli
alloggia- menti. E se
gl’inimict, sorpresi dalla
stranissima fuga, ed' intimoriti
per essa di
un qualche inganno, non
de- sistevano dall’
incalzarli ; perivane il più de’Romani.
Or ciò faceauo a mal
cuore del capitano, sicché egli
sul- r esito di fauste
battaglie, non crescesse
col trionfo, e con
altri onori. Nel
giorno appresso ora
il console re- darguendoli per la
fuga -ingloriosa, ora esortandoli
a cancellarne la infamia
con un generoso
combattimento, ora
minacciandoli che varrebbesi
del rigor delle
leggi se ig3 non teneansi
fermi contro a’
pericoK, essi ìadociii tut>' lavia Io
intronarono colle grida, e cltiesero che
li ri«> tirasse dalla
guerra, come invalidi a pi&
resistervi per le ferite.
E quasi feriti davvero, ' aveansi alcuni
fasciate membra sanissime. Appio
adunque, necessitatovi, ritirò r esercito dalle
terre nemiche; ed i
Volaci tenendogli dietro, ne
ticoisero'non pochi. Giunti
in terre amiche, il
cònsole convocatili, e
fintine i grandi lamenti, an- nnnrìò che.
punirebbeli come i disertori.
E quantunque seniori e
magistrati militari assai
lo pregassero a tem- perarsi, nè volgere
la patria di
danno in danno
; egli non tenne conto
di alcnno, e stabili la
pena. Quindi i centarìoni le cui centurie
fuggirono «'e li
portatori delie bandiere,
che le
aveano peivlute, gli nm
furono decapitati colle scuri, e gli
altri Colle verghe
battuti e morti. Del
resto della diilizia
ne peri, tirata a sorte, la
decima parte per
tatti. Tale fra*
Romani è il castigo per
chi lascia l’ ordinanza, o getta la
insegna. .Dopo ciò egli, duce
odióso, condocendo 1’ avanzo
dell’ eser- cito mesto è disonoralo
; ornai sovrastando i oomiz), si rimise in
patria. Dichiarati consoli,
dopo questi, Lncio Valerio per
la seconda volta, e Tiberio Emilio
(i); i Tribuni contenutisi già
per qualche tempo, introdussero di bel
nuovo il
discorso su la
division de’ terreni. £d
andatine ai consoli,
chiesero supplichevoli ed
insistenti che si mantenessero al
popolo le proihesse
fattegli dal Senato
Addo di Roma
384 *, piacciavi
udirle o no, vi
dico,, veracissimo e libero,
come utili di
presente, e sicure per P avve- nire, se lascerete
mai persuadervene ; quantunque
per. me che affronto
pel pubblico bene
l'odio altrui saran causa
di mali non
pochi. Imperocché ragionando
an- tivedo, e presentami i
casi altrui come
norma de'miei. Appio cosi
disse, e consenlendo con lui
quasi tutti, fu sciolto il
Senato. Irriuronsi i tribuni
per la ripulsa : e partitisi, considerarono come
punirne un tal uomo.
In mezEO al
molto discutere piacque
loro di sot- toporre Appio ad un giudizio
capitale. Pertanto accu» sandolo
.nell’ adunanza del
popolo, invitarono tutti a venire
in giorno determinato, per sentenziare
su lui. Sarebbero queste
le incolpazioni, vuol dire
che stabiliva massime ree
cofilro il popolo
; che riaccese in
città la sedizione ; che
alzò viqlento le
mani sul tribuno
ad onta delle leggi
sacrosante ; e che duce
delC esercito, sen tornò
pieno di sciagura, e (T infamia.
Annunziate tali cose al
popolo, e destinato il giorno
in cui di(^ vano
che ne farebber
la causa, intimarono ad
Appio di comparire a difendersi.
Sen dolsero e prepararonsi i padri
Con tutto l’ ardore
a salvarlo. Eid esortandolo
a cedere al tempo, e prender abito
conveniente alle cir> costanze ; replicò
che mai non
farebbe azione vile, nè degna delle
precedenti; e che sosterrebbe
anzi mille morti che
prostrarsi supplichevole ad
alcuno. Rimosse alquanti
‘che eran pronti
d’ Intercedere per lui, dicendo: die sarebbegli
stata doppia vergogna, se
vedesse altri fare per
lui ciocché non'
dovea fare nemmeno
per sè stesso. Dette
queste, e cose consimili,
senza cambiar vestimenti, nè
tener di sembiante,
nè llul fìnsero
che per una
Infermità morisse. Portatone quindi
il cadavere nel
Foro, -il Gglio di lui
fattosi innanzi ai
tribuni ed ai
consoli » dimandò che convocassero
Tadananza legittima; e ^mettessero a lui di
lare sul padre
suo la -funebre
laudazione, usala in morte
de’ Valentuomini. Intimarono ai
consoli l’adu* nanzB ; ina
vi ripugnarono itribuni, ed
imposero al giovine di
tor via quei
cadavere. Non sofferse
il popolo né guardò
con indifferenza clte
inonorato il cadavere
si rimovesse ; ma concedette
al > 6glU> di
rendere i con- sueti onori al
padre : £ tale fu la fine
di Appio. I consoli arrotarono,
e cavarono di città
le mi- lizie ; Lucio Valerio
per combattere gli
Equi e Tiberio Valerio i Sabini
; perciocché gli ultimi
ne’ tempi della sedizione entrarono
il territorio romano,
e danneggiatane gran parte,
ne partirono con
amplissima preda : gli
Equi poi venuti
più volte alle
mani, e presevi molte
ferite, eransi riparati
in luogo fortissimo,
nè più ne scendevano
per combattere. Ben
tec^ò Valerio di
asse- diare quelle trincee,
ma ne
fu proibito dal
cielo. Im- peròcclié mentre
v’andava e ponessi all’opera;
si mise il cielo
in caligine, in pioggie, in
fulgori, e tuoni spaventevoli.
Se ne sbandò
l’ esercito, ma sbandatosi
appena cessò la
procella : e fecesi grande
serenità. Prese il console
come cosa di
religione un tal
fatto : e per- ciocché gl’ indovini
diceano non essere
da por quell’as- sedio ; egli diè
volta, e saccheggiò la
terra; e lasciata in utile
de* soldati la
preda, ricondusse in patria
l’eser* cito. Tiberio Emilio
però scOrrea fin
dal principio con assai
negligenza le regioni"
de’ nemici, nè aspettavano ornai più
le milizie; quando
uscirono a fronte i Saliini, e sen fece
battaglia ordinata, quasi dal
mezzodì fino a sera.
Sorprese dalla notte
ritiraronsi le armate
ciascuna aoi al suo campo, nè
vincitori nè vinte.
Ne’giorai appresso i duci presero
cura de’ loro estinti, e munirono di
fossa gli alloggiamenti ; ambedue
con proposito di
difender' visi, non di uscirne
per offendere. Poi
col volger del tempo
levarono le tende, e partironsi cogli
eserciti. L’ anno dopo
nella olimpiade settantesima ottava in
cui vinse nello
stadio Parmenide di
Possido> nia, mentre
Teagene «vea l’ annuo
magistrato di Atene, furono
in Roma consoli
Aulo Verginio Cclimoutano
e Tito Numicio Prisco.
Ascesi appena questi
al comando, ridicevasi che
giungevano i Volsci con
esercito poderoso. Nè mólto
dopo fu invaso
da essi, e dato alle
Gamme un posto ne’
dintorni di Roma :
e non essendo questo mollo
lontano ; il fumo
stesso annunziava alia
città l’in» ibrtunio. Immantinente,
essendo ancor notte,
inviarono i consoli de’ cavalieri
per osservare, e misero guardie su
le mura; ed
essi stessi schieratisi
fuori delle pqrte co’
soldati più spediti, v’
a^ettavano i ' rapporti de’
ca- valieri. Fatto giorno raccolta
la milizia che
avevasi iu Roma, andarono
contro a’ nemici: ma
questi, derubato il luogo'
ed incendiatolo, ne
erano ben tosto
partiti. Liberarono r
consoli )e cose
che ardevano ancora, e lasciatovi un
presidio sen tornarono
a Roma. Pochi giorni appresso
usci coll’ armata
propria, e con quella degli alleati
l’ uno e 1’ altro
console : Yergiulo contro degli
Equi e Numicio contro
de Volsci : e ciascuno
se n’ ebbe fra
le armi il
successo che desiderava.
Deva- stando Verginio le terre
degli Equi non
ardirono questi (i) Attuo
di Roma z85
tecondo Calotte, >87
secondo Varroac, e 4^ av.
Cristo. di venire alle
mani. Ben posero
nna imboscata di uo-
mini scelti ove speravano
di piombare su
l’inimico sban> dato; ma
vanissima ne fu
la speranza. Imperocché
sa- putosi «ben tosto pe’
Romani, fecevisi vigorosa battaglia: ove gli
Equi tanto perderon
de’ suoi die più
allora non vennero al
paragone delle armi.
Numicio marciò su la
città degli Anziati, 1’
uua allora delle
primarie tra’VoI- sci, ma non
se gii oppose
armata niuna, riducendosi
tutti a rispingerlo da
entro le mura.
Fu dunque sac- cheggiato gran tratto
della lor terra,
e presa una citta- della in sui
lido, la quale
era per essi
come arsenale ed emporio,
ove concentravano il
molto che andavano depredando sul
mare. L’ esercito
si attribuì per
conces- sione dei console gli
schiavi, i danari, i bestiami, le merci
: ma gli uomini
liberi che non
erano periti tra la
guerra furono presentati
all’ incanto. Si acquistarono
nom- meno su gli
Anziati ventidue navi
lunghe, ed apparec- chi ed armi
di navi. Alfine
per comando del
console i Romani ne
bruciarono le case, ne
devastarono l’ arse- nale, e
ne distrussero da’ fondamenti le
mura; perchè, ritirandosene essi, quel
luogo non fosse
un castello vantaggioso per
gli Anziati. Tali
furono le azioni
se- parate de’ consoli ; poi.
gettatisi insieme sui
territorio dei Sabini, e
depredatolo, rimenarono a Roma gli
eserciti; e r anno finì. L’anno
appresso fatti appena
consoli Tito Quin- zio Capitolino, e Quinto
Servilio Prisco, tutta
la milizia romana fu
in arme, e spontanea si
presentò Auno di Roma
aS6, secondo Catone,
aS8 secondo Varrone, e 4^
av- Cristo. . ao3 quella
degli alleati, prima che
richiesti ne fossero.
Dopo ciò fatte suppliche
ai nami, ed
espiato l’esercito, mar> ciarono i consoli
contro a* nemici.
Li Sabini contro
ai quali era andato
Servilio, non che schierarsi
in batta> glia, non nscirono
nemmeno- all’ aperto: ma
tenendoM dentro del chiuso,
lascravano che si
devastassero loro le terre,
s’ incendiasser ’ le case, e gli
schiavi se ne
fuggis* . sero. Dond’
i che i Romani tornarono
a grand’ agio dalle lor
terre, carichi di preda, e risplendenti di
glo* ria. E cosi terminò
la spedizion di
Servilio. Quinzio, ed il
seguito suo, movendosi con
marcia più che
mili» tare contro gli
Equi, ed i Volsci, venuti
ambedue dalle regioni loro
in un sito
stesso a combattere per
gli al- tri, ed accampatisi
davanti di • Anzio
: diedesi a vedere
improvviso. E fermatosi non
lungi dal campo
loro in tm luogo, basso
per sé medesimo, che
era quello ap> punto
dove prima fa
veduto e vide gli
avversar), po- sevi le bagaglie
per far mostra
di non temere
i nemici, quantunque superiori di
numero. Or com’
ebbero am- bedue tutto in
punto per la
battaglia, uscirono in cam- po, cd
avventatisi pugnarono infino
al mezzogiorno. Non cedevano,
non superavano, quésti
o quelli, risto- rando
sempre la parte
che vacillava, co’sussidj ordinàli per
questo. Allora quando
come superiori - di nnmero, cominciarono i Yolsci
e gli Equi a vantaggiare
^ e pre> valerne; non avendo
i Romani moltitudine, pari all’ar- dore, Quinzio veduti
estinti molti de’
suoi, e ferito il più de’
superstiti, era per intima
ve la ritirata
: ma te- mendo poi di
dar vista ài
nemici di fuggire;
concluse, ch’egli dovea cimentarsi.
E scelto il nerbo
de’cavalieri. Digitized by Google 2o4
delle antichità’ bomane vola
in soccorso de'
laoi nell' ala
destra, dove princi- palmente
perìcclavaoOi Ed ora
sgridando di codardia
li duci stessi, ora ricordando
le passale battaglie, e di- pingendo la infamia
ed il pericolo
loro se fuggivano; alfine disse
una cosa Gota
sì, ma cbe rincorò
li suoi più che
tutto, e sbigottì F
ibiiuico. Egli divulgò
che r allr ala sua
incalsava già gli
avversar}, e già stava prossima agli
alloggiamenti r e
divulgandolo, spronò sui nemici
; e sceso di cavallo
co’ bravi suoi
cavalieri, prese a
combattere di piè
fermo. Tornò l’ audacia
aUora nei suoi che
ornai si abbandonavano, e divenuti quasi
altri da quelli cbe
erano, fulminaronsi tutti
sul nemico. Tal- ché li
Volsci contrapposti -appunto
in quella parte,
dopo aver luogo tempo
résislito, piegarono
finalmente. Quinzio
fiigaiili appena, rimonta il
cavallo e corre all’ al- tr’ala,
e mostravi a’ fanti suoi
disfatta l’ala nemica,
e raccomanda che non
sieno per virtù
minori de’compagni. Dopo ciò
niono più de' nemici 'tenne fronte, ma
fuggirono tutti alle
trincee. Non gl’
inseguirono lungo tempo i Romani, ma
beutoste se he
rivolsero forzali dalla stanchezza,
nè più 'avendo ornai
l’arme, pari al bisogno.
Decorsi alquanti giorni, convenuti per seppellire gli
estinti e curare i mal conci, avendo
già riparato quanto mancava
loro per combattere,
fecero nuovo conflitto intorno
gli alloggiamenti romani.
Impe- roccliè venute nuove
reclute ai Volsci
e agli Equi dalle terre
circonvicine, inanimito il
capitano perchè i suoi erano
il quintuplo de’
Romani, e perchè vedeva le
trin- cee di questi su
luogo non abbastanza
munito, cre- dette il buon punto
d’ assalirvegli. Con
tal disegno guidò .
. ao5 su la mezza
notte 1’ esercito
intorno al vallo
de’ Roma- ni, e cinseli, e
t«ineli in guardia, percbè inosservati non s’ involassero. Quinzio
saputa la moltitudine
de’ ne- mici, ebbe caro di
accoglierla. Ed aspettaudo
che fosse • giorno,
e principalmente Tura nella
quale il Foro
suol riempirsi, quando vide > che
i nemici venivano ornai stanchi
dalla vigilia e dalle
scaramucce, non per
centu- rie, nè in schiera, ma
confasi e sparsi; immantinente, spalancale le
porte, precipita su loro
col nerbo de’
ca- valieri, mentre i fanti lo
seguitavano serrati e stretti. Sbalorditi i Yolsci
dall’ audacia, dopo aver
sostenuta bteve tempo la
furia della irruzione,
rinculano, e la- sciano gli alloggiamenti. E percbè
non lungi da
questi aveasi un colle
alquanto elevato ; vi
accorrono, come a riprendervi
requie ed órdine. 'Non
riuscì però loro
di fermarsi e di riaversi, giungendo ben
tosto i nemici, stretti quanto
poteano colle coorti, per
non esserne trabalzali,
nell’ ascendere a forza
la pendice. Fattasi azione vivissima
per gran parte
del giorno, ne
perirono molti diagli ani e
degli altri. I Volaci, 'tuttoché supe- riori nel numero,. e rassicurati dal
posto occupalo, nou goderono
alcuno de’ dué
vantaggi : ma violentati
dall’ar- dore e dalla virtù de’
Romani, abbandonarono il colle. F uggendo però
verso le trincee, molti ne
soccombe- rono. Imperocché
non cessarono i Romani
d’inseguirli, ma tennero immantinente
.dietro loro, senza desisterne, finché ne
presero a forza il
campo. Impadronilivisi dei prigionieri e di
ogni cosa lasciatavi»
cavalli, armi, da- nari, che
erau pur molli, passarono ivi
la notte. Nel giorno
appresso il console,
apparecchialo ciocché biso- Digitized by
Google 2o6 delle antichità’
romane goava per un
assedio, diresse 1’ esercito
alla città degli Ansiati, uon lontana
più di trenu
stadj. Per avvenlora ivi
slavan di guardia
alquanti Equi ausiliarj
e custodivan le mura, e
questi per terrore
della baldanza romana naacchinavan fuggirsene.
Saputo dagli Anziati, ed
impe- diti partirne, congiurarono
dar la cittade
a’Roraani che si appressavano.
Gli Anziati avuto
sentore pur di
que- sto, cedettero al tempo
: E imnvenutisi cpn loro ;
si die- dero a Quinzio, in modo
che gli Equi
pe^ patto si dimettessero, accettassero
gli Anziati in
città la guarni- gione, e seguissero i comandi
de’ Romani. Divenuto pertanto il
console arbitro della
città, pigliatine stipendi ed
altri bisogni dell’
esercito, e presidiatala, se ne
ritirò. Uscitogli per tal
gesta incontra il
Senato, lo accolse gratissimamente, e lo
onorò del trionfo. L’anno -appresso
furono consoli Tiberio Emilio per
la seconda volu,
e Quinto Fabio Ggliuolo dell’ uno
dei tre fratelli, duci già
della guarnigione spe- dita in
Cremerà^ ed 'ivi periti
co’ loro clienti. Ora.
fa- vorendo Emilio console ai
tribuni, e rimescendo qu^ti
di bel
nuovo il popolo
intorao la divisione
de’ campi ; il
Senato voglioso di
cattivarselo, e sollevarne i
poveri, stabili di compartir
loro uu tratto
del territoifio conqui- stato r anno avanti
su gli Anziati.
Furono deputati per la
divisione Tito Quinzio
Capitolino, quello appunto a cui
si erano gli
Anziati venduti, e Lucio Furio
ed Àulo Verginio. Non
stumio Albino per
la prima volta, ■ e Quinto Servilio Prisco per
la seconda. Nei
lor giorni gli
Equi risolvei* (t) Anno
di Roma -aSS
secondo Catone, 390
secondo Vsrrone, e 4^4 Cristo. Digitized by
Google 2o8 delle antichità’
romane tero vioiai-e i patti, recenti co’
Romani, per questa ca- grane.
Gli Aoziati che
avevano case e campi, rimasero nella lor
patria, coltivando le terre
ad essi concedute, come quelle
attribuite ai coloni, a’
quali davano con regole
Gsse parte del
frutto :quelli perd
che unila più avevan
di questo, si trasmigrarono. Gli
accolsero di buon grado
gli Equi fra
loro ; ma uscendone, d^>redav«x> le terre
latine : dond’ è cbe
'i più audaci, e più
poveri ancora degli Equi, fecero
causa con essi.
Lamentarono i' Latini r insulto in
Senato, e'tdiiesero che
mandasse loro un esercito,
o loro concedesse di
ribattere gli au- tori delia guerra.
Il Senato, udito eiò, nè inviare un
esercito, né permise ai
Latini che lo
menas- sero : ma scelti tre
ambasciadori, capo de*
quali era Fa-,bio, quegli che l'
anno avanti avea
conchiuso il trat- tato, ordinò loro
di chiedere dai
primarj della nazione, se
mandava il pdbtdico
per qite’ latrocini
ne’campi degli alleati di
Roma, anzi di Roma
stessa, ne’ quali eransi anche
fatte alcune scorrerie
da, quegli esuli : o se
il pubblico non avea
di ciò colpa
ninna : E se diceano che
r opera era de’
privati senza volere
del popolo ; chiedessero
nelle mani le
predé nomuMno ohe i
preda- tori. Venuti gli oratori, ed
ascoltatili ; gli Equi
diedero oblique risposte, dicendo,
che 1’
opera non era
certo fatta per pubblico
voto, ma che
non istimavano bene consegnarne gli
autori, perché, ridotti già
senza patria, e vaganti,
erano come supplichevoli
stati ricevuti nelle campagne (t).
AddoloravaSi Fabio, e reclamava
i patti (i) Vuol c^ita
pareva loro come
tradire la fede
oepiiale, $e ti
conergnaTeoo. Linno IX. -
209 traditi, pur vedendo che
gli Equi s’inGngevano, e di- mandavano tempo a consultarsi, e lo intrattenevano come pe’
doveri ospitali ; si
rimase infra loro
con di> segno di
esplorare le cose
della città. E visitando
ogni luogo sul titolo
di vagheggiarvi le
cose dei templi
e del popolo, gli opifizj
delle arme da
guerra o Gnite o che si
lavoravano, comprese i loro disegni.
Tornato ■n Roma disse
in Senato quanto
aveva udito, e ve- duto. Ed il
Senato, non più dubbioso, decretò che si
mandassero i F eciali per
intimare agli Equi
la guer- ra, se non
cacciavan da loro i
fuorusciti di Anzio, nè promettevano rintegrare
i danneggiati. Replicarono gli Equi
baldanzosi, Gno a dir che
accettavano, nè già di mala
' voglia, la guerra. Li nigione
su’* turbolenti di
Anzio, onde rassicurarsene, e
Spurio Furio l’altro
de’consoli coll'esercito contro
degli Equi. Marciò ben
tosto 1’ uno e
1’ altro
; nfa gli Equi udendo
uscita già l’armata
romana si mq^sero
da’ campi degli Ernici per
incontrarla. Vedutisi appena
fra loro, tutto che
non fossero molto
distanti, per quel giorno si
trìncierarono. Nel giorno
appresso i nemici vennero quasi
alle trincee de’Romani
per. esplorarvenè gli
animi. E poiché questi non
uscivano alla battaglia,
fattevi delle scaramucce, e niente
di memorando, sen
partirono assai (i) Allude
ai Romaui' portali non
molto prima iif
Aniio, come coloni pcrchi nel
tempo slesto invigilassero
e lenestero iit soggeunn^ Ig
città proclive alla
ribellione magnificandosene.
Il cohsole lasciate
nel giorno seguente quelle trincee,
come non molto, sicure, trasposele in sito
più acconcio, e vi scavò
fossa più profonda
^ e vi piantò steccati più
alti. Crebbe a tal
vista il cuor
dei nemici, e molto più quando
ad essi pervennero
altri snssidj de’ Volaci
e degli Equi ; tanto
che senza più indugi
marciarono al campo
romano. Il console considerando
che a lui. non
bastava r>esercito contro le
dpe nazioni, spedisce
alcuni cavalieri con lettere'
in Roma perchè
mandisi a lui pronto
soc- corso, pericolandogli
tutta l’ armata. Giuntivi
questi su la mezza
notte, Postumio il collega
di lui ricevendole, fe’ convocare
per via di
molti araldi i padri
in Senato: e prima che
il di si
chiarisse, crasi decretato
che Tito Quinzio già
console per la
terza volta portasse
bentosto con autorità proconsolare
il fior de’
giovani a piedi ed a cavallo
sul nemico, c che Aulo
Postumio il console raccolte il
più presto le
altre milizie, a raccoglier le quali
vi abbisognava più
tempo, li soccorresse.
Quinzio riuniti sul principio
del giorno presso
a cinque mila volontari, dopo
non molto marciò.
Gli Equi ciò
sospet- tando non istavansi a bada
: ma deliberati d’
assalir le trincee de’
Romani prima che
vi giungesse il
soccorso, si divisero in
'due corpi, e t’ andarono
per espugnarle colla forza, e col
numero. Fecesi per
tutto il giorno calda
battaglia, spingendosi
questi audacemente in più
parti su’ ripari, nè
reprimendosene pe’ tiri continui
delle lance, degli archi, e
delle fionde. Adunque, conforta- tivisi a vicenda,
il console ed il legato
spalancando in uri tempo
le porte, ne sboccano,
e piombando co’soldati più
validi da ambedue
le parti del
campo su i ne* mici,
ne rispingono quanti
vi salivano. Messili
in fuga, il console
insegai breve tempo
i soldati a lui coatra- posti, e poi
si ripiegò: ma
il fratello suo e
Publio F urio il legato
trasportati dalla impresa
e dall’ ardore corsero incalzando e uccidendo
fino al campo
nemico ; e non avean seco
se non due
coorti, numerose in .tutto
di mille uomini. Gli
avversar) loro «be
erano intorno a cinque
mila, osservato ciò,
si avventano dagli
steccati. . E mentre questi vengon
di fronte, la cavalleria, fatto un giro,
prende alle spalle
i Romani. Publio ed
il se- guito suo cosi
circondato e disunito dal
resto de* suoi ben
potea salvarsi se
cedeva le arme,
esibendogli questo i nemici,
cbe assai valutavano
far prigionierì que’mille bravi, quasi
potessero in vista
di essi ottener
pace ono* rata: ma i
Romani spregiato l’invito
ed animatisi a non far
cosa indegna della
patria, combatterono e spirarono tutti Ira’
cadaveri de’ nemici. Morti
questi, gli Equi inebbriati
dal buon successo presentaronsi
alle trincee romane
elevando con- fitto alle aste
il capo di
Publio e di altri
cospicui, per iscoraggirne quei
d’ entro, e necessitarli a ceder
le arme. Ma se
venne ad essi
pietà per la
sciagura degli estinti compagni, e se ne
pianser la sorte, si
moltiplicò ben anche lo
spirito per combattere
e l’ onorato amore di vincere
o di morir come
quelli prima che
andar pri- gionieri.
Circondati dunque, com’erano
de’ nemici, pas- sarono i
Romani senza' sonno
là notte, riordinando le parli
che aveano soiferto
nelle trincee, e quant’ altro mai
potea respingere gl’
inimici se tentavano
un altra volta investirveli.
F ecest nel giorno
appresso di bel
nuovo r assalto, schiaotandovisi
lo steccalo in
più parti. Più volte
furono gli Equi
respinti da quei
d* entro che ne
uscivano a schiere, e più volte
nell’ audacia delle
soi> lite, lo furono questi
dagli Equi. Durò
tutto il di la
vicenda: quando fu
il console romano
ferito nel femore da
uno strale a traverso
dello scudo, e feriti
pur furono ^ molti
de’ più rignardevoli, quanti li
combattevano infoiano. Ornai vacillavano
t Romani, quando su l’ im- brunir della sera
ecco inopinatamente apparire
Quinzio per soccorrerli col
corpo de’ prodi
volontarj. I nemici,
vedutili che avanzavano, diedero di
volta, lasciando l’assedio
imperfetto: ma quei
d’ entro incalzandoli
nella ritirata facean strazio
della retroguardia : se non
che indeboliti per la
più parte dalle
ferite, non gl’
insegui- rono a lungo ; ma presto
si ripiegarono verso
il lor campo. Dopo
ciò si tennero
gli uhi e gli
altri lungo tempo fra
le trincee, guardando sestessi. Quindi mentre
il nerbo de’
Romani era im- pegnato in campo, altre
milizie di Equi e
di Volaci credendo il
buon punto d’ ime
depredando la regione, uscirono tra
la notte ; ed
invasala in parte
lontanissima dove gli agricoltori
viveano scevri d’ogni
paura, occu- parono non poco
di robe e di
nomini. Non però
ne ebbero bella in,dné
né facile la
ritirata, imperocché Postumio
il console mepaudo
agli assediati nel
campo i soccorsi adunati, appena udì
le operazioni de'
nemici, si presentò loro
contro la espettazione.
Non sbalordironsi essi, nè
tremarono, ma ponendo
a bell’agio le bagaglio e le
prede in luogo
sicuro, e lasciandovi guarnigione
delle antichità’ romane che
bastasse, marciarono ordinali
al nemico. Venuti
alle mani, sebben pochi contro
molli, fecero memorabili
prove. Imperocché precipitandosi giù
dalle campagne uomini in
copia cinti di
lieve armatura conir’
essi che eran tutto
arme il corpo, fecero
grande uccision dei Romani
; e per poco non
si ritirarono, lasciando nel- l’altrui territorio un
trofeo su gli
assalitori. Ma il
con- sole e con esso i cavalieri
più scelti spronandosi
a re- dini abbandonate su’ loro, dov^
erano il forte, e com- battevano ; ve li
sbaragliarono «e prostrarono
in copia. Battuti que’
pnmi, anche il resto
dell’ armata respinto fuggì : e la
guaniigìone delle bagaglie, lasciatele, s* in- volò di
su pe’ monti
vicini. Cosi pochi
moriron di essi nella
battaglia ; ma moltissimi
nella fuga, perchè ignari de’
luoghi ed inseguiti
dalla cavalleria de’
Romani. Intanto Servio 1’
altro console persuaso
che il collega ne
veniva a lui per
soccorrerlo, e temendo che 1 nemici
^non gli uscissero
incontra e glien traversasser la strada
; risolvè frastornameli, con assalirli
negli aU loggiamenti. Questi
però lo prevennero;
perciocché sa- puu la
sciagura de’ compagni
dai predatori salvatisi, levarono il
campoj e nella notte,
che fu la
prima dopo la battaglia,
rientrarono in città,
senza che avesser
po- tuto tptanto aveano disegnato.
Ma se ne
periron di loro tra
le battaglie e i foraggi
; ne soggiacquero nella
fuga d’ allora assai più
di prima (ra
quelli che restavano addietro. Aggravati
questi dal travaglio
e dalle ferite, Iraendosi a stento
innanzi, perchè non .prestavansi
ad essi i lor membri, stramazzavano, vinti principalmente dalla sete, presso
de’ ruscelli e de’
dumi : e raggiunti da’cavallert romani,
erano trncidali. Netnraeno
i Romani tornarono felici in
tutto da quella
f guerra ; perdutivi molti valentuomini,
ed il legato
che vi si
.era segnalato, più che
tutti, nel combattere. Non
pertanto rivennero in patria
con una vittoria
non inferiore a ninna.
E ciù fecesi in quel
consolato. Sacceduti consoli
Lucio Ebusio, e Pnblio
Servilio Prisco (1); k
Romani plinti da
mori>o con- tagioso,
quanto mai più
per addietro, non fecero
in queir anno cosa ninna degna
di rimembranza nè in
guerra nè in
pace. Gettatosi quel
morbo in prima
tra gli armenti de’
cavalli, e de’ bovi, e poi delle
capre e delle pecore, disfece quasi
tutti i quadrupedi. Quindi serpeggiando tra'
pastori e tra’ coloni
via via per
tutta la regione, in ultimo
invase anche Roma.
Non è facile ridire quanti
servi, quanti mercenàrj,
quanti della, classe
indigente perissero. Da
principio se ne
trasportavano i cadaveri a mucchi
su’ carri : ma
poi quelli . de’, men
ri- guardevoli si gettarono
nella corrente del
fiume. Con- tasene perito il
quarto de’ senatori, e con essi i
due consoli, ed il più de’
tribuni. Cominciò quel
morbo in- torno a’ primi
di settembre, e prosegui per
un anno in^ro, investendo e consumandone di
ogni, sesso e di ogni
età. Saputosi tra’ vicini
il disastro romano,
gli Equi ed i Yolsci
lo riputarono occasione
bonissima da levare sene
il giogo, e fecero patti,
e giuramenti, di alleanza fra
loro. Quindi preparato
quant’ era d'
uopo per 1’ as-
sedio, uscirono gli uni e
gli altri il
più presto colle (1)
Anno di Roma
391 secondò Catone,
39! secondo Vartoae, e 4^1 av.
Cristo. Digilized by Google 2i8
delle antichità’ romane milizie; inondando
su le prime
il territorio de* Latini
e degli Emici, onde
precludere a Roma il
soccorso degli alleati. E nel
giorno che giunsero
ai Senato gli
oratori de’ due popoli
assaliti per ottenerne
ajuto, in quei giorno appunto
era morto Ebuzio
1’ uno de*
consoli » standosi già
Servilio, eh* era 1’
altro, per morire. Or questo, sopravvivendo anche
un poco, convocò il
Sepa to. Portativi i più
de’ padri malvivi
su le lettighe
di- chiararono ai legati di
annunziare a lor popoli
^ che U Senato concedeva
ad essi di
respingere col proprio
va- lore i nemici, finché il consolo
si risanasse, e fosse
raccolto un* esercito
per soccorrerli. A tali
risposte i Latini concentrato
ciocché poteano dalie
campagne, guardavano le mura,
trascurando ogni altro
danno. Ma gli Eroici
non reggendo al
guasto ed al
sacco de’ campi, diedero all’ armi,
ed uscirono. Infine
dopo fatte luminose battaglie con
perdervi molti ^de’
loro ed uccidervi
molto più de* nemici, fuggirono, necessitati, fra le
mura, né tentarono più di
combattere. Pertanto gli Equi
ed i Volsci, depredatone il territorio,
si avvanzarono impunemente
ai campi Tu- scolani.
E derubati pur questi
senza che ninno
li re- spingesse, scorsero fino
ai Sabini ; e giratisi
impune- mente anche su le
terre loro, avviaronsi a Roma.
Ben poterono essi turbarla;
non però conquistarla.
Quanlun* que languidi nella
persona, e perduta 1* uno e
F altro console, mortone di
fresco ancora Servilio,
armatisi ol- tre le forze
i Romani, si misero su
le mura. Estese allora
per circuito quanto
quelle di Atene,
sorgeano queste parte su i
colli e su. scogli
dirotti, fortissimi per, a
19 natura, e bisogoevoli appena di
difesa, e parte assicu- rate
dall’ alveo del Tevere,
fiume largo quattrocento piedi (i),
profondo da navigarvisi
con legni grandi; rapido quant*
altri e vorticoso nel
corso. Non passasi questo appiedi
se non per
vìa de’ ponti, de’
quali ve n* era
allora sol uno, e di
legno, cui disfacevano nei tempi
di guerra. Il
lato di Roma
men arduo ad
espu« gnarsi dalla porta
chiamata Esquilina fino
alla Collina era fortificalo
eoli’ arte; imperocché scavata
innanzi ci avevano una
fossa, larga, dove' eralo il
meno, più di cento piedi, e cupa
di trenta, è quinci e quindi
su la fossa elevavasi
un moro, cinto
da argine interno
ampio ed alto, talché
né battere quello
si potrebbe cogli
arieti, né rovesciar sbucandone
le fondamenta. Lungo
questo lato circa sette
stadj spandesi cinquanta
piedi per largo. Or
qui schieratisi in
folla i Romani respingevano
1’ as« salto nemico
:perocché noù sapevano
allora i mortali né far testuggini sotterranee, né macchine
espugnatrict delle mura. Diffidatisi
gli assalitori di
prendere la città ritiraronsi dalle
mura, e devastandone, ovunque
passa- vano la campagna, sea
tornarono in>patria. I
Romani come sogliono
quando restano senza chi
comandi, scelsero gl’ interré
per tenere i comizj, e vi crearono
consoli .Lucio Lucrezio
e Tito Veturio Gemino (z).
Sotto questi ebbe
requie la pestilenza;
puc (i) 'Wel testo:
ntritfit rìkirftr : la
toco rXtrftr »’
interpreta da altri per
jugero : Svida la
interpreta per cesto
piedi. Ma tale cspoiisione noa
corrisponde. ' (a) Aano
di Roma aga
secondo Catone, 394
secondo Varrone, e 46a av.
Qrisio. 1 furono diflerite
le controversie civili
private o pubbliche: e
tentando Sesto Tito T
uno dé’
tribuni >, riaccendere quella su
la division de’ terreni;
il popolo gli
si oppose, e rimisela a tempi
più acconci. Eccitossi
in tutti in
vece I un desiderio di punire quanti
aveano dato guerra
alla repubblica ne’ giorni del
morbo. Cosi decretata
la guerra dal Senato,
e ratiScata ' dal popolo, si
arrolarono le soldatesche : e ninno
di anni militari, quantunque pri> vilegiatone per
le leggi, cercò
sottrarsi da quell’
impresa. Diviso r esercito in
tre parti 1*
una fu lasciata
in guar- dia di Roma
sotto gli auspicj
di Quinto Fabio,
uomo consolare ; e le altre
seguirono i consoli contro
i Yolsci e gli Equi. Aveano
gii' fatto altrettanto
i nemici. Riu- nitesi le milizie
migliori d’ ambedue
quelle nazioni, te- neano il
campo aperto sotto
due capitani per
cominciare dalla terra degli
Ernici, dove ' allor si
trovavano, a devastarne
quanta ne soggiaceva
ai Romani : la
parte men atta delle
ipilizie crasi lasciata
in custodia delle città,
perchè su di
esse' ngn venisse
irruzione improvvisa dagli emoli.
Avuto infra loro
consiglio, crederono i
consoli il meglio
d’ investire innanzi tutto
le lorp città sul
riflesso che la
unione delle armate
si scioglierebbe, se ciascuno
udisse ridotta in
pericolo estremo la
sua pa- tria ; giacché riputerebbero
assai meglio salivare
le pro- prie cose che
guastar le ini
miche. G)sl Lucrezio
piotnbò su gli Equi, e Yeturio su i
Yolsci. Gli Equi
trascu- rando ogni rovina di
fuòri guardavano la
città e li ca- stelli. In opposito
i Yolsci ardimentosi, arroganti,
spregiando 1’ armata
Romana come diseguale
contro la Lisno
IX. 221 lor ffloltitudiae, uscirooo 4 combattere
pel territorio proprio, e misero
il campo presso
di Yeturio- Ma
come accade a milizie receuti, raccolte per
la circostanza alla rinfusa
di mezzo a villani
e cittadini, privi in gran parte
di arme o di
sperienza, non ebbero cuore
nem- men di venire
alle mani : e perturbatine i più
fin dal primo avventarsi
de’ Romani, non reggendo
nè al suono delle
arme percosse, nè ai
gridi, preludio della batta- glia, tornarono con
dirottissima fuga in
città. Dond’ è che
incalzati dalia cavallwia
ne perirono molti
nello stretto de’ sentieri, e più ancora
mentre a gara si
cac- ciano tra le porte.
A tale disastro accusarono
i Yolsct sestessi d’ imprudenza,
nè più
tentarono di cimenUrsi. Li
capitani però che
tenevano in campo
aperto le mi- lizie dei
Yolsci e degli Equi
all’ udire, com’ erano
in- vestite le loro città,
deliberano di fare
ancor essi alcuna magnanima impresa, levandosi dalle
terre de’ Latini
e degli Eroici, e marciando «on
quanta avean furia
e prestezza su Roma.
.Ancor essi avean
mira che rinscisse loro r uno
o 1’ altro de’
due belli disegni, cioè
d’ inva- dere Roma,improvvista, o
di richiamarvene le
armate di lei dai
loro territori, necessitando
ti consoli a soc- correr la patria.
Su tale pensiero
marciarono a gran fretta per
essere inaspettati su
Rotna, coll’ effetto del- r opera. Avvicinatisi di
nuovo al Tuscolo,
udendo che le mura
di Roma erano
tutte piene di
arme, e che in antecedente aveva
tentalo il primo
d’ iikrodiuTe tale eguaglianza ; ma
dovette lasciar I*
opera imperfetta, tro-; vandosi
U gran numero del
popolo nell' armata
in sai' campi nemici, tenutovi ad
arte.,da’ consoli, finché il tempo
finisse del loro
governo. IL Postisi quindi
a tale impresa il
uibubo Aulo Veo- ginio’e
li colleghi, t voleano consumarla:
ma i consoli, col Senato, e . con ■ altri
in città . più potenti
adoperavansi costantemente per ogni
maniera,, affinchè ciò
non seguisse, nè dovessero
governare secondo le
leggi : e. più volle
sen tenne 1’
adunanza del Senato,
piA volte quella del
popolo ; facendo i lor
magistrati ogni sforzo
gli uni contro degli
altri ; doiid’ era a
tutti viàbile che
verreb!>e da' tanto Jisàdio
alla città disastro
insanabile e grande. A tali |>resagj.
dai canto degli
uomini agglongevansi i terrori
dal canto del
cielo, d’ alcuni de'
quali non Iro- vavansi
L àmili ne’ pubblici
scritti, né, par monumento
qualunque. Ben trovavanà
occorse ancora in
antico e coiTuacazioni soorrenti
pelcielo ed. accensioni
fissa in un luogo,
muggiti e scosse continue
delia terra,. e larve qua e-
là vaganti per
l’aere, e voci desolatrioi, e cose alirallali: ma
ciò che non
erasi mai nè
sperimentalo- nà udito, e che più che
lutti perturbava., era
che il cielo navigò . dirottamente pQn- già
con nembo, dii neve, ma con
brani, più o men
grandi di carne;
che tali cairn momot, ltrio di
''contndirla fino al ritorno
del terso mercato.
Or molti, d^l
Seoatè giovani e vecch), nè giè
de’ più dispregevoli, la contraddissero per più
giorni cou as^ai
studiati discorsi. Stanchi
poscia 1 tribuoi per tanto
consumarsi di tempo, più
non per> misero che
altri aringasse in
contrario: ma predesti» Dando il
giorno nel quale
espedire la legge, invitarono i plebei a raccogliersi appunto
in quello, giacché non sarebbero
più conturbati dalle
lunghe concioni, ma
voterebbero su di
essa per tribù.
Cosi promisero, e sciolsero 4’
adunanza. Dopo ciò li
consoli e li patrizj
più potenti an- datine più esasperali
ad essi reclamarono, e dissero che non
permetterebbero che introducessero leggi
senza previo decreto del
Senato : SSSMUS IM
lecci t patti DELLE ANTICHITÀ’
ROMANE DSL COMVNS DELLB
ClTtjC IfOTf DI
ONA PARTE DS~. GLI
ABlTAafl DI QUESTE
: CHE QUAWDO LA
PARTE-, MEIf SANA VI da' leggi
ALLA MIGLIORE A PRSf.UDlO MANIFESTO DI
DANNO TRISTO, INSANABILE, SCON» GISSIMO. Quale.,
aggiuDgevaQO qtuU potere
avete voi o. tribuni
di far leggi
o distruggerle ? Voi non
avete con questi diritti
ricevuta dal Senato
là magistratura: voi chiedeste
il tribunato in
difesa de' poveri
offesi o soverchiati, non
per altra briga
niuna. Che se
aveste già prima tal
potenza cedendo il
Senato ad ogni
vo- stra pretensione ; non C avete
voi questa, perduta
col mutar dei comizj
? perciocché non i Pereti,
del Sor- nald', non i
voti dati per
centurie destinano voi
per tiibuni: voi non premettete
ai comizj per
la vostra creazione nè i
sagfijicj dovuti per
legge, né altri os- sequj
verso de' numi, nè
pietose -opere verso
degli uomini. Come a voi
si appartiene far
cose ( quali ap- punto
sono le leggi)
che ahbisognavtmo' di culto
e di sagrifizj di un
dato rito, se i riti
tutti violate f Coai «lissero ai
tribuni i patrixj seniori, cosi
li giovani, .che andarono cinti
da un seguito
per la città
: e rìcuperà^ rono colle dolci
i cittadini più miti
spaventando i ca-, parbj e K turbolenti se
non faceano, senno, col
terroc de’ pericoli : anzi
battendo come schiavi, ed^
escludendo dal Foro alcuni
de’ più bisognosi ed
abjelti, i qualt non curavano
se non l’ utile
proprio. • V. L’
uno di quelli
ebe ebbe maggior
seguilo, e che poteva aUora più
di lutti i giovani
fu Quinzio Cesone, figlio di
Lucio Quinzio chiamato
Cincinnato, nobile, Straricco, bellissimo, valentissimo nelle
armi, e nel dire« Or questi
molto allora si
scaricò su' plebei, non
aste* nendosi' nè da
parole, molesiissitne ad uomini
liberi, nè da’ fatti
corrispondenti alle parole,
Pertanto i pairizj lo onoravano,
e ^istigavanlò più a tener
fronte ai perìcoli, promettendogli sicurezza
essi stessi : ma i
plebei r odiavano più che
ogni altro. Or da
'un tal
uomo risolverono liberarsi * i tribuni
avanti tutto per
abbattere in esso gli
altri giovani, e
necessitarli ad esser
più savj. Ciò risoluto, e preparati assai
discorsi e lestimon}^, lo
dtardno come reo
di pubblica * offesa
per punirlo 'di morte.
Intimatogli di presentarsi
al popolo, venutone
il giorno, e convocata 1’ adunanza, perorarono a lungo coofra lui ;
nunierando tutte le
violente fatte, ed alle- gandone gli offesi
stessi per teslimonii.
-Or .qui data
li- cenza di parlare ; il
giovine chiamato a difendersi
non ubbidiva : ma volea
soddisfare ai privati
in 'quanto di- ceansi
oltraggiati da loi
> secondo le leggi, tenutone il giudizio
innanzi de’ consoli
: ma, il padre
di lui vedendo i plebei sofferime
malamente le ritrosie, prese a difen- ’^erlo egli
stesso ; dimostrando le
tante delle accuse
coqic false f ed insidiose, e dimostrandole, . quando negar
non poteansi, come picciole,
leggere, nè dégne dell’
ira del popolo, e su cose, fatte
non per trama
o disprezzo, ma piuttosto per
enfasi giovanile di
gloria. Per questa diceva
eh’ eragli occorso
talora di fare e
tal altra di
pa> rire forse incautamente
nelle contese; non
essendo lui nel fiore
degli anni e del
senno. Pertanto pregava
il popolo non solamente
che non se
gli adirasse pel
di- scorrere suo, ma che giel
condonasse in vista
delle belle gesta di
esso le quali
operarono fra le
armi la libertà de’
privati ed il
comando della patria, ed
invocavano fin d’ allora
per lai quando
Avesse mancato la
clemenaa ed il soccorso
di tcuti. E qui
narrò le campagne
da lai sosténute, -e le
battaglie nelle quali
avea riportato dai capitani
la corona de’
prodi, quante volte eravi
stato la diiesa de’
cittadini, e quante avea primo
salito le mura de’
nemici : da ultimo
ri rivolse ad
impietosire e scon- giurare
il popolo in
riguardo della modera^'one
sua verso tutti, e del vivere
‘suo conosduto sempre
come innocente ; chiedendo che
in grazia almeno
gli salvas- sero il figlio.
' ' ' VI. Compiacevasi il
popolo* a tali discorsi, e delibo- ravasi rendere
H 6glio al padre.
Se non che
riflettendo Yerginio che se
costai non subiva
le pene ; ne
diver- rebbe intollerabile 1’
audacia, e la caparbietà de’ giovani, sorse e disse
: Contestata o Quinzio è la
tua virA, la tua benevolenza
verso del Spopolo
e te ten debbe
tutta la stima: ma
la molestia, e la insolenza
di codesto tuo figlio
verso tutti non
ammette escusàzione o perdono. Egli educato
con la tua
disciplinà sì discreta,
cpme tutti sappiamo, e si popolare
; ne abbandonò gli
ammae- stramenti e seguì V
arroganza de tiranni, - e la sfre- natezza de' barbari, portando in
città gf incentivi
a tristissiiHe opere. E sia
che tu noi
conoscessi per tale ; ora
che tei conosci
ben dei con*
noi e per noi concitartene : che
se per tale
il sapevi, e lo coadiu- vavi in quanto
egli inviliva ognora
pià' la sorte
dei poveri ; eri anche
tu lo scellerato, e mal souavati intorno la
fama di uom
probo. Afa tu
non vedevi ( ed io
stesso potrei contestartelo
) quanto egli dalla .
. a3i tma uirtà degenerava.
Sebbene io tenga
però, che al- lora tu non
partecipavi con esso . nelF
offenderci ; dolgomif che
ora come noi
non te ne
sdegni. Ma. perchè tu
meglio conosca qual
niostro' abbi nudrito senza
avvedertene contro la
patria, quanto tirannico, c non . puro
nemmeno tlal sangue. . dk'
cittadini ^ odi la egregia
opera sua, e contrapponi a questa, se puoi, U bellici suoi
prèmji E voi, quanti siete
imo pioto siti al
pianger di un
padre, considerate se stia bene
che risparmisi un
tal cittadino. ' • VII.
E qui fe' cenno
a Marco Volscio T uno
de’ suoi colleghi perchè
sorgesse e dicesse quanto
sapeva di quel giovane.
E fatto silenzio, e grande espettazioiie
; V(d> scio soprastando alcun
poco-, disse : Oltraggiato, e pià che oltraggiato
che io fui da quest’uomo, ben avréi voluto
pigliarmene, o cittadini, le
pene che ut
erano concedute dalle leggi
: ma impeditovi allora,
dalla mia debolezza, dalf esser
mio di plebeo, prenderò ora che
mi è dato f le
parti di testimonio, se quelle non
posso di accusatore.
Udite le acerbità, le
inde- gnità che men ebbi.
Era Lucio, fraltel mio,,che
io amava piti che
tutti i mortali Avea \
questi cenato mecò. presse
di un amico, quando
al giungere della notte
di levammo, e partimmo. E già
passavamo per il Foro, quando
si abbattè con
noi codesto petuUui-,te, seguito da
giouani pari suoi:
li quali, ebbrj
ed 'arroganti che erano, beffarono ed
insultarono noi, quanto, insultato
e beffato avrebbero i meschini
e gli .ignobili. Così provocati
j V uno di noi
parlò liberis- simamente. Or codesto
Cesane estintando . ria
cosa ttdire ' ciocché non
voleva, gU s' avventò, lo
battè : e mainìenalolo con i
calci e con ogni
guisa di sevizio^ e cT
ingiurie; io uccise.
Ucciso lui, manomise
ancor me, che ne gridava, e ne
repugnava quanto io po~
tev'a : nè mi
lasciò, se non dopo
credutomi estinto, ài vedermi
immobile in terra, e senza voce.
Allora se no' andò
giubilando come per
bellissima prova ; ed
allora' gli astanti
raccòlsero noi lordi
dal sangue j e riportarono a casp
Lucio il fnio
fratello, morto, come ho detto, e me
presso che morto, e che
certo ornai poco sperava
di sopravvivere. Occorse
ciò. sotto i consoli P^ublio Servilio, e Lucio Ebuzio, quando spaziava in
Boma la ff-an-' pestilenza, alla
quale era- vamo soggiaciuti atKor
noi. Quindi non
potei diman- darne ragione,
morti /essendo i consoli
tutti due. Suc- cederono
poi consoli Luaezio
e Tito Terginio. Io voleva
allora ' citarlo in
giudizio ; ma ne
fui impedito dalia guerra, fasciando ambedue
per essa la
città. Jiitomati .questi dal
campo, quanto volte 16
citai presso de* òiagittrati, quante volte
mi vi accostai, tante ( e ben
molti lo sannò
) fui da esso
ferito. E questo, 'o popolo, che
io ne ho
tollerato, questo vi ho
detto con tutta
la verità. Alzarono a quel
dire, gli astanti le
grida, (eo- landone molti la
vendetta colie lor
inani. Ma vi
si op- posero i consoli, ed i più
de’ tribuni, alieni che
in città s’ introducesse
la tea consuetudine
; tanto più che la
parte più sana
del popolo non
voleva che si
toglicssero le difese a chi
pericolava in giudizio
della vita. La
cura duirque della ginsUzut
represse allora gii
empiti della iur scienza, ed il
giudizio fii differito
non, senza conten- zioni e dobbj non
piccioli, se dovesse'
intanto il reo serbarsi
neiia carcere, o dare i mallevadori
per la sua dimissione, come il
padre di lui
dimandava.' Il Senato adunatosi decretò
che se no
desse malleverìa • sotto
ob-> biigazion pecuniaria ; ed
egli libero andasse
finché di lui si
giudicasse. Or mancando
il giovine di
comparire • al suo
tempo ; . i tribuni convocarono
il giorno appresso la
molthndine, e contro lui sentenziarono
; dond’ è che i mallevadori,
eh’ eran
dieci, pagarono là multa
conve- nuta in sicurezza delia
sua presentazione. Colto
dunque fra tali insidie
dai tribuni che
guidavano tutta la
trama, colle itestimobianze di
Volscio, che poi false
si riconób- bero, Cesone fuggi
nell’ Etruria. Il
padre di lui
venduto il più di
sue cose, e rintegrati i mallevadori
delle multe obbligate visse
tra il disagio
e lo stento in
un poderétto; che aveasi
con picciolo abituro
lasciato di là
dal Tevere, coltivandolo con
ponchi servi, né
più rècandosi in
città per 1’ afflizione,
b la inopia, nè
riabbracciando gli «mici, né iniramettendosi -a
festa, o ricreazione niuna.
Ai tribuni però
succedé ben altro
che le loro
speranze: imperocché non .solo
qon se ne
chetò pér alcun
modo la gioventù contenziosa
ammaestrata dai mali
di Cesone ; -ma
ne imperversò più
ancora, contrastando co' detti
e co’ fatti la
legge; talché non
poterono affatto stabilirla, cousumandosi in
brighe la loro
magistratura. Pertanto il popolo
confermò pel nuovo
anno i tribuni medesimi. ' fX. Ascesi
ai grado consolare
Valerio Popiicola, e Cajo .Claudio
Sabino (i), Roma
corse in pericoli
« quanti (i) Anoo di
Roma 39! secondo
Catons, 396 secondo Varrone, c 4''8 av.
Cristo. uiai più ^ per
la guerra cogli
i esteri, attiratale dalle d!«i «cordie
domestiche, come af eano j
preoooziato i libri sibillini, e li
segui dimostrati 1’
anno precedente dai numi.
Io sporrò cagione,
che suscitò U guerra, e ciò che fu
per queau operato-
allora da’ consoli.
Li tribuni preso di
nuovo il lor
grado su la
speranza di fondare la
legge, vedendo console Ca)o
Claudio pieno di
odio ereditario contro del
popolo, e sollecito per
ogni guisa nd impedire
quanto facevano ; e vedendo
i più potenti de’ giovani
trascorsi -iu fùria
manifesta da non
combatterli colla forza, ed i più
della plebe obbligati
da' servigi de’ patrizj, e rimasti senza
il primo ardore
per la leggQ deliberarono spingersi
all’ intento con
mezzi più risoluti, onde
atterrire quei della
plebe, e far desistere il
console. Su le prime
procurarono spargere voci
varie per la
città, poi sederono da
mattina a sera coosultaudosi
visibiloRate senza
comunicarne ad alcuno
nè consigli nè
parole. Ma quando parve
loro tempo di
.eseguire i disegni, finsero delle
lettere ; facendosele recare
mentre sedeano nel
Foro da un ignoto.
E come prima Je
lessero,, battendosi la .fronte,
e contristandosi ne’ set^bi^nti
; levaronsi in piede. Accorsa gran
moltitudine, ed insospettitasi che
fosse in quelle lettere
indicato alcun grande
infortunio, essi or* dioaroiio,pe’ banditori silenzio
e dissero; La repubblica o cittadini sta. negli
estremi pericoli. E sé
la benevo^ lenza degl
iddj non avesse
provveduto a chi era
per. incorrervi : noi tutti
saremmo in fetali
sciagure. Chie- diamo che vi
tfiniale qui breve
tempo, finché riferiamo al Senato
eiocohè ne si
avvisa, e facciamo di cornuti volo
oiocché si debbo
; E ciò detto, ne andarono
ai consoli. Frattanto che il Senato
si radunava, faceansi pel
Foro molti e svariati
discorsi; ripetendo altri
appo> stalaroente
ne’crocchj ciocché era
stato intimato loro da’
tribuni ; ed altri
pubblicando, come detto ai
tribuni, ciocché temeano essi
stessi, che succedesse. Chi
dicea che i Volsci e gli
Equi aveano accolto
Quinzio Cesone il giovine
condannalo dal popolo, creandolo comandante assoluto delle
due genti e che
leverebbe .gran forze
e marcerebbe contro di
Roma: echi dicea
che quel gio- vine d’
accordo cp’ patrizj
tornava con esterne . milizie, perché si
abolisce una volta
per sempre il
magistrato che era il
presidio de’ plebei
: altri aggiungeva che
eosì non sentivano tutti
i patrizj ma i giovani
soli: e. vi fu chi
ardi fino dire
che colui si
stava occulto in
città, e che occnpenebbe i posti
più acconci. Ondeggiando
cosi tutta la città
per |a espeUazioue
de’ mali, e sospettan- dosi tutti,
e guardandosi gli uni
dagli altri : i consoli convocano il
Senato : ed i tribuni
vengono e palesano ciocché avvisavasi
loro: parlava, per
tutti Aulo Yerginlo e disse : - „ >> • f > X.
Finché gli annunzj
che ci si
davan de' medi ^
ci sembrarono non
accureUi, ma vani e senza
fondai mento, sdegnefmmo o
padri coscritti, di pubblicarlit tal timore
che non.se ne
eccitassero grandi txirba- menti, come sogliono, alP
udirsi triste cose, e con riguardo di
non essere da voi creduti
anzi precipitosi che savj.
Non però lasciammo
tali annunzj, trascu^ rondo li
eiffaUo : anzi ne
abbiamo i investigata la ver
rità, quanto per noi
si potè.. Ora . poiché
la provit denzu celeste, la
quale ci ha
‘sempre salvato la
repubblica, ci benefica p svela
i segreti consigli y e le ree
macchinazioni di uomini
nemici agt iddj, e te- niamo fin delle
lettere che abbiamo
di fresco ricevute in
pegno di benevolenza
da ospiti, che
voi poscia adirete,* e poiché
concorrono e concordano gC
indizf Interni con gli^
altri di fuori, e gli
affari che abbiam tra
le mani non
ammettono più. indugio
e riserva i deliberiamo,
com’ è giusto, palesarli a vói, prima che al
popolo. Sappiale dunque
che hanno contro
il popolo congiuralo uomini
non ignobili, tra' quali
di- pèsi-esser parte, non
grande però, degli
anziani, ascritti al Senato, ma
più grande de’
cavalieri che ascritti non
vi sono ; e questi, quali siano, non
è tempo ancora di
rivelarlo. Questi, come udiamo, colta
una notte oscura,
sono per assalirci
tra’l son- no, quando nè
può risapersi ciocché
è fatto, nè va- Uomo a congregarci
e difenderci. Fermi sono
d'in- vestire ‘e di uccidere
nelle case noi
tribuni e quei plebei che st opposero
iy o fossero mai
per opporsi ad essi
circa la libertà.
Quando avran tolto
noi, pensano di aver
da voi ciò
che resta, sicurissima- ' mente, cioè
che revochiate di
comun voto le
concessioni da voi fatte
alla plebe. Fedendo
però che han bisogno
per compiere ciò
di prepararsi occultamente una milizia
di fuori, e non piccola, si
hanno eletto capo queir
esule nostro, quel
Ceso» e, convinto del- V
eccidio di cittadini, e della discordia
della città, • e pure fatto
per alcuni di qua entro, fuggir
salvo dal giudizio e da
Roma, con promettere di
procurar- gli il- ritorno,
magistrature, onorificenze, ed altri,
compensi de' servigj. E questo
Cesene ha protnesso di
conduf loro, milizia di
Equi e di Eplsci, quanta abbisognane. Egli
verrà tra non
molto co’ più
audaci, introducendoli a
pochi a pochi e '.sparsamente in
ci/r tà: l^ altre
milizie, quando saremo
periti noi capi del
popolo si avventeranno
su gli alpi
del popolo stesso, i quali difendessero
ancora la libertà.
Queste, o padri coscritti sono
le terribili, le impurissime opere che
disegnano far tra
le tenebre, senza temere r ira
degli iddj, nè riguai
dare, la vendetta
degli uomini. Agitati da
tanto pericolo, a voi ne
veniamo supplichevoli, o padri,
voi scongiuriamo per
gf iddj, voi pe
genj adorati dalla
patria, voi per la
memoria dei tanti e gravi
nemici da noi
combattuti in coma-, ne,
affinchè non lasciate
che noi patiamo
le sì dure, ed
indegnissime offese : ma
v’ 'empiate come
noi di risentimento, e ne soccorriate, e puniate, come delf~ Lesi,
tali macchinatori tutti, o nei
capi almeno della infame
congiura. E prima che
tutto, dimandiamo o padri che
decretiate, come è giusto,. che inquisiscasi da noi
tribuni su le
cose deferiteci; perciocché
oltre, la giustizia, la necessità
dee rendere, inquisitori di-, agentissimi gV
investiti dal pericolo.
Che se alcuni tra
voi son disposti
di non compiacerci
punto, anzi di contrariarne in, quanto
vi diciamo del
popolo ; volsntieri conoscerò
da essi quale
vi disgusti delle. nosVe
dimande, e ciò che vogliate
da noi finalmente Che non
facciamo forse niuna
ricerca, ma trascu~ riamo la
si bufa e si
rea tempesta che
pende sul popolo ? E chi
direbbe li sì
fatti decisori esser
sani, e non corrotti) e non' partecipi della
congiura anzi chi non
direbbe che temono
per sestessi, temono di essere
scoperti, e quindi scansano che
si esamini • il vero
? Perciò non debbesi
attendere a tali uomini.
O vorranno forse che
non siamo noi
gl' inquisitori 'di dò; ma
il Senato e li
consoli? Ma che
impedirebbe che i tribuni pure
dicessero, che a loro che
han preso a difendere il
popolo / a loro si
spetta la in- quisizione de* plebei, se
alcuni mai congiurassero contro de'
padri e de' consoli, e macchinassero la rovina
del Senato ? Or
che seguirebbe da
ciò ? que- sto appunto, che mai
la indagine si
farebbe ma- neggi reconditi.
Noi però mai
ciò nort faremmo,
per- chè sospetta ne sarebbe
f ambizione : e così voi
non bene adopererete dando
mente a coloro che
non vo- gliono che noi
pure slam pari a
voi ne’
casi nostri, per fare F
esame; ma benissimo
adopererete riguar- dando questi,
come nemici comuni.
Al presente, o padri coscritti, niuna cosa
tanto bisogna, quanto la sollecitudine: glande,
imminente è il pericolo;
e C in- dugio a salvarsi è
sempre intempestivo ne’
mali che non indugiano.
Lasciando dunque le
altercazioni, e i lunghi
discorsi decretate ornai
ciocché F utile vi sembra
della' repubblica. eraoo i padri
come rìsolfere: e
riflettevano seco stessi,
e ripetevano 'fra loro, come
fosse ugualmente arduissima
cosa concedere e non concedere
ai tribùni di
fare inquisiaione su
loro, in affane comune
e gravissimo. Ma Cajo
Claudio 1’ uno
ajg de* consoli, che tenea
per obliqua quella
loi^ propo- sta, sorse e disse
: iVon penso, o Kergìnio,
che co- storo sospettino me
come partecipe della
congiura che dite macchinata
cantra voi, e cantra il
popolo e sospettino che io
sorga a contraddire, perchè temo
per me o per alcuno
de miei che n
è complice ; giacché il tenore
della mia vita
esclude in tutto
da me tali sospetti. Io
dirò sincerissimamente e sema
riguardi ciocché reputo £ utile
del Senato c del
popolo. Molta, anzi affatto
s’ inganna Ferginio, se
concepisce che alcun di
noi sia per
dire ohe si
lasci,, sema discu- terlo, im tal»
affare sì grande
e necessario ; e che non debbono
aver parte, nè star
presenti alla inda- gine i magistrati del
popolo. Niuno è sì
stolido, niuno sì malevole
al popolo che
voglia ciò dire:
Che se dunque alcun
chiede, qual ne ho
male, ohe in- sorgo contra cose
che io concedo
per giuste; e che presumo io
mai col mio
dire ; io, viva Dio, ve' lo esporrò: Io
penso, o padri coscritti,
che i savj deb- bano considerar sottilmente
i germi e le linee
prime di ogni affare
: imperocché deesi di
ogni affare discorrere secondo che
ne stanno i principj.
Ora udite da me
ciocch' è V intrinseco del
subietto presente, e quale il
disegno de tribuni.
Non riesce ora
loro di ultimare ninna
delle cose incominciate
nè proseguite nelC anno
antecedente, perchè voi vi
opponete ad essi come
allora, nè pià il
popolo li favorisce.
E ciò conoscendo cercano necessitare
voi, sicché cediate loro anche
vostro malgrado, ed il
popolo, sicché cooperi a
quanto mai vogliono.
Ma per quanto
se ne consultassero, per
quanto volgessero da,' ogni
banda, V affare, non
trovando mezzi semplici
e buoni per V uno e V altro
intento ; alfine così
la discorsero. . »
Lainenliamoci che alenai
nobili han congiurano
di> abballcre il popolo
/ e di uccidere quanti
ne proca- » nino la
salvezza. E quando avrem
&UO, che tali cose, » preparale da
gran tempo, siano. in
cittA disseminate,; » e
sembrino credibili «I
popolo (e credibili
le renderà a la paura)}
allora fiugeremo delle
lettere da presenti » larcisi per
un ignoto in
presenza di molti.
Ne amdre> » mo quindi
In Senato, ci>
sdegneremo, ci dorremo, » e cercheremo il
poter d’ inquisire su
le dinunzie dateci. » Se
i patria) ci si
oppongono, prenderemo ‘da
indi » ^argomento di calunniaiii
presso del popolo;
ed il a popolo esacerbato
contro di essi
diverrà ^ propizio a X .quanto
noi vogliamo. Che
se cel concedono
leveremo X di città, come trovati
complici, i più misgnanimi frA » loro, e più nemici
nostri, vecch j ^o giovani. Impe- » rocchè coloro
intimoriti di essere
condannati o pat- » tuiranno con
noi di non
più contrariarci ; o saran » costretti a lasciare
la patria : e co^
la fàzipn contrap- » posta sarà
desolata ». XIII. Tali
sono i loro disegni p padri coscritti,
e quando li vedevate
che sedeano o consultavano ^ al~ lora
tesseano C inganno contro
i più riguwrdevoli tra, voi,
allora complicavan la
rete contro i cavalieri
più puri. E che ciò
sia vero ; presto
ve lo dimostro.
Dì, yèrginio, dite voi, su quali
pende il pericolo, da quali ospiti
aveste la lettera
? dove abitano, come vi conoscono', come
seppero tali nostre
cose ? Perché differiste a svelare
i lor nomi, perchè prometteste dirceli poi, nè
li avete già
detti ? Qual fu V
uomo che vi portava
le lettere ? che
noi menate voi
qui y sicché su
lui cominciamo a diicutere, se vere
elle siano y o se piuttosto, come io
penso finte da
voi ? E gt indizj
interni che si
accordano co’ segni
di fuori quali sono
mai questi? o chi
mai ve li
diede ? Per- chè ne celate, non
ne pubblicate le
prove ? Se non. che
mal si trovano
prove di cose
che non furono mai come io
credo, nè mai saranno.
Questi o pa- dri coscritti non
sono indizj di
una congiura contro loro
ma piuttosto delle
insidie e del mal animo
che essi covano contro
di voi, come C affare
dichiaralo • per sè
stesso. Ma voi
siete -di ciò la
causa, voi che concedeste loro
le prime cose,
e portaste a tanta po- tenza codesto insano
1 loro magistrato, quando lascia- ste nell’ anno
antecedente che giudicassero
per falsi titoli Quinzio
Cesone y 'e soffriste
che strappasSer dal seno
un tanto difensor
de'patrizj. Da ciò
nasce che- pili non serban
misura, nè tolgon di
mira i no- bili ad ano ad uno,
ma investono e scacciatio
in un globo tutti
i migliori della città
: E- ciò che è peggio
j non permettono nemméno
che contraddiciate Biro, e V atterriscono con
darvi per i sospetti, e calunniarvi come complici
de’ segreti disegni ^ con
dirvi ben tosto inimici
del popolo, e citarvi al
popolo stesso, per- chè
-subiate la pena
de’ discorsi qui
fatti. Ma su ciò
diremo altrove pià
acconciamente. Ora per
istringere e non prolungare il
discorso, ammoniscavi che vi PTOIftCr, tomo in. '
it guardiate da codesti
turbatori di 'Jioma, dti
codesti seminatori de’ mali.
Nè celerò già
al popolo quanto qui
dico ; ma gli
sporrò liberissimo che
non pendo su lui
niente di. male, se
non quanto glien
fanno i tristi ed
insidiosi ..tribuni,
benevoli ne' sembianti
e nemici ne' fatti. Sorse
al dire del
console clamore m» tomo
ed applauso ben
grande, e sciolsero 1’ adunanza senza ^pertncHve
che '^pià i tribuni
parlassero. Dopo ciò Yergiaio
convocato il popolò,
vi accusò il
Senato ed i consoli.
Ma Clandio ve
li escusava apptmio
co’ discorsi tenuti in
Senato. Presero i più
discreti del popolo
per vana quella paura:
ma i più sjolidi
per -vera, credendo le dicerie
: e quanti ne erano
I più soellerali, ^anti i più
bisognosi ognora di un cambiamento, vi xercaròno un
pretesto -di sedizione, je
di torbido, doù che
mi> ressero a far disceraere
il Vero dal
falso. Intanto un Sabino
non ignobile di
lignaggio, potente in averi
(Appio Erdonio ih
chiamavano.) si pose in
cuore di - abbattere
la potenza romana, sia
che ne cercasse per
sé la tirannide, sia che
una grandezza ed un
dominio, ai -Sabini, sia
che tina fama
luminosa al suo nome.
Comnni'catosi, in quanto
a tale idea, con' molti
amici, divisata là maniera
dell’ impresa, ed ap- provatone ; riuni li
clienti, e li più baldanzosi
de’ servi suoi. Concentrati
In poco tempo
intorno a quattro mila uomini, ed apparecchiate
arme, viveri, e quanto biso- gnava per una
guerra, gl’ imbarcò
su legni fluviali.
?ia- vigando sul Tevere, gli
approssimò a Roma dalla
ban- da, ove sorge il
Campidoglio, non lontana nemmeno uno
stadio dal fiume.
Era la notte
in sul mezzo:
ed in » Roma calma
grandissima. Egli dunque
al favore di
queo ottenuti i luoghi
piu acconci, ricever^
gli esuli,, liberare,
gli schiavi, sdebitar con
promesse i poveri, e
consociare a sestesso 4utti gli
akti cittadini clie
dal basso loro
stato invidia- vano ..ed odiavano
i potenti, e seguivano con
diletto la mutazione. La
iipniagine. che deludevalo
intanto che lo isperariziva di
ottenere quanto aspettava, era la
civil sedizione, per la
quale concepiva che
più non vi
fosse amicizia, nè ligame tra i
plebei e tra’ patrizj.
Che non fosse a lui
riuscita ninna di
tali cose r allora
dise- gnava chiamare con tutte
le milizie i Sabini, i Yolsci ed altri
vicini, quanti voleano iredimerst
dal giogo ese- crato de’ Romani.
. ^ ' XV, Occorse, però
che s’ ingannasse in
lutto ; jmpe«> aocchè nè
si diedero a lui
gli schiavi, dè
gli esuli ripa- triaronb, nè gl’
indebitati q disonorali 'anteposero'!’
utile proprio al comune,
nè i sqcj esterni
ebbero spaziò ab- bastanza da preparare
la guerra: giacché
tale affare, che diede
tanta paura e turbamento
a^ Romani, ebbe Gne ben
tosto ne’ primi
tre o quattro giorni.
E per verità, presa appena
la fortezza, datisi gli
abitanti dei luoglù (1)
Questa porta fu
chiamala ancora scellerata
perchè poterono per essa
uscire ma non
tornare i Pabj che
andarono a Cremerà contro i Toscani
j come iuiUcano Testo
ed Ovidio. Fasi.
a. intorao che non
erano rimasti uccisi, a gridare e fug-' gire
; il popolo non
sapendo che mai
fosse, impugnò le armi, e
Corse parte ne*
siti eminenti y o ne’
spaziosi, che eran molti, della
città, e parte ne’ campi
vicini. Quanti perduto il
fiore degli anni
erano nella impotenza delle forze, salirono colle,
mogi) ai tetti
delle case per combattere di
là li forestieri, parendo loro
ogni luogo pieno di
nemici. Fatto giorno,
come seppesi che 'erano in
città prese^ le
fortezze, e chi prese le
avesse ; i coa- soli
andarono al Foro, e chiamarono i cittadini
alle arme. Li tribuni
convooita la ' moltitudine
dissero che non voleano
far cosa contraria,
alla patria ne’ suoi
peri- coli ; ma che riputavaào
giusto, che il popolo
il 'quale espoùevasi a tanto
cimento vi si
esponesse con patti espressi : Se i
patrìzj, diceano, promettono, chiamarti done
mallevadori gli Dei,
che Jinifa la
guerra cìoon^ cederanno di
creare i legislatori, e di vivere
pari a noi ne
diritti per t avvenire;
liberiamo con essi 'la patria : ma
se ricusano ogni
partito di moderaziode
; e perchè mai cimentarsi
?' perchè gettile
la vita, quando niun
bene' ce ne ridonda
? Mentre cosi dice- vano ed
il popolo se
>ne persuadeva tiè
udiva le voci di
chi altro gli
suggerisse ; Claudio . disse ohe
non tJ>- bisognavasi di
tali che soccorressero
la patria non volontari, ma per
prezzo e non ' lieve
: che i pcurizj armando sestessi
e i clienti, e chiunque univasi
loro spontaneamente
assedierebbero le fortezze
; Che se tali milizie
non pareano sufficienti;
ne chiamerebbero ancora dai
Latini e dagU Ernici
: e se la necessità stringesse, prometterebbero la
libertà agli schiavi
: cAe infine
inviterebbero, tutti, piuttosto
che quelli che in
tal congiuntura profittavano
della odiosità de'
vec~ chj fatti. Contraddiceva
a tanto Valerio 1’
altro console : e giudicando che
non dovesse mettersi
in guerra coi patris)
la plebe già
adirata con essi
.-consigliava che si cedesse
al tempo : si
pretendesse da' nemici
esterni il diritto: ma
si usasse helle
gare domestiche equità
e dolcetta, E sembrato egli
al più dei
padri di aver
dato il consiglio migliore,
ne venne all’ adunanza
del popolo,e tenutovi un '
conveniente discorso, lo terminò, giu> rando, che se i
plebei si unissero
a, lui con ardore sella
guerra, q, riordinassero le
cose della città;
con- cederebbe ai tribuni di
far discutere al
popolo la legge che
essi progettavano su la eguaglianza
ne’ diritti, e che terrebbe modo
onde ciò che
fosse à questo piaciuto
si eseguisse nel suo
consolato. Ma ‘non portava
il destinò eh’ egli
adempiesse alcuno de’ patti,
seguendolo ornai da presso
la morte. Sciolu i’ adunanza, intorno a’ crepuscoli
ve- spertini accorse
ciascuno a’ suoi
posti per dare
a’ capi il suo
nome, ed il
militar giuramento; e fra
tali due cure si
consnmò qncl giorno
e la notte che
lo segui. - Nel giorno
appresso furono compartiti
e còllocati da’ consoli i tribuni sotto
le insegne sante, aiTollandovisi la
niolti- tndine ancora abitatrice
della campagna. Ordinata
così ben- tosto ogni
cosa, i consoli divisero le
milizie, e ne tirarono a sorte
il comando. A Claudio
toccò d’ invigi- lare innanzi le
mura, aIBnché non entrasse
in sussidio altr’ armata
di fuori ; perocché
sospettavasi di un
moto assai grande, e temeasi
che piomberebbero forse
tutti i nemici su
loro. Portò la
sorte che Valerio
si mettesse all’ assedio
delle fortezze. Altri
duci furouò destinati
sb I di altri luoghi
muniti, interni alla
città ^ ed altri su le*
vie che
menano al Cartipidoglio
per impedire che vi
passassero al nemico
gli schiavi e li
bisognosi temuti
soprattutto. Non venne
a Roma sussidio di
alieniti, se non de’ Tnscolaili, informati ed
apparecchiati in una notte
e guidati da Lucio
Mamilio, uomo operosissimo, e
capo allora della
nazione. Questi soli
entrarono con Valerlo a parte
de’ pericoli, et dimostrandovi
Ihtta la benevolenza e lo
zelo ; rivendicarono con
eSso le for- tezze. Diedevisi da
tutte le parti
1’ assalto : chi
adattava su le donde
vasi pieni di
bitume e pece incendiaria, e lanciavali dalle
case vicine in sul colle
: chi recava, fasci di
sarmenti, e fattine cumoli ben
àltj su lo
sco- ' sceso della rupe
gli ardeva, lasciando che
il vento ne trasportasse le
damme: i più magnanimi
ristrettisi nelle Schiere salivan
alto di su per vie
manufatte : ma la motti(udine colla
quale tanto sorpassavano
1* inimico, niente giovava
ad essi che
ascendevano per sentiero angusto, pièno sopra
di sassi da
trabalzameli, e tale che i
pochi vL
divenivano bastanti contro
i mólti : nè la costanza
acquistala tra le
molle ‘‘guerre incontro
ai pericoli valeva punto
per chi rampicavasi
diritto sa pei scogli.
Pcroccliò facessi la
battaglia con colpi
lontani e Dòn a corpo
a corpo onde moslraiwi
audacia e forza ; le
arme lanciate da
basso in alto
giungevano, cotn -è verisimile,
se colpivano, languide e tarde
; laddove quelle scagliate dall’
alto in basso
piombavano penetranti e piene,
secondandone il peso, \ lor
tiri. Non però invilivano gli
assalitori, ma persistevano,
necessitati, tra' mali, senza rèquie
alcuna diurna o notturna
: tanto che mancate finalmente
agli assediati le
arme e le forze, dopo
il terzo giorno
gii espugnarono. Perdeèouo
i Ro« mani in questa
battaglia molti valentuomini, ed il
con- sole', valentissfmo, come
tutti concedono. Costui
seb- bene ricevute molte ferite, non
si levava da’
perìcoli : ma saliva
tuttavia la rocca, finché
gli precipitarono ad* dosso
un macigno, che gli
tolse • la vittoria
e la vita. Espugnata la
fortezza, Erdonid
robustissimo che era di
corpo-, e bravissimo in
arme, destò strage incredibile idtornct di
sé, ma sopraffatto
infine dai colpi
morì. Tra quelli che -avevano
occupato con esso
il castello, pochi furoRO
pigliali vivigli più
trafissero sestessi, o perirono precipitandosi dalla
rupe. XVII. Finito cosi
l’attacco de’ Ladroni, i tribuni
ri- produssero le ‘interne discordie, chiedendo dal
console superstite che adempisse
le promesse circa
la istituzioa della legge
fatte loro da
Valerio, estinto nella battaglia. Trasse GlandLò
in lungo qualche
tempo, ora con
espiar la città, ora con
fare agl’ Iddii
sagrifiz) di ringrazia- mento, ed ora
dilettando il popolo
con spettacoli e giuochi.
Alfine mancatigli tutti'!
pretesti disse, che
do- vessi nominare. in luogo del
defunto un altro
console, perocché le cose,
fìtte da lui
solo non sarebbero
né le- gutime ',
né salde,' ma salde
saqebbero, e legittime fatte
da ambedue. Respintili
con 'questa replica, prefisse
il giorno pe’ oomizj
ove farsi un
collega. Intanto i capi dei
Senato concertarono con
maneggi occulti fra loro il console
da eleggersi. Venuto
il giorno de’comizj,
quando il baDclitore chiamò
la prima classe,
le diclotto ceniarie de’ cavalieri e le
ottanta de’fanti ricchi
di più possideusa entrate nel
luogo dimostrato nominarono
console Lncio Quìdeìo Cincinnato,
il cui figlio
Cesone ridotto a già* di^o
capitale da’ tribuni, avea
per necessità lasciato
la patria: >nè più si
> chiamarono altre classi
a dare il lor voto,
giacché le centurie
che lo aveano
dato superavano per tre
centone le rimanenti.
Il popolo si
ritirò prono- sticando il suo
male, perché sarebbe il
consolato in mano di
chi lì odiava.
Il Senato spedi
uomini che prendessero e menassero
il suo console
al comando. Quinzio arava
allora per avventura
un campo per
se- minarvi, ed egli stesso
scinto di^ tonica, col
pilco in testa, e con fascia
ai lombi, teneva dietro
ai bovi che lo
fendevano. Or vedendo
i molti che a lui
si recavano, fermò 1’
aratro, e dubitò buon tempo
chi fossero, e perchè sen
venissero ; ma precorrendo
un tale ed am-
monendolo ad acconciarsi, andò nell’
abituro, e accon- ciatovisi
riuscì. Gli uomini
spediti a riceverlo, lo salu- tarono tolti non
dal suo nome, ma
come console : e messagli
la veste circondata
di porpora, e dategli le scuri, e le altre
insegne de’ consoli, lo
pregarono che in città
si portasse. £ colui
soprastando alcun tempo
e lagrimandone disse : questo
mio campiceUo. in qilesto anno
restar^ dunque non
seminato, ed io
correrò pe- ricolo di non
avere come alimentarmene. E qui
salu- tata la consorte, ed
intimatole che provvedesse
alle coso dimestiche, sen venne
a Roma. Or questo
mi son’ io condotto
a dirlo non per
altra cagione, se non
perchè sì conosca quali
erano allora i primarj
di Roma, come operosi, collie savj ;
e come, non che gravarsi
di noa povertà onorata, ricusavano, non ambivano
i sovrani poteri. Dal che.
sarà manifesto, che i moderni
non so* migliano a quelli
nemmen per poco, eccettuatine ai- quanli, pe’ quali
vive ancora la
maestà romana e ser- basi una . immagine di
que* tempi. Ma
basti su ciò. Quinzio
preso il consolato
(i) chetò li
tribuni dalle innovazioni e dalle
brighe su la
legge, con inti- mare, ehe àc
non la finivano, porterebbe tutti
i citta- dini fuori di ' Roma, minacciando una
spedizione sui Volsci. E replicando
i tribuni che lo
avrebbero impe- dito di arrolare
l’esercito; egli convocata
un’ adunanza, disse che
lutti si erano
vincolati col giuramento
militare di seguire a qualunque
guerra fossero chiamati,
li con* soli; come
di non lasciar
le bandiere e di
non far cosa contro
Ja legge. Diceva
che con assumere
il consolato, ei tenevali
tutti sotto quel
giuramento. Ciò detto, giu-> rando che
si varrebbe delle
leggi contro gl’
indocili, fe’ cavar le
bandiere da’ tèmpli.
£ perchè disperiate di ogni
aggiramento di pòpolo
nel mio consolato, non tornerò, disse',
da cnmpi nemici
se non dopo
Jinitone il tempo. Apparecchiatevi dunque
in quanto v è ne- cessario, come per
isvernare nel campo.
Sbalorditili con tal parlare,
quando li vide
alquanto più mansuefatti supplicarlo di
esser liberi dalla
spedizione, dichiarò che sospenderebbe in
grazia loro la
guerra, purché non
fa* cessero movimenti, lasciassero
eh’ egli reggesse
il con- [fi) Aanb di
Roma 394 secondo
Catone, 996 secondo
Varrone', a 4S8 av.
Cristo] -solato a suo modo,
e dessero ed esigessero
scambievole mente il giusto. Calmata la
turbòienza, ristabilì su
le istanze loro li
giudizj interrotti da
tanto tempo, ed egli
straso decise il più
delle cause colla
equità e colla giustizia, sedendosi quasi
tutto il giorno
nel tribunale, > io atto sempre
compiacevole, mite, umano
verso de’ ricorrenti. Operò con
questo die il,
governo non sembrale
aristo* cratico, che i poveri,
gl' ignobili, ed altri
infelici co- munque
conculcati da’ potenti, OOn
avessero bisogno dei tribuni, 'nè desiderassero
piu nuova legislazione
per es- sere trattati cOn
eguaglianza, anzi che amassero
e gra- dissero tutti il ben
essere attuale delie
leggi. Fu iodato nel
valentuomo questo procedere,
òome pure, che
fluito il suo comando, ricusasse non
che lieto riaccettasse
il consolato offertogli nuovamente.
Imperocché il Sanato che
vedea la moltitudine
non alièna di
obbedire aU’uom buono,
rivolealo a grand’ istanza
nel consolato, perché li tribuni
brigavansi a non lasciare
uemmen pel terzo anno
il magistrato, ed
egli sarebbesi ad
essi contrapposto rattenendoli dalle
innovazioni colla verecondia
o col ter- rore. Disse che
non appcovava cJte i
tribuni non ce- dessero il grado
loro ^ ma che
egli non incorrerebbe ' neir acciua
di essi. E convocato
il popolo e lamenta- tovisi lungamente
de’ riottosi a deporre, il
comando, giurò
solennissimamente di non
ricevere il consolato
in- nanzi di averlo ceduto.
E prefisse il giorno
pe’ comizi, e designativi i consoli, si
ritirò di bel
nuovo nel suo picciolo
abituro, c visse, come dianzi,
col travaglio delle sue
mtini. > X - aSi XX-
Divenuti consoli Fabio
Ylbolano per la terza
volta, e Lucio Cornelio (i), e
celebrando i patrj spet> tacoli, frattanto circa
eeì mila Eqof, uomini
scelti, marciarono in lieve
armatura nella notte, e la
notte durando ancora giunsero
al Tuscolo, città latina, di*- stante nemmeno
di cento stadj
da Roma. Trovatene aperte come
in tempo di
pace, le porte, nè '"custodite le mura,
la invasero al
giunger primo, in
odio de’Tu- scolaci > perchè
erano gli ardenti
cooperatori dei Ror mani, e principalmente perchè
essi gli unici
aveano fatto causa - di
guerra con loro
nell’ assedio del
Campi- doglio. Uccisero
certo degir^uomini, non però
molti nella- invasione della
città ; perocché mentre
prendeasi quei che v’ -erano, eccetto gl*
invalidi per vecchiezza
e per mali, fuggirono ^
spingendosene fuori per
le porte. Fecero prigionieri, le donne, i fanciulli, i servi,
e diedero il sacco
alle robe. Nunziatasi
in Roma la
espu- gnazione,, i consoli
conclusero che si
dovesse bemosto provvedere ai
fuggitivi e rendere loro
la patria. Oppo- nendosi però U tribuni,
non permettevano che
si arro- lasscr soldati,
se prima non si
desse il voto
su la legge. Cònlurbandosene il
Senato, e ritardandosi là
spedizione, sopravvennero
altri messi 'da’ Latini
colia nuova che là
città di
Anzio erasi manifestamente ribellata,
accordan- doviki i Volsci,
antichi abitatori di
essa, e, li Romani venutivi come
coloni, e compartecipi de’ terreni.
Giun- sero contemporaneamente
de’ nunzj ancora
dagli Eroici e dissero, che già
era'- uscita, e già stava
nel lor ter- (i)
Adqu «li Roma' 395 secondo Catone, 397
secondo Varrone-, « 457
av. Cristo] -ritorio un
armata grande di
Volaci e di Equi.
A tali a^unzj parve al
Senato che dovesse
> ornai,non indù* giarsi,
ma corrersi con
tutte le forze
da entrambi i consoli
: e che chiunque ciò
ricusasse, romano o con- federato
: si avesse per
inimico. Or qui
li tribuni cede- rono, e li consoli
descrissero quanti aveano
età milita- re, e* convocate le
truppe alleate, uscirono
bentosto in campo ; lasciando
il terzo delle
milizie urbane in
guar- dia di Roma. Fabio
n* andò di
fretta coIF esercito
su gli Equi fra’
Tuscolani : li più
di quelli saccheggiata
la città, sen’ erano già
ritirati : ma pochi
ne difendevano ancora il
castello. E questo assai
forte, uè bisognavi molto presidio.
Adunque alcuni dicono
che le guardie del
castello, dal quale, come
elevato, scopronsi dj leg- geri tutti i dintorni, vedendo uscire
da Roma un’
ar- mata, lo abbandonassero spontaneamente: altri
però di- cono, ebe postovi
da Fabio l’ assedio
si renderono a patti, e passando sotto
giogo ebbero in
dono lai vita. XXI.
Fabio venduta la
patria ai Tnscolani,
levò l’e- aercito sul
far della sera, e marciò di
tutta fretta coiv tro
a’ nemici ^ Equi e Volsci
che accampavano, come udiva, con armata
numerosa intorno alla
città dell’ Al- gido. Viaggiando tutta
la notte si
trovò su l' alba
a fronte dei nemici
alloggiati nel piano
senza vallo, senza fossa, come
nel proprio territorio',
con disprezzo degli avversar). Or
qui confortati i suoi
a farla da valentnq- mini, piombò prima
sul campo nemico
con la cavalle- ria, mentre i frati
alzato il grido
militare la seguita- vano- Altri furono
uccisi che dormivauo, altri che
sorti appena davano all’
armi, e volgeansi a
resistere : ma li .
a53 più gettaronsi alla
fuga e si dispet^ro.
Presi con molta fiicilltà gli
alloggiamenti, concedette a’ suoi
che vi s’im- padronissero di robe e
persone, salvo quanto
era dei Tuscolani. Non
istette quivi gran
tenapo, e menò 1’ ar- mata'su
la città degli
Eccctrani, riguardevolissima allora tra
quelle de’ Volaci,
e fondata in fortissimo
luogo. Te- nutovisi più
giorni da presso
coll’ esercito su
la Speranza che quei
d’ entro uscissero
per combattere, nè uscen- done ; diedesi a devastare
la loro campagna
piena di bestiami e di
uomini; non avendone
gii assediati ritirato prima ciò
che v’ era
pel troppo repentino
giungere dèi nemici. Fabio
'lasciò che i soldati
facessero anche qui le
prede per loro, e consumati più
giorni nel farle
; alfine con essi
ripatriò. Cornelio T altro
console mossosi contro i Romani
di Anzio, e li
Volsci sen’ imbattè col- r esercito loro
che l’aspettava a’ confini.
Fattovisi alle mani,
uccisine molti, e fugatine gli
altri, s’ avanzò col campo fin
presso fe mura:
ma non osandovisi
più uscirne a combattere ; prima
desolò la lor
terra, e poi ne rin- chiuse la città
con fossi e steccati.
Vinti allora dalla necessità, ne uscirono
novamente con tutte
le forze, che erano
molte si, ma disordinate.
Paragonatisi in bat- taglia, sostenutala, ancor peggio, e fuggitine scoraggiti e svergognati, si rinserrarono
un’ altra volta
tra le mura. Il
console non dando
ad essi tempo
di riaversi, portò le scale
alle mura,, e ne
abbattè con gli
arieti le porte: e cenciossiachè da
entro vi resistevano
affaticati e lan- guidi; ve li
espugnò senza molto
travaglio. Quanto eravi monetato, quanto di oro,
di attuto, di rame,
fe’ por- tarlo neU'erario : gli
schiavi, e le altre prede
le fe’ raccogliere
e venderle da’ questori
; lasciando a’ soldati, quanto ve n
era, alimenti, vesti, e cose •
altretuli di lor giovamento.
Poi scelti tra i
coloni e t^a gli
Anziaii nativi i capi, clie
eran, molti, più cospicui
della rivolta, e battutili lungamente
e decapitatili inSne, si ravviò coir
esercito alla patria.
Il Senato usci
all* incontro dei consoli
che tornavano, decretando che
ambedue trion» lasserò: si
concordò, per finire
la guerra, cogli
Equi, che aveano perciò
spediti oratori, e nei patti
fu, che ritenessero le cittò, e eie
terre che *aveauo
nel tempo che si
conehindeva la pace, ma
ubbidissero ai Romani; non
pagassero tributi, ma
somministrassero ideile guerre, come
gli altri alleati, truppe ausiliarie.
secondo >1 biso- gno : e con ciò l’
anno spirò. XXII. L’anno
appresso (i) fatti
consoli Cajo Nauzio per
la seconda volta,
e Lucio Minu^io ebbero
per qual- che tempo guerra
domestica su’ diritti
civili con Vergi- nio
e li compagni di lui,
tribuni già da
quattro anni. Ma poi venendo alla
città guerra da-’ popoli*
iotorno, e paura che le
tógliessero il régno
; presero con trasporto l’ evento come
dalla fortuna : e fatti
i cataloghi militari, divise in
tre parti le
milizie interne e confederate, e bsciatane
una in città
sotto' gK ordini di
Fabio Vibo- lano ; essi
alia testa delle
^ altre uscirono immantinente, Nauzio contro
de’ Sabini, e Minucio contro
degli Equi. Iniperoccbé questi
due popoli s’ erano
di que’ giorni
ri- bellati a’ Romani : li
Sabini manifestamente tanto,
che si erano avanzati
sino a Fideue, città
dominati da Roma, (i)
Anno di Roma
396 secouòo Catone,
398 secondo Varrouc, e 456 av.
Cristo. I. a55 che ne
era distante quaranta
stadj ; laddove gli
Equi ferbavano colle parole
i ^diritti dell’ ultima
pace ; facen- dola nelle opere
da nemici, con
movere guerra ai La-
tini, confederati di Roma, quasi
i^el trattato di
pace non «ressero mcbiuSo
ancor essi. Comandava
l’armata loro Gracco delio
^ uomo intraprendente, che avea
renduto quasi regio il
potere arbitrario di
cui era stato
adornato. Costui ne andò
fino al Tuscolo, città pigliata
e sac- cheggiata ancora
nell’ anno antecedente
dagli E^ui, che poi
ne furono espulsi
dai Romani, e rapi dalle
campa- gne quanti uq sorprese‘ uomini in
copia- e bestiami,
guastandovi i fruiti, buoni già
da ricoglierli. E giunta un’
ambasceria, dal Senato
per intendere le
cause per le quali
guerreggiavano contro gli
alleati de’Romani quando erasi
di fresco giurata
pace^con essi, nè frattanto
era occorso disturbo alcuno
tra’due popoli, e dovendo que- sta ammonir Clelio
a dimettere i prigionieri che
avea di quelli, a ritirare 1’
armata, e ‘ subire il giudizio
su le ingiurie o danni
fatti a’ Tuscolani ; colui
s’ indugiò lungamente scuz’
abboccarsele come impedito dalle oc-
cupazioni. Alfine quando gli
parve tempo di
ammettere r ambasceria, e
quando i. membri
di essa ebbero
espresso gli annunzi del
Senato $ egli Soggiunse:
Mi meraviglio, o Romani, come
voi per^dominare e tiranneggiare., temale per
Turnici lutti gli
uomini, anche senza es- serne
offesi. Voi non
permettete che gli
Equi si venr dichino
de' Tuscolani, contrarj
loro., senza che
ciò si concordasse nella
pace, firmala con
voi. Se dite
che abbiamo oltraggiato e danneggialo
voi ; vi rinlegre- temo a norma
de' patti : ma
se venite a chieder
conto Digilized by Goc^le 2 56
dell?: Antichità.’ romane su
Tuscolani ; nienle vale, che
a me parliató, o vai quanto parliate
con quella pianta;
e frattanto additò loro un
&ggio (i), che prossimo
frondeggiava. I Romani cosi vilipesi
da colui non
cavarono subito, abbandonandosi
all* ira, gli eserciti
: ma repU- carono un
altr ambasceria, e mandarono i Feriali
che chiamano, uomini sacrosanti,
. per attestare i genj
ed i numi, che essi
porterebbero, necessitati, una
guerra legittima, se non erano
soddisbuti ; e dòpo ciò
spedi- rono il console colle
milizie. Gracco all’,
intendere che i Romani venivano,
levò l’esercito, e lo
portò più ad* dietro,
seguendolo pasto passo
i nemici. Egli volea
ri- durli in luoghi da
vantaggiarsene ^ come addivenne. Imperocché tenendo
in mira una
valle cinta da
monti, non si tostò
i Romani vi s’ internarono, egli voltò
fac- cia, e si accampò su
la strada che
conduce fuori di quella.
Segui da questo,.che
i Romeni misero il
campo non dove il
volevano, ma dove la
circostanza lo per- metteva. Ivi nè
era facile il
pascolo pe’ cavalli, per.
es- sere il luogo chiuso
da monti ripidissimi
e nudi ; nè facile I dopo
aver' consumato quelli
che portavano, pro- cacciare a
sestessi gli idimenti
dalle terre nemiche, o mutare il
campo; standogli a fronte
i nemici, e, proi- bendone r
uscita. Risolverono dunque
usar la violenza, e cacCiaronsi avanti
per la battaglia
: ma respinti e feri- tivi largamente si
richiusero fra le
loro trincee, delio inanimato dal
buon succedo li
circondò con fosse
e steccali, su la fiducia
che premuti dalla
fame gli si « (>)
Lìtio chiama quèrcia
quella che i delta
fiisgìo da Dioiùgi..
2,5'J reoJerpbbero. Giupta* in
i\oma la ao|i»a
di ciò. Quinto FabÌ9
lasciatovi comandaute, scelse
il fiore ed
il nerbo suoi militari,, e li spedi
per soccortere il
console, sotto gli ordini-
di -Tito Quinzio uome
cousoUre, e questore. Mapdò,
oopomeno letiére a rCsuaio
ra, e le .altre insegne
ornamento un tempo de\.
re. Saputo^ che
Roma .oIeggeval(> diltàtore, non solo
non ' si rallegrò di up 4anio
onore, ina conr tuebandoseoe disse, adiaufue per
io mio occupdzioni perud',pw e il
fi allo di
ifUest' unno e noi.tidti
rje avremo grande il', disàgio
! Dopò ciò recatosi
a Ro- ma ( 1^, confortò su le prime
i cittadini con discorso
al (•y'-Amio «li Roma
agS secu'mla Caloof, ajS
fecondo Vsernas, t 4^ sv.
Lfista. • . ZJYw.v/(;/ .
/tZf 'popolò' dà'enapierlo
di beile speranze!
Poi'^coavocAti mai i giovani dalia
Oittà' e dalia campagnì, soncenlrate le truppe
ausiliarie, e nominalo
maestret de’ cavalieri .Lucio ' Tarquinio, 'ignobile per
la povertà ma
nobilis- simo in arme, Usci
coll’esercito riuaiio e gianto
>af questore Tito Quinzio
c6e io aspettava, prese ' pur
le sue schiere, e né andò'
sul nemico. Appe'Oi#
ebbe con- siderata la natura
de' luoghi ov’ erano gli
accampamenti cOilooò parte dell'armatA
ntdie aliuiié onde
precladerc agli ^quà i sussidi
ed i meri, e' riieneodo 'seco le -
ah re naHizie lé
avanzò cOn -ordiqe
de 'battaglia, GleliO
phnto tion si sbietti, perocché nè
la sua gente
era poca, 'Oè poco il
cor suo nella
guerra, e lo seooti^
nel sUo^ gia- gnerè, e ne sorse
una pugna ostinata;
Era decorso buon tempo,
e li Romani oom'e
cresciuti ’fi'à''' le arme rinovavansi Ognora
al travaglio, *e
la cévallérià soccorrea |yron;a ove
erano ì iaHti'*iti pericolo.
Criccò dunque Eopra0altone,
si ritirò nel
suo cantpo. Quinzio
' éllora 10 cifis^e con
aho steccato e torri
frequenti,- e' quando seppe
a!6nc che penuriava' de’ vivevi, lo
investi con as- salii contigui nel
stio oéntfpo,' ordinando a hSinucfó
che uscisse dall^altVà parte.
Esausti gli Equi
di viveri, di*- speraii di
un soccorso,* -e
streiii per ogn’
intorno Hal- r assedm,
furouo nécéssitéti à prender
ibr&a *dì ' su[^ {tlichevbli, e spedire a Qoìozìq
per la pace.
E- colai replicò che
la daitebbe, 'e lasccrebbe*
agli Equi iSalva
la persona, se deponessero le
arme, é- passassero ad'
uno ad uno sotto
giogo: traliersbbe però' qual
nemico Gracco 11 capo
tkUa guerra,, e gli
altri consiglieri delia
rivolu. £ qui comandò che
gli 'recassero tali '^ùoraiai
in ferri. Digilized by
Googl turno X. a59 [/milìaVaiui gli
Equi' a lutto; quando' egli ordioó,
che giacobè aveano senza
"esserne oilest previamettie, sog- gettilo e derubato il
Tuscolo città coufederau
di Ruma, essi consegnassero
a lui ' CorbioBe -, città
loro perchè ne lutasse
altrettanto. Prese tali
-rrsposta partirono gli
ora- tori, e dopo non molto
tornarono traendo .con
st Gracoo è i Compagni incatenali.
Essi poi cedute
le arme, e lasciate 'le trincee
t ne andarono ^so
t(o ^iogo, come era
il volere del
diltaiort, . à traverso
.del.èaiupo ro- mano.
Consegnarono tiorbione, e ebn restituire,i
pri- gionieri tuscolaai
ottennero soUmeotè che
ialiti prima ne uscissero
gli uomini iagfenai. Quinrio ricevuta
ht" città, comaodd che.
le prede pià -wgqardevoU sr
trasportassero in Roma, .concedéndo che
le altre si
dispensassero tra’ soldati
venuti con esso, e tra- gir
altri spediti prima
con Quinzio il questore
;, e" soggiungendo, che a^
soldati rinchiusi «mi console.
Miiiudo avea dato
ànjplissimó «lono, quando li rivenaiet-
dajla- morte. Ciò 'fano,
obbligando Minucio.a dhnettérsi djl
suo grado, si
ripiegò verso IVoma,
e'ne menò. Uionfo luminoio,
più. che tutti
.i duci meuato- Io avessero perche in
sedici giorni de’ die
avea preso il còniaotfo, 'uvea salvalo
l’ esercilò anaico,
disfatto i’ altro
floridissilno de’ nemici
; saccheggiata la loto
città, mes- savi guarnigione, e
comku» va • séco In catene
il capo, e. gli
altri primarj di’qneUa
gueira. . FaoeVa soprattutto ùieravigliu die
avtmdo ricevuto quel
magistrato per sci mési
non sei tenne
quuito eonòedeva la'>
legge : • ma coni vocata
la plebe, e ragipjiatuJe delie
cos«r operate ; lo depose.
E pregandolo il Schato
che prendesse quanto vote»
delle- terre, degli schiavi
delle prede conquistate colle armi, e pressandolo che
vivificasse la tenaiti
sua con ricchexaa ginata,
ché egli possederebbe
'glónosrsaitna, come 'tratta
colle proprie iàticbe
dal nemico', ed=o(fe« rendo'gli' amici-
e pai'enli amplissimi doni, e
pregiando più che tutto'
adagiare un tal
uomo, egli ' lodatane la cortesia,
non prese nulla,
ma si ricondusse
nel piodolo suo campicello
„ ' ed antepose ad nna splendida
vita la vita 'tua travagliósa,-
nobiliubdosi per la
^povertà, più che altri
.non. sogliaho per l’
opulenta. Dopo non
molto Nanzio f altro console
vinse in battaglia
i vamente le armi
contro de’ Romani, e scorKro- «accheg- jgiando assdi
della lòr terra
tanto che quei
che' veai« vano int.copia
fuggendo dalle campagne,
dicevano tatto in poter
loro, quanto è tra Fidene
e Cmstumera^ An- che gli .Equi
sottomessi ultimamente sorsero^ im’ afira volta alle
armi: e recandosene > tra
la notte i più
robusti a Corbìone, città
ceduta da essi
Panno antecedente ai Romani,
c sorpresavi, la gnamigioDe nel
sonno >; ve la uccisero,
salvo podhi‘^ che"
per .ventura non
v’ erano. Gli altri
marciarono ju gran
moltitudine contro 'di Ottona, Anno
di Roma 397
'secondo Catone, 399
seconda Varronc, a 4S5
Cristo.' . olimpiàde otlan» dr
Gitene vinse cìni de*
Latini, e -presala a prim’
impeto, fecero per la
rabbia su gli
alleati de’ -domani, docebè non
potevano su’ Romani medesimi
' uccisero tutti > puberi, eccetto quelli -ette efan
fuggiti udì’ invadersi della' cillà-r rende-, rono
prigionieri, donne, fanciulli,
vecchj,, e raccoltovi in fretta
quanto poteano trasportar
di pregevole,' ripar* tirono prima'' che
v’accorressero tutti.! Latini.,11
Senato saputo ciò da’
Latini, e da’ militari salvatisi
della guarr. nigione,
decretò di 'iàr uscir
le milqsie y e con
ùse i due consoli.
Ma Verginio e i colieghi, tribuni già da
cinque anni davano
a ciò ritardo, opponendosi come negli
-anni antecedenti alla
scelta militare,, che faceasi pe’coqsojij.u reclamando
che. si Sdisse
prima la guerra domestica, -con
rimettere al popolo
l’esame della. legge, che davano
sò la eguagliauaa
.dei diritti : e la
plebe ooadjuvava t ttibaui che
asiaf malignavano, contro, del Senato.
Imapto temporeggiandosi, nè comportando
i consoli,’ che si facesse
in Senato il
previo decreto su la
legge e si proponesse
al - popolo né
volendo i tribuni concedere la
leva e la marcia
delle, milizie, an^i
facen- dosi accuse inutili e dice^e
vicendevoli belle concioni
e nella curia,, alSne
fu ideato da’ tribuni -uu altro
disegno^ che sorprese l padri
e chetò >U sedizione attuale,^~ma fu* causa di
molto ingrandimento per
il popolo: ed io
sporrò .come il
popolo se lo
ebbe questo incremento. Essendo manomesso
e predato il . territorio
de’ Romani e de’
cOufederati, e spaziandovisi i
nemici come per una
solitudine su la
speranza che nou 'Usci- rebbe oontr’ essi
esercito. alcuno a causa dcHe
sedizioni di Róma, i consoli
-adunarono- il Senato
per consultare come sy
pericolo estcetno. Tenutisi
raoUi discórsi, li- ichestò il
primo dei* parer
suo Lucio- (^uiozio, il> dit* latore
dellVarìBO, aotecedents,
>ttomq,noo/^solo -il più grande
allora fra le
armi',*; ina creduto ancora-
savissimo nel govefoo', propose
il coniglio d ^ale
poi persuase più che
tnttq'i tribuni e gli
altri, che si
dij^erine in tempo più
accóncio t esame allora
‘non riecessario della legge,
è si /accise con
tutta prontezza la
guerra alfutJe’, scorsa ornai
/no, su la
etllà r nè si
perdesse imbeflemente e
Mtuperosasnente il comando
con tanti stenti acqmstato.
H che se il popolo non
-ià-s' tmi*- ceva; si
armassero patrizj e clienti,
con- guanti altri vòleano far
causa con essi
in qaeil aringo
‘nobilissimo della patria, e ne
andassero ardenti al
nemico,- pren^ dendo per duci
dell andafpiento i Numi 'protettori di Roma.
Imperocché ne verrebbe
lune 'o laUi^
buono e bel fratto^ vuoi
dire ò che riporferebbefo ima
vit- toria la più gloriósa
fra tutte le
riportate "dai loro ptaggiori, o che magfianimi'
niorirebbero pe' beni
che sìeguòno la vittoria.
'Annnnzìaira c4e> egli
stesso ^n si ricuserebbe
a tanto .esperimento, ma presento
vi pugnerebbe' qeaniq i più
coraggiosi', e ‘che rpempieno manchérebbevi alcuno
seniori che amasse-.la
libertà e li buon nome. Così
piacitito a tutti, Senza che
alouna vi ù -óppon%sc, i
consoli convocarduo il
popolo.' Cbacorsi quanti
erano in Roma
come per ndieofa
di nuov^ co* se,
fattosi innanzi Cajo
Orazio, l’uno de^ consoli,
tentò volgere spontaneamente i plebei
anche alia guerra
pre* sente. Ma perciocché
i tribuni vi 'ripugnavano,
'ed i LTUno X., 263 plebei,!a> senti v«n coq
essi; recatoseli console
Un altra volta in
tneszo disse- : Beìia marlwigliasa impr^a
ifi vero é^la vostra -o
f^ejrginìo ck^. abbiale
stacpatò U popolo dal
Senato ! e cho. dal^
canto vostro avesstmo già
perduto quanto abbiamo,
ereditato dagli .avi, e ffuanlo .oUepiUo
co')Ttoftrì sudori Ma
noij npn, cede- remo noi questo,
senza lordarsi nemmeno
di polvere) ma impugnando
le orini con
.quanti vprrap salva
la patria ne andremo
al cimento, i^erantiti
su la bontà dell’impresa. E se
àLui}' Dio rimìui. le
belle.,, le' giu- stissime
imprese') se la
sorte che da tanto ' tc/Apo
prò- • spera questa
cillà -, non t
ahbqndona sqibnonte- reniò il
nemico., Ma se alcun,
Dio me gravita . sopra 4 c’
ci si oppope
per, bt salvezza . di
-Jiqma ) certo JC voler
nostro x di nostra
propensione non perirà-;
che Jortissimamente per la
pat/ia moriremo. 'E
voi li belli, U generosi capi
che siete di '
Roma, guardata pure colle vostre
mogli le case,
abbandonando e tradendo
noi:,, ma nà te noi
vinciamo onoràta- sarà
la vostra vita, nè
sicura se perderemo.
Se pur non
siete ■‘ani- mali (lidia misera
speranza che inémici
dàpo.' rovinati i patrizj, preserveranno
voi per gratitudine, a cori- cederànuo che
godiate la vostrd
patria, la libèrtà,
il comando, e tuUi t befù -^/ie
ora v’ avete.
Sb, questo appunto a voi
copeederanao cfue’ nemici a'
quali men- / tre
vói pensavate pìà
'saviamehte avete levato
tardo iersìtorio, distratte ttgtle
c'ktà, JaUine' schià^i i >popoli, ed irudzati
toni i- trofei, tanti manUmérUi
di nemicizfa, e sì luminosi,
che mai^per età
non perirahpo. Ma perchè
io mi addoloro
còl popolo il
qtude non fu mqi
taUù’o ài voter
non piit tosto
o Vt^fginìo con Voi che
per si bella-
maniero, io dirigete
? Noi' certo necessitali b. non
-pensar bassamente noi
deliberata abbiamo, e ninno
cel vielirà, 'di- farci a combattere per la
patria: jna voi
che abbandonate, voi
che ^ tra- dite il comune, voi
ne- avrete condegna, irreprensibil vendetta dal
cielo: nè' fuggirete ‘già questa,
se quella fuggite degli
uomini. Nè crediate
già che io
ciò dica pertatterrirvi : 'ma
sappiate che quanti
siano qui la- sciati per guardia
dèlia città, se
mai gf inimici
pre- valilo Ho ^ ne destineremo
come a noi si
conviene.' Se od alcuni^
ìfarbatì, ornai tra le
unghie de' nomici, venne
in cuore di
non lasciare ad
essi' non le
mogli, ~hon i figli, non le
cùlà, ma di
ardere .gueste, e di uccidere
'quelli; non farànno
altrettanto sé" li Èo-
mani de' quali è proprio
il dominare.? ' Certo' degeneri non saratmo
: ma còmi notando
da vqi > che'
nemicis- simi Stata,s. ogrii amica\lor
cosa distruggeranno.- ^on- sidarMe
ora up'i questo, ié> considerandolo ; fatevi -le adunatvte e-
le leggi. - ' ~ • Detto
tali ^ose e ‘molte
consimili, presentò li più
provetii de patrie]
che piangevano. A tale''s[>euaoolo molti del
popolo boa contennero
nemmeno essi le la»
gtime: t destatasi grande
commoxlone per gli
acmi e per la maestà
di tali uomini,
il console sopraÀandò
alquanto disse :
'Impugneranno questi seniori
le 'armi per
voi giovani nè' voi ve nè'
vèrgognelete, occultandovi' fin .sollotarm é"
vi terrete lontani
da questi duci,
che padri sempre, avete nominati
? 'Sciaguo^i voi ! nè degni
pure di èsser
detti- cittadini -di
questa èittà fonSala
"da c'olbro che
àveano por iole
fpaile il pa- dre, aperto loro
dà numi lo
teatnpo ^ra le
armi e le fiàmmè- Catm
Yergioìo temè ciré
il pòpolo fosse
com- mosso dà) quel discorso
per non SDfhii{V
'dl dover met- tersi « quella guerra
coOlro il sub
dire, fecési avanti'
e soggiunse;- Noi non vi abbandoniamo'- né. Vt'
6-adiamo, Hè mai vi
.abbandoneremo o padrii come
per addietro mai'^ foste da
noi derelitti su,
et impresa niurtae
di met- tere custodi' delia
libertà te leggi
a cui tutti ubbidi- scano^ Che se
ciò vi .sa
male p, Se
sdegriate- concederle a'
vostri cittadini questa
grazia,' e'^ riputate
com’ essere la mocte.
vostra ammetlére- il
popolo nelC eguaglianzd;
non' pià
vi darem briga
su dà, ma vi
chiederemo ' altro' dono, avuto
il quale farse
noh avrem pià
bi- sognò di nuova legislazione:
se nonché ci
vien paura che non
ottérremo nemttten questo, sebbene non
sia ponto lesivo dei
Senato,- e sia ^uUo*
bmief ce- ed- ono- revole al popolo. E replicando
il 'console- che se rimetteanb
la istanza vai Senato, non
sarebbe oegata loro
cosa, che discrcia fosse-;
ed invitandoio a dire
ciocché dimanda*- sero, '
Verginio abboccatosene alquanto
^co’-suoi colleght rispose,
che lo
dirèbbe - al Senato,
'fiopo ciò Ji
consoli adnnarooo il Senato, ed
egli - venutovi ^ e divisatovi quanto edmpetevasi
al po>pólo, chiede
che si duplicassero i magistrati del
pòpolo, ed .ogni
anno in luogo
;d> ciò que ài
nonaipaiserD dieci', tiibuni.
Alcuoi, ca{>0 de’qaaii era
Laoio QuipzioV àatorevolissinto Pilota, in
v Senato, pensavano clie.ciò pon.
offenderebbe* Ja repubblica e ooDsigll nico vi
si'dppose Cajo Claadio, figlio di
Appio /dau* dio, deir
avvertano 'perpetuo a voleri
del popolo, se non erano
^a nórma 'delle,
leggi. Egli ereditati
i ' senti- menti del padre, impedì
quando. fu console che
si con- cedesse ai' tribpni
d.* inquisire contro
de’ cavalieri, calun- niati di congiure,
ed ora con
iuiligo ragionamento di^ mostrava, che il
popolo non diverrebbe
più moderato e più docile
y ma più incansiderato
e più grave. lùipe- rocchù
appelli che sarebbero
' dt poi giunti
'al iribonaio noi prenderebbero
gii' per* questo*
eoa.- legame'* .che
li tenesse ai patti,
ma beP. presto tratter^bero
di divìsioue di 'terre 4^ «
dl,e^[}ia|ità dì drritir',,e
certdtei;ebbera par- lando e
..brigando de cqiUe
cose, estensive 'delia potenta del
popolo, eotne dmpaqenti
1* onor del
.Seoato^.-ìlfosse ntolti* tH^ tal
dire graodemeote i.
ma Quinzio a ri- trasse ammaestrandoli voler 1’
otite del Sedato
che i tribooS si
moltipKcttseil», giacché i
molti men *8’ at^r- dan
dei poclii t esser
rocspediziooe>^ Toccò a MìducÌo
Ja gaem co’
Sabfm ad* Orazio
1* altra' eoo
gli Eqaiy- e ben lostb marciarono ‘atubedi^e. L Sabini
gtuuy* dando le Idko
città.; non curarono
.'che' ì Romani si menassero >6
portasae.ro quanto .r’ era
pez le campagne. Gii
Equi a|ledirono 'Ito’ armala' per coalrxitarli;
ma -tutto ebe pugnassero nobilissimamente / non
poterono supe- rarli, e si - ritirarono
ne^sitatt oeile loro^
città,* perduto il castello
pel quale avaano
co/nbattùlo'. Orazio respinti i nemici, -iPatto assai
danno alle, lor
itette.^ abbattè le mura
di Corbinne r ne
rovesciò da’ fondamenti'
le mse, e -ricondusse in
Roma l» e(wreito. Sotto Marco
Vaieriòy* e Spurio Verìpoio
con- soli delH anno segne'nte,(i)
non osci dà’ confini
nato, e • convoràlv. il
Senato. E condosslachè un
littóre, comandatone,
rispinse T- araldo ; icilio
e i suoi coUeghi degnatine presero
e trassero 'il littore me per balzarlo ^la
‘ rupe I consoli tuttoché
sen tenesseró 's[^giatls$inù non poteano.fiir
violenza, e redimere quel
prigioniero: e''^i volsero ptf
ajuto agli altri' tribuni-: 'Perooché niuu pifò
sospendere p proibire gli
atti di- alcun
tribuno, se non quegli
che tribuno, sia
parimente giaqchéji tribuni s’ erano preoccupati già, da molti
e potenti. Unico -contraddisse
.a.tal dire Caju Claudio, comprovandolo molti
; ma -si decretò
che il silo al -popolo
sì concedesse. Dopo
ciò. presenti i pon- tefici,‘ gli auguri,
e due sagrificatori, fatti secondo
il rito.sà^ifizj e preghiere, e
convocati da’ consoli
i 00- niizj centurìati si
'confermò la leg^e, e descritla sQ co-
lonna^ metallica, e portata ne|l’ Avventiòq
' fu collocata nel tempio
di Diana. Poscia-
coqgregatisi J plebei tira- rono a sorte il
suolo dove fabbricare
e fabbricarono, occupando
ciascuno, lo spa^o che
poteva. Unironsi al-r . • i
r edifiso dì qò^lcke
cak due o M'
pèrsone, e talvoiu più- ancora,
prendendosi uno i pianterreni
». e gl! ahri i piani,'àupdnori. E 'cosi
tl’. armo si
consumò eoj^i^b- bricare. Riusoi
pesò complicatò e varìo e pie*o di grandi
avVenluee l’ anno
seguente (j)’, nel
optale eletti consoli .T'ito' Ro™iliO e Cafo
Veturio, furono riassunti al
Hribanale ‘Icilio e i
coUegbi. {mperoccfaè fu
di nuoro suscitata da’ tribuni
la d*ril sedizione
ebe parea venuta ihene;
e sorsero guerre dagli' esteri
: ma queste non 4^e
danneggiarla, ' giovaróno
non poco la
repubblica, non toglierne gl’
in^rlH diSsidj ; essendole’
consueto e viceodevole di '
esaére ’anaoime tra
le guerie, * ma
discor> diosa' nella pace,
distraiti - di ciò
quanti salirano al
con- solato» prendevano eoo trat^rtOi
se nascevaoo,Te guerre cogli
esteri. E ce i ^oemìd
erim' 'cheti ; essi
stèssi finge- vano’ manoanze pretesti
0' debi- ^litavasi tra lo
sedizioni.' Animati nel
modo 'stesso i-'oOn* soli 'di quest’'am^,
deliberarono cavar 1' esercito'
contro L taemìci spi timore che
i' poveri e gli
oziosi . qoaiìn- ctassero a
perturbare - la pacel
Or essi- ben
la rutebde* vano,'cbe 'vuoisi-
distrarre la mollitudioe
ndle gtiè'rre cogli esteri
i’hia non beò
intendevano com’ eseguiscasi.' '
Quando avrebbero dovuto
flir leve moderate
ì Qotìae ilo città mal
affetta ; si diedero
a 'castigarvi colla forzà
tùtii i ’ranitenti i senza Cfonsazione
o dispensa, iriando ine- sorabili ^il rigor
4elie. leggi sù
gli àVen> e su
le persone. 'ny Anqo
di' Roma agg secoodo
Calooc, joi seoondo Varroue,
a 453 av. Critto.. Presero da
tal proceder^ occasioae
di bel onovo
i tri* buoi di concitare
la plebe ; e radonatala, vi strepitarono per più
cause, come ancora, perchè aveano. .fatto portar nella
carcere molti che
reclamavano 1’ ajuto
de’ iriboni: e dissero che'
essi che soli
he aveano l’ autorità
dalle leggi, gli assolveano da
quel rechi [amento. ' Vedendo però che
niente ne profittavano, anzi ' che
laccasi la coscrizione piti
severamente, incominciarono* ad
oppor» visi co’ fatti.
E resistendo I conscM .colla
forza del grado loro
; sen fecero altercazioni
e scaramnCce. La tenea
pei consoli la . gioventù
patrizia, ma teneala • pe’
tribuni la turba oziosa
e povera : e quel giorno
assai- prevalsero i LODSolif
su' tribuni. Ne'
giorni appresso - versandosi
in> città più turba. dalle
campagne, i tribuni, vedutisi
òmai con forze' da
contrapporsi, convocarono
assai spesso il po-
polò-, ^e mostratigli'! ‘minbui loro
malconèr ' dalle pia- ghe, prolestaropo che
deporrebbero il magistrato
se non erano da
esso gàraoliti. Irritatasene
la nioltitudiée ; dt^'no
i coiv* soli a ' dar conto
al popolo del
procedete' loro. Nóp
gli attesero questi; ed
andatine i 'iribòni alia
curia* ove il Senato ^a^e va 'già
consultandoqe
lo.aupplicaroooi a non
trascurare essi tribuni,
offesi -bruttisiihiàmrate,
uè il spopolo, che
era dell’ aita
loro privato. -^E qui ùàrracono quante ne
aveano sopportate da’
consoli, e le mapohi-
nazioni di quesb
contr* essi ond’
erano svergognati' non pure
flel grado ) ma'- nelle
penonc. Laonde chiedeaao che
^.consoli facessero l*
Una delle due, vuol-
dire, se negavano di aver
fatto . cesa vietata
datie leggi controde’
tribuni « vemsserò e giurando*
Ift negassero all’ adoaaaza
; se di giurare
non sostenevano, venissero, c
vi rendessero, conto
; e le tribù «entenziereLbero su
loro. Si difesero i cousoli, . dando a vedere
ebe i tribuni erano la
origine de’, mali, per
la caparbieti, per l’auda- cia di profanare
Je persone de’ consoli,
prima con avere imposto
ai- satelliti jorp 'e agli
edili di portare
in carcere uonjini rivesliti
di ogni potere,
e poi con tentar
di as- salirli col raeazo
de' plebei più
temerarj ; e qui sponeano quanto fosse
il^ divari a dalla
tribunizia alla, consolar di- gnità, piena 'questa di
regio potere, e nata
l’altra solo per protegger'
gli ttppressi. Tanto
esser lungi che
po- tes^ro far votare
la moltitudine contro
de' consoli, che noi póteauo
nemmeno contro il
minimo de’ patriz|
senza un decreto espresso
del Senato. Pertanto
'minacciavano, se i, tribuni
faceano' votar la moltitudine
di dàr. rju’me a*
patria). Continuandosi ‘ppr
tutto.il giorno i
pochi contro de) ' r •
. (0 Vedi Ii
che si ripiegasse lo
sdegno su’ lor
fautori, castigandoli a
norma delle leggi. Se
quel giorno i tribuni
trasportati dall’ira lan- ciavansi
a far cosa alcuda
contro del Senato,
p de* con- soli, niente
avrebbe impedito che
la città di
per sé ro- vinasse. Tanto eran
tutti pronti per
armarsi e .combat* Uni t Ma
perché sospeser 1’
afiàre, dando ' a sé tempo per
meglio consigliartene; serbarono
essi ' moderazione, e r fra
del popolo n'n
fu mitigÀa. Intimarono
pel tc^'zo mercato dopo
quel giorno una
assemblea popolare- ove
condannire; i consoli ad
una emenda in
mgeoto, e sciol- sero 1’ adunanza.
Approssimandoti pe^ò quel
-giórno de- sisterono anche da
lah* intrapreta dicendo,
di coneedecp ciò alle-
istanze di uomini
i più 'venerandi per
anni e • per grado.
Poi congreg-indo il
popolo; dichiararono die essi
rimettevano le offese
proprie, sul desiderio di
motti buoni, a’ quali nop
era lecito contraddire
: ma che le ingiuri^
fette al popolo
e punirebbero queste, anzi le toglierebbero. Imperocché
diretumente aggiùngereb- bero
tra le
leggi pnr quella
su la divisiori
delle terre differìlit ornai
da treni’ anni, e quella su’
diritti eguali r • N. ’ (i)
Kel lesto »v^it
nuot’aiiante, forse ot nè
per dono,> nè per
compera, nè per altro
legittimo mezzo che^ possa
dimòstrarvisi. Se ne
avessero questi dimandata parte pià
grande, che noi dopo •
avere come noi
tra~ vagliato neW acquistarle
; certo non sarebbe
stato de» gno di
uomini, degno di cittadini
che pochi si ap»
propiassero" ciocché era
di tutti; ma
pur stata una causa
vi sarebbe a tanta
ingordigia^ Ma quando
non potendo dimostrare alcuna
opera grande e magnanima per la
quale si tengono
ciocché è nostro, non sen vergognano 'né lo
rilasjdano y nemmeno convintine
; chi potrà comportarli? Or su,
per Dio, se
io nfetilo in ciò,
venga chiunque di
questi onorandissimi, venga, e
dimostri per quali
splendide- e belle gesta
presuma pià parte di
me. Forse ha
guerreggiato pià anni,
in pià battaglie, con pià
ferite, con pià onore
di po« rotte di
spoglie, di prede, o di cUtre
marcfm da vincitore, per le
quali /’ inimico
se ne umilia, e la, patria > magnificata ne
sfol^ra ? Dimostri il
decima almeno di quanto
io v ho dimostrato.
Per, certo i pià d’ essi
non potrebbero allegare
nemmen. la minima parte
delle mie gesta
: anzi alcuni di
loro non par.^ rebbero
di' avere sofferto nemmen
quanto il popoletlo pià
basso. Grandi essi
ne detti, noi sono
certo nelle armi, pià vagliano
contro l' amico, che a fronte dell' inimico
: non pensano essi
di avere una
patria a tutti comune, ma propria
di loro, quasi non
siano stati per noi
liberati da’ tiranni, ma
dà tiranni ab-^ biano
noi preso come
un lòt bene.
Questi (perocché bacaselo /e
ingiuriò continue pià o
men ^andi j eh» tutti
sapete ) sono giunti
a tanta in scienza
^ efu^.non soffrono che alcuno
di noi dica
libere yoci, o che solo
apra la bocca
su la patria.
E 'Sputió Cassio, quello che
ptimó^ parlò su la le^e
agraria-, quello che illuitre
per tre eonsólati,
e per, due trionfi
glo- riosi, e che avea dimostrato
tanta solerzia nel
co- mando nplitare e civile,
quanto niun altro
in quei tempii qùeH'
uomo si grande
lo accusarono i con- •soU’j
come intento alla
tirannide, lo sopraffecero
con falsi teslìmonj, e, Jìnalniente^
precipitandolo dalla rupe,,
Io uccisero', nè
per altra cagione
se iwn per- ché era
V amico della patria
e del popolo.' E Cajo
Genuzh) tribuno' vòstro- che
riproduceva - dopo undici anni
la stessa legge, e citM>a- in
giudizio i consoli deir anno
antecedente come trascurati
'a compiere i v decreti
del Senato tu la partition
delle terre, lo lè- varon
di mezzo appunta
il giorno avanti,
il giudizio con occulte
maniere i non potendolo
colle manifeste. Donde tte
venne .a* successori
grave timore, e niun più
st mise a quel
rischio : e già sono
trend anni che sopportiamo, quasi perduta
il nostro potere
nella tirannide. Ma lasciamo il
resta. I magistrati vostri attuali, quelli che
voi avete rendati
siseri per le^e ed
mvMabili, a quanti mali non
incorsero per vo- glia di
difendere gli oppressi
tra 7 popolo ? Non
fu- rono questi ètpulsi dal
Foro a pugni e calci,
e con ogni altra guisa
di vilipendj ? Vò
'siro era V affronto; e voi vel
comportaste nè cercaste
vendicarvene con., i'^g
darne i voti almeno, in
che solo vi
resta la libertà. e Ma
su prendete spirita
o miei cpmpopoUiri. Presene tino
i tribuni la legge
su la partizione
delle- campa- gne'; _e voi
la confermate co’
voti vostri, nè soffrite pur
voce chi reclami.
Voi non abbisognate
o tri- buni di esortazione a questi
opera ; voi posti
vi ci siete, e benissimo fate a
non desisterne. E se
la caparbietà', se là
insolenza de’ giovani
vi' si opponga, e rovesci le
urne in'' che i voti
raccolgonsi, o./i voti vi levino,
o scondita tal, altra cosa
nel' dar de sofì fragi
ntastrate -loro quanta
' il potere siasi
del tri- i bunato.
Che se non è
lecito degradar^ i constai,
sot* topOnete ai . giudizio i privati, de’ quali
si vatgonó per le
violenze ; e fate che
il popolo' voti
su loro come su
conculcatori delie leggi
sacre y e distruttori del dostro
magistrato. Or Jui
cosi dicendo, ta moltiludibe
nè fa cóm> mossa
tanto intimainente, e
manifestò tanta ira
contro gU oppositori, che,
copie ho divisato
dai princt[yio, non vofesa
memmen tollerarne t discorsi.
Quaodo sorgendo Icilio tribuno
dii^e : che eran
pur buoni *1 suggerimenti di Siccio,
e lan^mcnte lo encomiò,
tuttavia dimostrò cìie non
era cosa nè
giusta, nè sociale negar
la parola a chi vojeya
perorare in contrario, prìncipalmeote' di> acutendosi una
legge colia quale
far prevalece il
diritto alla Ibraa varrebboosi di
occasioni consitnili, qpelK
che non
avevano pensieri eqni
uè ginstì sul
popolo, a turbar la pUè
novamentp, e'rimovetae ciocché
le gio* /asse. E ciò
detto prescrivendo ^ il. giorno
seguente ai, contraddittori della legge, sciolse
1’ adunanza. I consoli
a4umildjili «oiuiglio privato
de^'pairìxj più energici
al» lora e più floridi, dimostrarono cbe
dovea leg^ impedirsi per
ogni modo prima' colie
parole, è poi colle opere,
se il popolo
non lasciasse persuadérsi.
AdunqH^ raccomandavano a
tutti che andassero
la ma^a al
poro ciascuno quanto più
poteva con amici
e cliènti:, e quindi che alcuni
ài stessero .ed
aspettassero intorno la
tributiti onde parlasi all’
adunanaa, ed altri in
più crttcchj tna>. versassero il
Foro, per intraccbiudere, il
popolo, é vie- tarne la riunione.
Parve questo U partito
migliore, e prima cbe il
di si chiarisse, erano molli
posò del Forò presi
gii 'da’ patriÉj. Vennero dopo
^ciò li' Iriboni
e li consoli, quando il
banditore invitò chiunque
voleva dir contro la
legger Presemaronsi perciò
molti onesti uomini, ma il
remore e il disordine
non lasciai ascoltarne
le voci. Imperocché qoal
déflli astanti esortava 'ed
animava i di* ^ cuori, e quale
gli urlava e'rigettavali nè la
lode'pre- yalèva de’fautori, né
lo strepito degli
avversar):* Sdegna* ronsi « .protestarono r consoli,
che il popolo
dava prìn* cipio alla
vioTenza col non
volere ascoltare : ma
repli- carono i triboni che avendo* essi
ascoltato ben per
cin- que anni, non laceano cosa
da odiarnéli, se non
voi- leaoo più* tollerare
trite contraddizioni, e
rant^de. Còsi ne andara
il più delia
giornata, quando il
popolo chiese di votare/
Allora i giovani patria)
credendo che più
non iCoise da sufferire, impedirono il
popolo che si
racco- gliesse in tribù, tolsero
a chi li portava
i vasi de' voti, e battendo e spiugendo,-
cacciarono quanti erano
a ciò deputati, nè $en
parlivauo. Alzarono le
grida i tribadi e géttaronsi nel _
méz^o di
essi : e questi cederono
e là» sciarono die ipvioiati
' passassero ovnnqne, ina
passare ovnnque nob Isàdavano
il popolo'xbe li
seguitava, o quello che tumultuando
e disordinandosi qua e là
per lo Foro moveasi
verso di loro.
Cosi divenne inutile
al popolo il soccorso
de’ tribuni : ed i patrizj
ila. vinsero, nè lasciarono
che si ammettesse
la legge. Le
famiglie che più sembrarono
coadjuvare i consoli furono
le tre de’ Posiumj, de’
Sempronj, de’ Clelj, cospicuissime
tutte per lo splendor
de’ natali,* e potenti assai per
amicizie; per ricchezze, e
riputazione, .come insigni per
le im- prese nella guèrra.
Si consente che
da questi -dipendè prìncipalmebte che
la legge non
si ammettesse. Nel giorno,
appresso i tribuni prendendo
i l>le* bei più rlguardevolT
discùssero ciocché fosse
da ‘fare: e tutti di
comun voto statuirono
di non citare
in giudizio i cposoli, ma i'
privati che erano
stati loro! minjstrij; la
punizione de* qudi
ecciterebbe come Siccio'
avvertiva meno diceria contro
del popolo. Adunque
cominciarono dih'geotemcnte a
discutere, quabti 'fossero da :
processare, qpal titolo Ressero
al giudizio « e qtialé.
ne sarebbe, '.e quanta la
pena. 1 più buj
di carattere consigliava
nò che si desse
a tutta un aria
di graveùa e di
terrore f in opposito i' più
miti voleano moderazione
e ^clemenza, é Siccio era,il'
capo di questi, e-
ve li persuase
; io djco colui che
perorò per la
partizion delie terre
diuonti del popolo. Parve
loro che si
trascùraasero- gli àitri patrizi, e si
menassero al popolo
i Clelj, i Posiumj, i Sempronj a subirne le
pene 'delle opere' fotte : *si
! accusassero,’ .di aver soverrbiato .ed
rnipedUo i tribuni dal
forc'uliiiiutre la deftsioQ
'della legger qa«ido
lè l^gt facre
-dei Senato-- e del popolo,hqn
tsoucedoM ad; alcuno, di
p/dl^i ri chiuso t ed
alfine sen venne
il tempo di
giudicare co- loro. I
cooteli ed i, patria]
(«rau questi i migliori)
a^^ sunti per consultatvisi -opinavano che
si dovesse con- cedere a! tribuni, la
punigione, affinché i|upedki Uoa causassero male
tpaggiore 1 e lasciare che i
^plebei furi-' Ixmdi versassero*
r ira loro sù
le.soÀanxe degli accusati affiprhè paesane
arendeita quanta ne
voleanp, V iirq>U-
cidnsero pér l’ avveAire prinoipalmente ché il danno negli
averi potrebbe risarcirai
a chi aosteuevalo. Or
Unto appunto àddivénne. Imperocché
condannati questi, scnaa- apptfrìre in
giudizio, il popolo
Inasprito se ne^raddolci,- ì tribuni pensarono
che fossè rendalo,
loro un moderato eivil potere
e sostegno: ed i'patrizj -restituirono ai-
con- dannati le lo'to ^stanze
reiHmendole, a prezzo eguale da
chi areale dal
pubblico comperate. Con
tali riparisi- dissiparono i mali
imminenti ^lla repubblica.
Dopo non molto
riprodussero i. tribuni
il di- scorso su la
legg^y àia l’avviso
delia- irmzioae repeatina
de’ucjidci sul Tusoolo
fu causa bastante
ad im^edirneli. ^ceeiuccliè precipitandosi li
Tuscolani in folta
a, Roma «'dicendo essere giunta
una artnaNi grande
di Equi, che av«a-
già devaatatq le
foro campagne, e ohe tra pochi
gieini ne espugnerebbero fin k
ciwà se
ben tosto non sibccorpeTauo
; iK Senato decretò
‘che v’ andassero entrambi U consolù
.ed i consoli, intimata
la leva, fchk* tnarono
tutti i dttsdini alle
anni. Ebbevi anche
allora del snsurro, oppibnendovisi i tribnni
alla iscrizion mili^ tare, né. volendo
die gl’ indocili
si pòm'ssei'O col
rigor delie leggi: ma
tutto io indarno.’ Imperocché -il Senato, raccoltosi, decretò
che uscissero alia
guerra i ' patck) coi loro
clienti : che quanti
voleano avér parie
nel aalvaro la patria,
avessero ancor parte
nelle sante cose
de’ numi, ma che niuna
più ve n’
avessero quei -che
lasciavano i consoli. Saputosi
il decreto del'Sen^o
nell’ adunanza del popolo
mólti si misero
spontaneamente all' impresa. Vi
si misero i p{ù
ingenui per la
verecondia 'di non soccorrere toha
città confederata,' diauuta
wmpre per r aderenza sua
con Roma : tra
questi fu Siceio
1’ accu- satore presso del
popolo degli usurpatori
delle 'pobblidie terre, -il
quale menava seco -ottocento uomini,
timi co» me -lui
di età superiore, nè
piè vincolati dalla
legge ^a combattere ma pieni della
riverenza del valentuomo pe’ grandi
benefizj ricevutine aveano
ripntato cosa non degna
di abbandonarlo, mentre
rinsciva egli* a fitr guerra. Òr
questa tra la
milizia d’ allora
fu di gran lunga
la' migliore per la perizia
iu combattere, Come per T'ardire
tra’ pericoli. Seguitarono anepr
altri T eaer- cito- vinti
dall’ aderenza e dalle istanze
de' seniori. - E il èri pur- k
milizia 'pronta «sempre a tnui {.pericoli
per amor deUe prede, che
si fan tra4e
arme.. Pertanto in poco
tempo ebbest un
armata numerosa, e .'fornita
splendidissimameute. .! nemici udite
che i Romani marcercbbero
contre ^ essi, ravviafóQO terso
la" patria r esercito : ma i
consoli avanzando,a .gran
>freilao per 6eno, e gl*
investirono improvvisi, mentre
scendevano a tor r acqua ; e più
volte a battaglia li
provocarono. XLIV. -Or attagiia
; e cavò le milizie dalle
trincee#. e comparti
fcavslieriie fanti per coorti,
ciascuno ne’luoghi' Convenienti
; alfine chiamando Siede gli
disse : iVbi combattiamo
da quindi o Succio, 1 nemicL Tw-
mentre noi ed
efsi ci risparmiamo
ap- parecchiandocip va di
fianco per- quella
via sul monte ove
è il.eaatpo nemico, e v assalùci
quei che ilo guardano, affinchè gli
altri che slan
contro’ noi ne teman
la perdita, e tentando
soccQnjerlo ci volgari
le spalle ; e cor/ie. avviene
^in una subita
ritirata, si affi. foUirt tutti
per una strada, e con
fUcilità li., conqui- diamo : o se qui
si rimangono ; lo
perdano il^ campo
^ loro. La milizia
che -lo presidia,
per quanto seti
con- cepisce, già non è.
per sè foige,
ma pan mettere
tutta la fiducia bliquamente
per quella slracbi, impossibile a salirsi di,
rutscosòr dei nemici:-
ma io vi
condurrò per vie non, visibili ad
essi; e ben mi
presagisco trovarle tali òhe
ci -guidino sul morite,
e sul campo. Inanimiìevi dunque i e speràlCk
Ciò detto s*
avviò Wk fa
selva, '>« eorsooe buoa tratto,
a’ imbattè con un 'cHtadioo, parti» tosi non
so d’ onde, e fattolo arrestare
;, sei prese a guida.
E colui rigirandoli gran
tempo attorno del
mon* te, li pose al
fine su di
nn colle rimpetto
degli aHog la battaglia
ebb^ un fine decisoli
Imperocché -Siccio co’
suoi, non Si
toifo - fu -presso degli
alloggiamenti, trovalbne'' il
danto verso di sè
derelitto dalla iniliiia, intenta tutta,
come n spetta» cólo dal
canto verio del
combattimento > vi diede
faci» lissimitmente assaltò, -e
sonrontpvvi : . e prorompendo
in grida
; corsele come dall’ alto
^ addosso. Sopraffatta
quella dal mate
impensato e concependo che
venisse non qne’ pochi
ma l' altro console
colle > sue schiere
si precipitò fuori delle
trincee, per la 'più.
gran parte senz’arme. Que’di
Siccio ne' uccisero 'qua
uà ne presero, e signori già
degli alloggiamenti, ripiombarono sa gli
altri nel piano.
Gli Equi, conoscinta- dalla foga e
dar damori la presa
degli alloggiamenti,’ e veduti
dopo non molti^.i nemici
correre loro alle
spalle, noo 'mostraùlno .già cnof 'generóso, ma dnordinadsi, ceecàrono scanapo per
varj sentieri. Ma iu questi
appunto fecesi strage copiosa, non avendo
i Romani lasciato d’
iusegnirli a trucIdarvegU fino
alla notte. Siccio
ne era l’uccisor-
più graude Ira Ilice
d’imprese bellissime: e quando
vide le cose. nemiche ornai
ridolte al suo
temiihe, egli già
fatta notte, tripudiando e
forte magnificandosene rimenò
la sua coorte agli
alloggiamenti espuguati. 1 suoi
npn sedo illesi ed
inviolati da’ mali
che ne temeyanó
„ ma 'em- piutisi tutti di gloria
vivissima, lo chiamavano padre
y salvatore, Dio, ed
ogni altro bel
nome, nè finivano
di felicitarlo con amplèssi
ed -altre esuberanze
di 'gioja. Intanto r altra . milizia romana
tornava al campo
tuo ‘ dall’ inseguire i nemici.
>, . . XLVIL Era già
la mezza notte, quando' Sfecio
ra- minando 1’ odio
suo 'bontro de’
(Gasoli che,lo oveano spedito alia
morte -, si
pose in ' animo, dì
tor loro la gloria
4el buon' successo.
Rivelato il cor
suo tra’ com- pagni, e sembratone a tatti
benissimp, anzi ammiran- done
Ognuno i concetti e F ardire,
.^li prese e fe’' prender le
armi, e prima uccise guanti
trovò 't|tnvi nomini,
cavalli, ed altri
animali degli Equi,
e pòi mise in fiamme
i padiglioni, pieni di arme, di
vesti, di apparecchi di guerra, e di
robbe moltissìmé, recàtevi
dalla [ureda tascoiaua
: al fine, dopo svanita
ogni cosa tra r incendio,
parti su I’
alba senza altro
che le arme, e rientrò con
marcia rapidissima in
Roma. Osservativisi questi appena, solleciti tra
le arme, tra ’b
sangue, tra i cantici della vittoria, eccovi grande
il concorso, e la smania di
visitarli, ed intenderne le
cose .operate., Ed essi,
andatine al- Foro, ve
le narrarono ài
tribuni: ed i tribuni, intimata
un’adunanza; comandarono loro
che vi favellassero. Era
già grandè la
moltitudine ; quando Siedo recatolesi
iunanzi narrò la.
vittoria \ e' le maniere del
combatlimentp j >e come
il campo nemico
era preso per ie '
forze sae>e degK
ottocento suoi, spediti
dal con- sole a morire, e come
infine le altre
• milizie combattute^ dai
-consoli ne ifurono
ridotte a fiìggjre, Chiedea
per« tanto che non
sapessero grado, se non a
luì dèlia vittoria dicendo
in' ultimo : noi veniamo
sMve le per- sone e le arme, nè
pattiamo coià ninna
grande o picciola delle
involate ài 'nemico.
Il' popolo -alf
udirli', impietosì, lagrìmò,
vedendo la età, considerando la fortezza
de’ valentuomini, e crucciandosi,
• e smabiandó so chi voluto
ne aveva privare
la patria.' Sorkène,
come era l’intento di
Siccio, l’odio di tutti
contro de’ con* soli. Il
Senato srésso'non soffrì
ciò di buon
animo, nè decretò per
essi il trionfo'
o altro pe’ fausti cornetti- menti. H popolo
poi veduto if
tempo della scelta
dei magistrati, nominò 'Siedo
tribuno ; conferendogli la di-
gnità della • qpale erà'
1’ arbitro. E tali
furono le cose più
rilevanti operate in
qòeiranno. '• 1 XLVllI.
Spurio Tarpeo, ed A11I9
(i^ Térmipio pr^ sero
il consolato per
l’ anno seguente
(0). Questi carezzarono di continuo
il popolo con
più medi, ccène col previo
decreto del Senato
su’ magistrati (3); imperocché “ * » * (i) Si
coniulti SigoDÌo su
Livio. Di là
si raccoglie cìie
forse dea Irggtt ti' jfterh. \ ' (a)
Anna di 'Roma 3ao.
secondo Catone.. ^o» secoado
Varrone, e av'. Cristo., . '
(3) Cioi
che si potessero
multare i magistrati arrogami
o clie trascendevano i
limili^dei loro poteri.
Vedi.g 5o^i rjueito
libro. Nondimeno vi è chi
crede che vi
si parli del
senatusconialto fallo
emanare dai consoli
perchè li tribuni
potessctp ìar approvare
dal DlOillGT, amo Iti. •
' » ' ' nsoli ultiini. Intanto
prima che* d*
di Sén Venisse 'di' quella causa.^
facendo l’uno e^l’ altro
d^li accusati calde brighe
e raccomandaziodi, essi, come
già consoli, assai speravano su
del $éQato ; • e teneano
per leggero., il pericolo, promettendo i seniori
di quel ceto ed
i giovani che ilon
lascerebbero far- tal
giudizio. Ma ì tribuni prevependo
tutto da lontabo,
e non valutando preghiere; non
minacce, non pericoli
; a{q>ena giunsene il tèmpo,' convocarono .il
popolo. Eransi già
riversati da’ campi in
città poveri e lavoranti
in gran numero
: or .-questi aggiunti
alla moltitudine interna
'empierono il Foro, e le
vie che vi
conduconp. popolo il progetto
sa la formasione
del.le leggi, eguali per
tatti ; 'argomeaio allora
di controTeraie, -come apparisce
dalle, coa'e pre- cedenti/'’ -• (r) Forae
Icilio tribuno dell’
anno precedente. .- ».r-XLIX.,
laQ^oUo.per il primo
il gÌRdluo' tU' Romi« lio,
.Sieda fattoti (^vaati
.accurà le> violenze
di lui nel •DO
consolato contro de’
tribuni, e le insidie contro
di aè e della sua
coorte nel suo
capitanato. E endo egli
voluto esimere' da
quella spe- dizione. Matxo .Jciiio, coetaneo ed
qmico'SUOf figlio di' uri
tale dellfi coorte^,
perchè qifesti non
ujttme. ài un tempo
col ^adre -à
morire ^ e che avendo
ottenuto da Aulo V srginio, zio suo, e luogotenente afiqrq delle
nfilizie di recarsi' ai
consoli^ chiederne quésta grazia
; i coruiyli ebbero cuore
di .coatraddirh, ed egli, fa ridotto
al conforto nùsero
delle lagrime ^ non restar^do à (iti
che dèplorare- la calamità,
delf amico : che
t antico pel quale
pregqvaf udito ciò,
se_n venni, 9 chiesto di
parlate protestò choj
avea pur grandi
gli obblighi agi inteAiessori
suoi, rna che. mai
grad^ebbe anche ottenutala una
concessione che levavagli
d' esser pietoso inverso del
sangue suo : nè
nidi si Hmove/ubbe dal padre
quanto più si
avyiava a. morte, certa
come tutti sapeane : anzi
ne andrebbe con
lui pey difen- derlo fin dove
potrebbe, e correrne, la sorte
medesi- ma, Or costui ridicendo
tali cose, niun fu
" che nou commiscrasse la
sorte di tali
uomini : ma quando
poi chiamati, comparvero per attestarla, (cilio ' padre, e figlio, e oarrarono
cioochè era. di loro;
non poterono i più del
popolo contenere le
lagrime. 'Perorò, se ne
difese Ròmilk>,'non ossequioso,
non pi^érole-ai tem« pi
; ma fastoso, e, grande
ne’ concetti ' suoi, coÉàe
non si avesse a dar
cónto del consolato. Adunque l’ira
ne crebbe* de’ cittadini, e rendati
arbhri di sentenziame, deliberarono ripercoterlo,' e condannarlo co’voti
di' tutte le tribù
; . talché la' condanna
fosse una ' multa di assi
dieci mila. Siccio,
'sembrami, risolvè ciò
non senza nna .provi
denza : ma perchè
scadesse il favór
de' patrizj su costui,
nè facessero broglio
nel darsene ih
voto, consi- derando che la
emenda era * in
danari e non ‘altro
; e perchè li plebei
fossero più pronti
a .pronunziarne la pena, non
dovendo spogliare l’àom
consolare di patria, nò
di yita. Condannato
Romilio fu dopo
pochi giorni condannato eziandio
Yeturio.' Anche la
multa sua- fa pecuniarìa, ma
suddupla di quella
del consolato. Adunque
non \ più governavano
misteriosa- mente, ma Con intento
manifesto ai vantaggi
del popolo. E priipa stabilirono
ne’comizj benturiati per
legge: che tutti- i magistrati
potessero punire quelli
i quedi ecce* devono o disordinavano i loro
poteri, perchè per ad- dietro non altri
che i consoli pòteano
far questo. Per (i)
Qoi di'cinqoa mila
aui. Ora ciò
sembra ragionevòle; per- chè esseodo Romilio
oppositore più che
Velario de’ tribooi, dovea sentirne danno
maggiore. Nondimeno Livio
afTerma che Romilio
fa condannalo per dieci
mila assi, e Velario per
(piiadjci mila ; il
che ha -fallo, interpreiare la
voce a/oUssi qui dire
minatamente, a voi, che vef. sapete, quanto ho sofferto
dal pòpolo non
per mie private
ingiusti- zie i ma per la
henevolenza mia verso
di voi; tuttavia ciò
ricordo per neceisità,
affinchè vediate che
io parlo per lo
migliore,, non per
adulare il popoìp, che
mi è eontrarioi Nè alcuno
si meravigli, -je- io
che fui d altro asviso
più volte, e quando fui
^console e prima, ora
mutato mi sia
sttbitamenté ;J nè
vogliate concepire che non
bene consigliassi allora,, o non bene mi
ritratti ah presente.
Io finché vidi, o padri,, superiore lo
.stato de nobili,
lo favorii, come
doveasi, non. curando quello dei
popolo. Ma poiché
fatto savio da’ mali
miei, vidi. a gran costo
che il poter
vostrq è minore dei
vostri voleri ; e che
piegaridovi alta necessild
più volle avete
lasdèUo manometter dal
popolo quelli che vi
sostetievimA, rdiora più,non tenni
gh antichi pensieri. E ben
vorrei che rion
fossero a me, nè al
collega mio succedute
le cose per
le tjtiali voi tutti
su noi'vi condolete.
Ma poiché finite
sono, tali nostre vieef^e,
e possiamo solo curar'
t avvenire, prov- vedendo
'che ailri non
soffran Iq stesso, v'i
esorto ad uno. xid uno I é
tutti insieme che órdinialé
m bene, almeno il presente:
àmpcrocchò'JèUcissimamente go-
vernasi una repubBlica, la qual
si èontempera alle sue
cose; quegli è il
consiglierò migliòre che
pòrge il parer suo
per cònio di
utile pubblico^ -non di
nirnid- xte private o furóri;
e benissimo lei. porgerà
su'tempi di poi chi
pigha esempio delle
cose JWhtre dalle
pas- sale. Noi., o padri, quante
sfolte si ■ disputò, si 'don- lése
tra'l Senato e tra ’l
popolò ; tante ne
àvemmo per alcun modo
la- peggio con morti,
«v» esilj, con sfingi' (T Uomini
insigni. Or quale
sciagura maggiore per una. repubblica che
le si tolgano
i cittadini mi- gliori, ò
senza Una cauia
? Pertanto io vi
esorto che questi ve ù
risparmiate; nè gettiate
i consoli presenti
a''màmfesti pericoli,
abbandonaisdoli poi tra
la tem- pesta, al pentimento.
Deh! che non
gettiate ai ‘peri- coli niim altro
qualunque, e sia pur
egli piccolissimo per la
repubblica. La principale
fierò delle cose
che vi' raccomando, è che
mandiate deputati,'qiusli nelle grecite
città d" Italia, e quali in
Alene ; perchè vi cerchìn
le leg'gi migliori, e più confacevoli
a’ nostri costumi, e Sce le
fìpot'i.iio: che Ibrnnti
questi, i con- soli
propongano al Senato, quali
debbansi 'scegliere per legitlatori
con Jfual potere,, per
quanto tempo, e cosp altrettali
come - egli le
crederà spedienti : fi- nalmente che lasciate
le discordie col
popolo, e di cofinetlervi
disgrafia a disgrazia,
principalmente per una legislazione, la quale
ha seoo, se tiòn
altro » uM apparqto 'almeno
di maestà. . - LU.
Seooodarooo i dpe consoli
ài parer di
Rqntiliò con più ragioni
premediut^ e, molti altri
xonsiglieri lo secoodaronof; tanto
cbè la plorftità'vi
^ deprsj^. E già già se-
ne slendeva ài
decreto, quando Slocio'.il^
trtbimot quegli cbe zyevz
accusalo iLomilio sorse,
e fattone ekn gio copioso, ne
laudò la mutazione, e cbe non
ayesse anteposto Je nimicizie
sue all’ util
comune,-,ma ^tto
ingennào^entè 9ÌÒ. eb’era
il bene. Peritai
meritp^ sog- giunse, IO gir
rendo qvesC ossequio, 0 ^ptesta ricono^ saenza : io
U> assolvo dalla
multa impostagli' nel giu- dizià, e dà pra
in poi, me ^
riconcilio : perocché ci ha
sopra^atlo ftel .bpne.
Egli disse } e già altri
tribuni presenti acconsenlironò. I^on
sostenne RomiUo- dà, pren- derne quel conlnccambio
; ma lodati i .tribuni
protestò cbe pagherebbe la
multa, essere questa
sacra ai numi: e non
fare ■ cosa né
giusta nè pia,
chi spoglia h numi di
quanto si dee
laro per legge
: e. coti £e$;9.
Steso il decreto dal
Senato, 'e confermato dal
popolo, ' furono eletti a
prendere le leggi
da* Greci Spurio
Posiiunio, Setvio. Sulpicio,
ed Aulo
MalHò (i). Furono,
questi a ' ., " ^ „ (I) In
Lirio si legge
PuM- Sulpicio .in
laog'o di Servio
Salpido come scrivesi '.in
Dionigi. Servio Sulpicio
fu eOosdle l'anno
193, ma Publio non
si trova cbe
'mai lo fosso.
Tanto Liiio quanto
Dionigi numeraao Aulo Manlio
Ua i depùiati, cd.
Aulo Maoliq seooado pubbliche spese
forn^ di triremi- e > di ogni
arredo ; quanto si
convenisse ialia maestà
' dell' impéno ; e cosi l’anno
-spirò. '' ‘ ' LUI.
Nella olimpiade ottantesima
seconda, quando Lieo Tessalo'
di Larissa vinse
allo stadio, e Cherofiino
era l’arconte di
Atene, compiutosi 1’ anno,trecent«imo dalla fondasionb
di Roma, cretti
consoli ' Publio Orazio, e Sesto Qaintilip
j[i), proruppe nella ^città up
morbo coptagioso, il
inaggioi% di quanti
ue erano ricordatL Vi
'perirono quasi tutti
i sèrvi, e circa .Una metà
di cittadini. Non. piò i
medici avean cuore
d( curare gl’ in- iermi, non i domestici, non gli
amici di porgere
loro le cose necessarie
; perocché volendo
'assistere gU -altri còl
tatto e col commercio
ne coutr^evan i malu
Donde è che piò famiglie
si^ desolarono per, deficiènza di
assi- stenti. Non era la
minima delle sciagure*
quella so la esportazion de- cadaveri,
^ certo era causa'.cliè
il morbo non venisse
meno subitamente. Su le prime
per la ve- recondia, e la copia
de’ funebri apparecchi
bruciavano o seppellivano i
-morti : ma poi
curando poco la
vere- condia, o non avendo ciocché
bisognava, ne gettavano
molti nelle chiaviche, e più ancora
nella corrente del fiume.
nd’ è che spinti
ai scogli e alle
arene delle rive, songeane danno
gravissimo ; perchè spiccavasene Oiooipi fu
contotq r aono s8o i
laddove io Livio
leguaai .ia quel- l’anno per coufole
G. Manlio. S;
dunque ì deputali erano,
còm'a veri$imile, tuui uomini
co^olari, il tèsto- di Dionigi
in questi -lue- gbi trovasi
più eastigato che
quello di LCvio.
t .-(t) Aono di
Roma 3oi secondo
Catone,, 3o3. secondo
Varrone, e 45» av. Crisio.
"‘uBao x; ' 297 un -odor fetidissimo,
il quf^e col
corso dé’ reali causava subite mutezioni
ai corpi anche
saqi. Nè l’acqua
portatq dal dame era
più buona da
beveme si per
1’ odor tri» sto,
ri per le
ree digestioni a designarvi
i consoli, e designatili ',
propoiTebbero' io* sieme con
questi ai padri
la scelta de’
legislatori. ^ Ao-
cordativisi i tribuni, essi intimarono
-i- comizj prima assai
deir usato, e destinaieno consoli
Appio Clandio, 0 Tito
'Genuzio. Dopo questo
.omettendo, quasi già fòsser di
altri, .tutte -li cure
{fùbliliche, più non
datano ascolto ai tribuni
', e solo miravano
a sottrarsi di- briga nel
resto delia loro
raagistratnra. Occorse intanto
cbo Mencaio l’ iroò de’
consoli- s’ ìnfernuMe
di juna' lunga malattia, e vi fu
chi disSe che
il languore sopravvenu- togli per -l’ affanno
e per 1’ abbattimento,
la rendeva in* sanabile.
E' Séstio sol
titolo che egli
non "potea’ solo
per . . 1, a()9 aè fiir
aiedle,' respingeva 4e istanzt
de’ tribuni,^ e voleva che si
vbigessero a miO^i niagislrati.
E questi non avendo altoo
lYiodó, furono astretti
in privato, e nelle
adunanze pufablicbe dirigersi ad
Appio, e suo collega, quantun>
qùe non
avessero ancora preso
il coniando. Or
gli ri- dussero alQue questi
uomini, empiendoli' di
grande spe> ranza di
onori e, di
potere, se prendessero a*” cuore
gli interessi del'popdfo. Imperocché -Appio iu
invaso dal- 1’ ambizione
di avere una
qualche nuova magistratura, di fondare
leggi di cònCordia
e di pace", e di
far che tulli estimassero
'che la patria
sola- comandava^«u‘ citu* dini.
Ornato però di
una' grande magistratura non
vi à contenne; ma
inebbriàtone da’ poteri sublimi,^^tr^orse ai furori
di perpetuarsela, e per poco
non giuose alla tirannide ; cqme
spbirò ne’ suoi tempi. - LV.‘
Allora dunque cosi
pensaodota con cuore
-buono, '6no a {lersuademe il.* collega
egl’ invitato più' volte dai tribupi
alle adunanae, vi 'si
(^dusSe, e 'tenpevi molti ed umani
ragionamenti. I quali rigiravansi . ip t^eslo che
piaceva a hd come
al collega suo',
prÌTtcipalmeiUe che si destinassér
le leggi, e si
chetassero . le discara die
civili su diritti
; e diceano ciò ' palesissimàmeute ; come
pure che ''essi
', perchè non
entrati al comando, non
aveano 'facoltà di
nominare i cosUtutori' delle
leggp ‘ che noH
si opporrebbero per '
mòdo 'alcuno a Menenio’
console e suo ^collega
se dava esecuzione
al decreto del- Senato, anzi’ che
do - coadj'uverebbero e ringràzierebbyo ; che'
se Menenio e il
compiano re- ylica e protesta- ( Soggiungevano), che trovandoci
noi designati per consoli
f Tton ^uo ' nominare
altre' magislrature lé quali
prendano podestà pari' alla
consola- re ; noi dal canto,
nostro non saremo
V ostacolo della operazione : perchè
sporttanoi cederemo la
nostra so- prastanza, se cosi •
piace in
Senato, ai nuovi
che sce- glieransi in . ^ogo
de' consoli. Elocomiava
it popolo' la buona
volonlà di tali
.uomini ; e spiolMÌ, tutti
ia /olla nella curht, Sesto
( non poiendoviai tcovare
Menenjo per la iufern^ità
) costretto a convocare egli
solo il Se- nato, propose la
deliberazione su le.
leggi. Ben si
disputò qninci e quindi copiosaiaeute da. chi lodava l’essere coiuanihto dalle
leggi, e da chi chiedeva
che si rite- nessero le* costumanze
paterne: ma prevale
il, parere de’ consoli designati
propostovi da Appio
Claudio, in- terrogatone per
il pritpo : vuol
dire cAe si
icegliessero dieci i più cospicui
tra padri : che
forrtandastero su tutta la
repubblica per un
anno dal giorno
deità ele- zione'col potere' che 'ci aveatip
i consoli', e primari re : e che-.fiotànto che
governavanp i decemviri .ces- sasse ogni altra
.màgislralura: che qqesti
proponessero le leggi più
utili alla ivpubblica, scegliendone le mi-
gliori da quelle riportate
pe' deputali dalla
Grecia, e dalle usante.
della patria; che
le leggi scritte
da de- cemviri, approvale • che
fissero dal Senato
e ratificate dal popolo,, valessero
per tutto f avvenire;
e che i magistrati che
si creerebbero a norma
di queste leg- gi, discutesteror a rtórma
appunto di esso
i, conti atti d'e' privali, e pròvyedessero al
pubblico. - .,LYL. Preso questo
decreto ne anderonò
i tribuni al/ adunanza, e
letto velo; assai
vi encomiarono i padri, ed
Appio che lo
aveva proposto. Giunto
poscia il tempo :^
. ‘ 3oi de’ comizj, i
iribun! convocatovi il
popolo, fecero ve« Dirvi i censoU/ designiti perchè
g[li osservà^ro le
pro- messe: e questi
presentatisi ; deposero il
consolato. Non finiva il
popolo di encomiarli
e lodarli: fattosi quindi a dare
il voto pe’
legislatori scelse a tal grado
-ipiestl due per i 'primi.
Imperocché, ne’ comizj
per centurie furono eletti
legislatori Appio (gaudio,
e>Tito Genuzio^ li due' che
doveano èsser consoli
l’anno seguente :* Pu«
blio 'Sestiò., «insqle ^ dell’ anno corrente,
li tre Publio Postnmió, Cervio Sulpicio, ed
-Aulo Mallio -, . r qusfli aveano riportate
le leggi da’
Greci; Romilio il
console dell’ anno antecedente
(i) il quale
condannato peo le accuse^
di' Sfócio dal
popolo, fu poi sentito
il primo a dir
senlèDEe fautrici ^ cemVirato • f
LVtll- Dettesi quinci
0 quindi più cose»' vinse' final- tnente.il partito
di chi consigliava
che sì tenesse
ancorsi il decemvirato su -là repubblica;
peroccbè' compilata in picciolo,t$mpo la
legislazione non pareva
La .tutto ulti- osata.,
e -pareva ancora ;che
bisognasse un magistrato assoluto per
.obbligare, volessero 0 no, tutti,
a quanta ne èpa già -stata
decretata. Ma ciò-,cbe
gl’. indusse più che tutto,
a preeleggere i dieci. fu,
rinlenlo di spegnere- il
tribunato, ciocché bramavano sommanaenie.
''Tali fa- tono i risaltati
delle - pùbbliche « cousuUaziom
: ma. in privato i primi
del Senato disegnavano
procurare per sè quel
magistrato Sui timore
che intrqduceodovisi uo- mini turbolenti nen
cagionassero grandi sciagure.
Il po* polo ricevè
con diletto, e ratificò Con
pieno trasporto, dandone -il
voto, le sentenze -dej
Senato. . I dieci pre- fissero
il tempo de’.comiàj-,
e li più provetti
e più ri- spettabili de’ patrizi
ambirono quel' magistrato,
b* fptì molto ebeomiato
da tutti JVppio, il
pruno ^allora del decemvirato, * ed il
popoip vo)ea .couifermarvelo,- -come se
niou altro meglip
di lui -lo remerebbe.
Egli- fingea su le
prime di escusarsene
e 'cbiodeva ebe Ip
esimessero da nn
incarico, pieno di travagli
e d* invidia : ma poi
Btimolandovelo tutti; fecesi
a chiederlo nottamenle ; anzi
dolendosi dei migliori
' de’ competitori, come di
animo non buono
verso lui per
4a ' invidia ; favori
gli amici suoi palesissimamente. Egli
dunque nc’comizj per centurie
fu crealo per la seconda
volta datore di
leggi: e eoa esso'lai furono
creati' Quinto Fabio detto
Vibo^ lado, già 'per 'tre
volte console; ed- irreprensibile 6no a quel
tempo in ogni
bel costume : e ira
gli altri pa-^ trii)
diletti ^uoi; Mai‘co' Cornelio, Marco
Sergio, Lucio MinuCio, Tito Antonio, e Manio Rabulejo, .uomiut non molto
chiari : de’ plebei
poi Quinto Poetelio, Ce- sbne Duellio, e Spurio Oppio.
Aveaci Appio assunti por
questi per adulare
il popolo coi
dire che', 1’
equità voleva, • «he, stabilendosi
una magistratura uòica
su tutte le -còse
; aves^ro parie in
essa anche i plebei. Applaudito in
unte' queste cose, . e ‘parendone il mi-
gliore dei re, e de’ soprastand
annuali ; prese la
magi.i stratura per l’ anno
che seguiva. Or
questo e non altro ' è quanto si
operò degno di
ricordauza nel primo
de- cemvirato presso de’ Romani.
' ^ LtX. Presero nell' anno
^guente -la podestà
suprema i dieci con Appio
alle* idi di maggio.
Allora i mesi legolavausi colla
Iona, e cadeva in quelle'
idi appunto il plenilooio.
Or prima legandosi
tra sagrifizl, arcani alla plebe, convennero di
non contrariarsi mai
fra loro, 'di ratificare
tutti quanto ciascuno
giùdicherebbe: di ritenersi la
magistratura ih vìta\
nè Jasciare che altri
vi sottentrasse : di
aventi' tutti onore
e potere eguali : di ricorrere
di rarii, e per necessità
sola, ai. . 3o5 i>oti del
Senato e del popòlo, e di
ultimare per lo più
le cose colC
autorità propria. Poi
jrenuto il gio;^o da
pigliare il comando, ( è questo giorno
sacro ai Ro- mani, e guardansi tutti
di ascoltare o vedere
cose non liete ) ^ fatto
prima sagrifìzio agl’ Iddìi
secondo il rito, uscirono ben
tosto i. dieci
su la mattina
con tutti i di- stintivi di nn
regio potere (i).
Come il popolo
vide, che non osservavano
più |e mauiere
popolari e, modeste di preminenza, e che non
avvicendavan fra loro
come prima i segni del
comando supremo; assai
ne decadde nell’ aspetto
e nell’animo. Temè le
scuri messe tra’ fasci portati da
dodici licori dinanzi
a ciascuno, i quali fa- cean
largo, dando de’ colpi
come prima ai
tempo dei re. Era
stator questo costume
abolito ben tosto. dopo
la espulsione dei ré
da Publio Valerio, uomo
popolare, quando ne succedette
al comando. E paréndo
essere stato autóre di
ottima cosa; tutti
i consoli posteriore fe> cero
come lui, nè
più misero tra’
fasci le scuri,
se non quando marciavano,
all’ armata, o per altro
intento usci- vano da Roma’.
Or quando portavano
guerra agii esteri, quando visitavano
i sudditi, assuiueans le
scuri ; .perchè r aspetto terribile
di esse-, . come dirette
contro de’ ne- mici e de’ servi, si
rendeva mec grave
pe’ cittadini. LX. Veduto
ciò, che riputavasi
il segnate di
nn re- gno, si temè, come
ho detto, moltissimo, credendosi
pòduta la libertà, e creati dieci
per un solo
monarca. Con. tal modo
sbalordirono i dieci la
moltitudine : e (f) Anòo
di Roma 394
secondo Catone, 3g6
secondo Varrous, e 448 ar.
CrJslo. ' '1 PlOStGt, Itipu) in. '
- . * IO fermi, cbe avrebbero a dominare
per 1’ avvenire
col terrore ; ciascuno fecesi
Un seguilo dì
^oyanl i più le- Dterarj, e opporiuui per
esso. Ben era da aspettare, o sperare cbe i
più de’
poveri e sciaurati si
dimostrassero fautori della tirannide
; anteponendo l’ utile
proprio al pubblico ; ma
non era da
aspettare, nè da sperare, e certo egli
fu meravigliosissimo^ che
molli patrizj potendo grandeggiare per
'sestauze e per, sangue soffrissero
di opprimere co’ decemviri
la liberi^- della
patria. ' Costoro datisi a tutti
i piaceri, quanti
sottopongono 1’ uomo, comandavano superbissitnamente : e legislatori insieme
e giudici, tcncano per niente
il Senato ed
il popolo, ed uccidevano
e spogliavano, conculcando
ogni diritto. E perchè
azioni illegittime e biasimevoli
sembrassero noux indegne, anzi
operale per giiislizia;
nomsi accingevano a farle se
non previo esame,
ed'uu giudizio. Erano gli
accusatori inandaii da* fondatori
stessi delta tirannide, creali i giudici
dal ceto de’ loro
amici; laDlochè solcano questi in
coniraccaràbio sentenziarne per
compiacerli. Molte cause però',
nè di poco
rilievo, le defìnivano
i dieci per sesiessi.
Cosi quelli che
erano per essere
de- fraudali del loro diritto, non
trovando altro scampo, conducevansi necessariamente a renderseli
amici. Ood’ è che
col volgere del
tempo videsi la
parte corrotta ed inferma
maggiore della innocente.
Imperocché coloro che v'
erano concul^cati da’
decemviri sdegnavano di ri-
manervi, e si ritiravano «nelle
campagne, Bspettandovi il
tempo de comizj, ^quasi coloro
finito 1’ apno
fossèro per deporre il
comando, ed eleggete nuovi
^nagislrali. Appio intanto £ i colleghi
^crisscA) le. leggi
che rimanevano in
altre due tavole,
e le aulroao alle
prime. In queste eravt
traile altre lajegge,
che non concodeàsi a^atrizj il
matrimonio co’ plebei: e ciò
non per altro, io t j * ■, !• OLGENDO
la olimpiade ottantesipia
' terza nella quale Grisoue
Imero vinse allo
stadio mentre Filisco era
1 arconte di Atene, i Romani annientarono
il de- cemvirato il quale
governava già da
tre anni la repub-
blica. Ora, io tenterò
descrivere dalle origini
per qual modo, quali nomini, con
i|uali cause e pretesti, se- guendo la libertà, si
lanciassero a schiantare una
si- gnoria che ovea già
profonde le radici
; perciocché ne reputo la
cognizione bella e necessaria
principalmente al Glosofo die
contempla, ed all’ uomo
dr stato che amministra, per non
dire a tutti. E certo
.molti non si contentano
^ conoscere dalia storia, solamente come gli
Ateniesi ed i Lacedemoni
vinsero, per esempio', la ^ guerra
col Persiano, aiTrontandosi in
due battaglie na- vali ed
nna campale contro
- un barbaro che
area tre milioni di
nomini, essi che 'aveano
appena cento dieci mila
nomini insieme cogli
alleali; ma vogliono' por
co», noscere dalla storia
i luoghi ove occorsero, .ed kiten» dere
le cagioni per lè quali
si compiecono le
meravi- gliose ed
incredibili gesta, come apprendere
quali fos- sero i duci delle
armate greche e persiane, nè essere, per
cosi dire, defraudati, di cosa
niuna fatta ne’
com- battimenti. Imperocché
dilettasi la mente
dell’ nomo por*, tata quasi
per mano dai
racconti alle opere, e come
a vederle dopo ascoltatele;
E quando gli uomini
odono le civili vicende, non
appagansi di udire
la somma ed il
termine degli ’ affari, per
esempio., come gli.
Ateniesi permettessero el^e gli
Spartani demolissero le
mura, conquassassero le navi
di Atene, ponessero guarnigionè nella Iqr
cittadella è vi trasmutassero
il governo del
po- polo in quello de’pochi^
senza nemmeno combattere
(.i); ma. bentosto dimandano
quali erano le
angustie di 'quella città,
onde incorse in
tali orrori è miserie, quali e di chi
li discorsi che ve 1’
acchetarono, e quanto seguila
tali cose. Dilettarsi
poi della contemplazione totale
di quanto ■concerne gli
affari è cQmifuq a tutti,.
come agli uomini, pubblici, tra’ quali
colloco àncora i fUosofì, quelli almeno
che pongono la
filosofìa non già
nelle (i) Occorsero tali
fatti oelf''aoao Hltimo
detta goeri'a del
Pelo- poaneso ; conws pu&
vedersi io Senofoute
nel libro secoado
lAasx- nel lib. -i3
di Di odoro, t nel
LitandrQ di Plutarco.,
I parole, ma nelf esercizio
delle opere belle.
Cd oltre questo diletto,
ne segue, > no, e riducendd' quanti ner
credevano IntorTerablle il giogo
; a lasciare colle -mogli
e co’ figli lo^
patria, ed alloggiarsi nelle città
vicine, ricevutivi da’Lallni
in forza de*'- parentadi, e
dagli Eroici per
essere stati di
fresco creati- cittadini da' Romani. DI
guisa teaoo traversarne
'le opere ; nè
vi rimasero nemmeno gli
asciiitl al Sentito
I qu^li doveano per
necessità star pronti pe’
decemviri ; ma l più
trasferendosi con quanto aveano
in famiglia; dimoravano,
abbandonate lo case, per
le carrqiagne. Non
dispiaceano gli allontanamenti de’ grandi
personaggi agli amatori
del decemvirato per più
cause, e principalmente, perchè
I più 'giovani di questi erano
divenuti don che
scellerati, molto insoleati, né
poteauo tollerare. 1’
aspetto di qtielll, innanzi dei quali
doveano arrossirsi della
loro impudenza. III. Derelitta
cosi la città
dal fior degli
uomiai (^), e cadùlavi ogni
libertà ; gli Equi
già vinti da'
Romani, cogliendo la Occasion
propizia di combatterli, di con» (i)
Anuo di Roma
3o5 Mcondo Caioua,
ìof ascondo Vartoae, c av. Cristo. Digitized by
Googie 3i2 delle antichità’
romane traecambiarlt delle iogiorie
sostennlene, e riveodicarsi quanto
perduto ci aveano, apparecchiaronsi all’ armi, e marciarono con
grandi eserciti contro
di lei', malconcia pel
comando de’ pochi
nè idonea a tener
fronte, nè a concordarsi, nè a'
cura fecesi innanzi e disse
che portavasi a -Roma,
la guerra, da
due parti, quinci dagli
Equ^, e quindi da’ Sabini
; tenendovi un discorso ariifiziosissimo*, indirilto a far
votare la leva delle
milizie e condurle imipzntioeDtc
in campagna, 3i4 DELLE
Antichità’ romane non peùnetteodo
T «Ifare che » indagiasse.
Or lui cosi dicendo
insorse Lucio Valerio,
soprannominato Polito, uomo che
grande tenessi |>e' grandi genitori:
certamente era stalo padre
di lui più,
importano, conte sarebbe il
buon ordine della
moltitudine, e che la cosa
stessa apparisca utile
a tutti, rimovendo dalla
città la ingiustizia
e la soverchieria che
vi do- mina, e rendendo l’
antica forma al
governo; in tal caso
sbattuti quelli che
ora inorgogliano, e gettate
le armi,
verranno a noi tra
non molto per
saldarne le ingiurie, e trattare
la pace : e noi,
ciocché i savj tutti desiderano, potrein finir
senza le armi, la guerra con essi.
Or ciò considerando,
poiché sì grave tra
le mura è la
turbolenza ; io giudico
che debbasi per ora
sospendere ogìti cura
di guerra, e concedere a chi vuole
di proporre mezzi
di concordia, e buon ordine interno.
Noi chiamati da
queste magistrato non abbiamo
potuto già prima
di essere addotti
a questa guerra, consultare su
lo stato^ de’
nostri pub- blici affari, e conoscere
se scóncio alcuno
ci avesse. Ed ora
assai riprensibile sarebbe
chi, lasciata la occasione, •cercasse di
altro discorrere : e niuno
dir può con sicurezza
che trascurato questo
tempo, come Digitized by
Google 3ao DELLE Antichità’
romane men congruo, un
altro ne avremo
pià acconcio. Anzi se
alcuno vuol concludere
V avvenire dal passato
; trascorrerà gran tempo
senza che possiamo
qui riu- nirci per deliberare. IX.' Io
prego te, Appio, e voi tutti
presidenti di Honta, voi che
dovete provvedere non al bene
vostro privato, ma a quello Ai
tutti, a non corucciarvi, se
io parlo
secondo la verità, non
secondo il genio
vo- stro. Voi dovete por
mente, che io parlo, non
per malignare, o vilipendere il
vostro magistrtUo; ma per
additare, se pur vi è,
una via
di salvare, e diri- gere la repubblica, dopo mostratine
i /lutti da’ quali è sbattuta. Quanti
han cara la
patria, debbono forse qui
tutti discorrere dell’
util comune, ma io
princi- palmente. Imperocché
io debbo per
la onorificenza fattami dar
principia ad opinare
: e saria vergogna e
stoltezza grande, se
io che sorgo
il primo non
di- cessi le cose che
prime son da
correggere : Appresso
trovandomi io zio
paterno di Appio
il capo decem- viro,
accade che più
di tutti mi
consolo, o rattristomi
secondo che bene o
non bene
governano la repub- blica. Aggiungi che ho io
ricevuto da’ maggiori
miei la civil consuetudine
di curare anzi
l' utile -pubblico che
il mio, senza guartlare
a privati pericoli ; nè
io, la tradirò io
questa civil consuetudine, nè profanerò le
gesta di que'
valentuomini. Orjt, che il
governo presente male a .noi
si conviene anzi
che incomoda, direi quasi
tutti ; siane questo
l’ argomento gravissi- mo, che quanti
trattavano le cose
civili ( nè già
po- tete voi soli ignorarlo
) ràiransi ogni giorno
da Ho - Digilized by
Google LIBRO XI. 3ai ma,
lasciando le paterne
case deserte. Qual
de' plebei più rìguardevoli trasferisce
la propria sede
colle mo- gli e co' figli
nelle città più
vicine, e quale nelle
campagne più lontane
da Roma : E molti
de' patrizj nemmen essi
in città se
ne vivono, ma
li più si di-
morano per le campagne.
Ma che giova
parlare degli altri j quando
appena in città
se ne stanno
alcuni pochi senatori uniti
a voi per amicizia
o per sangue, e cercan gli
altri la solitudine
più che la
patria? E quando voi
v'aveste il bisogno
di adunche il
Senato, tornarono invitati ad uno ad
uno dalle campagne que'
dessi che solcano
insieme co' magistrati
guardare la patria, nè
mancare mai da
affare niuno della
re- pubblica. Or tdie pensate
voi che gli
uomini ahban- donande la
patria fugano i beni
o li mali ? certo che
i mali. E t essere abbandonata
da plebei, de- relitta da' pevrizii
senza incontri di
guerra, di pesti- lenze, e
di altri
disastri mandati dal
deh,, ella è sciagitra questa
non seconda a niuna
per una città, massimamente per
Roma, la quale abbisogna
di molle milizie, tutte sue ;
se vuoi
dominare stabil- mente su' vicini. X.
Folete udir voi le cagioni
che riducono i po- poli ad
abbandonare i templi e le
tombe degli avi, e lasciar diserti
i poderi e le case
paterne' ^ e cre- dere ogni
altra terra più
necessaria della patria
? Certamente tali cose
non avvengono^ senza
cagioni, ed io sporrovele
queste, non occulterowele. Molte Appio sono
le accuse e di
molti sul vostro
magistrato : vere o false
che siano, noi cerco
per ora : certo
che vi si
fatino. Ninno, se non
del vostro se- guito j trova il
ben suo nell' orditi
presente. I ^andi, figli pur
essi di grandi, à quali spettavano
i sacer- dozj, le magistrature, e
gli altri onori
goduti dai loro padri, fremono di
essere da voi
respinti e tolti dalle dignità
degli antenati. Quei
del celo di
mezzo che cercati la
calma del vivere, v imputano lo
spo- glio ingiusto de beni
loro, lamentano il disonore
che fate alle lor
mogli, la effrenatezza
verso le loro figliuole nubili,
ed altri oltraggi
molti e gravi: e la parte
più. bassa del
popolo, non più arbitra
per voi de' voti e
delle elezioni, non
più chiamata alle
a4u- nanze, nè, partecipe di alcuna
civile uguaglianza, ve ne maledice
appunto per questo, e tirannico chiama il
vostro governo. XI. Ora
come voi correggerete
questi abusi, come la
lingua, incolpati che ne
siete, accheterete del po- polo ? questo è ciò, che
rimanemi a dire. Facciane il
Senato previamente il
decreto : fate che
il popolo deliberi, se
torni a lui meglio
ripristinare i consoli, i
tribuni e gli altri
magistrali della patria, o conti- nuare r ordin presente
: se tutti i Romani
avran caro il comando
de' pochi, e dinoteran co’
lor voti, che ve lo
abbiate voi questo
comando ; voi terrete
un magistrato legittimo, non violento.
Ma se vorranno di
nuovo i consoli, di
nuovo gli altri
mostrati ; voi sarete decaduti
per legge, nò più
crediate dominare, se ìton
da tiranni su
gli eguali, non prendendo
gli ottimati il comando, se
non da' cittadini
spontanei. E nel far questo, o u4ppio, tu dei
dar principio, c tu disciogliere
un comando da te stahilUo, utile un tempo, ed
ora noceyole. E m’ odi
ciocché ne guada- gni, se mi
ti arrendi, se
ne deponi codesto
malve- liuto comando. Se
li tuoi colleghi
a ciò s’ indurranno';
ciascwi dirà che
buoni fatti su
/’ esempio tuo
vi si indussero t laddove
se questi si
ostinano a tenere un dominio
illegittimo ; sarai tu
benedetto che volesti, altnen solo, compiere il
giusto ; mentre i contumaci saran con
infamia e danno gravissimo
degracUtti. Che se mai (
lo che
potria ben essere
) fermato v' aveste infra
voi secreti trattali
e parole, pigliandovi i Dei
per mallevadori, fa pur
conto che siasi
empietadv osservarli, e vera
pietà vilipenderli, come contrarf ai
cittadini, e alla patria. Imperocché
sogliono i numi esser presi
mallevadori su gli
accordi buoni e giusti; non
su gV ingiusti
e vergognosi. XII. Che se
tu esiti lasciare
il comando per
timor de' nemici, sicché non
ten venga pericolo, nè
sii stretto a dar conto
delle opete tue ;
certo non è ra- gionevole questo timore.
Non è sì picciolo, non
sì sconoscente il Romano
da ricordare i tuoi
sbagli, c scortlarc i tuoi benefizj
: ma contrapponendo i beni presenti ai
mali passati giudicherà
degni questi di perdono, c quelli di
lode. Potrai tu
rappresentare al popolo' le
tante belle tue
gesta innanzi del
Decem- virato, ed in .vista
di queste ottenerne
ajuto e sal- vezza, e
difenderti in più
modi dalle accuse, come ad esempio, che
non eri tu
che abusavi, ma un
altro senza tua saputa;
che non bastavi
a reprimerlo come tuo pari:
o che eri necessitato
a soffrire per areme altra
cosa più utile.
Ma troppo lungo
sarebbe il di- scorso, se numerare
volessi tutti i modi
delle difese. Coloro che
non han discolpa
niuna giusta, nè plau- sibile, pur confessando
il delitto, e raccomandan- dosi,
ammolliscono il cuor
degli offesi, con allegare il
poco giudizio degli
anni, la pravità de' tompagnì,
la vastità del
comando, o la sorte
che travia ne
cal- coli loro tutti i mortali.
Or tu se
deponi il comando, tu
n avrai, lo prometto,
amnistia generale de’
man- camenti, e riconciliazione
col popolo, decorosa in mezzo
de' mali. XIII. Ma io temo, che
il pericolo siati
pretesto non vero a non
lasciare il comando
] essendo a mille riuscito di
rinunciar la tirannide, nè
scontrarne al- cun danno da
cittadini. Le cagioni
non dubbie sono un
ambizione vana che
cerca le apparenze
di una gloria vera, una
propensione pe' rei
piaceri, quali il vivere concedegli
de’ tiranni. Ma
se pià che
andar dietro alte immagini, e alle ombre
degli onori, e de’ piaceri, ne
vuoi tu ciò
che è solido; rendi
alla pa- tria la tua
preminenza, ricevi le dignità
dagli eguali tuoi,
acquistati la emulazione
de’ posteri, e lascia loro in
luogo del mortala
tuo corpo, sempiterna la fama.
Questi sono gli
onori fondati e veri, questi gt indelebili
e cari nè rincrescevoli
mai. Pasci V animo ti.'o
de’ beni della patria:
già non parrai
di aver- glìt.^e dato
la menorna parte,
liberandola da signo- ria ce'ti dura.
Prendi esempio dagli
antenati, consi- dera chs^
niun d’ essi mise
affetto ad un
potere di- Digitized by
Google LiBBO XI. 3a5 spotico
^ nè fu lo
schiavo vilissimo de
piaceri del corpo ; eppur
furono onorati in
vita, e morti sono celebrati da
posteri ; giacché tutti
fan loro testùno- niama, che furon
custodi fidissimi delC
aristocrazia ^ che Roma
fondò, dopo espulsi i monarchi.
Non di- menticare i detti
^ non i fatti tuoi
gloriosi; perciocché belle pur
furono le prime
tue mosse nella
repubblicUf e pur grandi per la speranza
^ che davano della
tua virtù. Deh ! che
siano consentanee ancor
le altre tue opere.
Deh ! ritorna a quella
indole tua Jlppio
fi- gliuolo : sii nel genio
del governo un
ottimate, non un tiranno. Fuggi
quelli, che adulando, ti parlano, quelli pe'
quali, se’ lungi dalle
utili istituzioni, er- rante
dal diritto sentiero,
già’ wotr È rzRtstitiLE, CHS AtTSt
SIA DI SSL
HVOrO SXWDUTO BDOIfO, DA CHI già’
FSSSIXO lo RStfDk. Xiy.
Quante volte dir
ti volli tali
cose da solo a
solo j per instruirviti
dove le ignoravi, o per ammo- nirtene, dove vi
mancavi! Nè già
venni, per ciò
sola una volta in
tua casa, ma i
servi tuoi,me ne
riman- darono, e con dire, che non
avevi tu ozio
da inti'at- tenerd con
un tuo congiunto
; ma clu: avevi
a fare cose più necessarie
; seppur v è cosa più
necessaria della pietà verso
i suoi. Forse, i tuoi
servi, ciò co- noscendo y mi vietarono
di per sé
stessi t entrata, e non per
tuo comando. E ben
io vorrei, che
così fosse. Certamente questo
mi ridusse a parlarti
di ciò. che io
volea nel Senato, non
avendolo mai potuto
da solo a solo. Ma
.le buone, e le utili
cose dovunque, 0 rippùj y son
da dire tra
gli uomini, piuttosto
che 'JaG DELLE Antichità’
romane sempre tacerle. E che
io a le rendessi
gli ojfizj do- vuti alla
nostra prosapia ; ne
attesto gl' Iddj
de' quali noi dell’ Appio
sangue veneriamo i templi
e gli altari con sagrifiej
comuni: ne attesto
i genj degli antenati, a’
quali porgiamo del
paro gli onori
secondi, e li ringraziamenti, dopo
de’ numi : e soprattiMo attesto questa terra,
la qual tiene
nelle sue viscere
il padre, ed il
fratello mio, che io
dedicava a te la
vita e la voce per
sit^erire il tuo
meglio. Pertanto desideroso di
rettificare, per quanto io
posso, gli sbagli tuoi
ti prego a non rimediare
male con male }
à non per- dere le cose
tue mentre aspiri
ad altre pià
gratuli ; e finalmente a non
dominare agli eguali
e a maggiori, ed essere dominato
da' pià vili, c più
tristi. Se noti che,
volendoti io ra^nar
di più cose e
più a lungo, non so
ridurmici : perocché se Dio ti
rivuole a buon senno; sóprawanzano
le cose anzidetle:
ma seti ab- handona
al tuo peggio, sarebbero indarno, quante io ne
aggiungessi. Eccovi, o padri coscritti, e capi tutti di
Poma, il mio sentimento
per dar fine
alla guerra, ed ordine alla
repubblica perturbata.' Se altri
tien cose migliori
a ridirne ; vincano pure
te ottime. XV. Cosi disse
Claudio ; assai speranzandosene i pa- «Iri, che i Dieci
deporrebbero il loro
magistrato. Non replicava Appio
nulla in contrario
; quando fattosi in- nanzi Marco Cornelio
altro Decemviro disse
: Non ab- bisognano, o
Claudio, i tuoi consìgli:
su Futile no- stro provvederemo noi
da noi stessi;
perocché tale appunto ò'
la nostra olà,
da non disconoscere
ciò che ne giova, nè
scarsi siamo di
(uaici, età consul- tar nel bisogno.
Pertanto dispensati da
opera intem- pestiva ; non dare o
gran veccJào consigli, ove
non se ne richiedono.
Che se vuoi
di cosa alcuna
ammo- nire t o pià propriamente,
inveire su di
Appio ; in- veisci a tua voglia
y ma quando se’
fuor di Senato. Quivi
entro però di ciò,
che ten
pare su la
guerra t co’ Sabini, e con gli
Equi, circa la quale
se’ chiesto del parer
tuo ; e cessa da
vaniloqui fuori di
argo- mento. Sorse a lai
voci Claudio nuovamente
tutto me- sto, e pieno gli
occhi di lagrime,
e disse: Appio o padri, Appio, presenti voi, non
reputa me, lo suo zio, degno nemmeno
di risposta. Egli
precludemi, quanto è da esso, il
Senato, come già la
sua casa. Anzi levami, a dirlo più
veramente, dalla città ; perocché
non io potrei
rimirarvi di buon occhio un indegno
degli antentUi, un emulatore
de' tiranni. Io dunque
raccolti i miei, e le mie
cose, vammene tra i Sabini,
per abitarvi la
città di Jiegillo, dond’ è la oiigine
mia, e tenermivi finché questi
trionfano nel sì bel
magistrato, ma quando ( nè
dee molto tarda- re ) fta di
questo decemvirato, ciocché ne
antivedo ; allora tra
voi mi renderò.
Ma ciò basà
su me. Quanto alla
guerra, e sue cose,
consigliavi o padri, che non diate
sentenza niuna, finché i nuovi
magistrati non si abbiano.
Cosi dicendo, e svegliando grandi
ap> plausi nel Senato
pel maschio e libero
suo spirito; se- dette. E qi)i rizzandosi
in piede Lucio
Quinzio Cin- cinnato, Tito Quinzio
Capitolino, Lucio Lucrezio, e
lutti i primari 1 senatori, seguirono il
parere di Claudio. l
Digilìzed by Google 3a8
DELLE antichità’ romane XVI.
Comarbatine i coilegbi di
Appio; risolverono di non
più chiamare, a dir la sua mente, niodo
io vista degli anni,
e dell’autorità sua nel
consigliare; ma solo in
vista delia intrinsichezza, e dell’ aderenza
con esso loro. E qui
procedendo in mezzo,
Marco Cornelio fe’ sorgere
Lucio, Cornelio il
fratello suo, uomo
operoso nè infacondo nella
ragione politica, e già compagno
di consolato a Quinto Fabio
Vibulano, mentre Fabio era. •
console per -la terza
volta. Ora costui
sorto disse: Egli r
è mirabile, o padri, che uomini di
tatua età quanta ne
kan quelli li
quali hanno prima
opinato, e li quali cercano primeggiar
nel SeiuUo, portino per gare
politiche, un odio
implacabile ai capi
dello sta- to, quando dovrebbero, quanto è d'uopo
difenderli, animare i
giovani a combattere intrepidi
per la buona causa,
e tener per amici,
non, per nimici
i sosteni- tori del pubblico bene.
Ma mollo pià
mirabile egli è, che
trasferiscano là malvolenza
privata alle atse della
repubblica, e vogliano anzi perir
co’ nemici, che con
tutti gli amici
salvarsi. Eccesso di
furore, e direi accecamento divino
egli è questo; eppure
cosi li capi si
comportano del nostro
Senato. Sdegnati questi che
nel concoirere al
decemvirato, che ora
ac- cusano, furon vinti da
altri che apparvcr
pià idonei, fan loro
eterna, irreconciliabile guerra:
e sì stolida, e sì furiosa
; da ìovesciare da
capo a fondo la pà-
tria, per calunniare presso
voi li Decemviri.
Vedon essi la nostra
regione in preda
a nemici : vedono che ornai
giungono a Roma, giacché breve
è lo spa- zio che ne li separa
; ed in luogo
di esortare, e d’incitare i giovani
a combattere per la
patria, e di soccorrerla
essi stessi con
tutta la diligenza,
e l’ or- dorè, quanto la età
loro ne ammette
; vogliono che ora voi
provvediate ad ordinare
il governo, a creare nuovi magistrati, e far tutto
piuttosto-, che conqui- dere gC inimici
: nè san vedere
che danno sentenze, anzi che
tengono desiderj impossibili. XVII. E certo, fate
cosi ragione : il
Senato emani il decreto
de' comizj : i Decemviri
lo riferiscano al popolo, destinando il
giorno del terzo
mercato dal giorno presente
) perocché -, e come
staà mai valido ciocché si
vota dal popolo
j se non compiasi
a norma delle leggi ? Poi
quando abbiano le
tribà dato il voto, prendano i nuovi
magistrati la repubblica, e propongano a voi
la guerra perchè
ne discutiate. Se in
tempo sì grande, quanto ve n
ha da
ora ai co- mizj, si
avanzino intanto i nemici,
e vengano fino alle mura;
noi che faremo,
o Claudio? Diremo loro: « atpettate per
Dio, finché ci avrem
fatti nuovi magi* a straM
? Certo Claudio suggerìvaci
a non decretare, a nè riferire
mai cosa al
popolo, nè scriver le
leve, a se prima non
siasi deciso come
vogliamo su' magi- a strati. Itene
dunque, e quando udirete
creati ì con- a soli, creati i magistrati, e tutto pronto
per le armi a tornate allora
per trattare con
noi della pace ;
giac- B cbè voi senza
essere offesi da
nei d avete i primi a oltraggiato ; e d ricompenserete, secondo la
giusti* a zia, in danaro i danni
delle vostre incursioni
: non a però vi conteremo
le stragi degli
agricoltori, non le a inginrie, e
le insolenze sperimentate
da femmine in* M g«uuc,
nè altro male
insanabile ». Ed
essi li nemici a tal
nostro invito useranno
moderazione, e lasciato che
la repubblica crei
li nuovi maestrali,
e faccia gli apparecchi di
guerra ; tomeran poi
portando ùi luogo delle
armi, suppliche per la
pace ; ed arren» dendo
a voi sè medesimi. Xyni. O pur
stolti coloro d-
quali van pel
pen- siero tali delirj ! e milènsi
noi se non
ci corucciamo con quei
che li propongono:
anzi sosteniamo di
udirli, quasi consultino su
nemici, non su la
patria e su noi! Che
non leviamo di
mezzo i cianciatori sì
fatti? che non decretiamo
sul punto, che marcisi
a difen- dere il territorio,
il quale
ci si devasta
? che non armiamo quanti
vi sono idonei
de cittadini ? anzi, che
non portiamo le armi contro
le città loro ;
ma ce ne
stiamo qui a bada,
ed accusando i Decemviri, ideando nuovi
magistrati, e discutendo
forme di go- verno, lasciamo quant'
è nelle nostre campagne,
come nella pace, esposto al
nemico ? Che sì ;
che infine, se permetteremo
che la guerra
giunga alle mura, corriamo noi
rischio di essere
schiavi, e che ne sia lì
orna stessa distrutta.
Non sono queste, o padri coscritti, le
maniere di uomini
sani, non le
maniere di una social
provvidenza, la quale antepone
al ben pubblico gli
odj privati ; ma
le maniere piuttosto
tli una contenzione intempestiva, di un
disamar sconsi- gliato, di una
invidia sciaurata, la
qual non lascia esser
savio chi ne
vieti preso. Tacciano
per Dio le controversie ; che
tenterò di esporre
ciò che avete
a decretare salutevole per
la patria, ed espediente
per 1 1*01, come terribile
pe’ nemici. Stabilite
ora la guerra co*
Sabini f e cogli Equi :
arrolate diligentissinù e prontissimi
le milizie da
guidare contro ambedue
: e quando la guerra
abbia avuto buon,
termine, quando siansi in città
ricondotte le milizie
^ quando sia già rinata
la pace ; allora
volgetevi ad ordinare
il go- verno, allora chiedete
conto dai dieci
delle opera- zipni loro
nel mostrato, allora createvi
nuovi ma- gistrati,
fondatevi nuovi tribunali
; e quando da voi dipendono
queste cariche onoratene
i personaggi che ne son
degni ; avvertendo, che pud
tboppo non seb» FONO
I TEMPI Alts COSE
MA LE COSE
AI TEMPI. Spiegatosi Cornelio
in questa sentenza
vi aderirono, toltine pochi,
anche gli altri
che dopo lui
ragionarono, altri perchè la
stimavano necessaria, come -convcnien' lissima a'
fatti presenti, ed altri
perchè piegavansi e blandivano
i Dieci per timore
delia loro autorità, la quale avea
costernato non picciofa
parte de’ padri. XIX.
'Alfine essendosi opinato
dalla più parte,
e cora* parendo quelli che
volcano la guerra
superiori di nu- mero agli
altri ; invitaron tra
gli ultimi a dire
Lucio Valerio, quello che volea
fin da principio
proporre la sentenza sua, ma
se fu ritardato, come già
scrissi. Or costui sorgendo
tenne questo ragionamento
: Fedele, o padri j C
inganno dei Dieci]
Non permisero questi che
a voi favellassi, com' io
volea, nel principio, ed ora
tra gli ultimi
mel permettono ! quando
pen- dano che io punto
non giovi la
repubblica, sebbene io segua
il partito di
Claudio, perchè ben pochi
vi si appigliarono. Che
se io mi
dichiaro per altro
consigilo, sia quanto si
vuole bonissimo, ne sarò
va- nissimo difensore ove io
contraddica gli espósti
da loro. Annoverar si
possono facilmente quei
che dopo me sorgeranno
per dire : e quando
pure consentano tutti con
me, che può
mai risultarmene, non facendo essi
nemmen picciola parte
rimpetto ai fautori
di Cornelio ? Ma sebbene
io ciò veda ;
pur non
dubito dire il mio
sentimento: a voi si
spetta, quando udito lo
avrete, di volgervi al
meglio. Quanto al
Decem- virato, e le cure sue
del ben pubblico^
concepite che io ven
dica le cose
tutte, che il
prestantissimo Clau- dio ven diceva
: e che debbesi far
nuovi magistrati prima che
votisi per la
guerra, giacché pur
questo chiedea con purissimo
'fine quel valentuomo.
Tentò Cornelio mostrarvi impossibili
i cos/.ui su^erimenli,
pretestando il gran
tempo che abbisognavi
per le civili r forme, quando la
guerra ne ò sopra.
Egli mise in burla, cose niente
burlevoli, e con ciò commosse, ed
ebbe molti di
voi: ma io,
fofò vedervi, che
non è impossibile, no, - la
sentenza di Claudio
; come niuno di quanti
la derisero osò
dirla nocevole : e vi mostrerò come
salvisi il territorio,' e puniscasi chi temerario
danneggialo : come ristabiliscasi intanto
il comando, che era
qui degli ottimati;
e come tutto si compia, cooperandovi i cittadini, senza che
niuno tenti il contrario.
Nè sarà già
questa una mia
sa- viezza ; ma io non
vi addurrò se
non gli esempli
di cose operate da
voi; imperocché qual
luogo hanno tnai gli
argomenti dove la
sperienza stessa ne am-
maestra su ciò che
giova ? Fi ricorda
che i popbli stessi
che ora le
man- ti a/w, spedirono ancora
milizie in un
tempo stesso, già è r mino
nono o decimo^ su le terre
nostre e de^ gli alleati,
sotto i consoli Cajo
Nauzio, e Lucio A/i* maio
F Foi mandando allora
molta florida gioventà contro i due
popoli ; f uno de' consoli
ridotto a trio- cerarsi in
luoghi disastrosi, non
potè far nulla, anzi videsi assediato
nel >suo campo
medesimo, e, sul ri- schio di
esservi preso per
la penuria de'
viveri. Nau- zio poi
contrapposto a' Sabini,
impegnato da battaglie continue, non
potea nemmeno accorrere
verso i suoi che pericolavano
: non ignoravasi che
se periva V e- sercito
contro degli Equi,
non avrebbe nemmeno
po- tuto resistere V altro contro
de’ Sabini, riunendosi
insieme i nemici. E fra
tanti pericoli intorno
della città, mentre nemmen ci
avea nelC interno
suo la concordia, qual rimedio
voi ritrovaste ? Congregativi su la
mezza notte in
Senato ( lo . che giovò
sicura- mente ogni cosa, e
dirizzò la patria
che rovinava ornai miseramente
), creaste un magistrato
solo, ar- bitro della guerra e della
pace, sospendendo tutti gli
altri ; e prima che
fosse giorno, ebbesi un
ditta- tore neir ottimo Lucio
Quinzio, sebbene si trovasse allora non
in città, ma
in campagna. Foi
ben sapete le imprese
operate dipoi dal
valentuomo, come ap- prestò
forze idonee, liberò V armata
che pericolava, e punì gV
inimici, pigliandone fino
il duce prigioniero. E fatto ciò con soli
quattordici giorni, e riparlato
quan^ altro pur v
era di
male nella repubblica, de- pose il comando.
Così niente impedì,
volendolo voi Digilized by
Google 334 DELLE Antichità’
noiviANE che si creasse
il imovo magistrato, solamente in un
giorno ; e così dovete
> credo, imitarne V esempio, e
scegliere, poiché altro non
potete, un dittatore, pri- ma
che di
quivi usciate. Se
trapassiam questo tempo, i Dièci non
pià vi aduneranno
per consultazione al- cuna. E perchè sia
il dittatore nominato
legittima- mente eleggete un interré
nel pià idoneo
de cittadini; come solcasi
fare quando i re
mancavano, o li con. soli,
nò si
aveano affatto, come ora
non le avete, legittime autorità.
Spirato che fosse
per questi il tempo
del comarulo ; la
le^e a sé ne
richiamava i poteri. Or
questo o padri, che è
sì fattibile ed
utile, è ciò che vi
eswlo di fare.
La opinion di
Cornelio porta la dissoluzion
manifesta del comando
degli ot- timati ;
imperocché se i Dieci
divengano una volta padroni
delle arme per
tale occasione di
guerra ; temo che.
valercnisene contro di
noi. (^uei che
non voglion deporre i fasci,-
depotranno essi mai
le ar- mi f Considerate ciò :
"'guardatevi da tali
uomini ; provvedete contro
tutti gC inganni
; poiché vai meglio provveder che
pentirsi; cotne é cosa
pià- savia discre- dere gli empj ;
che, credutili, accusarli. XXI.
Piacque il dir
di Valerio ai
più come potè
ri- levarsi dalle voci loro e
da quelli che
sorsero dopo di lui
; perciocché doveano opinare
ancora i giovani, e questi,
eccetto pochi, lenean per
bonissitno,quel con- siglio.
Cosi quando tutti
ebbero opinato, e le delibe- razioni aver dovevano
un termine ; Valerio
chiese che i decemviri proponessero
la ritrattazion dei
pareri, c che di nnovo
s invitassero a dire tutti
i senatori ; c persuase ciò
fàcilmente, volendo molti di
loro cangiar eli partito.
Cornelio che avea
consigliato che si
desse a decemviri il
tornando deHa guerra, opponeasi poten- tissimamente; dicendo
esser questo un
affare già discus- so, e portato giurìdicamente al suo fine
col voto di tutti
: pertanto si annoverassero
i voti nè cosa
ninna si rìnovasse. Alternavansi
tali detti ostinatamente
a gran voce da ambe
le parti, essendone
scisso il Senato;
pe- rocché tutti quelli che
voleano riformato il
disordiu ci- vile, favorivan Valerio
; ma peroravano per
Cornelio quanti preferivano il
peggio, e- temeano de’
perìcoli da un cambiamento.
I decemviri presa occasione
di fare a lor
modo per la
turbolenza del Senato, si
-attennero al parer di
Cornelio. Ed Appio, quell’
uno di essi, re- . catosi in
mezzo disse : JVoi
v abbiamo qua convocati o padri perchè
deliberaste su la
guerra cogli Equi e
co’ Sabini, e per questo
abbiam /alto che
interlo- quissero quanti il volevano
^ chiamando voi tutti
dal primo aia ultimo, ciascuno ordinatamente, al suo tempo.
I tre uomini • Claudio,
Cornelio, e Valerio in fine, ne
diedero tre pareri
; e voi tutti, quanti altri qui
restavate, li ponderaste : e ciascuno, udendolo tutti, espose
il partito al
qual si appigliava
Tutto fu a norma delie
leggi : ed essendo
ai pià di voi
parato che Cornelio
abbia presentata la
sentenza mi^ gliore ; dichiariamo
che questa prepondefa
; e scritta Ut pubblicfdamo. f^alerio
e ti' suoi partitoni, annul- lino se vogliono, ma
quando sian consoli, i giudizj già finiti
: ed invalidino le
sentenze già firmale
da tutti. E' cosi
dicendo, c comandando che io
scriba legesse 3 decreto
del Senato, col quale
ordinava» che i dieci
làcesser la leva
delle milizie, e
ammiuistrasser la guerra ; sciolse
1’ adunanza. ■ XXII.
Quei della panie
decemvirale ne andavano dopo
ciò superbi e gonfi, come
vincitori, e come riu- sciti
con esser gli
arbitri delie arme, nell’
intento, che non si abolisse
il loro comando.
Per contrario quelli che
aveano voluto il
bene della repubblica
suvansi ti- midi e mesti; come
se non più
ne sarebbero gli
arbitri in maneggio ninno.
Dond’ è che si
divisero con risolu- zioni diverse ; riducendosi
i meno ' generosi per
indcde a concedere tutto ai
vincitori, e consociarvisi ;
laddove i men paventosi teneansi
in placida vita
lontani dalie pubbliche cure ;
e li più
eccelsi di spìrito
faceansi ua seguito proprio,
intenti a difènder sestessi,
e trasmutare il governo. Capi
di queste unioni
erano Lucio Valerio e Marco Orazio, que’
dessi appunto che
intrepidi, pro- posero i
primi al
Senato di ritogliersi
al decemvirato : e questi
custodivano la propria
casa colle armi, e se- stessi con valida
guardia di 'clienti
e .di servi per
non patir violenza, e non mostrar
di temerla insidiosa
o palese. Quelli che
non voleano in
Roma part^giar coi più
forti, nè brigarvisi in
cure pubbliche, nè giudica- vano intanto ben
fatto di starvi
in ozio indolente
; ne uscivano, . parendo
loro cosa non
facile di vincere
i dieci colle arme,
anzi impossibile di
abbatterne la grande potenza ; ed
era lor condottiero
1’ insignissimo uomo Ca)o
Claudio, lo zio
di Appio Clandio
capo decemviro^ il quale
adempiva le promesse
fatte in Senato
al figlio del fratello
quando stimolavalo a deporre
3 comando. xr., 337 ne T«
Io indusse (1).
Lui seguivano torbe di
amici e clienti; ma,
datovi da esso
il principio, abbandonarono la patria
ancor altri colle
mogli e co’ Ggli, non
già di nascosto ed
in pochi; ma a
moltitudini ed in
pubblico. Altronde i
compagni di Appio
indispettiti del fatto
si misero ad impedirlo,
cbiudendo le porte,
e ritraendone alquanti de’ profughi.
Ma poi venuti
in paura, che gli impediti
si rivolgessero alla
forza, e considerando più
rettamente come era
meglio che uscissero
che rimanes- sero, nemici loro,
a conturbarli; spalancarono le
porte, e lasciarono andarne quanti
mai vollero; incolpatili
però come disertori, ne invasero
le case, i poderi, ed ogni cosa
non potata portar
via per l’esilio,
apparentemente a conto del fisco, ma
in sostanza beneficandone
i loro fautori, quasi comperata
l’avessero. Or tali
imputazioni date a’ primarj
esasperarono più ancora
i patrizj e i plebei contro
ai decemviri. Nondimeno
se qiiesti non aggiungevano novi
errori ai già
detti; parmi che
avreb- bero tenuto ancora lungo
tempo il comando.
Imperoc- ché stavasi ancora in
città la sedizione,
mallevadrice del poter loro, cresciuta da
tanto tempo, e per tante
ca- gioni : le quali facevano
esultare a vicenda gli
uni pei mali degli
altri ; li plebei
perchè vedevano, mancato
il cuor ne’ patrizj, e nel Senato
ogni arbitrio su la re- pubblica; e li patrizj,
perchè vedevano il
popolo ridotto in tutto
senza libertà e senza
forze, fin d’ allora che i
dieci gli tolsero
l’autorità de’ tribuni. Ma
perciocché tali decemviri nè
moderali in campo,
nè prudenti ìu
Roma, (1) Vedi S i5
di questo libro.
4 v ptONlGl > ITI’, la iasistevaDO con
assai durezza centra
l'uno e Tallro par* ti(o,
lo astrinsero infine
a riunirsi, e deporli colle
arme stesse, avute per la
guerra. Tali poi
furono gli ulllmi delitti pe’
quali svergognato il
popolo, ne infuriò. Dopo che
ebbero stabilito .in
Senato il de» creio
per la guerra
; descrissero in fretta
le milizie, e divisele in
tre parti, ne
serbarono due legioni
per guar* dia deir
interno della città.
Piesedeva a queste due
Ap* pio Claudio il
capo decemviro insieme
uon^ Spurio Op* pio.
Intanto Quinto Fabio, Quinto
Poeteiio e Manio Rabuleio nè
andarono con tre
legiodi contro de' Sabini: partirono con
altre cinque per
la guerra .contro
degli Equi Marco Cornelio, Lucio Minucio, Marco Sergio, Tito
Antonio, e Cesone Duvilio finalmente.
Militarono con essi le
truppe latine, e di altri
alleati, non meno numerose delle
romane. Ma con
tantb milizie urbane, con
tante ausiliarie, niente riuscì
loro secondo il
dise- gno. Imperocché li nem'tci
spregiandoli come nuove
re* clute, si accamparono vicinissimi
a loro; e ne invade- vano i viveri che
erano ad èssi
portati, insidiando le strade, e
gli assalivano mentre
uscivano ai pascoli.
E se mai venivano
ordinati alle mani,
cavalieri con cava- lieri, e fanti con
fami; riuscivano da
per tutto vincitori i nemici ; perocché
non pochi Romani
mandavano alla peggio ogni
cosa, indocili al capitano, come restii
per combattere. Quelli che
erano tra’ Sabini, renduti sav) da
mali minori, deliberarono
da seslessi di
abbandonare il campo: e levandosene
circa la mezza
notte ripassarono con una
ritirata, simile ad una
fuga, dal territorio
ne- mico nel proprio; fino a
Crustumero, città nou
lontana Digitized by Google tiBno
jfi. 339 da Roma.
Gli altri che.
teneano il campo
nell’ Algido della regione
degli Equi, ne
riceverono ancor essi
non poebe^ percosse. Ma
ostinandosi incontro a’ pericoli,
quasi a riaversi' dalie perdite, incorsero in
danni lagrimevoli.
Imperocché spintisi i nemici
su loro, cacciarono quelli che
erano in guardia
degli steccati; e salite
le trincee, occuparono il
campo, e vi uccisero i pochi
che resi- stevano,
uccidendone anche più
nell’ inseguirli. Quelli che
scamparono colla fhga,
feriti in gran
parte, e quasi tutti privi
di arme, ripararonsi
al Tuscolo. Del
resto tende, giumenti, danari, schiavi
e tutti gli altri
appa- recchi furono preda ai
nemici. Saputasene in
Roipa la nuova i nemici
del decemvirato, quelli ancora
che ne occultavano 1 odio,
si dichiararono, esultando
su la rea condotta
de’ capitani. E già
grande era Ja
moltitudine presso di Orazio
e di Valerio, capi, come
fu detto, de' crocchi
aristocratici. XXIV. Appio e Spurio
somministrarono a quelli che comandavano in
campo arme, danari, grano,
ed ogni bisogno, pigliandone
superbissimamente da’ privati
e dai pubblico: e reclutando dalle
tribù tutti gl’idonei
a com- battere ; gl’'
inviarono loro in
supplemento de’ morti, e delle schiere.
Invigilarono diligentissimi su
Roma, pre- sidiandovi i luoghi
più acconci; talché
il seguito di Va-
lerio non fosse occulto
nel sommoversi. Commisero
per vie sécretissime ai
capi dell’esercito di
sterminare i loro contrari,
in occulto se
riguardevoli, ma palesemente se ignobili,
sempre però con
qualche pretesta, perchè
pa- ressero giustamente levati. Altri
mandati da essi a
fo- raggiare, altri a proteggere i trasporti
de’ viveri ; ed altri
ad altre belliche
incombenEe lisciti dagli
alloggia- menti, non furono mai
più vedùti in
alcun luogo. Ma li
più ignobili accusati _ di
aver dato princi'pio
alla fuga, o portato secreto
notizie ài nemico, o non
mantenuto r ordine, erano in
pubblico trucidati per
ispavento co- mune. Così le
milizie erano in
due modi disfatte
: le fautrici del -decemvirato
pe’ cimenti col
nemico, e pei capitani le altre
che ridesideravano jl
governo degli ottimati. XXV. Appio
co’ suoi commetteva in
città delitti con- simili e non pochi
: la plebe tenne
picciolo conto di alcuni
estinti quantunque fossero
molti di numel-o
: ma la morte barbara, ingiusta di
uno de’ plebei
più cospi- cui, celeberrimo per
le belle virtù
sue nel combattere, operata nell’ accampamento ov’ erano
i tre capitani, de- cise quanti vi
erano alla ribellione.
Sicciu fu I’
ucciso, quegli che avea
combattuto le cento
v^nti battaglie,
raccogliendone sempre' il premio
de’ prodi, quegli che
disobbligato già per
gli anni dal
> guerreggiàre, si diè spontaneo per
'la guerra,con gli
Equi menandovi per r amor
che gli avcano, altri
ottocento, già liberi
ancor essi a norma delle
leggi da’ servigj
militari : quegli che spedito
dall’ uno de’
consoli contro le.
trincee nemiche a rovina come
parea manifesta; pur le invase,
e preparò pienissima la vittoria
pe’ consoli. Or
quest’ uomo, cer- cando
Appio co’ suoi di
levarsel d’intorno, perchè
avea molto parlato in
città contro i duci
del campo come codardi
e imperiti» io trassero
a discorsi amichevoli, lo invitarono
a deliberare con essi
intorno le cose
del campo, e dire come
fossero da emendare
gli errori de’ capitani
i e Io indussero infine
ad andare in
forma di legato all’
armata di Crustumero.
È tra’ Romani il legalo
onoratissima e santa rappresentanza, con l’ auto- rità de’ comandanti, e con
la riverenza e la
inviolabilità de’ sacerdoti. Lo
accolsero al giunger
suo con benevo- lenza i duci, e lo stimolarono
affinchè stesse e coman- dasse con essi ;
anticipandogli de’ doni, e promettendo- gliene ancora. L’uom
d'arme, tutto ingenuo
in seslesso, deluso dai
scellerati, come lui
che non capiva
i presti gj delle parole, e
quanto erano ingannevoli
; suggerì loro le cose
che utili riputava,
e soprattutto che trasferissero il campo
dal territorio proprio
a quello de’ nemici
; additando i mali che
ivi soffrivano, c rilevando i beni che
da tale passaggio
nascerebbero. XXVI. Fingeano que’duci
udirne con diletto
gli am- mpnimenti : Adunque
che non ti.
fai tu duce,
gli dis- sero, di questo
transito, preeleggendone il sito
op- portuno, tu si perito
do' f ioghi por
le tante tufi
spe- dizioni ? Noi ti daremo
schiera eletta di
uomini, espediti per armamento
leggiero. Avrai tu
cavallo come alT età
tua si com’iene, ed
armatura degita . dei tuoi pari.
Tenne Siccio l’invito,
e chiese cento uomini scelti. Quegli,
essendo ancor notte,
spediscono lui senza indugio, c con lui
cento i più baldanzosi
de’ loto fau- tori, istrutti, e mossi ad
ucciderlo con lusinga
ahiplis- sima di ricompense.
Or questi giunti,
ornai ben, lungi dal campo, in
luogo montuoso, angusto, e difficile
di ascenderlo a cavallo, se non
di passo, ordinaronsi,
datone il segno, in
maniera da serrarsi
in folla su
lui. Un tale, sostenitore e servo
di Siccio, valoroso tra le
34 a, arme, indovinando il
cor loro, diedene cenho
al pa- drone. Il quale
vedutosi in tanto
disagio di sito
da noa potervi nemmen
slanciar con forza
il cavallo', ne
salta, e postosi coir unico
sostenitore suo in
una balza per non
esservi circondato, aspetta che ve
lo
assalgano. Or tutti ( ed
erano molti ) assalendovelo ; ne
uccide intorno a quindici, feritone
il doppio : e parca, se lo
assaliva» da presso, che avrebbe, combattendo, straziato ancor gli
altri. Ma questi,
conceputolo per invincibile,
e come non era dà
prenderlo a corpo a corpo
; non vennero in tal
modo alle mani:
ma tenendosi lontani
da lui; lo fulminarono con
dardi, sassi, e legni. Ed altri
avan- zandosi di fianco in
&ul motttc, e riuscendogli a tergo, rotolavano dall’
alto macigni stragrandi
: talché per la moltitudine de’
dardi lanciatigli conira, e per
la enor- mità de’ sassi
che cade.mu romorosi
dall’ alto, lo op- pressero in 'fine: e questo
fu il termine
incontrato da Siccio. XXyiI. Tornaitono
gli uccisori co’
feriti nel campo, e vi
pubblicarono che una
insidia ióiprovvisa di
nenrici avea spento Siccio, e gli
altri, che assalirono i primi, e che essi
he erano a stento
scampati, ricevutine molle ferite.
Pareano questi dir
vero ; non però
si giaeque occulta la
loro per6dia : ma
sebbene avvenisse 1’
eccidio in luoghi deserti
e senza testiinonj ; i fati
stessi e la giustìzia che
invigila le cose
umane, lo diedero
a co- noscere per segni indubitati -(i). Imperocché
quei del campo riputando
1’ uom forte
degno di pubblica
sepol- (i) A quella icotenza
somiglia quella lauto
vera di Arioslo
can. 6 e tanto poco
tenuta in peotieio
dagli nomini. tara . e di onori
distinti rispetto degli
altri, per più
cau- se, e' principalmente pel
carattere suo di
legato, e per* cbè libero
già da’ servigj
militari, eravisi cimentata di nuovo
per util comune;
decisero di unirsi
dal complesso di tre
legioni e di uscjre
cosi per investigarne
il cada- vere, onde riportarselo
con pieno decoro
e sicurezza. Concederono
questo i capitani per
non dare sospetto alcuno delle
insidie : e prese le
arme uscirono intenti all’^opcra bella
e degna. Giunti al
sito e vistovi non selve, non valli, non
luoghi consueti per
le insidie, ma una
balta tuttar nuda
ed aperta,.ed angusta
a pas- sarla; sospettaron
bentosto ciocch’era. Avvicinatisi
quindi ai cadaveri % mirato
Siccio e gli altri
derelitti, ma senza essere
spqgliati; si meravigliarono che-i
nemici, vincen- do, non avessero
levate loro non le vesti, nè
le anni. E specolando ihtoroo
ogni cosa, nè trovando
vcstigia di cavalli o di uomini
se non le
impresse nel sentiero; tennero per
impossibile che i nemici
fossero su loro* venuti
improvvisi, quasi uccelli., o uomini
discesi dal cielo. Ma,
più che questi
e simili indi^, il
non trovarsi ivi cadaveri,
di avversar) fu . loro
argomento evidentissi- mo,
che gli
amici ne erano
stati gii uccisori
e non i nemici. Imperocché
non parea loro
che Siccio, e quel Miscr chi
maV oprando si
confida, Che ngnor star
debba il maleficio
occulto ; Che quando
ogn’ altro taccia
intorno grida V aria e la
terra ittetsa in
che-d tepultq^ . E Dio
fa spesso che
'I peccato guida Il
peccator, poi cV alcun
di gli ha
indulto- Che" si medesmo,
seni' altrui richiesta JnavOedutamstnle mastifesla.
^44 nF.LT,E sosteuitore
suo, e gli altri, che
seco perìroofi, sarebbero morti inulti, specialmente se
venuta si fosse,
quanto si può, (la vicino
alle mani. Rac(:olsero.
ciò ancora dalle ferite
: perocché Siccio, come quel
suo, sostenitore, ne avea molte
per colpi di
sassi o di strali
e di spade ; laddove
gli uccisi da
loro avean colpi
di spade si,
non di sassi, o di strali
e di saette. Adunque
.ne sorse in- dignazione, e claipore, e lutto. Alfine
compianta la disgrazia ; raccolsero
e portarono il cadavere
ai campo : e là
gridarono altamente contro
de’ capuani, esigendo allora allora
secondo la legge
militare la morte
degli uccisori ; o che sen
fidasse almeno il
giudizio ; e già molti erano
pèr,farvisi accusatori. Ma
conciossiaché non davano loro
udienza, e nascondeano gli
uccisori, e^ne differivano il
giudizio, con dire che
in Roma darebr bero
a chi la volea
la podestà di
accusarli ; ben vtdesi che
la trama era
de’ (ùpitani. Adunque
portarono (xm * magnifica pompa
Siccio al sepolcro,
alzandogli una pira meravigliosa, e tributandogli secondo
il loro potere
altre primizie che la
legge concede negli
onori estremi dei valentuomini. Alienaronsi
allora tutti dal
decemvirato; e pensarono
come liberarsene. Cosi
l’ esercito presso
Chistumero r Fideue era
nimico a’ suoi
capi per la morte
di Siccio legato. XXVIIl. L'
esercito acc;impato nell’
Algido della re- gione degli Equi, e la
molutudiiie in Roma
crasi per tali cagioni
esacerbata tutta con
essi. Lucio Verginio
un plebeo, non secondo
a niuuo nella milizia,
starasi capo di una
centuria nelle cinque
legioni, belligeranti con
gli Equi. Avea costui
per avventura una
figlia vaghissima fra ratte
le donzelle romane.
Ella portava il
nome del padre, ed
avealasi pattuita in
isposa Lucio Icilio,
uomo tribunizio, qome 6glio
(i) di quell’ Icilio
che primo fe’ stabilire, e primo assunse
T autorità di tribuno.
Appio Claudio il capo
decemviro vista la
verginella che leg- geva in
una scuola ( stavansi
allora le scuole
pe’ giovi- netti intorno del
Foro) bentosto ne
fu preso dalla. bel- lezza ; anzi vinto
dalla passione era
così tòlto a sestes-^ so, che non
potea non passare
più volte intorno
della scuola. Or non
potendo torlasi sposa
come già sacra
ad altri, anzi perchè egli avea
pur moglie, e perchè non istavagli
bene donna plebea
di lignaggio contro
il suo grado e la
legge scrìtta da
lui nelle dodCci
tavole ; su le prime
tentò corrompere co’ danari
la giovinetta. Egli mandava
ad pra ad
ora delle donne
con doni e pro- messe maggiori' alle nudrici
di essa, orfana
già della madre ^ avea
però comandate le
donne che tentavano le
nudrici a non dire
chi fosse l’amante
della fanciulla, ma solo
eh’ egli erg
un tale che potea,
volendo, -bene- ficare e nuocere.
Non potendo però^
guadagnarle, anzi vrt.duta
la donzella guardata
più che prima, si
mise, caldissimo che ne
era d’ amore, a camminare altra
via con meno ancora
di sénno. Fattosi
chiamare Marco Claudio, r
uno de’
suoi clienti, uomo ardito
e pronto ad ogni servigio, gli
additò la Gamma
sua : e prescrit- (t) Forse
nipote’, perchfc dalla
islitusione del tribonato
all' anso prescote decorsero 45
aooi. Pertanto Lucio
Icilio di cui
qui ai ra- giona o era nipote
ni*, Icilio Ruga, o coOTÌen
dire che di
molto ec- cedesse gli anni
di Virginia destinatagli
sposa ; seppure non
voglia dirsi che Icilio
Ruga generasse beo
tardi quel figlio.
> togli cioccliè volea
che facesse, e dicesse
; lo spedi con allato
uomini impudentissimi. Costui
recatosi alla stuoia, vi
tolse la vergine, b volea recarsela
palesemente pel Ford. Impedito
però dai clamori
e dal grande «oucor- so,
di recarsela dove
avea stabilito; venne
al magistrato. Sedessi allora
nel tribunale Appio*'
solo, rendendo ri- sposte e r&gioni a chi
ne chiedeva. Or
volendo colui dire, sòrsene rumore
e sdegno tra* circostanti, i quali tutti reclamavano, perché si
aspettasse 6nchè venissero i parenti della
fanciulla ; ed Appio
ordinò che in tal
modo appunto si
facesse. Passato appena
picciolo tem- po; ecco presentarsi 'Publio Numitore
nomo insigne tra i plebei,
zio materno di lei, con, seguito
di molti amici e parenti; e dopo
non molto ecco
giungere con numero poderoso di
giovani plebei Lucio
Icilio, quegli che
per le promesse dèi
padre aver dovea
la donzella in
isposa. E questi, tutto
sospeso ed ansio
nel respiro, avanzan- dosi
al tribunale, addimandò chi
osato avesse toccare la
giovine' cittadina, g (die
mai ne pretendesse. XXIX. Fattosi
intanto silenzio. Marco
Claudio, que- gli appunto che
avessi preso la
donzella, così ragion:^; O j^ppio Claudio, niente ho
io fatto di
temerario, niente di violento
contro la fanciulla.
' Signore, come io tono di lei,
secondo le leggi
me la conduco.
Or odi comi ella
siasi la mia.
Ho io una
tal serva pa- terna che
ministrami già da
tempo lunghissimo. Or questa, familiare che
ne era, usava di
andare alla mo"liè di
f^érginio; e la moglie
di Ferginio persuase lei
gravida a concederle, quando che
fosse, il frutto del suo
ventre. La donna, partoiita una
figlia, ( ed era questa )
serlà le
promesse ; e àiedela a Numito- ria, con
fingere presso noi
che uscita fosse
la di lei prole
già morta. Numitorià
tuttoché madre non
fosse di fanciulli o fanciulle,
la pigliò, la
fé' sua, la
nudrì, senza che io
sapessi nel principio
la vicenda.' Or la
so per indizj
di molti e buoni
testimonj : io ho fatto
t esame di quella
serva, e ricorro alla legge comune
per tutti ha
quale vuole « che
sia la prole
non » di chi la
impostura per sua, ma
di chi 1’
ha gene- » rata ; e che
libera sia se
nata di libera, e serva, se » nata di
serva, de’ padroni stessi
delle madri u . Su questa
legge esigo di
riportarmi la figlia
della mia serva, pronto a subirne
il giudizio: Che se alcuno
la reclama per sua,
dia certi mallevadori
di riprodurla in giudizio
: ma se anzi
vuole chi^ ora
qui sen tratti
la causa io lo
secondo, voglioso c^e si
espedisca anzi che si
procrastini, e che io mi
assicuri con malleva- doii
la vergine. Scelgano
qual più vogliono
di questi partiti. Claudio cosi
disse aggiungendo vive
preghiere di non essere
considerato meno de’‘suoi
competitori per amici, e torlasi a forza quando glie
la ripresent'avano per
la sentenza. E perchè 11
giudizio fosse con
buona forma, sul pretesto
che il padre di lèi non
erasi presentato ; diè
lettere a cavalieri fedelissimi,
e li spedi nel
campo ad Antonio, cdroan- dante della
legione ov’ era Verglnio,
con ordine che ritenesse
quest’ uomo cautissima
mente, talché udite le vicende
della figlia, da fui
non s’ involasse.
Ma Io prejr vennero, attinenti che
erano alla donzella, il
figlio di Numitorio, cd
il fratello d’ Icilio, spediti avanti,
sul nascere appena della
sommossa. Giovani pieni
di corag- gio fornirono prima
il vaggio sferzando
i cavalli ed ab* Digilized
by Google 35a DELLE
Antichità’ bomane baudonando loro
le redini j e _ narrarono a Vergitiio l’evento. E Verginio,
^cimane ad ^Antonio
la cagione vera, e fintogli di
aver udita la morte di
un suo pa« rente
di' cui doveasi
fare il trasporto, e la sepoltura secondo la
legge, ebbe il congedo.
E presso 1' ora in
cbe accendonii i lumi
; se ne andò
con que’ giovini, ma
per altra via, temendo, come avvenne, di
essere inseguito da quei
del campo e della
città; perocché Antonio, ricevuta
la lettera circa
la prima vigilia,
spedi contr esso una
banda di cavalieri,
mentre un’altra spe* dita
da Roma guardò
per' tutta la
notte la strada che vi
conduceva dal campo.
Ma non si
tosto un tale
ridisse ad Appio che
Yerginio era l’unto
contro la espetta- zione; egli,
uscito di' senno, ne andò
con gran seguilo al
tribunale, e fece che a lui
si chiamassero i con- giunti della donzella.
Venuti' questi, Claudio
ripetè lo stesso discorso, e dimandò cbe
Appio senza indugio decidesse l’affare;
dicendo esser pronto
chi lo esponeva, e chi lo
attestava, fin la serva, madre
vera della fan- ciulla. Simulava in
tutti questi atti . che
assai si sdegne- rebbe, se esso
per essere cliente
di lui non
ottenea come prima la
giustizia egualmente che
gli altri ; e di- mandava che ajutasse
chi dicea cose
più vere, non
chi più lamentevoli. Il padre
della donzella e gli
altri patenti escludcano la
supposizione del parto
con molti argo- menti giusti e veri, per
esempio che non
ebbe cagion plausibile di
farla la sorella
di Numitorio c moglie
di Verginio maritatasi vergine
ad utl giovine
la quale par- torì tra
non molto : appresso
perchè sebbene voluto avesse
iotradere in sua
casa un 6glio
altrui ; v’ avrebbe intruso non
il figlio di,
una donna schiava, ma
quello di una ingenua,
amica o parente sua,
onde ritener fe- delmente e stabilmente ciocché
TÌce'«’eaiée : ed arbitra
in tutto di Scersela
Come volea,* scelta
s’ avrebbe la
prole non femipea, ma > vivile} imperocché
la donna che
par- torisce, vinta dall' aderenza pe’ 6gli
che partorisce, ama e nudre
ciocché la ‘natura le
porge: laddove, la
donna che imposturasi un
6g)fO sei' cerca del > sesso migliore, non
del più ignobile.
Contro lui poi
che dava .l’ indi- zio,'e .contro i molti
tesu'monj- edibili da Claudio
come degni di fede . allegavano cagioni
tratte dal verisimile
: vuol dire che
Numitoria non avrebbe
operalo imai pale- semente e presenti molti
ingenui tekùmònj tur
fatto che abbisognava di
silenzio, e che -pbtea' fornirsi
col mini- stero di- un
solo ; e c|ò perché
la prole edncatà
non fosse col tempo
ritolta dai padroni
delia madre. Ag- ginngeano
che la dilazione
non picoiola' era
segno evi- dente che il
calunniatore non prolTeriva
niente di vero: perocché colui
che dié l’ indiziò
'della supposlzioue e gli
altri che la
cooteslano -l’avrebbero molto
'iuoansi svelata, non tenuta
Segretissima per quindi^,
anni. Frat- tanto
redarguivano le pròve
degli accusatori, come
non vere 'né credibili,
e chiedeano che si
paragoudssero colle altre loro,
nominando molte doqpe
non ignobili le quali
dicevano aver veduta
Numitoria gravida cOn pienezza
di utero. Olirà
queste ne additavano
altre che in fom
del parentado venute
pel parto o per
la pimr- pera aveano
mirato k prole, ed iuasievano
perché s’ iu- Viomci terrogassero.
Era- poi di siderando
queste e simili cose,
e fra lóro discorrendole, ne piangevano.
Appjo altronde, come non
cauto, per matura, e
corrotto dalia grandezto
del potere, invanito di sestcsso, e caldo ' di
amore nelle viscere, non
ohe attendere al parlare
dei difensori, e commoversi alle lagrime
della vergine, adiravasi per
la compassione che di -lèi' Sentivano >i
circostanti (Juasi di
compassitme egli fosse più
degno, e patisse mali
più grandi, ridotto
prigioniero dì quella
bellezza. Da tali
cause infuriato ardi fin
di 'fare' impudenti discorsi
(pe’ quali, coloro che
già ne sospettavano,' foron
-chiari, 'che sua era
1- impostura contro la
donzella ) > e compiere infine
la barbara c ti- rannica azione. Àncora parlavano, quando egli
iu- Uqoò sUeniiio ; e . feoesi.
jbtanlò la moilitudine
che era nel Foro, ^ntenendo lo
adegno si spinge
innanzi per desiderio d’ intendere
ciocché direbbe ; ed
esso volgeo'. dosi qua c
là per
numerare col guardo
i crocchi degli amici co* quali
avea p|:ima occupato
il Foro cosi
favellò: O Verginio j o voi qui
presenti con, esso f fiqn
io sento ora la
prima voltd un
tal fatto, ma- lo
sentii prima ancora di
giutfgere a questo magistrato.
Or udite ; Come ' lo
sentàsL 11 ^ padre
di questo Marco Claudio
ornai . spiratido la fitfl
y pregavnmi die io prendessi
la tutela del
figlio lascialo da
lui piccélo ; giqcchò
essi fin. dagli
antichi loro son .
clienti della ìiostra famiglifc.
Or mentre io
rn era il
tutore di esso udii
della donzella e .come
Numitoria sala suppone; prendendola dalla
sert>à di Claudio:
ed esaminatala; trovai che
appupto cosi pava
•' dettai c, giudico esser
Claudio pa- drone della serva. Udito
ciò, quanti ivi erano
fiomlni iniegrì, sostenitori di
que’ che dicevano
il giusto, levarono le mani
al cielo, con “"un
grido misto d’
indignazione, e di pianto : per
1’ opposlto i partigiani
de’ Decemviri, mandavano voci
atte ' a confortarli ed
animarli. Irritatasi però l’adubanza,
e riempiuta» di ogni
guisa di afTetti, e discorri ; Appio
intimo silenzio, e disse : O tutbo- lenti, o inutìii a tutto
nella guerra e nella
pace !• se non
cessale di sonunover
la' patria, e di contropor-
vici ; farete alfin
senno per forza.
Non pensate, jche abbiamo noi
messo un presidio
nel Campidoglio, e nella fortezza
soltanto contro i nemici
di fuori, e che lascèremb
poi fare quei
iT entro, i quali scon- ciano ih Roma,
ogni cosa. 'Prendete
consiglio migliore ^ thè
non avete o . voi
tutti a quali non
spetta C af- fare ; andatene per
le cose vostre
in buon ora. £
tu Claudio recati ria
pel toro ' la
donzella : non teme- re ; giacche i dodici
miei Colle scuri
ti saran guar- dia. A ul dire
gli altri ululando,
battendosi la froòte, nè
potendo raffrenare le
lagrime, partirono dal
Foro; e Claudio succò via
la donzella, che
stringeva, che baciava il
padre suo, e con voci
affettuosissime lo in- vocava. Fra tanti
mali, Yerginio si mise
in pensiero un’ azione, amara, addolorevole ad
un padre, ma de- gna di
ud nomo liberò,
-di un Uomo
generoso. Egli intercedette di
salutare ancora una
volta la 6glia, e di parlare a lei
le cose, che volea
da solo a solo
; prima che dal Foro
la involassero. Condiscesone
dal capitano, e ritiratisene alquanto
i satelliti, abbraccia la figlia
che sviene, che abbandonasi ; e cosi
la sostiene, richiamandola, baciandola',
rasciugandola dalle lagnile,
che la inondavano. Poi^
trattala seco un
poco, non si tosto
fu presso la officina
di un niacellajo,
rapiscene di su dal
banco la
coltella, ed immersela
nelle viscere della
figlia gridando: Figlia (i
mando Ubera e casta - ai
nostri sotterra: per colpa
del tìrarmo già
ntm potevi tu
viva serbare questi pregi. . SóHevatisi intanto
de' clamóri ; tenendo in
pugno il ferro
insanguinato, egli stesso
gron- dante del sangue,
sebitaato su lui, nell’
uccidere della figlia, corse furibondo, peó la
città, reclamandovi la
libertà ; de* cittadini.
Passate a fona le
porte, àìcese il cavallo, ebe tenessi
per Ini' preparatp, e rivelò nel campo, riaccompagnatovi dà
Icilio, e da' Knmitórlo, i
giovanetti ebe ne
*1 cavarono. Teneano
loc' dietro anche altri plebei
non pochi, Jn numero
quasi di ^attro.* cento. j ' ;Appio
al caso della
^giovinetta,. levatosi da sedere, si
slanciò cpme per
inseguire Verginio, dicendo, e
facendo cose non
degne : ma eiroondandolo, e pres- sandolo gli,
amici a non traviare, si
ritirò, pieno di rabbia su
tutti : quando ornai
-presso della sua
casa udì da taluni
de' suoi fautori, che
Icilio il .suocero, e Nut raitore lo zio,
ridottici con altri
- amici, e congiunti intorno
al cadavere, gridavano
contea- Ini an colpe
no*> te, e non note
concitando tutti a rendersene
liberi una volta. Colui
spedì per la
rabbia» che ne'
ebbe, alcuni de’ littori, -con
ordine d’ imprigionare
i maledici, e di levare dal Foro
il cadavere; opera,
insana in v?ro, « sconvenientissima al
tempo. Imperocché mentre
dovea- carezzar la moltitudine
incollerita giusUmente, e-jóedere in
principio al tempo, e poi
rdifendersi, pregare, be- neficare onde’
riconciliarsela ; egli 'corso
Alla* violenza, ridusse tutti . a disperarsi. Pertanto
non permisero che gl’
inviati levassero la
estinta, o' portassero alcuno
nella carcere : ma gridando, ed
animandosi gli uni
gli altri ; cacciarono
dai Foro coll’impeto,
e oolle percosse i mi'- nistri
della violenza. Talché
Appio, ciò udendo,
fu co- stretto dì recarsi
con molte partigiani
e clienti nel F oro, e comandare 'che
battessero, e sbandissero, chi
v* era,* ne’ capi delle
vie. Orazio e Valerio,
duci come ho
detto degli altri a riprendere
la libeiné, sentito il
disegno dell’ uscir di colpi,
menarono' con sé molti
bravi gio- vani, e si' misero
dinanzi k estinta. E qpando
ebbero più \icini {'compagni
di ‘Appio, prima inveirono,
(jnanto poterono, su loro cOn
-clamori .ed ingiurie
; é quindi, pareggiando ai detti
le opere, ferirono e rovesciaronoquanti osarono
lanciarsi su lOro.
Appio mal .sofferendo
l’ostacolo impreve- duto, nè trovando
come trattare tali
nomini \ risolvette di correre
Una viaria più
rOvinOk. Impéròccbè porta- tosi al tempio
di Vulcano ; invitavi
a parlamento la ' plebe, quasi' benevola ancora
verso di esso:
e prendevi ad accasare la
inginslizia, t la dnsojenza
di tali uomini, lusingandosi per l’
autorità sua .tribunizia, e per le
vane speranze, ebe la moltitudine
gli concedesse di
precipi- tarli dalTa' rupe.. Afa i
compagni di Valerio
occupata l’altra parte del
Forò, e postovi il
cadavere della ver- gine visibilissimo a .tutti, ''convocarono un*
altra adu- .'nahza; facendovi
vivissime aCcusé di
Appio e de’ suoi. Occorse, com’era
vcrisimile’,
che*’aUÌt'andovene altri 'la
Digilized by Google LIBRO
XI. . 359 riverenza per
^questi ' nomioi,, altri
la commiserazioae vereo la
dctazella soggiaciuta a vicènde
dure,,e più, che dure
per la sv>a
bellezza infelice, ed, altri
H. desiderio stesso della
forma .precedente df
governo, vi si rioni più
gente che intorno
di Appio : tanto
che non rima-c seto
presso questo 'se
non pochi, appunto i partigianir ira'qtuli cc
ne^avéa pur alèoni, che
per molte cagìoivi
■ mal più si
acconcravano eoi Decemvirato,,
contèntissimi di rivolgersi
agli- avversar), sé il
partito loro si
fortiG- easse. Appio vedendosi
- derelitto ^ -fo cpstretio
i mutar COtasigHo,'e '
ritnrarsi dèi Fpro^*cioecll&' moitissiUo
gii giovò. Imperocché prèso
a cólpi- 'dalia moltitadioe pa- gata le
avrebbe le* giustissime
pene. Dopò .ciò
Valerio . acquistata preponderanza, quanta 'ne
volle, si sfogò
pe- rorando contro ai
'Decemvirato, e decise in favor
suo perGno i dubbiosi. Molto . più'
poi conjpccia'rono la moU
titudiiie contro ai
Dètèiòviri i parenti della
vergine, recando -al Foro .il
feretro, -e T altro lagubre
apparato, maguiGco quanto potevano, è facendo ..la
traslazione del cadavere per le .vie
più illustri, di
Roma, onde fóssevi più rimiralo;
imperocché còrreabu fuori
di casa matrone e donzelle per
piangere la sciagura
e qual d’esse get- tava su
la bava Gori^e
ghirlande*', e qual veli
e. nastri . e fiV;gi pel
capo di .una
vergine, e quale, in
Gne.te anella de’ Vecisi
capelli : iiratlantor molti
uomini •nobilita* vano 'la liinèbre
pómpa con' doni* convenienti,
presi grsì- tnitamente’ o con
pfeézró dalie prossime
olBcIce. Tanto che divulgaiissima era
per' la citrii la
lagrimevole ceri- mònia, éd avea
tulli acceso il
desiderio di -spègnerti la' lirannlde. Ma
qnei chè la
difeudeano f isirntii che 1 ' ; ‘ ".jd ny erano
di arme, davano grande
spavento ; laddove Va^ lerio
W SUOI non volea
finire col sangue
de’ duadim la disputa.
" . Tale era in
Roma la turbolenza.
Intanto Ver- ginio che
avea^ come ho
detto ^ itccisa di
sua mano la figlia
spronando.' a briglia
sciolta il .cavallo i giunse agli alloggiamenti presse
l' Algido su l’
imbruttir della sera, tutto
lordo -di sangue, e . colla ooltelitt, in
pugno, ap- punto . com’ era fuggito
da Roma. Vedi^tolo, i soldati che stavansi
a guardia innanzr del
campo ^ non sapeano indovinare ciocché
. avessè patito^ e lo
accompagnarono per
intenderne 1* alto.'
e terribile caso. E colui
tuttavia camminava piàngendo, e significando- a quanti
gli erano intorno di
.seguitarlo. Uscivano fin
di mezzo alJf
cena da’ padiglioni, presso i quali passava, soldati Jn
folla y con faci e
làmpade, pieni di
mestizia e tumulto, e fa* cendogli corona^
lo accompagn#ano. Alfine
giunto in un luogo
spaziose del campo.,'
e salita una eminenza ov’ essere da
tutti veduto, nar^ò.
le disavventure sue, dandone
per testimou) quanti
erano con esso, venati
da Roma. E quando infine
videne molti addolorati
e pian- genti-; fecesi
allora a supplicarli e scongiurarli di non
permettere che restassero,. egli invendicato,
^ concai- cataria patria. E lui
coti dicendo, ecco. in
tutti- grande la voglia di. udirlo
e viva 1». istigazione perchè
parlasse. Adunque tamtx più
animoso 'inveì su’ Decemviri, mo-
strando di quanti, aveano
essi tolte le
sostanze, di quanti flagellato il
corpo, e quanti ne
aveano ridotti senza colpa
niuna a lasciare la
patria ^ e numerando insieme le
ingiurie verso le
matrone, i ratti delle donzelle . nubili, i '.disoBoramenti de’ liberi > garzoncelli, e, le,
tante altre ingiustizie e tirannidi.
E così, disse, ci
calpestano * (Questi, senza
che ne aibiano
il poterti non
dulia legge, non dal Senato, non
dal popolo. Imperocché spirato è /’
anno dflla loro
magistratura ; e spirato ; doveano
in altre mani>
trasmetterla'.' violentissimi
però la ritengono ; spregiando
in noi, quasi in
femmine, la paura grande
e' la codardia.
Ognun • di voi
qui ricordi quanti^ mali
ha da loro
sofferti, o veduto sof- ferirsi
dagli e^i. Che
se alcuni qui
blanditi da essi mai
con' piaceri o favori, non temete
il Decemvirato, ne apprendete
che eguali mali
siano per., venire
un giorno su voi,
sappiate che non
vi è fede pe
tiranni, sitppicUe che non
donano t' potenti
per benevolenza, e sapendo queste
e simili, cose,
Uorreggetévene : ed unanimi tutti
Iterate da tù'onni
la patria, quella dove sono i
templi de\ vostri Dii,
dove le tombe
dei vo.stri maggiori, ! quali
voi riverite appresso
gV Iddj, dove li
veóchi genitori che
.dimandano il premio
dei travasi e delle tante
cure per voi ^ dove
le mogli, vostre legittime
^ dove le figlie
nubili, alle quali
deesi non tenue Id
Vigilanza: dove infine \i
vostri figli ma- schi, che
aspettano da voi
cose degne dèlia
natura loro^ e de’ progenitóri.
Taccia le vostre
case, i vostri poderi, i
vostri ■ danari acquistati
con tome fatiche dagli
antenati e >da^ voi :,
delle, quali cose
tutte pià non pofrtle
essere i certi, padroni 'finché
i Dieci qui tiranneggianox ' . XLI.
Già non è da
savj,. non da valenùtompii
cer» care colla fortezza
le cose altrui
^ nè curare poi
che Digilized by Coogle 36a
DELLE antichità’ romane per
viltà si rovinin.
le proprie far
co» gli Equi ^
co’ Fblsci, co’ Sabini, a ' con tutti
intorbo i vicini guerre diuturne
» indefesse per la
indipendenza e pel principato,
nè vbter
poi nemmeno prendere
le armi per la^
vostra sicurezza e la
libertà cantra uomini
il- legittimi che fi comandano.
Che nòn ripigliate
lo spi- rito' delia patria
? Che non tornano
- in voi li
sensi degni degli' antenati?
cU quelli che
per V oltra^ìo di una
femmina solà profanata
da un de
•Tarquìnj ed ucàisasi da
sestessa per le^
vergogna, 'tanto rie incol- lerirono e infierirono, e tanto comune
tipqtaron la ingiuria'; che
sbandirono di Roma
non il solo
Tqr- quinio,maJ re-: nè
piti soffersero^ die magistrato alciùfó vi
comandasse in vita,
e senza doverne far conto
: di quelli che
ne fecero altisiunto
giuramento fitto con imprecazione
su paetèri' se
noi' compievano ? Of
essi non avran
sopportata la incuria
di un sol giovinastro su
di una libera-
donna' soltanto ; e voi vi
state Comportando una
tirannide di tante
teste, •ehé’ scorre ad ogti
ingiustizia e libidine ^ è scorrerawi anche pià
se pià tra
vói la tenete
? Non la- ebbi io sole
una. figlia vaghissima, che jippìò-- accirigevasi palesemente a violentare
e lordare : le avete
anche molti infra voi‘'rhogli
o ; figlie e figli avvenenti:
Or chi difhn'dele mai
che ' ' alcuno de'
Dièci nón fàccia loro
come /dppio ? Vi
raccertano forse gt
Iddf che so lasciate
impunita la insolenza
' a me fatta, no/i
si avanzi questa fin
su molti di
voi; e che ^ nmor
ti~ tannò, giunto alla mia
figlia, ivi si 'rimanga
e si plachi rispetto degli
altri fanciulli e faiKÌiille?
Quanto stolula, quanto
atfena cosa è dire
che mai tali
idee si -effettuerànno ! Illimitate
sono de' tiranni
le pas- sioni, perchè superiori
alle leggi, e al^
timore. Su dunque fate
le mie vendette, prepardte la
sicurezza vostra, per non
subire egual male, rompete
o miseri una volta la^
cótena: riguardate ‘con
intenti sguardi la libertà
: ~E per qual
altra occasione mai
fremerete pià che per
queéta; quando ne
si tolgon le
figlie prè- testandooele per
ischiave, e quando via ne
si porlan le spose"
co’ littori? E se'ora
che siete tutti
cinti di arme la
trascurate la occasione e:
quando mài \ quando
il genia- di libertà
ripiglierete? -, XLU. Ma
iotaato cKe egli
parlava molti gli
promct- teanò, gridando, la
vendetta: e chiamati a nomr
i dnci delle schiere gl’
invitaronó a por mano
aff impresa ; molli
ancora, se ne avéano
riéeTuto alcun danno, fa- ceansi coraggiosi innanzi,
e lo rivelavano'. 'Udito
ciò li cinque, capi
come ho detto
delle legioni, temendo
che la moltitudine facesse
qualche soròmossa ' Cóntro di
essi corsero- tutti 'al
pretorio e vi consultarono
con gli amici, se
poteanO chetarne il
tumulto cinti dalle
arme de par* '
tigiani. non si
tosto intesero che i
soldati eransi .tri* tirati
'nelle tende, che caduto
e cessato era il
tumulto, senza sapere intanto
che il piò
de’cènturioni aveva con- giuralo occultissimamente d’ insórgere
e liberare la pa- tria ; destinarono, appena fosse
giorno, imprigionare Verginió
che istigava la^
moltitudine, e raccolto l’ eser-
citò condurlo ed acc^parlo
tra’ nemici, . e desolarvi H meglio
elei lor lerritorj
; nè più' lasciare
chè ognuno investigasse Curioso
ciocché facevasi in
Roma, ma tutti perocché, chiamato Vergioio
ai pretorio, i ceatnriooi
non permisero che
v’ andasse pel
sospetto che vi
peri» colasse: e scoperto com’era
ne’ratpi 'il proposito
di por- tare l’armata tra’ nemici.
Io riprovavano, dicendo:
Me- ramente ci avete prima
comandato benissimo, perchè ora
isperanzili vi seguitiamo
f Duci voi di
'tanta mili- zia, quanta ninna
ntai ne portò
da Roma f e dagli alleati non
sapeste nè vincere, nè
danneggiare i ne- miti. V oi
dimostrandovici odi, imperiti,
colf accam- parci male, e col desolare, quasi asversarj, le
terre nostre, ci rendes^ poveri, e bisognosi delle
cose le quali noi
conqOistayamo col prev/dere
in bailaglia, quando i nostri
capitani \ eran migliori
che voi. Ora il
nordico inalza contro
noi li trofei i il
nemico si. porta le cose
nostre; saccheggiandoci tende ^ schiavi y ottm, danari.Verginio per
la rabbia, e perché non
più temea que’ capitani
.inveiva più libero
conti» di essi, 'chiamandoli corruttori
e distruttori delia patria,
ed ani- mando i centurioni a tor
le insegne,, e ricondursi
in Roma colle milizie.
Molti non ardivano
ancora movere le insegne, che
sono inviolabili ; né
riputavano cosa onesta e.
sicura abbandonare i loro
capitani ' e ^i co- mandanti ; perocché il
giuramento militare, die i Ro- mani avvalorano più
che tutti,, (à
che il soldato
siegua i suoi comandanù,
dovunque Io guidino
: e la legge concede a questi
di. uccidere, nemmen giudicandoli
. gl’ indocili e li disertori.
Verginio, vedendoli tenuti
an- Digitized by Google ' LIBRO XI.
365 cora da tal
riverenza, mostrò ' loro che
La le^e stessa avea
sciolto quel giuramento
: giacché dea ehi
có- manda gli eserciti, esser scelto
a norma delle leggi
; e r autorità de’ decemviri
era tutt^ contro
le leggi, trapassalo t anno
per cui fu
destinata ; far poi
gli ordini di chi
comanda contro le
leggi non è ubbi- dienza, nè pietà,
ma demenza e furore.
Or ciò aden- do, giudicarono udire
il vero : e suscitatisi a vicenda
; e quasi dato lor
cuore’ dagl’ Iddi!; tolser
le insegne, e ne
andarono.' In mezzo
d’ indoli tanto
varie, nè tutte conoscitrici del
meglio, si rimasero,
co’ decemviri, com’è
verisimile, centurioni e soldati',
minori però molto, non
eguali di numero
agli altri. Quelli
clie partirono dal campo, viaggiando tutto
il giorno, giunsero al far
della sera in
città, seuzaqhè alcuno ve
li annunziasse ; nè
poco la costernarono, credula cbe
giugnesse il ne> mica.
Adunque tutto tri
divenne clamore, moto, di-
sordine ; ' ma non sì a
lungo, da nascerne òiale
: pe- rocché quelli passando pe’capi
strada, vi gridavano
che eran gli amici,
e venivano in bene
della pàtrio: e con- formarono le Opere
ai detti, non offendendovi
alcuno. Recatisi ali' Aventino,'
colle il
piò acconcio entro
Roma per accamparvisi, allogaronsi
presso il tempio
di Diana. Nel giorno
seguente fortificato il
campo, e destinati dieci tribuni
miljtàri, de' quali era capo' Marco
Oppio, sul comune, si tennero
in calma. Dopo non
molto giunsero in*
sussidio loro con molta
milizia dal campo
di Fidene i centuribni
mi- gliori delle tre' legioni, alienatisi da’
comandanti fin di allora
che fecero trucidare, come ho
detto, Siedo il legato
; .e timidi non
pertanto di cominciare
i primi la ribellione in
vista . delle cinque
legioni delK Algido, quasi
fossero amiclie ai
Decemviri. Ora però
saputane la insurrezione; acceuarotjo
di tatto buon
grado il favor della
sorte :> anche
di queste milizie
eran capi dieci
tri- buni eletti in mezzo
alla marcia, ma Sesto
Manlio ne era il più ragguardevole. - Congiuatisi
tutti, e deposte le arme, incaricarono
i venti tribuni a poter . dire e fare quanto
dovessi pel comune.
.Elessero di questi
venti come capi consiglieri
i due più rispettabili,. Marco
Op- pio, e Sesto Manlio. E questi
.formata un coùsigUo
dei centurióni maneggiavano tutto,cpn,.
essi. .Non essendo ancor
c^arl al popolo
i (prò disegni, Appio .consape- róle a ses tesso
di essere la
cagione di quella
turbolenza, e de’ìUali che ne
verrebbero, tenòvasi in
casa, non 'ehe ardisse far
pubblici atti. Sbigottì
su le prime
anche Spurio Oppio, costituito,
come lui, su la
città, quasi fossero ben tosto
per assalirlo nemici,
e fossato appunto per questo
venutL Quando però
vide che‘'uon fàceano innovazioni] rallentando
le paure ^ convocò
li Senatori nell.^ curia, intimatili ad
uno ad ano
per le case.
E ' standovi questi ancora
adunati: ecco giungere
i cpman- danii dall’ armata di
Fidane, irritati che
la milizia avesse abbandonato T uno
e.T altro' campo, -.ed.
insistere col Senato perché
ne prendesse degna
vendetta. Ora do- vendo ciascuno dare
il sno voto
su questo. Ludo
Cor- nelio disse, porlqre il dovere,che
tornussero i spillali 'ttcl giorno
stesso daW Avenlitto
lot' campi, ed ese- guissero gli ordini
des comandanti. Con
ciò non sa- 'rebhero
tenuti rei di
quanto s' era
fatto, so noti gli autori
sali, della ribellione ; à qvudi
imporrebbe la pena' il duce
^medesimo : ma se
non ubbidwanq ; il Senato
delibererebbe su loro,,
camq su disertori
dei posti, affidati ad essi
da' capitani, e come su
viola- tori del giuramento
ipiUtare. Lucio .Valerio
gli contrae riava (i)....
Ma nè conviene
che no» facclaosi
af&tto' pa- role delle-
leggi romane ehe
troviamo nello dodici
tavole, essendo tanto venerande
e più insigni delia
grecai legi- slazione ; nè conviene
che sen facciano
oltre il dovere, prolungando la storia delle
leggi medesime. -- -
XLV. Tolto il
decemvirato ebbero i primi
ne’oomizj cenluriati la dignità
consolare, dal popolò
come ho ‘detto Lucio Valerio
Potilo, -e Marco
Orazio Barbato (2),
uo- mini popolari per indole,
come per educazione
eredi- tari*'. Fidi alla promessa
che avcan fatta
al popolo quando lo
indussero a, deporre
le armi, di maneggiare sempre il
governò in suo
bene ; stabilirono ne’
coraizj centuriati, mal grado
i palrizj che vergognavansi
di re- clamarvi, oltre le
leggi che non
rileva qdi scrivere, anche quella
coUa quale ordinavasi, che i decreti
faixi dal popolo ne
comizj per tribù
valessero conìé i de- creti emanati ne'
comizj ceniuriati per
ogni classe di cittadini
;■ sotto pena t
in caso 'di convinzione, per chiunque^ abrogasse
o trasgredisse questa legge,
della (t) Qdì miaca
1’ aliimo SYÌluppo de*
fatti co* quali
fa tolta la eppreaaione Decemvirale.
-Perdita non ignobile ; traltSadoYiti di uno
de* graudi oambiameati
di stato. . ., *• (a)
Aeuo 44^ avanti
Cristo, dalla fondaiiooe di
Aoma,3o6 se- condo Catone^ Quest*
anuo è tralasciato nella
cronologia di Varroue e però/ le dne
cronologie differiscono dopo
questo per un
anno solo, non per
due com^ per
I* addietro. morie
e della confisca de'heni.
Questa risoluzione levò le
controversie tra’ plebei
e tra' patrizj, i quali ricusa- vano di ubbidire
ai d^eti latti
dai primi, e riguar- davano i
decreti emanati ne’comizj
per 'tribù come leggi singolari di 'esse
non 'come universali
di' Roma intera: laddove ciocché
fosse stabilito ne’comizj
per centurie lo riputavano
ordinato a sestessi come a
tutti i cittadini. Fu gié
détto innanzi che*
ne’ comiz) per tribù
li poveri e li plebei
prevaleano su’ patrizj, come i patrizj/ quan- tunque assai minori
di numero, prevalevano su’^plebei ne’ comizj
per centurie. Stabilita da’
consoli questa legge
con altre leggi, fautrici ’anch’
esse, 'come ho detto, del
popolo ; ben tosto
i tribuni credendo vénnto
il tempo di
vendi- cami di Appio e de’ colleghi di' esso,
pensarono d’ in- timar loro il
giudizio >e chiam'arveli
non tutti insieme perchè gli
uni non giovassero
gli altri ; ma
l’ uno dopo l’altro, su
la idea di
convioceryeli più facilmente.
Ora considerandu su chi
prima incominciassero più a
pro- posito, deliberarono mettere in
istato di accusa
Appio, il più esoso
al pqpolo per
le oppressioni, e per le in-
degnità recenti contrò la
vergine. Parea (oro
che assi- curatisi ''di questo, disporrebbono' facilmente
pur degli altri; laddove
se cominoiassero dai
men furti, parea
loro che l’ira de’ cilladtni, calda oe’ primi
gludizj« s’inde- bolirebbe,
come spesso accadde,
per giudicare in
ultimo i rei più segnalati.
Deliberato ciò,
sopravvegliarono i rei,(j) ordinando
a Verginìo di accusare
Appio', senza, * ' t • • |i) Cioè
gli aliti DeceniTiri
aùìaebè non soccorceMcto
Appio. LIBRO XI.
369 nemmeno decidere colle
sorti chi Io
accusasse. Appio dunque accusato
da Yerginio nell’ adunanza fu
citato al giudizio del
popolo, e chiese tempo per
giustificarvisi. £ siccome
non si ammisero
per v lui mélievadorì
; fu tratto in
carcere per custodii^elo
finché di lui
si giu- dicasse. Ma prima
' chu giùngesse il di prescritto
pel giudizio mori nella
carcere, per opera come
molfi so- spettano de’ tribuni
: ma secondo che
divulgarono altri, che li
discolpano, egli, appiccò sé
medesimo. Dopo lui fu
tradotio al popolo
Spurio Oppio da
Publio Numi- torio altro
tribuno : ma', dategli,
le difese, vi fu
con- dannata a pienissimi
voti : e portato in
carcere fini nel giorno
stesso la vita.
Gli altri decemviri
pfima di essere necessitati al
giudizio, ■ condannarono
sestessi all’ esilio. 1 questori incorporarono
all’eràrto i beni degli
uccisi e degli esuli.
Fu nommeno citato
Marco Claudio quegli che
si accinse a tor
via come schiava
la donzella da Icilio
lo sposo : ma
preiéstando i comandi di
Appio fu scampato da
morte ^ e 'gettato' in esilio
perpetuo. Gli altri'
ministri ^elle* ingrastizie 'dèi decemviri
non .subi-' irono giudizio
pubblico ma diedesi
a tutti la impunità. Suggerì pari
economìa Marco Duilh'o
il tribuno per essere
ornai turbati i cittadini,
e. timorosi di -essere
fi- nalinente anch’ essi
giudicati. XLyiI. Chetate le
turbolenze interne', raccolto
il Senato, decretatio che
esca immantinente T armata
con* tro, a’ nemici.
Ratificato dal popolo
il decreto del
Se- nato, Valerio l’uno de’ cònsoli, marciò eoa
metà delle schiere contro
gli Equi e li
Yolsci i quali miliuvano ' PtOSIGt, itmo III. insieme.
(Consapevole però thè
gli Equi, imbaldanzili pe’
vantaggi- precedenti, elevavansi fino a
sprecar gran- demente la milizia
romana, cercò renderli ancora
più temerari e vani con'^are
di sé vista
ingannevole, pra de’
Romani r -ma dimostrando
r cavalieri un ardor sommo
ottenne una segnalata
vittoria, - nccisivi molti nemici,
imprigionativene pii^ ancora, e preso' i loro alloggiamenti dereKtti.
IvÙ trovò •molte provvigioni
da guerra, e tutta la
preda già tolta,
dal terchoi^'dé’'Ro- mani : anzi' detenuti molti
de’ suoi che liberò;
non. es- sendosi alTretlati i
Sabini pel disprezzo
che aveano del nemico
a riporre in sictirb
4anti loro vantaggi.
'Adunque diede a’ soldati
la roba nemica, preelcggeudone ciocché era
da offerire agl’
Iddii 1 ' ma ‘ rendette
te prede a chi n^era
stato spogliato. ‘ XUX.
Fatto ciò ricondusse
1’ eserdto in
Roms ove giunse)-
contemporaneamente anche . Valerio
: ambedue sentivansi grandi per
là vittoria, e' se
ue auguravano luminosi trioufi.
Non però uiccedette
cobi’ essi ne
spe- rayano .imperocché Raccoltosi
il Senato' per
essi 'dtie- efae stavansi
coli’ esercito sul
campo -Marzo, ed esami- natine'le gesta, non
accordò loro il
sagrifizio per 1» vittoria
: essendo oontrarìati da
molti., e da alcuni ma- nifestamente, soprattutto da
Cajo Claudio, zio come
scrissi di Appio,
vuol dire del
fondatore dei decemviri, e tolto non ha guari
di mezzo .da’
tribuni. Cajo ricor- dava le leggi
colle quali ajrean
essi ‘ diminuita rautorilà del
Senato, e ricordava le altre
maniere da essi
tenute perpetuamente ' nel gorernare
: ricordava ‘ le morti
o le conCfohe'de’beni
dc’decemviri, traditi da
esu ài tribuni contro i patti
ed i giuramenti essendosi
in mezEO alle vittime
convendta tra’ patrizi
e tra’ plebei la
dimenti« canza, e la impunità
su tutto il
passato. Protestava cbe Appia
non era caduto
morto innanzi al
giudizio di sua mano, ma
per malizia de’
tribuni : aflìncbè nell’
essere giudicato non ottenesse
nè difese, nè misericordia
: co* me polea ben
ottenerle, se potatalo in
giudizio metteva ÌDuanzi al
guardo la nobiltà
della sua gente,
e le molle beoefìcenze di
essa verso la
repubblica ; se reclamava
i giuramenti e' la buona
^fede- su la quale
gli uomini ri- posano) e rendonsi a far
pace; se veniva, co’ suoi
figli» co’ parenti., jn
àbito di umiliazione
; in somma con
-gli altri modi pe’
quali uo popolo
si disacerba, s’ intene- risce, e
perdona. '{fra tali rimproveri
dati loro da
Cajo Claudio, e da altri presenti, fu
coucluso, che si con- tentassero i' due,
di non pagarne
le pene: del
resto non essere nemmeno
in picciobssima parte
d^gui del trionfo, o,di
concessioni non dissìmili. L.
Valerio ed il
coUega esclusi ^al
trionfo,' lenen- dosene
ofTcsìssimi, e sdegnandosene ;
convocano il po- polo, e vi accusano
vivamente il Settato.
.Peroravano per loro i tribuni^
e proposero e ne ottennero
dal po- polo il trionfo:
ed essi ..primi
di tutti i Romani
pro> dussero tal cot^uetudine.* Dopo
ciò rinacquero ‘i
dissid), e le incolpazioni tra’
patrizj f e tra’ plebei.
Li tribuni raccendeano questi
ogni giorno concionandoti. Irriuyali soprattutto il
sospetto cbe li
tribuui cercavano di
cor- roborare con romori incerti, e di
amfdìare con divina- zioni varie, come
se li patriz)
fossero per' )tnnienUre
le leggi stabilite dai
consoli, Valerio e suo
collega: c quel lupetto ornai
tanto prevaleva che
degenerava la fede. E tati
sona gli eventi
di qnel consolalo. LI. Nell’ anno
appresso foron consoli
Laro Erminio, e Tito
Verginio (i). Snccederon
loro Marco Geganio..>(a). LH. Nè
rispondondo essi, ma
sdegnandosene; Scatùo fecesi di
nuovo innanzi e disse
: ecco o cittadini che si
concede dai litiganti
medesimi che essi
pretumonb, parte che a lor
non compete f della noslrà
campagna', or voi considerando
ciò decidete ciò
che é giusto e congruo
co' giuramenti. Scattio
cosi diceva : ma i
con- soli ardevano dalia vergogna
in riflettere, che il
giudi* aio prenderebbe un '
termine . nè giusto, uè onorato, se’ il popolo
il quale qiai
non aveast attribuito
' la campagnar disputata, ora,
elettone giudice, se T
attribuisse, con toglierla ai litigami.
Adunque ad iscansare
èiò si ten- nero dai
consoli" e dai capi
del Senato molli
e molti discorsi ; ma ihvauo.
Impetocchè quelli' che
aveano pi- (i) Ando
di Roma 3o7
fecondo Catone,, 3o3
fecondo Varrone, e 445 *v.
Ctifio. .-(a) E C. Giulio
secondo che si
ricava dà Livio.
Net consolato di Erminio
e venissero persuasi in
contrario, annullerebbero
alcuna delle rìso- kizioni
proprie. LV.' In vista
di .tali minacce
.adunati gli Ottimati
Ji piu anziani e principali
da' consoli a consiglio
privato, ponderavano ciocché
''fosse da fare.
Cajo Claudio come U men
popdiarc, ed erede degli
antenati in tal
genio di procedere, inculcava
ostinatissimo, che non
si ce- dessero al popolo
né i consolati, nè altro
magistrate qualunque; e che senza
riguardo di persona . privata o pubblica
si frenasse colle
armi, se. non l'eodeasi
per le parole, chiunque
tentasse il contrario.
(mpero.cché chiun- que tentava sommovere
le patrie costumanze
o discio- gliere la forma primitiva
del governo era
non cittadino ma nimico.
Per 1’ opposito
Tito Quinzio non
voleva che si reprintessero
gli avversari colla
violenza, .né si venisse alle
armi ed al
sangue civile colla
plebe: tanto più
di- ceva che. -noi abbiamo
contrarj i tribuni, che i nostri padri dichiararono
sacri ed inviolabili;' facendo igenj
e gl' fddj mallevadori
dell’ accordo con
imprecatone gra- vissima
delia rovina loro
e' de’ figli, se
da indi in poi
lo avessero mai
violato anche in
parte. LVI. Accosta vansi . a
questo partito . ancor
gli altri chiamati a'
congresso, quando. Claudio pigliando
la pa- rola disse : Non
ignoi*o quaji Jòndamento
pongasi di mali, per
tulli noi,, se^-concediamo che
il popolo fac- ciasi a volare su
questa legge': ma
non avendo cosa pià
farmi, nè come
resistere a voi; che
tanti siete ; ahbattdonomi ' ai vostri
consigli. Ben è giusto
cJte LIBHOXI. . 377 ognun
dica Ciò che
sente deU util
comune: ma poi siegua
ciò che i più
ne conchiudono. Jar,
eome esortasi in c^fan
che aggravano, nè si
vogliono, vi esorterei che non
cedeste nè ora
nè poscia il
consolato a ninno, se non
ai patrtzj, i quali è giusta
è pia cosa che lo
abbiano : ma qustndo
come cd presente, siete alla
n«- cessità ridotti di
far partecipi anche
gli altri cittadini del
grado e del potere
più grande ; vi
dico che assu^ miate
i tribuni militari in
luogo de' consoli, defineie- ione un
numero { otto -o sèi forse,
chè tanti credo bastarne ) riel
quale i patrizj e i plebei
si pareggino. Così Jrscendo
nò renderete il
córuolato magistratura di uomini
indegni ed abbietti
•, oè parrete
per voi f ohe hricare
un comando ingiusto, coll escluderne
affatto i plebei. Ed approvando
tatti, senza reòlamt> niuno
un lai voto} udite
soggiunse, .ciocché restami a dire
a voi consoli. Prefisso il
giorno in cui^
stabiliate quel previo decreto ^ e ciò
che daf Senato
si giudica, lasciale che parlino
su Ha legge
chi la difende
e chi C accusa. Fi~ mia
la disputa, quando fio t
ora d’
irttendeme i voti, non. vogliate
da me cominciare, non da,
codesto Quirtr zio, nè' da
altro seniore ma dsU popolafissimo
sena- tore Lucio Valerio; interrogando
appresso Orazio, se punto vuol
dire, Bicercate così
le .loro .sentènze, or- dinale che noi
seniori diciamo. Jq
sporrò liberissirrta- mente il
parer mio 'contrqrio
ai tribuni,• e fa
questo [ utile della repubblica.
.Questo Tito Genuzio, se
il volete, dia la
proposta su* tribuni
militari. Parrà que- sto il
partilo più congruo
e meno sospetto se
proget- tisi o Marco
Genuzio- dal tuo
fratello. I( consiglio
sena- l Digitized by Google O'jS
DELLE antichità’ ROMANE brò
giusto, e parlironsi' dU oiAigresso.
T^merbuo i tri* buui la
secretissima aduuanza, come
intenta a gran danno de’
plebei, perché fatta in
casa, _ non in pubblico, e senz' .ammettervi alcuno
de’ capi 'del popolo. Adunque raccogliendo anch’
essi un consiglio
di uomini, amantis* simi- della
plebe ^ idewono ript|ri
e guardie contro le iusidìe
che aspeitavansi da’
patrizj. . LVIL Giunto il
tempo preacritlo per
fare 'il previo decreto, i consoli convocato
il Senato, ed* esortatolo grandemente al
buon ordine ed
alla concordia; invitarono, prima di
ogn’ altro j a parlare
i tribuni deUik. plebe,
i quali propónevano la
legge. Fe^i avanti
Cajo Canule)o, un di
loro ; ma egli
non che dimostrarla, bon mentovò nemmeno la
giustizia e la utilità
della legge. Diceva
c/te si stupiva de
consoli che avendo
fra loro ponderato
ù deciso ' ciocché jsra
da fare, ora quasi
pi abbisognasi sero consigli
e decisioni, metteansì a
proporlo ai Pa» dri, e 'davano- facoltà
di cBingaxyi con
simulakione non cbnvèniente nè
alt età loro, r\è
alla ' grandezza del comando.
Diceva che irttroducevan
t esempio di tristissime' pratiche, quando umvansi
in casa et
con- gressi recondite, jtè vi
chiamavano tutti i Senatori, ma i soli favorevolissimi loro.
E qui soggiungeva che
poco faceva^li meraviglia che
fossero esclusi da^quel
coa- 1 sigho edtri sonatori;,
ma ^grandissima gliene
ftcevache 'avessero tenuti indegni
da invitarveli Marco
Grazia, e Lucio L aierio,
qaell( che avetìno . tolto il
Decemvi- rotò, ambedue uomini
consplari %nè idonei' -men
di chiunque a deliberare su
la repubblica: lui
non poter, concludere appunto
In cauta .di
tal procedere ; indovinco
iie però quest'
unica: valé^ a direi
cfie essendo essi per
allegare -disegni' ingiusti trovinosi
alla piche, non vollero,
convocarvf persone di
essa amantissime, per- ' chè
sdegnate arti popolaresche
; numerando fin da
principio, tutti i |>ericoli venuti
su Roma per
colpa di quelli
phe vole- vano conU'ario governo;
rilevando come l’odio
versola plebe crasi renduto
dannoso a quanti lo
ebbero; e lo- dando
amplìssimamente il popolo
.come, autor principale delia libertà
e del comando delia
repubblica; alfine ra- gionate queste e simili
cose, concluse non poter
e^ser libera quella città
dalla quale tolgasi
/’ eguaglianza z e quindi
sembrare a lui giusta,
la legge la- qual
vuole che concorrano al
consolalo/ tutti i Boinani
purché siano irreprensibili ne
costumi e degni per
le opere di lai
tanto onore : non
essere però, quello
il tempo oppor- tuno da trattare
legge siffatta in
tanta turbolenza di guerra
per la repubblica.
Pertanto consigliava, ai
tri- buni di permettere che
si réclutassèro i soldati,
e che reclutati uscissero: ai
consoli poi di
pubblicare, appe-j \ Digitized by
Coogle V', i.iBHó xr.'
'* 38 1 na detto
buon alla guerra
il previa decreto
su la legge: e si
scrivessero e si corueruissero
fin et alloratali
cose da ambe
’ie, parti. Ta^è fu
la senteuza di Va-
il secoudo da*' consoli:
non ^ però ne fu
pari 1* affetto
io tutti gli astanti.
Imperocché quelli, che
voleaoo preclusa la legge,
ne udirono f!Ot>
piacere la dilazione, non'peré con piacere
ne adirono éhe
essa dovesse decretarsi
dopo la guerra: air
opposito quelli che
volevano che sì ac-
cattasse la legge dal
Senato iotesero con
trasporlo che giusta si
dichiarava : ma con
isdegno intesero che
se ne ritardasse il
decreto. j > LX. filato
taraulto ('oom' è verisimile,
perchè questa sentenza non
soddisfaceva in tutto
ad ainhe le
parti, il console fattosi innanzi
interrogò per il
terzo Cajo Claudio il
quale sembrava ostinatissimo
e/ potentinimo fra
tutti i primari della fazione
opposta alla |>lebe.
Costui tenne un dùtcorso
premeditato contro del
popolo-, rilevando di luì
tutte le cose
che gPien parevano
contrarie a begli usi della
patria, fra lo
scopo principale ove
tendeva il dir suo,
che i consoli non
pcoponessero al Senato
l’^esar* me di quella
legge nè allora'
- uè mai, ooine diretta
a distruggere il comando
degli Ottimati, e confondere
ogni buon ordine. Cresciuto
a tal dire il
tumulto, sorse in- vitato il quarto, Genuzio, fratello dell*
a^tro con- sole.-Costui j discorse
breveménce le circostanze
della città, e come la
cótnplicav^^no all* uno o
all’ altro disastro, o di far
prosperare ^i nemici
per la discordia
e 1* ambiziojie de’ citudinij
e, di dare mal
termine alla guerra
interna e domestica .|>er espedirsi
dajl’ altra che
le era portata di
fuori, disse, che
essendo' due i maiì' ed
essendo ne- cessità d’ inwyrreme, loro mal
grado,' l’^udo o Y altro,
credeva coufacevole ai
Padri lasciar che
il popolo urtasse alcune istituzioni
proprie, anzi che
rendere la patria
Io scherno di forestieri'
e nemici^ E cosi dicendo"
propose la sentenza approvata
nel congresso di
^elli che si
erano in casa riuniti, sentenza come
io dichiarai suggerita
da Claudio, che si eleggessero
ift luogo de'
consoli i tri- buni militari,
tre de’
patrizj, e tre dd plebei, tutti con' potestà superiore
: chè quando -^nìrebbefo
questi il lor tempo,
e si dovrebbero creare
i nuovi magistra- ti ;
allora unitisi di bel nuovo
il SerUUo ed
il popolo decidessero quali
più voleano riassumesre
al cornando li tribuni
militari o li consoli
: che per valido
si tenesse quello che
il voto comune
destinerebbe: e che pari decreto
si rinovpsse ogni
anno., ' ' LXI. Eu la
opinion di Genuzto
acclamata da tutti: e gli
altri che sorsero
a sentenziar dopo lui
-la tennero, quasi tutti, per
b migliore. ' Se ne
stese dunque da' consoli
il decreto, ed i tribuni
della plebe, pigliatolo, oe andarono, tripudiando, al' Foro.
E convocatovi il popolò, vi
lodarono amplissimamente il
Senato^ e vi di* nunziaronoV cbe
doncorresse pure a’
magistrati .‘insieme co' patrizj
chiunque il volea
de* plebei. '.Se
non- ohe il desiderio
senza cagione, Speciàlmemc' nel
popolo ^ è per sé" dori
vano, e cori pronto
' a dar luogo arcOnirario
; ohe quelli i quali
facevano ogni prova
per essere a parte
' del magistrato, risoluti se
non concedeasi ciò
da’ patrlz}, di abbandonare la
patria come 1'
avevano abbandonata altra volta, o dì
usurparselo colle armi, ottenutane appena
la pertnissione,
rattemperacono sestessi, e rivolsero
altrove i loro favori.
E quantunque molti de’
plebei aspi- rassero al militar
tribunato, e" facessero per
giungervi insistenze
caldissime ; non riputarbno
alcuno degno del grande
onore.- Cosi quando vennesì
al voti nominarono al
militar tribunato tra’
patria) che yi
còneorrevano, Aulo Sèmpronio
Atratino^ Lucio Attilio
Longo, e Tito delio Sieelo.
. ' ; . y ‘ ^ i * LXn.
Questi assunsero i piWi
qu^ grado in
luogo del consolare nell’
anno terzo della
olimpiade ottante- sima
quarta essendo Di61o
arconte in Atene
(i): ma ritenutolo settantatrè' giorni lo
deposerq secondò gli
usi della patria’ spontan^atOébte ;•
perché alquanti segni
ce- lesti vietavano loro il
maneggio de’ pubblici
affari. ' Le- vatisi questi dal
comando; il Senato- si
raccolse, e no- minò gr;ìn(errè. U quali
prefìssero il tempo
de’ comizj e proposero; da
risolvere al popolo
se voleat rieleggere li
tribuni o li «008011 1 il
popolo decise attenersi
agl) nsi primitivi; ed
essi cont»derono che
chiunque il volea
de* palrizj concorresse al
consolato." Adunque si
elessero di' nuovo i' consoli’ dell’ ordin
patriuo, e fuf'onò' Lucio
Papirio Mugiliano, e Lucio Sempronio
Atratino, fratello di uti de*
tribuni che s’
eran dimessi. Dond*
è che furono in -fiLoma
tu un anno
stesso due magistrature
supreme. Non però comparisce
1’ una e l’ altra
magistratut^ in tutù gli
annali Romani : ma
in alcuni trova'nsi
i 'soli tribuni, (i) Aodo
di Roma 3ii
$ècon{lo Catone, 3ia
secondo Varronc, e 44* ^v.
Ccisle. Tilo Livio
dice cbv i tribuni
militari entrarono maghtraii sul
termidare dall* anno
3io, e perciò toccarono anche l’inno
3 11. ÌD altri
i consoli soli, osservandosi in
non molti T .una e r altra. Noi
ci atteniamo agli
ultimi nè senza
ragione, affidandoci alla testimonianza
de' libri sacri
«'recònditi. Sotto, questi consoli
nou occorse altra
cosa civile o mi- litare degna di
ricordanza; fecesi però
trattato di ami- cizia e di alleanza
colla cidi degli
Ardeali, peroccliè spedirono
ambasciadori, pe* qliali,
lasciate le querimonie intorno la
campagna, dimandarono di essere
gli amici e gli alleati
de’ Romani. I consoli
ratificarono questo trattato.
LXIII. 11 popolo
confermò co' suoi
voti che si
cf'eas* s^ i consoli anche
per 1’ anqo seguente
; e nel. pleni- lunio di Dicembre
presero il consolato
Marco. Geganio Macerinó per
la secotula volta, e Tito
Quinzio Capi- tolino per la
quinta (i). Questi
rimostrarono mentre i più
inutili e più svergognati
eran fuori ài
ogni registro, e cangiavano luogo
con luogo affine
di viverci come loro
piaceva., i. (i) Addo di
Roma 3ia se'coado
Catone, 3i3 seeuado,
Yatione, 41» ar. Cristo. U tomai dì
AUcartiosso scrìsse le
Antichità Ro- mane dalie orìgini
di Roma fino
alla prima guerra Punica
in venti libri
estesissimamente, e di questi,
poi diede un
compendio in cinque
libri come fu già
detto nella prefazione
al tomo primo.
De' venti libri perirono qualche
parte deW undecimo, e tutti i nove ultimi, salvo alcuni
frammenti pubblicati più
volle e ridotti in fine
secondo P ordine de'
tempi in ciò che
narrano. ’ Avendo io
trasportato nel nostro
idioma gli undici primi
libri, e li frammenti
già noti de'
rimónéitti, fu tutto dato
in luce U anno
ii5ia per Fìncenm
Pog- gioli, editore in Roma
della Collana Greca
tradotta in Italiano. Quattro
anni appresso però, cioè
nel 1816, apparve in
Milano una stampa
Grecolatina della quale il
titolo latino è:
DiONTsii Halicarnassei RomaDarum AntiquitaUim
pars hactenus desiderata
nunc denique ope codicum
Ambrostanorum ab Angelo
MaJO Ambrosiani Coliegii doctore, quantam licuit, restitala. Quella stampa
comprende gli antichi
frammenti dei nove libri
smarriti, e parti riguardevoli
derivate dal compendio, collocate
prima c dopo di
essi frammenti Digitized by
Google 388 per ordinare un
tutto il quale
dia compenso e lume di
ciò che erano
i nove libri perduti
di Dionigi. Jn questo
letterario ordinamento ci
si dà ciò
che si è trovato, e non sopra.
Del resto la
versione la- tina è precisa,
corrispondente, elegante, buona, anzi
molto : te note
opportune, nè vi si
desidera di- ligenza : e ciò basti
su quell’ opera. Considerando come i
frammenti veri de’
nove libri presentati di
nuovo in quella
stampa erano già
vol- garizzati, C editore in Roma
della Collana Greca tradotta, cercò
più volte di
avere anche il
volgare di que’ supplementi
raccolti come si
potè dalla Epitome o Compendio di
Dionigi: ed uUirnumente
vi aggiunse pur le
sue premure il
nuovo editore in
Milano della Collana' Greca,
presa la
occasione dal valersi
egli ancora della mia
traduzione. Su tali
istanze ho con- segnato il volgare
di que’ Supplementi
ordinato coi vecchi frammenti
appunto come si
ha nel testo
Gre- colatino. E ciò è quanto
basta a dar luce
alla giunta seguente. i • £jglI avendo
radtinato Intorno a sé
uomini di ogni reo
genio, li nudrìva,
quasi fiere, contro
la patria. (i) Suppiementi.
Cos\ li chiamo
per dittiogaerli dai
Frammenti. Qnetti tono parti
vere^ dei libp
perduti f gli altri
tono parti deri- Tite
dal compendio de’ Tenti
libri delie anpchilà
di Dionigi troraio in
Milano ueil’ Ambr*>a°a io
due dodici, l'nno
intitolato: Di Dio- nigi di
jilicarnatto Archeologo Romano
t l’altro: Dionigi di
Alitarna$$o Archeologo dplle
cote Romane. E chiaro
che questo titolo i dato
da altri. Li
supplementi avran sempre
doe TÌrgole in
prin- cipio ed in fine
dei paragrafi per
dùtiognerli dai frammenti., DELLE antichità’
ROMANE Tuttavia se ascoltava
me, se confofmavast alle
leggi, egli faceva un
gran colpo per
la difesa, dando segno non
piccolo di non
aver cospirato. Ma
sbattuto dalla sua cosdenza
si ridusse dove
quelli si riducono,
i quali siegnono scellerati disegni
contro dei loro
più congiunti; deliberò di
non presentarsi al
giudizio ; e respinse a colpi
di mannaja li
cavalieri spediti su
lui (i) ....
li suolo -della sua casa i
Romani Io chiamano
equimelio: conciossiacbè
equo è detto da
loro, ciò cbc non ha
prominenze. Cosi il
luogo soprannominato Mclio
in principio fu di
poi detto Equimelio
alterandosi i dne nómi in
un solo (2) ».
II. « Guerreggiando i Tirreni, i Fidenati, e li Ve- jenti
co’ Romani (3j, « Laro
Tolumuio re de’
Tirreni segnalandovisi
spaventosamente ; un* tribuno
romano, Aulo Cornelio cognominato
Cosso, spronò il
cavallo su lui. F attisi
a combattere già moveano
ai colpi le
aste ; quando Tolumnio
feri nel petto
il cavallo dell’
emulo, talché il cavallo
ne infuria e lo
atterra. Ma Cornelio internando I’
asta per lo
scudo e 1’ usbergo
nel fianco di Tolumnio
rovesciò pur lui
da cavallo. Ben
sorgea questi ancora, quando fu
colto nell' anguinaja.
Con ciò Cosso Io
ucdsc e lo ' spogliò, non solo
respingendo quanti
accorrevano fanti e cavalieri, ma disanimando
e t . (1) Qo«sla h parte
òel discorso di
Cineinnato sa Spn^o
Melio Deciso come reo
di ambita lirannido. (a) La
occisione di Spurio
Melio co4) corre con
l’anno 3r5. II libro
XI di Dionigi
non eccede 1*
anno Sia. Pertanto
cib ebe manca a dar
conliuna la storia
delle Àniichiià Romane
con quella del
Coca- pendio b la serie
dei fatti dell’
anno 3i2 e dell!
due sdenti. (3) Anno
di Roma 3i^. •
Digilized by Google • LIBRO XII. '
391 impaurando quanti erano
alle mani neN'
uno e nell* al- tro cornò
»• IH. « Essendo* consoli'
ntiovamenie Aulo Gjmelio Cosso, e Tito
Qtrinzio (i) ; penuriò
la terra per
gran siccità; mancando non
che le pio^e,
fin le acque
nelle sorgenti. Donde nniversaie
fa lo scapito 'di
pecore, di giumenti, di bovi :
e moitè -fra gli
uomini le. malattie, quella principalmente che
scabbia à detta, assai
molesta per lo rosore
nella cute, c più Rtolesta
ancora se inni- ceravasi : infermità
miserabile in vero, e cagione solle- citissima di rovina
». IV. .... « Mal
sembrava a’ primarj
del Senato ad- dimesticare il popolo
alla pace e prolungargliene la
cal- ma, sul riflesso che
per la pace
si schiudono in
città, vizj, piaceri, e sedizioni, e solean queste
prorompere ad ogni occasione, difficili nè
interrotte, appena si lo- gliean
le guerre di
fuori .... E meglio
superar 1* ini- tnico
beneficando, che punendo : imperocché
di là sie* gue
se ' hon altro, almeno
la speranza loro
più dolce sopra de’
Numi V. . . a Appena conobbe
che i nemid Io
assali- vano alle spalle,
chioso com’ era
per ogn’ intorno
da, essif disperò di
retrocedere. Egli tenea
grave sul cuore che
nel pericolo comune, essi
pochi contro de'
molti, essi gravati dalie
arme conira milizie
leggere perireb- bero turpissimamente senza
dar segno di
opera generosa. Adunque vista
un’ allora conveniente nè
lontana destinò di occuparla
» VI. « Agrippa Menenio,
e Publio Lucrezio e Servio Nauzio tra
gli ODorì di
tribuai militari scopersero
and insurrezione di servi
destinata coaUx>'di Roma
(1). Di- segnavano i
congiurati dar fuoco
tra la notte
in un tempo a più
case in più
luoghi, e quando vedeano
gli altri intenti a reprima.
1* incendio, allora invaderne
il Campidoglio, ed altre
parti munite, e quindi
provocare ad esser liberi
lutti gii altri
Servi, e. con
essi ucciderne i padrom', onde
averae le mogli
e li, beni. Manifestatasi la prauca, i capi di
essa furono presi, battuti, e cro- ciassi : e que’ due
servi che la
manifestarono, ottennero
essi la
libertà veramente, e miUe (2)
dramme a testa dal pubblico
erario a. . ' ., VII.
Adoperavasi il tribuno
romano a compiere la guerra
iu pochi giorni,
come lui che
credea facilissimo, e quasi posto
nelle sue mani, sottomettere còn
una batuglia i nemici. Per
contrario.Jl comandante nemico apprendendo la
perizia de’ Romani
tra le armi, e . la costanza ne’
pericoli, non avea cara
una battaglia in campo
aperto con pari
circostanze; ma Uaeva
la guerra tra le
arti e 1* inganno, aspettandone chq
gli si pre- sentasse un vantaggio
(3) . . . . ferito e morto
venuto appena ».,, Vili. « In
quest’anno fu l’ inverno
rigidissimo, in Roma (4), tanto
che dove la
neve caduta era
meno, ( i) .tnno di
Roma 335. ^ (a)
Il mille mauca
oel lesto. È presso
a pòco il nomerò
pbe dee supplirai consideralo
ciò che se
ne ha presso
di Livio lib.
4, o. aS. (3)
Questo racconto consente
per qualche modo
con ciò che narra
Livio net capo
4^ del libro
quarto, intorno la disfalla
dei Romani contro degli
Equi. ivi era alta
li sette piedi
(1). Vi perirono
alquanti uo- mini, e molte greggi,
ed altro bestiame
non poco, so- praffatto dal gelo o
dalla fame per
mancanza de’pasccdi. Le arbori
firuuifere inusitate alle
grandi nevi o perirono in
tutto, o seccate ne’ tempo
in tali regioni
alquanto più boreali del
mezzo, seguendo il circolo
parallelo il qual viene
per 1’ Ellesponto
sopra di Atene.
Allora, per la prima
ed unica volta
1’ ambiente di
questa regione si allontanò
dalla sua temperatura
fa) a. IX. « I Romani
fecero le feste
dette letxistermi nel- r idioma, dei
luog.o. Or furono
ammoniti a tanto pe’
li- bri Sibillini: giacché gli
astrinse a consultarne l’ oracolo nn
morbo pestilenziale mandato
loro da' Nomi, nè
sa- nabile'per cura umana.
Adunque acconciarono, come voiea
r oracolo tre ietti, T uno
ad Apollo e Latona, r altro ad
Ercole e Diana, ed il
terzo a Vulcano e Nettuno.
Fot per,s?'tte giorni
fecero pubblici sagrifizj, come pur
fecero, ciascuno secondo
le forze sue,
private offerté ai Numi, e conviti sontuosi
ed accoglienze di forestieri
(3) ». « ^, I I ' (1) Livio
raeconu I., c.
i3 cb« il
Tevere non pelea
navigard. (3) Questo fraocbiaaiUko
tcnvere et desiderare le
cautele dell’aa- tore dei
veoli . libri delle
Aulichità Aooiaae. Le
muiasioai anche rarieeime dcll'elmosfera ooa
perché non sono
scriue pel tempo
paa- laio, può concludersi che
non avvenissero mai
piò . (3j Livio parla
di ul festa
nel lib. t, 0.
i3, la dice occorsa Pìsone il
censore fa negli
annaK suoi quest’ag> giunta : cioè, che
sebbene fossero sciolti
tutti i servi ^ tenuti
io ferri dai
padroni, sebbene Roma si
empisse di forestieri, ' e
sebbene ’si tenessero
dì e notte spalan* cate
le case, penetrandovi
chi volea,-senz* ostacolo ; pur ninno
si dolse che
avessene furio, nè oltraggio
; quan« tnnque i giorni festivi
sogliano per 'le
brìachesze dar largo il
campo a disordini ed
ingiustizie. Stando i Romani all’
assedio di Vejo
(i) sul nascere delia
canicola quando gli
stagni diminuisconsi e tutti
li fiumi all’
infuori ' dell’ Egizio
{filo (a), il . lago de’ monti Albani,
distante non meno
di quindici miglia da
Roma, presso al
quale fu già
la città madre
de’Ro* ' mani, crebbe senza piogge, senza
nevi, e senz’ altre
apparenti cagioni, per le
sole inteMe sue
fonti' a tal dismisura, che 'inondò
buon tratto delle
adiacenze con molte case
di agricokorì. E finalmente
aprendosi a forza, il passo
tra- monti si
versò con terribile
sbocco ne’ campi sottoposti, ■ ' Della estate
contagiosa, la qual
s^cedcltc all' inverao rigidissimo descritto diantì. (i)
Addo di Roma
356. (a) Aie infuori
delV Egitto Nilo-
Questa cceetione, &t cono- scere, parmi, che
l’autore'del compendio non i
Dionigi. Imperoc- ché egli nato
in Alicamasso città
dell’ Asia, e già spettante
al re- gno di Persia, come
tatto il corso
dell' Eufrate, non poterà, e certo non
dorerà ignorare in
tanta naturai tua
diligenia che P Eu- frate anch* esso
nel luglio assai'
cresce e trabbocca, come si
legge in Arriano iibro
ni, par. ao,
greco per esso,
e scrittore delle gesta di
Alessandro. Lo stesso
Arriano scrire nel
lib. r, paragr.7
secondo la nostra tradusione,
che anche i fiumi
Indiani nell’estate ingrossano fuor di
modo e neU’inrerno scemano. Digitized by
Google LIBRO XII. 395 XII.
• Vedalo ciò li
Romaai, da princìpio, (jQast
10 sdegno del
cielo minacciasse Roma,
decretarono pia* care con
sagrifizj i Nomi ed i
Genj del
luogo, con- saltandovene pur gl’
indovini, se ne eressero
mai co$a da significare:
.Se non che
né il Iago
ripigliava l'ordine SQO, nè
gTinterpetri sapean dirne
a proposito, ma sng~ gerirono
che si mandasse
per intenderne P oracolo
in Delfo ». ' XIIL
« Intanto un di
Vejo perito, per
Ipmc avutone da’ maggiori, dell' arte
divinatoria di' qne* luoghi,
sfavasi per avventura in
gnardiè'deNe mura/ Era
cosini noto ad un
centurione romano. E • quél
centurione venato una volta
presso le mura
lo salutò come
usava ; aggiu- gnendogli di
commiserare Ini come
tutti i suoi pe’mali imminenti nella
espugnazione dellai cittè.'Per
l’opposito 11 Tirreno, il
qual già sapeva
In inóndàziooe del
lago Albano, e sapeva gli
antichi oracoli intorno
di questa, replicò, sorridendo,
guanto é bene conoscere
t ot'tv- nt're. Voi per
non conoscerne sostenete
una guerra senza fine, e travagli irriuscibili, disegnandovi la distruzione di
Vejo. Se alcuno
vi rivelasse portare
il destino di questa
città che allora
sia presa, quandó U lago Albano
impoverendo nelle acque
sue, non più si mescoli
al mare, cessereste
di tenere voi
nella fatica, e noi tra
le molestie. Assai
ne impensierì ciò udendo
il romano, e parti ». XIV.
« Nel giorno appresso
il romano, comunica- tone il disegno
co’ tribuni', rivenne
allo stesso luogo, ma
senza le armi, onde
il Tirreno non
sospettasse af- fatto d’ insidie. Ripigliò
I’ usato saluto, e poi
disse in- Digilized by
Google 396 DELLE antichità’ ROMANE nanzi
tutto l’ incertezza la
quale agitava il
campo de! Romani, e cose altrettali
da rallegrarne, com’ egli
cre- deva, il Tirreno. Poi
chiedealo spositore di
alquanti segni e portenti occorsi
di recente ai
tribuni. Gnidi- scese colui
' niente sospettando d’ inganni.
E fatto ritirare gli altri
i quali erano con 'lui
si mise egli
solo col .cen- turione : £ questi U passo
a passo lo allontanò
dalle mura con discorsi
diretti a deluderlo ; Or
come fu presso alle
muniuoni romane. lo abbracciò
con ambe le mani, e sei portò
negli alloggiamenti ». XV.
B Quivi i tribuni or
lusihgando or minacciando lo ridussero
a dire quanto celava
sul lago Albano, e poi
lo mandarono al
Senato. Non parvene
u tutti i pa- dri in un
modo : e chi tenea
costui per pno
scaltro ^ per un
impostore, per uno
che mente su
gli oracoli de’ Numi,
e chi dicea lui
parlare a punto il
vero ». XVI. « Fluttuando
fra tali incertezze
H Senato, ecco i deputati - al
Nome in Delfo
riportarne (i) le
divine risposte, concordi a quelle,
date già dal
Tirreno: vncd dire che
gli Dei e li
Genj li quali
aveano in sorte
la città di Vejo
promettevano mantenervi costante
la pro- sperità trasmessavi dagli
antenati finché le
acque sor- genti del lago
Albano ne Uaboocassero
e corressero al mare : Ma
quando quelle acque, .mutata la
fonte e il corso antico, deviassero altrpve, nè
più si mescolassero al mare,
allora pur Vejo
ne andrebbe sossopra.
Parve che potesse pianto
ottenersi da’. Romàni, se
scavando delle fosse intorno
al lago V*
incanalavano l’ acque le quali
sboccavano, dirìgendole in
campi lontani dal
mare. • (i) AjBno di
Homa 357* » L^O
XII. 397 G>DOsc!ato ciò li
Romaai bentosto misero
gli operaj su r intento
», XVIL w Rendutine i Vejenti
consapevoli per nn
pri* gioniero, deliberarono spedire
a chi li assediava,
a fine di toglier la
guerra innanzi ch^
la città soccombesse:
e scelsero de’ seniori per
deputati. Rigettata dal
Senato la pace, lasciavano questi, taciuirni, la curia
: quando il più Cospicuo
fra loro e più
famoso nel divinare, fer- matosene alla porta
e girato lo sguardo
su tutti se- natori disse: bel
decreto v avete voi
fatto o Romani! e degno di voi U quali
cercate dominare per
tutto intorbo, quando
ricusate aver suddita
una città nè piccola
nè ignobile la
qual depone le
armi e si ren- de, e destinata abbatterla
da’ fondamenti senza
te- meme^t ira de'^Numiy
nè la vendetta
degli uomini. Or ne
verrà per questo
su voi la
giustizia punitriea de’ Numi
con pari vicenda
; Voi che spogliate
li Ve- jenti di patria, voi, tra non
molto perderete la vo-
stra (i) ». XVIII. « Prendendosi
(a) dopo breve
tempo Yejo, taluni de’
cittadini ne andarono,
e stettero da valebtno- mini contro
a’ nemici, e ne uccisero
e furono uccisù: altri diedero
a sé stessi la
morte: ma quanti
per co dardia, e bassezza di
spirito risguardavano ogni
altro successo come più
mite della morte, abbandonarono le armi
e sè stessi al
inncitore ». (i) Anche
Cicerone nel lib.
r, c. 44
èe Natura Deoram fa men-
xione di
quella ambasceria, e
dell'annunxio del castigo,
succeduto, ^oni’ egli scrive, sei
auui dopo la
presa di Vejo,
col piombare dei Galli
su Roma. « GatniUo
sotto la dittatitra
del quale Ve)o
fu presa, stando co’ Romani
pili insigni su
luogo elevato donde tutta
quella città si
scopriva, prknieramente fèli- qitava
té stesso^della' Iiella
avventura con che
gli era accaduto di
espugnare e senza gran
costo una città grande
e prosperosa, - la quale erà
parte, uè gii la più
ignobile 'della Etmria, allora fiorentissima, e po- tentissvna tra'
popoli dell’ Italia, e la
quale avea dispu- tato |1 principato
ai Romani con
guerre moltiplicate per dieci
generazioni (i) con
cimentarsi alfine a tutti
i mali tra r assedio non
interrotto di nove,
anni (a) ». XX.
a Di poi ponsiderando
per qual lievissimo
bil- lico trascende la
sorte umana, e come nino
bene tien fermezza, alzò le
mani, sopplichevole ' a Giove e agK altri
Nomi, perchè tanta
felicilà non chiamasse
l’invidia su lui principalmente, nè su
la patria : e se
per Con- trario pubblici disastri
pendeano su Roma,
o privati sa lui, almen
fossero questi i più
lievi e più tollerabili. Non minore
di Roma per
gli cdificj, godea Vejo terreni
ampj, d’ assai frutto, dove
piani, e dove montuosi in aere
purissimo e salutevolissimo, senza
pa- ludi vicine, dalle quali sorgono
aliti gravi ed
ingrati, e senza ninn fiume
il qual dia
troppe fredde le.
aure del mattino: nè
scarse vi son
Tacque (3), nè
condot- ti) Ciok per circa
irecento anni asjegaaado
treni' anni ad ogni generaaione; Imptroccbè
Vejo cominciò tali
tae gaerre con
Romolo: poco prima della
aua morte, e loocomM
l’anno 358 di
Roma. (3) Livio ed
aliti dicono durato
quello asi^io dieci
anni : vuol diro nove
furono gli anni'
interi ciocché scrive
I’ autore dell’
Epi« tome, ma non intero
fu 1’ ultimo. (3)
Dionigi nel paragr.
i5 del libro
iz scrive che
non lungi da Digitized
by Google,, LIMO xil;
399 levi altronde, ma vi
scatnrtacono copiose • nommeoo, ohe bouissime
a beverne a. Dicono,
che quando Enea 'figlio
di Anchise e di Venere
approdò nell' Italia volesse, far
sagrìfizio ad un. tale
de’ Numi ; e che
fatte già le
preghiere, stando ornai per operare
su la vittima
apparecchiata, mirasse venir
da lontano tm
greco, Ulisse forse
quando fu per r oracolo
di Avemo, o Diomede quando
si recò per soccorso
di Danno. E dicono
che disgustato Enea
del- l’incontro, tenesse come
inaugurata la vista
dell’ inimico tra le sante
cose, e che volendo
respingerla si bendasse e volgesse altrove
; finché dopo la
sparizione di colui lavatesi di
nuovo le ^ mani fece
il sagrìfizio: e siccome vi
si rendè fàusta
ogni cosa, e^U ne
fu dilettato per .'nodo
da custodihie di
poi nelle sante
cose la cerimo- nia; conservandola per
ciò li posteri
di Ini quasi
legge dei sacro ministero, In
conformità de’ patrii
riti, fatta la sup- plica Camillo ancora
si trasse in
sul capo il
manto, e volea rivoltarsi. Ma
travoltoglisi ciò che
avea di sotto
a piedi, nè potendosene rattenere, ne
andò supino a terra.
Or questo rovescio, indizio che
egli di necessità cadrebbe per
una miseranda caduta, questo rovescio fàcilissimo da
intenderlo senza calcoli
e divinazioni, an- Vejo è il
fiume Cremerà, e che
da questo fiume
fu denomioaio Cremerà il
caetello edificato da
Romani contro di
Vejo. Qui ai •crÌT»
che non vi è
niun fiume il
^oalc dia troppo
fredde le aure del
mattino : che anche
senza fiume vi
abbondano le acque.
Questo esservi e non esservi
un fiume et concepire
che lo scritture
del com'.^ pendio non è
Dionigi.] che da’ meoo
periti, questo egli noi pensò
degno da guardarsene e da
espiarsene f ma lo
ridusse tale da. consolarsene come
se li Numi
avessero ‘esaudito le pre glie
pii\ illustri a' quali
esso era maestro
di. lettere, li \ » * ' • t *
Narrano che Dionigi
divise il suo
campcndie in cinque
libri. Ambedue li codici
trovati del compendio
delle aiilicbilà non
hanno 0 non ritenpoiio indiaio
ninno della distinsiooa
in libii. (a) Aaoo
di' Roma 36o BfOHlGI,
urna III. j,S Digitized
by Google 4o2 delle
Antichità’ romàne cavò fuori
delie porte come
per passeggiare dinanzi
le mura, e far loro visibile
il campo romano.
Poi sionla* nandoli poco a
poco dalla città, li
ridusse presso le guardie
Romane:^ queste accorsero;
ed egli cedè
sé stesso, e gii altri.
Menato a Camillo disse, che
da gran tempo egli
volea rendere la
città de’ Romani
: ma non avendo in
sua balla nè la fortezza, nè
le porte, nè le
armi, si argomentò di mettere
nelle mani di
lui li 6gli
^e’dtta^ dini primarj,
consideràndo cbe necessiterebbe li
padri, solleciti di salvarli, a dar la
città quanto prima
ai Ro- mani. E cosi diceva,
immaginandosene maravigliòsi pre^ mj
pel tradimento, a II.
« Camillo, dati da custodire . il maestro
e (i fan- ciulli, scrisse al
Senato il successo,
chiedendone cièche fosse da
fare. Lasciatogli dal
Senato di lÀrne
il lueglio che a lui
ne paresse, egli cavò
dagli alloggiamenti' il maestro
e li fanciulli, e fece
alzare* il suo tribunale
non lungi dalle porte, presentandosi immensa
la folla su le
mura, e dalle porte. Quindi
primieramente distinse ai Falisci
quanto il maestro
fosse stato ardito
di olTeuderli. Appresso ordinò
che i servi gli
traesscr la veste, e lo canninasser ben
bene colle sferzate
; e quando tal pena gli
parve bastare ^ .allóra
‘diè delle' verghe ai
fanciulli, e fece che sèi
menassero innanzi alla
città, legato colle mani
al t&rgo, battendolo
e malmenandolo per ogni
ma- niera. I Falisci
ricuperalo i fanciulli, e punito
il maestro in proporzione
del suo malfare, sottomisero la
patria a Camillo. «', I ' ., -•, ^ -, f » III. n Lo
stesso Camillo nella
spedizione su Vejo
lece volo a Giunone^ 'Dea sovrana
del luogo, di
collocarle se prendea Yejo, la
statua iu Roma',
istitoendoveue insiemé cpito magnidco.
Pertanto dopo espugnalo
Vejo, man^ò de’ cavalieri
più rìguardevoli a prendere
dalla sua sede it
simulacro. Appena gl’
inviati vennero al
tempio, r uno (K loro
sia. p^erilmeitte e per
beflTarsene, sia per fame l’augurio,
addimandò la Dea
se voleva tra^mn grarsi
a Roma, e colèi soggronsè volere
con chiarissima voce della
statua ; e due volte
lo aggiunse. Impérocchè non potendo
que’ giovani peiiuadersi
che la statua
fosse quella che «vea
parlato, replicarono la dimanda, e ne adirono un*
altra volta la
voce stessa (i). »
IV. «'Tra il
comando de’ consoli
dopo Camillo pro- ruppe in
Roma un morbo
contagioso, apparecchiato dal
non piovere e dall'
anura estrema. Afflitti
con 4:iò git' albereti
e li senànati porsero
frutti pochi, e nocevoli'
agli uomini, e pascoli
scarsi e malsani ai
bestiami. Odd’ è che il
male consuase pecore
e giumenti senta numero non
sedo per . • quantunque non
igno- rassero che U multa eccedèVa
non poco gli
averi di ]ui: ma
ciò vollero perchè
messo ' in fcavcere
scapitasse nella riputazione chi
tanta ne avea
per 'hobitissiole guerre, amministrate per^
eecellenia. Li ‘congiunti e li
clienti ac- cozzarono e
diedero la son^ma-
richiesta afBnchè egli non
soggiacesse a vilipendj ; ma H
valentnonio riputando intollerabile la
ingiuria., abbandonò (a
patriq. » VI. « Nel
giungere alle porte
fra gli astanti
• addo* lorati e piangenti per
la perdita che
farebboho, bagnò di largo
pianto anch'esso il
senAbiante, -e lamentò la in-
famia in che era
mesio dicendo : > ^
Adunque disperando i barbari
prendere la fortezza per
inganno o di furto-,
si diedero a trattare del prezzo, cui
dato, i Romani riavessero la
cittù. » XIIL a Dopò
giurati gli accordi;
i Romani portarono r oro, e
Vckiticinqae talenti era
la somiina'.la quale'
do- veano ricevere i Galli.
Disposta la bilancia
ècco il Gàllp imporvi
un peso maggiore
deKgiusto: se ne
querelarono i Romani : ma. il
nemicò- tanto fu
alieno dal rettificarlo, che lo
aopmccaricò delia sua
spada, levatosela dal
cinta E chiedendo il questore
che volea mai
significate quel fatto ; rispose, ^ubt pò
vinti. E poi che il peso
ivi po- sto, ampliato com’
era-, non si
pareggiava, anzi mancava un terzo'
di tanto, i Romani si
ritirarono chiesto tempo da
raccoglier l’ intero. Sosteneano
tanta insolenza ignari delle
cose operate ] come
al>biàm detto, in campo
dpe il 'corpo
ad un tempo
e lo spirito; converseodola oibei Uòndi
nasposto^ma palesemente. Addolorato
Arante per lo distacco
della donzella non
più reggeva alia
in- giuria-, cbe ne avea
da- ambedue : né
potendo pigliarne Vendetta si
mise' ad -ùn viaggio sótto
.vista di liegoziare. Udì con
trasporto il giovine
lo andare, dandogli ciò
che era l^sogao ai
goadàgiii,' e T altro poftò,
nelle Gallie molli earri
eoa Q^i di
vinoV di olio ^
e 'tnollr.'ata ceste >di fichi, a ' r ‘ . a I Galli di
quel di' non conoseeano
il vino delle, vili,
nè 1’ olio-,
quale fi'a-uoi 1q
danno ie olive: ma.teneano vin
d’orab, festnefatato in
acqqà, ó foglia- me. tetro
all* odore, usando per
olio ^assi vecebj
di porco, ingrati a odorarne e gustarné/> CoiQe
provarono frutti non prima gustati ne
presero dilatto masaviglioso, iuierrogaodo il
forestiere, dove e come ciascuno
di questi si generasse,
n -'t E. colai replica*,
the.'iimpìa e buona è la terra
che li produci, è questa posseduta
da uomini, pochi di
numero: uè punto. migliori delle
Jìemraine in far guen'a.
Suggeriva;,chc'non
ricevessero più 'tali cose dagli
altri ad on
péezzq, ma cacciassero
i possessori an- tichi, e se le
appropriassero. (Mossi da
quel dire ven mi.
Ma i 'GaRii ne
misero in fuga
la molhtudine, ed occuparono tutta
Róma, salvo il Campidoglio. v Con c'ò
gran eommrrcio praesdente.
Cioachè non ti
accorda con la DoTÌlà
deacriiia .dei prodotti
recati da Aruoti
nelle Gallif. Won a facile
a connidemi ube una
natione ai ecciti
e commo^a a tfa- tmtgrare pa’ racpooti
dì un aTTeuttrriero. Livio
tcrive Iv 5.
i4> .Eoa ( Gallt ) ^lu
oppufinavtrunt CUuiunì . non fuh$t
qui primi alpet trantUrint^ latù
óonstat. 0uel .aarii
eo/iitat impoHa Alt
lai «ni- diaione era
comune in Roma
a'iAreno Ira! leueraii
'oi t,empi di
Livio, che sod (joelli
di Augatcn,, .nel
cui regno^^ anche
Dionigi vino, io Roma
luogo tempo. Panai
duiiqae da coocluderbe
che lo scritto
ai risente di alquanto
nosiooi te 'quali
.uoo erano del
diligentissimo aa- tore della
aiilicbità : ciot questo-
tjompoodio k di t>n
greco il quale non
essendo £>rao vivulo
nell* Italia, S compendiando Dionigi, 'vi lasciava conoscere
la vena dell*
ingrfpio ano non
ai para quanto
quella di Dionigi.] » \, •
rodar(7ao, nel lesto
edeltan, donde celtico e poi
ceillca,,, Digitized by Googlc 4i3
delle Antichità.’ romane dopo
V incendio generò dal
ceppo un tirgnlto, come dì Un
cubito, volendo gli Dei
manifestare ^e ben
presto la' città, ricreando se
stessa, darebbe germi
novi in vece degli
antichi. » ' y. H Anche
in ‘Roma il picciolo
tempio di Marte
in cima al- Palatino, 'i Romani pensano' chò
debbasi operare ben alirimen)Ì
debbasi a’ vecchj benefìzi sagrificare
la coliéra per
gli oltraggi recenti. IXt
-Cerltmenle della Romana
grandezza ben. fu me-
raviglioso. quel ^axto, che
non malmenarono, pia
lascia- rono ille^ tjttti i Tuscolani
‘^u^ntuòque colpevoli f tna più
meraviglioso ancora fu
quanto eòncedesouo ad
essi dopo* il perdono
(3). Imperocché fattisi
% provvedere che non .saccedesse
più nòlla di
Simile., nella loro
città, né più ci avessero
alcuni comodità di
far cose nuove, non conclusero già
di mettervi guarnigione
nella fortezza, nè (l'I Anno
di Roma }-4-, ^ (a)
Questo e li tre
seguenti paragrafi sono
fratOmeaii dei venti
libri delle autichltà Romane
acUtte da bioaigt
e àul'' dal Gomptndjo
; aono picciolo parti
dèli’ opera vara' e noi»*
parti* derivata altronde per
supplirla, il tasto
grec» e-la tradaàioqe
latina ai ara
atampata più volte. Li
framosenti ai dislingtsuao
dal non avere
l« virgole nè in
principio nù in
fin^ dei paragrafi.
' (3) Anne di
Roma 3^3 . ' . > . . lasciarono
contro il sangue loco
eccessi ùi oltraggi
che i barbari più
empj potessero
sopraggiungervi. . ^ - 'i' . 'XI.tE
potrei allegare’ altri
errori' infìnhi 'di quelle repubbliche ; ma'
li tralascio; giaocbè
spiaeemi ; - fino l’aver menzionato
gli ànzidetti. Imperocché
vorrei che la nazione
Greca . si distinguesse '‘dà . quelle
de’ barbari non col
nome solo. e col dialetto;
ma per la.inlelligeoza eia scelta
delle utili costumanze;
c sopratthtto che infra loro
noit si desolassero
con ingiurie più
che disumane. E ad
esercitare i lor corpi o faticare
nelle armìv ne
ausavano di con- tinuo, e vi grondavano
dal sudore, costretti
a desisterne innanzi P awiSo de’ capitani
». . XUI. ‘ a Udito
ciò f ' Camillo dittatore
de’ RomaOi, adunò le
sue milizie, e condonò • tra
loro, . assai vivifi-
(»ndole ad imprèndere:
0 ‘Romani ^ e^i disse,
nói abbiamo assai più
cùU it nemici
benfatte le arme, le corazze y gli
elmi, gli stivali,
gli teuài saldi,
coi tiuaU guardiamo tutto
il corpo, le spade'
d due tagli, ed in luogo
dell asta, saette
iP irreparaòH colpo.
Le armi colle qutdi
ci copriamo son
tali'da ndn> fdcilitare
su noi le ferite:
laddove quelle con
lè quedi nodiamo
'ci abilitano per ogn
impresa. B poi - ruiao
è il càpo dei nemici,
nudo il petto
ed i lati, 'nudo il,fem&re
è la gamba mfino piedi.
Altro noti hanno
die li. mu- nisca se nonf
lò' scudo : nè
adiro tanto picchiar
degli scudi, e guani altro ostentano
di barbara e stolido
a bravar t inimico, guai vantaggio
daranno ad essi i
guali assalgono senza
regola, .a-, guai mai
terrore a chi con
tanta re^la sta
tra i pericoli ? » XVI.,
B Considerando tali cose:
voi tutti guanti
ne foste nella prima
guerra cpì Galli
e guanti non vi foste, non
‘diserrate.' o voi ohe
vi foste C arUica
vir- tù, col temere, e; vai
che non virfbste
non siate da meno
che gli altri
net jegntdarvi co' fatti
(i). Andate (i) La
prima gnarra ocoqrae
l’ aooo 364 I*
acMiida ueii’bravi giovani
: dimostratevi degni de'
padri valorosi, correte intrepidamente al
nemico ; Sarà con
voi la ' mano
degC Iddìi per
tentarvi à punire • quanto
volete, questi- impìacabili.
Io vi son
duce, al qucde
tanto te- slificate buon
senno e Jbrlunà. Da
ora in poi
saréte felici, sia che
riporterete alla patria
la iwbilo corona della
vostra virtù, sia che
qui finendo la
vita lasco- rete a’
teneri' figli] e ai vecxhj
padri per un
fragile corpo una splendida
fama immortale.^ Ma già non è
più da
tenervi, Ecco t irUaùco
sen viene ; ofidaie, presentatevi in
schiera ». XVII. « Era ‘'il
combattere de’ Barbari ansi
brutab: e maniaco senza le
cure e la scienza
delle e vi ascese. Accorsa
la molUtudine 'urbana
allo spettacolo, egli primieramente
fece voti alBncbè
11 ^umi avvèrsa- aero
l’ oracolo, e facessero
nascere molti, eguali a lui di
valore bella patria.
Dopo ciò lasciate
le redini e ' dato
di sprone cavallò
precipitò nella voraginet
Sopra lui furono gittate
in quell’ abisso
nioltè. vittime, nìolti
frutti, molte ricchezze,
molte preziose Vesti
^ «'molti oggetti di arti
di ogni maniera,
e senza più la
terra si ricongiunse Il
Gallo area corpo
straordinario, il quale molto
eccedeva la proporzione
comnne .... Li- cinio Stolone stato
dieci volte tribuno, quegli il
‘‘quale fu capo alla
fstitnzlone delle leggi, per
la 'quale dieci anni
fu sedizione, alfine'
vinto iu giudizio
e condannato ad una multa
in danaro ())
disse: che non
vi è bestia alcuna pià
callivà del popolo,
il qutde non
nsparmia nemmeno chi lo
sostenta ». Assediando Marcio
console que’di Piperno, ridotti senz’
altra speranza spedirono
a lui. E Marcio, indicatemi,
disse, come solete voi
trattare li servi
li quali dà voi
si ribellano ? tome
si dee, soggiunse il legato
più anziano, punir chi
desidera ricupenve la r (i)
Sie mai ri
fu questa Toragiae, ciò
che può beo
essere, ta ricoopuDtione di
lai mode ò tutta
(àvolosa. Livio assai
propiiio a tali raceopti
aon la- fiiTorisce. Vedi
lib. 7. 4* .
(3)'.\nao di Roma
3^7. Digitized by Google 4ao
DELLE Antichità’ romane liberti ncUiva.
DlIetUtosL Marcio del
franco parlare, e se nei, dicea, se noi
ci lasciassimo piegare
a' lispar^ miarvi ogni
cruccio, quali pegni
ne darete voi
di non farla mai
più da nemici
? q V anziano tipigUava. Sta in
te o Marcio e ne'
tuoi Romani' sperimetttm-lo. So con
la patria Uberi
torniamo, vi ci terremo
• pen sèmpre costanti amici
: ma tali mai
vi saremo, 'se ci astringerete a servire.
Marcio ne ammirò
li magnanimi M‘q^i, e
sciolse 1’ assedio
». . L « IV^EMTAE i GaQi guerreggiavano Roma,
un priil'» cipe di
questi sfidò qm^lunque
de’ Romani a venire con esso
al paragone dello
armi,(i). Un Marco
Valerio tri- buno proveniente da
Valerio PopUcola’ il
quale insieme con altri
' Uberò la città
dai tiranni, si fece
innansi pel combattimento. Venuti 'alle
mani,' un ooryo
.si. mise in su. r elmo
di Valerio, sgrid^do
e guardando terribil- mente il barbaro
f e se mai lo.
vedeva portare de’ colpi sul
romano / gli si
avventava ora colie
unghie alle (i) Addo
di Roma 4»5. j
. ' ; guance lacerando, ed ora
col rostro agli'
Occhi, pun- gendo. Tanto che il
Gallo ne andava
fuori di se, non potendo trovare
come ribatter 1'
emolo, nè come 'guar- darsi dal corvo
»! ' ' II. « Ma
traendosi la zuffa
in lungo, il'
Gallo fu col ft;rro
sU T altro per
internarglielo coll' impeto
nel seno. Corsogli il
corvo agli occhi
Onde forarglieli, colui
alzò Io scudo a respingerlo
: e tenendolo alzato, il Romano che
ne seguiva 1e mosse,
menò da
basso la spada, e lo
uccise, Camillo (i)
il comandante lo
insigni .con aurea corona
soprapnominaudolo Corvino^ dall’
uccello compagno di lui
nel combattimento ; perocchò
li Ro- mani chiamano corvi',
gli oicoelll che
noi coracas chia- miamo. E costui da
quel fatto ebbe
1’ elmo ornato-
di un corvo. In
guisa che qùanti
fecero statue o pitture di
lui, lutti gli acconciarono
sul capo quell’
uccello ». III. « Devastavano
le campagne ricche
di ogni bene... nomini sfìaiti
dalla g^uerra • e simili
ai cadaveri, se non quanto
respiravano . . . Essendo calda
ancora la penero come
dicono dell* ucciso
... Fu vittin»
miseranda del- r inimicO’Uomo il
quale saziava la
iuvidia sua poi
san- gue civile . . .
Dispensò tra’ soldati
parte de’ vantaggi nè
questa la più
piccola,' ma tale*
da sommergéK frà le
ricchezze la inopia
dt ciascùtlo . . . diedero
il 'guasto ài seminati’ già colmi
per h ' raccolta tnalmetiando il meglio
dellB^ terre fruttifere »: ' i I •, . . . f I * * * • " ' t, (i) Queste
Cemitlo il, quale apparisce
ora aalHaaao'4e& Roma i Uli
tìglio del^ftmoso Furio
Csmiflo morto i6
ano,! adòiciro. .Au- cb'esso
viute S fugò con
ifna iniigue battaglia
i Galli, tuttavia mo- lesti ai
Romani. Livio lib.
7. aS. aC.
'Ma percl^è spesso
e molto danneggiavano i Campani
come iorp' amici (i).
Pertanto -il Senato
ro« manò su le
istanze e lamenti replicati
dé’ Campani .con* tro de*
Napoletani spédi a questi
ordinando che non più
nòcessero ai* sudditi
della repubblica ; ma
ne aves- sero e rendessero ciò
ch’ era ^usto
-: e nascendo coih- (roversìe fra
loro, le dJscutesserò
co’gindizj non'cqlle armi, '
secQudo le convenzioni
che ne farcbbono
: del resto mantenessero la
pace con lutti
ìnlornó i popoli, non corseggiassero il
mare Tirreno né
tentassero eséi per sé
nè .cooperassero con
altri imprese disdicevoli ai Greci.
Soprattutto istmi, gli
.ambasciadori che ’ cer- cassero, Se venivano
il destro, di alienare
co’ bei modi verso
de’ potenti la
loro città dai
Sanniti, e renderla amica di Roma.
', . y. Ti-òvavansi di
quel tempo (a)
in Napoli come ambasciadori di
Tatanto uomini rispettabili, e, po’ li- gami
del. sangue, ospiti antichi
di que’ cittadini: ma por
altri,vi si trovavano
inviativi da’ Nolani,
cooSuanti dei Napoletani, e tutti
dediti' ai Greci,
i quali vi brigavano in
contrario onde non
copcórdassero co’ Ifomani
nè co' sudditi di
essi) nè lasciassero'
l' amicizia verso dei Sanniti.
'Che .se r Romani
set pigliassero a pretesto di
guerra { rton temessero, nè
invilissero, come in^
su^rabile rie fosse
la forza ; ma,
perseverassero, e combattessero
come i jbraoi Grecf.,
confidando- sù le - » (i)
Manca il principio
dj questo raccolto:
puj> coninliar^i Livio nel
lib. 8, c. aa.
Questo 'pangrafo e tutto il
resto del libto 'sono Frammenti veri
dei libri perduti
delle aatichità di
Dionigi.] schiere proprie ^ e su
le ausiìiane^ che
verrehhono dai Sanniti. Riceverebbero
se ne abbisognavano, pià delle loro,
le forte, navali dà' TaretUim, le quali eran
tanUs e. si, buone. VI.
Adunato il. Sanato,
e tenutivi molti dlsconi
dai legati « loro fautori, vi
si divisero i senbmenti
: ma li piu autorevoli
parfianO tenerla ' pe’
Romani. Non fecesi per
quel giorno decréto
alcuno, ma riserbato per,
altra sessìonè l’esame intorno
ai legati; recaronsi
a Napoli in folla' i primarj
de’ Sanniti. Or
quésti * Conciliandosi con ossequióse manio:e
i capi del comune-,
pregarono il Senato a far
si che decidesse
il popolo dell’,
utile pub» blico. Quindi
recandosene all’ adunanza, vi
ricordarono i loro benefizj,
poi vi
fecero le mille
- accuse di Roma come
di una ingannevole
e perfida : e finalntente pro- misero- le meraviglie
ai Napoletani se
deliberavann per la guerra:
vale a dire che
mauderèbbero loro. milizie,
quante ne bisognassero
‘ per difender le
ptura, come Tarmata e 4utta la
ciurma per le
na#I. Davano insieme a vedere che
subirebbero tutte’ le
speso guerra non solo
pe’ soldati proprj, m»
pe’ loro.; che
respinto T .e- sercito romano
ricupererebbero,Cuma,-
occupata dai Campani, erano
già due generazioni
{i), .cén esdnderM gli
abitanti : che renderebbero
la patria ai
Cumani, accolti, quando U
perderono, dai Napoletani, e fatti
partecipi di ogni
lor bene: che
'darebbero ai Napoletani un
trat^ assai grande
del territorio che
tenevasi dai Catppihi., -, ' r ',
vn. Ih
mezzo a .tal dire,
la parte calcolatrice
dei Ntpoletani, la quale vedea
da' .lontano i mali
xhe ver* rri>bero colle
battaglie, su la
città, dimandava che ai conservasse la
^ace: ma' la parte
amante di :cose
nuove ^Ja quale cercava
insieme un. mezsp
. arricchire nelle ttsbolenze lanciavasi
verso le guerra:
'Pertanto, elevafonsi a
vicenda e -voci e mani
; procedendo la contesa
fino al tiro delsàss).
Alfine prevalendo il. partito
men buono, gli. oratori
di Roma dovettero
tornarsene senza Tintento. Dond’^è che
il" Senato romano
.decreti^ 'd’ inviare un eseacito
contro de’ Napoletani. ., ' .Vln.
1 Romani all’ udire
5^10 i Sanniti apprestavano un esercito,
vi spedirono prima
Rmbasciadori.(i). E di essi quelli
eh’ erano scelti dell’ ordine .. senatorio
venuti ai consiglieri de’ Sanniti
dissero: Voi fatfi
ÌQgiustamonte o Sanniti
violando i p'attati cha
ovate con noi
con^ cordato. Amici vi
eijt^nete di nome, nemici
che ne siete di
fattL Vìnti, voi
da Romani in
tanti condtat» timenti, sciolti
per le istanze
vostre caldissime dalla • f . . ' guerra j oiténuta
la pace come
la volevate' ^ e desi- derosi poi di
essere gli amici
e gli alleati di
Roma; giuraste, alfine, di
avere amici e nemici
quelli appvinto che per
tali riconosceva la
nostra repubblica. ^ IX. Ed ora immemori
di tutto questo, e fin
posti in non cale i,
giuramenti, avete abbandonato noi nella
jguerra co' Latini
e ci>i Volsci,,cpn que’
pòpoli io dioOf che
sono divenuti nemici
nostri appunto per voi, perchè avevamo
noi ricusqtò di
unirci con essi net
dare a wi guerra.
JE nelt anno. J precedente voi avete 'istigato con
tutta la premura
e f ardore, anzi (1) Addo di
Roma 4’8. Digilized by
Coogk 4? 6 DELLE antichità’ ROMANE. voi. avete necessitato
i Napoletani che temevano
far- lo, a prendere. contro
noi la guerra^
e voi ne sup- plite'le
spese : voi la
loro città ven
tenete. Ed ora tutti
intenti ad apparecchiarvi raccogliete
d' ogn in- torno milizie,> coh
pretesto, come pare, innocente,
ma: in
realtà con disegno
di guidarle contro' i nostri cotoni. Ed a
tanta ingiustizia invitate
i .Fdndiani e i Formiqni' ed altri,
i (fuaii abbiamo no,i
pOr^^iato ne' diritti ai
nostri cittadini. X.‘ Or
'voi profanando così
scopertamente 9 turpe- mente i
trattati 'di amicizia
e di alleanza ; il
Senato ed il popolo
romano^ deliberarono di
spedirvi amba- sciadori, e
iperitnentai'vi colle parole, innanzi di procedere
ai' fatti. E queste
sono le cose
che ami tutto vi
dimandiamo, queste quelle,
ottenute le quali, crederemo soddisfatti
i nostri risentimertti : Chiediamo primieramente che
ritiriate, le truppe 'inviate in
soc- corso ai Napoletani:,^ e poi
che non mandiate
milizie condro i nostri' coloni, nè
provochiate- affatto i sud- diti nostri a voglie
ambiziose. Che se
dite che tali cose
non piacciono a tutti
fra voi, ma- che
le fitnno alcuni solamente
contro il ‘votò
comune; cónsegHàteci dunque voi
questi perchè ne
giudichiamo, 0 cen ter- remo
contenti: ma se
non gli avremo
noi tjuesti nelle mani
j né prenderemo in )
testimonia i Numi, ed i Genj
invocati da voi
-nel giurare i trattati
; e pSrciò siam qua venuti
co* Eeciali. ' • • r • XI:
Dòpo H parlar del
romano consaìlatisl infra
loro quei capi de’
Sanniti diedero* questa
risposta : Non è già
colpa del comune
che i nostri sussidj
giungessero Digitized by Google •LIBRO
XV. 4^7 a poi tardi
per Ut guerra 'cóntro
i Latini, Imperocché si era
appunto decretato che
questi a voi s’ inviasse- ro : ma i capitani
assai ' s’ irtdugiOrono
nell àppre- starveli ; come
voi troppo vi
acceleraste a dar la battaglia
] e coti giunsero quelli
tre o Quattro giorni dopo
il bisogno.'' Jiispetto' a Napoli
poi -dove sono alquanti, de 'nostri, tanto siamo
lantàni dcUt oltrag- giarvi soccorrendola in
qualche fnodo mentre
perico- ' la-; che
noi pensiamo di 'essere'
piuttosto gli oltrag- giati e gravemente da
voi. Foi, tutto
che non òjfesi, v'
adoperale a soggiogare questa
città, confederata ed amica nostra
non già da
poco, né d^ allora
che con voi ci
concordammo, ma da due
generaeioni en>antS, e per
grandi e copiosi ben^tij
ricevutine. XII. .Tuttavia non é
la comun
dei Sanniti che
of- fendavi nepimeno in questo
; imperocché di propria voglia ìóccorpono
Napoli, come udiamo, alcuni no- stri, ospiti ed
amici loro, o stipendiati,
per la in- di^nta’fbrse del
vivere. Nè abbiam
poi bisogno di staccare
da voi' li
sudditi yostri ; imperocché
senza que’ di Fondi, ^ e . li Formiesi, noi, necessitati alla guerra, bastiamo a noi stessi.
-Apparecchiamo un esercito-
non per
levare: a^ yostri colorii
le còse loro ;
ma per
difendere le nostre
propriamente. A vicenda noi dimandiamo
da voi j se -volete
far la giustizia, che partiate
da Fregelli, città da
" noi conquistata tanto priiHa
col mezzo delle armi, che è
mezzo di- rittissimo di possedere
; e voi sera alcun
titolo ve t avete, già sono
due- anni, ' appropriata. ' Or
tali Digilized by Google 428
DELLE Antichità^, romane cose
ci si concedano
> nè crederemo di, essere
stati oltraggiati. . • XUI. Allora»
subentrando 'al discorso il
Pedale Ro- mano, ripigliò : Niente
impedisce che violando
voi così manifestamente i trattati
di pacOy i Bomani
pas- sino alle armi : nè
già ponete lepnerUarvi
di essi, ma de'
non- sani vostri
consigli. Ornai da
loro si è /atto
qtuuUo doveàsi per
.le leggi rsacre
e civili della patria, o di pio
verso i Numi, o di giusto
verso i mortali. Gli
Dei che per
sorte soprawegliano alla guerra,
giudicheranno tfuale de
due popoli osservasse i tràttati. £/
qpi recatosi in
atto di partire, e tiratosi al capo
il lembo onde
cingevasi gli omeri, .alzò
come era il costume
j le mani' al
cielo, orando don. impreca- zione gl' Iddii
: che se Roma
ingiuriata da Sarmio, non
potendo riaversi dalla,
ingiuria cotle jrsfrole
e co' tribunali ^ procedeva
finabnerite alle operé, U dessero per
la mente ctmsigU
bùqni,. e. condotta,
pro- pizia per la guerra.
Afa se in
opposito Rorna ìrà- scurando
i legami santi delV
amicizia,' accattava pre- testi
non giusti onde
romperla, -.non la dirigessero 0 ne consigli
o ftelle opere. XIV. Levatisi
gli uni e gli
altri dal .colloquio
; e di- chiarate alle loro città
le CMe disputatevi
; dascuno dei due popoli
pensò molto diversamente
su Tabro. I San- niti come £an
essi quando iqtprendon
la guerra, te- ndano per lent^
assai |e operazioni
de’ Romani; laddove 1 Romani immaginavano
rannata di Sannio. ornai
pros- sima a . piombare ^u i*
Fregèllaui’, loro còloni.
Donde ne avvenne a ciascuno
ciocché erane consentaneo:
Imperocché li primi,
apparecchiandosi e
indugiandosi ro- vinarono la opportunità
’d^ imprendere : per
T opposito i Romani tenendo tutto
pronto, udita appena la
risponsóli. E prima che i
nemici ne udissero la
marcia; tanto le
milizie reclutate V, ‘non. di»:etidere in teiTa, ma
.dalla terra elevarsi.
Imperocché nell’ e^ero stan
le sorgenti del
fuoco divino ». II.
a Ciò che si
dimo^ra pel fuora
.nostro sia che lo
abbiam 'da. Prometeo, sia che
da Vulcano. Impe^ rocché
quando è sciolto da’
vincoli pe’ quali
è necessi- uto a» rimanere
fra noi, corre subitamente
per 1’ aria verso
1* altro fuoco, suo
connaturale, ed Q quale
doge d’interno' tutta la natura
del mondo^ Cosi
donque l’al. l6- e
Livio più dislesamente
nel lib. 9. i5.
(3) Il
tratto aegnenic sembra
parte della ri^tosia
di Poaaio ai- rinviato
de’ Romani. neUe guerre
han perduto i jìgti, quanti
i fraleìli, e quanti gli amici?
Ne’> quali tutti
come pensi che
dee traboccatne la bile ^
se alcuno ' gf
impedisca placare ^ue' morti
eoa tante vite
di nemici le
quali sole son credute
un ossequio in
verso gU estinti
ì, V. '« Ma
supponiamo che •persuasi,
o forzali^ o per qualunque maniera
vinti mi si
arrendano, e contxdano che
questi continuino tìi
vita, or ti
pare, che sian
per cqnce'dere'che ritengano insieme
ogni lor cesa,
q sema pur neo di
vergogna' se ne
vadano quando, a tbr
pia» ce, 'quasi eroi . qui apparsi
per felicitàrne ? O non piuttosto sopravvenendomi j quasi
fiere, mi sbranereb- bero appena tentassi
dit questo? O non
vedi come i cani
da caccia quando
è presa la fiera
la qual chiusa dà
essi va nella
rete, circondano il ceuciatort, chie- dendo parte della
preda ? e se non
ottengono bttntosto il sangue
o le viscere, non yédi
come lo sieguonó, e pressano, e malmenano,
nè. respinti sèn
pdrtono, nè percossi ?
Faticarono tuUo'il di
cotnbaltendd, ma^i che le
ombre tobero di
rafhgurare gii amici
e i nemici, tornarono a proprj alloggiamenti
. . . Appio Gaudio non so
per qual mancanza
intorno de* sagrifizj
perdé la vi- sta, e ne
fu denominato ->^f£'eco ; 'perocché
li' Romani cosi chiamano chi
non vede ^ ^ . le
scritluce' custodite tra 1 murs
(i), formate con lettere/
accuratissime, odo'- rifere
per lo misto
in che sono,
presentano tal iloridez* (t)
È diifieite iotarpetrare dove
miri «iitesio rottame.-
Fn detto che alle
«nti Freoettine'. * . • LIBRO,
tVl.,• i 4^3 u . ^ . I RonUuii ckUmaQO
calende' le ncòmeaie
. come * none dtiamano
la' mezza IbQa, ed
idi il pleoiluaio.
» VII. « Era*. la falange
nel rnsAZO disgiunta
ié. mal piena : cori
quelli che ivi
erano disposti id
òontrario, le furono sopra,
e ne 'respinsero
i>coDÒfc|auenli l’'iaosa, guàra
aitàccò tutto il
fiore dc^ cita Uomini
sacerdoti, onorati Co’ sacri -minirieii'. Quest’ uomo
pien di trasporti
senza consiglro, insolen> tissimo, deliberando e ctmcentrando in
sé tutti i poteri per
la guerra E poi
tu ardisci di
accusare ia sorte, turche
la usavi pessimarnente, postola
su barca già rovesciata
? Così eri stolto
? \, .^jilcuni i membri
abbisognano di cura,
e tali altri cicalritzcmdosene .> . « VQt
(i) Ma vo’ ricordare
ancora un’ arion' dvile -de*
gna degli «noom)
di tutti i mortali, dalla iquale
sia chiaro ai .Greci
quanto Roma ' allora abborrisse
soellerati, e come fosse inesorabile
contro chi viola
i diritti comuni della natura.
|Ca jo Letorìo soprannominato Mergo, uomo illtutre pe’^
natali,, còme >non ignobile
per le' belliche imprese ; dichiarato
trìbW>' militare* nefia 'guetta
-San- nitica^ Ittsiqgò per
un tempo un
giovinetto^ sub came- rata, vago più
eh’ altri di
aspetto, perchè rendere si volesse
agli amorosi diletti
di- lui (a).
Ma perchè noi guadagnava cb’'donl, uè
còlle gentili maniere,*
ornai più non bastando
a sesiesM, cpr§e alla violen^.
Divulgato- sene il disordine tra
le miliziè,, i tribuni
• della plebe y « ; V » ' ' -
(i) Qoaoto Si«go»Ja
questo .libro, er^etlaato. it*
paragrafo lO'A lutto frammenti.
. . ^ *• * V > (r) Anno
di Roma 4^, .
• . > PÌONIGI, lama 111. .
1 ', . U 4^ DELLE Antichità’
romane • ripuUQ^Io oltraggiò comune
della {repubblica, me die» dero
.accusa .pubblica al
reo-, cpudannatone quindi
dal .popolò a Qiorte eoo
voti pieqi. Peroécbè
non tollerò questo ebe
uomini di grado,nell',;fsercilo profanassero con ingiurie ‘ùmpìabili e contrarie
ali^ -natura Tirile, ' persone -iagentté, mentre
esse per la
libertà’ co njballe-; vano (i)i
.• ... . - ' IX.
.Se non che
non molto prima -di
questo fece^ttn’ opera ‘ aaeor
piò tp^evigliosa per T
ingiuria recata ad un
altra persona, quantunque
servile. Il (àglio
di PubKo,io dico t di
uno di que’
tribuni milUari che
umiliarono ai Sanniti l’ esercito
e n& andarono, sotto
giogo, fa co- stiletto, come
lasciato iir grave
pénuria, a ter -danari ad usura
pe’ funerali del padre,- ^qtfasi ch%
sarebbene quanto prima rilegato
da’ parenti.' Ma
deinsò nelle sue speranze,
e scadutone il termine {vfa
présir'egU Stesso pel: debito, giovinetto
èòm’ era. e vaghissimo
nc’ sem- (t) Valtrìo
Masshiro pirla di
a( capo' primo ' ' ' ' ^ Le deecrjsione
qui «ecala b l' una' de’ tram meati
de’ libri per- doti-di Oiop^i.,II'£|ito fi
narra pur aél
compendio in. tal
modo: Ua tal Romano^,
Cajo Leutrio, intUleva cpn
un giovine, suo eu- merata,
ond’ avir tUo diletto
da lui y vago
della persona. 'Ma
non essendo il giovane
goodagnalq nb per
doni v né pér
eavetse, alta Jiite
divalgato il disordine
dell’uomo, i tribuni lo
condannaranò . ‘-'IXdnigi, ’Oòm'Vne'^reaiaieoii, leone per
ciseostinta gravissima del fitto
la vipleoia, usala in
noe dg Letorio
: -Se cglf compendiava sè atess >Ta
le carni ^acci&ct^
appena-^ si'riseajtooo e ' commoTOusi ifid tanto eh*. gli
«piriti . nalnrali di esse
yio* lentano i p.ori, e $i dissipa'no.
Questa •>, pur la
cagione de’ terremolwià Roma.
Conciossiaché tutta vuota
di setto per grandi
e contiqùatl canali pe’
quali conducesi T afana tien
m'ohe sflatatoje^ per
le quali sen.esca.il
vento rio- r.hiusovit ma.
quando il vento 'rimastovi prigiohiero
' sia troppo e veemente^ questo^
somioove' Roriù e rompene il
suolo (a), a •' ;
. (iX Si^ consenta in
generata ani liplo
rfi qi|eSto, giATÌnetto : ma
si discorda autonome, su
la famìglia', e sul
ten^)0. Valerio' Massimo nel lihA ^
lo chiama *fity
Vetório figlto noa
di Pubblio ma
di quel Tito Veturio
che net aifq
consolato fu dato
ai Saooiti (lal.
cfattaio obbrobrioso
coocluso con essi.
7(10 Livio chiama
it giovine Cajo Publicio, ed
assegna il fauo
all’ anqo .'4^7
di lioma aolto
i oontoli C. Poeleliu fc
Lucjo Pepino, vispi
4irùclusa la pace
co’ Romani, soprastettero breve'
tempo i Saiteiti, e poi,, stimolati
dà un* antiéa
ingiuria, mar* ' ciaróno coll'
armata tra i Lucani,'
loro cónfinauti. Questi affidati da
principio 'alle forze
proprie sosienner la
guér* ra : ma- pòi vinti
in tutte le
battaglie, pelòta gran parte
del territorio, e già prossimi
» perdere^ anche il resto, si
videro necessitali ad
implorare rajuto- di
Roma» J£ quantunque' consapevoli
a sestessi di aver
tradito i patti cdnclusi
Uria volta con
lei di antiòizia
e di allean- zaf non-
disperSròne ch^ concorderebbe
di nuovo, se le
inviassero in ostaggio
insibme òon gli
oratori 'i giovinetti più rignardèvoti
di tutta la
repubblica loro. ■ XU.
Qr questo appunto
ne seguitò. Perciocché
Ve- nutivi gli oratori^ e supplicandovi ca^dissimamente ; il Senato deliberò
di- ricever gli ostaggi
e render^ ai -Lo* cani r amicizia;
ed il popolo
né comprovò- la sentenza. Firmati gii
accordi con- gl'
inviati de'Lh'cani, il Senato elesse
i più provetti per
anni è per onori
^ e li diresse ambasciadori al
consiglio' generale dèi Sanniti;
affinchè dichiarassero 'ad
èssi che ‘i
Luoùni erano git
amici, e gli alleati .di
Bontà, e gli esortassero a render
lóro le terre usurpatene, nè più
tramarli ostilmente : già non
permetterebbe la repubblica' che alleati
suoi che a ' lei ricorret'àna, rinutnessero esclusi, dal
proprio, territorio. ... • tata
levar tutu levando,
i oaneli. Pìi( volentieri
diremo che le
mosee de' venti ttnterranei seno
éfletlo 4ie'unemoti ausi
che la- priout eafione. I Sanniti
gli mnbasciadcwi incollerìrono
e replicarono primicramentò ; che
i trattati di pace
non erano Jdtt} 'Con
accordo 'che essi
-non mossero per. amico;
o, nemicò se /ton
^quello che -assegnassero
• loro per tale i Romani
i Appresso, che i Romàni ~s'
avje- vano renàuto amici
i Lficani non già
in antico, ma di
recerite quand' erano
questi già inoolli-
nella ~^guerra co' ^Sanniti ; oh A
è che non avevano-
titolo nè, giusto nè
decoroso per- romperla
co' Sanniti Risposero
i Ro- tofiixì'.'che. coloro i quaU
avevano promesso di
soggia- cere, ottenendo
appuntò con ciò-
la pace, dovevano obbedire in
tutto, a chi presedeva.;
'.e minacciavano in caso
contrario di portare
sa essi la
guerra. I 3aimiù ripuianjlo intollerabile
|a ptresunaione di
Roma intima- roflo agli
ambasciadori cht partiasero
su. T istante ; e de- ntarono che sL
apparecchiasse spianto bisognava
per la guerra di
tutta .1» fazione, e di
ogni citti^^^ ^ XrV.
Pèrtanto' la ; cigìon manifesta,
nè ingloriosa a" raccontarla,. della
guerra Sanuiliea, fu .la
voglia di soc- Q>rrere i Lucani
caccòmmuidatisi a Roma quasi fosse già
pubblico e^ vecchio
costume * di essa
^difendere gli oppressi, che la
invocavano: ma la
oagion recondiu., e che
più \li sospinse
a romper la pace, era
la potenza Saimitica, divenuta
già grande, e la
qnal$' crescerebhene ancora,
se domati i.l,ucani
ed i confinanti di
questi si volgessero ad
essi anche le
barbare genti .che
stayansf appresso. Cosi tornati
appena gli ambasciadori
la pace fu rotta, e sì
àfrolarono due armate. XV.
Postumio già console, venuta 1*
oca di esserlo
ii«vatneiue - ( i ), teniasi grande
per to splendor
de*’na- taii, come pel gemino
consdato» Doleasene sa
ie prime il collega
di Ini quasi
escluso' daU’ essergli
Uguale, e più volle ne
fece 'in Senato rimostranxa.
Alfine qUah plebeo venuto
in luce da
poco, riconosoendosegli'
mìAore per gli antenati,
per gli amici,
e per àltre eccellènze,
.n'mi* liossegli, e gli
concedette di per
si stesso il
comandò della guerra Sanuitica.
Diede grande invidia
aPostumio un tal fatto,
come nato dalla
media arroganza sua';
ma poi glien ' diede
un altN, ancona più
indegno di un duce
-Romano. linperoccbè separali
due mila' difi
esercito suo li ridusse
nelle campagne sue
proprie' senza i fèrri con
ordine l'nsieme ebe
potassero "un qùerceto,
leneu- doK gran tempo
in òpere ài
mercenari e dà schiavi. XVI.
E superbo tanto ^ prima
di Uscire |Kr
la s|>è- dizione, apparve,
più InioUeraUle ancora
nel compierla; dando al
Senato ed al
popolo catise* giustissime
òndè r abborrissero. E ceno, • avendo.
i| Senato definitó'che Fabio il
console- dell’ àttnò
precedente, il quale
area vinto i Sanniti cbiamali'
’FeHtri'{i) si- rimanesse
nei campo .con aniorità
proconsolare per guefreg^are
con- la parte stessa
de' Sanniti, ^gli.oon ieiterrs(ia'
gl' intimò di
par* tirne, come spettasse e lui
sólo còmaudarvi.- Spedirono i
FUdtì'a ^chiederlo ebe
non impedisse al
proconsole di stTtre, nè
ripugnaste 'ài loro decreti;
ed 'agli non
diede se nOn. òrgegboae
e* tiranne rlsposfe,
dicèndó:*cAe fin- Aocbe Litio
fa mauaionè di
quelli SaoaÌM : nondimeau
Cla- tetio li tralatoia
Della ina Italia
antica. Digitized by Google LIBRO
xn. 43 a . . > . IV.*-* beticippe
IvaocdeaiOBe-ìùteyVÓgÀido
l’oracolo, dove portaste il
destino * che egli
cc/’^stiei '‘prendessero
tede, né
ascoltò chè dovessero
Aavìgare-AllMuiia, «divi (i) Caprifico,
fico «ilvcstfe. La
voce greca tigoifica
ca'pro e pr«s$o .glcuui popoli
caprifico. Quindi P ambiguiii
d* iulerprcUrc la voce
per capro o-
capritico. ahbìtàre dove approdati
rimanessero un 'giorno ed una
notte. Approdata la
flotta intorno di
Gallipoli 'in un tal campo
de^T^renlinì,
dilelliito'Leacippo della aalbra
del luogo, operò coi Tarenlini
.afllnchè gli isonCedessero
di stanisi ii giorno
e la notte. ^ Cosi
passatine più giorni
; voleano ' i ^Tarentini che
ne partissero ì -ma
colui noti ditd^ lor
mente, dicendo che
secondò ^li accordi
uvea iU loì^ quel
tUoigo pel giorno
e per la notte",
e però sino a Umto^che fosse
o furio o f altra non
se ne parti- rebbe.'I Taréalini
vistisi, nell’ inganno,'
coQsentirono che rimanessero (ì). »
> > ' 'V. u I Looresi popolando
Zefirio (3), «Ina punta d’
Itali»; ne flirtino
soprannominati' Epizeflrii .X. .
Stav tniropo. che rimanesse
nel hiogo in
che era, soste- nendone la ^ecn.
che ne derivava
.«. furono dissipati tra
selve e valli e ripidezze,
s Vi. « Un TarentiOo,
uomo empio, e deditO/-à
tatti i piaderf p«* la
incpntinenztr e prostituzione' della
Sua bellezza fln'da ^ovinetto
/ ne' iu nominato Taide
. . . . Fatta ià' scelta dal
popolò erano'' partiti ....
Vilissimi e petulaaUssìml tra* cinadini. Fu
Postumio spedito ambàsciadore
ai Ta- rentinr : ma'
facendovr rimostranza ; questi
non-T iitte> sero, nò ' pigliaronp
il contegno de’
saVf i quali -òòmuliino su là
patria che pericola
: anzi, se nieoiotavitno mai
che cóldi non parlava
accuratissimo il greco
'Idioola, ve! (1) Siraboàs pel libro setto- dà
questo '«Sdetiaid racconto per la
origine di Melapoalo.^ ‘ r (a) Cosi
detto perebà risolte
al vento Ztflro
ciot di Ponente. (3)
Questo e li tre
paragrafi srgoenti tono
frammenti. - Digitized by
Googlc 444 DELLE Antichità’
romane deridevano, ed
elevando 1i;m le
mani o la voce, se
ne irritavano, e barbaro lo
chiamarono; jtantt> che
1q espul- sero infine .dal
teatro (i). E già
costui m ne andava co’ suoi, quandd
per istrada si
avvenne con essi,.
Fi- lopide, un accattone (a)
di Tasanto il '
quale sopran-j nomina vasi
Colila dalF uso
che avea, ‘continyo di
bria> carsi. Caldo del
vino, ancora del
di precedente, come ebbe vicini
i Romani, si tirò su
la veste : e scompó- stosi in atto
indegnissimo da «vederlo, sbrufTè sul
manto sacro de’ Legati
ciocché non. pttò
nominarsi ' nemmeno con decenza.,, Vili. Scoppiatene
da tutto '3
teatro le .visa',
e sbat- tendoglisi per fino-
le mani da'
più protervi,- EoStumio riguardandolo disse
: accettiamo o tvtissimo uomo /
au- gurio : giacché ci
date fin le
cose che nòn
chiedi/ama. Poi rivoltosi alla
moltitndine, mostratovi
contaminato il suo manto, e sentitevi uuiversaliN
aucora 'e più,
grandi le risa, anzi
le voci nemmeno, di
àlcUni che'sen compia- cevano, e lodavansi, della
contutUelid : -ridete f disse, finché V é dato
; ridete, pure o "Tarenùni ; ehè
assai ne sospirerete dii
j>oi. Fremendo alquanti 'alla minaccia iò
; replicava, perchè pià Jremiale
vi aggungo ; che assai
laverete col sangue
:quesUi, mia Cosi spre- giati dai 'prijvati
e(kl pubblico, e tosi •pcoaunziatp quasi come
un vaticinio divino, su
loro / sciolsero,d legati
dal porto dà Taranto.
„ ' . • v ' * « ^ ' IX.
Giunti questi sotto
Emilio fiarbula magisti^to (i) Aono
di Roma al Altri-
alla idea-dj acoattone- soatitaiacono quella
*di od aomo brflardo
t garrulo, ellione de** Lucani
e de* Bruzj ‘j e
finch’ era' indomita la' nazione' grande le
bellicosa de* Sanniti, e 1*
altra 'de* questi son
fatti a\dar buoni auguri, a chi cerca
mantenne i beni pri>prii.
Ma. chi cerca r altra!,
spii queiU augnrf
da uccelli di
pronto e rapido impeto
per lontauT Via^.
Ginciossiaché questi uccelli sieguooo
e pcocacciansi ciò che
nbn hanno : ma gli
altri guardano e''cnstodiscòno ciò
saltité ».Pormi sa- viezza mandar’ lettere di
minàcce aC sudditi: ma
vi&t pendere come uomini
da pocoro da
nulla- Uomini dei quali non
siansi considerate le
milizie -nò conosciuto il
valore, questo è indizio di
forsennato, o di chi non sa
ciò che è senno.
3Ia noi sogliamo
punire i nemici co
folti, non,, colle parole.
Nè fàteiamo te giudice
de’ nostri richiami
co’ Tapentùti, oo’ Sanniti, e con altri:
nè prendiam te
garante- dà far valere
ciò che tu . giudichi.
Decideremo colle armi
nostre la di- sputa pigliandone la
pena che ne
vohemo.- Su tali 'notizie . apparecchiati come
nimico ^ noa come
giudice nostro ». -, » ' XVIII.
« Vagli poi considerare
quali ’ garanti ne darai
per te da
soddisfare le ingiurie
>che tu ci
fai : non ricevere
a carico tuo che nè^
farentim . né sdtri nemici opprimeranno
i diritti. Se luti
deliberato di int- prendere per
ogni rqdnierà la. guerra' contro di nói,
tieni certo che^ti
succederà dò Se
di ^ 'necessità suc- cede a chi vuole
combattere innanzi di,
aver ponde- ralo con’ chi sia- per
.combatterò. 'Abbi 'tutto in
pen- siero, e poi se cosa
ti bisogna da
noi, aìlo'ntàna- le minacce,
pon già.
quella tua regia
fierezza V vieni al Senato, informalo,, persuadilo
uè' vedrai -mtuteanS non 'il tjlirilto,
e non £ equità a. V
i'»9 • JLìevino console ramano
(i), preso un
esploratore «li Puro (e
prendorfe alle sue.
milizie le armi e
schie>r rarsì : poi mostratone
a lui lo spettacolo
gl’ impose di riferirne
a cbv lo mandava,
tutta la verità
: e che oltre le cose
vedute dicesse che
Levino il console
de’Komani lo ammoniva a -non
inviare occultamente ‘altri per
os- servare : venisse egli 'e
vede^ palesissipiameate, e spe* rimenlasse ciò
che-gian Tarmi romane
». Addo (li Roma. 474- n/ÓJV/C/. lówà
Ua tal Oblaco,
loprannominato.VuUinlo, dace
de'Fereatani, al vedere
che Pirro non
avea posto certo, ma
presentavasi rapido dòvuoqnc.
.tra’ soldati, diresse r
attenzione . a.' lui solo : e dove'
che,ne andasse il re
cavalcando, ivi piegava anch’
esso il proprio
cavallo. ' Osservando 'ciò Leonnato
di Macedonia figlio
di Leo- fante, .l’nno de*
compagni del re, se ne
empi di so- spetto, e scoprendolo a Pirro
disse fvMarortaro(^o. Dopo
quell’ incontro il
monarca afEne fidisstihó e valorosissimo fra’
coin|>kgni la da* mide
sua di porpora
e di Oro usata
da Ibi. nel
com- battere, c l’armatura,
migliore delle altre
per la materia e pei
'tavqro, ed Segii prese
la clamide bruna, e 1’
u- sbergo e la causia
colla quale, Megacle difendeva
il capo dagli ardori.
E questo fu cagione, sembra, a lui dj salute
a. ‘V. Dopo (Jbe
Pirro signore degli
Epiroti aveva portato r esercito
contro - ai Romani, deliberarono spe* dirgli
ambasdadoH pel- riscatto
de'^rigiouieri, sia che
colui volesse' restituirii'cambiandoli, sia
che tassando un prezzo
per ciascuuo di
essi (a). Pertanto
dichiararono ambasciadori' Cajo
Fabrizio, il quale gii
console, ad- dietro da tre anni, vinte
i Sanniti, i Lucani, i Bruzj con
strepitose battaglie, e
disciolse 1’ assedio
‘di Turi, e Quinto Etnilio
il quale éelTega
un tempo di
Fabrizio fece la guerht
co’ Tircehi«, è Pdbiio
Cornelio il quale gii
console addiètrct da
quattré' atini atuccò
^utti i Galli chiamati
Scnoni, nenvcilsfmi'de’^omani,
'e 'mitene a 61 di
spada tutù gli
adulti.' VI. Venuti quésti
a Pirro, e -discorsogli qninto
concerneva il subjelto, come la
sorte non Imttoposta a calcoli, corno repentini
sOno *i eangiamenti
fra le ar- mi, e .come niun
può' di leggieri antivederne
il futbro; proposera a- lui
che sceglieste dì
rendere i -prigionieri a
p-szzo o permuta. ( ' 001101
rispose : jirduo cimento
è il vostror o Romani, . che ricusate can^iungervi meco
di aiaicieia, e richied/ete i vostri prigionieri da
usarli in altre' battaglie in
mio.dannoi Voi se desiderate
il bene., se
intenti siete tdX
utile comune a noi due ;
pacificatevi con me, e ee’
miei confederati, e
ripigliatevi gratuitamente 1 vostri
pri- gionieri, alleati,, 0 cittadini
che sieno. In
altra moda non soffrirò
che vi abbiate
un' altra volta-
tanti, Je ^ tanto valorosi.
Corì disse presenti
i tre 'legéti, ma poi prendendo
Pabrizio in disparte
soggiunse:, Vili. Odo o Fabrizio
che tu se
prestantissimo nel guidare una
guerra, che se’
giusto, e sobbrio e pieno d’^ogni virtù,
dell’ uomo privato, ma
che intanto sei povero
di sostanze, e depresso
in ciò solò
dalfis sor- te ; onde noli
vivi tù eoa
più agio cher . gV
infimi se- natóri. Ora io
volendo sollevarti anche
in ciò, ti af-
ferò tanta quantità di
argento e di oro
da superarne il più
facoltoso tra’ Romìmi.
Imperocché io reputo liberalità bellissima., e degna di
citi presiede, be- neficare i
valentuomini i ‘ qiysli . per, la povertà
non vivono con dignità
de’ lor^ genj
bennati, e- questi io reputo
doni, questi monunten{i
luminosi per /una re-: già
potenza. ', IX. Or
tu vedendo '0
Fabrizio il, voler mio,
lascia ógni verecondia ',
vieni,a parte de’
miei beni ; e con- cepisci che mi
farai piacer grande,
. . e. che sarai presso
me riverito come
un amico, o un, congiunto, o certo coni
uno degli ospiti
più onorevoli. Nè già
per questo mi
dovrai tu p/eslare
l’ opera tha in
cose LIBRO' xvnì.
4'^^ non giuste, o non
degne, md in
coj& onde tu
ne sia piti stimabile
e grande ancora nella
tua patria. E primieramente pròvecherai
spianto puoi perchè
faccia la pace 'cotesto
tu& Senato, fin qui
duro, e privo di niodprati contigli.
Dirai che ia
venni in danno'
di Roma promettendo soccorrere
i Tarentini ed altri d'
Italia : che ora
non sarebbe giusto,, né
decoroso che gli cdibandonassi
io presente qui
coll' esercito', e vincitore
già.,di tuia' battaglia:
che nondimeno affari imperiosi e molti
avvenutimi poscia -mi
richiamano alla reggia. • ‘ ' X.
Ed io qui ne do, sii
tu solo o am
gli altri compagni, le assicurazioni
più. ferme, c&è io son
intento a tornarmene se ì
Romani mi si
concordano per la pace :
talché puoi dirlo
pur francamente ai tuoi
cittadini se alcuni
mai - ve ne
‘fossero d quali mal suona,
il mme di
un,re, come quello
di un fi4o, ne’ trattati,
e-témessero di me
similmente perchè taluni monarchi
si. videro, sorpassare i giuramenti,
e tradire gli accordi..
Fatta la Magro
ò il nfio poderetto:
eppure amando io di
lavorarvi ed appiicàndomene prudenzialmente ->
i frutti t somministramb tutto
il bisognevole; riè
la na- tura ci viohnUf
a cercare pià che il bisogiievole. "Soave m’ è f
alimento cui la
fame còridiscemi, dolce la
• bevanda Cui la
seté procurasi, e molle il
sonno cui la stanchezza
precede.
'&ijfèientissima rrì è la vèste
Che mi difènde
dal fredda, come acconcissimo, il -vose
meri prezioso fra
quanti datino P uso
mede- simo. Noti saria ^unquè
giusto accusare la
sorte, la quale mi
pòrge quanto basta
alla natura, e la
quale se 'non dovami
H' abbondanza, non tri'
impresse netn- tnèno desiderf
superflui. • XVL Io
non hb mètri' è vero
da- soccorrere riti- si
debbe ;~'ma nemmeno
diedemi''Dio. su le
ricchezze quella' cognizione . certa
j 'o divinatoria per
la quale gioitasi chi
he' abbisogna, come nemmeno
diedemi tante -altre cose. Partecipo
ciocché ho colla patria
e gli- amici; porgo loro
còme comuni le
cose mie, be- Digilized by
Google 456 DEixE Antichità’
romane neficando come posso
chi ne abbisogtia, nà 'quindi io
credo mancare. K quesfe
sono quelle manierp
mie che tu giudichi,
prestantissime, e else sei pronto
di comperale a sì gran
prezzo. -, XVll. Che
se poi la ^
gran possidenza sia
degna che procqrisi po/t
tante premure, e gare appunto
per benefitare chi ne
abbisogna » e se questa
rende più Jelici i pià
ricchi come sembra
a voi re j qaoii
vie saran le migliori,
da pi'ocurarsela, quellè
per le quali vuoi
tu 'che io
me l' abbia
ingloriosamente, o quelle per
le quali io V
avrei prima ottenuta
con decoro ? Certamente
gli affari di
stato mi diedero
tante volte per addietro
> mezzi da arricchirne
principalmente quando già da
tre anni fui •
consolo, spedito col- f esercito cantra, XVIII. K potendo
di^ tali acquifU
applicarmene quanto.io- voleva ; •
non veppi toccarne
I 0 trascurai per amor della
gloria uua ricbhezza
anche giusta ; come,
fece falcfio Poplicola,' e,come pur
fecero, altri moltissimi pc’
quali - Roma tante
'ne è grandiosa, Ma da
te quali doni
mi si, apparecchìanà
? Non cans- hierei forse
il meglio col
peggio ? Sal'ebbe quella prima
maiiiera di possedimento
stata_uiùin colla sod. disj azione del
cuore, con un
apparalo di giustizia,
e decoro; ma da
codesta tua Ujopfia
tatto ciò manca. Imperocché qpAttVO^
uquo^accstta dall’ nomò k
cotta ca
knseTiro csb-gu gravita-
iNTOthro riw cuk SOL
oottrairifA i k NAseoaDASf purb .
la etA- TORÀ DBL
PRESTITO .co' tfÙMI SPSCIOSf, DI
DONLf Dt favori ; DI
BiOfBFfCBmBE.',, o XIX. Or su
poni che io
uscendo da me
prenda C oro che mi
offerì, e ciò divulghisi
tra’ Homani. I magistrati
irreformabiU, quelli . che noi
chiamiamo censori, a’ quali spetta
esaminare U' vivete de'
ife>« mani e castigar ehi devia -dalle
cóasuetadini della patria,
quelli mi citino
e m’ astringano a-
dar conto de’ doni
ricevuti, al cospetto del
pubblico e, dicano
: ;,xt. « Noi (i)
ti abbiamo inviato
o. Fabticio con due
consoUpi al monarca
per trattare il
riscatto dei prigionieri. Tu
rivieni dalla spedizione
‘ feoza li pri- gio/tieri, e sene’ altro
bene por, la
eittà : Bitorni col» mà, e m solo^ e npn.
i tuoi compagni,, delle
regie .( se non da ciò die
tu ne tradisci
al -ne- mico, sì che
egli coi tùo
mezzo soggioghi per
sè /’/- talia, e tu col
mezzo di lid
tòlga alla patria
la li- bertà ? Così fan
tutti gli nomini
di una v^tà
simu- lata," e non
vera, quando si
sono avanzati al. grande e forte degli
affari «. « . > .,
w Che^fe non -tu- adorno
ddla dignità sena- toria,-e non
da nemici, cnom^per
tradire e far ti- ranneggiare la patria
avessi accettato- que
doni, ma soltanto come
privato da'-un re
cotfederato, e senza ombra di
male pel comune,
dì, non. saresti da pu-
nire anche per questo
che depravi li
giovani, insi- nuando nella
loro vita il
genio per la-
ricphezza, per le delizie, • e per Its
sontuosità dd monarchi-^quando abbisognavi condnenza
estrema a preservar -la repub- blica? Svergogni, li tuoi maggiori
de' qu^i niuno
de- viò dagli usi della
patria nè mutò
la povertà deco- rosa con turpi
ricchezze : Si tennero
tutti' nel tenue patrimonio, che
fu riceyesti,'ma poi
“riputasti minore di tC
n' ., K ' XXII. u Anzi
tu ' dissipi la
gloria a te risultata pe’ fatti
anteèedenli, la qiiaL possedevi
di uom tem- perante, e superiore ai
bassi desìderj. Ti
diletterai di' esser fatto
malvagio di proho, quando
dovevi an- che cessare dall'
esSer inalvagió, se eri
mai tale? 'O sarai
da ora in -poi
messo a parte mai
più degli onori dovuti
ai buoni ? anzi
levati piuttosto dalia città,
o dal Foro almeno.
E se ciò dicendo
mi casi. sasserp dai
Senato, e mi riducessero. disonnati, qual cosa
ftqtrei replicare, o. quid
Jar giustamente in contrario
? E, dopo ciò qital
vita vivrei io
mai, caduto in tanta, infamia t‘~e versatola
in tutti i iniei posteri ? n •,, - XXIlI. u Quanto
a te poi come-
darò segno mai più
di giovarti, se tra
miei perdo la
influenza e Ut riputazione,
per le
qatdi ora cerchi,
di afJezionap~- miti ? Quando
non potessi più
nuUa nella patria, non
mi rimarrebbe che
uscirne cottr tutta
la Jìtmiglia, condannandomi da me stesso
ad un obbrobrioso
esilio.' Ma dove mi
starei da- indi
in poi, qual ' luogo
mi ricetterebbe » ridotto^' ^eom’
è conseguenza, senza la
libertà del parlare
?> Forse il
tue regno? Viva- Giovo se mi
apprestassi tutta la
règia tua prosperità,,
non mi daresti tanto
bene quanto' mé
ne togli', . levatami la libertà,
preziosissima innanzi,n . *
XXI-V. u Còihe potrei
tener vita tanto
divérta ^ tardi ammaestrato
a servire? Se cJù- è
nato ne’ regni e nelle tirannidi
quàhdo abbia cuor
generoso, ama la libertà,
stì/nando ogni -benè
meno difessa ; come chi
è cresciuto ùt città
libbra e consueta dominare^ su
gli altri, passerà volentieri
di bpie in -mole, di libero in
suddito per imbandire
laàte ogni giorno
le mense, pie .aver
gran seguito intórno
di servi, e pigliar
diletto senza rifeèya
eoa'' femmine e donzelli formosi quasi
'la ùmana felicità
sia riposta in questo
0 non già nella
virtù ?-n. u'Ma
sùm pure questo
e cose altrettali de- gnissime \di esser
cercate, or quando /’
uso ne sarà Digitized by
Google 46o DELLE Antichità’
romane / tnai lieto
se non sono
mai stabili ? Se a
voi' sta concedere tali
amabili còse.; voi
le ritogliete uguale mente,quando vi
piace. Lascio di
ridire le gelosie, le
calunnie, la. vita sempre-
in pericolo, sempre in timore, e tutti gli
altri sconci, non degni
del wx» lentuomo, quanti ne
porta lo sfar
presso ai moìiar- chi.
Già non colpirà
tanta stoltezza Fabrizio
da ab- bandonare la famosissima
Roma per vivere
nelC E- piro; o da
ridurlo chk merUre
può far da
capo nella città dominante, voglia essere
dominato da un
solo, pien di sestesso,
e .còhsueto di 'udire dagli
altri sol- tanto ciò che
diletHa ». j XXVI.
« Già non potrei
levare il grandioso
nei pensieri t nè impiccolirmiti,
anche volendo, sicché
tu non debba sospettare
niun danno. E rimanendomi come la' natura
e-'glt usi della'
patria mi han fatto,
ti parfè
grave, ■ e quasi tirare, da. ogni
pòrte il co- mando verso di
me. Generalmente debbo
avvertirti ctie non vagli
ricevere nel - tuo
regno, nè . Fabràio, nè altri, sia
maggiore sia .'pòri
tuo nella virtà, . ni
af- fatto chiunque
sia'crescitUò iti, città
Ubère con sensi più
grandi deiiP nomo
privato. Già* non è
sicura ai. principi nè cara
la dimestichezza con
uomini, di mente eccelsa.
• Mà. su: V utile tuo vagli
tu da te,
di- scernere ciò eli è da
fare:.-quaoto a prigionieri nostri scéndi
ai miti consigli,
lasciane aitdare ». . XXVII.
Appena Fabrizio (ìae, maraviglialo della magnanimità
sua, lo prese ‘per
la (lesira dibendo: Già
non mi vlen
maraviglia che la
vostra città sia tanto
celebrala, • la cresciuta a tanta
signoria, dap- Digilized by Google LIBRO
XVllI. 4^1 poiché dia
nudre tali valentuomini.- Ben
avrei caro che non
fosse stata fra
noi briga ninna
fin dalle origini, fifa
poiché vi fu,
poiché taluno de'
numi volle che noi
misurassimo a vicenda le
nostre forze e iL valore, ^ misuratolo ci
riconciliassimo ; son pronto. E cominciando io
la benignità la
quale dimandate, restituisco 'in
dono, e non a prezzo
i suoi prigionieri a Roma « X^ECto,
un. Campano, lasciàtd
da Fabrizio console romano
per capo ddia
gbarnìgione di Regio
(t), invaghito dei beni
di questa, finse venutagli
lettera da un ospite
suo nella .quale
si annunziava che il re
Pirro manderebbe cinque mila
soldati a Reggio per
invaderla, promettendogli li cittadini, di
aprir loro le
porle. Su tale pretesto
uccise cinque di
Reggio, e poi comparti le
maritate e le nòbili
tnt* suoi militari,
» vi si fa tiranno
(i). Alfine caduto
nudato degli Occhi
mandò cercando • in Messina
Dessicrate medico » prestaatissimo secondo che
udiva. ...>,.» r II.
« Pirro recitò li
versi che Omero
mise, in bocca di
Ettore verso Achille,'qnast detti
da’ Romani versò di
Pirro; ., Ma te tale e
Xaot’ nomo io
gHi non voglio, Cól
guardo seguitandoti, di.'forto, ■
^ Ma palese ferir^
se mi riesca
i ' • ■ Poi' soggitmgendo che
egli seguiva forse
nn tristo $u> bjetto
di guerra contro
Greci, buonissimi e giustissimi,
ma rimanevaci un
solo- e bel termine
; che li rendesse 4 amici di
nemici, con'* principio magnifico
di benevo- lenza. n • ‘ III. tt
Quindi fattisi veaire'
li prigionieri de’
Romani, diede a tutti vesti
convenienti" ad uomini
liberi, e le spese- del viaggio,
Con esortargli infine a ricordarsi
quale egli foése staio-
inverso 'di essi,'
a manifestarlo - agh altri, e cooperare con
(utlb 1’ impegno
‘ a .rendergli amiche le patrie
loro, quando vi giungessero,
.'i . 1 Certamenté r oro de’
principi' ticn forza insuperabile,
hè fu dagli uomini
trovato -fin qui
riparo contro di
arme siffatta. »... IV.
CKnia da Crotone
uomo soperchiatore privò
di libertà le cittadi,
'cOn dar fritnehigia
ad esuli e schiavi numerosi' de’ 'luoghi intorno
(a). Fondata là
tirannide (i) Quel di
Reggio '«ve vano cercalo
il presidio Romano,
temendo tanto de* Cariagipeai
quanto di Pirrol
Dacib uccise li
cinque qni si- gnificali in un
convito. Ma li
soldati ne uccisero
assai più per
le case, come sì
racc'bgjlie' da Dione.
'' ' (a) Questo
paragraie, e l( tegajeuti lino
al duodeoimo sono
fram- menti. DCLi.E
Antichità’ Domane col mezEO
di questi uccise
o bandi li Grotoniati
più rìguardevòli. Anassilao oocopò
la fortezza di
Keggio, e ■ ritennela per tutta
la vita, lasciandola
appresso al figlio suo
Leofrone (i'. Dopo
questi anche altri
facendosi' a dominar le
città vi sconvolsero
ogni cosa^ V. Ma
il dispotismo, ultimo a nascere
e massimo ad- opprimere le
città d’ Italia, fu quello
di Dionigi, tiranno della Sicilia.
Imperocché passato nella
Italia in soccorso de’
Locresi che vel
chiamavano a danno di
que’ di Reg- gio, che
erano loro nemici, ebbe
incontro eserciti Ita- liani numerosissimi ; ma
postovisi in battaglia
uccise moltissimi, e presevi a
forza due città.
Poi tornato un’ altra
volta in Italia
svelse dalle loro
sedi gl’ Ipponiesi traendoli nella
Sicilia : invase Crotone
e Reggio e vi tiranneggiò per
dodici anni fiqché
queste città sopraffatte dal timore
di lui si
diedero ai barbariv
Ma poi premuti pur
da’ barbari come
nemici, si rimisero nelle
numi del tiranno. E fluttuando,
come le. acque
dqli’ Euripo, si volgevano senza
requie qua e là
fortuitamente, levan- dosi da
chiunque li malmenasse. VI. Scese
PiiTo di bel
nuovo nell’ Italia,
non riu- scendogli. nella Sicilia
le cose come
le ideava, perchè il governo
di Ini sembrò
dispotico anzi* che 'regio
alle città principali. E per -vero
dire, iutrodoftp questo
in Siracusa da Sosistrato
che allora vi
presedeva, e^da Toinone
capitano della fortezza
(a), e ricevnto da
essi r erario, e presso che dngento navi
rostrate, e sotto- (i)
Ciurlino uel lil>.
a fa mcniione di
più zelante per pubblica
^confessione e più attivo
nel dar mano a Pirro
pèrcbé scendesse nell’
isola e vi regnasse, giacché si
eca .costui recate
colla. fidUar^er incontrarlo^ e gli av^a
renduta l’ isoletta, da Idi,
presidiata in Sira- cusa (i).. Ma
tentando sorprèndere ugualmente
Sosistrato fu ddosò.; perocché
costui previde le
insidie, * e fùggì. - ' r ' ‘ • ' ' i * ' ' *’,(r) ^irapnsiT'pcr
quatuo rileviamo da
Lucio l^loro era
coma aoa ciùà composta
da tre cittàio
delle quali ngoiina
/ra cir- oonJata di
mora. Vedi le
uote lib.' a, c.
nella faoSlra tlradu- xKltoe ^i
quello' icritìera. •, ' DIÓA’TGI
f tomo ///., i, Poi coniinciaiKlo
a scouyolgeoi le cose
di Itti ; Carta> gine credette
avere il buon
tempo da riprender
nell’isola i luoghi
perdniivt, e' ti spedi
sollecita un’ arinata. . IX. Evagora
figlioolo di Teodoro, ^alacro ' figliuolo di Mieapdro, e Dinarco figliuolo'di
Nicia, tristi, infàmi sopra
tutti gli amici
di Pirro,* emoli
com’ erano in dar
consigli, alieni da’ Dumi e
dal culto, vedendo il mo-
narca in disagio, cercar
vie da conseguire
danari, glie ne proposero una
indegnissitna^ i^e era
quella di aprire i tèsoli sacri
di Prosèrpina (t).
Imperocché nella città stessa
eravene un tempio
aaitvo, il quale serbava
oro in copia, intatto da
tempo antichissimo, e dove altro ven'
era invisibile a tutti,
come posto occnltistimamente sotterra. Sedotto
^da tali adulatori,
e riputando' la neces* sità superiore
a' tutto, si
valse de’ consiglieri
medesimi per lo spaglio
sacrilego. Quindi tutto
riconfortato im- baroò con
altre ricckecze Toro
venutogli'! dal tempio,
spendendolo a. Taranto. X.
Ma la provvidenza
giusta degl’ Iddj
maoifcslò T ef- ficacia sua. Perocché
ariose dai porto
pròcéderono in principio le
nari' col fi^re A t/n.
venm terra ; ma poi
cambiatosi questo iu
altro coo^rìo ii^pestà
per tutta la notte, e quali ne
affondò, . quali ' ne miruse
al golfo di Sicilia
; e spinse ai fidi,
di liocrs quelle
ov’ èra- no portati i doni', già
votivi ne’ tempj, e P oro 'am- Jtnas&atooe : e qui
disfacendosene i legni foce
perire i nocchieri naufoaghi
pel riflusso deUe
onde, e sparse )’ oro sacra
su la spiaggia
appunto più prossima
a Ix>cri. Donde costernato rese
il mouaroa alla
Dea tulli gli
ornamenti e i tesori, quasi per
allontanare con collera. » 4G7 ciò'
(a Stollo ! che non
vede» t/ùali tormenti Tf«
ìncorrerì* : 'chè facili
non tono,. Thnla a mutarti
le celesti menti,
* ' ' Come' Ai détto da
Omero (r). Dappoiché
stese la mano lemerliria su 1’ oro
sacro, onde valersene
in guerra, la Dea
lo iniìitQÒ nè*
Consigli » per esempio'
e 'documento de’ posteri. t XI.
E per questo appunto
' io vlcrto colle
armi da’ Ro
praticati don éagli
uomini, ma dàlie capre
per lo selvoso
e scosceso in che
sorto : cd erano, per
andare senza ordine
alcùno spossandosi dalla
sete e (1) Odissea
111-,, ):^micllUà Romane di
Dionigi. Tulio il resto
t auppliio col compendio
formala su li
medesimi verni libri. parecchio.
Conciossiachè ivi crescono
in copia abeti
al- tissimi e pioppi, e la
pingue picea, e il pioppo
e il pino > e r ampio fàggio, e il
frassino, fecondati dàlie
acque che vi
trascorrono ^ ed ogni
altra sorta di
alberi, la qual densa
ne’ rami tiene
continua 1’ ombra
su la montagna 1»). »
s - \ VI. a Eh questa
sélva gir alberi
prossimi al mare e
ai fiutni tagliati
interi dal ceppo
e recati ai porti
ricini forniscono a tuttà T Italia
materiali^ per navi e case:
gU alberi^ lontani dal
mare e da’ fiumi, ridotti in
pezzi, e riportati su le
spalle dagli uomini somministrano remi V "
(a) Stra'bufu nel
lilwo V-I di«
che questa selva
eré lunga tcllc- cento
stadj. e pertiche, e mezzi di
ogni arme, e rasi
domestici: fi* naimcnie la
parte di piante
più grande, e più oleosa vien
preparata a dar le resine,
e scn fornia la
resina chiamata. Bruzia-., la
più odorata, -e la
piu soave infra quante
io ^ne conosca.
Or dagli affitti
di unto Roma
ne ha ciascon anno
cospicue rendite. » VH.
« Io Reggio, iecesi
un’ altra sommossa 'dal
pre- sidio lasciatovi di Romani
e di confederati : seguitatidone da' ciò stragi
ed- esilii noti
pochi. Per tanto
Gajo Ge- micio r altro
de’ consoli usci coll’
esercito a punir quei ribelli.
Presa la città
colle ardii rendette ai
citudini prò* fughi gli
averi loro, edarresuto
il presidio lo
condusse prigioniero in Roma.
Or su questi
tanta fu' Pira, c tanto
il dispeuo.-Dcl Senato
e uel popolo che- non
vi fu I pietà di
partiti : nm da
tutte le tribù
(ù senlenziau su tutti
la pena di
morte come presciivono
le leggi su tali
malfattori. Vili, a
Stabilita la sentenza
di morte furono
pianUti de’ tronchi- nel
foro e condottivi e legati
trecento a cor- po nudo i quali
aveanq già i cubiti
avvinti dietro le spalle:
e poi battuti, e poi
decapitati con le
scuri. Dopo ì primi vi
furono puniti altri
trecento, e quindi altret- tanti ancora 4 findiè
in t'uttO furono
quaMro m'da dn- (i)
La Irgiooe Campaoa
con Decio capitano
occupi Ecgg'o l'an- no 4/4
Roma poco ifopo
la venuta di
Pirro nM’ ftalia, occorsa appunto in
quell’ ann^. La
legione ribelle fu
punita l’anno 4^^ sotto
il contole Genucioi
Livio dice clic
la pena fu dicci
anni dopo il
delitto, é ebe li póniti
in Roma furono
quattro rada. Nel testo
ai parla della
ribellione come aeconda.
Non k chiaro se la
indicata io questo
luogo eia detta
seconda in rispetto
a quella di Dcciu, o di altra
antecedente. quecento. Non ebbero
questi sepoltura, ma tirati
dal Foro in luogo
aperto dinanzi la
città vi si
abbandona- rono, pascolo di uccelli
e di cat^i. » IX.
. « La turba mendica
non tenea cura
delPo* nesto nè del
giusto. Però sedotta
dal Sannite (i)
si rac- colse in un
corpo, e su le prime
vivea por lo .
più pei monti nelle
campagne. Ma poi
cbe fu cresciuta
in nu- mero ornai da
tener fronte occupi
una città forte, dalla quale prendea
le mosse a depredare
le terre ihtomo. ÌÀ
consoli, cavarono la milizia,
contro di questi.
Ricu- perata senza gran briga
la città batterono
ed uccisero gli autori
della ribellione,
véndendone^ gli altri
all’ in- canto. Era già
1’ anno avanti
stata venduta la
terra e g^i altri- acquisti*
fatti colle' armi e
l’argento risultatone dal prezzo
èra stato comparilo
ai cittadini (1). n
fi) Ano»
di Roma 4^- Qui
81 attude «Ila
guerra concitata da
LoUio Sannite il
quale fug- gito da Roma
dove era ostaggio,
raccolse gente, prese
un luogo munito della
sua regione, e vi
padrone'ggiava, e. predata.
Dionigi nel lib.
1. 9 dice di
tessere la storia
sua fioo al
prin- cipio della prima guerra Punica
1 Questa occorse Panno
488 di Roma ; e le
cose di quest’
ultimo paragrafo concernono
P anno {85 . Tanto che
il eoiApendio ha
prossima corrispondensa alla
storia delle aSA*itA «Usa
in venta libri. LE
COSE PlÙ NOTABILI
IN DIONIGI D’ALICARNASSO.
Aborigeoi Sono porto degli
Oeootri di Arcadia. Secondo alcani
non diiT 'Agricoltnra. Romolo conginnge le
cure di essa
con «joelle della miliaia Anco
Maraio raccomanda l’agricoltara e
li pascoli pinttoato
dié la gneira Agilla
cpsi chiamata dai
Pelasgi fa poi
détta Cere dagli
Etrasci. Agrippa vedi Menenio.
f Alba Lunga, suo
fondatore e sito. I.
5^. Sua durasione. III. 5i, Albani:
da quali genti
r|snltassero, IL 2.
Catalogo dei loro re.
I. Ga. Dopo
la morte di
A,mnlio e di Nnmitore
ebbero annui magistrati. V. Al)«>nza degli
Albani e de'Romani sotto Romolo,
III. 3. Guerra
tra, i' due popoli;- loro
capi- tani, ed esito della
medésima, 2 e segg.
Traflaziqne degli Albani in
Roma, 2q, • Albani,
campi fertili di ave e frutti,
t. 28. Bontà
premi- nente del suo vino, 5^.
'Monte Albano, Vili.
87. Ferie Latine', ivi. 1
> Alceo, poeta esiliato. V.
^3. ... Algido. I Volaci'»
gli Equi vi
accampano. X. 21.
XI. 3. i Romani
.vi sono danneg^ati,23. Alsio,
Inogo degli Aborìgeok
I. 11. '' Amiterna
Inogo dei Sabini.
’I. 6. IL Amnlio, ipoglia il
ano' fratello Enmitore. I. €7. Regna
XLII anni, G2. Viene
aaaalito, ^5, ' • Ancbiie, figlie di
Capi -e padre
di Enea. I.
53. Sua tomba, 55.
Porto di Anchise,
4L '^Itri looghi
i qnaR' ebbero nomo per Aflcbise,
64. ' t Ancile o scudo
caduto dal cielo.
II. 70. Digitized by
Google 47^ ■ Anco, prenome
di Marzio re e
di t*ablioio Corano,
Vedi que- sti nomi.
Anfittioni e loro congressi.
IV. 25, Aniene, Game, III.
22. Non era
lontano dal Monte
Sacro. VI, 45. Era
ricino * Fidene. Ili,
55, Si ecarioa
nel Te- vere, ivi. Anterana, sna
fondazione, l. 8. È
tolta ai
Sicoli dagli Abo- rigeni. II. 35.
Fn resa, colonia
Romana, ivi. Si unisce
a Marnilio TuScolano per
soccorrere Tarqninio contro
i Ro- mani. V. 21. Antistio Petrone
i ucciso per inganno' da
Sesto 'Tarquinio, IV. 57. Ansio,
è fondata da Anzio
figlio di Ulisse.
I. G3. B cittì
pri- maria de* Volaci. VIII.,i.
IX. 56. Fa
lega con Tarquinio superbo. IV.
49. Soccosre quei
della' Ricoia. V.
36. Soc- corre i Latini contro
i Romani.' VI. 3vSoceorre quéi
di Goriolo, f)2. et preso
il, porto e la
campagna di essa.
IX. 56.. Sì rende
a Qoinaio, .5R,. Parte
delle sue terre
divisa tra i Romanì,«5(). Oli
Anziati spogliati delle
terre ne partono, sono
ricevuti dagli Equi,
e fanno scorrerie su
campi de’ La- tini, 60. Gli
Anziati si ribellano.
X. 20. Apiolani espugnati
da Tarquinio Prisco.
III. 40* Appello, la
legge Valeria permise
a chiunque. di appellare dai ' magistrati al
popolo sa le
condanne .di morte
o di battitore. ' V. 20.
Si voglicmò paniti
i consoli perobi impediscono
que- st'appello. IX. 3g. ., ■
Appio, prenome Sabino
de’ Claudi e di
Erdonio. Ve£ ffuesù homi.
: . ^ Aquìdotti magni Gcentisai mi di
Romq. III. 67. Aqaillo,
C. console. Vili.
64* Vinoe gli
Erpici,,65. Ne ot- tiene la
ovaz'ione, 67. AquìI), L. e
M. conghirati, vicende
nella loro pena.
V. g. Ara massima.
I. 3i. ' *, Digitized by
Google 477 Arcadi, i primi fra i
Grecj veogooo ad
abitare l'Italia. I.
3. ^ dove abitassero,
36. Arcadia fa già
detta Licaonia. II.
i.- Atlante fa
ano primo re. I.
Si. Dilario di
Arcadia, Sa, 5g. Ardea
è fondata da Ardeas
figlio di Ulisse,
I. 63. È città del
Lazio. V. 6i.
Tarqpinió superbo 1* assedia {. Fa fregna
coi Romani, '85. V. i. È toko
loro parte del territorio. XI. 54
Aurunci, popolo d’Italia.
I. 12. Loro
qualità, ivi, e VI.
Ss. Occupavano la parte
più bella della ’Gampa'oia, ivi.
Sono vinti da Servili 0, ivL Ridomandano
i caiòpi degli Ecce- tranì,
ivi. ., Ao sonia
era l’Italia. I. 27. Il
.seno Apeonio fu' pei
chiamato il seno Tirreno, 3i
Oli Ausoni cacciati
dai iapigi vanno in
Sicilia, i3. ' . ' Auspizj s’ imprendono
ooA cui le
cose ardne. V.
28. Si de- cide con
essi li' sito di
Roma. I. 77,
Più volle sono
di- sprezzati. Ut G. Digitized
by Google 479 A»io Nevio
Aogare > tua «ccelienu. I-
6i. E tolto di
mez- 10, 63. Aizio Tallo
capo de* Volaci.
Vili. l. Accogllè
benigoameote, Coriolaoo, 3. Stimola
i Volaci coìitro i romam
: fa dicbia-' rare Coriolaoo
per (mmandante delle
MÌlicie, i3. Ne pro- oara
la morte, ^7 «
segg.'E uoeiso in
gaeira, 69. Suo olrattere, ivi. *
. . * ; B Babilonia, eoa celebrità.
I> 27. Sne
mora. IV. 25. Bacco, pianto dei
Greci en j caeì
di Bacco. II.
g. Tempio ' inalzatogli
da Fostumio dettatóre.
VI. 17. Coneagrasioae
' fattane, Battaglia
impedità' dai et^ni
celeetì. IX. 55-
Prima \di altóc* caria
fanno preghiere e eagriiiaio,
10. Balia luogo degli
Aborigeni. I. i5. ^
' Bighe, gara delle
roedeeime. VII. 93. Bitumo,
rasi pieni di
bitnme e pece drati
colle Condo eu i
nemici. X.'iC. ' Boario,
Poco. I. 3i.
Servio Tallio vi
forma un tempio
della Fortuna. IV ' t .
Canne raconfilta. II.
17. . . . ‘Capi Capitolino, colle,
già detto Saturnio.
II. O Tarpee. III. 6q.
Perché poi ai
cfaianiasae Capitolino. IV.
Gì. Romolo lo fortiGca.
II. 07. In
citna di qoeato
colle osala Catppidoglio vi i il
tempio di Giove
Feretrio, 5{. Tarqoipio
Prisco vi conaìncia un
tempio, Tarqoinid anperbo ve
lo continua, sua Innghezza
e larghezza. IV. Ci. È
poi compito, e M. Orazio
lo dedica. V.
35. Vja in
lìàmme. IV. 61.
E. riedi- ficato, ivi. * . . ‘ ' Capua, città della
Campania. VII. 10.
Eb^e. noMer-da Capi. I.
64. Carine luogo di
Roma. 1. 5g.
III. 22. Vili.
79. Carmenta. I. 22 a
aeg. • - ‘ ^ Carmenlale porta.
I. 22. X. i4.,
v ^ . -f Carsola. I. C. '
Cartagine. Timeo Sicolo
dice che fu
fabbricata circa i Xempi Digilized by
Google • (li Roma. I.
G5. Toroa a cercare
di naoTO T Impero.
II. 1'^. I Cariagineai sono
eipuUi dal mare.
Proemio, 3. Loro viitime
umane/ 2r)., • ' Catiandro re
di Macedooiar L ^o. Carvilio (Sp.)
il primo ripadia
la moglie qon
prima delt’anno 5lo di Roma. II.
2$. CaMÌo (Sp.) Uscelltoo
trionfa dei Sabini.
V. Tito Larglo Dittatore Io
prende -per maestro
de’ cavalieri, 'jb. Senti- u)eolo
doro di osto
circa il castigo
dei Latini ribelli.
VI. 20. E fatto console
di nuovo, 40’
Guarda la città,
gì. De^ dica il
tempio di Cerere
e di Bacco, g5. Diviene
consolo per la tersa
volta. Vili. C8.
Noi resto di
questo libro sie- gue
il (racconto . dell’ ambisione
di lai, degli Sforai
per in- trodurre la legge
Agraria, le accuse, ed il
suo tkagico fine, 'jg. I
figli di
Castio non sono
privati nA della
pa* tria, nè de’ beni, nè
degli onori pe’
delitti del padre
per decreto del jSènato.
Vili. 8o. Il
popolo si pente
di aveiio condannato Castore e Pollace
diconsi apparsi in
Roma Monu- menti in Roma della
loro apparisiooe, giuochi,
feste, ivi. Cavalieri. Servio
Tallio li ordinò
in 18 centurie.
IV. 18. Piò di
quattrocento plebei souo
aggiaiiti all’ ordine de’'cava- . lieri. VI.
4i. . Cecilio IL.
Metello), suo trionfo e zelo
nel oonservare le
cose di- Vesta, e statua di
lai. nel Campidoglio.
II. 6G. Cecidio (L.^)
tribuno della plebe
accusa Servilio uomo
con- solare. IX. 28. Celeri, origine
del loro nome.
II. i5. .Loro'incoiubenze, GL Tarquinio snperbo
costituisce Bruto prefetto
di eui. VI. 92.
Bruto Uscia questa
prefettura, '^5. Celti o
Galli fanno vittiose
umane a Saturno. I. 2g.
Censori, loro uffizio. IV,
Come permettono il
divorzio DIorriGJ, tomo II/.
3, Digitized by Coogle 48a di
Garvilio. 11. 2 5.
CommenUrj o regùtri de’
oentori. I. 65. IV.
22.. Cento de’ Romani, oome
ùtitnito da Servio
Tollioi IV. i5. C latti Bcaaio ne de’ Romani, iG. VII.
5g. Sfumerò di
cittadini-IV. 22. Geiuo
fatto ancora dai
contoli. V. .20.
Cento sotto Tito Largio
primo Dittatore, g5.
Altro cento ove
tro- vanti cxxs mila cittadini.
VI. C3. Cento
dell' anno' 261 di Roma. VI.
gC. Cento dell'
anno 2^8 di
Roma. IX. 25. Cento
dell’anno 280. IX.
36. Cento rettituSta
dopo ig anni. XI
in fine. Centurie, te
ne fanno ]g3 e
ti dividono in
tei datai. IV. 18.
VII. 5g. Di
raro ti chiedeva
il voto della
tetta clatte. IV. 20.
Luogo tpeciale delle
oentnrie negli tpettacoli. III. «8. -
Ceoturiati, comiaj. IV.
20. VII. $g.
Come differiacano dai comiaj
per tribù. IX.
Ut, XI. 46*
Intimazione dei eomitj oentnriati. V.
10. Loro forza I Patrizi vi
preva- levano. Vili. 82. XI.
4^* I decreti di
qtietti eoli comizj ' nn
^empo erano riguardati
come leggi dai
patrbi, ivi. L’in-
terré-oonvoca queati comizj.
VII. go. Centurioni, loro
scelta. IV. i>j.
Dove collocati. X- iG.
Cecere insegna l’agricoltura
a Triptolemo. I. 4*
Tempio e tacrifitj di
Cerere, ^4- Pottomio Dittatore
le fonda un tempio
per voto. VI.
l'j. Se le' innalzano
tUtne metalliofae. Vili. 2g.
A' Iti ti
contagrano i beni di
quelli che facevano violenza ai
-tribuni. VI. 8g.
X. 4>. ^ Cipria, via
in Roma. III.
22. Circe, dove abitatae'. IV.
G3. Telegono figlio
di essa e di ditte,
45* Circei donde
denominiti. IV. G3.
Si rendono a Minio.
Vili. i4' Circo Massimo.
lL''3i. Chi lo
incominciaste. III. 68. Vi era tal
termine il tempio
di Cerere. VI.
g4> Citerà, itola. L 4l> Digilized by
Googl 483 Citt;idini romani come
da Romolo. II.
Come Servio Tallio volle
rieaperne il oamero,
il ietto e l’ rià.
IV. l5. Come ne
accrebbe il nomero,
91. Tullio^ vuol
pareggiare il diritto de’
ciUadini, Non era lecito
battere nn citta- dino. IX. 39.
Non poteva nociderai
eenaa cogniaioii della canta.
VII. 3G. Qoali
arti non potette
eiercitare. IX. x5. Claudia,
gente oriunda da
Regillo città di
Sabina. XI. i5. È condotta in
Roma da Tito
Claudio. V. 4o*
Tribà Clan- dia, ivi.
Claudio (Appio) Sabino,
nega che potrà
levarti la leditione
con donare i debiti. V.
60. È Contqle. VI.
23. Discorda dal
col- lega'circa dei poveri
i4, e Sol trionfo di
lui, 3o. Suo
di- ' scorso per chetare
le seditiooi, 38. E
chiamato nemico del popolo, 48- Suo
discorto circa il
ritorno del popolo, C6
e tn la legge
agraria. Vili. ^3.
Suo consiglio per
frenare i tribuni. IX.
10. X. 3o. '
• Claudio (Appio) nipote
di C. Clàudio
per« parte del
fratello, è console. X.
54. È creato Decemviro,
56, (9. E creato
di nuovo Deceniviro, 58 e ritiene
un tal grado
pel terzo anno, Ci.
Seguito delle sue
vioende, XI. 4 • eeg.
Muore in carcere. ^.6. Claudio
(C.) Sabine, sio del
Decemviro è console. X. 9. E contrario
anobe egli alla
plebe, ivi. Sua parlala
in Senato contro i Decemviri.
XI. 7. Si
ritira in Sabina,
22, Claudio (M.), cliente
del Decemviro : sue
pretensioni su Vir- ' gioia.
XI. 32, Claudio (Neròne);
console per la
seconda volta. Proemio, 3. Clelia fugge
con gli oslaggj.
V. 53 e teg. Clienti o Clientela.
Proemio, 8. Cloache, loro
grande artificio. Ili,
67. Cluvilio, capo degli
Albani, occasiona la
guerra di questi
coi Romani. III. 2.
Sna morte, repentina,'
5. ' Cluvilio Graooo,
sommo comandante drgli
Equi. X 21. Sua riapoaU
orgoglioaa ài Romani.
X. 22. Gli
arviluppa, 25. E vinto e portato
in trionfo, 2/(.., Clovilip (Q.^
Sicoioj è conaole, e reata alla
gnardla di Roma, e perchè. V. 5
9. Depone il
contolato e nomina Largio
per Dittatore, 92. Fa
prigionieri parte de'
predatori latini, er. escludere
i scellerati dalla città
propria. IV. 2$. Colonie
divenute maggiori delle
città madri. III.
11. Colonne, vi ai descrivono
le alleanze. IL
55. Talvolta si cn-
stodivano ne’ teibpi. III.
33. Vi s'incidevano
li leggi. X. 32.
In tempi pib
antichi le leggi
si scrivevano ip
tavole di quercia. HI.
36. ' Cominio (Post.)
console. V. So.
Dedica il tempio
di Saturno. VI. I. È
console per la
seconda volta, 49 ed
in qnal epoca.
V. 1 1 . Confarreazione. Ilt 2
5-. Consoli, prkni cemioli Brolo
e Collatino. IV. Loro
di- stintivL III. Ga.
IV. V. 75.
X. 5q. Diritto
di convocar le concioni.
VII. 17. Il
Senato di loro
1* autorità dì crncloder
la pace. Vili.
18, Il oonsole
è privato del con- solato dal Dittatore.
X. 25^ I consoli
si rendono amici
al- cuni tribuni per contrapporli
agli altri. IX. i,
'2. l 'consoli sono citati
al collegio de’
tribuni. X. 3i.
Contrasto coi tri- buni, ivi. Sono
citati dii tribuni
ai popolo, 3^.
Comin- ciano a governare
favorendo la plebe,
^8. 1 consoli tengono nn
Senato privato in
casa, 55. Contesa
dei patrizj e della plebe
per creare consoli
cìascnno della soa'
fazione : Un oonsole si
sceglie fra i fautori
'della plebe, uno
tra i fau- tori dot patrizj.
Vili, qo e a«g.
Si creano i Decemviri
in Inogo dei consoli.
X. 56. Si
terna a creare i consoli.
XL 45. Si creano
i tribuni militari in
luogo de' consoli | Ga. GonsolaH, nomini, citati in
giudizio dai tribuni
finite il con- solato per la
trascnratesza sa le
cose agrarie. IX.
37. Sono multati in
danaht in Inogo
di esporli a pene
personali, e perchè. X. 49'
Ordine nel ohieder
loro i. pareri
in Senato, 5. Limiti
deir autorità consolare.
IV. 75. 4.
Toi*na in potere
degli Equi, 26. È distratto
dai Romani Gorciresi, loro sedizione.^
VII. 66. Cordo, cognome
di Mnzio. V.
aS. ' Digilized hy
Googlc 486 Gorilla 0 Coriola paoae
dei Latini. IV. Goriola, oittà famosa
de’ Volaci tiene
assalita da Poslumio Gominio. VI.
92. Si rende
a Marcio Gnriolano, Vili.
19. Marcio ebbe nome
appunto d*' Goriola. VI.
94* Gornelio (L. Siila), durissioio nella
sua dittatura. V. 77.
Gornelìo (L.) console.
X. 20. Espufgna
Ansio, 21. Suo
pa- rere su le istanze
dei Decemviri. XI. 16 e aopra
i r'Idali che' abbandonavano
il campo dei
Decemviri, 44- Gornelio
(M.), fratello di
Looio Gornelio, è Decemviro.
X. 68. Sna risposta
a G. Glaudio. XI.
16. invita Lucio
eoo fra- tello a dire il
suo parere, iC>
Marcia contro glj
Equi, 2Ó. Gornelio (Ser.),
console, fa tregua
per un anob
coi Vedenti. Vili. 8a. GorneUnì,
popolo del Lazio.
V. Gz. Gornicolo, città del
Lazio. IV. 1.
Gade in potere
di Tarqoi- DIO Prisco.
III. 5l. ' Gorni
di bove :. si convocava
con essi la
plebe romana. IL 8.
> Corona di oro
donata dai Romani
a Porsena.,V. 35. Gorona di
oro data a chi
aveva salvate le
bandiere. X. 36.
Gorona civica donata. Vili.
29. X. 07.
Gorona anurale, ivi.
Il po- polo esce coronato
ad incontrare il
vincitore. IX. 35. Gote, segata cpo
un rasojo. III.
71. Greraera, castello presidiato
dai Romani contro
i Vejeoti. IXi i5. E preso
dagli Etrusohi, 2Ò. Grotone,
quando fondata. IL
69.. Grotone nella Etrnria
tolta dai Pelssghi
agli Umbri. I. 1
1* Muta abitatori e nome,
ed A chiamata Goiornia.
17. Lingua de* Grotoniati, lo. . **eoe
tiranno, 8. Come le
ne li* bera, li. Viene
occnpat'a dai Gampapi.
Tomo £e^s/on/. In- contro in
Coma dei, Legati Romaqi.
Manda nn Mocono
■ quei della Riccia.
V. 36. ‘ • Goraxj.
III. iL Loro
spoglie portate in
Roma, 21. Cori, sna origine.
II. 48- Coreti, loro rili.
IL 90. Faroleggiati
ohe educassero Gìore fanciollo. II.
61. 1 Coreti dei
Greci sono gl' istessi
cbe i Salj dei
Latini, 'jo.' Carie erano
parti anbalteme delia
divisione pii generale dei
cittadini in Roma.
IL Se avessero
nome dalle matrone Sabine,
47* Sbotto Romolo
scelsero i Senatori, ed i Celeri,
3, Ordinano coi
loro voli che
ai restituiscano i beni a Tarqainio
superbo. -V. 6. Cariali. Vedi
Comizi e Centurie tì.^ Gnriasj.
Vedi Cumtj.- . il Cnrieni^
capi delle Carie.
IL 7. Facevano
pnbblico sacrifizio per le
Carie. IL 64 Difesa, non dee
negarsi ad alcuno.
V. 4- \Tcmpo
acoordato per difendersi. VII.
58., Dittatore, origine dtl nome.
V. 73.. S'na
anlorilà e dnraaione. VII. 56.
Creavasi. nel' tempi diffioili
della repubblica. XI. 20.' Condotta del.
primo dittainre Tito
Largio. V. 75.
Imi- tato dagli altri dittatori
6uo a Siila,77» Anio
Poslnmie Digitized by Google ditutor» «econdo.
TI. >. Mjnio
TaWrìo dilUtore terw*.
VL ^ 3g. Loeio
$. Vinte le Spagne
viene io Italia, ivi.
Uccide Caco, 33 e .diviene insigne, 34> Abolisce
i sagriGsj umani soliti
a farsi a Sa- tarno, 28-
Evandro gli tributa
onori- divini, 3i. Soci
com-, pagiii che si
fissano presso dèi
Pallanteo. II. i.
Alenai han crednto che
egli lasciasse de’
figK nell’ Italia.
Ercole, Arconte di' -Atene Erdonio Appio
«conpa il Campidoglio^
X. 1 i- Muore
combat- tendo talerosamente, iC.
' Erdonio (Turno), resiste
a Tarquinio superbo, cabala
di que- sto per Deciderlo.
IV. e seg. Ereto, città Sabina.
III. 5q. Battaglia
data in Breto
eontro i Toscani. IV.
3. Sua distanza
da Roma. III.
3i. Restava presso del
Tevere. XI. 3. I
Sabini'- vi al aocampanp,
ivi. Vi tono vìnti
da Tarquinio. aoperbo.
IV. 5l. Erinni, venerate
dai Groci.'II. Jj. •
r Elitra, luogo dell’ Asia
minore. IV. 62. Ermmio
(Lar.) conscie. XI.
5i. Erminio (Tito), i latciatò
Inogotenente da Tarqninio
nel cam- po, suo zelo
per liberare la
patria dal medesimo.
IV. 8. E UDO de’ capitani
contro Porsenna. V.
22. Tito Erminio console, 36, Lnogotenente
del Dittatore impedisce
la foga * dc'RomaoL VI*
Uocide Manulio, io
cpoglia ed 4 uo> oieo, ifi.,, ', r- • firnici, popoli *icini
ai Romani. Vili.
Si collegano eoa Tacqninio, inperbo. IV.
4q- Ritpondoao ambiguameote
ai Romani che dimandano
loccorto. V. Promettono
ajuto ai Latini contro
i Romani. VI. 5.
Risposta loro superba
ai Romani. Vili. 64*
Lasciano gli alloggiamenlt
di notte a faggono,
C6. Chieggono la
pane e la ottengono,
G8 « seg. Cassio vuol
che partecipino alla
ilivisìone ilelle terre,
90, 9 ■ . Mandano >i Romani
il doppio de’
sussidi ricercati. IX. 5.
Dimandano ajnto ai
Romani contro gli
Equi e gli Er- niciy
C9. X. 20. Ersilia
Sabina, antrice della Legasione
muliebre ai Sabini dopo
il ratto.. II. 4^.
III. 1. Esequie, Tarquinio
Superbo le proibisce
in,qlQrle.di Servio Tulliò. IV.
4o. Escq uic
per Virgioia. XI,
39. . ' Espiasione. Romolo
fa, saltare ^il popolo
attraverso le Gamme per
espiarlo. I. 99.
Espiazione per acciskme
non volonta- ria. IIL 2 2.
Espiasione pe^ causa
di un morbo
cohtagioso. JX. ^o. Espiasione
o lustrazione di Roma
dopo ia morte di
Erdonio. X. 19. '
Esploratori mandati in
qualità di J/gatu
VI. i5. ' ' ■ Esquilino, colte, il.
5'f. Servio Tullio
lo oniOoe a Roma.’IV. là. Tribù.
Esqnilio'r, ì4- Porta -Esquilioa. IX.
68. Etrunia ; E la stessa
che la Tirrrnia
o Toscana, è fertile in vino.
I. 28. E divisa
in dodici principati
ed à potentissima per terra
e per mare. VI.
95. • Etrnachi delicati
e sontuosi nel vivere.
IX. 16. Mandano
soc- corso ai Latini contro
i Romani. 111. 3>.
Coma ai Sabini, 65.
Sono vinti da
Tarqninio Prisco, ivi, e
da Servio Tal- lio. IV:
29. Sono battali-
da quei delta -Riccia
ed accolti dai Romani.
V. 36. Ricusano
socoot^reàa tanto i Romani, quanto I Latini,
42. Destinano socoòrrere
i Vejentì contro Digitized by
Googte 49» - i Romani. IX. i.
E'K' toecorretto, C. Abbandonano
gli ao campamenti, i3.
Stacenno i Yeieotì dall’ amiciaià ’ mani.
IX. i8. Ocenpano
il OiamenU, 2ó.
Foggono di notte a Vejo,
aG. Etmachì vebati
ad abitare nr
Roma. I. So.
Via Elrnica o Tirrena in
Roma. 'V. 36.
Ré de^i Etmsci
: loro diatiotivi. III. Gl. '
Evandro. L 92. Viene
e prenda sede cOn
gli Arcadi dn Pa-
la tia. I. So.
II.' I. (Inori
che porge àd
Ercole. L'3i. Dina o Lavinia figlia
di Evandro, a3. '
' Eariléone Aacanio figlio
di Enea, re de’
Latini. I. 5G.‘ i F • ‘ ‘ Fabia, gente cccvi.
Fabj marciano per
difesa di Roma
contro di Vcjo.. IX. 1
5. Il
consoilato fa per
sette anni- contiabi nella casa
dei Fabj fratelli
Cesene, Marco, e (Quinto,
22. Se necièt i trecento^sei Fabj
sopravvanzasse nella gente
F^* bia' nn aòlo
fanoiollo, ivi. ' Fabio
(Cesène), fratello di Q. Fabio,
estendo questore accasa Cassio
di tirannide. Vili.
7^. B fatto console,
83. Va a ■oocorrere
gli alleati di
Roma, S(. Diviene
oonsole per la seconda
volta. IX. 1.
L’esercito non -lo ubbidisce
e lo in- salta’ e mettevi in
marcia senza il
comando di Ini,
3. E Io priva di una segnalata
vittoria, ivù Diviene console
per la tersa volta,
Soccorre il Collega,
ivi. Va qaal
proconsole ai Fabj che
presidiavano Oreoieral, 16. Fabio
(M ), fratello
di Cesene, é console.
IX. 21. È' mandato a soccorrere gli
alleati. Vili. 88.
Depone il consolato
e ricasa il trionfo,
iZ. Va con
gli altri Fabj.
contro Ve- jp, i5. .
• ', Fabio (Q-), storico
Romano, anlichisshaó.
Proemio, 6. ' Fabio
(Q.), Pittor» cosa
narri dei dne
gemelli di Ilia.
I. 70. Gota del
tradimento 'di Tarpea. IL
38eseg. Si rigetta
Iacea* s Digilized by Google teoz»'di >rai
circa i figli di
Tarquiaio Frjico. lY.
6« Seoti- menlo di
Fabio aa di
Egerio, G4> Foca
ma diligenza nella cronologia^ 3o., Fabio
(Q.) r.ooDtole- Vili. 77-.
Marcia contro gli
Eqai ed i Volici,
83. Q. Fabio, figlio
di Ccione, console per
la se- comU Tolte,
QO. È ncciso, 20. Fabio
(Quinto), figlio di
uno dei tre
Fabj i qnali preiiede-* rano alla
guarnigione di Cremerà, diriene.^ console.
IX. 5g. Fa pace.oon
gli Eqni, ivi.
Q. Fabio Vibnlano et còn- sole per la
.seconda volta. IX.
6i.^.Debella gli Eqni,
ivi. Q- Fabio Vibolano
console per la
tersa volta marcia
contro gli E delibera
sa la guerra
contro i Romani. V. ‘ 5o,
Sa, Ci. ^ • Feciali,
Noma istitnises il
collegio de’ Feciali in
Roma. II. •ji. Sono
impiegati nel 'cènoiliare
la* plebe- col Seiuto.
VI. 89. Loro incombente.
II. 93. ' . Ferelrio, Giove. II.
34- ' Fidene-, è fabbricata
dagli Albani. II.
53. Era lontana
cinque miglia da Roma. 'III.
2ij. X. 22.
Romolo la, rende colonia Romana. III.
2* prende Tar- • qninio
Prisoo, 58. Per
impulso di Sesto
Tsrquinio si ri- ■ bella
dai Romani, V.
4^- 6 riacquistata, 45. I
Sabini ac- campali a Fidene sono
vinti. IV. 5s. Fido
Giova Saiico. IV.
58. Sp. Postnmio
consagra il tempio di
Giove Fidio. IX.
Co. Figli. I delitti de’
figli non privano
il padre de’
propri beni. Vili. 80.
Figli come soggetti
al padre. Vedi
padre. Flanmii, pecchi cbs) chiamati.
IL C4. Ftanleio (M.),
sna bravura, premio,
esortasioni. IX. io. Fortuna.
Ser. Tallio le
fabbrica due te(npj.
IV. 2’j. Uno di
questi tempi s’ incendia, 4^2. Giuochi funebri. V.
jj. Oraiioni funebri
aolite in morte
de* vaien* tuomini. IX.
54* Qual popolo
le intradnceaae. V.
ijt Ora- aio padre
non, rende i funebri onori
al)a figlia percbi
non amica ‘della patria.
III. ai., Fario (Lnoio), console. IX.
36. ~ Furio, triumviro
per dividere i terrenj.
IX. 5g. -* .
Furio (Sta.), oòniole. Vili.
i6. Furio. (Spor.), oopaole. IX. i. Corre
e saccheggia le campa'- gne
degli Equi, a. . -
/4g. ■ Geganio. (L.),.
fratello di T.
Gegaoio oonsole, i spedito
a com- prare i grani in SiciK».
VII. i. Suo
ritorno, lo. Gegaoio (M.
Macerino), console. XI.
5i. Geganio (T. Macerino),
console. VII. i. Geli), i dne fratelli,
nipoti di Bruto
congiurati. V. €. '* Gellio (Gn.),
senteosa di lui
oirca Tanno del'ratto
delle Sa- bine. Il, 3l.
Altra sul collegio
de' Feoiali, gl. Scrisse che
Numa lasciò una
figlia, Suo parere
sul venir di Digitized
by Google Tarqainio a Roma.
IV. C. È oegligeatt'
nella ■ oronologia. - VII. I., ' Gelone,
iuocede ad IppocraU
nella tirannide. VII. i
. Manda ■ framenlo in dono
li Romaoi, so. ‘
Gennaio (On.), tribuno
della plebe, insiete
per la legge
agraria e si ritrova
morto. IX. Z’j,
38. E ohiamato Cajo
in .Inogo di Gneo.
X. 38. 4Tito
Gennaio obiama in
gindiaia Tito Me- nenio. Titn Livio
chiama Gennaio sempre
Tito e non Cneo nè
Cajo. IX. 27. •
' . ' PorseOa lo'
occnpa. V. 22^ Lo
ooonpano gli Etruschi.
IX- 2{. Lo
abbandonano, 2C. Giapigia,
promontorio 'Saleolino. I. ^2. Giove,
spoglia Saturno del
comando. IL 1 9.
Tarquiàio Prisco comincia a fabbricare
id comune un
tempio a Giove, Giu- none e Minerva. III.
C9. Giove Feretrio.
II. 34. Fidio, vedi
questa parolk., Giove' Capitolino,
ammonisce i Romani a replicare
i giuochi in suo onore.
VII. 68. Sagrifis)
a Giove nel monte
Albano. Vili. 87. Romolo
alsa un tempio
a Giove Statore. IL 5o.
Giove Terminale. II.
74. Digitized by Google 497 Ginlia, famiglia
traiferiu da Alba a
Roma. III. 29.
Giulio il pili grande
de’ figli di
Ascanto diede origine
e uomo alla gente Giulia.
Giulio Proolo, suoi racconti
eu Romolo. II.
C5. Giulio (Cajo) Cesare
rende alle loro
cariche i tribuni espulsi da
Pompeo. Vili. ^8. Giulio
(C.) Ginlo console.
Vili. i. Giulio (C.)
console. Vili. 90. Giulio
Decemviro. X. 5C. Giulio
Vopisco console. IX. Giulio
(L.) Bruto perchè
detto Bruto. IV.
G7. Sua perorazione contro la
tirannide ^ 70. Bruto
e Collatioo i primi sono destinati
consoli, 7G. Austerità sua
nel punire i oon- giorati a favorir
la tirannide. V. 8. Fa
rimovere Collatino dal consolato
e prende P. /Valerio per
collega, 12. È uc- ciso da
Arante Tarqninio in
battaglia j i5. E riportato
in Roma: aoa pompa
funebre, 17 e seg. Giunio
(Brolo L.), nomo plebeo.
Vedi Bruto. Ginnj (Tito
« Tib.) figli del
console oongiurano e sono
pa- niti. V. 8. Giunone, suo tempio.
I. ^1. Sul
Campidoglio insieme con quello
di Giove e di
Minerva. IV. 61.
Giunone Luci~ fera, i5. I Icilio
(C.) Ruga, è creato
tribuno. Icilio (L.)
tribuno della plebe
per la seconda
volta. X. 33. Riprova
in parte il
parere di Siccio, 4». Icilio (L.)
destinato sposo dì
Verginia. XI. 28.
La soccorre,' ivi. Perora
in suo favore,
3i e seg. Icilio (M.)
coetaneo e compagno di Sp. Verginio.
X. 49* mOJSIGI. tomo
ut. Si Digitized by
Google 498 Icilio (Sp.) è spedito
dalle plebe al
Senato insieme con Im
Gionio Brolo, e M.
Decio. VI. 88.
Sne querele contro del
Senato per la
carestia e per la
colonia mandata in luoghi
malsani. VII. i4, 19.
Sp. Icilio Roga
edile tenta di arrestare
per ordine dei
tribuni Goriolano ed ò
ri- spinto dai patria), 26.
Icilio tribuno aumenta
il potere della plebe.
X. 3i. Itia figlia
di Numitore. I.
6'}. È falla Vestale,
ed ingravidata, ivi. Partorisce
doe gemelli, 69. Imatiooe, Remo
Gglio di esso.
I. 63. Imperiale, abito.
Vili. Sq. Interri, quando si
creava. XI. 20.
Interri creati, morendo un console
e stando malato 1*
altro. IX. i4* O
morendo tolti dne i consoli,
69. Interri creati
per cagìon de’comis). XI. Ga.
OfGsio degl* interri.
II. 58. IV.
4o> So* Interregno dopo
la morte di
Romolo. II. 5'}.
Dopo la morte di
Tulio Ostilio. Fatto
l’ interri cessarono tolti
gli altri magistrati. Vili.
90. Italo, Oenotro di
origine regnò nell’ Italia
e le diede il
nome. I. 26. Sicolo
creduto figlio d’ Italo
diede nome alla
Sicilia, i3. Ad Italo
soccedette Morgete, 64*
Italia ebbe nome
da Italo. I.
26. Fu già delta
VItalia. 2’). E dai
Greci Esperia ed
Ansonia, ivi. Come Saturnia
dai pae- sani, ivi. Bontà
dell* Italia, 2';,
28- Limiti dell’ Italia, a. Antichi limiti
della medesima, 64*
Città Greche nell’Italia. X. 54-
L’Italia si ribella
dai Romani. IL 17.
L Labìcani, popolo del Lasio.
V. 4*. Erano
colonia -degl’albani. Goriolano
gli espugna. Vili.
19. Lacedemoni, loro colonia passala
tra i Sabini. II.
49* Uno Sparlano il
primo si espose
nudo affatto a compiere
i giuo- Digilized by Goc^le 499 chi olimpici
: non concedevano agli
esteri il diritto
di cit- tadinaosa se non
rarissimamente, ij. S*
impadroniscono di Atene. XI.
i. I Re loro
erano dne. lY.
q'S. Sottoposti alle leggi.
V. jii II*
ìAi Autorità somma
nel Senato, ivi. Così
crebbero. IV. Perderono
il comando con
ignomi- nia. II. 7. Largio Sp., capitano, protegge
l’esercito che si
ritira. Y. 23, 2Ì,
Procura i viveri a Roma,
sf, È console, 3iL
Sp. Lar- gio consolare marcia
a soccorrere Valerio, Sp. Largio fratello di
'T. Largio Dittatore /resta in
gnardia di Roma, 7 5.
Sp. Largio Flavio
console per la
seconda volta. VII. 68.
Sp. Largio mandato
ambasciadore oon altri
a Gorìo- laoo. Vili. 23^
Spurio Largio stando
a difendere Roma ne protegge
le vicine campagne.
Sp. Largio interré, go. Consiglia la
guerra contro i Vejenti, Qi. Largio (T.)
oons. V. ^ T.
Largio Flavo cons.,
5g. Sua mo- derasione, 60, E
dittatore il primo,
7^. Sna condotta, 75.
Sentenza di lai
sol pacificarsi coi
Latini. VI. ^ Sai ristabilire la
concordia interna ed
esterna, e seg. È la- sciato in guardia
di Roma, 4^.
Sno diacorso alla
plebe ri- tiratasi, 81.
Largio (T.) legato
di Postumo Cominio
espugna Coriola. VI. Larisse,
due, nna in
Italia. I. l2. L’altra
in Tessaglia. X. iL Latino figlio
di Ercole ma
creduto figlio di
Fauno, e per- chè. L 34. Re degli
Aborigini : il suo
regno passa ad Enea, ivi. Latino Silvio
Re. L Ql, Latini, ebbero questo
nome sotto Latino,
L 1, 56, 5_l, Le città Latine
ricusano di ubbidire
ai Romani dopo
la caduta di Alba.
III. 34, Sono
vinte da Anco
Marzio, E da Tarquinio Prisco,
4S: Si collegano
con esso, 54.
Decretano far guerra contro
i Romani per favorire
Tarquinio Super- bo, 61.
Vinti cercano la
pace. VI. 1 Volaci
cercano Digilized by Google 5oò •nmiDOVftre i Latini, e questi ne
portano gli ambasciailori legati a Roma,
e ne tono premiati.
VI. zi. Sono
infettati dai Volaci. Vili.
L2. E da Curiolano,
^ Catsio vuol che
par- lecipiuo alla divisione
delle campagne come i
Romani, 6r). Cercano toocorto
dai Romani contro
gli Eqni./4X. L.
Man- dano il doppio de*
snttidj dovuti ai
Romani, ^ Sbaragliano gli Equi
ed i Voitci, Sì.
Chiedono di nuovo ajoto
dai Ro- mani contro gli
Equi, Co . 67. Città
Latine. VI. 63, 7^. Vedi
Ferentino. Ferie latine
istitnite da Tarqninio
superbo sni monte Albano.
IV. ^ Se ne
aggiunge una seconda
per la espulsione del
tiranno stesso il
qnale le aveva
istituite, ed una tersa
pel ritorno del
popolo. VI. q5. Lazio, era luogo
della regione degli
Opici. L 63. Lavina o Lavinia
figlia di Anio o
di Latino. L Lavina
figlia di Evandro, Lavioio metropoli
del Lazio, e di Roma.
Vili. 3o. E fon-' data
dai Trojani. I.
36. Vili. 2 1 . Coriolano l' assedia, ivi. Quei di
Lavioio cercano soddisfasione
dai Romani per
l’ol- traggio fatto ai
legati. IL .*) 2.
Lanrento città d' Italia.
L 44 . 46. Era degli
Aborigeni, Situazione di essa,
36. Legge, si esaminava prima
dal Senato, e poi si
proponeva' al popolo. IX
.45. Tempo richiesto
per I’ esame,
4j_ì Di- ritto di formare
le leggi presso
del popolo. II.
i_4. 1 pa- trizi tenevano per
leggi quelle sole
emanate dai comiz|
cen- toriati. XI. Ma
poi riconoscono anche
le altre dei
Co- mizj per tribù, ivi.
Leggi di Romolo.
IL z3. Leggi
di Servio Tullio. IV.
i_3. Il tiranno
Tarqninio toglie tutte
le leggi di Tullio,
43. Legge di
Romolo sol matrimonio.
IL £3. Legge del
medesimo circa la
potestà patria, ìQ.
Compilazione delle leggi. Vedi
7)ece/nviro/o.’ Queste leggi sono
proposte all’esame del popolo.
X. 5^ Ne
risultano le leggi
delle dodici tavole. Co.
Le quali furono
stimatissime. XI. 44- Digilized
by Google 5oi L4‘ttorìo G.
tribano della plebe
rttponde al console
Appio Gl. a nome
della plebe. IX.
4^ Suo tumulto
|>er arrestare Appio,
4^ Licinio storico : sue
narrazioni su la
strage di Tazio.
II. 5a « 54.
Su Tarqninio Prisco.
IV. ù± Su
la ovazione. V. Su
Tarqninio superbo. VI. 1
1. Sua
negligenza nell' esame de'
tempi. -VII. u Licaoni, dne. L 1. Licinj
C. e Pab. creati
triboni. VI. 8^ Lioorgo, dà leggi
severe agli Spartani.
II. 42: Divulga
di averle apprese da
Apollo Delfico, f) i .
Lidi o Lydi, inventori di
nn dato giuoco.
II. 'jL. Littori,
precedevano il re
con fasci di
verghe e con scure. III.
ILl, Difendono il
console ooniro il
tribuno. IX. Rimovono per
comando dei consoli
la torba che
tumnltoa. VII. IL Ogni
Decemviro fa precedersi
da dodici littori.
X. 5q. I tribuni risolvono
di far gittare
dalla rupe tarpea
oa littore perchè aveva
ubbidito al consoli.
X. 3i, Liguri, loro emigrazione
dall' Italia nella
Sicilia. L lL I Li- cori contrastano il
passo ad Ercole
nelle Alpi, Liri, fiume. L L, Lista,
metropoli degli Aborigeni.
L S, Liti, e cause discusse
ne’ tempi de' mercati. VII.
fiS. Locri, f n tempo
Lelegi. L Q. Longola città
de' Volaci è presa da
Postumo Cominio. VI.
qi. • È presa da Goriolano.
Vili. 56. Lucani, infestati
dai Sanniti. Tomo
III. Lfgationi. Sono
vinti 5- Perchd
chiamati Aborigeni, 5.
Vengono dall’Arcadia con
Oenotro. II. i. Oenotro, ana nascita
e venata in Italia.
I. 3. Opici, popolo : loro
porto. I. 44* La regione
loro abbracciava anche il
Lazio, C3. Gli
Opici cacciano i Sicoli,
i3. Opimia, Vergine Vestale;
è condannata per lo
stupro. Vili. 8q. Oppio
(M.) capo dell’
esercito che si
ritira dai Decemviri. 21. 44. Oppio
(Sp.) Decemviro. 2.
58. Resta con
Appio Glandio a proteggere
la cittii. 21.
a3. Convoca il
Senato, 44* R con- dannato a pieni voti
dal popolo e more
lo stesso giorno
in carcere, 4C. Orbilia Vestale
è punita per lo
stupro. 12. 4c. Ostia
città, da ohi
formata. III. 44. Ovazione,
perchè cosi chiamata Doao
maodato dai Remaci al
medesimo « 35. Porta Capeoa.
TIII. 4- Carmentale.
I. 23. Mogooia.
IL 5o. Sacra. X.
i4- Trigemina. I.
a3. 3o. Porzio (M.)
Catone, eoo racconto
su dne gemelii
d'Ilùu I. ^o. Sa
l’anno della fondazione
di Roma, 65.
Su le tribù
sta> bilite da Tallio.
IV. i. Fostamio (4.)
consolo, è nominato dittatore.
VI. 2. Marcia contro
de’ Latini, 3. Parla
all’ esercito per
animarlo, 6. Trionfa dei Latini,
17. Lascia la
dittatura e rende i suoi magistrati alla
Patria, 23. A Postnmio Albo
combatte bra- vamente contro gli
Aoranci, 33. ' Fostamio (A.)
Albo console, collega
di Furio lo
soccorre. IX. 65. Fostamio (P.)
Taberto console con M. Valerio, marcia a eoo correrlo. V.
3q. P. Postnmio
Taberto. console per
la se- conda volta, è battuto
per la troppa
audacia, .(4* Ripara r infamia, vince bravamente
i Sabini, gli si accorda
1’ o- vazione, 47> Postnmio
Taberto è legato alla
plebe pro- fuga » 9-
Postnmio (Sp.) Albino
console. IX. 60.
Dedica il tempio
di Giove Fidio, ivi. Spur.
Postnmio va legato
in Grecia a raccoglier
le leggi. X.
52. E creato Decemviro,
56. Postamj, impediscono la
legge Agraria, ed il
popolo li con- danna ad
una emenda. X.
4a> Postnmio, legato
vilipeso dai Tarentini.
Tomo III. Lega- zioni. Preda, parta
data ai soldati, parte all’
erario. X. 21.
Preda venduta dai questori
con metterne il
denaro nell’ erario. VIII.
82. Colle decime
della preda se
ne fan sagrifizj,
VI. 17. Primizie della
preda date ai
valentuomini, q4. Prenestini,
popoli del Lazio.
V. 4i* Prenestina
via. IV. 53. Proca
Silvio, Re di Alba.
I. 62. Digilized by
Google 5i2 Prole. È deliUo di
ucciderla. I. 8.
Quando polesse eaporei secondo la
legge di Romolo,
II. i5. Fi'oserpina, «e
ne dedica il
tempio. VI. Punica, prima
gnerra per la
Siotlia. II. 6C.
Suo comincia- mento, quando. Proemio,
8. ' Q Quadrighe, combattimenti
con ewe. VII.
'jz, '^3. Questori, Vendono
la preda. VII.
05 e ne portano
il danaro nell’ erario.
Vili. 82. Vendono
i beni dei profughi, e ne recano il
prezao nell' erario.
XI. 06. Sono
comandati di fare a spese
pubbliche i funerali di
Menenio. VI. q6.
Ac- cusano Cassio come reo di tirannide
al popolo. Vili.
^7. Querqnelnla, popolo del Lazio.
V. Oi. Questura, la esercita
un nomo consolare.
X. 23. Qaintilj trasferiti
da Alba in
Roma. III. 2^. Quintino
Sesto console, muore per
la peste. X. 55.
Quinzia, via. I. 6. Quinzio
C. o Curzio console.
XI. 5z. Quinzio Cesene
figlio di L.
Quinzio Cincinnato, si
oppone ai plebei : è accusato
al popolo. X.
5. Va in
esilio, 8. Qnhizio (L.) Cincinnato,
padre di Cesene,
fa la causa
del figlio presso del
popolo. X. 5.
Venduti i suoi beni
paga per la sicurtà
del suo figlio, e si
ritira io un
suo poderelto di là
dal Tevere. X.
g. Donde è chiamato
al consolato, l’j. Sna
condotta, e seg. £ chiamato dal
suo poderetto alla dittatura, 24. Soddisfa
al bisogno, e torna privato
al suo rampo, 25. Suo
parere sul frenare
i tribuni, 1'}. E sol duplicarne il
numero, 3o. Quinzio Tic Capitolino
console, discorda da Appio
suo col- lega. IX. 4i-
Ammansa il popolo,
ivi. Divide la
rissa dei tribuni e del
sno collega, 48> È console
per la seconda Digitized by
Google 5i3 volta. IX. ^ Vince
gli Equi e i Volaci, ivi Ne
trionfa, È console per la
terza volta, Qjj Proconsole
porta ajoto Ser. Furio,
Questore porta ajuto
a Miuuoio circon- dato dai nemici.
X. 22, Parere
di lui su
le richieste dei Decemviri. XI.
i2> E console per
la quinta volta,
02, Quirino, vedi Romolo
e Marte. Quirinale. II. 58. K
congiunto a Roma da
Romolo, e Tazio, 2q, Noma
lo ricinge di
mora,, Quiriti, nome di tatti
i cittadini di Roma
derivato, da Curi patria di
Tazio. II. ^6. .
. Rabolejo (C.). tribuno, come
divise, come dii'
fine alle oou* tese
dei consoli. Vili.
5^ Rabnlejo (M.) Decemviro.
X. 28, Marcia
contro i Sabini Rasena duce
Tirreno Ratto delle Sabine.
II. 2tL In
grazia di esse
lasciasi ai loro cittadini vinti
la patria, la
libertà, li beni, 55. Reatino
agro, fu tenuto-
dagli Aborigeni. II. I
Reatini ac- colgono i Listani profughi.
L 6* Regillo, città Sabina,
patria della gente
Claudia. V. 4°^ Claudio
a tempo dei Decetnviri
protesta ritirarvisi di
nuovo. XI. i2, Regillo, lago nel
Lazio. V. ' v Regno, Numa lo
ricusa. II. Ila.
Suo diritto TÌmaneva
nei col- latori. IV. ^
Si regnò
lungo tempo sotto
certe condizioni. . V.
2^ Perchè gli
antichi talvolta togliessero
il governo re- gio ; ivi. Quanto
durasse in Roma.
IV. 82, Re delle
cose sagre, vedi
Manto Papirio. Rea, figlia di
Numitore. L Rea, ossia Opi, suo
tempio. II. vio.vicr, toma
III. ^ ' il Digitized by
Googlf 5i4 Religione, quanto ne
fouero ouer?aatt gli
antichi. Vili. o-). Rem
uria. 1. ^6. Ren>o> nome
dato da Fanalaio.
I. ^o. È fatto
prigioniero, ’ji. £ aoiolto . ^a. Sua
morte e tomba, 78. Roma,
Donna Trojana, vi è
chi scrive che
desse il nome
alla città regia di
Romolo. I. 65. Roma, se
ne additano tre.
Proemio, 7. FondaaioDe fattane da
Romolo. II. 2.
Il suo popolo
derivaTa dai Greci
non dai Barbari. VII.
72. Romolo e'
Tasio l' ampliSoano. II.
So. Servio Tullin vi
aggiunge i| Viminale.,
e 1’ Esqnilino. IV. i3.
Dividendola in quattro
p.irii, e tribù ; tanto
che i colli di Roma
divennero sette, i{.
Brolo la rende
libera. Vedi Giunlo Bruto.
Re’ suoi pericoli
più grandi conservò
sempre ^ la sua dignità.
Vili. 36. Non
usava cedere punto
ai nemici. VI. 71.
In tempo di
pace era sedisiosa, i laddove era
una- Btmc in tempo
di gnerra. X..
33. Fa rifugio
a quanti vi cercavano sede
sicara. V. 56.
Moltitadine della colonia
che vi andò con
Romolo. II. 2.
Quando presa dai
Galli. I. 65. Fn
dominata prima dai
Re {'quanto ciasenno
vi dominasse, 66. Quindi
ebbe per capi i
consoli, poi K Decemviri,
e di nnnvo i consoli, i triboni
militari, e di nuovo
i consoli. Vedi queste parole. Romilip (T.^
console.' X. 33.
Gommissioni (die egli
diede a Siccio, Siocio
lo accusa al
popolo, ^ condannato, ivi. Sèntensa
di lui su
la compilazione delle
leggi. So. E creato
Decemviro, 56. Ronsolo
figlio di Enea.
I. Nascita di
Romolo e Remo, 6q,'7«.
Era decimoseuimo nella
disceadeosa da Enea, 36. Non
ennenrda col fratello
sol laogo di
fabbri- care Roma, 76.
Uccide Remo e se
oc pente, 78. Fonda- aione
di Roma. II. a. È creato
re, dal 16
al 56, delio stesso
libro si esprime
la condotta ‘di Romolo
nel regno; muore, 56.
Noma gli inalza
un tempio e la
venerarlo con annui tagriCzj, 63. Digitized by
Google 5i5 Ro*tri nel Foro
Romano. L 20: Rutuli, fanno
guerra a Latino. L 4^
Si ribellano di
nuovo (la Latino, Enea niuor*
combattendo con eui, iei.
Pro* mettono di mandare
ajulo ai Latini.
V. 4^ S Sabini j cosi
denominati da Sabino
o Sabo. II. 4^
Vi è chi li crede
Spartani di orìgine
in gran parte.
IL Un tempo erano
molli come gli
Etruschi, 58. Prendono Lista',
me- tropoli degli Aborigeni, Sotto
il comando di
Tazio por- tano guerra ai
Romani, 5iL Condizioni con
le quali con- cludono la pace
con Romolo, 4^ Tallo
Ostilio li debella. 111.
Ili Rompono 1'
alleanza e li debella
di nuovo, Come pure
li vinco Anco
Marzio, 4» . 4-- Promettono ajute ai
Latini contro t Romani
« ìlL, Li vince
anche Tar> quinìo Prisco,
55, G^. E Tarquinio so|)erbo.
IV. 5o. fi li
consoli. V. Esultano
per una leggera
vittoria e sono disfatti
novamente, i_5. Ottengono la
pace, saliscono i Romani mentiv;
erano in festa.
Yi« 3_L. Movono guerra
di nuovo ai
Romani, 34. Promettono soccorrere
i Volaci, e sono vinti, 4A: Soccorrono
i Vejenti conlro i Ro- maoi.
IX. ^ Sono vinti, ìjL
Fra la sedizione
di Roma ne devastano
la campagna, 5^ Tutti
due i consoli deva- stano la loro
campagna, 56. Servilio consdle
li desola ao- vamente,
5‘j. Scorrono sino a
Fidene. X. 2^
Manomettono di nnovo I’
agro romano. Di
nuovo fanno s>:orreria ne* coo6oi.
XI. 5 . Combattono co'
Romaui pel comando. VI. Sacro Monte.
VI. 45^ Lai
plebe vi alza
nn altare e vi
sagri- Aca, 90. Via sagra.
IL 4C . 5o. V.'35.
Classi otto di mi-
nistri sagri istituite da
Jfuma, ii. Cause spettanti
a cose sagre deciJevansi dai
Poatefici, ’)5. Legge
sagra: cioè quella su
la inviolabilità dei
tribuni. VI. ^ Cittadini
lordi di Digilized by Google
5i6 sangue sparso si
espiano prima di
accostarti alle sagre
cose. V. ^ Sacrifisj, dopo la
viUoria per render
grazie ai nnmi.
X. Vili. 6^ Sagrifìzi
per il termine
della peste, ivi. Salj,
istituiti da Nama.
II. 2^ Tallo
Ostilio ne raddoppia
il numero. III. 2l2.
Salj Palatini, e Collini, 2^ Ancili
o scudi de’ Salj, 2i_! Saline antiche
all’ iniboccatora del
Tevere. II. 5^ Samotracia
i«o|a, perchil così chiamata.
L iz. Enea porta
Sanniti, sconsigliano i
Napoletani dall’ amicisia
de’ Rolnani, loro, guerra
(>oi Lucani eo.
Tomo III. Legazioni. Satirico, giochi e salti.
VII. 2^ Satrieo, popolo del
Lazio, Corìolano lo riduce
colla forza* Vili. . . Saturnia, colonia degli
Aborigeni. L SiL L’ Italia
fu detta Saturnia, e perchè,
sJL Saturnio colle
fu detto il
CaunpU doglio, ivi. Saturno
regna io Italia.
Ì. 22* SagriEsj
fatti a Saturno « zq. Ercole
alza un altare
a Satùrno, VI. 1, Tempio
dì Sa- tnmo snl
colle Capitolino, ivi. Saturnali. IV.
i^.- - Scattini popolo
del Lazio. V.
S_L. Scellerata, via. IV. 59. Scola
letteraria nel Foro.
XI. a8. Scriba ucciso
in luogo di
Porsena.. V. z8> Scuri, vedi Fasci. Sedia
Curale. V. 4^
Coriolano fa mettere
a basso la sedia eoa
al venir della
madre. Vili. 4^ ''
Sempronio (Q.) Alratino
console. VI. l.
Postumio dittatore lo lascia
a presedere à Roma, !• Console
per la seconda volta. VII.
20. Sentenza sua
su le cose
agrarie. Vili. Sempronio (A.)
Atratino interré. Vili.
E tribuno militare in luogo
di console. XI.
Ci. * 5i7 Sempronio (L.) Atratino
coniole. XI. fìa.' Semprooj, impediscono la
legge agraria, e ne sono
paniti. X. ^ e seg. Senato, donde
cos) detto. II.
1_Z, OfBsj del
Senato, Pri- vilegi. Romolo stabilisce
nn Senato di cento. II. 1-1_.
Vi si aggiangnno
altri cento dopo
cbe i Sabini farono messi
a parte delle cose
di Roma, ^ Tarqninio Prisco ne
aggiunge altri cento, rendendo il
Senato di trecento. III. ^ -Strazio
del Senato sotto
il tiranno Tarquinia.
IV. 4-2, Dopo espulsi
i re si ascrivono
dei plebei nel
Senato per supplire i trecento.
V. il. Siila
pone in Senato
ogni feccia di nomini, 2Jz
Senato era il
freno dell* antorilà consolare. VII.
55. II console
aduna il Senato
di notte. IX. 65.
XI. 2jk I Senatori
sono convocati ad
uno ad ano in
affari ardui. Vili.
5, I tribuni tentano
convocare il Senato sebbene tal
diritto fosse dei
consoli. X. 3.1 e
seg. I con- soli adunano in
casa loro un
corpo di senatori
pi& scel- ti, 4^ ^ Quali
fossero f primi a dire
il loro pa- rere in
Senato. VI. 84^ I
censori esaminano la
vita dei Senatori. IV.
2^, Seaatusconsnlto avea forza
per un anno.
^X. Ricercavasi il Senatusconsnlto su
cose intorno le
quali non vi
era leg- ge. VII. I'
tribuni presentano alla
pdebe il sefatusoon- snlto scritto
dai consoli. XI.
Gj, La plebe
approva il sena- tnscoosulto. X. 5^,
» ■ ' Sette acque, luogo. LG, •
' Sette, pagi. 1 Vejenti
li consegnano ai
Romani. II. 55. I
Ko • mani li
rendono a Porsena. V. 5G,
Sequinio Albano. III.
i5. Serg io (M.)
Decemviro. XI. 25, Servii)
trasferiti da Alba a
Roma. III. 2^ Servilio
(C.) console, poco felice contro
i Volaci. iG, Servilio (P.)
Prisco console discorda
da Claudio ano
collega VI. 25, Placa
i poveri, 3G, Eccita
i plebei alla gnerra,
28. Digitized by Google UiS Vince i Voitcì.
VI. 19. Si
arro(>a I* ovasione
eenza beneplacito del Senato
a vinca gli Aaruaci,02.
/ Servilio (P.) Prisco
console, prossimo a noprte convoca
il Senato. IX. 6'j.
Muore di peste,
68. ' Servilio (Sp.)
console. IX. 25.
Più andace che
felice contro gli Etruschi,
26. È citalo al
gìodiaio del popolo
appunto per questo, 28. E
assolalo, 33. È legato
di Valerio nella guerra
co’ Vejenti e si
distiogoe, 35. Servilio (Q.) è
fatto maestro dei
cavalieri dal dittatore
Vale- rio. VI. 4o. Servilio (Q.)
Prisco, console. IX.
5^. Devasta la
regione Sa- bina, ivi. Q.
^ervilio console per
la aecouda volta.
Co. soccorre i Latini, ivi.
Servi reodoti liberi
nelle grandi urgenze
di guerra. VII.
55. Servo quando torna
di suo diritto.
II. 2^. Cospiraaione
dei servi contro la
fepubblica. V. 5i. Sestio
(P.), console (. Diviene Decemviro,
56. Setini popolo del
Lazio. V. 61.
Coriolano ne prende
la loro città Seizet Sibille Oracoli.
I. .{o. Oracoli
della Sibilla Eritrea, 46*
Libri Sibillini esibiti a Tarquinio
superbo. IV. 62. A
chi dati
in custodia, e quando consultati,
ivi. Si
consultano in una grande
carestia. VI. 17.
Como in caso
di segni portentosi. X. 2. I
libri Sibillini si bruciavo, e ai
procurane altre col- lezioni di oracoli
e dà quali luoghi.
IV. 62. Privilegi
dei custodi dei libri
Sibillìai, ivi. Sicania fu detta
un tempo la
Trinacria o Sicilia dai
Sicani, popolo delle Spagne.
I. i3. Siccio (L.)
Dentato : sue parole
al popolo per
la legge agra- ria. X.
5u. Propone consigli
più miti di
altri, 4-* Siegue i consoli in
guerra, ma si scusa
dall* adempirne certi
co- niaudt, 4S- Come si
vendicasse dei consoli,
46 e seg. PI fatto
tribuno, 47* Accusa Romilie
console al popolo,
48. Si riconcilia con
Romilio, $2. E ncciao per
la perfidia dei Digilized
by Google 5i9 Decemviri. XI.
36. L* eeercito
gli fa iplendidi
fanarali, 2']. Da alcaiii
è chiamalo L. Sicioio
Dentato, Siccio (T.) console
vince i Yolsci. Vili.
67. Ife triooEa,
ivL T. Siccio legato
saggcrisce a Fabin come
riprendere gK ac- campamenti, 68. Ottiene
i premj delia eoa
prodeiaa, ivi. Sicilia fu detta
dai Siedi, popolo italiano, quella che un
tempo ai
chiamava Sicania o Trinacria.
I. i5. Roma
ipe- disCR in Sicilia
a provvedere i grani. VII.
1. La Sicilia
ai ribella ai RomanL
IL 17. Sicinio (C.)
Bellbto nomo sedizioso
prooora di sollevare
ì soldati plebei. VI.
VII, 33. Son
risposte ai legati
dai consoli. VI. 45.
Aduna la plebe
nel i.ionte sagro
e permette che i legati del
Senato vi parlino, e fa
che i plebei rispon- dano. VI. 71, 72.
E creato tribuno dai
plebei, 8q. E tri- bnno
per la seconda
volta. VII. 33.
Sue invettive contro Goriolano, 3{. Cita
Goriolano al popolo,
38. Fa che il
popolo ne sentenzi,61. Sicoli, qnal gente
fossero d’ Italia, e dove abitassero.
II. i . Italiani nominati
Sieoli da Sioolo
re. I. 4-
Un tempo abi- tarono Roma, I.
Ne sono cacciati
dagli Aborigeni e dai Pelaighi, ivi. Passano
dall’Italia nella Sicania, i3.
Legati Sicoli assaliti dagli
Anziati. VII. 37.
Vestigi de’ Sieoli
in Italia. II. I. Sicolo
figlio d’italo porta
nna oolooia*di làgqri
nell’Italia. I. i3. Sicolo
re di Ausonia,
ivi. Siedo prologo
da Roma viene a Morgete, 64. Signia, colonia di
Tarquinio. IV. 63.
Sesto Tarqninio tenta invano
di prenderla. V. 58.
Silvio figlio postumo
di Enea cosi
denominato dalle selve.
I. Gl. Ebbe il
regno de' Latini dopo
la morte di
Ascanio, ivi. Da lui
furono Silvj denominati
tutti i re di
A^ba, ivi. Soci del popolo
Romano dovevano mandargli
de’ sossidj nella guerra.
X. 2i. Leggi
date ai Latini
circa i sussid;. VITI. i3.
E Su racquieto de’ nnovi
campi, 74. Digitir.rd by
Googli 520 Sole, ano (empio. II.
5o. Fonte dèi
aole. I. 46. Sparla, Spartani. Vedi
Lacedemoni. Spineto j bocca del
Po. I. io. Spoglie.
Vedi Prede. Sterile, moglie
ripudiata. IL 25. Sobarrana^ tribb.
IV. i4. ' • Sneasa
Fomexia^ cittì rignarderole dei Volaci.
VI. 2^ Tarqni- nio
àoperbo la espagna.
FV. 5o. Servilio
la prende. VI.
2g. Abbondansa della ana
preda, I Soeaaani profoghi eccitano i Cab) a far
guerra a Tarqniuio. IV.
53. ' - Suffragi. Vedi
Ceiftiz/. Solpizio (Q.) Camerino
oonaole. VII. 68. Sitlpiiio
(Q.) Uno dei
legati apediti a Coriolano.
Vili. 32. Sulpiiio (Ser.)
Camerino coniole. V.
52. Sua prndeoxa
nello acoprir la congiura, 53.'' Dopo
la morte del
collega egli prosiegue aolo a
reggere il consolato,
5^. Sulpizio (Ser.) Camerino
console. X. i.
Ser. Solpixio mau- dato
per le leggi
in Grecia j Sz.
È creato Decemriroj 56. Sona
Soana, paeae degli
Aborigeni. I. 6. * J T Tanaqnilla moglie
di Tarqnìnio Prisco
perita degli augurj
e d* interpretare i segni
portentosi. III. 4’}-
IV. 2. Sua
pru- densa. IV. 4-
Sno - favore per- Servio
Tullio, ivi. Se
Tana- qoilla seppellisse Arnnte
figlio di Tarquiaio.
IV. 3o. Tareolini,
sconsigliano i Napoletani dall*
amiciaia de’ Romani. Tomo
III. Legaùom., Tarpeja, suo tradimento,
morte e sepoltura. II. 38 e vg. Tarpeo, colle', poi
detto Capitolino e perchè.
III. 6g. Tarpea, rupe-, aoprastava
al Foro, e vi
ai precipitavano i rei.
Vili. 98. IX. 4a. Tarpejo
(Spnr.) console. X. 48.
Tarquinj, cittì ricca di
Etmria. III. 46. Tarqninieai cospirano
co' Vejenli contro
i Romani. IV. zj. Digitized
by Googic Ss I Intercedono
per Tarqoinio supèrbo.
Y. ^ procurano colle armi
il ritorno in
Roma, Tarqnioio Arante, è messo
dittatore in Collazia
donde prende il nome
di Gollatino, esso e snoi
discendenti. III. So. Tarqninio
Arante, fratello minore di
Tarqniiiio superbo prende per
moglie Tnllia. IV E fatto
re, 4^ Da questo
§ fino al termine
del lib. Ili si
narrano le imprese
di Tarqninio re, e la
morte in fine. Tarquinio (L.)
superbo, prende in
moglie la* figlia maggiore di
Servio Tullio. IV.
Le òk la
morte, e prende la minore, Come, e quando s*
impadronisse del regno
e perchè fu chiamato
snperbo, 4Ai Da'
questo § fino al
ter- mine del lib. IV
si espongono le
'sue azioni fino,
alla per- dita del regno.
Esule tenta più
volte di ricuperare
il trono. V. ^ Porsene
si distacca da lui,
Tarquinio incita* gli Etruschi
contra i Romani, 5i, 6i. Procura
sedizioni in Roma, S3,
Quanto tempo regnò.
L OS, Muore in
Coma. VI. ai, Tarqnioio (L.)
Collatino torna dal
campo in casa.
IV. Gj. La ritrova
piena di lotto, ivi.
E destinato e fatto console
insie- me con Bruto,, 8i. Rinunzia
il consolato e- si ritira
a Lavinia. V. LI,
Ove muore. Vili.
4^ Tarquinio (L.) maestro
de* cavalieri sotto.
T. Qainzio Ditta- tore. X. 2^. Digitized
by Google r 9 5 Tarquiaio (P.) e
Marno di
Laurealo rivebno una
coapirazio- nr, V. 5^
Premio dato loro, 5^ Tarqoiiiio Sesto
Gglio del superbo
: suo messaggio al
padre da Gabio. IV. ^
£ creato Re di
Gabio, Violenta Lucrezia, ^ Esule
fa guerra par
il padre. V. aa,
afL É creato capitano
dei Sabini, Manda sussidi
ai Fideoati assediati, 5S. E
capitano dei Latini
contro dei Romani ^ (Ll, E ucciso. VI.
L2. Tarquinio (T.) figlio
del superbo porta
una colonia in Si-
gnia. IV. Egli a
Sesto fan guerra
per il padre.
V. aa^ a6. È ferito.
V. 1 1. Tarquinia moglie
di Ser. Tullio
muore d’improvriso. IV. 4^
Strangolala da Tarquinio
superbo, Tazio (T.) re
di Curi e duce
de* Sabini contro
i Romani. II. 2ÌL Fatta
la pace si
fissa in Roma, e regna eoo Romolu, ho.'
Erige altari a più
Dei, ivi. Muore, 5l.
Telefono figlio di
Circe e di Ulisae.
IV. 4ì_- Tellene città
del Lasio. III.
V. Qì. Chi
ne fosse l’ autore. L et Anco Marsio
la espugna e ne
porta in Roma i
cit- tadini. III. !>&
Tiirsosio (C.) tribnno
della plebe primo
tenta introdnrre leggi e diritti nella
repobblioa. X. La, Terenzio
Varrone, che dica
su i Sacerdoti istitnili
da Romolo. 11.1 2±, So la
origine del nomo
delle Curie, 4^ oracoli Sibillini.
IV, fil, Tebaoi tolgono
l'impero agli Spartani.
Proemio, ^ Sono sol* touessi.
II. l 'j. Temistocle Arconte
di Atene. VI.
54» Teologia dei Romani
migliore di' quella de*
Greci. II. Termenio Cossia
Aterio console. X. 4d.
Termini Dii, loro sagrifisi
e festa. IL Testrina o Testrnna,
paese Sabino. II. Tenero
Re della Teucri.!
o Troade nella Frigia.
L ^ Tevere, passa vicino
a Fidcne. 11. hh,
Cliiamavati Albula e 5a3
prette altro nome ila Tiberino
Re orlak> dalla
corrente di esao.
L Gz. Tibnrtini, popolo del Laaio»
V. 4i- Loro
fondatori. L Timeo Siculo,
storico non affatto
diligente, eioccbè scrive
sa gli Dei Penati.
L Gfi. E sa 1*
epoca della fondasiona
di Ro« ma, (15. Tiora, paese
degli Aborigeni. L 6. Tisicrate Grotooiate
vince nello stadio.
V. VI. 43* Tisio
(Ses.) tribuno della
plebe. IX. Cg. Toga, soB
forma. III. Gì.
Intessnta di oro.'
V. 4^! Tolerini espugnati
a farsa da Coriolano.
Vili, Tuoni e lampi spaventevoli
dissnadono Valerio il
console dal> r assalire il
campo degli Equi.
IX. 55. Trabea, o Tibeuna.
VI. i5. Trebnia paese
degli Aborigeni. L IL Triarj, quali soldati.
V. lL Vili.
SG, Tribuni, prefetti delle
trib&. II. Tribuni dei
Celeri e loro ofGsj.
II. 64^ Tribuni dèi
soldati, venti creati nel
ritirarsi le armate
dai Decemviri. XI. 4i^ Tribuni
militari destinati in
luogo dei consoli.
XI. 6t. Depon- gono
il tribunato militare
dopo acttanlatri giorni, Ga, Tribuni della
plebe quando creati
e quanti. VI. 8 aegneiize, ^ Si arrogano
Tarbitrio di accnaare
qaalnnqne patrizio, Nel caso
di Coriolanoj ivi.
Cominciano a ci- tare al popolo
qnalanqne cittadino « Si
oppongono a Cassio per la legge
Agraria. Vili, Si
oppongono alla leva de*
soldati, 87. Impediscono
col loro potere
i comizj, 90. Nella penuria
de* viveri incitano
la plebe contro
i Con- soli. IX. Chiamano al gindisio del
popolo i già consoli perchè diano
conto del loro
consolato, ^, 28. Restano
pel secondo anno
nelle cariche loro, Sforzi
loro per- chè 8* imprigioni
nn console,' 48^
Insistono sn la
formazione delle leggi. X.'l.
Sono chiamati in
Senato a consnltarvi sa la
salute pubblica, 2., Cacciano
con finti delitti
Quinzio Cesene da Roma.
Restano pel terzo
anno nella loro carica,
^ E per il quarto, Confermati per
nn qninto anno impediscono
la leva innanzi
che il Senato
decreti per la formazion
delle leggi, 28, Tentano
di convocare il Se-
nato, il che aspettava
ai consoli, 3i.
Il Senato conceda che
L tribuni siano dieci
in luogo di
cinque, Gitano al popolo i consoli
i quali non ubbidiscono, ^ Sono im- pediti nella legge
agraria, 4i ° *eg> La
peste ne uccida quattro, 88, Cessano
col crearsi dei
Decemviri, 4^ Vedi
Decemviri. Ristabiliti si
vendicano dei Decemviri.
XI. 46. Istigano di
nuovo la plebe
contro i patrizj, Pretendono
che anche i plebei
possano chiedere il
consolato, 82, Cac- ciati da
Roma vanno a Cesare
nelle Gallie. Vili.
87. Tribè, Romolo ne
forma tre, -divise
in dieci curie.
II. 25. Anco
Marsio li vince,
^i. Come poro Tarquioio Prisco,
58. E Servio Tullio.
IV. 2>]. Teotaoo riportare al
trono i Tarquinj. V.
i4> Sono «ioti
dai Romani, i5. Cornelio
accorda loro la
tregua. Vili. 82.
Sac- cheggiano il territorio di
Roma e ne sono
repressi, Qi. Cercano il
soccorso degli Etruschi
contro i Romani. IX. 1,5.
Assalgono i Romani dipersi, 19.
Scorrono frao al Gianoioolo, ivi. Implorano
soccorso dagli Etruschi
contro i Romani, 16.
Appoggiati all* aiolo
degli Etruschi e dei Sabini
riprendono di nuovo
le armi contro
i Romani, 34. Ottengono una tregua
di aoni quaranta, 3G.
Si acuingono a ribellarsL XI.
54. Velia Inogo di
Roma. I. 11.
V. ig. Vellelri, città dei
Volaci si rende
ad Anco Marno.
III. ^2. E presa da
Verginio console. VI.
^2. Rifinita dì
popolo dalla peste, chiama
dei coloni da
Roma iz. Vesbola o Suessola paese
degli Aborigeni. 1. 6.
Vesta è la terra.
II. GG. Perchè
siale consagrato il
fuoco : e a chi siano
note le cote
sacre di essa, ivi.
Tempio di Ve- sta, So.
Da chi prima
fosso fabbricato e dove,
65. Perchè vi si
onstodisse il fnooo
e dalle Vergini, GG.
Nel tempio non potevano
pernottare de’ maschi, G^j.
Fonte al tempio di
Vesta. VI. i3. Vestali, vergini nobilissime.
I. Gl. Da obi foMero
prima isti- tuite. II. G5.
Quante ne stabilisse
Niima, e qnaute gli altri Re, G7.
Tarquiuio Prisco ne
aggiunte due. III.
G’;. Of- fiij loro.
II. 6G. Quanto
tempo dovessero conservare
la verginilil. I.
Dopo qnetto tempo
poteaoo maritarti. Onori delle
Vestali, ivi. Loro gastigo
se lasciavano eorromperai Veatale convinta
di etupro aottoposta a pene
solenni. IX. 4*
Vili. 8g. Suppli- xio
dei corruttori delle
Vestali. Vili, IX.
4** Vetoria, madre di
Corlolano. Vedi Coriolano> Vetnrio (G.)
console. X. $2. Vetnrio
(P.) console. V.58- Veturio
(T.) Gemino console.
VI. 3i. IX.
69. Marcia contro i Volaci. IX.
G9. Ne trionfa:
ne ottiene la
ovaiione, 71. E fatto Decemviro Virginio (A.)
Mentano console. Va
oontro i Volaci, Va Legato
alla plebe profuga, G9. Virginio (A.)
oonsole. IX. i5. Virginio
^A) Celimontano console.
IX. 5G. 1 Virginio
(A.) triumviro. IX.
Sq. Virginio (A.) tribuno
della plebe. X. S e
seg. Virginio (Op.) Tricosto
console. V. /(g. '
Virginio Poolo console.
Vili. 58, 71. Virginio
(Sp.) console Virginio (T.)
console Volsci, sono ridotti in- dovere
da Anco Marsio.
III. 4i. Do* città
dei Volaci ai
coliegano con Tarqninio
superbo. IV. .49. Il
quale infetta il
terrtìorio delle altre,
52. Mandano am- basciatori a Gabio perchè
voglia far guerra
con essi a Tar- qninio, 53. 1 Volaci
ricusano socoorrere i Roiiani
contro i Latini. V. 4
A.nsi apparecchia osi a
soccorrere i Ladini eon- tro
i Romani. Giungono in
soccorso dei Latini
dopo la battaglia, i Mandano ambasciatori
al campo Romano per
esplorarlo, i5. SI
nmiliaoo e tornano a ribellarsi,
25. Servilio li debella,
29. In pena
ne sono uccisi
in Roma gli ostaggi, 3o. Servilio
ne trionfa contro
il voto del
Senato, ivi. Mandano legati
in Roma a richiedere
ciocché era stato tolto
loro, 3{. Sono
costretti a ricevere i coloni
Romani, Dkjiii^tid by Google 528 VI. 43 e
s«g. Dopo la
goerra Latina i primi
fomentano la bellione dai
Romani, >}C. Poatomio
Gominio li debella,
91. In tempo di
fame macchinano contro
i Romani, ma la pe- ate li
raffrena. VII. 13.
Volaci comandati ohe
cacano da Roma tatti
per nna porta.
Vili. 4- Ridomandano
per meazo di legati
le loro cose
ai Romani, q. Intimano
gnerra ai Romani e creano
capitano Coriolano, ii. Il
quale gli ac- costuma alla disciplina
militare dei Romani, Marciano con gli
Equi contro i Romani, e si attaccano
fra loro, G3. Chiedono
pace dai Romani Q.
Fabio li vince, 9i.
Si confederano di onovo
con gli Eqni
contro i Romani. IX. iC.
Resistono bravamente a Serrilio
console, ivi. Nansio console devasta
le loro campagne,
35. Sono presi
i loro accampamenti, 58. In tempo
di peste cospirano
con gli Equi contro
i Romani, 6']. Sono
respinti, 70. Valerio
li sbaraglia Volscio (M.) tribuno
della plebe. X. 7.
Voinnnia moglie di
Coriolano. Vili. io.
Come ricevuta da Coriolano, i5. Volnnnio (P.)
console. X. i. Tavole
a Carte contenute nelli
tre dolami delle
Antichità Romane -dX Dionigi
di AUearnasso. Ritratto dell'Autore in principio » » Carla delli
Antichi Contorni di
Roma . . . n ivi n li. La
Porca 00' 3o
porcelli; e la Lupa
del Campidoglio o ivi » n Carla topografica
dell’antica Rmna . . . . n ivi M n Ritratta di
Giunto Bruto ....
...» 89 » 111. Tav.
1. eli. Tempia
di Giano e sne
vetligia. FINE. Marco Mastrofini. Mastrofini. Keywords: implicature,
Delle cose romane di Floro, l’antichita romane di Dionigio, le cose memorabilia
di Ampelio, il sistema verbale della lingua Latina – del verbo latino, aspetto
verbale – la filosofia del verbo – tempus, azione, la concettualizazione
dell’evento e l’azione nel verbo latino --, categorie sintattiche e
morfologiche e semantiche e prammatiche dell’aspetto verbale nella lingua
Latina. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Mastrofini” – The Swimming-Pool
Library.
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