Powered By Blogger

Welcome to Villa Speranza.

Welcome to Villa Speranza.

Search This Blog

Translate

Wednesday, December 25, 2024

GRICE ITALO A-Z O

 

Grice ed Occelo: la ragione conversazionale e la setta di Lucania -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano. Lucania, Matera, Basilicata. A Pythagorean, according to Giamblico. Brother of Occilo di Lucania. O. held that the number III is the key to understanding the world. According to Ippolito, he also believed that in addition to the IV elements – earth, fire, air, and water – there is a fifth principle which is circular motion. Filone says that O. believes that it is possible to prove that the world is indestructible. Occelo.

 

Grice ed Occilo: la ragione conversazionale e la setta di Lucania. Roma – filosofia basilicatese -- filosofia antica – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano. Lucania, Matera, Basilicata. A Pythagorean, cited by Giamblico.  Brother of Occelo di Lucania.

 

Grice ed Ocone: la ragione conversazionale e l’implicature conversazionali dei liberali d’Italia – la scuola di Benevento – filosofia campanese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Benevento). Filosofo italiano. Benevento, Campania. Grice: “Ocone has selected Croce as the quintessential Italian liberal! That should please Oxonians like Collingwood!” -- Grice: “I like Ocone’s idea of a liberalism without a theory – ‘liberalismo senza teoria’ – that should please J. M. Jack!” --  Grice: “Speranza has  noted that if Bennett speaks of meaning-nominalism, we could well speak of meaning-liberalism.” Grice: “While meaning-liberalism requires that the limit of one’s liberty to make a sign stand for an idea is your co-conversationalist, meaning-anarchism is Humpty Dumpty (‘I didn’t know that!’ ‘Of course you don’t’) and meaning-conventionalism is the idea that there is a repertoire on which conversationalists rely!” Si occupa soprattutto di temi concernenti il neoidealismo italiano e la teoria del liberalismo. Allievo di Franchini, è borsista dell'Istituto Italiano per gli Studi Storici di Napol. Qui ha l'opportunità di lavorare direttamente nella biblioteca personale di Benedetto Croce e con l'aiuto di Alda Croce, figlia del filosofo, raccoglie e analizza il materiale scritto nel mondo su di lui. Un frutto parziale e selezionato del suo lavoro vede la luce nel volume  ragionata degli studi su Croce pubblicata dalla Edizioni Scientifiche di Napoli, che vince l'anno successivo la prima edizione del "Premio nazionale di saggistica Benedetto Croce", istituito dall'Istituto Studi Crociani. È stato direttore scientifico della Fondazione Einaudi di Roma, dalla quale è stato successivamente allontanato per le sue posizioni nazionaliste. Successivamente è entrato a far parte della Fondazione Tatarella ed è diventato Direttore Scientifico di Nazione Futura.  È anche membro del Comitato Scientifico della Fondazione Cortese di Napoli, del Comitato Storico Scientifico della Fondazione Bettino Craxi, del Comitato Scientifico dell'Istituto Internazionale Jacques Maritain e del Comitato Scientifico della Fondazione Farefuturo.  Attività e pensiero Fonda a Napoli, con un piccolo gruppo di laureati e laureandi della Federico II, cittadini sanniti e napoletani, il trimestrale "CroceVia" edito dalla Edizioni Scientifiche, che si propone di rinnovare il messaggio crociano e che entra in poco tempo nel dibattito culturale nazionale. I suoi studi crociani prendono corpo nel volume Croce, Il liberalismo come concezione della vita, pubblicato da Rubbettino nella collana “Maestri liberali” della Fondazione Einaudi di Roma. Il volume, presentando l'immagine originale di un Croce partecipe del processo europeo di distruzione delle categorie epistemiche, ha numerose recensioni. A partire dalla sua interpretazione di Croce, O. elabora la prospettiva di un liberalismo senza teoria, cioè storicistico e non fondazionistico. Il suo progetto filosofico può essere così formulato: riconquistare il liberalismo alla filosofia; ritornare in filosofia all'idealismo; ricongiungere il liberalismo con l'idealismo (si vedano, a tal proposito, gli interventi di O. nella polemica fra neorealisti e postmodernisti). In quest'ordine di discorso, O. ritiene che la critica rivolta a Croce di essere un liberale anomalo, in quanto nel suo pensiero il concetto di individuo sarebbe sacrificato, vada ribaltato: l'individualismo non è affatto consustanziale al liberalismo, ma si è legato ad esso solo in una sua prima fase di sviluppo (all'inizio della modernità). Quello di O. è un liberalismo che non prescinde né dal senso storico né dal realismo politico. Successivamente il pensiero di O. ha assunto molti caratteri propri dello scetticismo politico di Michael Oakeshott, in particolare della sua critica del razionalismo, del perfezionismo e del paternalismo. Egli ha pertanto insistito sul carattere “anticonformistico” e “eretico” del liberalismo, sulla priorità in esso del momento “negativo” o della contraddizione. La critica delle ideologie, e in particolare del “politicamente corretto”, diviene in quest'ottica il correlato pratico degli approdi antimetafisici della filosofia contemporanea. E filosofia e liberalismo finiscono per coincidere  Da ultimo, la sua riflessione ha messo a tema il significato teorico e storico dell’affermarsi dei cosiddetti “populismi” e “sovranismi”. Essi, prima di essere ostracizzati, vanno per O. capiti: pur in modo confuso e contraddittorio, lungi dall'essere un “incidente di percorso” incorso al processo di globalizzazione in atto, essi ne segnalano la definitiva crisi dell’ideologia portante: il globalismo. Questa ideologia può essere considerata una radicalizzazione coerente della mentalità illuministica e progressista, cioè da una parte del processo di secolarizzazione e razionalizzazione e dall'altra dello speculare e connesso relativismo e nichilismo. I “populismi” sono perciò per O. movimenti di reazione ai meccanismi di spoliticizzazione (e connesso “disciplinamento” in senso foucaultiano) propri della globalizzazione, che aveva definito la sua ideologia all’incrocio fra le idee di due “deviazioni” dell’autentico liberalismo: il neoliberismo, sul versante economico, e la cultura liberal sul versante di un diritto globale fortemente eticizzato. Scrive su diverse riviste scientifiche e culturali e sui maggiori organi di stampa nazionali. Attualmente è nella redazione della rivista “LeSfide”, edita dalla Fondazione Craxi, e nel Comitato editoriale dell quotidiano online “L’Occidentale”. Collaboratore de “Il Giornale” e de “Il Riformista”, è opinionista politico di “formiche.net”, “Huffpost” e “nicolaporro”. Molto seguita è la sua rubrica domenicale di riflessione politico-culturale “O.’s Corner” sulla rivista online “startmagazine”.  Un estratto di un suo articolo (Intervista a Remo Bodei, in C. Ocone, Prendiamola con filosofia, Il Mattino, è stato utilizzato dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca come documento per la stesura della traccia della prova scritta di Italiano negli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore a.s. (Tipologia Redazione di un saggio breve o di un articolo di giornale2. Ambito socio-economicoArgomento: La riscoperta della necessità di «pensare»).  Nella sezione Dal dopoguerra ai giorni nostri, Percorso Il dibattito delle idee Dall'“impegno” al postmoderno, Dal periodo tra le due guerre ai giorni nostri) dell'antologia "Il piacere dei testi", editore Paravia, è contenuto il suo saggio "Né neorealisti né postmodernisti, "qdR". Altri saggi: “Coronavirus. Fine della globalizzazione” Il Giornale, Milano); “La chiave del secolo. Interpretazioni del Novecento” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Europa. L'Unione che ha fallito, Historica, Cesena, “La cultura liberale. Breviario per il nuovo secolo” Giubilei Regnani, Roma-Cesena); “Attualità di Croce” Castelvecchi, Roma,  “Il liberalismo nel Novecento: da Croce a Berlin” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Il liberale che non c'è. Manifesto per l'Italia che vorremmo” (Castelvecchi, Roma); “I grandi maestri del pensiero laico, Claudiana, Torino); “Collingwood e l’Italia” Castelvecchi, Roma); “Il nuovo realismo è un populismo” (Il Nuovo Melangolo, Genova,  (Reichlin e Rustichini) Pensare la sinistra. Tra equità e libertà, Laterza, Roma-Bari, Liberalismo senza teoria, Rubbettino, Soveria Mannelli  (con Dario Antiseri), “Liberali d'Italia” Rubbettino, Soveria Mannelli  (con altri autori) “Le parole del tempo. Lessico del mondo che cambia” Pierfranco Pellizzetti, Manifesto libri, Roma); “Spettri di Derrida, Annali della Fondazione europea del Disegno (Fondation Adami),  Il Nuovo Melangolo, Genova); “Profili riformisti. liberali per le nostre sfide” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Marx” (Momenti d'oro dell'economia"), Roma); “La libertà e i suoi limiti. Antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, Laterza, Roma); “Croce. Il liberalismo come concezione della vita” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Bobbio ad uso di amici e nemici” (Marsilio, Venezia); “Manifesto laico, Laterza, Roma); “Lessico repubblicano” (Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, ragionata degli scritti su Croce; Edizioni Scientifiche, Napoli. Cfr. Archivio borsisti in Istituto Italiano per gli Studi Storici  Premio Croce, su mediamuseum. Comitato Scientifico, su Fondazione luigi einaudi.  Ficara, La Fondazione Einaudi allontana O. perché "filo-sovranista", su Secolo Trentino, La Fondazione, su Fondazione Giuseppe tatarella.  Organigramma, su nazionefutura.  Fondazione Cortese di Napoli in//Fondazione cortese/  Fondazione Craxi, Comitato Scientifico dell'Istituto Maritain, Comitato Scientifico e di indirizzo, su fare futuro fondazione.  rubbettino. Vattimo Pubblicazioni La recensione, Caffe' Europa, Duccio Trombadori, Questo don Benedetto somiglia a Nietzsche, su il Giornale, Il blog di VATTIMO: O. e la filosofia classica tedesca, su Gianni vattimo. blogspot. com.  La filosofia politica è una pseudo-scienza. Parola di filosofo. E che filosofo!, su reset.  Attualità di Croce su opac.,  Europa: l'Unione che ha fallito;  opac., La natura del potere svelata dal coronavirus, su il Giornale, Coronavirus: fine della globalizzazione, Store il Giornale, Fine di una storia, il ritorno della politica? su leSfide.  Chi Siamo, su loccidentale. MIUR Traccia della prova scritta di Italiano per gli esami di Stato conclusivi dei corsi di studio di istruzione secondaria superiore anno scolastico su archivio .pubblica.istruzione.  Il piacere dei testi  QDR Magazine Qualcosa da Raccontare, La chiave del secolo: interpretazioni del Novecento, opac., La cultura liberale: breviario per il nuovo secolo; Attualità di Benedetto Croce / O., su opac., Il liberalismo nel Novecento: da Croce a Berlin /su opac., Il liberale che non c'è: manifesto per l'Italia che vorremmo su opac., I grandi maestri del pensiero laico ntroduzione di Massimo L. Salvatori, su opac., Collingwood, Autobiografia Collingwood; prefazione di O., su opac., Il nuovo realismo è un populismo / Cesare, Simone Regazzoni, su opac., Pietro Reichlin, Pensare la sinistra: tra equità e libertà  Reichlin, Rustichini, su opac., “Liberalismo senza teoria”; su opac., “Liberali d'Italia”; Antiseri; prefazione di Giorello, su opac., Le parole del tempo; M. Barberis; P.  Pellzzetti, su opac., Spettri di Derrida opac., O., Profili riformisti: pensatori liberal per le nostre sfide opac., Marx: teoria del capitale / [visto da opac., La liberta e i suoi limiti: antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, opac., Croce: il liberalismo come concezione della vita, opac., Bobbio ad uso di amici e nemici, opac., Manifesto laico / Enzo Marzo; contributi di S. Lariccia on un intervento di Bobbio, su opac., Lessico repubblicano: Torino, Maurizio Viroli, su opac.,  ragionata degli scritti su Croce, opac., La genialità di Marx agli occhi dei liberisti,  riconosce i pregi dell'analisi, in archivio storico.corriere Premio al Premio Croce di saggistica, in premiflaiano Ssu corradoocone.com. Grice: “Speranza calls me a liberal, but then he calls Locke and Humpty Dumpty a liberal too.” Grice: “Mussolini set a puzzle for liberalism – the Italians, disorganized as they are, had to create a party: they called it the ‘Partito Liberale Italiano’ – which is bound to close down! It opened in 1922 – while I was at Harborne!” --  Grice: “The test of a man’s intelligence lies in his ability to name his party – partito liberale italiano – partito liberale democratico – partito liberale constituzionale – the addition of ‘italiano’ at the end of ‘partito liberale italiano’ ENTAILS that what Borolli did at Florence, by founding his ‘partito liberale’ – since he omitted to add the ‘italiano’ was not the partito liberale italiano – but fiorentino at most! Similarly, the partito liberale democratico is NOT the partito liberale italiano, nor is the partito liberale costituzionale. Mussolini had it clearer: there’s only ONE partito – partito nazionale fascitsa – the infix ‘nazionale’ means that provincials should not appy!” Corrado Ocone. Ocone. Keywords: liberali d’Italia, liberalism, dal liberalism al fascismo, il partito nazionale fascista e il partito liberale  – Refs.: Luigi Speranza: “Grice ed Ocone” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Oddi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola di Padova -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Padova, Veneto. Figlio di Oddo degli Oddi, convinto sostenitore della scuola di Galeno. Professore per incarico del Senato veneziano assieme a Bottoni a Padova, dove insegna e introduce senza ricevere emolumenti l'insegnamento della pratica clinica nell'ospedale di San Francesco Grande, precedendo così tutte le altre scuole. Commentari dell'Ateneo di Brescia  G. Vedova, Biografia degli scrittori padovani, coi tipi della Minerva, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dobbiamo al chiarissimo signor dottor Montesanto (Dell'origine della clinica medica di Padova ec.) la bella ed interessante notizia, che il nostro Bottoni e il suo collega Marco Oddo, calcando le traccie luminose segnate dal famoso Montano pochi lustri prima, diedero novella vita al la clinica medica nello spedale di san Francesco in Padova, condotti dalla sola nobile brama di giovare. E qui avvertire mo cogli sludiosi di medicina,che il dotto autore, dopo aver dimostrato con incontrastabile evidenza che l'Università padovana, la prima d'ogni pubblico Studio d'Europa, vanta la fondazione in essa di quella scuola, base dellamedica scien za,ci porge il documento luminoso,che tanto onora li ricor dati professori, e in particolare il Bottoni di cui favelliamo; il quale non essendo da tacersi, lo riporteremo come ci viene fedelmente e con eleganza vôlto in lingua italiana dal prelo dato signor Montesanto, che il trasse dagli Acta nationis germanicae Facultatis medicae, quae,convocata natione, prae lecta et examinata, digna judicata sunt,ut albo nationis insererentur. Consiliariis Christophoro Sibenburger Carin thio, etKeller Hallense Saxone. Manoscritto presso la biblioteca dell'Imperiale Regia Università di Padova. dette in vita Boltoni , non è da passarsi solto silenzio quello d'essere stato dal Duca di Urbino, unita mente ai altri quattro medici, chiesto del suo consiglio onde togliere la città di Pesaro e il territorio da alcu ne febbri pericolose che colà infierivano. N e taceremo , come a'dinostrisidimostròbellamente,che il Bot Merita,a comune nostro giudizio, di essere celebrato con riconoscente memoria e di venir rammentato in questo luogo il beneficio sommo impartito alla nazione nostra dall'eccellentissimo uomo Bottoni , professore primario di medicina pratica estraordinaria, il quale condotto dalla singolare benivoglienza che da più anni a noi concede, oltre all'averci anche in quest'anno dalla pubblica cattedra con ogni cura ammaestrati, a fine di giovare vieppiù alla nostra istruzione si riuni nelloscorso inverno all'eccellentissimo Marco degli Oddi, medico ordinario dello spedale di san Francesco e pubblico professore, e con esso, finite la lezione, si trasferi sempre a quello speilale medesimo seguito da toni fu, insieme al suo collega O., il primo che dopo il celebre Montano gettasse i più so noi per visitarvi parecchi infermi afflitti da diversi generi di malattie: per tal guisa egli aprissi l'adito ad accuratamente mostrarci come sido vessero applicare alla pratica quelle dottrine che avevano fatto il soggetto della sua pubblica lezione, esercitando così i suoi uditori in tutto ciò che al dotto e sagace medico appartiene di osservare e dipraticarea pro de'suoimalati. Cessate finalmente le lezioni, volendo Bottoni che neppure durante le vacanze dell'Università mancasse a noi qualche mezzo di ammaestramento, e potesse per noi esser posto a profitto il nostro tempo,egli in una determinata ora della mallina recavasi ogni giorno a quello stesso spedale :quivi, visitando alternativamente cob O. gli ammalati, andava instruendoci, ragionando intorno a qualche caso tra i più gravi da lui osservati. Il Campolongo perciò, vistosi promosso a medico di quel l'ospitale, sipropose egli pure, allafoggia de'provetti nostri precettori, di dare ogni giorno delle pratiche istruzioni: nel di susseguente alla sua nomina occupò quindiprimo di tutti con molta insolenza e temerità quel posto chesoleva essere destinato ai nostri maestri; nè, occupatolo, volle cederlo ad essi. Fermo in suo pensiero diragionare aigiovanida quel luogo, non già una sola volta, o per un giorno solamente, rinnovò la scena istessa per più giorni; e non valseroa ri muoverlo nè a piegarlo le nostre istanze, direlte a far sì ch'ei lasciasse liberi ü luogo e l'ora occupati per lo innanzi dai nostri maestri,e che per sè volesse scegliere altra ora ed altro luogo. Ma, ostinato egli oltre ogni credere, giunse, coll'insistere per le sue pratiche istruzioni, a turbare quelle solite a darsi dagli altri prima di lui. Se dal Campolongo solo avesse dovuto dipendere, tutti saremmo stati esclusi dal Mentre simili esercitazioni, con si maturo consiglio intra prese a nostro vantaggio, andavano proseguendo, un certo medicoper nome Emilio Campolongo,digiovanile età, col. lega nell Università e professore della stessa cattedra , m a in secondo luogo, d’O., riusci,non sisa come, ottenere che la ispezione a d siedeva e la cura de'malati, cui prima pre ilsolo O.,venissefra entrambidivisa, permodo che quind'innanzi gli uomini fossero medicati longo, e le femmine d’O,. dal Campo l'ospitale; il che pure minacciava apertamente di voler far si che avvenisse. La quale insolenza, divenuta già intollerabile ai signori professori Bottoni ed Oddo, meritevoli per ogni riguardo di molta stima e riverenza, li costrinse a partire dallo spedale, e con essi partirono quanti vi erano studenti della nazione alemanna,rimanendo così affatto solo ilCampolongo nel luogo da lui tolto agli altri. Informati poscia bene del fatio i governatori dello spedale , costrinsero il Campolongo con severi modi a cessare dalla sua pretesa, ingiungendogli, sepur voleva intraprendere qualche esercizio a vantaggio di taluno degli studenti, di scegliersi un'altra ora ed u n altro luogo. Cosi, mercè la prudenza dei nostri maestri e la costanza degli studenti alemanni, fu vinta l'altrui pertinacia, edinostri esercizii vennero felicementea ricominciare. Essendosi allontanati, come sogliono, dall'Università glo ltaliani per far le vacanze presso leloro famiglie, li signori Bottoni e O., eccellentissimi uomini e della nostra nazione sommamente benemeriti, affinchè far potessimo qualche profitto nello spazio di tanti mesi, continuarono le loro pratiche istruzioni quasi ogni giorno nello spedale di san Francesco sino al principio delle lezioni, con gran fatica e disagio loro, econsomma utilità nostra: della qual cosa poco io dirò, potendo bene ciascuno dalla rela. zione del mio antecessore rilevare le circostanze tutte che a ciòsiriferiscono. Aggiungasi, chevenendo nella state invitati parecchi infermi alle terme di Abano, onde rendersi vieppiù grati a'nostri, li condussero due volte colà, dando per tutti cavalli e legno il signor O., e quivi gl'instruirono circa il valore medico delleacque termali e deifanghi. Verso lafine poi dell'ottobre fattasi la stagione opportuna per le sezioni anatomiche, iBottoni e O. stabilirono di aprire i cada veri di quelle donne che morissero nello spedale ; e ciò col fine d'indagare alla presenza degli scolari le sedi e le cagioni dei mali : fu però d'uopo abbandonare ben tosto que lidi fondamenti della scuola clinica in Padova , che precedette tutte l'altre in Europa. Lasciò il nostro Bot Bottoni e O. continuarono anche nel successivo anno ad istruire nello spedale i giovani;ed in quest'anno pure vennero ad insorgere nuovi dissidii, come ce ne informano gli atti di quell'epoca, raccontandosiivi quanto segue: toni un monumento del suo buon gusto nelle arti in un palazzo ch'ei fece erigere dirimpetto alla chiesa degli Eremitani inPadova (intorno al quale allude la medaglia riportata da Tomasini(1),cheacquistatopo sto si utile divisamento,poichè, mentre tutto era disposto per eseguire nel giorno appresso la sezione di due donne, in una delle quali importava esaminare lo sluto dell'utero, e nell'altra, mortaditabe, volevasidainostri precettori scuo prire per dove penetrasse una piaga fistolosa esistente al torace, Campolongo loro emulo propose a'suoi uditori d'intraprendere in quel giorno medesimo l'anatomia dell'ute ro,esiserviper questa deidue suddetticadaveri. Nacque da ciò che i governatori del pio luogo, resi avvertiti dell’ac caduto e mossi dalle querele delle vecchie inferme, le quali temevano, morendo, di dover essere del pari anatomizzate, prescrisserotanto ad’O., quanto al Campolongo, di astenersi dall'incidere verun cadavere nell'ospitale, sotto pena di perdere lo stipendio. In onta però alle tante opposizioni promosse dalla rivalità del Campolongo contro Bottoni e O., perseverarono questituttavianell'utile loro impresa d'istruirenellapratica medicina i giovani, conducendoli al letto dei malati nello spe dale di san Francesco; poichè anche gli atti compilati dal consiglieredella nazione alemanpa Pietro Paolo Höchstetter di Tubinga, ne parlano cosi: A ciascuno di noi è palese con quanta diligenzasi diportasse ilsignor Albertino Bottoni nelle sue quotidiane esercitazioni. Ogni giorno ei ci conduceva al lettodi un nuovo malato, e c'istruiva intorno aldi lui morbo, indagandone dottamente le cagioni, esponendone i segni e le indicazioni curative, non che il prono stico :egli suggeriva inoltre non solo le più opportune medi. cine di comune uso,ma quelle altresi chela sua pratica particolare gli avea comprovate efficacissime; talche vennu ognora più a farsi manifesta la singolare bontà con cui ila più anni questo insigne uomo ci riguarda. Ond'è che,seb. bene le teorie mediche da noi apprese nelle nostrecontrade possano a tutta prima allontanarci in qualche modo dal se guire le sue lezioni, la somma sua felicità nella pratica e T'ottimo suo metodo di medicare serve però a ricondurci in. torno a lui. Marco degli Oddi. Marco degl’Oddi. Oddi. Keywords: implicature: filosofia naturale, Galeno.-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Oddi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Offredi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del lizio – la scuola di Cremona -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Cremona). Filosofo italiano. Cremona, Lombardia. Gli era tributata grande autorità nell’ambiente filosofico. Insegna a Pavia e Piacenza. In buoni rapporti con Eugenio IV, Visconti e Sforza.  Saggi:“De primo et ultimo instanti in defensionem communis opinionis adversus Petrum Mantuanum,” S.l., Bonus Gallus,  Giambattista Fantonetti, Effemeridi delle scienze, compilate da G. netti, Paolo- Molina, Rinascimento, Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, Robolini, Notizie appartenenti alla storia della sua patria, raccolte da G. Robolini, pavese, Fantonetti, Effemeridi delle scienze mediche, compilate da Fantonetti, Molina. OFFREDI CREMONENSIS ABSOLVTISSIMA COMMENTARIA [ocr errors] VNA CVM QVAE STIONIBVS IN PRIMVM ARISTOTELIS Posteriorum Analyticorum librum, Nunc primum mendis oinnibus expurgati, et egregijs  scolijs marginalibus illustrata, AC DVOBVS INDICIBVS, ALTERO, Qy I RES IN COMMENTARIIS  tractatas, altero, qui quastionum capita copiosissime comple&titur, PRAETERE A DVPLICI TEXTVS ARIST. INTERPRETATIONE  AVCTA IN LVCM RE DEVNT A PRAECLARISS. DOCTORIS Hoc aut contingit propter posibilitatem intellectus D  APOLLINARIS CREMONE N. noftri, qui à principio est sicut tabula rasa, & non. 3. de anima tex. in librum primum Posteriorum mouetur ad intelligendum, nisi de potentia ad actí cap.is. reducatur sic autem intelligentia non cognoscunt, Aristotelis, exposition cum semper in actu intelligendi existant, & eodem modo et nunquam in potentia. Bruta etiam non  Mnis doctrina, et discurrunt saltem discursu pfe&to, quamuis in prin-  omnis disciplina incipiosint in potentia ad cognoscendum, & hoc est  telleştiua, ex præpropter imperfectum eorum modum cognoscendi;  existenti fit cogni- Concedi tamen potest, q aliquo modo, et impertione. Manifestum feétè discurrunt. Ex quo infertur, g per idem medium euidenter concludere habemus, nostrum mia est autem hoc specu dum cognoscendi imperfectiorem esse modo intelitia látibus in omnibus; gentiarī, et perfectiorem modo brutorum, per hoc. f. mathematicæ enim scientiæ per hunc cum difcurfu cognoscimus, qualiter neq; intelli-  modum fiunt, & aliarum unaquæq; argentia, neq; bruta cognoscunt. Cũigitur intellectui  tium. Similiter aút & orationes,quæ p nostro sit potentia semper admixta, et cūdiscursu syllogismum, et quæ per inductionem; scientiā acquirat, in discursu autem error, et recti-  utræq; enim per prius nota faciunt do tudo esse poffit, vbi etiam est admixta potentia, malum, ö error cötingere poffit, vt colligitur de mente e &rinam; hæ quidem accipientes,tanğà Arift.g meta. cum dicit, q malum   naturaliter eft tex.6. 19 B  notis, illä uerò demonstrātes uniuersale poft potentiā, & vlterius dicit, g in rebus æternis, perid, quod est manifestum singulare que  semper sunt actu, non est malum, neque error, Similiter aút, et rhetoricæ persuadent: oportuit artem inuenire,qua in a&tibus rationis di-  aut enim per exemplum, et est Inductio: rigeretur humanus intellectus in acquirêdo notitia  aut per enthimema, quod quidem est vnius, ex notitia alterius, et hæc fuit Ars Logicæ. Cum autem triplex sit intellctus operatio, quarum syllogismus secunda primam fupponit, et tertia secundā vt colli Mnis doctrina,omnisý disciplina gitur 3. de anima (Prima est simpliciü intelle&tio, Tex. c.at. Secunda est simplicium compositio, vel divisio. Tertia intellettina preexistente è co- est cognitio discursive His tribus operationibus sed priores dus gnitione fit. Id, fi omnes que tres correspondent logicæ partes, quarum prima magis conuenite fiant pacto consideremus,mani- habetur in lib. prædicamentorum Arist. G admi- Lui, quatenus in feftum profeito fiet. Mathematica nang; niculis ipsius scilicet lib. vniuersalium Porphiri, tellcdwet. fcientiæ illo comparantur modo, caterarú ý lib. sex principiorum , obi logicè determinatur artium vnaquaque. Sanè circa orationes de generibus, &  speciebus predicamentorum , prout quoque, fiueille p raciocinationes fiue per cunda est, quæ habetur in lib. Peryhermenias, vbi de cognitione quadam simplici cognosci habent, sem inductioncm fiunt, feruari modusidem fo- propositione determinatur, et speciebus ipfius tàną let: in utrisq; nanque, per antea nota doctri de inftrumento aliquid compositiuè, vel divisiuè co-  C F  na nimirum fit, quippe cum in altera tanğ gnoscendi. Tertia verò in alys Logicelibris conti-  à cognofcétibus propofitiones accipiantur, netur, qui cõmuniter Ars Noua dicuntur, vbi de  in altera per singulare iam notüipfum vni. instrumento determinatur, quo discurrere debet in  versale oftendatur. Simili profe&to modo, telle&tus,o3. de syllogismo, es consequenter de alijs modis arguendi. Diuiditur autem tota illa pars hoc Goratoria rationes fuadent, aut .n.exem  modo , quia ficut in a&tionibus Nature diuersitas plis,quod est inductio,aut enthymematibus reperitur, quxdam .n. funt, qua ex neceffitate fiunt, g&quidē ratiocinatio est, facultas ipsafolet quædam vi plurimum, quedam vero raro (propter oratoria fuadere. defe&tum aliquem in natura,ficut monftra ) sicin   discursibus rationis quidam sunt, in quibus est nePro inductione expositionis huius libri Poftecefsitas, & ifti cum rectitudine rationis habentur. riorum , fub brevitate, videnda funt quædam, v3. Ală sunt , per quos vt plurimum verum concludiqua fuerit necessitas, logicam inueniendi, et confetur, non tamen necessariò. Alij verò funt, in quiquenter fcienciam huius libri, Quis ordo huius libribus eft defectus rationis propter alicuius principi ad cæteros libros logica del LIZIO. Quis libri titulus,et defecttum. Pars logice, in qua de primis determiquid subiectum et sic consequenter habebuntur ipsius natur, iudicatiua dicitur, et est illa, quæ traditur in Non pigeat hoc cause. Quantum ad primum fciendum est primò, q libris Priorum et Pofteriorī, dita autem' est iudiloco videre Aszi cum modus nofter cognoscendi sit medius inter mon catiua à iudicio, eo q iudicium est cum certitudine. dum intelligentiarī, er modum brutoră, ab vtrifq; Vocata etiam est analetica .i. refolutoria, co gisa  diftinguitur in hoc, g intelligimus cum discursie. dicium certum de effectibus baberi nö poffit, nisifiat. Con quelle stravaganze ed empietà iusegnavasi cercare col commercio de'demonj, colle magie e le incantagioni i rimedj delle malattie, e le maniere di preservarsene. Meritavano maggior illustrazione e lode altri insignim e dici cremonesi di questo secolo. O. solenne filosofo, astrologo e medico, LETTORE DI METAFISICA – come Gilbert Ryle! -- lettore di metafisica nello studio di Pavia e di Piacenza, caro ed accetto ad Eugenio IV, Filippo Maria Visconti eFrancescoSforza. A Filippo Maria protettor suo dedica O. i suoi Commentarj di Aristotile sull'anima, stampati poi in Milano, sui quali piacemi di trascrivere il giudizio che ne fece l'illustre mio concittadino ed amico Poli. Con quest'opera, dic'egli, pre venne O. in alcuni principii sull'origine delle idee lo stesso Locke, ecome quegli che appartenendo a quell'onorata famiglia de'filosofi peripatetici italiani, che al melodo naturale e sperimentale aggiunsero quello della critica e delle proprie dottrine aveva proposto nuove ricerche superiori al suo secolo, e di cui van tanto gloriose le scuole moderne. I n p rova di che il prof. Poli ne'suoi saggi, e nella sua storia della filosofia ita liana riferisce alcune proposizioni filosofiche dell'Offredi tratte dalle opere sull'esposizione e sulle questioni de’libri d'Aristotele de anima (che ebbero poi tante edizioni), dalle quali scorgesi come l'Offredi svincolasse la filosofia dall'impero dell'autorità, e la posasse sul sentiero della libera e coscienziosa verità. Quanto alla medicina Apollinare e celebrato per cure maravigliose fra i migliori medici del suo tempo, e pubblicava al cune opere, di cui puoi vedere i titoli nell'Arisi. Il  312   Elogia clariss. virorum Collegii Pisan.1750 negliopuscoliscientificidelCalogerà). Secondo Volaterrado e Spacchio non scrive quest'Offredi opera alcuna. Ma Ficino ne fa onorevole menzione in una sua lettera del lib. V, ove dice che dalla salvezza dell'Offredi dipende quella della filosofia de' suoi tempi. Non ricordato pure da'vostri sto rici e biografi trovo Baccilerio Tiberio che è solo a c cennato nella Biografia medica di Parigi, da cui apprendesi ch'egli fu professore di medicina a Bologna, Ferrara, Padova e Pavia, e muore in Roma. Scrive un saggio intitolato Commentarii sulla filosofia di Aristotele e di Averroe, che non sembra es sere giammai stato impresso. Poche cose i nostri biografi ci tramandarono di Albertino de Cattanei o de Chizzoli o Plizzoli da non confondersi coll'altro Albertino di S. Pietro. Il Cattanei la dottissinio in varie scienze, dottrine e lettere, e professore straordinario di filosofia, fisica, etica e teologia prima a P a dova indi a Bologna, poi difilosofia morale e di medicina nello studio di Ferrara e di Pisa collo stipendio di 495 fiorini d'oro (Alidosi, Borsetti Storia del ginnasio di Bologna e di Ferrara. Fabbrucci, op.cit., in Calogera). Ficino lo chiama doctrinæ et honestatis exemplar; e lascia alcune opera accennate dall'Arisi. BOEZIO, Hugues de St Victor, Alberto il Grande di Bollstädt e Alberto di Sassonia, AQUINO, Egidio Colonna, Guglielmo d'Alvernia, Enrico di Gand, Henricus de Gandano, Roberto Vescovo di Lincoln detto Testa Grossa, il francese Gianduno o da Jandun contemporaneo e amico di Marsilio da Padova e di Pietro d'Abano. Giovanni Duns Scoto e Antonio d'Andrea, Antonius Andreae Scotista, il Burleusossia Burleigh, Pietro d'Abano ossia Concilialor differentiarum, Buridano, Vio, Gregorio di Rimini (Gregorius Ariminiensis generale degli Agostiniani nominalisti), Jacopo da Forlì e Gentile dei Gentili discepolo di Taddeo fiorentino filosofi e medici del medesimo secolo; knalmente Pietro da Mantova logico, PaoloVeneto filosofo, Apollinare Offredi --filosofo e Pietro Trapolino da Padova uno dei maestri di Pomponazzi autore di un'opera De Ilumido Radicali, tutti del 15.0 secolo. Il Nifo e l'Achillini sono citati nelle Questioni aggiunte. Di Marliano milanese detto il Calcolatore fanno menzione anche i suoi libri anteriorie stampati especie quello Deintensione el remissione formarum. La maggior parte di questi Commentatori sono noti e annoverati sia nelle storie della Filosofia e della Letteratura, sia nelle Biografie universali, e nelle Enciclopedie. Pietro d'Abano è uno dei più citati e studiati dal Pomponazzi;è famoso e una sua accurata biografiafral'altresitrova nella Storia scientifica o letteraria dello Studio di Padova del Colle.Sopra Jacopo da Forlì che fu professore a Padova è da notarsi al proposito di questo lavoro che egli è autore di un De Intensionc  339  titolo più particolare che sta in testa alla prima pagina dopo l'indice delle Questioni si rileva che esso pure si riferisce ai corsi dati dal Pomponazzi sul De Anima a Bologna. Difatti il detto titolo è il seguente: “In nomine individuae Trinitatis incipiunt quaestiones animasticae excellentissimi artium et medicinae doctoris, domini Magistri Petri Pomponatii Mantuani philosophiam ordinariam in bononiensi Gymnasio legentis. Sventuratamente il Codice di Firenze non ha che 57 fogli invece di 267 che ne ha quello di Roma, e delle 79 Questioni di cui contiene l'indice, 34 soltanto e non senza lacune vi sono trattate; queste corrispondono generalmente per l'ordine in cui si ccedono, alle prime del Codice di Roma, ma non sempre e talvolta con parole diverse. Le Questioni del Codice di Roma sono 114 ed esauriscono tutto il trattato del LIZIO, quelle del Codice di Firenze non vanno guari al di là della metà dello scritto aristotelico e nelle 34 che sono esaminate e risolute non sono comprese le più importanti dell'Indice come sarebbe quella della Immortalità dell'anima,soggetto del libro famoso che porta questo titolo. Da un opuscolo del Brunacci è accertato che a Padova ilPomponazzi comincið et Remissione Formarum, come il Pom ponazzi,manoscritto registrato dal Tommasini nelle sue Bibliothecae Palavinae manuscriptae publicae el privatae, Utin, L'Apollinare, Pietro da Mantova e Paolo Veneto sano più d'una volta dal Pomponazzi citati insieme; e di fatto sono tutti e tre in parte della loro vita contemporanei. Paolo Veneto ha fiorito nella prima metà del secolo XV ed è stato professore a Padova; la sua Somma di Logica e isuoi Commenti supra l'Organo sulla Fisica di Aristotele e specialmente sul De Anima furono celebri e c m mendatissimi. Di esso parlano il Tiraboschi e il Papadopoli (Storia dell'Università di Padova) e Poli nel Supplemento IV al Manuale della storia della Filosofia del Tennemann. L'Apollinare e della famiglia Offredi o degli Orfidii da Cremona (Vedi Francesco Arisi, Cremona literata, Parma e Tiraboschi, Storia della Letteratura italiana); fiori verso la netàdel!V°secolo; ebbe fama grandissima e fu chiamato l'anima di Aristotele. Risulta dal De Anima del Pomponazzi a Carte che su discepolo di Paolo Veneto « Paulus Venetus et Apollinaris ejus discipulus ». E difensore della filosofia cristiana contro l'Averroismo; insegna a Piacenza evi e aggregato al Collegio medico. Il suo Commento al “De Anima” del LIZIO esiste manoscritto nella Biblioteca palatina di Firenze. Esso e stampato più volte. La prima edizione è di Milano  (Vedi il Tiraboschi e il Sassi, Storia della Tipografia milanese). In un volume stampato a Venezia, esistente nella Biblioteca Alessandrina di Roma, da Locatell,  si trovano la Logica di Pietro da Mantova; il trattatello di questo professore sul primo e l'ultimo istante (“De primo et ultimo instante”) citato da Pomponazzi nel suo “De Anima”;  un trattato responsivo di O. Apollinare da Cremona al Mantovano in difesa della opinione comune; un commento di Menghi alla Logica di maestro Paolo Veneto. NICOLETTI. Le due opere del Mantovano portano questi titoli: Viiri præclarissimi ac subtilissimi logicim a incipit feliciter. Incipil sublilissimus tractatus ejusdem deinslanli. Il trattato d’O. ha per titolo “Illustris philosophi et medici  O. Cromonensis de primo et ultimo instanti in defensionem communis opinionis adversus Petrum Mantuanum seliciler incipil. Ecco il principio di quello del Mantovano che Pompovazzi cita colle parole Petrus de Mantua o Mantuanus concivis meus: Incip il sublilissimus Tractatus ejusdem (Magistri Petri Mantuani) de instanti. Dicemus primo naturaliter loquentes, quod sola forma secundum se el quam libel sui proprietatem potest incipere el desinere esse. Materia enim prima est ingenita el incorrutlibilis: el non plus esl,  -sul “De Anima” un corso che non puo finire. Forse ad esso si riferiva il manoscritto che Tommasini (Bibliothecae Patavinae publicae et privatae) dice di aver veduto nella libreria privata del Rodio. Quanto a quello di Firevze, il titolo ci avverte, come abbiam detto, che esso deriva come quello di Roma dall'insegnamento psicologico del Pomponazzi a Bologna.Si troverà nell'Appendice l'indice delle questioni che vi sono registrate. È certo in ogni modo che il manoscritto di Roma è il Commento intero di Pomponazzi sul De Anima del LIZIO, e ciò che più monta e risulta dalla data apposta alla fine del medesimo, è l'opera della sua età matura, l'espressione più completa del suo insegnamento più importante, il corso da lui dato o compiuto sul “De Anima”, nel tempo che segna l'apice della sua attività, in quel tempo in cui egli stesso datava dalla Cappella di S. Barbaziano in Bologna il De Naturalium Effectuum Causis, e ilvelerit de materia prima in rerum natura quam nunc sil, velminus. Secundum tamen verilalem, cioè la fede, malaria ali quando desinil esse ulinc onsccralione, plusaulem velminusali quando est de forma tam subslunliali quam accidentali. Sed hoc proposilum non destruil. Er quo sequilur quod si aliquod ens nalurale incipil vel desinil esse, ipsum incipil vel desinit esse propter cjus formam substanlialem quae incipit vel desinit esse. Premessa la eternità della materia, tutto il trattato si aggira sulle difficoltà e le antinomie che possono sorgere dalla applicazione delle categorie del moto e della quantità alla generazione e alla cessazione delle forme nella materia, e specialmente dalla relazione della materia con la forma nei virenti. La qualità delle argomentazioni giustifica la parola sublilissimus aggiunta al titolo del trattato e ricorda i ragionamenti della scuola Eleatica di VELIA -- e specialmente di Zenone sul moto. Il saggio è uno dei più curiosi esempii dell'ardire pur troppo sterile quanto ai risultati obbiettivi, ma non infecondo quanto alla ginnastica della mente, con cui la Dialettica del Medio Evo e della Rinascenza si accinse alla soluzione dei problemi più difficili. Nel manoscritto di Firenze sopracitato come anche in quello che qui facciamo conoscere Pietro Mantovano è spesso designato colle iniziali P. M. Fiorentino è rimasto dubbioso se queste let tere indicassero Pietro Manna cremonese, che Pomponazzi nell'Apologia chiama viracerrimi in genii gravissimique judicii. Essendo Manna cremonese, è chiaro che  Pomponazzi non puo chiamarlo concivis meus. Di Pietro Trapolino, il più celebre dei due Trapolini che Pomponazzi ha per maestri, ecco ciò che dice Papadopoli nella sua storia dell'università di Padova. Pietro Trapolino Patavii natus patricia genle  PHILOSOPHVS, malhemalicus el medicus celeberrimus, Medicinam in Gymnasio palrio professusesl ut constatex Albis gymnasticis. Vixilannos LVIII; vivere desiitan. MDIX caipsadiequa caplum direplumque Patavium estab exercilu Maximiliani, in eaquererum catastrophe quæmulla conscripseralperiere. Superesiquem juvenis ediderat liber de Ilumido radicali. Di Trapolino suo precettore in medicina Pomponazzi parla nella12a delle sue Du Vilazioni sopra il4o dei Meteorologici del LIZIO adducendo le difficoltà che egli scolaro gli opponera su certe cause della mutazione delle forme nei misti. Ivi l'autore avvicina Trapolino a Gentili, a Forlì e a Marsilio di Santa Sofia altri rinomati professori di Padova. Di Roccabonella che e pure suo maestro è menzione alla fine del De Falo. Finalmente di Francesco di Neritone altro suo professore oltre al cenno che ne fa. Grice: “Italians are rightly obsessed with Pomponazzi. They complained he looked more ‘a Jew than an Italian,’ but he predates Ryle’s Concept of Mind. One of his influences is Offredi, a lizii – who wrote not just on Aristotle’s De Anima (a manuscript Pomponazzi consulted) but who himself set to defend Pomponazzi – to prove that he was a real lizio, he wrote on Analytica Posteriora too – “Only a true lizio will comment on that!” -- Offredi. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Offredi,” The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Olgiati: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dei classici – la scuola di Busto Arsizio -- filosofia lombarda -- filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Busto Arsizio). Filosofo italiano. Busto Arsizio, Varese, Lombardia. Grice: “I’m impressed that Olgiati dedicated a whole tract to the idea of ‘soul’ in Aquino!” Si forma presso Seminari milanesi. Collabora con Gemelli e Necchi alla Rivista di filosofia neo-scolastica e fonda con loro il periodico Vita e Pensiero. Insignito da Pio XI del titolo di Cameriere Segreto e da Pio XII di Proto-notario Apostolico. Inoltre assieme ad Gemelli, uno dei fondatori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Presso tale ateneo insegnò nelle facoltà di Lettere, di Magistero e di Giurisprudenza. Condirettore della Rivista del Clero Italiano insieme a Gemelli. Autore di saggi relativi sulla religione e l’istruzione. I suoi allievi più illustri sono Melchiorre e Reale. Tomba di Gemelli mons. O.. Il libro Le lettere di Berlicche, scritto da Lewis, oltre ad essere dedicato a Tolkien, è dedicato anche a O.. Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell'artenastrino per uniforme ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte — Università Cattolica del Sacro CuoreLa storia: Le origini, su uni cattolica. Saggi: “Religione e vita” (Vita, Milano); “Schemi di conferenze” (Vita, Milano); “I fondamenti della filosofia classica” (Vita, Milano); “Il sillabario della Teologia” (Vita, Milano); “Il concetto di giuridicità in AQUINO” (Vita, Milano); “Marx” (Vita, Milano); Il sillabario della morale Cristiana” (Vita, Milano); “Il sillabario del Cristianesimo, Vita, Milano) b I nuovi soci onorari della Famiglia Bustocca. Almanacco della Famiglia Bustocca per l'anno 1956, Busto Arsizio, La Famiglia Bustocca, Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia. Withdrawn from Crerar Library       The Library    “SCHOOL OF THEOLOGY    AT CLAREMONT    WEST FOOTHILL AT COLLEGE AVENUE  CLAREMONT, CALIFORNIA          E.          2430    0 > | |  ES FRANCESCO OLGIATI    la. Filosofia —-  a Enrico Bergson       TORINO  FRATELLI BOCCA, EbITORI    1914    pS og    4    E    >  —= E  Z á  (0 a  2) =S 3  JE 4  lí E  | S  E a    AT O       AD AGOSTINO GEMELLI    CON AMMIRAZIONE  E CON AFFETTO    nel.  «ficie  tico;  de:  de;    a          PREFAZIONE    Forse nessun filosofo, durante la sua vita, riscosse  un plauso cosi intenso e suscitó tanto entusiasmo,  come Henri Bergson.   1 difensori stessi di altre tendenze filosofiche, pur  dissentendo da lui, lo. ammirano e lo coronano di  rose. William James lo salutó il nuovo Platone. e  disse che le pagine dei suoi scritti schiudevano nuovi  orizzonti dinnanzi ai suoi occhi: esse gli sembravano  simili all'aria pura del mattino ed al canto d'un. uc-  cello (1). Benedetto Croce gli riconosce il merito  grande di aver rotto le tradizioni dell'intellettualismo  e dell'astrattismo del suo paese, dando per la prima  volta alla Francia quella viva coscienza dell'intuizione,  che sempre le e mancata, e scotendo la fiducia ec-  cessiva, che essa aveva, nelle nette distinzioni, nei  concetti ben contornati, nelle classi, nelle formole,  nei raziocinii filanti diritto, ma scorrenti sulla super-  -.ficie della realtá (2). Il Balfour conclude: un suo ar-  ticolo, assicurando che' chi si trova poco soddisfatto  dei sistemi idealistici e che non puó accettare il credo  del naturalismo, si rivolgerá sempre con interesse e  con ammirazione a questo esperimento brillante di  costruzione filosofica (3). 1! Windelband in Germania    (1) WILLIAM JAMES, A pluralistic universe, Longmanns,  pag. 265.   (2) B. CROCE, Logica, Laterza, Ed. 2:, pag. 387.   (3) BALFOUR, Cre-.tive evolution and philos. doubt, in The  Hrbbert journal, ottobre I9gII, PAg. 23.       VII Prefazione       considera Bergson come la personalita piú originale  e pia importante della filosofia francese contempo-  ranea (1).   Anche se queste lodi fossero esagerate, e certo che  da molti anni nessun pensatore ha esercitato in Francia  un efficacia cosi forte come Bergson (2). Non solo  egli ha sotto la sua influenza il corpo filosofico inse-  gnante del suo paese, che col Gillouin lo stima il  solo filosofo di primo ordine che abbia avuto la Fran-  cia dopo Descartes e 1'Europa dopo Kant; ma « da lui  discendono anche ¡i teorici piú moderni delle correnti  pia vivaci francesi » (3). 11 Le Roy, nel suo Comment  se pose le probléme de Dieu, crede di poter distrug-  gere con le teorie bergsoniane le antiche prove tradi-  zionali e di poter additare una via nuova per ascendere  alla conoscenza di Dio (4); e nel Dogme et critique  si e sforzato di ripensare i dogmi cattolici in funzione  di quelle dottrine. 11 Sorel, dalle sue Reflexions sur  la violence ai suoi ultimi articoli, vuol giustificare il  movimento sindacalista con le idee dell” Evolution  Créatrice, libro che egli non esita a paragonare alla    (1) WINDELBAND, LZehrbuch der Geschichte der Philosophte,  trad. ital, Sandron, vol. II, pag. 361.   (2) É una giusta osservazione dello SCHOEN, 2. Bergsons phi-  losophische Anschauungen, in Zeitschrift fúr Philos. und pihlos.  Kritik, Band 145, Heft 1, pag. 42.   (3) H. BERGSON, choix de textes avec étude du syst. philos.  par RÉNÉ GILLOUIN, pag. 8. Del Gillouin si vegga pure il recente  volume: La philosophie de M. H. Bergson, Grasset, pag. 4 €  187. Anche il Keyserling in Germania considera Bergson come la  mente filosofica piú originale dopo Kant. — Cfr. anche GIUSEPPE  PREZZOLIN], La teoria sindacalista, ultimo capo: La filosofía dí  E. Bergson, pag. 284. Fra gli studi critici, apparsi in Italia e al-  estero, € uno dei piú notevoli.   (4) In Revue de Métaphysique el de Morale, marzo eluglio 1907.       Prefazione NX       Critica della Ragion pura (1). A Bergson si ispirano   _i simbolisti ed il Claudel. 1 pragmatisti trovano nelle  sue opere nuovi argomenti in loro favore. Nell'intui-  -zione i mistici scorgono un primo passo verso la loro  esperienza tacita, intima, ineffabile. 1 protestanti li-  berali abbracciano con gioia le nuove idee, e solo  pochi mesi or sono, in una riunione degli Unitari a  Londra, il pastore Jacks diceva che esse portano alla  religione un soffio nuovo di vita (2). Persino gli Ebrei  tentano di utilizzare le conclusioni di Bergson (3).  11 quale, come tutti sanno, da alcuni anni e il trionfa-  tore dei congressi filosofici. Molte riviste, tra cui il  Logos e 1'Hibbert journal, si onorano di poterlo ¡iscri-  vere tra i loro collaboratori, e non ce periodico in  Europa che non abbia esaminato i suoi volumi, oramai  tradotti in tutte le lingue. In una parola, la filosofia  bergsoniana, per quanto abbia soltanto venti anni di  vita, e davvero una filosofia alla moda (4).    (1) Cfr. SOREL, Considerazioni sulla violenza, Laterza, rgro;  ed in MMouvement Socialiste, 1907, pag. 257 + in Revue de Métaph.  et de Mor., gennaio rgrr, nell'articolo : Vues sur les problemes  de la philosophie. Quanto alle relazioni tra sindacalismo e berg-  sonismo, si vegga PREZZOLINI: op. cit. capo III ed un articolo  dello stesso autore nel Bollettino Bibliografico Filosof. di Fi-  renze, Gennaio 1909: 7.e grandi idee sindacaliste e la filosofía  di E. Bergson; BOUGLÉ- Sindacalistes et Bergsoniens in La  Revue, 10 Aprile 1909, GOLDSTEIN : 27. Bergson und Sozialwis  senschajt in Archiv. fúr Sozialwissenschfat, XXXI, I, 1910.   (2) Cfr. COENOBIUM, 3x1 gennaio 1913, Pag. 14576.   (3) Cfr. : Dr. JGNAZ ZIEGLER, Religion und Wissenschaft,  Kaufmann, 1913.   (4) Cosi la definisce ADRIANO TILGHER in un importante ar-  ticolo : Zo, liberta, moralita, nella filosofía di E, Bergson, in Cul-  tura, 15 novembre e 1 dicembre 1902. Anche in Inghilterta il berg-  sonismo, che sino a pochi anni fa era quasi sconosciuto, ottiene  ora un successo crescente. Prova ne siano i numerosi volumi e  studii di riviste dedicati al Bergson e le conferenze di questi a  Oxford, a Birmingham, a Londra. Gli inglesi perd.qualche volta,       do Na Prefazione '    E ció che piú ancora sorprende, osserva un neo-  scolastico francese, e che la sua riputazione oltre-  passa il cerchio degli iniziati, per raggiungere il grande  pubblico. Per farsene un'idea, e necessario assistere  ad uno dei suoi. corsi al Collége de France, ove si  ha limpressione di assistere ad una premitre: gli  automobili aspettano alla porta, i servitori in livrea  conservano i posti che saranno occupati dalle grandi  dame; e quando il maestro appare, si sente che egli  affascina il suo uditorio. Gia Bergson entusiasmava  i suoi studenti di filosofia del collegio Rollin e del  liceo Henri IV. Agli esami del baccalauerato, della  licenza, dell'aggregazione, tutte le dissertazioni si  ispiravano dlle sue idee. E come ciascun anno i grandi  sarti danno la medesima silhouette a tutte le signore,  cosi l'autore dell'Essai sur les données immédiates  dava a tutti i candidati la medesima fisionomia filo-  sofica gia fin dal 1895 (1). Cogli anni l'entusiasmo  é andato crescendo. Nel 1912, narra il Grivet, ogni  venerdi la vasta sala del College de Framce comin-  clava a riempirsi un”ora prima dell'apertura della le-  zione; sui banchi gli ultimi posti erano presi d'as-  salto; poi si entrava per pressione o meglio per com-  pressione. Come ai giorni piú belli della filosofia,  le persone si battevano, per poter udire colui che i  giovani hanno soprannominato  « l'allodola »,  colpiti  da non so quale rassomiglianza tra questo filosofo e    nellPinterpretare Bergson, gli hanno attribuite teorie tutte. op-  poste a quelle da lui difese. Cf. ad es. la risposta . di Bergson  ad un articolo del Pitkin nel The journal of phylosophy, psycolog y  and scientific methods, 7 luglio 1910, pag. 385-388, sul quale ritor-  neró in seguito,   (1) Cfr. Rivista di filosofía neoscolastica; Il successo dí Bergson    (a. IIl, n.6, pag. 615). Cfr. anche RAGE OT: 4. Bergson nel Temps,  2 luglio rgrr.          Prefazione XI       Uuccello, che sotto il cielo azzurro vola cosi alto. e  canta cosi bene (1).   Si spieghi come si vuole questo fenomeno. Si dica  che la causa deve essere attribuita alla magia di uno  stile, che, specialmente nella finezza delle  analisi  psicologiche, sa evocare l'inesprimibile (2); se ne  cerchi pure la ragione nell'ampiezza della documen-  tazione scientifica o nell'artistica genialita di simili-  tudini superbe e di immagjni seducenti; se ne  assegni il motivo nel bisogno, intensamente sentito  dalla generazione presente, di una reazione all'intel-  lettualismo ed al positivismo: e un fatto peró che  questo pensatore puóo vantarsi di esercitare su molti  spiriti contemporanei un fascino immenso.    *  *    NM successo di Bergson e tale, che alcuni asseri-  scono che con lui si inaugura un nuovo periodo filo-  sofico. « La sua opera, scrive il Le Roy, sará riguar-  -data dall'avvenire come una delle piú caratteristiche,  dele pin feconde, delle piú gloriose della nostra    (1) Cfr.: J. GRIVET: MZ. Bergson : esquisse philosophique in  Etudes, s ottobre 1909 e La théorie de la personne d'aprés Bergson  nella stessa rivista, 20 nov. 1grr. Anche nella parte espositiva  del pensiero bergsoniano, quest'ultimo articolo del P. Grivet mi  ha giovato molto, poiché contiene un sunto delle lezioni tenute  dal Bergson nellanno scolastico 1911-1912 sulla teoria della per-  sona.   (2) Cfr. : GUSTAVE BELOT: Un nouveau spiritualisme, in  Revue philosophigue 1897, 19 Semestre, pag. 183. Anche il JOUS-  SAIN nella stessa rivista paragond l'opera del Bergson ad una  sinfonia severa : cfr. L'¿dée de l'Inconscient et 'intuition de la vie,  in Revue phtlos., maggio 1911.    XIHI Prefazione    epoca. Essa segna una data che la storia non dimen-  ticherá piú; apre una fase del pensiero metafisico;  pone un principio di sviluppo, di cui non si saprebbe  assegnare il limite; ed e dopo fredda riflessione, con  piena coscienza del giusto valore delle parole, che  si puó dichiarare che la rivoluzione, da essa operata,  eguaglia in importanza la rivoluzione kantiana ed  anche la rivoluzione socratica » (1).   Certo, si e esagerato dicendo che, se il metodo  bergsoniano fosse vero, la storia della filosofia non  comprenderebbe che due capitoli: prima e dopo  Bergson, e che il primo capitolo, che abbraccia 25  secoli, non sarebbe che la narrazione di un errore e  di un pregiudizio tenace (2). Bergson infatti, nella  sua Introduction á la Métaphysique (3) e nel suo  discorso al Congresso di Bologna (4), si + degnato  di ammettere che nei sisterni dei grandi maestri c'e  sempre qualcosa di semplice e di netto, come un  colpo di sonda, che e andato a toccare pin o meno  in gia il fondo di uno stesso oceano, portando ogni  volta alla superficie un'intuizione vera, intorno alla    quale si e poi organizzato il sistema. Ma anche evi-    (1) LE ROY, Une philosophie nouvelle: H.Bergson, Alcan, 1912,  pag. 3. In questo volumetto il Le Roy raccolse due articoli ap-  parsi dapprima nella Revue des deux mondes, 1 e 15 febbraio  1gr2 e vi aggiunse parecchie appendici. Il secondo articolo fi-  nisce cosi: « Con Bergson nella storia del pensiero umano qualche  cosa di nuovo comincia ».   (2) MENTRÉ, La tradition philosophique in Revue de philo-  sophte, gennaio 1g1r, pag. 69-77.   (3, ln Revue de Métaph. et de morale, gennaio 1903. Di questo  importantissimo articolo del Bergson c'é una bella traduzione  italiana del Papini, dal titolo: La flosoña dell'intuizione, Lan-  ciano, Carabba, Ig1r.   (4) IL discorso, che spesso citerd, e stato pubblicato dalla  Revue de Métaphys. et de Mor., novembre 1911, col titolo : 7m-  tuition philosophique.       Prefazione XIII    tando l'esagerazione del Mentré, e indubitabile che  l'intuizionismo bergsoniano e un tentativo di riforma  del modo di filosofare. Lo nota a ragione il Papini,  il quale, appunto per questo e indignato contro la  cicalesca plebaglia filosofica, che frinisce sempre nello  stesso metro, guarda il Bergson come un pensatore  interessante, riassume alla meglio i suoi libri, si  scandalizza un po” della sua abitudine di scriver bene  e con calore, ma poi non pensa neppure o a distrug-  gerlo tutto senza misericordia, oppure ad accettare  il suo metodo, a migliorarlo, ad applicarlo (1). Ed  il Papini ed i bergsoniani vogliono che tutti noi  rinunciamo una buona volta agli antichi sisternmi morti  dell'analisi concettuale, per immergerci nel flutto del  reale, per tuffarci nel fiume dell'intuizione.    *  Xx    Fra questo delirio frenetico di. ammiratori, fra tanti  inni di lode, non tardarono a farsi udire le critiche  implacabili, i giudizii severi ed anche le ingiurie pla-  teali.   Il nuovo Platone venne chiamato dai Le Dantec,  dagli Elliot, dai Lankester, da tutti insomma i mec-  canicisti, un « jongleur », un « faux monnayeur » e  le sue teorie vennero ritenute come « aberrazioni e  mostruositáa dello spirito umano » (2). 11 Dusmenil  osserva che «quasi non si puó pia ascoltarlo, senza    (1) Cfr. Pintroduzione del Papini alla traduz. dell'artic. cit.,  pag. 3.   (2) Vedi: LE DANTEC, Reflexions d'un Philistin in Grande  Revue, 10 luglio 1910. — H. S. R. ELLIOT, Moderne science  and the illusions of prof. Bergson with preface by Sir R. Lanke-  ster, Longmanns, 1912.    XIV Prefazione    pensare continuamente: nego» (1). IM. Renda ha gia  proclamato il fallimento di questa filosofia (2). In  Italia poi il De Ruggiero vi ha sentito un gran senso  di vuoto in mezzo alla pid smagliante ricchezza (3).  Ed ¡io potrei continuare a lungo nell'enumerazione di  queste sentenze inesorabili, se, pur avendo coscen-  ziosamente letto e meditato la maggior parte dei  principali lavori critici, pubblicati in questi ultimi  anni intorno al filosofo francese, non credessi me-  glio di attendere nella seconda parte di questo volu-  me ad esporre ció che in essi ho trovato di meglio.   Qui basterá notare che gli studiosi cattolici, e. so-  pratutto i neoscolastici francesi, sempre si opposero  con le loro riviste e coi loro libri al pensiero di Berg-  son. Nel settembre dello scorso anno, in una lettera  ad Albert Farges, che aveva scritto un'opera contro  Bergson, il Card. Merry Del Val, a nome del Ponte-  fice, si congratulava con lui, perche aveva combattuto  « le false teorie di questa nuova filosofia, la quale  vorrebbe scuotere i grandi principii, le veritá acquisite  della filosofia tradizionale » ed in tal modo aveva pro-  curato di preservare gli animi da un veleno « tanto piú  funesto e dannoso, quanto pia e velato, sottile e se-  ducente ». Anche prima peró di questa condanna, i  neoscolastici francesi furono spiccatamente antiberg-  soniani. Nononstante che il Le Roy sognasse un ab-  braccio della fede cattolica col bergsonismo (4); che    (1) GEORGES DUSMENIL, La sophistique contemporaine,  Beauchesne 1913, Pag. 44.   (2) J. RENDA, Le Bergsonisme ou une philosophie de la mobi-  lité, Mercure de France, rgr2.   (3) DE RUGGIERO, La fñlosofia contemporanea, pag. 447. Il  giudizio del giovane neohegeliano € molto diffuso in Italia tra  studiosi di diverse tendenze.    (4) LE ROY, opere citate.    Prefazione XV    M. Coignet ed altri vedessero in questo la riconci-  liazione della religione e della scienza in uno spiri-  tualismo nuovo (1); che il Segond tentasse di mo-  strare che le nuove teorie non negano la trascen-  denza divina (3); nonostante che la stessa lettera  dell'Eminentissimo Segretario di Stato avesse solle-  vato le sorprese del Temps, che in tono di ramma-  rico ricordava le benemerenze del Bergson verso  Vapologetica cristiana; gli scrittori nostri non vollero   bruciare nessun granello d'incenso all'idolo del giorno  e furono concordi nel riconoscere che questa dottrina '  e fuori della corrente della filosofia cristiana, e lon-  tana dalla tesi spiritualista e conduce inesorabilmente  ad un panteismo ateo (3).   Da queste accuse cerco di scolparsi lo stesso  Bergson. In una lettera diretta al P. De Tonquédec,  egli scriveva: « Le considerazioni esposte nel mio  Essai sur les données immédiates mettono in luce il  fatto della liberta; quelle di Matiére et Mémoire fanno  toccare con mano la realtá dello spirito: quelle del-    (1) MAD. C. COIGNET, De Kant a Bergson, réconciliation  de la religion et de la science dans un spiritualisme nouveau,  Alcan, 19r2. — La stessa cosa aveva gia detto al Congresso di  Heidelberg (1909): Cfr. Bericht túber dem III internation. Kon-  £ress fúr Philos. Heidelberg, pag. 358-369.   (2) SEGOND, L'intuition bergsonienne, Alcan, 1912. — In  Italia G. A. Borgesein un artic. del Corriere della Sera, 18 gen-  naio 1913, dal titolo Cercator: di Dio, diceva che pud darsi che  «lo scetticismo mistico di Bergson si plachi in Dio e che nel  suo mondo sconquassato senza causa né legge ristabilisca 1'or-    dine la Provvidenza ». — Il commento poi del Corriere della  Sera alla lettera del Card. Merry Del Val era simile a quello  del Temps.    (3) Cfr. ad es.-J. MARITAIN, L*évolutionnisme de Bergson in  Revue de Philosophte, settembre-ottobre rg9rr, ed il suo recente  volume: La philosophie bergsontenne, Paris, Riviére, 1914.  Identico in sostanza é il giudizio del Mercier nel suo discorso :  Vers: Pl unite.    XVI Prefazione    l'Evolution Créatrice presentano la creazione come  un fatto: da tutto questo sgorga nettamente l'idea  d'un Dio creatore e libero, generatore ad un tempo  della materia e della vita, il cui sforzo di creazione  si continua, dal lato della vita, con l'evoluzione delle  specie e con la costituzione delle personalita umane.  Da tutto questo deriva, per conseguenza, la confu-  futazione del monismo e del panteismo in gene-  rale » (1).   Poco tempo dopo, ad Edouard Le Roy che in un  lavoro aveva salutato nella philosophie nouvelle un  punto d'inserzione del problema religioso, Bergson  inviava un ringraziamento per la simpatia profonda  di pensiero dimostrata dal noto modernista nel-  Uesporre le sue idee e soggiungeva: « Questa sim-  patia si dimostra sopratutto nelle ultime pagine, dove  voi indicate con poche parole la possibilita di svi-  luppi ulteriori della dottrina. lo stesso non direi in  proposito altra cosa di ció che voi avete detto » (2).   Non basta. Nella sua conferenza di Birmin-  gham (3), in un discorso tenuto a Parigi il 4 maggio  1912 (4) ed anche nelle sue recentissime conferenze  negli Stati Uniti, Bergson difese la tesi dell'immor-       (1) Il P. DE TONQUÉDEC a proposito dell Evolution Créa-  trice aveva pubblicato negli Ztudes uno studio : Comment in-  terpréter P ordre du monde, dove dimostrava che Bergson é mo-'  nista ateo. A quell'art. Bergson rispose con la lettera citata,  che insieme ad un'altra lettera del Bergson e ad un altro arti-  colo del De Tonquédec: M. Bergson est - il moniste 2 si trova ora  nel volumetto dello stesso autore: Dieu dans "Evolution créa-  trice, avec deux lettres de M. Bergson, Beauchesne, 1913.   (2) Cfr. LE ROY, La philos. nouvelle, pag. 5. :   (3) Questa conferenza fu pubblicata in inglese — lingua poco  bergsoniana — nel numero di ottobre 1911 del The Hibbert  Journal col titolo: Life and Consciousness,   (4) IL discorso fu tenuto dal Bergson per Piniziativa dell”as-  sociazione Foiet vie ed aveva per tema: L'áme et le corps. Ne             Prefazione XVII       talitá dell? anima, considerandola quasi una  conse-  guenza legittima delle sue concezioni.  e   Queste dichiarazioni del Bergson, cosi contrastanti.  con un giudizio diffuso ed autorevole; l'importanza  che la sua filosofia e andata acquistando in questi ul-  timi anni e la questione molto dibattuta intorno al  valore del metodo intuizionistico, mi indussero a  comporre questo saggio. 2   Nel quale ho cercato innanzi tutto di tracciare a  grandi linee le teorie bergsoniane, utilizzando non solo  le opere principali del pensatore francese, ma anche  quasi tutti i suoi articoli di rivista, i discorsi da lui  recitati in diversi congressi, le sue piú importanti di-  scussioni alla Société francaise de philosophie, le pre-  fazioni da lui scritte a varii libri di altri autori, le  sue conferenze, parecchie sue lettere, alcune inter-  viste, qualche: sunto dei suoi corsi al. Collége de  France, tutto insomma quello che mi fu dato di  consultare (1).   Riassumere il pensiero di Bergson non e facile.  L”apparente chiarezza dell'espressione copre spesso  idee oscure, che sembrano sciogliersi in qualche cosa  di impreciso, di vago, di fiuido (2). Se in qualche  punto le mie interpretazioni sono inesatte, ció mi  sará perdonato, anche per il fatto che, quando nel    apparve un resoconto nel Temps (y maggio 1912) e fu poi inte-  gralmente pubblicata nel periodico Fot et Vie, 16 dicembre 1912,  pag. 714-719 e 1 gennaio 1913, pag. 14 e seg.   (1) Si vegga alla fine del volume, nell'appendice, la bibliografia  degli scritti di Bergson.   (2) Sono parole del Prezzolini in un articolo della Voce (6 gen-  naio 1910): Bergson. 11 Prezzolini ad un dato punto parlando  dell'oscuritá di alcune pagine del Bergson, esclama: « Ah che di-  sgrazia per chi vuole avere delle idee chiare ! ».       XVnmI Prefazione    1907 Alfred' Binet apri un'inchiesta tra i professori  di liceo della Francia, per conoscere l'influenza della  filosofia bergsoniana sul loro insegnamento, le loro  risposte furono tali, che in una seduta della Société  frangaise de philosophie (28 novembre 1907) Bergson  protestó vivacemente. Nelle tesi che quei professori  gli attribuirono, egli non riconosceva nulla di ció che  aveva pensato, insegnato o scritto! (1). lo spero pero  di essere stato un espositore coscienzioso e fedele:  alla doverosa lealtá di un avversario onesto, nulla  puó tornare tanto doloroso, quanto il sapere d'aver  tradito, sia pure senza colpa, il pensiero di colui che  si combatte.   Ponendomi poi dal punto di vista della Neoscola-  stica, e tenendo conto degli studii critici pia notevoli  e specialmente dei lavori degli scrittori cattolici, ho  mostrato gli errori e le contraddizioni di questa filo-  sofia nuova. Ma — sará bene avvertirlo fin d'ora —  lo non ho potuto appagarmi d'una critica negativa e  demolitrice, poiche lo studioso di filosofia non deve  essere mai un Attila che non lascia crescere filo di  erba, dove si posa la zampa del suo cavallo ; ma deve  essere un medico, il quale esamina un organismo e  procura di distruggerne i microbi dannosi ed ¡ bacilli,  per rendergli possibile un ulteriore sviluppo. Anche  il Farges osserva giustamente che non vi sono sol-  tanto teorie false in Bergson, ma che vi si trovano  anche idee buone ed eccellenti, che egli e felice di  rilevare e di notare (2). Queste idee buone ed ec-  cellenti ho cercato di organizzarle nella mia conce-    (1) Cfr. Bulletin de la Société fran;aise de philosop., genn. 1908,  pag. 20-1.   (2) A. FARGES, Za Philosophie de M. Bergson, Bonne Presse,  1912, PAg. 3-4. — Cfr. anche BAEUMKER in Philosophische Jahr-    MN  A    Prefazione XIX       zione filosofica, poiché ho la convinzione che la filo-  sofia ¿ e non puó non essere sistematica.   La seconda parte di questo libro rappresenta dunque  il cozzo di due sistemi. Ed a chi fosse tentato di ab-  bozzare un facile sorriso e di obiettare a priori che  il medioevo, ossia un passato morto e putrefatto,  non puó competere con un presente fresco di vitalitá  e di energle, porgo l'invito di leggermi senza pre-  gludizil: forse il suo disprezzo cesserá o almeno su-  bira una sensibile diminuzione.   Prego poi il lettore a ricordarsi che il mio e un  tentativo modesto, che va riguardato con l'occhio  indulgente, col quale $ doveroso esaminare il primo  tentativo d'un giovane. Saro ben grato a tutti, e specte  agli amici della Neoscolastica, se vorranno  rivol-  germi le loro osservazioni, persuaso come sono che,  solamente con la critica schietta fra noi, potremo  divenire soldati meno indegni dell'idea grande che  difendiamo, ed alla quale siamo fieri di consacrare  con animo lieto la nostra giovinezza e la nostra vita.   Ho dedicato il volume al P. Dott. Agostino Ge-  melli: questo nome, tanto caro ai cattolici italiani,  rispettato anche da molti avversari sereni, gioverda,  spero, a far dimenticare le imperfezioni di queste  pagine ed a ricordare a tutti la bellezza dell'ideale,  che ci canta in cuore.    FRANCESCO OLGIATI.    Milano, 19 Marzo 1914.       buch (25B., Heft 1, pag. 10): Ueber die Philosophie von H. Berg-  son; GRIVET in £tudes, art. cit., 20 nOVem. 1917, pag. 485,  BAINVEL in Revue pratique d'apologétique, 1 novembre 1911;  TAVERNIER nel! Univers, 2 aprile 1908 etc.       PARTE Ll.    Esposizione della filosofia bergsoniana                La teoria della durata reale della coscienza    Nella conferenza tenuta al Congresso internazionale  di filosofia in Bologna, il 10 aprile 1911, Enrico Berg-  son osservava che un sistema filosofico sembra dap-  prima elevarsi come un edificio completo, d'una  architettura sapiente, dove sono state prese disposi-  zioni, perché vi si possano alloggiare tutti i problemi.  Ma a misura che noi cerchiamo di collocarci maggior-  mente nel pensiero del filosofo, invece di girargli at-  torno, ci accorgiamo subito che la sua dottrina si  trasfigura. La complicazione comincia a diminuire, poi  le parti entrano le une nelle altre, infine tutto si rac-  coglie in un punto unico, al quale sentiamo che po-  tremmo avvicinarci sempre piú, benché sia impossibile  raggiungerlo. In questo punto c*é qualcosa di semplice,  d'infinitamente semplice, di si straordinariamente sem-  plice, che il filosofo non € mai riuscito a dirlo. Ed €  per questo che egli ha parlato tutta la sua vita (1).   Anche attraverso alla svariata ricchezza del pen-  siero bergsoniano, é facile scorgere una intuizione in-  divisibile, un principio di unitá organica. La filosofia    (1) BERGSON: L?2mtustion philosophique in .Revue de méta-  Dbhys. et de morale, novembre 1911, pag. 809-810.    4 Esposizione della filosofia bergsoniana    di Bergson e una filosofia della durata (1). Ed in-  fatti tale fu il punto di partenza della sua riflessione  originale. Criticando l'idea che la fisica e la mecca-  nica si fanno del tempo, cercando il concreto sotto  le astrazioni matematiche (2), egli giunse, nel sorriso  dei suoi vent'anni (3), a questa teoria della durata  reale, che dal Papini fu chiamata la sua scoperta (4).  Essa € la sorgente del metodo intuizionistico; é la  chiave che servirá al suo autore per risolvere i pro-  blemi della libertá e dei rapporti tra lo spirito ed il  corpo; e la nozione, che trasportata nella natura vi-  vente, lo fará arrivare all'idea dello slancio vitale.   Gli ammiratori di Bergson dicono che dall'Essai  sur les données immédiates de la conscience all” Évo-  lution Créatrice, il suo pensiero, con un progresso ar-  monioso che dá l'impressione d'una bella frase musi-  cale, si € sviluppato in un movimento che non  comporta evoluzioni divergenti (5); delle molteplici  forme di questo sviluppo, la durata reale e il prin-  cipio semplice, inesauribilmente fecondo, che il lin-  guaggio, coi dettagli che si aggiungono ai dettagli e  che compongono una approssimazione crescente, non  riesce mai a comunicarci a perfezione (6).   E quindi necessario incominciare l'esposizione del  bergsonismo da questa idea direttrice, in quanto ri-    (1) LE ROY: Une philosophie nouvelle, pag. 200.   (2) Cfr. la lettera di Bergson del ro luglio 1905 al direttore  della Revue philosophique in Rev. phil. 1905, 2% Sem.,' p. 229.  In essa il Bergson difende anche come scoperta sua la nozione  della durata.   (3) Cfr. GILLOUIN, Op. cit., pag. 1o.   (4) CTE MOD. Cif, paga 8.   (5) Cfr. GASTON RAGEOT in Revue philosophique, luglio rg1o,pag. 84, nella recensione dell Evolution créatrice.   (6) Cfr. BERGSON: Préface a Gabriel Tarde, introduction et  pages choisies par ses fils, pag. s.          La teoria della durata reale della coscienza 5    guarda la coscienza individuale; tanto piú che, se-  condo alcuni, essa ha rinnovato profondamente l'antica  massima Conosct te stesso, che da Socrate in poi fu  sempre il programma della filosofia (1).    Xx  *    Se io, dice Bergson, faccio scorrere sulla mia per-  sona lo sguardo interiore della mia coscienza, scorgo  dapprima, come una crosta fatta solida alla superficie,  tutte le percezioni che le giungono dal mondo mate-  riale. Queste percezioni sono nette, distinte, sovrap-  poste o sovrapponibili le une alle altre; esse cercano  di aggrupparsi in oggetti. Scorgo poi dei ricordi piú  o meno aderenti a queste percezioni e che servono  ad interpretarle: sono ricordi che si sono come staccati  dal fondo della mia persona, attirati alla periferia dalle  percezioni che loro somigliano e che si son posati su  me, senza essere assolutamente me stesso. E final-  mente sento manifestarsi delle tendenze, delle abitu-  dini motrici, ed una moltitudine di azioni virtuali piú o  meno solidamente legate a quelle percezioni ed a quei  ricordi. Tutti questi elementi dalle forme ben defínite  mi sembrano tanto piú distinti da me, quanto piú son  distinti gli uni dagli altri. Orientati dal di dentro verso  il di fuori, costituiscono, riuniti, la superficie di una  sfera, che tende ad allargarsi e a perdersi nel mondo  esterno (2).   Ma non bisogna fermarsi a questi cristalli ben ta-  gliati a questa superficie, dove le nostre idee galleggiano  come foglie morte sull'acqua d'uno stagno (3); biso-    (1) LE ROY, Op. cit., pag. 201.  (2) BERGSON: Introduction á la Métaphysique, trad. italiana,    pag. 19-20.  (3) BERGSON : Essai sur les données immédiates de la con-    science, pag. 103.    6 Esposizione della filosofia bergsoniana          gna scendere piú giú, nelle profondita dell'essere, nella  secreta intimitá di queste tenebre feconde, dove zam-  pillano le sorgenti della coscienza. E qui soltanto, che  si puó cogliere la persona nella sua freschezza, nella  sua originalita, nel suo ritmo vivente, nel suo palpito  intenso, nel suo murmure fievole, nel suo scorrere  ininterrotto attraverso il tempo.   Quando io percepisco me stesso interiormente,  profondamente, constato che ¡o passo da uno stato  all'altro. La mia esistenza viene alternatamente co-  lorata da senzazioni, da sentimenti, da volizioni, da  rappresentazioni: in una parola, io cangio senza posa (1).   Non basta. Un leggiero sforzo di attenzione mi ri-  vela che uno stato interno qualsiasi non € mai simile  ad un pezzo di marmo, ma si modifica ad ogni mo-  mento. Perfino la percezione visuale di un oggetto  esteriore immobile non si conserva mai uguale in due  momenti successivi: la visione che ne ho, differisce  da quella che ne avevo or ora, se non altro perché  si € invecchiata di un istante ed al sentimento pre-  sente sié aggiunto il ricordo dei sentimenti passati (2).  Ogni stato d'animo, avanzandosi sulla via del tempo,  si gonfia continuamente della durata che esso accu-  mula, e fa, per cosi dire, una palla di neve con sé  stesso. Il cangiamento perció non risiede nel passaggio  da uno stato all'altro; lo stato stesso é gia cangia-  mento (3).   Vale a dire che non c'e differenza essenziale tra il  passare da uno stato ad un altro ed il persistere in  un medesimo stato. Il passaggio dall*uno all'altro stato  rassomiglia ad uno stesso stato che si prolunga; la  transizione € continua (4).    (1) BERGSON : Evolution créatrice, pag. 1.   (2) Z6td., pag. 1-2 e Introd. dá la Métaph., trad. ital., pag. 46.  (3) Evol. cr., pag. 2.   (4) Zbid., pag. 2-3.          La teoria della durata reale della coscienza 7          Il male é che io chiudo spesso gli occhi su questa  variazione perenne e non vi faccio caso, finché e di-  venuta cos] considerevole, da imporsi all'attenzione e  da illudermi che uno stato nuovo si e aggiunto al  precedente. É appunto per questo che io credo alla  discontinuita della vita psicologica, e, dove non c'e  che un pendio dolce, mi sembra di percepire i gra-  dini di una scalinata (1). Ma é un'apparenza fallace;  il mio spirito non € mai qualche cosa di fatto, ma si  fa incessantemente; esso é un perpetuo divenire. Anche  ¡ mille incidenti imprevisti che sorgono e pare non ab-  biano nessuna relazione con ció che li precede o che  li segue, simili a colpi di timballo che squillano qua  e la nella sinfonia, sono portati dalla massa fluida  della mia esistenza psicologica tutt'intera. Ciascuno di  essi non é che il punto meglio rischiarato d'una zona  che si muove e che comprende tutto ció che io sento,  penso, voglio, tutto ció infine che sono in un dato  momento (2). Gli stati di coscienza quindi non sono  elementi distinti, non costituiscono stati multipli, se  non quando li ho passati e mi volgo indietro per os-  servarne la traccia. Mentre li provo, sono cos] solida-  mente organizzati, cosi profondamente animati da una  vita comune, che io non avrei potuto dire dove finisce  uno qualunque di essi e dove l'altro comincia. In realtá  nessun di loro né comincia né finisce, ma tutti si pro-  lungano, si continuano gli uni negli altri in uno scor-  rimento senza fine (3), in un zampillare ininterrotto  di novitáa, ciascuna delle quali non é ancora sorta per  fare il presente, che giá ha indietreggiato nel  pas-  sato (4).    (1) Z6., pag. 3.*   (2) Zb61d., pag. 3.   (3) Zntrod. a la Métaph., trad. ital., pag. 20-21.  (4) Evol. cr., pag. so.    8 ' Esposizione della filosofia bergsoniana    Il presente! Che cos'é per me il momento presente ?  La proprietáa del tempo é di scorrere; il tempo gia  scorso é il passato ed io chiamo presente l'istante nel  quale scorre. Ma qui non puód esservi questione d'un  istante matematico. Senza dubbio, c'é un presente  ideale, puramente concepito, limite indivisibile che  separerebbe il passato dallavvenire. Ma il presente  reale, concreto, vissuto, occupa necessariamente una  durata. Ov'2 dunque situata questa durata? É al di  qua o al di lá del punto matematico, che io deter-  mino idealmente, quando ¡o penso all'istante presente?  É troppo evidente che essa € al di qua e al di lá ad  un tempo e che ció, che io chiamo il mio presente,  si distente in una volta sul mio passato e sul mio  avvenire (1). La durata é appunto il progresso con-  tinuo del passato, che morde l'avvenire, e che pro-  cedendo si aumenta. Poiché il passato s'accresce con-  tinuamente, automaticamente si conserva, ed a mia  insaputa mi accompagna. Tutto questo sará dimo-  strato nella teoria della memoria e si vedrá allora che  ciascuno di noi trascina dietro a sé tutto il peso della  sua vita psicologica anteriore. Ció che io ho pensato,  sentito, vissuto dalla prima infanzia in poi, e lá chi-  nato sul presente, come la madre sul suo figliuolo (2),  e si rotola, si avvolge su sé stesso nell'impulso indi-  visibile che mi comunica. lo lo chiamo il mio carat-  tere, quel carattere che mi assiste in tutte le mie  decisioni e che mi ricorda che il mio passato esiste  per me piú ancora del mondo esterno, di cui non  percepisco che una piccolissima parte, mentre al con-    (1) BERGSON: Matiére et Mémotre, pag. 148-9. Cfr. anche  BERGSON: La perception du changement, 2* conferenza di Ox-  ford, pag. 28-29 € BERGSON: Life and consciousness in The  Hibbert Journal, ottobre 1911, pag. 27.   (2) Évol. cr., pag. 5.          La teoria della durata reale della coscienza 9       trario utilizzo sempre la totalita della mia esperienza  vissuta (1).   Conservando il passato, la mia persona progredisce,  cresce, matura continuamente. Ciascuno dei suoi  momenti é del nuovo, che si aggiunge a ció che vi  era dapprima (2); sopratutto nell'azione libera, nell”atto  del volere, io comprendo che la durata é inven-  zione ed elaborazione creatrice dell” assolutamente  nuovo (3).   Cos1, quando con un vigoroso sforzo d'astrazione,  la coscienza si isola dal mondo esterno e cerca di ri-  divenire sé stessa (4), le diverse parti dell'essere en-  trano le une nelle altre, e la mia personalitáa tutta  intera si concentra in un punto o meglio in una punta,  che s'inserisce nell?avvenire, intaccandolo senza posa (5).  La durata non ha dunque nulla di ineffabile e di mi-  sterioso, ma e la cosa piú chiara del mondo (6); in  essa la coscienza si conosce nella sua essenza e coglie  assolutamente sé stessa (7).    (1) Zbid., pag. 5-6 e Matiére et Mém., pag. 158.   (2) Zbid., pag. 6 e 218.   (3) 76., pag. 2 e 258.   (4) Essai, pag. 69.   (5) Évol. cr., pag. 219.   (6) Perception du chang., Conf. II, pag. 26.   (7) Cfr. la lettera gia citata del BERGSON in The journal of  phylosophy, psychology and scientific methods. - Nell Introd.   la Métaph. (trad. ital. pag. 21-24), Bergson cerca di suggerire il  sentimento della durata per mezzo di immagini. Eglila paragona  allo svolgersi ed allarrotolarsi di un rotolo, ad uno specchio dalle  mille sfumature con degradazioni insensibili, che ci fanno passare  da una tinta all'altra e attraverso le quali passa una corrente di  sentimento; ad un elastico infinitamente piccolo che si allunga  e si distende. Pur difendendo Putilitá delle immagini per darci la  intuizione della durata, ne mostra anche Pincompletezza e l'in-  sufficienza.    10 Esposizione della filosofia bergsoniana          *  X *   Chi é riuscito a darsi il sentimento originale, 1'in-  tuizione della durata costitutiva del suo essere, si  accorge subito che questa € una continuitá dinamica,  semplice ed indivisa. La durata tutta pura é la forma  che prende la successione dei nostri stati di coscienza,  quando l'io si lascia vivere e si astiene dallo stabi-  lire una separazione tra lo stato presente e gli stati  anteriori. Non é necessario per questo che esso si  assorba interamente nella sensazione o nell'idea che  passa, poiché allora, al contrario, cesserebbe di durare.  Non € nemmeno necessario dimenticare gli stati an-  teriori; basta che ricordandoli, non li giustapponga  allo stato attuale come un punto ad un altro punto,  ma li organizzi con quest'ultimo, come succede quando  ci richiamiamo, fuse per cosi dire insieme, le note di  una melodia. Non si potrebbe forse dire che, benché  queste note si succedano, noi tuttavia le percepiamo  le une nelle altre e che il loro insieme e paragonabile  ad un essere vivente, le cui parti, benché distinte,  si penetrano per l'effetto stesso della loro solida-  rieta? (1) Tale € precisamente la durata; é succes-  sione senza la distinzione, é una penetrazione mutua,  un organizzazione intima di elementi, ciascuno dei  quali é rappresentativo del tutto e non se ne distingue  e non se ne isola, che per un pensiero capace di  astrarre (2). Quando perció io parlo di sensazioni, di  tappresentazioni, di volizioni, e concepisco, 1'unitá  vivente della coscienza come un aggruppamento di  stati distinti e giustapposti ; quando solidifico la flui-  dita della mia vita psicologica e la sbocconcello in    (1) Essaz, pag. 76-77.  (2) Z6., pag. 77.    E    Le    La teoria della durata reale della coscienza 11       istati, come una commedia in scene (1); io altero con  simboli figurativi e con una deformazione artificiale la  realtáa concreta dell'io. La quale € simile alla figura  che un artista di genio dipinge sulla tela: io posso  certo imitare quel quadro con piccoli quadratelli di  mosaico multicolori, e quanto piú questi saranno pic-  coli, numerosi, variati, altrettanto meglio riprodurro le  curve e le sfumature del modello. Ma come quella  figura dipinta non é una giustaposizione di piccoli  quadratelli, cosi la mia vita interna non é una com-  posizione di stati, ma é qualche cosa di semplice e  di uno, nella sua eterogeneitá qualitativa (2).  Siccome poi il passato sopravvive, € impossibile che  una coscienza traversi due volte lo stesso stato. Le  circostanze possono ben essere le stesse, ma non agi-  scono piú sulla medesima persona, perché la prendono  ad un nuovo momento della sua storia (3). Non vi  sono due momenti identici nel medesimo essere co-  sciente, poiché il momento seguente contiene sempre,  oltre il precedente, il ricordo che questo gli ha la-  sciato. Una coscienza che avesse due momenti iden-  tici sarebbe una coscienza senza memoria, perirebbe e  e rinascerebbe continuamente, sarebbe in altre parole  Pincoscienza (4). La durata reale morde e lascia nelle  cose l'impronta del suo dente (5); é quindi una cor-  rente che non si pub risalire (6); insomma é irrever-  sibile. La sua legge fondamentale € di non ripetersi    (1) BERGSON: Le souvenir du présent et la fausse reconnais-  sance in Revue philosophique, dicembre 1908, pag. 577.   (2) Cfr. Évol. cr., pag. 98.   (3) Zb1d., pag. 6-   (4) ZIntrod. á la Mét., trad. ital., pag. 21-22.   (5) Evol. cr., pag. 49.   (6) Z01d., pag. 42.    12 Esposizione della filosofia bergsoniana    giammai; cessare di cambiare, sarebbe cessare di vi-  vere (1).   Essa € anche imprevedibile. Nel suo progresso in-  timo c'é incommensurabilitá tra ció che precede e ció  che segue (2); il mio stato attuale si spiega, é vero,  con ció che vi era in me e con ció che or ora agiva  su di me: io non vi troverel altri elementi, analizzan-  dolo. Ma un'intelligenza, anche sovrumana, non  avrebbe potuto prevedere la forma semplice che a  questi elementi astratti (i quali non hanno nemmeno  un'esistenza reale) vien data dalla loro organizzazione  concreta. Poiché prevedere consiste nel proiettare nel-  l'avvenire ció che si € percepito nel passato o nel rap-  presentarsi per piú tardi un nuovo aggregamento, in  un altro ordine, di elementi gia percepiti. Ma ció che  non é mai stato percepito e ció che e nello stesso  tempo semplice, é necessariamente imprevedibile. Ora,  tale é il caso di ciascuno dei nostri stati, riguardato  come un momento di una storia che si svolge. Esso  é semplice e non pud essere giá percepito, poiché  concentra nella sua indivisibilitá tutto il percepito con,  in piú, ció che il presente vi aggiunge. É un momento  originale di una storia non meno originale (3). Cosi,  per portare un esempio, quando un ritratto € finito,  lo si spiega con la fisionomia del modello, con la  natura dell'artista, coi colori stemperati sulla tavolozza;  ma anche con la conoscenza di tutto questo, nessuno,  nemmeno Partista, avrebbe potuto prevedere quale    (1) BERGSON : Le rire, pag. 32. Per Bergson, se cosi e lecito  esprimere il suo pensiero, Pattendere la ripetizione di uno stesso  stato di coscienza € un'ingenuitá peggiore ancora di quella di una  certa signora che l'astronomo Cassini aveva invitata ad assistere  ad un*eclisse di luna e che, arrivata in ritardo, esclamo: il signor  Cassini vorrá bene ricominciare per me. Cfr. Le rire, pag. 45»   (2) vol. cr.. pag. 30   (3) Zbid., pag. 7, Essat, 140-151.             La teoria della durata reale della coscienza 13       sarebbe stato il ritratto (1). L'ingegno stesso del pit-  tore si modifica sotto l'influenza dell?opera che pro-  duce, poiché ogni invenzione, man mano che viene  realizzandosi, reagisce sull'idea e sullo schema, che  essa era destinata ad esprimere (2). Tutto questo si  verifica in quella creazione inventiva che é la nostra  durata.   La quale perció, a chi, con uno sforzo di intui-  zione diretta, cerca di penetrarla nella sua realtá e  nella sua ricchezza interiore, si manifesta come va-  rietá di qualitá, continuitá di progresso, unitá di dire-  zione (3), dove in una semplicita indivisa, irreversi-  bile, imprevedibile, il passato si conserva e si crea  Pavvenire.    *  + *    Purtroppo contro questa concezione elevano le piú  fiere proteste la scienza, il senso comune, la filosofía.  Protesta la psicofisica, che non solo attribuisce agli  stati interni un esistenza distinta e separata, ma pre-  tende persino di misurarli. Protesta la psicofisiologia,  che nella danza degli atomi cerebrali crede di aver  scoperto lunitá di misura di tutti 1 fenomeni psicolo-  gici. Protesta il senso comune, che ha sempre rite-  tenuto che molti fossero gli stati di coscienza ed anzi  li va enumerando, e che ad ogni modo si appella al  tempo della fisica e della meccanica, che permette di  dividerli e di calcolarne la lunghezza. Protesta 1'asso-  ciazionismo che si ¿ sempre immaginato le idee e le  rappresentazioni come uno sciame di piccoli corpuscoli    (1) 701d., pag. 7.   (2) BERGSON: Z effort intellectuel in Revue philosophique,  gennaio 1912, PAg. 17.   (3) Zntrod. dá la Mét., trad. ital., pag. 23-24.    14 Esposizione della filosofia bergsoniana  A O MI e AN  solidi, mossi in ognisenso con estrema velocitá, che  talvolta si uniscono insieme per produrre un'unita si-  mile a quella che ci é data dagli elementi di un composto  chimico. Ed infine molti altri protesteranno in tutte le  varie questioni, che saranno sollevate.   Contro questo esercito di nemici, di diverse nazio.  nalitá, ma concordi nel muovere battaglia alla teoria  della durata reale, Bergson scende in campo e affronta  la lotta.       IL    I nemici della durata reale    La psicologia moderna, sopratutto sotto l'influenza  di Kant, é tormentata dalla preoccupazione di stabi-  lire che noi deformiamo la realtá, poiché percepiamo  le cose esterne mediante le forme soggettive, dovuté  alla nostra costituzione.   Bergson invece ha la persuasione tutta opposta :  egli € convinto che gli stati di coscienza, che noi cre-  diamo di cogliere direttamente, portano il segno vi-  sibile di certe forme del mondo esteriore (1). Ed €  venuto a questo risultato, esaminando i varii nemici  della teoria esposta : poiché essi, invece di contem-  plare l'io nella sua purezza originale, guardano la du-  rata interna attraverso lo spazio esteso, sostituendo  cos] alleterogeneitá qualitativa l'omogeneita di simboli  quantitativi, al flusso perenne della successione i punti  fissi della simultaneita.    a) La psicofisica.    Ecco dapprima i psicofisici, i quali ci assicurano che  una sensazione pud essere due, tre, quattro volte pid    (1) Essaz, pag. 171.       16 Esposizione della filosofia bergsoniana    intensa d*un'altra; anche i loro avversari non vedono  del resto nessun inconveniente nel parlare d*uno sforzo  piú grande d'un altro sforzo, e a porre cosl differenze  di quantitá tra gli stati puramente interni. ll senso  comune d'altra parte si pronuncia senza esitazione su  questo punto. Si dice che si ha piú o meno caldo;  che si é piú o meno tristi, e questa distinzione del  piú e del meno, anche quando la si prolunga nella  regione dei fatti soggettivi e delle cose inestese, non  sorprende nessuno (1).   E superfluo osservare che tutto ció 8 incompatibile  con la realtá della durata. Questa, non presentando  se non fenomeni che si intrecciano e si inseriscono  gli uni negli altri nella fluiditáa d'un cangiamento inin-  terrotto, si ribella ad uno spezzettamento artificiale.  Ma, anche prescindendo per ora da questo fatto, noi  vedremo che la vita reale della coscienza e pura-  mente qualitativa e perció esclude dal suo campo  ogni grandezza, intensiva o estensiva che sia.   Fu questa la prima battaglia del Bergson. La sua  tesi di dottorato, 1” Essai sur les données immédiates  de la conscience, si inizia appunto con la critica del  concetto dell'intensitá psichica (critica, che secondo  Guido Villa (2), € la piú acuta che si sia fatta ai  nostri tempi) e con una confutazione della psicofisica.   Nessuno pud negare — dice il Bergson — che uno  stato psicologico abbia una intensitá. La questione  e semplicemente di sapere se questa intensitaá sia una  grandezza (3).    (1) Essaz, pag. 1.   (1) VILLA: La psicologia contemporanea, Bocca, 20 edizione,  pag. 149.   (2) Cfr. BERGSON : Le parallélisme psycho-physique et la Mé-  taphysique positive in Bulletin de la Société frangaise de philo-  sophie, 1901, Séance 2 Mat, pag. 60-61.       I nemici della durata reale 17    Consideriamo ad esempio i sentimenti profondi del-  l'animo. In che cosa consiste la loro intensitá ? Se  bene si osserva, essa si riduce ad una certa qualitá  o sfumatura, di cui si colora una massa piú o meno  considerevole di stati psichici. Un oscuro desiderio e  divenuto ad esempio una passione profonda. La sua de-  bole intensitá consisteva in ció, che esso vi sembrava  isolato e come straniero a tutto il resto della vostra vita  interna. Ma a poco a poco esso ha penetrato un pid  gran numero di elementi psichici, tingendoli per cos  dire del suo proprio colore; ed ecco che il vostro  punto di vista sull'insieme delle cose vi sembra ora  cangiato. Tutte le vostre sensazioni, tutte le vostre  idee hanno riacquistato una freschezza tale, che vi  dá l'impressione di una novella infanzia. É un can-  giamento di qualitá che € avvenuto, non di gran-  dezza (1).   Questo lo si ripeta anche delle grandi gioie, delle  tristezze sentite, delle emozioni estetiche, dei senti-  menti morali, di tutti insomma gli stati profondi  dell”anima : il loro aumentare corrisponde ad una  ricchezza crescente, ad un progresso puramente qua-  litativo (2).   Si dirá forse che questi stati sono rari, e che  bisogna studiare anche gli altri fenomeni che avven-  gono in noi. Ebbene, trasportiamoci pure all'estremita  opposta della serie dei fatti psicologici. Se c'é un fe-  nomeno che sembra presentarsi immediatamente alla  coscienza sotto forma di quantitá o almeno di gran-  dezza, é senza dubbio lo sforzo muscolare. Ci sembra  che la forza psichica, imprigionata nell”anima come i  venti nell'antro di Eolo, attenda solamente un*occa-  sione per slanciarsi fuori; la volonta sorveglierebbe    (1) Essaz, pag. 6-7  (2) Zbid., pag. 7-14.    F. OLG1AT1I 2    18 Esposizione della filosofia bergsoniana       questa forza, e di tempo in tempo le aprirebbe una  uscita. Eppure, se noi ricerchiamo attentamente in  che consiste davvero la percezione dell'intensitá di uno  sforzo, ci persuaderemo che quanto piú questo ci fa  Peffetto di crescere, tanto piú aumenta il numero dei  muscoli che si contraggono simpaticamente e che  esso si riduce in realtá alla percezione d'una pid  grande superficie del corpo, che si interessa all*opera-  zione. Provate ad es. a chiudere il pugno sempre di pid.  Vi sembra che la sensazione di sforzo, tutta intiera loca-  lizzata nella vostra mano, passa successivamente per  grandezze differenti. In realtá la vostra mano prova  sempre la stessa cosa. Solamente la sensazione, che  vi era localizzata, ha invaso il vostro braccio, € risa-  lita fino alla spalla ; finalmente 1'altro braccio si irri-  gidisce, le due gambe l'imitano, la respirazione si ar-  resta e via dicendo. Voi credevate che si trattasse di  una stato di coscienza unico, che variava di gran-  dezza; invece no: anche qui c'é un progresso quali-  tativo, una complessitá crescente, confusamente per-  cepita (1). II che si verifica anche negli stati intermediari,  vale a dire nei fenomeni dell'attenzione, nei desideri  acuti, nelle collere scatenate, nell'amore appassionato,  nell*odio violento (2).   Veniamo da ultimo alle sensazioni, la cui intensitá  varia come la causa esteriore, della quale esse sono  considerate l"equivalente cosciente: come spiegare l'in-  vasione della quantitá in un effetto inesteso e questa  volta indivisibile? (3)   Per rispondere a questa questione bisogna dapprima  distinguere tra sensazioni affettive e sensazioni rap-  presentative. Nelle prime, allo stato interno, che €    (1) Zó1d., pag. 18-20.  (2) Zb1d., pag. 20-23.  (3) Z01d., pag. 24.       I nemici della durata reale 19    pura qualitá, sono sempre congiunti mille piccoli mo-  vimenti di reazione, che esse provocano nel nostro  corpo. É di questa reazione che noi teniamo conto  nell?apprezzare l'intensitá di quelle sensazioni e nel-  l'interpretare come differenza di grandezza una diffe-  renza di qualita.   Nelle seconde un'esperienza di tutti gli istanti ci  mostra che una sfumatura determinata risponde ad  un determinato valore di eccitazione. Noi associamo  cosi ad una certa qualitá dell'effetto l'idea di una  certa quantitá della causa, poniamo questa in quella,  ed in tal modo !'intensita, che prima non era che una  certa sfumatura della sensazione, diventa una gran-  dezza.   Nelle une e nelle altre si forma quindi un compro-  messo tra la qualitá pura, che € il fatto di coscienza,  e la pura quantitá, che € necessariamente spazio: a  questo compromesso vien dato il nome di intensita,  concetto bastardo, che ci fa dimenticare che se la  grandezza, fuori di noi, non é mai intensiva, l'inten-  sitá, dentro di noi, non e mai grandezza (1).   Per non aver compreso questo, i filosofi hanno do-  vuto distinguere due specie di quantita, luna: esten-  siva, l'altra intensiva, senza giammai riuscire a spiegare  ció che esse avevano di comune, né come si possa  adoperare, per cose cosl dissimili, le stesse parole  « crescere » e « diminuire ». Con ció stesso essi sono  responsabili delle esagerazioni della psicofisica ; poiché  dal momento che si riconosce alla sensazione la fa-  coltá di crescere, ci si invita anche a cercare di quanto  essa cresce (2).   Ed e ció che fu tentato da Fechner. Questi, par-  tendo da una legge di Weber, affermava un rapporto    (1) Z0td., pag. 24 € Seg.  (2) 7Zb1d., pag. 173.    20 Esposizione della filosofia bergsoniana       costante tra la quantitá dell'eccitazione e l”accresci-  mento della sensazione. Noi non solleveremo nessuna  difficoltá sull'esistenza probabile di una simile legge:  ma contestiamo, e qui fu l'errore di Fechner, che si  possa introdurre la misura in psicologia e che tra due  sensazioni successive S e S' vi sia un intervallo, una  differenza di grandezza, e non gia un semplice pas-  saggio (1).   Non si puó misurare se non ció che é omogeneo ;  ora che cosa c'é d'omogeneo tra due sensazioni? Ab-  biamo provato che l'intensita di qualsiasi stato psico-  logico non é una grandezza, ma solo una qualitá ; se  quindi da due sensazioni eliminiamo le loro differenze  qualitative, non ci restera un fondo identico, una  unitá elementare ed eguale, ma ci resta nulla, asso-  lutamente nulla (2).   Fechner non giudicó insormontabile questa diffi-  colta; egli si illuse di aver scoperto il fondo comune  nelle differenze minime della sensazione, che corri-  spondono al piú piccolo accrescimento percettibile  dell'eccitazione esteriore. Si raffiguró quindi la sensa-  zlone come un processo continuativo, unilineare, omo-  geneo; S' € la somma di S con la differenza minima,  come d'altra parte S fu ottenuta coll”addizione delle  differenze minime che si traversarono prima di rag-  giungerla (3).   In tutto questo c'é il postulato indimostrato e falso  che il passaggio da S a S' sia paragonabile ad una  differenza aritmetica, sia una realtá ed una quantita.  Ora, non solo non si saprebbe dire in che senso  questo passaggio é una quantitá, ma, se si riflette,  si capisce subito che non € nemmeno una realta.    (1) Z01d., pag. 45-46.  (2) Z01d., pag. 47.  (3) Zótd., pag. 48.    EA    q . PERS    I nemici della durata reale 21       Di reale non vi sono che gli stati S e S', che non  sono dei numeri, non sono una somma di unita,  ma sono stati semplici tra i quali c'é una differenza  analoga a quella delle sfumature dell'arcobaleno e  non un intervallo di grandezza (1).   Possiamo quindi dire che non c'é contatto tra l'ine-  steso e l'esteso, tra la quantitá e la qualita. Si puó  interpretare l'una con l'altra, erigere ¡”una in equi-  valente dell'altra; ma presto o tardi, al principio o  alla fine, bisognerá riconoscere il carattere convenzio-  nale di questa assimilazione (2).    b) La psico-fisiologia.    L?illecita intrusione della quantitá nel regno della  qualitá condusse gli scienziati all”altra ipotesi del pa-  rallelismo psico-fisiologico, che ammette un*equiva-  lenza perfetta tra la vita della nostra coscienza  e la danza degli atomi cerebrali. Questa concezione,  secondo Bergson, non solo non ha nemmeno un  senso intelligibile quando si tratta della fluida mobi-  lita degli stati psicologici profondi; ma é falsa anche  per i fenomeni del nostro io superficiale (3). Non si  pud dire assolutamente che i movimenti omogenei  degli atomi del cervello siano la traduzione integrale degli  stati interni. Egli svolse questa tesi in due discorsi,  il primo tenuto alla Société frangaise de philosophie  il 2 Maggio 1911, il secondo pronunciato a Ginevra  al Congresso internazionale di filosofia nel Settem-  bre 10904.   lo sono interamente convinto — cosl Bergson enun-  ciava il suo pensiero agli illustri della Societá francese    (1) Z01d., pag. 49-50.  (2) Z0id., pag. 52.  (3) BERGSON: Le parallelisme psycho-physigue etc. pag. 64.    22 Esposizione della filosofia bergsoniana  HA E NE    di filosofia (1) — che tra il fatto psicologico e 1'atti-  vita cerebrale c'é una certa relazione, una corrispon-  denza di un certo genere, ma non esiste in nessun  modo un parallelismo rigoroso. Posto un fatto psico-  logico, voi determinate senza dubbio lo stato cerebrale  concomitante ; ma la reciproca non e necessariamente  vera, poiché questa attivitá cerebrale puó essere iden-  tica per pensieri tutto affatto diversi. Ritengo perció  falsa la tesi del parallelismo, che potrebbe essere for=  mulata cosl: posto uno stato cerebrale, segue uno  stato psicologico determinato. O ancora: un'intelligenza  sovrumana, che assistesse alla danza degli atomi di  cui é fatto il cervello umano e che avesse la chiave  della psico-fisiologia, potrebbe leggere in un cervello  che lavora, tutto ció che avviene nella coscienza cor-  rispondente. O infine: la coscienza non dice nulla  di piú di ció che si fa nel cervello, ma l'esprime solo  in un'altra lingua.   Chi volesse fare la storia della questione, dovrebbe  riconoscere che l'idea d'una corrispondenza tra il mo-  rale e il fisico rimonta alla pid alta antichitá, ma non  gia l'idea del paralelismo. Il senso comune ha sempre  pensato alla prima cosa, non ha mai ammesso la se-  conda, che altro non € se non un'ipotesi filosofica di  origine spinozista e leibniziana, che data dal giorno  in cui si € creduto al meccanismo universale, e che gia  era implicitamente contenuta nel sistema di Descartes.  I successori di quest'ultimo, spingendo alle estreme  conseguenze le idee del maestro, hanno creduto ad  una scienza unica della natura, ad una grande mate-  matica, capace di tutto abbracciare. Per non rompere    (1) Riassumo le idee espresse da BERGSON in quella discus-  sione: cír. Bulletin de la Societé Frangaise de Philosophte,  1901, Pag. 32-70: Le parallelisme Psychophysique et la metaphy-  sigue positive,          l nemici della durata reale 23    questo concatenamento rigoroso di cause e di effetti,  parlarono di parallelismo tra il psichico ed il fisico.  Per l'intermediario poi dei medici filosofi del sec. xvIHn,  quella teoria € passata nella psicofisiologia del nostro  tempo. La quale fa benissimo a procedere nelle sue  ricerche come se dovesse un giorno darci la tradu-  zione fisiologica integrale dell'attivitá psicologica, ma  dovrebbe ricordarsi sempre che questo é un'utile re-  gola metodologica e nulla piú. Invece gli scienziati la  erigono in una affermazione dogmatica, e la mutano  in una ipotesi metafísica, alla quale incombe di stretta  glustizia l'onus probandi e che sarebbe distrutta ¿pso  facto, se i fatti le fossero contrari.   Orbene, “questo parallelismo psico-fisiologico non fu  mai dimostrato : nessuno ha finora portato una prova  che ce lo imponesse o che ce lo suggerisse. E non  appellatevi - replicava Bergson ad un obiettante - non  appellatevi ai progressi futuri della scienza : non solo  perché sarebbe questo un procedere poco scientifico,  ma anche perché io fondo la negazione del paralle-  lismo non su considerazioni negative, ma con una  tesi positiva suscettibile di miglioramento e di verift-  cazione progressiva.   Il metodo da seguire non é quello dell'antico spi-  ritualismo, che per ribattere i suoi avversari si rin-  chiudeva come in una fortezza nelle facoltá superiori  dello spirito, proprie ed essenziali all'uomo. Con questa  tattica di combattimento lo spiritualismo sembrava ar-  bitrario ed era infecondo. Sembrava arbitrario, perché  gli oppositori potevano sempre obiettargli che la dif-  ferenza constatata tra il psichico e il fisico derivava  semplicemente da ció, che esso considerava la materia  nelle sue forme piú rudimentali e lo spirito nei suoi  stati piú perfetti; ma che se si prende la materia al  grado di complessitá e di mobilitá ove imita certi ca-  ratteri della coscienza, e la coscienza ad un grado di    24 Esposizione della filosofia bergsoniana       semplicitá e di stabilitá ove partecipa dell'inerzia della  materia, si riesce senza pena a farle coincidere. Era  anche infecondo, poiché si limitava a considerare i  termini estremi e a dichiarare che lo spirito e irridut-  tibile alla materia. Ora una dichiarazione di questo  genere puú essere vera (essa dé vera, a mio gludizio),  ma non si guadagna nulla a constatare che quei due  concetti di spirito e di materia sono esteriori 1”uno  all'altro. Si potranno fare invece scoperte importanti,  se ci si pone nel punto ove i due concetti si toccano,  alla loro frontiera comune, per studiare la forma e la  natura del contatto. A questo lavoro lungo e difficile  io - continua Bergson - ho invitati i filosofi nel mio  Matiére el Mémoire.   Nel fatto cerebrale determinato e localizzato, che  condiziona una certa funzione della parola, ho consi-  derato le manifestazioni della materia nella loro forma  piú complessa, nel punto ove rasentano l'attivita dello  spirito. Nel ricordo del suono delle parole ho esami-  nato lo spirito nel suo stato pid semplice. lo era questa  volta alla frontiera, eppure ho dovuto arrivare alla  conclusione che tra il fatto psicologico e il suo sub-  strato centrale non c'é un parallelismo rigoroso, ma  esiste una relazione che non risponde a nessuno dei  concetti tutti fatti che la filosofia mette a nostro ser-  vizio. Dato uno stato psicologico, la parte vissuta,  jouable, di questo stato, quella che si traduce con  un'attitudine del corpo e con azioni del COrpo, é rap-  presentata nel cervello; il resto ne 8 indipendente e  non ha equivalente cerebrale. Di modo che ad uno  stesso stato cerebrale possono corrispondere stati psi-  cologici diversi, che hanno tutti in comune lo stesso  schema motore, ma non stati psicologici qualsiasi,  perché in una medesima cornice possono stare molti  quadri, ma non tutti i quadri. Il pensiero e relativa-  mente libero e indeterminato per rapporto all'attivita       2”    TI nemici della durata reale 25    cerebrale che lo condiziona, poiché questa non esprime  che le articolazioni motrici dell'idea, le quali possono  essere le stesse idee assolutamente differenti. Da ció  ne segue che non pud esservi parallelismo o equiva-  lenza tra lo stato cerebrale ed il pensiero (1).   Queste furono le idee che Bergson difese in quella  seduta. Segui una discussione serenamente tranquilla,  che diede campo all'oratore di affermare sempre piú  le sue teorie.   Molto piú agitato fu il dibattito che avvenne al  Congresso di Ginevra tra i numerosissimi difensori  del parallelismo ed il Bergson. Questi in una comu-  nicazione, che sollevd molto rumore (2), volle prescin-  dere dalle sue teorie, e si propose di stabilire che il pa-  rallelismo psico-fisiologico implica una contradizione  fondamentale e riposa su un artificio dialettico, su  una serie di paralogismi.   La lettura di questa memoria, racconta il Chartier,  provoco in tutti gli uditori un sentimento di sorpresa  e di inquietudine. Quasi tutti coloro che si trovavano  presenti, avevano formulato spesso la tesi del pa-  rallelismo. 1 piú prudenti l'avevano presentata come  il risultato esatto di un gran numero di esperienze  concordanti; nessuno aveva mai esaminato se la sem-  plice enunciazione di questa tesi rinchiudesse una con-  tradizione (3).   Ora, era questo che Bergson pretendeva provare.  Quando parliamo d'oggetti esteriori - egli disse - noi  abbiamo la scelta tra due sistemi di notazione. Pos-  siamo trattare gli oggetti ed i cangiamenti, che si    (1) Questa teoria beresoniana sará ampiamente esposta nei  capitoli seguenti, dedicati alla percezione ed alla memoria.   (2) BERGSON: Le paralogisme psycho-physiqgue in Revue de  Métaph. et de Morale, novembre 1904, pag. 895-908.   (3) Revue de métaphys. et de morale, num. cit., pag. 1027.    26 Esposizione della filosofia bergsoniana    compiono, come cose o come rappresentazioni: nel  primo caso siamo realisti, nel secondo idealisti. Che ¡i  due postulati si escludano lun 1'altro, che sia perció  illegittimo 1applicare nello stesso tempo i due sistemi  di notazione allo stesso oggetto, tutti lo accorderanno.  Orbene, se si opta per la notazione idealista, l'affer-  mazione del paralelismo implica contradizione; se si  preferisce la notazione realista, si ritrova la stessa  contradizione; la tesi del parallelismo non e intelligi-  bile se non nel caso, che per una incosciente pre-  stidigitazione intellettuale, si adottino nello stesso  tempo, nella stessa proposizione, i due sistemi di no-  tazione.   Poniamoci infatti dapprima dal punto di vista idea-  listico e consideriamo ció che avviene nella percezione  degli oggetti, che popolano il campo della visione.  Per Pidealismo tutto € immagine e nelle cose non vi  é se non ció che e mostrato nell'immagine, perchée la  realtá si identifica con la rappresentazione. Il mondo  esteriore € quindi un'immagine, il cervello 4 un'altra  immagine della stessa natura e nella danza degli  atomi cerebrali non c'e nulla di piú ne di diverso, se  non la danza di questi atomi stessi. 11 dire col paral-  lelismo che lo stato cerebrale equivale alla rappresen-  tazione degli oggetti, é un assurdo in questa ipotesi ;  poiché lo stato cerebrale € un'infima parte del campo  di rappresentazione, mentre gli oggetti riempiono il  campo di rappresenzazione tutto intero. É evidente  che la parte non pud equivalere al tutto, e che for-  mulato in una lingua rigorosamente idealista, la ' tesi  del parallelismo si riassumerebbe in questa proposi-  zione : la parte e il tutto,   Ma la veritá € che si passa incoscientemente dal  punto di vista idealistico al punto di vista pseudo-  realista. Si € cominciato a fare del cervello una rap-  presentazione, che non ha da suscitare le altre rappre-    > IL       I nemici della durata reale 27.       sentazioni, poiché queste sono date con esso, attorno  ad esso. Ma insensibilmente si arriva ad erigere il cer-  vello ed i movimenti intracerebrali in. cose, cioé in  cause nascoste dietro una certa rappresentazione ed  il cui potere si estende infinitamente piú lungi di ció  che vien rappresentato. Dall'idealismo si é sdruccio-  lato nel realismo.   Passiamo ora al realismo, secondo il quale, le mo-  dificazioni del cervello prodotte dalle cose esterne,  creano, occasionano o almeno esprimono la rappre-  sentazione degli oggetti da me veduti. Si noti che, a  differenza dell'idealismo, il realismo non pud separare  dal tutto reale ció che € separabile nella rappresenta-  zione ; esso definisce l'oggetto per la sua solidarietá  col tutto ed anche la scienza, man mano che progre-  disce, considera l'interazione come la realtá definitiva.  1l realista perció dovrebbe dire che la rappresenta-  zione degli oggetti € funzione dello stato cerebrale e  degli oggetti che lo determinano, poiché questo stato  e questi oggetti formano per lui un blocco indivisi-  bile. 1l sostenere che la rappresentazione é funzione  dello stato cerebrale soltanto, é contraditorio ed equi-  vale alla affermazione che una relazione tra due ter-  mini equivale all'uno di essi, oppure all'altra : una  parte, che deve tutto ció che e, al resto del tutto,  pud essere concepita come sussistente, quando il resto  del tutto svanisce. Ein questa contradizione che incorre  il parallelismo. Esso comincia a darsi un cervello, che  gli oggetti esteriori modificano in modo da suscitare  delle rappresentazioni. Poi fa tavola rasa di questi 0g-  getti e attribuisce alla modificazione cerebrale il po-  tere di disegnare, da sola, la rappresentazione degli  oggetti. Ma ritirando gli oggetti che lo incorniciano,  si ritira anche lo stato cerebrale, che da loro prende  le sue proprietá e la sua realtá. Il realista lo conserva,  perché passa furtivamente al sistema di notazione    28 Esposizione della filosofia beresoniana       idealista, ove si pone come isolabile in diritto ció che  e isolato nella rappresentazione.   L*essenza stessa dell'illusione parallelistica consiste  nell*apparente conciliazione di due affermazioni incon-  ciliabili, nell*oscillare ciog dall'idealismo al realismo o  dal realismo all'idealismo.   Questo, in breve, é il discorso di Bergson, che nei  congressisti causó una emozione profonda e che fu  seguito da una discussione vivacissima, la quale si  prolungó anche dopo la seduta, nelle conversazioni  accalorate dei filosofi presenti a quel Congresso.    c) Il tempo e lo spazio.    Dopo le scaramuccie contro la psicofisica e la psico-  fisiologia, Bergson con una battaglia campale contro  certi idoli dellazione e del linguaggio vuol dimostrare  quella profonda distinzione tra durata e spazialitá, che,  come ben nota il Prezzolini, forma un leit-motiv del-  l'opera sua (1).   Se dai fenomeni di coscienza, presi isolatamente,  passiamo alla molteplicitá concreta ed allo sviluppo  organico della vita interiore, noi vediamo che in questa  tutto si compenetra e si fonde in un cangiamento in-  divisibile, ininterrotto, eterogeneo. 1 che, come si  disse, non viene menomamente ammesso dal senso co-  mune, dalla filosofia, dalla scienza, quando frazionano  la continuitá della durata pura in tanti stati distinti,  separati, esteriori gli uni agli altri, che si possono  trattare come i numeri dell”aritmetica e rappresentare  per mezzo di una giustaposizione nello spazio. Sorge  quindi la questione: la molteplicitá dei nostri stati  di coscienza ha la minima analogia con la molteplicita    (1) Opera citata, pag. 3135.       Ne    I nemici della durata reale 29    delle unitáa di un numero? la vera durata ha il me-  nomo rapporto con lo spazio? (1).   Nell Estetica trascendentale Kant, con una conce-  zione che non differisce troppo dalla credenza popolare,  distingue lo spazio dalla materia che lo riempie, gli  concede un esistenza indipendente dal suo contenuto.  Lo spazio per Kant é un mezzo vuoto, infinito e infi-  nitamente divisibile, che si presta indifferentemente a  qualsiasi modo di decomposizione; € una realtá senza  qualitá, una omogeneitá estesa, una maglia dalle reti  che si possono fare e disfare a piacimento (2). In  questo spazio noi ci rappresentiamo i numeri, le unita  omogenee, che non si penetrano, ma che sono su-  scettibili di essere sbocconcellate all'infinito e poste le  une accanto alle altre.   Ossessionati da questa idea, osserva Bergson, noi  Pintroduciamo a nostra insaputa nella rappresentazione  della successione pura della coscienza e proiettiamo nello  spazio il tempo concreto, vale a dire la durata reale, indi-  visa nella sua molteplicitá, una nella sua eterogeneita,  irreversibile nei suoi movimenti. In tal modoriesciamo a  dividere i nostri stati interni, a giustaporli, a percepirli  simultaneamente non piú l*uno nell'altro, fusi insieme  come le note di una melodia, ma l'uno accanto al-  Paltro. 11 prima ed il poi non si succedono piú, ma  coesistono e prendono per noi la forma di una catena,  i cui anelli si toccano senza penetrarsi. Cosi la conti-  nuita dei fatti di coscienza viene frazionata, ed i di-  versi stati, con un ordine che ci sembra reversibilis-  simo, si dispongono e si allineano in un mezzo  omogeneo ed indefinito. Il quale, nevvero, dovrebbe  essere chiamato spazio ed invece... prende il nome  di tempo!    (1) Essaz, pag. 69.  (2) 7b01d., pag. 70 € Seg.    30 Esposizione della filosofia beresoniana       Ora, non é forse vero che questo tempo kantiano  e un concetto bastardo, dovuto all'intrusione dell'idea  di spazio nel dominio della coscienza pura, e che  questa pretesa forma dell'omogeneo deriva dall'altra?  Non é forse vero che il tempo astratto non é che  spazio?   Bisogna persuadersi bene di ció, per non confon-  dere, come fece Kant, il tempo astratto, spazia-  lizzato, omogeneo, col tempo concreto, ossia con la  durata reale. C'2 una differenza capitalissima tra  essi: poiché il primo non e che il simbolo e 1'ombra  dell”altro, proiettato nello spazio.   Noi, purtroppo, sostituiamo sovente, pet ragioni  che ricercheremo poi, il simbolo alla realtá. Ma quando  stacchiamo gli occhi dall*ombra che ci segue; quando  con mano franca strappiamo il velo che si interpone  tra la realtá e noi; quando, — non fermandoci alla  superficie del nostro io, dove le sensazioni successive.  pur fondendosi le une nelle altre, ritengono qualche  cosa dell”esterioritá reciproca che ne caratterizza opgetti-  vamente le cause, — gettiamo lo sguardo indagatore nelle  regioni piú profonde della coscienza vivente; noi scor-  giamo che in questa non vi sono cose, ma progressi; vi  notiamo momenti eterogenei che si penetrano, si orga-  nizzano, si mescolano in tal maniera, che non si sa-  prebbe dire se sono uno o molti e nemmeno esami-  narli da questo punto di vista senza snaturarli tosto (1).  Allora comprendiamo che la molteplicitá qualitativa  degli stati di coscienza, riguardata nella sua purezza  originale, non presenta alcuna rassomiglianza con la  molteplicita distinta che forma un numero, e che al-  lVinfuori di una rappresentazione simbolica, il tempo  non prenderebbe mai per noi l'aspetto di un mezzo  omogeneo.    (1) Z61d., pag. 96 e 104.       I nemici della durata reale 31    Una distinzione dunque si impone tra le due forme  della molteplicitá, tra le due apprezziazioni della du-  rata: luna é la durata vera e concreta, la durata  eterogenea e vivente, la durata qualitá; Paltra e in-  vece un simbolo morto, € la durata quantita, e un  un tempo materializzato per mezzo di una proiezione  nello spazio, € il fantasma dello spazio che ci perse-  guita e ci ossessiona (1).   Per non essersi ricordati di questo, gli associazio-  nisti hanno polverizzato la vita dello spirito, risolven=  dola in un aggregato di elementi separati ed incon-  trando poi gli assurdi che la loro teoria suscita nella  questione della libertá e nel problema della memoria.  Lo mostreremo ampiamente in seguito e sempre ci  accorgeremo che chi calpesta i diritti della durata  reale solleva mille dispute inutili, insolubili ed eterne.  Il giorno in cui avvenne la confusione di quei due  aspetti della vita cosciente, del tempo con lo spazio,  — cosl esclamava Bergson in una conferenza al Col-  lege de France — si iniziarono i guai e le sciagure  della filosofia (2).   Ma allora, si domanderá, se la durata propriamente  detta non si divide e quindi non si misura, che cosa  dividono e che cosa misurano le oscillazioni del pen-  dolo? 11 tempo che l”astronomia, la fisica e la mecca-  nica introducono nelle loro formule, non é forse una  egrandezza divisibile, misurabile ed omogenea?   Un esame attento, risponde il Bergson, dissipera  quest' ultima illusione. Quando io seguo con gli occhi,  sul quadrante d'un orologio, il movimento della lan-    (1) Z01d., pag. 57-81.   (2) Cfr. GRIVET, art cit., in £tudes. - Riguardo alla spazia-  lizzazione della durata, si vegga anche la risposta del Bergson  al Le Dantec in Revue du mois, 1o settembre 1907 : L*évolution  créatrice.       32 Esposizione della filosofia bergsoniana    cetta che corrisponde alle oscillazioni del pendolo, ¡o  non misuro la durata, ma mi limito a contare delle  simultaneitá, cosa che e ben differente. Fuori di me  nello spazio, non c'é che una posizione unica della  lancetta e del pendolo, poiché delle posizioni passate  nulla resta. Dentro di me, avviene un processo di  organizzazione dei fatti di coscienza, che costituisce la  durata. E perché io duro in questo modo, che mi rap-  presento ció che chiamo le oscillazioni passate del  pendolo, nello stesso tempo che percepisco 1'oscilla-  zione attuale. Ora, sopprimiamo per un istante l'¡o,  che pensa le oscillazioni successive; non vi sará che  una sola oscillazione del pendolo e quindi nessuna du-  rata. Sopprimiamo, dall*altra parte, il pendolo e le sue  oscillazioniz non vi sará che la durata eterogenea  dell'io, senza momenti esteriori gli uni agli altri, senza  rapporto col numero. Cosl nel nostro io, c'é succes-  sione senza esterioritá reciproca; fuori di me esterio-  rita reciproca senza successione, poiché la successione  esiste soltanto per uno spettatore cosciente, che  ricordi il passato e giustaponga le due oscillazioni e i  loro simboli nello spazio ausiliario. Tra queste due  realtá si produce un fenomeno d'endosmosi. Siccome  ciascuna delle fasi successive della nostra vita co-  sciente, che si penetrano tra loro, corrisponde ad una  oscillazione del pendolo, che le € simultanea; siccome  d'altra parte queste oscillazioni sono nettamente di-  stinte, poiché l'una non c'é piú, quando si produce  l'altra, noi contraiamo l'abitudine di stabilire la stessa  distinzione tra i momenti successivi della nostra vita  cosciente; le oscillazioni del bilanciere la decompon-  gono in parti esteriori le une alle altre: di qui l'idea  erronea d'una durata interna omogenea, analoga allo  spazio, i cui momenti identici si seguirebbero senza  penetrarsi. Ma dall'altro lato le oscillazioni pendolari,  ciascuna delle quali svanisce, quando l'altra appare,       I nemici della durata reale : 33    grazie al ricordo che la nostra coscienza organizza del  loro complesso, si conservano, si allineano e creano  nella nostra fantasia il tempo omogeneo (1). Cosi dalla  comparazione dello spazio, dove i fenomeni non du-  rano, e la durata reale, dove non vi sono che mo-  menti eterogenei, nasce questa forma illusoria d'un  mezzo omogeneo ; il trait-d'union tra 1 due termini é  la simultaneitá, che si potrebbe definire 1'intersezione  del tempo con lo spazio. Ancora una volta, il tempo  omogeneo ed astratto é solo una rappresentazione  simbolica della vera durata, dedotta dallo spazio.   Se ora sottoponiamo alla stessa analisi il concetto  di movimento, noi verremo ad un identico risul-  tato (2).   lo ho la mano al punto A e la trasporto al punto  B, percorrendo l'intervallo A-B. In questo atto ¡o  posso considerare due cose :   Innanzi tutto, lungo questo movimento posso rap-  presentarmi lo spazio percorso, cioé le possibili fer-  mate, le stazioni del mobile, i punti per i quali la  mia mano passa. Queste posizioni, questi punti non  sono nel movimento e neppure sotto il movimento :  sono semplicemente proiettati da me sotto al moto,  come tanti luoghi dove sarebbe la mano, se si fer-  masse; sono quindi dei semplici punti di vista. Non  basta : le stazioni, i punti sono l'immobilita stessa ;  anche moltiplicindoli all'infinito, non si ricostruisce il  moto. Il movimento sdrucciola nell*intervallo. In breve:  lillusione di costruire il movimento con quelle posi-    (1) Essaz, pag. 8273.   (2) Essai, pag. 78 e Seg. ; Matiére el Mémotre, pag. 207 € Seg. ;  La perception du-changement, pag. 19 € Seg. Prego i lettori a se-  guire attentamente l'analisi bergsoniana pel movimento : essa ha  dato origine alla famosa obiezione del Le Roy contro la prima  delle cinque vie che, secondo S. Tommaso conducono a Dio. Cfr. .LE  ROY: Comment se pose le probleme de Dieu, l. c.    F. OLGI1ATI 3    34 Esposizione della filosofia bergsoniana  PA E E       zioni immobili, implica l'assurdo che il movimento +  immobilitá (1).   Ma io posso riguardare anche l'atto col quale per-  corro quello spazio, l'operazione ciog per cui la mano  passa da una posizione all'altra. Allora non ho piú  Una 'CoSa, ma un progresso ; ho una sintesi qualitativa,  'un'organizzazione graduale delle mie sensazioni suc-    cessive, un”unitá analoga a quella d'una frase melo-    dica, 'un processo psichico e percid inesteso. In questo  caso non ho piú i punti traversati, che non erano che  immobilita, ma ho la traversata dei punti, cioé il vero  movimento.   Ma anche qui si produce un fenomeno d'endosmosi:  da una parte, siccome il movimento, una volta effet-  tuato ha deposto nello spazio una traiettoria immobile,  divisibile all'infinito, noi attribuiamo al movimento la  divisibilitá stessa dello spazio percorso, dimenticando  che l'immobilitá non coincide col movimento e che,  se si pud frazionare la traiettoria una volta creata, non  si puó dividere la sua creazione, che non é una cosa,  ma un atto in progresso. Dall'altra parte noi ci abi-  tuiamo a proiettare questo atto nello spazio, a solidi-  ficarlo, come se questo non significasse che anche  fuori della coscienza il passato coesiste col presente (2).   E in questo modo che sorge l'idolo del movimento  omogeneo e divisibile, il quale rappresenta - gioverá  ripeterlo - lo spazio percorso e non il moto stesso, le  stazioni successive del mobile e non il progresso per  cui esso passa da una posizione all'altra, il punto di  riposo e non lattivita, Pestremitá e non l'intervallo  della durata, in una parola l'immobilitá e non il mo-  vimento ! Qual meraviglia se per queste confusioni il    (1) Cfr. anche /Zntrod. a la Meétaph., trad. ital. pag. 49, Essaz,  pag. 84-5, Évol. cr. pag. 344, 393 etc.  (2) Essaí pag. 85, Évol. cr., 334.    I nemici della durata reale 35    problema del moto ha fatto nascere fin dalla piú re-  mota antichitá mille questioni? 1 quattro famosi ar-  gomenti di Zenone d”Elea non hanno altra origine di  questa. Sia il primo (della dicotomia), sia gli altri  (d*Achille e della tartaruga, della freccia, dello stadio)  non fanno altro che scambiare il fatto indivisibile del  movimento con la traiettoria infinitamente divisibile,  che quello descrive, e che non é altro che spazio im-  mobile (1).   Ed e solo su quest'ultimo che riposa tutta la nostra  fisica, anche quando si parla di tempo, di moto, di  velocitá.   I trattati di meccanica infatti hanno cura di notare  che essi non definiscono la durata stessa, ma l'egua-  glianza di due durate. Due intervalli di tempo, di-  cono essi, sono eguali, quando due corpi identici,  posti nelle stesse circostanze al principio di ciascuno  di questi intervalli, e sottomessi alle stesse azioni ed '  influenze di ogni specie, avranno percorso lo stesso  spazio alla fine di questi intervalli. In altre parole noi  notiamo l'istante preciso in cui il movimento comincia,  ciog la simultaneita d'un cangiamento esteriore con  uno dei nostri stati psichici; notiamo il momento in  cui il movimento fluisce, cioé una simultaneitá ancora;  infine misuriamo lo spazio percorso, la sola cosa che  di fatto sia misurabile. Qui non c'é dunque questione  di durata, ma solo di spazio e di simultaneitá (2),  vale a dire d'immobilitá. 11 tempo reale, che é un  flusso, ed € la mobilitá stessa dell'essere, sfugge alla  conoscenza scientifica (3). Dal punto di vista della    (1) Essai, pag. 85-7, Mat. et Mém. pag. 211-2; ÉvOol. cr. pag. 333  eseg.; Introd. a la Mét., trad. ital. pag. 52. La perception du  changement, Conf. Il, pag. 20.   (2) Essaz, pag. 88.   (3) Lvol. cr., pag. 364.    36 Esposizione della filosofia bergsoniana  A e A E A       scienza, ció che conta non e P'intervallo di durata, che  noi viviamo e sentiamo, ma sono le stazioni del mo-  bile, tanto € vero che se tuttii movimenti dell”uni-  verso si producessero due o tre volte pid in fretta,  non vi sarebbe nulla da modificare ne alle nostre for-  mule né ai numeri che vi facciamo entrare (1). Edé  evidente; poiché la scienza non tiene conto ná della  successione in ció che ha di specifico, ne del tempo  in ció che ha di fluido; essa non si applica alla realtá  in ció che ha di movente, come i ponti lanciati su  un fiume non seguono l'acqua che scorre sotto le  loro arcate (2).   Analizziamo finalmente la nozione di velocitá. La  meccanica costruisce dappprima l'idea d'un moto  uniforme, rappresentandosi d'un lato la traiettoria  A B d'un certo mobile, e dall'altro un fenomeno  fisico che si ripete indefinitamente in condizioni iden-  tiche, per esempio la caduta d'una pietra, che cade  sempre dalla stessa altezza al medesimo luogo. Se si  notano sulla traiettoria A B ¡ punti M, N, P.... rag-  giunti dal mobile in ciascuno dej momenti in cui la  pietra tocca il suolo, e se gli intervalli A M, MN, NP...  sono riconusciuti eguali tra loro, si dirá che il movimento  e uniforme e si chiamera velocita d'un mobile uno  qualunque di questi intervalli, purché si convenga di  adottare come unitá di durata il fenomeno fisico, che  si é scelto come termine di paragone. Si definisce  dunque la velocitá d'un movimento uniforme senza  fare appello ad altre nozioni che a quelle di spazio e di  simultaneitá. Conclusione, questa, alla quale si giun-  gerebbe analizzando anche il moto variato (3).   Confessiamolo, dunque; noi parliamo di tempo,       (1) Essaz, pag. 83-89, 148, cfr. anche £vol. C7., PAY. 10.  (2) Evol. cr., pag. 366.    (3) Essaz, pag. 89-90.    E A    PA    ,  ya)    SAR e ná    I nemici della durata reale 37       pronunciamo questa parola, e pensiamo allo spazio.  Discorriamo di movimento e ad esso sostituiamo la  simultaneitáa. Noi insomma - esclamava Bergson nella  prima conferenza di Oxford - diciamo e ripetiamo che  tutto cangia, che il movimento esiste, che esso € la  legge stessa della cose : ma intanto ragioniamo e fi-  losofiamo, come se il cangiamento non esistesse. Per  pensarlo e per vederlo, bisogna rimuovere un velo  fitto di pregiudizi (1).    (1) La perception du changement, Conf. 1, pag. 4.          In.    L' Intelligenza ed il Linguaggio    Chi vuole riprodurre per mezzo del cinematografo  una scena animata, ad esempio la sfilata di un reg-  gimento, prende sul reggimento che passa una serie  di istantanee, e le proietta sulla tela in modo che si  sostituiscano velocissimamente le une alle altre. Col  movimento impersonale, astratto e semplice dell*appa-  recchio, e con fotografie, ciascuna delle quali rappre-  senta il reggimento in un attitudine immobile, si rico-  stituisce la mobilitá dei soldati che passano.   Il meccanismo della nostra conoscenza usuale —  dice il Bergson, e questa é una delle idee a lui  piú care, che sviluppó lungamente del 1goo al 1904  nelle sue lezioni al College de France, sopratutto in  un corso sulla storia dell'idea di tempo — é di na-  tura cinematografica (1).   Ne abbiamo una prova evidente nella ricostruzione  che il pensiero concettuale fa del divenire continuo  della durata. Noi prendiamo delle vedute istantanee  su questa realtá interiore che scorre, e poi le infiliamo  lungo un divenire astratto ed uniforme, situato al    (1) Évol. cr., pag. 329 € Seg.    X    40 Esposizione della filosofia beresoniana          fondo dell'apparecchio della coscienza. Quale valore  abbia questo divenire, che si vuol chiamare tempo  omogeneo, l'abbiam gia visto nel capitolo precedente;  ora invece ricercheremo il significato delle varie foto-  grafie, vale a dire dei concetti della nostra intelligenza,  e del linguaggio con cui li enunciamo.   pa   Qualunque sia il sistema filosofico che abbia le  nostre preferenze, noi tutti siamo d'accordo su due  punti. Siamo pronti ciod a concedere coi pensatori  antichi e moderni che un essere perfetto sarebbe colui  che conoscesse ogni cosa intuitivamente, senza aver  bisogno di passare per l'intermediario del ragionamento,  dell'astrazione e della generalizzazione. Inoltre tutti  affermiamo che le idee astratte e generali, i concetti,  hanno solo il valore delle percezioni eventuali da essi  rappresentate : tanto é vero che crollano come castelli  di carta il giorno in cui un fatto, un fatto solo real-  mente percepito viene ad urtarli (1).   Se si ammette questo, — e come non ammetterlo ?  — bisogna necessariamente procedere oltre e conce-  dere che ¡i concetti coi quali esprimiamo la durata del  nostro io profondo, sono schemi morti che non ci  danno la realtá, ma solo l'ombra di questa; sono fo-  tografie immobili, relative ad uno speciale punto di  vista, che non ci possono servire in u na filosofia che  che vuol cogliere l'assoluto.   La durata infatti della nostra coscienza é un flusso  continuo ed indiviso, dove tutto é cangiamento. Eb-  bene, cosa fa la nostra intelligenza? Essa comincia a  distinguere e a dividere questa vita interiore e ne ot-  tiene delle unitá artificiali, che chiama sensazioni,  sentimenti, rappresentazioni, ecc. Riesce cos] a rappre-    (1) La perception du changement, Conf. 1, pag. 5-8.       ?    L'intelligenza ed il linguaggio 41       sentarsi il divenire come una serie di stati, ciascuno  dei quali non muta punto; e se osserva la mutazione  di uno di essi, subito lo decompone in un seguito di  altri stati immobili, che costituiranno riuniti la sua  modificazione esteriore, e cosl via, fin quando non ha  ottenuto degli elementi stabili. L*intelligenza ha una  viva ripugnanza per ció che e fluido, solidifica tutto  ció che tocca, e non si rappresenta chiaramente che la  immobilitá. Siccome quindi il reale, il vissuto, il con-  creto si riconosce per il fatto che e la variabilita stessa,  é chiaro che coi concetti invariabili e fissi, con questi  quadri rigidi ed inerti, non potremo ricomporre la  realta.   Essi sono soltanto una ricostruzione semplificata,  spesso un semplice simbolo, in ogni caso una veduta  immobile, presa sulla fugace successione della realtá  che scorre (1).   Non é vero, rispondera l'intelligenza; la durata é  unitá e molteplicitá: eccola risolta in concetti, esat-  tamente, ed in concetti estratti d a essal — Ma é un  tentativo vano di difesa. La nostra durata non puó  racchiudersi in una rappresentazione concettuale. Se  la si dichiara multipla, la coscienza insorge ed afferma  che le mie sensazioni, i miei sentimenti, i miei pensieri  sono astrazioni che opero su me stesso, e che questi  termini, invece di distinguersi come quelli di una mol-  teplicitáa qualunque, si accavallano gli uni sugli altri.  Confessiamo dunque che, se c'é una molteplicita, questa  molteplicitá non rassomiglia a nessun altra. Diremo  allora che la durata ha dell?unita? Senza dubbio, una  continuitá di elementi che si prolungano gli uni negli  altri partecipa dell'unitá quanto della molteplicita; ma  questa unitá -mobile, mutevole, colorata, vivente, non    (1) Cfr. Zntrod. á la Mét., trad. ital. pag. 45, 48; Évol. cr.  pag. 50, 169, 177.    42 Esposizione della filosofia bergsoniana       rassomiglia affatto all?unitá astratta, immobile e vuota,  che circoscrive il concetto di unitáa pura. Conclude-  remo da ció che la durata si deve definire ad un  tempo con lunitá e la molteplicita? Ma, cosa strana,  avró un bel manipolare i due concetti, dosarli, com-  binarli diversamente insieme, praticar su di essi le  piú sottili operazioni della chimica mentale, non otterrd  mai niente che somigli all'intuizione semplice che ho  della durata; mentre se io mi rimetto nella durata con  uno sforzo d'intuzione, m'accorgo subito come essa  é unita, molteplicitá e molte altre cose ancora (1). In  altre parole si comprende che i concetti fissi pos-  sono essere estratti dal nostro pensiero dalla realtá  mobile; ma non c'é modo di ricostruire, colla fissitá  dei concetti, la mobilitá del reale (2). E del resto che  che la personalitá abbia dell”unitá, che il nostro io sia  molteplice, é certo; ma ció che importa alla filosofia  é di sapere quale unitá, quale molteplicita, guale  realtá superiore all'uno e al multiplo astratti, sia la  unitá molteplice della persona (3). Questo ¡ concetti  né separati né riuniti non ce lo diranno mai; tutto  al piú faranno sorgere una tesi ed un'antitesi, che  invano cercheremo di conciliare logicamente (4).   E non si dica che i concetti sono estratti dalla realtá :  lo concediamo; ma da ció non si pud concludere che  vi erano contenuti.   L”apparecchio fotografico estrae, da uno spettacolo  che si muove, delle vedute immobiliz ma non ne  segue che le immobilita abbiano fatto parte del mo-  vimento. Tra la realtá ed i concetti ad essa piú. vi-  cini, c'é lo stesso rapporto che tra la scena animata e    (1) Zntrod. á la Mét. trad. it., pag. 29.   (2) Z61d., pag. 63.   (3) Zb1d., pag. 41; Cfr. anche Le paralogisme psycophysique in  Bulletin n. cit., pag. 40.   (4) Z01d., pag. 42.          L*intelligenza ed il linguaggio 43  . A    la fotografia istantanea. Che sarebbe poi, se si consi-  derassero tutti gli altri concetti, che sono meno an-  cora di questo, semplici note prese a proposito di  questa realtá, ed anche, piú sovente, note prese su  queste note? (1)   Non basta: per altre ragioni ancora dobbiamo con-  dannare l'intelligenza. Essa € invaghita di semplicita,  ha abitudini tenaci e radicate di economia. Con  pochi principii, con pochi elementi, vuol ricomporre  tutto il reale, il quale invece € ridondante, é sovrab-  bondante e colle sue innumerevoli manifestazioni Ci  attesta la sua ricca feconditá. Tra la realtá vera e  quella dei filosofi, si puó stabilire lo stesso rapporto  che esiste tra la vita che noi viviamo tutti i giorni e  quella che gli attori ci rappresentano, la sera, sulla  scena. Al teatro ciascuno non dice che ció che bisogna  dire e non fa che ció che bisogna fare; vi sono delle  scene ben tagliate; la rappresentazione ha un prin-  cipio, un mezzo, una fine; e tutto é€ disposto colla  massima parsimonia, in vista d'uno scioglimento fe-  lice o tragico. Ma nella vitá c'e una folla di cose e  di gesti inutili, non vi sono situazioni nette; nulla  avviene cosi semplicemente, cosl completamente, cosl  bellamente come vorremmo; le scene si allargano le  une nelle altre, le cose non cominciano né finiscono,  non c'é né uno scioglimento interamente soddisfa-  cente, ne gesti assolutamente decisivi e via dicendo (2).  Tale e la vita nella sua feconda ricchezza. Come mai  questa potrá essere abbracciata dalle forme ischele-  trite del pensiero, dai quadri dell'intelletto, da pochi  concetti ?    (1) Bergson scrisse questo nella sua lettera al Pitkin in The jour-  nal of phylosophy etc. num. cit.   (2) BERGSON : Vérité et realité. Introd. alla trad. franc. di un  libro di William James : Le pragmatisme, pag. 2-3.    44 Esposizione della filosofia bergsoniana       Tanto piú che noi abbiamo visto che la durata €  originalita e imprevedibilitá per essenza. In essa non vi  sono mai due istanti uguali; ogni momento della sua  storia porta qualche cosa di nuovo che scaturisce  senza posa nella genialitá di uno slancio creatore. Se  si volessero vestire questi momenti, si dovrebbe ta-  gliare un concetto appropriato a ciascuno di essi, che  a fatica si potrebbe chiamare concetto, perché si ap-  plicherebbe ad una cosa sola. Invece l'intelligenza  non vede che l'aspetto ripetizione ; se il tutto é ori-  ginale, essa l'analizza in aspetti, che sono press'a poco  la riproduzione del passato. Essa non ammette la novita  completa né il divenire radicale, ma risolve la perenne  invenzione creatrice della durata in elementi conosciuti  ed antichi, disposti in un ordine differente (1). Per  questo procede con la combinazione di idee che si  trovano gia in commercio e nella sua incurabile pre-  sunzione si immagina di possedere per diritto di na-  scita o per diritto di conquista, innate o apprese, tutti  gli elementi essenziali della conoscenza della veritá.  Non le viene nemmeno il sospetto di dover creare per  un momento nuovo un nuovo concetto, ma é preoc-  cupata solo di scegliere uno degli abiti gia confezio-  nati; vuol trovare la categoria antica, il vecchio ca-  sellario, la rubrica usuale, l'etichetta di un concetto  bello e fatto (2). L'intelligenza perció comincia a tra-  scurare la colorazione speciale della persona, che non    puó esprimersi in termini noti e comuni. Poisi sforza ,    di isolare nella persona gia semplificata a quel modo,  il tale o tal'altro aspetto che si presta ad uno studio  interessante, e lo erige in fatto indipendente, otte-  nendo cosi un punto di vista sulla mobilitá della vita  interna, uno schema della realtá concreta. É un la-    (1) Évol. cr., pag. 177 e Seg.  (2) Zb1d., pag. 52-3, Introd, á la Mét., trad. ital. pag. 40-3.       L'intelligenza ed il linguaggio 45       voro analogo a quello dun artista, che, di passaggio  a Parigi, facesse, ad esempio, uno schizzo d'una torre  di Nótre-Dame. La torre é inseparabilmente legata  all'edificio, che € legato, non meno inseparabilmente,  al suolo, ai dintorni, a tutta Parigi ecc. Bisogna co-  minciare collo staccarla ; si noterá solo un certo aspetto  dell'insieme. La torre é costituita da pietre che le  dánno, con la loro speciale combinazione, la sua forma,  ma il disegnatore non si interessa alle pietre e non  nota che il profilo della torre. Egli sostituisce dunque  all'organizzazione reale ed interna della cosa una ricosti-  tuzione interna e schematica, in modo che il suo disegno  risponde, insomma, a un certo punto di vista sull*oggetto  e alla scelta di un certo modo di rappresentazione (1).  Ora succede precisamente lo stesso nell'operazione  colla quale estraiamo un concetto dall'insieme della  persona: noi consideriamo.il tutto sotto un certo aspetto  elementare che si interessa particolarmente e lo espri-  miamo con un concetto, che non ci dá l'assoluto, come  non ce lo dá lo schizzo preso dalla torre di Nótre-  Dame. Quest'ultimo avrebbe potuto essere diverso,  se fosse stato ritratto da un punto di vista differente;  quello pure non ci dá dell'oggetto in questione che  qualche tratto sommario, variabile secondo la dire-  zione e Pangolo. L*analisi concettuale é quindi relativa,  poiché non si pone nell*oggetto, ma gira attorno ad  esso ed e costretta a tradurlo in simboli, a confrontarlo  con altre cose che giá crede di conoscere, a espri-  merlo in funzione di ció che esso non é. Anche ag-  giungendo descrizioni a descrizioni, moltiplicando i  punti di vista, non ci dará mai una conoscenza per-  fetta : l'oggetto sará sempre la moneta d'oro di cui  non si finisce di rendere il resto (2). E quando si ten-    (1) Zntrod. a la Mél., pag. 32-3.  (2) Zb1d,, trad. ital. pag. 13-19.    46 Esposizione della filosofia bergsoniana          terá con la moltitudine di queste rappresentazioni  simboliche, con le idee e con i concetti, di ricostruire  la realtá assoluta, non vi si riuscirá, come non riesce  un bambino a fabbricarsi un balocco solido con le  ombre che si profilano sui muri (1). Come e possi-  bile fabbricare la realtá, manipolando dei simboli?  Come si potrá rappresentare la durata con una serie  di note, di rappresentazioni piú o meno schematiche?  Come si potrá comporre una cosa con punti di  vista ? (2).    ES  *    Ecco quindi spiegato 1”eterno bisticciare delle scuole  filosofiche, le difficoltá inerenti alla metafísica, le an-  tinomie che fa sorgere, le contradizioni in cui cade,  il pullulare di teorie antagoniste, lopposizione irridu-  cibile dei sistemi.   Se la filosofia dev'essere fondata sui concetti, non  v'é e non vi pud essere uma filosofia, ma vi saranno  tante filosofie, quanti sono i pensatori originali, che  salgono alternativamente sulla scena, per farsi applau-  dire (3). Con un decreto contestabile essi attribuiranno  un'importanza arbitraria ad un concetto o ad un altro,  ad un punto di vista sulla realtá, che impoverirá la  visione concreta ed eliminerá una moltitudine di  differenze qualitative. A questo decreto se ne potrá  sempre opporre un altro e cosi sorgeranno varie filo-  sofie, armate di differenti concetti e capaci di lottare  indefinitamente tra loro.   E allora che si avanzano le dottrine scettiche,  idealiste e criticiste, che, constatando Pimpossibilita di       (1) Z01d., pag. 31.   (2) Zbid., pag. 50.   (3) Z61d., pag. 27 e Seg.; Bulletin de la Soc. fr. de phil., 1901,  pag. 50; La perception du changement, Conf. I, pag. 7-6.       L'intelligenza ed il linguaggio 47    far entrare il reale nei vestimenti di confezione che sono  le nostre idee, proclameranno con Kant la relativitá  della conoscenza (1). Dopo troppo orgoglio si finisce con  un eccesso di umiltá. Dopo la pretesa assurda di voler  racchiudere negli schemi concettuali la ricchezza ine-  sauribile dello spirito vivente e di voler cogliere con  formule fisse ed immutabili il rinnovarsi incessante  d'una primavea eterna, eternamente nuova ed ine-  sauribile nelle sue creazioni, la ragione umana giunge  con orgogliosa modestia a dichiarare il proprio falli-  mento e l'impossibilitá della metafísica (2).   A questa triste e sconsolata conclusione non si  sarebbe giunti, se si fosse incominciato a valutare con  sereno giudizio la natura dell'intelligenza nostra, scien-  tifica o metafisica che sia; se nel tempo spazializzato,  nel movimento omogeneo, nei concetti astratti, nelle  idee generali, si fosse riconosciuto una conoscenza  esclusivamente pratica, orientata verso il profitto che  ne vogliano ricavare. Ce ne persuaderemo, esami-  nando la funzione naturale dell'intelligenza, 1'origine  delle idee generali e la natura propria del linguaggio.    *k  *   Se potessimo spogliarci della nostra superba fierezza,  se per definire la nostra specie ci tenessimo stretta-  mente a ció che la storia e la preistoria ci presentano  come la caratteristica costante dell'uomo, noi non di-  remmo homo sapiens, ma homo faber. Originaria-  mente noi non pensiamo, che per agire. La specula-  zione é un lusso, mentre l'azione é una necessitá. Ed    e nella forma dellazione che la nostra intelligenza é  stata fusa; essa non e la facolta di fabbricare sistemi    (1) Introd. a la Mét., pag. 72-6.  (2) Évol. cr., pag MI.    48 Esposizione della filosofia bergsoniana    di metafisica, bensi di preparare strumenti artificiali.  Stretta dalle esigenze della vita pratica, la sua atti-  vitá si esercita esclusivamente sulla materia bruta,  nel senso che anche quando adopera materiali orga-  nizzati, li tratta sempre come oggetti inerti. Della  stessa materia bruta non ritiene che il solido, e non  si rappresenta chiaramente che il discontinuo ; perció    considera ogni oggetto decomponibile in parti arbitra-    mente tagliate, esteriori 1*una all'altra e alla loro volta  divisibili all'infinito; la realtá ultima, 1*elemento estremo  é sempre per essa qualche cosa di stabile e di immo-  bile. Questo é utile e questo le basta ; la fluidita e la  continuitá non l'interessano. Poi, per le esigenze della  vita pratica e sociale, l'intelligenza da alle cose esterne  un nome, estensibile ad un'infinita di oggetti. Nascono  cosl le idee, i concetti, che naturalmente sono este-  riori fra loro, come i modelli sui quali furono formati;  sono fissi ed inerti come il mondo dei solidi; sono  simboli piú leggieri, piú diafani, piú facili a manipo-  lare dell'immagine pura e semplice delle cose concrete.  La logica non é che l'insieme delle regole che bisogna  seguire, per maneggiare questi simboli.   I nostri concetti perció sono stati creati da un?atti-  vitá che non era destinata alla speculazione pura, ma  era orientata verso l'azione : dall”azione soltanto eb-  bero origine le idee generali (1).   Se si riflettesse a questo, scomparirebbe il circolo  vizioso che il problema delle idee generali sembra pre-  sentare : per generalizzare bisogna astrarre, ma per  astrarre utilmente bisogna saper generalizzare. Intorno  a questo circolo gravitano concettualismo e nomina-  lismo, ognuno dei quali ha sopratutto per sé l'insuf-  ficienza dell”altro. 1 nominalisti hanno il torto di non  dirci come mai il nome generale puó applicarsi a    (1) Z61d., pag. 149 € Seg.          L'intelligenza ed il linguaggio 49    molti oggetti, se questi non presentano rassomiglianze  tra loro, se cioé la generalizzazione non fu preceduta  da una estrazione di qualitá comuni. Í concettualisti  -si dimenticano di dirci se le qualitá individuali, anche  isolate con uno sforzo di astrazione, non restano indi-  viduali come prima, e se per apparire comuni non hanno  dovuto giá subire un lavoro di generalizzazione. Gli  uni e gli altri suppongono che noi partiamo dalla per-  cezione di oggetti individuali. Ora questo postulato  e falso. La nostra percezione delle cose ha origini  tutte utilitarie. Ció che ci interessa in una data si-  tuazione e ció che cogliamo dapprima, é il lato per  cui essa pud rispondere ad una tendenza o ad bisogno:  ed il bisogno va diritto alla qualita, alla rassomiglianza,  e non ha a che fare colle differenze individuali. Questa  rassomiglianza agisce oggettivamente come una forza  e provoca reazioni identiche in virtú della legge tutta  fisica che vuole che gli effetti d'insieme seguano le  stesse cause profonde. L”identitá di reazioni ad azioni  superficialmente diverse e il germe che la coscienza  umana sviluppa in idee generali. Siamo quindi libe-  rati dal circolo vizioso, nel quale sembravamo rinchiusi:  per generalizzare, dicemmo, bisogna astrarre le rasso-  miglianze, ma per far questo bisogna giá saper gene-  ralizzare. La verita e che la rassomiglianza dalla quale lo  spirito parte, quando dapprima estrae, non é la rasso-  miglianza alla quale giunge, quando, coscientemente,  generalizza. Quella da cui parte é una rassomiglianza  sentita, vissuta, automaticamente rappresentata; quella  a cui riviene é una rassomiglianza intelligentemente per-  cepita o pensata. Nel corso di questo progresso si co-  struisce l'idea chiara della generalitá, che ai suoi inizi  non era che la coscienza d*un'identita d'attitudine in  una diversita di situazioni. Con uno sforzo di riflessione  siamo passati all'idea generale del genere, per for-  mare poi un numero illimitato di nozioni generali, le    F. OLGIATI 4       50 Esposizione della filosofia bergsoniana          quali perció nacquero non dalla speculazione disinte-  ressata, ma dallazione (1).   Da questa ebbero origine anche tutti i prin-  cipii. Nel primo Congresso internazionale di filosofía,  tenutosi a Parigi nell'Agosto 1900, Bergson cercó di  dimostrare questa tesi, per quello che riguarda il prin-  cipio di causalita.   In quella sua Note sur les origines psychologiques  de notre croyance ú la loi de causalité (2), egli so-  stenne che la nostra credenza a questa legge € vissuta  dal nostro corpo, prima di essere pensata dal nostro  spirito. L*acquisto graduale di questa credenza non  fa che una cosa sola con la coordinazione progressiva  delle nostre impressioni tattili alle nostre impressioni  visuali, coordinazione che implica l'intervento di mo-  vimenti e sopratutto di tendenze motrici. La percezione  ripetuta di una forma visuale determinata crea in noi  un'aspettazione macchinale di percezioni tattili deter-  minate ; la forma visuale, che si continua cosi rego-  larmente in resistenza, ci appare a poco a poco come  la causa di questa resistenza. Ed a poco a poco anche  le forme visuali in generale, vale a dire gli oggetti  esteriori, ci appaiono come forze che agiscono rego-  larmente le une sulle altre. La riflessione, esercitan-  dosi su questa credenza, deduce il principio di cau-  salita sotto la sua forma precisa e scientifica. La  necessita inerente alla legge di causalitá si muove  cosl tra due limiti estremi: da necessita vissuta di-  viene necessita pensata. Empirismo ed apriorismo si  accordano a non tener conto che della seconda di  queste due forme della necessita; € per questo che    (1) Questa analisi sull'origine e la natura delle idee generali  si trova in Matiére et Mémoire, pag. 169 e seg.   (2) Questo discorso si trova in Bibliot. du Congrés Intern, de  Philos., Vol. 1, Philos, gén. et meétaphys.,       L*intelligenza ed il linguaggio 51    né Puno né l'altro ci dá una spiegazione veramente  psicologica della nostra credenza ai principii (1).    *  * xk    Se ¡ concetti, le idee, i principii derivano non gia  dalla speculazione, ma dalla vita, e precisamente dalle  relazioni nostre con la materia bruta, € evidente in-  nanzi tutto che l'intelligenza raggiunge con essi la  realtáa, quando si ferma nel dominio della materia  inerte. L'azione nostra non potrebbe muoversi nel-  Virreale e perció, purché non si consideri della fisica  che la sua forma generale e non il dettaglio della  sua realizzazione od il simbolismo delle sue leggi,  pud dire che essa tocca l'assoluto (2). S1, ripeteva  Bergson contro coloro che lo accusavano di anti-intellet-  tualismo; io dico che quando l'intelligenza umana e  la scienza positiva si esercitano sul loro proprio 0g-  getto, sono in contatto col reale e penetrano sempre  piú nell'assoluto (3).   Ma il male é, che quando Pintelligenza opera non  piú sulla materia bruta, ma sulla durata reale o sulla  vita (che, come vedremo, presenta tutti caratteri della  durata), tratta il vivente come l'inerte, applicando al  novello oggetto le stesse forme, proprie dei corpi inor-  ganizzati, trasportando nel nuovo dominio le mede-  simi abitudini contratte nell'antico campo (4). Ed  essa ha ragione di farlo, poiché a questa condizione  soltanto, il vivente offrirá alla nostra azione la stessa    (1) Ho utilizzato il sunto fedele che del discorso del Bergson  diede la Revue de Métaphys. et de Mor. settembre 1900, pag. 655  e seg.   (2) Évol. cr. pag. 216.   (3) BERGSON ; A propos de l 'Evolution de Pintelligence géome-  trique, in Revue de mél. et de mor ale, Gennaio 1908, pag. 30.   (4) vol. cr., Pag. 213-14.    52 Esposizione della filosofia bergsoniana       presa della materia inerte. Ma resti inteso che la ve-  rita alla quale allora si giunge, diviene tutta relativa  alla nostra facoltá di agire e non é piú che una ve-  rita simbolica, Nel nuovo dominio l'intelligenza non  é piú un sole che illumina il mondo, ma una lanterna  manovrata al fondo d'un sotterraneo (1).    q   Noi peró dimentichiamo tutto questo, sedotti dalla  grande causa di mille errori, il linguaggio,   Creato per designare le cose e null'altro che le cose,  il linguaggio, quando lo si applica alle idee, esige che  noi vi stabiliamo le stesse distinzioni nette e precise,  la stessa discontinuita che c'é tra gli oggetti mate-  teriali (2). Si vuole una prova convincente? Quando  noi diciamo che nella nostra durata molti stati di  coscienza s*organizzano tra loro, si penetrano, s'arric-  chiscono sempre piú; adoperando la parola « molti »,  abbiamo isolati questi stati, li abbiamo esteriorizzati e  glustaposti; coll'espressione stessa, alla quale eravamo  obbligati a ricorrere, abbiamo tradito l'abitudine pro-  fondamente radicata di sviluppare il tempo nello  spazio (3). Per portare un altro esempio: quando si  dice «il fanciullo diviene uomo », se riflettessimo  bene, vedremmo che allorché poniamo il soggetto « fan-  ciullo », Pattributo « uomo » non gli si addice ancora,  e quando enunciamo l'attributo « uomo » questo non  si applica gia piú al soggetto « fanciullo ». La realta,  che € la transizione dall'infanzia all” etá matura,    a    ci e sfuggita, ci € sdrucciolata tra le dita (4).    (1) Zbid., pag. II. Cfr. anche in Fot et Vie 1911, fasc. IV, PD. 421:  BERGSON : Les réalitlés que la Science n'atteint pas.   (2) Essaz, pag. VII.   (3) Z01d., pag. 92-3.   (4) Evol. cr., pag. 338-9.       L'intelligenza ed il linguaggio 53    A AA ==    Il nostro modo abituale di parlare € consono alle  abitudini cinematografiche della nostra intelligenza €  non sa cogliere 1”aspetto infinitamente mobile ed ine-  sprimibile, che ci presentano le percezioni, le sensa-  zioni, le emozioni, le idee, senza fissarne e distrug-  gerne la mobilita (1). É il linguaggio che ci fa  confondere il sentimento intimo in perpetuo divenire,  coll'oggetto esteriore che lo causa e con la parola che  esprime questo oggetto, facendoci attribuire alle im-  pressioni, che cangiano continuamente, contorni pre-  cisi e l'immobilitá (2). E il linguaggio che ci fa soli-  ficare le nostre sensazioni. Un sapore, un profumo mi  sono piaciuti quando era fanciullo ed ora mi ripu-  gnano; tuttavia io do ancora lo stesso nome alla sen-  sazione provata e parlo come se il profumo edil  sapore fossero restati identici ed i miei gusti soli aves-  sero cambiato. Mentre tutte le sensazioni si modificano  ripetendosi, il linguaggio ci fa credere alla loro immobi-  litá; la parola dai contorni ben definiti, la parola  brutale, che immagazzina ció che c'é di stabile, di  comune, di impersonale nelle impressioni dell?uma-  nitaá, schiaccia o almeno ricopre le impressioni delicate e  fuggitive della nostra coscienza individuale e special-  mente i nostri sentimenti. Essa deforma l”originalitá  d'un amore violento, d'una melanconia profonda; se-  para nella loro massa confusa una molteplicitá di  elementi che dispone poi in un mezzo omogeneo;  ruba ai nostri sentimenti la loro indefinibile anima-  zione, il loro colore, e poi vi appiccica sopra un nome  e li erige in un genere; e dopo aver spogliato questi  stati d'animo di tutto ció che essi avevano di intimo,  di personale, di tutte le loro sfumature fuggenti e delle  lora risonanze profonde, pretende di averci fatto cono-    (1) Essaz, pag. 98.  (2) 701d., pag. 99-       54 Esposizione della filosofia bergsoniana       scere meglio noi stessi, mentre non ha fatto altro che  stendere dinanzi a noi la tela abilmente tessuta del  nostro io convenzionale (1).   Anche riguardo alle nostre idee, se le cogliessimo  in sé stesse, ci accorgeremmo che la dissociazione dei  loro elementi costitutivi, che mette capo all*astrazione,  per quanto comoda nella vita ordinaria e nella discus-  sione filosofica, assomiglia alla dissociazione degli  stati di coscienza. Anche le nostre idee hanno uno  slancio comune, presentano una penetrazione mutua;  esse non hanno la forma banale, che loro dá il lin-  guaggio, ma vivono in noi come cellule in un orga-  nismo, modificandosi ad ogni nostra mutazione. Certo,  non tutte queste idee si incorporano cosi alla massa  dei nostri stati di coscienza: quelle che riceviamo  tutte fatte, che rimangono in noi senza venir assimi-  litate dalla nostra sostanza e che giacciono dissecate  nell'abbandono, sono adeguatamente esprimibili con  parole; ma se penetriamo negli strati piú profondi  dell'io, assisteremo alla fusione intima di idee, che,  una volta dissociate, sembrano escludersi sotto forma  di termini logicamente contradditorii (2).    *  * X    Con tutto questo noi non disprezziamo I'intelli-  genza né neghiamo /utilitá del linguaggio, come non  contestiamo l'importanza dei biglietti di banca (3). La  nostra vita esteriore e sociale esige giustamente che  sotto l'estensione reale delle cose noi stendiamo uno  spazio omogeneo; che sbocconcelliamo la fluida con-  tinuitá della durata in tanti momenti ben distinti, in    (1) Essat pag. 99 e seg.; Le Rire, pag. 157.  (a) Essaií, pag. 103-4.  (3) La perception du changement, pag. 5.          L'intelligenza ed il linguaggio ls    'tanti stati nettamente caratterizzati; che applichiamo  al vivente i concetti, le idee, il linguaggio derivati  dalla materia inerte. Solo a questo modo, con questi  principi di divisione e di solidificazione, la nostra at-  tivita pud avere dei punti di applicazione: nulla di  piú legittimo nel campo dell'azione.   Ma pretendere di penetrare la natura intima ed il  fluire concreto della realtá con questo linguaggio, con  questi schemi rigidi, con queste idee generali, con  queste astrazioni concettuali, significa voler traspor-  tare nella speculazione pura un procedimento fatto per  la vita pratica. Se non vogliamo baloccarci con sim-  boli, praticamente utili, ma assolutamente inefficaci  nel raggiungimento dell'assoluto; se vogliamo arrivare  ad una conoscenza disinteressata ma vera; Se vo-  gliamo la filosofia ; dobbiamo avere il coraggio di atter-  rare con mano inesorabile gli idoli del linguaggio ed  i concetti dell'intelligenza.    a  - Aya    pe y EE (5          IV.    L'Intuizione    L”intelligenza umama - tale fu la conclusione del  capitolo precedente - non e affatto quella che ci mo-  strava Platone nell”allegoria della caverna. Essa non  ha Pufficio di guardare ombre vane che passano, né  di contemplare voltandosi l”astro splendente. Ha da  far altro: aggiogati, come bovi da lavoro, ad un com-  pito pesante, noi sentiamo il giogo dei nostri muscoli  e la resistenza della terra; agire e sapersi agire, en-  trare in contatto colla realtá e anche riviverla, ma  solo nella misura in cui interessa il lavoro che si fa  ed il solco che si apre, ecco la funzione dell'intelli-  genza umana (1).   O la filosofia quindi non € possibile ed ogni co-  noscenza delle cose é una conoscenza pratica orientata  verso il profitto che vogliamo trarre, oppure filosofare  consiste non giá nel prendere delle idee gia fatte per  dosarle e per combinarle insieme, ma nel rovesciare,  nell'invertire il lavoro abituale del pensiero, nel porsi  nel oggetto stesso, nel tuffarci d'un colpo nel fluire  della durata per adottarne la direzione mutevole senza  posa, e per afferrarla con uno sforzo d'intuizione (2).   Che cos'é quest'intuizione ?    (1) Évol cr., pag. 209 (trad. Papini).  (2) Introd. a la Métaph., trad. ital., pag. 45, 64, 65.       58 Esposizione della filosofia bergsoniana       PO   Se ¡o potessi coincidere per un istante col personaggio  di un romanzo, di cui mi raccontano le avventure,  la mia conoscenza non sarebbe relativa ed imperfetta,  ma mi parrebbe di veder sgorgare naturalmente, come  dalla sorgente, le sue azioni, i suoi gesti, le sue pa-  role. lo coglierei ció che costituisce la sua essenza in  tutta la completezza delle sue perfezioni, e proverei  un sentimento semplice, che si presterebbe nello stesso  tempo ad un apprendimento indivisibile e ad una ine-  sauribile enumerazione (1). Ecco che cos*e P'intuizione:  e quella specie di simpatia divinatrice (2), per cui ci  si trasporta nell'interno di un oggetto per coincidere  con ció che ha di unico e per conseguenza di inesprimi-  bile (3); € quell'auscultazione intima che ci fa acco-  stare alla realtá, per sentirne palpitare l'anima (4) e vi  si inserisce, per coglierla al di fuori di ogni espressione,  traduzione o rappresentazione simbolica (5). Essa sola,  dove é possibile, pud darci la vera metafísica, la scienza  cioé che vuol fare a meno dei simboli e che raggiunge  Passoluto (6).   Diciamolo subito : questa facoltá non ha nulla di  misterioso (7). Non é necessario, per andare all'intui-  zione, di trasportarsi fuori del dominio dei sensi e della  coscienza, come falsamente credette Kant (8). Essa    (1) Z01d., pag. 13-17.   (2) Bergson nell'Zntrod. a la Met. (scritta nel 1093) diceva  « simpatia 2ntellettuale ». Ma come bene osservano il Ségond ed  il Le Roy, egli dopo 1'Evolution créatrice, non userebbe piu  quella parola.   (3) Zntrod. a la Mét., trad. ital., pag. 17.   (4) Zbid., pag. 39.   (5) Zótd., pag. 19   (6) Zbtd., pag. 19.   (7) Zbid., pag. 80.   (8) L*imtuition philosophique, riv. cit., pag. 827.          L'intuizione 59    non é altro che uno sforzo penoso, perfino doloroso, di  risalire la china abituale del lavoro del pensiero (1),  di disfare i prodotti artificiali creati dall'intelligenza per  facilitare la nostra azione sulle cose, di mettersi subito  per una specie di dilatazione intellettuale nell*oggetto  che si studia, per andare dalla realtá ai concetti e non  dai concetti alla realtá (2).   Gli inizii di questa intuizione filosofica sono segnati  dal buon senso (3). Questo, che tanto differisce dal  senso comune, é un senso del reale, del concreto,  dell*originale, del vivente, un'arte di equilibrio e di  precisione, un senso della complessitá, in palpazione  continua, come le antenne di certi insetti. Esso implica  una certa diffidenza della facoltá logica di fronte a sé  stessa; fa una guerra incessante all'automatismo in-  tellettuale, alle idee tutte fatte, alla deduzione lineare.  Si preoccupa sopratutto di collocare e di pesare senza  nulla disconoscere ; arresta lo sviluppo di ogni prin-  cipio e di ogni metodo al punto preciso in cui un*ap-  plicazione troppo brutale offenderebbe la delicatezza  del reale; ad ogni momento raccoglie l'insieme della  nostra esperienza e l'organizza in vista del presente.  Esso, in una parola é pensiero che si conserva libero,  attivitá che sta in guardia, flessibilitá di attitudine,  attenzione alla vita, accomodamento sempre rinnovato  a situazioni sempre nuove. Da questo contatto mobile  col dato, da questo sforzo vivente di simpatia, deriva  la sua virtú rivelatrice. Ecco ció che noi dobbiamo  tendere a trasportare dall'ordine pratico all*ordine spe-    (1) Zntrod. dá la Met. trad. ital., pag. 53.   (2) Z01d., pag. 53-54.   (3) BERGSON: Le bon sems et les études classiques, discorso  pronunciato alla distribuzione dei premi del Concorso generale,  il 30 luglio 1895.    60 Esposizione della filosofla bergsoniana       culativo (1) e che gia abbiamo compiuto, quando spo-  gliandola dai simboli che la ricoprivano, abbiamo  cercato di cogliere la durata del nostro.io. Mentre  l'intelligenza, costretta a prendere delle vedute immo-  bili sul movimento e a scoprire ripetizioni lungo ció  che non si ripete, attenta a dividere comodamente  l'indivisibilita della nostra coscienza, era obbligata a  gilocar d*astuzia con la realtá e ad assumere in faccia  ad essa un'attitudine di diffidenza e di lotta, noi ab-  biamo trattato questa realtáa en camarade, abbiamo  simpatizzato col nostro io, e con questo sforzo d'in-  tuizione abbiamo oltrepassato l'intelligenza (2).    ES  * X    Queste parole suggeriscono subito l'idea di un cir-  colo vizioso. Invano si dirá, pretendete di andar piú  in lá dell'intelligenza ; come otterrete questo, se non  con l'intelligenza stessa ?   L'obiezione si presenta naturalmente allo spirito,  ma con un simile ragionamento si proverebbe l'impos-  sibilitá di acquistare qualsiasi abitudine nuova. L*es-  senza del ragionamento sta nel rinchiudersi nel cerchio  del dato. Ma l'azione rompe il cerchio. Se voi non  aveste mai visto nuotare un uomo, mi direste forse  che nuotare é una cosa impossibile, giacché per im-  parare a nuotare, bisognerebbe cominciare a reggersi  nell'acqua, e per conseguenza saper nuotare di gia.  Infatti il ragionamento m'inchiodera sempre alla terra  ferma. Ma se io mi butto nell'acqua senza aver paura,  dapprima mi sosterró alla meglio, dibattendomi contro  di essa, a poco a poco mi adatteró a questo nuovo    (1) Il sunto di questo discorso sul buon senso € dato dal LE  ROY, op. cit., pag. 135. Di esso mi sono servito.  (2) Z'intuition philosophique, riv. cit. pag. 824-825.          L*intuizione 61    ambiente e impareró a nuotare. Cosi, in teoria, é un  assurdo voler conoscere altrimenti che coll'intelligenza,  ma se si accetta francamente il rischio, l”azione toglierá  forse il nodo che ha intrecciato il ragionamento e che  questo non scioglierá (1).    *  * x    Ma se la metafisica deve procedere per intuizione,  se l'intuizione ha per oggetto la mobilitá della durata,  e se la durata € d'essenza psicologica, non corriamo  il rischio di rinchiudere il filosofo nella contemplazione  esclusiva di sé stesso ?   La risposta a questa difficolta dev'essere data da  tutto l'insieme dell'opera bergsoniana, che procurerá  di mostrare come noi possiamo simpatizzare con altre  realtá ed inserirci in esse con uno sforzo di immagi-   nazione. Questo lo possiamo giá comprendere fin d'ora,  osservando che l'intuizione di cui parliamo non é un  atto unico, ma una serie indefinita di atti, tutti senza  dubbio, del medesimo genere, ma ciascuno di una  specie particolare, e che questa diversita di atti cor-  risponde a tutti i gradi dell'essere.   Se io cerco di analizzare la durata, cioé di risolverla  in concetti belle fatti, sono obbligato a prendere sulla  durata in generale due vedute opposte, colle quali,  dopo, tenteró di ricomporla. Diró che da una parte  c'é un*unitá e dall'altra una molteplicita di stati di  coscienza e che la durata e la sintesi di questa unita  e di questa molteplicitá. Questa combinazione, che  ha del resto qualcosa di miracoloso e di misterioso,  non pud presentare né una diversitá di gradi, né una  varietá di forme e di sfumature: in questa ipotesi  non c'é e non ci pud essere che una durata unica.    (1) £vol. cr., pag. 209-10 (trad, Papini).       62 Esposizione della filosofia bergsoniana    Ma se invece di voler analizzare la durata e di farne  la sintesi con dei concetti, ci s'installa subito in essa  con uno sforzo d'intuizione, si ha il sentimento di  una certa temsione ben determinata, di cui la stessa  determinazione appare come una scelta fra un'infinita  di durate possibili. Allora scorgiamo tante durate  quante vogliamo, tutte molto differenti tra loro, benché  ciascuna di esse, ridotta a concetti, si riconduca sempre  alla medesima combinazione indefinibile del molteplice  e dell'uno. Cosi l'intuizione della nostra durata, ben  lungi dal lasciarci sospesi nel vuoto, come farebbe la  pura analisi, ci mette in contatto con tutta una con-  tinuitá di durate che dobbiamo tentar di seguire, sia  verso il basso sia verso l'alto: mei due casi possiamo  dilatarci indefinitamente, con uno sforzo sempre pid  violento; nei due casi trascendiamo noi stessi. Nel  primo andiamo verso una durata sempre piú sparpa-  gliata, i cui palpiti, piú rapidi dei nostri, dividendo la  nostra senzazione semplice, ne diluiscono la qualitá  in quantitá: al limite sarebbe il puro omogeneo, la  pura ripetizione, colla quale definiremo la materialita.  Andando nell*altro senso, andiamo ad una durata che  si tende, si serra, si intensifica sempre piú: al limite  sarebbe l'eternitáa. Non piú leternitá concettuale, che  e eternitá di morte, ma una eternitá di vita. L'in-  tuizione si muove fra questi due limiti estremi e questo  movimento é la stessa metafísica (1).    *  *x*  Voi vi contradite, hanno osservato altri; se la nostra  intelligenza ha delle abitudini statiche, come potrá    comprendere il flusso del reale?  A Wildon Carr (2) che gli presentava questa obie-    (1) Introd. á la Mét. trad. ital. pag. 55-60.  (2) In Proceedings of Aristotelian Society, 1908-9, pag. 208.       L*intuizione 63    zione, Bergson rispose che la nostra intelligenza e cir-  condata da una frangia d'intuizione che ci permette  di simpatizzare con ció che c'é di propriamente vitale  nella vita. Se a questa frangia si vuol dare il nome  d'intelligenza, si é liberi di farlo, ma si estenderá  troppo il senso della parola; ed a dire il vero, questa  frangia d'intuizione sembra che rassomigli meno alla  intelligenza che all'istinto, che é quasi l”opposto del-  Pintelligenza (1). .   Siccome questo confronto tra imtuizione e istimto  ricorre spesso nella pagine di Bergson e diede luogo  a molti malintesi, contro i quali egli stesso ha prote-  stato (2), € necessario ricercare quale sia il pensiero  preciso del filosofo francese.   Nell Evolution créatrice, quando affronta il pro-  blema della vita, Bergson tenterá di mostrare che la  vita, dalle sue origini in poi, non é che la continua-  zione d'un solo e medesimo slancio, che si € poi di-  viso in linee di evoluzioni divergenti (3). Lo sviluppo  di quell”unico impulso ha dissociato cosl tendenze che  non potevano crescere al di lá di un certo punto,  senza divenire incompatibili tra loro; ma che peró,  nonostante la divergenza dei loro effetti, conservano  qualche cosa di comune per l'identitá della loro ori-  gine. Cosi, ad es., lo slancio iniziale s'é scisso in in-  telligenza nell”uomo e in istinto negli-«animali, in modo  che ogni istinto concreto é mescolato d'intelligenza ed  ogni intelligenza reale e penetrata d'istinto (4). É per  questo che noi non siamo pure intelligenze, ma che  intorno al nostro pensiero concettuale e logico é re-    (1) Cír. Proceedings of Arist. Society, 1908-9, pag. 220.   (2) A propos de l'évolution de l'intell. géom., riv. cit., pa-  gina 30.   (3) vol. cr., pag. 57.   (4) 701d., pag. 148.    64 Esposizione della filosofia beresoniana       stata una nebulosita vaga, fatta della sostanza stessa  alle cui spese si € formato il nocciolo luminoso che  noi chiamiamo intelligenza (1); accanto alla zona ri-  schiarata, c'é una frangia oscura che va a perdersi  nella notte (2).   Se questa frangia indistinta esiste, essa deve avere  per il filosofo una importanza maggiore del nucleo lu-  minoso che essa circonda (3). Che pud essere infatti  questa frangia inutile, se non la parte del principio.  evolventesi, che non si € ristretta alla. forma speciale  della nostra organizzazione e che € passata in contra-  bando? (4). Ed appunto perché questa intuizione vaga  non c'é d'alcun aiuto per dirigere la nostra azione  sulle cose, azione interamente localizzata alla super-  ficie del reale, non possiamo noi presumere che essa  non si esercita semplicemente in superficie, ma in  profonditá ? (5). É qui dunque che dobbiamo cercare  le indicazioni per dilatare la forma intellettuale del  nostro pensiero; é qui che attingeremo lo slancio ne-  cessario per innalzarci al disopra di noi stessi (6) e  per trovare certe potenze complementari dell'intelletto,  potenze di cui non abbiamo che un sentimento con-  fuso, quando restiamo in noi, ma che si rischiarano  e si distinguono, quando percepiscono sé stesse al-  Popera, nellevoluzione della natura (7).   La conoscenza intuitiva di questa frangia ha molta  rassomiglianza colla conoscenza propria dell'istinto.    (1) Z61d., pag. 5.   (2) Cosi disse Bergson al Congresso di filos. di Parigi nel 1900  in una discussione col Weber. Cfr. Revue de métaph. et de  morale. Settembre 1900, pag. 662.   (3) Evol. cr., pag. 50.   (4 Z01d., pag. 53.   (5) Zbid., pag. so.   (6) Z01d., pag. 53.   (7) Zbid., pag. V-VI.       L*intuizione 63    Per quanto l'istinto non abbracci che la piccolissima  porzione di vita che l'interessa e sia necessariamente  specializzato ; per quanto si esteriorizzi in azione, in-  vece di interiorizzarsi in coscienza e tenda assai verso  l'incoscienza ; pure bisogna riconoscere che esso €  orientato verso la vita e non fa altro che continuare  il lavoro per il quale la vita organizza la materia, a  tal punto che non sapremmo dire dove finisce l'orga-  nizzazione e dove comincia l'istinto (1). II quale coglie  il suo oggetto, al di dentro, non per un processo di  conoscenza, ma per un'intuizione vissuta piuttosto  che rappresentata, che rassomiglia senza dubbio a ció  che noi chiamiamo simpatia divinatrice. Lo ripetiamo :  questa simpatia ha un oggetto limitato ed é incapace  di riflettere su sé stessa; in ció sta la sua deficienza.  L'intelligenza invece, benché dapprima si concentri  sulla materia e si adatti agli oggetti del di fuori, pure  giunge a circolare tra essi, a rovesciare le barriere  che le si oppongono, ad ampliare indefinitamente il  suo regno. Una volta liberata, pud piegarsi all'in-  terno e risvegliare le virtualita d'intuizione che son-  necchiano ancora in essa e che altro non sono se non  una specie d'istinto, divenuto disinteressato, cosciente  di sé stesso, capace di riflettere sul suo oggetto e di  allargarlo indefinitamente (2).   Bergson quindi — come scriveva nel 1908 in un arti-  colo apparso nella Revue de métaphysiqueet de morale  — non pretende di sostituire all'intelligenza qualcosa  di differente o di preferirle l'istinto. Egli vuole sol-  tanto che, quando si abbandona il dominio degli og-  getti materiali e fisici, per entrare in quello della  vita e della coscienza, si faccia appello a un certo  senso della vita che s'oppone all'intelletto puro e    (1) Zb1d., pag. 179-180.  (a) Zbid., 192-198 e Life and Consciousness, riv. Cit., pag. 44.    F, OLGIATI 5    66 Esposizione della filosofia bergsoniana  E. AE EN ONIS       che ha la sua origine nel medesimo getto vitale del-  listinto, benche l'istinto propriamente detto sia tutta  altra cosa (1).    *  X *    Che Pintuizione sia possibile, che l'uomo possa  distogliere la sua attenzione dal lato praticamente in-  teressante dell'universo, per rivolgerla verso ció che  praticamente non serve a nulla, e ció che ci sugge-  risce l'esistenza in noi di una facoltá estetica accanto  alla percezione normale (2).   Nulla come l'arte, pud dirci che cosa sia 1'imtui-  zione filosofica. Non solo, vivendo di creazioni, l'arte  pud farci comprendere ció che é la durata reale e lo  slancio vitale (3); ma inoltre, anche l'artista si pone  per una specie di simpatia nell'interno dell'oggetto e  non percepisce piú semplicemente in vista d'agire,  ma solo per percepire, per il piacere, per nulla (4).   L”osservazione sincera della nostra vita psicologica  normale ci mostra una tendenza costante dello spirito  a limitare il suo orizzonte. Nel campo infinitamente  vasto della nostra conoscenza virtuale, noi cogliamo  solo ció che interessa la nostra azione sulle cose e  trascuriamo il resto. Prima di filosofare bisogna vi-  vere (5) e vivere significa accettare dagli oggetti sol-  tanto l'impressione utile, per rispondervi con reazioni  appropriate: le altre impressioni debbono oscurarsi o  non giungerci che confusamente (6). I sensi e la co-  scienza non ci dánno della realtá che una semplifi-    (1) A propos de Pévol. de Pintell. géomét., riy. cit, pag. 30.  (2) Évol. cr., pag. 192.   (3) Z01d., pag. 49.   (4) La perception du changement, Conf. l, pag. 13.   (5) Z61d., Conf. 1, pag. 12.   (6) Le Rtire, pag. 154.       L'intuizione K 67       cazione pratica. L'individualitá delle cose e degli es-  seri ci sfugge tutte le volte che non giova materialmente  di percepirla. E anche lá dove la notiamo, come quando  distinguiamo un uomo da un altro uomo, non é la  individualitá stessa che afferra il nostro occhio, ma  soltanto uno o due tratti che faciliteranno il ricono-  scimento pratico (1). Infine per dir tutto, noi non ve-  diamo le cose stesse, come non percepiamo i nostri  stati d'animo in ció che hanno di piú intimo e di ori-  ginalmente vissuto. Ci appaghiamo di solito di leggere  le etichette, che il linguaggio appiccica sul reale (2).  Noi insomma ci muoviamo tra generalitá e simboli ;  e affascinati, attirati dall'azione, viviamo in una zona  mediana tra le cose e noi, esteriormente alle cose, ed  esteriormente anche a noi stessi (3). Se la realtá col-  pisse direttamente i nostri sensi e la nostra coscienza,  se noi potessimo entrare in immediata comunicazione  con le cose e con noi, l'arte sarebbe inutile, o piut-  tosto saremmo tutti artisti, perché allora la nostra  anima vibrerebbe continuamente all*unissono colla na-  tura. 1 nostri occhi, aiutati dalla memoria, ritagliereb-  bero nello spazio e fisserebbero nel tempo dei quadri  inimitabili. Il nostro sguardo afferrerebbe a volo, scol-  piti nel vivo marmo del corpo umano, frammenti di  statua, belli come quelli della statuaria antica. Noi  sentiremmo cantare in fondo alle nostre anime, come  una musica a volte gaia, ma piú che altro lamentosa,  sempre originale, la melodia ininterrotta della nostra  vita interiore (4). Ma nulla di tutto ció é percepito  direttamente da noi, perché tra noi e la natura, tra  noi e la nostra stessa coscienza, s'interpone un velo    (1) Zb1d., pag. 155.   (2) Z01d., pag. 156-7.   (3) Zbid., pag. 157-8 (trad. Papini).  (4) Zbid., pag. 153-4.    Í    68 Esposizione della filosofia bergsoniana    fitto per gli uomini comuni, leggiero e quasi traspa-  rente per l'artista ed il poeta. Di quando in quando,  per un felice accidente, nascono delle anime che coi  loro sensi e con la loro coscienza sono meno attac-  cate alla vita. Quando riguardano una cosa, la vedono  per sé stessa (pour elle) e non per sé stesse (pour  eux) e ne ritraggono una visione piú diretta e piú  immediata. Se il distacco della vita fosse completo,  se l'anima non aderisse piú all'azione con nessuna  delle sue percezioni, avremmo l'anima di un artista,  che eccellerebbe in tutte le arti nello stesso tempo o  piuttosto le fonderebbe tutte in una sola. Ma sarebbe  chieder troppo alla natura. Per quelli stessi fra noi  che ha fatti artisti, essa ha sollevato il velo acciden-  talmente e da una parte sola: da ció la diversita delle  arti. Ma sia pittura, sia scultura, poesia o musica,  Parte non ha altro oggetto che di levar di mezzo i  simboli praticamente utili, le generalita convenzional-  mente e socialmente accettate, infine tutto ció che ci  maschera la realtá, per metterci faccia a faccia con la  realtá stessa (1).   L”arte dunque ci mostra che una estensione delle  nostre facoltáa di percepire € possibile (2), e benché  essa non attinga che l'individuale, ci fa peró conce-  pire una ricerca orientata nel suo stesso senso e che  prenda per oggetto la vita in generale (3). Ció che  la natura fa di quando in quando per distrazione e  per qualche privilegiato, la filosofia deve farlo per  tutti in un altro modo, conducendoci ad una perce-  zione piú completa del reale, per un certo spostamento  della nostra attenzione (4). L*arte e la filosofia si ri-    (1) Zbid., pag. 158-9.   (2) La perception du changement, Conf. l, pag. 11.  (3) vol. cr., pag. 192.   (4) La perception du changement, Conf. 1, pag. 13.          L'intuizione 69    congiungono cosi nell'intuizione, che é la loro base  comune (1); é la stessa intuizione, diversamente uti-  lizzata, che fa il filosofo profondo ed il grande ar-  tista (2).   ll senso comune dice che lartista € un idealista e  certo é un        ri]    Filosoña e realtá 177       X*  * *    A questa concezione pura del reale si sostituisce  spesso un equivalente statico. La durata vera cede il  posto ad un tempo polverizzato, il movimento si ri-  solve in una serie di posizioni, il cangiamento in una  serie di istantaneita, il divenire in una serie di stati.  Con una ingegnosa disposizione di immobilitá, con un  procedimento cinematografico, si ricompone il movi-  mento : operazione praticamente comoda, ma teorica-  mente assurda e gravida di tutte le contraddizioni,, dí  tutti i falsi problemi, in cui si impigliano la meta-  fisica e la critica (1), come lo mostra 'un colpo d*oc-  chio sulla storia dei sistemi filosofici (2).    Xx  *    Perché infatti i filosofi della scuola di Elea dichiara-  rono assurdo il movimento? Si esaminino gli argo-  menti di Zenone e si vedrá che essi sono logicamente  concludenti, se si confonde il movimento con la tra-  iettoria, vale a dire se si fa coincidere il moto colla  immobilita. a   Cerchiamo il principio fondamentale della filosofia  che si sviluppd attraverso l”antichita classica : lo spi-  rito deve trovare la qualita, la forma o essenza, il fine,  ció insomma che e refrattario al cangiamento, sotto  il divenire delle cose. Ecco quindi le pure idee im-  mutabili, alle quali Platone attribuisce un”esistenza  vera, e che entrando le une nelle altre si raggrup-  pano in un concetto unico, nella forma delle forme,  nell'idea delle idee, nel motore immobile di Aristotele.       (1) Cfr. L'intuition philosophique, riv. cit., pag. 825.  (2) Tutto il Capo IV dell vol. Créat. € dedicato a dimostrare  questa tesi.    F. OLGIATI 12    178 Esposizione della filosofia bergsoniana       Questo sistema di concetti fissi, che costituisce la vera  scienza, € completo e tutto fatto dall'eternitá : tutto  é dato. Quale sará allora l'indivisibile sorgente della  mobilita? Essendo la negazione della forma, sfuggirá  per ipotesi ad ogni definizione e sará l'indeterminato  puro, il quasi-niente, il non-essere platonico, la materia  prima aristotelica. E via di seguito, fino alle creazioni  fantastiche di cosmologie arbitrarie, dedotte dalla con-  cezione falsa, che € alla base di queste metafisiche.   Le quali, nelle loro grandi linee, corrispondono alla  metafisica naturale dell'intelligenza umana: edé per  tale ragione che mille fili invisibili uniscono la scienza  moderna alla filosofia greca. Nonostante le differenze  profonde che esistono tra la scienza nostra e quella  degli antichi, i nostri scienziati, costretti dalle esi-  genze pratiche, non considerano altro che il tempo  lunghezza e trascurano il tempo vero, il tempo inven-  zione. Da questa negazione della durata, sorge il  determinismo assoluto, che abbraccia la totalitá del  reale: anche per loro, tutto e dato.   Descartes sembra dubitare di questo: se da una  parte egli accetta il meccanismo universale, dall'altra  crede al libero arbitrio, che ci fa credere all'inven-  zione, alla creazione, alla successione vera. Tra le due  concezioni egli é esitante, ma é purtroppo la prima  che la filosofia posteriore abbraccia con Spinoza e con  Leibniz. Per l'uno e per l'altro, la realtá come la  veritá sono integralmente date ab aeterno. Essi rifiu-  tano l'idea di una durata assoluta, come la rifiutano  anche il preteso empirismo moderno, le spiegazioni  meccanistiche dell*universo, l”epifenomenismo mate-  rialista, la psicofisiologia e via dicendo.   Tutte queste dottrine sono in ritardo in confronto  della critica kantiana. Vedendo nell'intelligenza una  facoltá di stabilire dei rapporti, Kant attribul ai ter-  mini dei rapporti stessi un'origine extraintellettuale.    A E A NA Ñ NY    Filosofia e realta 179    Egli affermó, contro i suoi predecessori immediati che  la conoscenza non é interamente risoivibile in termini  d'intelligenza. Con ció apriva la strada ad una filo-  sofía nuova, che avrebbe dovuto porsi nella materia  extraintellettuale della conoscenza, con uno sforzo su-  periore d'intuizione. Ma Kant non si mise in questa  direzione ; anch”egli non pensd ad affermare la realtá  sostanziale della durata.   Il pensiero filosofico del sec. xix senti che questa  era la via da prendersi. Quando un pensatore sorse  ad annunciare una dottrina d'evoluzione, ove il pro-  gresso della materia verso la percettibilita sarebbe  stata delineata insieme alla marcia dello spirits verso  la razionalitá, ed ove si sarebbe seguito di grado in  grado la complicazione delle corrispondenze tra 1'in-  terno e l'esterno, ed il cangiamento sarebbe divenuto  la sostanza stessa delle cose, verso di lui si rivolsero  tutti gli sguardi. Ma Spencer non attud il suo pro-  gramma. La sua dottrina porta il nome di evoluzio-  nismo e pretende di salire e di discendere il corso  del divenire universale: ma in realtá non era que-  stione né di divenire né di evoluzione. L”artificio or-  dinario del metodo spencieriano consiste infatti nel  ricostituire l”evoluzione coi frammenti dell'evoluto. Se  incollo un'immagine sul cartone e taglio poi questo  ultimo in pezzetti, io potrei, raggruppando i piccoli  cartoni, riprodurre l'immagine. Ed il fanciullo che cosi  lavora sui pezzi d'un giuoco di pazienza, che giusta-  pone i frammenti d'immagini informi e finisce per  ottenere un bel disegno colorato, pensa senza dubbio  d'aver prodotto il disegno ed il colore. Tuttavia 1”atto  di disegnare e di dipingere non ha nessun rapporto  con quello di radunare i frammenti di una immagine  gia disegnata e gia dipinta. Nello stesso modo com-  ponendo tra l oro i risultati piú semplici dell*evoluzione,  voi imiterete bene o male i piú complessi ; ma né    180 Esposizione della filosoña bergsoniana             degli uni né degli altri voi avrete delineato la genesi;  e questa addizione dell'evoluto coll'evoluto non rasso-  miglierá assolutamente al movimento dell'evoluzione.  Tale tuttavia e l'illusione di Spencer : egli prende la  realtá nella sua forma attuale ; la spezza, la sparpiglia  in frammenti che getta al vento; poi integra questi  frammenti e ne dissipa il movimento. Dopo di aver  imitato il tutto con un lavoro di mosaico, e di essersi  dato anticipatamente tutto ció che si trattava di spie-  gare, crede di aver compiuta l*opera promessa (1).   A questo falso evoluzionismo bisogna invece sosti-  tuire l'evoluzionismo vero, ove la realtá sia seguita  nella sua generazione e nel suo crescere (2). É cid ap-  punto che ha tentato di fare Bergson.    Cosi finisce 1”Évolution Créatrice e cosi termino  anch'io lesposizione del pensiero bergsoniano.   Come gia dissi al congresso di Bologna ed in una  prefazione agli scritti di Tarde, Bergson sostenne che  per capire il pensiero di un filosofo, bisogna riassu-  mere tutte le sue teorie in un punto unico, straordi-  nariamente semplice. Questo punto é cos) semplice  che il filosofo parla tutta la vita senza riescire ad  esprimerlo. Egli non pud formulare ció che ha nello  spirito, senza sentirsi obbligato a correggere la sua  formola ed a correggere poi la sua correzione : cos di  teoria in teoria, rettificandosi quando crede di comple-  tarsi, non fa altra cosa che rendere con approssima-  zione crescente la semplicitá della sua intuizione ori-  ginale.    (1) Évol. Créat., Capo IV passim.  (2) Zbid., pag. VI-VII.       Filosofia e realtá 181          É questo il metodo che Bergson vuole che si ap-  plichi a tutti i pensatori e quindi anche a lui: metodo  tutto opposto ai tentativi molto in voga e contro i  quali egli protesta, di trascurare ció che di personale  vi é in un sistema, per dissolverlo nelle sue fonti  e per ridurlo ad una sintesi di idee di altri filosofi (1).   Il lettore dovrá perció cercare di afferrare nella com-  plicazione delle dottrine bergsoniane l'intuizione sem-  plice che le anima. Modifichera la nozione della durata  della coscienza con le teorie della memoria e sopra-  tutto della vita, poiché la nostra coscienza che dura  e che porta con sé tutto il peso del suo passato, non  ¿ che un frammento della piú grande Coscienza. La  durata e libertá ; ma il concetto di questo dev'essere  completato con la concezione della genesi universale,  poiché e lo slancio vitale che e libero e che si risveglia  ad una libertá non perfetta nello spirito umano. La  Supracoscienza poi che dura, con la sua distensione  fa sorgere la materialita, e cosi di seguito.   Le opere future di Bergson porteranno nuovi ritocchi,  daranno al pensiero passato un colorito speciale; ma    (1) Infiniti sono gli articoli di riviste, dove si cercano le orí-  gini del bergsonismo e si paragona Bergson a Eraclito, a Plotino,  a Kant, a Darwin, a James, a Freud, a Wells, a Balfon, etc. etc.  Non ne cito nemmeno uno, perché, fatta qualche rara eccezione,  non mirano a provare la continuita del pensiero filosofico, ma  cercano con ravvicinamenti, quasi sempre contrari al vero spi-  rito di questa filosofia, di distruggere ció che di originale vi €  in Bergson.   lo non nego perd che vi siano analogie tra alcune teorie berg-  soniane e le teorie di altri pensatori, ad es. di Ravaisson, di  Paul Janet, di Maine de Biran. Si legga ad es: BERGSON: Prin-  cipes de psychologie et de métaphysique a' aprés M. Paul Janet  in Revue Philosophique 1897, 2% Sem., pag. 525-5515 elo studio  gia citato dello stesso Bergson: /Votice sur la vie et les oeuures  de M. F. Ravaisson-Mollien (Académie des Sciences morales et  politiques, séances des 20 et 27 février 1904).    182 Esposizione della filosofia bergsoniana          Panima vivificatrice, se é lecito esprimerla con una  formula, sará sempre l'intuizione della durata pura.   A quanto si dice, il pensatore francese sta ora stu-  diando il problema morale ed il problema d”oltretomba,  memore forse che la filosofia non € solo una medita-  zione della vita, come disse Spinoza, ma é anche,  secondo il detto di Platone, una meditazione della  morte. Recentemente agli amici che lo avvicinavano,  ai giornalisti ammessi allintervista, Bergson confes-  sava che il mistero dell'al di lá lo tormenta E   Mentre egli sta meditando, ¡o vorrei invitare il let-  tore ad un esame critico delle teorie lealmente e  serenamente esposte, per vedere se Bergson pud ab-  bandonarsi davvero alla gioia di aver creato un si-  stema vitale, gioia ineffabile, che, in una lezione al  College de France, egli preferiva a tutti gli onori ed  a tutti gli applausi (2).    (1) Cfr. Pintervista concessa da Bergson a Maurice Verne nel-  VIntransigeant del 26 novembre Igrr. PA > BE;  (2) Cfr. Etudes, art. cit., 20 NOV. 1911, pag. 449:"e Life and    Consciousness, riv. cit., pag. 42.    PARTE !l    Ki    NOTE CRITICHE          Gli ammiratori di Bergson, che nel loro maesto ac-  clamavano « il nuovo Platone », ebbero un giorno una  sgradita sorpresa. « Bergson — cosl dicevano alcuni  critici — é un grande artista, ma non e un filosofo.  Anche noi lo ammiriamo, se ce lo presentate come  un cantore genialmente ispirato. Le sue dottrine sono  davvero creazioni superbe e fantastiche, degne d'un  poeta. Ma se vorreste ostinarvi a ricercare in esse un  sistema filosofico, noi saremmo obbligati a ripetervi  Pinvito di Alfred Fouillée e vi proporremmo di non  discorrere piú di Évolution Créatrice, ma di Imagi-  tion créatrice » (1).   Questo giudizio molto diffuso, per quanto rara-  mente espresso in una forma cosl crude e sincera, mi  sembra ingiusto. Poiché, se Bergson é sempre un at-  tista della parola, se alcune pagine dei suoi libri ras-  somigliano di piú ad un canto dell”Ariosto che non ad  un capitolo della Critica della Ragione pura, tuttavia  egli ¿ anche un filosofo per i problemi che tratta e per  il metodo che difende.   In un tempo in cui si tentava di ridurre la filosofia  ad un paragrafo delle scienze naturali, Bergson ha  sentito il dovere di discutere i problemi della liberta  umana, della spiritualita dell'anima, dell”unione del-    (1) Cfr. A. FOUILLÉE: La pensée et les nouvelles écoles anti-  intellectualistes, Paris, Alcan, 1912, Pag. 353-    186 Note critiche  A O E AENA GU ANIOS    l*anima col corpo, della natura della vita, dell'origine  del mondo e via dicendo. Si potrá e si dovrá combat-  terlo per il modo con cui li ha discussi; ma nessuno  puó negargli il merito di aver compreso che le do-  mande: «Chi siamo noi? che cosa dobbiamo fare  quaggiú? dove veniamo e dove andiamo? » sono —  come egli stesso proclamava nelle sue recenti confe-  renze di Birmingham e di Parigi — «le questioni  essenziali e vitali, le questioni di interesse supremo,  che prime si presentano al filosofo e che sono o do-  vrebbero essere la vera ragione della filosofia » (1   E questi « massimi problemi » Bergson ha cercato  di risolverli non giá con le macchinette, cogli istru-  mentini dei laboratorii o con gli altri famosi ritrovati  della filosofia naturalistica, ma con quel metodo in-  tuitivo, che € certo incompleto e che nel suo esclu-  sivismo é falso e contradittorio, ma che rappresenta  un'esigenza del metodo filosofico vero.   Da queste parole il lettore avrá gia inteso qual'e  il giudizio che io daró del sistema bergsoniano. lo  credo che esso, per quanto abbia segnato un immenso  progresso di fronte al positivismo imperante pochi  anni or sono (2), presenta ancora mille errori, che  rovinano spesso le sue tesi pid belle. Sono peró anche  convinto che questi errori non sono una manifesta-  zione di uno spirito debole ed inadatto alla specula-  zlone, come potrebbe pensare un osservatore super-  ficiale; ma sono talvolta lespressione di tendenze  legittime ed insoddisfatte (3).    (1) Cfr. BERGSON : Life and Consciousness in The Hibdert  Journal, num. cit., pag. 24-25; 1d.: Ame et corps, in Foi et Vie,  num. cit.   (2) In questo sono concordi tutti ¡ neoscolastici, dal Farges al  Mercier, dal Tredici al Baeumker.   (3) Sottoscrivo quindi, pur dissentendo «dal loro sistema filo-  sofico, al giudizio di alcuni critici italiani.    Note critiche 187       Il che equivale a dire che, per giudicare Bergson,  non bisogna fermarsi alle particolaritá dei suoi scritti,  non bisogna considerare atomicamente le varie teorie,  per accontentarsi di una facile critica, puramente e  semplicemente distruttrice. Si deve invece studiare  questa filosofia nello spirito che la vivifica e la sug-  gerisce, per colpire in ogni sua parte il tutto, con una  crítica positiva e costruttiva (1).   Con tale programma, che non so se sara da me  felicemente svolto ed attuato, ma che certo fu since-  ramente voluto, mi accingo ad esaminare il metodo e  le dottrine di Enrico Bergson.    (1) Cfr. RICHARD KRONER nel Logos art. cit., pag. 139. Chi  volesse avere un saggio di critica, tutto opposto al mio, pud  leggere il recente volume di DAVID BALSILLIE : An examination  of Professor Bergsons Philosophy, London, Williams and Nor-  gate, 1912.    ta   e MS   A An   y (Jal y no  1 '    as    A AN ras  A ME A  r $          IL, METODO    Bergson e un filosofo del divenire. La realtá per  lui é un movimento senza mobile, € un flusso con-  tinuo, e durata. Nell”esposizione delle teorie bergsoniane,  non si 8 fatto altro che ripetere con una insi-  stenza significativa questo pensiero, che venne giusta-  mente indicato come l'espressione sintetica di tutta  la filosofia nuova (1).   Da questa concezione fondamentale, Bergson ha  dedotto il suo metodo: se tutto diviene, la realta —  che in due momenti, anche consecutivi, cangia quali-  tativamente — non potrá essere espressa con parole  comuni, le quali nella monotonia della loro ripetizione  suppongono l'identitá costante di una parte almeno  del reale, e nemmeno pud essere afferrata dall'intel-  ligenza con concetti immobili, rigidi e sempre eguali.  Linguaggio e concetti sono utili per i bisogni imme-  diati della vita, per la necessita della pratica, ma sono  impotenti a darci la veritá, che solo pud essere rag-  giunta coll'intuizione.   lo prescindo ora dalla premessa bergsoniana, poiché  é nella seconda parte di questo studio che cercherd  di confutare la teoria del divenire universale; e mi  limito a considerare il metodo in sé, vale a dire l'odio    (1) Cfr. LE ROY: Une philosophie nouvelle, pag. 201.    190 Note critiche          del Bergson contro il linguaggio e contro l'intelligenza  ed il suo ideale di una filosofia intuitiva. Mi sembra  che questo metodo sia in sé stesso contraddittorio.    E    Il linguaggio, secondo il Bergson, e la causa di tutti  gli errori, 1”origine di tutti gli inganni. Egli lancia le  sue imprecazioni contro'« la parola brutale », Che de-  forma la realtá, che ce ne dá solo un'ombra pallida  e fallace, che non riesce a riprodurre fedelmente le  idee veramente nostre, la vita intima della coscienza  e dell'io profondo, l”evoluzione creatrice dello slancio  vitale (1).   Eppure Bergson stesso ha dovuto constatare un  fatto. Nell'introduzione del suo Essai sur les données  immédiates de la coscience, egli scrive: « Noi ci  esprimiamo necessariamente con parole » (2). Ed e  verissimo: infatti anche i libri di Bergson si compon-  gono di parole; il metodo dell'intuizione viene di-  feso con le parole; con parole sono esposte tutte le sue  teorie; perfino la critica spietata contro il linguaggio  e fatta col linguaggio.   Non é forse chiaro che se la teoria bergsoniana del  linguaggio fosse vera, se la parola non potesse dav-  vero esprimere la realtá senza deformarla, anche tutta  la filosofia di Bergson sarebbe falsa? La parola tra-  disce la realtá: ora Bergson ha continuato a parlare;  dunque ha continuato a tradire la realtá.   Anzi bisognerebbe aggiungere che la critica stessa  del linguaggio € completamente vana, poiché anche  essa é enunciata con parole,   In breve: combattere il valore del linguaggio e ser-    (1) Cfr. Essat, Cap. Il passim.  (2) Z61d., pag. VII.       Il metodo 11 '       virsi del linguaggio come se avesse valore, é una con-  traddizione. Se il reale € inesprimibile, rassegniamoci  al silenzio. Per essere coerente, Bergson doveva ne-  gare alla filosofia il diritto di esistere, anzi non do-  veva nemmeno dire questo: la logica gli imponeva  un assoluto silenzio (1).   Uno dei piú profondi discepoli di Bergson, J. Segond  ha tentato di ribattere questa accusa ed ha osservato  che la denuncia del verbalismo non é una condanna  del pensiero verbale, poiché quest'ultimo nella sua  ispirazione spirituale € orientato intuitivamente (2). Ed  il Le Roy ha soggiunto che, benché « lintuizione  dell'immediato, a parlare rigorosamente, sia inespri-  mibile », pure «la si pud suggerire ed evocare con  metafore e con immagini » (3). lo non negheró che  specialmente l'osservazione del Segond, come meglio  apparirá in seguito, contiene un'anima di veritá; ma  perché queste difese possano divenire valide, e indi-  spensabile confessare con schiettezza che Bergson ha  per lo meno... esagerato. Secondo la sua teoria, il    (1) Quanto a questa critica della teoria bergsoniana del lin-  guaggio, si vegga: PREZZOLINI, Op. cit., cap. 111, pag. 285-2945  LECLÉRE: Pragmatisme, Modernisme, Protestantisme, Paris,  Bloud, pag. 8 e 16; CALO: 11 problema della Isbertá nel pen-  siero contemporaneo, Milano, Sandron, pag. 71, nota; KEY-  SERLING: Das Wesen der Intuition und ihre Rolle in der Phi-  losophie in Logos, 1912, Band lII, Heft 1, S. 72-73; e fu svolta  anche da molti neoscolastici, come ad es. dal PIAT : Insuffisance  des philosophies de Pintuition, Paris, pag. 275. Solo perd il  PREZZOLINI non si limitó ad una critica negativa. Riguardo poi  alle riserve di ADOLFO LEVI, L'indeterminismo nella filosofia  contemporanea, Firenze, Seeber, pag. 265 e seg. ed alla sua di-  stinzione tra il valore psicologico ed il valore log.co della pa-  rola, credo non abbiano piú nessuna ragione di essere dopo  P Evolution Créatrice.   (2) J. SEGOND: Z*intuition bergsonienne, Paris, Alcan, 1913,  Capo IV, passim.   (3) LE ROY : opera cit., pag. 49-50.    192 Note critiche          pensiero verbale, appunto perché verbale, non pud  darci una visione fedele della durata; ogni parola,  anche se é Evolutionisme de M. Bergson in Revue de  Philosophte, settembre-ottobre I9II, PAg. 527.   (4) A CRESPI: Lo spirito nella filosofia di Bergson. M. La me-  tafisica bergsontanain La Cultura contemporanea, ottobre 1912,  pag. 169.       11 metodo | 203    razione, ed invece ci ha dato un'altra metafísica,  ricca di contraddizioni numerose, che non si risolvono  tuffandosi nel flutto del reale, ma solo possono essere  dissipate da una filosofía, che, pur riconoscendo la  intuizione, non disprezza la ragione ed il concetto.    IV.    Quali sono questi concetti, che la filosofia deve  adoperare? Le obiezioni di Bergson non distruggono  forse il loro valore ?   Due sono le correnti, che in questi ultimi anni si  sono delineate tra i neoscolastici italiani a proposito di  questa questione.   Gli scolastici puri stanno fermi all*antico astrattismo  aristotelico ed aderiscono perció a quanto in prege-  voli lavori hanno detto il De Tonquédec, il Farges,  il Piat, il Tredici e mille altri (1). Essi, dinanzi al  bergsonismo, ragionano cos]:   «E facile mettere di fronte, da una parte la ric-  chezza e la complessitá del reale quale € dato dall*intui-  zione, con tutto quel cumulo di note che rendono  ciascuno differente da ogni altro reale e soggetto  alle piú svariate vicissitudini e mutazioni, — e dal-  altra la povertá, la semplicitáa del concetto astratto,  che non rappresenta una cosa piuttosto che un'altra,  che resta immutabilmente lo stesso nonostante il cam-  biamento delle cose esistenti, —e poi gridare alla loro    (1) DE TONQUÉDEC: La notion de la vérité dans la Philos. nou-  velle, dapprima apparso in Études, come dissi e poi pubblicata  dal Beauchesne, Parigi, pag. 48-52; PIAT, Op. cit., passim. ;  FARGES, op. cit., cap. Vl e VII; MARITAIN, art. cif., passim. ;  GRIVET: Henri Bergson: esquisse philosophique in Études,  5 ottobre e 20 novembre 1909 e sopratutto 20 luglio 19ro, etc.    204 Note critiche             completa eterogeneitá, e chiamare il concetto una de-  formazione della realtá... Ma la cosa merita di essere  esaminata un po” piú profondamente.   »; ammette « la libera scelta » dello  slancio incosciente; e siccome la radice dell'atto li-  bero é nella durata, richiede come conditio sine qua  mon della libertá che vibri la nostra personalitá tutta  intera ; distingue perció 1l'io superficiale dall'io pro-  fondo ed enuncia la strana teoria — ripugnante alla te-  stimonianza della nostra coscienza — che gli atti li-  beri sono rari e che molti muoiono senza aver cono-  sciuto la vera libertá. Invece € chiaro che quando,  conscio di quello che faccio, scrivo queste righe, mi  sento libero, anche senza far vibrare tutta la lira dei  sentimenti e delle potenze del mio animo (1); é su-  perfluo bruciare la casa per far cuocere due uova. Vi-  ceversa, il desiderio della felicita, profondamente in-  sito in ciascuno di noi ed in ciascuna delle nostre  azioni, é necessitato.   Bergson afferma che é impossibile definire l”atto li-  bero, perché l'eterogeneita sempre cangiante della du-  rata non puó essere rinchiusa in una forma morta.  Poniamoci dal punto di vista bergsoniano; concediamo  per ora, senza discutere, che il flusso della nostra du-  rata interiore sia una continuitá perfetta; che sul  teatro della nostra coscienza sia assurdo che si ripro-  ducano due volte le stesse cause; ammettiamo che  per un essere finito l'atto libero futuro sia impreve-  dibile. Anche allora, quando dopo d'esser passato    (1) FARGES, op. cit., c. II, passim.       La dottrina 2583    A EP VIA    per una serie di mutazioni, Pio compie Patto libero,  sente che se elegge quest'azione, potrebbe perú anche  non eleggerla o eleggerne un'altra. Bergson stesso lo  riconosce; poiché e costretto a scrivere: «anche  quando si abbozza (on esquisse) lo sforzo necessario  per compiere un'azione, si sente bene che si é ancora  in tempo di arrestarsi » (1). In questo fatto sta 1'es-  senza della libertá. Bergson critica tre definizioni della  libertáa: «Patto libero € quello che una volta compiuto,  poteva anche non esserlo; é quello che non si po-  trebbe prevedere, anche se antecedentemente si cono-  scessero tutte le condizioni; quello che non é necessa-  riamente determinato dalla sua causa». Ma egli ha  dimenticato proprio la definizione esatta : «| P'atto li-  bero é quello che, mentre lo si compie, potrebbe  anche non essere compiuto ».   Questa definizione non confonde il tempo con lo  spazio, ma si pone nella pura durata ed esprime esat-  tamente un fatto della nostra coscienza; non vale  solo per l'azione compiuta, ma anche e sopratutto per  l'azione che si compie; non incorre nella tautologia  che «il fatto, una volta avvenuto, é avvenuto ;  mentre, prima di avvenire, non era avvenuto »; non  cade nelle braccia del determinismo, ma infigge un  pugnale nel cuore di questo avversario.   Essa — cosa importante da osservare — non fa nem-  meno dell”atto libero un'abitraria creazione ex nihilo,  poichée e la ragione che deve dirigere la volonta.  Quando la volontá vuole un bene che in quelle cit-  costanze € ragionevole, non pone un atto arbitrario,  bensi un atto libero: non e Poggetto esterno che de-  termina la volontá, ma e la volonta, che determina sé  stessa e potrebbe anche (irragionevolmente si, e qui    (1) Essaz, pag. 161.    284 Note critiche    sta appunto la colpa o l'imperfezione e la responsa-  bilita personale) non determinarsi. Avere il dominio  dei proprii atti, non significa che questo dominio debba  venire esercitato arbitrariamente, come credono certi  illustri positivisti (1).   Non mi dilungo su questa questione della liberta,  perché nel presente studio critico io non mi propongo  di esporre tutte le tesi scolastiche riguardanti i diversi  problemi. Il mio scopo € piú modesto: io vorrei sol-  tanto che ¡ lettori si persuadessero che non é poi per  stupido cretinismo o per un decreto di autoritá che i  neoscolastici- moderni alla voce che oggi risuona nel  College de France preferiscono un”altra parola, la cui  eco dorme da settecento anni tra le pietre della  vecchia Sorbona e che veniva pronunciata senza  scintilllo di metafore, ma con semplicita profonda da  un grande filosofo. Quel filosofo, che gli studiosi  d*allora, accorsi da tutte le contrade d”Europa, ascol-  tavano con Paviditá che oggi tiene sospesa la gio-  ventú francese alle labbra di Enrico Bergson, si chia-  mava San Tommaso d'Aquino. Coloro che lo igno-  rano, lo possono disprezzare ; coloro che lo meditano,  lo debbono ammirare (2).    (1) Cfr. MATTIUSSI, opera cit., capo Ill.  (2) GRIVET: 4H. Bergson, esquisse philosophique in Études,  3 Ottobre 1909, pag. 46.       La dottrina 285       II. — L'anima.    « Un nouveau spiritualisme » : ecco come vennero  denominate dal Belot le teorie bergsoniane intorno  all'anima umana ed ai rapporti dello spirito col  corpo (1). E parrebbe infatti che nessuna parola  fosse meglio indicata, per designare questa filosofia  che combatte il materialismo, che riconosce una dif-  ferenza di natura (e non di grado soltanto) tra 1'ani-  male e l?uomo, che sente cosi prepotente il bisogno  dell'immortalitá personale.   Ma anche qui é necessario procedere cautamente;  poiché, come nel problema della liberta Bergson non  sapeva conciliare la libertá dell'io con la necessita  del tutto, cosi in questa questione non sa conci-  liare l'unitá dello slancio e lPindividualitáa dei singoli.  Egli si trova molto impacciato. Ci ha sempre detto  che la corrente vitale ha tutti ¡ caratteri della nostra  coscienza per ció che riguarda la durata: lo slancio  unico é un tutto indiviso, in cui non vi sono elementi  o stati separati, come i quadratelli d'un mosaico od i  gradini di una scalinata; le molteplici virtualitá si  prolungano e si continuano le une nelle altre insen-  sibilmente, come la dolcezza d'un pendio. Ma e gli  individui? Dobbiamo negarne l”esistenza ? No, risponde  Bergson: la corrente una, indivisa, indivisibile, si rami-  fica nelll'oscuritá della materia in tante gallerie sot-  terranee ; é un obice che esplode in tanti frammenti,  destinati alla loro volta ad esplodere ancora. Ció che  era uno, semplice, indiviso, indivisibile, si divide, si    (1) GUSTAVE BELOT osservava peró che questo spiritualismo  rischia di fare gli affari del materialismo. Cfr. Revue philoso-  phique, 1897, 1” Semestre, p. 199.    256 Note critiche    A A A A    suddivide, separa le sue tendenze, crea i regni, le  specie, i viventi tutti! !   Bergson capisce di essersi messo su di una brutta  china ; e, pentito di aver spezzettato l?unita del tutto,  cerca di ridurre ai minimi termini la individualitá dei  singoli: un colpo al cerchio ed uno alla botte. « Gli  organismi — egli avverte — piú che individui, hanno  la tendenza all'individualitá » (1) ; « l'individuo é un  semplice luogo di passaggio, dove la vita prende il suo  slancio per ascendere piú in alto » (2); non c'é « une  individualité tranchée » nella natura, tanto € vero che  quello che voi chiamate individuo, dipende dai suoi  parenti, dai suoi antenati, da tutta la corrente vitale (3).  Insomma, gli esseri viventi non si individualizzano, se  non in una certa misura «dans une certaine me-  sure » (4). In tal modo il povero Bergson € sbattuto da  Scilla in Cariddi.   E la burrasca e la confusione aumentano : malcon-  tento di aver troppo depressa l'individualita, egli *    Come si spiegano tutti questi fatti o datici imme-  diatamente dalla coscienza o constatati dall'esperienza ?  Come si spiega che il mio spirito, sostanzialmente  identico nelle sue mutazioni qualitative, non é il tuo,    (1) Si veggano a questo proposito le opere del Wasmann, del  Gutberlet, Gemelli, del Salis-Seevis, del Farges, del Mercier etc.       La dottrina 267       che tra il mio spirito ed il principio vitale d'un bruto  c'é una differenza assoluta di natura ?   La teoria delllunico slancio non sa che pesci pi-  gliare. Lo slancio bergsoniano € obbligato a scindersi,  e ció € assurdo, perché ció che é indivisibile, non  pud dividersi. Lo slancio bergsoniano importa la ne-  gazione dell'individualitá perfetta e calpesta l”attesta-  zione chiara della coscienza. Lo slancio bergsoniano,  tende a porre una differenza solo di grado tra il bruto  e l'uomo, contro ció che lo stesso Bergson é obbligato  ad ammettere. Quei fatti sono invece meravigliosa-  mente spiegati dalla filosofia cristiana.   Quando un uomo ed una donna — che non sa-  rebbero tali, se tale non fosse stata la realtá in cui  sono stati prodotti ed in cui sono cresciuti — gene-  rano un. nuovo essere, il principio vitale di quest'ul-  timo e, secondo Bergson, la stessa anima dei genitori  e dei loro antenati, e l'identico slancio (naturalmente  modificato nel corso del suo sviluppo) che si scinde  ancora una volta. L'impossibilitáa di questa scissione  appare subito a chi riflette che ció che é semplice €  spirituale non pud scindersi. Bisognerebbe dunque  dire che i genitori creano quest'anima, ma Bergson  non ricorre a questa scappatoia ; la vita creativa im-  porta una potenza infinita. Resta dunque che questa  anima, venga creata. 1 genitori pongono, causano il  corpo, ma lo spirito e creato da Dio e col corpo forma  un unico essere.   Con cid si chiarisce, perché io sono questo indi-  viduo e non un altro; perche io, pur derivando dai  miei genitori, non mi posso confondere con loro;  perché, nonostante le mutazioni successive continue, ¡o  rimanga sostanzialmente identico : perché tra 1'ani-  male e Puomo ci sia una differenza di natura, essendo  solo l'anima delluomo che e spirituale e solo questa  richiedendo un intervento creativo diretto.    $    268 Note critiche    *  **    Ma allora, domanderá Bergson, non é forse Aena  Porganicitá dell'universo ?   No, perché la filosofia cristiana ha sempre difeso  Paltra grandiosa concezione aristotelica, che Bergson  non mostra di conoscere, dell'unione sostanziale del-  l'anima col corpo.   In questo problema Bergson si é accontentato di  parole e di frasi. La sua teoria, che fa unire la ma-  teria e lo spirito in ragione del tempo e non in ra-  gione dello spazio, non rischiara il mistero. Intanto, se  essa fosse vera, non sarebbe possibile la percezione.  L”essenza della percezione consiste in ció, che il corpo  avverte l'azione esterna che si esercita su di esso;  in altre parole, la percezione € d'ordine psicologico.  Non basta che il cervello sia un bureaw telefonico  centrale, munito abbondantemente di apparecchi;  perché sorga la percezione, € indispensabile che a  questi apparecchi vi sia qualcuno, che riceva e spe-  disca la comunicazione. Orbene, chi mai nella teoria  bergsoniana percepisce il movimento ? Nessuno : non  lo spirito, poiché la materia agisce solo sulla materia  e lo spirito é incapace di essere avvertito della pre-  senza di un oggetto per mezzo di un eccitante mate-  riale; anche se l”oggetto materiale é un'immagine,  siccome € fuori dello spirito, non rimane in comuni-  cazione con esso. E tanto meno il corpo: il' corpo  riceve il movimento e lo restituisce per un'attivitá tutta  meccanica, che non é menomamente di ordine  psicologico. Se dunque la teoria bergsoniana fosse  vera, non solo non si comprenderebbe il sorgere della  percezione cosciente, ma non percepiremmo nulla (1).    (1) GRIVET, art. cit., Études, 20 Nov. 1909, pag. 461 e seg.    La dottrina 269    E poi, Bergson chiarisce forse il fatto che la libertá  si introduce nella necessitá e che lo spirito non resta  legato dalle ferree catene del determinismo ? Ci spiega  forse come mai lo spirito inesteso possa avere delle  sensazioni estese e percepire la materia indivisa? Ci  dice il modo con cui lo spirito si unisce al corpo, cosi  da poter legare i momenti successivi della durata delle  cose e da ottenere il sentimento della tensione ? Ep-  pure era in questa notte che si doveva far luce ed in  cui il dualismo aristotelico ha, secondo me, proiettato  un fascio luminoso.   Bergson conosce solo un dualismo volgare, che non  sa trovare un punto di contatto tra due entitá cosl  diverse, come l'anima e il corpo, e che ricorre all*ar-  monia prestabilita o ad un accordo fortuito (1). Egli  ha ragione di deridere un simile dualismo, ma ha  torto di non voler prendere in considerazione il pen-  siero di Aristotile.   Questi, dopo aver dimostrato che due elementi si  debbono distinguere nellluomo, procedeva cosl. Co-  minciava a constatare un fatto sicuro; il fatto cioé  dell'unitá dell'essere umano. É lo stesso uomo che  vegeta, che sente, che si muove, che intende, che vuole.  E concludeva che l'anima ed il corpo non sono uniti  tra loro come un pilota ad una nave, ma che la loro  unione é sostanziale, produce cioé e costituisce una  sola natura specifica, una sola sussistenza completa ;  lo spirito forma con la materia un solo e medesimo  essere, una sola natura umana, una sola persona. E  come avviene questo? Il principio dell'unita non €  certo la materia divisibile, ma 2 l'anima. É lo spirito  che perfeziona la materia, che le comunica l'essere,  il moto, la vita, e le conferisce la sua specificitá : essa  informa il corpo, € forma del corpo. Forma sostanziale    (1) Cfr. Matiére et Mém., pag. 13, 252-3.    270 Note critiche    ed anche unica, in quanto contiene nella sua potenza  eminente tutte le potenze delle forme imperfette : se  il principio vitale in noi non fosse unico, sarebbe an.  nientata lP'unitáa dell'essere umano.   Ed allora tutto si spiega : si comprende il sorgere  della percezione sensibile, poiché la materia animata  pud essere alterata da una attivita materiale; le sue  sensazioni saranno dotate di vera unitá, perché uno  e semplice é il principio vitale che informa il soggetto  senziente, e nello stesso tempo saranno estese a ca-  gione del principio esteso, della materia. Si spiega la  materialitá dell'immagine-ricordo ed anche come ogni  funzione psichica debba avere in noi un riflesso fisio-  logico.   Ho detto che € anima che informa gli elementi:  ad essa bisogna guardare, per giudicare un organi-  smo, come per comprendere il significato di una pa-  rola bisogna mirare al pensiero che la vivifica. Che  importa quindi se c'é una somiglianza maggiore o mi-  nore di struttura tra l'animale e l'uomo? Per capire  un pensiero non si guarda alla somiglianza materiale  delle lettere, ma al suo significato; per giudicare un  vivente si deve guardare alla natura della sua anima.   Ho accennato brevemente a questa dottrina aristote-  lica, per venire alla conclusione che con la creazione  degli spiriti singoli non si distrugge 1l”organicitá del  tutto. Poiché, siccome l'anima forma con la materia  un intrinseco costitutivo' del vivente, essa .risentira  l'influsso del corpo. E questo corpo é quale 1'han for-  mato ¡ genitori, quale l*han preparato gli antenati, €  condizionato insomma da tutta la storia e da tutta la  natura : se i genitori furono viziosi, il figlio porterá le  stigmate del vizio e cosl via.   Come si vede, questa concezione della filosofia cri-  stiana € consona coi fatti, e basata sui fatti ed ac-  cetta quello che c'é di vero in Bergson.    La dottrina 271    Accetta cioé — posto l'identitá sostanziale dell'io  — tutte le analisi bergsoniane della nostra vita psi-  chica, la continuitá dei nostri stati interni, lo scorri-  mento ininterrotto del nostro io, che si svolge, ma-  tura e cresce in un ritmo irreversibile, dove il passato  si conserva e si prolunga in un presente sempre nuovo.  Puód accogliere la sua denuncia della confusione tra il  tempo astratto della scienza e la durata concreta, le  sue splendide confutazioni delle concezioni atomistiche,  spaziali ed associazionistiche dello spirito; pud ap-  plaudire anche alla sua lotta tenace contro la psico-  fisica ed il parallelismo psicofisiologico (1).    Xx  * X    Sopratutto solo la filosofia cristiana pud difendere  efficacemente l'immortalitá personale.   Bergson ha fondato la sua presunzione di quest'im-  mortalitá nel fatto che il parallelismo € falso e che la  vita mentale trascende (deborde) la vita cerebrale, li-  mitandosi il cervello a tradurre in movimento una pic-  cola parte di ció che avviene nella coscienza. L'indi-  pendenza di questa riguardo al corpo dá un grande grado  di probabilitá alla tesi della sopravivenza.    (1) Confesso candidamente di non esser mai riuscito a capire  Pentusiasmo di alcuni neoscolastici per la psicofisica e per la  psicofisiologia. L”unione sostanziale dell.anima col corpo importa  soltanto che ogni stato psicologico abbia una ripercussione sullo  stato fisiologico, ma non esige che tra l'uno e lPaltro vi sia un  perfetto parallelismo, né permette di formare delle generalizza-  zioni scientifiche, le quali, in questo caso, quando hanno la pre-  tesa di essere vere, sono la negazione della storicitá della co-  scienza. Perció pur rispettando la psicofisica e la psicofisiologia,  come rispetto l'astronomia e le altre scienze, non comprendo  come si voglia fare di esse una parte della filosofia. Lo stesso  si potrebbe ripetere del nuoyo metodo introspettivo.    272 Note critiche       Anche in questa questione mi sembra che la Sco-  lastica era ben piú profonda. L”anima spirituale, che  ha delle operazioni indipendenti dalla materia, non  dipende da questa nemmeno nell'essere ; dissolvendosi  dunque l”organismo, non cessa di esistere. Ecco una  prova che non ci dá solo uua probabilitá, ma una  certezza e che prescinde affatto dall'ipotesi paralleli-  stica. Supposto anche che ad ogni nostro atto psichico  corrispondesse un determinato movimento cerebrale,  ció non significherebbe che l'atto psichico non sia  spirituale e che perció lo spirito dipenda dalla ma-  teria nei suoi pensieri. Anche allora sarebbe ragione-  vole concludere che l*anima, sciolta dal corpo, nasce  ad un'alba che non tramonta mai; sarebbe logico far  risuonare il grido delle eterne speranze in mezzo ai  due grandi silenzi, ammirati da Carlyle e tra ¡ quali  viviamo : il silenzio delle tombe ed il silenzio degli  astri.       La dottrina 273    III. — La vita.    L'£volution créatrice € ritenuta da molti come la  parte piú poetica e meno filosofica dell?opera bergso-  niana. Alcuni anzi non la stimano del tutto degna  dell'autore dell” Essai sur les données immédiates.  A me invece sembra che tra l'uno e laltro volume  esista un nesso strettissimo e che 1”Evoluzione crea-  trice non sia che la teoria intorno alla durata della  coscienza, applicata logicamente ad una piú grande  Coscienza, alla Supercoscienza.   Partendo da questa mia interpretazione, che giudico  esatta e che, spero, sará limpidamente risultata dalla  esposizione che ho dato della filosofia di Bergson, co-  minceró ad indicare il progresso che la nuova conce-  zione biologica rappresenta di fronte al meccanicismo,  per poi enumerare le asserzioni che mi paiono fanta-  stiche od infondate.    La biologia di ¡eri voleva spiegare i fenomeni vitali  col giuoco delle sole forze fisico-chimiche ed accarez-  zava la speranza di poter costruire artificialmente la  vita. Basterá ricordare in proposito tutti ¡ tentativi  fatti per provare la generazione spontanea, dal Ba-  thybius Haeckelii alla glia di Maggi, dalla glairina di  Béchamp, ai ritrovati di Burke e di Bastian. Basterá  accennare alle piante artificiali di Herrera e di Leduc,  ai cristalli viventi di von Schrón, alle teorie basate  sulle proprietá della materia allo stato colloidale o sui    F. OXLGIATI 18    274 Note critiche |       processi catalitici da questi provocati, alle ipotesi dei  tropismi, degli ¡oni, dell'osmosi, alle deduzioni tratte  dalle esperienze del Carrel, a tutte insomma le dot-  trine antivitalistiche, che sorsero, brillarono e scom-  parvero (1).   Era tale l'atteggiamento mentale — che ormai va  lentamente scomparendo — della generazione trascorsa,  che ognuna di queste ipotesi attirava subito l”atten-  zione vivissima di tutti; ognuna di esse, anche se  strana, suscitava l'interesse animato di una tragedia  grandiosa, nella quale la forza possente della scienza  infliggeva la morte ad un passato tenebroso di bar=  barie. E nessuno si scoraggiava, anche quando la se-  veritá della supposta tragedia terminava miseramente  — come il famigerato Bathybius Haeckelii e la legge  biogenetica fondamentale — nelle allegre amenita di  una farsa (2).   Prossimo parente della concezione meccanica della  vita era ritenuto l'evoluzionismo, che — come bene  osserva Bergson — in sé non dice affatto meccani-  cismo. Si pud anzi aggiungere che la ragione principale  del trionto delle idee trasformiste € da ricercarsi nel-  l'illusioné degli scienziati, i quali nelle teorie dell'evo-  luzione videro una dimostrazione della loro concezione.  Se dalla materia é sorta la vita, se l'uomo deriva dal-  Vanimale, non c'é tra l'inorganico e organico, tra  Puomo e il bruto che una differenza di grado, non  di natura. 1 fenomeni vitali non sono piú un enigma;  Pistinto e l'intelligenza differiscono tra loro quantita-    (1) Cfr. la magnifica opera di AGOSTINO GEMELLI: ZL'enigma  della vita ed inuovi orizzonti della biología, Ediz. 2*, Firenze,  1914, come pure le altre numerose pubblicazioni dell'egregio  biologo.   (2) Cfr. GEMELLI-BRASS : Le falsificazioni di Haeckel, 3% Edi  Firenze, 1913.       A A    AS    La dottrina 275  AS A A SE e El Ia OI A    tivamente; ció che proviene da un altro € uguale  qualitativamente ad esso. Ecco la mentalita di ¡eri.  Se la generazione passata avesse sospettato che l'e-  voluzionismo nulla diceva in favore dell'idea mecca-  nicistica, il novantacinque per cento dei cultori delle  scienze positive gli avrebbe fatto una accoglienza non  troppo festosa.,   Dinanzi a questo indirizzo, che con nomi reboanti  e con parole sonore nascondeva un semplicismo an-  tifilosofico spaventoso, Bergson ha la gloria di aver  reagito. I suoi critici — anche piú spietati — hanno  confessato che le splendide confutazioni del meccani-  cismo sono la parte piú bella e piú duratura della sua  opera. E — per la storia — si deve aggiungere che  questo € il motivo per il quale furono rivolte a Berg-  son molte ingiurie, che gli fanno onore (1), e che pro-  vano tutt'al piú il basso livello intellettuale, di chi  le ha usate.    *  * xk    Bergson ha compreso innanzi tutto la storicitá della  vita e con la sua teoria della vita-durata ha superato  il meccanicismo. Spieghiamoci.   Un esploratore ardito, viaggiando in regioni lontane,  scopre una tribú, che parla una lingua affatto scono-  sciuta. Procura di farsi intendere con segni e con  gesti, ma non vi riesce. Trova invece un numero con-  siderevole di iscrizioni nei cimiteri, nei templi, nelle  piazze di quella tribú. Quelle iscrizioni sono per lui  oscure come un enigma; ma egli, pieno di speranza,  le esamina pazientemente, distingue le varie lettere,    (1) Cfr. nella prefazione gli insulti di Le Dantec, di Elliot, di  Lankester etc.    276 Note critiche  giunge a scoprire lalfabeto di quella lingua e crede  con gran probabilita di conoscere l'alfabeto com-  pleto.   Ha forse interpretato con questo anche una sola iscri-  zione? No: chi sapesse solo che in esse vi sono  tanti a, tanti b, tanti c, ne saprebbe ancora press'a  poco come prima. Chi dei Promessi Sposi conoscesse  soltanto quante migliaia di lettere di un genere, quante  migliaia di vocali, quante migliaia di consonanti vi  sono, non avrebbe ancora capito niente del romanzo  dello scrittore lombardo. — Chi pretendesse di spie-  gare il significato della parola « Dio », dicendo che  Dio significa D + 1 + O, toccherebbe il colmo del  ridicolo. La vera spiegazione ben lungi dal rinchiu-  dersi nell'enumerazione e nella disposizione delle let-  tere, va dal pensiero alle lettere; quello spiega queste  e non viceversa. E se l'esploratore, per confermare  la sua stranissima tesi, si balloccasse a mettere in-  sieme lettere con lettere, formando cervellotticamente  dei pseudovocaboli, noi gli risponderemmo che le sue  sono parole morte, dove non brilla il raggio del pen-  siero.   Chi volesse proprio comprendere una iscrizione di  quella tribú, non solo deve cercare il significato delle  parole e delle frasi, ma dovrebbe anche ricordarsi che  queste sono nate in una determinata situazione di  fatto e che perció i vocaboli di quella iscrizione hanno  il senso che loro ha conferito colui che Il'ha com-  posta. Noi tanto meglio la interpreteremo, quanto piú  non ci fermeremo alle lettere dell'alfabeto, ma sco-  priremo il valore delle espressioni, il tempo in cui fu  scritta, l*uomo che la dettó, l'occasione che la sug-  gen, la cultura e il carattere di quell'epoca e via  dicendo.   Non basta limitarsi alla materialitá delle parole e  delle frasi. La stessa frase sulle labbra di una persona    3    La dottrina 277       pud avere un significato ben diverso di quello che ad  essa attribuisce un'altra persona di un'altra epoca,  od anche della stessa epoca. Il vero é€ il fatto, ha  detto Vico e lo dice oggi Benedetto Croce e lo ripete  anche Roberto Ardigd : l'espressione e materialmente  identica; il pensiero inteso dai tre filosofi € sostan-  zialmente diverso. Per portare un*altro esempio: quando  un negoziante di acquavite parla di « spirito », non  intende certo indicare lo « spirito » dell'idealista, come  quest*ultimo a sua volta non intende alludere allo  « spirito » del monadista, né allo « spirito » dello spi-  ritista.   Non si puó quindi dimenticare la storicita dell'iscri-  zione, storicitáa che fa si che il significato di essa sia  unico. Scritta in un'altro tempo, in altre circostanze,  con le stesse lettere, con le stesse parole, con le  stesse frasi, avrebbe espresso un pensiero differente,  corrispondente agli avvenimenti di quel tempo. E lo  stesso si ripeta, se fosse stata composta da un altro  individuo o dalla stessa persona in un momento di-  verso della sua vita. Una differenza qualitativa ci  sarebbe sicuramente, se, ben inteso, si considera la  iscrizione nella sua realtá concreta. Finalmente il  pensiero dell'iscrizione € uno, pur nella molteplicita  delle idee espresse; si trova in essa quell'unitá di  ispirazione, che si osserva in una strofa, in un inno,  in un quadro.   Ecco perché non si pud spiegare l'iscrizione con le  lettere di cui consta, L*iscrizione ha una storia, é  storia; le lettere non ne hanno. L'iscrizione é unica ;  le lettere son sempre quelle. L'iscrizione € una; le  lettere sono molte.   Con queste riflessioni — che sembreranno infantil-  mente elementari e che pure furono calpestate dal  meccanicismo — si rimprovera forse all*esploratore di  aver fatto una cosa ¿imutile ? Ma nemmeno per sogno.    278 Note critiche       Egli ha compiuto un lavoro utilissimo, una prepa-  razione necessaria. Ed anche nel caso che per una  felice combinazione fosse arrivato a decifrare il senso  di quelle iscrizioni, Pesploratore, per utilizzare il suo  studio, metterá per un momento da parte la loro sto-  ricitá, la loro unicitá, la loro unitá, in una parola la  loro finalitá. Le scomporrá invece in tanti vocaboli,  ne catalogherá il maggior numero possibile, formerá  un vocabolario e dará cosi un mezzo utile e indispen-  sabile a coloro che vorranno comunicare con gli abi-  tanti di quel popolo o che vorranno studiarne la let-  teratura, la storia, la civiltá. E tutti applaudiranno  alle sue fatiche pazienti, al suo sforzo, al suo suc-  Cesso.   - Solo allora gli applausi si muteranno — ed a ra-  gione — in fischi sonori, quando egli fosse cos pazzo  da pretendere che le parole si debbono spiegare con  le lettere, che ad es. la parola « Re » si interpreta,  non giá alludendo ad una autoritá sovrana, ma con  R + e; oppure quando, dopo aver finito il vocabolario    ed elencato tutti i vocaboli, credesse di aver riassunto    tutta una cultura ed una civiltá. A chi ci offrisse un  dizionario completo della Divina Commedia e s'illu-  desse che tutta ll fosse la poesia di Dante, noi di-  remmo: scusa, questi sono i detriti di quell*opera  immortale, non il poema; sono la morte e non la vita.  Quando — per riassumere — si confonde un proce-  dimento pratico, utile, se si vuole, e necessario, Op-  pure un minimum di veritá, quale ci é dato dall'a-  strazione, con la veritá in tutta la sua concretezza,  allora noi protestiamo.   Ebbene, dice press'a poco Bergson: applicate questo  al problema della vita.   Le iscrizioni oscure sono gli organismi viventi; eli  esploratori sono gli scienziati che vogliono risolvere e  spiegare l'enigma della vita. Siccome non ne com-    il 2       La dottrina ' 279       prendono nulla, cominciano ad esaminare le lettere che  compongono le parole, vale a dire gli elementi fisico-  chimici, le molecole, gli atomi che compongono il  vivente. E si pud dire che raggiungono con probabilita  un alfabeto completo.   Fin qui tutto va nel migliore dei mondi possibili:;  il loro lavoro, le loro scoperte sono utilissime sotto  mille rispetti. 11 male é che alcuni scienziati si accon-  tentano di ricercare le lettere dell”alfabeto, gli ele-  menti fisico-chimici e credono di aver spiegato il  mistero, quando hanno trovato che in un dato orga-  nismo, vi sono tante molecole di carbonio, tante di  acqua, etc., non comprendendo che essi sono simili  all'esploratore, che si ostina a pensare d'aver inter-  pretata l'iscrizione, perché sa quanti a, quanti b etc.  in essa vi sono.   Ed il male si accresce, quando questi biologi si  divertono nei loro laboratori ad accozzare lettere a  lettere, elementi ad elementi, per creare degli esseri  vitali, delle parole significative, senz'accorgersi che  é per il pensiero che si hanno tali lettere, € per la  vita che si ha un tale organismo, e non vice-  versa.   Le conseguenze che ne derivano sono le medesime:  lesploratore poneva in oblio la storicita, 1unicita,  I?unita dell'iscrizione. 1 meccanicisti non si ricordano che  ogni organismo ha una storia, mentre quest'ultima,  come dice il Bergson, sdrucciola sopra gli elementi,  senza penetrarli. L”organismo é unico e non vi sono  in nature due foglie identiche; gli elementi sono  eguali. L'organismo € unita; gli elementi sono nu-  merosi. Essi.sono i concomitanti necessari della vita,  come le lettere sono i concomitanti necessari dell'iscri"  zione; ma non sono la vita, non sono il pensiero ;  gli elementi sono i detriti dei fenomeni vitali, sono la  morte e non spiegano nulla.    A    280 Note critiche       Senza dubbio, é utile, é necessario studiare gli  elementi ed i loro composti, come é utile, é necessario  conoscere le lettere d'un alfabeto ed il vocabolario di  una lingua. Ma come non €il vocabolario che spiega  la lingua, € questa che spiega quello; cosi non sono  gli elementi né loro combinazioni che risolvono l'enigma  della vita, bensl € quellattivita immanente, che ma-  nifesta sempre caratteri opposti alla materia.   Ed anche — ripetiamolo — non si disprezza il  lavoro degli esploratori, ossia dello scienziato; non solo  la scienza, come esperienza storica é presa di realta;  non solo, io aggiungo, alcune sue generalizzazioni  astratte hanno un valore teoretico; ma essa e feconda  di risultati pratici. Per ottenere i quali, come l'inter-  prete deve trascurare la storicitá, l'unicitá, I*unitá  dell'iscrizione, cosi lo scienziato deve trascurare gli  stessi caratteri della vita. S'intende perd: il suo € un  metodo pratico di ricerca, indispensabile per 1'utiliz-  zazione della realtá ed anche per poter poi risalire a  cogliere la vita nella sua finalitá concreta; egli com-  mette un errore grossolano, solo quando vuol erigere  una regola metodologica alla dignitáa di spiegazione  teoretica e di sistema metafisico. :   Questa — in breve — la confutazione bergsoniana  del meccanicismo (1); che io accetto, sottoscrivendo  anche quasi completamente — (dico: quasi, per la  teoria da me difesa intorno all'astrazione) — cid che  riguarda i rapporti tra scienza e filosofia.   Scienza e filosofia marciano in due direzioni ben  diverse; questa verso la storicitá della vita e della  coscienza, quella verso l'antistoricitá degli elementi,    (1) DAVID BALSILIE nel suo libro: 4x4 examination of prof:  Bergson philosophy, London rgr2, sostiene che Bergson é un  meccanista per alcune teorie di Matiére et Mémoire, non gia  per le idee dell'Évolution créatrice.             La dottrina 281    della psicofisica, della psicofisiologia; luna verso il  movimento composto di immobilitá e di simultaneita,  l'altra verso il movimento reale; l'una verso il tempo  t della fisica, l'altra verso la durata concreta; l'una  verso il meccanicismo, l'altra verso la finalitá; l'una  verso la morte, l'altra verso la vita; la scienza verso  Putilita, la filosofia verso la veritá.    *  * o    Conseguentemente al suo antimeccanicismo, Berg-  son contro gli evoluzionisti d'ieri, i quali — con una  asserzione che faceva loro poco onore — vedevano  nell'uomo un bruto perfezionato e che tra l'uomo e  il bruto ponevano solo una diversitá di grado, affermó  la tesi contraria, ossia una diversitá di natura. Se ¡  suoi pregiudizi contro l'intelligenza rendono talvolta  un po” deboli le sue prove, é un fatto peró che le  pagine dell” Évolution Créatrice, dedicate alla diver-  genza tra l'istinto e l'intelligenza, contengono molte  verita.   Egli anzi ha compreso che la teoria del trasfor-  mismo non é nemmeno una teoria filosofica, e dinanzi  a coloro, che nell'ipotessi trasformista scorgevano un  compendio di tutta la filosofia, ha notato che gli im-  porterebbe molto poco, anche se il trasformismo fosse  dimostrato falso.   Gli evoluzionisti non hanno mai afferrato l'anima  di veritá, che David Hume insegnó nel suo Treatise  of human nature. L'esperienza — disse Hume —  ci mostra solamente come un fatto segue l'altro, ma  non ci dá l'intima necessita del loro collegamento;  ci offre cioé un « rapporto di successione », non un  »  » XI - Filosofia e realtá »  PartTE II. — Note critiche.  a) Il metodo pag  b) La dottrina »  TI. La libertá . »  IT. L'anima »  III. La vita »  IV. Dio »  CONCLUSIONE pag    APPENDICE 1: Note oriaficho  APPENDICE 11: Bibliografia    3  15  39  57  q  91   103  197  133  145    157  173    . 189    945  947  255  9273  290    . 307    309  313          Piecola Biblioteca di Scienze Moderne    Eleganti volumi in-120       1. Zanotti-Bianco, In cielo. Saggi di ones — 1897 . A y E L. 250  2. Cathrein, Il Socialismo — 48 edizione, 1906 . » 2=  3. Brúcke, Bellezza e difetti del corpo umano. Con figuro - 2 'edizione, 1907 92:00  L. Sergi, Arii e Italici — 1898 , (esaurito)  5. Rizzatti, Varietá di storia naturale. Eon figure — 1901 .” . ñ - PA  6. Lombroso, Il problema della felicitá — Ya edizione, 1907, a E =  7. Morasso, Uomini e idee del domani — 1898 (esaurito).  8. Kautsky, Le dottrine economiche di C. Marx — e (sequestrato).  9. Hugues, Oceanografia — 1898 a dl $ a 6 Re L. 350  10. Frati, La donna italiana — 1899 . o E AS : ” 2  11. Zanotti-Bianco, Nel regno del sole — 1899. 6 $ o 2 S s) 2,50  192, Troilo, 1l misticismo moderno — 1899. > B E ; ” 3  13. Jerace, La ginnastica e l'arte greca. Con fi ure — 1899 ; ó > : » 3=  44. Revelli, Perche si nasce maschi o femmine? — 1899 = o »» 2,50.  15. Groppali, La genesi sociale del fenomeno scientifico — 1899 . z > »» 2,50  16. Vecchj e D'Adda, La marina o — 1899 A : E 5 SD  17. De Sanctis, l sogni — 1899. O ES  18. De Lacy Evans, Come prolungare la vita — 9a E 1906. s E ; » 3=  19. Stratfforello, Dopo la morte — 2 edizione, 1906... ” 3=  w20. Lassar-Cohn, La chimica nella vita quotidiana, Con figure — 9 ed. 1901. » L-=  21, Mach, Letture scientifiche popolari — 1900. e E)  22. Antonini, 1 precursori di Lombroso. Con Sgure = 1900 - á z , »» 2,50  23. Trivero, La teoria dei bisogni — 1900. > E , 5 2.50  24, Vitali, Il rinascimento educativo — 1900... .. . 0. + 9 2  25. Disa, Le previsioni del tempo — 1900 . A E , a > SS . 3  26. Tarozzi, La virtú contemporanea — 1900. A é ; A z . 1 %2=  27. Strafforello, La scienza ricreativa — 1900 , . -. IS , ” 3  28. Sergi, Decadenza delle nazioni latine — 1900. E » L=  99. Wasé-Dari, M. T. Cicerone e le sue idee cie e sociali — 1901 ; » L=  30. De Roberto, L”Arte — 1901 . ORTO  31, Baccioni, La vigilanza igienica “degli alimenti AO o 3 L=  32. Marchesini, 11 simbolismo — 1901 S 4 6 S > S 3,50  33. Naselli, Meteorologia nautica — 1901 . ESA A E s» 250  34, Niceforo, Ttaliani del nórd ed italiani del sud — 1901. o E z ”  B=  35. Zoccoli, Federico Nietzsche — 2% edizione, 1901 . ; p > . 4—  36. Loria, Il capitalismo e la scienza — 1901 > " (esaurito)  37. Osborn, Dai Greci a Darwin — 1901 . 4 ; . —L. 3,50  38. Ciccotti, La guerra e la pace nel mondo antico — 1901 . HE 5 AO "50  -39. Rasius, Diritti e doveri della critica — 1901 5 E 8 S % 1 3  ZO, Sergi, La psiche nei fenomeni della vita — q E o ASEO 950  J1. Henle, La vita e la coscienza. Con figure 1902. ES E , 4 ” 3=  49. Baccioni, Nel regno del profumo. Con a A  43. Strafforello, Il progresso della scienza — 190 A  44. WMinutilli, La Tripolitania. Con' una carta — de 'edizione, 1912 $ 3 ” Bb=  45. Maeterlink, La saggezza ed il destino — 2 ediz., 1910 . b : 5 ») 3,50  46. Molli, Le grandi vie di comunicazione — 1902 . _ 5 E z » L=  47, Vaccaro, La lotta per l'esistenza — 33 ediziono, 1902 ; a z A ” 3=  48. Grant Allen, La vita delle piante. Con gt O A A y  49, Zini, [l pentimento e la morale ascetica — be 5 5 % ; s ” 3=  50. Materi, L*eloquenza forense — 1902 —, 6 o z A b E y D=  HL. Morasso, 1” imperialismo artistico — 1903. 3 Z 5 3,50  52. Lombroso, I segni rivelatori della personalita — Y “ediz. 1913 + . iS  53. Oddi, Gli alimenti e la loro funzione — 1902... ESO  -54. Rossi, 1 suggestionatori e la folla — 1902... . E E 00  bb. Vaccal, Le feste di Roma antica — 4902. E » E 3 E A ,»» 3,50  56. Marchesini, 11 dominio dello po — 4902. E  57. Sergi, Gli Arii in Kuropa e in Asia Con figure — 1903. e 3 % ,) 3,50  58. Zanotti-Bianco, Istorie di mondi — 193. E A > ” L—  59. Harnack, L'essenza del Cristianesimo — 2 ediziono, 1908 % ñ E d a  60. James, Gli ideali della vita — 3 edizione, 1912 4 2 IN E  61. Baccioni, Dall'alchimia alla chimica. Gon figure — 1906 A ; BR          Pa Fratelli Bocca, Editori - Torino    om             204. De Roberto, Renan — 1911  205. Besant, Autobiografia — 1911    206. Powell, Il cibo ela salute — 1911... + +. 0.95 6... 0... %=  207. Gachetti, La fantasia — 1912 OS A 2 : ; 1” Be  208. Turchi, Storia delle religioni — 1912 . S E E  209. Somigli, La pesca marittima industriale —- "1919 z RRE e , EL  210. Halewy, Vita di Federico Nietzsche — 19192 E > > ? A 5-7  911. Troilo, Il positivismo e i diritti dello spirito — 1919 e : z ” Bb= '  212. Michels, I limiti della morale sessuale — 1912 -—. A E ; E ”» B=  213. Graziani, Teorie e fatti economici — 1912 Le z : E ; E 1» 6% |  24. Cappelletti L., La riforma — 1912 A A  215. Gallo, La guerra e la sua ragion sessuale — 1912 ; ; ; . » 3,D0  916. Ramaciaraca, La respirazione e la salute — 1913 PA Pa > rl    917. Carus, Il Buddismo e i suoi critici cristiani — SR    a  a  -        218. Sergi, Le origini umane — pe . » 3,00:   219. Rau, La crudeltáa — 19%3 », 3,90 >  990. Aitken, Le vie dell'anima — 1913 > ES E  291. Canestrini, Nel mondo dei parassiti — 1918 a DO  292. Avebury, Pace e Felicita — 1913 A a . ») 3,50. |  223. Rensi, La Trascendenza — 1914 . AE $ ” Dd=)  29%, Grew, Lo Sviluppo di un pianeta — 1914: > > v 63]   9%. Sergi, Evoluzione organica e le origini umane — 1914 . : . » 3,50   996. Gallo, Valore sociale dell'abbigliamento — 1914. E ”. 3,50   297. Ramaciaraca, Ata Yoga: L'arte di star bene (in corso a stampa). = 3  228. Vercellini, Unita di legge nei fenomeni vitali — 1914 z a » 208   '929. Germani, La Ragioneria come scienza moderna . - PE s» 2,50.  Ys    NB. 1 volumi di questa serie esistono pure elegantemento legati im tela con”  fregi artistici, con una lira d'aumento sul prezzo indicato.          THEOLOGY LIBRARY  a CALIF.    SH                Ps  Ñ  a  A  ll  nes  e  T  Se y  Pe  ES A  y e a  xi le  t y  «    ES  y ,  3  E  Z $ í  seo > 1  pe  4 Francesco Olgiati. Olgiati. Keywords: classici, il gusto per l’antico, ius, Aquino, sillabario, filosofia classica, filosofia no-classica, logica classica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Olgiati” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Olimpio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He lives in the middle of nowhere. When he finds his city became an uncomfortable place for pagans, he moves to Rome.

 

Grice ed Olivetti: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’archivista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Olivetti deals with some topics dear to me and Strawson, like subject, transcendental subject, and the rest – he also uses ‘analogy,’ which is a pet concept of mine – I have been compared to Apel, so the fact that Olivetti in his ‘conversational’ approach relies on him, helps!” - Professore a Roma -- preside della Facoltà di filosofia. Formatosi a Roma, confrontandosi con i temi del rapporto fede e ragione nell'ambito di un collegio di docenti orientato sul versante marxista, storicista, postidealista, trova in ZUBIENA il suo maestro. Con lui iniziò una collaborazione intellettuale che lo porta a studiare i temi della filosofia della religione, partecipando ai colloqui romani inaugurati dal filosofo piemontese, dapprima come segretario e poi, dopo la morte di ZUBIENA come organizzatore. Dopo iniziali studi di estetica religiosa e di filosofia classica tedesca, si dedicò alla ricerca di un approccio neo-trascendentale al tema della religione, insegnando filosofia morale a Bari e poi sostitundo Zubiena nella cattedra romana di filosofia della religione. Giunse dopo l'incontro decisivo col pensiero di Lévinas, ad elaborare una concezione di questa disciplina come antropologia filosofica e etica in quanto «filosofia prima anzi anteriore» su base storica, nata dalla dissoluzione in età tardo settecentesca, soprattutto ad opera di Kant e Hegel, della onto-teologia. Molta rilevanza aveva nel suo insegnamento lo studio dei classici tedeschi, in chiave storica, e da ultimo il confronto sia con la fenomenologia, specie con Lévinas e Marion, sia con la filosofia analitica. In Analogia del soggetto, la sua opera maggiore, l'autore elabora una teoria analogica del soggetto, riprendendo suggestioni di Husserl, Apel e Lévinas, confrontandosi con Heidegger e suggerendo una teoria dell'"umanesimo dell'altro uomo" su base staurologica ed etico-interinale («espropriarsi del caritatevole nell'interim interlocutivo» ibidem).  La tesi è che non esiste un'essenza dell'essere umano. Tale essenza è immaginata, e senza siffatta immaginazione l'essere e l'umano non si coapparterrebbero. Così si dice, in un certo senso la fine dell'etica. Tuttavia così si dice anche che l'etica, e non l'ontologia, è la filosofia prima, anzi anteriore. Di seguito l'autore prospetta un ripensamento del soggetto trascendentale, con un differimento dell'ergo rispetto al cogito cartesiano, partendo dal “loquor,” ovvero «dall'origine analogica di ogni logica, in modo da scomporre la presenza trascendentale in sum-prae-es-abest. Si perverrebbe così all'abbozzo di un «ripensamento dell'appercezione trascendentale, in modo tale da reimmettere il pensiero rappresentativo nella giusta traccia della rappresentazione. Attività accademica e influenza Direttore dell'Istituto degli Studi Filosofici Castelli e poi dell'"Archivio di Filosofia", si fece promotore di colloqui e convegni nei quali conveniva, a Roma, ogni due anni, nei primi giorni di gennaio, l'élite della filosofia della religione europea e mondiale (Ricœur, Marion, MATHIEU, Quinzio, Melchiorre, Lévinas, Lombardi Vallauri, Forte, Casper, Dalferth, Greisch, Capelle, Courtine, Falque, Grassi, Paul Gilbert, S.J. Stéphane Mosès, Flor, Prini, Peperzak, Swinburne, Gabriel Vahanian, Hénaff, Vitiello, Tilliette, Henry, Taylor, tra gli altri). Nelle sue prolusioni e nei suoi contributi introduttivi si prospettava lo sfondo su cui si sarebbero esercitati i contributi e le discussioni del Colloquio, di seguito pubblicati in numeri monografici della Rivista "Archivio di Filosofia". I temi trattati erano spesso centrali nell'elaborazione di una filosofia della religione come filosofia tout court e abbracciavano, negli anni ottanta e novanta del Novecento, temi centrali come "Teodicea oggi?", l'argomento ontologico, l'Intersoggettività, il Dono, la Filosofia della Rivelazione,il Sacrificio, il Terzo. La sua personalità riservata entro l'ambito strettamente scientifico e il rigore speculativo dei suoi scritti non ne hanno favorito una conoscenza pubblica al di là dei circuiti accademici, e il suo insegnamento ha lasciato un traccia significativa costituendo una vera e propria scuola di filosofia della religione.  Saggi: “Il tempio simbolo cosmico” (Milani, Padova); “L'esito teo-logico della filosofia del linguaggio” (Milani, Padova); “Filosofia della religione come problema storico” (Milani, Padova); “Da Leibniz a Bayle: alle radici degli Spinoza briefe, “Archivio di filosofia”; “Analogia del soggetto” (Laterza, Roma); "Filosofia della religione" in La filosofia, Le filosofie speciali (Pomba, Torino); Avant-propos, in Le Tiers, Archivio di Filosofia Archives of Philosophy, Considerazioni introduttive sul tema: Postmodernità senza Dio?, in «Humanitas»  a.c. di Ciglia e De Vitiis Traduzioni e curatele:  Kant I., La religione entro i limiti della sola ragione, Romam Laterza); “La religione nei limiti della sola ragione, I.Kant (Laterza, Roma); “Saggio di una critica di ogni rivelazione, con introduzione Fichte, Laterza, Roma) ; Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,. Francesco Valerio Tommasi, Archivio di filosofia », Tommasi, Le persone, infiniti fini in sé. Un ricordo lettore di Kant, « Studi Kantiani », Filosofia della religione Fenomenologia Ontologia Teologia Fede Ragione  Bruno Forte, Del sacrificio e dell'amore_In memoria, su, Tributo dell'Roma, Istituzioni collegate, su filosofia.uniroma1.  E. Giacca: un filosofo della religione", Giornale di filosofia, su giornaledifilosofia.net. Archivio di filosofia, su libraweb.net. Marco Maria Olivetti. Oivetti. Keyword: implicatura, l’archivista -- “philosophy of language.” Cratilo, teologia del linguaggio, esito teo-logico della filosofia del linguaggio, la religione razionale secondo Kant, l’idea de fine – autonomia, il regno dei fini in Kant, religione e linguaggio, l’esito teologico della filosofia del linguaggio, Jacobi.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Olivetti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Olivi: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia friulese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Udine). Filosofo italiano. Udine, Friuli-Venezia Giulia.  Medico e storico italiano. Anche filosofo. PALLADIO degli Olivi, Gian Francesco. – Nacque a Udine tra il 1610 e il 1615 da Alessandro e da Elena di Strassoldo.  Gli Annales di Udine il 4 dicembre 1609 annoverano l’aggregazione della famiglia, proveniente da Portogruaro, tra i nobili della città.  Palladio frequentò l’università di Padova, dove si laureò in giurisprudenza nel 1638. Rientrato in patria, si dedicò per un breve periodo alla professione forense; divenuto abate, ottenne il beneficio ecclesiastico della pieve di Latisana. Si iscrisse, con il nome di Ferace, all’Accademia udinese degli Sventati, fondata tra gli altri dallo zio paterno Enrico. Nel 1658 e nel 1659 pubblicò a Udine due opere di Enrico: il De oppugnatione Gradiscana libri, sul conflitto che oppose tra il 1615 e il 1617 la Repubblica di Venezia e l’Austria, noto con il nome di guerra di Gradisca, e  i Rerum Foro-Iuliensium ab orbe condito usque ad an. Redemptoris Domini nostri 452 libri undecim, rimasti interrotti alla presa di Aquileia da parte degli unni. Palladio decise di continuare l’opera dello zio, non più in latino ma in volgare, partendo dal punto in cui si era interrotta, l’anno 452, per arrivare sino al 1658. -ALT  La cronaca, Historie delle provincie del Friuli, è composta secondo il metodo annalistico e fu pubblicata in due volumi a Udine nel 1660. La narrazione, pur essendo fondata su un’ampia documentazione, ripete alcuni luoghi comuni concernenti in particolare l’origine delle città e dei loro casati più eminenti. L’autore difese in particolare l’antichità di Udine riprendendo parte degli argomenti proposti da Gian Domenico Salomoni e ripresi da Enrico Palladio, i quali identificavano Udine e non Cividale nell’antica Forum Iulii di cui parla Paolo Diacono, attribuendo in tal modo a Udine l’egemonia sulla regione dopo la distruzione dell’antica sede metropolita di Aquileia. Riprendendo quanto detto da Salomoni, Palladio riconduceva la fondazione di Cividale sul fiume Natisone al periodo successivo alla vittoria del duca Wechtari, o Vettero, sugli Slavi, descritta nel capitolo V della Historia Langobardorum di Paolo Diacono.  Palladio sostenne con diverse argomentazioni l’esistenza di un antico vescovato udinese indicando in un presunto vescovo Teodoro da Udine il destinatario della lettera Regressus ad nos del 21 marzo 458, sulle donne sposate con uomini rapiti dai barbari, inviata da papa Leone Magno a Niceta, vescovo di Aquileia; attribuì poi a Udine i vescovi di Zuglio citati nei sinodi dei secoli VI-VII e in Paolo Diacono. La Historia, pur presentando i limiti comuni alla storiografia prodotta nel corso del XVII secolo, fornisce dunque numerosi dati che contribuiscono alla ricostruzione della storia friulana. Nella metà del Settecento Paolo Fistulario criticò severamente i passaggi nei quali è creata un’origine delle illustri famiglie cittadine priva di qualsiasi fondamento. La la famiglia comitale degli Strassoldo, per esempio, sarebbe discesa da Rambaldo di Strassau, descritto come il «supremo direttore delle armi» ai tempi dell’imperatore Valentiniano III (vol. I, p. 5). L’opera conobbe ulteriori critiche nel secolo successivo da parte di Antonio Zanon, che rimproverò  Palladio di avere scritto una storia parziale, nella quale veniva data voce solamente al punto di vista espresso dalla nobiltà e non al ceto borghese cittadino, che trovava invece spazio in altre opere che circolavano al tempo, quali i Dialoghi di Romanello Manin, rimaste manoscritti.  Palladio morì nel 1669.  Scrisse anche altre opere in prosa e in versi per l’Accademia degli Sventati, ancora di proprietà degli eredi al tempo di Giuseppe Liruti, e alcuni testi di contenuto giuridico. Nella Biblioteca civica di Udine sono conservate alcune rime, intitolate latinamente Carmina (Fondo principale, 1076) e una Collectanea legalis (Joppi, 623), redatta secondo voci organizzate in ordine alfabetico e solo in parte compilate.  Fonti e Bibl.: Udine, Biblioteca civica, Mss.: V. Joppi, Letterati friulani, c. 77v; G.D. Salomoni, Difesa del capitolo de’ canonici della città di Udine agli ill.mi et rever.mi signori cardinali della sacra congregatione Sopra i riti di S. Chiesa, Udine 1596; G. Liruti, Notizie delle vite ed opere scritte da letterati del Friuli, IV, Venezia, 1760, p. 459; A. Zanon, Dell’agricoltura, dell’arti e del commercio in quanto unite contribuiscono alla felicità degli stati, Venezia 1766, pp. 191-229; P. Fistulario, Discorso sopra la storia del Friuli detto nell’Accademia di Udine, addì X maggio dell’anno MDCCLIX, Udine 1769; F. Di Manzano, Cenni biografici dei letterati ed artisti friulani dal secolo IV al XIX, Udine 1884, p. 147; F. Fattorello, Storia della letteratura italiana e della coltura nel Friuli, Udine 1929, p. 157; E. Petrarca, Storici minori del Friuli. Palladio Gian Francesco, in La Guarneriana, X (1967), pp. 71 s.; L. Milocco, L’Accademia udinese degli “Sventati” (secoli XVII-XVIII), in Più secoli di storia dell’Accademia di scienze, lettere e arti di Udine (1606-1969), Udine 1970; L. Cargnelutti, P. degli Olivi, G.F., in Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei friulani, III, a cura di C. Scalon - G. Greggio, Udine 2009, pp. 1903-1905.Enrico Palladio degl’Olivi.

 

Grice ed Onato: la ragione conversazionale e la setta di Crotone -- Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorean. Fragments from his treatise survive. Grice: “But since they are in Greek, CICERONE refuses to study him!” -- Onato. Onata. Onato.

 

Grice ed Onorato: la ragione conversazionale del cinargo romano – Roma – filosofia italiana. Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.A member of the Cinargo who takes to the habit of wearing a bearskin. Onorato

 

Grice ed Opillo: la ragione conversazionale e l’orto romano -- l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Segue l'indirizzo dell’orto. Liberto di un membro dell’orto, insegna filosofia, ma sciolge la sua scuola per seguire Rutilio Rufo a Smirne, ove compose varie saggi, fra le quali Musarum libri IX. Aurelius Opilius. Ueber die Schreibung “Opillus” statt “Opilius” vgl. F. Buecheler, Rhein. Mus. Opilius lehrte zuerst Philosophie, dann Rhetorik. endlich Grammatik. Später löste er seine Schule auf und folgte dem P. Rutilius Rufus ins Exil nach Smyrna. Hier schrieb Opilius unter anderem ein Werk von neun Büchern mit dem Titel “Musarum libri IX”. Nach den Citaten, die daraus von Gellius und besonders von Varro, Festus und Julius Romanus gemacht werden, muss er sich besonders mit Worterklärungen befasst haben. Ferner erwähnt Sueton einen Pinax mit dem Akrostichon „Opillius"; da wir wissen, dass sich Opilius mit Scheidung der echten und unechten Stücke des plautinischen Corpus abgab, werden wir diese Schrift dafür in Anspruch nehmen dürfen. Zeugnisse. «) Sueton, de gramm. Aurelius Opilius, Epicurei cuiusdum libertus, philosophiam primo, deinde rhetoricam, nocissime premmetiram docuit. dimissa autem schole Rutilinm Rufum damnatum in Asiam secutus ibidem Smyrnae simulque consenuit compositque variae eruditionis aliquod volumina, ex quibus novem unius corporis, quia scriptores ac poetas sub clientela Musarum indicaret, non absurde et fecisse et inscripsisse se ait ex numero divarum et appellatione. huius cognomen in plerisque indcibus et titulis per unam (L) litteram scriptum animadcerto, rerum ipse id per duas effert in parastichide libelli, qui incribitur pinax 3) Musarum libri novem. Gellius, Aurelins Opi-lines in primo librorum, ques Mexerum inceripoit (über indutine). Bei Varro de lingua lat. wird er unter dem Namen Aurelins angeführt (proefica; i, 106, unter dem Namen Opilins Vgl. H. Usener, Rhein. Mus., Bei Festus wird er citiert als Aurelius Opilius, dann als Opilius Aurelius, ferner als Aurelio, endlich als Opilius, O. M. Vgl. R. Reitzenstein, Verrianische Forschungen (Bresl. philol. Abh.). Charis. (Julius Romanus) Gramm. lat., 1 at ait Aurelius Opilius. Aurelio plaret. Vgl. O. Froehde, De C. Julio Romano Charisii anctore (Fleckeis. Jahrb. Supplementbd.) Der lirres Vgl. F. Ritschi, Parerga, Zu den Verfassern von indices plautinischer Stücke rechnet Gellius, auch ungeren Aurelius. F. Osann, Aurelius Opilius der Grammatiker (Zeitschr. für die Altertumsw.); G. Goetz, Pauly-Wissowas Real-encycl. Bd. 1 Sp. 2514. Die Fragmente bei E. Egger, Lat. serm. vet. rel. und Funaioli (Oben v. u. ist statt (C'os.)* zu lesen. denn P. Rutilius Rufus war Cos.). Grice: “Since he was a ‘liberto,’ CICERONE refuses to study him!” -- Opillo

 

Grice ed Opocher: la ragione conversazionale l’implicatura conversazionale della giustizia – IVSTVM QVIA IVSSVM – filosofia veneta -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Treviso). Filosofo italiano. Treviso, Veneto. Grice: “There are two points that connect me with Opocher: ‘individuality’ in Fichte, since I love the problem of the in-dividuum, perhaps influenced by my tutee Strawson (“Individuals!”) – and Opocher’s ‘analisi’ as he calls it, of the ‘idea’, as he calls it, of ‘giustizia’, particularly in Thrasymachus, for which I propose an eschatological study!” Con Ravà e Capograssi è considerato uno dei maggiori filosofi del diritto italiani del Novecento. Nacque da Enrico Giovanni, ginecologo. Durante la Grande Guerra la famiglia, timorosa dei bombardamenti, si trasferì dapprima nella periferia di Treviso, quindi a Pistoia presso una parente. Gli anni successivi riportarono un clima di serenità e agiatezza, nel quale Enrico crebbe, dividendosi tra la città natale e Vittorio Veneto, meta delle sue vacanze estive.  Dopo il liceo fu avviato, secondo il volere del padre, agli studi giuridici, benché fosse decisamente più inclinato verso la filosofia. Si iscrive alla facoltà di giurisprudenza a Padova, ma continua a coltivare i propri interessi personali seguendo le lezioni di filosofia del diritto tenute dRavà. Sotto la guida di quest'ultimo stilò una tesi su La proprietà nella filosofia del diritto di Fichte, con la quale si laurea brillantemente. Ottenuta la libera docenza, vinse il concorso per la cattedra di filosofia del diritto presso la facoltà di giurisprudenza a Padova, succedendo a Bobbio che in Veneto era divenuto segretario regionale del Partito d'Azione. Nell'ateneo padovano insegnò ininterrottamente per quarant'anni, tenendo lezioni per i corsi di filosofia del diritto, di storia delle dottrine politiche e di dottrina dello stato Italiano.  È ricordato in maniera particolare per i suoi studi sull'idea di giustizia, e sul rapporto tra diritto e valori, nonché per la redazione di un celebre manuale, Lezioni di filosofia del diritto, usato da generazioni di allievi.  Fu magnifico rettore dell'Università. È stato Presidente della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica. Influenzato dall'amicizia con il cattolico Capograssi e col laico Bobbio, fu azionista con Bobbio e Trentin, condividendo (a Palazzo del Bo) le attività cospirative della Resistenza locale. Nel dopoguerra rimase amico stretto di Trentin e di Visentini, divenendo a sua volta il maestro di Toni Negri.   Saggi:“Individuale” (Padova, MILANI); “Esperimentato” (Treviso, Crivellari); “Giusto” (Milano, Bocca); “Filosofia del diritto” (Padova, MILANI); “Gius-to” (Padova, MILANI); “Gius-to” (Milano); Dizionario biografico degli italiani,  Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fulvio Cortese, Liberare e federare: L'eredità intellettuale di Silvio Trentin, Firenze University Press, 2citando D. Fiorot, La filosofia politica e civile – filosofia CIVILE --.  in Scritti, G. Netto, Ateneo di Treviso, Treviso, Vedi G. Zaccaria, Il contributo italiano alla storia del Pensiero, Padova, I rettori Unipd | Padova, su unipd. Denominazione attuale: Società Italiana di Filosofia del Diritto, vedi.  Giuseppe Zaccaria, Il Rettore della tolleranza, in La Tribuna di Treviso, Toni Negri: «Un uomo davvero libero nell'università chiusa degli anni '60», in [Il Mattino di Padova] Giuseppe Zaccaria, Ricordo  Omaggio ad un maestro, Padova, MILANI, 2Giuseppe Zaccaria, Il contributo italiano alla storia del PensieroDiritto, Società Italiana di Filosofia del Diritto, su sifd. Grice: “Opocher is concerned with ‘iustum quia iussum,’ which while transparent to Cicero as analytically false a posteriori, it is just impossible to express in Anglo-Saxon or English. Both iustum and iussum come from the same root. So what is just is what is commanded. The principle of positivism. Opocher finds this all too easy, so he rather examines Fichte, who tries to express in his vernacular vulgar (Recht, Wesen, Gemein Wesen, and so forth) all the ideas of contractualism – a contract between a ego and alter – on the wake of the beheading of Marie Antoinette!”. Enrico Giuseppe Opocer. Opocher. Keywords: giustizia – fairness, gius, il concetto di gius nel diritto romano, iustum non quia iussum – verbal aspect here --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Opocher: giustizia del neo-Trasimaco.”

 

Grice ed Opsimo: la ragione conversazionale e la setta di Reggio – Roma – filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. Reggio, Calabria. A Pythagorean cited by Giamblico. Grice: “Cicerone said that in proper Italian, his name was Ossimo!” -- Opsimo.

 

Grice ed Orazio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma – la scuola di Venosa -- filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Venosa). Filosofo italiano. Venosa, Potenza, Basilicata. Orazio fu attirato dai problemi morali ed estetici. Quinto Orazio Flacco. Muore a Roma. Soltanto nelle "Epistole," Orazio dichiara di sentirsi attirato dalla filosofia morale per la quale vuole abbandonare la lirica. Si è notato che questa epistola è un protrettico. Ma anche negli scritti precedenti O. tocca spesso argomenti filosofici. Scherzosamente, O. si chiama dall’orto “de grege poreus” (Epist.). Effettivamente egli, che dichiara di non voler giurare sulle parole di nessun maestro, non appartiene ad alcun indirizzo determinato. Nei suoi studi in Atene conosce dottrine di scuole diverse, vede nelle sette filosofiche una disciplina che non deveno essere ignorate. O. s’interessa soprattutto per la morale applicata ai casi della vita. La sua indole, amante dell’equilibrio, della tranquillità, della serenità, gli fa considerare con simpatia l’etica dell’ORTO, di cui si scorge l’influsso nelle  satire, che abbondano di reminiscenze a LUCREZIO (si veda). O. ri-assume la teoria dell’orto sull’origine del diritto e della legge. Più volte, satireggia paradossi del Portico: tutte le colpe sono uguali, il sapiente è re e conosce ogni cosa. O. disegna la caricatura del Portico: capelluti e barbuti che, predicatori ambulanti, espongono precetti ai quali non sempre fanno corrispondere la vita. Ma O. mostra di apprezzare maggiormente la severa nobiltà degl’ideali del Portico. O. si avvicina sia all’Orto che al Portico quando loda la vita semplice e sana della campagna. Ma quando sferza la caccia alle riechezze e al lusso, O. si collega al Cinargo, delle cui diatribe si avverte l'influsso nelle sue satire. Nell'insieme, la morale di O. è utilitaria ed è diretta dall’esigenza dell’equilibrio e della misura. La sua non è una teoria filosoficamente fondata e perciò non manca di incoerenze. Nell’"Arte Poetica" si riconoscono abitualmente riflessi di teorie del “Lizio” e particolarmente di Neottolemo di Pario, che assegna alla poesia il duplice ufficio di dilettare e di giovare. Da Panezio si fa provenire il concetto del "decorum", che ha un posto centrale nella dottrina estetica che O. propugna. He is sent by his father to study philosophy. His studies are cut short when civil war breaks out after the assassination of GIULIO (si veda) Cesare. His works, frequently advocate the simple country life, and a number of letters he publishes indicate a continuing interest in philosophy. Although he has friends that followed the doctrine of The Garden, and he is clearly familiar with these doctrines, it is not clear that he belongs to any particular ‘school.’ In an examination of O.’s philosophy, we should not look for that comprehensive love of wisdom generally termed philosophy by the ancients, including science, ethics, and speculative thought. O. Is not the speculative type of man to be interested in the composition of the universe. Quae mare compescant causae, quid temperet annum, Quid velit et possit rerum Empe 00168 at Stert tan doddret acunen, fre Wetaer the pLanete wander ad rol Fone spontareduer) 18 pedoedes or subt1e dtortinius that Is Crazed."). O. Is a realist, concerned with the ethical side of wisdom -- with the conduct of life. O. is thoroughly Roman, and the Romans, except only a few lofty souls such as Lucrezio, Cicerone, and Virgilio, are of a practical, mundane nature. The Roman philosopher cares little for the abstractions of speculation. The Roman is born to rule -- parcere subleatio et debellare superdos.*2 than oupire, titg Shail be tnite are, to ozdain the law of peace, to be merciful to the conquered andbeat the haughty down. The philosophy which appeals to the Roman is that which would give him mastery over self, and hence over the world. But everywhere around him O. sees the tremendous waste of human energy, struggling nen, feverishly pursuing the bubbles that do not satisfy, frittering away their man-hood, consuming time and not achieving the mastery of life to which their heritage entitles them. For such an audience, then, in which the will to live is the dominant characteristie, O., the sane, tolerant, and sympathetic man of the world, with the insight which comes from contemplation and the inspiration which comes from a realization of the dignity of his task, formulates his philosophy of living, a simple, practicable code of ethios, to help men to saner, worthier, happier lives -- a code which furnishes a solution to the problems of life. It is not an explanation of life, but a way of life, something tangible, a touchstone by which the Roman man may test his own worth and contentment. How keenly he feels the importance of his mission we may know from "Sic nihi tarda fluunt ingrataque tempora, quae spem Consitiumque, morantur agendi naviter id quod alike to the poor, alike to the rich, and the neglect. O. Is unusually well qualified to undertake this office of sage, monitor, and guide, for he is the product of unusual home training, thorough training 1n the schools of philosophy, and a very varied experience. O. is very fortunate in his home influence. Born of a freedman father, who knows life from the point of view of the toiler, O. early aoquires the common sense which is the basis of sound living. His father gives him an insight into the things worth seeking, by pointing out the conspicuous failures in his own vicinity. Instead of merely advising his son to live frugally, he calls his attention to a certain well-known fellow who squands his patrimony. Others he indicates as shameful examples of the effects of lust. By taking as a precedent the action of certain Romans whose lives are an example to the wole comunity, and shunning the practices which had made others infamous, he may always have a criterion of conduct. Further than teaching his son to distinguish clearly between vice and virtue, keep his eyes open to the lives of those arourd him, and profit by their mistakes, his father could not go, saying that others could explain to him the reasons for shunning vice, and that he might learn these reasons, O. is sent to the best possible schools, no doubt at no small sacrifice. It is the finest possible tribute to the fundamental worth of this rustic freedman that  O. speaks ever gratefully and without shame of his humble birth and boyhood training. Just what O.’s life at the 'University' of Athens may have been, we do not know. But he gives ample proof of his entire familarity with both L’ORTO and IL PORTICO. The former, so ably expounded by LUCREZIO, must have made a profound impression on O., the lover of life. That he had a sympathy with their doctrine of impassiveness -- to them the duty of man being to increase to the utmost his pleasure, decrease to the utmost his pain, and the highest pleasure being peace of mind -- is proved by Tempora momentis Tapora potent. Oat qua gordine Dulla -- Not to be exoited about anything, Numicius, is almost the one and only thing that can make and keep a Ion sun and stars and the seasons departing in fixed course there are who view with no tinge of and again -- Gaudeat an doleat capiat metuatre, quid ad rem ntere 1, -- ral eerento ne has esea beeter oat matters it, worse than BotE In body and soudii, hs eyes stare and he ds dased. In another place he allies himself playfully with the more material enjoyments of L’ORTO. Once he admits, half shamefacedly, his weakness for the hedonism of Ceristippus -- Now imperceptibly I slip back to the terets of et, tot ne to the worla ate the rorta to. And in a second passage he praises the adaptability of Aristippus, contrasted with the cynic. But a man with the rigid training of O.s early years could not be completely satisfied with the superficialities of L’ORTO and Cyrenaism. He values happiness, but he has too much moral fibre to find it either in impassiveness or pleasure for its own sake, and so in spite of his repugnance to the sternness of IL PORTICO, and the severity of its "Sapiens", he is drawn toward the positive virtue of IL PORTICO. No utterance could ring more clearly of IL PORTICO than the following: "Vir bonus et sapiens audebit dicere: 'Pentheu, 'Adiman bona.''Nempe pecus, rem, Comed bas entro toste httote tenth maniodsette sub custode tenebo.'hoo sentit, 'Moriar.' -- The good and wise man will make bold to say, 'Pentheus, Ruler of Thebes, what will you force an undeserving man like me to suffer and endure?' 'I will take keep you under the charge of a grim "The deity himself will free me as soon as I I suppose thig is what he means, 'I will die.' Death is the final goal of things. Although he appreciates the value of the tenets of IL PORTICO, he cannot take its asceticism altogether seriously, nor adopt them in their entirety, and fling this jest at them: "Ad summem; sapiens uno munor est cove, dives, Liber, honoratus, pulcher, rex Denique Pree iple sanus, nisi oun pituita molesta est. -- To sum up, the philosopher is inferior to jove alone; tingo inga aborea noalthg, sare winen troubied Thus we see that O. is an eclectic, sifting from all the schools of philosophy what wis finest, sanest and best adapted to his needs. If there appear to be inconsistencies in his system of ethics, and there are countless ones, we must remember that he regards himself as the physician of morals, ministering to many kinds of ailments, each one demanding a different prescription, and he knows all too well that life is too complex to be reduced to a simple formula. To IL PORTICO O. owes his positive dootrine of self control, of a life in accordance with nature and controlled by virtue, and his superiority to misfortune. To L’ORTO, O. owes his theory of the wise enjoyment of life, and to the Cyrenaics his theories of moderation. Of his own foibles and changeableness he says Cone todtur t tale thdate pocune – I  commend the safe ana humble when funds are low, brave enough in a poor environment; but when aught better and more sumptuous falls to my good fortune. O’s life experience ia a kaleidoscopic one. His youth is spent in association with the sons of the wealthy and well-born, and thus he acquires that tact and urbanity which are so valuable in his later relationships, and which enable him to give advice on matters of social conduct. Then follow his attachment to the hopeless cause of the Republicans, with the disillusionment, loss of property, position, and purpose. such a complete alteration of nis entire life scheme could not but have a tremendous effect. Any faith that he might have had in politics as worthy of a man's best efforts, is of course completely shaken. From that time on he philosophises with thorough conviction of the insubstantiality of "ambitio". Besides he realises keenly the moral evils that follow the civil ware, and pessimism and general contempt for nis shameful countrymen. His fresh beginning in kome in a most humble position, gives him the first taste of the real struggle of the great mass of men for the mere means of existence. From this position he sees the weaknesses of the poor, their unrest, and idle craving for the wealth which they fail to see is not conducive to happiness. It is perhaps from this phase of his existence that O. gains an appreciation of the simple joys of life wich are attainable for all -- sunshine, the shade of tree, the river, wine, etc. Lastly nis friendship with MECENATE (si veda), coming after the bitterness of life, affords him the leisure to devote himself to philosophy. He learns too well the instability of position to value it over highly, but from this relationship he draws the principles which he lays down as guides for patron and client.The burthen of O.'s PHILOSOPHY OF LIFE – cf. H. P. GRICE, “PHILOSOPHY OF LIFE” -- is the attainment of HAPPINESS – H. P. GRICE, “HAPPINESS”. Since he tastes of the sweetness and bitterness of life, and now by virtue of his devotion to philosophy is somewhat removed from the toil and moil of the world, he thinks that he has a better perspective, oa. better judge of the eternal values than the great majority of men, blinded to the larger view by the details, and hence first undertakes an explanation of the NATURE of happiness. Ultimately happiness is the product of a definite attitude toward life. It is not a mere matter of chance. It is within the reach of all who care enough for it to pursue it in the right way. An idle, aimless, drifting existence will never attain the goal. the thoughtless, short sighten so man world must be brought to realise this, must be aroused to a contemplation of the issues of life, for he who neglects them suffers for his neglect -- et miPosces ante diem librum cum lumine, si non -- and if you will not call for a book with a light before dawn, if you will not apply your mind to the pursuit of honorable ends, you will be kept awake and racked with jealousy and 1ove. Men's bodily well-being, in wich they take such a keen interest, is not half so important as right living. Si latus aut renes morbo temptantur acuto Quaere fugen morbi. Vis reate vivere: Quis non?"l who does not? -- And yet they place every other interest before the wise regulation of life, either because they are too ignorant to realise its importance, or because they are too slothful and cowardly to face the issues. Nam our Bet andaum, ditters Surand tompue inatun -- When you make haste to remove what hurts the eye, Then let every man take thought of whither his life 1s trending -- Inter cuneta leges et percontabere doctos, Qua ratione queas traducere leniter sevum -- In the midst of all you must read and question the what lessens care, what makes you your own friend, we aud walk, and tae pata of a iise mo 10e4. -- When once men do come to acknowledge that happiness in not an accident, but the logical outcome of & well considered and consistently pursued course of life, they should give prompt attention to these matters of vital moment, and thus H. indicates the first step toward the new life. Multit e arttase fygere et sapteatia prine And once aroused it will not seem so difficult, for -- Dope up taot que coopst habit; aapeze aude; If a man really desires happiness he must have an aggressive attitude toward it, for what is worth achieving can be won only at the expense of vigorous effort. -- Sedit qui timuit ne non succederet. -- osame has beer afraid of fallure, has remained And again -- Ho onus horret,10oodt at persert, ro cospore matus. One shudders at the load as too great for his fueble spirit and feeble frame; another takes it on his back and carries it to the end. Lest anyone should think that because his past life has not been a worthy one it is useles or ridiculous to attempt any serious reformation. O. invites him to draw inspiration from his own altered ideals. Quem tenues decuere togae nitidique capilli, quem sois immunem Cinarse placuisse rapaci,Quem bibulum liquia1 media de luce ralerni,, Cena brevis luvatet prope rivum sommus in led luglise puaet, sed non incidere ludum. "Leroa -- I, whom fine togas ana perfumed hair became, I whom you know witnout a gift pleased grasping leinars,the rill; I am not ashamed to have had my sport, but would be, not now to out it short. Inconsistency is no disgrace, if you have veered to a wiser course, jut whatever you do, do not delay, but act at once! -- Qui recte vivendi prorogat horam("He wao postpones the season of upright living is like It gidea and will glide, rolling on to all time.""out down. With this awakened interest, O. thinks it well for each man to test to the fill each of the things wich men from time immemorial have deemed the sunmum bonum – OPTIMVM – Grice: OPTIMALITAS --  [Indeed, Piso makes this assumption, and it leads him erroneously to the conclusion that THE PORTICO values scientia as its own end, as “QVOD IN EO SIT OPTIMVM”, as that which is highest in one. Antiochus then attributes to IL PORTICO, whether rightly or wrongly, the very LIZIO valuation of theoretical over practical life that we, his readers, know IL PORTICO would refuse. When it comes to accurately portraying IL PORTICO as philosophical movement, the fact that Antiochus, a character in Cicero's dialogue, elides the difference between IL PORTICO and Aristotle serves as no indication of the reliability or unreliability of Cicero's or his sources. Cicero simply wants to show that, whatever the original truth of orthodox PORTICO might have been, it lent itself to this Antiochean interpretation. As he proceeds, the question he asks is whether the PORTICO can indeed be accused of valuing theoretical over practical life despite the fact that THE PORTICO would refuse the very distinction.] with a view to adopting as HIS one, whichever one seems to have the most real VALUE, to bring the calm and contentment that are significant of a life well lived. The decision is a momentous one -- Non qui Sidonio contendere callidus ostro lescit Aquinatem potantia vellera fucumOcrtius accipiet damnum propiusque medullis, Quan qui non poterit vero distinguere falsun. -- He who has not skiil to know now to distinguish from the purple of sidon, fleeces steeped in Aquinun, will not sustain a more certain loss or one nearer his heart than he who will not be able to discriminate the false from the true. Try virtue first of all. Si VIRTUVS [andreia]  hoc una potest dare, fortis omissisHoo age delioiis -- If virtue alone can bestow this, manfully give up pleasures, and make her your aim. Or try the pursuit of wealth;1 Tme tepates ous, 108 postrene ontts. 2part that squares the heap." Or try ambition:"Si fortunatum species et gratia praestat, Meroemur servum qui diotet nomina, laevum Qui fodicet latus et cogat trans pondera dextram Porrigere. If pomp and popularity secure bliss, let us buy a slave to tell us the names, to nudge our left side, and force us to stretch our hand over the counter. And"Caude quod spectant ocull te mille loquentem. "elonge that a thousand eyes gaze on you as you Or test the pleasures of food and wine--Ne let fileen Cruad Tumaigue trons, Quad deceat, guid non, oblitt."b10tus 0 mere apetie eadenith tod unagesteproper, witt not "gt us takebaths, forgetful what 18 Or the satisfaction of mirth--jests.")Then, having advised each man to try for hinself, for each must be the best judge of his own life. Metiri se quemque suo modulo ao pede verun est. "2 a 100t-leht For caoh one to measure hamsel or hie And he will never be sure that one of these thinge might not have proved the key to happiness until he has used it and found its futility, O. sings up the decision which each is bound to reach. Abstract virtue is a hollow thing,"Virtutem verba putas etLnoun 11gna, -- You think virtue words, and a holy-grove sticks. As CICERONE says, 4 suitable for a community of disembodied spirits, but hardly fitted to men who consist of both body and soul. It is too cold, too remote, andVre guan satte ca virea, ge petat naen-s Nor will men find wealth any more satisfactory than virtue as a "summum bonun" (strictly, OPTIMUM, not ‘goodest'), for its weaknesses are all too evident. Even granted that it does have many undoubted advantages -- Soilicet uxorem cum dote fidenque et amicosL  Bone numa doret Suadele eaus due, w2 -- For of course queen Cash bestows a wife with a dowry,ney tan le acornid mith Sua bon and Lode .ho man ofhundred; so you will be one of the masses. Yet how fleeting wealth 1s!"Quiequid sub terra est in apricum proferet aetas; Defodiet condetque nitentia. And the summum bonum must be a permanent thing. rurther-more peace of mind and good health are not conferred by it--Non animo curas."4ind poia gat ar res tover son the asting oods bratheir lord, or troubles from his soul. Nor is pleasure a necessary accompaniment of riches. Nam neque divitibus contingunt gaudia 80118. "I'or pleasures do not fall to the rich alone. And his advice is bad who bide you get money rightly or not, by hook or crook, just so that you may get a nearer view of the plays of PUPIO, for after all, they are lachrimose plays, and why see them nearer? Besides, in the gest for wealth alone, you are prone to lose the sense of all other values -- "He has lost his armour, has deserted the post ofполог, who is always slaving, entirely absorbed in augmenting his fortune. Ambition cannot satisfy any more than virtue or wealth, for see the ignominy that it carries with it. One must seek the favor and the gifts of the fickle Roman mob "Plausus et antoi dona Quiritis, "and make friends of all sorts of people Ut oulque est atra, Tia quengue deotus adopta teand although the world applauds a man today, tomorrow its fickle favore may be given to someone else, leaving 1ts former favorite stranded, so that only a small taste of the pursuitof ambition will convince a man that"Nex vixit male, qui natus moriensque fefellit. " pass de not de bad life whose barta and deata have Furthermore the unrestrained indulgence of theappetite is sure to result disastrously to both body and mind,there is no ultimate good to be derived from a life of excess, so men must rejectit, too, as the "summum bonum.""Sperne voluptates; nocet empta dolore voluptas, "I•("Scorn delights; delight bought with pain is hurtful."). None of these external things, then, can be regardedas the "summum bonum" – OR OPTIMVM – quid in eo sit optimum --, since not only do they fail to bring the happiness all men are longing for, but are the osuse of so much of the uncertainty and distress which plague the world. Qui timet hig adversa fere miratur eodem Quo cupiens pacto; pavor est utrobique molestus,Improvisa simul species exterret utrumque.Sa guto ue ast mette poutare sie ofe ad romDeflixis oculis animoque et corpore torpet? He who fears their opposites excites himself much in the same way as he who covets them, the flurry in both cases is a torment,whenever the unexpected appearanceagitates the one or the other. Whether one joys orif at every-It is not that in themselves these things are wrong--only that they are externals and one must not attach too much significance to them. It is because men have overestimated them that the three greatest ourses of the age have come upon the world--superficiality, restlessness, and greed. Since men are always looking for something tangible as the secret of happiness they have bedome shallow, have grown to care far too much for outward appearance, and far too little for inward appearance, and far too little for inward worth. Si curatus insequali tonsore capilloslee mediai credis neo curatoria egere -- If I have met you with my hair dressed by theha hare & hreed fa be ants beeatt a fosey tuno,or if my toga sits unevenly and awry, you laugh; whole round of life, pulls down, builds up, exchanges the square for the round?lou think mine an ordinary madness and do not laugh, nor yet imagine I want a leech, or a trustee appointed tortune 8, and tume aboutn 12-out na1102 thean ill-out nail of the And this same belief that happiness lies in externals makes men restless -- a feverishness that manifests itself in the iorm of travelling, forever pursuing the happiness which forever escapes them. now foolish it is to try to escape the things which batfle one by seeking another clime! -- Sed neque qui Capua romam petit imbre lutoque Aspersus volet in caupona vivere; nee qui Frigus collegit, furnos et balnea laudat Lt fortunatam plene praestantia vitam. leo si te validus lactaverit Auster in alto, Idcirco naven trans Aegaeum mare vendas. Incolumi Rhodos et mytilene pulohra facit quodr ben 11078, Sextl nonae oantnusrs. Dum licet et volutem servat fortuna benignum, Romae laudetur, samos et Chios et Fhodos absene. "2 AAQpraise bake-houses and baths as fully making up thebe praised, and uhois, and far-off Rhodes. The peace for which men are searching may be attained anywhere if they only know the secret. Nam si ratio et prudentia curas, Non locus effusi late maris arbiter aufert.Caelum non animum mutant qui trans mare currunt.Strenua nos exercet inertia: navibus atque("So that in whatmay Bay You have lared a pleasent Lite, tor seineit is common sense and wisdom that remove cares, and not a spot which commands a wide sweep of sea, their climate, not their mind,they change whorun across the sea.An active idleness busies us,in ships and carswe seek to live aright.Te Por totH at u20ra0, 1 a contented sptrit The people are merely consuming time, not living, who are forever on the march. They exhaust their energies and gain nothing but discontent. And of these curses of looking to externals for happiness perhaps the worst is the curse of avarice. Why seek for much in the world when one can use so little and more cannot delight? Quod satis est ous contingit ninil amplius optet. "2' dia to whose lot 1a118 a competency, desire nothingThe grasping continually after more only breeds dissatisfao-tion. There can be no tranquillity so long as one is subject to an ever-increasing desire. Semper avarus eget; certun voto pete finem. 3 praye iser 18 ever in want; aot a fixed 80a1 to your What a misshapen monster avarice is anyway -- Belua multorum es capitum. Nam quid sequar aut quem? A many-headed monster you are; for wnat or whom shall I follow: As soon as one head is cut off new heads appear, so that it seems inconquerable."Verum Ta de po sun horan turare preantes, How helpless men are in the olutch of such a power as this, which never gives them a moment's real rest and peace of mind!How wretched the heat of their desires has always made mankind, and how heroie 1g the figure of the man who has risen above them, is well illustrated by Homer's tale of the Trojan war, wherein the struggling, feverish, dissatisfied Agamemnon and Achilles and Paris arecontrasted with sane, calm, and prudent men like Ulysses and Nestor. Nestor componere litesInter Peliden festinat et inter Atriden; Huno amor, ira quidem communiter urit utrunque Seditione, dolis, scelere atque libidine et ira Iliacos intra muros peccatur et extra.Rursus quid virtus et quid sapientia possetUtile proposuit nobis exemplar ulixen,aspera multa Pertulit, adversis rerum immersabilis undis. "I ("Nestor makes haste to settle the strife between the son of Peleus and the son of Atreus; the one is fired by love and both in common by wrath.and anger There as Bannin nithin the valls o ofun and with-Again as to what efficacy there is in virtue in Ulixes.many a hardship over thewide ocean, a man not to be sunk in the adverse wave of things.") If the seoret of happiness lies not in wealth, ambition, mirth, or any of these external things, which in a limited measure may contribute to the richness of life, but beyond the golden mean – AVREAS MEDIOCRITAS -- , pursued as an end in themselves, are the cause of so much misery, discarding all such inoidentals men must look for the real source of happiness within themselves. When men are dissatisfied, it is not the world which is wrong, but their own attitude toward the world. In culpa est animus, qui se non eifugit unquam. "Ihates his own. with the harmless place; it is the mind that is at fault which never escapes itself.") Two great doctrines O. presones -- the wise control of  life and the wise enjoyment of life. the first thing men must learn is to adapt themselves to circumstances, to frankly face the fact of the evil and injustice in the world, to realise that such a thing as periect happiness is nowhere existent and that all life 18 an adjustment. -- solue puae posot eret estare beatum, Saost the one ate ony thng Lhat on rate and keep a man happy. Chafing and fretting against the established order of the universe, against life's seening inequalities, only serve to augment their hardships. When once men do face the facts of life and bring themselves  Into accord with them, things wich fornerly seemed of greatest moment will be looked upon with indifference. Yon sun and stars and the seasons departing infixed courses there are who view with no tinge of dread.") And it 18 not only for his individual well-being, but for the benefit of the state as well, that he have this philosophical outlook upon life. and Bet, to take up beae, Ios nen to are deer toour country, dear to ourselves.")for ii we are dissatisfied with our fortunes, our bitterness will taint every relationship in life, but if we are sane, life will look back at us with the same calm expression. Sincerum est nisi vas, quodoumque infundis acescit."?Brow Sout,, ressel 18 olean, Whaterer jou pour 1aOf prime importance i8 integrity of life. It is not enough that a man assume all the outward appearance of goodness and make a great parade of virtue. Qui consulta patrum, qui leges iuraque servat;Quo multae magnae que secantur iudice lites; Quo res sponsore et quo causae teste tenentur. sed videt huno omnis domus et vicinia tota introrsum turpem, speciosum pelle decora. "3evidence cases are gained.but all his household and theNo Bod thout he 18, Wit beautoous brtn) taz Unless the people no know him best find him honourable and sincere, he need lay no olaim to worth. Low senseless 1t 18 to delight in being called good by the world in general, forthat very world will perhaps tomorrow call him a thief, or unchaste, or say that he strangled his father. de deserved the commendation they gave him yesterday no more than the slander they heap upon him today.caliny terig put ede manwao te Fosous and Leedeto be reformed? It is perfectly clear how pernicious this false praise is and to what lengths it leads men."Leu, si te populus sanum recteque valentem Dictitet, occultam febrem sub tempus edendi Dissimules, donec manibus tremor incidat unctis. If the people keep saying you are in sound and perfect health, you conceal a hidden fever up to the hour ofR2E2™E60atill paralysis seize your hands wile filledIn order to deceive the world they offer sacrifices publioly to the gods, while secretly they are praying to the gods of trickery to shield their crimes from detection. 3ecause one is not a thief or a murderer he has no right to demand praise, for he has his reward already in freedom from pun-ishment. or is it virtue to avoid evil merely for fear of the consequences--"Iu nihil admittes in te formidine poenae. "*("You will commit no crime through fear of punishment.")Good men desire virtue for calm and peace that it brings them--"Oderunt peccare boni virtutis amore."("Good men hate sinning through love of virtue.")For it is what you are that really counts, not what the world thinks. Even the school boy realizes this.("Yet the boys at their games say: 'You will be king if you act rightly. However many of the externals of life fortune man have given a man, if he is weighed down by the sense of his own guilt or unworthines, he cannot enjoy them. But the man conscious of his own rectitude fears neither loss of property or of life. Si forte in medio positorum abstemius herbiscontestin 1lquidus sortunae ctrus inauret;vel quia naturam mutare pecunia nescit, Val quia cunota putas una virtute minora. "2forward, even though Fortune's clear stream wereFreedom is another element in this wise regulationof life--freedom from all these externals which so often bring disaster."Ne cOtia divitiis Arabun liberrima muto. Lor the riones or the drabs,"t freedon of my ledsuz1oon oiet etterr sede fehe tbao edntere: when hestoops down for a copper fixed in the orossings, not see; for he who shall desire shall also fear: further, the man who shall live in fear, I will never regard as free. Once the love of riches has fastened itself upon a man he cannot escape it. If he only realized what a hard master it was he would flee from it as the fox did from the lion in the old fable.Omnia te angersue pattent a renta retroraum."tad, an oe be aai0, a2 polateIf then, he have wealth, he must place it in its proper position, else it may take out of his hands the direction of his life--it will either be his master, or his slave."Imperat aut servit collecta pecunia culgue, "3("Each man's hoard of money is his master or his slave. O.  boasts of his own freedom from the opinionof the masseg-- Noamai ons anotre trote ot putpite afeo, I do not hunt for the suffrages of the fickle crowd by expensive banquets, and a gift of threadbard olothes.Not only must a wise man control externals toattain perfect freedom, but he must practise self-control.He must restrain his anger lest it be a source of shame and humiliation to him."Qui non moderabitur iraeinfectum voletesse dolor quod suaserit et mens, dum poenas odio per vim festinat inulto.Tiperat, hune ente, hune Tu oupese oatera, 2t.that whion vexation and passion nace prompted, waitoehurrying on with violence the punishment for his unavenged hate.Ilese 1t 1f the elave, It' 18 theo1ourb it with the bit, yea, curbAnd his envy, too, must be mastered, or it willmake him utterly miseraole. Invidus alterius macrescit rebus opimis, invidia Siouli non invenere tyranni maius tormentum."2("The envious man repines at his neignbour's goodly• treater foreat than atos t hare not dtscoveredFor while he is covetous of others' material blessings, he poisons his enjoyments of what is his own.auriculas citharae collecta sorde dolentes. "3Bre he sane peaure ta pantie faro to theateof filth.")Let no man surrender to envy of his neighbor's lot, as did the ox and the nag in the fable."Optata ephippia bos, pigre optat arare caballugQuan soit uterque libens densebo exerceat artem. "IWhen men do yield once to the domination of avarice, envy, anger, public opinion, they have lost their freecom just as did the horse which summoned man to help him drive out the stag, and then could not shake the rider from his baok.?And of no less importance is self confidence.A man will accomplish only so much as he feels himself oapable of. Let hin therefore trust in his own ability and others will have faith in him.Dux reset examen,n3"Qus elb1 fldot,("Whoso has self-confidence, will be king and head the swarm.")The second doctrine is the wise enjoyment oflife. Happy indeed whould you be 11--"Di tib1----dederunt artemque fruend1. The gods have given you the art of enjoyment.")But at any rate men may develop their powers of enjoyment. Life 13 so uncertain and so brief, death so final and always imminent --"Ire tamen restat Numa quo devenit et Anous. "5("It remains for you to go where iuma and Anous have descended. There is no hope of a life after death in norade--it ig an eternal exile. Yet he is not pessimistic about 1t. Death18 Inevitable; accept 1t as such, and since there is only this brief span of years for every man, ending all too soon in oblivion, let him on that account make the best possible use of each day -- Carpe Diem -- so that the doom of death will appear only as a dark background enhancing the bright foreground of life. Looking foward, looking backward breed discontent. Think only of the present. The surest way to get all the possible joy out of life is to live every day as though it were the last. Grata superveniet quae non sperabitur hora. Amid hope and care, amid fears and passions, believe every day has dawned for you the last; so, welcome shall arrive the hour your will not hope for.")If men keep this thought ever in mind they will f1ll each moment so full of the richness of living that there will beno regrets, no joys postponed to a future day which will never be theirs, when the summons of death does come.This means that to avoid disappointment men mustenjoy right now whatever the gods may have given them--"Tu quamcumque deus tibi fortunaverit horam grata sum manu, neu dulcia differ in annum;HE 200619e 2000 Ter18 133e 21beater. Whatever hour the deity has blessed you with, dosoever you have been, you may say you have lived apleasant life.If among these blessings wealth is numbered, let men not hoard it, but enjoy its benefits--("Po what end have I a fortune if I am not permitted The man who spares in anxiety for hisneima., no 18 all too severe 18 next door to a For there is much to enjoy in ine world--andmost of the really worth while sources of pleasure are within the reach of all. shere 18 health. There are all the delights of the country and out-of-door life. Ego laudo ruris amoenirivos et musco circumlita saxa nemusque.brown rocks and wood.king, as soon as I have lorsaken tnose soenes you extol to the skies with loud acclaim. And--"Novistine locum potiorem rure beato? Tenat ef Taoe conle er onete ont ura Cumsemel accepit Solem furibundus acutum? Est ubi divellat somnos minus invida cura?Deterius Mbyois olet aut nitet herba lapillis?"4("Know you a place preferable to the blessed country?I nore Leasant bree2e allays ailke te tury of treDogstar and the commotions of the Lion, when once he has gone mad by receiving the stings of the Sun?Is there a spot where envious care less distraots our slumbers? Is the scentThere is simple food which nourishes without distressing--"Pane egeo iam mellitis potiore placentis. "I"Besad, is what I want now more pleasant than honded There is sunshine, free to all, of which norace is 8o fond--"golibus aptum. How foolish it is to want more when these things, if properly regarded, will make one's life rich and blessed--The wise nan will learn to value and employ what is within his reach.Not the least of the joys of life is friendship.There is a deal of the utilitarian point of view in orace's advice about sooial interoourse. The life of a reculse cannot be the richest one, contact with other people is both necessary and valuable. Ae Epicurius said, "Friendship enhances the charm of life; it nelps to lighten sorrowe and heighten ine joys of fellowship." Hence it is to a man's advantage to make himself as agreeable as possible. temust not pry into people's secrets--"Arcanum neque tu sorutaberis illius unquam. "1nYou must never po dato secret on the meetbut when they have been confided to him, he must keep them--"Commissumque teges et vino tortus et ira. "2"a teraladon a trust, thouga plied alike mita vineFor"Et senel emissum volat irrevocabile verbum. A word once let slip, flies beyond recall.")He must not be boorish, merely to prove that he 18 a man of Independence and stannia, for thereby he simply makes himself Obnoxioug~~"Asperitas agrestie et inconcinna gravisque. A boorish rudeness, at once unlovely and offensive.") When he takes up the oudgels in defence of some trifle--"Alter rixatur de lana saepe caprina, Propugnat nugis armatus. Equally disgusting is the fellow who slavishly bows to every opinion of his host merely to keep his favour--"Sic iterat noces et verba cadentia tollit, Ut puerum saevo credas dictata magistro Reddere vel partes mimum tractare secundas. "6actor in a farce handling the seoond part.")Horace gives a deal of sound advice about the relationship of client and patron. There are numerous duties whioh a client owes to his patron in return for his favor.First, he should be grateful for the gifts he receives:-An rapias. "Pistat, sunasne pudenteror tense a tans erence waether you take with modestySeoond, he should be willing to share cheerfully in his patron's chosen pastimes.or blamebe you for composing poetry.")"¿u cede potentia amici"So do you give way to the mild requests of your power-Because even the closest bonds of friendghip have been broken because of dissimilarity of tastes and unwillingness to compromise. It is foolish to try to dress and live in anextravagant way as one's patron does. The patron knows only too well his client's ciroumstances and will despise him for trying to imitate him when he cannot afford it. By all means let him not complain of trifles, but bear hardships without grumbling."Brundisium comes aut Surrentum ductus amoenumQui queritur salebras et acerbum frigus et imbres, Aut cistam effractam et subducta viatica plorat, ("He who has been taken as a companion to Brundisium, or lovely Surrectum, and complains of the jolting roadsSion one ote 1059 014 Ba11 ao an ance,Beatet.-poon erer her real 10sse8 and sortowe get noAnd further he should try to appear cheerful for the benefit of those around, for--"Demesupercilio nubem; pleurumque modestus Occupat obscuri speciem, taciturnus acerbi."3If the client finds that he is humiliated by patronage, loses his independence and his self respect, if his patron i8 the sort of man no makes presents only of what he cares nothing ior and dislikes, as the host woo pressed upon his guest pears that were so plentiful that wat he refused, went to the pigs, then he had much better break off therelationship, for it is degradation.Wen should be most careful of their choice offriends, so that when accusations assail one who is well known, they may protect him and back him up. I and it pays to have a rezard for the wishes of others, even if it costs a little effort, for--"Vilis ancorun est annona, bonis ubi quid desset."? went are & of arlends  Low, when those who wantAnd it is a source of shame to a man to be mock-modest and refuse to help another when it is in his power to do so--("But I was afraid I might be thought to have undervalued my influence, a dissembler of my true power, profitable to mygelf alone.") Tact is absolutely necessary to success in a social way. There is a proper time for everything, as Horace warns Vinius Asina when he commissions him to present books to Caesar. One must be careful not to intrude upon the great, but must await a suitable opportunity, lest by his excessive zeal he offends the one he would please. Conceit is unbearable and will destroy friendship. Ut tu fortunam, sio nos te, Celse, feremus. "5("As you bear your fortune, so shall we yourself, Celsus.") Just how highly dorace valued social interoourse isshown by his careful instruotions to orquatus on the duties of host and guests. The host should be most discriminating in his choice of guests so that all may be congenial--Jungatur que part, "loeat par("That like meet and be associated with like.") and that all be the kind which will not make friendly table conversation a matter of gossip outside--sit qus atota forae edemthet. andoos("That amidst our faithful friends there be none to carry our talk abroad.") A friendship of long standing is an invaluable thing and not lightly to be broken, as he warns Florus, who has become estranged from lunatius. The best possible summary of O.'s philosophy of life is his own prayer. Sit mihi quod nuno est, etiam minus, et mihi vivamQuod superest aevi,si quid superessevolunt diSit bona librorum et provisae frugis in annumneu fluitem dubise spe pendulus horae.Sed satis est orare Iovem quae donat et aufert;Det vitam, det opes, aequum mi animum ipse parabo. "4Inay ire 2or aselt the renaindes ofidarg, 1onsI may live for myself the remainder of my gods will any to remain for me.May I havegood stock of books and of provisions for each year, trembling on the hopes of the man.  RAPOLLA, VITA DI O. CON RAGGUAGLI NOVISSIMI  E CON NOTE DIFFUSE  SULLA STORIA DELLA CITTÀ DI VENOSA POR TIOI   Premiato Stabilimento Tlpografloo Vesuviano  V *L '*S^è» «&• •&• «è» «A* «A* «A» •'1^ •e* *-.'» SU'' X»  i I  I i  sJ-Sì-  I^*  VITA  DI QVINTO O. FLACCO DI   RAPOLLA o VITA  DI O. CON RAGGUAGLI NGVISSIBO E CON NOTB DIFFUSE  SULXiA 8TOBIA DBLLA OITTÀ DI VENOSA. RAPOLLA MOBILB VKN08IMO CAVALIKSB DELL’ORDI1CK DELLA CORONA D'ITALIA  CITTADINO ONOKARIO DI POSTICI   PXOrSSSOKB OMORARIO B SOaO DI VARIB ACCADBMIB PORTICI  pTABILIMENTO JlPOQRAFICO yESUVIANO Corso Garibaldi,  L'ijf.S'^    Dtnique quid psalterio canorius ? Quod in morem  nostri Flacci et Gratci Pindari, nunc Jamòo  CHrrit, nuHC Alcaico personal^ nunc Sapphico  tumet, nunc semipede ingreditìtr.   8. SlroUmo, pref. Cronaca ad Eusebio  Sommo di poesìa mastro e di vita.  Pisdnnont*, ad O. Venosino cantor, sci tu ì t'ascolto !   D'un si vivace   Splendido colorir, d'un si fecondo  Sublime imagjnar, d'una si ardita  Felicità secura,  Altro mortai non arricchì natura  Xetattailo, Canto ad Orazio.     Et tenuit mastras Humerosus Horatius aures,  DutH ferii Ansonia carmina eulta lyra. Ovidio, Trist. 4. Elegia to.  il mastro dei poeti, O.   La cui lira per tutto manda il suono,  E qual Pindaro Grecia, egli ornò Lazio.   Tansillo, Canto al viceré di Napoli.     Mais fapprend qu*aujourdhui Melpomene propose  D'abaisser son cotAurne, et de parler en prose,   Voltaire, EpItre à Horace. Sume superbiam   Quaesitam meritis Venosino.  Dauti - //. Cult. XIV.     // cittadino di Venosa sentir devesi som-  mamente orgoglioso per esser nato in così  celebre terra, pili antica di Roma: splendida  civitas, anche nel tempo dei Romani, splendi-  dissima nei medio-evo, e patria, il che più  monta, di Quinto O. Fiacco. Del grande Venosino smisurate innumerevoli sono state le produzioni letterarie che  ne hanno decantato il nome, criticata F opera     eterna, postillato e glossato ciascun verso o  parola   Non havvi paese al mondo che non abbia  offerto suir altare del culto della poesia per-  fetta di Orazio il suo attestato di reverente  omaggio: Sopratutto in Germania, hi Fran-  eia, in Inghilterra si son fatti studi prò fondi  sulle opere del gran poeta italiano, e bio-  grafie e ricerche storiche pregevolissime su  tutto quello che riguarda la sua vita, ed i  luoghi ove vissse. In Italia, ed in Roma particolarmente, si cmiservano reliquie preziose  di severe e dotte lucubrazioni su tal subietto.  Duole non poco però che in Venosa, fra  tanto lume d ingegni preclari che ha dato  quel paese, non vi sia stato scrittore che ab-  bia inneggiato ad O. con serietà e pro^  fondita, e con opera particolarmente a lui  dedicata; ed era un dovere attraverso i secoli venir lodato Orazio da gente venosina.  Neppure un bronzo od una lapide parlava  di lui sin oggi. Ed invero il dottissimo cardinale Giovan  Battista De Luca venosino perchè nei suoi  quaranta volumi in folio non trovò il posto  per seguire quello che un S. Girolamo iniziò?  Luigi Tansillo, O. de Gervasiis, Donato  de Brunis, sommi poeti venosini, Giovanni  Dardo, anch' egli da Venosa, scrittore di bel-  lissimi e maestrevoli carmi (ingeniosa et venustissima carmina scripsit, disse M. Arcan-  gelo Lupoli), perchè non composero poema  sult immortale loro concittadino?   Che anzi giustamente Francesco Fioren-  tino j nelle sue note ai sonetti del Tansillo,  redarguisce costui, perchè « discorre di quello  ix^che chiamava suo concittadino con un certo  « risentimento che non è giusto, perché O. non sdegnò altiero il soggiorno di Ve-  « nosa: nei carmi del poeta latino ci è anzi  (( un certo compiacimento nel ricordare la sua  a patria ». O.fuggì da Venosa, sia per  fini politici^ sia perchè stretto dalla necessità,  sia perchè ogni genio sublitne sorvolando     per forza arcana, trova pure in tutto il ter-  restre spazio angusto confine! In luogo di e alitare tante vuote lodi ad una  componente r aristocrazia di quei tristi tempi  di feudalismo, che anzi lo sprezzava, non  poteva il Tansillo toccare la sua lira can-  tando di Orazio, stella che illumina il mondo  e che egli stesso chiama ^maestro deipoetiy?   Hanno voi/ do forse rispettare il suo testamento: (( Mitte supervacuos honores ». Ma  non è lecito negligere i sommi.  Io, benché non degno di venir noverato fra  cotanto senno, ho composto questo lavoro con  gran fatica, con gran sudore, con gran reli-  gione, essendomi prefisso con esso diradare  molte idee oscure circa la vita e le opere di  O., riferire coti la maggiore esattezza  quanto ad esse si associa, mettere in luce  tutto quello che sin oggi si è scoperto, e che  formava pel passato delle lacune negli scritti  dei biografi anche più esatti italiani e stra-  nieri.     Ho pure aggiunto dei cenni storici sulla  celebre Venosa, che si commettono con la vita  del suo immortale concittadino.   Tutto ciò mi è riuscito lieve, e mi è venuto   »   strenuamente compensato col fatto, che ho  aggiunto, io venosino, un fiore al serto, che  immarcescibile cinge la fronte sublime del  grande italiano.   Oggi fra tanto tramestio di sentimenti di-  sparati, atti a spegnere ogni entusiasmo, ri-  temprare gli animi alla fonte delle opere lei* terarie immortali come quelle di Orazio, ed  il seguirne le norme che da esse emanano,  o cittadini^ è quanto di meglio si può fare.  Si respira così aura piti pura ; si resta an-  negato in un Lete morale dolcissimo: si guar-  da con occhio impassibile la vertiginosa corsa  del torbido torrente della vita umana, da una  sponda secura e tranquilla.  Valete.   Portici— Granatello. DZE&O BAPOLLA  L mondo, questo pianeta, che pare  sin oggi abbia il primato sul si-  stema universale dei pianeti, perchè in  esso vive l'uomo, il re della creazione,  avverti , circa duemila anni or sono,  una di quelle trasformazioni , uno di  quegli avvenimenti, che segnano date incan-  'cellabili, e che forse non più si verificheranno  nei secoli futuri, tranne quando avverrà la  fine -dell' età. Neil' aria pregna dì densissimi vapori guizzavano folgori rossicce ; reboava  il tuono ; poi appariva luce sfolgorante, bian-  chissima, divina. Le nefandezze, le turpitudini,  la mollezza, la superbia, la degenerazione del  genio del bene in quello del male erano  giunte all'estremo limite del possibile. Era  prossima l'ora delle rivendicazioni, della redenzione, della riscossa voluta dalla ragione.  Era vicina la nascita dell' Uomo-dio , an-  nunziato, già da secoli, come apportatore di  pace ed amore. Roma, caput mundi, impe-  rava. Le aquile svolazzavano in liberi campi,  ghermendo prede facili in difficili e remoti  paesi. La potenza e la protervia dell'uomo si  disegnavano al massimo grado. I grandi ed  i piccoli, i padroni e gli schiavi, i senatori al-  bagiosi , i cresi onnipotenti ed i gladiatori  morituri.   Roma già da sette secoli esisteva, quando  l'umanità parve potersi paragonare al vapore  chiuso in forte e potente recipiente che sem-  bra prossimo a scoppiare. La civiltà dei Greci,  le gesta ed il ricordo degli altri popoli, come  i Cinesi, i Babilonesi ed i Persi , che vanta-  vano maggiore e più antica coltura, eran pres-     sochè cancellati da questi violenti conati di  gente che era barbara e volea divenire inci-  vilita. Neir immensa Roma, per la quale po-  poli al sommo grado belligeri pugnavano  sanguinosamente per potersi dire cittadini  romani^ vagavano uomini quasi nudi, ed  appena ornati da toghe e preziose porpore,  che ne lasciavano scovrire i poderosi garetti  e le erculee braccia ; e le altiere fronti pare-  vano non use a piegarsi alle volubili e spesso  avverse disposizioni del destino. Da Roma  partiva quella voce imperiosa che comandava  alle schiere invitte la conquista del mondo  intero.   Tutto pareva nascer gigante in quel tempo,  e con l'impronta del misterioso e del sublime.  Mario, Siila, Mitridate, Ottavio, Cinna, Giugurta, Pompeo, Cesare, Bruto, Antonio, Cleo-  patra; Roma, Atene, Cartagine; Virgilio, Ti-  bullo, Properzio, Ovidio, Sallustio, Cicerone,  Giovenale , Tito Livio , O., Mecenate ,  Augusto I   Gli uomini, dalla civiltà, che lentamente in-  vadeva, resi più chiaroveggenti, mal soffriva-  no la schiavitù più abbietta. Fremevano e le-     vavano ruggiti di leoni. E Mario era un leone  della foresta : nato da vilissima gente, sorbì  sin dall'infanzia il veleno dell' odio contro i  potenti ed i gaudenti. Era smilzo, altissimo,  nervoso, brutto, di volto terreo, come se quel  colore della pelle dovesse indicarne la mal-  vagità dell'animo, come dopo molti secoli in  Marat. Di quei che vantavansi di nobile stirpe  solea far aspro maneggio.   Gridava fremente alle turbe spensierate e  lussuriose : O voi altri, che vantate imagini  lettighe e porpore, ne avrete di giorni tristi;  verrà Y ora della rivendicazione sociale. II  vostro cammino trionfale sarà arrestato da  un fiume di sangue. Le vostre pompe su-  perbe saranno oscurate da montagne di ca-  daveri deformi 1   Eppure Mario avea sortito dalla natura il  genio uguale a quello di Cesare, suo grande  nepote. Era guerriero nato. Vinse i Cimbri,  aggiogò Giugurta, si unì con Siila. Con Siila  stesso si misurò a suo forte discapito. Corse  vagolante sulle rovine di Cartagine. Dipoi  iniziò la fatale guerra sociale. Morì atterrito  da visioni tremende 1     A Siila scorrea nelle vene sangue gentile di  patrizio. Avea fierissimo e troculento aspetto;  era vendicativo oltre ogni credere, ma celava  in petto cuor generoso e forte.   Non poche migliaia di Sanniti restarono  sgozzati al semplice muovere del suo soprac-  ciglio, e nel sangue restò affogato anche lui,  che invano entrava nel cotidiano bagno di es-  senze per torsi di dosso la miriade di paras-  siti e microbi che lo dilaceravano e lo spen-  sero. E la lotta ferveva sorda, quasi ne fosse  infetto il sangue degli umani, tra i servi e  gli strapotenti. I mirmilloni ed i reziarii,  nelle barbare e sanguinose lotte, formicola-  vano, per appagare la sozza cupidigia di vec-  chi lussuriosi e donne ben pasciute e coronate  di rose, e briache e spossate dalla crapula  e dal piacere. Era il preludio delle guerre  servili. Dugentoventimila servi e Spartaco  con centoventimila gladiatori produssero uno  scoppio ed uno schianto formidabile, come  potentissimo vulcano che erutti lapidi e lave.  Licinio Crasso, quegli che rappresentava l'or-  pellata repubblica, ne fece crocifiggere sei-  mila.  A spaventoso movimento, repressioni più  spaventose. Licinio Crasso fu favolosamente  ricco per le opime spoglie e per V oro rag-  granellato con la confisca dei beni delle sue  vittime e dei milioni di proscritti.   Ma quell'oro di nefando acquisto vennegli  fatto ingoiare fuso e bollente dinanzi agli  stessi suoi figli. E trentamila Romani sgozzati dai Parti, ad Harron nella Mesopotamia,  furono quelli che espiarono con lui V inau-  dita ferocia. Spartaco gladiatore, di razza nu-  mida e di regio sangue , morì da eroe nella  fiera mischia sulla riva del Sele in Lucania,  condottiero di stanche e poche agguerrite  schiere di uomini oppressi. Fra Spartaco e  Crasso, tra il gladiatore ed il potente, tra quel  povero oppresso e quel ricco oppressore, es-  servi dovea odio mortale. Perversi però e  scelesti ambidue !   Cicerone e Catilina, sommo oratore ma  ambiziosissimo l'uno, patrizio romano disso-  luto l'altro. Dalla congiura del secondo, che  mirava in realtà al nichilismo dei nostri giorni,  e dalla fine del primo si videro strani risul-  tati. Catilina cadde trafitto nel campo tra le     sue schiere pugnaci per un ideale. CICERONE (si veda) ha il capo e le mani mozzi e confitti ai rostri del foro romano, e la lingua foracchiata  dall' aureo spillone della proterva Fulvia.  Splendidi esempii agli ambiziosi I   Mentre che alla magnifica Atene non re-  stava che il primato nel mondo per le let-  tere e per le scienze, e mentre V immensa  Roma repubblicana si affraliva e s* incrude-  liva tra la mollezza, i vizii, le congiure, i mas-  sacri e le guerre , nasceva Cesare. Cesare lo si disse dapprima congiuratore  con Catilina. Gli scorreva però nelle vene il  sangue vile di Mario. Era rinfocolato da am-  bizione smodata e livore. Fu uno dei più  grandi uomini che nacquero nel mondo. Lottò  da atleta gigante con Pompeo, nato da eque-  stre famiglia e partigiano del nobile Siila, e  Io vinse. Ma pianse quando i vili cortigiani  gliene recarono la testa mozza, e volle punita  la barbara adulazione. Era letterato di gran  talento. Era generoso, ma sotto il mantello di  leone ascondeva animo felino , vendicativo,  dissimulatore. Catone preferì trapassarsi di  propria mano il corpo con la spada, piuttosto che rendersi servo di Cesare. Cesare am-  biva air imperio, alla tirannia. Vinse i Germani, i Galli e Scipione, ma venne pugnalato.   Bruto, il fiero repubblicano, il prediletto di  Cesare, s' intinse pure del sangue di lui; si  macchiò di parricidio, perchè la dittatura lo  premeva come incubo, anelava alla libertà,   E tale fu la progenie umana sin da che  vide la luce. Cristo, r Uomo-dio, venne al mondo colla  missione di pace tra gli uomini. Fatalmente  però gli uomini si mantennero sempre gli  ' stessi.   Adamo ribelle al Dio creatore; Caino fra-  tricida per invidia e per sete di dominio. E  da questi a Cesare, a Crasso, a Spartaco, a  Bruto, tutti ambiziosi e ribelli; e da questi  a Tiberio ed a Nerone, che ricreavansi degli  spaventosi dirupi di Capri e delle fiaccole  umane. *)   E da questi ai Torquemada, agli autori  degli auto-da-fè, dei roghi ove bruciarono  Bruno, Savonarola, Arnaldo, Vanini. E da  questi a Luigi XI, il compare di Tristano,  ed a Carlo IX che dalle finestre del Louvre  aizzava le orde a fare strage, e permise la tre-  menda notte di S. Bartolomeo , a Robespierre  che allagò il bel suolo di Francia col sangue  delle vittime del Terrore ; al prigioniero di  S. Elena, che seminò di stragi, rovine e morti  buona parte del mondo ; sino a quelli, innu-  merevoli, che in questo nostro secolo avven-  turoso han messo a soqquadro l'universo con  lotte ferocissime. Una è perciò la linea che appare precisa:  l'odio dell'uomo contro il suo simile, contro  qualsivoglia supremazia, servaggio od oppres-  sione; mista a malvagità ammantata, sia dalla  porpora, sia dai cenci; in diverse guise, nel-  l'alto e nel basso, tra plebei e nobili, tra so-  vrani e sudditi, tra volgo profano e menti  elette, e persino tra letterati e tra i sacri mi-  nistri delle diverse religioni; il quale odio  malvagio personificato potrebbe raffigurarsi  quale Encelado premuto dall' Etna.   La scala della nequizia in tutti i tempi ha  toccato i cieli, come quella biblica. Tale era lo stato del mondo allorché nac-  que Quinto Orazio Fiacco; e nelle sue vene  scorreva sangue di schiavo.   I ELLA vetustissima Venosa [Venu-  sid), città situata tra la Puglia e la  Lucania) , nel dì 8 dicembre dell'anno  689 dalla fondazione di Roma, sessan-  tacinque anni prima dell' era cristiana,  essendo consoli Cotta e Torquato , essendo Cesare compromesso con la prima congiura di Catilina, perchè sognava la caduta della repubblica e la  dittatura, nacque Quinto O. Fiacco. Il nome di “Quinto” se lo appropria lui stesso nel  libro delle satire. O. ognuno lo  chiama, ed egli stesso così sempre si noma  nei suoi scritti. Plutarco lo dice “Fiacco”  nella vita di Lucullo – cioè: “orecchiuto”, ed egli  stesso, nell'Epodo e nella satira, così si cognomina.  Ma tale soprannome non indica che ha orecchie deformi, bensì può riferirsi  a lui, quello che egli stesso dice di essere di facilissima audizione, oppure che quelli di sua famiglia fossero distinti con tal nomignolo, tra le non poche famiglie della  tribù oraziana, della quale si discorrerà in  appresso. In un antico manoscritto che si conserva  nella Biblioteca Nazionale di Napoli, che  vuoisi opera del dottissimo Cenna,  venosino, si asserisce che O. nacque  nelle case dette, al tempo nel quale il Cenna  scriveva, dei Plumbaroli, presso le mura della  città, e presso certi molini, che in appresso  (come rilevasi . nelle note del Cimaglia) ap-  partennero ai Pironti venosini, e che oggi  son quasi di fronte alla cattedrale, venendo dalla via di^S. Rocco, presso al luogo detto  /e Sa/me.   Suo padre era uno schiavo fatto libero. La  quale condizione se non era tanto miserevole  quanto quella dello schiavo, poteva dirsi av-  vilitiva oltre, ogni credere; imperocché il liberto ripeter doveva quella larva di libertà  dal suo antico padrone; come cittadino ve-  deasi privato del diritto al suffragio; aspirar  non potea agli alti uffizii civili, e neppure a  coprirsi le braccia e le dita di anella d' oro  perchè venivagli rigorosamente proibito. Lo  stesso matrimonio era per lui limitato nella  cerchia dei suoi pari, perchè un liberto spo-  sar non poteva sia la figliuola d' un senatore  o d* un patrizio, sia altro essere nato libero  od ingenuo, come diceasi allora. Viveva il  liberto sotto la tutela del passato padrone, e  lui malaugurato se a questo si fosse ribel-  lato: ridiveniva schiavo. Spesso il suo pas-  sato padrone se ne avvaleva per servizii ono-  rifici, mediante lieve mercede. Malamente  taluni vollero sostenere che il padre d'Orazio  fosse libertino nel senso voluto da Svetonio  in altri suoi scrìtti, e non nella biografia d’O., cioè figliuolo di liberto o figlio di  schiavo fatto libero. Orazio, alludeìtttea suo  padre, usa sempre la parola libertinus^ ma nel  senso detto dapprima, volendo intendere che  suo padre era stato schiavo, ed aveva avuto  poi la libertà. Non vi pjiò cader dubbio alcuno. Il padre di O. presta il servizio di  riscotitore di tasse del comune di Venosa e  di banditore, era un servus pubKcus; il Che  dimostra che il suo passato padrone essere  dovea di alto grado sociale, assegnandogli  tali uffizii rimunerativi e non bassi, ed a ser-  vizio della città. Nel suo stato perciò dirsi  potea felice ed agiato, stantechè possedeva  presso la Rendina, luogo neir agro di Ve-  nosa, un fondicello che gli dava ( sebbene  O. dicesse esser suo padre macro pan-  per ugello) un conveniente provento, e  quindi potette unire al suo impiego anche un  negozio di salsamentario, o salumiere; e come  vuoisi da Svetonio, Tunico biografo, così la-  conico, ma purtroppo veritiero, veniva scher-  nito il giovanetto O. dai suoi compagni  di scuola così: Quottes ego, vidipatrem tuum brachio se emungentem ? ^) Ingiuria solita in  quei tempi ai figli di salumaio, e che Cice-  rone riferisce così: Quiesce tu cujus pater cu--  aito se emungere solebat. Certa cosa è che non può ricavarsi da tutto  ciò che O. ha scritto sopra i suoi geni-  tori, né da altri scrittori suoi contemporanei,  compreso lo stesso Svetonio, né il nome di  suo padre, né il nome e la condizione di sua  madre.   Il Fabretto, celebre raccoglitore di iscri-  zioni e sigle, riporta un frammento d' iscri-  zione che dice leggersi sopra una casetta in  Venosa, che erroneamente fu detta esser la  casa di Orazio, così concepita:   HORATI C. L. Dio    MlTULLEIAE UX. e che sì è voluta decifrare così:   HoRATio DioDORo Caji Liberto  MiTULLEjAE Uxori)   La quale interpretazione importerebbe che  il padre di Orazio nomar si dovesse Diodoro  o Diocle, e sua madre Metulla. Ma é questo un falso indìzio – cf. Grice: spots are a falso indizio di measles], poiché in Venosa furonvi  non pochi che si dissero Grazi, ed a qualcuno  di questi è riferibile l'iscrizione funeraria.   I due eruditi Grotefend, il Franke nei  suoi Fasti Horatiani, ed il Milmam nella sua  splendida opera The works of Q. Horatius  Flaccus illustrateci , opinarono il padre di  Orazio poter esser un discendente dell’illustre famiglia romana degl’ORAZII, e che ri-  divenuto libero, avesse ripreso, secondo il  costume del tempo, il proprio nome. Ma il  Mommsen, nella sua opera Inscriptiones Regni Neapolitani, riporta tredici iscrizioni rin-  venute in Venosa indicanti l'esistenza di una  tribù Hofatia, colonia romana, nella quale  erano allistati gli abitanti della città di Ve-  nosa. Il padre di Orazio faceva parte di que-  sta colonia, non discendeva però dalla fami-  glia degli Orazii, nel qual caso farebbero op-  posizione le continue lamentazioni del figlio  di vii nascimento.   Né si potea concepire che , fra tanta chia-  rezza di prosapia, da darsi pure il lusso di  un' iscrizione sepolcrale , O. poi non  enunziasse neppure il nome di quelli che gli     -«( 17 )f^   aveano data la vita. Ed è poi noto, come si  vedrà in appresso, che tutto venne confiscato  alla famiglia di O. dopo la disfatta di Filippi. Era anzi quella gente tenuta in bando,  e del tutto sprovvista di mezzi, il che permetter non poteva ad essi il foggiarsi lapidi  con iscrizioni commemorative. G. Batt. Duhamel, nella sua opera Philo-  sophia vetus et nova ad usum scholae, opina  che un avo d’O, assoldato nell’esercito di Mitridate, venne nelle guerre del  Ponto fatto prigioniero, e tradotto in Roma,  e comprato da un questore venosino, dal  quale si ebbe la libertà. Ma tale idea fanta-  stica, come moltissime venute fuori dalla penna del letterato e filosofo del Calvados, non  ha fondamento, mancando della parte principale, cioè del nome del prigioniero, schiavo  fatto libero, dal quale deriverebbe il padre di  O. (di cui neppure sa dire il nome), che  per tal guisa sarebbe stato figlio di liberto,  non liberto, come era infatti; Orazio chia-  mando sempre suo padre liòertinus, non nel  senso voluto da Svetonio, e mostrando sempre rammarico per tale causa. Altri poi (come rilevasi da vecchissime  edizioni del gran poeta ) credettero assegnare  al padre di Orazio il nome di Tubicino; ma  pure questo va chiaramente emendato, stanteche si è voluto confondere il nomignolo del-  l'uffizio che il padre di O. si aveva in  Venosa, cioè di banditore. E siccome i banditori in quel tempo solcano annunziarsi a  suon di tuba, diceansi trombettieri ( tubicen^  tubicinis) quindi Tubicino ! Può quindi asse-  rirsi che s'ignora del tutto il nome del padre  di O. e quello della sua genitrice: se ne  conoscono solo del tutto la condizione e lo  stato del primo. Orazio disse essere stato suo  padre uno schiavo, al quale venne concessa  la libertà. Tale origine del suo casato lo mo-  lestava acremente. E qui cade in acconcio  notare che mentre Orazio non ha mai indi-  cato il nome di suo padre e di sua madre,  non ha mai nominata la città di Venosa. Con  molta lucidità indica il luogo della sua na-  scita e ne fa un piccolo cenno storico topo-  grafico così concepito: Io non so con preci-  sione se son Lucano o Pugliese, perché il  colono venosino suole volgere l'aratro tra i  due confini di queste due regioni. E che Tansillo venosino cosi traducendo imita nel  suo canto al viceré di Napoli:   Io non so se Lucani o se Pugliesi  Siam noiy però ch'il venosin villano  Ara i confini d'ambidue paesi. Ed una colonia romana fu spedita in tal  luogo, abitato prima da Sanniti, per iscacciar-  neli, e per impedir poi che tale infesta gente  corresse sopra Roma a molestarla come pel  passato. Ed invero i Sanniti furono infesti non  poco ai Romani come le storie luculentemen-  te asseriscono. E tale colonia romana spedita  in Venosa, secondo attesta LIVIO, formar  dovea guarentigia a tutta la regione pugliese  e lucana, e mostra ad evidenza V importanza  della città di Venosa in quei tempi.   O. volle con precisione dichiararsi ap-  partenente alla colonia ronìana che discacciava da Venosa i Sanniti.   Eppure i Sanniti furono di razza Sabina,  ed O. non pensa che la Sabina, cioè  la patria prima dei Sanniti, formar dovea la  sua seconda desiderata patria, la sua aspirazione. Oh coincidenze misteriose! Oh lumana  commedia !   Eppure i costumi dei Sanniti furono qual  si conviene a popolo belligero, sobrio e buo-  no. Governavansi in austera repubblica, ed il  sistema democratico formava la base delle  loro istituzioni. Pei servigi resi alla patria  davan persino le avvenenti compagne e le  figlie come premio. O sacrifizio memorabile \  Nelle lunghe guerre coi Romani mostraronsi i  Sabini più destri e valorosi. Venne però l'ora  definitiva della sconfitta, e nell'eterna guerra  tra le genti, il più forte li debellò. I Romani  290 anni prima di Cristo li espugnarono del  tutto. A questo ricordo allude Orazio allorché  dice che la colonia venosina, debellati i Sanniti, divenne propugnacolo contro le ossi-  dioni di tal forte e belligera gente. Convien  quindi notare che Orazio per quanto asserì  esser nato sul suolo venosino, per tanto sem-  bra mostrarsi superbo di appartenere alla co-  lonia romana ivi residente: che anzi bisogne-  rebbe assegnargli meritevolmente la taccia  d' ingratissimo, perchè oltre a non nominare  una sola volta in tutte le sue opere la patria  sua, come non precisa il nome ( e li avrebbe  immortalati) né di suo padre, né di sua ma-  dre, bensì il nome del suo primo maestro  Flavio venosino e della sua castalda, Fidile^  cosi sacrilegamente si esprime: Sic quodcumque minabitur Eurus Fluctibus hesperiis,  venusinae plectantur silvae, te sospite.  E Gargallo, quasi arrossendo, in tal guisa  traduce, cangiando le venosine selve in lucani  boschi:   Còsi qualunque netnbo Euro Minaccia^  Ai flutti esperii^ di là ratto il muova  A* lucan boschi^ e n'abbi tu bonaccia)   E per giunta in tutte le sue opere O.  non nominando mai, come dissi, Venosa,  spesso nomina Forenza, Acerenza, Banzi,  TAufido (l'Ofanto odierno), il Vulture, il Ma-  tino, Benevento, e con aspirazione invidiosa  Taranto e Tivoli 1 E pure Venosa, lantichis-  sima Venusia, era bella, com' è tuttora, su-  perba, attraente, forte più del suo Tivoli , e  dei luoghi dei monti Sabini. I grandi hanno  tutti gravi e non poche mende, ma bilanciate  con le qualità individuali, superiori e rare, vanno cancellate. Salve perciò, o O.,  sovrano poeta, onore della razza umana!  Venosa, la patria tua, perdona tale non-  curanza, e tale al certo involontaria irricono-  scenza. L' hai ricolmata di gloria imperitura,  indicando a chiare note che sorbisti le prime  aure della vita sulle sue opime colline ; e ciò  bastar deve per fare scomparire ogni traccia  di livore o sdegno verso di te, se pur può  albergare nell'animo di alcun tuo concitta-  dino livore o sdegno, come invece alberga  venerazione e maraviglia ! Salve, sommo poe-.  tal Tu certo vivi ancora. Il tuo spirito im-  mortale aleggia benefico genio del luogo su  quella ancor bellissima terra; oppure da qual-  che stella lucente gitta raggio amico che mo-  stra la via al viandante in quelle selve lucane,  od al nocchiero la via nera dell'antico mare  Jonio, ove il bollente e rumoroso Aufido an-  cora oggi si annega !  O. scrive :  Che qual figliuol di libertin trafitto  Soft da tutti)   Invero Guerrazzi da savio sostiene: La  ignobilità più che la chiarezza del Itg^taggio  riuscire stimolo acuto a ben meritare; aven-  do la natura concesso all'uomo maggiori po-  tenze per acquistare, che non per mante-  nere. ^L'assillo nonpertanto che tormentava O. era la sua nascita: perché non potendo  schermirsi dai vili ma pur tormentosi frizzi  della plebe che lo dicea discendente da schia-  vo, rinfocolato dall'odio naturale di cui più  su si è discusso, che gli bolliva in seno, e che  il padre vieppiù incrudeliva, estolle la ma-  gnanimità del suo genitore per averlo fatto  educare, istruii^e e porre a livello dei giovani  di buone famiglie ed agiate. Che anzi con  boria e sicumere che mal velava lo struggersi  interno, asseriva potersi porre a pari, egli  figliuol di schiavo, coi figli dei senatori e dei  cavalieri di quel tempo anche nella superba  Romal   Si vedrà in appresso quanto fosse ampollosa questa sua assertiva, allorché si noterà co-  me egli stentar doveva per accaparrarsi sia  l'amicizia di altri poeti più fortunati, sia dei  grandi, che un solo fortuito caso gli permise     avvicinare, e come molte volte ingiustamente  ne restava mortificato, mendicandone le  grazie, ed attendendo nove lunghi mesi per  meritarsi l'onore di venire annoverato tra i  commensali di Mecenate ! Giunse a rendersi  maestro in cortigianeria a parecchi suoi gio-  vani amici ed ammiratori !   Non è lecito credersi di più di quello che  si è in realtà, né fidar troppo sul proprio me-  rito, per quanto incontrastabile esso sia, in  questa commedia umana nella quale regna  sovrana V ingiustizia ! Il suo orgoglio come  poeta diveniva ridevole quando si rivolgeva  circa la sua condizione nella società nella  quale viveva. Ma quel marchio che al solo  presentarselo alla mente lo straziava a morte,  il marchio di esser figliuolo di uno schiavo,  gli faceva talvolta aver le traveggole. Riesce  sublime quando esclama:   Io disdegno e allontano  Da me il vulgo profano   Tacciasi ognun   Vo*cantar^ de le Muse io sacerdote. »o)   Egli lodò grandemente il padre, perché questi gì* inculcò dì fuggire dal luogo ove  molto era conosciuta la sua origine, e di af-  francarsi dalle prepotenze dei ricchi, dei senatori, dei cavalieri e di ognuno con Y i-  struzione, col coprirsi di gloria: e tanto ot-  tenne.   Orazio nacque, come si accennò, dodici  anni prima della congiura di Catilina. Cele-  bri erano in quel tempo tra i poeti Valerio  Catullo, Licinio Calvo e molti altri. E tra i  FILOSOFI Terenzio VARIO e Numidio FEGULO.  E per l'arte tribunizia CICERONE, Ortensio e  Quinto Catulo. In Venosa in quei tempi  eravi pure una classe sociale che si distin-  gueva dalla volgare, la quale frequentava la  scuola di un maestro Flavio, del povero  Flavio, che non avrebbe potuto mai augurar-  si di divenir celebre per l'eternità, vedendosi  consacrato nel libro di O., che pur non  dice il nome del suo genitore, della genitrice,  della patria. A questa scuola attinse i primi  rudimenti il piccolo Orazio. I suoi compagni  lo schernivano; ed egli si vendicò ad oltranza  col farsi in seguito beffe di essi e dei loro  parenti nobili venosini I La povera nobiltà venosina) quella nobiltà che ebbe incisa  in pietra pelasgica tale enfatica iscrizione :   Ex LUCULLANORUM PrOLE RoMANA Aelius Restitutianus Vir Perfectissimus   CORRBCTOR ApULIAE ET CaLABRIAE IN HONOREM   Splendidae Civitatis Venusinorum  Consecravit ")   resta schernita e vilipesa dallo stile del sommo  satirico. Quei rampolli di famiglie nobili ed  agiate della città di Venosa dovean tenere a  vile accumunarsi con Orazio e famiglia, stante  che ne conoscevano Torigine. Fu questa una  delle ragioni per cui il padre decise condurlo  in Roma. Dovette poi notare nel giovanetto  un ingegno precoce e svegliato che promet-  teva alcun che di grande, e pensò abbiso-  gnargli più ampli orizzonti e pabolo più ade-  guato e conveniente. Orazio aveva circa otto  anni o dieci al massimo, secondo il computo  di Andrea Dacier, nella sua Chronologia an-  norum Horatii, allorché giunse col padre  in Roma, e cominciò a frequentare quelle  scuole romane. Ed è caro quel vanto che trasse O. quando nei suoi canti, ricordando il padre ed i felici giorni della pueri-  zia, e sentendosi nella folla della scolaresca  deir immensa città susurrare airorecchio di  esser creduto di alto lignaggio, dice :   Ma d'alti sensi osò condurre a Roma  Me fanciulletto^ ad apparar quell'arti  Che un cavaliere che un senatore insegna  Ai propri figli, Allor se, come avviene  In un popolo immenso^ avesse alcuno  Gli abiti visto^ ed i seguaci servii  Certo creduto avria spese sì fatte  A me apprestarsi da retaggio avito] La quale ingenua confessione dimostra   che il padre di Orazio, sebbene appartenente  alla bassa condizione di liberto, non doveva  essere scarso a pecunia, anzi bastevolmen-  te ricco. Quanti miseri studenti , figliuoli  di coloni agiati e signori delle provincie^ non  vanno oggi in Napoli o nell'alma Roma ad  apprender lettere o scienze ? Ma ben pochi  vivono certo vita allegra, vestono panni di  lusso, e possono farsi seguire da servi e  staffieri con panieri ricolmi di succulenti ma-  nicaretti od altre costose leccornie ! O. però per generoso e riconoscente sentimento  riferisce al padre il potersi istruire con tanta  comodità, né può tacciarsi di parabolano o  falso, né molto meno di orgoglioso, lui, che  abborriva dall'orpellato fastigio, e mordeva  con denti velenosi i prodighi, i ricchi ed i  centurioni venosini! Sotto l'usbergo d'una  morale istintiva covava Tira repressa del  figliuol del liberto 1  ni.   L padre d' O. condusse suo figlìo in Roma, cioè cin-  quantacinque anni prima dell' era cri-  stiana, non raggiungendo questi ancora  i dieci anni di età. Forte baleno dì or-  goglio e di stupore dovette abbagliare  il piccolo venosino, ma pur cittadino romano,  nel calpestare le aboliate strade della magnì-  fica Roma.   Ergevasi la città , che imperava allora su     buona parte dell' orbe terraqueo, sui dodici  celebri colli, dei quali il Vaticano, il Citorio,  e quell'altro dove Tazio venne a fissarsi coi  suoi Quiriti , rifulgono oggi maggiormente  nel mondo , perchè dominio di validissime  potenze: la tiara, e la monarchia costituzio-  nale deir Italia unita e libera. Aveva ponti  lunghi e meravigliosi, porte monumentali,  mura che potean vantarsi più durature e in-  concusse delle ciclopiche o pelasgiche o delle  cinesi. Avea più di quattrocento templi ador-  nati di colonne preziose, archi trionfali, obe-  lischi fatti trasportare con ingentissime spese  dalle più remote regioni del mondo onde si  fosse palesata la grandezza delle vittorie romane dalle spoglie ricavate dai potenti e  riottosi nemici.   Se però Roma mostravasi tanto superba e  potente alla vista, il che poteva lusingare i  sensi del piccolo viaggiatore (il quale poi non  proveniva da paese barbaro e povero , bensì  da Venosa, caput Apuliae, città monumen-  tale e stupenda, siccome attestano le antiche  carte e le lapidi che hanno sfidata la corro-  sione dei secoli, "^)) non cessava di ascondere nella sua ampiezza e magnificenza gente av-  vilita dalle discordie civili. Pel triunvirato di  Cesare, Pompeo e Crasso (quel Crasso di cui  più sopra si delineò la proterva jattanza),  quel popolo, dapprima così forte e generoso,  vedeva sfuggirsi, pel libertinaggio prepon-  derante, la libertà che offriva ai cittadini la  repubblica di CATONE (si veda), repubblica ormai mo-  ribonda. La mollezza ed il mal costume tor-  cer facean lo sguardo ad ogni onesto e probo  romano. E perciò Orazio stesso, allorché co-  minciò a balenargli in mente il vero, scrisse  che le cure del suo buon genitore, che gli fu  guida permanente, fra tante grandezze e fra  tanto scompiglio morale lo ritrassero dal cadere in brutture ed ignominie e dal venir tacciato di cattivo cittadino ; che anzi gli procu-  rarono la stima dei buoni e dei veramente  grandi.   Il padre soleva giornalmente condurlo dai  maestri più celebri della città, ed ai banchi di  quelle scuole famose sedevano con lui figliuoli  di senatori e di altre famiglie nobili ed alto-  locate dell'alma Roma. Era sicuro il padre  che non si sarebbe rinfacciato al giovanetto Quinto O. la nascita vilissima, perchè  s' ignorava donde fosse venuto : Y emporio  immenso, oceano nel quale rifluivano tutti i  popoli della terra, lo assorbivano. E lo schiavo  fatto libero superava per lusso e per criterio  sicuro moltissimi ingenui e gentiluomini.  O. gliene fu gratissimo ; e scrisse che  se avesse dovuto rinascere, ed avesse potuto  scegliersi un padre, avrebbe scelto quello  che gli die natura, non trovando altro uomo  più coscenzioso, più perspicace, più amore-  vole di questo ! Desta ammirazione e mera-  viglia questa confessione, se si rifletta che il  padre di O. era illetterato, e che era stato  soggetto alla schiavitù 1   Ed Orazio nel parlar di suo .padre include  pure la madre sua, perchè dice: io pago a' miei (genitori), di fasci  E di sedie curuli avoli adorni  Saprei spezzar. Le prime lettere gli furono apprese da Pupilio Orbilio da Benevento, che, come narra  Svetonio, fu dottissimo grammatico in quel  tempo e tra i migliori maestri sotto il consolato di CICERONE Visse centenario; morì  povero , solita fine dei non pochi lavoratori  coscenziosi ed indefessi. Era severissimo e  non risparmiò la sua sferza allo stesso O., che se lo rammentava con satirica soddi-  sfazione.   L'uso delle sferzate nella palma delle mani  degli scolari, antico più del tempo del quale  si discorre , formava sin negli ultimi nostri  giorni un genere di punizione che la civiltà  invadente va oggi disperdendo, siccome si è  tolto il barbaro uso di bastonare e torturare  i poveri folli ! Le cure morali debbono sosti-  tuirsi a quelle corporali e costrittive.   Alla scuola di Orbilio Pupilio cominciò  O. ad alimentarsi della poesia latina; menando a memoria e tratteggiando le scene  drammatiche del poeta Livio Andronico ed  altri illustri. Come più sviluppavasi negli anni,  cominciò ad attingere alle fonti delle lettere  greche, che egli stesso poi definì le più pure  e che dovevano occupare i dì e le notti degli  scrittori. Omero, Anacreonte, Saffo , Archi-  loco, Alceo, Stesicoro, Simonide, e non tra-  lasciando i latini, a cominciar da Lucilio, che  gli fece acquistar gusto alla satira, furono i  suoi modelli nel bello scrivere, e da essi ap-  prese quell'arte divina , quella melodia am-  maliatrice, che lo fecero addivenire il prìftio  tra i lirici del mondo. Ed egli solea paì-agonarsi all'ape industre del monte Matino (ser-  vendosi per similitudine del nome d* un monte  della sua Puglia, ma non del Vulture  presso  del quale spento vulcano ebbe la 'Cuna), cfee  svolazzando di fiore in fiore ne suggeva da  ciascuno quel tanto di dolce e poetico da for-  mar xumti immortali 1   Ed invero potrebbe qui riferirsi senza de-  rogare l'aurea massima di Ovidio del prin-  cipiis còsta, nel senso inverso, per umU, privo del tetto  «npic.1, eha Bud«t    var»(EUr bnpuko SctDW col cV»l.    Io radiche, essendo gli scribi addetti al contenziose  amministrativo, od alla pubblica contabilità,  formavano un' autorità speciale, siccome la  Gran Corte dei Conti dei nostri giorni. Essi  formavano un collegio a parte e la carica era  vitalizia ed inamovibile.   Dalle antiche iscrizioni scoperte in Tivoli,  e presso la via Nomentana in Roma nei pri-  mi anni del secolo decimonono, come da altre  che vennero con esattezza riportate e com-  mentate dal Gruter, da Fabretto, da Donati,  da Tommaso Reinesius, nella sua Syntagma  inscriptionum, da Creili, da Mommsen, e da  Visconti, si rileva appunto l'importanza del-  Tuffizio di scriba.   Hawene una di un Tito Sabidio Massimo,  scriba della questura, ed appartenente al sur-  referito collegio, al quale i Tiburtini innalza-  rono un monumento in riconoscenza dell'alta  protezione accordata da lui a questa città:   T. Sabidio T. F. Pal. Maximo Scribae.   Q. SEX. Prim. Bis. Praef. Fabrum. Pontifici.   Salio. Curatori Fani Herculis. Tribuno. Aquarum. Q. Q. Patrono, Municipii.  Locus Sepulturae. Datus, VOLUNTATE. POPULI. DECRETO. SeNATUS.   TlBURTIUM.   Siccome quest'altra seguente iscrizione a  Manio Valerio Basso antico tribuno di legione come era stato Orazio, pubblicata nel 1854  nel Giornale di Roma dal comm. Visconti,  rende noto che la carica di scriba della que-  stura soleva assegnarsi alla miglior classe  dei cittadini, e talvolta solevasi contraccam-  biare con la carica di tribuno delle milizie,  acciocché se qualcuno fosse stato esonerato  o per età o per volontà, trovar potesse un  appannaggio adeguato al proprio valore, ed  un meritato guiderdone:   Man. Valerio. Man. F. Quir. Basso. Trib. Mil. Leg. III. Cyrenejae Scrib. Q. VI.  Primo. Harispic. Maximo.   Testamento. Fieri. Iussit. Siri Et.   Fratri. Suo.  Hs. L. M. N. Arbitratu. Heredum.   Erroneamente quindi gli antichi interpreti  della parola scriba e dell' impiego ottenuto  da Orazio, e molti scoliasti e glossatori e  biografi attribuirono solo il senso di copiatori di pubblici atti, oppure notai o redatt  di atti privati, all'ufficio di scriba.   Tale dignità elevata, ottenuta solo per ii  pegno di altissimi personaggi, rese ad Oi  zio più facile V accesso ed il conversare e  grandi ed i potenti di queir età, come si \  drà in appresso. L’importanza poi di tale impiego ott  nuto dal poeta si rileva anche da quello ci  egli stesso scrive nella satira sesta del libi  secondo: Quinto ,   Ti pregano i notai che non ti scordi   Di tornar oggi pel noto affare   Al collegio d* altissima importanza [Anche il Gargallo spiega la parola scribi  con la voce notato; ma non credo aver voluta  egli intendere quello che oggidì importa h  carica di notaio, bensì componente il collegio  degli scribi questorii suddetti.   Il sommo poeta trascorse dunque i primi  anni della sua dimora in Roma tra Toccupa-  zione che gli offriva tale dignità onorifica e  lucrativa e tra i diletti della poesia.   Non può asserirsi con piena conoscenza  quanto Weichert, uno dei più indefessi il-lustratori del poeta, nella sua opera Poe-  tarum latinorum, vuol sostenere, cioè che  O. avesse solo ventisette anni allorché  venne presentato a Mecenate, cioè nel 715  di Roma. La cronologia diventa un mito  quando si ravvolge in date così lontane e  senza testimoni oculari. Volendo però seguire tale opinione, adottata pure da Andrea  Dacier, la presentazione di O. a Mece-  nate successe quattro o cinque anni dopo  la sua dimora in Roma. E Mecenate, il gran  protettore degrillustri letterati di quel tempo,  non lo ammise nella propria corte se non dopo  averne conosciute le virtù, i pregi dell'animo  e l'ingegno portentoso, e dopo aver giudicato  se Vario e Virgilio, che glielo raccomanda-  rono, avessero imberciato nel segno propo-  nendolo pel novero dei suoi favoriti, quando  era a sua conoscenza che Orazio aveva so-  stenuto la carica di tribuno nelle legioni di  Bruto, ed era fiero ed ardente repubblicano.  Riesce quindi logico noverare la satira quarta  del primo libro di O. come scritta poco  prima che fosse a Mecenate presentato, stante  che in essa si scusa con quelli che lamentavansi delle sue punture, e gliele rimprove  vano come poco coerenti per uno che int(  deva guadagnarsi la stima dei grandi. ]  egli vuol farsi credere semplice moralista  filosofo che castiga, ridendo, i costumi,  perciò egli si esprime presso a poco coi  Il leggere satire, il veder frizzata la catti  gente non riesce certo piacevol cosa a colo  che hanno la coscienza poco monda. Ma e  è puro ed integro ed onesto, non teme  scudisciate del poeta, siccome disprezza  calunnie dei malvagi. Poi non soglio io ai  dar divulgando le mie composizioni nel  piazze, nei trivii, nei simposii od anche nel  accademie. Scrivo per semplice diletto, spini  da forza arcana e per pura intenzione di ù  del bene e purgare la società inondata d;  vampiri, dai viziosi, dagli scelesti, dagVinv  diosi, dagli scialacquatori di patrimoni eh  costarono sudori a generazioni di lavorator  Confesso d' aver anch' io dei difetti; ma ci:  può mai tacciarmi d'aver tradita l'amicizia  d'aver calunniato chi merita lode, d'aver  scemato il merito, anzi non aver abbastanz;  lodato i cittadini eminenti ed onesti?     Un uomo che parla così di se stesso me-  ritava venire annoverato tra quelli la cui ami  cizia è un guadagno, un pregio, un onore.   Vario e Virgilio lo presentarono a Me-  cenate.    iur> nurmi; • Kt» pu prtgjo la noa.   cliL nciFBnlI iDroliJ. poicha ftllm lla^iu  k ÉufanUl pad or nada td kncluopv.   Gaxoallo — Trmd. di Oraiìa AIO Cilnio Mecenate nasce in  Arezzo dalla nobilissima famiglia Cilnia, discendente dai re dell'Etruria, che erano  quei guerrieri etruschi venuti a soc-  correre Romolo nella guerra contro i Sabini.  Nacque tre anni prima di O. Visse i  primi anni legato di amicìzia col giovane Ottaviano, e fecero insieme gli studii delle h  tere e delle scienze in Atene.   Egli pure, seguendo le orme degli avi,  intrepido guerriero, e seguì sempre il vitt  rioso Cesare in tutte le battaglie per demoli  la repubblica e difendere Roma dai nemi  interni ed esterni.   Non fu affetto dal morbo dell' ambizion   Allorché Augusto divenne padrone del v  stissìmo imperio, a Mecenate vennero ofFei  i primi onori, i più ampii poteri; ma tutto eg  rifiutava. Accolse solo le premure di Augusl  di rappresentarlo quando si allontanava e  Roma. Preferiva il sistema governativo a regim  monarchico assoluto, piuttosto che quell  retto a repubblica, e riuscì a far determinar  col suo savio consiglio Augusto a conservar  quel potere sovrano che per suoi fini particc  lari avea deciso abbandonare. Si avvalse dell  propria influenza, dei suoi disinteressati am  monimenti e del suo credito per rendere Au  gusto, imperatore e pontefice, proclive ali  clemenza ed a far più manifesto il fastigio  della monarchia. Amante del lusso, egli stesso sprona Augusto severo, economico e  restio al grandeggiare, al rendersi sovrano  per magnificenza e per sublimi intraprese edi-  lizie e monumentali.   Sposò Terenzia, donna di grandissima  bellezza, ma altezzosa ed infedele. La ripudiò:  ritornò ad essa sommesso: che non hawi  grande uomo esente da mende , principal-  mente dipendenti da procacia donnesca. So-  stenne lotte atroci per dimenticarla, e non ne  ebbe la forza. U illustre tedesco Meibom la dipinge nel vero suo aspetto.   Era scrittore forbito, piacevole ed erudito.  Compose ( ma non sono giunte fino a noi )  una Storia naturale, la Vita di Augusto, e  diverse tragedie e poesie.   Possedeva enormi ricchezze, potendo quasi  competere con Lucullo: largheggiava con ma-  gnificenza regale. Ma quello che lo rese pro-  verbiale nei secoli si fu \ aver protetto e be-  neficato i sommi letterati del suo tempo.  VIRGILIO (vidasi), Vario, Terenzio, Tibullo, Catullo, Marziale ed il nostro grande poeta furono  i suoi favoriti. Né la sua protezione si limi-  tava a piccoli sussidii, ad inviti ai suoi sontuosi conviti od a sterili raccomandazioni  Bensì soleva rendersi splendido per largi  zioni tali da bastare ad assicurare l'agiatezze  per tutta la vita del protetto. Pochi sovran  si sono succeduti sulla scena del mondo prodighi come Mecenate, e tanto avveduti nei  dare ed innalzare chi realmente possedeva  meriti personali così insigni da immortalare  il protettore, considerandolo nei frutti del lorc  ingegno. Solo in questi ultimi anni nelle ro-  vine di Carseoli nel Lazio si rinvenne un bu-  sto marmoreo di Mecenate. Le rovine della  splendida sua villa a Tivoli non sarebbero  bastate a rischiarare la sua vita e la sua gran-  dezza senza la Lucerna venosma, che lo ha  fatto rifulgere di luce splendidissima ed eterna.  Il vero monumento imperituro a Mecenate  glielo ha innalzato O. Fiacco venosino.  Virgilio nelle Georgiche così decanta il suo  insigne protettore: O Mecenate, o decoro  nostro e parte massima della nostra fama. »  Ma Orazio si mostra più virile. Ritiene Me-  cenate gloria, presidio, sostegno e forte scu-  do della sua persona; ma non attribuisce a  lui, bensì al proprio ingegno la propria im-     -«( 79 )^   mortalità. La superbia Oraziana (superbia  derivante dai meritati allori ) non comportava  servilità comuni al volgo.   Poteva forse il ricchissimo aretino forjiir-  gli una sola favilla di quel genio che il gran  cittadino di Venosa stesso definì particella di  aura divina?   Tutti i tesori di Golconda non equivalgono  a quegli slanci di lirica sublime che non han-  no avuto eguale in nessun mortale quaggiù !   Come si accennò innanzi, O. venne  presentato a Mecenate mentre vivea occu-  pato neir ufficio di scriba questorio, e nel  comporre satire ed altre poesie, che aveano  già richiamato l'attenzione degli altri eruditi  del giorno. E ciò dovette succedere neir an-  no 717 di Roma, cioè avendo egli già sor-  passato il ventisettesimo anno. Egli stesso  così descrive questa presentazione:   r ottimo Virgilio   Da pria^ poi Vario dissero chi fossi,   ' Né me figliuol di genitor preclaro  Né me opulento possessor che scorra  Suoi vasti campi su destrier pugliese^  Ma quel eh* io m* era espongo: accenti pochi^  Giusta tua usanza^ tu rispondi: io parto. E dice pure:   Fattomi al tuo cospetto, singhiozzando  Pochi accenti succiai^ poiché alla lingua  Era infantil pudor nodo ed inciampo. Donde nacque mai in Orazio tanta umiltà  tanta bonomia e tanta confusione vedendos  al cospetto dell' erudito e ricchissimo e pò  tente Mecenate, se non dallo scorgere in lu  un amico sincero che cordialmente e senzc  vedute interessate lo proteggeva, e lo 'ponevc  nel novero dei suoi favoriti, ciò che formava  l'orgoglio di altri in quel tempo più in fams  di lui, mentre pel contrario molti altri lo di-  sprezzavano e lo invidiavano, e per tal fine  cercavano fargli il maggior danno possibile?  Aggiunger poi si deve che la magnificenza  che circondava Mecenate, il suo palagio, la  fila dei cortigiani che colle teste curve sino  a toccare le lastre marmoree del pavimento,  il suo prestigio dovettero colpire O., che,  per quanto impavido fosse, dovette risentirne  certamente imbarazzo e confusione.   Ti è occorso mai, o lettore, di presentarti,  dopo un' aspettativa lunga ed ansiosa nelle  anticamere, ad un sovrano? E se sei italiano.   ti trovasti mai alla presenza del gran Re Vit-  torio Emanuele ? Quella figura atletica, chiu-  sa nella cornice che cinge i re nelle reggie,  colla divisa brillante di generale italiano, con  quelli occhioni vividi e fieri che ti scendeano  come saette sin nelle intime latebre dell'ani-  mo, quasi a scrutarne le più riposte idee e  sentimenti, non ti produsse alcuna emozio-  ne ? Nulla avvertisti ? E se quel sovrano ti  avesse di sua mano largita un' alta onorifi-  cenza, od una lode schietta, non ti hai sentito  sussultare il cuore di gioia, riconoscenza e  compiacimento? Se nulla hai provato, dir  debbo che l'animo tuo è insensibile come pietra fi-edda di sepolcro! Garibaldi, Cavour,  Thiers^ lo stesso Bismark ed il grande taciturno tedesco ebbero fieri sussulti dell'animo,  quando la mano del gran re strinse la loro!   Discordanti ben vero appaiono le opinioni  circa il tempo e l'età nella quale Orazio fu da  Virgilio e da Vario presentato a Mecenate.   Molti sostengono (e si riscontra nelle me-  morie dei suoi moderni biografi) che siffatto  avvenimento accadde nell'anno 735 o 736 di  Roma, così che fanno succedere nel 737 il viaggio di O. con Mecenate a Brindisi  e quindi pochi mesi dopo questa data la pub  blicazione della satira quinta del libro primo  che ne descrive facetamente il viaggio , l  evoluzioni, gì' incontri avvenuti ed altri fat  terelli piccanti.   Ma nella Cronologia del Dacier, che devt  stimarsi la più esatta disposizione degli av  venimenti e degli anni nei quali O. com  pose le sue poesie, attenendosi ai diversi con-  solati sotto i quali O. accenna scrivere,  viene indicato il viaggio di Brindisi nel 716,  od in quel torno di tempo, cioè quando O. avea ventinove o trent' anni, e riesce ciò  più presumibile. Poiché nelle opinioni con-  trarie il poeta avrebbe fatto quel viaggio por-  tando sulle spalle mezzo secolo: ed avuto ri-  guardo alla sua salute un po' malandata ed  alla circospezione a conservarsi, ed alla sua  vita ritiratissima allorché vivea in Sabina e  rifiutava perfino gli inviti di Augusto, non  appare verosimile. Sia però come si voglia,  certa cosa é che Mecenate riserbossi nove  mesi per poterlo ammettere nel novero dei  suoi amici stretti.   O., erudito, giovialissimo, baldo, perchè adusato agli esercizii  aspri della milizia: sperto del mondo, perchè  provato dalle sventure e chiaroveggente: amante del vivere allegro, buontempone, re-  sistente alle libazioni dei cecubi e dei falerni,  uccellatore esimio di donzelle e facile ad ade-  scarle col vischio della poesia, dovea venir  ricercato nelle brigate e nelle accolte dei dotti  e dei viveurs di quel tempo.   Era bel giovane, se non bellissimo, e ne  menava vanto; ed i malanni della precoce se-  nilità (dovuta agli studii indefessi), siccome la  cisposità degli occhi ed i reumatismi, non  aveanlo ancora reso solibus aptum, né biso-  gnevole delle stufe calde di Cuma o delle  fredde docce di Chiusi e di Gubbio. Tutto ciò  fé' propendere la bilancia a suo favore.   Mecenate, gran conoscitore degli uomini,  ed indagatore minuzioso, specialmente trat-  tandosi di quelli che doveano essergli sempre  vicino e sui quali doveva fidare, lo volle con  sé, dopo nove mesi di prove ed indagini, com-  mensale ed ospite nelle sue splendide reggie.   Si sostenne (al dir di Svetonio) da taluni  detrattori del sommo poeta, che nel temp  in cui O. e presentato a Mecenate, ve  nisse pubblicata in Roma una lettera sua i  prosa, e dei versi elegiaci supplichevoli, co  quali, adulando il ricchissimo Mecenate, n  implorasse la protezione e l'accoglimento. Ms  calunnia (e Svetonio stesso lo asserì) apparv  più atroce e vile; tutto era apocrifo, si trat  tava di libelli infamanti. O. non piatì sup  plice nessun onore, provando in petto senti  menti di fiera libertà; sentiva troppo di sé  tanto che in luogo di adulare sferzava i cor  tigiani e lo stesso Mecenate sino a dargl  dell'effeminato e del Malchino. Il seguirsi de  fatti di sua vita e le proverbiali espression  di superbia che si notano nei suoi scritti, at  testano lalto grado della sua alterigia , fie-  rezza ed indipendenza. E non aveva poi h  carica autorevole e redditizia di scriba questorio in Roma ? E a lui, cui bastava tante  poco, a lui nemico del lusso e delle albagie  boriose dei grandi, come potette addebitarsi  tanta viltà ? Molti scrittori dissero O. es-  sere traduttore dei poeti greci. Frontone chiama O. memoriabilis poeta, e nient'altro.  È noto del resto che il gran Venosino nei  più antichi tempi non fu tenuto in quella no-  minanza altissima, come ora si tiene. *^)   Oh che gli uomini sogliono vedere sem-  pre il male nel prossimo, e fingono non ve-  derne il bene I   L'adulazione, gli omaggi resi da O. a  Mecenate ed Augusto, sono, derivati dal suo  animo riconoscente e buono. Mecenate lo  colmò di doni e favori. O. se l'ebbe a  gran fortuna ed insperata, e per aver ester-  nata la sua riconoscenza procacciossi la taccia di pettegolo e vile adulatore. Lessing ^7) così si esprime : « La  malizia regna sovrana negli apprezzamenti,  come nelle altre cose. Che un letterato espri-  ma le proprie idee sulla divinità in maniera  da rendersi sublime, esponga le massime più  belle sulla virtù, il volgo si guarderà bene  dair ammirare il cuore da cui partono siffatti  sentimenti, bensì gli si assegnerà la taccia  di stravagante. Se poi, al contrario, allo  scrittore sfugge il benché minimo biasime-  vole fatto , lo si dirà derivante da un cuore  cattivo, da un animo perverso. Così giudicano gli uomini!   Le massime così morali ed istruttive d  O., la sua circospezione, la sua religio  ne, la sua integrità, la sua indomita fierezza  il suo animo generoso ed affettuoso insieme  la sua amicizia, che si svelava sempre sin  cera e disinteressata, non furono bastevoli e  liberarlo dal dente della calunnia e dai vita  perii degr invidi ed ipocriti suoi ammiratori   Quando altro i suoi nemici non potetterc  fare, stabilirono la lega del silenzio, creden-  do che Toblio l'avrebbe ricoperto; ed infatti  ben pochi scrittori di quel tempo e soltantc  qualcuno dei sommi furono quelli che ricor-  darono O.   Oh stolti ! O. era stella sfolgoreg-  giante di propria luce! Oh quanti avrebbero spedito (e ne spe-  dirono certo, perché pregavano O. stesso  a presentarle, ed O. negavasi) suppliche  e petizioni a Mecenate per aversi quello  che O. ottenne per suoi meriti straor-  dinarii, e perchè forse a sua insaputa venne  aiutato da Vario e Virgilio, i quali indipendenti e sommi non mercanteggiavano  sulla virtù e suiramicizia ! O. conservò  sempre una virile dignità, né fu mai parassita o cortigiano di Mecenate, ma suo  amico fedele, e fedele gli fu sino alla morte  che li colpì, per istrana fatalità, insieme! Svetonio riporta l'epigramma faceto ed  amichevole che Mecenate ad O. diresse,  che molto spiega e rischiara :   Ni te visceribiis meis, Morati^  Plus jam diligo^ tu tuum sodaUm  ninno me videas strigosiorem,   (( Se io, o O., non continuerò ad  amarti più di me stesso, possa tu vedermi  ridotto più sfiancato del mio muletto. Al cardinale Ippolito d'Este, che non era  certo al livello di Mecenate, né per inge-  gno, né per ricchezza e potenza, e che ri-  volse all'Ariosto quell'esclamazione avvili-  ti va: « Donde traeste fuori, messer Ludovico, tante fanfaluche ? » Ariosto scriveva :   Fa che la povertà meno m*incresca^   E fa che la ricchezza sì non m*ami Che di mia libertà per suo amor esca.   Quel ch'io non spero aver fa eh* io non bramii   Che né sdegno ne invidia mi consumi . Si noti differenza di sentimenti !   O. così risponde al celebre giurecon  sulto Caio Trebazio Testa, che lo consi  gliava a celebrare coi carmi suoi immorta]  le gesta di Ottaviano:   Trebazio di Cesare tinvitto   Osa le gesta celebrar^ sicuro   Che ne otterrai ricca al lavor mercede,  O. cedono ineguali   A tanto desio le forze inferme fuor che in propizio istante. Mai non Jìa che di Fiacco accento voli)   Ma questa è apologia bella e buona, chse, sed  c( si tibi natura deest, corpuscolum non  « deest. ))   Dai quali brani si rileva che Augusto non  solo stimava Orazio al massimo grado, tanto  da temere che essendo le sue opere immor-  tali, non curasse d'immortalarlo in esse,  quanto eragli amico intrinseco e con lui so-  leva scherzare come con un suo pari. Ed  Augusto non addivenne l'erede testamentario  del poeta? Sono fatti che riescono incomprensibili a quelli che non vogliono riflet-  tere quanto grande sia la potenza del genio,  dell' arte ! Il volo sublime spiccato dal vate  venosino è un fenomeno che merita uno stu-  dio speciale, e non altrimenti possono spie-  garsi quelle poesie nelle quali la superbia  e lo sprezzo del volgo profano fanno ma-  nifesta quella grandezza sua, che chiarissima  a lui stesso appariva.  Di bronzo più durevole  Ho un monumento alzato.,.^  Non Jta che basti a chiudere   Me breve tomba intero   Dair imo suolo alt etere  Diran eh io seppi alzarmi  Primier su cetra italica  Cigno d* Eolii carmi,,,..  Superba or va^ Melpomene   Dei meritati allori   Tutto il terrestre spazio  È angusto a me confine,...   Non io   Da r urna e da la stigia  Onda sarò ristretto^  Già del figliuol di Dedalo  Io spiego ala piti ardita....  Laude fra tardi posteri  Farà ch'io, guai per fresca  Aura, arbuscel piti vegeto  Ognor m^ innovi e cresca..,.  La pompa è a me soverchia  Che r altrui tombe onora,.,. 34)   Colui che si esprimeva in questi termin  sentir doveva di essere di gran lunga supe  riore a tutto il resto degli uomini, e non rieso  incomprensibile che abbia potuto divenire i  favorito del potentissimo Augusto, siccom(  lo era del generoso Mecenate.   E che la superbia di O. fosse stafc    sprone ad acquisto di ricchezze ed onori e vuo-  ta supremazia sui suoi simili, patentemente  vien diniegato dal suo metodo di vita, dalle  sue massime radicate di sobrietà e morigera-  tezza, dal suo contentarsi del poco e godere  della parsimonia. Mecenate ed Augusto po-  teaii certo offerirgli più che un podere in Sabina, potean delegarlo proconsole in terre lon-  tane, dove sarebbe ritornato ricco come Lu-  cuUo; ma ciò sarebbe stato un offenderlo, un  ferire la sua suscettibilità, un recargli fastidio,  un attendersi un reciso rifiuto, perchè non  eran questi i voti del venosino.   È notorio che Orazio non usò altri di-  stintivi di onorificenze se non lanello e gli  ornamenti di giudice, ^5) ma valevasene sol-  tanto per accompagnare Mecenate nei pub-  blici ritrovi, perchè non amava certo che si  fosse detto che l'amico del potente signore  fosse un figliuol di liberto, bensì un cava-  liere che comandato aveva una legione ro-  mana!   Un poderetto in luogo ameno, salubre,  tranquillo e lontano dai rumori della gran  città, un tetto sicuro, la certezza di vivere agiato, la vicinanza ai suoi sinceri amici   protettori, ai quali dimostrava ad ogni p   sospinto la sua riconoscenza: ciò gli era ne   solo sufficiente ma sovrabbondante, e ne rii   graziava le divinità!   Ah che daddovero era una grand' anim   quella di Orazio venosino ! O divino Verd   o sommo Cantù, voi siete oggi esempi vi   venti di uomini immortali aborrenti dalla st   perba jattanza, e modesti, e cari ai popoli e   all'Essere eterno che vi stampò ! Riesce fs   cile notare nel passato, fatte le dovute ecce   zioni, taluni pure letterati od artisti, ai qual   riuscì appena in certa guisa a far risonar   pel mondo la tromba della fama, che non pii   si appagarono di piccoli poderi o rustich-   casette, ma bramarono s'innalzassero monu   menti a loro stessi viventi. Vollero onor   sommi , castelli , parchi , magnificenza , fra   stuono di accademie e di teatri, e scialo à  superare i re della terra ! LA VILLA SABINA  SvsTomo — Vitt ili Orma   L'ooohka eoM DgU kiL mlil non ibiHa,   Qu«l oh* poHl*d«: PIA qaaL poco i mto^...  Cari rfciuip « M mtJ crvLI. immL   Gaioallo Tra4. ili Orati I ell' esposizione della Promotrice  in Napoli si ammirava un  cjuadro ad olio, segnato O. in viiia,  dell'illustre pittore Camillo Miola, mio  amico, autore della Sibilla, del San-  sone al torchio, delle Danaidi, del  Plauto^ e di altre pregevolissime tele riguar-  danti r antichità, e dì cui l' Illustrazione italiana fa elogio sommo, dichiarandolo uno dei migliori artii  moderni d' Italia.   Ed invero chi esamina quel quadro st  pendo yien compreso d' ammirazione p  l'arte e per la precisione storica che vi  nota. Non palagio cinto da portici, o i  parco, o da aiuole fiorite, non statue né ca  celli con grifoni e sfingi di bronzo; ma ui  modesta costruzione nascosta da un altissin  albero, sul quale si arrampica un cespo g  gantesco, che lo fa assomigliar ad un eno  me roseto; con semplicità di colore, con pi  cola corte, con finestrette modeste, da un  delle quali pende una gabbiolina con un  capinera, e da cui compare il busto di On  zio che maschera una vaga donzella, dell  quale si distinguono solo le belle fattezzrini e Batillì imberbi con lunghe chiome, che  saltellando ed agitando nacchere e tirsi, si  versan dalle anfore colme vini prelibati rac-  colti nel podere. Una capretta randagia presso  il rustico cancello di legno, apparisce spetta-  trice innocua di quelle piacevolezze campestri.  Basta veder quel quadro per formarsi una  idea della proprietà che Orazio si ebbe in  dono da Mecenate, unico dono che la sua  modestia aggradì, e che confaceva al suo  ideale.   O. cosi enunzia la topografìa del suo  podere rustico:   Tutto di monti una catena il forma^  Se non che t interrompe opaca valle  Ma così^ che sorgendo^ il destro lato  Ne copre il sole^ e con fuggente carro  Cadendo^ il manco ne vapora. Il clima  Ne loderesti) Nella terza satira del secondo libro per  la prima volta parla di tal dono che gli venne  fatto da Mecenate quando  cioè Agrippa fu edile. Perchè, siccome opina  il Dacier, nella sua Cronologia delle opere  oraziane, tale satira in quel tempo fu scritta. Ed O. ringrazia cordialmente Mece-  nate per tal dono che gli giungeva nel suo  trentesimosecondo anno di età.   La voracità del tempo che ogni traccia  di opera distrugge ed oscura, fece del tutto  scomparire le vestigia della villa di O.  in Sabina. Solo la pertinace ricerca dei suoi  ammiratori, e la religione che accompagnò  i dotti archeologi nel voler rintracciare i ru-  deri di tal fabbricato e podere, guidati dal  lume nello stesso O. nelle descrizioni  che ne fa nelle sue opere, fece in questi ul-  timi anni stabilire il luogo preciso, la con-  formazione e r area dove quella villa sor-  geva, e dove il gran poeta, al dir di Sve-  tonio, visse molti anni nel ritiro fin secessu)  e nella quiete. Ch. Guill. Mitscherlich, dotto filologo prus-  siano, nelle sue Racemationes venusinae; Obbario, nelle sue no-  te sulle epistole oraziane; e principalmente  r opera che X illustre Chaupy pubblicò in Roma sulla Scoperta  della casa di O., possono offrire prezìose notizie sulle ricerche pazienti e sulle in-  vestigazioni profonde e minuziose fatte per  dar luce chiara a tale obbietto.   O. disse che al suo piccolo fondo bastano cinque lavoratori per menarlo a coltura, i quali andavano a smerciarne le der-  rate a Varia, piccola città lambita dall' Aniene,  ed avean tutti alloggio nei fabbricati adia-  centi a quelli che lui stesso abitava, e dove  ciascuno soleva vivere con la propria fami-  glia, tanto che dai fumajuoli delle cucine, sul  far della sera, sprigionavansi cinque nuvo-  lette azzurrognole che ne indicavano il ru-  stico convito (cinque fuochi), ed il soggiorno  tranquillo.   Si costuma tuttodì dagli agiati proprietarii  di terre nelle province meridionali di vivere  nel proprio fondo circondati dai rispettivi  coloni, e r occhio vigile del padrone non  nuoce alla prosperità di esso.   Si comincia pure oggi a comprendere dai  ricchi possessori di latifondi che la pigra vita  delle popolose città non ridonda a vantag-  gio della loro fortuna. Si creino pure ca-  stelli, e si viva in essi, ma si faccia dimora presso la sorgente, donde si ricavano quel  ricchezze che rendono disuguali gli uomii  fra loro. Si renderebbe così possibile e pei  donabile tale disuguaglianza! Il principale castaido di O. dovev  nominarsi Davo, marito forse a quella Fi  dile alla quale dirige consigli savissimi  salutari con una sua epistola. Davo esser do  veva un cattivo castaido, come lo son per h  più quei villici che abituati da tempo a fa  da padroni nel fondo, mal vedono un nuo  vo signore venire ad imporre ad essi leggi (  dettami ed a sorvegliarli. O. lo rimbrotta  acremente in una satira, ^s) perchè nelle fe-  ste saturnali, solendosi concedere ai subal-  terni piena facoltà di esternare i proprii sen-  timenti senza poter venire redaguiti dal pa-  drone, ancorché gliele cantassero amare,  (e tal costume si è conservato sin negli ul-  timi secoli scorsi, e Tansillo, venosino, nel  suo sudicio e laido poema, che intitolò //  yendemmtatore^vciostvò quanto quella libertà  possa degenerare in licenza) svela il suo  animo protervo, indocile e poco amante delle  rusticane usanze e prosperità derivanti dalle buone e fertili annate, e dall' amor del suolo  opimo; che anzi si svela amante dei piaceri  della città per quanto spregiatore delle gioje  campestri, e sotto la veste del campagnuolo  si nasconde un guattero tralignato, ed un  operajo invido ed infingardo.   Davo prima di entrare nel podere aveva  servito dei signori romani nell* ufficio di  mediastmus. Si figuri il bel tomol   Il fondo si componeva di una selvetta ce-  dua (dove al poeta successe quel fiero in-  contro col lupo, ed un dio propizio lo fé'  restare incolume) ricca di elei ed altri alberi  ghiandiferi che servivano ad alimentare le  piccole greggi. Vi si godeva nell* estate fre-  scura e raccoglimento. Eravi un pomiere, ed  un orto, nei quali pruni, susini e cornie ab-  bondavano, con diverse altre specie di frutta  delicate : né mancavano ulivi; tanto che ben  potea dirsi di ritrovarsi a Taranto. La vite  poi formava la parte più ricca del fondo, e  dalla quale Orazio solea distillare quel cele-  brato vinello che non disdegnava far gusta-  re al palato di Mecenate.   Nel mezzo del fondo scorreva un rivolo  di acqua freschissima, che ricascando in gt  terelli e piogge, e purificandosi lungo le ghi  je, formava poi una fonte limpida e crisfc  lina da potersi paragonare al celebre fon  Bandusia, che versava le sue pure linfe pres;  la patria del poeta, e che ancora oggidì qu  di Palazzo S. Gervasio chiamano Fontah  di Venosa, presso il bosco di Banzi. La   fontana   D* acqua perenne a la magion vicina,,, '9>   è appunto \ attuale fontana degli Oratir  presso Tivoli. Il fonte Bandusia sta press  Venosa nella strada che mena a Palazzo £  Gervasio, e X ode ad esso fu improvvisai  da Orazio in una gita a Venosa per cacci,  o diporto.   Erroneamente si confondono queste du\ cioè morirà il mio  corpo marcescibile, ma Y anima mia soprav-  viverà I In che cosa si discosta dalle credenze  del cristianesimo, se si cangiano i nomi alla  divinità che dall' alto dispone, assiste e protegge?   O Jehova, o Dio, o Giove, uno è il prin-  cipio, r esistenza d' un essere soprannaturale  che tutto vede e dispone, e che premia o  punisce. Non è la sommissione buddistica,  bensì la virile sommissione ad una forza on-  nipotente. Orazio diceva:   Che Giove fra celesti   Tien regno ^ il tuon creder ci feo primiero. ^^   E Vittor Hugo in questi ultimi tempi, ben-  ché ammantato di scetticismo volteriano, gri-  dava: // est, il est, il est! **)   A tali credenze religiose mescolandosi la  -c(a più dolce salsa alle vivande  Procaccia col sudor. 5^)   Soleva in compagnia dei suoi familiari ed  alle vezzose ancelle od amiche, aggiungere  a queste semplici vivande un buon bicchiere  di vino schietto e leggiero, che essi mede-  simi avevano manipolato dopo la gioconda  vendemmia.   La sua mensa era linda, lucente, bianca,  sulla quale campeggiava un vasello emble-  matico ripieno di sale: e V aveva per caro  auspicio e quale usanza religiosa.   Il sale ha avuto grande importanza in tutti  i tempi, persino nei culti. Presso gli Israe-  liti serviva per purificare e consacrar la vit-  tima nei sàcrifizii. L' acqua santa nostra è mista al sale. Questa sua grande mondezza,  non lo dissuadeva dall' invitare a convito  amichevole, oltre ai suoi amici di condizione  eguale alla sua, siccome Torquato, Settimio,  LoUio, Quinzio Irpino, oppure delle donzelle  di vita allegra ed avvenenti, come Fillide,  Glicera, Cloe, Tindaride, anche il gran Mecenate, al quale scriveva:   n nauseoso lusso   ammirar cessa.   Grato ben giunger suole  Sovente ai grandi il variar di scena.  Cerca mensa frugai^ là dove ammessa  Non è pompa d^ arazzi^ e non di porpora  In pover tetto fa sparir le impronte  Che affanno incide in accigliata fronte.  Viriti m' è schermo^ ed il seguir m' è pregio  Povertà senza fasto e senza sfregio)   Ed in tali circostanze straordinarie mo-  strar si soleva galante a modo suo. Inco-  minciava col prevenir gli amici che se con-  servavano vino miglior del suo, Io portas-  sero pure alla sua mensa che non se ne  sarebbe offeso, anzi ne avrebbe bevuto un  bicchierino di soverchio alla salute del do-  natore. O. ammetteva che il vino rinfocolasse  l'estro poetico, e perciò mal soffriva sedessero  al suo desco gli astemii, sostenendo che pu-  tirono di vino sin dall' alba le dolci muse.   Prometteva ai commensali che li avrebbe  collocati nel triclinio ciascuno presso a per-  sona che non gli riuscisse antipatica o me-  ritevole di troppe cerimonie. Né disdegnava  riservare il posto ai più gai, ai più giovani  e baldi, presso quelle generose donzelle ro-  mane di bellezza e brio regine. La gentilezza, poi, formava il principale suo pensiere.  Così scriveva a Torquato:   Già il focolare da un pezzo e le stoviglie   Splendon rigovernate a farti onore   A bere^ a sparger fiori io già son primo, Che sozza coltre   Che sordido mantil non giunga il nc^so  Ad aggrinzarti^ che il boccale eh' il piatto  Tal non sia che specchiarviti non possa)   Né gli piacevano numerosi convitati, ma  pochi, cari e buoni:  Che caprino sentore ammorba i troppo  Folti conviti. Riesce in vero gradito e dilettoso figi  rarsi in mente il nostro O., re del coi  vito, con quel suo faccione pieno e rose^  ilare, faceto, coronato di rose, levigato  terso colla cute, da sembrare un majaletl  lustro e pinzo.   Levatosi da letto, soleva andarsene a zoi  zo per la sua terra, e dilettavasi a smuover  glebe e sassi, adocchiare i filari delle vit  curare gì' innesti delle piante e degli albei  da frutta; della qual cosa solcano ridere  vicini) i quali conoscendo come Grazi  frequentasse la corte, e che di Augusto e e  Mecenate e di altri potenti fosse familiare  non poteano persuadersi di questo suo amor  per così rustiche e basse faccende campe  stri. Non riflettevano essi che nella ment  del venosino eravi fisso, incardinato il « m  admirari y> secondo l'opinione di Laerzic  e di Democrito. Orazio era dotato di « aia  raxia » e le grandigie, il fasto, il lusso nor  lo lusingavano punto, anzi ne era al somme  disgustato, siccome ritrovava diletto in quelle  sue. umili occupazioni. Ecco il suo savie  consiglio: Alma al ben fare accorta   Tu serbi •   inflessibile   A V oro abbagliator d* ogni pupilla. 57)   E dopo le escursioni nel podere ponea  mano a coltivar lo spirito, scrivendo, leg-  gendo, meditando.   Solca poi di tratto in tratto recarsi nella  gran città, in Roma, sia pel disimpegno della  sua carica di scriba della questura, sia per  altre faccende, sia per coltivare le amicizie  di Augusto, di Mecenate e di altri che egli  stimava, principalmente versati nelle lettere  e nelle scienze. Ma sen ritirava sfinito, perchè  la folla dei postulatori, degl'intriganti, dei  finti amici invidi e malvagi, degli zingani,  dei ciurmatori, ruffiani, baratti e simili lor-  dure, e dei molestissimi e garruli falsi lette-  rati non lo avevano risparmiato.   villa, e quando io rivedrotti^ e quando  Potrò dei prischi saggi or fra i volumi  Or tra il sonno e le pigre ore oziose  Trarre de V egra vita un dolce oblio ì  Li fave^ al Sannio, in parentela aggiunte  E i buoni erbaggi come va conditi  Nel pingue lardo, oh quando avrò sul desco I  notti I cene degli dei^ dov* io  Presso il mio focolar coi miei m' assido^  E mangio^ ed alla vispa famiglinola  Dei servii nati dai miei servii io stesso  I già libati pria cibi dispenso! S^) Della sjpa persona soleva avere som  cura, perchè quasi giornalmente immerge  nel bagno, e dopo ungere si solea di o  profumato e finissimo. Nel vestire most  vasi dimesso e noncurante, ma non pe  privo di gran pulitezza o da potersi dir  come vuole san-  to Attanasio, al dir dello stesso Lupoli e del  Farao. ^^) Non mi è quindi riuscito straordi-  nario ed inesplicabile quanto in appresso  verrò esponendo circa le consuetudini do-  mestiche d’O..   Nelle molteplici edizioni delle opere del  sommo poeta, le quali riportano la sua bio-  grafia redatta da Svetonio Tranquillo, ho  rilevato che si è tralasciata una notizia in-  teressante che riguarda una sua pratica oc-  culta, la quale può ben riferirsi al culto sur-  riferito di misticismo caldaico.   La vita di O. composta da Svetonio  Tranquillo, che è l’unico che scrive del  gran venosino pochi anni dopo la morte di lui, e che fa accrescere certezza alle investiga-  zioni fatte neir analizzarne le opere, si compone non più di una sessantina di versi di  stampa. Tutto è laconico e scritto fugacemente, come se si trattasse d’un cenno necrologico. Sembra che Svetonio abbia vo-  luto far notare con certa diffusione Solo l'a-  micizia intima che legava O. ad Augusto,  ed in essa si dilunga, fornendo preziosi brani  di lettere. La quale riproduzione di brani di  lettere di Augusto ad Orazio dirette forma-  vano forse il soggetto che per la maggior  parte dei contemporanei destar doveva in-  teresse maggiore, e far di O. un uomo  agli altri superiore per tanto onore. Il brano  della biografia che è stato cancellato (forse  per purgarla), V ho rilevato da un' edizione  olandese delle opere di O. pub-  blicata da Bond,  che la prima volta comparve in Londra nel  1614, e dopo se ne riprodussero diverse al-  tre edizioni intere, ed è il seguente:   (( Ad res venereas (Horatius) intemperantior traditur nani speculato cubiculo scorta  dicitur , habuisse disposila , ut quocunque  respextsset, tòt et imago e referretur. Formava adunque per Fiacco un culto  (( / ars Venerea » , ed egli addimostrava-  sene tanto fervente, perchè nato nel luogo  ove sorse il primo Succoth-Benoth. Nella  cennata antica cronaca venosina del Cenna ,  il quale era pure investito della prima di-  gnità del capitolo dell' insigne cattedrale di  Venosa, si leggono i seguenti versi che rinforzano la mia assertiva: « Alcuni, e spe-  tialmente Nicolò Franco nelli suoi Dialoghi,  vanno dicendo che Horatio Fiacco fusse stato  in sua vita di costumi osceni, il che tutto  è falsissimo, siccome lo testifica Ludovico  Dolce nella vita di esso Horatio. » E Sivry, eccelso poeta, nel suo poema. « L Emulation »  va all'eccesso contrario, proclamando O.  (( modéle de bravoure et de chasteté. »   Ciò che forma adunque l'addentellato al  dispregio di molte produzioni oraziane, viene  per tal riguardo distrutto ; considerando che  la sporcizia e l'oscenità, non erano poi in quei  tempi una qualifica essenziale dell' immoralità e della disonestà. Egli stesso ripetuta-  mente bersaglia, bistratta, dispregia e colpi-  sce gli adulteri, i violatori delle vergini,  gl'incestuosi I Eran questi per lui grimmo-  rali ed i disonesti. E se non è questo il cor-  reggere i costumi, qual altro fondamento di  morale, mancando la cristiana, poteva offrir-  gliene sostegno ?   Egli rampogna acremente i Romani d' ir-  religione e lascivia. Egli volle vivere sempre  celibe. Del nodo d'Imene aveva tale concetto  d' alta responsabilità che non volle allacciar-  sene, né restarne tenacemente avvinto. La  moglie di Mecenate gli forniva un esempio  troppo splendido d* incostanza, infedeltà e  disonestà. Terenzia seguì Augusto in Asia  abbandonando lo sposo. E non parea conve-  niente al sagace venosino far la triste figura  di Mecenate, intendendo professare V opi-  nione di Seneca a tal riguardo, quando com-  pose la biografia del marito dell' infedelis-  sima Terenzia.Il suo celibato vien confermato dal non  aver scritto mai carme o verso per donna  che fosse stata sua moglie. E lo dice esplicito e chiaro nell'ode 8* del  libro 3^:   Te Mecenate il rimirar sorprende  Che vivo cespo ardente^ e incensi^ e altari^  Io cèlibe^ di ?narzo a le calende   E fior prepari.    E solo ad un celibe sarebbe convenuto far  pompa di tante conoscenze di cortigiane e  donne allegre. Lagage, Gige, dori, Barine,  Foloe, Leuconoe, Noebule, Lidia, Neera,  Glicera, Tindaride ed altre dimostrar posso-  no, essendo state amanti riamate di Orazio,  che se egli non aveva moglie, godeva non  poco del benefizio inapprezzabile di essere li-  bero e celibe. ìÀjiS^Ì   se. "*-Sj   GuOALio  Tml. di Orm  , N moltissimi punti delle opere di  Orazio appare che nella sua mente  elevata si presentava l'immagine della  morte, questo indecifrabile, nebuloso,  oscurissimo problema, questo fatto in-  cognito, pauroso e spaventevole. E dir  ch'egli covava in petto un cuor di ferro, e so-  steneva che:   Con impavido ciglio   Se delteteree spere in pezzi infrante. Valta compage piombi   Sotto il suo minar Jia che s* intombi, ^^s)   Non poteva con tutto ciò esimersi da quella  paura istintiva, da quel senso di terrore in-  generato dal dover mancare alla vita, dal do-  ver brancolare nelle tenebre dell'ignoto. Nato a morir   Tutti attende alfin quella profonda   Che non conosce aurora unica notte Hctssi un giorno a calcar la stigia sponda Presto rapì t inclito Achille morte   E a me ciò farse offrir vorrà la sorte   Necessità di morte   Getta sovra ciascun   Legge crudeli Ma pazienza mitiga   Ciò che non ha riparo   Tutti spigne tal forza ad ugual meta   Che a pugnar seco è mortai forza inabile)   Tutta la sua filosofia: le massime di Democrito e di Epicuro, che facean precetto  essenziale di dispregiare e non curare gli  orrori del sepolcro, non bastarono a toglier  questo pensiero ftinestissimo dalla mente di  lui. In mille maniere lo rimuginava, lo com-  mentava, compiacevasi tormentarsene. La lu-  ce ed i fulgori delle verità cristiane non gli  rischiaravano l'intelletto e non gli molcevano  il dolore, promettendogli una patria lassù,  sulle sfere, patria immutabile, bella d' ogni  godimento ed allietata dalla vista di quel Dio  rimuneratore e buono ed onnipotente.   Ammetteva Y Èrebo e Y Olimpo, come so-  levansi ammettere quei miti inverosimili ed  incredibili, che acchetavano la bramosia di  quei popoli privi di una fede consolatrice,  che prometteva la beatitudine ventura come  compenso alla vita onesta e laboriosa.   Dato che il piacere terreno formar do-  vesse la meta della felicità, che poteva spe-  rarsene dalla vita futura? Il nulla, la distru-  zione completa, la particella della materia  andava a ricongiungersi alla materia: Noi cadendo  Nella notte che non sgombra  Più non siatn che polve ed ombra .  Degli anni il breve termine  Vieta ordir lunga speme:  V ombre favoleggiate e la perpetua  Notte già già ti preme)  Nella distruzione completa del suo essere  O. ammetteva che soltanto una parte di  se stesso sopravviver dovesse eterna: cioè il  frutto dei suoi sudori, il suo monumento:  r anima sua.   E tale credenza, che non era dubbio, gli  scusava la fede nel!' immortalità dello spi-  rito umano.   L* (( omnis moriar », espressione tanto  concisa per quanto chiara, spiega che non  eravi dubbio in lui neir immortalità del-  lanima. La paura della morte comune a tutti,  sebbene con tanta jattanza, dalla maggior  parte apparentemente sfidata, più che O. vinceva il suo protettore , Mecenate. E  siccome la paura è attaccaticcia e conta-  giosa, O. non addimostravasi meno al-  larmato di lui. E tal pensiero dominante  trapela nelle sue opere, come quell'altro,  che lo mordeva sordo, della nascita vile ; né  bastavagli a frenargli la lingua, la sua for-  tezza e valentia. La paura della morte era  così possente in Mecenate da fargli dettar  quei versi riportati da Seneca, che non  fanno grande onore al valoroso romano:   Vita dum superest, bene est  Hunc mihi vel acuta  Si sedeam cruce^ sustine ! Tanto grave e scoraggiante riusciva per  lui tale idea, che avrebbe meglio amato ve-  nire inchiodato in croce come l'ultimo dei  malfattori e vivere, che farsi tragittar da Caronte nella palude Acherontea.   Orazio venivalo consolando con teneris-  sime espressioni, perchè O. non era codardo, né intendea scoraggiarlo maggior-  mente. Ma le sue espressioni non appro-  davano gran che. Tentò alfine porre in ope-  ra il savio consiglio, che la pena gli sa-  rebbe venuta scemata sapendolo compagno  nel dolore, ed è perciò che gli dice senza  essere scevro di paura :   , Non piace ai numi   Che i tuoi si spengano pria dei miei lumi  Un dì medesimo fia d* ambi estremo  Ne il voto è perfido, inseparabili  Andremo^ andremo. Che pria se muori  Pur teco air ultimo comun mi trovi  I nostri unanimi fuor S ogni esempio  Astri consentono 69)   E tale profetica consolazione, per istrana  fatalità, si verificò pur troppo. Non è lecito  veder tutto con tinte soprannaturali. Buona  parte di quello che molti direbbero spirito  profetico attribuir si deve alla paura della  morte che premeva così Mecenate come O. E la paura, il dubbio dell' ignoto, non  è vigliaccheria, bensì è innata nella natura  umana. Anzi prode è colui che questa paura  affronta, e guarda imperterrito quella figura  armata di falce, sfidandola sui campi delle  battaglie, al letto degli appestati.   Se non vi fosse terrore e spavento istin-  tivo del morire, quale prodezza, qual valentia  sarebbe affrontare impavido la mitraglia e le  pesti, il mare irato ed il baleno delle armi  nelle tenzoni cavalleresche? L' amistà che legava Mecenate ad Orazio,  il sentirsi quel grande consolato da lui così  coraggiosamente lo fecero memore del poeta  che l'assisteva nelFora estrema a preferenza  degli altri. Nel suo testamento scriveva ad  Augusto, al dir di Svetonio: (c Prendete cura  di O. Fiacco come prendereste cura e  terreste memoria di me stesso I »   E riesce veramente straordinario come,  morto appena Mecenate, che era già soffe-  rente e presentiva la propria fine , dopo  pochi giorni, un subitaneo malore colpì il sommo filosofo, da non lasciargli neppure il  tempo di dettare in iscritto le sue ultime vo-  lontà. Andonne misteriosamente a raggiun-  gere r amico neir ima notte, siccome aveva  promesso.  O.  morì a Roma, essendo consoli Caio Mario Censorino e Caio  Asinio Gallo, nell'età di anni cinquantasette,  due mesi e qualche giorno, cioè nel dì 27  novembre.   Già da qualche tempo varcati i dieci lu-  stri, O. non senti vasi sano: accusava sof-  ferenza ai nervi e malinconia che accom-  pagnar sogliono per lo più quelli che tra-  scorrono molte ore del giorno a logorarsi  la mente coi severi studii. Perchè i visceri si  rendono sofferenti per le occupazioni men-  tali, e defatigata la mente, la tetraggine  invade il cervello , principalmente quando  gli anni incalzano.   In una lettera che il poeta scriveva ad  un compagno d'impiego nella questura, Cel-  so Albinovano, suo amico, ma che giunto al-  l' apogeo della grandezza, perchè ben ve-  duto e careggiato dal giovane Nerone, erede dell' imperio, mostravasi altezzoso e superbo  (sebbene non manchi la nota sarcastica, ben-  ché infermo , per questo favorito di ven-  tura) così diceva :   Dritto né ameno è di mia vita il corso^   Perché men della mente sano   Che delt intero corpo^ udir vo' nulla,  Nulla imparar che il morbo sgravi, I fidi  Medici fanno orror, gli amici restia  Perchè al sottrarmi al rio letargo intesi. 7o)   Ed a Mecenate . scriveva :   Ma di cor debil troppo e troppo infermo  Me conoscendo^ chiederai tu quale  Il mio far possa al tuo periglio schermo ?... 70   Col corpo affranto dal peso degli anni,  dalla vita trascorsa nelle fatiche mentali e  nelle avventure e nei godimenti venerei,  sopraggiunse ad O. la nuova della mor-  tale malattia del suo Mecenate e la fine dì  questo. Il colpo fu troppo violento e dovea  riuscirgli fatale. La sua fibra debole non  poteva resistere. Pomponio Porfirio, che con  lo scoliaste Elanio Acrone, dilucida le la-  coniche note di Svetonio, circa la vita di  Orazio, dice che lo stato suo di salute era deteriorato assai con gli anni, che non gli  conveniva più restar l'inverno nelle monta-  gne della Sabina, nella sua cara villa : che  svernar soleva a Tivoli (ed egli stesso lo  scrisse) come il luogo più aprico: ce Tiburi  enimi fere otium suwn conferebat , ibique  carmina conseribebat.ì) E Tivoli desiderava  Orazio infermo e pensava morirvi là. Così  egli scriveva al fido amico Settimio:   Oh tregua al vecchio fianco   Tivoli dia   Quivi piagnente di pietosa stilla   Spargerai la calda delt amico vate favilla. 7^)   Certuni erroneamente attribuirono la mor-  te di O. a suicidio, tanto apparve strana  la coincidenza della sua con la morte di Me-  cenate. Ma deve venire del tutto bandita  tale idea per le seguenti ragioni. O.  dei suicidi soleva fare aspro maneggio, soleva dileggiarli; e la storia di Empedocle di GIRGENTI  che ricorda ntìV^rfe poetica, chiaramente  lo dimostra. Empedocle per desio di molta  vanagloria e prodezza, invano precipitossi  neir Etna. Ma la sua pantofola ne tradì la  inutile bravura. Esaminando imparzialmente e con co-  scienza la vita di O., si nota che ogni  sua cura si volgeva a conservarla, sia che  militasse a Filippi, sia che vivesse in Sabina. Era poi tarchiato ed obeso, e quindi  facilmente proclive all' apoplessia. Che era  già fiacco e malandato in salute nel suo  undecimo lustro. Che il dolore della per-  dita del suo più caro amico e protettore  Mecenate (egli così amante degli amici e  riconoscente) doveva avergli prodotto tale  un rincrudimento dei suoi malanni da dar-  gli la morte con colpo apopletico. E son  numerosi gli esempii di fratelli od amici  ancor forti e vegeti , che, toccati dalla re-  pentina disparizione d* un fratello o d' un  amico, li han seguiti immantinenti nella  tomba sopraffatti da colpo di malore vio-  lento.   Non altrimenti deve pensarsi di O.. E  che fu tale il suo genere di morte lo prova  poi chiaramente il non avere avuto il tempo  di tesser un elogio funebre al suo sommo  protettore Mecenate, che aveva assistito negli  ultimi momenti, mentre lo fé' con Virgilio e con altri. Eppoi non ebbe forza di scrivere  il proprio testamento.   Svetònio dice: (c Quum urgente si va-  letudinis non sufficeret ad obbligandas testa-  menti tabulas . Dovette avvalersi di quello che, dice Giustiniano, prescrivevasi dal giure civile di  quel tempo, cioè della prova testimoniale di  sette cittadini, che dinanzi notaro provarono  esser volontà del moribondo O. che l'imperatore Augusto fosse il suo erede, Orazio  per decidersi a lasciare erede \ imperatore ,  che consentì ad accettare \ eredità, doveva  esser fornito di non pochi beni di fortuna.  Che di fondi, che di valsente doveva aversi  senza manco veruno un buon dato, stante  la sua parsimonia. E lo certifica Svetònio  quando accennando alle largizioni di Mecenate e di Augusto dice: (( Unaque et al-  tera liberalitate locupletavit. »   Ma delle sue sostanze rimaste non appare vestigio od accenno, meno della villa  e del podere in Sabina, che han formato,  come si disse, la paziente investigazione  dei dotti archeologi e degli ammiratori  del grande filosofo. L' aver lui posseduto poderi in Taranto, a Tivoli od a Roma, non  è che una supposizione dei comentatori  delle sue opere, che di. ciascuna sua aspirazione han formato un dominio. Mentre  chiaramente Orazio, nella sua diciottesima  ode del secondo libro dice: (c Satis beatus  unicis sabinis. » La quale esplicita dichiara-  zione formò la base delle rimunerate inve-  stigazioni archeologiche del Capmartin de  Chaupy, siccome si accennò parlandosi della  villa oraziana. Che anzi in Taranto è comune  r idea falsa che Orazio si avesse colà un po-  dere nel luogo detto ce Le Leggiadrezze ».  Ma per quante ricerche siansi fatte dai dotti,  principalmente dal Tommaso Nicolò d' Aquino, autore dell'opera Delle delizie Tarantine, da Giambattista Gagliardo nella sua  Descrizione topografica di Taranto, e da Ate-  nisio Carducci, illustre letterato tarantino,  nella sua versione dell' opera del Aquino,  con note, non si è potuto affermare che O.  avesse dominio in Taranto, ma soltanto ohe  vi avesse fatto delle brevi escursioni per  isvago. In Venosa poi, sua patria, non evvi   vestigio di casa o podere a lui od ai suoi  appartenuta, dovendosi credere erronea V as-  sertiva di Cenna, venosino, nella sua  cronaca manoscritta, più volte mentovata,  della città di Venosa del 1500, nella quale si  dice aver posseduto Orazio una casa presso  le antiche mura della città, a levante, forse  alludendo a quella che si accennò nei capi-  toli precedenti, appartenente ad uno della  tribù Grazia romana, e di cui ritrovossi iscri-  zione. E da tale ipotesi lascia derivare che  dalle finestre di quella sua abitazione in Ve-  nosa, Orazio spaziasse con lo sguardo sopra  vastissime campagne, e da quella veduta  venisse ispirato a dettare i versi : « Lauda-  turque domus longas quae prospicit agros. »  Perché non riferire invece con maggiore pro-  babilità air agro Sabino ? Ciò si dimostra  chiaramente erroneo, quando si riflette a tutto  ciò che si è riferito nei capitoli precedenti  circa la dimora di O. in Venosa, ove  si trattenne solo adolescente : circa la con-  fisca di tutti i beni della sua famiglia, perchè  seguace di Bruto, e particolarmente per non  averne fatto il menomo indizio in tutte le sue opere. Venosa ai tempi di Orazio era  cinta da fitte boscaglie, e la lunga esten-  sione dei campi asserita dal Cenna è un  sogno.   Che O. abbia fatto in Venosa qual-  che rara apparizione , forse per diletto ed  in compagnia d'amici, lo lascia desumere  soltanto r ode al fonte di Bandusia, che  rumoreggiava con polla cristallina ed ar-  gentea nei fitti boschi di Banzi , dove es-  sendosi recato O. a cacceggiare od a  merendare, dovette improvvisare quei versi.  Ciò a seconda dei pareri dei più dotti illu-  stratori delle sue opere.   O., come si disse, nacque a dì 8  dicembre del 689 dall' edificazione di Roma,  essendo consoli Lucio Aurelio Cotta e Lucio Manlio Torquato. Morì a Roma, consoli C. Mario  Censorino, C/ Asinio Gallo, cioè nell' età  di anni cinquantasette. Acrone scambia però,  per errore dei copiatori delle sue opere , il  numero LXXVII per LVII, assegnando ad  O. anni settantasette. Ma Pietro Cri-  nito asserisce: « Alti supra septuagesimum annum vixisse scribunt, quod ego tamen fai-  sum existimo. »   Ed Eusebio, nelle sue cronache, siccome  Svetonio, ritengono con precisione gli anni  della vita di Orazio essere stati cinquanta-sette, il primo dicendolo morto nell’ anno di Augusto, il secondo asserendolo  morto nelle date surriferite, e riportando i  consolati rispettivi sotto cui nacque e morì ;  dai quali limiti precisi estremi non è lecito  discostarsi.   Il suo cadavere venne trasportato , tra  il compianto universale, in Roma, (non è  indicato da alcuno antico scritto il luogo  preciso ove morì), e rinchiuso nella tomba  della famiglia Cilnia. Dacier sostiene, nelle  sue annotazioni alla vita di O. di Svetonio, che Mecenate possedeva un superbo  palazzo suir Esquilino, e presso ad esso  una tomba monumentale. In questa ripo-  sarono Mecenate ed O.. Mecenate ed  O. vissero amicissimi, intrinseci, vera-  mente uniti di pensieri e di amore ; benché  l'uno nato di reale famiglia e di sangue  purissimo, e X altro figliuol di liberto.Una possanza inesplicabile ed onnipotente  li fece incontrare, divenire tra loro stretta-  mente simpatici, e quindi insieme dormire  nello stesso Ietto V ultimo sonno I   Di Mecenate i tardi posteri ricorderanno  le gesta e la gloria pel suono reboante della  tromba della fama procacciatasi col proteg-  gere generosamente quella schiera immor-  tale di uomini che vissero nel secolo di Au-  gusto. Il gran venosino vivrà eterno pel suo  nionumento. È tutta sua la gloria che fa  semprepiù, col trascorrer dei secoli, stupire  l'umanità, e che non cesserà sinché traccia di  vita sarawi sul globo.   Del sommo poeta non si conservano sta-  tue antiche o figure nei monumenti da po-  terne precisare la struttura corporale ed i  lineamenti. Ma dalle sue opere ne appare  tanto chiaro il ritratto, che basta coordinare  le parole che si riferiscono al suo fisico, per  vederselo innanzi vivo e parlante. Egli de-  scrive con certa vanagloria la lussuria dei  suoi capelli d' un bel color d' ebano , che  ombreggiavangli la fronte virile e balda, ma  che gli anni e le cure aveano resi argentei. Questi hanno improntata una certa tinta di  pazzia benigna, che in luogo di ammira-  zione suol destare compatimento, antipatia e  ribrezzo. Le cellule del cervello, Y involucro  osseo che le ricopre, il corpo umano, non  han bisogno di quella veste esterna non  naturale, oppur naturale, sian cenci o por-  pore, adipe, globuli rossi, magrezza estrema,  capelli o calvizie per foggiare un genio od  un cretino I Si può essere profondo filo-  sofo, saggio come gli antichi della Grecia,  e conservar forme aristocratiche, linde, ma-  nierose, affabili, con un corpo formato al  pari di Antinoo. O. ne sia esempio lu-  culento, e Foscolo e Byron e Leopardi  negli ultimi scorsi anni così difformi tra  loro.   Assicura Giuseppe Ilario Eckhel, celebre  antiquario austriaco, nella sua opera « Doc-  trina Nummorum » e lo conferma Masson  nella sua vita d’O., nel capitolo inti-  tolato De Horatii effigie, essersi rinvenuti dei medaglioni di metallo, terminati  nella loro circonferenza con un cerchio da  tre a quattro millimetri di larghezza, e che  possono ben rassomigliarsi alle nostre me-  daglie commemorative o di onore, nei  quali si vede inciso in un lato un busto ,  ed intorno ad esso la scritta chiarissima  (( Horattus », mentre nell' altro lato la scritta  n' è illegibile e consumata. Il busto anzi-  detto è modellato esattamente a tenore di  quanto più sopra si è esposto. Uno di essi  si conserva nel museo del Louvre. E certo  appaiono riproduzione di busti o medaglie  d' onore di Orazio vivente, eseguiti nel  quarto secolo dell' era volgare. Tale almeno  è r opinione del dottissimo barone Walke-  naèr. Nessun busto marmoreo, come si disse,   «   o di bronzo si è rinvenuto che ricordi il gran  venosino. Deve però convenirsi che un uomo che ha da poco varcati i cinquant' anni,  raro è che si renda deforme e barbogio.  Anzi la razza umana generalmente suole  giungere a questa età ancora atta a buona  vegetazione, e ad abbellirsi e conservarsi.  Se r aureola che circonfuse O. non è il (( nomen imitile » e neppure X opinione che i suoi contemporanei ebbero di  lui ( opinione poco proporzionata ai suoi meriti, secondo che dottamente asserisce  Leopardi, ^s) e negli anni seguenti non ebbe  tra i dotti il primo posto, perchè Dante  stesso chiamò Virgilio Aquila ed O. Satiro), maggiormente risulta la sua vera  gloria dal sempre fecondo entusiasmo che  per r eternità gli uomini risentiranno per   lui   Trascorsi appena nove anni dalla morte  di Quinto Orazio Fiacco, nasceva Gesù Cri-  sto, il rigeneratore dell'umanità. Oh età portentosa! L'ETERNO MONUMENTO ORAZIANO     Ouao - za. I/I. - Ode.  Che dire di O. filosofo, creatore  nella letteratura latina di due ge-neri di poesie del tutto nuove, e che  seppe far giungere ed elevare persino  I la lettera all' eccelsitudine dì un ge-  nere poetico?  Quintiliano dice :' « Dei lirici O. è  quasi il solo che merita di esser letto, poiché  s'innalza talvolta con slancio ammirevole: è  pieno di dolcezze e di grazie, e nelle varietà     -«( i84 )»-*   delle figure, delle espressioni, d' una felicis-  sima audacia. » E Petronio ^7) continua as-  serendo che (( fra i romani Virgilio ed O. sono accuratemente felici, come Omero  ed i lirici greci. Perocché gli altri o non vi-  dero la strada che conduce al lirico stile, o  non ebbero il coraggio di batterla. » E que-  st* opinione distrugge la miserabile assertiva  di Frontone, ^s) al dir di Leopardi, ^9) che  chianja Orazio Fiacco , siccome accennossi,  appena poeta non isprezzabile [memorabilts  poeta). Tanto potevano in questo possessore  degli orti mecenaziani V invidia ed il livore, che tra certi letterati sono solite malattie I   Ma Lucano, Marziale, Virgilio, Vario, Tibullo, Ovidio, Petronio, Sidonio Apollinare,  S. Girolamo, Venanzio Fortunato, Persio,  Giovenale, Lattanzio, Alessandro Severo,  Dante, Voltaire e cento altri, a coro unanime, gridarono le lodi del gran venosino.   Moltissimi eruditi si sono occupati di studiare precisamente le opere di O.. I più  celebri fra essi nel mondo, siccome il Bent-  lejo, il Masson, il Dacier, il Sanadon, Passow, Kirckner, Franke, Weber,  Grotefend, THart, il Milmon, lo Stalbaum,  il Weichert, il Jahn, il Mitscherlich, il Dab-  ner, il Jacòbs, il Leissing, il Margestern,  il Walckenaer, il Siringar, il Manso, V O-  relli, si avvalsero degl' interpetri antichi delle  opere oraziane, Elenio Acrone, Pomponio  Porfirio, e dell'altro che prendendo nome  dal suo editore, si disse Scoliaste Cruchiano, non meno che di Emilio e Terenzio Scauro.   Ciascuno di essi ha cercato desumere con  pazienti ricerche il tempo nel quale O.  scrisse le singole parti del suo eterno monu-  mento. Cercherò notare le più interessanti  investigazioni. O. dapprima scrisse le satire e ne   compose il primo libro negli anni di Roma, non avendo ancora raggiunto il   trentesimo anno. In essa, siccome si accennò, irrompe   con impeto sarcastico contro un tal Rupilio   che con lui aveva militato nell'armata di BRUTO,   Segue poi la seconda scritta nell' autunno del   714, nella quale parla in generale dei vizii di   cui la società romana era infetta. La quarta satira fu scritta nell'estate del 715, ed in  essa cerca scusarsi col pubblico dell' essersi  mostrato un po' virulento nello sferzare la  cattiva gente, e secondo il parere di Wei-  chert fu questa la satira che i suoi amici VIRGILIO e VARIO presentarono a MECENATE,  avendo inculcato al poeta di scriverla per  cattivarsi l'animo di quel potente. Scrisse  la terza nel principio del 716, ed in essa fa  vedere che mentre gli uomini sogliono cri-  ticare i vizii altrui, son ciechi a vedere i  proprii. Vangelo dice : « Tu suoli ve-  dere il fuscello nell'occhio del tuo prossimo,  e non vedi la trave che è lì lì per acce-  carti ? )) Dopo poco tempo da che tale satira  venne pubblicata, Orazio fu ammesso tra i  commensali di Mecenate; infatti la satira  quinta che descrive con gran lepidezza e pre-  cisione un suo viaggio da Roma a Brindisi,  vi fa risaltare la figura di Mecenate come  attore principale e come uomo politico, spe-  dito dal governo per delicati maneggi a quel  luogo di sbarco ad abboccarsi con altri personaggi influenti, e che compagni insepa-  rabili di lui furono O., Virgilio, Vario, COCCEIO e TUCCA. Compose poi la prima  satira in omaggio al suo gran protettore, e  pubblicando il libro la pose  come principale, perchè a lui dedicata e per  testimoniargli la sua stima ed il suo affetto.  Scrisse la nona dopo circa un anno per cor-  reggere quei miserabili che invidiandogli la  protezione di Mecenate, mostravano, .mor-  dendolo col dente velenoso della livida in-  vidia, di non esserne a parte. La bellissima  satira sesta, nella quale pone la virtù come  il vero blasone che onora gli umani, e l'ottava  con la quale schernisce i superstiziosi e le  donnacce, furono scritte, secondo l'opinione  di Spohn.   Il libro degli Epodi era già stato composto da O. prima del cennato primo libro delle satire, ma fu pubblicato piu tardi.   Vuoisi che abbia preso il nome di Epodi  dai versi Epodois di Archiloco, che fu l'in-  ventore dei giambi, al dir di Diomede gram-  matico. Sebbene altri sommi scrittori, com-  preso il Gargallo nelle note, ammettano che  epodi si dicesse il libro compilato da odi pòstume di O., fondandosi sul termine gre-  co epodem, che significa sopraccantare.  E la terza del  secondo libro delle satire sostengono essere  stata scritta nella villa Sabina, dimostrando che già poco più che trentenne Orazio  avea avuta donata quella proprietà.   Riguardo alle odi, furono scritte, se-  condo il parere di Butman, del Dacier e  di altri dotti, nel 726 al 732 sino al 734,  E da quest'anno ed i seguenti sino al 744,  cioè nella sua età di anni cinquantacinque,  solo l'ultima ad Augusto, come omaggio  al più grand' uomo del secolo e suo insi*  gne benefattore.   O. dalla sua villa aveva spedito ad  Augusto diversi scritti e molte delle let-  tere surriferite, e gliele indirizzò con un  viglietto umoristico consegnato ad un Vinio  Frontone Asella, che è proprio l'epistola  decima del primo libro. Augusto dopo aver  letto tali componimenti, gli rispose così:  (( Sappi che io sono teco sdegnato , perche in molti di cotali scritti (come sono le  satire e le epistole) tu non parli principal-  mente con me. E forse che temi non ti sia  per tornare ad infamia nella posterità, se tu  mostri d'essere stato mio amico ?» A questo  onorevole ed amorevole rimprovero O.  rispose colla prima epistola del secondo libro,  che è invero un capolavoro nel genere sotto  ogni rispetto.   Il primo libro delle epistole venne com-  posto prima del quarto libro delle odi. Il carme secolare scritto per condiscendere al volere di Augusto fu composto nel  737, cioè nel quarantottesimo anno d'O..  L'Arte poetica, che deve ritenersi il suo capolavoro, e che può dirsi una lettera di-  dasailica indirizzata ai fratelli Pisoni , può  benissimo classificarsi come terza nel secon-  do libro delle epistole , e venne composta  nel 741-742, mentre la prima epistola del  secondo libro indirizzata ad Augusto vuoisi  essere V ultimo lavoro del poeta, e fu com-  posta nel 744, avendo il poeta V età di anni  cinquantacinque. Nessun autore al mondo ha ottenuto tanta pubblicità e diffusione e celebrità dalla sua  opera, quanto O. Fiacco (non Flacco, dato che ‘fl’ e impossibile nella fonologia italiana). È qualche cosa  che sa quasi dell' inverosimile.   Basta però per convincersene notare il  numero straordinario delle edizioni delle sue  opere, dacché ci furono tramandate, siansi es-  se rinvenute in tavolette, papiri o palinsesti.   Nessun erudito scrittore ha saputo sin oggi  precisare chi sia stato il primo scopritore dei  canti immortali di O., né dove rinven-  gasi la prima edizione di essi nei tempi re-  motissimi composta. Vuoisi da taluni che  in un museo inglese se ne conservi vestigio.  Certissima cosa é che da molti secoli, sia  in Italia che in Germania, in Francia ed in  Inghilterra principalmente, le edizioni delle  opere del gran poeta possono contarsi a cen-  tinaia. Ed in ciascun anno sempre ntìove ne  sorgono, unite a nuovi commenti , chiose e  note illustratrici. È proprio l'arboscello pro-  fetizzato da O.:   Laude fra tardi posteri  Farà ch'io guai per fresca  Auray arbuscel più vegeto  Ogn* or m* innuovi e cresca, 80 "i     Quante opere insigni di altri uomini nati  in Caldea, in Babilonia, in Cina, in Grecia  ed altrove sono state composte nei secoli  scorsi I E sono ignorate o perdute e scomparse per sempre. E dei monumenti sanscriti  di Persia, delle opere eccelse degli arabi che  scrissero nei tempi del califfi e dei sultani,  e dei codici vetusti dei dottissimi scrittori  armeni, che invano i Mechitaristi tentarono  illustrare, che cosa rimane ? O sono cadute  neir oblio, o hawene un labilissimo ricordo,  o giacciono ignorate in fondo a qualche pol-  verosa biblioteca. Soltanto la Bibbia ha pro-  dotto un fenomeno superiore, se pure non  uguale, a quello del monumento oraziano.  Alle opere di O. avvenne un simile me-  raviglioso fatto. Sembrarono piccoli granelli di seme, che  fruttificando, e dapprima poco curati (che dai  suoi contemporanei, come si disse e lo confermò Leopardi, non furono tenute in quella  stima che meritavano) divennero poi giganti.  Le radici dell'albero, ormai reso smisurato, si  distesero nelle viscere della terra, per tutte  le latitudini, con gagliardia non mai vista. E per disperdersene le tracce, per abbat-  tere tale fenomenale vegetazione, bisogne-  rebbe che la terra universa andasse in fran-  tumi.   Dalla nostra Italia, avventurosa patria del  poeta, sino ai più ignorati angoli dei poli,  appaiono vestigia del portentoso volume,  in tutte le lingue tradotto e glossato. Ciascuna edizione, ciascun libro che tratta  del monumento oraziano è una fronda fre-  sca e vegeta che ci ricorda uno dei più  grandi italiani.   Non era scorso un secolo dopo la morte  di O , siccome attesta Giovenale, che  già le opere di lui, dai suoi contempora-  nei poco apprezzate, servirono in presso  che tutte le scuole di Roma come libri di  testo, unite a quelle di Virgilio; sicché deve  arguirsi che non poche edizioni dovettero  farsene in quei tempi remoti. Ma il primo  editore conosciuto si è Vezio Agorio Ba-  silio Mavorzio, che studia, con Felice grammatico, sui manoscritti e ne fece  redigere non pochi esemplari riveduti e corretti.   Riuscirà tuttavia interessante Tenumerarne  le seguenti edizioni principali antiche e moderne, che sono sparse pel mondo, sopra tali  esemplari condotte:   Edizione primaria, senza luogo ed anno,  con 'caratteri romani, di fogli 147, di linee  26, in folio piccolo.   Altra che non porta data, né firma del ti-  pografo che s' ignora, stampate in  lettere rotonde, di forma poco graziosa. Antichissima. Se ne conoscono solo due o tre  esemplari in Inghilterra.   Edizione pure senza luogo, senza data e  senza tipografo conosciuto, pure in caratteri  rotondi, ma molto belli. Edizione di Napoli. In quarto per  Arnauld de Bruxelles, pagine Edizione di Milano. In quarto.  Ant. Zarolus. Fatta sopra quella dì Napoli.   Milano. Filippo di Lavagna.  Venezia. Filippo Conda-  min.  Venezia. Senza nome di tipografo. Milano. In folio. Per Antonio  Miscomini, col comentario di Cristofaro  Lantini.  Milano. In folio, con co-  menti di Antonio Mancinello e degli antichi  scoliasti. Edizioni ripetute molte volte. Strasburgo. In quarto. Gruninger. Opere di Orazio in latino, con testo  stabilito sopra manoscritti preziosi antichi.  Con molte incisioni. La prima edizione Aldina. Ver  nezia. In 8.° (primo formato piccolo) Aldo  Manuzio. Rarissima e preziosa. Firenze. La prima dei Giunti in  8.° Filippo Giunti. Rarissima.  La prima Ascenziana, Venezia. Aldo Manuzio. Riproduzioni.  Paganini. Venetiis. In quarto grande, Petrum de Nicolinis de Sabio.  Con note erudite di Erasmo de Roterdamo, Angelo Poliziano ed altri. Rara.   Venezia. Con postille di Gior-  gio Fabricio di Basilea, Mureto.  Lione. Due volumi in quarto di  Dionisio Lambino, che corresse ed interpretò  magistralmente Orazio, avvalendosi di dieci  antichi codici. Edizione ripetuta con molte  correzioni ed aggiunte in Parigi, in Francoforte, ed in Parigi. Anversa. Teodoro Pulman con  critiche rinomate.  Parigi. In 8^ Henry Stefano;  anche con critiche. Anversa. In quarto. Alfonso Cru-  chio.  Leida. Con lo Scoliaste. Da un  manoscritto Blandiniano antichissimo, ed  altri della biblioteca dei benedettini di Gand  andata in fuoco nel 1568, manoscritto accreditatissimo.  Anversa. Daniele Heinsius. Due  volumi in ottavo.   Londra. Giovanni Bond. Stu-  penda, bellissima Anversa. Sevino Torrenzio. In  quarto con dottissimo comento.  Anversa. Edizione elzeviriana  con note di Daniele Heinsius. Con disser-  tazione dotta di tale letterato sopra le sa-  tire.  Anversa. Nuova edizione del  medesimo, riveduta con note.  Leida. Variorum, Editore Cor-  nelius Schrevelius. Lugdunum Batavorum. Ex of-  ficina Hackiana. Con comentari sceltissimi  di varii per Giovanni Bond. Rara. Cornelius Schrevelius accurante. Riproduzione.   Anversa. Variorum. Sulla pre-  cedente di Schrevelius, corretta.   Parigi. di  Dacier.  Tolosa. In 8.°. Pietro Rodellio,  molte volte ricopiata.  Parigi. Ad usum Delphini. Stupenda. Parigi. Jouvensy. Cambridge. Di Bentley.  Cambridge. Di Riccardo Bentley. Con gli studi i di tale scrittore sopra  Orazio. In quarto. Monumento immortale  dell'arte critica, lacerato dai contemporanei  per livida invidia. Ripetuta l'edizione in  Amsterdam più volte, ed in Lipsia. Parigi. Due volumi in quarto.  Stefano Sanadon, con traduzione delle opere  di Orazio molto stimata.   Londra. Con note del Dacier.  Ad usum Delphini. Rarissima e preziosa.   La suddetta in Amsterdam, riveduta e corretta. Otto volumi in ottavo.  Lipsia. In ottavo di Mattia Ge-  snero ripetuta con aggiunzioni di Zeunio e  Both. Parigi. Edizione classica in ot-  tavo di Giuseppe Valart.  Napoli. Michele Stasi, con note  di Ludovico Desprez. Due volumi in ottavo.  Molto stimata.  Lipsia. Due volumi in ot-  tavo, contenente solo le odi, con note ed  illustrazione di Ch. D. Jhan. Edizione Bipontina. Ripetuta in  Milano. La stupenda edizione di Bodoni in Parma.  Londra. Due volumi in ottavo  di Ghilberto Wakefield, con critica eccelsa.  La più stupenda e magnifica si-  nora edita di Didot. Lipsia. Mitscherlinch. Mancano in essi  le satire e le epistole, ma sono eruditissimi  pomenti e note sulle altre opere e partico-  larmente sul carme secolare.   Lipsia. Di Guglielmo Baxter con  note di Gessner e Zeunio. Composta sulla  prima edizione dello stesso editore in Londra.  Lipsia. Ti^ volumi in ot-  tavo del Doering. Riputatissima edizione per  uso delle scuole.   Roma. Due volumi in ottavo di  Carlo Fea. Con critica e note riputatissime.  Edizione bellissima.   Parigi. Due volumi in ottavo di  Charles Vanderbourg. Contiene solo le odi  e gli epodi. Ma è superba.    Breslavia, In ottavo di L. Fed.  Heindorf, con conienti eruditi e note. Con-  tiene solo le satire. Maneim-Baden. Due volumi in  ottavo di F. Both.  Heidelberga. Ristampa dell'edizione di Carlo Fea di Roma con molte ag-  giunte.  Heidelberga. Due volumi in ot-  tavo di Grevio. Contiene le sole odi.   Jahn. Lipsia. Con scel-  tissime note ed aggiunte.   Schmid. Contiene solo le epistole.   Lugdunum Batavorum. Un vo-  lume in ottavo. Edizione di Perlkamp.  Zurigo, Gaspare Creili. Con  biografia di Orazio e note. Libro erudi-  tissimo e molte volte riprodotto, e partico-  larmente l'ultima edizione quarta, accura-  tamente emendata e corretta, sicché con ragione può dirsi la migliore.  Venezia. Premiato con meda-  glia d'oro. Di Giuseppe Antonelli, e con  traduzione in versi e note del celebre mar-chese Tommaso Gargallo. Un volume in  ottavo, preziosissimo.   Della vita e delle opere di Orazio scris-  sero pure con profondità di vedute e som-  ma dottrina:   Crist. Fred. Jacobs, Lecttones Venusinae,  5 volumi in ottavo. Berlino Gotthold Leissing, De O., Berlino. Masson, Vita di O..Leida Eichstedt , Critica ed osservazioni stille  opere di Orazio. Jena, Eusebio Baconiere de Salverte. Osserva-  zioni sopra Orazio. Un volume in 8^. Pa-  rigi, Cristofaro Martino Wieland, Traduzione  delle opere di O. con note. Berlino.   Morgesten, Le satire e le epistole ora-  ziane. Un volume in quarto, Lipsia. E fra tutti primeggiano gli scrittori fran-  cesi che convien notare:   C. Boudens de Vanderbourg, Traduzione  delle odi di Orazio in versi francesi con  biografia ricavata da vecchissimo mano-  scritto.   Andrea Dacier, Horace. Opera latina-fran-  cese. Dieci volumi in dodicesimo. Parigi,  Più sopra mentovata, essa può  definirsi una delle più dotte e belle edizioni  delle opere del poeta.   Sanadon, Les Batteux, Binet, Campenon,  Goubaux, Barbet, Patin, Janin, Cass-Robi-  ne, Daru, Ragon, Duchemin, Goupil, Cour-  nol, Boulard, De Wailly, Halevy, Michaux,  Lacroix, Dabner, Boileau, e l'insigne poligrafo barone Walckenaèr, che nel 1840  compilò una Storia della vita e delle poesie  di Orazio, Parigi, due volumi in ottavo,  opera dottissima ed insuperabile.   E redizione grandiosa del Didot del 1855  in Parigi, con tavole topografiche e note e  biografia, che può asserirsi la più perfetta  edizione del secolo. Riproduzione con ag-  giunte di quella suddetta del 1799.   E TRA GL’ITALIANI: Metastasio,  Leopardi, Algarotti, Corsetti, Bertola, Galiani, Alfieri, Cesari, Tommaseo, Cesarotti, Pagnini, Salvini, Pallavicini, Colonnetti, Bindi,  Gligerio Campanella, Rocco,  ed altri molti scrittori di comenti e studii  e saggi critici.   Ma in Italia tra le molte traduzioni delle  opere oraziane, la più perfetta e completa  è quella del marchese Tommaso Gargallo,  e le edizioni ne sono innumerevoli. In essa,  facendo risaltare la bellezza della frase oraziana, tale ammirevole letterato ha cercato  inciderne il concetto, abbellendola con versi  armoniosissimi, che sembrano ispirati dalla  musa stessa del gran poeta venosi no.   Mi sono avvalso in questa mia opera ap-  punto della traduzione del Gargallo, principalmente in quei passi della storia, nei quali  era necessario dar luce alla dicitura con le  stesse parole di Orazio, le quali forma-  no, al dir del gran Fénélon, uno dei pregi  massimi del poeta : « Jamais homme n'a  donne un tour plus heureux à la parole  Pour lui /aire signifier un beau sens, avec  brteveté et deli e atesse. » ^') E perciò ser-  vendomi dei versi sublimi frutto del forte  ingegno del Gargallo, e dettati in purissima lingua italiana , per illustrare uno dei più  grandi italiani, ho creduto far còsa grata ai  miei concittadini, ai quali, per questo mio  lavoro, chiedo venia e benevola approvazione. M^ihr^^yrj&>s>a«ji£iì^»ii^iufe«wuai'; Da1 Municipio di Venosa venne emesso  il seguente proclama: L'idea di onorare la memoria    deità orientale anteriore     r^( 212 y»^   all'epoca del frammento ove è incisa l'iscrizione, e che  nelle notizie sull' etimologia del nome della città di  Venosa si disse da Benoth -' Benotsa'- Venosa^ siccome  riferiscono Francesco M. Farao, nella lettera apologe-  tica riguardante la Menippea di Pasquale Magnoni (Napoli), ed il sommo Lupoli, dal quale dovet-  tero essere dal primo attinte molte preziose idee, perchè  scrisse due anni innanzi. Ed il Markolis del frammento  trova riscontro nell'iscrizione sopra pietra esistente in  una antica casa della nobile famiglia Rapolla in Venosa,  riportata dal Pratillo, dal Corsignani, dal Lupoli , dal  Cimaglia, da Mommsen e da altri storici e raccoglitori  di sigle, che viene così tradotta :   MbKCUKI tMVIC. 8ACR. pro salute  Pbassbmtis mostri   Agaris Acnc. Come pure trova riscontro in una pietra di corniola  incisa per anello, scoperta in Venosa ed appartenente  alla famiglia Lupoli, siccome attesta il Farao nella cen-  nata sua opera, che raffigura Mercurio coi calzari alati,  con borsa a destra e caduceo a sinistra ed al disotto  la scritta  di Michele Arcangelo Lupoli? Che cosa ag-  giungervi da stenebrare il passato? Chi desidera perciò  aver piena conoscenza di Venosa antica studii e pon-  deri r e Iter venusinum » di cosi eccelso scrittore.   Il tradurre in buona lingua italiana tale stupenda  opera scritta in latino sarebbe una fatica vantaggiosa  e meritoria.   (4) Svetonio Tranquillo — Vita Morati,   Cicerone. Op. Lib. IV. Atl Herennium. Fabretto. Inscrip. Gargallo Tonìmaso Traduzione delle opere  di Q. O. Fiacco (non FLACCO, dato che ‘fl’ e impossibile in fonologia italiana) Lib. i.®, ode 28.*"  Idem Loc. cit. lib. i.* satira Guerrazzi G. D. Orazioni. A Cosimo Delfante.  r^-   (io) Gargallo. Trad. di Orazio, lib. 3* od^ i.*  Della nobiltà venosina. — Non è conveniente  avvalersi deirautorità del Summonte circa il fastigio della  nobiltà venosina, perchè erroneamente si attribuisce al  Summonte quel brevissimo e misero accenno sulla to-  pografìa e sulle famiglie nobili di Venosa e privilegi  annessi, il quale è opera di Tobia Almagiore, che per  mezzo del libraio Antonio Bulifon nel 1675 in Napoli, fece  inserire dopo Topera del Summonte « Istoria della città  e Regno di Napoli » un trattatello intitolato « Raccolta  di varie notitie historiche >, mentre con precisa diffu-  sione si rilevano ragguagli in altre opere di altri autori.  Ed invero, si rileva dal manoscritto antico più volte ci-  tato, e che si conserva nella Biblioteca Nazionale in  Napoli, redatto nel terminare del 1500, e che vuoisi  opera dell' U. I. D. Jacopo Cenna, venosino, essere stata  tradizione dei vecchi, che le mura della città di Venosa,  mura raffìguranti quasi le costruzioni ciclopiche e che im-  portarono spese colossali, fossero state innalzate da Lu-  cullo, il celebre milionario del tempo dei Romani, e  che fii lui che fece trasportare in Venosa buon numero  di statue e preziosi marmi serviti di decorazione ai  monumenti di quell'illustre città, sicché videsi creata  per la conservazione di tali ricchezze artistiche, una carica  onorifica che vien riportata dal Corsignani, dal Lupoli,  siccome dal Cimaglia, dal Pratillo e da altri molti (non  però dal Cenna suddetto^ nelle seguenti iscrizioni esi-  stenti in Venosa. Bemusbi. MOMUMRNTUlf. POBLICX. rACTUM D. D.  M. MUTTIBMUS. L. F. C. Vibius . l. F.    M. Bfsssius . F.   OB    F. M. Camillius   . HONOREM.   l. F.   >•-     M. Mumnius « L*. F.   C. Vmn» . L. F.   n . Vis . J. D. Statuas . KZ   D. D.  Rbficivmdas   e.   Fece pure LucuUo stabilire in detta città, attratte  dalla magnificenza, salubrità e bellezza di essa, non po-  che nobili famiglie romane, dalle quali poi derivarono  quei componenti la nobiltà fiorente, che sino all'inva-  sione dei barbari formavano il lustro di quella bellissima  terra italiana. Né col seguirsi degli anni quella nobiltà  scemò in prestigio, fasto e decoro, perchè sin nel 1 500  e proseguendo poi fmchè fu abolito ogni privilegio, nei  prìncipii del secolo presente, si vantò in Venosa un ti-  tolo di. nobiltà da potersene fregiare con orgoglio.   I sovrani che si successero nel regno di Napoli arric-  chirono la nobiltà venosina di prerogative straordinarie,  tra le quali primeggia quella concessa dall'imperatore  Ludovico I con la quale si definiva non poter Ve-  nosa venir data in feudo ad alcun signore o barone del  regno ( il che poi per la instabilità di fede o per fini  politici dei sovrani che si successero, non venne man-  tenuto, siccome ad altre città è avvenuto), ma restar  dovesse autonoma e libera di sé, governata dai suoi  patrizii illustri, scelti dal popolo.   E Ferdinando I di Aragona, che fece lunga dimora  in Venosa, vi mandò l'illustrissimo suo figlio Don Fe-  derigo, a visitarvi quei gentiluomini, ai quali poi diresse  la seguente lettera : e Nobilibus et egregiis viris univer-  « sitatis et hominibus civitatis Venusii, fidelibus nostri  e dilecti. Come altre volte vi abbiamo scritto, noi de- [E già precedentemente Ludovico II, il giovane, imperatore d'Occidente, era venuto in Venosa a ripristi-  narla dalle soflerte devastazioni; e della sua venuta v*ha  memoria in un'antica lapide esistente nell'attuale semi-  nario, un dì castello, prima che Pirro del Balzo avesse  edificato quello che tuttora si ammira, coi ruderi dello  splendido tempio della SS. Trinità, ove riposano le ceneri di Guiscardo e di altri sommi guerrieri e  duci , sovrani e bali dell' ordine supremo di Malta, il  che fece dire a Giulio Cesare Scaligero : Gens Venu-  Sina, nitet tantis honorata sepulcrisì  L'iscrizione è la seguente:   StIRPS LuDOVICUS FKANCOItUM  UftBIS AMICUS DUM FUKHIS   Sbupbr Rxgmabis   Jums POTKNTEB   E nella venuta in Venosa (riporta sempre il Cenna)  del cardinal Consalvo, i nobili venosini si mostrarono  magnifici e splendidi quanto dir non si può, e formarono  un'accademia, che può porsi al pari delle più insigni ed  illustri del regno.   In detta accademia presedeva lo stesso cardinal  Consalvo, con suo fratello, nel luogo detto Monte Albo,  o MoQte Aureo, o Monte doro^ titolo della nobile casa [Porfido venosina, (volgarmente oggi Montalto) che rappresentava l'Olimpo.   E che la nobiltà venosina fosse fiorente e riuscita  insigne per tutto il regno, convien trascrivere quanto  riferisce il Cenna suddetto, l'unico cronista del 1500  per quanto disadorno scrittore :    e così si enumerano molti  doni che i sovrani solevano assegnare, per testimoniare  fatti di valore e degni di stima e compenso.   Trascrivo V elenco delle famiglie nobili venosine  riportate dal surriferito Cenna, e quelle riportate da Pietro Antonio Corsignani  nella sua opera « De Ecclesia et civitate Venusiae Historica monumenta selecta > edita, come si disse, ^el  1723, che rimontano sino al precedente secolo deci-  mosesto:   Barbiani. — Dai quali nel 1434 derivò il conte di  Cuneo, Alberico Barbiano, gran contestabile del Regno  di Napoli, e condottiere di cavalieri venosini, del quale  diflusamente parla il Giannone, nel quarto volume della  sua Storia civile del regno di Napoli ed altri storici.   Deitardis.   Gomiti.   Plumbaroli. — Da cui derivò un Corrado  Plumbarolo, duce preclaro di cavalieri venosini sotto i  re aragonesi.   Maranta. Che ebbe tre giureconsulti insigni, lu-  minari del foro, nel 1600, e due illustri vescovi, dei  quali quello di Calvi, di cui discorre a lungo il Gian-  none, nel voi. 5^ lib. 32, in occasione della scandalosa  e celebre causa di suor Giulia di Marco da Sepino,  agitata  tra i teatini ed i gesuiti. E si dissero  Roberto, Lucio, Fabio e Carlo.  Cenna. Da essa derivò quel Jacopo Cenna definito dal Corsignani « Vir sapientissimus >. Era U. L  D. e si dice autore della cronaca antica di Venosa,  che, manoscritta, si conserva nella Biblioteca Nazionale  di Napoli.   Cappellani. Una Laura Cappellano fu madre del  celebre poeta venosino Luigi Tansillo, il cui padre era  nobile nolano.   Porfidi. Celebre famiglia fregiata del titolo di  conte di Montedpro, ed imparentata con la nobile casa  Sozzi di Venosa, che tenea la gerenza del principe di  Venosa, Ludovisio, nipote di Gregorio XV. Fenice.  Solimene. Casati, Consultnagni. Giustiniani, Caputi, Simone. Moncelli. Costanzo. Famiglia proveniente da nobili vene-  ziani. Fuvvi un Costanzo/ vescovo di Minervino, la cui  nipote sposa 1' U. I. D. Rapolla della  nubile famiglia Rapolla di Venosa, dei quali il figlio  Nicolao fu nel 1693 protonotario apostolico. De Bellis.   De Luca. Da cui derivò queir insigne cardinale  Giovan Battista de Luca, onore della città di Venosa,  autore di opere preclare in circa quaranta volumi in folio.   Bruni Donato De Bruni fu celebre poeta venosino. E Giordano Bruno o de Bruni, figlio del nobile  Giovanni de Bruni da Nola, intrinseco del Tansillo (BRUNO (vedasi) scriv un epitaffio sulla sepoltura di Giacopon Tansillo, figliQ del poeta venosino Tansillo, siccome attesta Minieri Riccio) non è forse da questa  famiglia venosina derivato  Fioriti.   Tramaglia.   Ttsct. Tommasini Palogani.   Pagani.   Balbi.   Sperindeo.   Berlingieri.   Violani.  Gervasiis. Orazio de Gervasiis fu il più insigne  membro della celebre accademia venosina, e poeta famoso.   Abenanti,   Grossi.   Protonotabilissimi,   Capibianchi,   Campanili.   Ferrari,   Faccipecora,   Leonetto   Troni, Antonello Trono fu esimio nella legale  palestra. Aloisiis,   Rosa Biscioni.   De Vicariis.   Rapolla. Dalla quale derivarono il Clarissimus  D. Venanzio U. I. D. vicario generale  Diego ^  U. I. D. Il Corsignani parlando di lui dice : « Romae  triginta fere Annis Curiam laudabiliter prosecutus in  legali f acuitale excellentissimus fuit. Ib idem anno j*joi  ex hac vita discessit. Donato U. I. D. Ed il celeberrimo D. Francesco giureconsulto, presidente della Regia  Camera della Sommaria nel 1760, senatore del S. Consiglio del regno di Napoli, uno dei settemviri del regio  erario. Le sue principali opere furono: De Jureconsulto  Difesa della Giurisprudenza. Risposta all'opera  di Ludovico Antonio Muratori De jure Regni. Opera eccelsa in quattro volumi in ottavo.   Vitamore.   Moncardi.   Lauridia. De Jura o Thura.   Sprioli,   Leoparda,   Sozzi.   Altruda, Vito Altruda era cavaliere deirordine  di Malta.   Delle quali famiglie nobili riportate dal Cernia e  dal Corsignani , due sole compaiono tuttavia esistenti  in Venosa: la Rapolla e la Lauridia. Della seconda di  essa si legge nella cattedrale di Venosa la seguente  epigrafe, riportata dal Corsignani. JOANMi Baptistab Lauridia, Blasio, U. I. D. Patutio Venusino   Et Ammae Fbrrabi Nobili Sbkbmsi  Prognato   MaTMBMATICIS, PMILOSOPHXaS, LeOAUBUS, ThKOLOGICIS ASTIBUS  OPTIMB IMSTBUCTO U. I. LaUBBA, AC VbNUSIMAB ECCLBSIAB   Canonicatu Insignito, humanab salutis  Ann. oca. abtatis suab xxyii ad Supbbos  Evocato, Dobunicus, bt Hibbonimus Fratbi   DIGNI8SIM0 P  E la famiglia Rapolla imparentata con  la casa Cappellana e con la Casati, ed in appresso coi  Costanzo nel 1641, con la Sozzi, con T Altruda, iscritta  neir ordine di Malta, e con la Lauridia, conserva nella  vetusta e stupenda cattedrale di Venosa V altare gen-  tilizio, che il Cenna bellamente esalta come uno dei  più degni di quel sacro luogo, e che appartenne prima  alle nobili famiglie de Bellis e Tisci, e nel quale si ammira un quadro pregevolissimo di S.^ Maria di Costantinopoli, e vi si leggono le seguenti iscrizioni :   Sull* altare :   HOC. S ACRU. BEAT AB .VIRGLNI. DIC AtEsCIPIO. DE3ELLA. U.LD. BT. HOR.   DE. BELLA . A. EF. M. D. EQUES. DE . ORDINE.VICTORIÆ .TISCI. EORVM. MATRIS. RESTAURANDUM. CURAVER . BIDCXVI.  àACELL . HOC . MENSE . EPLÌ . DEVO LUTO . AEHUTAU . EPO . VSNO.   FUrr . CONCESSO. VENANTIO . RAPOLLA . U . I . D.   PRIMICERIO . VICARIO . GENLI . SUISQUE . HBREDIB . LT.   SUCCESSO . ET . PATRONI. CONSENSUS. ACCESSIT . Sotto l'altare:   SACELLUM . HOC NOBIUS. FAMILIÆ . RAPOLLA VENUSIMAB. .  IN . VENUSTIOREM . QUAE . CERNITUR . FORMA.  RSDIGrr . U . I . D . DIDACUS . RAPOLLA.   Ed in un istrumento redatto da notar Nicola li  Frusci di Venosa  si rileva che  dinanzi al magnifico giudice regio della città di Venosa,  D. Saverio Compagno, e del vescovo del tempo ed  altri molti, nel monastero di Santa Maria la Scala si  volle inaugurare un'abitazione per uso esclusivo e privilegiato delle monache educande della famiglia Rapolla,  e vi si fé* innalzare inciso su pietra in fronte dell* architrave della porta che dà nel giardino di tal luogo,  (e vi si vede tuttora) e sotto lo stemma della famiglia  Rapolla, la seguente iscrizione:   CUBICULUM . HOC . PROPRIO . SUO . ABBB. U. I. D . AX.OISIUS. Rapolla. Patritius. Vbmosinus. EkBGI. CUItAVtT CRAT1AM . D. MaUAB . AnDRSAB.  Rapolla. Momcalis •Profkssas. suak. kx. rmA-ntc.   MXPOTXS. OmnOMQUB. SDCCBSSOBUM. DB. FAIIIUAB. UTBIUSQUB . SBZUS . QUAMDOCUMQUB . CASUS. OCCIDBBIT. La casa Rapolla poi si è mantenuta sempre no-  bilmente, tanto che nel 1807, essendosi recato a visitar Venosa, nel suo viaggio nelle provincie del reame  il re Giuseppe Bonaparte, venne ospitato con gran magnificenza per due giorni con tutti i generali e gli altri   personaggi della sua splendida corte, dal nobile Venanzio Rapolla, al quale rilasciò certificato di sovrano comt>iacimento per la ricevuta accoglienza, non avendo vo-  luto quel fiero gentiluomo, già capitano sotto la repubblica partenopea, e tornato da poco tempo da emigra-  zione politica in Francia, accettare titoli, onori od altro compenso. Walckenaer nel 1° voi. pag. 4 della sua opera Histoire de la vie et des poesies d' Horace dice: « La  Venouse moderne à, malgré sa faible population, con^  serve quelque chose de plus que son nom et sa position  antique^ pouisqu* elle est le siege d' un eveché,  Ormai  ò noto, ed il Lavista nel suo opuscolo: Notizie istoriche  degli antichi e presenti tempi della città di Venosa Potenza^ tipi Favata e Frediano Fiamma, rettore del  seminario vescovile venosino, nelle sue note alla necrologia del nobile Giuseppe Rapolla (Napoli, tipi Giannini) riportano, che essendosi disposto di trasportare la sede del vescovado da Venosa a Minervino,  con grandissimo nocumento alla patria di Fiacco, Venanzio Rapolla tanto seppe destreggiarsi ed agire nella  capitale del regno, ove venne trattato l'affare in Consiglio di Stato, con impegno di illustri avvocati, da far  distrarre tale improvvida risoluzione; ed anzi vi spese  a tale scopo più di lire ventimila, che non volle per  sua generosità gli venissero rimborsate. Veramente nobile animo ) Splendido esempio di filantropia Riportata da M. A. Lupoli nella sua opera  quel preclara gentiluomo, mio defunto genitore, nobile  Luigi Rapolla, direttore degli scavi di antichità nel di-  stretto di Melfi, si legge quanto segue : « Mi aflretto  parteciparle che non lungi da Venosa un terzo di  miglio, mentre si attendeva allo scavo di arena in  una grotta messa sul ciglione di una collina verso  oriente, sovrastante al fiume che scorre nella vallata  sottostante al tempio della Santissima Trinità, si è  rinvenuto un lungo corridoio con altre strade laterali, con una quantità di sepolcri scavati nel tufo,  coperti da grossi mattoni antichi, con delle iscrizioni  indecifrabili, fra le quali se ne osservano talune, cui   soprasta una palma ed un'ampolla > E tale luogo   si dice il Piano della Maddalena^ e scovronsi dintorno  ad esso dei resti di fabbriche che indicano come un  forte nucleo di abitanti viver doveva in tale spianata ,  che aveva il suo tempio dedicato alla Maria di Magdala,  ed in quelle grotte scavate nel masso vi avevano la  loro necropoli. Da tutto ciò può benissimo e con cer-  tezza arguirsi che Venosa, chiusa nei limiti anzidetti, che  si estendevano verso le colline, che oggidì diconsi Monte  e Montalto sino al fiumicello divento, formava una va-  sta città abitata da più di ottantamila uomini. Che ai  tempo dei Romani era splendida per monumenti, statue  e nobiltà, e conservossi tale sin presso al 1500, quando  andò mano mano assottigliandosi per danni solTerti dai  tremuoti, dalle pesti, dalle guerre e dall'aprirsi dei diversi sbocchi a centri che cresceano in importanza, gran-  dezza e magnificenza sia in Puglia che in Lucania. E  venne tanto assottigliandosi da divenire un tempo un  borgo, fortificato però, di poche centinaja di fuochi, sinché poi non risorse a novella vita. Quei pochi fieri abi-  tanti, che avevano per emblema il basilisco che si morde  la coda, e la scritta: Respublica Venusina^ si conservaro-  no però sempre eguali a loro stessi ed alla loro origine.   In essa nacquero e vissero baldi guerrieri, come si  disse, e letterati insigni e sommi giuristi ed eminenti  ecclesiastici, sempre altieri, nobili e pieni di genio, de-  stinati a grandi imprese.   L' antica grandezza lasciò uno stampo in ciascun  abitante di tale ameno e forte luogo. Ciascun abitante  porta con sé una particella dell'aura divina, che emana  da questa terra benedetta dal cielo, e tra le più belle  e feraci dltalia. Il Bestini, nella sua opera Monetarii  antiqui^ sostiene essersi coniate in Venosa delle monete  raflìguranti Giove che gitta fulmini. Come esprimere me-  glio figuratamente la potenza della città di Venosa ? Oggi  Venosa colla libertà e col progresso è nuovamente ri-  fiorita, e per ricchezze e lustro non è inferiore che a  poche città meridionali d'Italia.  Gargallo Tommaso. Traduzione delle- opere di O. Lib. i." sat. Il Vulture. I due versi di Orazio nella sua  ode quarta del libro terzo  ed il « pios  errare per lucos > han dato campo a non poche dispute  tra i dotti e gli antichi scoliasti. Fuvvi tra gli altri per-  sino il Bentley, il quale sostenne essere esistita una  balia di Orazio nomata Apulia^ che in quel sogno del  pargoletto prese parte, tenendolo addormentato in su le  ginocchia, fuori la porta della sua casa rurale in Ve-  nosa. Gargallo traduce: Da pueril trastullo  Mentre io lasso, e dal sonno oltre alla soglia De r Apula nutrici, amar faruimllo  Giaceva sul V\lL?r appulo, di faglie  Tutu a nuazi arhuscelli  Fer siefe int4fniù a wu, gt idal^ mmgelli.     Ma ben considerando questo bisticcio di Voltar  appulo oltre la soglia (i confini) delt Apula nutrice^ si  chiarisce che T Apula nutrice per Orazio era Venosa ,  usando il tutto per la parte, cioè la Puglia Daunia. PLINIO (vedasi), (disse e Dauniorum colonia  Venusia >, ed il Voltar appula alla soglia indicava la re-  gione del Vultore, mentre il Vulture era situato nella  Puglia Peucezia , quindi fuori dei confini della Puglia  Daunia, patria di Orazio. Con tale criterio resta dilu*  cidato questo passo di Orazio, il certo un po' oscuro  per chi ignora la topografìa delia regione pugliese. È  certo che O. intese parlare, nominando il Vulture ,  della catena appenninica minore dopo il Vulture, cioè  i monti alle cui pendici Venosa era situata, che in quei  tempi erano copèrti da fitte boscaglie, come una buona  parte lo sono tuttora (contrada Monte, Monte Alto ecc.).  Infatti accenna in seguito alla foreste di Banzi, {saltu-  sque bandinas\ ad Acerenza {celsa nidum Acherantiae)^  a Forenza {humilis Ferenti)^ che son tutti luoghi che  fan seguito anche oggi a tali boschi, che bisogna tra-  scorrere per giungervi partendo da Venosa. Se Orazio  avesse inteso parlare delle pendici del Vulture, come  oggi s' indicano, avrebbe dovuto far cenno di Atella,  RapoUa, Rionero, Barile, e di altri paesetti, che se non  esistevano in quei -tempi , certo in tutto il perimetro  della pendice del Vulture doveva esistere qualche traccia  o zona di terra abitata, come la Rendina attuale, ove  la taberna celebre è anteriore all'epoca romana della  quale si discorre.   Del Vulture hanno ampiamente e dottamente trat-  tato r abate Tata {Lettera sul Vulture), Daubeny {Narrative of on excursion to mount Vultur in  Apulia— Oxford), il prussiano Ermanno Abich, L.. n Patrizio e l'Abate — Un volume in i6», pag. 250,  Tipi Di Angelis Napoli,  XTobiltà e 1)0rgh68ia, Tifi  Tarnese Napou, Uemorìe storiche di Portici Stabilimento Tipografico  Vesuviano Portici, Presso Tautore Napoli, Riviera di Chiaja, N. ijo Dei Conti Sì Bavoja— Tipi   Giannini Napoli. ì Quinto Orazio Flacco. Orazio. Keyword: Il Giardino. Luigi Speranza, “Grice ed Orazio” – The Swimming-Pool Library. Orazio.

 

Grice ed Ordine: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di BRVNO al rogo – la scuola di Diamante -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Diamante). Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Diamante, Cosenza, Calabria. Professore a Calabria. Rriconosciuto come uno dei massimi studiosi del Rinascimento e Bruno. Ben noto ai lettori per i suo eccellente saggio su Bruno, è anche uno dei migliori conoscitori attuali del milieu sociale, artistico, letterario e spirituale dell'età del Rinascimento e degli inizi dell'Età moderna.Sigillo d’Ateneo dell’Urbino. Centro  di Studi Telesiani, Bruniani e Campanelliani. “L' utilità dell'inutile” (Milano, Bompiani). Opere: “La cabala dell'asino”, “Asinità e conoscenza in Bruno” (Teorie & oggetti, Napoli, Liguori, Collana I fari, Milano, La Nave di Teseo);  “La soglia dell'ombra -- Letteratura, filosofia e pittura in Bruno” (Venezia, Marsilio); “Contro il Vangelo armato: Bruno, Ronsard e la religione” (Milano,  Cortina); “Teoria della novella e teoria del riso” (Napoli, Liguori); “Tre corone per un re. L'impresa di Enrico III e i suoi misteri” (Milano, Bompiani). Classici per la vita. Una piccola biblioteca ideale, Collana Le onde, Milano, La Nave di Teseo, Gli uomini non sono isole. I classici ci aiutano a vivere” (Milano, La Nave di Teseo). Grice: “Some like Bruno, but I don’t – for one, he was a PRIEST before he was burned – no philosopher *I* know is a priest. Being a priest, as A. J. P. Kenny well knows, disqualifies you as a philosopher. Campanella was a priest too, and I’m not sure about Telesio. I mention the three because while there is a Keats-Shelley Association in Rome, only the Italians can think of ONE centro di studi TELESIANI, BRUNIANI e CAMPANELLIANI – enough to have a triple split personality!” Nuccio Ordine. Ordine. Keywords: Bruno, futilitarianism, riso, risus significant laetiia animae – il sorriso di Macchiaveli, centro di studi telesiani, divenne centro di studi telesiani, bruniani, e campanelliani! – telesio not a priest!--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ordine: l’inutilita dell’utilitarismo di Geremia Bentham” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Orestada: la ragione conversazionale della diaspora di Crotone -- Roma – filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A Pythagorean cited by Giamblico. He frees Senofane from slavery – as cited by Diogene Laerzio.

 

Grice ed Orestano:  all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dell’opzione eroica –  la scuola d’Alia -- filosofia siciliana -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Alia). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Alia, Sicilia. Self-described as a ‘Federalista siciliano’ --. Grice: “There is something pompous about Italian philosophers and their isms – Orestano’s ism is the superrealism!”  Grice: “When I was invited to deliver my lectures on the conception of value, I was hoping it was a first, but Orestano had written two big volumes on it!” – Studia a Palermo. Insegna Palermo, Pavia, e Roma. Collabora con Marinetti nella concezione del futurismo, e lavorando ad alcune pubblicazioni comuni. E inoltre vicino alle idee politiche, collaborando tra l'altro con “Gerarchia.” Invitato da Balbo nella Libia italiana, difende gli ideali e gli intenti italiani in contrapposizione al nazionalismo. E eticista, fenomenologo e promulgatore d'un'idea filosofica positivista che egli stesso denomina “super-realismo.” Si ritira a vita privata nel su palazzo di Roma per dedicarsi alla sua opera principale “Nuovi principi” (Milano, Bocca). Membro dell’Accademia d'Italia e della Società filosofica italiana e dell’Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici. Autore di noti aforismi, a lui sono intitolate una via di Roma e una scuola di Palermo. Saggi: “Opera omnia” (Padova, C. E. D. A. M.); “Comenio”, Roma, Biblioteca Pedagogica de “i Diritti della scuola”, Angiulli, Roma, Biblioteca Pedagogica de “i Diritti della scuola”, A proposito dei principi di pedagogia e didattica” (Città di Castello, Alighieri);“Un'aristocrazia di popoli -- saggio di una valutazione aristocratica delle nazionalità” (Milano, Treves); “Verità dimostrate, Napoli, Rondinella); “Opera letteraria di Benedetta, Roma, Edizioni Futuriste di Poesia); “Esame critico di Marinetti e del Futurismo” (Roma, Estratto dalla "Rassegna Nazionale"); “Civiltà europea e civiltà americana” (Roma, Danesi); “Nuove vedute logiche” (Milano, Bocca); “Il nuovo realismo” (Milano, F.lli Bocca); “Verità dimostrate, Milano, Bocca); “Idea e concetto” (Milano, Bocca, Celebrazioni I, Milano, Bocca Editori, Celebrazioni, 2, Padova, MILANI, “Filosofia del diritto” (Milano, Bocca, Gravia levia, Milano, Bocca); “Saggi giuridici, Milano, Bocca); “Verso la nuova Europa” (Milano,  Bocca); Prolegomeni alla scienza del bene e del male, Milano, Bocca); “Leonardo, Galilei, Tasso” (Milano, Bocca); “La conflagrazione spirituale e altri saggi filosofici” (Milano, Bocca); “Pensieri, un libro per tutti”; Studi di storia della filosofia”; “Kant”; “Rosmini-Serbatti”; “Nietzsche”; Contributi vari, studi pedagogici, studi danteschi; Aligheri e saggi di estetica e letteratura; conversazioni di varia filosofia; corsi, ricerche e conferenze, studi sulla Sicilia, Filosofia della moda e questioni sociali,  Dizionario Biografico degli Italiani, E. Guccione, L'idea di Europa in  Federalisti siciliani, A. R. S. Intergruppo Federalista Europeo, Palermo, Guccione, Da un diario una nuova pagina di storia, in  La politica tra storia e diritto, Scritti in memoria di L. Gambino, Giunta” (Angeli, Milano);  Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Quando i vincitori scrivono la storia della filosofia: il caso di Lamendola, Arianna, O.  Castellana, Il rapport tra stato e Chiesa nel pensiero politico, Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici. I valori egoistici risultano espressi con le lettere T e e te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli valori altruistici sono espresso con le lettere: i. I valori neutrali sono espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone di dare una teoria compiuta dei fatti concomitanti di questo o quello valore, ma solo di ANALIZZARE tal unicasi va   speciali, così, quando adopera i simboli senza l'indice soscritto, intende significare il valore egoistico – con la lettere ‘e’ sottoittesa. Questi simboli possono esprimere questo o quello BENE, ma anche questa o quella volizione a questo o quello BENE riferentisi. Per indicare una volizione, si adopera il stesso segno *fra parentesi quadratti*. Infine, si suppone, di regola ceteris paribus,che la circostanza concomitante sia sempre una sola, la quale, insieme alla volizione, formi ciò che chiamamo il “bi-nomio” della volizione. Se le circostanze sono più, allora si forma un “poli-nomio” della volizione. La precedenza di una lettera in un binomio o un polimonioindica il valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che modo i fatti concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione? Siccome ogni scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda può formularsi così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si noti però che la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della volizione, giacchè questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali restano naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione d’identità. Ciò che il  artista o un politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa, o anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora bene (+), ma che fa rumore e fumo (-) ,ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due forme: a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per esempio, promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad arricchire la sua nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si può raggiungere che come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un fabbricante per  . Ora torniamo alla domanda principale. In che modo il valore morale di una valutazione dipende dai valori concomitanti, e,in caso di un simple bi-nomio della volunta, dal valore concomitante? Abbiamo distinto quattro categorie di valori, “g”, “T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche ai fatti concomitanti. Però il caso u si può omettere, perchè non accadrà mai, CHE SI VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre possibilità, le quali, liberamente combinate, dànno *dodici* casi che costituiscono la tavola dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna pensare che ad un oggetto di volizione si aggiungano gli altri come fatti concomitanti, e osservare le variazioni di valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE ‘POSITIVAMENTE ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è data da una formula. Il momento più importante è qui l'associazione della circostanza concomitante u, IL PROPRIO DANNO. È evidente che l'aggiunta di questo secondo momento accresce il valore di (i) e di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio proprio. Indicando il valore con “W” ,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece si aggiunge “u”, IL DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato (quando il beneficio produce pure un MALE al beneficato), sia di persone estranee al rapporto (quando per beneficare uno si danneggia altri), allora il valore della volizione con questa circostanza concomitante diventerà minore. E la formula sarà: W(ru) < W(r). Se la circostanza concomitante è pure in favore del beneficato, allora la formula sarà indubbiamente: guadagnare di più deve migliorare la condizione materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr.   glianze. Invece L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè diminuisce, nè aumenta il valore. La volizione egoistica è espressa dalla formula, la modificazione più grave qui si ha, quando al caso si aggiunge la circostanza del  MALE ALTRUI. Allora si avrà: W(gu)<W(9). Se la circostanza concomitante è invece “r”, il valore della volizione egoistica si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione egoistica si aggiunga la circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO (plusvalia) o anche di un proprio danno, non modifica il valore di (g). Si avranno quindi le due egua W (99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta il non-valore, se oltre al danno principale si aggiungono altri danni. Epperò: W (UU)< W (U). Per quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che al male altrui si associ una qualche conseguenza buona, indiretta,  W (rg)= Wr. La volizione altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con una formula. Se per attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u, questa circostanza aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W (u). W(UY) > W(u). Il fatto concomitante della propria utilità non aggiunge nè toglie al valore della volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi l'eguaglianza: W (ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in un Quadro. W(rr) > W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U) W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0 W(uu)<W(U). Da questo quadro si rileva che le circostanze concomitanti con segno negativo non sono più feconde di effetti di quelle con segno positivo. Di queste ultime, “g” non modifica nulla, e “r” non dà risultati sicuri, come indica il punto interrogativo. L'influenza dei fatti concomitanti si può dunque riassumere così. Agisce aumentando debolmente il valore. ‘g’ non modifica nulla. ‘u’ diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera secondo lo scopo della volizione -- ora aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando il valore. Si è già detto che sarebbe uni-laterale il voler giudicare del valore morale di una volizione dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende parte alla determinazione del valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE. L’altruismo NEGATIVO (malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è importante constatare, che il senso in cui i tre momenti valutativi operano sui fatti concomitanti è completamente lo stesso La validità della tavola dei valori, dianzi tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si ridurrà, nel modo indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia la qualità della volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione e repulsione, che però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra affermazione e negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi come una doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si comportano egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U) (U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di rappresentazioni ed i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con il concetto di “Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la cognizione delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della volizione o al polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio del progetto. Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la parentesi quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati predisposizionali, l'analisi delle valutazioni dei fatti concomitanti può rendersi più esatta.  (ū) si possono fare le seguenti sostituzioni, che aiutano a trovare il corrispondente valore nella tavola relativa alle volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio iniziale della volizione “uu”, che esprima il mio desiderio di far male, al momento opportuno, a una persona, ma che non mi sia possible evitare, ciò facendo, conseguenze dannose pe rme,u. Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale, allora non si avrà più il binomio (uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la volizione è risultata nel senso di non volere il male proprio, pur ammettendo che questa volizione abbia per circostanza concomitante y, cioè il bene altrui. In forma positiva la volizione finale sarà (gr). E così da una situazione iniziale negativa “vu” si riesce nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati fra loro due bi-nomi di progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente concordanti. Anche i due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra loro. Essaminemo la coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la maggiore importanza pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui. Nel primo rientrano, nel senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui si può affermare la grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o grado minimale, i casi della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s duty). La sezione di linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL CORRETTO è tutta espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione che va dal punto d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde alla negazione di questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi tutti i casi che vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose dell'altruismo. Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal semplicemente dove ROSO ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due bi-nomi comprendono adunque tutte le quattro classi di valori, caratterizzati in principio. I due bi-nomi anzidetti suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra l'interesse proprio e l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di questi interessi, dalla portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della valutazione. I momenti “u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e “y”. Intanto è certo che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u” , “W(gu)”, si trova sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno negativo. Mentre il valore altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si trova al di sopra del zero ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione valutativa tra i termini dei due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente con una semplice osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un grande interesse altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un piccolo interesse altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non pospone a un grande interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un non-valore morale più basso, che non colui il quale per una utilità propria rilevante non tien conto di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una LEGGE del valore si può esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'” indicano le costanti proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità delle due unità “g” e “r”. Nell'applicazione di queste due formule all'esperienza si rendono necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori “r” o “g” eguali ai limiti 0 e 0 ,allora i calcoli diventano molto esatti. Per g per g. L’ESPERIENZA NON è però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno ammetterà che l'adoperarsi nell'interesse altrui si accosti l punto morale d’INDIFFERENZA, quanto più grande è quest'inteesse; e che il trascurarlo divenga nella stessa misura RIPROVEVOLE, “u” pposto costante e limitato l'interesse proprio da sacrificare. È F ,  1 W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) = - C per r = 00 per r = 0 lim W (ru) = 0, lim W(ru)= 0, lim W (ru)= 0 , , limW(ru)= 0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0 lim W (gu)= 0 lim W (gu)= – 00.   pure evidente, che la trascuranza di un interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto più IRRILEVANTE è questo interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il valore dell'altruismo di venga allora infinito, come nella seconda formula. Osservando però bene, questi casi non rientrano nel campo della morale. Si contrasterà pure che il valore del sacrificio di un bene proprio per l'altrui, cresca colla grandezza del bene sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza prova che l'esitazione al sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene cui si sta per rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta formula. Non si può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè NON si determina un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si debbono mitigare nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla realtà. Per far ciò, basta attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere aggiungendo a “g” ogni volta una costante “c” o “c '”.  Queste formule non modificano i limiti funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T = 0 0 g = 00. Cambia bensì la formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C , lim W (gu) = - ' Sin qui abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE dall'altra. Che avverrà però, se le variazioni si compiranno in entrambe le variabili congiuntamente, supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro per grandezza di valore? Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule diverranno altri. Si avranno così le formule. T r W (ru) = 0 9 + c g +di  e Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' . Da questo risulta che il non-valore deve crescere e diminuire nello stesso senso o grado limite di “r” e “g”, e il valore in senso o grado di limite contrario. Consultando l'esperienza, si può riscontrare agevolmente che un oggetto, per esempio un dono, abbia lo stesso valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora si domanda, regalare di più avrà un valore più alto o più basso del regalare di meno? Senza dubbio più alto. E se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI LA PROPRIA VITA per conservare quella di un altro, suscita di fatto grande ammirazione. QUESTO è però IL CONTRARIO DI ciò che quelle formule esprimono. O “c” corre adunque correggere le formule e per far ciò introducemo un esponente di “g”, più grande dell'unità, e lo indicamo colle lettere “k” e “k'”. Le due formule diverranno così, rimettendo “y” al posto di “r”.  Sicchè si avranno i seguenti limiti. A questo punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di alcun'altra correzione. Per semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la formula del binomio divienne W(gu)= T. È questa una formula a discuttere. . g2+1 ghto Y gkilt o W(gu)= W (ru)= C per r= 9 perr= g= 0  T g2+1 W (ru)= e Y e limW(ru)=00 lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0. Preliminarmente non si ne ricava alcune conseguenze. Ogni pr getto offre a colui, che dovrà reagire con una volizione,l a doppia possibilità di fare o di tralasciare. Le due volizioni staranno, secondo la formula principale or ora  ricavata, in un rapporto di RECIPROCITà negativa, per ciò che ri guarda il loro valore morale. In secondo luogo, siccome una volizione di grande valore (positivo o negativo) o e MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di piccolo valore o e CORRETTA o TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto PIù DISTANTI sono il NUMERATORE E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale (1, 2, 3, … n), tanto più il valore della volizione e indicato dalle parti estreme superiore o inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno distanti sono invece quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il punto di mezzo di detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di una volizione I cui scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti. Basta ridurla. W(9)=0(1). UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO D’INTERESSI, la caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O INTERSEZZIONE O COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui, positive, o, come nella guerra o il duello, negativi.  Se il progetto offre l'occasione di congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con (gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g” e”v”, cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso attuale la formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)= >.  Passamo ora ad esaminare un'altra coppia di binomi: gr g+1 1 T   (go+ 1)r. Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa dei due binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili concomitanti, com’era di sperare! Recenti studi sui valori morali in Italia. TAROZZI comunica al congresso di psicologia (Roma) un programma di etica scientifica, sotto il titolo: Sulla possibilità di un fondamento psico logico del valore etico. I risultati dell'indagine psicologica sono capaci di assumere importanza di fondamento e di criterio nella determinazione del valore etico delle azioni umane e nell'apprezzamento etico degli individuiumani? Questo il problema.Tarozzi crede possibile una risposta affermativa, e ne dà le ragioni. Il valore etico è il risultato di un apprezzamento morale. L'apprezzamento morale è funzione della coscienza morale, che si forma in noi storicamente e psicologicamente. E siccome lo studio della formazione storica si risolve pure in un'indagine psicologica, così la vera sede della dimostrazione del valore etico è la psicologia. A ciò non si può opporre, che il valore etico dipenda direttamente dal fine etico, e che questo per l'assolutezza sua (o teologica o categorica) sia indipendente dalla causalità psicologica e antropologica. Giacchè, anche ammessa questa indipendenza del fine etico, nulla vieta che essa riceva una interpretazione psicologica e antropologica. Si può cioè voler sapere come sia possibile nella realtà (umana) il fine etico, e ciò conduce anche a interpretare la relazione dei valori etici con quei fini, e a trovare il criterio per la valutazione morale degl’individui umani. Fra il principio assoluto e l'atto concreto,più ancora fra quel principio e l'individuo, intercorre la eterogeneità più radicale. Per giudicare quindi se l'atto compiuto o da compiersi stia in un giusto rapporto col principio, è necessaria una interpretazione psicologica. Senza questa interpretazione la valutazione etica alla stregua dei principi assoluti non può farsi. Ove poi si abbia un concetto non teologico, nè categorico del fine etico, la psicologia può darne non solo l'interpretazione, ma anche, coll'aiuto dei dati dell'antropologia e della sociologia, una vera e propria dimostrazione. L'ufficio della psicologia nella dimostrazione del fine etico è anzi assai più rilevante, perchè da questa dimo strazione dipende. Primo se il principio sia ammissibile oppur no. Secondo, quale valore etico abbiano le azioni e gl'individui in base al principio dimostrato. Ma non a questo si ferma l'ufficio dellapsicologia nella morale. Volendo fondare un'etica, umanistica nelle sue basi,e umanitaria nelle sue norme, un'etica cioè rispondente alla concezione di un significato morale della vita umana,la coscienza del quale giusti fichi, non in senso di fine, m a in senso di fondamento, i particolari propositi delle volizioni umane, la psicologia porterebbe i più decisivi elementi a una tale concezione della umanità. La psicologia è scienza sovrana nell'àmbito dell'etica umanistica. Senza di essa è impossibile la ricerca di un significato morale della vita, che assuma valore di fine dopo essere stato fondamento e criterio, e risponda alle tendenze onde la moralità positiva si svolge nella storia dell'umanità. Oltre a questo contributo diretto della psicologia all'etica, vi sono gl'indiretti, consistenti nella difesa,che solo la psicologia può fare contro lo scetticismo morale. La legittimità di una valutazione etica, che abbia forza di per sè, si suole negare da chi crede che il bene e il male siano risultato di convenzioni sociali più o meno inveterate, mutabili secondo i vari tempi e I bisogni, e non rispondenti a una costante necessità della vita e della natura umana. Per riparare dallo scetticismo si è ricorso o all'utilitarismo o alla metafisica. Ora,allo scetticismo e anche ai suoi falsi rimedi (l'utilitarismo e la metafisica) non può opporsi efficacemente che la ricerca psicologica. Essa sola, riuscendo a determinare positiva mente le concezioni fondamentali del valore morale, porge argo menti di difesa sia contro la negazione di un fondamento reale e necessario del valore etico, sia contro le affermazioni erronee od arbitrarie di esso. Un esempio importantissimo dà Tarozzi dell'ufficio della psicologia nell'etica, accennando ai problemi concernenti la ricerca dei fondamenti psicologici della solidarietà o dei fondamenti naturali di essa, come li chiama GENOVESI, opportunamente ricordato dall'autore. Questo esame particolareggiato comprende la crudeltà e le sue varie forme, la simpatia, così in generale, come nelle sue due manifestazioni principali, gl’atti di cortesia e di protezione. Le dispute sulla natura umana, così conclude Tarozzi, attendono la loro decisione non dagli argomenti del razionalismo, ma dai fatti che la psicologia può rivelare e valutare. Quando fosse dato di stabilire, che non è generale nell'uomo l'avversione al potente, ma allenatureavare, fredde, crudeli, quando si potesse esplorare in un àmbito sempre più vasto l'estensione dei fatti e degl'istinti della simpatia, sì da rendere legittimo il costituire con essi il concetto dell'umanità, questa umanità sarebbe il fondamento di una morale immanente, estranea, benchè non opposta, all'utilitarismo. Quando si potesse attribuire positivamente, cioè psicologicamente e antropologicamente, un valore definitivo al rapporto di solidarietà, e stabilire che esso risponde a un istinto originario, valido per se stesso,e non per l'esperienza della sua utilità, sarebbe tolta all'utilitarismo quella base consistente nella proposizione universale, che l'uomo agisce per il suo utile. Ne c'è da temere che i dubbii della ricerca psicologica si riflettano nella morale, perchè i risultati che la psicologia ci potrà offrire non avranno valore di modificazione del contenuto normativo della  morale, ma bensì tenderebbero a modificare il carattere formale di essa, come dottrina del dorer essere e come scienza. Al Congresso medesimo Calò presenta una comunicazione intorno alla Calderoni ritiene che l'assenza della ricerca e della sufficiente analisi di quello ch'è il fatto ultimo e irriducibile su cui poggia tutta la vita morale, il giudizio etico, ha impedito il costituirsi dell'etica come scienza. Molto ha anche nociuto “la nessuna, o quasi, distinzione che si è fatta tra il giudizio etico e il giudizio teoretico o conoscitivo, La morale deve invece ricercare come ogni altra scienza, dei fatti ultimi, elementari, irriducibili su cui fondare l'edificio autonomo delle proprie investigazioni. L'elemento irriducibile, la realtà ultima, da cui deve prendere le mosse ogni dottrina morale, è un fatto psicologico, un sentimento,  non uccidere per esempio, apparterrà sempre al contenuto normativo della morale, qualunque conclusione possa trarre la psicologia intorno agl'istinti di pugnacità e di ferocia. Ma se le conclusioni intorno al fondamento umano delle tendenze alla solidarietà e alla simpatia saranno negative, l'etica e un sistema dottrinale, la cui imposizione presenta i caratteri della accidentalità e della fluttuazione dei fatti sociali, oppure i caratteri trascendentali metafisici o religiosi; e perciò la valutazione etica e una gradazione fondata su altra base, non su quella della realtà effettiva dei fatti umani. Se invece quelle conclusioni saranno positive, l'etica, assumendole come sue proprie, avrà a fondamento il significato psicologico e antropologico dell'umanità morale e potrà scientemente stabilirei valori umani in relazione conesso. Infine TAOROZZI ri-assume il suo credo in queste parole, che tutto si debba attendere dalla scienza, e che essa sola possa spiegare un giorno perchè abbiano universale valore massime conversazionali come queste: Non uccidere u ‘non mentire,’ “Ama il tuo prossimo. Ogni qual volta noi giudichiamo del valore morale d'un sentimento, d'un'azione, d'una determinazione volitiva, tale giudizio si presenta alla nostra coscienza con un sentimento particolare di approvazione o di disapprovazione. L'esame retrospettivo ci dice, che quel giudizio non risulta da un meccanico sovrapporsi dei concetti del soggetto e del predicato (buono, giusto, ecc.), dal paragone delle loro estensioni e connotazioni rispettive, dalla rivelazione pura e semplice del loro rapport. Ciò che interviene, e ciò che più importa, è il sentimento di approvazione o di disapprovazione, di adesione o di ripugnanza. Qui si presenta un problema fondamentale. Trattasi di vedere se il sentimento di approvazione o di disapprovazione accompagni semplicemente, come effetto o come carattere, la rivelazione del rapporto in cui l'obbietto considerato è con quel predicato. O se quel sentimento appunto renda possibile la costituzione del predicato e quindi, mercè la capacità di riferimento propria della ragione, l'enunciazione del rapporto. Questo problema non può essere risoluto senza una analisi comparativa del giudizio conoscitivo e del giudizio valutativo. E quest'analisi mostra appunto che, mentre nella funzione conoscitiva il sentimento è un sopraggiunto, nella funzione valutatrice è, al contrario, costitutivo del rapporto. Conoscere è constatare, attingere ciò che è; mentre nel valutare, l'atteggiamento dello spirito non è di chi constata, ma di chi reagisce. Non di chi afferma e riconosce l'essere, ma di chi vi aggiunge qualcosa risultante da ciò che in lui non corrisponde, ma risponde alla realtà conosciuta. E l'atteggiamento non di chi afferma o nega, ma di chi si sovrappone alla realtà, o che le assenta o che le si ribelli, sia che lodi, sia che condanni. Mentre, per il teoretico, il sentimento è un accessorio trascurabile, per il moralista, esso è la vera realtà etica, poichè il senti mento serve a caratterizzare qualsiasi obbietto di giudizio etico. In ultima analisi, ogni giudizio etico si riduce ad approvazione o disapprovazione d'un sentimento, d'un istinto, d'una volizione, d'un'azione. Ora l'approvazione e la disapprovazione non sono che due speciali sentimenti, due forme diverse d’uno stesso sentimento, il sentimento del valore. Il giudizio etico, dunque, intanto è possibile in quanto si compie una sintesi fra l'obbietto conosciuto e la ragione valutativa ch'esso suscita in noi. E, insomma, questa stessa reazione che costituisce tutto quanto noi diciamo di quel fatto qualsiasi ch'è assunto come soggetto del giudizio. Si direbbe che quel fatto tanto ha di realtà etica quanto e come vive nel senti mento valutativo. Questo poi varia e quasi si determina e si atteggia diversamente secondo gli obbietti a cui si riferisce, e di venta volta a volta sentimento del giusto, del buono, del santo, dell'eroico o dei loro contrari, di rimorso o di auto-sodisfazione, di rimpicciolimento o di stima di se stessi,di pace dell'anima, ecc.; di modo che può dirsi che ognuna di queste determinazioni del sentimento di approvazione e di disapprovazione ha una sua individualità e che l'analisi di esse ci dà l'analisi di tutta la coscienza morale. Il sentimento del valore, come fatto fondamentale della coscienza etica, si pone a norma della realtà interiore e dispone gerarchicamente i vari istinti e le varie tendenze. Un'altra sua proprietà è anche quella di avvertire ogni atto che rappresenti un non-valore come un'intima contradizione, il che dà luogo al sentimento particolare dell'obbligazione. Il sentimento del valore è dunque di sua natura tale da assumere, di fronte al resto della realtà psichica, un'attitudine speciale e da contrapporre all'esistenza di fatto un'esistenza di diritto. Esso si distingue profondamente dal piacere e dal dolore, perchè questi sono stati subbiettivi interessanti semplicemente l'individualità del soggetto, mentre ilsentimento del valore è obbiettivo anche rispetto alla individualità del soggetto che giudica. Il sentimento del valore oltrepassa la sfera della mia utilità o del mio benessere individuale; sono io che sento, ma non perme. Altro carattere differenziale è questo, che nei sentimenti di piacere e dolore lo stato subbiettivo è confuso con l'oggetto della rappresentazione, mentre nel sentimento del valore, l'oggetto è nettamente distinto dall'atto valutativo e può essere rappresentato come obbietto di conoscenza teorica. Ciò ch'è piacevole e spiacevole non esiste che nel sentimento e per il sentimento, mentre ciò ch'è valutato è chiaramente rappresentato di fronte all'atto giudicativo, è insomma conosciuto. Non si può valutare se non ciò ch'è ben noto, tanto è vero che la valutazione si presenta spessissimo sotto forma di preferenza e il valore viene appreso comparativamente ad altri come plus-valore o come minus valore. Sebbene il giudizio di valore abbia il suo punto di partenza nel sentimento,esso non esclude, anzi richiede necessariamente l'intervento della funzione conoscitiva, la quale prepari il terreno su cui possa esercitarsi la funzione apprezzativa. La grande varietà dei giudizi morali osservabile fra individui diversi dipende appunto dal diverso modo come sono appresi e considerati gli obbietti,dai diversi elementi che ci pone in luce la funzione conoscitiva. Così, mentre l'analisi del processo della valutazione etica è compito della psicologia morale, gli obbietti a cui le nostre valutazioni morali si riferiscono non possono esser tratti analiticamente dalla natura stessa dei nostri sentimenti di valore. Essi possono essere determinati in parte in base alla considerazione di rapporti for mali della volontà, in parte in base all'esperienza storica e sociale, quale è studiata dall'etica storica comparative. CALDERONI, nelle sue Disarmonie economiche e disarmonie morali, si è recentemente proposto di porre in rilievo talune concordanze fra le leggi economiche del valore e della rendita e le valutazioni morali sociali. In tal modo egli crede che l'economia politica possa apportare un contributo positivo alla scienza della morale e aiutarne il definitivo costituirsi. La vita morale può considerarsi, così Calderoni, come un vasto mercato, dove determinate richieste vengono fatte da taluni uomini o dalla maggioranza degli uomini agli altri, I quali oppongono a queste richieste una resistenza, secondo i casi, maggiore o minore, e richiedono alla loro volta incitamenti, stimoli, premi e compensi di natura determinata. Questi stimoli o incitamenti prendono la forma sociale di approvazione e di biasimo, di lodi, di gloria, di premio e punizione. Premesse alcune nozioni intorno alla legge dell'utilità marginale e alla formazione della rendita, non soltanto fondiaria, ma anche, in generale, del consumatore e del produttore, CALDERONI accenna più particolarmente a due specie di disarmonie economiche che si verificano nei fenomeni di rendita. La prima è conseguenza del principio che, data la unicità del prezzo in un mercato, il compratore e il venditore realizzano un vantaggio, rappresentato dalla differenza tra ciò che sarebbe bastato a indurli a comprare o a vendere la singola dose in questione, e ciò che, per effetto del mercato, vengono a ricevere. Ora, se i prezzi sono proporzionali ai costi marginali delle merci, essi non sono proporzionali ai costi di tutte quelle dosi che non sono al margine. Tutti coloro che si trovano più o meno lontani dal margine di produzione o di i mezzi di produzione si trovano infatti in quantità limitata e variano grandemente per qualità ed efficacia, sicchè la produzione si compie in condizioni differentissime da diversi individui,e l'au mento di produzione fatto con mezzi più costosi, mette quelli che impiegano i mezzi più facili in una posizione privilegiata, ch'è poi quella da cui la rendita deriva. Queste e altre considerazioni mostrano, che il fenomeno della rendita non si può correggere mai assolutamente, e che dà luogo a vere e proprie disarmonie economiche. La seconda specie è descritta da CALDERONI così. Supponiamo che sia raggiunta in un modo qualsiasi l'abolizione dei più stri denti ed evidenti fenomeni di rendita. In tal caso tutti iprodut  consumo si trovano a fruire di un prezzo, che basta soltanto a rimunerare quegli individui, i quali cesserebbero dal produrre se il prezzo ribassasse; e godono perciò di un vantaggio differenziale, o rendita, più o meno grande. Nè è possibile la correzione automatica del fenomeno della rendita, mediante aumento di produzione da parte di quelli che guadagnano di più, e conseguente ribasso di prezzi, perchè non sta ad arbitrio dei produttori di ottenere in quantità indefinita le merci in quistione. tori riceverebbero retribuzioni equivalenti, per ciascun loro pro dotto, a ciò che è necessario e sufficiente per indurli alla loro produzione. E nondimeno non si potrebbe ancora affermare che all'eguaglianza di retribuzione per i produttori dei diversi prodotti corrisponda una intima ed effettiva eguaglianza nei sacrifizi o nel lavoro che il prodotto costa a ciascuno. La misurazione di questo rapporto implicherebbe la conoscenza dei bisogni e dei desideri più intensi, dei sacrifizi più gravi per ciascun individuo e porterebbe a risultati assai diversi. Dal fatto che due individui sono disposti a dar la medesima somma per una merce o a contentarsi di una data somma per un servigio, nulla può dedursi intorno alla in tensità del desiderio che hanno o del sacrificio che fanno : come dal fatto che due individuisi scambiano una merce, non puòde dursi che chi la cede la desideri meno di chi l'acquista. Dal persistere di queste differenze è condizionata un'altra serie di disarmonie economiche più sottili e più intime e per loro na tura irriducibili, perchè persisterebbero anche quando si riuscisse a stabilire rapporti equivalenti o eguali sul mercato. Dopo questi cenni CALDERONI passa a rilevare le analogie tra fatti economici e fatti morali, le quali renderebbero, a suo giudizio, possibile una concezione economica della morale. Anzitutto, non meno in morale che in economia, ciò di cui effettivamente si giudica è, non il valore complessivo o generale degli atti e delle attitudini, di cui s'invoca l'adempimento o l'osservanza; ma il loro valore marginale e comparativo, valore atto a variare e col numero di questi atti effettivamente compiuto dagli uomini,e col numero altresì di quegli altri atti, cui si rinuncia per compierli  Vi è nella vita una gran quantità di atti ed attitudini, che pure essendo di una incontestabile utilità, puressendo essen ziali alla conservazione ed al benessere della convivenza umana, non entrano nell'ambito di ciò che noi chiamiamo la morale. Perchè? Con ciò CALDERONI vuole opporsi a tutta quanta la tradizione intuizionistica e kantiana in filosofia morale. Gl’atti morali non hanno alcun valore assoluto, ma un valore esclusivamente marginale e comparativo. Perchè nonostante la loro desiderabilità astratta, nonostante i vantaggi totali che la società ritrae dal loro adempimento, vantaggi certamente assai maggiori, nel loro complesso, a quelli degli atti che la morale esalta; essi sono tuttavia atti di cui non è deside rabile un ulteriore aumento, la cui DESIRABILITA marginale comparata, in altre parole è zero o addirittura negativa. Gl’atti prodotti dall'istinto personale di conservazione o da quello della riproduzione della specie non sono considerati virtuosi, perchè, ben lungi dal richiedere un incitamento, essi richiedono freni, gl’uomini essendo piuttosto proclivi ad eccedere che a difettare in essi, e a sacrificar loro l'adempimento di altre funzioni che sono marginalmente o comparativamente PIU DESIRABILI. Le nostre tavole di valori contengono tutte quelle cose, per ottenere un aumento delle quali, in noi stessi o negli altri, siamo disposti a de terminati sacrifice. Ma non già tutte le cose che possono apparirci DESIRABILI. Col crescere delle azioni virtuose esse tendono a diminuire di valore, come analogamente il diminuire delle azioni viziose tende a render meno disposti a far dei sacrifici per diminuirle ulteriormente. Ond'è sempre concepibile un limite, naturalmente molto diverso, secondo i casi, oltre al quale il vizio, di verrebbe una vizio, viene infatti per la domanda e per l'offerta etica lo stesso che per la domanda el'offerta economica. In una società di completi altruisti avrebbe pregio l'egoista. L'ALTRUISMO è una virtù il cui valore è strettamente connesso colla presenza di egoisti o almeno di non altruisti nella società. Queste considerazioni confuterebbero la legge morale di Kant, che prescrive di seguire massime capaci di divenire universali. Nessuna virtù e nessun dovere resisterebbe ad un esame fatto rigorosamente in base a questo criterio. Moltea zioni sono per noi un dovere, appunto perchè gl’altri uomini non le fanno e rimangono tali a condizione che non siano troppi gli uomini capaci e volonte rosi di imitarle. Come in una barca sopraccarica, l'opportunità di sedersi da una parte o dall'altra dipende strettamente dal nu  e la un virtù, virtù, mero di persone sedute dalla parte opposta. Se qui fosse seguito un imperativo kantiano qualsiasi, il capovolgimento della barca porrebbe tosto fine ai consigli del pilota e alle buone volontà dei passeggieri. Si può credere che si possa ovviare a questi errori particola reggiando quanto più è possibile i precetti e le sanzioni, individualizzandole in grado estremo. Ma alla stessa maniera che in un mercato non si può variare il Prezzo secondo gl’avventori, così alla legge d'indifferenza del mercato, corrisponde una legge d'indifferenza morale, per cui sono stabilite regole comuni non troppo discutibili e sanzioni precise, non atte troppo a variare e applicabili alla media dei casi. La necessità di dare precetti e sanzioni generali dà luogo a fe nomeni analoghi ai fenomeni di rendita. Alla generalità e rigidità della legge morale farà contrasto la varietà delle condizioni individuali, per le quali si verificheranno vantaggi e svantaggi differenziali da individui a individui. Il dovere per ciascuno sarà di fare, non già quello che nel suo caso è il meglio o l'ottimo, ma ciò che in media è meglio che gli uomini facciano di più,di quanto ora non facciano. Non agendo così egli si attirerà una sanzione, che nel suo caso, potrà anche talvolta essere immeritata. Le pene e i premi hanno un costo marginale che cresce col cre scere della loro severità e grandezza,e colla loro estensione; mentre colla loro estensione diminuisce la loro efficacia marginale. La gloria e l'onore, come l'infamia, diminuiscono rapidamente di efficacia quanto maggiore è il numero degl'individui che ne frui scono o soffrono. Così alcuni si troveranno a godere di lode o gloria molto superiore al loro merito, individuale, per avere compiuto azioni, poniamo, talmente conformi al loro carattere che sarebbe piuttosto stato necessario punirli, se si fosse voluto di ciò premesso, Calderoni trova le analogie fra le disarmonie economiche e morali. stoglierli dal farle. Altri subiranno invece biasimo o infamia di gran lunga sproporzionata alla loro colpa. Se poi i precetti e le sanzioni fossero più particolareggiate e commisurate a ciò che è necessario e sufficiente per indurre ciascuno al ben fare, rimarrebbe ancora una gran diversità nelle condizioni individuali, delle quali non si potrebbe tener conto senza diminuire l'efficacia dei precetti e delle sanzioni medesime. E questo dà luogo all'altra specie di disarmonie morali analoghe a quelle che persi sterebbero nel campo economico,se si correggesse la legge d'indifferenza del mercato. Queste disarmonie morali infatti persiste rebbero,anche se le prime si venissero a eliminare,analogicamente a quello che è stato osservato nei fenomeni di rendita. Grice: “I love Orestano loving Benedetta” – Grice: “Orestano takes Meinong very seriously – as he should! Few outside Austria do! Meinong symbolses the I with ‘e’ from Latin ‘ego’ (Italian io), and the other with a, for Latin ‘alter, Italian altro. So we have W for value (worth), and the possibilities that ego desires the evil for alter – sadism. When ego desires the good, he is altruism. Altruism can be reciprocal. In a purely altruistic society, things go well – but Pound knows who’s against that! That’s why Orestano finds sympathy for Meinong, and so do I” --.  Francesco Orestano. Orestano. Keywords: l’opzione eroica, Alighieri, Galilei, Tasso, Vinci, concezione aristocratica della nazionalita, l’eroe Mussolini, l’eroe Enea, Weber e la teoria dell’eroe carismatico, l’ozione dell’eroe non e una ozione. It’s not an option, Calderoni.  Luigi Speranza, “Grice ed Orestano”.

 

Grice ed Oribasio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Marte, o la scuola di Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Giuliano’s personal philosopher. He shares Giuliano’s enthusiasm for paganism. His treatises survive, as does paganism – “Only you shouldn’t use that vulgar adjective,” as Cicerone says!” – H. P. Grice.

 

Grice ed Orioli: l’implicatura conversazionale nella logica della monarchia romana – i sette re – la scuola di Vallerano -- filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Vallerano). Filosofo italiano. Vallerano, Viterbo, Lazio. Grice: “Only in Italy, a philosopher, rather than a cricketer, is supposed to take part in a revolution and write a book about his shire!” -- Fondatori della Repubblica Romana. “De' paragrandini metallici”  (Milano, Fondazione Mansutti). Il padre, medico, lo condusse a Roma, dove si laureò brillantemente. La professione non lo attraeva molto: lo troviamo, infatti, professore di filosofia nei seminari e nei licei dell'Urbe. Da Roma si trasfere a Perugia, dove si laureò. Insegnò a Bologna. Partecipò con gli allievi all'insurrezione delle Romagne; successivamente fu eletto membro del governo provvisorio di Bologna, che fu sciolto in seguito all'intervento militare dell'Austria. Tentando di mettersi in salvo,salpò da Ancona diretto in Francia con un altro centinaio di rivoluzionari; ma il brigantino Isotta sul quale viaggiava venne catturato dall'allora capitano di vascello della marina austriaca Francesco Bandiera (padre dei due famosi fratelli Attilio ed Emilio) e tutti i rivoluzionari furono arrestati. Venne incarcerato a Venezia. Poco dopo venne liberato, forse per mancanza di risultanze gravi sul suo conto.  Iniziò così l'errare, costretto a fuggire da terra in terra, inneggiando sempre all'Italia unita. Fu professore di archeologia alla Sorbona. A Bruxelles insegnò. Soggiornò anche a Corfù, dove tenne un corso dnell'università della città.  Quando Pio IX concesse l'amnistia, poté tornare a Roma, dove tenne la cattedra di archeologia. Le sue attitudini per il giornalismo non attesero molto per farsi notare, e così fondò un periodico politico che ebbe però vita breve, La Bilancia.  Fu eletto deputato al parlamento della Repubblica Romana. Quando il governo pontificio fu restaurato, in riconoscimenti dei suoi meriti, fu nominato consigliere di stato. Pubblica molti saggi di filosofia. Tra i più famosi sono da menzionare “Dei sette re di Roma e del cominciamento del consolato” (Firenze), “Intorno le epigrafi italiane e l'arte di comporle” (Roma). Prese parte alla polemica sui sistemi di prevenzione contro i fulmini e la grandine, che coinvolse anche Bellani, Beltrami, Demongeri, Lapostolle, Normand, Majocchi, Contessi, Molossi, Nazari, Richardot, Scaramelli, Tholard e Volta. Le compagnie assicurative usarono questi studi per valutare rischi e premi per i campi agricoli.  Riconoscimenti Il comune di Vallerano lo ha onoratocon l'intitolazione di una delle vie principali del borgo antico, quella del Teatro comunale, e con l'apposizione di una lapide commemorativa sulla facciata della casa in cui lo scienziato nacque. A Viterbo un Istituto Statale di Istruzione Superiore -che comprende il Liceo Artistico e diversi indirizzi di Istituto Professionale, A. Ghisalberti, nella voce della Enciclopedia Italiana, vedi, riporta queste date di nascita e morte, A. Ghisalberti, Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fondazione Mansutti, Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, M. Bonomelli, schede bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano: Electa, Polizzi, Alla ricerca dello «specioso» e dell’«insolito». Leopardi, «Lettere Italiane», Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  -- rità assai leggieri, e, se grandemente non m'inganno, assai consentanei alla ragione, de'quali ho stiinato aver bisogno, l'enunciazione de'puri fatti che costruiscono l'istoria della dignità regale nella città de’ sette colli, ha dovuto essere da  me corretta, e ridottasotto la forma seguente. La successione al trono mai non appartenne in Roma a figliuoli maschi de' re precedenti. Essa appartenne sempre a' generi loro, quando ve n'ebbe di viventi -- Numa, Servio, Tarquinio il Superbo. Lo sposo della figliuola Maggiore e a tutti gl’altri preferito -- Servio. Quando i generi sono morti, la successione passa ai primogeniti del primo genero -- Tullo Ostilio, secondo la mia correzione della leggenda che lo concerne; Anco Marcio. Quando si tratta di DUE RE, in luogo di un solo, e di quella magistrature binaria ed a vita che si surroga ne primi tempi alla dignità regia, parimente non si rinunzia a queste medesime regole, e se non trovansi due generi che potessero elevarsi al potere supremo, si'elevano egualmente a quello, secondo l'ordine legale DUE FIGLI DI GENERO --- REMO E ROMOLO -- Bruto e Collatino. La figliastra del re e equiparata alla figlia nel dritto di dare il trono al marito, o a’ suoi discendenti maschi, in un tempo in cui probabilmente figlie proprie non esistevano -- Tullo Osti. Quando non v'hanno, nè generi, nè figliuoli di generi, il trono passa a’ nipoti che s'a mò riguardare, in sì fatta contingenza, come legittimi eredi de’dritti degl’ascendenti loro -- Tullo Ostilio, se si preferisce l'ipotesi , nella quale egli è NIPTE D’UNA FIGLIA DI ROMOLO -- maritata ad Osto. Fuori della serie deʼre, o de 'magistrali che ne tenner le veci, tra gli stessi pretendenti che, senza ottenerla, dimandano la dignità suprema, uno di quelli, de' quali l'antichità ci ha trasmesso la memoria, è stato ugualmenle un genero di re -- Numa MARCIO -- ; due altri, ne'quali' non ci è dato riconoscere questa qualità, non hanno dimandato il trono per le vie legali ma cercarono d'ottenerlo con un delitto -- i figliaoli d'ANCO --; due di che solo si parla presso Plutarco se si ricusi di considerare l'Ersilia dalla quale discende, come FIGLIA DI ROMOLO, e se si rispetta la tradizione, secondo la quale l'ultim re non è che il patrigno o al più il padre adotetivo della SECONDA ERSILIA. In un caso, nel quale il capo supremo non potè far valere il dritto di successione alla sua dignità negl’eredi maschi delle sue figliuole, ne in altro modo potè effettuare la trasmissione della suprema autorità per via d'altre donne sue discendenti, almeno tramanda il suo grado nell'erede necessario della moglie – BRUTO rispetto a LUCREZIO TRICIPITINO, suo successore nella pretura massima, o vogliam dire nel consolato. Quando non vi furono eredi quali che si fossero di lato di donna, il trono, sempre messi in non cale i maschi, ricadde in una persona estranea, cioè non legata di piirentela colla famiglia reale -- Tarquinio Prisco. Quando, non ostante l'aversi eredi legittimi per parte di donna, una persona estranea consegue la dignità regia, ciò avvenne contra il dritto, per la forza dell'armi: Tazio. Non altra è l'espression' rigorosa de' fatti, cosi come sono riferiti dagl’antichi, o come io dovetti correggerne la sostanza e l'enunciazione, secondo le regole di una critica, se posso dirlo, in nessun modo 'temeraria.' Le mie autorità , i miei ragiovamenti , non sofferirono contraddizióve ne’loro particolari, eme nechiamo felice. Si volle solamente avvertirmi che nel mio sistema sono alcuni fatti dubbiosi, e ricavati per conghiettura.  stato . co: Voleso e Proculo, sono stati proposti senza gran fatto fermarsi sopra la proposizione; non hanno preso sul serio la lor qualità di candidati, e sembrano avervi rinunziato essi stessi; finalmente sono messi innanzi in un tempo nel quale tutto che concerne le leggi relative alla successione regia era evidentemente suggetto di controversia, e dispuldvasi intorno alle basi stesse di questa parte della costituzione organica dello Io risposta, io vi ho presentato l'analisi, per così dire più condensata, delle tradizioni; lebo prese da prima quali si leggono; mi sono per 'messo unicamente qualche volta. o. Spesso la successione al trono in Roma s' è fatta contra ogni principio d'equità, d'utilità, e di convenienza reciproca de' cittadini. Perchè -- per qui contentarmi d' un solo esempio il quale abbraccia un lungo periodo d'anui -- non certamente a vantaggio del partito latino, o di quel deʼ sabini, sotto la dinastia etrusca, la dignità regia resta sempre nella fazion toscana. Grice: “Orioli philosophised on many topics. To Italian philosophers, who are OBSESSED, during their unstable political history, with political philosophy, his ‘research’ on the consulate proves helpful. He notes that Romolo had no son – so who to succeed him? Other than that, he was almost shot (Orioli, not Romolo) after trying to oppose what he called the Roman theocrazy – or theocracia – For Orioli there are various cracies: theocracia, democrazia, TIMOcrazia, and ARISTO-crazia.  PATRIZIO VITERBESE; CONSIGLIERE ORDINARIO DI STATO DI 3. S. P. DI M. MEMBRO DEL COLL  F1LOSOF. DELLA UNI V. DI ROMA, PROF. DI STOR. ANT. ED ARCHEOLOG. NELLA STESSA UNIY  fclA* PROF. DI FISICA NELLA UNIV. DI BOLOGNA CC. CC. MEMBRO CORRISPOND. DELL* A.   SC. MOR. E POL. DELL’lSTIT. DI FRANCIA, ACCAD. BENED. DELL’ ISTIT. DI BOLOGNA ,  UNO DE'TRE SOCI ATTIVI DELLA CL.DI LETT. DELLA REALE AC. DI SC. E LETT. DI PALERMO .  SOC. ONOR. DELLA IMP. E R. AC. DI SC. E LETT. DI PADOVA. SOC. CORRISP.   E R. IST. LOMBARDO DELLE SC. DI MILANO E DELL* IMF. E R. IST. DI VENEZIA , DELLA  AC. DELLE SC. E LETT. DI TOAINO...E DI MOLTISSIME ALTRE ACC. DI FRANCIA , GRECIA,  E ISOLE IONIE , NAPOLI E REGNO , ROMA E STATI PONTIF. , FIRENZE E TOSCANA ,  LOMBARDIA CC. CC. CC.    : M l' ì(? 0   POLITICI  j\r rro vjl    Con giunte dell' A.  NAPOLI   STAMPERIA DEL KIBRENO. Faites , mon garcon, faites, ré{K>nd lo vìeux radicai, et dites-leur aussi à ces hotnwes qui  ont cbassé et. ..et tous ceni qui ont osé ex printer un mot de se ns commun et d'humanité,  qui lapident Ics prophètes et éteignent l’esprit de Dieu, qui aiment le mensonge , qui  pensent ameoer le rógne de l’atnour et de la fraternité aree des piques , des bouteilles de  vilriol , aree le meurtre et le blaspbéme , dites-leur à eui et à tous ceux qui pensent  comme eux qu’un vieillard...dont les ebeveux ont bianchi au Service de la cause du peu-  ple..., qui contempla lecraquement des nalions en g'3 et qui entcndit les premieri cria  d’tm monde au berccau, qui, lorsqu’il était encore un enfant , vit venir de loin la liberté  et qui se réjouit en la voyant comme devant une fiancée, et qui pendant soixante pé ni-  bles années , l’a suivie à travers les soliludes ; - diles - leur que cet homme leur eovoie  le deraie r message qu’il envcrra sur cetle terre; dites-leur qu’ils soni les esclaves de leurs  convoitises et de leur r message qu’il envcrra sur cetle terre; dites-leur qu’ils soni les esclaves de leurs  convoitises et de leur r message qu’il envcrra sur cetle terre; dites-leur qu’ils soni les esclaves de leurs  convoitises et de leur s passioni, les esclaves du premier coquin venu à la laogue reten-  tissante , du premier charlalan veuu qui dorlote leur opinion pcrsonnclle ; dites-leur que  Dieu les frapperà, Ics fera renlrer dans le néa nt et les dispenserà jusqu’à ce qu’ils se soi-  ent repentis , qu’ ils se soieot fait des coeurs purs et de nobles ames , et qu'ils aieut re-  lenu les lecons qu’il s’ efforce de leur donner depuis quelque soixante ans ; dites-leur  que la carne du pcuple est la cause de celui qui créa le peuple, et que le malhcur toin-  bera sur ceux qui prennent les armes du diablc pour accomplir l’ceuvre de Dieu ? »   Sandy Mackate nel Romano Alton locke di Kingsley  Revue des deux Mondes. DUE PAROLE A CHI È PER LEGGERE    Stampo ancora una volta , cedendo alle lusinghevoli  istanze di parecchi amici miei, questi Opuscoli , a' quali  m’è altresì parulo bene d' aggiungere qualche annotazione  nuova dove V argomento s embravami o richiederlo , o me-  ritarlo.   Certo, che, s'io pongo mente, non alla benigna acco-  glienza soltanto , la quale a essi Opuscoli fecero que' che  m' onorano da lungo tempo della loro pregiata amicizia ,  e le mie povere cose hanno abito di giudicare con molta  indulgenza , ma sì a quel che altri , a me per lo addietro  ignoti, o ,per fermo, non congiunti d' alcun vincolo di an-  tecedente amistà, ne scrissero ne' giornali , o con priva-  te lettere me ne significarono , io debbo tenermi come ba-  stantemente ricompensato della quale che siasi fatica dura-  ta nel comporre le pagine che qui appresso seguitano.   Tra coloro che più contribuirono alla buona fortuna della  mia impresa ho debito di noverare principali i dotti e bene-  meriti scrittori del Giornale che ha titolo — Civiltà Catto-  lica — E so la mina degli sdegni a’ quali questo atto di  franca gratitudine è per metter fuoco nel campo nemico ,  poiché campo nemico non manca. Ciò non mi sarà impe-  dimento al fare lealmente il mio dovere di render loro pub-  bliche grazie.   .     II Giornale — la Civiltà Cattolica — è a troppi , e in  troppe sue parli un osso non poco duro da rodere. Nel di-  fetto d' argomenti logici , si può a libito dirigere contro  al valoroso drappello de' dieci o dodici campioni che vi  brandiscono cotidianamenle la penna, batterie, da ogni  lato , di que’ pessimi argomenti rettorici, che si chiamano,  in arte , argomenti ad odium , e ad invidiam : resisterà  però illeso ed invulnerabile agli strali spuntati de' loro sar-  casmi , come le legioni romane restavano salde ed immote  agli urli co' quali i barbari , nella loro impotenza , ten-  tavano spaventarle. Quando si sarà detto e ridetto , fa-  cendo l’ alto dello scherno e del vilipendio — È opera dei  rugiadosi — che si sarà provato con ciò ? Si sarà lascia-  ta una prova di più della misera e svergognata dialettica  del nostro secolo, rotto a tutte le perversità, ed avvezzato-  si a dare alle villanie valore di ragioni.   Tornando al mio proprio libro , censure fino ad ora ,  le quali valgano la pena d’ una speciale risposta, non le  ho vedute , nè udite.   Sunt quibus in dictis videar nimis acer, et ultra  Legem...   e , rileggendo a mente fredda , conosco l' acrimonia di  certe espressioni , la qual forse sarebbe stato meglio tem -  perare un po' più. Tuttavia , ben ponderata ogni cosa ,  ho creduto dover lasciare tutto come stava ; e ciò , in pri-  mo luogo, perchè questa in somma è una ristampa , la qual  non dee mentir al suo titolo ; in secondo luogo , perchè ,  al postutto , muri può dire che , contro ad alcuno sin-  golarmente, abbia combattuto e combatta con armi ripas-  sate alla còte samia. Il mio proposito fu ed è, non di fa-  re duelli, ma battaglie. Le persone io le ho sempre rispettate e le rispetto , perciocché ho voluto , e voglio , esser  libero ( ed esco ornai dalla metafora ) di trattare /’ errore  pervicace e spavaldo con tutta quella severità ed austeri-  tà di forme eh' et merita , e che un uomo , , il quale ha  sentimento di sua dignità , rifugge dall’ adoperar contro  all’errante. L’errante è, quanto alla carne ed allo spi-  rito , consanguineo e fratello nostro. Niun può sapere s'e i  non sia più presto un fanatico ed un illuso , che un perver-  so , od almeno un gran perverso. Ha sempre diritto al fare  in sé rispettare la santa emanazione del soffio divino ri-  cevuto , od ereditato , nella fronte. È sempre la creatura  celeste, che, se cadde , può rialzarsi , e che, quand’an-  che , per propria colpa, è in terra , e più al basso che in  terra , esser dee per noi , più ancora subbietto di compas-  sione , che obbietto di collera. Ma V errore staccato dalla  persona , l' errore lasciato in tutta la sua schifosa nudità,  non ha diritto ad alcun riguardo , e vuol essere trattato  senza discrezione , senza misericordia. Quanto a colui che  avendolo in sé incorporato, sé da quello non distingue, ed  a sé stima dette le ingiuriose parole, che quello solo feri-  scono , tal sia di lui.   Più di cosi non aggiungo. E forse non era nè manco  necessario dir così : tanto più , che , nell’ antica prefazio-  ne , ciò stesso, comechè più brevemente , aveva significato.  1 discreti perdonino. Gl'indiscreti riconoscano che queste  ciance premesse per lo meno non hanno il torto della pro-  lissità.   wmmm      PARERE D’ UN AMICO   INTORNO 11 MIO SAGGIO    Ho Ietto attentamente la prefazione , e le due dissertazioni  vostre. Io credo che abbiate ragione. Avete però del pari  prudenza? - II mondo è oggi troppo malato. Certe verità  dette con durezza qua e là soverchia fanno l’effetto del dito  stropicciato sulla piaga viva. Il meglio che vi possa accade-  re è di non esser letto. Se leggeranno , le grida saranno al-  te .... terribili. Perchè stuzzicare il vespaio? Ciò non è de-  gno della vostra vecchia esperienza. Il passato non vi ba-  sta? Pensateci.   RISPOSTA   Ho pensato .... e stampo la prefazione, e le dissertazio-  ni. Le considerazioni che mi schierate innanzi hanno molta  verità, ma non mi rimuovono dal mio proposito.    Jigitized by Google    La prudenza ! - Sta ottimamente. La prudenza è però  spesso il soprabito della vigliaccheria ; e in questo caso non  è niente altro che un belletto dell’egoismo.   Per non incorrere nel male proprio .... per non turbare  la propria pace .... per non tirarsi addosso disturbi o peggio .... per non guastar, come suol dirsi, i fatti suoi, s’ban  da lasciare, senza darsene per intesi, le menti umane sem-  pre più travolgersi , le opinioni sempre più corrompersi ,  certa gente accrescer la pervicacia nell’errore, e propagar-  lo a tutto potere.   Sentendosi bollire in corpo la verità utile, ed affacciarlasi  alla bocca , s’ha da ringhiottirla , o sputarla ( scusate la pa-  rola ) nel fazzoletto e poi rimettersela in tasca, quand’an-  che s'è persuasi, che a gittarla là alla palese sarebbe bene ;  che questa verità messa in pubblico sgannerebbe alcuni r  eh’ essa suonerebbe alto all' orecchio d’altri, e servirebbe a  svegliarne il coraggio addormentato , o gioverebbe almeno  a restare come testimonio a’ futuri che v’è, pur tra noi,  qualcuno , il quale ricusa le complicità , protesta virilmente  contro alle cattive e rovinose dottrine, se ne sdegna com’è  il suo debito, ed è disposto a mostrare, che chi sproposita  e minaccia scompigli e rovine, invano si confida d’avere il  monopolio della franca ed ardita parola.   Io vi ringrazio, caro amico: ma voi m’amate troppo.  Non pensando , che al mio privato materiale vantaggio, ave-  te dimenticato a mio prò il resto del mondo. Io sento d’ a-  marmi men di quel che voi mi amate.   Intendo benissimo , che scrivere com’ io scrivo , è pre-  pararsi disgusti .... e forse peggio. Ma considero ch’io son  vecchio, e nell’ ordine naturale poco ancora mi resta a vi-  vere. La mia povera e caduca persona non è ornai di tal  prezzo che siavi interesse per me a risparmiarla. È lungo  tempo da che ho perduto il sapor delia vita , e che le sue  dolcezze non mi fanno gran gola , nè le amarezze grave of-  fesa al palato. La lode è un amo che non mi passa la pelle.  Il biasimo ( dove creda non meritarlo ) è un’ortica che non  mi punge. La minaccia è contro a sì poco che a tenerne con-  to è una miseria. Di me sarà quel che piace alla Provviden-  za. Nella minuzia di tempo che a vivere mi rimane , vorrei  pur fare il bene nella maggior misura che posso, a qualun-  que mio costo. E poiché il pubblicare queste mie carte mi  sembra, che o in una guisa o nell’altra qualche bene possa  recarlo, perciò le pubblico. Al mio male quale che siasi,  dunque, non ci badate, com’io non ci bado. Fate conto  ch’io sia soldato. Sarebbe pur bella che al soldato si consi-  gliasse di pensare alle ferite, alle quali battagliando s’es-  pone !   Per altra parte, a me tocca ricomperare il tempo perdu-  to, ed affrettarmi a farlo. Troppo mi dorrebbe il lasciare di  me tal memoria in questo mondo che dia giusto diritto a  suppormi quale certe antecedenti particolarità della mia vi-  ta possono aver fatto credere ch’io mi sia.   Non nego, e sarebbe ridicolo il negarlo, d’avere avuto  anch’io le mie politiche illusioni ( certo però non quelle di  gran lunga , le quali oggi corrono il mondo , e sono in gran  favore presso tanti ). Sento il dovere di far conoscere a  qualunque prezzo ch’io non sono mai stato da confondere  col più de’ cosi detti liberali d’ oggidì, e che istruito ornai  io-  ti all’ esperienza, non sono nemmen da confondere con quel-  l’io che già fui, e molte mutazioni ho in me fatto. Costi  ciò tutto che s’abbia da costare al mio amor proprio, vo-  glio che Io si sappia. Gli altri posson tacere ; io non lo pos-  so, nè Io debbo.   E so che dirassi da taluni ch’io adulo que’che regnano.  Veramente crederei che tutta la mia vita passata m’avesse  da essere scudo contro alla bassezza di questa accusa ; tanto  più che quegli stessi i quali la daranno (dove tuttavia que-  sto ardiscano ) , dovrebbero ricordare , se quando essi re-  gnavano pur testé , io li adulava. Sarebbe avere aspettalo  un po’ troppo tardi a mutar natura. . . .   Ma voi dite eziandio , che il mondo è troppo malato , e  che le sue piaghe non vogliono esser toccate com’ io qua e  là le tocco , senza molta discrezione. Caro amico ! la vostra  seconda proposizione distrugge la prima. Se accordate che  la malattia del mondo è grave , pretendete voi di curarla  coll’acqua di gramigna? Eh si: vi son medici che non curano  le malattie, ma si contentano di guardarle. Se morte soprav-  viene, tanto peggio pel malato. Il medico se ne lava le mani.  Io non sono di questa scuola. Vi sono piaghe che han fatto il  callo, evoltano tutta la malignità aldidentro;ed allora l’arte  insegna di trattarle col caustico. Si fan cerimonie, e si ri-  sparmia la sensibilità quando il male é leggiero; e questo ,  per vostra confessione , non è il nostro caso.   Da ultimo io vi prego a considerare ch’io mi guardo scru-   *   pelosamente dall’attaccare le persone. Il mio dogma é -  Parme personis , dicere de viliis. Contea il male non mai  congiunto al nome di tale o (ale altro, credo mio diritto, e — li —   mio debito scagliarmi con tanta più veemenza quanta mi  sforza ad usarne l’animo grandemente commosso. Delle per-  sone io non sono, non voglio, e non debbo essere il giudi-  ce; nè v’è il prezzo dell'opera ad esserne il pubblico accu-  satore. Per altra parte il pubblico non perde nulla per ca-  gione delle mie reticenze. Le persone s’accusan da sè. La  loro moda è di non dissimulare quel che pensano , quel  che vogliono, quel che van facendo. Per chi’ scrivo? Pei popolo? Il popolo non legge. Tra  que’ che leggono , gli uni non han bisogno di leggere ciò  ch’io scrivo , perchè ciò eh’ io scrivo è quello che essi me-  desimi scriverebbero se avessero a scrivere. . . quello che  sanno già , e di che sono persuasi tanto quanl’ io lo sono.  Gli altri , nel maggiore lor numero , son oggimai venuti a  tale, che, quand’anche io fossi aitr’ uomo da quel che so-  no , cioè, quand’anche fossi più eloquente oratore di De-  mostene e di Cicerone, e più stringente ragionatore di Zeno-  ne, e d’ Aristotele , non si lascerebbero smuovere dalle opi-  nioni loro, delle quali han fatto carne e sangue. . . una  (falsa) religione... un culto... una necessità... una parte prin-  cipalissima , e la più soave, delia lor vita interiore ed ester-  na. Ove fosse pur possibile che consentisser d’aprire gli  occhi dell’ intelletto alla luce de’ ragionamenti , e si lascias-  sero illuminare nella cecità alla quale son venuti di deli-  berato e volontario proposito, e vedessero, perciò vinti, il  bisogno d’ abbiurare la politica fede in che Guor vissero e  giurarono di morire , non oserebbero farlo, vincolati, come sono (impavidamente diciamolo), alle sette che li tiran-  neggiano e ne tengono in catena ogni libertà. Cosi , solo a  pochissimi , posso io rivolgere la parola con qualche spe-  ranza che sia per tornare non inutile; e son que’ pochissi-  mi, i quali non tanto innamorarono del creder nuovo, che  di questo credere abbiano a sè fatto una passione , e non  un legittimo atto della facoltà intellettiva, al quale sian  giunti per lavoro di ragionamento , soggetto , come tutti i  legittimi atti di ragione , alla necessità di sottostare alle  leggi che governano la potestà raziocinante , e che debbono  dominarla.   Io m’inganno però anche rispetto a essi ultimi. Noi vi-  viamo in un secolo , nel quale la ragione stessa è come mor-  ta dell’abuso che se n’è fatto esagerandone i diritti , e fal-  sificandoli.   Due già erano , dal tetto in giù ( e voglio dire nelle que-  stioni dove rivelazione non ha luogo ) gli elementi neces-  sari — coessenziali.... tendenti a rafforzamento reciproco,  per dare fermezza alla morale governatrice delle volontà e  delle azioni umane, ragione (d’individuo) , ed autorità (col-  lettiva dei più savi , la cui ragione siasi guadagnata , per  ogni correr di secoli , maggior fede presso l’universale, che  le spicciolate ragioni di tale o tal altro o di stuoli compara-  tivamente piccoli, e d’un opinar dissonante ). Il qual se-  condo elemento ( l’ autorità ) è dunque ( a ben considerarlo  nella sua vera e giusta natura c quiddità ) ragione aneli’ es-  so, ma una ragione preponderante e superiore , come quel-  la che non è il giudicare soltanto d’ alcuni separatamente  presi , e ristrettisi nella lor propria e privata impotenza ,  fallibilità e pochezza, ma è la quinta essenza delle ragioni  dei più ( chè questa sola, dai tetto in giù, pur sempre , in  certe questioni di senso comune , è l’ autorità vera o legit-  timamente sovrana ). £ dico dei più , o sia che si contino  nel numero, -o che si pesino nel valor loro intellettuale: i  quali perciò , quanto son maggiore stuolo nel lor consenso prestato a equipollenti sentenze .... quanto rappfesentan  meglio, colla lor somma , tempi e scuole e popoli diversi...  quanto hanno maggiore e più costante comunion di pareri,  non ostante la diversità di sangue, di luogo, d’educazione,  e di tutte le secondarie influenze, tanto fan più sicuramen-  te una forza morale, clic è forza di natura, non d’arte , e  che è qualche cosa più potente e più salda che la tanto og-  gi predicata sovranità del popolo; poiché èia sovranità,  non d’un popolo, ma la sovranità della specie umana tutta  intera , esprimente il suo voto colla più legittima e la più  autorevole delle maggioranze possibili ad ottenersi.   Or noi, uomini del secolo XIX, de’ due soprannominali  elementi, uno e il più gagliardo, ripudiammo... Y autorità-,  ed abbiamo chiamato sovrana unica la ragione (d’individuo),  cioè V anarchia!   Noi , tutti o quasi tutti (dico noi ragionatori nel popolo ,  e consenzienti a ragionamento ) abbiamo stabilito in cuore  questo primo articolo del nostro atto di fede politica. Io  non crederò mai che quello che persuade il mio proprio in-  telletto; e quel che pèrsuade il mio proprio intelletto io io  crederò conira ogni persuasione degli altri , contra ogni dot-  trina di sapienti o di popoli , contra ogni sperienza di pre-  senti, di passati , o di futuri, contra ogni domma di reli-  gione, contra ogni legge di governi... E stabilita una volta  questa democrazia delle fedi... decretato anzi , che, in ar-  gomento di fedi d’ogni genere , non è governo alcuno pos-  sibile, ma gli uomini han tutti naturale e iualienabile di-  ritto d’indipendenza reciproca ed assoluta . . . dove ornai  vassi , ed a che? posto che le fedi , cioè le persuasioni del-  l’ intelletto , sono il perno, sul quale s’appoggiano per muo-  versi le volontà umane. C’è più possibilità di leggi? C’è  più speranza d’obbedienze, altre che tirate colla forza ma-  teriale? C’è più virtù di logica? C’è più società ?   (li ISullius addiclus jtirare in rerba mtigtstri  ama ogni giovane dire di sè slesso uscito ap|»ena dalle scnole di quella filoso- [Persuadetemi , noi diciamo , e mi piegherò ad obbedire ,  senza combattere il vostro comando con ogni mio mezzo.  Persuadetemi che quel che m’insegnate è vero, e quel che   lia , che oggi , sotto Dome d’ eclettica, invade un grandissimo numero di scuo-  le , e quel eh’ è il peggio , anche colla innocente approvazione , e sotto il pa-  tronato , di maestri ottimi , i quali mostrano di non aver ben compreso a  quale indirizzo con ciò guidano gl' illusi discepoli. Se l'avesser compreso , si  sarebbero accorti , che professare eclettismo è professare la negazione d’ogni  vera certezza, riducendo quella maniera di certezza , che pur si concede, ad  un fenomeno d’individuo senz’alcun valore per gli altri individui liberissimi  di preferire ciascuno la stia propria certezza alle opposte altrui , comechè  d’un numero quanto sì vuol grande, c consenzienti in una medesima oppo-  sta sentenza.   L'eclettismo non è una filosofia, ma una negazione della filosofia quale  scienza altra che opinativa. Essa è anzi peggio che ciò , perchè mentre nega  una certezza intrinsecaad ogni filosofia d'individuoo d’individui (per numerosi  eh’ essi siano nel consentimento ad una stessa filosofìa) , e mentre non s’ av-  vede , che con ciò viene a negare, per conseguenza, ogni autorevolezza in-  trinseca a tutte le certezze individuali, confessandole tutte intrinsecamente  incerte , accorda non pertanto a ciascuno il diritto di fidare nella propria  certezza , e , quel eh' è il più, il diritto di regolare le proprie azioni a detta-  to di questa incerta certitudine : ciocché viene a dire , che , nel tempo stes-  so nel quale afferma la fallibilità di tutte le certiludini individuali, afferma  nondimeno f infallibilità loro nell’ applicazione all' individuo , dando a esse  il diritto d’ingannarlo , e all’individuo il diritto di seguitare unicamente que-  sta guida fallace, quando , a proprio esame , non gli paia tale. E cosi , in luo-  go d’ una morale , viene a stabilire e farne legittime tante quante piu vuoisi  o non vuoisi.   L'eclettismo non è nè manco un metodo, come alcuni spropositando dis-  sero , perchè non indica- una speciale strada da seguire nella ricerca del ve-  ro. Esso è niente più che una professione di libertà e d' indipendenza nell’opi-  nare ; è un assoggettamento a niente altro , che alla ragion propria.   Filosofia eclettica è parola che non ispiega nulla quanto alla natura delle  dottrine. Dice solo che il libro , il quale reca in fronte questa parola , è scrìt-  to seguitando il dettame della ragione dello scrittore , fattosi giudice supre-  mo d’ ogni ragionamento ed opìuamento altrui. Cosi , tutte le filosofie , per  diverse che siano , c 1’ una all' altra contraddicenti , possono intitolarsi , del  pari, eclettiche, e tanto più eclettiche, quaulo più professanti indipen-  denza.   Messo taluno alte strette , crede d'aver salvato a bastauza la mala parola  si fecouda d’errore, rispondendo che il filosofo eclettico, quando accorda  alla ragion propria l' autorità che pur le accorda secondo il canone fonda-  [che nii comandale è giusto . ... Ma siam noi tutti atti ad es-  sere persuasi? Gl’ingegni nostri son tutti di quella virtù, di •*  quell’addestramento, di quella purità e serenità, che li fa  esser buoni a intendere un raziocinio , a non lasciarsi illu-    men late dell’ eclettismo , parla della retta ragione, cioè convenientemente  usata e normale; e non s’ accorge, che , colla sua risposta o rinega la scuo-  la eclettica e la disdice , o ne lascia interi tutti gl’ inconvenienti ed i difetti.   Che cosa è la retta ragione, e la ragione convenientemente usata, e nor-  male ? Ad esclusione de' notoriamente pazzi ed universalmente tenuti per  tali , e perciò per non uomini , o per non più uomini ; e de’ rozzi ed incolti ,  che riscuotono risaie da tulli, e son tenuti universalmente per incompetenti,  ossia per non ancor uomini (i quali ultimi tuttavia del ticchio dell’ eclettismo  non vanno immuni , nè si di leggieri della loro autocrazia e indipendenza si  lasciano spodestare ; e il fatto odierno di tutte le filosofìe di piazza più che  troppo lo prova ) , ognuno di noi , che abbiamo il mesticr d’ occuparci di  studi e di stampa, crediam d’ usare la ragion retta, e convenientemente usar-  la con ogni normalità, e troviam facilmente, con poco impiego di senno ed  industria, un coro grande o piccolo di lodanti, il qual basta per darci persua-  sione, che la ragion nostra è per lo meno tanto retta e normale quanto quel-  la di chicchessia. Peggio è che vi son uomini , di ragione , per fermo , squi-  sitissima , e universalmente riconosciuta come tale, de’ quali, per conseguen-  za , mal si potrebbe dir che non hanno la ragion retta ed a ottima norma , e  non sanno usarla ; e pur mostrano , col fatto , che le loro ragioni li conduco-  no a dottrine opposte....   0 vuoisi dire che la ragion retta e normale si riconosce a certi criterii  suoi , che non sono della ragione d’ individuo , ma sono d’ una universale  ragione, a' quali criterii debbono le ragioni individuali commensurarsi, accet-  tandoli per una norma estrinseca alla quale debbano affarsi ? Ma ecco dunque  rinegata allora e disdetta veramente la scuola eclettica , e confessato il biso-  gno d’un dommatismo,' al quale debba soggiacere ogni opinar privato, per-  duta la libertà della ribellione c l' indipendenza....   Facciasi tutto che vuoisi , ci è appunto nella filosofia necessità d’ un dom-  malismo dominante i capricci e le contraddizioni degl' ingegni in certe fon-  damentali questioni costitutive del viver morale e civile. L 'eclettismo potrà  permettersi all’ amor proprio d’ognuno nelle altre questioni , come una con-  cessione di poco o niun nocumento. E nondimeno , anche in quelle , il giu-  dizio dell’ individuo dee sottostare al senato degli uomini che si chiaman  competenti . . ..   Ma questo non è un argomento per una nota, per la quale il poco che se  n’ è detto 6 troppo , mentre ciò che ad una nota è troppo , ad una trattazione  conveniente è men che poco .   ] dere da un sofisma , da un paralogismo , a por nell’ esame  * delle questioni la necessaria preparazione di scienza, a spo-  gliarsi di tulle le prevenzioni dell' intelletto , dell' affetto ,  dell’interesse? Siam tutti veramente uomini ed uomini ma-  turi; o molti di noi non sono, e non restano, fanciulli sem-  pre , e non sono , e non restano , bruti , o quasi-bruti ?   A tutto questo nessun pensa a rispondere. Il primo arti-  colo del simbolo de’ nuovi pseudo-apostoli sta pur fermo.  Io non crederò , se non mi persuadete; e non farò di buon  accordo , e senza resistenza , che quello che sarà conforme  al mio credere !   Dirassi eh’ io esagero gli errori del tempo presente. J)i-  rassi , che non tutto alla sovranità del proprio intendi-  mento è dato , ma non è , nel fatto , chi non fortifichi , an-  cor oggi , le suggestioni del proprio intendimento coll’ au-  torità di numerosi stuoli d’ amici e d’ uomini del proprio  partito , ovunque sparsi , e in più d’un paese predominan  ti. Aggiungerassi , che la fede nou è atto di libertà , ma di  coazione morale , alla quale l’ intelletto-, che nou è po-  tenza libera , non può resistere : ma faci! cosa è dare ri-  sposta.   Si , per fermo. Contro alle necessità imposte da natura  non cosi di leggieri vassi. O vogliasi , o non si voglia, non  si può restar soli del proprio parere , se nou s’ è monoma-  niaci , che è dire malati di cervello. L’istinto stesso ci spin-  ge a metterci all' unisono con altri , verso i quali ci attrag-  gono simpatie naturali o artificiali, e a’ quali si crede, per-  chè si crede a noi medesimi : e v’ è in noi tendenza al for-  marci un mondo di que’ che ci accostano , e che accostiam  noi , magnificando ed esagerando il valore e il numero lo-  ro. Cosi, quando il mondo che ci siaui fatto pensa e crede  come noi , e noi crediamo e pensiamo come quello , ci pal-  elle qiiesta universalità parziale e locale valga la vera uni-  versalità potente a vincere tutte le contraddizioni. Ma può  ella esser questa l'autorità destinata a fare spalla alla ragion privala di chicchessia, o ad essere uno de’ due puntelli del  I' uomo , postigli da due lati per impedirgli il cadere ? La  specie umana è forse un partito, ed è una ragion di partito  la ragione umana? I partili forse non s’ingannano , e non  ingannano? Non hanno passioni che velano il giudizio? Non  hanno interessi che muovono le passioni? O nou v’é obbli-  go , nelle grandi questioni umanitarie , non di misurare il  proprio deliberare e credere col deliberare e credere di ((ud-  ii , o pochi o molli, a’ quali ci stringono i nostri interessi e  i nostri affetti, ma di misurarlo con quel che delibera e cre-  de la sola legale maggioranza del genere umano, cioè quella  che si raccoglie in una somma, comprendendo nel computo  i popoli di tutte le età, di tutte le stirpi, di tutte le regioni, e  dando particolar valore a que’ che si reputaron sempre i più  savi, i più probi; e riguardando un po'nella verificazione delle  dottrine ( in virtù di quell’argomentazione che i dialettici  chiamano ab absurdo) ai grandi ed ultimi conseguenti loro, i  quali , se contrari alla perfezione della specie intera, signi-  ficano , con ciò stesso, efficacemente, la falsità d e’ principii,  donde que’ conseguenti discendono? E istituita questa misu-  ra e questa comparazione , non bassi egli obbligo, per una  generale norma , di dar sempre più valore all’espressione  ultima di quel sentimento della vera maggioranza degli uo-  mini, che al sentimento suo proprio, e de’ suoi colleglli ed  amici, per numerosi che paiano e siano? o siani venuti a  tanto stravolgimento di logica , che ornai l’ autorità di ciò  che si chiama il senso comune , ed è appunto il da noi de-  scritto in ultimo luogo , è distrutta ed annullata ?   Dopo di che, qual forza ha più l’altra obbiezione dedotta  dal supposto, che l’inlelletto non soffra violenza, e che, ri-  spetto al credere, non si è liberi di credere quel che si vuole,  ma si è costretti a regolare la propria fede secondo la luce in-  teriore, d’onde essa fede ha unico procedimento? Ammetto  il fallo: sebbene, anche in ciò, molto dipende dalle prepara-  zioni estrinseche della monte, e dalle disposizioni del cuore. Pur liberalmente lo ammetto. Ma, dal fatto cosi ammesso, qual  diritto scaturisce ? Forse che regolar dobbiamo le nostre a-  zioni interne cd esterne, secondo la suprema norma di quel  che all’ intelletto nostro pare unicamente vero? Non già.  L’obbligo è d' umiliarci , e di riconoscere , una volta per  sempre , l’inferiorità del nostro intelletto, quando ci accor-  giamo che i privati opinamenli nostri son contraddetti dalla  grande universalità degli opinamenti dell’umana famiglia ,  considerata nella totalità sua presente e passata; e di lasciare  allora da parte il falso lume del proprio intendimento per  diriger noi e le cose nostre coll’altro lume tanto più si-  curo , eh’ è il lume a cui demmo il nome di cornuti senso.   Ed intendiamoci bene , a evitar tutte le ambiguità. Qui  non parliamo delle questioni , intorno alle quali il cornuti  senso non ha luogo, ne competenza, nè autorità... di quelle  questioni , che non son fatte per esser trattate da tutti , e  che non bisognano a tutti per la -loro normale esistenza e  sussistenza... Qui si tratta di quelle questioni, le quali pos-  sono e debbono chiamarsi le grandi questioni del genere  umano: le grandi questioni teoriche, fondamento sommo   da fatti appartenenti ad un tem-  po di tralignamento , a svantaggio e discredito delle aristo-  crazie , non può in nulla percuotere le dottrine che qui si  professano. La questione allora sarà al più , se i ceti aristo-  cratici possano mai realmente preservarsi dalle mutazioni  che li fan perniciosi più presto che utili , e ridursi a tale di  conservare piena conformità col tipo migliore , o di rigua-  dagnarla ; ciocché per me non è nemmeno una questione ,  e non può esserlo per alcuno , il quale tutta la potenza del-  le buone arti educatrici conosca.   Risaliamo dunque , ripeto , al tempo di certe vere ed an-  tiche aristocrazie cavalleresche , normalmente condotte a  quella natura , che aver denno per essere dell’utile specie  da noi voluta , e spesso stata e vedutasi nel mondo. In esse  voi troverete familiari alcune virtù sommamente utili al  popolo , e diffìcilmente reperibili altrove nel numero e col-  l’abbondanza che più sono desiderabili.   Chi noi sa ? Nelle prosapie aristocratiche , principalmente , se non unicamente , può sperarsi- di trovare , ad ogni  necessità , i veri patres palriae , preparati a tutti i bisogni ;  cioè quegli uomini autorevoli , potenti , coraggiosi , avvez-  zi a mettersi fuori si dignus vindice nodus , godenti già il pri-  vilegio d’essere ascoltati con riverenza , con effetto , assen-  nati , sperimentati , periti , probi , pe’quali è fatto naturai  dono, ancor più che artificiale , tutto che è generoso , no-  bile , magnanimo , eminentemente civile ed utile a civiltà ;  e prima la lealtà oggi si rara , il eaudore , la fede , la in-  corruttibilità , la fermezza , il disinteresse , la franca ed in-  violata parola , quella che proverbialmente pereiò si dice  parola di cavaliere ; il mantenere a qualunque costo i patti e  le promesse ; il non mai mentire ; il religioso astenersi da  ogni cosa vile o brutta...   Non è la santità de'perfelti in religione , nobil dono di  Dio , e privilegio sommo di grazia , sdegnoso per solito di  queste cose terrene e caduche ; è la virtù antica e civile ,  una cosa illibata , ingenita , uscita dai paterni lombi , ed  avuta da natura , più ancora che da innestato ammaestra-  mento ; che perciò non costa fatica, nè sacrificio, ma è ab  ovo e per traducem, fin dal primo impasto dell’uomo e della  razza. — Con questo, è l’abitudine dell’ anteporre l’interesse  pubblico ed altrui al proprio e privato... è la naturale ge-  nerosità e larghezza... è il preferire quasi istintivo del retto  all’ utile... è la disposizione avita di tutte le cosi fatte stirpi  a eminenza di cittadine virtù ed attezze... il primeggiare  nel ci vii senno e consiglio... il gittarsi innanzi, come il ’  prode destriero al romore delle battaglie , anche non chia-  mati , nè pregati , né desiderati , in tutti i grandi e solenni  bisogni della cosa pubblica , senza risparmio di sè e delle  sue fortune... il trovarsi pronti e preparali a soccorso , a  protezione , a sosteguo , a sovvenzione , a incoraggiamen-  to , a guida , a ufficio di capitani e di porta-bandiera. E  I’ esser sempre caporioni agli altri nel bene , e caporioni  efficaci , ascoltati , sentiti , rispettali , obbediti... l’aver coraggio civile o militare secondo clie fa d'uopo... il guarda-  re dall'alto al basso il puro e vile materiale interesse , e il  cercar sempre nelle questioni il lato della moralità e della  giustizia...   Non mi state a dire che queste qualità preziose son rare  come le mosche bianche. Rare forse oggi , vi ripeto : ma  non rare in ogni tempo ; non rare quando gli uomini s’e-  ducavano a modo antico. E se si riusciva ad ottenerle ,  quando a quella forma s’ educavano essi , io non veggo ,  perchè richiamando le stesse cagioni , non s’abbiano ad ot-  tenere , e non si possauo , gii stessi effetti.   Non mi venite a soggiungere , che altrettanto e meglio ,  per forza di conveniente educazione, puossi ottenere fuori  delle privilegiate caste. L’educazione è cosa sempre troppo  artificiale , e troppo perciò difficile a condursi a buon ter-  mine , se natura non agevola , e condizioni intrinseche non  favoriscono ; e l’una e l’ altre non favoriscono , se fin dai  primi istanti non concorrono ; e dai primi istanti non con-  corrono che assai di rado , e solo con qualche frequenza ,  quando certe disposizioni son fatte dono abituale per lunga  serie di generosi avi , e quando ogni cosa che è intorno le  seconda. Imperciocché indipendentemente da quel che allo-  ra è dato per una felice armonia del fisico col morale im-  prontata per concepimento , v’è lo spontaneo innesto che  nou può mancare a chi è uato in mezzo alle morali qualità  che si voglion generate ; a chi le ha trovale in casa , e n’è  stato cinto da ogni parte fin dalla prima infanzia -, infine a  chi non ha incontrato , anche uscendo" di casa, che quelle ,  come cosa propria della casta in mezzo a cui vive. Le quali  cose tutte non sono , per fermo , allo stesso modo , in uno  stato dove non è che democrazia, pe'figliuoli degl’ingenliliti  da un giorno , e degli arricchiti. Perchè in questi per solito  le ricchezze e l’innalzamento è dall’industria mercantile o  quasi-mercantile ; e l’industria delle mercature e de’com-    fu-    merei, pur troppo , a esser promossa, e tanto da generare  tesoro , ha bisogno d’accompagnarsi con amor di guadagno ,  e d’ esserne preceduta come da suo naturale stimolante :  amor di guadagno , che è passione per sè , non dirò vile ,  ma certo un po’ bassa , e non troppo generativa di virtù po-  litiche. Ed ha radice d’egoismo e d’interesse materiale e per-  sonale , due interessi che non poco penano a subordinarsi  all’interesse morale , tanto da contentarsi sempre delle se-  conde parti. Donde poi viene , che nelle case di si fatti (non  ch’io neghi molte onorevoli eccezioni) gli esempi non soglio-  no esser quali in quelle della vera e buona aristocrazia ; e  colla rarità di questi esempi va proporzionata la difficoltà  della fruttuosa educazione di che favellavamo.   Che se, pe’fin qui discorsi argomenti , s’ è dunque cercalo  di provare, che utile pertanto è l’aristocrazia, rispetto al crea-  re , con un buono e conveniente indirizzo , una schiera di  cittadini egregi, quali con arte di speciale istituzione appli-  cata a’ primi che presenta il caso , o la fortuna , è difficile ot-  tenerli; già possiamo a un altro argomento venire, e sarà l’ar-  gomento di un secondo e ancor più elevato interesse politi-  co, il qual consiglia a mantenere, quantunque dentro giusti  contini, un ceto aristocratico nello stato; c questo è l’inte-  resse cornai at or e. Il quale interesse, naturale antagonista del-  V interesse riformatore , molti non vogliono conoscere utile ,  perchè non vi pongon mente : e , non avvertendolo , non se  ne fanno una chiara idea. Ma non perciò non esiste; e non è  rilevantissimo, e tanto anzi più importante, quanto le forme  del governo son più liberali, e tengono delle repubblicane,  o delle rappresentative e democratiche, e quanto v’è più  grande l’autorità delle turbe popolari.   Perchè il proprio delle democrazie, come in generale dei  popoli e de’tempi tendenti a democrazia , è, in politica, il  moto perpetuo. Un paese dato o soggetto alla dominazione,  od alle forti influenze de’ capricci , di quello che fu e sarà sempre varium et mutabile vuigus , è come dire un terreno in  man d’una compagnia d’ agricoltori , ognun dei quali vuol  coltivare a suo modo ; e dove , secondo che uno riesce a  prevalere sull’ altro nella lotta delle volontà, e nella perti-  nacia e nella validità de’ contrasti, distrugge l’opera de’com-  pagni, e rilavora, e risemina a suo modo. Il qual terreno la-  scio decidere a chicchessia se può mai prosperare , e dare un  frutto che valga le spese, e le fatiche periodicamente aborti-  ve. Un tal paese è sempre sul disordinarsi, e riordinarsi per  disordinarsi di nuovo, e tornare ad ordinarsi: come ciò ac-  cade del mobile campo del mare a ogni nuova aura che spi-  ri , non importa da qual parte. Le leggi non vi durano. L’e-  spcrienze lunghe non vi si maturan mai. Le fortune vi sono  instabili , come le dignità , come le influenze , come le ric-  chezze, come le risoluzioni. Ora un tal paese, per avere una  qualche speranza di requie, e di rallentamento negl’impeti  inconsiderati del moto, ; per non lasciarsi perpetuamente al-  lucinare da false apparenze di mali, da false apparenze di be-  ni, giudicate secondo la prima impressione, e guidanti a fatti  spesso inconsiderati e rovinosi, ha bisogno che sia , nel po-  polo, un certo numero di cittadini saldamente potenti (cioc-  ché non vuol dir prepotenti), i quali mettano nella bilancia  disposizioni opposte ; cioè appunto quelle disposizioni che  si chiatnan conservatrici , com’é il proprio delle aristocra-  zie, alle quali tutto fa invito a temere i troppo rapidi mu-  tamenti , e a temperarli , facendo per propria essenza l’officio del regolatore nell’ orologio , e della scarpa nel carro,  non per arrestare l’ andamento, o per voltarlo io contrario,  ma per fare necessario contrasto alle accelerazioni dissenna  te, e per impedirne le aberrazioni pericolose. Né voglio, a  provarlo , altra dimostrazione che quella delle prove stori-  che, dalle quali risulta che nessun paese prosperò mai lun-  gamente, dove un robusto ceto aristocratico non si ponesse  in mezzo tra le facili velleità delle plebi e de' municipii, tra  i piccoli e gretti interessi del terzo stato ... tra le tendenze agli abusi del potere in più alto luogo; c non concorres-  se con ciò validamente e in modo principalissimo alla costru-  zione diffìcile del buon governo.   Finirò enumerando i beni accessorii , che a lutti i prece-  denti van connessi. Unicamente coll'aristocrazia, che si tie-  ne ancorala sopra una ricchezza immancabile ( non fluttuan-  te , non fortuita , non nata oggi o ieri , c non destinata a  perire domani), e sopra tradizioni antiche di potenza, e so-  pra le aderenze numerose e gagliarde che la corroborano ,  e la fan per cosi dire immortale , sono possibili, od almen  frequentissimi , tanti abbellimenti delie città ; que’ palagi ,  de’quali parlavain sopra, che sffdano i secoli, e che son co-  me reggie; i musei, le ville, i parchi, le splendide ed ere-  ditarie proiezioni alle belle arti di lusso , alle lettere , alle  scienze; i costumi gcutili, il secolo di Leon X, la conside-  razione al di dentro, e al di fuori, la dignità c il decorodelle  nazioni. Solamente coll'esistenza di famiglie, la cui podero-  sa influenza sugli uomini e sulle cose abbia grande ed anti-  co ed esteso fondamento , è lecito sperare ad ogni privato  facili appoggi e saldi nelle solenni necessità d’ogui genere ,  ferma resistenza contra ogni nemico interno od esterno che  minacci lo stato e la città , c perfino la miglior guarentigia  possibile contra gli abusi d'autorità, procedenti da ogni alto  luogo. Questi abusi , possibilissimi anzi dove non sono che  governo e popolo più o meno minuto, e qua c là ricchi sen-  za consistenza e senz’ altra fede che nella loro pecunia, non  possono esistere o sussistere gran fatto dove quel terzo ele-  mento dello stato è fortemente costituito su basi ben radi-  cate che non tremano ; le combinazioni ternarie , in queste  faccende, piu essendo valide ad impedire le abusive preva-  lenze da qualunque parte , c quindi le prepotenze di qualun-  que origine. Ivi i facili rivolgimenti c sconvolgimenti trova-  no remora gagliarda e principalissima, distrutta la quale i Ire-  muoti politici si succedono a ogni piè sospinto ; e dura pròva più d’un paese n’ha falla in questi nostri lagrime volissi-  ini tempi. Di qui è che la sapienza antica , per voce di Plato-  ne c di Cicerone, cosi appunto sentenziava ne’ libri De repu-  blica. Si ama favellare soltanto delle soperehierie de’ nobili ,  di certe violenze che alcuni di loro si permettono, di certi  mali ch’essi han prodotto. Bisogna, com’ io diceva, pesar più  giusto, e mettere su la bilancia nell’ altro piatto i vantaggi.  Quando avrete distrutta la nobiltà , e avrete solo tollerato  quella ineguaglianza di fortune , che non siete padroni di di-  struggere, e che resisterà ad ogni vostro tentativo livellato-  re , avrete tanto e tanto le stesse violenze e le stesse soper-  chierie da que’che avranno la prevalenza di fortuna, ma le  avrete senza il correttivo ed il freno che per sua natura è  chiamalo a mettervi il buon patriziato per una dicevole edu-  cazione e tradizione. Servio Tullio, fin dai tempi regii di  Roma , non annullò questo ; ne moderò i poteri ; e provvi-  de con ciò alla fuUira grandezza di quella ch’era destinata  ad essere la capitale del mondo. La elevazione di Roma re-  pubblicana è dovuta principalmente al suo senato di patrizi.  Le successive invasioni della plebe alzaron molli di quesla  sino a quello, cd era giusto ; non abbassarono quello fino  a sè, che sarebbe stato follia. . . distruzione di Roma. I Ce-  sari lolser di mezzo, o snaturarono l’organo politico, pel  quale Roma dominò la terra ; eslcrminarono le grandi fami-  glie, fecer perire l’ antiche tradizioni , tolsero ogni impedi-  mento , ogni potestà tra sè e il popolo , e con quale effetto  non ho bisogno di ricordarlo ad alcuno. Venezia ed Inghil-  terra. . . la Venezia de’ passati secoli , l’Inghilterra d’oggi-  di, son altra prova storica e splendida della mia tesi. I so-  prusi e gli abusi di potere si possono correggere, impedire,  medicare; il male della mancanza della nobiltà è immedica  bile nel materiale e nel morale. . .   E la nobiltà è zero senza ricchezza ; e la ricchezza è labi-  le senza fedecommessi. Dunque i fedecommessi, oltre al non essere ingiusti , oltre all'essere senza detrimento al paese che  li ammette, gli sono necessari (1).    (1) Di qui è , che, a mio senso guardando alla ragion politica , possono nel-  r eredita fidecommissaria difendersi anche certe sostituzioni , e certi passaggi  di famiglia a famiglia come mezzo di perpetuare i gran nomi , la memoria  de’ grandi servigi , e gli obblighi che queste memorie traggon seco. L'argo-  mento è degno per lo meno di nuovi esami. Non è il mio Bne l’intraprenderli.   N- B. Dopo stampale , una prima ed una seconda volta , queste lettere , un  vicino paese fu , nel quale i maggiorati s’ abolirono , disputatone prima , co-  me e quanto lo si poteva aspettare , nella camera dei suoi deputati , e nel se-  nato de’sapienti del luogo. Nè negherò , che , vista la coedizione de'tempì e  delle opinioni , il conservarli sarebbe quivi stato un’ anomalia ; certo una dis-  armonia con tutto il resto. Nel fallo , si guardi meno alla quistione assolu-  ta , che alla relativa ; e meno la relativa al piti o manco di vantaggio del po-  polo, e in generale dello stato, ebe ia relativa all' andamento politico in cui  lo stato s'è colà messo, ed alle necessità che ciò s'è tratte dietro. La questione giudicata oggi cosi sta donque forse bene. Bisognerà vedere se ugualmen-  te starà bene domani. DELLA LIBERTA’ E DELL’EGUAGLIANZA CIVILE. -DEL GOVERNO  E DELLA SOVRANITÀ’ IN GENERALE. - DELLA COSI DETTA  SOVRANITÀ’ DEL POPOLO E DELLA DEMOCRAZIA. -DEL VOTO UNIVERSALE. DELLE RIVOLUZIONI E DELLE RIFORME NEI  GOVERNI EC. Al REPUBBLICA*! RICOVERATI IH IHGBlLTERRA  E ALTROVE   Il ne faut pas vous le dissiniuler. Le peuple, ainsi que  la bourgeoisie n’a nulle confianee en vous. Le  peuple rii de vos pasquinades politiqueset socia-  les: il vous a connus à l’oeuvre : il a jugé la puis-  sance de vos moyens et la fécondité de vos res-  sources; il a vu poindre , sous volre iniiiative ,  celle réaction que vous condamne/. aujourd'bui,  mais dont le principe est loujours vivant dans   vos vues et pour rien au monde il ne se sou-   cie de riimeltre nne seconde fois ses destinées  eulre vos mains.   Tranquillisez-vous donc , et quoi qu’ il arrive , ne  vous excilez pas le cerveau , ne vous écbaufl'ez  l.oint la bile. Acceptez en tonte résiguation le  repos que vous fait l’cxil , et metlez-vous bien  dans la téle qu’à rnoins d'unc transformation com-  plète de volre esprit, de volre caraclèrc, de votre  intelligence , volre ròte est lini....   Teuez, voulez-vous queje vous dise louie ma pen-  sée? Je ne connais qu’un mot qui caractérise vo-  tre passò, et je saisis celie occasion de le Taire  passer de l’argot populairc dans la langue polili-  que. Avec vos grands mols de guerre aux rois ,  et de l'ralernité des peuples ; avee vos parades re-  volulionnaires , et toutee lintamarre de démago-  gues, vous n’avez été jusqu’à préscnt , que des  blagucurs.    Journ. le Peuple ile l»bO  Articolo di P. /. Prudhon-    Della libertà nel civile consorzio, e dei limiti che necessariamente  debbc avere.    Che cosa volete , signori maestri del mondo, che si rin-  nova? - « Libertà ed eguaglianza nel consorzio civile, nco-  « nosciute e difese; e , come frutto della libertà e dell’egua-  « glianza , la parte di sovranità nel popolo , che a ognuno  « coegualmente spelta per quel che concerne gl’interessi  « sqoi, e gl’interessi dell’universale in correlazione co’suoi.  « Perchè , se gli uomini sono uguali per natura ( e certo lo  « sono}, è una iniquità il farli disuguali per arte; è una slo-  « Udita il lasciarsi far tali , ed ammettere maggiori di sé so-  ci pra sè quando piace , e quando non piace. E se gli uomini  « sono liberi per natura, è una iniquità il farli più o meno  a schiavi per arte, e stolidità il lasciarsi far tali, ed ammet-  « tere padroni di sè sopra sè , quando piace, e quando non  « piace. » - Ma qui vale la risposta celebre degli spartani a  Filippo re - (1). « SE ».   La libertà! Innanzi tratto, parliamo un po’ sul serio: rac-  cordate voi veramente all’ uomo , voi che pugnate tanto per-  chè vi si lasci interissima , e quasi o senza quasi priva di vin-  coli ? - Ma molti di voi , che chiamano l’uomo una macchi-  na fisica , so che il libero arbitrio, cioè questa tanto richiesta  libertà, dicono non esistere ; poiché tutto che facciamo , lo  facciamo, secondo essi, per coazione prodotta in noi da im-  pellenti motivi, interiori od esterni , che prepotentemente,    (I) Plutarch. fìe g.imililale. Edil. Rnisk Voi Vili, 32.    Digitlzed by Google     benché occultamente , ci spingono a fare o non fare , ed a  fare una cosa piuttosto che un' altra. Dunque , almen per  tutti cotesti negatori del libero arbitrio, le dimande d’ esser  liberi hanno assurdità manifesta , e mancan di senso , es-  sendo in contraddizione perfetta colla loro intima e confes-  sata persuasione di non poter esser soddisfatti nelle loro di-  mande , nè essi , nè chicchessia (1). Essi sanno , o preten-  don sapere , che chiedono quel che non è possibile dar loro ;  poiché quel che chiedono , a lor detto , è un nulla , un  non-ente; e niun può dare ad altrui, se non illudendolo, un  non ente, un nulla, una cosa, che nè ha egli, nè alcun altro  possiede, o può possedere. Dunque la libertà non possono  chiederla, che coloro i quali la credon possibile all’uomo ,  e che non risguardano il mondo morale, ossia il mondo  delle volontà, come un conflitto di forze, ognuna delle quali  non può non esercitarsi , che nel modo col quale nel fatto  s’esercita, senza che alcuno possa iutervenirvi per azioni  diverse da quelle con che ogni volta in realtà v’interviene.  La libertà , in altri termini , non posson chiederla , che gli  spiritualisti ; e già in ciò v’è molto di guadagnato: perchè  cogli spiritualisti , se sono veramenle quel che dicono di es-  sere, si può disputare con ferma speranza di giungere pre-  sto o tardi a spogliarli di certe idee, per così dire, superfetate  ed aggiunte, contro a naturatile loro persuasioni di spiritua-  listi: idee non compatibili con quelle persuasioni, e tali, che  nonèdifficile alla lunga di farle apparir loro quali realmente  sono, riducendole al giusto loro valore. È argomento ad hominem — Ex ore vestro voi judico.   Que’ cbe negano la libertà non solo non posson chiedere questa , ma non  possono , sul serio e da senno , chiedere o pretendere nulla , nè accusar nul-  la, nè lagnarsi o adirarsi di nulla, nè trovare a ridire su nulla. Nella loro ipo-  tesi lutto quel che è o sarà, tatto quel che si la o si farà , non dipende dall'ar-  bitrio 'di chicchessia. È o sarà, à fa o si farà , perchè non puh essere nè farsi  diversamente. Dimande, lagnanze, accuse, saranno, per vero, esse pure atto  necessario, ma un alto senza significato, o d’ un signitìcato che non può stare. La proposizione non lo che accennarla. Il trattarla ex profitto non è di  questo luogo. E che cosa è questa libertà ? - « La facoltà ( rispondono }  « d’usare delle proprie forze , fisiche o morali, nel modo  « che più aggrada, la quale ( dicono que’che vi credono )  « è una facoltà primitiva e naturale, e tale perciò che non si  « ha diritto di toglierla. » Intanto , essi che l’ ammettono,  si vergognerebbero di non ammettere però , che alcuni di  si fatti usi della libertà propria son buoni , altri cattivi , e  che i buoni usi ognuno è tenuto a praticarli , e i cattivi ad  evitarli. Dunque coloro che ammettono la libertà, .e che per-  ciò ne chiedono alla congrega civile la maggiore possibile in-  dipendenza e franchigia, concedono almeno una legge inte-  riore, e naturale, e non abrogabile , data al loro intelletto ,  che comanda , consiglia , o proibisce; legge obbligatoria per  ognuno. Dunque concedono, che la libertà, per sua natu-  ra , non è poi cosi sfrenata come lo si suppone , nemmen  nell’uom solitario e sottratto perciò ad ogni coazione estrin-  seca de’simili suoi, da che è limitata e vincolata da una legge  interna, che notabilmente ne restringe pur sempre i poteri.   Anzi, poiché, conceduto il bene ed il male nelle azioni  libere o volontarie, vengono con ciò necessariamente a con-  cedere la distinzione tra l’uomo da bene e perfetto, e l’uo-  mo imperfetto e cattivo, conseguita da questo, che per essi  il migliore ed il più perfetto degli uomini è quegli che più  limita le proprie libertà , e che , per conseguenza , nel fat-  to, è o si fa men libero; e viceversa , che l’ uom peggiore e  più imperfetto è quegli il quale più ai vincoli della libertà si  sottrae, godendo, nel fatto, d’un più illimitato uso della li-  bertà propria. Qual è l'uomo il più libero ? — Il ciallroue , che , senza un riguardo per  sè o per gli altri , va e fa e dice, e si veste o sveste , e s'accompagna o scom-  pagna , e si satolla negli appetiti suoi più disordinati e più bestiali ed immon-  di a tutto suo grado, gitlandosi panciolle o rotolandosi in istrada, ubriacan-  dosi nella taverna, appaiandosi colle sgualdrine, gridando e urlando per via ,  spargendo motti , dileggiamenti , bestemmie , ingiurie a questo ed a quello. Or, se la civil convivenza è ordinata a rendere gli uomi-  ni, non più imperfetti e cattivi, ma sempre migliori e piu  perfetti (ed aspetto che qualcuno voglia con moderna impu-  denza negarmelo), è chiaro, che quello è il consorzio umano  più conforme alle leggi di natura, in che il male è più difficile  a farsi, ed il bene piu facile. Laonde , se un modello di ot-  timo civile ordinamento è a proporsi come un tipo al quale  si debbano conformare, quanto meglio ciò è dato, le uma-  ne congreghe , converrà dire l’ideal naturale ( come lo chia-  mano ) dell’ ottima e perfetta civil convivenza esser quello  dove alle volontà del male è recato il massimo impedimento,  alle volontà del bene il massimo eccitamento e favore, alle  volontà indifferenti quanto a bene ed a male la massima indi-  pendenza : quello dunque dove la libertà ha vincoli molto  maggiori de’ vincoli che le nostre leggi, anche le più rigo-  rose impongono.   Tuttavia confesso, che chi cosi ragionasse andrebbe trop-  po in là col ragionamento, massime ove difendesse l’opinio-  ne, che questo ideale sia immediatamente riducibile ad atto  nella odierna condizione delle aggregazioni umane che si no-  man popoli. Confesso, che, conosciuto il mondo cosi com’è,  e considerato quanto immensamente son gli uomini ancor  lontani, nella lor molta corruttela , dal tollerare universal-  mente d’ esser costretti a farsi ottimi, e ad incontrare osta-  coli ad ogni azion loro men che retta ed a bene rivolta; ve-  duto quindi che la legge troppo rigorosa incontrerebbe in-  numerabili ribelli, i quali sarebbe presso a poco impossibile  frenare, e colla forza ridurre ad obbedienza, o pur solo pu-  nire; infine, richiamalo alla memoria, che Iddio stesso, nella  formazione dell’ uomo , mentre si è contentato di dare ad   — Lo 5cln 'rauo clic corre armalo le campagne taccinlo silo tulio che trova ,  spogliando i viandanti , accoltellandoli.... — E qual uomo onesto , nel senso  che questa parola ottiene in ogni vocabolario di popolo civile, vorrebbe es-  sere cialtrone o scherano ? o eie' specie li ci' il consorzio è possibile ne' cial-  troni , e fra gli scherani?] ognuno le norme del bene e del male , ba però voluto la-  sciare, a tutto risico di chi devia da queste norme, la libertà  di si fatta deviazione ; di qui è che , per men danno , e per  men difficoltà , i savi , che dell’ ordinamento degli stati han  fatto particolare studio, avvisarono la necessità di abbando-  nare al proprio libito di ciascuno il più di quegli abusi di li  bertà recanti a tristo o sconveniente (ine, ma che non nuo-  cono altrui, riserbato il vincolare con leggi quegli abusi die  agli altri recauo un più o men grave ed ingiusto nocumento,  od una indebita e non lieve molestia : ciocché accordandosi  a riconoscere e concedere ( e vi riflettati bene i capitani e  i campioni delle nuove dottrine) non credon già di aver, per  si fatti divisamenti, proposto quel che veramente sarebbe il  meglio; ma, proponendolo, o, a dir piu vero, confessando  d’ essere stati costretti a concederlo , compiangono di non  aver potuto proporre c consigliare che un men male. E tut-  tavia questo men male non lo propongono, e non lo accet-  tano, che in modo , per cosi dire , precario , e finché , con  un migliore indirizzo della educazione privala e pubblica ,  sia lecito assai più recidere di questa libertà del non buono,  senza troppa resistenza , e per successivi sempre maggiori  troncamenti giungere alfine a quel minimo di libertà lasciata  al mal fare , che costituirebbe de’ civili ordinamenti la vera  normalità.   Ed ecco ricacciate in gola, io spero, a certi insipienti ban-  ditori del sacro diritto (coni’ essi soglion chiamarlo) d’ esser  padroni delle azioni loro, tante balorde cicalcric di pocosen  so , che vanno eglino ripetendo , e che, se dimostran qual  che cosa, dimoslrau solo quanto è grande la ignoranza di gri-  datori si fatti in lutto che risguarda la vera filosofia delle leg;  gi e la vera natura dell’ uomo. —   Io so però con qual mutamento di linguaggio si sforze-  ranno essi di riguadagnare terreno, se non di fronte, almen  per fianco. Senza osar troppo di negare, presi cosi alle strette,  che quegli usi della libertà , dai quali un altro , e con piu forte ragione più altri, o la comunità intera, possono essere  più o men notabilmente ed ingiustamente pregiudicati, deb-  bono dalla legge frenarsi , diranno però, ed in effetto dico-  no ( abbassato molto il tuono della voce e della superbia ) ,  che la forfattura de’ legislatori a cui si chiede emendamento  è appunto nel giudizio del male , operato o da operarsi , il  qual conviene, o prevenire perchè si tema, o punire perchè  si risguardi come fatto, e delle condizioni che si stima utile  all’ universale di lasciare in potestà de’governanti lo impor-  re a’ singoli , quale un debito comune di violenze fatte o da  farsi alia libertà d’ ognuno pel bene di tutti. Rispetto a che  ricusano il più delle norme stabilite dalla sapienza antica ,  senza un riguardo eh’ ella sia stata sempre una e costante ,  sempre simile a sè fin dalle prime manifestazioni sue, giun-  gendo da gente a gente al nostro tempo ; e trinceratisi so-  pra questo terreno , vogliono , coni’ oggi dicesi , guarentite  almeno certe principali libertà, o salvati certi privilegi di li-  bertà, di che fanno enumerazione, secondochè, per un detto  di detto, impararono (1). E qui non discenderò io a dispu-  tar loro ciascun palmo del nuovo terreno in che s’accampa-  no, questo non essendo per ora il mio proposito. Non ch’io  non voglia, a miglior tempo, a un per uno , espugnare cia-  scun de'baluardi ove atlendon battaglia, impotenti, come si  sentono, a tener la campagna aperta. Ben, fermandomi qui  sulle generali, poche cose dirò, che importa stabilire, come  opportune premesse a tutte l'altre, quasi circonvallandoli in-  torno d’un regolare assedio, per toglier loro qualunque spe-   [ È degno d’esser notato che si schiamazza e si pugna per si fatte liber-  tà, e per questi privilegi sempre ne’ tempi in cui più si vuole abusarne , e da  que’che di abusarne hanno il proposito deliberato. Que’ che non han bisogno  dell’abuso , e che non lo hanno nell’animo e nel desiderio , è chiaro che sa-  rebbe ridicolo se ciò curassero. Ed altrettanto è a dire de’ secoli in cui raris-  simi sono, o nessuni, gli abusa tori di fatto o d'intenzione. Queste grida allora  non si sa che siano. Si chiede il permesso di quel che si vuol fare, e si muo-  vono lagnanze di quel che , volendo farlo, non sì pub ; non di quello mai, che  non occupa la mente, e che non ispiace di non poterlo operare a suo grado.] anza di esteriore sussidio, e di futuro scampo. Dove, se per  avventura, io paia a taluno usare, a dispetto, un troppo su-  perbo linguaggio , valgami a scusa la salda fede che ho nel-  l’animo, non veramente del prevalere per senno, ma sì certo  dello scendere a combattimento con tale una soprabbondan-  za di forze, che il far fronte, negli avversari, più mi sembra  presunzione ed insania , che coraggio e bravura.   E prima , prendo , come suol dirsi , atto del concesso , e  dell’ ornai da essi perduto per non poterlo difendere : cioè ,  che tutte le declamazioni, le quali fannosi, a destra e a sini-  stra , suonare sul sacro diritto della libertà umana , cosi in  generale sfrenata , e della intangibilità di questo diritto ( le  quali declamazioni tanto si vanno ripetendo a illusione e per-  vertimento degli sciocchi, e col plauso del codazzo lungo an-  zichenò de’tristi, i quali approvano e fan coro, perchè l’ap-  provazione è come indiretta difesa di molte ribalderie loro);  tutte queste declamazioni , dico , bisogna ringhiottirsele , o  riservarle a’ crocchi degl’ imburiassali a lor forma, e già non  più ragionanti, nè disputanti, ma credenti, e disposti a con-  tendere solo co’pugnali e colle contumelie. Per tutti gli altri  un punto è vinto, ed una verità è conquistata: la libertà, per  sé medesima, dev’ esser vincolala in tutti. Questo non ammette  più disputa.   Or, ciò premesso, io dico poi , che, nelle azioni le quali  necessariamente han , per cosi dire , contatto cogli altri , e  sono usi di libertà che agli altri possono riuscire o molesti o  pregiudice voli, a rendere, non pur possibile, ma solo reci-  procamente tollerabile la consociazione degli uomini, è chia-  ro che l’interesse comune richiede il provvedere a tanto, che  i conflitti delle coeguali libertà siano evitati il meglio che es-  ser può, e siano del pari scansate le cagioni, quant’elle sono,  onde , per fatto delle libertà male-usate, si renda sgradevole  ed intolleranda ad altri, pochi o molti, la convivenza. E poi-  ché nessuno è giusto che sia giudice in causa propria, quando  specialmente la causa propria è in contrasto colla causa degli altri, perchè niuno, negl’ innumerabili e colidiani casi di  si fatti contrasti, vorrebbe aver fede nella giustizia e nella di-  screzione d’un che ha interesse a favorire sè stesso (massime  considerando , che il momento medesimo del conflitto , al-  lorché più le passioni sono in presenza , in accensione, ed in  tumulto , dovrebbe esser quello del giudizio ) , perciò è ne-  cessario, che ognuno anticipatamente sappia (da terzi ed im  parziali, e parlanti con autorità in guisa da comandare obbe-  dienza ed ottenerla) quel che può e deve, e quel che non può,  nè dee. Di che poi si conclude, che, innanzi al fatto, egli è  della più grande evidenza , bisognare alcune regole presta-  bilite, ossiano leggi, per le quali si determini efficacemente  il lecito e l'illecito. Resterà dunque solamente a cercare, da  quali, secondo ragion naturale, debbano queste leggi emet-  tersi , ed in che misura.   E la -questione giunta a questo termine, s’allarga. Perchè,  venuto il discorso alle leggi che stabilir denno i confini e la  misura della libertà civile, l’argomento facilmente trapassa  alla non meno astrusa ed importante trattazione del primitivo  stabilimento di tutte l’altre leggi obbligatorie per l’universale,  e si di quelle che fermano, o fermar debbono le originarie con-  dizioni della civile congrega, nelle parti onde si compone od  hassi a comporre l’intera macchina governativa, qual si ha, o  qual si desidera averla, si di quell’altrc, che, a volta a volta,  si van facendo, o si vorrebbero fatte, per nuovi bisogni che  si stimano sopravvenuti, o per correzione d’antichi e nuovi  errori , de’ quali credesi avere accorgimento. Intorno a che  una opinione oggi , e da molli anni, a memoria di noi vec-r  chi , cerca di signoreggiare il mondo , secondo la quale , la  volontà egualmente ed il senno di lutti avrebbe in ciò a con-  sultarsi, e a deliberare, per quella dottrina che troppi pon-  gono a di nostri in cima a ogni altra, e che chiamano il dom-  ala della sovranità del popolo , da cui , come da vecchia sua  radice , sorse già e prese forza l’altro domina del cosi detto  patto , o contratto sociale ; due domini a’ quali dassi appunto per fondamento , come la libertà originaria e naturale del-  l’uomo, cosi l ’ eguaglianza primitiva d’uomo con uomo. Or  poiché, rispetto alla prima già vedemmo, quantunque som-  mariamente , quel che bassi a pensarne , favelliamo adesso  della seconda.  Della eguaglianza in generale, e quanto poco esista  essa nella specie utnana.   Si pretende, che gli uomini, per naturale diritto, sian tutti  uguali , e , al solito , insegnando al popolo questa supposta  fondamentale verità, que’ che la insegnano si guardan bene  dal dichiararla con più esplicite parole , e dallo spiegare in  che senso , a lor senno , questa eguaglianza può affermarsi,  in che senso non lo si può. E il popolo fa di questa propo-  sizione quel medesimo, che dell’altra, la qual die e-Gli uomi-  ni son lutti liberi - Ambedue le accetta così come gli si dan-  no, senza limitazione, e se le stampa bene in mente al modo  che suonano, per poi trarne le conseguenze dirette ed estre- i  me, che oggi pur troppo ne trae... conseguenze che la pace  del mondo da sessanta anni disturbano ed impediscono. Io  spesso ho domandato a que’ difensori di si fatte stolte teori-  che, co'quali è pur possibile tentare un po’ di ragionamento,  qual fondamento dessero ( parlando dell’egualità ) al domma  che stabiliscono ; e i più di loro m’hanno risposto con gran  franchezza , che l’eguaglianza è da legge di natura, perchè la  natura ci ha fatti tutti della stessa specie, e della stessa car-  ne; tutti, gli uni agli altri, fratelli. Ma, quando li ho incal-  zati, chiedendo, se la natura facendoci uguali quanto a spe-  cie e carne , e con questo dandoci una comune fraternità ,  abbia poi col fatto mostrato di averci voluto ad un tempo da-  re anche le altre eguaglianze qualitative e quantitative , ossia  di modo, e di grado, che bisognano per costituire l’assoluta  eguaglianza naturale, la quale intende il popolo, non ra’han potuto più rispondere cosa che valga. Almeno avessero po-  tuto dimostrarmi che queste ultime sono una conseguenza  necessaria di quelle prime! Bisogna compatirli. Essi non po-  tevan fare l’ impossibile.   La natura, certo, non ha voluto farci diversi da quelli che  ci ha fatto. Ora è chiaro, ch’essa ci ha fatto in ogni cosa dis-  uguali. ( E si noti , eh’ io qui uso il linguaggio de’ moderni  filosofanti. Metto da parte la fede, il peccato d’origine, e le  sue conseguenze. Parlo , come oggi usano tanti , della na-  tura acefala , e separala dalle sue cagioni , come se non le  avesse ).   Infatti che vogliamo ricercare? Il fisico, o il morale? Ma,  nel fisico , nessuno, per fermo , avrà l’ ardire d’ affermare ,  che la natura, fabbricandoci tutti della stessa carne, e collo-  candoci nella stessa specie, abbia voluto altro farci che dis-  ugualissimi. Non forse ogni giorno ci schiera essa innanzi  i belli ed i brutti , i dritti ed i bistorti , i contraffatti a ogni  forma ed i ben composti della persona.... i sani e gl’ infer-  micci, i gagliardi ed i frolli , gli svegliati ed i pigri o buo-  ni-da-nulla? Non forse tra milioni di visi nessun ce ne pre-  senta ben simile... ben uguale ad un altro « imprimendo ad  ognuno una fisonomia sua, che è la sua e non d’altrui? Non  forse disuguali dà le complessioni , la fazion generale della  persona, le idiosincrasie ? Pur la carne è una in tulli , e la  stessa : la specie è una e comune.   Più però l’originaria e naturale disuguaglianza fassi palese,  ove al morale riguardiamo, e si a questo nella parte intel-  lettiva e discorsiva, si nella memorativa, si nella immagina-  tiva, nell’ affettiva , nella volitiva, e in quante altre le sotti-  gliezze de’ filosofi distinguono... Ho io bisogno di dire, che  hannovi nati stupidi , e nati con ogni buona disposizione di  memoria, di giudizio, d’ acume... ? Ho io bisogno di ricor-  dare le portentose varietà d’ altezze , di capacità, d’umori ,  di tendenze, infinitamente tra loro disparate e distanti ? Ho  io bisogno di avvertire , che GALILEI (si veda), Newton, Eulero, Lagrangia non nacquero per esser umili ragionieri di lor per-  sona sopra un povero banco di libri tenuti a scrittura-dop-  pia ; Cesare, Carlo Magno, Napoleone, non erano modellati  alta stampa d'un piccolo caporale di milizie ; i Law non fu-  rono mai del legno di che si formano i Colbert , i Turgot ;  Omero non doveva essere Clierilo, nè Virgilio Bavio... , e  tutta la larghezza d’ un oceano doveva separare Marco Tul-  lio Cicerone da Marco figliuolo, Marco Aurelio Antonino da  Commoilo, Tito da Domiziano... Vaucanson da un costrut-  tore d’organucci di Barberia... Giovanna d’ Arco dalla mia  donna di faccende ?   Non favello delle disposizioni di cuore... delle disposizio-  ni di volontà... del più o meno di mercurio, di zolfo, di sali,  che, fino dal primo impasto, è infuso nelle nostre crete; e del  diverso rombo di vento a che si volge l’ago delle nostre tra-  montane. Nel vostro stesso campo , signori maestri del no-  vello mondo, consultate Gali , Spurzheim , Fossati, Combe.  Crederanno leggervi sul cranio, scritto e significato a grandi  rilievi, se siete della pasta dei Tersiti, de’Paridi, degli Ulissi,  de’ Palamedi, o degli Achilli....   E non solo differenti s’esce di prima stampa dall’utero ma-  terno. Altre cagioni soggiungono, da natura pur sempre, e  dal conflitto perpetuo delle sue forze , per le quali alle ine-  gualità fisiche e morali, cominciate fin dai primordi nostri,  se ne vanno altre aggiungendo finché dura la vita, ed alcune  per effetto della stessa vita. Imperciocché a questo lavorano  giornalmente le infermità, e centinaia di fortuiti accidenti che  sopravvengono... le differenze di climi e del tenor di vita...  i nostri spropositi volontari ed involontari... : senza di che  molle cose al vecchio toglie P età , e al fanciullo non le dà  ancora...   E l’arte , eh’ essa medesima è da natura , opera forse , e  conduce, a diverso fine? -L’arte è l’educazione, secondo che  ce la danno, secondo che ce la diamo. Or l’educazione, fac-  ciasi quel che si vuole, è per l'uomo una nuova grandissima cagione d’ inegualità , la quale niun potrà mai governare in  modo da impedirle il produrre questo ultimo effetto.   E , primo , è una potente cagione d'inegualità dalla parte  degli educatori. Perché come poterli applicare a uno stesso  modo, a una stessa misura, in tutti i luoghi ed a tutti? nelle  città e ne’ villaggi ? nelle campagne e ne’ boschi ? a que’ che  vivono raccolti insieme, e a que’che in solitudine, o grande-  mente spicciolati e divisi ? Come trovarli, da per tutto, uguali  in eccellenza, per dottrina, per zelo, per altezza, per l’allre  molte qualità che aver denno , o dovrebbero ; o come non  piuttosto contentarsi assai spesso di non trovarne, di non a-  verne, o di averne de’mediocri, degl'insufficienti, o decessi-  mi? Come, da per tutto, avere o procacciarsi le stesse faci-  lità secondarie , gli stessi ausiliarii mezzi , senza di che la  bontà degli educatori o fallisce, o men vale? Come non avere  riverberate sugli educati le diversità che provengono dalla  diversa natura de’ maestri, de’ metodi, degli aiuti estrinseci?  E, per tutti questi motivi, come non giungere all’effetto ul-  timo, che, se le differenze predisposte da natura erano già  grandi, più grandi ancora saranno esse fatte, dopoché di ne-  cessità in diversissimo grado e modo l'arti educatrici saran-  nosi adoperate?   Secondo , è un’altra cagione d’ineguaglianze , dalla parte  di coloro che debbono educarsi. Imperciocché le inegualità  già preordinate in ciascuno nell’esser coucetli, come potran-  no non avere accrescimento e moltiplicazione, aggiuntevi le  inegualità avventizie, prodotte dall’azion di coloro, che, più  o men bene, o più o men malamente, educheranno? Dove,  tra inegualità ed inegualità , sarà pur talvolta che accadano  compensazioni: ma sarà più spesso ancora, che le inegualità  si sommino, e s’alzino a maggior valuta...   Terzo, son molte più, accidentali, cagioni, che necessaria-  mente faranno anche maggiore essa differenza : come dire ,  il più o men bene, o male affetto stato di salute, o di vigo-  re , il più o meno di fortuiti ostacoli , o di fortunate agevolezze sopraggiuugenti : la nebbia delle passioni viziose che  alcuni offuscalo la loro forza che molti distrae; lo stimolo  delle passioni generose che ad altri é incitamento... cento al-  tri e mille incidenti della vita, che or turbano, or secondano,  e fan mentire in bene o in male ogni anticipato presagio da  natura tratto...   Ma v’ è una piu generai considerazione , che vie meglio  conferma la verità del mio detto. Essa ci è somministrala  dalla ricerca del fine stesso per cui la natura ci diede delle  arti educatrici il bisogno, l’istinto, ed il seme. Questo fine  evidentemente, e per sua essenza, è, sempre, e ogni giorno  più, disuguagliare, anziché uguagliare. Imperciocché la per-  fettibilità umana esse arti han persubbietto sul quale lavo-  rano ; e la perfettibilità è cosa sterminata. L'arte, cioè l’edu-  cazione, perfeziona, che è dire s’ aggiunge alla natura, ac-  ciocché quello che in essa è germe, tallisca, cresca in pian-  ta, e fruttifichi. Ora il germe è d’ineguaglianze: dunque ine-  guaglianze raccoglierannosi dall’ educare, tanto maggiori,  quanto l’ educare sarà più perseverante, e condotto a mag-  giore eccellenza. In ciò sta il progresso, che è pure un altro  degl’ idoli del nostro tempo : in ciò la civiltà, effetto princi-  pale del progresso , che tanto oggi i nuovi dottori dicono di  voler promuovere, non s’accorgendo , che il suo vero fine  è aumentare le differenze tra gli uomini, non già scemarle.  Gara infatti essa è per essenza , e specie di palestra aperta a  tutti, dove arte aiuta natura a far si che ciascuno co’ vantag-  gi che può e sa, si gitti innanzi quanto più può e sa meglio,  lasciando iudietro il compagno o i compagni di quanto piu  intervallo è possibile , nelle diversità di direzione che tutti  prendono. Cosi arte e natura a un medesimo scopo conven-  gono. Quella accresce 1’ effetto di questa. La disuguaglianza  é data all’uomo per legge; il disuguagliarsi per istinto, e per  bisogno. Voi piu facilmente fabbrichereste gli uomini della  favola di Luciano, usciti dalla granata magica , con metodo  di successive dicotomie, che gli uguali i quali sognale. Arroge, die questa è una legge non esclusivamente pro-  pria della nostra specie. Chi ben considera, trova ch’è legge  data all’intero universo, come norma del suo modo d’esse-  re. Tutto in esso è varietà e diversità. Tutto è gerarchia. La  materia è una nella sua sostanza , pur l’oro non è argento,  nè T argento rame, nè il rame piombo , nè il piombo arse-  nico , nè l’arsenico azoto od ossigeno. Vi son dunque caste  nella materia , come nella specie umana ; come nelle specie  degli animali domestici (cavalli , pecore, capre)... V’ è una  gerarchia delle stelle tra le stelle, delle comete tra le comete.  V’é il grande ed il piccolo, il luminoso e l’oscuro, quel che  domina e quel eh’ è dominato. Un carbone è cristallizzato ;  è brillante; è la coli-i noor, la montagna della luce, che brillerà  sulla fronte di Vittoria regina d’ Inghilterra ; un altro car-  bone non è buono che a scaldare la pentola della massaia.  Lo stesso grano, dice il più santo de’libri, è trasportato dalla  piena del torrente nel mare , e vi perisce ; dal vento tra le  sabbie , e non vi nasce ; dall’agricoltore nel campo , e , se-  condo le condizioni diverse del terreno e de’ succhi , v’ in-  tristisce c non viene a spiga , traligna ed è ucciso dalla gol-  pe... prolifica ed è ricchezza della messe e del granaio. Evi-  dentemente queste diversità di sorte furono, sin dalla prima  origine, ne’ disegni del Creatore, nelle necessità imposte al  creato...   Quanto agli uomini, ciò non è solo un fatto cieco ed im-  provvido : è una manifestazione splendente della sapienza  del divino architetto. La vita normale della civil congrega  ha bisoguo di simiglianti radicali disuguaglianze. È forza che  v’ abbia chi non si sdegni d’ esser destinalo ad metalla , alla  coltivazione laboriosa delle terre, alle meccaniche fatiche del-  l’incudine, della sega, della pialla... Come è forza che v’ab-  biano altri ad altro buoni, ed a meglio, secondo tutta la va-  rietà degli uffici e de’ servigi che se ne aspettano. Fede c fi-  losofia s’ accordan poscia a proporci , affinchè nissuno si la-  gni , il sistema delle compensazioni in una seconda vita. Or, se tanto è innegabilmente vero, come s’ osa insegna-  re al popolo l’opposto di queste dottrine? Come s’abusa della  sua irriflessione naturale e della sua ignoranza per falsificar-  gli sino a questo segno il giudizio? Come s’ardisce predi-  cargli ogni giorno il domina supposto delVeguaglianza, o non  fiancheggiandolo con ragioni, o rendendolo credibile con mi-  serabili ragioni di fratellanza universale, d’identità d’origine,  o simile? (1)-E v’ha chi chiama perfino a complicità dell’in-  ganno la religione , come se vi credesse! V’ha chi usa come  argomento: Siamo lutti figli d’Adamo; lutti ugualmente re-  denti sulla croce; tutti ugualmente fratelli in Cristo! - Fra-  telli si certo ; c figliuoli lutti della prima umana coppia , e  della seconda per Noè il diluviano; ed ugualmente ricompe-  rati col prezzo di sangue sul Golgota: ma non perciò uguali;  come uguali non erano, ancorché fratelli, più ancora stretti  tra toro che non un uomo a un altr’ uomo, Caino e Abele ;  come uguali non erano tra loro, ancorché fratelli, Isacco ed  Ismaele, Giacobbe ed Esaù, Giuseppe e Beniamino, e gli altri  figliuoli di Giacobbe... Fratelli, e perciò tenuti a reciproca-  mente amarci, ad assisterci, a giovarci; ma non a modellarci  ognuno sull’altro , ma non a metterci tutti a uno stesso li-  vello , ma non a interdirci ogDuno i vantaggi delle nostre  individualità , o a pretender di divider cogli altri gli svan-  taggi. L’ autorità della religione , della quale s’ abusa , non  ha mai consacrato queste massime , o , per dir meglio , ha  consacrato sempre le massime contrarie. Io dimentico però,  che hannovi, a di nostri, cristiani a’ quali par bello servirsi  del vangelo per falsificarlo, e spurii cattolici, i quali s’argo-  mentano d’ insegnare caltolicliesimo alla Chiesa , e teologia  alla teologia!    (1) É facile intendere, se non il come, almeno il perchè. Si cercano nel vol-  go, e nel minuto popolo complici, ed uomini di braccio per l'opera di di-  struzione ebe si medita; e l’adescarli con si fatti miserabili e detestabili ingan-  ni par utile , se non bello. Se non che intendo bene quel che vorrassi rispondermi.  Sorgeranno d’ ogni parte di coloro , che vorranno dirmi ,  nissuno esser si stupido da pretender di negare il fatto visi-  bile e palpabile delle ineguaglianze di natura e d’arte, che son  tra gli uomini, troppe delle quali non possono non essere in un  grado maggiore o minore, si nel morale, che nel fìsico. Solo  chiedersi oggi quell' eguaglianza , che spetta agli uomini , in  quanto congregati in società; e questa esser Veguaglianza che  chiamasi civile, cioè de’ fondamentali diritti della vita di citta-  dino; e pretendersi essa come dovuta per legge eterna di na-  turale giustizia. E avvegnaché, ristretta la proposizione en-  tro si fatti più precisi e più angusti termini , non è poi si  chiaro il comando della legge di giustizia la qual si cita , e  resta sempre a superarsi la difficoltà del concepire come e  perché abbia a credersi di misurar giustamente, applicando  a tanti fra loro disuguali una misura uguale per tutti , fan  prova d’ avviluppare sé e gli altri in un tessuto di ragiona-  menti , che è pregio dell’ opera l’ esaminare- Esaminiamoli  dunque, c cerchiamo di far conoscere quanto essi hanno po-  co del solido, e quanto facilmente s’abbattono, e si riduco-  no a nulla.  Dell' eguaglianza nel civile consorzio e su quali falsi fondameli  ti si pretenda stabilirla.    Si vuole l ' Eguaglianza civile , cioè l’eguaglianza ne’ fonda-  mentali diritti della vita di cittadino! E per che buona ra-  gione ?-Rispondono i pili barbassori: « non veramente per -  « che siavi tra gli uomini l’eguaglianza primitiva di natura ,  « o perché possa l’arte giungere a distrugger mai le diffe-  « renze che natura ha in noi largamente seminate nel tisico  « e nel morale j ma perchè , tra tante che mancano , un’e-  « guaglianza primordiale è pur veramente in tutti, ed è  « T eguaglianza di condizione primitiva , quando la vita civile  « ha per noi , secondo ragione , normale coininciamento. »  E , a meglio spiegare il concetto loro , cosi ragionano ,  tornando un tratto a considerazioni relative alla libertà -  « Sia quel che si voglia de’ limiti che la legge eterna ha se-  « gnato al libero arbitrio d’ogn'uno , e della natura obbli-  « gatoria de’ precetti ch’essa legge dà a tutti ; se potente-  « mente c’invila essa ad unirci in civil convivenza , non ,  « per fermo , l’invito è coattivo (posto che niuu pretende  « esserci disdetto il segregarci per vivere in solitudine ,  « quando ciò ne piaccia) ; e molto meno è obbligatorio a un  « dato modo d’associazione (posto che niun pretende esser-  « ci da ragione naturale vietato il torci all’ associazione , in  « che , per esempio , ci troviamo inclusi dal nascere , per  « entrare , a nostro libito, in un'altra la quale consenta  « di riceverci). Dunque l’entrare , o il restare , in una data  « civil congrega, è , per sé, atto di libertà, rispetto al qua    Digitized by Google    — 89 — •    « le noi conserviamo intero l’arbitrio. Ma lo stesso ragio—  « namento può ugualmente applicarsi ad ogni uomo. Dun-  « que tutti gli uomini , debbono , in ciò , riguardarsi d* li-  ft guai condizione : lutti almeno coloro , a togliere qui ogni  « soGstcria , che hanno sufficiente normalità coni’ uomini ,  « quanto alle facoltà naturali (salvo il diverso grado in che  « le posseggono) , per non dare evidente motivo d’ esser te-  « nuli come non liberi. Ma concessa l’esistenza d’almen  « questa eguaglianza , non v’è poi ragione perche da detta  « eguaglianza non si derivi un’altra eguaglianza , e vuoisi  « dir quella per che , ne’ rapporti generali di cittadino a cil-  « ladino , e da cittadino a tutta la congrega , pesi c benefi-  « zi , cioè doveri e diritti sian parificati. Dunque sì fatta pa-  li rificazione , che è l’eguaglianza la quale aveva a dimo-  « strarsi essere di diritto naturale , lo è realmente. » Dal  qual tenore di discorso è poscia uscita , nel passato secolo ,  tutta la dottrina del palio sociale, c (connessa con quella)  l’altra dottrina , secondo la quale il popolo , cioè la somma  di tutti i concorrenti a civil consorzio, nell’atto del concor-  rervi , c dopo esservi concorsi , ha in sè la vera sovranità  e supremazia, per tal guisa , che ognuno ne possiede la sua  coeguale parte: ciocché costituisce poi quella che si chiama  la sovranità popolare , o la democrazia risguardata come il  solo governo naturale e legittimo. Donde molte conseguen-  ze scaturiscono , c principalmente questa « Che gli entrati ,  « od i liberamente restati in una civil convivenza, se dispn-  ee nendo di sè , come sovrani che ne sono , tutti con egual  « volontà e potestà si spogliano o si spogliarono pacifica-  le mente d’una parte della sovranità di sè stessi , per forma-  le re di queste parti riunite l’altra sovranità posta fuori , e  ee depositata in mani terze , alla quale , in essa convivenza ,  ee liberamente si sottoposero, non però a questa seconda so-  « vranità non si serban sempre superiori. Nè , in quanto è  « artificiale , e procedente dal loro libero arbitrio , da cui  « trae tutto il suo valore su ciascuno , può questa sovranità fattizia distruggere la supremazia delle volontà da  « cui supponsi derivala. E perciò , quantunque soprastante  « per patto , essa è nondimeno in realtà soggetta , e dalla  « stessa volontà onde procede può quindi essere rivocata e  « distrutta ». Le quali teoriche con tanto animo i nuovi  maestri le difendono , che , non potendo non accorgersi ,  ciò , nel fatto , non esser mai , perchè , storicamente par-  lando , l’asserito patto sociale , mai , o quasi mai , non in  terviene , ancorché per diritto dovrebbe , a lor sentenza ,  intervenire « ciò dicono provar solo la spuria origine delle  « civili congreghe in che , per tal guisa , si è inclusi. Don-  « de è poi , che il pacifico e precario restarvi , il qual fac-  « damo , non può , a lor detto , chiamarsi nemmeno un  « tacito consentimento. Imperciocché secondo il proverbio,  « chi non parla non dice niente. Ed , essendo che ogni go-  « verno é intanto una forza di fatto alla quale difficilmente  « si può resistere , cosi il non dir niente esso medesimo è ,  « conchiudon essi , una necessità imposta , piuttosto che  « volontaria. Il perchè , ora massimamente che i popoli co-  « minciarono a parlare , il diritto, il quale non poteva essere abrogato , o soppresso, risorge , dicon essi , con tanto  « più vigore , e legittimamente pronunzia illegittimi quc’civili consorzi , e sentenzia rivendicata e ripigliata da tutti  « quella sovranità di sé , che natura diè loro , per esercitar-  « la congiuntamente , dove ciò aggradi , nella formazione  « di consorzi nuovi e di nuovi governi , a tal forma , e con  tali leggi , che il libero ed effettivo consentimento prece-  « da consorzio e governi, e li accompagni , o , cessando ,  « cessi l’autorità di questi , c sia come se non fosse. Donde  « tornan di nuovo alla tesi , che la democmzia è nel diritto  x di natura , in quanto almeno poter supremo, cioè alto ed  « indeclinabile potere , che sovrasta ad ogni maniera di governo , la quale il libero consenso degli uomini abbia stabilito, o sia per istabilire ; e che tutte le altre maniere di  « governo, anche consentite , sono artificiali e transitorie,  mentre quell’ una , o esista o no in alto , è permanente ed  « imprescrittibile... »   Cosi presso a poco ragionano , quanto a tutto cotesto  domma dell'eguaglianza , e a’ corollarii che ne traggono , i  più logici tra costoro, e nondimeno ragionano pessimamente  e con una molto povera logica. Perchè , in tutta l’esposta  tela di raziocinii , s’afferma , più che si provi , quella sup-  posta egualità di condizion primordiale , che , o realmente ,   0 per una finzione giuridica , precede , o debbe precedere,  l’ingresso consentito d’ognuno nella civil convivenza , e  che è data come fondamento di tutta l’eguaglianza civile intorno alla quale si disputa. In questa vece facilissimo è  dimostrare che il fondamento , assunto per postulato non  ha sussistenza alcuna. Imperciocché sia pur dato e non con-  cesso a’cosi ragionanti d'assumer l’uomo nel momento d’en-  trare con perfetta libertà di sè in una associazione nuova,   1 cui patti abbiano allora allora da stringersi , e, come mol-  ti oggi dicono , da formularsi (ciocché , nel fatto , non è  mai) ; certo , anche in questa immaginaria ipotesi , di che  direm poi quel che è a dirne , falsissima cosa è, che , nella  turba de’ concorrenti a costituire la nuova congrega , cia-  scuna arrechi , non una quale che siasi equipollenza , od  eguaglianza di requisiti , ma quella equipollenza od egua-  glianza che sarebbe necessaria per venire alla conclusione  a cui vuol venirsi. L’equipoHenza o l’eguaglianza che v’è ,  è quella delle individuali libertà degli ancora sciolti, ossia è  l’eguaglianza nella autocrazia, o nella signoria di sè , che  ciascuno , per ipotesi, conserva ancora , e in virtù delia  quale , come padrone della propria individualità , concorre  e consente per la sua parte alla formazione d’ un sociale consorzio. Ma da che si viene all’inventario ed alla ricogni-  ti) E tuttavia del rigore di questa stessa speciale uguaglianza potrebbe di-  sputarsi , cercando deulro quali termini, e sotto quali condizioni ogni uomo  è sui juris nel fatto. Ma il cercarlo sarebbe un'iucidentu questione, la quale  ci porterebbe troppo lungi.] zione de’ capitali e de’ requisiti che ciascuno con sè reca ad  associazione, l’equipollenza o l’eguaglianza subito cessa , e  cominciano le disuguaglianze... tutte quelle disuguaglianze,  che noveravamo nel precedente articolo , e che non posso-  no non essere messe in conto rispetto al reciproco interes-  se degli stipolanti , c a quanto esso comanda.   Imperciocché sia pure un contratto quel che trattasi di  formare , e sia pure in libertà d’ognuno il preordinarne gli  articoli a suo proprio grado , o il ricusare la stipolazione.  Ma si abbia in memoria , che qui si domanda al postutto ,  a stipolazione da farsi , non quello che ognuno , con un  pensiero egoista di superbia , d’invidia , e di gelosia , non  volendo esser da meno degli altri , pretende a perfetta pari-  tà cogli altri , per prezzo d’adesione , o sia o no interesse  degli altri il concederlo ; ma quello che gli eterni principii  di ragione c di giustizia in questo proposito consigliano ed  ordinano. Perchè , insomma , bisogna ricordare quel che  dicevamo nel nostro primo articolo. Non è il libero arbitrio  puro e semplice la norma direttrice degli atti umani , e non  esso è l’autocrate, oil sovrano legittimo; nè alcuno ci ven-  ga a dire , secondo filosofìa , stai prò ralione voluntas. Il ve-  ro e legittimo sovrano è il Xòyos", e il Xòyos , cioè la ragio-  ne, non di tale o tale altro individuo , ma si l’universale ;  quello che è la espressione del senno raccolto dalle ragioni  più squisite di tutte l’età e di tutti i luoghi. Rispetto a’ cui  precetti non si può nemmen dire che nel caso nostro siavi  oscurità , o incertezza , chiari essendo e non contrastati  i principii generali regolatori de’ contratti di società , non  secondo tale o bile altra legge scritta , ma secondo il natu-  rale diritto. Insegna esso , che se un individuo contribuisce  al bene della società men clic altri , non può pretendere  d’essere accettato alla stessa dose di beneficii che gli altri.,  i quali contribuiscon più. Nè se , quanto aU’amministrazio-  ne della società intera , sono in essa e capaci ed incapaci ,  è giusto che gl’ incapaci pretendano il diritto dell'avere altra parte che indirettissima nella direzione e nel governo  degl’interessi sociali. Di che l’applicazione al caso nostro  non ha bisoguo d’altre parole. E tuttavia l’ altre parole, che  qualcun chiede a maggiore schiarimento saran dette a suo  luogo. Qui basti per ora t’avere indicato in che giace la fal-  sità del ragionamento su cui la pretensione all’eguaglianza  civile si vuol fondata ; e- basti chiudere il discorso facendo  riflettere , che , dopo le cose dette , resta almeno a tutto ca-  rico ornai de’difensori di cotesta domandata eguaglianza il  provare , che realmente , nell’ ipotesi del libero convenire  degli uomini a costituire una nuova civil convivenza , tutti  arrechino in contributo , non una parziale ed apparente ,  ma una totale e conveniente egualità di condizione primor-  diale , e nè più , nè meno di quella che il caso nostro ri-  chiederebbe a rigore di legge.   Ma è una seconda parte , che non vuol esser passata sot-  to silenzio. Questa è l’esame di quel che si vuol dare per  conchiuso ed accettalo ; cioè che gli umani consorzi , come  sono fin qui stali c sono , abbian da considerarsi tutti ap-  punto per illegittimi , e spurii, perchè non consentiti nor-  malmente da ciascuno nel popolo , ed anomali , e non for-  mali secondo quelle che sole si giudicano essere le regole  veramente razionali , destinate da natura a presiedere al  nuovo patto sociale , e a servire a stabilirlo. Intorno a che  veggiamo un po’ quanto , ugualmente, e con quanto perico-  lo , vanno errati coloro i quali cosi predicano , e cosi s’osti-  nano a pervertire il piceol senno delle turbe.   • Sta bene mettersi in capo di sovvertire tutto ciò che è  stato , ed è, in fatto di civili convivenze , e volere sconvol-  gere da cima a fondo lutti gli stati , perchè vi sono alcuni  (e sian pur molti ) , che gridano che , negli stati , cosi come  sono , la distribuzione de’diritti civili non è esatta ! Sta  meglio che questi medesimi , i quali cosi propongonsi di tur-  bare violentemente la pace del mondo , giurino di non vo-  ler cessare la guerra da essi intimata , e già flagrante dal lato loro , contro alle congreghe umane oggi esistenti , e di  non posare le armi , e di non finire le cospirazioni , finché  non solo a una riforma in ciò siasi giunti , ma quel , che è  più , finché uon siasi pervenuti alla maniera di riforma , la  quale , a lor senno , è la sola giusta ! Peccato che vi siano  certe difficoltà teoriche e pratiche , le quali combattono  questo bene e questo meglio... £ so che delle difficoltà oggi  non s’usa occuparsi dai proseliti delle nuove scuole. Chia-  mali vigliaccheria, strettezza di spirilo l'occuparsene. Chiamano oscurantismo il proporle. Chiamano forfattura il dir-  le al popolo. Noi , che non siamo proseliti di quelle scuo-  le, diciamone alcuna cosa. Non saremo da essi ascoltati. Non  mancheranno tuttavia gli ascoltatori in tempi piu tranquil-  li , se non oggi. Questa è almeno la nostra fiducia.  Considerazioni contro al preteso diritto di rinnovare le società  umane per accomodarle alle proprie idee preconcette , e contro  alle tentale riduzioni ad allo di questo diritto.    « Il mondo'( vuoisi dirci ) ha bisogno di riforma , e di  « quella riforma che noi da lungo tempo andiamo indican-  « do : e , poiché n’ha bisogno, non resteremo colle mani in  « mano. - Giovandoci d’ogni mezzo, tanto faremo , finché  « avrem pur conseguito quel che ci siamo proposto. » -  Quante proposizioni incluse nelle precedenti parole, ognuna  delle quali proposizioni, in argomento si grave , richiede-  rebbe un libro a parte per trattarla come si conviene, e per  porre ben in chiaro quel che debba pensarsene! -   « Il mondo ha bisogno di riforma. - La riforma che bisogna  è quella che le scuole democratiche oggi insegnano, e non altra. -  Questa maniera di riforma si ha diritto di cercare immediata-  mente il tradurla ad atto , senza lasciarsi trattenere da quale si  voglia opposta secondaria ragione. - Tutti i mezzi son buoni e  leciti , se a sì fatto fine paian conducenti. » - Ecco quel che  vale il discorso con che abbiamo incominciato questo articolo! -   Non tutte , per vero , le dette proposizioni s’ osa dirle da  tutti : ma tutte son professate con cieca ed ostinata fede. Pro-  fessarle, in questo caso, è metterle in pratica, perchè la lo-  ro natura c tendenza è pratica più ancora che teorica. Due  fini si hanno. Uno è terribile. Da maniaci e per maniaci ;  impossibile, grazie al cielo , a conseguirsi interamente, ma  purtroppo tale, che il camminare verso esso è impresa feconda de’ piu gran mali che melile umana possa immaginare.  L’altro è un castello in aria verso il quale non è pallon vo-  lante che possa condurre, perchè tutti i palloni son condan-  nali a precipitare prima di giungervi: castello senza base ,  altra che di nuvole; castello posto nella regione de’ turbini,  e del fulmine; dove niuno durerebbe tranquillo, e senza pe-  rirvi alla lunga, corps el biens. Il primo è mettere a soqqua-  dro ogni cosa : città , terre, castelli , e ville, per distruggervi  gli ordini stabiliti , e, se bisogna, tutti che s’oppongono alla  distruzione. Il secondo è dare alla specie umana un altro or-  dinamento: ordinamento repubblicano; ordinamento di pura  democrazia, interpretata e stabilita nel senso il più largo. Se  ne spera per gli uomini d’un altro secolo (certo, non pe’vi-  venli oggidi, e, men che per tutti, pèr quegli stessi che ciò  tentano ) quasi l’inaugurazione d’un’ era nuova tra gli uo-  mini , era di felicità , di ragione, e di giustizia! Cerchiam di  mostrare quanto questa speranza è vana, temeraria, fallace,  e quanto questa impresa è colpevole, sottoponendo ad una  ad una, ma brevemente, ciascuna delle proposizioni a cri-  tico esame. -   1. Il mondo ( morale ) ha bisogno di riforma ? - Eh si. Ma  la perfezione, in ogni cosa umana, è un punto di mira piut-  tosto che una meta. Vi si guarda, ma non si pretende ar-  rivarvi. Vi si guarda per prendere la direzione, e per ac-  corgersi se si sbaglia nell'andare, come si guarda alla stella  cinosura dal navigante, non che il guardarvi significhi spe-  ranza di raggiungerla.   E bello è accorgersi di quel che merita riforma. Per gran  disgrazia - judicium difficile , experitnenlum periculosum - Si  prendono spesso de’ be’ granchi a secco, in questo mare,  piu che in altro, e con più danno.   E conosciuto il bisogno vero di riforma , bello è spesso il  tentare di operarla. Spesso, ma non sempre. Perchè vi sono  in medicina certe malattie, che a volerle curare si fa peg-  gio ; e ciò nel morale, come nel fisico. Perciò un medico savio , prima cerca di ben conoscere la malattia , e di non  ingannarsi nel giudicarla ( cosa, come testé notavamo, non  facile ). Poi cerca se si pnò medicare. Se si può intrapren-  derne la cura subito. Se non giova invece differire il rime-  dio, e far vero il dinotando restiluit rem. Od ancora se a tut-  to non è preferibile il rassegnarsi per non isdegnare il mafe  ed intristirlo. E il medico savio al cito preferisce il tufo; e ,  salvo pochi casi estremi , e disperati, che scusano le più  grandi temerità, non mai dimentica lo jucunde d’Asclepiade.   Gli stati sono grandi corpi , ne’ quali un'intera sanità è  impossibile. E guai se tutti pretendono di tastar loro il pol-  so, e di trattarli alla risoluta con ferro e con fuoco, alla  Browniana , od alla Rasoriana , dandosi patente di dottori  senza diploma. Turba medicorum occidit Caesarem , e Cesari,  in subiecta materia siamo tutti. Figuriamoci poi quel che de-  v’essere, quando i medici non sono che empirici. . ! Quel  che è peggio, nel caso nostro que’ che si gittano innanzi a  tastare il polso, non sono nemmeno empirici; perchè empiri-  ci sono quelli che se non han teorica, almeno han pratica :  e che pratica possono avere di cose amministrative e poli-  tiche tutti cotesti innanzi tempo usciti, o piuttosto scappati,  di scuola , a’ quali l’età troppo giovanile e il non essere mai  stati in faccende nega ogni esperienza?   La riforma che bisogna è quella che le scuole democratiche  oggi insegnano , e non altra? Stimo la franchezza colla quale  in piazza questo è spaccialo come assioma , che non importa  dimostrare. V'ha egli in ciò buonafede? Quando lutti colo-  ro ette studiano a queste cose fossero d’ un medesimo avvi-  so, potrebbe ben dirsi a chi non lo sa : Ecco la verità in po-  che parole. Le prove sono inutili. Si tratta di quel che è con-  sentito generalmente. Ma qui la dottrina che si va spargen-  do è contro a ciò che i più grandi Statisti e Politici sempre  ed uniformemente insegnarono. Trova oggi stesso una forte  opposizione nelle scuole e fuori delle scuole , presso il più  gran numero di coloro che a queste materie han volto l’animo preparato da forti studi. Noi medesimistiam per provare, che è dottrina palpabilmente falsa; e lo proveremo,  se al eie! piace.E si tratta d’ana dottrina che minaccia gran-  di interessi stabiliti , dottrina gravida di sconvolgimenti e di  rovine .... forse e senza forse di stragi : e affermo anzi  senza forse, perché quei che la professano , stragi senza re-  ticenza minacciano a ogni terza lor parola. Con che corag-  gio dunque persi fatto modo s’inganna il povero popolo in-  vasandolo a questa guisa di supposte certezze, che non sono  che grossolani e pericolosissimi errori , atti a scaldare le sue  passioni le più accensibili, le più feraci di mali quando sono  accese ; o che , per Io meno, son dottrine in nessun modo  dimostrate?   3 La riforma, la cui necessità si v# predicando con parole,  si ha diritto di cercar di tradurla immediatamente ad atto senza  lasciarsi trattenere da qualunque ostacolo d’opposta ragione? Ciò  è ben qualche cosa di peggio. Tal diritto in una proposizio-  ne incerta , combattuta , negata da troppi ed autorevolissi-  mi I Bella legislazione iu materia di diritti ! Ciò è il diritto in  causa grandemente controversa ( e non tornerò ad aggiun-  gere , nella quale non è difficile dimostrare che si ha torto  marcio ) di sentenziare, non solo , in proprio favore, som-  mando in sé le parti di contendente e di giudice; ma ezian-  dio quello d'eseguir subito la sentenza che si è pronunziata  dando a sé ragione ! S’ardisce dire : « Se gli altri negano la  « certezza della opinione nostra, noi ne siam persuasi, e  « non possiamo permetterci di dubitarne, ed operiamo co-  « me persuasi e non dubitanti ». - Ma gli altri che nega-  no, negano perchè, con più persuasione ancora , od almanco  con pari fermezza di persuasione, hanno una certezza in sen-  so contrario. V’è dunque, per lo meno, lotta teorica e coe-  guale di certezze contro a certezze, delle quali nessuna ,  cosi di leggieri, cede alla sua contraria (1). Or perchè, e   (1) Io indebolisco l' argomento . e mi lo torlo. Gli altri che uegano hanno per qual ragione, la certezza vostra dee prevalere alla no-  stra, e non la nostra alla vostra? Per la ragion della forza,  o per la forza della ragione ? Se per la forza «Iella ragione ;  dunque ragionate, e vincete ragionando, cioè persuadendo,  ciocché solo è vincere in fatto di ragionamenti. Ma > finché  ragionando non avrete vinto, e non avrete guadagnato quella  generai convinzione degli intelletti, nella quale sola può con-  sistere la vittoria , confessate almeno ch’ei v'é la sola cer-  tezza del non v’ esser certezza, e ciò colla solenne forinola,  Nonliquei; e lasciate le cose, nel generale, come stanno ,  finché alla certezza clic si cerca non siasi veramente giunti.  Se poi la certezza vostra volete che alla nostra prevalga per  Tunica ragione della forza, abbiate almeno il pudore di non  parlar più di ragione. . . abbiate almeno il pudore di non  parlar più d'eguaglianza civile de’ difilli- Voi rinegate quest'ul-  tima col vostro fatto medesimo, mentre la difendete col det-  to, e mentre pugnate ( solete dice) per conquistarla ad uni-  versale vantaggio. Voi la rinegate, perchè vi fate superiori,  e prevalenti , per forza , a lutti coloro che credono e vo-  gliono il contrario di quel che voi credete e volete. Voi la  rinegate, perchè, prima di contar quanti siete, senza legit-  timamente poter sapere ancora se siete la pluralità , o il mi-  nor numero, vi tenete padroni di venire ai fatti, e di com-  battere contro ai dissenzienti da voi, pochi o molti che sia-  no , sforzandovi di tirarli a voi men colle ragioni , che ado  perandovi le cospirazioni , e a vostro libilo le armi , cioè la    una certezza ben altrimenti salila die la vostra. La vostra è ertezza di parti-  lo, o di setta : quella degli altri è certezza fondata sul senso colmine, cioè sul  credere presso a poco universale degli uomini di lutti i luoghi , e di tutti i  tempi; di quelli che si son sempre giudicati i più sapienti, ed i migliori ; de-  gl’ interi popoli , i quali tra gli altri ebbero la riputazione di più savi, e che me-  glio prosperarono finché a questa certezza furono fedeli nella direzione della  loro azienda politica. Si può egli dunque istituir confronto giusto fra la vostra  certezza , e la certezza degli altri ? Chi non ha il senno velato da passione ri-  sponda e giudichi.]frode eia violenza. Voi rinegate, perché non vi vergognale  di dire, clic, se anche una maggiorità evidente e contata ,  dissentisse in modo esplicito da voi, voi minorità non più  dubbia , pur seguitereste la guerra per vincere, cioè per fare  che il numero minore soperchiasse il maggiore, e per con-  seguente acciocché voi che costituireste il primo dei due  numeri aveste a valere ciascuno più che ciascuno degli altri,  costituenti il secondo numero. Voi finalmente la rinegate ,  perchè, divenuti ancora maggiorità manifesta , nel voler  tradurre ad alto la opinion vostra, se voleste esser ben d’ac-  cordo colla dottrina vostra d’ universale eguaglianza ne’di-  ritli civili, dovreste concedere che il vostro solo diritto non  potrebbe esser che quello di formare un consorzio civile del  modo che a voi piace con coloro che con voi concordano ,  lasciando a’ discordi di formare un altro consorzio a lor gu-  sto , ma non di sforzare le volontà de’ discordi a soggiacer-  vi ; non di comandare ad essi , e di disporre delle lor cose :  ciocché è misconoscere il loro diritto, individualmente pari  a quello di ciUscun di voi . . . ciocché è dare alla forza il  diritto supremo d’annullare l’eguaglianza ciocché é con-  fiscare in ognuno de’dissidenti I’ autocrazia di sé e delle sue  cose , e ciò a profitto d' una sovranità vostra su voi e sugli  altri . . .   E so che risponderete : — « I dissidenti , che riescon mi—  « nori di forza e di numero, sgombrino il suolo, e se ne va-  « dano altrove; o se voglion rimaner tra noi, s’assoggettino  « colle persone e colle cose loro. » — Ma qual è il principio  di ragione , col quale giustificate questa vostra massima di  governo ? Un patto reciproco di cosi fare , tra maggiorità e  minorità ? No : perché questa massima non può esser parie  d’ un patto, che non é fatto né consentito ancora, e per con-  seguenza che non esiste altrove che nel paese delle vostre speranze e de’ vostri desiderii ; donde poi si deduce, che non è  obbligatoria per que’ che ai patto da voi proposto non si son  fatti spontaneamente ligi , e che , come uguali a voi , sono perfettamente indipendenti da voi. O volete insegnarci, che  così dev’ essere per un diritto realmente superiore ed ante-  riore a quello dell’ eguaglianza... per un diritto antecedente  ad ogni patto... diritto naturale... diritto che attinge la virtù  efficace e la sanzione dal fatto, in quanto è fatto; e dal fatto,  in virtù di clic i più numerosi , i più forti, i più destri est in  fatis, che faccian sempre la legge alle minorità di numero, di  destrezza, di forza? Guardatevi dall’insegnarlo. Quei che sa-  ran per avventura disposti a concederlo, potran per virtù di  logica dedurne ben altro da quello che voi ne deducete. Sic-  come numero maggiore, violenza, destrezza non sono lo stes-  so che ragione ; siccome sovranità di numero, di violenza, di  destrezza non è lo stesso che sovranità di ragione ; siccome ,  secondo la ipotesi assunta, numero maggiore, violenza, de-  strezza non han bisogno di consentimenti e di patti per co-  mandare ; siccome l’essenza di questa virtù di comando è di  misconoscere il principio dell'autocrazia nell'uomo, e quanti»  a sè, e quanto alle sue cose, e d’assoggettarlo, per cosi dire  a posteriori, ad una forza che gli viene dal di fuori , trasfor-  mando il fatto in diritto ( c sia poi, nella pratica, questa for-  za , quella d’una maggiorità, d’una minorità scaltra, o d’un  solo ) : cosi, ammessa una volta si fatta dottrina, s’accorge-  ranno ch’ella assorbe ed annichila tutte le altre. S’accorge-  ranno, che non vi sono più , con essa , nè uguaglianze , uè  autocrazie di persona, nè patti che tengano. Sentenzieranno  che la forza, razionale od irrazionale, è l’unica padrona...  la tiranna degli uomini : la forza che ha la ragione di sè in  sè, o piuttosto in nessun luogo, ma che non ne ha bisogno.  E sarà con ciò giustificato non solo il vostro fatto, ma quello  d’ogni despota felice, d’ogni governo forte, qualunque sia-  ne la natura, l’origine, e la forma ; o sarà dispensato almeno  dalla necessità di giustificarsi, perchè sarà annullata la giu-  stizia. E voi che avrete messa in onore questa terribile mas-  sima , n’ avrete guadagnato al postutto di metter in onore  un principio, che potrà esservi ritorto contro da ogni fortunato avversario; e ridurrà tutto il diritto pubblico al dirit-  to d’una guerra perpetua tra gli uodiìdì ; senza mai speran-  za di concordia o di pace.   Nè ho qui toccato l’altro punto della proposizione la quale  esamino , contenuto nella seconda parte di essa proposizio-  ne , dove si dice dai nuovi riformatori del mondo , eh’ essi  non son disposti a lasciar di cominciare o di seguitare l’ opera  per qualunque ostacolo d' opposta secondaria cagione: ciocché,  mi si perdoni d’ esser costretto a risponderlo , è favellar da  mentecatti. Imperocché i soli insensati dancominciamentoalle  imprese , e s’ostinano a continuarle, senza punto attendere  alle circostanze, alle opportunità, agl’ impedimenti. Povera  gente! Questo lo chiamano bravura! la bravura di Storlida-  no nella Gerusalemme liberata. È un amor idolatra della  propria opinione , la quale ha toccato i termini della infa-  tuazione e della mania. Per essi è vero Audaces fortuna ju-  vat; non è vero — La fine de’ temerari e degl’improvvidi è fiac-  carsi il collo. Come tra tutti gl’ innamorati, le difficoltà non  servono ad essi ebe a far crescere in loro le furie cieche del-  1’ amore. Caloandri fedeli , andranno per montagne e per  valli, colla lancia sempre in resta, contro a rupi e burroni,  se non basti contro ad uomini , e contro a giganti. La pre-  videnza la chiamano codardia, tiepidità, sacrilegio. Sacrile-  gio, perchè questo amore è per loro una religione ( perdo-  nino la parola le orecchie pie). Son sacerdoti dell’ idea, della  quale si son fatti un idolo interiore ; e purché l’ idolo so-  pravvinca, muoiano tutti, e la patria stessa perisca. E sorga  un'altra patria, se lo può, e sia rifatto il mondo a pieno lor  grado... o sia disfatto!!! — Aspetto, intanto, che mi si pro-  vi, gl’innamorati ed i fanatici esser mai stati , o poter essere  uomini atti ad amministrare le cose umane, private o pub-  bliche. Governali essi male sé medesimi : può immaginarsi  come governerebbero gli altri ! — Gran miseria de’ nostri  giorni, il dover perdere il tempo a confutare monomanie si  mostruose! Il meglio che si possa fare sul loro proposito è  non dirne altro. Qualunque mezzo dee tenersi per buono e  lecito, se al fine conduca della universale Riforma che vuol ten~  (arsir — Egregiamente , come il resto! L’assassinio... per-  chè no? Questo s’ usa. Questo non radamente è necessario.  Ha spesso una efficacia molto sbrigativa ed unica. Dunque è  bene. E se è bene I’ assassinio... un pugnale dietro le spal-  le... un assalto a tradimento... un’aggressione di quindici  armati cantra uno disarmato, perché non il veleno? perchè  non l’ incendio ? perchè non la calunnia ? perchè non » li-  belli infa manti? perchè non le falsificazioni di carattere? per-  chè non il furto, o la rapina? #alum ad bonum  ErgobonumH!  E ciò sarà chiamato riformare in meglio il mondo !...   Togliete a! popolo ogni sentimento religioso. La religione,  eh’ esso ha, favorisce i tiranni. Toltagli questa religione , il  volgo sarà materialista ed ateo... M’inganno. Alzerà altari  Deo ignoto , come già in Atene ; ma ad un Dio , che non ha  fulmini per punire, non ha che indulgenze per chiuder gli  occhi sui male che fanuo gli uomini ; e gli uomini faranno  il male allegramente, e con piena sicurtà di sé. Ma per (sra-  dicare nel popolo la fede nel Dio de’ Cristiani , nel Dio che  lo ajutò ad esser buono colle sue speranze, co’ suoi spaven-  ti , volete adoperar le scaltrezze d’una filosofia sofistica e  trascendente? Esso non la capirebbe, non la gusterebbe. Me-  glio vale creargli il bisogno di non crederla. Si renda vizio-  so , e tanto che disperi del perdono, e trovi più comodo il  negare le pene d' un’ altra vita, che il paventarle. Si seduca-  no perciò le donne, e s’infiammino d’illeciti amori. Si cor-  rompa la gioventù... Debbo io seguitare questo tristo inven-  tario di pratiche atte a pervertire? O non qui scrivo un pic-  colo brano della prima pagina delia storia contemporanea ?  Cosi, non è tanto una proposizione astratta, quella che qui  discorro , quanto un’ opera avviata a compimento e coti-  diana. Già non c’ è più bisogno di prediche. Le prediche son  fatte, ed han fruttificato. È in pien corso il nuovo insegna-  mento. Aspettando la universale Riforma, a chi minacciata sotto forma d'una ghigliottina, (o d’una delle tante eleganze  inventate 60 anni fa in Francia, coggi pronte a risuscitare:  u«e fournée, une noyade, una passeggiata di colonna inferna-  le) , a chi presentata nell’ abito verde della speranza come  un secol d’oro che si prepara a nascere per condurre in ter-  ra la perfezione fin qui ignota a’mortali; noi poveri contem-  poranei vivemmo, invecchiamo e morremo tra le delizie d’un  presente tutto pieno di perturbazioni. Ora i benefizi che si  promettono agli eletti son per lo meno nella schiera de’ fu-  turi assai contingenti. Il male che s’ opera , e che si soffre  purtroppo, è da lungo tempo una funesta realtà. Per torna-  re all’ argomento nostro , gli scrupoli si van togliendo. La  bella morale del fine che giustifica i mezzi corre il mondo ,  c lo conquista. Noi siam cattivi abbastanza. I nostri figli, se  Iddio nella sua misericordia uon ci provvede, saran peggio-  ri di noi. Qual riforma della umana convivenza possa dive-  nir possibile con si fatta educazione degli uomini , altri mcl  dica. Io non so indovinarlo. Il mio stomaco si solleva dalla  nausea veggendo i costumi nuovi, le abitudini nuove, uden-  do le bestemmie nuove. L’istoria ha sempre insegnato, che  tutte le volte nelle quali un popolo è stato condotto a que-  sti estremi, esso ha rapidamente degenerato, e finalmente è  perito. Cosi fu spenta la gloria di Grecia e di Roma antica.  Cosi la gloria più antica ancora delle Monarchie de’ Babilo-  nesi, de’ Medi, de’ Persiani, degli Egizi. Le stesse cause hau  sempre prodotto nel mondo gli stessi effetti ... e sempre li  produrranno !   E qui fo punto. Fo punto; ma poche altre parole mi per-  metto d’aggiungere su tutto l’argomento di questo articolo.  Si vuol distruggere gli antichi ordinamenti del mondo caule  que conte, facendo sempre la vista di partire dai due princi-  pii, della libertà e della eguaglianza. E vedemmo quanto l’una  e l’altra si rispettino in tulli gli sforzi che si fanno per fas et  nefas a fin d’ affrettare l’ ora della riforma. V’ é però ancor  peggio di quel che ho detto, sebbene ho detto molto. Ripigliando da un’ altra parte il principio de\Y eguaglianza , dopo  averlo calpestato c manomesso, e ripigliandolo a scapito del  principio della libertà, si parla d’abolire lutti i diritti acqui-  stali anche per vie le più oneste. Gli uguali ban da essere  uguali, perdendo tutto quello per che con arti anche degne,  e coll’ industria, e co’meriti, e colle fatiche, s’eran fatti mag-  giori , e non han da esser nè uguali nè liberi quanto al di-  ritto di contrapporre il loro no all’allrui si. Gli uguali s’tian  da potere non solo spogliare dagli altri uguali, ma da questi  si ban da potere anche sterminare ed uccidere , se voglion  conservare intatta tutta la loro autocrazia , se non voglion  piegarsi a dar mano a queste spogliatrici dottrine... -Un con-  tratto sociale tra eguali ha da esser fondamento della società  nuova per libero consentimento di tutti; ma il patto, o con-  tratto sociale non dee poter aver forza , e il libero consenti-  mento non ha da esser libero di non consentire ai patti che  vogliono i preparatori della nuova libertà ed eguaglianza. E  queste contraddizioni palpabili e nauseose si dissimulano da-  gli uni ; e dette agli altri non li commuovono, ed è come se  non fosscr dette, tanto è fermo il proposito di non ragiona-  re, c d’ostinarsi. Ecco a qual grado d’ accecamento e di de-  pravazione s’è giunti.... ! Con che torna vero quel che già  notavamo, chiudendo il 3. articolo. Cercar di confutare co-  storo è spendere parole ed inchiostro a pura perdita. — Scri-  viamo a preservazione dei non corrotti ancora, o ad emen-  dazione di chi sta tra due nè ben sano, nè tutto guasto. Gli  altri Iddio li illumini. E ripigliamo dal suo principio il dis-  corso delle ricostruzioni , delle costruzioni , o delle ripara-  zioni dell’ edilizio sociale. Altre considerazioni sulle riforme nel reggimento delle conviven-  ze umane in generale , e sul diritto e il modo di tentarle.   Quantunque d’un argomento si importante oggi tutti par-  lino in tuon di dottori , e quasi anche i fanciulli , qui «on-  dimi aere lavanlur , pur non è men vero , che il dire intor-  no ad esso quel che veramente la ragione insegni è cosa  grandemente difficile per tutti , ed anche pei più periti nel-  le scienze dello Statista.   Due sono i casi. O alcuni inclusi in una convivenza civile  già stabilita , e soggetti alle sue leggi, se ne stancano , vi si  trovan male, vogliono sottrarsene, e ciò non collo staccarsi e  irsenealtrove in cerca d’un’associazion nuova, ma coi riformar  l’associazion vecchia e spiacente, resistendo a questo gli altri  che pur vi sono ; o i venuti a desiderio di rinnovazione del  politico ordinamento, nella civile congrega alla quale s’appar-  tiene , non sono alcuni , ma presso a poco tutti , cosicché  nessun degl’interessati in ciò resista , e faccia notabile osta-  colo. Nel secondo caso, difficoltà gravi , quanto all’iniziare  le riforme , di che si crede aver bisogno , non possono es-  servi (1) , perchè si suppone non esservi lotta ; ed aversi ,   (t) Noq saranno le difficoltà quanto al consenso nelle riforme , ed alla loro  attuazione. Resterà peri) a vedere pur sempre, se le riforme in che consentirono ,  avranno quel sommo genere di legittimità che sola puh dar la giustizia e ra-  gionevolezza loro , o se uon l'avranno. E resterà a cercar se , non avendola ,  siano ciò non ostante obbligatorie , ed in che senso , e fino a qual grado , o  dentro quai limiti lo siano : questioni difficilissime a trattarsi , ma che non e  questo il lungo di trattare presso a poco , universalità di consenso. (Le difficoltà co-  minceranuo , quando si tratterà del modo , se vogliasi che  questo modo sia il più ragionevole , ed il più profittevole  a tutti). Ma , nel primo caso , non si può dire altrettanto.   Quando un governo è stabilito, e un ordine quale che sia-  si già esiste... quando in tutto il numero dei componenti la  civile congrega i sufficientemente contenti sono di gran lun-  ga i più , e i veramente gravati , e giustamente malcontenti  sono di gran lunga i men numerosi , il vero diritto non è  quello di turbare tutto lo stato tentando novità , e con ciò  disturbare tutti i contenti e tranquilli , rimescolando e rin-  novando ogni cosa , e scomponendo e disordinando ogni  privato interesse , per fare ragione ai pochi che si lagnano  perchè stan male ; ma è il diritto di cercare , senza punto  incomodar gli altri , o comunque gravarli nelle persone e  negli averi , che sia fatta ragione ai pochi che lo dimanda-  no , e che lo meritano. £ questo può esser difficile ; può  essere anche talvolta impossibile senza rovesciare intera -  mente la costituzione dello Stato. Tuttavia ci vuole un bel  coraggio per mettere innanzi la proposizione , che , dove  ciò accada , la giustizia negata a’ comparativamente pochi ,  debba essere ad essi buono e legittimo motivo di spinger la  reazione immensamente più in là di quel che porta il loro  diritto ; cioè , affinché questa sopravvinca , di scomporre e  distruggere tutta la macchina costitutiva della civil congre-  ga , della quale i più si trovan paghi , mentre ogni turba-  mento un po’ generale dell’ordine stabilito tutti inquieta ,  molesta , e danneggia (1). Maggiore però fa d’uòpo che sia  questo coraggio , se quei che si fatta proposizione mettono   (1) Può bene io questa ipotesi ater luogo il principio (ed il più spesso lo de-  \e)-Expedit unum hominem mori prò cunctopopulo.-l pochi gravati, opera-  to per ottener giustizia tutto quello che non pub operarsi senza manifesto e  mollo maggiore danno deli' universale , se ascoltano la voce della coscienza,  il meglio che possan fare è rassegnarsi, come è forza rassegnarsi alle malattie,  alle disgrazie fortuite , ai tanti altri mali della vita. ] innanzi , nessuna ingiuria , nessun (orlo ricevettero , e so-  no unicamente duellanti , per cosi dirlo , di malcontento , i  quali non si lagnano per proprio conto , ma si lagnano per  conto di quelli che a loro spiace di non udire lagnarsi , e  eh’ essi vogliono che si lagnino per forza ; o di quegli altri  che , pur lagnandosi a buon diritto , nondimeno par loro  che non si lagnino abbastanza , e non sian disposti a spin-  ger le querele fino agli estremi che a lor piacerebbero. Ven-  gan di nuovo que’ehe cosi vogliono e fanno , a parlarci d’e-  guaglianza , e di tutte l’ altre loro frottole di libertà , di giu-  stizia , di ragione ! La loro eguaglianza diventa , come al-  trove riflettevamo, superiorità de’ pochi su i molti. La loro  libertà diventa licenza di nuocere agli altri per giovare a sé,  o per soddisfare la propria passione. La loro giustizia è non  tener conto del diritto altrui , per non aver occhio che a  quello che si crede essere il diritto proprio , od il proprio  talento. La loro ragione è la ragione del più forte ; una ra-  gione egoista , ostinata , feroce , senza pietà , senza discre-  zione , senza riguardi... una ragione che ricusa di ragiona-  re, e che vuol esser tiranna delle ragioni altrui... 1   Si difenderanno con dire , che , ncll’operare quel che ten-  tano , il fine loro non è contentare sé stessi , pregiudicando  indebitamente gli altri , c dando loro motivo legittimo di  querelarsi ; ma è proporsi cosa in sé buona : cioè , consi-  derato che gli stali son oggi , dove più , dove meno , in tal  mala guisa ordinali da render possibili per tutti , e inevita-  bili per molti , una gran quantità d’ ingiustizie , d’avanie ,  d’oppressioni cotidiane , senza facile riparo , e sovente sen-  za alcun riparo ; considerato per conseguente , che il mal-  contento il quale per gli uni è attuale , per gli altri è virtua-  le , e che il danno da tale o tale sofferto oggi , può percuo-  ter domani , o doman l’altro , a volta a volta , quelli anco-  ra che or sono contenti ; considerato perciò , finalmente ,  che , a distruggere il vizioso edificio delle odierne macchine  politiche per sosliluirvene un altro migliore , è meno ancora contentare sé , che rendere servizio all’universale , e a  quei medesimi che ora per poca previdenza , per indolen-  za , per egoismo rifuggono dalle riforme e che ciò è poi  promuovere la causa sempre bella ed onesta della giustizia :  per tutte queste ragioni far essi cosa degna d’ approvazione ,  anziché di biasimo , perseverando nella impresa alla quale  si danno. Ma l’apologià nulla vale.   Primo : hanno eglino ben pensato , cotesti temerari scon-  volgitori delle civili convivenze, la massima gravitò del fatto  a cui s’adoperano? Uno stato è una somma immensa d’in-  teressi distribuiti e collegati tra tanti quanti sono in esso  gl’individui che sono, e que’che prossimamente , o più tar-  di , saranno. Ogni interesse si risolve esso medesimo in in-  numerabili subalterni interessi di cose e di persone , ed ha  sempre due parti : una che risguarda i privati , l’altra che  risguarda il pubblico , ossia 1’ universale. Quanto più una  umana congrega è matura a civiltà , ed in essa progredisce,  tanto più questi interessi crescon di numero e d’importan-  za. La prosperità privata e pubblica è tutta principalmente  fondata sul rispetto , sulla protezione , sui favore che otten-  gono si fatti interessi. È pur troppo certo (colpa delle im-  perfezioni umane !) , che non v’ha umana congrega , non  v’ha stato, dove gl’interessi qui mentovati riscuotano tut-  to il favore , tutta la protezione , tutto il rispetto che aver  dovrebbero, acciocché la prosperità fosse massima. Per con-  seguenza è purtroppo certo , che tutte le umane congreghe ,  tutti gli stati han sempre bisogno di qualche riforma , e di  molte riforme , e questo è bisogno che mai non cessa , per-  chè mai non cessano di rivelarsi e di generarsi i difetti di  rispetto , di favore , e di proiezione di che parlo. Qualche  umana congrega , o qualche stato , tanto alle volte soprab-  bonda di difetti di si fatto genere , che il riformarli si fa un  bisogno generalmente , e fortissimamente sentito. Ma , do-  po lutto ciò , può egli dirsi che sia cosa lecita e convenien-  te (per lo sdegno delle riforme che non si fanno da que’che  llO-   lo dovrebbero , polendole fare) l’opera cbe , con privala au-  torità , vogliono alcuni collocare in promuovere tali con-  vulsioni politiche , dalle quali , secondo le maggiori proba-  bilità umane , queste immediate conseguenze sian per di-  scendere , che tutta, o quasi tutta la massa degl’interessi  privati e pubblici sia improvvisamente e grandemente tur-  bata-che moltissimi di essi patiscano enorme ed irreparabi-  le offesa , od anche intera rovina-e cbe , per un tempo più  o meno lungo , e sovente lunghissimo , nata , e durando ,  la lotta tra que’cbe si difendono, e que’ctie offendono , in-  nanzi alla vittoria decisiva , la quale di soprappiù non si può  mai prevedere per chi sarà , non s’abbia altro spettacolo  cbe di fortune ile a soqquadro , di famiglie desolate , di uo-  mini esterroinati , di civili battaglie e guerre... del commer-  cio rovinato , dell’industria spenta , degli studi intermessi ,  d’ abitudini d’ozio , di turbolenza , e di licenza introdotte ,  e di lutti gli altri mali di cui gli annali contemporanei trop-  pi esempi da più cbe mezzo secolo ci somministrano ? Per  poterlo dire , sarebbe almen necessario aver fatto un bilan-  cio: il bilancio de’ danni a’quali vuoisi portare riparo , e di  quegli altri, che , col fine d'arrivare a questo riparo, certa-  mente si genereranno. Ma questo bilancio , che , ne’ singo-  li casi , i temerari sconvolgitori odierni delle civili convi-  venze non fanno , e non han fatto , l’ba già fatta per tutti  la storia , e lo ha pubblicato. Essa da lungo tempo ha inse-  gnato agli uomini , che , di tutte le calamità , le quali pos-  sono cadere sopra un popolo , nessuna calamità pareggia  quella di ciò cbe si chiama una rivoluzione , massime dei  modo di quelle che oggi si macchinano , e si hanno in pen-  siero , od apertamente si minacciano. I cattivi governi... le  tirannidi d’ogni nome offendono gravemente alcuni , od an-  che molti ; ma , salvo certi casi rari come le mosche bian-  che , lascian sufficientemente tranquilli i più , e , nel loro  proprio interesse (voglio dire nell’interesse de’ governanti)  risparmiano il massimo numero : di guisa che le angherie ,    — lil-  le ingiustizie , sodo enormi iu pregiudizio d' alcuni; per  molti sono grandi , ma pur tollerabili e pazientemente tol-  lerate , per non pochi nessune. Al contrario , le rivoluzio-  ni , a quel modo che oggi s’ intendono , se pur non siano ,  come suol dirsi , colpi di mano , a coi per miracolo succeda  un immediafo e tranquillo riordinamento, per poco che du-  rino (e durano spesso una o più generazioni d'uomini) , of-  fendono tutti... anche que’che le han fatte , i quali , d’or-  dinario , finiscono col perirvi , essi e i loro. Finché si pu-  gna , è strage dalle due parti... la strage delle guerre civili ;  strage accompagnata di crudeltà mostruose e ferine , d’ec-  cessi contro a natura. Sono incendi , saccheggi , brutalità  d’ogni nome, e senza nome. Que’che non combattono , so-  no vittime spesso delle due parti combattenti. E chi può  prevedere quanto durerà il combattimento , quanto sarà  esteso , quante volte ripullulerà , or dall’un lato , or dall’al-  tro ? Chi può dire a priori , se vincerà Bruto, o Tarquinio...  se interverrà Porsenna.... se si troverà sempre un Muzio  Scevola , un Orazio , una Clelia... o se piuttosto Roma non  finirà per servire al re di Chiusi , come pur troppo la storia  rettificata oggi dice? Habenl sua sidera lites.-E intanto le fe-  licità dell’anarchia per que’che non pugnano ! Le felicità  delle dittature militari nel campo , o ne’ campi di battaglia ,  o dovunque armati stanno o passano ! Le terre le coltiverà  chi può, ossia non le coltiverà più alcuno 1 mercatanti po-  tran chiudere i loro fondachi , se tuttavia lo potranno , e  se non li vedranno messi a ruba ed a rapina prima del chiu-  derli. I ricchi fuggiranno , se lor torna fatto , ma fuggiran-  no in farsetto , se nou perdano la testa per via. Palagi , mo-  numenti , sa il cielo come saranno malmenati. Il danaro  rubato si dissiperà , come si dissipa sempre il danaro del  furto. L’altro sarà nascosto, o mandato all’estero. Poi la  penuria , la carestia , la fame , e seguace della fame la pe-  ste o l’epidemia. De’ costumi non parlo, né della gioventù  falciata innanzi tempo , o perduta ad Ogni buono impiego    Digitized per l’avvenire... Succederà , quando Iddio vuole , la villo-  ria ultima a chi Iddio vorrà darla (spesso nè agli uni , nè  agli altri , ma a' terzi venuti di fuori... ai Porsenna : secon-  do il proverbio , che tra due litiganti il terzo gode ; con che  sarà perduta l’autonomia , e da popolo che obbedisce a sé  stesso ed a’suoi , si sarà trasformati in popolo conquista-  to , in popolo assoggettato , in popolo profeto, in popolo-co-  lonia , in popolo vaceg-da -mungere ) , e colla vittoria ultima  sarà una specie di pace. Che pace però? La pace accompa-  gnata qualche volta da amnistie per tutti , se può sperarsi ,  che , come è disposto a dimenticanza vera il Vincitore , co-  si sia disposto il vinto : ma , se a questa seconda dimenti-  canza non si crede da esso vincitore , mancherà d’ordinario  la prima , e mancherà , alle volte , indipendentemente da  ciò , s’cgli creda che bisognin giustizie ed esempi , e se le  collere non calmate cosi consiglino , o le circostanze paia-  no cosi comandare. Ed allora s’avrà un altro tempo , più o  meno lungo , che sarà di terrori più o meno grandi , e di  severi gastighi , od anche aspri , che i gastigali chiameran-  no reazioni e persecuzioni , i gastiganti chiameranno neces-  sità , e opere di prudenza ; e chi oserà dire , in massima  generale , da qual parte sia la ragione ? — E questa vittoria ,  e questa pace , e i migliori lor frulli , per chi poi saranno?   10 l’ho già detto. Per chi vorrà Iddio : cosicché è possibile  (si torni bene a pensarvi sopra) , mollo frequentemente è  probabile , e facile a prevedere , se non si è ciechi , che non  sarà dalla parte di chi tentò la rivoltura : ma , o di quelli  contro a’quali fu tentata , o d’altri e d’altri, diversi , e non  aspettati , c non voluti , e non utili. Nel qual caso agli altri  mali s’aggiungerà quello che non s’avrà nemmeno il con-  tento d’aver guadagnato ciò che si cercava ; e s’avrà invece   11 dolore e la pena di avere aggravato il male che voleva al-  lontanarsi, o d’ esser caduti, come s’usa dire , dalla gradella  nelle brace. - Anzi non basterà a’rivoltuosi nemmeno l’aver  essi per sè guadagnata la vittoria : perchè aver vinto è poco. Ciò significa essere riusciti a distruggere , non significa  avere edificato , e poterlo e saperlo fare. L'opera della rie-  dificazione resterà ad intraprendersi : opera più difficile sem-  pre che non quella della distruzione : opera , che , ne' pae-  si , ove gli ordini antichi , colla violenza , si spiantarono ,  richiede , per solito , anni moltissimi , e talvolta secoli , in-  nanzi all’ esser condotta a qualche buon termine : opera ,  in questo mezzo , tutta di prove e di errori , tutta d’esita-  zioni , tutta di conti sbagliati e da rifarsi ; vera tela di Pe-  nelope da far disperare del compierla ; e che quando pur si  compie si trova ben altra da quel che s’era immaginato , fi-  nita da altre mani , sotto l’impero d’altre circostanze , so-  vente di altre idee , tale insomma che , per ultima conclu-  sione si riconosce essere un imperfetto sostituito a un altro  imperfetto , dove ciò solo di sicuro che emerge è la certez-  za del male immenso che si è fatto a pura ed inutile perdi-  ta.... (1).   Secondo: e fin qui ho supposto che si parta almeno da un  motivo più o meno evidentemente giusto dell’ operare le ro-  vine che vogliono operarsi, col fine huono , sebbene con Non si crede vero? — Un’occhiata allo Stato d’Europa ila sopra a 60 an-  ni in qua. Veggasi piti che altro la Francia. Vcggansi poscia le tante repubbli-  che succedute alle mutazioni americane. E mi si opporrà, per avventura, il  solilo modello della repubblica degli Stati Uniti d’America ; cioè un esempio  sufficientemente favorevole contro a molti contrari. Questo è la pruova del  terno vinto , che è la rovina di tutti i dilettanti di giuoco. La repubblica de-  gli Stati Uniti d’America ha incontrato quattro fortune piuttosto uniche che  rare. 1. La fortuna d’ essersi imbattuta in un Washington. 2. Quella d’essere  stata , quando cominciava l'affrancamento un paese nuovo , e d'una popola-  zione assai sparsa In mezzo alla quale le fermentazioni e i conflitti delle idee  meno eran facili. 3. Quella d’averne avuto a progenitori , uomini già educati  a libertà , ed a reggimento presso a poco repubblicano. 4. Quella d’aver do-  vuto lottare contra un potere lontano.... troppo lontauo , e con validi esteri  aiuti. E ancora , prima di giudicare il bene o il male del reggimento che si è  conseguito di stabilire, bisogna la sanzione d’ almeno un paio di secoli. Io non  lo credo fondato su base ferma.] gravo pericolo , e spesso quasi colla sicurezza di successo  non buono, o non proporzionatamente buono. Ma questa  giustizia del motivo v’è ella sempre? Chi la giudica d'ordi-  nario? e quanti sono que’che la giudicano? Uomini d’espe-  rienza? Uomini i più sapienti nel popolo? Uomini che co-  noscou bene lo stato vero delle cose? Uomini, che non si  lasciano illudere dalla passione? Uomini capaci di pondera-  re , non solo se il motivo è vero in qualche grado, ma se  è vero fino a tal grado da richiedere un pronto rimedio, da  non averiosi che per una rivoluzione? e da lasciare sperare  con qualche buon fondamento che per una rivoluzione di  leggieri s’avrà? Diamo un’occhiata al passato, ed al presente  prima di rispondere, e ricaviamo la risposta da quel che s’è  veduto, e si vede. - Ragazzi , e giovinastri, od uomini già  noti per natura torbida, e per naturale inclinazione a no-  vità. Gente impetuosa, violenta, a cui natura toglie il giu-  dizio freddo ed imparziale dei fatti. Persone di mano, e non  di testa, facili a prestar fede al male che si dice di que’che  odiano, e ad esagerarlo, ed a misconoscere il bene: tali che  .a reggimento ed a governo mai non dieder mano, e che  parlano di quel che non sanno, per un dicium de dieta. . .  tali che delle ponderate risoluzioni non hanno nè la scien-  za , nè 1’ abito, nè la capacità ; e il cui maggiore studio non  è curare, se quel che vogliono sta bene o male a volerlo ,  ma cercare come possano cominciare a ridurlo ad atto. E  cotesti formano il fiore dello stuolo. Gli altri son quali pos-  sono accompagnarsi a cosi fatti gonfalonieri , come subalter-  ni. Volgo proletario, che è facile sedurre con immaginarie  speranze, e mettere in fermento con fanatiche predicazioni.  Disperati e perduti per debiti. Piccoli ambiziosi, che consa-  pevoli della loro nullità e turgidi di luciferesca superbia ,  non altro mezzo veggono per sorgere, che il gittarsi a corpo  perduto tra i motori di cose nuove. Giovani entusiasti, po-  veri di mente e di cuore , in cui l’immaginazione prevale  al giudizio, il bisogno d’agitarsi e di fare al bisogno di starsi con uu libro innanzi o Ira le pacifiche occupazioni d’ una  vita di sedentari negozi. Altri che seduce il mistero delle  sette, nati per essere schiavi in nome della libertà , e bruti  in nome della ragione. I seguaci di Calilina , quali ce li de-  scrivono Cicerone e Sallustio.... gli scherani di Clodio ... i  guerriglieri di Spartaco. Ora il senno di questi può con giu-  stizia decidere il tremendo problema delle rivoluzioni , e  della necessità del farle...? Poveri popoli condannati a pa-  tire la costoro malefica influenza! I disordini d’uu governo  cotesti son più atti ad accrescerli che a conoscerli , e a ri-  pararli. ,E il lor costume è di dire che il desiderio loro è il  desiderio di tutti, o almcn de’ più, perchè più di tutti essi  gridano , e s’ agitano , e accendon fuoco da ogni parte! Gli  altri che tacciono, e che col silenzio mostrano che non si  malesi trovano da dover gridare, non li contano. Son essi  il popolo vero; il popolo solo. Gli altri, che coraggiosa-  mente s’oppongono e gridan contro, non li apprezzano.  Chi sta in casa e bada agli affari suoi non fa numero. Chi  s’oppone è zero ! ! !   Tanto basti avere avvertito per giunta ali’altre cose dette  nell’antecedente articolo, e nel principio di questo. Si op-  porrà — Stando al precedente discorso, le rivoluzioni non si  potrebber mai fare ( vedi calamità !) , e i gravi disordini de-  gli stali non mai correggere. E Bruto primo ( po'ni esem-  pio ), e Bruto secondo sarebbero stati o due pazzi, o due  furfanti. E Roma avrebbe dovuto tollerarsi in pace quella  grande iniquità del regno, e quella maggiore di Tarquinio  secondo e di Giulio Cesare. E i popoli dovrebber soflferir  sempre, eie tirannidi sempre trionfare, lo rispondo. — In-  nanzi tratto non si abusi delle autorità. Sappiamo oggi tutti  la verità intorno ai due Bruti, non quale ce l'han trasmessa  menzognere storie, ma quale una bene illuminata critica  cereò di porla in chiaro in mezzo alle tenebre addensate su-  gli antichi fatti. Del primo Bruto poco può dirsi. Esso è mito  più che personaggio certo. Stando a quel che se ne narra.] bene addimostrò s’egli amava la libertà o la schiavitù diRo'  ma, nella famosa storia del bacio dato alla terra. Oggi si sa,  e ben sa, che Roma, innanzi alla distruzione dei Galli, non  fu mai si florida come sotto i re etruschi. La rivoluzione di  Giunio Bruto contra il Superbo , se risguardiamo agli effetti,  distrusse per lunghi anni la prosperità della futura capitale  del mondo, e non è sicuro che la preparasse. A essa dovette  Roma i mali d’ una lunga e disgraziata guerra , che condus-  se , come testé notavamo, all’assoggettamento a Porsenna,  il quale altro ferro non lasciò a’ vinti romani se non quello  che agli usi dell’ agricoltura sovvenisse. La città regina deve  la sua rivendicazione in libertà ai fatti della guerra infelice  del re chiusino contro ad Aricia e contro a’Cumani.E senza  Bruto , la tirannide del Superbo finiva al finir di lui : nè le  due catastroG, che successero , pel tentato repubblicano mu-  tamento sarebbero state. Se dal male venne poi bene alla  luoga,ciò non è il merito dell’ autore del male. I provviden-  ziali destini di Roma dovevansi compiere ad ogni modo. —  Quanto al secondo Bruto, si conosce nou meno a che buon  fine usci il cavalleresco, e sufficientemente odioso fatto del-  l’ingrato bastardo del Dittatore. Il fanatico non conobbe nè  i suoi contemporanei , nè i veri bisogni del suo paese. Fu  un povero politico, siccome un povero guerriero. Nè com-  batteva per la riforma, ma a chi ben riflette, contro ad es-  sa , voglioso di richiamare a una vita impossibile la degene-  rata e morta repubblica , la quale Cesare per ben di Roma  aveva distrutta. E il mondo che vi guadagnò? L’aver per-  duto un grand’ uomo qual senza dubbio era il vincitore delle  Gallie e di Pompeo, per fargli succedere un minore di lui,  nè manco despota di quello. — Nondimeno, io non voglio  abusare di questa maniera d’argomentazione. Certe rivolu-  zioni, che , dopo i primi mali prodotti, alla fine son riuscite  ad utilità ( una ogni mille ) io non voglio negarle. Voglio  negare che il massimo numero delle volte siano state atti  considerati e degni di lode, anche quando una utilità se ne trasse. Voglio osservare ch’elle sono giuocate di lotto , dove  il vincere è un caso assai raro, il perdere è la sorte comu-  ne; con questo di peggio, che il perdere non è mai di poca  cosa, nè d’uno o di due, ma di tutto un popolo , di tutta  una nazione, perchè la posta ( 1 ’enjeu ) è la fortuna di esso  popolo, di essa nazione, nel suo presente, forse nell’avve-  nire; sono le vite, gli averi, gli onori , ogni cosa più cara  che gli uomini s’abbiano. Voglio per conseguenza dire ,  ch'esse possono esser atto di disperazione o d’audacia, non  atto mai, o quasi mai di senno; e che sono un mezzo, e  qualche rarissima volta il solo ( della cui natura lecita od  illecita quanto a coscienza di buon cristiano è questione che  lascio decidere a’casuisti ) per liberare l’universale da mali,  più o men reali, e più o meno intollerandi , son però un  pessimo mezzo; uno di que’ rischia-tutto , che chi sente d’an-  dare a irreparabile ed imminente rovina, tenta qualche vol-  ta, come un’ultima speranza, quia melius est anceps, quarti  nullum experiri remedium , ma che aggiunge un biasimo di  più a chi , andando a rovina , per questa via l’ affretta , e la  rende più grave, più inevitabile.   Or, data, contro alle rivoluzioni in generale, questa sen-  tenza di condanna , qual rimedio dunque avranno i tiran-  neggiati , gl’insoffribilmente angariati , i giustamente e gran-:  demente malcontenti de’ mali ordini politici sotto i quali  gemono ? Vuoisi eh’ io tratti la questione storicamente , o  teoricamente? Se storicamente, dirò, con franchezza, spesso  nessuno. Perciò gli annali del mondo son pieni delle storie  di popoli non solo lungamente malgovernati , e barbara-  mente oppressi , ma sterminati senza rimedio , e cancellali  tutti interi dal libro della vita. Coraggio o viltà ; resistenza  e difesa sino agli estremi, od abbandono di sè, non ci fanno  nulla: chè spesso il tentar di liberarsi e di riscuotersi è sta-  to col proprio peggio , rendendo più tormentosa 1’ agonia ,  più terribile I’ eslerminio. In questa guerra , come in ogni  altra, è quale nel duello. Non vince sempre chi ha ragione.  Cosi le disgrazie dei mali ordinamenti , e le pressure , son  come le pestilenze , come le fami, come gli altri flagelli che  cadono a volta a volta sulla nostra povera specie, a ventu-  ra , come un decreto di calamità e di morte , al quale ci è  forza soggiacere. Se parliamo poi teoricamente , dirò , che  in cielo non è scritto , che la giustizia in terra sempre vin-  ca. È nell’ economia del mondo, che il male non rade volte  domini il bene , e che la specie nostra riceva , a quando a  quando , dure lezioni per imparare umiltà e rassegnazione;  per accorgersi che non è qui il tribunale supremo dove si  giudicano le cause degli uomini in ultima istanza; per Ope-  rare o per temere una giustizia futura ; per credere un’ al-  tra vita. Noi tratteremo altrove questo argomento più alla  distesa.   Il rassegnarci sarà dunque lo scoraggiante unico dover  nostro? nè Iddio nella sua pietà e bontà infinita ci avrà dato  modo per ajutare la giustizia , se non a vincere, almeno a  generosamente difendere le proprie ragioni , a virilmente  protestare contro alla iniquità e al sopruso? Questo io non  pretendo, e nessuno lo pretende. Quel ch’io pretendo, e ciò t  che i savi pretendono , richiede un più lungo discorso.   A chi , senza passione, studia i casi dei popoli quasi sem-  pre appar chiaro, che si fatta specie di mali assai radamente  sono senza manifesta colpa o cooperazione di chi vi soggia-  ce. Si soffre perchè s’è meritalo di soffrire. I figli pagano la  pena degli errori de’ padri. E tuttavia, se par non esservi  rimedio, è che manca le più volte piuttosto la sapienza e  la virtù per emendare il danno, di quello che la possibilità  d’emendarlo. Un popolo che soffre ( giova ridirlo ) , soffre  ordinariamente, perchè è degno di soffrire; ed allora il sof-  frire è una pena meritata, e il non saper liberarsi di questa  pena, e il seguitare di essa è ugualmente sua colpa. Dove i  probi , ed i sapienti, e i fervidi amatori del pubblico bene  abbondano, l'amor del giusto e del vero necessariamente si  prepondera, che l’ingiusto ed il falso non possono allignare , od allignando non possono guadagnare rigoglio, e non  finire col diseccarsi fino alla radice , e col perire. Perchè dal  retto apprezzamento , nel maggior numero , di quel che è  buono e cattivo, e dall’avversione per questo, e dal biso-  gno di quello , si genera di necessità ciò che si chiama la  forza della opinion dominante , che è tanta parte della forza  delle cose , la quale, allorché ha saldo fondamento di veri-  tà , dura, e non domina da burla. I cattivi , se vi sono, al-  lora han più vergogna , e a lor malgrado , si nascondono ,  e non osano, o, se ardiscono , sono presto repressi , senza  strepito d’armi, dalla generale riprovazione, la quale, in  innumerabili , prende la forma di coraggio civile , che dice  animosamente, ma pacificamente, e con tulli i modi legali,  il vero : ciocché è possibile, ed alle volte è probabile, che  nuoca a chi lo dice , ma non è possibile , nè probabile, che  non Gnisca col giovare all’universale, secondo che gli esem-  pi di sì fatto coraggio fruttifichino , si moltiplichino , e si  rinnovino. In altri prende la forma di pubblica e franca dis-  approvazione , tanto più efficace, quanto men turbolenta,  quanto meno esagerata. In tutti prende ogni legittima for-  ma , per la quale sia possibile arrivare , senza eccessi mai ,  nè disordini, all’emendazione del malfatto. E il malfatto bat-  tutto da tante parti, ed in modo si misurato, si degno, sì ani-  moso^ nel tempo stesso si prudente, potrà bene sbizzarrirsi  ancora qualche tempo, ma non vincerà la pazienza e la viri-  le e nobile resistenza di quei che giustamente si querelano ,  si bene sarà vinto con assai più prontezza che altri non im-  magini.   Ma dove cittadini della forte e virtuosa tempra ch’io dissi,  o difettano al lutto , o sono in minimo numero, e gli altri  non sono che turba ignobile , impastata d’ egoismo e di vi-  zio , primo (torno a dirlo perchè bisogna) , la perseveranza  e l’ immedicabilità del male a torlo è querelata. Essa è un  effetto le cui cagioni principali sono in chi si querela, come  dianzi affermavamo: secondo, è allora solamente che in mezzo a popolo depravato si giltan fuori falsi medici ; cioè quelli  che han fuoco soprabbondante di passioni per isdegnarsi di  ciò che materialmente si soffre, e per accender lo sdegno al  di là d’ ogni equa proporzione col suo fomite ; ma non han-  no , nè senno per conoscere e pesare quel che conviene e  quel che no , nè virtù per saper soffrire quel che non può  evitarsi , nè altro di ciò che bisogna a dar buono indirizzo  al pensiero riformatore. E son eglino che non contenti di  sbagliar essi la strada, traggon fuori di via gli altri, già pur-  troppo , per ipotesi , poco alti a fare saper quel eh’ è il de-  bito. Eglino che screditano la moderazione, i mezzi legali e  pacifici, e tutto che non sia l’impeto loro sconsigliato e paz-  zo. Eglino da cui nasce e prende piede la falsa opinione del-  l’ impossibilità del bene o del meglio senza ricorrere a’ loro  forsennati e pericolosi divisamenti.   E già troppo di questo argomento s’ è favellato. Ma fin qui  noi, per cosi dire, non abbiamo che girato attorno al mas-  siccio delle questioni nostre. Ciò è la trattazione del governo  in sè , che si vuole ostinarsi a considerare come una ema-  nazione pur sempre di quella sovranità del popolo, di che ab-  biamo già detto parecchie indirette parole, ma non le dirette  che si richiedono. Direttamente dunque ornai favelliamone,  e cerchiamo che il discorso abbia l’ estensione che l’impor-  tanza del soggetto richiede.  De’ governi, e delle sovranità in generale.    Si : nessun assioma più oggi è fitto nella mente degli uo-  mini, che quest’ uno , tenuto come principale — La sovra-  nità risiede , per sua essenza , nel popolo — Chiedete intanto  a que’ che cosi pronunziano, qual cosa , in si fatto assioma  delle piazze e delle conversazioni, significa per essi sovrani-  tà , che cosa popolo : chiedete l’ analisi e la sintesi teorica e  pratica dell’ idea che innestano a questi due vocaboli : chie-  dete la spiegazione delle dottrine , che da esso assioma vo-  glion dedotte, od almeno de’suni più immediati conseguenti;  e vi accorgerete esser quello , al maggior numero di loro ,  niente altro che una frase oscura e d’ indeterminata signifi-  cazione, la quale permette interpretazioni le più diverse, e,  purtroppo, lascia sovente libero il luogo alle più strane e le  più assurde.   Come intendete voi , brav’ uomo , questo che oggi tutti  dicono — Il popolo è sovrano ? — dimandava io, son or po-  chi giorni, a un mercenario, il quale, per prezzo, prestava  alla mia casa non so che faticoso servigio — Rispose — L’in-  tendo , che tutti dobbiamo comandare — Io ripresi — Ma ,  se tutti comanderanno, chi dunque obbedirà? — Senza per-  dersi d’animo, egli soggiunse — Que’ che han comandato fi-  nora. I nobili ed i preti. I ricchi e gli usurai. Quei che pos-  seggono e possono, mentre noi non abbiamo fin qui posse-  duto , e potuto nulla — Ed io — Ma non sono essi ancora  popolo , e del popolo , e perciò , almen almeno , cosi legitimamente padroni della lor parte del comandare , quanto  I’ han da essere gli altri? — Ed egli — La parte loro di pa-  dronanza l’hanno esercitata e goduta anche troppo, giacché  l’hanno adoperata soli e sempre. Una volta per uno. Adesso  tocca a noi. Essi non eran popolo, nè del popolo , quando  comandavano , e lasciarono esser popolo, e del popolo, so-  lamente a noi poveretti. Dunque , giacché s’ erano separati  dagli altri, ne patiscano la pena... — Ecco come il volgo in-  terpreta la sua sovrana potestà ! Un abuso sostituito ad un  altro abuso : una tirannide ad un’ altra tirannide ( conces-  sogli anche, senza esame, nè disputa, che ogni poter sovra-  no dell’ antico modo sia stato, sia, e non possa non essere,  che abuso e tirannide ; concessione , la quale dicano i di-  screti se possa farsi. Certo , in coscienza , io non posso far-  la. ) — Ritorniamovi sopra.   11 secolo interroga — Di chi è per naturai diritto la so-  vranità ? — E son io questa volta , che voglio rispondere.   Nè tratterò prima la quislione , che chiamano pregiudi-  ciale : se quel che lilosolìcamente parlando , sembri a talu-  no , od a molti , od anche a lutti , di naturai diritto assolu-  o più sono per anda-  re , innanzi , avvegnaché in si fatti popoli , le sempre cre-  scenti disuguaglianze stabiliscono , per legge di ragione ,  una necessità di gerarchie , per le quali vuole giustizia , che  gli uni siano maggiori degli altri a vario grado , e la sovra-  nità s’ attemperi all’ordine gerarchico, il quale natura ed  arte hanno stabilito , o son per istabilire.   Ma essenza della civiltà non è meno un immenso campo  aperto alle passioni ed ai vizi i più detestabili, come alle vir-  tù più nobili. Da una parte avarizia, invidia, rivalità, egoi-  smo , ambizione , tradimento, perfìdia, frode, broglio, se-  duzione, baratteria, truffa, usura, ladroneccio, mariuoleria,  stupro, adulterio, dissolutezza, maltolto, accattoneria , ac-  coltellamento, assassinio , e cento altre mila simili , o peg-  giori, depravazioni e miserie d’una civiltà volta a contrario  fine : dall’ altra filantropia vera , generosità , carità , longa-  nimità , sacrifizio abituale di sè , e delle cose sue , date a  pubblico e privato vantaggio, assistenza a chi è in bisogno,  disinteresse , rettitudine eminente, desiderio intenso del be-  ne, orrore del male , coraggio militare e civile , infaticabi-  lità , zelo, larghezza di consigli, d’indirizzi, d'aiuti... virtù  cristiane. . . virtù civili. Or ciò fa una seconda categoria di  disuguaglianze , maggiori ancora di quelle che precedente-  mente consideravamo in più special modo ; disuguaglianze che hanno un gràdo intermedio de'non buoni e non cattivi  abitualmente, ma degli andanti a orza. Donde la convenienza  di tener gli uni come peste del popolo, e come non popolo;  di diffidare grandemente degli altri , c di non aver fede , a  pubblica e comune utilità , che de’ già provati ottimi , nei  quali le altre condizioni pur concorrano. E di qui una nuo-  va ragione perché la democrazia pura a’ popoli civili tanto  men s’ attemperi quanto son più civili , e contenenti perciò  nel loro seno , al fianco di molti ottimi , molti (tessimi , e  molti che stanno tra l’ ottimo e il pessimo. Il perchè , se, a  priori , e secondo le suggestioni astratte dal senso comune ,  in essi popoli avesse a crearsi una sovranità, certo ogni sua  parte sarebbe agli uni negata assolutamente , agli altri non  concessa in ogni cosa, e ridotta , nel generale , a più o men  ristrette proporzioni ; e riservata o interamente, o nella mas-  sima sua dose, a’ soli degni di questo privilegio. In che può  ben essere una difficoltà grande d’esecuzione; ma ciò non  toglierebbe che in teorica ciò avrebbe a giudicarsi il meglio  da ogni savio.   Per ultimo l’essenza della civiltà è il creare innumerabili  maniere d 'interessi , de’ quali non è vestigio nella vita delle  selve , o delle capanne : interessi principalmente materiali ,  odiali e screditati da quei che vorrebbero ricondurre gli uo-  mini alla vita della selva e della capanna ( o lo confessino ,  o no, perchè chi vuole il mezzo vuole il fine ); ma interessi  tanto connaturati a ogni società civile, che il turbarli a qua-  lunque grado è fare a un popolo uno dei maggior mali che  possano farglisi. Tali sono gl’ interessi di possidenza, gl’ inte-  ressi d’industria promossi da qùe’ primi , gV interessi di fami-  glia, gl’interessi di condizione , ed altri che non accade speci-  ficare più a minuto. I quali da due parti si possono riguar-  dare: dalla parte di coloro a chi spettano; e dalla parte del-  I’ universale , in mezzo a cui sorgono, e si moltiplicano. E,  dal primo lato, giova dire, che hanno essi una origine, della  quale , se sono artificiali i modi , è da natura la principale radice. Perché è natura l'amare noi stessi , e i nostri con-  giunti , e il nostro e il loro bene ed agio ; natura l’ istinto  della proprietà, o del possesso di quél ciré ci troviamo avere,  e di quel che andiamo procacciando man mano ; natura il  cercar di crescere questo capitale nostro, che non siam pa-  droni di non considerare come facente colla nostra persona  un sol tutto , per tal guisa , che , quanto fa esso maggior  somma , tanto fa più grande la nostra importanza , il nostro  ben essere terreno, il sentimento d’ esser meglio che altri  riusciti a soddisfare il bisogno ingenito d’alzarci con ogni  nostro onesto sforzo , non per soperchiare chicchessia , ma  per obbedire, anche in questo, alla legge di perfettibilità e  di progresso ; natura quindi ( ciò che istintivamente a un  modo medesimo ammise presso a poco ogni popolo ) , il  chiamare ed il credere legittimamente nostro l’ ereditato ,  il donatoci , il comperato , l’ottenuto , si nel peculio , e si  nella superiorità della condizion relativa a che s’ è giunti ,  o in che s’ è nati... il guadagnato e l’avuto dal lavoro, o da  traffichi di buona lega; (ìnalmerite natura il riguardare l'in-  teresse proprio d’ ogni forma come non si esclusivamente  proprio della persona , che non s’abbia a riguardarlo quale  un interesse, ad un tempo , dell’ intera famiglia alla quale  apparteniamo, finché sarà essa per durare e per estendersi.  E di qui categorie di ricchezza più o meq considerabile, in  opposizione colla povertà ; di patriziato più o meno emi-  nente , in opposizione col terzo stato e col volgo. Di qui  tutta la scala delle fortune, per che uno è Grasso, o Luculio;  un secondo è un accattone di strada; un terzo è un che vi-  ve del suo, masotlilmente, con quel che basta, e con nulla  che avanzi — Da un altro lato, se gli effetti di ciò, nell’uni-  versale de’ cittadini, si considerino, quantunque a dì nostri  molta sia la proclività de’ novatori al gridare , questo esse-  re, non pur soltanto ingiustizia degli uni contro degli altri,  ma ( quel ch’è peggio) gravissimo danno, gl’imparziali e  giudiziosi però non cosi vorranno affermare quando ben vi  riflettano, e quando massimamente volgan l’occhio alle con-  seguenze ultime.   Per chi ben guardaci! mondo è fatto in modo, cosi aven-  do il creatore disposto , che non può uscire di questo di -  lemma ; o dell’esser composto di lutti poverissimi , costret-  ti , per sussistere, alla vita selvaggia , e nomade , e di cac-  ciatori ; senza nemmen pastorizia , non che agricoltura ; o  dell’ esserlo d’ uomini, i quali, cominciato a gustare le ma-  teriali e miste dolcezze .d’ un viver più confortevole , più  agiato , meglio congiunto con que’che s’amano, e co’quali  s’ ha strettezza di sangue , più che le gustano , più ne di-  vengono avidi, e più speronano la propria attività per pro-  cacciarsele , ognuno, nella maggior misura possibile , senza  essere impedito o disturbato , e più se ne creano quel che  si chiama un loro interesse individuale, a cui tengon tanto  quanto alla propria vita : ed allora, secondo che un s’ in-  dustria più , un altro meno, uno piu è destro, un altro ha  manco attezza , ecco a poco a poco ricchi e poveri , possi-  denti e proletari , banchieri , mercatanti in ogni ragion di  mercatura e di commerci, agricoltori , fabbricatori, merce-  nari, patrizi, e plebei... uomini accasati e vagabondi , capi  di bottega e garzoni , e manovali , padri di famiglia e sca-  poli ricusanti la briglia delle nozze per amore dell' allegra  e libera vita, quegli che ha la casa e la vigna, e quegli che  non ha nè la casa, nè la vigna... E l’amore di ciò crescendo,  cresceranno le distanze tra gli estremi , o le differenze. —  Or quello è barbarie , questo è quel che sempre s’è chiama-  to la civiltà , il progresso , o della civiltà , e del progresso, .  effetto, ad un tempo , c causa e criterio e simbolo il più  visibile. Volete voi una civiltà , invece , ed un progresso ,  senza questi effetti? Voi vi fate illusione. Avrete un ricadere  infallibile nello stato barbaro.   Imperciocché , si pubblichi , a cagiou d’ esempio , una  legge domani, non dirò che abolisce ogni proprietà, ma dirò  che abolisce, pur solo , la libertà de’ cumuli, e degli accrescimenti , nella possidenza così detta , e che con una nuova  divisione di tutte le terre distribuisce per teste il suolo, as-  segnando a ognuno tanti iugeri, e non più. Aggiungansi al-  tre leggi , che quanto è danaro faccian colare spartito coe-  gualmente , o più o men coegualmente , su tutti. Chi non  vede la conseguenza forzala? — Tu che non puoi coltivare  colle tue braccia , con quali braccia coltiverai? Con quelle  d’ un operaio preso a mercede? Ma l’operaio è possidente ai  par di te , ed ha i suoi propri iugeri da coltivare. Se ad-  doppiando la fatica , pur si darà braccia anche per te , si  contenterà più egli di coltivare il tuo con quello stesso sa-  lario con che te lo coltiva oggi? Vorrà raddoppiarlo, o aste-  nersi , perchè non ha bisogno ; e tu dove troverai questo  doppio danaro che t’ è necessario, se vuoi che i tuoi pochi  iugeri ti faccian mangiare? Dove lo troverai , se sei di co-  loro, i quali s’avvezzarono a vivere col solo frutto della loro  possidenza , e non saprebbero far altro? (Oltre di che, se Io  trovi, c glie lo dai, egli diverrà comparativamente il ricco,  e tu diverrai , viceversa, il povero , ristabilita cosi a rove-  scio , comechè dentro piu ristretti limiti , la differenza di  fortuna , e ripristinato , per contrario verso , un nuovo bi-  sogno di livellazione ).   Ma, educato come sei, non ti basta, pe’ pochi iugeri che  ti son dati , o che ti restano dopo lo spoglio, il trovare col-  tivatori. Ei ti bisogna trovare un che dell’ amministrazione  s’intenda, più di quel che tu ne intendi, tu che, probabil-  mente , non vi pensasti mai , volto ad altro il pensiero , e  solito a farti servire in tutto ; e questi ancora non vorrà  spartire il suo tempo tra l'azienda della propria coltivazione  e della tua, senza esserne ben pagalo egli stesso. Ecco dun-  que per te una nuova necessità di pecunia , che non saprai  donde trarre. Ecco, se tu arrivassi a trovarla su i risparmi  eccessivi che t’ imporresti , una cagione per esso di sopra-  stare a te nell’ avere, e di turbare il livello, quanto almeno  il misero sistema che analizziamocomporta (colla conseguenza poi del bisogno di sconvolgere nn’ altra volta la società,  per novamente livellarla, quando il ricco sarà diventato po-  vero, e il povero ricco). Ed ecco, se, non ostante ciò, non  potrai trovarne quanta te ne bisogna, ecco dunque, ripeto,  cbe i tuoi pochi iugeri non ti serviranno a nulla , e re-  steranno incolti , con danno anche pubblico , e tu morrai  di fame. Muori pure, tu fuco nell’alveare della nazione , tu il  « quale non meriti vivere» dirà la legge nuova, che, senza  scrupolo, e senza badare a numero, vuole uccidere una  eletta parte della popolazione a profitto del nuovo mondo,  il quale s’avvisa di fabbricare. « Muori tu, con tutti i tuoi.  « Resteranno , con maggiore utilità, cittadini più laboriosi,  « tra’ quali que’cbe prestan le braccia e la direzione per  « coltivare, saran pagati con quel cbe lucreranno i non col-  « tivanti con altre occupazioni retribuite. » — Ma che oc-  cupazioni potranno esser queste? Arti, per esempio, di  lusso? Tu burli. Queste no : perchè il lusso è una superfluità  per que’gran birboni de’ ricchi, cbe necessariamente costa  cara, essendo cara la materia prima, care le operazioni de-  stinate a trasformarla , e le spese di manifattura ; ciocché  fa , che il prezzo loro è necessariamente alto ed altissimo ,  e perciò irreperibile in un popolo dove ricchi più non sono.  Dunque non più carrozze, non più arredi preziosi , non più  drappi sfoggiati , non più cristalli e porcellane di Sevres ,  non più ori e gemme ed argenti , e per analoghe ragioni ,  non più statue , non più pitture, non più palagi , non  più parchi , giardini di piacere , cavalli di pompa , vil-  le... cose tutte riservate a’ paesi infelici dove duri la servi-  tù degli uomini... Quali pertanto , nella beata tua Sparta,  saranno le arti, a che que’chenon vogliono, o non sanno, o  non possono, coltivar la terra, o fare al più vita di pastori,  potranno darsi , per isperare sostentamento, e possibilità di  coltura alle poche terre, che la legge agraria avrà voluto as-  segnare alla loro incapacità? Siccome la consumazione è quella che regola sempre la produzioiìe , saranno > salvo poche  eccezioni , le arti che si chiamano di prima necessità , ed  elle stesse ridotte alla loro pili grossolana e più rozza e men  costosa espressione.... E questo non si chiamerà rendere la  spezie umana retrograda , e distruggere la civiltà ! ! ! Que-  sto sarà il secol d’oro ( senza l’oro , e ricacciato nel fan-  go dei consorzi umani che sono in sul cominciare, e  che tengono ancor molto della primitiva creta senza ver-  nice ).   E io qui non parafraso l’argomento, e non lo-scorroper  ogni suo punto, piacendomi a descrivere tutti gli altri con-  seguenti: gli studi scaduti, le occupazioni geniali vegnenti  meno , lo slaucio, il potere degl’ intelletti inceppato ... a  dir breve, la condizione di tutto il popolo condotta solleci-  tamente a quella forma, che oggi, per trovarla, dohhiam  salire le montagne più selvagge, insinuarci ne’ villaggi i più  rozzi....   Pur so qùel che si risponde dai gros bonnels delle nuove  filosofìe politiche. Non son essi cosi bestie da non vedere  tutto ciò , per poco che vi riflettano, cosi limpidamente come  noi lo veggiamo... Ma essi han due lingue in bocca. Una  colla quale parlano al volgo; un’altra colla quale parlano a  noi. La prima delle due lingue favella alla faccia del popo-  lo. — Divisione de’ beni — Distruzione de' ricchi — Abolizione  dell’ odierno ordine di cose col ferro e col fuoco — Sovranità  della moltitudine proletaria.... senza comento , senza restri-  zione. E la feccia del popolo accetta con alacrità questo sim-  bolo della sua fede politica nel senso il più letterale , il più  largo ; e vi crede ; e se ne infatua ogni giorno più ; e affretta  co’desiderii l’ istante , in che la legge agraria sarà promul-  gata; e odia intanto, e minaccia que’ che hanno, consi-  derandoli , come usurpatori del dovuto (!) a que’ che non  hanno ( e che non hanno fatto niente per avere ). Come  potrebbe essere diversamente? — La lingua, in questa  vece, che parla con noi, rinega, o piuttosto maschera sì fatte enormità. Va per giravolte. Sostituisce alle idee trop-  po urtanti, ch’esse enormità rappresentano, altre idee che  mostran meno quel che è celato sotto. Propone tempera-  menti e sistemi , che creeranno una civiltà nuova, capace  d’ evitare, o d’attenuare Uno ad una proporzione innocua  i precedenti sconci. Utopie. Le Icarie d’ un Cabet ( da an-  dare a cercare in America , lontano lontano dagli occhi di  coloro, che potrebbero screditarne gl’ incunaboli , e rife-  rirne le miserie). I ComuniSmi sotto certe forme. I socialismi  de’Fourieristi e di Considerane diLouisBlanc, e di Prudhon:  sistemi confutati ogni giorno lecento volte da uomini sommi.. .  da uomini i più grandi, i più competenti della Francia, e del-  l’ altre nazioni d’Europa, e pur messi sempre innanzi colla  stessa impavida sfrontatezza , colla stessa subdola destrezza ,  fingendo, che confutazioni nou vi siano. ..che le dispute ab-  biano cessato , o non meritino la pena ’d’ essere intraprese  e siano state vinte ... che il giudizio dell’ universale ( non  quello delle proprie sette soltanto ) sia già intervenuto , e  sia stato favorevole : sistemi , uno de’quali è la confutazione  dell’altro: sistemi, non pertanto, ciascuno de’quali , cosi  ancor controverso, cosi ancor contrastato tra le file stesse  degli odierni rinnovatori del mondo , non si è già contenti  dell'ofirirlo solo all’esame ed alla disputa de’ ginnasi, com’io  pur altrove considerava, ina, prima d’averne posto fuor  d’ogni controversia la certa utilità presso almeno il maggior  numero degl’invitati a subirlo, si vuol pervicacemente tra-  durlo ad alto ; si vuole imporlo a tutti colla forza , e gua-  dagnargli la prevalenza del numero, colla seduzione, e con  arti di cospiratori !   Nè io, deviando troppo dall'argomento principale e diretto  di questo articolo , debbo qui imprendere d’ aggiungere una  confutazione di più alle tante che corrono il mondo, e che  si rimangono senza adeguata risposta. A me, per l’oggetto,  che mi son proposto , basterà fare una dimanda (lasciato da  parte il trattare, se quello di si fatti sistemi, che ciascuno    .ole  de’ parliti nuovi preferisce, e che, ad ogni costo, vorrebbe  sostituito, senza dilazione, al presente ordine di cose, bada  esser liberamente consentito, o si vuol che sia una confisca  violenta delle libertà di troppi a profitto d’ una futura rior-  dinazione degli uomini secondo la prestabilita formola d'al-  cuni, che non si vuol disputata , né sottomessa ad arbitrio  di rifiuto , ma si vuol accettata da chi non la crede buona  ed utile , come da chi la crede , ancorché chi non la crede  s’ostini invece a riputarla un esperimento eminentemente  dannoso ed assurdo, o per lo meno grandemente rischioso,  e pieno di pericolosa incertitudine). — Io farò la dimanda,  che sola qui m’ imporla. — 1 nuovi sistemi di congrega ci-  vile ( si risponda con franchezza ) manterranno si o no , la  diversità , più o meno , di specie e di grado negl’interessi ,  anche materiali, de’ singoli, come in generale, l'ordine  della civiltà mostrammo, per sua natura leudere a produr-  re? — Se no: dunque ( levata pure ogni maschera ) tutti ,  ne’ materiali profitti , avranno lo stesso ; tutti spereranno  lo stesso, o presso a poco lo stesso. Sparirà , o tenderà a  sparire , la libertà del mio e del tuo, almeno quanto alla  misura. L’attività, la solerzia, per ciò che spetta al ben es-  sere fisico d'ognuno, non recheranno alcun maggiore van-  taggio, che l’infiugardia, l’inerzia. La perizia più grande  nello stesso genere sarà materialmente trattata come la minore. Nella comunità nessuno avrà alcuno di quegli stimoli  stali sempre, che più energicamente e più universalmente  ed infallibilmente son motori al fare, non che al ben fare.  — Vi sarà ( vorrà dircisi ) il premio della maggiore stima  che si godrà da chi la merita, oltre alla soddisfaziou gene-  rosa dell’ animo proprio. Vi sarà il piacere di sentirsi loda-  to j di vedersi onorato, consultalo sopra gli altri. Ma que-  sto é dimenticare, che si fatto premio già c’é nell’ordine  odierno, e pur non basta senza quegli altri che oggi vi sono,  anzi non basta nemmen con quegli altri. Questo é dimenticare che noi siam composti d’anima e di corpo, 1' uno e l’altra co’ suoi speciali bisogni , e perciò cogl'interessi , e  co’ diritti suoi ( purtroppo i secondi essendo , di più , meglio sentiti che i primi ). Questo è il togliere de’ due ordini  di molle, che natura ci ha dato per impulso al progredire ,  uno de’ più efficaci; il più efficace de’due; il solo efficace  pel maggior numero de’viventi : i quali, se anche colla giunta della potente azione di si fatta specie di molle, si spesso,  tra color pure che son meglio educati e disciplinati, si ri-  stanno , c non progrediscono , o vanno all’ indietro, può ben  prevedersi quanto più si ristaranno dal progredire , od andranno all’ indietro dopo la sottrazione che lor si minaccia.   Ma qui non si fermeranno gl’inconvenienti, poiché biso-  gnerà bene esser preparati al subire molti altresi di quelli  che già di sopra toccavamo, od analoghi a quelli. Tradotto  a pratica, uno od un altro di cotesti sistemi* per ipotesi,  livellatori , senza bisogno di speciali leggi suntuarie, il na-  turale loro effetto sarà che diverranno per tutti ugualmente  interdetti certi innocenti , ma vivi, piaceri della vita, a che  pur ci ha preparato natura , e non ci è a disgrado che ci  educhi l’ arte ; cioè il magnifico vestire , la buona tavola  con una corona d’ amici del cuore, servita di costosi mani-  caretti , e di squisiti vini , e le altre , o simili cose ch’io di-  ceva ; come dire argenterie , oreficerie , tappeti, arazzi, bei  quadri , le sontuosità de’ palagi , le scuderie popolate da bei  palafreni , o da generosi corsieri .... cocchi , cacce , viaggi , villeggiature , libero ed ampio sfogo a’ propri generosi  impulsi , e ad altri , che, per essere men nobili, non ci son  però men cari, nè men sono innocenti.. ; il poter direasè  stesso. Y’è qualche cosa... v’è molto , di cui son io pa-  drone... di che posso disporre a mio pien beneplacito, e di  che posso, con oneste arti, a me accrescere il godimento,  quanto a farlo mi basti la volontà e l’ ingegno, chiamandolo  mio senza che altri me ne turbi, o me ne coarti ad una data  invidiosa misura, l’uso ed il possedimento. Questa è la vera  libertà del progresso. Questo è il progresso della libertà. Libertà dell’ industria. Libertà piena «senza limitazioni. Libertà , non della sola persona , ma di quello , che , com’ io  notava altrove, noi consideriamo qual parte , e connaturale  contorno e complemento della nostra persona terrestre, nel  senso che già esponemmo. Or si ponga ben mente alla con-  traddizione. Si dice, che, ne’ sistemi presenti di reggimento  de’ popoli le libertà son troppo vincolate , e non hanno il  loro legittimo slancio, tiranneggiandole soverchiamente tutti  più o meno i governi. Si dice, che il diritto al progresso è  inceppato ; che è giunto finalmente il tempo d’ affrancar  l’uomo dalle infami antiche catene; ed intanto i nuovi siste-  matici preparano al mondo forme di schiavitù inaudite , e  che non sono mai state. La vita comune è d’ alcuni con-  venti, e si sa quanta abnegazione del proprio volere ed istin-  to costa, e quanto pesa , e quanta virtù esige perchè si giun-  ga a patirla senza lamento. Altrettanto è dello stare a parte  in mano , e del vivere a misura quale che siasi , ed a spil-  luzzico in ogni cosa , secondo che altri assegni o conceda.  Quel dover più o manco, giusta la diversità de’ sistemi, la-  mentare tra sè e sè con queste voci : « La famiglia me la  « usurpa in gran parte lo stato. La rendita me la limita lo  « stato. La nobiltà me l’abolisce lo stato. La eredità me la  « sequestra e me la impedisce lo stato » ( parlo qui special-  mente nella supposizione sempre dalla quale son partito ,  cioè in quella de’ livellamenti , qualunque siane il metodo  e la forma), non è egli un costringere ad esclamare chi cosi  considera « Io non son più meijuris ! — Io mi son fatto servo dell’ associazione d’ uomini nella quale sono entrato! Questo è ben altro che società sinaliagmatica di buona fede 1 — Questa è una società leonina , o una società da  « volpe ( ripeteranno ) , dove il più poltrone, il più gaglioffo , il più stupido , il più disadatto, iLpiù vivente a  « peso degli altri è il più favorito o il più furbo, ed ha stipolato in suo favore il monopolio del massimo vantaggio;  « mentre il più attivo , il più industrioso, il più ingegnoso,  « il meglio animato a fatica, quegli che del suo piu contri-  « buisce , è quegli eh’ è sopraffatto , eh’ è derubato , eh’ è  « vittima! Questo è il mondo alla rovescia!? Cosi  combinisi ogni cosa come lo si voglia, diasi d’ oro alla pil-  lola meglio che si sappia , cuoprasi con tutti i nastri che si  voglia la trappola , mal s'ha fiducia del riuscire a ingannare  altri che i più sciocchi. Da che l’ effetto ultimo sai che ha  da essere l’averti tirato dentro ad una società a capitale mor-  to, dove, nella liquidazione de’frutti , a te principale azioni-  sta , o dei principali , dee toccare un dividendo pari al divi-  dendo di chi non ha messo nulla, per poco che abbi saviez-  za, non si sarai gonzo da lasciarviti accalappiare. Dopo tutte  le quali considerazioni , per ultimo risultato , e per giunta  alla derrata , a si fatta conclusione non si sfugge , che l’al-  zarsi al postutto degl’ infimi , e di essi stessi fino a un limite  poco lontano e di piccola elevazione , gioverà ben poco alla  causa della civiltà e del progresso, e rabbassarsi a precipi-  zio, de’ nati per esser sommi, gioverà a questo ancor meno;  e perciò , che , contata ogni cosa , la conclusione finale sarà  il regresso sollecito degli uomini verso quella che sempre  s’è chiamata barbarie, non certo un’accelerazione di passo  nel verso opposto.   Se poi.ne’nuovi ordinamenti politici, che si ci si vantano,  per salvar la legge di progresso, e di civiltà, e della naturale  libertà di sé e delle cose sue, che alla civiltà ed al progresso  è tanto incitamento , vogliansi conservate le diversità negli  interessi di vario nome, si quanto a specie, sì quanto a grado (ch’era la seconda parte del mio dilemma), dunque co-  stituirà ciò una terza categoria di disuguaglianze , crescenti  col grado del progresso e della civiltà ; e ammessa la realtà  di queste nuove disuguaglianze, come non dovranno generare elle ancora una disuguaglianza ne'diritti in ragione delle  disuguaglianze suddette? Perchè , io non sarò di coloro , i  quali esclusivamente le convivenze umane risguardano sotto  l’aspetto di quelle società A’azionisli eh’ io poco là mentovava , dove i soli valori de’ puri interessi materiali d’ognuno ,  tradotti nell’ idea del proprio tornaconto , rappresentino le  azioni messe in comune, e quindi le correspettività de’ diritti  politici da godersi. Certo v’è altro eziandio, a che gli eterni  principii della giustizia distributiva comandano che s’ abbia  riguardo , e spesso un maggior riguardo; e alcune delle cose  dette di sopra mostrano in ciò la mia persuasione in questo  senso. Ma non son io nemmen di quegli altri, i quali la som-  ma e l’importanza disi fatti interessi non considerano affatto  nella ripartizione de’ poteri e de’ diritti a’ poteri ; e per que-  sto lato, tanta voce vorrebber data al mascalzone, il quale non  ha interessi di possidenza, non d' industria... non di famiglia  (od ha interessi tutti negativi , cioè tutti in opposizione co-  gl’ interessi di coloro, i quali nell’ alveare sociale sono Tapi  operaie e produttive ; tutti interessi di far guerra alla pro-  duzione, alla possidenza, all'industria... alla famiglia... ; tutti  interessi di disordine per pescare nel torbido) , quanta agli  altri pe’ quali la società va prosperando, cresce in affluenza  di beni, ed è corpo, regolare, utile , e conducente al fine ,  per cui principalmente le convivenze umane sono stabilite. ]si dato mano, e solamente lo patiro-  no , di che il bene susseguente è poida ricompensa. ]mili , esso uomo abbia or buono avviamento od indirizzo  alla riuscita , or non l’abbia , e ciò , alle volte per colpa  propria , o rispettivamente per proprio merito , altre volte  senza ciò, e contro a ciò: cosicché l’impiego de’ mezzi  aberra più o meno dal fine , e radamente vi conduce ; e ,  quando vi conduce , lascia sempre molto e moltissimo di  desideralo e non conseguito. Dove le volte , che più o men  si riesce , servono a mantenere l’attività nostra , e la spe-  ranza, e il coraggio, e a preservarci dal precipitare nell’i-  nerzia ; le volte che non si riesce , servono a ricordarci ,  che un potere superiore al nostro è dietro la tela , il quale  regge le coso umane , e con occulta sapienza, or ci dà i be-  ni della terra , or ce li leva , o ce li nega , acciocché pensiamo che non son questi il fin proprio e sommo a noi pro-  posto.   Ma poiché insonuna, concedo io pure , che al mal go-  verno l’ opporsi con onesti sforzi , invece di esser colpa , è  anzi spesso dovere , o quasi dovere (l’acquiescenza pura e  semplice , e la rassegnazione , quando fosse di tutti, poten-  do in alcuni casi divenire condannabile , rispetto almeno  ad alcuni: perocché è alto , non di sola virtù , ma di debi-  to, per quelli che han di ciò competenza : 1. l'illuminare,  a il cercar d’ illuminare , i depositari del potere, in quel  che veramente abbiano errato , od errino , massime quandi l’errore sia grave ed abituale : 2. l’adoperarsi a promuo-  vere la medicina de’ vizi radicali con indefessi , opportuni ,  e convenienti mezzi) , come dee procedersi iu questa dilli -  cile e delicata faccenda? — 'fiuti is thè qmstion — Ciò sia ma-  teria d’un Di quello che al popolo non ispelta , e spelta , in fatto di governo e di sovranità , e del modo e della misura in che gli  spetta.    L’argomento io l’ho toccato qua e là più volle , forse con  un po’ di disordine , ma esprimendo con forza ogni volta  l’opinione della quale sono persuaso. Giova nondimeno  tornarvi sopra in quest’articolo , e dir con più grande asse-  veranza ancora , che in ogni altro luogo — la principal fon-  te degli errori , i quali sul proposito nostro si spacciano ,  e corrono oggi il mondo , stare appunto in questo atto d’u-  niversale superbia , per che , in cosa , la quale tanto è legata a fatti providcnziali che si burlano, per cosi favellare ,  di tutte le previdenze umane ; la quale tanto poco dipende  dalla volontà de’singoli ; la quale tanto è superiore alla intelligenza delle turbe ; tanto è diffìcile ad essere trattata co-  me lo si addice ; tanto è poco alla a condursi per sole deliberazioni d’uomini quali che siano , a grado delle passioni  loro , e nel conflitto de’loro interessi perpetuamente fra lo-  ro lottanti : s’argomentano di credere tra tutti distribuita ,  ed a tulli appartenente la competenza del trattarla per Io  meglio loro. Don^c è poscia l’opinione si da noi combattuta , che la sovranità , in radice , è di tutto il popolo , inalie-  nabile da esso , reversibile in esso , e rivendicabile per esso , tutte le volte che lo vuole ; esercitarle da ciascuno ,  individuatamente , ed individualmente , nella porzione più  o men coeguale che gli spetta ; residente di fatto , come po-  tere attuale ed accidentale nella maggiorità ( più o meno istabile di sua natura) de’cittadini , che sendosi data la pe-  na di concorrere ad esercitarla , convennero in un medesimo voto ; ma non ispettante di diritto normale ad essa;  perchè la parte non può equivalere al tutto ; perchè chi  non ha parlato , non ha detto niente , e non s’è interdetto  di poter parlare quando che sia ; perchè il diritto delle minorità , tanto piccolo quanto più si voglia , può essere oppresso , ma non annullato, nè distrutto; perchè, infine,  non può non esser lecito a queste il cercar di farsi maggiorità la loro volta , acciocché il fatto della sovranità ad essi  o passi , o ritorni. E , per vero, i fautori stessi delle anzidette sentenze,  non osapo analizzarle , od almen confessare , i naturali conseguenti loro, de’quali conseguenti il principale è , che ,  cosi insegnando essi , vengono a dire, insomma , che la sovranità, comunque affidata come potere esecutivo, legisla-  tivo , giudiziario , o quale altro potere che siasi o che si  chiami, obbliga in diritto i soli consenzienti: quanto agli  altri , li violenta , ma non può obbligarli; o , ciò che vale  lo stesso , vengono a dire , che la sovranità è obbligatoria  di diritto per nessuno , giacché que’che le obbediscono, in  quanto sono consenzienti , evidentemente obbediscono a sè  e non a quella , cioè obbediscono alla propria volontà di  obbedire, nou alla forza imperante della sovranità, attinta,  in massima parte, dagli eterni principii della ragione e della  giustizia ; ed obbediscono perchè son contenti di farlo , non  perchè si credano obbligati a farlo ; ed , in que’che obbedi-  scono , in quanto , a lor malgrado , vi sono costretti , non  dall’autoriLà, ma dalla forza materiale, in essi ancora l’obbedienza è un fatto sofferto , e non un dovere adempito ; e  un’ obbligazione estrinseca , e non un obbligo di vero nome ;  o , a dir meglio , è violazione di diritto , e non diritto , contro alla qual violazione si ba invece il diritto di mettersi in  istato d’ostilità , di cospirare, di muover guerra flagrante ,  in detto ed in alto. Il che dire è negare la sovranità , e ennsiderarla come ud fallo pur sempre , non come un diritto;  Tatto di alcuni che soperchiano tutti , non diritto di tutti  contro a ciascuno ; tirannide , e non sovranità, pe’ dissenzienti ; cosa inutile , superflua , ed illusoria , o simulacro  di cosa pe' danti libero consentimento : ciocché bene inter-  pretalo , significa poi , che la sovranità , in quanto è pote-  re , pe’soli dissenzienti esiste ; ma esiste per essi soli come  una iniquità ed una ingiustizia , non come cosa mai legit-  tima e normale : verità si vera , che lo spirito logico d’ uno  de’ più sinceri , e de’ più espliciti tra gli antesignani del nuovo liberalismo (Prudhon) non ha dubitato di confessarla e  dichiararla ad alta voce , e per istampa.   In si fatto sistema , pertanto , gli attualmente investiti  della sovrana potestà , e d’ogni sua grande o piccola parte,  quali e quanti pur siano , non sono che semplici incaricati  d’affari , privi di plenipotenza , e quasi direbbesi ad referendum, o piuttosto godenti d’una plenipotenza frodolenta di  l'alto a tutto loro risico , e sotto la loro perpetua responsabilità , come i generali di Cartagine ; sempre revocabili ,  sempre soggetti al sindacato di tutti e di ciascuno ; posti in  una siugolar condizione innanzi al popolo : perchè , ne’paesi dove tutto il popolo non è stalo chiamato , e non è con-  corso a farli (messo dietro le spalle ogni diritto di prescrizione e d’usucapione) sono come se non fossero; usurpatori  posti fuori della legge ; nemici pubblici , e niente meno di  ciò : ma , ne’ paesi stessi , dove il popolo è quegli che li  elesse negli universali suoi comizi , non hanno , per le ragioni esposte di sopra , solidità e realtà alcuna di potere ;  burattini da filo quanto a tutti , e tali burattini , il cui filo  dev’essere spezzato il più presto , o quando il destro uc vie-  ne , quanto a’dissidenti.   Che se tutto ciò è rispetto alle persone, poco diversamente dee dirsi rispetto agli atti loro , il cui valore intrinseco è  subordinato sempre all’apprezzamento libero e capriccioso  d’ognuno. Ed altrettanto è ancora delle leggi ; o sian pure quelle che si chiamano Costituzioni , Carle, Statuti , o simile. E cosi dislruggesi allatto , e si demolisce l’idea di governo , e si sperperano le convivenze civili, rimettendo  ogni umana congrega nelle condizioni primordiali del viver  selvaggio , ricondotto a’suoi naturali e radicali elementi  d’indipendenza degl’individui , e di forza brutale del più  potente , o del numero maggiore , centra il più debole , o  contra il numero più piccolo.   Io invece, per finirla , riduco a queste non molte propo-  sizioni i dettati della ragion pura in si fatta perplessa materia, sottoposti nondimeno alcuni di essi, nell’applicazion loro, al prudente apprezzamento delle circostanze. Iddio, a farci appunto conoscere, nella presente im-  perfezione ed ignoranza nostra , eh’ egli è il padrone (domitius dominanlium ) , e che noi , per molto che immaginiamo  di esserlo , non lo siamo punto , o lo siamo assai poco , c  sotto sempre la legge della sua supremazia , dispose , c di-  spone, colla sua direzione occulta del mondo morale, come  del tìsico , le cose in modo , che lo stabilimento de’ gover-  ni , nel materiale , e nel personale, è (storicamente parlando , cioè nella pratica , cosi come dalla storia universale e  particolare de’ popoli ci è dichiarata) un mero previdenziale  fatto , dato o coadiuvalo , sempre , o quasi sempre , da for-  za di circostanze , indipendenti il più spesso da ogni preor-  dinala volontà delle turbe ; per le quali circostanze , o contrastato , o no che sia ne'suoi cominciamenti , esso , da  una esistenza precaria , e spesso irregolare , passa , a poco  a poco , ad un'altra esistenza tacitamente consentita dall’uni-  versale , e pacifica , e con ciò legittimata ; rispetto alla qua-  le , l’azione indesinente de’ due principali fattori di quest’or-  dine di fatti (e voglio dire , 1. il reggimento divino delle  cose umane , 2. quella dose di politico senno, che giunge  per solito , da ultimo , a scaturire da qualche parte) , più o  meri laboriosamente, viene a galla , a traverso d’ogni difficoltà, in mezzo ai popoli , come una manifestazione inevitabile alla lunga, dell’idea insita in tutti , ed eterna , tutto-  ché più o meno oscurata , di giustizia, di verità, di dovere;  ed allora quest’azione, or lenta, or sollecita , opera in guisa, che l’intollerabile alla fine si fa tollerabile e tollerato,  l’ingiusto si fa giusto, o meno ingiusto , l’improvvido o  provvido , o meno improvvido ; e nascono sistemi e vie di  compensazione , lenitivi , palliativi , rimedi ; e il male che  c’è , o che resta , non può superare una certa misura (tran-  ne quando un decreto terribile di Provvidenza vuol che le  nazioni periscano , o si consumino , e decadano umiliate e  contrite) , nè può non avere un contrapposto di beni : co-  sicché di questo misto si componga quella dose d’ infelicità  terrena , più o meno temperata , che è necessariamente com-  pagna di questa vita , punizione meritala agli uni ; scuola  di virtù , e mezzo di merito agli altri.   2. A vie meglio mostrarci la verità di questa dottrina ,  la Divinità ha in tal forma ordinato il mondo morale , che  in que’ secoli di contumace superbia, o tra quelle superbe  nazioni , in cui la verità c la presunzione della propria sa-  pienza più prevale tra gli uomini, e li spinge a voler tutti  fare e non lasciar fare , ognuno mettendosi innanzi , e cer-  cando d’esser primo, o de’ primi, ognuno volendo esser  dio a sé stesso , e governo , e governante ; ivi , ed allora,  è l’infelicità massima, il disordine massimo , lo sgovernamelo massimo , la guerra civile imminente o flagrante ,  l’anarchia, lo stato convulsivo, od epilettico , delle umane  congreghe: disordine, sgovernamenlo , guerra , anarchia,  convulsione, epilessia , che seguitano finché questo periodo di presunzione non passa, e finché principii migliori , e  più giusti, non tornano a prevalere la loro volta.  Intanto perù è giusto confessare , che , se da un lato,  il Creator delle cose, per le ragioni che più volte adducemmo , non ha concesso agli uomini la perfezione in nulla , e  nè manco ne’governi , ed ha voluto tollerare , e permettere , a volta a volta, l’imperfezione, anche condotta , in  essi governi, fino all'abituale imperizia , imprevidenza ,  inettitudine , ingiustizia , e tirannide; da un altro lato , ei  non ba voluto , in generale , abbandonare si fattamente la  specie umana all’ impero del male, anche sulla terra , che  non abbiale concesso , nella sua benignità , mezzi normali  di riparo , di resistenza , di rimedio (renduti, egli è vero,  per suoi segreti disegni , ora più , or meno efficaci) , e non  abbia perciò inserito nelle ragioni, le meglio addottrinate,  de’ saggi in mezzo ai popoli il lume più o manco opportuno  a conoscere in ogni caso quel che è lecito , e conveniente ,  e necessario di fare per tentar diuscire di pena , d’ingiusti-  zia , e d’oppressione. Questa è almeno la regola generale,  sebbene , purtroppo , convien dire , che talvolta , nel se-  greto della sua sapienza , esso Creatore , permette e tollera,  come altrove notammo, che sì fatto lume in pochissimi splen-  da , e quasi in nessuno : di che poi la conseguenza è , che  il male del malgoverho , o dura , o quel che è peggio, per  gli sforzi inconsiderati di que’che non vogiion patirlo s’aggrava , o sia che conservi , o non conservi le prime sue  forme.   Or quando a si fatto ultimo flagello non si è condan-  nati (pena , per solito , del lungo tralignare d’una civil convivenza , confermata nel vizio, e nella cecità d’intelletto)  allora il rimedio , e il riparo, c’è , sol che tutti facciano il  dover loro ; e c’è senza le maledette rivoluzioni , senza le  illecite cospirazioni e sette. C’è per la forza pacifica ed infallibile delle persone , e delle cose. Del quale riparo e ri-  medio le massime io le ho sostanzialmente , qui indietro  dette , nell’articolo. E non è , che , in si fatto ufficio non abbia ognuno la  sua parte legittima. Solo bisogna confessare, che la parte  non può nè dev’ essere in tutti uguale, e la stessa. La prima e principal condizione è il coraggio civile (giova ripeterlo : il militare guasterebbe tutto, infondendovi dentro le sue furie), coraggio prudente, ponderato, modesto, mantenuto sempre rigorosamente dentro i limiti del permesso  dalla legge, ma perseverante, istancabile, non in alcuni ,  ma nel maggior numero. Le leggi in nessun luogo son cosi  cattive , che non aprano più di un adito a raddrizzare i  torti, e a far fare giustizia. Bisogna non perdersi d’animo.  I forti debbono aiutare i deboli , dirigerli , farsene avvocati. 1 savi debbon dar mente agl’ insipienti. Questi debbon  ricorrere a coloro che la fama universale indica in ogni luogo come sapienti ed uomini da bene , per cercar lume , e conoscere se veramente ban ragione e diritto di lagnarsi , e  dentro che misura. Gli uomini da bene e sapienti non deb-  bono negarsi agl’inferiori.Tutti insistendo nelle vie consen-  tite da ragione e da legge , e facendo concerto perpetuo di  sforzi , ciò, senza essere una cospirazione illecita, e di setta , e d' armati , è impossibile che non produca il suo frutto.  Ma non bisogna che i primi , a’ quali questo coraggio sia di  qualche danno personale , faccia» perciò meno il debito loro, o che l’esempio del loro danno distolga gli altri dali’imitarli. Ciò ha da essere, come nella guerra. 1 feriti, non  perchè feriti, finché possono, lasciano il combattimento, se  aspirano al titolo di bravi : e i non feriti non fuggono per-  ché altri al loro fianco son feriti od uccisi. Solamente biso-  gna ben guardarsi dall’ uscir dalle vie rigorose della legali-  tà , e del rispetto che è interesse di tutti il non dimenticare;  e dall’ immaginare , o pretender gravami e torti, dove non  sono. Cosi adoperando, colla metà della ostinazione che gli  odierni settarii pongono nelle loro inconsiderate e criminose  mene , certo non è abuso di potestà , il quale non debba con [Ecco mio de' vantaggi innegabili dell' aristocrazia. Dov’ella è in forza ,  e bene e convenientemente stabilita , è 3i grande l' autorità sua , si connatura  to il coraggio civile , si spontaneo f intervento a tutela de deboli , che difficilissimo riesce l'abuso del potere in cbi lo ha in mano, almeno condotto sino  a vizio abituale, ed a quell’eccesso ch'è tirannide intolieranda , od insipienza  equivalente a tirannide.]più certezza essere corretto , die tentando pazze congiure  a moderna usanza. Nè nego, perfino , che quando i’ abusare nasca da im-  perfezione di legge , o di leggi, di questa o queste non possa legittimamente chiedersi il mutamento, e il raggiustamen-  to a più equa forma. Quando veramente costi, per consenso di  tutti tsavi, che le leggi sono cattive , o talmente imperfette da rendere necessario un cangiamento, niun può trovare men che giusto il desiderarne e il chiederne la rettificazione. Il male non  istà nel desiderare , e nel chieder ciò , ma nel desiderarlo e  nel chiederlo in modo illecito, arrogante, e perturbatore. Sta  nel volere a forza cattivo, quel che non lo è manifestamen-  te. Sta nel non andare a rilento in si fatti giudizi, e nei non  ben verificare ogni cosa a norma della sapienza scritta di  tutti i tempi , prima d'avventurarsi a pretendere che la cosa  è come la si pensa. Sta nel non aver occhio alle circostan-  ze, agli effetti probabili , agli scompigli possibili. Sta nel  mancar infine di buone bilance per non trascender mai la  giusta misura in nessuna sua parte : condizione più essen-  ziale ancora, acciocché niuno possa imputare di sedizione,  di ribellione, di fellonia ciò che nel qui discorso senso e  modo va operandosi. Da tutte le quali cose vede ognuno che non discende,  nè l’obbligo assoluto di rassegnarsi al male , che evidentemente è male, nè l’assoluta assenza di mezzi per medicarlo.  Ma non discende nemmeno la pazza politica massima degl’odierni , che per ultima panacea propongono date forme di [Queste sono le teoriche. Ma torno a dire , se i savi mancano, se mancan  d’ accordo , se v’ è funesto li svolgimento negl’ intelletti di que’ che so» cre-  duti tali ; se certi desiderii poco ragionati, e poco ragionevoli, si confondo-  no co’bisogni, solo perchè sono alia moda, e perché sono intensissimi; se  certe lagnanze son di minimi che si giudican massimi , e che fatte suonar  alto più disturbano che non giovino; se? Allora come non tremare nell’avventurarsi alla pratica? Iddio liberi i popoli dall’ esser condotti agli estremi qui sopra ricordati; e dia loro la sapienza vera che li aiuti a scegliere il  miglior partito.] governo applicabili a tutti i casi , come uua calza a maglia.   Delle democrazie pure già dicemmo quanto basta a provare  la loro imperfezione essenziale. L’antica sapienza rappresen-  tata da CICERONE sta per le Monarchie temperate, dove i  veri ottimati , cioè dove le capacità e gl’ interessi han voce  preponderante, e tra gl’interessi , meno ancora i fluttuanti  e transitorii (sebbene questi eziandio) , che i permanenti e  più tenaci, d’un buono e lodevole patriziato. S’ è perciò  giustamente levata a cielo la timocrazia di Servio Tullio —  la sapienza del Senato romano e dell’ aristocrazia inglese ,  corroborata dalle tradizioni di più secoli. Ma non tutti gli  ordinamenti ( ridiciamolo ) convengono a tutti i popoli e a  tutti i tempi: e chi non ne fosse persuaso, più d’un esempio  recente potrebbe addurne , fatto per iscoraggiare assai del  supposto valor pratico di certe teoriche, le quali poi,  quando si traducono in iscena, si risolvono in bliteri, e in  peggio che ciò, vale a dire in danno evidentissimo de’ popoli.  Grandissimo ( a miglior prova di ciò ) è il male che s’è  detto , massime nel tempo nostro, de’ governi assoluti ; e i  governi assoluti eglino stessi han poi per loro essenza e natura il grande ed intrinseco male, che con tanta generalità  oggi s’afferma? ( L’argomento loabbiam già toccato alcune  pagine indietro : pure importa tornarvi sopra un’ultima volta ). Messi a bilancia con tutte le altre forme di governo, e contati , e imparzialmente pesati, i vantaggi egli svantag-  gi , traendoli dalla verità storica d’ogni età e d’ogni con-  trada, e non dalle menzogne sistematiche di tale o tale al-  tro declamatore odierno, io non so se un uomo di delicata  coscienza oserebbe giurare, che la parte degli svantaggi pre-  ponderi, sempre totale contro a totale, cioè somma intera  di fatti contro a somma di fatti , dal Iato delle monarchie  pure, a quel modo che s’ama asserirlo. Per Io meno questo  conto, o vogliasi dirlo bilancio, non è mai stato instituito  colla debita accuratezza, e varrebbe la pena dell' instituirlo:  impresa tuttavia molto più difficile di quel che non si pensa, e da più dotti , che non sono di gran lunga i giudici di  strada. Donde poi deduco, che , assai più alla leggiera di  quel che si dovrebbe , si pronunzia la sentenza assoluta di  condanna , la qual suona nelle bocche di tauti , più per mo-  da, che in forza d’ una dimostrazion rigorosa. Le ingiusti-  zie, le improvidità , le tirannidi s’incontrano in tutte le forme d’ ordinamenti politici ( cosi insegna la storia ) , e le  forme le più liberali n'ebbero, e possono averne all’ avve-  nire, di non minori che i più tristi degli assoluti governi. Quidleges sine moribusvanae profitiunt (ridirò col poeta)?  Uno o molti che siano gl’ investiti dell’ atto della potestà ,  possono del pari abusarne; e , se gli abusatori son molti ,  sarà il danno più grave assai , che con un abusatore unico,  tranne se alcun si piaccia del paradosso che più tiranni deb-  bono men nuocere d’un tiranno solo. Le responsabilità ministeriali , o d'altri ( nome vano ) si dovrebbe ornai sapere  da tutti quel che valgono. Le supposte guarentigie sono  sempre un preservativo, o un rimedio, più illusorio, che  vero. Cb’ buoni sono inutili, co’ cattivi sono insufficienti ,  per grandi eh’ elle sembrino. Dove furono concesse Ano ad  ogni richiesta misura, gl’incontentabili odierni se ne contentarono forse? Le probabilità del maggior senno, che parrebber più facili ad incontrarsi nel consiglio di molti , di  quello che in una mente unica , non sono assai spesso , in  tempi di civiltà corrotta, e d’ambizioni flagranti, che un  vantaggio presunto , più che bilanciato, ed annullato dall’altre probabilità delle discordie intestine tra senno e sen-  no, e delle lotte che quindi nascono. E sovente è più bisogno di guarentirai da que’che sono scelti à guarentire, che  ragionevolezza di speranze le quali in questi ultimi si ripongano. Hannovi poi circostanze ( è giusto il ricordarlo ) , nelle  quali solo le pure monarchie valgono ad operare il bene  delle nazioni; e sonovi beni che soltanto dalle pure monar-  chie possono aspettarsi. Ad esse principalmente, se non unicamente, parche abbia riservato la Provvidenza l'incarico de' grandi mutamenti da operarsi ne’ popoli colla de-  bita rapidità, rovesciando i maggiori ostacoli : perchè il modificare ampiamente, e radicalmente, con forza, prontezza  e conveniente efficacia, le sorti d’un popoloso dimoiti  popoli a uu tempo, è parte quasi esclusivamente concessa  agli assolutismi de’ Sesostri, degli Alessandri, de’ Cesari, degl’Augusti, de’ Carli Magni, de’ Federicbi, de’ Napoleoni,  certo non alle disordinate e burascose discussioni de’ senati, de’ parlamen li, de’tribunali, delle moltitudini deliberan-  ti. Sono sempre, o quasi sempre, gli assolutismi, che tagliano ultimi il capo alle rivoluzioni, e creano ultimi la  stabilità delle paci. Sono essi una necessità pe’ popoli che  vanno in bizzarrie pericolose e distruttive. Sono essi a volta  a volta, grandissimi benefattori della umanità, piuttosto-  cfaè i suoi principali flagelli. £ di questa particolare virtù  de’ governi assoluti, quanto a prevalenza d' efficacia e di  rapidità, tanto hanno persuasione , perfino i moderni perturbatori, ( torniamo a dirlo sebbene altrove l’abbiamo già  detto), clic solamente perciò hanno istituito, essi medesimi, la obbedienza passiva delle sette, e l’assoggettamento  senza discussione, e sotto pene terribili, a’capi di esse. Tuttavia non voglio io qui farmi l’apologista esagerato de’governi di si fatto genere, e dissimulare gl’inconvenienti  a’quali vanno per solito espósti. Non voglio dare il piacere  a’ miei avversari, di poter dire ch’io sono un assolutista sistematico, perchè abbia con ciò bella occasione la rettorica  di certa gente del gittarmi alla faccia questo rimprovero seguitato da una mezza dozzina di punti ammirativi. Ho voluto solamente dire che ancora essi governi possono avere  ed hanno il loro tempo, e la loro opportunità; ed in subiecla  materia esaminino (dirò di nuovo) i capi-setta sé stessi prima  di rispondere se è vero o falso. Mi basta avere indicato l’irragionevolezza della troppo universale condanna la qual di  essi governi è fatta, come di cosa assolutamente CONTRO A NATURA (cf. H. P. Grice), e necessariamente riprovevole. Mi basta aver dato  a conoscere, die vale, anche rispetto ad essi, la regola gene-  rale, che non vi può essere una regola generale di proscri-  zione. Le circostanze, anche a loro riguardo , entrano per  molto nel giudizio, come in ogni altra maniera di governo.  D’ altra parte , i governi veramente assoluti dove più sono?  Tutti il tempo li modifica. Addolcisce i più severi. Modera  i più dispotici, e viene più o meno accostandoli alle forme  di temperata monarchia. Siamo giusti. Dove son più i Busiridi, i Falaridi, i Tarquini Superbi, i liberi , i Neroni ?  Se si voglia trovar tiranni, nell'antica significazione del vocabolo, bisogna andar a cercare nel campo repubblicano  ultraliberale i Marat, i Robespierre. I voti del vero popolo,  di giorno in giorno, son più ascoltati di quel che vuol con-  fessarsi; e , se si é di buona fede, non può esser negato ,  che le concessioni cominciate qua e là a farglisi, per tutta  Europa, son bastantemente grandi  per far dire che nelle altissime regioni non si è tanto sordi,  quanto da alcuni si va spacciando. 1 bisogni reali finiscono  sempre coll’essere ascoltati, non per forza , ma per ragio-  ne. Gli esagerati e falsi può colla violenza costringersi a sod-  disfarli per un momento, ma vale allora il proverbio. Nil  wolentum durabile. Per chiudere a quel modo che meglio per me si può l’ar-  dua discussione nella quale sono entrato, io Unirò dunque  cosi dicendo a chi tanto si preoccupa del male dei governi  più o meno imperfetti (come se per necessità non dovessero  a, diverso grado tutti esserlo), e a chi perciò, venendo a  conseguenze estreme, niente ha più a cuore ed in mente ,  che farsi autore e cooperatore di riforme radicali , da otte-  ner subito , quasi a tamburo battente, ed a qualunque gran  costo , giuste ch’elle sianolo non siano, purché tali paiano  a quei che le dimandano , avuto a sdegno , e messo in non  cale il più prudente desiderio e consiglio de’ miglioramenti  graduati , bene studiali , ben maturati , e solo predisposti e  promossi ne' legittimi e tranquilli modi che rispettan la pubblica pace, e servono ad assodarla, anziché a turbarla. Se veramente ami tu il bene del tuo paese , fa senno , e pensa che qui non si tratta d’un trastullo da gioventù , e d’un  balocco da capi sventati, per darsi dell’ aria e dell’importan-  za, ma della somma delle cose pel presente e per l’avvenire, od almeno per lunga successione d’anni. Fa senno , e  dà prova d’averlo fatto, giudicando per anticipazione testesso , prima d’assumere il terribile incarico di giudicare gl’imperi ed i regni.   Discendi, Gracco, nel tuo interno, e chiedi, con buona  fede, a te medesimo se t’è lecito di crederti tale da ben sapere quel che è mestieri sapersi nell’astrusissimo argomento  de’ governi, per islendervi sopra una man temeraria; e se ti puoi , senza farti rosso nel viso, chiamare uomo di stato,  ose , in questa vece, non senti, nel tuo segreto, d’essere  niente altro che un misero pappagallo , il quale ripeti su  ciò, senza bene intenderlo, quel che t’ha insegnato la piazza, o la setta. Non ti lasciare illudere dall'orgoglio, nè dall’assenso lusinghiero de’ niente maggiori e migliori di le,  ma metti l’amor proprio da parte, e dà sentenza su te, come la daresti sopra un altro. Tastati addosso, e cerca imparzialmente se trovi sotto il dito l’economista, il dotto nella  filosofia delle leggi , l’intendente ne’ misteri dell’amministrazione e della finanza, il fino conoscitore della storia  umana, l’uomo freddo, ponderato, esperto, che nel giudicare questioni si diffìcili , si recondite , si gravi , si feconde  di beni e di mali, come sono tutte queste delle quali stiam  parlando, sa, innanzi tratto, esaminare, prima del giudizio , gl’innumerabili particolari; che concorrer debbono ad  illuminare la mente; a spogliarsi d’ogni passione e d’ogni  opinione preconcetta; e, senza dar peso a insinuazioni d’amici, o di confederati e compagni, discernere, e ben discernere quel che il luogo, il tempo, le circostanze, gli uomini, gli antecedenti, i comitanti, i conseguenti, oltre ai  principii eterni di ragione e di giustizia, suggeriscono e richiedono. Va intorno, e parla pettoruto alle genti in questo linguaggio. Miratemi , e sentenziate voi. Son io veramente l’uomo da rifare il mondo, e da insegnare agli altri  il come? Son io Zaleuco, Caronda, NUMA (si veda), Licurgo, Solone del secolo illustre ; o sono almeno l’uomo da  saper discernere, senza ingannarmi, que’ eh’ io possa e debba seguitar come capitani in faccenda di si gran momento? O piuttosto la risposta non l’odi aver già preceduto la  dimanda? Povera mosca del carro (tu dei sapere la favola),  va a scuola , e fatti vecchia prima di toccar solo col pensiero  problemi di tanta astrusità. Solamente allora saprai ridurre  al genuino valor loro tanti spropositi di moderne teoriche  assolute , che, messe in prova da già dodici lustri, non han saputo partorire ovunque che continuati scompigli , e ine-  narrabili guai sempre ripullulanti a doppio cornei capi tagliati  dell’idra! Povera mosca, solo buona ad esser tafano atto ad  inquietare i cavalli che tirano il carro dello stato, finché un  colpo di frusta ti schiacci. Riguarda ( se non hai le cataratte  agli occhi ) nella Francia , prima maestra di sì fatte novità,  e spettacolo e scuoia delle lor conseguenze a ogni gente...  nella Francia già più volte rovinata, e data per queste a scom-  piglio, e le più volte, non da mani forestiere , ma dalie pro-  prie. Riguarda a’ be’frutti delle agitazioni tedesche. Riguar-  da a’ bei fruiti delle agitazioni di questa misera Italia, qual  ella è or fatta per colpa di simili tuoi ! Gusta il Progresso  che han generato i tuoi pari , la ricchezza e la prosperità  eh’ è opera loro! Basta ornai. Basta. La terra ha bisogno  di tranquillità , e , a tuo dispetto , saprà come darsela.   Cosi ti risponderà , e ti risponde il mondo : non quello  veramente nel quale tu vivi , ma quello in mezzo al quale  dovresti imparare a vivere , per tua istruzione , ed emen-  dazione , e per l’altrui pace. Ma ti risponderà, e ti risponde anche altro. Ti dirà, e ti  dice. O tu , che ti proponi niente meno che di metterti il  grembiule di Prometeo, cioè di rifare la gran famiglia umana in quella parte che rende a lei possibile il viver socievole , cioè negli ordinamenti de’ suoi governi , comincia col  rifare te stesso. Volendo insegnare a’ tuoi contemporanei  l'arte del comando , insegna a te medesimo l’ arte dell’ ob-  bedienza , che non sai , o non vuoi sapere. Con uomini  quale tu sei nessun arte di comando , e per conseguente di  governo, è possibile , e l’ esperimento s’è visto. È forse  giovato in più d’ un luogo darti costituzioni, e rinnovarle?  É forse giovato accordarti assemblee deliberanti, libertà di  stampa, libertà d’associazione ...tutte le libertà? È bisognato finir col frenarle dal momento che i pari tuoi v’ han  voluto metter mano.   E cosi doveva essere ; perchè ogni governo, anche larghissimo e mitissimo , è legge e dominazione ; e cbe legge,  oche dominazione può esservi per tali come tu sei? Tu  ( quel tu eh’ io m’ intendo ) di Dio non accetti che H nome.  Tu sei di quegli uomini, quorum Deus venler est ( riconosciti ). . ; degli uomini turbolenti, sfrenati, ricalcitranti ...  che chiamano ben pubblico il dar di naso abitualmente ad  ogni autorità , sotto colore di far la guerra agli abusi suoi ,  colla presunzione di giudicarli in ultimo appello secondo il  privato tuo senno. . ; degli uomini che ban distratto ogni  riverenza , ogni fede al senno antico , ai documenti de’ se-  coli passati , alla sapienza accumulata per gli studi comuni  de’ migliori cbe in ogni età vissero. . ; degli uomini che ner  gano ogni efficacia d’ antica esperienza , e che queste massi-  me non si contentano di professarle per sè , ma le promul-  gano giornalmente d’ ogni intorno! Or con te, e con tali  quale tu sei, qual maggiore pubblico bisogno v’è, del bisogno di mettersi in guardia , e tirare a sè le briglie ? É egli  tempo d’allargar la mano alle redini , quando il cavallo dà  continuo cenno di rubarla, e di mettersi alla scappata ver-  so precipizi!? Pur troppo quando un paese ha la disgrazia  d'avere a ridondanza gente del tuo taglio, facilmente arriva  a quella condizione di tempi che o scusano, o rendono ine  vitabili gli assolutismi i più stretti e i più vessatori. Perchè , non accade dissimularlo. Ecco la massima miseria della condizion nostra. È peggio che al tempo de’ guelfi  e de’ ghibellini. L’ira tien luogo di ragione. Vendicarsi, ed  esterminare sono ornai la parola di guerra. Sangue! San-gue! Ammazza ammazza! Quel che non s’ osa fare  aucora, si dice pubblicamente che sarà fatto alla prima opportunità. Designane adcaedem unumquemque nostrum. Poveretti! S’uccidono gl’individui, non s’uccide la verità e  la giustizia. Ma anche a’Principi d’Europa rivolgerò finalmente la rispettosa mia voce. Purtroppo hanno essi bisogno d’una ri-  vista severa del passato, e d'una ponderazione accurata del presente a previsione del futuro. Quel che è stato ed é ma-  le, fa d’uopo mutarlo. Quel che è giusto e doveroso in  tanto mare di desiderii , di querele , di mescolate richieste,  bisogna farlo. Mai non ci fu maggior necessità, per chi sie-  de ne’ sommi scanni, d’esaminare gli antichi ordinamenti ,  e di recarvi miglioramenti reali e legittimi. Mai non richie-  sero i secoli che sono scorsi maggior senno in chi regge i  popoli, e per conseguenza più grande opportunità di circondarsi di buoni, e probi , e saggi aiutatori, e subalterni. “Riforma!” è la parola favorita del nostro tempo. Riforma non  è in sé medesima parola d’errore. Le riforme bisognano  sempre alle congreghe umane , come agl’ individui. Riforma dunque anch’ essi dicano i re ma non ogni riforma   dimandata le riforme che la vera sapienza politica consiglia , e vuole. Eruditami qui iudicalis terram. Imparino le  genti col fatto , che amate di cuore il ben pubblico , odiate  il male, e vi studiate per quanto è da voi d’affaticare alla  pubblica felicità correggendo intorno a voi, per aver più diritto , e più facilità a correggere intorno a quei che vi debbono obbedire. Due parole a chi è per leggere Parere d’un Amico intorno a questo saggio Risposta Prefazione Opuscolo De’ Fedecommessi e dell’ Aristocrazia Due parole al Lettore Lettera I Fedecommessi sono una istituzione apparte-  nente a più luoghi c a più genti e tempi , che non si   crede. Conseguenza di ciò Essi hanno una principale e giusta difesa nell’interesse convenientemente inteso di famiglia Non sono applicabili ai piccoli patrimoni, ma solo ai grandissimi ivi   Perennando lo splendore di tutta una linea principale po -  tentemente soddisfatto a uno de’ sentimenti connaturali   all’ uomo Senza i Fedecommessi , le grandi fortune, di necessità , tra  breve, sminuzzandosi , periscono per V intera fami-  glia , e con ciò essa è condannata a rapido scadimento 1 Fedecommessi salvano , per quanto esser può , il patri-  monio dalle imprevidenze, dall'incuria, e da’ vizi dei  temporanei suoi possessori, e lo conservano a que’che  debbono in avvenire possederlo Discussione delle ragioni de’ cadetti. E maggiore il numero  de'beneficali nel sistema che qui si contempla di quello   che nel sistema opposto pag. ivi   Infatti quei che nel i° sistema godono ( al contrario di ciò   che succede nel 2°) sonpiù numerosi de’ danneggiati I vantaggi d’ognuno de' favoriti sono più grandi, che i   vantaggi d’ognuno de’ favoriti nell' altro sistema Gli svantaggi de’ danneggiati nel secondo sistema sono più   grandi che quei de’ danneggiali nel primo Lettera Soluzione d’ alcune difficoltà 35   Si risponde a chi oppone che il testatore dee riguardare al  bene massimo de’ prossimi ed esistenti , e non , collo  scapito di questi , a quello de’ remoti , e non esistenti  ancora, o forse non destinati ad esistere giammai .Si prova che, oltre al vero interesse delle famiglie , nel si stema de fedecommessi , meglio che nel sistema con-  trario , è provveduto anche all’interesse dello stato Risposta alla obbiezione de’ supposti diritti degli altri figli,   che si dicon violali nel sistema da noi difeso Si torna a distinguere tra i fedecommessi utili, e i danno-  si , e si prova come ne’ primi i cadetti non sono pre-  giudicali in modo indebito 19   Risposta a chi oppone l’ accusa di parzialità, e d’ eccitamento alle invidie, a’ disamori, alle discordie tra pa -  dre e figli e tra fratelli Esposizione de’ rapporti   tra V erede preferito cogli altri posposti Convenienza del preferire il primogenito ai nati poi . . M   Di nuovo sull’ accusa del supposto fomite somministrato    alle invidie reciproche 45   Indirizzo da dare all’ educazione perchè queste temute in -  vidie non nascano Lettera Seguita la soluzione delle difficoltà Non è vero che i fedecommessi , favorendo il celibato laicale , favoriscano i vizi che vi vanno connessi 1 matrimoni son più incoraggiati nel sistema qtrì difeso, che in quello della divisione dell’ eredità per capita, p. 49  È insussistente il nocumento che la sottrazione di molti be-   ni rustici , in virtù, de’ vincoli fidecommissarii , alle  speculazioni di compra e vendila minaccia di recare  al pubblico Un certo numero di latifondi legati a fedecommesso , lungi  dall’ essere un impedimento alla buona agricoltura ,  ed alla pubblica prosperità , sono utili e necessari al-   l'unae all’ altra Risposta alla difficoltà tratta dai creditori dell’eredità de-  fraudali talvolta , quando essa ha il genere di vincolo del quale qui si tratta Lettera Difesa dell’Aristocrazia Proposizione premessa, che, distrutti i fedecommessi, è distrutto il patriziato  I vizi de’ nobili che sono da degenerata istituzione non vogliono esser contati soli , ma messi a confronto delle   utilità , e delle virtù ivi   Essi vizi possono emendarsi , e le utilità e le virtù accre-  scersi : utilità e virtù le quali difficilmente possono   trovarsi fuori del ceto patrizio ivi   È nella natura stessa della Nobiltà un seme di miglioramento nella specie umana , che ne innalza la dignità   e la perfezione Caratteri propri del genuino patriziato La grandezza degli averi in famiglie non patrizie non può  dare i vantaggi eh’ essa dà o può dare nelle famiglie patrizie Necessità politica in uno stalo dell’ esistenza del ceto nobi-  le , e particolari servigi , che ad esso esclusivamente  sono riservati ed appartengono Opuscolo Della libertà e dell’eguaglianza civile Del governo e della sovranità in generale Della  così della sovranità del popolo , e della democrazia. Del voto universale. Delle rivoluzioni e  delle riforme de governi ec paff. Della libertà nel civile consorzio , e decimiti , che   necessariamente debbe avere. I più di qne’ che la dimandano oggi, da ette negano nella  loro filosofia il libero arbitrio, e sono materialisti,  fanno una dimanda assurda , cioè chiedono quel che   credono non potere esse r loro concesso Per chiedere la libertà civile , bisogna essere spiritualista ,  e cogli spiritualisti non è difficile giungere ad intendersi in tutte le altre questioni da noi trattate Que’ che chiedono la libertà, quale e quanta la dà natura,  debbon concedere gli usi buoni ed i cattivi della mede-  sima , ed una legge interna che comanda i primi , e  vieta i secondi , e con ciò debbon concedere di fatto e  di diritto che la libertà è limitata per natura La convivenza civile essendo ordinata a perfezionare l’uomo, e non a deteriorarlo , la miglior convivenza civile necessariamente dee dirsi una convivenza ove la  libertà naturale incontra nella legge vincoli grandissimi e maggiori di que’ che ordinariamente le si prescrivono È solo la difficoltà soverchia opposta dalla corruttela umana allo stabilimento d’ una piena normalità nelle civili convivenze, quella che impedisce il comandare  oggi tulli i vincoli che bisognerebbero: ciocché non toglie però che il vero progresso è quello il qual favori-  sce essi vincoli , e li promuove, anzi che produrre effetto opposto ivi   È per effetto di questa difficoltà che le umane congreghe si  ristringono per solilo quasi al solo governo di quelle  libertà , gli usi o abusi delle quali risguardano i rap-  porti reciproci de’ cittadini co’ cittadini , non che il  loro scopo remolo non debba esser quello d’ordinare  a poco a poco le leggi a una sempre migliore sistemazione, e per conseguenza a una sempre maggior  limitazione, di tutte le altre libertà col fine d’accostar f turno alla perfezione quanto più puossi. Prime parole sulle leggi che legar debbono le libertà , e su’coloro che debbono stabilirle; c sulla genesi dell’ odierno domma della sovranità del popolo, e del patto   sociale Dèli’ eguaglianza in generale , e quanto poco esista essa nella specie umana Falsità della massima che al volgo suole oggi insinuarsi  che gl’uomini sono tutti uguali per natura. .Naturale ineguaglianza fisica tra uomo ed uomo Naturale ineguaglianza morale Altre cagioni artificiali ed accidentali d’ inegualità; e prima   per parte degli educatori Degli educandi D’altre accidentali cagioni E pel fine stesso che l’arli educatrici si propongono , e possono non proporsi Si   Per ultimo l’ineguaglianza è la legge generale della natura, in tutto il creato  Una delle principali ragioni, per le quali il creatore volle questa disuguaglianza Vergognoso abuso che si fa della religione per cercar di persuadere la contraria dottrina Passaggio al provare che inutilmente si limitano alcuni ed  difendere soltanto l’eguaglianza ne’ fondamentali diritti della vita di cittadino Dell’eguaglianza nel civile consorzio, e su giudi  falsi fondamenti si pretenda stabilirla Paralogismi con che, dato un quale che siasi appoggio alla  qui combattuta dottrina , cercasi di ricavarne la dot-  trina del palio sociale, della sovranità popolare e  della democrazia; e conseguenze che se ne deducono, ivi  È falsa l'equipollenza di condizioni pel cui supposto gli  uomini liberamente entrando in una civil convivenza acquistati pari diritto di fermarmi palli Nè lo stabilimento di questi patti è puro atto di libertà, ma  dee conformarsi a certe massime generali di ragione  e di giustizia che impediscono appunto l’affermata   egualità di diritti È non men falso , che gli umani consorzi quali sono e  furono debbano considerarsi come illegittimi e spurii  perchè non individualmente consentiti da tutti e da  ciascuno. Passaggio al provare l'assurdità e i peri-  coli della dottrina che quindi si suol trarre per voler  sovvertire il passato e il presente a vantaggio d' un   futuro ipotetico Considerazioni contro al preteso diritto di rinnovare le società umane per accomodarle alle proprie  idee preconcette, e contro alle tentale riduzioni ad   atto di questo diritto Confutazione di quattro proposizioni, che corron oggi per  le bocche di molli, e prima, risposta alla i a proposizione, che il mondo ha bisogno di riforma Che la riforma la qual bisogna è quella che le scuole democratiche oggi insegnano , e non altra Alla Che la riforma la cui necessità si va predicando  con parole si ha diritto di condurla immediatamente  ad atto; e che non è da lasciarsi trattenere da qua-  lunque ostacolo d’opposta ragione Che qualunque mezzo dee tenersi per buono e lecito, se al fine conduce della universale riforma che vuol tentarsi Altre considerazioni sulle riforme nel reggimento  delle convivenze umane in generale, e sul diritto ed il   modo di tentarle Due casi che rispetto a ciò possono darsi. E prima, del   caso, in cui tutti consentano Secondo , del caso in cui siano divisi i pareri, e sia lotta   de' medesimi. Solo e vero diritto che allora si ha Grave torlo dei dilettanti di malcontento , e parole severe ad essi dirette quando tentano le rivoluzioni Risposta a certi loro sofismi Danni delle rivolture politiche , quanto a interessi di ogni   genere Incertezza de’ loro successi Difficoltà del ben giudicare i molivi che spingono a rivolte,  e poca fiducia da aversi in coloro che per solito le   tentano Vanità della querela che alcuni fanno , come se tolta la libertà delle rivoluzioni, il migliore strumento fosse tolto del ritorno a giustizia. Esame d’ alcuni esempi so-   lili ad addursi Rimedi più veri e più ragionevoli contro alle ingiustizie anche abituali de' gox'emi Certi mali sono conseguenza d’imperfezione della natura   nostra , o decreti di provvidenza Essi sono il più spesso, generalmente parlando , ineritali, ivi  Doveri e diritti de’ cittadini sottoposti a cattivo reggimento. De’ governi, e delle sovranità in generale Ignoranza del popolo quanto alle idee di ciò che è sovra-  nità , e di ciò che è popolo. Esempio ivi   Se un diritto, il quale anche realmente si abbia , sia sempre perseguibile, e da perseguire  Idee preliminari sulla socievolezza , come una delle con-  dizioni di natura date all’ uomo Il bisogno d" un governo è uno de’ conseguenti della neces-  sità d’ associarsi. Definizione del governo Distinzione fra governo normale, e governo legittimo indicata Mentre il vivere in società è una necessità ingenita, la for-  mazione d’un governo è un bisogno accidentale, sopraggiunto, e secondario Dottrina intorno a ciò che discende dalla Fede ivi   Distinzionedi tre stati nell’uomo, cosi come oggi lo conosciamo per sola ragione. E prima dell’ uomo ine-  ducato e selvaggio e delle conseguenze di questa con -  dizione quanto a governo Secondo, del? uomo ipoteticamente perfetto, e di nuovo   del governo del quale è suscettivo Terzo , dell’ uomo nè selvaggio , nè perfetto , cosi come  suol essere , c delle innumerabili varietà delle sue  condizioni , donde si trae che il governo il quale gli  conviene non ha nè può avere generali regole , tran-  ne il principio generico che dee possibilmente esser giu-  sto e ragionevole ivi   Questo principio generico non insegna però,nuUa d’assoluto  guanto a necessità di determinale forme nell’ applicar  zione, e negli altri particolari a cui si suole applicarlo Niente dunque v’ha di primitivamente fermo e comandalo  intorno alle costituzioni primitive de’ governi da applicarsi alle diverse genti Della sovranità del popolo, consistente nella democrazia pura, e rappresentata dal voto universale Ragionamenti che si fanno per provarla universalmente   fondata sopra giustizia e ragione ivi   foro insussistenza. V’è egli un popolo uno ? Tutto ragionevole? Tulio illuminalo? Tutto probo? Tutto unanime? Conseguenze che discendono dalla risposta ne-galiva a si fatti quesiti Esame della famosa dottrina circa le maggiorità , e circa   il voto universale Che cosa è il maggior numero ; come si compone , e che cosa  conseguila dai difetti della sua composizione. Se sia vero che col volo universale si può almeno ottenere   il massimo contentamento del CORPO SOCIALE Fino a qual segno le maggiorità siano maggiorità reali La democrazia de’ moderni non può convenire ad alcun  popolo Essa twn conviene a un popolo selvaggio Non a un piccolo popolo di pastori e d’ agricoltori Non a un popolo piti o meno provetto in civiltà per cagione delle disuguaglianze , che la civiltà tende sempre ad accrescere, e delle loro conseguenze per cagione della lotta delle virtù co’ vizi delle altre ine-guaglianze che da ciò derivano  e delle necessità    che ciò crea per cagione di ciò che costringono a mettere a calcolo nella formazione delle società le diversità enormi d’ inleressi tra cittadini e cittadini Conseguenze funeste ed assurde del sistema tanto da deu-ni idolatrato della divisione de’ beni secondo le leggi della livellazione universale  Differenza sleale di linguaggio che usano i propagatori delle dottrine nuove quando parlano col volgo, e quando colle persone educale a ragionamenti Dilemma ad essi proposto. Vogliono essi o non vogliono rispettata la differenza di grado negl’interessi, e tenulane ragione? Se no , conseguenze necessarie e lui-    (uose della neqativa  Se si , dire conseguenze di ciò diametralmente opìwsle a  quel che pretendono e vanno spacciando Continuazione dello stesso argomento. Traltazione d’ deune obbiezioni die quali si cerca rispondere.  Risposta die lagnanze di que’ che lamentano il vilipendio e l’ oppressione del povero popolo, e agli eccitamenti che gli danno a redimersi a ogni patto Leggierezza, e spesso insussistenza de’ giudizi che su questo proposito s avventurano Mate usanze introdotte rispetto a ciò, e perniciosi effetti di esse Diritti esorbitanti che si vorrebber dati alle turbe a fine di  prevenire gli abusi dell’ autorità imperarne, e di farli  efficacemente cessare, ed estirpare radicalmente. Catastrofi inevitabili alle quali non potrebbe non condurre la riduzione a pratica di tutto questo ordine (Videe. Parere intorno a ciò di CICERONE e di Platone ed esempi moderni contraddizione con sè stessi de’ difensori delle dottrine fin  qui impugnate, i quali mentre affermano di combat -  tere per la libertà, impongono servitù inlolleranda ai  loro proseliti, e cosi mostrano che colla libertà da  essi predicata il governare comunque le volontà uma-  ne è impossibile anche a lor giudizio Le stesse ragioni colle quali lentan essi di scusare questa   contraddizione provano contro di loro Di nuovo delle ragioni, per le quali la formazione a priori d' un ottimo governo , e lo stabilimento il  più ragionevole della sovranità non ha regole generali, e costituisce un problema di difficilissima e quasi impossibile soluzione , massime quando la soluzione al popolo s’abbandoni Pochissimo, e quasi titilla , rispetto a ciò, può attinger-  si, ne’ particolari casi , dalla sapienza generale , e  quasi lutto esige in essi le deliberazioni ad hoc d’uomini i più saggi Or Alcune volte quest’ uomini non sono presso il popolo del quale si tratta Spesso non in sono in sufficiente numero, e tale da essere facilmente trovati ed utilmente ascoltali Diffìcilissimo è distinguerli dai cerretani che simulati sapienza ed esperienza, e tendono con male arti a  mettersi inmnzi e prevalere Non dirado, anche cotisultati, rendono intralciatissima la deliberazione, non essendo tra loro accordo di pareri Spesso ancora accresce la difficoltà il tnescolar che essi fanno all’ interesse della causa pubblica, quello  delle private loro cause, delle loro passioni e simili,  E tuttociò vale, quando, a società non costituita an-  cora in alcun modo, trattasi di costituirla. Peggio è  che il più spesso le società umane sono già costituite,  e v’ è la question preliminare , se sia giusto, conveniente, e possibile il disfarle per rifarle Lotte per solito che in tal caso nascono tra conservatori , e riformatori, e discussione de diritti degli uni e  degli altri e delle contitigenti conseguenze di esse lolle Del perchè e del come il problema del governo  e della sovranità è presso a poco insolubile a priori    por l’umana sapienza Cardine della questione. Doppia natura dell'uomo Bisogni ed istinti numerosi della vita terrena, che non son  fatti per ottenere la soddisfazione loro durante essa vita Motivo e fine occulto, e non troppo occulto, di ciò Applicazione di questa dottrina anche al particolare problema qui discorso E nondimeno non può dirsi che un qualche rimedio alla  frequente imperfezione degli ordinamenti civili non  sia dato in terra all’ umana specie. Ritorno , rispetto  a ciò , a una quislione già altrove trattata Di quello che’ al popolo non ispella , e spelta, in fatto di governo e di sovranità, e del modo e della misura in che gli spetta Principal fonte delle false opinioni che intorno a ciò corrono tra’ moderni Si torna all’esame della presunta distribuzione tra lutti  del diritto competente a trattare e risolvere sì falle   questioni ivi   Una conseguenza ultima ed inevitabile di si falla dottrina  è che la sovranità non obbligherebbe dunque che t ~  soli consenzienti , o piuttosto non obbligherebbe alcuno, e cesserebbe d’ esistere in altro modo, che come  una cosa da giuoco ed assurda li altrettanto sarebbe di tutte le leggi Teoremi più veri eh’ io credo doversi sostituire alle opinioni dominanti delle turbe male istrutte. Proposizione Due parole su i governi assoluti Protesta Conclusione ed Epilogo Esortazione ai predicatori di rivoluzioni e di novità politiche Poche parole a’ Principi Indice ragionato Lin. CORRIGE Urliamo Gridiamo fili  le ristampa con emendazioni edizione  di lilosolia   di buona tilosofia collaterali collaterali almeno prossimi in quella società   in quel consorzio   nipoti nostri   nipoti nostri , e, se non di tulli almeno di (pianti più ci è lecito civil società civil congrega all'opposto per   all' opposto (almen quanto alla linea  privilegiala), tra  pe’ fratelli poi-nati   lTl   pe cadetti quello dico quello dico pur mentovalo contechè alla breve  ir  società  consociazioni son le difficoltà son difficoltà le propensioni le agevolezze pii uomini   gli uomini senza rovinarsi   Kit de' Babilonesi   degli Assiri  c clic e che se CONSIGLIO GENERALE DELLA PUBBLICA ISTRUZIONE Napoli.Vista la dimanda del Tipografo Marotta con che ha chiesto ristampare il primo volume dell’opera intitolata Opuscoli politici d’O. Visto il parere del Regio Revisore Capone. Si permetta che la suddetta opera si ristampi, però  non si pubblichi senza un secondo permesso che non si darà se prima lo  stesso Regio Revisore non avrà attestato di aver riconosciuto nel confronto  essere 1’impressione uniforme all’ originale approvato il Presidente interino: Saverio j4 puzzo,  ìl Segretario interino : Piktrocola. Francesco Orioli. Orioli. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Orioli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Ornato: la ragione conversazionale o dell’implicature conversazionali nella conversazione d’Antonino con Antonino – la scuola di Carmagna -- filosofia piemontese --  filosofia italiana -- Luigi Speranza (Carmagna). Filosofo italiano. Carmagna, Cuneo, Piemonte. Visse vita ritirata, modesta e schiva d'onori e ricchezza intesa soltanto allo studio. Coltiva le scienze fisiche e matematiche, la filologia, la poesia, la musica e con singolare amore le discipline metafisiche. Sii trasferisce a Torino dove frequenta alcuni esponenti dell'aristocrazia sabauda. Tra le sue amicizie più importanti Santarosa, Sabbione ed i fratelli Balbo. Dei concordi è insegnante di matematica nel collegio dei paggi imperiali, impiegato nella segreteria dell'Accademia delle Scienze di Torino e successivamente professore presso la Reale Accademia Militare. In seguito ai moti rivoluzionari e nominato da Santarosa Ministro della Guerra della giunta rivoluzionaria. Si rifugia in esilio a Parigi. Nella capitale francese stringe amicizia con Cousin e la sua casa è frequentata da numerosi patrioti italiani. Ottiene di poter rientrare in Italia e si ritira a Caramagna dove riceve le visite dei patrioti Pellico, Provana, Gioberti e Balbo. Si trasferisce a Torino dove morirà e verrà sepolto nel cimitero monumentale. Saggi: traduzione di Ode a Roma di Erinna, traduzione dei “Ricordi di Antonino, Picchioni, Vita, studii e lettere inediti di Leone Ottolenghi, E. Loescher. Biografiche e risultati di ricercheo, Becchio  Calogero, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ulteriori approfondimenti possono essere reperiti nei seguenti siti: Comune di Caramagna Piemonte, su comune.caramagnapiemonte.cn. Associazione Culturale "L'Albero Grande", su albero grande. Due difetti o cattivi abiti, nota qui e contrappone Antonino. L’uno, del lasciarci guidare unicamente dalla IMPRESSIONE che fan su di noi l’oggetto esterno, divagando da questo a quello secondo che quello ci attrae più fortemente che questo. L’altro del lasciarci guidare unicamente dal pensiero o idea che ci vengono in mente a caso, seguendo quelli che eccitano più la nostra attenzione. Due stati passivi, dove l’uomo non esercita punto la volontà nè l’intelletto, ma segue ciecamente, nel primo, il caso esterno, o nel secondo, il caso interno, cioè quella che è stata nomata di poi legge di associazione di due idee: due stati quindi dove l’uomo non ha scopo. Il primo de’ quali ha luogo nella vita puramente ANIMALE, e il secondo nel sogno. Quello,  proprio del giovane troppo dedito al  senso. Questo, del vecchio rimbambito. E quindi, dopo avere esortato sè stesso a fuggire il difetto del giovane si esorta  a fuggire quello del vecchio. Il carattere  che fa riconoscere il vecchio per rimbambito è il vaneggiare, cioè il parlar senza costrutto, ripetendo il già detto. Ma avverte sè stesso che l’uomo può essere rimbambito già anche quando non parla ancora senza costi itto, non vaneggia ancora in parole, se egli fa delle azioni senza costrutto, o vaneggia nelle azioni: il che ha luogo  ogni volta che esse azioni non sono collegate tra sè, non hanno unità, cioè non sono riferite tutte ad uno stesso ed unico scopo. Questo lodare la compassione senza aggiungere con Epitteto che  ella debba essere puramente esteriore e non di cuore, è certamente una contradizione al principio stoico. La compassione essere come tutti gli altri affetti un moto irragionevole dell’anima, e contrario alla natura, il saggio non essei'c  accessibile alla compassione; una contradizione a ciò che è detto in questo medesimo §, dovere il saggio mantenere il suo genio interno netto da passione. Ma è una di quelle contradizioni magnanime per le quali IL CUORE corregge  talvolta gli errori dell’INTELLETO. Sul  punto particolarmente della compassione, come su quello dell’affezione verso gl’amici e i congiunti e verso tutti gli  uomini e Antonino uno stoico poco fedele al  principii della sua scuola, e segue  piuttosto gl’accademici e i liceii, i quali insegnavano il sentimento della pietà  essere il carattere distintivo delle belle e grandi anime; e quel detto di Focione, conservatoci dallo Stobeo: non  togliete nè Voltare dal tempio y nè dalla  natura umana la compassione. Fu in questa  deviazione, almeno in pratica, dal rigore dell’antica dottrina del Portico Antonino e stato preceduto da altri romani illustri del PORTICO. Il che non potea non avvenire, perchè secondo un antico senario greco, il cuore soltanto del malvagio non è capace di  essere ammollito. E però il severissimo CATONE minore, già deliberato in quanto a sè di morire, pianse, come narra Plutarco, per pietà di tutti quelli amici e concittadini suoi che eransi pur dianzi affidati ad un maro procelloso per non lasciarsi cogliere in UTICA da GIULIO (si veda) Cesare vincitore, come avea pur pianto alcuni  anni innanzi per un fratello amatissimo, quando trovandosi esso CATONE minore al comando di una legione in Macedonia, alla  novella che il detto fratello era moreute in Enos città della Tracia, salpa immantinente con piccolo e fragil legno da Tessalonica, contro l’avviso di tutti i nocchieri, per un mare tempestosissimo, E GIUNTO IN ENOS TROVA IL FRATELLO GIA SPENTO (Plut., vita di Catone).  E pianse certamente TACITO, benché del PORTICO anch’egli, quando, dopo aver narrato come e vissuto e morto, non senza sospetto di veleno, Giulio AGRICOLA suo suocero, aggiunge queste  patetiche parole. Beato te. Agricola,  che vivesti sì chiaro e moristi sì a tempo. Abbracciasti la morte con forte cuore e lieto. Quanto a te, quasi scolpandone il principe. Ma a me e alla  figliuola tua, oltre all’acerbezza dell’aver perduto un tanto padre, scoppia il cuore che non ci sia toccato ad assistere nella tua malattia, aiutarti mancante, saziarci di abbracciare, baciare, affissarci nel tuo volto. Avremmo pure raccolti precetti e detti da stamparli nei  nostri animi. Questo è il dolore, il coltello al nostro cuore. Senza dubbio. o ottimo padre, per la presenza della  moglie tua amatissima, ti soverchiarono  tutte le cose al farti onore. Ma tu se stato riposto con queste meno lagrime,  e pure alcuna cosa desiderasti vedere  al chiudere degl’occhi tuoi. Fra le varie divisioni dei beni  appo IL PORTICO, l’una è questa, che dei beni altri sono finali, altri efficienti,  altri e finali insieme ed efficienti. I beni finali sono parte della felicità e  la costituiscono. Gli efficienti solo la  procurano. I finali ed efficienti insieme  e la procurano e sono parte di quella. Del primo genere sono la letizia, la libertà dell’animo, la tranquillità, ecc. Del secondo, l’uom prudente ed amico. Del terzo, tutte le virtù. L’uom prudente ed amico è un bene efficiente,  perchè muove con la sua dispozione  razionale la tua diapoaizion razionale , cioè è occasione a te di buone azioni. E nello stesso modo è un  bene di quel secondo genere ogni cosa,  o sia pensiero o altro, che è occasione  a te per camminare verso la perfezione. Di questo bene parla ora ANTONINO (si veda). Il quale, per l’esser solo efficiente, e non finale, cioè pel non essere accompagnato  ancora da quel sentimento intimo di gioia perfetta che costituisce la felicità,  non attrae invincibilmente il tuo volere;  ed è necessario quindi, perchè operi veramente sull’uomo, che questi si sottragga da tutte le altre cose che ne  lo possono sviare -- conferisci quello che  ne insegna la teologia intorno alla grazia. E quando ANTONINO chiama questo bene razionale -- che è attributo generale  del bene appo IL PORTICO -- il fa per opposizione al preteso bene dell’ORTO, che è sensibile. Seneca, epistola ultima. Chi riguarda il piacere come sommo  bene – o OTTIMO --, giudica che il bene sia sensibile:  noi il giudichiamo intelligibile. E più  sotto. Non è bene dove non è ragione. Tutte queste cose e necessario notare per ìscliiarimento e conformazione del testo, dove la maggior  parte dei cementatori ed interpreti ha  voluto cangiare la parola efficiente in  “civile” o vuoi “sociale” con manifesto danno  del senso e del pensiero di ANTONINO.  Dispensazione, in greco “eco-nomia”, vale generalmente governo della casa, amministrazione. E perchè molte cose si fanno pel governo della casa, le quali  da per sè sole non si farebbero -- come per esempio il risparmiare certe spese  perchè le sostanze famigliar! sopperiscano al mantenimento di quella -- quindi  è stata applicata questa voce ad ogni  cosa che si faccia con fine provvidenziale, benché sia di nessun pregio in  sè od anche noiosa; come p. e. il gastigare i rei. È usata sovente IN QUESTO SENSO [O IMPLICATURA] dagli filosofi latini di tarda età, e del PORTICO ed altri. È tra noi  disusata perchè è DISUSATO IL CONCETTO ch’ella esprime. Ma per provare la sua antica cittadinanza in Italia alleghera il passo seguente di Cavalca, l’ultimo  dei citati sotto essa voce nel V. della  Crusca (Medicina del cuore). Per divina dispensazione avviene che, per li  pessimi vizi e gravi, grave e lunga tribolazione ed infermitade arda e salvi  l’anima. Da una nota d’O. credo che, quando la scrive, inclina per l’interpretazione di questo luogo, a dar ragione a Xilandro contro i posteriori. Se non muta poi di parere, IL SENSO (O IMPLICATURA) DI QUESTA ESPRESSIONE  con libertà di parole dovrebbe essere liberalmente cioè con  liberalità di parole, o generosamente poiché così anche lo Xilandro intende lo  £À6u0£.'iu)5 del testo. E con questo raccomandare la generosità nelle preghiere, ANTONINO intende di biasimare le preghiere che  non mirano che all’interesse proprio di  chi lo fa. E però loda quella preghiera  degl’ateniesi, i quali, al dire di Pausania, soleno pregare non solo per  TUTTA L’ATTICA, ma anche per tutta la Grecia. Auto nel senso peripatetico del Lizio e  scolastico, è l’affezione costante deWente: e per quel carattere di costanza si distingue dalla disposizione che è variabile. Appo IL PORTICO è la forza o virtù (andreia) che mantien l’ente in quella affezione costante; o, siccome essi favellano, è spirito -- intendi aria -- che mantiene il corpo e il contiene. Perchè l’ente ò  corpo appo loro. La mente dell’ universo, dice Senone, penetra per tutte  le cose particolari e le mantiene e governa: ma non tutte nel medesimo modo: perchè nelle une si manifesta come abito -- pietre, legni --; nelle altre come natura -- intendi principio organico mero: piante,  alberi --; nelle altre come anima -- principio animrle mero: bruti --; nelle altre ancora come mente e+ ragione -- anima ragionevole universale e sociale appo ANTONINO; uomini. Le cose governate dall’abito sono adunque i corpi  dove non è altro principio costituente  che il generale di corpo, dove per conseguenza non è altro carattere distintivo che quella affezione -- modo d’essere -- costante por cui sono il tal corpo  anziché il tal altro. Sono la classe infima e generalissima di corpi, che noi  chiamiamo inorganica. Nelle cose governate dalla natura, oltre al carattere  generale di corpo v’ ha già il carattere  d’organizzazione. Nelle cose governato  dall’anima, oltre al carattere di cor poreità e di organizzazione, v’ha di più  quello di animalità ecc. Le classi si van cosi ristrignendo e innalzando sino all’ultima, che ha per carattere la razionalità. In questo il testo è. in più d’un  luogo corrotto, e verìsimilmente havvi anche qualche lacuna. Non potrei dire  precisamente quali sieno le emendazioni  seguite o fatte da lui, perchè una sua lunghissima nota sulle difficoltà di  questo paragrafo, oltre che è piena di cancellature e in gran parte non intelligibile, è anche manchevole, essendone  stato lacerato via, non so da chi (forse dall’O. medesimo per aver mutato parere), un mezzo foglio. Nel voltare in italiano io mi sono discostato il meno possibile dalle sue parole stesse e ho serbato inalterato il senso della  sua interpretazione. Questo paragrafo, essendo corrotto in più luoghi, dei quali l’emendazione e inutilmente tentata finora, è diversamente inteso dagli interpreti. O. lascia scritto al principio di una lunga nota: Di questo veramente corrotto  paragrafo non so che partito trarre. La sua interpretazione che io seguii  nel volgarizzamento vuol dunque essere accettata con quella medesima riserva con che egli la propose. La parte che segue di questo paragrafo è assai guasta, e fors’anche mutilata. O. non la tradusse in alcun  modo, riserbandosi di farlo quando avesse trovato una correzione che gli piacesse. Intorno a che lascia molte note. Nel  mio volgarizzamento ho letto il testo come fu letto da Schiiltz, non perchè  egli approvasse in tutto quella lezione, mna perchè non seppe trovarne una migliore. Il testo di questo paragrafo è corrotto, e chi corregge in un modo e chi in  un altro, e chi ancora difendo la vulgata. Io ho seguito quella fra le molte e varie emendazioni, dalla quale parvemi almeno di poter trarre un senso chiaro. Poi sensori tutto il paragrafo conf. anche V, 33, e Seneca. More quid est? aut finis, aut transitus. Tutti gli interpreti che io conosco finora, compreso anche Gataker, il quale nondimeno si scosta dal vero meno che gli altri, pigliano qui il granchio (fan pietà Dacier o Joly  che seguono ciecamente Gasauhono,  come fa pure Barberini: iMilano poi  è la stessa pecora sempre, Hoffmann erra men grossamente com Gataker), confondendo insieme, siccome  fossero una sola cosa, la toù 3Xou (fùaiv  e il ToO xóojjiou ’hys.u Qvixdv; quando anzi  nella distinzione di queste duo cose è fondato il senso di tutto il paragrafo. La toO  SXou qjvlcjis è la potenza creatrice o facitrice primitiva; lo •óyepwvixòv toO xóopiou  è la potenza governatrice, dipendente da  quella prima, generata, o formata da quella prima. Siccome la natura dell’ uomo forma l’iomo, cioè la mente dell’uomo non meno che il corpo; e la mente dell’uomo  poi gOTema il corpo. Il senso adunque  di tutto il paragrafo è questo. La natura dell’universo decreta, determina con deliberazione ragionevole il mondo, dandogli, per così dire, un corpo ed una  mente. Ora, o questa mente, a cui è  affidato il governo del mondo, segue la  ragione (perchè la mente nel senso dello  ìf£|jiovixbv può anche talora essere sragionevole). E allora tutte le cose che ella fa, sono quali le ha determinate  generalmente dà principio la natura formatrice del tutto, sono involute in  quella prima determinazione, sono conseguenza necessaria di quella prima determinazione, ecc.; ovvero essa mente  non segue sempre la ragione, e allora essendo essa soggetta a capriccio, dove accadere che non solamente le cose di  minor conto che ella fa, ma anche le cose principali sieno sragionevoli. Ma noi non veggiamo mai che nelle cose principali ella sia sragionevole. Dunque non può essere sragionevole nè anche  in quelle di minor conto; dunque tutte le cose vanno secondo ragione. Godo di aver potuto deeiferare nel manuscritto d’Ornato e quindi trarre in luce la precedente nota (la cui redazione sarebbe certo migliore se l’ autore  avesse potuto ripulire e pubblicare egli  stesso il suo lavoro); perchè l’interpretazione e illustrazione contenuta in  essa è ingegnosissima, naturalissima e  confermata da tutto quello che conosciamo della fisica degli stoici. La natura universale (n toù óXov (pdcjts), la  potenza facitricc o creatrice è il divino puro, il quale trae l’universo dalla sua propria sostanza, è l’unità assoluta senza distinzioni e diversità di parti, è la natura naturane;  la potenza governatrice, la mente che governa il mondo (TÓrìysixovixóv toù xó^jxou),  generata da quella prima, è all’incontro,  nell’attuale diversità delle cose,' nella  nauìra naturata, nel mondo propriamente  detto e composto di anima e di corpo, è, dico, la provvidenza, l’anima di esso  corpo. Al novero degli interpreti che frantesero questo § è ora da aggiungersi  Pierron. Ed è tanto più  da stupire che il sig. Pierron abbia egli  pure sì mal compreso, in quanto che,  avendo egli già prima tradotto la Metafisica di Aristotele, dovea essere suf-  ficientemente versato nelle dottrine filosofiche delle principali scuole della  Grecia. Quasi tutti i traduttori hanno  franteso questo luogo, pigliando l’iwoia  per intelletto ragione e traducendo quindi: vide ne intellectus hoc feraf.... il senso  letterale, aggiungendo ciò che è sottinteso, è: vedi se la nozione (che tu hai di te  stesso come uomo) soffre cotesto, soifre  cioè che tu dica esser nato a goder dei  piaceri. Pierron, seguendo l’ esempio  di tutti i suoi predecessori, pigliò anch’egli Vhvo'.a per intelletto traducendo: vota a' il y a du bon aena à le  prétendre. Colia bontà delle singole azioni  vuotai procacciare di ben comporre la vita.  Il testo e bravissimo. Talvolta  troppo fedele alla lettera e studioso di  conservare tutta la brevità dell’ origi-  nale, avea tradotto: ai vuol comporre  la vita mettendo inaieme le azioni ad una  ad una; poi comporre inaieme la vita  accozzando le azioni ad una ad una;  poi allogando le azioni ad una ad’una.  Non credo che so avesse potuto ripu-  lire e terminare egli stesso il suo la-  voro, si sarebbe contentato di alcuno  di questi tre modi, che tutti peccano  di oscurità e di ambiguità. A costo dì  essere men breve, io ho creduto di dover  essere piò chiaro non solo in questa  frase, ma in tutto questo paragrafo,  svolgendo un poco il concetto dell’autore siccome io l’intendo. Quasi tutti gli interpreti frantendono. Nel novero degli interpreti che frantesero questo luogo comprendi ora anche Mr. Al. Pierron, che sdgue docilmente- Gataker e Schultz. L’errore  sta nel legare Io i^’oioy ctv xoti up^rìae  col ófUTw che precede; laddove si   riferisce all’azione alla quale l’animale  ragionevole tendea e nella quale è stato  impedito. E ciò pare che abbia poi capito lo Schultz nella sua seconda edizione del testo greco, avendo egli posto  una virgola dopo il óutù. Se tu vo/eafi ftema la debita ritterva, che da lei etesaa; cioè a dire:  se tu volesti assolutamente e non a condizione soltanto che la cosa fosse possibile; questo atto della tua volontà  fu veramente un male, perchè, come è  detto altrove, l’ animai  ragionevole non dee voler nulla che non  sìa in poter suo, ed anche il bene relativo, non dee volerlo se non se con-  dizionalmente, cioè in quanto sia possibile; rimpossibilità essendo per gli  stoici sinonimo di non voluto dalla natura e dal destino, al quale il savio  non dee ripugnare. Che se poi la cosa  voluta da te fu una di quelle che non  sono pur buone in senso relativo, e  quindi il volerla fu un appetito, pren-  dendo il vocabolo volere nel significato  volgare, cioè un moto del senso, piut-  tosto che della volontà ragionevole; tu  non ricevesti nocumento nè impedimento veruno: perchè tu non sei «erwo, ma  bensì mento, ragione o volontà razionale, e come tale, in quanto operi secondo  la tua propria natura non puoi essere  impedito da nissuna forza esteriore. Così intendo questo luogo, così certamente è stato inteso dall’ Ornato (assai  diversamente dagli altri interpreti che  io conosco, Gataker, Schultz e Pierron, e questo senso  ho procurato, di esprimere traducendo. O. lascia una breve nota a questo  luogo, ma in essa non fa che avvertire le difficoltà del tradurlo, stante la  povertà dell’italiano,comparativameute  al greco, e scusare l’ oscurità e l’ ambiguità della traduzione tentata da lui. Di tutto questo paragrafo fa quattro tentativi diversi di  traduzione, tutti laboriosissimi, come  appare dalle molte cancellature e correzioni. In margine alla quarta od ultima  prova scrisse: Sta qui fermo, perche  farai peggio se cangi. Non fu quindi  senza molto bilanciare che mi risolsi a  fare io, come feci, una quinta prova,  essendomi sembrato che il miglior par-  tito fosse qui di tradurre letteralmente,  e spiegare i sensi del testo nelle note. Ad illustrazione del senso stoico di  tutto il paragrafo ricordiamoci priiniera-  inente che secondo gli stoici: c Dio, considerato dal lato fisico, è la forza motrice  della materia, è la natura generale, e  r anima vivificante del mondo; conside-  rato dal lato morale, è la ragione eterna  che governa e penetra l’universo, è la  provvidenza benefica, è il principio della  legge naturale che comanda il bone e  proibisce il male. Ricordiamoci ancora  che l’aria, come uno dei due elementi  attivi e parte essa stessa della sostanza  divina, ò dagli stoici considerata come  il principio della vita sensitiva. Dice  adunque Antonino: non contentarti ora-  mai di essere unito con Dio a quel  modo solamente che sono uniti con lui  gli esseri solamente sensitivi, cioè per  mezzo della respirazione; ma fa’ ancora  di unirti con lui a quel modo che si  appartiene agli esseri intellettivi, cioè  con cognizione e accettazione libera  dello scopo che Iddio ha proposto all’accettazione libera di quelli. E però, siccome tu traggi dall’aria ambiento  gli elementi della tua vita sensitiva,  traggi ancora dalla ragione ambiente  gli elementi della tua vita intellettiva. L’esistenza delle cose dissolvendotù (Tràvxa èv [xerai^oX-^. K«ì ocùrCg  cù év ^'.r,v£xet à^.Xoicoasi, \at xaxa ti (JiOo-  p^). Qui mi pare che fosse il caso  di dovere assolutamente abbandonare  la lettera e contentarci di esprimere il  senso del testo, piuttosto che cercar  di tradurne le parole, che non sono traducibili in italiano. L’Ornato avea detto: tutte le, cose vanno soggette a mutazione. E tu stesso ti alteri continuamente, e  peì'^isci, per cosi dire. Ma egli non era  contento, come appare dall’usato segno.  E in vero che significa quel tutte le cose vanno soggette a mutazione f Significa, e  non può significare di più, che tutte le  cose possono essere mutate e lo saranno  effettivamente quando che sia; ma ciò  liou esprime quella condizione delle cose,  per cui non hanno stato, o modo di essere che perduri pure un istante senza  mutamento, che è la vera condizione  delle cose secondo la filosofia di ANTONINO e voluta esprimere da lui. Chi dovesse tradurre questo luogo in tedesco,  lo potrebbe fare, parmi, benissimo dicendo: Alle (Unge aind in unaufhorlichem  anclera-werden; come si dice in werden  non solo dai filosofi, ma anche nel linguaggio famigliare, quando di una cosa  che non è ancora, ma si sta incominciando 0 si va facendo, si suol dire:  Die Saehc iat noch ini werden. Ma la  nostra lingua italiana non ha tutta la flessibilità del tedesco, uè sarebbe chiaro, uè  permesso il dire in italiano: tutte le coae  sano in un continuo mutarai. È una singolare coutradizione  di Marco nostro e di altri del PORTICO poateriori il venir cosi spesso parlando con tanto dispregio della materia che aottoatà  alle cose (tt,? ii7:oy.e'.[xi\rng uXin?, — A"edi  anche YI, 13, e altrove). Il mondo è tuttavia per essi un animale perfetto e  bellissimo, il cui corpo è la materia, e  l’anima, Dio. Le rughe sul volto  del vegliardo, le screpolature delle ulive  e del fico vicini ad infradiciare, la bava  del cignale ed altre sì fatte cose hanno  pure una certa grazia e venustà, perchè il mondo è perfetto, e nulla è  nelle suo parti che non conferisca alla  bellezza del tutto. Perchè dunque ora  tanto dispregio non solo per tale o tale  altra parte, ma universalmente per tutta , la materia che sottosta, quando questa  materia, che non è poi altro per gli  stoici se non se il suhstratum indeterminato di tutto il contingente sensibile,  è essa pure sostanza divina secondo la  scuola?  Intendi: « o tu voglia dire che  il mondo sia stato formato di atomi.  ed abbia quindi origine dal caso; o che  sia stato formato di nature (essenze,  entelechie, monadi), ed abbia quindi  per origino l’ intelligenza, o la natura,  che qui è sinonimo di intelligenza; que-  sta cosa pongo io certa anzi tutto, come  tratta dalla mia osservazione immediata,  che io sono attualmente parte di un tutto  governato da una natura. Con altre  parole:  o tu faccia venire il mondo  dalla pluralità, o tu lo faccia venire  dall’unità, ella è cosa di fatto che io  ci ravviso attualmente una pluralità  governata da una unità. Il qual metodo di filosofare, per cui, lasciata stare  la disputa intorno all’origine delle cose,  si viene ad esaminare la realtà attuale di esse; lasciato stare il lontano e  mediato, si viene ad osservare l’ imme-  diato e prossimo; lasciata stare la cognizione dedotta, si viene a far capo  alla cognizione di fatto acquistata per  osservazione; è solenne ad Antonino. Ricordi il lettore che appo  stoici mondo, tutto, natura, Dio sono   V  sostanzialmente la stessa cosa, e però  quelle che poco innanzi furono chiamate  parti del tutto, qui sono dette della  natura. Dìo, natura, mondo, tutto sono  espressioni diverse che corrispondono a  modi diversi di considerare una stessa  cosa, e questa diversità è relativa alla  mente finita dell’uomo che non può si-  multaneamente contemplare gli aspetti  e momenti diversi delle cose, e non alla  realtà obbiettiva. Quindi ò che le espressioni soprascritte sono non di rado usate  runa per l’altra, poiché sostanzialmente  significano la medesima cosa. Il mondo  KÓrfixog), dice Laerzio, er DAL PORTICO considerato: 1® come causa  0 pbtenza informatrice di tutte le cose  che sono {natura nuturans, i; t£-   Xvtxfi, -ij ToO òlo\j q>0ai<é ), la quale, come  artefice e informatrice di sé medesima,  trae da sé stessa e informa tutte le coso con suprema saviezza e divina necessità,  cioè secondo le sue leggi che sono quelle  della ragione; 2" come la totalità delle  cose informate e ordinate dalla potenza  informatrice immanente in esse e governatrice di esse (dotta allora  xòv Toù xd^fjLou) e quindi come l’opera  vivente, il vivente organismo, o corpo  organato da quella {natura naturata);   finalmente come l’unità dei due, cioè  dell’ organismo vivente e della forza or-  ganatrice e governatrice, in quanto l’uno  non si distingue dall’altra se non se  per la contemplazione della mente finita  deU'uomo. Vedi i Prologo nell’edizione  di Torino. Fa che tu vi sottoponga col pensiero di che io ragiono. Ho conservato tutte le parole della interpretazione dell’O., perchè non avrei  saputo quali altre più chiare sostituir  loro; atteso che io non son sicuro di  intendere qui nè che cosa abbia voluto dire r O., nò che cosa Antonino. Ornato volea faro a questo luogo una  nota; ma non la fece, e non trovo altro,,  che si riferisca a questo luogo, ne’suoi  manoscritti, se non se un cenno pel  quale è indicato che egli lesse qui ò, ti  risolutamente^ ove tutti gli altri, che io  conosca, lessero &ti; e che egli intese  r Ù7TÓ0OU diversamente da tutti gli altri  interpreti. Gataker e Schultz  che lo segue da vicino, non sono più  chiari. Le quali tu apprendi»,, considerazione del tutto. Così O. svolge ed  illustra la filosofia di ANTONINO espresso brevissimamente e, parmì anche, poco  chiaramente nel tosto. Non ho mutato  quasi nulla alla versione di questo paragrafo lasciata d’O., sia perchè ho  motivo di credere che ne fosse già poco  meno che contento egli stesso, trovando  io questo paragrafo nettamente ricopiatom sia perchè non avrei voluto correr pericolo -- li alterarne benché minimamente il  senso, trattandosi di un luogo che egli  intese assai diversamente da tutti gli  altri interpreti. Vuol dire che non bastano le  impressioni buone che noi riceviamo per  mezzo della sensibilità, le quali possono  e sogliono venir cancellate da impressioni contrarie, ma ci vuole anche il lavoro deir intelletto che riduca quelle ad  unità e le fermi cosi nel nostro spirito,  formandone come un corpo di scienza. Non basta l’osservazione, l’applicazione dello spirito alle cose di circostanza,  ma ci vuole ancora la contemplazione,  l’ applicazione dello spirito alle cose  permanenti, al generale immutabile.  Solo col ridurre ad unità il moltiplice,  a generalità il particolare, si possono  radicare le cognizioni nell’ anima, la  quale si compiace dell’unità, e quindi della scienza: compiacenza cui la semplicità del cuore dee far rimanere secreta naturalmente nel cuore, ma non  artatamente celata; ed allora è l’ani-  ma veramente grave e soda e come chi  dicesse, veneranda. Sul fine del para-  grafo fa la enumerazione delle diverse  categorie alle quali si dee riferire l’oggetto osservato. Questa nota d’O. che per le  troppe citazioni del testo greco non  può qui darsi che in parte, trovasi intera nell’edizione di Torino. Grecismo, per suole accadere. Non  era possibile il tradurre altrimenti. Del resto vada a rilento chi per la sola ragione del non potersi tradurre  sempre colla stessa voce una stessa  parola del testo, accusa ANTONINO qui  ed altrove di arguzia. IL PORTICO crede che, là dove è una stessa parola,  debbe essere anche una stessa idea. Ed  anche Platone (vedi il Cratilo) il credette; e il credette VICO (si veda): e tanti j  altri il credettero: e noi il crediamo. Se quella idea generalissima che l’antichità avea attaccata al:p:?.eìv non si trova più annessa al nostro amare, ciò j  non prova altro se non che il greco d’ANTONINO e  l’italiano sono due lingue diverse. E  sap evadicelo. Il passo di Platone è nel Teeteto dove parlando dell’ uomo filosofo liberalmente educato, dice, udendo egli lodare e magnificare un  tiranno od un re, gli par di udire lodato  e magnificato un pastore, perchè egli  munga di molto latte; e l’animale cui  pasce e munge il re, gli pare anche più  ritroso e più infido di quello cui pasce  e munge il pastore; nè men rozzo nè  meno ineducato stima egli l’uno che  l’altro, mancando ad amhidue il tempo  per badare a sè, e vivendo il primo fra  le mura della reggia a quello stesso  modo che l’altro nella capanna sul monte. Del resto, il senso generale di tutto  questo paragrafo, non bene inteso, secondo me, dagli interpreti, mi pare che  sia: Tu dèi farti capace sempre pih cho  tu puoi vivere da filosofo in questa tua  corte come faresti in. quella tua villa .che agogni. Non incontri tu ad ogni passo esempi di quel che dice Platone:  uomini che vivono nei palagi come farebbe un rozzo pastore in sul monte:  ingolfati cioè quelli e questo nelle cure  materiali del governo dell’armentoV E  sottintende: se per costoro il palagio  non è altrimenti che una capanna, non  può ella con più ragiono essere la reggia per te come un ritiro filosofico? Gran ragione ha qui ANTONINO di raccomandare a sè medesimo anche  ' questo genere di contemplazione, cioè  a dire lo studio dei fenomeni, e delle  maraviglie, come egli dice sapientemente, dell’organismo corporeo degli animali e deir uomo massimamente: perchè non è  altro studio il quale possa per via più  compendiosa e sicura condurre alla cognizione della infinita sapienza, e provvidenza infinita della causa reggitrice  del mondo. Nè l’uorao può presumere  di conoscere sè medesimo, sé non conosce almeno un poco di queste maraviglie, cioè come si formi, cresca, si  conservi, si rinnovi e deperisca il suo  corpo, quale sia la natura e il modo di operare della causa o principio a  cui dehbonsi riferire questi fenomeni,  quali le relazioni di questa vita organica del suo corpo con quella del principio che in lui sente, vuole, e pensa,  e come possano questo due vite modificarsi fra loro scambievolmente. In vero  chi aspira a conoscere sè medesimo,  per quanto sia dato all’uomo di pur  conoscere sè stesso, e non cura di conoscere un po’intimamente anche questa delle due parti di che si compone l’esser suo, porta gran pericolo di errare nel vano, e di prendere astrazioni  por realtà, il che avvenne appunto ai filosofi del PORTICO, ignorantissimi di anatomia o  quindi più ancora di fisiologia. Perchè  uno appunto degl’errori fondamentali  della loro filosofia, quello por cui mutilavano la natura umana escludendo  da essa la sensibilità che riferivano al  corpo come a cosa straniera all’ uomo  propriamente, il quale per essi non e  altro che ragione e volontà; questo errore, dico, è in gran parte da attribuire  alla imperfezione delle loro cognizioni,  ai loro errori circa la costituzione fisica dell’uomo e le relazioni in che ella  si trova colla sua costituzione morale  e intellettuale; o per dire più veramente, alla loro totale ignoranza dello  leggi che governano i fenomeni dell’organismo corporeo dell’uomo, delle relazioni intimissime della vita di esso organismo corporeo con quella della mente,  e della natura egualmente spirituale di  ambidue. Questi versi sono d’Omero e  sono dei più famosi nell’antichità, dei  più spesso citati e ripetuti, imitati dai  poeti posteriori; o però ANTONINO non  li scrive per intero, ma solo quei brani  che sono stampati in corsivo, bastando  quelli a richiamare alla memoria i versi  interi, alle diverse sentenze contenuto  in essi alludendo egli poi nella parte seguente del paragrafo. Con questi versi GLAUCO, (opo aver  detto magnanimo Tidide a che mi chiedi  il mio lignaggio?, incomincia la sua risposta a Diomede, il quale, prima di  accettare il combattimento con lui,  aveagli chiesto qual fosse la sua stirpe.  Io li ho tradotti letteralmente, giovandomi in parte della traduzione di Monti,  la. quale, come nota a tutti i lettori,  avrei volentieri dato qui inalterata, se  in essa fosse più fedelmente espresso,  e nell’ ultimo verso non interamente  guasto il senso delle parole d’Omero. Il qual verso, voglio dire il 149\ è tradotto da Monti come segue: CosxVuom  nasce e così muor: il che fa fare un falso  sillogismo a Glauco, il quale secondo  la traduzione del Monti, concludendo,  affermerebbe dell’wo/ Ho ciò che dovea  affermare delle schiatte umane, mutando,  come direbbero i loici, nella conclusione  il piccolo termine, che nella premessa  minore- non era uomo ma schiatta o  stirpe, come disse Monti. E pure il  verso d’Omero ò chiarissimo. Questo  strafalcione Monti non fa se, come quasi ignorante del greco, con  tante altre traduzioni avesse saputo consultare quella mirabilissima, non  solo per eleganza di stile ma ancora  per fedeltà, precisione e chiarezza, del  Voss, il quale in cinque bellissimi esametri tedeschi traduce letteralmente i  cinque esametri greci. Anche Pope,  sebbene i suoi lavori sui poemi d’Omero,  tutto die pregevolissimi per altri rispetti, non meritino il nome di traduzione,  non fa qui lo sproposito di Monti. Ed altri ancora potrei nominare dei  nostri che con nobilissimo intendimento  si diedero all’ardua impresa di recare  nella nostra lingua italiana chi l’una e chi l’altra  di quelle poche reliquie che ci rimangono della greca poesia -- dico poche  rispetto a ciò che fu divorato dal tempo --; i quali avrebbero meglio inteso e  meglio tradotti moltissimi luoghi se  avessero potuto consultare, se non tutti  gl’interpreti, cementatori ed espositori,  almeno i traduttori tedeschi. Ma basta che io nomini il più valente, a parer  mio, di tutti, Belletti, al quale, tranne  forse una più intima notizia del greco,  nulla mancava, non valor d’arte, non  felicità d’ ingegno, a poter fare una traduzione perfetta, o prossima alla perfezione, dei tragici greci. E in vero,  leggendo io le traduzioni di Bellotti e  riscontrandolo diligentemente cogli originali, ebbi in moltissimi luoghi ad ammirarne la eccellenza, anzi direi quasi  in tutti quei luoghi dov’egli capì abbastanza intimamente il suo testo e non erano difficoltà insuperabili a qual sivoglia traduttore. Ma anche in molti  altri luoghi io ebbi a lamentare che  egli pure non abbia saputo o potuto  giovarsi delle eccellenti traduzioni fatte  da* suoi predecessori alemanni. Nel solo  Agamennone, che anche considerato in  sè stesso e non come parte di una  grande e sublime trilogia, è forse il  più bel monumento della scena antica, e certamente il più grande di tutti per sublimità tragica, recondita filosofia,  splendore di immagini e copia di alti  e forti pensieri, quanti errori avrebbe  evitati il Belletti, quante meno scempiaggini avrebbe fatto dire a quella  grande anima e colossale ingegno d’Eschilo, so egli avesse solo potuto profittare della traduzione e dei Prolegomeni di Humboldt? Non dirò  del libro di Welcker sulla Trilogia di Eschilo che forse non era an-  cora pubblicato quando Bellotti traducea l’Agamennone. Ed è tanto più da  lamentare che a Bellotti siano mancati questi sussidi, quanto è meno da sperare  che sia presto per sorgere un altro ingegno italiano, il quale possa fare quello  che avrebbe potuto Bellotti. Ritornando al paragrafo di ANTONINO  e al luogo citato d’Omero, è da notare  come siffatti pensieri intorno al poco o  niun valore della vita considerata in sè,  e di tutte le cose umane e dell’ uomo  stesso, così frequenti nei poeti ebraici;  frequentissimi in questo scritto di Antonino e divenuti quasi abituali nei  cristiani dei primi secoli, si trovino  pure non di rado anche nei poeti greci  più antichi, voglio dire in quelli delle  prime e più splendide epoche della greca  letteratura, sebbene i greci fossero un  popolo di allegra immaginazione. Forse  non dispiacerà al lettore il vederne  qui raccolti alcuni esempi: nell’ Odissea la terra non nutre nulla  di più infermo che l’uomo. Nell’ottava delle pitie di Pindaro Che  siatn noi dunque o che non siamo f Leggiero veder d’ombra che sogna. Letteralmente la seconda parte. L’uomo è l’ombra di un  sogno. Nel Prometeo d’Eschilo  e non vedevi l’imbecille natura a  vano sogno eguale onde è impedito il cieco  umano gregge? Nell’Aiace di Sofocle,  perocché veggo  non essere noi, quanti viviamo, altro che  larve ed ombra vana. Nel Filottete del . medesimo Sofocle, Filottete chiama sè medesimo: ombra di un  fumo. Nella Medea di Euripide -- non ora soltanto incomincio a stimare  tutte le cose umane come un' ombra, E  vuoisi notare come appo i tragici ed  anche appo i) lepidissimo Aristofane la parola effimeri, cioè quelli che durano  un giorno, è spessissimo usata come sinonimo di uomini. A queste, o ad altre simili sentenze d’ antichi ed illustri poeti, le quali erano nella memoria di tutti gli eruditi del suo tempo,  allude evidentemente ANTONINO con  quelle sue parole: il più breve detto,  anche di quelli che sono i più noti ecc., accennava poi per esempio quelli d’Omero. Questa nota e scritta in tempo che  io, quasi appona ripatriato, e mandato a stare in  un cantuccio al tutto vacuo di studi e  di lettere (prendendo i vocaboli in un  senso un po’ alto), e ridottomi a passare  nella solitudine i pochi momenti d’ozio  che r esercizio di un pubblico ufficio mi  lascia, avea potuto, non saprei diro perchè, immaginarmi che il valentissimo Bellotti fosse già del numero  di quei felici che più non vivono altrimenti sulla terra che per la memoria  di opere egregie che vi lasciarono. Avvertito ora del mio errore, non  cangio nulla a quello che ho scritto di  lui; ma aggiungo l’espressione di un voto,  che deve esser quello di tutti gli amatori  delle buone lettere desiderosi di vedere  vie più chiara e più grande la rinomanza di un nobilissimo ingegno: ed è che l’esimio sBellotti, come sta  ora, da quanto mi dissero, rivedendo o  migliorando il suo volgarizzamento di  Sofocle, così possa egli poi rivedere ed  emeudare quello ancora di Eschilo, il  quale, a parer mio, ne ha maggiore bisogno; perchè quello, tranne forse alcune eccezioni, non pecca gravemente  che nella parte lirica; laddove in questo  trovai, 0 parvemi certamente trovare,  molti luoghi da dover essere emendati  non solo nella parte lirica troppo spesso  non traducibile in italiano (come è intraducibile Pindaro, secondo che fu sentenziato anche da LEOPARDI  non ismentito dal tentativo più audace  che felice di Borghi); ma  eziandio nel dialogo. Ella comjyie nondimeno..», si avea  proposto. Mi sono scostato, anche nel  senso, interamente dall’ Ornato, il quale  avea tradotto: ella rende intero e com-  piuto quanto ella avea fatto fino allora;  primieramente perchè il senso voluto  esprimere d’O. non mi sembrava  abbastanza chiaro; e poi, e principal-  mente perchè mi parve troppo grande  licenza il tradurre per quanto avea fatto  fino allora, il tò irpoTcOiv, il quale mi  sembra qui usato nel senso il più ovvio  del verbo “7rp.oT{6T)|ju”, che è quello di  proporre, e così l’ intende anche lo Schultz contrariamente al’Gataker seguito d’O. Veggo bene le ra-  gioni che possono avere gl’indotto a interpretare a quel modo. Ma  non mi persuadono. Il pensiero di An-  tonino mi sembra chiaramente, l’anima razionale, la quale non si propone  altro che di operare sempre secondo  ciò che richiede il momento presente, e di aver caro tutto ciò che le interviene, come cosa voluta dalla natura,  in qualunque istante le sopravvenga la  morte, compie sempre interamente il  compito che ella si avea proposto, e  in modo soddisfacente a sè stessa; ella  ha tutto ciò che potea desiderare, ha  totalmente esaurita la sua parte come  attrice sulla scena del mondo; e appunto il morire quando la natura lo  vuole, è la conclusione, il compimento  della parte a lei assegnata e da lei liberamente accettata nel gran dramma  della vita universale. Bone avverte qui Gataker aver già  Socrate usato il medesimo argomento  per indurre Alcibiade a disprezzare la  moltitudine, alla quale peritavasi di  farsi innanzi a concionare: qual è, diss’egli, di costoro quegli che ti impaurisce? forse Micillo il ciabattieref Trigaió  il conciatore f Trochilo il ferravecchio?  ora non sono costoro quelli dei quali si  compone l’adunanza del popolo? Che se  non temi di favellare a ciascuno di essi  separatamente, che è dò.che ti fa timido  a parlar loro riuniti insieme? Il ragionamento di Socrate era giustissimo applicato ad una moltitudine di popolo riunito, e avrebbe anche potuto ricordare ad Alcibiade l’antico detto di Solone ai:li Ateniesi conservatoci da Plutarco: preni ad uno ad uno »iete tante  volpi; riuniti insieme siete tanti allocchi.  Ma il medesimo ragionamento applicato  allo cose di cui parla Marco nostro non  ò molto concludente. E una melodia,  per es., come qui avverte opportunamente Pierron, è qualche cosa di più  che una semplice successione di suoni,  e Antonino dimentica di considerare  ciò appunto per cui le note musicali  hanno potenza da commovere l’anima  sì intimamente. Avverta il lettore che idea tragica fondamentale ai poeti greci era la  lotta infelice della volontà e liberta  morale dell’ uomo contro l’ inflessibile  necessità; o per dir più veramente,  quella fatale retribuzione di giustizia  che risulta inevitabilmente alla vita  umana dalle leggi necessarie dell’ordine morale. Perchè quella necessità che non era punto upa cosa cieca secondo gli stoici, apjio i quali il /«<o  non era altro che la concatenazione  delle cause secondo le leggi della na-  tura, cioè della ragione e quindi della  giustizia; quella necessità, dico, non  era punto una cosa cieca neppure nella  mente dei poeti: sendo che a Nemesi  figlia appunto di essa necessità e particolarmente incaricata di vendicare i  delitti e rovesciare le troppo grandi e-  immeritate prospérità, a Nemesidico,  e alla Giustizia (5“tx-ri), che erano i due  concetti più puri fra tutte le divinità  immaginate dall’ antico politeismo, il  semplice, ma sublime buon senso dei  Greci riferiva tutto ciò che risguarda  il supremo governo del mondo. L’idea  dunque della giustizia era congiunta  con quella della necessità sebbene in  modo diverso, anche nella mento dei  poeti, come in quella degli stoici. Cho  se Antonino non fa qui esplicitamente  alcuna allusione a quella retribuzione di giustizia, che era l’elemento morale  della tragedia greca, ma solo allude alla inutilità della lotta contro alla necessità, e sembra così impicciolire l’idea nobilissima dell’antica tragedia;  egli è perchè questa inutilità intendeano  gli stoici e i poeti allo stesso modo, e  quasi esprimevano colle medesime parole; laddove intendeano in modo diverso quella retribuzione: e non erano  forse i poeti quelli clie la intendeano  in modo men vicino al vero. Benissimo Gataker ricorda qui  alcuni detti memorabili di Pocione, conservatici da Plutarco, ai quali alludea  probabilmente Antonino in questo luogo. Già condannato a morte per giudizio  iniquo de’ suoi cittadini, in proposito.  di uno che non ristava dal dirgli villanie, disse Focione: non sarà alcuno  che faccia costui cessare dal disonorar  «è medesimo? E già vicino a morire, questa sola ingiunzione fece al figliuolo: dimenticasse il fatto ingiusto degli Ateniesi. Quanto alle parole che seguono di Marco nostro: mpposto che non e in fingenac, non debbono esser prese come,  espressione di nn sospetto nel caso  particolare di Focione, ma bensì in un  senso generale, quasi dicesse Antonino  con istoica riserva, non bastar sempre  le parole a dar certo fondamento a un  giudizio sulle disposizioni interne dell’animo altrui, nè doversi mai fingere,  neppur quando il fingere potesse giovare a bene edificare gli uomini. Da stólto (à|*vu/jiov). Traduce inìquo, seguendo Schultz  che tradusse iniquum. Ma non e ben risoluto di aver bene interpretato quello “ayvofxov,” come appare dal  consueto segno. E veramente non parmi  che lo ayvcofjLov possa esser preso in  questo senso, sebbene abbia quello  ingrato, disleale, disamorato. Il senso  più ovvio di questo aggettivo è privo  di senno, stolto, inavveduto, e parmi che  41 1 reo Aurelio questo senso quadri benissimo in questo , luogo, meglio che non faccia quello di  inìquo. Dopo aver detto ANTONINO essere da pazzoy cioè a dire da stolto, il  volere che ì malvagi non pecchino; aggiunge che lo ammettere in tesi generale ed assoluta, poiché non si può fare  altrimenti, che essi debbano di neces-  sità peccare, e il volere ad un tempo  che essi facciano una eccezione a favor tuo, è cosa non solo às. stolto ma anche da tiranno: da stolto perchè l’eccezione, anche di un solo caso non è  possibile ai malvagi;.da tiranno perchè  vuoi esser distinto e che ti si abbia  maggior rispetto che agli altri uomini. Anche Gataker intende 1’ àyvwi^ov  così; iPierron segue lo Schultz. Parole di Epitteto malissimo interpretate da Pierron, che riferisce l’àiro OavTi al padre,  quando deve essere riferito al figliuolo, corno fece O., seguendo Gataker e Schultz. La medesima sentenza  si trova anche nel Manuale del medesimo Epitteto con parole poco diverse, e fu benissimo tradotta dal Leopardi. Se tu hacer<fi per avventura un tuo Jigliolino o la moglie, dirai teco stesso: io bacio un mortale. Manuale, Tutto è opinione. Il lettore com-  prenderà facilmente come il senso stoico  di questa frase, tante volte ripetuta  da Marco nostro, è al tutto alieno da  quello della famosa sentenza del sofista  Protagora: V uomo è misura di tutte le  cose. La sentenza del sofista si riferiva  ad ogni cosa, alla verità obbiettiva, alla  moralità come alla sensibilità, e tendea  quindi a distruggere la possibilità' di  ogni cognizione teorica, la morale come  la religione. La sentenza di Antonino al  contrario, il quale, per un errore direi  quasi magnanimo, riduceva, seguendo gli  stoici anteriori, tutta l’essenza dell’ uo-  mo alla ragione e alla volontà ragionevele, non si riforisce ad altro che alla  sensibilità, cioè ai piaceri e ai dolori  di cui essa sensibilità è soggetto. Intendi raziocinio nel senso proprio dei loici, cioè facoltà del sillogizzare, operazione propria dell’intelletto;  e nota qui il carattere esclusivo del  Portico, il quale considerava e stimava  un nulla, non che la sensibilità ma l’in-  telletto stesso, a paragone dei buon  uso della volontà, cioè della moralità  della ragione. Traducendo ho usato il vo-  cabolo raziocinio piuttosto che intelletto,  perchè in italiano il senso della parola  intelletto può essere troppo facilmente  confuso con quello di ragione, la differenza fra i due non essendo così ben determinata nella nostra lingua, come è fra i  due corrispondenti tedeschi Verstandnis e  Vernunft. Ornato. Keywords: implicatura, Antonino, ad seipsum, ricordi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ornato” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Oro: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Grice e Trissino – la difficoltà dei segni di Trissino non favorì la diffusione della sua filosofia – la scuola di Vicenza -- filosofia veneta -- filosofia italiana  (Vicenza). TRISSINO-DAL-VELLO-D’ORO -- or ORO (Vicenza).  Filosofo italiano. Vicenza, Veneto. Ritratto di Vincenzo Catena. Persona di spicco della cultura rinascimentale, notissimo al tempo, il Trissino incarnò perfettamente il modello dell'intellettuale universale di tradizione umanistica. Si interessò, infatti, di linguistica e di grammatica, di architettura e di filosofia, di musica e di teatro, di filologia e di traduzioni, di poesia e di metrica, di numismatica, di poliorcetica, e di molte altre discipline. Nota era, anche presso i contemporanei, la sua erudizione sterminata, specie per quel che riguarda la cultura e la lingua greche, sull'esempio delle quali voleva rimodellare la poesia italiana.  Fu anche un grande diplomatico e oratore politico in contatto con tutti i grandi intellettuali della sua epoca quali Niccolò Machiavelli, Luigi Alamanni, Giovanni di Bernardo Rucellai, Ludovico Ariosto, Pietro Bembo, Giambattista Giraldi Cinzio, Demetrio Calcondila, Niccolò Leoniceno, Pietro Aretino, il condottiero Cesare Trivulzio, Leone X, Clemente VII, Paolo III, e l'imperatore Carlo V d'Asburgo. Fu ambasciatore per conto del papato, della Repubblica di Venezia e degli Asburgo, di cui fu un fedelissimo, come tutta la sua famiglia da generazioni. Scoprì e protesse l'architetto Andrea Palladio, appena adolescente, nella sua villa di Cricoli, vicino Vicenza, che venne da lui portato nei suoi viaggi e fu da lui iniziato al culto della bellezza greca e delle opere di Marco Vitruvio Pollione. O. nacque da antica e nobile famiglia. Suo nonno Giangiorgio combatté nella prima metà Professoreil condottiero Niccolò Piccinino, che al servizio dei Visconti di Milano invase alcuni territori vicentini, e riconquistò la valle di Trissino, feudo avito. Suo padre Gaspare era anch'esso uomo d'armi e colonnello al servizio della Repubblica di Venezia e sposò Cecilia Bevilacqua, di nobile famiglia veronese. Ebbe un fratello, Girolamo, scomparso prematuramente, e tre sorelle: Antonia, Maddalena, andata in sposa al padovano Antonio degli Obizzi, ed Elisabetta, poi suor Febronia in San Pietro nel 1495 e dal 1518 rifondatrice insieme a Domicilla Thiene di San Silvestro.   Targa marmorea che Trissino fece realizzare a ricordo del suo maestro Demetrio Calcondila in S.Maria della Passione a Milano Trissino studiò greco a Milano sotto la guida del dotto bizantino Demetrio Calcondila, sodale di Marsilio Ficino, e poi filosofia a Ferrara sotto Niccolò Leoniceno. Da questi maestri imparò l'amore per i classici e la lingua greca, che tanta parte ebbero nel suo stile di vita. Alla morte di Calcondila, fece murare una targa nella chiesa di S.Maria della Passione a Milano, dove fu sepolto il suo maestro. Sposa Giovanna, figlia del giudice Francesco Trissino, lontana cugina, da cui ebbe cinque figli: Cecilia, Gaspare,  Francesco, Vincenzo e Giulio.  Trissino sostene l'Impero come istituzione, come d'altronde era tradizione nella sua famiglia da generazioni, ma ciò venne interpretato in spirito antiveneziano e, per questo, egli fu temporaneamente esiliato dalla Serenissima. Nel 1515, durante uno dei suoi viaggi in Germania, l'Imperatore Massimiliano I d'Asburgo lo autorizzò all'aggiunta del predicato "dal Vello d'Oro" al proprio cognome e alla relativa modifica dello stemma gentilizio (aurei velleris insigna quae gestare possis et valeas), che nella parte destra riporta su fondo azzurro un albero al naturale con fusto biforcato sul quale è posto un vello in oro, il tronco accollato da un serpente d'argento e con un nastro d'argento tra le foglie, caricato del motto "PAN TO ZHTOYMENON AΛΩTON" in lettere maiuscole greche nere, preso dai versi 110 e 111 dell'Edipo re di Sofocle che significa "Chi cerca trova", privilegi trasmissibili ai propri discendenti.   Stemma di Giangiorgio Trissino dal Vello d'Oro come appare nel volume dedicatogli da Castelli. In quegli stessi anni intraprese diversi viaggi tra Venezia, Bologna, Mantova, Milano (dove conobbe Trivulzio, comandante francese) e Padova (dove riscoprì il De vulgari eloquentia di Dante Alighieri). Poi si recò a Firenze ed entrò nel circolo degli Orti Oricellari (i giardini di Palazzo Rucellai) in cui si riunivano, in un clima di marca neoplatonica e di classicismo erudito, Machiavelli e i poeti Luigi Alamanni, Giovanni di Bernardo Rucellai ed altri. Qui il Trissino discusse il De vulgari eloquentia e compose la tragedia Sofonisba. Questi anni agli Orti Oricellari furono centrali, sia per quanto il poeta ricevette intellettualmente, sia per la forte impronta che lasciò sui suoi sodali: si vedano le tragedie di Giovanni di Bernardo Rucellai e il poemetto le Api (in endecasillabi sciolti, concluso dalle lodi del Trissino, cfr. il paragrafo sul Profilo religioso del Trissino) o le poesie pindariche di Luigi Alamanni, o ancora i punti di contatto fra le tante digressioni erudite sull'arte militare contenute nell'Italia liberata dai Goti che rimandano all'Arte della guerra del Machiavelli, elaborata proprio in quegli anni. Anzi, le idee linguistiche del poeta spronarono lo stesso Machiavelli a scrivere anche lui un Dialogo sulla lingua, nel quale difende l'uso del fiorentino moderno (cfr. il paragrafo Opere linguistiche).  In seguito si recò a Roma, dove stampò la Sofonisba -- dedicandola papa Leone X -- la prima tragedia regolare, e la famosa Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana (dedicata a Clemente VII), un arditissimo libello in cui si suggeriva l'inserimento nell'alfabeto latino di alcune lettere greche per segnalare alcune differenze di lettura. Intanto il figlio Giulio, di salute cagionevole, venne avviato dal padre alla carriera ecclesiastica e, dopo il suo soggiorno a Roma sempre presso papa a Clemente VII, divenne arciprete della cattedrale di Vicenza.  Sempre a Roma, O. diede alle stampe alcuni testi fondamentali: la versione riveduta della Epistola, la traduzione del De vulgari eloquentia, Il castellano (dialogo sulla lingua, dedicato a Cesare Trivulzio ed ispirato a quello dantesco), le Rime (dedicate al cardinale Niccolò Ridolfi) e le prime quattro parti della Poetica (il primo trattato ispirato alla Poetica di Aristotele, da poco riscoperta), con le quali il programma di riforma letteraria classicheggiante avviato con la Sofonisba può dirsi quasi concluso. Per i prossimi 20 anni il poeta non stamperà più nulla.  Queste opere sollevarono un grande clamore per la loro arditezza e disorientarono (o meglio: orientarono diversamente) la nascente letteratura italiana: nessuno aveva osato finora riformare addirittura l'alfabeto, né aveva avuto ardire di cancellare l'intero sistema dei generi in uso fin dal Medioevo (le sacre rappresentazioni e il poema cavalleresco, in primis) per farne sorgere dal nulla dei nuovi, cioè poi quelli antichi (la tragedia, la commedia e il poema epico). Da questi libelli prese avvio la secolare questione della lingua italiana. A Bologna, nel corso dell'incoronazione di Carlo V a Re d'Italia e Sacro Romano Imperatore, egli ebbe il privilegio di reggere il manto pontificale a Clemente VII e Carlo lo nominò conte palatino e cavaliere dell'Ordine Equestre della Milizia Aurata.  Secondo quanto riportato dallo storico Castellini, Trissino rifiutò posizioni di potere offertegli dai pontefici a seguito dei successi riportati come diplomatico (Nunzio e Legato), ad esempio l'arcivescovado di Napoli, il vescovado di Ferrara o la porpora cardinalizia, in quanto desideroso di una propria discendenza ed essendo il figlio Giulio avviato nella gerarchia ecclesiastica. Rientrato a Vicenza sposa Bianca, figlia del giudice Nicolò Trissino e di Caterina Verlati, già vedova di Alvise di Bartolomeo O. Da Bianca ebbe due figli: Ciro e Cecilia. Alla nomina di Ciro come erede universale, si scatenarono le ire di Giulio che per lungo tempo lottò in tribunale contro il padre e il fratellastro per poi morire in odore di eresia calvinista. Anche a seguito delle divergenze causate dai cattivi rapporti con Giulio, la coppia si divise quando Bianca si trasferì a Venezia, dove morì. Trissino manifestò il proprio fervente sostegno all'Impero dedicando, qualche anno prima della morte, a Carlo V il suo poema in 27 canti L'Italia liberata dai Goti, il primo poema regolare destinato, come si vede fin dal titolo, ad essere importante per la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso. Stampa anche la commedia I Simillimi, anch'essa la prima commedia regolare.  Villa O. di Cricoli (VI) Intanto nella villa di Cricoli alle porte di Vicenza, già dei Valmarana e dei Badoer e acquistata dal padre Gaspare, si radunava una delle più prestigiose Accademie vicentine. Qui Trissino scoprì uno dei più grandi talenti della storia dell'architettura, Andrea Palladio, di cui fu mentore e mecenate, che portò nei suoi viaggi con sé ed educò alla cultura greca e alle regole architettoniche di Marco Vitruvio Pollione.  Morì a Roma l'8 dicembre 1550 e fu sepolto nella Chiesa di Sant'Agata alla Suburra. Vennero alla luce le ultime due parti della sua Poetica, la quinta e la sesta (dedicate ad Antonio Perenoto, vescovo di Arras), che erano comunque già pronte, come si evince dalla chiusura della quarta parte. Progetta e attua una imponente riforma della lingua e della poesia italiane sui modelli classici, cioè la Poetica di Aristotele da poco riscoperta, i poemi di Omero, e le teorie linguistiche esposte di Alighieri nel “Della volgare eloquenza” riscoperto da lui stesso a Padova. Un programma in piena antitesi sia con la moda del petrarchismo di P. Bembo, sia con quella del romanzo cavalleresco incarnato supremamente dall' “Orlando furioso” di L. Ariosto, che allora infuriavano.  Il programma di riforma venne esposto attraverso saggi diversi, cioè un saggio di orto-grafia e di orto-fonetica (Epistola dele lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, dedicata a Clemente VII), un saggio di teoria della lingua italiana (Il castellano, dedicato a C. Trivulzio), due saggi di grammatica (“Dubbii grammaticali” e la “Grammatichetta”) e un manuale di teoria dei generi letterari (“Poetica”). Tali proposte (specie quella di modificare l'alfabeto inserendovi alcune lettere greche così da rendere visibili le differenti pronunce di alcune vocali e di alcune consonanti) e la riscoperta del “Della volgare eloquenza” di Aligheri) sono clamorosi e fa esplodere in Italia la secolare questione della lingua, idealmente chiusa da “I promessi sposi” di Manzoni.  Questa intensa speculazione teorica ha il suo sbocco fattuale in quattro saggi poetici, tutte molto importanti: la Sofonisba (dedicata a Leone X), la prima tragedia regolare della letteratura moderna (regolare si definisce un'opera costruita secondo le norme derivate dai testi classici, essenzialmente la Poetica di Aristotele e l'Ars poetica di Orazio), L'Italia liberata dai Goti (dedicata a Carlo V), il primo poema epico regolare, e I simillimi (dedicata al G. Farnese), la prima commedia regolare. Si aggiunga un volume di poesie d'amore e di encomio (Rime, dedicato a N. Ridolfi) di gusto anti-petrarchista e ispirato ai poeti siciliani, agli Stilnovisti, ad Aligheri e alla tradizione del Quattrocento, tutte cassate dal Bembo. Anche queste opere sollevarono un grande dibattito, ma saranno destinate ad avere un ruolo centrale nello sviluppo degl’umanita italiana ed europea, se si considera l'importanza che la tragedia e l'epica, ad esempio, hanno in tutta Europa. A lui si deve anche l'invenzione dell'endecasillabo sciolto (cioè senza rima) ad imitazione dell'esametro classico, anche questa un'invenzione destinata a fama europea. La sua produzione comprende diversi generi: innanzitutto un Architettura, incompleto, ricerche sulla numismatica, traduzioni, ed orazioni varie. Se ci si concentra solo sugli studi di teoria del linguaggio, si ha a che fare con pochi testi, ma tutti rilevantissimi, attraverso i quali struttura un coerente programma di riforma del linguaggio sui modelli classici e sul linguaggio d’Alighieri ispirato alla Poetica di Aristotele, ad Omero e al “Della volgare eloquenza”, un sistema da opporre sia alle Prose della volgar lingua del Bembo di qualche anno prima, che aveva dato come modelli solo Petrarca e Boccaccio (riducendo, quindi, i generi letterari solo alla lirica e alla novella), sia all'”Orlando furioso” di L. Ariosto, che è un romanzo cavalleresco e non un poema epico. Attraverso il proprio programma iverrà a creare una tradizione di gusto classico del tutto nuova che nei secoli a venire si affiancherà al bembismo sebbene agli inizi gli fu avversario. Il suo sistema iinfatti, vuole sopperire ai vuoti lasciati dal petrarchismo bembesco e proseguire lo sperimentalismo della tradizione antica e quattrocentesca (la cosiddetta docta varietas). Né egli e l'unico convinto di queste idee, come si dice ancora oltre, ma era affiancato da Speroni, Tasso (padre di Torquato), Brocardo, Tolomei, Colocci, Equicola e altri ancora.  Volendo sintetizzare, le sue opere si raccolgono intorno a tre date:  Dà alle stampe a Roma la tragedia “Sofonisba” (composta prima agli Orti Oricellari) e l'Epistola sulle lettere da aggiungere all'alfabeto. Tutte le sue opere stampate in vita sono scritte secondo l'alfabeto da lui congegnato e non con l'alfabeto usuale. Vengono date alle stampe sei opera: “Della volgare eloquenza”, le prime IV parti della Poetica, il dialogo “Il castellano, le Rime, i Dubbi grammaticali e la Grammatichetta.  Dà alla luce il poema L'Italia liberata dai Goti, e la commedia I simillini. Passeremo in rassegna le principali opere poetiche, tranne gli Scritti linguistici, che hanno un paragrafo apposito. La Sofonisba è in assoluto la prima tragedia regolare della letteratura europea, destinata a vasta fortuna specie in Francia. Secondo il modello antico, Trissino compone una tragedia in endecasillabi sciolti, che imitano i trimetri giambici (il verso a questa data fa la sua prima apparizione), divisa in quadri da cori rimati: alcuni cori sono canzoni petrarchesche mentre altri, invece, canzoni pindariche (che fanno anch'esse qui la loro prima apparizione e si ritroveranno nella poesia di Luigi Alamanni e poi ancora di Gabriello Chiabrera). L'argomento (con sensibile differenza dai classici antichi) è storico (preso da Tito Livio), non fantastico, mitico o biblico. L'azione, come poi sarà canonico nel teatro regolare, si svolge nello stesso posto (unità di luogo) e nello stesso giorno (unità di tempo) e prevede in scena un numero limitato di persone. Venne recitata durante il carnevale di Vicenza, messa in scena dall'amico e allievo Andrea Palladio. La proposta piacque, tutto sommato, e riscosse successo: l'endecasillabo sciolto, metro nuovo, fu approvato anche dal Bembo (come ricorda Giraldi Cinzio) e divenne da allora in poi il metro quasi canonico del teatro italiano, specie tragico (vedi sotto). Anche nelle Rime si mostra uno sperimentatore e il Petrarca, modello obbligatorio a prescindere dal Bembo, si fonde con immagini derivanti da altre epoche e da altri autori, in special modo la poesia occitana, quella siciliana, gli stilnovisti e Dante, i poeti quattrocenteschi. Nel sistema del Trissino è possibile usare ancora metri come, ad esempio, i sirventesi e le ballate (cassati dal Bembo) o anche introdurre particolari nuovi come gli occhi neri di guaiaco della donna amata, immagine inventata dal poeta su un referente quotidiano della cultura cinquecentesca e non in linea con le immagini tipiche del Petrarca (occhi di stelle e simili).  Il Castellano è un dialogo sulla lingua dedicato a Cesare Trivulzio, comandante francese a Milano. Si ambienta a Castel Sant'Angelo e ha per protagonisti Giovanni di Bernardo Rucellai (il castellano, appunto) e Strozzi, amici degli Orti Oricellari. Il Trissino espone per bocca del Rucellai il suo ideale linguistico, preso dal De vulgari eloquentia, cioè quello di un volgare illustre o cortigiano, mobile ed aperto, fondato in parte sull'uso moderno e concreto della lingua, e in parte sugli autori della tradizione letteraria. Questi autori sono soprattutto Dante e Omero poiché dotati di enargia, cioè della capacità di rendere visibili a parole ciò di cui stanno narrando. Le idee linguistiche del Trissino sollevarono grande clamore (fondate com'erano su un testo la cui paternità dantesca non era ancora assicurata) e fecero scoppiare il secolare 'dibattito sulla lingua italiana' concluso, come detto, almeno idealmente, dal Manzoni tre secoli dopo. Fra i molti che parteciparono al dibattito si ricordi il fiorentino Machiavelli al quale il Trissino aveva letto il De vulgari eloquentia sempre agli Orti Oricellari, il Bembo, ovviamente, Sperone Speroni, Baldassarre Castiglione.  Poetica Le teorie che soggiacciono a questo vasto programma vengono esposte nella Poetica, libro fondamentale non solo per il Trissino, essendo in assoluto il primo libro di poetica in Europa ad essere modellato sulla Poetica di Aristotele, destinato a fama secolare in tutto il continente. Né banale né senza rischi era, come potrebbe apparire, l'idea di resuscitare dei generi letterari di fatto morti da millenni e lontani per gusto e ispirazione dalla società rinascimentale.  Sul piano linguistico immagina una lingua di ispirazione dantesca e omerica, cortigiana e illustre, che contempli l'innovazione e la tradizione, che sia aperta a una collaborazione ideale fra varie regioni italiane e non sul predominio esclusivo del toscano trecentesco, che ottemperi anche l'inserimento di neologismi e di dialettismi.  Nella poesia lirica si appoggia, sempre dietro Dante, alla tradizione occitana, siciliana, stilnovista e dantesca e anche petrarchesca. Nella metrica saccheggia ampiamente il trecentesco Antonio da Tempo che ancora contempla ballate e sirventesi, generi cassati dal Bembo, come detto, e si mostra vicino allo sperimentalismo della poesia quattrocentesca. Discorre, inoltre, della possibilità di utilizzare in italiano metri di stile greco e latino, come fatto da lui nei cori della Sofonisba, proposta che avrà grande successo nei secoli a venire, specie nella poesia per musica e nel melodramma.  Discorre poi della tragedia, della commedia, dell'ecloga teocritea e del poema omerico, i generi resuscitati dal mondo classico. A ogni genere vengono date ovviamente le proprie regole tratte da Aristotele, cioè le unità di tempo e di luogo, per la tragedia e la commedia, e le unità narrative, per il poema epico. Vengono quindi stabilite le nette differenze fra il romanzo cavalleresco e il poema epico. Mentre il romanzo cavalleresco narra una vicenda fantastica costituita dall'intreccio di molte storie diverse (alcune delle quali destinate a non chiudersi nel poema poiché non necessarie alla conclusione generale della vicenda), nel poema epico, invece, la vicenda dovrà essere di matrice storica e dovrà essere unitaria e conclusa: essa cioè dovrà venire raccontata dall'inizio alla fine, e i pochi protagonisti dovranno ruotare tutti attorno ad essa, tutti per un solo scopo, e le loro vicende dovranno venire concluse entro l'arco del poema, non lasciando nulla in sospeso. Il genere epico, inoltre, secondo una caratteristica che gli diventerà propria, viene dal Trissino investito di un alto valore morale e politico, profondamente pedagogico, ignoto al romanzo, che lo trasformano in un percorso di formazione morale e culturale.  Per questi tre generi nuovi, il poeta propone l'endecasillabo sciolto, corrispettivo moderno dell'esametro e del trimetro giambico classici (vedi paragrafi sottostanti).  Sul piano dello stile e dei registri il poeta rimanda alle teorie dei greci Demetrio Falereo e di Dionigi di Alicarnasso, che ponevano come vertice dello stile poetico l'energia, cioè la capacità di rappresentare visivamente con le parole le cose di cui s sta narrando, prerogativa, per il Trissino, dello stile di Omero e Dante. Sempre dietro Demetrio e Dionigi, divide la lingua italiana in quattro registri stilistici e non tre, come voluto dalla tradizione medievale e bembesca (la cosiddetta rota Vergilii, secondo la quale esistono 3 registri stilistici soltanto: quello basso, esemplificato dalle Bucoliche, quello medio dalle Georgiche, e quello alto o tragico dell'Eneide). Questo veniva a reimpostare daccapo i rapporti ormai consolidati fra genere letterario e registro stilistico, e fu una novità che avrebbe causato non poco l'insuccesso di un poeta il cui punto debole fu proprio lo stile. Tornò in scena con L'Italia liberata da' Gotthi, un vastissimo poema di endecasillabi sciolti in 27 canti, iniziato intorno nell'età di Papa Leone X. Esso è di fatto il primo poema epico moderno e sarà destinato, come la Sofonisba, a inaugurare un genere del tutto nuovo, in dichiarata antitesi alla tradizione medievale del romanzo cavalleresco che in quegli anni stava sfondando con Ariosto.  L'idea che soggiace alla composizione dell'opera è illustrata nella famosa Dedica a Carlo V che precede il poema, dove O. dichiara di essersi ispirato ovviamente ad Aristotele e all'Iliade di Omero. Con la guida di Omero e di Demetrio Falereo (e non di Dante, si noti), inoltre, reclama l'uso di un volgare illustre che contempli l'inserimento di voci dialettali, arcaiche o anche latine e greche, come infatti nel poema avviene. Come detto più volte, inoltre, lo scopo del poema è 'ammaestrare l'imperatore', non solo attraverso dei modelli cavallereschi, ma anche attraverso conoscenze tecniche di architettura, arte militare e via di seguito.  Il poema è ligio, insomma, a quanto stabilito nella Poetica: la trama è tratta da un accadimento storico cioè la guerra gotica tra l'imperatore bizantino Giustiniano I e gli Ostrogoti che occuparono l'Italia (per la quale il poeta segue lo storico bizantino Procopio di Cesarea), che viene raccontata dall'inizio alla fine, e i (relativamente) pochi protagonisti ruotano attorno ad essa. I personaggi, a loro volta, saranno specchio di altrettanti vizi e virtù da correggere, in questa crociata che sarebbe anche un percorso di formazione bellica e morale del suo lettore ideale, cioè Carlo V stesso. Il poema, atteso da vent'anni dai dotti italiani, fu uno dei più clamorosi fiaschi della storia letteraria italiana, come noto, anche se ebbe un impatto profondissimo. Critiche violente vennero da Giambattista Giraldi Cinzio (che ne parla nei suoi Romanzi) e da Francesco Bolognetti, ma non solo. I quali derisero il poema per la sua imitazione pedissequa dei valori dell'eroismo classico (grandezza e generosità d'animo, nobiltà e gloria), per l'attenzione estrema alla corretta applicazione delle regole aristoteliche, più che alla fluidità della narrazione o al dare un rilievo psicologico ai personaggi, assolutamente frontali. Inoltre, la ripresa parola per parola del modello omerico (ma in generale di tutte le moltissime fonti tradotte dal poeta) fu ritenuta noiosa, e la solennità dell'argomento venne a scontrarsi con la prosaicità dello stile trissiniano, del metro senza rima costruito in maniera formulare (come quello di Omero ovviamente) che rende il dettato fiacco e stereotipato. I lunghi intervalli eruditi, inoltre, in cui il poeta si dilunga nelle descrizioni degli accampamenti, dei monumenti della Roma medievale, di città, architetture, armature, eserciti, giardini, mappe geografiche dell'Italia, precetti morali, massime e apologhi eruditi e via di seguito, soffocano la narrazione epica (nella prima edizione il poema è addirittura corredato da tre cartine geografiche) e rendono il poema di difficile lettura.  Ciò non toglie, tuttavia, che l'Italia liberata abbia un posto di rilievo nella letteratura: la visione di un mondo superiore di eroi solenni e composti nella dignità del loro ideale e della loro missione, tipicamente aristocratici, anticipava le preoccupazioni morali della Controriforma.  Sarà proprio alla fine del secolo, infatti, che il poema trissiniano avrà la sua fortuna, col Tasso ma non solo.  “I simillimi” w l'ultima opera stampata dal poeta e i modelli sono indicati da lui stesso nella dedica a Farnese: Aristofane e la Commedia antica -- Menandro è stato riscoperto solo nel Novecento) -- sul modello della quale il Trissino ha fornito la favola dei cori (con l'appoggio anche dell'Arte poetica di Orazio) ma non del prologo. Dichiarata è anche l'ascendenza da Plauto (essenzialmente i Menecmi). Il testo è costruito in versi sciolti, ovviamente, mentre i cori sono costituiti anche da settenari e sono rimati.Le opere linguistiche  Frontespizio del Castellano di Giangiorgio Trissino, stampato con lettere aggiunte all'alfabeto italiano da quello Greco. I suoi saggi di filosofia del linguaggio sono essenzialmente quattro: l'Epistola, Castellano, Dubbi, Grammatichetta, oltre, ovviamente la Poetica. Accese discussioni suscita il suo esordio letterario, cioè la proposta di ri-formare l'alfabeto classico italiano, di radice latina – Lazio -- contenute nell' “Ɛpistola del Trissinω” delle lettere nuωvamente aggiunte nella lingua italiana”, dove suggerisce l'adozione di grafia dell’abecedario di vocali e consonanti della fonologia greca al fine di “dis-ambiguare” un segno diversi resi allora, e ancor oggi, con il medesimo segno grafico: e e o aperte (“ε” ed “ω”) e chiuse, z sorda e “z” sonora (“ζ”) – “Speranζa” -- nonché la distinzione dell’“i” e dell’ “u” con valore di vocale (i, u), o di consonante (j, v).  Ri-propone questa idea, sebbene ricorrendo a segni diverse, anche l'accademico della Crusca (cruschense) Salvini, sempre senza successo. Accolta fu nei secoli a venire, invece, la sua proposta di utilizzare la “z” al posto della “t” nelle vocaboli latini che finiscono in “-tione” (implicatione > “implicazione” -- oratione > orazione) e di distinguere sistematicamente il segno “u” dal signo “v” (uita > “vita”)  I punti principali dell'abecedario riformato sono i seguenti: carattere fonema Distinto da Pronuncia “Ɛ”, “ε”; E aperta [ɛ] E e E chiusa [e] “Ω” “ω” O aperta [ɔ] O o O chiusa [o] V v V con valore di consonante [v] U u U con valore di vocale [u] J j con valore di consonante J [j] I iI con valore di vocale [i] “Ӡ” “SPERANӠA” “ç” – Sperança -- Z sonora [dz] Z z Z sorda [ts]. Tali idee vengono confermate. Nel Castellano, propone il modello di una lingua cortigiana-italiana formata dagli elementi comuni a tutte le parlate dei letterati della penisola, non solo nel lessico ma anche al livello della fonetica (visibile ormai grazie al suo abecedario ri-formato). La sua teoria si appoggia ad Omero e soprattutto alla sua traduzione del “De vulgari eloquentia”, e vede amplificata nella “Poetica”, in riferimento a tutti i generi letterari, ed e illustrata materialmente nella sua Grammatichetta messa a disposizione da Trissino stesso e i Dubbi grammaticali. Alla sua tesi si dimostrano particolarmente ostili i toscani, ovviamente, visto che Aligheri stesso asserisce nel trattato che il toscano non è il volgare illustre. Tra di essi spicca il Machiavelli, come accennato, che compose un “Dialogo sulla lingua” nel quale reclama la specificità del fiorentino in opposizione a Bembo e anche a Trissino, che nella grammatica di base parte sempre dalla lingua letteraria, anche perché l'unica in grado di assicurare a livelli profondi una similarità fra i vari parlari italiani. Un esempio: se nel toscano di Poliziano è normale usare “lui” in funzione di soggetto, Bembo invece rispolvera “egli” e lo stesso fa Trissino. Machiavelli, invece, difende l'uso di “lui”, normale a Firenze. La riforma trissiniana dei segni dell’abecedario italiano, applicata sistematicamente da lui in tutti i suoi saggi (anche negli appunti!), è un prezioso documento delle differenze di pronuncia tra il tosco toscano e la lingua cortigiana, fra la lingua letteraria e la corretta pronounia Nordica (e vicentino) perché applica i propri criteri nel pubblicare i suoi saggi o nell'interpretare alcuni segni del toscano. La conseguente maggior difficoltà non favoresce la diffusione della sua filosofia e porta diverse critiche da parte dei filosofi suoi contemporanei. Sebbene sia noto come esegeta aristotelico, il Trissino si era formato, invece, sul finire del Quattrocento e nei primi del Cinquecento nelle capitali culturali italiane sature di cultura neoplatonica e mistica: non ci riferiamo solo agli anni a Milano presso il Calcondila (amico di Marsilio Ficino) o a Ferrara presso il Leoniceno, ma soprattutto a quelli trascorsi agli Orti Oricellari fiorentini e nella Roma di Leone X, figlio di Lorenzo de' Medici. Importanti sono i due ritratti che ci vengono lasciati da due contemporanei. Il primo è il quello di Giovanni di B.  Rucellai, che nel poemetto in versi sciolti Le api, dopo aver discusso dell’armonia cosmica e della dottrina ermetico-platonica dell’Anima Mundi, specifica: «Questo sì bello e sì alto pensiero / tu primamente rivocasti in luce / come in cospetto degli umani ingegni O., con tua chiara e viva voce, tu primo i gran supplicii d’Acheronte ponesti sotto i ben fondati piedi / scacciando la ignoranza dei mortali». Insomma il Trissino viene riconosciuto come un interprete del pensiero platonico e, si direbbe, democriteo. Il secondo, invece, riguarda le esposizioni rilasciate al'Inquisizione, dopo la morte del poeta, da parte del Checcozzi, il quale dichiara che il Trissino «faceva discendere le anime umane dalle stelle ne’ corpi e diede a divedere come i passaggi di quelle di pianeta in pianeta fossero stimate altrettante morti e dicesse essere pene infernali non le retribuzioni della vita futura ma le passioni e i vizi» (in B. Morsolin, O.. Monografia di un gentiluomo letterato, Firenze, Le Monnier). A questo si aggiungano ancora la ripetuta ammissione di credere nella salvezza per sola Grazia (Morsolin, confermata nell'Epistola a Marcantonio da Mula), cioè di essere a rigore un luterano, e la lunga requisitoria contro il clero corrotto contenuta contenuta nell'Italia liberata, requisitoria che però, come rilevato da Maurizio Vitale (in L'omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla lingua dell'«Italia liberata da' Gotthi», Istituto Veneto di Scienze ed Arti, ), non figura in tutte le stampe del poema ma solo in quelle indirizzate forse in Germania.  Anche quindi, auspicava un riordino interno della Chiesa e una sua restaurazione morale, in linea con il generale movimento di riforma che scoppio' nel Rinascimento, con Lutero, Erasmo etc.... senza per questo farne un luterano in senso stretto. Insomma, è un tipico esponente della tradizione religiosa pre-tridentina, in cui il fervido sostegno alla Chiesa romana e la vicinanza coi papi non escludono forti iniezioni di filosofia idealista e della scuola di Crotone, di stoicismo e di astrologia, di tradizione bizantina e millenarismo, in cui Erasmo da Rotterdam, M.Lutero, Agrippa von Nettesheim, Pico, Ficino si fondono in una forma religiosa eclettica e ancora tollerata prima dell'apertura del Concilio di Trento. Le persecuzioni inizieranno dopo la sua morte  e vi verrà coinvolto, invece, il figlio Giulio, vicino al calvinismo, che subirà l'Inquisizione.  Il suo poema, una vera enciclopedia dello scibile, è molto interessante a riguardo, e queste venature di pensiero religioso inquiete ed eclettiche sono evidenti in maniera palese. Si ricordino gl’angeli che portano nomi di divinità pagane -- Palladio, Onerio, Venereo etc... -- e che non sono altro che allegorie delle facoltà umane o delle potenze naturali (Nettunio, angelo delle acque, ad esempio, o Vulcano come metonimia del fuoco) come indicato nel De Daemonius di M. Psello e nel pensiero idealista o accademico. E questo uno dei punti più bersagliati dai critici contro lui, per primo, ancora una volta, Cinzio. Di Palladio cura soprattutto la formazione di architetto inteso come filosofo umanista. Questa concezione risulta alquanto insolita in quell'epoca, nella quale all'architetto era demandato un compito preminentemente di tecnico specializzato. Non si può capire la formazione filosofica ed umanistica e di tecnico specializzato della costruzione dell'architetto Andrea della Gondola, senza l'intuito, l'aiuto e la protezione di lui. È lui a credere nel giovane lapicida che lavora in modo diverso e che aspira a una innovazione totale nel realizzare le tante opere. Gli cambia il nome in Palladio, come l'angelo liberatore e vittorioso presente nel suo poema L'Italia liberata dai Goti. Secondo la tradizione, l'incontro tra lui e Gondola ha nel cantiere della villa di Cricoli, nella zona nord fuori della città di Vicenza, che in quegli anni sta per essere ristrutturata secondo i canoni dell'architettura classica. La passione per l'arte e la cultura in senso totale sono alla base di questo scambio di idee ed esperienze che si rivela fondamentale per la preziosa collaborazione tra i due "grandi". Da lì avrà inizio la grande trasformazione dell'allievo di G. Pittoni e Giacomo da Porlezza nel celebrato Andrea Palladio. E proprio lui a condurlo a Roma nei suoi viaggi di formazione a contatto con il mondo classico e ad avviare il futuro genio dell'architettura a raggiungere le vette più ardite di un'innovazione a livello mondiale, riconosciuta ed apprezzata ancora oggi. Il sistema letterario inventato dal lui non e il solo tentativo di preservare un rapporto diretto con la cultura degl’antichi con Aligheri e con l'umanesimo del Quattrocento, che il sistema bembiano esclude. Molti altri condividevano le sue idee, infatti, come A. Brocardo, B. Tasso, anche loro intenti a inventare nuovi metri su imitazione dei classici. Tuttavia, se si eccettua forse S. Speroni, e uno dei pochi che struttura nella sua Poetica un sistema totale, onni-comprensivo, aristotelico in senso pieno, dove ogni genere è regolato in maniera specifica; e questo gli permette di essere un punto di riferimento privilegiato.  Bisogna fare a questo punto una distinzione essenziale fra le sue produzione filosofica e le sue teorie letterarie. Le opere poetiche, forse con la sola eccezione della Sofonisba e delle Rime, sono notoriamente brute. Lo stile è fiacco e prosaico e la narrazione dispersa in mille meandri eruditi, ragione per cui furono conosciute da tutti, lette e ammirate, ma non apprezzate né imitate dal punto di vista stilistico. L’invenzione del verso sciolto, che e centrale nella storia letteraria europea, infatti, non e destinata a fiorire con lui ma solo alla fine del secolo perché venisse accettata entro un poema di genere e di stile alto come quello epico. La sua filosofia, invece, trova un successo secolare, non solo in Italia ma in molti paesi europei specie nel Settecento, con la nuova moda del classicismo. Questo specie per quel che riguarda i due generi principali del mondo degl’antichi, la tragedia e l'epica, e con essi anche il verso sciolto. In Italia si può dire che ha grande fortuna col verso sciolto e col poema epico, ma minore col teatro tragico. La Sofonisba, quando usce, non era in Italia l'unica tragedia di imitazione antica, anche se era la prima: vi erano, infatti, anche quelle di Giovanni di Bernardo Rucellai, composte sempre agli Orti Oricellari. Ma la tragedia ispirata ai modelli antici non trovò terreno in Italia e fu soppiantata presto, già a metà del secolo, da quella 'alla latina' -- cioè piena di fantasmi, conflitti, colpi di scena e sangue, shakespeariana insomma), riportata in auge a Ferrara dalle Orbecche di Giambattista Giraldi Cinzio -- una linea di gusto che, alla fine del Cinquecento e nel Seicento, si sposerà in pieno col teatro gesuita, di ispirazione anche esso stoica e senecana.  Non così nell'epica e nel verso sciolto. Il poema del Trissino è nominato infatti da tutti i principali autori epici dell'epoca (e spesso in mala fede), da Bernardo Tasso (intento anche lui alla realizzazione del poema Amadigi, che nella prima stesura era in versi sciolti) e Giambattista Giraldi Cinzio (che compose contro l'Italia liberata il volume Dei romanzi), F. Bolognetti e via via fino a Tasso. Quest'ultimo parla spesso dell'Italia liberata nei Discorsi del poema eroico e, sebbene ne rilevi i limiti, la tiene presente chiaramente come modello teorico e anche in molti passaggi della Gerusalemme liberata (fra cui la famosa morte di Clorinda, ripresa da quella dell'amazzone Nicandra, ad esempio). Vale la pena specificare che il titolo di “Gerusalemme liberate”, infatti, non fu deciso dal Tasso (che nei Discorsi chiama sempre il suo poema “Goffredo”), ma dallo stampatore A. Ingegneri, che doveva aver notato la somiglianza dell'opera tassiana col poema trissiniano.  Mentre nel Rinascimento i critici iniziavano a discutere dei rapporti fra poesia epica e romanzo cavalleresco, si assiste a un lento processo di 'acclimatazione' del verso sciolto nei poemi narrativi. Dapprima viene usato nei generi minori, come le ecloghe pastorali, i poemetti georgici, gli idilli o le traduzioni, ma alla fine del secolo sarà impiegato in opere imponenti come l'”Eneide” di Caro, o nel poema sacro del Mondo creato di Tasso, o nello stile fastoso dello Stato rustico di G. Imperiale o quello classico di Chiabrera  in pieno Barocco. Anzi, proprio Chiabrera (non a caso allievo di Speroni) si può dire che sia il suo grande erede, animato come lui dal desiderio di riformare la metrica e di ricreare i generi letterari sui modelli classici. La Poetica è citata dal Chiabrera in punti importanti, sia in difesa del verso sciolto, sia dei generi metrici non bembeschi o nuovi, sia, implicitamente, nella ripresa del mito di Dante e di Omero (cfr. il paragrafo apposito in Chiabrera). O. ebbe ancora fortuna anche nel XVIII secolo, con l'edizione in due volumi Scipione Maffei di Tutte le opere (Verona, Vallarsi, ancora oggi punto di riferimento indispensabile), e con nove tragedie intitolate Sofonisba, una delle quali d’Alfieri. Grande fu l'influenza anche nel melodramma: si contano ben quattordici Sofonisba, una delle quali di Gluck e uno di Caldara. Ma a parte la fortuna della Sofonisba, considerando che la riforma poetica dell'Accademia dell'Arcadia si ispira dichiaratamente alla poesia e alla metrica del Chiabrera, possiamo dire che il Trissino sia stato uno dei fondatori della poesia arcadica e capostipite di una tradizione letteraria, anche quella del melodramma settecentesco. Non a caso è uno degli autori più presenti nella ragion poetica di Gravina, maestro del giovane Metastasio, la cui prima opera sarà la tragedia Giustino, una riproposizione quasi parola per parola del III canto dell'Italia liberata dove si narrano gli amori di Giustino e di Sofia. PCastelli dedica la poeta una intera monografia (La vita di Giovangiorgio Trissino oratore e poeta). Si può dire, quindi, che non solo nell'epica il Trissino abbia avuto fortuna, ma anche nel teatro italiano, anche se nelle forme del melodramma e non quelle della tragedia, come tipico della tradizione italiana. Questo grazie, soprattutto, alla mediazione del Chiabrera, che seppe rendere le forme metriche del Trissino (prima fra tutte il verso sciolto) di insuperabile eleganza.  Nell'Ottocento si ricordino l'Iliade di Vincenzo Monti e l'Odissea di Ippolito Pindemonte, che proseguono la grande storia del verso sciolto nella traduzione italiana, e le considerazioni di tre grandi scrittori. Il primo è Manzoni che, meditando sul romanzo storico, rifletté anche sui rapporti fra creazione poetica e verosimiglianza storica date da Aristotele nello scritto Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione. Il secondo è Carducci che stronca  il poema ne I poemi minori del Tasso (in L’Ariosto e il Tasso) e il terzo è B. Morsolin che compose la biografia del poeta (Giangiorgio Trissino o monografia di un letterato) che ancora oggi è indispensabile.Francia In Francia, invece, si assiste in un certo senso alla situazione opposta e le teorie del Trissino trovarono vasta eco più nel teatro che nel poema epico, questo anche perché in generale il teatro classico francese ha sempre prediletto i modelli greci ai latini e il teatro, in genere, al melodramma. Nel teatro francese l'influenza della Sofonisba sarà forte: la prima rappresentazione documentata in francese è nel castello di Blois, davanti alla corte della regina, Caterina de' Medici, non a caso una fiorentina. La corte di Francia era già abituata d'altronde alla poesia italiana di stile classico da almeno trent'anni, dopo il soggiorno presso Francesco I di Francia di Luigi Alamanni. Da qui in poi si conteranno otto Sofonisba fino alla fine del Settecento, una delle quali di Pierre Corneille. Non così invece nell'epica, genere che in Francia trovò poco seguito, e nel verso sciolto, che non si acclimatò mai nella poesia francese, poco adatta per suo ritmo naturale a un verso senza rima. Il Voltaire, che amava l'Ariosto, ricorda l'Italia liberata nel suo Saggio sulla poesia epica più che altro per rilevare le pecche del poema. In Inghilterra si ricorda la fortuna del verso sciolto (blank verse) che avrà la sua consacrazione nel Paradiso perduto di Milton, e le lodi tributate al Trissino da Pope nel prologo alla Sofonisba di Thomson. In Germania si ricordano tre Sofonisba. Anche Goethe possede una copia delle Rime trissiniane  Opere: “Sofonisba, tragedia Ɛpistola del Trissino de le lettere nuωvamente aggiunte ne la lingua Italiana; De vulgari eloquentia di Alighieri; traduzione Il castellano, dialogo: Daelli; Poetica; Dubbi grammaticali; Grammatichetta; L'Italia liberata dai Goti, poema epico I simillimi, commedia Galleria d'immagini  Gian Giorgio Trissinoincisione da Tutte le opere non più pubblicate di Giovan Giorgio Trissino, Miniatura di O.. Incisione da Castelli La vita di Giovangiorgio Trissino, Targa a O., in piazza Gian Giorgio Trissino. Targa posta sulla casa natale di Gian Giorgio Trissino, in corso Fogazzaro 15 a Vicenza, opera di Bartolomeo Bongiovanni.Medaglione posto nel salone di Palazzo Venturi Ginori, a Firenze, raffigurante Giovan Giorgio Trissino, membro dell'Accademia Neoplatonica che lì ebbe sede.  Bernardo Morsolin O. o Monografia di un letterato del secolo XVI, Pierfilippo Castelli, La Vita di Giovan Giorgio Trissino. Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato del secolo XVI,Margaret Binotto, La chiesa e il convento dei santi Filippo e Giacomo a Vicenza, Pierfilippo Castelli, La Vita di Giovan Giorgio Trissino, Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato. L'incisione recita: DEMETRIO CHALCONDYLÆ ATHENIENSIIN STUDIIS LITERARUM GRÆCARUM EMINENTISSIMOQUI VIXIT ANNOS MENS. VET OBIIT  JOANNES O. GASP. FILIUS PRÆCEPTORI OPTIMO ET SANCTISSIMOPOSUIT. Castelli, La Vita d’O, ernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato; Morsolin O. o Monografia di un letterato del secolo XVI, Giambattista Nicolini, Vita di Giangiorgio Trissino, Nell'originale sofocleo "τὸ δὲ ζητούμενον ἁλωτόν", letteralmente "ciò che si cerca, si può cogliere".  Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato, Pierfilippo Castelli, La vita di Giovan Giorgio Trissino, Pierfilippo Castelli, La vita, Antonio Magrini, Reminiscenze Vicentine della Casa di Savoia. Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato. Bernardo Morsolin, O. o Monografia di un letterato, Silvestro Castellini, Storia della città di Vicenza.  Castelli, La vita d’O, nota. Morsolin, O. o Monografia di un letterato del secolo XVI, 1Come i saggi di Lucien Faggion ricordano, per preservare il patrimonio famigliare non era inusuale sposare cugini di altri rami della medesima famiglia.  La decisione di scegliere Ciro come proprio erede ebbe ripercussioni drammatiche per diverso tempo. Oltre al trascinarsi della causa civile intentata da Giulio al padre e a Ciro, nacque una vera e propria faida tra i discendenti Trissino dal Vello d'Oro e i parenti del ramo dei Trissino più prossimo alla prima moglie, Giovanna. Le voci che fecero risalire a Ciro la denuncia anonima alla Santa Inquisizione delle simpatie protestanti, spinsero Giulio Cesare, nipote di Giovanna, a uccidere Ciro a Cornedo nel 1576, davanti a Marcantonio, uno dei suoi figli. Quest'ultimo decise di vendicare il padre, accoltellando a morte Giulio Cesare che usciva dalla cattedrale di Vicenza il venerdì santo del 1583. R. Trissino, altro avversario dei Trissino dal Vello d'Oro, s'introdusse nella casa di Pompeo, primogenito di Ciro, e ne uccise la moglie, Isabella Bissari, e il figlioletto Marcantonio, nato da poco. Si vedano al proposito vari saggi sull'argomento di Lucien Faggion, tra cui Les femmes, la famille et le devoir de mémoire: les Trissino aux XVIe et XVIIe siècles. Dovette affrontare una causa civile intentatagli dai Valmarana: negli ultimi decenni ProfessoreAlvise di Paolo Valmarana perse villa e tenuta, giocandosele col patrizio Orso Badoer, che rivendette la proprietà a Gaspare Trissino. Gli eredi Valmarana tentarono di riprendersela ipotizzando un vizio all'origine, ma il tribunale diede ragione ai diritti del Trissino. Si veda Lucien Faggion, Justice civile, témoins et mémoire aristocratique: les Trissino, les Valmarana et Cricoli au XVIe siècle,.  Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato del secolo XVI, voce O. nel sito Treccani L'Enciclopedia Italiana. Achille, Trissino, Giangiorgio, in L'Enciclopedia dell'Italiano.  "Palladio" è anche un riferimento indiretto alla mitologia greca: Pallade Atena era la dea della sapienza, particolarmente della saggezza, della tessitura, delle arti e, presumibilmente, degli aspetti più nobili della guerra; Pallade, a sua volta, è un'ambigua figura mitologica, talvolta maschio talvolta femmina che, al di fuori della sua relazione con la dea, è citata soltanto nell'Eneide di Virgilio. Ma è stata avanzata anche l'ipotesi che il nome possa avere un'origine numerologica che rimanda al nome di Vitruvio, vedi Paolo Portoghesi, La mano di Palladio, Torino, Allemandi, Dal volantino della mostra dedicata a O., in occasione dell’anniversario della promulgazione dello Statuto del Comune, organizzata dalla Provincia di Vicenza, Comune di Trissino e Pro Loco di Trissino.  L. Cicognara, Storia della scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova, Giachetti, Losanna, 1824. Sull'autore in generale si vedano almeno tre testi fondamentali:  Pierfilippo Castelli, La vita di Giovangiorgio Trissino, oratore e poeta, ed. Giovanni Radici, Venezia, Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o monografia di un letterato del secolo XVI, Firenze, Le Monnier, Atti del Convegno di Studi su Giangiorgio Trissino, Vicenza); Pozza, Vicenza, Neri Pozza, Sulla Sofonisba:  E. Bonora La "Sofonisba" del Trissino, Storia Lettaliana, Garzanti, Milano, M. Ariani, Utopia e storia nella Sofonisba di Giangiorgio Trissino, in Tra Classicismo e Manierismo, Firenze, Olschki, C. Musumarra, La Sofonisba ovvero della libertà, «Italianistica», Sulle Rime:  A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella tradizione del classicismo, Ferrara, Panini, C. Mazzoleni, L’ultimo manoscritto delle Rime di Giovan Giorgio Trissino, in Per Cesare Bozzetti. Studi di letteratura e filologia italiana, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Sull'Italia liberata si vedano almeno (in ordine di stampa):  F. Ermini, L’Italia liberata dai Goti di Giangiorgio Trissino. Contributo alla storia dell’epopea italiana, Roma, Romana, A. Belloni, Il poema epico e mitologico, Milano, Vallardi, Ettore Bonora, L'"Italia Liberata" del Trissino,Storia della Lett. italiana,Milano, Garzanti, Marcello Aurigemma, Letteratura epica e didascalica, in Letteratura italiana,  IV, Il Cinquecento. Dal Rinascimento alla Controriforma, Bari, Laterza, Marcello Aurigemma, Lirica, poemi e trattati civili del Cinquecento, Bari, Laterza, Guido Baldassarri. Il sonno di Zeus. Sperimentazione narrativa del poema rinascimentale e tradizione omerica, Roma, Bulzoni, Renato Bruscagli, Romanzo ed epos dall’Ariosto al Tasso, in Il Romanzo. Origine e sviluppo delle strutture narrative nella cultura occidentale, Pisa, ETS, D. Javitch, La politica dei generi letterari nel tardo Cinquecento, «Studi italiani», David Quint, Epic and Empire. Politics and generic form from Virgil to Milton, Princeton, Princeton University Press, Tateo, La letteratura epica e didascalica, in Storia della letteratura italiana,  IV, Il Primo Cinquecento, Roma, Salerno, Sergio Zatti, L'imperialismo epico del Trissino, in Id., L'ombra del Tasso, Milano, Bruno Mondadori, aRenato Barilli, Modernità del Trissino, «Studi Italiani», A. Casadei, La fine degli incanti. Vicende del poema epico-cavalleresco nel Rinascimento, Roma, Franco Angeli,  D. Javitch, La nascita della teoria dei generi letterari, «Italianistica», Gigante, «Azioni formidabili e misericordiose». L'esperimento epico del Trissino, in «Filologia e Critica», Stefano Jossa, Ordine e casualità: ideologizzazione del poema e difficoltà del racconto fra Ariosto e Tasso, «Filologia e critica», S. Sberlati, Il genere e la disputa, Roma, Bulzoni, Jossa, La fondazione di un genere. Il poema eroico tra Ariosto e Tasso, Roma, Carocci, M. Pozzi, Dall’immaginario epico all’immaginario cavalleresco, in L’Italia letteraria e l’Europa dal Rinascimento all’Illuminismo, in Atti del Convegno di Aosta,  N. Borsellino e B. Germano, Roma, Salerno, M. De Masi, L'errore di Belisario, Corsamonte, Achille, «Studi italiani», Claudio Gigante, Un'interpretazione dell'«Italia liberata dai Goti», in Id., Esperienze di filologia cinquecentesca. Salviati, Mazzoni, Trissino, Costo, il Bargeo, Tasso, Roma, Salerno Editrice, E. Musacchio, Il poema epico ad una svolta: O. tra modello omerico e virgiliano, in «Italica»,  Valentina Gallo, Paradigmi etici dell'eroico e riuso mitologico nel V libro dell'‘Italia' di Trissino, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», Alessandro Corrieri, Rivisitazioni cavalleresche nell'Italia liberata da' Gotthi d’O., «Schifanoia», A. Corrieri, La guerra celeste dell'Italia liberata da' Gotthi di Giangiorgio Trissino, «Schifanoia», Claudio Gigante, Epica e romanzo in O., in La tradizione epica e cavalleresca in Italia, C. Gigante e Palumbo, BruxellesI. E. Peter Lang,  Corrieri, Lo scudo d’Achille e il pianto di Didone: da L’Italia liberata da’ Gotthi di Giangiorgio Trìssino a Delle Guerre de’ Goti di Gabriello Chiabrera, «Lettere italiane»,Alessandro Corrieri, I modelli epici latini e il decoro eroico nel Rinascimento: il caso de L’Italia liberata da’ Gotthi d’O., «Lettere italiane», Sul dibattito sui generi letterari e la Poetica (in ordine di stampa):  E. Proto, Sulla ‘Poetica’ di G. G. Trissino, Napoli, Giannini e figli, C. Guerrieri-Crocetti, Giovan Battista Giraldi Cintio e il pensiero critico del secolo XVI, Milano-Genova-Napoli, Società Dante Alighieri, Mazzacurati, La mediazione trissiniana, in Misure del classicismo rinascimentale, Napoli, Liguori, Mazzacurati, Conflitti di culture nel Cinquecento, Napoli, Liguori, A. Quondam, La poesia duplicata. Imitazione e scrittura nell'esperienza del Trissino, in Atti del Convegno di Studi su G. Trissino, N. Pozza, Vicenza, Accademia Olimpica, G. Mazzacurati, Il Rinascimento del Moderni. La crisi culturale Professoree la negazione delle origini” (Bologna, Il Mulino); M. Pozzi, Lingua, cultura, società. Saggi della letteratura italiana del Cinquecento, Alessandria, Dell’Orso, Per il rapporto fra l’epica del T. e quella del Tasso (in ordine di stampa):  E. Williamson, Tasso’s annotations to Trissino’s Poetics, «Modern Language Notes», M. Clarini, Le postille del Tasso al Trissino, «Studi Italiani», G. Baldassarri, «Inferno» e «Cielo». Tipologia e funzione del «meraviglioso» nella «Liberata», Roma, Bulzoni, R. Bruscagli, L’errore di Goffredo, «Studi tassiani», S. Zatti, Tasso lettore del Trissino, in Torquato Tasso e la cultura estense, G. Venturi, Firenze, Olsckhi, Sulla lingua e il dibattito dei contemporanei si vedano almeno (in ordine di stampa):  B. Migliorini, Le proposte trissiniane di riforma ortografica, «Lingua nostra» G. Nencioni, Fra grammatica e retorica. Un caso di polimorfia della lingua letteraria, Firenze, Olsckhi, B. Migliorini, Note sulla grafia nel Rinascimento, in Id., Saggi linguistici, Firenze, Le Monnier, B. Migliorini, Il Cinquecento, in Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni [e ristampe]. E.Bonora, "La questione della lingua", Storia Lettaliana, Garzanti, Milano, C. Segre, L’edonismo linguistico del Cinquecento, in Lingua, stile e società, Milano, Feltrinelli,  O. Castellani-Pollidori, Il Cesano de la lingua toscana, Firenze, Olschki, O. Castellani-Pollidori, Niccolò Machiavelli e il Dialogo intorno alla lingua. Con un’edizione critica del testo, Firenze, Olschki,  Franco Subri, Gli scritti grammaticali inediti di Tolomei: le quattro lingue di toscana, «Giornale storico della letteratura italiana», I. Paccagnella, Il fasto delle lingue. Plurilinguismo letterario nel Cinquecento, Roma, Bulzoni,  M. Pozzi, Trattatisti del Cinquecento, Milano-Napoli, Ricciardi, Richardson, Trattati sull’ortografia del volgare, Exeter, University of Exeter,  Pozzi, O. e la letteratura italiana, in Id., Lingua, cultura e società. Saggi sulla letteratura italiana del Cinquecento, Alessandria, Edizioni dell’Orso, A. Cappagli, Gli scritti ortofonici di Claudio Tolomei, «Studi di grammatica italiana», Maraschio, Trattati di fonetica del Cinquecento, Firenze, presso l’Accademia,  C. Giovanardi, La teoria cortigiana e il dibattito linguistico nel primo Cinquecento, Roma, Bulzoni, M. Vitale, L'omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla lingua dell'«Italia liberata da' Gotthi», Istituto Veneto de Scienze ed Arti,. Sulla traduzione di Dante e l'importanza del De vulgari eloquentia si vedano almeno (in ordine di stampa):  M. Aurigemma, Dante nella poetica linguistica del Trissino, «Ateneo veneto», foglio speciale,  C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, in Geografia e storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi,Floriani, Trissino: la «questione della lingua», la poetica, negli Atti del Convegno di Studi su Giangiorgio Trissino, etc...(ora in Gentiluomini letterati. Studi sul dibattito culturale nel primo Cinquecento, Napoli, Liguori, I. Pagani, La teoria linguistica di Dante, Napoli, Liguori,  C. Pulsoni, Per la fortuna del De vulgari Eloquentia: Bembo e Barbieri, «Aevum», E. Pistoiesi: Con Dante attraverso il Cinquecento: Il De vulgari eloquentia e la questione della lingua, «Rinascimento», Per le trafile del codice dantesco posseduto dal Trissino, oggi alla Biblioteca Trivulziana di Milano, cfr. l'introduzione diRàjna alla sua edizione del De Vulgari Eloquentia (Firenze, Le Monnier) e G. Padoan, Vicende veneziane del codice Trivulziano del “De vulgari eloquentia”, in Dante e la cultura veneta, Atti del convegno di studi della fondazione “Giorgio Cini”, Venezia-Padova-Verona, V. Branca e G. Padoan, Firenze, Olschki, Tutti i testi d’O si rileggono nei due volumi intitolati Tutte le opere Scipione Maffei (Verona, Vallarsi), che non riproducono però l'alfabeto inventato riformato. Alcuni testi hanno avuto delle edizioni moderne:  La Poetica si rilegge nei Trattati di poetica e di retorica, Weinberg, Bari, Laterza, Il testo è riprodotto con l'alfabeto inventato d’O. Scritti linguistici, A. Castelvecchi, Roma, Salerno (che contiene la Epistola delle lettere nuovamente aggiunte, Il Castellano, i Dubbii grammaticali e la Grammatichetta). I testi sono riprodotti con l'alfabeto inventato dal Trissino. La Sofonisba è stata curata da R. Cremante, nel Teatro, Napoli, Ricciardi, Il testo è riprodotto con l'alfabeto inventato d’O ed è dotato di un vasto commento e introduzione. La traduzione del De vulgari eloquentia si può leggere in D. Alighieri, F. Chiappelli, nella collana “I classici italiani”, G. Getto, Milano, Mursia, oppure, assieme al testo latino, nel 2 tomo dell’Opera Omnia curata da Scipione Maffei (vedi sotto). Per l'Italia liberata dai Goti e per I Simillimi si deve ricorrere, invece, alle prime edizioni o all'edizione del Maffei o alle ristampe sette-ottocentesche. Per l'elenco completo di tutte le stampe, ristampe, studi ed edizioni sul Trissino vedi Corrieri, O., consultabile (aggiornata al 2 settembre ) presso// nuovorinascimento. org/ cinquecento/trissino. pdf.  A. Palladio O. (famiglia). Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia. Encyclopædia Britannica, Inc. O. Open MLOL, Horizons Unlimited srl. O. Opere di Gian Giorgio Trissino, su Progetto Gutenberg. O. Catholic Encyclopedia, Appleton. Italica Rinascimento: O, L'Italia liberata dai Gotthi. L’uomo solo ha il COMERCIO del parlare. Questo è il nostro vero e primo parlare. Non dico nostro, perchè altro parlar ci sia che quello dell'uomo. Perciò che fra tutte le cose che sono SOLAMENTE ALL’UOMO E DATO IL PARLARE ,sendo a lui necessario solo. CERTO NON A a gl’angeli non a GL’ANIMALI INFERIORI e necessario parlare. Adunque sarebbe stato dato invano a costoro, non avendo bisogno di esso.  E LA NATURA certamente abborrisce di fare cosa alcuna invano. Se volemo poi sottilmente considerare la INTENZIONE del parlar [parabola] nostro, niun'altra ce ne troveremo, che il MANIFESTARE all’altro questo o quello CONCETTO della mente nostra. Avendo adunque gl’angeli prontissima e neffabile sufficienzia d'intelletto da chiarire questo o quello gloriosi concetto, per la qual sufficienza d'intelletto l'uno è TOTALMENTE  NOTO all'altro, o per sè, o almeno per quel fulgentissimo specchio, nel quale tutti sono rappresentati bellissimi e in cui avidis simi sispecchiano. Per tanto pare che di ni uno SEGNO DI PARLARE ha mestieri. Ma chi oppone a questo, allegando quei spiriti, che cascarono dal cielo; a tale opposizione doppiamente si può rispondere. Prima, che quando noi trattiamo di quelle cose, che sono che Q a bene esser , devemo essi lasciar da 3 parte, conciò sia che questi perversi non vollero aspettare la divina cura. Seconda risposta, e meglio è, che questi demoni a MANIFESTARE fra sè la loro perfidia, non hanno bisogno di conoscere se non qualche cosa di ciascuno, perchè è, e quanto è 1 : il che certamente sanno; perciò che si conobbero l'un l'altro avanti la ruina loro. Agl’ANIMALI INFERIORI poi non e bisogno provvedere di parlare. Conciò sia che per solo ISTINTO DI NATURA sono guidati. E poi, tutti quelli animali che sono di una medesima specie hanno le medesime azioni, e le medesime passioni; per le quali loro proprietà possono le altrui conoscere. Ma aquelli che sono di diverse specie, non solamente non e necessario loro il parlare, ma in tutto dannoso gli sarebbe stato, non essendo alcuno amicabile comercio tra essi. E se mi fosse opposto che IL SERPENTE che PARLA alla prima femina, e l'asina di Balaam PARLA, a questo rispondo, che l'ANGELO nell’asina e IL DIAVOLO nel serpente hanno talmente operato che essi animali mossero gli organi loro. E così d'indi la voce risulta distinta, COME vero parlare; non che quello de l'asina fosse altro che ragghiare e quello del serpente altro che fischiare. Il testo ha: non indigent, nisi ut sciant quilibetde quolibet, quia est, et quantus est. Parrebbe più proprio il tradurre cosi. Non hanno bisogno di conoscere, se non ciascheduno di ciaschedun altro, che è,e quanto è: ossia l'esistenza e il grado. Se alcuno poi argumentasse da quello, che OVIDIO (si veda) dice nella Metamorfosi che LE PICHE parlarono, dico che dice questo FIGURATAMENTE, intendendo altro. Ma se si dices che le piche al presente e altri uccelli parlano, dico che è FALSO, perciò che tale atto NON è parlare, ma è certa imitazione del suono de la nostra voce; o vero che si sforzano di imitare noi in quanto SONIAMO ma non in quanto PARLIAMO (cf. ‘talk,’ ‘speak’, ‘speak in tongues’). Tal che se quello che alcuno espressamente dice, ancora la pica ride, questo non sarebbe se non rappresentazione , o vero imitazione del SUONO di quello, che prima ho detto. E così appare agl’UOMINI SOLI e dato dalla NATURA il PARLARE. Ma per qual cagione esso gli e NECESSARIO, ci sforzeremo brievemente trattare. Che e NECESSARIO agl’uomini il COMERCIO, la CONVERSAZIONE. Ovendosi adunque l'uomo NON PER ISTINTO DI NATURA, ma per *ragione*. E essa ragione o circa la separazione, o circa il giudidizio, o circa la elezione diversificandosi in ciascuno; tal che quasi ogni uno de la sua pro [La voce del testo, “discrezione”, sarebbe resa meglio dalla parola discernimento. del parlare, pria specie s'allegra; giudichiamo che niuno intenda l'altro per la sua propria AZIONE o PASSIONE, come fanno le bestie. Nè anche per speculazione l'uno può intrar ne l'altro, come gl’angeli – JARMAN, La conversazione angelica --, sendo per la grossezza e opacità del CORPO mortale la umana specie da ciò ritenuta. E adunque bisogno che,  volendo la generazione umana fra sè COMUNICARE IL SUO CONCETTO, avesse qualche SEGNO SENSUALE e *razionale*; per ciò che, dovendo prendere una cosa dalla ragione, e nela ragione portarla, bisogna essere razionale. Ma non potendosi alcuna cosa di una ragione in un'altra portare, SE NON PER IL MEZZO DEL SENSUALE, e bisogno essere sensuale, perciò che se 'l e *solamente* razionale, non puo trapassare. Se *solo* sensuale, non puo prendere dalla ragione, nè nella ragione de porre. E questo è SEGNO (SENNO) che il subietto di che parliamo, è nobile; perciò che in quanto è suono, il SEGNO (SENNO) è per natura una cosa sensuale. E inquanto che, secondo la *volontà* di ciascun, *significa* qualche cosa, egli è razionale 1. Iltestoha: Hoc equidem SIGNUM est, ipsum subjectum nobile, dequo loquimur. Natura sensuale quidem, in quantum sonus est, esse. Rationale vero, in quantum aliquid SIGNIFICARE videtur ad placitum. A noi pare più giusto l'interpretare questo passo cosi. Questo segno, l'aliquod rationale signum et sensuale di cui ha parlato poche righe più sopra, è per l'appunto il nobile soggetto di cui parliamo. Sensuale per natura, in quanto è SUONO. Razionale, in quanto che, se A che uomo e prima dato il parlare, e che dice prima, et in che lingua L’UMO SOLO e dato dalla natura il parlare. Ora istimo che appresso debbiamo investigare, a che uomo e prima dato dalla natura il parlare, e che cosa prima dice, e a chi parlò, e dove e quando, e eziandio in che linguaggio il primo suo parlare si sciol se. Secondo che si legge ne la prima parte del Genesis, ove la sacratissima Scrittura tratta del principio del mondo, si truova la femina, prima cheniunaltro, aver parlato, cio è lapre sontuosissima EVA, la quale al DIAVOLO, che la ricercava , disse , ‘Dio ci ha commesso , che non mangiamo del frutto del legno che è nel mezzo del paradiso, e che non lo tocchiamo , acciò che per avventura non moriamo. Ma a vegna che in scritto si trovi la donna aver pri mieramente parlato, non di meno è ragionevol cosa che crediamo, che l'uomo fosse quello, che prima parlasse. Nè cosa inconveniente mi pare condo la volontà di ciascuno, significa qualche cosa. Contro la quale interpretazione stala punteggiatura, e la voce esse del testo, che sarebbe di troppo ; ma ,per com penso, il brano riesce più chiaro, e si collega meglio col senso di tutto il Capitolo. Anifesto è per le cose già dette , che a pensare, che così eccellente azione de la il generazione umana prima da l'uomo, che da la femina procedesse. Ragionevolmente adunque crediamo ad esso essere stato dato primier mente il parlare da Dio, subito che l’ebbe formato. Che voce poi fosse quella che parla prima, a ciascuno di sana mente può esser in pronto e io non dubito che la fosse quella, che è Dio, cioè Eli, o vero per modo d'interrogazione, o per modo di risposta. Assurda cosa veramente pare, e da la ragione aliena, che da l'uomo fosse nominata cosa alcuna prima che Dio; con ciò sia che da esso,& in esso fosse fatto l'uomo. E siccome, dopo la prevaricazionedel'u m a n a generazione , ciascuno esordio di parlare comincia da heu ; così è ragionevol cosa , che quello che fu davanti , cominciasse da alle grezza, e conciò sia che niun gaudio sia fuori di Dio,ma tuttoinDio,& esso Dio tuttosiaal legrezza, conseguente cosa è che 'l primo p a r lante dicesse primieramente Dio. Quindi nasce questo dubbio,che avendo di sopra detto, l'uomo aver prima per via di risposta parlato, se risposta fu,devette esser a Dio; e se a Dio, parrebbe, che Dio prima avesse parlato, il che parrehbe contra quello che avemo detto di sopra. Al qual dubbio risponderemo,che ben può l'uo mo averrisposto a Dio, chelointerrogava, nè per questo Dio aver parlato di quella LOQUELLA, che dicemo.Qual è colui, che dubiti, che tutte le cose che sono non si pieghino secondo il voler di Dio,da cuièfatta, governata, econservata ,  ciascuna cosa ? É conciò sia che l'aere a tante alterazioni per comandamento della natura in feriore si muova, la quale è ministra e fattura di Dio, di maniera che fa risuonare i tuoni, fulgurare il fuoco, gemere l'acqua, e sparge le nevi, e slancia la grandine ; non si moverà egli per comandamento di Dio a far risonare alcune parole le quali siano distinte da colui, che maggior cosa distinse?e perchè no? Laon de & a questa, & ad alcune altre cose credia mo tale risposta bastare. Dove,& a cuiprima l'uomo abbiaparlato. ta così da le cose superiori,come da le in feriori), che il primo uomo drizzasse il suo primo parlare primieramente a Dio , dico, che ragionevolmente esso primo parlante parlò s u bito,che fu da la virtù animante ispirato: per ciò che ne l'uomo crediamo,che molto più cosa umana sia l'essere sentito che il sentire, pur che egli sia sentito,e senta come uomo. Se adunque quel primo fabbro, di ogni perfezione principio & amatore ,inspirando il primo uomo con ogni perfezione compi , ragionevole cosa mi pare, che questo perfettissimo animale non prima cominciasse a sentire, che 'l fosse sen tito. Se alcuno poi dicesse contra le obiezioni,  11 Iudicando adunque (non senza ragione trat, che non era bisogno che l'uomo parlasse, es sendo egli solo ; e che Dio ogni nostro segreto senza parlare, ed anco prima di noi discerne ; ora (con quella riverenzia , la quale devemo usare ogni volta,che qualche cosa de l'eterna volontà giudichiamo),dico,che avegna che Dio sapesse, anzi antivedesse (che è una medesima cosa quanto a Dio) il concetto del primo parlante senza parlare, non di meno volse che esso parlasse; acciò che ne la esplicazione di tanto dono, colui, che graziosamente glielo avea do nato,se ne gloriasse.E perciò devemo credere, che da Dio proceda , che ordinato l'atto de i nostri affetti, ce ne allegriamo. Quinci possiamo ritrovare il loco, nel quale fu mandata fuori la prima favella; perciò che se fu animato l'uomo fuori del paradiso, diremo che fuori: se dentro , diremo che dentro fu il loco del suo primo parlare. Ra perchè i negozii umani si hanno ad esercitare per molte e diverse lingue, tal che molti per le parole non intesi da molti, che se fussero senza esse; però fia buono investigare di quel parlare, del quale si crede aver usato l'uomo, che nacque senza sono altrimente 1 Di che idioma prima l'uomo parld, e donde fu l'autore di quest'opera.   madre, e senza latte si nutri, e che nè pupil lare età vide,nè adulta.In questa cosa,sì come in altre molte, Pietramala è amplissima città, e patria de la maggior parte dei figliuoli di Adamo .Però qualunque si ritrova essere di cosi disonesta ragione, che creda, che il loco della sua nazione sia il più delizioso, che si trovi sotto il Sole, a costui parimente sarà licito preporre il suo proprio volgare, cioè la sua materna locuzione,a tutti gli altri; e conse guentemente credere essa essere stata quella diAdamo.Ma noi, acuiil mondo èpatria, sì come a'pesci il mare , quantunque abbiamo bevuto l'acqua d'Arno avanti che avessimo denti,e che amiamo tanto Fiorenza,che pe averla amata patiamo ingiusto esiglio, non dimeno le spalle del nostro giudizio più a la ragione che al senso appoggiamo. E benchè se condo il piacer nostro , o vero secondo la quiete de la nostra sensualità, non sia in terra loco più ameno di Fiorenza;pure rivolgendo i vo lumi de'poeti e de gli altri scrittori, ne i quali il mondo universalmente e particularmente si descrive , e discorrendo fra noi i varj siti dei luoghi del mondo , e le abitudini loro tra l'uno e l'altropolo,e'lcircolo equatore, fermamente comprendo, e credo, molte regioni e città es sere più nobili e deliziose che Toscana e Fiorenza, ove son nato, e di cui son cittadino; e molte nazioni e molte genti usare più dilette vole, e più utile sermone , che gli Italiani. R ir   tornando adunque al proposto, dico che una certa forma di parlare fu creata da Dio insie me con l'anima prima ,e dico forma, quanto a i vocaboli de le cose,e quanto a la construzione de'vocaboli , e quanto al proferir de le con struzioni; la quale forma veramente ogni par lante lingua userebbe, se per colpa de la pro sunzione umana non fosse stata dissipata, come di sotto si mostrerà. Di questa forma di par lare parlò Adamo , e tutti i suoi posteri fino a la edificazione de la torre di Babel , la quale si interpreta la torre de la confusione. Questa forma di locuzione hanno ereditato i figliuoli di Heber, i quali da lui furono detti Ebrei ; a cui soli dopo la confusione rimase, acciò che il nostro Redentore , il quale doveva nascere di loro,usasse,secondo laumanità,dela lin gua de la grazia, e non di quella de la confu sione 1. Fu adunque lo ebraico idioma quello, che fu fabbricato da le labbra del primo par lante . ' Il testo ha: qui ex illis oriturus erat secundum humanitatem , non lingua confusionis, sed gratiæ frue retur.E deve tradursi:ilqualedovevanascere di loro secondo l'umanità , usasse della lingua della grazia , e non di quella della confusione.   Hi come gravemente mi vergogno di rin  15 e per  De la divisione del parlare in più lingue. A en ta nerazione umana: ma perciò che non possia mo lasciar di passare per essa, se ben la fac cia diventa rossa , e l'animo la fugge , non starò di narrarla. Oh nostra natura sempre prona ai peccati , oh da principio , e che mai non finisce, piena di nequizia; non era stato assai per la tua corruttela, che per lo primo fallo fosti cacciata, e stesti in bando de la p a tria de le delizie? non era assai, che per la universale lussuria, e crudeltà della tua fami glia, tutto quello che era di te, fuor che una casa sola, fusse dal diluvio sommerso , il male , che tu avevi commesso , gli animali del cielo e de la terra fusseno già stati puniti ? Certo assai sarebbe stato; ma come prover bialmente si suol dire,Non andrai a cavallo anzi terza ; e tu misera volesti miseramente andare a cavallo.Ecco,lettore, che l'uomo , o vero scordato,o vero non curando de le prime battiture, e rivolgendo gli occhi da le sferze, che erano rimase , venne la terza volta a le botte, per la sciocca sua e superba prosunzio ne. Presunse adunque nel suo cuore lo incu rabile uomo, sotto persuasione di gigante, di  ,  superare con l'arte sua non solamente la na tura,ma ancora esso naturante, ilqualeèDio; e cominciò ad edificare una torre in Sennar, la quale poi fu detta Babel, cioè confusione, per la quale sperava di ascendere al cielo, avendo intenzione, lo sciocco,non solamente di aggua gliare,ma diavanzare ilsuo Fattore. Oh cle menzia senza misura del celeste imperio;qual padre sosterrebbe tanti insulti dal figliuolo? Ora innalzandosi non con inimica sferza, ma con paterna, & a battiture assueta , il ribel lante figliuolo con pietosa e memorabile corre zione castigò. Era quasi tutta la generazione umana a questa opera iniqua concorsa ; parte comandava, parte erano architetti,parte face vano muri,parte impiombavano,parte tiravano le corde ", parte cavavano sassi, parte per ter ra, parte per mare li conducevano. E cosìdi verse parti in diverse altre opere s’affatica vano , quando furono dal cielo di tanta con fusione percossi, che dove tutti con una istessa loquela servivano a l'opera , diversificandosi in molte loquele , da essa cessavano , nè mai a quel medesimo comercio convenivano ; & a quelli soli, che in una cosa convenivano una · Il Witte osserva che in luogo di pars amysibus tegulabant, pars tuillis linebant, come leggeva erro neamente la volgata nel testo latino , si deve leggere : pars amussibus tegulabant, pars trullis (o truellis) linebant, e si deve tradurre : parte arrotavano sulle pietre i mattoni,parte con le mestole intonacavano. istessa loquela attualmente rimase , come a tutti gli architetti una , a tutti i conduttori di sassi una,a tuttiipreparatori di quegli una, e così avvenne di tutti gli operanti; tal che di quanti varj esercizj erano in quell'opera , di tanti varj linguaggi fu la generazione umana disgiunta. E quanto era più eccellente l'arti ficio di ciascuno , tanto era più grosso e barbaro il loro parlare. Quelli poscia, a li quali il sacrato idioma rimase, nè erano presenti nè lodavano lo esercizio loro; anzi gravemente biasimandolo, si ridevano de la sciocchezza de gli operanti.M a questi furono una minima parte di quelli quanto al numero ; e furono , sì come io comprendo , del seme di Sem , il quale fu il terzo figliuolo di Noè , da cui nacque il popolo di Israel, il quale usò de la antiquissima locu zione fino a la sua dispersione. e specialmente in Europa. Er la detta precedente confusione di lin gue non leggieramente giudichiamo , che allora primieramente gli uomini furono sparsi per tutti iclimi del mondo e per tutte le re gioni & angoli di esso. E conciò sia che la  P Sottodivisione del parlare per il mondo, principal radice dela propagazione umana sia ne le parti orientali piantata , e d'indi da l'u no e l'altro lato per palmiti variamente diffu si, fu la propagazione nostra distesa; final mente in fino a l'occidente prodotta , là onde primieramente le gole razionali gustarono o tutti,o almen parte de ifiumi di tutta Europa. Ma ofussero forestieriquesti,cheallorapri mieramente vennero, o pur nati prima in Europa, ritornassero ad essa; questi cotali por tarono tre idiomi seco ; e parte di loro ebbero in sorte la regione meridionale di Europa, parte la settentrionale, & i terzi, i quali al presente chiamiamo Greci , parte de l’Asia e parte de la Europa occuparono. Poscia da uno istesso idio ma,dalaimmonda confusione ricevuto,nac quero diversi volgari , come di sotto dimostre remo ; perciò che tutto quel tratto, ch'è da la foce del Danubio, o vero da la palude Meotide, fino a i termini occidentali (li quali da i confini d'Inghilterra, Italia e Franza, e da l'Oceano sono terminati), tenne uno solo idioma: ave gna che poi per Schiavoni, Ungari , Tedeschi, Sassoni , Inglesi & altre molte nazioni fosse in diversi volgari derivato ; rimanendo questo solo per segno, che avessero un medesimo prin cipio , che quasi tutti i predetti volendo affir mare, dicono jo. Cominciando poi dal termine di questo idioma,cioè da iconfini de gli Ungari verso oriente,un altro idioma tutto quel tratto occupò. Quel tratto poi, che da questi in qua  si chiama Europa, e più oltra si stende,o ve ro tutto quello de la Europa che resta , tenne un terzo idioma 1, avegna che al presente tri partito si veggia ; perciò che volendo affermare, altri dicono oc, altri oil, e altri sì, cioè Spagnuoli , Francesi & Italiani .Il segno adunque che i tre volgari di costoro procedessero da uno istesso idioma,è in pronto; perciò che molte cose chiamano per i medesimi vocaboli, come è Dio,cielo,amore,mare,terra,e vive,muore, ama ,& altri molti.Di questi adunque de la meridionale Europa , quelli che proferiscono oc tengono la parte occidentale, che comincia da i confini de'Genovesi ; quelli poi che dicono sì, tengono da i predetti confini la parte orientale, cioè fino a quel promontorio d'Italia, dal quale comincia il seno del mare Adriatico e la Sicilia. Ma quelli che affermano con oil,quasi sono settentrionali a rispetto di questi ; perciò che da l'oriente e dal settentrione hanno gli Ale manni , dal ponente sono serrati dal mare in 1 Il testo ha : A b isto incipiens idiomate , videlicet a finibus Ungarorum versus orientem aliud occupa vittotum quodabindevocaturEuropa,necnonul terius est protractum. Totum autem , quod in Europa restat ab istis , tertium tenuit idioma. E deve essere tradotto cosi: A cominciare da questo idioma, cioè dai confini degli Ungari verso oriente, un altro idioma occupò l'intero tratto che da quei confini in là si chiama Europa , e che si protrae anche più oltre. Tutto il tratto poi della rimanente Europa tenne un terzo idioma. 19  glese, e dai monti di Aragona terminati , dal mezzo di poi sono chiusi da'Provenzali,e da la flessione de l'Appennino. Noi ora è bisogno porre a pericolo 1 la ' Il verbo periclitari del testo latino qui vale mettere alla prova, cimentare, ragione, che avemo, volendo ricercare di quelle cose ne le quali da niuna autorità siamo aiutati, cioè volendo dire de la variazione, che intervenne al parlare , che da principio era il medesimo. Ma conciòsiachepercammininoti più tosto e più sicuramente si vada , però so lamente per questo nostro idioma anderemo,e gli altri lascieremo da parte , conciò sia che quello che ne l'uno è ragionevole , pare che eziandio abbia ad esser causa ne gli altri. È adunque loidioma,deloqualetrattiamo(come ho detto di sopra) in tre parti diviso , perciò che alcuni dicono oc , altri si, e altri oil. E che questo dal principio de la confusione fosse uno medesimo (il che primieramente provar si deve) appare, perciò che si convengono in molti vocaboli,come gli eccellenti dottori dimostrano; De le tre varietà del parlare, e come col tempo il medesimo parlare si muta , e de la invenzione de la grammatica. A   la quale convenienzia repugna a la confusione, che fu per il delitto ne la edificazione di Babel. I Dottori adunque di tutte tre queste lingue in molte cose convengono, e massimamente in questo vocabolo, Amor. Gerardo di Berneil , « Surisentis fez les aimes Puer encuser Amor.» Il re di Navara, «De'finamor sivientsenebenté.» M. Guinizelli, « Nè fè amor , prima che gentil core, Nè cor gentil,prima che amor, natura.» Investighiamo adunque , perchè egli in tre parti sia principalmente variato,e perchè cia scuna di queste variazioni in sè stessa si varii, come la destra parte d'Italia ha diverso par lare da quello de la sinistra, cioè altramente parlano i Padovani , e altramente i Pisani : e investighiamo perchè quelli,che abitano più vi cini,siano differenti nel parlare,come è iMila nesi e Veronesi, ROMANI e Fiorentini;e ancora perchè siano differenti quelli,che si convengono sotto un istesso nome di gente,come Napole tani e Gaetani , Ravegnani e Faentini ; e quel che è più maraviglioso, cerchiamo perchè non si convengono in parlare quelli che in una medesima città dimorano , come sono i Bolognesi del borgo di san Felice , e i Bolognesi   della strada maggiore.Tutte queste differenze adunque,e varietàdi sermone,che avvengono, con una istessa ragione saranno manifeste. Dico adunque , che niuno effetto avanza la sua ca gione, in quanto effetto,perchè niuna cosa può fare ciò che ella non è.Essendo adunque ogni nostra loquela (eccetto quella che fu da Dio insieme con l'uomo creata) a nostro benepla cito racconcia,dopo quella confusione,la quale niente altro fu che una oblivione de la loquela prima, & essendo l'uomo instabilissimo e va riabilissimo animale , la nostra locuzione ne durabile nè continua può essere ; m a come le altre cose che sono nostre (come sono costumi & abiti), simutano;cosìquesta,secondo ledi stanzie de iluoghi e dei tempi,è bisogno di va riarsi. Però non è da dubitare che nel modo che avemo detto,cioè,che con la distanzia del tempo il parlare non si varii, anzi è fermamente da tenere ; perciò che se noi vogliamo sottilmente investigare le altre opere nostre, le troveremo molto più differenti da gli antiquissimi nostri cittadini, che da gli altri de la nostra età, quantunque ci siano molto lontani. Il perchè audacemente affermo che se gl’antiquissimi Pavesi ora risuscitassero, parlerebbero di diverso parlare di quello, che ora parlano in Pavia. Nè altrimente questo, ch'io dico, ci paja maraviglioso che iI qualici siano molto lontani (magis....quam a coetaneis per longinquis). ci parrebbe a vedere un giovane cresciuto il quale non avessimo veduto crescere. Perciò che le cose che a poco a poco si movono, il moto loro è da noi poco conosciuto; e quanto la variazione de la cosa ricerca più tempo ad essere conosciuta, tanto essa cosa è da noi più stabile esistimata. Adunque non ci ammiriamo se i discorsi di quegli uomini che sono POCO DALLE BESTIE DIFFERENTI, pensano che una stessa città ha sempre il medesimo parlare usato, conciò sia che la variazione del parlare di essa città non senza lunghissima successione di tempo a poco a poco sia divenuta , e sia la vita de gl’uomini di sua natura brevissima. Se adunque il SERMONE nella stessa gente successivamente col tempo si varia, nè può per alcun modo firmarse, è necessario che il parlare di coloro, che lontani e separati dimorano, sia VARIAMENTE VARIATO; sì come sono ancora variamente variati i costumi e abiti loro, i quali nè da natura, nè da CONSORZIO umano sono firmati, ma a beneplacito, e secondo la convenienzia de i luoghi nasciuti. Quinci si mossero gl'inventori de l'arte grammatica; la quale grammatica non è altro che una inalterabile conformità di parlare in diversi tempi e luoghi. Questa essendo di comun consenso di molte genti regulata, non par suggetta al SINGULARE ARBITRIO di niuno – GRICE, Deutero-Esperanto, High-Way Code --, e consequentemente non può essere variabile. Questa adunque trovarono, acciò che per la variazionee del parlare, il quale  DE LA VOLGARE ELOQUENZIA. De la varietà del parlare in Italia dalla destra e sinistra parte dell'Appennino.  LA VITA   D I   Gl OVAN GIORGIO  O. LA VITA GlOVAN GIORGIO O.,   ORATORE, E POETA  SCRÌTTA DA CASTELLI  VICENTINO.  IN VENEZIA,   Per Giovanni Radici.Con Licenza de’ Superiori , e Trtvììegio. sAlli Kob. Kob. Sigg. Co Co.   PARMENIONE,   ED ALESSANDRO   trissini, ^ier-Fuippo Castelli.     **t «1 & egli fu fempre le-   cita non fo lamento , ma lodevol  cojaa chiunque ha fatto penite-  lo di mandar a luce un qualche  Juo componimento , lo fceglìero   a alca-    Digitized by Googl    alcuno illujlre e ragguardevole  perfonaggio , a cui intitolarlo ;  non fola mente per acquijlargli  col nome di lui pregio e ornamen-  to y ma ancora per poterlo col  favore di lui mede fimo dagl vi-  vidi morti de' malevoli difende-  re , e ajfìcurare : mafiimamente  di ciò fare a me fi conviene , il  quale avendo dìliberato di dare  alle luce il già condotto a matu-  rità primaticcio frutto del poco  e debile ingegno mio , voglio dire  la V ita del nobili fimo , e dottijfi-  mo Poeta e Oratore Gì ovan Giorgio  T rissino, decoro e fple udore am-  pli filmo di que fi a no fi r a Città  di Vicenda s a nobile e buona  guida con pili di ragione debbo  accomandarlo , onde poffa fi cura-  mente ufcir fuori , Me migliore  per tanto , nè piu fidata fo ritro-  varne di quella della molta Vo-  fira Umanità , e Genti legga ,   Jllu-   *   Digitìzed by Google I    Illustrissimi , e Nobilissimi Sigg. Conti-,  concio [fi ache Voi Germe fiele di  queir amie hi filma , e fempre co-  spicua Famigliai Voi alla tefifi-  iitra , e alla pubblicazione di  quejì Opera ni avete piu volte  inanimito , e follecitato ; e Voi  per fine dotati fiete di sì illu-  Jlri prerogative , le quali ( come-  che un largo campo me fe ne pa-  ri davanti ) per lo timore di for-  fè non offendere la fingolar Vo-  Jlra moaejlia ometterò. Non vo-  glio tuttavia la f dar di accenna-  re V amor Vojlro alle lettere , e  a chi le coltiva , il quale ficco me  dà a co no fiere quanto nobile fi a  la Vofira indole , e quanto colto  il Vojlro ingegno , così Vi fu e fi-  fere in Patria e fuori fingo tar-  me nt e chiari. In fatti e chi e tra per la bre-  ' ' C vita, e per ?ion piu fajlidirvi  la f ciò di dire , io umilio e dedico  a Voi,. Nobilissimi* e Chiarissimi  Cavalieri, quejia mia prima  Operai la quale y perciocché la  V ita contiene del non mai ablct-  Jlan^a lodata Giovangiorgio Tr is-  sino, fon ficuroy che da Voi ,  che con lui comuni la patria , il  cognome , e le virtù avete , beni-  gnamente e gratamente farà ac-  cettata . E qui nella pregevol  grafia Vojlra r accomandandomi  Vi faccia umilijftma riverenza , A Vita di GIO V ANGIORGIO  O. , poeta e orator celebre , ficcome per alcuni: è Rata  già fcrirta, così parrà a prima vi-  lla , che inutii cola ila Hata Io  /crivella .di nuovo ; ma perchè que-  lli tali Scrittori han di Lui molte cole dette, le  , quali o non fono Rate per eflì .bene difeufle , o  forfè .anche furono dette a capriccio, perciò non  Lenza ragione rilolvemmo .di così fare . Tra efii  uno fi fa eflere Rato il Signor ApoRolo Zeno, di  chiariffima memoria , il quale nella fine del le*  colo paflfatodiede jh luce la Vita d’O.  inferita nella terza parte della Galleria di Minerva  in Venezia prejj'o Girolamo jilhrivjj 1 696. in fo-  glio ; ma ficcome gli uomini 'veramente dotti ed  ingenui non fi vergognano di ritrattar quegli er-  rori , che nelle proprie Opere conofcono aver  commefiì , così non ifdegnò egli non pure di  dirci a bocca , ma di farci fàpere eziandìo per  lettera , mandataci da Venezia addi iv.  di Giu-  gno dell’anno 1749. , che nè quella Vita , nè  ciò , che col fuo nome fu Rampato e in quel  tomo , e negli altri ancora della detta Galleria  di Minerva , riconofccva per cola fua : e quelle fono le fue parole . Sono cinquanta e più anni ,  ch'io fcrijjì quella Vita dell' infigne Giangiorgio  T rijjìno , la quale fi legge nella Galleria di Miner-  va. Sappia però V. S. , ch’io prefentementc , an-  zi da gran tempo in qua non ricono feo per mio la-  voro y ma per aborto della immatura mia età tan-  to . la medejima Vita , quanto tutto quello , che col  mio nome fi legge flampato in quel tomo della Gal-  leria di Minerva , e in tutti i Jeguenti , Ci fono  qua e là V'arj punti effendi ali e importanti , che  allora mi parvero con vero e fame difcujfy , e che  ora per migliori lumi fopr avvenuti ritratto , e con-  danno . Di tutto ciò mi è paruto avvi far la per fua  regola , e mia giufìife azione .   Sebbene quali lo Hello avea egli fcritto affai  prima al P. D. Pier-Caterino Zeno, Somafco, fuo  fratello , di fèmpre celebratiffima ricordanza ; men-  tre tra le fue Lettere , di frefeo fìampate in tre  volumi in 8. col titolo di Lettere di Apoftolo Xe-  no ec. I n Venezia , apprcjjo Pietro Valvafenfe ;  nel z. Volume a car. 91. ve n’ha una a lui di-  retta, fegnata di Vienna 14. Dicembre 1719., in  cui in proposito della riftampa dell* Opere del  Triffino allora ideata da’ Sigg. Volpi, così gli diC.  fe : Vinti i fono , eh' io diedi fuori nel /. Volume  della Gallerìa la Vita di effo ( Triffino ) : ma Je  orai avejfi a ferriere, la riformerei tutta da capo  a piedi : onde fe io ne fo ora sì poco conto , av-  vertite anche i Sigg. Volpi a non far fopr a efja  alcun fondamento . Allorché in Verona preflò Jacopo Vallarli fi fece  la ri Rampa delle Opere del noflro TR ISSINO,  proccurata dal chiariamo Sig. Marchelè MafFei , ma  primieramente ideata da 1 rinominatiifimi Sigg.Vol.  pi di Padova, tanto delle Lettere benemeriti (co-  me appare e dalle parole della lettera furriferi-  ta dei Sig. ApojRolo Zeno, e dal Giornale de’ Letterati d' Italia , . ) noi  lappiamo edere Rato pregato il liiddetto Signor  ApoRolo, che vi lalciaflè premettere la detta Vi-  ta ; ma non avendo egli allora avuto tempo di  r: correggerla , «Rendo occupato in altro impiego ,  non volle acconientire . Ne fu tuttavia fatto un  breve Rjfìretto dal mentovato Signor Marchele ,  e fu alle Opere luddette premeflo ; nel quale egli  pur prele qualche sbaglio, eflendofì (come a noi  pare ) attenuto alla Vita inferita nella Galleria di  Minerva, e a MonEgnor Jacopo-Filippo Tomma-  fini, che fu il primo a feri ver del TRI SS INO  a lungo , teifuto avendone un latino elogio Ram-  pato in un cogli altri fuoi Elogia Virorum literis ,  & f apienti a illuflrium : Patavii , ex T ypographia  Sebajtiani Sardi , 1644. in 8.   Datici per tanto con lollecito penfiere a racoorrc  le cole fparfe qua e là in varj libri , ed anche a cer.  carne di nuove, trovammo a calo in un Difcorfo  intorno aìl'Opere del noRro Autore, del Sig. Cava-  liere Michelangelo Zorzi (Rampato nella Riaccol-  ta dOpufcoli Scientifici , e Filofojìci , toni. 3. a car.  398.) la quale cominciatali a pubblicare per opera   b del P. D, Angelo Calogero. M. Carnai, in VencTja  appreJJ 0 Crifioforo Zane in 1 z. leguitandoll  tuttora a produrre da'torchj di Sirnone Occhi è già  arrivata alTomoXLVII.) citato a car.441. una dia  manulcritta Vita d’O. i per la qual  cofa torto ricercatala con molta diligenza , ci ven-  ne fatto , per mezzo del Signor Abate Don Bar-  colommeo Zigiotti , non pure di ritrovarla , ma  di averla eziandìo cortefemente in noftra cala ,  Quella Vita rt conferva di prelentc appiedò i  Sigg. Conti Triflìni dal Vello di Oro, dilcenden-  ti del noftro Autore , ed ha quefto titolo : Rag-  guaglio Jftorico , e Letterario intorno alla Vita di  GIOVA NG IO RG IO O. Nob .  Vicentino , Co., Cav ., Poeta, ed Oratore infìgne ;  con un Efame delle Opere da Lui fiampate , e col  giudicio fatto delle medefme dagli Uomini più cele-  bri di quc' tetri pi , e con una ccnfura J opra il fuo  Poema Erpico intitolato L A ITALIA LIBERATA DA GOTI, eftratta da Critici allora più famojì , e più intendenti della Poe-  tica Difciplina . Aggiuntovi un ,e fatto Catalogo del-  le Opere tanto pubblicate , quanto MS S. dello fìe f-  fo O. , ed un Indice copio (0 d' Au-  tori, che parlano di Lui, e che fomminijlraron no -  tifi e per compilare la Vita prefente , Il Manofcrit-  to è in 4., e comprende 653. facce.   Da quello titolo sì fpeciolo e pieno credeva-  mo invero, che invano ci foffimo medi all’opera,  c che avedìmo perduta la fatica inutilmente ; ma piu cuore ci facemmo a profeguirla, ed a com-  pierla , allora che letta e riletta la Vita fleflà  trovammo ella poco piu in se contenere di ciò,,  che detto aveano i predetti Autori r oltreché o-  gnuno recherebbe!! a noja il leggerla a cagione  delle parecchie lunghe digreffioni , che F Autore  vi frappofe , lontane affatto dalla materia , che  e’ fi propofè di trattare ( vizio Colico nel Cava-  liere Zorzi, ma pure fcufabile in lui per la va-  lla raccolta di letterarie erudizioni, che egli, come  in preziofà confèrva, nel teforo di fila mente fer-  bava ) , benché per altro cotali digreffioni in sé  contengano molte curiofe notizie . Non polliamo  tuttavia non confeflàre, averci quello Manufat-  to varie cofè fommini firate , per cui vie più. ar-  ricchita abbiamo quella noilra fatica ;la quale  ficcome cola nuova e vera, fperar vogliamo ,  che non abbia ad eflère fèr non di diletto.   V'abbiamo per entro fparfe alcune notizie lette-  rarie ed ifloriche fpettand a varj perfonaggi, che  fiorirono nell età del noflro O., oa  qualche fatto notabile de! tempo fleffo , lenza  però dilungarci granfatto dal hlo principale dal  racconto; le quali notizie vogliam parimente cre-  dale, che non faranno difeare.   A non oltrepafiare la brevità, che ci fiamo pre-  fifla, abbiamo a bella polla tra lafcia te alcune co-  le di non tanto conto/ perchè altrimenti fé avefà  fimo voluto dir tutto ciò , che ad O. 1  può. appartenere, di tanto fi farebbe quella Vita.   b z afiim-    Digitized by Google     VI prefazione.   allungata, che, anzi che diletto, noja e fafiidio  apportato avrebbe .   Quanto poi alle Opere del noRro Autore , cre-  diamo di non averne tralafciata pur una , come  apparirà dal Catalogo , che fi pone in fine di que-  lla Vita y dove molte fé ne vedranno regiRrate ,  che non furono mai Rampate , ed al Compilatore  fopraccennato o non venute a cognizione, o dalui  per avventura non curate: e di molte eziandìo fi  favellerà, che da qualche Scrittore da fallace tra-  dizione ingannato a GIOV AN GIORGIO fu-  rono attribuite . Tutti i Titoli per altro delie  Opere fleffe non ci fiamo curati di riferire ap-  puntino , come Ranno ne’ Frontelpic) delie edi-  zioni , non ci parendo cofa di grande importan-  za > e fimilmente se fatto nell’ allegare , e cita-  re qualche pafso di fue fcritture: e abbiamo tra-  lafciato eziandìo i Caratteri Greci dal noRro Au-  tore inventati , non avendogli giudicati quivi to-  talmente neceflàrj , e non già credendo di reìidcr  così molto buon fcrvigio alla memoria di quel grand’  uomoy come fi lafiiò ulcir della penna il per altro  tanto benemerito dottiilìmo editor della rifiam-  pa delle Opere dei Trillino fatta in Verona j im-  perciocché tenghiamo per fermo, che Te il Trif-  lino folle vivo, figurerebbe a afare nelle proprie  fcritture quelle lettere da se con tanto Rudio ri-  trovate , ulate, e difcle.   Dopo di avere così Icritto ci confoliamo , pa-  rendoci di elserci in quefio particolare uniti alla   oppinio     vir   ©ppìnione del fu Signor Apollolo Zeno, che nella più fopra citata Lettera al P. D. Pier-Caterino  fuo fratello così Icrilse : Lodo /'edizione di tutte /'   Opere del T riflino . Ma fi farà ella con gli Ornicron , e cogli Omega , e con la foli t a ortografia  di quel grand’ uomo?   Si farebbe potuto regiftrar anche il catalogo di  quegli Autori'*,. che di Lui fecer menzione ; ma  liccome molti lì troveranno già citati per entro  quella Vita , e gli altri non ne parlarono più  che tanto, così noi ci lìamo dilpenlati da .quella  forfè dilutile fatica . A quello però può abbon-  dantemente lupplire la Tavola delle cofe notabili ,  che alla fine del libro abbiamo aggiunta ; la qua-  le altresì mette in un tratto lotto l’occhio del let-  rore tutte quelle notizie letterarie ed illoriche ,  che, come lopra è detto, abbiamo fparfe qua e là:  Tavola che lenza quelli ragionevoli motivi ,  lì larebbe dovuta certamente lalciare in un’Opera  di pochi fogli, liccome lì è quella nollra.   Circa poi le correzioni ed ofservazioni critiche  per noi fatte lòpra gli errori d’ alcuni de’ detti  Autori, lì vuol qui dire, che non s’intende giam-  mai d’olcurar punto la fama , che e£Iì godono  più che chiara tra’ Letterari, ma fola mente di far  apparire il vero nella lua luce; e le allo ’ncontro  qualche errore lì troverà in quella Vita da noi in-  navvertenremente commefso , lì feulì la piccolezza  della nollra luffìcienza ; riflettendo maflìme , che  rari lon quegli, i quali vadano in tutto efenti da que’ difetti,, che ( come dicea l’Abate Anton Ma-  ria Salvini ) fono patrimonio e retaggio di nofircc  fievole umanità.   Finalmente fe vedremo y che quello primo par-  to del noftro rozzo ingegno lìa gratamente rice-  vuto,. come ci giova iperare , dagli uomini lavji  ed eruditi ,. noi allora con maggiore follecitudine  attenderemo a profeguire la già da parecchi anni  incominciata faticolìllima Opera delle Notizie Let-  terarie ed I (loriche degli Scrittori Vicentini da altri  pure , ma Tempre infelicemente ternata (a ) ;  nella quale ,. le non andiamo errati r fperiarno di  inoltrare ,. che ( come lalciò Icritto il nollro Ba~  flian Montecchio nel- fuo- Trattato; De Inventario’  tLeredis , & c . Venetiis apud Fransi feum Zilettum a car. 160. a tergo, num, joz.- J Vi-  ceda foecunda fuit JvLxter & jiltrix poetarum  philofopborum , or a forum ,, thcologorum ,. jurif con-  fiti forum y ant i queir iorum medicorum , atque in   qualibet facultate eruditorum ; e che per ciò elsa  noa è. a verun altra città inferiore ..    KOI! Spcriarao prròdi vedere a luce rra fonazioni intorno all a forte miilio-  poeo tempo un’Opera ddl’cruditif»..! re della Storia Ecclefiaftica r eSe~  Sig, Dr. D. Franccfco Fortunato Vi- J colare della medefima noftra Patria,,  gna, la quale conterrà V /fiorite Let- ! promclTe col dottifsimo fuo Preli-  /er 4 r/ e  ricca del pari di facoltà» e di Sog-  getti » che in ogni genere di profeffione illuftri  ella ha prodotti in ogni tempo . Ella è in parec-  chie linee divifa » e tra effe con particolar luftro  fplendc quella , che conofce per fuo gloriofiflimo  afeendente quel Giovangiorgio, di cui fcrivia-  mo la Vita ; il quale alla nobiltà del legnaggio   A avendo accoppiate le più eminenti prerogative#  che render pollano un perfonaggio e’n rarità di  dottrine, e’n cavallerelche virtù fplendentiflimo,  non fedamente tra’ Letterati, ma in una gran par-  te del Mondo celcbratiflìma, ed oltremodo chia-  ra lafciò la fama del fuo nome.   Nacque adunque Giovangiorgìo Trissino'  in Vicenza il fettimo, o, fecondo altri , l’ottavo  giorno di Luglio dell anno 1478. ( 1 ). Suo Padre  fu Gafpare Trillino, uomo d’armi, e colonnello  di trecento fanti alToldati col proprio danajo a fer-  vigio della Repubblica di Venezia, appo cui ac-  quiftò (ingoiar merito; e fua madre fu Cecilia di  Guilielmo Bevilacqua, nobile di Verona. Non pure da un Epica- 1 luogo fi favellerà) cioè) che P  fio delle geftc del noftro Tms- anno 1487. per la morte di fuo  SINO , collocato in S. Lorenzo j Padre egli rimafe orfano di fette  di Vicenza, di cui a fuo luogo ' anni . Ma liccomc egli non in    diremo didimamente > ma da  mohiflimi Scrittori appare edere  egli nato l'anno fuddetto,  c fpczial mente da Monfignor Ja-  copo Filippo Tommafini nel fuo    tuteli luoghi di fue feri tture fida  l’epoca del fuonafeimemo in un  medefimo anno, fccondochè lui  bene tornava , e in utilità de*  fuoi dcmeftici affari ( come ci fe    libro intitolato ; Elotia rirornm certi il Sig. Abate Don Barto-  Littris & ftpitntia illuftrium lommeo Zigiotti , che tutte vi'  &c. Patavii ex 7 ypo{rapkia Se- J de , e rivide le private Scritture  bacioni Sardi 1644. in 8. a dell’Archivio de’Sigg. Co. Co.  pag.48. Quello tuttavia potrebbe [ Tri dì ni di lui eredi); cosi ci è  non crederli, quando fode vero! paruto miglior cofa edere lo ac-  ciò, che il T r issino medefi- tenerci anzi alle autorità, e air  irto dica in una fua mirini* far- 1 unanime confentimento dei pre-   fic"  come fu fuo maefiro quel Demetrio Calcondila  Ateniefe, la cui fama è sì chiara tra’ Letterati  (5); al quale appreflb fua morte erger fece il  Trissino un bel Depofìto, ed Epitafio Scolpi-  to in marmo bianco nel facrario della Chiefa  della Paffione della Città Aefifa di Milano, co-  me dicono Paolo Beni, c'1 P. D. Francefco  Rugeri Somafco (7), cd altri, il qual Epitaffio   non   V’ha un’epiftola addet-  to Giraldi in vedi Latini del  Sacco di Roma, polla nel 2.  tomo delle fue Opere della edi-  zione di 8 Mfilt.it per T nomar»  Guarinmn ,  infol. che autorizza il noftro detto  cosi dicendo;   tt Aec dttfet Bembus , q*o  » nere pr e fi art hot alter    „ A«e q»cm Ntbilitar gene .   tt rit, f ac media triplex  » Irejigreem fAcit , & viridi  mihi notr s ab avo    „ T r 1 * s t N U s , In fibra dum  tt Grecai difeimm Urbe.  Da una Lettera aliai lunga  del Trusino, fcritta da A-ii-  lano li. all'  txc cliente Medie» ( così Ha ferir-  lo ) M. Uini tritio da Afalgra-  dt , fi ha, che egli non pure  era fcolare del Calcondila, ma  che anche abitava in fua cafa.   (6) Tratt . dell' Origin. della  Famiglia Trijf. lib. 2. a car.33.   (7) Nella Declamazione la-  tina intitolata : Trutina JOelpb»-  htdrki Tabellariatui Traiani   1 Boc-    Digitized by Google    del TRissino. 5   non pur fi conferva manufcritto con altre fue  compofizioni fin ora non date a luce, appretto  i Sigg. Co. Co. Fratelli T riflìni di lui eredi*, ma  fu anche ftampato nella Biblioteca degli Scrittori  Milanefi pubblicata dal Sig. Filippo Argelati Bo-  lognefe (8), e poi riferito fulla fede di quefto  autore da Criftiano-Federigo Boernero nel libro  de' Dotti Uomini Greci riftoratori della Greca  letteratura nell’ Italia (p); ed è quefto.   p. m.   DEMETRIO CHALCONDYLyE ATHENIENSI  IN STUDIIS L1TERARUM GR^CARUM  EMINENTISSIMO  QUI VIXIT ANNOS LXXVII. MENS. V.  ET OBIIT ANNO CHRISTI MDXL O. GASP. FILIUS  PRAICEPTORI OPTIMO ET SANCTISSIMO  POSUIT.   E di    fiat cui ini ice. Alon.ìchii fuisfor-  mis, CTfumptibmt cuffie Nicola hs  tìmricHs , t6aa. in 4. pag.xxi 1 1.  e xxiv. ove dice: „Hic ( JojGeor-  u gius ) a viro do&ìllìmo De-  „ inetrio Cbalcondyla Athc-  ,» nienti , tanca ingenii foclici-  „ tace, Gricci fcrmonis latices,  » haufic ut.... Attici cognomen,  „ paucorununenfium cuiriculo,  „ ex fui prseceptoris fententia,  „ verius proineruit : Magiftro  i) benemerenti gratiflìmu, , cui  », McdioJani vita fun&o , mo-    » numentum marmoreum in  „ tempio Paffioni Servatoti, noftri facrum excitavit.   (8) Philip pi Arie lati Bono,  nienfis Bibliotheca Scriptorum  Alcdiolancnjìnm , five Alla, &  Elogia Virorum omnigena or odi.  tionc illuflrium , qui in Metro,  foli Infubrie , Oppidifquc circum.  jacentibut orti funi lice. Medio.  Uni 174J. In JLdibus Palatini t;  Tom. ix. in fol. l’ Epitelio Chriftiani Frid. B temer i  De  E di ciò non .contento Giovangiorgio volle j  in fegno di gratitudine maggiore allo fteflò Tuo  grande maeftro, farne altresì lodevole menzione  nel predetto fuo Poema (io).   Donde fi deduce, che molto lontana è dal  vero la opinione di Giovanni Imperiali, Vicen-  tino, il quale fcrifse eflere fiato il Tassino af-  fatto ignaro di lettere fino all’età di ventidue  anni; e che dipoi andato a Roma, al folo udì*  re colà le aringhe de’ Letterati, tanto fi accen.  defle in lui la brama di fapere, che giugnefle  in breve tempo a quella letteratura , che lo  rendette poi così celebre, e così illuftre (11): il  che difsero anche Paolo Beni (i z), ed un altro  autore (13).   Allo    De dotti* Hominibn i Gr tris Li- Il Calcondilt , che farà, che   t trarum Gracarum in Italia in- ditene   (taur attribuì Libtr. Làpfi* in Bi- Verrà ftco in Italia , t pian-   tliopolie Job. Frid . Sledijtchii terawi   1750. in ii.gr. Qui l’ Epitaffio è II feme elette della lingua   a car. 185. Greta ,   (10I Ita!. Libtr. da' Goti , lib. fit ) Gio. Imperiali Mufxum  *4. nella fine con quelli verli . Hiftortcum óiC.Venetiù apuajun-  Vtlgett gli occhi a luti pre- ; ttai . 1640. in 4. pag. 43.   dori ingegni ; ( li ) Tratt. dell' Orig. della   Quello è BeJJarion , quell' altro Famigl. Trzff. lib. 2. a carr. 33.  i’I Gaxjt ; ( 13 ) Qiiclli fu un certo G»-   . leazzo Trillino in una Genea-   QnelV altre t'I Gemijle col 1 logica Narrazione della fu a fa-  Trapeftnxj», ■ miglia, da effo iraslatata di la-   £ 'l C aleni’ dii e , f’I Lafcari, e[ tino involgare. Di quefto vol-  *1 Muffure, 1 garizzamento fi trovano parec-   * chic.   Allo ftudio delle Greche lettere uni il noftro  O. quello delle feienze Matematiche} e  tifiche (14), e quello ancora dell’ Architettura,   in   èhie copie, c una è appretto il perfona del noftro Giovan-  rnentovato Sig. Co: Parmcnione | G 1 o r gì o, c che da edo ci fu-  ‘Triflino, della quale ci fiamo rono pare con umanilTima gcn-  ferviti a fcrivere queftaf'it.», e tilezza trafmede a. Vicenza. For-  ciceremla col nome di Gemalo- I le che detta Raccolta di Scric*  già delia Cafii Triffino di Galeaz. • ture queUa era, che da Paolo  zj> Triffino . Quello autore di- Beni viene citata nel predetto  ce nel proemio di avere ac- {no Trattato Manufcricto della  trefeiura eda Narr Azione da (e Famigl. Trifs. a car. 26. Ann.  tradotta a inchieda di parco» 1404. con quelle parole: Gic:  chi fuoi amici e parenti , i qua- Giorgi o Tr issino» il  li voleano i che c’ia defle an- Poeta , di chì ragioneremo , nelP  che in luce. Orazione che fece nel green Con -   Un’altra copia nc ha il Sig. figlio di Tentila fer ricupera  Abate D. Bartolommeo Zigiotti Alone delle fue Decime nella Til-  in tutto limile alla predetta . Un Im di Tal d’ Agno , che fi legge  Tello poi di quell’opera era già fcritta a penna nelC Archivio  appretto i p. P. Somafchi della del Sig. Co. Bonifacio Triffino  Salute in Venezia! e queftonoi j nel libro , che ha per titolo  Rimiamo, dite potefte ctTcrc I'IPrisca Triisjne^ Fami-  originale. Con ctTo era unita) ti .€ Monumenta.* & c..,  la citata Aringa di G 1 o v a n- facendo egli menzione delle  Giorgio, c ’1 Trattato mano- Scritture defle anche a car. 29.  fcritto della Famigl. Triff. di I del primo libro dello Aedo fuo  Paolo Beni, ed altre feri t tu re Trattato della Famigl. Triff . ,  concernenti alla detta Famiglia: che è dampato, di cui più in-  tutto in un libroin foglio, fui nanzi faremo menzione. Dilli,  cui cartone al di fuori lì legge- j che era nella Libreria de’ P.P. del-  Vano quelle parole: P r i se a t la Salute in Venezia, perchè og-  Trusinea Familismo-! gidi certamente ivi o non vi fono  hu menta. Le quali Scrittu- j ìe dette fcritture, o difficilmen-  te prima erano appredo il P.D. te fi podono ritrovare : conciof*  Pier-Catcrino Zeno Cher. Rcg. fiachè io col mezzo anche del  Somafco, di gloriofa memoria} | P. D. Jacopo Maria Paltoni, che  come ci dide il Sig. Apoftolo j con tutta bontà mi favorì di di-  Zeno, fuo fratello, che di ede ligentemente cercarle, non abbia  tutte nc eflraflc quelle notizie, mai quivi potuto ritrovarla,  che credette più fpettami alla) (14) Che il Tr issino fof-  — - - , fc   in cui molto fece di profitto, come ne fa fede  non pure un piccolo ir aitato in cotal materia  da lui comporto (15)» ma la fabbrica del fuo  Palazzo nella Villa di Cricoli a mezzo miglio  lontana da Vicenza, che è tutto di fuo difegno  fulle regole di Vitruvio (i Quia 1 ri* del nome loro. Non fi può *  ,, Parthenius multaruni (cien-' veramente farne altro gìudicio,  >» tiarum homo, diù literas ibi i confederata con la prontezza di  „ docuit, erudivitquc canqu 3 m j cotefii ingegni , che voi harete  », in Lyceo Juvcnes nobiles Vi- da e fer citare , la finezza delle  », cetinos maximè, ac Vcnctos. veftre lettere, e la gentil manie-  ri) Queita lettera, che fi ra, propria di voi filo nel di-  lcgge tra la Lettere di xiu. mojtrarle . Entrate pure, Sig.Com -  Uomini illuftri ec. In Venezia pare con franco animo in quefia  per Comin da T rino di Alonfer - eroica imprefa , e commutile at e  rato, 1561. in 8,, a car. 180. e altrui i tefiri della vera dol-  che fu anche inferita nella terza trina , parte con la voce , e  parie del V Idea del Segretario di parte, ancora con la penna, che  Bartolommeo Zucthi, In Vene- non ho dubbio, che nell’ ameni-  z.ia prcjfo la compagnia minima tà di quella vaga fan zia non vi  léso, in 4. a car. 8 1. ; Quella let- fi defti defiderio di qualche bel -  tera, dico, vogliamo qui rife- la poefìat al che doveri fifpi-  CÙe; cd £ quella.. ( [ gntrvi la rimembranti , che ogni   trat-    Digitized by Google     ti L A Vita   S’era già ammogliato il noitro Tassino a Giovanna Tiene,  nobile Vicentina, da cui avea avuti due  figliuoli, l’uno chiamato Francefco, che morì  giovane, e l'altro Giulio (25), il quale fu poi  Arciprete della Chiefa Cattedrale di Vicenza  (26)$ ed eflfendo effa morta, di tanto egli fi   ram-    tratto il luogo vi darà del dot -  tijfimo Trisjino; in cui a  giudicio mio chiiirijftmo efempio  ha veduto Reta noftra delle tre  più pregiate lingue, cc»   Di Venetia olii xx. dì Maggio MDLV,  Compari e fratello Paolo Mariano .   Ciò» clic della Villa (addet-  ta di Cricoli lafciò fcritto il  Sabellico nel Poemetto intitola-  to Crater yiccntinus, porto nel to-  mo iv. delle fue Opere, a car.550.  ( nominato dal P. Rugcri nella  ìua Declamazione a car. xxv.)  fu molto prima che ella fofsc  ridotta alla perfezione, c va-  ghezza, che oggi fi vede; la  qual cofa fu osservata ezian-  dio dal Beni nel luogo citato.   Nel Palazzo iftcfso di Crico-  li ebbe diletto di foggiornare  parecchie volte 1 ’ Arcivcfcovo  di Rofsano Monti?, nor Giovam-  batirta Cartagna » nobile Roma-  no, Genovefc di origine , nel  tempo , che era Nunzio di Gre-  gorio .irti, in Venezia; come  dicono il P. Rugeri Trutina&c.  pag. xxv., c Paolo Beni Tratt.  dell' Orig. della Famigl. Trift.  rtampato, a car. jj., e’lTom-{    I mafini Elogia &c. pag. 49. e 50.,  ed altri; U qual Prelato fu poi  [addi li. del Dicembre dell’anno  1583. creato Cardinale, e poi  a’ 15. di Settembre 1590. fatto  Papa col nome di Urbano vii.   | Onde in memoria di ciò fu la  I cornice d’una porta d’una Ca-  | mera del mcdeìimo Palagio vi  tu incifaquertaifcrizionc; B E a-  t issi m 1 Urbani VII. Hos-  pitium ; e fovrappoftovi il  Bufto dello ftefso Pontefice.   (14) Nel Ri/fretto della Vi-  ta dei T r 1 s s 1 n o prcmcfso al-  le fue Opere dell^ rirtampa di  Verona, quella fua prima mo-  glie è chiamata erroneamente  Giovanna T r 1 ss 1 n a, quando  ella fu veramente (come conila  dagli Arbori) della Famiglia de k  Cor Co: Tiene.  Di quello Giulio avre-  mo occaGonc di fare pcculiar  menzione , a cagione de’ fuoi lun-  ghi litigj contro al Padre.   (26) Che due figliuoli avefsc  il Tr issino della detta fua moglie»  lo dice ilTommafini negli Elogi  pag. 30., cd altri; ma il Tr issi-  no irtclfo nella citata lettera al  Reve -    Digitized by Google    del TR-Issino. 13   rammaricò, che non volle più dimorare nella  Patria 5 ma partitofcne tornò a Roma , dove  già era ftato effe ndo giovane; e quivi col cuore  ingombrato da quello fanello penliero fi diede  a telfere la celebre -Tragedia della Sofonisba,  della quale innanzi parleremo minutamente.   Frattanto eflendo morto il Pontefice Giulio 11 .  gli fuccedette Tanno  a dì xi. di Marzo,  o fecondo altri addì xv. , il gran Cardinale  Giovanni de’ Medici» che fi fece chiamare Leo-  ne X., il quale, ficcome quegli che era princi-  pal protettore de’ Letterati , avendo conofciuto  il Tris sino, s'innamorò ardentemente del fuo  raro ingegno, e poi lo amò fempre quanto ciaf-  cuno illuftrc Perfonaggio del fuo tempo, c l’ono-  rò fommamente, impiegandolo eziandio in varj  uffizj affai riguardevoli. Godea egli pertanto in  quella Corte tutti gli agi, e gli onori tutti, che  a un Perfonaggio diletto al Pontefice fi conve-  nivano; quando venutogli nella mente il già go-  duto rìpofo nella fua Villa di Cricoli, deliberò   di    Reverendo Prete Francefco di j ra poi del medefimo, che non  Gragnuola, che fu fuo macftro , c fra le (lampare, fcritta da Aiu-  dandogli ragguaglio delle cofe ' ratto al detto Giulio addì iS.  della fua cafa, d’altri non par- M*rz,o 1542., fi ha, che elio  la, fuorché dell’ Arciprete con Giulio fu primamente Cameriere  quelle parole: Hebbì della yri- di Papa Clemente vii. > c clic  ma moglie un figliuolo , il qua- da lui fu poi fatto Arciprete del.  le è fatto-, ed è Arciprete di la Cattcdtale della Cittì no-  quefia Città. Da un’altra lette- j ftra di rimpatriarli : laonde prefo commiato dal Pa»  pa, tornò a Venezia, dove fuori di rutto il fuo  penfamento trovò materia, per la quale e’ dovet-  te per lungo fpazio di tempo anzi inquieta, che  ripofata menar fua vita.   Ciò fu una per altro temeraria infolenza di  alcune Comunità di certe Ville del Territoria  Vicentino, fpecialmcnte di Recoaro, e di Val d  Agno, che prefa l’occafione delle turbolenze e  rivoluzioni , che travagliavano in que'tempi non  pure la noftra Patria, ma tutta la Lombardia,  aveano  fupplicata la Sereniffima Signo-  ria di Venezia fotto palliato colore di one-  ftà, che volefle (gravarle dellobbligo, che aveano  di dare le Decime delle loro ricolte a'CorC.o: Trif-  fmi della linea del noftro Giovangior.gi.o , i  quali n erano i foli Proprietarj e Padroni, co-  me quelli, che dalla Signoria ilefsa ne erano (la-  ti invertiti  a di 3. di Settembre. E  benché addì 6 . di Ottobre dell'anno 1512. le  dette Comunità avefsero avuta fopra ciò con-  traria fentenza in foro civile, non però di me*  no tentarono , fe favorevole giudicio ottener po-   tefsero io foro ecclefiallico: e perchè ne furono   molto  Della Repubblica di Ve-  nezia fi gloria d’ cfscrc volonta-  ria prima fuddita la Città di  Vicenza - , la quale anche però è  chiamata dagli Scrittoci Primogenita d’cfs a Repubblica ,  perche la Piuma fu, che fra tut-  te le Città fudditc le fi donifse  fpontancamcnte: il clic fu molto torto impediti (28), però efli per forza  dal fuddetto obbligo fi efentarono. Ma in que-  llo mezzo per giurto motivo quefte Decime ap-  plicate furono al Fifco Pubblico.   Tornato adunque Giovanciorcio in Patria, co-  me dicemmo (il che fu o verfo la fine dell’an-  no 1514., o nel principio deiranno) e  trovati sì fatti difordini, de’ quali dicea egli di  non averne avuta, dimorante in Roma, veruna relazione (so)-, pensò di ricorrere alla Signoria  medefima, perchè almeno gli fofle redimita del"  le fuddette Decime la fua propria porzione- Se  poi egli efFettuaffe perfonalmente quello fuo pen-  famento, o fe altri in fuo nome facefse la fup-  plica, noi noi fappiamo di certo: comunque ciò  fofse, fatto ila, che cfsendo Hata conofciuta la  fua innocenza, e a riguardo fpecialmente di Pa-  pa Leone , il quale la iatercertìon fua in ciò   frap-  Ottennero i Co; Co;Trif-  flniaddi ia.di Novembre Lettere  Ducali proibitive del non do-  verli trattare in foro ecdefiaBi-  co quella lite.  Tommafini negli E-  legi pag. 51. dice, clic furono  confricati i fuoi Beni ita urgen-  te belli fortuna : c poco appref-  fo parlando della refiituzionel  fattagli de’ Beni Beffi dai Vene-!  ziani, accenna la cagione d’cf-|  fa confifcazione, dicendo: fai ,    cognita ifjìut innteentìa , Veneti  Bona ab / enti jujìa confanguinto-  rum culpa ob defetHoncm erepra,  benigni reflituerunt . Noi vera-  mente fappiamo qual folle cotal  colpa} maonefii rifpetti, e ne-  cefsarj giuBi motivi non ci per-  mettono di riferirla.   Tanto egli afferma nel-  la fua siringa-, di cui diremo  più datatamente a fuo luo-  go.     Irappofe, gli fu Tanno fuddetto 1515. re-  flituita ogni cofa.   In quello tempo medefimo fu egli dallo ftef-  fo Pontefice in aliai importanti affari impiegato; e primieramente finché folfe palfato il verno  di quell’anno, (dopo cui gli ordinò medefima-  mente, che, prendendo la volta di Dacia, fe n*  andafsc Nuncio a quel Re), lo mandò fuo  Ambafciadore all’ Imperator Maffimiliano ; nel  quale impiegò fi portò con tale prudenza, che  e da ognuno in molta llima tenuto fu, e all*  Imperatore caro sì, che ne riportò grandilfimi  onori (35): anzi è fama, che da lui conceduto  gli fofse, che nell’Arme gentilizia Tlmprefa del  Fello d'oro inferir potefìc, e che altresì Tri ss ino   • dal    •( 31 ) Che Papa Leone frappo-  nt(Tc in quello fatto la Tua in-  tercezione , non folamente lo  dice Monfignor TommaGni ne-  gli Elogi , pag. 51., ove regiftra  un frammento di una fua lette-  ra al Conte di Cantati, con cui  gli raccomandava quefto affare;  ma lo accenna Giovangior.  Gto fieffo nella già citata fua  lettera al Revtr. Prete di Gra-  gnuola con quefte parole: Io fo-  no flato per varj cafl: prima per  qitcfle guerre fletti ot Panni exu-  le, e privato di tutte le tuie fa-  cult à, che per la benignità de  la felice ricsr dazione di P.P....  (il nome non è quivi cfprelfo,  ma fu Leone) mi fu reflituito    ogni cofa, nel tempo, che if ero  Legato di Sua Beatitudine a  Maxìmiliano Imperatore ; e nel-  la fua Aringa dice, che ciò fu  de l' anno 15 1 5., che erano tre  anni a ponto dopo che li Commu-  ni aveano occupate le Decime.  La Dacia, dove il Tris-  sino dovea andare, quella non  è, che anticamente era unagran-  diflìma e vada Provincia dell’  Europa, c che oggidì c laTran-  fil vania; ma quella, che oggi sì  appella Dania, o Danimarca, la  quale giace a fetrenttionc dell, a  Germania.   (33) Tanto afferma egli (Icf-  fo nella Dedicatoria del fuo Poe-  ma dell’ Italia Liberata eia'Goti.] dal vello d,' oro potefse denominarli .. Ma per-  chè alcuni dicono eSsergli flato conceduto ciò  anche da Carlo V.» pero ci riferbiamo a par-  larne altrove a minuto.   Di tutto ciò, che Giovan Giorgio operava nel  tempo di detta legazione, avvisò il Pontefice  -con una lettera inclufa in un’altra diretta a Gio-  vanni Rucellai, Tuo grande amico, e confidente,  il quale poi addi 8. di Novembre del Suddetto  anno 15-15^ gli riSpoSe da Viterbo, che avea con-  gegnata al Papa la fila lettera; che elfo l'avea  ■letta molto 'volentieri ,5 e che non pur dai motti e  gefti fatti nel leggerla conofciuto avea effergli  -molto piaciuta, ma più affai da quelle fue pre-  xile parole: egli hi fino a qui proceduto bene y &  non poteva meglio exequire li mia volontà dì quello   Jl * Soggiungendo appreffo aver dal mede-  lìmo commiffione di Scrivergli , che feguitaffe  P ure , come avea fatto, a conferir col Vefcovo FeU  trenje gli affari che maneggiava; Siccome il Papa  fleffo gliel’ ordina-va col Brieve , che gli tras-  metteva in un con quella Sua lettera di rifpofta  (34)* Dalla qual lettera appare ancora avere  avuto il Trissino ordine dal Pontefice di trat-  tare la pace universale, e l’impreSa contra degl*  Infedeli; poiché il Rucellai gli Scrive così: Per   C li pie e  Quella lettera del Ru-  celiai fu ftampata a car. xv. del-    la citata Prefazione alle Opere  del Trissino.  U pace univerfale , e l* impre fa c intra Infedeli vi ha-  •ucte a d «per are totis v/ribut , perché Sua Santi ita t  ba mi In 4 cuore , come fapete , e crediate certo , che  ne/funa altra caufa particolare non lo muove , fi non  la unione della Crifianitì 3 £ t/uefta fan ti firn a Impre-  C*> benché fi, che vi ricordate la COMMISSIONE fua y  e con che affezione vi PARLÒ di t/ue/la cofa (35).   Ettèndo già intanto pattato il verno del pre-  detto anno 1 5 1 5» volea Giovamgiorgio profe-  rire il Tuo viaggio verfo la Dacia , giufta la  committionc dei Pontefice; ma ne -fu impedito  dalflmperadore, il quale volle, che invece al  Papa ritornatte, come Tuo proprio ambafeiatore,  e lo pregafle in Tuo nome, che volette fermare  una nuova lega tra sè, el Re d’Inghilterra, e’1  Re di Spagna contro a'Franzefi, i quali dittimu-  lando la brama di vendicarli, voleano pattare in  Italia; giacche la confederazione altra volta con-  chiufa tra sè, e’1 Re cT Aragona, s*cra fciolta  per la morte di quello Re; mandandogli anche  per Giovan gidroio medefimo una ben lunga   Jette- Rucellai finifee detta j de’ Medici, cugino di Papa Leo-  lcttcra con quefte patolc: Credo ine; il quale poi anch’egli fu  haremo pre/t 0 il Cardinal de' Medi- '.(aito Pontefice col nome di Cle-  ri, il quale è tanto vo/fro , quanto | mente VII.; abbiamo però rife-  dir fi pojfa ,pcr qualche lettera ,rér|rite le parole fuddette del Ru-  ha /cripto qui , dimojìra , che molto celiai , perchè avremo occaftonc  v ama perchè ha fallo fempre ho- ', di dire gli onori da quello Papa  rtorevtle menzione di voi. I fatti al Tr issi no nel tempo   Quello Cardinale era Giulio | del fuo Pontificato. . lettera, pregandolo primamente, che Lui fcuCaf-  fe, fé invece d’andare in Dacia, come era Tua  mente, alla Santità £ua ritornava* perchè ne 1*  avea egli coftretto; lignificandogli pofeia il pe-  ricolo imminente, e la necefiìtà dell’affare   G z Rice-  Contenendo quella let-  tera dell’ Imperatore al Papa  alcune curiofe particolarità ,  fpczialmente intorno al noftro  Tr issi n Oj abbiamo (limato  bene di qui traferivcrne buona  parte; tralafciando di dire ciò,  Che punto o poco fa al noftro  propofito. La qual Lettera ci fu  comunicata dal Sign. Apoftolo  Zeno, di Tempre cara memoria.   >, Maximiliamus Di vi-  « na favente Clementi^ Roma.  „ norum Imperator S. A. &c   >, Io. G e o r g 1 u s de T m s-  „ sino San&itatis fu. e apud  ,» Nos Nuncius , Se Orator .  », &c. ... In primis idem Ora-  ,, tor cxhibitis Litcris noftris  >, credentialibus Beat. Pònti fi-  ,» ci, cum omni filiali reveren-  ,, tia. & obfcquiolàlutabitSan-  ,, Sitarmi fuam , Se commcn-  », dabit Nos , Screnifs. Carolum Regem Hifpaniarum , Se  „ alios Filios noiiros ad Suam  ,, Beatitudinem. Deinde deda*  „ rabit banditati Sua: , quod  „ licet idem Orator ftatuiffet  » iter fuum continuare juxta  », mandata Beat. Ponti ficis ad  „ Screnifs. Regem Dacia:, fra-  „ trem , Se gcncrum Noftrum  ,, cariftimum nihilominus Nos  confidcrantes longè plus ex-  ,, pedirc rebus Sux Sancfcitatis Se fuis, ac univerfx Reipub.   „ Chriftiana* redirc propter oc-  „ currenda* ad S. San&itatem ,   ,, quàm profequi iter emptum,   „ ob fingularem obfervantiam,   „ Se affeàum , quem No* habe-  „ mus ad San&ic. Pontificis,   „ Se )us , quod prxfumimus in omnibus miniftris, Se fervitoribus S. Beatitudinis, ipfum Oratorem cùm venia noftra defeendentem ab itinere  „ retraximus, & ad S. E. redi-  » re computi mus, quo clarius».  „ Se apertius rerum omnium  ,, Sancitati Sux per Creaturam  „ fuam tàm Ei affe&am deda»  „ ramus. Ideo Bcatitudo Ponti-  „ ficis hxc sequo animo accipiat,  „ Se fi in errore erracunv fit , quod tamcnnonciedimus, id  „ Nobis imputet. Caufaautcm hujufmodieft  „ quod cum jam Ser. Rex An-  „ glia: fratcr nofter cariffimus  „ per Litcras , Se Oratorem fuum:  „ apud Nos degentem , Se Or a-  „ torem Noftrum apud Se ref-  „ fidentem dcclaraverit Beat.  „ Pontificis, cognito periculo,  ,, quod imminer, nedum Ita-  ,, lise, fed univerfx. Reipublicf  m> Chri-  Ricevette volentieri il Papa quefte (cute, e ac-  colfe il noftro T rissino colla folita benignità»  e ( omettendo di riferire ciò, che Tulle richie-  fte dell’ Imperatore egli riiòivefse , come cofa   poco  Cbriftian ex magnitudine, Se infoientia Gallorum forc  », optimè contentimi, & idem  „ maxime defiderare , quod  ,» iidem Galli hunjilientur , Se  n rebus fuis contcntcntur : qux  „ quidem fentcntia Sandlitatis  », Su*,cùm Nobis fempernedum  „ opti ma, fed valdè neceflaria  „ vifa eli, ex periculo, quod  „ omnibus imminet , Se prxfertim Beau Pontificis, & fu*  „ Patri*, Se Familix, cùm il-  ,, lud antiquum odium, quem Galli babucrunt ad Eum, quùm fecerint ipfum extorrem, & per xviil. annos.cr-  », rare à Patria, cùm maxime, calamitates compulcrint, nullatenus remiferint, td omni-  „. nò auxerint, licei imprxfen-  „ tiarurn negant, & compri-  „ mane , cxpedtantes tempus. vindidlx: Itaque cogiraverit, SandlirasSua comprimere eos, Se ad illum terminum redigere, quod non liceat plus eis  „ inSandlitat.Suam,quàmfiui-|  » timos fuos, Se quam juftum fit . |  >, Et cùm Nos, & Scr. Rex j  n Angli*, & Ci. mcm. olimj  n Rex Arngonumid apertd pcr-l  « fpiceremus , fapienter cogita- j  „ vimus de una confxderatio- '  », ne ad inumani defenfionem !  », ad inviccm, Se etiam offèa-J    ,3 fionem cantra eofdem Gallos, etiam crat Lex imer Nos , Se  », ipfos conclufa : fed morte  ,3 ipfius clar. mera. Regis Ara-  „ gonum dilata. Se interrupta  I ,» eft •, fed tamen cùm ex hoc  „ pcticulum > ncc fublatum,3 ncc diminutura immò nia-  „ ximcaudtum fit, vidccurNo-  „ bis omnino in eadem dclibc-  „ tatione perfiftendum, Se rogamus Beat. Pontificis ut  , confiderata nccdlitate hujus>  3, rei, vclit fpfà quidem intra.  3 , re foedus hoc,. Se tranfmitte-  3 , re mandatum fuum apud Scr.  Regfm Angli* » ut ibidem  ». contradletur» Se conciudatuu  » Efficiamus autem , quod in.  „ locum Clar. mcm. Regjs dc-  ,» fundìi fuccedar Se r. Carolus  ,, Rex Hifpaniarum , Se qui  „ quidem in ca te proficerc  poterir, idem Orator admo-  „ ncbit Nos. Agct autem di-  ,» dus Orator, tee.   „ Dar. iu Civitare noftr*  „ Tridentina die odiava  ,, Menfis Marti] MDXVI.   „ Regni noflri Romani  „ triccfimo ptimex.   ,, Locus 4 . Sigilli .  Ad Mandatum Ccfa-  „ re* Majcflatis prò.   „ prium ]o. de B&-  », KL'ljjS- i n O. 12  poco alla preferite materia confacente) pensò in-  di a poco tempo di occuparlo in altri impieghi •  In fatti l’anno ftefso, che fu il lo inviò   fuo Nunzio alla Repubblica di Venezia per  maneggiar forfè 1 affare della Crociata contro a  Selim Gran-Signor de Turchi , la quale gli flava  molto in fui cuore.   Nel tempo di quella lua ambafeeria trovò il  Tr issino? che le Comunità, di cui s’è fatta men-  zione, pagata aveano 3I Fifco Pubblico la rendita  della fua porzione delle Decime fopraddette; ne-  gando in oltre coftoro di riconofccrne lui per Si-  gnore: laonde egli ebbe novamente ricorfo alla Si-  gnoria di Venezia, la quale fubito con fue lettere  in data de’xvu f. Dicembre 15 itf. commife ai Rettori di Vicenza ( che in quel tempo erano Er-  molao Donato, Podeftà , e Girolamo Pefaro >  Capitano') che nel pofsefso dello Decime flefse  lo riponefsero, come lo era innanzi la pafsata  guerra (39). Dalle quali lettere ebbe poi co-   mincia-   Lo dice il Tri ss imo  Hello nella Tua Aringa, d me-  glio nella lettera al Prete di  Cragmtol a con quelle parole :  Sua Beatitudine mi mandò ....  Legato a Venezia, ovt fui molto  ben veduto da quella Jlluflr : f.  Signoria .  Al Papa quello affare  premeva si, che perciò maneg-j  giòj c tlabilì una lega tra mol- j    | ti Principi Crifliani ; ma por per la morte di Maffimiliano li  difciolfc, e di sì alta e pia im-  presi fvant 1’ effetto defidera*  to.   MTr issino in pro-  pofito di ciò nella fua Aringa  dice cosi : Per effer abfente la  mia facoltà fu tolta nel Fifcho ;  & detti Comuni però , quantunque  ritmtjfero tutte le farti di que-   fic    D. 2.J   tro Bembo, fuo Segretario, la quale opportuno  crediamo di qui trafcrivere.   JO: O.   y I C 1 H X I 11 o.   ,, Cationi am opera, & diligentia tua , atquc  „ virtute certis in meis, & Reip. rebus uri quam-  „ plurimum volo, quarum rerum caufa, te ut  » alloquar, magnoperè oportet: mando tibi, ut  quod tuo comodo fiet, Leonardo Lauredano   „ Principe Venetiarum falutato , ad me confe-  „ ftim revertare.   ,, Dat. Non. Januarii M. D. XVII. Anno  „ quarto. Roma.   Andovvi egli prettamente, niente penfando,  che perciò iettar dovette in pendente l’efito del-  la Tua lite. Non lappiamo precifamente a che il  Papa lo aveffe richiamato a Roma: del retto non  molto egli quivi dimorò, perciocché nello ftef-'  io anno 1517. ritornò a Venezia-, e fé fi vuol  dar fede a Paolo Beni, xitornovvi anche a que-  lla volta come Nuncio Apoftolico per trattare  di ftabilire una lega contra 1 Imperio de’ Tur-  chi (41) . Vero è tuttavia', che il Papa in tale  • ; occafio-    (40) Quella lettera fi legge ' Simonìe Vinctntii fin fine ) Dù-  ncl libro intitolato : Ferri Bembi , niftus ab Harfioexrndebat Lugdu •  EfiftoUrnm Ltonis Decimi Ton- j ni. ! r I 11 . in 8 ed è  tif. Max. nomine fcriptarum Li- ! la 35. del lib. xlll. pag.  bri xvi. Ledimi apud Hercdts \ Paolo Beni nel T ratent. L a Vita   occafione inviò per lofteflò Tr issino una let-  tera al Doge Leonardo Loredano, dalla quale  appare, che egli avea a trattare col Doge a no-  me della -Santità Sua cofe di fomma importanza:  la qual lettera non vogliamo lafciare parimente  di qui traferivere, ed è la feguente (42).   Leonardo lauredano   Principi Venetiarum.   ,, IP Roficifcenti Venetias Jo:Georgio TrissinoVì*  5, centino; quem quidem propter bonarum artium  „ do&rinam , & politiores literas , excellentem-  >, que virtutem unicè diligo; mandavi, ut tibi  „ falutem nuntiaret mcis verbis; tecumque cer-  tis de rebus ageret, quae cùm mihi cordi flint,  „ tùm noftra utriufque intereft ea confieri : tibi  „ vero edam hone fiati, atquegloriae funt futura-  „ Dat. prid. Non. Septemb. Anno quarto . jj Ronitif   Non oftante che in tanti e si diverfi negozj     notò del titolo di Legato ApoA (4») Quella lettera fi legge  Jlolico inviandolo a Adajpmilia-ìahicsì nel citato libro delle Lct-  no Cefare. Ritiratofi alla Pa- 1 tere fcrittc a nome di PapaLio-  tria, fa di nuovo chiamato a &>-I nc dal Bembo, lib. XI II.  ma nel principio dell' anno IJ17. ; 16. pag. jiy. Ciovangiorgio occupato forte, avea condotta*  a fine la fbprammentovata Tua Tragedia della So-  fonìsbti y cui ( dopo eflere flato lungamente in for-  fè y come dice egli fteflo nella Dedicatoria) in-  dirizzò al luddetto Pontefice con lettera , che  in poi flampata colla ftefla Tragedia l'anno 152^  in Roma. Leone gradì fommamente qucfto com-  ponimento r e ficcomc egli era giudiciofiflìmo e.  fapientiflìmo letterato , ne fece tanta. Rima, che  volle forte con reale magnificenza, e con tutto  lo sfoggio degno di se rapprefentata (43 K  Non può negarli, che il Tr issi no non ab-  bia comporta quella Tragedia con tutto lo sfor-  zo dell’ingegno fuo; perchè quanto al Suggct-  to, fcelto avendo l’ avvenimento funefto di So-  fonisba Regina di Cartagine r fi fece conokcrc  giudiciofo sì, che per teftimonianza di Nic-   D colò   Di ciò veramente altra !»» mationibus adjudicarus fuit.-  ficura pruova addurre non pof- j Benché dalle infraferitre pa-  camo, fuor folamente la fama role , che Giovanni Rucellai ag-  c la tradizione, che fe ne hn; | giunfc in fine della fopraccitata  e in oltre l’ aurorità ( fe pur va- j fua lettera al Trmsino fogna-  le) dclTommafini, il quale ne. | ta addi 8. Novembre 1515. di  gli Elogi, pag. 50., cosi lafci b- yiterbo , fi potrebbe ancora con-  ferino : » Summa duksdine , I ghietturar quello fatto. Abbiate  „ Se majeftatis pondero calami - 1 a mente ( dice egli ) Sophonitb. 1  „ rofum Sophonisbi Regine voflra , che forfè Phalijco fari  evtntum drnmatc exprcfiit .'ratto fuo in qutfla venuta del  „ Quod cùtn Leone X- li cera.- j Papa a Fiorenza .   ,, rum Moecenatc benignifiìmo I  Difcorfi intorno alla  „ in Scenam magno apparata T rag* dì a . /n P’icenz.a , appreffo  „ eficc projuitum, primus illc Giorgio Greco. in 8 . c. 14»  „ Italia: puòiicis lauree accia, [a tergo che (non oftante che ad alcuni quefto compo-  nimento non -fia perfettamente piaciuto, come  vedremo) elfo fu ftimatiflìmo, e non fidamente  vivente il fuo Autore, ma appreffo fua morte,  e d’ogni tempo r e i noftri Accademici Olimpi-  ci elfo feelfero a rapprefentare l’anno 1562. nel-  la Sala del Palazzo della Ragione in occafione  di provare il modello del famofo Teatro Olim-  pico di Andrea Palladio ( 45 ); e ciò fecero con  sì ricca magnificenza , che, fecondo che dice  Jacopo Marzari  1 , vi ccncorft quafi tutta la   Nobil m    (45) Il Sig. Marchefe Maffci',» rem Siphaci». filiam Afdru-  nei preambolo a quella Trage-j„ bali», captam Satina adama-  dia riftampnea uri primo tomo „ vie, & nuptiis fa&is nxorerrt  del Tuo T entro Italiano, che d-|„ babuit ; caftigatufque a Scr-  1 tremo a fuo luogo, dice intorno J „ pione » venenum tranfmific*  al Soggetto di dia, che chi leg- „ quo quidem baufto illa de-  gerà il trtnttjìmo libro di T . Li- [ ,, ceflir .  vio , ravviferà y come ninna fe\ ( 46 ) Di quella notizia ci con-  n' è fatta mai , che fervafft fi* ( fediamo unicamente debitori al  fide all' iftoria , e che jì nel S ig. Abate D. Bartolommeo Zi-  tnttoy come nelle farti fi* infi- grotti , femprc intento a cercali  fiejfe in effa : aggiugnendo, che nuove cofc, onde ampliare la  le fcgucnci foche farole dell ’ . fua bell’ Opera delle Memorie  antico Efitomatore fremevo ne , del detto Teatro.  ffiegano i' argomento a ba]l alila : ( 47 ) Jft orla di Pie enza CC.   u Macinili.» Sophooiibam , uxo- | In Piceni,* > affreffo Giorgio   Qn-    Nobiltà dell* Lombardia , e delU Marca Trevigiana . E   da Manofcritti dell’Accademia Olimpica fi viene  anche in chiaro, non (blamente effere fiata ella  Tragedia l’anno fuddetto 15 61. magnificamente  rapprefentata» ma tale e tanta efsere fiata la ma.  gnificema , che alcuni Accademici penfarono  non doverfi mai più fare tali fontuofe rapprc-  fentazioni, temendo, che l’Accademia non fof-  fe per riportarne mai più lode e ftima si univer-  fale. Ma gli altri più giudiciofi Accademici a sì  fatto penfamento non aflfendrono; laonde meglio  penfata quefta faccenda, e gravemente pondera-  ta, tutti in fine conchiufero, (e ciò fu l’anno  I57P-) che moderata in buona parte la fpefa, fi  dovettero pure dall’Accademia fare tali pubbliche  i-apprefentanze . E’n fatti a’X. d'Agofto dello  fletto anno fu ordinato , doverfi fare feelta d*  Lina Favola PajìoraU da recitarli pubblicamente nel  Carnovale dell'anno appretto 1580. (48): ben-  ché per altro fotte differito il recitarla ad altro  tempo.   Di Ma ri-    Greco , 1604. in 8. lib. 1. a ferratori delle Leggi, Contradi -  Cai. 160. c 161. 'centi. A: adertici, & Secretar j   Per ripruova di ciò G deli' Ac adorni* delti Olimpici ,  vuol qui traferivere intero in- \& delle Parti prefe nel Configli»  tero l’atto deli’ Accademia , che di ejfa Academia. Qual inco -  fi legge \m un Litro manoferit- , mincia . An-  ta pteJTo di me, Legnato » c no terno della fejfa Olimpiade  intitolato; Libro delle Crtatio- 'fino 7. Aprile 1581. L’Atto è  r-tdc Prencipi,Confalicri t Con- \ quello . j> Adi X. Agofto 1 5 79. In   Cou-   Ma ripigliando il lafciato filo, eflendo morto  l'anno 152,1. addì 2. di Dicembre il lodato Pon-  tefice Leone X.., il quale? come s'è veduto,  Sommamente amo il Tris si no, e ne fece moltif-  fima ftima ( anzi fu detto per alcuni , come ri-  ferisce    , Coniglio , dove inrervencro  » il Sign. Prencipe , Conlìglic-  •99 ri doi , cioè il Sign Hicroni-  >, mo Schio follituto per il Sign.  ,, Marco Brogia, & ilSign. Fau-  >9 fio Macchiavelli, il Teforic-  9, ro contraddente foflituco, il  „ Cavalicr CriHoforo Barbaran  per nome del Co. Leonardo  M Tiene, & il Sign. Antonio Ca-  „ mozza confervator delle Lcg-  gì foftituito per il Sign. Antp-  nio Maria Angiolcllo , con  ,, aie Secretano; in tutti al nu-  mero di 14.   ,, Par che, la rapprefentazio-  ,, ne della Sofonisba Tragedia  .*, dell’ Eccellerli ifT. Sign. Ciò:  ,9 Giorgio Trjssino già no-  ,, flro Patricio.  „ pel Palazzo publico per la rip-  „ feita Tua non purcon fodisfa-  „ tione, ma con meraviglia di  9, chi ne furono fpettatori, hab-  .9, bia caufato fin fiora in quell’  Accademia un quali continuo  9, filentio a fpcitacoli publici,  „ come che potendoli diflficilmente fperare più da lei im-  „ prete tanto illuBri,fofire meglio  9, per non declinare non rcetterfi  » più a veruna anione tale peri’  avvenire . Ma certamente cf-    99 fendo l’Acadcmia noflra fon-  9, data fopra i continui cfercizf  ,9 virtuofi, &c dalFclperienza di  ,9 molti anni, elfendo già co-  ,, nofeiuta tale, che può fpcra-  9, re fempre d’ operare fe non  ,9 cqfc uguali 9 almeno degne di  99 fe mede lima, & della Patria j  99 non deve da quello .troppo  ,9 fevero rifpctto lafciarfi impe-  99 dir quel sì lodevol corto, a  99 cui dal genio > dallo (limolo  9, virtuofo, dal debito della pro-  ,t feflìone, dal defiderio, & dall’  « afpettatione altrui lì fenteee-  „ citata. Laonde andari Parte*  „ che quello proffitnocarnafcia-  le venturo lia recitata publi-  „ camente a Cafa dell’ Acadc-  9, mia con quella minor fpefa,  ,9 clic fia poflìbilc, atccfa Isde-  9, gnità, una Favola Ptjlor ale ,  „ come cofa nuova & non più  „ fatta fin’ ora da quell’ Acad.  „ quelii cioè 9 che farà eletta  „ dal Sign. Prencipe nolìro, & da  „ 4. Acadcmici , che per quello  „ CanGglio faranno a tal cari-  ,9 co deputati, i quali habbiano  „ ancoinfieme cura d’informar-  » lì da perfone perite della fpefa ,  9, che vi potrà andare, acciochè  ,, fi porta f.\r la provi (ione dei  den». ferifce Ciò vanni Imperiali (4 9 ), che efso volea  conferirgli il -Cardinalato-» ma che da lui fu ri-  cufato per poter nuovamente prender moglie )  a cui fuccedette Adriano VI. ; il noftro G10-  •vangiorgjo fece da Roma a Vicenza ritor-  no • Quivi attendendo à’fuoi ftudj , e fpecial-  mentc alla Poefia, compofe tra le altre cofe una  Canzone in loda d’ Ifabella Marchefa di Man-  tova , a cui mandolla, ed ella poi ne   lo    -a» denaro io tempo, & dar prin-  ” cjpio ad imprcfa cosi hono-  ,, rata , rifervata poi la elettio-  •'»» nc di  Accademici , coni’  », è detto di /òpra , la qual paf-  » sò di tutti i voti.   »> l'or ballottati i fottoferitti.   »> 11 Sign. Paulo-Cihiapino .   • -• • • « . . prò 1 1. 3.   »9 -II Sign. Criftofano Darbaran   .Cavai ier .... prò p. 4.  »» 11 Co. Leonardo Thiene .  prò 8. 5.   » Il Sign. Hicronimo Schio    prò io. 3.   -9, Il Sign. Antonio Maria   9» Angiolello . . prò ri. 1.   »» 11 Sign. Alfonfo Ragona * • • ..... j>ro 16. Rimate il Sign. Paulo Chi*-  », pino, il Cavalier Barbarano,  „ il Sign. Hieronimo Schio, &  „ il Sign. Antonio Maria An-  ,, giolcUo » come fuperiori di  ,, voti.   Mufeum Hifloricum 8cc.  pag. 43.,, Munito libi ad Leo-  „ nis X. gratiamaditu, infplcn-  „ didiflìmo Mularum & virtù»  ,, tum atrio fic vixit, ut Non-  „ nulli delatum fibi purpurar ho-  „ norem prolis gratia rejc&utn  ,, ab ipfo prodiderint.   Da alcune Lettere man uteri t«  te del Tris si no appare vera-  mente, avergli voluto il Papa  varie ecclefiadiche Dignità con-  ferire, che ivi non fi fpecifica-  no, e che tutte da lui furono  ricuf.ite.   (jo ) Quella Principefla fu fi-  gliuola d’ Eccole I. Duca di Fer-  rara, cd è quella ideila , cui  tanto efalta il nodro Autore  nc’ Ritratti - lo ringraziò con Tua lettera in data di Mantova  del dì ics.; e l'anno ap-  preso 1522. addì 1 9. di Luglio gli fcriflc pur  da Mantova un* altra Lettera (52) , pregandolo,  che volefle a fuo agio colà andare dov ella era,  perchè diGderava fornai amente di vederlo non   tanto per godere e gufi gre U amenità dell’ ingegni , e  dottrina fu* y ma perchè volea, che nelle fcienze  e nelle lettere ammaetìxafle Ercole fuo figliuo-  lo» da che fegno dava di buona docilità, e di  buon ingegno, e d’eflere allo Audio letterario  mirabilmente inclinato i pregandolo in fine, che  pel mcfso a polla mandatogli volefse farla av-  viata del tempo della fua andata, acciocché lo  poteJGfe afpettare; noi per altro non abbiamo fi-  cura contezza, s’egii v’andafse. Sappiamo ben-  sì» che l’anno apprefso 1523. addì 20. di Mag-  gio efsendo flato eletto a Doge di Venezia  Andrea Grilli, di glori ofiflìma memoria (53)»    ( 5 1 ) Quella Lettera c Rampata San Francefco della Vigna di  nella citata Prefazione alle Opere , Venezia entro un fuperbo depo-  dcl noftro Autore a car.xvm. fito, fopra cui fu fcolpitoquc-  ( ji) Anche quella Lettera Ito .Epitafio: •   Ha nella fuddetta Prefazione, a Andre* dritto , Duci Opti -  car. in. | mo , & Reipub. Amantijfimo , pa-   ( 53 ) Non folanicnve nelle (ij terra, mari^hepart* A*&*-  ftorie di Venezia, ma in altre ri, ac Veneti terejìris imperli  ancora fi poflono leggere le ge- Vindici, & Conferva! ori, Ha-  fte di sì invitto e gloriofo Pria- rcdtt pientiffmi . Vixit A»,  cipe, che mori dcì 1538. in eràLXxxui. Mtnf. vili. Dici xt,  di anni 83., e fu feppcllito in; Lecejpt V Cai.  3 r  ed efscndo cortume di que* tempi, che le Città  fuddite mandafsero Oratori a congratularli col  Principe eletto , fu dalla noftra Patria a ta-  le uffizio feelto il T rissino, unitamente con  due altri ragguardevoli Cittadini (54^ il quale  avendo comporta perciò una elegante Orazione  jn lingua Italiana, in pien Collegio allo ftefso  Doge la recitò \ della quale orazione , che fi leg*  ge tra quelte raccolte dal Sanfovino (55}, e che  fu anche più volte rift. rapata, favelleremo afuo  luogo.   Nell'anno medefimo 1523. a dì 19. di No-  vembre efscndo flato afsunto al Pontificato il  Cardinale Giulio de’ Medici, col nome di Cle-  mente VII., il quale (come già fi è detto) ama-  va grandemente il noftro Trissinov quertri una  lettera gli fcrifse di congratulazione (e forfè al-  lora medefimo gl'inviò la Canzone (56), che  fece in fua lode ) facendogliela confegnare in  proprie mani pel Cardinale Giovanni Salviati ,   fuo    ( J 4 ) Quefti furono Aurelio  dai!’ Acqua, e Piero Valmarana  amendue gentiluomini Vienici- j  ni.    Oraziani di Divtrfi  Huotnini Jlluftri raccolte da  Franctfca Sanfovino , in Pene-  zia per AltobeUa S alleato . .  in 4. Pait. 1. a car. 1 jy. !   Qucfta C tenzone ( che fu j  {Unipara da prima in Penezja j    per T olomeo Janicolo da Bref~  fa, in 4., fenz’anno; c poi it-  Rampata più volte come in fi.  ne fi dirà) comincia cosi.   SIGNOR , che fofii eterna-  mente elette   Nel Conjìglio Divi n per  il governa   De la fua fianca e trava-  sata nave ;   Or thè novellamente ec.     fuo amici filmo , a cui mandolla con altra Tua  letrcra. Aggradì Clemente la officiofità di Gio-  va n giorni o sì fattamente, che, dopo aver let-  ta con molta giocondità d’animo la pillola di lui  ordinò- allo ftefso Cardinale , che gli fpedifsc  tolto un fuo Breve, col quale lo chiamava a  Roma ( 57) Tenendo egli lo invito del Papa r  fi partì lubito , di confenfo eziandio della Si-  gnoria.  Affinchè meglio appa-j  ja la verità' di quante s’è ora  detto, vogliamo qui traferi vere  la Lettera del fuddetto Cardi-  nale ferina al Trksino,  entro cui tirandogli il Brtve  del. Pontefice } cd è quella.   „ Magnifice Aniice, & tan*  quam Frater Garifllme.   „ Io era ctrtiffimo della  „ molta allegrezza di V. S. pei  „ la felice affunpuone della  „ Santità di Nollro Signore,  ,, come fe preferite mi fulTì    „ che mi Benderei molto più,.  „ fe- non fuffi certillìmo, che  „ la S.V. per fc medefima lo -  „ cognofce. Del bene, & fc-  ,» licita mia non le voglio di-  ,, re altro , fenonchè quanto*  »> più farà , di tanto più qucl-  » la potrà a-ogni fuo benepla-  „ cito difporre; & quanto nc  ,, difporrà più , farò io tanto 1  „ più contento . La Lettera-  » fua detti in mano propria  » di fua Santità, là quale con  >, fornirlo piacere la lede : &c  „ flato, come quello, che al- j » più mi diflcndOrci intorno  ,, cuno non cognofccvo, clic'»» aqucllo» che amortvolmen»  ,, più meritamente fe ne do-j», tc mi rifpofe , fe Sua Beati*   „ vedi rallegrare; perchè la-'» tudine con uno Breve ( il   „ feiamo Bare lo univerfal be* [ ,» quale con quella fari) non-  „ ne, che tutta la Criftianità | ,, avelie ordinato di rifponde-  „ ne afpetta, &: quali mani fe- », te- alla S.V. , la quale cec-   ,, (lamento ne vede » il che », tifico , che fetnpre che ver-tutti e buoni & virtuofi , 1 », rà, farà vcdutadaSua-Bea-  „ come è V. S. debbono fom- ■„ titudine come dolciilimo;  ,, mamente deftderarc; chi più j»- amico; & da me come dol-  ,, di G-i anc! orcio è da ,, ci (Timo fratello; &• a quella»  „ fua Beatitudine amato ? ! « mi offero. Se raccomando..  „ Chi più di lui fc ne può , Roma XI. Decembris Mdxxiii.  „ ogni cofa promettere ì In j ,, lo. Cardin.dc Salviate ,,   Quc-  gnoria di Venezia (58 ); e giunto a Roma fu  da Clemente accolto con fegni di ftraordinario  affetto , e apprefso anche fu deftinato a rag-  guardevoli impieghi, come diremo più fotto.   Ma avendo egli intanto fatto pubblicare nel  Luglio dell’anno 1524. colle ftampe di Roma la  fua Tragedia, pensò di dar fuora nuove cofe a  -utilità della noftra favella; e però fcarfo paren-  dogli l’Italiano alfabeto di caratteri atti a figni-  fìcare tutti i varj fuoni delle voci , inventonne  di nuovi , o a dir di più vero , ne tolfe alcuni  dall’alfabeto Greco , e all’ Italiano proccurò di  aggiungerli. Ma non tenendofi pago di aver ciò  nelle propie fcritture ufato , diftefe nel Dicem-  .bre dello fteffo anno 1524. cotale fuo penfa-  mento in una lettera al predetto Pontefice inti-  tolata ^59).   Circa il principio del Secolo XVI. vi fu ve-  ramente nell’ Accademia di Siena chi avvisò di  aggiugnere all’alfabeto Tofcano alcuni Elemcn*   E ti per    Quella lettera fu flampata a \fubito mi fcrifft uno Brieve , ri-  car. xv ir. deila Prefazione alle j cercandomi che io dovtfft andar  Opere del Tr issi no più voi- a Berna-, & io con il confenfo ,  te citata . I  (he  d'Jft fuori fìmil pcnfìcro. Gli venne non per tanto  fallita in buona parte quella fua bella intenzione  (come chiamolla l'Abate Anton Maria Salvini  di chiariflìma ricordanza): imperocché ol-  tre allo avere egli fteflo a rovefeio, e non nel-  la dovuta maniera, ufate da prima le nuove let-  tere, e così per lo modo del linguaggio Lom-  bardo indicando falfa pronunzia , ebbe più loda-  tori, che feguaci, come accenna Giovanni Im-  periali  y del quale errore avvedutotene poi  egli Hello n € Dubbj Grama ricali , ftampati appref*  fo a difefa del fuo ritrovamento? fe ne amrnen*  dò U3),   Da    Corr.ment. all' ]ftoria\  della Polgar Poefìa-, Vol.i.Lib.vi. ;  a car. 408. della ediz. di Venezia . j  Fra l’ altre Lettere dal Tris-  sino tolte dal Greco alfabeto , !  due fono più offervabili, cioè  Fi, ci’ a,    Pro/e Tofane, Par. 1,  Lcz.xxxi. a car.i9i. dcH’cdizio-  ne di Firenze, apprejfo O'infep-  pe Manni , 1735. in 4.   (Mufaum Hi/ioric. pag.  4Z.„ Rem paritcr molitus per-  „ arduam, charaftercs Graecos  „ noflris immifeendi litetis ad i  » varios fonos aptius fignifi-j  candos, ut repente multosad    » fui vel laudem , vel iurgi*   „ traxit Reclamante Do-   „ ètorum ccetu , quod in tan-  »> tis dodtrinarum momcntis,  ,, monftruofa elemcntorum no-  „ vitate animos haudquaquam  „ turbandos putaverint.   (63) Protelìa egli in quefti  Dubbi d’avere aggiunte le det-  te Lettere al noftro alfabeto a  fine folamcntc di giovare agli  ftudiofi della noftra lingua; c  foggiugne, che non tralafcerà^  fuo potere coti bello , e coti no-  bile injlituto : ringraziando i  fuoi riprenfori , come quelli ,  che per lo avergli fcritto contro d’O..  Da alcuni Scrittori fu il noftro Autore per  tal sua invenzione rigidamente appuntato; e prima da Lodovico Martelli? Fiorentino, il quale  manda fuori una Rìspofta all’Epì fi ola d’O.  delle Lettere nuovamente aggiunte alla Lìngua volga -  te Fiorentina (64); nella quale s' ingegnò di ino-  ltrare, che vana era Hata, ed inutile la di lui  invenzione , allegando fpezialmente , che non  doveaA punto alterare la maniera dell'antico fcri-  vere Tofcano. Indi comparve Agnolo Firenzuo-  la, Monaco Vallombrofano, il quale oppofe ad O. tra l’ altre cofe, che poco lodevole tra ,  e poco ncieffario , e infofficiente lo aggingnìmtnto del-  le nuove Lettere al fcmpliciffimo alfabeto Tofcano , per-  ette con effe gli fi toglieva la fua naturai femplicità.   In quella fua opera il Firenzuola trapafsò per  verità i limiti di quella moddtia , con cui fi  vantò nel principio di voler riprendere la inven-  zione del Trissino, perchè fì moftrò nel fuo  dire alquanto appallìonato , non curandofi di ap-  parir tale ancora nel frontifpizio, taccian-   E i . dolo    tro furon cagione» che fi fa- 1 nell’ Eloquenza Italiana ec.....  ce (Te paltfe la natura, t la uti- \ In Venezia appreffo Criftofor »  lità di effe lettere. Zane . c.ir. 27J. Nell'   Non dille il Tu 1 s s r- Operetta del Martelli, chcè in 4.  no d’aggiugner le nuove Let - 1 non v’ha il fuo nome, nèqucl-  tere alla lingua volgare Fioren- lo dello ftamparore , nè l’anno;  tina, come avvisò il Martelli; 1 nel fine però fi legge pompata in  ma alla lingua Italiana r il che Fierenzji .  fu notato anche dal Montanini ! (Quell’ Opera c così in-   filo-    Ddolo in fine d’ufurpatore degli altrui ritrovamen-  ti, con dire, che prima d’efia e l’Accademia  Sanefe aveva avuti limili penfieri, e alcuni gio-  vani Fiorentini pi» per e fcr citare i loro ingegni , che  per metterla in Optra della medefima imprefa par-  lato aveano ; i ragionamenti de’ quali efsendo fiati  naf cefi amente uditi dal T rissino, da eflo poi co-  me ftto proprio trovato fenza far di loro alcuna men-  zione , furono meli! in luce ( ) . Finalmente   Claudio Tolomei, fiotto nome di Adriano Tranci ,  ftampò egli ancora un libro l’opra quella mate-  ria, e lo intitolò U volito,   Rifpofe il Tr issino a’ Tuoi Oppòfitori colla  fuddetta opera de’ Dubbj Gramatìcali j ed anche  col Dialogo intitolato il c aftcllano , e molto bene  fi difefe -, ma non fu fiolo in ciò, che anche Vin-  cenzio    titolata : Difcacciamento delle  nuove Lettere inutilmente ag-  giunte nella Lingua Tofana ;  fenza efprcflìone di luogo , c di  ftampatorc. Trovali anche tra  le Prtfe del Firenzuola ifteflo a  car. 306. della edizione di Fio-  renza , apprejfo Lorenzo Tor-  rentino, mdlii. in 8. Fu poi al-  tre volte riftampata, ed ezian-  dio nel Tom. 2. delle Opere  dei Tr issino della edizione di Verona.  Non può negarfi » che  l’Accademia di Siena non avvi-  litile ella prima, che O. pubblicane la fua Lettera , di aggiugncrc ( come già  dicemmo ) nuovi elementi al  noftro alfabeto; ma che egli fi  valeflc interamente di quello di  lei penfiero, come dille il Fi-  renzuola, non è da credere ,  che troppa ingiuria fi farebbe  al fuo gran nome. E ’n fatti il  Varchi nell’ Ercolano dell’ ulti-  ma edizione di Padova , apprej-  fo il Cornino, 1744. in 8. a car.  468., dice avere il Firenzuola  ferino contra il T rissino  piuttofto in burla , e per giuoco ,  che gravemente , e da dover 0.   La (lampa di quell’ O-  pera fu fatta in Roma , per Lo-  dovico    Digitized by Google    DEI Trissino. 37  cenzio Oreadino da Perugia flampar volle a di  fefa del di lui ritrovamento un dotto latino  opufculo, il quale eflendo flato per lungo tem-  po fmarrito, fu ritrovato per diligenza del Sig.  Marchefe Maffei, che Io fece ritlampare nel to-  mo fecondo delle Opere del medefimo noftro  Autore per lui raccolte.   Che    dovico Vicentino i j 30. in 4. Ve- vifato dall' Accademia Sane/e *  di fopra di ciò il Foncanini nel- per quel che fcrive il Firenzuo-  la Eloquenza Italiana , a car. la nel Trattateli del Difcac- . ciamento delle Lettere , impref-   11 Crefcimbeni nc’ Commenta- fo tra le fue Profe. Tutto ciò  rj al! Jffor. della Volg.Poef. Tom. abbiamo noi voluto riferire ,  r. lib. vi. a car. 408. dice, che acciocché (ì vegga quanto po-  pcrché andò r Accademia indù- co a ragione fia (lato il Tris-  giando di pubblicare lì fatto av- sino dal Firenzuola tacciato di  vifo, Giovanciorgio Trissiwo ufurpatore. La qual cofa più  fu il primo che de ff e fuori un fi- evidentemente appare in riflcc-  mil penfiero : indi regiftra FAI- tendo, che O. avea  fabeto Italiano coi caratteri dal già medi in opera i Tuoi carat-  Tr issino aggiunti , che è ceri anche prima di dar fuori  quefto; abcdtfgche gh j quello fuo penfamento ; cioè  kiljmnopqrustfu nella Sofonitba , fcritta , e far.  z v q x 7 th ph h: e poi dice I ta leggere, come dicemmo, fot-  cosi: In quel medefimo torno , 0 to il Pontificato di Leone X.lad-  poco dopo, M. Claudio T olotr.ei dove folamente nel principio del  non gli parendo, tra l’ altre co - Secolo XVI., come dice ilcita-  fe , buono il penfier del Tris- to Crefcimbeni , 1 ’ Accademia  sino, ritrovò un'altra manie- diSiena avvisò lo aggiugnimcn-  ra, togliendo la forma de'Ca- \ to di nuovi caratteri.  rat ieri, che avevano a duppli- ( 68 ) Il fuddetto Opufcolo  carfi, dagli fi effi caratteri del no- dell’ Oreadino in detta riftampa  fico alfabeto , Cime appare dall' è cosi intitolato : Vincentii Orca-  alfabeto , che fiegue : a (T c d dini Perufini Oprfeulum , in  ecf^gh lilmneopqr 1 quo agit utrum adjcìtio no va rum  sftv-t/uz z . E quefio | litter aratri Italica Lingua all-  (foggiugne il Crefcimbeni) noi quam utilitatem peperit : Ad  crediamo, che fia l’ alfabeto av-^Thomam Severum de Alphamt   Vi- Che alquanti dementi di greco alfabeto prendere egli per aggiungerli al nostro italiano, non era certamente per mio avvifo quella fconvcne-  lezza, che gli antidetti Scrittori credetter-  fi> condolila cola (come già notò il foprammen-  tovato Abate Salvini che l’Italiano alfa-  beto fia ftato altresì di parecchi altri caratteri  Greci formato. Tuttavia non riufcì affatto inu-  tile il di lui penfamentoi perchè due delle nuo-  ve Lettere da lui propofte, cioè H, e Kv con-  fonanti, veggonfì oggidì univerfalmente abbrac-  ciate dagli Scrittori, anche Fiorentini, come ne-  celfarie a torre ogni equivoco delle voci: onde  a ragione diflc il predetto Signor Marchefe Maf-  fei (70j che * Luì » han» obligo’ le Jlampe dì tut-  ta C Italia , che le u fatto perpetuamente . Laonde non  bene fi appofe il celebre Signor Domenico Ma-  ria Manni , Letterato per altro eruditismo , e   dìgniflì- Virum eruditijpmum , & Cenci- I la noftra lingua habbia bi fogno/  vcm Optimum . Girolamo Ru- 1 delle Lettere aggiunte dal DRts-  ccllai nelle fue note all’ Orlon- sino, & dal Tolomei cc.  doFuriofo dell’Ariofto della cdi-| Cioè il Tolomei, e  zionc di Penez.ia > aM re J[° ] Firenzuola nelle Opere loprac-  Eredi di rinccnz.io Talgrìfio , ' cerniate..  . a car. il. facendo! (7°) Profe Tofcane , In Ft-  un’ ofT.rvazionc gramaxicale fo - rence , nella Stamperia diS.f.  pra la voce corrò ( accorciato A. -per I Guiduecit e Franchi »  dal verbo coglierò) con cui l’A- 17 2 5 « 4 * P ar * P 1 * 012 Acz.   liofto comincia la danza 5 8. del ; a car. 523.  primo canto*, dice cosi : Et in j lucila Prefaz. alle Ope-  qutjtt tai voti Ji cottofee quanto , re del noftro Autore a car.xxx. dignifTimo Accademico Fiorentino > in dicendo  nelle , fue Lezioni di Lingua T ofeana j che 1 ’ /  confonante i cioè quello , che j lungo fi appella , conte  trovato dal T RISSINO , e da Daniello Bar t olì po/lo in  ufo , non è ricevuto da per tutto : e pure egli ftefio   Io usò nelle medefime Tue Lezioni (73)* Mon-  fignor Fontaninij da cui fu UTrlssino chiama-  to In Firenze nella] sintonie Muratori , legnata dì   Stamperia di Pietro Gaetano , Venezia li 12. Marzo 1701; fì-  Viviani. in8. a car. 43. 1 gnificandogli la allora frefea e- Bene è vero, che l’ufo I dizione delle Poche degli anti-  di quello j lungo , o fia con - 1 detti d*ue poeti Vicentini, dif-  fonance , ritrovato dal T r i s- 1 fc , avere quelli in dette loro  sino, fcfu abbracciato univcr. poefic pretefo di ravvivare l’ or-  falmente nel plurale de’ nomi , I 1 agrafia fcrupolofa del vecchio  che nel numero del meno fini- Lr Trijftno , ftnza però quelli  f cono in io di due fillabe , in epfilon , e quegli omega , co' qua-  cui Vi non lìa gravato dall’ ac- li voleva imbrogliare iinejlro al-  enato, come vizio t vario , eli- fabeto Italiano. Colle quali pa-  mili, i quali nel maggior nu- ! cole troppo veramente difprez-  mcro più rettamente il ferivo- jzòe quelli poeti, e la buona vo-  no col detto j lungo in ifcam-llontà del Trillino, la quale, co-  bio de’ due ir, come a dir vime è delio, non riufeì affatto  zj , varj ; fu rifiutato l’ ufario do- I inutile , vcggendoli abbraccia-  po l’L in luogo del G c dell* E | te dall' Accademia medefim*  nella voce EGLI, c in luogo del | della Grufca le due fopraddettc  G nell’articolo GLI, feri vendo ; Lettere J, e F* confonanti , come  LJI, come fece fempre il Trissi- ' fi può vedere nel fuo Focabola-  no. La qual maniera di fcrivere fu I rio alla lettera I. §. xi.j e alla  poifeguitata, ma con poca lode, j Lettera F. La lettera poi delZe-  da Andrea Marana, e da Antonio no è Hata ultimamente pubbli-  Bergamini, amendue di Vicen- cara in un coU’ altre lue erudi-  za, uomini per altro di lette- 1 udirne lettere in tre Volumi, ed  ratura Italiana, Latina, e Gre-| è a car. 44. del primo , che ha  ca molto intendenti. Il Sign. I quello titolo : Lettere di jìpo-  Apoflolo Zeno, di Tempre glo- fole Zeno , Cittadino Fcnezia-  riofa, e a me cara memoria in ! no , Iftorico e Poeta Cefareo. ec.  una fua lettera al Sign. Lodovico I Folumt primo in Fenezia    tO (74) Novello Cadmo , C Cadmo Italiano , fu di  oppinione, edere ftata altresì invenzione del  medefimo noftro Letterato 1* ufare la z j n cam-  bio del t dopo vocale , e innanzi all’ /, cui fegue  altra vocale, come nelle voci vìzio , malizia , e  fomiglianti.   Ma, per pigliare il filo principale del noftro  racconto, l'anno 1525 . ( nel quale il Re France-  sco I. di Francia eflendo ritornato in Italia, don-  de l’anno avanti era ftato cacciato , e avendo  già prefo Milano , attediava la Città di Pavia,  la quale fu appreflò liberata dall’ efercito di Car-  lo V- > che mife in Sconfitta 1* ofte Franzefe , e   fece    affrtff» Pietro Falvafenfe . i Nella Eloquenza Italia-  na a car. 36. e 339.   (75) In proposto delle Let-  tere aggiunte « Valerio Ccntan-  nio. Medico Vicentino, di cui  parla lodevolmente il Marzari nella tua Jftoria di licenza, a  car. 183. fcriffe al Trissino il  feguente curiofo Sonetto , che ci  fu comunicato dal più volte men-  tovato Sign. sportolo Zeno .   ì’O grande A» tji Urici nominato.  A dijfertnlia Ai quel, cb‘ i tu ir. a   rii   VE difl' ignudo i 1 di pie» valo-  ri,   A luta ai Alph' al Giet" accorti  pugnato i   Ch* nel fcnvir Tofcan ha ritrova •  to   Voflr’ alt’ ingegno i facindo maggiori  Numcr di Lettre : eh’ in vano ti-  no’i   Si anno a chi nin ha 'l cervi ! fia  catoi 1    Verrei faptr t Si noi Urica Scrittu-  ra   Leggenda > dtbben ritener* il futi-,  no,   Che nel Uggir Tofcan Kiara fi fin-  ti.   Ri ff tendete Signore che la cenfura.   Et gran judicio vofira , a mt tal  fono,   Qual Sol ad g orno : a nette fio-  co ardiate.   Andar mi vi in a minte   D' addimandar 1 fi l' Ita Gri't »  timi   La voce t eh' a V E Taf co fi ceti «   m».   Et forfè dicttn bini   Quelli, che voljan pir ditti d' Hv  miro   L' Ita fuonar s cimi il Taf cu E pri-  miera .   Bramo faper il vero.   Adunque fa- fi l' O Tofcan antico   Terrà ’l fuun d' il Grt co 0 :cht mi-  nor dico.   Il Servo di Veflra Magn.   Valido Cintannio-      fece prigione il Re fte{fo(7 Papa Clemente  impiegò in varj negozj il notlro Giova n gì orcio.  e intra gli altri lo mandò una volta Oratore al-  la Repubblica di Venezia C 77)» e ' [ferma per la concordia degli   Ma quel [degnato , horntil-vente fiero * Scrittori , c per lo Elogio, che   Con Pungine, ri rofiroil batti , elo '^tfU Chiefa di San Loren-  dìmtna   Si fai lamenti , eh' ci fuggendo a fina  Hcrfer lo [campo f ho trova fenderò .   Tal che aebaffata in lui fi» con gran  fretta ,   Et forfè affatto fjenra l'arroganza ,   Che tutta Europa già foft in itlanza: ! dal Papa folte O.  Ottd'io tengo nel cor ferma fgtranza , mandato Nunzio prima alla Rc-  Che il Citi farà dei torti afpra ve »• pubblica di Ve.'CZÌa, e poi all’  detta | Imperatore: ecco le fue parole:   ACriflo fatti ,§ a tuttala fua fetta .1 >} Clemcr.tis Septimi acerrimi   Cosi afferma il Tris-',, teftimatoris nutu ex Romana  sino medefimo nella fua Ari».',, Curia ad Carolum Carfircnt  ga, dicendo: Papa Clemente fu' „ Nuncius cfl elc&us : inde ad  eletto al Pontificato,.,. S. Santità ,, SapicntifTìmum Vcnetorum  fubito mi fcriffe uno P, rieve , ri- „ Scnatum . « In ciò fu egli  cercandomi , ch'io dove/fi andar (e guicato dal Signor Marchefe  a Roma , & io col confenfo, CT I Maffciìad Ri fretto deila P'ita   del    I zo di Vicenza allato all’altare  idi detto Santo fi legge, e die  I di fotto tra feri veremo . Gio-  ivano! Imperiali nel Afufeo Jflo -  \rico a car. 44. lafciò fcritto, che    Digitized by Google     42 La Vita   gno dì parttcolar menzione fi è un altro pubbli-  co contralfegno deiramore , che gli portava. Ciò  fu l’anno 1530. in occafìonc che dovea corona-  re folennemcnte in Bologna l’Imperatore fud-  detto (79)1 imperciocché, fecondo che affer-  mano alcuni Scrittori (80), e appare chiaro da   una    d’O., e da altri : ma  ficcome quelli Scrittori non ci  daono il tempo di corali Lega-  zioni , cosi noi non ci facemmo  fcrupolo in notarne pri ma una  che l’altra; e tanto più, quan-  to che può edere veramente ,  clic andafle egli Nunzio a Sua  MaclU Cefarea molto tempo  dopo di edere dato Oratore a  Venezia , cioè dopo il Sacco di  Roma fatto dagl’ Imperiali nel  IJZ7. , in cui effendo dato di-  tenuto Io Bello Pontefice, e poi  liberato per commillìonc dell’  Imperatore, edo lo mandò a  ringraziare per un fuo Nunzio,  accennato folamente in una Let-  tera di congratulazione, che Io  Redo Imperadore al Papa riferir-  le in data di Burgos addi xxn.  di Novembre di detto annoi 517.;  la qual lettera Ci legge nei to-  mo primo delle Lettere di Pria-  dpi » ecv raccolte da Girolamo  Rufcclii , Ja Veneti a appre/fo  Giordano Ziletti, 1564. in 4.  a car. no. a tergo; fe pure ciò  non fu l’anno 1529., cioè do-  po la pace tra loro fatta in Bar-  cellona, di cui parla, tra gli al-  tri , il Guicciardini nel terzo  degli ultimi quattro litri della fua    Ifi$ria\ avendovi una lettera di  Sua Madia al Papa in data di  Genova addi xxix. di slgo/lo ., che fi legge nel citato  tomo delle fuddette Lettere di  Prinnpi a car. 123.» nella qua-  le fa menzione di un fuo  Nunzio con quelle parole : Ha-  vendo intefo dal detto Duca ,-  & da' Reverendijfmi Cardinali .  fuoi Legati ...., & dal SUO  NUNZIO ,. & Zmbafiiatore ,  cc.....; il quale può perle fud-  dette cofc fondatamente creder-  li , foflTe Giovangiorgio.    Carlo V. fu coronato  da- Clemente il giorno di San-  to Mattia Apoftolo, cioè a dì  24. di Febbrajo: ed è JlTervabi-  le, che nei mede^mo* giomcr  egli e Ila nato , ed abbia prefo  i fegni e gli ornamenti d’ Im- -  peratore. Si vegga Alfonfo Ul-  loa nella Vita di Lui molto eru-  ditamente feri tra-   ( 80 ) Gio: Imperiali , Mh-  faum Hi/l or. a car. 44. Toirmia-  fini Elogiaste, a car. 53. e Pao-  lo Beni Trattato dell' Orig. del-  la Famigl. Trijf. lib. 2- manu-  fcritto, a car. 34., ove nota  anche di malevolo il Giovio,  che riferendo paratamente tale  folcn-  una lettera manufcritta del noftro Autore mede-  fimo (81), da tanti Principi e Cavalieri, che a  tale folennità fi trovavano , Clemente tralcel-  fe il TiussiNoa portargli lo ftrafcico Pontificio;  .onore» che per innanzi era /olito farli a Perfo-  naggi di nobililfima Schiatta, e molto qualificati.   Si trova fcritto apprelTo qualche Autore (Si),  che Carlo V. facefie conte e cavaliere fi noftro  Giovangiorgio» e lui co’ Tuoi difendenti privile-  giaffe, che potefse mettere nd/arme dellaFamiglia  la Imprefa del Tofone , c fi potefle in oltre dinorni-  nare dal vello d'oro. Noi non vogliamo ora di-  làminare, fe ciò fia vero, anzi il crediamo; che  conte e cavaliere egli fteflò in qualche Tua lette-  ra s intitolò (83), e alzò la detta Imprefa» con  foprapporvi il mòtto Greco to zhtotme.  ;non aax2ton (84), prefo dall’ Edipo di Sofo-   F 1 eie    folennkà , nulla facefle del  Tri jliN o menzione.    JvQucfta lettera di prò.  prio pugno* del noftro Autore |  c tra le altre lue manuferirte,  cd è 'quella, che diramino più  d’una volta in quefta Vita ,  fcritta da Marano all’Arcipre-  te Giulio fuo figliuolo, fegnata  18. A/arz.0 IJ42. In effa egli  parla cfprcffamentcdi quefto ét-  to , ricordandolo al figliuolo  qual /ingoiar h*neficiodal Pon-  tefice a fe ufato.   ( 8a_) Cioè approdo il Tom-    mafjni, Elogia cc.-, a car. 54.  c ’1 P. Rugeri , T ratina ec. a car.  xxxin.   ( 83 ) Veggafi la lettera di lui  al Reverendo Prete Francefco di  Grugnitola già fopracciiata, all’  annotazion. 3.C 26.    Il Fontanini nell’£/tf-  quentLa Italiana a car. 380. rife-  rire e fvariatamctwequAlo motto,  rcrivendo in quefta guifa T o  2HTOTMENON A A ftTON*  diche fu appuntato dal Signor  Marchcfe Ma fife i a car. 8j. dell’  Fiume d’ elio libro del Fontani-     eie (85)} che lignifica conftguir chi cerca ma nsn  chi trafeura ; ed anche ftamparc la fece o ne’  frontefpizj, o in fine delle fue Opere. Si vuole  bensì avvifare, che fe egli ebbe dall’Imperatore  Maflìmiliano primieramente» come abbiamo ac-  cennato al di fopra, e poi ancora da Carlo V.  il privilegio di potere l’arme gentilizia adorna-  re di detta Imprefaj come tengono alcuni,  e come forfè volle dire il Signor Marchefe Maf-  ie i, quando difle, che il Trissino  imperaci ere Maffìmilian » riporto il Tofon d’ Or o\ e fe  ; egli fu    ni, che approdo citeremo, trat-  to delle fue OffervaiÀoni Lette-  rarie , fn Serena nella Stampe-  rìa del Seminario per Jacopo Sal-  tar fi in la. Articolo VII.  a c.vr. 103.   Verfo 110.   (86) Nel fopraccinnaro Elo-  gio, che è in San Lorenzo di  Vicenza, fi legge: Aurei fuci-  lerie infìgnibui , & Corniti* di-  gnitate prò fe, & Pojlerit ab  iifdem Impp. ( MaKimiliano ,  & Carolo) decorato . Il Padre  Rugcri nella Trotina &c. a car.  33. pare che affermi , avere il  T rissino avuto il fuddetto  privilegio da Carlo V. , poiché  gli t cbbc niarfdatoa donare (co-  me diremo ) pel fuo figliuolo  . Ciro il Poema dell'Italia Li-  berata da' Coti. Quelle fono le  fue parole : T itm vero P o s T-  Q.U A m ledi 1T1 mai cjtjitm fiiius    Cyrus , poema iliaci eidem Caro-  lo V. patrie nomine donariam  confccrauit , Aurei Velie-  ri s Agalma dimidiato in  Umbone fui Aviti Stemmati! ,  Imperai or is auttoritate , & con-  cezione appingi voluìt , quo fa.  cilius hac velati tejjcra, è fuo  Pipite dedali a Sobolet, ab aliis  & Laude, & Vice ti * , f amili*  nobilijfm*, & numcro/tjfimafur-  culit dignofeerentur . Contutco-  ciò noi troviamo* erteti* Gio-  va» Giorgio denominato dal  Vello d' Oro ^rima che Ciro prc-  feniaffc il detto Poema all’Im-  peratore. Può effere bensì, che  avendo egli avuto da Maflimi-  liano il detto privilegio, con-  fermato poi gli forte da Car-  lo V.    Nel Riflretto della Vita  del noffro Autor , preme fl o  la rirtìmpa delle fuc Opere.  egli fu veramente da’ Monarchi medefimi fatto  Cavaliere; non dee perciò dirfi, che forte egli da  efli fatto Cavali er del Tofo» d'oro: concioflìac»-  fache non fia mai fiato il T rissino arrolato in  quell’ordine (88).   Le fa-     f88) Che ciò fia vero, ba- Trissino, che non era da  fievolmente è provato dal Fon- trafeurarfi , quando veramente  canini nella Eloquenza Italia- vi [offe fiato; e ciò tanto meno,  va , ove a car. 380. dopo regi- che in quefio affare ci entrano  Arata la primiera edizione del anche gli Araldi, 0 Re £ Armi ,  Poema dell’ Italia Liberata da' per ajfegnare a ciafcun Cavalie-  Goti, così lafciò fcritto. Qui re lo Scudo, e /’ Infegne , tutte  in fine, e in altri fuoi libri fi le quali Ji leggono efprejfe dal  vede la pelle, 0 vello d'oro del C biffi elio . E a car. 474. dopo  Montone di Friffo , da lui fof- j aver regi fi rato i Difcorfi ini or -  pefo a un Elee in Coleo, e cu- f no alla Tragedia, di Niccolò   fi adito dal Drago Volendo | Rolli., tornò a dire, come fc-   il T R 1 ss 1 n o con quefia fua 1 guc ; Effendofi già mofirato non  Imprefa alzata all'ufo di que' \fujfi fiere, che il T rissino,  tempi alludere alle fue lettera - 1 comecnè talvolta fi dicejfe oAr.  rie fatiche , e da fe ancora in- \ Vello d’oro, e meritaffe per  - titolanàofi dal Vello d’Oro . j altro ogni onore, foffe perciò Ca-  .Ala non per quefio egli intefe di valier del Tofone , perchè meri -  far fi Cavaliere dell'Ordine del 'tare non vuol dir confeguire , qui  T ofone - E poco apprelTo ; L'\fi può aggiugnere , che quefio Su-  • Ordine del Tofone fu conferma- premo Ordine , detto in latino  to dai Sommi Pontifici Eugenio Vclleris Aurei , nelle lingue voi -  IV. e Leone X. ; e Gianjacopo gari fi chiamò del Tofone . ...  Chifflezio ha data la ferie de' Nè può effere inutile il ridurfi  Cavalieri » e de' Uro fupremi a memoria, come ne’ tempi del  Capi dalla prima fua ifiitud-o- Trissino fiorì /’ Accademia  aie fino a Filippo I v. Re di Spa - degli Argonauti conquifiat ori del  gna, erede àe’ Duchi di Borgo- Vello d’Oro, poco fipra acc ca-  gna: e ne ba fcritto ancora un , nata* Se poi egli fi diffe Co-  temo in foglio Giambatifia A/au-j me; & Equcs , ciò nulla impor-  rizio e altri pure han- ita, petchè non fu foto a chia-  na pubblicati gli Statuti dell' ' mar fi in tal guifa . 11 Mar-   C'rdine, e gli Elogi de' Cavalle - 1 cii'eje Maffci nell’ E fame del  ri: ma fenza alcun merlo del [ (udektto. Libro del Fontanini ,    Digitized by Google     4 fìccome l’altra volta, la fentenza incon-  tro. Tuttavolta collo ro infiftendo, agli Auditore  Vecchi appellarono di ella fentenza, dai quali fu  poi rimeffa la Caufa al Configli dì xl, civìl-Nuo-  vo. Ma quella volta Gì ovan Giorgio delibero  di orare elio pubblicamente , e dire in Configlio  le fue ragioni : per la qual cofa comporta in  comunal dialetto Lombardo una forte Aringa  (pi)» sì bene, e con tale efficacia davanti ai  Giudici la recitò, che all’ultimo (pi), con gran-  de feorno e rabbia degl’ incaparbiti Comuni, egli  fentenziarono a di lui favore (p$).   Sera egli ammogliato la feconda volta a Bianca  (P4). figliuola di Niccolò Trillino, e di Cateri-  na Ver-    Quella è l'Aringa da  noi citata sì fpctfo nella prefen-  tc Vita-, e Cc nc conferva copia  nella Libreria de’Cherici Re-  golari Soraafchi della nolìra  Città di Vicenza.  Avvitatamente s r è det-  to all' ultimo , perciocché non  tappiamo, che il Tri ss ino  per la narrata cagione piatile  più colle dette Comunità : ben  è vero, che i di lui Poderi ap-  po fua morte ebbcro«a foffrir da  colloro per lo ftctTo motivo nuo-  vi difturbi . Crediamo ciò fofle o'  nel principio dell’anno x 5 3 1. ?    'o nella fine del precedente; e  | lo argomentiamo da ciò che e*  'dice nella citau Lettera al Pre~   ! re di Grugnitola , ed è; Le cofe  | della [acuità mia dopo molti tra-  | valji fono quaji tutte rajfcttate,  e trovami manco povero ch'io  ' fojft nati,   I «  quella .ftponda fua   | moglie fa il T r iss 1 no ono-  ratole njènzione nc‘ fuoi Ritrat-  ti > Citila» Re (fa fi parla altresì  con lo.Je’nel libro intirolaro:7" at-  te U Dgnne maritate , Vedove,,  è’ I)ongeil/ \ ptr Lugrezio Bec-  candoli Bologne fé *»/ magnanimo’  Ai, Fr ance [co elei Scolari , Eresiano ,   na Verlati (p?), e già vedova di Alvife Tri Ar-  no (ptf): la quale partorì a Giovangiorgio u n   figliuol [ciano, [no Signore . in 4» fcn-  za efprcffione di luogo» anno,  e ftampatore.   (9 5 ) Se il Tommafini negli  Elogi, a car. 53. dicendo:,, De-  ,, funóto Leone X. in Pacriam rc-  „ diic.... Anno mdxxiii. fe-  » cundas cum Bianca fui Sxcu-  3, li Helena , Nicolai Triffini  », Vidua nuptias contraxit volle dire , che Bianca, quan-  do fi fposò a Giovangior-    g 1 o foffe vedova di Niccoli  Trillino» prefe certamente uno  sbaglio , come lo prefe il Sigi  Apollolo Zeno nella Galleria,  e gli altri , che ciò affermano  apertamente. Imperciocché Bian-  ca non fu vedova , ma figliuola di  Niccolo Tuffino, come dalli fc-  guenti Alberi dal Sig.Co: Anco»  nioTriffino del Sig.Co:Piero, corr  umaniflìma gentilezza fommini-  llratici, evidentemente appare»    1. i Birtolommeo Trillino. NICCOLO' Tullio©» Cafparc Trillino»  in in in   Chiara Mirtinengbi. Caterina Verlati» Cecilia Bevilacqua.   1 L 1   ALVISE BIANCA. CIOVANGIOR.GIOPoet.ec»   in in in   BIANCA di Niccoli 1. ALVISE di Battolar»- BIANCA di Niccoli  Trillino ; da cui la li- mio Trillino . Trillino , da cui li Nob»   nei del Nob- Sig.Co: a. GIOVANGIORGIO Nob. Sigg. Co. Co. Ci-  Piero. Tuffino Poeta ee. r® , e Nepoti Trillino •Senza di che Paolo Beni ncljwe/rfe, figlio unico (cioè di Ma-  Trattato dell' Ori*. della Fa ! fchi ) ec. In oltre dalla Scrittu-  migl. Triff. lib. 2. Manofcritto, ! ra nuziali d’ effa Bianca , fe-  dove parla delle Donne illufiri | gnata addì 18. di Febbrajo....  della detea Famiglia, venendo | fatta col fuddetto Alvife Trif-  a Bianca, dice; Bianca peri fino, fi ha non pure che effo  la fuafingolare belletta merita-' fu il primo fuo marito, madie  mente chiamata l' Helena della j il valore della fua Dote fu di Du-  fua età, hebbe due mariti dell’ | cali tremillccinqucccnto , cioè  ifteffa famiglia: fu il primo . di lire Vi niziane 21700. ; Dote  Luigi figliodi SartoiomeoTrif-' affli Cofpicua 3 quc’tcmpi. EJ  fino , & di Chiara Martine ri ] anclie di q-uefta notizia ci con»  ga, a cui partorì 6. figli mafihi, fediamo debitori al predato Si-  ti' 2. fenmine : fu il fecondo gnor Conte Antonio Trillino.  Giovangiorgio, Poetaf (96) Alvif: Triflino fe te»  Gr Oratore, & hebbe Ciro-Cl>- \ ttamento del ijìi, , c poco di   poi    t    I   del Trissi.no. 4P   figliuol mafchio, appellato Ciro, ed una fem-  mina . Ora dopo qualche tempo nacquero dif-  fenfioni tra Bianca, e l’Arciprete Giulio, fi-  gliuolo della prima moglie d’effo Giovangior-  gio: delle quali principal cagione fi fu , che  amando ella teneramente, ficcome è naturai co-  ti , il fuo proprio figliuolo Ciro , s’ adoprò in  guifa , che il marito Umilmente facefle, e fee-  mando l’affezione fua verfo Giulio, lui più cor-  dialmente inchinalfe ad amare . Le quali cofe  diedero apprelfo motivo all* Arciprete di piatire  lungamente col padre, da cui prctefe* e in fine  poi confeguì non poca parte di fua facoltà.   In quello mezzo la Patria impiegollo in un  affare molto importante . Ciò fu fpedirlo fuo  Oratore (in uno con Aurelio dall’Acqua e Pie-  ro Valmarana, Gentiluomini Vicentini,) a Vene-  zia per contrapporre ad una troppo altiera ri-  chieda degli Uomini della Terra di Schio, Di-  llretto di Vicenza. Volevano coftoro non iftar  più foggetti al Gentiluomo Vicentino, che reg-  gevagli, e regge ancora con titolo di Vicario;  e però nel principio dell’anno 1534. ardirono di  chiedere al Senato Veneziano, che rimolfò quel-  lo, un fuo Nobile Patrizio defse loro a Retto-  re . Ma sì giulle furono le ragioni da’ Vicentini   G Ora-   poi fopravviffe; ficcome colla \o in quell’ anno, o l’anno ap-  iolita gentilezza mi fc certo il preffo Bianca fi farà a G iovan-  Sig. Co: Antonio Trillino fud- ciorcio rimaritata,  detto, fuo difendente; laonde    Digitized by Google    50 L A Vita   Oratori addotte in prò della Patria , che non  ottante che Baftian Veniero, gentiluomo Vene-  ziano, incontra nringifse, i Giudici conferma-  rono la giurifdizione della Città noftra, e con-  dannarono gli avverfarj a rimborfarla delle fpele  dovute fare pel detto motivo: loro davvantag-  gio vietando penalmente di più contravvenire a  tale deliberazione.   E per dire di altri onori , a cui fu egli dallaPa-  tria elevato, troviamo, che nel 1536. addì 27. di  Maggio era uno dei Deputati alle cofc utili della  Città (p 3 >; ficcome nel mefe fufleguente era  Confervatore dette Leggi ( 99 ) : e pochi anni  appretto, fu ricevuto nel  numero di que’ Nobili, che formar doveano il  Configlio centumvirale > detto anche Graviffìmo ,  dcll^ Città , allora allora riformato..   Morì in que’ tempi il celebre Poeta Giovanni  Rucettaii tanto amico delnoftroTiussiNoi il qua-  le fin dall’anno 1524. (nel qual tempo era Cartel-  lano di Caftel Sant’Angelo in Roma) avendo   com-   Veggafi io Statuto no-| ( 9 8) Statuto noftro fuddet-   firo lib. 4. pag. 176. a tergo . to, Lib. Novm Partium , pag.  Noi ci fiamo ferviti dcli’cdizio- : 197. a tergo. Qui il Trissino  nc fattane con ! è schiantato Dottor , &£qnes.  quello titolo ^ Jhs À/nnicipale \ (99) "Statuto noftro, ivi »   l'iccntinum , cum sìddit ione Par- png. 19H. a tergo..  tium Jlluftrijfimi Dominii . Vt - 1 (loo)Statuto cc.. Ivi, pag.  nttiit , Motxvii. ad infiantiam I 185. c 186. a tergo, cdanchcqui  BartMomei Centrini. infoi. | il Trissjno è detto Cavaliere. 1   compiuto il belliflìmo luo Poema delle /#/>/, non  volle pubblicarlo infinoattantochè il Tassino  da Venczia> ove era Legato di Papa Clemente,  non foffe ritornato, perchè volea farglielo rive-  dere.. Ma non avendo' potuto ciò effettuare fo-  praggiunto dalla morte , al fratello Palla , nel  raccomandargli prima di morire tra gli altri Tuoi  componimenti il detto Poema, notificò tale Ilio  penfamento : onde quelli poi fauna 1 5 39. mandan-  dolo alla luce, al Tm ss ino lo intitolò (101).   Intanto effendo la fopraddetta feconda fua  moglie Bianca pallata di quella vita l’anno 1540..  C102), le liti già incominciate tra fe e’1. figliuol’   G 2. Giu.-   La Dedicatoria di Pai- 1 Antonio Volpi , il quale poi lai  ta Rucellai al Tr issi no è . fece pubblicate in un col Poc-  fegnata *li Firtnzj addi li. di ma ftdlbdelle Api, ecollaC*/-  Gennajo 1539.5.6 in e(Ta affer- ] tivazione di Luigi Alamanni „  ma di efeguite in  Dirar ai templi di Ciprigna ,  e Marte   Le mie vittoriofe , e chiare  palme ,   ( l0 5 ) Cosìdiceegli nella De-  dicatoria del Poema fletto a  Carlo V.; ma in una Lettera  al Cardinal Madrucci , che ap-  pretto allegheremo, accenna d"  averne glieli, per efsere anch’efso malato di quartana;-  accomandando con fua lettera al Cardinal Cri-  ftofano Madrucci, Vefcovo e Principe di Tren-  to, il Dottore medcfimoi e pregandolo, che ali'  Imperatore lo facefse introdurre-  Quelli sì fece; el dono fu fommamente gra-  dito alla Maellà Sua, che moftrò nello flefso-  tempo gran delìderio d’ averne: ancora il rcftan-  te.. La qual cofa da Giov angiorgio intefa,  ritornò prettamente a. Venezia, e gli. ultimi di-  ciotto libri, colla maggior, follecitudine: a perfe-  zionar fi diede; e poi fattigli ttampare l’anno^  1548., a quella volta pel figliuol Ciro gliel’in-  viò; elfo altresì al. lùddetto Cardinale raccoman--  dando con maggiore affetto-,, dicendogli, che per  la fua giovanezza egli più abbifognava di con-  liglio, e di ajuto (106): i quali libri da fua.   Maellà.    Vegganfi le Lettere \ fiche fùe cTAnhi Venticinque*.  dall' Autor noltro fcritte a Sua ! che le avea dedicate c manda-  Macftà , e al predetto Cardina- te, grate le foffero Hate, e ac-  le in propoli to di ciò, inferite ! citte . foggiuogendo*. che nont  nella, già citata Prefazione del | a vendo ardi mento a chiedere co-  Sig. Marchefe Maffei alle Opere j fa alcuna , al perfetto giudici»  di lui a car.xxt. xxn.. xxit 1 . 1 della Maefià Sua, come fapien-'  c xxiv.; in una delle quali , I tiflìma , c liberali/fma che era,,  che è a car. xxwi. al Cardina* | fi rimetteva .  le indiri eca * fegnata di Venezia I Qui vuol novamente notar-  Giovcdì, addì x.. di Dicembre fi ,. che dalPcHferfi il Trissino  1548., dice , che dcfiderava ,! in quelle Lettere foferitto. Dal  che da Sua Maefià fojfe noti fi- ; Ve ilo d’OKo, chiaro» appare,  cato ai Móndo per qualche ma- ! non aver egli avuto da Carlo  nifeflo fegno , che le vigilie e fa- [ V. per la Dedicazione del det-  to Maeftà furono ricevuti collo itefso .gradimento ,  che i primi.   Ma per pafsare ad altre cofe, fu il noftro  T r issino familiare eziandio del Pontefice Pao-  lo III., a cui nel .1541. efsendo per andare  (come in fatti vandò) ad abboccarli la fecon-  da volta con Carlo V. a Lucca, indirizzò «un  fuo Sonetto: e altra volta certo vino  mandoglf ,3 donare ; del qual dono, e deH’efser-  fi ricordato di fe , il Papa Io fece ringraziare  pel Cardinale Rannuccio Farnefe (108), grande  amico del Trissino (iop).   Nel tempo, che il noftro Autore era lontano  dalla Patria, ed infaccendato nel mandar a lu-  ce i proprj componimenti, l'Arciprete Giulio,  che pure continuava la fiera lite contro a lui -,  •tutte le fue rendite fece ftaggire: il perchè in   fran-    to Poema la conceflfìonc di co-  si denominarli , comcpare, che  voIeOTc il P. Rugeri nella citata '  Declamazione; ma fc pur da lui !  l’cbbe, come dicefi anche nell’  Elogio dianzi mentovato, che  in San Lorenzo di Vicenza fi  legge, certamente molto rem»,  po avanti la ebbe, cioè quan-  do in Bologna alla Coronazio-  ne dell' Imperatore medcfimo fi  trovò prefente.   Quello Sonetto, che  incomincia:   Padre , fot to' l citi Scettro al-  to rifofa, cc.    | e che non è tra le fue Rime  dcllà prima edizione , eflcndo  j Hate molto tempo avanti ftam-  pare^ fi legge nella Raccolta  dell' Atanagi , par. pr. a car 89,  a icrgo \ e nella edizione di Ve-  ronaTom.i.a car. 3La Lettera di quello  Prelato al T rissino (cricca  d’ordine del Papa, c in data  di Roma. Nella citata Raccolta  dell’ Atanagi a car. 90. fi vede  un Sonetto d’O. al  predetto Cardinale indirizzato. granditfima ira montato egli, fe tc-ftamento, e in  tutto e per tutto Giulio difereditando , Ciro inftitui  erede d’ ogni Tuo avere; aggiungendo, che moren-  do quelli fenza dipendenza, gli fuccedelfero nell’  eredità del Palazzo di Cricoli i Dogi di Vene-  zia, e nel rimanente de’fuoi beni i Procuratori  di San Marco con ugual porzione . Dichiarò  CommelTarj del detto Tellamento il Cardinal  Niccolò Ridolfi , allora Vefcovo di Vicenza ,  Marcantonio da Mula, e Girolamo Molino; or-  dinando, che appreffo la morte di fe, folle il  fuo corpo feppellito fui campo di Santa Maria  .degli Angeli di Murano in un avello di pietra  ijiriana: la quale volontà mutò dappoi in un co-  dicillo, ordinando invece, che volea cfsere fe-  polto nella Chicfa di San Baftiano di Comedo *  territorio di Vicenza, ce» ornamento di rofe , e  lidia fepoltura 'vi fofsc polla quella fempliee  breve iscrizione; £uì giace ciò : G io AG io t ris-  sino . (iio)   Pur finalmente anche quello piato ebbe; fine   ma Giovangiorgio fuori di tutto il fuo penfie-   ro n’ebbe la fentenza incontro, e dal figlio fi vide   fpo-    (llo) Si può credere fonda- \Janiculo, 1548. in 8., introdu-  t. -urente, che per aver egli do- ì cede il perfonaggio nominato  vuto (offerire tante c si fiere ; Sìmitlimo Rabbatti a così fda-  liù , avvifatamentc nella fualmare contra gli Avvocati ; c  Commedia de' Simulimi* contro a ogni forte di Im-   para in Venezia , per T olmmeo j gio .   O rra-    fpogliato d’una gran parte de' propri beni. Del-  la qual cofa sì fi crucciò} e difpettò che rifol-  vette di abbandonare affatto la Patria* e lafciati  prima fcritti due molto rifentiti componimenti  in fegno di fua indignazione (ni) , andofsenc   H dirit- O maledette fian tutte le liti »   JT uni i garbugli , e tutti gli  Avvocati,   Nati a ruina de f umane  Senti, Che fi nutrifeon degli altrui  dif canài   * Difendendo i ribaldi con  gran cura'.   Et opprimendo i buoni ; che  i feelefii   • Gli fon più cari , e di mag-  gior guadagno:   Nè cofa alcuna è federata  tanto ,   *Che non ardifean ricoprirla ,  e farla   Rimanere impunita da le  Leggi,   Di cui fono la pefie , e la  ruina .   Sono rapaci , e fraudolenti , e  pieni   ~D' in fidie , di perjuri , e di  bugie ,   S end alcuna vergogna , e fen-  z.a fede ,   Servi de l'avarizia , e del  denaro .   Mentre che fiato fon f, opra  7 Palaz.zo   Quafi tutt' oggi in una lite  lunga   D' un mio Parente , l' Avvo-    cato awerfo  : Tanto ha ciarlato tc.   Da quelle ultime parole fi  può dedurre , aver egli in ciò  avuta la mira alle proprie liti.  I Componimenti die  c’ fece avanti la fua ultima par-  tenza dalla Patria, fono primie-  ramente il feguente Epigramma  latino , che fi legge eziandio  llampatO' negli Elogi di Monlìg.  Tommafini pag. j 6., ed anche  tra le OpcTe del noftro Auto-  re della riftampa di Verona Tom.  1 . in fine.   „ Quatramus terras alio fub  1 , cardine Mundi,  f „ Quando mihieripitur frau-  „ de paterna T)omus.   „ Et fovet hanc fraudem Ve-  netum fententia dura Qux Nati in patrem com-  probat infidias:   >» Qux Natum voluit confe-  &um xtate Parcntem,   „ Acque xgrum antiquis pel-  lcre limitibus.   „ CharaDomus, valea*, dulcef-  „ que valete Pcnates,   „ Nam rnifer ignotos cogor  adire Larcs.   Indi un Sonetto, che fu inferito nella Biblioteca Potante  del Cinclli, Scansìa xxn. ag-  giun- dirittamente all’Imperator Carlo V. , al quale  cariflìmo era* da cui apprefso licenziatofi , da  Trento, fenza purpafsare per Vicenza, fe n’andò  a Mantova r e quindi da capo, tuttoché vecchio  fofse, e molto gottofo , fi ritorno a Roma, dove era Rato tanto onorato, ed amato.  Ma poco quivi fopravvifse, concioflìachè. tra per lo cruccio, e passa di quella vita. Non fi fa veramente ove fia di   prefen-    giunta da Gilafco Eut elide» fc,  Pafiore àrcade , ( cioè dal P.Ma-  nano Rude Carmelitano cc. In  Roveredo frego Pierantonio Per-  no , 1736. in 8.: a car. 82. e 83.  il qual Sonetto fu comunicato  all' autore di quella S con zia dal !  Cavaliere Micbelagnolo Zorzi , |  di cuifeperciòa car. 8+. lodevol  menzione,   E' notabile l’errore cotnmef-  fo da Luigi Groto , fopranno-  minato Cieco d’sldria, in pro-  poli to di quello Sonetto nelle  tue Lettere familiari. In Vene-  zia , preffo Gioì sintonia Giulia-  ni , 1616. in8.a car. 124.; per-  che quivi parlando del Tr is-  si no lo chiama Brlsci ano, e  Padre deir Jtalia Illustrata.   (na) In alcune manoferitte  memorie intorno al noltro Au-  tore, comunicateci cortefcrr.cn-  te dalla gentilezza del lodato  Sig. Apoftolo Zeno , dopo 1 '  Epigramma e Sonetto fuddetti ,    ili legge come fcguc. M. Zan-  ! zorzi fece ciò per una lite, che  \ veniva tra ejjo , & P Arciprete  | M. Giulio fuo figliuolo di la Ca -  \fa di licenza , ove dillo M.  Zanzorzi hebbe una fententia  centra in Quarantia , & con  queftà opinione andò a P Impera-  tore, e ritornato in Trento fen-  za venir di qua per la via di  Mantova, Ticchio , pien di got-  ta Il rimanente non s’   intende per edere rofo il foglio.  Che il Trissino  moridc l’anno 15 jo. conila non  folamente dal concorde confcn-  fo degli Scrittori, ma da una  Lettera di Giulio Savorgnano ,  fcritta a Marco Tiene, gentil-  uomo Vicentino , fegnata di  Belgrado addì 29. di Dicembre  1150.: della notizia della qua-  le al già mentovato Signor Aba-  te Don Bartolommco Zigiotti  ci confefflamo unicamente de-  bitori.    preferite il fuo monimento } ma Autóri parecchi  hanno fcritto, eflergli ftata data fepoltura in Roma medcfimo nella Chicfa di Sant’Agata entro lo  ftefso Depofito, in cui era ftato fepolto molto  tempo innanzi il famofo gramatico Giovanni  Lafcari (114); e Jacopo- Augufto Tuano nelle  lue Morie) facendo di Giovangior.gio molto  onorata menzione) accenna) che gli fofse ftata  anche fatta una lapida» poiché dicc 5 che efsen-   H. 2 do   Tra gli altri Scritto - 1 della Città coltra, di cui il P,  ri , che addurre li potrebbono, Rugcri avea fatta menzione  avvi Paolo Beni , che nel T rat- nella detta fua Opera a car. xxvr.  tato àell'OrigMlla P amigl.Triff. | dice come fegue . ,, Quoniam    lib. 2. manoferitto, a car. 34.  cosi dice : Partitofi ( il noftro  Autore) nell' A. 72. della fua  et 4 per di f gufi 0 dalia Patria-, il  che egli efpreffe con alcuni verfi  latini & volgari ( cioè l’ Epi-  gramma, c*l Sonetto predetti)  li quali ferini a penna nella li-  breria Ambroftana di Alitano  con altre molte fue compojìtioni  non ancora fiampate fi conferva .  no , andò in Germania a ritrovare l' Imp. Carlo r., & ritor-  nato in Italia per la via di  Trento , e Mantova pafsb a Roma , ove morì , & fu il fuo Ca-  davere poflo in Depofito nella fe-  poltura del Lafcari.   E Olindro Trillino in fine  della DeclamazJone latina del  P. Rugeti, citata di fopra, da  elfo fatta (lampare, traferi ven-  do il già mentovato epitaffio,  che fi legge in San Lorenzo  meminit Au&or Epitaphii ,  „ Cenotaphio loann. Georg.  •„ Trifiini Vice ti* infculpto  „ (Relliquum cnim tanti Vi-  ,, ri, quod Claudi poterat, Ro-  ,, M.C in Tempio S. Agatb* in  „ Suburra Conditu.m Fuit) il-  lud hic &c.“ E finalmente an-  che lo Beffo Rugeri nel citato  luogo afferma , che Eius offa-,  ( di G1oVAN GIORG I o ) ,  Roma cum Jo. Lafcari cineribut  affervantur . Comunque lia di  ciò, fatto fta che al prefentc in  S. Agata di Roma tuttoché fuf-  fiffa il fepolcro del Lafcari , non  fuffifte più veruna memoria del  Tr issino; come ci fe certi  il P. Girolamo Lombardi della  Compagnia di Gesù con fua  lettera fcrittaci da Roma addi  11. di Novembre di queft’ an-  no 17} 2.       do diroccato il monimento nella reftaura2ione‘  del Tempio (non ifpecifica quale^, ove era Ila*-  to feppellito, gli eredi Tuoi un altro gliene pofe-  ro in San Lorenzo di Vicenza nell’avello de’  fuoi Antenati ( 1 1 5 ) -   In fatti in San Lorenzo fi vede l’infrafcntto e-  pitafio, opiuttofto elògio, tante volte in queft3  VitA citato, da Pompeo Trillino , e da’ fuoi affini'  fatto ivi fcolpire , non veramente fa 1’ avello'  degli antenati fuoi , come erroneamente ha la-  rdato fcritto ilTuano, ma allato all’altare dr  detto Santo , a perpetua decorofà memoria di;  un sì grande uomo.-    IOAN- lllujhis Viri J m obi Au~  Xufii T hunni Hiftoritrum fui tem.  pori s Ab Anno Domini i J43. nfque  Ad annum 1607. libricxxxvt 1 I.  Gcnev* apud Heredet Pctri de  U Roviere  Lite. D. „ Obli c & hoc anno  « I. Georgius Triflinus peran-  » tiqua, nobiliquc Vicetise fa.  » milia, ad virtuccm, Se lite-    „ ra* natus , linguarum periti f-  j> fimus» Se omni Scienciarum   ,, genere exercitatiffimus   »> Roma laboriofz virar finem  „ impofuic anno xtaris lxxii.  >» Diruto Monumento» dum  „ Templum inftauratur , in quo  „ conditus fuerac , Hacrcdes al iud  i» ei ad S. Laurentii in Majo-  „ rum Scpulchro Vicctia pò-  » fuerunt.    Digilized by Googli    61   IO' ANNI GEORGIO TRISSINO   Putriti o Vicent.   tAtn nobilitate , quarti dottrina , (fi integt itato  Leoni Decimo , & Clementi VII. p 0 „t. Max.  necnon Alaximil. (fi Car. V. Impp. aliifique  Pfincipibus acceptijfimo , Legationibus prò  Cbrifiiana Repub. temporibus difficillimit  fattici cum oxitu apud eofdem  per alì is :   Dacia inde Regi desinato . Jn Coronai ione  Caroli Imperatorie ad Sacra Palla  Pontificia nitentis ferendi Syrmatis  Munus , infignioribus Principibus  ad hoc ipfum afpirantibut  pofi habitis , Bononia  eletto .   Aurei Ve Iter ij Infignibus » (fi Comitis dignitate prò fi »   & Pofieris ab eifdem Imperatori b. decorato.   Apud Ser. Remp. Venetam fapixs Legati  nomine de Clodianis Satin ù , de Ve.  rona refi itut ione , De Pace ,   Deq\ aliis negotiis gravibus re  ad votum tran fatta.   Sublimiori gradu Sobelis ergo r confato. Operibut plurimi e  cum antiquitate ceri antibus elucubrati s. Rebus finis*   & Pofieris eidem Inclyta Reipublìca Ven.  ex tefi amento commendatis .   Vitaq; religiofijfimì funtto Anno Aitai is   Sua LXXII. Virgìnei vero  Partus A4. D. L.   P ompejus Cyri Comitis , & Eq. fil. unicus  Superfies, Nepes, (fi Hares , AJfinefq;   T anti Antecefioris Memores  pii, gratiq; animi A4. P.P.   An. Salu. A4. DC. XV.   Non   (116) Di ciò non facemmo [nc abbiamo trovate tipruovc più  fpecial menzione, perchè nonjficure.    Non dee tralafciarfi di qui trafcrivere altresì  l’ Oda latina da Giufeppe Maria Ciria fatta in lau-  de del noftro Trissino ( 117) -   j) FAma centenis animata linguis  » Aureo pergat refonare cornu  3> Trissini Busto fuper 5 & jaccntés  33 Excitet umbras.   33 Fas ubi trilli gemuere lu e Lamino Perugino nel MDXXjy   in 4.   . e C^enza luogo > anno> e ftampatore ) in  i e (Cón la SofonUba , i Ritratti , e l'Orazione al  Principe Oritti ) In renezJat per Girolamo Penzio da Le.  che,   C Venezia per Agoftino Sindoni    e finalmente in rerona coll’ altre Tue Opere   ( 1*1 )•   li. EPISTOLA de le Lettere nuovamente aggiunte ne la   1 2 > Lin-    Nel Catalogo della Libreria Capponi, 0 Jta de' Libri  del fa Afarchcfe Alejf andrò (ire.  gor io Capponi, Patrizio Roma-\  no ec. C on Annotazioni in di- j  verfi luoghi cc.. .. i n R oma ap-  preso il Bernabb, e Lazza. :  rmi 1747. in 4. a car. 377 .|  vedcfi regillrata tale edizione;)  ma farà forfè quella fleila, che  fic fu fatta unitamente co’ Ri- !  tratti, e colla Sofonisba , cd al- ‘  tro, da noi per altro non ve-|  duta, che ha quelle note in fi-|    j ne P. Alex. Benacenses F. Be-  na. V. V.; fecondo che dice il  j Cavaliere Zorzi nel Ragguaglio  ! JJlor. della rita d’O.  manoferitto, in fine> cd anche  nel Difcorfo fopra le Opere di  lui , llampato nel tomo 5. della  Rac colta A'Opufcoli ec. in Venezia  apprcjfo Crijtoforo Zane, i 7 jo.  in la. car. jp8. Di quella Rac-  colta ne è benemerito Autore il  celebre P. D. Angelo Calogerà.   ( Tom. a. a car. 2 7 p.    . Digitized by Googlc    -.  rugino  e m Venezia ( Tenz’ anno , e ftampatorc  in 8.   e ( COn la Sofonisba , l'Epiflola de la Vita ec. ,   ed al-  Tom. 3. a car. 993.   ( ia8 ) Tom. 2. a car. 201.   Il Fontanini nel regi-  ftrare nella tua Eloqu. hai. a car.  * 75 - la fudJetta edizione, prete  uno fbaglio, notando Venezia  in vece di Vicenza.   Tom. 2. a car. 243.  ( l ì*J Nella Prefazione alle    I Opere del rioftró Autore a car.  xxx.   ( 1 3 2 ) Si legga il Difcorfo del  I Cavaliere Zqizì {opra C Opere  j del noftro Autore a car. 440.  Nel Catalogo della Libreria Cap-  [poni, a car. 377. Ih regiftrata  [un’edizione di qucft’Opcra in  j 8. lenza nota di ftampa, ma  quella   ed altro ) In Venezia per Girolamo Pernio da Ischi   mdxxx. in 8.   e V* net. per Ago/lino Bindoni e finalmente in Verona colle altre Tue Ope-  re    Il T rissino fcrifle quell:’ Opera a mòdo di  Dialogo , e in ella lodò parecchie Donne rag-  guardevoli del fuo tempo i facendo tra le altre  menzione )come fopra è già detto) di Bianca  fua feconda moglie, chiamandola beiuffima giovinetta .  Vi. Il Castellano, Dialogo , nei quale jì trae.   ta de la lingua Italiana . In Vicenza ( fenza nome dello  ftampatorc, nè anno della ftampaj ma ter Tolomeo  Janiculo . ) in foglio.   e ( colla Volgar Eloquenza di Dante) in Ferrara   per Domenico Alammarelli  1 1 K in 8.   Fu riita mpato anche tra gli Autori del ben parlare, e in Verona coll’altre fue Opere.  O. manda quello suo Dialogo a lo ili ufi re  Signor Cefare Trivulzio , fottO il nome di Arrigo Dori a ;   e iperfonaggi, che v’introdulfe a favellare, sono  Giovanni Ruceiiai col nome di Ca/iciiano, il quale di-  fende l’Autore da quanto gli fu fcritto contro  circa le nuove lettere } Filippo Strozzi , che lo Cdlfura,   e gli    quella forfè farà, che abbiamo] (133) Tom. 1. a car. accennata al di fopra nell’anno- . Tom. r. a car. 41.   (azione  ITom. 2. a car. c gii oppone le parole medcfime de’fuoi avver-  sari ; e Jacopo sannazx.aro y che difende le ragioni  del Trissino. Della Poetica; Divisone i. n. m.*iv,   Jfu riceva perT olomeo Janiculo da Bretfa MDXXIX. di Aprile.   in foglio .   Monfignor Fontanini regiftrò nell’ Eloquenza ita.  liana  quelle quattro prime Divijìoni in tal   guifa : Dalla Poetica di Gìangiorgio Trijfmo , Divijìoni iy.   in Vicenda per Tolommeo Janicolo. in foglio: ma flc-   come noi non abbiami vedute altre edizioni ,  che la fuddetta del 152 p. , e quella di Verona  ; e di altre non facendo menzione nè  il Fontanini medefimo, nè l’Autore del Caia -   lego della Libreria Capponi , nè ’1 Cavaliere Zorzi in   nefliina delle due fue Opere intorno al Traino,  (138), nè finalmente chi compilò la Biblioteca  italiana; così crediamo agevolmente , che  egli in ciò fi fia ingannato . Lo Hello diciamo  parimente della feguente impresone delle altre  due Divijìoni , da lui notata i 140) fotto il   1564.    A car. 354. j 1718. in 4. a'car. Coll’ altre fue Opere, e 17. e nell’Indice: Il Com-  Tom. a. a car. 1- ! pilatore di quella Biblioteca fu   Cioè nel Difcorfo /o-jNiccoIa Franccfco Haym Ro-  pra le Opere di lui, e nella Vita mano.   del medefimo manuferitta. ! Neil’ Eloqnjtal. a car,   { li9) Biblioteca Italiana cc. In 354.   Venezia prejfo Angelo Geremia . 5 che pure non farebbe il folo errore conv  meflfo dal Fontanini in quella fua Opera.   Della POETICA; Divifione . In Ve . -  per Andrea. Arrivatene , Sono fiate tutte ultimamente riftampate ì* a?»»*  coll’ altre fue Opere.   Quelle ultime due Divìfioni furono dedicate dall*  Autore ad Antonio Perepoto Vefcovo di Aras ?  con dirgli > non aver loro data 1' ultima mano   per effere fiato in quel tempo grandemente occupato nella teffi.-  tura del fuo Poema dell’ Itali * Liberata da Goti ,  Nelle prime quattro Divìfioni tratta egli de’ Ver-  fi , delle Rime , e delle varie maniere de’ Li-  rici Componimenti volgari : e dice in princi-  pio » che fé bene da molti Poeti tra fiato pot tic amen*  te Jcrittoy e con arte , pure nefiùno fin al fuo tempo  avea deir^r/ a voffra Reve-   Furono più volte flant-j rtndìffìm a Paternità molto , &  pata. V. fopra car.31. annor 55. | molto mi raccomando.  ove s’c favellato di quefta Ora- i Da Cric oli-, di luni, cin-  cone . V‘t di Marza del mille cinque -   Tom. 2. a car. 28?. cento trenta/ette, il tutto di In fine di quefta Let- \ Fopra RevcrenditfmaTatermta.  tcra fa il Tris sino menzio - 1 Giovanceougio Trissino.  ile fuccinta eziandio di certi al - 1 Quefta lettera non (apremmo  tri Villaggi del Territorio di perchè non fi a (lata inferita nel-  Viectiza ; c poi termina con | la edizione di Verona ,  quefte parole: A 1 on faro più I (^ P inrgia appreffo   lungo , perciocché effondo Monf,-\ Pietro dei Nicolini da Sabbio  gnore Brevio noftre lo apporta- \ mdm. in 4 * * Car> 3 ^ 1, a tcr S 0,  tare di quefta, egli fupplirà a I (iji) Ivi» ed anche a car.  bocca a quello , che io bavero. in fine.    Digitized by Google    DEL T RISSINO. 75   GRAMMATICES introduci ionie Libcr Primus.  Verona afkd jintonium Putellettum Fu rijtempato quello Trattatello in Verona unitamente coll’altre fue Opere dove si premette un breve avvilo al Lettore , dicendo in  eflb, che la detta Operetta forfè è quella, che fittone.   me di Grammatica fi cip* da quelli , C hanno fatto U Catalogo  dell'onere del *oJItq T*is«no, e forfè ancora nella prima edi.  itone fi è dallo Stampatore coti nominata > Libro Primo 5 per  rifletto 4' altro giceiolo Libretto » che contiene le inflituzioni  della Grammatica del celebre Guari» Veronefi , e che figuitando-  gli immediatamente , fui far le veci di Secondo diquejfa materia.   Non fi fa in fatti che il Tri ss ino altri ne fa-  cefle i e certamente altri non ne avrà compofti ,  concioffiacofachè nulla manchi alla perfezione  dell’Operetta medefima* in cui egli attenendoli  alla Italiana Grammatùhetta, tratta compiutamente  delle otto parti dell’ Orazione .    K i OPE-  Tota. i.acar.197.   OPERE   i   DEL TRIS SI NO   >. In Verlì Stampate. LA SOFONflSBA ( in fine } Jfampata in   I v Rama per Lodovico Scrittore , & Lautitio Pe-  rugino intagliatore nel MDXXllU- del Me fé di Luglio con  p rohibitione , che nefsuno poffa Jfampare queft opera per anni die-  ce t - come appare nel Brieve concedo al prefato Lodovico dal San .  tifiimo Noflro Signore Papa Clemente VII. per tutte le Opere  nuove che 'Iftampa. in 8.   Laltefià. Jn Vicenzjt per T olomeoj articolo e In Venezia ( con li Aitratti I* Epiftola a   Margherita Pia Sanlevenna y f Orazione ai Doge   Gritdj e la Canzone a Clemente VII.) per Girolamo Pernio da Lecbo. in 8»   e ivi ( lenza la Canzone ) per Agoflino Bìndoni   Ivi ancora (reparatamente) prejfo u Gioliti   mdliii. in 12.   c Ivi per Francefco Lerenzini MDLX, in 8#   * e Ivi P” u Gioliti ( tratta dal fuo primo   efemplare) mdlxii. in n.   - *' £ Jn Gntovrfapprtffo Antonio Bellone * e Venezia per Ginfeppe Guglielmo ,   >s T UO- Nuovamente ** Venezia prejfo Altobello Salica-   io    Poi In Vicenza prejfo Perin Librar o t e Giorgio Greco   compagni in 12.   e in V me zia prejjo li Gioliti mdlxxxv. e mdlxxvi-   in n.   e Ivi per Domenico Cavale «lupo. ili 8.   e Ivi preffo Michel Bocobello   " Poi ancora inVicenzA appreffo il Brefcia e in V inezia per Gherardo Jmbcrti  .   Fu riftampara eziandio unitamente con   la Dpijtola de la Vita ec. (con li Ritratti , e X Orazione   al Doge Gritti) fenza nota di ftampa, con cer-  te note in fine, in 8. (15?)   Finalmente fu impreffà tre volte , in re.  rena prej/b Jacopo raiUrji, F una . nel primo  tomo del 7 Wr» italiano (154), l’altra nel 1729,  colle altre Opere del noftro Autore, e   la ter-   V. fopra annotazione  l2c. a car. 67.   ( >54 J Di quell’ Opera ne dob-  biamo laper gradoni Signor Mar-  chefe Maffei, il quale v' ha pre-  mevo ancora una dotta Prefa-  zione , da noi altrove accenna-  ta, in cui difeorre molto eru-  ditamente della Sofonisba, che  occupa il primo luogo. Quell’  Opera è cosi intitolata t Tea-\    tro Italiano , o Jìa Scelta di Tra-  j gedie per ufo della frena ; ec. i  in reron a prefso Jacopo Vallar fi  171S. in 8.   Tom. 1. a car. .   Tralafciando di riferire le vcr-  fiotti fatte di quello Tragico  Componimento in altre lingue,  fedamente vuol di rii , efTere cf-  fo fiato tradotto in metro Jam-  bico latino da Giulèppe Trilli-  no   la terza nel prima toma del fuddetto Teatro ita-  liano ultimamente rillampato-  Qui dovremmo ftenderci a defcrivere a minu-  nuto le bellezze di quella Tragedia, aia per non  dilungarci troppo, ci riftringeremo (blamente a  riferire ( come di fopra prometto abbiamo ) le  oppenioni di parecchi illuflri e chiari Scrittori  fopra la fletta , £ primieramente Niccolò Rotti,  tanta ftima ne fece* che non pure ditte ( 1 5 .  che ella tra tutte le Tragedie de’ Tuoi tempi te-  neva il primo luogo? ma la fcelfe di più per  materia de’ Tuoi Dimorfi intorno alia t rogo dia. Angelo  Ingegneri? Veneziano, laido lcricto, non   efler troppo agtvol cofa P arrivar P Arìoflo nella Commedia ,  atrissimo nella Tragedia r del qual fentimentO fu  pure Giovambatilla Giraldi da Ferrara , per al-  tro rigido appuntatore del Trissino, dicendo, che tra’ noftri Comici è recito p Ariofio   eccellentijfmo , & il TrHsino nelle Tragedie ha riportato,  & ragionevolmente grandijfmo honort . Benedetto Varchi  poi, uomo di molta erudizione fornito, non  dubitò di dire nelle fue Leudoni > là dove trattò   dei    no, Cherico Regolare Soma- 1 meffaa* fuoi Difeorfi intorno alla  (cor la qual traduzione fta ma- j Tragedia . V.’car. 1j.aonot.44.  nufcritta nella Libreria de' P. P. I Della Poefia Rappre-  Somafchi di Vicenza con que- 1 fentativa , & del modo di rap -  fta femplice ifcrizione: Sopho- I prefentarr le Favole Sceniche cc.  NUB/t Tragedia metrico-latina 1 In Ferrara per littorio Baldini  Paraphra/ìt . IJ98. in 4. a car. a.   Lettera a’ Lettori pre -1 Ne' fuoi Difeorfi in-  torno  dei Traici Tofani (159), edere ftato il noftro  CjIOVANGIORGIO il P R 1 AIO » che fcrivejfe Tragedie in  queJU lingua degne del nome loro. E flOIl pure il Vàrchi  gli diede quella lode* ma eziandio il fopraddet-  toGiraldi, il quale nel fine della Tua Orbecche in-  troducendo la Tragedia a favellare a chi legge,  le fece dire cosi:   £’l Tr ISSINO gtWtH , che col fno canto  Prima d Ognhn dd Tebro , e dall UH f so  Già trajje la Tragedia all’ end e et Arno .   E a tralafciar altri autori , non fu minore la  ftimaj che d’efia fe il Signor Marchefe Maffei ,  il quale nella fua raccolta di tragedie date a lu-  ce Col titolo di Teatro Italiano , dando all 1 Sofonisba   nel primo tomo il primo luogo, dille,  che ella il primo luogo altresì occupa fra tutte  quelle Tragedie, che dopo il rinafeere delle bell' arti in mo-  derne lingue apparsero ( 161 ); foggiungendo cfler mira.   HI    terno al comporre dei Romanzi,] (160) Nel principio della  delle Commedie , e delle Trage-i Prefazione, o Difcorfo, che vi  dte , cc. in Vinezia appejfo Ga - premette .  briei Giolito de' Ferrari , &\  Avverte qui dottameli.   Fratelli , . acar.14jr.Jtc il Signor Matchefe, che ben-  Legioni di A 4 . Bene- j che vero fia, clic avanti la So-  detto Varchi Fiorentino lette da' fonisba il nome di Tragedia in  lui pubicamente nell' Ac ademia J Italia fia ftato a’ componimenti  Fiorentina, ec. in Fiorenza per | volgari impofto , poiché, die’  Filippo Giunti 1590. in 4. a car.J-egli, con queji' ijtejjo belliffmo  681 • , argomento una Tragedia abbia-   ' mo ,     è il ctfa, come la [rim a Tragedia riufcifle cui eccellente: C po-   CO apprell'o a fieri , che chiunque no n abbia » come in  molti accade , il gufo del tutto guafto da certe Romanzate ftra-  mere, non [otrà certamente non fentir/ì maravigliosamente com.  muovere dalle belle vue di queftaTragedia, e da' p a fi tenerijfimi,   c Singolari , che in ejfa fono. E finalmente in un altro  luogo lafciò fcrittOj'che vera e regolata Tra-  gtdia in quefla , o in altra volgar lingua non fi vide avanti la  Sofonisba del T R i s s i N o » a cui il bell' onore non dee invi -  diarfi d'aver innalzate le nofir.e /cene fino a emulare i fiamofi  efemplari de' Greci*   Ma degno di (ingoiar lode 5 e d’eterna memo-  ria fi rendette il noftro Giovangiorgio per  aver ufata in quefta Tragedia una nuova ma-  niera di verfi, e da veruno non prima ufata,  dico i verfi fciolti , cioè non legati dalla rima*,  di che e il Giraldi  e per la  condotta tanto fi allontanano  dal regolato ufo del Teatro , e  dalla furia degli antichi Mae-  flri , che non hanno fatto confc-  guir luogo agli slutori loro fra ^  Poeti Tragici; onde la gloriaci'  aver data al Mondo la Prima    ! Tragedia , dopo il riforgiment»   1 delle lettere , e delle bell' arti,  è rimafia al T r 1 s s 1 n o .  i A car. iv. della fud*  j detta Prefazione , o Difcorfo  p.renjeflfo al detto T entro Italia *  no .   I  Difccrfi cc. a car. 23 6.   ! Di f par crebbe non altrimenti ap*   1 preffo noi una Tragedia fe di ver-  1 fifo tutti rotti , 0 mefcolati cogl’  ! intieri , o co gl' intieri foli c'h.u  j veffero le rime, fifle tutta compì-  fi a , che havtrebbe fatto appreflo i  Greci , & i Latini , fefujfeft at a  1 ccm .    Digitized-by Google    del T Ri s s i n o; . ‘ Si  Ivlaffei (154) afsai lodatilo, e dicono, che per-  ciò gli debbe fentir molto grado la noftra lin-  gua. Ben’è vero, che vi fu chi a Luigi  Alatnanui., famofiilimo Poeta Fiorentino , attribuì  la gloria d’aver prima d’ognuno pofto in ufo co-  .tal Torta di verfii e ciò perchè egli -nella Dedi-  catoria delle lue opere To/cane dille d aver mejfi in   ufo i .ver fi fenza le rime non ufati ancor mai da' noftri migliori.   ,Ma come notò molto giudiciofamente l’eruditif-  fimo Signor , Conte Giovammaria Maz 2 uchelli  [166) , o che l' Alamanni contezza non ebbe  della Tragedia del Trissinoj e però fi pensò d‘  efsere il primo a fcrivere in detti verfi , o che  accennar volle colla voce migliori qué’foli anti-  chi fcrittorij .che fon venerati per primi Maeftri   L della    é   compofia di Dimetri , di Adonii,\ Fiorenti* 15S 9. in 4. a car. 7.  di Jindec afill ahi , ovtro di éjfa- come pure il Bocchi nc’ fuoi E Io-  metri, perchè le fi leverebbe con' gj a car. 68., ed altri allegati  la gravità il verifimile ; le qua- \ dal Sig. Co.'Giovammaria Maz-  li due cof* levatele , firimarreb-\ne ucheìli nella Pira dell’Ala-  re ella fenz.a pregio. Et però manni per etto dottamente ferie—  debbono aver molto grazia gli' ta , e (lampara • in Verona per  huomini della nqfira lingua al ! Pierantonio Berno , 174 j. in 4.  T R 1 s s ino , eh' egli quefli ver- j unitamente colla Coltivaz.icne  Ji fcielti lor dejje, ne' quali la j dello ftcflfo Alamanni, c colle  Tragedia pigliale la fede della \ Api di Giovanni Rucellai ,  fu* Maefià con vera fembianzut amendue gentiluomini Fioren-  atl parlar communi* I tini .   (164) Nella Prefazione al j A car. 47. della pcc’  Teatro italiano. I anzi citata Tita di Luigi Ala-    Il Poccianti nel Cata-j manni.  logo Scriptcr, Florentitiorum  della Poefia. Fatto fta però avere il T rissi no»  come già è detto» la Tua Tragedia comporta vi*  ventc Leone X. a cui la dedicò » cioè a dire  prima che l’ Alamanni fcrivefle le Tue Opere»  che furono ftampate nel in 2 * (*^7)*   E perchè v'ha una Commedia di Jacopo Nar*  di, Fiorentino, intitolata amicizia (j e dell' ortografia antica   della predetta Commedia , e fu Taverla il Nardi  chiamata nel Prologo fabula nuova , c primo frutto di  Ytvovo autore in Idioma Tofco , decife francamente > ef-  fcr la piti antica , e la prima di tutte le Commedie, che  fi vedeffe feruta in 1/crf, Italiane: aggiungendo, che dal-  le quattro stante ftampate in fine di efla Com-  media ( 172), appar chiaro efier efifa finta compo-   L 2 fila   * I. " L - - u j , j    Il Crefcimbejoi nella [che egli verarnente prete yno  Star, della l^olg. Poef. dell’ edi- 1 sbaglio, perchè il Varchi dille  zione di Venezia* tom. r. lib. folamcnre, che il Nardi usi in  lib. J. a car. 1 1 V parlando del ! una fua commedia i verfi fciolti.  verfo fciolto j dice, cheiIVar| A car. 4J5. e fcg.  chi, lafciando indubbio, fe il J Quelle Stanze fono le  Tris e dì  guerre accefe in Tofcana, e per tutta l' Italia : il che (dice   egli) pienamente corriffondt all' annoi 494. in congiuntura del.  la venuta del Re Carlo Vili, in Italia-, e della cacciata de' Me-  dici da Firenze .   Ma quanto egli favellale a capriccio? ognuno-,  che fiore abbia di letteraria erudizione , può  agevolmente chiarirfene. Conciolfiacofachè quan-  tunque    Da quel-, da cui ogni falute  pende   Letitia & paco: a cui fitto-  il tuo fogno   Si pofa : & lieto ogni tuo be-  ne attende:   j Et ceffi il Martial furore &  /degno:   Cbe fa tremare H Mondo :  Italia incende ,   Chel clanger delle tube , & il  fuon dettarmi   Non laffa modulare i dolci  carmi.   Ma quello Dio , che olii alti in-  gegni afiira:   Et ogni opera dif prezza abie-  tta dr vile:   Tanto- favor benigno oggi ne   fint-  eti pur la fronte extollt il  ficco umile.   Ma fi lodore antiquo non re-  fi™   Stufate lo idioma : & baffo  fHle.   Et fcujt il tempo Ihuom fag.  gio & difereto   Che molto importa il tempo  fri fio 0 lieto . ]_   Quando farà che in porto al |    ficco lido   Salva (Fiorenza mia ) tua  barca vegna   Secura in tulio homai dal  mare infido:   T efio : Se il Sacro -Apollo il  ver minfegna   Segua pure il Nvcchkr ac-  corto & fido :   Et viva, & regni pur Chi  vive & regna-,   -Allhor (fé alcun difir dal Citi'  s impetra)   Diro le laude tua con altra  Cetra .   -Allhor mutato il Cielo in altro  afielìo   Renoverà nel Mondo il Secol  dauro-.-   si libar farai degni virtù re-  cepto :   Cipta felice: & di mirto, &  di Lauro   Coronerai chi honore ha per  obietto.   Et nota ti farai dallo Indo  al Mauro.   Ma hor eh' il ferro & il fico it  Mondo a in preda  Convita eh' a Marte ancor  Minerva ceda 8$  tunque di ciò, che il Nardi dice in principio   delle fud dette Stanze , (cioè che elle fi cantarono falla  lira davanti alla Signoria» Quando fi recitò la predetta Conr   media) racC ogli e r fi poflìi e (Ter efsa fiata rapprefen-  tata in tempo che Firenze non avea cefsato ancora d efsere Repubblica ; nientedimanco nè da  quefte parole > nè dalle stanze fiefse può dedurli  che il tempo della recita d’efsa Commedia cor .   rifa onde Piènamente all'anno 1494 . in congiuntura de-  gli avvenimenti fuddetti. E fe egli in dette stanze  fe menzione di guerre moleftillime a tutto il  Mondo, non che all'Italia, non ne fpecifica pe-  rò il tempo j anzi le accenna in maniera che  fi potrebbe più verifimilmente conghietturare  aver egli voluto in efse indicare le guerre in cui dall’ armi ddl’Imperator Car-  f lo V. Roma fu prefa, e Taccheggiata, il Papa   (che era Clemente Vii. di cafa Medici) fatto pri-  v gione , l’Italia molto travagliata , e tutto il Mondo ,   dirò così, afflitto da gravilfime turbolenze.  Oltreché non è probabile, che la signoria in tem-  po di guerre e di turbolenze inteftine fi fofse  data bel tempo, e fe la fofse pafsata (comefuoi  dirli) in allegrie, e in divertimenti di Gomme*  die. Laonde con migliore probabilità fi può dire,  che la Commedia del Nardi fofse rapprefentata  nell’anno 1530. giacché in queft'anno e Clemente  , Vii. ritornò a Roma dopo la pace fatta col fud.   detto     detto Imperatore, e dopo averlo anche folenne-^  mente coronato nella Città di Bologna; c Aleflan-  dro de Medici fu fatto Duca di Firenze dal mede-  fimo Imperatore; fotto il Dominio del quale la  Città non lafciò in certo modo d’eflere tuttavia Re-  pubblica. E verifimilmente un de’ due accennar  volle il Nardi nella voce Nocchiero , ufata nel quinto  verfo della terza ftanza, e ad uno de’ due pari*  mente, o fors’ancbc a tutti e due pregò egli  PitA t Rtgn? nel fedo verfo della ftanza medeilma r   E viva > & regni pur Chi vive & regna. Se poi egli chia-  mo la Commedia fabula nuova i e primo frutto di nuovo   uè ut or e in idioma t ofeo , volle con ciò indicare la  novità dell’Argomento, ma non mai la novità del  verfo, come pretefe di farci credere il Fontani-  ni nel citato luogo : c perciò fu giuftamente cen-  furato dal Dottore Giovannandrea Barotti nella   fila JOifefa delti Scrittori Ferrar e fi   A quel che fi è detto fi può ancora aggiungere *  che non fi troverà certamente , che lo Zucchetta,  per cui fi crede, che fofle anche fiata fatta la pri-  ma edizione della predetta Commedia * libro al-  cuno ftampato abbia avanti! 1517.» 0 al più al   più avanti  > quando il Trissino avea già   com-  Parte feconda A car.n j. I tutori / opra P Eloquenza Italia-  Queft’ Opera del Sig. Bacotei faina del F anfanivi , Roveredo[ ma  Campata tra gli Ejfami di Tarj veramente Venezia) comporta là fua sofonhba. Ma per-  chè più chiaro appaia l’errore del Fontanini ? e  del Guidetti altresì nella fua relazione al Var-  chi, e come a torto vuol toglierli al Tr issino  da alcuni moderni la gloria della invenzione dei  Verfi fcioltij vogliamo qui riferire ciò ? che al  medefimo noftro Autore dille Palla Rucellai  nella lettera ? colla quale gl’ intitolò il Poema  delle Api di Giovanni Rucellai ? Ilio fratello? che  che è fegnata di Firenze Voi fofte il Primo (gli dille) che quejio modo di fcrivere in  •verfi materni liberi dalle rime ponefte in luce , il q»al modo fa  Voi da mio fratello in Rojmunda primieramente, e poi nell' ji-  pi » 0 nell' Orefie abbracciato , ed ufato: e apprellò chia-  mò f Opere dello fteflo fuo fratello Primi frutti  della Invenzione del Trissino. Per le quali cofe  tutte forza è, che conchiudiamo? che a gran ra-  gione non pure dagli antidetti Scrittori? ma dal  Tuano e da altri ( ìycr ) fu il noftro Au-  tore .  Veggafi la foprallega- !  FHJlor. &c. Toni. 1. lib,   ta lettera di Giovanni Rucellai vi. Ann. 1550. pag. 200. lctt.  ai Trissino fegnata di Fi - \ D.„ Jo: G e or g i U s Tbis>  terboaddt 8. di Novembre mdsv. j », sihi's .... P ri m u s genu $  ftampata nella Prefaz. alle Ope-',> canninis foluti foelicitcr ufur-  re dello fteflo Trissino a car. ‘ „ pavit, cum a temporibus Fr.  xv.} e a car. xvm. v’ha una „ pcirarchae Itali Kythniis ute-  Lettera della Marchcfa Ifabclla ,, rcntur.  di Mantova al nollro Autore; ( 176 ) Filippo Pigafctta, Vi-  de* di 24. di Maggio 1514. in ccntino, nel Difccrfo mandata  cui gli dice, che avea ricevutola Celio Malafpina in materia  una fua Lettera , Ferfi , & Ope- ‘ dei due Titoli del Poema di  retta, la quale fi può crede- Torquato Tallo , premeflò al  re, folTc la Sofonìsba, Poema fteflo delia edizione di   Fette-    Digitized by Googl    SS •' La Vita   torc chiamato Primo inventore di qucfti  verfi .   Ma per tornare alle opinioni degli Scrittori  fopra la Tragedia del Tassino» non fu ella efen-  te da’fuoi critici, rare eflfendo quell’ Opere, in  cui non fia ftato notato qualche difetto. Il Var-  chi nel citato luogo volendo darne giu-  dizio, la oenfurò fpezialmente per la locuzione ,  dicendo COSÌ: Io per me quanto alla favola , e ancora in  molte cofe dell'arte non faperrei fe non lodarla -, ma in molte al*  tre parti , e fpezialmente d’ intorno alla locuzione non faperrei,  volendola lodare, da qual parte incominciar mi dovejfi . E nell*   JErcolano diflfc: La La Sofonijba del Tr isslno,  c la Rofmunda di mefier Giovanni Rucellai , le quali fono loda -   tijftme, mi piacciono sì , ma non pia quanto a molti altri. 17 al   C k    Venezia per Francefco de' Fran- j che come fi avea d aver grazia,  cefchi. in 4., dice, che \\\al Tr 1 s j i N o, c'havejfe dati  T r 1 s s 1 n o fu il Primiero; que verfi ( fciolti ) alla Scena ,  che in italiano abbia ofato, e | così cc. Finalmente il Giti di  faputo ..., camminare per fen - 1 medefimo in una delle fueLet-  tiero erto, non più calcato da terc.tra quelle di Bernardo l af-  ' vernn altro dal tempo antico in fo. In / 'a dova . , apprefi  quà , faivendo in Verso dal- fo il Cornino-, in 8.; toni. a. a  la rima Sciolto , con avvefttu- | car. 198. apertamente chiamo 1  rato ardimento, la Sofor.isba Tra - ITr.ssino Inventore di tali  tedia ce.. HGiraldi poi ne* Di fi ! verfi : la qual cofa fu olTervata  cor fi cc. a car. 92. favellando dei anche dal predetto Sig. Co: Maz-  Verft Sciolti , chiama il noftro ! zuchelli , a car. 47. annotaz.  Gì ovangiorgio loro in- j 1 22. della fuddetta l'ita di Lui-  ventore-, e approdo dice qucdc' gi Alamanni,  parole: Veramente mi pare , che | Lezjzioni ec. a car. 68 r,.   Monfignor il Bembo, giudiciofo A car. 393. e 394 del-   Scrittore ..... il vero dice fio, | la ciraw edizione di Padove  quando a Bologna mi diffe, che I 7 -H - ,n   X» "E L T RI S S,I N O.   Giraldi poi fu appuntato il nollro Autore;  per eflcrfi in quella Tragedia più dato (come £   dlfle) a fcrivtre i co fimi , e- le m Anitre de i Greci, che nonfi  conveniva ad uomo, che firiveffe cofa Romano, nella quale tn.  traffe la maejlà. delle perfine, ch'entra nella Sofinisba, Alla   quale obbiezione veramente potrebbe nlpondcr-  fi colle parole del fuddetto Signor Marchefe   Maffei (180), cioè che certe azioni, 0 detti, che ci pa -  jonoJn Per finali grandi aver talvolta troppo del famigliare >  .non danno dif gufi 0 a. chi . ha cognizione de' Tragici Greci, egra*  ttìca de' co fi unti antichi *   E sì . parimente altri difetti furono appuntati  an erta Tragedia, che per dir breve fi ommet>  tonoi ma con tutto quello farà elfa da tutti i  dotti Tempre in grandilfimo pregio tenuta: per-  chè quantunque lì creda lontana da quella per-  fezione, a cui fi può condurre un componimen-  to teatrale! (oltreché Tiftelfo potrebbe forfè dir-  li delle Greche Tragedie ancora, come dice il  predetto Signor Marchefe egli è per al-  tro certo, no» molte prelfo chi ben intende an-  noverarli Tragedie in lingue volgari, che porta-  no gareggiar con la Sofinuha, la quale fola fareb-  be ballante a tener tempre viva gloriofamcnte   M appreC-    f 179) Difiorfi del Giraldi e. liane luog. cir,  car. 179. in fine, e a car.  Prcfaz. alle Opere de  ( lio) PreCaz. al Teatre Jta.\ Trissino a car. xxvii.    Dìgitized by Coogle    5>S 'La Vita   apprcfso i letterati la memoria del Tuo Autore-  A ciò che abbiam detto fi può aggiugnere an-  cora il giudicio del mentovato Signor Cavaliere  Zorzi, il qual dille, che la Sofonùba ì u n   Tragico Poemetto, migliare de’greci, e /nitriere ai Latini , Ita-  liani » e Franzefi Scrittori.   LA ITALIA liberata tia i Goti. Stampata in Roma  per Valerio , e Luigi Dorici a petizione di plutonio A/aero Vicen-  tino MDXLV1I. di Maggio, con Privilegio di N. S. Papa Paulo  Jll, di altri Potentati. -   Rarif-  Difcorfo fopra l’ Opere \ al Clcmentijfimo ed Invit tijfimo  del Trissino a car. 415. 11 ^Imperatore Quinto CARLO  Quadrio nella Storia e Ragione > Maffimo : e quelli primi nove  d' ogni Poefia Voi. 3. libi 1. Dift. ì libri fono di carte 175 I fc-  I. cap. iv. Particcl 2. a car. 65. condì nove, che contengono  regimando quella Tragedia, ac- carte 181, furono Rampati l’an-  Cenna i difetti fuddetti in clfa no approdo nel Mcfe di Novem -  notati dai predetti Varchi cGi- bre , come appare da quelle pa-  llidi ; ma apprelTo foggiugne , fole , che in fine fi leggono :  che efla ciò non cjtantc ha fem- Stampata In Pene zia per T 0-  pre avuta ejiimazJone non poca: torneo Janiculo da Brejfa nell' an-  nominando anche la traduzio- no MDXLV 111 . di Novembre .  ne Iranzcfc di detta Tragedia Con le grazie del Sommo Fon-  fatta per Claudio Mcrmctto, c tifico , e de la JlluHriJfima Si-  imprcfla in Lione l’anno 1583. gnoria di Venezia , e de lo Illu-  ( Quello Poema fa dal Jlrìjfimo Duca di Fiorenza, che  Trissino, come è detto di ninno non la poffa riftamparc  lopra, mandato in luce in più per anni X. fot za efprejfa licen -  tempi. 1 primi nove Libri » i za de l’Autore. Gli ultimi no-  quali hanno il titolo fuddctto,;ve finalmente furono llampati  ma co’fuoi nuovi caratteri, fu- janch* effi in Venezia P anno  rono llampati l’anno 1547. nel Hello MDXLVII . per Io Redo  Mcfe di Maggio ; attorno il qual Janicolo, ma di Ottobre (cioè  titolo v’ ha eziandio il motto un mcfe innanzi a'Scconai no.  della, imprcla da lui alzata TO ve) collo Hello privilegio. E  / HTOTvevon A auto >1 i e tutti quelli XXV II. Litui (che  dopo fegue la fua Dedicatoriafono, non già.   come Ov pi  Rariflìma è quefta edizione } e due fole copie  n’abbiamo noi vedute in Venezia y una nella ce-  lebre Libreria Pifani? e l’altra nella preziofa Li-  breria del fu Signor Apoftolo Zeno (184) 5 ap-  prefso cui Vera anche un efcmplare dell’ im-  presone feguente.  J tali a &c. riveduta e corretta per /’ Abate Antonini ec. in  Parigi nella Stamperia di Ciovanfrancefco Rteapen .   Tom. 3- in 8.   Fu anche riftampata unitamente colle altre Ope-  re del noftro Autore nell’edizione tante volte  da noi citata j (ma fenza i caratteri da efso in-   inventati) in Verona preffo Jacopo PalUrfi 1729. i n   e tiene il primo luogo nel tomo primo •   Ma Anche    ionie diflero erroneamente il  Fonranini nell’ Eloquenza ita-  liana à car. 580. . e 1 Autor del  Catalogo della Libreria Cappo-  ni a car. 377.) fono uniti in un  volume in 8. Il Cavaliere Zor-  zi nel fuo Dif offa intorno alle  Opere del Tkissino a car.  4 y). sbaglio prefe in dicendo,  che i primi libri furono  ìmprtfft in Roma , e gli airi IX.  in Venezia .   Dal Signor Apoftolo  Zeno fu la detta fua Libreria  donata con teftamento a P. P.  Domenicani della flrctta offer-  vanz.a di Venezia nel mefe di  Settembre dell’anno i7jo.» nel  quale poi addì xt. di Novembre  placidamente p.ifsò di quefta vi-    ta. Della cui perdita li dorran-  no mai Tempre i Letterati , ed  tifa da noi non pure in quel  tempo, in cui appunto eravamo  in Venezia, ma continuamente  farà compianta. Cinqui abbiam  voluto dire., per Iafciare un pub-  blico arredato, della noftra gra-  titudine alle molte cortcfie ufj-  tcci dal meiefimo. Per altro un  elogio alla memoria di sì grand’  uomo col Catalogo delle fuc  Opere ha pubblicato l’erudito  Autore della Storia Letteraria  d'Italia (il P. Francefco Anto-  nio Zaccaria Gcfuira ) nel Voi.  3. lib. 3. cap. V. num. 1. c fegg.  pubblicata in Venezia nella  Stamperia Polttiv 1752. In 8.  Anche quefto Poema fu da varj letterati ITomi-^  ni e Iodato? e cenfurato in molte cofe. E quanto  alle cenfure, il Titolo primieramente non è affat-  to piaciuto ad alcuni, giudicandolo dii troppo  lungo, e ravvolto, diròcosì* dicendo, non bene  diftinguerfi, fe i Goti, o pure altri da' Goti ab-  biano liberata f Italia (18*) . Scipione Erriccy  Poi nelle fue Rivolte di Parnafo Criticò 1 - AtJ-  tore noftro, che fece fare fenza necelfità veru-  na ai Perfonaggi del Poema lunghi ragionari, e  che introduce la gente nella Zuffa, parlante a-  guifa di Dialogo, facendo che l’uno ricominci  dove l’altro terminai il che è lontano affatto  dal verifimile j concioffiacofachè nelle guerre non  s’odano che poche voci, e folamente fi fenta,  il fragore delTarmi : e in altro luogo ky  criticò, perchè troppo alto cominciamento die.  de alla guerra i dicendo , che meglio avrebbe  fatto', fe avefse porto Belifario o dentro a Roma, o per lo meno in Italia v e tacciando in ol-  tre gli amori di Giuftiniano di troppo goffi c  lafcivi, c d’indegni del fuggetto, a cui furono-  appropriati (188): delle quali cenfure dell’Erri--   CO fi Veggafi Udcno Nificli  tic' Proginnafmi ec.   Rivolte di Parnafo di  Scipione Errico . In Me finn per  gli Eredi di Pietro Urea 164.1.    in iz. acar. 63.   Rivolte di Pam a fe a  car. 64.   ( 188 ) Rivolte ec. a car.  . pj  to fi dolfe poi non poco Gafpare Trillino colla  Lettera a lui indiritta ? la quale fi legge nelfè  efse Rivolte di Pimi/,, (i8p). Attché il Fontanirri  nella Eloquenza Italiana ( jpo ) notò qnefto fallo  commefso d’O., foggiugnendo, che egli  Poi ravvedutoli, ne fece l’ammenda, riftampan-  do le carte, e mutando i verfi già fcritti (ip r ; s  pafiando appreffo a riprendere chi riftampò le  Opere di lui, perchè avendo tralafciata l’ortogra-  fia dal Tri ss ino fieflb inventata, v’ avelie poi  inferite le cofe ** M medefmo volontariamente ritrai -  utt (ipi). Da    S * ÌV r ° lte J C - * car - «o-. | eolie parole, e le parole io' ben-  (iyo) A cai. 581. 1 fieri: le quali fofto perciò fem-   so^Aelìa Ubr^'r ^ C * ! * lo \t lici e P«re, e di quando in quan.  go della Libreria Capponi a car. | do con virgìnal modeffia trasfe   &Y.T„“fT ''jT'I’t'v" 4 CanonTo G fZt  d I Rissino, die*; nelle An- : ni Checozzi nella fùa dotta Ltt-   TZntL C alcll q0Cl1 ’ \ *»* di,enfiva ’ «tata al di fopra   An!dli r q '"'"^ont all 1 annotazione 101. , dice che   {jù 1 ; isst { ;j:zz:iu f :rr ir ™ s -   ìz o ìvT cho t bcmì   ! 2 *’ 119 J. \ io ’ » ,iche > àoveglifcherzi qualche  e 1 31. , che fi e tentato di leva - 1 volta p affano aver Inaio ma   UaVitìc *‘ r l ÌC l n ?*** }"**•{ molto pia nelle ferie, & ed ora-  Ma Vincenzio Gravina nella fua tcrie. *   Opera intitolata Della Ragion   Poetica libri due cc. Jn Venezia   frejfo singioio Geremia 1731. in   4. lib. a. a car. 106. non dubitò   di lafciarc fcrirtó non foiamen- Le parole delFontanini  nel luogo citato fono quelle z  Reca gran maraviglia (dic’egli j  che ojjendendofi la memoria , e  riputazione dd Tritino nel ri-   fi n 1. ^    te chela Qifd. -r riputazione del J njf.no nel ri -   te che lojhle del Tassino \fiamparfi le fue Opere ( non pe-   e caffo e frugale; ma ancora che] ri con l'ortografìa da lui fi tifo  tatti ifitoi penfien fon mi furati j inventata ) fiafi voluto in onta   fua »    .Vita'   Da Gio: Mario Crefcimbeni nella Stiletta dil-  la Fdgar Totfm { ipj), fu il Tr issino cenfurato di  troppo efatto nella deferizione delle parti ,• e  particolarmente del veftire dell’Imperatore Giu-  ftiniano; concioflìacofachè gli abbia fatto metter  prima la camicia, e poi 1* altre robe di mano in  mano fino alli calzari; foggiungendo, che l’efem-  pio d’Omero inventore di cotali foverchio dili-  genti narrazioni, non lo dee in ciò feufare. In  fatti l’avere Giovangiorgio troppo efattamente  imitato quello Greco Poeta, fu la cofa princi-  paliflìma, che. gli ha nociuto. Di che eziandio  Giovambatiila Giraldi ? Cintio , Ferrarefe , ap-  puntollo, dicendo (194)5 che £ energia non iftà ì co-  me il noftro Autore fi credette, nel minutamente feri, vere ogni copicela , qualunque volta il Poeta fcrive eroicamente;   ma nel-    fla, e non fenza contumelia del-  la Chrefa Romana fargli l' oltrag-  gio di preferire alia giufta fua  correzione le cofe , volontaria-  mente da lui meclefimo ritratta-  te , cantra le quali da onorato  gentiluomo-, e da buon Crifiiano  altamente fi fdcg -crebbe , Je foffe  in vita. Con quelle parole ac-  cennò il Fontanini la rillaihpa»  che delle Opere del T n i s‘s i n o  fi fece in Verona ; del che il  Marchefc Maffci fe ne rifenri  nell’ E fame fopraccirato, a car.  73., dove dice, che il detto  Boema fi è ristampato a Verona    | fecondo /’ impresone con Privi-  legio di Papa Paolo Terzo ufii-  I ta . lo certamente non ho vo-  ; Juro darmi la briga di con-  frontare la primiera edizione  ; colla riftampa' del Poema fief-  fo, per chiarirmi» fe vere ric-  ino quelle mutazioni predicate  dal Fontanini . Bellezza della Volgar  ' Poefia di Gio: Mario Crtfcim-  j beni ; In Venezia , preffo Loren-  \zo Bafeggio,  in 4. Dialog.  Vili, a car. 157.  Ne’ Di f cor fi ec . a car.  6 a. ma nelle cofe, che fono degne della grandezza della materia*   if'ha il. Poeta per le mani: e prima ( 195 ) dille quelle   parole: Come l'età di Omero e i collumi di que' tempi, e le  fingo lari virtù, che fi trovano in queflo divino Poeta , fecero to-  ler abili quelle- cof e in lui', così l'averle il Trijsino in ciò  imitato ne/r Italia, .altro non fece , che ffiegliere dall'oro del  componimento di quel poeta lo fi creo , (il quale non per fuo vi-  zio , ma dell età ci fi trapofe ),.e imitare i viz,j , ( parendogli di  avere affai fatto , fe bene gli efprimeva ) , e accogliere tutto quel-  lo, che i buoni giudicii vollero trai affiate, moftrandofi in ciò   foco grave. Oltreciò lo Hello Giraldi (i 96 ) notò  in quello Poema, vìziofe eflere le invocazioni; e  la favola di Farlo e di Lìgridonia elTervi introdot-  ta, e fuori dì ogni bifogno, e fuori d'ogni dependenza ; aggiun-  gendo, quell’allegoria efler tolta da altri, e in parte dall'  Ar lofio nella favola et Ale in a, e di Logifiill * * C finalmente  in una. Lettera a Bernardo Tallo (198) dille , chele il   Tr ISSINO fiecome era dottiamo , così foffe fiato giudiciofo in  eleggere cofa degna delle fatica di venti anni , avrebbe veduto ,   che così fcrivere , com'egli ha fatto , era uno fcrivere Smorti ]   inferir volendole il Poema non era letto.   Ma chi dogni appuntatura de'Critici a quello  Poema parlar volette , llucchevole forfè e nojo-  fo riufeirebbe ; elfendo già flato fatto que-  flo dal  Difcorfi ec. a car. 33 .[quelle d’effo Taffo , ( Voi. a.   t 9f> \ ^r 0T r cc ‘ 3 car ' 49 - a Car. 196. e fegg. ) (lampare  — l J cor fi cc  e fopra  i Poemi di alcuni più chiari Epici non dubitò d’,  innalzarlo. Nè minor conto ne fece Benedetto  Varchi, poiché in una deile fue Leeoni (20 6)   dille , che 1 Italia Liberata da Goti fe bene era lodata  da pochijfimi meno che mezzanamente , e da molti in finii amen.  t e biafimata ,.e quafi derifa , pareva a fe nondimeno , che  -Quanto a quello , che è prof rio del poeta , ella mcrìtdffc   tanta lode, anzi tanta ammirazione , quanta altra potft* , che   JSj fia dogo    fico , ed a teffer lavoro Somiglian-  te a quei di Virgilio , a d' Ome-  ro, e di quejlo fpezialmente eh'  egli prefe a imitar del tutto.   Lettere , Voi. 2. acar.  416. Il T rissino > la cui  dottrina nella noftra età fu de-  gna di maraviglia, il cui Poe-  ma non farà alcun» addito di  negare che non fia dijpojlo fe-  condo i Canoni delle leggi d'  lArift utile, e con la intera imi-  tazione d' Omero , che non fia  fieno d erudizione atto a infe-  gnar di molte belle cofe ec. 11  O. medefimo nel 1. libro  di quefto fuo Poema, a car.22.dcl-  l’cdizione di Roma così dice ;   „ Ma voi beate Vergini, che  „ fofte   „ Nutrici , e figlie del divi - 1  a> no Homcro,    [ „ Ch’i ammiro tanto , e vo   feguendo Torme  „ Al me’, ch’io fo, de i fui  „ veftigi eterni;   Reggete il faticofo mio  viaggio:   „ Ch’ io mi fon pofto per  „ novella ftrada,   „ Non più calcata da terrc-  .^nc piante .   E in quefti ultimi verfi po-  trebbe crederfi , che avefle egli  voluto indicare non pure d’eflere  flato il primo a comporre Poe-  mi a imitazione d’Omero, ma  d’effere anche flato il primo in-  ventore del verfo fciolto » in  cui il Poema è dettato.  Lib. 2. acar. ioj.    I Lezzioni di M. Bcnedetto Varchi a car.    f‘* dopo Omero fiata firitta, e dopo Virgilio: foggiungcnclo  appreflo, che deve molti fi ridono del T n. i ss i n ® > che  confi fio d'aver penato XX. anni a comporla » a luì pareva,  che ciò a gerle giudizio porre , e attribuire fi gli doVcHè >   Finalmente ( a tralafciare il fentimento di altri  Scrittori circa quello Poema, e fpecialmente del  Tommafini, e dell’Imperiali  Salvini, che fu uno de’ più be-  gli ornamenti, che abbia avuto in quelli ultimi  tempi la Città di Firenze, così fcrille (2op) in  torno al Poema Hello, e al fuo Autore: 11 nofiro   leggiadrijfimo Rutilai tefii in verfi fiiolti il fuo poemetto dell'  Api dedicandolo al Trissino, che nello fiejfo tempo del-  lo Alamanni » che la celebratifiima f u a Coltivazione mife in  verfi fiiolti > compofe alla gran guifa Omerica I'Itau a Liberata  dai Goti, il qual Poema fu tanto da un drappello diPaftori Ar-  cadi confidar ato ripieno di bellezza, e virtù poetiche , che ave a-  no a varj /oggetti dato un Canto per uno , per metterlo in otta-  va rima , per farlo più leggibile con quefio lenocinlo alle fihiz,.  zìnafiy per dir , coti , orecchia Italiane ( 2 to) • ed in Un     e nel  primo tomo delle fue opere della riftampa di Ve-  rona j e con altre fue poefie nella prima Parte   della Scelta di Sonetti e Canzoni de' pi* eccellenti Rimatori  d'ogni fecolo (alj).   XV. RI-    Jm      ^214) Mi pare, che qui da  tralafciar non fia il Sonetto da  Benedetto Varchi mandato al  noftro Giovangiorgio j  giacché con dio non pare lui  lodò, ma avendo forfè la mi-  ra alle altrui critiche fopra il  di lui Poema, inanimillo a?pro-  feguire gl’incominciati fuoi Au-  di . 11 Sonetto è qticfio, e fi   è traforino dal libro intitolato:  J Sonetti di M. Benedetto Var-  chi , ec. In Venezia per Plinio  Pietra Santa , 155-5. in S.acar.  109.:   O. altero , che con chia-  ri inchiojtri   T e ’nvoli a morte , e 7 fo-  co l noftro bonari ,   Rendendo Italia a' fuoi pajfa-  ti honori.   Di man de' fin crucici barba-  ri moftri    Tu con nuovo cantar l'antico'  moftri   Sentier di gire al Cielo , e  tra'migliori   Le tempie ornarfi dì honorat i  allori   Pi* cari a cor non vii , ohe  gemme & oftri.   Per te l' Adria , la Brenta, e  ’t Bacchillone   Al dolce fuori de tuoi graditi  accenti   Vanno al par di Pento , del  T tbro , e d'Arno .   Deh, fe 'i gran nome tuo ftnt-  pre alto fuone,   £ faccia ogni gentil pallido 1  e fcarno ,   Tuo corfo l'altrui dir nulla  rallenti.  Scelta di Sonetti e  Canzoni de’piìt eccellenti Rima-  tori dì ogni Secolo ec. DEL TRI'SsrN'O- roi   XV. RIME. In Vicenza per Tolomeo laniccio.   Diccfi j che l’anno medefimo fofler ivi riftampa-  tc per lo Hello janicoia in 8>; ma quella edizio-  noi non l’abbiamo veduta. Furono bensì riftam-  pate 1» Verona coll’ altre lue Opere.   Il Tris si no dedicò quelle Rime al Cardinale  Niccolò Ridolfi, Velcovo di Vicenza in quel  tempo ( non a Leone X. , come fcrifle erro*  nearnente il Signor Canonico Conte Giovam-  batifta Cafottì, che fu perciò ne[  Giornale de' letterati £ Italia, modcllarrrente cor-  retto) e nella Dedicatoria, la quale non ha da-  La, egli dice, che gli mandava w'ft* Tuoi giovanili  componimenti per ubbidire alle fue molte infianze . Di quelle  Urne, non meno che del loro Autore , favellò  con molta lode il Quadrio nella più volte ci-  tata Opera fua della Storia e Ragione di ogni Ree* : c Federigo Menini lafciò fcritto et*   fere     W4, che contiene i Rimatori an- Tom. prim.acar.349i   fichi del 1400. e del 1500. fino j Nella Prefazione. In Venezia r Vrofe e Rime de'due Buonaccor-  preffo Lorenzo Rafcggio . in 12. 1 fi « Rampate In Firenze nella  Voi. iv. La Canzone è a car. ! Stamperia di Giufeppe A/anni  303. del Vol.i.e di efla se fatta 1 1717.   menzione al di fopra all’annot. ! Tom. xxxvl. Arde*   56. Olitila Scelta , che era fiata ix. a car. 224. in 12.  prima in Bologna Rampata, fu poi j Voi. 2. lib. I. Difi»  riprodotta in Venezia inpiùVo-’i. Cnp. 8. Parriccl» s. a car»  lumi. IOÌ L A V i f A   fere i Sonetti del" noftro Autore e buri , fentenzàoft, e'  patetici Sette Tuoi sonetti , i quali mancano nelle fud-  dette Rime , furono ftampati nella già citata Rac-  colta delle Rime di diverfi nobili PeetiTofeani fatta dall*   Atanagi: il primo de’quali fu da Giovan*  Giorgio indirizzato al Pontefice Paolo Terzo > e  l’abbiamo accennato altrove; il fecondo  a Ottavio Farnefe, allora Duca di Camerino} e  poi di Parma c Piacenza* il terzo a Margherita  dAuftria* il quarto al Cardinal Farnefe foprammentovato; il quinto a Girolamo Verità,  gentiluomo Veronefej il fefto a Paolo Giovio»  Vefcovo di Nocera, e Storico di chiaro nome»  il fettimo finalmente è il fopraferitto, da eflo  fatto poiché terminato ebbe il fuo Poema dell 5   Italia Liberata da Goti. Ancora Un fuO Sonetto, fcrittO   al Cardinal Pietro Bembo (224;, fi legge tra le  Rime di quefto Autore il quale un altro   Sonetto    Nel Ritratto del So- j cenza fua Patria. Sono chiarii  netto 1 e della Canzone In Vene- \ fent trizio ft , e patetici,  zia apprejfo il Bertoni > 1678.' A car. 8?. a tergo, e   in il. , a car. io?. Ecco le fuc , feguemi.  parole Giovan - Giorgio!  V* fopra & car. 55. al.  T rissino, nobile Vicentino , l annotazione 1 07.  oltre alla Tragedia delta Soft- j V. ivi.   nisba e oltre all'Italia' Quefto Sonetto C0-   Liberata , Poema Eroico , che \ inincia :   fu il primo ad ejfer dettato fe- j Bembo , voi ftet e a qne bei  condo It regole d'^driftotele , e ftadj intento .   fatto ad, eferr.pio di Omero 1 fe J Rime di M. Pietro  molti Sonetti ftampati in Vi- Bembo: In Bergamo appretto Pie-  tro   DEL, TRI5SIN Q. j ^  .Sonato nelle medefime definenze gli mandò in ril-  pofta.   Altre lue Rime poi dono fparfe nelle Raccol-  te del Varchi» del Rufcelli, e d’ altri: ma dal  Signor Marchefe Maffei tutte adunate furono, e  poi fatte Rampare in un colle altre di lui opere, colla giunta ancora di altre poefie del  mcdefimo (ma non di tutte), non prima date  in luce, e di alcuni Sonetti da altri Poeti a lui  fc ritti.   Ma perchè alcune poefie , che fono tra quel-  le del noftro Autore, veggonfi altresì tra le ri-  me o de Buonaccorfi, o di qualche altro Poetai  però egli è ragione, che diciamo intorno a ciò  qualche cofa, avendone già diffufamente parla-  to altri Scrittori , e fpezialmente il Cavaliere  Zorzi. Tra le Rime adunque de’ Buonac-  corfi Ieggonfi quattro Sonetti interi, e cinque  foli verfi di un altro Sonetto (11 fuddetto   Signor   w   tro Lanccllom 174 J. > in 8 . a car.  Quello Sonetto comin-  eia:   Così mi rentU il cor page ,  e contente .   e fi legge in dette Rime a car.  94 -Tom. l. a car.Difcorfo /opra l Opere'.  del T r 1 $ $ t n o , a car. 404. e !  feguenti 11 -primo ^i queftiSo-  nerti , che a car. 1. delle Rime  del noftro Autore fi legge; ed  a càr. 2 96. di quelle dc'JBuonac.   1 corfi , della mentovata edizione  di Firenze 1718. in 12., comincia coste   La bella donna, che in vir-  tù d" Amore .  il fecondo che principia:   Li occhi foavi , al cui gover-  no Amore ;   nelle Rime de’ Buonaccorfi c  a car. La vita   Signor Conte Cafotti incaricando (2jo) mode-  fìamente il noftro Trissino , favoreggia i due  Poeti: e nel domale de' letterati tf /taiu fi accen-  na folamente, ma non fi feioglie cotal viluppo »  Il Cavaliere Zorzi dice, che perciò fare  converrebbe andare a Firenze, ed ofservare fc  Antico, o no, fia il carattere, onde fono fcritte  le poefie de’ poeti fuddetti •, concioffiacofachè  pofsaefsere, che da'copifti, (le copie fono)> o   come    a car. . , cd in quelle del ine allenirne de’ Buonaccorfi a   Trissino a car. 4. Il terzo , car. lvi.   che ha quello principio: j Tom. xxxvr. Artic.   Qando 'l piacer, che’l defia-   to bene; \ b o> he 1 Sonetti^/ I ; non fieno del piovane Buonaccor-  ,è a car. 4. a tergo delle Rime fi , offendo firitti a Palla di  del noftro Autore, cd a car. Noffcri Strozza, ea'fioi figliuo-  li quelle de’ Buonaccorfi . 11 li > tutti fuoi coni empcr enei - I  quarto finalmente, clic fi leg- '.y chc| DelLi edizione di Ve-  ti legge tra quelli di qucfto \nez.ia 1546. in 8. a car. 7..; la  Autore dell’edizione di Firenze * qual Canzone, che nelle Rime e comincia: (del Trissino è a car.' 5.   Quanto più mi dijlrugge il ( principia.-   mio pen fiero-, . Amor, da eh' e' ti piace   nelle Rime del Trissino cl -Chela mia lingua parli-, cc  a car, . j   IOJ La Vita   con vcrfi di Tette, e di undici fillabe, tutti Tciol-  ti, e ufolla in una Cantone indiritta al Cardinal  Ridolfi  : il qual modo ftravagante e fcon-  figliata cofa parve al Crelcimbeni (i* ma,  come dille Maffei Tu  bizzarria d’un iblo componimento.  I Simulimi (Commedia in verfo fcioito) In P rnezja per Tolomeo J unitola da Breffa.   Quella Commedia ( dì cui non Tappiamo eflerci  altra riilampa , Tuorchè quella Tatta in Perona unita-  mente coll' altre Tue Opere) Tu da lui compoftaa  imitazione dei Mtnemmì di Plauto, aggiungendovi  il coro-, e varie coTe mutando-, Teguitando in effe  altresì le tracce degli Antichi, ed accoftandofi  Tpezialmente ad Arifto/ane . Nella Dedicatoria  al Cardinal Farnefe dice, che avendo in quefia lingua   Italiana compoJ} 0 e l 4 Tragedia, e lo Eroicoy gli ' t* rut ° oU  tra futili di abbracciare ancora qaefb' altra farle di $“fia , cioè   la Com .   Quella Canzone end  nd primo tomo ddla riftampa  di Verona,. a car. 371. cola..,  c comincia;   Paghi , fu feriti , * venerandi  Colli i cc.   (  ma non Tragedia,  fi il TafTo, che non compofe Commedia, fua  non eflendo quella, che fu imprefla col nome  di lui (23P). A che volendo noi alludere abbia-  mo fatto di quattro differenti poetiche corone  adornare il Ritratto del noflro Autore , che in  fronte di quella Vita fi vede. Nella Prcfaz. alla ri- |  Rampa di Verona a car. Xxv.   Tra’ lodatori della'  Commedia del noftro Autore , j  uno fi fu il P. Rugcri , cosi  parlandone nella citata Decla-  mazione a car. xxiiù  ,1 Hic fior Georgivs) anti-  „ quorum poetarum , qui Co—  n mie® Poefis lauream adepti,!  » Slori® termino* pofteris cir. j cumfcripfifle videbamur, Rre-  ,» nui adeò coocertationc inge-  j„ nii adarquavir , eruditiflìmo  !» PoCmatc , metro jfcripto quod Sim itL r mos infcripfit ut quonefeumque   >» Comicum illuci Carmen le- ftionc parcarro , ipfa fe mihi  » antiqure Poefis facies verert-  ,, do, gravique afpc&u referar  ,» contemplanda.    Digìtized by Google    jo8 La V r t a   XVIL Egloga fafitrAie (in verfo Italiano) nel-  la quale Tìrfe pallore invitato da Bauo capraro»  piange la Morte di cefAre Trivuiào fotto nome di  DAfm bifolco.   Quello componimento fu inferito coll’ altre fue  ogere nella riftartipa di Verona  Altra Egloga (parimente in verlo Ita-  liano), in cui parla Batto Capraro folo.   E quella altresì fu llampata coll’ altre fue Opere -  Pharmaceutria U4* )• De mtTU    Anche quella Compofizione , che è di clxxvil.  verlì Latini, fu unita alle altre fue Opere nella  riftampa di Verona (244): e perchè nel Codice   v’era-   Tom. I. a car.  \ffripfft , quifquis ille fiat , qm   Tom. I. a car 375. \titulum aididit, non ertim ei,m À  Gli eruditici ini Signo- arbitror effe a manu Io. Gìor-   rì Volpi di Padova, i quali fic- gii Trissini , quei»  come aveano ideata Una edizio- ÌGracas litteras egregie caUuìJ-  ne delle Opere del Th iss l»o|/f. apud The ocn-   ( comc è detto nella Prefazione) J tum  che ineptì hanc E- Fracaftoro.  tlogam PiiAUM aceutri am in- (T Tom. U a car.  IOS   V’ erano alcuni vani? perciò dal foprammentova-  to Gafpare Tri ss ino eruditamente furono em-  piuti > e quivi fi veggono contraflegnati con carattere diverfo. Encomium MAximUiàni ctfarit . Sta quefto al-  tresì coll’altre fue Opere della detta riftampa.  Due Epigrammi latini.   11 primo di quelli Epigrammi (i quali furono dati  a luce parimente in detta riftampa (245); fu fatto  dal Trissino in morte di Pulifena Attenda, Ce-  lcnate, piagnendo egli in perfona del Marito*  Quefto fu tratto da un libretto ftampaco in Ve-  nezia» in cui fi legge anche un’Orazione di Jo-  vita Rapicioj da Rrefcia, detta in Vicen-  za in morte della ftefla. L’altro Epìgramm* è quel-  lo, che s’è riferito al di fopra, fatto da  lui prima della ultima fua partita dalla Patria.    Tom. 1 . a car.  più nella Seconda Parte, a car.  Qucùo Encomio è di CHI. Vcrfi 63.efeg.91.eieg. 192. c fcg. dello  eroici latini , e comincia Cosi. Specimen Paria Ut ceratura, &c.  Heor.rn Jì fatta mihi , laudcfvo Btixia 173 9. 4. pubblicato dal  -Dei-rum non meno per dignità, che per   Quandoq; ut ctlebrem permit - virtù inorali , cd intellettuali  tii carmini Phàebe , Eminentiffimo Cardinal Qui.   En tempus , ncque fallar , a- fini : e nella Libreria Ere -  defi} &c. feiana di Lion ardo C o^z^ando ,   Tom. 1. a car. 398. \in Brefciu\ 6 vq. per Gio: Maria   Di Jovità Rapicio ' Rizxxrdi in S. a car.. ove  fi trova latta menzione neli , £’r-|è chiamato Raviz.zat, c fr dice,  colano del Varchi a car o che fu lcctore di umanità in Vi-  li ella Scan zia xx 1 1. della Biblio- j ccnza .  tcca Polamcz car.120.121. mal all’ annotazione m.    Digitized by Google    tio L a Vita Alcune poetiche Latine Compofizioni  del Tr issi no non inferite nella fuddetta riftam-  pa di Verona, furono ftampate nella Scambia XXIL  della Biblioteca Volante- di Giovanni Cinelli ( MW •  Quelle fono primieramente due ode; dopo  cuifeguitano due evitati in morte dì Vincenzio  Magre, fuo caro amico j e appreflfo feguita un epi-  gramma ad fonticuium /: e finalmente  una Compofizione intitolata leges conviva les .  L’Autore di efia scam.i a nel luogo citato dice»   che quefie Poefie ad intelligenti, che le hanno vedute , fembrano cofe fatte dal TnissiNO ne'fuoi pii* giovanili anni: ag>»  giungendo, che il il Codice, onde le trajfe , benché fia  ferie to net 1500;, mofira che già inclinava al fine il fecole , ed  in confcgutnz.a molto tempo dopo l A di lui morte. DÌCC 1U  oltre, che U Copifia era poco intendenti del Latine -, per.  che vi fi trovano > alcuni errori, che mai fi poffono ’ attribuire a   n illufire Autore.   xxxrn.'    A car.  c 81. E‘ mentovata da noi all’  annotazione in.   { ajo) La prima di quelle O-  de comincia:   Du&urus aurum nobile per  Mare   Carafve gemmai n avita   fluttibus   Non ante fe cautus mari .  nis   Crederet , & rapidi s pro-  cella 8 cc.   L'altra' ha quello principio:    Pulcher o Sol, qui nitido s dies &'  Das , & idem fubtrahis ,  a eque ter rie   Humidam noSlem *. & pla-  cidam quietone   Riddi: avarie Sic.  Quello Epigramma è  diverfo da un altro dal noftro  i Aurore Grecamente compollo  fopra il mcdcGmo fuo Fonti-  cello di Cricoli , il quale di  fotto regiftriamo tra le fuePoe-  fie non ancora date a luce 1-   VOLGARIZZAMENTO .dì alcune Ode MQrazio*  Quelle noi non le vedemmo» ma follmente ci  atteniamo .all’autorità del Fontanini {252), e del  •Quadrio )1 il primo de'quali dopo avere  regiftrato un libro intitolato: Odi diverfe d' Orario   volganzjzate da Memi nobilitimi ingegni , e raccolte per Giovan-  ni Nar ducei da Perugia : fy Venezia , per Girolamo Polo.   in 40 foggiugne fubito come fegue. Q*tJH vdga-   ■ fi datori fora XIJ. ai le f andrò Cofanzo , Annibal Caro Cosimo Mortili , Curzio Gonzaga , Domenico Ve-  nitro, Francefco Veranda, Francefeo Crìftiani , GiovangIOr-   ■ cio Tri «ino, Giulio Cavalcanti,, Marcantonio T ile fio. Sir .    Jorio ELOQUENZA ITALIANA, a alleai»»? di luì ftampate in 5er-  ‘ Car * 5 35 * falla fola autorità del gemo per Pietro Dance dotti I7JX  quale viene riferito quello libro in 8. a car. xxtv. tra le opere  anche nella Biblioteca degliauto- del Vcniero regiftrando anche la  ri Greci e Latini volgarizzati traduzione di alcuneOde dtO-  «nferita nel tomo jcxii. c fegg. hrazio da lui fatta, taluna dice,  » della Raccolta Calogeriana alla di quefte fi trova fiammata in un   yoceOrazio, dovr ai tomoxxiv. I libro, che io mai non ho potuta  3 ° 7 * f' sggiange ; libro avere, e che ha penitelo : Odi  rari fimo , che non ancora abbi*. .diverfe ec. che è il libro da noi  mo avuto incontro di vedere . ; fopraeckato,   E pure grande Tappiamo cffcrc 1 ( 25+ ) Veramente il Signor  ìiata la diligenza del P. Paico- j Anton.Fcdcrigo Seghezzi , di  m, autore di detta Biblioteca, 'chiara memoria, nella Vita del  per ritrovar un tal libro. [Caro per lui dottamente ferir*  V 2 J 3 ) Storia e Ragione dì ta, e premcfTa alle lettere delio  ogni Poefia-, tom. 2. lib. t, Dift ! ftcflfo dell’ultima edizione di  I. cap. vili. Particcl.iv. a car. I Padova, apprejjo Giufeppe Comi*  394. e falla autorità di lui il|m> 1742. in 3. tomo primo,  benemerito delle lettere Sig. Ab. niente dice , che il Caro tra-  1 icr-Antonio Serrani nella Virai dotte aveffe Odi eli Orazio,  di Domenico Venterò , premeffa I  uà La Vita   torio Quattr ornarti, e Tiùerio Tarfia. L'altro pòi riferì'  fee medefimamente quefta Traduzione, cd edi-  zione, e i nomi degli fteftì Volgarizzatori.   OPERE    In Profa non iftampate.  YV IV T\ UE ORAZIONI di Sereniffidee Mente di re.  JL) mrje, ter ifirevere le Ci, ed dir*"™ *>“•   imgoftn riedificazione delle J*e Mora..  ORAZIONE , ovvero ARINGA ( dettata   in lingua Lombarda) de, e. 2   M*U, ter ridare U D„m‘ * rei d ‘ ^   V,.ni,d di de,,. Terre. Di quella Orazione s e già   favellato a baftanza per entro quella r „. .  Breve Trattato ài Architettura, coirai   cune Piante di Edifizj fecondo le regole di Vi-  travio.. Di quelloTrattateli, abbiamo fatta meu-  zione nel principio di quefta r,ta IMD*   TRATTATO intorno ‘1 Mero Arbitrio.  Due lettere latine a Monlignore  Jacopo Sadoleto. .  fopra paj- 8. annot. IJ.   :I7$   XXIX. Un Volume di lettere , fcritte a mol-  ti ragguardevoli Perfonaggi del fuo tempo , tra  le quali molte ve n’ha da Soggetti cofpicui, e  da dottiflìmi Letterati fcritte al T RrssINO ; ficco-  me altresì ve ne fono di Principcfle, e di Da-  me illuftri di quel fecoio . Da quello Volume  fono -Hate eftratte dal Signor 'Marchefe Maflfei  quelle , che leggonfi inferite nella iu a Prefazione  alla riftampa delle Opere di Giovangiorgio» nella  •quale egli nomina anche alcuni di que’Soggetti*  2e Lettere de’quali indiritte al T RlS jrN© tro-  vanfi nello ftelfo Volume* e di quelle Lettere-,  tanto llampate, quanto manuferitte , ci fiamo noi  fpezialmente ferviti per compilare quella vita .  Gli Originali di tutte le fuddette opere in Prof a  manuferitte (fuori de\Y Aringa) > e delle feguenti  pur manoferitte in Verfo, fi confervano di prefen-  te apprelfo i mentovati Signori Conti Trilfini  dai vello d'Oro , difeendenti dal nollro Letterato 1  le quali tutte fono Hate con molthTima diligen-  za raccolte, cd unite in due volumi in foglio  dai Signor Abate Don Bartolommeo Zigiot-ti ,  che colla Lolita gentilezza* e benignità -ce ne  •ha data contezza* e ci ha proccurato la como-  dità di vederle.  Due LETTERE Volgari al molto Reverende  Mejfer Hieronymo di Gualdo Canonico . L’Originale di  quelle Lettere , (le quali purcnon fono tra le fud-  dette)* fi conferva prefentemente nella Libreria   P de     u 4 LA VITA   tfc’PP, Somafchi della Salute in Venezia, in una  raccolta di lettere di diverfi fcritte ai Co: Co:  Gualdi ; donde anche furono eftratte quelle che  fono ftate pubblicate col titolo di Lettere dPUomini  Jlluflri del Setolo decimo fettimp non fin fiampate L’  una di quefte due Lettere è fegnata di Roma; l'altra è fenza data OPERE     he Venezia, nella li della Madre di Dio a canili.  Stamperia Baglieni, della Prefazione al fuo S. Pier  edizione p roccarata , e di note Grafologo ltampato Venetiis a-  corredata dal più volte nomi- pud Thomam Bettinelli 17$**  nato P. Paitoni. fol. „Ne... ingratiffìmis quibuf-  La notizia di quefte «quevidearaccenfcndus, illau.  due Lettere ci fu comunicata «datura iri non panar ci. &  dal fuddetto P. Paitoni, a cui „do  ut dr eorum fibi gratiam cónci-  liarit y & magnani apud omnet  auiloritatem .    Digitized by Google    del Trissino; 117   Ìli Italiano ) In Vicenza per T olomeo Janiculo da Brejjfa >   mdxxix. in foglio.   e ( col Dialogo del CafielUno ) In Ferrara   ter Domenico Mammartlli  in 8.   e (nella Galleria di Minerva , parte fecon-  da , a car. 3 5 *) InVi inezia preffo Girolamo Albrix.z& > 16 $6.   in foglio;   e finalmente coll* altre fue Opere in j 5 ?   tona    H Libro è dedicato da Giovambatifta Dona  a l Cardinal de’ Medici.   Si dubitò per lungo tempo ^ fe Dantè fia ve*  ramente fiato autore del tefto Latino di queft*  Opera, di cui a tempi del Tr. issino niuno v’  era, che ne a vette contezza. Egli fu il primo a  pubblicarla in Firenze, allora quando vi fu con  la Corte di Leone X., come dice il Fontanini,  il quale anche lungamente favella di molte let-  terarie contcfe , alle quali die motivo la pubbli-  cazione del Libro fteflb, che finalmente  fu riconofciuto per vera fattura di Dante . Ma  cosi non poniamo noi dice del Volgarizzamen-  to, di cui e fi dubitò, e fi dubita tuttavia, f e  fia del Taissinq: e non oftante che tra le fue   Opere    (a6i) Tom. 2. a car. 141. 1   ( 262 ) V. il Fontanini nell’  Eloquenza lui. dalle car jjy. I  tino alle car. 246. e ndl'Amin-\    ta di Torquato Tajfo difefo ec.  In Venezia 1730. per Stbaftia •  noColeti , in 8. a car.   r*8 LA VITA   Opere d annoveri , molti letterati vi Tono , i  quali affermano non effere di lui . Tra quefti  fpezialmente v’ha il Cavaliere' Zora, il quale  nel Difcorfo /ofra r- opere del noftro Autore {26$ )>  dopo aver regiftrate le Opere di lui in Profé) dice  di ommetter la verfione de’ libri de vvlgari ELOQUENTI A di Dante, torchi non li giudica tra-  dotti dal Tri ss ino, nté fatalmente da Lui fatti /lampare',   aggiugnendo, provar egli ciò con buone ragioni  nella «m del me defimo Tjussino da lui fcritta   A car. xj>o. a tergo »   ciò riferito il titolo nella Prefa- ,c feguenti» . Jljj   ;altro ci fcmbra affai frivola, perciocché moke  altre opere del noftro Autore han tralafciato di  regiftrare quefti Scrittori.) Oltre a ciò dice, che  effendo detta -verfione malamente dettata in Ita-  liana favella, farebbe!! perciò «* affronto patente ai.   la fempre verter abil m (moria d’O. , aggravando , . e  sfregiando ing'mfiamente la fua reeognizione , col? attribuirgli un  lavoro male intefo, t malamente tradotto-, facendo anche   offervazione , che non d’O., ma da  Giovambatifta Doria, Genovefe, è ftata quella  Traduzione dedicata al Cardinale  Ippolito de' Medici, con dirgli nella Dedicatoria, che Dante Jiccome ave a ferino f Opera fieffa in Latino  idioma , cosi la trafportaffe nell'Italiano. Soggjllgne di più lo fteffo Signor Cavaliere , che fe  Giova NG ioRGio foffe flato l’Autore di quella ver-  fione, e’ non l’avrebbe poi allegata nel fuo dia-  logo del Gabellano a fua difefa, come fe foffe fia-  ta Opera di penna altrui  Que- *   . - • X B   , . .1 M Fontanini neH’£/e-  quenza Italiana a car. 10A. dif-  fc , eflere ftata la detta veriio-  nc pubblicata dal Trjssino ; c  ’l Muratori nella Prefetta Poe-  fta Italiana tom. prim. a car.  2 3. della edizione di Modena   Il T r 1 ss 1 ho nell’  accennato Dialogo fa , che Gio.  vanni Rucellai lotto nome di  Caffettano dica ad Arrigo Do-  ria quelle parole: Deh per vofra gentilezza M. irrigo guar-  date un poco nel mio ftudio , e fende, che il libro portate qui il Libro della Vol-  De Volgari Eloquenti* trafporta-\gar Eloquenza di Dante tradot-  to in Italiano , fu dato alla Ite- J to in Italiano .  et dal Trissimo. ! no L A VITA   Quelle, ed altre rimili ragioni adduce Cavaliere a provare» che il Tlissi no non  fia {lato l’Autore di tale Volgarizzamento i alle  quali aggiugner fé ne può un’altra piò torte,  cioè, che fé egli non ebbe alcun riguardo a  pubblicare, come è detto, in Firenze il tefto  Latino di queft' Opera col nome di Dante, Tuo  vero autore, molto meno l’avrebbe avuto a iar  fapere? che fua propria era la traduzione Italiana*,  e manco avrebbe comportato , che il Doria nella  Dedicatoria al fuddetto Cardinale dieeffe, che  Dante (il quale, fecondo il Tuo dire, l’Opera ftef-  fa in Latino compofe , affinchè intefa [offe dagli Spagniuoì  li, Provenzali, e Pranzo fi) la TRASPORTASSE ancora nel  r.oftro Idioma.   Anche il Fontanini U, con  aggiugnere, che il noftro G io va n Giorgio net  pubblicare quella ver bone; fi f* r ì fervùo de\ fuoìcarat.   t tri Greci, perchè da lui creduti migliori per Pefprejfione perfet-  ta di noftra Italiana favella .   Con quelle ragioni, e con altre, che ommet-  tiamo a motivo di brevità, foltengono i predet-  ti Scrittori, non elfer del nollro Autore la fud-  detta verdone; e ’1 Signor Marcitele Maflfei fe la  fece (lampare, come abbiam detto, tra l’ altre  lue Opere, non però di meno non dice» elfer  cflà fattura di lui. Comunque fi fia, abbiamo  giudicato miglior cofa elfere e non porla tra le  Opere da lui fenza dubbio compolle, e non  tralafciare affatto di regillrarla , sì perchè va at-  torno col nome di lui» e sì ancora perchè avvi  qualche fcrittore> che la cita come di lui fattura. R ERUM ricent irtarnm Compendiane a Io.  Georgio Trusjno confcriptum . In fine leggonfi quelle  parole : Ha* fìrhfi t*fi dtpepulationtmUrUt Rome, dum Le.  lattee tram apud Remp. renet am prò Clemente rii. P.M. Que-  llo Componimento non è mai flato Rampato 5 cd   una    ( rita del Tr I s* 1 n o fima» ed utilidìma Stor. e Re.  manuferìt. a car. 294. a tergo, gion. d'ognì Paef. Tom. I. lib.   VeggaG il Qua dr   nè da niuno certamente fi sa, dove effe fi tro-  vino di prefentev e non oftante che abbiano  detto i predetti Tommafini, e Beni, che allora   fi con-[V. fopra a car. jr. f { 179 ) Trattar, dell' Orig.  Prefazione alle Opere * ec. tib. a. manoferitto a car.  tc. z ar. xxxi. jj.  Elegia &c. a car. (180 ) Difcorfo ec. a car. 44»» DEL TRISSINO. ;i2,y  fi conferva vano preflfo i fuoi credi (28O? pure  quivi certamente non fono. Anche il Doni vera-  mente ne regiftrò il titolo fenza più nella seconda lì.  ireria ( 2.8ì )* ma con quella differenza? che T  ultima d’efle Opere fu da lui chiamata Frontefpi-  xio delle clone. E benché nel principio di quella  fua Opera ^284) dica il Doni di aver mejfo infie-  mt tutti i Cicalai tri da sé veduti a ferma, de’quali 11 C  aveva avuta notizia j e benché foggiunga? che  di tali litri etmfofii (e regiftrati in detta fua Libre-  ria, fochi c’credeva fodero per elfere ftampati»  con con ciò fofle colachè erano libri rari , e inma.   no di per fané , thè non li voleane dar fuori , mapiuttofio ardergli :   nondimeno ci accordiamo volentieriflìmo colla  opinione del Sig* Marchefe Maffei intorno  a tali Opere? cioè che non fi fono vedute mai ; ma che   iono Hate alcune per equivoco , altre ridicolmente intitolate.   E crediamo parimente, che lo fteflfo fi debba  dire d’un altra Opera dal medefimo Doni,   e dal  Tommafin. loog. eie- ! Nella Lettera , die egli jQfud Comitcs T rijfnos iffius i' colla fua lolita bizzarria intito-  Fi are ics affervantur : La Bafe la A coloro che non leggono , a  del Chrifiianoì ec.Beni Trattar. car. io. eli.  fc. lQ0g.cit.L4 Bafe del Chri- 1 {'184) Prefazione alle Opere   Jtianoec.con altre Operette ferie. 1 ec. a car. xxx 1.  te in prò fa, fono in Caf a de’ fuoi' (285) In un’ altra Opera, io   Utrcdi. cui regiftra le Opere ftampatc  La Seconda Libreria ài Autori Volgari, intitolata.'  del Doni ec. Jn Vincgia 5 jj. La Libreria del Doni Fiorenti.  in 8. a car. 91. i no , nella quale fono ferini cut -   ti ili    Digitized by Google    I2 c dove ftampata  47 -»-? 4 -   Meliini ( Giovanni) pittor cele-  bre non fece il Ritratto del  Trillino. 64. effo Ritratto  premefTo a quella noftra Ope-  ra perchè adornato di quat-  tro differenti corone poetiche  107. fua morte 6J.   Bembo (Pietro Cardinale,) lo-  dato 4. ». 4. fue EpiftoU do-  ve Rampate 23. ».40. citate  24. «.41 due di effe fcritte  a nome di Leone X. riferite  a 3. e feg. fcrivc regole di  noftra lingua 69. fa autore  il Trifsino del verfo fciolto  88.». 17 6. fue Rime pubblicate  per opera del Sig. Ab.Sertaf-  fi citate 102. ». 225. rifponde  nellemedefimedefinenzea un  5onerto del Trifsino.   Beni ( Paolo ) fi crede autore  di certo libro. 3. ». 2. filo  Trat- Favola delle Cofie Notabili. 12.9    T ruttata del? Origine della  Famiglia T rijfino dove Ram-  pato . ivi. iua erronea opi-  nione incorno al Trillino 6. e  intorno all’ ifcrizione dclfuo  palazzo nella villa di Cticoli  io. nora di malevolo ilGio-  vio 4*. n. So. fa il Trillino  autore di «ree opere . 51. ».  xoi. 1 1 J.a fegg. fina al fine .  lo fa fepolto pel Depofuo  del L afe ari 59. n. 114. parla  con lode di Bianca feconda  moglie del Trillino 48. ».  95. citato 4. ia. ». 23. 23.  w.41.   Benrivoglio( Ippolita ) a lei c  indirizzata un’ Ode latina  dal Trillino 115.   Bergamini imitò  .con poca lode la manieradi  Ceri vere tifata dal Trillino •    Bragia ( Marco ) , Con Agli e  dell’ Accademia Olimpica vi  mette un SoRituto ». 28.48.  Buonaccorfi . Vedi Montemagna.   c   C Arco trote, a ( Demetrio ) fu  macftro del Trillino nel-  la Greca letteratura. 4. dopo  morte gli è dal medefimo e-  retto un Depofico con Epita-  fio in Milano ivi. lodato dal-  lo RefTo nel fuo poema dell*  Italia Liberata . 6. ». io.  Calogeri ( P. D. Angelo ) lodato  per la fua Raccoltad'Opufcoli  Scientifici , cc.lll.e / allog.  già nel Palazzo del Tri di no  nella Villa di Cricoli * e  quando . 12. ». 23. fatto  Cardinale * e poi Papa col  nome di Ufbano VII. ivi .  Suo Bullo in pierra colloca-  to in detto palazzo con ifcri-  zione, e quale, ivi.   Cartellano , uno degli interlo-  cutori del Caflellano del Tuf-  fino , chi Ha ? t perche così  detto 70. • ‘ Cavalcanti fu®  Giudizio /opra la C anace cc.  dove ftampato   (fuo volga-  rizzamento d' alcune Ode d*  Orazio, tu.   Centanni/) ( Valerio ) fuo curio-  fo Sonetto al Trinino , rife-  rito 40. ». 7J.   Checozzi (Canonico Giovanni)  illuftta un luogo- del Poema  delle Api di Giovanni Ru*  celiai, a difefa del Trillino -  51. rat 01. chiama pio e ca/ti-  gato il Trinino 93. ». I9T.   Chiapino Vedi Bar-  bar ano .   C biffi ezio l GiovanjaCopo ) (nell*  Infatti* &c. Antuerpix ex  officina Plantinian* 1632. in  4. ) -non mette tra’Cavalieri del  Tofon d Oro il Trinino 4J.  e fegg. ». 88.   Cindli Vedi Raf-   ie.   Ciria{ Gìufeppe Maria) Tua Ode  latina in lode del Tuffino ,  ri-    Digitized by Googl     I    Tavola delle Cofe Notabili.   •*.#** -H   CUt^ntt vi' Papa . Vedi &A D y 0 'J?%tfix doic^ftLpata  ledici antt t ,cn .' - f :i te _   CoRoza, Villaggio deiscenti- , arre poetica - J »* « £lo ,   ' A m famo'o Covolo vie- Ilo latino de   c.^1uon a «I"f |i 11-1   breria Brtffiann love Rampa- »o. * 4- da cbi .Btoccurateiw. «•»**•   Coment* j dove Rampati }4-| e /^' , . pentiluomo   ir. 6o. fa il T tiffino il primo, Dw-tfo ( Ermolao U Martbcfa di !   Mantova ringrazia il TrifTi- 1  no per certa Canzone man  datale . 29. e feg. lo invita  a fe , e perchè . ivi. efaltata nei  Ritratti del Trillino. 39. »  50. lettera a lei fcritta dallo  ftclTo , citata F arnese a  lui viene indirizzato un  Sonetto dal Tuffino, c dóve  fi legga. ( Rannuccio Cardinale )  grande amico del Tuffino, j j.  icrive allo fieflb una lettera  d’ ordine di Paolo HI. ivi ».  108. dal Tuffino gli è dedi-  cata la Commedia de’ Simu-  limi. io 6. Sonetto dal Trif-i  no a lui dove fi legga   fioretti (Benedetto) V. Nifieli  (Udcno).   Firenzuola ( Agnolo ) fuo Dif-  (acciamente cc. dove Rampa- !    to 35. e feg. feri ve contro a!  Tuffino . ivi. e 37. ». lo taccia di ufurpatore . 36. e  fg. n.6j. quanto falfamcntc .  ivi. fcriffe piuttofto per giuo-  co, che daddovero.   è citato nell’ Ercolano del  Varchi ivi . citato 68*   Fontane delia Villa di Cricoli  lodate dal Triffino con lati-  na poefia. ito. e con un c-  pigr .mma Greco ivi ». 251.   Fontattini ( Monfignor Giulio)  fuo libro dell' Eloquenza Ita-  liana dove, Rampato 35.» 64-  Efami fopra d'effa ftampati cenfurato giuftamentc  dal Si g. Marchcfe Mattici. 43.  »j 84. difefo da ccnfura dello  lìdio 46. ». 88. chiama Novell   10 Cadmo, e Cadmo Italiano •   11 Trillino 39. giudica in-  venzione di lui 1’ ufare la Z,  in vece del T. ivi. fuoi sba-  gli. 69. ». 129. 71. e feg. 83.  e f e ii- . critica V Da-  lia Liberata 93. non viene  confermata la fua ccnfura dal  Catalogo della Libreria Capponi ivi. ». i9i. riprende il  Marchefe Ma Aci 94. « 1s2.il  quale gli rifponde ivi. Vol-  garizzamento d’ Orazio da lui  riferito , dubbiofatnente da noi  riportato . ni. Aminta del  7 affo da lui difefo ion le  Offervazietti d' un Accademi-  co Fiorentino dove Rampato  li luogo ambiguo  di quell' Opera lai. ». z6g.  fua oppimene circa il iraduc-  tor del Libro de Volgari Elo.  quentia di Dante. 120. e feg.   Fortunio (Francefco) feri ve re-  gole di nollta lingua. 69.   Fracafioro ( Girolamo) amicif-  fimo    Digitized by Google     1    Tavola delle Cofe Notabili. 1$;   fimo di Giovambatifta della loda la Sofonùba ivi . la bi*.   Torre. 10S. ».. fimaS9. come gli rifpondail   Francefco I. Re di Francia , è Malici ivi. critica/’ balia li-   fatto prigione dell’armi dell* berata 94. nell’ Orbecchc la au-   Imperator Carlo V. e ’1 fuo torc il Trillino delle Trage-   cfcrcito feonfitto. 40. gedic ferine in Italiano 7 9.   Erancefì, feonfitti dall’ armi di come pure del verfo fciolto   Carlo V. Imperatore , c cac. 88. ». 17 6. fua lettera dove   ciati d’Italia, ivi. fi legga ivi , citato 90. ».   Franti ( Adriano) V. T t tornei. 182.   ( Lilio-Gregorio ) fu con-   G difcepolo del Trillino nel-   lo Audio delie lettere Greche.   G aza (Teodoro ) nominato 4* ne fa menzione in certo   con lode nell* Italia lite- \ fuo Latino poema . ivi. ». 4.  rata 6. ». io. ! Giulio II. Pontefice , fua mor-   Gemi/lb ( Giorgio) nominato al- ! te quando fucceduta 13.   tresi con lode nella Refluivi. 1 G abbi ( Agoftino ) fua Scelta  Ghilini ( Girolamo ) (nel fuo' ài Sonetti cc. dove publicji-  Teatro d'Uomini letterati. Ve-\ t» 100. ». aij.   nezJa perii G aerigli; Gonzaga ( Curzio ) fua tradu-  non regiftra tra le Opere deli zione d’alcuncOde d’Orazio,   Trillino il Volgarizzamento j citata ni.  di Dante de Fulgori Eloqucn~ j ti Gragnuola (Prete Francefco)  tia. 118. j fu il primo maeftro del Tril-   Gilafco Eutelidenfe . Vedi Lue- j fino. 3. lettera a lui fcritto  le. , | dalTriffino ove fi legga ivi.   Giorgi ( Monfig. Gio: Domcni- { citata 13. ». 26. ai. ». 37.43   co ) Compilator del Calalo- 1 ». .   go della Libreria- Capponi . Gravina ( Vicenzio ) fua Ka >   Vedi Capponi. , ' ' I adone Poetica dove ftampata   Giorgio (Gio: Lorenzo) Noda-| 93* »• 191. in efla loda il   ro Veneziano 52. » 101. Trillino itti, fa grande ftima   Giornale de’ Letterati d’Italia del di lui poema dell’ Ita-  ccnfura il Cafoni 101. «.228. 1 Un Liberata. 97.  non decide fc alcuni Soneui Gritti ( Andrea ) Doge di Ve-  fieno del Triffinoio4. 9.231.) nezia , quando vi tulle elcr-  lo fa bensì autore dell' in- 1 to . 30. gli è recitata in tal  venzionc del verfo fciolto occaltone un’Orazione con-  82. n. 167. gratulatoria dal Trilfino a   Gìovio (Paolo) tacciato di ma- nome della città di Vicenza,  levolo da Paolo Beni, c per- 31. citata 67 . 73 e feg.76. fua  che . 42- ». 80 gli è fcritto morte quando feguita 30.  un Sonetto dal Triffino. 102. »-JJ. dove fepolto , e con   Giraldi (Gio: Battila ) fuoi Dif- qual Epitafio ivi.  cerji dove Campati 7S. ». tj8- Grato (Luigi) fuprannominat»   i Cie.   Digitized by Google     1 3 Tavoli, delle   Cieco. £ Adria , filo grotto  sbaglio . 58. ». in.   Gualdo (.Girolamo) due lettere  dal Tuffino aldi' fcriue » ove.  liano - 11 3. e feg..-   - ( Paolo ) fua Vita- di   Andrea Palladio dove fi leg-  ga 9. Lettere Originali a’ Guai*  di dove fi. confcrvino- IV}-  e feg.   Guarirti ( Guarino ) Vcronefc 5  fcriflc colè gramaricali io lin-  gua Latina. 7J.   Guicciardini- ( Franccfco ) fuoi  Quattro libri della fua Storia  ( nott pia fiammati.. Venezia  ftr Gabriel Giolito 1  ciati   Guidetti. ( Franccfco ) fua rcla-  zioae a Benedetto. Varchi ,   . ccnfurata.  H   I ! .   H a y m (-• Nicola- Franccfco )  fua Biblioteca Italiana do-  vei Rampata  I liingo , o fia confonante ,  trovato dal Trillino > e ab-  bracciato dagli Scrittori an.  che Fiorentini. 39. ». 73  Jjenicol» ( Tolommeo ) folito  Rampato» del Trinino .lai.  Imperiali ( Giovanni ) fuo Mu-  faum Hifioricum dove Ram-  pato . 6 . ». 11. dove il fuo  Mufaum Phyficum 8. ». 17-  fua erronea opinione intorno  ai primi Rudj. del Triffino.6.  e intorno ad Andrea Palla,  dio . 8., loda il’. Tuffino .  éj. ». lift. c il di lui poema    Co fé Notabili.   deli’ Italia Liberata citato- Ingegneri fua Opera  della Poe fia Rapprefentativa  ec. dove Rampata 78.». 157-  loda la Sofonùba. del Tuf-  fino.. *»»•   licrizione al Sepolcro del Cal-  condila 5*   — dell’Accademia Triffina  attorno alla porta del Pa-  lazzo del Tuffino inCri-  coli io., a che fine vi. fotte  collocala .   . al BuRo di Vrbano Vil-  la. »•»?••   — «1 sepolcro di Andrea   Gritti Doge. 30. ». J3-  al Sepolcro del T tifiino  da lui fòrmatafi , ma non.  metta in ufo» e perchè. 56..   , altra, in forma diElogioéi-   IL   L ascari ( Giovanni) nominar-  lo con lode nell Italia /*-  barata ». io. ove fia. fqr-  polto. 59. »• 114-  àttere di XIII - Uomini illit~-  ftri dove Rampate n. ». 23.   d' Uomini Illuftri dei Se.   colo XVII. dove» per cui ope.  ra pubblicate» c donde cavan-  te XM* »• Z S 6,   Libreria Arobrofiana 52^ ». io».-  108. »• 14*- iij.   - Bertoliana di Vicenza 3.  ». a. chi nc è. Bibliotecario  ivi .   — — • dei Nobili Uomini Pi-  fanj in Venezia ; conferva  la prima edizione rariffima  della Italia liberata da’ Goti -  PI..   de’    Digitized by Google     T avola delle Co/e Notabili. 13 '   de’PP.Somafchi della Sa* I Maffei ( MarChefe Scipione ) >b*    Iute di Venezia, confervava  un MS.-de'Trifftni, ed uno  del Beni originale7. ». 1 5. con •  fervagli originali di . olcilfi-   • me Lettere fcrittc a’Gualdi   .114. '• j   - dei detti PP. di SS. Fi-  lippo , e Jacop > di Vicenza  conferva 1” Aringa MS. del  Triffino 47. n.91. e una era-  dazione in latino . MS. del-  la Sofoniiba78. «.157. Vedi  C Apponi . Colando . Plutoni .  Rude. Zeno ( Apportelo ).  Lombardelli (t'razio ) lettera di  Torquato Taffo a lui fcritra   • dove fi legga 96. n 101  Lombardi (P.Giroiamo ) Gefui-   ta, citato 59. n. 114.  Loredana \ Leonardo ) Doge di  Venezia. Lettera del Ponrefi-  . ce Leone X. a lui ferina , -e  prefen taragli dal Trifòrio, rife-  rita. 24.   Leone X. Papa. Vedi de' Medi,  ci (Giovanni).   M   M acchiaveui (Faufto) Ac-  cademico Olimpico , in.  xerviehc a un Configlio. della  fua Accademia . 28. ». 48.  Madrucci ( Criftofano ) Card ni.  Vcfcovo , Principe di Trento,  introduce a Carlo V. un mef-  fo dei Triffino. 54. lettere a  lui feriteci citate ivi 1 06. al  lui c raccomandato Ciro 1  Trissino da 'Gioan.Giorgio  fuo Padre. 54.   Mairi (Vicentino^ due Epi-  grammi latini fatti dal Ttif- 1  fino, per la mòrte di lai do-,  • ve fi leggano no.    dizione delle Opere del Trif.  fino da lui procurata, pre-  mefiòvi un Riftretto della  Vita dello fteffo, citata foftiene, che  il Trillino valeffc nella Filo-  fofia Platonica e Pitagorica 8.  ». i^enore nel fuddetto Ri-  ftrettodi luicommcflb 12. ».  24. fuo Teatro Italiano ci.  tato 26 . ». 45. 79» c feg. n.  161.89.». 180. più volte ftam.  paro 77. loda la Sofonisba.  la difende  dalle altrui cenlure 89- loda  la Gramat iebetta del Triffino 69. e la Italia liberata e la invenzione dc’nuo.  vi caratteri 38, fua falla cp-  pinionc intorno 1’ ufo che ne  avrebbe fatto il Triffino . VI.  la fa autore del verfo fciòL  to8l. lo difende dalCrefcim-  beni per una nuova maniera  di Canzoni da lui ufata 106.  interpreta fi ni Riamente un  dettodcl Fontanini 46. ». 88.  lo ccnfura giufiamente 43.  ». 84. cenfurato da lui fc ne  Tifcnte 94. fuo E fame fatto  all* Eloquenza Italiana dello  fteflo dove Rampato fue Offer.  vazMtni letterarie dose ftam*  pare 44. ». 84. lodato afferma non efierdi Tor-  qua~    i    I J/j Tavola delle Co fe Notabili.  quato Taflb certa Commedia  che è ftampata col nome di  lui 107. Vedi 7 'ajfo (Torquato) . prova non effer del  Triflìno certa opera Latina  123. nè certe altre ridicole  compolmoni 125.   dn Malgrado (Vincenzio) a lui  fcrive il Trillino una lettera  4. ». 5.   Mattiti ( Domenico Maria ) fuo  detto cenfurato 39. lue Lezioni  dove (lampare, ivi. n.72.   Mattux.it} ( Paolo ) fua lettera a  Bernardino Parremo riferirà.  11. ». 13.   Marana( Andrea) imita con po  ca lode la maniera dì fcrive.  re ufata dalTriffino. 3». ».  73 -   Martelli ( Lodovica ) fcrive  contro al Trillino in propo-  sto de Tuoi nuovi caratteri.  35. fuo deteo coytrctto. ivi.  ». «4.   Martintngo (Chiara) madre di  Luigi Trillino primo marito  di Bianca feconda moglie di  Giovan-Giorgio. 48. «.95.   Martiri ( Jacopo ) fua Jfioria  di ricetta, dove ftampata z6.  ». 4".   Maj]tmiiiatto , Imperatore, ono-  ra il TrifGiro. 16. fi crede ,  gli abbia conceduto il Vello ef  Oro . ivi . non gli falcia pro-  fdguir Certo viaggio 18. lo  rimanda fuo amb afe Latore a  Papa Leone X. ivi . fua let-  tera latina al detto Pontefi-  ce . 1 9'.»?-»47._fuo  Specimen varia litttrattcra dó-  ve ftampato. ivi.   ' R   R aoona ( Alfonfo) Accade-  mico Olimpie o. Vedi An-  gioiello . •   Rapido (Jovita) fua Orazione  accennata 109. menzionato da  più autori . iviy ». 24.7. fu  Lettore di Umanità in Vi-  cenza ivi. vicn chiamato Ra    Cofe Notabili.   vizza dal Cozzando . ivi .   Rccoaro, villaggio del Viccnti-  no.Vedi Comuni diRccoaro ec.   Ridolfi ( Cardinal Niccolò ) ,  Vcfcovo di Vicenza, eletto  dal Trillino per uno de'Com-  miffari del fuo teftamenco .  J6. gli fono dedicate dallo  Aedo le fuc Rime 101. Can-  zone del Trillino in di lui  lode, accennata . 106.   Roma, Taccheggiata a’ tempi del  Trifsino. 42. ». 78. 85.   Rojp ( Niccolò ) fuoi Difcorfi  interno alla Tragedia dove  ftampati 2j. ». 44. citati 45.  »• 88. loda la Sofonisba del  Trifsino. 2J. 7S.   Rucellai ^Giovanni) fuo Poema  dell ' sìpi quando ftampato 51.  ». 101* io elfo loda il Trif-  fino. 8. ». 14. volea fotte ri-  veduto da lui prima di darlo in  luce. 51. e 124. cosi le fuc  tragedie dell' Ore/?*, e della  Rofmunda 123. e feg. luogo  ofeuro di detto Poema dell'  Api illuftrato dal Signor Ca-  nonico Giovanni Checozzi   è grande amico del  Trifsino 17. rifponde a una  lettera di lui ivi. dove efta  rifpofta fi legga ivi . ». 34.   f*i. è Caftellanodi Caftel  S- Angelo 50. * e con que-  llo nome c uno degl’ inter-  locutori dell’ Opera del Tuf-  fino , che per ciò s’ intitola  il Cafiellano. 70. a lui è in-  titolato il Poema dell’ Api.  V. Rucellai ( Palla ). la fua Rau  fmunda non piace affatto al  Varchi 88. corretta dal Trif-  sino 123. e feg. fua morte jo.  lodato dal Salvini 98. citato  2J. ». 43. 87. ». 174.   $ % ( Pai-   . V    140 1“ avola delle Cefe Notabili»  ( Palla) dedica al Trillino li |   poema delle Api di Giovanni 1 S   filo fratello, c quando 51.». '   101. 87. lo fa autore del ver- qabellico ( Marc’Antonio) lo-  fio fciolto 87. O dò in un fuo poemetto la   £uele (P. Mariano) Carmclita- Villa Cricoli , c quale 12.  no, fua Stanzia aggiunta al- 23.   la Biblioteca Colante di Gio Sadoleto ( Jacopo ) gli fono  vanni Cinclli, dove Rampata fcritte due lettere latine dal  $7' c f e t' n ' in. regiftra alcune Trifsino. iti.  compofizioni dei Trifsino non Salviati ( Cardinale Giovanni )  più Rampate ivi . e 1 1 o. fa meta- prefenta al Papa una Canzo-  zione di J ovita Rapido 109. ne del Trifsino 31. fua lette.  ». 247. ra al Trifsino , riferita. 32.   Ruderi ( P. D. Francefco ) Soma- n. 57. gli manda un Breve dà   feo . Sua 7 'ratina cc. dove Clemente VII. ivi .   Rampata 4. rt.’j. da chi fatta Salvini ( Anton-Maria) citato  Rampare accenna Vili. 38. loda il Poema dell’   T alloggio d’Vrbano VII. nel Italia liberata 98. e feg. e P   Palazzo di Crico/i 12. ». 23. Api del Kucellai, e la Col-   vuole che Carlo V. f»cefle tivazione dell* Alamanni ivi.   Conte, e Cavaliere il Tri fsi- fu c Profs To/cane dove ftanv   no 43. e quando 44. ». 86. paté 34. ». 61. 38. «.70.   quanto in quello egli s’ in- Sannazzaro (Jacopo ) uno de-  ganni 55. ». 106. loda il gl lnterlocutori del CaJleUa-  Trifsino 6 J. e la fua Poeti. no del Trifsino 71.  ca 73. «.145. e la fua Coni- Sanfevcrina ( Margherita Pia) a  media Ì07. ». 239. accenna lei è dedicata un’Opera del  aver il Trifsino icritti Infe- Trifsino 67.  gnamenti Rettorici 116. ». Sanfovino ( Francefco ) edizio-  260. come debba!! intendere ne della fua raccolta di Orat-  ivi. zioni di diverfi Uomini Ulte-   Bufcelli loda P /tri divifa in due parti, cita-   invenzione de’nuov! caratte- ta 31. ». J$. fa volte più   ri del Trinino , c del Tolo- volte pubblicata 74. ». 147.  mci.38. «.68. fua raccolradi in e da ha luogo un’Orazio-  Lettere di Principi , ec. cita- ne d’O., e quale ivi .  ta . 42. ». 78. nelle Rime Sajp (Giufeppc Antonio) loda-  pcr lui raccolte lì trovano to 108. Je. 243.   delle compofizioni del Trif- Savorgrtano (Giulio). una lette-  fino . 103. fuc note al Fu. radilui a Marco Tiene ftabi-  riofii dcH’Arioflo, citate ivi. | lifcc l’anno della morte del   Trifsino. j8. «.113.  Scaligeri (Mattino, e Antonio)  in qual tempo vi veliero. 71.  Scamozzi (Vincenzio) chiarif-  fimo Tavola delle   fimo Architetto . io. ». «.  difcepolo del Palladio ivi . di  che non ne fa menzione nei  Tuoi libri ivi.   Schio ( Girolamo ) Configliere  dell’ Accademia Olimpica, a  chi foftituito 28. ». 48. . Ve-  di Angiolello .   Terra del del Vicentino,  manda Oratori a Venezia a  a chiedere un fattizio Ve-  neziano in Rettore in vece  del Vicario Vicentino . 49,  difefo da Baftian Venicro Gen-  tiluomo Veneziano. 50. per.  de in tutto, e per tutto, ivi.   degli Scolari ( Franccfco). Ve-  di Bcccanuoli .   Scotto nd fuo hi.  nerarium ec. parla dtlh Acca-  demiaTriflìna. m. ». 22. Ve-  di da Cap ugnano.   Stghezii ( Anton-Federico ) fcri-  ve la Vita di Annibai Caro  in. ». 274. dove flampata  ivi. non regiftra tra le Òpe-  re di lui alcuna traduzione  dell’ Odi d’ Orazio . ivi. fu a  edizione delle lettere diBcrnar-  do Tasso, citata    Serra# ( PìcriAmoqiQjjpubbli.  ca le Rime del Bembo io».  ». 21J. e quelle de’ Venie»  ledendo la Vita di Domeni-  co, HI. ». 2 JJ.    Co fé Notabili . I4I   Speroni ( Sperone ) Sue Opere  dove ftampatc Giudizio fopra la fra Canate  da chi comporto , vedi Cavai,  canti ( Bartolotnmeo ) .   da Somacampagna ( Gidino ) primo Scrittoredc 11 ’ arte Poe-  tica, in Italiano. 72. inqual  tempo viveffe. ivi.   Statuto Vicentino citato  ' feSS-   Strozzi (Filippo) uno degli In-  terlocutori nel Cartellano . 70.   Sub a f ano . Vedi degli Aroma-  tari.   T   T Asso ( Bernardo ) edizione  delle Tue lettere ( proccurara  da Anton-Federico Seghezzi )  citata aia. loda 1 ’ Italia li-  berata. fue Lettere  dove ftampate . 73.». 144. 96.  ». 200. lodala Poetica del T tif.  fino 7j. edizione della Aia Gerufrlemme citata 87. e frg.  ». 176. edizione di altre fuc  Opere  ». aot. loda i’ Ita.  ,, Ha liberata . 96. non è Au-  rore ( feconde il Sign. Mar-  ohefe Maffci (a) ) della Com-  media ("intitolata gl' Jtrichid'  -S } Amo-    (a.) Facendo però il Taffo menzione di certa Commedia, che andava lavo-  rande in, Tua Lettera a Giovambaiti'fta T.icinio, la quale fi legge a car.  iff. del Libro intitolato: Lettere del Sig. Torquato Tuffo, non più ftam .  fate ec. Bologna. por Bartelomto Cocchi quand’anche non fia  egli l'autore della Commedia degl' Intrichi d" Amore , di che per forti  ragioni (e ne moftra.anzi dubb>ofo, che no, l’autore della Prefazione  alla nobiiillìma edizione dell’-Qprrr di Torquato Tuffo in Firenze per li  Tariini e Franehi 1714. iti VI. Volumi m fol. viene a renderli affai  vacillante la decisiva temenza del Signor Marcitele , cioè non avere il  Taffo compofte Commedie. Tavola delle Cofe Notabili.   Amore) febbene porta il fuo ne X. H. n. 31. vuole che il  nome 107. fno Amine» da • Tri /Tino foffe fatto- Conte ,  chi difcfo, vedi Font /mìni. t Cavaliere da Carlo V.  T»rji» (Tiberio) fuo volgnrìz- 43. fua cfpreflìone dubbio-  zamento d’ alcune Ode d'Ora- fa. 48.». 95. riferifce unepì.  zio citato uà. gramtna del Triffìno. 57. ».   di Ttmfo (Antonio) fcrifle in rii. non fa menzione del  ItalianodcH’ Arte Poetica. 7a. Volgarizzamento dell’ Elo.   c quando ivi. quenza di Dante fatto dal   T ibride » ( Antonio ) fua Lettera Trillino 118. attribuifee al   dìfcnfìvAi citata ( della qua* Trillino molte Opere non   le fi tiene eflcre Autore il mai vedute. 124. loda laSo-  Sig. Arciprete Girolamo Ba- fonisba 98. afferma effere fta-  ruffaldì ) 98. ». 1 io. ta rapprefentata con grande   Tiene ( Giovanna) prima mo. apparato per comandamento   glie del Trillino . 12. fua di Leone X. 25. ». 47. «itato   morte ivi . 12. ». Accademico 80. 98.   Olimpico * foflnuifcc ano » della Torri che intervenga a fuo no- fua mone pianta dal Tri/fì-   me a un configlio dell’ Ac- no . 108. ». 243. fu amico di   cademia. citato Girolamo Fracaftoro. ivi.   0. ifteffa. ; j T rape futi z.io (Giorgio ) noroina- Vedi Saver- 1 to con lode nell’ Italia libe-  &»»no* ! rata. 6. ». io.   Tilefio fuo voi- Triffina Famiglia. Sua antichi-  garizzamento d' alcune Ode tà, e nobiltà. 1. divifa in più  d’ Orazio citato ni. linee. ivi. Autori, chen’han-   Tolomci (Claudio) fcrive con- no fcritto . 3; ». 2. Alberi  tra il Trillino in- propofito tre di quella Famiglia alle»   dei nuovi caratteri fotto no- g«*i . 48. ». 9 J. i difecndenti   me di ^idriono -f ranci fuo della linea di GioVan-Giorgio   alfabeto > e caratteri da lui inveititi delle Decime di ai-   trovati . 37. ». 67. citato 38. cune Ville del Vicentino. 14.  »• 69. 1 fan lite per rifcuotetle con-   Tomafini ( Monfig. Jacopo Fi- tro ai Comuni d’effe Ville.,  lippo) fuoi E log. yirar. Lit - ivi. vengono loro confifca-   ter. t ir fafitnt. Jlluftr. do- te effe Decime , e perchè . 1 j..   ve ftampati . 1 1 J. ». ». 1. fu pofledono l’ Opere manofcric-  il primo a parlar a lungo te del detto GiotGiorgio.nj.  del Trinino . 111 . lo fa ftu- Trijftno ( Co: Aleffandro) lodato,  diofiffìmo dell’ Architettura . Vedi la noftra Dedicatoria .  8 .». 16. accenna l’alloggio di . (Alvifej primo mari.  Urbano VII. nei Palazzo di to di Bianca Triflino . 48.   Cricoli. ta. ». 23. regiftra un quando abbia fatto il fuo Te.   franamento di lettera di Leo» fomento , Co: An.    Digitized by Google ]    7 avola delle Ceft Nut abili.  Iodato  48. ». 9 j. e 96.   Padre di  Alvife, primo marito di Bian-  ca feconda moglie di Giovan- J  Giorgio. 48. ». 9j. feconda Moglie  di Giovan Giorgio, fuoi ge-  nitori 47. e 48. ». 9 fua  dote . ivi . fuo primo Marito  chi folle ivi. di fomma bel-  lezza. ivi. detta V Eleva del-  la fua età. ivi. di lei parla  il Beccanuoli , e dove. 47.».  194- f“o Teftamento. da chi rogato 52.». 102.  lodata da Giovan-Giorgio confervava  on MS. appartenente alla Fa-  miglia Triflina. j. n.tj.figliuolo di Gio-  van Giorgio Trillino . 49.  ammalato. 53. , e feg. porta  allTmpcrator Carlo V. gli ul-  timi diciotto libri dell’Italia  liberata di fuo Padre.raccomandato da Gio-  van-Giorgio al Cardinal Ma-  drucci. ivi. figliuolo di  Gì ovan-Giofgto^aaoti^io va-  ne. za. , fuo sbaglio  intorno a Giovan-Giorgio  O. 6 . ». zj. fuo trac-)  tato della fua Famiglia, cita-  to. ivi. e h. 18.   ( Gafpare ) padre di Gio-  van Giorgio O.. 2. mi-  lita a fue fpefe per la Repub-  blica di Venezia . ivi. fua mor-  te. 3.  traduce in metro latino la j  Sofonisba di Giovan-Giorgio !  O.. 77. h.ijj. dove fi    cenfervi. ivi. fi lamenta con  Scipione Errico, per aver que-  lli criticato l 'Italia liberata  93. una lettera di lui dove fi  legga . ivi . riempie alcuni vani d’ un’ Egloga latina di  effo Giovan Giorgio non  llabilifce fempre nello fteffo  anno la fua nafeita. 2. ». 1.  nominato nell’ ulpi del Ru.  celiai. 8. ». 14. fuo Sonetto  riferito, e in qual occafione  fatto. 41. ». 7 6. fu creato  da Mafsimiliano, c daCarlo  V. Conte, e Cavaliere , ma  non del Tofon d’ Oro con  altri privilegj. quando. altro  fiso Sonetto riferito quanti anni abbia fpc-  fi nell' Italia liberata . 53.  e feg. ». 106. Suo Epi-  gramma latino riferito 5 7. ».  in. fatto Brcfciano erronea-  mente dal Cieco d’ Adria. 58.  ». ilteffa. La fua Italia libe-  rata è chiamata erroneamen-  te dallo Hello Italia il latra-  ta. ivi . da una iferizionc  Sepolcrale riferita, appare ef-  fe re flato Nunzio per le iali-  ne di Chiazza, e per la refti-  tuzione di Verona, diche in  altri luoghi non ne abbiamo  trovata memoria Catalogo delle fue Opere ftam.  paté, e MS. tanto in Profa,  quanto in Vc.tlo.67 . , e fegg.  la fua Italia liberata, come  e quando Rampata. 53. e feg.  90. ». 183. di quanti libri  compofta. ivi . errori in que-  llo dclFontaniai , e del Com-  pilatore del Catalogo della Li-  breria Capponi, ivi. ia pri-  mi Tavola delle  ma volta ftampata per Privi-  legio di Papa Paolo IV. 94.  w. 192. fi tentò vetfione del-  la fiefia in ottava rima. 98. ».  210. le lue Rime dedicate non  al Cardinal Ridotti , ma a Leo-  ne X. 101. lue Opere ad altri  attribuite, cioè lette Sonetti  a' BuonaccorfiJ. 101. -e feg.  uno a Guittone d' Arezzo  ioj. ed una Canzone all’  Ariofto ivi . fuo Ritratto in-  tagliato dal Sign. Franccfco  Zucchi perchè adornato 'di  quattro CoroncPoetiche 107.  fila Opera imperfetta da chi  compiuta ( Giulio ) figliuolo di   Giovan-Giorgio -natogli dalla prima moglie. 12. lette-  ra di fuo Padre a lui , citata. gì. ja. »Cameriere di Clemente Vii. poi Arciprete della  Cattedrale di Vicenza  litiga contra il Padre, e per-  chè 49. cui fa ftaggire le rendite viene da lui di-  fendalo vince la lite con  tro di lui. ivi.  Padre di Bianca, moglie di Giovan-Giorgio pubblica un'   Opera del P. Rugeri, c quale. }.«.ii. dove facciafc-  polto Giovan-Giorgio ( Co: ParmcMiotie ) Bibliotecario delia Bere oliana di  Vicenza confcrva copia del Volgarizzamento di  certa Genealogia di fua Famiglia 7. n.i 3. Vedi la Dedicatoria Nipote di Gio-  Cose Notabili.   van-Giorgio fece in un cogli  alrri fuoi affini fcolpirc un  Elogio allo Zio, e dove . lo Beffo Elogio  riferito Trinizio a lui manda  O, il fuo Cartellano  forco il nome di Dona fua morte pianta in  un’ Egloga da Giov.n-Gior-  gio^ xo8- Consonante , invenzione  del Trillino , abbracciata  dalla Crufca   Faccari avea traf-  pottato in . ottava rima un  Canto dell’ Italia liberata  io.   Val d.’Agno. Vedi Comuni di  Recoaro cc.   Fate» ararla (Piero) va con O. a Venezia Orator per  la Patria Farchi edizione  del suo Ercolano citata. afferma c!- e il Firenzuola  fende contro O. per  giuoco loda la Sofonisba la biafima fue Legioni) dove stampate  loda l’ Italia liberata. . no» decide  la quertione circa l’ inventore del verso stiolto. mal  inteso da Fontanini edizione de’ fuoi Sonet.  ti , citata «.a  Sonetto ad O. riferito ivi.  loda Jovita Rapido citato F'ewimi Nobile Veneziano , avvoca in Venezia a favor della Comunità di Schio  con Tavola delle Cofe Notabili contro Vicenza , e perde  ( Domenico ) tuo Vol-  garizzamento di alcune Ode rvr In cambio del T da chi,  di Orazio citato ut. fue Ri- j / j e come fi comincia ad ufa-  da chi pubblicate. n. 1 re . ZaccariaVerità Sonetto ai nio)Gefuira, fua StoriaLet-  lui foriero d’O., ove) teraria, dove ftampata.  si legga roi. I. fa 1 Elogio di Apposto-   Verlati, madre di; lo Zeno ivi.   Bianca , feconda moglie del ' Zeno ( Apposolo ) ritratta la O. sua Vita d’O. inferi. Vicenza, perchè detta Primoge- ta nella Galleria di Miner vita della Repubblica di Veva I. e feg. fue Lettere dove   nczia quando fi fia Rampate citate   donata alla flefla ivi. manda c fegfquarci   Oratori di congratulazione al j di lettere ferine all’Autore   Doge Andrea Gritti , e chi j di quella vita c ne invia contrai munica all’ Autore varie noti-  la Comunità di Schio dozie per telTtrc quella Vita ve manda un Vicario a governarla ivi . è fatta piena WI12. donde l’abbia giuftizia alle fue pretefe. J eflratte fuo sbaglio   conlerifce al Trillino varie lodato dignità, e quali . ivi sua Vigna fue | Libreria a chi donata ivi.   Differì azioni promeffe Vili. | fua morte quando feguitam. fuo Preliminare dove lodato dal P. Zaccaria con   Rampato ivi. I lungo elogio, ivi . non tcn-   Volpi lettera) ne, che O. folle piti  a loi fctitja dal Sign. Cano- j per ufare i caratteri da lui  nico Checozzì iir-tèifcfa del' inventati non tenne per O,, dove fi legga fattura del Trillino certa operi. ioi. | ra latina citato  (il fo j Vedi Giornale de’ Let-  praccennato)eGaetano fratelli) I rerati d’Italia, (del quale cf.  furono i primi a idear una edi- clfedone egli il principale unzione di rottele Opere delTrif- tore con ragione a lui fi at-  fino U. u  Io- 1 ttibuifee tuttociò, che inef-  xo ( Ifcrvazionc erudita fopra j fo fi contiene).  il titolo d’ un’ Egloga del Trif- ; ( P. D. Pier. Caterino So,   fino m. lodato Vrbano Vedi Cafiagna. j Zigiof ti 1 cfamina P Archivio de’ Co:  Trilfini conferva co- Tavola delle   pia del volgarizzamento di  certa Genealogia della famiglia d’O. lede un’  Opera delle Memorie del Teatra Olimpico di Vicenza citato  rac.  coglie tutte le Opere MS. D’O.  lodato ZorzÀ fuo Ragguaglio Jjlonco  intorno ad O. MS. ci-  tato IV. fuo Discorso intorno  alle Opere dello Kctfo , do.  ve fi fcgga . tao.  citato nominato  con lode del P. Ruelc, c  dove in. fuoi sbagli   difende O. per l’invenzione de'  nuovi caratteri loda la  Sofonisba numera le cen-. fare fatte alle opere d’O. e dove - at-  Cose Notabili rribuilce certa Opera ad O. ufi-fua opinione circa alcuni Sonetti, at-  tribuiti a’ Iluonaccorfi  non vuole O. Autore del Volgarizzamento dell’eloquenza volgare di Dame nò d’ un’ altra  Opera latina lo crede  bensì Autore di certe Opere , che mai non fi fono vedute ivi Zucchetta ftampatore quando cominciò a pubblicare Opere dai fuoi torch)  Zucchi fua Idea  del Segretario ,ec. dove ftamta intaglia il  Ritratto d’O. premeffo a quella Vita il Fine della Tavola. Gian Giorgio Trissino dal Vello d'Oro. Oro. Keywords: la riforma della lingua italiana, filosofia del linguaggio, Alighieri, lingua e linguaggio, codice di comunicazione, il parlare umano, il parlare solo umano, la prima lingua, la parlata dei genovesi, la filosofia del linguaggio in Alighieri, l’eloquenza, la filosofia del linguagio, only man speaks. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Trissino” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Orrontio: la ragione conversazionale e la scuola di Roma – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A senator and follower of Plotino – cited by Porfirio.

 

Grice ed Orsi: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia fascista – la scuola di Palma di Montechiaro -- filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Palma di Montechiaro). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Palma di Montechiaro,Girgenti, Sicilia.  Grice: “Orsi uses ‘psicologia speculativa’ where I would use ‘psicologia filosofica,’ since speculativa opposes to prattica, rather!” --Allievo di Ottaviano, insegna a Catania. Pubblica nella sua attività di ricerca scritti minori di autori italiani  e il saggio “Gl’hegeliani di Napoli.” Cura l'edizione dell'opera di Ottaviano su Campailla; “La psicologia filosofica di Spaventa” – e stato nella segreteria della rivista “Sophia”. Altri saggi: “Lo spirito come atto puro,” “La filosofia moderna,” “L'uomo al bivio: immanentismo o cristianesimo? Saggio di realismo esistenziale, “Antropologia”; “Psiche e meta-fisica” “Psicologia speculativa” “Sulla psico-patia”. Grice: “The D’Orsi – and indeed a Domenico D’Orsi, back in the 1700s, are a very noble family in Sicily. D’Orsi is associated with “Sophia”, founded by Ottaviano. His interests have been many and varied – but most notably philosophical psychology, which the Italians call ‘psicologia speculativa’ as opposed to cheap scientific psychology. They have the great Spaventa, who philosophized on the most abstract issues concerning the old Roman idea of an ‘animo’. Compared to what Ryle’s and Watson’s psychological behaviourism is a no-no-no!” D’Orsi has philosophized on democracy. I democratici can be ingenuii, as I prefer them, or critici. He has also ‘cured’ the edition of Ottaviano on Campailla, and went continental to study Napoli!” Grice: “Orsi has done a lot to allow us to understand Spaventa. As most Italians, Spaventa was fascinated by the Hun, and cared to trasnalte a book that the Hun never cared to read: Lotze’s Elementi di psicologia speculativa. I can imagine Spaventa wondering what he was doing, bringing Lotze’s ‘seele’ as ‘animo’. The ‘elements’ by Lotze, as translated by Spaventa, are elementary enough – but the section on the ‘soul/body’ (anima/corpo), ‘animo/corpo, corpo animato, corpo inanimate) is interesting. But far more interesting is Orsi’s unearthing Spaventa’s “Psiche e metafisica” – not to be confused with LABRIOLA’s essay by the same name. This is a hodge podge of reflections. But mainly anti-materialistic. While an emergentist, Spaventa (as discovered by Orsi) struggles to understand the connection between ‘sentire’ and ‘sentito’ and more generally, between the ‘sentire’ as a processo fisiologico – Spaventa goes on to distinguish three levels of the ‘sentire’ – the first is the processo fisiologico itself, the second is what Spaventa, as unearthed by Orsi, calls the ‘unita distintiva del sentito’, and the third is the ‘unita reflessiva del sentito’ or ‘raprresentazione’. So if you feel cold, there’s cold qua processo fisiologico of a ‘corpo animato’ – ‘uninanimated bodies cannot FEEL cold’ – second there is the unity of COLDNESS as distinctive from say, HEAT. And third there is the concetto ‘’freddo’ – so that there is a ‘unita reflessiva del sentito’ – the expression ‘freddo’ now NAMES or represents, or stands for the sensation itself. Domenico D’Orsi. Orsi. Keywords: animo, amore, Ottaviano, Campailla, Spaventa, gl’hegeliani di Napoli, Sophia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Orsi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Ortensio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosopher.

 

Grice ed Ortes – la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale del verso – la scuola di Venezia -- filosofia veneta -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Venezia, Veneto. Grice: “Being English, I was often confronted with that very ‘silly’ song by Cleese and Idle, but then they were never the first! Which is good, since they are Cambridge and Ortes is Oxonian! Viva La Fenice!”. Considerato uno dei più dotati tra i filosofi veneti settecenteschi, precursore nell'analizzare dal punto di vista della produzione complessiva alcuni aspetti come popolazione e consumo. La sua impostazione filosofica si fonda su un rigoroso razionalismo. Nel mercantilismo vide far gran confusione fra moneta e ricchezza. Fu un sostenitore del libero scambio pur con alcune restrizioni della proprietà che interessavano il clero, anche se appartenevano al passato ed è considerato per questo un anticipatore di Malthus, ma con qualche contraddizione. Malthus prevede l'aumento della popolazione, in trenta anni, in modo esponenziale, quindi molto di più dell'aumento delle sussistenze. Altre saggi: “Grandi, abate camaldolese, matematico dello Studio Pisano, Venezia, Pasquali, “ Dell'economia nazionale” (Venezia); “Sulla religione e sul governo dei popoli” (Venezia); “Saggio della filosofia degli antichi” -- esposto in versi per musica (Venezia); “Dei fedecommessi a famiglie e chiese,” Venezia, “Riflessioni sulla popolazione delle nazioni per rapporto all'economia nazionale: errori popolari intorno all'economia nazionale e al governo delle nazioni” (Milano, Ricciardi), Donati (Genova, San Marco dei Giustiniani). Catalano, Dizionario Letterario Bompiani. Milano, Bompiani, Citazionio su Treccani L'Enciclopedia. Quanto i suoi studi matematici influissero sul suo metodo economico, vedremo; qui, brevemente, come in fluissero sulle sue considerazioni filosofiche. Così, scrive egli delle opinioni ed ecco si studia di ridurre a “Calcolo sopra il valore delle opinioni e sopra i piaceri e i dolori della vita umana”, Venezia, Pasquali, ristampato dal Custodi, degli ECON. MOD. FILOSOFIA IN FORMULE MATEMATICHE numero determinato il valore dell'opinione, che alcun gode, per possedere certa qualità che lo pone innanzi agli altri nella scelta degli oggetti piacevoli. Questa buona opi nione nasce o dai natali,come la nobiltà,la patria ecc., o dallaprofessione,come la milizia, le lettere ecc.,o da qualche prerogativa, come dall'autorità, dal merito ecc. Ciascun uomo fornito di alcuna di queste qualità gode di qualche cosa che non godrebbe se ne fosse privo. Ortes si studia di determinare il valore di questi beni recati dall'opinione. Valga un esempio. Se si chiede quanto aggiunga di valore alla nobiltà l'opinione della stessa, O. ragiona così: postoche larenditagiorna liera di tutte le famiglie nobili sia 20,000, quella che proviene da cariche, magistrature, commende ecc. 3,300, quella che vien data dall'opinione,cioè coll'autorità di disporre di più posti, e colla riputazione dei grandi sul volgo, a 700, posto che il numero di tutti i nobili sia 10,000, il valore di tutta la nobiltà sarebbe espresso da 20,000 + 3,300 + 700 = 2. Falo stessocoin 10,000 puto per le altre opinioni,di cui dice esser pretesto la virtù, ma vero fine l’interesse proprio, poichè, dipendendo il valore delle opinioni dalla ricchezza attuale o possibile, è manifesto che si deve prima d'ogni altra cosa cercare l'utile proprio. Avverte che v'ha sempre un'opinione predominante che varia col variare dei secoli: ai tempi di ROMA libera e la conquista; sotto OTTAVIANO illusso; il platonismo ai tempi di Costantino; l'investitura ai tempi di Gregorio VII; le lettere sotto Leon X ; finalmente l’ozio a tempi dell'autore! Strana è questa classificazione,  PIACERI E DOLORI. tuttavia 1?O. mostra come il pretesto della virtù coprisse basse mire di privato interesse. Lo stesso ozio ha il suo pretesto dell'ordine, benchè sia figlio di vana alterigia. L'uomo che dee servire a molte di queste opinioni sarà più civile, ma più timido e finto; chiapoche; sarà più rozzo, ma anche più sicuro e più libero. E come O. si studia di ridurre a calcolo le opinioni, così parimenti i piaceri e i dolori. Meno originale e meno astruso è O. in questo saggio. Con molta inesattezza di idee e di lingua, espone da principio la dottrina che tutto ciòche è conforme alla conservazione e sviluppo del nostro essere, genera piacere; il contrario, dolore. Parla dei dolori e piaceri del senso, dei dolori e piaceri dell'opinione. Mostra l'uomo naturalmente soggetto al dolore, e che il piacere non è che un sollievo del dolore; con ragionamento curioso studiasi mostrare che il piacere non può mai superare il dolore, perchè il piacere essendo preceduto, secondo O., dal dolore, sopito che questo sia, tutto quel di più di piacere che si volesse applicare generera dolore contrario -- come l'indigestione dopo la fame cessata, la stanchezza dopo la danza ecc.  Il calcolo del piacere e dei dolori dipende dal grado della elasticità delle fibre onde alcuno è fornito, e, quanto ai piaceri e dolori d'opinione, dalla stima che ciascuno fa degli stessi. L'autore non pretende a novità di dottrina, professa di avere scritto secondo la propria esperienza, con un temperamento indolente é coi suoi sensi in un'età di mezzo.Vedrem poi com’egli stesso ne abbia dato un giudizio severo. Due altre opere filosofiche si hanno di O.: un   ragionamento delle scienze utili e delle dilettevoli per rapporto alla felicità umana; —  e riflessioni sugl’oggetti apprensibili, sui costumi e sulle cognizioni umane per rapporto alle lingue. Ma si può dispensarsi dal tener dietro a questi discorsi, che, a dir vero, son pesantissimi. In sostanza l'uno si riduce a mostrare l'ufficio delle umane facoltà nella scienza e nelle arti belle, anche queste intitolandole scienze ma dilettevoli, in contrapposto delle altre che chiama scienze utili. Nelle scienze tiene il campo l'intelletto, nelle arti belle l'imaginazione. Quelle hanno per oggetto il vero com'è, queste il vero ma elaborato dalla fantasia. Quindi discorresi in quali termini sia concesso il lavoro dell'imaginazione e concludesi sul tenore dell'epigrafe: Sol la scienza del ver giova ed alletta. L'altro ebbe occasione dalla traduzione di Pope, perchè volendo ragionare delle difficoltà del tradurre, si trova così accresciuta in mano la materia, che piuttosto d’un proemio s’appiglia a farne un saggio a sè. In fatto prende la cosa da alto, e filosofeggia sulla varietà reale degli oggetti e sulla varietà nel modo di rappresentarseli, onde s'apre l'adito a discorrere delle lingue e delle loro diversità, quindi intorno l'uso della parola, e particolarmente intorno all'eloquenza. Infine ritorna donde era partito, e conclude che se il traduttore può benissimo esporre le verità apprese da altra lingua, non potrà tuttavia produrne tale impressione negli animi, come ne è prodotta dall'originale, se non facendo sene come nuovo autore, esprimendole cioè inmodo; tip. Pasquali. SUL MODO DI TRADURRE. Non si può negare che osservazioni argute si tro vino spesso in O. anche in queste riflessioni sugli oggetti apprensibili, sui costumi, e sulle cognizioni umane per rapporto alle lingue; ma pur troppo è d'uopo cercarsele in una lettura assai noiosa. Qualche volta dà risalto a quell'idea che vedremo poi sua prediletta in economia, che cioè quello solo riesca ove siavi la pubblica persuasione, non già ove questa non corrispondaagliimpulsi; e però egregiamente dice, che allora un ammiraglio potea condurre gli’inglesi in  America, come un tempo un romito potea condurli in Soria, perchè gl’inglesi stessi voleano e avean voluto così. Qualche volta, faticosamente sì, ma pur si conduce a qualche sentenza netta e perspicua, come, p. es., dopo  GOLDONI, COLTURA ALLAMODA, PUB. OPINIONE. Adatto all'indolee ai pregi della propria  lingua. Chi volesse calcare l'autore straniero sarebbe come chi cre desse ricopiare un ritratto con soprapporvi isuoi colori, coprendone così e confondendone letinte,ecangiando il quadro in un mascherone o in un empiastro. necessità invece che gli scrittori s'accordino sempre col carattere nazionale de'lettori; e qui O. osserva, che il miglior poeta comico italiano de'suoi tempi potea bensi starsene in Francia per passar quivi meglio i suoi giorni, ma non giammai perchè il suo talento comico fosse così ben rilevato nella lingua francese a Parigi, come il e già in Venezia nel dialetto suo veneziano. Qualche volta sembrerebbe anche gaio,come quando si lagna che, temendosi la fatica dello studio, si trascurassero le cognizioni vere, contentandosi di dizionari, giornali, compendi o altri repertori per dilettare, divertire, o come diceano, per amuseare! È  USO DELLA PAROLA PEI GOVERNI avere deplorato che il mondo governisi da chi più ciarla , non da chi più sa, egli conclude: se chi pretende governar altri senza render ragione del suo governo, e uomo assai vano; il sarebbe non men certamente chi pretende governarli per sola copia ed eleganza di voci. Qualche volta infine dimostrasi d'animo aperto e sollecito per le innovazioni. Qui cade a proposito, così egli, d'avvertire l'errore di quelli che si figurano di richiamar nelle nazioni la verità e la ragione comune, cioè gli interessi comuni, pubblici, universali in contrapposto ai particolari, privati, speciali) perquantovi sifosse smarrita, col rinovar quelle leggi che ne prescrivevano le modificazioni a'tempi de'loro bisavoli, progetto al tutto assurdo e impossibile. La verità e la ragione comune potrà ben richiamarsi per leggi, per quanto a'tempi trasandati fosse stata più riconosciuta per sè stessa in quei costumi, di quel che il sia ai tempi presenti per costumi che la modificassero in contrario di sè medesima; giacchè essa in sè stessa è una sola di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Ma il richiamarla al presente per le sue modificazioni antiche, quando tali modificazioni debbon ad ogni tempo esser diverse, non può essere che una miseria di mente, per cui si creda la natura non più capace d'invenzioni in sua natura, di quel che siasi un po vero consigliere segreto che creda operar in sua rece. Chi declama contro i nuovi costumi che si vanno in troducendo, e deplora gli usati che si van disusando; ha molta ragione se inuovi costumi son modificazioni di una ragion men comune, di quel che siano gl’usati che a quelli dan luogo. Ma seinuovicostumi son » tanto buone modificazioni della comun ragione, quanto gli usati che siperdono; ei declama inutilmente, come se ciò fosse contro il variar de venti, essendo l’una e l'altra cosa quanto innocente, tanto inevitabile e necessaria, e potendo, anzi dovendo, quella comun ragione, per disposizione di natura e per sapienza illimitata del supremo suo artefice, praticarsi sempre per modificazioni diverse, e comparire in sembianze ché non siano giammai le stesse, essendo nondimeno la stessa per sè medesima. Senza questo una simile verità o ragione correrebbe rischio di non esercitarsi che per inganno; ed è ancor vero che talvolta con richiamare la verità, la ragione, e la religione stessa per le sole loro modificazioni esterne di tempi molto remoti, si riesce a perdere tutto il senso reale ed interno di queste virtù, incariabili per sè stesse, riducendole a quelle materiali loro modificazioni esterne, senza alcun rapporto a quell interno lor senso e significato. Si pigli intanto O. in parola, poichè avrem campo di trovarlo in seguito così reluttante a certe modificazioni che non sembra quel desso. Meglio avremo occasione di riandare alcuni suoi pensieri dello stesso libro, che con certo apparato filosofico mettono innanzi quell'armonia degli interessi, da lui tanto raccomandata nelle sue opere economiche. Ma lasciamo per ora queste meditazioni di filosofia.  Errori popolari intorno all'economia nazionale considerati sulle presenti controversie fra i laici e i chierici in ordine al possedimento dei beni;  Della Economia nazionale, parte prima, libri sei;  Lettere concernenti la stessa (oltre quelle che si hanno nel  • Custodi, quelle publicatesi in questo libro);  Dei fedecommessi a famiglie, a chiese e luoghi pii, in proposito del termine di manimorte introdotto a questi ultimi tempi nella econ. naz.;  Lettere in proposito;Riflessioni sulla popolazione delle nazioni per rapporto alla econ. naz.;  Dell' ingerenza del governo nell'econ. naz., publicato da  G. Fovel. Venezia, tip. del Commercio;  Della eguaglianza delle ricchezze e della povertà nel comune delle nazioni, publicato dal Cicogna. Portogruaro;  Riflessioni sulle rendite del Principato e sulle rendite publiche in proposito di economia nazionale; Discorso sull' economia nazionale; Popolazione perchè non cresca per l'agricoltura, per le arti e pel commercio; Vari pensieri economici sull' interesse del denaro, etc. Tra gli scritti d'Ortes nella Marciana.  LETTERARI.  Traduzione del saggio di Pope sull'uomo;  Saggio della filosofia degl’antichi esposto in versi per musica; Riflessioni sopra i drammi per musica e l'azione drammatica, Calisso spergiura, sonetti; nelodrammi; traduzione dei treni di Geremia, nella Marciana; dei sonetti, ve n'ha anche di publicati in raccolte; FILOSOFICI.  Delle scienze utili e delle dilettevoli per rapporto alla FELICITÀ [cf. H. P. Grice, “Notes on ends and happiness”] umana;  Calcolò sopra il valore delle opinioni, e sopra i piaceri – EDONISMO -- e i dolori della vita umana, Riflessioni sugl’oggetti apprensibili, sui costumi e sulle cognizioni umane per rapporto alle LINGUE, alla LINGUA; Lettere relative; Calcolo de’ vizi e delle virtù, nella Marciana). ATTINENTI A MATEMATICA E FISICA.  Vita del P. Grandl, Calcolo sopra i giuochi della bassetta e del faraone, con un estratto di lettera sul lotto publico in Venezia, Calcolo sopra la verità della Storia; Venezia;  Sulla probabilità di vincite o perdite nel giuoco delle carte;  Problemi geometrico-matematici; ed altri di matematica e fisica, nella Marciana. Parmi che molte sien cose scolastiche; in ogni modo, non da trascurarsi per gli storici delle scienze fisiche e matematiche nel secolo scorso. RELIGIOSI.  Della religione e del governo dei popoli per rapporto agli spiriti bizzarri e increduli de' tempi presenti, Lettere di estratto;  Della confessione fra i cattolici; Delle differenze della Religione cattolica da tutte le altre (nella Marciana).  POLITICI.  Dell'autorità di persuasione e di forza fra loro divise;  Della scienza e dell'arte politica; tutti due publicati dal  Cicogna. Portogruaro.  Inoltre lettere, in parte stampate, in parte inedite presso il Cicogna, e le memorie autobiografiche, publicatesi dal Cicogna.  Ometto gli scritti, che il Cicogna indica solo come accennati da altri; e ometto pure alcuni scritti, che il Cicogna indica nella Marciana, ma che in parte sono manifestamente cose scolastiche, in parte mi sembrano ricordi sceltisi dall' Ortes per suo studio, senza che si possano sicuramente dir cose sue, in parte son cose del momento.  L'anno che ho aggiunto qui sopra dei vari scritti, è l'anno della prima publicazione. Del resto non importa aggiungere se non l'osservazione, che volendosi ripublicare scritti dell'Ortes, converrebbe far collazione delle edizioni coi manoscritti, che servirebbero a correggerle e completarle. RIFLESSIONI  *5' 'G JL. I -  *t j.-  *1 X   OGGETTI APPRENSIBILI.,    ' > I «r . »r , I • - ' r • • y   SUICOSTUMI,   E SULLE COGNIZIONI UMANE, PER RAPPORTO ALLE LINGUE. \>atu jB>ttl{otFircac vMtì^^trì |^ynel*tcv  *nr{» {« tRomaine ^«.^ieKHot .i^rtfi|/j^»jmnaj;o ,  L e frefentì rìfle$ont innò origine da una prefa^  zsonCy cb' io volea premenere a un Opufcoto fi-  lofofito , da me tradotto pili' anni innanzi dalla  lingua e poejia ìnglefe nella italiana; nella qual tra-  duzione efiendomì allontanato dalle maniere [olite ufar-  fi dagli altri in fimili cafi, credea di dover di ciè  render conto al lettore . Queflo non poteva io fare^  fenza entrare a ragionare della divergiti degli og-  getti ^ de' cofiumi , e delle cognizioni , quali pili  corrono nelle diverfe nazioni , e della attiviti e /pi-  rito delle lingue diverfe per e/primere tutto quefioy  fia con precifione ^ fia con eleganza ciò che non mi  riufciva mai ben di fare , ne' brevi limiti eh' io m' era  prefiPfo (f una Refezione , per quante volte in piU  modi la volgefil e rivolgevi in mente. Depofto pertanto ogni penfiero per ejfa^ ò giudicato piu facile ,  anzi che jerivere una prefazione inftgntficante , di  Jìendere tutto ciò che fui detto propojìto di lingue ,  e di cofe per effe efprejfe mi fi prefentava alla men-  te^ in un Trattato completo y e intefo a quefto efpref-  f amente ; il quale così non d pili che fare colla tra-  duzione Juddetta , ma à molto che fare per quanto  mi fembra , colle maniere di penfare fugli ftudj ,  fulle cognizioni umane , fugli affari comuni , e [ul-  ta Religione medefima , per quanto code/le maniere  effendo al prefente diverfe dalle ufate a' tempi paffu-  ti y fi reputano di quelle migliori . Quefto trattata dunque b Lettore .,c quello eh' io qui ti prefento ^ e che h  jeritto per mia e tua ijiruzione migliore y e per avven-  tura dt pochtjjimi altri , e non gid di tutti ; fempre  piu falda in quella mia majjima , che le cognizio-  ni vere e reali abbiano e pojfano ejfer di pochi , a  differenza delle Juperficialt e apparenti , che poffo-  no e debbono ficnderfi a molti • e fempre più con-  vinto altresì nel mio particolare , che nulla per me  /limerei di f opere di certo y fe nulla fapejji dt Geometria . DEGL’OGGETTI APPRENSIBILI, DE’COSTUMI, E DELLE COGNIZIONI UMANE, PER RAPPORTO ALLE LINGUE.   vfc/ievAA<vdv>   ^^srssrSFST^ A favella nell’ Uomo è quel dono eh’ egli CAP. I.   U 'f'^'^ M ^ comunicare ad altri le immagini pre- Oggetti ap*  Pii § fl Tentate al fuo cervello dagli oggetti efter- prenfibili ori-  » W ^ quivi combinate inpìbmodi dalla fa-   intellettiva, dono e qualità più ancor  fìngolare e più (ublime dell’ umana natura^.   Quelle immagini che fe non s’ intendono per quello  nome , non s’ intendono per fpiegazione d’ elio veruna ,  fono più o men vive , a norma delle impreflìoni che  gli oggetti llein fanno diverfamente full’ un cervello più  che fuir altro, o coll’aspetto loro attuale, o colla me-  moria di elTi apprefi altre volte , come la ftelTa per-  colTa imprime orma diverfa nella creta , nel gellò ,  nella cera o nel piombo . E quantunque s’ imprima-  no fors’ anco fu qualdvoglia materia pur infenfata ,  non fi combinano che fulla materia animata mediante  la facoltà intellettiva fuddetta , o la feparazione delle  più proporzionali ed armoniche dalle più difl'onanti e  deformi, per la quale così diconfi appunto combinarli   A ia-  'è<i 1 1 ^ . infra efle. Una fimilc operazione dell’ intelletto tende  a confrontare gli oggetti fra loro, e da un fìmil con-  fronto a rilevare fu elfi e per eflì quelle verità , che  fenza ciò rimarrebbero afcole ed ignote , non arguen-  dofi il vero che dalle confonanze di alcuni oggetti con  altri, ficcome dalle dilFonanze degli uni dagli altri fe  ne arguifce ilfalfo. Perchè poi delle confonanze o dif-  fonanze di oggetti ben arguite è indizio l’approvazio-  ne o difapprovazìone per elle di altri , che abbiano o  non abbiano fimilmentc combinate quelle immagini ;  e perchè una fimile approvazione o difapprovazione  non può confeguirfi, che per qualche mezzo fenlibile  per cui efprimere e partecipare gli uni agli altri code-  fte combinazioni; quindi è dunque che un fimile mez-  zo fu ilHtuito nella favella , per la quale appellando  ciafcune immagini o ciafcuni oggetti dai quali quelle  derivano, con altrettante voci o parole diverfe, e col-  locando queffe con certa difpofizione e corruzione ana-  loga a quelle, H partecipa da ciafcuno ad altri i mo-  di coi quali gli oggetti che occorrono all’ immaginazio-  ne fon da fe apprelì e combinati, afHne di verificare  quanto fian efTì giufti , per quanto reflino approvati  dal concorfo maggior di piò altri ; di maniera che  quelle combinazioni d’oggetti s’ appellin migliori , alle  quali più altri preflinò un affenfo più facile e pronto,  e quelle s’ appellin peggiori, le quali non fìan fecon-  date, ma fìano all’ incontro contraffate da più altre a  quelle oppofle e contrarie, comunicate ciafcune a tutti  mediante una comune favella. II. £’ chiaro, quelle immagini combinate e comu.  nicate così altrui per la favella , non elTer diverfe dai  proprj fentimenti d’animo , coi quali ciafcuno fi ma-  nifcfla agli altri non folo ne’ proprj giudicj fu gli og-  getti efìerni , ma nelle proprie azioni ancora, e negli  ufiìcj e decenze della vita comune che da quelli derivano , per non provenire tai fentimenti che dalle im-  preflioni appunto degli oggetti ertemi , e dalle combinazioni che fé ne formano nelle ciafcune menti . A' cAP. I. ~  quedo modo parlando per la verità e fuor d’ illufio-  ne , pare che 1’ uomo tolto per la parte fua fifìca ,  non didèrifca dai tronchi e dai faflì, fe non in quan-  to imprimendofi si in lui che in quelli le immagini  degli oggetti coi quali del pari comunicano, egli folo  mediante 1’ anima ragionevole che lo informa , à la  facoltà che non an quelli, di fegregarne alcune dall’ al-  tre e di combinarle infieme , e quindi di comunicarle  colla favella agli altri, affine di verificarle , e di de-  durne quelle verità che fugli oggetti medefimi poflb-  no per lui concepirfi, e dalle relazioni fra quelli W C. I. », t.  fcuoprire per quanto a intendimento mortale è concef-  fo , gli ufi e le convenienze maggiori alle quali dall’  autore della natura fon pur desinati . Che s’ egli (ì  lafcierà trafportare dalle combinazioni cafuali che le  immagini degli oggetti imprimeranno fui fuo cervello  fenza fcelta o interelle alcuno, quella facoltà non farà  in lui diverfa dalla Pazxìa , la quale in fatti non è  che un abbandono alla propria immaginazione , com-  mofla dagli oggetti veduti o rammentati , e flrana-  mente accozzati infieme . Se poi egli combinerà tali  immagini per le fole confonanze apparenti ed eflerne  di pochi particolari oggetti a sè vicini , per li quali  pertanto ei fia prevenuto per fuo folo piacere e inte-  refTe, nulla badando all’ oltraggio o danno che quindi  ne provenifle ad altri, per non iflendere quelle combi-  nazioni ai moltiffimi altri oggetti ren-.oti coi quali  quelli avefTero relazione , e doveDero in confeguenza  combinarfi ; quella facoltà fi dirà in lui Errore, o ra-  gione intereffata particolare , il cui indizio farà que-  fto , di ottener cita I’ approvazione di alcuni , ma col-  la difapprovazione di tutti gli altri, potendo così l’er-  rore eller bensì particolare di pochi , ma non mai  comune di tutti . E fe finalmente egli applicherà a  combinare le immagini colla fcelta e difcernimento  più accurato , ed ellefo al maggior numero d’ oggetti , e dirtinguendone le relazioni e le confonanze tan-  to più armoniche quanto più fparfe in lontano, quali  collocherù nel miglior grado di Ibmiglianza fra elle, c  quali fegregherà dall’ altre colle quali aveller quelle rap-  porto minore , o non ne avelfer nelluno ; allora ei ften-  derà l’ interdlè e il piacere che da tali combinazioni  derivano, da sè ad ogni altro, fenza oltraggio d’ alcu-  no, e una tal facoltà fi dirà \n\n\ Ferità o ragione co-  mune, come quella che riconofeiuta da tutti , non po-  trà contrallarfi da alcuni, o contradata da alcuni , relterà  ognor vendicata dall’allenfo comune di tutti gli altri.   III. Quello dà facilmente a conofeere, come gli uo-  mini in generale, mediante la facoltà intellettiva fud-  (j) C.f. II. 2. detta, o l’anima ragionevole che gl’ informa (/»), paf-  fino dall’ infenfatezza alla pazzia , col combinare gli  oggetti fortuitamente ed a cafo; e come dalla pazzia  pallino all’errore, combinandoli per proprio folo inte-  Tcfle e piacere fenza riguardo ad altri ; e come final-  mente dall’errore fiano tutti condotti alla verità loro  comune, per la quale combinandoli per interelTe e pia-  cerecomune, agitati dapalTioni particolari, ma corret-  ti e follenuti per le comuni , tutti pur infiemc fudi-  dono. E febbene tal non fia d’elTi in particolare, per  provvidenza pure particolare, giacché quafi tutti invero  dalla pazzia o dalla inconfeguenza nella quale litrovano  da bambini , padano all’ errore nel qual fi trovan da  adulti, ma non tutti da quell’errore padano alla verità  comune, nella qual fi trovan ben molti nell’ età più ma-  tura , ma tutti non vi fi trovan che al punto ellremo di  vita; tal però è d’elliin generale per provvidenza eter-  na . Che fe alcuni fpiriti timidi e ombrofi giudicano  l’errore più comune della verità, in quanto gli uomi-  ni bene fpello contrallano, e non cosi di leggieri s’ac-  cordano ne’ loro penfieri ; ciò nondimeno la verità fi  feorgerà fempre dell’error più comune, in quanto elTa  in etì'etto o previene, o modera, o pon fine fempre a  quei contraili medellmi anco ad onta loro , fenza di   \ che nulla v’avrebbe di certo nelle combinazioni d’iin- cAP. i.  magini, nelle cognizioni che ne derivano, e nelle azio-  ni per le quali fi fulTide , che da tali cognizioni di-  pendono, contro l’efperienza manifelta, giacché pur fi  fuflTifte. Ma intanto quindi apparifce, come non eden-  dò le lingue idituite che per efprimere e comunicare  altrui i proprj fentimenti dell’ animo o le proprie com-  binazioni d’ immagini , per quindi rilevare quanto cia-  fcuno per le vie deU’infenlatezza , del delirio , e dell’  errore nello dato materiale, di bambino, e d’ adulto  proceda nell’età ferma alla verità comune nella quale al-  hn s’adagia e tranquillo fudide; la cognizione di quel-  le dipenderà dalla conofcenza di quede . Ond’ è che  per ben ragionare della natura e della diverfità delle  lingue, dovrà ragionarfi prima della diverfità delle co-  gnizioni umane da manifedarfi per quelle ad altri ,  non edendo certamente podibile ragionare o intender  i mezzi coi quali confeguire un fine , fenza la cono-  fcenza di quedo fine medefimo . Siccome ancora da  qued’edèr la favella intefa a efprimer ioltanto le pro-  prie cognizioni falle verità o dilla ragione comune, e  dall’ cder eda propria del folo uomo («), fi rileva, al W  folo uomo dunque eder dato il penetrare coll’intellet-  to e r alzarfi a fimili cognizioni , occulte a tutt’ altre  Ibdanze anco animate, ma prive della favella; in gui-  fa che ficcome ei folo podiede la favella, cosi ei folo  in queda vita mortale fia dedinato dalla provvidenza  eterna alla conofcenza delle cofe per una fimil ragio-  ne , non odante il deviamento da eda di alcuni , rico-  noicìuto fempre dalla ragione medefima a tutti gli al-  tri comune .   P ER comprender meglio le cofe fuddette , e come gli CAP. II.   oggetti combinati nelle ciafcune menti fi comuni- Della forni-  chino altrui mediante la favella , io confiderò da un 8'**9** *  canto, che fogliono quedi del continuo rinovarli gli .   uni negli altri fecondo alcune leggi di moto , in che confifte la vita , e la eflenza di tutte le cofe mortali ,  e fcnza di che refterebbe il tutto coperto e ingombro  di quiete , morte e nullità eterna. Quelle leggi fono  collanci e invariabili , cui natura non preterifce giammai ,  come fi dimollra nel lirico , e da quello li arguifce  pur nel morale , per la ragione di non procederfi a que-  llo che per le vie di quello , o per la Icorta de’ fenfi ,  onde non poter formarli regola per lo morale, che non  fia in conformità a quelle per cui fi conofcc proceder  il fifico. Pertanto gli oggetti rinovati per tali invaria-  bili leggi, debbono altresì elTere invariabili e fra loro  confimili, ciò eh’ è molto conforme all’ armonia uni-  verfale e alla concordia di tutto il creato, non prodot-  to dal cafo cieco e impolTibile , come figurano gli  fpenfierati , ma ufeito di mano di un folo , eterno e  fapientidìmo autore. Confiderò dall’ altro canto , che  quella fomiglianza di oggetti la quale feorre da tutti  ein in cialcuna fpecie a tutti ein nelle innumerabili  altre fpezie nelle quali lì trovan divifi, non toglie che  gli oggetti medefimi non fian fra loro diverfì , colla  diflerenza ancora, che gli oggetti della HelTa fpecie co-  me fon fra lor più confimili , così fono meno diver-  lì dagli oggetti nell’ altre fpecie , dai quali più e più di-  verlìficano . Ciò che non può provenire che dalle mo-  dificazioni diverfe e infinite, colle quali procede il mo-  to medefimo tìfico o morale fra gli oggetti. tutti crea-  ti, e che pur concorda colla potenza e fapienza infi-  nita del fupremo autore della natura, cui non convie-  ne replicar un oggetto nelle varie o nella llella fpecie  di elTi , e colla varietà di natura medefima , cui difdi-  ce ad altri fpogliare delle infinite forme di oggetti de’  quali è adorna , per rellrignerla folo ad alcune .   II. Quelle confiderazioni Habilifcono dunque quella  verità , che gli oggetti creati fono bensì tutti Confimi^  li y per le llefle collanti leggi di moto fifico o morale  per cui fullìllono, ma che fono altresì tutti Diverfi ,  per le diverfe modificazioni di codello moto che procede colle tnedefime leggi, fcorrendo quella Ibmiglian- c A P. llT  za e dilTomiglianza per gradi inrenfibili dagli oggetti  di ciafcuna Ipecie a quelli di tutte le altre contigue dal  regno minerale al vegetale, e dal vegetale all’animale  filico, ( e lo Hello dee intenderli del morale {a) ) co- (a) C.II. n i.  me è noto ai naturaliHi e agli altri lilofolì per quel  mifero finitefìmo di natura che fi trafpira, e dal quale  foltanto lice arguir di tutt’ ella. Tal ogni oggetto in  ciafcuna fpecie nel confumarlì procede per gradi di fo-  miglianza indifcernibile, e conferva i caratteri della fua  fpecie con sè medefimo, e cogli altri ne’ quali va a ri-  produrfi , paflando per infenfibili gradi di modificazioni  diverfe da uno flato all’altro prima nella fua fpecie, e  pofcia da quella ad altre contigue più e più così fimili  e refpettivamente diverfe in infinito, finché dal tronco  più informe e infenfato, fi pervenga all’uomo megfioor-  ganizzato e più faggio. Siccome dunque il moto è la  caulà di tutte le produzioni create, cosi certe leggi di  elfo Habili fon la caufa per cui fi producono e n con-  fervano elle tutte confimili ; e le diverfe modificazioni  di un moto che procede per le medefime leggi , fon la  caufa della diverfità di ciafcuni oggetti in ciafcuna del-  le loro fpecie e in tutte le fpecie loro , reflando così il  creato uniforme e moltiforme, perchè prodotto e con-  fervato per quel moto, per quelle leggi, e per quelle  mifure e modificazioni di elio . Senza moto , non vi avreb-  be cofa alcuna in natura . Senza leggi di elfo , non vi  avrebbe per il moto che un caos di follanze confufe  ed incerte, e da una rapa per efempio ufcirebbe una  rofa , da una rofa una ferpe , da una ferpc un coni-  glio , ma il tutto informe e inoHruofo fenza diHinzio-  ne e progreflìone di fpecie , con ifconvoglimento di tut-  to il creato . Senza modificazioni diverfe di moto , per  elfo e per le fole fue leggi non s’ avrebbe in natura  che una fpecie di follanze inalterabili , folTer poi elTe  tutte rofe, tutte rape, tutte ferpi, o tutte conigli. £  folainente per un moto che proceda per le medefime leggi e per diverfe modificazioni di eflb, può formar-  fi e confervarfi in natura quella uniformità e varietà-  di follanze , per le quali effa pur fi vede ordinatamen-  te fuflìftere . Che fe la rofa verbigrazia è più fimile  alla rofa che alla rapa , alla ferpe , o al coniglio ; ciò  non deriva da diverfità di leggi , ma da diverfità di  modificazioni in un moto , che ferbando le leggi me-  defime , più che da rofa a rofa , procede da rofa a  rapa, a ferpe, a coniglio. E d’altronde la rofa, la ra-  pa, la ferpe, e il coniglio fi diran fempre fimili , per-  chè prodotti per le flefle leggi motrici , avvegnaché fem-  pre diverfe per le diverfe modificazioni di quelle.   III. Alcune di quelle leggi colanti di moto , e di  quefte modificazioni di eflo diverfe particolari, furono  alìegnate e conofciute dai geometri , ma il pretender  di tutte raccorle con mente mortale , o di portarli da  quelle che fi conofcono alla maffima di tutte dalla qua-  le per avventura tutte dipendono, farebbe lo ftelloche  pretendere di mifurar l’infinito con una fpanna , non  che di infonder l’oceano in un bicchiere. Che però gli  oggetti fan fempre diverfi , fi conofce maffimamente  da ciò, che la detta rofa verbigrazia non è già alla  fera qual era al mattino , e un uomo non è in vec-  chiaia qual era in giovinezza , e io flefib può arguirfi  d’ogni altra cofa che abbia fenfo onon lo abbia. Que-  lla variabilità poi negli oggetti creduti più volgarmen-  te gli flefii, dee maggiormente feorrere Irai creduti di-  verfi, contemporanei o confecutivi, nella fielTa fpecie  e nell’ altre eziandio contigue e diffimili ; dimaniera-  chè non folamente tutte le rofe fian diverfe da tutte le  uova, e tutte le uova da tutti gli uomini , ma di tut-  te altresì le rofe, di tutte le uova, di tutti gli uomi-  ni , non ve n’ abbian pur due , fra i quali non corra  qualche indifccrnibile difparità, mercecchè lefolfer per-  fettamente le fteffe , non due ma una farebber quelle  rofe, queir uova, quegli uomini , e la prima divina  caufa motrice non più infinita, ma farebbe limitata e finita (/i). Ciò che negli uomini può arguirfi dai fe-  sni ancor materiali edefierni, per cui ciafcun d’eiTifi  didingue da ciafcun altro per iembianze di volto , di  voce, di carattere, di portamento e (Imili , e lo liefFo  avverrebbe delle rofe , dell’ uova, e de’ grani ftefli di  miglio, fe fe n’ avede una pratica corri fponden te . E  quel che avvien delle rofe, dell’ uova, de’ grani di mi-  glio, dee avvenire d’ogni altro oggetto particolare mi-  nore e maggiore , e del compleflb di più altri ancora  vifibili e invifibili ad occhio umano, della terra , de-  gli adri , delie codellazioni , e di tutto infomma il  creato . Così la terra fempre a sè defla confimile, è  pur fempre dasè diverfa, e dove al prefente forgonole  città, v’ aveano ad altri tempi i deferti, dove s’ alzano!  monti , fcorrevano i fiumi o i mari , e viceverfa ; alla  quale diverfità fi procede per gradi quanto infenfibili ,  tanto continuati e incelTanti.   IV. Gli oggetti dunque creati pafTati , prefenti , e fu-  turi fono tanto fimili per le delle leg^i di moto , quan-  to diverfì per le infinite modificazioni , colle quali può  edb variare, padandofi per infiniti gradi e in infinite  maniere di madima fomiglianza e di minima varie-  tà , dall’uno all’altro nella deda fpecie , e dall’ una  eziandio all’altra delle infinite fpecie contigue di eflì,  e accodandofi ciafcun uovo ^r fomiglianza , e fco-  dandofi per diverfità da ciafcun altro o da Ciafcu-  na rapa , per oggetti infiniti intermedi va-   rie fpecie , fenza però mai adomigliarlo o didbmi-  gliarlo del tutto; vale a dire fenza effer del tutto quel  dedb o quella rapa (6) , o fenza didrugger del tutto  l’altr’ uovo o 1’ altra rapa . Quel che s’ è detto degli  oggetti filici , dee pur applicarfi ai morali , giacché fì-  come quelli fi confervano e fi rinnovano io ciafcuni  per le deffe leggi di moto fifico , così operan quedi  per le deffe leggi di moto morale che da quello di-  pende ( r). In confeguenza di che 1’ equità , il valo-  re, la codanza, 1’ amore e gli altri affètti umani virtuofi [Oggetti come apprefì di-  verfamente . ] tuofi o viziofi ancora , fi diran propagarfi dagli uni  agli altri in ciafcuni fempre conlìmili , ina tuttavia di-  verfi , non folo ciafcuni in genere , ma nelle loro fpe-  cie ancora in ciafcuno individuo, come paffioni bensì  confimili , ma che fono modificazioni diverfe d’ una  verità o d’un errore , eh’ ellendo lo fielfo e indivifi-  bile in ogni paflione, è nondimeno vario in qualfivo-  glia fua apparenza o modificazione particolare. Tallo  Ipirito di conquida per efempio in Alelfandro , in  Maometto, in Roberto Guifeardo, o il genio di filo-  fofia in Salomone, in Numa, in Marc’ Aurelio, o il  fentimento di libertà comune in Giunio , in Catone ,  in Gregorio VII-, furono ciafeune paffioni medefimein  sè llefle , benché ciafeune diverfamente modificate in  ciafeune di quelle perfone, attefe le diverfe circollan-  ze de’ tempi , e le varie difpofizioni de’ popoli, per  le quali ancora furono diverlàmentc fecondate , e ior-  tirono vario efl'etto.   L a fomiglianza e refpettivamente diverfità d’ogget-  ti fuddetta , è quella che coliituifce le diverie re-  lazioni fra effi , non riferendofi un oggetto all’ altro  che per quanto ad effo è fimilc, o da effo è diverfo.  Le quali relazioni così fono infinite , per gl’ infiniti  gradi di fomiglianza e di diverfità, coi quali gli uni fi  accodano agli altri o fi feodan da quelli, e per li qua-  li podbno infleme paragonarli, fia l’uno coll’ altro nel-  la deda fua fpecie, fìan gli uni cogli altri nelle fpecic  loro diverfe (/») . Qui prima di proceder più oltre ,  piacemi avvertire, che parlando io d’infinito, comeò  fatto innanzi e farò in féguito, non intendo parlarne  come di cofa eh’ io comprenda per sè , ma come di  cofa eh’ io non intendo che per approlfimazione , im-  maginandolo qual conviene a mente finita, vale a di-  re qual finito , maggiore di quanti pollano alfegnarfi  giammai in ciafeuna fua fpecie ; inguifachè egli fia per  l’aggregato di più e più finiti fenza fine di quella Ipe-   cie    1    Digitized by Coogic     eie d'oggetti di che fi tratta, per cui fi porga all’ in-  telletto umano queir idea qualunque incompleta , che  àffi dell’infinito, fenza perciò che fi confegua elFo, o  fi raggiunga a comprendere polìtivamente giammai .  Ciò avviene per le forze intellettuali umane limitate  al contrario e finite (<»); perciocché fe ad intelletto  umano fofle dato di apprendere verbigrazia tutti gli  oggetti e tutte le infinite relazioni fra loro , un intel-  letto tale non farebbe più umano o finito, e non com-  binerebbe gli oggetti , nia farebbe un Dio , che fenza  combinarli li apprenderebbe tutti ad un tratto, come  quegli che li avefle creati , e ne avefle ordinate le re-  lazioni di tutti i luoghi, e di tutti 1 tempi. £ quan*  tunque di quella conofeenza l’uomo fcevro dai lenii,  per quanto comporta il grado di fua intellettualità ,  fia per partecipare nella vita avvenire ; nella prefente  di che II tratta , non potrà egli mai flenderfi in elTa  che per quanto lo conducano le tracce limitate de’fen-  fi medefimi , reflrignendofi così le fue cognizioni ad  alcuni oggetti per combinazioni foltanto finite , fenza  fìenderfi a tutte per comprenfione d’ efiì intuitiva e in*  finita .   II. Ciò porto, non dirtinguendofi per or gli oggetti  che per le lor dette relazioni diverfe, ed elTéndo tali  relazioni per ciafeuni di erti tanto infinite, quanti i gra-  di di fomiglianza odi diverfità, co’ quali poifan fra lor  riferirfi, fia nella ftefla, fia nelle fpecie loro diverfe ,  corrifpondenti alle infinite modificazioni d’un moto che  procede colle medefime leggi (b) ; ciafeun intelletto  particolare, che per le forze fue limitate dee apprender-  li non per tutte, ma per alcune fole di tali relazioni ,  dovrà apprenderli per relazioni diverfe da quelle , per le  quali le apprenda ciafeun altro, e in confeguenza dovrà  apprenderli diverfamente da tutt’ altri . In ellctto doven-  do la fomiglianza e diflbmiglianza fra gli oggetti a|>-  prenderfi da ciafeun intelletto finito ad un modo, edef-  fendo infiniti i modi , coi quali ciafeun oggetto può paragonare come fimile o diffimile agli altri ; non potrà  di quefti infiniti modi quello col quale apprende quell*  oggetto uno , effer quel delTo col quale lo apprende un  altro, ma dovrà l’uno effer dall’ altro diverfo, per quan-  to pur poffa efier a quello più e più confimile. A que-  llo modo faran gl’ intendimenti umani per gli oggettr  medefimi tanto diverfi , quanto le loro fifonomie o al-  ia) C.II, n.^. tre fembianze loro efterne fuddette che poffono  bensì affomigliarfi in bellezza o in deformità , ma non  mai in modo di effer del tutto le fteffe , o di non cor-  rervi qualche differenza, per cui uno non fi ravvifi o  non fi diflingua, pollo al confronto coll’altro. Ed ef-  Icndo gli oggetti diverfi e confimili, e le relazioni fra  effi infinite ; di infiniti ancora intelletti umani fe fìa  poffibile paffati , prefenti, e futuri, fu i quali cadano le  immagini d’unaflella, d’un fiore, d'un fallo, non ve  ne avran pur due che le concepifeano ifleffamente a  per le medefime relazioni ad altri oggetti, ma farà 1’  immagine di quella (Iella, di quel fiore, di quel faffo  diverfa nelle ciafeune menti di quelle infinite perfone,  confimile però più o meno l’una all’altra, quanto que-  flc relazioni fian più proporzionali ed armoniche, an-  corché armoniche e proporzionali Tempre dìverfamen-  te. Fuori di quello cafo non due, ma uno farebbero*  quegl’ intendimenti, i quali ConcepilTero gli flelli og-  . getti per le fleffe immagini, o riferiti ad altri ogget-  ti per le fleffe finite relazioni delle infinite che ve n’  (è)C.J/. ».r . ànno , ciò eh’ è impoffibile {b).   III. Qui occorre offervare , come non è folamcnte  (f)C.J/.w.5. la diverntà degli oggetti apprefi avvertita difopra (r),  ma quella ancora delle relazioni loro agli altri diver-  \ <d) C.III.V.3. (g gjjg (j avverte al prefente ( d ) , per cui fi concepì-  fcano quelli da ciafeuni in vario modo, tanto al me-  defimo tempo uno lleflo identico oggetto , quanto à  tempi diverfi quell’ oggetto a sé confimile , ma da sè  diverfo a diverfi tempi in sè fleffo o nella fuafpecie.  Per la qual cofa Tolomeo per efempio, Ticonc , e  Galileo n diranno aver tute’ a tre immaginato il Sole '  diverlamente , quantunque il Sole veduto dal primo in  AlelTandria à Tuoi giorni, non folTe identicamente lo  Iteflo che il veduto per avventura dai due altri all’ idei*  fo giorno, quattordici fecoli dopo nella Dania o in Ita*  lia, ma folle da quello infenfibilmente dillimile , per  rinfenfibile alterazione fofl'erta da ogni corpo , e in  confeguenza da ogni pianeta nella Tua durata medefi-  ma, come s’è veduto (a). E ciò per le relazioni fini-  te del Sole dell’uno e dell’altro tempo, tolte dall’ in-  finità di tutt’ elle cogli altri oggetti di qualfivoglia tem-  po, per le quali relazioni cialcun dei tre potea conce-  pire il Sole , e didinguerlo dagli altri oggetti , o para-  gonarlo con quelli. Quello è ben vero che la diverlì-  tà, colla quale fi concepifcono da piò perfone al mede-  fimo tempo e nel medefimo luogo gli oggetti identi-  ci, farà molto minore di quella, colla quale fi conce-  pifcano a tempi e luoghi diverfi oggetti folo confimi-  li , per variar appunto in quello cafo gli oggetti an-  cora da sè medeiìmi , e concorrer cosi non una, ma  due ragioni a diverfilìcarne le immagini . Ond’ è che  ne’ diverfi luoghi e a diverfi tempi, fi dovrà ragionare  di oggetti conlimili con più di diverfità, di quel che  fi ragioni al medefimo tempo e luogo di oggeui iden-  tici llelfi .   IV. Del rimanente quella maniera in ciafcuno di-  verfa d’ immaginare gli oggetti llelfi o confimili , fi  riconol'ce dai giudici diverlT che fe ne formano dacia-  fcuni, i quali giudici dipendono appunto da tali im-  maginazioni. Se quei giudici fugli oggetti llelfi folTer  gli llelfi , allora potrebbe dirli , che quegli oggetti fol-  lerò apprefi e immaginati illelTamente . Ma giudicando  ciafcuni diverlamente del color verbigrazia rolFo o del  azzurro, convien pur dire, le immagini di quelli co-  lori eflér diverfe nelle ciafcune immaginazioni. Anzi  fe un giudicalTe del rolTo come un altro dell’ azzurro ,  potrebbe dirfi, apprender quegli perrolTo quel cheque-   /V!    CAP. HI.    (a) C.7/.M.5. Oesetii co-  me nominati  per la fteffa  favella.    (ù)C.II.n.s.    (e)C.m.n. 2 .    •5^ XIV^   ’fti apprendelTe per azzurro, e viccverfa . Ma ciò non  è vero nemmeno e attefa la infinità delle relazioni  di ciafcuni oggetti a tutti gli altri , e la fingolarità iti  ciafcuni di apprenderli (/»), le immagini d’cfTì defta-  te fui ciafcuni cervelli fon fcmpre diverfe , come di-  verfi ne fono i giudicj , e non folo uno apprende cia-  fcun colore, ma li apprende ancor tutti in vario mo-  do da ajuel che li apprenda ciafcun altro , inguifachè  il rollo , r azzurro , il bianco , e il nero imprimati di  sè diverfe immagini fui ciafcuni cervelli non mai le  Itelle, e non mai permutate, ma fempre diverfe e im-  permutate, avvegnaché fcmpre conlimili.   P orte quefte confiderazioni fulla diverfità degli og-  getti , e fulla maniera in ciafeuno diverfa di con-  cepirli , per apprendere come querto concepimento fi  comunichi da ciafeuno ad altri mediante la favella, è  da avvertirfi, noneflcr certamente portibile il commu-  nicarlo per voci del tutto corrifpondenti , e che il fi-  gurarfi un efatta analogia fra le immagini colle quali  s’apprendon gli oggetti, e le voci colle quali s’ efpri-  ntono, è figurarfi un aflurdità . Imperciocché ert'endo  ciafcun oggetto infenfibilmcnte diverfo da ogni altro in  ciafeuna e in tutte le fpecie (b) , dovrebber le voci  colle quali fignificarlo, variar infenfibilmentc com’eflb  dall’ altre voci colle quali fignifìcar gli altri oggetti ,  ed crtér così le voci tante quanti fofler gli oggetti in-  dividui , appellandofi oggetti confìmili ma noniilertì,  con voci pur confìmili ma non iftelTe in partato , al  prefente e nel futuro; anzi appellandofi con voci di-  verfe una rofa fterta per efempio al mattino e alla fe-  ra, e un uomo ftertb prima e dopo una febbre quar-  tana. Oltre ciò per effer ancora le immagini di que-  lli oggetti medefimi nelle ciafcuni menti diverfe (c),  o per apprender ciafeuno gli oggetti diverfamente da  un altro, ne dovrebbero altresì le efpreffioni diverfifi-  pre nelle ciafcuni bocche irtertamente , o dovrebbero le   favel-    Digìtized by Google     XV ^   favelle cfler tante quante le perfone favellatrlci , eia- c A P. iV.  feuna delie quali apprendendo gli oggetti così diverfi  per relazioni eziandìo diverfe ad altri oggetti , dovreb-  be altresì pronunciarli in modo diverfo . Ognun poi  ..vede quel che avverrebbe per un fimil garbuglio di fa-  velle, per cui non farebbe poìTibile intenderli fra pa-  dre e figlio, o fra marito e moglie , più che fra gli  antichi fabbricatori fcefi dall’ altiflima torre di Babel-  le. Poiché dunque non è poHìbile applicar alia favel-  la, nè la diverfità degli oggetti individui , nè quella  delle immagini loro nelle cìafcune menti, ed è pur ne-  celTario che quelle immagini lì comunichino dagli uni  agli altri , per conofeere quelle verità che da mente  nmana polTono concepirfi nello flato di vita morta-  le (a); non refla fe non che gli oggetti s’ efprimano (a)C.I.n.t.  per voci identiche flelTe accordate per confenlo e per  ufo , per le quali gli oggetti o le figure e immagini  loro, s’ efprimano non elattamente , ma proflimamen-  te, e non già per quanto farebbe neceflario , ma per  quanto foltanto è poflibile ; in guifachè elTendo tali imma-  gini tutte fimili e tutte altresì diverfe, le voci corrifpon-  denti le efprimano bensì efattamente quanto alla lor ,  fomiglianza comune, ma non quanto all'individua lo-  ro diverfità.   II. Quello è ciò che avviene in efietto, mentre og-  getti precifamente non iflelTi, e non concepiti da cia-  Icuno ifleflamente, s’appellano non per tanto con vo-  ci flefle precife, e un faflb per efempio, un fiore, una  ilella fi proferifeono fermamente con quelli flabili no-  mi quafi folTer indifcernibilmente gli llefli , e li con-  cepiflero ifleflamente, quando per verità non lo fono,  e fono da ciafeuni ^preli in maniera diverfa . Con  ciò fi vede, come effetto della favella è quello di re-  llrigner il numero degli oggetti e dellefimmagini loro  indeterminato e infinito, a numero tanto finito, quan-  to quel delie voci colle quali fogiiono profcrìrfi gli og-  getti medeOmi per quanto fono confnnili , e non per quanto fono diverfi , giacché alla ìftcflTa voce d’ una  lUlla , d’ un fiore , d’ un fafTo non fi deflano in ciafcu*  ni le flelTe immagini , ma fi deflano tanto diverfe ,  quanto quella (Iella, quel fiore, quel fallo cosi appel-  lati fono individualmente variabili, e fi riferifcono da  ' ciafcuni non agliflefli, ma ad oggetti altri diverfi pur  variabili, ed apprefi diverfamente, e appellati tuttavia  per quelle voci. Un tal lavoro poi non può feguire ,  che mediante cert’ ufo e certa convenzione di quei par-  ticolari che piò comunicano di immagini e di voci ,  di appellar appunto con voci immutabili e precifa-  mente ifleffe, oggetti individui e immagini loro, che  non fono le flelTe colla precifione medefima , fia per  sè fia nelle ciafcune apprenfioni; o di appellar verbi-  grazia col nome immutabil di rofa un oggetto tanto  variabile quanto una rofa, e lo flelfo dee dirfi d’ogni  uomo e d ogni altro oggetto particolare per sè vario,  ed apprefo da ciafcuno in vario modo, ancorché pure  confimile . La qual convenzione e il qual ufo è ar-  bitrario, e libero, mentre come fu convenuto di appel-  lar r acqua e il fuoco con tali denominazioni , cosi  niente impediva che non fi convenirle di appellare al-  Jincontro 1’ acqua col nome di fuoco , e il fuoco col  nome di acqua.  Perché poi poflbno gli uomini convenire di  chiamar gli oggetti per quanto fono confimili con al-  (j)C.iK. w.i. gypg yQgj jjQj, poflono convenire di render   quegli oggetti cosi invariabili come quelle voci , o di  concepirli ciafcuni al medefimo modo ; quindi avvie-  ne che r analogia delle voci invariabili cogli oggetti  variabili in sè fleflì, e nelle ciafcuni immaginazioni ,  non può verifìcarfi che molto imperfettamente , o in  quanto fi affuman per oggetti invariabili , quelli che  in effètto non fon tali che per approlTimazione , va-  riando eflì d’altronde del continuo per gradi infenfì-  bili e indeterminabili. In fatti quelli oggetti eie ma-  niere di concepirli , cangiano del continuo non can-   giangiando le voci colle quali s’appellano , ed emendo le  voci in ogni lingua tanto finite, quante poffononume-  rarfi ne’ Dizionarj, gli oggetti e le immagini loropof-  fono dirfi tanto finite, quante le innumerabili modifi-  cazioni di moto, dal qual derivano quelli, o le innu-  merabili relazioni degli uni oggetti a tutt’ altri , dalle  quali derivano quelle in ciafcuno . Il qual ciafcuno  benché apprenda oggetti finiti per relazioni finite, per  eller però quelli e quelle in infinito variabili , li ap-  prende in guifa diverl'a da quella d’ ogni altro , febben  in guifa d’ogni altro conlimile (<?), per le medeli me leg-  gi di moto, per le quali fi confervan gli oggetti, pro-  ferendoli però lempre per le ftelfe invariabili voci d’  ogni altro. Onde redi pur llabilito, la moltitudine di  oggetti e d’ immagini loro nelle ciafcune menti , ef-  fer a numero incomparabilmente maggiore della mol-  titudine delle voci , colle quali pofian quelli denomi-  narfi ed efprimerfi . Un contralTegno efpreflb della det-  ta imperfezione d’ analogia fra le voci , e le immagini  d’ oggetti per effe fignificati è quello , che ciafcuno  nello fpiegare altrui le proprie immaginazioni oi pro-  pri fentimenti d’animo, non trova cosi pronte le vo-  ci che gli occorrerebbero, ech’ei defidererebbe , come  trova le immagini, e non v’è cofapiù familiare, quan-  to il dolerfi uno di non poter per voci dar così be-  ne ad intender ad altri ciò eh’ ei fente e intende per  sé medefimo , di che gli amanti foglion lagnarli il piò  fpeffo. Ciò che non può derivare , che dal conofeerlui  molto bene, che gli altri per quelle voci non appren-  don gli oggetti per elle efpreffi, com’ei le apprende ,  ma li apprendono in modo piò o meno diverfo, e  che quelle voci dellando nelle altrui menti non le  lleffe, ma confimili immagini , fpiegano ad altri una  verità apprefa fempre con maggior chiarezza da quei  che la proferifee , che da quegli cui vien proferita . Lo  che fi verìfica tanto delie menti piò chiare che delle  piò confufe , effendo certo che ficcome un uomo fensato per quanto ei fia eloquente , intende meglio i fuoi  penfamcnti di quel che gl’ intendano altri ai quali ei  li fpieghi per voci ; cosi un inCenfato ancora , benché  non intenda lui ftelFo quel che vuol dar ad altri ad  intendere, è però fempre mcn capito da altri di quel  eh’ ei capifea sè HelFo, ed è fempre men feimunitoin  sé , di quel eh’ ei fia concepito da altri.  Applicate come fopra una volta alcune voci ad  Oggetti co- jlA. alcuni oggetti in certo luogo e a certo tem-  ine nominati po (^), fe quelle voci come fono finite riguardo a  per favelle quegli oggetti , così il follerò riguardo a fe ftellé ,   ® avellerò con quegli oggetti una necclTaria connef-  (a)C./K.w. 2 . fjQfjg . qiie(p applicazione avrebbe dovuto elTere uni-  verfale di tutti i luoghi e di tutti i tempi , e non  v’ avrebbe al mondo che una favella , la quale for-  mata una volta , fi farebbe prefervata dappertutto  la fiefla , invariabile per tutti i fecoli , per efprimer  gli oggetti per quanto almen fono fimili , fe non  (l)C.iy.n.t. per quanto Ibno diffimili (6). Il fatto però è, che  febbene le voci lian finite riguardo agli innumerabi-  li e infiniti oggetti per elle efprefli , fon però elle  pur innumerabili e infinite riguardo a sè medefimc ,  fenza perciò avere quella infinità relazione alcuna con  quella ; mentre laddove quella degli oggetti dipende  dagli infiniti modi, coi quali procede il moto , che  per le ItdTe invariabili leggi li prelerva e li rinuo-  va in ciafeuna e in tutte je fpecie (c); quella del-  le voci dipende dai moti pur infiniti, co’ quali l’aria  fiella può ufeir dalle labbra, fpinta e percolla dagli or-  gani della favella , e quei modi non àn che fare con  quelli. Quindi apparifee perchè le lingue abbiano ad  elTer diverfe a diverfi tempi e nei diverfi luoghi ,  perciocché elléndo le maniere, colle quali le voci pof-  fono articolarfi infinite , c dovendo elle adoprarfi a  numero finito per elprinier oggetti mcdelimi e con-  fimili, benché infiniti j non v’à ragione perchè a quell’    'it XIX ?$-   nfo s’adoprino l’une anziché l’altre di effe, o perchè CAP. vA  un faflo , un fiore , una della appellati ora in Italia  con quedi nomi , non fodero appellati o non foder per  appellarli ad altri tempi in Italia o altrove con nomi  diverfi. Per quedo s’è odervato, gli oggetti non appel-  larft con certe voci , che per convenzione particola-  re (a) divifa fra quei che più comunicano d’ immagi- (^a)C.iy. «.i.  ni, a efclufione di tutt’ altri chemen comunicano, non  potendo quelli eder mai tutti. E perchè l’infinità delle  voci nonà alcun rapporto a quella degli oggetti , quin-  di è ancora che una tal convenzione non è neccllaria  per certe voci , ma è libera ed arbitraria per tutte , e  dove s’applicano ad oggetti dedì e confimili alcune di  ede, dove alcun’ altre, e quando quelte, quando quel-  le, fempre diverfe perchè Tempre finite, tolte dall’in-  finità loro intiera. Se l’tina infinità fode relativa all’  altra , il farebbero pur 1’ una all’altra quede applica-  zioni, ma moltiplicandofi allora le lingue colle imma<  ginazioni delle perf>ne in infinito, ne feguirebbe quel-  la babilonia di lingue odèrvata di fopra (b) per cui non {b)C.lV.n.t.  farebbe più podìbile fpiegarfi gli uni cogli altri , e per  eder quede infinite quante le perfone di tutti i tempi  e di tutti i luoghi , non farebber nediine in alcun luo-  go , o ad alcun tempo .   II. Come poi egli avvenga, che le lingue una vol-  ta introdotte fi cangino in altre ai diverfi tempi e ne’  diverfi luoghi , fi comprenderà da ciò , che dovendo  gli oggetti per le voci didinti eder gli dedi per le  dede invariabili leggi di moto, ma dovendo ciafeuni  in ciafeuna fpecie rinovarfi con infenfibili difparità  per le infinite modificazioni o mifure di quedo moto  medefimo (c)j dovranno dunque efll appellarfi per le (f)C. //. ». 2 .  voci una volta loro affide e applicate , in guifa però  che confervandofi quede le dede per lo primo riguar-  do , fi vadano infenfibilmente alterando e degenerando  in altre per lo fecondo . Queda ragione s’ avvalora e  s’accrefee per le nuove arti, per le quali gli oggetti   C amedefimi e confìmilì fi fan fervine a nuovi ufi , a(Tu-  mendo eflì quindi pur nuove denominazioni c divcrfe  di pria , e introducendofi nelle lingue nuove voci a  efclufione di altre all’ introdurfi di nuove arti , collo  fmarrirfi delle antiche. Dell’introduzione di nuove voci  in qualfivoglia lingua fon prova evidente tutte quelle,  che nelle lingue vive fervono all’ arti di nuovo introdotte nella milizia, nella meccanica, nella fiampa , e   fimili ; o quelle colle quali fi fpiegano le nuove foggie  di vediti, di mobili , di utenfili e così feguendo , le  quali prima dell’introduzione di tali arti e foggienon  potevano avervi. E della perdita delle antiche fono in-  dizio quelle innumerabili nelle lingue morte, fulle qua-  li indarno fofifiicano gli eruditi per trovarvi il figni-  ficato nell’ arti ed ufi di oggetti prefenti, quando me-  glio dovrebbero non penfarvi , come ad appartenenti  ad arti ed ufi di oggetti già fmarriti , e la cui cono-  fcenza col fignificato di tali voci rimarrà fempre irre-  parabilmente perduta . Perciocché il figurarfi che al for-  ger di nuove arti o di nuove maniere di fuflillere  non abbiano generalmente a fopprimerfene e a perire  altrettante, è una puerilità e debolezza di mente, per  cui fi credan gli uomini in genere più fiupidi o più  fvegliati , e più taciturni o più loquaci a un tempo  che a un altro, ciò che non fi darà mai ad intendere  a chi meglio intenda la fpecie umana , e la natura ge-  nerai delie cofe. Variando dunque infenfibilmente gli  («)C. //.».*. oggcìt* loro ufo per ordine di natura (a), e quindi  per difpofìzione d’ arte ; le lingue altresì debbono va-  riare infenfibilmente per efprimere quegli oggetti e  quegli ufi , finché col lungo corfo di fecoli quelli e que-  lle prendano nuovi afpetti , refiando gli oggetti gli rteflì  per le fiefie leggi di moto, ancorché diverfi per le di-  verfe modificazioni di quello ; e refiando le lingue pur  le lleflè per la llelTa perculTìone d’aria dai polmoni fo-  Ipinta , ancorché fempre diverfe per le diverfe articola-  zioni di voci provenienti da quella percufiione, modificata in varie maniere. Ad accrefcer però e ad affretta- CAP. V.  re moltiffìmo una fimile alterazione e rinovazione di  lingue, s’ aggiugne la mefcolanza di popoli di lingue  diverfe che comunichino di favella; perciocché appel-  lando gli uni e gli altri oggetti fteffi o confimili con  voci diverfe , e non avendo ciafcuni maggior ragione  di così appellarli , è pur forza che riefcano a inferir gli  uni le loro voci nelle voci degli altri , onde imballar-  dite così le lingue , vengan di due a formarfene una  o più altre di quelle compone , e da quelle del pari  diverfe .    III. Egli è poi da oflervare, come per cffer gli og-  getti confimili fempre divertì , e per eflere una tal di-  verfità molto più notabile a tempi e in luoghi difpa-  rati (a) ne’ quali s’ufino favelle diverfe, che alloflef- v.].   fo tempo e luogo, ove non fe n’ufi che una ; quegli  oggetti efprelTi in un tempo e luogo con favella d’al-  tro tempo e d’altro luogo, non fi concepifcono perciò  quali furono o fono a quei tempo o in quel luogo na-  tio, ma feguono a concepirfi quai fogliono in quello,  colla fola diffferenza di replicarli così in mente , e di  cfprimerli altrui con favella ancora ftraniera . Cosi le  produzioni ftefre di animali, di piante, di minerali ,  più diverfe nell’ antica Italia e nella prefente Inghil-  terra di quel che il fiano nell’ Italia prefente, efprelTe  qui ora colle voci italiane antiche o colle prefenti inglelì ,  non fi concepifcono quali erano in Italia anticamente  o quali fono al prefente in Inghilterra , ma quali fono  al prefente in Italia. £ febbene per la voce 'uir fi fì-  gnifìcalfe verbigrazia allora in Italia un uomo come un  Lentulus , e per la voce man fi lignifichi ora in In-  ghilterra un uomo come un Richard, e per la voce    uomo fi concepifca ora in Italia untale comeunGiam-  pietro; per tutte quelle voci vir^ many e uomo fi con-  cepirà ora in Italia del pari un tale come un Giam-  pietro, e non mai come un Lentulus o come un Ri-  chard. Lo che fi dice per avvertire, che la cognizione   delle lingue morte o vive Oraniere, non amplifica per  nulla la cognizion degli oggetti , ma carica foltanto la  mente di più termini d’eflì apprefi ad un modo folo,  diritto o torto ch'ei fiafì, lafciando cìafcuno nello fla-  to d’ ignoranza o di dottrina, nel quale d’altronde ei  fi trovi . Certo è che quantunque ciafcuno apprenda  gli oggetti diverfamente da tutt’ altri , per appellarli  con più nomi non li apprende con più maniere , o  colle maniere degli altri , ma fegue a concepirli all’  ulato fuo modo . Ond’ è che per apprendere più lin-  gue n apprendon più voci , per le quali replicar in  mente gli oggetti , e comunicarli a perlone di lingue-  dìverfe non diverfamente all’une che all’ altre , fcnza  apprender perciò niente di più fu quelli , o fenza ac-  crefcer per nulla le proprie cognizioni ; quand’ ancora  la mente occupata ed ingombra dalla farragine di quei  moltiplici termini fugli oggetti medefimi , non reflafT'e  perciò impedita dal concepirli con più chiarezza e con  più precifione, reflando così le cognizioni fu effi tan-  to più limitate e riftrette, quanto apprefe per più ma-  ni di lingue , come v’ù gran luogo di dubitare..   CAP. VI. /^Uella diverfltà e refpettivamente fomiglianza, che   Della divef- V^_s’è veduta correre fra gli oggetti della (lefTa e  fità poffibile di diverfe fpecie , e fra le maniere diverfc di  (^)> è manifefto dover molto più ampia-  C./i/ » " ^ver luogo fra le combinazioni di quelli nelle   ciafcune menti, le quali combinazioni cosi faranno di-  verfe e confimili non folo quanto gli oggetti , ma  quanto altresì pofTono quelli confimilmente combi-  narli o accoppiarfi infieme a numero minore o mag-  giore , feparatamente gli uni dagli altri . Da quelle  moltiplici combinazioni d’ oggetti in ciafcuni diverfe  procede quell’ordine, per cui gli uomini diverfificanod’  inclinazioni, di genj , di temperamenti, e quindi di  maniere di penfare e d’operare, ciò che coflituifce i di-  vcrfi cojìumi loro ne’ divcrfi luoghi e ai diverfi tempi. Imperciocché llante una fimile diverfità di oggetti c A P. VI.  diverfamentc combinabili, non farà poflìbile che s’ac-  cordin eglino di applicare tutti ad oggetti delle ftelTe  fpecie, ma dovranno applicare quali all’une, quali all’  altre di quelle, e quando a quelle, quando a quelle ,  per riferirli cialcuni e combinarli con altri oggetti di  tutte le fpecie diverfamente , onde deriveranno appunto  le moltiformi inclinazioni e coHumi fuddetti . Quindi  apparifce la necedìtà di una limile diverfità di collumi  negli uomini adunati ancora più Hrettamente infìeme ,  la qual procede dall’ impodìbilitàfuddetta di applicar cia-  fcuni in particolare, e più ancora di ellì in comune ,  alle ftelTe fpecie d’oggetti, e di combinarli e riferirli  fempre al medefimo modo finito , quando tali fpecie  d’oggetti e tali modi di combinarli e riferirli fono infi-  niti, e il finito tolto dall’infinito in palTato, alprefen-  te , e nel futuro per infinite fiate ancora fe fia polfibi-  le , è fempre diverfo {a). Quella diverfità d’opinioni C. Il.n.i.  e di combinazioni d’immagini, per ufo di combinare  ciafcuni più particolarmente oggetti d’ alcune fpecie in  luogo d’altre, è cofa familiare, e fi manifella ai fre-  quenti incontri per le impreflioni diverfe degli ogget-  ti medefimi fulle menti di quelli, che lìan più o me-  no avvezzi ad apprenderli, e a combinarli. Ed è cer-  to l’incantefimo per efempio del villano fra i cittadi-  ni , l’orgoglio del cittadino fra i villani, laprelunzio-  ne del cortigiano fra i dotti , la noja del dotto fra i  cortigiani, non proceder da altro, che da maggior ufo  in ciafcuni di quelli di combinare più particolarmen-  te oggetti di diverfe fpecie , nelle varie circollanze nel-  le quali ciafcuni fi trovano.   II. Chi poi da una fimile diverfità d’opinioni eco-  fiumi riputalfe derivar difordine e fconccrto fra gli uo-  mini , s’ ingannerebbe di molto , perciocché per quanto  diverfi fian gli oggetti apprefi e combinati più fre-  quentemente da ciafcuno, purché le combinazioni co-  gli altri ne fiano armoniche, e conformi alla llelTaragione comune, non potran quelle elTere che pur  (,a) C.I. ». 2, confimili, e perciò conformi fra elle, nè potran i co-  dumi che ne derivano effer difcordi o generar fra cfli  difordine, eflendo anzi tutti in ordine a una ftelTa ve-  rità o comun ragione. In eflètto rcflTer le opinioni e  i coflumi diverfi non toglie che non poffan elTer con-  fimili , e ficcome gli oggetti fon confimili per la fem-  plicità e invariabilità delle ftedè leggi motrici , per cui  Il confervano c fi rinnovano in cialcuna e in tutte le  l'pecie, e fono diverfi per le diverfe mifure e modifi-  cazioni, colle quali procede quel moto in ciafcuniper  le medefime leggi ; all’ ilidìo modo le combinazioni  loro, e i cofiumi che ne derivano, fon pur confimili  nella loro diverfità, per una ragione comune invaria-  bile in sè fiefia , ma variabile nelle fue modificazioni ,  lecondo le quali quegli oggetti fi a ppret\dono, e fi com-  binano da ciafcuni . Che le fi domandi un rifcontro,  per cui conofcere quella conformità di coftumi colla  ragione comune, fi dirà quello efl'er quello, per cui ap-  parila, che elTendo elfi utili a sè niedefimi , il fiano  altresì agli altri , lenza che alcun ne rifenta nocumen-  to od oltraggio, mcrcecchè fe elfendo quelli a sè uti-  li, fulfero ad altri nocivi, allora non firebber elfi alla  comun ragione o alla verità di natura conformi , la  quale è Tempre concorde e non mai a sè lidia oltrag-  giofa; ma làrebber in conformità all’errore o alla ra-  gion particolare d’ alcuni a quella comune contraria ,  dillruttiva disè medefima neila dillruzione degli altri,  li) C.T, n. 2. come s’è dillinto da principio [b). Con ciò apparifee , come la diverfità di com-  binazioni d’immagini, e quindi d’opinioni e collumi,  non folo non apporta difordine in matura, ma ne co-  llituifce aU’oppolto l’ordine e la concordia migliore ,  purché non s’ allontanino dalla llelTa ragione a tutti  comune, ciò che può avvenire in infiniti modi; e in  tai modi appunto diverfi fi dirà pollo l’ordine e l’ar-  (c) C.II.n.4, monia medefima di natura morale (c), come ne’ modi di combinazioni in conformità alle ftefTe legni mo- c a"? VI  trici filiclie, è polla l’armonia di natura pur liiTca. E  invero dall’ applicare gli uomini di concerto, quali fu  alcune, quali lù altre fpecie d’oggetti più particolar-  mente, ne proviene che le cognizioni fu effi e per erti  refpettivamente s’accrefeano , e gli uni accorrano in  foccorfo degli altri, derivandone quindi quella perfua-  lìone e prudenza umana , per la quale ciafeuni per  quanto è polìibile , ne’ varj ullicj , profertioni e modi  di vita per erti intraprcli piacevolmente fulfirtono .   Senza ciò combinando ciafeuni calualmente gli onnet-  ti fenza fcelta e fenza difeernimento di fpecie, non s’   ' avrebbe che confufìone , e per clTer gli uomini di tut-  te le opinioni, i collumi c le profellioni , non fareb-  bero di nellune. Ov’è da oU'ervare altresì l’iinportìbil-  tà in alcuni foli di riconofeer tutte le azioni e tutti i  cortumi , per quanto fian quelli utili a tutti , e con-  formi alla coniun ragione, dovendo una tal conofeen-  za dipendere dalla ragione appunto comune , e non  mai dalla particolare di quegli alcuni . Se quello folfe  portabile , la natura avrebbe dertinati gli uomini non  in foftegno, ma a carico ed oppreHione gli uni degli  altri, e avendo formato alcuni foli intendenti ed atti-  vi , avrebbe collituito tutti gli altri llupidi e inerti .   Egli è ben necellario, che alcuni riconofeano le azio-  ni e i collumi tutti, per quanto forter quelli contrarj  al bene e alla ragione a tutti comune, al qual fine fu-  rono illituiti i Governi de’ popoli; mentre il conofeer  fe un’azione coll’crter utile a sè il fia pur ad altri, o  fja ad altri nociva, è dato ad ogni uomo in partico-  lare , e martime a chi è dertinato a quella conofeen-  za. Ma il prefumer alcuni* d’ inventariare e regolar  tutte le azioni , i collumi , le opinioni e le profèlfio-  ni, per quanto fian utili a tutti, è un prefumer d’efler  quei tali di tutte le azioni , i collumi , le opinioni  e le profertìoni , cofa allurda , non elTcndo ciò dato  dalla natura ad alcuni in particolare , ma agii uomini in generale di tutti i tempi , e di tutti i luo-   IV. Infatti poiché le combinazioni di oggetti fono  infinite non folo in tutte le fpecic, ma in ciafeune an-  cora di e(fi, e non può intelletto umano apprenderne  che un numero finito ; e oltre ciò poiché gli oggetti  non fi combinano che per conol'cere le verità fu effi  c per efiì , e tali verità non poffono rilevarfi per tali  («) C.L ». 1 . combinazioni, che pel confenfo di molti fu quelle (a);   iàrà dunque forza, che molti concorrano ad apprende-  re c combinare , quali oggetti di alcune fpecie, quali  di altre particolari, clTendo cosi altri di alcune , altri  di altre inclinazioni e collumi meglio intefi e iftruiti ,  a efclulìone limile di tutte le altre; non efi'endo d’al-  tronde poHibile che tutti gli uomini, ciafeuni de’ qua-  li debbono apprendere e combinare alcune fpecie fole  d’oggetti finiti; delie infinite fpecie che ve n’ ànno,  s’ imbattano ad apprenderli e combinarli delle lleflè  fpecie finite a efclulìone delle infinite altre , e in tal  guifa ad eflér tutti d’un umore, d’ un’ inclinazione , e  {b)C.VI.n.\. d’ un collume (é). A quello modo fi può dire , eh’  tlfendo le immaginazioni d’oggetti diverfe, edelfendo  pur diverfe le opinioni e i collumi , fra 1’ una e 1’ al-  tra diverlità v’ à però quello divario , che elfendo la  prima in riguardo a ciàlcun uomo, la feconda è in ri-  guardo a più d’ elTi , e che non avendovi pur uno che  (i) C.III. H. 2 . immagini gli oggetti come un altro (r), ve n’àn pe-  rò moltilTimi della llelfa opinione c collume , diverfi  dalle opinioni e collumi degli altri; in guilàchè ladi-  verlìtà di opinioni e collumi, anziché divider gli ani-  mi, tenda ad unirli dalla diverlità molto più amplafra  le loro particolari immaginazioni col vincolo d’ una  loia ragion comune, alla quale quelle opinioni e quei  collumi , avvegnaché diverti , fian pur femnre confor-  mi. Lo che non avviene indarno, ma è llabilito con  provida dilpcfizione , alfine di verificare l’armonia del-  le immaginazioni diverfe per la conformità delle opinioni confimili (<j), giacché la diverfità poid’opinio- CAP. VL~  ni fra tutti non induce confufione o difcordia fraefll, («) c.'l. t.  per la uniformità appunto di molti in ciafcuna di ef-  fe , e per non opporfi nelTuna alla ragion umana co-  mune, della quale anzi ciafcuna opinione particolare co-  itituifce una parte, ed è modificazione particolare di-  verfa. Certo è, che ficcome la diverfità degli oggetti  immaginati non confonde la natura, anzi ne coltitui-  fce la vaghezza e perfezione migliore ; cobi la diverfi-  tà delle opinioni e cofiumi, che di quella è la conle-  guenza, non incomoda alcuni come quella che cofti-  tuifce anzi la varietà delle azioni , e colla varietà la  libertà , che di quelle azioni è il carattere più gradi-  to e migliore, efléndo così ladiverfità de’ colìumi uma-  ni tanto necelTaria all’umana fulTidenza, quanto ladi-  verfità nelle fpecie d’ oggetti lo è nella natura univer-  fai delle cofe-   V. Per altro ciò che fa credere come fopra (4), che WC.Ff. n.i-  la diverfità degli oggetti combinati, e de’ coflumi che  ne procedono, apporti confufione edifordine, è l’equi-  voco di confondere la diverfità colla contrarietà di dii  oggetti e coflumi , e di prender quella per quella , non  potendo negarfi , che per opinioni e coflumi repugnanti  e contrari non s’apporti fconcerto e non fi dia moti-  vo a difordini, ciò che non è da temerfi per opinio-  ni e coflumi diverfi. La contrarietà però è tanto lun-  gi dalla diverfità in tutte le cofe , quanto è appunta  ad effa contraria , ed è quella tanto implicante nelle  immagini degli oggetti e ne’ coflumi che ne derivano,  come lo è negli oggetti tutti creati , i quali pofìbno  bensì efler diverfi , ma non mai contrari , per dover  efier tutti confimili , e poter bensì la fomiglìanza aver  luogo fra gli oggetti diverfi , ma fra i centrar) non po-  terlo avere giammai, come per più induzioni e rifeon-  tri fi farà chiaro qui in feguito. Della contrarietà im-  pofTibile de’  coflumi .  (o)C.P/.».i.    P ER meglio comprendere le cofe fuddette è dacon-  fiderarH , gli oggetti de’ quali fi tratta , e dai qua-  li procedon le immaginazioni , le opinioni , e i collu-  mi umani (/*), non poter efferc che gli efjftenti , po-  litivi, e creati, e non mai i negativi , non efiftenti ,  e non creati , i quali non vi fono , e non fon nulla .  Polli poi alcuni oggetti pofitivi , i negativi loro con-  trari non poter efl'er pofitivi giammai , e in confeguen-  za non poter efl'er del tutto , e pertanto gli oggetti  contrari efler del tutto impoflibili . In efletto fe og-  getti tali folfer poflìbili ed efiftenti , rimarrebber di-  brutti gli uni negli altri nella loro efillenza mede-  fima , nè vi avrebber più quelli nè quelli • e il fu-  premo artefice della natura farebbe autor ai contra-  ri , o farebbe un principio contradittorio e implican-  te lui Ueflo, vale a dir nullo ; quando pur non pia-  cefle ricorrere al ripiego di due principi in natura con-  trari ed ambo efiftenti , per il’piegar appunto codefta  fuppofta contrarietà di oggetti pofitivi cercati ; ripiego  adottato in vero da alcune menti fupcrficiali, ma tanto  pur contradittorio e allurdo elio llelfo , quanto la fup-  pofizione medefima , a fpiegar la quale fu vanamente  chiamato in foccorfo . Il fuppor gli oggetti pofitivi c  creati contrari fraeflì procede da materialità di mente,  per cui fi crede contrario all’altro quel che fembra di-  ftrugger l’altro fol perchè il vince d’ efletto, e fi crede  cosi uno di quelli negativo dell’altro, quando fon tutt’  due pofitivi del pari , e quella apparente dillruzione  non procede da qualità contraria , ma da forza mag-  giore, per cui uno fupera la forza dell’altro, e non la  vince nella parte che per prefervarla nell’ tutto . Cosi  r acqua per efempio gettata fopra un incendio , fi  dirà fpegner il fuoco , non perchè ad elfo contra-  ria , o il negativo di quello , ma per impedir al  fuoco di diftrugger il tutto. E all’ iftelfo modo fi di-  rà, una fornace di fuoco aflorbire e vincere una pinta d’ acqua fparfavi fopra , per l’ attività allora fupe- e A P. VII.  riore del fuoco nel confervare fe flelTo , e del par  pofitiva a quella dell’acqua, giacché nell’ uno e nell’  altro cafo ciafeun di quelli elementi efercita tanto  di fua polla full’ altro , quanta ne efercita quello  fu quello , accordandofi così entrambi anco a collo  di loro ellinzione particolare, per la confervazione lo-  ro e delle cofe comun politiva , e non mai per la di-  flruzione loro e comune , eh’ è negativa , impolfibile ,  e nulla.   II. Se li domandi un contralTegno , per cui dillin-  guer gli oggetti politivi e efillenti dai negativi e ine-  lidenti, giacché dal volgo fi confondon gli uni cogli  altri, fari facile additarlo in ciò, d’eU'er quelli fufeet-  tibili di piò modificazioni o mifure, quando quedi il  fon di nellune, come il nulla ch’é appunto di nelTu-  na mifura e non efide . Cobi 1’ acqua e il fuoco fud-  detri perché fufcettibili di piò modificazioni e mifure,  fi diran politivi ed elidenti del pari, avvegnaché cre-  duti negativi e contrari l’uno all’altro. E all’incontro  il calore, la luce, il moto , il pieno creduti contrari  e negativi del freddo , delle tenebre , della quiete, e  del voto , faranno tali in effetto , per elfer quelli di  piò modi , quando quelli il fon di neffuno . Ma per  quedo appunto faran quelle qualità create pofitivc ed  elìdenti, quando quede faranno non create, negative,  e inefidenti, o non elideranno che nella mancanza di  quelle. Con ciò fi dirà, il volgo ingannarfi nel primo  cafo col creder l’acqua contraria al loco, quando èfol-  tanto da quello diverfa, e non ingannarfi nel credere  quedi due elementi del pari efillenti ; e nel fecondo fi  dirà lui ingannarfi all’incontro nel creder quelle quali-  tà tutte efìdenti , non ingannandofi nel crederle con-  trarie , mentre per quedo appunto eh’ efiflono il cal-  do, la luce, il moto, il pieno che fon di piò modi ;  i contrari loro freddo , tenebre , quiete e voto che non  fon di nclTun modo di quelli, non potrebber fuffidere. E in vero col toglier del tutto il calore, la luce. Il  moto , 1’ eftcnfione , non è che fi generi cofa alcuna  pofitiva, come freddo, tenebre , quiete , voto, ma è  foltanto che annichilate quelle qualità nelle fofianze  create , vi rimangon quelle come nulla di quelle ,  giacché il negativo è nulla di quel che nega fenzaef-  fer cola alcuna per sé pofitiva , e gli oggetti o follan-  ze create di calde, lucide, mobili, ed ellefe che fono  in più modi , tolte quelle qualità , rellan non calde ,  non lucide, non mobili , e non ellefe ad un modo ,  vale a dire a nelTun di quei modi.   III. Quel che s’ è qui detto degli oggetti creati fi-  fici, dee altresì applicarfi ai morali, oai collumi uma-  (j) C.ILti.t. jjj come fi li avvedrà dall’appiicarlo alle umane  palTioni figlie delle imprelTioni di quegli oggetti, e ma-  dri di quelli collumi . Imperciocché tali palTioni ef-  fendo fra sé diverfe, e fullillendo come tali , non fo-  no fra sé contrarie , e come tali non potrebber fulfi-  llere che con ripugnanza e contraddizione, eh’ è quan-  to a dire non potrebber fulTillere in modo alcuno. In  ell'etto l’amore, la compallione, la giullizia, la liber-  tà, e r altre virtù morali fon tutte palTioni pofitive ,  create , ed efillenti ; e 1’ odio , l’ ingiullizia , 1’ oppref-  fione, la crudeltà tenute volgarmente per palTioni vi-  ziofe a quelle contrarie, non elìllono altrimenti come  tali, ma fono all’incontro quelle prime palfioni mede-  fime che in luogo di adoprarfi in ufo comune e pol-  fibile , per lo quale fono create , fi adoprano in ufo  particolare e negativo, per lo quale non fono create e  fono impolfibili. La contrarietà dunque delle palfioni  non é tale in sé llella , ma é apprefa per tale dalla  dillruzione che fi feorge per elTe nel particolare per  p'fefervare il comune , come la contrarietà degli ele-  menti è apprefa dal vederli uno vincer l’altro nel par-  ticolare, quando quella vincita é intefa a prelèrvar 1’  (6) cyjl.n.t^ univerfale (A) . Con ciò fi dirà , che quel che fa le  palfioni pofitive , fia lo llcnderfi efiTe.da sé ad altri ,  con che la fpecie umana fi conferva coll* ordine dina- CAP. VII.  tura creato c che fuflìfte; e che quel che la fa nega-  tiva, fia il concentrarfi effe in sè llcffe con danno d’  altri , contro quell’ ordine che non fuflìfte , e per lo  quale il tutto fe fofle poflìbile s’ annullerebbe e an-  drebbe in difperfione ; lo che però non avviene per la  provida natura , che converte quel difordine partico-  lare in ordine univerfale- Tal Tinterefle per le foftan-  ze fparfo da sè ad altri, s’appella equità, prudenza ,  gratitudine, e tali altre virtù confervatrici ; e riftret-  to insè folo, degenera in avarizia, ingiuftizia, ingra-  titudine, per le quali contro natura tutti languirebbe-  ro e perirebbero . L’ ambizione di onore , di potenza ,  grandezza e fimili , difufa da sè ad altri , è virtù d’  ordine, e di concordia pofitiva; e confinata in sè fo-  lo, è vizio di fuperbia , di oppreflìone, e di difpotif-  mo . L’ amor di fenfo fparfo da sè ad altri , è amor  pudico, amiftà, compaflìcne, per cui la fpecie fi pro-  paga e fuflìfte; e raccolto insè folo, è lafcivia, odio,  crudeltà, per cui refterebbe la fpecie fpenta e diftrut-  ta. In fomma qualfivoglia paflìone , eflèndo virtù con-  fervatrice fra tutti difufa, lì cangia in vizio diftrutto-  re di tutti col contrarfi in sè folo ; e finché le foftan-  ze, gli oi»ri, i piaceri procurati per l’interefle, l’am-  bizione, famore, colfeller proprj fi dilatano ad altri,  quelle paflìoni fono virtù, non illando la reità di el-  le nel procurare il bene per sè , ma nel toglierlo ad  altri , o ne! procurare il proprio utile e piacere con  altrui feiagura , onta , od inganno . Perchè poi tutti  certamente fuflìftono , e finché ciò avviene non è da  dire che tutti non fufliftano , fi diranno le paflìoni ef-  fer fempre virtù pofitive e come tali fulfiftcrc , e co-  me vizj a quelle contrari o negativi di quelle , non fuf-  filter efle giammai ( « ) , eflèndo tanto contraditto- (j) C.VlI.ti.\.  rio che fulTiftano inficine vizj e virtù fra sè contra-  ri , quanto che gli uomini tutti fufliftano e non fuf-  fillano . Non dubito, che quello dichiarare cosi ampia-  mente, che le paflìoni non fufliilano come vizj, non  abbia a parer Urano e (ingoiare a quei poveri di fpiri-  to, a’ quali fembra molto bene veder i vizj trionfare in  alcuni. Lo sbaglio però di cortoro Ha, nel confonder  che fanno il particolare col comune degli uomini , e  nello (lar colla mente pur fitti in quello, come chiufi  con quello in un facco, quando la natura e il grande  fuo aurore non opera che per lo comune, e ogni parti-  colare alforto e immerfo ncH’univerfale fi perde del tut-  to e s’annulla. D’altronde fe il vizio è contrario alla  (j) C. in, virtù ei contrari non fon pclHbili (//), poiché la vir-  3 - certamente fudllte, il vizio dunque non può dirli   che ludiila che per equivoco. E quell’equivoco fi dirà  proceder da vuote immagini, per le quali fi prendono  a torto per politivi , oggetti che non fono che i nega-  tivi di quelli; e quindi fi apprendono gli uni e gli al-  tri per eiillenti, quando per verità i negativi perquefio  appunto che fiifiiilono i pofitivi , non potrebber lulli-  (lere c(Ii (ledi . Cosi quantunque gli oggetti detti volgar-  mente contrari, li prendano a vicenda per, pofitivi e p.r  negativi gli uni degli altri, è certo nondimeno i pofi-  tivi (oli eilere efillenti creali, ei negativi noncnérche  il nulla di quelli, o il nulla alfoluto , il qu^l non fuf-  fille, o (udìile folo nella negazione del pofitivo . Per  la qual cola il contrario dell’ amore , della compadio-  ne, della equità , della libertà come (opra, non è 1’  odio, la crudeltà, la iniquità eia opprefTione come  volgarmente è creduto , ma è il non amore , la non  equità, non comp.idione, non libertà che non fudìllo-  no , come il contrario del fuoco c dell’acqua non è 1’  acqua o il fuoco , ma il non fuoco, e la non acqua  che pur non vi fono.   V. Quelle coiifiderazioiii fulle padroni umane , che  elTendo virtù diverle non fon mai vizj contrarj a quel-  le virtù , fan conofeere, che i codumi altresì che ne  procedono , pollono bensì clfer diverlì , ma non mai contrarj , e che fe perquefli tufcono difordini, ciònon'  avviene che per quel bene, che dovendo procurarli per  sè e per tutti com’è polfibile , fi vorrebbe procurato  per se a efclufione degli altri, quafi ^ruggendo in tutti  quel che vuolfi per sè parte di quelli tutti , ciò che non  può avvenire , e che in fatti non avviene , giacché  ogni bene procurato per sè con danno di altri , lì di-  Urugge alla fine in sè ancora per la oppofizione e il  contralto di tutti gli altri . Procurandofi il bene al pri-  mo modo , le difcordie faranno imponìbili , e ciafcun  di tempera diverfa e non mai contraria a quella dell’  altro, s’ unirà ad elio per coitumi diverfi e non pur  contrari, il collerico col tranquillo, il timido coll’ ar-  dito, il fcmplice coll’accorto, e limili altri , come l*  acqua col fuoco, e la terra coll’aria nella compoGzio-  ne de’ corpi fifica . Ma procurandofi quel bene al fe-  condo modo o con altrui oltraggio, le difcordie faran-  no inevitabili per rimpollìbiltà di unire i contrari, ^  poterfi bensì unir l’ardito e il timido, ma non 1’ ar-  dito e il non ardito, e il timido e non timido, come  può unirfi acqua e fuoco ne’ corpi , ma non acqua e  non acqua, e fuoco e non fuoco, quafi fi voIelTe fulll-  fter da un lato quel che fi volefre difirutto dall’altro,  o quel che non potefle fullìftere fenza la diliruzione di  quello che pur fullifte . Egli è ben vero , che ficcome  un elemento nel fìfico non illrugge mai 1’ altro , per  quanto contrafiino nel particolare , attefe le leggi di  moto invariabili ed eterne ; cosi nel morale una paf-  fione , e un cofiume che ne deriva , non dillrugge mai  l’altra nel generale, per quanto pur nel particolare s’  apprenda per a quello contraria , per elTer tutti pofiti-  vi e conformi a una comune ragione , non mai a sè llef-  fa contraria. Ciò che conferma quel che s’è detto (/r),  le opinioni e i cofiumi umani eficr diverfi , e combi-  narfi diverfamente , mediante una ftefia verità comune ,  della quale fiano modificazioni diverfe e non mai con-  trarie, come gli oggetti fon diverfi e fi combinano ineme nell’ opere di natura inedianti le fleflè leggi di  moto, delle cjuali (ianpur modificazioni nsion trui con-  trarie c tempre diverfe . Airoppotlo non pt)ter quelli  nè queffi etler contrarj, nè combinarli in contrario j er  errore comune, o per contralleggi di moto impoflibili  e nulle, per le quali foltanto potrebbero clfer tali , e  per r implicanza di ruflilter la t'pccie umana per co-  iiumi , e la natura umverl'ale per leggi di moto , in-  fierne col principio che dovefle dillruggerle, o per cui  dovelfero eller nulle . E conferma ciò ancora quel che  è aggiunto (/»), di elFer bensì poflTibile per attenzio-  ne particolare d’ alcuni nelle nazioni, il riconofccrvi  ogni male e 1’ deluderlo da elle , per elfcr quello ne-  gativo e d’ un Col modo . Ma non elTer cosi poflìbile  per l’attenzione meddima, o introdurvi o crearvi ogni  bene, per la ragione contraria di dfer quello pofiti-  vo, e di modi infiniti, onde l'uperare elio ogni parti-  colare attenzione . CAP. Vili. /^Uel che s’è detto finora dà facilmente ad inten-  Collucni ere- Vedere, che non è già la diverlità , ma la contra-  duci comrar) j-jetà e ripugnanza de’ coflumi quella , per cui   non 1 . noco- degenerino quelli in errori , e per cui nal'can fra gli  uomini Iconcerti e difordini , e ciò per la contrarietà  fimilmente e non divcriità di oggetti e di combina-  wC.VI.n.i. zioni loro, ful’e quali verlin le umane menti (i), e dalle  quali quei collumi derivano. Quelle combinazioni d’og-  getti diendo innumerabili , ed elléndo gli uomini nelle  diverte iorcircollanze avvezzi quali all’une, quali all’al-  (OC. F/. n.i. tre Ipecie di elle (r), faran dii cosi di divcrli collumi,  allor conformi alla verità, quando gli oggetti combinaci  fian reali, pofitivi edefillenti; e allor contormi all’ errore,  quando tali oggetti fian negativi , imponibili , innefi-  flenti c nulli . Imperciocché lebbene gli oggetti fian  d’innunurabili modi , e il nulla d’ un folo (d), ciò  nondimeno ficcome la verità eh’ è una, è di tanti mo-  di, di quanti puòcfTa atlermarlì nelle cok divcriè; cosi   l’errore altresì eflTendo uno, s’apprende pur di tanti caP- Vili!  modi, di quanti quella verità può negarfi, inguilà che  tanti fiano i modi politivi di fullìlìere per la verità ,  quanti s’ apprendono i negativi di non rulTifìere per 1’  errore , fuililìendo ogni cofa a un modo , e non lulli»  ftendo la Aia contraria al modo a quello contrario ,  e corrifpondendo verbigrazia 1’ ardito , il timido , il  collerico, pofitivi tutti creali, ad altrettanti negativi  loro non ardito, non timido, non collerico, con cller  ciò non oAante quelli tutti di più mudi , e queAi d’  un modo folo o di nelTuno, come il nulla eh’ è di nef-  fun modo . E^li è poi da confiderare , eh’ effondo la  verità e la eiiAenza tuttociò ch’efiAe, ed eflendo 1’  errore o il nulla tuttociò che non efilìe , e non efilten*  do cola alcuna che per la combinazione di oggetti di>  verli , e non mai contrari (a) ; parrebbe che il tutto (a) C.Vir.n.t.  dovclie l'ulfiAerc per la verità , e nulla per l’errore, e che  ficcome nella efilìeriza degli oggetti , così nelle combi-  nazioni loro e nelle inclinazioni e coftumi che ne de-  rivano , non dovelfe avervi che verità , efclufo fem-  pre l’errore, cofa non generalmente creduta dal volgo,  il quale all’incontro non parla che di errori, e di con-  trarietà nelle inclinazioni e ne’coAumi fra gli uomini.   Chi però meglio rifletta , conolcerà , quello elTcr verif-  ftmo, ed elfer l’errore cosi lontano dai coAumi uma-  ni, come dall’ opere di natura, che non ammette con-  trari , e non erra giammai . Che fe v’ à chi crede di-  verfamente, ciò deriva da equivoco di prendere il par-  ticolare per lo comune, come s’è accennato (/>), eco- (^)C.W. «.4,  me più efprelTamente fi dichiarerà ora , per ifpiegar me-  glio coi fatti quelle verità , che fon lempre alcofe al  volgo, e che bene fpedo fi nafeondono ai filofufi an-  cora, che nel fìlofofare non fanno Aaccarfi dalle vol-  gari maniere di penfare, reAand > coi,i nella loro filo-  lofofìa più all’nfcuro del volgo medeltmo.   II. Si dice dunque che lo sbaglio di prendere il ne-  gativo per pofitivo , o l’ errore per la verità , nafee da»   £ z equi- è* XXXVI >5-   AGP. V'iii, equivoco di prendere il particolare per univerfafe , c  di credere che ciò che può efler in quello con ripu-  gnanza e dilordine, poflTa pur avervi in quello con or-  dine ed armonia. E invero l’errore col nome fuoftef-  fo, non porta alla mente che un’ immagine di man-  canza e di nullità, e il crederlo nei collumi comune  quando non è che particolare, procede da errore ap-  punto o da mancanza di difeernimento , per cui occu-  pata la mente da vani timori, dà corpo all’ ombre ed  al nulla. Del rimanente s’ ei fembra nafeere e avva-  lorarfi :n alcuni , non fi vede mai (lefo a tutti , e in  quegli alcuni medefimi non lì vede che vinto , e di-  llrutto dalla verità a tutti comune . Il fullìller poi  vinto e didrutto non è fullìller in modo alcuno , in  guifache chi fi lagna dell’error ne’coflumi, fi lagni di  elTo che volendo pur con vane lulìnghe e con faifeap-  parenze inlìnuarfi e fuHìllere nel particolare, non ten-  ta mai altrettanto neU’univerfale, e in quel particola-  re medelìmo è didrutto da quedo univerfalc , che il  difapprova e il dichiara pur nullo . Per quedo il co-  mune degli uomini fi vede Tempre correggere il parti-  colare, e non mai all’oppodo; di che prova evidente  fono i governi de’ popoli, fra i quali tolti i più colti  e fenfati, non v’à dubbio che non confidano quedi  in ciò, che per ellì colla verità e la ragione comune  di tutti fi didruggan gli errori , o le ragioni partico-  lari di alcuni a quella contrarie . Che le il governo  delTo reggede i popoli per la ragione fua particolare  alla comune contraria , o per 1’ errore contrario alla  verità , come nelle nazioni barbare o fconcertate ; al-  lora non elTendo quedo certamente poflibile , quell’  ederno governo fi vedrebbe cangiato in fimulazio-  ne , o in nullità elTo dedb , redando nondimeno  la ragione e la verità comune interna a governar  la nazione realmente , Tempre per 1’ errore partico-  lare da elTa vinto e didrutto in ognuno , e nel go-  verno medefimo ; verilicandofi così Tempre , che la verità c la ragion comune fia cofa reale , pofitiva’i^A~prv'ìTr.  ed efiftente , e che 1’ errore fia cola negativa , in-  nefìilente e nulla , comechè i'empre dilirutta da  quella verità medelima. t   III. Chi dunque precorre provincie e climi diverlì,  e incontra opinioni e collumi, per li quali fi fulTide  in un luogo, alieni da quelli, per li quali fi fulTilte in  un altro; creda pure tali coliumi quanto fivogliandi-  verfi , ma non li giudichi giammai contrarj, per eller  ein modificazioni diverfe d’ una verità a tutti corna*  ne, che non è mai a sè fleffa contraria. £ fe appari-  fcon contrari , li creda tali per fola appunto apparen-  za , attefo ungoverno pur apparente , fimulato c nullo,   (a) giacché l’apparenza e la fimuiazione è nulladiquel^^jjc.p;;/.,,.-.  che è in fatto . Del rimanente che fin a tanto che tutti  nelle nazioni fufTiliono, i coliumi comuni benché di-  verfi , non fian mai contrarj a una verità comune , fi  manifclia da quelio , che 1’ errore contrario a quella  verità fi troverà periéguitato e punito, vale a dir di-  iirutto da per tutto del pari , e ciò fempre nel partico-  Jare e non mai nel comune ; altrimenti converrebbe  dire, che laddove gli uomini fulTiliono a un tempo e  in un luogo per la verità, fuUìlielIero all’ altro per 1’  errore e per la menzogna contraria e diliruttiva di  quella verità , cofa affatto affurda e impolTibile . All’  ilielTo modo i difordini ne’ fenomeni ffici debbono  ìmputarfi a irregolarità, particolari ne’ moti conformi  alle leggi collanti e generali, per le quali il tutto fuf-  fifte, vinte però quelle irregolarità e fuperate fempre  da quelle leggi , lenza di che il tutto perirebbe , ef-  fendo cosi il difordine, la dillruzione e l’errore fem-  pre particolare , e 1’ ordine , la confervazione e la ve-  rità fempre comune , fia nel fifico. Ila nel morale ,  e quell’ errore fempre vinto e diflrutto da quella ve-  rità .   IV. Qui può oflcrvarfi , come quell’ effer l’ errore fem-  pre particolare in ogni nazione e non mai comune ,   e quell’ , e queft'annullarfi per quello, quanto per fa verità co-  mune in e(Ta ruflìRe, dà a conofcere , che le fedizio-  ni , i tumulti , le dilcordie , le guerre fono nelle na-  zioni Tempre errori particolari , e non mai verità co-  muni , come quelle che in effe diliruggono ciò che  pur Tuffìfte in modi diverfi , ma non mai contrari .  Che fimili diTafiri intcreffìno le nazioni intiere , cuna’  è la Trafc d’efprimerfi de’ Gazzettieri , non è che uno  sbaglio, per cui come fopra (a) fi prende 1’ ambizio-  ne e Terrore particolare d’ alcuni , come Te TolTe co-  mune di tutti, i quali all’incontro non pnfl’on fufiìfie-  re e non fufiìfiono, che per la comun verità e dilàm-  bizione . E fi ila pur certi, che ogni nazione adonta  di qualfivoglia an bizione o interclle particolare che  muova in tifa difeordia, prefa in comune non amerà  che la concordia e la pace. Quell’ ambizione poi e quell’  intcreflfe fi manifefiano particolari dal fatto, per iadi-  firuzione che del pari ne fegue delle parti ambiziofe  e interefiate , fufiìliendn le nazioni nell’ intiero per la  concordia, al tempo fieiìo che per la difeordia fi di-  firuggnno nelle parti . Che fe quella difeordia parefie  comune, non farebbe di nazione che fufiìfielle, ma fa-  rebbe dell' ultimo particolare fuo avanzo , che facrifi-  caiTe fe (lelTo al riforgimento di altra nazione , che  fulle reliquie della già diilrutta a parte a parte per  errori particolari , fi nnovafle intieramente per la ve-  rità a tutti comune , eh' è il calò di tutte le rivolu-  zioni negl’ irnperj . Ma tolte alfine tutte le nazioni  progrefiive e contemporanee , e tutti gli uomini in  genere , fempre fia che ogni difeordia , guerra o tu-  multo fra effi abbia a terminar in concordia , pace  e amillà per la verità comune che difirugga 1’ er-  rore particolare, quando pur fi voglia prefervar la fpe-  cie umana , ficcome ogni pelhienza o procella dee ter-  minar in aere falubre e tranquillo, quando pur fi voglia  prelervar la natura, e non mandar tutto il fifico e il  murale in nonnulla. S’aggiunge, che la detta prevalenza della ragione c A P. Vili,  o verità comune full’ errore particolare a quella contra-  rio, fi manifeda non folo negli uomini conolciuti per  giudi, ma in quelli ancora che fi reputano, e cliepià  fembran malvagi , e ciò per lo timore che accompa-  gna infeparabilmente quedi fecondi . imperciocché un  fimil timore fe ben fi confideri , non è che una pofi-  tiva virtù eh’ edinta ogni altra , reda in cialcuno a  moderare e rafirenar i luoi eccedi negativi medefimi.   Laonde edèndo qualfivoglia malvagio Tempre più ti-  mido che malvagio, non efclufi i tiranni medefimi ;  farà Tempre ogni uomo più virtuoTo che reo nella deT-  fa Tua reità , e farà Tempre vero , che 1’ error negativo  rimanga annichilato e didrutto da virtù politiva a  'quello fuperiore in quegli deffi , che più Tembran me-  narlo in trionfo. In queda guiTa il timor pofìtivo e  virtuoTo, con frenar l’ambizione e rintercH'e dall’ offèn-  der altri, impedifee che quede padìoni, di pofitive e  virtuoTe che pur fono in propria e comun fuffidenza ,  diventino negative e viziofe in didruzione altrui e pro-  pria (<i), e tien luogo di virtù nello dedb malvagio , ia)C.VlI.n.^.  come un elemento altresì nel fìfico contradando coli’ al-  tro per la confcrvazion pofitiva del tutto, impedifee la  didruzion generai di natura, che tolto un (imii contra-  do ne leguirebbe, fcnzachè negativo alcuno lùlTida ,   Tempre per 1’ aperta implicanza di fudidere cola al-  cuna negativamente ( ) . Una fimil providenza nel WC.W/.«.i.  morale (i manifeda non folo ne’ rei fuperbi come fo-  pra , ma ne’ giudi ancora da quelli oppredì, i quali  fon così virtuoli nella loro tranquillità e nella loro fi-  danza , come il fon quelli nella loro agitazione e nel  loro timore; ed è certo, ogni oppredb innocente eder  così contento per la verità comune che lo allolve fu-  gli occhi dell’univerfo, come il fuo oppredbre è feon-  tento per 1 error fuo particolare , che combattendolo  con quel timore , lo cruccia nella Tua ignoranza fe  non à talento, efe à talento, illude nel fuo rimorfo. Refta dunque Tempre più flabilito , non avervi  di contrario in natura che la verità e 1’ errore , ed  elfer quella una modificazione di tuttociò eh’ eflde ,  e quello una modificazione di tuttociò che non efifle   («)C.F///.n. 3 .(u). Il confidcrar ciò cIT efìfle come contrario a ciò  che pur efille , è un afTurdità ; e fe gli uomini ap-  prendono per contrarie quelle cofe che non fon che  diverfe, ciò è Tempre per errore particolare , che non  paflà ad cfTer verità comune (i). Il contrafTegno poi ,  per cui avvederli Te gli oggetti fian diverTi o contrar)  farà quello, di eflTer effi o non efTer efiflenti, mercec-  chè Te eTiftono Ton certamente diverfi , e Ton contrarj  Te non eTillono . Ma per ben giudicare di quella efi-  llenza o non eTiflenza loro , debbon elR riTerirfì non  al Tolo particolare , ma al comune di tutti . Il dolore  per eTempin e il piacere, poiché ambo Tuffiflono, Ton  certamente TenTazioni diverTe , ed elTendo diverTe non  Tono contrarie . RiTerite però al particolare s’ appren-  dono per contrarie, ciò che non rieTce Te Ti riTeriTca-  no al comune . Di ciò è prova evidente ognuno che  Tofl'ra il dolor con piacere , Tol che il riTeriTca non  a sé Tolo , ma al comune degli altri ; come Muzio  contento del pari e d’arder il Tuo braccio nel Campo  di PorTena , e di llrignerTi con quei braccio al Ten la  Tua Clelia , per addurre un Tolo degl’ innumerabili  eTempj di eroi TacrihcatiTi con dolore al piacere di  giovar alla religione, alla patria, alla verità inTomma  comune , ciò che non avverrebbe Te tali TenTazioni ToT-  fer contrarie. Quella comun verità non è in Tollanza   (0 C.r/J.a.j. che la virtù (c), la qual contrallata dai vizj partico-  lari e non mai comuni , può dirTi travagliata , ma non  per efiì opprelTa. Laonde elTa fola può dirli comune ,  come quella eh’ è approvata da tutti, quando il vizio  non può appellarTi che particolare, come quello eh’ è  dctelfato da ognuno, e dilàpprovato da quei medeTimi  che lo proTelTano, indizio evidente di eller quella po-  Titiva ed efìllente, e di efier quello negativo e nullo.   Cer-    Digitized by Google    ^ XLI   Certo è die (iccome futTifle quel eh’ è voluto ed è ap-  provato da tutti , come la virtù ; cosi quel che non è  voluto e non è approvato da alcuno , come il vizio ,  non può dirfi fuffìlìere . E lo sbaglio di conlìderar que-  llo come efiftente Ila in ciò , di confiderar per efiften-  te quel eh’ è voluto da alcuni coi contrailo di tutti ,  quando non può confiderarfi per tale, che quel che voluto da tutti , non è contraHato da alcuno. Io non fo, fé tali dottrine convengano con  quelle che lì dicono degli antichi iloici , accademici ,  platonici , o altri , interpretate dagli eruditi , e eh’ io  non ò mai avuto la flemma d’ interpretare . So che  le ò apprefe dai lume naturale, dal quale poteano ap-  prenderle quelli, e può apprenderle ogni altro che fia  i'eguace della verità comune, non alterata da errore o  da educazione corrotta particolare , e fappia che un  uomo non è tutti gli uomini, nè tutto il creato, ma  uno folo di quelli, e un’opera fola di quello. Se poi  le mie dottrine non convengono con quelle che corro-  no al prefente anco fra i più fludiofi , ciò è per erro-  re appunto particolare di quelli , che fedoni maffìme  a quelli tempi da dottrine fuperhciali di Comici che fi  fpacciano per fìlofofi , vorrebbero pur perfuadere il tut-  to effer peggio , contro il fatto evidente , per cui la  natura e l’uomo , col conferv'arfi e fufliflere , dimo-  flrano il tutto efler meglio . La dottrina fra le altre  della nullità dei contrae) (a) non dee dirfi nuova ,  dacché fi troverà ella convenire coll’ altra non nuova  del tempo e dello fpazio, che efiendo quello la dura-  ta fola, e quello la fola diflanza degli oggetti e del-  le foflanze create , non fuflìflono così che negativa-  mente , e fulTiflendo in tal modo , pofitivamente fon  nulla. Tolte quelle foilanze pofitive e create, il tem-  po e lo fpazio reflan come nulla di quelle , o come  nulla adoluto , non pntendofi inver concepire come  polfan pofitivamente fufliflere o tempo , o fpazio, o  diflanza di cole , che non fufliflauo elleno flefle .   F Pro-    CAP. Vili.    (ii)c.n/.».i.  "S-: xLii    CAP. IX. "pRocedendo le inclinazioni e i coftmni dagli ogget-  Della (labilità ti creati ertemi , e dalle combinazioni loro nelle  e inabilità de' umane menti, è certo eh’ ellendo tali oggetti invaria-  ro(lumi. bili per le rtelfe invariabili leggi motrici , dalle quali  (fl)C. //.w. I. derivano {a), faranno altresì quelle inclinazioni e co-  ftumi invariabili e cortanti , per la rtdià inalterabile  verità e ragione comune, per cui naCcono , fi confer*  {b)C.VI.n.i. vano, e fi rinnovano { b ) . Per la qual cofa ficco-  me quegli oggetti fi vedon perfeverare gli rterti in  ogni fpecie , e ogni pianta e animale fi rinuova in  pianta e animale confimile , (enza degenerar mai in  altra di natura diverfa; all' ilierto modo l’ambizione,  l’interertè, l’amore, il timore’, e limili altre partìoni,  dalle quali rifultano i cortumi , fon collanti in natu-  ra, nè tralignan mai in partìoni diverte nel propagar-  fi dagli uni agli altri, e il fimile avvien dei cortumi  (f)C. 7/.B.4. (c). Quanto però cederti cortumi per quelli motivi  tono rtabili e fermi nella loro natura, tanto nelle mo-  dificazioni loro fon variabili e incollanti, come appun-  to gli oggetti dai quali derivano , o le modificazioni delle  rtellè leggi di moto , dalle quali quelli oggetti procedo-  no. Ertèndo poi le modificazioni dall’ una e dall’altra  parte infinite, ed ertendo quelle di ciafeun tempo e di  ciafeun luogo finite ; i cortumi di ciafeun tempo e  luogo , fempre gli rtelll per la rterta verità comune ,  faran per le modificazioni di quella verità fempre di-  verfi da quelli di un altro, come gli uomini finiti d’  un luogo e d’un tempo, fimili fra loro per la rtabile  loro natura, variano nondimeno infenfibilmente in in-  finito di fembianze , d’afpetto , di maniere da quelli  d’un altro per le modificazioni diverfe di quella na-  tura rterta . Con ciò rinovandofi gli oggetti e le loro  combinazioni in altre pur fempre diverlè , anco per  tempi e luoghi infiniti ; i collumi , le opinioni , i  gen) , e le inclinazioni umane di ciafeun luogo e tem-  po vi dovranno variare in infinito , come modifica-    Digìtized by Google    XLIII   zioni fempre finite tolte dall’infinità di tutt’ effe (<j); cAP. IX.  fcnza di che dovrebbe dirfi, che degl’ infiniti oggetti i.   creati , o dei coflumi che ne derivano , doveffer gli  uni a un tempo efier gli ftellì che gli altri ad un altro ,  ciocché ripugna colla fapienza e perfezione infinita del  fupremo autore della natura nelle fue opere (b). {b)C.lI.n.ì.   11. Perchè poi tutti gli ilabilimenti umani in ri-  guardo alla fucieià, e gf Imper) lieffi dipendono dal-  le opinioni e coliumi in effi comuni ; per effer quelli  nelle loro modificazioni ederne cosi variabili , non po-  tran tali focietà o Imper) avere labilità alcuna dipen-  dente da quelle , ma dovranno infenfibilmente variar  di maniere , cola comprovata molto bene dal fatto ,  per cui fcorrendo con occhio fugace per tutta quanta  la ferie de’ tempi e de’ luoghi da Noemo a noi, non  ci fi rapprefenta alla mente , che una perpetua rivolu-  zione di Stati e d’ Imper) . Infatti effendo le opinioni  e i collumi in ogni impero attualmente finiti , ed ef-  fendo quelli di maniere infinite pollibili, debbono dun-  que col variar de’ tempi e de’ luoghi finiti variare in-  fenfibilmente di maniere attuali e finite (c), e con ciò {c)C.VI.n.i.  variar quegP Imper) , la cui divifione cosi , ellenfione  e forma effendo fempre tanto (labile e ferma, quanto  la verità e la ragione a tutti comune ; farà eziandio  tanto cangiabile, quanto le modificazioni dìverle e in-  finite di quella verità , o quanto la divifione , ellen-  fione e forma delle opinioni e collumi in ciafcun im-  pero particolari, e comuni. Vero è, che fimili rivolu-  zioni negl’ Imper) o ne’ governi de’ popoli non fempre  fon fubitanee e impetuofe , anzi il più delle volte fe-  guon per gradi infenfibili ; ma fono in ogni cafo le  lleffe, o producono i medefimi effetti, e la differenza  ne dipende folo dalla verità o ragione comune che Ila  piò o men riguardata dai particolari , e per la qual,  folamente poffon le nazioni fulfillere (d). Perciocché  fe quella verità farà dalla nazione fparita , l’errore ol’  ambizione particolare che d’ effa avanza , dovrà dì flrug-   F a gerla ,,. IiT~gerIa , o diftrugger fe ftcflb colle difcordie e le guer-  re , per dar luogo a quella verità di ricorrere a rino-  («)C.f7//.».4. var quella nazione fott’ altro afpetto (//) , e talvolta fott’  altro nome, nel qual cafo fi diranno feguir le rivolu-  zioni con più di violenza e di fdegno . Ma fé quella  comun verità fi foderrà nelle nazioni a fronte di quìi-  fìvoglia errore particolare , le rivoluzioni allora vi fe-  guiranno a (Irida quiete , fenza violenza e per gradi  infenfibili , trovandoli nondimeno ia nazione col cor-  fo di lunghi l'ecoli del pari cangiata da quella di pri-  ma per varietà di opinioni e coliunii , non però mai  fra loro contrarj. Del primo cafo è elempio qualfivo-  glia Impero d’ Afta o di Grecia più rinomato , e in  particolare l’antica Roma, volta di Regno in Repub-  blica a’ tempi di Giunio, e indi di Repubblica in Im-  pero a’ tempi di Giulio, per ia verità comune a quei  tempi in e(Ta fmarrita , e per l’errore o per 1’ ambi-  (ó)C.r///.a,9. 2 Ìone particolare non da timore frenata { b ) redatavi  fola , per cui non era poflibile che quel go%^erno, (la  in forma di regno o di repubblica più fuUìdefle • E  del fecondo polFon eller efempio quegli Stati prefenti  Europei più moderati , che contano più migliaja di fe-  coli per fuccedioni di Sovrani , ma che per opinioni  e codumi non fon certamente quali erano alla loro  origine y e ciò per la delTa verità o ragione comune  non mai da e(Ti partita , quantunque diverfifìcata in  modificazioni diverfe , che (on appunto quelle divcrfe  opinioni e codumi.   III. Tuttociò fa conofcere , come quel che cangia  gl’ Imperi è in ogni evento la ragione comune di tut-  ti, per la quale pur fi confervano , e la qual ricorre  fempre a occupar il luogo dell’ errore particolare, per  cui fe folTe pofTibile rederebber le nazioni tutte didrut-  te, fenza che l’attività particolare di Giunio, di Giu-  lio, o d’altri v’abbia più parte di quella di qualfi vo-  glia altro che podìeda una fimil ragione , e che coll’  unirla alla ragione di quelli la renda comune . Del rimanente che le nazioni prefenti d’ Europa non fian c A P. IX.  quali erano da principio , e fi fìan rinovate in altre ,  non ferbando di fe (ielFe che i nudi nomi , fi compro*  va da quello, che tolta qualfivoglia diede, potrà que-  lla ben appellarfi collo (Iciro nome di due i'ecoli in-  nanzi, come per la lleda verità comune fudlilere, ma  non perciò fi troverà la llefla per forma d’ inclinazio-  ' ni e coftumi comuni che la collituifcano , o per mo-  dificazioni di quella verità medefima. Anzi fi troverà da  quella tanto diverta per quello capo , quanto dall’ al-  tre nazioni fue contemporanee, e lo fieiro avverrà re-  trocedendo di due in due fecoli più o meno , per  quanto le memorie ne fiano a noi tramandate. Cosi i  Francefi prefenti diflèrifcono forte più per maniere e  cotlumi dai pur cosi detti Francefi di due fecoli in-  nanzi , di quel che differifcano dai prefenti Italiani di-  llinti da etti di nome . £ gl’ Inglelì che ora fon d’opinio-  ne di difertar per l’America , avran forfè più di conformi-  tà coi prefenti Francefi loro emoli , di quel che preten-  dano aver per cotlumi cogl’ Inglelì loro antenati , eh’  erano d’opinione dv difertar per Soria , e così di più  altri . E’ poi chiaro , una fimile rivoluzione di opinio-  ni e cotlumi nelle nazioni dover efier tale , da non ri-  correre o rinovarfi mai in netfune allo lleflo , fempre  per la detta ragione delle combinazioni di oggetti ,  e delle modificazioni che ne derivano ne’ cotlumi , che  tolte dall’ infinito a numero finito , fon fempre diver-  fe fune dall’ altre per quante pur volte fi prendano  (rt) . E ciò non per dil^fizione umana particolare ,  ma per fitlema imperferutabile di natura . 11 compren-  der quello fitlema , vale a dir 1’ ordine , la ferie , i  rapporti di tali combinazioni di oggetti , e di tali mo-  dificazioni di cotlumi , o perchè e come a certune  abbiano a fucceder cert’ altre , in luogo di tutt’ altre  qualunque , è rìferbato alla mente dell’ autore del  tutto , nè potrà ciò mai penetrarfi da mente crea-  ta , finché fi trovi nel pafieggiero fuo flato, avviota c ridretu dalle ritorte e dagl’ inganni de’ fcnli   WC.///.».i. (tf).   IV. Qui cade a propofito d’avvertire l’errore di quel-  li, che lì figurano di richiamar nelle nazioni la verità  e la ragione comune per quanto vi fi folTe l'marrita , col  rinovar quelle leggi che ne preferivevano le modifica-  zioni a’ tempi decloro bifavoli , progetto del tutto af-  furdo e impofTibile . La verità e la ragione comune  potrà ben richiamarfi per leggi , per quanto a’ tempi  trafandati folle Itaca più riconofeiuta per fé ItelTa in  quei coltumi, di quel che il fia a’ tempi prefenti per  coltumi che la modificairero in contrario di sè medelìma ,  giacché elTa in sè llelTa è una fola di tutti i luoghi e di tutti  {b)C;lX.n.i. I tempi (i). Ma il richiamarla al prefente per le fue  modificazioni antiche , quando tali modificazioni deb-  bon ad ogni tempo elTer diverfe , non può elTere che  una miferia di mente , per cui lì creda la natura non  più capace d’invenzioni in fua condotta , di quel che  fiafi un povero Conllgliere fecreto che creda operar in fua  Wce. Chi declama contro i nuovi coltumi che fi van-  no introducendo , e deplora gli ufati che fi van di-  ftifando; à molto ragione fe i nuovi coltumi fon mo-  dificazioni dì una ragion men comune, di quel che il  fiano gli ufati che a quelli dan luogo . Ma fe i nuo-  vi coltumi fon tanto buone modificazioni della comun  ragione, quanto gli ufati che fi perdono ; ei declama  inutilmente, come fe ciò foffe contro il variar de’ ven-  ti, elTendo 1’ una e l’altra cofa quanto innocente, tan-  to, inevitabile e neceflaria , e potendo , anzi dovendo  quella comun ragione per difpofizion di natura , e per  fapienza illimitata del fupremo fuo artefice, praticar-  (.c)C. II. n. I. fi fempre per modificazioni diverfe (c) , e comparire  in fembianze che non fiano giammai le flelle , elTendo  nondimeno la. ItefTa per sé medefima . Senza quelto  una fimile verità o ragione, correrebbe rifehio di non  efercitarfi che per inganno ; ed è ancor vero, che tal-  volta con richiamare la verità , la ragione , il valore   e la religione fteflfa per le fole loro modificazioni eflcr- c A P. Ìx7  ne di tempi molto remoti, f» rielce a perdere tutto il  fenfo reale ed interno di quelle virtù , invariabili per  sè flede , riducendole a quelle materiali loro modifi-  cazioni eflerne , fenza alcun rapponto a quell’ interno  lor fenfo e fignificato.   V. Ma intanto è qui da avvertire, che quel che s’è  detto finora in ordine all’ illabilità de’coflumi, non fa  torto ad alcuno, e non è detto per accufar gli uomi-  ni di leggerezza o d’incoflanza , ma per anzi giuflifi-  carli d’ ella , e per renderne ragione , come di cofa  inevitabile e neceffaria , la qual non riguarda in eflì  coflumi che le modificazioni eflerne d’una ragione co-  mune interna, che debbon cangiare, come le modifi-  cazioni eflerne degli oggetti fenfibìli, dalle quali quel-  le tengono dipendenza (a) . Dail’altro canto ficcome (a)C. IX.n.i.  quelli oggetti cangiando modificazioni fon purgliflef-  fi in tutti i luoghi e a tutti i tempi , per le fleffe  leggi di moto che li producono ; il medefimo avviene  de’coflumi, ed è fempre una flefla invariabil ragione  e verità comune, che per varie vie li guida e gover-  na . Per quello s’ è veduto , quella ragione comune  effer la fola, per cui gli uomini lufTiflano infìeme, co-  me per quella che può ben effer diverfa nelle diverfefue  modificazioni , ma non può mai a sè flcffa effer con-  traria , nel qual cafo foltanto la comun fuffiflenza  farebbe impoffibile ; ond’ è che non è effa contra-  ria che per difetto o ragione particolare di alcuni ,  e non mai di tutti. Ciò fa che i governi o gl’ Impe-  ri fian fempre confimili , per quella fleffa ragione co-  mune per cui fullìflono (ì), avvegnaché diverfi per  le modificazioni diverfe di quella ragione medefima ,  non oflante qualfivoglia irregolarità particolare, come  gli oggetti fenlibili eflemi fon fempre confimili nelle  loro fpecie , perchè fempre in conformità alle flefle  leggi motrici , benché ne fìano diverfe le modificazio-  ni , e non oflanti alcune irregolarità in eflì fifiche . £ potranno quelli e quelli fuffiflere a ragione benché di-  ve rfa , giacché i mollri nel filico e le calamità nel mo-  rale lòn cafi infoliti e particolari , e il confueto e co-  mune non è calamità e difordine, ma é ordine ed ar-  monia . In effetto la ragion comune, dalla quale deri-  va il difintereffe, la dUambizione ed ogni altra virtù,  per la quale fuflillon gl’ Imperj , é invariabile , ed è  di tutti i luoghi e di tutti i tempi, e ne fon le mo-  dificazioni infinite. E iflelfamente la ragion particola-  re, dalla quale procedono 1’ intereffe , l’ambizione , e  gli altri vizj per li quali col diflruggerfi fi rinuovan  gl’ Imper) , è pur la lidia , in quanto é Tempre con-  traria alla comune , con modificazioni altresì infinite  a quelle contrarie . Ma è poi imponibile che quella  ragione particolare viziofa diventi comune , com’ è  imponibile che i turbini e i terremoti fiano incdlan-  ti e collanti («), mercecché in quello cafo rimarrebbe  la natura non variata, ma dillrutta , come in quello ri-  marrebber non rinovati, ma dillruttì gl’Imp.rj.   VI. Nel rimanente le diverfe circollanze comuni e  particolari , nelle quali fi trovino le nazioni per le di-  vcrlé modificazioni d’ una lldfa ragion pur comune o  particolare, fon quelle che giullificano o non giuflifi-  no le opinioni e i collumi diverli . Così gl’ Inglefi  avran per avventura tanta ragione di difettar ora per  l’America, quanta ne avevano innanzi di difettar per  (i)C.JX-v.^. Sorla (6), fe tali opinioni diverfe faran conformi del  pari alle diverfe circollanze o modificazioni di ragion  loro comune d ambo quelli tempi , di che farà indi-  zio appunto l’ellèr quelle all’uno e all’altro tempo co-  muni. Perciocché fe la nuova opinione non folfe cosi  comune come l’antica , non farebbe quella così con-  forme alla comun ragione, come lo era l’antica, ma  potrebbe elfere qualche opinione o errore ancora par-  ticolare alla verità comune contraria. Il fuppor gl’ In-  glefi che difertan per Bollon più fenfati di quei che  difettavano per Sorìa , quando quelli difettavano di comune confenfo, e quelli difertano coll’oppofizione di 'c’À P IX '  mezzi i voti della nazione , è un’ alTurdità . Del redo  non fi nega che sì una fpedizione che un pellegrinag-  gio non pofian eficr conformi alla comun ragione ,  purché fian efiì tali da attirare il comune confenfo .   E ciò non per attività d’un Ammiraglio o d’ un Romito che li pcrfuadano, ma per ragioni piò alte , ordi- WC.IX.n.ó.  nate da una fapienza eterna ( a ) , la quale nel crear  una fola ragione , ne coditu) le modificazioni diver-  fe, e volle che non ladiverfità, ma la contrarietà del-  le opinioni e coftumi fodè quella , che da queda co-  mun ragione li dividede.   Q Ucl che s’ è detto di fopra ( 6 ) , che le immagini C A P. X.  degli oggetti da ciafcuni apprefi non tengan rap- De’ cofhimi  'porto necedario alcuno colla favella e colle voci, efpreffi perla  per le quali fian ede efpredè agli altri, dee applicarfi f*»ella.  eziandio alle combinazioni di quelle immagini , dalle qua- *• *•   li derivano le inclinazioni e i codumi diverfi, le qua-  li combinazioni d’immagini non terran così nedunne-  cedario rapporto con quelle delle voci , o colle regole  gramaticali di lingua, per le quali fi manifedano , oli  partecipano agli altri. Ciò fi verifica idedamente dall’  edere tali regole pure dabilite di comune confenfo ar-  bitrario di quei foli , fra i ^uali quelle combinazioni d’  immagini debbono comunicarfi (c), e che così comu- (#)C.iF.«,i.  nicano di codumi e d’inclinazioni a efclufione d’ ogni  altri . Ond’ è che ove manchi queda comunicazione ,  nedune lingue o regole di ede fono in ufo, e ove ef-  fa v’abbia, le lingue e le regole d’ede perciò introdot-  te , non s’ apprendono dalla natura , ma da fola mec-  canica fcoladica , o da idruzione pratica d’altri, fen-  za apprender perciò niente più di reale (d), e fuor di WCy.n.ì.  queda meccanica , l’ ufo dejle lingue farebbe impoflìbi-  Ic • Del primo è prova ogni felvaggio, il quale perchè  non in calo di comunicar ad altri le proprie combinazioni  d immagini, non à favella veruna, nè articola alcune   G voci    Digitized by Google    "50 L   CAP. X. voci introdotte fra gli altri , non occorrendone certa-  mente a lui alcune per efprimerfi a sè medelìmo . E  del fecondo è prova ogni bambino, che alla villa de-  gli oggetti che le gli prefentano , non proferifce natu-  ralmente che llravaganze , finché colla propria efperien-  za e coll’illruzione non ifcientifìca, ma pratica altrui,  non s’ alTuefaccia a proferirli e cultruirli per voci alla  maniera accordata fra gli altri , coi quali più comuni-  ca , e non mai alla maniera fra quelli , coi quali non  comunica d’immagini e di collumi . Ancorché poi le  combinazioni d’ immagini degli lleflì oggetti , non ab-  bian verun necelfario rapporto colle combinazioni di  voci, colle quali li proferifcono ; per elTere nondimeno  quelle tutte confimili , atteli gli (ledi oggetti , e tutte  diverte , attefe le diverfe combinazioni loro nelle cia-   (a) C.III.n.i. fcune menti (/»); c per edere altresì una favella colla   quale fpiegarle la della per ciafcuni , ma pur diverfe  le combinazioni in clfa di voci nelle ciafcuni bocche   (b) C.V.n.\. (6) j d’innmnerabili perfone ancora le quali efprima-   no altrui uno llelfo fentimento colla llelTa favella , fic-  come non ve n’àn pur due , che apprendendo gl’ og-  getti dell! li combinino indiamente nel lor cervello ;  così non ve n’ àn pur due , eh’ efprimendoli con quel-  la favella, li efpriman colla deda difpolizione di voci;  in guifa che poda dirfi eziandio , che quede innume-  rabili perfone liccome edendo della della fpecie , pur  fon diverfe ciafeune dall’ altre per fembianze ederne e  per tuono delFo di voce, così elFendo dello dedo fen-  timento e della Itelfa lingua, s’efprimano nondimeno  agli altri cialcuno con diverta difpolizione di voci o  di termini di quella lìngua medefmia.   II. Inoltre quella idabilità d’oggetti, eh’ edendo gli  dedt per le Itede leggi motrici , pur lì cangiano del  continuo per le infinite modificazioni di codedo mo-  (»)C.i7. W.2. to (c); e quella delle inclinazioni e codumi , eh’ ef-  fendo gli dedi per le delle padioni d’una ragione co-  mune, van pur perpetuamente cangiando di modificazioni (/>),(! riconofce altresì nelle lingue , eh’ edendo le llefle per la ftefla impulfione d’aria fofpinta dai {a)C,VI.n.i.  polmoni, rielcon pur diverle per l’ articolazione di vo-  ci, o per modificazioni diverfe di quell’aria fofpinta.   Perciocché eflendo effe intefe a efprimer le immagini  quali fon combinate, e i codumi quali fon praticati,  egli è pur forza che feguaciò che per nota efperienza  fi vede feguire, vale a dire che difufati in ciafeuna lin-  gua del continuo alcuni termini, fe ne foftituifean di  nuovi , non per altro certamente , che per fecondare la  detta diverfìtà di modificazioni, (la nelle immagini de-  gli oggetti , fia nella pratica de’ coAumi che ne deri-  vano. E quantunque quella diverfìtà di modificazioni  negli oggetti e ne’cofìumi, proceda con più d’unifor-  mità , per elTer ella opera di natura ; non manca però  più o men efattamente di tener dietro a quella la di-  verfìtà de’ termini in ciafeuna lingua, con quella im-  perfezione (6), colla quale fi vede fempre l’arte imitar (*)C. /r.w.j.  la natura. In efi'etto, del difufo fuddetto di termini in  ogni lingua viva, e dell’introduzione in efla di termi-  ni nuovi fuir eftinzione di quelli, non fì faprà afìegnar  altra ragione, che quella degli oggetti apprefì e com-  binati, e de’codumi che ne derivano , eh’ elTendogli  flefit per la flclTa ragion comune , fi van rinovando  per modificazioni di quella diverfe col variar de’feco-  Ji , giacché le lingue non fono inllituite e non fono  intefe che a quello, di efprimere quegli oggetti e quei  collumi così combinati e cosi diverfamente modificati .  Dimanieraché per la ftefla ragione, per cui non v’ à  luogo , in cui corrano le opinioni e i coftumi di più  fecoli innanzi , cosi non v’ abbia luogo , in cui s’ ado-  pri la lingua d’ allora; e fia cosi impolfìbile di richia-  mar fra gli uomini quei coftumi (c) , com’è impof- ( 0 CJX». 4 .  fìttile il richiamar quella lingua .   III. Da ciò s’apprende , come il determinar una favella  di tutti i luoghi e di tutti i tempi , farebbe lo fteflo  che determinar un opinione e un coftume, ounacom-   G z bina-    \    Digitized by Google    Lii 7^   CAP, X. binazione d’opinioni e di coftumi pur d’ogni luogo e  d’ogni tempo ; vale a dire che determinar la facoltà  intellettuale umana , e limiurla non folo all’ellenfìo-  ne, ma alla qualità ancora e ai modi delle fue cogni-  zioni in ogni luogo e ad ogni tempo ; cofa 1’ una e  l’altra imponibile, per non poter elTa accordafi colla  fleda limitazione umana intellettuale . Perciocché l’ in-  telletto umano per quello appunto di edere limitato  nelle fue cognizioni, dee variarne’ modi e nelle qua-  lità di edè ; e per eder quedi modi e quede qualità  infinite, dee verfar più quando fu alcune di ede , quan-  do fu altre, e quindi adottar quando alcuni , quando  altri codumi , elprimendo in conleguenza e comuni-  cando tuttociò altrui, quando coU’une, ^uandolcoll’al-  tre voci o favelle . Siccome poi col variar di combi-  nazioni d’ oggetti e di codumi non fi ricorre giammai  (a) C.yi.tt.t. ai modi ufati altre volte (/«), ma le modificazioni ne  fon fempre diverfe ; così col variar delle lingue vive  non fi ricorre giammai a rinovame o a replicarne al-  cune delle morte oltrepadate , ma fe nc formano altre  dapprima fempre inaudite, e non mai per innanzi ado-  prate. 11 tutto per le infinite maniere, colle quali pof-  fono combinarfi gii dedì oggetti , gli dedi codumi ,  e le dede articolazioni di voci, colie quali proferirli,  attefa una fapienza eterna e infinita , che regola tut-  to quedo magìdero con leggi uniformi in sé dede ,  ma varie fempre nelle loro modificazioni . Per quedo  gli eruditi pudono bensì lufingarfi d’ idruird. e di ra-  gionare de’ codumi e delle lingue antiche , per quan-  to é podibile ravvifarle a un lume che d va fempre  allontanando , e per quanto è podibile alla vita uma-  na caduca tener dietro al tempo indancabile ed eter-  no . Ma il figurarfi d’ aver de’ codumi e delle lin-  gue perdute , quella contezza che fi à de’ codumi e del-  fe lingue viventi, o il lufingarfi di raccapezzar dai po-  chi frammenti che redano , quel tanto più che non  teda de’ lècoli antichi , é una vana credulità ; ed è co-  me    Digitized by Googl»    ^ Liir^   me lufìngarfi d’ indovinar per le poche fandonie che CAP. X.  foglion narrarfì delle Sibille , tutto quel che per av- ,  ventura avelTero quefte fcritto ne’ libri loro , che fi di- ,  con arfi nell’ incendio del Campidoglio Romano.   IV. Per altro la diverfità di lingue, che come fopra  dee avervi nelle nazioni, per la diverfità in elle di og-  getti combinati , e di collumi che ne derivano , e 1’  impoHìbilità di elTer tutti d’ un collume e d’ una fa-  vella (a), fan conofcere che la natura unifce in vero («) C.X.». 2 .;.  gli uomini hno a certa mifura, alla quale polTan elTi  giovarfi , ma li difgiunge oltre a quella mifura , nel  qual cafo la loro unione elTendo inutile , farebbe in-  comoda, e potrebbe renderft ancora nociva. Certo è,  che fe r ufo dell’ illelTa favella indica la necelTità di  llar gli uomini uniti , per accorrere gli uni in foccor-  fo degli altri, ciò che non può verifìcarfì che per fa-  vella che fia la llelTa ; 1’ ufo di fevellar diverfamente  indica la nelfuna necellìtà di Har elTi uniti a quell’ef-  fetto, giacché fra perfone di favella diverfa nelluna co-  municazione di fentimenti , o nelfuna fcambievole ali^  llenza può interceder giammai . D’ altronde le occor-  renze umane fono ognor limitate, e non poflbno llen-  derfì oltre a quei limiti che con difagio comune degli  altri, e con illufione particolare disè medefimi , elfen-  do in vero un’ illufione e un inganno , che quel foc-  corfo Ila di provedimento , di diletto, di piacere, di  difefa o d’altra qualunque occorrenza, che ognun può  confeguire da altri loncan tutt’ al più dieci miglia ,  abbia da attenderfi edalanguirfi da altri, di favella in-  intelligibile , e lontani le migliaia e migliaia di mK  glia. Con ciò^ fì direbbe, che quel che congrega gli uo^  mini lino a certo numero, al quale poffano confervarfi  dell’ illelTa favella, fia la natura amica della fuflillen-  za e del piacere verace ; e che quel che li congrega  oltre a quello numero, al qual non pollano confervarfi  d’ una favella , fia T ambizione particolare dillruttiva  della fpecie, corruttrice del vero piacere, e amica del   De’ coftumi  efpreflì per fa-  velle diverfe .  («} C. I.n.i,    '^LIV ^   ‘piacere ingannevole • Ciò fi comprova dal fatto , per  cui gli uomini finché fon dell’ ifiefla favella , più  convengono infieme , e più s’ accrefcono per arti di  moderazione c di pace, come nelle nazioni più limi-  tate d’ Europa , e qualor diventano di più lingue ,  come negl’ imperj più valli dell’ Afta , non polfo-  no fofienerfi che per la forza , e fi diftruggono per  queir arti ftefle di luflb e di guerra, per le quali cre-  dono bonariamente di confervarlì, e di foccorrerfi gli  uni gli altri ; come in fatti fi trovano quivi a molto mi-  nor numero che nell’ altre nazioni d’ una fola lingua,  avuto riguardo all’ellenfion delle terre . E fi compro-  va ciò pure dalla dipendenza neceflarìa degli uni da-  gli altri, quando pur voglian gli uni cogli altri fup-  plire ai bìfogni comuni . La qual dipendenza di ordi-  nazione e fubordinazione può ben avervi fra perfone  della fleU'a lingua, ma fra quelle di lingue diverfe non  può avervi che con inganno , eflendo invero impoffi-  bile che gli uni dipendan dagli altri , quando ignora-  no fin la favella, per la quale dipendere . Dacché fi  conclude , che la faggia natura vuol veramente uniti  e congiunti infieme tutti gli uomini dell’ univerfo ,  ma per il folo vincolo di amore e di ragione lo-  ro comune ; e che quel che li tiene uniti per tutt’  altro titolo , non fia che la llolta ambizione e 1’  interefle loro particolare , ben divcrfo da quell’amo-  re e da quella ragione , e talvolta a quelli con-  trario .   Q uella ragione che fa , che gli uomini dell’ illef-  _ fo luogo e dell’ ifteflb tempo fiano dell’ illef-  fa favella , per la necelfità di comunicare in-  fieme d’ immagini d’ oggetti , e di collumi (rf) , fa  non meno che a luoghi e tempi diverfi fian di di-  verfe favelle , per la nelTuna necelfità allora di una li-  mile comunicazione, elTendo d’altronde le voci, colle  quali comunicar d’immagini e di collumi per le llef-    Digìtized by Google    Lv   fe infinite (/j) , ed eflendo finite quelle, colle quali a'  qualunque tempo e luogo particolare, comunicar d’im-  magini c di collumi di quel tempo, c di quel luogo  particolare . Ma oltre ciò quella ragione che fa , che  ciafcuna lingua vada alterandoli riguardo a sè llefla ,  per r alterazione che va feguendo nelle modificazioni  degli oggetti e de’ collumi medelimi allo IlelFo tempo  e nello ItcITo luogo, fa che s’ alteri molto mag-  giormente riguardo all’ altre di tempo e luogo di verfo ,  per feguire l’alterazione degli oggetti e de’ collumi mol-  to più notabilmente ne’ luoghi e tempi feparati e lon-  tani , che in un iltelTo luogo e tempo (c), o lotto al  medefimo afpetto de’ pianeti . Da ciò ne deriva , che  non polfan gli uomini mai fpiegar così bene le pro-  prie combinazioni d’ immagini , e i proprj collumi e  fentimenti con lingua Itranicra d’ altro tempo e luo-  go, come li fpiegano colla propria , ciò intefo degli  uomini in genere, e degli affari e collumi loro non  già meno fìgnificanti, che fi trattano nelle accademie   0 ne’ gabinetti, ma dei più fìgnificanti e comuni, che  fi trattano nelle piazze e nelle famiglie. E invero ef-  fendo ogni favella illituita per elprimere gli oggetti e   1 collumi d’ un luogo e d’ un tempo , e dovendo quel-  la variare col variar di quelli; l’adoprar a un tempo  c in un luogo una lingua illituita per efprimere og-  getti e collumi d’ un altro , farà ognor più difficile ,  per doverli allora follituire alle voci più proprie e più  precife di quegli oggetti e collumi , voci intefe a clpri-  mcrne altri da quelli diverfi , e in confeguenza men  proprie per elprimerli , e men precife . Che gli oggetti e collumi di ciafeun luogo e  tempo fian diverti da quelli di ciafeun altro , e che  per ciafeuni corrifpondano termini e voci diverfe , fi  manifella oltre per quel che s’è detto (d), per li Dizionari ancora particolari, ciafeun de’ quali fi vede più  carico e ricco di quelle voci , che più corrifpondono  agli oggetti e collumi del luogo e tempo, in cui la lingua d’eiTi è nativa; carichi in confeguenza cricchi  meno di quelle, che più corri fpande{Iero agli oggetù  e coftumi d’ogni altro luogo e tempo, incuifolTe quel-  la lingua ftraniera. Non per altro certamente, fé non  ' perche ciafcun luogo e tempo à i Tuoi coflumi che  non fon precifamente quelli d' un altro , e per efpri-  mer ì quali non mancando mai le voci nella lingua di  quel luogo o tempo , mancano bene fpefTo nella lin-  gua dell’altro. Per elempio nel vocabolario arabo di-  celi , il Cammello efpredo con voci mille ed una ,  quando nell’italiano fi tiene per efpreflTo abbadanzapet  qued’una fola, lafciate fuori le mille ; e ciò non per  altro, che per la moltiplicità d’ufi di codeiio animale  nelle contrade arabe maggiore che nelle italiane, per  la quale moltiplicità, gli oggetti e i coftumi diverfihcan-  do nell’une e nell' altre regioni, diverfamente s’ efpri-  mono. E lo fteifo fi direb^ d’ innumerabili altre pro-  duzioni animali e vegetali diverfe degli uni luoghi e  tempi , in riguardo a quelle di altri . Ch’ è la ragione ,  per cui un Dragomanno pratico del pari della lingua  araba, e dell’ italiana s’ arreda bene fpelTo nel ragio-  nar di cofe italiane colla prima lingua, e nel ragionar  di arabe colla feconda ; e per cui parrebbe ancora ,  che Cicerone defl'o non potcfle al prefente elTer cosi  buon fecretario di lettere latine in Roma , come alcun  crederebbe , per gli oggetti e affari romani prefenti  molto diverfi da quelli, de’ quali ei fcriveva ad Attico  a’ fuoi tempi , e richieder pertanto gli uni e gli altri  qualche diverfità ne’ modi di efprimerli .   III. Tutto ciò fi dice, non perchè il poffeder più  lingue non abbia a riputarfi un ornamento, neceffario  ancora a chi non contento degli oggetti e codumi vi-  cini , che forfè non intieramente intende, anela ed ap-  plica ai più lontani che intenderà fempre meno; ma  perchè fi fappia che gli uomini delle nazioni, ficcome  ciafcuni ànno i propri oggetti e codumi diverfi da  quelli degli altri, cosi ànno una propria lingua, per cui efprimerli, che non può effer quella degli altri: e che~^~ A T vi"  ficcome non adotteranno mai bene gli altrui oggetti e  coftumicomei propr), cosi non efprimeranno mai quedi  cosi bene coll altrui, come colla propria favella. Dall’  altra parte la cognizione di più lingue non è cogni-  zione f«r se Itella , ma è un mezzo per cui comuni-  care foltanto a più altri quelle cognizioni , che folle  cofe e non fulle parole , fi foflcro apprefe (a) - e un WC.F. n. 3.  dotto farà fempre tanto dotto con una lingua , come con  dicci , ficcome uno fciocco non fi manifefterà men  Iciocco con dieci lingue, che con una fola. A ciò ri-  guarda lo zelo, col quale ipiù fenfati antichi, e moder-  ni ancora, fi fono ognor dichiarati a favore , e àn  fempre altamente parlato in commendazione de’ patri  lari, de patrj collumi, de’patrj iflituti, e della patria  tavella .Ognun che trafcuri tutto quefto per quanto é  fuo, affine di adottarlo per quanto folle dUltri, fia cer-  to che trafeura quel che a lui è più naturale, per aflu-  mere e tenerfi a quel che gli è meno, e che ciò è co-  inè s ei fpogliafle 1 proprj velliti per adoffarfi gli altrui ,  che non fe gli adatteranno mai bene indoflb . Un  uomo di tutti 1 coftumi , di tutti i fentimenti , e di  tutte le lingue, fuole dal popolo e dai romanzieri am-  mirarfi come un portento . Un uomo tale per la ve-  rità c per la natura, farebbe un arnefe infignificantee  contraddittorio, di nelTun coftume, fentimento , o fa-  vella che almen foffe Aia propria (A), com’ei farebbe { 6 )C.VI.n.ì.  di nelTuna nazione e religione, quando intendeffe eflèr ^   di tutte.  Del rimanente col diffinguere come fopra, idi-  verfi oggetti e coffumi di ciafeun tempo e di ciafeun  luogo (c), non s è già pretefo di dividerli in modo, y  che non abbian poi a convenire allo llelTo, per auan  *°‘“«,'.P™«donp dalle ffefle invariabili leggi motrici ,  c dall iffefla ragion urnana comune ; per la qual cofa  le lingue altresì fi vedon poi quafi confluir tutte in  una, allorché gli oggetti , i coftumi e i fentimenti in fomma umani efpreffi in una favella, fi trafportano  a qualfivoglia altra. Ma s’è pretefo con quello foltan-  to di far conofcere , che quella convenienza che cor-  re fra r une e 1’ altre lingue in riguardo appunto a  codefie leggi e a codefia ragion comune , per cui  gli oggetti e i cofiumi fono confimili, non pofla cor-  rere in riguardo alle modificazioni di quelle leggi e di  quella ragiotie diverfe, per le quali gli oggetti e ico-  ». 1 . Itumi fon pur diverfi (a). Ona è che per 1’ une e T  altre lingue s’ efprimono oggetti bensì confimili , ma  diverfamente modificati , e per le voci vir , uomo , e  s’ cfprime il medefimo uomo , ma diverfamente  modificato in Lentulo, Giampietro, e Ricardo, come  {b)C.V.n.i. s’è veduto (i). Quefte modificazioni dunque diverfe  d’oggetti e cofìumi confimili fan fempre conofcere ,  eh’ efpreffi ciafeuni di quelli in una favella per mo-  dificazione a sè naturale e nativa , trafportati ad un  altra non pefTon ferbare la nativa lor proprietà e vi-  vezza, ma debbon perdere di loro efpréffione più na-  turale. A quello modo fi dirà, che pofla ciafeun va-  lerfi d’una lingua flraniera qualunque, per quanto gli  oggetti, i collumi e i fentimenti fono gli llelfi e con-  fimili a tutti i tempi e in tutti i luoghi, ma che non  pofla poi così propriamente valerli di efla come della  propria , per quanto quegli oggetti , collumi e fònti-  menti elfendo confimili nelle loro fpecie, fon poi dif-  fimili nelle loro modificazioni col variar de’ tempi e  de’ luoghi . Dacché apparifee di nuovo , come natura  fempre a fe fteflà uguale e fempre faggia, avendo or-  dinato gli oggetti , i collumi e i fentimenti tutti con-  fimili, ma pur diverfi ; col conceder agli nomini la  ilefla favella perchè poteflero foccorrerfì gli uni gli al-  tri per quanto occorrefle , la concefle altresì diver-  fa , per quanto un fimil foccorfo poteflè renderfì loro  (r)C. X». 4 , inutile, o potefle ancora convertirli in dannofo (c) .   Ma all’illeflb tempo confervò nondimeno tutte le fa-  velle confimili , per avvertirli d’ una Ulefla ragione e   amo-    Digitized by Google    LIX ?fi-   amore comune, per cui doveflero tutti trovarfi uniti e   concordi ; quafi avvertendoli , che per fuppLire ai bi-  fogni fcambievoU di iudilienza , baftava 1’ opera im*  mediata di pochi fra loro vicini d’ una litigai mede-  sima; e che peramarfi dovevano tanto Stenderli , quan-  to le favelle loro cflendo diverfe, foflcr tutte confimili,  dovendo cosi il circolo dell’ amore fra eSli edere incom-  parabilmente più ampio , di quello dell’ interede co-  mune medeSitno.   V. Ma ritornando airalterazione Solita feguir col pro-  gredo de’ tempi in ciafcuna lingua viva , è da odervar-  fi , che Sebbene queda foglia , e debba molto imputarli  al commercio degli uni cogli altri popoli di lingue di-  verfe, e all’invafioni d’un popolo d’una lingua folle  terre de’ popoli di un’ altra; eda nondimeno dee fem-  pre principalmente attribuirfi alle modificazioni degli  oggetti e codumi, che col progreSTo de’fecoli fon Sem-  pre diverfe nelle confimili Specie loro (a)^ Perciocché (.a)CJCLn.i^  lafciando pur dare , che prescindendo ancora da inva-  sioni e commercio ederno , la lingua italiana o l’ ingle-  fe d’ ora non è già la delTa che la italiana di Guiton  d’ Arezzo, o la inglefe diCaucer; è certo che per quel-  le invasioni e per quel commercio ederno, non è che  gli uni adottino la lingua degli altri , ma é che dall’  impado di due lingue (e ne forma una terza , che non è  alcuna di quelle, liccome dalla compofìzione dell’ une  coll’ altre inclinazioni e codumi ne rifulta un’ altra a  quelle consimile, ma non mai la deSTa che quelle, pre-  valendo però Sempre in tutto quedo l’ indole degli og-  getti edemi attuali e prefenti, e non mai dei lonta-  ni e padati . L’introdurre in una nazione i codumi e  la lingua d’un’ altra, quando tutto ciò va cangiando in  qued’ altra fteSTa , è un’ aperta implicanza ; e il pre-  tender tutti d’un codume e d’ una lingua medefima  farebbe lo deSTo, che limitar la natura come in ciafcu-  na Sua opera così in tutte , quando eSTa è tanto infi-  nitamente Simile in tutte , quanto infinitamente diffi-   H z milc    Digitized by Google    CAP. XI. niile in ciafcune (a). Quindi è che per quanti barba-  ci) C. II. n.z. ri così detti , fian mai fceft in Italia , i coftumi iu>  liani àn potuto bensì coiromperfi ed alterarfi , ma non  mai perciò renderli così barrati , come i colìumi di  quelli. E Io lleflb è avvenuto delia lingua, che coll’  alterarfi per quello motivo, confervò Tempre 1’ indole  dell’ antica latina , e non già della gotica antica . 11  tutto per gli oggetti e le produzioni italiane Tempre  nel rinovarfi men diverfe da sè medeTime , di quel  che il potelTero eflere da quelle della Gozia . Per la  qual cofa dovevano ben i Goti più piegare ai collumi  e alle inclinazioni italiane, che gl’ italiani ai collumi  e alle inclinazioni de' Goti , giacché quelli col traTpor*  tarfì nelle pianure del Lazio e della Lombardia , non  vi avevano trafporcato i diacci o le rupi delle loro  regioni . Certo, la verità delle coTe non apparire airafpet-  Delle cogni- to ellerno di elTe, ma doverli invelligar per induzioni reali , e ^ioni da cagioni occulte ed interne , quando più quando  ^ e e ipparen- ^ come apparifce dalle molte implicanze nelle quali  s’ incorre nel giudicarne di prima villa , per le quali  implicanze quel che Tembra vero all’ ellerno, Ti Tcuopre  realmente non efler tale , e Ti riconoTce fovente elio  Hello eller Talfo. E’ certo altresì, una tal verità dover  {b)C.Vl.n.z. nelle cofe eller unica (i), mentre fe folTe più d’ una  o folTc da fe Heffa diverla, quella cofa ancora di cui  fols’ elTa la verità , farebbe pure più d’ una , o farebbe  diverfa da sè medefima , ciò che certamente è impof-  fibile . Ond’ è che fe d’ una cofa llelTa fi giudichi in  più maniere , tali giudici non faran veri , ma faran  dubb) ed incerti, e tutt’al più faran probabili e veri-  fimili, come foglion pure appellarfi ; e allora foltanto  faran elfi veri, quando elfendo d’un modo, fi ricono-  fcano non poter elTere d’ alcun altro. Ciò fa ch’io di-  llingua le cognizioni umane vere t reali, dalie verifi-  Olili ed apfarcnri , conlidcrando quelle per tali , la cui verità non poffa cambiarfì con altra , comechè de- c AP. XII.  dotta da ragioni immutabili e neccfl'arie , colle quali  non poflan altre competere , o polTan a quelle refi-  ilere ; e confìderando quede per tali altre , la cui  verità poffa eziandio cfler diverfa, comechè fufcettibi-  le di più e di meno, o proveniente da ragioni che s’  arreffano Aiirefferno, e che eflendo a quel modo, po-  trebbero ancora efferlo a un’ altro , ancorché non da  altre apertamente fmentite. Del primo genere fono le  cognizioni che fi direbber geometriche affratte , della  cui verità l’animo riman talmente convinto , che di  più non ricerca per effe . E del fecondo fon tutte le  più ufate , folite fpacciarfi da chi applica coi metodi  più comuni all’ifforia, alla fifica, alle leggi , alla po-  litica e fimili ffudjpiù praticati, filile quali per quan-  to la verità apparifca lotto a un afpetto , lafcia pur  luogo di apparir fotto a un altro fenza contraddizioni ,  conofciute almeno ed efpreffè; fcgno evidente di non  effer dunque tali cognizioni reali, ma di effer foltan-  to apparenti , giacché le reali non fon che di un  modo ( rt) , e quelle fon di più modi . Dell’ incer-  tezza di quelle feconde cognizioni in confronto alle  prime, non diffentono gli rtefli coltivatori di effTe Ilo-  rict , filici , legilli , politici ed altri , quando conven-  gono, le cognizioni loro ei fiffemi di più modi, non  effer cosi evidenti come le verità per efempio numeri-  che elementari, da loro pure e da ogni altro conofciute  a un fol modo.   II. Chi ben attenda a quello conofcerà, l’intelletto  umano effcre molto più inclinato alle cognizioni effer-  ne ed apparenti , che alle interne e reali , ciò che pro-  cede non già dall’ effer ei più capace del falfo che del  vero , come immaginan alcuni ; ma dall’ effer quelle  cognizioni più facili di quelle , non efigcndofi per le  apparenti che certa attenzione fuperficialc, quando per  le reali fi efige un’ applicazione più diligente e più di-  lìntereffata . Q^uclla applicazione poi più diligente e difintereflata richieda per le cognizioni reali, proviene  ‘ dalla neceflltà di 6flar per elTe lo fpirito per sè volu-  bile e fugace, a un punto foto dei moltiflinii , fra i  quali ei fuole fvagare trafportato da’ cavalli dell’ im-  maginazione fervidi di natura; e molto pià provien  ella dalle feduzioni de’fenli a proprio interelle, a che  ei (la fortemente attaccato . Per la qual cofa la mente  umana o non cura idruirfi di fotta alcuna , e fchiva  d’ ogni applicazione, s’abbandona all’inerzia; o nell’  iftruzione medefima s’ arreda alle prime imprellìoni ,  o fegue più la fcorta de’ fenlì in fuo prò, che quel-  la della ragione, intollerante di quel freno che quella  cerca d’imporre a quelli, perchè non la traggano lun-  pi dal vero . Certo è , che tolta quell’ inerzia e quella  intolleranza , farebbero gli uomini cosi ben idrutti del-  la verità delle cofe, come ne fon mal idrutti/ gli ot-  timi conofcitori del vero farebbero nelle piazze e ne’  mercati , nelle accademie e nelle corti , cosi familiari  e frequenti, come vi fon gl’ ignoranti e gl' impodo-  ri, e tutti parlerebbero di verità, come i Parrochi nel-  . le Chiefe , e come i filofoli migliori ne’ privati loro  recedi. Pare dunque, che la verità reai del le cofe dia  fituata a certo punto di mezzo unico e indivifibile ,  innanzi e oltre il quale fia vano il cercarla , o non fia  podibile il rinvenirla che con dubbierà e incertezza ;  e che gli uomini per lo più o non fi muovano a ricer-  carla del tutto, o neirinquifizione di elTa trafcendano  quel punto , (edotti e ingannati dai fenfi , che per  loro interede particolare li trafportano dall’ une all’  altre apparenze , lenza difcernere o arredarfi al pun-  to reai delle cofe , fuor che ben rare volte . In ef-  fetto il didinguer fra tutti quel punto folo, efìge cer-  ta infidenza e applicazione , che non è volentieri  incontrata , ma è al contrario fchivata e abborri-  ta ; e dall’ altra parte l’ affidarfì ad un punto fo-  lo degli infiniti che ve n’ ànno , fra i quali può la  mente fvagare nella traccia del vero, è cofa ardua e difficile . Laonde le verità nuile o peggiori faran“cAp xiT  fempre più coltivate delle alcune o migliori , e gli  uomini ad ogni tempo e in ogni luogo faran Tem-  pre nelle lor cognizioni medefime più Aiperfìciali e  diftratti , che rifleffivi e raccolti ; perciocché non  potendo le cognizioni reali acquiltarfi che per ap-  plicazione più laboriofa, c per aftrazione dai fenfi ,  non faranno dunque elleno mai comuni fra gli uomi-  ni , alieni comunemente da quel lavoro e da quell’  aerazione, maffime per l’interelTe loro che v’intervie-  ne particolare , al quale principalmente riguardano i  fenfi . S’ aggiunge a ciò, che quel che induce gli uo-  mini ad applicare di via ordinaria alle cognizioni ap-  parenti, non ollante refler clTe divcrfe dalle reali , è  ancor quello , che quelle cognizioni per quanto fian  dubbie , oltre al prefentarfi Tempre in fembianza di  reali , lon bene fpeffo reali effettivamente effe fteffe ;  e la differenza dell’ une dall’ altre confifte foltanto in  ciò, che laddove le reali fon conofciute tali immedia-  tamente per sè medefime, le apparenti non fi ricono-  fcono per reali che dagli effetti confecutivi , o dall’  cfperienze eventuali che lor corrifpondano o non cor-  rifpondano, attendendofi cosi da quelle la prova della  verità loro reale , o della apparente . Allora poi le co-  gnizioni corrifpondono cogli eflfetti confecutivi , o fon  comprovate per elfi, quando effendo quelli dagli altri  diverfi, non fono a quelli contrarj; e allora non ccr-  rifpondono, o non fi verificano per gli cfl'etti che ne  confeguono , quando quelli fi trovano implicanti , e a  tutt’ altri o ai comuni contrarj . Imperciocché le co-  gnizioni, all’ illello modo che gli oggetti creati , e i  cotlumi c le ^inioni umane che ne derivano (/») , C.VII.n.i.  poffon bensì cller diverfe , ma non poffon fra sé tro-  varli giammai contrarie, e quelle e quelle finché fon  diverfe, fon reali e conformi alia verità comundi na-  tura ; e qualor fi readon contrarie , fono apparenti , imponìbili , e conformi al/alfo e all’errore. Le cogni>  zioni dunque apparenti polTono e(Tcr reali ancorché  fempre noi (ìano, perchè dipendendo dagli effetti con-  fecutivi , poflbno queffi effer dagli altri diverfi , ancora  chè poffano eziandio efler a quegli altri comuni con-  trari ; a differenza delle cognizioni reali così dette , le  quali non dipendendo da effètti confecutivi alcuni , ma  da sè fole, ed effendo fra sè diverfe, non poflbn efler  contrarie nè fra sè ffeffe, nè negli effètti comuni che  le confeguono . Gli uomini poi inclinano più a quel-  le che a queffe cognizioni, per eflTer più facile atten-  dere la verità dagli eventi confecutivi benché dubbio-  li, che logorarli il cervello, come lor fembra, nel ri-  cercarla per sè medefima e di prima mano. E ciò tan-  to più , quanto per le lufìnghe de’ fenfi , o per interef-  ie loro particolare, le cognizioni apparenti dilettano  molto più delle reali , avvegnaché queffe iffruifeano  più di quelle , e ognun vede , che inclinando elfì fem-  pre più ai diletto de’fenfì che all’iffruzion della men-  te, faranno dunque efft fempre più avidi di cognizio-  ni apparenti che di reali , in tutto ciò che riguarda la  ricerca del vero. Ma intanto qui fi vede, come le co-  gnizioni diverfe e reali, alle apparenti ad effe contra-  rie tengono la ffclTa relazione, che gli oggetti pur di-  verfi e reali, ai contrarj ad effì e aita comun ragione ,  per queffo appunto, che quei primi coffumi procedo-  no da quelle prime cognizioni , e queffi fecondi da  queffe feconde.   IV. Quello ch’io vorrei qui malTimamente avverti-   (»)C.XIJ.n.i. to, egli è, che quantunque il punto fuddetto (a) nel  quale fu detto dler polla la verità reai delle cofe, per  edere indubitato e folo, fembri non poter convenire e  non poter confeguirfi che nelle cognizioni affratte e  geometriche cosi dette , convien elio nondimeno e fi  trova molto bene in ogni genere di cognizione pratica.  Chi crede la fola geometrìa e l’ altre cognizioni affrat-  te , dette ancora teoriche , capaci di certezza reale , e   l’al-    o    Digitized by Google    r altre cognizioni dette volgarmente pratiche, non ca-‘  paci della certezza medefìma; non avverte, l’adrazione  di quelle prime non confidere appunto che nell’ a<ha>  rione dai fenll , e la evidenza di elTe dipendere dal  metodo d’ inveliigare il vero , o di dedurre le verità  più compone dalle più femplici. La qual aerazione dai  ienfi e il qual metodo può aver luogo, anzi dee aver-  lo, ed applicarfì a qualfrvoglia facoltà di leggi , di  Itoria , di fìfìca , di politica , di teologia liefla e di  morale , e di tant’ altre , nelle quali foglion dividerfì le  cognizioni umane; di ciafeuna delle quali fi giudiche-  rà Tempre realmente , fol che fi aftragga dagl’ ingan-  ni e dalle feduzioni de’ fenfi , e fi giudicherà femprd  con dubbio, non afiraendo datai feduzioni, o non cor-  reggendole per lo reale della ragion comune , come fi  pratica nelle cognizioni dette appunto afiratte e teori-  che. In guifa che 1’ incertezza delle feienze pratiche  come le appellano, in confronto delle teoriche o afirat-  te, dipenda Tempre dall’inganno de’ fenfi , dai quali  gli uomini s’ingegnano in vero di aflrarre o di pre-  feindere, quando meditano, ma non fan rifolverfi di  far lo fieflb, o duran fatica a farlo, quando operano.  A quello modo ogni fpecie di cognizione umana ,  qualor lia verace e reale , fi renderà una fpecie di geo-  metria, e non rendendofi tale, non farà che una co-  gnizione fuperficiale , apparente ed incerta , come quel-  la che involve le illufiioni de’lènfi, perle cui apparen-  ze può ciafeuno cafualmente imbatterfi nei vero,  ma può ancora rellar ingannato o trovarli involto nel  falfo. Anzi la Geometria cosi detta , non farà per sà  flella cognizione, ma parlando più propriamente, farà  il metodo ola regola, per la quale dillinguereinqual-  fivoglia fpecie di cognizione il reale dalF apparente ,  e di rilevare in ella la verità per quanto è poflìbìle ,  o di difingannare per quanto non è polfibile di rile-  varla * convenendo così elTa colla Logica comune , o  ellendo la Geometria una Logica pratica , quando la   } comune cosi detta, non è che una Logica fpeculativa ,  men facile a praticarli e men ficura .  Del rimanente è poi vero che parlando in gene-  re, lo fpirito umano in ordine a cognizioni , parte (i  trova fotto al punto reale e più precifo di elTe difopra  accennato ( a ) , e parte ancor Io oltrepalTa e trafcende *  e che quello è il coliume del popolo più incolto ed  abietto inclinato alla pigrizia, quando quello è il fo-  lito del popolo più colto e volgarmente Hudiofo, aman-  te per lo più delle follecitudini e della gloria alfanno-  la . Perciocché egli è vero, che gli uomini fchivi di  quella laboriofa applicazione eh’ elige la ricerca del  vero reale , s’abbandonano fpeflb all’inerzia e non v’  applicano di Torta alcuna . Ma dall’altra parte è vero  altresì , che avidi elTi di cognizioni , e Idegnofì per  mancanza di quelle di vederli confufi col comun del-  la plebe, s’alzano fopra quella nella ricerca medellma ,  nella quale poi impazienti di freno, lìlafciano trafpor-  tare dalie illulìoni de’fenfi come s’è detto, oltre quel  punto, e lo sfuggono fenza avvederfene, feorrendo dall’   I,: ignoranza propria del volgo più rozzo, a quella propria   de’ comuni (ludiofi, che per lo più fono i troppo llu-  diofi. L’una e l’altra ignoranza può dirfi comune , ef<  tendo ben pochi quei che fcevri da illulìoni , ricerchi-  no la verità con accuratezza fenza penofa follecitudi-  ne , e eh’ elTendo tranquilli , non fiano pigri ed iner-  ti. E l’una e l’altra ignoranza fi dirà ancora comune^  del pari ; mercecchè chi toglielTe a follenere , quella'  de’ comuni lludioli elTere meno ellefa, e più tollerabile  di quella de' comuni idioti , torrebbe a follenere ardua  e didicil cofa , e a ben riflettere s’ accorgerebbe , la diffe-  renza dell’ una dall’altra ignoranza elTèr polla in ciò  foto, che elTendo quella degli idioti più fempliceemen  fallofa, quella dei più fludioiì tien più di fallo, e men  di femplicità. Poiché le cognizioni apparenti ed ellerne fon mol-  to pià coltivate delle reali ed interne (a) , egli  è certo, che gli uomini nella condotta de’ loro aSari,  dovranno di regola generale govemarfi per quelle, più  che per quelle cognizioni , dovendo certamente go-  vemarfi ellt comunemente Mr cognizioni che fiano  fra lor più comuni , anziché per quelle che fodero  men comuni. Una llmil condotta loro non può negar-  li in pratica da chi dia ad olTervarli , ed ogni perfona  più accorta s’ avvedrà molto bene , che tenendo cia-  fcun in mente certa verità reai delle cofe non abballan-  za da lui fviluppata ed attefa , pure co’ fuoi penfìeri e  colle fue azioni fa forza a sè delTo per adattarli alla  verità di quelle apparente , e ciò per conformarli al  comune degli altri , che paghi di quella verità, mal  foflfrono di procedece a quella . Nè v’è cola più fami-  liare, quanto il vedere i più fenlati in ogni fpecie d’  aflàri loro economici e civili ancor più fer) , adattarli  con certa ripugnanza interna colle cognizioni loro rea-  li per quante ne tengono, alle apparenti dei men fenfa-  ti, come altresì a quantità di ulRcj, formalità, e con-  venienze ederne di vita vane ed inutili, che di quegli  adari più fer) fon per lo più la difpofizione , il. vei-  colo , e l’impulfo maggiore . Lo che non per altro  certamente fuccede , che per la facilità maggiore , col-  la quale quegli adari fi conducono a proprio interef-  fe colla fcorta dei fenfì per cognizioni apparenti , di  quel che li conducedero per reali, con più d’efame  e con più adrazione dai fenfi , fodrendo così ciafcu*  no con qualche fua pena negli altri quella negligen-  za di cognizioni , che brama con maggior fuo co-  modo da altri fodèrta in lui dedb . Tutto quedo  poi avviene fenza difordine , e con efito ancora feli-  ce , purché- quelle cognizioni apparenti non s’oppon-  gano alle reali , ciò che negli uomini che fi regolino  a quedo modo non può conofoerfì che per gli effetti   1 2 con- Cognizioni  apparenti più  pratiche delle  reali . Confecutivi come s’è veduto (/») , o per Toltraggio o  danno che fe ne fcorga provenuto negli altri. Percioc-  ché fe quegli aflari cosi condotti , eflendo utili a sò  fteflì , non riurciran dannofi ad alcuni ; le cognizioni  apparenti,- per le quali (I conducono , faran conformi  alle reali e procederanno elll felicemente , e il contra-  rio avverrà, fe da quell’ utile particolare ne feguirà  danno ad altri , nel qual cafo non potrebber gli ad'ari  procedere , che con ifconcerto e difordine . '   11. E invero fe gli uomini tutti fi- governalTero di-  rettamente per cognizioni reali e teoriche , gli fcon-  certi fra loro farebber tolti del tutto e farebbero im-  polTibili , tutti fi troverebbero d’ un fcntimento confor-  me ed unanime, nè vi avrebbe il cafo di diirenfioni  dell’uno coll’altro in qualfivoglia genere d’ intereife o  (ù')C.XII.n.z. d’ affare (é). Ma effendo quello iirpoffìbile, attefa la  (0 feduzione de’fenfi a proprio intercfle ( c ) , ei bada dun*   que per evitar gli fconcerti , che governandoli effi per  apparenza e per pratica , non s’oppongano almeno al  reai delle cole . Quegli fconcerti poi procedono dalla  verità di natura , la quale non laida di regolare gli  uomini per io reale , ad onta d’ogni lor propenfìone ,  dilegno e inffllenza di regolarfi pure per apparenze .  Ond’ è , che fe tali apparenze fon contrarie a quel rea-  le, debbono quelle andar vuote d’effetto , o confeguir-i  lo con difordine, per poter bensì l’apparente averluo-  go, quando non na al reale contrario, ma non pcter-  aver mai, quando al reale s’ opponga {d) . Quello  regolarfi gli uomini da sè fteflì per apparenze , e re-  golarli la natura irrefiffibilmente per io reale, fa cono-  feere, che fe effi pur reggono e fuffiffono, e i loro af-  fari procedono felicemente , ciò avviene per difpofizic-  ne e faper di natura , e non mai per fapicn-za loro ,  giacché governandofi effi al primo modo errano bene  ImITo, e fi trovano fvergognati dalla verità reale, quan-  do natura governandoli al fecondo non erra giammai,  ed è Tempre a sè llelTa conforme . Egli è ben vero , esser poi quefto ftcflTo il gran delirio di quei politici , CAP. XIlT  ed altri che più prefumono di prudenza umana , i  quali vedendo cosi fpenb mancare i loro progetti più  ipeciofì , non s’ accorgono derivar ciò da quello appun<  to, di elTcr quelli contrari al reai delle cofe, per non  riguardarne che l’apparente, per la qual cofa la natu-  ra che non intende apparenze , fconcerta le loro ini-  fure , e delude per lo reale quanto per 1’ apparente  eflt tentano , e non è Tempre polTibile che riefca . Peg-   § io però intendono e ufan quei fcimuniti , che veden-  o i molti difordini che corion fra gli uomini , fogliono imputarli alla natura , o al grande autore di e(Ta «  quando è certo che debbon quelli imputarfi agli uomi-  ni Itein, che in luogo di applicare al reai delle cofe,  applicano all’ apparente , che può a quel reale elfer  conforme, ma può ancora a quello cder contrario, e  perciò impolTibile a riufcire ( <» ) ; in guifa eh’ effen- ».j-   do gli uomini Tempre occupati a imbarazzarfi infìeme  per fole loro follie, la natura non fembri occupata d’altro , che di sbarazzarli , emendando e correggendo  quelle follie medefime . Quello che qui lì dice è tanto più vero, quanto la verità reale non è già per gli uomini un arcano, ma è cofa palefe ad ognuno, che nel cercarla fap-  pia prelcindere , o non fr lafci ingannare da illulìoni  di fenfi . Ciò fi manifella , oltre per la forza che co-  me (opra ognun fa a fe llelTo nell’ adattarfi al penfar  apparente degli altri (é), per quello ancora , chegrin-(i)C.X///.».i-  ganni medefimi , nei quali bene fpelTo cadono gli uo-  mini per quelle illufioni , appena incontrati da una  parte da alcuni, fono riconofeiuti da tutti dall’altra ,  non folo per gli effetti contrarj che fpelTo ne deriva-  no , ma per lo pianto ancora , e pel rifo che più an-  cor di frequente fi fparge full’ azioni umane. Percioc-  ché le ben fi confideri , l’uno e l’altro di quelli non è  pollo che in ciò, di riconofeer gli uni , che s’ollinino  gli altri a regolarfi per apparenze, quando la natura e Hiria neceffità li aftrigne a regolarli per lo reale . Dacché  procedon fra loro quei tanti inganni , e quelle mife-  rie , che vedute in altri folTerte per altrui opera , ge-  neran la compaflìone ; e vedute fofferte da altri per lo-  ro colpa , generano il ridicolo . Non avendovi poi ge-  nere di peribne di quallivoglia arte, ufficio , o profef-  lìone , fui quale non cada qualche fpecie di compaffio-  ne o di ridicolo conofciuto da tutti , non v’avrà gene-  re di perfone , che non fi governi per apparenze . Ma  quella riconofcenza comune medefima farà molto ben  noto, una verità reai delle cofe elTer da tutti fentita,  ancorché men coltivata , per eflcre veramente più fa-  cile compatire- le altrui miferie o ridere degli altrui in-  ganni , che coltivar quella verità con più d’ attenzione, aliraendo dai fenfi e dalle loro illufìoni a proprio  favore (a), E qui s’ oflfervi , come di quella verità rea-  le fentita , ma non attefa , fon del pari lontani ed igna-  ri e quei che delle azioni umane fentono compaflìone,  e quei che ne conofcono il ridicolo, colla fola differen-  za , che l’ignoranza dei primi pare efler quella della  plebe meno fludiofa, e l’ignoranza dei fecondi quella  degli fludiofi di fole apparenze, o dei vanamente ftu-  diofi (é), quando quei che applicano al reai delle co-  fe , non piangono nè ridono mai delle verità che cono-  fcono . Così Eraclito , e Democrito , come vien detto ,  erano tanto faggi , quanto a conofcer le apparenze per  cali , ma non quanto a diftinguerle dai reale o a cono-  fcer le verità uefTe reali , al che nelTuni procederono  tanto innanzi, quanto ifilorofì del crillianefimo. Que-  llo però non impedifce, che in ogni flato, poiché le  cognizioni reali vengono in confeguenza della iflruzio-  ne , e le apparenti in confeguenza del diletto durato  nell’ acquiflarle, gli uomini più propenfi a quefto  diletto che a quella illruzione, non lian più ricchi di  quelle che di quelle cognizioni , e che gli affari loro  condotti per aroarenze, non fi conducano femprecon  implicanze e difordini , di che non lì ceflTa di lamen-  tarli,    Digìtized by Google    Lxxi   tarfi , e a che non fi cefla di fiudio per provveder- "c a V. Xlir.  vi. 1 quali difordini , (oliti mal attribuirfi alla debo-  lezza delle umane cognizioni , e peggio a diHètto di  natura (<»), abbian tutti a cadere come s’ è detto, fuU’ WC.A^///.».z,  avverfione fuddetta all’ifiruzione migliore^ e filila prò-  penfione al diletto fiiperfìciale e peggiore ; mercecchè  dovendo Tempre gli affari proceder per verità reali, e  con certo ordine di natura flabilito dal fupremo Tuo  autore, qualora voglian diflrarfi per apparenti contra-  rie a queir ordine , non potranno a meno di non pro-  cedere con difordine.   IV. Qui non può a meno di non prefentarfi alla  mente una verità, la quale è quella , che diflinguen-  dofi gli affari particolari dai communi , poffano nell’,  ellerno molto piò facilmente condurfi per cognizioni ,  reali quelli che quelli , per edere appunto il particola-  re più facilmente condotto per Io reale, di quel che fia-  fi il comune , che come s’ e veduto (6), non è con- WCJCILn.i,  dotto che per apparenze . Una fimile verità quantun-  que di fatto , non fi efprimerebbe da alcuni con pa-  role , quafi per timore di non mollrar per effa dì cre-  dere , o di dar a credere , che al governo degli altri  non fi richiedan che cognizioni apparenti , polle le  reali tutte dapparte. Allopollo però di quello, chi ri-  detta più finceramente apprenderà, che per quello ap-  punto di dover il comune degli uomini regolarfi per  cognizioni apparenti , è necelfario fra elfi un governo  ellerno, per cui da quell’ apparente fian tutti condotti  al reai delle cofe ; mercecchè fe il comune degli uo-  mini fi regolalfe per lo reale, ogni governo allora fra  loro ellerno farebbe inutile e vano . In edètto fe fi  confìderi che per necedità di natura debbon gli adàri  procedere per lo reale , e che l’apparente può invero  elfere a quello reale conforme , ma può ancora non  eflèrlo; ^li è dunque d’ uopo per non trovarfi col- (c) C.XJI.n.j.  la natura in contrailo , che v’ abbian alcuni , i quali  più bene intefi , più efperti ed illrutti degli altri nelle verità reali ( che o bene o male fon fentite da tut-  ma non da tutti dalle apparenti dipinte (<r) ) pre*  fìedano agli altri , e diftinguan loro quali di tutte le  cognizioni apparenti per le quali fì regolano, fianò al-  le reali couformi , e quali fìano a quelle contrarie .  Quefto infatti è ciò cn è intefo per ogni Governo, pri-  ma per la perAiaHone della Religione , depofìtaria del-  le verità reali non corrotte da apparenze contrarie, e  desinata così a infegnarle ai popoli per regola delle  loro paOioni , delle loro azioni , e de’ loro coftumi ;  ed indi per la forza o il comando del Principato , de-  Ainato a far valere quelle verità medefime, e a difèn-  derle, per Quanto colle apparenti a quelle contrarie fof-  fero contralUte . La qual difinzione di Religione e di  Principato nel governo non è un giuoco dì fpirito , ma  una necefìtà di natura , per cui nella condizione uma-  na non è pofibile , che un perfuada a ciò a che dovefe  pur af rignerc , o afringa a ciò a che dovefle pur per-  fuadere, per l’ abufo d’una di quefe facoltà che ognun  vede poter allora feguire nell’ ufo dell’ altra , come ò  altrove dimofrato ampiamente . Io qui parlo de’ go-  verni ben ordinati e fenfati , ne’ quali la Religione ap-  punto e il Principato nelle refpettive loro appartenenze  iuddette , fon del pari lìberi e indipendenti , come nelle  nazioni più colte e più crìfiane ,* e non de’ governi  difordinati , ne’ quali confufe quelle due appartenenze  in una , o oppredà l’una dall’altra , il governo (lelTo  non è che una fìmulazione o impofura , rapprefentato  da una fola autorità più forte , e foggetta alle UriTe il-  lufioni d’ ogni altro , come nelle nazioni men colte ,  o nelle quali più prevale la fchìavitù e 1’ ignoranza.   V. In qualunque modo però proceda un governo*  egli è fempre vero , che attefa l’inclinazione comune  all’apparente più che al reale, elTo non efibifce opre-  fenta mai ai popoli le verità reali , che coll’afpetto delle  ‘ apparenti, e che nel adattare appunto 1’ apparente con-  forme e non il contrario al reai delle cole , è pollo tutto l’arcano e l’arte ben difficile di regger i popoli, CAP. Xllf.  fenza di che quella non farebbe, che un’arte ben fa-  cile di follazzare sè lleflì . I governi poi ben ordina-  ti dagli fconcertati fi dillinguono appunto per quello  foto , eh’ eflendo gli uni e gli altri occupati nell’ ac-  comodare il reale all’ apparente , o all’ intendimen-  to fuperficiale del popolo, i primi per quell’ apparen-  te non li fcollano mai dalle verità reali molto ben  conofeiute da chi governa , quando i fecondi per quell’  apparente s’ oppongono più o meno a quelle verità  reali , feonofeiute ed ignote talvolta più a chi governa ,  che a chi da altrui è governato . Ma intanto quindi  apparifee, come non potrebbe dirli cofa più inlenfata  di quella , che la Religione non abbia ad aver parte  nel governo de’ popoli nell’ illruire , come loà l’Impe-  ro nel comandare , o nell’ allrignere alle verità mede-  fime, per le quali i popoli fon governati; Tempre ciò  intefo de’ governi (inceri e reali , e non delle fimula-  zioni o apparenze di ellì , contrarie elTe (lede talvolta  al reai delle cofe. Quello poi ch’è pur detto da alcu-  ni con qualche circofpezione e riferva , toma però a  quello che con minor riferva è detto da più altri ;  cioè che al governo Udrò ballino cognizioni pratiche,  vale a dire apparenti (a), e che le teoriche o reali fìa- (s)CJÌlIIji^.  no del tutto inutili . lo fon certo, che gli uomini di  (lato più accorti , converran Tempre meco , che ogni  lor pratica abbia da procedere da conifpondente teo-  rica , e che per quella fola da quella difgiunta, gli  (latifli non dovelTer riufeire che a tanti ciechi, che lì    battdTero infìeme / nel qual cafo i popoli di elfi più  faggi àvrebber ragione di lafciarli fare , governandoli  inunto da loro llelfi (è) . P t^emefle quelle conftderazioni Tulle cognizioni urna-    ne reali e Tulle apparenti , per rilevare 1’ effetto Imperfeiione  della favella nel comunicarle altrui, gioverà confiderà- dell» favella  re in prima pur quella fotte un doppio afpetto , o di dichiarare ad altri le cognizioni della prima fpeciepià  ardue e men note, o di trattenerli su quelle della fe>  conda più facili , e quai fon conofciute comunemen-  te ; giacché in eflètto quallìvoglia ragionamento verfa  fempre su qualche foggetto , noto bensì ad ognuno per  le lue apparenze più generali ed elìerne , ma ignoto  altresì comunemente per li Tuoi principi afcolì ed  interni. Siccome poi le prime cognizioni fì fon vedu-  te intefe a idruire , e le feconde a dilettare ciafcuni  («)C.X7I,ff.3.che vi applicano (a); così ufficio della fa\ella fi dirà  pur doppio, o d’ iflruire altri nelle cognizioni non per  anco da effi acquilìate, o di dilettarli nelle giàacqui-  lìate; quello molto più familiare di quello e frequen-  te, giacché il più confueto degli uomini è d’ intrat-  tenerfì fra lor per diletto, favellando di quel che fan-  no; e l’inllruir gli uni gli altri di quel che quelli non  fanno, par cofa riferbata alle fcuole , e da non prati-  carfi fuor d’efle che con altrui fallidio , dai foli pedan-  ti. Nientedimeno, poiché la favella é pur dellinata a  partecipare ad altri le cognizioni da cialcuni acquiUa-  te , e tali cognizioni dipendono da oggetti appreli e  <6) C,XlI.n.i. combinati ( A ) ; é altresì da confiderare , eh’ elfendo   3 ue(li oggetti a numero incomparabilmente maggiore  elle voci, per le quali poflfano denominarfi (r), le vo-  ci in ogni favella mancheranno bene fpelTo, come per  nominar quegli oggetti , cosi molto più Mr efprimer-  ne le cognizioni , e la favella a quell’ enetto rinfeirà  un mezzo dubbio , confulo e imperfetto . E invero  quantunque ciafcuni oggetti in ciafeuna favella ten-  gano alcune voci più efprelfìve e diUinte , dette per-  unto \ot proprie", ciò non fa che tali voci non pollano  eziandio applicarli ad oggetti da quelli diverli , per le  quali diventan traslate , non per altro certamente ,  che per la povertà appunto di clTe voci in riguardo  agli oggetti, eaU’impoinbiltà di appellar ciafcuni con  voci talmente proprie , che non pòiTan elTer d’altri .  Oad’ ,é che una voce medeGma dellinata cosi a più oggetti , gli cfprime Tempre con proprietà maggiore o gap. xiv.  minore , ma non mai per la fola e precifa , che cor-'  ril'ponda per la cognizione di dii.   II. S’ arrese , eh’ dTendo le apprenfioni e le com-  binazioni d’oggetti diverfe nelle ciafeune menti  y  tali combinazioni che ne derivano , debbon pur dier  per ciafeuni diverfe , e il comunicar uno agli altri le  proprie, potrà bensì edere per regolarle e confrontarle  con quelle degli altri , ma non mai perchè diventino  cosi proprie d’altri, come fon fue. All’incontro la fa-  vella è a ciafeuno comune , ed è la deda in una def-  fa nazione, e quando dante la diverfità d’apprenfioni  e di combinazioni d’oggetti, le cognizioni particolari  fono in altri più chiare ed edefe , in altri più ofeure  e ridrette ; le voci per cui efprìmerfi , non fon più chia>  re o copiofe per ^elli o per quedi, ma fon le dede  per tutti , e il più fciocco parlerà forfè tanto e più  ancora del più lenfato. Per la t^ual cofa la favella do-  vrà ognor trovarfi inedìcace o imperfetta per efprime-  re le cognizioni , dovendo eda eder tanto comune al  dotto che più ne podìede , che all’ indotto che ne pof-  fiede meno , e dovendo necedariamente adattarfi all’  intendimento non dei più, ma dei meno intendenti ,  che fono a maggior numero fra quei che l’adoprano .   A quedo modo parlando più propriamente , fi direb-  bero le lingue idituite non a efprimere le cognizioni ,  ma a fufcitarle più o meno nelle menti a norma dei  ciafeuni intendimenti, giacché per le dede voci altri le  apprende più didinte e moltiplici, altri più limitate e  confufe . Perciocché per quanto il dotto tenti parteci-  par le fue all’indotto, ufando la deda di lui favella;  quedi non le concepifee mai che in relazione alle per  lui apprefe dianzi , per gli ometti dedi da lui com-  binati diverfamente dall’altro. Per quedo di cento che  odano un rt^ionamento, o che leggano un libro def-  fo, ciafeun fe ne idruifee a norma della qualità delle  cognizioni da lui podedute e apprefe dianzi , e il dottO'   K a puù può per un libro fciocco > rettificandolo e migliorandolo  per le Tue cognizioni, farìfipiì^ dotto, <|uando l’indotto  per un libro de’oiù Irafati, può divenir più sguajatodt  prima, o renderli per quella lettura più (Iucche vote e più  Impertinente, ma non già più dotto. Se ciò non fofle ,  ogni difcepolo al folo udire il maedro, diverrebbe co-  sì dotto che lui , e per divenir Capiente come il Gali-  leo dovrebbe badare il leggere le fue Opere, che par-  lando generalmente è tanto vero, quanto il pretende-  re di partecipare alla fua dottrina , per adìbiarri quel  fuo certo collare che forfè fi conferva per memoria di  un tanto uomo, ma non per ridampar qued’uomoad  ognun che Io adìbj.   III. Per altro qui cade a propofito di riflettere al-  quanto Alila diverlità delle cognizioni umane , e Alila  moltiplickà per ede e varietà, con cui procede natura  nelle Aie operazioni. Perciocché edcndo in prima le voci  in ciafcuna lingua a così gran numero , quanto è pur noto ;  quedo numero moltiplica colla ferie de’ tempi infiniti e  de' luoghi finiti, efomminidra una moltitudine innume-  rabile di lingue, in ciafcuna delle quali le voci lon all’  idedb modo moltidtme . Contuttociò fe A confiderino  le maniere, colie quali quede voci prefe a numero mag-  giore e minore fogliono combinard e permutarA in  una favella, A conofcerà, tali combinazioni e permute  collocate pur con fenfo e difcemimento , edere a nu-  mero incomparabilmente fuperiore a quello delle voci  in eda , ed eder in tutte le lingue a tanto più anco-  ra , quanto imfwrti quedo gran numero di pennute e  ' ' di combinazioni in una lingua , moltiplicato nel nu-  mero delle lingue di tutti i luoghi e di tutti i tempi -  Padando poi dalle voci e combinazioni loro, agli og-  getti ocmbinati per ede efpredt , e alle maniere di co-  gnizioni che ne derivano ; A conofcerà , la moltitudi-  ne di tutto quedo edere incomparabilmente ancor fu-  periore a quella delie combinazioni di voci , e tanto-  Aiperiore in ciafcuna lingua, quanto per ciafcuna combinazione di voci in efla ciafcun apprende e combi- c AP. XIV.  na gli oggetti fiedì difl'erentemente , e ne forma di-  verfe le cognizioni, proferendole iftelTamente . Tanto-  pià poi fuperiore in tutte le lingue, quanto quel nu-  mero di cognizioni diverfe in ciafcuno di diverfa lin-  gua , moltiplicato pure nel numero delle lingue tutte  diverfe palTate , prefenti , e future . Quello poi che re-  ca maggior forprefa egli è , che tutta quella prima pro-  digiofa quantità di voci e combinazioni loro , non de-  riva da più , che da venti elementi o lettere d’ alfabe-  to, più o meno pronunziate in ogni lingua . E che  queda feconda tanto più prodigiofa e incredibile quan-  tità di apprenfloni e di combinazioni d’oggetti , e di  cognizioni su e(Tì, non deriva che da alcune leggi di  moto quanto più femplici e vere, tanto più uniche e  fole , giacché tutte le apprenfioni e cognizioni uma-  ne , per quanto fiano individualmente diverfe in cia-  fcuno , pur fono in tutti confimili (a). Tutta poi («) C. II. mi..  codeda varietà e fbmiglianza di cofe è unita e con-  catenata infìeme , e procede e fi confegue con certo-  ordine e ragione eterna e immutabile, lenza la quale  {^un comprende nulla poter avvenire , e a comprendere  la quale ognun conofce in sè dedb, poter edenderfi ben  per poco la umana capacità, colla fcorta di fenfi infermi-  e fallaci. Niente di meno in quedo dedo natura non  manca , giacché dal minimo faggio che di ciò fi tra-  fpira, può altresì ognuno arguire, quanta e quale fia-  la pofTanza e la fapienza del fupremo autore di tutto  quedo , e quanto ammirando l’ordine e il raagidero „  con ch’ei governa e regola l’univerfo.   U NA affai curiofa confeguenza che dalle cofe Aid- CAP. XV.   dette fi viene a dedurre è queda , che l’ imper- ImMrfezione  lezione accennata delle lingue, per cui le voci riefcono dell» favella  a numero molto minore di quello degli oggetti per dell   effe efpredi, par che torni non già a diffctto co-  me fi. crederebbe a prima vida , ma a perfezione ed eleganza di quelle maggiore, in quanto non avendovi  cosi nefTune voci talmente proprie e attaccate adalcu*  ni oggetti, che non poiTano applicarfì anco ad altri ;  gli oggetti tiefli polTono efprimerri , o dedarfene le im-  magini negl’ intelletti, non folo per voci dirette, ma  per fHÙ altre ancora indirette chiamate traslate come  (a)CJCIF.n.ì. s’è veduto (<»), d’t^getti a quelli analoghi e confi-  mili. A quello modo lebbene manchino nelle lingue  le voci dell’ ultima precisone alle immagini degli og-  getti determinate , foprabbondano per le indetermina-  te, e in mancanza e neU’impofTibiltà di adoperare per  ciafeuna immagine ciafeuna voce diverfa, le ne ado-  prano non una , ma più e più altre d’ oggetti a quel-  k affini e confimili , per le quali non una , ma più  immagini fìmilmente occorrono all’ intelletto pur fra  sè confimili e combinabili, ciò che Tuoi avvenire con  molto diletto e foddisfazione dell’ intelletto medefimo.  Cosi appellandofi DIO ottimo e grandiffimo, non folo  per quello venerando più proprio fuo nome , ma per  altri ancora traslati di via, di verità, di vita e fimi-  li, fi dellan nell’ animo tutte le immagini proprie e  bro affini , polTibili più o meno a dellarfi per quelle  ciafeune voci, a mifura dell’attività dell’animo Udrò,  onde figurar alla mente con più efficacia e grandezza  r idea di quella ineUàbile elTenza . E generalmente  laddove fe ciafeuna voce propria corrifpondellè efatta-  mente a ciafeuna immagine a efclufione di tutt’ altre  voci , da dieci voci proprie per efempio , non fi de-  Uerebber nell’ animo che altrettante - immagini combi-  nabili in alcuni modi; corrifpondendo quelle nonefat-  tamente e non a efclufione di altre , vi fi dellan per  dieci voci proprie e più altre traslate, pur altrettan-  te immagini combinabili in nioltifiime più altre ma-  niere .   II. Su quella condizion delle lingue , o fu quello  difetto in effe di vocaboli per efprimer gli oggetti, è  pollo tutto i! pregio deli’ eloquenza, e da ciò derivano tutte le perfezioni e tutti gl’ incantcTimi dell’ arte c AP. XV.  oratoria , e più della poetica; vaie a dire non folo i  traslati , ma le allegorie ancora > le allulioni , le para-  bole, le (imiiitudini, le analogie, le efagerazioni , il  palTaggio dal proprio al metaforico , dal ferio al gio-  <cofo, dall’ animato all’inanimato , e fimili ornamenti  che fan la grazia, la forza, e la bellezza eh’ è invero  delle immagini dedate e .combinate nell’ intelletto, ma  che in eflb non fi dellerebbero e combinerebbero, fei  termini nelle lingue coi quali efprimer gli ometti, fof-  fer tanti quanti eflì . Perciocché dall’ dfer folo quelli  a molto meno, ne avviene che non fiano quelli cosi  propr) di alcuni oggetti , che non polTanu eziandio  trasferirfi ad altri, per li quali con numero d’ imma-  gini maggiore, certe verità intefe afignificarfi, fi rap-  prefentino all’ intelletto con più di vivacità e di va*  ghezza . Egli è ben vero che affinché ciò riefea felice-  mente è d' uopo, che tali traslati feguano con certa  fcelta e giudicio, fenza di che tutti gli ornamenti ret-  torici e poetici non avrebbero fenfo; e non confiden-  do edéttivamente l’ infenfatezza che nella combinazio-  ne d’oggetti fatta fenza dilcernimento (<;), fe le voci («)C.7. ». a,  proprie fofler applicate ad oggetti trasìati pure fenza  difeernimento ed a cafo , non potrebbe quindi deriva-  re che ofeurità e confufìone . Laonde i traslati nelle  lingue per quanto pur fian difparati, debbono ferbare  certa conneffione e mifura , per la quale fian conofeiu-  ti fimili e relativi agli oggetti lor propr), fenza di che  chi fi credefle il più l'ublime nell'eloquenza, potrebbe  edere il più proffimo alla fatuità , e dalle immajgini  più ardite e più ingegnofe di Pindaro , lì potrebbe Kor-  rere con breve pafso alle più infenfate aisurdicà d’ un  vifionario. Quefta .condizione non è della fola rettori-  ca e poetica, ma di tutte le bell’ arti ancor cosi det-  te, e di tuue le opere di entufiafmo , nelle quali il  più fublime delirio confiru infcnlìbilmente col più Ura-  no ridicolo , e il pittore e il mufico più eccellente neirarte fua, con un pafso più oltre trafcende il giu-  dicio, e diventa una Aia caricatura di piazza , nella  quale pur procedendo per gradi , può toccarfi l’eftre*  mo, fino all’efser condotto allo fjpedale qual pazzo di*  chiarato . Ch’ è la ragione , per cui comunemente an-  cor fu odervato , ogni pazzo tener un non fo che di  poeta, di mufico o di pittore, fìccome ciafeun dique-  Ai, tener talvolta in lor virtù qualche irregolarità, che  li denota prodimi alla pazzia.   HI. Per altro quedo diletto che così apporta la fa-  vella, col trafportar l’intelletto dal projprio al figurato  degli oggetti , fa conofeere che l’ imperfezione e la incapacità conofeiura in efsa difopra («) , per partecipa-  ». 1. 2. re altrui le proprie cognizioni, dee edere intefa in ri-  guardo principalmente alle reali , per le quali reda la  mente idrutta, e non già in riguardo alle apparenti ,  per le quali fuol eda dilettare {b). E in vero i trasla-  ti , le analogie , e gli altri ornamenti rettorici fuddet-  ti, convengono molto bene alle cognizioni di quedo  fecondo genere, per eder ede note comunemente, on-  de giovar rapprel'entarlc altrui con pluralità d’ imma-  gini , che imprimendole nelle menti con più di no-  vità , producano quel diletto . Laddove per efprimere  le cognizioni del primo genere più afeofe e men co-  nolciute, ognun vede edere necedario valerfi di termi-  ni più propr) e precifi per quanto è podibile , e che  r uiare i traslati non farebbe che od'ufcar quelle co-  gnizioni maggiormente , e renderle a chi n’ è privo  più ofeure ancora ed ignote. Ed è vero che per que-  do fecondo edètto, le voci proprie mancano bene fpeA  fo , quando per quel primo le traslate non mancati  giammai . A quedo modo parlando più propriamente ,  {e)C.XIV.n,2. « didinguendo la favella dall’eloquenza, fi dirà,  che ficcome quella è imperfetta, cosi queda è nociva  finché fi tratti di verità reali , o d’ idruir altri di  quel che non fanno. Ma che trattandofi di fole veri-  tà fupcrficiali e apparenti, conofeiute comunque da tutti, quella favella dovelTe eflere un’ arte non folo ini- c A P. XV.  perfetta , ma ancora nojofa , quando non fofle foccorfa  dall’eloquenza, la quale con rinovar alle menti quelle  verità coli qualche varietà d’immagini, riefcille così a  dilettarle per elle • Quella attività maggiore della fa-  vella per le cognizioni fuperficiali più conofciute , che  per le reali men conofciute, perchè aHìdita dall’ elo-  quenza, fa che lepcrfone più applicate alle verità reali  lian parche di parole ne’ familiari difcorfi, che d’or-  dinario non fon che ferie confecutive d’immagini co-  nofciute , e rapprefentate altrui colla favella fenza  efame , e fenza conneflìone dimodrativa per effe ; al  contrario delle perfone contente della • cognizione più  volgar delle cofe, le quali fon copiofiffìme di parole,  e parlan rapidamente di tutto . Le donne in partico-  lare, men atte per la delicatezza e debolezza de’ loro  organi a penetrar nelle verità men comuni , fe non  fon frenate dalla modeffia, che di quella debolezza è  il compenfo più caro e gradito, favellan delie più co-  muni con più diff'ufìone eprontezza degli uomini, più  robuffi di tempera, e più (ermi dipenfamento. Vero è  che per quello lleffo parlando generalmente, i menri-  llelHvi c più loquaci dilettan più quando illruiì'con  meno, a differenza de’ più taciturni eritìeffìvi, chedi-  Jettan meno quando più illruifcono . £ che i gran par-  latori di verità apparenti, lafciano per lo più i loro  uditori muti e llorditi , quando i parchi dicitori di ve-  rità reali , lafciano i loro più fereni di mente , e mi-  gliori ragionatori di prima .   IV. Per comprovare che l’eloquenza nella favella fia  intefa non già a illruire , ma a fol dilettare , gioverà  ancora avvertire, che una delle condizioni principali,  per le quali piùeffa rifalta , è quella dell’accento, del  numero, della inflellìone tenue o piena, grave o dol-  ce , affrettata o fofpefa nelle voci , per le quali fi porti  effa all’ udito , cofa più efpreiramente praticata nella  poefia , ma che fi llende a ogni genere di eloquenza,   L per  Eloquenza  come nociva  alle cognizioni reali. C.XF.n.i.    LXXXII ^5-   per cui il periodo giunga air udito piùfonoro, quali a  guifa di canto. Tutto quello certamente non è diret-  to che a dilettar l’udito, percuotendolo con vibrazio-  ni d’aria pìd regolari; e perchè le l'enfazioni della fa-  vella qualunque fieno, dall’ organo dell’ udito paUàno  all’intelletto; quindi è che quello Hello per quelle sensazioni a lui tramandate, nerella dilettato al modo medelimo, prefeindendo da cognizioni di qualunque genere , e non rellando cosi più illrutto delle cole , di quel  che ne redi l’orecchio materiale. Ognun vede quanto  per quello capo rellino pregiudicate le umane cognizio-  ni, per Tabulo allora così evidente della favella , la  qual dellinata a illruire, o a pur dilettare T intelletto  colle cognizioni reali, o almeno apparenti delle cofe, s*  arrclla all’ udito per follcticarlo con percuflìoni più ro-  do grate che ingrate, e non tramanda alT intelletto che  il diletto elimero che da tal folletico ne deriva; quali  deludendolo con prefentargli per cognizioni quelle ,  che per veritù non fon tali. Certo è che T armonia mu-  (leale, dipendente da confonanze di fuoni uditi, è di-  verl'a dalla intellettuale , dipendente da confonanze d’  oggetti e di cofe intefe , perciocché podbno efprimerfi  con verfi canori i più alti drambezzi , ficcome podb-  no efprimerfi con afpro fuono di voci le verità più  reali , non che le apparenti ; ed io conofeo un gran fi-  lolbfo che canta aliai male , come ò conofeiuto un  celebre violinilla , che ragionava molto male del fuo  violino.   P oiché come s’è veduto (a), le cognizioni reali ed  interne non elìgono eloquenza , ed è queda ferba-  ta per le apparenti cd ederne, chiara cofa è che il più  che prevarrà nelle nazioni e nello fpirito del fecolo T  eloquenza , il più prevarranno quelle cognizioni , pre-  valendo men quelle. Perciocché per quanto l’intellet-  to umano fia capace ed attivo , e forpadì per cogni-  zioni Tua l’altro, eiTcndo non per tanto eì Tempre limitato e finito, non potrà quell’ attività niedefima pii c AP. XVI.  adoprarfi falle cognizioni più trafcurate a tutti comu-  ni eh’ efigono eloquenza , fenza flenderfi meno Tulle  rifervate a pochi che non la efigono, attenuandofi cosi  in tutti le cognizioni reali, quanto più lo fiudio dell’  eloquenza , che non può occuparfi che Tulle apparenti ,  farà coltivato ed efiefo . Si Ta che chi inclina al di-  letto più comune, sfugge l’iftruzion men comune , e  viceverfa fimilmente; e per regola generale ^ gli appli-  cati all’ une e all’ altre cognizioni , tanto più riefeono  in ciafeune, quanto men fi (iendono ad altre, e ognun  che fi flenda a più generi di cognizioni , riefee in cia-  feuno più leggiero e più fuperficiale . L’ elTer poi gli  uomini in generale, non fol più inclinati a cognizio-  ni apparenti perchè più facili, che a reali perchè più  difficili, ma dcfiderofi eziandio di renderfi per cogni-  zioni accetti a maggior numero d’ altri , fa che incli-  nino altresì facilmente allo fiudio dell’eloquenza, pro-  prio di quelle , e non di quelle cognizioni > Onci’ è  che fcbbtne le lingue fian dellinate a iflruire e a di-  lettare, lo fiudio e l’ufo più frequente d’ efle fia  in riguardo più a quello fecondo , che a quel primo  ufficio, affine d’elT'er uno cosi per efle intelò , appro-  vato e applaudito da maggior numero di perfone ,  rellando intanto per la molta eloquenza più riputate  ed eltcfe le cognizioni apparenti,, e le reali più trafcu-  rate e neglette ..   II. Qui cade a propofito di oflervare, che fe le co-  gnizioni fra gli uomini fembrano a’ nollri giorni più  avanzate che ad altri , e fi reputan eflì p«ù illuminati  e più. iflrutti delle cofe di quel che foflero i loro an-  tenati , ciò non potrebbe accordarft che in riguardo  alle cognizioni apparenti , giacché una fimite riputa-  zione ridonda inelTì dalla facilità maggiore , colla qual  fi ragiona da tutti d’arti e di feienze , e dalia molti-  plicità de’ libri che feorrono dappertutto fu ogni gene-  re di cognizione , tanto più comuni a tutti , quanto>   L z più adorni de’ pregi dell' eloquenza. Quefto giudicar  però le cognizioni più avanzate , perchè più comuni e  perchè più facili , indica abbalianza eflb fteflb , non  poter tali cognizioni elTer dunque che le apparenti ,  che in effetto fon tali ; laddove le reali , per la diffi-  cile aerazione daifenfi, eia infiftenza maggiore richic-  fta nell’ acquiftarle , non è poffibile che lian facili o  fian comuni {a). Il pretender poi per iftudio d’ elo-  cuzione o per meccanifmo di parole, di render facile  e comune ciò che per sò è difficile e non comune, o  d’ inclinar gli uomini generalmente più alla fatica di  apprendere il reai delle cofe, che al diletto di tratte-  nerfi full’ apparente , farà fempre difperato configlio ,  ad onta di quanti Dizionari , Giornali , Compendi o  altri repertori poffan formarfi di cognizioni qualunque  fieno, e che fembrino facilitarle . Di ciò par che con-  vengano gli fieffi autori de’ libri letti il più comune-  mente, quando dichiarano di fcriverli per dilettare ,  divertire, eamufe(ire^ come direbbero, tutto il mondo,  di maniera ch’ei lembri , che ognun di quelli dovefle  quafi recarfi a vile, di fcrivere per iftruir feriamente  lol pochi, nelle verità reali ed interne. Con ciò fi di-  rebbe , che tanta follecitudine fra noi di applicar tut-  ti a tutte le cofe non folle intefa , che a meglio elu-  derfi gli uni gli altri per apparenze , e che dovendo le  verità reali rimaner tanto addietro , quanto le ap-  (,b)CJCVI.n.t. parenti procedeffero innanzi ( 4 ) ; per effer dunque  quello fecolo d’ ogni altro il più adorno per cogni-  zioni apparenti , doveffe trovarli ( fia detto per mo-  dellia ), il più fcempiato d’ogni altro per cognizioni  reali . Comunque fiafi , nelTun negherà che llante l’inclinazione comune al diletto , non potendo le verità reali eller comuni (c), lo lludio dell’ eloquenza, col  render le apparenti più diffufe e più riputate , noti  efcluda maggiormente di infra gli uomini le reali, e che  ogni eloquenza così adoprata per diffonder le verità in genere , lungi dall’ ottenere di ftender la più reale , c A P. xVT  non ottenga al contrario di llenderla meno , per non  adoprarfì quella che l'ulla verità apparente più comu-  ne , a elclulione della men comune e reale , che non  elige eloquenza. Lafcio conliderare, fe fia perciò (a'ìC.XVI.v.i.  che folle creduto, le verità più venerabili e più arca-  ne di religione, la cui cognizione reale può certamen-  te tanto meno clièr comune al popolo, doverli ad elio  annunciare con lingua a lui ignota , e da lui più ri-  fpettata che intela . Certo è, le religioni ancora più  materiali antiche , eirerli cipolle al popolo fra le nazio-  ni riputate più laggie con liinboli, hgure ed emble-  mi , c non mai con elprelfioni verbali ; per elFerlì  'ognor giudicate le verità d’clfe qualiunque follerò , tan-  to più venerande, quanto più ineH'abili, e non con vo-  ci eiprimibili . Ma parlando pure di verità femplici  naturali , che 1’ eloquenza col lublimar le apparenti  tenda ad allontanar le reali , lì troverà verificato trop-  po ancora per pratica ; e chi poflìede l’arte d’inten-  dere , non potrà certamente a meno di non farli un tri-  llo Ipettacolo , diveder come alcuni polFedendo eminen-  temente l’arte del dire, riconvochino IpelTo intorno gran  turbe di popolo nobile e ignobile , e prevalendofi della comun debolezza bro e pigrizia per le cognizioni  reali, li traggan l'eco perle più fuperfìciali e apparen-  ti, non lapciido elfi Itelli ove abbian a riulcire . Per-  ciocché l'oratore, adulatore fempre e lulìnghiero, rap-  prelentando almo uditore credulo fempre e vano l’ap-  parente, come le folle indubitatamente reale, lo confer-  ma bensì nel vero quando ei lìa tale, ciò che avvien  rare volte, ma Io conferma altresì e indura nel falfo ?   quand’ei noi lìa, il che avviene più fpelfo, fenzache  né lui, nè la ciurma de’ Tuoi uditori aguifa di pecore,  fappiano lo perchè, o lo come.   IV. Per altro quel che s’è detto finora delle cogni-  zioni apparenti , non fia già creduto clferfi detto pec  difanimarle, o avvilirle del tutto . Ma fi creda detto   fol- ,'^o*t3nto per avvertire, di noa prender in effe per rea-  le quel che folle folo apparente, e perchè non s’attri*  bulica tanto a quello eh’ elìge eloquenza , quanto a la*  feiar del tutto da banda quella che non la elìge. Dall'  altra parte egli è poi vero , che non potendo le co>  gnizioni reali effer comuni, giova che per occupazio-  ne almeno, per commercio di vita , e per diletto ap-  punto comune , tali fian le apparenti , pur che ciò av-  venga in modo , che non s’ oppongano alle reali , ma che  dipendano Tempre quelle da quelle . £ in vero quel che  s’ è detto de’ collumi , ch’cffendo diverli poHono non-  dimeno aver luogo lenza implicanza, ed effer utili a  tutti purché non fiano centrar) (a); Io Hello dee ap-  plicarft alle cognizioni umane , che eilendo apparenti  poflono illeffamente non effer implicanti, nel qualcafo  . non fono alle reali contrarie , ma fi concilian con ef-  (é)C.A//jf. 3 . e fupplifcono a quelle (é). 11 diltinguer poi quan-  do r apparente difeordi , e quando concordi col reale  in genere di cognizioni , dipende dalle cognizioni ap-  punto reali, o apprefe per fe medefime e per teoria ,  allraendo da illufioni di fenfi ; cofa che non può ap-  partenere al comune degli uomini incapace di tali allra-  zioni , e Iblito verificar le fue cognizioni per fola pra-  tica confecutiva de’ fatti , bene fpeffo ingannevole ; ma  dee appartenere a pochi fra tutti piò faggi , e più il-  luminati degli altri. Quelli s’è già avvertito dover ef-  fer quelli che agli altri prelìeduno, fia colla perfuafio-  ne della Religione , fia colla forza del Principato  ( 0 C.A///.b, 4 ._( f j dellinati perciò all’ ufficio di giudicare quali fra  tutte le verità apparenti, per le quali fi conducon gli  ailàri comuni , concordino colle verità reali , e quali  da effe difeordino , o fiano a quelle contrarie.. £ ve-  ramente che un fimil giudicio o una fimile cogni-  zione abbia ad appartenere , e poffa convenire del  pari , non folo al nobile e al manovale, o al citta-  dino e al rifuggiate , ma al chierico ancora che iflrui-  £ce, e al cialtrone che dee effere iflruito , o al Ma-   giflra-  ciftrato che comanda , e al fuddito che dee obbedirlo ,ó quella un’ aperta impitcanza , malTime quando già  tutti convengono, chegli uomini generalmente fon più  fpenfierati che riflelTivi , e che le cognizioni reali fon  riferbate ai foli più rifleinvi . Ora piacemi ancora olfervare , che quell’ clTer le  cognizioni reali note per sè ftelTe a fol pochi , e que-  llo dover perciò tutti rcllar a quei pochi fubordinati,  non fa torto ad alcuno, e non è che per quello flana-  tura cogli uomini parziale od ingiuHa. Imperciocché  non è già elTa, che concedendo le cognizioni reali ad  alcuni , le ricufì a tutti gli altri ; ma fon gli uomini  flein, che inclinando più al facile che al dilhcile , lì  lafcian condurre da illufìoni de’fenfi a proprio favore,  anziché da rifledione , per cui conofcere fe le cognizio-  ni che quindi loro derivano , fiano reali , adraendo an-  cora dai fenfi . E quella fubordinazione non fi rende  neceflaria, che per fecondare codeda loro inclinazione  più geniale al facile, e per follevarli da quella più dif-  ficile riflelfione . Sol che gli uomini tutti s’ accordino  d’elfere riHclfivi, ogni fubordinazione ceflerebbe fra lo-  ro, tutti fi governerebbero da sè per cognizioni reali , nè v’ avrebbe d’ uopo di chi li govcrnafle per  quelle. Ma efl'endo quello impolfibile, per la propen-  l'ione comune più aldiletto delle cognizioni apparenti,  che all’ illruzione delle reali , come s’ é replicato più  volte; e dovendo pur eglino governarfi per cognizioni  reali , quando voglian fulTillere infieme ; egli è dunque  forza che alcuni almeno fra edì aduman le veci di  tutti, o fupplifcano al loro dilètto, prefìedendo al go-  verno degli altri, con quella verità reale, che altri ri-  cufan di darfi la pena di didinguere e d’ invedigar  per sé dedì. Vero é però, che perla propcnfione llef-  fa invincibile e comune all’apparente e al facile, quel-  la verità mcdellma non può poi produrli al popolo da  chi governa che per l’apparente , ciò che può avve-  nire lènza implicanza, per edere ogni apparente alrea-    Digitized by Google    CAP. XVI.  {a)C.XU.n,i. Dell' eloquenza fulle  cognizioni  apparenti .   (0 C.XKn.^.  -5^ LXXXVIII  le conforme, quando non fia a quello contrario:  Dimanierachè il fiflema d’ ogni nazione fia quello ,  che le verità reali fi propongano per le apparenti non  a quelle contrarie, e per tali conofciute e difiinte da  un governo, procedendo così tutti gli affari per ap-  parenze, con ficurtà di non opporfi per quefìe al rcal  delle cole, mercè l’intelligenza fuperiore di chi a tut-  ti prefiede. Se in un fimil governo la perfuafione eia  forza faran libere e indipendenti , il governo farà giu-  fio e fenfato, e la nazione libera e tranquilla ( giac-  che quelle due facoltà nella condizione umana debbon  pure dilìinguerfi ( A ) , e o bene o male fi difìinguono  dappertutto ). Se faran le due facoltà confufe in una,  o una minilira e non compagna dell’altra, farà il go-  verno fimulato e difpotico , e la nazione inquieta ed  opprelfa. Il tutto non per difetto di natura, ma de-  gli uomini e de’ governi fleffi in particolare, che anzi  eh’ effer liberi e tranquilli , amaffero elfer opprcflì e  agitati. Sempre però Ila, che la fubordinazione a un  governo fia per fc flcffa non un dilòrdine , ma un  ordine anzi faggio e ammirando , per cui 1’ umana  fiacchezza fi alìolve dall’ applicare a quelle verità rea-  li , che fofier per eflà faticofe ad apprenderli , e fi con-  cede ad ognuno di abbandnnarfi ancora alle apparen-  ze e al diletto Hello de’ lenii , purché ciò fia in con-  formità alle regole, calle leggi llabilite e preferitteda  un governo , che per la fuperiorità de' fuoi lumi , e  per fenno e fapienza fia più illrutto degli altri, nel  difeerner quale apparente fia al reale conforme, e qua-  le fia ad elio contrario.   C Olfellerli dichiarato di fopra, di dover l’eloquen-  za verfare fulle cognizioni più comuni (c), non  s’è perciò intefo di degradarla in modo, che abbiano  gli oratori, e i poeti a confonderli per fapere colvol-  gar della plebe . All’ incontro fi sa , dover efli mol-  to bene dilìinguerfi per cognizioni dal volgo, e laco-  / pia pii di cognizioni , e lo ftudio degli oggetti su i quali  ftenderfi la loro eloquenza, dover precedere l'eloquen-  za medefìma, fenza di che non farebbe poflibile dilet-  tare per ella, e non favellando l’oratore al fuo udito-  re che di ciotole e di pianelle , anziché diletto , non  potrebbe recargli che noja e faftidio . L’oratore dun-  que dee più del fuo uditore elTere iihutto e ricco di  cognizioni, per ornarle pofcia coi fregi dell’arte fua ,  e fì; li dice tali cognizioni dover efler comuni , ciò  non può verifìcarlì che in quanto abbian elle ad elTe-  re delle più apparenti, e delle più facili a concepirli  da Mnuno . Ciò conviene con quanto s’ è avvertito  pur mpra ( ) , di ftar la giuHa cognizion delle cofe  in certo punto di mezzo, innanzi e oltre al quale fìa  vano il cercarla , come che quinci e quindi ha polla  r ignoranza di elTa ; col folo divario d’ efler dalf una  parte la ignobile , propria degl’ idioti e del popolo più  rozzo i e dall’ altra la ignoranza nobile , propria  delle perfone più colte . A quello modo fi dirà , l’ora-  tore e ri poeta rare volte comunicar di cognizioni e  d’immagini col popolo più ignobile al di qua di quel  punto , e folo trattenerli quivi con quello ne’ foggettì  più comici, burlefchi, o latirici; e qualor s’alzi col-  la tromba più fonora a celebrar eroi, o a trattar argo-  menti gravi e fublimi , allor fi dirà lui trafcender  quel punto , e confarfi col p<^lo più nobile e più ri-   S utato . Ma intanto fempre Ila , che al giullo punto  i mezzo, al quale s’arrellano le cognizioni reali , ei  rare volte o non mai fi foflèrrni , per^ l’ inutilità dell’  arte fua qualor lì tratti di verità reali , fuperiori a or-  namenti rettorici e poetici , atti più tollo a ofcurarle  (c) , quando fulle fuperliciali e apparenti quell’arte  fa di sé prova e pompa maggiore.   II. L’ufo delle efagerazioni , de? traslati , delle alle-  gorie, e rimili figure proprie della fola oratoria e poe-  tica, fan conofeere tutto quello, e come tali articoli’  amplificare o ellenuaie gli <^etti , fi trattengano fotto quel punto o lo formontino ; mentre quantunque  le c(^nizioni Tulle quali verfano, ogii argomenti de’  quali trattano, fiano agli uditori men noti; pure per  efler quelle cognizioni fuperficiali e apparenti , e in  conleguenza facili ad apprenderfi dall’ uno e dall’ altro  popolo , polTono da quello elTer apprefe nell’ atto lief-  lo di ellerne ei dilettato . Con ciò fi direbbe , che il  partito degli oratori e de’ poeti in ordine al vero , fof-  fe quello dei difperati , i quali diffidando di sè fteffi  per aflegnarlo al giullo Tuo punto, fcegliellero più to*  Ito di raggirarvifi intorno inocrtamente , e di quafi con-  troillruire per più dilettare con varietà d’ immagini  facili , ma tirane e TpetTo implicanti , nell’ incapacità  conofciuta d’ iltruire colle piu difficili c più veraci.  Quindi ebber luogo quei tanti poemi su paffioni ed  azioni oltre il credibile. Le donne, i cavalier, F ar~  mi , gli amori, e quei tanti ftrambezzi fugli eroi là*  volofi e Tuli’ antica mitologia , i quali dilettan molto  più di quei che verfano su argomenti filofolici e mo*  rali , Alila vera religione , e su azioni deferitte quai  fon accadute precifamente, che non diletterebbero più  di un procelfo civile o criminale, cfpolio a un auditor  di rota . E ciò fol perchè in quel cafo può la mente  fvagare dappertutto a Tuo talento, quando in quello  elTa è allretta a hllarfi ad un punto , e a Aarvi con-  fìtta come ad un chiodo ; elfendo d’altronde imponi-  bile di fupplire ad un tempo llelTo a due oggetti , dì  dilettare e d’ iAruire precifamente , o fupplendofi al-  men meglio ad un folo di quelli oggetti , che infieme   (fl)C«yf7.».i.ad entrambi (a ). Per quello ftelTo le rapprefentazio-  ni maffime teatrali, tantopiùfogliono dilettare, quan-  to più dal vero, o dal verifìmile ancor di natura , trafeendono all’ implicante od al falfo dell’ immaginario,  brillando Tempre il diletto a fpefe dell’ iAruzione mi-  gliore; tanto è quello comunemente diverloda queAa,  e tanto 1’ eloquenza e 1’ altre arti analoghe ad elfa ,  c compagne del diletto più comune, sfuggono l’iAru-   zion    Digitized by Googic    XCI   xion più feverj c meno comune. Chi trova indecente cAP. XVII.  che Temiftode canti andando a morte, non bada che  a queda Uhuzione, che non trafcende il vero ed èbeti  di pochi ; ma fol ch’ei badi a quel diletto , che tra*   Icende il vero ed è di molciffimi , troverà quel can-  to adattato all’azione, e piagnerà ad eflb , purché fia  preparato a dovere (<») , e accompagnato da quel de- («)C.Arr.».r.  bile che richiede l’azione medefima.   ^ III. Ma infomma generalmente, chi riprende i poe-  ti per la futilità degli argomenti , ai quali d’ordinario  e’ s’appigliano , e per la fallacia delle cognizióni che  inOnuan per edi, non bada a quedo, d’eifere il hne  Principal loro quello di dilettare e non d’idruire, e di  dilettare non i più dotti , ma il comune del popolo  che non è dotto (fr)', e che parlando generalmente, C.XVI.n.i  ceflTan eglino di dilettare , todochè prendono a idrui-  re . Le allufioni certamente , le immagini , i traslatì  fuddetti , proprj e neceflarj dell’ arte loro , occorrono  alla mente a numero incomparabilmente maggiore per  le cognizioni più facili al volgo note , che per l’efat*  te e didicili riferbate ai più dotti , per le quali non è  così agevole padare dal proprio e precifo al metafori-  co e figurato . Cosi la Luna per efèmpio , concepita  per le immagini più facili che ne dànno le antiche fa-  vole, non che col nafoecolla bocca Come fugli alma-  nacchi, dà motivo a mille allufioni e figure, che non  darebbe apprefa per lo reale de’ fuoi monti , edellefue  ombre nel fidema planetario ; e finché il popolo la  concepirà più facilmente al primo che al fecondo mo-  do, il poeta canterà, e avrà ragion di cantare con più  dolcezza del nafo della Luna, che de' fuoi monti. Gli  occhi ideflamentc , cofa la più conofeiuta e più tri-  viale , apprefi per le cognizioni di effi più volgari e  comuni, fomminidrano alla mente mille immagini, ond’  effer chiamati luci leggiadre , vezzofi rai , fiammell»  vivaci , lucide delle , pupille ferene , drali omicidi ,  faci gemelle , adii d’ amore , che non fomminidrerebbcro apprefi per l’ irruzione d’ effi più efatta , o per  le dottrine ottiche e anatomiche migliori , ma men  conofciute. Anzi s’olfervi di più, come da ciò proce-  de, che l’oratoria, la poetica, e l’ altre arti dilettevo-  li non foffron nemmeno regole iflruttive , per eflcr  tai regole ellratte dalla ragione più elàtta per cui ap-  punto s’iftruHca , quando quell’ arti per illituto prin-  cipale , debbono traCcender quello reale , per dilettare  («ICJl^'il.n.i.coll’apparente {a). Quindi avvien bene rpelTo che un’  orazione , un poema , un’ azione teatrale dettata fe-  condo tutti i precetti che ne dànno Longino , Arido-  tele, Orazio, o Gravina, dilTecca nondimeno l’anima,  e fa sbadigliare, quando un’altea fenza quelle regole ,  ma ornata più di drane apparenze , attrae tutto il po-  polo fìa noÙie o ignobile , il quale feguace del diletto ,  fchiva ogni idruzione per eflo, e prevenuto anzi per  lo mirabile falfo e apparente , che per lo vero naturale  e verifimile ancora , non intende precetti , per cui fìa  qnello confinato e ridretto ; giudicando di quel che  ode e vede , per le ragioni fuperficiali pur vedute ed  udite , e non per le interne che non vede , e che non  potrebbe vedere che prefeindendo dai fenfì , di che il  popolo ( e il fod'ra Aridotele ) , non farà mai capace  CJCll.n.i. {à ).  Quedo preferirfì poi per l’oratoria fempre l’ap-  parente al reale , non può negarfì che non torni in  abufo , il quale però faria tollerabile finch’ei fi re-  ftrignede al divertimento appunto teatrale , e all’ozio  delle corti e delle accademie , fenza perciò opporli al  U)CJOI.n,j. medefìmo, com’è pur podibile (r). Ma il fatto  è , che bene fpeflb ei li dende ancor filila condotta  degli affari più fer), ne’ quai l’ eloquenza col folfermar-  fì più full’ apparente , fa più perder di vida il reale  di edi , con altrui dainno e feiagura ; come apparifee  ki pratica per più (inceri uomini e dabbene , fopradàt-  ti e delufì ne’ loro intereffì da chi per fola facondia , e  per artificio di ragionare vai più di loro . E il peggio   è an-    Digitized by Google     -5^ xeni ^   è ancora, che dagli affari particolari, l’ abufo medefimo  s’ inoltra facilmente ai comuni cosi detti di governo ,  ne’ quali per l’adulazione, la lufinga , e la fimulazio-  ne che più o meno indifpenfabilmente v’ àn luogo  (i*) , l’arte del dire è ancor più accetta che altrove .  C^d’è , che Aiblimando quella più le verità apparen-  ti , mette più a rifehio d’ allontanarfi e d’obbliar le  rnli . Su quelle conliderazioni farebbe a riflettere , fe  giovi a’ di nollri tanto animare e apprezzar l’eloquen-  za su i tribunali e nei fori , o fe anzi oltre al dovere  non fi trovi effa incoraggita e apprezzata. Certo è, che  febbene gli affari comuni abbiano a condurfi per co-  gnizioni apparenti ; nientedimeno ciò dee feguire fen-  za fcollarfi dalle reali ( é ) , come s’ è ridetto più voi-’  te, e ciò per imitar per quanto è poflìbile la natu-  ra , che falciando difputar gli uomini , accarezzarfi e  idolatrarfi fra loro , regola il tutto per lo reale fenza  profferir mai parola . Se poi chi pretendeffe governar  altri fenza render ragione del fuo governo , come ufa  natura , farebbe un uomo affai vano ; il farebbe non  men certamente chi pretendeffe governarli per fola co-  pia, ed eleganza di voci. Quei medefimi che fi repu-  tan più valere per eloquenza ne’congrelfi , e ne’ par-  lamenti , converranno di quelle verità , fe l’arte del  dire è in lor pari al buon lenfo ; e accorderanno non  meno , che quegli oggetti grandiofi di profperità , di  felicità , di potenza pubblica , che si fpeffo dai rollri  amplificano all’orecchio del popolo, non fon poi tali  quai da lor ir promettono , o almen ne dubitan ellt  nelfi , e ne rellan in gran parte fofpefi . Dall’ altra par-  te, le repubbliche antiche non furono mai più feon-  certate , che a’ tempi dell’ eloquenza più fublime di  Demollene e di Cicerone, quafichè fi governaffero al-  lora per cognizioni più popolari e apparenti , che per  vere e reali , per le quali quelle repubbliche fi fareb-  ber per avventura meglio follenute, come a tempi dei  parco Licurgo, e del religiolb Numa. C-»5C. XHI.  r. 4 .  (J>)C.XVl.n.ì.    Fi-   1TInora ei pare che non fi fia ragionato di doquen-  Deir elo- XT za, che affine di fcreditarla, e di renderla fra gli  quen» filile uomini odiofa , proverbiandola come inutile , vana ,  cogaizioDire-pregiudiciale, inhdiofa, e nociva alla miglior condot-  * *• ta de’ privati e de’pubÙici affari. Perchè però non fia   creduto , efferfi di cosi mal umore contr’ efla , quanto  a volerla del tutto sbandita dalle nazioni, è da avvtr-  tirfi , non efferfi cosi favellato dell’ eloquenza , che in  quanto fuoleffa verfare fulle cognizioni apparenti e fai*  laci , lardate a parte le reali e migliori . In confeguen-  za di che fi apprenderà , che l’odiofità fuddetta non  cade già full’ eloquenza in genere , e che non è effa  cosi pregiudiciale nelle nazioni per sè medefima , ma  per la qualità appunto delle cognizioni alle quali d’  ordinario s’appiglia, e alle quali ftante la propenfione  comune umana al piò facile , dee eifa cotnunemente  (a)CJCyi.n.j. appigliarfi (a) . Con ciò confiderando ogni cofa , s*  arguirà dunque eziandio, che fe l’ eloquenza , in luo»  go d’occuparfi a fiabilir negli animi le cognizioni ap«  parenti , s’ applicherà ad ornare e a meglio prcfen*  tar alle menti co’ fuoi vivi colori le più reali ; lun-  gi dall’ elfer nelle nazioni nociva , fi renderà anzi a  quelle utile e giovevole . Infatti s’ è veduto , uffi-  cio della favella effer quello d’ iftruire e di diletta-  (.tjC.Xiy.n.x. re (è), vale a dire dì illruire nelle verità non cono-  fciute , e di dilettare nelle già conofciute . E perchè  le verità di qualfivoglia genere non polTono elfer co-  nofciute che per qualche illruzione , quefta dunque  dovrà fempre precedere il diletto che proviene dil-  la favella , e 1’ oratoria così , la poefra , non meii  che r altr’ arti tutte dilettevoli , dovran generalmen-  te confeguire la filofofia , la morale , e 1’ altr’ arti  klruttive , fiano apparenti o fiano reali , fcnza che  polfan mai quelle preceder quelle , non elfendo cer-  tamente polfibile adornar coi fiori dell’ eloquenza ,  e con immagini traslate e lublimi , ciò che non fi fia   pri-    Digitized by Google     xcv   prima apprefo per voci proprie, più piane e preeife . CAPJCVIir.  Stando dunque al diletto della l'avella , è certo che do-  vendo quello cunfeguir Tiilruzione , tanto può confe-  guir la più Aiperficiale e comune, quanto la più vera  ertale eh’ è mcn comune; e che ficcome pollòno con  figure e immagini adornarfi le verità men el'atteepiù  popolari , conofeiute da molti ; cosi fi poflbno pur le  più efatte e men popolari , riferbare a fol pochi . £  la differenza farà , che effendo nel primo cafo 1’eloquenza la più popolare e comune, della qual s’ è fa-  vellato finora ; fi renderà ella nel fecondo più partico-  lare , difufa a non molti , della quale s’ aggiungerà qui  qualche cofa .   II. Egli è vero' pertanto , che eli uomini amanti  generalmente più del diletto che delf ifhuzione , foglion  trattenerli più fulle cognizioni apparenti perchè piùfii-  cili e perchè apprefe , che fulle reali perchè non ap-  prefe , e perchè foticofe ad apprenderli, ond’ è  che il più frequentemente ufino 1’ eloquenza fu quelle  cognizioni , applicandola ben di rado a quelle \b)   Ma ciò non teglie che non poflà effa a quelle appli-  carli , e che non vi fi applichi talvolta effettivamen-  te. Anzi quello fa, che l’eloquenza medefima coll’ef-  fer nel primo cafo più comune , Ila altresì più appa-  rente ed equivoca, e in tal guila perigliofa come s’ è  detto ; quando nel fecondo coll’ elfere men comune ,  fi rende più ficura e reale , e con ciò giovevole ,  prendendo il diletto che ne proviene ognor tempera e  qualità, dall’iUruzione e dalla cognizione apparente o  reale che lo precede. Così uno fpirito altiero e ambi-  ziofo, potrà tirarfi dietro un popolo di fpenfierati, e  -condurli per le verità apparenti all’incredulità, e quin-  di alla fchiavitù , alle difeordie , alle guerre , e alla  povertà che ne derivano , e ciò con tanto più di  veemenza, quanto in lui fìa maggiore f arte del di-  re (c)'. E dall’altra parte può un tìlofofo più fenfato (e)  colie verità reali , perfuadere i più rideliìvi ' per quanti ve n’ànno, alla religione non finta, e con ciò alla  libertà , alla concordia , alla pace e alla felicità che  pur ne confe^uono, con tanto più iiledamcnte di for-  za e di grazia , quanto in lui v’abbia più di facon-  dia. £ la prima eloquenza farà indubitatamente futile  e dannosa , eflendo quell’ altra più utile e reale , giac-  ché in eflètto ogni apparente termina in reale , per  la 'natura che non devia mai da quello , per quan-  to gli uomini fi lafcino sbalordire da quello . Ond’ è  che (ebbene quel primo cafo (ìa il più frequente in  pratica umana , rella nondimeno e^o fempre tolto  (é)C.XIJIji.2.per lo fecondo ( « ) , o per la pratica della natu-  ra , eh’ è la più vera , perchè pratica infieme e  teorica , di quanto a.v viene nel corfo generai delle  cofe.   IH. S’arroge, che la detta dillinzione xkll’ idruzionc dal diletto che procede dalla favella, non è  poi tale , che 1’ un di quedi s’ efcluda per 1’ altro ,  o che abbian perciò f arti dilettevoli a non efler  idruttive , e le idruttive non dilettevoli . Percioc-  ché aU’ incontro può ancor dirli , che 1 ’ idruzione  deda non vada difgiunta dal diletto , ancorché que-  do proceda non dalla favella , ma dalla verità per eflà  avvertita ed intefa , il qual diletto così é compa-  gno e contemporaneo all’ idruzione medefima , quan-  do r altro che procede dalla favella , confegue 1’irruzione ( c ) , e non mai 1 ’ accompagna , e mol-  ”* to men la precede . E fi dirà idedanaente , qud di-   letto eder di quedo molto maggiore , mafdine in ri-  guardo alle verità reali , come quello che li dende all’  intelletto, quando quello della favella (i porta all’im-  (J) C.XV. U.4. maginazione , e talvolta s’ arreda all’ orecchio ( d ) .   Certo é che il diletto d’ un geometra nel concepire  una verità , fupera di gran lunga quello d’ un Ora-  tore nelteder l’elogio, o nel commendar legeda d’un  eroe , come lo fupera eziandio quello di quedo eroe  ncH’efequir quelle geda, quand’ ei pur le efequifea ; e quattro linee di Euclide con illruire piit di dieci orazioni di CICERONE (vedasi), dilettano altresì più di quelle ,  che ben fovente dilettano con inganno. Per que-  llo i precetti fondamentali , e le regole generali di  morale, di giurifprudenca , e tali altre verità, per quan-  to fono reali e geometriche , dilettano coll’ illru- 1«)  zione tanto a’ dì noUri, quanto a mill’anni innanzi ;  vale a dire con diletto più fenfato e durevole . Laddo-  ve i lìmboli di Pitagora , i fogni di Platone , le mi-  nuzie d’ Omero, che a’ lor tempi rapivano gli animi,  col diletto per avventura fugace della fola elocuzione ;  al prefente o non lì comprendono, o non apportan di-  letto , quando ciò non folTe in riguardo lòlo a chi •  avelTe l’abilità, di formarfene uno della loro antichità  medelima.   IV. Le lingue dunque finché fi trattengono nell’  ufficio d’ illruire, ancorché non dilettino per fe llef-  fe , dilettano per le verità, delle quali ilhuifcono ;  e le s’ avanzano a dilettar per fe Ireire , ciò non é,  che per figurar alla mente con colori più vivi le ve-  rità medefime per efle apprefe , e ciò con eloquen-  za frivola e vana , fe le verità fon comuni e volga-  ri, e con eloquenza robulla creale, fe le verità fon pur  reali e fuor d’ ogni inganno . Verbigrazia s’ io dirò :   „ La Luna coll’ attrar più la fuperficie convelTà che  „ il centro , e più il centro che la fuperficie conca-  „ va più dillante della terra , alza la parte acquola  „ che più cede, filila falda che men cede nell’ una e  „ nell’ altra fuperficie di elTa ; ond’ é che quelle due  „ elevazioni d’ acque comparifcono tulle llabili ripe,   „ al paflàr d’ ella Luna per Io punto fuperiore e in-  „ feriore del meridiano di ciafcun luogo terrelhe * Io  con ciò non farò, che dilettar l’intelletto colla illni-  zione men comune , ma più vera che polla darli  del fiulTo del mare , fenza punto dilettarlo per la fa-  vella, per cui Cia efpolla quell’ illruzione, non potendo ella efportì per termini più femplici e più precisi.  Che fe dopo aver dilettato T intelletto con quc*  Ha iftruzione, dirò come in quel terzetto :   Sai perché fale alternamente , e fcende   Il mar , che a Cintia che fi /pecchia in ejfo ,  Innamorato in fen fi /pigne e tende ;   allora palTerò di più a dilettar l’ intelletto medefimo  coir eipreflìone ancor d’ eloquenza fu quell’ iHruzio-  ne , tralportandolo dalle immagini proprie di Luna ,  di mare , di attrazione , alle figurate e fimboUche di  Cintia, di fpecchio , d’amore, per le quali quella ve-  rità già conofciuta, fe gli prefenta con più di novità  e di vaghezza ; e ficcome quell’ iftruzione è miglio-  re febben men comune, cosi quella eloquenza che la  confegue , può appellarfì migliore . Ma fe in luogo  di tutto quello , fupponendo 1’ uditor pure iftrutto  di qualcuna di quelle più volgari dottrine , per le qua-  li iogliono. più comunemente fpiegarfi le maree , io  prendelfi ad ornarla con immagini fimilmente trasla-  te, con figure rettoriche, e con efprellìoni enfatiche ;  potrei pur con ciò dilettarlo, defcrivendo un cieco tur-  bine interno, una prelfìon d’aria verticale, una im-  prelfion di vento orientale ellerno , o fimil altra opi-  nione folita fpacciarlì a quello propofito , delle qua-  li tutte vien detto , che mal loddisfatto un filofofo  dell’ antichità, prendelTe la rifoluzione di gettarli in  mare , dichiarando elfer giudo che folTe da quello ca-  pito, chi non potea quello capire- Comechè però ta-  li opinioni , per elTer più facili e più comuni , fon  meno efatte e peggiori ; così la eloquenza fu clTe  che le confeguilfe , farebbe imperfetta, o farebbe un  inutile vaniloquio.   V. Il diletto dunque che proviene dall’ eloquenza ,  può confeguire le cognizioni tanto apparenti e co-  muni , quanto reali e meno comuni , e per quello  ilelTo di elTer ogni eloquenza confecutiva all’ illruzione.  Bc , chiunque afpira al diletto d’ efla migliore, dee prevenirlo per la migliore irruzione corril'pondente ,  e per le verità non quai fon conofeiute dal popolo,  ma quai fono in fe ftede, mentre quel diletto confe-  guendo la irruzione fuperfìciale del popolo , non po-  trà appunto elTcre che fuperficiale, e talvolta efimero  e menzognero, come nel cafo degli equivoci , de’ fo-  firmi , degli enimmi , de’ paralogifmi , e degli altri  prodigi cosi detti dell’ eloquenza > Per la qual cofa ,  che i poeti dilettino più cogli argomenti quai fono  apprefi popolarmente , s’ è detto ciò eflTere in riguar-  do al popolo , al quale più frequentemente favella-  no (/r). E fi aggiunge ora ciò elTere ancor con inganno , in. quanto quel diletto che confegue 1’ idru-  zinne peggiore, è ingannevole , e non v’à diletto di  eloquenza reale , che quel che confegue pur l’ irru-  zione vera e reale {b)^ Dacché s’apprende, perchè 1’eloquenza , e generalmente 1’ arti di diletto più co-  moni , rade volte appaghino le genti di miglior fen-  no , e perchè gli fciocchi fieri ne refiino cosi toflo  annoiati per elTer quelle in confeguenza .della irru-  zione peggiore , che foggetta ad inganno, non può  dilettare che con inganno, e quero non avvertito an-  cora , non può a meno di non generar noja e fpia-  cere. Quindi è che agli fpettacoli, alle fere , ai con-  viti , e a ogni fpecie infomma di divertimenti comuni  nobili e ignobili, è d’uopo dar fempre nuove forme,   Q uando ancor del tutto non fì cangino in altri, fenza  i che ogni fpecie di popolo alto e bafTo' ne reda  rucco e ammorbato. L’ uomo è fatto dall’autore del-  la natura per l’ irruzione inreme e pel diletto reale ,  ad onta, de’ fuoi fenH che lo incantano full’ apparen-  te ; come H convince da ciò ,. che l’ irruzione allor  più. diletta , quando è più diligente ed efatta ; prova   J |uefla. evidente della fuperiorità, e immortalità del i   uo intendimento fopra tutte le cofe mortali.(#) c.hu.j^  Laonde s’ ei fi lafcia trafporur dal diletto apparente   Ni fcnza iftrurione , o coll’ irruzione priore , non pnò  alfin ciò riufcire che a Aio rincrefcimento , e con fu»  naturai ripugnanza. L'oAinarfi poi a contraAar quel  reale con quello apparente, è come contrallar il cor*  fo del Sole con un tiro di cannone , o penfar di  dillnigger la natura in sè Aeflb , come fi dillruggono   J uattro poveri ingannati , che A difendono in una  iazza . QE piaccia applicare il detto finora folle cognizioni  Delle tradu- O umane, e Alile lingue per le quali s’efprimono, alle  zioaidall’uoa traduzioni dell’ opere d’ingegno ferine dalP una all’ altra  all’ altra fa- favella, èda avvertirfi, eh’ elTendo le lingue intele oa  velia. iAruire nelle cognizioni reali, o a dilettare colle appa-  (a}CJC/Kn.i. tenti (a), il trafporto delle cognizioni dall’ una all’altra  lingua potrà agevolmente riufcire, quanto al primo ca-  po dell’iAruzione reale ; perciocché non richiedendoA  a ciò che un’ efprellìone d’oggetti per li termini lor  più proprj e precifi , queAi in ciafeuna lingua fono de-  terminati, o efprimon gli oggetti colla precilìone me-  defìma , eh’ è una per tutti i luoghi e per tutte le lin-  gue. Laonde baderà a queAo effetto, che il tradutto-  re ben intefo del fentimento dell’ autore , e iArutto  per pratica de’ termini precifì d’ ambe le lingue , fo-  Aituifca gli uni agli altri di quelli , con quella coAro-  , zìone o difpoAzione che a lui fembri piò naturale nel-   la Aia lingua ; coB' che egli iAruirà così bene in que-  Aa , come 1’ autore nella lingua Aia originale . Ma  quanto al fecondo capo di dilettare colle cognizioni  apparenti , poiché il diletto delie lingue proviene da  Amilitudini, alluAoni , e altre immagini d’oggetti an-  co traslate , queAe in ciafeuna lingua fon più o men  naturali, più o men giudiciofe o ingegnofe, a norma  degli oggetti Aedi , eh’ eAendo conAmili , Aan più o  meno diverA , e a combinar i quali Aa una nazione  piùo meno familiarizzata. E pertanto trafportate quel-  le iminagiai per foAituzione di termini come fopra, dall’ una favella , debbono perder di molto della lor grazia, e della lor forza nell’altra. In effetto, quelladif-  ferenza che nelle combinazioni d’ immagini proprie , e  molto più traslate , s’ è oflervato paflàre fra perfo-  ne di varie condizioni in una fteffa nazione (a)j non (a)C.n.n,i.  v’à dubbio che non abbia a renderfi vieppiù notabile  fra perfime di varie nazioni e lingue, i cui coflumi ,  profeflìoni , e'modi altri efierni , per impreflìoni più o  men forti e frequenti di oggetti diverfi benché confi-  mili, fon più rilevanti , non fol fra ciafcuni in fpe^  eie , ma fra tutti eziandio generalmente ; procedendo  da ciò un fìgnifìcato più o men eliefo ne’ termini del-  le lingue, per efprimer gli oggetti fterti o confimili ,  che fi direbbe tanto più efiefo nelle lingue diverfe ,  quanto quella diverfità fuperaffe quella dei diverfi dia-  letti in una lingua medefima.   II. Egli è certo, da quella diverfità di oggetti con-  fimili nelle varie nazioni , derivar le diverie indoli ,  fpiriti, e umori nazionali, come pur le diverfe indoli  e fpiriti cosi detti delle lingue. Concioflìachè ficcome  le piante, gli animali, i minerali di qualfivoglia fpe-  cie , e gli uomini flefli nel lor materiale, ancorché  confimili, fon pur diverfi in ciafcuni climi per (4) C. T. ». j--  tcflìtura di parti più dure o più elafliche , più denfe  o più rare, più fragili o più compatte; all’ ifleflo mo-  do il fignificato delle voci , colle quali efprimer tutto-  ciò nelle lingue , è più o meno eflefo , e le voci fleffe  più afpre o più dolci, più rifonanti o più molli, più  acute o più ottufe . Ciò eh’ é ben noto ai viaggiatori ,  che vaghi d’ invefligar una tal varietà, feorrono da"^  dima a clima e da nazione a nazione ; e un Inglefe  che per tal fuo capriccio muova da Londra all’ Egit-  to, o un Affricano che per fua difperazione fia tratto  da Algeri in America , non troverà minor difparità  fra i fuoi coflumt e i coflumi egizj o americani , di  quella che trovi fra le maniere diverfe di efprimerli  lotto ciafcuni di quelli climi (c), rimanendo ciafeun (r)C.Jff. dei due allettato più, come delle fue die delle altrui  immaginazioni e collumi ^ cosi de’ Tuoi che degli al-  trui modi di efprimerli; non per altro che per la di-  verfìtà degli oggetti e voci corrifpondenti ai quali le  refpettive lor menti fìan più afluefatte ed avvezze .  Per efler dunque la verità delle cofe reale una, ed in-  variabile dappertutto, e per elTer le maniere di appren-  derla e di dilettare con elTa moldplici e innumerabili ,  faran le lingue tutte del pari, qualor lì tratti d'idrui-  re nelle verità reali, ma faran fra elTe diverfe, qualor  fi tratti di dilettare culle apparenti ,. elfendo general-  mente elle illituite non per quel fulo udìcio , ina an-  cora per quello, e non per tutti in tutte le nazioni ,  ma per ciafcuni in ciafcune.   111. La copia e moltiplicità di termini in una lin-  gua al paragone dell’altra, è un indizio di tutto que-  fio , e di quanto una lingua polla dilettar più d’ un’  altra ; per provenire quella moltiplicità dalla maggior  quantità d’immagini, colle quali efprime ciafcuna gli  oggetti llein o conlìmili; non introducendofi una nuo-  va voce in una lingua, che per introdurvi una nuova  immagine, o per dividere e appellar per due voci le  immagini , che prima s’ appellavan per una . Per la  qual cofa la lingua più ricca di voci, farà più capace  d’ immagini divife o traslate , per elprimere la lidia  quantità d’ oggetti, e per dilettare con elTi ; percioc-  ché fe un oggetto ftelTo o conlimile vorrà efprimerli  per due lingue, lì dovrà per la più povera di voci ap-  pellarlo talor per la voce, che folle pur propria d’un  altro ; laddove colla più ricca appellando 1’ uno e l’  altro con voci diverfe , coll’ applicar poi a quello la  voce propria di quello, e viceverfa , u viene a efpri-  merli entrambi per traslati e figuratamente. Percfem-  pio un Inglefe appellando propriamente un furbo e un  fervo per la llelTa voce Knave^ non può per queAo  capo indur analogia veruna fra quelle due perfone; e  l’ Italiana appellando ciafcun di quefti con quelle   voci    Digitized by Google    CHI ^   ‘ voci proprie diverfe, collo ftender poi all’ uno la vo- cAP. XIX.  ce propria dell’ altro , riefce ad appellarli tutt’ a due  allufivamente , e a fignificame i caratteri , quando oc*  corra , con più di forza e con più di vivezza . Con  tal fondamento ei parrebbe, che numerandoli nella fa*  velia italiana da 38000. termini o voci , e non nu*  merandofene nella inglefe che da zdooo., deflunti gli  uni e gli altri proflimamente , e colla Udrà regola  dai più comuni refpettivi Dizionari ; la prima favella  fuperalTe la feconda per capacità di alluuoni, e d’im*  magini traslate, in ragione di ip.aiz., eche di tan-  to più potefle quella fopra di quella dilettare nell* ope-  re a ingegno fcritte.   IV. Ma fopra tutto è cofa mirabile TolTervare, co*  me dalla detta diverfa ellenlion di lignificato ne’ ter-  mini delle lingue, e dal grado impercettibile d’elTa,  con cui li palla dall’uno all’altro oggetto, unitamen-  te a non li là dir quale collocazione dei termini llef-  fi, dipende quella inefplicabile forza, armonia, e gra-  zia di Jiiley che nelle produzioni d’ingegno rapifcegli  animi , e fa bene fpello il più bello e il più dilette-  vole di elTe ; lieve così , che sfugge molte volte il fen-  fo dei nazionali medefimi , e che i forellieri cerumen-  te non aggiungon giammai . Io non ò trovato oltra-  montano , per illudiofo che folle della lingua italia-  na , che rilevalTe differenza veruna jIì flile infra il So-  netto per efempio del Cafa fopra la gelofìa , e quel-  lo d’ogni altro comune fiudente di rettorica che imi-  talfe quello poeta , e non folfe difpoHo a giudicar il  primo del fecondo autore , e il fecondo del primo ,  quando ciò gli folfe flato dato ad intendere . Le bellezze altresì che trovano i forellieri nello flile del Pe-  trarca , di Dante , del Talfo , fon diverfe da quelle  che vi riconofcono gli italiani , e la novella di Giocondo, dilettando del par gli uni e gli altri per I’ in-  venzione ; per le grazie dello flile , e per l’ efficacia  dell’ elocuzione , non diletterà mai tanto un francele come un italiano nell’Ariofto , nè mai tanto un ita-  liano come un francefe nel Fonténe. Ciò che fa, che  di via ordinaria , chi giudica dell’ opere d’ ingegno  d’ altra lingua e d’ altro tempo , s’ attacchi ai di-  fetti che Hanno in elle dalla parte del fentimento ,  del quale è giudice ognuno , come di cofa di tutte  le lingue e di tutti gl’ intendimenti , fenza badare  che Hando al diletto dell’ efpreiEone , quello sfuggen-  do un tempo e un luogo, fpazia molto bene in un  C.XVllI. altro, rilevando talvolta fui fentimento medefuno.  i’ Così i! moto verbigrazia della terra per T annua fua   paralade colle Helle fìlTe, che n’ è la cagione di tut-  ti i luoghi e di tutti i tempi , può comprenderfì da  ognuno del pari, fiaper la propria, fia per l'altrui fa-  vella ; quando il Capitolo dei Lorenzini fulla ven-  detta , o fimil altro tratto di poefia italiana , il cui  pregio confida nella fola collocazione, cnfafi , dite ,  e fignifìcato di voci , per cui dipingere all’ immagina-  zione le padloni umane , non farà mai da neduno  cosi ben rilevato, come dall’ italiano , per eder tut-  to ciò diverlb in ciafcuna lingua, e in ciafcuna na-  zione .   V. Egli è dunque vero , che trattandofi di tradu-  zioni d’ opere d’ ingegno fcritte dall’ una all’ altra  favella , non potran quede mai riufcire quanto al di-  letto della favella deda, o qualora il traduttore adu-  ma di dilettare coll’efprcdìoni del fuo autore, trafpor-  tate nella propria lingua . Quedo nondimeno è quel che  .volgarmente fuol farli, ed è queda la ragione, per cui  le traduzioni quand’anche idruifcano ugualmente che  gli originali , dilettan Tempre meno di quelli , e rie-  fcono per quedo capo quanto inutili per chi intende  ambe le lingue , tanto imperfette per chi non ne in-  tende che una . E ciò allor più , quando nell’ opere  tradotte , il diletto della favella prevale alla dottrina  deir idruzione, come nelle novelle, ne’ romanzi , nel-  le produzioni teatrali , poetiche , e fìmili altre, più cv di spirito che di sentimento. II pretender di dilettare per fodituzioni grammaticali di termini d’una lingua  a quelli d’un’altra, come nel caso suddetto d’idrui*  re \a)y è una vanità, Amile a quella di chi credesse dì meglio ricopiare un ritratto originale, con foprapporvi i suoi colori, cuoprendone cosi e confondendone le tinte, e cangiando il quadro in un mascherone, o in un empiadro. S’aggiunge trattandosi  di poesia, che il numero, L’ACCENTO (Grice), la rima (“Never seek to tell they love, love that never told can be, pleasure, treasure” – Donne, four-corners – cabbages and kings -- ], e 1’altre condizioni, per le quali il diletto dell’eloquenza rileva moltidimo, e che dipendono dall’armonia  che palTa all’intelletto per le vìe dell’udito, sono if>)C.XF.n. del tutto imponibili a tral^rtarfì dall’ una all’altra  iàvella; e che fìccome la musica italiana può farsì udire in Francia, e la francese in Italia, ciafcuna nel suo carattere, ma non è podibile tradurre la musica verbigrazia di GALLUPI (vedasi) in quella di Monsù Ramò. All’ ideflb modo non è podibile per quedo capo, tradurre r una nell’ altra poelia . E il miglior poeta comico italiano de’nostri tempi, potrà darfene  in Francia per padar quivi meglio i fuoi giorni,  ma non giammai perchè il suo talento comico da così  ben rilevato in Parigi, nella lingua francefe non sua, come il fu già in Venezia, nel dialetto suo veneziano. Da ciò A conclude, che non potendo il traduttore nella nuova lingua dilettare colrefpredìoni dell’originale, non gli rederà dunque per tradurre ben  che dilettar coll’espresioni della propria; inguifachè  impodedatoA lui del sentimento dell’autore per idruire com’ edo, l’esponga poi con quei colori di dile, e con quelle fraA d’eloquenza, che nella fua lioeua fon più vive e più forti, per dedare il piacere,  n terrore, la tenerezza, la compasione, e gl’altr’affetti, quai più occorredero . £i dee Agurarn d’ effere autore , per non isAgurare il suo autore, e lafciar  a lui l’arte di dileture colla sua lingua, per dilettar   O ci €» colla propria ; e alTumendo le dottrine e le immagini di quello, esprimer 1’une e rapprefentar 1’altre, coi COLORI (COLORE – Farbung – Grice) colori della sua lingua e poesia che meglio  conofee , e non con quei dell’altra lingua e poesia, che  non potrebbe mai cosi bene conofeere. In altra guisa gli riulcirebbe bensì di privar la sua traduzione del diletto, che potesse provenirle nella propria lingua, ma  non mai di venirla del diletto, che 1’animala nell’altra. L’ indizio poi per cui ravvifare , s’ ei fi fia nel  tradurre comportato con quelle regole, farà fol que  fio, di piacer tanto la fua traduzione a quei della lingua tradotta , quanto l’originale a quei della lingua originale, o di poter quella palTar per opera così originale fra quelli, come 1’originale medesimo pafia per  ule fra quelli. Accogliendo ora le principali verità efpofte di fo-  Epilogo, e pra, fi apprenderà facilmente , una di quefie  CoDcluCone . efl'er quella , di dover difiinguerfi fra le cognizioni  umane le apparenti , e le reali (a). Perciocché io  non ò già pretefo per quanto ò qui fcritto , di per*  fuadere gli uomini a governarli col folo reai delle co*  fe , e di difiruggere infra lor 1’ apparente del tutto ,  come potrebbe alcun lòfpettare. Ciò faria fiato come  voler perfuaderli a lafciar le vie piò facili e pronte di  governarfi, per appigliarfi alle piò lontane e difficili ,  e ad abbandonar quegli alietumenti de’fenfi,dai quai  dipende tutto quel commercio di pafiioni , di pende*  ri , e di azioni grandi e luminofe , per cui pia*  cevolmente fufiifiono ; cofa che non s’ è mai ottenuta , e che in confeguenza non è da fperarfi che s’  ottenga giammai. Al contrario di ciò , mio difegno  è fiato fol quello , di didngannare gli uomini fu  quello apparente mededmo , e di rapprefentarlo loro  per quello eh’ egli è ( i ) , avvertendoli che oltre a  quello , per cui fogliono elfi governarfi , v' à nelle  cofe un reale, per cui li governa irredllibilmente natura, o riferire 1’ uno all’ altro di quedi , dipende quella felicità, di cui fon tanto  anfiofi e foJlecitt , o quella infelicità , per cui alzan-  si trilli e si fpein lamenti . E ia vero non potendo  gli uomini acquillar cognizioni che per mezzo de’sen-  ii , e non^ iflendendofi quelli che alla fuperficie C,XILn. 2 ^  apparente degli oggetti , le cognizioni loro fu quelli  non pollono al primo tratto effere, che fuperficiali e  apparenti. Vero è che oltre ai fenfi, fon eglin dotati  dalla natura eziandio d’ un intelletto , per cui con-  frontando giuHamente fra loro quegli oggetti inferiori  ed ellerni , arguir le verità fu elH piu fublimi ed  interne , e farfi cosi dal vifibile degli oggetti creati , all’ invifibile di Dio eterno e increato . Ma efi-  gendofi a ciò certa allrazione dai fenfi medefimi, da  non praticarfi che con ripugnanza, per l’amor pro-  prio che tiene a quelle apparenze fortemente attac-  cati/ non è poi llupore , le gli uomini di via ordi-  naria s’ arredano fulle prime imprclTìoni , e fe paghi  dell’intereire proprio per quelle, non elaminanpoi, fe  quedo concordi o non concordi col comune degli al-  tri, o colla ragione reale di tutti. Una fimil pi.  C.T,  grizia in edi e tanto più fcufabile , quanto le appa-  renze medelìme non fon fallaci per sè , ma per fola  mancanza di ridedìone , poda la quale, fi rendono  elTe dede il reai delle cofe . £ oltre ciò i difordini che  quindi ne feguono , facendo ben todo accorti gli uo-  mini de’ loro inganni dopo edervi incorfi , fan si che  fe ne correggano, c conofcano quegli errori che (0 *•?*   potean prevenire, ma che non àn prevenuto, ciò che  non è altro che condurli idedamente dall’ apparente al  reale, benché proprio mal grado, a che riguarda quel  detto popolare , che la necedità , o le angudie alle  quali li conducono gli uomini da sè dedi , infegnan  gran cofe .   II. Un’ altra verità dedotta dalle cofe fuddette è  pur queda , che le dette cognizioni reali , alle quali   O z conducono le apparenti , non fon poi tanto fcono-  Ibiute ed ignote , nè da ^efte tanto diverfe , quan-  to raflembrano , e eh’ eifendo anzi quelle inufita-  te nella pratica edema , nel fentUnento e nella pra-  tica interna , fon più note e paleft di quede . Lo  che fi comprova non fòlo per quella coinpadione e  quel ridicolo, che s’ è odervato cadere sì di frequente sulle azioni c debolezze altrui {a)\ ma per quella  circofpezione ancora , e dudio d’ ognuno di occultare  le verità , o di prefentarle e palliarle ad altri con co-  lori alterati , e talvolta mentiti da quel che fi cono-  fcono . Perciocché in ed'etto ciò non è , che tacere il  reai delle cole che più fi lènte e s’ approva , per re-  golarci cogli altri per 1’apparente, che 11 lente e s’approva meno , amando meglio adulare e lufingare  col facile, che illuminar col mdìcile , e infadidir sà  dedi con tacer quel reale , più todo che offendere o  turbar altri con lor palefarlo . E ciò non ]xr altro ,  che per conciliare una pari condifeendenza d’altri verso di sè medefìmi , contenti cosi gli uomini con sì.  bel garbo, quafi d’ingannarfi a gara a chi fa far me-  glio , e di convenzione comune . Effendo poi queda  più o meno la pratica univerfale , il reai delle cofe  non è dunque così arcano e incredibile, come è cre-  duto, ed è anzi più noto ed approvato dell’ apparen-  te, ancorché fimulato quello, e adombrato nelle azio-  ni comuni ederae. E s’odervi, come queda fi mulazio-  ne delle verità reali conofeiute in occulto , è poi altresì fmentita elfa deda io palele da ognuno , allor  eh’ ei dichiara ad alta voce , che le cognizioni uma-  ne fon tutte incerte e fallaci , e che gli uomini fon  foggetti tutti a sbagli e a illufioni , alle quali efpref-  fioni tutti fan eco ed applaufo ; ciò che propriamente  é un vero accordarli da tutti, che febbene gli uomini  fi regolino per P apparente, per cui s’ingannano, ten-  gono nondimeno mi mente e in cuore un reale , per  cui alla line del conto, puc ad onta loro li difìngannano. Ed è eofa maravigliofa , come fu lecito ad ognuno di dichiarare impunemente e con lode , che fian  gli uomini in genere deboli, lufinghieri , e ad errore  foggetti; e non ardifca poi alcuno di far la ileda di-  chiarazione ad un altro, di quello fteflo in ifpecie ,  anzi fia quella creduta cofa villana e indifcreta . L*  ignoranza dunque delle verità reali è polla non già  nel non conofcerle , ma nel (ìmularle ad altri per le  apparenti j mercecchè d’ altronde fe tutti conofco-  no , le cognizioni umane elTer generalmente fallaci,  in quella conofcenza medefima additano molto be-  ne, le reali eHer loro pur note , e a qualche mo-  do non (on più nell’ inganno , rollo che conofcono  d’ eflTervi .   III. Quindi fi prefenta f altra verità pur avvertita,  la qual è, che fe gli uomini prendono errore nel re-  golarfi per cognizioni apparenti , fenza badare fe con-  vengano o non convengano quelle colle reali , il pren-  dono molto maggiore, quando condotti perciò in un  pelago di contraddizioni e d’implicanze, dal qual non  fan come ufcirne , e per ufcire dal quale fon indi  allretti a ingannarli , a tradirfi , a combatterfi inlie-  me con quella ferie di calamità, delle quali non cef-  fano di lagnarfi , fi volgono a imputar tutto quello  alla natura , o ai grande autore di ella; quando C.Z//7.n.a»  ò indubitato doverli tutto ciò afcrivere aHa loro pi-  grizia , per cui non curano di proceder dall’ apparen-  te al reai delle cofe , e s’ arredano alle prime im»   S rdfioni degli oggetti edemi a loro favore, fenza ba-  are fe con ciò ìiano giudi o ingiudi cogli altri . E  in vero che gli uomini per certa inerzia e condifcen-  denza, prefertfcano di adularfi e di accarezzarfi in-  fieme con vide di ambizione, di fado, e di altre ve-  rità apparenti, in luogo d’ iltuminarfi colle reali, te-  mendo ancora per quede di od'endere o conturbare i  più inclinati a quelle ; può ciò palfarfi ( benché con  poco onore dell’ umana ragione ), purché ne’ mali che   O 3 con    'Òt ex  con ciò s’adunano intorno , fi compatifeano e fi di-  fendan fra loro . Quello infatti è ciò che avviene di  via ordinaria, e ben fel vede ogni più faggio ed at-  tento , nel quale eccita ancor tenerezza il vedere co-  me quelli poveri fpenlìerati , poiché fon caduti per  inavvertenza negl’ inganni più vergognofi , fatti indi  accorti di quelli per li difordini che ne confeguono ,  accorrano ad alfillerfi per ufeirne , a compatirli , e a  prellarfi foccorfo gli uni agii altri, comprovando cosi  a elTervi incorfi quafi di confenfo uniforme. Fin qui li  mollrano elfi di un carattere timido e incauto , ma  buono almeno e fincero. Ma che poi vi fian di quel-  li , i quali degli errori e de’ mali che s’ attirano fo-  pra per loro pufillanimità e miferia di fpirito , accu-  fino la natura , quando quella con ingenuo candore  fuggerifee loro, che oltre all’ apparente v’ à negli og-  getti un reale , cui va quello riferito , al qual fi-  ne oltre ai fenfi , per cut apprender gli oggetti , dà  altresì un intelletto , per cui confrontarli ; quella non  può negarfi che non fia la cecità r e la llolidezza  maggiore . PalTando poi al propofìto delle lingue , la ve-  rità più conliderabile avvertita di fopra in ordine ad  elTe e, che quantunque fian quelle dellinate a rappre-  fentare ad altri , e a efprimere gli oggetti e le cogni-  zioni per quelli apprefe ; non fon però così atte a far  quello, come il fembrano a prima villa; e eh*  elTcndo anzi elTe imperfette per efprimer le cognizioni  reali , fervono di fomento per dilatare e dar rifalto al-  (.é)CJCyi.n.u ìe apparenti a efclulìone delle reali medellme (b) .   Cib avviene per mancanza d’ analogia necellària fra le  cofe , e le parole per cui s’efprimono, e fra la diver-  11 tà colla quale s’ apprendono e fi combinano gli og-  getti , e quella colla quale fi proferifeono e fi combi  nan le voci; come altresì fra le foggie, colle quali  cangiano quelli e quelle , che non àn connefilone o  (f) C. XIV. dipendenza necelTaria veruna ì’ une coll’ altre. Quefta oflTcrvazione che parrà nuova nell’ enunciarla > c A P. xx7  non n troverà tal nella pratica , fe fi ponga mente  alle tante ^legazioni , coment! , glofe, e interpreta-  zioni che {penb occorrono per i’ intelligenza degli al-  trui penfamcnti fui libri, o fulla lettera di efli, maf-  fime fe fì tratti di leggi, di coftumi, e di azioni an-  tiche cfprefie con lingue perdute. Le quali interpretazioni fan conofcere , che non folo i coiiumi divcrfi  pallati non àn relazione necelTaria conofciuta veruna  cogli (ieflTi prefenti, ma che le lingue pur morte diverfe  non 1’ ànno con una llefla pur viva , e ciò fenza di-  pendenza di ciafcuna di quefle relazioni coll' altra ;  giacché per le flelTi voci antiche fi dedano diverfi , e  talor contrari concepimenti in perfone d’ una lingua  medefìma da quella diverfa, alfiflellb tempo. Quindi  molto più apparifce l’ incapacità delle lingue per det-  tar regole di vita , che fervano a tutti i tempi e i  luoghi , ne’ quali fi cangiano e i coliumi e le lin-  gue ; e come elTendo le azioni , per quanto pajan con-  nmili , ciafcuna diverfa da tutte le altre alio flelTo ,  e molto più a’ tempi diverfi (a) , ciafcuna doveflb (j)C.F/. ».t.  efigere quafi una legge diverfa, o dettata diverfamen-  te , eflcndo invero in^lTibile il comprenderle e re-  golarle tutte, colla fiefia efprefiìone di voci. Certo è,  che nella pratica ancor più fenfata , una legge per  efempio , che non può dettarli dai legislatore che fu  tutti i cafi in afiratto non avvenuti , dee fempre dal  faggio giudice interpretarfi nell’ applicarla ai cafi av-  venuti particolari , cial'cun de’ quali è noto diverfi-  iicare da tutti gli altri per adiacenze, occafioni , cir-  cofianze e motivi che lo accompagnano ; fenza di  che quella legge fi trova fempre al propoli to o rigi-  da o lenta , o mancante o eccefiiva , o facile o le-  verà . E gl’ Inglefi che pa|ono aver fempre del fingo-  lare, col foggettarfi alla lettera materiale delle lor leg-  gi più tolto che al fenfo di efle, non fi fono accorti,  che di uomini ragionevoli eh’ ei fono, fi fon contentati di confiderarfi come tanti automi , da muoverfì  per quelle leggi come per molle , a guifa di figure  in un quadro movibile ; operando cosi non per la  ragione lor viva , ma per la morta di alcuni loro  vecchi parlamentar] , non certamente d’ efll più ragionevoli .   V. Finalmente dall’ elTer le lingue più atte a dif-  fonder le cognizioni apparenti che a efpor le reali ,  fi conferma la verità prima fuddetta , che gli uomi-  ni in generale abbiano ad elTer più ricchi di quelle,  che di quelle cognizioni ; giacché la favella, per cui  s’ avanza 1’ apparente , è infatti più comune della  riflelfione e della meditazione , per cui s’ avanza il   i»)CJCyiM.x. reale. Ciò che conviene col detto ancor popola-  re , che la verità e la virtù fincera Ila nell’ azione  e non nella favella , e che gli uomini più millanta-  tori e loquaci Ibn meno attivi degli altri . Il giu-  dicarli più virtuolì e più faggi , perchè più parlano  di virtù e di faviezza , ognun fa eh’ è un giudicio  dubbio ed equivoco ; e che quando ancora fi verifi-  calle elTo della virtù e faviezza apparente , della rea-  le non potrà verificarli giammai . Del rimanente io  fon certo , che in propofito di quella mia folenne  dillinzione di apparente e di reale , di che ò fatto  qui si grand’ ufo, alcuni avrebbero defiderato, eh’ io  r avelli meglio Specificata , efemplificandola fu fog-  eetti particolari , e tnalTime fu quei che riguardano  la comun fulTillenza e i comuni aflàri , e aflegnan-  do in elfi ciò che fia apparente e ciò che fia reale,  o dillinguendo 1’ uno diair altro . Quello non pote-  va io qui fare, trattando di oggetti , di collumi , e  di cognizioni in genere . Trovo però di averlo fat-  to in altro luogo, ove trattando particolarmente dell'  Economia e del Governo de’ popoli , ò polle molte  propofizioni col titolo di Error$ popolari , che fono  tante verità apparenti , alle quali ne ò contrappollo  altrettante col titolo di ^JJiomi , che non fono che   veri-  '-Secxiii ^   errori contrarie, delle quali prò- cap. XX?  pofìzioni un faggio fa ancor veduto da alcuni . Lo  lleflo potrà farfi da ognuno in qualfìvoglia altro par-  ticolare foggetto , che fe gli prefenti alla mente j o  eh’ ei prenda in confìderazìone , fui quale proceden-  do col metodo col quale io fon proceduto in quello,  allora dovrà fempre temere di giudicare per 1’ appa-  rente , quando flando alle prime impredioni de’ (en-  fi , badi al particolare di sè fteflo o d’ alcuni , tra-  feurando il rimanente degli altri ; e allora potrà a(^  ficurarfi di giudicare realmente , quando badando al  particolar di sè (le(To o di alcuni , abbia altresì ri-  guardo al comune di tutti , a fomiglianza di giuda  e imparziale natura. Que(ia amica di tutti, non  tien nelTuni nemici , e non opera mai per uno, che  con relazione all’ univerfale degli uomini e di fe def-  (a ; e il medefimo dee fare chiunque penfi imitarla. I N-  /^Ggetti apprenGbili origini della fiTelIa . pag. i   II. Della fomigliaaza» edifomiglianza degli ogget*   ti appreoGbili. Oggetti come apprefi diverfamente. la   IV. Oggetti come nominati per la fietfa favella .. 14   V. Oggetti come nominati per favelle diverfe. 18   VI. Della diverGtà poflìbile de’ coftumi . za  Della contrarietà impoffibile de’ coftumi. z8   Vili. Coftumi creduti contrai non fono comuni. Delia ftabiliti , e iftabilità de’ coftumi . De' coftumi efpreftS per la fteffa favella.  De’ coftumi efprefti per favelle diverfe. Delle cognizioni reali, e delle apparenti. do Cognizioni apparenti più pratiche delle reali.  Imperfezione della favella fulle cognizioni reali. 73   XV. Imperfezione della favella motivo dell’ eloquenza . 77   XVI. Eloquenza come nociva alle cognizioni reali. Deir eloquenza fulle cognizioni apparenti .Dell’ eloquenza fulle cognizioni reali. Delle traduzioni dall’ una all’altra favella Epilogo e ConcIuGone. Gianmaria Ortes. Ortes. Keywords: verso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ortes” – The Swimming-Pool Library. Ortes.

 

Grice ed Ostiliano: la ragione converazionale e il portico romano -- la filosofia romana sotto il principato di Vespasiano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A follower of the Portico. His claim to fame is that Vespasiano (si veda) banishes him from Rome. Ostilliano.

 

Grice ed Otranto: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – la scuola d’Otranto -- filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Otranto). Filosofo italiano. Otranto, Puglia. Grice: “Otranto wrote a tractatus ‘de arte laxeuterii,’ which is an art of ‘divination,’ as when we say that smoke divinates fire!” -- Grice: “Had Otranto not written ‘scritti filosofici’ we wouldn’t call him a philosopher!” – Filosofo. Sull'infanzia e sulla formazione poco è noto. Non si sa dove oggiorna e studia, né chi siano stati i suoi maestri. La sua filosofia, però, lascia immaginare una formazione molto solida. Insegna a Casole. Tradusse la liturgia di Basilio ed altri testi liturgici per volontà del vescovo. Le sue competenze linguistiche gli valeno inoltre degli incarichi diplomatici. Interprete al seguito dei legati papali Benedetto, cardinale di Santa Susanna, e Galvani. E a Nicea al seguito del re Federico di Svevia. Saggi: “L'arte dello scalpello”, con una raccolta di testi geo-mantici ed astrologici; traduzioni di testi liturgici; “Dialogo contro i giudei”; Tre monografie o syntagmata “Contro i Latini” -- su questioni dottrinali significative nella polemica fra cattolici ed ortodossi (quali la processione dello spirito santo o il pane azzimo); un'appendice ai tre syntagmata; lettere e frammenti di  lettere;.  J Hoeck-R.J. Loenertz, Nikolaos-Nektarios von O. Abt von Casole. Beiträge zur Geschichte der ost-westlichen Beziehungen unter Innozenz III. und Friedrich II., Ettal. M. Chronz: Νεκταρίου, ηγουμένου μονής Κασούλων (Νικολάου Υδρουντινού): « Διάλεξις κατά Ιουδαίων». Κριτική έκδοση. Athena,  L. Hoffmann: Der anti-jüdische Dialog Kata Iudaion des Nikolaos-Nektarios von O.. Universitätsbibliothek Mainz, Mainz, Univ., Diss., Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Homosexuality in a textual gap in what was going on in Italian Byzantine convents under Roman rules. Longobards being raped, or raping Greek monks. Nicola Nettario d’Otranto. Otranto. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Otranto” – The Swimming-Pool Library. Grice ed Otranto – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.

 

Grice ed Ottaviano: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale nel secolo d’oro della filosofia romana sotto il principato d’Ottaviano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Il primo principe. Historia augusta, scritta d’Ottaviano. His philosophical teachers are well known. The education of a prince. O. lascia alla sua morte un dettagliato resoconto delle sue opere: le Res Gestae Divi Augusti. Svetonio in particolare racconta che una volta morto, lascia tre rotoli, che contenevano:  il primo, disposizioni per il suo funerale, il secondo, un riassunto delle opere, da incidere su tavole in bronzo e da collocare davanti al suo mausoleo, il terzo: la situazione dell'Impero. Quanti soldati sono sotto le armi e dove erano dislocati, quanto denaro era nell'aerarium e quanto nelle casse imperiali, oltre alle imposte pubbliche. Il testo dell'opera è tramandato da un'iscrizione in latino. E incisa sulle pareti del tempio, dedicato alla città di Roma e ad O., situato ad Ancyra -- l'odierna Ankara, la capitale della Turchia -- e pertanto è stata denominata Monumentum Ancyranum. Altre copie, molte delle quali sono giunte frammentarie, dovevano essere incise sulle pareti dei templi a lui dedicati.  In uno stile volutamente stringato e senza concessioni all'abbellimento letterario, Augusto riportava gli onori che gli erano stati via via conferiti dal Senato e dal popolo romano per i servizi da lui resi; le elargizioni e i benefici concessi con il suo patrimonio personale allo Stato, ai veterani di guerra e alla plebe; i giochi e le rappresentazioni dati a sue spese; infine gli atti da lui compiuti in pace e in guerra.  Il documento non menziona il nome dei nemici e neppure quello di qualche membro della sua famiglia, con l'eccezione dei successori designati: Marco Vipsanio Agrippa, Gaio Cesare e Lucio Cesare, oltre al futuro imperatore Tiberio. O. e totus politicus, fin dall'adolescenza. Forse lo rivendica egli stesso nelle sue memorie. L'unico frammento di una certa ampiezza in cui leggiamo esattamente le sue parole racconta di lui men che diciannovenne alle prese con una imprevista e imprevedibile circostanza esterna, prontamente messa a frutto in termini politici. Si tratta di un miracolo ed egli capì subito che anda capitalizzato. Durante i giochi da lui organizzati in memoria di GIULIO (si veda) Cesare, in un momento di massima incertezza politica, tra liberatori perplessi e cesariani frastornati - apparve una cometa e rimase visibile per ben VII giorni. Il fenomeno fa molta impressione. «l volgo – scrive O. nelle sue memorie - credette -- “vulgus credidit -- che quella stella significa che l'anima di Cesare e stata accolta tra gli dei immortali. Usando tale pretesto (quo nomine) feci subito (mox) aggiungere quel simbolo al busto di GIULIO Cesare che fa consacrare nel foro. Il brano è citato da PLINIO nella Naturalis Historia, il quale commenta. Queste furono le sue parole, destinate al pubblico, ma una gioia intima gli suggere che quella stella era NATA PER LUI e che lui nasce in essa. L'episodio ha avuto una eco imponente nella letteratura poetica e storiografica, coeva e successiva. La formale decisione del Senato romano - che stabili essere GIULIO Cesare ‘divino’ - ha luogo. Divus lulins. In tal modo O. diventa ope legis, figlio di Dio, Divi filius. C'è chi pensa che già in concomitanza con la conquista a mano armata del consolato, O. ottene tale prezioso riconoscimento. Ma di fatto le premesse O. le aveva poste con l'operazione «cometa», alla quale del resto si richiama una vasta tradizione superstite: da Seneca a Svetonio a Plutarco a Dione Cassio. Ma al benefico astrum Caesariso fa già riferimento VIRGILIO, e ormai rinfrancato, nell'Ecloga. La carriera d’O. e incominciata già l'anno prima, quando, neanche allora in ottima salute, aveva raggiunto GIULIO Cesare in Ispagna per esser presente all'ultima durissima lotta contro i pompeiani, culminata nella battaglia, fino all'ultimo incerta, di Munda. Difficile stabilire se GIULIO Cesare lo avesse già allora notato, se Azia - madre di O. - abbia attratto l'attenzione di GIULIO Cesare su di lui, se O. forza la situazione superando le esitazioni materne. Quanto ci sia di riscrittura post eventum e quanto invece di autenticamente vero in questo passaggio, che i biografi cortigiani d’O. esaltano come premonitore, forse non si potrà mai accertare. In ogni caso spicca la capacità dimostrata da GIULIO Cesare di scegliere un successore. In politica non accade quasi mai. I capi carismatici hanno, oltre che l'idea della propria indispensabilità, anche la certezza della propria superiorità. Di qui la loro sospettosa sfiducia verso il proprio entourage, nel quale pur debbono pescare chi verrà dopo di loro. A sua volta O. cerca per anni, e resta tra gli arcana delle sue ultime ore di vita se sia stato davvero pago della scelta compiuta (Svetonio, Vita di Tiberio). E ben si comprende. GIULIO Cesare sceglie un figlio adottivo ed erede che puo, se si e confermato capace, diventare un capoparte; O., invece, pur avendo restaurato la repubblica cerca un successore. Anche dal modo in cui risolse questa tormentosa difficoltà degli anni finali viene fuori il ritratto di un politico totale dotato di una visione in cui la certezza della propria insostituibilità' -- che rende, tra l'altro, ancor più disperante la ricerca di un successore -- si sposa con la tenacia nel perseguire l'attuazione di un disegno; coniugare conservazione e rivoluzione, dare alle istanze fondamentali della rivoluzione cesariana una salda cornice di conservazione. Il che era molto di più, e molto più complicato, di una riproposizione aggiornata del principato di Pompeo. Gli anni della lunga pace non sono facili. Non sono mancati, in quei lunghi anni di governo solitario, congiure, insidie, e persino il rischio che i conflitti si riaprissero. Da qualche cenno di Seneca si deduce che ce ne furono e non irrilevanti. E se Seneca ne e informato vuol dire che ne trova la traccia nelle inedite Historiae ab initio bellorum civilium che suo padre continua a scrivere e ad aggiornare ma non se l'era sentita di pubblicare. E anche questa prudenza di uno storico accorto, che fa a tempo a intravedere «il mondo di ieri», ci fa capire che per O., alla fine, l'unica scelta possibile era quella della storia sacra. Perciò, quando la lunga pace civile del suo interminabile governo non ha più bisogno di una ravvicinata e puntuale messa a punto aderente alla quotidianità politica, egli inventa un altro strumento che affermasse in modi essenziali e monumentali, sperabilmente per sempre, la sua verità: il solenne e sacralizzante ri-epilogo dei propri successi, da trasmettere a tutti i sudditi, non soltanto ad una cerchia più o meno larga dell'élite dirigente. Così nasce in lui l'idea delle Res gestae, diffuse su supporto durevole per tutto l'impero e perciò salvatesi: covate e limate nel corso degl’anni, e alla fine pronte, oltre che per l'impiego monumentale, per la lettura postuma, davanti al Senato intimidito e allenato ormai alla servitù spontanea, attraverso la bocca dell'erede designato, anzi, con ulteriore ricamo rituale, del figlio di lui Druso. Per Roma e una radicale novità. E la via epigrafica alla storia sacra, sul modello delle grandi epigrafi regie del mondo iranico -- Dario a Bisutun -- e del mondo egizio, faraonico e poi Il ruolo delle Res gestae e quello non solo di dichiarare chiuse per sempre le guerre civili, ma di spiegare anapoditticamente ai posteri, la perfetta riuscita di quel disegno e di fare accettare questa verità come l'unica vera nel momento stesso in cui la successio dinastica ne rivelava la principale crepa. Nel che risiede la loro grandezza e, insieme, la loro fragilità. VOX AVGVSTA. Petrarca, nel secondo capitolo del primo  libro delle Res memorandae, racconta d’essergli avvenuto, ancora giovinetto, di leggere un libriccino contenente gli epigrammi e le lettere agli amici dell’im-  peratore Cesare Augusto, conditum facetissima gravitate  et luculentissima brevitate adorno di forbita dignità  di stile e di eloquente brevità; un volumetto quasi  intonso e mezzo divorato dalle tarme, che andò per-  duto, e che, per quanto disperatamente cercasse, Petrarca non riuscì più a trovare. I dotti dubitano  della veridicità della notizia, ma forse dubitano a torto,  giacchè nessuna ragione poteva avere Petrarca di men-  tire la notizia, e da nessun’altra fonte che dalla diretta  lettura avrebbe egli potuto derivare un giudizio così  vero e preciso sulle doti stilistiche degli scritti di  Augusto. Non resta, dunque, che dichiararci contenti  che a rivelare al mondo la grandezza di Cesare Augusto  scrittore sia stato il primo umanista d’Italia, e che a  nessun altro sia riuscito meglio che a lui di definire,  in fresco e saporoso latino, le caratteristiche dello stile    del figlio adottivo di Giulio Cesare. Molti secoli passarono prima che si ponesse di nuovo  mente ad Augusto scrittore, e solo quando fu ritrovata  l’iscrizione di Ankara in Anatolia i dotti si diedero a  raccogliere i frammenti degli scritti imperiali e a riprodurli più volte in edizioni belle e brutte, rintracciando  meticolosamente il benchè minimo frammento. Sulla  iscrizione dell’ Augusteo d’Ankara storici e filologi discutono ancora, voglio dire che ancora non si sono messi  d’accordo sulla natura e significato di uno dei quattro  documenti che O. consegna, insieme col  testamento, alle vergini Vestali perchè alla sua morte  fossero letti in Senato. I quattro documenti erano le  disposizioni per i funerali, il resoconto delle sue gesta,  una relazione sulla situazione militare e finanziaria  dell’Impero, i consigli a Tiberio sul modo come reggere  e amministrare la cosa pubblica. Ci è giunto intiero  il secondo dei quattro documenti: ma non già nell’esem-  plare che Tiberio, obbedendo alla volontà di Augusto,  fece scolpire nel bronzo dei due pilastri collocati innanzi  al grandioso Mausoleo, che sorgeva, nella parte setten-  trionale del Campo Marzio, tra il Tevere e la via Flaminia; bensì nella copia che fu incisa nella pietra  dell’Augusteo di Ancyra, capitale della Galazia, cioè  nell’Augusteo di Ankara, capitale della nuova Turchia.  Ivi, nel capoluogo di una provincia romana, le Res  gestae Divi Augusti furono incise nel testo latino det-  tato dall’Imperatore e nella traduzione greca fatta eseguire dal successore Tiberio, perchè le parole di Cesare. O. sonassero più intelligibili alle popolazioni  orientali. Questa è l’iscrizione nota col nome di Monumentum  ancyranum, da venti anni a questa parte riprodotta  in un testo sempre meglio corretto, essendo stata rinvenuta un’altra copia dell’originale latino nella colonia  imperiale di Antiochia di Pisidia. Ma, come ho detto  innanzi, i dotti discutono ancora sul significato del  documento, nel quale Augusto volle rendere pubblica  ragione delle cariche ricoperte, dei donativi elargiti e  delle imprese operate. E, purtroppo, anche in questo  caso, taluni critici, per cercare di scoprire i diversi  momenti della redazione dello scritto, hanno affermato  che il piano generale dell’opera è disorganico e disor-  dinato, che molte sono le incoerenze di alcune parti,  e che però Cesare Augusto ha redatto il documento  ampliandone uno precedente, più modesto e meglio ordinato. Insomma... una quistione omerica, che, a  parer nostro, è facilissimo distruggere nelle sue false  ed ingannevoli argomentazioni con poche parole. Il documento di Augusto non è un bilancio, non  è un testamento politico, non è un'iscrizione del tipo  degli elogia; ma è rendiconto, testamento ed elogium,  perchè Augusto l’ha redatto quando si appressava il  giorno della morte. Per ciò stesso non rientra in nessun  genere. La solennità del latino del documento augusteo non è soltanto nello stile, ma è nei fatti che vi sono  esposti, e soprattutto è nel fatto che al Senato e al  Popolo di Roma parla il fondatore dell’Impero, il Padre  della Patria, Augusto, e non per esaltare la sua propria  opera, ma per proclamare che essa rimarrà in eterno  legata alla fedele collaborazione del Senato e del Popolo  di Roma. Svetonio afferma che Augusto soleva scrivere tutto  ciò che dovesse dire, che scriveva perfino quello d’importante che dovesse dire a sua moglie Livia; e che  si era assuefatto a scrivere meticolosamente i suoi  discorsi al punto che, quando la troppo cagionevole  gola gl’impedisse di arringare la folla, un araldo leg-  geva ad alta voce il suo manoscritto: praeconis voce ad  populum contionatus est. Perciò io dico che anche questo  documento è un discorso al Popolo di Roma: l’ultimo  discorso nel quale il Padre della Patria, Cesare Augusto,  rende conto dell’opera sua.   E le prove della mia affermazione sono la presunta  incoerenza e il presunto disordine scoperti e biasimati  dai critici. Ma non sono malinconicamente ridicoli quei  critici i quali cercano di dimostrare in « sede scientifica »  che Cesare avrebbe copiato da Posidonio molti capitoli  di un libro dei commentarii della guerra gallica (e sono,  purtroppo, Italiani); o questi altri (e fortunatamente  non sono Italiani) che scoprono in Augusto un errore di  cronologia? Giacchè, se dovessimo dar retta a costoro, O. avrebbe commesso l’errore di menzionare alla  fine del documento i due maggiori titoli del Pater Patriæ e di Augustus conferitigli dal Senato e dal  popolo negli anni 27 e 2 avanti Cristo. Invece che  nel trentaquattresimo e trentacinquesimo paragrafo,  Augusto avrebbe dovuto ricordarli, a giudizio di cotesti  critici, molto prima: chè insomma avrebbe dovuto fare  opera di storico mediocre e dimenticare di essere  Cesare Augusto. Leggete il documento. Esso comincia: annos undeviginti natus exercitum privato consilio et privata impensa  comparavi, per quem rem publicam a dominatione fac-  tionis oppressam in libertatem vindicavi: « all’età di  diciannove anni, di mia iniziativa e con danaro mio  apparecchiai un esercito, e con esso restituii libertà  allo Stato oppresso dalla prepotenza di una fazione.  E si chiude così. Tra il sesto e il settimo consolato  mio, dopo ch’ebbi soffocate le guerre civili ed assunto,  per universale consenso di tutti i cittadini, il supremo  potere, trasferii dalla mia persona all’arbitrio del Senato  e Popolo romano il governo della cosa pubblica. Per  questa mia benemerenza, mi fu conferito, con decreto  del Senato e Popolo romano, il titolo di Augustus...  Durante il tredicesimo mio consolato, il Senato, l’ordine  equestre e il Popolo romano mi acclamarono Padre  della Patria, e decretarono che questo titolo dovesse  essere iscritto nel vestibolo della mia casa e nella curia  Giulia, sotto la quadriga che per decreto del Senato  fu eretta ad onor mio. Quando redigevo questo documento, avevo settantasei anni. Comincia: annos undeviginti natus; finisce: annum  agebam septuagesimum sextum. Non dimentichiamo  questa chiara e significativa corrispondenza tra l’inizio  e la chiusa del documento, nella quale sono compresi  i cinquantasette anni della vita politica di Cesare  Augusto. O sembra, forse, strano che per sublime  orgoglio il primo cittadino della Roma imperiale, acco-  miatandosi per sempre dalla plebe romana, di tutti i  titoli e honores ch’egli ebbe in vita, voglia ricordare  alle generazioni avvenire il nome di Augustus e il  titolo di Pater Patriæ? O. era infermo, la morte si appressava non  temuta, ma serenamente attesa, chè infatti morì di bella morte. Egli parla per l’ultima volta al Senato e  Popolo di Roma, come un cittadino, che, amministrata  la cosa pubblica, dimesso dall’ufficio, consegni al successore l’incarico e chieda, con coscienza onesta e proba,  il benservito. C’è in questo documento un crescendo  di tono, che verso la fine raggiunge il maestoso: dal  venticinquesimo paragrafo in poi esso si fa solenne  come litania: mare pacavi a praedonibus; omnium  provinciarum populi romani fines auxi; Ægyptum  imperio populi romani adieci; colonias deduxi; signa  militaria reciperavi; Pannoniorum gentes imperio populi romani subieci; ad me ex India regum legationes  saepe missae sunt; ad me supplices confugerunt reges;  a me gentes Parthorum et Medorum reges habuerunt;  e finalmente i due ultimi paragrafi sopratradotti. Sui mari ha debellato i pirati, ha allargato i territori di  tutte le provincie dell’Impero, ha aggiunto la nuova  provincia di Egitto, ha fondato nelle più lontane regioni  colonie di Roma, ha recuperato bandiere e vessilli: a  lui hanno fatto ricorso in atto di supplica i re di tante  nazioni, da lui le genti di Oriente hanno avuto i re  che avevano dimandati. Col trentesimo terzo paragrafo  si chiude il rendiconto delle imprese operate da Cesare  Augusto; nel trentaquattresimo e nel trentacinquesimo  paragrafo risuona il ricordo del nome di Augustus e  del titolo di Pater Patriæ. Al Senato e Popolo romano,  alle genti tutte dell’Impero, alle generazioni avvenire  Augusto si raccomanda e consacra, prima che la sua  terrena giornata si chiuda, con quel nome solo e solo  con quel titolo.  *  ws   Cesare Augusto affida il manoscritto alle vergini  Vestali perchè fosse consegnato dopo la sua morte al  Senato e inciso sul bronzo. Il successore Tiberio fece  riprodurre il testo com’era, con una brevissima appen-  dice e in ortografia un tantino diversa da quella prefe-  rita da Augusto, ma certo senza nessuna sostanziale  modificazione. Dunque, noi possediamo un’opera intera  di Augusto, la quale ci rivela la sua grande personalità  di scrittore. Il latino d’O. non è QUELLO DI GIULIO CESARE. O.  scrive e parla IN PRIMA PERSONA, ma si può dire che in questo scritto egli raggiunga la stessa efficacia dei Commentari. Non giudica, NON AGGIUNGE NESSUN COMMENTO ai fatti che espone pacatamente e senza enfasi, ma dalla secca enumerazione dei templi fondati, degl’edifici  pubblici restaurati o costruiti, delle somme elargite  all’erario e alla plebs, delle genti soggiogate, dei nemici  sconfitti, delle terre conquistate, delle leggi promulgate,  spira il calore dell’epopea e della leggenda. La sua  opera appare, quale fu, colossale; e vien fatto di ripen-  sare ai primi quattro versi della prima epistola del  secondo libro di ORAZIO (si veda). Se io tentassi di rubarti un  po’ di tempo con una lunga chiacchierata, o Cesare,  peccherei contro l’interesse dello Stato, giacchè da solo  sostieni tante e così gravi cure, e l’Italia difendi con  gli eserciti, e ne incivilisci i costumi, e con leggi la  emendi. Epico è il tono di questo scritto d’O., anche  là dove sono riassunte in brevissime parole imprese  che durarono anni. Colonie militari ho inviato in  Africa, in Sicilia, in Macedonia, nelle due Spagne, in  Acaia, in Asia, in Siria, nella Gallia Narbonense, in  Pisidia. E l’Italia diciotto colonie possiede; dedotte  per ordine mio, le quali, per tutto il tempo ch'io vissi,  sono state assai popolose e prosperose. Leggendarie  appaiono le legioni, che, guidate da lui o dai generali  suoi sotto ì suoi auspici, marciano, di conquista  in conquista, verso confini sempre più lontani; e avvolte  nella leggenda sembrano le triremi sue che fanno vela,    =_= 1 -:-—=- esse poni    “bi ski audaci, verso nuovi lidi: « La mia flotta corse l’Oceano  dalla foce del Reno fino al territorio dei Cimbri ad  Oriente, dove, nè per terra, nè per mare, nessun Romano  prima di allora era giunto... ».   Augusto ha uno stile sobrio, nient’affatto enfatico,  e tuttavia solenne. Egli adopera vocaboli che sono  sempre esatti e tecnici, censuit, decrevit, ussit, creavit,  per dire che il Senato e Popolo romano ordinò, decretò,  comandò, nominò. La collocazione delle parole è semplicissima, lineare, chiara, antiretorica, come in questo  periodo che è uno dei più ricchi sintatticamente: nomen  meum senatus consulto inclusum est in saltare carmen,  et sacrosanctus in perpetuum ut essem et, quoad viverem,  tribunicia potestas mihi esset, per legem sanctum est. Il  mio nome per decreto del Senato fu compreso nel  carme dei Salii, e che inviolabile io fossi in perpetuo,  ed a vita avessi il potere tribunizio, fu per legge sancito.   Non fa mai il nome degli avversari suoi; tace quello  dei congiurati che assassinarono il padre suo Cesare:  qui parentem meum interfecerunt, eos in exilium expulsi  iudiciis legitimis ultus eorum facinus et postea bellum  inferentis rei publicae vici bis acie: «Quelli che assas-  sinarono il padre mio li cacciai in esilio punendo con  procedimento legale il loro delitto, e, in seguito, quando  essi portaron guerra allo Stato, per due fiate li sconfissi  in campo ». E continua, pacato e grave:   « Guerre per terra e sui mari, civili ed esterne,  in tutto il mondo più volte ho combattuto, e vincitore  risparmiai tutti i cittadini che dimandarono grazia.  Le genti straniere alle quali fu possibile, senza pericolo, perdonare, preferii conservarle anzi che distruggerle. Sotto le mie bandiere circa cinquecentomila cit-  tadini romani militarono. Di essi più che trecentomila  mandai nelle colonie o feci ritornare ai loro municipi,  dopo ch’ebbero compiuto gli anni di servizio, e a tutti  assegnai terre oppure donai danaro a ricompensa del  servizio prestato. Seicento navi catturai, non includendo in questo numero quelle di tonnellaggio inferiore  alle triremi. Entrai in Roma ovante, due volte: tre ebbi trionfi  solenni e ventuna volta fui acclamato imperator, sebbene il Senato mi decretasse un maggior numero di  trionfi, ai quali tutti rinunciai. L’alloro dei fasci lo  deposi in Campidoglio, e così sciolsi il voto che avevo  solennemente fatto in ogni guerra. Per le imprese felicemente da me o dai miei generali sotto i miei auspici  operate in terra e sui mari, il Senato cinquantacinque  volte decretò che si rendessero grazie agli dèi immortali. Ottocentonovanta furono i giorni nei quali, per  decreto del Senato, s’inalzarono pubbliche preci. Nove  re o figli di re furono nei miei trionfi condotti innanzi  al mio cocchio. Ascoltatelo quando riassume in un periodo solo la  sua opera di legislatore: « Con leggi nuove da me  promulgate richiamai in vigore le consuetudini antiche  dei padri, che già cadevano in oblio nella nostra generazione, e io stesso ho lasciato alle generazioni avvenire  esempi di molte cose, degni d’essere imitati.  Sentitelo quando ricorda gli onori che il Senato e  Popolo di Roma conferì ai suoi due figli adottivi, e  leggerete in un brevissimo inciso il dolore del padre  per l’immatura morte di Gaio e Lucio Cesare, e l'umano  e affettuoso compiacimento suo nel ricordare che appena  quindicenni essi furono acclamati principi della gioventù romana e designati consoli. I due figli miei,  che il destino mi strappò ancor giovani, Gaio e Lucio  Cesare, il Senato e Popolo romano per farmi onore li  designò consoli appena quindicenni, che entrassero in  carica dopo cinque anni. E il Senato decretò che dal giorno della loro presentazione nel Foro partecipassero ai pubblici consigli. E tutti i cavalieri romani li acclamarono principi della gioventù, e offrirono in  dono scudi e lancie di argento ». E, infine, ascoltatelo  quando ricorda gli anni di Azio e dell’ultima guerra  civile. Mi giurò fedeltà l’Italia tutta intera, spontaneamente, e mi volle condottiero della guerra nella  quale vinsi ad Azio. Mi giurarono fedeltà anche le provincie delle Gallie, delle Spagne, d’Africa, di Sicilia,  di Sardegna. O. è filosofo accortissimo, che aborre da ogni  lenocinio sintattico o lessicale, ma che nel giuoco delle  congiunzioni, del polisindeto e dell’asindeto, riesce a  far leggiero o grave il tono della voce, più lento o più  celere, ma non mai concitato il movimento della frase. Abbiamo letto or ora un esempio di asindeto, in cui  le pause tra un nome e l’altro delle provincie rendono  più solenne l’immagine del mondo romano stretto nel  giuramento intorno al suo Duce; eccone, invece, un  altro di polisindeto, là dove O. ricorda l’iscrizione dello scudo d’oro offertogli dal Senato. Il testo originale dell’iscrizione era il seguente. Il Senato e Popolo di Roma offre ad O. questo  scudo per il suo valore clemenza giustizia pietà – VIRTVTIS CLEMENTIÆ IVSTOTIÆ ET PIETATIS CAVSA – e, naturalmente, VIRTVS sta a significare l’opera del condottiero  d’eserciti, e PIETAS il profondo ossequio alle istituzioni  religiose. Ma O. riunisce più efficacemente in  due endiadi le quattro virtù, essendo le due prime  proprie dell’opera sua di condottiero, le altre due del  magistrato civile e supremo amministratore dello Stato. VIRTVTIS CLEMENTIÆ IVSTITIÆ ET PIETATIS CAUSA. Perciò io dico che è molto difficile tradurre bene i  paragrafi delle res gestae d’O.  A questa grande iscrizione, che Mommsen  chiama la regina delle iscrizioni latine, è mancato chi  la traducesse nella lingua del principe, perchè è stata  rinvenuta troppo tardi. Nei tempi moderni avrebbe  potuto tradurla solo Tommaseo, ma non l’ha fatto  perchè non la conosce. TOMMASEO traduce solo le sette  parole che son citate da SVETONIO nella vita d’O,  ed io le ho ripetute nella mia traduzione copiandole dal  Dizionario d’estetica, e le ripeto di nuovo con accanto  il latino d’O. BIS OVANS TRIVMPHAVI ET TRIS EGI CVRVLIS TRIVMPHOS. O entra in Roma ovante, due volte:  tre volte ha trionfi solenni. Solo la collocazione delle  parole semplice ed efficace, e un raro accorgimento  nella scelta dei vocaboli e dei sinonimi potrebbero  soddisfare il desiderio nostro di una traduzione italiana che riproduce gl’effetti del latino d’O. O. e filosofo elegante e temperato. SVETONIO  riferisce che egli filosofa su molte cose, alcune delle quali legge NELLA CONVERSAZIONE DEGL’AMICI, quasi dinanzi a un uditorio come le risposte a BRUTO (si veda) intorno a CATONE (si veda), che essendosi messo a leggere, giunto un pezzo innanzi, finalmente stanco dovè farne terminare a Tiberio la lettura;  l’esortazioni alla filosofia, ed alcune notizie della sua  vita che espose giungendo fino alla  guerra cantabrica e non più in là. Compone anche  qualche verso. Rimane, al tempo di Svetonio, un  volumetto in esametri sulla Sicilia e un altro di Epigrammi, i quali egli e andato COMPONENDO DURANTE IL BAGNO.  Anche incomincia con grande alacrità una tragedia, ma non essendo contento della  forma la distrusce, e agl’amici che un giorno gli dimandano che fa di bello il suo Aiace, risponde  che il suo Aiace s’e buttato non sulla spada, ma  in una spugna. Spregia di fare uso di vocaboli dotti e difficili   o com’egli stesso li define reconditorum verborum fetoribus. Ha a noia i leziosi e gl’arcaizzanti, ciascuno  vizioso nel suo genere, e talvolta li mette in derisione e sopra ogni altro il suo MECENATE (si veda) di cui continuamente riprende i riccioli stillanti unguento,  come li chiama. Non la perdona neppure a Tiberio  che anda a caccia di parole stantie, e da del  matto a Marc’ANTONIO (si veda), come colui che FILOSOFA PIÙ PER FARSI AMMIRARE CHE PER FARSI INTENDERE. Nei discorsi, di alcuno dei quali leggesi in CICERONE menzione  entusiastica, sappiamo che O. si preoccupa di riuscire  eloquente senza mai ricorrere alla verbosità e pesante  sentenziosità dell’allora decadente oratoria. In una lettera ad Agrippina, lodando l’ingegno di lei,  l’ammonisce che si studi di non CONVERSARE in  modo disgustevole e lezioso. E per riuscir chiaro, sì  che tutti potessero capire, preferiva una sintassi limpida ad una sintassi più armoniosa e serrata, e adopera le preposizioni anche dinanzi ai nomi di città,  facendo cosa che un diligente maestro dei nostri tempi  sottolinea con frego azzurro nel compito del malaccorto scolaro. Svetonio, che ci racconta questi particolari della grammatica e sintassi d’O, e che  ha modo di consultarne gl’autografi, ricorda anche  che O non divide mai le parole in fine di riga per  terminarle nella riga seguente, ma le ripiega sotto  chiudendole con una linea curva. E aggiunge che l'ortografia d’O, abituato a scrivere per CONVERSARE,  e quella di chi scrive COME PRONUNZIA. Se dobbiamo credere agl’antichi, d’O. restano famose le lettere. Raccolte per tempo in più  volumi e alcune di esse rimaste vaganti, non costituirono mai un vero e proprio corpus, ma andarono a  poco a poco disperse. Esse non hanno la buona e  cattiva ventura di entrare nelle scuole come libro di  testo, e neppure l’altra d’essere raccolte in antologia.  Restano però i giudizi degl’antichi e alcuni frammenti  degni d’essere ricordati. O. discorre alla buona,  familiarmente, sia che filosofa di affari politici, sia  che si rivolgesse ad amici e parenti. Sollecita VIRGILIO (si veda) che gli mandas almeno l’abbozzo dei primi versi  dell’Eneide; scherza con ORAZIO (si veda) rimproverandolo che  non conversa mai di lui, e chiedendogli se per caso  non crede di rimanere infamato presso i posteri,  qualora dai saggi suoi appare chiara la loro intimità. All’amico MECENATE (si veda) un giorno scrive che essendo  infermo e tuttavia indaffarato in più cose, chiama  e fargli da segretario il suo ORAZIO; lo richiama  cioè dal parassitico desco del nobile etrusco alla sua  mensa di pontefice massimo. VENIET ERGO AB ISTA PARASITICA MENSA AD HANC REGIAM ET NOS IN EPISTVLIS SCRIBENDIS ADIVVABIT. E un’altra volta gli scrive una lettera che si chiude con questa forbita apostrofe. Salute o mio ebano di Medullia, città etrusca, avorio  d’Etruria, laserpizio di Arezzo, perla tiberina, smeraldo dei Cilnii, diaspro degl’Iguvini, berillo di Porsenna, carbonchio d’Adria, e, per dirle tutte in una  parola, céccolo delle meretrici. Suo nipote Gaio Cesare e da lui chiamato in  segno di affetto, asellus tucundissimus; e al figliastro  Tiberio egli scrive lettere gonfie di tenerezza e confidenza, raccontandogli come avesse passato il giorno,  quanto avesse perduto al giuoco, parlandogli dei suoi  digiuni imposti dalla cagionevole salute, e d’aver sbocconcellato in lettiga, tornando al palazzo, un’oncia di  pane e pochi acini di uva secca. E quando Tiberio, il  quale milita lontano con gl’eserciti, scrive di essere  smagrito per le continue fatiche della campagna, ei lo  supplica di riguardarsi, chè, alle cattive notizie della  sua salute, et ego et mater tua (Livia), expiremus et summa  imperti sui populus romanus periclitetur. Alla figlia Giulia vuole un gran bene, e la licenziosa vita ch’ella conduce amareggia assai l’animo suo. Sole dire di aver  DUE FIGLIE, tutt'e due DELICATISSIME, la RES PVBLICA E GIULIA. E molto spesso nelle lettere, come riferisce il vecchio PLINIO, recrimina penosamente la dissolutezza di lei. Umano egli e sempre e ricco di sentimento. Qualunque cosa scrive, politica o familiare, alieno da  ogni lenocinio di forma e incline piuttosto ad accogliere espressioni còlte sulla bocca del popolo. Non  scrive die quinto ma diequinte, chè così comunemente dicevasi. E per esprimere la celerità di un  avvenimento, dice ch’esso e accaduto più prestamente che non cuoce uno sparagio, celerius quam asparagi coquuntur. E per dir stolto adopera baceolus  che corrisponde al nostro baggeo. E per dire che  sta male in salute dice vapide se habere. Abbiamo poco dei suoi scritti, di intero la sola  iscrizione delle res gestæ in latino, e alcuni decreti  ed editti in greco, non tradotti da lui direttamente,  ma certo da lui corretti e controllati. Svetonio racconta  che O., sebbene conoscesse il greco e sempre lo  legge e studia, tuttavia non si prova mai a scriverlo, chè teme di non conoscerlo abbastanza. Studia con retori greci, i quali gli appresero cose di larga erudizione. Ma scrittore, come ci appare  nel lapidario latino della iscrizione delle res gestæ,  egli s'e formato sull’esempio di Cesare, nell’azione ed  esperienza militare e politica di tutti i giorni. Aveva  innanzi tutto imparato ad evitare non la facondia, ma  la loquacità, e a reputare perciò che L’ELOQUENZA CONSISTE NEL NON FAR MOSTRA D’ELOQUENZA: PARTEM ESSE ELOQVENTIÆ PVTAT ELOQVENTAM ABSCONDERE -- che è poi  la grande virtù della parola destinata a commuovere  i popoli e a guidarli alla vittoria e all’impero. I contemporanei lo salutarono coi versi di VIRGILIO. Ecco Cesare Augusto, l’eroe che ci era stato promesso e che resusciterà nel Lazio e nelle campagne d’Italia, dove in antico regnava Saturno, l’età del-  l’oro; e l’Impero di Roma amplierà fino al Fezzan e  all’India, di là dalle vie delle stelle, fin dove l’instancabile Atlante sostiene sulle spalle lo splendente astro  dei cieli. Lo avevano veduto entrare tre volte in  trionfo nelle mura di Roma, e pagare agli dèi d’Italia  l’immortale tributo dei suoi voti consacrando più di  trecento templi, e fra l’applauso della folla e i canti  delle vergini e delle matrone, mentre sugli altari fumanti  cadevano immolati migliaia di tori, l'avevano ammirato, sulla soglia di marmo e di alabastro del tempio  di Apollo, ricevere dall’alto del trono i doni dei popoli  sottomessi per abbellire le magnifiche colonne del  superbo porticato. L’immagine virgiliana -- VIRGILIO (si veda) -- dell’apoteosi di Augusto si è trasmessa, di generazione  in generazione, come l’immagine della pace romana creata dall’eroismo e dalla vittoria delle legioni, e dalla volontà pura di uno spirito umanamente libero trasformata in religione politica e ideale di civiltà:  riformatore della costituzione, difensore del territorio,  organizzatore dell’amministrazione e della società, Cesare Augusto rappresenta la maestosa dignità dell’Impero e il diritto fondamentale dello Stato. I simboli  del suo destino, l'adozione di Cesare, la battaglia di  Filippi, la vittoria d’Azio annunziano, nel tramonto  di Roma repubblicana, la luce di Roma imperiale; più chiaramente ancora l’annunzia il nuovo suo nome di Imperator Caesar Augustus, che è un simbolo anch’esso e riunisce in un  solo destino l’eroe creatore e la volontà implacabil-  mente lucida del fondatore dell’Impero.   Religiosa eredità fu quella di Cesare: e infatti  duravano ancora le leggi, le istituzioni e gli ordina-  menti, coi quali Cesare era salito al potere e il culto  del divus Iulius e diventato il culto dello Stato,  garanzia e patrimonio dell’Impero. Ma rafforzando e  difendendo la Romanità così che niente mai potesse  distruggerla, Augusto risolveva a favore dell’Occidente  l’antitesi tra l'Oriente e l'Occidente che Cesare aveva  drammaticamente vissuta negli ultimi anni della vita  sua, e che s’era ripresentata, fortunosa e tragica, nella  lotta tra Ottaviano non ancora Augusto e Marco Antonio. È però costruendo in Occidente la Roma imperiale sognata e creata da Cesare, Augusto che aveva  da Cesare ereditato la legittimità aggiunse alla grandezza del padre suo la gloria d’aver tenuto a battesimo  la civiltà europea. Insieme con GIULIO (si veda) Cesare, O. è il simbolo della dignità  imperiale, e il nome suo di imperator cæsar avgvstvs  consacra l’identificazione dell’impero  con l’occidente. Il titolo di ‘cesare’ da il diritto di  successione al trono; quello di ‘augusto’ concede la  dignità imperiale: il rito iniziato dai Flavii e ufficialmente inaugurato d’Adriano e poi consacrato nelle  formule del protocollo. Creatore dell’impero e Cesare; fondatore e O., il quale e riuscito a far  sopravvivere l’opera e la gloria di Cesare in cinquantasei anni di regno, e della santità di Cesare fa il patrimonio e il fondamento dell’Impero. Appare dunque ricco di conseguenze per il mondo l’atto  di adozione, col quale Cesare proclama suo  erede il nipote di una sua sorella, quel giorno che, alla vigilia di una battaglia, mentre  fa tagliare un bosco per costruirvi il campo delle  legioni, ordina si risparmiasse una palma come augurio  di vittoria, e quella sùbito gitta polloni alti e fiorenti. All’albo della Rinascenza, quando si inaugura la ricerca storica e si annunzia  fecondo di civiltà il quasi voluttuoso amore del passato,  e la romanità risorge nella cultura e nell’arte nutrite  dalla possente vita dei sensi, allora i due nomi di  cesare e di augusto tornano ad essere creatori della  religione dell’impero. Allora il romanticismo eroico dell’umanesimo celebra ed esalta l’idea imperiale di Roma  con tanto devota ammirazione che gl’italiani ne trarranno motivo di orgoglio e di  serena fede, quando il predone straniero spoglia e  insozza le loro terre. E da quel grido di amore per  l’antica grandezza romana nasce un appassionato  libro del Risorgimento, sul primato della nostra gente  e sulla universale missione d’Italia. |Allora, all’alba della Rinascenza, fiorirono le leggende sui monumenti che sono rimasti segni tangibili della sua presenza, a testimonio della grandezza d’O. Ed O. apparve garante del miracoloso destino  d’Italia, come nella formula dell’impero che  saluta l’imperatore con l’augurio che fosse  più fortunato di Augusto: felicior augusto. E si divulga  la fama che nel mausoleo comunemente noto col nome  di Austa sorge circondata dalle tombe un’abside,  ed O. e i sacerdoti suoi vi celebrassero sacrifizi  solenni, fra sacchi di terra raccolti d’ogni parte del  mondo a perpetuo ricordo delle genti sottomesse all’impero. L’Austa divenne una fortezza inespugnabile, la  fortezza più contesa di Roma, ed e strascinato allo  campo dell’Austa il cadavere di Cola di Rienzo e là  e bruciato in un fuoco di cardi secchi, in quegl’aanni che  Petrarca scopre e vaticina nella grandezza di Roma imperiale l’ideale politico  italiano, distruggendo ogni antitesi tra il passato e  l’avvenire. E dopo che il maestro Marchionne d’Arezzo ha costruita presso il Mercato di  Traiano l’alta Torre delle Milizie, allora nasce, più  suggestiva e più vera, anche l’altra leggenda: che sotto la torre e un palazzo incantato ed O. vi riposa. E un giorno si desterebbe dal  sonno e tutto armato uscirebbe con milizie e legioni,  quando Roma e pronta a reggere e guidare per la  seconda o terza volta le sorti del mondo. Ottaviano. Keywords: vox augusta. Ottaviano. Luigi Speranza, “La ragione conversazionale: Grice ed Ottaviano,” pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, “ The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Ottaviano.

 

Grice ed Ottaviano: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale e il collettivismo – la scuola di Modica – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza  (Modica). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Modica, Ragusa, Sicilia. Grice: “Perhaps with Holllinghurst, and Hogarth, of course, Ottaviano is one of the few who have cherished in the analysis of ‘la curva’ or ‘la linea’ – and it has revived a debate which should fascinate a few!” Diplomatosi a Modica, si laurea a Milano. Straordinario di Storia della Filosofia a Cagliari, poi a Napoli, ottenne la cattedra, conseguendovi la libera docenza ne passò poi a Catania, dove fonda e diresse l'Istituto di Magistero, insegnandovi. Fonda la rivista “Sophia”. Grande conoscitore della filosofia del periodo medievale, di cui peraltro ritrova e studiò molte opere inedite, elaborò una propria teoria.  Delle due saggi, “Critica dell'Idealismo” (Napoli,) e “Metafisica dell'essere parziale” (Padova), la prima ma fu ben presto censurata e poi bruciata pubblicamente a causa della sua dura critica all'Idealismo di Gentile. Questa sua opposizione a Gentile, nonché le sue critiche a Croce, gli valeno dure vessazioni accademiche.  Compone inoltre un ampio e comprensivo Manuale di storia della filosofia (Napoli). Membro dell'Accademia d'Italia, si occupa, per primo, della filosofia di Gioacchino da Fiore, esaltato d’Aligheri nella Commedia, pubblicandone un saggio. Pubblica il codice di Oxford “Joachimi Abbatis Liber contra Lombardum,” che attribuì a qualche seguace della scuola di Fiore. Mentre celebrava, a Novara, Pietro Lombardo, riprese a parlare di Fiore, presentandolo come un romantico "ante litteram" e un fautore della nazione italiana. Segnalò pure due ignorati codici gioachimiti della biblioteca Casanatense di Roma, occupandosi altresì della condanna di Gioacchino da parte del Concilio Lateranense ed evidenziandone lo sgomento suscitato. Inoltre, nella rivista Sophia, diretta da lui ed allora edita dalla MILANI di Padova, da spazio a vari studiosi gioachimiti. Sempre sull'argomento, ritenne dapprima Gioacchino un triteista, ma, dopo aver visionato le tavole del Liber figurarum, scoperto da Tondelli propese invece per un'ortodossia trinitaria. Fonda e diresse un partito nazionale d'impronta social-liberale, che però non ha seguito. Saggi principali: PAbelardo. La vita, le opere, il pensiero, Poliglotta, Roma; Il Tractatus super quatuor evangelia, di Fiore, Archivio di filosofia, Padova, Testi medioevali inediti. Alcuino, Avendanth, Raterio, AOSTA (si veda), Abelardo, Incertus auctor, Olschki, Firenze; Joachimi abbatis Liber contra Lombardum (Scuola di Gioacchino da FIORE (si veda)), Reale Accademia d'Italia Studi e documenti, Roma, Un documento intorno alla condanna di Gioacchino da Fiore, Rondinella, Napoli); Pier LOMBARDO (si veda), in Celebrazioni piemontesi, Istituto d'Arte per la Decorazione e la Illustrazione del Libro, Urbino; Critica dell'Idealismo, Rondinella, Napoli; Metafisica dell'essere parziale, MILANI, Padova; “La tragicità del reale, ovvero la malinconia delle cose. Saggio sulla mia filosofia, MILANI, Padova; Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e note Orsi, MILANI, Padova; Scarcella, Dizionario Biografico degli Italiani, Orsi, Il filosofo della quarta età: ricordo di O., quotidiano “La Sicilia”, Catania, di. Orsi, Tra Socrate e Gesù, Sicilia, Catania,. E. Scarcella, Dizionario Biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma,. Gioacchino da Fiore  Pace, Info Magazine. Grice: “I love Ottaviano: he had three main interests: philosophy, philosophy, and philosophy. More specifically, as a Sicilian, he was not interested in Italian philosophy, which he found too continental; he loved a mediaeval – and he loved Gentile – he corresponded extensively with him! La visione cristiana di Buonaiuti, Campitelli, Foligno. A proposito di un libro sul Prepositino, Rivista di filosofia neoscolastica, Traduzione, prefazione e note di: Cantuariensis, Opere filosofiche, trad. pref. e note di O., Carabba, Lanciano. Metafisica del concreto. Saggi di una Apologetica del Cattolicesimo, Signorelli, Roma. Ricerche lulliane, Estudis universitaris catalans; Abelardo. La vita, le opere, il pensiero, Tipografia Poliglotta, Roma. Otto opere sconosciute di Lullo, Rivista di cultura; L'Ars compendiosa de Lulle, avec une étude sur la bibliographie et le Fond Ambrosien de Lulle, Paris; ristampata sempre in francese: L'Ars compendiosa de Lulle, avec une étude sur la bibliographie et le Fond Ambrosien de Lulle, O., Librairie philosophique Vrin.  Guglielmo d'Auxerre. La vita, le opere, il pensiero, Biblioteca di filosofia e scienze, Roma. A proposito di un libro su AOSTA (si veda), in Rivista di filosofia neoscolastica. I problemi del realismo, Giornale critico della filosofia italiana; Le Quaestiones super libro Praedicamentorum” di Faversham, R. Accademia dei Lincei». Roma. Traduzione, prefazione e note di AQUINO (si veda), Saggio contro la dottrina dell’unità dell’intelletto, Carabba, Lanciano. Traduzione, prefazione e note di AQUINO (si veda), Saggio sull'essere e l'essenza e altri opuscoli, prefazione, traduzione e note critiche d’O., Carabba, Lanciano. Frammenti abelardiani, Rivista di cultura, Prof. P, Loescher, Roma. Il Tractatus super quatuor evangelia di FIORE (si veda), iArchivio di filosofia», Padova. Osservazioni critiche sui presupposti del problema della conoscenza. Il superamento dell'immanenza sulla base della nozione di individuo, Archivio di filosofia. Il pensiero e il suo atto, Archivio di filosofia. La riforma della logica di Aristotele, Archivio di filosofia. Nota polemica, Rivista di cultura. Le opere di Faversham e la sua posizione nel problema degl’universali, Archivio di filosofia. Traduzione, curatela e note di: TRACTATVS DE VNIVERSALIBVS attribuito ad AQUINO (si veda),  cur. di O., Reale Accademia d'Italia, Roma. Introduzione, traduzione, prefazione e note di AOSTA (si veda), Il Monologio, Palermo. Antologia del pensiero medioevale. Per le scuole medie superiori, Ires, Palermo. Testi medioevali inediti. Alcuino, Avendanth, Raterio, AOSTA (si veda), Pietro Abelardo, Incertus auctor, a cura di O., Olschki, Firenze; San Vittore, la vita, le opere, il pensiero, Lincei, Traduzione, prefazione e note di FIDANZA (si veda), Itinerario della mente verso Dio, traduzione, prefazione e note di O., Antologia del pensiero medievale per le scuole medie superiori, Palermo. Il pensiero di Orestano, Ires, Palermo. Il superamento dell'immanenza in Varisco, Archivio di filosofia, Traduzione e note di: P. Abelardus, Epistolario completo. Contributo agli studi sulla vita e il pensiero di Abelardo, trad. it. e note critiche d’O., Ires, Palermo. Joachimi abbatis Liber contra Lombardum. La Scuola di Gioacchino da FIORE, cur. O., Reale Accademia d'Italia, Studi e documenti, Roma. Critica del principio d'immanenza, Rivista di Filosofia Neoscolastica, Il perduto “Liber de potentia, obiecto et actu” di Lullo in un manoscritto romano, Estudis franciscans, Un documento intorno alla condanna di FIORE (si veda), Rondinella, Napoli, Siculorum Gymnasium, Catania).  Storia, filosofia della storia, scienza della storia, Rivista di Filosofia Neoscolastica, Un brano inedito della Philosophia di Conches, Morano, Napoli. Il cosiddetto riferimento necessario alla coscienza nell'idealismo, Atti del Congresso di Filosofia, Padova, Novità in filosofia, Milani, Padova.  LOMBARDO (si veda), in Celebrazioni piemontesi, Istituto d'Arte per la Decorazione e la Illustrazione del Libro, Urbino. Critica dell'Idealismo, Rondinella, Napoli, Milani, Padova, Traduzione, prefazione e note di: Abelardo, L'origine delle monache; e La regola del Paracleto, traduzione, prefazione e note di O., Carabba, Lanciano.  L'unica forma possibile di idealismo, Rivista di Filosofia Neoscolastica, La scuola attualista ed Eriugena, Rivista di Filosofia Neoscolastica, Riflessioni sulla polemica Orestano – Olgiati, Rivista di Filosofia Neoscolastica, Curatela di: CAMPANELLA (si veda), Epilogo magno (Fisiologia italiana). Testo inedito con le varianti dei codici e delle edizioni latine, cur. O., Reale Accademia d'Italia, Roma, Kritik des Idealismus, mit einer Einfuhrung von Fritz-Joachim Von Rintelen: Realismus-Idealismus?, Aschendorff, Munster. Metafisica dell'essere parziale, MILANI, Padova.  L'unità del pensiero cartesiano e il cartesianesimo in Italia, MILANI, Padova. Scritti con giudizi della critica italiana, Tipografia agostiniana, Roma. Panteismo o trascendenza, Humanitas; Il problema morale come fondamento del problema politico, Milani, Padova. L'idealismo trascendentale e la metafisica classica, Rivista di Filosofia Neoscolastica; La soluzione scientifica del problema politico, Rondinella, Napoli. Le incertezze della scienza moderna, Padova. Progetto di un disegno di legge per salvare la Democrazia dalla dittatura, MILANI, Padova. Dalla democrazia ingenua alla democrazia critica, MILANI, Padova. Che cosa è il social-liberalismo, MILANI, Padova,  Lineamenti programmatici per una riforma della scuola italiana, MILANI, Padova. Presentazione di Sepinski, Cristo interiore secondo FIDANZA (si veda), presentazione O. trad. di Orgiani, Politica popolare, Napoli. La tragicità del reale, ovvero la malinconia delle cose. Saggio sulla mia filosofia, MILANI, Padova. Critica del socialismo: ossia Introduzione alla teoria della proprietà per tutti, MILANI, Padova. Introduzione alla teoria delle proprietà per tutti, ovvero la mia soluzione al problema economico-politico, MILANI, Padova. Didattica e pedagogia. Ovvero la mia riforma della scuola, MILANI, Padova.  La legge della bellezza come legge universale della natura. Considerazioni teoretiche e applicazioni pratiche, MILANI, Padova. Manuale di Storia della filosofia, La Nuova Cultura, Napoli. Manuale di storia della filosofia e della pedagogia, La Nuova Cultura, Napoli. Appunti di pedagogia contemporanea. Personalismo e COLLETTIVISMO. Introduzione alla teoria della proprietà privata per tutti, Solfanelli, Chieti. Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e note cur. Orsi, MILANI, Padova. Sophia: fonti e studi di storia della filosofia, Palermo: Ires, Il complemento del titolo varia in: rivista internazionale di fonti e studi di storia della filosofia; poi in: rassegna critica di filosofia e storia della filosofia. Luogo ed editore variano in: Napoli, Rondinella; poi in: Padova, Milani. Alcuni dei saggi più significativi da O. per Sophia:  Le rationes necessariae in AOSTA (si veda), in Questioni e testi medievali , Sophia, Novità abelardiane, in Questioni e testi medievali , Sophia; Storicismo attualista, Sophia, Storicismo attualista, seconda puntata, Sophia; Controversie medievali. A proposito della paternità tomistica AQUINO (si veda) di un “Tractatus de universibus, e della data del De unitate intellectus, Sophia», Intorno al Congresso di Filosofia di Padova, Sophia; Intorno alla critica dell'immanenza, Sophia, Critica del principio di immanenza, Sophia, A proposito della storia, Sophia. I grandi idealisti, Sophia. L'idealismo sulla via di Damasco, Sophia. Contraddizioni idealistiche, Sophia. La fondazione del realismo, Sophia. Postilla alla difesa del principio di immanenza, Sophia; Postilla a Immanenza, idealismo e realismo, Sophia». Idealisti per forza, Sophia, Ancora sulla fondazione del realismo, in Sophia; Fanatismo idealista, ovvero l'agonia dell'idealismo, Sophia; Nuova illustrazione del documento intorno alla condanna di FIORE (si veda). Postilla, Sophia; Intorno all'idealismo e al realismo, Sophia, Postilla a Chiocchetti: “A proposito dell'idealismo d’O., Sophia; Anti-moderno, Sophia; Intorno alla critica all'idealismo, Sophia; Intorno alla valutazione della filosofia, Sophia; La teoria delle “species” e l'idealismo immanentistico, Sophia; La natura della sensazione e la fondazione del realismo, Sophia; Referendum ai nostri Lettori in occasione della ripresa delle Rivista, Sophia, Sophia, Il vero significato della relatività galileiana nel movimento,  Sophia. Natura pura e soprannaturale, Sophia. I fondamenti logici della relatività, Sophia. Gl’argomenti probativi dell'evoluzionismo, Sophia, Intorno al significato storico dell'idealismo italiano, Sophia; Intorno alla legge di conservazione dell'energia, ossia del materialismo, Sophia, Intuizionismo e logicismo in matematica, Sophia, Intorno alla gratuità dell'ordine soprannaturale, Sophia; Postilla a Riverso, Aporie e difficoltà del Positivismo logico, Sophia; Valutazione critica del pensiero di Croce. L'estetica, Sophia, Valutazione critica del pensiero di Croce; Lo storicismo assoluto, Sophia, Bilancio di Croce, Sophi. Einstein filosofo, Sophia, Giudizio intorno alla Logistica, Sophia, Logica, matematica, poesia, Sophia, Crolla l'idolo einsteiniano, Sophia, Il“compagno Scioccherellov, ossia la tragicommedia del comunismo, Sophia, Mi intrattengo ancora con il compagno Scioccherellov, Sophia, “Individui di tutto il mondo unitevi”, ossia Critica della democrazia come idea-forza, Sophia, Giudizio su Croce come uomo politico, Sophia. L'assalto alla diligenza, ossia la scuola privata ecclesiastica e laica all'assalto del tesoro della stato, Sophia, Difesa della scuola statale, ossia l'anti-stato contro lo stato, Sophia, L'ordine della scuola italiana”, Sophia, In difesa dell'umanità Abbasso gli scienziati, viva i filosofi!, Sophia. Come integrare la dottrina relativistica di Einstein, Sophia, O. nella filosofia del Novecento, Atti dei convegni tenuti a Milano e Catania, cur. Rando e Solitario, Prometheus, Milano.  A. Cartia, Tempo, memoria e infinito. I temi del tragico nell'opera di O.,  cur. Ghisalberti e Rando, Prometheus, Milano Bontadini, Dall'attualismo al problematicismo, Brescia. Coniglione, Sophia. Nel segno d’O.: una rivista a tutto campo, in La cultura filosofica italiana attraverso le riviste, cur. Giovanni, Angeli, Milano, Croce, Conquiste filosofiche a passo di carica e a suon di tromba,  Critica, Orsi, Il filosofo della quarta età: ricordo d’O., Sicilia”, Catania, Orsi, O: Tra Socrate e Gesù, Sicilia”, Catania, Orsi, Appunti autobiografici ed evoluzione filosofica d’O., Archivium Historicum Mothycense, Orsi, Metamorfosi di un'opera quale compendio di una vita filosofica, Introduzione a O., Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e note a cura di Orsi, MILANI, Padova, Noce, Il problema dell'ateismo, Teismo e Ateismo politici: postulato del Progresso e postulato del Peccato, Mulino, Bologna, Noce, Gentile, Mulino, Bologna, Tommasi, Compendio di una vita filosofica: Carmelo Ottaviano, in Voci dal Novecento, a cura di Pozzoni, Limina Mentis, Villasanta  Ferro, L'anti-moderno di O., Rivista di Filosofia Neoscolastica, Garin, Cronache di filosofia italiana, Laterza, Bari, Mathieu, La filosofia del Novecento. La filosofia italiana contemporanea, Le Monnier, Firenze Mazzantini, La riduzione ad absurdum dell'immanenza gnoseologica, Rivista di Filosofia Neoscolastica, Vita e Pensiero, Milano.  P. Mazzarella, Il contributo di O. agli studi di filosofia medievale, Sophia, Mazzarella, Tra finito e infinito. Saggio sul pensiero di O., Milani, Padova, Mignosi, O., Tradizione, Minazzi, Il principio di immanenza nel dibattito filosofico italiano: il confronto tra Preti e O., Protagora, Aspetti e problemi della filosofia italiana contemporanea, cur. Quarta, Scarcella, O. in Dizionario Biografico degl’Italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, Sciacca, Di una recente critica del principio di immanenza, in «Ricerche filosofiche», Sciacca, Il secolo XX, Bocca, Milano. Carmelo Ottaviano. Ottaviano. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ottaviano” – The Swimming-Pool Library. Ottaviano.

 

Grice ed Ovidio: la ragione conversazionale e l’implicatura convrsazionale – Roma – la scuola di Sulmona -- filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sulmona). Filosofo italiano. Sulmona, L’Aquila, Abruzzo. Publio Ovidio Nasone. Muore a Tomi, rivela influssi filosofici assai svariati. A Posidonio, mediato da Varrone, si fa risalire la rappresentazione dell'età dell'oro e dello sviluppo della cultura (“Met.”; “Fasti”). Dalla setta di Crotona deriva in larga misura il libro XV delle Metamorfosi, in cui Pitagora -- di cui si dice che si innalza sino al divino colla filosofia e scorge con l’animo ciò che la natura nega agli sguardi umani -- espone ai discepoli un ampio insegnamento sulla natura, il divino, numerosi problemi naturali oscuri e condanna l’uso delle carni animali, giustificando questa proibizione con la teoria della metempsicosi. Nella tesi che nulla è stabile nella natura e nell’uomo, che anche gli elementi si trasformano gli uni negli altri, si notano invece influssi eraclitei e di Girgenti. La formazione del mondo dal caos (Met.), in complesso, riecheggia il portico, ma include anche elementi che fanno pensare a Girgenti, ad Anassagora e a Lucrezio. For a contemporary Roman reader of Ovid's Metamorphoses – usually just the emperor -- who has made his way through the labyrinth of mythological tales that comprise, one segment becomes in some ways a fresh start. It begins the third and last pentad. As he marks this formal boundary, Ovid introduces what he calls a *historical* emphasis. Troy is founded, and from Troy's story that of Rome arises. Roman matter, settings, and themes occupy ever more of our attention as the thing approaches its end. Ovid includes some of the same tales that he had used in his less successful (less read, not even the emperor read it!)  in the Fasti, his “most Roman work” in terms of its proclaimed matter: the very Roman calendar – “tempora cum causis Latium digesta per annum.” – And the Romans always found a cause to celebrate! As we read of Hippolytus deified as Virbius, or encounter the list of Alban kings, the last pentad of the Metamorphoses, too, begins to resursigate for a more imperial readership the “Fasti.” And yet the latter ‘Roma historical’ part of of the Metamorphoses is fully continuous with the first part, simultaneously a fresh start and a seamless continuation. Ovid’s *Roman* historical emphasis is a development of long-established patterns. First Trojan, then Roman subjects signal the work's conclusion, wherein the large-scale historical progression promised in the work's opening lines will be fulfilled: having set out "from the first beginnings of the world," primaque ab origine mundi Ovid's narrative will now reach "my own times," mea tempora the present for both author and readers. Thus, if we, after reading of so many nymphs and maidens transformed into trees or waterfowl, are surprised to find Romulus and Julius Caesar turning up, Ovid's development and fulfillment of narrative patterns also remind us that from the start we had reason to expect such figures to appear. His vast work of transformative myth embraces even them. Whereas Rome contribute something new to the last pentad of the Metamorphoses, she also functions in a fashion that Ovid has made throughly familiar. Already at the start, the council of the gods, called by Jupiter to discuss Lycaon's crime, offers a striking Romanisation of heaven's architecture and social distinctions, with mention of “atria nobelium,” “plebs,” and the like." When Ovid represents Jupiter summoning the gods to the “palatia Caeli,” Jupiter becomes not only Romanized but a reflection of Ottaviano, whose casino stood on the earthly Palatine Hill. Shortly thereafter, Ovid explicitly addresses Ottaviano in a context that links Lycaon's assassination attempt on Jupiter to contemporary attempts on Ottaviano’s life. Both crises cause astonishment throughout the world. “Nec tibi grata minus pretas, Auguste, tuorum est, quam fuit illa loui.” Thus, in returning to current events Ovid recalls to our minds their heralded arrival near the beginning. Also familiar is the narrative use Ovid makes of the Roman matter. Rome functions largely as a frame for other tales, which are often only tenuously related to the newly-prominent national theme – or rather the theme of the history of the nation. We are well aware, when we arrive at this point, that traditionally important and familiar cycles of myth, such as those concerning Theseus and Hercules function mainly as framing devices that connect tales. Many of these are only tangentially related to the framing narrative, or are even altogether remote from it. No sooner does Ovid introduce Troy than he begins to employ it in this now-familiar narrative mode. The traditional story appears to establish a structural pattern for the progress of the narrative, but it is soon displaced, as tales succeed tales. Troy may be familiar ground, but its familiarity does not enable us to predict our convoluted path through Ovid's work with any confidence. Who could guess, when Laomedon founds Troy, that Ceyx and Alcyone would occupy much of our attention? As we read their tragic tale, we may observe thematic links to other tales in the Metamorphoses, as in the personification of Somnus, which formally recalls those of Inuidia and of Fames. Yet the topic of Troy has disappeared, at least for now, from view. So has the new historical emphasis. For the tale of Ceyx and Aleyone is as mythical, as fabulous, as anything in the preceding material. Indirection and unpredictability remain characteristic of the narrative even as Ovid draws Roman historical material within his scope. One might expect Roman historical themes to alter the Metamorphoses. Instead, the Metamorphosis-motif alters them. An especially powerful symbol of Ovid's transformative language is his last and most ambitious personification, the House of Fame. After Ceyx and Aleyone, Ovid abruptly returns to Trojan subjects with Aesacus, then recounts the sacrifice of Iphigenia and the arrival of the Greek fleet at Troy. But before proceeding with the Trojan War, he introduces a remarkable descriptive passage on Fama, beginning with these lines: “orbe locus medio est inter terrasque fretumque caelestesque plagas, triplicis confinia mundi; unde, quod est usquam, quamuis regionibus absit, inspicitur, penetratque cauas uox omnis ad aures. Fama tenet summaque domum sibi legit in arce.” There is a place at the middle of the world, between land, sea, and the heavenly region, at the boundary of the threefold universe. From here one can see anything anywhere, however distant its place; and every voice comes to one's hollow ears. Rumor holds it, and selected its topmost summit for her house. This is the last and the most ambitious, though not the longest, of the large-scale personifications in the Metamorphoses ambitious because, whereas with Inuidia and Fames Ovid achieves a rich and grimly detailed impression of corporality through his descriptive language, here indistinctness is paradoxically the goal of precise description. The lines just quoted appear to establish theplace of Fama's house, but in a way that defeats definition; for the house occupies a liminal site, hovering at the boundaries between earth, sea, and sky. The structure itself if it can be called a struc-scarcely separates inside from outside, for its porous nature defeats such distinctions: “innumerosque aditus ac mille foramina tectis addidit et nullis inclusit limina portis: nocte dieque patet; tota est ex aere sonanti, tota fremit uocesque refert iteratque, quod audit. nulla quies intus nullaque silentia parte.” She added innumerable approaches to the building, and a thousand openings. With no doors did she shut its threshold: it lies open night and day. The whole house is of resounding brass, produces a roar, echoes and repeats what it hears. There is no quiet within, silence in no quarter. In and out of the house issue personified rumors: atria turba tenet: ueniunt, leue uulgus, cuntque mixtaque cum ueris passim commenta uagantur milia rumorum confusaque uerba uolutant. A throng occupies its halls; they come and go, a light crowd; lies mixed with truth wander here and there by the thousands; and the confused words of rumor roll about. Only when this expansive description is finished do we learn its relevance to its surroundings: rumors of the Greek expedition have reached Troy. This house of Fama and her attendant rumors, "lies mixed with truth," creates a remarkable preface to the beginning of the Trojan War, inviting us readers to consider it as an interpretive comment on all that follows. Feeney connects the passage to themes of poetic authority in the Metamorphoses; indeed, the authority of Ovid's epic predecessors, especially Homer's lad and Odyssey and Virgil's Aeneid, is at issue in the later books of the Metamorphoses, where extensively adapted sometimes severely distorted-versions of their tales are woven into a new fabric. For much of the rest of Book 12, for instance, Nestor narrates the battle of Lapiths and Centaurs, as he did in Book 1 of the liad: but Homer's version is a brief summary, meant to illus-trate a point in its context, Ovid's a vast expansion that engulfs its context, displacing the Trojan War in our attention for hundreds of lines. Fama dominates the rest of Ovid's poem, from Book 12 to the end, not only because of the formal introductory description of the house of Fama, but also because of the increasing role of internal narration in the later books: as the poem proceeds, the epic narrator recedes, and more and more tales are reported by an internal narrator to an internal audience. Fama also forms a boundary, prominently recurring at the very end of the Metamor-phoses, where fama provides the means of the poet's continued sur-vival: perque omnia saecula fama,/ siquid habent veri uatum praesagia, winam. The recurring presence of Fama serves as a reminder of the fundamental lack of definition and stability characteristic of narrative style throughout the work. Flux remains Ovid's theme to the end, and Fama provides both a symbol and an embodiment of flux within the narrative. Fama resists the tendency toward interpretive simplicity and transparency that the introduction of historical and political topics might lead us to expect. As we proceed through the last pen-tad, historical and historico-political modes of understanding events, however pervasive their presence, ultimately never reduce Ovidian flux to order. Fate, for instance, a cosmic principle beloved of some Greek and Roman historians, whose workings they trace in the unfolding of events, duly turns up from time to time in Ovid's Metamorphoses, and does so as a theme of historicized myth that is likely to remind us of Virgil's Aeneid. Yet, whereas the Aeneid is deeply imbued with a sense of fate, guiding the reader to a teleological understanding of myth and history, fate is an historical prop in the Metamorphoses part of the furniture of historicized myth. Far from dominating its context, the context dominates it, as in the summaries of the Eneide that Ovid employs as framing devices -- non tamen euersam Troide cum moenibus esse/spem quoque fata sinunt.” These lines introduce Enea’'s departure from Troy with unmistakable reference to Virgil's plot and theme. WhereasVirgil integrates fate (fatum, il fato) into the structure and architecture of the “Eneide”, however, Ovid reduces fate and its impact on events to barest summary. Ovid acknowledges Virgil's historical vision without permitting that vision to structure his narrative or his readers' experience of it. Instead, Ovid shamelessly *appropriates* Virgilian turns of phrase in the national epic for a characteristic Ovidian witticism, playing simultaneously on the literal and figurative senses of euersam. Troy's walls are physically overturned, but her hopes, conceptually and metaphorically are not overturned. Sylleptic implicature of this kind saturates the Metamorphoses and embodies its themes of transformation on the narrative surface: the loss of human identity in metamorphosis, the shifting of boundary between human and natural, indeed the obscuring of any such boundary are events typical of the Metamorphoses;. Ovid now sets the plot of Virgil's Aeneid among them, exploiting Virgilian language for his own transformative wit. Although there is a shift to historical and this national theme, and with them a more direct engagement with Ovid's epic predecessors, the Metamorphoses remains the same poem it was. The porous, echoing, boundary-less, and visually indistinct house of Fame incorporates all within it. Ovid's epic predecessors are a conspicuous presence and readers familiar with them may try to understand Ovid's material in similar terms. Yet Ovidian slipperiness remains. Ovid refuses to be pinned down, to yield to interpretive stability, although his readers may crave it. In fact, by introducing interpretive frameworks familiar from his predecessors-Virgilian fate, for instance, in the lines quoted above Ovid takes advantage of his readers' desire for clarity: he invites us to reach conclusions, then fails to sustain them. The concept of fate drawn from the philosophy of the Porch is one interpretive possibility that turns up in the Metamorphoses, yet without the structured development that Virgil gives it; Augustan historical vision is another. By introducing historical and political subjects into his work, Ovid invites readers to consider the relationship of the Metamorphoses to the world outside it -- not only to the Aeneid and earlier Roman epic on historical themes, but also to Augustan ideology and its expression outside poetry -- in the architectural projects, for instance, by which Ottaviano “transforms’ the Romans' physical environment. When he introduces the voyage of Aeneas alluding to the plot and eventhe vocabulary of Virgil's epic, Ovid acknowledges his contemporary readers' awareness that the Aeneid has overwhelmed other versions of this story. Ovid could not retell this story with directing readers awareness from his own text to Virgil's. When Ovid incorporates the apotheosis of Romulus into the narrative of Book 14, readers are likely to find that their thoughts turn unavoidably to Ottaviano’s identification of himself as Romolo – Roma’s first king -- , and to accompanying images and slogans concerning the foundation of Rome. Because Ottaviano eventually gains, like Romolo, a place among the dia, Ovid's apotheosis of Romulus invites his readers at least provisionally to define the relationship between this figure from the remote past and his contemporary embodiment. Ovid presents a parade of heroes in the later books of the Metamorphoses. Hercules leads the way; then Aeneas, Romulus, Julius Caesar, and Ottaviano form a triad of apotheosised mortals. These three figures are already iconic when they turn up in Ovid's poem iconic in the sense that they resemble images that are powerfully identified with meanings, like the statues of these very heroes that stood in Ottaviano's forum. Because Ovid's parade of heroes arrives accompanied by preexisting interpretive baggage, it will be worthwhile to contrast these two fundamentally different sites of meaning, each with its own ways of associating ancient with contemporary heroes. The Forum of Ottaviano an architectural space well designed and equipped to promote a unified and coherent set of messages about the relationship of past to present; and Ovid's Metamorphoses, a fluid narrative on the prevalence of change, whose author enacts his theme by mischievous artistry, establishing patterns of meaning, then disrupting and fracturing them. Historical patterns are among those that Ovid deliberately reduces to incoherence. Each of these sites of meaning is powerfully manipulative, and each achieves its impact by means well suited to the message. Meeting a Roman hero in the “Forum Augusti,” the observer's upward gaze would encounter not only an impressive image, but also a titulus, identifying him, and an elogium, recording his achievements. Furthermore, this experience takes place within an architectural complex, the Forum Augusti, erected by Ottaviano in payment of a vow made while fighting his adoptive father's assassins at Philippi.Within so structured an experience, the observer of its visual images and inscriptional texts is unlikely to go far astray in interpreting them. Although the battle occurred some time ago, the Forum itself, dedicated, is a recent reminder of that event for the readers of Ovid's Metamorphoses. In the parallel exedras along its longer sides stood statues of Enea on one side and Romolo on the other. For Ovid to set the parallel apotheoses of these same heroes near each other is to make inevitable the reader's recognition of Ottaviano’s meanings attached to these deified heroes. At the same time, in the Metamorphoses these figures are iconic in a far less tightly regulated context of meanings than they are in the forum. Though now purely verbal, they resemble ideological statements less than do the forum's statues. Ovid presents his portraits, so to speak, without titulus and elogim to regulate their interpretation. Thus exposed, the portraits lose their interpretive transparency and become vulnerable to incorporation into Ovidian flux. Consistent with the organization and coherence of the Forum Augusti is the fact that its symbolism is easy to interpret. Within the temple of “Mars Ultor,” for instance, stood cult statues of Mars – MARTE LUDIVISI – Romolo’s father, parent and protector of the Romans, and Venus, the ancestress of the Julian gens. Everything about these images directs the viewer's attention away from the adultery of Marte and Venere so prominent in their mythological tradition. Only the irreverent and satirical perspective that Ovid offers in Tristia 2 resists the ennobling abstraction of such figures and drags adultery back into view. There, Ovid describes the cult statues of Marte and Venere, who stood next to each other in the temple's cella, as Venus Vitori ncta (Ir.), "Venus joined to the Avenger" -- an expression that invites reflection on the sexual significance of “iungere." Venus's husband stands outside the door, wir ante fores."? A myth of political origin, its official representation in art, and resistance to it are prominent also in the Metamorphoses in the tale of Arachne. It is enough to emphasize here that the tale offers rich reflections on official interpretation of art. When Minerva chooses to depict her victory over Neptune in the two divinities' dispute over the naming of Athens, her tapestry, decorously ordered and balanced, promotes its didactic message with unavoidable clarity, while offering an aesthetic correlate to the power of enforcement that lies behind that message. Readers often side with the Arachne and her irreverent depiction of divine misbehavior; yet Minerva does not ask for our approval, nor need she take much thought for the judges of the con-test. Her views of the story are enforceable and will determine the outcome of the plot. Her power allows her to impose her perspective on events. Because the historical subjects of the later books of the Metamorphoses so often bring official interpretations within view, it is worth noting that, according to one political approach to literature currently in favor, only official interpretations are possible. On this view, all activity of writing and reading takes place within a fixed political system, often unrecognized by the participants, that "advances the interests" of "elites."' Proponents of this approach offer a powerfully reductive historicism: nothing is important about literature except the historically determined power-relationships that govern its production and reception; all attention to literary qualities of a text is sentimental and self-indulgent aestheticism. Whereas this view contracts all understanding of literature to the narrowly political, some recent writers on history in Roman literature expand the historical to a larger field that embraces Varro's theologia tripertita and the universal history of Cornelius Nepos, Diodorus Siculus, and others. In the shift, for instance, from mythological to historical subjects in the Metamorphoses, we can see a broad similarity to Varro's “De gente populi Romani.” Wheeler's work on elements of history in the Metamorphoses shows that Ovid's awareness of historical principles is far deeper and more intimate than has been recognized before. For instance, the poem's "alternation between diachrony and synchrony is a narrative technique characteristic of universal history. The poem's chronological framework from first origins to the present also reflects the aims of universal history; yet Wheeler, like most critics today, does not view the poem "as a natural process of evolution from chaos to cosmos, culminating in the peace and properity of the Augustan age."' Arguing for a subtler and less overtly political patterning of events, Wheeler traces historical principles behind the increasingly historical subject matter of the last pentad. The movement from myth to history represents "a shift," in Wheeler's view, "from a theologia fabulosa to a theologia civilis." The terms are Varronian, and invite us to contemplate the Metamorphoses alongside Varro's “Antiquitates rerum humanarum et divinarum” -- a massive and comprehensive work, among whose aims was to organize conceptions of divinity into mythical, natural, and civic (Aug., Ci. Dei). Ovid is known to have used the “Antiquitates” as a source in the later books of the Metamorphoses as well as in the Fasti, and it is surely right to call attention to the presence of Varronian principles in Ovid's work. Yet, Varro's conceptual organization does not structure Ovid's work, and Varro's religio-historical vision only partly informs Ovid's. Ovid brings Varro into the mix just as he does Ottaviano’s mythologizing and the historical mythologizing undertaken by his epic predecessors, especially Homer, Ennio, and Virgil. P. Hardie has recently argued for the presence of Livy in the Metamorphoses, arguing that Ovid's vision is fundamentally historical. Ovid writes the long historical epic that Virgil self-consciously had abjured. Recent emphasis on history in Ovid has much to teach us about his intellectual depth and awareness of contemporary affairs; yet it also runs the risk of presupposing a conceptual tidiness and order that Ovid's work in fact thwarts and defies. The historical vision of the Metamorphoses remains deeply fractured, stubbornly resistant to schematizing, and intentionally incoherent. Ovid acknowledges historical conceptions, but his work escapes their power to shape his material and to govern our responses to his text. Ovid's"historical" books are as strange, perverse, unpredictable, and provocative as the "fabulous" books that precede them.In Book 11, the Metamorphoses suddenly becomes historical: "the 'historical' section actually begins at with Laomedon's founding of Troy. To be sure, the poem has pursued the course of history from the opening lines of Book 1, while Romanization on both a large and small scale has kept contemporary reference, analogies, and allegorical interpretive options before our eyes throughout the progress of the work. Yet the foundation of Troy, which turns up as a narrative topic just after King Midas has received ass's ears, abruptly brings the poem's subject-matter within the boundaries of history. For the Romans, in so far as a distinction was made between history and myth, the Trojan War tended to mark the dividing line. This, with its aftermath, occupies the next three books. Because, however, Rome's origins are in Troy, this also begins a narrative sequence that continues to the end of the poem, and indeed to the moment of reading for Ovid's Roman audience. In the last pentad, "mythical" tales continue unabated, but now jostle with tales from Roman history and even "current events," all brought within the narrative sweep. Among "current events" we may locate the transformation of Julius Caesar's soul into a star. Yet this transformation is thoroughly mythologized, for it occurs among the activities of the goddess Venus. With Troy's foundation, history arrives well integrated into the poem's patterns of mythological narrative. We might expect that lin-carity and clarity of narrative progress would arrive along with historical subjects, and indeed the last pentad is sometimes described as if this were the case. When we reach Laomedon's Troy the principle of chronological sequence takes charge again: it is 'after that' rather than 'meanwhile' that sustains the illusion of reality. But Wilkinson's impression is in fact illusory. The amount of material recounted by internal narrators steadily increases in the later books, so that chronological movement is constantly interrupted and postponed by tales of the past, recent or remote. Even more remarkable is the fact that history arrives together with manifest anachronism. It is often noted that the participation of Hercules in the foundation of Troy -- his rescue of Hesione and his capture of the city after Laomedon refuses him the promised horses -- occurs lines after the hero's death and apotheosis. Ovid makes no attempt to reconcile the chronology. Wheeler has explored Ovid's anachronisms in revealing detail, showing that at Hercules' death. Troy is assumed to exist already in the world of the poem, and that "Ovid could have avoided the anachronism by placing stories about the dead and deified Hercules in the mouths of characters who report retrospective events in inset narratives that temporarily suspend the main chronological thread. Instead, Ovid flaunts his disruption of chronology, first recounting Hercules' death and apotheosis, then introducing a narrator, Alemene, mother of Hercules, to recount his birth. Chronology appears to reverse direction, but chronological dislocation turns out to be more complex than simple reversal. Wheeler's conclusions refute the common notion that Ovid's shift to historical topics results in a more linear narrative explication and greater chronological regularity. The reintroduction of Hercules is therefore part and parcel of a larger web of anachronism involving the foundation of Troy and the marriage of Peleus and Thetis, both of which should have occurred already in the poem's historical continuum. It should be clear, furthermore, that Ovid's transpositions of the foundation of Troy and the marriage of Peleus and Thetis are a deliberate structural strategy to furnish new points of origin for the narrative of the final books of the poem. That is, Ovid deliberately violates his earlier chronological scheme to provide new beginning points for the final pentad i.e., from the foundation of Troy and the birth of Achilles to the present) As a result, the formality and regularity of the pentadic structure produces a paradoxical result: on the one hand, it divides the work symmetrically into thirds and hence to some extent structures the experience of the reader: we may compare the division of Virgil's Aeneid into halves, in allusive reference to the Odyssey and Iliad." On the other hand, in effecting a new beginning for thelast pentad, Ovid reinforces the narrative indirection and unpredictability that have characterized the Metamorphoses from its beginning. The tales that follow the foundation of Troy both illuminate and obscure the newly initiated narrative patterns of the last pentad. At this point, Ovid's readers may expect him to expand upon the origins of the Trojan conflict. He does so in his account of Peleus and Thetis, the parents of Achilles, but hastily summarizes the elements of the story that are traditionally the most important: Thetis receives a prophecy that she will bear a son who will surpass his father; Jupiter, despite his passion, avoids mating with Thetis "lest the universe contain anything greater than Jupiter" (ne quacquam mundus loue maius haberet). Ovid alters the authority for the prophecy, substituting the shape-shifting divinity Proteus for Themis as its source. He then develops the story in his own way, dwelling upon a description of the bay frequented by Thetis, Peleus's attempt to, assault her (which she thwarts by shape-shifting), Proteus's advice to Peleus that he tie her up as she sleeps, and the successful results. Some of this account will remind us of epic predecessors, for Proteus is familiar from the Odyssey as well as from a brief appearance carlier in the Metamorphoses and from Virgil's Georgics. Yet in emphasizing shape-shifting and sexual assault, Ovid flaunts the unedifying nature of his account and its lack of relevance to any of the large-scale themes, providential, historical, and originary, that one might expect at the threshhold of events that lead to the foundation of Rome. An account of origins this may be, with reference to historical subjects, and formally analogous to Virgil's reworking of Homeric material in the Aeneid. Yet Ovid offers it manifestly without the interpretive guidance that would associate it with Virgilian themes. As an account of origins, it explores causes of the Trojan War still more remote than those developed by Ovid's pre-decessors, suggesting a line of interpretation that traces events back to lust, violence, and deception at least as much as to beneficent destiny. Ovid on the one hand traces Trojan subject matter from its origins, and on the other characteristically takes his narrative into unforeseen directions. The tales of Daedalion and his daughter Chione and of Geyx and Aleyone are intricately linked to the matter of Troy; yet in them Ovid pursues free-wheeling digressivevariety that is entirely consistent with the earlier books of the Meta-morphoses, in no way more linear, predictable, or goal-directed than formerly. At the end of Book 11, Troy, chronology, and fate turn up in another tale of amorous pursuit. Ovid attaches his tale of Aesacus, a son of Priam first known from Ovid's version, to that of Geyx and Alcyone, whose unhappy tale of fidelity and loss has long occupied our attention. Observing the royal couple, now transformed to kingfishers, near the shore, an old man and his neighbor shift their conversation to another sea-bird, the diver, who likewise turns out to have a human history and even royal lineage. In a send-up of learned claims to poetic authority," Ovid's narrator cannot tell us which of the two interlocutors is the source for the story: proximus, aut idem, si fors tulit... dixit. The irony of this crisis of authority is especially marked by the genealogical king-list that follows, which approaches annalistic, even inscriptional style: et si descendere ad ipsum ordine perpetuo quaeris, sunt huius origo Ilus et Assaracus raptusque loui Ganymedes Laomedonue senex Priamusque nouissima Troiae tempora sortitus. frater fuit Hectoris iste: qui nisi sensisset prima noua fata iuuenta forsitan inferius non Hectore nomen haberet. And if you wish to follow his lineage down to him in continuous sequence, his ancestors were llus, Assaracus, Ganymede, seized by Jupiter, and Priam, allotted Troy's last days, That bird there was Hector's brother. If he had not experienced a strange fate in early youth, perhaps he would have no less a name than Hector's. Ovid appears simultaneously to claim and to obscure authority for the tale. To complete the paradox, he refers to the king-list as ordo perpetuus, "a continuous list": thus the pretensions of his carmen perpetum to be a universal history, conducted in unbroken sequence from first beginnings to the present, serve to introduce a tale of admittedly indeterminate origin. The tale that follows is primarily a natural actiology, incorporating both historical and epic subjects into an account of how Hector's brother became the origin of a species of sea-bird. Aesacus chasesHesperie, who in her hasty flight steps on a snake, Eurydice-like, and dies of its bite. Her pursuer is introduced as hating cities and devoted to rural life, yet unrustic in his susceptibility to love: non agreste tamen nec inexpugnabile amori/ pectus habens. Amor agrestis is not uncommon in the Metamorphoses and will soon be fully developed in the tale of Polyphemus. What is unusual in Aesacus are his guilt and remorse at Hesperie's death: uulnus ab angue a me causa data est. ego sum sceleration illo, qui tibi morte mea mortis solacia mittam. The wound was given by the snake, the cause by me. I committed a greater crime than the snake, and will send you consolation for your death by my ow. When he throws himself from a cliff, the sea-goddess Tethys pities him and transforms him into the diver; the verb mergitur at the end of the story echoes the noun mergus at its beginning. Thus, the whole story is framed as an aetiology of the bird's name, and so establishes a link between the history of Troy and the origins of the natural world. Trojan history, along with all notions of historical progress to the glorious present, becomes naturalized and incorporated into aetiological explication; natural phenomena, meanwhile, receive a history, and suggest that an historicized understanding of nature is possible. Natural actiologies are prominent in Ovid's integration of Trojan subjects into the Metamorphoses. As he introduces more Roman subjects and Roman heroes into his narrative, his atiological focus turns from the earth to the heavens. The poem's first apotheosis is that of Hercules. A sequence of apotheoses and catasterisms follows. After Jupiter promises Venus to make the soul of her descendant, Julius Caesar, into a star, she, although unable to prevent Caesar's murder, snatches the soul from his limbs and carries it to the heavens. There, having become a star, it rejoices to see its own deeds outdone by those of Ottaviano. When Ottaviano forbids his own deeds to be preferred to his father's, personified Fama reappears to thwart him: hic sua pracferri quamquam uetat acta paternis, libera fama tamen nullisque obnoxia iussis inuitum prefert unaque in parte repugnat. Although he forbids his own deeds to be preferred to his father's, nevertheless Fame, free and not yielding to any commands, prefers him against his will, defying him in this matter only. To attribute modestia to a ruler is standard in panegyric, and equally standard are the exempla that follow;'' but because these lines appear in the Metamorphoses, they invite multiple perspectives on the events described. Readers are already familiar with Fara as the source of "lies mixed with truth," which issue from her echoing house, and have met her also as "the herald of truth," offering an accurate prophecy about the royal succession among Rome's early kings: destinat imperio clarum praenuntia ueri/fama Numam. Later, Pythagoras claims Fama as his authority for predicting the rise of Rome: nunc quoque Dardaniam fama est consurgere Romam. To be sure, any claims of truth for Fama are problematic in the Metamorphoses. The identification of Fama as praenuntia weri occurs in a context of manifest anachronism, the irony of which would have been obvious to Ovid's Roman readers. The succession of Numa, the second king of Rome, was an accepted part of the historical record. But Ovid's readers knew well that the tradition of his visit to Crotone as a student of Pythagoras is chronologically impossible. Cicero (Rep.; Tusc.) and Livy point out that Pythagoras did not come to Italy until the fourth year of the reign of Tarquinius Superbus, years after Numa's death. The Ovidian narrator, however, exploits the audience's awareness of the anachronism to launch one of the greatest non-events of the poem. After Fama's appearance in the tale of Numa, her recurrence as an agent in the tale of Julius Caesar's soul exemplifies the ambiguous natureof the politically charged episodes at the end of the Metamorphoses. Few passages in the work provoke such widely divergent views as the apotheosis of Caesar's soul, and all of them, I would maintain, can find support in Ovid's text and are in fact generated by it: that Ovid introduces the apotheosis and Augustan panegyric "in all seri-ousness," and "employs the official terminology in an entirely loyal fashion", that this material is ridiculous, satirical, even subversive. This is intentionally incoherent, presenting the reader with irreconcilable interpretive options. Certainly there is a striking dichotomy in modern critical positions taken on whether the apotheosis is integral to the larger work or loosely added as extraneous matter. The eulogy of Ottaviano and the account of Giulius Caesar's apotheosis are not the organic end of a persistent thematic development. It should be evident from the numerous examples of apotheosis in the Metamorphoses that Julius Caesar's catasterism is the repetition of a common tale-type, which is associated with the end of narrative sequences, books, and pentads, and the poem as a whole, however. As for the apotheoses of Aeneas and Romulus, we find that they prepare for and introduce not only the apotheosis itself of Caesar's soul, but also the interpretive questions it raises. Ovid resumes the engagement with Virgil's Aeneid that he had begun, and intermittently pursued. Ovid takes over from Virgil the burial of Aeneas's nurse Caieta as an initiatory gesture: in the Aeneid it begins Book 7, and Ovid's version of Aeneid 7-12 begins here, too. Ovid adds an epitaph for Caieta: hic me Catam notae pietatis alumnus/ ereptam Argolico quo debuit igne cremauit. By emphasizing Caieta's rescue from one fire and cremation by another, Ovid calls attention to an etymological explanation of her name from kaiew, glossed by cremare. Thereby Ovid alludes to the derivation that Virgil omitted. Ovid is in a sense commenting on Virgil's text, noting an etymology that would later find a place also in Servius's commentary on the Aeneid. Another effect of Ovid's revision is to fill out the earlier account, suggesting that there is more to the story than what Virgil provides. There follows a severely abridged summary of the Aeneid. After Aeneas's arrival, the subsequent war in Latium up to Venulus's embassy to Diomedes requires only nine lines. Ovid here resumes his earlier procedure in retelling the Aeneid. Most of Virgil's work he reduces to brief, sometimes comically abbreviated, summary. Ovid also adds many tales not in Virgil. In parallel fashion, Ovid had earlier refashioned the lliad, expanding the inset tale of the Lapiths and Centaurs to great length, and adding two tales not in Homer's account: a nearly inconclusive struggle between Achilles and the invulnerable Cygnus, and a verbal battle, the debate over the arms of Achilles. In both of them, Homeric heroism becomes attenuated until it is barely noticeable. Ovid now reworks two tales from the Aeneid that had offered accounts of transformation: the companions of Diomedes, transformed to seabirds (Aen.; Met.), and Aeneas's ships, transformed to nymphs (Aen.; Met.). In Ovid's account, the first of these becomes a tale of unequal justice typical of the Metamorphoses, though thematically remote from the Aeneid: Acmon, recounting the miseries that Diomedes' crew has endured at the hands of Venus, impiously provokes her (Met.). Dicta placent paucis (Met.), "his words picase few" of his com-rades; but Venus punishes both Acmon and those who opposed him with arbitrary transformation. Her power is amply demonstrated; yet the lesson of the tale remains at best ambiguous, and its conclusion seems to transfer its uncertainties into the visual sphere. These are uolucres dubiae, and any attempt to identify them must remain frus-trated: 'si, uolucrum quae sit dubiarum forma, requiris,/ ut non cygnorum, sic albis proxima cygnis (Met.). The alternating pattern of severe abbreviation and vast expansion of Virgilian material provides a context for the apotheosis of Aeneas, an event foretold but not narrated in the Aneid. Jupiter begins his consolatory prophecy to Venus in Aeneid 1 by mentioning the foundation of Lavinium and Aeneas's apotheosis. Both are assurances that fate and Jupiter's established plans have not changed: parce metu, Cytherea, manent immota tuorum fata tibi; cernes urbem et promissa Lauini moenia, sublimemque feres ad sidera Caeli magnanimum Aenean; neque me sententia uertit. Cease from fear, Cytherea: your fates remain for you unmoved. You will see the city and promised walls of Lavinium, and you will carry aloft great-souled Aeneas to the constellations of heaven; my decision has not changed. Jupiter's prophecy, which at this point already has passed well beyond the plot of the Aeneid, embraces all Rome's fortunes within a reassuring teleological vision. Among the events prophesied is the reconciliation of Juno with the Romans, which is to prove important both for the Aeneid and for Ovid's recontextualization of Virgilian topics: quin aspera luno, quae mare nune terrasque metu caelumque fatigat, consilia in melius referet, mecumque fouebit Romanos, rerum dominos gentemque togatam. Furthermore, harsh Juno, who now wears out sea, earth, and heaven with fear, will turn her plans to a better course; along with me she will cherish the Romans, lords of all, the people of the toga. We ought better to call this not the but a reconciliation, for, introduced after Jupiter's mention of Romulus and the foundation of Rome, it appears not to refer to the reconciliation that actually occurs in Aeneid. There, shortly before the final encounter of Aeneas and Turnus, Jupiter appeals to Juno to give up her wrath. Juno does so, stipulating that the Latins not be required to give up their language and dress, and that Troy remain fallen (Aen.). In Aeneid 1, however, Virgil follows Ennius's “Anales” in dating Juno's reconciliation to the time of the second Punic War, Ennius's own subject, as Servius notes on the words “consilia in melius referet: quia bello Punico secundo, ut ait Ennius, placata luno coepit fauere Romanis.” Virgil mentions the chronologically later reconciliation long before describing the former. In Book 1 Jupiter takes a longer view of destiny, showing that a conflict introduced but unresolved in the Aeneid, the future hostility of Carthage, will eventually be resolved happily. Whether we take Juno's reconciliation in Aeneid 12 to be incomplete, impermanent, or, limited to only some of Juno's grudges, it contributes only a partial sense of closure to the end of Virgil's poem. Ovid's transformation of Aeneas into the divine Indiges more specifically recalls Aeneid 12 than Aeneid 1, especially the beginning of Jupiter's address to Juno at Am.: 'indigetem Aenean seis ipsa et scire fateris/ deberi caelo fatisque ad sidera tolli' Ovid does not closely follow the chronology of Juno's reconciliation in Aeneid 12, however, shifting it instead to a time beyond Vergil's plot, and just preceding the apotheosis of Aeneas, which indeed it serves to introduce: iamque deos omnes ipsamque Aencia uirtus lunonem ucteres finire coegerat iras, cum bene fundatis opibus crescentis Iuli tempestius erat caelo Cythereius heros. And now Aeneas's virtue had compelled all the gods, even Juno herself, to put an end to old anger, when the resources of rising lulus were well established, and the hero, Venus's son, was ripe for heaven. The thoughts and language strongly recall the Aeneid, but Ovid introduces these lines into bizarre, surreal surroundings of his own making. Their immediate context is one of the strangest transformations in the poem-the tale of Turnus's hometown, Ardea, changed into the heron. Turnus and the town Ardea may be Virgilian in their associations, but Ovid's treatment is remote from Virgil, and takes his own aetiological procedure to new extremes. It is typical of Ovid's natural aetiologies that they account for the first animal of a species, tum primum cognita praspes, and that they stress the continuity of traits and features in the change from the old to the new shape. This case goes beyond the typical in the sheer imaginative effort required to make the shift from a ruined city, with all its attributes, to a heron. Cities, as human social organizations, are characteristically distinct from the natural. This is not just any city, but one embedded in the human history of Rome and Rome's enemies, and familiar in Rome's national epic. Yet Ardea retains even its name in its migration into the avian realm as the first heron -- et sonus et macies et pallor et omnia, captam quae deceant urbem, nomen quoque mansit in illa urbis et ipsa suis deplangitur Ardea pennis. It had the sound, the wasted condition, the pallor everything that befits a conquered city. Even the city's name remained in the bird, and Ardea beats her breast, in mourning for herself, with her own wings. These remarkable lines, which immediately precede the apotheosis of Aeneas, provide no contextual introduction to the apotheosis, no invitation to form a close approximation of Ovid's and Virgil's Aeneas. Aeneas and his virtus abruptly arrive. Yet no sooner do the gods and Juno give up their wrath, introducing a new and impressive array of literary, historical, and political associations, than the tone of Ovid's version of the apotheosis becomes intrusively comic. Venus canvasses the gods like a Roman politician: ambieratque Venus superos. She appeals to Jupiter's grandfatherly pride, and seems to treat numen as a rare and valuable commodity in begging some of it for her son, 'quamus parvum des, optime, numen,/ dunmodo des aliquod. All these details are at least potentially comic, as is the argument wholly successful in the event- with which Venus concludes her speech. One trip to hell is enough: 'satis est inamabile regnum/adspexisse semel, Stygios semel isse per amnes'. These lines are a comic correction of Virgil. Later readers were to be distressed that Virgil's Sibyl, otherwise a knowledgeable prophetess, was unaware of Aeneas's apotheosis, which Jupiter had explicitly prophesied in Book 1 and was to prophesy again later. Otherwise she would not have assumed a second trip for Aeneas to the infernal regions after his death: quod si tantus amor menti, si tanta cupido bis Stygios innare lacus, bis nigra uidere Tartara, et insano iuuat indulgere labori, accipe quac peragenda prius. (Aen.). But if your mind has so great a longing, so great a desire to swim the Stygian pools twice, twice to look upon dark Tartarus, and it pleases you to indulge in an insane effort, learn what must be accomplished first. Servius tries to reconcile the death of Aeneas, implied here, with Ovid's apotheosis of him, though he could have mentioned Jupiter's two prophecies in the Aeneid itself. Servius proposes that simulacra of apotheosized heroes, no less than of ordinary folk, are to be found in the underworld. We do not know whether readers and critics in Ovid's time were already vexed about the Sibyl's evident lack of knowledge, but Ovid's Venus, correcting bis with semel, sets the record straight. Once Venus has asked the help of the river Numicius in washing away all that is mortal in Aeneas, she completes the process of making him into a divinity whom Quirinus's crowd calls Indiges, and has received with altars and a temple (quem turba Quirini/nun-cupat Indigetem temploque arisque recepit). This information is profoundly historical, for how Romans understand the altars and temples of their gods, how they connect the remote to the recent past, depends on the symbolic narrative or narratives that their minds associate with monuments in their city. Ovid's revision of Vergil is the revision of a well known and compelling historical vision. Ovid's concluding lines on Aeneas also, as editors note, offer a parallel to the language of an inscription for a statue of Aeneas found at Pompeii: appel/latus/g.est Indigens (pa)ter et in deo/rum n/umero relatus (CIL = Dessau). Mention of the turba Quirini looks forward to the apotheosis of Romulus, but first there intervenes a king-list an annalistic structuring of the past remarkable in finding a place in the Metamorphoses. Like the renaming of Aeneas, the list of Latin kings also recalls to Roman readers their reading of inscriptions. This king-list also recalls earlier lists in the Metamorphoses, such as the genealogy of Aesacus. His transformation is a natural aetiology, and likewise Aeneas's shift to divine status as “indiges” can be viewed as just another transformation, an addition to the tale of Ardea transformed into a heron. We might almost think of it as an undifferentiated item in a vast accumulation of transformation-tales that could be arbitrarily lengthened by further addition. The reason, however, that we cannot quite do so is the fact that it is not isolated, but participates in a pattern of apotheoses. The apotheosis of Hercules establishes a pattern that is reinforced strongly by the apotheoses of Romulus and of Julius Caesar's soul. Their greater number toward the end of the poem appears to signal both their own importance and their closural impact. Ovid's list of Latin kings does not lead directly to the apotheosis of Romulus, but to the tale of Pomona and Vertumnus, which he dates to the reign of Proca. The tale is rich in closural features, cut from the same cloth as the apotheoses that frame it. Viewed as an incident of deceptive seduction and barely-suppressed violence, the tale of Vertumnus can also appear a distraction, leading the reader's attention away from the transformation of historically important heroes into gods. The tale is a "romantic comedy," yet regards it as compromising its context. It is no secret that it disrupts what might be called the Aeneadisation of what is otherwise far from being a Roman epic just when it begins to show promise (or make fraudulent promises) of turning a new leaf and beginning to be such an epic, and one in the Augustan mode to boot. Coming as it does between Aeneas and Romulus, the tale of Vertumnus defeats closure and deflates any last hope of the poem's imagining Rome’sHistorical Destiny (or imagining the World's destiny as Rome's) because an ample and effective representation of the myth of Romulus would be crucial to a celebration of Rome's place at the end of history as the end of history. When Ovid abruptly returns to his long-interrupted king-list, he remarkably FAILS to mention Romulus. Rome's walls are founded in the passive voice, and only Romulus's enemy, the Sabine king Tatius, receives mention by name -- proximus Ausonias iniusti miles Amuli rexit opes, Numitorque senex amissa nepotis munere regna capit, festisque Palilibus urbis moenia conduntur. Tatiusque patresque Sabini bella gerunt -- Next the military might of unjust Amulius ruled rich Ausonia, old Numitor received, by his grandson's gift, the kingdom that he had lost; on the festival of Pales the city's walls are founded. Tatius and the Sabine fathers wage war. Scholars have attempted to explain by various means Ovid's drastic compression of Rome's origins. Ovid avoids repeating what he writes in the Fasti. The foundation of Rome offers no opportunity for metamorphosis, although Helenus is to represent Rome's foundation exactly in such terms later, in another context. And Ovid wishes to avoid competing with Ennius's account in the Annales. These explanations themselves are speculative, but the text seems to call for explanation because Ovid has so strikingly omitted an obvious opportunity to serve up an account of Rome's origins. Ovid's critics easily fall into the his hermeneutic trap. His text demands interpretation without providing the resources to arrive at one. Romulus and his apotheosis are an especially impressive instance of the self-consciously missed opportunity, the Ovidian narrative tease. Because Romulus was so well-known to Ovid's Roman readers as a mythico-historical parallel to Ottaviano, few topics are richer in potential for allegorical exploitation and panegyric symbolism; and this potential goes almost totally unrealized here. Ovid's approach to Romulus is no approach at all. Ovid omits the founder's exploits and shifts all attention to the divine sphere. The apotheosis of Romulus and, as it turns out, that of his wife Hersilia result from divine actions, whose description is the province of myth. Historians who record their exploits give them standing as historical figures. Deprived of exploits, they re-enter myth. By remythologizing history Ovid incorporates it into the world of the Metamorphoses, in which divinities are active and humans largely are acted upon. He also opposes euhemeristic modes of interpreting the shift from mortal to divinity, in accordance with which a human's heroic actions approach and approximate the divine, resulting in the hero's veneration as divine by other humans, and his reception among the divinities as one of them. Ennius's historical epic, the Annales, reports that, at Romulus's death, Romolo now has a life among the gods -- Romulus in caelo cum dis genitalibus aeum/ degit. Ennius probably took a euhemeristic interpretation of Romulus's deification. Virtue and political merit open the gates of heaven. It is highly likely that the deification of Romulus, who performed the mighty benefaction of founding the city, was the innovation of Ennius. Ennius here will have been placing Romulus in the tradition of the great monarchs who won immortality by emulating Hercules. Although the details of Ennius's account are far from clear, Ovid's non-euhemeristic approach is apparently the reverse of his principal source, the original and canonical version of Romulus's deification. History appears to be going backwards as the divine agents in the Romans' war with Tatius take action. Juno unlocks the gate to the invading Sabines despite having so recently given up her wrath against the Romans -- inde sati Curibus tacitorum more luporum ore premunt uoces et corpora uicta sopore inuadunt portasque petunt, quas obice firmo clauserat Iliades; unam tamen ipsa reclusit nec strepitum uerso Saturnia cardine fecit. Then the Sabines, born at Cures, keep their voices muffled like silent wolves; they assault the Romans, whose bodies are sunk in slumber; they seek the gates, which lia's son [Romulus] had barred; yet one of them Saturnian Juno unlocked. She made no noise as she turned it on its hinge. After all the emphasis on Juno's reconciliation earlier, in the apoth-cosis of Aeneas, her behavior here is glaringly inconsistent. We may try to rationalize Juno's actions by appealing to Ennius's historical framework, by which Juno gives up her wrath at the second Punic War. But Ovid makes no attempt to clarify and so rescue historical consistency; indeed, he appears to mock the tradition of multiplereconciliations of Juno, exploiting it for its comic absurdity. There are serious consequences as well: the equation of history with destiny breaks down. Soon Juno will be favorable to the Romans once again at the apotheosis of Hersilia, but meanwhile two other divinities intervene: first Venus, unable to undo Juno's hostile act in unbarring the gate, entreats the Naiads living next to Janus's shrine in the Forum Romanum to come to her assistance. Their spring, normally cold, they bring to a hasty boil, thus blocking the way to the Sabines and allowing the Romans time to arm themselves. Next, Mars addresses Jupiter, requesting deification for Romulus as the fulfillment, now: due, of a long-standing promise. Mars cites Jupiter's original words, representing them as an exact quotation: tu mihi concilio quondam praesente deorum (nam memoro memorique animo pia uerba notaui) "unus crit, quem tu tolles in cacrula caeli" dixisti: rata sit uerborum summa tuorum. Once, at an assembled council of the gods, you told me (for I remember, and marked the pious words in my retentive mind),there will be one whom you will carry to the blue of heaven.' Let the content of your words be fulfilled. The words Marte quotes appear to gain even more authority by referential confirmation from outside the text of the Metamorphoses doubly cited, as it were: for while Mars cites Jupiter, Ovid cites Ennius's Annales. Readers of Ovid's contemporary Fasti will remember the recurrence of Ennius's line in a third context, for Mars cites it there as part of a parallel appeal for Romulus's deification. Although Marte describes his son to Jupiter as the latter's "worthy grandson" (Met.), Romulus's exploits have no part in the appeal. Deification results directly from Jupiter's promise, so strongly emphasized, and at the beginning of the speech Mars needs only to establish that now is the time for its fulfillment: tempus adest, genitor, quoniam fundamine magno res Romana ualet nec praeside pendet ab uno, praemia (sunt promissa mihi dignoque nepoti) soluere et ablatum terris inponere caelo. Since, father, Roman affairs are well established on great foundations, and do not depend on a single protector, it is time to pay the reward it was promised to me and to my worthy grandson to remove him from the earth and to place him in heaven. In all this there is no mention of Romulus's great benefactions, such as might sustain a euhemeristic interpretation of the hero's advancement to divine status. Far from avoiding comparison to Ennius, Ovid ostentatiously quotes his predecessor's work, as if to flaunt the fact that in stripping the hero of exploits he has eliminated Ennius's interpretation of them. Ennius's words, transferred to so un-Ennian a context, may appear well suited to a familiar allegorical parallel, reminding Roman readers once again of their second Romulus, likewise destined for the skies. Yet Ovid's apotheosis of Romulus functions but feebly as an Ottavian icon precisely because of its lack of historical specificity. Lacking res gestae, Ovid's Romulus offers readers little to go on in drawing conceptual parallels to the achievements of Ottaviano. There are many similarities between the apotheosis of Romulus in the Metamorphoses and that in the Fasti. In both works Ovid makes an emphatic identification of deified Romulus with QVIRINVS, reinforcing relatively recent developments in the story. In both Ovid quotes the line from Ennius and repeats the apostrophe Romule, tra dabas (Met., F.) at the moment when the apotheosis occurs. Yet in their larger contexts the two passages are remarkably dissimilar. While in the Metamorphoses Romulus's apotheosis is his whole story -simply one in a series of apotheoses extending from Hercules to the end of the work, in the Fasti his apotheosis has a context in the life and exploits of the hero. Romulus appears so often in the “Fasti” that the episodes concerning him are numerous enough to trace out a biography of him, even if by installments. Ovid's version of the Roman year gives Romulus an unprecedented amount of space, far beyond the natural occasions offered by tradition (such as, for example, Romulus's involvement in the foundation myths or in the actual rituals of the Parilia or the Lupercalia). The identification of Augustus with Romulus even to the point of his apotheosis demandd a 'positive' picture of Romulus. If the violence and ruthlessness of Romulus's exploits in the “Fasti” make him a problematic parallel to Augustus, we may suppose that Ovid gives himself an easier task in the Metamorphoses by keeping Romulus's deeds out of his narrative. In the “Fasti”, for instance, Marte mentions Romulus's dead brother Remus always a difficulty in positive portrayals of the founder whereas in the Metamorphoses Marte prudently omits *any* mention of Remus. Yet even the attenuated Romulus of the Metamorphoses presents difficulties to allegorical interpretation. As we saw earlier, Marte explains that it is now time for apotheosis because Rome's condition, now well-established, "does not depend on a single protector" (nec praeside pendet ab uno, Met.). Hence, Romulus can be safely removed from the earth. Applied to Ottaviano, this remark makes a poor allegorical fit. It calls attention to problems of succession that afflicted the princes, on whom alone the res Romana manifestly did depend. The apotheosis of Hersilia is even more remarkable, and Ovid's de-euhemerizing revision of Roman history enters upon fresh territory with her. With Hersilia there was probably no euhemeristic tradition for Ovid to work against. Ovid can invent an apotheosis for her, representing it as a purely divine initiative. Tradition granted her notable exploits without apotheosis; Ovid grants her apotheosis without notable exploits. Romolo’s wife was well known to Roman readers for being the Sabine wife of Romulus and for her active role in reconciling her own people to the Romans. In several accounts, after the abduction of the Sabine women and subsequent conflict between Romulus's men and the angry parents, Hersilia sues for peace with Tatius and the Sabine fathers (Gellius; Dio Cass.). Her other signal achievement takes place shortly thereafter. According to Livy, Romulus blames the Sabine parents for the conflict, which resulted from their pride in not allowing inter-marriage in the first place. Ersilia, importuned by the entreaties of her sister Sabines, intervenes with Romulus to argue that their parents ought to be pardoned and allowed to live in Rome: ita rem coalescere con-cordia posse. Harmonious union of Romans and Sabines is, according to LIVIO's patriotic interpretation, the whole point of the rape of the Sabine women; and this view was widespread. It was not in wanton violence or injustice that they resorted to rape, but with the intention of bringing the two peoples together and uniting them with the strongest ties. So writes Plutarch in introducing Ersilia. Dionysius of Halicarnassus also accepts this pro-Roman motive for the rape. Ersilia's achievements, like those of her husband, disappear entirely from Ovid's account of her apotheosis, as does the whole story of the rape of the Sabines, in which she traditionally plays so important a part. After Romulus's transformation into the deified Quirinus, Juno sends Iris to bring instructions to the grieving widow, addressing Ersilia as "chief glory of both the Latin and Sabine peoples": "o et de Latia, o et de gente Sabina/praecipuum, matrona, decus.’ Has Juno become reconciled to the Romans this time because of their union with the Sabines, a people known for exemplary piety? We might suppose so, especially now that Romulus is identified with the Sabine divinity Quirinus. For whatever reason, Juno offers Ersilia a chance to see her husband again if she will go, under Iris's guidance, to the Quirinale, Quirinus's hill, a place associated with the Sabines' presence in Rome:53 siste tuos fletus et, si tibi cura uidendi coniugis est, duce me lucum pete, colle Quirini qui uiret et templum Romani regis obumbrat:Stop your tears and, if you care to see your husband, under my guidance seek the grove that grows green on Quirinus's hill, and shades the temple of Rome's king. Ersilia follows Iris's instructions and proceeds to Romulus's hill. A star descends, causing Ersili's hair to catch fire a divine portentand she passes into the air. Rome's founder receives her, changes her name and body, calling her Hora, quae nunc dea tunca Quirino est (Met.). Of course, Ersilia's apotheosis, like Romulus's, can be allegorized as panegyric. There’s a parallel to LIVIA, so reinforcing the connection of Romulus to Augustus. Yet if Ovid's goal in this double apotheosis is to promote panegyrical identifications, he has lost an impressive opportunity. Especially after his irreverent, even scandalous, version of the rape in Ars amatorial, Ovid could now have made amends with Ottaviano and with history by serving up a traditionally patriotic rape of the Sabines, including the achievements of Romulus and Ersilia, both available for cuhemeristic treatment. Ovid's version is once again conspicuously remote from Ennius's. It is unlikely that Ersilia's transformation into the divine Hora occurred in the Annales, and Ovid probably originated Ersilia's apotheosis. In doing so, Ovid remythologizes history, reducing human agency and minimizing the potential of his Roman characters to serve as flattering parallels. In evaluating the historical character of the Metamorphoses, we can view apotheosis as part of historical progress in the work. As we saw above Wheeler regards the movement from fable to history, from the heavens to the city of Rome, as "a shift from a theologia fabulosa to a theologia wilis"67 Another view is, however, possible, in accordance with which the fabulous incorporates all else into its domain-including history, politics, and current events. Terms like "fabulous" and "mythological," of course, are not simply descriptive of the subject matter that Ovid has taken up; he has entirely transformed the nature of the fabulous, mythological, and the historical alike. He Ovidianizes them all, Hersilia no less completely than the rest. When Iris reports Juno's words to the bereaved Hersilia, she eagerly asks to see once again the face of her husband, concluding her request with these words: 'quem si modo posse uidere/ fata semel dederint, caelum accepisse fatebor' (Met). Hersilia is using caclum as a metaphorical equivalent for the summit of happiness, as Bömer aptly notes, citing Cicero's letters to Atticus: in caelo sum (Att.); Bibulus in caelo est (Att.). Hersilia supposes Romulus "lost" (amissum, Met.) and evidently knows nothing yet of his apotheosis -certamly nothing about her own. She simply uses a conventional, proverbial form of speech to express her anticipated happiness. But events make her expression literally true, as the star descends and Hersilia rises to the heavens. Ovid's transformative wordplay often operates in just this way: words that initially appear figurative become literal, the conceptual shifts to the physical, and a transformation described in terms of plot is enacted first on the level of style." Hersilia's apotheosis is a fine instance of Ovidian wit, yet is also a typical instance, similar to many others that readers have enjoyed by this stage in the work's progress. As they enjoy another of Ovid's transformative witticisms, they also may reflect on the power of his transformative vision, which now incorporates even their own history. As he exploits Hersilia's apotheosis for so fine a joke, Ovid grants us an ironic perspective on Roman origins, compromising their fated-ness and bringing out their contingent character. Throughout the last pentad, historical events lose their connection to fata and pass under the sway of Fama in its full range of ambiguity and contradiction: "lies mixed with truth" (mixtaque cum ueris... commenta) issue from the house of Fama, while "Fame, the herald of truth" (praemuntia uri/ fama), announces Numa's impossible visit to Pythagoras. Fama is a touchstone for the fractured historical vision of the Metamorphoses.  Fasti (Ovidio) Fasti Ritratto immaginario di Ovidio (di Anton von Werner) Autore Publio Ovidio Nasone Original ed. Editio princeps Bologna, Baldassarre Azzoguidi, Generepoema epico Lingua originalelatino Manuale. I Fasti sono un poema che espone le origini delle festività romane, quindi è un'opera di carattere calendariale ed eziologico di Ovidio, scritto in distici elegiaci, ad imitazione degli Aitia (Cause) di Callimaco, di cui riprende, oltre che il metro, anche alcune soluzioni formali e narratologiche.  L'opera, scritta molto probabilmente per aderire alla moralizzante propaganda tipica dell'età augustea, fu progettata in un totale di 12 libri, secondo l'andamento del calendario. Con essa l'autore, che probabilmente attingeva a Varrone e a Verrio Flacco, si era proposto di spiegare l'origine della differenza tra i giorni fasti (dalla parola latina "fas", lecito) in cui i Romani potevano trattare gl’affari pubblici e privati, e i giorni “INfasti,” nei quali era vietato. Al tempo stesso, Ovidio, parlando con il dio di turno, indaga e rivisita, mese per mese, tutti i molteplici riti, le festività e le consuetudini, tipiche del costume e dell'uomo romano, che, al suo tempo, si praticavano senza ormai conoscerne l'esatta origine o valenza.  Tuttavia, dei Fasti si sono conservati solamente 6 libri, da gennaio a giugno. Questo fatto si spiega con la famosa relegatio (esilio che non comportava la perdita dei beni né tantomeno dei diritti civili) che colpe Ovidio e che non gli permise di terminarla.   Indice 1Struttura 1. 1Libro I: gennaio 1. 2 Libro II:  febbraio 1.3 Libro III: marzo 1. 4 Libro IV: aprile 1.5 Libro V: maggio 1. 6 Libro VI: giugno 2 Voci correlate 4 Altri progetti 5 Collegamenti esterni Struttura Libro I: gennaio Il primo libro doveva presentare una dedica ad Ottaviano. Quest'ultima, ora spostata al secondo libro, è stata sostituita (verosimilmente nell'esilio di Tomi, l'attuale Costanza, in Romania) con una al nipote adottivo di Augusto stesso, Germanico. Dopo la dedica, Ovidio ri-evoca brevemente la nascita del calendario romano e il significato dei giorni fortunati o dies fasti, per poi passare al mito di Giano, esposto dal dio stesso in colloquio con Ovidio, sul modello degli Aitia callimachei e, dopo un distico sulle None di gennaio, modellato sulle sezioni astronomiche di Arato, all'esposizione dell'origine dei riti agonali, dei riti in onore di Carmenta, inframmezzato da una esposizione sulle Idi, che divide questo mini-epillio in due sezioni, la prima delle quali è una lunga profezia sulle origini di Roma recitata dalla stessa ninfa.  Libro II: febbraio Dopo un'apostrofe al distico elegiaco, che Ovidio afferma di aver piegato alla poesia eziologica, dopo che in gioventù fu il suo verso d'amore e ad una dedica a Cesare (forse Augusto), si passa a parlare dell'origine del nome februarius, per poi discutere delle calende, con la rievocazione del mito di Arione, delle none, con il mito dell'Orsa Callisto, di Fauno, dei Lupercali e di Roma arcaica. Ovidio rievoca, poi, le feste Quirinalia, le cerimonie ferali e la festa del dio Terminus e si sofferma a parlare del regifugium, con la leggenda di Lucrezia. Infine, parla della festa degli Equirria. Libro III: marzo Sezione vuota Questa sezione sull'argomento opere letterarie è ancora vuota. Aiutaci a scriverla! Libro IV: aprile  Festività romane Fasti (antica Roma)  I Fasti di P. Ovidio Nasone; tradotti in terza rima dal testo Latino ripurgato ed illustrato con note dal dottor Giambattista Bianchi da Siena, Venezia, Nella stamperia Rosa Traduzione in inglese dei Fasti, su tkline.freeserve Publio Ovidio Nasone Portale Antica Roma   Portale Lingua latina   Portale Religioni Categorie: Opere letterarie in latino Opere di Ovidio Opere letterarie del I secolo. Ovidio. Publio Ovidio Nasone. Ovidio. Keywords: implicatura trasformativa. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ovidio.” Ovidio.

 

No comments:

Post a Comment