Grice ed Occelo:
la ragione conversazionale e la setta di Lucania -- Roma – filosofia
basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano. Lucania, Matera,
Basilicata. A Pythagorean, according to Giamblico. Brother of Occilo di Lucania.
O. held that the number III is the key to understanding the world. According to
Ippolito, he also believed that in addition to the IV elements – earth, fire,
air, and water – there is a fifth principle which is circular motion. Filone
says that O. believes that it is possible to prove that the world is
indestructible. Occelo.
Grice ed Occilo:
la ragione conversazionale e la setta di Lucania. Roma – filosofia basilicatese
-- filosofia antica – Luigi Speranza
(Lucania). Filosofo italiano. Lucania, Matera, Basilicata. A Pythagorean, cited
by Giamblico. Brother of Occelo di
Lucania.
Grice ed Ocone: la ragione conversazionale e l’implicature
conversazionali dei liberali d’Italia – la scuola di Benevento – filosofia campanese
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Benevento). Filosofo italiano. Benevento, Campania. Grice: “Ocone
has selected Croce as the quintessential Italian liberal! That should please
Oxonians like Collingwood!” -- Grice: “I like Ocone’s idea of a liberalism
without a theory – ‘liberalismo senza teoria’ – that should please J. M. Jack!”
-- Grice: “Speranza has noted that if Bennett speaks of
meaning-nominalism, we could well speak of meaning-liberalism.” Grice: “While
meaning-liberalism requires that the limit of one’s liberty to make a sign
stand for an idea is your co-conversationalist, meaning-anarchism is Humpty
Dumpty (‘I didn’t know that!’ ‘Of course you don’t’) and
meaning-conventionalism is the idea that there is a repertoire on which
conversationalists rely!” Si
occupa soprattutto di temi concernenti il neoidealismo italiano e la teoria del
liberalismo. Allievo di Franchini, è borsista dell'Istituto Italiano per
gli Studi Storici di Napol. Qui ha l'opportunità di lavorare direttamente nella
biblioteca personale di Benedetto Croce e con l'aiuto di Alda Croce, figlia del
filosofo, raccoglie e analizza il materiale scritto nel mondo su di lui. Un
frutto parziale e selezionato del suo lavoro vede la luce nel volume ragionata degli studi su Croce pubblicata
dalla Edizioni Scientifiche di Napoli, che vince l'anno successivo la prima
edizione del "Premio nazionale di saggistica Benedetto Croce",
istituito dall'Istituto Studi Crociani. È stato direttore scientifico
della Fondazione Einaudi di Roma, dalla quale è stato successivamente
allontanato per le sue posizioni nazionaliste. Successivamente è entrato a far
parte della Fondazione Tatarella ed è diventato Direttore Scientifico di
Nazione Futura. È anche membro del Comitato Scientifico della Fondazione
Cortese di Napoli, del Comitato Storico Scientifico della Fondazione Bettino
Craxi, del Comitato Scientifico dell'Istituto Internazionale Jacques Maritain e
del Comitato Scientifico della Fondazione Farefuturo. Attività e pensiero
Fonda a Napoli, con un piccolo gruppo di laureati e laureandi della Federico
II, cittadini sanniti e napoletani, il trimestrale "CroceVia" edito
dalla Edizioni Scientifiche, che si propone di rinnovare il messaggio crociano
e che entra in poco tempo nel dibattito culturale nazionale. I suoi studi
crociani prendono corpo nel volume Croce, Il liberalismo come concezione della
vita, pubblicato da Rubbettino nella collana “Maestri liberali” della
Fondazione Einaudi di Roma. Il volume, presentando l'immagine originale di un
Croce partecipe del processo europeo di distruzione delle categorie
epistemiche, ha numerose recensioni. A partire dalla sua interpretazione di
Croce, O. elabora la prospettiva di un liberalismo senza teoria, cioè
storicistico e non fondazionistico. Il suo progetto filosofico può essere così
formulato: riconquistare il liberalismo alla filosofia; ritornare in filosofia
all'idealismo; ricongiungere il liberalismo con l'idealismo (si vedano, a tal
proposito, gli interventi di O. nella polemica fra neorealisti e
postmodernisti). In quest'ordine di discorso, O. ritiene che la critica rivolta
a Croce di essere un liberale anomalo, in quanto nel suo pensiero il concetto
di individuo sarebbe sacrificato, vada ribaltato: l'individualismo non è
affatto consustanziale al liberalismo, ma si è legato ad esso solo in una sua
prima fase di sviluppo (all'inizio della modernità). Quello di O. è un
liberalismo che non prescinde né dal senso storico né dal realismo politico.
Successivamente il pensiero di O. ha assunto molti caratteri propri dello
scetticismo politico di Michael Oakeshott, in particolare della sua critica del
razionalismo, del perfezionismo e del paternalismo. Egli ha pertanto insistito
sul carattere “anticonformistico” e “eretico” del liberalismo, sulla priorità
in esso del momento “negativo” o della contraddizione. La critica delle
ideologie, e in particolare del “politicamente corretto”, diviene in
quest'ottica il correlato pratico degli approdi antimetafisici della filosofia
contemporanea. E filosofia e liberalismo finiscono per coincidere Da
ultimo, la sua riflessione ha messo a tema il significato teorico e storico
dell’affermarsi dei cosiddetti “populismi” e “sovranismi”. Essi, prima di
essere ostracizzati, vanno per O. capiti: pur in modo confuso e
contraddittorio, lungi dall'essere un “incidente di percorso” incorso al
processo di globalizzazione in atto, essi ne segnalano la definitiva crisi
dell’ideologia portante: il globalismo. Questa ideologia può essere considerata
una radicalizzazione coerente della mentalità illuministica e progressista,
cioè da una parte del processo di secolarizzazione e razionalizzazione e
dall'altra dello speculare e connesso relativismo e nichilismo. I “populismi”
sono perciò per O. movimenti di reazione ai meccanismi di spoliticizzazione (e
connesso “disciplinamento” in senso foucaultiano) propri della globalizzazione,
che aveva definito la sua ideologia all’incrocio fra le idee di due
“deviazioni” dell’autentico liberalismo: il neoliberismo, sul versante
economico, e la cultura liberal sul versante di un diritto globale fortemente
eticizzato. Scrive su diverse riviste scientifiche e culturali e sui
maggiori organi di stampa nazionali. Attualmente è nella redazione della
rivista “LeSfide”, edita dalla Fondazione Craxi, e nel Comitato editoriale dell
quotidiano online “L’Occidentale”. Collaboratore de “Il Giornale” e de “Il
Riformista”, è opinionista politico di “formiche.net”, “Huffpost” e
“nicolaporro”. Molto seguita è la sua rubrica domenicale di riflessione
politico-culturale “O.’s Corner” sulla rivista online “startmagazine”. Un
estratto di un suo articolo (Intervista a Remo Bodei, in C. Ocone, Prendiamola
con filosofia, Il Mattino, è stato utilizzato dal Ministero dell'Istruzione,
dell'Università e della Ricerca come documento per la stesura della traccia
della prova scritta di Italiano negli esami di Stato conclusivi dei corsi di
studio di istruzione secondaria superiore a.s. (Tipologia Redazione di un
saggio breve o di un articolo di giornale2. Ambito socio-economicoArgomento: La
riscoperta della necessità di «pensare»). Nella sezione Dal dopoguerra ai
giorni nostri, Percorso Il dibattito delle idee Dall'“impegno” al postmoderno, Dal
periodo tra le due guerre ai giorni nostri) dell'antologia "Il piacere dei
testi", editore Paravia, è contenuto il suo saggio "Né neorealisti né
postmodernisti, "qdR". Altri saggi: “Coronavirus. Fine della
globalizzazione” Il Giornale, Milano); “La chiave del secolo. Interpretazioni
del Novecento” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Europa. L'Unione che ha
fallito, Historica, Cesena, “La cultura liberale. Breviario per il nuovo
secolo” Giubilei Regnani, Roma-Cesena); “Attualità di Croce” Castelvecchi,
Roma, “Il liberalismo nel Novecento: da
Croce a Berlin” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Il liberale che non c'è.
Manifesto per l'Italia che vorremmo” (Castelvecchi, Roma); “I grandi maestri
del pensiero laico, Claudiana, Torino); “Collingwood e l’Italia” Castelvecchi,
Roma); “Il nuovo realismo è un populismo” (Il Nuovo Melangolo, Genova, (Reichlin e Rustichini) Pensare la sinistra.
Tra equità e libertà, Laterza, Roma-Bari, Liberalismo senza teoria, Rubbettino,
Soveria Mannelli (con Dario Antiseri), “Liberali
d'Italia” Rubbettino, Soveria Mannelli (con altri autori) “Le parole del tempo.
Lessico del mondo che cambia” Pierfranco Pellizzetti, Manifesto libri, Roma); “Spettri
di Derrida, Annali della Fondazione europea del Disegno (Fondation Adami), Il Nuovo Melangolo, Genova); “Profili
riformisti. liberali per le nostre sfide” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Marx”
(Momenti d'oro dell'economia"), Roma); “La libertà e i suoi limiti.
Antologia del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, Laterza, Roma); “Croce.
Il liberalismo come concezione della vita” (Rubbettino, Soveria Mannelli); “Bobbio
ad uso di amici e nemici” (Marsilio, Venezia); “Manifesto laico, Laterza, Roma);
“Lessico repubblicano” (Fondazione Giovanni Agnelli, Torino, ragionata degli
scritti su Croce; Edizioni Scientifiche, Napoli. Cfr. Archivio borsisti in
Istituto Italiano per gli Studi Storici
Premio Croce, su mediamuseum. Comitato Scientifico, su Fondazione luigi einaudi. Ficara, La Fondazione Einaudi allontana O.
perché "filo-sovranista", su Secolo Trentino, La Fondazione, su Fondazione
Giuseppe tatarella. Organigramma, su
nazionefutura. Fondazione Cortese di
Napoli in//Fondazione cortese/
Fondazione Craxi, Comitato Scientifico dell'Istituto Maritain, Comitato
Scientifico e di indirizzo, su fare futuro fondazione. rubbettino. Vattimo Pubblicazioni La
recensione, Caffe' Europa, Duccio Trombadori, Questo don Benedetto somiglia a Nietzsche,
su il Giornale, Il blog di VATTIMO: O. e la filosofia classica tedesca, su Gianni
vattimo. blogspot. com. La filosofia
politica è una pseudo-scienza. Parola di filosofo. E che filosofo!, su
reset. Attualità di Croce su opac., Europa: l'Unione che ha fallito; opac., La natura del potere svelata dal
coronavirus, su il Giornale, Coronavirus: fine della globalizzazione, Store il Giornale,
Fine di una storia, il ritorno della politica? su leSfide. Chi Siamo, su loccidentale. MIUR Traccia
della prova scritta di Italiano per gli esami di Stato conclusivi dei corsi di
studio di istruzione secondaria superiore anno scolastico su archivio .pubblica.istruzione. Il piacere dei testi QDR Magazine Qualcosa da Raccontare, La
chiave del secolo: interpretazioni del Novecento, opac., La cultura liberale:
breviario per il nuovo secolo; Attualità di Benedetto Croce / O., su opac., Il
liberalismo nel Novecento: da Croce a Berlin /su opac., Il liberale che non c'è:
manifesto per l'Italia che vorremmo su opac., I grandi maestri del pensiero
laico ntroduzione di Massimo L. Salvatori, su opac., Collingwood, Autobiografia
Collingwood; prefazione di O., su opac., Il nuovo realismo è un populismo / Cesare,
Simone Regazzoni, su opac., Pietro Reichlin, Pensare la sinistra: tra equità e
libertà Reichlin, Rustichini, su opac., “Liberalismo
senza teoria”; su opac., “Liberali d'Italia”; Antiseri; prefazione di Giorello,
su opac., Le parole del tempo; M. Barberis; P. Pellzzetti, su opac., Spettri di Derrida opac.,
O., Profili riformisti: pensatori liberal per le nostre sfide opac., Marx:
teoria del capitale / [visto da opac., La liberta e i suoi limiti: antologia
del pensiero liberale da Filangieri a Bobbio, opac., Croce: il liberalismo come
concezione della vita, opac., Bobbio ad uso di amici e nemici, opac., Manifesto
laico / Enzo Marzo; contributi di S. Lariccia on un intervento di Bobbio, su
opac., Lessico repubblicano: Torino, Maurizio Viroli, su opac., ragionata degli scritti su Croce, opac., La
genialità di Marx agli occhi dei liberisti, riconosce i pregi dell'analisi, in archivio storico.corriere
Premio al Premio Croce di saggistica, in premiflaiano Ssu corradoocone.com.
Grice: “Speranza calls me a liberal, but then he calls Locke and Humpty Dumpty
a liberal too.” Grice: “Mussolini
set a puzzle for liberalism – the Italians, disorganized as they are, had to
create a party: they called it the ‘Partito Liberale Italiano’ – which is bound
to close down! It opened in 1922 – while I was at Harborne!” -- Grice: “The test of a man’s intelligence lies
in his ability to name his party – partito liberale italiano – partito liberale
democratico – partito liberale constituzionale – the addition of ‘italiano’ at
the end of ‘partito liberale italiano’ ENTAILS that what Borolli did at
Florence, by founding his ‘partito liberale’ – since he omitted to add the
‘italiano’ was not the partito liberale italiano – but fiorentino at most!
Similarly, the partito liberale democratico is NOT the partito liberale
italiano, nor is the partito liberale costituzionale. Mussolini had it clearer:
there’s only ONE partito – partito nazionale fascitsa – the infix ‘nazionale’
means that provincials should not appy!” Corrado
Ocone. Ocone. Keywords: liberali d’Italia, liberalism, dal liberalism al
fascismo, il partito nazionale fascista e il partito liberale – Refs.: Luigi Speranza: “Grice ed Ocone” –
The Swimming-Pool Library.
Grice ed Oddi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – la scuola di Padova -- filosofia veneta -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Padova).
Filosofo italiano. Padova, Veneto. Figlio di Oddo degli Oddi, convinto
sostenitore della scuola di Galeno. Professore per incarico del Senato
veneziano assieme a Bottoni a Padova, dove insegna e introduce senza ricevere emolumenti
l'insegnamento della pratica clinica nell'ospedale di San Francesco Grande,
precedendo così tutte le altre scuole. Commentari dell'Ateneo di Brescia G. Vedova, Biografia degli scrittori
padovani, coi tipi della Minerva, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Treccani
Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dobbiamo al chiarissimo
signor dottor Montesanto (Dell'origine della clinica medica di Padova ec.) la
bella ed interessante notizia, che il nostro Bottoni e il suo collega Marco
Oddo, calcando le traccie luminose segnate dal famoso Montano pochi lustri
prima, diedero novella vita al la clinica medica nello spedale di san Francesco
in Padova, condotti dalla sola nobile brama di giovare. E qui avvertire mo
cogli sludiosi di medicina,che il dotto autore, dopo aver dimostrato con
incontrastabile evidenza che l'Università padovana, la prima d'ogni pubblico
Studio d'Europa, vanta la fondazione in essa di quella scuola, base dellamedica
scien za,ci porge il documento luminoso,che tanto onora li ricor dati
professori, e in particolare il Bottoni di cui favelliamo; il quale non essendo
da tacersi, lo riporteremo come ci viene fedelmente e con eleganza vôlto in lingua
italiana dal prelo dato signor Montesanto, che il trasse dagli Acta nationis
germanicae Facultatis medicae, quae,convocata natione, prae lecta et examinata,
digna judicata sunt,ut albo nationis insererentur. Consiliariis Christophoro
Sibenburger Carin thio, etKeller Hallense Saxone. Manoscritto presso la
biblioteca dell'Imperiale Regia Università di Padova. dette in vita
Boltoni , non è da passarsi solto silenzio quello d'essere stato dal Duca di
Urbino, unita mente ai altri quattro medici, chiesto del suo consiglio onde
togliere la città di Pesaro e il territorio da alcu ne febbri pericolose che
colà infierivano. N e taceremo , come a'dinostrisidimostròbellamente,che il Bot
Merita,a comune nostro giudizio, di essere celebrato con riconoscente memoria e
di venir rammentato in questo luogo il beneficio sommo impartito alla nazione
nostra dall'eccellentissimo uomo Bottoni , professore primario di medicina pratica
estraordinaria, il quale condotto dalla singolare benivoglienza che da più anni
a noi concede, oltre all'averci anche in quest'anno dalla pubblica cattedra con
ogni cura ammaestrati, a fine di giovare vieppiù alla nostra istruzione si riuni
nelloscorso inverno all'eccellentissimo Marco degli Oddi, medico ordinario
dello spedale di san Francesco e pubblico professore, e con esso, finite la lezione,
si trasferi sempre a quello speilale medesimo seguito da toni fu, insieme
al suo collega O., il primo che dopo il celebre Montano gettasse i più so noi
per visitarvi parecchi infermi afflitti da diversi generi di malattie: per tal guisa
egli aprissi l'adito ad accuratamente mostrarci come sido vessero applicare alla
pratica quelle dottrine che avevano fatto il soggetto della sua pubblica
lezione, esercitando così i suoi uditori in tutto ciò che al dotto e sagace
medico appartiene di osservare e dipraticarea pro de'suoimalati. Cessate finalmente
le lezioni, volendo Bottoni che neppure durante le vacanze dell'Università
mancasse a noi qualche mezzo di ammaestramento, e potesse per noi esser posto a
profitto il nostro tempo,egli in una determinata ora della mallina recavasi
ogni giorno a quello stesso spedale :quivi, visitando alternativamente cob O.
gli ammalati, andava instruendoci, ragionando intorno a qualche caso tra i più
gravi da lui osservati. Il Campolongo perciò, vistosi promosso a medico di quel
l'ospitale, sipropose egli pure, allafoggia de'provetti nostri precettori, di
dare ogni giorno delle pratiche istruzioni: nel di susseguente alla sua nomina
occupò quindiprimo di tutti con molta insolenza e temerità quel posto chesoleva
essere destinato ai nostri maestri; nè, occupatolo, volle cederlo ad essi. Fermo
in suo pensiero diragionare aigiovanida quel luogo, non già una sola volta, o
per un giorno solamente, rinnovò la scena istessa per più giorni; e non
valseroa ri muoverlo nè a piegarlo le nostre istanze, direlte a far sì ch'ei
lasciasse liberi ü luogo e l'ora occupati per lo innanzi dai nostri maestri,e
che per sè volesse scegliere altra ora ed altro luogo. Ma, ostinato egli oltre
ogni credere, giunse, coll'insistere per le sue pratiche istruzioni, a turbare
quelle solite a darsi dagli altri prima di lui. Se dal Campolongo solo avesse
dovuto dipendere, tutti saremmo stati esclusi dal Mentre simili
esercitazioni, con si maturo consiglio intra prese a nostro vantaggio, andavano
proseguendo, un certo medicoper nome Emilio Campolongo,digiovanile età, col.
lega nell Università e professore della stessa cattedra , m a in secondo luogo,
d’O., riusci,non sisa come, ottenere che la ispezione a d siedeva e la cura
de'malati, cui prima pre ilsolo O.,venissefra entrambidivisa, permodo che
quind'innanzi gli uomini fossero medicati longo, e le femmine d’O,. dal
Campo l'ospitale; il che pure minacciava apertamente di voler far si che
avvenisse. La quale insolenza, divenuta già intollerabile ai signori professori
Bottoni ed Oddo, meritevoli per ogni riguardo di molta stima e riverenza, li
costrinse a partire dallo spedale, e con essi partirono quanti vi erano
studenti della nazione alemanna,rimanendo così affatto solo ilCampolongo nel
luogo da lui tolto agli altri. Informati poscia bene del fatio i governatori
dello spedale , costrinsero il Campolongo con severi modi a cessare dalla sua
pretesa, ingiungendogli, sepur voleva intraprendere qualche esercizio a
vantaggio di taluno degli studenti, di scegliersi un'altra ora ed u n altro
luogo. Cosi, mercè la prudenza dei nostri maestri e la costanza degli studenti
alemanni, fu vinta l'altrui pertinacia, edinostri esercizii vennero felicementea
ricominciare. Essendosi allontanati, come sogliono, dall'Università glo ltaliani
per far le vacanze presso leloro famiglie, li signori Bottoni e O.,
eccellentissimi uomini e della nostra nazione sommamente benemeriti, affinchè far
potessimo qualche profitto nello spazio di tanti mesi, continuarono le loro
pratiche istruzioni quasi ogni giorno nello spedale di san Francesco sino al principio
delle lezioni, con gran fatica e disagio loro, econsomma utilità nostra: della
qual cosa poco io dirò, potendo bene ciascuno dalla rela. zione del mio
antecessore rilevare le circostanze tutte che a ciòsiriferiscono. Aggiungasi, chevenendo
nella state invitati parecchi infermi alle terme di Abano, onde rendersi
vieppiù grati a'nostri, li condussero due volte colà, dando per tutti cavalli e
legno il signor O., e quivi gl'instruirono circa il valore medico delleacque
termali e deifanghi. Verso lafine poi dell'ottobre fattasi la stagione
opportuna per le sezioni anatomiche, iBottoni e O. stabilirono di aprire i cada
veri di quelle donne che morissero nello spedale ; e ciò col fine d'indagare
alla presenza degli scolari le sedi e le cagioni dei mali : fu però d'uopo
abbandonare ben tosto que lidi fondamenti della scuola clinica in Padova , che
precedette tutte l'altre in Europa. Lasciò il nostro Bot Bottoni e O.
continuarono anche nel successivo anno ad istruire nello spedale i giovani;ed
in quest'anno pure vennero ad insorgere nuovi dissidii, come ce ne informano
gli atti di quell'epoca, raccontandosiivi quanto segue: toni un monumento
del suo buon gusto nelle arti in un palazzo ch'ei fece erigere dirimpetto alla
chiesa degli Eremitani inPadova (intorno al quale allude la medaglia riportata da
Tomasini(1),cheacquistatopo sto si utile divisamento,poichè, mentre tutto era
disposto per eseguire nel giorno appresso la sezione di due donne, in una delle
quali importava esaminare lo sluto dell'utero, e nell'altra, mortaditabe, volevasidainostri
precettori scuo prire per dove penetrasse una piaga fistolosa esistente al
torace, Campolongo loro emulo propose a'suoi uditori d'intraprendere in quel
giorno medesimo l'anatomia dell'ute ro,esiserviper questa deidue
suddetticadaveri. Nacque da ciò che i governatori del pio luogo, resi avvertiti
dell’ac caduto e mossi dalle querele delle vecchie inferme, le quali temevano, morendo,
di dover essere del pari anatomizzate, prescrisserotanto ad’O., quanto al Campolongo,
di astenersi dall'incidere verun cadavere nell'ospitale, sotto pena di perdere
lo stipendio. In onta però alle tante opposizioni promosse dalla rivalità del
Campolongo contro Bottoni e O., perseverarono questituttavianell'utile loro
impresa d'istruirenellapratica medicina i giovani, conducendoli al letto dei
malati nello spe dale di san Francesco; poichè anche gli atti compilati dal
consiglieredella nazione alemanpa Pietro Paolo Höchstetter di Tubinga, ne
parlano cosi: A ciascuno di noi è palese con quanta diligenzasi diportasse
ilsignor Albertino Bottoni nelle sue quotidiane esercitazioni. Ogni giorno ei
ci conduceva al lettodi un nuovo malato, e c'istruiva intorno aldi lui morbo, indagandone
dottamente le cagioni, esponendone i segni e le indicazioni curative, non che
il prono stico :egli suggeriva inoltre non solo le più opportune medi. cine di
comune uso,ma quelle altresi chela sua pratica particolare gli avea comprovate
efficacissime; talche vennu ognora più a farsi manifesta la singolare bontà con
cui ila più anni questo insigne uomo ci riguarda. Ond'è che,seb. bene le teorie
mediche da noi apprese nelle nostrecontrade possano a tutta prima allontanarci
in qualche modo dal se guire le sue lezioni, la somma sua felicità nella
pratica e T'ottimo suo metodo di medicare serve però a ricondurci in. torno a
lui. Marco degli Oddi. Marco degl’Oddi. Oddi. Keywords: implicature: filosofia
naturale, Galeno.-- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Oddi” – The Swimming-Pool
Library.
Grice ed Offredi: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del lizio – la scuola di Cremona -- filosofia lombarda -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Cremona).
Filosofo italiano. Cremona, Lombardia. Gli era tributata grande autorità nell’ambiente
filosofico. Insegna a Pavia e Piacenza. In buoni rapporti con Eugenio IV,
Visconti e Sforza. Saggi:“De primo et
ultimo instanti in defensionem communis opinionis adversus Petrum Mantuanum,” S.l.,
Bonus Gallus, Giambattista Fantonetti,
Effemeridi delle scienze, compilate da G. netti, Paolo- Molina, Rinascimento,
Istituto nazionale di studi sul Rinascimento, Robolini, Notizie appartenenti
alla storia della sua patria, raccolte da G. Robolini, pavese, Fantonetti,
Effemeridi delle scienze mediche, compilate da Fantonetti, Molina. OFFREDI
CREMONENSIS ABSOLVTISSIMA COMMENTARIA [ocr errors] VNA CVM QVAE STIONIBVS
IN PRIMVM ARISTOTELIS Posteriorum Analyticorum librum, Nunc primum
mendis oinnibus expurgati, et egregijs scolijs marginalibus
illustrata, AC DVOBVS INDICIBVS, ALTERO, Qy I RES IN
COMMENTARIIS tractatas, altero, qui quastionum capita copiosissime
comple&titur, PRAETERE A DVPLICI TEXTVS ARIST. INTERPRETATIONE
AVCTA IN LVCM RE DEVNT A PRAECLARISS. DOCTORIS Hoc aut contingit
propter posibilitatem intellectus D APOLLINARIS CREMONE N. noftri, qui à
principio est sicut tabula rasa, & non. 3. de anima tex. in librum primum
Posteriorum mouetur ad intelligendum, nisi de potentia ad actí
cap.is. reducatur sic autem intelligentia non cognoscunt, Aristotelis, exposition
cum semper in actu intelligendi existant, & eodem modo et nunquam in
potentia. Bruta etiam non Mnis doctrina, et discurrunt saltem discursu
pfe&to, quamuis in prin- omnis disciplina incipiosint in potentia ad
cognoscendum, & hoc est telleştiua, ex præpropter imperfectum eorum
modum cognoscendi; existenti fit cogni- Concedi tamen potest, q aliquo modo,
et impertione. Manifestum feétè discurrunt. Ex quo infertur, g per idem medium
euidenter concludere habemus, nostrum mia est autem hoc specu dum
cognoscendi imperfectiorem esse modo intelitia látibus in omnibus;
gentiarī, et perfectiorem modo brutorum, per hoc. f. mathematicæ enim
scientiæ per hunc cum difcurfu cognoscimus, qualiter neq;
intelli- modum fiunt, & aliarum unaquæq; argentia, neq; bruta cognoscunt.
Cũigitur intellectui tium. Similiter aút & orationes,quæ p nostro sit
potentia semper admixta, et cūdiscursu syllogismum, et quæ per inductionem;
scientiā acquirat, in discursu autem error, et recti- utræq; enim per
prius nota faciunt do tudo esse poffit, vbi etiam est admixta potentia, malum,
ö error cötingere poffit, vt colligitur de mente e &rinam; hæ quidem
accipientes,tanğà Arift.g meta. cum dicit, q malum naturaliter
eft tex.6. 19 B notis, illä uerò demonstrātes uniuersale poft potentiā,
& vlterius dicit, g in rebus æternis, perid, quod est manifestum singulare
que semper sunt actu, non est malum, neque error, Similiter aút, et
rhetoricæ persuadent: oportuit artem inuenire,qua in a&tibus rationis
di- aut enim per exemplum, et est Inductio: rigeretur humanus intellectus
in acquirêdo notitia aut per enthimema, quod quidem est vnius, ex notitia
alterius, et hæc fuit Ars Logicæ. Cum autem triplex sit intellctus
operatio, quarum syllogismus secunda primam fupponit, et tertia secundā vt
colli Mnis doctrina,omnisý disciplina gitur 3. de anima (Prima est simpliciü
intelle&tio, Tex. c.at. Secunda est simplicium compositio, vel divisio. Tertia
intellettina preexistente è co- est cognitio discursive His tribus
operationibus sed priores dus gnitione fit. Id, fi omnes que tres correspondent
logicæ partes, quarum prima magis conuenite fiant pacto consideremus,mani-
habetur in lib. prædicamentorum Arist. G admi- Lui, quatenus in feftum profeito
fiet. Mathematica nang; niculis ipsius scilicet lib. vniuersalium Porphiri,
tellcdwet. fcientiæ illo comparantur modo, caterarú ý lib. sex principiorum ,
obi logicè determinatur artium vnaquaque. Sanè circa orationes de generibus, &
speciebus predicamentorum , prout quoque, fiueille p raciocinationes fiue per
cunda est, quæ habetur in lib. Peryhermenias, vbi de cognitione quadam simplici
cognosci habent, sem inductioncm fiunt, feruari modusidem fo- propositione
determinatur, et speciebus ipfius tàną let: in utrisq; nanque, per antea
nota doctri de inftrumento aliquid compositiuè, vel divisiuè co-
C F na nimirum fit, quippe cum in altera tanğ gnoscendi. Tertia verò
in alys Logicelibris conti- à cognofcétibus propofitiones accipiantur,
netur, qui cõmuniter Ars Noua dicuntur, vbi de in altera
per singulare iam notüipfum vni. instrumento determinatur, quo discurrere
debet in versale oftendatur. Simili profe&to modo, telle&tus,o3. de syllogismo,
es consequenter de alijs modis arguendi. Diuiditur autem tota illa pars
hoc Goratoria rationes fuadent, aut .n.exem modo , quia ficut in
a&tionibus Nature diuersitas plis,quod est inductio,aut enthymematibus
reperitur, quxdam .n. funt, qua ex neceffitate fiunt, g&quidē ratiocinatio
est, facultas ipsafolet quædam vi plurimum, quedam vero raro (propter oratoria
fuadere. defe&tum aliquem in natura,ficut monftra ) sicin
discursibus rationis quidam sunt, in quibus est nePro inductione
expositionis huius libri Poftecefsitas, & ifti cum rectitudine rationis
habentur. riorum , fub brevitate, videnda funt quædam, v3. Ală sunt , per quos
vt plurimum verum concludiqua fuerit necessitas, logicam inueniendi, et confetur,
non tamen necessariò. Alij verò funt, in quiquenter fcienciam huius libri, Quis
ordo huius libribus eft defectus rationis propter alicuius principi ad cæteros
libros logica del LIZIO. Quis libri titulus,et defecttum. Pars logice, in qua de
primis determiquid subiectum et sic consequenter habebuntur ipsius natur,
iudicatiua dicitur, et est illa, quæ traditur in Non pigeat hoc cause. Quantum
ad primum fciendum est primò, q libris Priorum et Pofteriorī, dita autem' est
iudiloco videre Aszi cum modus nofter cognoscendi sit medius inter mon catiua à
iudicio, eo q iudicium est cum certitudine. dum intelligentiarī, er modum brutoră,
ab vtrifq; Vocata etiam est analetica .i. refolutoria, co gisa
diftinguitur in hoc, g intelligimus cum discursie. dicium certum de effectibus
baberi nö poffit, nisifiat. Con
quelle stravaganze ed empietà iusegnavasi cercare col commercio de'demonj,
colle magie e le incantagioni i rimedj delle malattie, e le maniere di
preservarsene. Meritavano maggior illustrazione e lode altri insignim e dici cremonesi
di questo secolo. O. solenne filosofo, astrologo e medico, LETTORE DI
METAFISICA – come Gilbert Ryle! -- lettore di metafisica nello studio di Pavia
e di Piacenza, caro ed accetto ad Eugenio IV, Filippo Maria Visconti
eFrancescoSforza. A Filippo Maria protettor suo dedica O. i suoi Commentarj di
Aristotile sull'anima, stampati poi in Milano, sui quali piacemi di trascrivere
il giudizio che ne fece l'illustre mio concittadino ed amico Poli. Con quest'opera,
dic'egli, pre venne O. in alcuni principii sull'origine delle idee lo stesso
Locke, ecome quegli che appartenendo a quell'onorata famiglia de'filosofi
peripatetici italiani, che al melodo naturale e sperimentale aggiunsero quello
della critica e delle proprie dottrine aveva proposto nuove ricerche superiori
al suo secolo, e di cui van tanto gloriose le scuole moderne. I n p rova di che
il prof. Poli ne'suoi saggi, e nella sua storia della filosofia ita liana
riferisce alcune proposizioni filosofiche dell'Offredi tratte dalle opere
sull'esposizione e sulle questioni de’libri d'Aristotele de anima (che ebbero
poi tante edizioni), dalle quali scorgesi come l'Offredi svincolasse la
filosofia dall'impero dell'autorità, e la posasse sul sentiero della libera e
coscienziosa verità. Quanto alla medicina Apollinare e celebrato per cure
maravigliose fra i migliori medici del suo tempo, e pubblicava al cune opere,
di cui puoi vedere i titoli nell'Arisi. Il 312 Elogia
clariss. virorum Collegii Pisan.1750 negliopuscoliscientificidelCalogerà). Secondo
Volaterrado e Spacchio non scrive quest'Offredi opera alcuna. Ma Ficino ne fa
onorevole menzione in una sua lettera del lib. V, ove dice che dalla salvezza
dell'Offredi dipende quella della filosofia de' suoi tempi. Non ricordato pure
da'vostri sto rici e biografi trovo Baccilerio Tiberio che è solo a c cennato
nella Biografia medica di Parigi, da cui apprendesi ch'egli fu professore di
medicina a Bologna, Ferrara, Padova e Pavia, e muore in Roma. Scrive un saggio
intitolato Commentarii sulla filosofia di Aristotele e di Averroe, che non
sembra es sere giammai stato impresso. Poche cose i nostri biografi ci
tramandarono di Albertino de Cattanei o de Chizzoli o Plizzoli da non
confondersi coll'altro Albertino di S. Pietro. Il Cattanei la dottissinio in
varie scienze, dottrine e lettere, e professore straordinario di filosofia,
fisica, etica e teologia prima a P a dova indi a Bologna, poi difilosofia
morale e di medicina nello studio di Ferrara e di Pisa collo stipendio di 495
fiorini d'oro (Alidosi, Borsetti Storia del ginnasio di Bologna e di Ferrara.
Fabbrucci, op.cit., in Calogera). Ficino lo chiama doctrinæ et honestatis
exemplar; e lascia alcune opera accennate dall'Arisi. BOEZIO, Hugues de St
Victor, Alberto il Grande di Bollstädt e Alberto di Sassonia, AQUINO, Egidio
Colonna, Guglielmo d'Alvernia, Enrico di Gand, Henricus de Gandano, Roberto
Vescovo di Lincoln detto Testa Grossa, il francese Gianduno o da Jandun
contemporaneo e amico di Marsilio da Padova e di Pietro d'Abano. Giovanni Duns
Scoto e Antonio d'Andrea, Antonius Andreae Scotista, il Burleusossia Burleigh, Pietro
d'Abano ossia Concilialor differentiarum, Buridano, Vio, Gregorio di Rimini
(Gregorius Ariminiensis generale degli Agostiniani nominalisti), Jacopo da
Forlì e Gentile dei Gentili discepolo di Taddeo fiorentino filosofi e medici del
medesimo secolo; knalmente Pietro da Mantova logico, PaoloVeneto filosofo,
Apollinare Offredi --filosofo e Pietro Trapolino da Padova uno dei maestri di
Pomponazzi autore di un'opera De Ilumido Radicali, tutti del 15.0 secolo. Il
Nifo e l'Achillini sono citati nelle Questioni aggiunte. Di Marliano milanese
detto il Calcolatore fanno menzione anche i suoi libri anteriorie stampati especie
quello Deintensione el remissione formarum. La maggior parte di questi
Commentatori sono noti e annoverati sia nelle storie della Filosofia e della
Letteratura, sia nelle Biografie universali, e nelle Enciclopedie. Pietro
d'Abano è uno dei più citati e studiati dal Pomponazzi;è famoso e una sua
accurata biografiafral'altresitrova nella Storia scientifica o letteraria dello
Studio di Padova del Colle.Sopra Jacopo da Forlì che fu professore a Padova è
da notarsi al proposito di questo lavoro che egli è autore di un De
Intensionc 339 titolo più particolare che sta in testa alla prima
pagina dopo l'indice delle Questioni si rileva che esso pure si riferisce ai
corsi dati dal Pomponazzi sul De Anima a Bologna. Difatti il detto titolo è il seguente:
“In nomine individuae Trinitatis incipiunt quaestiones animasticae excellentissimi
artium et medicinae doctoris, domini Magistri Petri Pomponatii Mantuani
philosophiam ordinariam in bononiensi Gymnasio legentis. Sventuratamente il
Codice di Firenze non ha che 57 fogli invece di 267 che ne ha quello di Roma, e
delle 79 Questioni di cui contiene l'indice, 34 soltanto e non senza lacune vi
sono trattate; queste corrispondono generalmente per l'ordine in cui si
ccedono, alle prime del Codice di Roma, ma non sempre e talvolta con parole
diverse. Le Questioni del Codice di Roma sono 114 ed esauriscono tutto il
trattato del LIZIO, quelle del Codice di Firenze non vanno guari al di là della
metà dello scritto aristotelico e nelle 34 che sono esaminate e risolute non
sono comprese le più importanti dell'Indice come sarebbe quella della
Immortalità dell'anima,soggetto del libro famoso che porta questo titolo. Da un
opuscolo del Brunacci è accertato che a Padova ilPomponazzi comincið et
Remissione Formarum, come il Pom ponazzi,manoscritto registrato dal Tommasini
nelle sue Bibliothecae Palavinae manuscriptae publicae el privatae, Utin, L'Apollinare,
Pietro da Mantova e Paolo Veneto sano più d'una volta dal Pomponazzi citati
insieme; e di fatto sono tutti e tre in parte della loro vita contemporanei. Paolo
Veneto ha fiorito nella prima metà del secolo XV ed è stato professore a
Padova; la sua Somma di Logica e isuoi Commenti supra l'Organo sulla Fisica di
Aristotele e specialmente sul De Anima furono celebri e c m mendatissimi. Di
esso parlano il Tiraboschi e il Papadopoli (Storia dell'Università di Padova) e
Poli nel Supplemento IV al Manuale della storia della Filosofia del Tennemann.
L'Apollinare e della famiglia Offredi o degli Orfidii da Cremona (Vedi Francesco
Arisi, Cremona literata, Parma e Tiraboschi, Storia della Letteratura
italiana); fiori verso la netàdel!V°secolo; ebbe fama grandissima e fu chiamato
l'anima di Aristotele. Risulta dal De Anima del Pomponazzi a Carte che su
discepolo di Paolo Veneto « Paulus Venetus et Apollinaris ejus discipulus ». E
difensore della filosofia cristiana contro l'Averroismo; insegna a Piacenza evi
e aggregato al Collegio medico. Il suo Commento al “De Anima” del LIZIO esiste
manoscritto nella Biblioteca palatina di Firenze. Esso e stampato più volte. La
prima edizione è di Milano (Vedi il Tiraboschi
e il Sassi, Storia della Tipografia milanese). In un volume stampato a Venezia,
esistente nella Biblioteca Alessandrina di Roma, da Locatell, si trovano la Logica di Pietro da Mantova; il
trattatello di questo professore sul primo e l'ultimo istante (“De primo et ultimo
instante”) citato da Pomponazzi nel suo “De Anima”; un trattato responsivo di O. Apollinare da
Cremona al Mantovano in difesa della opinione comune; un commento di Menghi
alla Logica di maestro Paolo Veneto. NICOLETTI. Le due opere del Mantovano
portano questi titoli: Viiri præclarissimi ac subtilissimi logicim a incipit feliciter.
Incipil sublilissimus tractatus ejusdem deinslanli. Il trattato d’O. ha per
titolo “Illustris philosophi et medici O.
Cromonensis de primo et ultimo instanti in defensionem communis opinionis
adversus Petrum Mantuanum seliciler incipil. Ecco il principio di quello del
Mantovano che Pompovazzi cita colle parole Petrus de Mantua o Mantuanus
concivis meus: Incip il sublilissimus Tractatus ejusdem (Magistri Petri Mantuani)
de instanti. Dicemus primo naturaliter loquentes, quod sola forma secundum se
el quam libel sui proprietatem potest incipere el desinere esse. Materia enim
prima est ingenita el incorrutlibilis: el non plus esl, -sul “De Anima”
un corso che non puo finire. Forse ad esso si riferiva il manoscritto che Tommasini
(Bibliothecae Patavinae publicae et privatae) dice di aver veduto nella
libreria privata del Rodio. Quanto a quello di Firevze, il titolo ci avverte,
come abbiam detto, che esso deriva come quello di Roma dall'insegnamento
psicologico del Pomponazzi a Bologna.Si troverà nell'Appendice l'indice delle
questioni che vi sono registrate. È certo in ogni modo che il manoscritto di
Roma è il Commento intero di Pomponazzi sul De Anima del LIZIO, e ciò che più
monta e risulta dalla data apposta alla fine del medesimo, è l'opera della sua
età matura, l'espressione più completa del suo insegnamento più importante, il
corso da lui dato o compiuto sul “De Anima”, nel tempo che segna l'apice della
sua attività, in quel tempo in cui egli stesso datava dalla Cappella di S.
Barbaziano in Bologna il De Naturalium Effectuum Causis, e ilvelerit de materia
prima in rerum natura quam nunc sil, velminus. Secundum tamen verilalem, cioè
la fede, malaria ali quando desinil esse ulinc onsccralione, plusaulem
velminusali quando est de forma tam subslunliali quam accidentali. Sed hoc
proposilum non destruil. Er quo sequilur quod si aliquod ens nalurale incipil
vel desinil esse, ipsum incipil vel desinit esse propter cjus formam
substanlialem quae incipit vel desinit esse. Premessa la eternità della
materia, tutto il trattato si aggira sulle difficoltà e le antinomie che
possono sorgere dalla applicazione delle categorie del moto e della quantità
alla generazione e alla cessazione delle forme nella materia, e specialmente
dalla relazione della materia con la forma nei virenti. La qualità delle
argomentazioni giustifica la parola sublilissimus aggiunta al titolo del trattato
e ricorda i ragionamenti della scuola Eleatica di VELIA -- e specialmente di
Zenone sul moto. Il saggio è uno dei più curiosi esempii dell'ardire pur troppo
sterile quanto ai risultati obbiettivi, ma non infecondo quanto alla ginnastica
della mente, con cui la Dialettica del Medio Evo e della Rinascenza si accinse
alla soluzione dei problemi più difficili. Nel manoscritto di Firenze
sopracitato come anche in quello che qui facciamo conoscere Pietro Mantovano è
spesso designato colle iniziali P. M. Fiorentino è rimasto dubbioso se queste
let tere indicassero Pietro Manna cremonese, che Pomponazzi nell'Apologia
chiama viracerrimi in genii gravissimique judicii. Essendo Manna cremonese, è
chiaro che Pomponazzi non puo chiamarlo
concivis meus. Di Pietro Trapolino, il più celebre dei due Trapolini che Pomponazzi
ha per maestri, ecco ciò che dice Papadopoli nella sua storia dell'università
di Padova. Pietro Trapolino Patavii natus patricia genle PHILOSOPHVS, malhemalicus el medicus celeberrimus,
Medicinam in Gymnasio palrio professusesl ut constatex Albis gymnasticis.
Vixilannos LVIII; vivere desiitan. MDIX caipsadiequa caplum direplumque
Patavium estab exercilu Maximiliani, in eaquererum catastrophe quæmulla conscripseralperiere.
Superesiquem juvenis ediderat liber de Ilumido radicali. Di Trapolino suo precettore
in medicina Pomponazzi parla nella12a delle sue Du Vilazioni sopra il4o dei
Meteorologici del LIZIO adducendo le difficoltà che egli scolaro gli opponera
su certe cause della mutazione delle forme nei misti. Ivi l'autore avvicina
Trapolino a Gentili, a Forlì e a Marsilio di Santa Sofia altri rinomati
professori di Padova. Di Roccabonella che e pure suo maestro è menzione alla
fine del De Falo. Finalmente di Francesco di Neritone altro suo professore
oltre al cenno che ne fa. Grice: “Italians
are rightly obsessed with Pomponazzi. They complained he looked more ‘a Jew
than an Italian,’ but he predates Ryle’s Concept of Mind. One of his influences
is Offredi, a lizii – who wrote not just on Aristotle’s De Anima (a manuscript
Pomponazzi consulted) but who himself set to defend Pomponazzi – to prove that
he was a real lizio, he wrote on Analytica Posteriora too – “Only a true lizio
will comment on that!” -- Offredi. Keywords:
implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Offredi,” The Swimming-Pool
Library.
Grice ed Olgiati: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dei classici – la scuola di Busto Arsizio -- filosofia lombarda
-- filosofia italiana – Luigi Speranza -- (Busto Arsizio). Filosofo italiano. Busto Arsizio,
Varese, Lombardia. Grice: “I’m impressed that Olgiati dedicated a whole tract
to the idea of ‘soul’ in Aquino!” Si forma presso Seminari milanesi. Collabora
con Gemelli e Necchi alla Rivista di filosofia neo-scolastica e fonda con loro
il periodico Vita e Pensiero. Insignito da Pio XI del titolo di Cameriere
Segreto e da Pio XII di Proto-notario Apostolico. Inoltre assieme ad Gemelli,
uno dei fondatori dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Presso tale ateneo
insegnò nelle facoltà di Lettere, di Magistero e di Giurisprudenza. Condirettore
della Rivista del Clero Italiano insieme a Gemelli. Autore di saggi relativi sulla
religione e l’istruzione. I suoi allievi più illustri sono Melchiorre e Reale.
Tomba di Gemelli mons. O.. Il libro Le lettere di Berlicche, scritto da Lewis,
oltre ad essere dedicato a Tolkien, è dedicato anche a O.. Medaglia d'oro ai
benemeriti della scuola, della cultura e dell'artenastrino per uniforme
ordinaria Medaglia d'oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell'arte
— Università Cattolica del Sacro CuoreLa storia: Le origini, su uni cattolica. Saggi:
“Religione e vita” (Vita, Milano); “Schemi di conferenze” (Vita, Milano); “I
fondamenti della filosofia classica” (Vita, Milano); “Il sillabario della
Teologia” (Vita, Milano); “Il concetto di giuridicità in AQUINO” (Vita,
Milano); “Marx” (Vita, Milano); Il sillabario della morale Cristiana” (Vita, Milano);
“Il sillabario del Cristianesimo, Vita, Milano) b I nuovi soci onorari della Famiglia
Bustocca. Almanacco della Famiglia Bustocca per l'anno 1956, Busto Arsizio, La
Famiglia Bustocca, Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia. Withdrawn from Crerar
Library The Library “SCHOOL OF THEOLOGY AT CLAREMONT WEST FOOTHILL AT COLLEGE AVENUE CLAREMONT, CALIFORNIA E. 2430 0 >
| | ES FRANCESCO OLGIATI la. Filosofia —- a Enrico Bergson TORINO
FRATELLI BOCCA, EbITORI
1914 pS og 4
E > —= E Z
á (0 a
2) =S 3 JE 4 lí E |
S E a
AT O AD AGOSTINO
GEMELLI CON AMMIRAZIONE E CON AFFETTO nel.
«ficie tico; de:
de; a PREFAZIONE Forse nessun filosofo, durante la sua vita,
riscosse un plauso cosi intenso e
suscitó tanto entusiasmo, come Henri
Bergson. 1 difensori stessi di altre
tendenze filosofiche, pur dissentendo da
lui, lo. ammirano e lo coronano di rose.
William James lo salutó il nuovo Platone. e
disse che le pagine dei suoi scritti schiudevano nuovi orizzonti dinnanzi ai suoi occhi: esse gli
sembravano simili all'aria pura del
mattino ed al canto d'un. uc- cello (1).
Benedetto Croce gli riconosce il merito
grande di aver rotto le tradizioni dell'intellettualismo e dell'astrattismo del suo paese, dando per
la prima volta alla Francia quella viva
coscienza dell'intuizione, che sempre le
e mancata, e scotendo la fiducia ec-
cessiva, che essa aveva, nelle nette distinzioni, nei concetti ben contornati, nelle classi, nelle
formole, nei raziocinii filanti diritto,
ma scorrenti sulla super- -.ficie della
realtá (2). Il Balfour conclude: un suo ar-
ticolo, assicurando che' chi si trova poco soddisfatto dei sistemi idealistici e che non puó
accettare il credo del naturalismo, si
rivolgerá sempre con interesse e con
ammirazione a questo esperimento brillante di
costruzione filosofica (3). 1! Windelband in Germania (1) WILLIAM JAMES, A pluralistic universe,
Longmanns, pag. 265. (2) B. CROCE, Logica, Laterza, Ed. 2:, pag. 387. (3) BALFOUR, Cre-.tive evolution and philos.
doubt, in The Hrbbert journal, ottobre
I9gII, PAg. 23. VII Prefazione
considera Bergson come la personalita piú originale e pia importante della filosofia francese
contempo- ranea (1). Anche se queste lodi fossero esagerate, e
certo che da molti anni nessun pensatore
ha esercitato in Francia un efficacia
cosi forte come Bergson (2). Non solo
egli ha sotto la sua influenza il corpo filosofico inse- gnante del suo paese, che col Gillouin lo
stima il solo filosofo di primo ordine
che abbia avuto la Fran- cia dopo
Descartes e 1'Europa dopo Kant; ma « da lui
discendono anche ¡i teorici piú moderni delle correnti pia vivaci francesi » (3). 11 Le Roy, nel suo
Comment se pose le probléme de Dieu,
crede di poter distrug- gere con le
teorie bergsoniane le antiche prove tradi-
zionali e di poter additare una via nuova per ascendere alla conoscenza di Dio (4); e nel Dogme et
critique si e sforzato di ripensare i
dogmi cattolici in funzione di quelle
dottrine. 11 Sorel, dalle sue Reflexions sur
la violence ai suoi ultimi articoli, vuol giustificare il movimento sindacalista con le idee dell”
Evolution Créatrice, libro che egli non
esita a paragonare alla (1)
WINDELBAND, LZehrbuch der Geschichte der Philosophte, trad. ital, Sandron, vol. II, pag. 361. (2) É una giusta osservazione dello SCHOEN,
2. Bergsons phi- losophische
Anschauungen, in Zeitschrift fúr Philos. und pihlos. Kritik, Band 145, Heft 1, pag. 42. (3) H. BERGSON, choix de textes avec étude
du syst. philos. par RÉNÉ GILLOUIN, pag.
8. Del Gillouin si vegga pure il recente
volume: La philosophie de M. H. Bergson, Grasset, pag. 4 € 187. Anche
il Keyserling in Germania considera Bergson come la mente filosofica piú originale dopo Kant. —
Cfr. anche GIUSEPPE PREZZOLIN], La
teoria sindacalista, ultimo capo: La filosofía dí E. Bergson, pag. 284. Fra gli studi critici,
apparsi in Italia e al- estero, € uno
dei piú notevoli. (4) In Revue de
Métaphysique el de Morale, marzo eluglio 1907. Prefazione NX Critica della Ragion pura (1). A Bergson
si ispirano _i simbolisti ed il Claudel.
1 pragmatisti trovano nelle sue opere
nuovi argomenti in loro favore. Nell'intui-
-zione i mistici scorgono un primo passo verso la loro esperienza tacita, intima, ineffabile. 1
protestanti li- berali abbracciano con
gioia le nuove idee, e solo pochi mesi
or sono, in una riunione degli Unitari a
Londra, il pastore Jacks diceva che esse portano alla religione un soffio nuovo di vita (2).
Persino gli Ebrei tentano di utilizzare
le conclusioni di Bergson (3). 11 quale,
come tutti sanno, da alcuni anni e il trionfa-
tore dei congressi filosofici. Molte riviste, tra cui il Logos e 1'Hibbert journal, si onorano di
poterlo ¡iscri- vere tra i loro
collaboratori, e non ce periodico in
Europa che non abbia esaminato i suoi volumi, oramai tradotti in tutte le lingue. In una parola,
la filosofia bergsoniana, per quanto
abbia soltanto venti anni di vita, e
davvero una filosofia alla moda (4).
(1) Cfr. SOREL, Considerazioni sulla violenza, Laterza, rgro; ed in MMouvement Socialiste, 1907, pag. 257 +
in Revue de Métaph. et de Mor., gennaio rgrr,
nell'articolo : Vues sur les problemes
de la philosophie. Quanto
alle relazioni tra sindacalismo e berg-
sonismo, si vegga PREZZOLINI: op. cit. capo III ed un articolo dello stesso autore nel Bollettino
Bibliografico Filosof. di Fi- renze,
Gennaio 1909: 7.e grandi idee sindacaliste e la filosofía di E. Bergson; BOUGLÉ- Sindacalistes et
Bergsoniens in La Revue, 10 Aprile 1909,
GOLDSTEIN : 27. Bergson und
Sozialwis senschajt in Archiv. fúr
Sozialwissenschfat, XXXI, I, 1910. (2)
Cfr. COENOBIUM, 3x1 gennaio 1913, Pag. 14576.
(3) Cfr. : Dr. JGNAZ ZIEGLER, Religion und Wissenschaft, Kaufmann, 1913. (4)
Cosi la definisce ADRIANO TILGHER in un importante ar- ticolo : Zo, liberta, moralita, nella
filosofía di E, Bergson, in Cul- tura,
15 novembre e 1 dicembre 1902. Anche in Inghilterta il berg- sonismo, che sino a pochi anni fa era quasi
sconosciuto, ottiene ora un successo
crescente. Prova ne siano i numerosi volumi e
studii di riviste dedicati al Bergson e le conferenze di questi a Oxford, a Birmingham, a Londra. Gli inglesi
perd.qualche volta, do Na
Prefazione ' E ció che piú ancora sorprende,
osserva un neo- scolastico francese, e
che la sua riputazione oltre- passa il
cerchio degli iniziati, per raggiungere il grande pubblico. Per farsene un'idea, e necessario
assistere ad uno dei suoi. corsi al
Collége de France, ove si ha
limpressione di assistere ad una premitre: gli
automobili aspettano alla porta, i servitori in livrea conservano i posti che saranno occupati dalle
grandi dame; e quando il maestro appare,
si sente che egli affascina il suo
uditorio. Gia Bergson entusiasmava i
suoi studenti di filosofia del collegio Rollin e del liceo Henri IV. Agli esami del baccalauerato,
della licenza, dell'aggregazione, tutte
le dissertazioni si ispiravano dlle sue
idee. E come ciascun anno i grandi sarti
danno la medesima silhouette a tutte le signore, cosi l'autore dell'Essai sur les données
immédiates dava a tutti i candidati la
medesima fisionomia filo- sofica gia fin
dal 1895 (1). Cogli anni l'entusiasmo é
andato crescendo. Nel 1912, narra il Grivet, ogni venerdi la vasta sala del College de Framce
comin- clava a riempirsi un”ora prima
dell'apertura della le- zione; sui
banchi gli ultimi posti erano presi d'as-
salto; poi si entrava per pressione o meglio per com- pressione. Come ai giorni piú belli della
filosofia, le persone si battevano, per
poter udire colui che i giovani hanno
soprannominato « l'allodola », colpiti
da non so quale rassomiglianza tra questo filosofo e nellPinterpretare Bergson, gli hanno
attribuite teorie tutte. op- poste a
quelle da lui difese. Cf. ad es. la risposta . di Bergson ad un articolo del Pitkin nel The journal of
phylosophy, psycolog y and scientific
methods, 7 luglio 1910, pag. 385-388, sul quale ritor- neró in seguito, (1) Cfr. Rivista di filosofía neoscolastica;
Il successo dí Bergson (a. IIl, n.6,
pag. 615). Cfr. anche RAGE OT: 4. Bergson nel Temps, 2 luglio rgrr. Prefazione XI Uuccello, che sotto il cielo azzurro
vola cosi alto. e canta cosi bene
(1). Si spieghi come si vuole questo
fenomeno. Si dica che la causa deve
essere attribuita alla magia di uno
stile, che, specialmente nella finezza delle analisi
psicologiche, sa evocare l'inesprimibile (2); se ne cerchi pure la ragione nell'ampiezza della
documen- tazione scientifica o
nell'artistica genialita di simili-
tudini superbe e di immagjni seducenti; se ne assegni il motivo nel bisogno, intensamente
sentito dalla generazione presente, di
una reazione all'intel- lettualismo ed
al positivismo: e un fatto peró che
questo pensatore puóo vantarsi di esercitare su molti spiriti contemporanei un fascino
immenso. * * NM
successo di Bergson e tale, che alcuni asseri-
scono che con lui si inaugura un nuovo periodo filo- sofico. « La sua opera, scrive il Le Roy,
sará riguar- -data dall'avvenire come
una delle piú caratteristiche, dele pin
feconde, delle piú gloriose della nostra
(1) Cfr.: J. GRIVET: MZ. Bergson : esquisse philosophique in Etudes, s ottobre 1909 e La théorie de la
personne d'aprés Bergson nella stessa
rivista, 20 nov. 1grr. Anche nella parte
espositiva del pensiero bergsoniano,
quest'ultimo articolo del P. Grivet mi
ha giovato molto, poiché contiene un sunto delle lezioni tenute dal Bergson nellanno scolastico 1911-1912
sulla teoria della per- sona. (2) Cfr. : GUSTAVE BELOT: Un nouveau spiritualisme,
in Revue philosophigue 1897, 19
Semestre, pag. 183. Anche il JOUS- SAIN
nella stessa rivista paragond l'opera del Bergson ad una sinfonia severa : cfr. L'¿dée de
l'Inconscient et 'intuition de la vie,
in Revue phtlos., maggio 1911. XIHI Prefazione
epoca. Essa segna una data che la storia non dimen- ticherá piú; apre una fase del pensiero
metafisico; pone un principio di
sviluppo, di cui non si saprebbe
assegnare il limite; ed e dopo fredda riflessione, con piena coscienza del giusto valore delle
parole, che si puó dichiarare che la
rivoluzione, da essa operata, eguaglia
in importanza la rivoluzione kantiana ed
anche la rivoluzione socratica » (1).
Certo, si e esagerato dicendo che, se il metodo bergsoniano fosse vero, la storia della
filosofia non comprenderebbe che due
capitoli: prima e dopo Bergson, e che il
primo capitolo, che abbraccia 25 secoli,
non sarebbe che la narrazione di un errore e
di un pregiudizio tenace (2). Bergson infatti, nella sua Introduction á la Métaphysique (3) e nel
suo discorso al Congresso di Bologna
(4), si + degnato di ammettere che nei
sisterni dei grandi maestri c'e sempre
qualcosa di semplice e di netto, come un
colpo di sonda, che e andato a toccare pin o meno in gia il fondo di uno stesso oceano,
portando ogni volta alla superficie
un'intuizione vera, intorno alla quale
si e poi organizzato il sistema. Ma anche evi-
(1) LE ROY, Une philosophie nouvelle: H.Bergson, Alcan, 1912, pag. 3. In questo volumetto il Le Roy raccolse due articoli
ap- parsi dapprima nella Revue des deux
mondes, 1 e 15 febbraio 1gr2 e vi
aggiunse parecchie appendici. Il secondo articolo fi- nisce cosi: « Con Bergson nella storia del
pensiero umano qualche cosa di nuovo
comincia ». (2) MENTRÉ, La tradition
philosophique in Revue de philo- sophte,
gennaio 1g1r, pag. 69-77. (3, ln Revue de Métaph. et de morale, gennaio 1903.
Di questo importantissimo articolo del
Bergson c'é una bella traduzione
italiana del Papini, dal titolo: La flosoña dell'intuizione, Lan- ciano, Carabba, Ig1r. (4) IL discorso, che spesso citerd, e stato
pubblicato dalla Revue de Métaphys. et
de Mor., novembre 1911, col titolo : 7m-
tuition philosophique.
Prefazione XIII tando
l'esagerazione del Mentré, e indubitabile che
l'intuizionismo bergsoniano e un tentativo di riforma del modo di filosofare. Lo nota a ragione il
Papini, il quale, appunto per questo e
indignato contro la cicalesca plebaglia
filosofica, che frinisce sempre nello
stesso metro, guarda il Bergson come un pensatore interessante, riassume alla meglio i suoi
libri, si scandalizza un po” della sua
abitudine di scriver bene e con calore,
ma poi non pensa neppure o a distrug-
gerlo tutto senza misericordia, oppure ad accettare il suo metodo, a migliorarlo, ad applicarlo
(1). Ed il Papini ed i bergsoniani
vogliono che tutti noi rinunciamo una
buona volta agli antichi sisternmi morti
dell'analisi concettuale, per immergerci nel flutto del reale, per tuffarci nel fiume
dell'intuizione. * Xx
Fra questo delirio frenetico di. ammiratori, fra tanti inni di lode, non tardarono a farsi udire le
critiche implacabili, i giudizii severi
ed anche le ingiurie pla- teali. Il nuovo Platone venne chiamato dai Le
Dantec, dagli Elliot, dai Lankester, da
tutti insomma i mec- canicisti, un «
jongleur », un « faux monnayeur » e le
sue teorie vennero ritenute come « aberrazioni e mostruositáa dello spirito umano » (2). 11
Dusmenil osserva che «quasi non si puó pia
ascoltarlo, senza (1) Cfr.
Pintroduzione del Papini alla traduz. dell'artic. cit., pag. 3.
(2) Vedi: LE DANTEC, Reflexions d'un Philistin in Grande Revue, 10 luglio 1910. — H. S. R. ELLIOT,
Moderne science and the illusions of
prof. Bergson with preface by Sir R. Lanke-
ster, Longmanns, 1912. XIV
Prefazione pensare continuamente:
nego» (1). IM. Renda ha gia proclamato
il fallimento di questa filosofia (2). In
Italia poi il De Ruggiero vi ha sentito un gran senso di vuoto in mezzo alla pid smagliante
ricchezza (3). Ed ¡io potrei continuare
a lungo nell'enumerazione di queste
sentenze inesorabili, se, pur avendo coscen-
ziosamente letto e meditato la maggior parte dei principali lavori critici, pubblicati in
questi ultimi anni intorno al filosofo
francese, non credessi me- glio di
attendere nella seconda parte di questo volu-
me ad esporre ció che in essi ho trovato di meglio. Qui basterá notare che gli studiosi
cattolici, e. so- pratutto i
neoscolastici francesi, sempre si opposero
con le loro riviste e coi loro libri al pensiero di Berg- son. Nel settembre dello scorso anno, in una
lettera ad Albert Farges, che aveva
scritto un'opera contro Bergson, il
Card. Merry Del Val, a nome del Ponte-
fice, si congratulava con lui, perche aveva combattuto « le false teorie di questa nuova filosofia,
la quale vorrebbe scuotere i grandi
principii, le veritá acquisite della
filosofia tradizionale » ed in tal modo aveva pro- curato di preservare gli animi da un veleno «
tanto piú funesto e dannoso, quanto pia
e velato, sottile e se- ducente ». Anche
prima peró di questa condanna, i
neoscolastici francesi furono spiccatamente antiberg- soniani. Nononstante che il Le Roy sognasse
un ab- braccio della fede cattolica col
bergsonismo (4); che (1) GEORGES
DUSMENIL, La sophistique contemporaine,
Beauchesne 1913, Pag. 44. (2) J. RENDA, Le Bergsonisme ou
une philosophie de la mobi- lité,
Mercure de France, rgr2. (3) DE RUGGIERO, La fñlosofia contemporanea, pag.
447. Il giudizio del giovane
neohegeliano € molto diffuso in Italia tra
studiosi di diverse tendenze.
(4) LE ROY, opere citate.
Prefazione XV M. Coignet ed
altri vedessero in questo la riconci-
liazione della religione e della scienza in uno spiri- tualismo nuovo (1); che il Segond tentasse di
mo- strare che le nuove teorie non
negano la trascen- denza divina (3);
nonostante che la stessa lettera
dell'Eminentissimo Segretario di Stato avesse solle- vato le sorprese del Temps, che in tono di
ramma- rico ricordava le benemerenze del
Bergson verso Vapologetica cristiana;
gli scrittori nostri non vollero
bruciare nessun granello d'incenso all'idolo del giorno e furono concordi nel riconoscere che questa
dottrina ' e fuori della corrente della
filosofia cristiana, e lon- tana dalla
tesi spiritualista e conduce inesorabilmente
ad un panteismo ateo (3). Da
queste accuse cerco di scolparsi lo stesso
Bergson. In una lettera diretta al P. De Tonquédec, egli scriveva: « Le considerazioni esposte
nel mio Essai sur les données immédiates
mettono in luce il fatto della liberta;
quelle di Matiére et Mémoire fanno
toccare con mano la realtá dello spirito: quelle del- (1) MAD. C. COIGNET, De Kant a Bergson,
réconciliation de la religion et de la
science dans un spiritualisme nouveau,
Alcan, 19r2. — La stessa cosa aveva gia detto al Congresso di Heidelberg (1909): Cfr. Bericht túber dem III
internation. Kon- £ress fúr Philos.
Heidelberg, pag. 358-369. (2) SEGOND,
L'intuition bergsonienne, Alcan, 1912. — In
Italia G. A. Borgesein un artic. del Corriere della Sera, 18 gen- naio 1913, dal titolo Cercator: di Dio,
diceva che pud darsi che «lo scetticismo
mistico di Bergson si plachi in Dio e che nel
suo mondo sconquassato senza causa né legge ristabilisca 1'or- dine la Provvidenza ». — Il commento poi
del Corriere della Sera alla lettera del
Card. Merry Del Val era simile a quello
del Temps. (3) Cfr. ad es.-J.
MARITAIN, L*évolutionnisme de Bergson in
Revue de Philosophte, settembre-ottobre rg9rr, ed il suo recente volume: La philosophie bergsontenne, Paris,
Riviére, 1914. Identico in sostanza é il
giudizio del Mercier nel suo discorso :
Vers: Pl unite. XVI
Prefazione l'Evolution Créatrice
presentano la creazione come un fatto:
da tutto questo sgorga nettamente l'idea
d'un Dio creatore e libero, generatore ad un tempo della materia e della vita, il cui sforzo di
creazione si continua, dal lato della
vita, con l'evoluzione delle specie e
con la costituzione delle personalita umane.
Da tutto questo deriva, per conseguenza, la confu- futazione del monismo e del panteismo in
gene- rale » (1). Poco tempo dopo, ad Edouard Le Roy che in
un lavoro aveva salutato nella
philosophie nouvelle un punto
d'inserzione del problema religioso, Bergson
inviava un ringraziamento per la simpatia profonda di pensiero dimostrata dal noto modernista
nel- Uesporre le sue idee e soggiungeva:
« Questa sim- patia si dimostra
sopratutto nelle ultime pagine, dove voi
indicate con poche parole la possibilita di svi- luppi ulteriori della dottrina. lo stesso non
direi in proposito altra cosa di ció che
voi avete detto » (2). Non basta. Nella
sua conferenza di Birmin- gham (3), in
un discorso tenuto a Parigi il 4 maggio
1912 (4) ed anche nelle sue recentissime conferenze negli Stati Uniti, Bergson difese la tesi
dell'immor- (1) Il P. DE TONQUÉDEC
a proposito dell Evolution Créa- trice
aveva pubblicato negli Ztudes uno studio : Comment in- terpréter P ordre du monde, dove dimostrava
che Bergson é mo-' nista ateo. A
quell'art. Bergson rispose con la lettera citata, che insieme ad un'altra lettera del Bergson e
ad un altro arti- colo del De Tonquédec:
M. Bergson est - il moniste 2 si trova ora
nel volumetto dello stesso autore: Dieu dans "Evolution créa- trice, avec deux lettres de M. Bergson,
Beauchesne, 1913. (2) Cfr. LE ROY, La
philos. nouvelle, pag. 5. : (3) Questa
conferenza fu pubblicata in inglese — lingua poco bergsoniana — nel numero di ottobre 1911 del
The Hibbert Journal col titolo: Life and
Consciousness, (4) IL discorso fu
tenuto dal Bergson per Piniziativa dell”as-
sociazione Foiet vie ed aveva per tema: L'áme et le corps. Ne Prefazione XVII talitá dell? anima, considerandola quasi
una conse- guenza legittima delle sue concezioni. e
Queste dichiarazioni del Bergson, cosi contrastanti. con un giudizio diffuso ed autorevole;
l'importanza che la sua filosofia e
andata acquistando in questi ul- timi
anni e la questione molto dibattuta intorno al
valore del metodo intuizionistico, mi indussero a comporre questo saggio. 2 Nel quale ho cercato innanzi tutto di
tracciare a grandi linee le teorie
bergsoniane, utilizzando non solo le
opere principali del pensatore francese, ma anche quasi tutti i suoi articoli di rivista, i
discorsi da lui recitati in diversi
congressi, le sue piú importanti di-
scussioni alla Société francaise de philosophie, le pre- fazioni da lui scritte a varii libri di altri
autori, le sue conferenze, parecchie sue
lettere, alcune inter- viste, qualche:
sunto dei suoi corsi al. Collége de
France, tutto insomma quello che mi fu dato di consultare (1). Riassumere il pensiero di Bergson non e
facile. L”apparente chiarezza
dell'espressione copre spesso idee
oscure, che sembrano sciogliersi in qualche cosa di impreciso, di vago, di fiuido (2). Se in
qualche punto le mie interpretazioni
sono inesatte, ció mi sará perdonato,
anche per il fatto che, quando nel apparve
un resoconto nel Temps (y maggio 1912) e fu poi inte- gralmente pubblicata nel periodico Fot et
Vie, 16 dicembre 1912, pag. 714-719 e 1
gennaio 1913, pag. 14 e seg. (1) Si
vegga alla fine del volume, nell'appendice, la bibliografia degli scritti di Bergson. (2) Sono parole del Prezzolini in un articolo
della Voce (6 gen- naio 1910): Bergson.
11 Prezzolini ad un dato punto parlando
dell'oscuritá di alcune pagine del Bergson, esclama: « Ah che di- sgrazia per chi vuole avere delle idee chiare
! ». XVnmI Prefazione 1907 Alfred' Binet apri un'inchiesta tra i
professori di liceo della Francia, per
conoscere l'influenza della filosofia
bergsoniana sul loro insegnamento, le loro
risposte furono tali, che in una seduta della Société frangaise de philosophie (28 novembre 1907)
Bergson protestó vivacemente. Nelle tesi
che quei professori gli attribuirono,
egli non riconosceva nulla di ció che
aveva pensato, insegnato o scritto! (1). lo spero pero di essere stato un espositore coscienzioso e
fedele: alla doverosa lealtá di un
avversario onesto, nulla puó tornare
tanto doloroso, quanto il sapere d'aver
tradito, sia pure senza colpa, il pensiero di colui che si combatte.
Ponendomi poi dal punto di vista della Neoscola- stica, e tenendo conto degli studii critici
pia notevoli e specialmente dei lavori
degli scrittori cattolici, ho mostrato
gli errori e le contraddizioni di questa filo-
sofia nuova. Ma — sará bene avvertirlo fin d'ora — lo non ho potuto appagarmi d'una critica negativa
e demolitrice, poiche lo studioso di
filosofia non deve essere mai un Attila
che non lascia crescere filo di erba,
dove si posa la zampa del suo cavallo ; ma deve
essere un medico, il quale esamina un organismo e procura di distruggerne i microbi dannosi ed
¡ bacilli, per rendergli possibile un
ulteriore sviluppo. Anche il Farges
osserva giustamente che non vi sono sol-
tanto teorie false in Bergson, ma che vi si trovano anche idee buone ed eccellenti, che egli e
felice di rilevare e di notare (2).
Queste idee buone ed ec- cellenti ho
cercato di organizzarle nella mia conce-
(1) Cfr. Bulletin de la Société fran;aise de philosop., genn. 1908, pag. 20-1.
(2) A. FARGES, Za Philosophie de M. Bergson, Bonne Presse, 1912, PAg. 3-4. — Cfr. anche BAEUMKER in
Philosophische Jahr- MN A
Prefazione XIX zione
filosofica, poiché ho la convinzione che la filo- sofia ¿ e non puó non essere
sistematica. La seconda parte di questo
libro rappresenta dunque il cozzo di due
sistemi. Ed a chi fosse tentato di ab-
bozzare un facile sorriso e di obiettare a priori che il medioevo, ossia un passato morto e
putrefatto, non puó competere con un
presente fresco di vitalitá e di
energle, porgo l'invito di leggermi senza pre-
gludizil: forse il suo disprezzo cesserá o almeno su- bira una sensibile diminuzione. Prego poi il lettore a ricordarsi che il mio
e un tentativo modesto, che va
riguardato con l'occhio indulgente, col
quale $ doveroso esaminare il primo
tentativo d'un giovane. Saro ben grato a tutti, e specte agli amici della Neoscolastica, se
vorranno rivol- germi le loro osservazioni, persuaso come
sono che, solamente con la critica
schietta fra noi, potremo divenire
soldati meno indegni dell'idea grande che
difendiamo, ed alla quale siamo fieri di consacrare con animo lieto la nostra giovinezza e la
nostra vita. Ho dedicato il volume al
P. Dott. Agostino Ge- melli: questo nome,
tanto caro ai cattolici italiani,
rispettato anche da molti avversari sereni, gioverda, spero, a far dimenticare le imperfezioni di
queste pagine ed a ricordare a tutti la
bellezza dell'ideale, che ci canta in
cuore. FRANCESCO OLGIATI. Milano, 19 Marzo 1914. buch (25B., Heft 1, pag. 10): Ueber die
Philosophie von H. Berg- son; GRIVET in
£tudes, art. cit., 20 nOVem. 1917, pag. 485,
BAINVEL in Revue pratique d'apologétique, 1 novembre 1911; TAVERNIER nel! Univers, 2 aprile 1908
etc. PARTE Ll.
Esposizione della filosofia bergsoniana La teoria della durata reale
della coscienza Nella conferenza
tenuta al Congresso internazionale di
filosofia in Bologna, il 10 aprile 1911, Enrico Berg- son osservava che un sistema filosofico
sembra dap- prima elevarsi come un
edificio completo, d'una architettura
sapiente, dove sono state prese disposi-
zioni, perché vi si possano alloggiare tutti i problemi. Ma a misura che noi cerchiamo di collocarci
maggior- mente nel pensiero del
filosofo, invece di girargli at- torno,
ci accorgiamo subito che la sua dottrina si
trasfigura. La complicazione comincia a diminuire, poi le parti entrano le une nelle altre, infine
tutto si rac- coglie in un punto unico,
al quale sentiamo che po- tremmo
avvicinarci sempre piú, benché sia impossibile
raggiungerlo. In questo punto c*é qualcosa di semplice, d'infinitamente semplice, di si
straordinariamente sem- plice, che il
filosofo non € mai riuscito a dirlo. Ed €
per questo che egli ha parlato tutta la sua vita (1). Anche attraverso alla svariata ricchezza del
pen- siero bergsoniano, é facile
scorgere una intuizione in- divisibile,
un principio di unitá organica. La filosofia (1)
BERGSON: L?2mtustion philosophique in .Revue de méta- Dbhys. et de morale, novembre 1911, pag.
809-810. 4 Esposizione della filosofia bergsoniana di Bergson e una filosofia della durata
(1). Ed in- fatti tale fu il punto di
partenza della sua riflessione
originale. Criticando l'idea che la fisica e la mecca- nica si fanno del tempo, cercando il concreto
sotto le astrazioni matematiche (2),
egli giunse, nel sorriso dei suoi
vent'anni (3), a questa teoria della durata
reale, che dal Papini fu chiamata la sua scoperta (4). Essa € la sorgente del metodo
intuizionistico; é la chiave che servirá
al suo autore per risolvere i pro- blemi
della libertá e dei rapporti tra lo spirito ed il corpo; e la nozione, che trasportata nella
natura vi- vente, lo fará arrivare
all'idea dello slancio vitale. Gli
ammiratori di Bergson dicono che dall'Essai
sur les données immédiates de la conscience all” Évo- lution Créatrice, il suo pensiero, con un
progresso ar- monioso che dá
l'impressione d'una bella frase musi-
cale, si € sviluppato in un movimento che non comporta evoluzioni divergenti (5); delle
molteplici forme di questo sviluppo, la
durata reale e il prin- cipio semplice,
inesauribilmente fecondo, che il lin-
guaggio, coi dettagli che si aggiungono ai dettagli e che compongono una approssimazione crescente,
non riesce mai a comunicarci a
perfezione (6). E quindi necessario
incominciare l'esposizione del
bergsonismo da questa idea direttrice, in quanto ri- (1) LE ROY: Une philosophie nouvelle, pag.
200. (2) Cfr. la lettera di Bergson del
ro luglio 1905 al direttore della Revue
philosophique in Rev. phil. 1905, 2% Sem.,' p. 229. In essa il Bergson difende anche come
scoperta sua la nozione della
durata. (3) Cfr. GILLOUIN, Op. cit.,
pag. 1o. (4) CTE MOD. Cif, paga 8. (5) Cfr. GASTON RAGEOT in Revue
philosophique, luglio rg1o,pag. 84, nella recensione dell Evolution créatrice. (6) Cfr. BERGSON: Préface a Gabriel Tarde,
introduction et pages choisies par ses
fils, pag. s. La teoria della durata reale della coscienza 5 guarda la coscienza individuale; tanto piú
che, se- condo alcuni, essa ha rinnovato
profondamente l'antica massima Conosct
te stesso, che da Socrate in poi fu
sempre il programma della filosofia (1). Xx
* Se io, dice Bergson, faccio
scorrere sulla mia per- sona lo sguardo
interiore della mia coscienza, scorgo
dapprima, come una crosta fatta solida alla superficie, tutte le percezioni che le giungono dal mondo
mate- riale. Queste percezioni sono
nette, distinte, sovrap- poste o
sovrapponibili le une alle altre; esse cercano
di aggrupparsi in oggetti. Scorgo poi dei ricordi piú o meno aderenti a queste percezioni e che
servono ad interpretarle: sono ricordi
che si sono come staccati dal fondo
della mia persona, attirati alla periferia dalle percezioni che loro somigliano e che si son
posati su me, senza essere assolutamente
me stesso. E final- mente sento
manifestarsi delle tendenze, delle abitu-
dini motrici, ed una moltitudine di azioni virtuali piú o meno solidamente legate a quelle percezioni
ed a quei ricordi. Tutti questi elementi
dalle forme ben defínite mi sembrano tanto
piú distinti da me, quanto piú son
distinti gli uni dagli altri. Orientati dal di dentro verso il di fuori, costituiscono, riuniti, la
superficie di una sfera, che tende ad
allargarsi e a perdersi nel mondo
esterno (2). Ma non bisogna
fermarsi a questi cristalli ben ta-
gliati a questa superficie, dove le nostre idee galleggiano come foglie morte sull'acqua d'uno stagno
(3); biso- (1) LE ROY, Op. cit., pag.
201. (2) BERGSON: Introduction á la
Métaphysique, trad. italiana, pag.
19-20. (3) BERGSON : Essai sur les
données immédiates de la con- science,
pag. 103. 6 Esposizione della filosofia bergsoniana gna scendere piú giú, nelle
profondita dell'essere, nella secreta
intimitá di queste tenebre feconde, dove zam-
pillano le sorgenti della coscienza. E qui soltanto, che si puó cogliere la persona nella sua
freschezza, nella sua originalita, nel
suo ritmo vivente, nel suo palpito
intenso, nel suo murmure fievole, nel suo scorrere ininterrotto attraverso il tempo. Quando io percepisco me stesso
interiormente, profondamente, constato
che ¡o passo da uno stato all'altro. La
mia esistenza viene alternatamente co-
lorata da senzazioni, da sentimenti, da volizioni, da rappresentazioni: in una parola, io cangio
senza posa (1). Non basta. Un leggiero
sforzo di attenzione mi ri- vela che uno
stato interno qualsiasi non € mai simile
ad un pezzo di marmo, ma si modifica ad ogni mo- mento. Perfino la percezione visuale di un
oggetto esteriore immobile non si
conserva mai uguale in due momenti
successivi: la visione che ne ho, differisce
da quella che ne avevo or ora, se non altro perché si € invecchiata di un istante ed al
sentimento pre- sente sié aggiunto il
ricordo dei sentimenti passati (2). Ogni
stato d'animo, avanzandosi sulla via del tempo,
si gonfia continuamente della durata che esso accu- mula, e fa, per cosi dire, una palla di neve
con sé stesso. Il cangiamento perció non
risiede nel passaggio da uno stato
all'altro; lo stato stesso é gia cangia-
mento (3). Vale a dire che non
c'e differenza essenziale tra il passare
da uno stato ad un altro ed il persistere in
un medesimo stato. Il passaggio dall*uno all'altro stato rassomiglia ad uno stesso stato che si
prolunga; la transizione € continua
(4). (1) BERGSON : Evolution
créatrice, pag. 1. (2) Z6td., pag. 1-2
e Introd. dá la Métaph., trad. ital., pag. 46.
(3) Evol. cr., pag. 2. (4) Zbid., pag. 2-3. La teoria della durata reale della
coscienza 7 Il male é che io
chiudo spesso gli occhi su questa
variazione perenne e non vi faccio caso, finché e di- venuta cos] considerevole, da imporsi
all'attenzione e da illudermi che uno
stato nuovo si e aggiunto al precedente.
É appunto per questo che io credo alla
discontinuita della vita psicologica, e, dove non c'e che un pendio dolce, mi sembra di percepire i
gra- dini di una scalinata (1). Ma é
un'apparenza fallace; il mio spirito non
€ mai qualche cosa di fatto, ma si fa
incessantemente; esso é un perpetuo divenire. Anche ¡ mille incidenti imprevisti che sorgono e
pare non ab- biano nessuna relazione con
ció che li precede o che li segue,
simili a colpi di timballo che squillano qua
e la nella sinfonia, sono portati dalla massa fluida della mia esistenza psicologica tutt'intera.
Ciascuno di essi non é che il punto meglio
rischiarato d'una zona che si muove e
che comprende tutto ció che io sento,
penso, voglio, tutto ció infine che sono in un dato momento (2). Gli stati di coscienza quindi
non sono elementi distinti, non
costituiscono stati multipli, se non
quando li ho passati e mi volgo indietro per os- servarne la traccia. Mentre li provo, sono
cos] solida- mente organizzati, cosi
profondamente animati da una vita
comune, che io non avrei potuto dire dove finisce uno qualunque di essi e dove l'altro
comincia. In realtá nessun di loro né
comincia né finisce, ma tutti si pro- lungano, si continuano gli uni negli altri in
uno scor- rimento senza fine (3), in un
zampillare ininterrotto di novitáa,
ciascuna delle quali non é ancora sorta per
fare il presente, che giá ha indietreggiato nel pas-
sato (4). (1) Z6., pag.
3.* (2) Zb61d., pag. 3. (3) Zntrod. a la Métaph., trad. ital., pag.
20-21. (4) Evol. cr., pag. so. 8 ' Esposizione della filosofia
bergsoniana Il presente! Che cos'é per
me il momento presente ? La proprietáa
del tempo é di scorrere; il tempo gia scorso
é il passato ed io chiamo presente l'istante nel quale scorre. Ma qui non puód esservi
questione d'un istante matematico. Senza
dubbio, c'é un presente ideale,
puramente concepito, limite indivisibile che
separerebbe il passato dallavvenire. Ma il presente reale, concreto, vissuto, occupa
necessariamente una durata. Ov'2 dunque
situata questa durata? É al di qua o al
di lá del punto matematico, che io deter-
mino idealmente, quando ¡o penso all'istante presente? É troppo evidente che essa € al di qua e al
di lá ad un tempo e che ció, che io
chiamo il mio presente, si distente in
una volta sul mio passato e sul mio
avvenire (1). La durata é appunto il progresso con- tinuo del passato, che morde l'avvenire, e
che pro- cedendo si aumenta. Poiché il
passato s'accresce con- tinuamente,
automaticamente si conserva, ed a mia
insaputa mi accompagna. Tutto questo sará dimo- strato nella teoria della memoria e si vedrá
allora che ciascuno di noi trascina
dietro a sé tutto il peso della sua vita
psicologica anteriore. Ció che io ho pensato,
sentito, vissuto dalla prima infanzia in poi, e lá chi- nato sul presente, come la madre sul suo
figliuolo (2), e si rotola, si avvolge
su sé stesso nell'impulso indi- visibile
che mi comunica. lo lo chiamo il mio carat-
tere, quel carattere che mi assiste in tutte le mie decisioni e che mi ricorda che il mio passato
esiste per me piú ancora del mondo
esterno, di cui non percepisco che una
piccolissima parte, mentre al con- (1)
BERGSON: Matiére et Mémotre, pag. 148-9. Cfr. anche BERGSON: La perception du changement, 2*
conferenza di Ox- ford, pag. 28-29 €
BERGSON: Life and consciousness in The
Hibbert Journal, ottobre 1911, pag. 27.
(2) Évol. cr., pag. 5. La
teoria della durata reale della coscienza 9 trario utilizzo sempre la totalita della
mia esperienza vissuta (1). Conservando il passato, la mia persona
progredisce, cresce, matura
continuamente. Ciascuno dei suoi momenti
é del nuovo, che si aggiunge a ció che vi
era dapprima (2); sopratutto nell'azione libera, nell”atto del volere, io comprendo che la durata é
inven- zione ed elaborazione creatrice
dell” assolutamente nuovo (3). Cos1, quando con un vigoroso sforzo
d'astrazione, la coscienza si isola dal
mondo esterno e cerca di ri- divenire sé
stessa (4), le diverse parti dell'essere en-
trano le une nelle altre, e la mia personalitáa tutta intera si concentra in un punto o meglio in
una punta, che s'inserisce
nell?avvenire, intaccandolo senza posa (5).
La durata non ha dunque nulla di ineffabile e di mi- sterioso, ma e la cosa piú chiara del mondo
(6); in essa la coscienza si conosce
nella sua essenza e coglie assolutamente
sé stessa (7). (1) Zbid., pag. 5-6 e Matiére et
Mém., pag. 158. (2) Zbid., pag. 6 e
218. (3) 76., pag. 2 e 258. (4) Essai, pag. 69. (5) Évol. cr., pag. 219. (6) Perception du chang., Conf. II, pag. 26. (7) Cfr. la lettera gia citata del BERGSON
in The journal of phylosophy, psychology
and scientific methods. - Nell Introd. € la Métaph. (trad. ital. pag. 21-24), Bergson
cerca di suggerire il sentimento della
durata per mezzo di immagini. Eglila paragona
allo svolgersi ed allarrotolarsi di un rotolo, ad uno specchio
dalle mille sfumature con degradazioni
insensibili, che ci fanno passare da una
tinta all'altra e attraverso le quali passa una corrente di sentimento; ad un elastico infinitamente
piccolo che si allunga e si distende.
Pur difendendo Putilitá delle immagini per darci la intuizione della durata, ne mostra anche
Pincompletezza e l'in- sufficienza. 10 Esposizione della filosofia
bergsoniana * X *
Chi é riuscito a darsi il sentimento originale, 1'in- tuizione della durata costitutiva del suo
essere, si accorge subito che questa € una
continuitá dinamica, semplice ed
indivisa. La durata tutta pura é la forma
che prende la successione dei nostri stati di coscienza, quando l'io si lascia vivere e si astiene
dallo stabi- lire una separazione tra lo
stato presente e gli stati anteriori.
Non é necessario per questo che esso si
assorba interamente nella sensazione o nell'idea che passa, poiché allora, al contrario,
cesserebbe di durare. Non € nemmeno
necessario dimenticare gli stati an-
teriori; basta che ricordandoli, non li giustapponga allo stato attuale come un punto ad un altro
punto, ma li organizzi con quest'ultimo,
come succede quando ci richiamiamo, fuse
per cosi dire insieme, le note di una
melodia. Non si potrebbe forse dire che, benché
queste note si succedano, noi tuttavia le percepiamo le une nelle altre e che il loro insieme e
paragonabile ad un essere vivente, le
cui parti, benché distinte, si penetrano
per l'effetto stesso della loro solida-
rieta? (1) Tale € precisamente la durata; é succes- sione senza la distinzione, é una
penetrazione mutua, un organizzazione
intima di elementi, ciascuno dei quali é
rappresentativo del tutto e non se ne distingue
e non se ne isola, che per un pensiero capace di astrarre (2). Quando perció io parlo di
sensazioni, di tappresentazioni, di
volizioni, e concepisco, 1'unitá vivente
della coscienza come un aggruppamento di
stati distinti e giustapposti ; quando solidifico la flui- dita della mia vita psicologica e la
sbocconcello in (1) Essaz, pag.
76-77. (2) Z6., pag. 77. E
Le La teoria della durata reale
della coscienza 11 istati, come una
commedia in scene (1); io altero con
simboli figurativi e con una deformazione artificiale la realtáa concreta dell'io. La quale € simile
alla figura che un artista di genio dipinge
sulla tela: io posso certo imitare quel
quadro con piccoli quadratelli di
mosaico multicolori, e quanto piú questi saranno pic- coli, numerosi, variati, altrettanto meglio
riprodurro le curve e le sfumature del
modello. Ma come quella figura dipinta
non é una giustaposizione di piccoli
quadratelli, cosi la mia vita interna non é una com- posizione di stati, ma é qualche cosa di
semplice e di uno, nella sua
eterogeneitá qualitativa (2). Siccome
poi il passato sopravvive, € impossibile che
una coscienza traversi due volte lo stesso stato. Le circostanze possono ben essere le stesse, ma
non agi- scono piú sulla medesima
persona, perché la prendono ad un nuovo
momento della sua storia (3). Non vi
sono due momenti identici nel medesimo essere co- sciente, poiché il momento seguente contiene
sempre, oltre il precedente, il ricordo
che questo gli ha la- sciato. Una
coscienza che avesse due momenti iden-
tici sarebbe una coscienza senza memoria, perirebbe e e rinascerebbe continuamente, sarebbe in
altre parole Pincoscienza (4). La durata
reale morde e lascia nelle cose
l'impronta del suo dente (5); é quindi una cor-
rente che non si pub risalire (6); insomma é irrever- sibile. La sua legge fondamentale € di
non ripetersi (1) BERGSON: Le souvenir
du présent et la fausse reconnais- sance
in Revue philosophique, dicembre 1908, pag. 577. (2) Cfr. Évol. cr., pag. 98. (3) Zb1d., pag. 6- (4) ZIntrod. á la Mét., trad. ital., pag.
21-22. (5) Evol. cr., pag. 49. (6)
Z01d., pag. 42. 12 Esposizione della
filosofia bergsoniana giammai; cessare
di cambiare, sarebbe cessare di vi- vere
(1). Essa € anche imprevedibile. Nel
suo progresso in- timo c'é
incommensurabilitá tra ció che precede e ció
che segue (2); il mio stato attuale si spiega, é vero, con ció che vi era in me e con ció che or ora
agiva su di me: io non vi troverel altri
elementi, analizzan- dolo. Ma
un'intelligenza, anche sovrumana, non
avrebbe potuto prevedere la forma semplice che a questi elementi astratti (i quali non hanno
nemmeno un'esistenza reale) vien data
dalla loro organizzazione concreta.
Poiché prevedere consiste nel proiettare nel-
l'avvenire ció che si € percepito nel passato o nel rap- presentarsi per piú tardi un nuovo
aggregamento, in un altro ordine, di
elementi gia percepiti. Ma ció che non é
mai stato percepito e ció che e nello stesso
tempo semplice, é necessariamente imprevedibile. Ora, tale é il caso di ciascuno dei nostri stati,
riguardato come un momento di una storia
che si svolge. Esso é semplice e non pud
essere giá percepito, poiché concentra
nella sua indivisibilitá tutto il percepito con, in piú, ció che il presente vi aggiunge. É un
momento originale di una storia non meno
originale (3). Cosi, per portare un
esempio, quando un ritratto € finito, lo
si spiega con la fisionomia del modello, con la
natura dell'artista, coi colori stemperati sulla tavolozza; ma anche con la conoscenza di tutto questo,
nessuno, nemmeno Partista, avrebbe
potuto prevedere quale (1) BERGSON :
Le rire, pag. 32. Per Bergson, se cosi e lecito
esprimere il suo pensiero, Pattendere la ripetizione di uno stesso stato di coscienza € un'ingenuitá peggiore
ancora di quella di una certa signora
che l'astronomo Cassini aveva invitata ad assistere ad un*eclisse di luna e che, arrivata in
ritardo, esclamo: il signor Cassini
vorrá bene ricominciare per me. Cfr. Le rire, pag. 45» (2) vol. cr.. pag. 30 (3) Zbid., pag. 7, Essat, 140-151. La teoria della durata reale della
coscienza 13 sarebbe stato il
ritratto (1). L'ingegno stesso del pit-
tore si modifica sotto l'influenza dell?opera che pro- duce, poiché ogni invenzione, man mano che
viene realizzandosi, reagisce sull'idea
e sullo schema, che essa era destinata
ad esprimere (2). Tutto questo si
verifica in quella creazione inventiva che é la nostra durata.
La quale perció, a chi, con uno sforzo di intui- zione diretta, cerca di penetrarla nella sua
realtá e nella sua ricchezza interiore,
si manifesta come va- rietá di qualitá,
continuitá di progresso, unitá di dire-
zione (3), dove in una semplicita indivisa, irreversi- bile, imprevedibile, il passato si conserva e
si crea Pavvenire. * +
* Purtroppo contro questa concezione elevano
le piú fiere proteste la scienza, il
senso comune, la filosofía. Protesta la
psicofisica, che non solo attribuisce agli
stati interni un esistenza distinta e separata, ma pre- tende persino di misurarli. Protesta la
psicofisiologia, che nella danza degli
atomi cerebrali crede di aver scoperto
lunitá di misura di tutti 1 fenomeni psicolo-
gici. Protesta il senso comune, che ha sempre rite- tenuto che molti fossero gli stati di
coscienza ed anzi li va enumerando, e
che ad ogni modo si appella al tempo
della fisica e della meccanica, che permette di
dividerli e di calcolarne la lunghezza. Protesta 1'asso- ciazionismo che si ¿ sempre immaginato le
idee e le rappresentazioni come uno sciame
di piccoli corpuscoli (1) 701d., pag.
7. (2) BERGSON: Z effort
intellectuel in Revue philosophique,
gennaio 1912, PAg. 17. (3)
Zntrod. dá la Mét., trad. ital., pag. 23-24.
14 Esposizione della filosofia
bergsoniana A O MI e AN solidi, mossi in ognisenso con estrema
velocitá, che talvolta si uniscono
insieme per produrre un'unita si- mile a
quella che ci é data dagli elementi di un composto chimico. Ed infine molti altri protesteranno
in tutte le varie questioni, che saranno
sollevate. Contro questo esercito di
nemici, di diverse nazio. nalitá, ma
concordi nel muovere battaglia alla teoria
della durata reale, Bergson scende in campo e affronta la lotta. IL
I nemici della durata reale La
psicologia moderna, sopratutto sotto l'influenza di Kant, é tormentata dalla preoccupazione di
stabi- lire che noi deformiamo la
realtá, poiché percepiamo le cose
esterne mediante le forme soggettive, dovuté
alla nostra costituzione. Bergson
invece ha la persuasione tutta opposta :
egli € convinto che gli stati di coscienza, che noi cre- diamo di cogliere direttamente, portano il
segno vi- sibile di certe forme del
mondo esteriore (1). Ed € venuto a
questo risultato, esaminando i varii nemici
della teoria esposta : poiché essi, invece di contem- plare l'io nella sua purezza originale,
guardano la du- rata interna attraverso
lo spazio esteso, sostituendo cos]
alleterogeneitá qualitativa l'omogeneita di simboli quantitativi, al flusso perenne della
successione i punti fissi della
simultaneita. a) La psicofisica. Ecco dapprima i psicofisici, i quali ci
assicurano che una sensazione pud essere
due, tre, quattro volte pid (1) Essaz,
pag. 171. 16 Esposizione della
filosofia bergsoniana intensa
d*un'altra; anche i loro avversari non vedono
del resto nessun inconveniente nel parlare d*uno sforzo piú grande d'un altro sforzo, e a porre cosl
differenze di quantitá tra gli stati
puramente interni. ll senso comune
d'altra parte si pronuncia senza esitazione su
questo punto. Si dice che si ha piú o meno caldo; che si é piú o meno tristi, e questa
distinzione del piú e del meno, anche
quando la si prolunga nella regione dei
fatti soggettivi e delle cose inestese, non
sorprende nessuno (1). E
superfluo osservare che tutto ció 8 incompatibile con la realtá della durata. Questa, non presentando se non fenomeni che si intrecciano e si
inseriscono gli uni negli altri nella
fluiditáa d'un cangiamento inin-
terrotto, si ribella ad uno spezzettamento artificiale. Ma, anche prescindendo per ora da questo
fatto, noi vedremo che la vita reale
della coscienza e pura- mente
qualitativa e perció esclude dal suo campo
ogni grandezza, intensiva o estensiva che sia. Fu questa la prima battaglia del Bergson. La
sua tesi di dottorato, 1” Essai sur les
données immédiates de la conscience, si
inizia appunto con la critica del
concetto dell'intensitá psichica (critica, che secondo Guido Villa (2), € la piú acuta che si sia
fatta ai nostri tempi) e con una
confutazione della psicofisica. Nessuno
pud negare — dice il Bergson — che uno
stato psicologico abbia una intensitá. La questione e semplicemente di sapere se questa
intensitaá sia una grandezza (3). (1) Essaz, pag. 1.
(1) VILLA: La psicologia contemporanea, Bocca, 20 edizione, pag. 149.
(2) Cfr. BERGSON : Le parallélisme psycho-physique et la Mé- taphysique positive in Bulletin de la Société
frangaise de philo- sophie, 1901, Séance
2 Mat, pag. 60-61. I nemici della durata reale 17 Consideriamo ad esempio i sentimenti
profondi del- l'animo. In che cosa
consiste la loro intensitá ? Se bene si
osserva, essa si riduce ad una certa qualitá
o sfumatura, di cui si colora una massa piú o meno considerevole di stati psichici. Un oscuro
desiderio e divenuto ad esempio una
passione profonda. La sua de- bole
intensitá consisteva in ció, che esso vi sembrava isolato e come straniero a tutto il resto
della vostra vita interna. Ma a poco a
poco esso ha penetrato un pid gran
numero di elementi psichici, tingendoli per cos
dire del suo proprio colore; ed ecco che il vostro punto di vista sull'insieme delle cose vi
sembra ora cangiato. Tutte le vostre
sensazioni, tutte le vostre idee hanno
riacquistato una freschezza tale, che vi
dá l'impressione di una novella infanzia. É un can- giamento di qualitá che € avvenuto, non di
gran- dezza (1). Questo lo si ripeta anche delle grandi
gioie, delle tristezze sentite, delle
emozioni estetiche, dei senti- menti
morali, di tutti insomma gli stati profondi
dell”anima : il loro aumentare corrisponde ad una ricchezza crescente, ad un progresso
puramente qua- litativo (2). Si dirá forse che questi stati sono rari, e
che bisogna studiare anche gli altri
fenomeni che avven- gono in noi. Ebbene,
trasportiamoci pure all'estremita
opposta della serie dei fatti psicologici. Se c'é un fe- nomeno che sembra presentarsi immediatamente
alla coscienza sotto forma di quantitá o
almeno di gran- dezza, é senza dubbio lo
sforzo muscolare. Ci sembra che la forza
psichica, imprigionata nell”anima come i
venti nell'antro di Eolo, attenda solamente un*occa- sione per slanciarsi fuori; la volonta
sorveglierebbe (1) Essaz, pag.
6-7 (2) Zbid., pag. 7-14. F. OLG1AT1I 2 18 Esposizione della filosofia
bergsoniana questa forza, e di
tempo in tempo le aprirebbe una uscita.
Eppure, se noi ricerchiamo attentamente in
che consiste davvero la percezione dell'intensitá di uno sforzo, ci persuaderemo che quanto piú questo
ci fa Peffetto di crescere, tanto piú
aumenta il numero dei muscoli che si
contraggono simpaticamente e che esso si
riduce in realtá alla percezione d'una pid
grande superficie del corpo, che si interessa all*opera- zione. Provate ad es. a chiudere il pugno
sempre di pid. Vi sembra che la
sensazione di sforzo, tutta intiera loca-
lizzata nella vostra mano, passa successivamente per grandezze differenti. In realtá la vostra
mano prova sempre la stessa cosa.
Solamente la sensazione, che vi era localizzata,
ha invaso il vostro braccio, € risa-
lita fino alla spalla ; finalmente 1'altro braccio si irri- gidisce, le due gambe l'imitano, la
respirazione si ar- resta e via dicendo.
Voi credevate che si trattasse di una
stato di coscienza unico, che variava di gran-
dezza; invece no: anche qui c'é un progresso quali- tativo, una complessitá crescente,
confusamente per- cepita (1). II che si
verifica anche negli stati intermediari,
vale a dire nei fenomeni dell'attenzione, nei desideri acuti, nelle collere scatenate, nell'amore
appassionato, nell*odio violento
(2). Veniamo da ultimo alle sensazioni,
la cui intensitá varia come la causa
esteriore, della quale esse sono
considerate l"equivalente cosciente: come spiegare l'in- vasione della quantitá in un effetto inesteso
e questa volta indivisibile? (3) Per rispondere a questa questione bisogna
dapprima distinguere tra sensazioni
affettive e sensazioni rap-
presentative. Nelle prime, allo stato interno, che € (1) Zó1d., pag. 18-20. (2) Zb1d., pag. 20-23. (3) Z01d., pag. 24. I nemici della durata reale 19 pura qualitá, sono sempre congiunti mille
piccoli mo- vimenti di reazione, che
esse provocano nel nostro corpo. É di
questa reazione che noi teniamo conto
nell?apprezzare l'intensitá di quelle sensazioni e nel- l'interpretare come differenza di grandezza
una diffe- renza di qualita. Nelle seconde un'esperienza di tutti gli istanti
ci mostra che una sfumatura determinata
risponde ad un determinato valore di
eccitazione. Noi associamo cosi ad una
certa qualitá dell'effetto l'idea di una
certa quantitá della causa, poniamo questa in quella, ed in tal modo !'intensita, che prima non era
che una certa sfumatura della
sensazione, diventa una gran-
dezza. Nelle une e nelle altre
si forma quindi un compro- messo tra la
qualitá pura, che € il fatto di coscienza,
e la pura quantitá, che € necessariamente spazio: a questo compromesso vien dato il nome di
intensita, concetto bastardo, che ci fa
dimenticare che se la grandezza, fuori
di noi, non é mai intensiva, l'inten-
sitá, dentro di noi, non e mai grandezza (1). Per non aver compreso questo, i filosofi
hanno do- vuto distinguere due specie di
quantita, luna: esten- siva, l'altra
intensiva, senza giammai riuscire a spiegare
ció che esse avevano di comune, né come si possa adoperare, per cose cosl dissimili, le stesse
parole « crescere » e « diminuire ». Con
ció stesso essi sono responsabili delle
esagerazioni della psicofisica ; poiché
dal momento che si riconosce alla sensazione la fa- coltá di crescere, ci si invita anche a
cercare di quanto essa cresce (2). Ed e ció che fu tentato da Fechner. Questi,
par- tendo da una legge di Weber,
affermava un rapporto (1) Z0td., pag.
24 € Seg. (2) 7Zb1d., pag. 173. 20 Esposizione della filosofia
bergsoniana costante tra la
quantitá dell'eccitazione e l”accresci-
mento della sensazione. Noi non solleveremo nessuna difficoltá sull'esistenza probabile di una
simile legge: ma contestiamo, e qui fu
l'errore di Fechner, che si possa
introdurre la misura in psicologia e che tra due sensazioni successive S e S' vi sia un
intervallo, una differenza di grandezza,
e non gia un semplice pas- saggio
(1). Non si puó misurare se non ció che
é omogeneo ; ora che cosa c'é d'omogeneo
tra due sensazioni? Ab- biamo provato
che l'intensita di qualsiasi stato psico-
logico non é una grandezza, ma solo una qualitá ; se quindi da due sensazioni eliminiamo le loro
differenze qualitative, non ci restera
un fondo identico, una unitá elementare
ed eguale, ma ci resta nulla, asso-
lutamente nulla (2). Fechner non
giudicó insormontabile questa diffi-
colta; egli si illuse di aver scoperto il fondo comune nelle differenze minime della sensazione, che
corri- spondono al piú piccolo accrescimento
percettibile dell'eccitazione esteriore.
Si raffiguró quindi la sensa- zlone come
un processo continuativo, unilineare, omo-
geneo; S' € la somma di S con la differenza minima, come d'altra parte S fu ottenuta
coll”addizione delle differenze minime
che si traversarono prima di rag-
giungerla (3). In tutto questo
c'é il postulato indimostrato e falso
che il passaggio da S a S' sia paragonabile ad una differenza aritmetica, sia una realtá ed una
quantita. Ora, non solo non si saprebbe dire
in che senso questo passaggio é una
quantitá, ma, se si riflette, si capisce
subito che non € nemmeno una realta.
(1) Z01d., pag. 45-46. (2) Z01d.,
pag. 47. (3) Zótd., pag. 48. EA
q . PERS I nemici della durata
reale 21 Di reale non vi sono che
gli stati S e S', che non sono dei
numeri, non sono una somma di unita, ma
sono stati semplici tra i quali c'é una differenza analoga a quella delle sfumature
dell'arcobaleno e non un intervallo di
grandezza (1). Possiamo quindi dire che
non c'é contatto tra l'ine- steso e
l'esteso, tra la quantitá e la qualita. Si puó
interpretare l'una con l'altra, erigere ¡”una in equi- valente dell'altra; ma presto o tardi, al
principio o alla fine, bisognerá
riconoscere il carattere convenzio- nale
di questa assimilazione (2). b) La
psico-fisiologia. L?illecita
intrusione della quantitá nel regno della
qualitá condusse gli scienziati all”altra ipotesi del pa- rallelismo psico-fisiologico, che ammette
un*equiva- lenza perfetta tra la vita
della nostra coscienza e la danza degli
atomi cerebrali. Questa concezione,
secondo Bergson, non solo non ha nemmeno un senso intelligibile quando si tratta della
fluida mobi- lita degli stati
psicologici profondi; ma é falsa anche per i fenomeni del nostro io superficiale (3).
Non si pud dire assolutamente che i
movimenti omogenei degli atomi del
cervello siano la traduzione integrale degli
stati interni. Egli svolse questa tesi in due discorsi, il primo tenuto alla Société frangaise de
philosophie il 2 Maggio 1911, il secondo
pronunciato a Ginevra al Congresso
internazionale di filosofia nel Settem-
bre 10904. lo sono interamente
convinto — cosl Bergson enun- ciava il
suo pensiero agli illustri della Societá francese (1) Z01d., pag. 49-50. (2) Z0id., pag. 52. (3) BERGSON: Le parallelisme psycho-physigue
etc. pag. 64. 22 Esposizione della
filosofia bergsoniana HA E NE di filosofia (1) — che tra il fatto
psicologico e 1'atti- vita cerebrale c'é
una certa relazione, una corrispon-
denza di un certo genere, ma non esiste in nessun modo un parallelismo rigoroso. Posto un fatto
psico- logico, voi determinate senza dubbio
lo stato cerebrale concomitante ; ma la
reciproca non e necessariamente vera,
poiché questa attivitá cerebrale puó essere iden- tica per pensieri tutto affatto diversi.
Ritengo perció falsa la tesi del
parallelismo, che potrebbe essere for=
mulata cosl: posto uno stato cerebrale, segue uno stato psicologico determinato. O ancora:
un'intelligenza sovrumana, che
assistesse alla danza degli atomi di cui
é fatto il cervello umano e che avesse la chiave della psico-fisiologia, potrebbe leggere in
un cervello che lavora, tutto ció che
avviene nella coscienza cor-
rispondente. O infine: la coscienza non dice nulla di piú di ció che si fa nel cervello, ma
l'esprime solo in un'altra lingua. Chi volesse fare la storia della questione,
dovrebbe riconoscere che l'idea d'una
corrispondenza tra il mo- rale e il
fisico rimonta alla pid alta antichitá, ma non
gia l'idea del paralelismo. Il senso comune ha sempre pensato alla prima cosa, non ha mai ammesso
la se- conda, che altro non € se non
un'ipotesi filosofica di origine
spinozista e leibniziana, che data dal giorno
in cui si € creduto al meccanismo universale, e che gia era implicitamente contenuta nel sistema di
Descartes. I successori di quest'ultimo,
spingendo alle estreme conseguenze le
idee del maestro, hanno creduto ad una
scienza unica della natura, ad una grande mate-
matica, capace di tutto abbracciare. Per non rompere (1) Riassumo le idee espresse da BERGSON in
quella discus- sione: cír. Bulletin de
la Societé Frangaise de Philosophte,
1901, Pag. 32-70: Le parallelisme Psychophysique et la metaphy- sigue positive, l nemici della durata reale 23 questo concatenamento rigoroso di cause e
di effetti, parlarono di parallelismo
tra il psichico ed il fisico. Per
l'intermediario poi dei medici filosofi del sec. xvIHn, quella teoria € passata nella psicofisiologia
del nostro tempo. La quale fa benissimo
a procedere nelle sue ricerche come se
dovesse un giorno darci la tradu- zione
fisiologica integrale dell'attivitá psicologica, ma dovrebbe ricordarsi sempre che questo é
un'utile re- gola metodologica e nulla
piú. Invece gli scienziati la erigono in
una affermazione dogmatica, e la mutano
in una ipotesi metafísica, alla quale incombe di stretta glustizia l'onus probandi e che sarebbe
distrutta ¿pso facto, se i fatti le
fossero contrari. Orbene, “questo
parallelismo psico-fisiologico non fu
mai dimostrato : nessuno ha finora portato una prova che ce lo imponesse o che ce lo suggerisse. E
non appellatevi - replicava Bergson ad
un obiettante - non appellatevi ai
progressi futuri della scienza : non solo
perché sarebbe questo un procedere poco scientifico, ma anche perché io fondo la negazione del
paralle- lismo non su considerazioni
negative, ma con una tesi positiva
suscettibile di miglioramento e di verift-
cazione progressiva. Il metodo
da seguire non é quello dell'antico spi-
ritualismo, che per ribattere i suoi avversari si rin- chiudeva come in una fortezza nelle facoltá
superiori dello spirito, proprie ed essenziali
all'uomo. Con questa tattica di
combattimento lo spiritualismo sembrava ar-
bitrario ed era infecondo. Sembrava arbitrario, perché gli oppositori potevano sempre obiettargli
che la dif- ferenza constatata tra il
psichico e il fisico derivava
semplicemente da ció, che esso considerava la materia nelle sue forme piú rudimentali e lo spirito
nei suoi stati piú perfetti; ma che se
si prende la materia al grado di
complessitá e di mobilitá ove imita certi ca-
ratteri della coscienza, e la coscienza ad un grado di 24 Esposizione della filosofia
bergsoniana semplicitá e di
stabilitá ove partecipa dell'inerzia della
materia, si riesce senza pena a farle coincidere. Era anche infecondo, poiché si limitava a
considerare i termini estremi e a
dichiarare che lo spirito e irridut-
tibile alla materia. Ora una dichiarazione di questo genere puú essere vera (essa dé vera, a mio
gludizio), ma non si guadagna nulla a
constatare che quei due concetti di
spirito e di materia sono esteriori 1”uno
all'altro. Si potranno fare invece scoperte importanti, se ci si pone nel punto ove i due concetti si
toccano, alla loro frontiera comune, per
studiare la forma e la natura del
contatto. A questo lavoro lungo e difficile
io - continua Bergson - ho invitati i filosofi nel mio Matiére el Mémoire. Nel fatto cerebrale determinato e
localizzato, che condiziona una certa
funzione della parola, ho consi- derato
le manifestazioni della materia nella loro forma piú complessa, nel punto ove rasentano
l'attivita dello spirito. Nel ricordo
del suono delle parole ho esami- nato lo
spirito nel suo stato pid semplice. lo era questa volta alla frontiera, eppure ho dovuto
arrivare alla conclusione che tra il
fatto psicologico e il suo sub- strato
centrale non c'é un parallelismo rigoroso, ma
esiste una relazione che non risponde a nessuno dei concetti tutti fatti che la filosofia mette a
nostro ser- vizio. Dato uno stato
psicologico, la parte vissuta, jouable,
di questo stato, quella che si traduce con
un'attitudine del corpo e con azioni del COrpo, é rap- presentata nel cervello; il resto ne 8
indipendente e non ha equivalente
cerebrale. Di modo che ad uno stesso
stato cerebrale possono corrispondere stati psi- cologici diversi, che hanno tutti in comune
lo stesso schema motore, ma non stati
psicologici qualsiasi, perché in una
medesima cornice possono stare molti
quadri, ma non tutti i quadri. Il pensiero e relativa- mente libero e indeterminato per rapporto
all'attivita 2” TI nemici della durata reale 25 cerebrale che lo condiziona, poiché questa
non esprime che le articolazioni motrici
dell'idea, le quali possono essere le
stesse idee assolutamente differenti. Da ció
ne segue che non pud esservi parallelismo o equiva- lenza tra lo stato cerebrale ed il pensiero
(1). Queste furono le idee che Bergson
difese in quella seduta. Segui una
discussione serenamente tranquilla, che
diede campo all'oratore di affermare sempre piú
le sue teorie. Molto piú agitato
fu il dibattito che avvenne al Congresso
di Ginevra tra i numerosissimi difensori
del parallelismo ed il Bergson. Questi in una comu- nicazione, che sollevd molto rumore (2),
volle prescin- dere dalle sue teorie, e
si propose di stabilire che il pa-
rallelismo psico-fisiologico implica una contradizione fondamentale e riposa su un artificio
dialettico, su una serie di
paralogismi. La lettura di questa
memoria, racconta il Chartier, provoco
in tutti gli uditori un sentimento di sorpresa
e di inquietudine. Quasi tutti coloro che si trovavano presenti, avevano formulato spesso la tesi
del pa- rallelismo. 1 piú prudenti
l'avevano presentata come il risultato
esatto di un gran numero di esperienze
concordanti; nessuno aveva mai esaminato se la sem- plice enunciazione di questa tesi
rinchiudesse una con- tradizione
(3). Ora, era questo che Bergson
pretendeva provare. Quando parliamo
d'oggetti esteriori - egli disse - noi
abbiamo la scelta tra due sistemi di notazione. Pos- siamo trattare gli oggetti ed i cangiamenti,
che si (1) Questa teoria beresoniana
sará ampiamente esposta nei capitoli
seguenti, dedicati alla percezione ed alla memoria. (2) BERGSON: Le paralogisme psycho-physiqgue in Revue
de Métaph. et de Morale, novembre 1904,
pag. 895-908. (3) Revue de métaphys. et de morale, num. cit., pag.
1027. 26 Esposizione della filosofia
bergsoniana compiono, come cose o come
rappresentazioni: nel primo caso siamo
realisti, nel secondo idealisti. Che ¡i
due postulati si escludano lun 1'altro, che sia perció illegittimo 1applicare nello stesso tempo i
due sistemi di notazione allo stesso
oggetto, tutti lo accorderanno. Orbene,
se si opta per la notazione idealista, l'affer-
mazione del paralelismo implica contradizione; se si preferisce la notazione realista, si ritrova
la stessa contradizione; la tesi del
parallelismo non e intelligi- bile se
non nel caso, che per una incosciente pre-
stidigitazione intellettuale, si adottino nello stesso tempo, nella stessa proposizione, i due
sistemi di no- tazione. Poniamoci infatti dapprima dal punto di
vista idea- listico e consideriamo ció
che avviene nella percezione degli
oggetti, che popolano il campo della visione.
Per Pidealismo tutto € immagine e nelle cose non vi é se non ció che e mostrato nell'immagine,
perchée la realtá si identifica con la
rappresentazione. Il mondo esteriore €
quindi un'immagine, il cervello 4 un'altra
immagine della stessa natura e nella danza degli atomi cerebrali non c'e nulla di piú ne di
diverso, se non la danza di questi atomi
stessi. 11 dire col paral- lelismo che
lo stato cerebrale equivale alla rappresen-
tazione degli oggetti, é un assurdo in questa ipotesi ; poiché lo stato cerebrale € un'infima parte
del campo di rappresentazione, mentre
gli oggetti riempiono il campo di
rappresenzazione tutto intero. É evidente
che la parte non pud equivalere al tutto, e che for- mulato in una lingua rigorosamente idealista,
la ' tesi del parallelismo si
riassumerebbe in questa proposi- zione :
la parte e il tutto, Ma la veritá € che
si passa incoscientemente dal punto di
vista idealistico al punto di vista pseudo-
realista. Si € cominciato a fare del cervello una rap- presentazione, che non ha da suscitare le
altre rappre- > IL I nemici della durata reale 27. sentazioni, poiché queste sono date con
esso, attorno ad esso. Ma
insensibilmente si arriva ad erigere il cer-
vello ed i movimenti intracerebrali in. cose, cioé in cause nascoste dietro una certa
rappresentazione ed il cui potere si
estende infinitamente piú lungi di ció
che vien rappresentato. Dall'idealismo si é sdruccio- lato nel realismo. Passiamo ora al realismo, secondo il quale,
le mo- dificazioni del cervello prodotte
dalle cose esterne, creano, occasionano
o almeno esprimono la rappre- sentazione
degli oggetti da me veduti. Si noti che, a
differenza dell'idealismo, il realismo non pud separare dal tutto reale ció che € separabile nella
rappresenta- zione ; esso definisce
l'oggetto per la sua solidarietá col
tutto ed anche la scienza, man mano che progre-
disce, considera l'interazione come la realtá definitiva. 1l realista perció dovrebbe dire che la
rappresenta- zione degli oggetti € funzione
dello stato cerebrale e degli oggetti
che lo determinano, poiché questo stato
e questi oggetti formano per lui un blocco indivisi- bile. 1l sostenere che la rappresentazione é
funzione dello stato cerebrale soltanto,
é contraditorio ed equi- vale alla
affermazione che una relazione tra due ter-
mini equivale all'uno di essi, oppure all'altra : una parte, che deve tutto ció che e, al resto del
tutto, pud essere concepita come
sussistente, quando il resto del tutto
svanisce. Ein questa contradizione che incorre
il parallelismo. Esso comincia a darsi un cervello, che gli oggetti esteriori modificano in modo da
suscitare delle rappresentazioni. Poi fa
tavola rasa di questi 0g- getti e
attribuisce alla modificazione cerebrale il po-
tere di disegnare, da sola, la rappresentazione degli oggetti. Ma ritirando gli oggetti che lo
incorniciano, si ritira anche lo stato
cerebrale, che da loro prende le sue
proprietá e la sua realtá. Il realista lo conserva, perché passa furtivamente al sistema di
notazione 28 Esposizione della
filosofia beresoniana idealista,
ove si pone come isolabile in diritto ció che
e isolato nella rappresentazione.
L*essenza stessa dell'illusione parallelistica consiste nell*apparente conciliazione di due
affermazioni incon- ciliabili,
nell*oscillare ciog dall'idealismo al realismo o dal realismo all'idealismo. Questo, in breve, é il discorso di Bergson,
che nei congressisti causó una emozione
profonda e che fu seguito da una
discussione vivacissima, la quale si
prolungó anche dopo la seduta, nelle conversazioni accalorate dei filosofi presenti a quel
Congresso. c) Il tempo e lo
spazio. Dopo le scaramuccie contro la
psicofisica e la psico- fisiologia, Bergson
con una battaglia campale contro certi
idoli dellazione e del linguaggio vuol dimostrare quella profonda distinzione tra durata e
spazialitá, che, come ben nota il
Prezzolini, forma un leit-motiv del-
l'opera sua (1). Se dai fenomeni
di coscienza, presi isolatamente,
passiamo alla molteplicitá concreta ed allo sviluppo organico della vita interiore, noi vediamo
che in questa tutto si compenetra e si
fonde in un cangiamento in- divisibile,
ininterrotto, eterogeneo. 1 che, come si
disse, non viene menomamente ammesso dal senso co- mune, dalla filosofia, dalla scienza, quando
frazionano la continuitá della durata
pura in tanti stati distinti, separati,
esteriori gli uni agli altri, che si possono
trattare come i numeri dell”aritmetica e rappresentare per mezzo di una giustaposizione nello
spazio. Sorge quindi la questione: la
molteplicitá dei nostri stati di
coscienza ha la minima analogia con la molteplicita (1) Opera citata, pag. 3135. Ne
I nemici della durata reale 29
delle unitáa di un numero? la vera durata ha il me- nomo rapporto con lo spazio? (1). Nell Estetica trascendentale Kant, con una
conce- zione che non differisce troppo
dalla credenza popolare, distingue lo
spazio dalla materia che lo riempie, gli
concede un esistenza indipendente dal suo contenuto. Lo spazio per Kant é un mezzo vuoto, infinito
e infi- nitamente divisibile, che si
presta indifferentemente a qualsiasi
modo di decomposizione; € una realtá senza
qualitá, una omogeneitá estesa, una maglia dalle reti che si possono fare e disfare a piacimento
(2). In questo spazio noi ci
rappresentiamo i numeri, le unita
omogenee, che non si penetrano, ma che sono su- scettibili di essere sbocconcellate
all'infinito e poste le une accanto alle
altre. Ossessionati da questa idea,
osserva Bergson, noi Pintroduciamo a
nostra insaputa nella rappresentazione
della successione pura della coscienza e proiettiamo nello spazio il tempo concreto, vale a dire la
durata reale, indi- visa nella sua
molteplicitá, una nella sua eterogeneita,
irreversibile nei suoi movimenti. In tal modoriesciamo a dividere i nostri stati interni, a
giustaporli, a percepirli
simultaneamente non piú l*uno nell'altro, fusi insieme come le note di una melodia, ma l'uno accanto
al- Paltro. 11 prima ed il poi non si
succedono piú, ma coesistono e prendono
per noi la forma di una catena, i cui
anelli si toccano senza penetrarsi. Cosi la conti- nuita dei fatti di coscienza viene
frazionata, ed i di- versi stati, con un
ordine che ci sembra reversibilis- simo,
si dispongono e si allineano in un mezzo
omogeneo ed indefinito. Il quale, nevvero, dovrebbe essere chiamato spazio ed invece... prende il
nome di tempo! (1) Essaz, pag. 69. (2) 7b01d., pag. 70 € Seg. 30 Esposizione della filosofia
beresoniana Ora, non é forse vero
che questo tempo kantiano e un concetto
bastardo, dovuto all'intrusione dell'idea
di spazio nel dominio della coscienza pura, e che questa pretesa forma dell'omogeneo deriva
dall'altra? Non é forse vero che il
tempo astratto non é che spazio? Bisogna persuadersi bene di ció, per non
confon- dere, come fece Kant, il tempo
astratto, spazia- lizzato, omogeneo, col
tempo concreto, ossia con la durata
reale. C'2 una differenza capitalissima tra
essi: poiché il primo non e che il simbolo e 1'ombra dell”altro, proiettato nello spazio. Noi, purtroppo, sostituiamo sovente, pet
ragioni che ricercheremo poi, il simbolo
alla realtá. Ma quando stacchiamo gli
occhi dall*ombra che ci segue; quando con
mano franca strappiamo il velo che si interpone
tra la realtá e noi; quando, — non fermandoci alla superficie del nostro io, dove le sensazioni
successive. pur fondendosi le une nelle
altre, ritengono qualche cosa
dell”esterioritá reciproca che ne caratterizza opgetti- vamente le cause, — gettiamo lo sguardo
indagatore nelle regioni piú profonde
della coscienza vivente; noi scor- giamo
che in questa non vi sono cose, ma progressi; vi notiamo momenti eterogenei che si penetrano,
si orga- nizzano, si mescolano in tal
maniera, che non si sa- prebbe dire se
sono uno o molti e nemmeno esami- narli
da questo punto di vista senza snaturarli tosto (1). Allora comprendiamo che la molteplicitá
qualitativa degli stati di coscienza,
riguardata nella sua purezza originale,
non presenta alcuna rassomiglianza con la
molteplicita distinta che forma un numero, e che al- lVinfuori di una rappresentazione simbolica,
il tempo non prenderebbe mai per noi
l'aspetto di un mezzo omogeneo. (1) Z61d., pag. 96 e 104. I nemici della durata reale 31 Una distinzione dunque si impone tra le due
forme della molteplicitá, tra le due
apprezziazioni della du- rata: luna é la
durata vera e concreta, la durata
eterogenea e vivente, la durata qualitá; Paltra e in- vece un simbolo morto, € la durata quantita,
e un un tempo materializzato per mezzo
di una proiezione nello spazio, € il
fantasma dello spazio che ci perse-
guita e ci ossessiona (1). Per
non essersi ricordati di questo, gli associazio- nisti hanno polverizzato la vita dello
spirito, risolven= dola in un aggregato
di elementi separati ed incon- trando
poi gli assurdi che la loro teoria suscita nella questione della libertá e nel problema della
memoria. Lo mostreremo ampiamente in
seguito e sempre ci accorgeremo che chi
calpesta i diritti della durata reale
solleva mille dispute inutili, insolubili ed eterne. Il giorno in cui avvenne la confusione di
quei due aspetti della vita cosciente,
del tempo con lo spazio, — cosl
esclamava Bergson in una conferenza al Col-
lege de France — si iniziarono i guai e le sciagure della filosofia (2). Ma allora, si domanderá, se la durata propriamente detta non si divide e quindi non si misura,
che cosa dividono e che cosa misurano le
oscillazioni del pen- dolo? 11 tempo che
l”astronomia, la fisica e la mecca- nica
introducono nelle loro formule, non é forse una
egrandezza divisibile, misurabile ed omogenea? Un esame attento, risponde il Bergson,
dissipera quest' ultima illusione.
Quando io seguo con gli occhi, sul
quadrante d'un orologio, il movimento della lan- (1) Z01d., pag. 57-81. (2) Cfr. GRIVET, art cit., in £tudes. -
Riguardo alla spazia- lizzazione della
durata, si vegga anche la risposta del Bergson
al Le Dantec in Revue du mois, 1o settembre 1907 : L*évolution créatrice. 32 Esposizione della filosofia
bergsoniana cetta che corrisponde alle
oscillazioni del pendolo, ¡o non misuro
la durata, ma mi limito a contare delle
simultaneitá, cosa che e ben differente. Fuori di me nello spazio, non c'é che una posizione unica
della lancetta e del pendolo, poiché
delle posizioni passate nulla resta.
Dentro di me, avviene un processo di
organizzazione dei fatti di coscienza, che costituisce la durata. E perché io duro in questo modo, che
mi rap- presento ció che chiamo le
oscillazioni passate del pendolo, nello
stesso tempo che percepisco 1'oscilla-
zione attuale. Ora, sopprimiamo per un istante l'¡o, che pensa le oscillazioni successive; non vi
sará che una sola oscillazione del
pendolo e quindi nessuna du- rata.
Sopprimiamo, dall*altra parte, il pendolo e le sue oscillazioniz non vi sará che la durata
eterogenea dell'io, senza momenti
esteriori gli uni agli altri, senza
rapporto col numero. Cosl nel nostro io, c'é succes- sione senza esterioritá reciproca; fuori di
me esterio- rita reciproca senza
successione, poiché la successione
esiste soltanto per uno spettatore cosciente, che ricordi il passato e giustaponga le due
oscillazioni e i loro simboli nello
spazio ausiliario. Tra queste due realtá
si produce un fenomeno d'endosmosi. Siccome
ciascuna delle fasi successive della nostra vita co- sciente, che si penetrano tra loro,
corrisponde ad una oscillazione del
pendolo, che le € simultanea; siccome
d'altra parte queste oscillazioni sono nettamente di- stinte, poiché l'una non c'é piú, quando si
produce l'altra, noi contraiamo
l'abitudine di stabilire la stessa
distinzione tra i momenti successivi della nostra vita cosciente; le oscillazioni del bilanciere la
decompon- gono in parti esteriori le une
alle altre: di qui l'idea erronea d'una
durata interna omogenea, analoga allo
spazio, i cui momenti identici si seguirebbero senza penetrarsi. Ma dall'altro lato le
oscillazioni pendolari, ciascuna delle
quali svanisce, quando l'altra appare,
I nemici della durata reale : 33
grazie al ricordo che la nostra coscienza organizza del loro complesso, si conservano, si allineano e
creano nella nostra fantasia il tempo
omogeneo (1). Cosi dalla comparazione
dello spazio, dove i fenomeni non du-
rano, e la durata reale, dove non vi sono che mo- menti eterogenei, nasce questa forma
illusoria d'un mezzo omogeneo ; il
trait-d'union tra 1 due termini é la
simultaneitá, che si potrebbe definire 1'intersezione del tempo con lo spazio. Ancora una volta, il
tempo omogeneo ed astratto é solo una
rappresentazione simbolica della vera
durata, dedotta dallo spazio. Se ora
sottoponiamo alla stessa analisi il concetto
di movimento, noi verremo ad un identico risul- tato (2).
lo ho la mano al punto A e la trasporto al punto B, percorrendo l'intervallo A-B. In questo
atto ¡o posso considerare due cose
: Innanzi tutto, lungo questo movimento
posso rap- presentarmi lo spazio
percorso, cioé le possibili fer- mate,
le stazioni del mobile, i punti per i quali la
mia mano passa. Queste posizioni, questi punti non sono nel movimento e neppure sotto il
movimento : sono semplicemente
proiettati da me sotto al moto, come
tanti luoghi dove sarebbe la mano, se si fer-
masse; sono quindi dei semplici punti di vista. Non basta : le stazioni, i punti sono
l'immobilita stessa ; anche
moltiplicindoli all'infinito, non si ricostruisce il moto. Il movimento sdrucciola
nell*intervallo. In breve: lillusione di
costruire il movimento con quelle posi-
(1) Essaz, pag. 8273. (2) Essai, pag. 78 e Seg. ;
Matiére el Mémotre, pag. 207 € Seg. ; La
perception du-changement, pag. 19 € Seg. Prego
i lettori a se- guire attentamente
l'analisi bergsoniana pel movimento : essa ha
dato origine alla famosa obiezione del Le Roy contro la prima delle cinque vie che, secondo S. Tommaso
conducono a Dio. Cfr. .LE ROY: Comment se pose le probleme de Dieu, l.
c. F. OLGI1ATI 3
34 Esposizione della filosofia bergsoniana PA E E
zioni immobili, implica l'assurdo che il movimento + immobilitá (1). Ma io posso riguardare anche l'atto col
quale per- corro quello spazio,
l'operazione ciog per cui la mano passa
da una posizione all'altra. Allora non ho piú
Una 'CoSa, ma un progresso ; ho una sintesi qualitativa, 'un'organizzazione graduale delle mie
sensazioni suc- cessive, un”unitá
analoga a quella d'una frase melo-
dica, 'un processo psichico e percid inesteso. In questo caso non ho piú i punti traversati, che non
erano che immobilita, ma ho la
traversata dei punti, cioé il vero movimento. Ma anche qui si produce un fenomeno
d'endosmosi: da una parte, siccome il
movimento, una volta effet- tuato ha
deposto nello spazio una traiettoria immobile,
divisibile all'infinito, noi attribuiamo al movimento la divisibilitá stessa dello spazio percorso,
dimenticando che l'immobilitá non
coincide col movimento e che, se si pud
frazionare la traiettoria una volta creata, non
si puó dividere la sua creazione, che non é una cosa, ma un atto in progresso. Dall'altra parte noi
ci abi- tuiamo a proiettare questo atto
nello spazio, a solidi- ficarlo, come se
questo non significasse che anche fuori
della coscienza il passato coesiste col presente (2). E in questo modo che sorge l'idolo del
movimento omogeneo e divisibile, il
quale rappresenta - gioverá ripeterlo -
lo spazio percorso e non il moto stesso, le
stazioni successive del mobile e non il progresso per cui esso passa da una posizione all'altra, il
punto di riposo e non lattivita,
Pestremitá e non l'intervallo della
durata, in una parola l'immobilitá e non il mo-
vimento ! Qual meraviglia se per queste confusioni il (1) Cfr. anche /Zntrod. a la Meétaph.,
trad. ital. pag. 49, Essaz, pag. 84-5,
Évol. cr. pag. 344, 393 etc. (2) Essaí
pag. 85, Évol. cr., 334. I nemici
della durata reale 35 problema del
moto ha fatto nascere fin dalla piú re-
mota antichitá mille questioni? 1 quattro famosi ar- gomenti di Zenone d”Elea non hanno altra
origine di questa. Sia il primo (della
dicotomia), sia gli altri (d*Achille e
della tartaruga, della freccia, dello stadio)
non fanno altro che scambiare il fatto indivisibile del movimento con la traiettoria infinitamente
divisibile, che quello descrive, e che
non é altro che spazio im- mobile
(1). Ed e solo su quest'ultimo che
riposa tutta la nostra fisica, anche
quando si parla di tempo, di moto, di
velocitá. I trattati di
meccanica infatti hanno cura di notare
che essi non definiscono la durata stessa, ma l'egua- glianza di due durate. Due intervalli di
tempo, di- cono essi, sono eguali,
quando due corpi identici, posti nelle
stesse circostanze al principio di ciascuno
di questi intervalli, e sottomessi alle stesse azioni ed ' influenze di ogni specie, avranno percorso lo
stesso spazio alla fine di questi
intervalli. In altre parole noi notiamo
l'istante preciso in cui il movimento comincia,
ciog la simultaneita d'un cangiamento esteriore con uno dei nostri stati psichici; notiamo il
momento in cui il movimento fluisce,
cioé una simultaneitá ancora; infine
misuriamo lo spazio percorso, la sola cosa che
di fatto sia misurabile. Qui non c'é dunque questione di durata, ma solo di spazio e di
simultaneitá (2), vale a dire
d'immobilitá. 11 tempo reale, che é un
flusso, ed € la mobilitá stessa dell'essere, sfugge alla conoscenza scientifica (3). Dal punto di
vista della (1) Essai, pag. 85-7, Mat.
et Mém. pag. 211-2; ÉvOol. cr. pag. 333
eseg.; Introd. a la Mét., trad. ital. pag. 52. La perception du changement, Conf. Il, pag. 20. (2) Essaz, pag. 88. (3) Lvol. cr., pag. 364. 36
Esposizione della filosofia bergsoniana
A e A E A scienza, ció che
conta non e P'intervallo di durata, che
noi viviamo e sentiamo, ma sono le stazioni del mo- bile, tanto € vero che se tuttii movimenti
dell”uni- verso si producessero due o
tre volte pid in fretta, non vi sarebbe
nulla da modificare ne alle nostre for-
mule né ai numeri che vi facciamo entrare (1). Edé evidente; poiché la scienza non tiene conto
ná della successione in ció che ha di
specifico, ne del tempo in ció che ha di
fluido; essa non si applica alla realtá
in ció che ha di movente, come i ponti lanciati su un fiume non seguono l'acqua che scorre sotto
le loro arcate (2). Analizziamo finalmente la nozione di
velocitá. La meccanica costruisce
dappprima l'idea d'un moto uniforme, rappresentandosi
d'un lato la traiettoria A B d'un certo
mobile, e dall'altro un fenomeno fisico
che si ripete indefinitamente in condizioni iden- tiche, per esempio la caduta d'una pietra,
che cade sempre dalla stessa altezza al
medesimo luogo. Se si notano sulla
traiettoria A B ¡ punti M, N, P.... rag-
giunti dal mobile in ciascuno dej momenti in cui la pietra tocca il suolo, e se gli intervalli A
M, MN, NP... sono riconusciuti eguali
tra loro, si dirá che il movimento e
uniforme e si chiamera velocita d'un mobile uno
qualunque di questi intervalli, purché si convenga di adottare come unitá di durata il fenomeno
fisico, che si é scelto come termine di paragone.
Si definisce dunque la velocitá d'un
movimento uniforme senza fare appello ad
altre nozioni che a quelle di spazio e di
simultaneitá. Conclusione, questa, alla quale si giun- gerebbe analizzando anche il moto variato
(3). Confessiamolo, dunque; noi
parliamo di tempo, (1) Essaz, pag.
83-89, 148, cfr. anche £vol. C7., PAY. 10.
(2) Evol. cr., pag. 366. (3)
Essaz, pag. 89-90. E A PA
, ya) SAR e ná
I nemici della durata reale 37
pronunciamo questa parola, e pensiamo allo spazio. Discorriamo di movimento e ad esso
sostituiamo la simultaneitáa. Noi
insomma - esclamava Bergson nella prima
conferenza di Oxford - diciamo e ripetiamo che
tutto cangia, che il movimento esiste, che esso € la legge stessa della cose : ma intanto
ragioniamo e fi- losofiamo, come se il
cangiamento non esistesse. Per pensarlo
e per vederlo, bisogna rimuovere un velo
fitto di pregiudizi (1). (1) La
perception du changement, Conf. 1, pag. 4. In.
L' Intelligenza ed il Linguaggio
Chi vuole riprodurre per mezzo del cinematografo una scena animata, ad esempio la sfilata di
un reg- gimento, prende sul reggimento
che passa una serie di istantanee, e le
proietta sulla tela in modo che si sostituiscano
velocissimamente le une alle altre. Col
movimento impersonale, astratto e semplice dell*appa- recchio, e con fotografie, ciascuna delle
quali rappre- senta il reggimento in un
attitudine immobile, si rico- stituisce
la mobilitá dei soldati che passano. Il
meccanismo della nostra conoscenza usuale —
dice il Bergson, e questa é una delle idee a lui piú care, che sviluppó lungamente del 1goo al
1904 nelle sue lezioni al College de
France, sopratutto in un corso sulla
storia dell'idea di tempo — é di na-
tura cinematografica (1). Ne
abbiamo una prova evidente nella ricostruzione
che il pensiero concettuale fa del divenire continuo della durata. Noi prendiamo delle vedute
istantanee su questa realtá interiore
che scorre, e poi le infiliamo lungo un
divenire astratto ed uniforme, situato al
(1) Évol. cr., pag. 329 € Seg.
X 40 Esposizione della
filosofia beresoniana fondo
dell'apparecchio della coscienza. Quale valore
abbia questo divenire, che si vuol chiamare tempo omogeneo, l'abbiam gia visto nel capitolo
precedente; ora invece ricercheremo il
significato delle varie foto- grafie,
vale a dire dei concetti della nostra intelligenza, e del linguaggio con cui li enunciamo. pa
Qualunque sia il sistema filosofico che abbia le nostre preferenze, noi tutti siamo d'accordo
su due punti. Siamo pronti ciod a
concedere coi pensatori antichi e
moderni che un essere perfetto sarebbe colui
che conoscesse ogni cosa intuitivamente, senza aver bisogno di passare per l'intermediario del
ragionamento, dell'astrazione e della
generalizzazione. Inoltre tutti
affermiamo che le idee astratte e generali, i concetti, hanno solo il valore delle percezioni
eventuali da essi rappresentate : tanto
é vero che crollano come castelli di
carta il giorno in cui un fatto, un fatto solo real- mente percepito viene ad urtarli (1). Se si ammette questo, — e come non
ammetterlo ? — bisogna necessariamente
procedere oltre e conce- dere che ¡i
concetti coi quali esprimiamo la durata del
nostro io profondo, sono schemi morti che non ci danno la realtá, ma solo l'ombra di questa;
sono fo- tografie immobili, relative ad
uno speciale punto di vista, che non ci
possono servire in u na filosofia che
che vuol cogliere l'assoluto. La
durata infatti della nostra coscienza é un flusso continuo ed indiviso, dove tutto é
cangiamento. Eb- bene, cosa fa la nostra
intelligenza? Essa comincia a
distinguere e a dividere questa vita interiore e ne ot- tiene delle unitá artificiali, che chiama
sensazioni, sentimenti,
rappresentazioni, ecc. Riesce cos] a rappre-
(1) La perception du changement, Conf. 1, pag. 5-8. ?
L'intelligenza ed il linguaggio 41
sentarsi il divenire come una serie di stati, ciascuno dei quali non muta punto; e se osserva la
mutazione di uno di essi, subito lo
decompone in un seguito di altri stati
immobili, che costituiranno riuniti la sua
modificazione esteriore, e cosl via, fin quando non ha ottenuto degli elementi stabili.
L*intelligenza ha una viva ripugnanza
per ció che e fluido, solidifica tutto
ció che tocca, e non si rappresenta chiaramente che la immobilitá. Siccome quindi il reale, il
vissuto, il con- creto si riconosce per
il fatto che e la variabilita stessa, é
chiaro che coi concetti invariabili e fissi, con questi quadri rigidi ed inerti, non potremo
ricomporre la realta. Essi sono soltanto una ricostruzione
semplificata, spesso un semplice
simbolo, in ogni caso una veduta
immobile, presa sulla fugace successione della realtá che scorre (1). Non é vero, rispondera l'intelligenza; la
durata é unitá e molteplicitá: eccola
risolta in concetti, esat- tamente, ed
in concetti estratti d a essal — Ma é un
tentativo vano di difesa. La nostra durata non puó racchiudersi in una rappresentazione
concettuale. Se la si dichiara multipla,
la coscienza insorge ed afferma che le
mie sensazioni, i miei sentimenti, i miei pensieri sono astrazioni che opero su me stesso, e che
questi termini, invece di distinguersi
come quelli di una mol- teplicitáa
qualunque, si accavallano gli uni sugli altri.
Confessiamo dunque che, se c'é una molteplicita, questa molteplicitá non rassomiglia a nessun altra.
Diremo allora che la durata ha
dell?unita? Senza dubbio, una continuitá
di elementi che si prolungano gli uni negli
altri partecipa dell'unitá quanto della molteplicita; ma questa unitá -mobile, mutevole, colorata,
vivente, non (1) Cfr. Zntrod. á la
Mét., trad. ital. pag. 45, 48; Évol. cr.
pag. 50, 169, 177. 42
Esposizione della filosofia bergsoniana
rassomiglia affatto all?unitá astratta, immobile e vuota, che circoscrive il concetto di unitáa pura.
Conclude- remo da ció che la durata si
deve definire ad un tempo con lunitá e
la molteplicita? Ma, cosa strana, avró
un bel manipolare i due concetti, dosarli, com-
binarli diversamente insieme, praticar su di essi le piú sottili operazioni della chimica mentale,
non otterrd mai niente che somigli
all'intuizione semplice che ho della
durata; mentre se io mi rimetto nella durata con uno sforzo d'intuzione, m'accorgo subito come
essa é unita, molteplicitá e molte altre
cose ancora (1). In altre parole si
comprende che i concetti fissi pos- sono
essere estratti dal nostro pensiero dalla realtá mobile; ma non c'é modo di ricostruire, colla
fissitá dei concetti, la mobilitá del
reale (2). E del resto che che la
personalitá abbia dell”unitá, che il nostro io sia molteplice, é certo; ma ció che importa alla
filosofia é di sapere quale unitá, quale
molteplicita, guale realtá superiore
all'uno e al multiplo astratti, sia la
unitá molteplice della persona (3). Questo ¡ concetti né separati né riuniti non ce lo diranno mai;
tutto al piú faranno sorgere una tesi ed
un'antitesi, che invano cercheremo di
conciliare logicamente (4). E non si
dica che i concetti sono estratti dalla realtá : lo concediamo; ma da ció non si pud
concludere che vi erano contenuti. L”apparecchio fotografico estrae, da uno
spettacolo che si muove, delle vedute
immobiliz ma non ne segue che le
immobilita abbiano fatto parte del mo-
vimento. Tra la realtá ed i concetti ad essa piú. vi- cini, c'é lo stesso rapporto che tra la scena
animata e (1) Zntrod. á la Mét. trad.
it., pag. 29. (2) Z61d., pag. 63. (3) Zb1d., pag. 41; Cfr. anche Le
paralogisme psycophysique in Bulletin n.
cit., pag. 40. (4) Z01d., pag. 42. L*intelligenza ed il linguaggio
43 . A
la fotografia istantanea. Che sarebbe poi, se si consi- derassero tutti gli altri concetti, che sono
meno an- cora di questo, semplici note
prese a proposito di questa realtá, ed
anche, piú sovente, note prese su queste
note? (1) Non basta: per altre ragioni
ancora dobbiamo con- dannare
l'intelligenza. Essa € invaghita di semplicita,
ha abitudini tenaci e radicate di economia. Con pochi principii, con pochi elementi, vuol
ricomporre tutto il reale, il quale
invece € ridondante, é sovrab- bondante
e colle sue innumerevoli manifestazioni Ci
attesta la sua ricca feconditá. Tra la realtá vera e quella dei filosofi, si puó stabilire lo
stesso rapporto che esiste tra la vita
che noi viviamo tutti i giorni e quella
che gli attori ci rappresentano, la sera, sulla
scena. Al teatro ciascuno non dice che ció che bisogna dire e non fa che ció che bisogna fare; vi
sono delle scene ben tagliate; la
rappresentazione ha un prin- cipio, un
mezzo, una fine; e tutto é€ disposto colla
massima parsimonia, in vista d'uno scioglimento fe- lice o tragico. Ma nella vitá c'e una folla
di cose e di gesti inutili, non vi sono
situazioni nette; nulla avviene cosi
semplicemente, cosl completamente, cosl
bellamente come vorremmo; le scene si allargano le une nelle altre, le cose non cominciano né
finiscono, non c'é né uno scioglimento
interamente soddisfa- cente, ne gesti
assolutamente decisivi e via dicendo (2).
Tale e la vita nella sua feconda ricchezza. Come mai questa potrá essere abbracciata dalle forme ischele- trite del pensiero, dai quadri
dell'intelletto, da pochi concetti
? (1) Bergson scrisse questo nella sua
lettera al Pitkin in The jour- nal of
phylosophy etc. num. cit. (2) BERGSON : Vérité et realité.
Introd. alla trad. franc. di un libro di
William James : Le pragmatisme, pag. 2-3.
44 Esposizione della filosofia
bergsoniana Tanto piú che noi
abbiamo visto che la durata €
originalita e imprevedibilitá per essenza. In essa non vi sono mai due istanti uguali; ogni momento
della sua storia porta qualche cosa di
nuovo che scaturisce senza posa nella
genialitá di uno slancio creatore. Se si
volessero vestire questi momenti, si dovrebbe ta- gliare un concetto appropriato a ciascuno di
essi, che a fatica si potrebbe chiamare
concetto, perché si ap- plicherebbe ad
una cosa sola. Invece l'intelligenza non
vede che l'aspetto ripetizione ; se il tutto é ori- ginale, essa l'analizza in aspetti, che sono
press'a poco la riproduzione del
passato. Essa non ammette la novita
completa né il divenire radicale, ma risolve la perenne invenzione creatrice della durata in elementi
conosciuti ed antichi, disposti in un
ordine differente (1). Per questo
procede con la combinazione di idee che si
trovano gia in commercio e nella sua incurabile pre- sunzione si immagina di possedere per diritto
di na- scita o per diritto di conquista,
innate o apprese, tutti gli elementi
essenziali della conoscenza della veritá.
Non le viene nemmeno il sospetto di dover creare per un momento nuovo un nuovo concetto, ma é
preoc- cupata solo di scegliere uno
degli abiti gia confezio- nati; vuol
trovare la categoria antica, il vecchio ca-
sellario, la rubrica usuale, l'etichetta di un concetto bello e fatto (2). L'intelligenza perció
comincia a tra- scurare la colorazione
speciale della persona, che non puó
esprimersi in termini noti e comuni. Poisi sforza , di isolare nella persona gia semplificata a
quel modo, il tale o tal'altro aspetto
che si presta ad uno studio
interessante, e lo erige in fatto indipendente, otte- nendo cosi un punto di vista sulla mobilitá
della vita interna, uno schema della
realtá concreta. É un la- (1) Évol.
cr., pag. 177 e Seg. (2) Zb1d., pag.
52-3, Introd, á la Mét., trad. ital. pag. 40-3. L'intelligenza ed il linguaggio 45 voro analogo a quello dun artista, che,
di passaggio a Parigi, facesse, ad
esempio, uno schizzo d'una torre di
Nótre-Dame. La torre é inseparabilmente legata
all'edificio, che € legato, non meno inseparabilmente, al suolo, ai dintorni, a tutta Parigi ecc.
Bisogna co- minciare collo staccarla ;
si noterá solo un certo aspetto
dell'insieme. La torre é costituita da pietre che le dánno, con la loro speciale combinazione, la
sua forma, ma il disegnatore non si interessa
alle pietre e non nota che il profilo
della torre. Egli sostituisce dunque
all'organizzazione reale ed interna della cosa una ricosti- tuzione interna e schematica, in modo che il
suo disegno risponde, insomma, a un
certo punto di vista sull*oggetto e alla
scelta di un certo modo di rappresentazione (1). Ora succede precisamente lo stesso
nell'operazione colla quale estraiamo un
concetto dall'insieme della persona: noi
consideriamo.il tutto sotto un certo aspetto
elementare che si interessa particolarmente e lo espri- miamo con un concetto, che non ci dá l'assoluto,
come non ce lo dá lo schizzo preso dalla
torre di Nótre- Dame. Quest'ultimo
avrebbe potuto essere diverso, se fosse
stato ritratto da un punto di vista differente;
quello pure non ci dá dell'oggetto in questione che qualche tratto sommario, variabile secondo la
dire- zione e Pangolo. L*analisi
concettuale é quindi relativa, poiché
non si pone nell*oggetto, ma gira attorno ad
esso ed e costretta a tradurlo in simboli, a confrontarlo con altre cose che giá crede di conoscere, a
espri- merlo in funzione di ció che esso
non é. Anche ag- giungendo descrizioni a
descrizioni, moltiplicando i punti di
vista, non ci dará mai una conoscenza per-
fetta : l'oggetto sará sempre la moneta d'oro di cui non si finisce di rendere il resto (2). E
quando si ten- (1) Zntrod. a la Mél.,
pag. 32-3. (2) Zb1d,, trad. ital. pag.
13-19. 46 Esposizione della filosofia
bergsoniana terá con la
moltitudine di queste rappresentazioni
simboliche, con le idee e con i concetti, di ricostruire la realtá assoluta, non vi si riuscirá, come
non riesce un bambino a fabbricarsi un
balocco solido con le ombre che si
profilano sui muri (1). Come e possi-
bile fabbricare la realtá, manipolando dei simboli? Come si potrá rappresentare la durata con una
serie di note, di rappresentazioni piú o
meno schematiche? Come si potrá comporre
una cosa con punti di vista ? (2). ES * Ecco quindi spiegato 1”eterno bisticciare
delle scuole filosofiche, le difficoltá
inerenti alla metafísica, le an- tinomie
che fa sorgere, le contradizioni in cui cade,
il pullulare di teorie antagoniste, lopposizione irridu- cibile dei sistemi. Se la filosofia dev'essere fondata sui
concetti, non v'é e non vi pud essere
uma filosofia, ma vi saranno tante
filosofie, quanti sono i pensatori originali, che salgono alternativamente sulla scena, per
farsi applau- dire (3). Con un decreto
contestabile essi attribuiranno
un'importanza arbitraria ad un concetto o ad un altro, ad un punto di vista sulla realtá, che
impoverirá la visione concreta ed
eliminerá una moltitudine di differenze
qualitative. A questo decreto se ne potrá
sempre opporre un altro e cosi sorgeranno varie filo- sofie, armate di differenti concetti e capaci
di lottare indefinitamente tra
loro. E allora che si avanzano le dottrine
scettiche, idealiste e criticiste, che,
constatando Pimpossibilita di (1)
Z01d., pag. 31. (2) Zbid., pag. 50. (3) Z61d., pag. 27 e Seg.; Bulletin de la
Soc. fr. de phil., 1901, pag. 50; La
perception du changement, Conf. I,
pag. 7-6. L'intelligenza ed il
linguaggio 47 far entrare il reale nei
vestimenti di confezione che sono le
nostre idee, proclameranno con Kant la relativitá della conoscenza (1). Dopo troppo orgoglio si
finisce con un eccesso di umiltá. Dopo
la pretesa assurda di voler racchiudere
negli schemi concettuali la ricchezza ine-
sauribile dello spirito vivente e di voler cogliere con formule fisse ed immutabili il rinnovarsi
incessante d'una primavea eterna,
eternamente nuova ed ine- sauribile
nelle sue creazioni, la ragione umana giunge
con orgogliosa modestia a dichiarare il proprio falli- mento e l'impossibilitá della metafísica (2). A questa triste e sconsolata conclusione non
si sarebbe giunti, se si fosse
incominciato a valutare con sereno
giudizio la natura dell'intelligenza nostra, scien- tifica o metafisica che sia; se nel tempo
spazializzato, nel movimento omogeneo,
nei concetti astratti, nelle idee
generali, si fosse riconosciuto una conoscenza
esclusivamente pratica, orientata verso il profitto che ne vogliano ricavare. Ce ne persuaderemo,
esami- nando la funzione naturale
dell'intelligenza, 1'origine delle idee
generali e la natura propria del linguaggio.
*k * Se potessimo spogliarci della nostra superba
fierezza, se per definire la nostra
specie ci tenessimo stretta- mente a ció
che la storia e la preistoria ci presentano
come la caratteristica costante dell'uomo, noi non di- remmo homo sapiens, ma homo faber.
Originaria- mente noi non pensiamo, che
per agire. La specula- zione é un lusso,
mentre l'azione é una necessitá. Ed e
nella forma dellazione che la nostra intelligenza é stata fusa; essa non e la facolta di
fabbricare sistemi (1) Introd. a la
Mét., pag. 72-6. (2) Évol. cr., pag
MI. 48 Esposizione della filosofia bergsoniana di metafisica, bensi di preparare strumenti
artificiali. Stretta dalle esigenze
della vita pratica, la sua atti- vitá si
esercita esclusivamente sulla materia bruta,
nel senso che anche quando adopera materiali orga- nizzati, li tratta sempre come oggetti inerti.
Della stessa materia bruta non ritiene
che il solido, e non si rappresenta
chiaramente che il discontinuo ; perció
considera ogni oggetto decomponibile in parti arbitra- mente tagliate, esteriori 1*una all'altra e
alla loro volta divisibili all'infinito;
la realtá ultima, 1*elemento estremo é
sempre per essa qualche cosa di stabile e di immo- bile. Questo é utile e questo le basta ; la
fluidita e la continuitá non
l'interessano. Poi, per le esigenze della
vita pratica e sociale, l'intelligenza da alle cose esterne un nome, estensibile ad un'infinita di
oggetti. Nascono cosl le idee, i
concetti, che naturalmente sono este-
riori fra loro, come i modelli sui quali furono formati; sono fissi ed inerti come il mondo dei
solidi; sono simboli piú leggieri, piú
diafani, piú facili a manipo- lare
dell'immagine pura e semplice delle cose concrete. La logica non é che l'insieme delle regole
che bisogna seguire, per maneggiare
questi simboli. I nostri concetti
perció sono stati creati da un?atti-
vitá che non era destinata alla speculazione pura, ma era orientata verso l'azione : dall”azione
soltanto eb- bero origine le idee
generali (1). Se si riflettesse a
questo, scomparirebbe il circolo vizioso
che il problema delle idee generali sembra pre-
sentare : per generalizzare bisogna astrarre, ma per astrarre utilmente bisogna saper
generalizzare. Intorno a questo circolo
gravitano concettualismo e nomina-
lismo, ognuno dei quali ha sopratutto per sé l'insuf- ficienza dell”altro. 1 nominalisti hanno il
torto di non dirci come mai il nome
generale puó applicarsi a (1) Z61d.,
pag. 149 € Seg. L'intelligenza
ed il linguaggio 49 molti oggetti, se
questi non presentano rassomiglianze tra
loro, se cioé la generalizzazione non fu preceduta da una estrazione di qualitá comuni. Í
concettualisti -si dimenticano di dirci
se le qualitá individuali, anche isolate
con uno sforzo di astrazione, non restano indi-
viduali come prima, e se per apparire comuni non hanno dovuto giá subire un lavoro di
generalizzazione. Gli uni e gli altri
suppongono che noi partiamo dalla per-
cezione di oggetti individuali. Ora questo postulato e falso. La nostra percezione delle cose ha
origini tutte utilitarie. Ció che ci
interessa in una data si- tuazione e ció
che cogliamo dapprima, é il lato per cui
essa pud rispondere ad una tendenza o ad bisogno: ed il bisogno va diritto alla qualita, alla
rassomiglianza, e non ha a che fare
colle differenze individuali. Questa
rassomiglianza agisce oggettivamente come una forza e provoca reazioni identiche in virtú della
legge tutta fisica che vuole che gli
effetti d'insieme seguano le stesse
cause profonde. L”identitá di reazioni ad azioni superficialmente diverse e il germe che la
coscienza umana sviluppa in idee
generali. Siamo quindi libe- rati dal
circolo vizioso, nel quale sembravamo rinchiusi: per generalizzare, dicemmo, bisogna astrarre
le rasso- miglianze, ma per far questo
bisogna giá saper gene- ralizzare. La
verita e che la rassomiglianza dalla quale lo
spirito parte, quando dapprima estrae, non é la rasso- miglianza alla quale giunge, quando,
coscientemente, generalizza. Quella da
cui parte é una rassomiglianza sentita,
vissuta, automaticamente rappresentata; quella
a cui riviene é una rassomiglianza intelligentemente per- cepita o pensata. Nel corso di questo
progresso si co- struisce l'idea chiara
della generalitá, che ai suoi inizi non
era che la coscienza d*un'identita d'attitudine in una diversita di situazioni. Con uno sforzo
di riflessione siamo passati all'idea
generale del genere, per for- mare poi
un numero illimitato di nozioni generali, le
F. OLGIATI 4 50 Esposizione
della filosofia bergsoniana
quali perció nacquero non dalla speculazione disinte- ressata, ma dallazione (1). Da questa ebbero origine anche tutti i
prin- cipii. Nel primo Congresso
internazionale di filosofía, tenutosi a
Parigi nell'Agosto 1900, Bergson cercó di
dimostrare questa tesi, per quello che riguarda il prin- cipio di causalita. In quella sua Note sur les origines
psychologiques de notre croyance ú la
loi de causalité (2), egli so- stenne
che la nostra credenza a questa legge € vissuta
dal nostro corpo, prima di essere pensata dal nostro spirito. L*acquisto graduale di questa
credenza non fa che una cosa sola con la
coordinazione progressiva delle nostre
impressioni tattili alle nostre impressioni
visuali, coordinazione che implica l'intervento di mo- vimenti e sopratutto di tendenze motrici. La
percezione ripetuta di una forma visuale
determinata crea in noi un'aspettazione
macchinale di percezioni tattili deter-
minate ; la forma visuale, che si continua cosi rego- larmente in resistenza, ci appare a poco a
poco come la causa di questa resistenza.
Ed a poco a poco anche le forme visuali
in generale, vale a dire gli oggetti
esteriori, ci appaiono come forze che agiscono rego- larmente le une sulle altre. La riflessione,
esercitan- dosi su questa credenza,
deduce il principio di cau- salita sotto
la sua forma precisa e scientifica. La
necessita inerente alla legge di causalitá si muove cosl tra due limiti estremi: da necessita
vissuta di- viene necessita pensata.
Empirismo ed apriorismo si accordano a
non tener conto che della seconda di
queste due forme della necessita; € per questo che (1) Questa analisi sull'origine e la natura
delle idee generali si trova in Matiére
et Mémoire, pag. 169 e seg. (2) Questo
discorso si trova in Bibliot. du Congrés Intern, de Philos., Vol. 1, Philos, gén. et
meétaphys., L*intelligenza ed il
linguaggio 51 né Puno né l'altro ci dá
una spiegazione veramente psicologica
della nostra credenza ai principii (1).
* * xk Se ¡ concetti, le idee, i principii
derivano non gia dalla speculazione, ma
dalla vita, e precisamente dalle
relazioni nostre con la materia bruta, € evidente in- nanzi tutto che l'intelligenza raggiunge con
essi la realtáa, quando si ferma nel
dominio della materia inerte. L'azione
nostra non potrebbe muoversi nel-
Virreale e perció, purché non si consideri della fisica che la sua forma generale e non il dettaglio
della sua realizzazione od il simbolismo
delle sue leggi, pud dire che essa tocca
l'assoluto (2). S1, ripeteva Bergson
contro coloro che lo accusavano di anti-intellet- tualismo; io dico che quando l'intelligenza
umana e la scienza positiva si
esercitano sul loro proprio 0g- getto,
sono in contatto col reale e penetrano sempre
piú nell'assoluto (3). Ma il
male é, che quando Pintelligenza opera non
piú sulla materia bruta, ma sulla durata reale o sulla vita (che, come vedremo, presenta tutti
caratteri della durata), tratta il
vivente come l'inerte, applicando al
novello oggetto le stesse forme, proprie dei corpi inor- ganizzati, trasportando nel nuovo dominio le
mede- simi abitudini contratte
nell'antico campo (4). Ed essa ha
ragione di farlo, poiché a questa condizione
soltanto, il vivente offrirá alla nostra azione la stessa (1) Ho utilizzato il sunto fedele che del
discorso del Bergson diede la Revue de
Métaphys. et de Mor. settembre 1900, pag. 655
e seg. (2) Évol. cr. pag. 216. (3) BERGSON ; A propos de l 'Evolution de
Pintelligence géome- trique, in Revue de
mél. et de mor ale, Gennaio 1908, pag. 30.
(4) vol. cr., Pag. 213-14. 52 Esposizione della filosofia
bergsoniana presa della materia
inerte. Ma resti inteso che la ve- rita alla
quale allora si giunge, diviene tutta relativa
alla nostra facoltá di agire e non é piú che una ve- rita simbolica, Nel nuovo dominio
l'intelligenza non é piú un sole che
illumina il mondo, ma una lanterna
manovrata al fondo d'un sotterraneo (1). q
Noi peró dimentichiamo tutto questo, sedotti dalla grande causa di mille errori, il
linguaggio, Creato per designare le
cose e null'altro che le cose, il
linguaggio, quando lo si applica alle idee, esige che noi vi stabiliamo le stesse distinzioni nette
e precise, la stessa discontinuita che
c'é tra gli oggetti mate- teriali (2).
Si vuole una prova convincente? Quando
noi diciamo che nella nostra durata molti stati di coscienza s*organizzano tra loro, si
penetrano, s'arric- chiscono sempre piú;
adoperando la parola « molti », abbiamo
isolati questi stati, li abbiamo esteriorizzati e glustaposti; coll'espressione stessa, alla
quale eravamo obbligati a ricorrere,
abbiamo tradito l'abitudine pro-
fondamente radicata di sviluppare il tempo nello spazio (3). Per portare un altro esempio:
quando si dice «il fanciullo diviene
uomo », se riflettessimo bene, vedremmo
che allorché poniamo il soggetto « fan-
ciullo », Pattributo « uomo » non gli si addice ancora, e quando enunciamo l'attributo « uomo »
questo non si applica gia piú al soggetto
« fanciullo ». La realta, che € la
transizione dall'infanzia all” etá matura,
a ci e sfuggita, ci €
sdrucciolata tra le dita (4). (1) Zbid., pag. II. Cfr. anche
in Fot et Vie 1911, fasc. IV, PD. 421:
BERGSON : Les réalitlés que la Science n'atteint pas. (2)
Essaz, pag. VII. (3) Z01d., pag.
92-3. (4) Evol. cr., pag. 338-9. L'intelligenza ed il linguaggio 53 A AA ==
Il nostro modo abituale di parlare € consono alle abitudini cinematografiche della nostra
intelligenza € non sa cogliere 1”aspetto
infinitamente mobile ed ine- sprimibile,
che ci presentano le percezioni, le sensa-
zioni, le emozioni, le idee, senza fissarne e distrug- gerne la mobilita (1). É il linguaggio che ci
fa confondere il sentimento intimo in
perpetuo divenire, coll'oggetto
esteriore che lo causa e con la parola che
esprime questo oggetto, facendoci attribuire alle im- pressioni, che cangiano continuamente,
contorni pre- cisi e l'immobilitá (2). E
il linguaggio che ci fa soli- ficare le
nostre sensazioni. Un sapore, un profumo mi
sono piaciuti quando era fanciullo ed ora mi ripu- gnano; tuttavia io do ancora lo stesso nome
alla sen- sazione provata e parlo come
se il profumo edil sapore fossero
restati identici ed i miei gusti soli aves-
sero cambiato. Mentre tutte le sensazioni si modificano ripetendosi, il linguaggio ci fa credere alla
loro immobi- litá; la parola dai
contorni ben definiti, la parola
brutale, che immagazzina ció che c'é di stabile, di comune, di impersonale nelle impressioni
dell?uma- nitaá, schiaccia o almeno
ricopre le impressioni delicate e
fuggitive della nostra coscienza individuale e special- mente i nostri sentimenti. Essa deforma
l”originalitá d'un amore violento, d'una
melanconia profonda; se- para nella loro
massa confusa una molteplicitá di
elementi che dispone poi in un mezzo omogeneo; ruba ai nostri sentimenti la loro
indefinibile anima- zione, il loro colore,
e poi vi appiccica sopra un nome e li
erige in un genere; e dopo aver spogliato questi stati d'animo di tutto ció che essi avevano
di intimo, di personale, di tutte le
loro sfumature fuggenti e delle lora
risonanze profonde, pretende di averci fatto cono- (1) Essaz, pag. 98. (2) 701d., pag. 99- 54 Esposizione della filosofia
bergsoniana scere meglio noi
stessi, mentre non ha fatto altro che
stendere dinanzi a noi la tela abilmente tessuta del nostro io convenzionale (1). Anche riguardo alle nostre idee, se le
cogliessimo in sé stesse, ci
accorgeremmo che la dissociazione dei
loro elementi costitutivi, che mette capo all*astrazione, per quanto comoda nella vita ordinaria e
nella discus- sione filosofica,
assomiglia alla dissociazione degli
stati di coscienza. Anche le nostre idee hanno uno slancio comune, presentano una penetrazione
mutua; esse non hanno la forma banale,
che loro dá il lin- guaggio, ma vivono
in noi come cellule in un orga- nismo,
modificandosi ad ogni nostra mutazione. Certo,
non tutte queste idee si incorporano cosi alla massa dei nostri stati di coscienza: quelle che
riceviamo tutte fatte, che rimangono in
noi senza venir assimi- litate dalla
nostra sostanza e che giacciono dissecate
nell'abbandono, sono adeguatamente esprimibili con parole; ma se penetriamo negli strati piú
profondi dell'io, assisteremo alla
fusione intima di idee, che, una volta
dissociate, sembrano escludersi sotto forma
di termini logicamente contradditorii (2). * *
X Con tutto questo noi non
disprezziamo I'intelli- genza né
neghiamo /utilitá del linguaggio, come non
contestiamo l'importanza dei biglietti di banca (3). La nostra vita esteriore e sociale esige
giustamente che sotto l'estensione reale
delle cose noi stendiamo uno spazio
omogeneo; che sbocconcelliamo la fluida con-
tinuitá della durata in tanti momenti ben distinti, in (1) Essat pag. 99 e seg.; Le Rire, pag.
157. (a) Essaií, pag. 103-4. (3) La perception du changement, pag. 5. L'intelligenza ed il linguaggio
ls 'tanti stati nettamente
caratterizzati; che applichiamo al
vivente i concetti, le idee, il linguaggio derivati dalla materia inerte. Solo a questo modo, con
questi principi di divisione e di
solidificazione, la nostra at- tivita
pud avere dei punti di applicazione: nulla di
piú legittimo nel campo dell'azione.
Ma pretendere di penetrare la natura intima ed il fluire concreto della realtá con questo
linguaggio, con questi schemi rigidi,
con queste idee generali, con queste
astrazioni concettuali, significa voler traspor- tare nella speculazione pura un procedimento
fatto per la vita pratica. Se non
vogliamo baloccarci con sim- boli,
praticamente utili, ma assolutamente inefficaci
nel raggiungimento dell'assoluto; se vogliamo arrivare ad una conoscenza disinteressata ma vera; Se
vo- gliamo la filosofia ; dobbiamo avere
il coraggio di atter- rare con mano
inesorabile gli idoli del linguaggio ed
i concetti dell'intelligenza.
a - Aya pe y EE (5 IV.
L'Intuizione L”intelligenza
umama - tale fu la conclusione del
capitolo precedente - non e affatto quella che ci mo- strava Platone nell”allegoria della caverna.
Essa non ha Pufficio di guardare ombre
vane che passano, né di contemplare
voltandosi l”astro splendente. Ha da far
altro: aggiogati, come bovi da lavoro, ad un com- pito pesante, noi sentiamo il giogo dei
nostri muscoli e la resistenza della
terra; agire e sapersi agire, en- trare
in contatto colla realtá e anche riviverla, ma
solo nella misura in cui interessa il lavoro che si fa ed il solco che si apre, ecco la funzione
dell'intelli- genza umana (1). O la filosofia quindi non € possibile ed
ogni co- noscenza delle cose é una
conoscenza pratica orientata verso il
profitto che vogliamo trarre, oppure filosofare
consiste non giá nel prendere delle idee gia fatte per dosarle e per combinarle insieme, ma nel
rovesciare, nell'invertire il lavoro
abituale del pensiero, nel porsi nel
oggetto stesso, nel tuffarci d'un colpo nel fluire della durata per adottarne la direzione
mutevole senza posa, e per afferrarla
con uno sforzo d'intuizione (2). Che
cos'é quest'intuizione ? (1) Évol cr.,
pag. 209 (trad. Papini). (2) Introd. a
la Métaph., trad. ital., pag. 45, 64, 65.
58 Esposizione della filosofia bergsoniana PO
Se ¡o potessi coincidere per un istante col personaggio di un romanzo, di cui mi raccontano le
avventure, la mia conoscenza non sarebbe
relativa ed imperfetta, ma mi parrebbe
di veder sgorgare naturalmente, come
dalla sorgente, le sue azioni, i suoi gesti, le sue pa- role. lo coglierei ció che costituisce la sua
essenza in tutta la completezza delle
sue perfezioni, e proverei un sentimento
semplice, che si presterebbe nello stesso
tempo ad un apprendimento indivisibile e ad una ine- sauribile enumerazione (1). Ecco che cos*e
P'intuizione: e quella specie di simpatia
divinatrice (2), per cui ci si trasporta
nell'interno di un oggetto per coincidere
con ció che ha di unico e per conseguenza di inesprimi- bile (3); € quell'auscultazione intima che ci
fa acco- stare alla realtá, per sentirne
palpitare l'anima (4) e vi si inserisce,
per coglierla al di fuori di ogni espressione,
traduzione o rappresentazione simbolica (5). Essa sola, dove é possibile, pud darci la vera
metafísica, la scienza cioé che vuol fare
a meno dei simboli e che raggiunge
Passoluto (6). Diciamolo subito : questa facoltá non ha nulla
di misterioso (7). Non é necessario, per
andare all'intui- zione, di trasportarsi
fuori del dominio dei sensi e della
coscienza, come falsamente credette Kant (8). Essa (1) Z01d., pag. 13-17. (2) Bergson nell'Zntrod. a la Met. (scritta
nel 1093) diceva « simpatia
2ntellettuale ». Ma come bene osservano il Ségond ed il Le Roy, egli dopo 1'Evolution créatrice,
non userebbe piu quella parola. (3) Zntrod. a la Mét., trad. ital., pag. 17. (4) Zbid., pag. 39. (5) Zótd., pag. 19 (6) Zbtd., pag. 19. (7)
Zbid., pag. 80. (8) L*imtuition
philosophique, riv. cit., pag. 827.
L'intuizione 59 non é altro che
uno sforzo penoso, perfino doloroso, di
risalire la china abituale del lavoro del pensiero (1), di disfare i prodotti artificiali creati
dall'intelligenza per facilitare la
nostra azione sulle cose, di mettersi subito
per una specie di dilatazione intellettuale nell*oggetto che si studia, per andare dalla realtá ai
concetti e non dai concetti alla realtá
(2). Gli inizii di questa intuizione
filosofica sono segnati dal buon senso
(3). Questo, che tanto differisce dal
senso comune, é un senso del reale, del concreto, dell*originale, del vivente, un'arte di
equilibrio e di precisione, un senso
della complessitá, in palpazione
continua, come le antenne di certi insetti. Esso implica una certa diffidenza della facoltá logica di
fronte a sé stessa; fa una guerra
incessante all'automatismo in-
tellettuale, alle idee tutte fatte, alla deduzione lineare. Si preoccupa sopratutto di collocare e di
pesare senza nulla disconoscere ;
arresta lo sviluppo di ogni prin- cipio
e di ogni metodo al punto preciso in cui un*ap-
plicazione troppo brutale offenderebbe la delicatezza del reale; ad ogni momento raccoglie
l'insieme della nostra esperienza e
l'organizza in vista del presente. Esso,
in una parola é pensiero che si conserva libero, attivitá che sta in guardia, flessibilitá di
attitudine, attenzione alla vita, accomodamento
sempre rinnovato a situazioni sempre
nuove. Da questo contatto mobile col
dato, da questo sforzo vivente di simpatia, deriva la sua virtú rivelatrice. Ecco ció che noi
dobbiamo tendere a trasportare
dall'ordine pratico all*ordine spe-
(1) Zntrod. dá la Met. trad. ital., pag. 53. (2) Z01d., pag. 53-54. (3) BERGSON: Le bon sems et les études
classiques, discorso pronunciato alla
distribuzione dei premi del Concorso generale,
il 30 luglio 1895. 60
Esposizione della filosofla bergsoniana
culativo (1) e che gia abbiamo compiuto, quando spo- gliandola dai simboli che la ricoprivano,
abbiamo cercato di cogliere la durata
del nostro.io. Mentre l'intelligenza,
costretta a prendere delle vedute immo-
bili sul movimento e a scoprire ripetizioni lungo ció che non si ripete, attenta a dividere
comodamente l'indivisibilita della
nostra coscienza, era obbligata a
gilocar d*astuzia con la realtá e ad assumere in faccia ad essa un'attitudine di diffidenza e di
lotta, noi ab- biamo trattato questa
realtáa en camarade, abbiamo
simpatizzato col nostro io, e con questo sforzo d'in- tuizione abbiamo oltrepassato l'intelligenza
(2). ES * X
Queste parole suggeriscono subito l'idea di un cir- colo vizioso. Invano si dirá, pretendete di
andar piú in lá dell'intelligenza ; come
otterrete questo, se non con
l'intelligenza stessa ? L'obiezione si
presenta naturalmente allo spirito, ma
con un simile ragionamento si proverebbe l'impos- sibilitá di acquistare qualsiasi abitudine
nuova. L*es- senza del ragionamento sta
nel rinchiudersi nel cerchio del dato.
Ma l'azione rompe il cerchio. Se voi non
aveste mai visto nuotare un uomo, mi direste forse che nuotare é una cosa impossibile, giacché
per im- parare a nuotare, bisognerebbe
cominciare a reggersi nell'acqua, e per
conseguenza saper nuotare di gia.
Infatti il ragionamento m'inchiodera sempre alla terra ferma. Ma se io mi butto nell'acqua senza
aver paura, dapprima mi sosterró alla
meglio, dibattendomi contro di essa, a
poco a poco mi adatteró a questo nuovo
(1) Il sunto di questo discorso sul buon senso € dato dal LE ROY, op. cit., pag. 135. Di esso mi sono
servito. (2) Z'intuition philosophique,
riv. cit. pag. 824-825.
L*intuizione 61 ambiente e
impareró a nuotare. Cosi, in teoria, é un
assurdo voler conoscere altrimenti che coll'intelligenza, ma se si accetta francamente il rischio,
l”azione toglierá forse il nodo che ha
intrecciato il ragionamento e che questo
non scioglierá (1). * * x
Ma se la metafisica deve procedere per intuizione, se l'intuizione ha per oggetto la mobilitá
della durata, e se la durata € d'essenza
psicologica, non corriamo il rischio di
rinchiudere il filosofo nella contemplazione
esclusiva di sé stesso ? La
risposta a questa difficolta dev'essere data da
tutto l'insieme dell'opera bergsoniana, che procurerá di mostrare come noi possiamo simpatizzare
con altre realtá ed inserirci in esse
con uno sforzo di immagi- nazione.
Questo lo possiamo giá comprendere fin d'ora,
osservando che l'intuizione di cui parliamo non é un atto unico, ma una serie indefinita di atti,
tutti senza dubbio, del medesimo genere,
ma ciascuno di una specie particolare, e
che questa diversita di atti cor-
risponde a tutti i gradi dell'essere.
Se io cerco di analizzare la durata, cioé di risolverla in concetti belle fatti, sono obbligato a
prendere sulla durata in generale due
vedute opposte, colle quali, dopo,
tenteró di ricomporla. Diró che da una parte
c'é un*unitá e dall'altra una molteplicita di stati di coscienza e che la durata e la sintesi di
questa unita e di questa molteplicitá.
Questa combinazione, che ha del resto
qualcosa di miracoloso e di misterioso,
non pud presentare né una diversitá di gradi, né una varietá di forme e di sfumature: in questa
ipotesi non c'é e non ci pud essere che
una durata unica. (1) £vol. cr., pag.
209-10 (trad, Papini). 62
Esposizione della filosofia bergsoniana
Ma se invece di voler analizzare la durata e di farne la sintesi con dei concetti, ci s'installa
subito in essa con uno sforzo
d'intuizione, si ha il sentimento di una
certa temsione ben determinata, di cui la stessa determinazione appare come una scelta fra
un'infinita di durate possibili. Allora
scorgiamo tante durate quante vogliamo,
tutte molto differenti tra loro, benché
ciascuna di esse, ridotta a concetti, si riconduca sempre alla medesima combinazione indefinibile del
molteplice e dell'uno. Cosi l'intuizione
della nostra durata, ben lungi dal
lasciarci sospesi nel vuoto, come farebbe la
pura analisi, ci mette in contatto con tutta una con- tinuitá di durate che dobbiamo tentar di
seguire, sia verso il basso sia verso
l'alto: mei due casi possiamo dilatarci
indefinitamente, con uno sforzo sempre pid
violento; nei due casi trascendiamo noi stessi. Nel primo andiamo verso una durata sempre piú
sparpa- gliata, i cui palpiti, piú
rapidi dei nostri, dividendo la nostra
senzazione semplice, ne diluiscono la qualitá
in quantitá: al limite sarebbe il puro omogeneo, la pura ripetizione, colla quale definiremo la
materialita. Andando nell*altro senso,
andiamo ad una durata che si tende, si
serra, si intensifica sempre piú: al limite
sarebbe l'eternitáa. Non piú leternitá concettuale, che e eternitá di morte, ma una eternitá di vita.
L'in- tuizione si muove fra questi due
limiti estremi e questo movimento é la
stessa metafísica (1). * *x*
Voi vi contradite, hanno osservato altri; se la nostra intelligenza ha delle abitudini statiche,
come potrá comprendere il flusso del
reale? A Wildon Carr (2) che gli
presentava questa obie- (1) Introd. á
la Mét. trad. ital. pag. 55-60. (2) In
Proceedings of Aristotelian Society, 1908-9, pag. 208. L*intuizione 63 zione, Bergson rispose che la nostra
intelligenza e cir- condata da una
frangia d'intuizione che ci permette di
simpatizzare con ció che c'é di propriamente vitale nella vita. Se a questa frangia si vuol dare
il nome d'intelligenza, si é liberi di
farlo, ma si estenderá troppo il senso
della parola; ed a dire il vero, questa
frangia d'intuizione sembra che rassomigli meno alla intelligenza che all'istinto, che é quasi
l”opposto del- Pintelligenza (1). . Siccome questo confronto tra imtuizione e istimto ricorre spesso nella pagine di Bergson e
diede luogo a molti malintesi, contro i
quali egli stesso ha prote- stato (2), €
necessario ricercare quale sia il pensiero
preciso del filosofo francese.
Nell Evolution créatrice, quando affronta il pro- blema della vita, Bergson tenterá di mostrare
che la vita, dalle sue origini in poi,
non é che la continua- zione d'un solo e
medesimo slancio, che si € poi di- viso
in linee di evoluzioni divergenti (3). Lo sviluppo di quell”unico impulso ha dissociato cosl
tendenze che non potevano crescere al di
lá di un certo punto, senza divenire
incompatibili tra loro; ma che peró,
nonostante la divergenza dei loro effetti, conservano qualche cosa di comune per l'identitá della
loro ori- gine. Cosi, ad es., lo slancio
iniziale s'é scisso in in- telligenza
nell”uomo e in istinto negli-«animali, in modo
che ogni istinto concreto é mescolato d'intelligenza ed ogni intelligenza reale e penetrata d'istinto
(4). É per questo che noi non siamo pure
intelligenze, ma che intorno al nostro
pensiero concettuale e logico é re-
(1) Cír. Proceedings of Arist. Society, 1908-9, pag. 220. (2) A propos de l'évolution de l'intell.
géom., riv. cit., pa- gina 30. (3) vol. cr., pag. 57. (4) 701d., pag. 148. 64 Esposizione della filosofia
beresoniana stata una nebulosita
vaga, fatta della sostanza stessa alle
cui spese si € formato il nocciolo luminoso che
noi chiamiamo intelligenza (1); accanto alla zona ri- schiarata, c'é una frangia oscura che va a
perdersi nella notte (2). Se questa frangia indistinta esiste, essa
deve avere per il filosofo una
importanza maggiore del nucleo lu-
minoso che essa circonda (3). Che pud essere infatti questa frangia inutile, se non la parte del
principio. evolventesi, che non si € ristretta
alla. forma speciale della nostra
organizzazione e che € passata in contra-
bando? (4). Ed appunto perché questa intuizione vaga non c'é d'alcun aiuto per dirigere la nostra
azione sulle cose, azione interamente
localizzata alla super- ficie del reale,
non possiamo noi presumere che essa non
si esercita semplicemente in superficie, ma in
profonditá ? (5). É qui dunque che dobbiamo cercare le indicazioni per dilatare la forma
intellettuale del nostro pensiero; é qui
che attingeremo lo slancio ne- cessario
per innalzarci al disopra di noi stessi (6) e
per trovare certe potenze complementari dell'intelletto, potenze di cui non abbiamo che un sentimento
con- fuso, quando restiamo in noi, ma
che si rischiarano e si distinguono,
quando percepiscono sé stesse al-
Popera, nellevoluzione della natura (7). La conoscenza intuitiva di questa frangia ha
molta rassomiglianza colla conoscenza
propria dell'istinto. (1) Z61d., pag.
5. (2) Cosi disse Bergson al Congresso
di filos. di Parigi nel 1900 in una
discussione col Weber. Cfr. Revue de métaph. et de morale. Settembre 1900, pag. 662. (3) Evol. cr., pag. 50. (4 Z01d., pag. 53. (5) Zbid., pag. so. (6) Z01d., pag. 53. (7) Zbid., pag. V-VI. L*intuizione 63 Per quanto l'istinto non abbracci che la
piccolissima porzione di vita che
l'interessa e sia necessariamente
specializzato ; per quanto si esteriorizzi in azione, in- vece di interiorizzarsi in coscienza e tenda
assai verso l'incoscienza ; pure bisogna
riconoscere che esso € orientato verso
la vita e non fa altro che continuare il
lavoro per il quale la vita organizza la materia, a tal punto che non sapremmo dire dove finisce
l'orga- nizzazione e dove comincia
l'istinto (1). II quale coglie il suo
oggetto, al di dentro, non per un processo di
conoscenza, ma per un'intuizione vissuta piuttosto che rappresentata, che rassomiglia senza
dubbio a ció che noi chiamiamo simpatia
divinatrice. Lo ripetiamo : questa
simpatia ha un oggetto limitato ed é incapace
di riflettere su sé stessa; in ció sta la sua deficienza. L'intelligenza invece, benché dapprima si
concentri sulla materia e si adatti agli
oggetti del di fuori, pure giunge a
circolare tra essi, a rovesciare le barriere
che le si oppongono, ad ampliare indefinitamente il suo regno. Una volta liberata, pud piegarsi
all'in- terno e risvegliare le
virtualita d'intuizione che son-
necchiano ancora in essa e che altro non sono se non una specie d'istinto, divenuto
disinteressato, cosciente di sé stesso,
capace di riflettere sul suo oggetto e di
allargarlo indefinitamente (2).
Bergson quindi — come scriveva nel 1908 in un arti- colo apparso nella Revue de métaphysiqueet de
morale — non pretende di sostituire
all'intelligenza qualcosa di differente
o di preferirle l'istinto. Egli vuole sol-
tanto che, quando si abbandona il dominio degli og- getti materiali e fisici, per entrare in
quello della vita e della coscienza, si
faccia appello a un certo senso della
vita che s'oppone all'intelletto puro e
(1) Zb1d., pag. 179-180. (a)
Zbid., 192-198 e Life and Consciousness, riv. Cit., pag. 44. F, OLGIATI 5 66 Esposizione della filosofia
bergsoniana E. AE EN ONIS che ha la sua origine nel medesimo getto
vitale del- listinto, benche l'istinto
propriamente detto sia tutta altra cosa
(1). *
X * Che Pintuizione sia
possibile, che l'uomo possa distogliere
la sua attenzione dal lato praticamente in-
teressante dell'universo, per rivolgerla verso ció che praticamente non serve a nulla, e ció che ci
sugge- risce l'esistenza in noi di una
facoltá estetica accanto alla percezione
normale (2). Nulla come l'arte, pud
dirci che cosa sia 1'imtui- zione
filosofica. Non solo, vivendo di creazioni, l'arte pud farci comprendere ció che é la durata
reale e lo slancio vitale (3); ma
inoltre, anche l'artista si pone per una
specie di simpatia nell'interno dell'oggetto e
non percepisce piú semplicemente in vista d'agire, ma solo per percepire, per il piacere, per
nulla (4). L”osservazione sincera della
nostra vita psicologica normale ci
mostra una tendenza costante dello spirito
a limitare il suo orizzonte. Nel campo infinitamente vasto della nostra conoscenza virtuale, noi
cogliamo solo ció che interessa la
nostra azione sulle cose e trascuriamo
il resto. Prima di filosofare bisogna vi-
vere (5) e vivere significa accettare dagli oggetti sol- tanto l'impressione utile, per rispondervi
con reazioni appropriate: le altre
impressioni debbono oscurarsi o non
giungerci che confusamente (6). I sensi e la co- scienza non ci dánno della realtá che una
semplifi- (1) A propos de Pévol. de Pintell.
géomét., riy. cit, pag. 30. (2) Évol.
cr., pag. 192. (3) Z01d., pag. 49. (4) La perception du changement, Conf. l,
pag. 13. (5) Z61d., Conf. 1, pag.
12. (6) Le Rtire, pag. 154. L'intuizione K 67 cazione pratica. L'individualitá delle
cose e degli es- seri ci sfugge tutte le
volte che non giova materialmente di
percepirla. E anche lá dove la notiamo, come quando distinguiamo un uomo da un altro uomo, non é
la individualitá stessa che afferra il
nostro occhio, ma soltanto uno o due
tratti che faciliteranno il ricono-
scimento pratico (1). Infine per dir tutto, noi non ve- diamo le cose stesse, come non percepiamo i
nostri stati d'animo in ció che hanno di
piú intimo e di ori- ginalmente vissuto.
Ci appaghiamo di solito di leggere le
etichette, che il linguaggio appiccica sul reale (2). Noi insomma ci muoviamo tra generalitá e
simboli ; e affascinati, attirati
dall'azione, viviamo in una zona mediana
tra le cose e noi, esteriormente alle cose, ed
esteriormente anche a noi stessi (3). Se la realtá col- pisse direttamente i nostri sensi e la nostra
coscienza, se noi potessimo entrare in
immediata comunicazione con le cose e
con noi, l'arte sarebbe inutile, o piut-
tosto saremmo tutti artisti, perché allora la nostra anima vibrerebbe continuamente all*unissono
colla na- tura. 1 nostri occhi, aiutati
dalla memoria, ritagliereb- bero nello
spazio e fisserebbero nel tempo dei quadri
inimitabili. Il nostro sguardo afferrerebbe a volo, scol- piti nel vivo marmo del corpo umano,
frammenti di statua, belli come quelli
della statuaria antica. Noi sentiremmo
cantare in fondo alle nostre anime, come
una musica a volte gaia, ma piú che altro lamentosa, sempre originale, la melodia ininterrotta
della nostra vita interiore (4). Ma
nulla di tutto ció é percepito
direttamente da noi, perché tra noi e la natura, tra noi e la nostra stessa coscienza, s'interpone
un velo (1) Zb1d., pag. 155. (2) Z01d., pag. 156-7. (3) Zbid., pag. 157-8 (trad. Papini). (4) Zbid., pag. 153-4. Í
68 Esposizione della filosofia bergsoniana fitto per gli uomini comuni, leggiero e
quasi traspa- rente per l'artista ed il
poeta. Di quando in quando, per un
felice accidente, nascono delle anime che coi
loro sensi e con la loro coscienza sono meno attac- cate alla vita. Quando riguardano una cosa,
la vedono per sé stessa (pour elle) e
non per sé stesse (pour eux) e ne
ritraggono una visione piú diretta e piú
immediata. Se il distacco della vita fosse completo, se l'anima non aderisse piú all'azione con
nessuna delle sue percezioni, avremmo
l'anima di un artista, che eccellerebbe
in tutte le arti nello stesso tempo o piuttosto
le fonderebbe tutte in una sola. Ma sarebbe
chieder troppo alla natura. Per quelli stessi fra noi che ha fatti artisti, essa ha sollevato il
velo acciden- talmente e da una parte
sola: da ció la diversita delle arti. Ma
sia pittura, sia scultura, poesia o musica,
Parte non ha altro oggetto che di levar di mezzo i simboli praticamente utili, le generalita convenzional- mente e socialmente accettate, infine tutto
ció che ci maschera la realtá, per
metterci faccia a faccia con la realtá
stessa (1). L”arte dunque ci mostra che
una estensione delle nostre facoltáa di
percepire € possibile (2), e benché essa
non attinga che l'individuale, ci fa peró conce- pire una ricerca orientata nel suo stesso
senso e che prenda per oggetto la vita
in generale (3). Ció che la natura fa di
quando in quando per distrazione e per
qualche privilegiato, la filosofia deve farlo per tutti in un altro modo, conducendoci ad una
perce- zione piú completa del reale, per
un certo spostamento della nostra
attenzione (4). L*arte e la filosofia si ri-
(1) Zbid., pag. 158-9. (2) La
perception du changement, Conf. l, pag. 11.
(3) vol. cr., pag. 192. (4) La
perception du changement, Conf. 1, pag. 13. L'intuizione 69 congiungono cosi nell'intuizione, che é la
loro base comune (1); é la stessa
intuizione, diversamente uti- lizzata,
che fa il filosofo profondo ed il grande ar-
tista (2). ll senso comune dice
che lartista € un idealista e certo é
un ri] Filosoña e realtá 177 X*
* * A questa concezione pura
del reale si sostituisce spesso un
equivalente statico. La durata vera cede il
posto ad un tempo polverizzato, il movimento si ri- solve in una serie di posizioni, il
cangiamento in una serie di
istantaneita, il divenire in una serie di stati. Con una ingegnosa disposizione di immobilitá,
con un procedimento cinematografico, si
ricompone il movi- mento : operazione
praticamente comoda, ma teorica- mente
assurda e gravida di tutte le contraddizioni,, dí tutti i falsi problemi, in cui si impigliano
la meta- fisica e la critica (1), come
lo mostra 'un colpo d*oc- chio sulla
storia dei sistemi filosofici (2).
Xx * Perché infatti i filosofi della scuola di
Elea dichiara- rono assurdo il
movimento? Si esaminino gli argo- menti
di Zenone e si vedrá che essi sono logicamente
concludenti, se si confonde il movimento con la tra- iettoria, vale a dire se si fa coincidere il
moto colla immobilita. a Cerchiamo il principio fondamentale della
filosofia che si sviluppd attraverso
l”antichita classica : lo spi- rito deve
trovare la qualita, la forma o essenza, il fine, ció insomma che e refrattario al cangiamento,
sotto il divenire delle cose. Ecco
quindi le pure idee im- mutabili, alle
quali Platone attribuisce un”esistenza
vera, e che entrando le une nelle altre si raggrup- pano in un concetto unico, nella forma delle
forme, nell'idea delle idee, nel motore
immobile di Aristotele. (1) Cfr.
L'intuition philosophique, riv. cit., pag. 825.
(2) Tutto il Capo IV dell vol. Créat. € dedicato a dimostrare questa tesi. F. OLGIATI 12 178 Esposizione della filosofia
bergsoniana Questo sistema di
concetti fissi, che costituisce la vera
scienza, € completo e tutto fatto dall'eternitá : tutto é dato. Quale sará allora l'indivisibile
sorgente della mobilita? Essendo la
negazione della forma, sfuggirá per
ipotesi ad ogni definizione e sará l'indeterminato puro, il quasi-niente, il non-essere
platonico, la materia prima
aristotelica. E via di seguito, fino alle creazioni fantastiche di cosmologie arbitrarie, dedotte
dalla con- cezione falsa, che € alla
base di queste metafisiche. Le quali,
nelle loro grandi linee, corrispondono alla
metafisica naturale dell'intelligenza umana: edé per tale ragione che mille fili invisibili
uniscono la scienza moderna alla
filosofia greca. Nonostante le differenze
profonde che esistono tra la scienza nostra e quella degli antichi, i nostri scienziati, costretti
dalle esi- genze pratiche, non
considerano altro che il tempo lunghezza
e trascurano il tempo vero, il tempo inven-
zione. Da questa negazione della durata, sorge il determinismo assoluto, che abbraccia la
totalitá del reale: anche per loro,
tutto e dato. Descartes sembra dubitare
di questo: se da una parte egli accetta
il meccanismo universale, dall'altra
crede al libero arbitrio, che ci fa credere all'inven- zione, alla creazione, alla successione vera.
Tra le due concezioni egli é esitante,
ma é purtroppo la prima che la filosofia
posteriore abbraccia con Spinoza e con
Leibniz. Per l'uno e per l'altro, la realtá come la veritá sono integralmente date ab aeterno.
Essi rifiu- tano l'idea di una durata
assoluta, come la rifiutano anche il
preteso empirismo moderno, le spiegazioni
meccanistiche dell*universo, l”epifenomenismo mate- rialista, la psicofisiologia e via
dicendo. Tutte queste dottrine sono in
ritardo in confronto della critica
kantiana. Vedendo nell'intelligenza una
facoltá di stabilire dei rapporti, Kant attribul ai ter- mini dei rapporti stessi un'origine
extraintellettuale. A E A NA Ñ NY Filosofia e realta 179 Egli affermó, contro i suoi predecessori
immediati che la conoscenza non é
interamente risoivibile in termini
d'intelligenza. Con ció apriva la strada ad una filo- sofía nuova, che avrebbe dovuto porsi nella
materia extraintellettuale della
conoscenza, con uno sforzo su- periore
d'intuizione. Ma Kant non si mise in questa
direzione ; anch”egli non pensd ad affermare la realtá sostanziale della durata. Il pensiero filosofico del sec. xix senti
che questa era la via da prendersi.
Quando un pensatore sorse ad annunciare
una dottrina d'evoluzione, ove il pro-
gresso della materia verso la percettibilita sarebbe stata delineata insieme alla marcia dello
spirits verso la razionalitá, ed ove si
sarebbe seguito di grado in grado la
complicazione delle corrispondenze tra 1'in-
terno e l'esterno, ed il cangiamento sarebbe divenuto la sostanza stessa delle cose, verso di lui
si rivolsero tutti gli sguardi. Ma Spencer
non attud il suo pro- gramma. La sua
dottrina porta il nome di evoluzio-
nismo e pretende di salire e di discendere il corso del divenire universale: ma in realtá non era
que- stione né di divenire né di
evoluzione. L”artificio or- dinario del
metodo spencieriano consiste infatti nel
ricostituire l”evoluzione coi frammenti dell'evoluto. Se incollo un'immagine sul cartone e taglio poi
questo ultimo in pezzetti, io potrei,
raggruppando i piccoli cartoni,
riprodurre l'immagine. Ed il fanciullo che cosi
lavora sui pezzi d'un giuoco di pazienza, che giusta- pone i frammenti d'immagini informi e finisce
per ottenere un bel disegno colorato,
pensa senza dubbio d'aver prodotto il
disegno ed il colore. Tuttavia 1”atto di
disegnare e di dipingere non ha nessun rapporto
con quello di radunare i frammenti di una immagine gia disegnata e gia dipinta. Nello stesso
modo com- ponendo tra l oro i risultati
piú semplici dell*evoluzione, voi
imiterete bene o male i piú complessi ; ma né
180 Esposizione della filosoña bergsoniana degli uni né degli altri voi
avrete delineato la genesi; e questa
addizione dell'evoluto coll'evoluto non rasso-
miglierá assolutamente al movimento dell'evoluzione. Tale tuttavia e l'illusione di Spencer : egli
prende la realtá nella sua forma attuale
; la spezza, la sparpiglia in frammenti
che getta al vento; poi integra questi
frammenti e ne dissipa il movimento. Dopo di aver imitato il tutto con un lavoro di mosaico, e
di essersi dato anticipatamente tutto
ció che si trattava di spie- gare, crede
di aver compiuta l*opera promessa (1).
A questo falso evoluzionismo bisogna invece sosti- tuire l'evoluzionismo vero, ove la realtá sia
seguita nella sua generazione e nel suo
crescere (2). É cid ap- punto che ha
tentato di fare Bergson. Cosi finisce
1”Évolution Créatrice e cosi termino
anch'io lesposizione del pensiero bergsoniano. Come gia dissi al congresso di Bologna ed in
una prefazione agli scritti di Tarde,
Bergson sostenne che per capire il pensiero
di un filosofo, bisogna riassu- mere
tutte le sue teorie in un punto unico, straordi- nariamente semplice. Questo punto é cos)
semplice che il filosofo parla tutta la
vita senza riescire ad esprimerlo. Egli
non pud formulare ció che ha nello
spirito, senza sentirsi obbligato a correggere la sua formola ed a correggere poi la sua correzione
: cos di teoria in teoria,
rettificandosi quando crede di comple-
tarsi, non fa altra cosa che rendere con approssima- zione crescente la semplicitá della sua
intuizione ori- ginale. (1) Évol. Créat., Capo IV passim. (2) Zbid., pag. VI-VII. Filosofia e realtá 181 É questo il metodo che Bergson vuole
che si ap- plichi a tutti i pensatori e
quindi anche a lui: metodo tutto opposto
ai tentativi molto in voga e contro i
quali egli protesta, di trascurare ció che di personale vi é in un sistema, per dissolverlo nelle sue
fonti e per ridurlo ad una sintesi di
idee di altri filosofi (1). Il lettore
dovrá perció cercare di afferrare nella com-
plicazione delle dottrine bergsoniane l'intuizione sem- plice che le anima. Modifichera la nozione
della durata della coscienza con le
teorie della memoria e sopra- tutto
della vita, poiché la nostra coscienza che dura
e che porta con sé tutto il peso del suo passato, non ¿ che un frammento della piú grande
Coscienza. La durata e libertá ; ma il
concetto di questo dev'essere completato
con la concezione della genesi universale,
poiché e lo slancio vitale che e libero e che si risveglia ad una libertá non perfetta nello spirito
umano. La Supracoscienza poi che dura,
con la sua distensione fa sorgere la
materialita, e cosi di seguito. Le
opere future di Bergson porteranno nuovi ritocchi, daranno al pensiero passato un colorito
speciale; ma (1) Infiniti sono gli
articoli di riviste, dove si cercano le orí-
gini del bergsonismo e si paragona Bergson a Eraclito, a Plotino, a Kant, a Darwin, a James, a Freud, a Wells,
a Balfon, etc. etc. Non ne cito nemmeno
uno, perché, fatta qualche rara eccezione,
non mirano a provare la continuita del pensiero filosofico, ma cercano con ravvicinamenti, quasi sempre
contrari al vero spi- rito di questa
filosofia, di distruggere ció che di originale vi € in Bergson.
lo non nego perd che vi siano analogie tra alcune teorie berg- soniane e le teorie di altri pensatori, ad
es. di Ravaisson, di Paul Janet, di
Maine de Biran. Si legga ad es: BERGSON: Prin-
cipes de psychologie et de métaphysique a' aprés M. Paul Janet in Revue Philosophique 1897, 2% Sem., pag.
525-5515 elo studio gia citato dello
stesso Bergson: /Votice sur la vie et les oeuures de M. F. Ravaisson-Mollien (Académie des
Sciences morales et politiques, séances
des 20 et 27 février 1904). 182
Esposizione della filosofia bergsoniana
Panima vivificatrice, se é lecito esprimerla con una formula, sará sempre l'intuizione della
durata pura. A quanto si dice, il
pensatore francese sta ora stu- diando
il problema morale ed il problema d”oltretomba,
memore forse che la filosofia non € solo una medita- zione della vita, come disse Spinoza, ma é
anche, secondo il detto di Platone, una
meditazione della morte. Recentemente
agli amici che lo avvicinavano, ai
giornalisti ammessi allintervista, Bergson confes- sava che il mistero dell'al di lá lo tormenta
E Mentre egli sta meditando, ¡o vorrei
invitare il let- tore ad un esame
critico delle teorie lealmente e
serenamente esposte, per vedere se Bergson pud ab- bandonarsi davvero alla gioia di aver creato
un si- stema vitale, gioia ineffabile,
che, in una lezione al College de
France, egli preferiva a tutti gli onori ed
a tutti gli applausi (2). (1)
Cfr. Pintervista concessa da Bergson a Maurice Verne nel- VIntransigeant del 26 novembre Igrr. PA >
BE; (2) Cfr. Etudes, art. cit., 20 NOV.
1911, pag. 449:"e Life and
Consciousness, riv. cit., pag. 42.
PARTE !l Ki NOTE CRITICHE Gli ammiratori di Bergson, che nel
loro maesto ac- clamavano « il nuovo
Platone », ebbero un giorno una sgradita
sorpresa. « Bergson — cosl dicevano alcuni
critici — é un grande artista, ma non e un filosofo. Anche noi lo ammiriamo, se ce lo presentate
come un cantore genialmente ispirato. Le
sue dottrine sono davvero creazioni
superbe e fantastiche, degne d'un poeta.
Ma se vorreste ostinarvi a ricercare in esse un
sistema filosofico, noi saremmo obbligati a ripetervi Pinvito di Alfred Fouillée e vi proporremmo
di non discorrere piú di Évolution
Créatrice, ma di Imagi- tion créatrice »
(1). Questo giudizio molto diffuso, per
quanto rara- mente espresso in una forma
cosl crude e sincera, mi sembra
ingiusto. Poiché, se Bergson é sempre un at-
tista della parola, se alcune pagine dei suoi libri ras- somigliano di piú ad un canto dell”Ariosto
che non ad un capitolo della Critica
della Ragione pura, tuttavia egli ¿
anche un filosofo per i problemi che tratta e per il metodo che difende. In un tempo in cui si tentava di ridurre la
filosofia ad un paragrafo delle scienze
naturali, Bergson ha sentito il dovere
di discutere i problemi della liberta
umana, della spiritualita dell'anima, dell”unione del- (1) Cfr. A. FOUILLÉE: La pensée et les
nouvelles écoles anti-
intellectualistes, Paris, Alcan, 1912, Pag. 353- 186 Note critiche A O E AENA GU ANIOS l*anima col corpo, della natura della vita,
dell'origine del mondo e via dicendo. Si
potrá e si dovrá combat- terlo per il
modo con cui li ha discussi; ma nessuno
puó negargli il merito di aver compreso che le do- mande: «Chi siamo noi? che cosa dobbiamo
fare quaggiú? dove veniamo e dove
andiamo? » sono — come egli stesso
proclamava nelle sue recenti confe-
renze di Birmingham e di Parigi — «le questioni essenziali e vitali, le questioni di
interesse supremo, che prime si
presentano al filosofo e che sono o do-
vrebbero essere la vera ragione della filosofia » (1 E questi « massimi problemi » Bergson ha
cercato di risolverli non giá con le
macchinette, cogli istru- mentini dei
laboratorii o con gli altri famosi ritrovati
della filosofia naturalistica, ma con quel metodo in- tuitivo, che € certo incompleto e che nel suo
esclu- sivismo é falso e contradittorio,
ma che rappresenta un'esigenza del
metodo filosofico vero. Da queste
parole il lettore avrá gia inteso qual'e
il giudizio che io daró del sistema bergsoniano. lo credo che esso, per quanto abbia segnato un
immenso progresso di fronte al
positivismo imperante pochi anni or sono
(2), presenta ancora mille errori, che
rovinano spesso le sue tesi pid belle. Sono peró anche convinto che questi errori non sono una
manifesta- zione di uno spirito debole
ed inadatto alla specula- zlone, come
potrebbe pensare un osservatore super-
ficiale; ma sono talvolta lespressione di tendenze legittime ed insoddisfatte (3). (1) Cfr. BERGSON : Life and Consciousness
in The Hibdert Journal, num. cit., pag.
24-25; 1d.: Ame et corps, in Foi et Vie,
num. cit. (2) In questo sono
concordi tutti ¡ neoscolastici, dal Farges al
Mercier, dal Tredici al Baeumker.
(3) Sottoscrivo quindi, pur dissentendo «dal loro sistema filo- sofico, al giudizio di alcuni critici
italiani. Note critiche 187 Il che equivale a dire che, per
giudicare Bergson, non bisogna fermarsi
alle particolaritá dei suoi scritti, non
bisogna considerare atomicamente le varie teorie, per accontentarsi di una facile critica,
puramente e semplicemente distruttrice.
Si deve invece studiare questa filosofia
nello spirito che la vivifica e la sug-
gerisce, per colpire in ogni sua parte il tutto, con una crítica positiva e costruttiva (1). Con tale programma, che non so se sara da
me felicemente svolto ed attuato, ma che
certo fu since- ramente voluto, mi
accingo ad esaminare il metodo e le
dottrine di Enrico Bergson. (1) Cfr.
RICHARD KRONER nel Logos art. cit., pag. 139. Chi volesse avere un saggio di critica, tutto opposto
al mio, pud leggere il recente volume di
DAVID BALSILLIE : An examination of
Professor Bergsons Philosophy, London, Williams and Nor- gate, 1912.
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IL, METODO Bergson e un
filosofo del divenire. La realtá per lui
é un movimento senza mobile, € un flusso con-
tinuo, e durata. Nell”esposizione delle teorie bergsoniane, non si 8 fatto altro che ripetere con una
insi- stenza significativa questo
pensiero, che venne giusta- mente
indicato come l'espressione sintetica di tutta
la filosofia nuova (1). Da
questa concezione fondamentale, Bergson ha
dedotto il suo metodo: se tutto diviene, la realta — che in due momenti, anche consecutivi, cangia
quali- tativamente — non potrá essere
espressa con parole comuni, le quali
nella monotonia della loro ripetizione
suppongono l'identitá costante di una parte almeno del reale, e nemmeno pud essere afferrata
dall'intel- ligenza con concetti
immobili, rigidi e sempre eguali.
Linguaggio e concetti sono utili per i bisogni imme- diati della vita, per la necessita della
pratica, ma sono impotenti a darci la
veritá, che solo pud essere rag- giunta
coll'intuizione. lo prescindo ora dalla
premessa bergsoniana, poiché é nella
seconda parte di questo studio che cercherd
di confutare la teoria del divenire universale; e mi limito a considerare il metodo in sé, vale a
dire l'odio (1) Cfr. LE ROY: Une
philosophie nouvelle, pag. 201. 190
Note critiche del Bergson contro
il linguaggio e contro l'intelligenza ed
il suo ideale di una filosofia intuitiva. Mi sembra che questo metodo sia in sé stesso
contraddittorio. E Il linguaggio, secondo il Bergson, e la
causa di tutti gli errori, 1”origine di
tutti gli inganni. Egli lancia le sue
imprecazioni contro'« la parola brutale », Che de- forma la realtá, che ce ne dá solo un'ombra
pallida e fallace, che non riesce a
riprodurre fedelmente le idee veramente
nostre, la vita intima della coscienza e
dell'io profondo, l”evoluzione creatrice dello slancio vitale (1).
Eppure Bergson stesso ha dovuto constatare un fatto. Nell'introduzione del suo Essai sur
les données immédiates de la coscience,
egli scrive: « Noi ci esprimiamo
necessariamente con parole » (2). Ed e
verissimo: infatti anche i libri di Bergson si compon- gono di parole; il metodo dell'intuizione
viene di- feso con le parole; con parole
sono esposte tutte le sue teorie;
perfino la critica spietata contro il linguaggio e fatta col linguaggio. Non é forse chiaro che se la teoria
bergsoniana del linguaggio fosse vera, se
la parola non potesse dav- vero
esprimere la realtá senza deformarla, anche tutta la filosofia di Bergson sarebbe falsa? La
parola tra- disce la realtá: ora Bergson
ha continuato a parlare; dunque ha
continuato a tradire la realtá. Anzi
bisognerebbe aggiungere che la critica stessa
del linguaggio € completamente vana, poiché anche essa é enunciata con parole, In breve: combattere il valore del
linguaggio e ser- (1) Cfr. Essat, Cap.
Il passim. (2) Z61d., pag. VII. Il metodo 11 ' virsi del linguaggio come se avesse
valore, é una con- traddizione. Se il
reale € inesprimibile, rassegniamoci al
silenzio. Per essere coerente, Bergson doveva ne- gare alla filosofia il diritto di esistere,
anzi non do- veva nemmeno dire questo:
la logica gli imponeva un assoluto
silenzio (1). Uno dei piú profondi
discepoli di Bergson, J. Segond ha
tentato di ribattere questa accusa ed ha osservato che la denuncia del verbalismo non é una
condanna del pensiero verbale, poiché
quest'ultimo nella sua ispirazione
spirituale € orientato intuitivamente (2). Ed
il Le Roy ha soggiunto che, benché « lintuizione dell'immediato, a parlare rigorosamente, sia
inespri- mibile », pure «la si pud
suggerire ed evocare con metafore e con
immagini » (3). lo non negheró che
specialmente l'osservazione del Segond, come meglio apparirá in seguito, contiene un'anima di
veritá; ma perché queste difese possano
divenire valide, e indi- spensabile
confessare con schiettezza che Bergson ha
per lo meno... esagerato. Secondo la sua teoria, il (1) Quanto a questa critica della teoria
bergsoniana del lin- guaggio, si vegga:
PREZZOLINI, Op. cit., cap. 111, pag. 285-2945
LECLÉRE: Pragmatisme, Modernisme, Protestantisme, Paris, Bloud, pag. 8 e 16; CALO: 11 problema della
Isbertá nel pen- siero contemporaneo,
Milano, Sandron, pag. 71, nota; KEY-
SERLING: Das Wesen der Intuition und ihre Rolle in der Phi- losophie in Logos, 1912, Band lII, Heft 1, S.
72-73; e fu svolta anche da molti
neoscolastici, come ad es. dal PIAT : Insuffisance des philosophies de Pintuition, Paris, pag.
275. Solo perd il PREZZOLINI non si
limitó ad una critica negativa. Riguardo poi
alle riserve di ADOLFO LEVI, L'indeterminismo nella filosofia contemporanea, Firenze, Seeber, pag. 265 e
seg. ed alla sua di- stinzione tra il
valore psicologico ed il valore log.co della pa- rola, credo non abbiano piú nessuna ragione
di essere dopo P Evolution
Créatrice. (2) J. SEGOND: Z*intuition
bergsonienne, Paris, Alcan, 1913, Capo
IV, passim. (3) LE ROY : opera cit.,
pag. 49-50. 192 Note critiche pensiero verbale, appunto perché
verbale, non pud darci una visione
fedele della durata; ogni parola, anche
se é Evolutionisme de M. Bergson in Revue de
Philosophte, settembre-ottobre I9II, PAg. 527. (4) A CRESPI: Lo spirito nella filosofia di
Bergson. M. La me- tafisica
bergsontanain La Cultura contemporanea, ottobre 1912, pag. 169. 11 metodo | 203 razione, ed invece ci ha dato un'altra
metafísica, ricca di contraddizioni
numerose, che non si risolvono
tuffandosi nel flutto del reale, ma solo possono essere dissipate da una filosofía, che, pur
riconoscendo la intuizione, non
disprezza la ragione ed il concetto.
IV. Quali sono questi concetti,
che la filosofia deve adoperare? Le
obiezioni di Bergson non distruggono
forse il loro valore ? Due sono
le correnti, che in questi ultimi anni si
sono delineate tra i neoscolastici italiani a proposito di questa questione. Gli scolastici puri stanno fermi all*antico
astrattismo aristotelico ed aderiscono
perció a quanto in prege- voli lavori
hanno detto il De Tonquédec, il Farges,
il Piat, il Tredici e mille altri (1). Essi, dinanzi al bergsonismo, ragionano cos]: «E facile mettere di fronte, da una parte la
ric- chezza e la complessitá del reale
quale € dato dall*intui- zione, con
tutto quel cumulo di note che rendono
ciascuno differente da ogni altro reale e soggetto alle piú svariate vicissitudini e mutazioni,
— e dal- altra la povertá, la
semplicitáa del concetto astratto, che
non rappresenta una cosa piuttosto che un'altra, che resta immutabilmente lo stesso nonostante
il cam- biamento delle cose esistenti,
—e poi gridare alla loro (1) DE
TONQUÉDEC: La notion de la vérité dans la Philos. nou- velle, dapprima apparso in Études, come dissi
e poi pubblicata dal Beauchesne, Parigi,
pag. 48-52; PIAT, Op. cit., passim. ;
FARGES, op. cit., cap. Vl e VII; MARITAIN, art. cif., passim. ; GRIVET: Henri Bergson: esquisse philosophique
in Études, 5 ottobre e 20 novembre 1909
e sopratutto 20 luglio 19ro, etc. 204
Note critiche completa
eterogeneitá, e chiamare il concetto una de-
formazione della realtá... Ma la cosa merita di essere esaminata un po” piú profondamente. »; ammette « la libera scelta » dello slancio incosciente; e siccome la radice
dell'atto li- bero é nella durata,
richiede come conditio sine qua mon
della libertá che vibri la nostra personalitá tutta intera ; distingue perció 1l'io superficiale
dall'io pro- fondo ed enuncia la strana
teoria — ripugnante alla te- stimonianza
della nostra coscienza — che gli atti li-
beri sono rari e che molti muoiono senza aver cono- sciuto la vera libertá. Invece € chiaro che
quando, conscio di quello che faccio,
scrivo queste righe, mi sento libero,
anche senza far vibrare tutta la lira dei
sentimenti e delle potenze del mio animo (1); é su- perfluo bruciare la casa per far cuocere due
uova. Vi- ceversa, il desiderio della felicita,
profondamente in- sito in ciascuno di
noi ed in ciascuna delle nostre azioni,
é necessitato. Bergson afferma che é
impossibile definire l”atto li- bero,
perché l'eterogeneita sempre cangiante della du- rata non puó essere rinchiusa in una forma
morta. Poniamoci dal punto di vista
bergsoniano; concediamo per ora, senza
discutere, che il flusso della nostra du-
rata interiore sia una continuitá perfetta; che sul teatro della nostra coscienza sia assurdo che
si ripro- ducano due volte le stesse
cause; ammettiamo che per un essere
finito l'atto libero futuro sia impreve-
dibile. Anche allora, quando dopo d'esser passato (1) FARGES, op. cit., c. II, passim. La dottrina 2583 A EP VIA
per una serie di mutazioni, Pio compie Patto libero, sente che se elegge quest'azione, potrebbe
perú anche non eleggerla o eleggerne
un'altra. Bergson stesso lo riconosce;
poiché e costretto a scrivere: «anche
quando si abbozza (on esquisse) lo sforzo necessario per compiere un'azione, si sente bene che si
é ancora in tempo di arrestarsi » (1).
In questo fatto sta 1'es- senza della
libertá. Bergson critica tre definizioni della
libertáa: «Patto libero € quello che una volta compiuto, poteva anche non esserlo; é quello che non si
po- trebbe prevedere, anche se
antecedentemente si cono- scessero tutte
le condizioni; quello che non é necessa-
riamente determinato dalla sua causa». Ma egli ha dimenticato proprio la definizione esatta :
«| P'atto li- bero é quello che, mentre
lo si compie, potrebbe anche non essere
compiuto ». Questa definizione non confonde
il tempo con lo spazio, ma si pone nella
pura durata ed esprime esat- tamente un
fatto della nostra coscienza; non vale
solo per l'azione compiuta, ma anche e sopratutto per l'azione che si compie; non incorre nella
tautologia che «il fatto, una volta
avvenuto, é avvenuto ; mentre, prima di
avvenire, non era avvenuto »; non cade
nelle braccia del determinismo, ma infigge un
pugnale nel cuore di questo avversario.
Essa — cosa importante da osservare — non fa nem- meno dell”atto libero un'abitraria creazione
ex nihilo, poichée e la ragione che deve
dirigere la volonta. Quando la volontá
vuole un bene che in quelle cit- costanze
€ ragionevole, non pone un atto arbitrario,
bensi un atto libero: non e Poggetto esterno che de- termina la volontá, ma e la volonta, che
determina sé stessa e potrebbe anche
(irragionevolmente si, e qui (1)
Essaz, pag. 161. 284 Note
critiche sta appunto la colpa o
l'imperfezione e la responsa- bilita
personale) non determinarsi. Avere il dominio
dei proprii atti, non significa che questo dominio debba venire esercitato arbitrariamente, come
credono certi illustri positivisti
(1). Non mi dilungo su questa questione
della liberta, perché nel presente
studio critico io non mi propongo di
esporre tutte le tesi scolastiche riguardanti i diversi problemi. Il mio scopo € piú modesto: io
vorrei sol- tanto che ¡ lettori si
persuadessero che non é poi per stupido
cretinismo o per un decreto di autoritá che i
neoscolastici- moderni alla voce che oggi risuona nel College de France preferiscono un”altra
parola, la cui eco dorme da settecento
anni tra le pietre della vecchia Sorbona
e che veniva pronunciata senza
scintilllo di metafore, ma con semplicita profonda da un grande filosofo. Quel filosofo, che gli
studiosi d*allora, accorsi da tutte le
contrade d”Europa, ascol- tavano con
Paviditá che oggi tiene sospesa la gio-
ventú francese alle labbra di Enrico Bergson, si chia- mava San Tommaso d'Aquino. Coloro che lo
igno- rano, lo possono disprezzare ;
coloro che lo meditano, lo debbono
ammirare (2). (1) Cfr. MATTIUSSI,
opera cit., capo Ill. (2) GRIVET: 4H.
Bergson, esquisse philosophique in Études,
3 Ottobre 1909, pag. 46. La
dottrina 285 II. — L'anima. « Un nouveau spiritualisme » : ecco come
vennero denominate dal Belot le teorie
bergsoniane intorno all'anima umana ed
ai rapporti dello spirito col corpo (1).
E parrebbe infatti che nessuna parola
fosse meglio indicata, per designare questa filosofia che combatte il materialismo, che riconosce
una dif- ferenza di natura (e non di
grado soltanto) tra 1'ani- male e
l?uomo, che sente cosi prepotente il bisogno
dell'immortalitá personale. Ma
anche qui é necessario procedere cautamente;
poiché, come nel problema della liberta Bergson non sapeva conciliare la libertá dell'io con la
necessita del tutto, cosi in questa
questione non sa conci- liare l'unitá
dello slancio e lPindividualitáa dei singoli.
Egli si trova molto impacciato. Ci ha sempre detto che la corrente vitale ha tutti ¡ caratteri
della nostra coscienza per ció che
riguarda la durata: lo slancio unico é
un tutto indiviso, in cui non vi sono elementi
o stati separati, come i quadratelli d'un mosaico od i gradini di una scalinata; le molteplici
virtualitá si prolungano e si continuano
le une nelle altre insen- sibilmente,
come la dolcezza d'un pendio. Ma e gli
individui? Dobbiamo negarne l”esistenza ? No, risponde Bergson: la corrente una, indivisa,
indivisibile, si rami- fica
nelll'oscuritá della materia in tante gallerie sot- terranee ; é un obice che esplode in tanti
frammenti, destinati alla loro volta ad
esplodere ancora. Ció che era uno,
semplice, indiviso, indivisibile, si divide, si (1) GUSTAVE BELOT osservava peró che questo
spiritualismo rischia di fare gli affari
del materialismo. Cfr. Revue philoso-
phique, 1897, 1” Semestre, p. 199.
256 Note critiche A A A A suddivide, separa le sue tendenze, crea i
regni, le specie, i viventi tutti!
! Bergson capisce di essersi messo su
di una brutta china ; e, pentito di aver
spezzettato l?unita del tutto, cerca di
ridurre ai minimi termini la individualitá dei
singoli: un colpo al cerchio ed uno alla botte. « Gli organismi — egli avverte — piú che individui,
hanno la tendenza all'individualitá »
(1) ; « l'individuo é un semplice luogo
di passaggio, dove la vita prende il suo
slancio per ascendere piú in alto » (2); non c'é « une individualité tranchée » nella natura, tanto
€ vero che quello che voi chiamate
individuo, dipende dai suoi parenti, dai
suoi antenati, da tutta la corrente vitale (3).
Insomma, gli esseri viventi non si individualizzano, se non in una certa misura «dans une certaine
me- sure » (4). In tal modo il povero
Bergson € sbattuto da Scilla in
Cariddi. E la burrasca e la confusione
aumentano : malcon- tento di aver troppo
depressa l'individualita, egli * Come
si spiegano tutti questi fatti o datici imme-
diatamente dalla coscienza o constatati dall'esperienza ? Come si spiega che il mio spirito, sostanzialmente identico nelle sue mutazioni qualitative, non
é il tuo, (1) Si veggano a questo
proposito le opere del Wasmann, del
Gutberlet, Gemelli, del Salis-Seevis, del Farges, del Mercier etc. La dottrina 267 che tra il mio spirito ed il principio
vitale d'un bruto c'é una differenza
assoluta di natura ? La teoria
delllunico slancio non sa che pesci pi-
gliare. Lo slancio bergsoniano € obbligato a scindersi, e ció € assurdo, perché ció che é
indivisibile, non pud dividersi. Lo
slancio bergsoniano importa la ne-
gazione dell'individualitá perfetta e calpesta l”attesta- zione chiara della coscienza. Lo slancio
bergsoniano, tende a porre una
differenza solo di grado tra il bruto e
l'uomo, contro ció che lo stesso Bergson é obbligato ad ammettere. Quei fatti sono invece
meravigliosa- mente spiegati dalla
filosofia cristiana. Quando un uomo ed
una donna — che non sa- rebbero tali, se
tale non fosse stata la realtá in cui
sono stati prodotti ed in cui sono cresciuti — gene- rano un. nuovo essere, il principio vitale di
quest'ul- timo e, secondo Bergson, la
stessa anima dei genitori e dei loro
antenati, e l'identico slancio (naturalmente
modificato nel corso del suo sviluppo) che si scinde ancora una volta. L'impossibilitáa di questa
scissione appare subito a chi riflette
che ció che é semplice € spirituale non
pud scindersi. Bisognerebbe dunque dire
che i genitori creano quest'anima, ma Bergson
non ricorre a questa scappatoia ; la vita creativa im- porta una potenza infinita. Resta dunque che
questa anima, venga creata. 1 genitori
pongono, causano il corpo, ma lo spirito
e creato da Dio e col corpo forma un
unico essere. Con cid si chiarisce,
perché io sono questo indi- viduo e non
un altro; perche io, pur derivando dai
miei genitori, non mi posso confondere con loro; perché, nonostante le mutazioni successive
continue, ¡o rimanga sostanzialmente
identico : perché tra 1'ani- male e
Puomo ci sia una differenza di natura, essendo
solo l'anima delluomo che e spirituale e solo questa richiedendo un intervento creativo
diretto. $ 268 Note critiche *
** Ma allora, domanderá
Bergson, non é forse Aena Porganicitá
dell'universo ? No, perché la filosofia
cristiana ha sempre difeso Paltra
grandiosa concezione aristotelica, che Bergson
non mostra di conoscere, dell'unione sostanziale del- l'anima col corpo. In questo problema Bergson si é accontentato
di parole e di frasi. La sua teoria, che
fa unire la ma- teria e lo spirito in
ragione del tempo e non in ra- gione
dello spazio, non rischiara il mistero. Intanto, se essa fosse vera, non sarebbe possibile la
percezione. L”essenza della percezione
consiste in ció, che il corpo avverte
l'azione esterna che si esercita su di esso;
in altre parole, la percezione € d'ordine psicologico. Non basta che il cervello sia un bureaw
telefonico centrale, munito
abbondantemente di apparecchi; perché
sorga la percezione, € indispensabile che a
questi apparecchi vi sia qualcuno, che riceva e spe- disca la comunicazione. Orbene, chi mai nella
teoria bergsoniana percepisce il
movimento ? Nessuno : non lo spirito,
poiché la materia agisce solo sulla materia
e lo spirito é incapace di essere avvertito della pre- senza di un oggetto per mezzo di un eccitante
mate- riale; anche se l”oggetto
materiale é un'immagine, siccome € fuori
dello spirito, non rimane in comuni-
cazione con esso. E tanto meno il corpo: il' corpo riceve il movimento e lo restituisce per
un'attivitá tutta meccanica, che non é
menomamente di ordine psicologico. Se
dunque la teoria bergsoniana fosse vera,
non solo non si comprenderebbe il sorgere della
percezione cosciente, ma non percepiremmo nulla (1). (1) GRIVET, art. cit., Études, 20 Nov.
1909, pag. 461 e seg. La dottrina
269 E poi, Bergson chiarisce forse il
fatto che la libertá si introduce nella
necessitá e che lo spirito non resta
legato dalle ferree catene del determinismo ? Ci spiega forse come mai lo spirito inesteso possa
avere delle sensazioni estese e
percepire la materia indivisa? Ci dice
il modo con cui lo spirito si unisce al corpo, cosi da poter legare i momenti successivi della
durata delle cose e da ottenere il
sentimento della tensione ? Ep- pure era
in questa notte che si doveva far luce ed in
cui il dualismo aristotelico ha, secondo me, proiettato un fascio luminoso. Bergson conosce solo un dualismo volgare,
che non sa trovare un punto di contatto
tra due entitá cosl diverse, come
l'anima e il corpo, e che ricorre all*ar-
monia prestabilita o ad un accordo fortuito (1). Egli ha ragione di deridere un simile dualismo, ma
ha torto di non voler prendere in
considerazione il pen- siero di Aristotile. Questi, dopo aver dimostrato che due
elementi si debbono distinguere
nellluomo, procedeva cosl. Co- minciava
a constatare un fatto sicuro; il fatto cioé
dell'unitá dell'essere umano. É lo stesso uomo che vegeta, che sente, che si muove, che intende,
che vuole. E concludeva che l'anima ed
il corpo non sono uniti tra loro come un
pilota ad una nave, ma che la loro
unione é sostanziale, produce cioé e costituisce una sola natura specifica, una sola sussistenza
completa ; lo spirito forma con la
materia un solo e medesimo essere, una
sola natura umana, una sola persona. E
come avviene questo? Il principio dell'unita non € certo la materia divisibile, ma 2 l'anima. É
lo spirito che perfeziona la materia,
che le comunica l'essere, il moto, la
vita, e le conferisce la sua specificitá : essa
informa il corpo, € forma del corpo. Forma sostanziale (1) Cfr. Matiére et Mém., pag. 13,
252-3. 270 Note critiche ed anche unica, in quanto contiene nella
sua potenza eminente tutte le potenze
delle forme imperfette : se il principio
vitale in noi non fosse unico, sarebbe an.
nientata lP'unitáa dell'essere umano.
Ed allora tutto si spiega : si comprende il sorgere della percezione sensibile, poiché la materia
animata pud essere alterata da una
attivita materiale; le sue sensazioni
saranno dotate di vera unitá, perché uno
e semplice é il principio vitale che informa il soggetto senziente, e nello stesso tempo saranno
estese a ca- gione del principio esteso,
della materia. Si spiega la materialitá
dell'immagine-ricordo ed anche come ogni
funzione psichica debba avere in noi un riflesso fisio- logico.
Ho detto che € anima che informa gli elementi: ad essa bisogna guardare, per giudicare un
organi- smo, come per comprendere il
significato di una pa- rola bisogna
mirare al pensiero che la vivifica. Che
importa quindi se c'é una somiglianza maggiore o mi- nore di struttura tra l'animale e l'uomo? Per
capire un pensiero non si guarda alla
somiglianza materiale delle lettere, ma
al suo significato; per giudicare un
vivente si deve guardare alla natura della sua anima. Ho accennato brevemente a questa dottrina
aristote- lica, per venire alla
conclusione che con la creazione degli
spiriti singoli non si distrugge 1l”organicitá del tutto. Poiché, siccome l'anima forma con la
materia un intrinseco costitutivo' del
vivente, essa .risentira l'influsso del
corpo. E questo corpo é quale 1'han for-
mato ¡ genitori, quale l*han preparato gli antenati, € condizionato insomma da tutta la storia e da
tutta la natura : se i genitori furono
viziosi, il figlio porterá le stigmate
del vizio e cosl via. Come si vede,
questa concezione della filosofia cri-
stiana € consona coi fatti, e basata sui fatti ed ac- cetta quello che c'é di vero in Bergson. La dottrina 271 Accetta cioé — posto l'identitá sostanziale
dell'io — tutte le analisi bergsoniane
della nostra vita psi- chica, la
continuitá dei nostri stati interni, lo scorri-
mento ininterrotto del nostro io, che si svolge, ma- tura e cresce in un ritmo irreversibile, dove
il passato si conserva e si prolunga in
un presente sempre nuovo. Puód
accogliere la sua denuncia della confusione tra il tempo astratto della scienza e la durata
concreta, le sue splendide confutazioni
delle concezioni atomistiche, spaziali
ed associazionistiche dello spirito; pud ap-
plaudire anche alla sua lotta tenace contro la psico- fisica ed il parallelismo psicofisiologico
(1). Xx * X
Sopratutto solo la filosofia cristiana pud difendere efficacemente l'immortalitá personale. Bergson ha fondato la sua presunzione di
quest'im- mortalitá nel fatto che il
parallelismo € falso e che la vita
mentale trascende (deborde) la vita cerebrale, li- mitandosi il cervello a tradurre in movimento
una pic- cola parte di ció che avviene
nella coscienza. L'indi- pendenza di
questa riguardo al corpo dá un grande grado di probabilitá alla tesi della
sopravivenza. (1) Confesso
candidamente di non esser mai riuscito a capire
Pentusiasmo di alcuni neoscolastici per la psicofisica e per la psicofisiologia. L”unione sostanziale
dell.anima col corpo importa soltanto
che ogni stato psicologico abbia una ripercussione sullo stato fisiologico, ma non esige che tra l'uno
e lPaltro vi sia un perfetto
parallelismo, né permette di formare delle generalizza- zioni scientifiche, le quali, in questo caso,
quando hanno la pre- tesa di essere
vere, sono la negazione della storicitá della co- scienza. Perció pur rispettando la
psicofisica e la psicofisiologia, come
rispetto l'astronomia e le altre scienze, non comprendo come si voglia fare di esse una parte della
filosofia. Lo stesso si potrebbe
ripetere del nuoyo metodo introspettivo.
272 Note critiche Anche in
questa questione mi sembra che la Sco-
lastica era ben piú profonda. L”anima spirituale, che ha delle operazioni indipendenti dalla
materia, non dipende da questa nemmeno
nell'essere ; dissolvendosi dunque
l”organismo, non cessa di esistere. Ecco una
prova che non ci dá solo uua probabilitá, ma una certezza e che prescinde affatto dall'ipotesi
paralleli- stica. Supposto anche che ad
ogni nostro atto psichico corrispondesse
un determinato movimento cerebrale, ció
non significherebbe che l'atto psichico non sia
spirituale e che perció lo spirito dipenda dalla ma- teria nei suoi pensieri. Anche allora sarebbe
ragione- vole concludere che l*anima,
sciolta dal corpo, nasce ad un'alba che
non tramonta mai; sarebbe logico far
risuonare il grido delle eterne speranze in mezzo ai due grandi silenzi, ammirati da Carlyle e tra
¡ quali viviamo : il silenzio delle
tombe ed il silenzio degli astri. La dottrina 273 III. — La vita. L'£volution créatrice € ritenuta da molti
come la parte piú poetica e meno
filosofica dell?opera bergso- niana.
Alcuni anzi non la stimano del tutto degna
dell'autore dell” Essai sur les données immédiates. A me invece sembra che tra l'uno e laltro
volume esista un nesso strettissimo e
che 1”Evoluzione crea- trice non sia che
la teoria intorno alla durata della
coscienza, applicata logicamente ad una piú grande Coscienza, alla Supercoscienza. Partendo da questa mia interpretazione, che
giudico esatta e che, spero, sará
limpidamente risultata dalla esposizione
che ho dato della filosofia di Bergson, co-
minceró ad indicare il progresso che la nuova conce- zione biologica rappresenta di fronte al
meccanicismo, per poi enumerare le
asserzioni che mi paiono fanta- stiche
od infondate. La biologia di ¡eri
voleva spiegare i fenomeni vitali col
giuoco delle sole forze fisico-chimiche ed accarez- zava la speranza di poter costruire
artificialmente la vita. Basterá
ricordare in proposito tutti ¡ tentativi
fatti per provare la generazione spontanea, dal Ba- thybius Haeckelii alla glia di Maggi, dalla
glairina di Béchamp, ai ritrovati di Burke
e di Bastian. Basterá accennare alle
piante artificiali di Herrera e di Leduc,
ai cristalli viventi di von Schrón, alle teorie basate sulle proprietá della materia allo stato
colloidale o sui F. OXLGIATI 18 274 Note critiche | processi catalitici da questi provocati,
alle ipotesi dei tropismi, degli ¡oni,
dell'osmosi, alle deduzioni tratte dalle
esperienze del Carrel, a tutte insomma le dot-
trine antivitalistiche, che sorsero, brillarono e scom- parvero (1).
Era tale l'atteggiamento mentale — che ormai va lentamente scomparendo — della generazione
trascorsa, che ognuna di queste ipotesi
attirava subito l”atten- zione vivissima
di tutti; ognuna di esse, anche se
strana, suscitava l'interesse animato di una tragedia grandiosa, nella quale la forza possente
della scienza infliggeva la morte ad un
passato tenebroso di bar= barie. E
nessuno si scoraggiava, anche quando la se-
veritá della supposta tragedia terminava miseramente — come il famigerato Bathybius Haeckelii e la
legge biogenetica fondamentale — nelle
allegre amenita di una farsa (2). Prossimo parente della concezione meccanica
della vita era ritenuto l'evoluzionismo,
che — come bene osserva Bergson — in sé
non dice affatto meccani- cismo. Si pud
anzi aggiungere che la ragione principale
del trionto delle idee trasformiste € da ricercarsi nel- l'illusioné degli scienziati, i quali nelle
teorie dell'evo- luzione videro una
dimostrazione della loro concezione. Se
dalla materia é sorta la vita, se l'uomo deriva dal- Vanimale, non c'é tra l'inorganico e
organico, tra Puomo e il bruto che una
differenza di grado, non di natura. 1
fenomeni vitali non sono piú un enigma;
Pistinto e l'intelligenza differiscono tra loro quantita- (1) Cfr. la magnifica opera di AGOSTINO
GEMELLI: ZL'enigma della vita ed inuovi
orizzonti della biología, Ediz. 2*, Firenze,
1914, come pure le altre numerose pubblicazioni dell'egregio biologo.
(2) Cfr. GEMELLI-BRASS : Le falsificazioni di Haeckel, 3% Edi Firenze, 1913. A A
AS La dottrina 275 AS A A SE e El Ia OI A tivamente; ció che proviene da un altro €
uguale qualitativamente ad esso. Ecco la
mentalita di ¡eri. Se la generazione
passata avesse sospettato che l'e-
voluzionismo nulla diceva in favore dell'idea mecca- nicistica, il novantacinque per cento dei
cultori delle scienze positive gli
avrebbe fatto una accoglienza non troppo
festosa., Dinanzi a questo indirizzo,
che con nomi reboanti e con parole
sonore nascondeva un semplicismo an-
tifilosofico spaventoso, Bergson ha la gloria di aver reagito. I suoi critici — anche piú spietati
— hanno confessato che le splendide
confutazioni del meccani- cismo sono la
parte piú bella e piú duratura della sua
opera. E — per la storia — si deve aggiungere che questo € il motivo per il quale furono
rivolte a Berg- son molte ingiurie, che
gli fanno onore (1), e che pro- vano
tutt'al piú il basso livello intellettuale, di chi le ha usate. * *
xk Bergson ha compreso innanzi tutto
la storicitá della vita e con la sua
teoria della vita-durata ha superato il
meccanicismo. Spieghiamoci. Un
esploratore ardito, viaggiando in regioni lontane, scopre una tribú, che parla una lingua
affatto scono- sciuta. Procura di farsi
intendere con segni e con gesti, ma non
vi riesce. Trova invece un numero con-
siderevole di iscrizioni nei cimiteri, nei templi, nelle piazze di quella tribú. Quelle iscrizioni
sono per lui oscure come un enigma; ma
egli, pieno di speranza, le esamina
pazientemente, distingue le varie lettere,
(1) Cfr. nella prefazione gli insulti di Le Dantec, di Elliot, di Lankester etc. 276 Note critiche giunge a scoprire lalfabeto di quella lingua
e crede con gran probabilita di
conoscere l'alfabeto com- pleto. Ha forse interpretato con questo anche una
sola iscri- zione? No: chi sapesse solo
che in esse vi sono tanti a, tanti b,
tanti c, ne saprebbe ancora press'a poco
come prima. Chi dei Promessi Sposi conoscesse
soltanto quante migliaia di lettere di un genere, quante migliaia di vocali, quante migliaia di
consonanti vi sono, non avrebbe ancora
capito niente del romanzo dello
scrittore lombardo. — Chi pretendesse di spie-
gare il significato della parola « Dio », dicendo che Dio significa D + 1 + O, toccherebbe il colmo
del ridicolo. La vera spiegazione ben
lungi dal rinchiu- dersi
nell'enumerazione e nella disposizione delle let- tere, va dal pensiero alle lettere; quello
spiega queste e non viceversa. E se
l'esploratore, per confermare la sua
stranissima tesi, si balloccasse a mettere in-
sieme lettere con lettere, formando cervellotticamente dei pseudovocaboli, noi gli risponderemmo che
le sue sono parole morte, dove non
brilla il raggio del pen- siero. Chi volesse proprio comprendere una
iscrizione di quella tribú, non solo
deve cercare il significato delle parole
e delle frasi, ma dovrebbe anche ricordarsi che
queste sono nate in una determinata situazione di fatto e che perció i vocaboli di quella
iscrizione hanno il senso che loro ha
conferito colui che Il'ha com- posta.
Noi tanto meglio la interpreteremo, quanto piú
non ci fermeremo alle lettere dell'alfabeto, ma sco- priremo il valore delle espressioni, il tempo
in cui fu scritta, l*uomo che la dettó,
l'occasione che la sug- gen, la cultura
e il carattere di quell'epoca e via
dicendo. Non basta limitarsi
alla materialitá delle parole e delle
frasi. La stessa frase sulle labbra di una persona 3
La dottrina 277 pud avere un
significato ben diverso di quello che ad
essa attribuisce un'altra persona di un'altra epoca, od anche della stessa epoca. Il vero é€ il
fatto, ha detto Vico e lo dice oggi
Benedetto Croce e lo ripete anche
Roberto Ardigd : l'espressione e materialmente
identica; il pensiero inteso dai tre filosofi € sostan- zialmente diverso. Per portare un*altro
esempio: quando un negoziante di
acquavite parla di « spirito », non
intende certo indicare lo « spirito » dell'idealista, come quest*ultimo a sua volta non intende alludere
allo « spirito » del monadista, né allo
« spirito » dello spi- ritista. Non si puó quindi dimenticare la storicita
dell'iscri- zione, storicitáa che fa si
che il significato di essa sia unico.
Scritta in un'altro tempo, in altre circostanze, con le stesse lettere, con le stesse parole,
con le stesse frasi, avrebbe espresso un
pensiero differente, corrispondente agli
avvenimenti di quel tempo. E lo stesso
si ripeta, se fosse stata composta da un altro
individuo o dalla stessa persona in un momento di- verso della sua vita. Una differenza
qualitativa ci sarebbe sicuramente, se,
ben inteso, si considera la iscrizione
nella sua realtá concreta. Finalmente il
pensiero dell'iscrizione € uno, pur nella molteplicita delle idee espresse; si trova in essa
quell'unitá di ispirazione, che si
osserva in una strofa, in un inno, in un
quadro. Ecco perché non si pud spiegare
l'iscrizione con le lettere di cui
consta, L*iscrizione ha una storia, é
storia; le lettere non ne hanno. L'iscrizione é unica ; le lettere son sempre quelle. L'iscrizione €
una; le lettere sono molte. Con queste riflessioni — che sembreranno
infantil- mente elementari e che pure
furono calpestate dal meccanicismo — si
rimprovera forse all*esploratore di aver
fatto una cosa ¿imutile ? Ma nemmeno per sogno. 278 Note critiche Egli ha compiuto un lavoro utilissimo,
una prepa- razione necessaria. Ed anche
nel caso che per una felice combinazione
fosse arrivato a decifrare il senso di
quelle iscrizioni, Pesploratore, per utilizzare il suo studio, metterá per un momento da parte la
loro sto- ricitá, la loro unicitá, la
loro unitá, in una parola la loro
finalitá. Le scomporrá invece in tanti vocaboli, ne catalogherá il maggior numero possibile,
formerá un vocabolario e dará cosi un
mezzo utile e indispen- sabile a coloro
che vorranno comunicare con gli abi-
tanti di quel popolo o che vorranno studiarne la let- teratura, la storia, la civiltá. E tutti
applaudiranno alle sue fatiche pazienti,
al suo sforzo, al suo suc- Cesso. - Solo allora gli applausi si muteranno — ed
a ra- gione — in fischi sonori, quando
egli fosse cos pazzo da pretendere che
le parole si debbono spiegare con le
lettere, che ad es. la parola « Re » si interpreta, non giá alludendo ad una autoritá sovrana, ma
con R + e; oppure quando, dopo aver
finito il vocabolario ed elencato
tutti i vocaboli, credesse di aver riassunto
tutta una cultura ed una civiltá. A chi ci offrisse un dizionario completo della Divina Commedia e
s'illu- desse che tutta ll fosse la
poesia di Dante, noi di- remmo: scusa,
questi sono i detriti di quell*opera
immortale, non il poema; sono la morte e non la vita. Quando — per riassumere — si confonde un
proce- dimento pratico, utile, se si
vuole, e necessario, Op- pure un minimum
di veritá, quale ci é dato dall'a-
strazione, con la veritá in tutta la sua concretezza, allora noi protestiamo. Ebbene, dice press'a poco Bergson: applicate
questo al problema della vita. Le iscrizioni oscure sono gli organismi
viventi; eli esploratori sono gli
scienziati che vogliono risolvere e
spiegare l'enigma della vita. Siccome non ne com- il
2 La dottrina ' 279 prendono nulla, cominciano ad esaminare
le lettere che compongono le parole,
vale a dire gli elementi fisico-
chimici, le molecole, gli atomi che compongono il vivente. E si pud dire che raggiungono con
probabilita un alfabeto completo. Fin qui tutto va nel migliore dei mondi
possibili:; il loro lavoro, le loro
scoperte sono utilissime sotto mille
rispetti. 11 male é che alcuni scienziati si accon- tentano di ricercare le lettere
dell”alfabeto, gli ele- menti fisico-chimici
e credono di aver spiegato il mistero,
quando hanno trovato che in un dato orga-
nismo, vi sono tante molecole di carbonio, tante di acqua, etc., non comprendendo che essi sono
simili all'esploratore, che si ostina a
pensare d'aver inter- pretata
l'iscrizione, perché sa quanti a, quanti b etc.
in essa vi sono. Ed il male si
accresce, quando questi biologi si
divertono nei loro laboratori ad accozzare lettere a lettere, elementi ad elementi, per creare
degli esseri vitali, delle parole
significative, senz'accorgersi che é per
il pensiero che si hanno tali lettere, € per la
vita che si ha un tale organismo, e non vice- versa.
Le conseguenze che ne derivano sono le medesime: lesploratore poneva in oblio la storicita,
1unicita, I?unita dell'iscrizione. 1 meccanicisti
non si ricordano che ogni organismo ha
una storia, mentre quest'ultima, come
dice il Bergson, sdrucciola sopra gli elementi,
senza penetrarli. L”organismo é unico e non vi sono in nature due foglie identiche; gli elementi
sono eguali. L'organismo € unita; gli
elementi sono nu- merosi. Essi.sono i
concomitanti necessari della vita, come
le lettere sono i concomitanti necessari dell'iscri" zione; ma non sono la vita, non sono il
pensiero ; gli elementi sono i detriti
dei fenomeni vitali, sono la morte e non
spiegano nulla. A 280 Note critiche Senza dubbio, é utile, é necessario studiare
gli elementi ed i loro composti, come é
utile, é necessario conoscere le lettere
d'un alfabeto ed il vocabolario di una
lingua. Ma come non €il vocabolario che spiega
la lingua, € questa che spiega quello; cosi non sono gli elementi né loro combinazioni che
risolvono l'enigma della vita, bensl €
quellattivita immanente, che ma- nifesta
sempre caratteri opposti alla materia.
Ed anche — ripetiamolo — non si disprezza il lavoro degli esploratori, ossia dello
scienziato; non solo la scienza, come
esperienza storica é presa di realta;
non solo, io aggiungo, alcune sue generalizzazioni astratte hanno un valore teoretico; ma essa e
feconda di risultati pratici. Per
ottenere i quali, come l'inter- prete
deve trascurare la storicitá, l'unicitá, I*unitá dell'iscrizione, cosi lo scienziato deve
trascurare gli stessi caratteri della
vita. S'intende perd: il suo € un metodo
pratico di ricerca, indispensabile per 1'utiliz- zazione della realtá ed anche per poter poi
risalire a cogliere la vita nella sua
finalitá concreta; egli com- mette un
errore grossolano, solo quando vuol erigere
una regola metodologica alla dignitáa di spiegazione teoretica e di sistema metafisico. : Questa — in breve — la confutazione
bergsoniana del meccanicismo (1); che io
accetto, sottoscrivendo anche quasi
completamente — (dico: quasi, per la
teoria da me difesa intorno all'astrazione) — cid che riguarda i rapporti tra scienza e
filosofia. Scienza e filosofia marciano
in due direzioni ben diverse; questa
verso la storicitá della vita e della
coscienza, quella verso l'antistoricitá degli elementi, (1) DAVID BALSILIE nel suo libro: 4x4
examination of prof: Bergson philosophy,
London rgr2, sostiene che Bergson é un
meccanista per alcune teorie di Matiére et Mémoire, non gia per le idee dell'Évolution créatrice. La dottrina 281 della psicofisica, della psicofisiologia;
luna verso il movimento composto di
immobilitá e di simultaneita, l'altra
verso il movimento reale; l'una verso il tempo
t della fisica, l'altra verso la durata concreta; l'una verso il meccanicismo, l'altra verso la
finalitá; l'una verso la morte, l'altra
verso la vita; la scienza verso
Putilita, la filosofia verso la veritá. * *
o Conseguentemente al suo
antimeccanicismo, Berg- son contro gli
evoluzionisti d'ieri, i quali — con una
asserzione che faceva loro poco onore — vedevano nell'uomo un bruto perfezionato e che tra
l'uomo e il bruto ponevano solo una
diversitá di grado, affermó la tesi
contraria, ossia una diversitá di natura. Se ¡
suoi pregiudizi contro l'intelligenza rendono talvolta un po” deboli le sue prove, é un fatto peró
che le pagine dell” Évolution Créatrice,
dedicate alla diver- genza tra l'istinto
e l'intelligenza, contengono molte
verita. Egli anzi ha compreso
che la teoria del trasfor- mismo non é
nemmeno una teoria filosofica, e dinanzi
a coloro, che nell'ipotessi trasformista scorgevano un compendio di tutta la filosofia, ha notato
che gli im- porterebbe molto poco, anche
se il trasformismo fosse dimostrato
falso. Gli evoluzionisti non hanno mai
afferrato l'anima di veritá, che David
Hume insegnó nel suo Treatise of human
nature. L'esperienza — disse Hume — ci
mostra solamente come un fatto segue l'altro, ma non ci dá l'intima necessita del loro
collegamento; ci offre cioé un «
rapporto di successione », non un » » XI - Filosofia e realtá » PartTE II. — Note critiche. a) Il metodo pag b) La dottrina » TI. La libertá . » IT. L'anima »
III. La vita » IV. Dio » CONCLUSIONE pag APPENDICE 1: Note oriaficho APPENDICE 11: Bibliografia 3
15 39 57
q 91 103
197 133 145
157 173 . 189
945 947 255
9273 290 . 307
309 313 Piecola Biblioteca di Scienze Moderne Eleganti volumi in-120 1. Zanotti-Bianco, In cielo. Saggi di
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fenomeni vitali — 1914 z a » 208 '929.
Germani, La Ragioneria come scienza moderna . - PE s» 2,50. Ys
NB. 1 volumi di questa serie esistono pure elegantemento legati im tela
con” fregi artistici, con una lira
d'aumento sul prezzo indicato.
THEOLOGY LIBRARY a CALIF. SH Ps Ñ
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pe 4 Francesco Olgiati. Olgiati.
Keywords: classici, il gusto per l’antico, ius, Aquino, sillabario, filosofia
classica, filosofia no-classica, logica classica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice
ed Olgiati” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Olimpio:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Giuliano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He lives in the middle of nowhere.
When he finds his city became an uncomfortable place for pagans, he moves to
Rome.
Grice ed Olivetti: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’archivista – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.
Grice: “Olivetti deals with some topics dear to me and Strawson, like
subject, transcendental subject, and the rest – he also uses ‘analogy,’ which
is a pet concept of mine – I have been compared to Apel, so the fact that
Olivetti in his ‘conversational’ approach relies on him, helps!” - Professore a
Roma -- preside della Facoltà di filosofia. Formatosi a Roma, confrontandosi con i temi del
rapporto fede e ragione nell'ambito di un collegio di docenti orientato sul
versante marxista, storicista, postidealista, trova in ZUBIENA il suo maestro.
Con lui iniziò una collaborazione intellettuale che lo porta a studiare i temi
della filosofia della religione, partecipando ai colloqui romani inaugurati dal
filosofo piemontese, dapprima come segretario e poi, dopo la morte di ZUBIENA come
organizzatore. Dopo iniziali studi di estetica religiosa e di filosofia
classica tedesca, si dedicò alla ricerca di un approccio neo-trascendentale al
tema della religione, insegnando filosofia morale a Bari e poi sostitundo
Zubiena nella cattedra romana di filosofia della religione. Giunse dopo
l'incontro decisivo col pensiero di Lévinas, ad elaborare una concezione di
questa disciplina come antropologia filosofica e etica in quanto «filosofia prima
anzi anteriore» su base storica, nata dalla dissoluzione in età tardo
settecentesca, soprattutto ad opera di Kant e Hegel, della onto-teologia. Molta
rilevanza aveva nel suo insegnamento lo studio dei classici tedeschi, in chiave
storica, e da ultimo il confronto sia con la fenomenologia, specie con Lévinas
e Marion, sia con la filosofia analitica. In Analogia del soggetto, la sua
opera maggiore, l'autore elabora una teoria analogica del soggetto, riprendendo
suggestioni di Husserl, Apel e Lévinas, confrontandosi con Heidegger e
suggerendo una teoria dell'"umanesimo dell'altro uomo" su base
staurologica ed etico-interinale («espropriarsi del caritatevole nell'interim
interlocutivo» ibidem). La tesi è che non esiste un'essenza dell'essere
umano. Tale essenza è immaginata, e senza siffatta immaginazione l'essere e
l'umano non si coapparterrebbero. Così si dice, in un certo senso la fine
dell'etica. Tuttavia così si dice anche che l'etica, e non l'ontologia, è la
filosofia prima, anzi anteriore. Di seguito l'autore prospetta un ripensamento
del soggetto trascendentale, con un differimento dell'ergo rispetto al cogito
cartesiano, partendo dal “loquor,” ovvero «dall'origine analogica di ogni
logica, in modo da scomporre la presenza trascendentale in sum-prae-es-abest.
Si perverrebbe così all'abbozzo di un «ripensamento dell'appercezione
trascendentale, in modo tale da reimmettere il pensiero rappresentativo nella giusta
traccia della rappresentazione. Attività accademica e influenza Direttore
dell'Istituto degli Studi Filosofici Castelli e poi dell'"Archivio di
Filosofia", si fece promotore di colloqui e convegni nei quali conveniva,
a Roma, ogni due anni, nei primi giorni di gennaio, l'élite della filosofia
della religione europea e mondiale (Ricœur, Marion, MATHIEU, Quinzio,
Melchiorre, Lévinas, Lombardi Vallauri, Forte, Casper, Dalferth, Greisch,
Capelle, Courtine, Falque, Grassi, Paul Gilbert, S.J. Stéphane Mosès, Flor,
Prini, Peperzak, Swinburne, Gabriel Vahanian, Hénaff, Vitiello, Tilliette,
Henry, Taylor, tra gli altri). Nelle sue prolusioni e nei suoi contributi
introduttivi si prospettava lo sfondo su cui si sarebbero esercitati i contributi
e le discussioni del Colloquio, di seguito pubblicati in numeri monografici
della Rivista "Archivio di Filosofia". I temi trattati erano
spesso centrali nell'elaborazione di una filosofia della religione come
filosofia tout court e abbracciavano, negli anni ottanta e novanta del
Novecento, temi centrali come "Teodicea oggi?", l'argomento
ontologico, l'Intersoggettività, il Dono, la Filosofia della Rivelazione,il
Sacrificio, il Terzo. La sua personalità riservata entro l'ambito strettamente
scientifico e il rigore speculativo dei suoi scritti non ne hanno favorito una
conoscenza pubblica al di là dei circuiti accademici, e il suo insegnamento ha
lasciato un traccia significativa costituendo una vera e propria scuola di
filosofia della religione. Saggi: “Il tempio simbolo cosmico” (Milani,
Padova); “L'esito teo-logico della filosofia del linguaggio” (Milani, Padova);
“Filosofia della religione come problema storico” (Milani, Padova); “Da Leibniz
a Bayle: alle radici degli Spinoza briefe, “Archivio di filosofia”; “Analogia
del soggetto” (Laterza, Roma); "Filosofia della religione" in La
filosofia, Le filosofie speciali (Pomba, Torino); Avant-propos, in Le Tiers,
Archivio di Filosofia Archives of Philosophy, Considerazioni introduttive sul
tema: Postmodernità senza Dio?, in «Humanitas»
a.c. di Ciglia e De Vitiis Traduzioni e curatele: Kant I., La
religione entro i limiti della sola ragione, Romam Laterza); “La religione nei
limiti della sola ragione, I.Kant (Laterza, Roma); “Saggio di una critica di
ogni rivelazione, con introduzione Fichte, Laterza, Roma) ; Dizionario
Biografico degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.
Francesco Valerio Tommasi, Archivio di filosofia », Tommasi, Le persone,
infiniti fini in sé. Un ricordo lettore di Kant, « Studi Kantiani », Filosofia
della religione Fenomenologia Ontologia Teologia Fede Ragione Bruno Forte, Del sacrificio e dell'amore_In
memoria, su, Tributo dell'Roma, Istituzioni collegate, su filosofia.uniroma1. E. Giacca: un filosofo della religione",
Giornale di filosofia, su giornaledifilosofia.net. Archivio di filosofia, su
libraweb.net. Marco Maria Olivetti. Oivetti. Keyword: implicatura, l’archivista
-- “philosophy of language.” Cratilo, teologia del linguaggio, esito teo-logico
della filosofia del linguaggio, la religione razionale secondo Kant, l’idea de
fine – autonomia, il regno dei fini in Kant, religione e linguaggio, l’esito
teologico della filosofia del linguaggio, Jacobi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Olivetti” –
The Swimming-Pool Library.
Grice ed Olivi:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – filosofia friulese
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Udine). Filosofo italiano. Udine, Friuli-Venezia
Giulia. Medico e storico italiano. Anche
filosofo. PALLADIO degli Olivi, Gian Francesco. – Nacque a Udine tra il 1610 e
il 1615 da Alessandro e da Elena di Strassoldo.
Gli Annales di Udine il 4 dicembre 1609 annoverano l’aggregazione della
famiglia, proveniente da Portogruaro, tra i nobili della città. Palladio frequentò l’università di Padova,
dove si laureò in giurisprudenza nel 1638. Rientrato in patria, si dedicò per
un breve periodo alla professione forense; divenuto abate, ottenne il beneficio
ecclesiastico della pieve di Latisana. Si iscrisse, con il nome di Ferace,
all’Accademia udinese degli Sventati, fondata tra gli altri dallo zio paterno
Enrico. Nel 1658 e nel 1659 pubblicò a Udine due opere di Enrico: il De
oppugnatione Gradiscana libri, sul conflitto che oppose tra il 1615 e il 1617
la Repubblica di Venezia e l’Austria, noto con il nome di guerra di Gradisca,
e i Rerum Foro-Iuliensium ab orbe
condito usque ad an. Redemptoris Domini nostri 452 libri undecim, rimasti
interrotti alla presa di Aquileia da parte degli unni. Palladio decise di continuare
l’opera dello zio, non più in latino ma in volgare, partendo dal punto in cui
si era interrotta, l’anno 452, per arrivare sino al 1658. -ALT La cronaca, Historie delle provincie del
Friuli, è composta secondo il metodo annalistico e fu pubblicata in due volumi
a Udine nel 1660. La narrazione, pur essendo fondata su un’ampia
documentazione, ripete alcuni luoghi comuni concernenti in particolare
l’origine delle città e dei loro casati più eminenti. L’autore difese in
particolare l’antichità di Udine riprendendo parte degli argomenti proposti da
Gian Domenico Salomoni e ripresi da Enrico Palladio, i quali identificavano
Udine e non Cividale nell’antica Forum Iulii di cui parla Paolo Diacono,
attribuendo in tal modo a Udine l’egemonia sulla regione dopo la distruzione
dell’antica sede metropolita di Aquileia. Riprendendo quanto detto da Salomoni,
Palladio riconduceva la fondazione di Cividale sul fiume Natisone al periodo
successivo alla vittoria del duca Wechtari, o Vettero, sugli Slavi, descritta
nel capitolo V della Historia Langobardorum di Paolo Diacono. Palladio sostenne con diverse argomentazioni
l’esistenza di un antico vescovato udinese indicando in un presunto vescovo
Teodoro da Udine il destinatario della lettera Regressus ad nos del 21 marzo
458, sulle donne sposate con uomini rapiti dai barbari, inviata da papa Leone
Magno a Niceta, vescovo di Aquileia; attribuì poi a Udine i vescovi di Zuglio
citati nei sinodi dei secoli VI-VII e in Paolo Diacono. La Historia, pur
presentando i limiti comuni alla storiografia prodotta nel corso del XVII
secolo, fornisce dunque numerosi dati che contribuiscono alla ricostruzione
della storia friulana. Nella metà del Settecento Paolo Fistulario criticò
severamente i passaggi nei quali è creata un’origine delle illustri famiglie
cittadine priva di qualsiasi fondamento. La la famiglia comitale degli
Strassoldo, per esempio, sarebbe discesa da Rambaldo di Strassau, descritto
come il «supremo direttore delle armi» ai tempi dell’imperatore Valentiniano
III (vol. I, p. 5). L’opera conobbe ulteriori critiche nel secolo successivo da
parte di Antonio Zanon, che rimproverò
Palladio di avere scritto una storia parziale, nella quale veniva data
voce solamente al punto di vista espresso dalla nobiltà e non al ceto borghese
cittadino, che trovava invece spazio in altre opere che circolavano al tempo,
quali i Dialoghi di Romanello Manin, rimaste manoscritti. Palladio morì nel 1669. Scrisse anche altre opere in prosa e in versi
per l’Accademia degli Sventati, ancora di proprietà degli eredi al tempo di
Giuseppe Liruti, e alcuni testi di contenuto giuridico. Nella Biblioteca civica
di Udine sono conservate alcune rime, intitolate latinamente Carmina (Fondo
principale, 1076) e una Collectanea legalis (Joppi, 623), redatta secondo voci
organizzate in ordine alfabetico e solo in parte compilate. Fonti e Bibl.: Udine, Biblioteca civica,
Mss.: V. Joppi, Letterati friulani, c. 77v; G.D. Salomoni, Difesa del capitolo
de’ canonici della città di Udine agli ill.mi et rever.mi signori cardinali
della sacra congregatione Sopra i riti di S. Chiesa, Udine 1596; G. Liruti,
Notizie delle vite ed opere scritte da letterati del Friuli, IV, Venezia, 1760,
p. 459; A. Zanon, Dell’agricoltura, dell’arti e del commercio in quanto unite
contribuiscono alla felicità degli stati, Venezia 1766, pp. 191-229; P.
Fistulario, Discorso sopra la storia del Friuli detto nell’Accademia di Udine,
addì X maggio dell’anno MDCCLIX, Udine 1769; F. Di Manzano, Cenni biografici
dei letterati ed artisti friulani dal secolo IV al XIX, Udine 1884, p. 147; F.
Fattorello, Storia della letteratura italiana e della coltura nel Friuli, Udine
1929, p. 157; E. Petrarca, Storici minori del Friuli. Palladio Gian Francesco,
in La Guarneriana, X (1967), pp. 71 s.; L. Milocco, L’Accademia udinese degli
“Sventati” (secoli XVII-XVIII), in Più secoli di storia dell’Accademia di
scienze, lettere e arti di Udine (1606-1969), Udine 1970; L. Cargnelutti, P.
degli Olivi, G.F., in Nuovo Liruti. Dizionario biografico dei friulani, III, a
cura di C. Scalon - G. Greggio, Udine 2009, pp. 1903-1905.Enrico Palladio
degl’Olivi.
Grice ed Onato:
la ragione conversazionale e la setta di Crotone -- Roma – filosofia calabrese
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Crotone, Calabria. A Pythagorean.
Fragments from his treatise survive. Grice: “But since they are in Greek,
CICERONE refuses to study him!” -- Onato. Onata. Onato.
Grice ed Onorato:
la ragione conversazionale del cinargo romano – Roma – filosofia italiana. Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano.A
member of the Cinargo who takes to the habit of wearing a bearskin. Onorato
Grice ed Opillo: la
ragione conversazionale e l’orto romano -- l’implicatura conversazionale -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Segue l'indirizzo dell’orto. Liberto
di un membro dell’orto, insegna filosofia, ma sciolge la sua scuola per seguire
Rutilio Rufo a Smirne, ove compose varie saggi, fra le quali Musarum libri
IX. Aurelius Opilius. Ueber die Schreibung “Opillus” statt “Opilius” vgl.
F. Buecheler, Rhein. Mus. Opilius lehrte zuerst Philosophie, dann Rhetorik.
endlich Grammatik. Später löste er seine Schule auf und folgte dem P. Rutilius
Rufus ins Exil nach Smyrna. Hier schrieb Opilius unter anderem ein Werk von neun Büchern mit dem
Titel “Musarum libri IX”. Nach den Citaten, die daraus von Gellius und
besonders von Varro, Festus und Julius Romanus gemacht werden, muss er sich
besonders mit Worterklärungen befasst haben. Ferner erwähnt Sueton einen Pinax
mit dem Akrostichon „Opillius"; da wir wissen, dass sich Opilius mit
Scheidung der echten und unechten Stücke des plautinischen Corpus abgab, werden
wir diese Schrift dafür in Anspruch nehmen dürfen. Zeugnisse. «) Sueton, de
gramm. Aurelius Opilius, Epicurei cuiusdum libertus, philosophiam primo, deinde
rhetoricam, nocissime premmetiram docuit. dimissa autem schole Rutilinm Rufum damnatum
in Asiam secutus ibidem Smyrnae simulque consenuit compositque variae eruditionis
aliquod volumina, ex quibus novem unius corporis, quia scriptores ac poetas sub
clientela Musarum indicaret, non absurde et fecisse et inscripsisse se ait ex
numero divarum et appellatione. huius cognomen in plerisque indcibus et titulis
per unam (L) litteram scriptum animadcerto, rerum ipse id per duas effert in parastichide
libelli, qui incribitur pinax 3) Musarum libri novem. Gellius, Aurelins
Opi-lines in primo librorum, ques Mexerum inceripoit (über indutine). Bei Varro
de lingua lat. wird er unter dem Namen Aurelins angeführt (proefica; i, 106,
unter dem Namen Opilins Vgl. H. Usener, Rhein. Mus., Bei Festus wird er citiert
als Aurelius Opilius, dann als Opilius Aurelius, ferner als Aurelio, endlich
als Opilius, O. M. Vgl. R. Reitzenstein, Verrianische Forschungen (Bresl.
philol. Abh.). Charis.
(Julius Romanus) Gramm. lat., 1 at ait Aurelius Opilius. Aurelio plaret. Vgl.
O. Froehde, De C. Julio Romano Charisii anctore (Fleckeis. Jahrb.
Supplementbd.) Der lirres Vgl. F. Ritschi, Parerga, Zu den Verfassern von
indices plautinischer Stücke rechnet Gellius, auch ungeren Aurelius. F. Osann,
Aurelius Opilius der Grammatiker (Zeitschr. für die Altertumsw.); G. Goetz,
Pauly-Wissowas Real-encycl. Bd. 1 Sp. 2514. Die Fragmente bei E. Egger, Lat.
serm. vet. rel. und Funaioli (Oben v. u. ist statt (C'os.)* zu lesen. denn P.
Rutilius Rufus war Cos.). Grice: “Since he
was a ‘liberto,’ CICERONE refuses to study him!” -- Opillo
Grice ed Opocher: la ragione conversazionale l’implicatura
conversazionale della giustizia – IVSTVM QVIA IVSSVM – filosofia veneta -- filosofia
italiana -- Luigi Speranza (Treviso).
Filosofo italiano.
Treviso, Veneto. Grice: “There are
two points that connect me with Opocher: ‘individuality’ in Fichte, since I
love the problem of the in-dividuum, perhaps influenced by my tutee Strawson
(“Individuals!”) – and Opocher’s ‘analisi’ as he calls it, of the ‘idea’, as he
calls it, of ‘giustizia’, particularly in Thrasymachus, for which I propose an
eschatological study!” Con Ravà e
Capograssi è considerato uno dei maggiori filosofi del diritto italiani del
Novecento. Nacque da Enrico Giovanni, ginecologo. Durante la Grande Guerra la
famiglia, timorosa dei bombardamenti, si trasferì dapprima nella periferia di
Treviso, quindi a Pistoia presso una parente. Gli anni successivi riportarono
un clima di serenità e agiatezza, nel quale Enrico crebbe, dividendosi tra la
città natale e Vittorio Veneto, meta delle sue vacanze estive. Dopo il liceo fu avviato, secondo il volere
del padre, agli studi giuridici, benché fosse decisamente più inclinato verso
la filosofia. Si iscrive alla facoltà di giurisprudenza a Padova, ma continua a
coltivare i propri interessi personali seguendo le lezioni di filosofia del
diritto tenute dRavà. Sotto la guida di quest'ultimo stilò una tesi su La
proprietà nella filosofia del diritto di Fichte, con la quale si laurea brillantemente.
Ottenuta la libera docenza, vinse il concorso per la cattedra di filosofia del
diritto presso la facoltà di giurisprudenza a Padova, succedendo a Bobbio che
in Veneto era divenuto segretario regionale del Partito d'Azione. Nell'ateneo
padovano insegnò ininterrottamente per quarant'anni, tenendo lezioni per i
corsi di filosofia del diritto, di storia delle dottrine politiche e di
dottrina dello stato Italiano. È
ricordato in maniera particolare per i suoi studi sull'idea di giustizia, e sul
rapporto tra diritto e valori, nonché per la redazione di un celebre manuale,
Lezioni di filosofia del diritto, usato da generazioni di allievi. Fu magnifico rettore dell'Università. È stato
Presidente della Società Italiana di Filosofia Giuridica e Politica.
Influenzato dall'amicizia con il cattolico Capograssi e col laico Bobbio, fu
azionista con Bobbio e Trentin, condividendo (a Palazzo del Bo) le attività
cospirative della Resistenza locale. Nel dopoguerra rimase amico stretto di
Trentin e di Visentini, divenendo a sua volta il maestro di Toni Negri. Saggi:“Individuale”
(Padova, MILANI); “Esperimentato” (Treviso, Crivellari); “Giusto” (Milano,
Bocca); “Filosofia del diritto” (Padova, MILANI); “Gius-to” (Padova, MILANI);
“Gius-to” (Milano); Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fulvio
Cortese, Liberare e federare: L'eredità intellettuale di Silvio Trentin,
Firenze University Press, 2citando D. Fiorot, La filosofia politica e civile –
filosofia CIVILE --. in Scritti, G.
Netto, Ateneo di Treviso, Treviso, Vedi G. Zaccaria, Il contributo italiano
alla storia del Pensiero, Padova, I rettori Unipd | Padova, su unipd.
Denominazione attuale: Società Italiana di Filosofia del Diritto, vedi. Giuseppe Zaccaria, Il Rettore della
tolleranza, in La Tribuna di Treviso, Toni Negri: «Un uomo davvero libero
nell'università chiusa degli anni '60», in [Il Mattino di Padova] Giuseppe
Zaccaria, Ricordo Omaggio ad un maestro,
Padova, MILANI, 2Giuseppe Zaccaria, Il contributo italiano alla storia del
PensieroDiritto, Società Italiana di Filosofia del Diritto, su sifd. Grice: “Opocher is concerned
with ‘iustum quia iussum,’ which while transparent to Cicero as analytically
false a posteriori, it is just impossible to express in Anglo-Saxon or English.
Both iustum and iussum come from the same root. So what is just is what is
commanded. The principle of positivism. Opocher finds this all too easy, so he
rather examines Fichte, who tries to express in his vernacular vulgar (Recht,
Wesen, Gemein Wesen, and so forth) all the ideas of contractualism – a contract
between a ego and alter – on the wake of the beheading of Marie Antoinette!”. Enrico
Giuseppe Opocer. Opocher. Keywords: giustizia – fairness,
gius, il concetto di gius nel diritto romano, iustum non quia iussum – verbal
aspect here --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Opocher: giustizia del
neo-Trasimaco.”
Grice ed Opsimo: la
ragione conversazionale e la setta di Reggio – Roma – filosofia calabrese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Reggio).
Filosofo italiano. Reggio, Calabria. A Pythagorean cited by Giamblico. Grice:
“Cicerone said that in proper Italian, his name was Ossimo!” -- Opsimo.
Grice
ed Orazio: la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale -- Roma –
la scuola di Venosa -- filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Venosa).
Filosofo italiano. Venosa, Potenza, Basilicata. Orazio fu attirato dai problemi
morali ed estetici. Quinto Orazio Flacco. Muore a Roma. Soltanto nelle
"Epistole," Orazio dichiara di sentirsi attirato dalla filosofia
morale per la quale vuole abbandonare la lirica. Si è notato che questa
epistola è un protrettico. Ma anche negli scritti precedenti O. tocca spesso
argomenti filosofici. Scherzosamente, O. si chiama dall’orto “de grege
poreus” (Epist.). Effettivamente egli, che dichiara di non voler giurare sulle
parole di nessun maestro, non appartiene ad alcun indirizzo determinato. Nei
suoi studi in Atene conosce dottrine di scuole diverse, vede nelle sette filosofiche
una disciplina che non deveno essere ignorate. O. s’interessa soprattutto per
la morale applicata ai casi della vita. La sua indole, amante
dell’equilibrio, della tranquillità, della serenità, gli fa considerare con
simpatia l’etica dell’ORTO, di cui si scorge l’influsso nelle satire, che abbondano di reminiscenze a LUCREZIO
(si veda). O. ri-assume la teoria dell’orto sull’origine del diritto e della legge. Più
volte, satireggia paradossi del Portico: tutte le colpe sono uguali, il
sapiente è re e conosce ogni cosa. O. disegna la caricatura del Portico:
capelluti e barbuti che, predicatori ambulanti, espongono precetti ai quali non
sempre fanno corrispondere la vita. Ma O. mostra di apprezzare maggiormente la
severa nobiltà degl’ideali del Portico. O. si avvicina sia all’Orto che al
Portico quando loda la vita semplice e sana della campagna. Ma quando sferza la
caccia alle riechezze e al lusso, O. si collega al Cinargo, delle cui diatribe
si avverte l'influsso nelle sue satire. Nell'insieme, la morale di O. è
utilitaria ed è diretta dall’esigenza dell’equilibrio e della misura. La sua non
è una teoria filosoficamente fondata e perciò non manca di
incoerenze. Nell’"Arte Poetica" si riconoscono abitualmente
riflessi di teorie del “Lizio” e particolarmente di Neottolemo di Pario, che
assegna alla poesia il duplice ufficio di dilettare e di giovare. Da Panezio si
fa provenire il concetto del "decorum", che ha un posto centrale
nella dottrina estetica che O. propugna. He is sent
by his father to study philosophy. His studies are cut short when civil war breaks
out after the assassination of GIULIO (si veda) Cesare. His works, frequently
advocate the simple country life, and a number of letters he publishes indicate
a continuing interest in philosophy. Although he has friends that followed the
doctrine of The Garden, and he is clearly familiar with these doctrines, it is
not clear that he belongs to any particular ‘school.’ In an examination of O.’s
philosophy, we should not look for that comprehensive love of wisdom generally
termed philosophy by the ancients, including science, ethics, and speculative
thought. O. Is not the speculative type of man to be interested in the
composition of the universe. Quae mare compescant causae, quid temperet annum,
Quid velit et possit rerum Empe 00168 at Stert tan doddret acunen, fre Wetaer
the pLanete wander ad rol Fone spontareduer) 18 pedoedes or subt1e dtortinius
that Is Crazed."). O. Is a realist, concerned with the ethical side of
wisdom -- with the conduct of life. O. is thoroughly Roman, and the Romans,
except only a few lofty souls such as Lucrezio, Cicerone, and Virgilio, are of
a practical, mundane nature. The Roman philosopher cares little for the
abstractions of speculation. The Roman is born to rule -- parcere subleatio et
debellare superdos.*2 than oupire, titg Shail be tnite are, to ozdain the law
of peace, to be merciful to the conquered andbeat the haughty down. The
philosophy which appeals to the Roman is that which would give him mastery over
self, and hence over the world. But everywhere around him O. sees the
tremendous waste of human energy, struggling nen, feverishly pursuing the
bubbles that do not satisfy, frittering away their man-hood, consuming time and
not achieving the mastery of life to which their heritage entitles them. For
such an audience, then, in which the will to live is the dominant
characteristie, O., the sane, tolerant, and sympathetic man of the world, with
the insight which comes from contemplation and the inspiration which comes from
a realization of the dignity of his task, formulates his philosophy of living, a
simple, practicable code of ethios, to help men to saner, worthier, happier
lives -- a code which furnishes a solution to the problems of life. It is not
an explanation of life, but a way of life, something tangible, a touchstone by
which the Roman man may test his own worth and contentment. How keenly he feels
the importance of his mission we may know from "Sic nihi tarda fluunt
ingrataque tempora, quae spem Consitiumque, morantur agendi naviter id quod
alike to the poor, alike to the rich, and the neglect. O. Is unusually well
qualified to undertake this office of sage, monitor, and guide, for he is the
product of unusual home training, thorough training 1n the schools of
philosophy, and a very varied experience. O. is very fortunate in his home
influence. Born of a freedman father, who knows life from the point of view of
the toiler, O. early aoquires the common sense which is the basis of sound
living. His father gives him an insight into the things worth seeking, by
pointing out the conspicuous failures in his own vicinity. Instead of merely
advising his son to live frugally, he calls his attention to a certain
well-known fellow who squands his patrimony. Others he indicates as shameful
examples of the effects of lust. By taking as a precedent the action of certain
Romans whose lives are an example to the wole comunity, and shunning the
practices which had made others infamous, he may always have a criterion of
conduct. Further than teaching his son to distinguish clearly between vice and
virtue, keep his eyes open to the lives of those arourd him, and profit by
their mistakes, his father could not go, saying that others could explain to
him the reasons for shunning vice, and that he might learn these reasons, O. is
sent to the best possible schools, no doubt at no small sacrifice. It is the
finest possible tribute to the fundamental worth of this rustic freedman that O. speaks ever gratefully and without shame of
his humble birth and boyhood training. Just what O.’s life at the 'University'
of Athens may have been, we do not know. But he gives ample proof of his entire
familarity with both L’ORTO and IL PORTICO. The former, so ably expounded by LUCREZIO,
must have made a profound impression on O., the lover of life. That he had a
sympathy with their doctrine of impassiveness -- to them the duty of man being
to increase to the utmost his pleasure, decrease to the utmost his pain, and
the highest pleasure being peace of mind -- is proved by Tempora momentis
Tapora potent. Oat qua gordine Dulla -- Not to be exoited about anything,
Numicius, is almost the one and only thing that can make and keep a Ion sun and
stars and the seasons departing in fixed course there are who view with no
tinge of and again -- Gaudeat an doleat capiat metuatre, quid ad rem ntere 1, --
ral eerento ne has esea beeter oat matters it, worse than BotE In body and
soudii, hs eyes stare and he ds dased. In another place he allies himself
playfully with the more material enjoyments of L’ORTO. Once he admits, half
shamefacedly, his weakness for the hedonism of Ceristippus -- Now imperceptibly
I slip back to the terets of et, tot ne to the worla ate the rorta to. And in a
second passage he praises the adaptability of Aristippus, contrasted with the
cynic. But a man with the rigid training of O.s early years could not be
completely satisfied with the superficialities of L’ORTO and Cyrenaism. He
values happiness, but he has too much moral fibre to find it either in
impassiveness or pleasure for its own sake, and so in spite of his repugnance
to the sternness of IL PORTICO, and the severity of its "Sapiens", he
is drawn toward the positive virtue of IL PORTICO. No utterance could ring more
clearly of IL PORTICO than the following: "Vir bonus et sapiens audebit
dicere: 'Pentheu, 'Adiman bona.''Nempe pecus, rem, Comed bas entro toste httote
tenth maniodsette sub custode tenebo.'hoo sentit, 'Moriar.' -- The good and
wise man will make bold to say, 'Pentheus, Ruler of Thebes, what will you force
an undeserving man like me to suffer and endure?' 'I will take keep you under
the charge of a grim "The deity himself will free me as soon as I I
suppose thig is what he means, 'I will die.' Death is the final goal of things.
Although he appreciates the value of the tenets of IL PORTICO, he cannot take its
asceticism altogether seriously, nor adopt them in their entirety, and fling
this jest at them: "Ad summem; sapiens uno munor est cove, dives, Liber,
honoratus, pulcher, rex Denique Pree iple sanus, nisi oun pituita molesta est.
-- To sum up, the philosopher is inferior to jove alone; tingo inga aborea
noalthg, sare winen troubied Thus we see that O. is an eclectic, sifting from
all the schools of philosophy what wis finest, sanest and best adapted to his
needs. If there appear to be inconsistencies in his system of ethics, and there
are countless ones, we must remember that he regards himself as the physician
of morals, ministering to many kinds of ailments, each one demanding a different
prescription, and he knows all too well that life is too complex to be reduced
to a simple formula. To IL PORTICO O. owes his positive dootrine of self
control, of a life in accordance with nature and controlled by virtue, and his
superiority to misfortune. To L’ORTO, O. owes his theory of the wise enjoyment
of life, and to the Cyrenaics his theories of moderation. Of his own foibles
and changeableness he says Cone todtur t tale thdate pocune – I commend the safe ana humble when funds are
low, brave enough in a poor environment; but when aught better and more
sumptuous falls to my good fortune. O’s life experience ia a kaleidoscopic one.
His youth is spent in association with the sons of the wealthy and well-born, and
thus he acquires that tact and urbanity which are so valuable in his later
relationships, and which enable him to give advice on matters of social
conduct. Then follow his attachment to the hopeless cause of the Republicans,
with the disillusionment, loss of property, position, and purpose. such a
complete alteration of nis entire life scheme could not but have a tremendous
effect. Any faith that he might have had in politics as worthy of a man's best
efforts, is of course completely shaken. From that time on he philosophises with
thorough conviction of the insubstantiality of "ambitio". Besides he
realises keenly the moral evils that follow the civil ware, and pessimism and
general contempt for nis shameful countrymen. His fresh beginning in kome in a
most humble position, gives him the first taste of the real struggle of the
great mass of men for the mere means of existence. From this position he sees
the weaknesses of the poor, their unrest, and idle craving for the wealth which
they fail to see is not conducive to happiness. It is perhaps from this phase
of his existence that O. gains an appreciation of the simple joys of life wich
are attainable for all -- sunshine, the shade of tree, the river, wine, etc. Lastly
nis friendship with MECENATE (si veda), coming after the bitterness of life,
affords him the leisure to devote himself to philosophy. He learns too well the
instability of position to value it over highly, but from this relationship he
draws the principles which he lays down as guides for patron and client.The
burthen of O.'s PHILOSOPHY OF LIFE – cf. H. P. GRICE, “PHILOSOPHY OF LIFE” -- is
the attainment of HAPPINESS – H. P. GRICE, “HAPPINESS”. Since he tastes of the
sweetness and bitterness of life, and now by virtue of his devotion to philosophy
is somewhat removed from the toil and moil of the world, he thinks that he has
a better perspective, oa. better judge of the eternal values than the great
majority of men, blinded to the larger view by the details, and hence first
undertakes an explanation of the NATURE of happiness. Ultimately happiness is
the product of a definite attitude toward life. It is not a mere matter of
chance. It is within the reach of all who care enough for it to pursue it in
the right way. An idle, aimless, drifting existence will never attain the goal.
the thoughtless, short sighten so man world must be brought to realise this,
must be aroused to a contemplation of the issues of life, for he who neglects
them suffers for his neglect -- et miPosces ante diem librum cum lumine, si non
-- and if you will not call for a book with a light before dawn, if you will
not apply your mind to the pursuit of honorable ends, you will be kept awake
and racked with jealousy and 1ove. Men's bodily well-being, in wich they take
such a keen interest, is not half so important as right living. Si latus aut
renes morbo temptantur acuto Quaere fugen morbi. Vis reate vivere: Quis
non?"l who does not? -- And yet they place every other interest before the
wise regulation of life, either because they are too ignorant to realise its
importance, or because they are too slothful and cowardly to face the issues.
Nam our Bet andaum, ditters Surand tompue inatun -- When you make haste to
remove what hurts the eye, Then let every man take thought of whither his life
1s trending -- Inter cuneta leges et percontabere doctos, Qua ratione queas
traducere leniter sevum -- In the midst of all you must read and question the
what lessens care, what makes you your own friend, we aud walk, and tae pata of
a iise mo 10e4. -- When once men do come to acknowledge that happiness in not
an accident, but the logical outcome of & well considered and consistently
pursued course of life, they should give prompt attention to these matters of
vital moment, and thus H. indicates the first step toward the new life. Multit
e arttase fygere et sapteatia prine And once aroused it will not seem so
difficult, for -- Dope up taot que coopst habit; aapeze aude; If a man really
desires happiness he must have an aggressive attitude toward it, for what is
worth achieving can be won only at the expense of vigorous effort. -- Sedit qui
timuit ne non succederet. -- osame has beer afraid of fallure, has remained And
again -- Ho onus horret,10oodt at persert, ro cospore matus. One shudders at
the load as too great for his fueble spirit and feeble frame; another takes it
on his back and carries it to the end. Lest anyone should think that because
his past life has not been a worthy one it is useles or ridiculous to attempt
any serious reformation. O. invites him to draw inspiration from his own
altered ideals. Quem tenues decuere togae nitidique capilli, quem sois immunem
Cinarse placuisse rapaci,Quem bibulum liquia1 media de luce ralerni,, Cena
brevis luvatet prope rivum sommus in led luglise puaet, sed non incidere ludum.
"Leroa -- I, whom fine togas ana perfumed hair became, I whom you know
witnout a gift pleased grasping leinars,the rill; I am not ashamed to have had
my sport, but would be, not now to out it short. Inconsistency is no disgrace,
if you have veered to a wiser course, jut whatever you do, do not delay, but
act at once! -- Qui recte vivendi prorogat horam("He wao postpones the
season of upright living is like It gidea and will glide, rolling on to all
time.""out down. With this awakened interest, O. thinks it well for
each man to test to the fill each of the things wich men from time immemorial
have deemed the sunmum bonum – OPTIMVM – Grice: OPTIMALITAS -- [Indeed, Piso makes
this assumption, and it leads him erroneously to the conclusion that THE PORTICO
values scientia as its own end, as “QVOD IN EO SIT OPTIMVM”, as that which is
highest in one. Antiochus then attributes to IL PORTICO, whether rightly or
wrongly, the very LIZIO valuation of theoretical over practical life that we,
his readers, know IL PORTICO would refuse. When it comes to accurately
portraying IL PORTICO as philosophical movement, the fact that Antiochus, a
character in Cicero's dialogue, elides the difference between IL PORTICO and
Aristotle serves as no indication of the reliability or unreliability of
Cicero's or his sources. Cicero simply wants to show that, whatever the
original truth of orthodox PORTICO might have been, it lent itself to this
Antiochean interpretation. As he proceeds, the question he asks is whether the
PORTICO can indeed be accused of valuing theoretical over practical life
despite the fact that THE PORTICO would refuse the very distinction.] with a
view to adopting as HIS one, whichever one seems to have the most real VALUE,
to bring the calm and contentment that are significant of a life well lived.
The decision is a momentous one -- Non qui Sidonio contendere callidus ostro
lescit Aquinatem potantia vellera fucumOcrtius accipiet damnum propiusque
medullis, Quan qui non poterit vero distinguere falsun. -- He who has not skiil
to know now to distinguish from the purple of sidon, fleeces steeped in
Aquinun, will not sustain a more certain loss or one nearer his heart than he
who will not be able to discriminate the false from the true. Try virtue first
of all. Si VIRTUVS [andreia] hoc una
potest dare, fortis omissisHoo age delioiis -- If virtue alone can bestow this,
manfully give up pleasures, and make her your aim. Or try the pursuit of
wealth;1 Tme tepates ous, 108 postrene ontts. 2part that squares the
heap." Or try ambition:"Si fortunatum species et gratia praestat,
Meroemur servum qui diotet nomina, laevum Qui fodicet latus et cogat trans
pondera dextram Porrigere. If pomp and popularity secure bliss, let us buy a
slave to tell us the names, to nudge our left side, and force us to stretch our
hand over the counter. And"Caude quod spectant ocull te mille loquentem.
"elonge that a thousand eyes gaze on you as you Or test the pleasures of
food and wine--Ne let fileen Cruad Tumaigue trons, Quad deceat, guid non,
oblitt."b10tus 0 mere apetie eadenith tod unagesteproper, witt not
"gt us takebaths, forgetful what 18 Or the satisfaction of
mirth--jests.")Then, having advised each man to try for hinself, for each
must be the best judge of his own life. Metiri se quemque suo modulo ao pede
verun est. "2 a 100t-leht For caoh one to measure hamsel or hie And he
will never be sure that one of these thinge might not have proved the key to
happiness until he has used it and found its futility, O. sings up the decision
which each is bound to reach. Abstract virtue is a hollow thing,"Virtutem
verba putas etLnoun 11gna, -- You think virtue words, and a holy-grove sticks. As
CICERONE says, 4 suitable for a community of disembodied spirits, but hardly
fitted to men who consist of both body and soul. It is too cold, too remote,
andVre guan satte ca virea, ge petat naen-s Nor will men find wealth any more
satisfactory than virtue as a "summum bonun" (strictly, OPTIMUM, not
‘goodest'), for its weaknesses are all too evident. Even granted that it does
have many undoubted advantages -- Soilicet uxorem cum dote fidenque et amicosL Bone numa doret Suadele eaus due, w2 -- For of
course queen Cash bestows a wife with a dowry,ney tan le acornid mith Sua bon
and Lode .ho man ofhundred; so you will be one of the masses. Yet how fleeting
wealth 1s!"Quiequid sub terra est in apricum proferet aetas; Defodiet
condetque nitentia. And the summum bonum must be a permanent thing.
rurther-more peace of mind and good health are not conferred by it--Non animo
curas."4ind poia gat ar res tover son the asting oods bratheir lord, or
troubles from his soul. Nor is pleasure a necessary accompaniment of riches. Nam
neque divitibus contingunt gaudia 80118. "I'or pleasures do not fall to
the rich alone. And his advice is bad who bide you get money rightly or not, by
hook or crook, just so that you may get a nearer view of the plays of PUPIO,
for after all, they are lachrimose plays, and why see them nearer? Besides, in
the gest for wealth alone, you are prone to lose the sense of all other values
-- "He has lost his armour, has deserted the post ofполог, who is always slaving, entirely absorbed in augmenting his fortune. Ambition
cannot satisfy any more than virtue or wealth, for see the ignominy that it
carries with it. One must seek the favor and the gifts of the fickle Roman mob "Plausus
et antoi dona Quiritis, "and make friends of all sorts of people Ut oulque
est atra, Tia quengue deotus adopta teand although the world applauds a man
today, tomorrow its fickle favore may be given to someone else, leaving 1ts
former favorite stranded, so that only a small taste of the pursuitof ambition
will convince a man that"Nex vixit male, qui natus moriensque fefellit.
" pass de not de bad life whose barta and deata have Furthermore the
unrestrained indulgence of theappetite is sure to result disastrously to both
body and mind,there is no ultimate good to be derived from a life of excess, so
men must rejectit, too, as the "summum bonum.""Sperne
voluptates; nocet empta dolore voluptas, "I•("Scorn delights; delight
bought with pain is hurtful."). None of these external things, then, can
be regardedas the "summum bonum" – OR OPTIMVM – quid in eo sit
optimum --, since not only do they fail to bring the happiness all men are
longing for, but are the osuse of so much of the uncertainty and distress which
plague the world. Qui timet hig adversa fere miratur eodem Quo cupiens pacto;
pavor est utrobique molestus,Improvisa simul species exterret utrumque.Sa guto
ue ast mette poutare sie ofe ad romDeflixis oculis animoque et corpore torpet? He
who fears their opposites excites himself much in the same way as he who covets
them, the flurry in both cases is a torment,whenever the unexpected
appearanceagitates the one or the other. Whether one joys orif at every-It is
not that in themselves these things are wrong--only that they are externals and
one must not attach too much significance to them. It is because men have
overestimated them that the three greatest ourses of the age have come upon the
world--superficiality, restlessness, and greed. Since men are always looking
for something tangible as the secret of happiness they have bedome shallow,
have grown to care far too much for outward appearance, and far too little for
inward appearance, and far too little for inward worth. Si curatus insequali
tonsore capilloslee mediai credis neo curatoria egere -- If I have met you with
my hair dressed by theha hare & hreed fa be ants beeatt a fosey tuno,or if
my toga sits unevenly and awry, you laugh; whole round of life, pulls down,
builds up, exchanges the square for the round?lou think mine an ordinary
madness and do not laugh, nor yet imagine I want a leech, or a trustee
appointed tortune 8, and tume aboutn 12-out na1102 thean ill-out nail of the And
this same belief that happiness lies in externals makes men restless -- a
feverishness that manifests itself in the iorm of travelling, forever pursuing
the happiness which forever escapes them. now foolish it is to try to escape
the things which batfle one by seeking another clime! -- Sed neque qui Capua
romam petit imbre lutoque Aspersus volet in caupona vivere; nee qui Frigus
collegit, furnos et balnea laudat Lt fortunatam plene praestantia vitam. leo si
te validus lactaverit Auster in alto, Idcirco naven trans Aegaeum mare vendas. Incolumi
Rhodos et mytilene pulohra facit quodr ben 11078, Sextl nonae oantnusrs. Dum
licet et volutem servat fortuna benignum, Romae laudetur, samos et Chios et
Fhodos absene. "2 AAQpraise bake-houses and baths as fully making up thebe
praised, and uhois, and far-off Rhodes. The peace for which men are searching
may be attained anywhere if they only know the secret. Nam si ratio et
prudentia curas, Non locus effusi late maris arbiter aufert.Caelum non animum
mutant qui trans mare currunt.Strenua nos exercet inertia: navibus
atque("So that in whatmay Bay You have lared a pleasent Lite, tor seineit
is common sense and wisdom that remove cares, and not a spot which commands a
wide sweep of sea, their climate, not their mind,they change whorun across the
sea.An active idleness busies us,in ships and carswe seek to live aright.Te Por
totH at u20ra0, 1 a contented sptrit The people are merely consuming time, not
living, who are forever on the march. They exhaust their energies and gain
nothing but discontent. And of these curses of looking to externals for happiness
perhaps the worst is the curse of avarice. Why seek for much in the world when
one can use so little and more cannot delight? Quod satis est ous contingit
ninil amplius optet. "2' dia to whose lot 1a118 a competency, desire
nothingThe grasping continually after more only breeds dissatisfao-tion. There
can be no tranquillity so long as one is subject to an ever-increasing desire. Semper
avarus eget; certun voto pete finem. 3 praye iser 18 ever in want; aot a fixed
80a1 to your What a misshapen monster avarice is anyway -- Belua multorum es
capitum. Nam quid sequar aut quem? A many-headed monster you are; for wnat or
whom shall I follow: As soon as one head is cut off new heads appear, so that
it seems inconquerable."Verum Ta de po sun horan turare preantes, How
helpless men are in the olutch of such a power as this, which never gives them
a moment's real rest and peace of mind!How wretched the heat of their desires
has always made mankind, and how heroie 1g the figure of the man who has risen
above them, is well illustrated by Homer's tale of the Trojan war, wherein the
struggling, feverish, dissatisfied Agamemnon and Achilles and Paris
arecontrasted with sane, calm, and prudent men like Ulysses and Nestor. Nestor
componere litesInter Peliden festinat et inter Atriden; Huno amor, ira quidem
communiter urit utrunque Seditione, dolis, scelere atque libidine et ira
Iliacos intra muros peccatur et extra.Rursus quid virtus et quid sapientia
possetUtile proposuit nobis exemplar ulixen,aspera multa Pertulit, adversis
rerum immersabilis undis. "I ("Nestor makes haste to settle the
strife between the son of Peleus and the son of Atreus; the one is fired by
love and both in common by wrath.and anger There as Bannin nithin the valls o
ofun and with-Again as to what efficacy there is in virtue in Ulixes.many a
hardship over thewide ocean, a man not to be sunk in the adverse wave of
things.") If the seoret of happiness lies not in wealth, ambition, mirth,
or any of these external things, which in a limited measure may contribute to
the richness of life, but beyond the golden mean – AVREAS MEDIOCRITAS -- ,
pursued as an end in themselves, are the cause of so much misery, discarding
all such inoidentals men must look for the real source of happiness within
themselves. When men are dissatisfied, it is not the world which is wrong, but
their own attitude toward the world. In culpa est animus, qui se non eifugit
unquam. "Ihates his own. with the harmless place; it is the mind that is
at fault which never escapes itself.") Two great doctrines O. presones -- the
wise control of life and the wise
enjoyment of life. the first thing men must learn is to adapt themselves to
circumstances, to frankly face the fact of the evil and injustice in the world,
to realise that such a thing as periect happiness is nowhere existent and that
all life 18 an adjustment. -- solue puae posot eret estare beatum, Saost the
one ate ony thng Lhat on rate and keep a man happy. Chafing and fretting
against the established order of the universe, against life's seening
inequalities, only serve to augment their hardships. When once men do face the
facts of life and bring themselves Into
accord with them, things wich fornerly seemed of greatest moment will be looked
upon with indifference. Yon sun and stars and the seasons departing infixed
courses there are who view with no tinge of dread.") And it 18 not only
for his individual well-being, but for the benefit of the state as well, that
he have this philosophical outlook upon life. and Bet, to take up beae, Ios nen
to are deer toour country, dear to ourselves.")for ii we are dissatisfied
with our fortunes, our bitterness will taint every relationship in life, but if
we are sane, life will look back at us with the same calm expression. Sincerum
est nisi vas, quodoumque infundis acescit."?Brow Sout,, ressel 18 olean,
Whaterer jou pour 1aOf prime importance i8 integrity of life. It is not enough
that a man assume all the outward appearance of goodness and make a great
parade of virtue. Qui consulta patrum, qui leges iuraque servat;Quo multae
magnae que secantur iudice lites; Quo res sponsore et quo causae teste
tenentur. sed videt huno omnis domus et vicinia tota introrsum turpem,
speciosum pelle decora. "3evidence cases are gained.but all his household
and theNo Bod thout he 18, Wit beautoous brtn) taz Unless the people no know
him best find him honourable and sincere, he need lay no olaim to worth. Low
senseless 1t 18 to delight in being called good by the world in general,
forthat very world will perhaps tomorrow call him a thief, or unchaste, or say
that he strangled his father. de deserved the commendation they gave him
yesterday no more than the slander they heap upon him today.caliny terig put
ede manwao te Fosous and Leedeto be reformed? It is perfectly clear how
pernicious this false praise is and to what lengths it leads men."Leu, si
te populus sanum recteque valentem Dictitet, occultam febrem sub tempus edendi
Dissimules, donec manibus tremor incidat unctis. If the people keep saying you
are in sound and perfect health, you conceal a hidden fever up to the hour
ofR2E2™E60a:till paralysis seize your hands wile filledIn order to deceive the world
they offer sacrifices publioly to the gods, while secretly they are praying to
the gods of trickery to shield their crimes from detection. 3ecause one is not
a thief or a murderer he has no right to demand praise, for he has his reward
already in freedom from pun-ishment. or is it virtue to avoid evil merely for
fear of the consequences--"Iu nihil admittes in te formidine poenae.
"*("You will commit no crime through fear of punishment.")Good
men desire virtue for calm and peace that it brings them--"Oderunt peccare
boni virtutis amore."("Good men hate sinning through love of
virtue.")For it is what you are that really counts, not what the world
thinks. Even the school boy realizes this.("Yet the boys at their games
say: 'You will be king if you act rightly. However many of the externals of
life fortune man have given a man, if he is weighed down by the sense of his
own guilt or unworthines, he cannot enjoy them. But the man conscious of his
own rectitude fears neither loss of property or of life. Si forte in medio
positorum abstemius herbiscontestin 1lquidus sortunae ctrus inauret;vel quia
naturam mutare pecunia nescit, Val quia cunota putas una virtute minora. "2forward, even though Fortune's clear stream wereFreedom is
another element in this wise regulationof life--freedom from all these
externals which so often bring disaster."Ne cOtia divitiis Arabun
liberrima muto. Lor the riones or the drabs,"t freedon of my ledsuz1oon
oiet etterr sede fehe tbao edntere: when hestoops down for a copper fixed in
the orossings, not see; for he who shall desire shall also fear: further, the
man who shall live in fear, I will never regard as free. Once the love of
riches has fastened itself upon a man he cannot escape it. If he only realized
what a hard master it was he would flee from it as the fox did from the lion in
the old fable.Omnia te angersue pattent a renta retroraum."tad, an oe be
aai0, a2 polateIf then, he have wealth, he must place it in its proper
position, else it may take out of his hands the direction of his life--it will
either be his master, or his slave."Imperat aut servit collecta pecunia
culgue, "3("Each man's hoard of money is his master or his slave. O. boasts of his own freedom from the opinionof
the masseg-- Noamai ons anotre trote ot putpite afeo, I do not hunt for the
suffrages of the fickle crowd by expensive banquets, and a gift of threadbard
olothes.Not only must a wise man control externals toattain perfect freedom,
but he must practise self-control.He must restrain his anger lest it be a source
of shame and humiliation to him."Qui non moderabitur iraeinfectum
voletesse dolor quod suaserit et mens, dum poenas odio per vim festinat
inulto.Tiperat, hune ente, hune Tu oupese oatera, 2t.that whion vexation and
passion nace prompted, waitoehurrying on with violence the punishment for his
unavenged hate.Ilese 1t 1f the elave, It' 18 theo1ourb it with the bit, yea,
curbAnd his envy, too, must be mastered, or it willmake him utterly miseraole. Invidus
alterius macrescit rebus opimis, invidia Siouli non invenere tyranni maius
tormentum."2("The envious man repines at his neignbour's goodly•
treater foreat than atos t hare not dtscoveredFor while he is covetous of
others' material blessings, he poisons his enjoyments of what is his
own.auriculas citharae collecta sorde dolentes. "3Bre he sane peaure ta
pantie faro to theateof filth.")Let no man surrender to envy of his
neighbor's lot, as did the ox and the nag in the fable."Optata ephippia
bos, pigre optat arare caballugQuan soit uterque libens densebo exerceat artem.
"IWhen men do yield once to the domination of avarice, envy, anger, public
opinion, they have lost their freecom just as did the horse which summoned man
to help him drive out the stag, and then could not shake the rider from his
baok.?And of no less importance is self confidence.A man will accomplish only
so much as he feels himself oapable of. Let hin therefore trust in his own
ability and others will have faith in him.Dux reset examen,n3"Qus elb1
fldot,("Whoso has self-confidence, will be king and head the
swarm.")The second doctrine is the wise enjoyment oflife. Happy indeed
whould you be 11--"Di tib1----dederunt artemque fruend1. The gods have given
you the art of enjoyment.")But at any rate men may develop their powers of
enjoyment. Life 13 so uncertain and so brief, death so final and always
imminent --"Ire tamen restat Numa quo devenit et Anous. "5("It
remains for you to go where iuma and Anous have descended. There is no hope of
a life after death in norade--it ig an eternal exile. Yet he is not pessimistic
about 1t. Death18 Inevitable; accept 1t as such, and since there is only this
brief span of years for every man, ending all too soon in oblivion, let him on
that account make the best possible use of each day -- Carpe Diem -- so that
the doom of death will appear only as a dark background enhancing the bright foreground
of life. Looking foward, looking backward breed discontent. Think only of the
present. The surest way to get all the possible joy out of life is to live
every day as though it were the last. Grata superveniet quae non sperabitur
hora. Amid hope and care, amid fears and passions, believe every day has dawned
for you the last; so, welcome shall arrive the hour your will not hope
for.")If men keep this thought ever in mind they will f1ll each moment so
full of the richness of living that there will beno regrets, no joys postponed
to a future day which will never be theirs, when the summons of death does
come.This means that to avoid disappointment men mustenjoy right now whatever
the gods may have given them--"Tu quamcumque deus tibi fortunaverit horam
grata sum manu, neu dulcia differ in annum;HE 200619e 2000 Ter18 133e 21beater.
Whatever hour the deity has blessed you with, dosoever you have been, you may
say you have lived apleasant life.If among these blessings wealth is numbered,
let men not hoard it, but enjoy its benefits--("Po what end have I a
fortune if I am not permitted The man who spares in anxiety for hisneima., no
18 all too severe 18 next door to a For there is much to enjoy in ine
world--andmost of the really worth while sources of pleasure are within the
reach of all. shere 18 health. There are all the delights of the country and
out-of-door life. Ego laudo ruris amoenirivos et musco circumlita saxa
nemusque.brown rocks and wood.king, as soon as I have lorsaken tnose soenes you
extol to the skies with loud acclaim. And--"Novistine locum potiorem rure
beato? Tenat ef Taoe conle er onete ont ura Cumsemel accepit Solem furibundus
acutum? Est ubi divellat somnos minus invida cura?Deterius Mbyois olet aut
nitet herba lapillis?"4("Know you a place preferable to the blessed
country?I nore Leasant bree2e allays ailke te tury of treDogstar and the
commotions of the Lion, when once he has gone mad by receiving the stings of
the Sun?Is there a spot where envious care less distraots our slumbers? Is the
scentThere is simple food which nourishes without distressing--"Pane egeo
iam mellitis potiore placentis. "I"Besad, is what I want now more
pleasant than honded There is sunshine, free to all, of which norace is 8o
fond--"golibus aptum. How foolish it is to want more when these things, if
properly regarded, will make one's life rich and blessed--The wise nan will
learn to value and employ what is within his reach.Not the least of the joys of
life is friendship.There is a deal of the utilitarian point of view in orace's
advice about sooial interoourse. The life of a reculse cannot be the richest
one, contact with other people is both necessary and valuable. Ae Epicurius
said, "Friendship enhances the charm of life; it nelps to lighten sorrowe
and heighten ine joys of fellowship." Hence it is to a man's advantage to
make himself as agreeable as possible. temust not pry into people's
secrets--"Arcanum neque tu sorutaberis illius unquam. "1nYou must
never po dato secret on the meetbut when they have been confided to him, he
must keep them--"Commissumque teges et vino tortus et ira. "2"a
teraladon a trust, thouga plied alike mita vineFor"Et senel emissum volat
irrevocabile verbum. A word once let slip, flies beyond recall.")He must
not be boorish, merely to prove that he 18 a man of Independence and stannia,
for thereby he simply makes himself Obnoxioug~~"Asperitas agrestie et
inconcinna gravisque. A boorish rudeness, at once unlovely and
offensive.") When he takes up the oudgels in defence of some
trifle--"Alter rixatur de lana saepe caprina, Propugnat nugis armatus. Equally
disgusting is the fellow who slavishly bows to every opinion of his host merely
to keep his favour--"Sic iterat noces et verba cadentia tollit, Ut puerum
saevo credas dictata magistro Reddere vel partes mimum tractare secundas.
"6actor in a farce handling the seoond part.")Horace gives a deal of
sound advice about the relationship of client and patron. There are numerous
duties whioh a client owes to his patron in return for his favor.First, he
should be grateful for the gifts he receives:-An rapias. "Pistat, sunasne pudenteror
tense a tans erence waether you take with modestySeoond, he should be willing
to share cheerfully in his patron's chosen pastimes.or blamebe you for
composing poetry.")"¿u cede potentia amici"So do you give way to
the mild requests of your power-Because even the closest bonds of friendghip
have been broken because of dissimilarity of tastes and unwillingness to
compromise. It is foolish to try to dress and live in anextravagant way as
one's patron does. The patron knows only too well his client's ciroumstances
and will despise him for trying to imitate him when he cannot afford it. By all
means let him not complain of trifles, but bear hardships without
grumbling."Brundisium comes aut Surrentum ductus amoenumQui queritur
salebras et acerbum frigus et imbres, Aut cistam effractam et subducta viatica
plorat, ("He who has been taken as a companion to Brundisium, or lovely
Surrectum, and complains of the jolting roadsSion one ote 1059 014 Ba11 ao an
ance,Beatet.-poon erer her real 10sse8 and sortowe get noAnd further he should
try to appear cheerful for the benefit of those around,
for--"Demesupercilio nubem; pleurumque modestus Occupat obscuri speciem,
taciturnus acerbi."3If the client finds that he is humiliated by
patronage, loses his independence and his self respect, if his patron i8 the
sort of man no makes presents only of what he cares nothing ior and dislikes,
as the host woo pressed upon his guest pears that were so plentiful that wat he
refused, went to the pigs, then he had much better break off therelationship,
for it is degradation.Wen should be most careful of their choice offriends, so
that when accusations assail one who is well known, they may protect him and
back him up. I and it pays to have a rezard for the wishes of others, even if
it costs a little effort, for--"Vilis ancorun est annona, bonis ubi quid
desset."? went are & of arlends
Low, when those who wantAnd it is a source of shame to a man to be
mock-modest and refuse to help another when it is in his power to do
so--("But I was afraid I might be thought to have undervalued my
influence, a dissembler of my true power, profitable to mygelf alone.") Tact
is absolutely necessary to success in a social way. There is a proper time for
everything, as Horace warns Vinius Asina when he commissions him to present
books to Caesar. One must be careful not to intrude upon the great, but must
await a suitable opportunity, lest by his excessive zeal he offends the one he
would please. Conceit is unbearable and will destroy friendship. Ut tu
fortunam, sio nos te, Celse, feremus. "5("As you bear your fortune,
so shall we yourself, Celsus.") Just how highly dorace valued social
interoourse isshown by his careful instruotions to orquatus on the duties of
host and guests. The host should be most discriminating in his choice of guests
so that all may be congenial--Jungatur que part, "loeat par("That like
meet and be associated with like.") and that all be the kind which will
not make friendly table conversation a matter of gossip outside--sit qus atota
forae edemthet. andoos("That amidst our faithful friends there be none to
carry our talk abroad.") A friendship of long standing is an invaluable
thing and not lightly to be broken, as he warns Florus, who has become
estranged from lunatius. The best possible summary of O.'s philosophy of life
is his own prayer. Sit mihi quod nuno est, etiam minus, et mihi vivamQuod
superest aevi,si quid superessevolunt diSit bona librorum et provisae frugis in
annumneu fluitem dubise spe pendulus horae.Sed satis est orare Iovem quae donat
et aufert;Det vitam, det opes, aequum mi animum ipse parabo. "4Inay ire
2or aselt the renaindes ofidarg, 1onsI may live for myself the remainder of my
gods will any to remain for me.May I havegood stock of books and of provisions
for each year, trembling on the hopes of the man. RAPOLLA, VITA DI O.
CON RAGGUAGLI NOVISSIMI E CON NOTE DIFFUSE SULLA STORIA DELLA
CITTÀ DI VENOSA POR TIOI Premiato Stabilimento Tlpografloo
Vesuviano V *L '*S^è» «&• •&• «è» «A* «A* «A» •'1^ •e*
*-.'» SU'' X» i I I i sJ-Sì- I^* VITA DI
QVINTO O. FLACCO DI
RAPOLLA o VITA DI O. CON RAGGUAGLI NGVISSIBO E CON
NOTB DIFFUSE SULXiA 8TOBIA DBLLA OITTÀ DI VENOSA. RAPOLLA MOBILB VKN08IMO CAVALIKSB
DELL’ORDI1CK DELLA CORONA D'ITALIA CITTADINO ONOKARIO DI
POSTICI PXOrSSSOKB OMORARIO B SOaO DI VARIB
ACCADBMIB PORTICI pTABILIMENTO JlPOQRAFICO yESUVIANO Corso Garibaldi,
L'ijf.S'^ Dtnique quid psalterio canorius ? Quod in
morem nostri Flacci et Gratci Pindari, nunc Jamòo CHrrit, nuHC
Alcaico personal^ nunc Sapphico tumet, nunc semipede ingreditìtr.
8. SlroUmo, pref. Cronaca ad Eusebio Sommo di poesìa mastro e
di vita. Pisdnnont*, ad O. Venosino cantor, sci tu ì t'ascolto
! D'un si vivace Splendido colorir, d'un si
fecondo Sublime imagjnar, d'una si ardita Felicità secura,
Altro mortai non arricchì natura Xetattailo, Canto ad Orazio.
Et tenuit mastras Humerosus Horatius
aures, DutH ferii Ansonia carmina eulta lyra. Ovidio,
Trist. 4. Elegia to. il mastro dei poeti, O. La cui lira
per tutto manda il suono, E qual Pindaro Grecia, egli ornò Lazio.
Tansillo, Canto al viceré di Napoli.
Mais fapprend qu*aujourdhui Melpomene propose D'abaisser son
cotAurne, et de parler en prose, Voltaire, EpItre à Horace. Sume
superbiam Quaesitam meritis Venosino. Dauti - //. Cult.
XIV. // cittadino di Venosa sentir devesi som- mamente
orgoglioso per esser nato in così celebre terra, pili antica di Roma:
splendida civitas, anche nel tempo dei Romani, splendi- dissima nei
medio-evo, e patria, il che più monta, di Quinto O. Fiacco. Del
grande Venosino smisurate innumerevoli sono state le produzioni letterarie
che ne hanno decantato il nome, criticata F opera
eterna, postillato e glossato ciascun verso o parola
Non havvi paese al mondo che non abbia offerto suir altare del
culto della poesia per- fetta di Orazio il suo attestato di
reverente omaggio: Sopratutto in Germania, hi Fran- eia, in
Inghilterra si son fatti studi prò fondi sulle opere del gran poeta
italiano, e bio- grafie e ricerche storiche pregevolissime su tutto
quello che riguarda la sua vita, ed i luoghi ove vissse. In Italia, ed in
Roma particolarmente, si cmiservano reliquie preziose di severe e dotte
lucubrazioni su tal subietto. Duole non poco però che in Venosa,
fra tanto lume d ingegni preclari che ha dato quel paese, non vi
sia stato scrittore che ab- bia inneggiato ad O. con serietà e pro^
fondita, e con opera particolarmente a lui dedicata; ed era un dovere
attraverso i secoli venir lodato Orazio da gente venosina. Neppure un
bronzo od una lapide parlava di lui sin oggi. Ed invero il dottissimo
cardinale Giovan Battista De Luca venosino perchè nei suoi quaranta
volumi in folio non trovò il posto per seguire quello che un S. Girolamo
iniziò? Luigi Tansillo, O. de Gervasiis, Donato de Brunis, sommi
poeti venosini, Giovanni Dardo, anch' egli da Venosa, scrittore di
bel- lissimi e maestrevoli carmi (ingeniosa et venustissima carmina
scripsit, disse M. Arcan- gelo Lupoli), perchè non composero poema
sult immortale loro concittadino? Che anzi giustamente Francesco
Fioren- tino j nelle sue note ai sonetti del Tansillo, redarguisce costui,
perchè « discorre di quello ix^che chiamava suo concittadino con un
certo « risentimento che non è giusto, perché O. non sdegnò altiero il
soggiorno di Ve- « nosa: nei carmi del poeta latino ci è anzi (( un
certo compiacimento nel ricordare la sua a patria ». O.fuggì da Venosa,
sia per fini politici^ sia perchè stretto dalla necessità, sia
perchè ogni genio sublitne sorvolando per forza arcana,
trova pure in tutto il ter- restre spazio angusto confine! In luogo
di e alitare tante vuote lodi ad una componente r aristocrazia di quei
tristi tempi di feudalismo, che anzi lo sprezzava, non poteva il
Tansillo toccare la sua lira can- tando di Orazio, stella che illumina il
mondo e che egli stesso chiama ^maestro deipoetiy? Hanno voi/
do forse rispettare il suo testamento: (( Mitte supervacuos honores ». Ma
non è lecito negligere i sommi. Io, benché non degno di venir
noverato fra cotanto senno, ho composto questo lavoro con gran
fatica, con gran sudore, con gran reli- gione, essendomi prefisso con
esso diradare molte idee oscure circa la vita e le opere di O.,
riferire coti la maggiore esattezza quanto ad esse si associa, mettere in
luce tutto quello che sin oggi si è scoperto, e che formava pel
passato delle lacune negli scritti dei biografi anche più esatti italiani
e stra- nieri. Ho pure aggiunto dei cenni storici
sulla celebre Venosa, che si commettono con la vita del suo
immortale concittadino. Tutto ciò mi è riuscito lieve, e mi è
venuto » strenuamente compensato col fatto, che
ho aggiunto, io venosino, un fiore al serto, che immarcescibile
cinge la fronte sublime del grande italiano. Oggi fra tanto
tramestio di sentimenti di- sparati, atti a spegnere ogni entusiasmo,
ri- temprare gli animi alla fonte delle opere lei* terarie immortali
come quelle di Orazio, ed il seguirne le norme che da esse emanano,
o cittadini^ è quanto di meglio si può fare. Si respira così aura piti
pura ; si resta an- negato in un Lete morale dolcissimo: si guar- da
con occhio impassibile la vertiginosa corsa del torbido torrente della
vita umana, da una sponda secura e tranquilla. Valete.
Portici— Granatello. DZE&O BAPOLLA L mondo, questo
pianeta, che pare sin oggi abbia il primato sul si- stema
universale dei pianeti, perchè in esso vive l'uomo, il re della
creazione, avverti , circa duemila anni or sono, una di quelle
trasformazioni , uno di quegli avvenimenti, che segnano date incan-
'cellabili, e che forse non più si verificheranno nei secoli futuri,
tranne quando avverrà la fine -dell' età. Neil' aria pregna dì
densissimi vapori guizzavano folgori rossicce ; reboava il tuono ;
poi appariva luce sfolgorante, bian- chissima, divina. Le nefandezze, le
turpitudini, la mollezza, la superbia, la degenerazione del genio
del bene in quello del male erano giunte all'estremo limite del
possibile. Era prossima l'ora delle rivendicazioni, della redenzione,
della riscossa voluta dalla ragione. Era vicina la nascita dell' Uomo-dio
, an- nunziato, già da secoli, come apportatore di pace ed amore.
Roma, caput mundi, impe- rava. Le aquile svolazzavano in liberi
campi, ghermendo prede facili in difficili e remoti paesi. La
potenza e la protervia dell'uomo si disegnavano al massimo grado. I
grandi ed i piccoli, i padroni e gli schiavi, i senatori al-
bagiosi , i cresi onnipotenti ed i gladiatori morituri. Roma
già da sette secoli esisteva, quando l'umanità parve potersi paragonare
al vapore chiuso in forte e potente recipiente che sem- bra
prossimo a scoppiare. La civiltà dei Greci, le gesta ed il ricordo degli
altri popoli, come i Cinesi, i Babilonesi ed i Persi , che vanta-
vano maggiore e più antica coltura, eran pres- sochè
cancellati da questi violenti conati di gente che era barbara e volea
divenire inci- vilita. Neir immensa Roma, per la quale po- poli al
sommo grado belligeri pugnavano sanguinosamente per potersi dire
cittadini romani^ vagavano uomini quasi nudi, ed appena ornati da
toghe e preziose porpore, che ne lasciavano scovrire i poderosi
garetti e le erculee braccia ; e le altiere fronti pare- vano non
use a piegarsi alle volubili e spesso avverse disposizioni del destino.
Da Roma partiva quella voce imperiosa che comandava alle schiere
invitte la conquista del mondo intero. Tutto pareva nascer
gigante in quel tempo, e con l'impronta del misterioso e del
sublime. Mario, Siila, Mitridate, Ottavio, Cinna, Giugurta, Pompeo,
Cesare, Bruto, Antonio, Cleo- patra; Roma, Atene, Cartagine; Virgilio,
Ti- bullo, Properzio, Ovidio, Sallustio, Cicerone, Giovenale , Tito
Livio , O., Mecenate , Augusto I Gli uomini, dalla civiltà,
che lentamente in- vadeva, resi più chiaroveggenti, mal soffriva-
no la schiavitù più abbietta. Fremevano e le- vavano ruggiti
di leoni. E Mario era un leone della foresta : nato da vilissima gente, sorbì
sin dall'infanzia il veleno dell' odio contro i potenti ed i gaudenti.
Era smilzo, altissimo, nervoso, brutto, di volto terreo, come se
quel colore della pelle dovesse indicarne la mal- vagità
dell'animo, come dopo molti secoli in Marat. Di quei che vantavansi di
nobile stirpe solea far aspro maneggio. Gridava fremente alle
turbe spensierate e lussuriose : O voi altri, che vantate imagini
lettighe e porpore, ne avrete di giorni tristi; verrà Y ora della
rivendicazione sociale. II vostro cammino trionfale sarà arrestato
da un fiume di sangue. Le vostre pompe su- perbe saranno oscurate
da montagne di ca- daveri deformi 1 Eppure Mario avea sortito
dalla natura il genio uguale a quello di Cesare, suo grande nepote.
Era guerriero nato. Vinse i Cimbri, aggiogò Giugurta, si unì con Siila.
Con Siila stesso si misurò a suo forte discapito. Corse vagolante
sulle rovine di Cartagine. Dipoi iniziò la fatale guerra sociale. Morì
atterrito da visioni tremende 1 A Siila scorrea nelle vene
sangue gentile di patrizio. Avea fierissimo e troculento aspetto;
era vendicativo oltre ogni credere, ma celava in petto cuor generoso e
forte. Non poche migliaia di Sanniti restarono sgozzati al
semplice muovere del suo soprac- ciglio, e nel sangue restò affogato
anche lui, che invano entrava nel cotidiano bagno di es- senze per
torsi di dosso la miriade di paras- siti e microbi che lo dilaceravano e
lo spen- sero. E la lotta ferveva sorda, quasi ne fosse infetto il
sangue degli umani, tra i servi e gli strapotenti. I mirmilloni ed i
reziarii, nelle barbare e sanguinose lotte, formicola- vano, per
appagare la sozza cupidigia di vec- chi lussuriosi e donne ben pasciute e
coronate di rose, e briache e spossate dalla crapula e dal piacere.
Era il preludio delle guerre servili. Dugentoventimila servi e
Spartaco con centoventimila gladiatori produssero uno scoppio ed
uno schianto formidabile, come potentissimo vulcano che erutti lapidi e
lave. Licinio Crasso, quegli che rappresentava l'or- pellata
repubblica, ne fece crocifiggere sei- mila. A spaventoso movimento,
repressioni più spaventose. Licinio Crasso fu favolosamente ricco
per le opime spoglie e per V oro rag- granellato con la confisca dei beni
delle sue vittime e dei milioni di proscritti. Ma quell'oro
di nefando acquisto vennegli fatto ingoiare fuso e bollente dinanzi
agli stessi suoi figli. E trentamila Romani sgozzati dai Parti, ad Harron
nella Mesopotamia, furono quelli che espiarono con lui V inau- dita
ferocia. Spartaco gladiatore, di razza nu- mida e di regio sangue , morì
da eroe nella fiera mischia sulla riva del Sele in Lucania,
condottiero di stanche e poche agguerrite schiere di uomini oppressi. Fra
Spartaco e Crasso, tra il gladiatore ed il potente, tra quel povero
oppresso e quel ricco oppressore, es- servi dovea odio mortale. Perversi
però e scelesti ambidue ! Cicerone e Catilina, sommo oratore
ma ambiziosissimo l'uno, patrizio romano disso- luto l'altro. Dalla
congiura del secondo, che mirava in realtà al nichilismo dei nostri
giorni, e dalla fine del primo si videro strani risul- tati.
Catilina cadde trafitto nel campo tra le sue schiere pugnaci
per un ideale. CICERONE (si veda) ha il capo e le mani mozzi e confitti ai
rostri del foro romano, e la lingua foracchiata dall' aureo spillone
della proterva Fulvia. Splendidi esempii agli ambiziosi I
Mentre che alla magnifica Atene non re- stava che il primato nel
mondo per le let- tere e per le scienze, e mentre V immensa Roma
repubblicana si affraliva e s* incrude- liva tra la mollezza, i vizii, le
congiure, i mas- sacri e le guerre , nasceva Cesare. Cesare lo si
disse dapprima congiuratore con Catilina. Gli scorreva però nelle vene
il sangue vile di Mario. Era rinfocolato da am- bizione smodata e
livore. Fu uno dei più grandi uomini che nacquero nel mondo. Lottò
da atleta gigante con Pompeo, nato da eque- stre famiglia e partigiano
del nobile Siila, e Io vinse. Ma pianse quando i vili cortigiani
gliene recarono la testa mozza, e volle punita la barbara adulazione. Era
letterato di gran talento. Era generoso, ma sotto il mantello di
leone ascondeva animo felino , vendicativo, dissimulatore. Catone preferì
trapassarsi di propria mano il corpo con la spada, piuttosto che rendersi
servo di Cesare. Cesare am- biva air imperio, alla tirannia. Vinse i
Germani, i Galli e Scipione, ma venne pugnalato. Bruto, il fiero
repubblicano, il prediletto di Cesare, s' intinse pure del sangue di lui;
si macchiò di parricidio, perchè la dittatura lo premeva come
incubo, anelava alla libertà, E tale fu la progenie umana sin da
che vide la luce. Cristo, r Uomo-dio, venne al mondo colla
missione di pace tra gli uomini. Fatalmente però gli uomini si mantennero
sempre gli ' stessi. Adamo ribelle al Dio creatore; Caino
fra- tricida per invidia e per sete di dominio. E da questi a
Cesare, a Crasso, a Spartaco, a Bruto, tutti ambiziosi e ribelli; e da
questi a Tiberio ed a Nerone, che ricreavansi degli spaventosi
dirupi di Capri e delle fiaccole umane. *) E da questi ai Torquemada,
agli autori degli auto-da-fè, dei roghi ove bruciarono Bruno,
Savonarola, Arnaldo, Vanini. E da questi a Luigi XI, il compare di
Tristano, ed a Carlo IX che dalle finestre del Louvre aizzava le
orde a fare strage, e permise la tre- menda notte di S. Bartolomeo , a
Robespierre che allagò il bel suolo di Francia col sangue delle
vittime del Terrore ; al prigioniero di S. Elena, che seminò di stragi,
rovine e morti buona parte del mondo ; sino a quelli, innu-
merevoli, che in questo nostro secolo avven- turoso han messo a soqquadro
l'universo con lotte ferocissime. Una è perciò la linea che appare
precisa: l'odio dell'uomo contro il suo simile, contro qualsivoglia
supremazia, servaggio od oppres- sione; mista a malvagità ammantata, sia
dalla porpora, sia dai cenci; in diverse guise, nel- l'alto e nel
basso, tra plebei e nobili, tra so- vrani e sudditi, tra volgo profano e
menti elette, e persino tra letterati e tra i sacri mi- nistri
delle diverse religioni; il quale odio malvagio personificato potrebbe
raffigurarsi quale Encelado premuto dall' Etna. La scala
della nequizia in tutti i tempi ha toccato i cieli, come quella biblica. Tale
era lo stato del mondo allorché nac- que Quinto Orazio Fiacco; e nelle
sue vene scorreva sangue di schiavo. I ELLA vetustissima Venosa [Venu- sid),
città situata tra la Puglia e la Lucania) , nel dì 8 dicembre
dell'anno 689 dalla fondazione di Roma, sessan- tacinque anni prima
dell' era cristiana, essendo consoli Cotta e Torquato , essendo Cesare
compromesso con la prima congiura di Catilina, perchè sognava la caduta della
repubblica e la dittatura, nacque Quinto O. Fiacco. Il nome di “Quinto”
se lo appropria lui stesso nel libro delle satire. O. ognuno lo
chiama, ed egli stesso così sempre si noma nei suoi scritti. Plutarco lo
dice “Fiacco” nella vita di Lucullo – cioè: “orecchiuto”, ed egli
stesso, nell'Epodo e nella satira, così si cognomina. Ma tale soprannome
non indica che ha orecchie deformi, bensì può riferirsi a lui,
quello che egli stesso dice di essere di facilissima audizione, oppure che
quelli di sua famiglia fossero distinti con tal nomignolo, tra le non
poche famiglie della tribù oraziana, della quale si discorrerà in
appresso. In un antico manoscritto che si conserva nella Biblioteca
Nazionale di Napoli, che vuoisi opera del dottissimo Cenna,
venosino, si asserisce che O. nacque nelle case dette, al tempo nel quale
il Cenna scriveva, dei Plumbaroli, presso le mura della città, e
presso certi molini, che in appresso (come rilevasi . nelle note del
Cimaglia) ap- partennero ai Pironti venosini, e che oggi son quasi
di fronte alla cattedrale, venendo dalla via di^S. Rocco, presso al luogo
detto /e Sa/me. Suo padre era uno schiavo fatto libero.
La quale condizione se non era tanto miserevole quanto quella dello
schiavo, poteva dirsi av- vilitiva oltre, ogni credere; imperocché il liberto
ripeter doveva quella larva di libertà dal suo antico padrone; come
cittadino ve- deasi privato del diritto al suffragio; aspirar non
potea agli alti uffizii civili, e neppure a coprirsi le braccia e le dita
di anella d' oro perchè venivagli rigorosamente proibito. Lo stesso
matrimonio era per lui limitato nella cerchia dei suoi pari, perchè un
liberto spo- sar non poteva sia la figliuola d' un senatore o d* un
patrizio, sia altro essere nato libero od ingenuo, come diceasi allora.
Viveva il liberto sotto la tutela del passato padrone, e lui
malaugurato se a questo si fosse ribel- lato: ridiveniva schiavo. Spesso
il suo pas- sato padrone se ne avvaleva per servizii ono- rifici,
mediante lieve mercede. Malamente taluni vollero sostenere che il padre
d'Orazio fosse libertino nel senso voluto da Svetonio in altri suoi
scrìtti, e non nella biografia d’O., cioè figliuolo di liberto o figlio
di schiavo fatto libero. Orazio, alludeìtttea suo padre, usa sempre
la parola libertinus^ ma nel senso detto dapprima, volendo intendere
che suo padre era stato schiavo, ed aveva avuto poi la libertà. Non
vi pjiò cader dubbio alcuno. Il padre di O. presta il servizio di
riscotitore di tasse del comune di Venosa e di banditore, era un servus
pubKcus; il Che dimostra che il suo passato padrone essere dovea di
alto grado sociale, assegnandogli tali uffizii rimunerativi e non bassi,
ed a ser- vizio della città. Nel suo stato perciò dirsi potea
felice ed agiato, stantechè possedeva presso la Rendina, luogo neir agro
di Ve- nosa, un fondicello che gli dava ( sebbene O. dicesse esser
suo padre macro pan- per ugello) un conveniente provento, e quindi
potette unire al suo impiego anche un negozio di salsamentario, o
salumiere; e come vuoisi da Svetonio, Tunico biografo, così la-
conico, ma purtroppo veritiero, veniva scher- nito il giovanetto O. dai
suoi compagni di scuola così: Quottes ego, vidipatrem tuum brachio
se emungentem ? ^) Ingiuria solita in quei tempi ai figli di salumaio, e
che Cice- rone riferisce così: Quiesce tu cujus pater cu-- aito se
emungere solebat. Certa cosa è che non può ricavarsi da tutto ciò che O.
ha scritto sopra i suoi geni- tori, né da altri scrittori suoi
contemporanei, compreso lo stesso Svetonio, né il nome di suo
padre, né il nome e la condizione di sua madre. Il Fabretto,
celebre raccoglitore di iscri- zioni e sigle, riporta un frammento d'
iscri- zione che dice leggersi sopra una casetta in Venosa, che
erroneamente fu detta esser la casa di Orazio, così concepita:
HORATI C. L. Dio MlTULLEIAE UX. e che sì è voluta decifrare
così: HoRATio DioDORo Caji Liberto MiTULLEjAE Uxori)
La quale interpretazione importerebbe che il padre di Orazio nomar
si dovesse Diodoro o Diocle, e sua madre Metulla. Ma é questo un
falso indìzio – cf. Grice: spots are a falso indizio di measles], poiché in
Venosa furonvi non pochi che si dissero Grazi, ed a qualcuno di
questi è riferibile l'iscrizione funeraria. I due eruditi
Grotefend, il Franke nei suoi Fasti Horatiani, ed il Milmam nella
sua splendida opera The works of Q. Horatius Flaccus illustrateci ,
opinarono il padre di Orazio poter esser un discendente dell’illustre
famiglia romana degl’ORAZII, e che ri- divenuto libero, avesse ripreso,
secondo il costume del tempo, il proprio nome. Ma il Mommsen, nella
sua opera Inscriptiones Regni Neapolitani, riporta tredici iscrizioni
rin- venute in Venosa indicanti l'esistenza di una tribù Hofatia,
colonia romana, nella quale erano allistati gli abitanti della città di
Ve- nosa. Il padre di Orazio faceva parte di que- sta colonia, non
discendeva però dalla fami- glia degli Orazii, nel qual caso farebbero
op- posizione le continue lamentazioni del figlio di vii
nascimento. Né si potea concepire che , fra tanta chia- rezza
di prosapia, da darsi pure il lusso di un' iscrizione sepolcrale , O. poi
non enunziasse neppure il nome di quelli che gli -«(
17 )f^ aveano data la vita. Ed è poi noto, come si vedrà in
appresso, che tutto venne confiscato alla famiglia di O. dopo la disfatta
di Filippi. Era anzi quella gente tenuta in bando, e del tutto sprovvista
di mezzi, il che permetter non poteva ad essi il foggiarsi lapidi con
iscrizioni commemorative. G. Batt. Duhamel, nella sua opera Philo-
sophia vetus et nova ad usum scholae, opina che un avo d’O, assoldato nell’esercito
di Mitridate, venne nelle guerre del Ponto fatto prigioniero, e tradotto
in Roma, e comprato da un questore venosino, dal quale si ebbe la
libertà. Ma tale idea fanta- stica, come moltissime venute fuori dalla
penna del letterato e filosofo del Calvados, non ha fondamento, mancando
della parte principale, cioè del nome del prigioniero, schiavo fatto
libero, dal quale deriverebbe il padre di O. (di cui neppure sa dire il
nome), che per tal guisa sarebbe stato figlio di liberto, non
liberto, come era infatti; Orazio chia- mando sempre suo padre
liòertinus, non nel senso voluto da Svetonio, e mostrando sempre
rammarico per tale causa. Altri poi (come rilevasi da vecchissime
edizioni del gran poeta ) credettero assegnare al padre di Orazio il nome
di Tubicino; ma pure questo va chiaramente emendato, stanteche si è
voluto confondere il nomignolo del- l'uffizio che il padre di O. si aveva
in Venosa, cioè di banditore. E siccome i banditori in quel tempo solcano
annunziarsi a suon di tuba, diceansi trombettieri ( tubicen^
tubicinis) quindi Tubicino ! Può quindi asse- rirsi che s'ignora del
tutto il nome del padre di O. e quello della sua genitrice: se ne
conoscono solo del tutto la condizione e lo stato del primo. Orazio disse
essere stato suo padre uno schiavo, al quale venne concessa la
libertà. Tale origine del suo casato lo mo- lestava acremente. E qui cade
in acconcio notare che mentre Orazio non ha mai indi- cato il nome
di suo padre e di sua madre, non ha mai nominata la città di Venosa.
Con molta lucidità indica il luogo della sua na- scita e ne fa un
piccolo cenno storico topo- grafico così concepito: Io non so con
preci- sione se son Lucano o Pugliese, perché il colono venosino
suole volgere l'aratro tra i due confini di queste due regioni. E che
Tansillo venosino cosi traducendo imita nel suo canto al viceré di
Napoli: Io non so se Lucani o se Pugliesi Siam noiy però
ch'il venosin villano Ara i confini d'ambidue paesi. Ed una colonia
romana fu spedita in tal luogo, abitato prima da Sanniti, per
iscacciar- neli, e per impedir poi che tale infesta gente corresse
sopra Roma a molestarla come pel passato. Ed invero i Sanniti furono
infesti non poco ai Romani come le storie luculentemen- te
asseriscono. E tale colonia romana spedita in Venosa, secondo attesta LIVIO,
formar dovea guarentigia a tutta la regione pugliese e lucana, e
mostra ad evidenza V importanza della città di Venosa in quei
tempi. O. volle con precisione dichiararsi ap- partenente
alla colonia ronìana che discacciava da Venosa i Sanniti. Eppure i
Sanniti furono di razza Sabina, ed O. non pensa che la Sabina, cioè
la patria prima dei Sanniti, formar dovea la sua seconda desiderata
patria, la sua aspirazione. Oh coincidenze misteriose! Oh lumana commedia
! Eppure i costumi dei Sanniti furono qual si conviene a
popolo belligero, sobrio e buo- no. Governavansi in austera repubblica,
ed il sistema democratico formava la base delle loro istituzioni.
Pei servigi resi alla patria davan persino le avvenenti compagne e
le figlie come premio. O sacrifizio memorabile \ Nelle lunghe
guerre coi Romani mostraronsi i Sabini più destri e valorosi. Venne però
l'ora definitiva della sconfitta, e nell'eterna guerra tra le
genti, il più forte li debellò. I Romani 290 anni prima di Cristo li
espugnarono del tutto. A questo ricordo allude Orazio allorché dice
che la colonia venosina, debellati i Sanniti, divenne propugnacolo contro le
ossi- dioni di tal forte e belligera gente. Convien quindi notare
che Orazio per quanto asserì esser nato sul suolo venosino, per tanto
sem- bra mostrarsi superbo di appartenere alla co- lonia romana ivi
residente: che anzi bisogne- rebbe assegnargli meritevolmente la
taccia d' ingratissimo, perchè oltre a non nominare una sola volta
in tutte le sue opere la patria sua, come non precisa il nome ( e li
avrebbe immortalati) né di suo padre, né di sua ma- dre, bensì il
nome del suo primo maestro Flavio venosino e della sua castalda,
Fidile^ cosi sacrilegamente si esprime: Sic quodcumque minabitur Eurus
Fluctibus hesperiis, venusinae plectantur silvae, te sospite. E
Gargallo, quasi arrossendo, in tal guisa traduce, cangiando le venosine
selve in lucani boschi: Còsi qualunque netnbo Euro Minaccia^
Ai flutti esperii^ di là ratto il muova A* lucan boschi^ e n'abbi tu
bonaccia) E per giunta in tutte le sue opere O. non nominando
mai, come dissi, Venosa, spesso nomina Forenza, Acerenza, Banzi,
TAufido (l'Ofanto odierno), il Vulture, il Ma- tino, Benevento, e con
aspirazione invidiosa Taranto e Tivoli 1 E pure Venosa, lantichis-
sima Venusia, era bella, com' è tuttora, su- perba, attraente, forte più
del suo Tivoli , e dei luoghi dei monti Sabini. I grandi hanno
tutti gravi e non poche mende, ma bilanciate con le qualità individuali,
superiori e rare, vanno cancellate. Salve perciò, o O., sovrano
poeta, onore della razza umana! Venosa, la patria tua, perdona tale
non- curanza, e tale al certo involontaria irricono- scenza. L' hai
ricolmata di gloria imperitura, indicando a chiare note che sorbisti le
prime aure della vita sulle sue opime colline ; e ciò bastar deve
per fare scomparire ogni traccia di livore o sdegno verso di te, se pur
può albergare nell'animo di alcun tuo concitta- dino livore o
sdegno, come invece alberga venerazione e maraviglia ! Salve, sommo
poe-. tal Tu certo vivi ancora. Il tuo spirito im- mortale aleggia
benefico genio del luogo su quella ancor bellissima terra; oppure da
qual- che stella lucente gitta raggio amico che mo- stra la via al
viandante in quelle selve lucane, od al nocchiero la via nera dell'antico
mare Jonio, ove il bollente e rumoroso Aufido an- cora oggi si
annega ! O. scrive : Che qual figliuol di libertin trafitto
Soft da tutti) Invero Guerrazzi da savio sostiene: La
ignobilità più che la chiarezza del Itg^taggio riuscire stimolo acuto a
ben meritare; aven- do la natura concesso all'uomo maggiori po-
tenze per acquistare, che non per mante- nere. ^L'assillo nonpertanto che
tormentava O. era la sua nascita: perché non potendo schermirsi dai vili
ma pur tormentosi frizzi della plebe che lo dicea discendente da
schia- vo, rinfocolato dall'odio naturale di cui più su si è
discusso, che gli bolliva in seno, e che il padre vieppiù incrudeliva,
estolle la ma- gnanimità del suo genitore per averlo fatto educare,
istruii^e e porre a livello dei giovani di buone famiglie ed agiate. Che
anzi con boria e sicumere che mal velava lo struggersi interno,
asseriva potersi porre a pari, egli figliuol di schiavo, coi figli dei
senatori e dei cavalieri di quel tempo anche nella superba
Romal Si vedrà in appresso quanto fosse ampollosa questa sua
assertiva, allorché si noterà co- me egli stentar doveva per accaparrarsi
sia l'amicizia di altri poeti più fortunati, sia dei grandi, che un
solo fortuito caso gli permise avvicinare, e come molte
volte ingiustamente ne restava mortificato, mendicandone le grazie,
ed attendendo nove lunghi mesi per meritarsi l'onore di venire annoverato
tra i commensali di Mecenate ! Giunse a rendersi maestro in
cortigianeria a parecchi suoi gio- vani amici ed ammiratori !
Non è lecito credersi di più di quello che si è in realtà, né fidar
troppo sul proprio me- rito, per quanto incontrastabile esso sia,
in questa commedia umana nella quale regna sovrana V ingiustizia !
Il suo orgoglio come poeta diveniva ridevole quando si rivolgeva
circa la sua condizione nella società nella quale viveva. Ma quel marchio
che al solo presentarselo alla mente lo straziava a morte, il
marchio di esser figliuolo di uno schiavo, gli faceva talvolta aver le
traveggole. Riesce sublime quando esclama: Io disdegno e
allontano Da me il vulgo profano Tacciasi ognun Vo*cantar^
de le Muse io sacerdote. »o) Egli lodò grandemente il padre,
perché questi gì* inculcò dì fuggire dal luogo ove molto era
conosciuta la sua origine, e di af- francarsi dalle prepotenze dei
ricchi, dei senatori, dei cavalieri e di ognuno con Y i- struzione, col
coprirsi di gloria: e tanto ot- tenne. Orazio nacque, come si
accennò, dodici anni prima della congiura di Catilina. Cele- bri
erano in quel tempo tra i poeti Valerio Catullo, Licinio Calvo e molti
altri. E tra i FILOSOFI Terenzio VARIO e Numidio FEGULO. E per
l'arte tribunizia CICERONE, Ortensio e Quinto Catulo. In Venosa in quei
tempi eravi pure una classe sociale che si distin- gueva dalla
volgare, la quale frequentava la scuola di un maestro Flavio, del
povero Flavio, che non avrebbe potuto mai augurar- si di divenir
celebre per l'eternità, vedendosi consacrato nel libro di O., che pur
non dice il nome del suo genitore, della genitrice, della patria. A
questa scuola attinse i primi rudimenti il piccolo Orazio. I suoi
compagni lo schernivano; ed egli si vendicò ad oltranza col farsi
in seguito beffe di essi e dei loro parenti nobili venosini I La povera
nobiltà venosina) quella nobiltà che ebbe incisa in pietra pelasgica
tale enfatica iscrizione : Ex LUCULLANORUM PrOLE RoMANA Aelius
Restitutianus Vir Perfectissimus CORRBCTOR ApULIAE ET CaLABRIAE IN
HONOREM Splendidae Civitatis Venusinorum Consecravit
") resta schernita e vilipesa dallo stile del sommo
satirico. Quei rampolli di famiglie nobili ed agiate della città di
Venosa dovean tenere a vile accumunarsi con Orazio e famiglia,
stante che ne conoscevano Torigine. Fu questa una delle ragioni per
cui il padre decise condurlo in Roma. Dovette poi notare nel giovanetto
un ingegno precoce e svegliato che promet- teva alcun che di grande, e
pensò abbiso- gnargli più ampli orizzonti e pabolo più ade- guato e
conveniente. Orazio aveva circa otto anni o dieci al massimo, secondo il
computo di Andrea Dacier, nella sua Chronologia an- norum Horatii,
allorché giunse col padre in Roma, e cominciò a frequentare quelle
scuole romane. Ed è caro quel vanto che trasse O. quando nei suoi canti,
ricordando il padre ed i felici giorni della pueri- zia, e sentendosi
nella folla della scolaresca deir immensa città susurrare airorecchio
di esser creduto di alto lignaggio, dice : Ma d'alti sensi
osò condurre a Roma Me fanciulletto^ ad apparar quell'arti Che un
cavaliere che un senatore insegna Ai propri figli, Allor se, come
avviene In un popolo immenso^ avesse alcuno Gli abiti visto^ ed i
seguaci servii Certo creduto avria spese sì fatte A me apprestarsi
da retaggio avito] La quale ingenua confessione dimostra che il
padre di Orazio, sebbene appartenente alla bassa condizione di liberto,
non doveva essere scarso a pecunia, anzi bastevolmen- te ricco.
Quanti miseri studenti , figliuoli di coloni agiati e signori delle
provincie^ non vanno oggi in Napoli o nell'alma Roma ad apprender
lettere o scienze ? Ma ben pochi vivono certo vita allegra, vestono panni
di lusso, e possono farsi seguire da servi e staffieri con panieri
ricolmi di succulenti ma- nicaretti od altre costose leccornie ! O. però
per generoso e riconoscente sentimento riferisce al padre il potersi
istruire con tanta comodità, né può tacciarsi di parabolano o
falso, né molto meno di orgoglioso, lui, che abborriva dall'orpellato
fastigio, e mordeva con denti velenosi i prodighi, i ricchi ed i
centurioni venosini! Sotto l'usbergo d'una morale istintiva covava Tira
repressa del figliuol del liberto 1 ni. L padre d' O.
condusse suo figlìo in Roma, cioè cin- quantacinque anni prima dell' era
cri- stiana, non raggiungendo questi ancora i dieci anni di età.
Forte baleno dì or- goglio e di stupore dovette abbagliare il
piccolo venosino, ma pur cittadino romano, nel calpestare le aboliate
strade della magnì- fica Roma. Ergevasi la città , che
imperava allora su buona parte dell' orbe terraqueo, sui
dodici celebri colli, dei quali il Vaticano, il Citorio, e
quell'altro dove Tazio venne a fissarsi coi suoi Quiriti , rifulgono oggi
maggiormente nel mondo , perchè dominio di validissime potenze: la
tiara, e la monarchia costituzio- nale deir Italia unita e libera. Aveva
ponti lunghi e meravigliosi, porte monumentali, mura che potean
vantarsi più durature e in- concusse delle ciclopiche o pelasgiche o
delle cinesi. Avea più di quattrocento templi ador- nati di colonne
preziose, archi trionfali, obe- lischi fatti trasportare con ingentissime
spese dalle più remote regioni del mondo onde si fosse palesata la
grandezza delle vittorie romane dalle spoglie ricavate dai potenti e
riottosi nemici. Se però Roma mostravasi tanto superba e
potente alla vista, il che poteva lusingare i sensi del piccolo
viaggiatore (il quale poi non proveniva da paese barbaro e povero ,
bensì da Venosa, caput Apuliae, città monumen- tale e stupenda, siccome
attestano le antiche carte e le lapidi che hanno sfidata la corro-
sione dei secoli, "^)) non cessava di ascondere nella sua ampiezza e
magnificenza gente av- vilita dalle discordie civili. Pel triunvirato
di Cesare, Pompeo e Crasso (quel Crasso di cui più sopra si delineò
la proterva jattanza), quel popolo, dapprima così forte e generoso,
vedeva sfuggirsi, pel libertinaggio prepon- derante, la libertà che
offriva ai cittadini la repubblica di CATONE (si veda), repubblica ormai
mo- ribonda. La mollezza ed il mal costume tor- cer facean lo
sguardo ad ogni onesto e probo romano. E perciò Orazio stesso, allorché
co- minciò a balenargli in mente il vero, scrisse che le cure del
suo buon genitore, che gli fu guida permanente, fra tante grandezze e
fra tanto scompiglio morale lo ritrassero dal cadere in brutture ed
ignominie e dal venir tacciato di cattivo cittadino ; che anzi gli procu-
rarono la stima dei buoni e dei veramente grandi. Il padre
soleva giornalmente condurlo dai maestri più celebri della città, ed ai
banchi di quelle scuole famose sedevano con lui figliuoli di
senatori e di altre famiglie nobili ed alto- locate dell'alma Roma. Era
sicuro il padre che non si sarebbe rinfacciato al giovanetto Quinto
O. la nascita vilissima, perchè s' ignorava donde fosse venuto : Y
emporio immenso, oceano nel quale rifluivano tutti i popoli della
terra, lo assorbivano. E lo schiavo fatto libero superava per lusso e per
criterio sicuro moltissimi ingenui e gentiluomini. O. gliene fu
gratissimo ; e scrisse che se avesse dovuto rinascere, ed avesse
potuto scegliersi un padre, avrebbe scelto quello che gli die
natura, non trovando altro uomo più coscenzioso, più perspicace, più
amore- vole di questo ! Desta ammirazione e mera- viglia questa
confessione, se si rifletta che il padre di O. era illetterato, e che era
stato soggetto alla schiavitù 1 Ed Orazio nel parlar di suo
.padre include pure la madre sua, perchè dice: io pago a' miei
(genitori), di fasci E di sedie curuli avoli adorni Saprei spezzar.
Le prime lettere gli furono apprese da Pupilio Orbilio da Benevento, che, come
narra Svetonio, fu dottissimo grammatico in quel tempo e tra i
migliori maestri sotto il consolato di CICERONE Visse centenario; morì
povero , solita fine dei non pochi lavoratori coscenziosi ed indefessi.
Era severissimo e non risparmiò la sua sferza allo stesso O., che se lo
rammentava con satirica soddi- sfazione. L'uso delle sferzate
nella palma delle mani degli scolari, antico più del tempo del
quale si discorre , formava sin negli ultimi nostri giorni un
genere di punizione che la civiltà invadente va oggi disperdendo, siccome
si è tolto il barbaro uso di bastonare e torturare i poveri folli !
Le cure morali debbono sosti- tuirsi a quelle corporali e
costrittive. Alla scuola di Orbilio Pupilio cominciò O. ad
alimentarsi della poesia latina; menando a memoria e tratteggiando le
scene drammatiche del poeta Livio Andronico ed altri illustri. Come
più sviluppavasi negli anni, cominciò ad attingere alle fonti delle
lettere greche, che egli stesso poi definì le più pure e che
dovevano occupare i dì e le notti degli scrittori. Omero, Anacreonte,
Saffo , Archi- loco, Alceo, Stesicoro, Simonide, e non tra-
lasciando i latini, a cominciar da Lucilio, che gli fece acquistar gusto
alla satira, furono i suoi modelli nel bello scrivere, e da essi
ap- prese quell'arte divina , quella melodia am- maliatrice, che lo
fecero addivenire il prìftio tra i lirici del mondo. Ed egli solea
paì-agonarsi all'ape industre del monte Matino (ser- vendosi per
similitudine del nome d* un monte della sua Puglia, ma non del Vulture presso del quale spento vulcano ebbe la
'Cuna), cfee svolazzando di fiore in fiore ne suggeva da ciascuno
quel tanto di dolce e poetico da for- mar xumti immortali 1
Ed invero potrebbe qui riferirsi senza de- rogare l'aurea massima
di Ovidio del prin- cipiis còsta, nel senso inverso, per umU, privo del
tetto «npic.1, eha Bud«t var»(EUr bnpuko SctDW col
cV»l. Io radiche, essendo gli scribi addetti al contenziose
amministrativo, od alla pubblica contabilità, formavano un' autorità
speciale, siccome la Gran Corte dei Conti dei nostri giorni. Essi
formavano un collegio a parte e la carica era vitalizia ed
inamovibile. Dalle antiche iscrizioni scoperte in Tivoli, e
presso la via Nomentana in Roma nei pri- mi anni del secolo decimonono,
come da altre che vennero con esattezza riportate e com- mentate
dal Gruter, da Fabretto, da Donati, da Tommaso Reinesius, nella sua
Syntagma inscriptionum, da Creili, da Mommsen, e da Visconti, si
rileva appunto l'importanza del- Tuffizio di scriba. Hawene
una di un Tito Sabidio Massimo, scriba della questura, ed appartenente al
sur- referito collegio, al quale i Tiburtini innalza- rono un
monumento in riconoscenza dell'alta protezione accordata da lui a questa
città: T. Sabidio T. F. Pal. Maximo Scribae. Q. SEX.
Prim. Bis. Praef. Fabrum. Pontifici. Salio. Curatori Fani
Herculis. Tribuno. Aquarum. Q. Q. Patrono, Municipii. Locus Sepulturae.
Datus, VOLUNTATE. POPULI. DECRETO. SeNATUS. TlBURTIUM.
Siccome quest'altra seguente iscrizione a Manio Valerio Basso
antico tribuno di legione come era stato Orazio, pubblicata nel 1854 nel
Giornale di Roma dal comm. Visconti, rende noto che la carica di scriba
della que- stura soleva assegnarsi alla miglior classe dei
cittadini, e talvolta solevasi contraccam- biare con la carica di tribuno
delle milizie, acciocché se qualcuno fosse stato esonerato o per
età o per volontà, trovar potesse un appannaggio adeguato al proprio
valore, ed un meritato guiderdone: Man. Valerio. Man. F.
Quir. Basso. Trib. Mil. Leg. III. Cyrenejae Scrib. Q.
VI. Primo. Harispic. Maximo. Testamento. Fieri. Iussit.
Siri Et. Fratri. Suo. Hs. L. M. N. Arbitratu. Heredum.
Erroneamente quindi gli antichi interpreti della parola scriba e
dell' impiego ottenuto da Orazio, e molti scoliasti e glossatori e
biografi attribuirono solo il senso di copiatori di pubblici atti, oppure notai
o redatt di atti privati, all'ufficio di scriba. Tale dignità
elevata, ottenuta solo per ii pegno di altissimi personaggi, rese ad
Oi zio più facile V accesso ed il conversare e grandi ed i potenti
di queir età, come si \ drà in appresso. L’importanza poi di tale
impiego ott nuto dal poeta si rileva anche da quello ci egli stesso
scrive nella satira sesta del libi secondo: Quinto , Ti
pregano i notai che non ti scordi Di tornar oggi pel noto
affare Al collegio d* altissima importanza [Anche il Gargallo
spiega la parola scribi con la voce notato; ma non credo aver
voluta egli intendere quello che oggidì importa h carica di notaio,
bensì componente il collegio degli scribi questorii suddetti.
Il sommo poeta trascorse dunque i primi anni della sua dimora in
Roma tra Toccupa- zione che gli offriva tale dignità onorifica e
lucrativa e tra i diletti della poesia. Non può asserirsi con piena
conoscenza quanto Weichert, uno dei più indefessi il-lustratori del
poeta, nella sua opera Poe- tarum latinorum, vuol sostenere, cioè
che O. avesse solo ventisette anni allorché venne presentato a
Mecenate, cioè nel 715 di Roma. La cronologia diventa un mito
quando si ravvolge in date così lontane e senza testimoni oculari.
Volendo però seguire tale opinione, adottata pure da Andrea Dacier, la
presentazione di O. a Mece- nate successe quattro o cinque anni
dopo la sua dimora in Roma. E Mecenate, il gran protettore
degrillustri letterati di quel tempo, non lo ammise nella propria corte
se non dopo averne conosciute le virtù, i pregi dell'animo e
l'ingegno portentoso, e dopo aver giudicato se Vario e Virgilio, che
glielo raccomanda- rono, avessero imberciato nel segno propo-
nendolo pel novero dei suoi favoriti, quando era a sua conoscenza che
Orazio aveva so- stenuto la carica di tribuno nelle legioni di
Bruto, ed era fiero ed ardente repubblicano. Riesce quindi logico
noverare la satira quarta del primo libro di O. come scritta poco
prima che fosse a Mecenate presentato, stante che in essa si scusa con
quelli che lamentavansi delle sue punture, e gliele rimprove vano come
poco coerenti per uno che int( deva guadagnarsi la stima dei grandi. ]
egli vuol farsi credere semplice moralista filosofo che castiga, ridendo,
i costumi, perciò egli si esprime presso a poco coi Il leggere
satire, il veder frizzata la catti gente non riesce certo piacevol cosa a
colo che hanno la coscienza poco monda. Ma e è puro ed integro ed
onesto, non teme scudisciate del poeta, siccome disprezza calunnie
dei malvagi. Poi non soglio io ai dar divulgando le mie composizioni
nel piazze, nei trivii, nei simposii od anche nel accademie. Scrivo
per semplice diletto, spini da forza arcana e per pura intenzione di
ù del bene e purgare la società inondata d; vampiri, dai viziosi,
dagli scelesti, dagVinv diosi, dagli scialacquatori di patrimoni eh
costarono sudori a generazioni di lavorator Confesso d' aver anch' io dei
difetti; ma ci: può mai tacciarmi d'aver tradita l'amicizia d'aver
calunniato chi merita lode, d'aver scemato il merito, anzi non aver
abbastanz; lodato i cittadini eminenti ed onesti? Un
uomo che parla così di se stesso me- ritava venire annoverato tra quelli
la cui ami cizia è un guadagno, un pregio, un onore. Vario e
Virgilio lo presentarono a Me- cenate. iur> nurmi; • Kt» pu prtgjo la
noa. cliL nciFBnlI iDroliJ. poicha ftllm lla^iu k ÉufanUl pad
or nada td kncluopv. Gaxoallo — Trmd. di Oraiìa AIO Cilnio
Mecenate nasce in Arezzo dalla nobilissima famiglia Cilnia, discendente
dai re dell'Etruria, che erano quei guerrieri etruschi venuti a
soc- correre Romolo nella guerra contro i Sabini. Nacque tre anni
prima di O. Visse i primi anni legato di amicìzia col giovane Ottaviano,
e fecero insieme gli studii delle h tere e delle scienze in Atene.
Egli pure, seguendo le orme degli avi, intrepido guerriero, e seguì
sempre il vitt rioso Cesare in tutte le battaglie per demoli la
repubblica e difendere Roma dai nemi interni ed esterni. Non
fu affetto dal morbo dell' ambizion Allorché Augusto divenne
padrone del v stissìmo imperio, a Mecenate vennero ofFei i primi
onori, i più ampii poteri; ma tutto eg rifiutava. Accolse solo le premure
di Augusl di rappresentarlo quando si allontanava e Roma. Preferiva
il sistema governativo a regim monarchico assoluto, piuttosto che
quell retto a repubblica, e riuscì a far determinar col suo savio
consiglio Augusto a conservar quel potere sovrano che per suoi fini
particc lari avea deciso abbandonare. Si avvalse dell propria
influenza, dei suoi disinteressati am monimenti e del suo credito per
rendere Au gusto, imperatore e pontefice, proclive ali clemenza ed
a far più manifesto il fastigio della monarchia. Amante del lusso, egli
stesso sprona Augusto severo, economico e restio al grandeggiare, al
rendersi sovrano per magnificenza e per sublimi intraprese edi-
lizie e monumentali. Sposò Terenzia, donna di grandissima
bellezza, ma altezzosa ed infedele. La ripudiò: ritornò ad essa sommesso:
che non hawi grande uomo esente da mende , principal- mente
dipendenti da procacia donnesca. So- stenne lotte atroci per
dimenticarla, e non ne ebbe la forza. U illustre tedesco Meibom la dipinge
nel vero suo aspetto. Era scrittore forbito, piacevole ed
erudito. Compose ( ma non sono giunte fino a noi ) una Storia
naturale, la Vita di Augusto, e diverse tragedie e poesie.
Possedeva enormi ricchezze, potendo quasi competere con Lucullo:
largheggiava con ma- gnificenza regale. Ma quello che lo rese pro-
verbiale nei secoli si fu \ aver protetto e be- neficato i sommi
letterati del suo tempo. VIRGILIO (vidasi), Vario, Terenzio, Tibullo,
Catullo, Marziale ed il nostro grande poeta furono i suoi favoriti. Né la
sua protezione si limi- tava a piccoli sussidii, ad inviti ai suoi
sontuosi conviti od a sterili raccomandazioni Bensì soleva rendersi
splendido per largi zioni tali da bastare ad assicurare l'agiatezze
per tutta la vita del protetto. Pochi sovran si sono succeduti sulla
scena del mondo prodighi come Mecenate, e tanto avveduti nei dare ed
innalzare chi realmente possedeva meriti personali così insigni da
immortalare il protettore, considerandolo nei frutti del lorc
ingegno. Solo in questi ultimi anni nelle ro- vine di Carseoli nel Lazio
si rinvenne un bu- sto marmoreo di Mecenate. Le rovine della
splendida sua villa a Tivoli non sarebbero bastate a rischiarare la sua
vita e la sua gran- dezza senza la Lucerna venosma, che lo ha fatto
rifulgere di luce splendidissima ed eterna. Il vero monumento imperituro
a Mecenate glielo ha innalzato O. Fiacco venosino. Virgilio nelle
Georgiche così decanta il suo insigne protettore: O Mecenate, o
decoro nostro e parte massima della nostra fama. » Ma Orazio si
mostra più virile. Ritiene Me- cenate gloria, presidio, sostegno e forte
scu- do della sua persona; ma non attribuisce a lui, bensì al
proprio ingegno la propria im- -«( 79 )^
mortalità. La superbia Oraziana (superbia derivante dai meritati
allori ) non comportava servilità comuni al volgo. Poteva
forse il ricchissimo aretino forjiir- gli una sola favilla di quel genio
che il gran cittadino di Venosa stesso definì particella di aura
divina? Tutti i tesori di Golconda non equivalgono a quegli
slanci di lirica sublime che non han- no avuto eguale in nessun mortale
quaggiù ! Come si accennò innanzi, O. venne presentato a
Mecenate mentre vivea occu- pato neir ufficio di scriba questorio, e
nel comporre satire ed altre poesie, che aveano già richiamato
l'attenzione degli altri eruditi del giorno. E ciò dovette succedere neir
an- no 717 di Roma, cioè avendo egli già sor- passato il
ventisettesimo anno. Egli stesso così descrive questa
presentazione: r ottimo Virgilio Da pria^ poi Vario
dissero chi fossi, ' Né me figliuol di genitor preclaro Né me
opulento possessor che scorra Suoi vasti campi su destrier pugliese^
Ma quel eh* io m* era espongo: accenti pochi^ Giusta tua usanza^ tu
rispondi: io parto. E dice pure: Fattomi al tuo cospetto,
singhiozzando Pochi accenti succiai^ poiché alla lingua Era
infantil pudor nodo ed inciampo. Donde nacque mai in Orazio tanta umiltà
tanta bonomia e tanta confusione vedendos al cospetto dell' erudito e
ricchissimo e pò tente Mecenate, se non dallo scorgere in lu un
amico sincero che cordialmente e senzc vedute interessate lo proteggeva,
e lo 'ponevc nel novero dei suoi favoriti, ciò che formava
l'orgoglio di altri in quel tempo più in fams di lui, mentre pel
contrario molti altri lo di- sprezzavano e lo invidiavano, e per tal
fine cercavano fargli il maggior danno possibile? Aggiunger poi si
deve che la magnificenza che circondava Mecenate, il suo palagio,
la fila dei cortigiani che colle teste curve sino a toccare le
lastre marmoree del pavimento, il suo prestigio dovettero colpire O.,
che, per quanto impavido fosse, dovette risentirne certamente
imbarazzo e confusione. Ti è occorso mai, o lettore, di
presentarti, dopo un' aspettativa lunga ed ansiosa nelle
anticamere, ad un sovrano? E se sei italiano. ti trovasti mai alla
presenza del gran Re Vit- torio Emanuele ? Quella figura atletica,
chiu- sa nella cornice che cinge i re nelle reggie, colla divisa
brillante di generale italiano, con quelli occhioni vividi e fieri che ti
scendeano come saette sin nelle intime latebre dell'ani- mo, quasi
a scrutarne le più riposte idee e sentimenti, non ti produsse alcuna
emozio- ne ? Nulla avvertisti ? E se quel sovrano ti avesse di sua
mano largita un' alta onorifi- cenza, od una lode schietta, non ti hai
sentito sussultare il cuore di gioia, riconoscenza e compiacimento?
Se nulla hai provato, dir debbo che l'animo tuo è insensibile come pietra
fi-edda di sepolcro! Garibaldi, Cavour, Thiers^ lo stesso Bismark ed il
grande taciturno tedesco ebbero fieri sussulti dell'animo, quando la mano
del gran re strinse la loro! Discordanti ben vero appaiono le
opinioni circa il tempo e l'età nella quale Orazio fu da Virgilio e
da Vario presentato a Mecenate. Molti sostengono (e si riscontra
nelle me- morie dei suoi moderni biografi) che siffatto avvenimento
accadde nell'anno 735 o 736 di Roma, così che fanno succedere nel 737
il viaggio di O. con Mecenate a Brindisi e quindi pochi mesi dopo
questa data la pub blicazione della satira quinta del libro primo
che ne descrive facetamente il viaggio , l evoluzioni, gì' incontri
avvenuti ed altri fat terelli piccanti. Ma nella Cronologia
del Dacier, che devt stimarsi la più esatta disposizione degli av
venimenti e degli anni nei quali O. com pose le sue poesie, attenendosi
ai diversi con- solati sotto i quali O. accenna scrivere, viene
indicato il viaggio di Brindisi nel 716, od in quel torno di tempo, cioè
quando O. avea ventinove o trent' anni, e riesce ciò più presumibile.
Poiché nelle opinioni con- trarie il poeta avrebbe fatto quel viaggio
por- tando sulle spalle mezzo secolo: ed avuto ri- guardo alla sua
salute un po' malandata ed alla circospezione a conservarsi, ed alla
sua vita ritiratissima allorché vivea in Sabina e rifiutava perfino
gli inviti di Augusto, non appare verosimile. Sia però come si
voglia, certa cosa é che Mecenate riserbossi nove mesi per poterlo
ammettere nel novero dei suoi amici stretti. O., erudito,
giovialissimo, baldo, perchè adusato agli esercizii aspri della milizia:
sperto del mondo, perchè provato dalle sventure e chiaroveggente: amante
del vivere allegro, buontempone, re- sistente alle libazioni dei cecubi e
dei falerni, uccellatore esimio di donzelle e facile ad ade- scarle
col vischio della poesia, dovea venir ricercato nelle brigate e nelle
accolte dei dotti e dei viveurs di quel tempo. Era bel
giovane, se non bellissimo, e ne menava vanto; ed i malanni della precoce
se- nilità (dovuta agli studii indefessi), siccome la cisposità
degli occhi ed i reumatismi, non aveanlo ancora reso solibus aptum, né
biso- gnevole delle stufe calde di Cuma o delle fredde docce di
Chiusi e di Gubbio. Tutto ciò fé' propendere la bilancia a suo
favore. Mecenate, gran conoscitore degli uomini, ed
indagatore minuzioso, specialmente trat- tandosi di quelli che doveano
essergli sempre vicino e sui quali doveva fidare, lo volle con sé,
dopo nove mesi di prove ed indagini, com- mensale ed ospite nelle sue
splendide reggie. Si sostenne (al dir di Svetonio) da taluni
detrattori del sommo poeta, che nel temp in cui O. e presentato a
Mecenate, ve nisse pubblicata in Roma una lettera sua i prosa, e
dei versi elegiaci supplichevoli, co quali, adulando il ricchissimo
Mecenate, n implorasse la protezione e l'accoglimento. Ms calunnia
(e Svetonio stesso lo asserì) apparv più atroce e vile; tutto era
apocrifo, si trat tava di libelli infamanti. O. non piatì sup plice
nessun onore, provando in petto senti menti di fiera libertà; sentiva
troppo di sé tanto che in luogo di adulare sferzava i cor tigiani e
lo stesso Mecenate sino a dargl dell'effeminato e del Malchino. Il
seguirsi de fatti di sua vita e le proverbiali espression di
superbia che si notano nei suoi scritti, at testano lalto grado della sua
alterigia , fie- rezza ed indipendenza. E non aveva poi h carica
autorevole e redditizia di scriba questorio in Roma ? E a lui, cui bastava
tante poco, a lui nemico del lusso e delle albagie boriose dei
grandi, come potette addebitarsi tanta viltà ? Molti scrittori dissero O.
es- sere traduttore dei poeti greci. Frontone chiama O. memoriabilis
poeta, e nient'altro. È noto del resto che il gran Venosino
nei più antichi tempi non fu tenuto in quella no- minanza
altissima, come ora si tiene. *^) Oh che gli uomini sogliono vedere
sem- pre il male nel prossimo, e fingono non ve- derne il bene
I L'adulazione, gli omaggi resi da O. a Mecenate ed Augusto,
sono, derivati dal suo animo riconoscente e buono. Mecenate lo
colmò di doni e favori. O. se l'ebbe a gran fortuna ed insperata, e per
aver ester- nata la sua riconoscenza procacciossi la taccia di pettegolo
e vile adulatore. Lessing ^7) così si esprime : « La malizia regna
sovrana negli apprezzamenti, come nelle altre cose. Che un letterato
espri- ma le proprie idee sulla divinità in maniera da rendersi
sublime, esponga le massime più belle sulla virtù, il volgo si guarderà
bene dair ammirare il cuore da cui partono siffatti sentimenti,
bensì gli si assegnerà la taccia di stravagante. Se poi, al contrario,
allo scrittore sfugge il benché minimo biasime- vole fatto , lo si
dirà derivante da un cuore cattivo, da un animo perverso. Così giudicano
gli uomini! Le massime così morali ed istruttive d O., la sua
circospezione, la sua religio ne, la sua integrità, la sua indomita
fierezza il suo animo generoso ed affettuoso insieme la sua amicizia,
che si svelava sempre sin cera e disinteressata, non furono bastevoli
e liberarlo dal dente della calunnia e dai vita perii degr invidi
ed ipocriti suoi ammiratori Quando altro i suoi nemici non
potetterc fare, stabilirono la lega del silenzio, creden- do che
Toblio l'avrebbe ricoperto; ed infatti ben pochi scrittori di quel tempo
e soltantc qualcuno dei sommi furono quelli che ricor- darono
O. Oh stolti ! O. era stella sfolgoreg- giante di propria
luce! Oh quanti avrebbero spedito (e ne spe- dirono certo, perché
pregavano O. stesso a presentarle, ed O. negavasi) suppliche e
petizioni a Mecenate per aversi quello che O. ottenne per suoi meriti
straor- dinarii, e perchè forse a sua insaputa venne aiutato da
Vario e Virgilio, i quali indipendenti e sommi non mercanteggiavano sulla
virtù e suiramicizia ! O. conservò sempre una virile dignità, né fu mai
parassita o cortigiano di Mecenate, ma suo amico fedele, e fedele gli fu
sino alla morte che li colpì, per istrana fatalità,
insieme! Svetonio riporta l'epigramma faceto ed amichevole che
Mecenate ad O. diresse, che molto spiega e rischiara : Ni te
visceribiis meis, Morati^ Plus jam diligo^ tu tuum sodaUm ninno me
videas strigosiorem, (( Se io, o O., non continuerò ad amarti
più di me stesso, possa tu vedermi ridotto più sfiancato del mio muletto.
Al cardinale Ippolito d'Este, che non era certo al livello di Mecenate,
né per inge- gno, né per ricchezza e potenza, e che ri- volse
all'Ariosto quell'esclamazione avvili- ti va: « Donde traeste fuori,
messer Ludovico, tante fanfaluche ? » Ariosto scriveva : Fa che la
povertà meno m*incresca^ E fa che la ricchezza sì non m*ami Che
di mia libertà per suo amor esca. Quel ch'io non spero aver fa eh*
io non bramii Che né sdegno ne invidia mi consumi . Si noti
differenza di sentimenti ! O. così risponde al celebre
giurecon sulto Caio Trebazio Testa, che lo consi gliava a celebrare
coi carmi suoi immorta] le gesta di Ottaviano: Trebazio di
Cesare tinvitto Osa le gesta celebrar^ sicuro Che ne
otterrai ricca al lavor mercede, O. cedono ineguali A tanto
desio le forze inferme fuor che in propizio istante. Mai non Jìa che di Fiacco
accento voli) Ma questa è apologia bella e buona, chse, sed
c( si tibi natura deest, corpuscolum non « deest. )) Dai
quali brani si rileva che Augusto non solo stimava Orazio al massimo grado,
tanto da temere che essendo le sue opere immor- tali, non curasse
d'immortalarlo in esse, quanto eragli amico intrinseco e con lui
so- leva scherzare come con un suo pari. Ed Augusto non addivenne
l'erede testamentario del poeta? Sono fatti che riescono incomprensibili
a quelli che non vogliono riflet- tere quanto grande sia la potenza del
genio, dell' arte ! Il volo sublime spiccato dal vate venosino è un
fenomeno che merita uno stu- dio speciale, e non altrimenti possono
spie- garsi quelle poesie nelle quali la superbia e lo sprezzo del
volgo profano fanno ma- nifesta quella grandezza sua, che
chiarissima a lui stesso appariva. Di bronzo più durevole Ho
un monumento alzato.,.^ Non Jta che basti a chiudere Me breve
tomba intero Dair imo suolo alt etere Diran eh io seppi
alzarmi Primier su cetra italica Cigno d* Eolii carmi,,,..
Superba or va^ Melpomene Dei meritati allori Tutto il
terrestre spazio È angusto a me confine,... Non io
Da r urna e da la stigia Onda sarò ristretto^ Già del
figliuol di Dedalo Io spiego ala piti ardita.... Laude fra tardi
posteri Farà ch'io, guai per fresca Aura, arbuscel piti
vegeto Ognor m^ innovi e cresca..,. La pompa è a me soverchia
Che r altrui tombe onora,.,. 34) Colui che si esprimeva in questi
termin sentir doveva di essere di gran lunga supe riore a tutto il
resto degli uomini, e non rieso incomprensibile che abbia potuto divenire
i favorito del potentissimo Augusto, siccom( lo era del generoso
Mecenate. E che la superbia di O. fosse stafc sprone
ad acquisto di ricchezze ed onori e vuo- ta supremazia sui suoi simili,
patentemente vien diniegato dal suo metodo di vita, dalle sue
massime radicate di sobrietà e morigera- tezza, dal suo contentarsi del
poco e godere della parsimonia. Mecenate ed Augusto po- teaii certo
offerirgli più che un podere in Sabina, potean delegarlo proconsole in terre
lon- tane, dove sarebbe ritornato ricco come Lu- cuUo; ma ciò
sarebbe stato un offenderlo, un ferire la sua suscettibilità, un recargli
fastidio, un attendersi un reciso rifiuto, perchè non eran questi i
voti del venosino. È notorio che Orazio non usò altri di-
stintivi di onorificenze se non lanello e gli ornamenti di giudice, ^5)
ma valevasene sol- tanto per accompagnare Mecenate nei pub- blici
ritrovi, perchè non amava certo che si fosse detto che l'amico del
potente signore fosse un figliuol di liberto, bensì un cava- liere
che comandato aveva una legione ro- mana! Un poderetto in
luogo ameno, salubre, tranquillo e lontano dai rumori della gran
città, un tetto sicuro, la certezza di vivere agiato, la vicinanza ai suoi
sinceri amici protettori, ai quali dimostrava ad ogni p
sospinto la sua riconoscenza: ciò gli era ne solo sufficiente
ma sovrabbondante, e ne rii graziava le divinità! Ah
che daddovero era una grand' anim quella di Orazio venosino ! O
divino Verd o sommo Cantù, voi siete oggi esempi vi
venti di uomini immortali aborrenti dalla st perba jattanza,
e modesti, e cari ai popoli e all'Essere eterno che vi stampò !
Riesce fs cile notare nel passato, fatte le dovute ecce
zioni, taluni pure letterati od artisti, ai qual riuscì
appena in certa guisa a far risonar pel mondo la tromba della fama,
che non pii si appagarono di piccoli poderi o rustich-
casette, ma bramarono s'innalzassero monu menti a loro stessi
viventi. Vollero onor sommi , castelli , parchi , magnificenza ,
fra stuono di accademie e di teatri, e scialo à superare i re
della terra ! LA VILLA SABINA SvsTomo — Vitt ili Orma
L'ooohka eoM DgU kiL mlil non ibiHa, Qu«l oh* poHl*d«: PIA
qaaL poco i mto^... Cari rfciuip « M mtJ crvLI. immL Gaioallo
Tra4. ili Orati I ell' esposizione della Promotrice in Napoli si
ammirava un cjuadro ad olio, segnato O. in viiia, dell'illustre
pittore Camillo Miola, mio amico, autore della Sibilla, del San-
sone al torchio, delle Danaidi, del Plauto^ e di altre pregevolissime
tele riguar- danti r antichità, e dì cui l' Illustrazione italiana fa
elogio sommo, dichiarandolo uno dei migliori artii moderni d'
Italia. Ed invero chi esamina quel quadro st pendo yien
compreso d' ammirazione p l'arte e per la precisione storica che vi
nota. Non palagio cinto da portici, o i parco, o da aiuole fiorite, non
statue né ca celli con grifoni e sfingi di bronzo; ma ui modesta
costruzione nascosta da un altissin albero, sul quale si arrampica un
cespo g gantesco, che lo fa assomigliar ad un eno me roseto; con
semplicità di colore, con pi cola corte, con finestrette modeste, da
un delle quali pende una gabbiolina con un capinera, e da cui
compare il busto di On zio che maschera una vaga donzella, dell
quale si distinguono solo le belle fattezzrini e Batillì imberbi con lunghe
chiome, che saltellando ed agitando nacchere e tirsi, si versan
dalle anfore colme vini prelibati rac- colti nel podere. Una capretta
randagia presso il rustico cancello di legno, apparisce spetta-
trice innocua di quelle piacevolezze campestri. Basta veder quel quadro
per formarsi una idea della proprietà che Orazio si ebbe in dono da
Mecenate, unico dono che la sua modestia aggradì, e che confaceva al
suo ideale. O. cosi enunzia la topografìa del suo
podere rustico: Tutto di monti una catena il forma^ Se non
che t interrompe opaca valle Ma così^ che sorgendo^ il destro lato
Ne copre il sole^ e con fuggente carro Cadendo^ il manco ne vapora. Il
clima Ne loderesti) Nella terza satira del secondo libro per
la prima volta parla di tal dono che gli venne fatto da Mecenate
quando cioè Agrippa fu edile. Perchè, siccome opina il Dacier,
nella sua Cronologia delle opere oraziane, tale satira in quel tempo fu
scritta. Ed O. ringrazia cordialmente Mece- nate per tal dono che gli
giungeva nel suo trentesimosecondo anno di età. La voracità
del tempo che ogni traccia di opera distrugge ed oscura, fece del
tutto scomparire le vestigia della villa di O. in Sabina. Solo la
pertinace ricerca dei suoi ammiratori, e la religione che
accompagnò i dotti archeologi nel voler rintracciare i ru- deri di
tal fabbricato e podere, guidati dal lume nello stesso O. nelle
descrizioni che ne fa nelle sue opere, fece in questi ul- timi anni
stabilire il luogo preciso, la con- formazione e r area dove quella villa
sor- geva, e dove il gran poeta, al dir di Sve- tonio, visse molti
anni nel ritiro fin secessu) e nella quiete. Ch. Guill.
Mitscherlich, dotto filologo prus- siano, nelle sue Racemationes
venusinae; Obbario, nelle sue no- te sulle epistole oraziane; e
principalmente r opera che X illustre Chaupy pubblicò in Roma sulla
Scoperta della casa di O., possono offrire prezìose notizie sulle
ricerche pazienti e sulle in- vestigazioni profonde e minuziose fatte
per dar luce chiara a tale obbietto. O. disse che al suo
piccolo fondo bastano cinque lavoratori per menarlo a coltura, i quali andavano
a smerciarne le der- rate a Varia, piccola città lambita dall'
Aniene, ed avean tutti alloggio nei fabbricati adia- centi a quelli
che lui stesso abitava, e dove ciascuno soleva vivere con la propria
fami- glia, tanto che dai fumajuoli delle cucine, sul far della
sera, sprigionavansi cinque nuvo- lette azzurrognole che ne indicavano il
ru- stico convito (cinque fuochi), ed il soggiorno tranquillo.
Si costuma tuttodì dagli agiati proprietarii di terre nelle
province meridionali di vivere nel proprio fondo circondati dai
rispettivi coloni, e r occhio vigile del padrone non nuoce alla
prosperità di esso. Si comincia pure oggi a comprendere dai
ricchi possessori di latifondi che la pigra vita delle popolose città non
ridonda a vantag- gio della loro fortuna. Si creino pure ca-
stelli, e si viva in essi, ma si faccia dimora presso la sorgente, donde
si ricavano quel ricchezze che rendono disuguali gli uomii fra
loro. Si renderebbe così possibile e pei donabile tale disuguaglianza! Il
principale castaido di O. dovev nominarsi Davo, marito forse a quella
Fi dile alla quale dirige consigli savissimi salutari con una sua
epistola. Davo esser do veva un cattivo castaido, come lo son per h
più quei villici che abituati da tempo a fa da padroni nel fondo, mal
vedono un nuo vo signore venire ad imporre ad essi leggi ( dettami
ed a sorvegliarli. O. lo rimbrotta acremente in una satira, ^s) perchè
nelle fe- ste saturnali, solendosi concedere ai subal- terni piena
facoltà di esternare i proprii sen- timenti senza poter venire redaguiti
dal pa- drone, ancorché gliele cantassero amare, (e tal costume si
è conservato sin negli ul- timi secoli scorsi, e Tansillo, venosino,
nel suo sudicio e laido poema, che intitolò //
yendemmtatore^vciostvò quanto quella libertà possa degenerare in licenza)
svela il suo animo protervo, indocile e poco amante delle rusticane
usanze e prosperità derivanti dalle buone e fertili annate, e dall' amor
del suolo opimo; che anzi si svela amante dei piaceri della città
per quanto spregiatore delle gioje campestri, e sotto la veste del
campagnuolo si nasconde un guattero tralignato, ed un operajo
invido ed infingardo. Davo prima di entrare nel podere aveva
servito dei signori romani nell* ufficio di mediastmus. Si figuri il bel
tomol Il fondo si componeva di una selvetta ce- dua (dove al
poeta successe quel fiero in- contro col lupo, ed un dio propizio lo
fé' restare incolume) ricca di elei ed altri alberi ghiandiferi che
servivano ad alimentare le piccole greggi. Vi si godeva nell* estate
fre- scura e raccoglimento. Eravi un pomiere, ed un orto, nei quali
pruni, susini e cornie ab- bondavano, con diverse altre specie di
frutta delicate : né mancavano ulivi; tanto che ben potea dirsi di
ritrovarsi a Taranto. La vite poi formava la parte più ricca del fondo,
e dalla quale Orazio solea distillare quel cele- brato vinello che
non disdegnava far gusta- re al palato di Mecenate. Nel mezzo
del fondo scorreva un rivolo di acqua freschissima, che ricascando
in gt terelli e piogge, e purificandosi lungo le ghi je, formava
poi una fonte limpida e crisfc lina da potersi paragonare al celebre
fon Bandusia, che versava le sue pure linfe pres; la patria del
poeta, e che ancora oggidì qu di Palazzo S. Gervasio chiamano
Fontah di Venosa, presso il bosco di Banzi. La fontana
D* acqua perenne a la magion vicina,,, '9> è appunto \
attuale fontana degli Oratir presso Tivoli. Il fonte Bandusia sta
press Venosa nella strada che mena a Palazzo £ Gervasio, e X ode ad
esso fu improvvisai da Orazio in una gita a Venosa per cacci, o
diporto. Erroneamente si confondono queste du\ cioè morirà il
mio corpo marcescibile, ma Y anima mia soprav- viverà I In che cosa
si discosta dalle credenze del cristianesimo, se si cangiano i nomi
alla divinità che dall' alto dispone, assiste e protegge? O
Jehova, o Dio, o Giove, uno è il prin- cipio, r esistenza d' un essere
soprannaturale che tutto vede e dispone, e che premia o punisce.
Non è la sommissione buddistica, bensì la virile sommissione ad una forza
on- nipotente. Orazio diceva: Che Giove fra celesti
Tien regno ^ il tuon creder ci feo primiero. ^^ E Vittor Hugo
in questi ultimi tempi, ben- ché ammantato di scetticismo volteriano,
gri- dava: // est, il est, il est! **) A tali credenze
religiose mescolandosi la -c(a più dolce salsa alle vivande
Procaccia col sudor. 5^) Soleva in compagnia dei suoi familiari
ed alle vezzose ancelle od amiche, aggiungere a queste semplici
vivande un buon bicchiere di vino schietto e leggiero, che essi
mede- simi avevano manipolato dopo la gioconda vendemmia.
La sua mensa era linda, lucente, bianca, sulla quale campeggiava un
vasello emble- matico ripieno di sale: e V aveva per caro auspicio
e quale usanza religiosa. Il sale ha avuto grande importanza in
tutti i tempi, persino nei culti. Presso gli Israe- liti serviva
per purificare e consacrar la vit- tima nei sàcrifizii. L' acqua santa
nostra è mista al sale. Questa sua grande mondezza, non lo
dissuadeva dall' invitare a convito amichevole, oltre ai suoi amici di
condizione eguale alla sua, siccome Torquato, Settimio, LoUio,
Quinzio Irpino, oppure delle donzelle di vita allegra ed avvenenti, come
Fillide, Glicera, Cloe, Tindaride, anche il gran Mecenate, al quale
scriveva: n nauseoso lusso ammirar cessa.
Grato ben giunger suole Sovente ai grandi il variar di scena.
Cerca mensa frugai^ là dove ammessa Non è pompa d^ arazzi^ e non di
porpora In pover tetto fa sparir le impronte Che affanno incide in
accigliata fronte. Viriti m' è schermo^ ed il seguir m' è pregio
Povertà senza fasto e senza sfregio) Ed in tali circostanze
straordinarie mo- strar si soleva galante a modo suo. Inco-
minciava col prevenir gli amici che se con- servavano vino miglior del
suo, Io portas- sero pure alla sua mensa che non se ne sarebbe
offeso, anzi ne avrebbe bevuto un bicchierino di soverchio alla salute
del do- natore. O. ammetteva che il vino rinfocolasse l'estro
poetico, e perciò mal soffriva sedessero al suo desco gli astemii,
sostenendo che pu- tirono di vino sin dall' alba le dolci muse.
Prometteva ai commensali che li avrebbe collocati nel triclinio
ciascuno presso a per- sona che non gli riuscisse antipatica o me-
ritevole di troppe cerimonie. Né disdegnava riservare il posto ai più
gai, ai più giovani e baldi, presso quelle generose donzelle ro-
mane di bellezza e brio regine. La gentilezza, poi, formava il principale suo
pensiere. Così scriveva a Torquato: Già il focolare da un
pezzo e le stoviglie Splendon rigovernate a farti onore
A bere^ a sparger fiori io già son primo, Che sozza coltre
Che sordido mantil non giunga il nc^so Ad aggrinzarti^ che il
boccale eh' il piatto Tal non sia che specchiarviti non possa)
Né gli piacevano numerosi convitati, ma pochi, cari e buoni:
Che caprino sentore ammorba i troppo Folti conviti. Riesce in vero
gradito e dilettoso figi rarsi in mente il nostro O., re del coi
vito, con quel suo faccione pieno e rose^ ilare, faceto, coronato di
rose, levigato terso colla cute, da sembrare un majaletl lustro e
pinzo. Levatosi da letto, soleva andarsene a zoi zo per la
sua terra, e dilettavasi a smuover glebe e sassi, adocchiare i filari
delle vit curare gì' innesti delle piante e degli albei da frutta;
della qual cosa solcano ridere vicini) i quali conoscendo come
Grazi frequentasse la corte, e che di Augusto e e Mecenate e di
altri potenti fosse familiare non poteano persuadersi di questo suo
amor per così rustiche e basse faccende campe stri. Non
riflettevano essi che nella ment del venosino eravi fisso, incardinato il
« m admirari y> secondo l'opinione di Laerzic e di Democrito.
Orazio era dotato di « aia raxia » e le grandigie, il fasto, il lusso
nor lo lusingavano punto, anzi ne era al somme disgustato, siccome
ritrovava diletto in quelle sue. umili occupazioni. Ecco il suo
savie consiglio: Alma al ben fare accorta Tu serbi
• inflessibile A V oro abbagliator d* ogni pupilla.
57) E dopo le escursioni nel podere ponea mano a coltivar lo
spirito, scrivendo, leg- gendo, meditando. Solca poi di
tratto in tratto recarsi nella gran città, in Roma, sia pel disimpegno
della sua carica di scriba della questura, sia per altre faccende,
sia per coltivare le amicizie di Augusto, di Mecenate e di altri che
egli stimava, principalmente versati nelle lettere e nelle scienze.
Ma sen ritirava sfinito, perchè la folla dei postulatori,
degl'intriganti, dei finti amici invidi e malvagi, degli zingani,
dei ciurmatori, ruffiani, baratti e simili lor- dure, e dei molestissimi
e garruli falsi lette- rati non lo avevano risparmiato.
villa, e quando io rivedrotti^ e quando Potrò dei prischi saggi or
fra i volumi Or tra il sonno e le pigre ore oziose Trarre de V egra
vita un dolce oblio ì Li fave^ al Sannio, in parentela aggiunte E i
buoni erbaggi come va conditi Nel pingue lardo, oh quando avrò sul desco
I notti I cene degli dei^ dov* io Presso il mio focolar coi miei m'
assido^ E mangio^ ed alla vispa famiglinola Dei servii nati dai
miei servii io stesso I già libati pria cibi dispenso! S^) Della
sjpa persona soleva avere som cura, perchè quasi giornalmente
immerge nel bagno, e dopo ungere si solea di o profumato e
finissimo. Nel vestire most vasi dimesso e noncurante, ma non pe
privo di gran pulitezza o da potersi dir come vuole san- to
Attanasio, al dir dello stesso Lupoli e del Farao. ^^) Non mi è quindi
riuscito straordi- nario ed inesplicabile quanto in appresso verrò
esponendo circa le consuetudini do- mestiche d’O.. Nelle
molteplici edizioni delle opere del sommo poeta, le quali riportano la
sua bio- grafia redatta da Svetonio Tranquillo, ho rilevato che si
è tralasciata una notizia in- teressante che riguarda una sua pratica
oc- culta, la quale può ben riferirsi al culto sur- riferito di misticismo
caldaico. La vita di O. composta da Svetonio Tranquillo, che è
l’unico che scrive del gran venosino pochi anni dopo la morte
di lui, e che fa accrescere certezza alle investiga- zioni fatte
neir analizzarne le opere, si compone non più di una sessantina di versi
di stampa. Tutto è laconico e scritto fugacemente, come se si trattasse d’un
cenno necrologico. Sembra che Svetonio abbia vo- luto far notare con
certa diffusione Solo l'a- micizia intima che legava O. ad Augusto,
ed in essa si dilunga, fornendo preziosi brani di lettere. La quale
riproduzione di brani di lettere di Augusto ad Orazio dirette
forma- vano forse il soggetto che per la maggior parte dei
contemporanei destar doveva in- teresse maggiore, e far di O. un
uomo agli altri superiore per tanto onore. Il brano della biografia
che è stato cancellato (forse per purgarla), V ho rilevato da un'
edizione olandese delle opere di O. pub- blicata da Bond, che
la prima volta comparve in Londra nel 1614, e dopo se ne riprodussero
diverse al- tre edizioni intere, ed è il seguente: (( Ad res
venereas (Horatius) intemperantior traditur nani speculato cubiculo
scorta dicitur , habuisse disposila , ut quocunque respextsset, tòt
et imago e referretur. Formava adunque per Fiacco un culto (( / ars
Venerea » , ed egli addimostrava- sene tanto fervente, perchè nato nel
luogo ove sorse il primo Succoth-Benoth. Nella cennata antica
cronaca venosina del Cenna , il quale era pure investito della prima
di- gnità del capitolo dell' insigne cattedrale di Venosa, si
leggono i seguenti versi che rinforzano la mia assertiva: « Alcuni, e
spe- tialmente Nicolò Franco nelli suoi Dialoghi, vanno dicendo che
Horatio Fiacco fusse stato in sua vita di costumi osceni, il che
tutto è falsissimo, siccome lo testifica Ludovico Dolce nella vita
di esso Horatio. » E Sivry, eccelso poeta, nel suo poema. « L Emulation »
va all'eccesso contrario, proclamando O. (( modéle de bravoure et de
chasteté. » Ciò che forma adunque l'addentellato al dispregio
di molte produzioni oraziane, viene per tal riguardo distrutto ;
considerando che la sporcizia e l'oscenità, non erano poi in quei
tempi una qualifica essenziale dell' immoralità e della disonestà. Egli stesso
ripetuta- mente bersaglia, bistratta, dispregia e colpi- sce gli
adulteri, i violatori delle vergini, gl'incestuosi I Eran questi per lui
grimmo- rali ed i disonesti. E se non è questo il cor- reggere i
costumi, qual altro fondamento di morale, mancando la cristiana, poteva
offrir- gliene sostegno ? Egli rampogna acremente i Romani d'
ir- religione e lascivia. Egli volle vivere sempre celibe. Del nodo
d'Imene aveva tale concetto d' alta responsabilità che non volle
allacciar- sene, né restarne tenacemente avvinto. La moglie di
Mecenate gli forniva un esempio troppo splendido d* incostanza, infedeltà
e disonestà. Terenzia seguì Augusto in Asia abbandonando lo sposo.
E non parea conve- niente al sagace venosino far la triste figura
di Mecenate, intendendo professare V opi- nione di Seneca a tal riguardo,
quando com- pose la biografia del marito dell' infedelis- sima
Terenzia.Il suo celibato vien confermato dal non aver scritto mai carme o
verso per donna che fosse stata sua moglie. E lo dice esplicito e
chiaro nell'ode 8* del libro 3^: Te Mecenate il rimirar
sorprende Che vivo cespo ardente^ e incensi^ e altari^ Io cèlibe^
di ?narzo a le calende E fior prepari. E solo ad un
celibe sarebbe convenuto far pompa di tante conoscenze di cortigiane
e donne allegre. Lagage, Gige, dori, Barine, Foloe, Leuconoe,
Noebule, Lidia, Neera, Glicera, Tindaride ed altre dimostrar posso-
no, essendo state amanti riamate di Orazio, che se egli non aveva moglie,
godeva non poco del benefizio inapprezzabile di essere li- bero e
celibe. ìÀjiS^Ì se.
"*-Sj GuOALio Tml. di
Orm , N moltissimi punti delle opere di Orazio appare che nella sua
mente elevata si presentava l'immagine della morte, questo
indecifrabile, nebuloso, oscurissimo problema, questo fatto in-
cognito, pauroso e spaventevole. E dir ch'egli covava in petto un cuor di
ferro, e so- steneva che: Con impavido ciglio Se
delteteree spere in pezzi infrante. Valta compage piombi Sotto il
suo minar Jia che s* intombi, ^^s) Non poteva con tutto ciò
esimersi da quella paura istintiva, da quel senso di terrore in-
generato dal dover mancare alla vita, dal do- ver brancolare nelle
tenebre dell'ignoto. Nato a morir Tutti attende alfin quella
profonda Che non conosce aurora unica notte Hctssi un giorno a
calcar la stigia sponda Presto rapì t inclito Achille morte E a me
ciò farse offrir vorrà la sorte Necessità di morte
Getta sovra ciascun Legge crudeli Ma pazienza mitiga
Ciò che non ha riparo Tutti spigne tal forza ad ugual
meta Che a pugnar seco è mortai forza inabile) Tutta la
sua filosofia: le massime di Democrito e di Epicuro, che facean precetto
essenziale di dispregiare e non curare gli orrori del sepolcro, non
bastarono a toglier questo pensiero ftinestissimo dalla mente di
lui. In mille maniere lo rimuginava, lo com- mentava, compiacevasi
tormentarsene. La lu- ce ed i fulgori delle verità cristiane non
gli rischiaravano l'intelletto e non gli molcevano il dolore,
promettendogli una patria lassù, sulle sfere, patria immutabile, bella d'
ogni godimento ed allietata dalla vista di quel Dio rimuneratore e
buono ed onnipotente. Ammetteva Y Èrebo e Y Olimpo, come so-
levansi ammettere quei miti inverosimili ed incredibili, che acchetavano
la bramosia di quei popoli privi di una fede consolatrice, che
prometteva la beatitudine ventura come compenso alla vita onesta e
laboriosa. Dato che il piacere terreno formar do- vesse la
meta della felicità, che poteva spe- rarsene dalla vita futura? Il nulla,
la distru- zione completa, la particella della materia andava a
ricongiungersi alla materia: Noi cadendo Nella notte che non
sgombra Più non siatn che polve ed ombra . Degli anni il breve
termine Vieta ordir lunga speme: V ombre favoleggiate e la
perpetua Notte già già ti preme) Nella distruzione completa del suo
essere O. ammetteva che soltanto una parte di se stesso sopravviver
dovesse eterna: cioè il frutto dei suoi sudori, il suo monumento: r
anima sua. E tale credenza, che non era dubbio, gli scusava
la fede nel!' immortalità dello spi- rito umano. L* (( omnis
moriar », espressione tanto concisa per quanto chiara, spiega che
non eravi dubbio in lui neir immortalità del- lanima. La paura
della morte comune a tutti, sebbene con tanta jattanza, dalla
maggior parte apparentemente sfidata, più che O. vinceva il suo
protettore , Mecenate. E siccome la paura è attaccaticcia e conta-
giosa, O. non addimostravasi meno al- larmato di lui. E tal pensiero
dominante trapela nelle sue opere, come quell'altro, che lo mordeva
sordo, della nascita vile ; né bastavagli a frenargli la lingua, la sua
for- tezza e valentia. La paura della morte era così possente in
Mecenate da fargli dettar quei versi riportati da Seneca, che non
fanno grande onore al valoroso romano: Vita dum superest, bene
est Hunc mihi vel acuta Si sedeam cruce^ sustine ! Tanto grave e
scoraggiante riusciva per lui tale idea, che avrebbe meglio amato
ve- nire inchiodato in croce come l'ultimo dei malfattori e vivere,
che farsi tragittar da Caronte nella palude Acherontea. Orazio
venivalo consolando con teneris- sime espressioni, perchè O. non era
codardo, né intendea scoraggiarlo maggior- mente. Ma le sue espressioni
non appro- davano gran che. Tentò alfine porre in ope- ra il savio
consiglio, che la pena gli sa- rebbe venuta scemata sapendolo
compagno nel dolore, ed è perciò che gli dice senza essere scevro
di paura : , Non piace ai numi Che i tuoi si spengano
pria dei miei lumi Un dì medesimo fia d* ambi estremo Ne il voto è
perfido, inseparabili Andremo^ andremo. Che pria se muori Pur teco
air ultimo comun mi trovi I nostri unanimi fuor S ogni esempio
Astri consentono 69) E tale profetica consolazione, per
istrana fatalità, si verificò pur troppo. Non è lecito veder tutto
con tinte soprannaturali. Buona parte di quello che molti direbbero
spirito profetico attribuir si deve alla paura della morte che
premeva così Mecenate come O. E la paura, il dubbio dell' ignoto, non è
vigliaccheria, bensì è innata nella natura umana. Anzi prode è colui che
questa paura affronta, e guarda imperterrito quella figura armata
di falce, sfidandola sui campi delle battaglie, al letto degli
appestati. Se non vi fosse terrore e spavento istin- tivo del
morire, quale prodezza, qual valentia sarebbe affrontare impavido la
mitraglia e le pesti, il mare irato ed il baleno delle armi nelle
tenzoni cavalleresche? L' amistà che legava Mecenate ad Orazio, il
sentirsi quel grande consolato da lui così coraggiosamente lo fecero
memore del poeta che l'assisteva nelFora estrema a preferenza degli
altri. Nel suo testamento scriveva ad Augusto, al dir di Svetonio: (c
Prendete cura di O. Fiacco come prendereste cura e terreste memoria
di me stesso I » E riesce veramente straordinario come, morto
appena Mecenate, che era già soffe- rente e presentiva la propria fine ,
dopo pochi giorni, un subitaneo malore colpì il sommo filosofo, da
non lasciargli neppure il tempo di dettare in iscritto le sue ultime
vo- lontà. Andonne misteriosamente a raggiun- gere r amico neir ima
notte, siccome aveva promesso. O. morì a Roma, essendo consoli Caio Mario
Censorino e Caio Asinio Gallo, nell'età di anni cinquantasette, due
mesi e qualche giorno, cioè nel dì 27 novembre. Già da
qualche tempo varcati i dieci lu- stri, O. non senti vasi sano: accusava
sof- ferenza ai nervi e malinconia che accom- pagnar sogliono per
lo più quelli che tra- scorrono molte ore del giorno a logorarsi la
mente coi severi studii. Perchè i visceri si rendono sofferenti per le
occupazioni men- tali, e defatigata la mente, la tetraggine invade
il cervello , principalmente quando gli anni incalzano. In
una lettera che il poeta scriveva ad un compagno d'impiego nella
questura, Cel- so Albinovano, suo amico, ma che giunto al- l'
apogeo della grandezza, perchè ben ve- duto e careggiato dal giovane
Nerone, erede dell' imperio, mostravasi altezzoso e superbo (sebbene
non manchi la nota sarcastica, ben- ché infermo , per questo favorito di
ven- tura) così diceva : Dritto né ameno è di mia vita il
corso^ Perché men della mente sano Che delt intero
corpo^ udir vo' nulla, Nulla imparar che il morbo sgravi, I fidi
Medici fanno orror, gli amici restia Perchè al sottrarmi al rio letargo
intesi. 7o) Ed a Mecenate . scriveva : Ma di cor debil
troppo e troppo infermo Me conoscendo^ chiederai tu quale Il mio
far possa al tuo periglio schermo ?... 70 Col corpo affranto dal
peso degli anni, dalla vita trascorsa nelle fatiche mentali e nelle
avventure e nei godimenti venerei, sopraggiunse ad O. la nuova della
mor- tale malattia del suo Mecenate e la fine dì questo. Il colpo
fu troppo violento e dovea riuscirgli fatale. La sua fibra debole
non poteva resistere. Pomponio Porfirio, che con lo scoliaste
Elanio Acrone, dilucida le la- coniche note di Svetonio, circa la vita
di Orazio, dice che lo stato suo di salute era deteriorato assai con
gli anni, che non gli conveniva più restar l'inverno nelle monta-
gne della Sabina, nella sua cara villa : che svernar soleva a Tivoli (ed
egli stesso lo scrisse) come il luogo più aprico: ce Tiburi enimi
fere otium suwn conferebat , ibique carmina conseribebat.ì) E Tivoli
desiderava Orazio infermo e pensava morirvi là. Così egli scriveva
al fido amico Settimio: Oh tregua al vecchio fianco
Tivoli dia Quivi piagnente di pietosa stilla
Spargerai la calda delt amico vate favilla. 7^) Certuni
erroneamente attribuirono la mor- te di O. a suicidio, tanto apparve
strana la coincidenza della sua con la morte di Me- cenate. Ma deve
venire del tutto bandita tale idea per le seguenti ragioni. O. dei
suicidi soleva fare aspro maneggio, soleva dileggiarli; e la storia di
Empedocle di GIRGENTI che ricorda ntìV^rfe poetica, chiaramente lo
dimostra. Empedocle per desio di molta vanagloria e prodezza, invano
precipitossi neir Etna. Ma la sua pantofola ne tradì la inutile
bravura. Esaminando imparzialmente e con co- scienza la vita di O.,
si nota che ogni sua cura si volgeva a conservarla, sia che
militasse a Filippi, sia che vivesse in Sabina. Era poi tarchiato ed obeso, e
quindi facilmente proclive all' apoplessia. Che era già fiacco e
malandato in salute nel suo undecimo lustro. Che il dolore della
per- dita del suo più caro amico e protettore Mecenate (egli così
amante degli amici e riconoscente) doveva avergli prodotto tale un
rincrudimento dei suoi malanni da dar- gli la morte con colpo apopletico.
E son numerosi gli esempii di fratelli od amici ancor forti e
vegeti , che, toccati dalla re- pentina disparizione d* un fratello o d'
un amico, li han seguiti immantinenti nella tomba sopraffatti da
colpo di malore vio- lento. Non altrimenti deve pensarsi di O..
E che fu tale il suo genere di morte lo prova poi chiaramente il
non avere avuto il tempo di tesser un elogio funebre al suo sommo
protettore Mecenate, che aveva assistito negli ultimi momenti, mentre lo
fé' con Virgilio e con altri. Eppoi non ebbe forza di scrivere il
proprio testamento. Svetònio dice: (c Quum urgente si va-
letudinis non sufficeret ad obbligandas testa- menti tabulas . Dovette
avvalersi di quello che, dice Giustiniano, prescrivevasi dal giure civile
di quel tempo, cioè della prova testimoniale di sette cittadini,
che dinanzi notaro provarono esser volontà del moribondo O. che
l'imperatore Augusto fosse il suo erede, Orazio per decidersi a lasciare
erede \ imperatore , che consentì ad accettare \ eredità, doveva
esser fornito di non pochi beni di fortuna. Che di fondi, che di valsente
doveva aversi senza manco veruno un buon dato, stante la sua
parsimonia. E lo certifica Svetònio quando accennando alle largizioni di
Mecenate e di Augusto dice: (( Unaque et al- tera liberalitate
locupletavit. » Ma delle sue sostanze rimaste non appare vestigio
od accenno, meno della villa e del podere in Sabina, che han
formato, come si disse, la paziente investigazione dei dotti
archeologi e degli ammiratori del grande filosofo. L' aver lui posseduto
poderi in Taranto, a Tivoli od a Roma, non è che una supposizione dei
comentatori delle sue opere, che di. ciascuna sua aspirazione han formato
un dominio. Mentre chiaramente Orazio, nella sua diciottesima ode
del secondo libro dice: (c Satis beatus unicis sabinis. » La quale
esplicita dichiara- zione formò la base delle rimunerate inve-
stigazioni archeologiche del Capmartin de Chaupy, siccome si accennò
parlandosi della villa oraziana. Che anzi in Taranto è comune r
idea falsa che Orazio si avesse colà un po- dere nel luogo detto ce Le
Leggiadrezze ». Ma per quante ricerche siansi fatte dai dotti,
principalmente dal Tommaso Nicolò d' Aquino, autore dell'opera Delle delizie
Tarantine, da Giambattista Gagliardo nella sua Descrizione topografica di
Taranto, e da Ate- nisio Carducci, illustre letterato tarantino,
nella sua versione dell' opera del Aquino, con note, non si è potuto
affermare che O. avesse dominio in Taranto, ma soltanto ohe vi
avesse fatto delle brevi escursioni per isvago. In Venosa poi, sua
patria, non evvi vestigio di casa o podere a lui od ai suoi
appartenuta, dovendosi credere erronea V as- sertiva di Cenna, venosino,
nella sua cronaca manoscritta, più volte mentovata, della città di
Venosa del 1500, nella quale si dice aver posseduto Orazio una casa
presso le antiche mura della città, a levante, forse alludendo a
quella che si accennò nei capi- toli precedenti, appartenente ad uno
della tribù Grazia romana, e di cui ritrovossi iscri- zione. E da
tale ipotesi lascia derivare che dalle finestre di quella sua abitazione
in Ve- nosa, Orazio spaziasse con lo sguardo sopra vastissime
campagne, e da quella veduta venisse ispirato a dettare i versi : « Lauda-
turque domus longas quae prospicit agros. » Perché non riferire invece
con maggiore pro- babilità air agro Sabino ? Ciò si dimostra
chiaramente erroneo, quando si riflette a tutto ciò che si è riferito nei
capitoli precedenti circa la dimora di O. in Venosa, ove si
trattenne solo adolescente : circa la con- fisca di tutti i beni della
sua famiglia, perchè seguace di Bruto, e particolarmente per non
averne fatto il menomo indizio in tutte le sue opere. Venosa ai tempi di
Orazio era cinta da fitte boscaglie, e la lunga esten- sione dei
campi asserita dal Cenna è un sogno. Che O. abbia fatto in
Venosa qual- che rara apparizione , forse per diletto ed in
compagnia d'amici, lo lascia desumere soltanto r ode al fonte di
Bandusia, che rumoreggiava con polla cristallina ed ar- gentea nei
fitti boschi di Banzi , dove es- sendosi recato O. a cacceggiare od
a merendare, dovette improvvisare quei versi. Ciò a seconda dei
pareri dei più dotti illu- stratori delle sue opere. O., come
si disse, nacque a dì 8 dicembre del 689 dall' edificazione di
Roma, essendo consoli Lucio Aurelio Cotta e Lucio Manlio Torquato. Morì a
Roma, consoli C. Mario Censorino, C/ Asinio Gallo, cioè nell' età
di anni cinquantasette. Acrone scambia però, per errore dei copiatori
delle sue opere , il numero LXXVII per LVII, assegnando ad O. anni
settantasette. Ma Pietro Cri- nito asserisce: « Alti supra
septuagesimum annum vixisse scribunt, quod ego tamen fai- sum
existimo. » Ed Eusebio, nelle sue cronache, siccome Svetonio,
ritengono con precisione gli anni della vita di Orazio essere stati
cinquanta-sette, il primo dicendolo morto nell’ anno di Augusto, il secondo
asserendolo morto nelle date surriferite, e riportando i consolati
rispettivi sotto cui nacque e morì ; dai quali limiti precisi estremi non
è lecito discostarsi. Il suo cadavere venne trasportato ,
tra il compianto universale, in Roma, (non è indicato da alcuno
antico scritto il luogo preciso ove morì), e rinchiuso nella tomba
della famiglia Cilnia. Dacier sostiene, nelle sue annotazioni alla vita
di O. di Svetonio, che Mecenate possedeva un superbo palazzo suir
Esquilino, e presso ad esso una tomba monumentale. In questa ripo-
sarono Mecenate ed O.. Mecenate ed O. vissero amicissimi, intrinseci,
vera- mente uniti di pensieri e di amore ; benché l'uno nato di
reale famiglia e di sangue purissimo, e X altro figliuol di liberto.Una
possanza inesplicabile ed onnipotente li fece incontrare, divenire tra
loro stretta- mente simpatici, e quindi insieme dormire nello
stesso Ietto V ultimo sonno I Di Mecenate i tardi posteri
ricorderanno le gesta e la gloria pel suono reboante della tromba
della fama procacciatasi col proteg- gere generosamente quella schiera
immor- tale di uomini che vissero nel secolo di Au- gusto. Il gran
venosino vivrà eterno pel suo nionumento. È tutta sua la gloria che
fa semprepiù, col trascorrer dei secoli, stupire l'umanità, e che
non cesserà sinché traccia di vita sarawi sul globo. Del
sommo poeta non si conservano sta- tue antiche o figure nei monumenti da
po- terne precisare la struttura corporale ed i lineamenti. Ma
dalle sue opere ne appare tanto chiaro il ritratto, che basta
coordinare le parole che si riferiscono al suo fisico, per
vederselo innanzi vivo e parlante. Egli de- scrive con certa vanagloria
la lussuria dei suoi capelli d' un bel color d' ebano , che
ombreggiavangli la fronte virile e balda, ma che gli anni e le cure
aveano resi argentei. Questi hanno improntata una certa tinta di
pazzia benigna, che in luogo di ammira- zione suol destare compatimento,
antipatia e ribrezzo. Le cellule del cervello, Y involucro osseo
che le ricopre, il corpo umano, non han bisogno di quella veste esterna
non naturale, oppur naturale, sian cenci o por- pore, adipe,
globuli rossi, magrezza estrema, capelli o calvizie per foggiare un genio
od un cretino I Si può essere profondo filo- sofo, saggio come gli
antichi della Grecia, e conservar forme aristocratiche, linde, ma-
nierose, affabili, con un corpo formato al pari di Antinoo. O. ne sia
esempio lu- culento, e Foscolo e Byron e Leopardi negli ultimi
scorsi anni così difformi tra loro. Assicura Giuseppe Ilario
Eckhel, celebre antiquario austriaco, nella sua opera « Doc- trina
Nummorum » e lo conferma Masson nella sua vita d’O., nel capitolo
inti- tolato De Horatii effigie, essersi rinvenuti dei medaglioni di
metallo, terminati nella loro circonferenza con un cerchio da tre a
quattro millimetri di larghezza, e che possono ben rassomigliarsi alle
nostre me- daglie commemorative o di onore, nei quali si vede
inciso in un lato un busto , ed intorno ad esso la scritta
chiarissima (( Horattus », mentre nell' altro lato la scritta n' è
illegibile e consumata. Il busto anzi- detto è modellato esattamente a
tenore di quanto più sopra si è esposto. Uno di essi si conserva
nel museo del Louvre. E certo appaiono riproduzione di busti o medaglie
d' onore di Orazio vivente, eseguiti nel quarto secolo dell' era volgare.
Tale almeno è r opinione del dottissimo barone Walke- naèr. Nessun
busto marmoreo, come si disse, « o di bronzo si è
rinvenuto che ricordi il gran venosino. Deve però convenirsi che un uomo
che ha da poco varcati i cinquant' anni, raro è che si renda deforme e
barbogio. Anzi la razza umana generalmente suole giungere a questa
età ancora atta a buona vegetazione, e ad abbellirsi e conservarsi.
Se r aureola che circonfuse O. non è il (( nomen imitile » e neppure X opinione
che i suoi contemporanei ebbero di lui ( opinione poco proporzionata ai
suoi meriti, secondo che dottamente asserisce Leopardi, ^s) e negli
anni seguenti non ebbe tra i dotti il primo posto, perchè Dante
stesso chiamò Virgilio Aquila ed O. Satiro), maggiormente risulta la sua
vera gloria dal sempre fecondo entusiasmo che per r eternità gli
uomini risentiranno per lui Trascorsi appena nove anni
dalla morte di Quinto Orazio Fiacco, nasceva Gesù Cri- sto, il
rigeneratore dell'umanità. Oh età portentosa! L'ETERNO MONUMENTO
ORAZIANO Ouao - za. I/I. - Ode. Che dire di O. filosofo,
creatore nella letteratura latina di due ge-neri di poesie del tutto
nuove, e che seppe far giungere ed elevare persino I la lettera
all' eccelsitudine dì un ge- nere poetico? Quintiliano dice :' «
Dei lirici O. è quasi il solo che merita di esser letto, poiché
s'innalza talvolta con slancio ammirevole: è pieno di dolcezze e di
grazie, e nelle varietà -«( i84 )»-* delle
figure, delle espressioni, d' una felicis- sima audacia. » E Petronio ^7)
continua as- serendo che (( fra i romani Virgilio ed O. sono
accuratemente felici, come Omero ed i lirici greci. Perocché gli altri o
non vi- dero la strada che conduce al lirico stile, o non ebbero il
coraggio di batterla. » E que- st* opinione distrugge la miserabile
assertiva di Frontone, ^s) al dir di Leopardi, ^9) che chianja
Orazio Fiacco , siccome accennossi, appena poeta non isprezzabile
[memorabilts poeta). Tanto potevano in questo possessore degli orti
mecenaziani V invidia ed il livore, che tra certi letterati sono solite
malattie I Ma Lucano, Marziale, Virgilio, Vario, Tibullo, Ovidio,
Petronio, Sidonio Apollinare, S. Girolamo, Venanzio Fortunato,
Persio, Giovenale, Lattanzio, Alessandro Severo, Dante, Voltaire e
cento altri, a coro unanime, gridarono le lodi del gran venosino.
Moltissimi eruditi si sono occupati di studiare precisamente le opere di
O.. I più celebri fra essi nel mondo, siccome il Bent- lejo, il
Masson, il Dacier, il Sanadon, Passow, Kirckner, Franke,
Weber, Grotefend, THart, il Milmon, lo Stalbaum, il Weichert,
il Jahn, il Mitscherlich, il Dab- ner, il Jacòbs, il Leissing, il
Margestern, il Walckenaer, il Siringar, il Manso, V O- relli, si avvalsero
degl' interpetri antichi delle opere oraziane, Elenio Acrone,
Pomponio Porfirio, e dell'altro che prendendo nome dal suo editore,
si disse Scoliaste Cruchiano, non meno che di Emilio e Terenzio
Scauro. Ciascuno di essi ha cercato desumere con pazienti
ricerche il tempo nel quale O. scrisse le singole parti del suo eterno
monu- mento. Cercherò notare le più interessanti
investigazioni. O. dapprima scrisse le satire e ne compose il
primo libro negli anni di Roma, non avendo ancora raggiunto il
trentesimo anno. In essa, siccome si accennò, irrompe con
impeto sarcastico contro un tal Rupilio che con lui aveva militato
nell'armata di BRUTO, Segue poi la seconda scritta nell' autunno
del 714, nella quale parla in generale dei vizii di cui
la società romana era infetta. La quarta satira fu scritta nell'estate del
715, ed in essa cerca scusarsi col pubblico dell' essersi mostrato
un po' virulento nello sferzare la cattiva gente, e secondo il parere di
Wei- chert fu questa la satira che i suoi amici VIRGILIO e VARIO
presentarono a MECENATE, avendo inculcato al poeta di scriverla per
cattivarsi l'animo di quel potente. Scrisse la terza nel principio del
716, ed in essa fa vedere che mentre gli uomini sogliono cri-
ticare i vizii altrui, son ciechi a vedere i proprii. Vangelo dice : « Tu
suoli ve- dere il fuscello nell'occhio del tuo prossimo, e non vedi
la trave che è lì lì per acce- carti ? )) Dopo poco tempo da che tale
satira venne pubblicata, Orazio fu ammesso tra i commensali di
Mecenate; infatti la satira quinta che descrive con gran lepidezza e
pre- cisione un suo viaggio da Roma a Brindisi, vi fa risaltare la
figura di Mecenate come attore principale e come uomo politico,
spe- dito dal governo per delicati maneggi a quel luogo di sbarco
ad abboccarsi con altri personaggi influenti, e che compagni insepa-
rabili di lui furono O., Virgilio, Vario, COCCEIO e TUCCA. Compose poi la
prima satira in omaggio al suo gran protettore, e pubblicando il
libro la pose come principale, perchè a lui dedicata e per
testimoniargli la sua stima ed il suo affetto. Scrisse la nona dopo circa
un anno per cor- reggere quei miserabili che invidiandogli la
protezione di Mecenate, mostravano, .mor- dendolo col dente velenoso
della livida in- vidia, di non esserne a parte. La bellissima
satira sesta, nella quale pone la virtù come il vero blasone che onora
gli umani, e l'ottava con la quale schernisce i superstiziosi e le
donnacce, furono scritte, secondo l'opinione di Spohn. Il
libro degli Epodi era già stato composto da O. prima del cennato primo libro
delle satire, ma fu pubblicato piu tardi. Vuoisi che abbia preso il
nome di Epodi dai versi Epodois di Archiloco, che fu l'in- ventore
dei giambi, al dir di Diomede gram- matico. Sebbene altri sommi
scrittori, com- preso il Gargallo nelle note, ammettano che epodi
si dicesse il libro compilato da odi pòstume di O., fondandosi sul termine
gre- co epodem, che significa sopraccantare. E la terza del
secondo libro delle satire sostengono essere stata scritta nella villa
Sabina, dimostrando che già poco più che trentenne Orazio avea avuta
donata quella proprietà. Riguardo alle odi, furono scritte,
se- condo il parere di Butman, del Dacier e di altri dotti, nel 726
al 732 sino al 734, E da quest'anno ed i seguenti sino al 744, cioè
nella sua età di anni cinquantacinque, solo l'ultima ad Augusto, come
omaggio al più grand' uomo del secolo e suo insi* gne benefattore.
O. dalla sua villa aveva spedito ad Augusto diversi scritti e molte
delle let- tere surriferite, e gliele indirizzò con un viglietto
umoristico consegnato ad un Vinio Frontone Asella, che è proprio
l'epistola decima del primo libro. Augusto dopo aver letto tali
componimenti, gli rispose così: (( Sappi che io sono teco sdegnato ,
perche in molti di cotali scritti (come sono le satire e le epistole) tu
non parli principal- mente con me. E forse che temi non ti sia per
tornare ad infamia nella posterità, se tu mostri d'essere stato mio amico
?» A questo onorevole ed amorevole rimprovero O. rispose colla
prima epistola del secondo libro, che è invero un capolavoro nel genere
sotto ogni rispetto. Il primo libro delle epistole venne
com- posto prima del quarto libro delle odi. Il carme secolare
scritto per condiscendere al volere di Augusto fu composto nel 737, cioè
nel quarantottesimo anno d'O.. L'Arte poetica, che deve ritenersi il suo
capolavoro, e che può dirsi una lettera di- dasailica indirizzata ai
fratelli Pisoni , può benissimo classificarsi come terza nel secon-
do libro delle epistole , e venne composta nel 741-742, mentre la prima
epistola del secondo libro indirizzata ad Augusto vuoisi essere V
ultimo lavoro del poeta, e fu com- posta nel 744, avendo il poeta V età
di anni cinquantacinque. Nessun autore al mondo ha ottenuto
tanta pubblicità e diffusione e celebrità dalla sua opera, quanto O.
Fiacco (non Flacco, dato che ‘fl’ e impossibile nella fonologia italiana). È
qualche cosa che sa quasi dell' inverosimile. Basta però per
convincersene notare il numero straordinario delle edizioni delle
sue opere, dacché ci furono tramandate, siansi es- se rinvenute in
tavolette, papiri o palinsesti. Nessun erudito scrittore ha saputo
sin oggi precisare chi sia stato il primo scopritore dei canti
immortali di O., né dove rinven- gasi la prima edizione di essi nei tempi
re- motissimi composta. Vuoisi da taluni che in un museo inglese se
ne conservi vestigio. Certissima cosa é che da molti secoli, sia in
Italia che in Germania, in Francia ed in Inghilterra principalmente, le
edizioni delle opere del gran poeta possono contarsi a cen- tinaia.
Ed in ciascun anno sempre ntìove ne sorgono, unite a nuovi commenti ,
chiose e note illustratrici. È proprio l'arboscello pro- fetizzato
da O.: Laude fra tardi posteri Farà ch'io guai per
fresca Auray arbuscel più vegeto Ogn* or m* innuovi e cresca, 80
"i Quante opere insigni di altri uomini nati in
Caldea, in Babilonia, in Cina, in Grecia ed altrove sono state composte
nei secoli scorsi I E sono ignorate o perdute e scomparse per sempre. E
dei monumenti sanscriti di Persia, delle opere eccelse degli arabi
che scrissero nei tempi del califfi e dei sultani, e dei codici
vetusti dei dottissimi scrittori armeni, che invano i Mechitaristi
tentarono illustrare, che cosa rimane ? O sono cadute neir oblio, o
hawene un labilissimo ricordo, o giacciono ignorate in fondo a qualche
pol- verosa biblioteca. Soltanto la Bibbia ha pro- dotto un
fenomeno superiore, se pure non uguale, a quello del monumento
oraziano. Alle opere di O. avvenne un simile me- raviglioso
fatto. Sembrarono piccoli granelli di seme, che fruttificando, e
dapprima poco curati (che dai suoi contemporanei, come si disse e lo confermò
Leopardi, non furono tenute in quella stima che meritavano) divennero poi
giganti. Le radici dell'albero, ormai reso smisurato, si distesero
nelle viscere della terra, per tutte le latitudini, con gagliardia non
mai vista. E per disperdersene le tracce, per abbat- tere tale
fenomenale vegetazione, bisogne- rebbe che la terra universa andasse in
fran- tumi. Dalla nostra Italia, avventurosa patria del
poeta, sino ai più ignorati angoli dei poli, appaiono vestigia del
portentoso volume, in tutte le lingue tradotto e glossato. Ciascuna
edizione, ciascun libro che tratta del monumento oraziano è una fronda
fre- sca e vegeta che ci ricorda uno dei più grandi italiani.
Non era scorso un secolo dopo la morte di O , siccome attesta
Giovenale, che già le opere di lui, dai suoi contempora- nei poco
apprezzate, servirono in presso che tutte le scuole di Roma come libri
di testo, unite a quelle di Virgilio; sicché deve arguirsi che non
poche edizioni dovettero farsene in quei tempi remoti. Ma il primo
editore conosciuto si è Vezio Agorio Ba- silio Mavorzio, che studia, con
Felice grammatico, sui manoscritti e ne fece redigere non pochi esemplari
riveduti e corretti. Riuscirà tuttavia interessante
Tenumerarne le seguenti edizioni principali antiche e moderne, che sono
sparse pel mondo, sopra tali esemplari condotte: Edizione
primaria, senza luogo ed anno, con 'caratteri romani, di fogli 147, di
linee 26, in folio piccolo. Altra che non porta data, né
firma del ti- pografo che s' ignora, stampate in lettere rotonde,
di forma poco graziosa. Antichissima. Se ne conoscono solo due o tre
esemplari in Inghilterra. Edizione pure senza luogo, senza data
e senza tipografo conosciuto, pure in caratteri rotondi, ma molto
belli. Edizione di Napoli. In quarto per Arnauld de Bruxelles, pagine
Edizione di Milano. In quarto. Ant. Zarolus. Fatta sopra quella dì
Napoli. Milano. Filippo di Lavagna. Venezia. Filippo
Conda- min. Venezia. Senza nome di tipografo. Milano. In folio. Per
Antonio Miscomini, col comentario di Cristofaro Lantini.
Milano. In folio, con co- menti di Antonio Mancinello e degli
antichi scoliasti. Edizioni ripetute molte volte. Strasburgo. In quarto.
Gruninger. Opere di Orazio in latino, con testo stabilito sopra
manoscritti preziosi antichi. Con molte incisioni. La prima edizione
Aldina. Ver nezia. In 8.° (primo formato piccolo) Aldo Manuzio.
Rarissima e preziosa. Firenze. La prima dei Giunti in 8.° Filippo
Giunti. Rarissima. La prima Ascenziana, Venezia. Aldo Manuzio.
Riproduzioni. Paganini. Venetiis. In quarto grande, Petrum de
Nicolinis de Sabio. Con note erudite di Erasmo de Roterdamo, Angelo
Poliziano ed altri. Rara. Venezia. Con postille di Gior- gio
Fabricio di Basilea, Mureto. Lione. Due volumi in quarto di
Dionisio Lambino, che corresse ed interpretò magistralmente Orazio,
avvalendosi di dieci antichi codici. Edizione ripetuta con molte
correzioni ed aggiunte in Parigi, in Francoforte, ed in Parigi. Anversa.
Teodoro Pulman con critiche rinomate. Parigi. In 8^ Henry
Stefano; anche con critiche. Anversa. In quarto. Alfonso Cru-
chio. Leida. Con lo Scoliaste. Da un manoscritto Blandiniano
antichissimo, ed altri della biblioteca dei benedettini di Gand
andata in fuoco nel 1568, manoscritto accreditatissimo. Anversa. Daniele
Heinsius. Due volumi in ottavo.
Londra. Giovanni Bond. Stu- penda, bellissima Anversa. Sevino
Torrenzio. In quarto con dottissimo comento. Anversa. Edizione
elzeviriana con note di Daniele Heinsius. Con disser- tazione dotta
di tale letterato sopra le sa- tire. Anversa. Nuova edizione
del medesimo, riveduta con note. Leida. Variorum, Editore
Cor- nelius Schrevelius. Lugdunum Batavorum. Ex of- ficina
Hackiana. Con comentari sceltissimi di varii per Giovanni Bond. Rara.
Cornelius Schrevelius accurante. Riproduzione. Anversa. Variorum.
Sulla pre- cedente di Schrevelius, corretta. Parigi. di
Dacier. Tolosa. In 8.°. Pietro Rodellio, molte volte
ricopiata. Parigi. Ad usum Delphini. Stupenda. Parigi.
Jouvensy. Cambridge. Di Bentley. Cambridge. Di Riccardo Bentley. Con
gli studi i di tale scrittore sopra Orazio. In quarto. Monumento
immortale dell'arte critica, lacerato dai contemporanei per livida
invidia. Ripetuta l'edizione in Amsterdam più volte, ed in Lipsia. Parigi.
Due volumi in quarto. Stefano Sanadon, con traduzione delle opere
di Orazio molto stimata. Londra. Con note del Dacier. Ad usum
Delphini. Rarissima e preziosa. La suddetta in Amsterdam, riveduta
e corretta. Otto volumi in ottavo. Lipsia. In ottavo di Mattia Ge-
snero ripetuta con aggiunzioni di Zeunio e Both. Parigi. Edizione
classica in ot- tavo di Giuseppe Valart. Napoli. Michele Stasi, con
note di Ludovico Desprez. Due volumi in ottavo. Molto
stimata. Lipsia. Due volumi in ot- tavo, contenente solo le odi,
con note ed illustrazione di Ch. D. Jhan. Edizione Bipontina.
Ripetuta in Milano. La stupenda edizione di Bodoni in Parma.
Londra. Due volumi in ottavo di Ghilberto Wakefield, con critica
eccelsa. La più stupenda e magnifica si- nora edita di Didot.
Lipsia. Mitscherlinch. Mancano in essi le satire e le epistole, ma sono
eruditissimi pomenti e note sulle altre opere e partico- larmente
sul carme secolare. Lipsia. Di Guglielmo Baxter con note di
Gessner e Zeunio. Composta sulla prima edizione dello stesso editore in
Londra. Lipsia. Ti^ volumi in ot- tavo del Doering. Riputatissima
edizione per uso delle scuole. Roma. Due volumi in ottavo
di Carlo Fea. Con critica e note riputatissime. Edizione
bellissima. Parigi. Due volumi in ottavo di Charles Vanderbourg.
Contiene solo le odi e gli epodi. Ma è superba. Breslavia,
In ottavo di L. Fed. Heindorf, con conienti eruditi e note. Con-
tiene solo le satire. Maneim-Baden. Due volumi in ottavo di F.
Both. Heidelberga. Ristampa dell'edizione di Carlo Fea di Roma con molte
ag- giunte. Heidelberga. Due volumi in ot- tavo di Grevio.
Contiene le sole odi. Jahn. Lipsia. Con scel- tissime note ed
aggiunte. Schmid. Contiene solo le epistole. Lugdunum
Batavorum. Un vo- lume in ottavo. Edizione di Perlkamp. Zurigo,
Gaspare Creili. Con biografia di Orazio e note. Libro erudi-
tissimo e molte volte riprodotto, e partico- larmente l'ultima edizione
quarta, accura- tamente emendata e corretta, sicché con ragione può dirsi
la migliore. Venezia. Premiato con meda- glia d'oro. Di Giuseppe
Antonelli, e con traduzione in versi e note del celebre mar-chese Tommaso
Gargallo. Un volume in ottavo, preziosissimo. Della vita e
delle opere di Orazio scris- sero pure con profondità di vedute e
som- ma dottrina: Crist. Fred. Jacobs, Lecttones
Venusinae, 5 volumi in ottavo. Berlino Gotthold Leissing, De O.,
Berlino. Masson, Vita di O..Leida Eichstedt , Critica ed osservazioni
stille opere di Orazio. Jena, Eusebio Baconiere de Salverte.
Osserva- zioni sopra Orazio. Un volume in 8^. Pa- rigi, Cristofaro
Martino Wieland, Traduzione delle opere di O. con note. Berlino.
Morgesten, Le satire e le epistole ora- ziane. Un volume in quarto,
Lipsia. E fra tutti primeggiano gli scrittori fran- cesi che convien
notare: C. Boudens de Vanderbourg, Traduzione delle odi di
Orazio in versi francesi con biografia ricavata da vecchissimo
mano- scritto. Andrea Dacier, Horace. Opera
latina-fran- cese. Dieci volumi in dodicesimo. Parigi, Più sopra
mentovata, essa può definirsi una delle più dotte e belle edizioni
delle opere del poeta. Sanadon, Les Batteux, Binet, Campenon,
Goubaux, Barbet, Patin, Janin, Cass-Robi- ne, Daru, Ragon, Duchemin,
Goupil, Cour- nol, Boulard, De Wailly, Halevy, Michaux, Lacroix,
Dabner, Boileau, e l'insigne poligrafo barone Walckenaèr, che nel 1840
compilò una Storia della vita e delle poesie di Orazio, Parigi, due
volumi in ottavo, opera dottissima ed insuperabile. E
redizione grandiosa del Didot del 1855 in Parigi, con tavole topografiche
e note e biografia, che può asserirsi la più perfetta edizione del
secolo. Riproduzione con ag- giunte di quella suddetta del 1799.
E TRA GL’ITALIANI: Metastasio,
Leopardi, Algarotti, Corsetti, Bertola, Galiani, Alfieri, Cesari,
Tommaseo, Cesarotti, Pagnini, Salvini, Pallavicini, Colonnetti,
Bindi, Gligerio Campanella, Rocco, ed altri molti scrittori di
comenti e studii e saggi critici. Ma in Italia tra le molte
traduzioni delle opere oraziane, la più perfetta e completa è
quella del marchese Tommaso Gargallo, e le edizioni ne sono innumerevoli.
In essa, facendo risaltare la bellezza della frase oraziana, tale
ammirevole letterato ha cercato inciderne il concetto, abbellendola con
versi armoniosissimi, che sembrano ispirati dalla musa stessa del
gran poeta venosi no. Mi sono avvalso in questa mia opera ap-
punto della traduzione del Gargallo, principalmente in quei passi della storia,
nei quali era necessario dar luce alla dicitura con le stesse
parole di Orazio, le quali forma- no, al dir del gran Fénélon, uno dei
pregi massimi del poeta : « Jamais homme n'a donne un tour plus
heureux à la parole Pour lui /aire signifier un beau sens, avec brteveté
et deli e atesse. » ^') E perciò ser- vendomi dei versi sublimi frutto
del forte ingegno del Gargallo, e dettati in purissima lingua
italiana , per illustrare uno dei più grandi italiani, ho creduto far
còsa grata ai miei concittadini, ai quali, per questo mio lavoro,
chiedo venia e benevola
approvazione. M^ihr^^yrj&>s>a«ji£iì^»ii^iufe«wuai'; Da1
Municipio di Venosa venne emesso il seguente proclama: L'idea di onorare
la memoria deità orientale anteriore r^( 212
y»^ all'epoca del frammento ove è incisa l'iscrizione, e che
nelle notizie sull' etimologia del nome della città di Venosa si disse da
Benoth -' Benotsa'- Venosa^ siccome riferiscono Francesco M. Farao, nella
lettera apologe- tica riguardante la Menippea di Pasquale Magnoni (Napoli),
ed il sommo Lupoli, dal quale dovet- tero essere dal primo attinte molte
preziose idee, perchè scrisse due anni innanzi. Ed il Markolis del
frammento trova riscontro nell'iscrizione sopra pietra esistente in
una antica casa della nobile famiglia Rapolla in Venosa, riportata dal
Pratillo, dal Corsignani, dal Lupoli , dal Cimaglia, da Mommsen e da
altri storici e raccoglitori di sigle, che viene così tradotta :
MbKCUKI tMVIC. 8ACR. pro salute Pbassbmtis mostri
Agaris Acnc. Come pure trova riscontro in una pietra di
corniola incisa per anello, scoperta in Venosa ed appartenente alla
famiglia Lupoli, siccome attesta il Farao nella cen- nata sua opera, che
raffigura Mercurio coi calzari alati, con borsa a destra e caduceo a
sinistra ed al disotto la scritta di Michele Arcangelo Lupoli? Che
cosa ag- giungervi da stenebrare il passato? Chi desidera perciò
aver piena conoscenza di Venosa antica studii e pon- deri r e Iter venusinum
» di cosi eccelso scrittore. Il tradurre in buona lingua italiana
tale stupenda opera scritta in latino sarebbe una fatica
vantaggiosa e meritoria. (4) Svetonio Tranquillo — Vita
Morati, Cicerone. Op. Lib. IV. Atl Herennium. Fabretto.
Inscrip. Gargallo Tonìmaso Traduzione delle opere di Q. O. Fiacco (non
FLACCO, dato che ‘fl’ e impossibile in fonologia italiana) Lib. i.®, ode
28.*" Idem Loc. cit. lib. i.* satira Guerrazzi G. D. Orazioni. A
Cosimo Delfante. r^- (io) Gargallo. Trad. di Orazio,
lib. 3* od^ i.* Della nobiltà venosina. — Non è conveniente
avvalersi deirautorità del Summonte circa il fastigio della nobiltà
venosina, perchè erroneamente si attribuisce al Summonte quel brevissimo
e misero accenno sulla to- pografìa e sulle famiglie nobili di Venosa e
privilegi annessi, il quale è opera di Tobia Almagiore, che per
mezzo del libraio Antonio Bulifon nel 1675 in Napoli, fece inserire dopo
Topera del Summonte « Istoria della città e Regno di Napoli » un
trattatello intitolato « Raccolta di varie notitie historiche >,
mentre con precisa diffu- sione si rilevano ragguagli in altre opere di
altri autori. Ed invero, si rileva dal manoscritto antico più volte
ci- tato, e che si conserva nella Biblioteca Nazionale in Napoli,
redatto nel terminare del 1500, e che vuoisi opera dell' U. I. D. Jacopo
Cenna, venosino, essere stata tradizione dei vecchi, che le mura della città
di Venosa, mura raffìguranti quasi le costruzioni ciclopiche e che
im- portarono spese colossali, fossero state innalzate da Lu-
cullo, il celebre milionario del tempo dei Romani, e che fii lui che fece
trasportare in Venosa buon numero di statue e preziosi marmi serviti di
decorazione ai monumenti di quell'illustre città, sicché videsi
creata per la conservazione di tali ricchezze artistiche, una
carica onorifica che vien riportata dal Corsignani, dal Lupoli,
siccome dal Cimaglia, dal Pratillo e da altri molti (non però dal Cenna
suddetto^ nelle seguenti iscrizioni esi- stenti in Venosa. Bemusbi.
MOMUMRNTUlf. POBLICX. rACTUM D. D. M. MUTTIBMUS. L. F. C.
Vibius . l. F. M. Bfsssius . F. OB F. M. Camillius
. HONOREM. l. F.
>•- M. Mumnius « L*. F. C. Vmn» . L. F. n . Vis . J.
D. Statuas . KZ D. D. Rbficivmdas e.
Fece pure LucuUo stabilire in detta città, attratte dalla
magnificenza, salubrità e bellezza di essa, non po- che nobili famiglie
romane, dalle quali poi derivarono quei componenti la nobiltà fiorente,
che sino all'inva- sione dei barbari formavano il lustro di quella
bellissima terra italiana. Né col seguirsi degli anni quella
nobiltà scemò in prestigio, fasto e decoro, perchè sin nel 1 500 e
proseguendo poi fmchè fu abolito ogni privilegio, nei prìncipii del
secolo presente, si vantò in Venosa un ti- tolo di. nobiltà da potersene
fregiare con orgoglio. I sovrani che si successero nel regno di
Napoli arric- chirono la nobiltà venosina di prerogative
straordinarie, tra le quali primeggia quella concessa
dall'imperatore Ludovico I con la quale si definiva non poter Ve-
nosa venir data in feudo ad alcun signore o barone del regno ( il che poi
per la instabilità di fede o per fini politici dei sovrani che si
successero, non venne man- tenuto, siccome ad altre città è avvenuto), ma
restar dovesse autonoma e libera di sé, governata dai suoi patrizii
illustri, scelti dal popolo. E Ferdinando I di Aragona, che fece
lunga dimora in Venosa, vi mandò l'illustrissimo suo figlio Don Fe-
derigo, a visitarvi quei gentiluomini, ai quali poi diresse la seguente
lettera : e Nobilibus et egregiis viris univer- « sitatis et hominibus
civitatis Venusii, fidelibus nostri e dilecti. Come altre volte vi
abbiamo scritto, noi de- [E già precedentemente Ludovico II, il giovane, imperatore
d'Occidente, era venuto in Venosa a ripristi- narla dalle soflerte
devastazioni; e della sua venuta v*ha memoria in un'antica lapide
esistente nell'attuale semi- nario, un dì castello, prima che Pirro del
Balzo avesse edificato quello che tuttora si ammira, coi ruderi
dello splendido tempio della SS. Trinità, ove riposano le ceneri di
Guiscardo e di altri sommi guerrieri e duci , sovrani e bali dell' ordine
supremo di Malta, il che fece dire a Giulio Cesare Scaligero : Gens
Venu- Sina, nitet tantis honorata sepulcrisì L'iscrizione è la
seguente: StIRPS LuDOVICUS FKANCOItUM UftBIS AMICUS DUM
FUKHIS Sbupbr Rxgmabis Jums POTKNTEB E
nella venuta in Venosa (riporta sempre il Cenna) del cardinal Consalvo, i
nobili venosini si mostrarono magnifici e splendidi quanto dir non si
può, e formarono un'accademia, che può porsi al pari delle più insigni
ed illustri del regno. In detta accademia presedeva lo stesso
cardinal Consalvo, con suo fratello, nel luogo detto Monte Albo, o
MoQte Aureo, o Monte doro^ titolo della nobile casa [Porfido venosina,
(volgarmente oggi Montalto) che rappresentava l'Olimpo. E che la
nobiltà venosina fosse fiorente e riuscita insigne per tutto il regno,
convien trascrivere quanto riferisce il Cenna suddetto, l'unico cronista
del 1500 per quanto disadorno scrittore : e così si
enumerano molti doni che i sovrani solevano assegnare, per
testimoniare fatti di valore e degni di stima e compenso.
Trascrivo V elenco delle famiglie nobili venosine riportate dal
surriferito Cenna, e quelle riportate da Pietro Antonio Corsignani nella
sua opera « De Ecclesia et civitate Venusiae Historica monumenta selecta >
edita, come si disse, ^el 1723, che rimontano sino al precedente secolo
deci- mosesto: Barbiani. — Dai quali nel 1434 derivò il conte
di Cuneo, Alberico Barbiano, gran contestabile del Regno di Napoli,
e condottiere di cavalieri venosini, del quale diflusamente parla il
Giannone, nel quarto volume della sua Storia civile del regno di Napoli
ed altri storici. Deitardis. Gomiti.
Plumbaroli. — Da cui derivò un Corrado Plumbarolo, duce preclaro di
cavalieri venosini sotto i re aragonesi. Maranta. Che ebbe
tre giureconsulti insigni, lu- minari del foro, nel 1600, e due illustri
vescovi, dei quali quello di Calvi, di cui discorre a lungo il
Gian- none, nel voi. 5^ lib. 32, in occasione della scandalosa e
celebre causa di suor Giulia di Marco da Sepino, agitata tra i teatini ed i gesuiti. E si
dissero Roberto, Lucio, Fabio e Carlo. Cenna. Da essa derivò quel
Jacopo Cenna definito dal Corsignani « Vir sapientissimus >. Era U. L
D. e si dice autore della cronaca antica di Venosa, che, manoscritta, si
conserva nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Cappellani.
Una Laura Cappellano fu madre del celebre poeta venosino Luigi Tansillo,
il cui padre era nobile nolano. Porfidi. Celebre famiglia
fregiata del titolo di conte di Montedpro, ed imparentata con la nobile
casa Sozzi di Venosa, che tenea la gerenza del principe di Venosa, Ludovisio,
nipote di Gregorio XV. Fenice. Solimene. Casati, Consultnagni. Giustiniani, Caputi, Simone. Moncelli.
Costanzo. Famiglia proveniente da nobili vene- ziani. Fuvvi un Costanzo/
vescovo di Minervino, la cui nipote sposa 1' U. I. D. Rapolla della
nubile famiglia Rapolla di Venosa, dei quali il figlio Nicolao fu nel
1693 protonotario apostolico. De Bellis. De Luca. Da cui
derivò queir insigne cardinale Giovan Battista de Luca, onore della città
di Venosa, autore di opere preclare in circa quaranta volumi in
folio. Bruni Donato De Bruni fu celebre poeta venosino. E Giordano
Bruno o de Bruni, figlio del nobile Giovanni de Bruni da Nola, intrinseco
del Tansillo (BRUNO (vedasi) scriv un epitaffio sulla sepoltura di Giacopon
Tansillo, figliQ del poeta venosino Tansillo, siccome attesta Minieri
Riccio) non è forse da questa famiglia venosina derivato
Fioriti. Tramaglia. Ttsct. Tommasini Palogani.
Pagani. Balbi. Sperindeo.
Berlingieri. Violani. Gervasiis. Orazio de Gervasiis fu
il più insigne membro della celebre accademia venosina, e poeta famoso.
Abenanti, Grossi. Protonotabilissimi,
Capibianchi, Campanili. Ferrari,
Faccipecora, Leonetto Troni, Antonello Trono fu
esimio nella legale palestra. Aloisiis, Rosa Biscioni.
De Vicariis. Rapolla. Dalla quale derivarono il
Clarissimus D. Venanzio U. I. D. vicario generale Diego ^ U. I. D. Il Corsignani parlando
di lui dice : « Romae triginta fere Annis Curiam laudabiliter prosecutus
in legali f acuitale excellentissimus fuit. Ib idem anno j*joi ex
hac vita discessit. Donato U. I. D. Ed il celeberrimo D. Francesco
giureconsulto, presidente della Regia Camera della Sommaria nel 1760,
senatore del S. Consiglio del regno di Napoli, uno dei settemviri del
regio erario. Le sue principali opere furono: De Jureconsulto
Difesa della Giurisprudenza. Risposta all'opera di Ludovico Antonio
Muratori De jure Regni. Opera eccelsa in quattro volumi in ottavo.
Vitamore. Moncardi. Lauridia. De Jura o
Thura. Sprioli, Leoparda, Sozzi.
Altruda, Vito Altruda era cavaliere deirordine di Malta.
Delle quali famiglie nobili riportate dal Cernia e dal Corsignani ,
due sole compaiono tuttavia esistenti in Venosa: la Rapolla e la
Lauridia. Della seconda di essa si legge nella cattedrale di Venosa la
seguente epigrafe, riportata dal Corsignani. JOANMi Baptistab
Lauridia, Blasio, U. I. D. Patutio Venusino Et Ammae Fbrrabi Nobili
Sbkbmsi Prognato MaTMBMATICIS, PMILOSOPHXaS, LeOAUBUS,
ThKOLOGICIS ASTIBUS OPTIMB IMSTBUCTO U. I. LaUBBA, AC VbNUSIMAB
ECCLBSIAB Canonicatu Insignito, humanab salutis Ann. oca.
abtatis suab xxyii ad Supbbos Evocato, Dobunicus, bt Hibbonimus
Fratbi DIGNI8SIM0 P E la famiglia Rapolla imparentata con
la casa Cappellana e con la Casati, ed in appresso coi Costanzo nel 1641,
con la Sozzi, con T Altruda, iscritta neir ordine di Malta, e con la
Lauridia, conserva nella vetusta e stupenda cattedrale di Venosa V altare
gen- tilizio, che il Cenna bellamente esalta come uno dei più degni
di quel sacro luogo, e che appartenne prima alle nobili famiglie de
Bellis e Tisci, e nel quale si ammira un quadro pregevolissimo di S.^ Maria di
Costantinopoli, e vi si leggono le seguenti iscrizioni : Sull*
altare : HOC. S ACRU.
BEAT AB .VIRGLNI. DIC AtEsCIPIO. DE3ELLA. U.LD. BT. HOR. DE. BELLA
. A. EF. M. D. EQUES. DE . ORDINE.VICTORIÆ
.TISCI. EORVM. MATRIS. RESTAURANDUM. CURAVER . BIDCXVI. àACELL
. HOC . MENSE . EPLÌ . DEVO LUTO . AEHUTAU . EPO . VSNO.
FUrr . CONCESSO. VENANTIO . RAPOLLA . U . I . D. PRIMICERIO .
VICARIO . GENLI . SUISQUE . HBREDIB . LT. SUCCESSO . ET . PATRONI.
CONSENSUS. ACCESSIT . Sotto l'altare: SACELLUM . HOC NOBIUS.
FAMILIÆ . RAPOLLA VENUSIMAB. . IN . VENUSTIOREM . QUAE . CERNITUR .
FORMA. RSDIGrr . U . I . D . DIDACUS . RAPOLLA. Ed in un
istrumento redatto da notar Nicola li Frusci di Venosa si rileva che dinanzi al magnifico
giudice regio della città di Venosa, D. Saverio Compagno, e del vescovo
del tempo ed altri molti, nel monastero di Santa Maria la Scala si
volle inaugurare un'abitazione per uso esclusivo e privilegiato delle monache educande
della famiglia Rapolla, e vi si fé* innalzare inciso su pietra in fronte
dell* architrave della porta che dà nel giardino di tal luogo, (e vi si
vede tuttora) e sotto lo stemma della famiglia Rapolla, la seguente
iscrizione: CUBICULUM . HOC . PROPRIO . SUO . ABBB. U. I. D .
AX.OISIUS. Rapolla. Patritius. Vbmosinus. EkBGI. CUItAVtT CRAT1AM . D.
MaUAB . AnDRSAB. Rapolla. Momcalis •Profkssas. suak. kx.
rmA-ntc. MXPOTXS. OmnOMQUB. SDCCBSSOBUM. DB.
FAIIIUAB. UTBIUSQUB . SBZUS . QUAMDOCUMQUB . CASUS. OCCIDBBIT. La casa
Rapolla poi si è mantenuta sempre no- bilmente, tanto che nel 1807,
essendosi recato a visitar Venosa, nel suo viaggio nelle provincie del
reame il re Giuseppe Bonaparte, venne ospitato con gran magnificenza per
due giorni con tutti i generali e gli altri personaggi della sua
splendida corte, dal nobile Venanzio Rapolla, al quale rilasciò certificato di
sovrano comt>iacimento per la ricevuta accoglienza, non avendo vo-
luto quel fiero gentiluomo, già capitano sotto la repubblica partenopea, e
tornato da poco tempo da emigra- zione politica in Francia, accettare titoli,
onori od altro compenso. Walckenaer nel 1° voi. pag. 4 della sua
opera Histoire de la vie et des poesies d' Horace dice: « La Venouse
moderne à, malgré sa faible population, con^ serve quelque chose de plus
que son nom et sa position antique^ pouisqu* elle est le siege d' un
eveché, Ormai ò noto, ed il Lavista
nel suo opuscolo: Notizie istoriche degli antichi e presenti tempi della
città di Venosa Potenza^ tipi Favata e Frediano Fiamma, rettore del
seminario vescovile venosino, nelle sue note alla necrologia del nobile
Giuseppe Rapolla (Napoli, tipi Giannini) riportano, che essendosi disposto di
trasportare la sede del vescovado da Venosa a Minervino, con grandissimo
nocumento alla patria di Fiacco, Venanzio Rapolla tanto seppe destreggiarsi ed
agire nella capitale del regno, ove venne trattato l'affare in Consiglio
di Stato, con impegno di illustri avvocati, da far distrarre tale
improvvida risoluzione; ed anzi vi spese a tale scopo più di lire
ventimila, che non volle per sua generosità gli venissero rimborsate.
Veramente nobile animo ) Splendido esempio di filantropia Riportata da M. A.
Lupoli nella sua opera quel preclara gentiluomo, mio defunto genitore,
nobile Luigi Rapolla, direttore degli scavi di antichità nel di-
stretto di Melfi, si legge quanto segue : « Mi aflretto parteciparle che
non lungi da Venosa un terzo di miglio, mentre si attendeva allo scavo di
arena in una grotta messa sul ciglione di una collina verso
oriente, sovrastante al fiume che scorre nella vallata sottostante al
tempio della Santissima Trinità, si è rinvenuto un lungo corridoio con
altre strade laterali, con una quantità di sepolcri scavati nel tufo,
coperti da grossi mattoni antichi, con delle iscrizioni indecifrabili,
fra le quali se ne osservano talune, cui soprasta una palma ed
un'ampolla > E tale luogo si dice il Piano della Maddalena^ e
scovronsi dintorno ad esso dei resti di fabbriche che indicano come
un forte nucleo di abitanti viver doveva in tale spianata , che
aveva il suo tempio dedicato alla Maria di Magdala, ed in quelle grotte
scavate nel masso vi avevano la loro necropoli. Da tutto ciò può benissimo
e con cer- tezza arguirsi che Venosa, chiusa nei limiti anzidetti,
che si estendevano verso le colline, che oggidì diconsi Monte e
Montalto sino al fiumicello divento, formava una va- sta città abitata da
più di ottantamila uomini. Che ai tempo dei Romani era splendida per
monumenti, statue e nobiltà, e conservossi tale sin presso al 1500,
quando andò mano mano assottigliandosi per danni solTerti dai
tremuoti, dalle pesti, dalle guerre e dall'aprirsi dei diversi sbocchi a centri
che cresceano in importanza, gran- dezza e magnificenza sia in Puglia che
in Lucania. E venne tanto assottigliandosi da divenire un tempo un
borgo, fortificato però, di poche centinaja di fuochi, sinché poi non risorse a
novella vita. Quei pochi fieri abi- tanti, che avevano per emblema il
basilisco che si morde la coda, e la scritta: Respublica Venusina^ si
conservaro- no però sempre eguali a loro stessi ed alla loro
origine. In essa nacquero e vissero baldi guerrieri, come si
disse, e letterati insigni e sommi giuristi ed eminenti ecclesiastici,
sempre altieri, nobili e pieni di genio, de- stinati a grandi
imprese. L' antica grandezza lasciò uno stampo in ciascun
abitante di tale ameno e forte luogo. Ciascun abitante porta con sé una
particella dell'aura divina, che emana da questa terra benedetta dal
cielo, e tra le più belle e feraci dltalia. Il Bestini, nella sua opera
Monetarii antiqui^ sostiene essersi coniate in Venosa delle monete
raflìguranti Giove che gitta fulmini. Come esprimere me- glio figuratamente
la potenza della città di Venosa ? Oggi Venosa colla libertà e col
progresso è nuovamente ri- fiorita, e per ricchezze e lustro non è
inferiore che a poche città meridionali d'Italia. Gargallo Tommaso.
Traduzione delle- opere di O. Lib. i." sat. Il Vulture. I due versi
di Orazio nella sua ode quarta del libro terzo ed il « pios
errare per lucos > han dato campo a non poche dispute tra i dotti e
gli antichi scoliasti. Fuvvi tra gli altri per- sino il Bentley, il quale
sostenne essere esistita una balia di Orazio nomata Apulia^ che in quel
sogno del pargoletto prese parte, tenendolo addormentato in su le
ginocchia, fuori la porta della sua casa rurale in Ve- nosa. Gargallo
traduce: Da pueril trastullo Mentre io lasso, e dal sonno oltre alla
soglia De r Apula nutrici, amar faruimllo Giaceva sul V\lL?r appulo,
di faglie Tutu a nuazi arhuscelli Fer siefe int4fniù a wu, gt idal^
mmgelli. Ma ben considerando questo bisticcio di
Voltar appulo oltre la soglia (i confini) delt Apula nutrice^ si
chiarisce che T Apula nutrice per Orazio era Venosa , usando il tutto per
la parte, cioè la Puglia Daunia. PLINIO (vedasi), (disse e Dauniorum
colonia Venusia >, ed il Voltar appula alla soglia indicava la
re- gione del Vultore, mentre il Vulture era situato nella Puglia
Peucezia , quindi fuori dei confini della Puglia Daunia, patria di
Orazio. Con tale criterio resta dilu* cidato questo passo di Orazio, il
certo un po' oscuro per chi ignora la topografìa delia regione pugliese.
È certo che O. intese parlare, nominando il Vulture , della catena
appenninica minore dopo il Vulture, cioè i monti alle cui pendici Venosa
era situata, che in quei tempi erano copèrti da fitte boscaglie, come una
buona parte lo sono tuttora (contrada Monte, Monte Alto ecc.).
Infatti accenna in seguito alla foreste di Banzi, {saltu- sque bandinas\
ad Acerenza {celsa nidum Acherantiae)^ a Forenza {humilis Ferenti)^ che
son tutti luoghi che fan seguito anche oggi a tali boschi, che bisogna
tra- scorrere per giungervi partendo da Venosa. Se Orazio avesse
inteso parlare delle pendici del Vulture, come oggi s' indicano, avrebbe
dovuto far cenno di Atella, RapoUa, Rionero, Barile, e di altri paesetti,
che se non esistevano in quei -tempi , certo in tutto il perimetro
della pendice del Vulture doveva esistere qualche traccia o zona di terra
abitata, come la Rendina attuale, ove la taberna celebre è anteriore
all'epoca romana della quale si discorre. Del Vulture hanno
ampiamente e dottamente trat- tato r abate Tata {Lettera sul Vulture),
Daubeny {Narrative of on excursion to mount Vultur in Apulia— Oxford), il
prussiano Ermanno Abich, L.. n Patrizio e l'Abate — Un volume in i6», pag.
250, Tipi Di Angelis Napoli, XTobiltà e 1)0rgh68ia, Tifi
Tarnese Napou, Uemorìe storiche di Portici Stabilimento Tipografico
Vesuviano Portici, Presso Tautore Napoli, Riviera di Chiaja, N. ijo Dei
Conti Sì Bavoja— Tipi Giannini Napoli. ì Quinto Orazio
Flacco. Orazio. Keyword: Il Giardino. Luigi Speranza, “Grice ed Orazio” – The
Swimming-Pool Library. Orazio.
Grice ed Ordine: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale di BRVNO al rogo – la scuola di
Diamante -- filosofia calabrese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Diamante).
Filosofo calabrese. Filosofo italiano. Diamante, Cosenza, Calabria. Professore
a Calabria. Rriconosciuto come uno dei massimi studiosi del Rinascimento e Bruno.
Ben noto ai lettori per i suo eccellente saggio su Bruno, è anche uno dei
migliori conoscitori attuali del milieu sociale, artistico, letterario e
spirituale dell'età del Rinascimento e degli inizi dell'Età moderna.Sigillo
d’Ateneo dell’Urbino. Centro di Studi
Telesiani, Bruniani e Campanelliani. “L' utilità dell'inutile” (Milano,
Bompiani). Opere: “La cabala dell'asino”, “Asinità e conoscenza in Bruno” (Teorie
& oggetti, Napoli, Liguori, Collana I fari, Milano, La Nave di Teseo); “La soglia dell'ombra -- Letteratura, filosofia
e pittura in Bruno” (Venezia, Marsilio); “Contro il Vangelo armato: Bruno, Ronsard
e la religione” (Milano, Cortina); “Teoria
della novella e teoria del riso” (Napoli, Liguori); “Tre corone per un re.
L'impresa di Enrico III e i suoi misteri” (Milano, Bompiani). Classici per la
vita. Una piccola biblioteca ideale, Collana Le onde, Milano, La Nave di Teseo,
Gli uomini non sono isole. I classici ci aiutano a vivere” (Milano, La Nave di
Teseo). Grice: “Some like Bruno, but I don’t – for one, he was
a PRIEST before he was burned – no philosopher *I* know is a priest. Being a
priest, as A. J. P. Kenny well knows, disqualifies you as a philosopher.
Campanella was a priest too, and I’m not sure about Telesio. I mention the
three because while there is a Keats-Shelley Association in Rome, only the
Italians can think of ONE centro di studi TELESIANI, BRUNIANI e CAMPANELLIANI –
enough to have a triple split personality!” Nuccio Ordine.
Ordine. Keywords: Bruno, futilitarianism, riso, risus significant laetiia
animae – il sorriso di Macchiaveli, centro di studi telesiani, divenne centro
di studi telesiani, bruniani, e campanelliani! – telesio not a priest!--. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Ordine: l’inutilita dell’utilitarismo di Geremia
Bentham” – The Swimming-Pool Library.
Grice
ed Orestada: la ragione conversazionale della diaspora di Crotone -- Roma –
filosofia basilicatese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto).
Filosofo italiano. Metaponto, Basilicata. A
Pythagorean cited by Giamblico. He frees Senofane from slavery – as cited by
Diogene Laerzio.
Grice ed Orestano: all’isola -- la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale dell’opzione eroica – la
scuola d’Alia -- filosofia siciliana -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Alia). Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Alia, Sicilia. Self-described
as a ‘Federalista siciliano’ --. Grice: “There is something pompous about
Italian philosophers and their isms – Orestano’s ism is the superrealism!” Grice: “When I was invited to deliver my
lectures on the conception of value, I was hoping it was a first, but Orestano
had written two big volumes on it!” – Studia a Palermo. Insegna Palermo, Pavia, e Roma. Collabora con Marinetti
nella concezione del futurismo, e lavorando ad alcune pubblicazioni comuni. E inoltre
vicino alle idee politiche, collaborando tra l'altro con “Gerarchia.” Invitato
da Balbo nella Libia italiana, difende gli ideali e gli intenti italiani in
contrapposizione al nazionalismo. E eticista, fenomenologo e promulgatore
d'un'idea filosofica positivista che egli stesso denomina “super-realismo.” Si
ritira a vita privata nel su palazzo di Roma per dedicarsi alla sua opera
principale “Nuovi principi” (Milano, Bocca). Membro dell’Accademia d'Italia e della
Società filosofica italiana e dell’Istituto Siciliano di Studi Politici ed
Economici. Autore di noti aforismi, a lui sono intitolate una via di Roma e una
scuola di Palermo. Saggi: “Opera omnia” (Padova, C. E. D. A. M.); “Comenio”,
Roma, Biblioteca Pedagogica de “i Diritti della scuola”, Angiulli, Roma,
Biblioteca Pedagogica de “i Diritti della scuola”, A proposito dei principi di
pedagogia e didattica” (Città di Castello, Alighieri);“Un'aristocrazia di
popoli -- saggio di una valutazione aristocratica delle nazionalità” (Milano,
Treves); “Verità dimostrate, Napoli, Rondinella); “Opera letteraria di
Benedetta, Roma, Edizioni Futuriste di Poesia); “Esame critico di Marinetti e
del Futurismo” (Roma, Estratto dalla "Rassegna Nazionale"); “Civiltà
europea e civiltà americana” (Roma, Danesi); “Nuove vedute logiche” (Milano,
Bocca); “Il nuovo realismo” (Milano, F.lli Bocca); “Verità dimostrate, Milano,
Bocca); “Idea e concetto” (Milano, Bocca, Celebrazioni I, Milano, Bocca
Editori, Celebrazioni, 2, Padova, MILANI, “Filosofia del diritto” (Milano, Bocca,
Gravia levia, Milano, Bocca); “Saggi giuridici, Milano, Bocca); “Verso la nuova
Europa” (Milano, Bocca); Prolegomeni
alla scienza del bene e del male, Milano, Bocca); “Leonardo, Galilei, Tasso” (Milano,
Bocca); “La conflagrazione spirituale e altri saggi filosofici” (Milano,
Bocca); “Pensieri, un libro per tutti”; Studi di storia della filosofia”; “Kant”;
“Rosmini-Serbatti”; “Nietzsche”; Contributi vari, studi pedagogici, studi
danteschi; Aligheri e saggi di estetica e letteratura; conversazioni di varia
filosofia; corsi, ricerche e conferenze, studi sulla Sicilia, Filosofia della
moda e questioni sociali, Dizionario Biografico
degli Italiani, E. Guccione, L'idea di Europa in Federalisti siciliani, A. R. S. Intergruppo
Federalista Europeo, Palermo, Guccione, Da un diario una nuova pagina di
storia, in La politica tra storia e
diritto, Scritti in memoria di L. Gambino, Giunta” (Angeli, Milano); Dizionario Biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Quando i vincitori scrivono la storia della
filosofia: il caso di Lamendola, Arianna, O. Castellana, Il rapport tra stato e Chiesa nel
pensiero politico, Istituto Siciliano di Studi Politici ed Economici. I valori
egoistici risultano espressi con le lettere T e e te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy. Gli
valori altruistici sono espresso con le lettere: i. I valori neutrali sono
espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone di dare una teoria compiuta
dei fatti concomitanti di questo o quello valore, ma solo di ANALIZZARE tal unicasi
va speciali, così, quando adopera
i simboli senza l'indice soscritto, intende significare il valore egoistico –
con la lettere ‘e’ sottoittesa. Questi simboli possono esprimere questo o
quello BENE, ma anche questa o quella volizione a questo o quello BENE riferentisi.
Per indicare una volizione, si adopera il stesso segno *fra parentesi
quadratti*. Infine, si suppone, di regola ceteris paribus,che la circostanza
concomitante sia sempre una sola, la quale, insieme alla volizione, formi ciò
che chiamamo il “bi-nomio” della volizione. Se le circostanze sono più, allora
si forma un “poli-nomio” della volizione. La precedenza di una lettera in un binomio
o un polimonioindica il valore principale, sia desiderato o sia attuato. In che
modo i fatti concomitanti del valore sono connessi collo scopo della volizione?
Siccome ogni scopo di volizione è anche un oggetto di valutazione, la domanda
può formularsi così. Come i valori possono entrare in connessione tra loro? Si
noti però che la connessione deve stabilirsi prima del cominciamento della
volizione, giacchè questa volizione deve tenerne conto. Le co-esistenze casuali
restano naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla volizione e l'oggetto della
valutazione concomitante possono correre varie relazioni. C’e una relazione
d’identità. Ciò che il artista o un
politico come Mussolini crea non soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in
qualche modo come un BENEFICATORE di tutta una sfera di uomini – la nazione
italiana. C’e una relazione di CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa, o
anche di più cose. Per esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un
bel tono. Ma il piano ha anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia
molto vigile (+), il quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora
bene (+), ma che fa rumore e fumo (-) ,ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due
forme: a) lo scopo è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per
esempio, promuove il movimento e l' industria dei forestieri, mira ad
arricchire la sua nazione (+), ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si può
raggiungere che come EFFETO di dati valori morali. Per esempio: un fabbricante
per . Ora torniamo alla domanda principale. In che modo il valore morale
di una valutazione dipende dai valori concomitanti, e,in caso di un simple bi-nomio
della volunta, dal valore concomitante? Abbiamo distinto quattro categorie di
valori, “g”, “T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche ai fatti
concomitanti. Però il caso u si può omettere, perchè non accadrà mai, CHE SI
VOGLIA UN PROPRIO NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre possibilità, le
quali, liberamente combinate, dànno *dodici* casi che costituiscono la tavola
dei valori. Per l'esame di questi casi bisogna pensare che ad un oggetto di
volizione si aggiungano gli altri come fatti concomitanti, e osservare le
variazioni di valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE ‘POSITIVAMENTE
ALTRUISTICA’ (benevolenza e beneficenza) è data da una formula. Il momento più
importante è qui l'associazione della circostanza concomitante u, IL PROPRIO
DANNO. È evidente che l'aggiunta di questo secondo momento accresce il valore
di (i) e di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio proprio. Indicando il
valore con “W” ,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece si aggiunge “u”, IL
DANNO ALTRUI, sia dello stesso beneficato (quando il beneficio produce pure un MALE
al beneficato), sia di persone estranee al rapporto (quando per beneficare uno
si danneggia altri), allora il valore della volizione con questa circostanza
concomitante diventerà minore. E la formula sarà: W(ru) < W(r). Se la
circostanza concomitante è pure in favore del beneficato, allora la formula
sarà indubbiamente: guadagnare di più deve migliorare la condizione
materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr. glianze. Invece
L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè diminuisce, nè aumenta il valore.
La volizione egoistica è espressa dalla formula, la modificazione più grave qui
si ha, quando al caso si aggiunge la circostanza del MALE ALTRUI. Allora si avrà: W(gu)<W(9). Se
la circostanza concomitante è invece “r”, il valore della volizione egoistica
si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione egoistica si aggiunga la
circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO (plusvalia) o anche di un
proprio danno, non modifica il valore di (g). Si avranno quindi le due egua W
(99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta il non-valore, se oltre al
danno principale si aggiungono altri danni. Epperò: W (UU)< W (U). Per
quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che al male altrui si
associ una qualche conseguenza buona, indiretta, W (rg)= Wr. La volizione
altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con una formula. Se per
attuare il danno altrui, si fa anche il danno proprio u, questa circostanza
aggrava il male e aumenta il non-valore: W (uu) < W (u). W(UY) > W(u).
Il fatto concomitante della propria utilità non aggiunge nè toglie al valore
della volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi l'eguaglianza: W
(ug)= W u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in un Quadro. W(rr) >
W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U) W(ru)<W(Y)
W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0 W(uu)<W(U). Da questo
quadro si rileva che le circostanze concomitanti con segno negativo non sono
più feconde di effetti di quelle con segno positivo. Di queste ultime, “g” non
modifica nulla, e “r” non dà risultati sicuri, come indica il punto interrogativo.
L'influenza dei fatti concomitanti si può dunque riassumere così. Agisce
aumentando debolmente il valore. ‘g’ non modifica nulla. ‘u’ diminuisce
grandemente il valore. ‘u’ opera secondo lo scopo della volizione -- ora
aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando il valore. Si è già detto che
sarebbe uni-laterale il voler giudicare del valore morale di una volizione
dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende parte alla determinazione del
valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE. L’altruismo NEGATIVO
(malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è importante constatare, che il
senso in cui i tre momenti valutativi operano sui fatti concomitanti è
completamente lo stesso La validità della tavola dei valori, dianzi
tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si ridurrà, nel modo
indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia la qualità della
volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione e repulsione, che
però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra affermazione e
negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi come una
doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà
indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si
comportano egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai
valori “T”, “u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL
PROPRIO VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U)
(U = (non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di rappresentazioni
ed i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con il concetto di
“Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la cognizione
delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della volizione o al
polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio del progetto.
Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la parentesi
quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati predisposizionali, l'analisi
delle valutazioni dei fatti concomitanti può rendersi più esatta. (ū) si possono
fare le seguenti sostituzioni, che aiutano a trovare il corrispondente valore nella
tavola relativa alle volizioni. Si ponga, per esempio, un bi-nomio iniziale della
volizione “uu”, che esprima il mio desiderio di far male, al momento opportuno,
a una persona, ma che non mi sia possible evitare, ciò facendo, conseguenze
dannose pe rme,u. Se ildesiderio di non danneggiarmi prevale, allora non si
avrà più il binomio (uu), ma l'altro (ūr), il quale dice che la volizione è
risultata nel senso di non volere il male proprio, pur ammettendo che questa
volizione abbia per circostanza concomitante y, cioè il bene altrui. In forma
positiva la volizione finale sarà (gr). E così da una situazione iniziale
negativa “vu” si riesce nella opposta gr (1). Questi sono i co-ordinati fra
loro due bi-nomi di progetti, dai quali procedano due volizioni formalmente
concordanti. Anche i due bi-nomi di queste volizioni saranno coordinati fra
loro. Essaminemo la coppia dei due binomi yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la
maggiore importanza pratica. Il primo bi-nomio esprime l'altrui bene col
proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime il bene proprio col danno altrui.
Nel primo rientrano, nel senso o grado *massimale*, tutte le occasioni in cui
si può affermare la grandezza morale di un uomo (magnanimita). Nel senso o
grado minimale, i casi della più comune fedeltà al proprio dovere (to do one’s
duty). La sezione di linea dei valori morali che comprende il MERITORIO e IL
CORRETTO è tutta espressa da questo bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione
che va dal punto d'INDIFFERENZA al TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde
alla negazione di questo binomio del progretto. Nel binomio “gu” sono espressi
tutti i casi che vanno dal più SANO EGOISMO alle negazioni più delittuose
dell'altruismo. Reciprocamente, la rinunzia a siffatte volizioni va dal
semplicemente dove ROSO ALL’EROICO. Le volizioni che procedono da questi due bi-nomi
comprendono adunque tutte le quattro classi di valori, caratterizzati in
principio. I due bi-nomi anzidetti suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra
l'interesse proprio e l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di
questi interessi, dalla portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della
valutazione. I momenti “u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e “y”.
Intanto è certo che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u” , “W(gu)”,
si trova sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno negativo. Mentre
il valore altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si trova al di sopra
del zero ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione valutativa tra i
termini dei due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente con una
semplice osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un grande
interesse altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un piccolo
interesse altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non pospone a
un grande interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un non-valore
morale più basso, che non colui il quale per una utilità propria rilevante non
tien conto di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una LEGGE del
valore si può esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'” indicano le
costanti proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità delle due unità “g”
e “r”. Nell'applicazione di queste due formule all'esperienza si rendono
necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori “r” o “g” eguali ai limiti
0 e 0 ,allora i calcoli diventano molto esatti. Per g per g. L’ESPERIENZA NON è
però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno ammetterà che l'adoperarsi nell'interesse
altrui si accosti l punto morale d’INDIFFERENZA, quanto più grande è
quest'inteesse; e che il trascurarlo divenga nella stessa misura RIPROVEVOLE, “u”
pposto costante e limitato l'interesse proprio da sacrificare. È F , 1
W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) = - C per r = 00 per r = 0 lim W (ru) = 0, lim W(ru)=
0, lim W (ru)= 0 , , limW(ru)= 0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0 lim W (gu)= 0
lim W (gu)= – 00. pure evidente, che
la trascuranza di un interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto più
IRRILEVANTE è questo interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il valore
dell'altruismo di venga allora infinito, come nella seconda formula. Osservando
però bene, questi casi non rientrano nel campo della morale. Si contrasterà
pure che il valore del sacrificio di un bene proprio per l'altrui, cresca colla
grandezza del bene sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza prova che
l'esitazione al sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene cui si
sta per rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta formula.
Non si può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè NON si
determina un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si debbono
mitigare nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla realtà. Per
far ciò, basta attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere aggiungendo a
“g” ogni volta una costante “c” o “c '”. Queste formule non modificano i limiti
funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T = 0 0 g = 00. Cambia bensì la
formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C , lim W (gu) = - ' Sin qui
abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE dall'altra. Che avverrà però,
se le variazioni si compiranno in entrambe le variabili congiuntamente,
supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro per grandezza di valore?
Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule diverranno altri. Si avranno così
le formule. T r W (ru) = 0 9 + c g +di e
Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' . Da questo risulta che il non-valore
deve crescere e diminuire nello stesso senso o grado limite di “r” e “g”, e il
valore in senso o grado di limite contrario. Consultando l'esperienza, si può
riscontrare agevolmente che un oggetto, per esempio un dono, abbia lo stesso
valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora si domanda, regalare di più avrà
un valore più alto o più basso del regalare di meno? Senza dubbio più alto. E
se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI LA PROPRIA VITA per conservare
quella di un altro, suscita di fatto grande ammirazione. QUESTO è però IL CONTRARIO
DI ciò che quelle formule esprimono. O “c” corre adunque correggere le formule e
per far ciò introducemo un esponente di “g”, più grande dell'unità, e lo indicamo
colle lettere “k” e “k'”. Le due formule diverranno così, rimettendo “y” al
posto di “r”. Sicchè si avranno i
seguenti limiti. A questo punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di
alcun'altra correzione. Per semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la formula
del binomio divienne W(gu)= T. È questa una formula a discuttere. . g2+1 ghto Y
gkilt o W(gu)= W (ru)= C per r= 9 perr= g= 0
T g2+1 W (ru)= e Y e limW(ru)=00 lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0.
Preliminarmente non si ne ricava alcune conseguenze. Ogni pr getto offre a
colui, che dovrà reagire con una volizione,l a doppia possibilità di fare o di
tralasciare. Le due volizioni staranno, secondo la formula principale or
ora ricavata, in un rapporto di RECIPROCITà negativa, per ciò che ri
guarda il loro valore morale. In secondo luogo, siccome una volizione di grande
valore (positivo o negativo) o e MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di
piccolo valore o e CORRETTA o TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto
PIù DISTANTI sono il NUMERATORE E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale
(1, 2, 3, … n), tanto più il valore della volizione e indicato dalle parti
estreme superiore o inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno
distanti sono invece quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il
punto di mezzo di detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di
una volizione I cui scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti.
Basta ridurla. W(9)=0(1). UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO
D’INTERESSI, la caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O
INTERSEZZIONE O COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui,
positive, o, come nella guerra o il duello, negativi. Se il progetto offre l'occasione di
congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui
nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con
(gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui
si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione
e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g” e”v”,
cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso attuale la
formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)= >. Passamo ora ad esaminare un'altra coppia di
binomi: gr g+1 1 T (go+ 1)r.
Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa dei due
binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula
principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in
queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione
tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili
concomitanti, com’era di sperare! Recenti studi sui valori morali in Italia. TAROZZI
comunica al congresso di psicologia (Roma) un programma di etica scientifica,
sotto il titolo: Sulla possibilità di un fondamento psico logico del valore
etico. I risultati dell'indagine psicologica sono capaci di assumere importanza
di fondamento e di criterio nella determinazione del valore etico delle azioni
umane e nell'apprezzamento etico degli individuiumani? Questo il
problema.Tarozzi crede possibile una risposta affermativa, e ne dà le ragioni.
Il valore etico è il risultato di un apprezzamento morale. L'apprezzamento
morale è funzione della coscienza morale, che si forma in noi storicamente e
psicologicamente. E siccome lo studio della formazione storica si risolve pure
in un'indagine psicologica, così la vera sede della dimostrazione del valore
etico è la psicologia. A ciò non si può opporre, che il valore etico dipenda
direttamente dal fine etico, e che questo per l'assolutezza sua (o teologica o
categorica) sia indipendente dalla causalità psicologica e antropologica. Giacchè,
anche ammessa questa indipendenza del fine etico, nulla vieta che essa riceva
una interpretazione psicologica e antropologica. Si può cioè voler sapere come
sia possibile nella realtà (umana) il fine etico, e ciò conduce anche a
interpretare la relazione dei valori etici con quei fini, e a trovare il
criterio per la valutazione morale degl’individui umani. Fra il principio
assoluto e l'atto concreto,più ancora fra quel principio e l'individuo, intercorre
la eterogeneità più radicale. Per giudicare quindi se l'atto compiuto o da
compiersi stia in un giusto rapporto col principio, è necessaria una
interpretazione psicologica. Senza questa interpretazione la valutazione etica
alla stregua dei principi assoluti non può farsi. Ove poi si abbia un concetto
non teologico, nè categorico del fine etico, la psicologia può darne non solo
l'interpretazione, ma anche, coll'aiuto dei dati dell'antropologia e della
sociologia, una vera e propria dimostrazione. L'ufficio della psicologia nella
dimostrazione del fine etico è anzi assai più rilevante, perchè da questa dimo
strazione dipende. Primo se il principio sia ammissibile oppur no. Secondo, quale
valore etico abbiano le azioni e gl'individui in base al principio dimostrato.
Ma non a questo si ferma l'ufficio dellapsicologia nella morale. Volendo
fondare un'etica, umanistica nelle sue basi,e umanitaria nelle sue norme,
un'etica cioè rispondente alla concezione di un significato morale della vita
umana,la coscienza del quale giusti fichi, non in senso di fine, m a in senso
di fondamento, i particolari propositi delle volizioni umane, la psicologia
porterebbe i più decisivi elementi a una tale concezione della umanità. La
psicologia è scienza sovrana nell'àmbito dell'etica umanistica. Senza di essa è
impossibile la ricerca di un significato morale della vita, che assuma valore
di fine dopo essere stato fondamento e criterio, e risponda alle tendenze onde
la moralità positiva si svolge nella storia dell'umanità. Oltre a questo
contributo diretto della psicologia all'etica, vi sono gl'indiretti,
consistenti nella difesa,che solo la psicologia può fare contro lo scetticismo
morale. La legittimità di una valutazione etica, che abbia forza di per sè, si
suole negare da chi crede che il bene e il male siano risultato di convenzioni
sociali più o meno inveterate, mutabili secondo i vari tempi e I bisogni, e non
rispondenti a una costante necessità della vita e della natura umana. Per
riparare dallo scetticismo si è ricorso o all'utilitarismo o alla metafisica. Ora,allo
scetticismo e anche ai suoi falsi rimedi (l'utilitarismo e la metafisica) non
può opporsi efficacemente che la ricerca psicologica. Essa sola, riuscendo a
determinare positiva mente le concezioni fondamentali del valore morale, porge
argo menti di difesa sia contro la negazione di un fondamento reale e
necessario del valore etico, sia contro le affermazioni erronee od arbitrarie
di esso. Un esempio importantissimo dà Tarozzi dell'ufficio della psicologia
nell'etica, accennando ai problemi concernenti la ricerca dei fondamenti
psicologici della solidarietà o dei fondamenti naturali di essa, come li chiama
GENOVESI, opportunamente ricordato dall'autore. Questo esame particolareggiato
comprende la crudeltà e le sue varie forme, la simpatia, così in generale, come
nelle sue due manifestazioni principali, gl’atti di cortesia e di protezione. Le
dispute sulla natura umana, così conclude Tarozzi, attendono la loro decisione
non dagli argomenti del razionalismo, ma dai fatti che la psicologia può
rivelare e valutare. Quando fosse dato di stabilire, che non è generale
nell'uomo l'avversione al potente, ma allenatureavare, fredde, crudeli, quando
si potesse esplorare in un àmbito sempre più vasto l'estensione dei fatti e
degl'istinti della simpatia, sì da rendere legittimo il costituire con essi il
concetto dell'umanità, questa umanità sarebbe il fondamento di una morale
immanente, estranea, benchè non opposta, all'utilitarismo. Quando si potesse
attribuire positivamente, cioè psicologicamente e antropologicamente, un valore
definitivo al rapporto di solidarietà, e stabilire che esso risponde a un
istinto originario, valido per se stesso,e non per l'esperienza della sua
utilità, sarebbe tolta all'utilitarismo quella base consistente nella
proposizione universale, che l'uomo agisce per il suo utile. Ne c'è da temere
che i dubbii della ricerca psicologica si riflettano nella morale, perchè i
risultati che la psicologia ci potrà offrire non avranno valore di
modificazione del contenuto normativo della morale, ma bensì tenderebbero
a modificare il carattere formale di essa, come dottrina del dorer essere e
come scienza. Al Congresso medesimo Calò presenta una comunicazione intorno
alla Calderoni ritiene che l'assenza della ricerca e della sufficiente analisi
di quello ch'è il fatto ultimo e irriducibile su cui poggia tutta la vita
morale, il giudizio etico, ha impedito il costituirsi dell'etica come scienza.
Molto ha anche nociuto “la nessuna, o quasi, distinzione che si è fatta tra il
giudizio etico e il giudizio teoretico o conoscitivo, La morale deve invece
ricercare come ogni altra scienza, dei fatti ultimi, elementari, irriducibili
su cui fondare l'edificio autonomo delle proprie investigazioni. L'elemento
irriducibile, la realtà ultima, da cui deve prendere le mosse ogni dottrina
morale, è un fatto psicologico, un sentimento, non uccidere per esempio, apparterrà
sempre al contenuto normativo della morale, qualunque conclusione possa trarre
la psicologia intorno agl'istinti di pugnacità e di ferocia. Ma se le
conclusioni intorno al fondamento umano delle tendenze alla solidarietà e alla
simpatia saranno negative, l'etica e un sistema dottrinale, la cui imposizione
presenta i caratteri della accidentalità e della fluttuazione dei fatti
sociali, oppure i caratteri trascendentali metafisici o religiosi; e perciò la
valutazione etica e una gradazione fondata su altra base, non su quella della
realtà effettiva dei fatti umani. Se invece quelle conclusioni saranno
positive, l'etica, assumendole come sue proprie, avrà a fondamento il
significato psicologico e antropologico dell'umanità morale e potrà
scientemente stabilirei valori umani in relazione conesso. Infine TAOROZZI ri-assume
il suo credo in queste parole, che tutto si debba attendere dalla scienza, e
che essa sola possa spiegare un giorno perchè abbiano universale valore massime
conversazionali come queste: Non uccidere u ‘non mentire,’ “Ama il tuo prossimo.
Ogni qual volta noi giudichiamo del valore morale d'un sentimento, d'un'azione,
d'una determinazione volitiva, tale giudizio si presenta alla nostra coscienza
con un sentimento particolare di approvazione o di disapprovazione. L'esame
retrospettivo ci dice, che quel giudizio non risulta da un meccanico
sovrapporsi dei concetti del soggetto e del predicato (buono, giusto, ecc.),
dal paragone delle loro estensioni e connotazioni rispettive, dalla rivelazione
pura e semplice del loro rapport. Ciò che interviene, e ciò che più importa, è
il sentimento di approvazione o di disapprovazione, di adesione o di
ripugnanza. Qui si presenta un problema fondamentale. Trattasi di vedere se il
sentimento di approvazione o di disapprovazione accompagni semplicemente, come
effetto o come carattere, la rivelazione del rapporto in cui l'obbietto
considerato è con quel predicato. O se quel sentimento appunto renda possibile
la costituzione del predicato e quindi, mercè la capacità di riferimento
propria della ragione, l'enunciazione del rapporto. Questo problema non può
essere risoluto senza una analisi comparativa del giudizio conoscitivo e del
giudizio valutativo. E quest'analisi mostra appunto che, mentre nella funzione
conoscitiva il sentimento è un sopraggiunto, nella funzione valutatrice è, al
contrario, costitutivo del rapporto. Conoscere è constatare, attingere ciò che
è; mentre nel valutare, l'atteggiamento dello spirito non è di chi constata, ma
di chi reagisce. Non di chi afferma e riconosce l'essere, ma di chi vi aggiunge
qualcosa risultante da ciò che in lui non corrisponde, ma risponde alla realtà
conosciuta. E l'atteggiamento non di chi afferma o nega, ma di chi si
sovrappone alla realtà, o che le assenta o che le si ribelli, sia che lodi, sia
che condanni. Mentre, per il teoretico, il sentimento è un accessorio
trascurabile, per il moralista, esso è la vera realtà etica, poichè il senti
mento serve a caratterizzare qualsiasi obbietto di giudizio etico. In ultima
analisi, ogni giudizio etico si riduce ad approvazione o disapprovazione d'un
sentimento, d'un istinto, d'una volizione, d'un'azione. Ora l'approvazione e la
disapprovazione non sono che due speciali sentimenti, due forme diverse
d’uno stesso sentimento, il sentimento del valore. Il giudizio etico, dunque, intanto
è possibile in quanto si compie una sintesi fra l'obbietto conosciuto e la
ragione valutativa ch'esso suscita in noi. E, insomma, questa stessa reazione
che costituisce tutto quanto noi diciamo di quel fatto qualsiasi ch'è assunto
come soggetto del giudizio. Si direbbe che quel fatto tanto ha di realtà etica
quanto e come vive nel senti mento valutativo. Questo poi varia e quasi si
determina e si atteggia diversamente secondo gli obbietti a cui si riferisce, e
di venta volta a volta sentimento del giusto, del buono, del santo, dell'eroico
o dei loro contrari, di rimorso o di auto-sodisfazione, di rimpicciolimento o
di stima di se stessi,di pace dell'anima, ecc.; di modo che può dirsi che
ognuna di queste determinazioni del sentimento di approvazione e di
disapprovazione ha una sua individualità e che l'analisi di esse ci dà
l'analisi di tutta la coscienza morale. Il sentimento del valore, come fatto
fondamentale della coscienza etica, si pone a norma della realtà interiore e
dispone gerarchicamente i vari istinti e le varie tendenze. Un'altra sua
proprietà è anche quella di avvertire ogni atto che rappresenti un non-valore
come un'intima contradizione, il che dà luogo al sentimento particolare
dell'obbligazione. Il sentimento del valore è dunque di sua natura tale da
assumere, di fronte al resto della realtà psichica, un'attitudine speciale e da
contrapporre all'esistenza di fatto un'esistenza di diritto. Esso si distingue
profondamente dal piacere e dal dolore, perchè questi sono stati subbiettivi
interessanti semplicemente l'individualità del soggetto, mentre ilsentimento
del valore è obbiettivo anche rispetto alla individualità del soggetto che
giudica. Il sentimento del valore oltrepassa la sfera della mia utilità o del
mio benessere individuale; sono io che sento, ma non perme. Altro carattere
differenziale è questo, che nei sentimenti di piacere e dolore lo stato
subbiettivo è confuso con l'oggetto della rappresentazione, mentre nel
sentimento del valore, l'oggetto è nettamente distinto dall'atto valutativo e
può essere rappresentato come obbietto di conoscenza teorica. Ciò ch'è
piacevole e spiacevole non esiste che nel sentimento e per il sentimento, mentre
ciò ch'è valutato è chiaramente rappresentato di fronte all'atto giudicativo, è
insomma conosciuto. Non si può valutare se non ciò ch'è ben noto, tanto è vero
che la valutazione si presenta spessissimo sotto forma di preferenza e il
valore viene appreso comparativamente ad altri come plus-valore o come minus
valore. Sebbene il giudizio di valore abbia il suo punto di partenza nel
sentimento,esso non esclude, anzi richiede necessariamente l'intervento della
funzione conoscitiva, la quale prepari il terreno su cui possa esercitarsi la
funzione apprezzativa. La grande varietà dei giudizi morali osservabile fra
individui diversi dipende appunto dal diverso modo come sono appresi e
considerati gli obbietti,dai diversi elementi che ci pone in luce la funzione
conoscitiva. Così, mentre l'analisi del processo della valutazione etica è
compito della psicologia morale, gli obbietti a cui le nostre valutazioni
morali si riferiscono non possono esser tratti analiticamente dalla natura
stessa dei nostri sentimenti di valore. Essi possono essere determinati in
parte in base alla considerazione di rapporti for mali della volontà, in parte
in base all'esperienza storica e sociale, quale è studiata dall'etica storica comparative.
CALDERONI, nelle sue Disarmonie economiche e disarmonie morali, si è
recentemente proposto di porre in rilievo talune concordanze fra le leggi
economiche del valore e della rendita e le valutazioni morali sociali. In tal
modo egli crede che l'economia politica possa apportare un contributo positivo
alla scienza della morale e aiutarne il definitivo costituirsi. La vita morale
può considerarsi, così Calderoni, come un vasto mercato, dove determinate
richieste vengono fatte da taluni uomini o dalla maggioranza degli uomini agli
altri, I quali oppongono a queste richieste una resistenza, secondo i casi, maggiore
o minore, e richiedono alla loro volta incitamenti, stimoli, premi e compensi
di natura determinata. Questi stimoli o incitamenti prendono la forma sociale
di approvazione e di biasimo, di lodi, di gloria, di premio e punizione. Premesse
alcune nozioni intorno alla legge dell'utilità marginale e alla formazione della
rendita, non soltanto fondiaria, ma anche, in generale, del consumatore e del
produttore, CALDERONI accenna più particolarmente a due specie di disarmonie
economiche che si verificano nei fenomeni di rendita. La prima è conseguenza
del principio che, data la unicità del prezzo in un mercato, il compratore e il
venditore realizzano un vantaggio, rappresentato dalla differenza tra ciò che
sarebbe bastato a indurli a comprare o a vendere la singola dose in questione,
e ciò che, per effetto del mercato, vengono a ricevere. Ora, se i prezzi sono
proporzionali ai costi marginali delle merci, essi non sono proporzionali ai
costi di tutte quelle dosi che non sono al margine. Tutti coloro che si trovano
più o meno lontani dal margine di produzione o di i mezzi di produzione si
trovano infatti in quantità limitata e variano grandemente per qualità ed
efficacia, sicchè la produzione si compie in condizioni differentissime da
diversi individui,e l'au mento di produzione fatto con mezzi più costosi, mette
quelli che impiegano i mezzi più facili in una posizione privilegiata, ch'è poi
quella da cui la rendita deriva. Queste e altre considerazioni mostrano, che il
fenomeno della rendita non si può correggere mai assolutamente, e che dà luogo
a vere e proprie disarmonie economiche. La seconda specie è descritta da CALDERONI
così. Supponiamo che sia raggiunta in un modo qualsiasi l'abolizione dei più
stri denti ed evidenti fenomeni di rendita. In tal caso tutti iprodut consumo
si trovano a fruire di un prezzo, che basta soltanto a rimunerare quegli
individui, i quali cesserebbero dal produrre se il prezzo ribassasse; e godono
perciò di un vantaggio differenziale, o rendita, più o meno grande. Nè è
possibile la correzione automatica del fenomeno della rendita, mediante aumento
di produzione da parte di quelli che guadagnano di più, e conseguente ribasso
di prezzi, perchè non sta ad arbitrio dei produttori di ottenere in quantità
indefinita le merci in quistione. tori riceverebbero retribuzioni equivalenti,
per ciascun loro pro dotto, a ciò che è necessario e sufficiente per indurli
alla loro produzione. E nondimeno non si potrebbe ancora affermare che
all'eguaglianza di retribuzione per i produttori dei diversi prodotti
corrisponda una intima ed effettiva eguaglianza nei sacrifizi o nel lavoro che
il prodotto costa a ciascuno. La misurazione di questo rapporto implicherebbe
la conoscenza dei bisogni e dei desideri più intensi, dei sacrifizi più gravi
per ciascun individuo e porterebbe a risultati assai diversi. Dal fatto che due
individui sono disposti a dar la medesima somma per una merce o a contentarsi
di una data somma per un servigio, nulla può dedursi intorno alla in tensità
del desiderio che hanno o del sacrificio che fanno : come dal fatto che due individuisi
scambiano una merce, non puòde dursi che chi la cede la desideri meno di chi
l'acquista. Dal persistere di queste differenze è condizionata un'altra serie
di disarmonie economiche più sottili e più intime e per loro na tura
irriducibili, perchè persisterebbero anche quando si riuscisse a stabilire
rapporti equivalenti o eguali sul mercato. Dopo questi cenni CALDERONI passa a
rilevare le analogie tra fatti economici e fatti morali, le quali renderebbero,
a suo giudizio, possibile una concezione economica della morale. Anzitutto, non
meno in morale che in economia, ciò di cui effettivamente si giudica è, non il
valore complessivo o generale degli atti e delle attitudini, di cui s'invoca
l'adempimento o l'osservanza; ma il loro valore marginale e comparativo, valore
atto a variare e col numero di questi atti effettivamente compiuto dagli
uomini,e col numero altresì di quegli altri atti, cui si rinuncia per compierli
Vi è nella vita una gran quantità di
atti ed attitudini, che pure essendo di una incontestabile utilità, puressendo essen
ziali alla conservazione ed al benessere della convivenza umana, non entrano
nell'ambito di ciò che noi chiamiamo la morale. Perchè? Con ciò CALDERONI vuole
opporsi a tutta quanta la tradizione intuizionistica e kantiana in filosofia
morale. Gl’atti morali non hanno alcun valore assoluto, ma un valore
esclusivamente marginale e comparativo. Perchè nonostante la loro
desiderabilità astratta, nonostante i vantaggi totali che la società ritrae dal
loro adempimento, vantaggi certamente assai maggiori, nel loro complesso, a
quelli degli atti che la morale esalta; essi sono tuttavia atti di cui non è
deside rabile un ulteriore aumento, la cui DESIRABILITA marginale comparata, in
altre parole è zero o addirittura negativa. Gl’atti prodotti dall'istinto
personale di conservazione o da quello della riproduzione della specie non sono
considerati virtuosi, perchè, ben lungi dal richiedere un incitamento, essi
richiedono freni, gl’uomini essendo piuttosto proclivi ad eccedere che a
difettare in essi, e a sacrificar loro l'adempimento di altre funzioni che sono
marginalmente o comparativamente PIU DESIRABILI. Le nostre tavole di valori
contengono tutte quelle cose, per ottenere un aumento delle quali, in noi
stessi o negli altri, siamo disposti a de terminati sacrifice. Ma non già tutte
le cose che possono apparirci DESIRABILI. Col crescere delle azioni virtuose
esse tendono a diminuire di valore, come analogamente il diminuire delle azioni
viziose tende a render meno disposti a far dei sacrifici per diminuirle
ulteriormente. Ond'è sempre concepibile un limite, naturalmente molto diverso, secondo
i casi, oltre al quale il vizio, di verrebbe una vizio, viene infatti per la
domanda e per l'offerta etica lo stesso che per la domanda el'offerta economica.
In una società di completi altruisti avrebbe pregio l'egoista. L'ALTRUISMO è
una virtù il cui valore è strettamente connesso colla presenza di egoisti o
almeno di non altruisti nella società. Queste considerazioni confuterebbero la
legge morale di Kant, che prescrive di seguire massime capaci di divenire
universali. Nessuna virtù e nessun dovere resisterebbe ad un esame fatto
rigorosamente in base a questo criterio. Moltea zioni sono per noi un dovere, appunto
perchè gl’altri uomini non le fanno e rimangono tali a condizione che non siano
troppi gli uomini capaci e volonte rosi di imitarle. Come in una barca
sopraccarica, l'opportunità di sedersi da una parte o dall'altra dipende
strettamente dal nu e la un virtù, virtù, mero di persone sedute
dalla parte opposta. Se qui fosse seguito un imperativo kantiano qualsiasi, il
capovolgimento della barca porrebbe tosto fine ai consigli del pilota e alle
buone volontà dei passeggieri. Si può credere che si possa ovviare a questi
errori particola reggiando quanto più è possibile i precetti e le sanzioni,
individualizzandole in grado estremo. Ma alla stessa maniera che in un mercato
non si può variare il Prezzo secondo gl’avventori, così alla legge
d'indifferenza del mercato, corrisponde una legge d'indifferenza morale, per
cui sono stabilite regole comuni non troppo discutibili e sanzioni precise, non
atte troppo a variare e applicabili alla media dei casi. La necessità di dare
precetti e sanzioni generali dà luogo a fe nomeni analoghi ai fenomeni di
rendita. Alla generalità e rigidità della legge morale farà contrasto la
varietà delle condizioni individuali, per le quali si verificheranno vantaggi e
svantaggi differenziali da individui a individui. Il dovere per ciascuno sarà
di fare, non già quello che nel suo caso è il meglio o l'ottimo, ma ciò che in
media è meglio che gli uomini facciano di più,di quanto ora non facciano. Non
agendo così egli si attirerà una sanzione, che nel suo caso, potrà anche
talvolta essere immeritata. Le pene e i premi hanno un costo marginale che
cresce col cre scere della loro severità e grandezza,e colla loro estensione;
mentre colla loro estensione diminuisce la loro efficacia marginale. La gloria
e l'onore, come l'infamia, diminuiscono rapidamente di efficacia quanto
maggiore è il numero degl'individui che ne frui scono o soffrono. Così alcuni
si troveranno a godere di lode o gloria molto superiore al loro merito,
individuale, per avere compiuto azioni, poniamo, talmente conformi al loro
carattere che sarebbe piuttosto stato necessario punirli, se si fosse voluto di
ciò premesso, Calderoni trova le analogie fra le disarmonie economiche e
morali. stoglierli dal farle. Altri subiranno invece biasimo o infamia di gran
lunga sproporzionata alla loro colpa. Se poi i precetti e le sanzioni fossero
più particolareggiate e commisurate a ciò che è necessario e sufficiente per
indurre ciascuno al ben fare, rimarrebbe ancora una gran diversità nelle
condizioni individuali, delle quali non si potrebbe tener conto senza diminuire
l'efficacia dei precetti e delle sanzioni medesime. E questo dà luogo all'altra
specie di disarmonie morali analoghe a quelle che persi sterebbero nel campo
economico,se si correggesse la legge d'indifferenza del mercato. Queste
disarmonie morali infatti persiste rebbero,anche se le prime si venissero a
eliminare,analogicamente a quello che è stato osservato nei fenomeni di rendita.
Grice: “I love
Orestano loving Benedetta” – Grice: “Orestano takes Meinong very seriously – as
he should! Few outside Austria do! Meinong symbolses the I with ‘e’ from Latin
‘ego’ (Italian io), and the other with a, for Latin ‘alter, Italian altro. So
we have W for value (worth), and the possibilities that ego desires the evil
for alter – sadism. When ego desires the good, he is altruism. Altruism can be
reciprocal. In a purely altruistic society, things go well – but Pound knows
who’s against that! That’s why Orestano finds sympathy for Meinong, and so do
I” --. Francesco Orestano. Orestano. Keywords: l’opzione
eroica, Alighieri, Galilei, Tasso, Vinci, concezione aristocratica della
nazionalita, l’eroe Mussolini, l’eroe Enea, Weber e la teoria dell’eroe
carismatico, l’ozione dell’eroe non e una ozione. It’s not an option, Calderoni.
Luigi Speranza, “Grice ed Orestano”.
Grice ed Oribasio:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Marte, o la
scuola di Giuliano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma) Filosofo italiano. Giuliano’s personal
philosopher. He shares Giuliano’s enthusiasm for paganism. His treatises
survive, as does paganism – “Only you shouldn’t use that vulgar adjective,” as
Cicerone says!” – H. P. Grice.
Grice ed Orioli: l’implicatura conversazionale nella
logica della monarchia romana – i sette re – la scuola di Vallerano -- filosofia
lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Vallerano). Filosofo italiano. Vallerano, Viterbo, Lazio. Grice:
“Only in Italy, a philosopher, rather than a cricketer, is supposed to take
part in a revolution and write a book about his shire!” -- Fondatori della
Repubblica Romana. “De' paragrandini
metallici” (Milano, Fondazione
Mansutti). Il padre, medico, lo condusse a Roma, dove si laureò brillantemente.
La professione non lo attraeva molto: lo troviamo, infatti, professore di
filosofia nei seminari e nei licei dell'Urbe. Da Roma si trasfere a Perugia,
dove si laureò. Insegnò a Bologna. Partecipò con gli allievi all'insurrezione
delle Romagne; successivamente fu eletto membro del governo provvisorio di
Bologna, che fu sciolto in seguito all'intervento militare dell'Austria. Tentando
di mettersi in salvo,salpò da Ancona diretto in Francia con un altro centinaio
di rivoluzionari; ma il brigantino Isotta sul quale viaggiava venne catturato
dall'allora capitano di vascello della marina austriaca Francesco Bandiera
(padre dei due famosi fratelli Attilio ed Emilio) e tutti i rivoluzionari
furono arrestati. Venne incarcerato a Venezia. Poco dopo venne liberato, forse
per mancanza di risultanze gravi sul suo conto.
Iniziò così l'errare, costretto a fuggire da terra in terra, inneggiando
sempre all'Italia unita. Fu professore di archeologia alla Sorbona. A Bruxelles
insegnò. Soggiornò anche a Corfù, dove tenne un corso dnell'università della
città. Quando Pio IX concesse
l'amnistia, poté tornare a Roma, dove tenne la cattedra di archeologia. Le sue
attitudini per il giornalismo non attesero molto per farsi notare, e così fondò
un periodico politico che ebbe però vita breve, La Bilancia. Fu eletto deputato al parlamento della
Repubblica Romana. Quando il governo pontificio fu restaurato, in
riconoscimenti dei suoi meriti, fu nominato consigliere di stato. Pubblica
molti saggi di filosofia. Tra i più famosi sono da menzionare “Dei sette re di
Roma e del cominciamento del consolato” (Firenze), “Intorno le epigrafi
italiane e l'arte di comporle” (Roma). Prese parte alla polemica sui sistemi di
prevenzione contro i fulmini e la grandine, che coinvolse anche Bellani,
Beltrami, Demongeri, Lapostolle, Normand, Majocchi, Contessi, Molossi, Nazari,
Richardot, Scaramelli, Tholard e Volta. Le compagnie assicurative usarono
questi studi per valutare rischi e premi per i campi agricoli. Riconoscimenti Il comune di Vallerano lo ha
onoratocon l'intitolazione di una delle vie principali del borgo antico, quella
del Teatro comunale, e con l'apposizione di una lapide commemorativa sulla
facciata della casa in cui lo scienziato nacque. A Viterbo un Istituto Statale
di Istruzione Superiore -che comprende il Liceo Artistico e diversi indirizzi
di Istituto Professionale, A. Ghisalberti, nella voce della Enciclopedia
Italiana, vedi, riporta queste date di nascita e morte, A. Ghisalberti, Enciclopedia
Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Fondazione Mansutti,
Quaderni di sicurtà. Documenti di storia dell'assicurazione, M. Bonomelli,
schede bibliografiche di C. Di Battista, note critiche di F. Mansutti. Milano:
Electa, Polizzi, Alla ricerca dello «specioso» e dell’«insolito». Leopardi,
«Lettere Italiane», Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. -- rità assai leggieri, e, se
grandemente non m'inganno, assai consentanei alla ragione, de'quali ho stiinato
aver bisogno, l'enunciazione de'puri fatti che costruiscono l'istoria della
dignità regale nella città de’ sette colli, ha dovuto essere da me
corretta, e ridottasotto la forma seguente. La successione al trono mai non
appartenne in Roma a figliuoli maschi de' re precedenti. Essa appartenne sempre
a' generi loro, quando ve n'ebbe di viventi -- Numa, Servio, Tarquinio il
Superbo. Lo sposo della figliuola Maggiore e a tutti gl’altri preferito -- Servio.
Quando i generi sono morti, la successione passa ai primogeniti del primo
genero -- Tullo Ostilio, secondo la mia correzione della leggenda che lo
concerne; Anco Marcio. Quando si tratta di DUE RE, in luogo di un solo, e di quella
magistrature binaria ed a vita che si surroga ne primi tempi alla dignità
regia, parimente non si rinunzia a queste medesime regole, e se non trovansi
due generi che potessero elevarsi al potere supremo, si'elevano egualmente a
quello, secondo l'ordine legale DUE FIGLI DI GENERO --- REMO E ROMOLO -- Bruto
e Collatino. La figliastra del re e equiparata alla figlia nel dritto di dare il
trono al marito, o a’ suoi discendenti maschi, in un tempo in cui probabilmente
figlie proprie non esistevano -- Tullo Osti. Quando non v'hanno, nè generi, nè
figliuoli di generi, il trono passa a’ nipoti che s'a mò riguardare, in sì fatta
contingenza, come legittimi eredi de’dritti degl’ascendenti loro -- Tullo
Ostilio, se si preferisce l'ipotesi , nella quale egli è NIPTE D’UNA FIGLIA DI
ROMOLO -- maritata ad Osto. Fuori della serie deʼre, o de 'magistrali che ne
tenner le veci, tra gli stessi pretendenti che, senza ottenerla, dimandano la
dignità suprema, uno di quelli, de' quali l'antichità ci ha trasmesso la
memoria, è stato ugualmenle un genero di re -- Numa MARCIO -- ; due altri, ne'quali'
non ci è dato riconoscere questa qualità, non hanno dimandato il trono per le
vie legali ma cercarono d'ottenerlo con un delitto -- i figliaoli d'ANCO --; due
di che solo si parla presso Plutarco se si ricusi di considerare l'Ersilia
dalla quale discende, come FIGLIA DI ROMOLO, e se si rispetta la tradizione,
secondo la quale l'ultim re non è che il patrigno o al più il padre adotetivo
della SECONDA ERSILIA. In un caso, nel quale il capo supremo non potè far
valere il dritto di successione alla sua dignità negl’eredi maschi delle sue
figliuole, ne in altro modo potè effettuare la trasmissione della suprema autorità
per via d'altre donne sue discendenti, almeno tramanda il suo grado nell'erede
necessario della moglie – BRUTO rispetto a LUCREZIO TRICIPITINO, suo successore
nella pretura massima, o vogliam dire nel consolato. Quando non vi furono eredi
quali che si fossero di lato di donna, il trono, sempre messi in non cale i maschi,
ricadde in una persona estranea, cioè non legata di piirentela colla famiglia
reale -- Tarquinio Prisco. Quando, non ostante l'aversi eredi legittimi per
parte di donna, una persona estranea consegue la dignità regia, ciò avvenne
contra il dritto, per la forza dell'armi: Tazio. Non altra è l'espression' rigorosa
de' fatti, cosi come sono riferiti dagl’antichi, o come io dovetti correggerne
la sostanza e l'enunciazione, secondo le regole di una critica, se posso dirlo,
in nessun modo 'temeraria.' Le mie autorità , i miei ragiovamenti , non
sofferirono contraddizióve ne’loro particolari, eme nechiamo felice. Si volle
solamente avvertirmi che nel mio sistema sono alcuni fatti dubbiosi, e ricavati
per conghiettura. stato . co: Voleso e Proculo, sono stati proposti senza
gran fatto fermarsi sopra la proposizione; non hanno preso sul serio la lor qualità
di candidati, e sembrano avervi rinunziato essi stessi; finalmente sono messi
innanzi in un tempo nel quale tutto che concerne le leggi relative alla
successione regia era evidentemente suggetto di controversia, e dispuldvasi
intorno alle basi stesse di questa parte della costituzione organica dello Io
risposta, io vi ho presentato l'analisi, per così dire più condensata, delle tradizioni;
lebo prese da prima quali si leggono; mi sono per 'messo unicamente qualche
volta. o. Spesso la successione al trono in Roma s' è fatta contra ogni
principio d'equità, d'utilità, e di convenienza reciproca de' cittadini. Perchè
-- per qui contentarmi d' un solo esempio il quale abbraccia un lungo periodo
d'anui -- non certamente a vantaggio del partito latino, o di quel deʼ sabini,
sotto la dinastia etrusca, la dignità regia resta sempre nella fazion toscana. Grice: “Orioli philosophised
on many topics. To Italian philosophers, who are OBSESSED, during their
unstable political history, with political philosophy, his ‘research’ on the
consulate proves helpful. He notes that Romolo had no son – so who to succeed
him? Other than that, he was almost shot (Orioli, not Romolo) after trying to
oppose what he called the Roman theocrazy – or theocracia – For Orioli there
are various cracies: theocracia, democrazia, TIMOcrazia, and ARISTO-crazia. PATRIZIO
VITERBESE; CONSIGLIERE ORDINARIO DI STATO DI 3. S. P. DI M. MEMBRO DEL
COLL F1LOSOF. DELLA UNI V. DI ROMA, PROF. DI STOR. ANT. ED ARCHEOLOG.
NELLA STESSA UNIY fclA* PROF. DI FISICA NELLA UNIV. DI BOLOGNA CC. CC.
MEMBRO CORRISPOND. DELL* A. SC. MOR. E POL. DELL’lSTIT. DI FRANCIA,
ACCAD. BENED. DELL’ ISTIT. DI BOLOGNA , UNO DE'TRE SOCI ATTIVI DELLA
CL.DI LETT. DELLA REALE AC. DI SC. E LETT. DI PALERMO . SOC. ONOR. DELLA
IMP. E R. AC. DI SC. E LETT. DI PADOVA. SOC. CORRISP. E R. IST.
LOMBARDO DELLE SC. DI MILANO E DELL* IMF. E R. IST. DI VENEZIA , DELLA
AC. DELLE SC. E LETT. DI TOAINO...E DI MOLTISSIME ALTRE ACC. DI FRANCIA ,
GRECIA, E ISOLE IONIE , NAPOLI E REGNO , ROMA E STATI PONTIF. , FIRENZE E
TOSCANA , LOMBARDIA CC. CC. CC. : M l' ì(? 0
POLITICI j\r rro vjl Con giunte dell' A. NAPOLI STAMPERIA DEL KIBRENO. Faites , mon
garcon, faites, ré{K>nd lo vìeux radicai, et dites-leur aussi à ces hotnwes
qui ont cbassé et. ..et tous ceni qui ont osé ex printer un mot de se ns
commun et d'humanité, qui lapident Ics prophètes et éteignent l’esprit de
Dieu, qui aiment le mensonge , qui pensent ameoer le rógne de l’atnour et
de la fraternité aree des piques , des bouteilles de vilriol , aree le
meurtre et le blaspbéme , dites-leur à eui et à tous ceux qui pensent
comme eux qu’un vieillard...dont les ebeveux ont bianchi au Service de la cause
du peu- ple..., qui contempla lecraquement des nalions en g'3 et qui
entcndit les premieri cria d’tm monde au berccau, qui, lorsqu’il était
encore un enfant , vit venir de loin la liberté et qui se réjouit en la
voyant comme devant une fiancée, et qui pendant soixante pé ni- bles
années , l’a suivie à travers les soliludes ; - diles - leur que cet homme leur
eovoie le deraie r message qu’il envcrra sur cetle terre; dites-leur
qu’ils soni les esclaves de leurs convoitises et de leur r message
qu’il envcrra sur cetle terre; dites-leur qu’ils soni les esclaves de
leurs convoitises et de leur r message qu’il envcrra sur cetle
terre; dites-leur qu’ils soni les esclaves de leurs convoitises et de
leur s passioni, les esclaves du premier coquin venu à la laogue
reten- tissante , du premier charlalan veuu qui dorlote leur opinion
pcrsonnclle ; dites-leur que Dieu les frapperà, Ics fera renlrer dans le
néa nt et les dispenserà jusqu’à ce qu’ils se soi- ent repentis ,
qu’ ils se soieot fait des coeurs purs et de nobles ames , et qu'ils aieut
re- lenu les lecons qu’il s’ efforce de leur donner depuis quelque
soixante ans ; dites-leur que la carne du pcuple est la cause de celui
qui créa le peuple, et que le malhcur toin- bera sur ceux qui prennent
les armes du diablc pour accomplir l’ceuvre de Dieu ? » Sandy
Mackate nel Romano Alton locke di Kingsley Revue des deux Mondes. DUE
PAROLE A CHI È PER LEGGERE Stampo ancora una volta , cedendo alle
lusinghevoli istanze di parecchi amici miei, questi Opuscoli , a'
quali m’è altresì parulo bene d' aggiungere qualche annotazione
nuova dove V argomento s embravami o richiederlo , o me- ritarlo.
Certo, che, s'io pongo mente, non alla benigna acco- glienza
soltanto , la quale a essi Opuscoli fecero que' che m' onorano da lungo
tempo della loro pregiata amicizia , e le mie povere cose hanno abito di
giudicare con molta indulgenza , ma sì a quel che altri , a me per lo
addietro ignoti, o ,per fermo, non congiunti d' alcun vincolo di
an- tecedente amistà, ne scrissero ne' giornali , o con priva- te
lettere me ne significarono , io debbo tenermi come ba- stantemente
ricompensato della quale che siasi fatica dura- ta nel comporre le pagine
che qui appresso seguitano. Tra coloro che più contribuirono alla buona
fortuna della mia impresa ho debito di noverare principali i dotti e
bene- meriti scrittori del Giornale che ha titolo — Civiltà Catto-
lica — E so la mina degli sdegni a’ quali questo atto di franca
gratitudine è per metter fuoco nel campo nemico , poiché campo nemico non
manca. Ciò non mi sarà impe- dimento al fare lealmente il mio dovere di
render loro pub- bliche grazie. . II
Giornale — la Civiltà Cattolica — è a troppi , e in troppe sue parli un
osso non poco duro da rodere. Nel di- fetto d' argomenti logici , si può
a libito dirigere contro al valoroso drappello de' dieci o dodici
campioni che vi brandiscono cotidianamenle la penna, batterie, da
ogni lato , di que’ pessimi argomenti rettorici, che si chiamano,
in arte , argomenti ad odium , e ad invidiam : resisterà però illeso ed
invulnerabile agli strali spuntati de' loro sar- casmi , come le legioni
romane restavano salde ed immote agli urli co' quali i barbari , nella
loro impotenza , ten- tavano spaventarle. Quando si sarà detto e ridetto
, fa- cendo l’ alto dello scherno e del vilipendio — È opera dei
rugiadosi — che si sarà provato con ciò ? Si sarà lascia- ta una prova di
più della misera e svergognata dialettica del nostro secolo, rotto a
tutte le perversità, ed avvezzato- si a dare alle villanie valore di
ragioni. Tornando al mio proprio libro , censure fino ad ora
, le quali valgano la pena d’ una speciale risposta, non le ho
vedute , nè udite. Sunt
quibus in dictis videar nimis acer, et ultra Legem... e
, rileggendo a mente fredda , conosco l' acrimonia di certe espressioni ,
la qual forse sarebbe stato meglio tem - perare un po' più. Tuttavia ,
ben ponderata ogni cosa , ho creduto dover lasciare tutto come stava ; e
ciò , in pri- mo luogo, perchè questa in somma è una ristampa , la
qual non dee mentir al suo titolo ; in secondo luogo , perchè , al
postutto , muri può dire che , contro ad alcuno sin- golarmente, abbia
combattuto e combatta con armi ripas- sate alla còte samia. Il mio
proposito fu ed è, non di fa- re duelli, ma battaglie. Le persone io le
ho sempre rispettate e le rispetto , perciocché ho voluto , e voglio ,
esser libero ( ed esco ornai dalla metafora ) di trattare /’ errore
pervicace e spavaldo con tutta quella severità ed austeri- tà di forme
eh' et merita , e che un uomo , , il quale ha sentimento di sua dignità ,
rifugge dall’ adoperar contro all’errante. L’errante è, quanto alla carne
ed allo spi- rito , consanguineo e fratello nostro. Niun può sapere s'e
i non sia più presto un fanatico ed un illuso , che un perver- so ,
od almeno un gran perverso. Ha sempre diritto al fare in sé rispettare la
santa emanazione del soffio divino ri- cevuto , od ereditato , nella
fronte. È sempre la creatura celeste, che, se cadde , può rialzarsi , e
che, quand’an- che , per propria colpa, è in terra , e più al basso che
in terra , esser dee per noi , più ancora subbietto di compas-
sione , che obbietto di collera. Ma V errore staccato dalla persona , l'
errore lasciato in tutta la sua schifosa nudità, non ha diritto ad alcun
riguardo , e vuol essere trattato senza discrezione , senza misericordia.
Quanto a colui che avendolo in sé incorporato, sé da quello non
distingue, ed a sé stima dette le ingiuriose parole, che quello solo
feri- scono , tal sia di lui. Più di cosi non aggiungo. E
forse non era nè manco necessario dir così : tanto più , che , nell’
antica prefazio- ne , ciò stesso, comechè più brevemente , aveva
significato. 1 discreti perdonino. Gl'indiscreti riconoscano che
queste ciance premesse per lo meno non hanno il torto della pro-
lissità. wmmm PARERE D’ UN AMICO
INTORNO 11 MIO SAGGIO Ho Ietto attentamente la prefazione ,
e le due dissertazioni vostre. Io credo che abbiate ragione. Avete però
del pari prudenza? - II mondo è oggi troppo malato. Certe verità
dette con durezza qua e là soverchia fanno l’effetto del dito
stropicciato sulla piaga viva. Il meglio che vi possa accade- re è di non
esser letto. Se leggeranno , le grida saranno al- te .... terribili.
Perchè stuzzicare il vespaio? Ciò non è de- gno della vostra vecchia
esperienza. Il passato non vi ba- sta? Pensateci.
RISPOSTA Ho pensato .... e stampo la prefazione, e le
dissertazio- ni. Le considerazioni che mi schierate innanzi hanno
molta verità, ma non mi rimuovono dal mio proposito.
Jigitized by Google La prudenza ! - Sta ottimamente. La prudenza è
però spesso il soprabito della vigliaccheria ; e in questo caso non
è niente altro che un belletto dell’egoismo. Per non incorrere nel
male proprio .... per non turbare la propria pace .... per non tirarsi
addosso disturbi o peggio .... per non guastar, come suol dirsi, i fatti suoi,
s’ban da lasciare, senza darsene per intesi, le menti umane sem-
pre più travolgersi , le opinioni sempre più corrompersi , certa gente
accrescer la pervicacia nell’errore, e propagar- lo a tutto potere.
Sentendosi bollire in corpo la verità utile, ed affacciarlasi alla
bocca , s’ha da ringhiottirla , o sputarla ( scusate la pa- rola ) nel
fazzoletto e poi rimettersela in tasca, quand’an- che s'è persuasi, che a
gittarla là alla palese sarebbe bene ; che questa verità messa in
pubblico sgannerebbe alcuni r eh’ essa suonerebbe alto all' orecchio
d’altri, e servirebbe a svegliarne il coraggio addormentato , o
gioverebbe almeno a restare come testimonio a’ futuri che v’è, pur tra
noi, qualcuno , il quale ricusa le complicità , protesta virilmente
contro alle cattive e rovinose dottrine, se ne sdegna com’è il suo
debito, ed è disposto a mostrare, che chi sproposita e minaccia scompigli
e rovine, invano si confida d’avere il monopolio della franca ed ardita
parola. Io vi ringrazio, caro amico: ma voi m’amate troppo.
Non pensando , che al mio privato materiale vantaggio, ave- te
dimenticato a mio prò il resto del mondo. Io sento d’ a- marmi men di
quel che voi mi amate. Intendo benissimo , che scrivere com’ io
scrivo , è pre- pararsi disgusti .... e forse peggio. Ma considero ch’io
son vecchio, e nell’ ordine naturale poco ancora mi resta a vi-
vere. La mia povera e caduca persona non è ornai di tal prezzo che siavi
interesse per me a risparmiarla. È lungo tempo da che ho perduto il sapor
delia vita , e che le sue dolcezze non mi fanno gran gola , nè le
amarezze grave of- fesa al palato. La lode è un amo che non mi passa la
pelle. Il biasimo ( dove creda non meritarlo ) è un’ortica che non
mi punge. La minaccia è contro a sì poco che a tenerne con- to è una
miseria. Di me sarà quel che piace alla Provviden- za. Nella minuzia di
tempo che a vivere mi rimane , vorrei pur fare il bene nella maggior
misura che posso, a qualun- que mio costo. E poiché il pubblicare queste
mie carte mi sembra, che o in una guisa o nell’altra qualche bene
possa recarlo, perciò le pubblico. Al mio male quale che siasi,
dunque, non ci badate, com’io non ci bado. Fate conto ch’io sia soldato.
Sarebbe pur bella che al soldato si consi- gliasse di pensare alle
ferite, alle quali battagliando s’es- pone ! Per altra parte,
a me tocca ricomperare il tempo perdu- to, ed affrettarmi a farlo. Troppo
mi dorrebbe il lasciare di me tal memoria in questo mondo che dia giusto
diritto a suppormi quale certe antecedenti particolarità della mia
vi- ta possono aver fatto credere ch’io mi sia. Non nego, e
sarebbe ridicolo il negarlo, d’avere avuto anch’io le mie politiche
illusioni ( certo però non quelle di gran lunga , le quali oggi corrono
il mondo , e sono in gran favore presso tanti ). Sento il dovere di far
conoscere a qualunque prezzo ch’io non sono mai stato da confondere
col più de’ cosi detti liberali d’ oggidì, e che istruito ornai io-
ti all’ esperienza, non sono nemmen da confondere con quel- l’io che già
fui, e molte mutazioni ho in me fatto. Costi ciò tutto che s’abbia da
costare al mio amor proprio, vo- glio che Io si sappia. Gli altri posson
tacere ; io non lo pos- so, nè Io debbo. E so che dirassi da
taluni ch’io adulo que’che regnano. Veramente crederei che tutta la mia
vita passata m’avesse da essere scudo contro alla bassezza di questa
accusa ; tanto più che quegli stessi i quali la daranno (dove tuttavia
que- sto ardiscano ) , dovrebbero ricordare , se quando essi re-
gnavano pur testé , io li adulava. Sarebbe avere aspettalo un po’ troppo
tardi a mutar natura. . . . Ma voi dite eziandio , che il mondo è
troppo malato , e che le sue piaghe non vogliono esser toccate com’ io
qua e là le tocco , senza molta discrezione. Caro amico ! la vostra
seconda proposizione distrugge la prima. Se accordate che la malattia del
mondo è grave , pretendete voi di curarla coll’acqua di gramigna? Eh si:
vi son medici che non curano le malattie, ma si contentano di guardarle.
Se morte soprav- viene, tanto peggio pel malato. Il medico se ne lava le
mani. Io non sono di questa scuola. Vi sono piaghe che han fatto il
callo, evoltano tutta la malignità aldidentro;ed allora l’arte insegna di
trattarle col caustico. Si fan cerimonie, e si ri- sparmia la sensibilità
quando il male é leggiero; e questo , per vostra confessione , non è il
nostro caso. Da ultimo io vi prego a considerare ch’io mi guardo
scru- * pelosamente dall’attaccare le persone. Il mio
dogma é - Parme personis , dicere de viliis. Contea il male non mai
congiunto al nome di tale o (ale altro, credo mio diritto, e — li —
mio debito scagliarmi con tanta più veemenza quanta mi sforza ad
usarne l’animo grandemente commosso. Delle per- sone io non sono, non
voglio, e non debbo essere il giudi- ce; nè v’è il prezzo dell'opera ad
esserne il pubblico accu- satore. Per altra parte il pubblico non perde
nulla per ca- gione delle mie reticenze. Le persone s’accusan da sè.
La loro moda è di non dissimulare quel che pensano , quel che
vogliono, quel che van facendo. Per chi’ scrivo? Pei popolo? Il popolo non
legge. Tra que’ che leggono , gli uni non han bisogno di leggere
ciò ch’io scrivo , perchè ciò eh’ io scrivo è quello che essi me-
desimi scriverebbero se avessero a scrivere. . . quello che sanno già , e
di che sono persuasi tanto quanl’ io lo sono. Gli altri , nel maggiore
lor numero , son oggimai venuti a tale, che, quand’anche io fossi aitr’
uomo da quel che so- no , cioè, quand’anche fossi più eloquente oratore
di De- mostene e di Cicerone, e più stringente ragionatore di Zeno-
ne, e d’ Aristotele , non si lascerebbero smuovere dalle opi- nioni loro,
delle quali han fatto carne e sangue. . . una (falsa) religione... un
culto... una necessità... una parte prin- cipalissima , e la più soave,
delia lor vita interiore ed ester- na. Ove fosse pur possibile che
consentisser d’aprire gli occhi dell’ intelletto alla luce de’
ragionamenti , e si lascias- sero illuminare nella cecità alla quale son
venuti di deli- berato e volontario proposito, e vedessero, perciò vinti,
il bisogno d’ abbiurare la politica fede in che Guor vissero e
giurarono di morire , non oserebbero farlo, vincolati, come sono (impavidamente
diciamolo), alle sette che li tiran- neggiano e ne tengono in catena ogni
libertà. Cosi , solo a pochissimi , posso io rivolgere la parola con
qualche spe- ranza che sia per tornare non inutile; e son que’
pochissi- mi, i quali non tanto innamorarono del creder nuovo, che
di questo credere abbiano a sè fatto una passione , e non un legittimo
atto della facoltà intellettiva, al quale sian giunti per lavoro di
ragionamento , soggetto , come tutti i legittimi atti di ragione , alla
necessità di sottostare alle leggi che governano la potestà raziocinante
, e che debbono dominarla. Io m’inganno però anche rispetto a
essi ultimi. Noi vi- viamo in un secolo , nel quale la ragione stessa è
come mor- ta dell’abuso che se n’è fatto esagerandone i diritti , e
fal- sificandoli. Due già erano , dal tetto in giù ( e voglio
dire nelle que- stioni dove rivelazione non ha luogo ) gli elementi
neces- sari — coessenziali.... tendenti a rafforzamento reciproco,
per dare fermezza alla morale governatrice delle volontà e delle azioni
umane, ragione (d’individuo) , ed autorità (col- lettiva dei più savi ,
la cui ragione siasi guadagnata , per ogni correr di secoli , maggior
fede presso l’universale, che le spicciolate ragioni di tale o tal altro
o di stuoli compara- tivamente piccoli, e d’un opinar dissonante ). Il
qual se- condo elemento ( l’ autorità ) è dunque ( a ben
considerarlo nella sua vera e giusta natura c quiddità ) ragione aneli’
es- so, ma una ragione preponderante e superiore , come quel- la
che non è il giudicare soltanto d’ alcuni separatamente presi , e
ristrettisi nella lor propria e privata impotenza , fallibilità e
pochezza, ma è la quinta essenza delle ragioni dei più ( chè questa sola,
dai tetto in giù, pur sempre , in certe questioni di senso comune , è l’
autorità vera o legit- timamente sovrana ). £ dico dei più , o sia che si
contino nel numero, -o che si pesino nel valor loro intellettuale:
i quali perciò , quanto son maggiore stuolo nel lor
consenso prestato a equipollenti sentenze .... quanto rappfesentan
meglio, colla lor somma , tempi e scuole e popoli diversi... quanto hanno
maggiore e più costante comunion di pareri, non ostante la diversità di
sangue, di luogo, d’educazione, e di tutte le secondarie influenze, tanto
fan più sicuramen- te una forza morale, clic è forza di natura, non
d’arte , e che è qualche cosa più potente e più salda che la tanto
og- gi predicata sovranità del popolo; poiché èia sovranità, non
d’un popolo, ma la sovranità della specie umana tutta intera , esprimente
il suo voto colla più legittima e la più autorevole delle maggioranze
possibili ad ottenersi. Or noi, uomini del secolo XIX, de’ due
soprannominali elementi, uno e il più gagliardo, ripudiammo... Y
autorità-, ed abbiamo chiamato sovrana unica la ragione
(d’individuo), cioè V anarchia! Noi , tutti o quasi tutti (dico
noi ragionatori nel popolo , e consenzienti a ragionamento ) abbiamo
stabilito in cuore questo primo articolo del nostro atto di fede
politica. Io non crederò mai che quello che persuade il mio proprio
in- telletto; e quel che pèrsuade il mio proprio intelletto io io
crederò conira ogni persuasione degli altri , contra ogni dot- trina di
sapienti o di popoli , contra ogni sperienza di pre- senti, di passati ,
o di futuri, contra ogni domma di reli- gione, contra ogni legge di
governi... E stabilita una volta questa democrazia delle fedi...
decretato anzi , che, in ar- gomento di fedi d’ogni genere , non è
governo alcuno pos- sibile, ma gli uomini han tutti naturale e
iualienabile di- ritto d’indipendenza reciproca ed assoluta . . . dove
ornai vassi , ed a che? posto che le fedi , cioè le persuasioni
del- l’ intelletto , sono il perno, sul quale s’appoggiano per muo-
versi le volontà umane. C’è più possibilità di leggi? C’è più speranza
d’obbedienze, altre che tirate colla forza ma- teriale? C’è più virtù di
logica? C’è più società ? (li ISullius addiclus jtirare in rerba
mtigtstri ama ogni giovane dire di sè slesso uscito ap|»ena dalle scnole
di quella filoso- [Persuadetemi , noi diciamo , e mi piegherò ad obbedire
, senza combattere il vostro comando con ogni mio mezzo.
Persuadetemi che quel che m’insegnate è vero, e quel che lia , che
oggi , sotto Dome d’ eclettica, invade un grandissimo numero di scuo- le
, e quel eh’ è il peggio , anche colla innocente approvazione , e sotto il
pa- tronato , di maestri ottimi , i quali mostrano di non aver ben
compreso a quale indirizzo con ciò guidano gl' illusi discepoli. Se
l'avesser compreso , si sarebbero accorti , che professare eclettismo è
professare la negazione d’ogni vera certezza, riducendo quella maniera di
certezza , che pur si concede, ad un fenomeno d’individuo senz’alcun
valore per gli altri individui liberissimi di preferire ciascuno la stia
propria certezza alle opposte altrui , comechè d’un numero quanto sì vuol
grande, c consenzienti in una medesima oppo- sta sentenza.
L'eclettismo non è una filosofia, ma una negazione della filosofia
quale scienza altra che opinativa. Essa è anzi peggio che ciò , perchè
mentre nega una certezza intrinsecaad ogni filosofia d'individuoo
d’individui (per numerosi eh’ essi siano nel consentimento ad una stessa
filosofìa) , e mentre non s’ av- vede , che con ciò viene a negare, per
conseguenza, ogni autorevolezza in- trinseca a tutte le certezze
individuali, confessandole tutte intrinsecamente incerte , accorda non
pertanto a ciascuno il diritto di fidare nella propria certezza , e ,
quel eh' è il più, il diritto di regolare le proprie azioni a detta- to
di questa incerta certitudine : ciocché viene a dire , che , nel tempo
stes- so nel quale afferma la fallibilità di tutte le certiludini
individuali, afferma nondimeno f infallibilità loro nell’ applicazione
all' individuo , dando a esse il diritto d’ingannarlo , e all’individuo
il diritto di seguitare unicamente que- sta guida fallace, quando , a
proprio esame , non gli paia tale. E cosi , in luo- go d’ una morale ,
viene a stabilire e farne legittime tante quante piu vuoisi o non
vuoisi. L'eclettismo non è nè manco un metodo, come alcuni
spropositando dis- sero , perchè non indica- una speciale strada da
seguire nella ricerca del ve- ro. Esso è niente più che una professione
di libertà e d' indipendenza nell’opi- nare ; è un assoggettamento a
niente altro , che alla ragion propria. Filosofia eclettica è
parola che non ispiega nulla quanto alla natura delle dottrine. Dice solo
che il libro , il quale reca in fronte questa parola , è scrìt- to
seguitando il dettame della ragione dello scrittore , fattosi giudice
supre- mo d’ ogni ragionamento ed opìuamento altrui. Cosi , tutte le
filosofie , per diverse che siano , c 1’ una all' altra contraddicenti ,
possono intitolarsi , del pari, eclettiche, e tanto più eclettiche,
quaulo più professanti indipen- denza. Messo taluno alte
strette , crede d'aver salvato a bastauza la mala parola si fecouda
d’errore, rispondendo che il filosofo eclettico, quando accorda alla
ragion propria l' autorità che pur le accorda secondo il canone fonda- [che
nii comandale è giusto . ... Ma siam noi tutti atti ad es- sere persuasi?
Gl’ingegni nostri son tutti di quella virtù, di •* quell’addestramento,
di quella purità e serenità, che li fa esser buoni a intendere un
raziocinio , a non lasciarsi illu- men late dell’ eclettismo ,
parla della retta ragione, cioè convenientemente usata e normale; e non
s’ accorge, che , colla sua risposta o rinega la scuo- la eclettica e la
disdice , o ne lascia interi tutti gl’ inconvenienti ed i difetti.
Che cosa è la retta ragione, e la ragione convenientemente usata, e
nor- male ? Ad esclusione de' notoriamente pazzi ed universalmente tenuti
per tali , e perciò per non uomini , o per non più uomini ; e de’ rozzi
ed incolti , che riscuotono risaie da tulli, e son tenuti universalmente
per incompetenti, ossia per non ancor uomini (i quali ultimi tuttavia del
ticchio dell’ eclettismo non vanno immuni , nè si di leggieri della loro
autocrazia e indipendenza si lasciano spodestare ; e il fatto odierno di
tutte le filosofìe di piazza più che troppo lo prova ) , ognuno di noi ,
che abbiamo il mesticr d’ occuparci di studi e di stampa, crediam d’
usare la ragion retta, e convenientemente usar- la con ogni normalità, e
troviam facilmente, con poco impiego di senno ed industria, un coro
grande o piccolo di lodanti, il qual basta per darci persua- sione, che
la ragion nostra è per lo meno tanto retta e normale quanto quel- la di
chicchessia. Peggio è che vi son uomini , di ragione , per fermo , squi-
sitissima , e universalmente riconosciuta come tale, de’ quali, per
conseguen- za , mal si potrebbe dir che non hanno la ragion retta ed a
ottima norma , e non sanno usarla ; e pur mostrano , col fatto , che le
loro ragioni li conduco- no a dottrine opposte.... 0 vuoisi
dire che la ragion retta e normale si riconosce a certi criterii suoi ,
che non sono della ragione d’ individuo , ma sono d’ una universale
ragione, a' quali criterii debbono le ragioni individuali commensurarsi,
accet- tandoli per una norma estrinseca alla quale debbano affarsi ? Ma
ecco dunque rinegata allora e disdetta veramente la scuola eclettica , e
confessato il biso- gno d’un dommatismo,' al quale debba soggiacere ogni
opinar privato, per- duta la libertà della ribellione c l'
indipendenza.... Facciasi tutto che vuoisi , ci è appunto nella
filosofia necessità d’ un dom- malismo dominante i capricci e le
contraddizioni degl' ingegni in certe fon- damentali questioni
costitutive del viver morale e civile. L 'eclettismo potrà permettersi
all’ amor proprio d’ognuno nelle altre questioni , come una con- cessione
di poco o niun nocumento. E nondimeno , anche in quelle , il giu- dizio
dell’ individuo dee sottostare al senato degli uomini che si chiaman
competenti . . .. Ma questo non è un argomento per una nota, per la
quale il poco che se n’ è detto 6 troppo , mentre ciò che ad una nota è
troppo , ad una trattazione conveniente è men che poco . ] dere
da un sofisma , da un paralogismo , a por nell’ esame * delle questioni
la necessaria preparazione di scienza, a spo- gliarsi di tulle le
prevenzioni dell' intelletto , dell' affetto , dell’interesse? Siam tutti
veramente uomini ed uomini ma- turi; o molti di noi non sono, e non
restano, fanciulli sem- pre , e non sono , e non restano , bruti , o
quasi-bruti ? A tutto questo nessun pensa a rispondere. Il primo
arti- colo del simbolo de’ nuovi pseudo-apostoli sta pur fermo. Io
non crederò , se non mi persuadete; e non farò di buon accordo , e senza
resistenza , che quello che sarà conforme al mio credere !
Dirassi eh’ io esagero gli errori del tempo presente. J)i- rassi ,
che non tutto alla sovranità del proprio intendi- mento è dato , ma non è
, nel fatto , chi non fortifichi , an- cor oggi , le suggestioni del
proprio intendimento coll’ au- torità di numerosi stuoli d’ amici e d’
uomini del proprio partito , ovunque sparsi , e in più d’un paese predominan
ti. Aggiungerassi , che la fede nou è atto di libertà , ma di coazione
morale , alla quale l’ intelletto-, che nou è po- tenza libera , non può
resistere : ma faci! cosa è dare ri- sposta. Si , per fermo.
Contro alle necessità imposte da natura non cosi di leggieri vassi. O
vogliasi , o non si voglia, non si può restar soli del proprio parere ,
se nou s’ è monoma- niaci , che è dire malati di cervello. L’istinto
stesso ci spin- ge a metterci all' unisono con altri , verso i quali ci
attrag- gono simpatie naturali o artificiali, e a’ quali si crede,
per- chè si crede a noi medesimi : e v’ è in noi tendenza al for-
marci un mondo di que’ che ci accostano , e che accostiam noi ,
magnificando ed esagerando il valore e il numero lo- ro. Cosi, quando il
mondo che ci siaui fatto pensa e crede come noi , e noi crediamo e
pensiamo come quello , ci pal- elle qiiesta universalità parziale e
locale valga la vera uni- versalità potente a vincere tutte le contraddizioni.
Ma può ella esser questa l'autorità destinata a fare spalla alla
ragion privala di chicchessia, o ad essere uno de’ due puntelli del
I' uomo , postigli da due lati per impedirgli il cadere ? La specie umana
è forse un partito, ed è una ragion di partito la ragione umana? I
partili forse non s’ingannano , e non ingannano? Non hanno passioni che
velano il giudizio? Non hanno interessi che muovono le passioni? O nou
v’é obbli- go , nelle grandi questioni umanitarie , non di misurare
il proprio deliberare e credere col deliberare e credere di ((ud-
ii , o pochi o molli, a’ quali ci stringono i nostri interessi e i nostri
affetti, ma di misurarlo con quel che delibera e cre- de la sola legale
maggioranza del genere umano, cioè quella che si raccoglie in una somma,
comprendendo nel computo i popoli di tutte le età, di tutte le stirpi, di
tutte le regioni, e dando particolar valore a que’ che si reputaron
sempre i più savi, i più probi; e riguardando un po'nella verificazione
delle dottrine ( in virtù di quell’argomentazione che i dialettici
chiamano ab absurdo) ai grandi ed ultimi conseguenti loro, i quali , se
contrari alla perfezione della specie intera, signi- ficano , con ciò
stesso, efficacemente, la falsità d e’ principii, donde que’ conseguenti discendono?
E istituita questa misu- ra e questa comparazione , non bassi egli
obbligo, per una generale norma , di dar sempre più valore
all’espressione ultima di quel sentimento della vera maggioranza degli
uo- mini, che al sentimento suo proprio, e de’ suoi colleglli ed
amici, per numerosi che paiano e siano? o siani venuti a tanto
stravolgimento di logica , che ornai l’ autorità di ciò che si chiama il
senso comune , ed è appunto il da noi de- scritto in ultimo luogo , è
distrutta ed annullata ? Dopo di che, qual forza ha più l’altra
obbiezione dedotta dal supposto, che l’inlelletto non soffra violenza, e
che, ri- spetto al credere, non si è liberi di credere quel che si
vuole, ma si è costretti a regolare la propria fede secondo la luce
in- teriore, d’onde essa fede ha unico procedimento? Ammetto il
fallo: sebbene, anche in ciò, molto dipende dalle prepara- zioni
estrinseche della monte, e dalle disposizioni del cuore. Pur liberalmente lo
ammetto. Ma, dal fatto cosi ammesso, qual diritto scaturisce ? Forse che
regolar dobbiamo le nostre a- zioni interne cd esterne, secondo la
suprema norma di quel che all’ intelletto nostro pare unicamente vero?
Non già. L’obbligo è d' umiliarci , e di riconoscere , una volta
per sempre , l’inferiorità del nostro intelletto, quando ci accor-
giamo che i privati opinamenli nostri son contraddetti dalla grande
universalità degli opinamenti dell’umana famiglia , considerata nella
totalità sua presente e passata; e di lasciare allora da parte il falso lume
del proprio intendimento per diriger noi e le cose nostre coll’altro lume
tanto più si- curo , eh’ è il lume a cui demmo il nome di cornuti
senso. Ed intendiamoci bene , a evitar tutte le ambiguità.
Qui non parliamo delle questioni , intorno alle quali il cornuti
senso non ha luogo, ne competenza, nè autorità... di quelle questioni ,
che non son fatte per esser trattate da tutti , e che non bisognano a
tutti per la -loro normale esistenza e sussistenza... Qui si tratta di
quelle questioni, le quali pos- sono e debbono chiamarsi le grandi
questioni del genere umano: le grandi questioni teoriche, fondamento
sommo da fatti appartenenti ad un tem- po di tralignamento ,
a svantaggio e discredito delle aristo- crazie , non può in nulla
percuotere le dottrine che qui si professano. La questione allora sarà al
più , se i ceti aristo- cratici possano mai realmente preservarsi dalle
mutazioni che li fan perniciosi più presto che utili , e ridursi a tale
di conservare piena conformità col tipo migliore , o di rigua-
dagnarla ; ciocché per me non è nemmeno una questione , e non può esserlo
per alcuno , il quale tutta la potenza del- le buone arti educatrici
conosca. Risaliamo dunque , ripeto , al tempo di certe vere ed
an- tiche aristocrazie cavalleresche , normalmente condotte a
quella natura , che aver denno per essere dell’utile specie da noi voluta
, e spesso stata e vedutasi nel mondo. In esse voi troverete familiari
alcune virtù sommamente utili al popolo , e diffìcilmente reperibili
altrove nel numero e col- l’abbondanza che più sono desiderabili.
Chi noi sa ? Nelle prosapie aristocratiche , principalmente , se non
unicamente , può sperarsi- di trovare , ad ogni necessità , i veri patres
palriae , preparati a tutti i bisogni ; cioè quegli uomini autorevoli ,
potenti , coraggiosi , avvez- zi a mettersi fuori si dignus vindice nodus
, godenti già il pri- vilegio d’essere ascoltati con riverenza , con
effetto , assen- nati , sperimentati , periti , probi , pe’quali è fatto
naturai dono, ancor più che artificiale , tutto che è generoso ,
no- bile , magnanimo , eminentemente civile ed utile a civiltà ; e
prima la lealtà oggi si rara , il eaudore , la fede , la in-
corruttibilità , la fermezza , il disinteresse , la franca ed in- violata
parola , quella che proverbialmente pereiò si dice parola di cavaliere ;
il mantenere a qualunque costo i patti e le promesse ; il non mai mentire
; il religioso astenersi da ogni cosa vile o brutta... Non è
la santità de'perfelti in religione , nobil dono di Dio , e privilegio
sommo di grazia , sdegnoso per solito di queste cose terrene e caduche ;
è la virtù antica e civile , una cosa illibata , ingenita , uscita dai
paterni lombi , ed avuta da natura , più ancora che da innestato
ammaestra- mento ; che perciò non costa fatica, nè sacrificio, ma è
ab ovo e per traducem, fin dal primo impasto dell’uomo e della
razza. — Con questo, è l’abitudine dell’ anteporre l’interesse pubblico
ed altrui al proprio e privato... è la naturale ge- nerosità e
larghezza... è il preferire quasi istintivo del retto all’ utile... è la
disposizione avita di tutte le cosi fatte stirpi a eminenza di cittadine
virtù ed attezze... il primeggiare nel ci vii senno e consiglio... il
gittarsi innanzi, come il ’ prode destriero al romore delle battaglie ,
anche non chia- mati , nè pregati , né desiderati , in tutti i grandi e
solenni bisogni della cosa pubblica , senza risparmio di sè e delle
sue fortune... il trovarsi pronti e preparali a soccorso , a protezione ,
a sosteguo , a sovvenzione , a incoraggiamen- to , a guida , a ufficio di
capitani e di porta-bandiera. E I’ esser sempre caporioni agli altri nel
bene , e caporioni efficaci , ascoltati , sentiti , rispettali ,
obbediti... l’aver coraggio civile o militare secondo clie fa d'uopo... il
guarda- re dall'alto al basso il puro e vile materiale interesse , e
il cercar sempre nelle questioni il lato della moralità e della
giustizia... Non mi state a dire che queste qualità preziose son
rare come le mosche bianche. Rare forse oggi , vi ripeto : ma non
rare in ogni tempo ; non rare quando gli uomini s’e- ducavano a modo
antico. E se si riusciva ad ottenerle , quando a quella forma s’
educavano essi , io non veggo , perchè richiamando le stesse cagioni ,
non s’abbiano ad ot- tenere , e non si possauo , gii stessi
effetti. Non mi venite a soggiungere , che altrettanto e meglio
, per forza di conveniente educazione, puossi ottenere fuori delle
privilegiate caste. L’educazione è cosa sempre troppo artificiale , e
troppo perciò difficile a condursi a buon ter- mine , se natura non
agevola , e condizioni intrinseche non favoriscono ; e l’una e l’ altre
non favoriscono , se fin dai primi istanti non concorrono ; e dai primi
istanti non con- corrono che assai di rado , e solo con qualche frequenza
, quando certe disposizioni son fatte dono abituale per lunga serie
di generosi avi , e quando ogni cosa che è intorno le seconda.
Imperciocché indipendentemente da quel che allo- ra è dato per una felice
armonia del fisico col morale im- prontata per concepimento , v’è lo
spontaneo innesto che nou può mancare a chi è uato in mezzo alle morali
qualità che si voglion generate ; a chi le ha trovale in casa , e
n’è stato cinto da ogni parte fin dalla prima infanzia -, infine a
chi non ha incontrato , anche uscendo" di casa, che quelle , come
cosa propria della casta in mezzo a cui vive. Le quali cose tutte non
sono , per fermo , allo stesso modo , in uno stato dove non è che
democrazia, pe'figliuoli degl’ingenliliti da un giorno , e degli
arricchiti. Perchè in questi per solito le ricchezze e l’innalzamento è
dall’industria mercantile o quasi-mercantile ; e l’industria delle
mercature e de’com- fu- merei, pur troppo , a esser
promossa, e tanto da generare tesoro , ha bisogno d’accompagnarsi con
amor di guadagno , e d’ esserne preceduta come da suo naturale stimolante
: amor di guadagno , che è passione per sè , non dirò vile , ma
certo un po’ bassa , e non troppo generativa di virtù po- litiche. Ed ha
radice d’egoismo e d’interesse materiale e per- sonale , due interessi
che non poco penano a subordinarsi all’interesse morale , tanto da
contentarsi sempre delle se- conde parti. Donde poi viene , che nelle
case di si fatti (non ch’io neghi molte onorevoli eccezioni) gli esempi
non soglio- no esser quali in quelle della vera e buona aristocrazia ;
e colla rarità di questi esempi va proporzionata la difficoltà
della fruttuosa educazione di che favellavamo. Che se, pe’fin qui discorsi
argomenti , s’ è dunque cercalo di provare, che utile pertanto è
l’aristocrazia, rispetto al crea- re , con un buono e conveniente
indirizzo , una schiera di cittadini egregi, quali con arte di speciale
istituzione appli- cata a’ primi che presenta il caso , o la fortuna , è
difficile ot- tenerli; già possiamo a un altro argomento venire, e sarà
l’ar- gomento di un secondo e ancor più elevato interesse politi-
co, il qual consiglia a mantenere, quantunque dentro giusti contini, un
ceto aristocratico nello stato; c questo è l’inte- resse cornai at or e.
Il quale interesse, naturale antagonista del- V interesse riformatore ,
molti non vogliono conoscere utile , perchè non vi pongon mente : e , non
avvertendolo , non se ne fanno una chiara idea. Ma non perciò non esiste;
e non è rilevantissimo, e tanto anzi più importante, quanto le
forme del governo son più liberali, e tengono delle repubblicane, o
delle rappresentative e democratiche, e quanto v’è più grande l’autorità
delle turbe popolari. Perchè il proprio delle democrazie, come in
generale dei popoli e de’tempi tendenti a democrazia , è, in politica,
il moto perpetuo. Un paese dato o soggetto alla dominazione, od
alle forti influenze de’ capricci , di quello che fu e sarà sempre varium
et mutabile vuigus , è come dire un terreno in man d’una compagnia d’
agricoltori , ognun dei quali vuol coltivare a suo modo ; e dove ,
secondo che uno riesce a prevalere sull’ altro nella lotta delle volontà,
e nella perti- nacia e nella validità de’ contrasti, distrugge l’opera
de’com- pagni, e rilavora, e risemina a suo modo. Il qual terreno
la- scio decidere a chicchessia se può mai prosperare , e dare un
frutto che valga le spese, e le fatiche periodicamente aborti- ve. Un tal
paese è sempre sul disordinarsi, e riordinarsi per disordinarsi di nuovo,
e tornare ad ordinarsi: come ciò ac- cade del mobile campo del mare a
ogni nuova aura che spi- ri , non importa da qual parte. Le leggi non vi
durano. L’e- spcrienze lunghe non vi si maturan mai. Le fortune vi
sono instabili , come le dignità , come le influenze , come le ric-
chezze, come le risoluzioni. Ora un tal paese, per avere una qualche
speranza di requie, e di rallentamento negl’impeti inconsiderati del
moto, ; per non lasciarsi perpetuamente al- lucinare da false apparenze
di mali, da false apparenze di be- ni, giudicate secondo la prima
impressione, e guidanti a fatti spesso inconsiderati e rovinosi, ha
bisogno che sia , nel po- polo, un certo numero di cittadini saldamente
potenti (cioc- ché non vuol dir prepotenti), i quali mettano nella
bilancia disposizioni opposte ; cioè appunto quelle disposizioni
che si chiatnan conservatrici , com’é il proprio delle aristocra-
zie, alle quali tutto fa invito a temere i troppo rapidi mu- tamenti , e
a temperarli , facendo per propria essenza l’officio del regolatore nell’
orologio , e della scarpa nel carro, non per arrestare l’ andamento, o
per voltarlo io contrario, ma per fare necessario contrasto alle
accelerazioni dissenna te, e per impedirne le aberrazioni pericolose. Né
voglio, a provarlo , altra dimostrazione che quella delle prove
stori- che, dalle quali risulta che nessun paese prosperò mai lun-
gamente, dove un robusto ceto aristocratico non si ponesse in mezzo tra
le facili velleità delle plebi e de' municipii, tra i piccoli e gretti
interessi del terzo stato ... tra le tendenze agli abusi del potere in più alto
luogo; c non concorres- se con ciò validamente e in modo principalissimo
alla costru- zione diffìcile del buon governo. Finirò
enumerando i beni accessorii , che a lutti i prece- denti van connessi.
Unicamente coll'aristocrazia, che si tie- ne ancorala sopra una ricchezza
immancabile ( non fluttuan- te , non fortuita , non nata oggi o ieri , c
non destinata a perire domani), e sopra tradizioni antiche di potenza, e
so- pra le aderenze numerose e gagliarde che la corroborano , e la
fan per cosi dire immortale , sono possibili, od almen frequentissimi ,
tanti abbellimenti delie città ; que’ palagi , de’quali parlavain sopra,
che sffdano i secoli, e che son co- me reggie; i musei, le ville, i
parchi, le splendide ed ere- ditarie proiezioni alle belle arti di lusso
, alle lettere , alle scienze; i costumi gcutili, il secolo di Leon X, la
conside- razione al di dentro, e al di fuori, la dignità c il
decorodelle nazioni. Solamente coll'esistenza di famiglie, la cui
podero- sa influenza sugli uomini e sulle cose abbia grande ed
anti- co ed esteso fondamento , è lecito sperare ad ogni privato
facili appoggi e saldi nelle solenni necessità d’ogui genere , ferma
resistenza contra ogni nemico interno od esterno che minacci lo stato e
la città , c perfino la miglior guarentigia possibile contra gli abusi
d'autorità, procedenti da ogni alto luogo. Questi abusi , possibilissimi
anzi dove non sono che governo e popolo più o meno minuto, e qua c là
ricchi sen- za consistenza e senz’ altra fede che nella loro pecunia,
non possono esistere o sussistere gran fatto dove quel terzo ele-
mento dello stato è fortemente costituito su basi ben radi- cate che non
tremano ; le combinazioni ternarie , in queste faccende, piu essendo
valide ad impedire le abusive preva- lenze da qualunque parte , c quindi
le prepotenze di qualun- que origine. Ivi i facili rivolgimenti c
sconvolgimenti trova- no remora gagliarda e principalissima, distrutta la
quale i Ire- muoti politici si succedono a ogni piè sospinto ; e dura
pròva più d’un paese n’ha falla in questi nostri lagrime volissi- ini
tempi. Di qui è che la sapienza antica , per voce di Plato- ne c di
Cicerone, cosi appunto sentenziava ne’ libri De repu- blica. Si ama
favellare soltanto delle soperehierie de’ nobili , di certe violenze che
alcuni di loro si permettono, di certi mali ch’essi han prodotto.
Bisogna, com’ io diceva, pesar più giusto, e mettere su la bilancia nell’
altro piatto i vantaggi. Quando avrete distrutta la nobiltà , e avrete
solo tollerato quella ineguaglianza di fortune , che non siete padroni di
di- struggere, e che resisterà ad ogni vostro tentativo livellato-
re , avrete tanto e tanto le stesse violenze e le stesse soper- chierie
da que’che avranno la prevalenza di fortuna, ma le avrete senza il
correttivo ed il freno che per sua natura è chiamalo a mettervi il buon
patriziato per una dicevole edu- cazione e tradizione. Servio Tullio, fin
dai tempi regii di Roma , non annullò questo ; ne moderò i poteri ; e
provvi- de con ciò alla fuUira grandezza di quella ch’era destinata
ad essere la capitale del mondo. La elevazione di Roma re- pubblicana è
dovuta principalmente al suo senato di patrizi. Le successive invasioni
della plebe alzaron molli di quesla sino a quello, cd era giusto ; non
abbassarono quello fino a sè, che sarebbe stato follia. . . distruzione di
Roma. I Ce- sari lolser di mezzo, o snaturarono l’organo politico,
pel quale Roma dominò la terra ; eslcrminarono le grandi fami-
glie, fecer perire l’ antiche tradizioni , tolsero ogni impedi- mento ,
ogni potestà tra sè e il popolo , e con quale effetto non ho bisogno di
ricordarlo ad alcuno. Venezia ed Inghil- terra. . . la Venezia de’
passati secoli , l’Inghilterra d’oggi- di, son altra prova storica e
splendida della mia tesi. I so- prusi e gli abusi di potere si possono
correggere, impedire, medicare; il male della mancanza della nobiltà è
immedica bile nel materiale e nel morale. . . E la nobiltà è
zero senza ricchezza ; e la ricchezza è labi- le senza fedecommessi.
Dunque i fedecommessi, oltre al non essere ingiusti , oltre all'essere
senza detrimento al paese che li ammette, gli sono necessari (1).
(1) Di qui è , che, a mio senso guardando alla ragion politica , possono
nel- r eredita fidecommissaria difendersi anche certe sostituzioni , e
certi passaggi di famiglia a famiglia come mezzo di perpetuare i gran
nomi , la memoria de’ grandi servigi , e gli obblighi che queste memorie
traggon seco. L'argo- mento è degno per lo meno di nuovi esami. Non è il
mio Bne l’intraprenderli. N- B. Dopo stampale , una prima ed una
seconda volta , queste lettere , un vicino paese fu , nel quale i
maggiorati s’ abolirono , disputatone prima , co- me e quanto lo si
poteva aspettare , nella camera dei suoi deputati , e nel se- nato
de’sapienti del luogo. Nè negherò , che , vista la coedizione de'tempì e
delle opinioni , il conservarli sarebbe quivi stato un’ anomalia ; certo una
dis- armonia con tutto il resto. Nel fallo , si guardi meno alla
quistione assolu- ta , che alla relativa ; e meno la relativa al piti o
manco di vantaggio del po- polo, e in generale dello stato, ebe ia
relativa all' andamento politico in cui lo stato s'è colà messo, ed alle
necessità che ciò s'è tratte dietro. La questione giudicata oggi cosi sta
donque forse bene. Bisognerà vedere se ugualmen- te starà bene domani. DELLA
LIBERTA’ E DELL’EGUAGLIANZA CIVILE. -DEL GOVERNO E DELLA SOVRANITÀ’ IN
GENERALE. - DELLA COSI DETTA SOVRANITÀ’ DEL POPOLO E DELLA DEMOCRAZIA.
-DEL VOTO UNIVERSALE. DELLE RIVOLUZIONI E DELLE RIFORME NEI GOVERNI
EC. Al REPUBBLICA*! RICOVERATI
IH IHGBlLTERRA E ALTROVE Il ne faut pas vous le dissiniuler.
Le peuple, ainsi que la bourgeoisie n’a nulle confianee en vous. Le
peuple rii de vos pasquinades politiqueset socia- les: il vous a connus à
l’oeuvre : il a jugé la puis- sance de vos moyens et la fécondité de vos
res- sources; il a vu poindre , sous volre iniiiative , celle
réaction que vous condamne/. aujourd'bui, mais dont le principe est
loujours vivant dans vos vues et pour rien au monde il ne se
sou- cie de riimeltre nne seconde fois ses destinées eulre
vos mains. Tranquillisez-vous donc , et quoi qu’ il arrive ,
ne vous excilez pas le cerveau , ne vous écbaufl'ez l.oint la bile.
Acceptez en tonte résiguation le repos que vous fait l’cxil , et
metlez-vous bien dans la téle qu’à rnoins d'unc transformation com-
plète de volre esprit, de volre caraclèrc, de votre intelligence , volre
ròte est lini.... Teuez, voulez-vous queje vous dise louie ma pen-
sée? Je ne connais qu’un mot qui caractérise vo- tre passò, et je saisis
celie occasion de le Taire passer de l’argot populairc dans la langue
polili- que. Avec vos grands mols de guerre aux rois , et de
l'ralernité des peuples ; avee vos parades re- volulionnaires , et toutee
lintamarre de démago- gues, vous n’avez été jusqu’à préscnt , que
des blagucurs. Journ. le Peuple ile
l»bO Articolo di P. /. Prudhon- Della libertà nel civile
consorzio, e dei limiti che necessariamente debbc avere. Che
cosa volete , signori maestri del mondo, che si rin- nova? - « Libertà ed
eguaglianza nel consorzio civile, nco- « nosciute e difese; e , come
frutto della libertà e dell’egua- « glianza , la parte di sovranità nel
popolo , che a ognuno « coegualmente spelta per quel che concerne
gl’interessi « sqoi, e gl’interessi dell’universale in correlazione
co’suoi. « Perchè , se gli uomini sono uguali per natura ( e certo
lo « sono}, è una iniquità il farli disuguali per arte; è una slo-
« Udita il lasciarsi far tali , ed ammettere maggiori di sé so- ci pra sè
quando piace , e quando non piace. E se gli uomini « sono liberi per
natura, è una iniquità il farli più o meno a schiavi per arte, e
stolidità il lasciarsi far tali, ed ammet- « tere padroni di sè sopra sè
, quando piace, e quando non « piace. » - Ma qui vale la risposta celebre
degli spartani a Filippo re - (1). « SE ». La libertà!
Innanzi tratto, parliamo un po’ sul serio: rac- cordate voi veramente
all’ uomo , voi che pugnate tanto per- chè vi si lasci interissima , e
quasi o senza quasi priva di vin- coli ? - Ma molti di voi , che chiamano
l’uomo una macchi- na fisica , so che il libero arbitrio, cioè questa
tanto richiesta libertà, dicono non esistere ; poiché tutto che facciamo
, lo facciamo, secondo essi, per coazione prodotta in noi da im- pellenti
motivi, interiori od esterni , che prepotentemente, (I) Plutarch.
fìe g.imililale. Edil. Rnisk Voi Vili, 32. Digitlzed by
Google benché occultamente , ci spingono a fare o non fare ,
ed a fare una cosa piuttosto che un' altra. Dunque , almen per
tutti cotesti negatori del libero arbitrio, le dimande d’ esser liberi
hanno assurdità manifesta , e mancan di senso , es- sendo in
contraddizione perfetta colla loro intima e confes- sata persuasione di
non poter esser soddisfatti nelle loro di- mande , nè essi , nè
chicchessia (1). Essi sanno , o preten- don sapere , che chiedono quel
che non è possibile dar loro ; poiché quel che chiedono , a lor detto , è
un nulla , un non-ente; e niun può dare ad altrui, se non illudendolo,
un non ente, un nulla, una cosa, che nè ha egli, nè alcun altro
possiede, o può possedere. Dunque la libertà non possono chiederla, che
coloro i quali la credon possibile all’uomo , e che non risguardano il
mondo morale, ossia il mondo delle volontà, come un conflitto di forze,
ognuna delle quali non può non esercitarsi , che nel modo col quale nel
fatto s’esercita, senza che alcuno possa iutervenirvi per azioni
diverse da quelle con che ogni volta in realtà v’interviene. La libertà ,
in altri termini , non posson chiederla , che gli spiritualisti ; e già
in ciò v’è molto di guadagnato: perchè cogli spiritualisti , se sono
veramenle quel che dicono di es- sere, si può disputare con ferma
speranza di giungere pre- sto o tardi a spogliarli di certe idee, per
così dire, superfetate ed aggiunte, contro a naturatile loro persuasioni
di spiritua- listi: idee non compatibili con quelle persuasioni, e tali,
che nonèdifficile alla lunga di farle apparir loro quali realmente
sono, riducendole al giusto loro valore. È argomento ad hominem — Ex ore vestro
voi judico. Que’ cbe negano la libertà non solo non posson chiedere
questa , ma non possono , sul serio e da senno , chiedere o pretendere
nulla , nè accusar nul- la, nè lagnarsi o adirarsi di nulla, nè trovare a
ridire su nulla. Nella loro ipo- tesi lutto quel che è o sarà, tatto quel
che si la o si farà , non dipende dall'ar- bitrio 'di chicchessia. È o
sarà, à fa o si farà , perchè non puh essere nè farsi diversamente.
Dimande, lagnanze, accuse, saranno, per vero, esse pure atto necessario,
ma un alto senza significato, o d’ un signitìcato che non può stare. La
proposizione non lo che accennarla. Il trattarla ex profitto non è di
questo luogo. E che cosa è questa libertà ? - « La facoltà ( rispondono
} « d’usare delle proprie forze , fisiche o morali, nel modo « che
più aggrada, la quale ( dicono que’che vi credono ) « è una facoltà
primitiva e naturale, e tale perciò che non si « ha diritto di toglierla.
» Intanto , essi che l’ ammettono, si vergognerebbero di non ammettere però
, che alcuni di si fatti usi della libertà propria son buoni , altri
cattivi , e che i buoni usi ognuno è tenuto a praticarli , e i cattivi
ad evitarli. Dunque coloro che ammettono la libertà, .e che per-
ciò ne chiedono alla congrega civile la maggiore possibile in- dipendenza
e franchigia, concedono almeno una legge inte- riore, e naturale, e non
abrogabile , data al loro intelletto , che comanda , consiglia , o
proibisce; legge obbligatoria per ognuno. Dunque concedono, che la
libertà, per sua natu- ra , non è poi cosi sfrenata come lo si suppone ,
nemmen nell’uom solitario e sottratto perciò ad ogni coazione
estrin- seca de’simili suoi, da che è limitata e vincolata da una
legge interna, che notabilmente ne restringe pur sempre i poteri.
Anzi, poiché, conceduto il bene ed il male nelle azioni libere o
volontarie, vengono con ciò necessariamente a con- cedere la distinzione
tra l’uomo da bene e perfetto, e l’uo- mo imperfetto e cattivo,
conseguita da questo, che per essi il migliore ed il più perfetto degli
uomini è quegli che più limita le proprie libertà , e che , per
conseguenza , nel fat- to, è o si fa men libero; e viceversa , che l’ uom
peggiore e più imperfetto è quegli il quale più ai vincoli della libertà
si sottrae, godendo, nel fatto, d’un più illimitato uso della li-
bertà propria. Qual è l'uomo il più libero ? — Il ciallroue , che , senza un
riguardo per sè o per gli altri , va e fa e dice, e si veste o sveste , e
s'accompagna o scom- pagna , e si satolla negli appetiti suoi più
disordinati e più bestiali ed immon- di a tutto suo grado, gitlandosi
panciolle o rotolandosi in istrada, ubriacan- dosi nella taverna,
appaiandosi colle sgualdrine, gridando e urlando per via , spargendo
motti , dileggiamenti , bestemmie , ingiurie a questo ed a quello. Or, se la
civil convivenza è ordinata a rendere gli uomi- ni, non più imperfetti e
cattivi, ma sempre migliori e piu perfetti (ed aspetto che qualcuno
voglia con moderna impu- denza negarmelo), è chiaro, che quello è il
consorzio umano più conforme alle leggi di natura, in che il male è più
difficile a farsi, ed il bene piu facile. Laonde , se un modello di
ot- timo civile ordinamento è a proporsi come un tipo al quale si
debbano conformare, quanto meglio ciò è dato, le uma- ne congreghe , converrà
dire l’ideal naturale ( come lo chia- mano ) dell’ ottima e perfetta
civil convivenza esser quello dove alle volontà del male è recato il
massimo impedimento, alle volontà del bene il massimo eccitamento e
favore, alle volontà indifferenti quanto a bene ed a male la massima
indi- pendenza : quello dunque dove la libertà ha vincoli molto
maggiori de’ vincoli che le nostre leggi, anche le più rigo- rose
impongono. Tuttavia confesso, che chi cosi ragionasse andrebbe
trop- po in là col ragionamento, massime ove difendesse l’opinio-
ne, che questo ideale sia immediatamente riducibile ad atto nella odierna
condizione delle aggregazioni umane che si no- man popoli. Confesso, che,
conosciuto il mondo cosi com’è, e considerato quanto immensamente son gli
uomini ancor lontani, nella lor molta corruttela , dal tollerare
universal- mente d’ esser costretti a farsi ottimi, e ad incontrare
osta- coli ad ogni azion loro men che retta ed a bene rivolta; ve-
duto quindi che la legge troppo rigorosa incontrerebbe in- numerabili
ribelli, i quali sarebbe presso a poco impossibile frenare, e colla forza
ridurre ad obbedienza, o pur solo pu- nire; infine, richiamalo alla
memoria, che Iddio stesso, nella formazione dell’ uomo , mentre si è
contentato di dare ad — Lo 5cln 'rauo clic corre armalo le campagne
taccinlo silo tulio che trova , spogliando i viandanti ,
accoltellandoli.... — E qual uomo onesto , nel senso che questa parola
ottiene in ogni vocabolario di popolo civile, vorrebbe es- sere cialtrone
o scherano ? o eie' specie li ci' il consorzio è possibile ne' cial-
troni , e fra gli scherani?] ognuno le norme del bene e del male , ba però
voluto la- sciare, a tutto risico di chi devia da queste norme, la
libertà di si fatta deviazione ; di qui è che , per men danno , e
per men difficoltà , i savi , che dell’ ordinamento degli stati han
fatto particolare studio, avvisarono la necessità di abbando- nare al
proprio libito di ciascuno il più di quegli abusi di li bertà recanti a
tristo o sconveniente (ine, ma che non nuo- cono altrui, riserbato il
vincolare con leggi quegli abusi die agli altri recauo un più o men grave
ed ingiusto nocumento, od una indebita e non lieve molestia : ciocché
accordandosi a riconoscere e concedere ( e vi riflettati bene i capitani
e i campioni delle nuove dottrine) non credon già di aver, per si
fatti divisamenti, proposto quel che veramente sarebbe il meglio; ma,
proponendolo, o, a dir piu vero, confessando d’ essere stati costretti a
concederlo , compiangono di non aver potuto proporre c consigliare che un
men male. E tut- tavia questo men male non lo propongono, e non lo
accet- tano, che in modo , per cosi dire , precario , e finché ,
con un migliore indirizzo della educazione privala e pubblica , sia
lecito assai più recidere di questa libertà del non buono, senza troppa
resistenza , e per successivi sempre maggiori troncamenti giungere alfine
a quel minimo di libertà lasciata al mal fare , che costituirebbe de’
civili ordinamenti la vera normalità. Ed ecco ricacciate in
gola, io spero, a certi insipienti ban- ditori del sacro diritto (coni’
essi soglion chiamarlo) d’ esser padroni delle azioni loro, tante balorde
cicalcric di pocosen so , che vanno eglino ripetendo , e che, se
dimostran qual che cosa, dimoslrau solo quanto è grande la ignoranza di
gri- datori si fatti in lutto che risguarda la vera filosofia delle
leg; gi e la vera natura dell’ uomo. — Io so però con qual
mutamento di linguaggio si sforze- ranno essi di riguadagnare terreno, se
non di fronte, almen per fianco. Senza osar troppo di negare, presi cosi
alle strette, che quegli usi della libertà , dai quali un altro , e con
piu forte ragione più altri, o la comunità intera, possono essere
più o men notabilmente ed ingiustamente pregiudicati, deb- bono dalla
legge frenarsi , diranno però, ed in effetto dico- no ( abbassato molto
il tuono della voce e della superbia ) , che la forfattura de’
legislatori a cui si chiede emendamento è appunto nel giudizio del male ,
operato o da operarsi , il qual conviene, o prevenire perchè si tema, o
punire perchè si risguardi come fatto, e delle condizioni che si stima
utile all’ universale di lasciare in potestà de’governanti lo
impor- re a’ singoli , quale un debito comune di violenze fatte o
da farsi alia libertà d’ ognuno pel bene di tutti. Rispetto a che
ricusano il più delle norme stabilite dalla sapienza antica , senza un
riguardo eh’ ella sia stata sempre una e costante , sempre simile a sè
fin dalle prime manifestazioni sue, giun- gendo da gente a gente al
nostro tempo ; e trinceratisi so- pra questo terreno , vogliono , coni’
oggi dicesi , guarentite almeno certe principali libertà, o salvati certi
privilegi di li- bertà, di che fanno enumerazione, secondochè, per un
detto di detto, impararono (1). E qui non discenderò io a dispu-
tar loro ciascun palmo del nuovo terreno in che s’accampa- no, questo non
essendo per ora il mio proposito. Non ch’io non voglia, a miglior tempo,
a un per uno , espugnare cia- scun de'baluardi ove atlendon battaglia,
impotenti, come si sentono, a tener la campagna aperta. Ben, fermandomi
qui sulle generali, poche cose dirò, che importa stabilire, come
opportune premesse a tutte l'altre, quasi circonvallandoli in- torno d’un
regolare assedio, per toglier loro qualunque spe- [ È degno d’esser
notato che si schiamazza e si pugna per si fatte liber- tà, e per questi
privilegi sempre ne’ tempi in cui più si vuole abusarne , e da que’che di
abusarne hanno il proposito deliberato. Que’ che non han bisogno
dell’abuso , e che non lo hanno nell’animo e nel desiderio , è chiaro che
sa- rebbe ridicolo se ciò curassero. Ed altrettanto è a dire de’ secoli
in cui raris- simi sono, o nessuni, gli abusa tori di fatto o d'intenzione.
Queste grida allora non si sa che siano. Si chiede il permesso di quel
che si vuol fare, e si muo- vono lagnanze di quel che , volendo farlo,
non sì pub ; non di quello mai, che non occupa la mente, e che non
ispiace di non poterlo operare a suo grado.] anza di esteriore sussidio, e di
futuro scampo. Dove, se per avventura, io paia a taluno usare, a
dispetto, un troppo su- perbo linguaggio , valgami a scusa la salda fede
che ho nel- l’animo, non veramente del prevalere per senno, ma sì certo
dello scendere a combattimento con tale una soprabbondan- za di forze,
che il far fronte, negli avversari, più mi sembra presunzione ed insania
, che coraggio e bravura. E prima , prendo , come suol dirsi , atto
del concesso , e dell’ ornai da essi perduto per non poterlo difendere :
cioè , che tutte le declamazioni, le quali fannosi, a destra e a
sini- stra , suonare sul sacro diritto della libertà umana , cosi
in generale sfrenata , e della intangibilità di questo diritto ( le
quali declamazioni tanto si vanno ripetendo a illusione e per- vertimento
degli sciocchi, e col plauso del codazzo lungo an- zichenò de’tristi, i
quali approvano e fan coro, perchè l’ap- provazione è come indiretta
difesa di molte ribalderie loro); tutte queste declamazioni , dico , bisogna
ringhiottirsele , o riservarle a’ crocchi degl’ imburiassali a lor forma,
e già non più ragionanti, nè disputanti, ma credenti, e disposti a
con- tendere solo co’pugnali e colle contumelie. Per tutti gli
altri un punto è vinto, ed una verità è conquistata: la libertà,
per sé medesima, dev’ esser vincolala in tutti. Questo non ammette
più disputa. Or, ciò premesso, io dico poi , che, nelle azioni le
quali necessariamente han , per cosi dire , contatto cogli altri ,
e sono usi di libertà che agli altri possono riuscire o molesti o
pregiudice voli, a rendere, non pur possibile, ma solo reci- procamente
tollerabile la consociazione degli uomini, è chia- ro che l’interesse
comune richiede il provvedere a tanto, che i conflitti delle coeguali
libertà siano evitati il meglio che es- ser può, e siano del pari
scansate le cagioni, quant’elle sono, onde , per fatto delle libertà
male-usate, si renda sgradevole ed intolleranda ad altri, pochi o molti,
la convivenza. E poi- ché nessuno è giusto che sia giudice in causa
propria, quando specialmente la causa propria è in contrasto colla causa
degli altri, perchè niuno, negl’ innumerabili e colidiani casi di si
fatti contrasti, vorrebbe aver fede nella giustizia e nella di- screzione
d’un che ha interesse a favorire sè stesso (massime considerando , che il
momento medesimo del conflitto , al- lorché più le passioni sono in
presenza , in accensione, ed in tumulto , dovrebbe esser quello del
giudizio ) , perciò è ne- cessario, che ognuno anticipatamente sappia (da
terzi ed im parziali, e parlanti con autorità in guisa da comandare
obbe- dienza ed ottenerla) quel che può e deve, e quel che non può,
nè dee. Di che poi si conclude, che, innanzi al fatto, egli è della più
grande evidenza , bisognare alcune regole presta- bilite, ossiano leggi,
per le quali si determini efficacemente il lecito e l'illecito. Resterà
dunque solamente a cercare, da quali, secondo ragion naturale, debbano
queste leggi emet- tersi , ed in che misura. E la -questione
giunta a questo termine, s’allarga. Perchè, venuto il discorso alle leggi
che stabilir denno i confini e la misura della libertà civile,
l’argomento facilmente trapassa alla non meno astrusa ed importante
trattazione del primitivo stabilimento di tutte l’altre leggi
obbligatorie per l’universale, e si di quelle che fermano, o fermar
debbono le originarie con- dizioni della civile congrega, nelle parti
onde si compone od hassi a comporre l’intera macchina governativa, qual
si ha, o qual si desidera averla, si di quell’altrc, che, a volta a
volta, si van facendo, o si vorrebbero fatte, per nuovi bisogni che
si stimano sopravvenuti, o per correzione d’antichi e nuovi errori , de’
quali credesi avere accorgimento. Intorno a che una opinione oggi , e da
molli anni, a memoria di noi vec-r chi , cerca di signoreggiare il mondo
, secondo la quale , la volontà egualmente ed il senno di lutti avrebbe
in ciò a con- sultarsi, e a deliberare, per quella dottrina che troppi
pon- gono a di nostri in cima a ogni altra, e che chiamano il dom-
ala della sovranità del popolo , da cui , come da vecchia sua radice ,
sorse già e prese forza l’altro domina del cosi detto patto , o contratto
sociale ; due domini a’ quali dassi appunto per fondamento , come la
libertà originaria e naturale del- l’uomo, cosi l ’ eguaglianza primitiva
d’uomo con uomo. Or poiché, rispetto alla prima già vedemmo, quantunque
som- mariamente , quel che bassi a pensarne , favelliamo adesso
della seconda. Della eguaglianza in generale, e quanto poco esista
essa nella specie utnana. Si pretende, che gli uomini, per naturale
diritto, sian tutti uguali , e , al solito , insegnando al popolo questa
supposta fondamentale verità, que’ che la insegnano si guardan bene
dal dichiararla con più esplicite parole , e dallo spiegare in che senso
, a lor senno , questa eguaglianza può affermarsi, in che senso non lo si
può. E il popolo fa di questa propo- sizione quel medesimo, che
dell’altra, la qual die e-Gli uomi- ni son lutti liberi - Ambedue le
accetta così come gli si dan- no, senza limitazione, e se le stampa bene
in mente al modo che suonano, per poi trarne le conseguenze dirette ed
estre- i me, che oggi pur troppo ne trae... conseguenze che la pace
del mondo da sessanta anni disturbano ed impediscono. Io spesso ho
domandato a que’ difensori di si fatte stolte teori- che, co'quali è pur
possibile tentare un po’ di ragionamento, qual fondamento dessero (
parlando dell’egualità ) al domma che stabiliscono ; e i più di loro
m’hanno risposto con gran franchezza , che l’eguaglianza è da legge di
natura, perchè la natura ci ha fatti tutti della stessa specie, e della
stessa car- ne; tutti, gli uni agli altri, fratelli. Ma, quando li ho
incal- zati, chiedendo, se la natura facendoci uguali quanto a spe-
cie e carne , e con questo dandoci una comune fraternità , abbia poi col
fatto mostrato di averci voluto ad un tempo da- re anche le altre
eguaglianze qualitative e quantitative , ossia di modo, e di grado, che
bisognano per costituire l’assoluta eguaglianza naturale, la quale
intende il popolo, non ra’han potuto più rispondere cosa che valga. Almeno
avessero po- tuto dimostrarmi che queste ultime sono una
conseguenza necessaria di quelle prime! Bisogna compatirli. Essi non
po- tevan fare l’ impossibile. La natura, certo, non ha
voluto farci diversi da quelli che ci ha fatto. Ora è chiaro, ch’essa ci
ha fatto in ogni cosa dis- uguali. ( E si noti , eh’ io qui uso il
linguaggio de’ moderni filosofanti. Metto da parte la fede, il peccato
d’origine, e le sue conseguenze. Parlo , come oggi usano tanti , della
na- tura acefala , e separala dalle sue cagioni , come se non le
avesse ). Infatti che vogliamo ricercare? Il fisico, o il morale?
Ma, nel fisico , nessuno, per fermo , avrà l’ ardire d’ affermare ,
che la natura, fabbricandoci tutti della stessa carne, e collo- candoci
nella stessa specie, abbia voluto altro farci che dis- ugualissimi. Non
forse ogni giorno ci schiera essa innanzi i belli ed i brutti , i dritti
ed i bistorti , i contraffatti a ogni forma ed i ben composti della
persona.... i sani e gl’ infer- micci, i gagliardi ed i frolli , gli
svegliati ed i pigri o buo- ni-da-nulla? Non forse tra milioni di visi
nessun ce ne pre- senta ben simile... ben uguale ad un altro « imprimendo
ad ognuno una fisonomia sua, che è la sua e non d’altrui? Non forse
disuguali dà le complessioni , la fazion generale della persona, le
idiosincrasie ? Pur la carne è una in tulli , e la stessa : la specie è
una e comune. Più però l’originaria e naturale disuguaglianza fassi
palese, ove al morale riguardiamo, e si a questo nella parte intel-
lettiva e discorsiva, si nella memorativa, si nella immagina- tiva, nell’
affettiva , nella volitiva, e in quante altre le sotti- gliezze de’
filosofi distinguono... Ho io bisogno di dire, che hannovi nati stupidi ,
e nati con ogni buona disposizione di memoria, di giudizio, d’ acume... ?
Ho io bisogno di ricor- dare le portentose varietà d’ altezze , di
capacità, d’umori , di tendenze, infinitamente tra loro disparate e
distanti ? Ho io bisogno di avvertire , che GALILEI (si veda), Newton,
Eulero, Lagrangia non nacquero per esser umili ragionieri di lor per-
sona sopra un povero banco di libri tenuti a scrittura-dop- pia ; Cesare,
Carlo Magno, Napoleone, non erano modellati alta stampa d'un piccolo
caporale di milizie ; i Law non fu- rono mai del legno di che si formano
i Colbert , i Turgot ; Omero non doveva essere Clierilo, nè Virgilio
Bavio... , e tutta la larghezza d’ un oceano doveva separare Marco
Tul- lio Cicerone da Marco figliuolo, Marco Aurelio Antonino da
Commoilo, Tito da Domiziano... Vaucanson da un costrut- tore d’organucci
di Barberia... Giovanna d’ Arco dalla mia donna di faccende ?
Non favello delle disposizioni di cuore... delle disposizio- ni di
volontà... del più o meno di mercurio, di zolfo, di sali, che, fino dal
primo impasto, è infuso nelle nostre crete; e del diverso rombo di vento
a che si volge l’ago delle nostre tra- montane. Nel vostro stesso campo ,
signori maestri del no- vello mondo, consultate Gali , Spurzheim ,
Fossati, Combe. Crederanno leggervi sul cranio, scritto e significato a
grandi rilievi, se siete della pasta dei Tersiti, de’Paridi, degli
Ulissi, de’ Palamedi, o degli Achilli.... E non solo
differenti s’esce di prima stampa dall’utero ma- terno. Altre cagioni
soggiungono, da natura pur sempre, e dal conflitto perpetuo delle sue
forze , per le quali alle ine- gualità fisiche e morali, cominciate fin
dai primordi nostri, se ne vanno altre aggiungendo finché dura la vita,
ed alcune per effetto della stessa vita. Imperciocché a questo
lavorano giornalmente le infermità, e centinaia di fortuiti accidenti
che sopravvengono... le differenze di climi e del tenor di vita...
i nostri spropositi volontari ed involontari... : senza di che molle cose
al vecchio toglie P età , e al fanciullo non le dà ancora...
E l’arte , eh’ essa medesima è da natura , opera forse , e conduce,
a diverso fine? -L’arte è l’educazione, secondo che ce la danno, secondo
che ce la diamo. Or l’educazione, fac- ciasi quel che si vuole, è per
l'uomo una nuova grandissima cagione d’ inegualità , la quale niun potrà
mai governare in modo da impedirle il produrre questo ultimo effetto.
E , primo , è una potente cagione d'inegualità dalla parte degli
educatori. Perché come poterli applicare a uno stesso modo, a una stessa
misura, in tutti i luoghi ed a tutti? nelle città e ne’ villaggi ? nelle
campagne e ne’ boschi ? a que’ che vivono raccolti insieme, e a que’che
in solitudine, o grande- mente spicciolati e divisi ? Come trovarli, da
per tutto, uguali in eccellenza, per dottrina, per zelo, per altezza, per
l’allre molte qualità che aver denno , o dovrebbero ; o come non
piuttosto contentarsi assai spesso di non trovarne, di non a- verne, o di
averne de’mediocri, degl'insufficienti, o decessi- mi? Come, da per
tutto, avere o procacciarsi le stesse faci- lità secondarie , gli stessi
ausiliarii mezzi , senza di che la bontà degli educatori o fallisce, o
men vale? Come non avere riverberate sugli educati le diversità che
provengono dalla diversa natura de’ maestri, de’ metodi, degli aiuti
estrinseci? E, per tutti questi motivi, come non giungere all’effetto
ul- timo, che, se le differenze predisposte da natura erano già
grandi, più grandi ancora saranno esse fatte, dopoché di ne- cessità in
diversissimo grado e modo l'arti educatrici saran- nosi adoperate?
Secondo , è un’altra cagione d’ineguaglianze , dalla parte di
coloro che debbono educarsi. Imperciocché le inegualità già preordinate
in ciascuno nell’esser coucetli, come potran- no non avere accrescimento
e moltiplicazione, aggiuntevi le inegualità avventizie, prodotte
dall’azion di coloro, che, più o men bene, o più o men malamente,
educheranno? Dove, tra inegualità ed inegualità , sarà pur talvolta che
accadano compensazioni: ma sarà più spesso ancora, che le
inegualità si sommino, e s’alzino a maggior valuta... Terzo,
son molte più, accidentali, cagioni, che necessaria- mente faranno anche
maggiore essa differenza : come dire , il più o men bene, o male affetto
stato di salute, o di vigo- re , il più o meno di fortuiti ostacoli , o
di fortunate agevolezze sopraggiuugenti : la nebbia delle passioni viziose che
alcuni offuscalo la loro forza che molti distrae; lo stimolo delle
passioni generose che ad altri é incitamento... cento al- tri e mille
incidenti della vita, che or turbano, or secondano, e fan mentire in bene
o in male ogni anticipato presagio da natura tratto... Ma v’
è una piu generai considerazione , che vie meglio conferma la verità del
mio detto. Essa ci è somministrala dalla ricerca del fine stesso per cui
la natura ci diede delle arti educatrici il bisogno, l’istinto, ed il
seme. Questo fine evidentemente, e per sua essenza, è, sempre, e ogni
giorno più, disuguagliare, anziché uguagliare. Imperciocché la per-
fettibilità umana esse arti han persubbietto sul quale lavo- rano ; e la
perfettibilità è cosa sterminata. L'arte, cioè l’edu- cazione, perfeziona,
che è dire s’ aggiunge alla natura, ac- ciocché quello che in essa è
germe, tallisca, cresca in pian- ta, e fruttifichi. Ora il germe è
d’ineguaglianze: dunque ine- guaglianze raccoglierannosi dall’ educare,
tanto maggiori, quanto l’ educare sarà più perseverante, e condotto a
mag- giore eccellenza. In ciò sta il progresso, che è pure un altro
degl’ idoli del nostro tempo : in ciò la civiltà, effetto princi- pale
del progresso , che tanto oggi i nuovi dottori dicono di voler
promuovere, non s’accorgendo , che il suo vero fine è aumentare le
differenze tra gli uomini, non già scemarle. Gara infatti essa è per
essenza , e specie di palestra aperta a tutti, dove arte aiuta natura a
far si che ciascuno co’ vantag- gi che può e sa, si gitti innanzi quanto
più può e sa meglio, lasciando iudietro il compagno o i compagni di
quanto piu intervallo è possibile , nelle diversità di direzione che
tutti prendono. Cosi arte e natura a un medesimo scopo conven-
gono. Quella accresce 1’ effetto di questa. La disuguaglianza é data
all’uomo per legge; il disuguagliarsi per istinto, e per bisogno. Voi piu
facilmente fabbrichereste gli uomini della favola di Luciano, usciti
dalla granata magica , con metodo di successive dicotomie, che gli uguali
i quali sognale. Arroge, die questa è una legge non esclusivamente pro-
pria della nostra specie. Chi ben considera, trova ch’è legge data
all’intero universo, come norma del suo modo d’esse- re. Tutto in esso è
varietà e diversità. Tutto è gerarchia. La materia è una nella sua
sostanza , pur l’oro non è argento, nè T argento rame, nè il rame piombo
, nè il piombo arse- nico , nè l’arsenico azoto od ossigeno. Vi son
dunque caste nella materia , come nella specie umana ; come nelle
specie degli animali domestici (cavalli , pecore, capre)... V’ è
una gerarchia delle stelle tra le stelle, delle comete tra le
comete. V’é il grande ed il piccolo, il luminoso e l’oscuro, quel
che domina e quel eh’ è dominato. Un carbone è cristallizzato ; è
brillante; è la coli-i noor, la montagna della luce, che brillerà sulla
fronte di Vittoria regina d’ Inghilterra ; un altro car- bone non è buono
che a scaldare la pentola della massaia. Lo stesso grano, dice il più
santo de’libri, è trasportato dalla piena del torrente nel mare , e vi
perisce ; dal vento tra le sabbie , e non vi nasce ; dall’agricoltore nel
campo , e , se- condo le condizioni diverse del terreno e de’ succhi , v’
in- tristisce c non viene a spiga , traligna ed è ucciso dalla gol-
pe... prolifica ed è ricchezza della messe e del granaio. Evi- dentemente
queste diversità di sorte furono, sin dalla prima origine, ne’ disegni
del Creatore, nelle necessità imposte al creato... Quanto
agli uomini, ciò non è solo un fatto cieco ed im- provvido : è una
manifestazione splendente della sapienza del divino architetto. La vita
normale della civil congrega ha bisoguo di simiglianti radicali
disuguaglianze. È forza che v’ abbia chi non si sdegni d’ esser destinalo
ad metalla , alla coltivazione laboriosa delle terre, alle meccaniche
fatiche del- l’incudine, della sega, della pialla... Come è forza che
v’ab- biano altri ad altro buoni, ed a meglio, secondo tutta la va-
rietà degli uffici e de’ servigi che se ne aspettano. Fede c fi- losofia
s’ accordan poscia a proporci , affinchè nissuno si la- gni , il sistema
delle compensazioni in una seconda vita. Or, se tanto è innegabilmente vero,
come s’ osa insegna- re al popolo l’opposto di queste dottrine? Come
s’abusa della sua irriflessione naturale e della sua ignoranza per
falsificar- gli sino a questo segno il giudizio? Come s’ardisce
predi- cargli ogni giorno il domina supposto delVeguaglianza, o non
fiancheggiandolo con ragioni, o rendendolo credibile con mi- serabili ragioni
di fratellanza universale, d’identità d’origine, o simile? (1)-E v’ha chi
chiama perfino a complicità dell’in- ganno la religione , come se vi
credesse! V’ha chi usa come argomento: Siamo lutti figli d’Adamo; lutti
ugualmente re- denti sulla croce; tutti ugualmente fratelli in Cristo! -
Fra- telli si certo ; c figliuoli lutti della prima umana coppia ,
e della seconda per Noè il diluviano; ed ugualmente ricompe- rati
col prezzo di sangue sul Golgota: ma non perciò uguali; come uguali non
erano, ancorché fratelli, più ancora stretti tra toro che non un uomo a
un altr’ uomo, Caino e Abele ; come uguali non erano tra loro, ancorché
fratelli, Isacco ed Ismaele, Giacobbe ed Esaù, Giuseppe e Beniamino, e
gli altri figliuoli di Giacobbe... Fratelli, e perciò tenuti a reciproca-
mente amarci, ad assisterci, a giovarci; ma non a modellarci ognuno
sull’altro , ma non a metterci tutti a uno stesso li- vello , ma non a
interdirci ogDuno i vantaggi delle nostre individualità , o a pretender
di divider cogli altri gli svan- taggi. L’ autorità della religione ,
della quale s’ abusa , non ha mai consacrato queste massime , o , per dir
meglio , ha consacrato sempre le massime contrarie. Io dimentico
però, che hannovi, a di nostri, cristiani a’ quali par bello
servirsi del vangelo per falsificarlo, e spurii cattolici, i quali
s’argo- mentano d’ insegnare caltolicliesimo alla Chiesa , e
teologia alla teologia! (1) É facile intendere, se non il
come, almeno il perchè. Si cercano nel vol- go, e nel minuto popolo
complici, ed uomini di braccio per l'opera di di- struzione ebe si
medita; e l’adescarli con si fatti miserabili e detestabili ingan- ni par
utile , se non bello. Se non che intendo bene quel che vorrassi
rispondermi. Sorgeranno d’ ogni parte di coloro , che vorranno dirmi
, nissuno esser si stupido da pretender di negare il fatto visi-
bile e palpabile delle ineguaglianze di natura e d’arte, che son tra gli
uomini, troppe delle quali non possono non essere in un grado maggiore o
minore, si nel morale, che nel fìsico. Solo chiedersi oggi quell'
eguaglianza , che spetta agli uomini , in quanto congregati in società; e
questa esser Veguaglianza che chiamasi civile, cioè de’ fondamentali
diritti della vita di citta- dino; e pretendersi essa come dovuta per legge
eterna di na- turale giustizia. E avvegnaché, ristretta la proposizione
en- tro si fatti più precisi e più angusti termini , non è poi si
chiaro il comando della legge di giustizia la qual si cita , e resta
sempre a superarsi la difficoltà del concepire come e perché abbia a
credersi di misurar giustamente, applicando a tanti fra loro disuguali
una misura uguale per tutti , fan prova d’ avviluppare sé e gli altri in
un tessuto di ragiona- menti , che è pregio dell’ opera l’ esaminare-
Esaminiamoli dunque, c cerchiamo di far conoscere quanto essi hanno
po- co del solido, e quanto facilmente s’abbattono, e si riduco- no
a nulla. Dell' eguaglianza nel civile consorzio e su quali falsi
fondameli ti si pretenda stabilirla. Si vuole l '
Eguaglianza civile , cioè l’eguaglianza ne’ fonda- mentali diritti della
vita di cittadino! E per che buona ra- gione ?-Rispondono i pili
barbassori: « non veramente per - « che siavi tra gli uomini l’eguaglianza
primitiva di natura , « o perché possa l’arte giungere a distrugger mai
le diffe- « renze che natura ha in noi largamente seminate nel
tisico « e nel morale j ma perchè , tra tante che mancano , un’e- «
guaglianza primordiale è pur veramente in tutti, ed è « T eguaglianza di
condizione primitiva , quando la vita civile « ha per noi , secondo
ragione , normale coininciamento. » E , a meglio spiegare il concetto
loro , cosi ragionano , tornando un tratto a considerazioni relative alla
libertà - « Sia quel che si voglia de’ limiti che la legge eterna ha
se- « gnato al libero arbitrio d’ogn'uno , e della natura obbli- «
gatoria de’ precetti ch’essa legge dà a tutti ; se potente- « mente
c’invila essa ad unirci in civil convivenza , non , « per fermo ,
l’invito è coattivo (posto che niuu pretende « esserci disdetto il
segregarci per vivere in solitudine , « quando ciò ne piaccia) ; e molto
meno è obbligatorio a un « dato modo d’associazione (posto che niun
pretende esser- « ci da ragione naturale vietato il torci all’
associazione , in « che , per esempio , ci troviamo inclusi dal nascere ,
per « entrare , a nostro libito, in un'altra la quale consenta « di
riceverci). Dunque l’entrare , o il restare , in una data « civil
congrega, è , per sé, atto di libertà, rispetto al qua Digitized
by Google — 89 — • « le noi conserviamo intero
l’arbitrio. Ma lo stesso ragio— « namento può ugualmente applicarsi ad
ogni uomo. Dun- « que tutti gli uomini , debbono , in ciò , riguardarsi
d* li- ft guai condizione : lutti almeno coloro , a togliere qui
ogni « soGstcria , che hanno sufficiente normalità coni’ uomini , «
quanto alle facoltà naturali (salvo il diverso grado in che « le
posseggono) , per non dare evidente motivo d’ esser te- « nuli come non
liberi. Ma concessa l’esistenza d’almen « questa eguaglianza , non v’è
poi ragione perche da detta « eguaglianza non si derivi un’altra
eguaglianza , e vuoisi « dir quella per che , ne’ rapporti generali di
cittadino a cil- « ladino , e da cittadino a tutta la congrega , pesi c
benefi- « zi , cioè doveri e diritti sian parificati. Dunque sì fatta
pa- li rificazione , che è l’eguaglianza la quale aveva a dimo- «
strarsi essere di diritto naturale , lo è realmente. » Dal qual tenore di
discorso è poscia uscita , nel passato secolo , tutta la dottrina del
palio sociale, c (connessa con quella) l’altra dottrina , secondo la
quale il popolo , cioè la somma di tutti i concorrenti a civil consorzio,
nell’atto del concor- rervi , c dopo esservi concorsi , ha in sè la vera
sovranità e supremazia, per tal guisa , che ognuno ne possiede la
sua coeguale parte: ciocché costituisce poi quella che si chiama la
sovranità popolare , o la democrazia risguardata come il solo governo
naturale e legittimo. Donde molte conseguen- ze scaturiscono , c
principalmente questa « Che gli entrati , « od i liberamente restati in
una civil convivenza, se dispn- ee nendo di sè , come sovrani che ne sono
, tutti con egual « volontà e potestà si spogliano o si spogliarono pacifica-
le mente d’una parte della sovranità di sè stessi , per forma- le re di
queste parti riunite l’altra sovranità posta fuori , e ee depositata in
mani terze , alla quale , in essa convivenza , ee liberamente si
sottoposero, non però a questa seconda so- « vranità non si serban sempre
superiori. Nè , in quanto è « artificiale , e procedente dal loro libero
arbitrio , da cui « trae tutto il suo valore su ciascuno , può questa
sovranità fattizia distruggere la supremazia delle volontà da « cui supponsi
derivala. E perciò , quantunque soprastante « per patto , essa è
nondimeno in realtà soggetta , e dalla « stessa volontà onde procede può
quindi essere rivocata e « distrutta ». Le quali teoriche con tanto animo
i nuovi maestri le difendono , che , non potendo non accorgersi ,
ciò , nel fatto , non esser mai , perchè , storicamente par- lando ,
l’asserito patto sociale , mai , o quasi mai , non in terviene , ancorché
per diritto dovrebbe , a lor sentenza , intervenire « ciò dicono provar
solo la spuria origine delle « civili congreghe in che , per tal guisa ,
si è inclusi. Don- « de è poi , che il pacifico e precario restarvi , il
qual fac- « damo , non può , a lor detto , chiamarsi nemmeno un «
tacito consentimento. Imperciocché secondo il proverbio, « chi non parla
non dice niente. Ed , essendo che ogni go- « verno é intanto una forza di
fatto alla quale difficilmente « si può resistere , cosi il non dir
niente esso medesimo è , « conchiudon essi , una necessità imposta ,
piuttosto che « volontaria. Il perchè , ora massimamente che i popoli
co- « minciarono a parlare , il diritto, il quale non poteva essere
abrogato , o soppresso, risorge , dicon essi , con tanto « più vigore , e
legittimamente pronunzia illegittimi quc’civili consorzi , e sentenzia rivendicata
e ripigliata da tutti « quella sovranità di sé , che natura diè loro ,
per esercitar- « la congiuntamente , dove ciò aggradi , nella
formazione « di consorzi nuovi e di nuovi governi , a tal forma , e
con tali leggi , che il libero ed effettivo consentimento prece- «
da consorzio e governi, e li accompagni , o , cessando , « cessi
l’autorità di questi , c sia come se non fosse. Donde « tornan di nuovo
alla tesi , che la democmzia è nel diritto x di natura , in quanto almeno
poter supremo, cioè alto ed « indeclinabile potere , che sovrasta ad ogni
maniera di governo , la quale il libero consenso degli uomini abbia stabilito,
o sia per istabilire ; e che tutte le altre maniere di « governo, anche
consentite , sono artificiali e transitorie, mentre quell’ una , o esista
o no in alto , è permanente ed « imprescrittibile... » Cosi
presso a poco ragionano , quanto a tutto cotesto domma dell'eguaglianza ,
e a’ corollarii che ne traggono , i più logici tra costoro, e nondimeno
ragionano pessimamente e con una molto povera logica. Perchè , in tutta
l’esposta tela di raziocinii , s’afferma , più che si provi , quella sup-
posta egualità di condizion primordiale , che , o realmente , 0 per
una finzione giuridica , precede , o debbe precedere, l’ingresso
consentito d’ognuno nella civil convivenza , e che è data come fondamento
di tutta l’eguaglianza civile intorno alla quale si disputa. In questa vece
facilissimo è dimostrare che il fondamento , assunto per postulato
non ha sussistenza alcuna. Imperciocché sia pur dato e non con-
cesso a’cosi ragionanti d'assumer l’uomo nel momento d’en- trare con
perfetta libertà di sè in una associazione nuova, 1 cui patti
abbiano allora allora da stringersi , e, come mol- ti oggi dicono , da
formularsi (ciocché , nel fatto , non è mai) ; certo , anche in questa
immaginaria ipotesi , di che direm poi quel che è a dirne , falsissima
cosa è, che , nella turba de’ concorrenti a costituire la nuova congrega
, cia- scuna arrechi , non una quale che siasi equipollenza , od
eguaglianza di requisiti , ma quella equipollenza od egua- glianza che
sarebbe necessaria per venire alla conclusione a cui vuol venirsi.
L’equipoHenza o l’eguaglianza che v’è , è quella delle individuali
libertà degli ancora sciolti, ossia è l’eguaglianza nella autocrazia, o
nella signoria di sè , che ciascuno , per ipotesi, conserva ancora , e in
virtù delia quale , come padrone della propria individualità ,
concorre e consente per la sua parte alla formazione d’ un sociale consorzio.
Ma da che si viene all’inventario ed alla ricogni- ti) E tuttavia del
rigore di questa stessa speciale uguaglianza potrebbe di- sputarsi ,
cercando deulro quali termini, e sotto quali condizioni ogni uomo è sui
juris nel fatto. Ma il cercarlo sarebbe un'iucidentu questione, la quale
ci porterebbe troppo lungi.] zione de’ capitali e de’ requisiti che ciascuno
con sè reca ad associazione, l’equipollenza o l’eguaglianza subito cessa
, e cominciano le disuguaglianze... tutte quelle disuguaglianze,
che noveravamo nel precedente articolo , e che non posso- no non essere
messe in conto rispetto al reciproco interes- se degli stipolanti , c a
quanto esso comanda. Imperciocché sia pure un contratto quel che
trattasi di formare , e sia pure in libertà d’ognuno il preordinarne
gli articoli a suo proprio grado , o il ricusare la stipolazione.
Ma si abbia in memoria , che qui si domanda al postutto , a stipolazione
da farsi , non quello che ognuno , con un pensiero egoista di superbia ,
d’invidia , e di gelosia , non volendo esser da meno degli altri ,
pretende a perfetta pari- tà cogli altri , per prezzo d’adesione , o sia
o no interesse degli altri il concederlo ; ma quello che gli eterni
principii di ragione c di giustizia in questo proposito consigliano
ed ordinano. Perchè , insomma , bisogna ricordare quel che dicevamo
nel nostro primo articolo. Non è il libero arbitrio puro e semplice la
norma direttrice degli atti umani , e non esso è l’autocrate, oil sovrano
legittimo; nè alcuno ci ven- ga a dire , secondo filosofìa , stai prò
ralione voluntas. Il ve- ro e legittimo sovrano è il Xòyos", e il
Xòyos , cioè la ragio- ne, non di tale o tale altro individuo , ma si
l’universale ; quello che è la espressione del senno raccolto dalle
ragioni più squisite di tutte l’età e di tutti i luoghi. Rispetto a’
cui precetti non si può nemmen dire che nel caso nostro siavi
oscurità , o incertezza , chiari essendo e non contrastati i principii
generali regolatori de’ contratti di società , non secondo tale o bile
altra legge scritta , ma secondo il natu- rale diritto. Insegna esso ,
che se un individuo contribuisce al bene della società men clic altri ,
non può pretendere d’essere accettato alla stessa dose di beneficii che
gli altri., i quali contribuiscon più. Nè se , quanto
aU’amministrazio- ne della società intera , sono in essa e capaci ed
incapaci , è giusto che gl’ incapaci pretendano il diritto dell'avere altra
parte che indirettissima nella direzione e nel governo degl’interessi
sociali. Di che l’applicazione al caso nostro non ha bisoguo d’altre
parole. E tuttavia l’ altre parole, che qualcun chiede a maggiore
schiarimento saran dette a suo luogo. Qui basti per ora t’avere indicato
in che giace la fal- sità del ragionamento su cui la pretensione
all’eguaglianza civile si vuol fondata ; e- basti chiudere il discorso
facendo riflettere , che , dopo le cose dette , resta almeno a tutto
ca- rico ornai de’difensori di cotesta domandata eguaglianza il
provare , che realmente , nell’ ipotesi del libero convenire degli uomini
a costituire una nuova civil convivenza , tutti arrechino in contributo ,
non una parziale ed apparente , ma una totale e conveniente egualità di
condizione primor- diale , e nè più , nè meno di quella che il caso
nostro ri- chiederebbe a rigore di legge. Ma è una seconda
parte , che non vuol esser passata sot- to silenzio. Questa è l’esame di
quel che si vuol dare per conchiuso ed accettalo ; cioè che gli umani
consorzi , come sono fin qui stali c sono , abbian da considerarsi tutti
ap- punto per illegittimi , e spurii, perchè non consentiti nor-
malmente da ciascuno nel popolo , ed anomali , e non for- mali secondo
quelle che sole si giudicano essere le regole veramente razionali ,
destinate da natura a presiedere al nuovo patto sociale , e a servire a
stabilirlo. Intorno a che veggiamo un po’ quanto , ugualmente, e con
quanto perico- lo , vanno errati coloro i quali cosi predicano , e cosi
s’osti- nano a pervertire il piceol senno delle turbe. • Sta
bene mettersi in capo di sovvertire tutto ciò che è stato , ed è, in
fatto di civili convivenze , e volere sconvol- gere da cima a fondo lutti
gli stati , perchè vi sono alcuni (e sian pur molti ) , che gridano che ,
negli stati , cosi come sono , la distribuzione de’diritti civili non è
esatta ! Sta meglio che questi medesimi , i quali cosi propongonsi di
tur- bare violentemente la pace del mondo , giurino di non vo- ler
cessare la guerra da essi intimata , e già flagrante dal lato loro , contro
alle congreghe umane oggi esistenti , e di non posare le armi , e di non
finire le cospirazioni , finché non solo a una riforma in ciò siasi
giunti , ma quel , che è più , finché uon siasi pervenuti alla maniera di
riforma , la quale , a lor senno , è la sola giusta ! Peccato che vi
siano certe difficoltà teoriche e pratiche , le quali combattono
questo bene e questo meglio... £ so che delle difficoltà oggi non s’usa
occuparsi dai proseliti delle nuove scuole. Chia- mali vigliaccheria,
strettezza di spirilo l'occuparsene. Chiamano oscurantismo il proporle.
Chiamano forfattura il dir- le al popolo. Noi , che non siamo proseliti
di quelle scuo- le, diciamone alcuna cosa. Non saremo da essi ascoltati.
Non mancheranno tuttavia gli ascoltatori in tempi piu tranquil- li
, se non oggi. Questa è almeno la nostra fiducia. Considerazioni contro
al preteso diritto di rinnovare le società umane per accomodarle alle
proprie idee preconcette , e contro alle tentale riduzioni ad allo di
questo diritto. « Il mondo'( vuoisi dirci ) ha bisogno di riforma
, e di « quella riforma che noi da lungo tempo andiamo indican- «
do : e , poiché n’ha bisogno, non resteremo colle mani in « mano. -
Giovandoci d’ogni mezzo, tanto faremo , finché « avrem pur conseguito
quel che ci siamo proposto. » - Quante proposizioni incluse nelle
precedenti parole, ognuna delle quali proposizioni, in argomento si grave
, richiede- rebbe un libro a parte per trattarla come si conviene, e
per porre ben in chiaro quel che debba pensarsene! - « Il
mondo ha bisogno di riforma. - La riforma che bisogna è quella che le
scuole democratiche oggi insegnano, e non altra. - Questa maniera di
riforma si ha diritto di cercare immediata- mente il tradurla ad atto ,
senza lasciarsi trattenere da quale si voglia opposta secondaria ragione.
- Tutti i mezzi son buoni e leciti , se a sì fatto fine paian conducenti.
» - Ecco quel che vale il discorso con che abbiamo incominciato questo
articolo! - Non tutte , per vero , le dette proposizioni s’ osa
dirle da tutti : ma tutte son professate con cieca ed ostinata fede.
Pro- fessarle, in questo caso, è metterle in pratica, perchè la lo-
ro natura c tendenza è pratica più ancora che teorica. Due fini si hanno.
Uno è terribile. Da maniaci e per maniaci ; impossibile, grazie al cielo
, a conseguirsi interamente, ma purtroppo tale, che il camminare verso
esso è impresa feconda de’ piu gran mali che melile umana possa immaginare.
L’altro è un castello in aria verso il quale non è pallon vo- lante che
possa condurre, perchè tutti i palloni son condan- nali a precipitare
prima di giungervi: castello senza base , altra che di nuvole; castello
posto nella regione de’ turbini, e del fulmine; dove niuno durerebbe
tranquillo, e senza pe- rirvi alla lunga, corps el biens. Il primo è
mettere a soqqua- dro ogni cosa : città , terre, castelli , e ville, per
distruggervi gli ordini stabiliti , e, se bisogna, tutti che s’oppongono
alla distruzione. Il secondo è dare alla specie umana un altro or-
dinamento: ordinamento repubblicano; ordinamento di pura democrazia,
interpretata e stabilita nel senso il più largo. Se ne spera per gli
uomini d’un altro secolo (certo, non pe’vi- venli oggidi, e, men che per
tutti, pèr quegli stessi che ciò tentano ) quasi l’inaugurazione d’un’
era nuova tra gli uo- mini , era di felicità , di ragione, e di
giustizia! Cerchiam di mostrare quanto questa speranza è vana, temeraria,
fallace, e quanto questa impresa è colpevole, sottoponendo ad una
ad una, ma brevemente, ciascuna delle proposizioni a cri- tico esame.
- 1. Il mondo ( morale ) ha bisogno di riforma ? - Eh si. Ma
la perfezione, in ogni cosa umana, è un punto di mira piut- tosto che una
meta. Vi si guarda, ma non si pretende ar- rivarvi. Vi si guarda per
prendere la direzione, e per ac- corgersi se si sbaglia nell'andare, come
si guarda alla stella cinosura dal navigante, non che il guardarvi
significhi spe- ranza di raggiungerla. E bello è accorgersi
di quel che merita riforma. Per gran disgrazia - judicium difficile ,
experitnenlum periculosum - Si prendono spesso de’ be’ granchi a secco,
in questo mare, piu che in altro, e con più danno. E
conosciuto il bisogno vero di riforma , bello è spesso il tentare di
operarla. Spesso, ma non sempre. Perchè vi sono in medicina certe
malattie, che a volerle curare si fa peg- gio ; e ciò nel morale, come
nel fisico. Perciò un medico savio , prima cerca di ben conoscere la malattia
, e di non ingannarsi nel giudicarla ( cosa, come testé notavamo,
non facile ). Poi cerca se si pnò medicare. Se si può intrapren-
derne la cura subito. Se non giova invece differire il rime- dio, e far
vero il dinotando restiluit rem. Od ancora se a tut- to non è preferibile
il rassegnarsi per non isdegnare il mafe ed intristirlo. E il medico
savio al cito preferisce il tufo; e , salvo pochi casi estremi , e
disperati, che scusano le più grandi temerità, non mai dimentica lo
jucunde d’Asclepiade. Gli stati sono grandi corpi , ne’ quali
un'intera sanità è impossibile. E guai se tutti pretendono di tastar loro
il pol- so, e di trattarli alla risoluta con ferro e con fuoco,
alla Browniana , od alla Rasoriana , dandosi patente di dottori
senza diploma. Turba medicorum occidit Caesarem , e Cesari, in subiecta
materia siamo tutti. Figuriamoci poi quel che de- v’essere, quando i
medici non sono che empirici. . ! Quel che è peggio, nel caso nostro que’
che si gittano innanzi a tastare il polso, non sono nemmeno empirici;
perchè empiri- ci sono quelli che se non han teorica, almeno han pratica
: e che pratica possono avere di cose amministrative e poli- tiche
tutti cotesti innanzi tempo usciti, o piuttosto scappati, di scuola , a’
quali l’età troppo giovanile e il non essere mai stati in faccende nega
ogni esperienza? La riforma che bisogna è quella che le scuole
democratiche oggi insegnano , e non altra? Stimo la franchezza colla
quale in piazza questo è spaccialo come assioma , che non importa
dimostrare. V'ha egli in ciò buonafede? Quando lutti colo- ro ette
studiano a queste cose fossero d’ un medesimo avvi- so, potrebbe ben
dirsi a chi non lo sa : Ecco la verità in po- che parole. Le prove sono
inutili. Si tratta di quel che è con- sentito generalmente. Ma qui la
dottrina che si va spargen- do è contro a ciò che i più grandi Statisti e
Politici sempre ed uniformemente insegnarono. Trova oggi stesso una
forte opposizione nelle scuole e fuori delle scuole , presso il più
gran numero di coloro che a queste materie han volto l’animo preparato da forti
studi. Noi medesimistiam per provare, che è dottrina palpabilmente falsa; e lo
proveremo, se al eie! piace.E si tratta d’ana dottrina che minaccia
gran- di interessi stabiliti , dottrina gravida di sconvolgimenti e
di rovine .... forse e senza forse di stragi : e affermo anzi senza
forse, perché quei che la professano , stragi senza re- ticenza
minacciano a ogni terza lor parola. Con che corag- gio dunque persi fatto
modo s’inganna il povero popolo in- vasandolo a questa guisa di supposte
certezze, che non sono che grossolani e pericolosissimi errori , atti a
scaldare le sue passioni le più accensibili, le più feraci di mali quando
sono accese ; o che , per Io meno, son dottrine in nessun modo
dimostrate? 3 La riforma, la cui necessità si v# predicando con
parole, si ha diritto di cercar di tradurla immediatamente ad atto
senza lasciarsi trattenere da qualunque ostacolo d’opposta ragione?
Ciò è ben qualche cosa di peggio. Tal diritto in una proposizio- ne
incerta , combattuta , negata da troppi ed autorevolissi- mi I Bella
legislazione iu materia di diritti ! Ciò è il diritto in causa
grandemente controversa ( e non tornerò ad aggiun- gere , nella quale non
è difficile dimostrare che si ha torto marcio ) di sentenziare, non solo
, in proprio favore, som- mando in sé le parti di contendente e di
giudice; ma ezian- dio quello d'eseguir subito la sentenza che si è
pronunziata dando a sé ragione ! S’ardisce dire : « Se gli altri negano
la « certezza della opinione nostra, noi ne siam persuasi, e « non
possiamo permetterci di dubitarne, ed operiamo co- « me persuasi e non
dubitanti ». - Ma gli altri che nega- no, negano perchè, con più
persuasione ancora , od almanco con pari fermezza di persuasione, hanno
una certezza in sen- so contrario. V’è dunque, per lo meno, lotta teorica
e coe- guale di certezze contro a certezze, delle quali nessuna ,
cosi di leggieri, cede alla sua contraria (1). Or perchè, e (1) Io
indebolisco l' argomento . e mi lo torlo. Gli altri che uegano hanno per
qual ragione, la certezza vostra dee prevalere alla no- stra, e non la
nostra alla vostra? Per la ragion della forza, o per la forza della
ragione ? Se per la forza «Iella ragione ; dunque ragionate, e vincete
ragionando, cioè persuadendo, ciocché solo è vincere in fatto di
ragionamenti. Ma > finché ragionando non avrete vinto, e non avrete
guadagnato quella generai convinzione degli intelletti, nella quale sola
può con- sistere la vittoria , confessate almeno ch’ei v'é la sola
cer- tezza del non v’ esser certezza, e ciò colla solenne forinola,
Nonliquei; e lasciate le cose, nel generale, come stanno , finché alla
certezza clic si cerca non siasi veramente giunti. Se poi la certezza
vostra volete che alla nostra prevalga per Tunica ragione della forza,
abbiate almeno il pudore di non parlar più di ragione. . . abbiate almeno
il pudore di non parlar più d'eguaglianza civile de’ difilli- Voi
rinegate quest'ul- tima col vostro fatto medesimo, mentre la difendete
col det- to, e mentre pugnate ( solete dice) per conquistarla ad uni-
versale vantaggio. Voi la rinegate, perchè vi fate superiori, e
prevalenti , per forza , a lutti coloro che credono e vo- gliono il
contrario di quel che voi credete e volete. Voi la rinegate, perchè,
prima di contar quanti siete, senza legit- timamente poter sapere ancora
se siete la pluralità , o il mi- nor numero, vi tenete padroni di venire
ai fatti, e di com- battere contro ai dissenzienti da voi, pochi o molti
che sia- no , sforzandovi di tirarli a voi men colle ragioni , che
ado perandovi le cospirazioni , e a vostro libilo le armi , cioè la
una certezza ben altrimenti salila die la vostra. La vostra è ertezza di
parti- lo, o di setta : quella degli altri è certezza fondata sul senso
colmine, cioè sul credere presso a poco universale degli uomini di lutti
i luoghi , e di tutti i tempi; di quelli che si son sempre giudicati i
più sapienti, ed i migliori ; de- gl’ interi popoli , i quali tra gli
altri ebbero la riputazione di più savi, e che me- glio prosperarono
finché a questa certezza furono fedeli nella direzione della loro azienda
politica. Si può egli dunque istituir confronto giusto fra la vostra
certezza , e la certezza degli altri ? Chi non ha il senno velato da passione
ri- sponda e giudichi.]frode eia violenza. Voi rinegate, perché non vi
vergognale di dire, clic, se anche una maggiorità evidente e contata
, dissentisse in modo esplicito da voi, voi minorità non più dubbia
, pur seguitereste la guerra per vincere, cioè per fare che il numero
minore soperchiasse il maggiore, e per con- seguente acciocché voi che
costituireste il primo dei due numeri aveste a valere ciascuno più che
ciascuno degli altri, costituenti il secondo numero. Voi finalmente la
rinegate , perchè, divenuti ancora maggiorità manifesta , nel voler
tradurre ad alto la opinion vostra, se voleste esser ben d’ac- cordo
colla dottrina vostra d’ universale eguaglianza ne’di- ritli civili,
dovreste concedere che il vostro solo diritto non potrebbe esser che quello
di formare un consorzio civile del modo che a voi piace con coloro che
con voi concordano , lasciando a’ discordi di formare un altro consorzio
a lor gu- sto , ma non di sforzare le volontà de’ discordi a
soggiacer- vi ; non di comandare ad essi , e di disporre delle lor cose
: ciocché è misconoscere il loro diritto, individualmente pari a
quello di ciUscun di voi . . . ciocché è dare alla forza il diritto
supremo d’annullare l’eguaglianza ciocché é con- fiscare in ognuno
de’dissidenti I’ autocrazia di sé e delle sue cose , e ciò a profitto d'
una sovranità vostra su voi e sugli altri . . . E so che
risponderete : — « I dissidenti , che riescon mi— « nori di forza e di
numero, sgombrino il suolo, e se ne va- « dano altrove; o se voglion
rimaner tra noi, s’assoggettino « colle persone e colle cose loro. » — Ma
qual è il principio di ragione , col quale giustificate questa vostra
massima di governo ? Un patto reciproco di cosi fare , tra maggiorità
e minorità ? No : perché questa massima non può esser parie d’ un
patto, che non é fatto né consentito ancora, e per con- seguenza che non
esiste altrove che nel paese delle vostre speranze e de’ vostri desiderii ;
donde poi si deduce, che non è obbligatoria per que’ che ai patto da voi
proposto non si son fatti spontaneamente ligi , e che , come uguali a voi
, sono perfettamente indipendenti da voi. O volete insegnarci, che
così dev’ essere per un diritto realmente superiore ed ante- riore a
quello dell’ eguaglianza... per un diritto antecedente ad ogni patto...
diritto naturale... diritto che attinge la virtù efficace e la sanzione
dal fatto, in quanto è fatto; e dal fatto, in virtù di clic i più
numerosi , i più forti, i più destri est in fatis, che faccian sempre la
legge alle minorità di numero, di destrezza, di forza? Guardatevi
dall’insegnarlo. Quei che sa- ran per avventura disposti a concederlo,
potran per virtù di logica dedurne ben altro da quello che voi ne
deducete. Sic- come numero maggiore, violenza, destrezza non sono lo
stes- so che ragione ; siccome sovranità di numero, di violenza, di
destrezza non è lo stesso che sovranità di ragione ; siccome , secondo la
ipotesi assunta, numero maggiore, violenza, de- strezza non han bisogno
di consentimenti e di patti per co- mandare ; siccome l’essenza di questa
virtù di comando è di misconoscere il principio dell'autocrazia
nell'uomo, e quanti» a sè, e quanto alle sue cose, e d’assoggettarlo, per
cosi dire a posteriori, ad una forza che gli viene dal di fuori ,
trasfor- mando il fatto in diritto ( c sia poi, nella pratica, questa
for- za , quella d’una maggiorità, d’una minorità scaltra, o d’un
solo ) : cosi, ammessa una volta si fatta dottrina, s’accorge- ranno
ch’ella assorbe ed annichila tutte le altre. S’accorge- ranno, che non vi
sono più , con essa , nè uguaglianze , uè autocrazie di persona, nè patti
che tengano. Sentenzieranno che la forza, razionale od irrazionale, è
l’unica padrona... la tiranna degli uomini : la forza che ha la ragione
di sè in sè, o piuttosto in nessun luogo, ma che non ne ha bisogno.
E sarà con ciò giustificato non solo il vostro fatto, ma quello d’ogni
despota felice, d’ogni governo forte, qualunque sia- ne la natura,
l’origine, e la forma ; o sarà dispensato almeno dalla necessità di
giustificarsi, perchè sarà annullata la giu- stizia. E voi che avrete
messa in onore questa terribile mas- sima , n’ avrete guadagnato al
postutto di metter in onore un principio, che potrà esservi ritorto
contro da ogni fortunato avversario; e ridurrà tutto il diritto pubblico al
dirit- to d’una guerra perpetua tra gli uodiìdì ; senza mai speran-
za di concordia o di pace. Nè ho qui toccato l’altro punto della
proposizione la quale esamino , contenuto nella seconda parte di essa
proposizio- ne , dove si dice dai nuovi riformatori del mondo , eh’
essi non son disposti a lasciar di cominciare o di seguitare l’ opera
per qualunque ostacolo d' opposta secondaria cagione: ciocché, mi si
perdoni d’ esser costretto a risponderlo , è favellar da mentecatti.
Imperocché i soli insensati dancominciamentoalle imprese , e s’ostinano a
continuarle, senza punto attendere alle circostanze, alle opportunità,
agl’ impedimenti. Povera gente! Questo lo chiamano bravura! la bravura di
Storlida- no nella Gerusalemme liberata. È un amor idolatra della
propria opinione , la quale ha toccato i termini della infa- tuazione e
della mania. Per essi è vero Audaces fortuna ju- vat; non è vero — La
fine de’ temerari e degl’improvvidi è fiac- carsi il collo. Come tra
tutti gl’ innamorati, le difficoltà non servono ad essi ebe a far
crescere in loro le furie cieche del- 1’ amore. Caloandri fedeli ,
andranno per montagne e per valli, colla lancia sempre in resta, contro a
rupi e burroni, se non basti contro ad uomini , e contro a giganti. La
pre- videnza la chiamano codardia, tiepidità, sacrilegio. Sacrile-
gio, perchè questo amore è per loro una religione ( perdo- nino la parola
le orecchie pie). Son sacerdoti dell’ idea, della quale si son fatti un
idolo interiore ; e purché l’ idolo so- pravvinca, muoiano tutti, e la
patria stessa perisca. E sorga un'altra patria, se lo può, e sia rifatto
il mondo a pieno lor grado... o sia disfatto!!! — Aspetto, intanto, che
mi si pro- vi, gl’innamorati ed i fanatici esser mai stati , o poter
essere uomini atti ad amministrare le cose umane, private o pub-
bliche. Governali essi male sé medesimi : può immaginarsi come
governerebbero gli altri ! — Gran miseria de’ nostri giorni, il dover
perdere il tempo a confutare monomanie si mostruose! Il meglio che si
possa fare sul loro proposito è non dirne altro. Qualunque mezzo dee
tenersi per buono e lecito, se al fine conduca della universale Riforma
che vuol ten~ (arsir — Egregiamente , come il resto! L’assassinio...
per- chè no? Questo s’ usa. Questo non radamente è necessario. Ha
spesso una efficacia molto sbrigativa ed unica. Dunque è bene. E se è
bene I’ assassinio... un pugnale dietro le spal- le... un assalto a
tradimento... un’aggressione di quindici armati cantra uno disarmato,
perché non il veleno? perchè non l’ incendio ? perchè non la calunnia ?
perchè non » li- belli infa manti? perchè non le falsificazioni di
carattere? per- chè non il furto, o la rapina? #alum ad bonum ErgobonumH! E ciò sarà chiamato
riformare in meglio il mondo !... Togliete a! popolo ogni
sentimento religioso. La religione, eh’ esso ha, favorisce i tiranni.
Toltagli questa religione , il volgo sarà materialista ed ateo...
M’inganno. Alzerà altari Deo ignoto , come già in Atene ; ma ad un Dio ,
che non ha fulmini per punire, non ha che indulgenze per chiuder
gli occhi sui male che fanuo gli uomini ; e gli uomini faranno il
male allegramente, e con piena sicurtà di sé. Ma per (sra- dicare nel
popolo la fede nel Dio de’ Cristiani , nel Dio che lo ajutò ad esser
buono colle sue speranze, co’ suoi spaven- ti , volete adoperar le
scaltrezze d’una filosofia sofistica e trascendente? Esso non la
capirebbe, non la gusterebbe. Me- glio vale creargli il bisogno di non
crederla. Si renda vizio- so , e tanto che disperi del perdono, e trovi
più comodo il negare le pene d' un’ altra vita, che il paventarle. Si
seduca- no perciò le donne, e s’infiammino d’illeciti amori. Si
cor- rompa la gioventù... Debbo io seguitare questo tristo inven-
tario di pratiche atte a pervertire? O non qui scrivo un pic- colo brano
della prima pagina delia storia contemporanea ? Cosi, non è tanto una
proposizione astratta, quella che qui discorro , quanto un’ opera avviata
a compimento e coti- diana. Già non c’ è più bisogno di prediche. Le
prediche son fatte, ed han fruttificato. È in pien corso il nuovo
insegna- mento. Aspettando la universale Riforma, a chi
minacciata sotto forma d'una ghigliottina, (o d’una delle tante
eleganze inventate 60 anni fa in Francia, coggi pronte a
risuscitare: u«e fournée, une noyade, una passeggiata di colonna
inferna- le) , a chi presentata nell’ abito verde della speranza
come un secol d’oro che si prepara a nascere per condurre in ter-
ra la perfezione fin qui ignota a’mortali; noi poveri contem- poranei
vivemmo, invecchiamo e morremo tra le delizie d’un presente tutto pieno
di perturbazioni. Ora i benefizi che si promettono agli eletti son per lo
meno nella schiera de’ fu- turi assai contingenti. Il male che s’ opera ,
e che si soffre purtroppo, è da lungo tempo una funesta realtà. Per
torna- re all’ argomento nostro , gli scrupoli si van togliendo. La
bella morale del fine che giustifica i mezzi corre il mondo , c lo
conquista. Noi siam cattivi abbastanza. I nostri figli, se Iddio nella
sua misericordia uon ci provvede, saran peggio- ri di noi. Qual riforma
della umana convivenza possa dive- nir possibile con si fatta educazione
degli uomini , altri mcl dica. Io non so indovinarlo. Il mio stomaco si
solleva dalla nausea veggendo i costumi nuovi, le abitudini nuove,
uden- do le bestemmie nuove. L’istoria ha sempre insegnato, che
tutte le volte nelle quali un popolo è stato condotto a que- sti estremi,
esso ha rapidamente degenerato, e finalmente è perito. Cosi fu spenta la
gloria di Grecia e di Roma antica. Cosi la gloria più antica ancora delle
Monarchie de’ Babilo- nesi, de’ Medi, de’ Persiani, degli Egizi. Le
stesse cause hau sempre prodotto nel mondo gli stessi effetti ... e
sempre li produrranno ! E qui fo punto. Fo punto; ma poche
altre parole mi per- metto d’aggiungere su tutto l’argomento di questo articolo.
Si vuol distruggere gli antichi ordinamenti del mondo caule que conte,
facendo sempre la vista di partire dai due princi- pii, della libertà e
della eguaglianza. E vedemmo quanto l’una e l’altra si rispettino in
tulli gli sforzi che si fanno per fas et nefas a fin d’ affrettare l’ ora
della riforma. V’ é però ancor peggio di quel che ho detto, sebbene ho
detto molto. Ripigliando da un’ altra parte il principio de\Y eguaglianza ,
dopo averlo calpestato c manomesso, e ripigliandolo a scapito del
principio della libertà, si parla d’abolire lutti i diritti acqui- stali
anche per vie le più oneste. Gli uguali ban da essere uguali, perdendo
tutto quello per che con arti anche degne, e coll’ industria, e
co’meriti, e colle fatiche, s’eran fatti mag- giori , e non han da esser
nè uguali nè liberi quanto al di- ritto di contrapporre il loro no
all’allrui si. Gli uguali s’tian da potere non solo spogliare dagli altri
uguali, ma da questi si ban da potere anche sterminare ed uccidere , se
voglion conservare intatta tutta la loro autocrazia , se non
voglion piegarsi a dar mano a queste spogliatrici dottrine... -Un
con- tratto sociale tra eguali ha da esser fondamento della società
nuova per libero consentimento di tutti; ma il patto, o con- tratto
sociale non dee poter aver forza , e il libero consenti- mento non ha da
esser libero di non consentire ai patti che vogliono i preparatori della
nuova libertà ed eguaglianza. E queste contraddizioni palpabili e
nauseose si dissimulano da- gli uni ; e dette agli altri non li
commuovono, ed è come se non fosscr dette, tanto è fermo il proposito di
non ragiona- re, c d’ostinarsi. Ecco a qual grado d’ accecamento e di
de- pravazione s’è giunti.... ! Con che torna vero quel che già
notavamo, chiudendo il 3. articolo. Cercar di confutare co- storo è
spendere parole ed inchiostro a pura perdita. — Scri- viamo a
preservazione dei non corrotti ancora, o ad emen- dazione di chi sta tra
due nè ben sano, nè tutto guasto. Gli altri Iddio li illumini. E ripigliamo
dal suo principio il dis- corso delle ricostruzioni , delle costruzioni ,
o delle ripara- zioni dell’ edilizio sociale. Altre considerazioni
sulle riforme nel reggimento delle conviven- ze umane in generale , e sul
diritto e il modo di tentarle. Quantunque d’un argomento si
importante oggi tutti par- lino in tuon di dottori , e quasi anche i
fanciulli , qui «on- dimi aere lavanlur , pur non è men vero , che il
dire intor- no ad esso quel che veramente la ragione insegni è cosa
grandemente difficile per tutti , ed anche pei più periti nel- le scienze
dello Statista. Due sono i casi. O alcuni inclusi in una convivenza
civile già stabilita , e soggetti alle sue leggi, se ne stancano , vi
si trovan male, vogliono sottrarsene, e ciò non collo staccarsi e
irsenealtrove in cerca d’un’associazion nuova, ma coi riformar
l’associazion vecchia e spiacente, resistendo a questo gli altri che pur
vi sono ; o i venuti a desiderio di rinnovazione del politico
ordinamento, nella civile congrega alla quale s’appar- tiene , non sono
alcuni , ma presso a poco tutti , cosicché nessun degl’interessati in ciò
resista , e faccia notabile osta- colo. Nel secondo caso, difficoltà
gravi , quanto all’iniziare le riforme , di che si crede aver bisogno ,
non possono es- servi (1) , perchè si suppone non esservi lotta ; ed
aversi , (t) Noq saranno le difficoltà quanto al consenso nelle
riforme , ed alla loro attuazione. Resterà peri) a vedere pur sempre, se
le riforme in che consentirono , avranno quel sommo genere di legittimità
che sola puh dar la giustizia e ra- gionevolezza loro , o se uon
l'avranno. E resterà a cercar se , non avendola , siano ciò non ostante
obbligatorie , ed in che senso , e fino a qual grado , o dentro quai
limiti lo siano : questioni difficilissime a trattarsi , ma che non e
questo il lungo di trattare presso a poco , universalità di consenso. (Le
difficoltà co- minceranuo , quando si tratterà del modo , se vogliasi
che questo modo sia il più ragionevole , ed il più profittevole a
tutti). Ma , nel primo caso , non si può dire altrettanto. Quando
un governo è stabilito, e un ordine quale che sia- si già esiste...
quando in tutto il numero dei componenti la civile congrega i
sufficientemente contenti sono di gran lun- ga i più , e i veramente gravati
, e giustamente malcontenti sono di gran lunga i men numerosi , il vero
diritto non è quello di turbare tutto lo stato tentando novità , e con
ciò disturbare tutti i contenti e tranquilli , rimescolando e rin-
novando ogni cosa , e scomponendo e disordinando ogni privato interesse ,
per fare ragione ai pochi che si lagnano perchè stan male ; ma è il
diritto di cercare , senza punto incomodar gli altri , o comunque
gravarli nelle persone e negli averi , che sia fatta ragione ai pochi che
lo dimanda- no , e che lo meritano. £ questo può esser difficile ;
può essere anche talvolta impossibile senza rovesciare intera -
mente la costituzione dello Stato. Tuttavia ci vuole un bel coraggio per
mettere innanzi la proposizione , che , dove ciò accada , la giustizia
negata a’ comparativamente pochi , debba essere ad essi buono e legittimo
motivo di spinger la reazione immensamente più in là di quel che porta il
loro diritto ; cioè , affinché questa sopravvinca , di scomporre e
distruggere tutta la macchina costitutiva della civil congre- ga , della
quale i più si trovan paghi , mentre ogni turba- mento un po’ generale
dell’ordine stabilito tutti inquieta , molesta , e danneggia (1).
Maggiore però fa d’uòpo che sia questo coraggio , se quei che si fatta
proposizione mettono (1) Può bene io questa ipotesi ater luogo il
principio (ed il più spesso lo de- \e)-Expedit unum hominem mori prò
cunctopopulo.-l pochi gravati, opera- to per ottener giustizia tutto
quello che non pub operarsi senza manifesto e mollo maggiore danno deli'
universale , se ascoltano la voce della coscienza, il meglio che possan
fare è rassegnarsi, come è forza rassegnarsi alle malattie, alle
disgrazie fortuite , ai tanti altri mali della vita. ] innanzi ,
nessuna ingiuria , nessun (orlo ricevettero , e so- no unicamente
duellanti , per cosi dirlo , di malcontento , i quali non si lagnano per
proprio conto , ma si lagnano per conto di quelli che a loro spiace di
non udire lagnarsi , e eh’ essi vogliono che si lagnino per forza ; o di
quegli altri che , pur lagnandosi a buon diritto , nondimeno par
loro che non si lagnino abbastanza , e non sian disposti a spin-
ger le querele fino agli estremi che a lor piacerebbero. Ven- gan di
nuovo que’ehe cosi vogliono e fanno , a parlarci d’e- guaglianza , e di
tutte l’ altre loro frottole di libertà , di giu- stizia , di ragione !
La loro eguaglianza diventa , come al- trove riflettevamo, superiorità
de’ pochi su i molti. La loro libertà diventa licenza di nuocere agli
altri per giovare a sé, o per soddisfare la propria passione. La loro
giustizia è non tener conto del diritto altrui , per non aver occhio che
a quello che si crede essere il diritto proprio , od il proprio
talento. La loro ragione è la ragione del più forte ; una ra- gione
egoista , ostinata , feroce , senza pietà , senza discre- zione , senza
riguardi... una ragione che ricusa di ragiona- re, e che vuol esser
tiranna delle ragioni altrui... 1 Si difenderanno con dire , che ,
ncll’operare quel che ten- tano , il fine loro non è contentare sé stessi
, pregiudicando indebitamente gli altri , c dando loro motivo legittimo
di querelarsi ; ma è proporsi cosa in sé buona : cioè , consi-
derato che gli stali son oggi , dove più , dove meno , in tal mala guisa
ordinali da render possibili per tutti , e inevita- bili per molti , una
gran quantità d’ ingiustizie , d’avanie , d’oppressioni cotidiane , senza
facile riparo , e sovente sen- za alcun riparo ; considerato per
conseguente , che il mal- contento il quale per gli uni è attuale , per
gli altri è virtua- le , e che il danno da tale o tale sofferto oggi ,
può percuo- ter domani , o doman l’altro , a volta a volta , quelli
anco- ra che or sono contenti ; considerato perciò , finalmente ,
che , a distruggere il vizioso edificio delle odierne macchine politiche
per sosliluirvene un altro migliore , è meno ancora contentare sé , che rendere
servizio all’universale , e a quei medesimi che ora per poca previdenza ,
per indolen- za , per egoismo rifuggono dalle riforme e che ciò è
poi promuovere la causa sempre bella ed onesta della giustizia :
per tutte queste ragioni far essi cosa degna d’ approvazione , anziché di
biasimo , perseverando nella impresa alla quale si danno. Ma l’apologià
nulla vale. Primo : hanno eglino ben pensato , cotesti temerari
scon- volgitori delle civili convivenze, la massima gravitò del
fatto a cui s’adoperano? Uno stato è una somma immensa d’in-
teressi distribuiti e collegati tra tanti quanti sono in esso
gl’individui che sono, e que’che prossimamente , o più tar- di , saranno.
Ogni interesse si risolve esso medesimo in in- numerabili subalterni
interessi di cose e di persone , ed ha sempre due parti : una che
risguarda i privati , l’altra che risguarda il pubblico , ossia 1’
universale. Quanto più una umana congrega è matura a civiltà , ed in essa
progredisce, tanto più questi interessi crescon di numero e
d’importan- za. La prosperità privata e pubblica è tutta principalmente
fondata sul rispetto , sulla protezione , sui favore che otten- gono si
fatti interessi. È pur troppo certo (colpa delle im- perfezioni umane !)
, che non v’ha umana congrega , non v’ha stato, dove gl’interessi qui
mentovati riscuotano tut- to il favore , tutta la protezione , tutto il
rispetto che aver dovrebbero, acciocché la prosperità fosse massima. Per
con- seguenza è purtroppo certo , che tutte le umane congreghe ,
tutti gli stati han sempre bisogno di qualche riforma , e di molte riforme
, e questo è bisogno che mai non cessa , per- chè mai non cessano di
rivelarsi e di generarsi i difetti di rispetto , di favore , e di
proiezione di che parlo. Qualche umana congrega , o qualche stato , tanto
alle volte soprab- bonda di difetti di si fatto genere , che il
riformarli si fa un bisogno generalmente , e fortissimamente sentito. Ma
, do- po lutto ciò , può egli dirsi che sia cosa lecita e
convenien- te (per lo sdegno delle riforme che non si fanno da
que’che llO- lo dovrebbero , polendole fare) l’opera cbe ,
con privala au- torità , vogliono alcuni collocare in promuovere tali
con- vulsioni politiche , dalle quali , secondo le maggiori proba-
bilità umane , queste immediate conseguenze sian per di- scendere , che
tutta, o quasi tutta la massa degl’interessi privati e pubblici sia
improvvisamente e grandemente tur- bata-che moltissimi di essi patiscano
enorme ed irreparabi- le offesa , od anche intera rovina-e cbe , per un
tempo più o meno lungo , e sovente lunghissimo , nata , e durando ,
la lotta tra que’cbe si difendono, e que’ctie offendono , in- nanzi alla
vittoria decisiva , la quale di soprappiù non si può mai prevedere per
chi sarà , non s’abbia altro spettacolo cbe di fortune ile a soqquadro ,
di famiglie desolate , di uo- mini esterroinati , di civili battaglie e
guerre... del commer- cio rovinato , dell’industria spenta , degli studi
intermessi , d’ abitudini d’ozio , di turbolenza , e di licenza
introdotte , e di lutti gli altri mali di cui gli annali contemporanei
trop- pi esempi da più cbe mezzo secolo ci somministrano ? Per
poterlo dire , sarebbe almen necessario aver fatto un bilan- cio: il
bilancio de’ danni a’quali vuoisi portare riparo , e di quegli altri, che
, col fine d'arrivare a questo riparo, certa- mente si genereranno. Ma
questo bilancio , che , ne’ singo- li casi , i temerari sconvolgitori
odierni delle civili convi- venze non fanno , e non han fatto , l’ba già
fatta per tutti la storia , e lo ha pubblicato. Essa da lungo tempo ha
inse- gnato agli uomini , che , di tutte le calamità , le quali
pos- sono cadere sopra un popolo , nessuna calamità pareggia quella
di ciò cbe si chiama una rivoluzione , massime dei modo di quelle che
oggi si macchinano , e si hanno in pen- siero , od apertamente si
minacciano. I cattivi governi... le tirannidi d’ogni nome offendono
gravemente alcuni , od an- che molti ; ma , salvo certi casi rari come le
mosche bian- che , lascian sufficientemente tranquilli i più , e , nel
loro proprio interesse (voglio dire nell’interesse de’ governanti)
risparmiano il massimo numero : di guisa che le angherie , —
lil- le ingiustizie , sodo enormi iu pregiudizio d' alcuni; per
molti sono grandi , ma pur tollerabili e pazientemente tol- lerate , per
non pochi nessune. Al contrario , le rivoluzio- ni , a quel modo che oggi
s’ intendono , se pur non siano , come suol dirsi , colpi di mano , a coi
per miracolo succeda un immediafo e tranquillo riordinamento, per poco
che du- rino (e durano spesso una o più generazioni d'uomini) , of-
fendono tutti... anche que’che le han fatte , i quali , d’or- dinario ,
finiscono col perirvi , essi e i loro. Finché si pu- gna , è strage dalle
due parti... la strage delle guerre civili ; strage accompagnata di
crudeltà mostruose e ferine , d’ec- cessi contro a natura. Sono incendi ,
saccheggi , brutalità d’ogni nome, e senza nome. Que’che non combattono ,
so- no vittime spesso delle due parti combattenti. E chi può
prevedere quanto durerà il combattimento , quanto sarà esteso , quante
volte ripullulerà , or dall’un lato , or dall’al- tro ? Chi può dire a
priori , se vincerà Bruto, o Tarquinio... se interverrà Porsenna.... se
si troverà sempre un Muzio Scevola , un Orazio , una Clelia... o se
piuttosto Roma non finirà per servire al re di Chiusi , come pur troppo
la storia rettificata oggi dice? Habenl sua sidera lites.-E intanto le
fe- licità dell’anarchia per que’che non pugnano ! Le felicità
delle dittature militari nel campo , o ne’ campi di battaglia , o
dovunque armati stanno o passano ! Le terre le coltiverà chi può, ossia
non le coltiverà più alcuno 1 mercatanti po- tran chiudere i loro
fondachi , se tuttavia lo potranno , e se non li vedranno messi a ruba ed
a rapina prima del chiu- derli. I ricchi fuggiranno , se lor torna fatto
, ma fuggiran- no in farsetto , se nou perdano la testa per via. Palagi ,
mo- numenti , sa il cielo come saranno malmenati. Il danaro rubato
si dissiperà , come si dissipa sempre il danaro del furto. L’altro sarà
nascosto, o mandato all’estero. Poi la penuria , la carestia , la fame ,
e seguace della fame la pe- ste o l’epidemia. De’ costumi non parlo, né
della gioventù falciata innanzi tempo , o perduta ad Ogni buono
impiego Digitized per l’avvenire... Succederà , quando Iddio vuole
, la villo- ria ultima a chi Iddio vorrà darla (spesso nè agli uni ,
nè agli altri , ma a' terzi venuti di fuori... ai Porsenna : secon-
do il proverbio , che tra due litiganti il terzo gode ; con che sarà
perduta l’autonomia , e da popolo che obbedisce a sé stesso ed a’suoi ,
si sarà trasformati in popolo conquista- to , in popolo assoggettato , in
popolo profeto, in popolo-co- lonia , in popolo vaceg-da -mungere ) , e
colla vittoria ultima sarà una specie di pace. Che pace però? La pace
accompa- gnata qualche volta da amnistie per tutti , se può sperarsi
, che , come è disposto a dimenticanza vera il Vincitore , co- si
sia disposto il vinto : ma , se a questa seconda dimenti- canza non si
crede da esso vincitore , mancherà d’ordinario la prima , e mancherà ,
alle volte , indipendentemente da ciò , s’cgli creda che bisognin giustizie
ed esempi , e se le collere non calmate cosi consiglino , o le
circostanze paia- no cosi comandare. Ed allora s’avrà un altro tempo ,
più o meno lungo , che sarà di terrori più o meno grandi , e di
severi gastighi , od anche aspri , che i gastigali chiameran- no reazioni
e persecuzioni , i gastiganti chiameranno neces- sità , e opere di
prudenza ; e chi oserà dire , in massima generale , da qual parte sia la
ragione ? — E questa vittoria , e questa pace , e i migliori lor frulli ,
per chi poi saranno? 10 l’ho già detto. Per chi vorrà Iddio :
cosicché è possibile (si torni bene a pensarvi sopra) , mollo
frequentemente è probabile , e facile a prevedere , se non si è ciechi ,
che non sarà dalla parte di chi tentò la rivoltura : ma , o di
quelli contro a’quali fu tentata , o d’altri e d’altri, diversi , e
non aspettati , c non voluti , e non utili. Nel qual caso agli
altri mali s’aggiungerà quello che non s’avrà nemmeno il con- tento
d’aver guadagnato ciò che si cercava ; e s’avrà invece 11 dolore e
la pena di avere aggravato il male che voleva al- lontanarsi, o d’ esser
caduti, come s’usa dire , dalla gradella nelle brace. - Anzi non basterà
a’rivoltuosi nemmeno l’aver essi per sè guadagnata la vittoria : perchè
aver vinto è poco. Ciò significa essere riusciti a distruggere , non
significa avere edificato , e poterlo e saperlo fare. L'opera della
rie- dificazione resterà ad intraprendersi : opera più difficile
sem- pre che non quella della distruzione : opera , che , ne' pae-
si , ove gli ordini antichi , colla violenza , si spiantarono , richiede
, per solito , anni moltissimi , e talvolta secoli , in- nanzi all’ esser
condotta a qualche buon termine : opera , in questo mezzo , tutta di
prove e di errori , tutta d’esita- zioni , tutta di conti sbagliati e da
rifarsi ; vera tela di Pe- nelope da far disperare del compierla ; e che
quando pur si compie si trova ben altra da quel che s’era immaginato ,
fi- nita da altre mani , sotto l’impero d’altre circostanze , so-
vente di altre idee , tale insomma che , per ultima conclu- sione si
riconosce essere un imperfetto sostituito a un altro imperfetto , dove
ciò solo di sicuro che emerge è la certez- za del male immenso che si è
fatto a pura ed inutile perdi- ta.... (1). Secondo: e fin qui
ho supposto che si parta almeno da un motivo più o meno evidentemente
giusto dell’ operare le ro- vine che vogliono operarsi, col fine huono ,
sebbene con Non si crede vero? — Un’occhiata allo Stato d’Europa ila sopra
a 60 an- ni in qua. Veggasi piti che altro la Francia. Vcggansi poscia le
tante repubbli- che succedute alle mutazioni americane. E mi si opporrà,
per avventura, il solilo modello della repubblica degli Stati Uniti
d’America ; cioè un esempio sufficientemente favorevole contro a molti
contrari. Questo è la pruova del terno vinto , che è la rovina di tutti i
dilettanti di giuoco. La repubblica de- gli Stati Uniti d’America ha
incontrato quattro fortune piuttosto uniche che rare. 1. La fortuna d’
essersi imbattuta in un Washington. 2. Quella d’essere stata , quando
cominciava l'affrancamento un paese nuovo , e d'una popola- zione assai
sparsa In mezzo alla quale le fermentazioni e i conflitti delle idee meno
eran facili. 3. Quella d’averne avuto a progenitori , uomini già educati
a libertà , ed a reggimento presso a poco repubblicano. 4. Quella d’aver
do- vuto lottare contra un potere lontano.... troppo lontauo , e con
validi esteri aiuti. E ancora , prima di giudicare il bene o il male del
reggimento che si è conseguito di stabilire, bisogna la sanzione d’
almeno un paio di secoli. Io non lo credo fondato su base ferma.] gravo
pericolo , e spesso quasi colla sicurezza di successo non buono, o non
proporzionatamente buono. Ma questa giustizia del motivo v’è ella sempre?
Chi la giudica d'ordi- nario? e quanti sono que’che la giudicano? Uomini
d’espe- rienza? Uomini i più sapienti nel popolo? Uomini che co-
noscou bene lo stato vero delle cose? Uomini, che non si lasciano
illudere dalla passione? Uomini capaci di pondera- re , non solo se il
motivo è vero in qualche grado, ma se è vero fino a tal grado da
richiedere un pronto rimedio, da non averiosi che per una rivoluzione? e
da lasciare sperare con qualche buon fondamento che per una rivoluzione
di leggieri s’avrà? Diamo un’occhiata al passato, ed al presente
prima di rispondere, e ricaviamo la risposta da quel che s’è veduto, e si
vede. - Ragazzi , e giovinastri, od uomini già noti per natura torbida, e
per naturale inclinazione a no- vità. Gente impetuosa, violenta, a cui
natura toglie il giu- dizio freddo ed imparziale dei fatti. Persone di
mano, e non di testa, facili a prestar fede al male che si dice di
que’che odiano, e ad esagerarlo, ed a misconoscere il bene: tali
che .a reggimento ed a governo mai non dieder mano, e che parlano
di quel che non sanno, per un dicium de dieta. . . tali che delle
ponderate risoluzioni non hanno nè la scien- za , nè 1’ abito, nè la
capacità ; e il cui maggiore studio non è curare, se quel che vogliono
sta bene o male a volerlo , ma cercare come possano cominciare a ridurlo
ad atto. E cotesti formano il fiore dello stuolo. Gli altri son quali
pos- sono accompagnarsi a cosi fatti gonfalonieri , come subalter-
ni. Volgo proletario, che è facile sedurre con immaginarie speranze, e
mettere in fermento con fanatiche predicazioni. Disperati e perduti per
debiti. Piccoli ambiziosi, che consa- pevoli della loro nullità e turgidi
di luciferesca superbia , non altro mezzo veggono per sorgere, che il
gittarsi a corpo perduto tra i motori di cose nuove. Giovani entusiasti,
po- veri di mente e di cuore , in cui l’immaginazione prevale al
giudizio, il bisogno d’agitarsi e di fare al bisogno di starsi con uu
libro innanzi o Ira le pacifiche occupazioni d’ una vita di sedentari
negozi. Altri che seduce il mistero delle sette, nati per essere schiavi
in nome della libertà , e bruti in nome della ragione. I seguaci di
Calilina , quali ce li de- scrivono Cicerone e Sallustio.... gli scherani
di Clodio ... i guerriglieri di Spartaco. Ora il senno di questi può con
giu- stizia decidere il tremendo problema delle rivoluzioni , e
della necessità del farle...? Poveri popoli condannati a pa- tire la
costoro malefica influenza! I disordini d’uu governo cotesti son più atti
ad accrescerli che a conoscerli , e a ri- pararli. ,E il lor costume è di
dire che il desiderio loro è il desiderio di tutti, o almcn de’ più,
perchè più di tutti essi gridano , e s’ agitano , e accendon fuoco da
ogni parte! Gli altri che tacciono, e che col silenzio mostrano che non
si malesi trovano da dover gridare, non li contano. Son essi il
popolo vero; il popolo solo. Gli altri, che coraggiosa- mente s’oppongono
e gridan contro, non li apprezzano. Chi sta in casa e bada agli affari
suoi non fa numero. Chi s’oppone è zero ! ! ! Tanto basti
avere avvertito per giunta ali’altre cose dette nell’antecedente articolo,
e nel principio di questo. Si op- porrà — Stando al precedente discorso,
le rivoluzioni non si potrebber mai fare ( vedi calamità !) , e i gravi
disordini de- gli stali non mai correggere. E Bruto primo ( po'ni
esem- pio ), e Bruto secondo sarebbero stati o due pazzi, o due
furfanti. E Roma avrebbe dovuto tollerarsi in pace quella grande iniquità
del regno, e quella maggiore di Tarquinio secondo e di Giulio Cesare. E i
popoli dovrebber soflferir sempre, eie tirannidi sempre trionfare, lo
rispondo. — In- nanzi tratto non si abusi delle autorità. Sappiamo oggi
tutti la verità intorno ai due Bruti, non quale ce l'han trasmessa
menzognere storie, ma quale una bene illuminata critica cereò di porla in
chiaro in mezzo alle tenebre addensate su- gli antichi fatti. Del primo Bruto
poco può dirsi. Esso è mito più che personaggio certo. Stando a quel che
se ne narra.] bene addimostrò s’egli amava la libertà o la schiavitù
diRo' ma, nella famosa storia del bacio dato alla terra. Oggi si
sa, e ben sa, che Roma, innanzi alla distruzione dei Galli, non fu
mai si florida come sotto i re etruschi. La rivoluzione di Giunio Bruto
contra il Superbo , se risguardiamo agli effetti, distrusse per lunghi
anni la prosperità della futura capitale del mondo, e non è sicuro che la
preparasse. A essa dovette Roma i mali d’ una lunga e disgraziata guerra
, che condus- se , come testé notavamo, all’assoggettamento a
Porsenna, il quale altro ferro non lasciò a’ vinti romani se non
quello che agli usi dell’ agricoltura sovvenisse. La città regina
deve la sua rivendicazione in libertà ai fatti della guerra
infelice del re chiusino contro ad Aricia e contro a’Cumani.E senza
Bruto , la tirannide del Superbo finiva al finir di lui : nè le due
catastroG, che successero , pel tentato repubblicano mu- tamento
sarebbero state. Se dal male venne poi bene alla luoga,ciò non è il
merito dell’ autore del male. I provviden- ziali destini di Roma
dovevansi compiere ad ogni modo. — Quanto al secondo Bruto, si conosce
nou meno a che buon fine usci il cavalleresco, e sufficientemente odioso
fatto del- l’ingrato bastardo del Dittatore. Il fanatico non conobbe
nè i suoi contemporanei , nè i veri bisogni del suo paese. Fu un
povero politico, siccome un povero guerriero. Nè com- batteva per la
riforma, ma a chi ben riflette, contro ad es- sa , voglioso di richiamare
a una vita impossibile la degene- rata e morta repubblica , la quale
Cesare per ben di Roma aveva distrutta. E il mondo che vi guadagnò?
L’aver per- duto un grand’ uomo qual senza dubbio era il vincitore delle
Gallie e di Pompeo, per fargli succedere un minore di lui, nè manco
despota di quello. — Nondimeno, io non voglio abusare di questa maniera
d’argomentazione. Certe rivolu- zioni, che , dopo i primi mali prodotti,
alla fine son riuscite ad utilità ( una ogni mille ) io non voglio
negarle. Voglio negare che il massimo numero delle volte siano state
atti considerati e degni di lode, anche quando una utilità se
ne trasse. Voglio osservare ch’elle sono giuocate di lotto , dove il
vincere è un caso assai raro, il perdere è la sorte comu- ne; con questo
di peggio, che il perdere non è mai di poca cosa, nè d’uno o di due, ma
di tutto un popolo , di tutta una nazione, perchè la posta ( 1 ’enjeu ) è
la fortuna di esso popolo, di essa nazione, nel suo presente, forse
nell’avve- nire; sono le vite, gli averi, gli onori , ogni cosa più
cara che gli uomini s’abbiano. Voglio per conseguenza dire ,
ch'esse possono esser atto di disperazione o d’audacia, non atto mai, o
quasi mai di senno; e che sono un mezzo, e qualche rarissima volta il
solo ( della cui natura lecita od illecita quanto a coscienza di buon
cristiano è questione che lascio decidere a’casuisti ) per liberare
l’universale da mali, più o men reali, e più o meno intollerandi , son
però un pessimo mezzo; uno di que’ rischia-tutto , che chi sente
d’an- dare a irreparabile ed imminente rovina, tenta qualche vol-
ta, come un’ultima speranza, quia melius est anceps, quarti nullum
experiri remedium , ma che aggiunge un biasimo di più a chi , andando a
rovina , per questa via l’ affretta , e la rende più grave, più
inevitabile. Or, data, contro alle rivoluzioni in generale, questa
sen- tenza di condanna , qual rimedio dunque avranno i tiran-
neggiati , gl’insoffribilmente angariati , i giustamente e gran-: demente
malcontenti de’ mali ordini politici sotto i quali gemono ? Vuoisi eh’ io
tratti la questione storicamente , o teoricamente? Se storicamente, dirò,
con franchezza, spesso nessuno. Perciò gli annali del mondo son pieni
delle storie di popoli non solo lungamente malgovernati , e
barbara- mente oppressi , ma sterminati senza rimedio , e
cancellali tutti interi dal libro della vita. Coraggio o viltà ;
resistenza e difesa sino agli estremi, od abbandono di sè, non ci
fanno nulla: chè spesso il tentar di liberarsi e di riscuotersi è
sta- to col proprio peggio , rendendo più tormentosa 1’ agonia ,
più terribile I’ eslerminio. In questa guerra , come in ogni altra, è
quale nel duello. Non vince sempre chi ha ragione. Cosi le disgrazie dei
mali ordinamenti , e le pressure , son come le pestilenze , come le fami,
come gli altri flagelli che cadono a volta a volta sulla nostra povera
specie, a ventu- ra , come un decreto di calamità e di morte , al quale
ci è forza soggiacere. Se parliamo poi teoricamente , dirò , che in
cielo non è scritto , che la giustizia in terra sempre vin- ca. È nell’
economia del mondo, che il male non rade volte domini il bene , e che la
specie nostra riceva , a quando a quando , dure lezioni per imparare
umiltà e rassegnazione; per accorgersi che non è qui il tribunale supremo
dove si giudicano le cause degli uomini in ultima istanza; per Ope-
rare o per temere una giustizia futura ; per credere un’ al- tra vita.
Noi tratteremo altrove questo argomento più alla distesa. Il
rassegnarci sarà dunque lo scoraggiante unico dover nostro? nè Iddio
nella sua pietà e bontà infinita ci avrà dato modo per ajutare la
giustizia , se non a vincere, almeno a generosamente difendere le proprie
ragioni , a virilmente protestare contro alla iniquità e al sopruso?
Questo io non pretendo, e nessuno lo pretende. Quel ch’io pretendo, e ciò
t che i savi pretendono , richiede un più lungo discorso. A
chi , senza passione, studia i casi dei popoli quasi sem- pre appar
chiaro, che si fatta specie di mali assai radamente sono senza manifesta
colpa o cooperazione di chi vi soggia- ce. Si soffre perchè s’è meritalo
di soffrire. I figli pagano la pena degli errori de’ padri. E tuttavia,
se par non esservi rimedio, è che manca le più volte piuttosto la
sapienza e la virtù per emendare il danno, di quello che la
possibilità d’emendarlo. Un popolo che soffre ( giova ridirlo ) ,
soffre ordinariamente, perchè è degno di soffrire; ed allora il sof-
frire è una pena meritata, e il non saper liberarsi di questa pena, e il
seguitare di essa è ugualmente sua colpa. Dove i probi , ed i sapienti, e
i fervidi amatori del pubblico bene abbondano, l'amor del giusto e del
vero necessariamente si prepondera, che l’ingiusto ed il falso non
possono allignare , od allignando non possono guadagnare rigoglio, e non
finire col diseccarsi fino alla radice , e col perire. Perchè dal retto
apprezzamento , nel maggior numero , di quel che è buono e cattivo, e
dall’avversione per questo, e dal biso- gno di quello , si genera di
necessità ciò che si chiama la forza della opinion dominante , che è
tanta parte della forza delle cose , la quale, allorché ha saldo
fondamento di veri- tà , dura, e non domina da burla. I cattivi , se vi sono,
al- lora han più vergogna , e a lor malgrado , si nascondono , e
non osano, o, se ardiscono , sono presto repressi , senza strepito
d’armi, dalla generale riprovazione, la quale, in innumerabili , prende
la forma di coraggio civile , che dice animosamente, ma pacificamente, e
con tulli i modi legali, il vero : ciocché è possibile, ed alle volte è
probabile, che nuoca a chi lo dice , ma non è possibile , nè probabile,
che non Gnisca col giovare all’universale, secondo che gli esem- pi
di sì fatto coraggio fruttifichino , si moltiplichino , e si rinnovino.
In altri prende la forma di pubblica e franca dis- approvazione , tanto
più efficace, quanto men turbolenta, quanto meno esagerata. In tutti
prende ogni legittima for- ma , per la quale sia possibile arrivare ,
senza eccessi mai , nè disordini, all’emendazione del malfatto. E il
malfatto bat- tutto da tante parti, ed in modo si misurato, si degno, sì
ani- moso^ nel tempo stesso si prudente, potrà bene sbizzarrirsi
ancora qualche tempo, ma non vincerà la pazienza e la viri- le e nobile
resistenza di quei che giustamente si querelano , si bene sarà vinto con
assai più prontezza che altri non im- magini. Ma dove
cittadini della forte e virtuosa tempra ch’io dissi, o difettano al lutto
, o sono in minimo numero, e gli altri non sono che turba ignobile ,
impastata d’ egoismo e di vi- zio , primo (torno a dirlo perchè bisogna)
, la perseveranza e l’ immedicabilità del male a torlo è querelata. Essa
è un effetto le cui cagioni principali sono in chi si querela, come
dianzi affermavamo: secondo, è allora solamente che in mezzo a popolo depravato
si giltan fuori falsi medici ; cioè quelli che han fuoco soprabbondante
di passioni per isdegnarsi di ciò che materialmente si soffre, e per
accender lo sdegno al di là d’ ogni equa proporzione col suo fomite ; ma
non han- no , nè senno per conoscere e pesare quel che conviene e
quel che no , nè virtù per saper soffrire quel che non può evitarsi , nè
altro di ciò che bisogna a dar buono indirizzo al pensiero riformatore. E
son eglino che non contenti di sbagliar essi la strada, traggon fuori di
via gli altri, già pur- troppo , per ipotesi , poco alti a fare saper
quel eh’ è il de- bito. Eglino che screditano la moderazione, i mezzi
legali e pacifici, e tutto che non sia l’impeto loro sconsigliato e
paz- zo. Eglino da cui nasce e prende piede la falsa opinione del-
l’ impossibilità del bene o del meglio senza ricorrere a’ loro forsennati
e pericolosi divisamenti. E già troppo di questo argomento s’ è
favellato. Ma fin qui noi, per cosi dire, non abbiamo che girato attorno
al mas- siccio delle questioni nostre. Ciò è la trattazione del
governo in sè , che si vuole ostinarsi a considerare come una ema-
nazione pur sempre di quella sovranità del popolo, di che ab- biamo già
detto parecchie indirette parole, ma non le dirette che si richiedono.
Direttamente dunque ornai favelliamone, e cerchiamo che il discorso abbia
l’ estensione che l’impor- tanza del soggetto richiede. De’ governi,
e delle sovranità in generale. Si : nessun assioma più oggi è
fitto nella mente degli uo- mini, che quest’ uno , tenuto come principale
— La sovra- nità risiede , per sua essenza , nel popolo — Chiedete
intanto a que’ che cosi pronunziano, qual cosa , in si fatto
assioma delle piazze e delle conversazioni, significa per essi
sovrani- tà , che cosa popolo : chiedete l’ analisi e la sintesi teorica
e pratica dell’ idea che innestano a questi due vocaboli : chie-
dete la spiegazione delle dottrine , che da esso assioma vo- glion
dedotte, od almeno de’suni più immediati conseguenti; e vi accorgerete
esser quello , al maggior numero di loro , niente altro che una frase
oscura e d’ indeterminata signifi- cazione, la quale permette
interpretazioni le più diverse, e, purtroppo, lascia sovente libero il
luogo alle più strane e le più assurde. Come intendete voi ,
brav’ uomo , questo che oggi tutti dicono — Il popolo è sovrano ? —
dimandava io, son or po- chi giorni, a un mercenario, il quale, per
prezzo, prestava alla mia casa non so che faticoso servigio — Rispose —
L’in- tendo , che tutti dobbiamo comandare — Io ripresi — Ma , se
tutti comanderanno, chi dunque obbedirà? — Senza per- dersi d’animo, egli
soggiunse — Que’ che han comandato fi- nora. I nobili ed i preti. I
ricchi e gli usurai. Quei che pos- seggono e possono, mentre noi non
abbiamo fin qui posse- duto , e potuto nulla — Ed io — Ma non sono essi
ancora popolo , e del popolo , e perciò , almen almeno , cosi
legitimamente padroni della lor parte del comandare , quanto I’ han da
essere gli altri? — Ed egli — La parte loro di pa- dronanza l’hanno
esercitata e goduta anche troppo, giacché l’hanno adoperata soli e
sempre. Una volta per uno. Adesso tocca a noi. Essi non eran popolo, nè
del popolo , quando comandavano , e lasciarono esser popolo, e del
popolo, so- lamente a noi poveretti. Dunque , giacché s’ erano
separati dagli altri, ne patiscano la pena... — Ecco come il volgo in-
terpreta la sua sovrana potestà ! Un abuso sostituito ad un altro abuso :
una tirannide ad un’ altra tirannide ( conces- sogli anche, senza esame,
nè disputa, che ogni poter sovra- no dell’ antico modo sia stato, sia, e
non possa non essere, che abuso e tirannide ; concessione , la quale
dicano i di- screti se possa farsi. Certo , in coscienza , io non posso
far- la. ) — Ritorniamovi sopra. 11 secolo interroga — Di chi
è per naturai diritto la so- vranità ? — E son io questa volta , che voglio
rispondere. Nè tratterò prima la quislione , che chiamano
pregiudi- ciale : se quel che lilosolìcamente parlando , sembri a
talu- no , od a molti , od anche a lutti , di naturai diritto
assolu- o più sono per anda- re , innanzi , avvegnaché in si fatti
popoli , le sempre cre- scenti disuguaglianze stabiliscono , per legge di
ragione , una necessità di gerarchie , per le quali vuole giustizia ,
che gli uni siano maggiori degli altri a vario grado , e la sovra-
nità s’ attemperi all’ordine gerarchico, il quale natura ed arte hanno
stabilito , o son per istabilire. Ma essenza della civiltà non è
meno un immenso campo aperto alle passioni ed ai vizi i più detestabili,
come alle vir- tù più nobili. Da una parte avarizia, invidia, rivalità,
egoi- smo , ambizione , tradimento, perfìdia, frode, broglio, se-
duzione, baratteria, truffa, usura, ladroneccio, mariuoleria, stupro,
adulterio, dissolutezza, maltolto, accattoneria , ac- coltellamento,
assassinio , e cento altre mila simili , o peg- giori, depravazioni e
miserie d’una civiltà volta a contrario fine : dall’ altra filantropia
vera , generosità , carità , longa- nimità , sacrifizio abituale di sè ,
e delle cose sue , date a pubblico e privato vantaggio, assistenza a chi
è in bisogno, disinteresse , rettitudine eminente, desiderio intenso del
be- ne, orrore del male , coraggio militare e civile , infaticabi-
lità , zelo, larghezza di consigli, d’indirizzi, d'aiuti... virtù
cristiane. . . virtù civili. Or ciò fa una seconda categoria di disuguaglianze
, maggiori ancora di quelle che precedente- mente consideravamo in più
special modo ; disuguaglianze che hanno un gràdo intermedio de'non buoni e
non cattivi abitualmente, ma degli andanti a orza. Donde la
convenienza di tener gli uni come peste del popolo, e come non
popolo; di diffidare grandemente degli altri , c di non aver fede ,
a pubblica e comune utilità , che de’ già provati ottimi , nei
quali le altre condizioni pur concorrano. E di qui una nuo- va ragione
perché la democrazia pura a’ popoli civili tanto men s’ attemperi quanto
son più civili , e contenenti perciò nel loro seno , al fianco di molti
ottimi , molti (tessimi , e molti che stanno tra l’ ottimo e il pessimo.
Il perchè , se, a priori , e secondo le suggestioni astratte dal senso
comune , in essi popoli avesse a crearsi una sovranità, certo ogni
sua parte sarebbe agli uni negata assolutamente , agli altri non
concessa in ogni cosa, e ridotta , nel generale , a più o men ristrette
proporzioni ; e riservata o interamente, o nella mas- sima sua dose, a’
soli degni di questo privilegio. In che può ben essere una difficoltà
grande d’esecuzione; ma ciò non toglierebbe che in teorica ciò avrebbe a
giudicarsi il meglio da ogni savio. Per ultimo l’essenza
della civiltà è il creare innumerabili maniere d 'interessi , de’ quali
non è vestigio nella vita delle selve , o delle capanne : interessi
principalmente materiali , odiali e screditati da quei che vorrebbero
ricondurre gli uo- mini alla vita della selva e della capanna ( o lo
confessino , o no, perchè chi vuole il mezzo vuole il fine ); ma
interessi tanto connaturati a ogni società civile, che il turbarli a
qua- lunque grado è fare a un popolo uno dei maggior mali che
possano farglisi. Tali sono gl’ interessi di possidenza, gl’ inte- ressi
d’industria promossi da qùe’ primi , gV interessi di fami- glia,
gl’interessi di condizione , ed altri che non accade speci- ficare più a
minuto. I quali da due parti si possono riguar- dare: dalla parte di
coloro a chi spettano; e dalla parte del- I’ universale , in mezzo a cui
sorgono, e si moltiplicano. E, dal primo lato, giova dire, che hanno essi
una origine, della quale , se sono artificiali i modi , è da natura la
principale radice. Perché è natura l'amare noi stessi , e i nostri con-
giunti , e il nostro e il loro bene ed agio ; natura l’ istinto della
proprietà, o del possesso di quél ciré ci troviamo avere, e di quel che
andiamo procacciando man mano ; natura il cercar di crescere questo
capitale nostro, che non siam pa- droni di non considerare come facente
colla nostra persona un sol tutto , per tal guisa , che , quanto fa esso
maggior somma , tanto fa più grande la nostra importanza , il
nostro ben essere terreno, il sentimento d’ esser meglio che altri
riusciti a soddisfare il bisogno ingenito d’alzarci con ogni nostro
onesto sforzo , non per soperchiare chicchessia , ma per obbedire, anche
in questo, alla legge di perfettibilità e di progresso ; natura quindi (
ciò che istintivamente a un modo medesimo ammise presso a poco ogni
popolo ) , il chiamare ed il credere legittimamente nostro l’ ereditato
, il donatoci , il comperato , l’ottenuto , si nel peculio , e si
nella superiorità della condizion relativa a che s’ è giunti , o in che
s’ è nati... il guadagnato e l’avuto dal lavoro, o da traffichi di buona
lega; (ìnalmerite natura il riguardare l'in- teresse proprio d’ ogni
forma come non si esclusivamente proprio della persona , che non s’abbia
a riguardarlo quale un interesse, ad un tempo , dell’ intera famiglia
alla quale apparteniamo, finché sarà essa per durare e per
estendersi. E di qui categorie di ricchezza più o meq considerabile,
in opposizione colla povertà ; di patriziato più o meno emi- nente
, in opposizione col terzo stato e col volgo. Di qui tutta la scala delle
fortune, per che uno è Grasso, o Luculio; un secondo è un accattone di
strada; un terzo è un che vi- ve del suo, masotlilmente, con quel che
basta, e con nulla che avanzi — Da un altro lato, se gli effetti di ciò,
nell’uni- versale de’ cittadini, si considerino, quantunque a dì
nostri molta sia la proclività de’ novatori al gridare , questo
esse- re, non pur soltanto ingiustizia degli uni contro degli
altri, ma ( quel ch’è peggio) gravissimo danno, gl’imparziali e
giudiziosi però non cosi vorranno affermare quando ben vi riflettano, e
quando massimamente volgan l’occhio alle con- seguenze ultime.
Per chi ben guardaci! mondo è fatto in modo, cosi aven- do il
creatore disposto , che non può uscire di questo di - lemma ; o
dell’esser composto di lutti poverissimi , costret- ti , per sussistere,
alla vita selvaggia , e nomade , e di cac- ciatori ; senza nemmen
pastorizia , non che agricoltura ; o dell’ esserlo d’ uomini, i quali,
cominciato a gustare le ma- teriali e miste dolcezze .d’ un viver più
confortevole , più agiato , meglio congiunto con que’che s’amano, e
co’quali s’ ha strettezza di sangue , più che le gustano , più ne
di- vengono avidi, e più speronano la propria attività per pro-
cacciarsele , ognuno, nella maggior misura possibile , senza essere
impedito o disturbato , e più se ne creano quel che si chiama un loro
interesse individuale, a cui tengon tanto quanto alla propria vita : ed
allora, secondo che un s’ in- dustria più , un altro meno, uno piu è destro,
un altro ha manco attezza , ecco a poco a poco ricchi e poveri ,
possi- denti e proletari , banchieri , mercatanti in ogni ragion di
mercatura e di commerci, agricoltori , fabbricatori, merce- nari,
patrizi, e plebei... uomini accasati e vagabondi , capi di bottega e
garzoni , e manovali , padri di famiglia e sca- poli ricusanti la briglia
delle nozze per amore dell' allegra e libera vita, quegli che ha la casa
e la vigna, e quegli che non ha nè la casa, nè la vigna... E l’amore di
ciò crescendo, cresceranno le distanze tra gli estremi , o le differenze.
— Or quello è barbarie , questo è quel che sempre s’è chiama- to la
civiltà , il progresso , o della civiltà , e del progresso, . effetto, ad
un tempo , c causa e criterio e simbolo il più visibile. Volete voi una
civiltà , invece , ed un progresso , senza questi effetti? Voi vi fate
illusione. Avrete un ricadere infallibile nello stato barbaro.
Imperciocché , si pubblichi , a cagiou d’ esempio , una legge
domani, non dirò che abolisce ogni proprietà, ma dirò che abolisce, pur
solo , la libertà de’ cumuli, e degli accrescimenti , nella possidenza così
detta , e che con una nuova divisione di tutte le terre distribuisce per
teste il suolo, as- segnando a ognuno tanti iugeri, e non più.
Aggiungansi al- tre leggi , che quanto è danaro faccian colare spartito
coe- gualmente , o più o men coegualmente , su tutti. Chi non vede
la conseguenza forzala? — Tu che non puoi coltivare colle tue braccia ,
con quali braccia coltiverai? Con quelle d’ un operaio preso a mercede?
Ma l’operaio è possidente ai par di te , ed ha i suoi propri iugeri da
coltivare. Se ad- doppiando la fatica , pur si darà braccia anche per te
, si contenterà più egli di coltivare il tuo con quello stesso sa-
lario con che te lo coltiva oggi? Vorrà raddoppiarlo, o aste- nersi ,
perchè non ha bisogno ; e tu dove troverai questo doppio danaro che t’ è
necessario, se vuoi che i tuoi pochi iugeri ti faccian mangiare? Dove lo
troverai , se sei di co- loro, i quali s’avvezzarono a vivere col solo
frutto della loro possidenza , e non saprebbero far altro? (Oltre di che,
se Io trovi, c glie lo dai, egli diverrà comparativamente il ricco,
e tu diverrai , viceversa, il povero , ristabilita cosi a rove- scio ,
comechè dentro piu ristretti limiti , la differenza di fortuna , e
ripristinato , per contrario verso , un nuovo bi- sogno di livellazione
). Ma, educato come sei, non ti basta, pe’ pochi iugeri che
ti son dati , o che ti restano dopo lo spoglio, il trovare col- tivatori.
Ei ti bisogna trovare un che dell’ amministrazione s’intenda, più di quel
che tu ne intendi, tu che, probabil- mente , non vi pensasti mai , volto
ad altro il pensiero , e solito a farti servire in tutto ; e questi
ancora non vorrà spartire il suo tempo tra l'azienda della propria
coltivazione e della tua, senza esserne ben pagalo egli stesso. Ecco
dun- que per te una nuova necessità di pecunia , che non saprai
donde trarre. Ecco, se tu arrivassi a trovarla su i risparmi eccessivi
che t’ imporresti , una cagione per esso di sopra- stare a te nell’
avere, e di turbare il livello, quanto almeno il misero sistema che
analizziamocomporta (colla conseguenza poi del bisogno di sconvolgere nn’ altra
volta la società, per novamente livellarla, quando il ricco sarà
diventato po- vero, e il povero ricco). Ed ecco, se, non ostante ciò,
non potrai trovarne quanta te ne bisogna, ecco dunque, ripeto, cbe
i tuoi pochi iugeri non ti serviranno a nulla , e re- steranno incolti ,
con danno anche pubblico , e tu morrai di fame. Muori pure, tu fuco
nell’alveare della nazione , tu il « quale non meriti vivere» dirà la
legge nuova, che, senza scrupolo, e senza badare a numero, vuole uccidere
una eletta parte della popolazione a profitto del nuovo mondo, il
quale s’avvisa di fabbricare. « Muori tu, con tutti i tuoi. « Resteranno
, con maggiore utilità, cittadini più laboriosi, « tra’ quali que’cbe
prestan le braccia e la direzione per « coltivare, saran pagati con quel
cbe lucreranno i non col- « tivanti con altre occupazioni retribuite. » —
Ma che oc- cupazioni potranno esser queste? Arti, per esempio, di
lusso? Tu burli. Queste no : perchè il lusso è una superfluità per
que’gran birboni de’ ricchi, cbe necessariamente costa cara, essendo cara
la materia prima, care le operazioni de- stinate a trasformarla , e le
spese di manifattura ; ciocché fa , che il prezzo loro è necessariamente
alto ed altissimo , e perciò irreperibile in un popolo dove ricchi più
non sono. Dunque non più carrozze, non più arredi preziosi , non
più drappi sfoggiati , non più cristalli e porcellane di Sevres ,
non più ori e gemme ed argenti , e per analoghe ragioni , non più statue
, non più pitture, non più palagi , non più parchi , giardini di piacere
, cavalli di pompa , vil- le... cose tutte riservate a’ paesi infelici
dove duri la servi- tù degli uomini... Quali pertanto , nella beata tua
Sparta, saranno le arti, a che que’chenon vogliono, o non sanno, o
non possono, coltivar la terra, o fare al più vita di pastori, potranno
darsi , per isperare sostentamento, e possibilità di coltura alle poche
terre, che la legge agraria avrà voluto as- segnare alla loro incapacità?
Siccome la consumazione è quella che regola sempre la produzioiìe , saranno
> salvo poche eccezioni , le arti che si chiamano di prima necessità ,
ed elle stesse ridotte alla loro pili grossolana e più rozza e men
costosa espressione.... E questo non si chiamerà rendere la spezie umana
retrograda , e distruggere la civiltà ! ! ! Que- sto sarà il secol d’oro
( senza l’oro , e ricacciato nel fan- go dei consorzi umani che sono in
sul cominciare, e che tengono ancor molto della primitiva creta senza
ver- nice ). E io qui non parafraso l’argomento, e non lo-scorroper
ogni suo punto, piacendomi a descrivere tutti gli altri con- seguenti:
gli studi scaduti, le occupazioni geniali vegnenti meno , lo slaucio, il
potere degl’ intelletti inceppato ... a dir breve, la condizione di tutto
il popolo condotta solleci- tamente a quella forma, che oggi, per
trovarla, dohhiam salire le montagne più selvagge, insinuarci ne’
villaggi i più rozzi.... Pur so qùel che si risponde dai gros
bonnels delle nuove filosofìe politiche. Non son essi cosi bestie da non
vedere tutto ciò , per poco che vi riflettano, cosi limpidamente
come noi lo veggiamo... Ma essi han due lingue in bocca. Una colla
quale parlano al volgo; un’altra colla quale parlano a noi. La prima
delle due lingue favella alla faccia del popo- lo. — Divisione de’ beni —
Distruzione de' ricchi — Abolizione dell’ odierno ordine di cose col
ferro e col fuoco — Sovranità della moltitudine proletaria.... senza
comento , senza restri- zione. E la feccia del popolo accetta con
alacrità questo sim- bolo della sua fede politica nel senso il più
letterale , il più largo ; e vi crede ; e se ne infatua ogni giorno più ;
e affretta co’desiderii l’ istante , in che la legge agraria sarà
promul- gata; e odia intanto, e minaccia que’ che hanno, consi-
derandoli , come usurpatori del dovuto (!) a que’ che non hanno ( e che
non hanno fatto niente per avere ). Come potrebbe essere diversamente? —
La lingua, in questa vece, che parla con noi, rinega, o piuttosto
maschera sì fatte enormità. Va per giravolte. Sostituisce alle idee
trop- po urtanti, ch’esse enormità rappresentano, altre idee che
mostran meno quel che è celato sotto. Propone tempera- menti e sistemi ,
che creeranno una civiltà nuova, capace d’ evitare, o d’attenuare Uno ad
una proporzione innocua i precedenti sconci. Utopie. Le Icarie d’ un
Cabet ( da an- dare a cercare in America , lontano lontano dagli occhi
di coloro, che potrebbero screditarne gl’ incunaboli , e rife-
rirne le miserie). I ComuniSmi sotto certe forme. I socialismi
de’Fourieristi e di Considerane diLouisBlanc, e di Prudhon: sistemi
confutati ogni giorno lecento volte da uomini sommi.. . da uomini i più
grandi, i più competenti della Francia, e del- l’ altre nazioni d’Europa,
e pur messi sempre innanzi colla stessa impavida sfrontatezza , colla
stessa subdola destrezza , fingendo, che confutazioni nou vi siano. ..che
le dispute ab- biano cessato , o non meritino la pena ’d’ essere
intraprese e siano state vinte ... che il giudizio dell’ universale (
non quello delle proprie sette soltanto ) sia già intervenuto , e
sia stato favorevole : sistemi , uno de’quali è la confutazione
dell’altro: sistemi, non pertanto, ciascuno de’quali , cosi ancor
controverso, cosi ancor contrastato tra le file stesse degli odierni
rinnovatori del mondo , non si è già contenti dell'ofirirlo solo
all’esame ed alla disputa de’ ginnasi, com’io pur altrove considerava,
ina, prima d’averne posto fuor d’ogni controversia la certa utilità
presso almeno il maggior numero degl’invitati a subirlo, si vuol pervicacemente
tra- durlo ad alto ; si vuole imporlo a tutti colla forza , e gua-
dagnargli la prevalenza del numero, colla seduzione, e con arti di
cospiratori ! Nè io, deviando troppo dall'argomento principale e
diretto di questo articolo , debbo qui imprendere d’ aggiungere una
confutazione di più alle tante che corrono il mondo, e che si rimangono
senza adeguata risposta. A me, per l’oggetto, che mi son proposto ,
basterà fare una dimanda (lasciato da parte il trattare, se quello di si
fatti sistemi, che ciascuno .ole de’ parliti nuovi
preferisce, e che, ad ogni costo, vorrebbe sostituito, senza dilazione,
al presente ordine di cose, bada esser liberamente consentito, o si vuol
che sia una confisca violenta delle libertà di troppi a profitto d’ una
futura rior- dinazione degli uomini secondo la prestabilita formola
d'al- cuni, che non si vuol disputata , né sottomessa ad arbitrio
di rifiuto , ma si vuol accettata da chi non la crede buona ed utile ,
come da chi la crede , ancorché chi non la crede s’ostini invece a
riputarla un esperimento eminentemente dannoso ed assurdo, o per lo meno
grandemente rischioso, e pieno di pericolosa incertitudine). — Io farò la
dimanda, che sola qui m’ imporla. — 1 nuovi sistemi di congrega ci-
vile ( si risponda con franchezza ) manterranno si o no , la diversità ,
più o meno , di specie e di grado negl’interessi , anche materiali, de’
singoli, come in generale, l'ordine della civiltà mostrammo, per sua
natura leudere a produr- re? — Se no: dunque ( levata pure ogni maschera
) tutti , ne’ materiali profitti , avranno lo stesso ; tutti
spereranno lo stesso, o presso a poco lo stesso. Sparirà , o tenderà
a sparire , la libertà del mio e del tuo, almeno quanto alla
misura. L’attività, la solerzia, per ciò che spetta al ben es- sere
fisico d'ognuno, non recheranno alcun maggiore van- taggio, che
l’infiugardia, l’inerzia. La perizia più grande nello stesso genere sarà
materialmente trattata come la minore. Nella comunità nessuno avrà alcuno di
quegli stimoli stali sempre, che più energicamente e più
universalmente ed infallibilmente son motori al fare, non che al ben
fare. — Vi sarà ( vorrà dircisi ) il premio della maggiore stima
che si godrà da chi la merita, oltre alla soddisfaziou gene- rosa dell’
animo proprio. Vi sarà il piacere di sentirsi loda- to j di vedersi
onorato, consultalo sopra gli altri. Ma que- sto é dimenticare, che si
fatto premio già c’é nell’ordine odierno, e pur non basta senza quegli
altri che oggi vi sono, anzi non basta nemmen con quegli altri. Questo é
dimenticare che noi siam composti d’anima e di corpo, 1' uno e l’altra co’
suoi speciali bisogni , e perciò cogl'interessi , e co’ diritti suoi (
purtroppo i secondi essendo , di più , meglio sentiti che i primi ). Questo è
il togliere de’ due ordini di molle, che natura ci ha dato per impulso al
progredire , uno de’ più efficaci; il più efficace de’due; il solo
efficace pel maggior numero de’viventi : i quali, se anche colla giunta
della potente azione di si fatta specie di molle, si spesso, tra color pure
che son meglio educati e disciplinati, si ri- stanno , c non
progrediscono , o vanno all’ indietro, può ben prevedersi quanto più si
ristaranno dal progredire , od andranno all’ indietro dopo la sottrazione che
lor si minaccia. Ma qui non si fermeranno gl’inconvenienti, poiché
biso- gnerà bene esser preparati al subire molti altresi di quelli
che già di sopra toccavamo, od analoghi a quelli. Tradotto a pratica, uno
od un altro di cotesti sistemi* per ipotesi, livellatori , senza bisogno
di speciali leggi suntuarie, il na- turale loro effetto sarà che
diverranno per tutti ugualmente interdetti certi innocenti , ma vivi,
piaceri della vita, a che pur ci ha preparato natura , e non ci è a
disgrado che ci educhi l’ arte ; cioè il magnifico vestire , la buona
tavola con una corona d’ amici del cuore, servita di costosi mani-
caretti , e di squisiti vini , e le altre , o simili cose ch’io di- ceva
; come dire argenterie , oreficerie , tappeti, arazzi, bei quadri , le
sontuosità de’ palagi , le scuderie popolate da bei palafreni , o da
generosi corsieri .... cocchi , cacce , viaggi , villeggiature , libero ed
ampio sfogo a’ propri generosi impulsi , e ad altri , che, per essere men
nobili, non ci son però men cari, nè men sono innocenti.. ; il poter
direasè stesso. Y’è qualche cosa... v’è molto , di cui son io pa-
drone... di che posso disporre a mio pien beneplacito, e di che posso,
con oneste arti, a me accrescere il godimento, quanto a farlo mi basti la
volontà e l’ ingegno, chiamandolo mio senza che altri me ne turbi, o me
ne coarti ad una data invidiosa misura, l’uso ed il possedimento. Questa
è la vera libertà del progresso. Questo è il progresso della
libertà. Libertà dell’ industria. Libertà piena «senza limitazioni.
Libertà , non della sola persona , ma di quello , che , com’ io notava
altrove, noi consideriamo qual parte , e connaturale contorno e
complemento della nostra persona terrestre, nel senso che già esponemmo.
Or si ponga ben mente alla con- traddizione. Si dice, che, ne’ sistemi
presenti di reggimento de’ popoli le libertà son troppo vincolate , e non
hanno il loro legittimo slancio, tiranneggiandole soverchiamente
tutti più o meno i governi. Si dice, che il diritto al progresso è
inceppato ; che è giunto finalmente il tempo d’ affrancar l’uomo dalle
infami antiche catene; ed intanto i nuovi siste- matici preparano al
mondo forme di schiavitù inaudite , e che non sono mai state. La vita
comune è d’ alcuni con- venti, e si sa quanta abnegazione del proprio
volere ed istin- to costa, e quanto pesa , e quanta virtù esige perchè si
giun- ga a patirla senza lamento. Altrettanto è dello stare a parte
in mano , e del vivere a misura quale che siasi , ed a spil- luzzico in
ogni cosa , secondo che altri assegni o conceda. Quel dover più o manco,
giusta la diversità de’ sistemi, la- mentare tra sè e sè con queste voci
: « La famiglia me la « usurpa in gran parte lo stato. La rendita me la
limita lo « stato. La nobiltà me l’abolisce lo stato. La eredità me
la « sequestra e me la impedisce lo stato » ( parlo qui special-
mente nella supposizione sempre dalla quale son partito , cioè in quella
de’ livellamenti , qualunque siane il metodo e la forma), non è egli un
costringere ad esclamare chi cosi considera « Io non son più meijuris ! —
Io mi son fatto servo dell’ associazione d’ uomini nella quale sono
entrato! Questo è ben altro che società sinaliagmatica di buona fede 1 — Questa
è una società leonina , o una società da « volpe ( ripeteranno ) , dove
il più poltrone, il più gaglioffo , il più stupido , il più disadatto, iLpiù
vivente a « peso degli altri è il più favorito o il più furbo, ed ha
stipolato in suo favore il monopolio del massimo vantaggio; « mentre il
più attivo , il più industrioso, il più ingegnoso, « il meglio animato a
fatica, quegli che del suo piu contri- « buisce , è quegli eh’ è
sopraffatto , eh’ è derubato , eh’ è « vittima! Questo è il mondo alla
rovescia!? Cosi combinisi ogni cosa come lo si voglia, diasi d’ oro alla
pil- lola meglio che si sappia , cuoprasi con tutti i nastri che si
voglia la trappola , mal s'ha fiducia del riuscire a ingannare altri che
i più sciocchi. Da che l’ effetto ultimo sai che ha da essere l’averti
tirato dentro ad una società a capitale mor- to, dove, nella liquidazione
de’frutti , a te principale azioni- sta , o dei principali , dee toccare
un dividendo pari al divi- dendo di chi non ha messo nulla, per poco che
abbi saviez- za, non si sarai gonzo da lasciarviti accalappiare. Dopo
tutte le quali considerazioni , per ultimo risultato , e per giunta
alla derrata , a si fatta conclusione non si sfugge , che l’al- zarsi al
postutto degl’ infimi , e di essi stessi fino a un limite poco lontano e
di piccola elevazione , gioverà ben poco alla causa della civiltà e del
progresso, e rabbassarsi a precipi- zio, de’ nati per esser sommi,
gioverà a questo ancor meno; e perciò , che , contata ogni cosa , la
conclusione finale sarà il regresso sollecito degli uomini verso quella
che sempre s’è chiamata barbarie, non certo un’accelerazione di
passo nel verso opposto. Se poi.ne’nuovi ordinamenti
politici, che si ci si vantano, per salvar la legge di progresso, e di
civiltà, e della naturale libertà di sé e delle cose sue, che alla
civiltà ed al progresso è tanto incitamento , vogliansi conservate le
diversità negli interessi di vario nome, si quanto a specie, sì quanto a
grado (ch’era la seconda parte del mio dilemma), dunque co- stituirà ciò
una terza categoria di disuguaglianze , crescenti col grado del progresso
e della civiltà ; e ammessa la realtà di queste nuove disuguaglianze,
come non dovranno generare elle ancora una disuguaglianza ne'diritti in ragione
delle disuguaglianze suddette? Perchè , io non sarò di coloro , i
quali esclusivamente le convivenze umane risguardano sotto l’aspetto di
quelle società A’azionisli eh’ io poco là mentovava , dove i soli valori de’
puri interessi materiali d’ognuno , tradotti nell’ idea del proprio
tornaconto , rappresentino le azioni messe in comune, e quindi le
correspettività de’ diritti politici da godersi. Certo v’è altro
eziandio, a che gli eterni principii della giustizia distributiva
comandano che s’ abbia riguardo , e spesso un maggior riguardo; e alcune
delle cose dette di sopra mostrano in ciò la mia persuasione in
questo senso. Ma non son io nemmen di quegli altri, i quali la som-
ma e l’importanza disi fatti interessi non considerano affatto nella
ripartizione de’ poteri e de’ diritti a’ poteri ; e per que- sto lato,
tanta voce vorrebber data al mascalzone, il quale non ha interessi di
possidenza, non d' industria... non di famiglia (od ha interessi tutti
negativi , cioè tutti in opposizione co- gl’ interessi di coloro, i quali
nell’ alveare sociale sono Tapi operaie e produttive ; tutti interessi di
far guerra alla pro- duzione, alla possidenza, all'industria... alla
famiglia... ; tutti interessi di disordine per pescare nel torbido) ,
quanta agli altri pe’ quali la società va prosperando, cresce in
affluenza di beni, ed è corpo, regolare, utile , e conducente al fine
, per cui principalmente le convivenze umane sono stabilite. ]si
dato mano, e solamente lo patiro- no , di che il bene susseguente è poida
ricompensa. ]mili , esso uomo abbia or buono avviamento od indirizzo
alla riuscita , or non l’abbia , e ciò , alle volte per colpa propria , o
rispettivamente per proprio merito , altre volte senza ciò, e contro a
ciò: cosicché l’impiego de’ mezzi aberra più o meno dal fine , e
radamente vi conduce ; e , quando vi conduce , lascia sempre molto e
moltissimo di desideralo e non conseguito. Dove le volte , che più o
men si riesce , servono a mantenere l’attività nostra , e la spe-
ranza, e il coraggio, e a preservarci dal precipitare nell’i- nerzia ; le
volte che non si riesce , servono a ricordarci , che un potere superiore
al nostro è dietro la tela , il quale regge le coso umane , e con occulta
sapienza, or ci dà i be- ni della terra , or ce li leva , o ce li nega ,
acciocché pensiamo che non son questi il fin proprio e sommo a noi pro-
posto. Ma poiché insonuna, concedo io pure , che al mal go-
verno l’ opporsi con onesti sforzi , invece di esser colpa , è anzi
spesso dovere , o quasi dovere (l’acquiescenza pura e semplice , e la
rassegnazione , quando fosse di tutti, poten- do in alcuni casi divenire
condannabile , rispetto almeno ad alcuni: perocché è alto , non di sola
virtù , ma di debi- to, per quelli che han di ciò competenza : 1.
l'illuminare, a il cercar d’ illuminare , i depositari del potere, in
quel che veramente abbiano errato , od errino , massime quandi l’errore
sia grave ed abituale : 2. l’adoperarsi a promuo- vere la medicina de’
vizi radicali con indefessi , opportuni , e convenienti mezzi) , come dee
procedersi iu questa dilli - cile e delicata faccenda? — 'fiuti is thè
qmstion — Ciò sia ma- teria d’un Di quello che al popolo non ispelta
, e spelta , in fatto di governo e di sovranità , e del modo e della misura in
che gli spetta. L’argomento io l’ho toccato qua e là più
volle , forse con un po’ di disordine , ma esprimendo con forza ogni
volta l’opinione della quale sono persuaso. Giova nondimeno
tornarvi sopra in quest’articolo , e dir con più grande asse- veranza
ancora , che in ogni altro luogo — la principal fon- te degli errori , i
quali sul proposito nostro si spacciano , e corrono oggi il mondo , stare
appunto in questo atto d’u- niversale superbia , per che , in cosa , la
quale tanto è legata a fatti providcnziali che si burlano, per cosi favellare
, di tutte le previdenze umane ; la quale tanto poco dipende dalla
volontà de’singoli ; la quale tanto è superiore alla intelligenza delle turbe ;
tanto è diffìcile ad essere trattata co- me lo si addice ; tanto è poco
alla a condursi per sole deliberazioni d’uomini quali che siano , a grado delle
passioni loro , e nel conflitto de’loro interessi perpetuamente fra
lo- ro lottanti : s’argomentano di credere tra tutti distribuita ,
ed a tulli appartenente la competenza del trattarla per Io meglio loro.
Don^c è poscia l’opinione si da noi combattuta , che la sovranità , in radice ,
è di tutto il popolo , inalie- nabile da esso , reversibile in esso , e
rivendicabile per esso , tutte le volte che lo vuole ; esercitarle da ciascuno
, individuatamente , ed individualmente , nella porzione più o men
coeguale che gli spetta ; residente di fatto , come po- tere attuale ed
accidentale nella maggiorità ( più o meno istabile di sua natura)
de’cittadini , che sendosi data la pe- na di concorrere ad esercitarla ,
convennero in un medesimo voto ; ma non ispettante di diritto normale ad
essa; perchè la parte non può equivalere al tutto ; perchè chi non
ha parlato , non ha detto niente , e non s’è interdetto di poter parlare
quando che sia ; perchè il diritto delle minorità , tanto piccolo quanto più si
voglia , può essere oppresso , ma non annullato, nè distrutto; perchè,
infine, non può non esser lecito a queste il cercar di farsi maggiorità
la loro volta , acciocché il fatto della sovranità ad essi o passi , o
ritorni. E , per vero, i fautori stessi delle anzidette sentenze,
non osapo analizzarle , od almen confessare , i naturali conseguenti loro,
de’quali conseguenti il principale è , che , cosi insegnando essi ,
vengono a dire, insomma , che la sovranità, comunque affidata come potere
esecutivo, legisla- tivo , giudiziario , o quale altro potere che siasi o
che si chiami, obbliga in diritto i soli consenzienti: quanto agli
altri , li violenta , ma non può obbligarli; o , ciò che vale lo stesso ,
vengono a dire , che la sovranità è obbligatoria di diritto per nessuno ,
giacché que’che le obbediscono, in quanto sono consenzienti ,
evidentemente obbediscono a sè e non a quella , cioè obbediscono alla
propria volontà di obbedire, nou alla forza imperante della sovranità,
attinta, in massima parte, dagli eterni principii della ragione e
della giustizia ; ed obbediscono perchè son contenti di farlo , non
perchè si credano obbligati a farlo ; ed , in que’che obbedi- scono , in
quanto , a lor malgrado , vi sono costretti , non dall’autoriLà, ma dalla
forza materiale, in essi ancora l’obbedienza è un fatto sofferto , e non un
dovere adempito ; e un’ obbligazione estrinseca , e non un obbligo di
vero nome ; o , a dir meglio , è violazione di diritto , e non diritto ,
contro alla qual violazione si ba invece il diritto di mettersi in istato
d’ostilità , di cospirare, di muover guerra flagrante , in detto ed in
alto. Il che dire è negare la sovranità , e ennsiderarla come ud fallo pur
sempre , non come un diritto; Tatto di alcuni che soperchiano tutti , non
diritto di tutti contro a ciascuno ; tirannide , e non sovranità, pe’
dissenzienti ; cosa inutile , superflua , ed illusoria , o simulacro di
cosa pe' danti libero consentimento : ciocché bene inter- pretalo ,
significa poi , che la sovranità , in quanto è pote- re , pe’soli
dissenzienti esiste ; ma esiste per essi soli come una iniquità ed una
ingiustizia , non come cosa mai legit- tima e normale : verità si vera ,
che lo spirito logico d’ uno de’ più sinceri , e de’ più espliciti tra
gli antesignani del nuovo liberalismo (Prudhon) non ha dubitato di confessarla
e dichiararla ad alta voce , e per istampa. In si fatto
sistema , pertanto , gli attualmente investiti della sovrana potestà , e
d’ogni sua grande o piccola parte, quali e quanti pur siano , non sono
che semplici incaricati d’affari , privi di plenipotenza , e quasi
direbbesi ad referendum, o piuttosto godenti d’una plenipotenza frodolenta
di l'alto a tutto loro risico , e sotto la loro perpetua responsabilità ,
come i generali di Cartagine ; sempre revocabili , sempre soggetti al
sindacato di tutti e di ciascuno ; posti in una siugolar condizione
innanzi al popolo : perchè , ne’paesi dove tutto il popolo non è stalo chiamato
, e non è con- corso a farli (messo dietro le spalle ogni diritto di
prescrizione e d’usucapione) sono come se non fossero; usurpatori posti
fuori della legge ; nemici pubblici , e niente meno di ciò : ma , ne’
paesi stessi , dove il popolo è quegli che li elesse negli universali suoi
comizi , non hanno , per le ragioni esposte di sopra , solidità e realtà alcuna
di potere ; burattini da filo quanto a tutti , e tali burattini , il cui
filo dev’essere spezzato il più presto , o quando il destro uc vie-
ne , quanto a’dissidenti. Che se tutto ciò è rispetto alle persone,
poco diversamente dee dirsi rispetto agli atti loro , il cui valore intrinseco
è subordinato sempre all’apprezzamento libero e capriccioso
d’ognuno. Ed altrettanto è ancora delle leggi ; o sian pure quelle che si
chiamano Costituzioni , Carle, Statuti , o simile. E cosi dislruggesi allatto ,
e si demolisce l’idea di governo , e si sperperano le convivenze civili,
rimettendo ogni umana congrega nelle condizioni primordiali del
viver selvaggio , ricondotto a’suoi naturali e radicali elementi
d’indipendenza degl’individui , e di forza brutale del più potente , o
del numero maggiore , centra il più debole , o contra il numero più
piccolo. Io invece, per finirla , riduco a queste non molte
propo- sizioni i dettati della ragion pura in si fatta perplessa materia,
sottoposti nondimeno alcuni di essi, nell’applicazion loro, al prudente
apprezzamento delle circostanze. Iddio, a farci appunto conoscere, nella
presente im- perfezione ed ignoranza nostra , eh’ egli è il padrone
(domitius dominanlium ) , e che noi , per molto che immaginiamo di
esserlo , non lo siamo punto , o lo siamo assai poco , c sotto sempre la
legge della sua supremazia , dispose , c di- spone, colla sua direzione
occulta del mondo morale, come del tìsico , le cose in modo , che lo
stabilimento de’ gover- ni , nel materiale , e nel personale, è
(storicamente parlando , cioè nella pratica , cosi come dalla storia universale
e particolare de’ popoli ci è dichiarata) un mero previdenziale
fatto , dato o coadiuvalo , sempre , o quasi sempre , da for- za di
circostanze , indipendenti il più spesso da ogni preor- dinala volontà
delle turbe ; per le quali circostanze , o contrastato , o no che sia ne'suoi
cominciamenti , esso , da una esistenza precaria , e spesso irregolare ,
passa , a poco a poco , ad un'altra esistenza tacitamente consentita
dall’uni- versale , e pacifica , e con ciò legittimata ; rispetto alla
qua- le , l’azione indesinente de’ due principali fattori di quest’or-
dine di fatti (e voglio dire , 1. il reggimento divino delle cose umane ,
2. quella dose di politico senno, che giunge per solito , da ultimo , a
scaturire da qualche parte) , più o meri laboriosamente, viene a galla ,
a traverso d’ogni difficoltà, in mezzo ai popoli , come una manifestazione
inevitabile alla lunga, dell’idea insita in tutti , ed eterna , tutto-
ché più o meno oscurata , di giustizia, di verità, di dovere; ed allora
quest’azione, or lenta, or sollecita , opera in guisa, che l’intollerabile alla
fine si fa tollerabile e tollerato, l’ingiusto si fa giusto, o meno
ingiusto , l’improvvido o provvido , o meno improvvido ; e nascono
sistemi e vie di compensazione , lenitivi , palliativi , rimedi ; e il
male che c’è , o che resta , non può superare una certa misura
(tran- ne quando un decreto terribile di Provvidenza vuol che le
nazioni periscano , o si consumino , e decadano umiliate e contrite) , nè
può non avere un contrapposto di beni : co- sicché di questo misto si
componga quella dose d’ infelicità terrena , più o meno temperata , che è
necessariamente com- pagna di questa vita , punizione meritala agli uni ;
scuola di virtù , e mezzo di merito agli altri. 2. A vie
meglio mostrarci la verità di questa dottrina , la Divinità ha in tal forma
ordinato il mondo morale , che in que’ secoli di contumace superbia, o
tra quelle superbe nazioni , in cui la verità c la presunzione della
propria sa- pienza più prevale tra gli uomini, e li spinge a voler
tutti fare e non lasciar fare , ognuno mettendosi innanzi , e cer-
cando d’esser primo, o de’ primi, ognuno volendo esser dio a sé stesso ,
e governo , e governante ; ivi , ed allora, è l’infelicità massima, il
disordine massimo , lo sgovernamelo massimo , la guerra civile imminente o
flagrante , l’anarchia, lo stato convulsivo, od epilettico , delle
umane congreghe: disordine, sgovernamenlo , guerra , anarchia,
convulsione, epilessia , che seguitano finché questo periodo di presunzione non
passa, e finché principii migliori , e più giusti, non tornano a
prevalere la loro volta. Intanto perù è giusto confessare , che , se da
un lato, il Creator delle cose, per le ragioni che più volte adducemmo ,
non ha concesso agli uomini la perfezione in nulla , e nè manco
ne’governi , ed ha voluto tollerare , e permettere , a volta a volta,
l’imperfezione, anche condotta , in essi governi, fino all'abituale
imperizia , imprevidenza , inettitudine , ingiustizia , e tirannide; da
un altro lato , ei non ba voluto , in generale , abbandonare si
fattamente la specie umana all’ impero del male, anche sulla terra ,
che non abbiale concesso , nella sua benignità , mezzi normali di
riparo , di resistenza , di rimedio (renduti, egli è vero, per suoi
segreti disegni , ora più , or meno efficaci) , e non abbia perciò
inserito nelle ragioni, le meglio addottrinate, de’ saggi in mezzo ai
popoli il lume più o manco opportuno a conoscere in ogni caso quel che è
lecito , e conveniente , e necessario di fare per tentar diuscire di pena
, d’ingiusti- zia , e d’oppressione. Questa è almeno la regola
generale, sebbene , purtroppo , convien dire , che talvolta , nel
se- greto della sua sapienza , esso Creatore , permette e tollera,
come altrove notammo, che sì fatto lume in pochissimi splen- da , e quasi
in nessuno : di che poi la conseguenza è , che il male del malgoverho , o
dura , o quel che è peggio, per gli sforzi inconsiderati di que’che non
vogiion patirlo s’aggrava , o sia che conservi , o non conservi le prime
sue forme. Or quando a si fatto ultimo flagello non si è
condan- nati (pena , per solito , del lungo tralignare d’una civil
convivenza , confermata nel vizio, e nella cecità d’intelletto) allora il
rimedio , e il riparo, c’è , sol che tutti facciano il dover loro ; e c’è
senza le maledette rivoluzioni , senza le illecite cospirazioni e sette.
C’è per la forza pacifica ed infallibile delle persone , e delle cose. Del
quale riparo e ri- medio le massime io le ho sostanzialmente , qui
indietro dette , nell’articolo. E non è , che , in si fatto ufficio non
abbia ognuno la sua parte legittima. Solo bisogna confessare, che la
parte non può nè dev’ essere in tutti uguale, e la stessa. La prima e
principal condizione è il coraggio civile (giova ripeterlo : il militare
guasterebbe tutto, infondendovi dentro le sue furie), coraggio prudente,
ponderato, modesto, mantenuto sempre rigorosamente dentro i limiti del
permesso dalla legge, ma perseverante, istancabile, non in alcuni ,
ma nel maggior numero. Le leggi in nessun luogo son cosi cattive , che
non aprano più di un adito a raddrizzare i torti, e a far fare giustizia.
Bisogna non perdersi d’animo. I forti debbono aiutare i deboli ,
dirigerli , farsene avvocati. 1 savi debbon dar mente agl’ insipienti. Questi
debbon ricorrere a coloro che la fama universale indica in ogni luogo
come sapienti ed uomini da bene , per cercar lume , e conoscere se veramente
ban ragione e diritto di lagnarsi , e dentro che misura. Gli uomini da
bene e sapienti non deb- bono negarsi agl’inferiori.Tutti insistendo
nelle vie consen- tite da ragione e da legge , e facendo concerto
perpetuo di sforzi , ciò, senza essere una cospirazione illecita, e di
setta , e d' armati , è impossibile che non produca il suo frutto. Ma non
bisogna che i primi , a’ quali questo coraggio sia di qualche danno
personale , faccia» perciò meno il debito loro, o che l’esempio del loro danno
distolga gli altri dali’imitarli. Ciò ha da essere, come nella guerra. 1
feriti, non perchè feriti, finché possono, lasciano il combattimento,
se aspirano al titolo di bravi : e i non feriti non fuggono per-
ché altri al loro fianco son feriti od uccisi. Solamente biso- gna ben
guardarsi dall’ uscir dalle vie rigorose della legali- tà , e del
rispetto che è interesse di tutti il non dimenticare; e dall’ immaginare
, o pretender gravami e torti, dove non sono. Cosi adoperando, colla metà
della ostinazione che gli odierni settarii pongono nelle loro
inconsiderate e criminose mene , certo non è abuso di potestà , il quale
non debba con [Ecco mio de' vantaggi innegabili dell' aristocrazia.
Dov’ella è in forza , e bene e convenientemente stabilita , è 3i grande
l' autorità sua , si connatura to il coraggio civile , si spontaneo f
intervento a tutela de deboli , che difficilissimo riesce l'abuso del potere in
cbi lo ha in mano, almeno condotto sino a vizio abituale, ed a
quell’eccesso ch'è tirannide intolieranda , od insipienza equivalente a
tirannide.]più certezza essere corretto , die tentando pazze congiure a
moderna usanza. Nè nego, perfino , che quando i’ abusare nasca da
im- perfezione di legge , o di leggi, di questa o queste non possa
legittimamente chiedersi il mutamento, e il raggiustamen- to a più equa
forma. Quando veramente costi, per consenso di tutti tsavi, che le leggi
sono cattive , o talmente imperfette da rendere necessario un cangiamento, niun
può trovare men che giusto il desiderarne e il chiederne la rettificazione. Il
male non istà nel desiderare , e nel chieder ciò , ma nel desiderarlo
e nel chiederlo in modo illecito, arrogante, e perturbatore. Sta
nel volere a forza cattivo, quel che non lo è manifestamen- te. Sta nel
non andare a rilento in si fatti giudizi, e nei non ben verificare ogni
cosa a norma della sapienza scritta di tutti i tempi , prima
d'avventurarsi a pretendere che la cosa è come la si pensa. Sta nel non
aver occhio alle circostan- ze, agli effetti probabili , agli scompigli
possibili. Sta nel mancar infine di buone bilance per non trascender mai
la giusta misura in nessuna sua parte : condizione più essen- ziale
ancora, acciocché niuno possa imputare di sedizione, di ribellione, di
fellonia ciò che nel qui discorso senso e modo va operandosi. Da tutte le
quali cose vede ognuno che non discende, nè l’obbligo assoluto di
rassegnarsi al male , che evidentemente è male, nè l’assoluta assenza di mezzi
per medicarlo. Ma non discende nemmeno la pazza politica massima degl’odierni
, che per ultima panacea propongono date forme di [Queste sono le
teoriche. Ma torno a dire , se i savi mancano, se mancan d’ accordo , se
v’ è funesto li svolgimento negl’ intelletti di que’ che so» cre- duti
tali ; se certi desiderii poco ragionati, e poco ragionevoli, si
confondo- no co’bisogni, solo perchè sono alia moda, e perché sono
intensissimi; se certe lagnanze son di minimi che si giudican massimi , e
che fatte suonar alto più disturbano che non giovino; se? Allora come non
tremare nell’avventurarsi alla pratica? Iddio liberi i popoli dall’ esser
condotti agli estremi qui sopra ricordati; e dia loro la sapienza vera che li
aiuti a scegliere il miglior partito.] governo applicabili a tutti i casi
, come uua calza a maglia. Delle democrazie pure già dicemmo quanto
basta a provare la loro imperfezione essenziale. L’antica sapienza
rappresen- tata da CICERONE sta per le Monarchie temperate, dove i
veri ottimati , cioè dove le capacità e gl’ interessi han voce
preponderante, e tra gl’interessi , meno ancora i fluttuanti e
transitorii (sebbene questi eziandio) , che i permanenti e più tenaci,
d’un buono e lodevole patriziato. S’ è perciò giustamente levata a cielo
la timocrazia di Servio Tullio — la sapienza del Senato romano e dell’
aristocrazia inglese , corroborata dalle tradizioni di più secoli. Ma non
tutti gli ordinamenti ( ridiciamolo ) convengono a tutti i popoli e
a tutti i tempi: e chi non ne fosse persuaso, più d’un esempio
recente potrebbe addurne , fatto per iscoraggiare assai del supposto
valor pratico di certe teoriche, le quali poi, quando si traducono in
iscena, si risolvono in bliteri, e in peggio che ciò, vale a dire in
danno evidentissimo de’ popoli. Grandissimo ( a miglior prova di ciò ) è
il male che s’è detto , massime nel tempo nostro, de’ governi assoluti ;
e i governi assoluti eglino stessi han poi per loro essenza e natura il
grande ed intrinseco male, che con tanta generalità oggi s’afferma? (
L’argomento loabbiam già toccato alcune pagine indietro : pure importa
tornarvi sopra un’ultima volta ). Messi a bilancia con tutte le altre forme di
governo, e contati , e imparzialmente pesati, i vantaggi egli
svantag- gi , traendoli dalla verità storica d’ogni età e d’ogni
con- trada, e non dalle menzogne sistematiche di tale o tale al-
tro declamatore odierno, io non so se un uomo di delicata coscienza
oserebbe giurare, che la parte degli svantaggi pre- ponderi, sempre
totale contro a totale, cioè somma intera di fatti contro a somma di
fatti , dal Iato delle monarchie pure, a quel modo che s’ama asserirlo.
Per Io meno questo conto, o vogliasi dirlo bilancio, non è mai stato
instituito colla debita accuratezza, e varrebbe la pena dell'
instituirlo: impresa tuttavia molto più difficile di quel che non si
pensa, e da più dotti , che non sono di gran lunga i giudici di strada.
Donde poi deduco, che , assai più alla leggiera di quel che si dovrebbe ,
si pronunzia la sentenza assoluta di condanna , la qual suona nelle
bocche di tauti , più per mo- da, che in forza d’ una dimostrazion
rigorosa. Le ingiusti- zie, le improvidità , le tirannidi s’incontrano in
tutte le forme d’ ordinamenti politici ( cosi insegna la storia ) , e le
forme le più liberali n'ebbero, e possono averne all’ avve- nire, di non
minori che i più tristi degli assoluti governi. Quidleges sine
moribusvanae profitiunt (ridirò col poeta)? Uno o molti che siano gl’
investiti dell’ atto della potestà , possono del pari abusarne; e , se
gli abusatori son molti , sarà il danno più grave assai , che con un
abusatore unico, tranne se alcun si piaccia del paradosso che più tiranni
deb- bono men nuocere d’un tiranno solo. Le responsabilità ministeriali ,
o d'altri ( nome vano ) si dovrebbe ornai sapere da tutti quel che
valgono. Le supposte guarentigie sono sempre un preservativo, o un
rimedio, più illusorio, che vero. Cb’ buoni sono inutili, co’ cattivi
sono insufficienti , per grandi eh’ elle sembrino. Dove furono concesse
Ano ad ogni richiesta misura, gl’incontentabili odierni se ne
contentarono forse? Le probabilità del maggior senno, che parrebber più facili
ad incontrarsi nel consiglio di molti , di quello che in una mente unica
, non sono assai spesso , in tempi di civiltà corrotta, e d’ambizioni
flagranti, che un vantaggio presunto , più che bilanciato, ed annullato
dall’altre probabilità delle discordie intestine tra senno e sen- no, e
delle lotte che quindi nascono. E sovente è più bisogno di guarentirai da
que’che sono scelti à guarentire, che ragionevolezza di speranze le quali
in questi ultimi si ripongano. Hannovi poi circostanze ( è giusto il
ricordarlo ) , nelle quali solo le pure monarchie valgono ad operare il
bene delle nazioni; e sonovi beni che soltanto dalle pure monar-
chie possono aspettarsi. Ad esse principalmente, se non unicamente, parche
abbia riservato la Provvidenza l'incarico de' grandi mutamenti da operarsi ne’
popoli colla de- bita rapidità, rovesciando i maggiori ostacoli : perchè
il modificare ampiamente, e radicalmente, con forza, prontezza e
conveniente efficacia, le sorti d’un popoloso dimoiti popoli a uu tempo,
è parte quasi esclusivamente concessa agli assolutismi de’ Sesostri,
degli Alessandri, de’ Cesari, degl’Augusti, de’ Carli Magni, de’
Federicbi, de’ Napoleoni, certo non alle disordinate e burascose
discussioni de’ senati, de’ parlamen li, de’tribunali, delle moltitudini
deliberan- ti. Sono sempre, o quasi sempre, gli assolutismi, che tagliano
ultimi il capo alle rivoluzioni, e creano ultimi la stabilità delle paci.
Sono essi una necessità pe’ popoli che vanno in bizzarrie pericolose e
distruttive. Sono essi a volta a volta, grandissimi benefattori della
umanità, piuttosto- cfaè i suoi principali flagelli. £ di questa
particolare virtù de’ governi assoluti, quanto a prevalenza d' efficacia
e di rapidità, tanto hanno persuasione , perfino i moderni perturbatori,
( torniamo a dirlo sebbene altrove l’abbiamo già detto), clic solamente
perciò hanno istituito, essi medesimi, la obbedienza passiva delle sette, e
l’assoggettamento senza discussione, e sotto pene terribili, a’capi di
esse. Tuttavia non voglio io qui farmi l’apologista esagerato de’governi
di si fatto genere, e dissimulare gl’inconvenienti a’quali vanno per
solito espósti. Non voglio dare il piacere a’ miei avversari, di poter
dire ch’io sono un assolutista sistematico, perchè abbia con ciò bella
occasione la rettorica di certa gente del gittarmi alla faccia questo
rimprovero seguitato da una mezza dozzina di punti ammirativi. Ho voluto
solamente dire che ancora essi governi possono avere ed hanno il loro
tempo, e la loro opportunità; ed in subiecla materia esaminino (dirò di nuovo)
i capi-setta sé stessi prima di rispondere se è vero o falso. Mi basta
avere indicato l’irragionevolezza della troppo universale condanna la qual
di essi governi è fatta, come di cosa assolutamente CONTRO A NATURA (cf.
H. P. Grice), e necessariamente riprovevole. Mi basta aver dato a
conoscere, die vale, anche rispetto ad essi, la regola gene- rale, che
non vi può essere una regola generale di proscri- zione. Le circostanze,
anche a loro riguardo , entrano per molto nel giudizio, come in ogni
altra maniera di governo. D’ altra parte , i governi veramente assoluti
dove più sono? Tutti il tempo li modifica. Addolcisce i più severi.
Modera i più dispotici, e viene più o meno accostandoli alle forme
di temperata monarchia. Siamo giusti. Dove son più i Busiridi, i Falaridi, i
Tarquini Superbi, i liberi , i Neroni ? Se si voglia trovar tiranni,
nell'antica significazione del vocabolo, bisogna andar a cercare nel campo
repubblicano ultraliberale i Marat, i Robespierre. I voti del vero
popolo, di giorno in giorno, son più ascoltati di quel che vuol
con- fessarsi; e , se si é di buona fede, non può esser negato ,
che le concessioni cominciate qua e là a farglisi, per tutta Europa, son
bastantemente grandi per far dire che nelle altissime regioni non si è
tanto sordi, quanto da alcuni si va spacciando. 1 bisogni reali
finiscono sempre coll’essere ascoltati, non per forza , ma per
ragio- ne. Gli esagerati e falsi può colla violenza costringersi a
sod- disfarli per un momento, ma vale allora il proverbio. Nil
wolentum durabile. Per chiudere a quel modo che meglio per me si può
l’ar- dua discussione nella quale sono entrato, io Unirò dunque
cosi dicendo a chi tanto si preoccupa del male dei governi più o meno
imperfetti (come se per necessità non dovessero a, diverso grado tutti
esserlo), e a chi perciò, venendo a conseguenze estreme, niente ha più a
cuore ed in mente , che farsi autore e cooperatore di riforme radicali ,
da otte- ner subito , quasi a tamburo battente, ed a qualunque gran
costo , giuste ch’elle sianolo non siano, purché tali paiano a quei che
le dimandano , avuto a sdegno , e messo in non cale il più prudente
desiderio e consiglio de’ miglioramenti graduati , bene studiali , ben
maturati , e solo predisposti e promossi ne' legittimi e tranquilli modi
che rispettan la pubblica pace, e servono ad assodarla, anziché a turbarla. Se
veramente ami tu il bene del tuo paese , fa senno , e pensa che qui non si
tratta d’un trastullo da gioventù , e d’un balocco da capi sventati, per
darsi dell’ aria e dell’importan- za, ma della somma delle cose pel
presente e per l’avvenire, od almeno per lunga successione d’anni. Fa senno ,
e dà prova d’averlo fatto, giudicando per anticipazione testesso , prima
d’assumere il terribile incarico di giudicare gl’imperi ed i regni.
Discendi, Gracco, nel tuo interno, e chiedi, con buona fede, a te
medesimo se t’è lecito di crederti tale da ben sapere quel che è mestieri
sapersi nell’astrusissimo argomento de’ governi, per islendervi sopra una
man temeraria; e se ti puoi , senza farti rosso nel viso, chiamare uomo di
stato, ose , in questa vece, non senti, nel tuo segreto, d’essere
niente altro che un misero pappagallo , il quale ripeti su ciò, senza
bene intenderlo, quel che t’ha insegnato la piazza, o la setta. Non ti lasciare
illudere dall'orgoglio, nè dall’assenso lusinghiero de’ niente maggiori e
migliori di le, ma metti l’amor proprio da parte, e dà sentenza su te,
come la daresti sopra un altro. Tastati addosso, e cerca imparzialmente se trovi
sotto il dito l’economista, il dotto nella filosofia delle leggi ,
l’intendente ne’ misteri dell’amministrazione e della finanza, il fino
conoscitore della storia umana, l’uomo freddo, ponderato, esperto, che
nel giudicare questioni si diffìcili , si recondite , si gravi , si
feconde di beni e di mali, come sono tutte queste delle quali stiam
parlando, sa, innanzi tratto, esaminare, prima del giudizio , gl’innumerabili
particolari; che concorrer debbono ad illuminare la mente; a spogliarsi d’ogni
passione e d’ogni opinione preconcetta; e, senza dar peso a insinuazioni
d’amici, o di confederati e compagni, discernere, e ben discernere quel che il
luogo, il tempo, le circostanze, gli uomini, gli antecedenti, i comitanti, i
conseguenti, oltre ai principii eterni di ragione e di giustizia,
suggeriscono e richiedono. Va intorno, e parla pettoruto alle genti in
questo linguaggio. Miratemi , e sentenziate voi. Son io veramente l’uomo
da rifare il mondo, e da insegnare agli altri il come? Son io Zaleuco,
Caronda, NUMA (si veda), Licurgo, Solone del secolo illustre ; o sono almeno
l’uomo da saper discernere, senza ingannarmi, que’ eh’ io possa e debba
seguitar come capitani in faccenda di si gran momento? O piuttosto la
risposta non l’odi aver già preceduto la dimanda? Povera mosca del carro
(tu dei sapere la favola), va a scuola , e fatti vecchia prima di toccar
solo col pensiero problemi di tanta astrusità. Solamente allora saprai
ridurre al genuino valor loro tanti spropositi di moderne teoriche
assolute , che, messe in prova da già dodici lustri, non han saputo
partorire ovunque che continuati scompigli , e ine- narrabili guai sempre
ripullulanti a doppio cornei capi tagliati dell’idra! Povera mosca, solo
buona ad esser tafano atto ad inquietare i cavalli che tirano il carro
dello stato, finché un colpo di frusta ti schiacci. Riguarda ( se non hai
le cataratte agli occhi ) nella Francia , prima maestra di sì fatte
novità, e spettacolo e scuoia delle lor conseguenze a ogni gente...
nella Francia già più volte rovinata, e data per queste a scom- piglio, e
le più volte, non da mani forestiere , ma dalie pro- prie. Riguarda a’
be’frutti delle agitazioni tedesche. Riguar- da a’ bei fruiti delle
agitazioni di questa misera Italia, qual ella è or fatta per colpa di
simili tuoi ! Gusta il Progresso che han generato i tuoi pari , la
ricchezza e la prosperità eh’ è opera loro! Basta ornai. Basta. La terra
ha bisogno di tranquillità , e , a tuo dispetto , saprà come
darsela. Cosi ti risponderà , e ti risponde il mondo : non
quello veramente nel quale tu vivi , ma quello in mezzo al quale
dovresti imparare a vivere , per tua istruzione , ed emen- dazione , e
per l’altrui pace. Ma ti risponderà, e ti risponde anche altro. Ti dirà, e
ti dice. O tu , che ti proponi niente meno che di metterti il
grembiule di Prometeo, cioè di rifare la gran famiglia umana in quella parte
che rende a lei possibile il viver socievole , cioè negli ordinamenti de’ suoi
governi , comincia col rifare te stesso. Volendo insegnare a’ tuoi
contemporanei l'arte del comando , insegna a te medesimo l’ arte dell’
ob- bedienza , che non sai , o non vuoi sapere. Con uomini quale tu
sei nessun arte di comando , e per conseguente di governo, è possibile ,
e l’ esperimento s’è visto. È forse giovato in più d’ un luogo darti
costituzioni, e rinnovarle? É forse giovato accordarti assemblee
deliberanti, libertà di stampa, libertà d’associazione ...tutte le
libertà? È bisognato finir col frenarle dal momento che i pari tuoi v’
han voluto metter mano. E cosi doveva essere ; perchè ogni
governo, anche larghissimo e mitissimo , è legge e dominazione ; e cbe
legge, oche dominazione può esservi per tali come tu sei? Tu ( quel
tu eh’ io m’ intendo ) di Dio non accetti che H nome. Tu sei di quegli
uomini, quorum Deus venler est ( riconosciti ). . ; degli uomini turbolenti,
sfrenati, ricalcitranti ... che chiamano ben pubblico il dar di naso
abitualmente ad ogni autorità , sotto colore di far la guerra agli abusi
suoi , colla presunzione di giudicarli in ultimo appello secondo il
privato tuo senno. . ; degli uomini che ban distratto ogni riverenza ,
ogni fede al senno antico , ai documenti de’ se- coli passati , alla
sapienza accumulata per gli studi comuni de’ migliori cbe in ogni età vissero.
. ; degli uomini che ner gano ogni efficacia d’ antica esperienza , e che
queste massi- me non si contentano di professarle per sè , ma le
promul- gano giornalmente d’ ogni intorno! Or con te, e con tali
quale tu sei, qual maggiore pubblico bisogno v’è, del bisogno di mettersi in
guardia , e tirare a sè le briglie ? É egli tempo d’allargar la mano alle
redini , quando il cavallo dà continuo cenno di rubarla, e di mettersi
alla scappata ver- so precipizi!? Pur troppo quando un paese ha la disgrazia
d'avere a ridondanza gente del tuo taglio, facilmente arriva a quella
condizione di tempi che o scusano, o rendono ine vitabili gli assolutismi
i più stretti e i più vessatori. Perchè , non accade dissimularlo. Ecco la
massima miseria della condizion nostra. È peggio che al tempo de’ guelfi
e de’ ghibellini. L’ira tien luogo di ragione. Vendicarsi, ed esterminare
sono ornai la parola di guerra. Sangue! San-gue! Ammazza ammazza! Quel che non
s’ osa fare aucora, si dice pubblicamente che sarà fatto alla prima
opportunità. Designane adcaedem unumquemque nostrum. Poveretti! S’uccidono
gl’individui, non s’uccide la verità e la giustizia. Ma anche a’Principi
d’Europa rivolgerò finalmente la rispettosa mia voce. Purtroppo hanno essi
bisogno d’una ri- vista severa del passato, e d'una ponderazione accurata
del presente a previsione del futuro. Quel che è stato ed é ma- le, fa
d’uopo mutarlo. Quel che è giusto e doveroso in tanto mare di desiderii ,
di querele , di mescolate richieste, bisogna farlo. Mai non ci fu maggior
necessità, per chi sie- de ne’ sommi scanni, d’esaminare gli antichi
ordinamenti , e di recarvi miglioramenti reali e legittimi. Mai non
richie- sero i secoli che sono scorsi maggior senno in chi regge i
popoli, e per conseguenza più grande opportunità di circondarsi di buoni, e
probi , e saggi aiutatori, e subalterni. “Riforma!” è la parola favorita del
nostro tempo. Riforma non è in sé medesima parola d’errore. Le riforme
bisognano sempre alle congreghe umane , come agl’ individui. Riforma
dunque anch’ essi dicano i re ma non ogni riforma dimandata le
riforme che la vera sapienza politica consiglia , e vuole. Eruditami qui
iudicalis terram. Imparino le genti col fatto , che amate di cuore il ben
pubblico , odiate il male, e vi studiate per quanto è da voi d’affaticare
alla pubblica felicità correggendo intorno a voi, per aver più diritto ,
e più facilità a correggere intorno a quei che vi debbono obbedire. Due parole
a chi è per leggere Parere d’un Amico intorno a questo saggio Risposta Prefazione Opuscolo
De’ Fedecommessi e dell’ Aristocrazia Due parole al Lettore Lettera I
Fedecommessi sono una istituzione apparte- nente a più luoghi c a più
genti e tempi , che non si crede. Conseguenza di ciò Essi hanno una
principale e giusta difesa nell’interesse convenientemente inteso di famiglia
Non sono applicabili ai piccoli patrimoni, ma solo ai grandissimi ivi
Perennando lo splendore di tutta una linea principale po -
tentemente soddisfatto a uno de’ sentimenti connaturali all’ uomo
Senza i Fedecommessi , le grandi fortune, di necessità , tra breve,
sminuzzandosi , periscono per V intera fami- glia , e con ciò essa è
condannata a rapido scadimento 1 Fedecommessi salvano , per quanto esser può ,
il patri- monio dalle imprevidenze, dall'incuria, e da’ vizi dei
temporanei suoi possessori, e lo conservano a que’che debbono in avvenire
possederlo Discussione delle ragioni de’ cadetti. E maggiore il numero
de'beneficali nel sistema che qui si contempla di quello che nel
sistema opposto pag. ivi Infatti quei che nel i° sistema godono (
al contrario di ciò che succede nel 2°) sonpiù numerosi de’
danneggiati I vantaggi d’ognuno de' favoriti sono più grandi, che i
vantaggi d’ognuno de’ favoriti nell' altro sistema Gli svantaggi de’
danneggiati nel secondo sistema sono più grandi che quei de’
danneggiali nel primo Lettera Soluzione d’ alcune difficoltà 35 Si
risponde a chi oppone che il testatore dee riguardare al bene massimo de’
prossimi ed esistenti , e non , collo scapito di questi , a quello de’
remoti , e non esistenti ancora, o forse non destinati ad esistere
giammai .Si prova che, oltre al vero interesse delle famiglie , nel si stema de
fedecommessi , meglio che nel sistema con- trario , è provveduto anche
all’interesse dello stato Risposta alla obbiezione de’ supposti diritti degli
altri figli, che si dicon violali nel sistema da noi difeso Si
torna a distinguere tra i fedecommessi utili, e i danno- si , e si prova
come ne’ primi i cadetti non sono pre- giudicali in modo indebito
19 Risposta a chi oppone l’ accusa di parzialità, e d’ eccitamento
alle invidie, a’ disamori, alle discordie tra pa - dre e figli e tra
fratelli Esposizione de’ rapporti tra V erede preferito cogli altri
posposti Convenienza del preferire il primogenito ai nati poi . . M
Di nuovo sull’ accusa del supposto fomite somministrato alle
invidie reciproche 45 Indirizzo da dare all’ educazione perchè
queste temute in - vidie non nascano Lettera Seguita la soluzione delle
difficoltà Non è vero che i fedecommessi , favorendo il celibato laicale ,
favoriscano i vizi che vi vanno connessi 1 matrimoni son più incoraggiati
nel sistema qtrì difeso, che in quello della divisione dell’ eredità per
capita, p. 49 È insussistente il nocumento che la sottrazione di molti
be- ni rustici , in virtù, de’ vincoli fidecommissarii , alle
speculazioni di compra e vendila minaccia di recare al pubblico Un certo
numero di latifondi legati a fedecommesso , lungi dall’ essere un
impedimento alla buona agricoltura , ed alla pubblica prosperità , sono
utili e necessari al- l'unae all’ altra Risposta alla difficoltà
tratta dai creditori dell’eredità de- fraudali talvolta , quando essa ha
il genere di vincolo del quale qui si tratta Lettera Difesa
dell’Aristocrazia Proposizione premessa, che, distrutti i fedecommessi, è
distrutto il patriziato I vizi de’ nobili che sono da degenerata
istituzione non vogliono esser contati soli , ma messi a confronto delle
utilità , e delle virtù ivi Essi vizi possono emendarsi , e
le utilità e le virtù accre- scersi : utilità e virtù le quali
difficilmente possono trovarsi fuori del ceto patrizio ivi
È nella natura stessa della Nobiltà un seme di miglioramento nella specie
umana , che ne innalza la dignità e la perfezione Caratteri propri
del genuino patriziato La grandezza degli averi in famiglie non patrizie non
può dare i vantaggi eh’ essa dà o può dare nelle famiglie patrizie
Necessità politica in uno stalo dell’ esistenza del ceto nobi- le , e
particolari servigi , che ad esso esclusivamente sono riservati ed
appartengono Opuscolo Della libertà e dell’eguaglianza civile Del governo e
della sovranità in generale Della così della sovranità del popolo , e
della democrazia. Del voto universale. Delle rivoluzioni e delle riforme
de governi ec paff. Della libertà nel civile consorzio , e decimiti , che
necessariamente debbe avere. I più di qne’ che la dimandano oggi, da ette
negano nella loro filosofia il libero arbitrio, e sono
materialisti, fanno una dimanda assurda , cioè chiedono quel che
credono non potere esse r loro concesso Per chiedere la libertà civile ,
bisogna essere spiritualista , e cogli spiritualisti non è difficile
giungere ad intendersi in tutte le altre questioni da noi trattate Que’ che
chiedono la libertà, quale e quanta la dà natura, debbon concedere gli
usi buoni ed i cattivi della mede- sima , ed una legge interna che
comanda i primi , e vieta i secondi , e con ciò debbon concedere di fatto
e di diritto che la libertà è limitata per natura La convivenza civile
essendo ordinata a perfezionare l’uomo, e non a deteriorarlo , la miglior
convivenza civile necessariamente dee dirsi una convivenza ove la libertà
naturale incontra nella legge vincoli grandissimi e maggiori di que’ che
ordinariamente le si prescrivono È solo la difficoltà soverchia opposta dalla
corruttela umana allo stabilimento d’ una piena normalità nelle civili
convivenze, quella che impedisce il comandare oggi tulli i vincoli che
bisognerebbero: ciocché non toglie però che il vero progresso è quello il qual
favori- sce essi vincoli , e li promuove, anzi che produrre effetto
opposto ivi È per effetto di questa difficoltà che le umane
congreghe si ristringono per solilo quasi al solo governo di quelle
libertà , gli usi o abusi delle quali risguardano i rap- porti reciproci
de’ cittadini co’ cittadini , non che il loro scopo remolo non debba
esser quello d’ordinare a poco a poco le leggi a una sempre migliore
sistemazione, e per conseguenza a una sempre maggior limitazione, di
tutte le altre libertà col fine d’accostar f turno alla perfezione quanto più
puossi. Prime parole sulle leggi che legar debbono le libertà , e su’coloro che
debbono stabilirle; c sulla genesi dell’ odierno domma della sovranità del
popolo, e del patto sociale Dèli’ eguaglianza in generale , e
quanto poco esista essa nella specie umana Falsità della massima che al volgo
suole oggi insinuarsi che gl’uomini sono tutti uguali per natura.
.Naturale ineguaglianza fisica tra uomo ed uomo Naturale ineguaglianza morale
Altre cagioni artificiali ed accidentali d’ inegualità; e prima per
parte degli educatori Degli educandi D’altre accidentali cagioni E pel fine
stesso che l’arli educatrici si propongono , e possono non proporsi Si
Per ultimo l’ineguaglianza è la legge generale della natura, in tutto il
creato Una delle principali ragioni, per le quali il creatore
volle questa disuguaglianza Vergognoso abuso che si fa della religione per
cercar di persuadere la contraria dottrina Passaggio al provare che inutilmente
si limitano alcuni ed difendere soltanto l’eguaglianza ne’ fondamentali
diritti della vita di cittadino Dell’eguaglianza nel civile consorzio, e su
giudi falsi fondamenti si pretenda stabilirla Paralogismi con che, dato
un quale che siasi appoggio alla qui combattuta dottrina , cercasi di
ricavarne la dot- trina del palio sociale, della sovranità popolare
e della democrazia; e conseguenze che se ne deducono, ivi È falsa l'equipollenza
di condizioni pel cui supposto gli uomini liberamente entrando in una
civil convivenza acquistati pari diritto di fermarmi palli Nè lo stabilimento
di questi patti è puro atto di libertà, ma dee conformarsi a certe
massime generali di ragione e di giustizia che impediscono appunto
l’affermata egualità di diritti È non men falso , che gli umani
consorzi quali sono e furono debbano considerarsi come illegittimi e
spurii perchè non individualmente consentiti da tutti e da
ciascuno. Passaggio al provare l'assurdità e i peri- coli della dottrina che
quindi si suol trarre per voler sovvertire il passato e il presente a
vantaggio d' un futuro ipotetico Considerazioni contro al preteso
diritto di rinnovare le società umane per accomodarle alle proprie idee
preconcette, e contro alle tentale riduzioni ad atto di questo
diritto Confutazione di quattro proposizioni, che corron oggi per le
bocche di molli, e prima, risposta alla i a proposizione, che il mondo ha
bisogno di riforma Che la riforma la qual bisogna è quella che le scuole
democratiche oggi insegnano , e non altra Alla Che la riforma la cui necessità
si va predicando con parole si ha diritto di condurla
immediatamente ad atto; e che non è da lasciarsi trattenere da qua-
lunque ostacolo d’opposta ragione Che qualunque mezzo dee tenersi per buono e
lecito, se al fine conduce della universale riforma che vuol tentarsi Altre
considerazioni sulle riforme nel reggimento delle convivenze umane in
generale, e sul diritto ed il modo di tentarle Due casi che
rispetto a ciò possono darsi. E prima, del caso, in cui tutti
consentano Secondo , del caso in cui siano divisi i pareri, e sia lotta
de' medesimi. Solo e vero diritto che allora si ha Grave torlo dei
dilettanti di malcontento , e parole severe ad essi dirette quando tentano le
rivoluzioni Risposta a certi loro sofismi Danni delle rivolture politiche ,
quanto a interessi di ogni genere Incertezza de’ loro successi
Difficoltà del ben giudicare i molivi che spingono a rivolte, e poca
fiducia da aversi in coloro che per solito le tentano Vanità della
querela che alcuni fanno , come se tolta la libertà delle rivoluzioni, il
migliore strumento fosse tolto del ritorno a giustizia. Esame d’ alcuni esempi
so- lili ad addursi Rimedi più veri e più ragionevoli contro alle
ingiustizie anche abituali de' gox'emi Certi mali sono conseguenza
d’imperfezione della natura nostra , o decreti di provvidenza Essi
sono il più spesso, generalmente parlando , ineritali, ivi Doveri e
diritti de’ cittadini sottoposti a cattivo reggimento. De’ governi, e delle
sovranità in generale Ignoranza del popolo quanto alle idee di ciò che è
sovra- nità , e di ciò che è popolo. Esempio ivi Se un
diritto, il quale anche realmente si abbia , sia sempre perseguibile, e da
perseguire Idee preliminari sulla socievolezza , come una delle
con- dizioni di natura date all’ uomo Il bisogno d" un governo è uno
de’ conseguenti della neces- sità d’ associarsi. Definizione del governo
Distinzione fra governo normale, e governo legittimo indicata Mentre il vivere
in società è una necessità ingenita, la for- mazione d’un governo è un
bisogno accidentale, sopraggiunto, e secondario Dottrina intorno a ciò che
discende dalla Fede ivi Distinzionedi tre stati nell’uomo, cosi
come oggi lo conosciamo per sola ragione. E prima dell’ uomo ine- ducato
e selvaggio e delle conseguenze di questa con - dizione quanto a governo
Secondo, del? uomo ipoteticamente perfetto, e di nuovo del governo
del quale è suscettivo Terzo , dell’ uomo nè selvaggio , nè perfetto , cosi
come suol essere , c delle innumerabili varietà delle sue
condizioni , donde si trae che il governo il quale gli conviene non ha nè
può avere generali regole , tran- ne il principio generico che dee
possibilmente esser giu- sto e ragionevole ivi Questo
principio generico non insegna però,nuUa d’assoluto guanto a necessità di
determinale forme nell’ applicar zione, e negli altri particolari a cui
si suole applicarlo Niente dunque v’ha di primitivamente fermo e
comandalo intorno alle costituzioni primitive de’ governi da applicarsi
alle diverse genti Della sovranità del popolo, consistente nella democrazia
pura, e rappresentata dal voto universale Ragionamenti che si fanno per
provarla universalmente fondata sopra giustizia e ragione ivi
foro insussistenza. V’è egli un popolo uno ? Tutto ragionevole? Tulio
illuminalo? Tutto probo? Tutto unanime? Conseguenze che discendono dalla
risposta ne-galiva a si fatti quesiti Esame della famosa dottrina circa le
maggiorità , e circa il voto universale Che cosa è il maggior
numero ; come si compone , e che cosa conseguila dai difetti della sua
composizione. Se sia vero che col volo universale si può almeno ottenere
il massimo contentamento del CORPO SOCIALE Fino a qual segno le
maggiorità siano maggiorità reali La democrazia de’ moderni non può
convenire ad alcun popolo Essa twn conviene a un popolo selvaggio Non a
un piccolo popolo di pastori e d’ agricoltori Non a un popolo piti o meno
provetto in civiltà per cagione delle disuguaglianze , che la civiltà tende
sempre ad accrescere, e delle loro conseguenze per cagione della lotta delle
virtù co’ vizi delle altre ine-guaglianze che da ciò derivano e delle necessità che ciò crea
per cagione di ciò che costringono a mettere a calcolo nella formazione delle
società le diversità enormi d’ inleressi tra cittadini e
cittadini Conseguenze funeste ed assurde del sistema tanto da deu-ni
idolatrato della divisione de’ beni secondo le leggi della livellazione
universale Differenza sleale di linguaggio che usano i propagatori delle
dottrine nuove quando parlano col volgo, e quando colle persone educale a
ragionamenti Dilemma ad essi proposto. Vogliono essi o non vogliono rispettata
la differenza di grado negl’interessi, e tenulane ragione? Se no , conseguenze
necessarie e lui- (uose della neqativa Se si , dire
conseguenze di ciò diametralmente opìwsle a quel che pretendono e vanno
spacciando Continuazione dello stesso argomento. Traltazione d’ deune
obbiezioni die quali si cerca rispondere. Risposta die lagnanze di que’
che lamentano il vilipendio e l’ oppressione del povero popolo, e agli
eccitamenti che gli danno a redimersi a ogni patto Leggierezza, e spesso
insussistenza de’ giudizi che su questo proposito s avventurano Mate usanze
introdotte rispetto a ciò, e perniciosi effetti di esse Diritti
esorbitanti che si vorrebber dati alle turbe a fine di prevenire gli
abusi dell’ autorità imperarne, e di farli efficacemente cessare, ed
estirpare radicalmente. Catastrofi inevitabili alle quali non potrebbe non
condurre la riduzione a pratica di tutto questo ordine (Videe. Parere intorno a
ciò di CICERONE e di Platone ed esempi moderni contraddizione con sè
stessi de’ difensori delle dottrine fin qui impugnate, i quali mentre
affermano di combat - tere per la libertà, impongono servitù inlolleranda
ai loro proseliti, e cosi mostrano che colla libertà da essi predicata
il governare comunque le volontà uma- ne è impossibile anche a lor
giudizio Le stesse ragioni colle quali lentan essi di scusare questa
contraddizione provano contro di loro Di nuovo delle ragioni, per le
quali la formazione a priori d' un ottimo governo , e lo stabilimento il
più ragionevole della sovranità non ha regole generali, e costituisce un
problema di difficilissima e quasi impossibile soluzione , massime quando la
soluzione al popolo s’abbandoni Pochissimo, e quasi titilla , rispetto a ciò,
può attinger- si, ne’ particolari casi , dalla sapienza generale ,
e quasi lutto esige in essi le deliberazioni ad hoc d’uomini i più saggi
Or Alcune volte quest’ uomini non sono presso il popolo del quale si tratta
Spesso non in sono in sufficiente numero, e tale da essere facilmente trovati
ed utilmente ascoltali Diffìcilissimo è distinguerli dai cerretani che
simulati sapienza ed esperienza, e tendono con male arti a mettersi
inmnzi e prevalere Non dirado, anche cotisultati, rendono
intralciatissima la deliberazione, non essendo tra loro accordo di pareri
Spesso ancora accresce la difficoltà il tnescolar che essi fanno all’
interesse della causa pubblica, quello delle private loro cause, delle
loro passioni e simili, E tuttociò vale,
quando, a società non costituita an- cora in alcun modo, trattasi di
costituirla. Peggio è che il più spesso le società umane sono già
costituite, e v’ è la question preliminare , se sia giusto, conveniente,
e possibile il disfarle per rifarle Lotte per solito che in tal caso nascono
tra conservatori , e riformatori, e discussione de diritti degli uni e
degli altri e delle contitigenti conseguenze di esse lolle Del perchè e del
come il problema del governo e della sovranità è presso a poco insolubile
a priori por l’umana sapienza Cardine della questione. Doppia
natura dell'uomo Bisogni ed istinti numerosi della vita terrena, che non
son fatti per ottenere la soddisfazione loro durante essa vita
Motivo e fine occulto, e non troppo occulto, di ciò Applicazione di questa
dottrina anche al particolare problema qui discorso E nondimeno non può dirsi
che un qualche rimedio alla frequente imperfezione degli ordinamenti
civili non sia dato in terra all’ umana specie. Ritorno , rispetto
a ciò , a una quislione già altrove trattata Di quello che’ al popolo non
ispella , e spelta, in fatto di governo e di sovranità, e del modo e della
misura in che gli spetta Principal fonte delle false opinioni che intorno a ciò
corrono tra’ moderni Si torna all’esame della presunta distribuzione tra
lutti del diritto competente a trattare e risolvere sì falle
questioni ivi Una conseguenza ultima ed inevitabile di si
falla dottrina è che la sovranità non obbligherebbe dunque che t ~
soli consenzienti , o piuttosto non obbligherebbe alcuno, e cesserebbe d’
esistere in altro modo, che come una cosa da giuoco ed assurda li
altrettanto sarebbe di tutte le leggi Teoremi più veri eh’ io credo doversi
sostituire alle opinioni dominanti delle turbe male istrutte. Proposizione Due
parole su i governi assoluti Protesta Conclusione ed Epilogo Esortazione ai predicatori
di rivoluzioni e di novità politiche Poche parole a’ Principi Indice ragionato Lin. CORRIGE Urliamo Gridiamo fili le ristampa
con emendazioni edizione di lilosolia di buona
tilosofia collaterali collaterali almeno prossimi in quella società
in quel consorzio nipoti nostri nipoti nostri ,
e, se non di tulli almeno di (pianti più ci è lecito civil
società civil congrega all'opposto per all' opposto
(almen quanto alla linea privilegiala), tra pe’ fratelli
poi-nati lTl pe cadetti quello dico quello dico pur
mentovalo contechè alla breve ir società
consociazioni son le difficoltà son difficoltà le
propensioni le agevolezze pii uomini gli uomini senza
rovinarsi Kit de' Babilonesi degli
Assiri c clic e che se CONSIGLIO GENERALE DELLA PUBBLICA
ISTRUZIONE Napoli.Vista la dimanda del Tipografo Marotta con che ha
chiesto ristampare il primo volume dell’opera intitolata Opuscoli politici d’O.
Visto il parere del Regio Revisore Capone. Si permetta che la suddetta opera si
ristampi, però non si pubblichi senza un secondo permesso che non si darà
se prima lo stesso Regio Revisore non avrà attestato di aver riconosciuto
nel confronto essere 1’impressione uniforme all’ originale approvato il
Presidente interino: Saverio j4 puzzo, ìl Segretario interino :
Piktrocola. Francesco Orioli. Orioli. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Orioli” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Ornato: la ragione conversazionale o
dell’implicature conversazionali nella conversazione d’Antonino con Antonino –
la scuola di Carmagna -- filosofia piemontese -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Carmagna). Filosofo italiano. Carmagna, Cuneo,
Piemonte. Visse vita ritirata, modesta e schiva d'onori e ricchezza intesa
soltanto allo studio. Coltiva le scienze fisiche e matematiche, la filologia,
la poesia, la musica e con singolare amore le discipline metafisiche. Sii
trasferisce a Torino dove frequenta alcuni esponenti dell'aristocrazia sabauda.
Tra le sue amicizie più importanti Santarosa, Sabbione ed i fratelli Balbo. Dei
concordi è insegnante di matematica nel collegio dei paggi imperiali, impiegato
nella segreteria dell'Accademia delle Scienze di Torino e successivamente
professore presso la Reale Accademia Militare. In seguito ai moti rivoluzionari
e nominato da Santarosa Ministro della Guerra della giunta rivoluzionaria. Si
rifugia in esilio a Parigi. Nella capitale francese stringe amicizia con Cousin
e la sua casa è frequentata da numerosi patrioti italiani. Ottiene di poter
rientrare in Italia e si ritira a Caramagna dove riceve le visite dei patrioti
Pellico, Provana, Gioberti e Balbo. Si trasferisce a Torino dove morirà e verrà
sepolto nel cimitero monumentale. Saggi: traduzione di Ode a Roma di Erinna, traduzione
dei “Ricordi di Antonino, Picchioni, Vita, studii e lettere inediti di Leone
Ottolenghi, E. Loescher. Biografiche e risultati di ricercheo, Becchio Calogero, Dizionario biografico degli
italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ulteriori approfondimenti possono
essere reperiti nei seguenti siti: Comune di Caramagna Piemonte, su
comune.caramagnapiemonte.cn. Associazione Culturale "L'Albero
Grande", su albero grande. Due difetti o cattivi abiti, nota qui e
contrappone Antonino. L’uno, del lasciarci guidare unicamente dalla
IMPRESSIONE che fan su di noi l’oggetto esterno, divagando da questo a
quello secondo che quello ci attrae più fortemente che questo. L’altro del
lasciarci guidare unicamente dal pensiero o idea che ci vengono in mente
a caso, seguendo quelli che eccitano più la nostra attenzione. Due stati
passivi, dove l’uomo non esercita punto la volontà nè l’intelletto, ma
segue ciecamente, nel primo, il caso esterno, o nel secondo, il
caso interno, cioè quella che è stata nomata di poi legge di
associazione di due idee: due stati quindi dove l’uomo non ha scopo. Il
primo de’ quali ha luogo nella vita puramente ANIMALE, e il secondo
nel sogno. Quello, proprio del giovane troppo dedito al senso. Questo,
del vecchio rimbambito. E quindi, dopo avere esortato sè stesso a fuggire
il difetto del giovane si esorta a fuggire quello del vecchio. Il
carattere che fa riconoscere il vecchio per rimbambito è il vaneggiare,
cioè il parlar senza costrutto, ripetendo il già detto. Ma avverte sè
stesso che l’uomo può essere rimbambito già anche quando non parla ancora
senza costi itto, non vaneggia ancora in parole, se egli fa delle azioni
senza costrutto, o vaneggia nelle azioni: il che ha luogo ogni volta
che esse azioni non sono collegate tra sè, non hanno unità, cioè non
sono riferite tutte ad uno stesso ed unico scopo. Questo lodare la
compassione senza aggiungere con Epitteto che ella debba essere puramente
esteriore e non di cuore, è certamente una contradizione al principio stoico. La
compassione essere come tutti gli altri affetti un moto irragionevole dell’anima,
e contrario alla natura, il saggio non essei'c accessibile alla
compassione; una contradizione a ciò che è detto in questo medesimo §,
dovere il saggio mantenere il suo genio interno netto da passione. Ma è
una di quelle contradizioni magnanime per le quali IL CUORE corregge
talvolta gli errori dell’INTELLETO. Sul punto particolarmente della
compassione, come su quello dell’affezione verso gl’amici e i congiunti e verso
tutti gli uomini e Antonino uno stoico poco fedele al principii della sua scuola, e segue
piuttosto gl’accademici e i liceii, i quali insegnavano il sentimento
della pietà essere il carattere distintivo delle belle e grandi
anime; e quel detto di Focione, conservatoci dallo Stobeo: non togliete
nè Voltare dal tempio y nè dalla natura umana la compassione. Fu in
questa deviazione, almeno in pratica, dal rigore dell’antica dottrina del
Portico Antonino e stato preceduto da altri romani illustri del PORTICO. Il che
non potea non avvenire, perchè secondo un antico senario greco, il
cuore soltanto del malvagio non è capace di essere ammollito. E però
il severissimo CATONE minore, già deliberato in quanto a sè di
morire, pianse, come narra Plutarco, per pietà di tutti quelli amici e
concittadini suoi che eransi pur dianzi affidati ad un maro procelloso per
non lasciarsi cogliere in UTICA da GIULIO (si veda) Cesare vincitore,
come avea pur pianto alcuni anni innanzi per un fratello
amatissimo, quando trovandosi esso CATONE minore al comando di una legione
in Macedonia, alla novella che il detto fratello era moreute in Enos
città della Tracia, salpa immantinente con piccolo e fragil legno da
Tessalonica, contro l’avviso di tutti i nocchieri, per un mare
tempestosissimo, E GIUNTO IN ENOS TROVA IL FRATELLO GIA SPENTO (Plut., vita di
Catone). E pianse certamente TACITO, benché del PORTICO anch’egli,
quando, dopo aver narrato come e vissuto e morto, non senza sospetto
di veleno, Giulio AGRICOLA suo suocero, aggiunge queste patetiche
parole. Beato te. Agricola, che vivesti sì chiaro e moristi sì
a tempo. Abbracciasti la morte con forte cuore e lieto. Quanto a te,
quasi scolpandone il principe. Ma a me e alla figliuola tua, oltre
all’acerbezza dell’aver perduto un tanto padre, scoppia il cuore che non
ci sia toccato ad assistere nella tua malattia, aiutarti mancante, saziarci di
abbracciare, baciare, affissarci nel tuo volto. Avremmo pure raccolti
precetti e detti da stamparli nei nostri animi. Questo è il dolore, il
coltello al nostro cuore. Senza dubbio. o ottimo padre, per la presenza
della moglie tua amatissima, ti soverchiarono tutte le cose al farti
onore. Ma tu se stato riposto con queste meno lagrime, e pure alcuna cosa
desiderasti vedere al chiudere degl’occhi tuoi. Fra le varie divisioni
dei beni appo IL PORTICO, l’una è questa, che dei beni altri sono
finali, altri efficienti, altri e finali insieme ed efficienti.
I beni finali sono parte della felicità e la costituiscono. Gli
efficienti solo la procurano. I finali ed efficienti insieme e la
procurano e sono parte di quella. Del primo genere sono la letizia, la
libertà dell’animo, la tranquillità, ecc. Del secondo, l’uom prudente ed
amico. Del terzo, tutte le virtù. L’uom prudente ed amico è un bene
efficiente, perchè muove con la sua dispozione razionale la tua
diapoaizion razionale , cioè è occasione a te di buone azioni. E
nello stesso modo è un bene di quel secondo genere ogni cosa, o sia
pensiero o altro, che è occasione a te per camminare verso la
perfezione. Di questo bene parla ora ANTONINO (si veda). Il quale,
per l’esser solo efficiente, e non finale, cioè pel non essere accompagnato
ancora da quel sentimento intimo di gioia perfetta che costituisce la
felicità, non attrae invincibilmente il tuo volere; ed è necessario
quindi, perchè operi veramente sull’uomo, che questi si sottragga da tutte le
altre cose che ne lo possono sviare -- conferisci quello che ne
insegna la teologia intorno alla grazia. E quando ANTONINO chiama
questo bene razionale -- che è attributo generale del bene appo IL
PORTICO -- il fa per opposizione al preteso bene dell’ORTO, che è
sensibile. Seneca, epistola ultima. Chi riguarda il piacere come sommo
bene – o OTTIMO --, giudica che il bene sia sensibile: noi il giudichiamo
intelligibile. E più sotto. Non è bene dove non è ragione. Tutte queste
cose e necessario notare per ìscliiarimento e conformazione del testo, dove la
maggior parte dei cementatori ed interpreti ha voluto cangiare la
parola efficiente in “civile” o vuoi “sociale” con manifesto danno
del senso e del pensiero di ANTONINO. Dispensazione,
in greco “eco-nomia”, vale generalmente governo della
casa, amministrazione. E perchè molte cose si fanno pel governo della
casa, le quali da per sè sole non si farebbero -- come per esempio
il risparmiare certe spese perchè le sostanze famigliar! sopperiscano al
mantenimento di quella -- quindi è stata applicata questa voce ad
ogni cosa che si faccia con fine provvidenziale, benché sia di nessun
pregio in sè od anche noiosa; come p. e. il gastigare i rei. È usata
sovente IN QUESTO SENSO [O IMPLICATURA] dagli filosofi latini di tarda
età, e del PORTICO ed altri. È tra noi disusata perchè è DISUSATO IL
CONCETTO ch’ella esprime. Ma per provare la sua antica cittadinanza in
Italia alleghera il passo seguente di Cavalca, l’ultimo dei citati
sotto essa voce nel V. della Crusca (Medicina del cuore). Per divina
dispensazione avviene che, per li pessimi vizi e gravi, grave e lunga tribolazione
ed infermitade arda e salvi l’anima. Da una nota d’O. credo che,
quando la scrive, inclina per l’interpretazione di questo luogo, a
dar ragione a Xilandro contro i posteriori. Se non muta poi di
parere, IL SENSO (O IMPLICATURA) DI QUESTA ESPRESSIONE con libertà di parole dovrebbe essere
liberalmente cioè con liberalità di parole, o generosamente poiché così
anche lo Xilandro intende lo £À6u0£.'iu)5 del testo. E con questo
raccomandare la generosità nelle preghiere, ANTONINO intende di biasimare
le preghiere che non mirano che all’interesse proprio di chi lo fa.
E però loda quella preghiera degl’ateniesi, i quali, al dire di Pausania,
soleno pregare non solo per TUTTA L’ATTICA, ma anche per tutta
la Grecia. Auto nel senso peripatetico del Lizio e scolastico, è l’affezione
costante deWente: e per quel carattere di costanza si distingue dalla
disposizione che è variabile. Appo IL PORTICO è la forza o virtù (andreia)
che mantien l’ente in quella affezione costante; o, siccome essi
favellano, è spirito -- intendi aria -- che mantiene il corpo e il
contiene. Perchè l’ente ò corpo appo loro. La mente dell’ universo, dice
Senone, penetra per tutte le cose particolari e le mantiene e governa: ma
non tutte nel medesimo modo: perchè nelle une si manifesta come
abito -- pietre, legni --; nelle altre come natura -- intendi
principio organico mero: piante, alberi --; nelle altre come anima -- principio
animrle mero: bruti --; nelle altre ancora come mente e+ ragione -- anima ragionevole
universale e sociale appo ANTONINO; uomini. Le cose governate dall’abito
sono adunque i corpi dove non è altro principio costituente che il
generale di corpo, dove per conseguenza non è altro carattere distintivo che
quella affezione -- modo d’essere -- costante por cui sono il tal corpo
anziché il tal altro. Sono la classe infima e generalissima di corpi, che
noi chiamiamo inorganica. Nelle cose governate dalla natura, oltre al
carattere generale di corpo v’ ha già il carattere
d’organizzazione. Nelle cose governato dall’anima, oltre al carattere di
cor poreità e di organizzazione, v’ha di più quello di animalità ecc. Le
classi si van cosi ristrignendo e innalzando sino all’ultima, che ha per
carattere la razionalità. In questo il testo è. in più d’un luogo
corrotto, e verìsimilmente havvi anche qualche lacuna. Non potrei
dire precisamente quali sieno le emendazioni seguite o fatte da lui,
perchè una sua lunghissima nota sulle difficoltà di questo
paragrafo, oltre che è piena di cancellature e in gran parte non
intelligibile, è anche manchevole, essendone stato lacerato via, non so
da chi (forse dall’O. medesimo per aver mutato parere), un mezzo foglio.
Nel voltare in italiano io mi sono discostato il meno possibile dalle
sue parole stesse e ho serbato inalterato il senso della sua interpretazione.
Questo paragrafo, essendo corrotto in più luoghi, dei quali l’emendazione e
inutilmente tentata finora, è diversamente inteso dagli interpreti. O. lascia
scritto al principio di una lunga nota: Di questo veramente corrotto
paragrafo non so che partito trarre. La sua interpretazione che io seguii
nel volgarizzamento vuol dunque essere accettata con quella medesima
riserva con che egli la propose. La parte che segue di questo paragrafo è
assai guasta, e fors’anche mutilata. O. non la tradusse in alcun modo,
riserbandosi di farlo quando avesse trovato una correzione che gli
piacesse. Intorno a che lascia molte note. Nel mio volgarizzamento ho
letto il testo come fu letto da Schiiltz, non perchè egli approvasse
in tutto quella lezione, mna perchè non seppe trovarne una migliore. Il
testo di questo paragrafo è corrotto, e chi corregge in un modo e chi in
un altro, e chi ancora difendo la vulgata. Io ho seguito quella fra le
molte e varie emendazioni, dalla quale parvemi almeno di poter trarre un
senso chiaro. Poi sensori tutto il paragrafo conf. anche V, 33, e Seneca. More
quid est? aut finis, aut transitus. Tutti gli interpreti che io conosco
finora, compreso anche Gataker, il quale nondimeno si scosta dal vero meno
che gli altri, pigliano qui il granchio (fan pietà Dacier o Joly che
seguono ciecamente Gasauhono, come fa pure Barberini: iMilano poi è
la stessa pecora sempre, Hoffmann erra men grossamente com Gataker),
confondendo insieme, siccome fossero una sola cosa, la toù 3Xou
(fùaiv e il ToO xóojjiou ’hys.u Qvixdv; quando anzi nella
distinzione di queste duo cose è fondato il senso di tutto il paragrafo. La
toO SXou qjvlcjis è la potenza creatrice o facitrice primitiva; lo
•óyepwvixòv toO xóopiou è la potenza governatrice, dipendente da
quella prima, generata, o formata da quella prima. Siccome la natura dell’
uomo forma l’iomo, cioè la mente dell’uomo non meno che il corpo; e
la mente dell’uomo poi gOTema il corpo. Il senso adunque di tutto
il paragrafo è questo. La natura dell’universo decreta, determina con
deliberazione ragionevole il mondo, dandogli, per così dire, un corpo ed
una mente. Ora, o questa mente, a cui è affidato il governo del
mondo, segue la ragione (perchè la mente nel senso dello
ìf£|jiovixbv può anche talora essere sragionevole). E allora tutte le cose
che ella fa, sono quali le ha determinate generalmente dà principio
la natura formatrice del tutto, sono involute in quella prima
determinazione, sono conseguenza necessaria di quella prima determinazione,
ecc.; ovvero essa mente non segue sempre la ragione, e
allora essendo essa soggetta a capriccio, dove accadere che non solamente
le cose di minor conto che ella fa, ma anche le cose principali
sieno sragionevoli. Ma noi non veggiamo mai che nelle cose principali
ella sia sragionevole. Dunque non può essere sragionevole nè anche
in quelle di minor conto; dunque tutte le cose vanno secondo ragione. Godo
di aver potuto deeiferare nel manuscritto d’Ornato e quindi trarre in luce
la precedente nota (la cui redazione sarebbe certo migliore se l’ autore
avesse potuto ripulire e pubblicare egli stesso il suo lavoro); perchè
l’interpretazione e illustrazione contenuta in essa è ingegnosissima,
naturalissima e confermata da tutto quello che conosciamo della fisica
degli stoici. La natura universale (n toù óXov (pdcjts), la potenza
facitricc o creatrice è il divino puro, il quale trae l’universo dalla sua
propria sostanza, è l’unità assoluta senza distinzioni e diversità di
parti, è la natura naturane; la potenza governatrice, la mente che
governa il mondo (TÓrìysixovixóv toù xó^jxou), generata da quella prima,
è all’incontro, nell’attuale diversità delle cose,' nella nauìra
naturata, nel mondo propriamente detto e composto di anima e di corpo, è,
dico, la provvidenza, l’anima di esso corpo. Al novero degli interpreti
che frantesero questo § è ora da aggiungersi Pierron. Ed è tanto
più da stupire che il sig. Pierron abbia egli pure sì mal compreso,
in quanto che, avendo egli già prima tradotto la Metafisica di
Aristotele, dovea essere suf- ficientemente versato nelle dottrine
filosofiche delle principali scuole della Grecia. Quasi tutti i
traduttori hanno franteso questo luogo, pigliando l’iwoia per
intelletto ragione e traducendo quindi: vide ne intellectus hoc feraf.... il
senso letterale, aggiungendo ciò che è sottinteso, è: vedi se la nozione
(che tu hai di te stesso come uomo) soffre cotesto, soifre cioè che
tu dica esser nato a goder dei piaceri. Pierron, seguendo l’ esempio
di tutti i suoi predecessori, pigliò anch’egli Vhvo'.a per intelletto
traducendo: vota a' il y a du bon aena à le prétendre. Colia bontà delle
singole azioni vuotai procacciare di ben comporre la vita. Il testo
e bravissimo. Talvolta troppo fedele alla lettera e studioso di
conservare tutta la brevità dell’ origi- nale, avea tradotto: ai vuol
comporre la vita mettendo inaieme le azioni ad una ad una; poi
comporre inaieme la vita accozzando le azioni ad una ad una; poi
allogando le azioni ad una ad’una. Non credo che so avesse potuto
ripu- lire e terminare egli stesso il suo la- voro, si sarebbe
contentato di alcuno di questi tre modi, che tutti peccano di
oscurità e di ambiguità. A costo dì essere men breve, io ho creduto di
dover essere piò chiaro non solo in questa frase, ma in tutto
questo paragrafo, svolgendo un poco il concetto dell’autore siccome io
l’intendo. Quasi tutti gli interpreti frantendono. Nel novero degli interpreti
che frantesero questo luogo comprendi ora anche Mr. Al. Pierron, che sdgue
docilmente- Gataker e Schultz. L’errore sta nel legare Io i^’oioy ctv
xoti up^rìae col ófUTw che precede; laddove si riferisce
all’azione alla quale l’animale ragionevole tendea e nella quale è
stato impedito. E ciò pare che abbia poi capito lo Schultz nella sua
seconda edizione del testo greco, avendo egli posto una virgola dopo il
óutù. Se tu vo/eafi ftema la debita ritterva, che da lei etesaa; cioè a
dire: se tu volesti assolutamente e non a condizione soltanto che la
cosa fosse possibile; questo atto della tua volontà fu veramente un
male, perchè, come è detto altrove, l’ animai ragionevole non dee
voler nulla che non sìa in poter suo, ed anche il bene relativo, non dee
volerlo se non se con- dizionalmente, cioè in quanto sia possibile;
rimpossibilità essendo per gli stoici sinonimo di non voluto dalla natura
e dal destino, al quale il savio non dee ripugnare. Che se poi la
cosa voluta da te fu una di quelle che non sono pur buone in senso
relativo, e quindi il volerla fu un appetito, pren- dendo il
vocabolo volere nel significato volgare, cioè un moto del senso,
piut- tosto che della volontà ragionevole; tu non ricevesti
nocumento nè impedimento veruno: perchè tu non sei «erwo, ma bensì
mento, ragione o volontà razionale, e come tale, in quanto operi secondo
la tua propria natura non puoi essere impedito da nissuna forza
esteriore. Così intendo questo luogo, così certamente è stato inteso dall’
Ornato (assai diversamente dagli altri interpreti che io conosco,
Gataker, Schultz e Pierron, e questo senso ho procurato, di esprimere
traducendo. O. lascia una breve nota a questo luogo, ma in essa non
fa che avvertire le difficoltà del tradurlo, stante la povertà
dell’italiano,comparativameute al greco, e scusare l’ oscurità e l’
ambiguità della traduzione tentata da lui. Di tutto questo paragrafo fa quattro
tentativi diversi di traduzione, tutti laboriosissimi, come appare
dalle molte cancellature e correzioni. In margine alla quarta od ultima
prova scrisse: Sta qui fermo, perche farai peggio se cangi. Non fu
quindi senza molto bilanciare che mi risolsi a fare io, come feci,
una quinta prova, essendomi sembrato che il miglior par- tito fosse
qui di tradurre letteralmente, e spiegare i sensi del testo nelle
note. Ad illustrazione del senso stoico di tutto il paragrafo
ricordiamoci priiniera- inente che secondo gli stoici: c Dio, considerato
dal lato fisico, è la forza motrice della materia, è la natura generale,
e r anima vivificante del mondo; conside- rato dal lato morale, è
la ragione eterna che governa e penetra l’universo, è la
provvidenza benefica, è il principio della legge naturale che comanda il
bone e proibisce il male. Ricordiamoci ancora che l’aria, come uno
dei due elementi attivi e parte essa stessa della sostanza divina,
ò dagli stoici considerata come il principio della vita sensitiva.
Dice adunque Antonino: non contentarti ora- mai di essere unito con
Dio a quel modo solamente che sono uniti con lui gli esseri solamente
sensitivi, cioè per mezzo della respirazione; ma fa’ ancora di
unirti con lui a quel modo che si appartiene agli esseri intellettivi,
cioè con cognizione e accettazione libera dello scopo che Iddio ha
proposto all’accettazione libera di quelli. E però, siccome tu traggi
dall’aria ambiento gli elementi della tua vita sensitiva, traggi
ancora dalla ragione ambiente gli elementi della tua vita intellettiva.
L’esistenza delle cose dissolvendotù (Tràvxa èv [xerai^oX-^. K«ì ocùrCg
cù év ^'.r,v£xet à^.Xoicoasi, \at xaxa ti (JiOo- p^). Qui mi pare che
fosse il caso di dovere assolutamente abbandonare la lettera e
contentarci di esprimere il senso del testo, piuttosto che cercar
di tradurne le parole, che non sono traducibili in italiano. L’Ornato avea
detto: tutte le, cose vanno soggette a mutazione. E tu stesso ti
alteri continuamente, e peì'^isci, per cosi dire. Ma egli non era
contento, come appare dall’usato segno. E in vero che significa quel
tutte le cose vanno soggette a mutazione f Significa, e non può
significare di più, che tutte le cose possono essere mutate e lo
saranno effettivamente quando che sia; ma ciò liou esprime quella
condizione delle cose, per cui non hanno stato, o modo di essere che
perduri pure un istante senza mutamento, che è la vera condizione
delle cose secondo la filosofia di ANTONINO e voluta esprimere da lui. Chi
dovesse tradurre questo luogo in tedesco, lo potrebbe fare, parmi,
benissimo dicendo: Alle (Unge aind in unaufhorlichem anclera-werden; come
si dice in werden non solo dai filosofi, ma anche nel linguaggio
famigliare, quando di una cosa che non è ancora, ma si sta incominciando
0 si va facendo, si suol dire: Die Saehc iat noch ini werden. Ma la
nostra lingua italiana non ha tutta la flessibilità del tedesco, uè sarebbe
chiaro, uè permesso il dire in italiano: tutte le coae sano in un
continuo mutarai. È una singolare coutradizione di Marco nostro e di altri
del PORTICO poateriori il venir cosi spesso parlando con tanto dispregio
della materia che aottoatà alle cose (tt,? ii7:oy.e'.[xi\rng uXin?, —
A"edi anche YI, 13, e altrove). Il mondo è tuttavia per essi un
animale perfetto e bellissimo, il cui corpo è la materia, e
l’anima, Dio. Le rughe sul volto del vegliardo, le screpolature delle
ulive e del fico vicini ad infradiciare, la bava del cignale ed
altre sì fatte cose hanno pure una certa grazia e venustà, perchè il
mondo è perfetto, e nulla è nelle suo parti che non conferisca alla
bellezza del tutto. Perchè dunque ora tanto dispregio non solo per tale o
tale altra parte, ma universalmente per tutta , la materia che
sottosta, quando questa materia, che non è poi altro per gli stoici
se non se il suhstratum indeterminato di tutto il contingente sensibile,
è essa pure sostanza divina secondo la scuola? Intendi: « o tu voglia dire che il
mondo sia stato formato di atomi. ed abbia quindi origine dal caso; o
che sia stato formato di nature (essenze, entelechie, monadi), ed
abbia quindi per origino l’ intelligenza, o la natura, che qui è
sinonimo di intelligenza; que- sta cosa pongo io certa anzi tutto,
come tratta dalla mia osservazione immediata, che io sono
attualmente parte di un tutto governato da una natura. Con altre
parole: o tu faccia venire il
mondo dalla pluralità, o tu lo faccia venire dall’unità, ella è
cosa di fatto che io ci ravviso attualmente una pluralità governata
da una unità. Il qual metodo di filosofare, per cui, lasciata stare la
disputa intorno all’origine delle cose, si viene ad esaminare la realtà
attuale di esse; lasciato stare il lontano e mediato, si viene ad
osservare l’ imme- diato e prossimo; lasciata stare la cognizione
dedotta, si viene a far capo alla cognizione di fatto acquistata
per osservazione; è solenne ad Antonino. Ricordi il lettore che
appo stoici mondo, tutto, natura, Dio sono V
sostanzialmente la stessa cosa, e però quelle che poco innanzi furono
chiamate parti del tutto, qui sono dette della natura. Dìo, natura,
mondo, tutto sono espressioni diverse che corrispondono a modi
diversi di considerare una stessa cosa, e questa diversità è relativa
alla mente finita dell’uomo che non può si- multaneamente
contemplare gli aspetti e momenti diversi delle cose, e non alla
realtà obbiettiva. Quindi ò che le espressioni soprascritte sono non di rado
usate runa per l’altra, poiché sostanzialmente significano la
medesima cosa. Il mondo KÓrfixog), dice Laerzio, er DAL PORTICO considerato:
1® come causa 0 pbtenza informatrice di tutte le cose che sono
{natura nuturans, i; t£- Xvtxfi, -ij ToO òlo\j q>0ai<é ), la
quale, come artefice e informatrice di sé medesima, trae da sé
stessa e informa tutte le coso con suprema saviezza e divina
necessità, cioè secondo le sue leggi che sono quelle della ragione;
2" come la totalità delle cose informate e ordinate dalla
potenza informatrice immanente in esse e governatrice di esse (dotta
allora xòv Toù xd^fjLou) e quindi come l’opera vivente, il vivente
organismo, o corpo organato da quella {natura naturata);
finalmente come l’unità dei due, cioè dell’ organismo vivente e
della forza or- ganatrice e governatrice, in quanto l’uno non si
distingue dall’altra se non se per la contemplazione della mente
finita deU'uomo. Vedi i Prologo nell’edizione di Torino. Fa che tu
vi sottoponga col pensiero di che io ragiono. Ho conservato tutte le parole
della interpretazione dell’O., perchè non avrei saputo quali altre più
chiare sostituir loro; atteso che io non son sicuro di intendere
qui nè che cosa abbia voluto dire r O., nò che cosa Antonino. Ornato volea
faro a questo luogo una nota; ma non la fece, e non trovo altro,,
che si riferisca a questo luogo, ne’suoi manoscritti, se non se un cenno
pel quale è indicato che egli lesse qui ò, ti risolutamente^ ove
tutti gli altri, che io conosca, lessero &ti; e che egli intese
r Ù7TÓ0OU diversamente da tutti gli altri interpreti. Gataker e
Schultz che lo segue da vicino, non sono più chiari. Le quali tu
apprendi»,, considerazione del tutto. Così O. svolge ed illustra la
filosofia di ANTONINO espresso brevissimamente e, parmì anche, poco
chiaramente nel tosto. Non ho mutato quasi nulla alla versione di questo
paragrafo lasciata d’O., sia perchè ho motivo di credere che ne fosse già
poco meno che contento egli stesso, trovando io questo paragrafo
nettamente ricopiatom sia perchè non avrei voluto correr pericolo -- li
alterarne benché minimamente il senso, trattandosi di un luogo che
egli intese assai diversamente da tutti gli altri interpreti. Vuol
dire che non bastano le impressioni buone che noi riceviamo per
mezzo della sensibilità, le quali possono e sogliono venir cancellate da
impressioni contrarie, ma ci vuole anche il lavoro deir intelletto che riduca
quelle ad unità e le fermi cosi nel nostro spirito, formandone come
un corpo di scienza. Non basta l’osservazione, l’applicazione dello
spirito alle cose di circostanza, ma ci vuole ancora la
contemplazione, l’ applicazione dello spirito alle cose permanenti,
al generale immutabile. Solo col ridurre ad unità il moltiplice, a
generalità il particolare, si possono radicare le cognizioni nell’ anima,
la quale si compiace dell’unità, e quindi della scienza: compiacenza
cui la semplicità del cuore dee far rimanere secreta naturalmente nel cuore, ma
non artatamente celata; ed allora è l’ani- ma veramente grave e
soda e come chi dicesse, veneranda. Sul fine del para- grafo fa la
enumerazione delle diverse categorie alle quali si dee riferire l’oggetto
osservato. Questa nota d’O. che per le troppe citazioni del testo greco
non può qui darsi che in parte, trovasi intera nell’edizione di Torino. Grecismo,
per suole accadere. Non era possibile il tradurre altrimenti. Del
resto vada a rilento chi per la sola ragione del non potersi
tradurre sempre colla stessa voce una stessa parola del testo,
accusa ANTONINO qui ed altrove di arguzia. IL PORTICO crede che, là dove
è una stessa parola, debbe essere anche una stessa idea. Ed anche
Platone (vedi il Cratilo) il credette; e il credette VICO (si veda): e tanti
j altri il credettero: e noi il crediamo. Se quella idea generalissima
che l’antichità avea attaccata al:p:?.eìv non si trova più annessa al nostro
amare, ciò j non prova altro se non che il greco d’ANTONINO e
l’italiano sono due lingue diverse. E sap evadicelo. Il passo di Platone
è nel Teeteto dove parlando dell’ uomo filosofo liberalmente educato, dice, udendo
egli lodare e magnificare un tiranno od un re, gli par di udire
lodato e magnificato un pastore, perchè egli munga di molto latte;
e l’animale cui pasce e munge il re, gli pare anche più ritroso e
più infido di quello cui pasce e munge il pastore; nè men rozzo nè
meno ineducato stima egli l’uno che l’altro, mancando ad amhidue il
tempo per badare a sè, e vivendo il primo fra le mura della reggia
a quello stesso modo che l’altro nella capanna sul monte. Del resto, il
senso generale di tutto questo paragrafo, non bene inteso, secondo me,
dagli interpreti, mi pare che sia: Tu dèi farti capace sempre pih
cho tu puoi vivere da filosofo in questa tua corte come faresti in.
quella tua villa .che agogni. Non incontri tu ad ogni passo esempi di
quel che dice Platone: uomini che vivono nei palagi come farebbe un rozzo
pastore in sul monte: ingolfati cioè quelli e questo nelle cure materiali
del governo dell’armentoV E sottintende: se per costoro il palagio
non è altrimenti che una capanna, non può ella con più ragiono essere la
reggia per te come un ritiro filosofico? Gran ragione ha qui ANTONINO di
raccomandare a sè medesimo anche ' questo genere di contemplazione,
cioè a dire lo studio dei fenomeni, e delle maraviglie, come egli
dice sapientemente, dell’organismo corporeo degli animali e deir uomo
massimamente: perchè non è altro studio il quale possa per via più
compendiosa e sicura condurre alla cognizione della infinita sapienza, e
provvidenza infinita della causa reggitrice del mondo. Nè l’uorao può
presumere di conoscere sè medesimo, sé non conosce almeno un poco di
queste maraviglie, cioè come si formi, cresca, si conservi, si rinnovi e
deperisca il suo corpo, quale sia la natura e il modo di operare
della causa o principio a cui dehbonsi riferire questi fenomeni,
quali le relazioni di questa vita organica del suo corpo con quella del
principio che in lui sente, vuole, e pensa, e come possano questo due
vite modificarsi fra loro scambievolmente. In vero chi aspira a conoscere
sè medesimo, per quanto sia dato all’uomo di pur conoscere sè
stesso, e non cura di conoscere un po’intimamente anche questa delle due parti
di che si compone l’esser suo, porta gran pericolo di errare nel vano, e
di prendere astrazioni por realtà, il che avvenne appunto ai
filosofi del PORTICO, ignorantissimi di anatomia o quindi più ancora di
fisiologia. Perchè uno appunto degl’errori fondamentali della loro
filosofia, quello por cui mutilavano la natura umana escludendo da essa
la sensibilità che riferivano al corpo come a cosa straniera all’
uomo propriamente, il quale per essi non e altro che ragione e
volontà; questo errore, dico, è in gran parte da attribuire alla
imperfezione delle loro cognizioni, ai loro errori circa la costituzione
fisica dell’uomo e le relazioni in che ella si trova colla sua
costituzione morale e intellettuale; o per dire più veramente, alla loro
totale ignoranza dello leggi che governano i fenomeni dell’organismo
corporeo dell’uomo, delle relazioni intimissime della vita di esso organismo
corporeo con quella della mente, e della natura egualmente spirituale di
ambidue. Questi versi sono d’Omero e sono dei più famosi nell’antichità,
dei più spesso citati e ripetuti, imitati dai poeti posteriori; o
però ANTONINO non li scrive per intero, ma solo quei brani che sono
stampati in corsivo, bastando quelli a richiamare alla memoria i
versi interi, alle diverse sentenze contenuto in essi alludendo
egli poi nella parte seguente del paragrafo. Con questi versi GLAUCO, (opo
aver detto magnanimo Tidide a che mi chiedi il mio lignaggio?, incomincia
la sua risposta a Diomede, il quale, prima di accettare il combattimento
con lui, aveagli chiesto qual fosse la sua stirpe. Io li ho
tradotti letteralmente, giovandomi in parte della traduzione di Monti,
la. quale, come nota a tutti i lettori, avrei volentieri dato qui
inalterata, se in essa fosse più fedelmente espresso, e nell’
ultimo verso non interamente guasto il senso delle parole d’Omero. Il
qual verso, voglio dire il 149\ è tradotto da Monti come segue: CosxVuom
nasce e così muor: il che fa fare un falso sillogismo a Glauco, il quale
secondo la traduzione del Monti, concludendo, affermerebbe dell’wo/
Ho ciò che dovea affermare delle schiatte umane, mutando, come
direbbero i loici, nella conclusione il piccolo termine, che nella
premessa minore- non era uomo ma schiatta o stirpe, come disse
Monti. E pure il verso d’Omero ò chiarissimo. Questo strafalcione
Monti non fa se, come quasi ignorante del greco, con tante altre
traduzioni avesse saputo consultare quella mirabilissima, non solo per eleganza
di stile ma ancora per fedeltà, precisione e chiarezza, del Voss,
il quale in cinque bellissimi esametri tedeschi traduce letteralmente i
cinque esametri greci. Anche Pope, sebbene i suoi lavori sui poemi d’Omero,
tutto die pregevolissimi per altri rispetti, non meritino il nome di
traduzione, non fa qui lo sproposito di Monti. Ed altri ancora
potrei nominare dei nostri che con nobilissimo intendimento si
diedero all’ardua impresa di recare nella nostra lingua italiana chi
l’una e chi l’altra di quelle poche reliquie che ci rimangono della greca
poesia -- dico poche rispetto a ciò che fu divorato dal tempo --; i quali
avrebbero meglio inteso e meglio tradotti moltissimi luoghi se
avessero potuto consultare, se non tutti gl’interpreti, cementatori ed
espositori, almeno i traduttori tedeschi. Ma basta che io nomini il più
valente, a parer mio, di tutti, Belletti, al quale, tranne forse
una più intima notizia del greco, nulla mancava, non valor d’arte,
non felicità d’ ingegno, a poter fare una traduzione perfetta, o prossima
alla perfezione, dei tragici greci. E in vero, leggendo io le traduzioni
di Bellotti e riscontrandolo diligentemente cogli originali, ebbi in
moltissimi luoghi ad ammirarne la eccellenza, anzi direi quasi in tutti
quei luoghi dov’egli capì abbastanza intimamente il suo testo e non erano
difficoltà insuperabili a qual sivoglia traduttore. Ma anche in molti
altri luoghi io ebbi a lamentare che egli pure non abbia saputo o
potuto giovarsi delle eccellenti traduzioni fatte da* suoi
predecessori alemanni. Nel solo Agamennone, che anche considerato
in sè stesso e non come parte di una grande e sublime trilogia, è
forse il più bel monumento della scena antica, e certamente il più
grande di tutti per sublimità tragica, recondita filosofia,
splendore di immagini e copia di alti e forti pensieri, quanti errori
avrebbe evitati il Belletti, quante meno scempiaggini avrebbe fatto dire
a quella grande anima e colossale ingegno d’Eschilo, so egli avesse solo
potuto profittare della traduzione e dei Prolegomeni di Humboldt? Non
dirò del libro di Welcker sulla Trilogia di Eschilo che forse non era
an- cora pubblicato quando Bellotti traducea l’Agamennone. Ed è tanto più
da lamentare che a Bellotti siano mancati questi sussidi, quanto è
meno da sperare che sia presto per sorgere un altro ingegno italiano, il
quale possa fare quello che avrebbe potuto Bellotti. Ritornando al
paragrafo di ANTONINO e al luogo citato d’Omero, è da notare come
siffatti pensieri intorno al poco o niun valore della vita considerata in
sè, e di tutte le cose umane e dell’ uomo stesso, così frequenti
nei poeti ebraici; frequentissimi in questo scritto di Antonino e
divenuti quasi abituali nei cristiani dei primi secoli, si trovino
pure non di rado anche nei poeti greci più antichi, voglio dire in quelli
delle prime e più splendide epoche della greca letteratura, sebbene
i greci fossero un popolo di allegra immaginazione. Forse non
dispiacerà al lettore il vederne qui raccolti alcuni esempi: nell’ Odissea
la terra non nutre nulla di più infermo che l’uomo.
Nell’ottava delle pitie di Pindaro Che siatn noi dunque o che non
siamo f Leggiero veder d’ombra che sogna. Letteralmente la seconda parte.
L’uomo è l’ombra di un sogno. Nel Prometeo d’Eschilo e non vedevi l’imbecille natura a vano
sogno eguale onde è impedito il cieco umano gregge? Nell’Aiace di Sofocle,
perocché veggo non essere noi,
quanti viviamo, altro che larve ed ombra vana. Nel Filottete del .
medesimo Sofocle, Filottete chiama sè medesimo: ombra di un fumo.
Nella Medea di Euripide -- non ora soltanto incomincio a stimare tutte le
cose umane come un' ombra, E vuoisi notare come appo i tragici ed
anche appo i) lepidissimo Aristofane la parola effimeri, cioè quelli che
durano un giorno, è spessissimo usata come sinonimo di uomini. A
queste, o ad altre simili sentenze d’ antichi ed illustri poeti, le quali erano
nella memoria di tutti gli eruditi del suo tempo, allude evidentemente ANTONINO
con quelle sue parole: il più breve detto, anche di quelli che sono
i più noti ecc., accennava poi per esempio quelli d’Omero. Questa
nota e scritta in tempo che io, quasi appona ripatriato, e mandato a
stare in un cantuccio al tutto vacuo di studi e di lettere
(prendendo i vocaboli in un senso un po’ alto), e ridottomi a
passare nella solitudine i pochi momenti d’ozio che r esercizio di
un pubblico ufficio mi lascia, avea potuto, non saprei diro perchè,
immaginarmi che il valentissimo Bellotti fosse già del numero di quei
felici che più non vivono altrimenti sulla terra che per la memoria di
opere egregie che vi lasciarono. Avvertito ora del mio errore, non cangio
nulla a quello che ho scritto di lui; ma aggiungo l’espressione di un
voto, che deve esser quello di tutti gli amatori delle buone
lettere desiderosi di vedere vie più chiara e più grande la rinomanza di
un nobilissimo ingegno: ed è che l’esimio sBellotti, come sta ora, da
quanto mi dissero, rivedendo o migliorando il suo volgarizzamento
di Sofocle, così possa egli poi rivedere ed emeudare quello ancora
di Eschilo, il quale, a parer mio, ne ha maggiore bisogno; perchè quello,
tranne forse alcune eccezioni, non pecca gravemente che nella parte
lirica; laddove in questo trovai, 0 parvemi certamente trovare,
molti luoghi da dover essere emendati non solo nella parte lirica troppo
spesso non traducibile in italiano (come è intraducibile Pindaro, secondo
che fu sentenziato anche da LEOPARDI non ismentito dal tentativo più
audace che felice di Borghi); ma eziandio nel dialogo. Ella comjyie
nondimeno..», si avea proposto. Mi sono scostato, anche nel senso,
interamente dall’ Ornato, il quale avea tradotto: ella rende intero e
com- piuto quanto ella avea fatto fino allora; primieramente perchè
il senso voluto esprimere d’O. non mi sembrava abbastanza chiaro; e
poi, e principal- mente perchè mi parve troppo grande licenza il
tradurre per quanto avea fatto fino allora, il tò irpoTcOiv, il quale
mi sembra qui usato nel senso il più ovvio del verbo “7rp.oT{6T)|ju”,
che è quello di proporre, e così l’ intende anche lo Schultz
contrariamente al’Gataker seguito d’O. Veggo bene le ra- gioni che
possono avere gl’indotto a interpretare a quel modo. Ma non mi
persuadono. Il pensiero di An- tonino mi sembra chiaramente, l’anima
razionale, la quale non si propone altro che di operare sempre
secondo ciò che richiede il momento presente, e di aver caro tutto
ciò che le interviene, come cosa voluta dalla natura, in qualunque
istante le sopravvenga la morte, compie sempre interamente il
compito che ella si avea proposto, e in modo soddisfacente a sè stessa;
ella ha tutto ciò che potea desiderare, ha totalmente esaurita la
sua parte come attrice sulla scena del mondo; e appunto il morire quando
la natura lo vuole, è la conclusione, il compimento della parte a
lei assegnata e da lei liberamente accettata nel gran dramma della vita
universale. Bone avverte qui Gataker aver già Socrate usato il medesimo
argomento per indurre Alcibiade a disprezzare la moltitudine, alla quale
peritavasi di farsi innanzi a concionare: qual è, diss’egli, di costoro
quegli che ti impaurisce? forse Micillo il ciabattieref Trigaió il
conciatore f Trochilo il ferravecchio? ora non sono costoro quelli dei
quali si compone l’adunanza del popolo? Che se non temi di
favellare a ciascuno di essi separatamente, che è dò.che ti fa
timido a parlar loro riuniti insieme? Il ragionamento di Socrate era
giustissimo applicato ad una moltitudine di popolo riunito, e avrebbe
anche potuto ricordare ad Alcibiade l’antico detto di Solone ai:li Ateniesi
conservatoci da Plutarco: preni ad uno ad uno »iete tante volpi; riuniti
insieme siete tanti allocchi. Ma il medesimo ragionamento applicato
allo cose di cui parla Marco nostro non ò molto concludente. E una
melodia, per es., come qui avverte opportunamente Pierron, è qualche cosa
di più che una semplice successione di suoni, e Antonino dimentica
di considerare ciò appunto per cui le note musicali hanno potenza
da commovere l’anima sì intimamente. Avverta il lettore che idea tragica
fondamentale ai poeti greci era la lotta infelice della volontà e
liberta morale dell’ uomo contro l’ inflessibile necessità; o per
dir più veramente, quella fatale retribuzione di giustizia che
risulta inevitabilmente alla vita umana dalle leggi necessarie
dell’ordine morale. Perchè quella necessità che non era punto upa cosa cieca
secondo gli stoici, apjio i quali il /«<o non era altro che la
concatenazione delle cause secondo le leggi della na- tura, cioè
della ragione e quindi della giustizia; quella necessità, dico, non
era punto una cosa cieca neppure nella mente dei poeti: sendo che a
Nemesi figlia appunto di essa necessità e particolarmente incaricata di
vendicare i delitti e rovesciare le troppo grandi e- immeritate
prospérità, a Nemesidico, e alla Giustizia (5“tx-ri), che erano i
due concetti più puri fra tutte le divinità immaginate dall’ antico
politeismo, il semplice, ma sublime buon senso dei Greci riferiva
tutto ciò che risguarda il supremo governo del mondo. L’idea dunque
della giustizia era congiunta con quella della necessità sebbene in
modo diverso, anche nella mento dei poeti, come in quella degli stoici.
Cho se Antonino non fa qui esplicitamente alcuna allusione a quella
retribuzione di giustizia, che era l’elemento morale della tragedia
greca, ma solo allude alla inutilità della lotta contro alla necessità, e
sembra così impicciolire l’idea nobilissima dell’antica tragedia; egli è
perchè questa inutilità intendeano gli stoici e i poeti allo stesso modo,
e quasi esprimevano colle medesime parole; laddove intendeano in modo
diverso quella retribuzione: e non erano forse i poeti quelli clie la
intendeano in modo men vicino al vero. Benissimo Gataker ricorda
qui alcuni detti memorabili di Pocione, conservatici da Plutarco, ai
quali alludea probabilmente Antonino in questo luogo. Già condannato
a morte per giudizio iniquo de’ suoi cittadini, in proposito. di
uno che non ristava dal dirgli villanie, disse Focione: non sarà alcuno
che faccia costui cessare dal disonorar «è medesimo? E già vicino a
morire, questa sola ingiunzione fece al figliuolo: dimenticasse il
fatto ingiusto degli Ateniesi. Quanto alle parole che seguono di Marco
nostro: mpposto che non e in fingenac, non debbono esser prese come,
espressione di nn sospetto nel caso particolare di Focione, ma bensì in
un senso generale, quasi dicesse Antonino con istoica riserva, non
bastar sempre le parole a dar certo fondamento a un giudizio sulle
disposizioni interne dell’animo altrui, nè doversi mai fingere, neppur
quando il fingere potesse giovare a bene edificare gli uomini. Da stólto
(à|*vu/jiov). Traduce inìquo, seguendo Schultz che tradusse iniquum. Ma
non e ben risoluto di aver bene interpretato quello “ayvofxov,” come
appare dal consueto segno. E veramente non parmi che lo ayvcofjLov
possa esser preso in questo senso, sebbene abbia quello ingrato,
disleale, disamorato. Il senso più ovvio di questo aggettivo è
privo di senno, stolto, inavveduto, e parmi che 41 1 reo Aurelio
questo senso quadri benissimo in questo , luogo, meglio che non faccia
quello di inìquo. Dopo aver detto ANTONINO essere da pazzoy cioè a dire
da stolto, il volere che ì malvagi non pecchino; aggiunge che lo
ammettere in tesi generale ed assoluta, poiché non si può fare
altrimenti, che essi debbano di neces- sità peccare, e il volere ad un
tempo che essi facciano una eccezione a favor tuo, è cosa non solo
às. stolto ma anche da tiranno: da stolto perchè l’eccezione, anche di un solo
caso non è possibile ai malvagi;.da tiranno perchè vuoi esser
distinto e che ti si abbia maggior rispetto che agli altri
uomini. Anche Gataker intende 1’ àyvwi^ov così; iPierron segue lo
Schultz. Parole di Epitteto malissimo interpretate da Pierron, che riferisce
l’àiro OavTi al padre, quando deve essere riferito al
figliuolo, corno fece O., seguendo Gataker e Schultz. La medesima
sentenza si trova anche nel Manuale del medesimo Epitteto con parole poco
diverse, e fu benissimo tradotta dal Leopardi. Se tu hacer<fi per avventura
un tuo Jigliolino o la moglie, dirai teco stesso: io bacio un mortale.
Manuale, Tutto è opinione. Il lettore com- prenderà facilmente come il
senso stoico di questa frase, tante volte ripetuta da Marco nostro,
è al tutto alieno da quello della famosa sentenza del sofista
Protagora: V uomo è misura di tutte le cose. La sentenza del sofista si
riferiva ad ogni cosa, alla verità obbiettiva, alla moralità come
alla sensibilità, e tendea quindi a distruggere la possibilità' di
ogni cognizione teorica, la morale come la religione. La sentenza di
Antonino al contrario, il quale, per un errore direi quasi
magnanimo, riduceva, seguendo gli stoici anteriori, tutta l’essenza dell’
uo- mo alla ragione e alla volontà ragionevele, non si riforisce ad altro
che alla sensibilità, cioè ai piaceri e ai dolori di cui essa
sensibilità è soggetto. Intendi raziocinio nel senso proprio dei loici, cioè
facoltà del sillogizzare, operazione propria dell’intelletto; e nota qui
il carattere esclusivo del Portico, il quale considerava e stimava
un nulla, non che la sensibilità ma l’in- telletto stesso, a paragone dei
buon uso della volontà, cioè della moralità della ragione.
Traducendo ho usato il vo- cabolo raziocinio piuttosto che
intelletto, perchè in italiano il senso della parola intelletto può
essere troppo facilmente confuso con quello di ragione, la differenza fra
i due non essendo così ben determinata nella nostra lingua, come è fra i
due corrispondenti tedeschi Verstandnis e Vernunft. Ornato. Keywords:
implicatura, Antonino, ad seipsum, ricordi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed
Ornato” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Oro: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale -- Grice e Trissino – la difficoltà dei segni di Trissino non
favorì la diffusione della sua filosofia – la scuola di Vicenza -- filosofia
veneta -- filosofia italiana (Vicenza). TRISSINO-DAL-VELLO-D’ORO -- or ORO
(Vicenza). Filosofo italiano. Vicenza,
Veneto. Ritratto di Vincenzo Catena. Persona di spicco della cultura
rinascimentale, notissimo al tempo, il Trissino incarnò perfettamente il
modello dell'intellettuale universale di tradizione umanistica. Si interessò,
infatti, di linguistica e di grammatica, di architettura e di filosofia, di
musica e di teatro, di filologia e di traduzioni, di poesia e di metrica, di
numismatica, di poliorcetica, e di molte altre discipline. Nota era, anche
presso i contemporanei, la sua erudizione sterminata, specie per quel che
riguarda la cultura e la lingua greche, sull'esempio delle quali voleva
rimodellare la poesia italiana. Fu anche un grande diplomatico e oratore
politico in contatto con tutti i grandi intellettuali della sua epoca quali
Niccolò Machiavelli, Luigi Alamanni, Giovanni di Bernardo Rucellai, Ludovico
Ariosto, Pietro Bembo, Giambattista Giraldi Cinzio, Demetrio Calcondila, Niccolò
Leoniceno, Pietro Aretino, il condottiero Cesare Trivulzio, Leone X, Clemente
VII, Paolo III, e l'imperatore Carlo V d'Asburgo. Fu ambasciatore per conto del
papato, della Repubblica di Venezia e degli Asburgo, di cui fu un fedelissimo,
come tutta la sua famiglia da generazioni. Scoprì e protesse l'architetto
Andrea Palladio, appena adolescente, nella sua villa di Cricoli, vicino
Vicenza, che venne da lui portato nei suoi viaggi e fu da lui iniziato al culto
della bellezza greca e delle opere di Marco Vitruvio Pollione. O. nacque da
antica e nobile famiglia. Suo nonno Giangiorgio combatté nella prima metà
Professoreil condottiero Niccolò Piccinino, che al servizio dei Visconti di
Milano invase alcuni territori vicentini, e riconquistò la valle di Trissino,
feudo avito. Suo padre Gaspare era anch'esso uomo d'armi e colonnello al
servizio della Repubblica di Venezia e sposò Cecilia Bevilacqua, di nobile
famiglia veronese. Ebbe un fratello, Girolamo, scomparso prematuramente, e tre
sorelle: Antonia, Maddalena, andata in sposa al padovano Antonio degli Obizzi,
ed Elisabetta, poi suor Febronia in San Pietro nel 1495 e dal 1518 rifondatrice
insieme a Domicilla Thiene di San Silvestro. Targa marmorea che
Trissino fece realizzare a ricordo del suo maestro Demetrio Calcondila in
S.Maria della Passione a Milano Trissino studiò greco a Milano sotto la guida
del dotto bizantino Demetrio Calcondila, sodale di Marsilio Ficino, e poi
filosofia a Ferrara sotto Niccolò Leoniceno. Da questi maestri imparò l'amore
per i classici e la lingua greca, che tanta parte ebbero nel suo stile di vita.
Alla morte di Calcondila, fece murare una targa nella chiesa di S.Maria della
Passione a Milano, dove fu sepolto il suo maestro. Sposa Giovanna, figlia del
giudice Francesco Trissino, lontana cugina, da cui ebbe cinque figli: Cecilia, Gaspare,
Francesco, Vincenzo e Giulio. Trissino sostene l'Impero come istituzione,
come d'altronde era tradizione nella sua famiglia da generazioni, ma ciò venne
interpretato in spirito antiveneziano e, per questo, egli fu temporaneamente
esiliato dalla Serenissima. Nel 1515, durante uno dei suoi viaggi in Germania,
l'Imperatore Massimiliano I d'Asburgo lo autorizzò all'aggiunta del predicato
"dal Vello d'Oro" al proprio cognome e alla relativa modifica dello
stemma gentilizio (aurei velleris insigna quae gestare possis et valeas), che
nella parte destra riporta su fondo azzurro un albero al naturale con fusto
biforcato sul quale è posto un vello in oro, il tronco accollato da un serpente
d'argento e con un nastro d'argento tra le foglie, caricato del motto "PAN
TO ZHTOYMENON AΛΩTON" in lettere maiuscole greche nere, preso dai versi
110 e 111 dell'Edipo re di Sofocle che significa "Chi cerca trova",
privilegi trasmissibili ai propri discendenti. Stemma di
Giangiorgio Trissino dal Vello d'Oro come appare nel volume dedicatogli da
Castelli. In quegli stessi anni intraprese diversi viaggi tra Venezia, Bologna,
Mantova, Milano (dove conobbe Trivulzio, comandante francese) e Padova (dove
riscoprì il De vulgari eloquentia di Dante Alighieri). Poi si recò a Firenze ed
entrò nel circolo degli Orti Oricellari (i giardini di Palazzo Rucellai) in cui
si riunivano, in un clima di marca neoplatonica e di classicismo erudito,
Machiavelli e i poeti Luigi Alamanni, Giovanni di Bernardo Rucellai ed altri.
Qui il Trissino discusse il De vulgari eloquentia e compose la tragedia
Sofonisba. Questi anni agli Orti Oricellari furono centrali, sia per quanto il
poeta ricevette intellettualmente, sia per la forte impronta che lasciò sui
suoi sodali: si vedano le tragedie di Giovanni di Bernardo Rucellai e il
poemetto le Api (in endecasillabi sciolti, concluso dalle lodi del Trissino,
cfr. il paragrafo sul Profilo religioso del Trissino) o le poesie pindariche di
Luigi Alamanni, o ancora i punti di contatto fra le tante digressioni erudite
sull'arte militare contenute nell'Italia liberata dai Goti che rimandano
all'Arte della guerra del Machiavelli, elaborata proprio in quegli anni. Anzi,
le idee linguistiche del poeta spronarono lo stesso Machiavelli a scrivere
anche lui un Dialogo sulla lingua, nel quale difende l'uso del fiorentino
moderno (cfr. il paragrafo Opere linguistiche). In seguito si recò a
Roma, dove stampò la Sofonisba -- dedicandola papa Leone X -- la prima tragedia
regolare, e la famosa Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua
italiana (dedicata a Clemente VII), un arditissimo libello in cui si suggeriva
l'inserimento nell'alfabeto latino di alcune lettere greche per segnalare
alcune differenze di lettura. Intanto il figlio Giulio, di salute cagionevole,
venne avviato dal padre alla carriera ecclesiastica e, dopo il suo soggiorno a
Roma sempre presso papa a Clemente VII, divenne arciprete della cattedrale di
Vicenza. Sempre a Roma, O. diede alle stampe alcuni testi fondamentali:
la versione riveduta della Epistola, la traduzione del De vulgari eloquentia,
Il castellano (dialogo sulla lingua, dedicato a Cesare Trivulzio ed ispirato a
quello dantesco), le Rime (dedicate al cardinale Niccolò Ridolfi) e le prime
quattro parti della Poetica (il primo trattato ispirato alla Poetica di
Aristotele, da poco riscoperta), con le quali il programma di riforma
letteraria classicheggiante avviato con la Sofonisba può dirsi quasi concluso.
Per i prossimi 20 anni il poeta non stamperà più nulla. Queste opere
sollevarono un grande clamore per la loro arditezza e disorientarono (o meglio:
orientarono diversamente) la nascente letteratura italiana: nessuno aveva osato
finora riformare addirittura l'alfabeto, né aveva avuto ardire di cancellare
l'intero sistema dei generi in uso fin dal Medioevo (le sacre rappresentazioni
e il poema cavalleresco, in primis) per farne sorgere dal nulla dei nuovi, cioè
poi quelli antichi (la tragedia, la commedia e il poema epico). Da questi
libelli prese avvio la secolare questione della lingua italiana. A
Bologna, nel corso dell'incoronazione di Carlo V a Re d'Italia e Sacro Romano
Imperatore, egli ebbe il privilegio di reggere il manto pontificale a Clemente
VII e Carlo lo nominò conte palatino e cavaliere dell'Ordine Equestre della
Milizia Aurata. Secondo quanto riportato dallo storico Castellini,
Trissino rifiutò posizioni di potere offertegli dai pontefici a seguito dei
successi riportati come diplomatico (Nunzio e Legato), ad esempio
l'arcivescovado di Napoli, il vescovado di Ferrara o la porpora cardinalizia,
in quanto desideroso di una propria discendenza ed essendo il figlio Giulio
avviato nella gerarchia ecclesiastica. Rientrato a Vicenza sposa Bianca, figlia
del giudice Nicolò Trissino e di Caterina Verlati, già vedova di Alvise di
Bartolomeo O. Da Bianca ebbe due figli: Ciro e Cecilia. Alla nomina di Ciro
come erede universale, si scatenarono le ire di Giulio che per lungo tempo
lottò in tribunale contro il padre e il fratellastro per poi morire in odore di
eresia calvinista. Anche a seguito delle divergenze causate dai cattivi
rapporti con Giulio, la coppia si divise quando Bianca si trasferì a Venezia,
dove morì. Trissino manifestò il proprio fervente sostegno all'Impero
dedicando, qualche anno prima della morte, a Carlo V il suo poema in 27 canti
L'Italia liberata dai Goti, il primo poema regolare destinato, come si vede fin
dal titolo, ad essere importante per la Gerusalemme liberata di Torquato Tasso.
Stampa anche la commedia I Simillimi, anch'essa la prima commedia
regolare. Villa O. di Cricoli (VI) Intanto nella villa di Cricoli alle
porte di Vicenza, già dei Valmarana e dei Badoer e acquistata dal padre
Gaspare, si radunava una delle più prestigiose Accademie vicentine. Qui
Trissino scoprì uno dei più grandi talenti della storia dell'architettura,
Andrea Palladio, di cui fu mentore e mecenate, che portò nei suoi viaggi con sé
ed educò alla cultura greca e alle regole architettoniche di Marco Vitruvio
Pollione. Morì a Roma l'8 dicembre 1550 e fu sepolto nella Chiesa di
Sant'Agata alla Suburra. Vennero alla luce le ultime due parti della sua
Poetica, la quinta e la sesta (dedicate ad Antonio Perenoto, vescovo di Arras),
che erano comunque già pronte, come si evince dalla chiusura della quarta
parte. Progetta e attua una imponente riforma della lingua e della poesia
italiane sui modelli classici, cioè la Poetica di Aristotele da poco riscoperta,
i poemi di Omero, e le teorie linguistiche esposte di Alighieri nel “Della volgare
eloquenza” riscoperto da lui stesso a Padova. Un programma in piena antitesi
sia con la moda del petrarchismo di P. Bembo, sia con quella del romanzo
cavalleresco incarnato supremamente dall' “Orlando furioso” di L. Ariosto, che
allora infuriavano. Il programma di riforma venne esposto attraverso saggi
diversi, cioè un saggio di orto-grafia e di orto-fonetica (Epistola dele
lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, dedicata a Clemente VII), un
saggio di teoria della lingua italiana (Il castellano, dedicato a C. Trivulzio),
due saggi di grammatica (“Dubbii grammaticali” e la “Grammatichetta”) e un
manuale di teoria dei generi letterari (“Poetica”). Tali proposte (specie
quella di modificare l'alfabeto inserendovi alcune lettere greche così da
rendere visibili le differenti pronunce di alcune vocali e di alcune
consonanti) e la riscoperta del “Della volgare eloquenza” di Aligheri) sono
clamorosi e fa esplodere in Italia la secolare questione della lingua,
idealmente chiusa da “I promessi sposi” di Manzoni. Questa intensa
speculazione teorica ha il suo sbocco fattuale in quattro saggi poetici, tutte
molto importanti: la Sofonisba (dedicata a Leone X), la prima tragedia regolare
della letteratura moderna (regolare si definisce un'opera costruita secondo le
norme derivate dai testi classici, essenzialmente la Poetica di Aristotele e
l'Ars poetica di Orazio), L'Italia liberata dai Goti (dedicata a Carlo V), il
primo poema epico regolare, e I simillimi (dedicata al G. Farnese), la prima
commedia regolare. Si aggiunga un volume di poesie d'amore e di encomio (Rime, dedicato
a N. Ridolfi) di gusto anti-petrarchista e ispirato ai poeti siciliani, agli
Stilnovisti, ad Aligheri e alla tradizione del Quattrocento, tutte cassate dal
Bembo. Anche queste opere sollevarono un grande dibattito, ma saranno destinate
ad avere un ruolo centrale nello sviluppo degl’umanita italiana ed europea, se
si considera l'importanza che la tragedia e l'epica, ad esempio, hanno in tutta
Europa. A lui si deve anche l'invenzione dell'endecasillabo sciolto (cioè senza
rima) ad imitazione dell'esametro classico, anche questa un'invenzione
destinata a fama europea. La sua produzione comprende diversi generi:
innanzitutto un Architettura, incompleto, ricerche sulla numismatica,
traduzioni, ed orazioni varie. Se ci si concentra solo sugli studi di teoria del
linguaggio, si ha a che fare con pochi testi, ma tutti rilevantissimi,
attraverso i quali struttura un coerente programma di riforma del linguaggio
sui modelli classici e sul linguaggio d’Alighieri ispirato alla Poetica di
Aristotele, ad Omero e al “Della volgare eloquenza”, un sistema da opporre sia
alle Prose della volgar lingua del Bembo di qualche anno prima, che aveva dato
come modelli solo Petrarca e Boccaccio (riducendo, quindi, i generi letterari
solo alla lirica e alla novella), sia all'”Orlando furioso” di L. Ariosto, che
è un romanzo cavalleresco e non un poema epico. Attraverso il proprio programma
iverrà a creare una tradizione di gusto classico del tutto nuova che nei secoli
a venire si affiancherà al bembismo sebbene agli inizi gli fu avversario. Il
suo sistema iinfatti, vuole sopperire ai vuoti lasciati dal petrarchismo
bembesco e proseguire lo sperimentalismo della tradizione antica e
quattrocentesca (la cosiddetta docta varietas). Né egli e l'unico convinto di
queste idee, come si dice ancora oltre, ma era affiancato da Speroni, Tasso
(padre di Torquato), Brocardo, Tolomei, Colocci, Equicola e altri ancora.
Volendo sintetizzare, le sue opere si raccolgono intorno a tre date: Dà
alle stampe a Roma la tragedia “Sofonisba” (composta prima agli Orti
Oricellari) e l'Epistola sulle lettere da aggiungere all'alfabeto. Tutte le sue
opere stampate in vita sono scritte secondo l'alfabeto da lui congegnato e non
con l'alfabeto usuale. Vengono date alle stampe sei opera: “Della volgare
eloquenza”, le prime IV parti della Poetica, il dialogo “Il castellano, le
Rime, i Dubbi grammaticali e la Grammatichetta. Dà alla luce il poema L'Italia liberata dai
Goti, e la commedia I simillini. Passeremo in rassegna le principali opere
poetiche, tranne gli Scritti linguistici, che hanno un paragrafo
apposito. La Sofonisba è in assoluto la prima tragedia regolare della
letteratura europea, destinata a vasta fortuna specie in Francia. Secondo il
modello antico, Trissino compone una tragedia in endecasillabi sciolti, che
imitano i trimetri giambici (il verso a questa data fa la sua prima
apparizione), divisa in quadri da cori rimati: alcuni cori sono canzoni
petrarchesche mentre altri, invece, canzoni pindariche (che fanno anch'esse qui
la loro prima apparizione e si ritroveranno nella poesia di Luigi Alamanni e
poi ancora di Gabriello Chiabrera). L'argomento (con sensibile differenza dai
classici antichi) è storico (preso da Tito Livio), non fantastico, mitico o
biblico. L'azione, come poi sarà canonico nel teatro regolare, si svolge nello
stesso posto (unità di luogo) e nello stesso giorno (unità di tempo) e prevede
in scena un numero limitato di persone. Venne recitata durante il carnevale di
Vicenza, messa in scena dall'amico e allievo Andrea Palladio. La proposta piacque,
tutto sommato, e riscosse successo: l'endecasillabo sciolto, metro nuovo, fu
approvato anche dal Bembo (come ricorda Giraldi Cinzio) e divenne da allora in
poi il metro quasi canonico del teatro italiano, specie tragico (vedi
sotto). Anche nelle Rime si mostra uno sperimentatore e il Petrarca,
modello obbligatorio a prescindere dal Bembo, si fonde con immagini derivanti
da altre epoche e da altri autori, in special modo la poesia occitana, quella
siciliana, gli stilnovisti e Dante, i poeti quattrocenteschi. Nel sistema del
Trissino è possibile usare ancora metri come, ad esempio, i sirventesi e le
ballate (cassati dal Bembo) o anche introdurre particolari nuovi come gli occhi
neri di guaiaco della donna amata, immagine inventata dal poeta su un referente
quotidiano della cultura cinquecentesca e non in linea con le immagini tipiche
del Petrarca (occhi di stelle e simili). Il Castellano è un dialogo sulla
lingua dedicato a Cesare Trivulzio, comandante francese a Milano. Si ambienta a
Castel Sant'Angelo e ha per protagonisti Giovanni di Bernardo Rucellai (il
castellano, appunto) e Strozzi, amici degli Orti Oricellari. Il Trissino espone
per bocca del Rucellai il suo ideale linguistico, preso dal De vulgari
eloquentia, cioè quello di un volgare illustre o cortigiano, mobile ed aperto,
fondato in parte sull'uso moderno e concreto della lingua, e in parte sugli
autori della tradizione letteraria. Questi autori sono soprattutto Dante e
Omero poiché dotati di enargia, cioè della capacità di rendere visibili a parole
ciò di cui stanno narrando. Le idee linguistiche del Trissino sollevarono
grande clamore (fondate com'erano su un testo la cui paternità dantesca non era
ancora assicurata) e fecero scoppiare il secolare 'dibattito sulla lingua
italiana' concluso, come detto, almeno idealmente, dal Manzoni tre secoli dopo.
Fra i molti che parteciparono al dibattito si ricordi il fiorentino Machiavelli
al quale il Trissino aveva letto il De vulgari eloquentia sempre agli Orti
Oricellari, il Bembo, ovviamente, Sperone Speroni, Baldassarre
Castiglione. Poetica Le teorie che soggiacciono a questo vasto programma
vengono esposte nella Poetica, libro fondamentale non solo per il Trissino,
essendo in assoluto il primo libro di poetica in Europa ad essere modellato
sulla Poetica di Aristotele, destinato a fama secolare in tutto il continente.
Né banale né senza rischi era, come potrebbe apparire, l'idea di resuscitare
dei generi letterari di fatto morti da millenni e lontani per gusto e
ispirazione dalla società rinascimentale. Sul piano linguistico immagina
una lingua di ispirazione dantesca e omerica, cortigiana e illustre, che
contempli l'innovazione e la tradizione, che sia aperta a una collaborazione
ideale fra varie regioni italiane e non sul predominio esclusivo del toscano
trecentesco, che ottemperi anche l'inserimento di neologismi e di
dialettismi. Nella poesia lirica si appoggia, sempre dietro Dante, alla
tradizione occitana, siciliana, stilnovista e dantesca e anche petrarchesca.
Nella metrica saccheggia ampiamente il trecentesco Antonio da Tempo che ancora
contempla ballate e sirventesi, generi cassati dal Bembo, come detto, e si
mostra vicino allo sperimentalismo della poesia quattrocentesca. Discorre,
inoltre, della possibilità di utilizzare in italiano metri di stile greco e
latino, come fatto da lui nei cori della Sofonisba, proposta che avrà grande
successo nei secoli a venire, specie nella poesia per musica e nel
melodramma. Discorre poi della tragedia, della commedia, dell'ecloga
teocritea e del poema omerico, i generi resuscitati dal mondo classico. A ogni
genere vengono date ovviamente le proprie regole tratte da Aristotele, cioè le
unità di tempo e di luogo, per la tragedia e la commedia, e le unità narrative,
per il poema epico. Vengono quindi stabilite le nette differenze fra il romanzo
cavalleresco e il poema epico. Mentre il romanzo cavalleresco narra una vicenda
fantastica costituita dall'intreccio di molte storie diverse (alcune delle
quali destinate a non chiudersi nel poema poiché non necessarie alla conclusione
generale della vicenda), nel poema epico, invece, la vicenda dovrà essere di
matrice storica e dovrà essere unitaria e conclusa: essa cioè dovrà venire
raccontata dall'inizio alla fine, e i pochi protagonisti dovranno ruotare tutti
attorno ad essa, tutti per un solo scopo, e le loro vicende dovranno venire
concluse entro l'arco del poema, non lasciando nulla in sospeso. Il genere
epico, inoltre, secondo una caratteristica che gli diventerà propria, viene dal
Trissino investito di un alto valore morale e politico, profondamente
pedagogico, ignoto al romanzo, che lo trasformano in un percorso di formazione
morale e culturale. Per questi tre generi nuovi, il poeta propone
l'endecasillabo sciolto, corrispettivo moderno dell'esametro e del trimetro
giambico classici (vedi paragrafi sottostanti). Sul piano dello stile e
dei registri il poeta rimanda alle teorie dei greci Demetrio Falereo e di
Dionigi di Alicarnasso, che ponevano come vertice dello stile poetico
l'energia, cioè la capacità di rappresentare visivamente con le parole le cose
di cui s sta narrando, prerogativa, per il Trissino, dello stile di Omero e
Dante. Sempre dietro Demetrio e Dionigi, divide la lingua italiana in quattro
registri stilistici e non tre, come voluto dalla tradizione medievale e
bembesca (la cosiddetta rota Vergilii, secondo la quale esistono 3 registri
stilistici soltanto: quello basso, esemplificato dalle Bucoliche, quello medio
dalle Georgiche, e quello alto o tragico dell'Eneide). Questo veniva a
reimpostare daccapo i rapporti ormai consolidati fra genere letterario e
registro stilistico, e fu una novità che avrebbe causato non poco l'insuccesso
di un poeta il cui punto debole fu proprio lo stile. Tornò in scena con
L'Italia liberata da' Gotthi, un vastissimo poema di endecasillabi sciolti in
27 canti, iniziato intorno nell'età di Papa Leone X. Esso è di fatto il primo
poema epico moderno e sarà destinato, come la Sofonisba, a inaugurare
un genere del tutto nuovo, in dichiarata antitesi alla tradizione
medievale del romanzo cavalleresco che in quegli anni stava sfondando con
Ariosto. L'idea che soggiace alla composizione dell'opera è illustrata
nella famosa Dedica a Carlo V che precede il poema, dove O. dichiara di essersi
ispirato ovviamente ad Aristotele e all'Iliade di Omero. Con la guida di Omero
e di Demetrio Falereo (e non di Dante, si noti), inoltre, reclama l'uso di un
volgare illustre che contempli l'inserimento di voci dialettali, arcaiche o anche
latine e greche, come infatti nel poema avviene. Come detto più volte, inoltre,
lo scopo del poema è 'ammaestrare l'imperatore', non solo attraverso dei
modelli cavallereschi, ma anche attraverso conoscenze tecniche di architettura,
arte militare e via di seguito. Il poema è ligio, insomma, a quanto
stabilito nella Poetica: la trama è tratta da un accadimento storico cioè la
guerra gotica tra l'imperatore bizantino Giustiniano I e gli Ostrogoti che
occuparono l'Italia (per la quale il poeta segue lo storico bizantino Procopio
di Cesarea), che viene raccontata dall'inizio alla fine, e i (relativamente)
pochi protagonisti ruotano attorno ad essa. I personaggi, a loro volta, saranno
specchio di altrettanti vizi e virtù da correggere, in questa crociata che
sarebbe anche un percorso di formazione bellica e morale del suo lettore
ideale, cioè Carlo V stesso. Il poema, atteso da vent'anni dai dotti
italiani, fu uno dei più clamorosi fiaschi della storia letteraria italiana,
come noto, anche se ebbe un impatto profondissimo. Critiche violente vennero da
Giambattista Giraldi Cinzio (che ne parla nei suoi Romanzi) e da Francesco
Bolognetti, ma non solo. I quali derisero il poema per la sua imitazione
pedissequa dei valori dell'eroismo classico (grandezza e generosità d'animo,
nobiltà e gloria), per l'attenzione estrema alla corretta applicazione delle
regole aristoteliche, più che alla fluidità della narrazione o al dare un
rilievo psicologico ai personaggi, assolutamente frontali. Inoltre, la ripresa
parola per parola del modello omerico (ma in generale di tutte le moltissime fonti
tradotte dal poeta) fu ritenuta noiosa, e la solennità dell'argomento venne a
scontrarsi con la prosaicità dello stile trissiniano, del metro senza rima
costruito in maniera formulare (come quello di Omero ovviamente) che rende il
dettato fiacco e stereotipato. I lunghi intervalli eruditi, inoltre, in cui il
poeta si dilunga nelle descrizioni degli accampamenti, dei monumenti della Roma
medievale, di città, architetture, armature, eserciti, giardini, mappe
geografiche dell'Italia, precetti morali, massime e apologhi eruditi e via di
seguito, soffocano la narrazione epica (nella prima edizione il poema è
addirittura corredato da tre cartine geografiche) e rendono il poema di
difficile lettura. Ciò non toglie, tuttavia, che l'Italia liberata abbia
un posto di rilievo nella letteratura: la visione di un mondo superiore di eroi
solenni e composti nella dignità del loro ideale e della loro missione,
tipicamente aristocratici, anticipava le preoccupazioni morali della
Controriforma. Sarà proprio alla fine
del secolo, infatti, che il poema trissiniano avrà la sua fortuna, col Tasso ma
non solo. “I simillimi” w l'ultima opera stampata dal poeta e i modelli
sono indicati da lui stesso nella dedica a Farnese: Aristofane e la Commedia
antica -- Menandro è stato riscoperto solo nel Novecento) -- sul modello della
quale il Trissino ha fornito la favola dei cori (con l'appoggio anche dell'Arte
poetica di Orazio) ma non del prologo. Dichiarata è anche l'ascendenza da
Plauto (essenzialmente i Menecmi). Il testo è costruito in versi sciolti,
ovviamente, mentre i cori sono costituiti anche da settenari e sono rimati.Le
opere linguistiche Frontespizio del Castellano di Giangiorgio Trissino,
stampato con lettere aggiunte all'alfabeto italiano da quello Greco. I
suoi saggi di filosofia del linguaggio sono essenzialmente quattro: l'Epistola,
Castellano, Dubbi, Grammatichetta, oltre, ovviamente la Poetica. Accese
discussioni suscita il suo esordio letterario, cioè la proposta di ri-formare
l'alfabeto classico italiano, di radice latina – Lazio -- contenute nell'
“Ɛpistola del Trissinω” delle lettere nuωvamente aggiunte nella lingua
italiana”, dove suggerisce l'adozione di grafia dell’abecedario di vocali e
consonanti della fonologia greca al fine di “dis-ambiguare” un segno diversi
resi allora, e ancor oggi, con il medesimo segno grafico: e e o aperte (“ε” ed
“ω”) e chiuse, z sorda e “z” sonora (“ζ”) – “Speranζa” -- nonché la distinzione
dell’“i” e dell’ “u” con valore di vocale (i, u), o di consonante (j, v).
Ri-propone questa idea, sebbene ricorrendo a segni diverse, anche l'accademico
della Crusca (cruschense) Salvini, sempre senza successo. Accolta fu nei
secoli a venire, invece, la sua proposta di utilizzare la “z” al posto della
“t” nelle vocaboli latini che finiscono in “-tione” (implicatione >
“implicazione” -- oratione > orazione) e di distinguere sistematicamente il
segno “u” dal signo “v” (uita > “vita”)
I punti principali dell'abecedario riformato sono i
seguenti: carattere fonema Distinto da Pronuncia “Ɛ”, “ε”; E aperta [ɛ] E
e E chiusa [e] “Ω” “ω” O aperta [ɔ] O o O chiusa [o] V v V con valore di
consonante [v] U u U con valore di vocale [u] J j con valore di consonante J
[j] I iI con valore di vocale [i] “Ӡ” “SPERANӠA” “ç” – Sperança -- Z sonora
[dz] Z z Z sorda [ts]. Tali idee vengono confermate. Nel Castellano,
propone il modello di una lingua cortigiana-italiana formata dagli elementi
comuni a tutte le parlate dei letterati della penisola, non solo nel lessico ma
anche al livello della fonetica (visibile ormai grazie al suo abecedario
ri-formato). La sua teoria si appoggia ad Omero e soprattutto alla sua
traduzione del “De vulgari eloquentia”, e vede amplificata nella “Poetica”, in
riferimento a tutti i generi letterari, ed e illustrata materialmente nella sua
Grammatichetta messa a disposizione da Trissino stesso e i Dubbi grammaticali.
Alla sua tesi si dimostrano particolarmente ostili i toscani, ovviamente, visto
che Aligheri stesso asserisce nel trattato che il toscano non è il volgare
illustre. Tra di essi spicca il Machiavelli, come accennato, che compose un
“Dialogo sulla lingua” nel quale reclama la specificità del fiorentino in
opposizione a Bembo e anche a Trissino, che nella grammatica di base parte
sempre dalla lingua letteraria, anche perché l'unica in grado di assicurare a
livelli profondi una similarità fra i vari parlari italiani. Un esempio: se nel
toscano di Poliziano è normale usare “lui” in funzione di soggetto, Bembo
invece rispolvera “egli” e lo stesso fa Trissino. Machiavelli, invece, difende
l'uso di “lui”, normale a Firenze. La riforma trissiniana dei segni
dell’abecedario italiano, applicata sistematicamente da lui in tutti i suoi
saggi (anche negli appunti!), è un prezioso documento delle differenze di
pronuncia tra il tosco toscano e la lingua cortigiana, fra la lingua letteraria
e la corretta pronounia Nordica (e vicentino) perché applica i propri criteri
nel pubblicare i suoi saggi o nell'interpretare alcuni segni del toscano. La
conseguente maggior difficoltà non favoresce la diffusione della sua filosofia
e porta diverse critiche da parte dei filosofi suoi contemporanei. Sebbene
sia noto come esegeta aristotelico, il Trissino si era formato, invece, sul
finire del Quattrocento e nei primi del Cinquecento nelle capitali culturali
italiane sature di cultura neoplatonica e mistica: non ci riferiamo solo agli
anni a Milano presso il Calcondila (amico di Marsilio Ficino) o a Ferrara
presso il Leoniceno, ma soprattutto a quelli trascorsi agli Orti Oricellari
fiorentini e nella Roma di Leone X, figlio di Lorenzo de' Medici. Importanti
sono i due ritratti che ci vengono lasciati da due contemporanei. Il primo è il
quello di Giovanni di B. Rucellai, che
nel poemetto in versi sciolti Le api, dopo aver discusso dell’armonia cosmica e
della dottrina ermetico-platonica dell’Anima Mundi, specifica: «Questo sì bello
e sì alto pensiero / tu primamente rivocasti in luce / come in cospetto degli
umani ingegni O., con tua chiara e viva voce, tu primo i gran supplicii
d’Acheronte ponesti sotto i ben fondati piedi / scacciando la ignoranza dei
mortali». Insomma il Trissino viene riconosciuto come un interprete del
pensiero platonico e, si direbbe, democriteo. Il secondo, invece, riguarda le
esposizioni rilasciate al'Inquisizione, dopo la morte del poeta, da parte del
Checcozzi, il quale dichiara che il Trissino «faceva discendere le anime umane
dalle stelle ne’ corpi e diede a divedere come i passaggi di quelle di pianeta
in pianeta fossero stimate altrettante morti e dicesse essere pene infernali
non le retribuzioni della vita futura ma le passioni e i vizi» (in B. Morsolin,
O.. Monografia di un gentiluomo letterato, Firenze, Le Monnier). A questo si
aggiungano ancora la ripetuta ammissione di credere nella salvezza per sola
Grazia (Morsolin, confermata nell'Epistola a Marcantonio da Mula), cioè di
essere a rigore un luterano, e la lunga requisitoria contro il clero corrotto
contenuta contenuta nell'Italia liberata, requisitoria che però, come rilevato
da Maurizio Vitale (in L'omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla
lingua dell'«Italia liberata da' Gotthi», Istituto Veneto di Scienze ed Arti,
), non figura in tutte le stampe del poema ma solo in quelle indirizzate forse
in Germania. Anche quindi, auspicava un riordino interno della Chiesa e
una sua restaurazione morale, in linea con il generale movimento di riforma che
scoppio' nel Rinascimento, con Lutero, Erasmo etc.... senza per questo farne un
luterano in senso stretto. Insomma, è un tipico esponente della tradizione
religiosa pre-tridentina, in cui il fervido sostegno alla Chiesa romana e la
vicinanza coi papi non escludono forti iniezioni di filosofia idealista e della
scuola di Crotone, di stoicismo e di astrologia, di tradizione bizantina e
millenarismo, in cui Erasmo da Rotterdam, M.Lutero, Agrippa von Nettesheim,
Pico, Ficino si fondono in una forma religiosa eclettica e ancora tollerata
prima dell'apertura del Concilio di Trento. Le persecuzioni inizieranno dopo la
sua morte e vi verrà coinvolto, invece,
il figlio Giulio, vicino al calvinismo, che subirà l'Inquisizione. Il suo
poema, una vera enciclopedia dello scibile, è molto interessante a riguardo, e
queste venature di pensiero religioso inquiete ed eclettiche sono evidenti in
maniera palese. Si ricordino gl’angeli che portano nomi di divinità pagane -- Palladio,
Onerio, Venereo etc... -- e che non sono altro che allegorie delle facoltà
umane o delle potenze naturali (Nettunio, angelo delle acque, ad esempio, o
Vulcano come metonimia del fuoco) come indicato nel De Daemonius di M. Psello e
nel pensiero idealista o accademico. E questo uno dei punti più bersagliati dai
critici contro lui, per primo, ancora una volta, Cinzio. Di Palladio cura soprattutto
la formazione di architetto inteso come filosofo umanista. Questa concezione
risulta alquanto insolita in quell'epoca, nella quale all'architetto era
demandato un compito preminentemente di tecnico specializzato. Non si può
capire la formazione filosofica ed umanistica e di tecnico specializzato della
costruzione dell'architetto Andrea della Gondola, senza l'intuito, l'aiuto e la
protezione di lui. È lui a credere nel giovane lapicida che lavora in modo
diverso e che aspira a una innovazione totale nel realizzare le tante opere. Gli
cambia il nome in Palladio, come l'angelo liberatore e vittorioso presente nel
suo poema L'Italia liberata dai Goti. Secondo la tradizione, l'incontro tra lui
e Gondola ha nel cantiere della villa di Cricoli, nella zona nord fuori della
città di Vicenza, che in quegli anni sta per essere ristrutturata secondo i
canoni dell'architettura classica. La passione per l'arte e la cultura in senso
totale sono alla base di questo scambio di idee ed esperienze che si rivela
fondamentale per la preziosa collaborazione tra i due "grandi". Da lì
avrà inizio la grande trasformazione dell'allievo di G. Pittoni e Giacomo da
Porlezza nel celebrato Andrea Palladio. E proprio lui a condurlo a Roma nei
suoi viaggi di formazione a contatto con il mondo classico e ad avviare il
futuro genio dell'architettura a raggiungere le vette più ardite di
un'innovazione a livello mondiale, riconosciuta ed apprezzata ancora oggi. Il
sistema letterario inventato dal lui non e il solo tentativo di preservare un
rapporto diretto con la cultura degl’antichi con Aligheri e con l'umanesimo del
Quattrocento, che il sistema bembiano esclude. Molti altri condividevano le sue
idee, infatti, come A. Brocardo, B. Tasso, anche loro intenti a inventare nuovi
metri su imitazione dei classici. Tuttavia, se si eccettua forse S.
Speroni, e uno dei pochi che struttura nella sua Poetica un sistema
totale, onni-comprensivo, aristotelico in senso pieno, dove ogni genere è
regolato in maniera specifica; e questo gli permette di essere un punto di
riferimento privilegiato. Bisogna fare a questo punto una distinzione
essenziale fra le sue produzione filosofica e le sue teorie letterarie. Le
opere poetiche, forse con la sola eccezione della Sofonisba e delle Rime, sono
notoriamente brute. Lo stile è fiacco e prosaico e la narrazione dispersa in
mille meandri eruditi, ragione per cui furono conosciute da tutti, lette e
ammirate, ma non apprezzate né imitate dal punto di vista stilistico. L’invenzione
del verso sciolto, che e centrale nella storia letteraria europea, infatti, non
e destinata a fiorire con lui ma solo alla fine del secolo perché venisse
accettata entro un poema di genere e di stile alto come quello epico. La sua
filosofia, invece, trova un successo secolare, non solo in Italia ma in molti
paesi europei specie nel Settecento, con la nuova moda del classicismo. Questo
specie per quel che riguarda i due generi principali del mondo degl’antichi, la
tragedia e l'epica, e con essi anche il verso sciolto. In Italia si può
dire che ha grande fortuna col verso sciolto e col poema epico, ma minore col
teatro tragico. La Sofonisba, quando usce, non era in Italia l'unica tragedia
di imitazione antica, anche se era la prima: vi erano, infatti, anche quelle di
Giovanni di Bernardo Rucellai, composte sempre agli Orti Oricellari. Ma la
tragedia ispirata ai modelli antici non trovò terreno in Italia e fu
soppiantata presto, già a metà del secolo, da quella 'alla latina' -- cioè
piena di fantasmi, conflitti, colpi di scena e sangue, shakespeariana insomma),
riportata in auge a Ferrara dalle Orbecche di Giambattista Giraldi Cinzio -- una
linea di gusto che, alla fine del Cinquecento e nel Seicento, si sposerà in
pieno col teatro gesuita, di ispirazione anche esso stoica e senecana.
Non così nell'epica e nel verso sciolto. Il poema del Trissino è nominato
infatti da tutti i principali autori epici dell'epoca (e spesso in mala fede),
da Bernardo Tasso (intento anche lui alla realizzazione del poema Amadigi, che
nella prima stesura era in versi sciolti) e Giambattista Giraldi Cinzio (che
compose contro l'Italia liberata il volume Dei romanzi), F. Bolognetti e via
via fino a Tasso. Quest'ultimo parla spesso dell'Italia liberata nei Discorsi
del poema eroico e, sebbene ne rilevi i limiti, la tiene presente chiaramente
come modello teorico e anche in molti passaggi della Gerusalemme liberata (fra
cui la famosa morte di Clorinda, ripresa da quella dell'amazzone Nicandra, ad
esempio). Vale la pena specificare che il titolo di “Gerusalemme liberate”,
infatti, non fu deciso dal Tasso (che nei Discorsi chiama sempre il suo poema “Goffredo”),
ma dallo stampatore A. Ingegneri, che doveva aver notato la somiglianza
dell'opera tassiana col poema trissiniano. Mentre nel Rinascimento i
critici iniziavano a discutere dei rapporti fra poesia epica e romanzo
cavalleresco, si assiste a un lento processo di 'acclimatazione' del verso
sciolto nei poemi narrativi. Dapprima viene usato nei generi minori, come le
ecloghe pastorali, i poemetti georgici, gli idilli o le traduzioni, ma alla
fine del secolo sarà impiegato in opere imponenti come l'”Eneide” di Caro, o
nel poema sacro del Mondo creato di Tasso, o nello stile fastoso dello Stato
rustico di G. Imperiale o quello classico di Chiabrera in pieno Barocco. Anzi, proprio Chiabrera
(non a caso allievo di Speroni) si può dire che sia il suo grande erede,
animato come lui dal desiderio di riformare la metrica e di ricreare i generi
letterari sui modelli classici. La Poetica è citata dal Chiabrera in punti
importanti, sia in difesa del verso sciolto, sia dei generi metrici non
bembeschi o nuovi, sia, implicitamente, nella ripresa del mito di Dante e di
Omero (cfr. il paragrafo apposito in Chiabrera). O. ebbe ancora fortuna
anche nel XVIII secolo, con l'edizione in due volumi Scipione Maffei di Tutte
le opere (Verona, Vallarsi, ancora oggi punto di riferimento indispensabile), e
con nove tragedie intitolate Sofonisba, una delle quali d’Alfieri. Grande fu
l'influenza anche nel melodramma: si contano ben quattordici Sofonisba, una
delle quali di Gluck e uno di Caldara. Ma a parte la fortuna della Sofonisba,
considerando che la riforma poetica dell'Accademia dell'Arcadia si ispira
dichiaratamente alla poesia e alla metrica del Chiabrera, possiamo dire che il
Trissino sia stato uno dei fondatori della poesia arcadica e capostipite di una
tradizione letteraria, anche quella del melodramma settecentesco. Non a caso è
uno degli autori più presenti nella ragion poetica di Gravina, maestro del
giovane Metastasio, la cui prima opera sarà la tragedia Giustino, una
riproposizione quasi parola per parola del III canto dell'Italia liberata dove
si narrano gli amori di Giustino e di Sofia. PCastelli dedica la poeta una
intera monografia (La vita di Giovangiorgio Trissino oratore e poeta). Si può
dire, quindi, che non solo nell'epica il Trissino abbia avuto fortuna, ma anche
nel teatro italiano, anche se nelle forme del melodramma e non quelle della
tragedia, come tipico della tradizione italiana. Questo grazie, soprattutto,
alla mediazione del Chiabrera, che seppe rendere le forme metriche del Trissino
(prima fra tutte il verso sciolto) di insuperabile eleganza.
Nell'Ottocento si ricordino l'Iliade di Vincenzo Monti e l'Odissea di Ippolito
Pindemonte, che proseguono la grande storia del verso sciolto nella traduzione
italiana, e le considerazioni di tre grandi scrittori. Il primo è Manzoni che,
meditando sul romanzo storico, rifletté anche sui rapporti fra creazione
poetica e verosimiglianza storica date da Aristotele nello scritto Del romanzo
storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e d’invenzione. Il
secondo è Carducci che stronca il poema
ne I poemi minori del Tasso (in L’Ariosto e il Tasso) e il terzo è B. Morsolin
che compose la biografia del poeta (Giangiorgio Trissino o monografia di un
letterato) che ancora oggi è indispensabile.Francia In Francia, invece, si
assiste in un certo senso alla situazione opposta e le teorie del Trissino
trovarono vasta eco più nel teatro che nel poema epico, questo anche perché in
generale il teatro classico francese ha sempre prediletto i modelli greci ai
latini e il teatro, in genere, al melodramma. Nel teatro francese l'influenza
della Sofonisba sarà forte: la prima rappresentazione documentata in francese è
nel castello di Blois, davanti alla corte della regina, Caterina de' Medici,
non a caso una fiorentina. La corte di Francia era già abituata d'altronde alla
poesia italiana di stile classico da almeno trent'anni, dopo il soggiorno
presso Francesco I di Francia di Luigi Alamanni. Da qui in poi si conteranno
otto Sofonisba fino alla fine del Settecento, una delle quali di Pierre
Corneille. Non così invece nell'epica, genere che in Francia trovò poco
seguito, e nel verso sciolto, che non si acclimatò mai nella poesia francese,
poco adatta per suo ritmo naturale a un verso senza rima. Il Voltaire, che
amava l'Ariosto, ricorda l'Italia liberata nel suo Saggio sulla poesia epica
più che altro per rilevare le pecche del poema. In Inghilterra si ricorda
la fortuna del verso sciolto (blank verse) che avrà la sua consacrazione nel
Paradiso perduto di Milton, e le lodi tributate al Trissino da Pope nel prologo
alla Sofonisba di Thomson. In Germania si ricordano tre Sofonisba. Anche Goethe
possede una copia delle Rime trissiniane Opere: “Sofonisba, tragedia
Ɛpistola del Trissino de le lettere nuωvamente aggiunte ne la lingua Italiana;
De vulgari eloquentia di Alighieri; traduzione Il castellano, dialogo: Daelli;
Poetica; Dubbi grammaticali; Grammatichetta; L'Italia liberata dai Goti, poema
epico I simillimi, commedia Galleria d'immagini Gian Giorgio
Trissinoincisione da Tutte le opere non più pubblicate di Giovan Giorgio
Trissino, Miniatura di O.. Incisione da Castelli La vita di Giovangiorgio
Trissino, Targa a O., in piazza Gian Giorgio Trissino. Targa posta sulla
casa natale di Gian Giorgio Trissino, in corso Fogazzaro 15 a Vicenza, opera di
Bartolomeo Bongiovanni.Medaglione posto nel salone di Palazzo Venturi Ginori, a
Firenze, raffigurante Giovan Giorgio Trissino, membro dell'Accademia
Neoplatonica che lì ebbe sede. Bernardo Morsolin O. o Monografia di un
letterato del secolo XVI, Pierfilippo Castelli, La Vita di Giovan Giorgio
Trissino. Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato
del secolo XVI,Margaret Binotto, La chiesa e il convento dei santi Filippo e
Giacomo a Vicenza, Pierfilippo Castelli, La Vita di Giovan Giorgio Trissino,
Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato.
L'incisione recita: DEMETRIO CHALCONDYLÆ ATHENIENSIIN STUDIIS LITERARUM GRÆCARUM
EMINENTISSIMOQUI VIXIT ANNOS MENS. VET OBIIT JOANNES O.
GASP. FILIUS PRÆCEPTORI OPTIMO ET SANCTISSIMOPOSUIT. Castelli, La Vita d’O, ernardo Morsolin, Giangiorgio
Trissino o Monografia di un letterato; Morsolin O. o Monografia di un letterato
del secolo XVI, Giambattista Nicolini, Vita di Giangiorgio Trissino,
Nell'originale sofocleo "τὸ δὲ ζητούμενον ἁλωτόν", letteralmente
"ciò che si cerca, si può cogliere".
Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato, Pierfilippo
Castelli, La vita di Giovan Giorgio Trissino, Pierfilippo Castelli, La vita, Antonio
Magrini, Reminiscenze Vicentine della Casa di Savoia. Bernardo Morsolin,
Giangiorgio Trissino o Monografia di un letterato. Bernardo Morsolin, O. o
Monografia di un letterato, Silvestro Castellini, Storia della città di
Vicenza. Castelli, La vita d’O, nota. Morsolin,
O. o Monografia di un letterato del secolo XVI, 1Come i saggi di Lucien Faggion
ricordano, per preservare il patrimonio famigliare non era inusuale sposare
cugini di altri rami della medesima famiglia.
La decisione di scegliere Ciro come proprio erede ebbe ripercussioni
drammatiche per diverso tempo. Oltre al trascinarsi della causa civile
intentata da Giulio al padre e a Ciro, nacque una vera e propria faida tra i
discendenti Trissino dal Vello d'Oro e i parenti del ramo dei Trissino più
prossimo alla prima moglie, Giovanna. Le voci che fecero risalire a Ciro la
denuncia anonima alla Santa Inquisizione delle simpatie protestanti, spinsero
Giulio Cesare, nipote di Giovanna, a uccidere Ciro a Cornedo nel 1576, davanti
a Marcantonio, uno dei suoi figli. Quest'ultimo decise di vendicare il padre,
accoltellando a morte Giulio Cesare che usciva dalla cattedrale di Vicenza il
venerdì santo del 1583. R. Trissino, altro avversario dei Trissino dal Vello
d'Oro, s'introdusse nella casa di Pompeo, primogenito di Ciro, e ne uccise la
moglie, Isabella Bissari, e il figlioletto Marcantonio, nato da poco. Si vedano
al proposito vari saggi sull'argomento di Lucien Faggion, tra cui Les femmes,
la famille et le devoir de mémoire: les Trissino aux XVIe et XVIIe siècles. Dovette
affrontare una causa civile intentatagli dai Valmarana: negli ultimi decenni
ProfessoreAlvise di Paolo Valmarana perse villa e tenuta, giocandosele col
patrizio Orso Badoer, che rivendette la proprietà a Gaspare Trissino. Gli eredi
Valmarana tentarono di riprendersela ipotizzando un vizio all'origine, ma il
tribunale diede ragione ai diritti del Trissino. Si veda Lucien Faggion, Justice
civile, témoins et mémoire aristocratique: les Trissino, les Valmarana et
Cricoli au XVIe siècle,. Bernardo Morsolin, Giangiorgio Trissino o
Monografia di un letterato del secolo XVI, voce O. nel sito Treccani
L'Enciclopedia Italiana. Achille, Trissino, Giangiorgio, in L'Enciclopedia
dell'Italiano. "Palladio" è
anche un riferimento indiretto alla mitologia greca: Pallade Atena era la dea
della sapienza, particolarmente della saggezza, della tessitura, delle arti e,
presumibilmente, degli aspetti più nobili della guerra; Pallade, a sua volta, è
un'ambigua figura mitologica, talvolta maschio talvolta femmina che, al di
fuori della sua relazione con la dea, è citata soltanto nell'Eneide di
Virgilio. Ma è stata avanzata anche l'ipotesi che il nome possa avere
un'origine numerologica che rimanda al nome di Vitruvio, vedi Paolo Portoghesi,
La mano di Palladio, Torino, Allemandi, Dal volantino della mostra dedicata a O.,
in occasione dell’anniversario della promulgazione dello Statuto del Comune,
organizzata dalla Provincia di Vicenza, Comune di Trissino e Pro Loco di
Trissino. L. Cicognara, Storia della
scultura dal suo risorgimento in Italia fino al secolo di Canova, Giachetti,
Losanna, 1824. Sull'autore in generale si vedano almeno tre testi
fondamentali: Pierfilippo Castelli, La vita di Giovangiorgio Trissino,
oratore e poeta, ed. Giovanni Radici, Venezia, Bernardo Morsolin, Giangiorgio
Trissino o monografia di un letterato del secolo XVI, Firenze, Le Monnier, Atti
del Convegno di Studi su Giangiorgio Trissino, Vicenza); Pozza, Vicenza, Neri
Pozza, Sulla Sofonisba: E. Bonora La "Sofonisba" del Trissino,
Storia Lettaliana, Garzanti, Milano, M. Ariani, Utopia e storia nella Sofonisba
di Giangiorgio Trissino, in Tra Classicismo e Manierismo, Firenze, Olschki, C.
Musumarra, La Sofonisba ovvero della libertà, «Italianistica», Sulle
Rime: A. Quondam, Il naso di Laura. Lingua e poesia lirica nella
tradizione del classicismo, Ferrara, Panini, C. Mazzoleni, L’ultimo manoscritto
delle Rime di Giovan Giorgio Trissino, in Per Cesare Bozzetti. Studi di
letteratura e filologia italiana, Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori,
Sull'Italia liberata si vedano almeno (in ordine di stampa): F. Ermini,
L’Italia liberata dai Goti di Giangiorgio Trissino. Contributo alla storia
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Trattati di fonetica del Cinquecento, Firenze, presso l’Accademia, C. Giovanardi, La teoria cortigiana e il
dibattito linguistico nel primo Cinquecento, Roma, Bulzoni, M. Vitale,
L'omerida italico: Gian Giorgio Trissino. Appunti sulla lingua dell'«Italia
liberata da' Gotthi», Istituto Veneto de Scienze ed Arti,. Sulla traduzione di
Dante e l'importanza del De vulgari eloquentia si vedano almeno (in ordine di
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«Ateneo veneto», foglio speciale, C.
Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, in Geografia e
storia della letteratura italiana, Torino, Einaudi,Floriani, Trissino: la
«questione della lingua», la poetica, negli Atti del Convegno di Studi su
Giangiorgio Trissino, etc...(ora in Gentiluomini letterati. Studi sul dibattito
culturale nel primo Cinquecento, Napoli, Liguori, I. Pagani, La teoria
linguistica di Dante, Napoli, Liguori,
C. Pulsoni, Per la fortuna del De vulgari Eloquentia: Bembo e Barbieri,
«Aevum», E. Pistoiesi: Con Dante attraverso il Cinquecento: Il De vulgari
eloquentia e la questione della lingua, «Rinascimento», Per le trafile del
codice dantesco posseduto dal Trissino, oggi alla Biblioteca Trivulziana di
Milano, cfr. l'introduzione diRàjna alla sua edizione del De Vulgari Eloquentia
(Firenze, Le Monnier) e G. Padoan, Vicende veneziane del codice Trivulziano del
“De vulgari eloquentia”, in Dante e la cultura veneta, Atti del convegno di
studi della fondazione “Giorgio Cini”, Venezia-Padova-Verona, V. Branca e G.
Padoan, Firenze, Olschki, Tutti i testi d’O si rileggono nei due volumi
intitolati Tutte le opere Scipione Maffei (Verona, Vallarsi), che non
riproducono però l'alfabeto inventato riformato. Alcuni testi hanno avuto delle
edizioni moderne: La Poetica si rilegge nei Trattati di poetica e di
retorica, Weinberg, Bari, Laterza, Il testo è riprodotto con l'alfabeto
inventato d’O. Scritti linguistici, A. Castelvecchi, Roma, Salerno (che
contiene la Epistola delle lettere nuovamente aggiunte, Il Castellano, i Dubbii
grammaticali e la Grammatichetta). I testi sono riprodotti con l'alfabeto
inventato dal Trissino. La Sofonisba è stata curata da R. Cremante, nel Teatro,
Napoli, Ricciardi, Il testo è riprodotto con l'alfabeto inventato d’O ed è
dotato di un vasto commento e introduzione. La traduzione del De vulgari
eloquentia si può leggere in D. Alighieri, F. Chiappelli, nella collana “I
classici italiani”, G. Getto, Milano, Mursia, oppure, assieme al testo latino,
nel 2 tomo dell’Opera Omnia curata da Scipione Maffei (vedi sotto). Per
l'Italia liberata dai Goti e per I Simillimi si deve ricorrere, invece, alle
prime edizioni o all'edizione del Maffei o alle ristampe sette-ottocentesche.
Per l'elenco completo di tutte le stampe, ristampe, studi ed edizioni sul
Trissino vedi Corrieri, O., consultabile (aggiornata al 2 settembre ) presso// nuovorinascimento.
org/ cinquecento/trissino. pdf. A.
Palladio O. (famiglia). Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia.
Encyclopædia Britannica, Inc. O. Open MLOL, Horizons Unlimited srl. O. Opere di
Gian Giorgio Trissino, su Progetto Gutenberg. O. Catholic Encyclopedia, Appleton.
Italica Rinascimento: O, L'Italia liberata dai Gotthi. L’uomo solo ha il COMERCIO
del parlare. Questo è il nostro vero e primo parlare. Non dico
nostro, perchè altro parlar ci sia che quello dell'uomo. Perciò che fra tutte
le cose che sono SOLAMENTE ALL’UOMO E DATO IL PARLARE ,sendo a lui necessario
solo. CERTO NON A a gl’angeli non a GL’ANIMALI INFERIORI e necessario parlare.
Adunque sarebbe stato dato invano a costoro, non avendo bisogno di esso. E
LA NATURA certamente abborrisce di fare cosa alcuna invano. Se volemo poi
sottilmente considerare la INTENZIONE del parlar [parabola] nostro, niun'altra
ce ne troveremo, che il MANIFESTARE all’altro questo o quello CONCETTO della
mente nostra. Avendo adunque gl’angeli prontissima e neffabile
sufficienzia d'intelletto da chiarire questo o quello gloriosi concetto, per la
qual sufficienza d'intelletto l'uno è TOTALMENTE NOTO all'altro, o per sè, o almeno per quel
fulgentissimo specchio, nel quale tutti sono rappresentati bellissimi e in cui
avidis simi sispecchiano. Per tanto pare che di ni uno SEGNO DI PARLARE ha
mestieri. Ma chi oppone a questo, allegando quei spiriti, che cascarono dal
cielo; a tale opposizione doppiamente si può rispondere. Prima, che quando noi
trattiamo di quelle cose, che sono che Q a bene esser , devemo essi
lasciar da 3 parte, conciò sia che questi perversi non vollero aspettare
la divina cura. Seconda risposta, e meglio è, che questi demoni a MANIFESTARE
fra sè la loro perfidia, non hanno bisogno di conoscere se non qualche cosa di
ciascuno, perchè è, e quanto è 1 : il che certamente sanno; perciò che si
conobbero l'un l'altro avanti la ruina loro. Agl’ANIMALI INFERIORI poi non e bisogno
provvedere di parlare. Conciò sia che per solo ISTINTO DI NATURA sono guidati. E
poi, tutti quelli animali che sono di una medesima specie hanno le medesime
azioni, e le medesime passioni; per le quali loro proprietà possono le altrui
conoscere. Ma aquelli che sono di diverse specie, non solamente non e
necessario loro il parlare, ma in tutto dannoso gli sarebbe stato, non essendo
alcuno amicabile comercio tra essi. E se mi fosse opposto che IL SERPENTE che PARLA
alla prima femina, e l'asina di Balaam PARLA, a questo rispondo, che l'ANGELO nell’asina
e IL DIAVOLO nel serpente hanno talmente operato che essi animali mossero gli
organi loro. E così d'indi la voce risulta distinta, COME vero parlare; non che
quello de l'asina fosse altro che ragghiare e quello del serpente altro che
fischiare. Il testo ha: non indigent, nisi ut sciant quilibetde quolibet, quia est, et
quantus est. Parrebbe più proprio
il tradurre cosi. Non hanno bisogno di conoscere, se non ciascheduno di
ciaschedun altro, che è,e quanto è: ossia l'esistenza e il grado. Se
alcuno poi argumentasse da quello, che OVIDIO (si veda) dice nella Metamorfosi che
LE PICHE parlarono, dico che dice questo FIGURATAMENTE, intendendo altro. Ma se
si dices che le piche al presente e altri uccelli parlano, dico che è FALSO, perciò
che tale atto NON è parlare, ma è certa imitazione del suono de la nostra voce;
o vero che si sforzano di imitare noi in quanto SONIAMO ma non in quanto PARLIAMO
(cf. ‘talk,’ ‘speak’, ‘speak in tongues’). Tal che se quello che alcuno
espressamente dice, ancora la pica ride, questo non sarebbe se non
rappresentazione , o vero imitazione del SUONO di quello, che prima ho detto. E
così appare agl’UOMINI SOLI e dato dalla NATURA il PARLARE. Ma per qual cagione
esso gli e NECESSARIO, ci sforzeremo brievemente trattare. Che e NECESSARIO agl’uomini
il COMERCIO, la CONVERSAZIONE. Ovendosi adunque l'uomo NON PER ISTINTO DI
NATURA, ma per *ragione*. E essa ragione o circa la separazione, o circa il
giudidizio, o circa la elezione diversificandosi in ciascuno; tal che quasi
ogni uno de la sua pro [La voce del testo, “discrezione”, sarebbe resa meglio
dalla parola discernimento. del parlare, pria specie s'allegra; giudichiamo
che niuno intenda l'altro per la sua propria AZIONE o PASSIONE, come fanno le
bestie. Nè anche per speculazione l'uno può intrar ne l'altro, come gl’angeli –
JARMAN, La conversazione angelica --, sendo per la grossezza e opacità del CORPO
mortale la umana specie da ciò ritenuta. E adunque bisogno che, volendo la generazione umana fra sè COMUNICARE
IL SUO CONCETTO, avesse qualche SEGNO SENSUALE e *razionale*; per ciò che, dovendo
prendere una cosa dalla ragione, e nela ragione portarla, bisogna essere
razionale. Ma non potendosi alcuna cosa di una ragione in un'altra portare, SE
NON PER IL MEZZO DEL SENSUALE, e bisogno essere sensuale, perciò che se 'l e *solamente*
razionale, non puo trapassare. Se *solo* sensuale, non puo prendere dalla
ragione, nè nella ragione de porre. E questo è SEGNO (SENNO) che il subietto di
che parliamo, è nobile; perciò che in quanto è suono, il SEGNO (SENNO) è per
natura una cosa sensuale. E inquanto che, secondo la *volontà* di ciascun, *significa*
qualche cosa, egli è razionale 1. Iltestoha: Hoc equidem SIGNUM est, ipsum
subjectum nobile, dequo loquimur. Natura sensuale quidem, in quantum sonus est,
esse. Rationale vero, in quantum aliquid SIGNIFICARE videtur ad placitum. A noi
pare più giusto l'interpretare questo passo cosi. Questo segno, l'aliquod
rationale signum et sensuale di cui ha parlato poche righe più sopra, è per
l'appunto il nobile soggetto di cui parliamo. Sensuale per natura, in quanto è
SUONO. Razionale, in quanto che, se A che uomo e prima dato il parlare, e che
dice prima, et in che lingua L’UMO SOLO e dato dalla natura il parlare. Ora
istimo che appresso debbiamo investigare, a che uomo e prima dato dalla natura il
parlare, e che cosa prima dice, e a chi parlò, e dove e quando, e eziandio in
che linguaggio il primo suo parlare si sciol se. Secondo che si legge ne la
prima parte del Genesis, ove la sacratissima Scrittura tratta del principio del
mondo, si truova la femina, prima cheniunaltro, aver parlato, cio è lapre sontuosissima
EVA, la quale al DIAVOLO, che la ricercava , disse , ‘Dio ci ha commesso , che
non mangiamo del frutto del legno che è nel mezzo del paradiso, e che non lo
tocchiamo , acciò che per avventura non moriamo. Ma a vegna che in scritto si
trovi la donna aver pri mieramente parlato, non di meno è ragionevol cosa che
crediamo, che l'uomo fosse quello, che prima parlasse. Nè cosa inconveniente mi
pare condo la volontà di ciascuno, significa qualche cosa. Contro la quale
interpretazione stala punteggiatura, e la voce esse del testo, che sarebbe di
troppo ; ma ,per com penso, il brano riesce più chiaro, e si collega meglio col
senso di tutto il Capitolo. Anifesto è per le cose già dette , che a pensare, che
così eccellente azione de la il generazione umana prima da l'uomo, che da
la femina procedesse. Ragionevolmente adunque crediamo ad esso essere stato
dato primier mente il parlare da Dio, subito che l’ebbe formato. Che voce poi
fosse quella che parla prima, a ciascuno di sana mente può esser in pronto e io
non dubito che la fosse quella, che è Dio, cioè Eli, o vero per modo
d'interrogazione, o per modo di risposta. Assurda cosa veramente pare, e da la
ragione aliena, che da l'uomo fosse nominata cosa alcuna prima che Dio; con ciò
sia che da esso,& in esso fosse fatto l'uomo. E siccome, dopo la prevaricazionedel'u
m a n a generazione , ciascuno esordio di parlare comincia da heu ; così è
ragionevol cosa , che quello che fu davanti , cominciasse da alle grezza, e
conciò sia che niun gaudio sia fuori di Dio,ma tuttoinDio,& esso Dio
tuttosiaal legrezza, conseguente cosa è che 'l primo p a r lante dicesse
primieramente Dio. Quindi nasce questo dubbio,che avendo di sopra detto, l'uomo
aver prima per via di risposta parlato, se risposta fu,devette esser a Dio; e
se a Dio, parrebbe, che Dio prima avesse parlato, il che parrehbe contra quello
che avemo detto di sopra. Al qual dubbio risponderemo,che ben può l'uo mo
averrisposto a Dio, chelointerrogava, nè per questo Dio aver parlato di quella LOQUELLA,
che dicemo.Qual è colui, che dubiti, che tutte le cose che sono non si pieghino
secondo il voler di Dio,da cuièfatta, governata, econservata ,
ciascuna cosa ? É conciò sia che l'aere a tante alterazioni per comandamento
della natura in feriore si muova, la quale è ministra e fattura di Dio, di
maniera che fa risuonare i tuoni, fulgurare il fuoco, gemere l'acqua, e sparge
le nevi, e slancia la grandine ; non si moverà egli per comandamento di Dio a
far risonare alcune parole le quali siano distinte da colui, che maggior cosa
distinse?e perchè no? Laon de & a questa, & ad alcune altre cose credia
mo tale risposta bastare. Dove,& a cuiprima l'uomo abbiaparlato. ta così da
le cose superiori,come da le in feriori), che il primo uomo drizzasse il suo
primo parlare primieramente a Dio , dico, che ragionevolmente esso primo
parlante parlò s u bito,che fu da la virtù animante ispirato: per ciò che ne
l'uomo crediamo,che molto più cosa umana sia l'essere sentito che il sentire,
pur che egli sia sentito,e senta come uomo. Se adunque quel primo fabbro, di
ogni perfezione principio & amatore ,inspirando il primo uomo con ogni
perfezione compi , ragionevole cosa mi pare, che questo perfettissimo animale
non prima cominciasse a sentire, che 'l fosse sen tito. Se alcuno poi dicesse
contra le obiezioni, 11 Iudicando adunque (non senza ragione trat, che
non era bisogno che l'uomo parlasse, es sendo egli solo ; e che Dio ogni nostro
segreto senza parlare, ed anco prima di noi discerne ; ora (con quella
riverenzia , la quale devemo usare ogni volta,che qualche cosa de l'eterna
volontà giudichiamo),dico,che avegna che Dio sapesse, anzi antivedesse (che è
una medesima cosa quanto a Dio) il concetto del primo parlante senza parlare, non
di meno volse che esso parlasse; acciò che ne la esplicazione di tanto dono,
colui, che graziosamente glielo avea do nato,se ne gloriasse.E perciò devemo
credere, che da Dio proceda , che ordinato l'atto de i nostri affetti, ce ne
allegriamo. Quinci possiamo ritrovare il loco, nel quale fu mandata fuori la prima
favella; perciò che se fu animato l'uomo fuori del paradiso, diremo che fuori:
se dentro , diremo che dentro fu il loco del suo primo parlare. Ra perchè i
negozii umani si hanno ad esercitare per molte e diverse lingue, tal che molti
per le parole non intesi da molti, che se fussero senza esse; però fia
buono investigare di quel parlare, del quale si crede aver usato l'uomo, che
nacque senza sono altrimente 1 Di che idioma prima l'uomo parld, e donde fu
l'autore di quest'opera. madre, e senza latte si nutri, e che nè
pupil lare età vide,nè adulta.In questa cosa,sì come in altre molte, Pietramala
è amplissima città, e patria de la maggior parte dei figliuoli di Adamo .Però
qualunque si ritrova essere di cosi disonesta ragione, che creda, che il loco
della sua nazione sia il più delizioso, che si trovi sotto il Sole, a costui
parimente sarà licito preporre il suo proprio volgare, cioè la sua materna
locuzione,a tutti gli altri; e conse guentemente credere essa essere stata
quella diAdamo.Ma noi, acuiil mondo èpatria, sì come a'pesci il mare ,
quantunque abbiamo bevuto l'acqua d'Arno avanti che avessimo denti,e che amiamo
tanto Fiorenza,che pe averla amata patiamo ingiusto esiglio, non dimeno le
spalle del nostro giudizio più a la ragione che al senso appoggiamo. E benchè
se condo il piacer nostro , o vero secondo la quiete de la nostra sensualità,
non sia in terra loco più ameno di Fiorenza;pure rivolgendo i vo lumi de'poeti
e de gli altri scrittori, ne i quali il mondo universalmente e particularmente
si descrive , e discorrendo fra noi i varj siti dei luoghi del mondo , e le
abitudini loro tra l'uno e l'altropolo,e'lcircolo equatore, fermamente
comprendo, e credo, molte regioni e città es sere più nobili e deliziose che
Toscana e Fiorenza, ove son nato, e di cui son cittadino; e molte nazioni e
molte genti usare più dilette vole, e più utile sermone , che gli Italiani. R
ir tornando adunque al proposto, dico che una certa forma di
parlare fu creata da Dio insie me con l'anima prima ,e dico forma, quanto a i
vocaboli de le cose,e quanto a la construzione de'vocaboli , e quanto al
proferir de le con struzioni; la quale forma veramente ogni par lante lingua
userebbe, se per colpa de la pro sunzione umana non fosse stata dissipata, come
di sotto si mostrerà. Di questa forma di par lare parlò Adamo , e tutti i suoi
posteri fino a la edificazione de la torre di Babel , la quale si interpreta la
torre de la confusione. Questa forma di locuzione hanno ereditato i figliuoli
di Heber, i quali da lui furono detti Ebrei ; a cui soli dopo la confusione
rimase, acciò che il nostro Redentore , il quale doveva nascere di
loro,usasse,secondo laumanità,dela lin gua de la grazia, e non di quella de la
confu sione 1. Fu adunque lo ebraico idioma quello, che fu fabbricato da le
labbra del primo par lante . ' Il testo ha: qui ex illis oriturus erat secundum
humanitatem , non lingua confusionis, sed gratiæ frue retur.E deve
tradursi:ilqualedovevanascere di loro secondo l'umanità , usasse della lingua
della grazia , e non di quella della confusione. Hi come gravemente mi vergogno di rin
15 e per De la divisione del parlare in
più lingue. A en ta nerazione umana: ma perciò che non possia mo lasciar di
passare per essa, se ben la fac cia diventa rossa , e l'animo la fugge , non
starò di narrarla. Oh nostra natura sempre prona ai peccati , oh da principio ,
e che mai non finisce, piena di nequizia; non era stato assai per la tua
corruttela, che per lo primo fallo fosti cacciata, e stesti in bando de la p a
tria de le delizie? non era assai, che per la universale lussuria, e crudeltà
della tua fami glia, tutto quello che era di te, fuor che una casa sola, fusse
dal diluvio sommerso , il male , che tu avevi commesso , gli animali del cielo
e de la terra fusseno già stati puniti ? Certo assai sarebbe stato; ma come
prover bialmente si suol dire,Non andrai a cavallo anzi terza ; e tu misera
volesti miseramente andare a cavallo.Ecco,lettore, che l'uomo , o vero
scordato,o vero non curando de le prime battiture, e rivolgendo gli occhi da le
sferze, che erano rimase , venne la terza volta a le botte, per la sciocca sua
e superba prosunzio ne. Presunse adunque nel suo cuore lo incu rabile uomo,
sotto persuasione di gigante, di , superare con l'arte sua non
solamente la na tura,ma ancora esso naturante, ilqualeèDio; e cominciò ad
edificare una torre in Sennar, la quale poi fu detta Babel, cioè confusione,
per la quale sperava di ascendere al cielo, avendo intenzione, lo sciocco,non
solamente di aggua gliare,ma diavanzare ilsuo Fattore. Oh cle menzia senza
misura del celeste imperio;qual padre sosterrebbe tanti insulti dal figliuolo?
Ora innalzandosi non con inimica sferza, ma con paterna, & a battiture
assueta , il ribel lante figliuolo con pietosa e memorabile corre zione
castigò. Era quasi tutta la generazione umana a questa opera iniqua concorsa ;
parte comandava, parte erano architetti,parte face vano muri,parte
impiombavano,parte tiravano le corde ", parte cavavano sassi, parte per
ter ra, parte per mare li conducevano. E cosìdi verse parti in diverse altre
opere s’affatica vano , quando furono dal cielo di tanta con fusione percossi,
che dove tutti con una istessa loquela servivano a l'opera , diversificandosi
in molte loquele , da essa cessavano , nè mai a quel medesimo comercio convenivano
; & a quelli soli, che in una cosa convenivano una · Il Witte osserva che
in luogo di pars amysibus tegulabant, pars tuillis linebant, come leggeva erro
neamente la volgata nel testo latino , si deve leggere : pars amussibus
tegulabant, pars trullis (o truellis) linebant, e si deve tradurre : parte
arrotavano sulle pietre i mattoni,parte con le mestole
intonacavano. istessa loquela attualmente rimase , come a tutti gli
architetti una , a tutti i conduttori di sassi una,a tuttiipreparatori di quegli
una, e così avvenne di tutti gli operanti; tal che di quanti varj esercizj
erano in quell'opera , di tanti varj linguaggi fu la generazione umana
disgiunta. E quanto era più eccellente l'arti ficio di ciascuno , tanto era più
grosso e barbaro il loro parlare. Quelli poscia, a li quali il sacrato idioma
rimase, nè erano presenti nè lodavano lo esercizio loro; anzi gravemente
biasimandolo, si ridevano de la sciocchezza de gli operanti.M a questi furono
una minima parte di quelli quanto al numero ; e furono , sì come io comprendo ,
del seme di Sem , il quale fu il terzo figliuolo di Noè , da cui nacque il
popolo di Israel, il quale usò de la antiquissima locu zione fino a la sua
dispersione. e specialmente in Europa. Er la detta precedente confusione di lin
gue non leggieramente giudichiamo , che allora primieramente gli uomini furono
sparsi per tutti iclimi del mondo e per tutte le re gioni & angoli di esso.
E conciò sia che la P Sottodivisione del parlare per il mondo, principal
radice dela propagazione umana sia ne le parti orientali piantata , e d'indi da
l'u no e l'altro lato per palmiti variamente diffu si, fu la propagazione
nostra distesa; final mente in fino a l'occidente prodotta , là onde
primieramente le gole razionali gustarono o tutti,o almen parte de ifiumi di
tutta Europa. Ma ofussero forestieriquesti,cheallorapri mieramente vennero, o
pur nati prima in Europa, ritornassero ad essa; questi cotali por tarono tre
idiomi seco ; e parte di loro ebbero in sorte la regione meridionale di Europa,
parte la settentrionale, & i terzi, i quali al presente chiamiamo Greci ,
parte de l’Asia e parte de la Europa occuparono. Poscia da uno istesso idio
ma,dalaimmonda confusione ricevuto,nac quero diversi volgari , come di sotto
dimostre remo ; perciò che tutto quel tratto, ch'è da la foce del Danubio, o
vero da la palude Meotide, fino a i termini occidentali (li quali da i confini
d'Inghilterra, Italia e Franza, e da l'Oceano sono terminati), tenne uno solo
idioma: ave gna che poi per Schiavoni, Ungari , Tedeschi, Sassoni , Inglesi
& altre molte nazioni fosse in diversi volgari derivato ; rimanendo questo
solo per segno, che avessero un medesimo prin cipio , che quasi tutti i
predetti volendo affir mare, dicono jo. Cominciando poi dal termine di questo
idioma,cioè da iconfini de gli Ungari verso oriente,un altro idioma tutto quel
tratto occupò. Quel tratto poi, che da questi in qua si chiama Europa, e
più oltra si stende,o ve ro tutto quello de la Europa che resta , tenne un
terzo idioma 1, avegna che al presente tri partito si veggia ; perciò che
volendo affermare, altri dicono oc, altri oil, e altri sì, cioè Spagnuoli ,
Francesi & Italiani .Il segno adunque che i tre volgari di costoro
procedessero da uno istesso idioma,è in pronto; perciò che molte cose chiamano
per i medesimi vocaboli, come è Dio,cielo,amore,mare,terra,e vive,muore, ama
,& altri molti.Di questi adunque de la meridionale Europa , quelli che
proferiscono oc tengono la parte occidentale, che comincia da i confini
de'Genovesi ; quelli poi che dicono sì, tengono da i predetti confini la parte
orientale, cioè fino a quel promontorio d'Italia, dal quale comincia il seno
del mare Adriatico e la Sicilia. Ma quelli che affermano con oil,quasi sono
settentrionali a rispetto di questi ; perciò che da l'oriente e dal
settentrione hanno gli Ale manni , dal ponente sono serrati dal mare in 1 Il
testo ha : A b isto incipiens idiomate , videlicet a finibus Ungarorum versus
orientem aliud occupa vittotum quodabindevocaturEuropa,necnonul terius est
protractum. Totum autem , quod in Europa restat ab istis , tertium tenuit
idioma. E deve essere tradotto cosi: A cominciare da questo idioma, cioè dai
confini degli Ungari verso oriente, un altro idioma occupò l'intero tratto che
da quei confini in là si chiama Europa , e che si protrae anche più oltre.
Tutto il tratto poi della rimanente Europa tenne un terzo idioma. 19
glese, e dai monti di Aragona terminati , dal mezzo di poi sono chiusi
da'Provenzali,e da la flessione de l'Appennino. Noi ora è bisogno porre a pericolo
1 la ' Il verbo periclitari del testo latino qui vale mettere alla prova,
cimentare, ragione, che avemo, volendo ricercare di quelle cose ne le quali da
niuna autorità siamo aiutati, cioè volendo dire de la variazione, che
intervenne al parlare , che da principio era il medesimo. Ma
conciòsiachepercammininoti più tosto e più sicuramente si vada , però so
lamente per questo nostro idioma anderemo,e gli altri lascieremo da parte ,
conciò sia che quello che ne l'uno è ragionevole , pare che eziandio abbia ad
esser causa ne gli altri. È adunque loidioma,deloqualetrattiamo(come ho detto
di sopra) in tre parti diviso , perciò che alcuni dicono oc , altri si, e altri
oil. E che questo dal principio de la confusione fosse uno medesimo (il che
primieramente provar si deve) appare, perciò che si convengono in molti
vocaboli,come gli eccellenti dottori dimostrano; De le tre varietà del parlare,
e come col tempo il medesimo parlare si muta , e de la invenzione de la
grammatica. A la quale convenienzia repugna a la confusione, che fu
per il delitto ne la edificazione di Babel. I Dottori adunque di tutte tre
queste lingue in molte cose convengono, e massimamente in questo vocabolo, Amor.
Gerardo di
Berneil , « Surisentis fez les aimes Puer encuser Amor.» Il re di Navara, «De'finamor sivientsenebenté.» M. Guinizelli,
« Nè fè amor , prima che gentil core, Nè cor gentil,prima che amor, natura.»
Investighiamo adunque , perchè egli in tre parti sia principalmente variato,e
perchè cia scuna di queste variazioni in sè stessa si varii, come la destra
parte d'Italia ha diverso par lare da quello de la sinistra, cioè altramente
parlano i Padovani , e altramente i Pisani : e investighiamo perchè quelli,che
abitano più vi cini,siano differenti nel parlare,come è iMila nesi e Veronesi, ROMANI
e Fiorentini;e ancora perchè siano differenti quelli,che si convengono sotto un
istesso nome di gente,come Napole tani e Gaetani , Ravegnani e Faentini ; e
quel che è più maraviglioso, cerchiamo perchè non si convengono in parlare
quelli che in una medesima città dimorano , come sono i Bolognesi del borgo di
san Felice , e i Bolognesi della strada maggiore.Tutte queste
differenze adunque,e varietàdi sermone,che avvengono, con una istessa ragione
saranno manifeste. Dico adunque , che niuno effetto avanza la sua ca gione, in
quanto effetto,perchè niuna cosa può fare ciò che ella non è.Essendo adunque
ogni nostra loquela (eccetto quella che fu da Dio insieme con l'uomo creata) a
nostro benepla cito racconcia,dopo quella confusione,la quale niente altro fu
che una oblivione de la loquela prima, & essendo l'uomo instabilissimo e va
riabilissimo animale , la nostra locuzione ne durabile nè continua può essere ;
m a come le altre cose che sono nostre (come sono costumi & abiti), simutano;cosìquesta,secondo
ledi stanzie de iluoghi e dei tempi,è bisogno di va riarsi. Però non è da
dubitare che nel modo che avemo detto,cioè,che con la distanzia del tempo il
parlare non si varii, anzi è fermamente da tenere ; perciò che se noi vogliamo
sottilmente investigare le altre opere nostre, le troveremo molto più
differenti da gli antiquissimi nostri cittadini, che da gli altri de la nostra
età, quantunque ci siano molto lontani. Il perchè audacemente affermo che se gl’antiquissimi
Pavesi ora risuscitassero, parlerebbero di diverso parlare di quello, che ora
parlano in Pavia. Nè altrimente questo, ch'io dico, ci paja maraviglioso
che iI qualici siano molto lontani (magis....quam a coetaneis per longinquis). ci
parrebbe a vedere un giovane cresciuto il quale non avessimo veduto crescere. Perciò
che le cose che a poco a poco si movono, il moto loro è da noi poco conosciuto;
e quanto la variazione de la cosa ricerca più tempo ad essere conosciuta, tanto
essa cosa è da noi più stabile esistimata. Adunque non ci ammiriamo se i
discorsi di quegli uomini che sono POCO DALLE BESTIE DIFFERENTI, pensano che
una stessa città ha sempre il medesimo parlare usato, conciò sia che la
variazione del parlare di essa città non senza lunghissima successione di tempo
a poco a poco sia divenuta , e sia la vita de gl’uomini di sua natura
brevissima. Se adunque il SERMONE nella stessa gente successivamente col tempo
si varia, nè può per alcun modo firmarse, è necessario che il parlare di
coloro, che lontani e separati dimorano, sia VARIAMENTE VARIATO; sì come sono
ancora variamente variati i costumi e abiti loro, i quali nè da natura, nè da CONSORZIO
umano sono firmati, ma a beneplacito, e secondo la convenienzia de i luoghi
nasciuti. Quinci si mossero gl'inventori de l'arte grammatica; la quale grammatica
non è altro che una inalterabile conformità di parlare in diversi tempi e
luoghi. Questa essendo di comun consenso di molte genti regulata, non par
suggetta al SINGULARE ARBITRIO di niuno – GRICE, Deutero-Esperanto, High-Way
Code --, e consequentemente non può essere variabile. Questa adunque trovarono,
acciò che per la variazionee del parlare, il quale DE LA VOLGARE
ELOQUENZIA. De la varietà del parlare in Italia dalla destra e sinistra parte
dell'Appennino. LA VITA D I
Gl OVAN GIORGIO O. LA VITA GlOVAN GIORGIO O.,
ORATORE, E POETA SCRÌTTA DA CASTELLI
VICENTINO. IN VENEZIA, Per Giovanni Radici.Con Licenza
de’ Superiori , e Trtvììegio. sAlli Kob. Kob. Sigg. Co Co.
PARMENIONE, ED ALESSANDRO
trissini, ^ier-Fuippo Castelli. **t «1 & egli
fu fempre le- cita non fo lamento , ma lodevol cojaa chiunque
ha fatto penite- lo di mandar a luce un qualche Juo componimento ,
lo fceglìero a alca- Digitized by Googl
alcuno illujlre e ragguardevole perfonaggio , a cui intitolarlo
; non fola mente per acquijlargli col nome di lui pregio e
ornamen- to y ma ancora per poterlo col favore di lui mede fimo
dagl vi- vidi morti de' malevoli difende- re , e ajfìcurare :
mafiimamente di ciò fare a me fi conviene , il quale avendo
dìliberato di dare alle luce il già condotto a matu- rità
primaticcio frutto del poco e debile ingegno mio , voglio dire
la V ita del nobili fimo , e dottijfi- mo Poeta e Oratore Gì ovan
Giorgio T rissino, decoro e fple udore am- pli filmo di que fi a no
fi r a Città di Vicenda s a nobile e buona guida con pili di
ragione debbo accomandarlo , onde poffa fi cura- mente ufcir fuori
, Me migliore per tanto , nè piu fidata fo ritro- varne di quella
della molta Vo- fira Umanità , e Genti legga , Jllu-
* Digitìzed by Google I Illustrissimi , e
Nobilissimi Sigg. Conti-, concio [fi ache Voi Germe fiele di queir
amie hi filma , e fempre co- spicua Famigliai Voi alla tefifi-
iitra , e alla pubblicazione di quejì Opera ni avete piu volte
inanimito , e follecitato ; e Voi per fine dotati fiete di sì illu-
Jlri prerogative , le quali ( come- che un largo campo me fe ne pa-
ri davanti ) per lo timore di for- fè non offendere la fingolar Vo-
Jlra moaejlia ometterò. Non vo- glio tuttavia la f dar di accenna-
re V amor Vojlro alle lettere , e a chi le coltiva , il quale ficco
me dà a co no fiere quanto nobile fi a la Vofira indole , e quanto
colto il Vojlro ingegno , così Vi fu e fi- fere in Patria e fuori
fingo tar- me nt e chiari. In fatti e chi e tra per la bre- ' ' C vita,
e per ?ion piu fajlidirvi la f ciò di dire , io umilio e dedico a
Voi,. Nobilissimi* e Chiarissimi Cavalieri, quejia mia prima Operai
la quale y perciocché la V ita contiene del non mai ablct- Jlan^a
lodata Giovangiorgio Tr is- sino, fon ficuroy che da Voi , che con
lui comuni la patria , il cognome , e le virtù avete , beni-
gnamente e gratamente farà ac- cettata . E qui nella pregevol
grafia Vojlra r accomandandomi Vi faccia umilijftma riverenza , A
Vita di GIO V ANGIORGIO O. , poeta e orator celebre , ficcome per
alcuni: è Rata già fcrirta, così parrà a prima vi- lla , che
inutii cola ila Hata Io /crivella .di nuovo ; ma perchè que- lli
tali Scrittori han di Lui molte cole dette, le , quali o non fono Rate
per eflì .bene difeufle , o forfè .anche furono dette a capriccio, perciò
non Lenza ragione rilolvemmo .di così fare . Tra efii uno fi fa
eflere Rato il Signor ApoRolo Zeno, di chiariffima memoria , il quale
nella fine del le* colo paflfatodiede jh luce la Vita d’O. inferita
nella terza parte della Galleria di Minerva in Venezia prejj'o Girolamo
jilhrivjj 1 696. in fo- glio ; ma ficcome gli uomini 'veramente dotti
ed ingenui non fi vergognano di ritrattar quegli er- rori , che
nelle proprie Opere conofcono aver commefiì , così non ifdegnò egli non
pure di dirci a bocca , ma di farci fàpere eziandìo per lettera ,
mandataci da Venezia addi iv. di Giu- gno dell’anno 1749. , che nè
quella Vita , nè ciò , che col fuo nome fu Rampato e in quel tomo ,
e negli altri ancora della detta Galleria di Minerva , riconofccva per
cola fua : e quelle fono le fue parole . Sono cinquanta e più anni ,
ch'io fcrijjì quella Vita dell' infigne Giangiorgio T rijjìno , la quale
fi legge nella Galleria di Miner- va. Sappia però V. S. , ch’io
prefentementc , an- zi da gran tempo in qua non ricono feo per mio
la- voro y ma per aborto della immatura mia età tan- to . la
medejima Vita , quanto tutto quello , che col mio nome fi legge flampato
in quel tomo della Gal- leria di Minerva , e in tutti i Jeguenti , Ci
fono qua e là V'arj punti effendi ali e importanti , che allora mi
parvero con vero e fame difcujfy , e che ora per migliori lumi fopr
avvenuti ritratto , e con- danno . Di tutto ciò mi è paruto avvi far la
per fua regola , e mia giufìife azione . Sebbene quali lo
Hello avea egli fcritto affai prima al P. D. Pier-Caterino Zeno, Somafco,
fuo fratello , di fèmpre celebratiffima ricordanza ; men- tre tra
le fue Lettere , di frefeo fìampate in tre volumi in 8. col titolo di
Lettere di Apoftolo Xe- no ec. I n Venezia , apprcjjo Pietro
Valvafenfe ; nel z. Volume a car. 91. ve n’ha una a lui di- retta,
fegnata di Vienna 14. Dicembre 1719., in cui in proposito della riftampa
dell* Opere del Triffino allora ideata da’ Sigg. Volpi, così gli
diC. fe : Vinti i fono , eh' io diedi fuori nel /. Volume della
Gallerìa la Vita di effo ( Triffino ) : ma Je orai avejfi a ferriere, la
riformerei tutta da capo a piedi : onde fe io ne fo ora sì poco conto ,
av- vertite anche i Sigg. Volpi a non far fopr a efja alcun
fondamento . Allorché in Verona preflò Jacopo Vallarli fi fece la ri
Rampa delle Opere del noflro TR ISSINO, proccurata dal chiariamo Sig.
Marchelè MafFei , ma primieramente ideata da 1 rinominatiifimi
Sigg.Vol. pi di Padova, tanto delle Lettere benemeriti (co- me
appare e dalle parole della lettera furriferi- ta dei Sig. ApojRolo Zeno,
e dal Giornale de’ Letterati d' Italia , . ) noi lappiamo edere Rato
pregato il liiddetto Signor ApoRolo, che vi lalciaflè premettere la detta
Vi- ta ; ma non avendo egli allora avuto tempo di r: correggerla ,
«Rendo occupato in altro impiego , non volle acconientire . Ne fu
tuttavia fatto un breve Rjfìretto dal mentovato Signor Marchele , e
fu alle Opere luddette premeflo ; nel quale egli pur prele qualche
sbaglio, eflendofì (come a noi pare ) attenuto alla Vita inferita nella
Galleria di Minerva, e a MonEgnor Jacopo-Filippo Tomma- fini, che
fu il primo a feri ver del TRI SS INO a lungo , teifuto avendone un
latino elogio Ram- pato in un cogli altri fuoi Elogia Virorum literis
, & f apienti a illuflrium : Patavii , ex T ypographia
Sebajtiani Sardi , 1644. in 8. Datici per tanto con lollecito
penfiere a racoorrc le cole fparfe qua e là in varj libri , ed anche a
cer. carne di nuove, trovammo a calo in un Difcorfo intorno
aìl'Opere del noRro Autore, del Sig. Cava- liere Michelangelo Zorzi
(Rampato nella Riaccol- ta dOpufcoli Scientifici , e Filofojìci , toni.
3. a car. 398.) la quale cominciatali a pubblicare per opera
b del P. D, Angelo Calogero. M. Carnai, in VencTja appreJJ 0
Crifioforo Zane in 1 z. leguitandoll tuttora a produrre da'torchj di
Sirnone Occhi è già arrivata alTomoXLVII.) citato a car.441. una
dia manulcritta Vita d’O. i per la qual cofa torto ricercatala con
molta diligenza , ci ven- ne fatto , per mezzo del Signor Abate Don
Bar- colommeo Zigiotti , non pure di ritrovarla , ma di averla
eziandìo cortefemente in noftra cala , Quella Vita rt conferva di
prelentc appiedò i Sigg. Conti Triflìni dal Vello di Oro,
dilcenden- ti del noftro Autore , ed ha quefto titolo : Rag-
guaglio Jftorico , e Letterario intorno alla Vita di GIOVA NG IO RG IO O.
Nob . Vicentino , Co., Cav ., Poeta, ed Oratore infìgne ; con un
Efame delle Opere da Lui fiampate , e col giudicio fatto delle medefme
dagli Uomini più cele- bri di quc' tetri pi , e con una ccnfura J opra il
fuo Poema Erpico intitolato L A ITALIA LIBERATA DA GOTI, eftratta da
Critici allora più famojì , e più intendenti della Poe- tica Difciplina .
Aggiuntovi un ,e fatto Catalogo del- le Opere tanto pubblicate , quanto
MS S. dello fìe f- fo O. , ed un Indice copio (0 d' Au- tori, che
parlano di Lui, e che fomminijlraron no - tifi e per compilare la Vita
prefente , Il Manofcrit- to è in 4., e comprende 653. facce.
Da quello titolo sì fpeciolo e pieno credeva- mo invero, che invano
ci foffimo medi all’opera, c che avedìmo perduta la fatica inutilmente ;
ma piu cuore ci facemmo a profeguirla, ed a com- pierla , allora che
letta e riletta la Vita fleflà trovammo ella poco piu in se contenere di
ciò,, che detto aveano i predetti Autori r oltreché o- gnuno
recherebbe!! a noja il leggerla a cagione delle parecchie lunghe
digreffioni , che F Autore vi frappofe , lontane affatto dalla materia ,
che e’ fi propofè di trattare ( vizio Colico nel Cava- liere Zorzi,
ma pure fcufabile in lui per la va- lla raccolta di letterarie
erudizioni, che egli, come in preziofà confèrva, nel teforo di fila mente
fer- bava ) , benché per altro cotali digreffioni in sé contengano
molte curiofe notizie . Non polliamo tuttavia non confeflàre, averci
quello Manufat- to varie cofè fommini firate , per cui vie più. ar-
ricchita abbiamo quella noilra fatica ;la quale ficcome cola nuova e
vera, fperar vogliamo , che non abbia ad eflère fèr non di diletto.
V'abbiamo per entro fparfe alcune notizie lette- rarie ed ifloriche
fpettand a varj perfonaggi, che fiorirono nell età del noflro O.,
oa qualche fatto notabile de! tempo fleffo , lenza però dilungarci
granfatto dal hlo principale dal racconto; le quali notizie vogliam
parimente cre- dale, che non faranno difeare. A non
oltrepafiare la brevità, che ci fiamo pre- fifla, abbiamo a bella polla
tra lafcia te alcune co- le di non tanto conto/ perchè altrimenti fé
avefà fimo voluto dir tutto ciò , che ad O. 1 può. appartenere, di
tanto fi farebbe quella Vita. b z afiim- Digitized by
Google VI prefazione. allungata, che, anzi che
diletto, noja e fafiidio apportato avrebbe . Quanto poi alle
Opere del noRro Autore , cre- diamo di non averne tralafciata pur una ,
come apparirà dal Catalogo , che fi pone in fine di que- lla Vita y
dove molte fé ne vedranno regiRrate , che non furono mai Rampate , ed al
Compilatore fopraccennato o non venute a cognizione, o dalui per
avventura non curate: e di molte eziandìo fi favellerà, che da qualche
Scrittore da fallace tra- dizione ingannato a GIOV AN GIORGIO fu-
rono attribuite . Tutti i Titoli per altro delie Opere fleffe non ci
fiamo curati di riferire ap- puntino , come Ranno ne’ Frontelpic) delie
edi- zioni , non ci parendo cofa di grande importan- za > e
fimilmente se fatto nell’ allegare , e cita- re qualche pafso di fue
fcritture: e abbiamo tra- lafciato eziandìo i Caratteri Greci dal noRro
Au- tore inventati , non avendogli giudicati quivi to- talmente
neceflàrj , e non già credendo di reìidcr così molto buon fcrvigio alla
memoria di quel grand’ uomoy come fi lafiiò ulcir della penna il per
altro tanto benemerito dottiilìmo editor della rifiam- pa delle
Opere dei Trillino fatta in Verona j im- perciocché tenghiamo per fermo,
che Te il Trif- lino folle vivo, figurerebbe a afare nelle proprie
fcritture quelle lettere da se con tanto Rudio ri- trovate , ulate, e
difcle. Dopo di avere così Icritto ci confoliamo , pa-
rendoci di elserci in quefio particolare uniti alla oppinio
vir ©ppìnione del fu
Signor Apollolo Zeno, che nella più fopra citata Lettera al P. D.
Pier-Caterino fuo fratello così Icrilse : Lodo /'edizione di tutte
/' Opere del T riflino . Ma fi farà ella con gli Ornicron , e cogli
Omega , e con la foli t a ortografia di quel grand’ uomo? Si
farebbe potuto regiftrar anche il catalogo di quegli Autori'*,. che di
Lui fecer menzione ; ma liccome molti lì troveranno già citati per entro
quella Vita , e gli altri non ne parlarono più che tanto, così noi ci
lìamo dilpenlati da .quella forfè dilutile fatica . A quello però può
abbon- dantemente lupplire la Tavola delle cofe notabili , che alla
fine del libro abbiamo aggiunta ; la qua- le altresì mette in un tratto lotto
l’occhio del let- rore tutte quelle notizie letterarie ed illoriche
, che, come lopra è detto, abbiamo fparfe qua e là: Tavola che
lenza quelli ragionevoli motivi , lì larebbe dovuta certamente lalciare
in un’Opera di pochi fogli, liccome lì è quella nollra. Circa
poi le correzioni ed ofservazioni critiche per noi fatte lòpra gli errori
d’ alcuni de’ detti Autori, lì vuol qui dire, che non s’intende
giam- mai d’olcurar punto la fama , che e£Iì godono più che chiara
tra’ Letterari, ma fola mente di far apparire il vero nella lua luce; e
le allo ’ncontro qualche errore lì troverà in quella Vita da noi
in- navvertenremente commefso , lì feulì la piccolezza della nollra
luffìcienza ; riflettendo maflìme , che rari lon quegli, i quali vadano
in tutto efenti da que’ difetti,, che ( come dicea l’Abate Anton Ma-
ria Salvini ) fono patrimonio e retaggio di nofircc fievole
umanità. Finalmente fe vedremo y che quello primo par- to del
noftro rozzo ingegno lìa gratamente rice- vuto,. come ci giova iperare ,
dagli uomini lavji ed eruditi ,. noi allora con maggiore
follecitudine attenderemo a profeguire la già da parecchi anni
incominciata faticolìllima Opera delle Notizie Let- terarie ed I (loriche
degli Scrittori Vicentini da altri pure , ma Tempre infelicemente ternata
(a ) ; nella quale ,. le non andiamo errati r fperiarno di
inoltrare ,. che ( come lalciò Icritto il nollro Ba~ flian Montecchio
nel- fuo- Trattato; De Inventario’ tLeredis , & c . Venetiis apud
Fransi feum Zilettum a car. 160. a tergo, num, joz.- J Vi- ceda
foecunda fuit JvLxter & jiltrix poetarum philofopborum , or a forum
,, thcologorum ,. jurif con- fiti forum y ant i queir iorum medicorum ,
atque in qualibet facultate eruditorum ; e che per ciò elsa
noa è. a verun altra città inferiore .. KOI! Spcriarao prròdi
vedere a luce rra fonazioni intorno all a forte miilio- poeo tempo
un’Opera ddl’cruditif»..! re della Storia Ecclefiaftica r eSe~ Sig, Dr.
D. Franccfco Fortunato Vi- J colare della medefima noftra Patria,, gna,
la quale conterrà V /fiorite Let- ! promclTe col dottifsimo fuo Preli-
/er 4 r/ e ricca del pari di facoltà» e di Sog- getti » che in ogni
genere di profeffione illuftri ella ha prodotti in ogni tempo . Ella è in
parec- chie linee divifa » e tra effe con particolar luftro fplendc
quella , che conofce per fuo gloriofiflimo afeendente quel Giovangiorgio,
di cui fcrivia- mo la Vita ; il quale alla nobiltà del legnaggio
A avendo accoppiate le più eminenti prerogative# che render pollano
un perfonaggio e’n rarità di dottrine, e’n cavallerelche virtù
fplendentiflimo, non fedamente tra’ Letterati, ma in una gran par-
te del Mondo celcbratiflìma, ed oltremodo chia- ra lafciò la fama del fuo
nome. Nacque adunque Giovangiorgìo Trissino' in Vicenza il
fettimo, o, fecondo altri , l’ottavo giorno di Luglio dell anno 1478. ( 1
). Suo Padre fu Gafpare Trillino, uomo d’armi, e colonnello di
trecento fanti alToldati col proprio danajo a fer- vigio della Repubblica
di Venezia, appo cui ac- quiftò (ingoiar merito; e fua madre fu Cecilia
di Guilielmo Bevilacqua, nobile di Verona. Non pure da un Epica- 1 luogo
fi favellerà) cioè) che P fio delle geftc del noftro Tms- anno 1487. per
la morte di fuo SINO , collocato in S. Lorenzo j Padre egli rimafe orfano
di fette di Vicenza, di cui a fuo luogo ' anni . Ma liccomc egli non
in diremo didimamente > ma da mohiflimi Scrittori appare
edere egli nato l'anno fuddetto, c fpczial mente da Monfignor
Ja- copo Filippo Tommafini nel fuo tuteli luoghi di fue feri
tture fida l’epoca del fuonafeimemo in un medefimo anno, fccondochè
lui bene tornava , e in utilità de* fuoi dcmeftici affari ( come ci
fe libro intitolato ; Elotia rirornm certi il Sig. Abate Don Barto-
Littris & ftpitntia illuftrium lommeo Zigiotti , che tutte vi'
&c. Patavii ex 7 ypo{rapkia Se- J de , e rivide le private Scritture
bacioni Sardi 1644. in 8. a dell’Archivio de’Sigg. Co. Co. pag.48. Quello
tuttavia potrebbe [ Tri dì ni di lui eredi); cosi ci è non crederli, quando
fode vero! paruto miglior cofa edere lo ac- ciò, che il T r issino
medefi- tenerci anzi alle autorità, e air irto dica in una fua mirini*
far- 1 unanime confentimento dei pre- fic" come fu fuo
maefiro quel Demetrio Calcondila Ateniefe, la cui fama è sì chiara tra’
Letterati (5); al quale appreflb fua morte erger fece il Trissino
un bel Depofìto, ed Epitafio Scolpi- to in marmo bianco nel facrario
della Chiefa della Paffione della Città Aefifa di Milano, co- me
dicono Paolo Beni, c'1 P. D. Francefco Rugeri Somafco (7), cd altri, il
qual Epitaffio non V’ha un’epiftola addet- to
Giraldi in vedi Latini del Sacco di Roma, polla nel 2. tomo delle
fue Opere della edi- zione di 8 Mfilt.it per T nomar» Guarinmn , infol. che autorizza il noftro detto
cosi dicendo; tt Aec dttfet Bembus , q*o » nere pr e fi art
hot alter „ A«e q»cm Ntbilitar gene . tt rit, f ac
media triplex » Irejigreem fAcit , & viridi mihi notr s ab
avo „ T r 1 * s t N U s , In fibra dum tt Grecai difeimm
Urbe. Da una Lettera aliai lunga del Trusino, fcritta da
A-ii- lano li. all' txc cliente Medie» ( così Ha ferir- lo )
M. Uini tritio da Afalgra- dt , fi ha, che egli non pure era
fcolare del Calcondila, ma che anche abitava in fua cafa. (6)
Tratt . dell' Origin. della Famiglia Trijf. lib. 2. a car.33.
(7) Nella Declamazione la- tina intitolata : Trutina JOelpb»-
htdrki Tabellariatui Traiani 1 Boc- Digitized by
Google del TRissino. 5 non pur fi conferva manufcritto
con altre fue compofizioni fin ora non date a luce, appretto i
Sigg. Co. Co. Fratelli T riflìni di lui eredi*, ma fu anche ftampato
nella Biblioteca degli Scrittori Milanefi pubblicata dal Sig. Filippo
Argelati Bo- lognefe (8), e poi riferito fulla fede di quefto
autore da Criftiano-Federigo Boernero nel libro de' Dotti Uomini Greci
riftoratori della Greca letteratura nell’ Italia (p); ed è quefto.
p. m. DEMETRIO CHALCONDYLyE ATHENIENSI IN STUDIIS
L1TERARUM GR^CARUM EMINENTISSIMO QUI VIXIT ANNOS LXXVII. MENS. V.
ET OBIIT ANNO CHRISTI MDXL O. GASP. FILIUS PRAICEPTORI OPTIMO ET SANCTISSIMO POSUIT.
E di fiat cui ini ice. Alon.ìchii fuisfor- mis,
CTfumptibmt cuffie Nicola hs tìmricHs , t6aa. in 4. pag.xxi 1 1. e
xxiv. ove dice: „Hic ( JojGeor- u gius ) a viro do&ìllìmo De- „
inetrio Cbalcondyla Athc- ,» nienti , tanca ingenii foclici- „
tace, Gricci fcrmonis latices, » haufic ut.... Attici cognomen, „
paucorununenfium cuiriculo, „ ex fui prseceptoris fententia, „
verius proineruit : Magiftro i) benemerenti gratiflìmu, , cui »,
McdioJani vita fun&o , mo- » numentum marmoreum in „
tempio Paffioni Servatoti, noftri facrum excitavit. (8) Philip pi
Arie lati Bono, nienfis Bibliotheca Scriptorum Alcdiolancnjìnm ,
five Alla, & Elogia Virorum omnigena or odi. tionc illuflrium ,
qui in Metro, foli Infubrie , Oppidifquc circum. jacentibut orti
funi lice. Medio. Uni 174J. In JLdibus Palatini t; Tom. ix. in fol.
l’ Epitelio Chriftiani Frid. B temer i De E di ciò non
.contento Giovangiorgio volle j in fegno di gratitudine maggiore allo
fteflò Tuo grande maeftro, farne altresì lodevole menzione nel
predetto fuo Poema (io). Donde fi deduce, che molto lontana è
dal vero la opinione di Giovanni Imperiali, Vicen- tino, il quale
fcrifse eflere fiato il Tassino af- fatto ignaro di lettere fino all’età
di ventidue anni; e che dipoi andato a Roma, al folo udì* re colà
le aringhe de’ Letterati, tanto fi accen. defle in lui la brama di
fapere, che giugnefle in breve tempo a quella letteratura , che lo
rendette poi così celebre, e così illuftre (11): il che difsero anche
Paolo Beni (i z), ed un altro autore (13). Allo
De dotti* Hominibn i Gr tris Li- Il Calcondilt , che farà, che t
trarum Gracarum in Italia in- ditene (taur attribuì Libtr. Làpfi*
in Bi- Verrà ftco in Italia , t pian- tliopolie Job. Frid .
Sledijtchii terawi 1750. in ii.gr. Qui l’ Epitaffio è II feme
elette della lingua a car. 185. Greta , (10I Ita!.
Libtr. da' Goti , lib. fit ) Gio. Imperiali Mufxum *4. nella fine con
quelli verli . Hiftortcum óiC.Venetiù apuajun- Vtlgett gli occhi a luti
pre- ; ttai . 1640. in 4. pag. 43. dori ingegni ; ( li ) Tratt.
dell' Orig. della Quello è BeJJarion , quell' altro Famigl. Trzff.
lib. 2. a carr. 33. i’I Gaxjt ; ( 13 ) Qiiclli fu un certo G»-
. leazzo Trillino in una Genea- QnelV altre t'I Gemijle col 1
logica Narrazione della fu a fa- Trapeftnxj», ■ miglia, da effo
iraslatata di la- £ 'l C aleni’ dii e , f’I Lafcari, e[ tino
involgare. Di quefto vol- *1 Muffure, 1 garizzamento fi trovano
parec- * chic. Allo ftudio delle Greche lettere uni il
noftro O. quello delle feienze Matematiche} e tifiche (14), e
quello ancora dell’ Architettura, in èhie copie, c una
è appretto il perfona del noftro Giovan- rnentovato Sig. Co: Parmcnione |
G 1 o r gì o, c che da edo ci fu- ‘Triflino, della quale ci fiamo rono
pare con umanilTima gcn- ferviti a fcrivere queftaf'it.», e tilezza
trafmede a. Vicenza. For- ciceremla col nome di Gemalo- I le che detta
Raccolta di Scric* già delia Cafii Triffino di Galeaz. • ture queUa era,
che da Paolo zj> Triffino . Quello autore di- Beni viene citata nel
predetto ce nel proemio di avere ac- {no Trattato Manufcricto della
trefeiura eda Narr Azione da (e Famigl. Trifs. a car. 26. Ann. tradotta a
inchieda di parco» 1404. con quelle parole: Gic: chi fuoi amici e parenti
, i qua- Giorgi o Tr issino» il li voleano i che c’ia defle an- Poeta ,
di chì ragioneremo , nelP che in luce. Orazione che fece nel green Con
- Un’altra copia nc ha il Sig. figlio di Tentila fer ricupera
Abate D. Bartolommeo Zigiotti Alone delle fue Decime nella Til- in tutto
limile alla predetta . Un Im di Tal d’ Agno , che fi legge Tello poi di
quell’opera era già fcritta a penna nelC Archivio appretto i p. P.
Somafchi della del Sig. Co. Bonifacio Triffino Salute in Venezia! e
queftonoi j nel libro , che ha per titolo Rimiamo, dite potefte ctTcrc
I'IPrisca Triisjne^ Fami- originale. Con ctTo era unita) ti .€
Monumenta.* & c.., la citata Aringa di G 1 o v a n- facendo egli
menzione delle Giorgio, c ’1 Trattato mano- Scritture defle anche a car.
29. fcritto della Famigl. Triff. di I del primo libro dello Aedo
fuo Paolo Beni, ed altre feri t tu re Trattato della Famigl. Triff .
, concernenti alla detta Famiglia: che è dampato, di cui più in-
tutto in un libroin foglio, fui nanzi faremo menzione. Dilli, cui cartone
al di fuori lì legge- j che era nella Libreria de’ P.P. del- Vano quelle
parole: P r i se a t la Salute in Venezia, perchè og- Trusinea Familismo-!
gidi certamente ivi o non vi fono hu menta. Le quali Scrittu- j ìe dette
fcritture, o difficilmen- te prima erano appredo il P.D. te fi podono
ritrovare : conciof* Pier-Catcrino Zeno Cher. Rcg. fiachè io col mezzo
anche del Somafco, di gloriofa memoria} | P. D. Jacopo Maria Paltoni,
che come ci dide il Sig. Apoftolo j con tutta bontà mi favorì di
di- Zeno, fuo fratello, che di ede ligentemente cercarle, non abbia
tutte nc eflraflc quelle notizie, mai quivi potuto ritrovarla, che credette
più fpettami alla) (14) Che il Tr issino fof- — - - , fc in
cui molto fece di profitto, come ne fa fede non pure un piccolo ir aitato
in cotal materia da lui comporto (15)» ma la fabbrica del fuo
Palazzo nella Villa di Cricoli a mezzo miglio lontana da Vicenza, che è
tutto di fuo difegno fulle regole di Vitruvio (i Quia 1 ri* del nome
loro. Non fi può * ,, Parthenius multaruni (cien-' veramente farne altro
gìudicio, >» tiarum homo, diù literas ibi i confederata con la
prontezza di „ docuit, erudivitquc canqu 3 m j cotefii ingegni , che voi
harete », in Lyceo Juvcnes nobiles Vi- da e fer citare , la finezza
delle », cetinos maximè, ac Vcnctos. veftre lettere, e la gentil
manie- ri) Queita lettera, che fi ra, propria di voi filo nel di-
lcgge tra la Lettere di xiu. mojtrarle . Entrate pure, Sig.Com - Uomini
illuftri ec. In Venezia pare con franco animo in quefia per Comin da T
rino di Alonfer - eroica imprefa , e commutile at e rato, 1561. in 8,, a
car. 180. e altrui i tefiri della vera dol- che fu anche inferita nella
terza trina , parte con la voce , e parie del V Idea del Segretario di
parte, ancora con la penna, che Bartolommeo Zucthi, In Vene- non ho
dubbio, che nell’ ameni- z.ia prcjfo la compagnia minima tà di quella
vaga fan zia non vi léso, in 4. a car. 8 1. ; Quella let- fi defti
defiderio di qualche bel - tera, dico, vogliamo qui rife- la poefìat al
che doveri fifpi- CÙe; cd £ quella.. ( [ gntrvi la rimembranti , che
ogni trat- Digitized by Google ti L
A Vita S’era già ammogliato il noitro Tassino a Giovanna
Tiene, nobile Vicentina, da cui avea avuti due figliuoli, l’uno
chiamato Francefco, che morì giovane, e l'altro Giulio (25), il quale fu
poi Arciprete della Chiefa Cattedrale di Vicenza (26)$ ed eflfendo
effa morta, di tanto egli fi ram- tratto il luogo vi
darà del dot - tijfimo Trisjino; in cui a giudicio mio chiiirijftmo
efempio ha veduto Reta noftra delle tre più pregiate lingue,
cc» Di Venetia olii xx. dì Maggio MDLV, Compari e fratello
Paolo Mariano . Ciò» clic della Villa (addet- ta di Cricoli
lafciò fcritto il Sabellico nel Poemetto intitola- to Crater
yiccntinus, porto nel to- mo iv. delle fue Opere, a car.550. (
nominato dal P. Rugcri nella ìua Declamazione a car. xxv.) fu molto
prima che ella fofsc ridotta alla perfezione, c va- ghezza, che
oggi fi vede; la qual cofa fu osservata ezian- dio dal Beni nel
luogo citato. Nel Palazzo iftcfso di Crico- li ebbe diletto
di foggiornare parecchie volte 1 ’ Arcivcfcovo di Rofsano Monti?,
nor Giovam- batirta Cartagna » nobile Roma- no, Genovefc di origine
, nel tempo , che era Nunzio di Gre- gorio .irti, in Venezia;
come dicono il P. Rugeri Trutina&c. pag. xxv., c Paolo Beni
Tratt. dell' Orig. della Famigl. Trift. rtampato, a car. jj.,
e’lTom-{ I mafini Elogia &c. pag. 49. e 50., ed altri; U
qual Prelato fu poi [addi li. del Dicembre dell’anno 1583. creato
Cardinale, e poi a’ 15. di Settembre 1590. fatto Papa col nome di
Urbano vii. | Onde in memoria di ciò fu la I cornice d’una
porta d’una Ca- | mera del mcdeìimo Palagio vi tu
incifaquertaifcrizionc; B E a- t issi m 1 Urbani VII. Hos- pitium ;
e fovrappoftovi il Bufto dello ftefso Pontefice. (14) Nel
Ri/fretto della Vi- ta dei T r 1 s s 1 n o prcmcfso al- le fue
Opere dell^ rirtampa di Verona, quella fua prima mo- glie è
chiamata erroneamente Giovanna T r 1 ss 1 n a, quando ella fu
veramente (come conila dagli Arbori) della Famiglia de k Cor Co:
Tiene. Di quello Giulio avre- mo occaGonc di fare pcculiar
menzione , a cagione de’ fuoi lun- ghi litigj contro al Padre.
(26) Che due figliuoli avefsc il Tr issino della detta fua
moglie» lo dice ilTommafini negli Elogi pag. 30., cd altri; ma il
Tr issi- no irtclfo nella citata lettera al Reve -
Digitized by Google del TR-Issino. 13 rammaricò, che
non volle più dimorare nella Patria 5 ma partitofcne tornò a Roma ,
dove già era ftato effe ndo giovane; e quivi col cuore ingombrato
da quello fanello penliero fi diede a telfere la celebre -Tragedia della
Sofonisba, della quale innanzi parleremo minutamente.
Frattanto eflendo morto il Pontefice Giulio 11 . gli fuccedette
Tanno a dì xi. di Marzo, o fecondo
altri addì xv. , il gran Cardinale Giovanni de’ Medici» che fi fece
chiamare Leo- ne X., il quale, ficcome quegli che era princi- pal
protettore de’ Letterati , avendo conofciuto il Tris sino, s'innamorò
ardentemente del fuo raro ingegno, e poi lo amò fempre quanto ciaf-
cuno illuftrc Perfonaggio del fuo tempo, c l’ono- rò fommamente,
impiegandolo eziandio in varj uffizj affai riguardevoli. Godea egli
pertanto in quella Corte tutti gli agi, e gli onori tutti, che a un
Perfonaggio diletto al Pontefice fi conve- nivano; quando venutogli nella
mente il già go- duto rìpofo nella fua Villa di Cricoli, deliberò
di Reverendo Prete Francefco di j ra poi del medefimo, che
non Gragnuola, che fu fuo macftro , c fra le (lampare, fcritta da
Aiu- dandogli ragguaglio delle cofe ' ratto al detto Giulio addì
iS. della fua cafa, d’altri non par- M*rz,o 1542., fi ha, che elio
la, fuorché dell’ Arciprete con Giulio fu primamente Cameriere quelle
parole: Hebbì della yri- di Papa Clemente vii. > c clic ma moglie un
figliuolo , il qua- da lui fu poi fatto Arciprete del. le è fatto-, ed è
Arciprete di la Cattcdtale della Cittì no- quefia Città. Da un’altra
lette- j ftra di rimpatriarli : laonde prefo commiato dal Pa» pa, tornò a
Venezia, dove fuori di rutto il fuo penfamento trovò materia, per la
quale e’ dovet- te per lungo fpazio di tempo anzi inquieta, che
ripofata menar fua vita. Ciò fu una per altro temeraria infolenza
di alcune Comunità di certe Ville del Territoria Vicentino,
fpecialmcnte di Recoaro, e di Val d Agno, che prefa l’occafione delle
turbolenze e rivoluzioni , che travagliavano in que'tempi non pure
la noftra Patria, ma tutta la Lombardia, aveano fupplicata la Sereniffima Signo- ria di
Venezia fotto palliato colore di one- ftà, che volefle (gravarle
dellobbligo, che aveano di dare le Decime delle loro ricolte a'CorC.o:
Trif- fmi della linea del noftro Giovangior.gi.o , i quali n erano
i foli Proprietarj e Padroni, co- me quelli, che dalla Signoria ilefsa ne
erano (la- ti invertiti a di 3. di
Settembre. E benché addì 6 . di Ottobre dell'anno 1512. le dette
Comunità avefsero avuta fopra ciò con- traria fentenza in foro civile,
non però di me* no tentarono , fe favorevole giudicio ottener po-
tefsero io foro ecclefiallico: e perchè ne furono molto
Della Repubblica di Ve- nezia fi gloria d’ cfscrc volonta- ria
prima fuddita la Città di Vicenza - , la quale anche però è
chiamata dagli Scrittoci Primogenita d’cfs a Repubblica , perche la Piuma
fu, che fra tut- te le Città fudditc le fi donifse fpontancamcnte:
il clic fu molto torto impediti (28), però efli per forza dal fuddetto
obbligo fi efentarono. Ma in que- llo mezzo per giurto motivo quefte
Decime ap- plicate furono al Fifco Pubblico. Tornato adunque
Giovanciorcio in Patria, co- me dicemmo (il che fu o verfo la fine
dell’an- no 1514., o nel principio deiranno) e trovati sì fatti
difordini, de’ quali dicea egli di non averne avuta, dimorante in Roma,
veruna relazione (so)-, pensò di ricorrere alla Signoria medefima,
perchè almeno gli fofle redimita del" le fuddette Decime la fua
propria porzione- Se poi egli efFettuaffe perfonalmente quello fuo
pen- famento, o fe altri in fuo nome facefse la fup- plica, noi noi
fappiamo di certo: comunque ciò fofse, fatto ila, che cfsendo Hata
conofciuta la fua innocenza, e a riguardo fpecialmente di Pa- pa
Leone , il quale la iatercertìon fua in ciò frap- Ottennero i
Co; Co;Trif- flniaddi ia.di Novembre Lettere Ducali proibitive del
non do- verli trattare in foro ecdefiaBi- co quella lite.
Tommafini negli E- legi pag. 51. dice, clic furono confricati i
fuoi Beni ita urgen- te belli fortuna : c poco appref- fo parlando
della refiituzionel fattagli de’ Beni Beffi dai Vene-! ziani,
accenna la cagione d’cf-| fa confifcazione, dicendo: fai ,
cognita ifjìut innteentìa , Veneti Bona ab / enti jujìa
confanguinto- rum culpa ob defetHoncm erepra, benigni reflituerunt
. Noi vera- mente fappiamo qual folle cotal colpa} maonefii
rifpetti, e ne- cefsarj giuBi motivi non ci per- mettono di
riferirla. Tanto egli afferma nel- la fua siringa-, di cui
diremo più datatamente a fuo luo- go. Irappofe,
gli fu Tanno fuddetto 1515. re- flituita ogni cofa. In quello
tempo medefimo fu egli dallo ftef- fo Pontefice in aliai importanti
affari impiegato; e primieramente finché folfe palfato il verno di
quell’anno, (dopo cui gli ordinò medefima- mente, che, prendendo la volta
di Dacia, fe n* andafsc Nuncio a quel Re), lo mandò fuo
Ambafciadore all’ Imperator Maffimiliano ; nel quale impiegò fi portò con
tale prudenza, che e da ognuno in molta llima tenuto fu, e all*
Imperatore caro sì, che ne riportò grandilfimi onori (35): anzi è fama,
che da lui conceduto gli fofse, che nell’Arme gentilizia Tlmprefa
del Fello d'oro inferir potefìc, e che altresì Tri ss ino •
dal •( 31 ) Che Papa Leone frappo- nt(Tc in quello fatto la
Tua in- tercezione , non folamente lo dice Monfignor TommaGni
ne- gli Elogi , pag. 51., ove regiftra un frammento di una fua
lette- ra al Conte di Cantati, con cui gli raccomandava quefto
affare; ma lo accenna Giovangior. Gto fieffo nella già citata
fua lettera al Revtr. Prete di Gra- gnuola con quefte parole: Io
fo- no flato per varj cafl: prima per qitcfle guerre fletti ot
Panni exu- le, e privato di tutte le tuie fa- cult à, che per la
benignità de la felice ricsr dazione di P.P.... (il nome non è
quivi cfprelfo, ma fu Leone) mi fu reflituito ogni cofa, nel
tempo, che if ero Legato di Sua Beatitudine a Maxìmiliano
Imperatore ; e nel- la fua Aringa dice, che ciò fu de l' anno 15 1
5., che erano tre anni a ponto dopo che li Commu- ni aveano
occupate le Decime. La Dacia, dove il Tris- sino dovea andare,
quella non è, che anticamente era unagran- diflìma e vada Provincia
dell’ Europa, c che oggidì c laTran- fil vania; ma quella, che oggi
sì appella Dania, o Danimarca, la quale giace a fetrenttionc dell,
a Germania. (33) Tanto afferma egli (Icf- fo nella Dedicatoria
del fuo Poe- ma dell’ Italia Liberata eia'Goti.] dal vello d,' oro
potefse denominarli .. Ma per- chè alcuni dicono eSsergli flato conceduto
ciò anche da Carlo V.» pero ci riferbiamo a par- larne altrove a
minuto. Di tutto ciò, che Giovan Giorgio operava nel tempo di
detta legazione, avvisò il Pontefice -con una lettera inclufa in un’altra
diretta a Gio- vanni Rucellai, Tuo grande amico, e confidente, il
quale poi addi 8. di Novembre del Suddetto anno 15-15^ gli riSpoSe da
Viterbo, che avea con- gegnata al Papa la fila lettera; che elfo
l'avea ■letta molto 'volentieri ,5 e che non pur dai motti e gefti
fatti nel leggerla conofciuto avea effergli -molto piaciuta, ma più affai
da quelle fue pre- xile parole: egli hi fino a qui proceduto bene y
& non poteva meglio exequire li mia volontà dì quello Jl
* Soggiungendo appreffo aver dal mede- lìmo commiffione di Scrivergli ,
che feguitaffe P ure , come avea fatto, a conferir col Vefcovo FeU
trenje gli affari che maneggiava; Siccome il Papa fleffo gliel’ ordina-va
col Brieve , che gli tras- metteva in un con quella Sua lettera di
rifpofta (34)* Dalla qual lettera appare ancora avere avuto il
Trissino ordine dal Pontefice di trat- tare la pace universale, e l’impreSa
contra degl* Infedeli; poiché il Rucellai gli Scrive così: Per
C li pie e Quella lettera del Ru- celiai fu ftampata a car.
xv. del- la citata Prefazione alle Opere del Trissino.
U pace univerfale , e l* impre fa c intra Infedeli vi ha- •ucte a d «per
are totis v/ribut , perché Sua Santi ita t ba mi In 4 cuore , come fapete
, e crediate certo , che ne/funa altra caufa particolare non lo muove ,
fi non la unione della Crifianitì 3 £ t/uefta fan ti firn a Impre-
C*> benché fi, che vi ricordate la COMMISSIONE fua y e con che
affezione vi PARLÒ di t/ue/la cofa (35). Ettèndo già intanto
pattato il verno del pre- detto anno 1 5 1 5» volea Giovamgiorgio
profe- rire il Tuo viaggio verfo la Dacia , giufta la committionc
dei Pontefice; ma ne -fu impedito dalflmperadore, il quale volle, che
invece al Papa ritornatte, come Tuo proprio ambafeiatore, e lo
pregafle in Tuo nome, che volette fermare una nuova lega tra sè, el Re
d’Inghilterra, e’1 Re di Spagna contro a'Franzefi, i quali dittimu-
lando la brama di vendicarli, voleano pattare in Italia; giacche la
confederazione altra volta con- chiufa tra sè, e’1 Re cT Aragona, s*cra
fciolta per la morte di quello Re; mandandogli anche per Giovan
gidroio medefimo una ben lunga Jette- Rucellai finifee detta j
de’ Medici, cugino di Papa Leo- lcttcra con quefte patolc: Credo ine; il
quale poi anch’egli fu haremo pre/t 0 il Cardinal de' Medi- '.(aito
Pontefice col nome di Cle- ri, il quale è tanto vo/fro , quanto | mente
VII.; abbiamo però rife- dir fi pojfa ,pcr qualche lettera ,rér|rite le
parole fuddette del Ru- ha /cripto qui , dimojìra , che molto celiai ,
perchè avremo occaftonc v ama perchè ha fallo fempre ho- ', di dire gli
onori da quello Papa rtorevtle menzione di voi. I fatti al Tr issi no nel
tempo Quello Cardinale era Giulio | del fuo Pontificato. .
lettera, pregandolo primamente, che Lui fcuCaf- fe, fé invece d’andare in
Dacia, come era Tua mente, alla Santità £ua ritornava* perchè ne 1*
avea egli coftretto; lignificandogli pofeia il pe- ricolo imminente, e la
necefiìtà dell’affare G z Rice- Contenendo quella let-
tera dell’ Imperatore al Papa alcune curiofe particolarità ,
fpczialmente intorno al noftro Tr issi n Oj abbiamo (limato bene di
qui traferivcrne buona parte; tralafciando di dire ciò, Che punto o
poco fa al noftro propofito. La qual Lettera ci fu comunicata dal
Sign. Apoftolo Zeno, di Tempre cara memoria. >,
Maximiliamus Di vi- « na favente Clementi^ Roma. „ norum Imperator S.
A. &c >, Io. G e o r g 1 u s de T m s- „ sino
San&itatis fu. e apud ,» Nos Nuncius , Se Orator . », &c.
... In
primis idem Ora- ,, tor cxhibitis Litcris noftris >,
credentialibus Beat. Pònti
fi- ,» ci, cum omni filiali reveren- ,, tia. &
obfcquiolàlutabitSan- ,, Sitarmi fuam , Se commcn- », dabit Nos ,
Screnifs. Carolum Regem Hifpaniarum , Se „ alios Filios noiiros ad
Suam ,, Beatitudinem. Deinde deda* „ rabit banditati Sua: ,
quod „ licet idem Orator ftatuiffet » iter fuum continuare
juxta », mandata Beat. Ponti ficis ad „ Screnifs. Regem Dacia:,
fra- „ trem , Se gcncrum Noftrum ,, cariftimum nihilominus
Nos confidcrantes longè plus ex- ,, pedirc rebus Sux Sancfcitatis Se
fuis, ac univerfx Reipub. „ Chriftiana* redirc propter oc- „
currenda* ad S. San&itatem , ,, quàm profequi iter
emptum, „ ob fingularem obfervantiam, „ Se affeàum ,
quem No* habe- „ mus ad San&ic. Pontificis, „ Se )us ,
quod prxfumimus in omnibus miniftris, Se fervitoribus S. Beatitudinis, ipfum
Oratorem cùm venia noftra defeendentem ab itinere „ retraximus,
& ad S. E. redi- » re computi mus, quo clarius». „ Se apertius
rerum omnium ,, Sancitati Sux per Creaturam „ fuam tàm Ei
affe&am deda» „ ramus. Ideo Bcatitudo Ponti- „ ficis hxc sequo
animo accipiat, „ Se fi in errore erracunv fit , quod
tamcnnonciedimus, id „ Nobis imputet. Caufaautcm hujufmodieft
„ quod cum jam Ser. Rex An- „ glia: fratcr nofter cariffimus „ per
Litcras , Se Oratorem fuum: „ apud Nos degentem , Se Or a- „ torem
Noftrum apud Se ref- „ fidentem dcclaraverit Beat. „ Pontificis, cognito
periculo, ,, quod imminer, nedum Ita- ,, lise, fed univerfx.
Reipublicf m> Chri- Ricevette volentieri il Papa quefte (cute, e
ac- colfe il noftro T rissino colla folita benignità» e ( omettendo
di riferire ciò, che Tulle richie- fte dell’ Imperatore egli riiòivefse ,
come cofa poco Cbriftian ex magnitudine, Se infoientia
Gallorum forc », optimè contentimi, & idem „ maxime defiderare
, quod ,» iidem Galli hunjilientur , Se n rebus fuis contcntcntur :
qux „ quidem fentcntia Sandlitatis », Su*,cùm Nobis fempernedum
„ opti ma, fed valdè neceflaria „ vifa eli, ex periculo, quod „
omnibus imminet , Se prxfertim Beau Pontificis, & fu* „ Patri*, Se
Familix, cùm il- ,, lud antiquum odium, quem Galli babucrunt ad Eum, quùm
fecerint ipfum extorrem, & per xviil. annos.cr- », rare à Patria, cùm
maxime, calamitates compulcrint, nullatenus remiferint, td omni- „. nò
auxerint, licei imprxfen- „ tiarurn negant, & compri- „ mane ,
cxpedtantes tempus. vindidlx: Itaque cogiraverit, SandlirasSua comprimere
eos, Se ad illum terminum redigere, quod non liceat plus eis „
inSandlitat.Suam,quàmfiui-| » timos fuos, Se quam juftum fit . |
>, Et cùm Nos, & Scr. Rex j n Angli*, & Ci. mcm. olimj n
Rex Arngonumid apertd pcr-l « fpiceremus , fapienter cogita- j „
vimus de una confxderatio- ' », ne ad inumani defenfionem ! », ad
inviccm, Se etiam offèa-J ,3 fionem cantra eofdem Gallos, etiam
crat Lex imer Nos , Se », ipfos conclufa : fed morte ,3 ipfius
clar. mera. Regis Ara- „ gonum dilata. Se interrupta I ,» eft •,
fed tamen cùm ex hoc „ pcticulum > ncc fublatum,3 ncc diminutura immò
nia- „ ximcaudtum fit, vidccurNo- „ bis omnino in eadem
dclibc- „ tatione perfiftendum, Se rogamus Beat. Pontificis ut ,
confiderata nccdlitate hujus> 3, rei, vclit fpfà quidem intra. 3
, re foedus hoc,. Se tranfmitte- 3 , re mandatum fuum apud Scr.
Regfm Angli* » ut ibidem ». contradletur» Se conciudatuu »
Efficiamus autem , quod in. „ locum Clar. mcm. Regjs dc- ,» fundìi
fuccedar Se r. Carolus ,, Rex Hifpaniarum , Se qui „ quidem in ca
te proficerc poterir, idem Orator admo- „ ncbit Nos. Agct autem
di- ,» dus Orator, tee. „ Dar. iu Civitare noftr* „
Tridentina die odiava ,, Menfis Marti] MDXVI. „ Regni noflri
Romani „ triccfimo ptimex. ,, Locus 4 . Sigilli . Ad
Mandatum Ccfa- „ re* Majcflatis prò. „ prium ]o. de
B&- », KL'ljjS- i n O. 12 poco alla preferite materia
confacente) pensò in- di a poco tempo di occuparlo in altri impieghi
• In fatti l’anno ftefso, che fu il lo inviò fuo Nunzio alla
Repubblica di Venezia per maneggiar forfè 1 affare della Crociata contro
a Selim Gran-Signor de Turchi , la quale gli flava molto in fui
cuore. Nel tempo di quella lua ambafeeria trovò il Tr issino?
che le Comunità, di cui s’è fatta men- zione, pagata aveano 3I Fifco
Pubblico la rendita della fua porzione delle Decime fopraddette;
ne- gando in oltre coftoro di riconofccrne lui per Si- gnore: laonde
egli ebbe novamente ricorfo alla Si- gnoria di Venezia, la quale fubito
con fue lettere in data de’xvu f. Dicembre 15 itf. commife ai Rettori di
Vicenza ( che in quel tempo erano Er- molao Donato, Podeftà , e Girolamo
Pefaro > Capitano') che nel pofsefso dello Decime flefse lo
riponefsero, come lo era innanzi la pafsata guerra (39). Dalle quali
lettere ebbe poi co- mincia- Lo dice il Tri ss
imo Hello nella Tua Aringa, d me- glio nella lettera al Prete
di Cragmtol a con quelle parole : Sua Beatitudine mi mandò
.... Legato a Venezia, ovt fui molto ben veduto da quella Jlluflr :
f. Signoria . Al Papa quello affare premeva si, che perciò
maneg-j giòj c tlabilì una lega tra mol- j | ti Principi
Crifliani ; ma por per la morte di Maffimiliano li difciolfc, e di sì
alta e pia im- presi fvant 1’ effetto defidera* to. MTr
issino in pro- pofito di ciò nella fua Aringa dice cosi : Per effer
abfente la mia facoltà fu tolta nel Fifcho ; & detti Comuni
però , quantunque ritmtjfero tutte le farti di que- fic
D. 2.J tro Bembo, fuo Segretario, la quale opportuno
crediamo di qui trafcrivere. JO: O. y I C 1 H X I 11
o. ,, Cationi am opera, & diligentia tua , atquc „
virtute certis in meis, & Reip. rebus uri quam- „ plurimum volo,
quarum rerum caufa, te ut » alloquar, magnoperè oportet: mando tibi, ut
quod tuo comodo fiet, Leonardo Lauredano „ Principe Venetiarum
falutato , ad me confe- „ ftim revertare. ,, Dat. Non.
Januarii M. D. XVII. Anno „ quarto. Roma. Andovvi egli
prettamente, niente penfando, che perciò iettar dovette in pendente
l’efito del- la Tua lite. Non lappiamo precifamente a che il Papa
lo aveffe richiamato a Roma: del retto non molto egli quivi dimorò,
perciocché nello ftef-' io anno 1517. ritornò a Venezia-, e fé fi
vuol dar fede a Paolo Beni, xitornovvi anche a que- lla volta come
Nuncio Apoftolico per trattare di ftabilire una lega contra 1 Imperio de’
Tur- chi (41) . Vero è tuttavia', che il Papa in tale • ;
occafio- (40) Quella lettera fi legge ' Simonìe Vinctntii fin fine
) Dù- ncl libro intitolato : Ferri Bembi , niftus ab Harfioexrndebat
Lugdu • EfiftoUrnm Ltonis Decimi Ton- j ni. ! r I 11 . in 8 ed è
tif. Max. nomine fcriptarum Li- ! la 35. del lib. xlll. pag. bri xvi.
Ledimi apud Hercdts \ Paolo Beni nel T ratent. L a Vita occafione
inviò per lofteflò Tr issino una let- tera al Doge Leonardo Loredano,
dalla quale appare, che egli avea a trattare col Doge a no- me
della -Santità Sua cofe di fomma importanza: la qual lettera non vogliamo
lafciare parimente di qui traferivere, ed è la feguente (42).
Leonardo lauredano Principi Venetiarum. ,, IP
Roficifcenti Venetias Jo:Georgio TrissinoVì* 5, centino; quem quidem
propter bonarum artium „ do&rinam , & politiores literas ,
excellentem- >, que virtutem unicè diligo; mandavi, ut tibi „
falutem nuntiaret mcis verbis; tecumque cer- tis de rebus ageret, quae
cùm mihi cordi flint, „ tùm noftra utriufque intereft ea confieri :
tibi „ vero edam hone fiati, atquegloriae funt futura- „ Dat. prid.
Non. Septemb. Anno quarto . jj Ronitif Non oftante che in
tanti e si diverfi negozj notò del titolo di Legato ApoA
(4») Quella lettera fi legge Jlolico inviandolo a Adajpmilia-ìahicsì nel
citato libro delle Lct- no Cefare. Ritiratofi alla Pa- 1 tere fcrittc a
nome di PapaLio- tria, fa di nuovo chiamato a &>-I nc dal Bembo,
lib. XI II. ma nel principio dell' anno IJ17. ; 16. pag.
jiy. Ciovangiorgio occupato forte, avea condotta* a fine la
fbprammentovata Tua Tragedia della So- fonìsbti y cui ( dopo eflere flato
lungamente in for- fè y come dice egli fteflo nella Dedicatoria)
in- dirizzò al luddetto Pontefice con lettera , che in poi flampata
colla ftefla Tragedia l'anno 152^ in Roma. Leone gradì fommamente qucfto
com- ponimento r e ficcomc egli era giudiciofiflìmo e.
fapientiflìmo letterato , ne fece tanta. Rima, che volle forte con reale
magnificenza, e con tutto lo sfoggio degno di se rapprefentata (43
K Non può negarli, che il Tr issi no non ab- bia comporta quella
Tragedia con tutto lo sfor- zo dell’ingegno fuo; perchè quanto al
Suggct- to, fcelto avendo l’ avvenimento funefto di So- fonisba
Regina di Cartagine r fi fece conokcrc giudiciofo sì, che per
teftimonianza di Nic- D colò Di ciò veramente altra !»»
mationibus adjudicarus fuit.- ficura pruova addurre non pof- j Benché
dalle infraferitre pa- camo, fuor folamente la fama role , che Giovanni
Rucellai ag- c la tradizione, che fe ne hn; | giunfc in fine della
fopraccitata e in oltre l’ aurorità ( fe pur va- j fua lettera al Trmsino
fogna- le) dclTommafini, il quale ne. | ta addi 8. Novembre 1515.
di gli Elogi, pag. 50., cosi lafci b- yiterbo , fi potrebbe ancora
con- ferino : » Summa duksdine , I ghietturar quello fatto. Abbiate
„ Se majeftatis pondero calami - 1 a mente ( dice egli ) Sophonitb. 1 „
rofum Sophonisbi Regine voflra , che forfè Phalijco fari evtntum drnmatc
exprcfiit .'ratto fuo in qutfla venuta del „ Quod cùtn Leone X- li cera.-
j Papa a Fiorenza . ,, rum Moecenatc benignifiìmo I Difcorfi intorno alla „ in Scenam magno
apparata T rag* dì a . /n P’icenz.a , appreffo „ eficc projuitum, primus
illc Giorgio Greco. in 8 . c. 14» „ Italia: puòiicis lauree accia, [a
tergo che (non oftante che ad alcuni quefto compo- nimento non -fia
perfettamente piaciuto, come vedremo) elfo fu ftimatiflìmo, e non
fidamente vivente il fuo Autore, ma appreffo fua morte, e d’ogni
tempo r e i noftri Accademici Olimpi- ci elfo feelfero a rapprefentare
l’anno 1562. nel- la Sala del Palazzo della Ragione in occafione di
provare il modello del famofo Teatro Olim- pico di Andrea Palladio ( 45
); e ciò fecero con sì ricca magnificenza , che, fecondo che dice
Jacopo Marzari 1 , vi ccncorft quafi
tutta la Nobil m (45) Il Sig. Marchefe Maffci',» rem
Siphaci». filiam Afdru- nei preambolo a quella Trage-j„ bali», captam
Satina adama- dia riftampnea uri primo tomo „ vie, & nuptiis
fa&is nxorerrt del Tuo T entro Italiano, che d-|„ babuit ;
caftigatufque a Scr- 1 tremo a fuo luogo, dice intorno J „ pione »
venenum tranfmific* al Soggetto di dia, che chi leg- „ quo quidem baufto
illa de- gerà il trtnttjìmo libro di T . Li- [ ,, ceflir . vio ,
ravviferà y come ninna fe\ ( 46 ) Di quella notizia ci con- n' è fatta
mai , che fervafft fi* ( fediamo unicamente debitori al fide all' iftoria
, e che jì nel S ig. Abate D. Bartolommeo Zi- tnttoy come nelle farti fi*
infi- grotti , femprc intento a cercali fiejfe in effa : aggiugnendo, che
nuove cofc, onde ampliare la le fcgucnci foche farole dell ’ . fua bell’
Opera delle Memorie antico Efitomatore fremevo ne , del detto
Teatro. ffiegano i' argomento a ba]l alila : ( 47 ) Jft orla di Pie enza
CC. u Macinili.» Sophooiibam , uxo- | In Piceni,* > affreffo
Giorgio Qn- Nobiltà dell* Lombardia , e delU Marca
Trevigiana . E da Manofcritti dell’Accademia Olimpica fi
viene anche in chiaro, non (blamente effere fiata ella Tragedia
l’anno fuddetto 15 61. magnificamente rapprefentata» ma tale e tanta
efsere fiata la ma. gnificema , che alcuni Accademici penfarono non
doverfi mai più fare tali fontuofe rapprc- fentazioni, temendo, che
l’Accademia non fof- fe per riportarne mai più lode e ftima si
univer- fale. Ma gli altri più giudiciofi Accademici a sì fatto
penfamento non aflfendrono; laonde meglio penfata quefta faccenda, e
gravemente pondera- ta, tutti in fine conchiufero, (e ciò fu l’anno
I57P-) che moderata in buona parte la fpefa, fi dovettero pure
dall’Accademia fare tali pubbliche i-apprefentanze . E’n fatti a’X.
d'Agofto dello fletto anno fu ordinato , doverfi fare feelta d*
Lina Favola PajìoraU da recitarli pubblicamente nel Carnovale dell'anno
appretto 1580. (48): ben- ché per altro fotte differito il recitarla ad
altro tempo. Di Ma ri- Greco , 1604. in 8. lib.
1. a ferratori delle Leggi, Contradi - Cai. 160. c 161. 'centi. A:
adertici, & Secretar j Per ripruova di ciò G deli' Ac adorni*
delti Olimpici , vuol qui traferivere intero in- \& delle Parti prefe
nel Configli» tero l’atto deli’ Accademia , che di ejfa Academia. Qual
inco - fi legge \m un Litro manoferit- , mincia . An- ta pteJTo di
me, Legnato » c no terno della fejfa Olimpiade intitolato; Libro delle
Crtatio- 'fino 7. Aprile 1581. L’Atto è r-tdc Prencipi,Confalicri t Con-
\ quello . j> Adi X. Agofto 1 5 79. In Cou- Ma
ripigliando il lafciato filo, eflendo morto l'anno 152,1. addì 2. di
Dicembre il lodato Pon- tefice Leone X.., il quale? come s'è
veduto, Sommamente amo il Tris si no, e ne fece moltif- fima ftima
( anzi fu detto per alcuni , come ri- ferisce , Coniglio ,
dove inrervencro » il Sign. Prencipe , Conlìglic- •99 ri doi , cioè
il Sign Hicroni- >, mo Schio follituto per il Sign. ,, Marco
Brogia, & ilSign. Fau- >9 fio Macchiavelli, il Teforic- 9,
ro contraddente foflituco, il „ Cavalicr CriHoforo Barbaran per
nome del Co. Leonardo M Tiene, & il Sign. Antonio Ca- „ mozza
confervator delle Lcg- gì foftituito per il Sign. Antp- nio Maria
Angiolcllo , con ,, aie Secretano; in tutti al nu- mero di 14.
,, Par che, la rapprefentazio- ,, ne della Sofonisba Tragedia
.*, dell’ Eccellerli ifT. Sign. Ciò: ,9 Giorgio Trjssino già no- ,,
flro Patricio. „ pel Palazzo publico per la rip- „ feita Tua non
purcon fodisfa- „ tione, ma con meraviglia di 9, chi ne furono
fpettatori, hab- .9, bia caufato fin fiora in quell’ Accademia un
quali continuo 9, filentio a fpcitacoli publici, „ come che
potendoli diflficilmente fperare più da lei im- „ prete tanto
illuBri,fofire meglio 9, per non declinare non rcetterfi » più a veruna
anione tale peri’ avvenire . Ma certamente cf- 99 fendo l’Acadcmia
noflra fon- 9, data fopra i continui cfercizf ,9 virtuofi, &c
dalFclperienza di ,9 molti anni, elfendo già co- ,, nofeiuta tale,
che può fpcra- 9, re fempre d’ operare fe non ,9 cqfc uguali 9
almeno degne di 99 fe mede lima, & della Patria j 99 non deve
da quello .troppo ,9 fevero rifpctto lafciarfi impe- 99 dir quel sì
lodevol corto, a 99 cui dal genio > dallo (limolo 9, virtuofo,
dal debito della pro- ,t feflìone, dal defiderio, & dall’ «
afpettatione altrui lì fenteee- „ citata. Laonde andari Parte* „
che quello proffitnocarnafcia- le venturo lia recitata publi- „
camente a Cafa dell’ Acadc- 9, mia con quella minor fpefa, ,9 clic
fia poflìbilc, atccfa Isde- 9, gnità, una Favola Ptjlor ale , „
come cofa nuova & non più „ fatta fin’ ora da quell’ Acad. „
quelii cioè 9 che farà eletta „ dal Sign. Prencipe nolìro, & da
„ 4. Acadcmici , che per quello „ CanGglio faranno a tal cari- ,9
co deputati, i quali habbiano „ ancoinfieme cura d’informar- » lì
da perfone perite della fpefa , 9, che vi potrà andare, acciochè ,,
fi porta f.\r la provi (ione dei den». ferifce Ciò vanni Imperiali
(4 9 ), che efso volea conferirgli il -Cardinalato-» ma che da lui fu
ri- cufato per poter nuovamente prender moglie ) a cui fuccedette
Adriano VI. ; il noftro G10- •vangiorgjo fece da Roma a Vicenza
ritor- no • Quivi attendendo à’fuoi ftudj , e fpecial- mentc alla
Poefia, compofe tra le altre cofe una Canzone in loda d’ Ifabella Marchefa
di Man- tova , a cui mandolla, ed ella poi ne lo
-a» denaro io tempo, & dar prin- ” cjpio ad imprcfa cosi hono-
,, rata , rifervata poi la elettio- •'»» nc di Accademici ,
coni’ », è detto di /òpra , la qual paf- » sò di tutti i
voti. »> l'or ballottati i fottoferitti. »> 11
Sign. Paulo-Cihiapino . • -• • • « . . prò 1 1. 3. »9
-II Sign. Criftofano Darbaran .Cavai ier .... prò p. 4. »» 11
Co. Leonardo Thiene . prò 8. 5. » Il Sign. Hicronimo
Schio prò io. 3. -9, Il Sign. Antonio Maria
9» Angiolello . . prò ri. 1. »» 11 Sign. Alfonfo Ragona * • •
..... j>ro 16. Rimate il Sign. Paulo Chi*- », pino, il Cavalier
Barbarano, „ il Sign. Hieronimo Schio, & „ il Sign. Antonio
Maria An- ,, giolcUo » come fuperiori di ,, voti.
Mufeum Hifloricum 8cc. pag. 43.,, Munito libi ad Leo- „ nis
X. gratiamaditu, infplcn- „ didiflìmo Mularum & virtù» ,, tum
atrio fic vixit, ut Non- „ nulli delatum fibi purpurar ho- „ norem
prolis gratia rejc&utn ,, ab ipfo prodiderint. Da alcune
Lettere man uteri t« te del Tris si no appare vera- mente, avergli voluto
il Papa varie ecclefiadiche Dignità con- ferire, che ivi non fi
fpecifica- no, e che tutte da lui furono ricuf.ite. (jo
) Quella Principefla fu fi- gliuola d’ Eccole I. Duca di Fer- rara,
cd è quella ideila , cui tanto efalta il nodro Autore nc’ Ritratti
- lo ringraziò con Tua lettera in data di Mantova del dì ics.; e
l'anno ap- preso 1522. addì 1 9. di Luglio gli fcriflc pur da
Mantova un* altra Lettera (52) , pregandolo, che volefle a fuo agio colà
andare dov ella era, perchè diGderava fornai amente di vederlo non
tanto per godere e gufi gre U amenità dell’ ingegni , e dottrina
fu* y ma perchè volea, che nelle fcienze e nelle lettere ammaetìxafle
Ercole fuo figliuo- lo» da che fegno dava di buona docilità, e di
buon ingegno, e d’eflere allo Audio letterario mirabilmente inclinato i
pregandolo in fine, che pel mcfso a polla mandatogli volefse farla
av- viata del tempo della fua andata, acciocché lo poteJGfe
afpettare; noi per altro non abbiamo fi- cura contezza, s’egii v’andafse.
Sappiamo ben- sì» che l’anno apprefso 1523. addì 20. di Mag- gio
efsendo flato eletto a Doge di Venezia Andrea Grilli, di glori ofiflìma
memoria (53)» ( 5 1 ) Quella Lettera c Rampata San Francefco della
Vigna di nella citata Prefazione alle Opere , Venezia entro un fuperbo
depo- dcl noftro Autore a car.xvm. fito, fopra cui fu fcolpitoquc-
( ji) Anche quella Lettera Ito .Epitafio: • Ha nella fuddetta
Prefazione, a Andre* dritto , Duci Opti - car. in. | mo , & Reipub.
Amantijfimo , pa- ( 53 ) Non folanicnve nelle (ij terra,
mari^hepart* A*&*- ftorie di Venezia, ma in altre ri, ac Veneti
terejìris imperli ancora fi poflono leggere le ge- Vindici, &
Conferva! ori, Ha- fte di sì invitto e gloriofo Pria- rcdtt pientiffmi .
Vixit A», cipe, che mori dcì 1538. in eràLXxxui. Mtnf. vili. Dici
xt, di anni 83., e fu feppcllito in; Lecejpt V Cai. 3 r ed efscndo cortume di que* tempi,
che le Città fuddite mandafsero Oratori a congratularli col
Principe eletto , fu dalla noftra Patria a ta- le uffizio feelto il T
rissino, unitamente con due altri ragguardevoli Cittadini (54^ il
quale avendo comporta perciò una elegante Orazione jn lingua
Italiana, in pien Collegio allo ftefso Doge la recitò \ della quale
orazione , che fi leg* ge tra quelte raccolte dal Sanfovino (55}, e
che fu anche più volte rift. rapata, favelleremo afuo luogo.
Nell'anno medefimo 1523. a dì 19. di No- vembre efscndo flato
afsunto al Pontificato il Cardinale Giulio de’ Medici, col nome di
Cle- mente VII., il quale (come già fi è detto) ama- va grandemente
il noftro Trissinov quertri una lettera gli fcrifse di congratulazione (e
forfè al- lora medefimo gl'inviò la Canzone (56), che fece in fua
lode ) facendogliela confegnare in proprie mani pel Cardinale Giovanni
Salviati , fuo ( J 4 ) Quefti furono Aurelio
dai!’ Acqua, e Piero Valmarana amendue gentiluomini Vienici- j
ni. Oraziani di Divtrfi Huotnini Jlluftri raccolte da
Franctfca Sanfovino , in Pene- zia per AltobeUa S alleato . . in 4.
Pait. 1. a car. 1 jy. ! Qucfta C tenzone ( che fu j {Unipara
da prima in Penezja j per T olomeo Janicolo da Bref~ fa, in
4., fenz’anno; c poi it- Rampata più volte come in fi. ne fi dirà)
comincia cosi. SIGNOR , che fofii eterna- mente elette
Nel Conjìglio Divi n per il governa De la fua fianca e
trava- sata nave ; Or thè novellamente ec.
fuo amici filmo , a cui mandolla con altra Tua letrcra. Aggradì
Clemente la officiofità di Gio- va n giorni o sì fattamente, che, dopo
aver let- ta con molta giocondità d’animo la pillola di lui ordinò-
allo ftefso Cardinale , che gli fpedifsc tolto un fuo Breve, col quale lo
chiamava a Roma ( 57) Tenendo egli lo invito del Papa r fi partì
lubito , di confenfo eziandio della Si- gnoria. Affinchè meglio
appa-j ja la verità' di quante s’è ora detto, vogliamo qui traferi
vere la Lettera del fuddetto Cardi- nale ferina al Trksino,
entro cui tirandogli il Brtve del. Pontefice } cd è quella. „
Magnifice Aniice, & tan* quam Frater Garifllme. „ Io era
ctrtiffimo della „ molta allegrezza di V. S. pei „ la felice
affunpuone della „ Santità di Nollro Signore, ,, come fe preferite
mi fulTì „ che mi Benderei molto più,. „ fe- non fuffi
certillìmo, che „ la S.V. per fc medefima lo - „ cognofce. Del
bene, & fc- ,» licita mia non le voglio di- ,, re altro ,
fenonchè quanto* »> più farà , di tanto più qucl- » la potrà
a-ogni fuo benepla- „ cito difporre; & quanto nc ,, difporrà
più , farò io tanto 1 „ più contento . La Lettera- » fua detti in mano
propria » di fua Santità, là quale con >, fornirlo piacere la
lede : &c „ flato, come quello, che al- j » più mi diflcndOrci
intorno ,, cuno non cognofccvo, clic'»» aqucllo» che amortvolmen»
,, più meritamente fe ne do-j», tc mi rifpofe , fe Sua Beati* „
vedi rallegrare; perchè la-'» tudine con uno Breve ( il „ feiamo
Bare lo univerfal be* [ ,» quale con quella fari) non- „ ne, che tutta la
Criftianità | ,, avelie ordinato di rifponde- „ ne afpetta, &: quali
mani fe- », te- alla S.V. , la quale cec- ,, (lamento ne vede » il
che », tifico , che fetnpre che ver-tutti e buoni & virtuofi , 1 », rà,
farà vcdutadaSua-Bea- „ come è V. S. debbono fom- ■„ titudine come
dolciilimo; ,, mamente deftderarc; chi più j»- amico; & da me come
dol- ,, di G-i anc! orcio è da ,, ci (Timo fratello; &• a
quella» „ fua Beatitudine amato ? ! « mi offero. Se raccomando.. „
Chi più di lui fc ne può , Roma XI. Decembris Mdxxiii. „ ogni cofa
promettere ì In j ,, lo. Cardin.dc Salviate ,,
Quc- gnoria di Venezia (58 ); e giunto a Roma fu da
Clemente accolto con fegni di ftraordinario affetto , e apprefso anche fu
deftinato a rag- guardevoli impieghi, come diremo più fotto.
Ma avendo egli intanto fatto pubblicare nel Luglio dell’anno 1524.
colle ftampe di Roma la fua Tragedia, pensò di dar fuora nuove cofe
a -utilità della noftra favella; e però fcarfo paren- dogli
l’Italiano alfabeto di caratteri atti a figni- fìcare tutti i varj fuoni
delle voci , inventonne di nuovi , o a dir di più vero , ne tolfe alcuni
dall’alfabeto Greco , e all’ Italiano proccurò di aggiungerli. Ma non
tenendofi pago di aver ciò nelle propie fcritture ufato , diftefe nel
Dicem- .bre dello fteffo anno 1524. cotale fuo penfa- mento in una
lettera al predetto Pontefice inti- tolata ^59). Circa il
principio del Secolo XVI. vi fu ve- ramente nell’ Accademia di Siena chi
avvisò di aggiugnere all’alfabeto Tofcano alcuni Elemcn* E ti
per Quella lettera fu flampata a \fubito mi fcrifft uno Brieve ,
ri- car. xv ir. deila Prefazione alle j cercandomi che io dovtfft
andar Opere del Tr issi no più voi- a Berna-, & io con il confenfo
, te citata . I (he d'Jft fuori fìmil pcnfìcro. Gli venne non
per tanto fallita in buona parte quella fua bella intenzione (come
chiamolla l'Abate Anton Maria Salvini di chiariflìma ricordanza):
imperocché ol- tre allo avere egli fteflo a rovefeio, e non nel- la
dovuta maniera, ufate da prima le nuove let- tere, e così per lo modo del
linguaggio Lom- bardo indicando falfa pronunzia , ebbe più loda-
tori, che feguaci, come accenna Giovanni Im- periali y del quale errore avvedutotene poi
egli Hello n € Dubbj Grama ricali , ftampati appref* fo a difefa del fuo
ritrovamento? fe ne amrnen* dò U3), Da
Corr.ment. all' ]ftoria\ della Polgar Poefìa-, Vol.i.Lib.vi. ; a
car. 408. della ediz. di Venezia . j Fra l’ altre Lettere dal Tris-
sino tolte dal Greco alfabeto , ! due fono più offervabili, cioè
Fi, ci’ a, Pro/e Tofane, Par. 1, Lcz.xxxi. a car.i9i.
dcH’cdizio- ne di Firenze, apprejfo O'infep- pe Manni , 1735. in
4. (Mufaum Hi/ioric. pag. 4Z.„ Rem paritcr molitus per-
„ arduam, charaftercs Graecos „ noflris immifeendi litetis ad i »
varios fonos aptius fignifi-j candos, ut repente multosad »
fui vel laudem , vel iurgi* „ traxit Reclamante Do- „
ètorum ccetu , quod in tan- »> tis dodtrinarum momcntis, ,,
monftruofa elemcntorum no- „ vitate animos haudquaquam „ turbandos
putaverint. (63) Protelìa egli in quefti Dubbi d’avere
aggiunte le det- te Lettere al noftro alfabeto a fine folamcntc di
giovare agli ftudiofi della noftra lingua; c foggiugne, che non
tralafcerà^ fuo potere coti bello , e coti no- bile injlituto :
ringraziando i fuoi riprenfori , come quelli , che per lo avergli
fcritto contro d’O.. Da alcuni Scrittori fu il noftro Autore per
tal sua invenzione rigidamente appuntato; e prima da Lodovico Martelli?
Fiorentino, il quale manda fuori una Rìspofta all’Epì fi ola d’O.
delle Lettere nuovamente aggiunte alla Lìngua volga - te Fiorentina (64);
nella quale s' ingegnò di ino- ltrare, che vana era Hata, ed inutile la
di lui invenzione , allegando fpezialmente , che non doveaA punto
alterare la maniera dell'antico fcri- vere Tofcano. Indi comparve Agnolo
Firenzuo- la, Monaco Vallombrofano, il quale oppofe ad O. tra l’ altre
cofe, che poco lodevole tra , e poco ncieffario , e infofficiente lo
aggingnìmtnto del- le nuove Lettere al fcmpliciffimo alfabeto Tofcano ,
per- ette con effe gli fi toglieva la fua naturai femplicità.
In quella fua opera il Firenzuola trapafsò per verità i limiti di
quella moddtia , con cui fi vantò nel principio di voler riprendere la
inven- zione del Trissino, perchè fì moftrò nel fuo dire alquanto
appallìonato , non curandofi di ap- parir tale ancora nel frontifpizio,
taccian- E i . dolo tro furon cagione» che fi fa- 1
nell’ Eloquenza Italiana ec..... ce (Te paltfe la natura, t la uti- \ In
Venezia appreffo Criftofor » lità di effe lettere. Zane . c.ir. 27J.
Nell' Non dille il Tu 1 s s r- Operetta del Martelli, chcè in
4. no d’aggiugner le nuove Let - 1 non v’ha il fuo nome, nèqucl-
tere alla lingua volgare Fioren- lo dello ftamparore , nè l’anno; tina,
come avvisò il Martelli; 1 nel fine però fi legge pompata in ma alla
lingua Italiana r il che Fierenzji . fu notato anche dal Montanini !
(Quell’ Opera c così in- filo- Ddolo in fine
d’ufurpatore degli altrui ritrovamen- ti, con dire, che prima d’efia e
l’Accademia Sanefe aveva avuti limili penfieri, e alcuni gio- vani
Fiorentini pi» per e fcr citare i loro ingegni , che per metterla in
Optra della medefima imprefa par- lato aveano ; i ragionamenti de’ quali
efsendo fiati naf cefi amente uditi dal T rissino, da eflo poi co-
me ftto proprio trovato fenza far di loro alcuna men- zione , furono
meli! in luce ( ) . Finalmente Claudio Tolomei, fiotto nome di
Adriano Tranci , ftampò egli ancora un libro l’opra quella mate-
ria, e lo intitolò U volito, Rifpofe il Tr issino a’ Tuoi Oppòfitori
colla fuddetta opera de’ Dubbj Gramatìcali j ed anche col Dialogo
intitolato il c aftcllano , e molto bene fi difefe -, ma non fu fiolo in
ciò, che anche Vin- cenzio titolata : Difcacciamento
delle nuove Lettere inutilmente ag- giunte nella Lingua Tofana ;
fenza efprcflìone di luogo , c di ftampatorc. Trovali anche tra le
Prtfe del Firenzuola ifteflo a car. 306. della edizione di Fio-
renza , apprejfo Lorenzo Tor- rentino, mdlii. in 8. Fu poi al- tre
volte riftampata, ed ezian- dio nel Tom. 2. delle Opere dei Tr
issino della edizione di Verona. Non può negarfi » che l’Accademia
di Siena non avvi- litile ella prima, che O. pubblicane la fua Lettera ,
di aggiugncrc ( come già dicemmo ) nuovi elementi al noftro
alfabeto; ma che egli fi valeflc interamente di quello di lei
penfiero, come dille il Fi- renzuola, non è da credere , che troppa
ingiuria fi farebbe al fuo gran nome. E ’n fatti il Varchi nell’
Ercolano dell’ ulti- ma edizione di Padova , apprej- fo il Cornino,
1744. in 8. a car. 468., dice avere il Firenzuola ferino contra il
T rissino piuttofto in burla , e per giuoco , che gravemente , e da
dover 0. La (lampa di quell’ O- pera fu fatta in Roma , per
Lo- dovico Digitized by Google DEI Trissino.
37 cenzio Oreadino da Perugia flampar volle a di fefa del di lui
ritrovamento un dotto latino opufculo, il quale eflendo flato per lungo
tem- po fmarrito, fu ritrovato per diligenza del Sig. Marchefe
Maffei, che Io fece ritlampare nel to- mo fecondo delle Opere del
medefimo noftro Autore per lui raccolte. Che
dovico Vicentino i j 30. in 4. Ve- vifato dall' Accademia Sane/e * di
fopra di ciò il Foncanini nel- per quel che fcrive il Firenzuo- la
Eloquenza Italiana , a car. la nel Trattateli del Difcac- . ciamento delle
Lettere , impref- 11 Crefcimbeni nc’ Commenta- fo tra le fue Profe.
Tutto ciò rj al! Jffor. della Volg.Poef. Tom. abbiamo noi voluto riferire
, r. lib. vi. a car. 408. dice, che acciocché (ì vegga quanto po-
pcrché andò r Accademia indù- co a ragione fia (lato il Tris- giando di pubblicare
lì fatto av- sino dal Firenzuola tacciato di vifo, Giovanciorgio Trissiwo
ufurpatore. La qual cofa più fu il primo che de ff e fuori un fi-
evidentemente appare in riflcc- mil penfiero : indi regiftra FAI- tendo,
che O. avea fabeto Italiano coi caratteri dal già medi in opera i Tuoi
carat- Tr issino aggiunti , che è ceri anche prima di dar fuori
quefto; abcdtfgche gh j quello fuo penfamento ; cioè kiljmnopqrustfu
nella Sofonitba , fcritta , e far. z v q x 7 th ph h: e poi dice I ta
leggere, come dicemmo, fot- cosi: In quel medefimo torno , 0 to il
Pontificato di Leone X.lad- poco dopo, M. Claudio T olotr.ei dove
folamente nel principio del non gli parendo, tra l’ altre co - Secolo
XVI., come dice ilcita- fe , buono il penfier del Tris- to Crefcimbeni ,
1 ’ Accademia sino, ritrovò un'altra manie- diSiena avvisò lo
aggiugnimcn- ra, togliendo la forma de'Ca- \ to di nuovi caratteri.
rat ieri, che avevano a duppli- ( 68 ) Il fuddetto Opufcolo carfi, dagli
fi effi caratteri del no- dell’ Oreadino in detta riftampa fico alfabeto
, Cime appare dall' è cosi intitolato : Vincentii Orca- alfabeto , che
fiegue : a (T c d dini Perufini Oprfeulum , in ecf^gh lilmneopqr 1 quo
agit utrum adjcìtio no va rum sftv-t/uz z . E quefio | litter aratri
Italica Lingua all- (foggiugne il Crefcimbeni) noi quam utilitatem
peperit : Ad crediamo, che fia l’ alfabeto av-^Thomam Severum de
Alphamt Vi- Che alquanti dementi di greco alfabeto prendere
egli per aggiungerli al nostro italiano, non era certamente per mio avvifo
quella fconvcne- lezza, che gli antidetti Scrittori credetter-
fi> condolila cola (come già notò il foprammen- tovato Abate Salvini
che l’Italiano alfa- beto fia ftato altresì di parecchi altri
caratteri Greci formato. Tuttavia non riufcì affatto inu- tile il
di lui penfamentoi perchè due delle nuo- ve Lettere da lui propofte, cioè
H, e Kv con- fonanti, veggonfì oggidì univerfalmente abbrac- ciate
dagli Scrittori, anche Fiorentini, come ne- celfarie a torre ogni
equivoco delle voci: onde a ragione diflc il predetto Signor Marchefe
Maf- fei (70j che * Luì » han» obligo’ le Jlampe dì tut- ta C
Italia , che le u fatto perpetuamente . Laonde non bene fi appofe il
celebre Signor Domenico Ma- ria Manni , Letterato per altro eruditismo ,
e dìgniflì- Virum eruditijpmum , & Cenci- I la noftra
lingua habbia bi fogno/ vcm Optimum . Girolamo Ru- 1 delle Lettere
aggiunte dal DRts- ccllai nelle fue note all’ Orlon- sino, & dal
Tolomei cc. doFuriofo dell’Ariofto della cdi-| Cioè il Tolomei, e
zionc di Penez.ia > aM re J[° ] Firenzuola nelle Opere loprac- Eredi
di rinccnz.io Talgrìfio , ' cerniate.. . a car. il. facendo! (7°) Profe
Tofcane , In Ft- un’ ofT.rvazionc gramaxicale fo - rence , nella
Stamperia diS.f. pra la voce corrò ( accorciato A. -per I Guiduecit e
Franchi » dal verbo coglierò) con cui l’A- 17 2 5 « 4 * P ar * P 1 * 012
Acz. liofto comincia la danza 5 8.
del ; a car. 523. primo canto*, dice cosi : Et in j lucila Prefaz. alle
Ope- qutjtt tai voti Ji cottofee quanto , re del noftro Autore a
car.xxx. dignifTimo Accademico Fiorentino > in dicendo nelle ,
fue Lezioni di Lingua T ofeana j che 1 ’ / confonante i cioè quello , che
j lungo fi appella , conte trovato dal T RISSINO , e da Daniello Bar t
olì po/lo in ufo , non è ricevuto da per tutto : e pure egli ftefio
Io usò nelle medefime Tue Lezioni (73)* Mon- fignor Fontaninij da
cui fu UTrlssino chiama- to In Firenze nella] sintonie Muratori ,
legnata dì Stamperia di Pietro Gaetano , Venezia li 12. Marzo 1701;
fì- Viviani. in8. a car. 43. 1 gnificandogli la allora frefea
e- Bene è vero, che l’ufo I dizione delle Poche degli anti- di quello
j lungo , o fia con - 1 detti d*ue poeti Vicentini, dif- fonance ,
ritrovato dal T r i s- 1 fc , avere quelli in dette loro sino, fcfu
abbracciato univcr. poefic pretefo di ravvivare l’ or- falmente nel
plurale de’ nomi , I 1 agrafia fcrupolofa del vecchio che nel numero del
meno fini- Lr Trijftno , ftnza però quelli f cono in io di due fillabe ,
in epfilon , e quegli omega , co' qua- cui Vi non lìa gravato dall’ ac-
li voleva imbrogliare iinejlro al- enato, come vizio t vario , eli-
fabeto Italiano. Colle quali pa- mili, i quali nel maggior nu- ! cole
troppo veramente difprez- mcro più rettamente il ferivo- jzòe quelli
poeti, e la buona vo- no col detto j lungo in ifcam-llontà del Trillino,
la quale, co- bio de’ due ir, come a dir vime è delio, non riufeì
affatto zj , varj ; fu rifiutato l’ ufario do- I inutile , vcggendoli
abbraccia- po l’L in luogo del G c dell* E | te dall' Accademia
medefim* nella voce EGLI, c in luogo del | della Grufca le due
fopraddettc G nell’articolo GLI, feri vendo ; Lettere J, e F* confonanti
, come LJI, come fece fempre il Trissi- ' fi può vedere nel fuo
Focabola- no. La qual maniera di fcrivere fu I rio alla lettera I. §.
xi.j e alla poifeguitata, ma con poca lode, j Lettera F. La lettera poi
delZe- da Andrea Marana, e da Antonio no è Hata ultimamente pubbli-
Bergamini, amendue di Vicen- cara in un coU’ altre lue erudi- za, uomini
per altro di lette- 1 udirne lettere in tre Volumi, ed ratura Italiana,
Latina, e Gre-| è a car. 44. del primo , che ha ca molto intendenti. Il
Sign. I quello titolo : Lettere di jìpo- Apoflolo Zeno, di Tempre glo-
fole Zeno , Cittadino Fcnezia- riofa, e a me cara memoria in ! no ,
Iftorico e Poeta Cefareo. ec. una fua lettera al Sign. Lodovico I Folumt
primo in Fenezia tO (74) Novello Cadmo , C Cadmo Italiano , fu
di oppinione, edere ftata altresì invenzione del medefimo noftro
Letterato 1* ufare la z j n cam- bio del t dopo vocale , e innanzi all’
/, cui fegue altra vocale, come nelle voci vìzio , malizia , e
fomiglianti. Ma, per pigliare il filo principale del noftro
racconto, l'anno 1525 . ( nel quale il Re France- sco I. di Francia
eflendo ritornato in Italia, don- de l’anno avanti era ftato cacciato , e
avendo già prefo Milano , attediava la Città di Pavia, la quale fu
appreflò liberata dall’ efercito di Car- lo V- > che mife in Sconfitta
1* ofte Franzefe , e fece affrtff» Pietro Falvafenfe .
i Nella Eloquenza Italia- na a car. 36. e 339. (75) In
proposto delle Let- tere aggiunte « Valerio Ccntan- nio. Medico
Vicentino, di cui parla lodevolmente il Marzari nella tua Jftoria di
licenza, a car. 183. fcriffe al Trissino il feguente curiofo
Sonetto , che ci fu comunicato dal più volte men- tovato Sign.
sportolo Zeno . ì’O grande A» tji Urici nominato. A
dijfertnlia Ai quel, cb‘ i tu ir. a
rii VE difl' ignudo i 1 di pie» valo- ri,
A luta ai Alph' al Giet" accorti pugnato i Ch* nel
fcnvir Tofcan ha ritrova • to Voflr’ alt’ ingegno i facindo
maggiori Numcr di Lettre : eh’ in vano ti- no’i Si anno
a chi nin ha 'l cervi ! fia catoi 1 Verrei faptr t Si noi
Urica Scrittu- ra Leggenda > dtbben ritener* il
futi-, no, Che nel Uggir Tofcan Kiara fi fin- ti.
Ri ff tendete Signore che la cenfura. Et gran judicio vofira
, a mt tal fono, Qual Sol ad g orno : a nette fio- co
ardiate. Andar mi vi in a minte D' addimandar 1 fi l'
Ita Gri't » timi La voce t eh' a V E Taf co fi ceti «
m». Et forfè dicttn bini Quelli, che voljan pir
ditti d' Hv miro L' Ita fuonar s cimi il Taf cu E pri-
miera . Bramo faper il vero. Adunque fa- fi l' O Tofcan
antico Terrà ’l fuun d' il Grt co 0 :cht mi- nor dico.
Il Servo di Veflra Magn. Valido Cintannio-
fece prigione il Re fte{fo(7 Papa Clemente impiegò in varj negozj
il notlro Giova n gì orcio. e intra gli altri lo mandò una volta Oratore
al- la Repubblica di Venezia C 77)» e ' [ferma per la concordia
degli Ma quel [degnato , horntil-vente fiero * Scrittori , c per lo
Elogio, che Con Pungine, ri rofiroil batti , elo '^tfU Chiefa di
San Loren- dìmtna Si fai lamenti , eh' ci fuggendo a
fina Hcrfer lo [campo f ho trova fenderò . Tal che aebaffata
in lui fi» con gran fretta , Et forfè affatto fjenra l'arroganza
, Che tutta Europa già foft in itlanza: ! dal Papa folte O.
Ottd'io tengo nel cor ferma fgtranza , mandato Nunzio prima alla Rc- Che
il Citi farà dei torti afpra ve »• pubblica di Ve.'CZÌa, e poi all’ detta
| Imperatore: ecco le fue parole: ACriflo fatti ,§ a tuttala fua
fetta .1 >} Clemcr.tis Septimi acerrimi Cosi afferma il Tris-',, teftimatoris nutu ex
Romana sino medefimo nella fua Ari».',, Curia ad Carolum Carfircnt
ga, dicendo: Papa Clemente fu' „ Nuncius cfl elc&us : inde ad eletto
al Pontificato,.,. S. Santità ,, SapicntifTìmum Vcnetorum fubito mi
fcriffe uno P, rieve , ri- „ Scnatum . « In ciò fu egli cercandomi ,
ch'io dove/fi andar (e guicato dal Signor Marchefe a Roma , & io col
confenfo, CT I Maffciìad Ri fretto deila P'ita del I
zo di Vicenza allato all’altare idi detto Santo fi legge, e die I
di fotto tra feri veremo . Gio- ivano! Imperiali nel Afufeo Jflo -
\rico a car. 44. lafciò fcritto, che Digitized by Google
42 La Vita gno dì parttcolar menzione fi è un altro
pubbli- co contralfegno deiramore , che gli portava. Ciò fu l’anno
1530. in occafìonc che dovea corona- re folennemcnte in Bologna
l’Imperatore fud- detto (79)1 imperciocché, fecondo che affer- mano
alcuni Scrittori (80), e appare chiaro da una d’O., e
da altri : ma ficcome quelli Scrittori non ci daono il tempo di
corali Lega- zioni , cosi noi non ci facemmo fcrupolo in notarne
pri ma una che l’altra; e tanto più, quan- to che può edere
veramente , clic andafle egli Nunzio a Sua MaclU Cefarea molto
tempo dopo di edere dato Oratore a Venezia , cioè dopo il Sacco
di Roma fatto dagl’ Imperiali nel IJZ7. , in cui effendo dato
di- tenuto Io Bello Pontefice, e poi liberato per commillìonc
dell’ Imperatore, edo lo mandò a ringraziare per un fuo
Nunzio, accennato folamente in una Let- tera di congratulazione,
che Io Redo Imperadore al Papa riferir- le in data di Burgos addi
xxn. di Novembre di detto annoi 517.; la qual lettera Ci legge nei
to- mo primo delle Lettere di Pria- dpi » ecv raccolte da
Girolamo Rufcclii , Ja Veneti a appre/fo Giordano Ziletti, 1564. in
4. a car. no. a tergo; fe pure ciò non fu l’anno 1529., cioè
do- po la pace tra loro fatta in Bar- cellona, di cui parla, tra
gli al- tri , il Guicciardini nel terzo degli ultimi quattro litri
della fua Ifi$ria\ avendovi una lettera di Sua Madia al Papa
in data di Genova addi xxix. di slgo/lo ., che fi legge nel
citato tomo delle fuddette Lettere di Prinnpi a car. 123.» nella
qua- le fa menzione di un fuo Nunzio con quelle parole : Ha-
vendo intefo dal detto Duca ,- & da' Reverendijfmi Cardinali .
fuoi Legati ...., & dal SUO NUNZIO ,. & Zmbafiiatore ,
cc.....; il quale può perle fud- dette cofc fondatamente creder- li
, foflTe Giovangiorgio. Carlo V. fu coronato da- Clemente il
giorno di San- to Mattia Apoftolo, cioè a dì 24. di Febbrajo: ed è
JlTervabi- le, che nei mede^mo* giomcr egli e Ila nato , ed abbia
prefo i fegni e gli ornamenti d’ Im- - peratore. Si vegga Alfonfo
Ul- loa nella Vita di Lui molto eru- ditamente feri tra-
( 80 ) Gio: Imperiali , Mh- faum Hi/l or. a car. 44. Toirmia-
fini Elogiaste, a car. 53. e Pao- lo Beni Trattato dell' Orig. del-
la Famigl. Trijf. lib. 2- manu- fcritto, a car. 34., ove nota anche
di malevolo il Giovio, che riferendo paratamente tale folcn-
una lettera manufcritta del noftro Autore mede- fimo (81), da tanti
Principi e Cavalieri, che a tale folennità fi trovavano , Clemente
tralcel- fe il TiussiNoa portargli lo ftrafcico Pontificio; .onore»
che per innanzi era /olito farli a Perfo- naggi di nobililfima Schiatta,
e molto qualificati. Si trova fcritto apprelTo qualche Autore
(Si), che Carlo V. facefie conte e cavaliere fi noftro
Giovangiorgio» e lui co’ Tuoi difendenti privile- giaffe, che potefse
mettere nd/arme dellaFamiglia la Imprefa del Tofone , c fi potefle in
oltre dinorni- nare dal vello d'oro. Noi non vogliamo ora di-
làminare, fe ciò fia vero, anzi il crediamo; che conte e cavaliere egli
fteflò in qualche Tua lette- ra s intitolò (83), e alzò la detta Imprefa»
con foprapporvi il mòtto Greco to zhtotme. ;non aax2ton (84), prefo
dall’ Edipo di Sofo- F 1 eie folennkà , nulla facefle
del Tri jliN o menzione. JvQucfta lettera di prò. prio
pugno* del noftro Autore | c tra le altre lue manuferirte, cd è
'quella, che diramino più d’una volta in quefta Vita , fcritta da
Marano all’Arcipre- te Giulio fuo figliuolo, fegnata 18. A/arz.0
IJ42. In effa egli parla cfprcffamentcdi quefto ét- to , ricordandolo
al figliuolo qual /ingoiar h*neficiodal Pon- tefice a fe
ufato. ( 8a_) Cioè approdo il Tom- mafjni, Elogia
cc.-, a car. 54. c ’1 P. Rugeri , T ratina ec. a car. xxxin.
( 83 ) Veggafi
la lettera di lui al Reverendo Prete Francefco di Grugnitola già
fopracciiata, all’ annotazion. 3.C 26. Il Fontanini
nell’£/tf- quentLa Italiana a car. 380. rife- rire e
fvariatamctwequAlo motto, rcrivendo in quefta guifa T o 2HTOTMENON
A A ftTON* diche fu appuntato dal Signor Marchcfe Ma fife i a car.
8j. dell’ Fiume d’ elio libro del Fontani- eie (85)}
che lignifica conftguir chi cerca ma nsn chi trafeura ; ed anche ftamparc
la fece o ne’ frontefpizj, o in fine delle fue Opere. Si vuole
bensì avvifare, che fe egli ebbe dall’Imperatore Maflìmiliano
primieramente» come abbiamo ac- cennato al di fopra, e poi ancora da
Carlo V. il privilegio di potere l’arme gentilizia adorna- re di
detta Imprefaj come tengono alcuni, e come forfè volle dire il Signor
Marchefe Maf- ie i, quando difle, che il Trissino imperaci ere
Maffìmilian » riporto il Tofon d’ Or o\ e fe ; egli fu ni,
che approdo citeremo, trat- to delle fue OffervaiÀoni Lette- rarie
, fn Serena nella Stampe- rìa del Seminario per Jacopo Sal- tar fi
in la. Articolo VII. a c.vr. 103. Verfo 110. (86)
Nel fopraccinnaro Elo- gio, che è in San Lorenzo di Vicenza, fi
legge: Aurei fuci- lerie infìgnibui , & Corniti* di- gnitate
prò fe, & Pojlerit ab iifdem Impp. ( MaKimiliano , &
Carolo) decorato . Il Padre Rugcri nella Trotina &c. a car. 33.
pare che affermi , avere il T rissino avuto il fuddetto privilegio
da Carlo V. , poiché gli t cbbc niarfdatoa donare (co- me diremo )
pel fuo figliuolo . Ciro il Poema dell'Italia Li- berata da' Coti.
Quelle fono le fue parole : T itm vero P o s T- Q.U A m ledi 1T1
mai cjtjitm fiiius Cyrus , poema iliaci eidem Caro- lo V.
patrie nomine donariam confccrauit , Aurei Velie- ri s Agalma
dimidiato in Umbone fui Aviti Stemmati! , Imperai or is auttoritate
, & con- cezione appingi voluìt , quo fa. cilius hac velati
tejjcra, è fuo Pipite dedali a Sobolet, ab aliis & Laude, &
Vice ti * , f amili* nobilijfm*, & numcro/tjfimafur- culit
dignofeerentur . Contutco- ciò noi troviamo* erteti* Gio- va»
Giorgio denominato dal Vello d' Oro ^rima che Ciro prc- feniaffc il
detto Poema all’Im- peratore. Può effere bensì, che avendo egli
avuto da Maflimi- liano il detto privilegio, con- fermato poi gli
forte da Car- lo V. Nel Riflretto della Vita del
noffro Autor , preme fl o la rirtìmpa delle fuc Opere. egli fu
veramente da’ Monarchi medefimi fatto Cavaliere; non dee perciò dirfi,
che forte egli da efli fatto Cavali er del Tofo» d'oro:
concioflìac»- fache non fia mai fiato il T rissino arrolato in
quell’ordine (88). Le fa- f88) Che ciò fia vero,
ba- Trissino, che non era da fievolmente è provato dal Fon- trafeurarfi ,
quando veramente canini nella Eloquenza Italia- vi [offe fiato; e ciò
tanto meno, va , ove a car. 380. dopo regi- che in quefio affare ci
entrano Arata la primiera edizione del anche gli Araldi, 0 Re £ Armi
, Poema dell’ Italia Liberata da' per ajfegnare a ciafcun Cavalie-
Goti, così lafciò fcritto. Qui re lo Scudo, e /’ Infegne , tutte in fine,
e in altri fuoi libri fi le quali Ji leggono efprejfe dal vede la pelle,
0 vello d'oro del C biffi elio . E a car. 474. dopo Montone di Friffo ,
da lui fof- j aver regi fi rato i Difcorfi ini or - pefo a un Elee in
Coleo, e cu- f no alla Tragedia, di Niccolò fi adito dal Drago
Volendo | Rolli., tornò a dire, come fc- il T R 1 ss 1 n o con
quefia fua 1 guc ; Effendofi già mofirato non Imprefa alzata all'ufo di
que' \fujfi fiere, che il T rissino, tempi alludere alle fue lettera - 1
comecnè talvolta fi dicejfe oAr. rie fatiche , e da fe ancora in- \ Vello
d’oro, e meritaffe per - titolanàofi dal Vello d’Oro . j altro ogni
onore, foffe perciò Ca- .Ala non per quefio egli intefe di valier del
Tofone , perchè meri - far fi Cavaliere dell'Ordine del 'tare non vuol
dir confeguire , qui T ofone - E poco apprelTo ; L'\fi può aggiugnere ,
che quefio Su- • Ordine del Tofone fu conferma- premo Ordine , detto in
latino to dai Sommi Pontifici Eugenio Vclleris Aurei , nelle lingue voi
- IV. e Leone X. ; e Gianjacopo gari fi chiamò del Tofone . ...
Chifflezio ha data la ferie de' Nè può effere inutile il ridurfi
Cavalieri » e de' Uro fupremi a memoria, come ne’ tempi del Capi dalla
prima fua ifiitud-o- Trissino fiorì /’ Accademia aie fino a Filippo I v.
Re di Spa - degli Argonauti conquifiat ori del gna, erede àe’ Duchi di
Borgo- Vello d’Oro, poco fipra acc ca- gna: e ne ba fcritto ancora un ,
nata* Se poi egli fi diffe Co- temo in foglio Giambatifia A/au-j me;
& Equcs , ciò nulla impor- rizio e altri pure han- ita, petchè non fu
foto a chia- na pubblicati gli Statuti dell' ' mar fi in tal guifa . 11
Mar- C'rdine, e gli Elogi de' Cavalle - 1 cii'eje Maffci nell’ E
fame del ri: ma fenza alcun merlo del [ (udektto. Libro del Fontanini
, Digitized by Google 4 fìccome l’altra volta,
la fentenza incon- tro. Tuttavolta collo ro infiftendo, agli
Auditore Vecchi appellarono di ella fentenza, dai quali fu poi rimeffa
la Caufa al Configli dì xl, civìl-Nuo- vo. Ma quella volta Gì ovan
Giorgio delibero di orare elio pubblicamente , e dire in Configlio
le fue ragioni : per la qual cofa comporta in comunal dialetto Lombardo
una forte Aringa (pi)» sì bene, e con tale efficacia davanti ai
Giudici la recitò, che all’ultimo (pi), con gran- de feorno e rabbia
degl’ incaparbiti Comuni, egli fentenziarono a di lui favore (p$).
Sera egli ammogliato la feconda volta a Bianca (P4). figliuola di
Niccolò Trillino, e di Cateri- na Ver- Quella è l'Aringa
da noi citata sì fpctfo nella prefen- tc Vita-, e Cc nc conferva
copia nella Libreria de’Cherici Re- golari Soraafchi della
nolìra Città di Vicenza. Avvitatamente s r è det- to all'
ultimo , perciocché non tappiamo, che il Tri ss ino per la narrata
cagione piatile più colle dette Comunità : ben è vero, che i di lui
Poderi ap- po fua morte ebbcro«a foffrir da colloro per lo ftctTo
motivo nuo- vi difturbi . Crediamo ciò fofle o' nel principio
dell’anno x 5 3 1. ? 'o nella fine del precedente; e | lo
argomentiamo da ciò che e* 'dice nella citau Lettera al Pre~
! re di Grugnitola , ed è; Le cofe | della [acuità mia dopo molti
tra- | valji fono quaji tutte rajfcttate, e trovami manco povero
ch'io ' fojft nati, I « quella .ftponda fua | moglie fa il
T r iss 1 no ono- ratole njènzione nc‘ fuoi Ritrat- ti > Citila»
Re (fa fi parla altresì con lo.Je’nel libro intirolaro:7" at-
te U Dgnne maritate , Vedove,, è’ I)ongeil/ \ ptr Lugrezio Bec-
candoli Bologne fé *»/ magnanimo’ Ai, Fr ance [co elei Scolari , Eresiano
, na Verlati (p?), e già vedova di Alvife Tri Ar- no (ptf):
la quale partorì a Giovangiorgio u n figliuol [ciano, [no
Signore . in 4» fcn- za efprcffione di luogo» anno, e
ftampatore. (9 5 ) Se il Tommafini negli Elogi, a car. 53.
dicendo:,, De- ,, funóto Leone X. in Pacriam rc- „ diic.... Anno
mdxxiii. fe- » cundas cum Bianca fui Sxcu- 3, li Helena , Nicolai
Triffini », Vidua nuptias contraxit volle dire , che Bianca, quan-
do fi fposò a Giovangior- g 1 o foffe vedova di Niccoli
Trillino» prefe certamente uno sbaglio , come lo prefe il Sigi
Apollolo Zeno nella Galleria, e gli altri , che ciò affermano
apertamente. Imperciocché Bian- ca non fu vedova , ma figliuola di
Niccolo Tuffino, come dalli fc- guenti Alberi dal Sig.Co: Anco»
nioTriffino del Sig.Co:Piero, corr umaniflìma gentilezza fommini-
llratici, evidentemente appare» 1. i Birtolommeo Trillino.
NICCOLO' Tullio©» Cafparc Trillino» in in in Chiara
Mirtinengbi. Caterina Verlati» Cecilia Bevilacqua. 1 L 1
ALVISE BIANCA. CIOVANGIOR.GIOPoet.ec» in in in
BIANCA di Niccoli 1. ALVISE di Battolar»- BIANCA di Niccoli Trillino
; da cui la li- mio Trillino . Trillino , da cui li Nob» nei del
Nob- Sig.Co: a. GIOVANGIORGIO Nob. Sigg. Co. Co. Ci- Piero. Tuffino Poeta
ee. r® , e Nepoti Trillino •Senza di che Paolo Beni ncljwe/rfe, figlio unico
(cioè di Ma- Trattato dell' Ori*. della Fa ! fchi ) ec. In oltre dalla
Scrittu- migl. Triff. lib. 2. Manofcritto, ! ra nuziali d’ effa Bianca ,
fe- dove parla delle Donne illufiri | gnata addì 18. di
Febbrajo.... della detea Famiglia, venendo | fatta col fuddetto Alvife
Trif- a Bianca, dice; Bianca peri fino, fi ha non pure che effo la fuafingolare
belletta merita-' fu il primo fuo marito, madie mente chiamata l' Helena
della j il valore della fua Dote fu di Du- fua età, hebbe due mariti
dell’ | cali tremillccinqucccnto , cioè ifteffa famiglia: fu il primo .
di lire Vi niziane 21700. ; Dote Luigi figliodi SartoiomeoTrif-' affli
Cofpicua 3 quc’tcmpi. EJ fino , & di Chiara Martine ri ] anclie di
q-uefta notizia ci con» ga, a cui partorì 6. figli mafihi, fediamo
debitori al predato Si- ti' 2. fenmine : fu il fecondo gnor Conte Antonio
Trillino. Giovangiorgio, Poetaf (96) Alvif: Triflino fe te» Gr
Oratore, & hebbe Ciro-Cl>- \ ttamento del ijìi, , c poco di
poi t I del Trissi.no. 4P
figliuol mafchio, appellato Ciro, ed una fem- mina . Ora dopo
qualche tempo nacquero dif- fenfioni tra Bianca, e l’Arciprete Giulio,
fi- gliuolo della prima moglie d’effo Giovangior- gio: delle quali
principal cagione fi fu , che amando ella teneramente, ficcome è naturai
co- ti , il fuo proprio figliuolo Ciro , s’ adoprò in guifa , che
il marito Umilmente facefle, e fee- mando l’affezione fua verfo Giulio,
lui più cor- dialmente inchinalfe ad amare . Le quali cofe diedero
apprelfo motivo all* Arciprete di piatire lungamente col padre, da cui
prctefe* e in fine poi confeguì non poca parte di fua facoltà.
In quello mezzo la Patria impiegollo in un affare molto importante
. Ciò fu fpedirlo fuo Oratore (in uno con Aurelio dall’Acqua e Pie-
ro Valmarana, Gentiluomini Vicentini,) a Vene- zia per contrapporre ad
una troppo altiera ri- chieda degli Uomini della Terra di Schio,
Di- llretto di Vicenza. Volevano coftoro non iftar più foggetti al
Gentiluomo Vicentino, che reg- gevagli, e regge ancora con titolo di
Vicario; e però nel principio dell’anno 1534. ardirono di chiedere
al Senato Veneziano, che rimolfò quel- lo, un fuo Nobile Patrizio defse
loro a Retto- re . Ma sì giulle furono le ragioni da’ Vicentini
G Ora- poi fopravviffe; ficcome colla \o in quell’ anno, o
l’anno ap- iolita gentilezza mi fc certo il preffo Bianca fi farà a G
iovan- Sig. Co: Antonio Trillino fud- ciorcio rimaritata, detto,
fuo difendente; laonde Digitized by Google 50 L A
Vita Oratori addotte in prò della Patria , che non ottante
che Baftian Veniero, gentiluomo Vene- ziano, incontra nringifse, i
Giudici conferma- rono la giurifdizione della Città noftra, e con-
dannarono gli avverfarj a rimborfarla delle fpele dovute fare pel detto
motivo: loro davvantag- gio vietando penalmente di più contravvenire
a tale deliberazione. E per dire di altri onori , a cui fu
egli dallaPa- tria elevato, troviamo, che nel 1536. addì 27. di
Maggio era uno dei Deputati alle cofc utili della Città (p 3 >;
ficcome nel mefe fufleguente era Confervatore dette Leggi ( 99 ) : e
pochi anni appretto, fu ricevuto nel numero di que’ Nobili, che
formar doveano il Configlio centumvirale > detto anche Graviffìmo
, dcll^ Città , allora allora riformato.. Morì in que’ tempi
il celebre Poeta Giovanni Rucettaii tanto amico delnoftroTiussiNoi il
qua- le fin dall’anno 1524. (nel qual tempo era Cartel- lano di
Caftel Sant’Angelo in Roma) avendo com- Veggafi io
Statuto no-| ( 9 8) Statuto noftro fuddet- firo lib. 4. pag. 176. a
tergo . to, Lib. Novm Partium , pag. Noi ci fiamo ferviti dcli’cdizio- :
197. a tergo. Qui il Trissino nc fattane con ! è schiantato Dottor ,
&£qnes. quello titolo ^ Jhs À/nnicipale \ (99) "Statuto noftro,
ivi » l'iccntinum , cum sìddit ione Par- png. 19H. a tergo..
tium Jlluftrijfimi Dominii . Vt - 1 (loo)Statuto cc.. Ivi, pag. nttiit ,
Motxvii. ad infiantiam I 185. c 186. a tergo, cdanchcqui BartMomei
Centrini. infoi. | il Trissjno è detto Cavaliere. 1 compiuto
il belliflìmo luo Poema delle /#/>/, non volle pubblicarlo
infinoattantochè il Tassino da Venczia> ove era Legato di Papa
Clemente, non foffe ritornato, perchè volea farglielo rive- dere..
Ma non avendo' potuto ciò effettuare fo- praggiunto dalla morte , al
fratello Palla , nel raccomandargli prima di morire tra gli altri
Tuoi componimenti il detto Poema, notificò tale Ilio penfamento :
onde quelli poi fauna 1 5 39. mandan- dolo alla luce, al Tm ss ino lo
intitolò (101). Intanto effendo la fopraddetta feconda fua
moglie Bianca pallata di quella vita l’anno 1540.. C102), le liti già
incominciate tra fe e’1. figliuol’ G 2. Giu.- La
Dedicatoria di Pai- 1 Antonio Volpi , il quale poi lai ta Rucellai al Tr
issi no è . fece pubblicate in un col Poc- fegnata *li Firtnzj addi li.
di ma ftdlbdelle Api, ecollaC*/- Gennajo 1539.5.6 in e(Ta affer- ]
tivazione di Luigi Alamanni „ ma di efeguite in Dirar ai templi di
Ciprigna , e Marte Le mie vittoriofe , e chiare palme
, ( l0 5 ) Cosìdiceegli nella De- dicatoria del Poema fletto
a Carlo V.; ma in una Lettera al Cardinal Madrucci , che ap-
pretto allegheremo, accenna d" averne glieli, per efsere anch’efso
malato di quartana;- accomandando con fua lettera al Cardinal Cri-
ftofano Madrucci, Vefcovo e Principe di Tren- to, il Dottore medcfimoi e
pregandolo, che ali' Imperatore lo facefse introdurre- Quelli sì fece;
el dono fu fommamente gra- dito alla Maellà Sua, che moftrò nello
flefso- tempo gran delìderio d’ averne: ancora il rcftan- te.. La
qual cofa da Giov angiorgio intefa, ritornò prettamente a. Venezia, e
gli. ultimi di- ciotto libri, colla maggior, follecitudine: a
perfe- zionar fi diede; e poi fattigli ttampare l’anno^ 1548., a
quella volta pel figliuol Ciro gliel’in- viò; elfo altresì al. lùddetto
Cardinale raccoman-- dando con maggiore affetto-,, dicendogli, che
per la fua giovanezza egli più abbifognava di con- liglio, e di
ajuto (106): i quali libri da fua. Maellà. Vegganfi le
Lettere \ fiche fùe cTAnhi Venticinque*. dall' Autor noltro fcritte a Sua
! che le avea dedicate c manda- Macftà , e al predetto Cardina- te, grate
le foffero Hate, e ac- le in propoli to di ciò, inferite ! citte .
foggiuogendo*. che nont nella, già citata Prefazione del | a vendo ardi
mento a chiedere co- Sig. Marchefe Maffei alle Opere j fa alcuna , al
perfetto giudici» di lui a car.xxt. xxn.. xxit 1 . 1 della Maefià Sua,
come fapien-' c xxiv.; in una delle quali , I tiflìma , c liberali/fma
che era,, che è a car. xxwi. al Cardina* | fi rimetteva . le indiri
eca * fegnata di Venezia I Qui vuol novamente notar- Giovcdì, addì x.. di
Dicembre fi ,. che dalPcHferfi il Trissino 1548., dice , che dcfiderava
,! in quelle Lettere foferitto. Dal che da Sua Maefià fojfe noti fi- ; Ve
ilo d’OKo, chiaro» appare, cato ai Móndo per qualche ma- ! non aver egli
avuto da Carlo nifeflo fegno , che le vigilie e fa- [ V. per la
Dedicazione del det- to Maeftà furono ricevuti collo itefso
.gradimento , che i primi. Ma per pafsare ad altre cofe, fu
il noftro T r issino familiare eziandio del Pontefice Pao- lo III.,
a cui nel .1541. efsendo per andare (come in fatti vandò) ad abboccarli
la fecon- da volta con Carlo V. a Lucca, indirizzò «un fuo Sonetto:
e altra volta certo vino mandoglf ,3 donare ; del qual dono, e
deH’efser- fi ricordato di fe , il Papa Io fece ringraziare pel
Cardinale Rannuccio Farnefe (108), grande amico del Trissino (iop).
Nel tempo, che il noftro Autore era lontano dalla Patria, ed
infaccendato nel mandar a lu- ce i proprj componimenti, l'Arciprete
Giulio, che pure continuava la fiera lite contro a lui -, •tutte le
fue rendite fece ftaggire: il perchè in fran- to Poema
la conceflfìonc di co- si denominarli , comcpare, che voIeOTc il P.
Rugeri nella citata ' Declamazione; ma fc pur da lui ! l’cbbe, come
dicefi anche nell’ Elogio dianzi mentovato, che in San Lorenzo di
Vicenza fi legge, certamente molto rem», po avanti la ebbe, cioè
quan- do in Bologna alla Coronazio- ne dell' Imperatore medcfimo
fi trovò prefente. Quello Sonetto, che
incomincia: Padre , fot to' l citi Scettro al- to rifofa,
cc. | e che non è tra le fue Rime dcllà prima edizione ,
eflcndo j Hate molto tempo avanti ftam- pare^ fi legge nella
Raccolta dell' Atanagi , par. pr. a car 89, a icrgo \ e nella
edizione di Ve- ronaTom.i.a car. 3La Lettera di quello Prelato al T
rissino (cricca d’ordine del Papa, c in data di Roma. Nella citata
Raccolta dell’ Atanagi a car. 90. fi vede un Sonetto d’O. al
predetto Cardinale indirizzato. granditfima ira montato egli, fe
tc-ftamento, e in tutto e per tutto Giulio difereditando , Ciro
inftitui erede d’ ogni Tuo avere; aggiungendo, che moren- do quelli
fenza dipendenza, gli fuccedelfero nell’ eredità del Palazzo di Cricoli i
Dogi di Vene- zia, e nel rimanente de’fuoi beni i Procuratori di
San Marco con ugual porzione . Dichiarò CommelTarj del detto Tellamento
il Cardinal Niccolò Ridolfi , allora Vefcovo di Vicenza ,
Marcantonio da Mula, e Girolamo Molino; or- dinando, che appreffo la
morte di fe, folle il fuo corpo feppellito fui campo di Santa Maria
.degli Angeli di Murano in un avello di pietra ijiriana: la quale volontà
mutò dappoi in un co- dicillo, ordinando invece, che volea cfsere
fe- polto nella Chicfa di San Baftiano di Comedo * territorio di
Vicenza, ce» ornamento di rofe , e lidia fepoltura 'vi fofsc polla quella
fempliee breve iscrizione; £uì giace ciò : G io AG io t ris- sino .
(iio) Pur finalmente anche quello piato ebbe; fine ma
Giovangiorgio fuori di tutto il fuo penfie- ro n’ebbe la fentenza
incontro, e dal figlio fi vide fpo- (llo) Si può
credere fonda- \Janiculo, 1548. in 8., introdu- t. -urente, che per aver
egli do- ì cede il perfonaggio nominato vuto (offerire tante c si fiere ;
Sìmitlimo Rabbatti a così fda- liù , avvifatamentc nella fualmare contra
gli Avvocati ; c Commedia de' Simulimi* contro a ogni forte di Im-
para in Venezia , per T olmmeo j gio . O rra-
fpogliato d’una gran parte de' propri beni. Del- la qual cofa sì fi
crucciò} e difpettò che rifol- vette di abbandonare affatto la Patria* e
lafciati prima fcritti due molto rifentiti componimenti in fegno di
fua indignazione (ni) , andofsenc H dirit- O maledette fian
tutte le liti » JT uni i garbugli , e tutti gli
Avvocati, Nati a ruina de f umane Senti, Che fi
nutrifeon degli altrui dif canài * Difendendo i ribaldi
con gran cura'. Et opprimendo i buoni ; che i
feelefii • Gli fon più cari , e di mag- gior guadagno:
Nè cofa alcuna è federata tanto , *Che non ardifean
ricoprirla , e farla Rimanere impunita da le Leggi,
Di cui fono la pefie , e la ruina . Sono rapaci , e
fraudolenti , e pieni ~D' in fidie , di perjuri , e di
bugie , S end alcuna vergogna , e fen- z.a fede ,
Servi de l'avarizia , e del denaro . Mentre che fiato
fon f, opra 7 Palaz.zo Quafi tutt' oggi in una lite
lunga D' un mio Parente , l' Avvo- cato awerfo :
Tanto ha ciarlato tc. Da quelle ultime parole fi può dedurre
, aver egli in ciò avuta la mira alle proprie liti. I Componimenti
die c’ fece avanti la fua ultima par- tenza dalla Patria, fono
primie- ramente il feguente Epigramma latino , che fi legge
eziandio llampatO' negli Elogi di Monlìg. Tommafini pag. j 6., ed
anche tra le OpcTe del noftro Auto- re della riftampa di Verona
Tom. 1 . in fine. „ Quatramus terras alio fub 1 , cardine Mundi, f „ Quando
mihieripitur frau- „ de paterna T)omus. „ Et fovet hanc
fraudem Ve- netum fententia dura Qux Nati in patrem com- probat
infidias: >» Qux Natum voluit confe- &um xtate
Parcntem, „ Acque xgrum antiquis pel- lcre limitibus.
„ CharaDomus, valea*, dulcef- „ que valete Pcnates, „ Nam
rnifer ignotos cogor adire Larcs. Indi un Sonetto, che fu inferito nella
Biblioteca Potante del Cinclli, Scansìa xxn. ag-
giun- dirittamente all’Imperator Carlo V. , al quale cariflìmo era*
da cui apprefso licenziatofi , da Trento, fenza purpafsare per Vicenza,
fe n’andò a Mantova r e quindi da capo, tuttoché vecchio fofse, e
molto gottofo , fi ritorno a Roma, dove era Rato tanto onorato, ed amato.
Ma poco quivi fopravvifse, concioflìachè. tra per lo cruccio, e passa di quella
vita. Non fi fa veramente ove fia di prefen- giunta da
Gilafco Eut elide» fc, Pafiore àrcade , ( cioè dal P.Ma- nano Rude
Carmelitano cc. In Roveredo frego Pierantonio Per- no , 1736. in
8.: a car. 82. e 83. il qual Sonetto fu comunicato all' autore di
quella S con zia dal ! Cavaliere Micbelagnolo Zorzi , | di
cuifeperciòa car. 8+. lodevol menzione, E' notabile l’errore
cotnmef- fo da Luigi Groto , fopranno- minato Cieco d’sldria, in
pro- poli to di quello Sonetto nelle tue Lettere familiari. In
Vene- zia , preffo Gioì sintonia Giulia- ni , 1616. in8.a car.
124.; per- che quivi parlando del Tr is- si no lo chiama Brlsci
ano, e Padre deir Jtalia Illustrata. (na) In alcune
manoferitte memorie intorno al noltro Au- tore, comunicateci
cortefcrr.cn- te dalla gentilezza del lodato Sig. Apoftolo Zeno ,
dopo 1 ' Epigramma e Sonetto fuddetti , ili legge come
fcguc. M. Zan- ! zorzi fece ciò per una lite, che \ veniva tra ejjo
, & P Arciprete | M. Giulio fuo figliuolo di la Ca - \fa di
licenza , ove dillo M. Zanzorzi hebbe una fententia centra in
Quarantia , & con queftà opinione andò a P Impera- tore, e
ritornato in Trento fen- za venir di qua per la via di Mantova,
Ticchio , pien di got- ta Il rimanente non s’ intende per
edere rofo il foglio. Che il Trissino moridc l’anno 15 jo. conila
non folamente dal concorde confcn- fo degli Scrittori, ma da
una Lettera di Giulio Savorgnano , fcritta a Marco Tiene,
gentil- uomo Vicentino , fegnata di Belgrado addì 29. di
Dicembre 1150.: della notizia della qua- le al già mentovato Signor
Aba- te Don Bartolommco Zigiotti ci confefflamo unicamente
de- bitori. preferite
il fuo monimento } ma Autóri parecchi hanno fcritto, eflergli ftata data
fepoltura in Roma medcfimo nella Chicfa di Sant’Agata entro lo ftefso
Depofito, in cui era ftato fepolto molto tempo innanzi il famofo
gramatico Giovanni Lafcari (114); e Jacopo- Augufto Tuano nelle lue
Morie) facendo di Giovangior.gio molto onorata menzione) accenna) che gli
fofse ftata anche fatta una lapida» poiché dicc 5 che efsen-
H. 2 do Tra gli altri
Scritto - 1 della Città coltra, di cui il P, ri , che addurre li
potrebbono, Rugcri avea fatta menzione avvi Paolo Beni , che nel T rat-
nella detta fua Opera a car. xxvr. tato àell'OrigMlla P amigl.Triff. |
dice come fegue . ,, Quoniam lib. 2. manoferitto, a car. 34.
cosi dice : Partitofi ( il noftro Autore) nell' A. 72. della fua et
4 per di f gufi 0 dalia Patria-, il che egli efpreffe con alcuni
verfi latini & volgari ( cioè l’ Epi- gramma, c*l Sonetto
predetti) li quali ferini a penna nella li- breria Ambroftana di
Alitano con altre molte fue compojìtioni non ancora fiampate fi
conferva . no , andò in Germania a ritrovare l' Imp. Carlo r., &
ritor- nato in Italia per la via di Trento , e Mantova pafsb a Roma
, ove morì , & fu il fuo Ca- davere poflo in Depofito nella fe-
poltura del Lafcari. E Olindro Trillino in fine della
DeclamazJone latina del P. Rugeti, citata di fopra, da elfo fatta
(lampare, traferi ven- do il già mentovato epitaffio, che fi legge
in San Lorenzo meminit Au&or Epitaphii , „ Cenotaphio loann.
Georg. •„ Trifiini Vice ti* infculpto „ (Relliquum cnim tanti
Vi- ,, ri, quod Claudi poterat, Ro- ,, M.C in Tempio S. Agatb*
in „ Suburra Conditu.m Fuit) il- lud hic &c.“ E finalmente
an- che lo Beffo Rugeri nel citato luogo afferma , che Eius
offa-, ( di G1oVAN GIORG I o ) , Roma cum Jo. Lafcari
cineribut affervantur . Comunque lia di ciò, fatto fta che al
prefentc in S. Agata di Roma tuttoché fuf- fiffa il fepolcro del
Lafcari , non fuffifte più veruna memoria del Tr issino; come ci fe
certi il P. Girolamo Lombardi della Compagnia di Gesù con fua
lettera fcrittaci da Roma addi 11. di Novembre di queft’ an- no 17}
2. do diroccato il monimento nella reftaura2ione‘
del Tempio (non ifpecifica quale^, ove era Ila*- to feppellito, gli eredi
Tuoi un altro gliene pofe- ro in San Lorenzo di Vicenza nell’avello
de’ fuoi Antenati ( 1 1 5 ) - In fatti in San Lorenzo fi vede
l’infrafcntto e- pitafio, opiuttofto elògio, tante volte in queft3
VitA citato, da Pompeo Trillino , e da’ fuoi affini' fatto ivi fcolpire ,
non veramente fa 1’ avello' degli antenati fuoi , come erroneamente ha
la- rdato fcritto ilTuano, ma allato all’altare dr detto Santo , a
perpetua decorofà memoria di; un sì grande uomo.- IOAN-
lllujhis Viri J m obi Au~ Xufii T hunni Hiftoritrum fui tem. pori s
Ab Anno Domini i J43. nfque Ad annum 1607. libricxxxvt 1 I. Gcnev*
apud Heredet Pctri de U Roviere
Lite. D. „ Obli c & hoc anno « I. Georgius Triflinus peran-
» tiqua, nobiliquc Vicetise fa. » milia, ad virtuccm, Se lite-
„ ra* natus , linguarum periti f- j> fimus» Se omni
Scienciarum ,, genere exercitatiffimus »> Roma
laboriofz virar finem „ impofuic anno xtaris lxxii. >» Diruto
Monumento» dum „ Templum inftauratur , in quo „ conditus fuerac ,
Hacrcdes al iud i» ei ad S. Laurentii in Majo- „ rum Scpulchro
Vicctia pò- » fuerunt. Digilized by Googli
61 IO' ANNI GEORGIO TRISSINO Putriti o Vicent.
tAtn nobilitate , quarti dottrina , (fi integt itato Leoni Decimo ,
& Clementi VII. p 0 „t. Max. necnon Alaximil. (fi Car. V. Impp.
aliifique Pfincipibus acceptijfimo , Legationibus prò Cbrifiiana
Repub. temporibus difficillimit fattici cum oxitu apud eofdem per
alì is : Dacia inde Regi desinato . Jn Coronai ione Caroli
Imperatorie ad Sacra Palla Pontificia nitentis ferendi Syrmatis
Munus , infignioribus Principibus ad hoc ipfum afpirantibut pofi
habitis , Bononia eletto . Aurei Ve Iter ij Infignibus » (fi
Comitis dignitate prò fi » & Pofieris ab eifdem Imperatori b.
decorato. Apud Ser. Remp. Venetam fapixs Legati nomine de
Clodianis Satin ù , de Ve. rona refi itut ione , De Pace ,
Deq\ aliis negotiis gravibus re ad votum tran fatta.
Sublimiori gradu Sobelis ergo r confato. Operibut plurimi e cum
antiquitate ceri antibus elucubrati s. Rebus finis* & Pofieris
eidem Inclyta Reipublìca Ven. ex tefi amento commendatis . Vitaq; religiofijfimì
funtto Anno Aitai is Sua LXXII. Virgìnei vero Partus A4. D.
L. P ompejus Cyri Comitis , & Eq. fil. unicus Superfies,
Nepes, (fi Hares , AJfinefq; T anti Antecefioris Memores pii,
gratiq; animi A4. P.P. An. Salu. A4. DC. XV. Non
(116) Di ciò non facemmo [nc abbiamo trovate tipruovc più fpecial
menzione, perchè nonjficure. Non dee tralafciarfi di qui
trafcrivere altresì l’ Oda latina da Giufeppe Maria Ciria fatta in
lau- de del noftro Trissino ( 117) - j) FAma centenis animata
linguis » Aureo pergat refonare cornu 3> Trissini Busto fuper 5
& jaccntés 33 Excitet umbras. 33 Fas ubi trilli gemuere
lu e Lamino Perugino nel MDXXjy in 4. . e C^enza luogo
> anno> e ftampatore ) in i e (Cón la SofonUba , i Ritratti ,
e l'Orazione al Principe Oritti ) In renezJat per Girolamo Penzio da
Le. che, C Venezia per Agoftino Sindoni e
finalmente in rerona coll’ altre Tue Opere ( 1*1 )• li.
EPISTOLA de le Lettere nuovamente aggiunte ne la 1 2 >
Lin- Nel Catalogo della Libreria Capponi, 0 Jta de' Libri
del fa Afarchcfe Alejf andrò (ire. gor io Capponi, Patrizio Roma-\
no ec. C on Annotazioni in di- j verfi luoghi cc.. .. i n R oma ap-
preso il Bernabb, e Lazza. : rmi 1747. in 4. a car. 377 .| vedcfi
regillrata tale edizione;) ma farà forfè quella fleila, che fic fu
fatta unitamente co’ Ri- ! tratti, e colla Sofonisba , cd al- ‘
tro, da noi per altro non ve-| duta, che ha quelle note in fi-|
j ne P. Alex. Benacenses F. Be- na. V. V.; fecondo che dice il j
Cavaliere Zorzi nel Ragguaglio ! JJlor. della rita d’O.
manoferitto, in fine> cd anche nel Difcorfo fopra le Opere di
lui , llampato nel tomo 5. della Rac colta A'Opufcoli ec. in
Venezia apprcjfo Crijtoforo Zane, i 7 jo. in la. car. jp8. Di
quella Rac- colta ne è benemerito Autore il celebre P. D. Angelo
Calogerà. ( Tom. a. a car. 2 7 p. . Digitized by
Googlc -. rugino e m Venezia ( Tenz’ anno , e
ftampatorc in 8. e ( COn la Sofonisba , l'Epiflola de la Vita
ec. , ed al- Tom. 3. a car. 993. ( ia8 ) Tom. 2.
a car. 201. Il Fontanini nel
regi- ftrare nella tua Eloqu. hai. a car. * 75 - la fudJetta
edizione, prete uno fbaglio, notando Venezia in vece di
Vicenza. Tom. 2. a car. 243. ( l ì*J Nella Prefazione
alle I Opere del rioftró Autore a car. xxx. ( 1
3 2 ) Si legga il Difcorfo del I Cavaliere Zqizì {opra C Opere j
del noftro Autore a car. 440. Nel Catalogo della Libreria Cap-
[poni, a car. 377. Ih regiftrata [un’edizione di qucft’Opcra in j
8. lenza nota di ftampa, ma quella ed altro ) In Venezia per
Girolamo Pernio da Ischi mdxxx. in 8. e V* net. per
Ago/lino Bindoni e finalmente in Verona colle altre Tue Ope- re
Il T rissino fcrifle quell:’ Opera a mòdo di Dialogo , e in ella
lodò parecchie Donne rag- guardevoli del fuo tempo i facendo tra le
altre menzione )come fopra è già detto) di Bianca fua feconda
moglie, chiamandola beiuffima giovinetta . Vi. Il Castellano, Dialogo ,
nei quale jì trae. ta de la lingua Italiana . In Vicenza ( fenza
nome dello ftampatorc, nè anno della ftampaj ma ter Tolomeo
Janiculo . ) in foglio. e ( colla Volgar Eloquenza di Dante) in
Ferrara per Domenico Alammarelli
1 1 K in 8. Fu riita mpato anche tra gli Autori del ben
parlare, e in Verona coll’altre fue Opere. O. manda quello suo Dialogo a
lo ili ufi re Signor Cefare Trivulzio , fottO il nome di Arrigo Dori a
; e iperfonaggi, che v’introdulfe a favellare, sono Giovanni
Ruceiiai col nome di Ca/iciiano, il quale di- fende l’Autore da quanto
gli fu fcritto contro circa le nuove lettere } Filippo Strozzi , che lo
Cdlfura, e gli quella forfè farà, che abbiamo] (133)
Tom. 1. a car. accennata al di fopra nell’anno- . Tom. r. a car. 41.
(azione ITom. 2. a car. c gii
oppone le parole medcfime de’fuoi avver- sari ; e Jacopo sannazx.aro y
che difende le ragioni del Trissino. Della Poetica; Divisone i. n.
m.*iv, Jfu riceva perT olomeo Janiculo da Bretfa MDXXIX. di
Aprile. in foglio . Monfignor Fontanini regiftrò nell’
Eloquenza ita. liana quelle
quattro prime Divijìoni in tal guifa : Dalla Poetica di Gìangiorgio
Trijfmo , Divijìoni iy. in Vicenda per Tolommeo Janicolo. in
foglio: ma flc- come noi non abbiami vedute altre edizioni ,
che la fuddetta del 152 p. , e quella di Verona ; e di altre non facendo
menzione nè il Fontanini medefimo, nè l’Autore del Caia -
lego della Libreria Capponi , nè ’1 Cavaliere Zorzi in
nefliina delle due fue Opere intorno al Traino, (138), nè
finalmente chi compilò la Biblioteca italiana; così crediamo agevolmente
, che egli in ciò fi fia ingannato . Lo Hello diciamo parimente
della feguente impresone delle altre due Divijìoni , da lui notata i 140)
fotto il 1564. A car. 354. j 1718. in 4. a'car. Coll’
altre fue Opere, e 17. e nell’Indice: Il Com- Tom. a. a car. 1- !
pilatore di quella Biblioteca fu Cioè nel Difcorfo /o-jNiccoIa
Franccfco Haym Ro- pra le Opere di lui, e nella Vita mano.
del medefimo manuferitta. ! Neil’ Eloqnjtal. a car, { li9) Biblioteca
Italiana cc. In 354. Venezia prejfo Angelo Geremia . 5 che pure non
farebbe il folo errore conv meflfo dal Fontanini in quella fua
Opera. Della POETICA; Divifione . In Ve . - per Andrea.
Arrivatene , Sono fiate tutte ultimamente riftampate ì* a?»»* coll’ altre
fue Opere. Quelle ultime due Divìfioni furono dedicate dall*
Autore ad Antonio Perepoto Vefcovo di Aras ? con dirgli > non aver
loro data 1' ultima mano per effere fiato in quel tempo grandemente
occupato nella teffi.- tura del fuo Poema dell’ Itali * Liberata da Goti
, Nelle prime quattro Divìfioni tratta egli de’ Ver- fi , delle
Rime , e delle varie maniere de’ Li- rici Componimenti volgari : e dice
in princi- pio » che fé bene da molti Poeti tra fiato pot tic amen*
te Jcrittoy e con arte , pure nefiùno fin al fuo tempo avea deir^r/ a
voffra Reve- Furono più volte flant-j rtndìffìm a Paternità molto ,
& pata. V. fopra car.31. annor 55. | molto mi raccomando. ove
s’c favellato di quefta Ora- i Da Cric oli-, di luni, cin- cone . V‘t di
Marza del mille cinque - Tom. 2. a car. 28?. cento trenta/ette, il
tutto di In fine di quefta Let- \ Fopra RevcrenditfmaTatermta. tcra
fa il Tris sino menzio - 1 Giovanceougio Trissino. ile fuccinta eziandio
di certi al - 1 Quefta lettera non (apremmo tri Villaggi del Territorio
di perchè non fi a (lata inferita nel- Viectiza ; c poi termina con | la
edizione di Verona , quefte parole: A 1 on faro più I (^ P inrgia
appreffo lungo , perciocché effondo Monf,-\ Pietro dei Nicolini da
Sabbio gnore Brevio noftre lo apporta- \ mdm. in 4 * * Car> 3 ^ 1, a
tcr S 0, tare di quefta, egli fupplirà a I (iji) Ivi» ed anche a
car. bocca a quello , che io bavero. in fine. Digitized by
Google DEL T RISSINO. 75 GRAMMATICES introduci ionie
Libcr Primus. Verona afkd jintonium Putellettum Fu rijtempato quello
Trattatello in Verona unitamente coll’altre fue Opere dove si premette un breve
avvilo al Lettore , dicendo in eflb, che la detta Operetta forfè è
quella, che fittone. me di Grammatica fi cip* da quelli , C hanno
fatto U Catalogo dell'onere del *oJItq T*is«no, e forfè ancora nella
prima edi. itone fi è dallo Stampatore coti nominata > Libro Primo 5
per rifletto 4' altro giceiolo Libretto » che contiene le
inflituzioni della Grammatica del celebre Guari» Veronefi , e che
figuitando- gli immediatamente , fui far le veci di Secondo diquejfa
materia. Non fi fa in fatti che il Tri ss ino altri ne fa-
cefle i e certamente altri non ne avrà compofti , concioffiacofachè nulla
manchi alla perfezione dell’Operetta medefima* in cui egli
attenendoli alla Italiana Grammatùhetta, tratta compiutamente delle
otto parti dell’ Orazione . K i OPE- Tota. i.acar.197.
OPERE i DEL TRIS SI NO >. In Verlì
Stampate. LA SOFONflSBA ( in fine } Jfampata in I v Rama per
Lodovico Scrittore , & Lautitio Pe- rugino intagliatore nel MDXXllU-
del Me fé di Luglio con p rohibitione , che nefsuno poffa Jfampare queft
opera per anni die- ce t - come appare nel Brieve concedo al prefato
Lodovico dal San . tifiimo Noflro Signore Papa Clemente VII. per tutte le
Opere nuove che 'Iftampa. in 8. Laltefià. Jn Vicenzjt per T
olomeoj articolo e In Venezia ( con li Aitratti I* Epiftola a
Margherita Pia Sanlevenna y f Orazione ai Doge Gritdj e la
Canzone a Clemente VII.) per Girolamo Pernio da Lecbo. in 8» e
ivi ( lenza la Canzone ) per Agoflino Bìndoni Ivi ancora
(reparatamente) prejfo u Gioliti mdliii. in 12. c Ivi
per Francefco Lerenzini MDLX, in 8# * e Ivi P” u Gioliti ( tratta
dal fuo primo efemplare) mdlxii. in n. - *' £ Jn
Gntovrfapprtffo Antonio Bellone * e Venezia per Ginfeppe Guglielmo ,
>s T UO- Nuovamente ** Venezia prejfo Altobello Salica-
io Poi In Vicenza prejfo Perin Librar o t e Giorgio
Greco compagni in 12. e in V me zia prejjo li Gioliti
mdlxxxv. e mdlxxvi- in n. e Ivi per Domenico Cavale
«lupo. ili 8. e Ivi preffo Michel Bocobello " Poi
ancora inVicenzA appreffo il Brefcia e in V inezia per Gherardo Jmbcrti . Fu riftampara eziandio
unitamente con la Dpijtola de la Vita ec. (con li Ritratti , e X
Orazione al Doge Gritti) fenza nota di ftampa, con cer- te
note in fine, in 8. (15?) Finalmente fu impreffà tre volte , in
re. rena prej/b Jacopo raiUrji, F una . nel primo tomo del 7 Wr»
italiano (154), l’altra nel 1729, colle altre Opere del noftro Autore,
e la ter- V. fopra annotazione l2c. a car.
67. ( >54 J Di quell’ Opera ne dob- biamo laper gradoni
Signor Mar- chefe Maffei, il quale v' ha pre- mevo ancora una dotta
Prefa- zione , da noi altrove accenna- ta, in cui difeorre molto
eru- ditamente della Sofonisba, che occupa il primo luogo.
Quell’ Opera è cosi intitolata t Tea-\ tro Italiano , o Jìa
Scelta di Tra- j gedie per ufo della frena ; ec. i in reron a
prefso Jacopo Vallar fi 171S. in 8. Tom. 1. a car. .
Tralafciando di riferire le vcr- fiotti fatte di quello
Tragico Componimento in altre lingue, fedamente vuol di rii ,
efTere cf- fo fiato tradotto in metro Jam- bico latino da Giulèppe
Trilli- no la terza nel prima toma del fuddetto Teatro
ita- liano ultimamente rillampato- Qui dovremmo ftenderci a
defcrivere a minu- nuto le bellezze di quella Tragedia, aia per non
dilungarci troppo, ci riftringeremo (blamente a riferire ( come di fopra
prometto abbiamo ) le oppenioni di parecchi illuflri e chiari
Scrittori fopra la fletta , £ primieramente Niccolò Rotti, tanta
ftima ne fece* che non pure ditte ( 1 5 . che ella tra tutte le Tragedie
de’ Tuoi tempi te- neva il primo luogo? ma la fcelfe di più per
materia de’ Tuoi Dimorfi intorno alia t rogo dia. Angelo Ingegneri?
Veneziano, laido lcricto, non efler troppo agtvol cofa P arrivar P
Arìoflo nella Commedia , atrissimo nella Tragedia r del qual fentimentO
fu pure Giovambatilla Giraldi da Ferrara , per al- tro rigido
appuntatore del Trissino, dicendo, che tra’ noftri Comici è recito p
Ariofio eccellentijfmo , & il TrHsino nelle Tragedie ha
riportato, & ragionevolmente grandijfmo honort . Benedetto
Varchi poi, uomo di molta erudizione fornito, non dubitò di dire
nelle fue Leudoni > là dove trattò dei no, Cherico
Regolare Soma- 1 meffaa* fuoi Difeorfi intorno alla (cor la qual
traduzione fta ma- j Tragedia . V.’car. 1j.aonot.44. nufcritta nella
Libreria de' P. P. I Della Poefia Rappre- Somafchi di Vicenza con que- 1
fentativa , & del modo di rap - fta femplice ifcrizione: Sopho- I
prefentarr le Favole Sceniche cc. NUB/t Tragedia metrico-latina 1 In
Ferrara per littorio Baldini Paraphra/ìt . IJ98. in 4. a car. a.
Lettera a’ Lettori pre -1 Ne' fuoi Difeorfi in- torno dei
Traici Tofani (159), edere ftato il noftro CjIOVANGIORGIO il P R 1 AIO »
che fcrivejfe Tragedie in queJU lingua degne del nome loro. E flOIl pure
il Vàrchi gli diede quella lode* ma eziandio il fopraddet-
toGiraldi, il quale nel fine della Tua Orbecche in- troducendo la
Tragedia a favellare a chi legge, le fece dire cosi: £’l Tr
ISSINO gtWtH , che col fno canto Prima d Ognhn dd Tebro , e dall UH f
so Già trajje la Tragedia all’ end e et Arno . E a tralafciar
altri autori , non fu minore la ftimaj che d’efia fe il Signor Marchefe
Maffei , il quale nella fua raccolta di tragedie date a lu- ce Col
titolo di Teatro Italiano , dando all 1 Sofonisba nel primo tomo il
primo luogo, dille, che ella il primo luogo altresì occupa fra
tutte quelle Tragedie, che dopo il rinafeere delle bell' arti in
mo- derne lingue apparsero ( 161 ); foggiungendo cfler mira.
HI terno al comporre dei Romanzi,] (160) Nel principio
della delle Commedie , e delle Trage-i Prefazione, o Difcorfo, che
vi dte , cc. in Vinezia appejfo Ga - premette . briei Giolito de'
Ferrari , &\ Avverte qui
dottameli. Fratelli , . acar.14jr.Jtc il Signor Matchefe, che
ben- Legioni di A 4 . Bene- j che vero fia, clic avanti la So-
detto Varchi Fiorentino lette da' fonisba il nome di Tragedia in lui
pubicamente nell' Ac ademia J Italia fia ftato a’ componimenti
Fiorentina, ec. in Fiorenza per | volgari impofto , poiché, die’ Filippo
Giunti 1590. in 4. a car.J-egli, con queji' ijtejjo belliffmo 681 • ,
argomento una Tragedia abbia- ' mo , è il ctfa,
come la [rim a Tragedia riufcifle cui eccellente: C po- CO
apprell'o a fieri , che chiunque no n abbia » come in molti accade , il
gufo del tutto guafto da certe Romanzate ftra- mere, non [otrà certamente
non fentir/ì maravigliosamente com. muovere dalle belle vue di
queftaTragedia, e da' p a fi tenerijfimi, c Singolari , che in ejfa
fono. E finalmente in un altro luogo lafciò fcrittOj'che vera e regolata
Tra- gtdia in quefla , o in altra volgar lingua non fi vide avanti
la Sofonisba del T R i s s i N o » a cui il bell' onore non dee invi
- diarfi d'aver innalzate le nofir.e /cene fino a emulare i fiamofi
efemplari de' Greci* Ma degno di (ingoiar lode 5 e d’eterna memo-
ria fi rendette il noftro Giovangiorgio per aver ufata in quefta Tragedia
una nuova ma- niera di verfi, e da veruno non prima ufata, dico i
verfi fciolti , cioè non legati dalla rima*, di che e il Giraldi e
per la condotta tanto fi allontanano dal regolato ufo del Teatro ,
e dalla furia degli antichi Mae- flri , che non hanno fatto
confc- guir luogo agli slutori loro fra ^ Poeti Tragici; onde la
gloriaci' aver data al Mondo la Prima ! Tragedia , dopo il
riforgiment» 1 delle lettere , e delle bell' arti, è rimafia
al T r 1 s s 1 n o . i A car. iv. della fud* j detta Prefazione , o
Difcorfo p.renjeflfo al detto T entro Italia * no .
I Difccrfi cc. a car. 23 6.
! Di f par crebbe non altrimenti ap* 1 preffo noi una
Tragedia fe di ver- 1 fifo tutti rotti , 0 mefcolati cogl’ !
intieri , o co gl' intieri foli c'h.u j veffero le rime, fifle tutta
compì- fi a , che havtrebbe fatto appreflo i Greci , & i Latini
, fefujfeft at a 1 ccm . Digitized-by Google del T Ri
s s i n o; . ‘
Si Ivlaffei (154) afsai lodatilo, e dicono, che per- ciò gli debbe
fentir molto grado la noftra lin- gua. Ben’è vero, che vi fu chi a
Luigi Alatnanui., famofiilimo Poeta Fiorentino , attribuì la gloria
d’aver prima d’ognuno pofto in ufo co- .tal Torta di verfii e ciò perchè
egli -nella Dedi- catoria delle lue opere To/cane dille d aver mejfi
in ufo i .ver fi fenza le rime non ufati ancor mai da' noftri
migliori. ,Ma come notò molto giudiciofamente l’eruditif-
fimo Signor , Conte Giovammaria Maz 2 uchelli [166) , o che l' Alamanni
contezza non ebbe della Tragedia del Trissinoj e però fi pensò d‘
efsere il primo a fcrivere in detti verfi , o che accennar volle colla
voce migliori qué’foli anti- chi fcrittorij .che fon venerati per primi
Maeftri L della é compofia di Dimetri , di
Adonii,\ Fiorenti* 15S 9. in 4. a car. 7. di Jindec afill ahi , ovtro di
éjfa- come pure il Bocchi nc’ fuoi E Io- metri, perchè le fi leverebbe
con' gj a car. 68., ed altri allegati la gravità il verifimile ; le qua-
\ dal Sig. Co.'Giovammaria Maz- li due cof* levatele , firimarreb-\ne
ucheìli nella Pira dell’Ala- re ella fenz.a pregio. Et però manni per
etto dottamente ferie— debbono aver molto grazia gli' ta , e (lampara •
in Verona per huomini della nqfira lingua al ! Pierantonio Berno , 174 j.
in 4. T R 1 s s ino , eh' egli quefli ver- j unitamente colla
Coltivaz.icne Ji fcielti lor dejje, ne' quali la j dello ftcflfo
Alamanni, c colle Tragedia pigliale la fede della \ Api di Giovanni
Rucellai , fu* Maefià con vera fembianzut amendue gentiluomini
Fioren- atl parlar communi* I tini . (164) Nella Prefazione
al j A car. 47. della pcc’ Teatro italiano. I anzi citata Tita di Luigi
Ala- Il Poccianti nel Cata-j manni. logo Scriptcr,
Florentitiorum della Poefia. Fatto fta però avere il T rissi no»
come già è detto» la Tua Tragedia comporta vi* ventc Leone X. a cui la
dedicò » cioè a dire prima che l’ Alamanni fcrivefle le Tue Opere»
che furono ftampate nel in 2 * (*^7)* E perchè v'ha una Commedia di
Jacopo Nar* di, Fiorentino, intitolata amicizia (j e dell' ortografia
antica della predetta Commedia , e fu Taverla il Nardi
chiamata nel Prologo fabula nuova , c primo frutto di Ytvovo autore in
Idioma Tofco , decife francamente > ef- fcr la piti antica , e la
prima di tutte le Commedie, che fi vedeffe feruta in 1/crf, Italiane:
aggiungendo, che dal- le quattro stante ftampate in fine di efla
Com- media ( 172), appar chiaro efier efifa finta compo- L 2
fila * I. " L - - u j , j Il Crefcimbejoi nella
[che egli verarnente prete yno Star, della l^olg. Poef. dell’ edi- 1
sbaglio, perchè il Varchi dille zione di Venezia* tom. r. lib. folamcnre,
che il Nardi usi in lib. J. a car. 1 1 V parlando del ! una fua commedia
i verfi fciolti. verfo fciolto j dice, cheiIVar| A car. 4J5. e fcg.
chi, lafciando indubbio, fe il J Quelle Stanze fono le Tris e dì
guerre accefe in Tofcana, e per tutta l' Italia : il che (dice
egli) pienamente corriffondt all' annoi 494. in congiuntura del. la
venuta del Re Carlo Vili, in Italia-, e della cacciata de' Me- dici da
Firenze . Ma quanto egli favellale a capriccio? ognuno-, che
fiore abbia di letteraria erudizione , può agevolmente chiarirfene.
Conciolfiacofachè quan- tunque Da quel-, da cui ogni
falute pende Letitia & paco: a cui fitto- il tuo
fogno Si pofa : & lieto ogni tuo be- ne attende:
j Et ceffi il Martial furore & /degno: Cbe fa
tremare H Mondo : Italia incende , Chel clanger delle tube ,
& il fuon dettarmi Non laffa modulare i dolci
carmi. Ma quello Dio , che olii alti in- gegni afiira:
Et ogni opera dif prezza abie- tta dr vile: Tanto-
favor benigno oggi ne fint- eti pur la fronte extollt
il ficco umile. Ma fi lodore antiquo non re- fi™
Stufate lo idioma : & baffo fHle. Et fcujt il tempo
Ihuom fag. gio & difereto Che molto importa il
tempo fri fio 0 lieto . ]_ Quando farà che in porto al
| ficco lido Salva (Fiorenza mia ) tua barca
vegna Secura in tulio homai dal mare infido: T
efio : Se il Sacro -Apollo il ver minfegna Segua pure il
Nvcchkr ac- corto & fido : Et viva, & regni pur
Chi vive & regna-, -Allhor (fé alcun difir dal
Citi' s impetra) Diro le laude tua con altra Cetra
. -Allhor mutato il Cielo in altro afielìo
Renoverà nel Mondo il Secol dauro-.- si libar farai
degni virtù re- cepto : Cipta felice: & di mirto, &
di Lauro Coronerai chi honore ha per obietto. Et
nota ti farai dallo Indo al Mauro. Ma hor eh' il ferro &
il fico it Mondo a in preda Convita eh' a Marte ancor Minerva
ceda 8$ tunque di ciò, che il Nardi dice in principio delle
fud dette Stanze , (cioè che elle fi cantarono falla lira davanti alla
Signoria» Quando fi recitò la predetta Conr media) racC ogli e r fi
poflìi e (Ter efsa fiata rapprefen- tata in tempo che Firenze non avea
cefsato ancora d efsere Repubblica ; nientedimanco nè da quefte parole
> nè dalle stanze fiefse può dedurli che il tempo della recita d’efsa
Commedia cor . rifa onde Piènamente all'anno 1494 . in congiuntura
de- gli avvenimenti fuddetti. E fe egli in dette stanze fe menzione
di guerre moleftillime a tutto il Mondo, non che all'Italia, non ne
fpecifica pe- rò il tempo j anzi le accenna in maniera che fi
potrebbe più verifimilmente conghietturare aver egli voluto in efse
indicare le guerre in cui dall’ armi ddl’Imperator Car- f lo V. Roma fu
prefa, e Taccheggiata, il Papa (che era Clemente Vii. di cafa
Medici) fatto pri- v gione , l’Italia molto travagliata , e tutto il
Mondo , dirò così, afflitto da gravilfime turbolenze.
Oltreché non è probabile, che la signoria in tem- po di guerre e di
turbolenze inteftine fi fofse data bel tempo, e fe la fofse pafsata
(comefuoi dirli) in allegrie, e in divertimenti di Gomme* die.
Laonde con migliore probabilità fi può dire, che la Commedia del Nardi
fofse rapprefentata nell’anno 1530. giacché in queft'anno e
Clemente , Vii. ritornò a Roma dopo la pace fatta col fud.
detto detto Imperatore, e dopo averlo anche
folenne-^ mente coronato nella Città di Bologna; c Aleflan- dro de
Medici fu fatto Duca di Firenze dal mede- fimo Imperatore; fotto il
Dominio del quale la Città non lafciò in certo modo d’eflere tuttavia
Re- pubblica. E verifimilmente un de’ due accennar volle il Nardi
nella voce Nocchiero , ufata nel quinto verfo della terza ftanza, e ad
uno de’ due pari* mente, o fors’ancbc a tutti e due pregò egli PitA
t Rtgn? nel fedo verfo della ftanza medeilma r E viva > &
regni pur Chi vive & regna. Se poi egli chia- mo la Commedia fabula
nuova i e primo frutto di nuovo uè ut or e in idioma t ofeo , volle
con ciò indicare la novità dell’Argomento, ma non mai la novità del
verfo, come pretefe di farci credere il Fontani- ni nel citato luogo : c
perciò fu giuftamente cen- furato dal Dottore Giovannandrea Barotti
nella fila JOifefa delti Scrittori Ferrar e fi A quel che fi è detto fi può ancora
aggiungere * che non fi troverà certamente , che lo Zucchetta, per
cui fi crede, che fofle anche fiata fatta la pri- ma edizione della
predetta Commedia * libro al- cuno ftampato abbia avanti! 1517.» 0 al più
al più avanti > quando il
Trissino avea già com- Parte feconda A car.n j. I tutori /
opra P Eloquenza Italia- Queft’ Opera del Sig. Bacotei faina del F
anfanivi , Roveredo[ ma Campata tra gli Ejfami di Tarj veramente Venezia)
comporta là fua sofonhba. Ma per- chè più chiaro appaia l’errore del
Fontanini ? e del Guidetti altresì nella fua relazione al Var- chi,
e come a torto vuol toglierli al Tr issino da alcuni moderni la gloria
della invenzione dei Verfi fcioltij vogliamo qui riferire ciò ? che
al medefimo noftro Autore dille Palla Rucellai nella lettera ?
colla quale gl’ intitolò il Poema delle Api di Giovanni Rucellai ? Ilio
fratello? che che è fegnata di Firenze Voi fofte il Primo (gli dille) che
quejio modo di fcrivere in •verfi materni liberi dalle rime ponefte in
luce , il q»al modo fa Voi da mio fratello in Rojmunda primieramente, e
poi nell' ji- pi » 0 nell' Orefie abbracciato , ed ufato: e apprellò
chia- mò f Opere dello fteflo fuo fratello Primi frutti della
Invenzione del Trissino. Per le quali cofe tutte forza è, che
conchiudiamo? che a gran ra- gione non pure dagli antidetti Scrittori? ma
dal Tuano e da altri ( ìycr ) fu il noftro Au- tore . Veggafi
la foprallega- ! FHJlor. &c. Toni.
1. lib, ta lettera di Giovanni Rucellai vi. Ann. 1550. pag. 200.
lctt. ai Trissino fegnata di Fi - \ D.„ Jo: G e or g i U s Tbis>
terboaddt 8. di Novembre mdsv. j », sihi's .... P ri m u s genu $
ftampata nella Prefaz. alle Ope-',> canninis foluti foelicitcr ufur-
re dello fteflo Trissino a car. ‘ „ pavit, cum a temporibus Fr. xv.} e a
car. xvm. v’ha una „ pcirarchae Itali Kythniis ute- Lettera della
Marchcfa Ifabclla ,, rcntur. di Mantova al nollro Autore; ( 176 ) Filippo
Pigafctta, Vi- de* di 24. di Maggio 1514. in ccntino, nel Difccrfo
mandata cui gli dice, che avea ricevutola Celio Malafpina in
materia una fua Lettera , Ferfi , & Ope- ‘ dei due Titoli del Poema
di retta, la quale fi può crede- Torquato Tallo , premeflò al re,
folTc la Sofonìsba, Poema fteflo delia edizione di Fette-
Digitized by Googl SS •' La Vita torc chiamato
Primo inventore di qucfti verfi . Ma per tornare alle
opinioni degli Scrittori fopra la Tragedia del Tassino» non fu ella
efen- te da’fuoi critici, rare eflfendo quell’ Opere, in cui non
fia ftato notato qualche difetto. Il Var- chi nel citato luogo volendo
darne giu- dizio, la oenfurò fpezialmente per la locuzione ,
dicendo COSÌ: Io per me quanto alla favola , e ancora in molte cofe
dell'arte non faperrei fe non lodarla -, ma in molte al* tre parti , e
fpezialmente d’ intorno alla locuzione non faperrei, volendola lodare, da
qual parte incominciar mi dovejfi . E nell* JErcolano diflfc: La La
Sofonijba del Tr isslno, c la Rofmunda di mefier Giovanni Rucellai , le
quali fono loda - tijftme, mi piacciono sì , ma non pia quanto a
molti altri. 17 al C k Venezia per Francefco de' Fran-
j che come fi avea d aver grazia, cefchi. in 4., dice, che \\\al Tr 1 s j
i N o, c'havejfe dati T r 1 s s 1 n o fu il Primiero; que verfi ( fciolti
) alla Scena , che in italiano abbia ofato, e | così cc. Finalmente il
Giti di faputo ..., camminare per fen - 1 medefimo in una delle
fueLet- tiero erto, non più calcato da terc.tra quelle di Bernardo l
af- ' vernn altro dal tempo antico in fo. In / 'a dova . , apprefi
quà , faivendo in Verso dal- fo il Cornino-, in 8.; toni. a. a la rima
Sciolto , con avvefttu- | car. 198. apertamente chiamo 1 rato ardimento,
la Sofor.isba Tra - ITr.ssino Inventore di tali tedia ce.. HGiraldi poi
ne* Di fi ! verfi : la qual cofa fu olTervata cor fi cc. a car. 92.
favellando dei anche dal predetto Sig. Co: Maz- Verft Sciolti , chiama il
noftro ! zuchelli , a car. 47. annotaz. Gì ovangiorgio loro in- j 1 22.
della fuddetta l'ita di Lui- ventore-, e approdo dice qucdc' gi
Alamanni, parole: Veramente mi pare , che | Lezjzioni ec. a car. 68
r,. Monfignor il Bembo, giudiciofo A car. 393. e 394 del-
Scrittore ..... il vero dice fio, | la ciraw edizione di Padove
quando a Bologna mi diffe, che I 7 -H - ,n X» "E L T RI S S,I N O.
Giraldi poi fu appuntato il nollro Autore; per eflcrfi in quella
Tragedia più dato (come £ dlfle) a fcrivtre i co fimi , e- le m
Anitre de i Greci, che nonfi conveniva ad uomo, che firiveffe cofa
Romano, nella quale tn. traffe la maejlà. delle perfine, ch'entra nella
Sofinisba, Alla quale obbiezione veramente potrebbe nlpondcr-
fi colle parole del fuddetto Signor Marchefe Maffei (180), cioè che
certe azioni, 0 detti, che ci pa - jonoJn Per finali grandi aver talvolta
troppo del famigliare > .non danno dif gufi 0 a. chi . ha cognizione
de' Tragici Greci, egra* ttìca de' co fi unti antichi * E sì
. parimente altri difetti furono appuntati an erta Tragedia, che per dir
breve fi ommet> tonoi ma con tutto quello farà elfa da tutti i
dotti Tempre in grandilfimo pregio tenuta: per- chè quantunque lì creda
lontana da quella per- fezione, a cui fi può condurre un
componimen- to teatrale! (oltreché Tiftelfo potrebbe forfè dir- li
delle Greche Tragedie ancora, come dice il predetto Signor Marchefe egli
è per al- tro certo, no» molte prelfo chi ben intende an- noverarli
Tragedie in lingue volgari, che porta- no gareggiar con la Sofinuha, la
quale fola fareb- be ballante a tener tempre viva gloriofamcnte
M appreC- f 179) Difiorfi del Giraldi e. liane luog.
cir, car. 179. in fine, e a car.
Prcfaz. alle Opere de ( lio) PreCaz. al Teatre Jta.\ Trissino a
car. xxvii. Dìgitized by Coogle 5>S 'La Vita
apprcfso i letterati la memoria del Tuo Autore- A ciò che abbiam
detto fi può aggiugnere an- cora il giudicio del mentovato Signor
Cavaliere Zorzi, il qual dille, che la Sofonùba ì u n Tragico
Poemetto, migliare de’greci, e /nitriere ai Latini , Ita- liani » e
Franzefi Scrittori. LA ITALIA liberata tia i Goti. Stampata in
Roma per Valerio , e Luigi Dorici a petizione di plutonio A/aero
Vicen- tino MDXLV1I. di Maggio, con Privilegio di N. S. Papa Paulo
Jll, di altri Potentati. - Rarif- Difcorfo fopra l’ Opere \
al Clcmentijfimo ed Invit tijfimo del Trissino a car. 415. 11 ^Imperatore
Quinto CARLO Quadrio nella Storia e Ragione > Maffimo : e quelli primi
nove d' ogni Poefia Voi. 3. libi 1. Dift. ì libri fono di carte 175 I
fc- I. cap. iv. Particcl 2. a car. 65. condì nove, che contengono
regimando quella Tragedia, ac- carte 181, furono Rampati l’an- Cenna i
difetti fuddetti in clfa no approdo nel Mcfe di Novem - notati dai
predetti Varchi cGi- bre , come appare da quelle pa- llidi ; ma apprelTo
foggiugne , fole , che in fine fi leggono : che efla ciò non cjtantc ha
fem- Stampata In Pene zia per T 0- pre avuta ejiimazJone non poca: torneo
Janiculo da Brejfa nell' an- nominando anche la traduzio- no MDXLV 111 .
di Novembre . ne Iranzcfc di detta Tragedia Con le grazie del Sommo
Fon- fatta per Claudio Mcrmctto, c tifico , e de la JlluHriJfima
Si- imprcfla in Lione l’anno 1583. gnoria di Venezia , e de lo
Illu- ( Quello Poema fa dal Jlrìjfimo Duca di Fiorenza, che
Trissino, come è detto di ninno non la poffa riftamparc lopra, mandato in
luce in più per anni X. fot za efprejfa licen - tempi. 1 primi nove Libri
» i za de l’Autore. Gli ultimi no- quali hanno il titolo fuddctto,;ve
finalmente furono llampati ma co’fuoi nuovi caratteri, fu- janch* effi in
Venezia P anno rono llampati l’anno 1547. nel Hello MDXLVII . per Io
Redo Mcfe di Maggio ; attorno il qual Janicolo, ma di Ottobre (cioè
titolo v’ ha eziandio il motto un mcfe innanzi a'Scconai no. della,
imprcla da lui alzata TO ve) collo Hello privilegio. E / HTOTvevon A auto
>1 i e tutti quelli XXV II. Litui (che dopo fegue la fua
Dedicatoriafono, non già. come Ov pi Rariflìma è quefta
edizione } e due fole copie n’abbiamo noi vedute in Venezia y una nella
ce- lebre Libreria Pifani? e l’altra nella preziofa Li- breria del
fu Signor Apoftolo Zeno (184) 5 ap- prefso cui Vera anche un efcmplare
dell’ im- presone feguente. J tali a &c. riveduta e corretta
per /’ Abate Antonini ec. in Parigi nella Stamperia di Ciovanfrancefco
Rteapen . Tom. 3- in 8. Fu anche riftampata unitamente
colle altre Ope- re del noftro Autore nell’edizione tante volte da
noi citata j (ma fenza i caratteri da efso in- inventati) in Verona
preffo Jacopo PalUrfi 1729. i n e tiene il primo luogo nel tomo
primo • Ma Anche ionie diflero erroneamente il Fonranini
nell’ Eloquenza ita- liana à car. 580. . e 1 Autor del Catalogo
della Libreria Cappo- ni a car. 377.) fono uniti in un volume in 8.
Il Cavaliere Zor- zi nel fuo Dif offa intorno alle Opere del
Tkissino a car. 4 y). sbaglio prefe in dicendo, che i primi libri
furono ìmprtfft in Roma , e gli airi IX. in Venezia .
Dal Signor Apoftolo Zeno fu la detta fua Libreria donata con
teftamento a P. P. Domenicani della flrctta offer- vanz.a di
Venezia nel mefe di Settembre dell’anno i7jo.» nel quale poi addì
xt. di Novembre placidamente p.ifsò di quefta vi- ta. Della
cui perdita li dorran- no mai Tempre i Letterati , ed tifa da noi
non pure in quel tempo, in cui appunto eravamo in Venezia, ma
continuamente farà compianta. Cinqui abbiam voluto dire., per
Iafciare un pub- blico arredato, della noftra gra- titudine alle
molte cortcfie ufj- tcci dal meiefimo. Per altro un elogio alla
memoria di sì grand’ uomo col Catalogo delle fuc Opere ha
pubblicato l’erudito Autore della Storia Letteraria d'Italia (il P.
Francefco Anto- nio Zaccaria Gcfuira ) nel Voi. 3. lib. 3. cap. V.
num. 1. c fegg. pubblicata in Venezia nella Stamperia Polttiv 1752.
In 8. Anche quefto Poema fu da varj letterati ITomi-^ ni e Iodato?
e cenfurato in molte cofe. E quanto alle cenfure, il Titolo primieramente
non è affat- to piaciuto ad alcuni, giudicandolo dii troppo lungo,
e ravvolto, diròcosì* dicendo, non bene diftinguerfi, fe i Goti, o pure
altri da' Goti ab- biano liberata f Italia (18*) . Scipione Erriccy
Poi nelle fue Rivolte di Parnafo Criticò 1 - AtJ- tore noftro, che fece
fare fenza necelfità veru- na ai Perfonaggi del Poema lunghi ragionari,
e che introduce la gente nella Zuffa, parlante a- guifa di Dialogo,
facendo che l’uno ricominci dove l’altro terminai il che è lontano
affatto dal verifimile j concioffiacofachè nelle guerre non s’odano
che poche voci, e folamente fi fenta, il fragore delTarmi : e in altro
luogo ky criticò, perchè troppo alto cominciamento die. de alla
guerra i dicendo , che meglio avrebbe fatto', fe avefse porto Belifario o
dentro a Roma, o per lo meno in Italia v e tacciando in ol- tre gli amori
di Giuftiniano di troppo goffi c lafcivi, c d’indegni del fuggetto, a cui
furono- appropriati (188): delle quali cenfure dell’Erri-- CO
fi Veggafi Udcno Nificli tic' Proginnafmi ec. Rivolte di
Parnafo di Scipione Errico . In Me finn per gli Eredi di Pietro
Urea 164.1. in iz. acar. 63. Rivolte di Pam a fe
a car. 64. ( 188 ) Rivolte ec. a car. . pj to fi
dolfe poi non poco Gafpare Trillino colla Lettera a lui indiritta ? la
quale fi legge nelfè efse Rivolte di Pimi/,, (i8p). Attché il
Fontanirri nella Eloquenza Italiana ( jpo ) notò qnefto fallo
commefso d’O., foggiugnendo, che egli Poi ravvedutoli, ne fece l’ammenda,
riftampan- do le carte, e mutando i verfi già fcritti (ip r ; s
pafiando appreffo a riprendere chi riftampò le Opere di lui, perchè
avendo tralafciata l’ortogra- fia dal Tri ss ino fieflb inventata, v’
avelie poi inferite le cofe ** M medefmo volontariamente ritrai -
utt (ipi). Da S * ÌV r ° lte J C - * car - «o-. | eolie
parole, e le parole io' ben- (iyo) A cai. 581. 1 fieri: le quali fofto
perciò fem- so^Aelìa Ubr^'r ^ C * ! * lo \t lici e P«re, e di
quando in quan. go della Libreria Capponi a car. | do con virgìnal
modeffia trasfe &Y.T„“fT ''jT'I’t'v" 4 CanonTo G fZt
d I Rissino, die*; nelle An- : ni Checozzi nella fùa dotta Ltt-
TZntL C alcll q0Cl1 ’ \ *»* di,enfiva ’ «tata al di fopra An!dli
r q '"'"^ont all 1 annotazione 101. , dice che {jù 1 ;
isst { ;j:zz:iu f :rr ir ™ s - ìz o ìvT cho t bcmì ! 2
*’ 119 J. \ io ’ » ,iche > àoveglifcherzi qualche e 1 31. , che fi e
tentato di leva - 1 volta p affano aver Inaio ma UaVitìc *‘ r l ÌC
l n ?*** }"**•{ molto pia nelle ferie, & ed ora- Ma Vincenzio
Gravina nella fua tcrie. * Opera intitolata Della Ragion
Poetica libri due cc. Jn Venezia frejfo singioio Geremia
1731. in 4. lib. a. a car. 106. non dubitò di lafciarc
fcrirtó non foiamen- Le parole delFontanini nel luogo citato fono
quelle z Reca gran maraviglia (dic’egli j che ojjendendofi la
memoria , e riputazione dd Tritino nel ri- fi n 1. ^
te chela Qifd. -r riputazione del J njf.no nel ri - te che
lojhle del Tassino \fiamparfi le fue Opere ( non pe- e caffo e
frugale; ma ancora che] ri con l'ortografìa da lui fi tifo tatti ifitoi
penfien fon mi furati j inventata ) fiafi voluto in onta fua
» .Vita' Da Gio: Mario Crefcimbeni nella Stiletta dil-
la Fdgar Totfm { ipj), fu il Tr issino cenfurato di troppo efatto nella
deferizione delle parti ,• e particolarmente del veftire dell’Imperatore
Giu- ftiniano; concioflìacofachè gli abbia fatto metter prima la
camicia, e poi 1* altre robe di mano in mano fino alli calzari;
foggiungendo, che l’efem- pio d’Omero inventore di cotali foverchio
dili- genti narrazioni, non lo dee in ciò feufare. In fatti l’avere
Giovangiorgio troppo efattamente imitato quello Greco Poeta, fu la cofa
princi- paliflìma, che. gli ha nociuto. Di che eziandio
Giovambatiila Giraldi ? Cintio , Ferrarefe , ap- puntollo, dicendo (194)5
che £ energia non iftà ì co- me il noftro Autore fi credette, nel
minutamente feri, vere ogni copicela , qualunque volta il Poeta fcrive
eroicamente; ma nel- fla, e non fenza contumelia
del- la Chrefa Romana fargli l' oltrag- gio di preferire alia
giufta fua correzione le cofe , volontaria- mente da lui meclefimo
ritratta- te , cantra le quali da onorato gentiluomo-, e da buon
Crifiiano altamente fi fdcg -crebbe , Je foffe in vita. Con quelle
parole ac- cennò il Fontanini la rillaihpa» che delle Opere del T n
i s‘s i n o fi fece in Verona ; del che il Marchefc Maffci fe ne
rifenri nell’ E fame fopraccirato, a car. 73., dove dice, che il
detto Boema fi è ristampato a Verona | fecondo /’ impresone
con Privi- legio di Papa Paolo Terzo ufii- I ta . lo certamente non
ho vo- ; Juro darmi la briga di con- frontare la primiera
edizione ; colla riftampa' del Poema fief- fo, per chiarirmi» fe
vere ric- ino quelle mutazioni predicate dal Fontanini
. Bellezza della Volgar ' Poefia di Gio: Mario Crtfcim- j beni
; In Venezia , preffo Loren- \zo Bafeggio, in 4. Dialog. Vili, a car. 157.
Ne’ Di f cor fi ec . a car. 6 a. ma nelle cofe, che fono degne della
grandezza della materia* if'ha il. Poeta per le mani: e prima ( 195
) dille quelle parole: Come l'età di Omero e i collumi di que'
tempi, e le fingo lari virtù, che fi trovano in queflo divino Poeta ,
fecero to- ler abili quelle- cof e in lui', così l'averle il Trijsino in
ciò imitato ne/r Italia, .altro non fece , che ffiegliere dall'oro
del componimento di quel poeta lo fi creo , (il quale non per fuo
vi- zio , ma dell età ci fi trapofe ),.e imitare i viz,j , ( parendogli
di avere affai fatto , fe bene gli efprimeva ) , e accogliere tutto
quel- lo, che i buoni giudicii vollero trai affiate, moftrandofi in
ciò foco grave. Oltreciò lo Hello Giraldi (i 96 ) notò in
quello Poema, vìziofe eflere le invocazioni; e la favola di Farlo e di
Lìgridonia elTervi introdot- ta, e fuori dì ogni bifogno, e fuori d'ogni
dependenza ; aggiun- gendo, quell’allegoria efler tolta da altri, e in
parte dall' Ar lofio nella favola et Ale in a, e di Logifiill * * C
finalmente in una. Lettera a Bernardo Tallo (198) dille , chele il
Tr ISSINO fiecome era dottiamo , così foffe fiato giudiciofo in
eleggere cofa degna delle fatica di venti anni , avrebbe veduto ,
che così fcrivere , com'egli ha fatto , era uno fcrivere Smorti ]
inferir volendole il Poema non era letto. Ma chi dogni
appuntatura de'Critici a quello Poema parlar volette , llucchevole forfè
e nojo- fo riufeirebbe ; elfendo già flato fatto que- flo dal
Difcorfi ec. a car. 33 .[quelle d’effo Taffo , ( Voi. a. t 9f> \ ^r
0T r cc ‘ 3 car ' 49 - a Car. 196. e fegg. ) (lampare — l J cor fi cc e
fopra i Poemi di alcuni più chiari Epici non dubitò d’, innalzarlo.
Nè minor conto ne fece Benedetto Varchi, poiché in una deile fue Leeoni
(20 6) dille , che 1 Italia Liberata da Goti fe bene era
lodata da pochijfimi meno che mezzanamente , e da molti in finii
amen. t e biafimata ,.e quafi derifa , pareva a fe nondimeno , che
-Quanto a quello , che è prof rio del poeta , ella mcrìtdffc tanta
lode, anzi tanta ammirazione , quanta altra potft* , che JSj fia
dogo fico , ed a teffer lavoro Somiglian- te a quei di
Virgilio , a d' Ome- ro, e di quejlo fpezialmente eh' egli prefe a
imitar del tutto. Lettere , Voi.
2. acar. 416. Il T rissino > la cui dottrina nella noftra età fu
de- gna di maraviglia, il cui Poe- ma non farà alcun» addito
di negare che non fia dijpojlo fe- condo i Canoni delle leggi
d' lArift utile, e con la intera imi- tazione d' Omero , che non
fia fieno d erudizione atto a infe- gnar di molte belle cofe ec.
11 O. medefimo nel 1. libro di quefto fuo Poema, a
car.22.dcl- l’cdizione di Roma così dice ; „ Ma voi beate
Vergini, che „ fofte „ Nutrici , e figlie del divi - 1
a> no Homcro, [ „ Ch’i ammiro tanto , e vo feguendo
Torme „ Al me’, ch’io fo, de i fui „ veftigi eterni;
Reggete il faticofo mio viaggio: „ Ch’ io mi fon pofto
per „ novella ftrada, „ Non più calcata da terrc- .^nc
piante . E in quefti ultimi verfi po- trebbe crederfi , che
avefle egli voluto indicare non pure d’eflere flato il primo a
comporre Poe- mi a imitazione d’Omero, ma d’effere anche flato il
primo in- ventore del verfo fciolto » in cui il Poema è
dettato. Lib. 2. acar. ioj. I Lezzioni di M. Bcnedetto
Varchi a car. f‘* dopo Omero fiata firitta, e dopo Virgilio:
foggiungcnclo appreflo, che deve molti fi ridono del T n. i ss i n ® >
che confi fio d'aver penato XX. anni a comporla » a luì pareva, che
ciò a gerle giudizio porre , e attribuire fi gli doVcHè >
Finalmente ( a tralafciare il fentimento di altri Scrittori circa
quello Poema, e fpecialmente del Tommafini, e dell’Imperiali Salvini, che fu uno de’ più be- gli
ornamenti, che abbia avuto in quelli ultimi tempi la Città di Firenze,
così fcrille (2op) in torno al Poema Hello, e al fuo Autore: 11
nofiro leggiadrijfimo Rutilai tefii in verfi fiiolti il fuo
poemetto dell' Api dedicandolo al Trissino, che nello fiejfo tempo
del- lo Alamanni » che la celebratifiima f u a Coltivazione mife in
verfi fiiolti > compofe alla gran guifa Omerica I'Itau a Liberata dai
Goti, il qual Poema fu tanto da un drappello diPaftori Ar- cadi confidar
ato ripieno di bellezza, e virtù poetiche , che ave a- no a varj /oggetti
dato un Canto per uno , per metterlo in otta- va rima , per farlo più
leggibile con quefio lenocinlo alle fihiz,. zìnafiy per dir , coti ,
orecchia Italiane ( 2 to) • ed in Un e nel primo tomo
delle fue opere della riftampa di Ve- rona j e con altre fue poefie nella
prima Parte della Scelta di Sonetti e Canzoni de' pi* eccellenti
Rimatori d'ogni fecolo (alj). XV. RI- Jm
^214) Mi pare, che qui da tralafciar non fia il Sonetto
da Benedetto Varchi mandato al noftro Giovangiorgio j giacché
con dio non pare lui lodò, ma avendo forfè la mi- ra alle altrui
critiche fopra il di lui Poema, inanimillo a?pro- feguire
gl’incominciati fuoi Au- di . 11 Sonetto è qticfio, e fi è
traforino dal libro intitolato: J Sonetti di M. Benedetto Var- chi
, ec. In Venezia per Plinio Pietra Santa , 155-5. in S.acar.
109.: O. altero , che con chia- ri inchiojtri T e
’nvoli a morte , e 7 fo- co l noftro bonari , Rendendo Italia
a' fuoi pajfa- ti honori. Di man de' fin crucici barba-
ri moftri Tu con nuovo cantar l'antico' moftri Sentier
di gire al Cielo , e tra'migliori Le tempie ornarfi dì
honorat i allori Pi* cari a cor non vii , ohe gemme
& oftri. Per te l' Adria , la Brenta, e ’t
Bacchillone Al dolce fuori de tuoi graditi accenti
Vanno al par di Pento , del T tbro , e d'Arno . Deh, fe
'i gran nome tuo ftnt- pre alto fuone, £ faccia ogni gentil
pallido 1 e fcarno , Tuo corfo l'altrui dir nulla
rallenti. Scelta di Sonetti e Canzoni de’piìt eccellenti
Rima- tori dì ogni Secolo ec. DEL TRI'SsrN'O- roi XV. RIME.
In Vicenza per Tolomeo laniccio. Diccfi j che l’anno medefimo
fofler ivi riftampa- tc per lo Hello janicoia in 8>; ma quella
edizio- noi non l’abbiamo veduta. Furono bensì riftam- pate 1»
Verona coll’ altre lue Opere. Il Tris si no dedicò quelle Rime al
Cardinale Niccolò Ridolfi, Velcovo di Vicenza in quel tempo ( non a
Leone X. , come fcrifle erro* nearnente il Signor Canonico Conte
Giovam- batifta Cafottì, che fu perciò ne[ Giornale de' letterati £
Italia, modcllarrrente cor- retto) e nella Dedicatoria, la quale non ha
da- La, egli dice, che gli mandava w'ft* Tuoi giovanili
componimenti per ubbidire alle fue molte infianze . Di quelle Urne, non
meno che del loro Autore , favellò con molta lode il Quadrio nella più
volte ci- tata Opera fua della Storia e Ragione di ogni Ree* : c
Federigo Menini lafciò fcritto et* fere W4, che
contiene i Rimatori an- Tom. prim.acar.349i fichi del 1400. e del
1500. fino j Nella Prefazione. In Venezia r Vrofe e Rime de'due
Buonaccor- preffo Lorenzo Rafcggio . in 12. 1 fi « Rampate In Firenze
nella Voi. iv. La Canzone è a car. ! Stamperia di Giufeppe A/anni
303. del Vol.i.e di efla se fatta 1 1717. menzione al di fopra
all’annot. ! Tom. xxxvl. Arde* 56. Olitila Scelta , che era fiata
ix. a car. 224. in 12. prima in Bologna Rampata, fu poi j Voi. 2. lib. I.
Difi» riprodotta in Venezia inpiùVo-’i. Cnp. 8. Parriccl» s. a car»
lumi. IOÌ L A V i f A fere i Sonetti del" noftro Autore e
buri , fentenzàoft, e' patetici Sette Tuoi sonetti , i quali mancano
nelle fud- dette Rime , furono ftampati nella già citata Rac- colta
delle Rime di diverfi nobili PeetiTofeani fatta dall* Atanagi: il
primo de’quali fu da Giovan* Giorgio indirizzato al Pontefice Paolo Terzo
> e l’abbiamo accennato altrove; il fecondo a Ottavio Farnefe,
allora Duca di Camerino} e poi di Parma c Piacenza* il terzo a
Margherita dAuftria* il quarto al Cardinal Farnefe foprammentovato; il
quinto a Girolamo Verità, gentiluomo Veronefej il fefto a Paolo Giovio»
Vefcovo di Nocera, e Storico di chiaro nome» il fettimo finalmente è il
fopraferitto, da eflo fatto poiché terminato ebbe il fuo Poema dell
5 Italia Liberata da Goti. Ancora Un fuO Sonetto, fcrittO
al Cardinal Pietro Bembo (224;, fi legge tra le Rime di quefto
Autore il quale un altro Sonetto Nel Ritratto del So-
j cenza fua Patria. Sono chiarii netto 1 e della Canzone In Vene- \ fent
trizio ft , e patetici, zia apprejfo il Bertoni > 1678.' A car. 8?. a
tergo, e in il. , a car. io?. Ecco le fuc , feguemi. parole
Giovan - Giorgio! V* fopra & car.
55. al. T rissino, nobile Vicentino , l annotazione 1 07. oltre
alla Tragedia delta Soft- j V. ivi. nisba e oltre all'Italia'
Quefto Sonetto C0- Liberata , Poema Eroico , che \ inincia :
fu il primo ad ejfer dettato fe- j Bembo , voi ftet e a qne bei
condo It regole d'^driftotele , e ftadj intento . fatto ad,
eferr.pio di Omero 1 fe J Rime di M. Pietro molti Sonetti ftampati in Vi-
Bembo: In Bergamo appretto Pie- tro DEL, TRI5SIN Q. j ^
.Sonato nelle medefime definenze gli mandò in ril- pofta.
Altre lue Rime poi dono fparfe nelle Raccol- te del Varchi» del
Rufcelli, e d’ altri: ma dal Signor Marchefe Maffei tutte adunate furono,
e poi fatte Rampare in un colle altre di lui opere, colla giunta ancora
di altre poefie del mcdefimo (ma non di tutte), non prima date in
luce, e di alcuni Sonetti da altri Poeti a lui fc ritti. Ma
perchè alcune poefie , che fono tra quel- le del noftro Autore, veggonfi
altresì tra le ri- me o de Buonaccorfi, o di qualche altro Poetai
però egli è ragione, che diciamo intorno a ciò qualche cofa, avendone già
diffufamente parla- to altri Scrittori , e fpezialmente il
Cavaliere Zorzi. Tra le Rime adunque de’ Buonac- corfi Ieggonfi
quattro Sonetti interi, e cinque foli verfi di un altro Sonetto (11
fuddetto Signor w
tro Lanccllom 174 J. > in 8 . a car. Quello Sonetto
comin- eia: Così mi rentU il cor page , e contente .
e fi legge in dette Rime a car. 94 -Tom. l. a car.Difcorfo /opra l
Opere'. del T r 1 $ $ t n o , a car. 404. e ! feguenti 11 -primo ^i
queftiSo- nerti , che a car. 1. delle Rime del noftro Autore fi
legge; ed a càr. 2 96. di quelle dc'JBuonac. 1 corfi , della
mentovata edizione di Firenze 1718. in 12., comincia coste La
bella donna, che in vir- tù d" Amore . il fecondo che
principia: Li occhi foavi , al cui gover- no Amore ;
nelle Rime de’ Buonaccorfi c a car. La vita Signor
Conte Cafotti incaricando (2jo) mode- fìamente il noftro Trissino ,
favoreggia i due Poeti: e nel domale de' letterati tf /taiu fi
accen- na folamente, ma non fi feioglie cotal viluppo » Il
Cavaliere Zorzi dice, che perciò fare converrebbe andare a Firenze, ed
ofservare fc Antico, o no, fia il carattere, onde fono fcritte le
poefie de’ poeti fuddetti •, concioffiacofachè pofsaefsere, che
da'copifti, (le copie fono)> o come a car. . , cd
in quelle del ine allenirne de’ Buonaccorfi a Trissino a car. 4. Il
terzo , car. lvi. che ha quello principio: j Tom. xxxvr.
Artic. Qando 'l piacer, che’l defia- to bene; \ b o>
he 1 Sonetti^/ I ; non fieno del piovane Buonaccor- ,è a car. 4. a
tergo delle Rime fi , offendo firitti a Palla di del noftro Autore, cd a
car. Noffcri Strozza, ea'fioi figliuo- li quelle de’ Buonaccorfi . 11 li
> tutti fuoi coni empcr enei - I quarto finalmente, clic fi leg- '.y
chc| DelLi edizione di Ve- ti legge tra quelli di qucfto \nez.ia 1546. in
8. a car. 7..; la Autore dell’edizione di Firenze * qual Canzone, che
nelle Rime e comincia: (del Trissino è a car.' 5. Quanto più
mi dijlrugge il ( principia.- mio pen fiero-, . Amor, da eh' e' ti
piace nelle Rime del Trissino cl -Chela mia lingua parli-, cc
a car, . j IOJ La Vita
con vcrfi di Tette, e di undici fillabe, tutti Tciol- ti, e ufolla
in una Cantone indiritta al Cardinal Ridolfi : il qual modo ftravagante e fcon-
figliata cofa parve al Crelcimbeni (i* ma, come dille Maffei Tu
bizzarria d’un iblo componimento. I Simulimi (Commedia in verfo fcioito)
In P rnezja per Tolomeo J unitola da Breffa. Quella Commedia ( dì
cui non Tappiamo eflerci altra riilampa , Tuorchè quella Tatta in Perona
unita- mente coll' altre Tue Opere) Tu da lui compoftaa imitazione
dei Mtnemmì di Plauto, aggiungendovi il coro-, e varie coTe mutando-,
Teguitando in effe altresì le tracce degli Antichi, ed accoftandofi
Tpezialmente ad Arifto/ane . Nella Dedicatoria al Cardinal Farnefe dice,
che avendo in quefia lingua Italiana compoJ} 0 e l 4 Tragedia, e lo
Eroicoy gli ' t* rut ° oU tra futili di abbracciare ancora qaefb' altra
farle di $“fia , cioè la Com . Quella Canzone end
nd primo tomo ddla riftampa di Verona,. a car. 371. cola.., c
comincia; Paghi , fu feriti , * venerandi Colli i cc.
( ma non Tragedia, fi il
TafTo, che non compofe Commedia, fua non eflendo quella, che fu imprefla
col nome di lui (23P). A che volendo noi alludere abbia- mo fatto
di quattro differenti poetiche corone adornare il Ritratto del noflro
Autore , che in fronte di quella Vita fi vede. Nella Prcfaz. alla
ri- | Rampa di Verona a car. Xxv. Tra’ lodatori della'
Commedia del noftro Autore , j uno fi fu il P. Rugcri , cosi
parlandone nella citata Decla- mazione a car. xxiiù ,1 Hic fior
Georgivs) anti- „ quorum poetarum , qui Co— n mie® Poefis lauream
adepti,! » Slori® termino* pofteris cir. j cumfcripfifle videbamur,
Rre- ,» nui adeò coocertationc inge- j„ nii adarquavir ,
eruditiflìmo !» PoCmatc , metro jfcripto quod Sim itL r mos infcripfit ut
quonefeumque >» Comicum illuci Carmen le- ftionc parcarro ,
ipfa fe mihi » antiqure Poefis facies verert- ,, do, gravique
afpc&u referar ,» contemplanda. Digìtized by
Google jo8 La V r t a XVIL Egloga fafitrAie (in verfo
Italiano) nel- la quale Tìrfe pallore invitato da Bauo capraro»
piange la Morte di cefAre Trivuiào fotto nome di DAfm bifolco.
Quello componimento fu inferito coll’ altre fue ogere nella
riftartipa di Verona Altra Egloga (parimente in verlo Ita- liano),
in cui parla Batto Capraro folo. E quella altresì fu llampata coll’
altre fue Opere - Pharmaceutria U4* )• De mtTU Anche
quella Compofizione , che è di clxxvil. verlì Latini, fu unita alle altre
fue Opere nella riftampa di Verona (244): e perchè nel Codice
v’era- Tom. I. a car.
\ffripfft , quifquis ille fiat , qm Tom. I. a car 375.
\titulum aididit, non ertim ei,m À Gli eruditici ini Signo- arbitror effe
a manu Io. Gìor- rì Volpi di Padova, i quali fic- gii Trissini ,
quei» come aveano ideata Una edizio- ÌGracas litteras egregie
caUuìJ- ne delle Opere del Th iss l»o|/f. apud The ocn- (
comc è detto nella Prefazione) J tum che ineptì hanc E- Fracaftoro.
tlogam
PiiAUM aceutri am in- (T Tom. U a car. IOS V’ erano alcuni
vani? perciò dal foprammentova- to Gafpare Tri ss ino eruditamente furono
em- piuti > e quivi fi veggono contraflegnati con carattere
diverfo. Encomium MAximUiàni ctfarit . Sta quefto al- tresì
coll’altre fue Opere della detta riftampa. Due Epigrammi latini.
11 primo di quelli Epigrammi (i quali furono dati a luce parimente
in detta riftampa (245); fu fatto dal Trissino in morte di Pulifena
Attenda, Ce- lcnate, piagnendo egli in perfona del Marito* Quefto
fu tratto da un libretto ftampaco in Ve- nezia» in cui fi legge anche
un’Orazione di Jo- vita Rapicioj da Rrefcia, detta in Vicen- za in
morte della ftefla. L’altro Epìgramm* è quel- lo, che s’è riferito al di
fopra, fatto da lui prima della ultima fua partita dalla
Patria. Tom. 1 . a car. più nella Seconda Parte, a car. Qucùo
Encomio è di CHI. Vcrfi 63.efeg.91.eieg. 192. c fcg. dello eroici latini
, e comincia Cosi. Specimen Paria Ut ceratura, &c. Heor.rn Jì fatta
mihi , laudcfvo Btixia 173 9. 4. pubblicato dal -Dei-rum non meno per
dignità, che per Quandoq; ut ctlebrem permit - virtù inorali , cd
intellettuali tii carmini Phàebe , Eminentiffimo Cardinal Qui.
En tempus , ncque fallar , a- fini : e nella Libreria Ere - defi}
&c. feiana di Lion ardo C o^z^ando ,
Tom. 1. a car. 398. \in Brefciu\ 6 vq. per Gio: Maria Di
Jovità Rapicio ' Rizxxrdi in S. a car.. ove fi trova latta menzione neli
, £’r-|è chiamato Raviz.zat, c fr dice, colano del Varchi a car o che fu
lcctore di umanità in Vi- li ella Scan zia xx 1 1. della Biblio- j ccnza
. tcca Polamcz car.120.121. mal all’ annotazione m.
Digitized by Google tio L a Vita Alcune poetiche Latine
Compofizioni del Tr issi no non inferite nella fuddetta riftam- pa
di Verona, furono ftampate nella Scambia XXIL della Biblioteca Volante-
di Giovanni Cinelli ( MW • Quelle fono primieramente due ode; dopo
cuifeguitano due evitati in morte dì Vincenzio Magre, fuo caro amico j e
appreflfo feguita un epi- gramma ad fonticuium /: e finalmente una
Compofizione intitolata leges conviva les . L’Autore di efia scam.i a nel
luogo citato dice» che quefie Poefie ad intelligenti, che le hanno
vedute , fembrano cofe fatte dal TnissiNO ne'fuoi pii* giovanili anni:
ag>» giungendo, che il il Codice, onde le trajfe , benché fia
ferie to net 1500;, mofira che già inclinava al fine il fecole , ed in
confcgutnz.a molto tempo dopo l A di lui morte. DÌCC 1U oltre, che U
Copifia era poco intendenti del Latine -, per. che vi fi trovano >
alcuni errori, che mai fi poffono ’ attribuire a n illufire
Autore. xxxrn.' A car. c 81. E‘ mentovata da noi
all’ annotazione in. { ajo) La prima di quelle O- de
comincia: Du&urus aurum nobile per Mare
Carafve gemmai n avita fluttibus Non ante fe cautus
mari . nis Crederet , & rapidi s pro- cella 8
cc. L'altra' ha quello principio: Pulcher o Sol, qui
nitido s dies &' Das , & idem fubtrahis , a eque ter
rie Humidam noSlem *. & pla- cidam quietone
Riddi: avarie Sic. Quello Epigramma è diverfo da un altro dal
noftro i Aurore Grecamente compollo fopra il mcdcGmo fuo
Fonti- cello di Cricoli , il quale di fotto regiftriamo tra le
fuePoe- fie non ancora date a luce 1- VOLGARIZZAMENTO .dì
alcune Ode MQrazio* Quelle noi non le vedemmo» ma follmente ci
atteniamo .all’autorità del Fontanini {252), e del •Quadrio )1 il primo
de'quali dopo avere regiftrato un libro intitolato: Odi diverfe d'
Orario volganzjzate da Memi nobilitimi ingegni , e raccolte per
Giovan- ni Nar ducei da Perugia : fy Venezia , per Girolamo Polo.
in 40 foggiugne fubito come fegue. Q*tJH vdga- ■ fi datori
fora XIJ. ai le f andrò Cofanzo , Annibal Caro Cosimo Mortili , Curzio
Gonzaga , Domenico Ve- nitro, Francefco Veranda, Francefeo Crìftiani ,
GiovangIOr- ■ cio Tri «ino, Giulio Cavalcanti,, Marcantonio T ile
fio. Sir . Jorio ELOQUENZA ITALIANA, a alleai»»? di luì
ftampate in 5er- ‘ Car * 5 35 * falla fola autorità del gemo per Pietro
Dance dotti I7JX quale viene riferito quello libro in 8. a car. xxtv. tra
le opere anche nella Biblioteca degliauto- del Vcniero regiftrando anche
la ri Greci e Latini volgarizzati traduzione di alcuneOde dtO-
«nferita nel tomo jcxii. c fegg. hrazio da lui fatta, taluna dice, »
della Raccolta Calogeriana alla di quefte fi trova fiammata in un
yoceOrazio, dovr ai tomoxxiv. I libro, che io mai non ho potuta 3 °
7 * f' sggiange ; libro avere, e che ha penitelo : Odi rari fimo , che
non ancora abbi*. .diverfe ec. che è il libro da noi mo avuto incontro di
vedere . ; fopraeckato, E pure grande Tappiamo cffcrc 1 ( 25+ )
Veramente il Signor ìiata la diligenza del P. Paico- j Anton.Fcdcrigo
Seghezzi , di m, autore di detta Biblioteca, 'chiara memoria, nella Vita
del per ritrovar un tal libro. [Caro per lui dottamente ferir* V 2
J 3 ) Storia e Ragione dì ta, e premcfTa alle lettere delio ogni Poefia-,
tom. 2. lib. t, Dift ! ftcflfo dell’ultima edizione di I. cap. vili.
Particcl.iv. a car. I Padova, apprejjo Giufeppe Comi* 394. e falla
autorità di lui il|m> 1742. in 3. tomo primo, benemerito delle lettere
Sig. Ab. niente dice , che il Caro tra- 1 icr-Antonio Serrani nella Virai
dotte aveffe Odi eli Orazio, di Domenico Venterò , premeffa I uà La
Vita torio Quattr ornarti, e Tiùerio Tarfia. L'altro pòi
riferì' fee medefimamente quefta Traduzione, cd edi- zione, e i
nomi degli fteftì Volgarizzatori. OPERE In Profa
non iftampate. YV IV T\ UE ORAZIONI di Sereniffidee Mente di re.
JL) mrje, ter ifirevere le Ci, ed dir*"™ *>“• imgoftn
riedificazione delle J*e Mora.. ORAZIONE , ovvero ARINGA ( dettata
in lingua Lombarda) de, e. 2 M*U, ter ridare U D„m‘ * rei d ‘
^ V,.ni,d di de,,. Terre. Di quella Orazione s e già
favellato a baftanza per entro quella r „. . Breve Trattato ài
Architettura, coirai cune Piante di Edifizj fecondo le regole di
Vi- travio.. Di quelloTrattateli, abbiamo fatta meu- zione nel
principio di quefta r,ta IMD*
TRATTATO intorno ‘1 Mero Arbitrio. Due lettere latine a
Monlignore Jacopo Sadoleto. . fopra paj- 8. annot. IJ.
:I7$ XXIX. Un Volume di lettere , fcritte a mol- ti
ragguardevoli Perfonaggi del fuo tempo , tra le quali molte ve n’ha da
Soggetti cofpicui, e da dottiflìmi Letterati fcritte al T RrssINO ;
ficco- me altresì ve ne fono di Principcfle, e di Da- me illuftri
di quel fecoio . Da quello Volume fono -Hate eftratte dal Signor 'Marchefe
Maflfei quelle , che leggonfi inferite nella iu a Prefazione alla
riftampa delle Opere di Giovangiorgio» nella •quale egli nomina anche
alcuni di que’Soggetti* 2e Lettere de’quali indiritte al T RlS jrN©
tro- vanfi nello ftelfo Volume* e di quelle Lettere-, tanto
llampate, quanto manuferitte , ci fiamo noi fpezialmente ferviti per
compilare quella vita . Gli Originali di tutte le fuddette opere in Prof
a manuferitte (fuori de\Y Aringa) > e delle feguenti pur
manoferitte in Verfo, fi confervano di prefen- te apprelfo i mentovati
Signori Conti Trilfini dai vello d'Oro , difeendenti dal nollro Letterato
1 le quali tutte fono Hate con molthTima diligen- za raccolte, cd
unite in due volumi in foglio dai Signor Abate Don Bartolommeo Zigiot-ti
, che colla Lolita gentilezza* e benignità -ce ne •ha data
contezza* e ci ha proccurato la como- dità di vederle. Due LETTERE
Volgari al molto Reverende Mejfer Hieronymo di Gualdo Canonico . L’Originale
di quelle Lettere , (le quali purcnon fono tra le fud- dette)* fi
conferva prefentemente nella Libreria P de u 4
LA VITA tfc’PP, Somafchi della Salute in Venezia, in una
raccolta di lettere di diverfi fcritte ai Co: Co: Gualdi ; donde anche
furono eftratte quelle che fono ftate pubblicate col titolo di Lettere
dPUomini Jlluflri del Setolo decimo fettimp non fin fiampate L’ una
di quefte due Lettere è fegnata di Roma; l'altra è fenza data OPERE
he Venezia, nella li della Madre di Dio a canili. Stamperia
Baglieni, della Prefazione al fuo S. Pier edizione p roccarata , e di
note Grafologo ltampato Venetiis a- corredata dal più volte nomi- pud
Thomam Bettinelli 17$** nato P. Paitoni. fol. „Ne... ingratiffìmis
quibuf- La notizia di quefte «quevidearaccenfcndus, illau. due
Lettere ci fu comunicata «datura iri non panar ci. & dal fuddetto P.
Paitoni, a cui „do ut dr eorum fibi gratiam cónci- liarit y &
magnani apud omnet auiloritatem . Digitized by Google
del Trissino; 117 Ìli Italiano ) In Vicenza per T olomeo Janiculo
da Brejjfa > mdxxix. in foglio. e ( col Dialogo del
CafielUno ) In Ferrara ter Domenico Mammartlli in 8. e (nella Galleria di
Minerva , parte fecon- da , a car. 3 5 *) InVi inezia preffo Girolamo
Albrix.z& > 16 $6. in foglio; e finalmente coll*
altre fue Opere in j 5 ? tona H Libro è dedicato da
Giovambatifta Dona a l Cardinal de’ Medici. Si dubitò per
lungo tempo ^ fe Dantè fia ve* ramente fiato autore del tefto Latino di
queft* Opera, di cui a tempi del Tr. issino niuno v’ era, che ne a
vette contezza. Egli fu il primo a pubblicarla in Firenze, allora quando
vi fu con la Corte di Leone X., come dice il Fontanini, il quale
anche lungamente favella di molte let- terarie contcfe , alle quali die
motivo la pubbli- cazione del Libro fteflb, che finalmente fu
riconofciuto per vera fattura di Dante . Ma cosi non poniamo noi dice del
Volgarizzamen- to, di cui e fi dubitò, e fi dubita tuttavia, f e
fia del Taissinq: e non oftante che tra le fue Opere
(a6i) Tom. 2. a car. 141. 1 ( 262 ) V. il Fontanini nell’
Eloquenza lui. dalle car jjy. I tino alle car. 246. e ndl'Amin-\
ta di Torquato Tajfo difefo ec. In Venezia 1730. per Stbaftia
• noColeti , in 8. a car. r*8 LA VITA Opere d annoveri
, molti letterati vi Tono , i quali affermano non effere di lui . Tra
quefti fpezialmente v’ha il Cavaliere' Zora, il quale nel Difcorfo
/ofra r- opere del noftro Autore {26$ )> dopo aver regiftrate le Opere
di lui in Profé) dice di ommetter la verfione de’ libri de vvlgari ELOQUENTI
A di Dante, torchi non li giudica tra- dotti dal Tri ss ino, nté
fatalmente da Lui fatti /lampare', aggiugnendo, provar egli ciò con
buone ragioni nella «m del me defimo Tjussino da lui fcritta A car. xj>o. a tergo » ciò
riferito il titolo nella Prefa- ,c feguenti» . Jljj ;altro ci
fcmbra affai frivola, perciocché moke altre opere del noftro Autore han
tralafciato di regiftrare quefti Scrittori.) Oltre a ciò dice, che
effendo detta -verfione malamente dettata in Ita- liana favella, farebbe!!
perciò «* affronto patente ai. la fempre verter abil m (moria d’O.
, aggravando , . e sfregiando ing'mfiamente la fua reeognizione , col?
attribuirgli un lavoro male intefo, t malamente tradotto-, facendo
anche offervazione , che non d’O., ma da Giovambatifta Doria,
Genovefe, è ftata quella Traduzione dedicata al Cardinale Ippolito
de' Medici, con dirgli nella Dedicatoria, che Dante Jiccome ave a ferino f
Opera fieffa in Latino idioma , cosi la trafportaffe nell'Italiano.
Soggjllgne di più lo fteffo Signor Cavaliere , che fe Giova NG ioRGio
foffe flato l’Autore di quella ver- fione, e’ non l’avrebbe poi allegata
nel fuo dia- logo del Gabellano a fua difefa, come fe foffe fia- ta
Opera di penna altrui Que- * . - • X B , . .1 M
Fontanini neH’£/e- quenza Italiana a car. 10A. dif- fc , eflere
ftata la detta veriio- nc pubblicata dal Trjssino ; c ’l Muratori
nella Prefetta Poe- fta Italiana tom. prim. a car. 2 3. della
edizione di Modena Il T r 1 ss 1 ho nell’ accennato Dialogo
fa , che Gio. vanni Rucellai lotto nome di Caffettano dica ad
Arrigo Do- ria quelle parole: Deh per vofra gentilezza M. irrigo
guar- date un poco nel mio ftudio , e fende, che il libro portate qui il
Libro della Vol- De Volgari Eloquenti* trafporta-\gar Eloquenza di Dante
tradot- to in Italiano , fu dato alla Ite- J to in Italiano . et
dal Trissimo. ! no L A VITA Quelle, ed altre rimili ragioni
adduce Cavaliere a provare» che il Tlissi no non fia {lato l’Autore di
tale Volgarizzamento i alle quali aggiugner fé ne può un’altra piò
torte, cioè, che fé egli non ebbe alcun riguardo a pubblicare, come
è detto, in Firenze il tefto Latino di queft' Opera col nome di Dante,
Tuo vero autore, molto meno l’avrebbe avuto a iar fapere? che fua
propria era la traduzione Italiana*, e manco avrebbe comportato , che il
Doria nella Dedicatoria al fuddetto Cardinale dieeffe, che Dante
(il quale, fecondo il Tuo dire, l’Opera ftef- fa in Latino compofe ,
affinchè intefa [offe dagli Spagniuoì li, Provenzali, e Pranzo fi) la
TRASPORTASSE ancora nel r.oftro Idioma. Anche il Fontanini U,
con aggiugnere, che il noftro G io va n Giorgio net pubblicare
quella ver bone; fi f* r ì fervùo de\ fuoìcarat. t tri Greci,
perchè da lui creduti migliori per Pefprejfione perfet- ta di noftra
Italiana favella . Con quelle ragioni, e con altre, che
ommet- tiamo a motivo di brevità, foltengono i predet- ti
Scrittori, non elfer del nollro Autore la fud- detta verdone; e ’1 Signor
Marcitele Maflfei fe la fece (lampare, come abbiam detto, tra l’
altre lue Opere, non però di meno non dice» elfer cflà fattura di
lui. Comunque fi fia, abbiamo giudicato miglior cofa elfere e non porla
tra le Opere da lui fenza dubbio compolle, e non tralafciare
affatto di regillrarla , sì perchè va at- torno col nome di lui» e sì
ancora perchè avvi qualche fcrittore> che la cita come di lui fattura.
R ERUM ricent irtarnm Compendiane a Io. Georgio Trusjno confcriptum . In
fine leggonfi quelle parole : Ha* fìrhfi t*fi dtpepulationtmUrUt Rome,
dum Le. lattee tram apud Remp. renet am prò Clemente rii. P.M. Que-
llo Componimento non è mai flato Rampato 5 cd una (
rita del Tr I s* 1 n o fima» ed utilidìma Stor. e Re. manuferìt. a car.
294. a tergo, gion. d'ognì Paef. Tom. I. lib. VeggaG il Qua
dr nè da niuno certamente fi sa, dove effe fi tro- vino di
prefentev e non oftante che abbiano detto i predetti Tommafini, e Beni,
che allora fi con-[V. fopra a car. jr. f { 179 ) Trattar, dell'
Orig. Prefazione alle Opere * ec. tib. a. manoferitto a car. tc. z
ar. xxxi. jj. Elegia &c. a car. (180 ) Difcorfo ec. a car.
44»» DEL TRISSINO. ;i2,y fi conferva vano preflfo i fuoi credi (28O?
pure quivi certamente non fono. Anche il Doni vera- mente ne
regiftrò il titolo fenza più nella seconda lì. ireria ( 2.8ì )* ma con
quella differenza? che T ultima d’efle Opere fu da lui chiamata
Frontefpi- xio delle clone. E benché nel principio di quella fua Opera
^284) dica il Doni di aver mejfo infie- mt tutti i Cicalai tri da sé
veduti a ferma, de’quali 11 C aveva avuta notizia j e benché foggiunga?
che di tali litri etmfofii (e regiftrati in detta fua Libre- ria,
fochi c’credeva fodero per elfere ftampati» con con ciò fofle colachè
erano libri rari , e inma. no di per fané , thè non li voleane dar
fuori , mapiuttofio ardergli : nondimeno ci accordiamo
volentieriflìmo colla opinione del Sig* Marchefe Maffei intorno a
tali Opere? cioè che non fi fono vedute mai ; ma che iono Hate
alcune per equivoco , altre ridicolmente intitolate. E crediamo
parimente, che lo fteflfo fi debba dire d’un altra Opera dal medefimo
Doni, e dal Tommafin. loog. eie- ! Nella Lettera , die
egli jQfud Comitcs T rijfnos iffius i' colla fua lolita bizzarria
intito- Fi are ics affervantur : La Bafe la A coloro che non leggono ,
a del Chrifiianoì ec.Beni Trattar. car. io. eli. fc. lQ0g.cit.L4
Bafe del Chri- 1 {'184) Prefazione alle Opere Jtianoec.con altre
Operette ferie. 1 ec. a car. xxx 1. te in prò fa, fono in Caf a de’ fuoi'
(285) In un’ altra Opera, io Utrcdi. cui regiftra le Opere
ftampatc La Seconda Libreria ài Autori Volgari, intitolata.' del
Doni ec. Jn Vincgia 5 jj. La Libreria del Doni Fiorenti. in 8. a car. 91.
i no , nella quale fono ferini cut - ti ili Digitized
by Google I2 c dove ftampata 47 -»-? 4 - Meliini
( Giovanni) pittor cele- bre non fece il Ritratto del Trillino. 64.
effo Ritratto premefTo a quella noftra Ope- ra perchè adornato di
quat- tro differenti corone poetiche 107. fua morte 6J.
Bembo (Pietro Cardinale,) lo- dato 4. ». 4. fue EpiftoU do-
ve Rampate 23. ».40. citate 24. «.41 due di effe fcritte a nome di
Leone X. riferite a 3. e feg. fcrivc regole di noftra lingua 69. fa
autore il Trifsino del verfo fciolto 88.». 17 6. fue Rime
pubblicate per opera del Sig. Ab.Sertaf- fi citate 102. ». 225.
rifponde nellemedefimedefinenzea un 5onerto del Trifsino. Beni ( Paolo ) fi crede autore di
certo libro. 3. ». 2. filo Trat- Favola delle Cofie Notabili.
12.9 T ruttata del? Origine della Famiglia T rijfino dove
Ram- pato . ivi. iua erronea opi- nione incorno al Trillino 6.
e intorno all’ ifcrizione dclfuo palazzo nella villa di
Cticoli io. nora di malevolo ilGio- vio 4*. n. So. fa il
Trillino autore di «ree opere . 51. ». xoi. 1 1 J.a fegg. fina al
fine . lo fa fepolto pel Depofuo del L afe ari 59. n. 114.
parla con lode di Bianca feconda moglie del Trillino 48. ».
95. citato 4. ia. ». 23. 23. w.41. Benrivoglio( Ippolita ) a
lei c indirizzata un’ Ode latina dal Trillino 115. Bergamini
imitò .con poca lode la manieradi Ceri vere tifata dal Trillino
• Bragia ( Marco ) , Con Agli e dell’ Accademia Olimpica
vi mette un SoRituto ». 28.48. Buonaccorfi . Vedi Montemagna.
c C Arco trote, a ( Demetrio ) fu macftro del Trillino
nel- la Greca letteratura. 4. dopo morte gli è dal medefimo
e- retto un Depofico con Epita- fio in Milano ivi. lodato
dal- lo RefTo nel fuo poema dell* Italia Liberata . 6. ». io.
Calogeri ( P. D. Angelo ) lodato per la fua Raccoltad'Opufcoli
Scientifici , cc.lll.e / allog. già nel Palazzo del Tri di no nella
Villa di Cricoli * e quando . 12. ». 23. fatto Cardinale * e poi
Papa col nome di Ufbano VII. ivi . Suo Bullo in pierra
colloca- to in detto palazzo con ifcri- zione, e quale, ivi.
Cartellano , uno degli interlo- cutori del Caflellano del
Tuf- fino , chi Ha ? t perche così detto 70. • ‘ Cavalcanti
fu® Giudizio /opra la C anace cc. dove ftampato (fuo volga- rizzamento d' alcune
Ode d* Orazio, tu. Centanni/) ( Valerio ) fuo curio- fo
Sonetto al Trinino , rife- rito 40. ». 7J. Checozzi (Canonico
Giovanni) illuftta un luogo- del Poema delle Api di Giovanni
Ru* celiai, a difefa del Trillino - 51. rat 01. chiama pio e
ca/ti- gato il Trinino 93. ». I9T. Chiapino Vedi Bar-
bar ano . C biffi ezio l GiovanjaCopo ) (nell* Infatti*
&c. Antuerpix ex officina Plantinian* 1632. in 4. ) -non mette
tra’Cavalieri del Tofon d Oro il Trinino 4J. e fegg. ». 88.
Cindli Vedi Raf- ie. Ciria{ Gìufeppe Maria) Tua
Ode latina in lode del Tuffino , ri- Digitized by
Googl I Tavola delle Cofe Notabili.
•*.#** -H CUt^ntt vi' Papa . Vedi &A D y 0 'J?%tfix
doic^ftLpata ledici antt t ,cn .' - f :i te _ CoRoza,
Villaggio deiscenti- , arre poetica - J »* « £lo , ' A m famo'o
Covolo vie- Ilo latino de c.^1uon a «I"f |i 11-1
breria Brtffiann love Rampa- »o. * 4- da cbi .Btoccurateiw. «•»**•
Coment* j dove Rampati }4-| e /^' , . pentiluomo ir. 6o. fa
il T tiffino il primo, Dw-tfo ( Ermolao U Martbcfa di ! Mantova
ringrazia il TrifTi- 1 no per certa Canzone man datale . 29. e feg.
lo invita a fe , e perchè . ivi. efaltata nei Ritratti del
Trillino. 39. » 50. lettera a lei fcritta dallo ftclTo , citata F
arnese a lui viene indirizzato un Sonetto dal Tuffino, c dóve
fi legga. ( Rannuccio Cardinale ) grande amico del Tuffino, j j.
icrive allo fieflb una lettera d’ ordine di Paolo HI. ivi ». 108.
dal Tuffino gli è dedi- cata la Commedia de’ Simu- limi. io 6.
Sonetto dal Trif-i no a lui dove fi legga
fioretti (Benedetto) V. Nifieli (Udcno).
Firenzuola ( Agnolo ) fuo Dif- (acciamente cc. dove Rampa- !
to 35. e feg. feri ve contro a! Tuffino . ivi. e 37. ». lo taccia
di ufurpatore . 36. e fg. n.6j. quanto falfamcntc . ivi. fcriffe
piuttofto per giuo- co, che daddovero. è citato nell’ Ercolano
del Varchi ivi . citato 68* Fontane delia Villa di
Cricoli lodate dal Triffino con lati- na poefia. ito. e con un
c- pigr .mma Greco ivi ». 251. Fontattini ( Monfignor Giulio)
fuo libro dell' Eloquenza Ita- liana dove, Rampato 35.» 64- Efami
fopra d'effa ftampati cenfurato giuftamentc dal Si g. Marchcfe Mattici.
43. »j 84. difefo da ccnfura dello lìdio 46. ». 88. chiama
Novell 10 Cadmo, e Cadmo Italiano • 11 Trillino 39.
giudica in- venzione di lui 1’ ufare la Z, in vece del T. ivi. fuoi
sba- gli. 69. ». 129. 71. e feg. 83. e f e ii- . critica V
Da- lia Liberata 93. non viene confermata la fua ccnfura dal
Catalogo della Libreria Capponi ivi. ». i9i. riprende il Marchefe Ma Aci
94. « 1s2.il quale gli rifponde ivi. Vol- garizzamento d’ Orazio da
lui riferito , dubbiofatnente da noi riportato . ni. Aminta
del 7 affo da lui difefo ion le Offervazietti d' un Accademi-
co Fiorentino dove Rampato li luogo ambiguo di quell' Opera lai. ».
z6g. fua oppimene circa il iraduc- tor del Libro de Volgari
Elo. quentia di Dante. 120. e feg. Fortunio (Francefco) feri
ve re- gole di nollta lingua. 69. Fracafioro ( Girolamo)
amicif- fimo Digitized by Google 1
Tavola delle Cofe Notabili. 1$; fimo di Giovambatifta della
loda la Sofonùba ivi . la bi*. Torre. 10S. ».. fimaS9. come gli
rifpondail Francefco I. Re di Francia , è Malici ivi. critica/’
balia li- fatto prigione dell’armi dell* berata 94. nell’ Orbecchc
la au- Imperator Carlo V. e ’1 fuo torc il Trillino delle
Trage- cfcrcito feonfitto. 40. gedic ferine in Italiano 7 9.
Erancefì, feonfitti dall’ armi di come pure del verfo fciolto
Carlo V. Imperatore , c cac. 88. ». 17 6. fua lettera dove
ciati d’Italia, ivi. fi legga ivi , citato 90. ». Franti (
Adriano) V. T t tornei. 182. ( Lilio-Gregorio ) fu con-
G difcepolo del Trillino nel- lo Audio delie lettere
Greche. G aza (Teodoro ) nominato 4* ne fa menzione in certo
con lode nell* Italia lite- \ fuo Latino poema . ivi. ». 4. rata 6.
». io. ! Giulio II. Pontefice , fua mor- Gemi/lb ( Giorgio)
nominato al- ! te quando fucceduta 13. tresi con lode nella
Refluivi. 1 G abbi ( Agoftino ) fua Scelta Ghilini ( Girolamo ) (nel fuo'
ài Sonetti cc. dove publicji- Teatro d'Uomini letterati. Ve-\ t» 100. ».
aij. nezJa perii G aerigli; Gonzaga ( Curzio ) fua tradu- non
regiftra tra le Opere deli zione d’alcuncOde d’Orazio, Trillino il
Volgarizzamento j citata ni. di Dante de Fulgori Eloqucn~ j ti Gragnuola
(Prete Francefco) tia. 118. j fu il primo maeftro del Tril-
Gilafco Eutelidenfe . Vedi Lue- j fino. 3. lettera a lui fcritto
le. , | dalTriffino ove fi legga ivi. Giorgi ( Monfig. Gio: Domcni-
{ citata 13. ». 26. ai. ». 37.43 co ) Compilator del Calalo- 1 ».
. go della Libreria- Capponi . Gravina ( Vicenzio ) fua Ka
> Vedi Capponi. , ' ' I adone Poetica dove ftampata
Giorgio (Gio: Lorenzo) Noda-| 93* »• 191. in efla loda il ro
Veneziano 52. » 101. Trillino itti, fa grande ftima Giornale de’
Letterati d’Italia del di lui poema dell’ Ita- ccnfura il Cafoni 101.
«.228. 1 Un Liberata. 97. non decide fc alcuni Soneui Gritti ( Andrea )
Doge di Ve- fieno del Triffinoio4. 9.231.) nezia , quando vi tulle
elcr- lo fa bensì autore dell' in- 1 to . 30. gli è recitata in tal
venzionc del verfo fciolto occaltone un’Orazione con- 82. n. 167.
gratulatoria dal Trilfino a Gìovio (Paolo) tacciato di ma- nome
della città di Vicenza, levolo da Paolo Beni, c per- 31. citata 67 . 73 e
feg.76. fua che . 42- ». 80 gli è fcritto morte quando feguita 30.
un Sonetto dal Triffino. 102. »-JJ. dove fepolto , e con Giraldi
(Gio: Battila ) fuoi Dif- qual Epitafio ivi. cerji dove Campati 7S. ».
tj8- Grato (Luigi) fuprannominat» i Cie. Digitized by
Google 1 3 Tavoli, delle Cieco. £ Adria , filo
grotto sbaglio . 58. ». in. Gualdo (.Girolamo) due
lettere dal Tuffino aldi' fcriue » ove. liano - 11 3. e
feg..- - ( Paolo ) fua Vita- di Andrea Palladio dove fi
leg- ga 9. Lettere Originali a’ Guai* di dove fi. confcrvino-
IV}- e feg. Guarirti ( Guarino ) Vcronefc 5 fcriflc
colè gramaricali io lin- gua Latina. 7J. Guicciardini- (
Franccfco ) fuoi Quattro libri della fua Storia ( nott pia
fiammati.. Venezia ftr Gabriel Giolito 1 ciati Guidetti. ( Franccfco ) fua rcla-
zioae a Benedetto. Varchi , . ccnfurata. H I !
. H a y m (-• Nicola- Franccfco ) fua Biblioteca Italiana
do- vei Rampata I liingo , o fia confonante , trovato dal
Trillino > e ab- bracciato dagli Scrittori an. che Fiorentini.
39. ». 73 Jjenicol» ( Tolommeo ) folito Rampato» del Trinino
.lai. Imperiali ( Giovanni ) fuo Mu- faum Hifioricum dove
Ram- pato . 6 . ». 11. dove il fuo Mufaum Phyficum 8. ». 17-
fua erronea opinione intorno ai primi Rudj. del Triffino.6. e
intorno ad Andrea Palla, dio . 8., loda il’. Tuffino . éj. ». lift.
c il di lui poema Co fé Notabili. deli’ Italia
Liberata citato- Ingegneri fua Opera della Poe fia Rapprefentativa
ec. dove Rampata 78.». 157- loda la Sofonùba. del Tuf- fino.. *»»•
licrizione al Sepolcro del Cal- condila 5* —
dell’Accademia Triffina attorno alla porta del Pa- lazzo del
Tuffino inCri- coli io., a che fine vi. fotte collocala .
. al BuRo di Vrbano Vil- la. »•»?•• — «1 sepolcro di
Andrea Gritti Doge. 30. ». J3- al Sepolcro del T
tifiino da lui fòrmatafi , ma non. metta in ufo» e perchè.
56.. , altra, in forma diElogioéi- IL L
ascari ( Giovanni) nominar- lo con lode nell Italia /*- barata ».
io. ove fia. fqr- polto. 59. »• 114- àttere di XIII - Uomini
illit~- ftri dove Rampate n. ». 23. d' Uomini Illuftri dei
Se. colo XVII. dove» per cui ope. ra pubblicate» c donde
cavan- te XM* »• Z S 6, Libreria Arobrofiana 52^ ».
io».- 108. »• 14*- iij. - Bertoliana di Vicenza 3. ».
a. chi nc è. Bibliotecario ivi . — — • dei Nobili Uomini
Pi- fanj in Venezia ; conferva la prima edizione rariffima
della Italia liberata da’ Goti - PI.. de’
Digitized by Google T avola delle Co/e Notabili. 13 ' de’PP.Somafchi
della Sa* I Maffei ( MarChefe Scipione ) >b* Iute di Venezia,
confervava un MS.-de'Trifftni, ed uno del Beni originale7. ». 1 5.
con • fervagli originali di . olcilfi- • me Lettere fcrittc
a’Gualdi .114. '• j - dei detti PP. di SS. Fi-
lippo , e Jacop > di Vicenza conferva 1” Aringa MS. del Triffino
47. n.91. e una era- dazione in latino . MS. del- la Sofoniiba78.
«.157. Vedi C Apponi . Colando . Plutoni . Rude. Zeno ( Apportelo
). Lombardelli (t'razio ) lettera di Torquato Taffo a lui
fcritra • dove fi legga 96. n 101 Lombardi (P.Giroiamo )
Gefui- ta, citato 59. n. 114. Loredana \ Leonardo ) Doge
di Venezia. Lettera del Ponrefi- . ce Leone X. a lui ferina ,
-e prefen taragli dal Trifòrio, rife- rita. 24. Leone
X. Papa. Vedi de' Medi, ci (Giovanni). M M
acchiaveui (Faufto) Ac- cademico Olimpico , in. xerviehc a un
Configlio. della fua Accademia . 28. ». 48. Madrucci ( Criftofano )
Card ni. Vcfcovo , Principe di Trento, introduce a Carlo V. un mef-
fo dei Triffino. 54. lettere a lui feriteci citate ivi 1 06. al lui
c raccomandato Ciro 1 Trissino da 'Gioan.Giorgio fuo Padre.
54. Mairi (Vicentino^ due Epi- grammi latini fatti dal Ttif-
1 fino, per la mòrte di lai do-, • ve fi leggano no.
dizione delle Opere del Trif. fino da lui procurata, pre- mefiòvi
un Riftretto della Vita dello fteffo, citata foftiene, che il
Trillino valeffc nella Filo- fofia Platonica e Pitagorica 8. ».
i^enore nel fuddetto Ri- ftrettodi luicommcflb 12. ». 24. fuo
Teatro Italiano ci. tato 26 . ». 45. 79» c feg. n. 161.89.». 180.
più volte ftam. paro 77. loda la Sofonisba. la difende dalle
altrui cenlure 89- loda la Gramat iebetta del Triffino 69. e la Italia
liberata e la invenzione dc’nuo. vi caratteri 38, fua falla cp-
pinionc intorno 1’ ufo che ne avrebbe fatto il Triffino . VI. la fa
autore del verfo fciòL to8l. lo difende dalCrefcim- beni per una
nuova maniera di Canzoni da lui ufata 106. interpreta fi ni
Riamente un dettodcl Fontanini 46. ». 88. lo ccnfura giufiamente
43. ». 84. cenfurato da lui fc ne Tifcnte 94. fuo E fame
fatto all* Eloquenza Italiana dello fteflo dove Rampato fue
Offer. vazMtni letterarie dose ftam* pare 44. ». 84. lodato afferma
non efierdi Tor- qua~ i I J/j Tavola delle
Co fe Notabili. quato Taflb certa Commedia che è ftampata col nome
di lui 107. Vedi 7 'ajfo (Torquato) . prova non effer del Triflìno
certa opera Latina 123. nè certe altre ridicole compolmoni
125. dn Malgrado (Vincenzio) a lui fcrive il Trillino una
lettera 4. ». 5. Mattiti ( Domenico Maria ) fuo detto
cenfurato 39. lue Lezioni dove (lampare, ivi. n.72.
Mattux.it} ( Paolo ) fua lettera a Bernardino Parremo
riferirà. 11. ». 13. Marana( Andrea) imita con po ca
lode la maniera dì fcrive. re ufata dalTriffino. 3». ». 73 -
Martelli ( Lodovica ) fcrive contro al Trillino in propo- sto
de Tuoi nuovi caratteri. 35. fuo deteo coytrctto. ivi. ». «4.
Martintngo (Chiara) madre di Luigi Trillino primo marito di
Bianca feconda moglie di Giovan-Giorgio. 48. «.95. Martiri (
Jacopo ) fua Jfioria di ricetta, dove ftampata z6. ».
4". Maj]tmiiiatto , Imperatore, ono- ra il TrifGiro. 16.
fi crede , gli abbia conceduto il Vello ef Oro . ivi . non gli
falcia pro- fdguir Certo viaggio 18. lo rimanda fuo amb afe Latore
a Papa Leone X. ivi . fua let- tera latina al detto Pontefi-
ce . 1 9'.»?-»47._fuo Specimen varia litttrattcra dó- ve ftampato.
ivi. ' R R aoona ( Alfonfo) Accade- mico Olimpie
o. Vedi An- gioiello . • Rapido (Jovita) fua Orazione
accennata 109. menzionato da più autori . iviy ». 24.7. fu Lettore
di Umanità in Vi- cenza ivi. vicn chiamato Ra Cofe
Notabili. vizza dal Cozzando . ivi . Rccoaro, villaggio
del Viccnti- no.Vedi Comuni diRccoaro ec. Ridolfi ( Cardinal
Niccolò ) , Vcfcovo di Vicenza, eletto dal Trillino per uno
de'Com- miffari del fuo teftamenco . J6. gli fono dedicate
dallo Aedo le fuc Rime 101. Can- zone del Trillino in di lui
lode, accennata . 106. Roma, Taccheggiata a’ tempi del
Trifsino. 42. ». 78. 85. Rojp ( Niccolò ) fuoi Difcorfi
interno alla Tragedia dove ftampati 2j. ». 44. citati 45. »• 88.
loda la Sofonisba del Trifsino. 2J. 7S. Rucellai ^Giovanni)
fuo Poema dell ' sìpi quando ftampato 51. ». 101* io elfo loda il
Trif- fino. 8. ». 14. volea fotte ri- veduto da lui prima di darlo
in luce. 51. e 124. cosi le fuc tragedie dell' Ore/?*, e
della Rofmunda 123. e feg. luogo ofeuro di detto Poema dell'
Api illuftrato dal Signor Ca- nonico Giovanni Checozzi è grande amico del Trifsino 17.
rifponde a una lettera di lui ivi. dove efta rifpofta fi legga ivi
. ». 34. f*i. è Caftellanodi Caftel S- Angelo 50. * e con
que- llo nome c uno degl’ inter- locutori dell’ Opera del
Tuf- fino , che per ciò s’ intitola il Cafiellano. 70. a lui è
in- titolato il Poema dell’ Api. V. Rucellai ( Palla ). la fua
Rau fmunda non piace affatto al Varchi 88. corretta dal Trif-
sino 123. e feg. fua morte jo. lodato dal Salvini 98. citato 2J. ».
43. 87. ». 174. $ % ( Pai-
. V 140 1“ avola delle Cefe Notabili» ( Palla) dedica
al Trillino li | poema delle Api di Giovanni 1 S filo
fratello, c quando 51.». ' 101. 87. lo fa autore del ver- qabellico
( Marc’Antonio) lo- fio fciolto 87. O dò in un fuo poemetto la £uele
(P. Mariano) Carmclita- Villa Cricoli , c quale 12. no, fua Stanzia
aggiunta al- 23. la Biblioteca Colante di Gio Sadoleto ( Jacopo )
gli fono vanni Cinclli, dove Rampata fcritte due lettere latine dal
$7' c f e t' n ' in. regiftra alcune Trifsino. iti. compofizioni dei
Trifsino non Salviati ( Cardinale Giovanni ) più Rampate ivi . e 1 1 o.
fa meta- prefenta al Papa una Canzo- zione di J ovita Rapido 109. ne del
Trifsino 31. fua lette. ». 247. ra al Trifsino , riferita. 32.
Ruderi ( P. D. Francefco ) Soma- n. 57. gli manda un Breve dà
feo . Sua 7 'ratina cc. dove Clemente VII. ivi . Rampata 4.
rt.’j. da chi fatta Salvini ( Anton-Maria) citato Rampare accenna Vili.
38. loda il Poema dell’ T alloggio d’Vrbano VII. nel Italia
liberata 98. e feg. e P Palazzo di Crico/i 12. ». 23. Api del
Kucellai, e la Col- vuole che Carlo V. f»cefle tivazione dell*
Alamanni ivi. Conte, e Cavaliere il Tri fsi- fu c Profs To/cane
dove ftanv no 43. e quando 44. ». 86. paté 34. ». 61. 38.
«.70. quanto in quello egli s’ in- Sannazzaro (Jacopo ) uno
de- ganni 55. ». 106. loda il gl lnterlocutori del CaJleUa-
Trifsino 6 J. e la fua Poeti. no del Trifsino 71. ca 73. «.145. e la fua
Coni- Sanfevcrina ( Margherita Pia) a media Ì07. ». 239. accenna lei è
dedicata un’Opera del aver il Trifsino icritti Infe- Trifsino 67.
gnamenti Rettorici 116. ». Sanfovino ( Francefco ) edizio- 260. come
debba!! intendere ne della fua raccolta di Orat- ivi. zioni di diverfi
Uomini Ulte- Bufcelli loda P /tri divifa in due parti, cita-
invenzione de’nuov! caratte- ta 31. ». J$. fa volte più ri
del Trinino , c del Tolo- volte pubblicata 74. ». 147. mci.38. «.68. fua
raccolradi in e da ha luogo un’Orazio- Lettere di Principi , ec. cita- ne
d’O., e quale ivi . ta . 42. ». 78. nelle Rime Sajp (Giufeppc Antonio)
loda- pcr lui raccolte lì trovano to 108. Je. 243. delle
compofizioni del Trif- Savorgrtano (Giulio). una lette- fino . 103. fuc
note al Fu. radilui a Marco Tiene ftabi- riofii dcH’Arioflo, citate ivi.
| lifcc l’anno della morte del Trifsino. j8. «.113. Scaligeri
(Mattino, e Antonio) in qual tempo vi veliero. 71. Scamozzi
(Vincenzio) chiarif- fimo Tavola delle fimo Architetto .
io. ». «. difcepolo del Palladio ivi . di che non ne fa menzione
nei Tuoi libri ivi. Schio ( Girolamo ) Configliere
dell’ Accademia Olimpica, a chi foftituito 28. ». 48. . Ve- di
Angiolello . Terra del del
Vicentino, manda Oratori a Venezia a a chiedere un fattizio
Ve- neziano in Rettore in vece del Vicario Vicentino . 49,
difefo da Baftian Venicro Gen- tiluomo Veneziano. 50. per. de in
tutto, e per tutto, ivi. degli Scolari ( Franccfco). Ve- di
Bcccanuoli . Scotto nd fuo hi. nerarium ec. parla dtlh
Acca- demiaTriflìna. m. ». 22. Ve- di da Cap ugnano. Stghezii
( Anton-Federico ) fcri- ve la Vita di Annibai Caro in. ». 274.
dove flampata ivi. non regiftra tra le Òpe- re di lui alcuna
traduzione dell’ Odi d’ Orazio . ivi. fu a edizione delle lettere
diBcrnar- do Tasso, citata Serra# (
PìcriAmoqiQjjpubbli. ca le Rime del Bembo io». ». 21J. e quelle de’
Venie» ledendo la Vita di Domeni- co, HI. ». 2 JJ. Co
fé Notabili . I4I Speroni ( Sperone ) Sue Opere dove ftampatc
Giudizio fopra la fra Canate da chi comporto , vedi Cavai, canti (
Bartolotnmeo ) . da Somacampagna ( Gidino ) primo Scrittoredc
11 ’ arte Poe- tica, in Italiano. 72. inqual tempo viveffe.
ivi. Statuto Vicentino citato
' feSS- Strozzi (Filippo) uno degli In- terlocutori
nel Cartellano . 70. Sub a f ano . Vedi degli Aroma-
tari. T T Asso ( Bernardo ) edizione delle Tue
lettere ( proccurara da Anton-Federico Seghezzi ) citata aia. loda
1 ’ Italia li- berata. fue Lettere dove ftampate . 73.». 144.
96. ». 200. lodala Poetica del T tif. fino 7j. edizione della
Aia Gerufrlemme citata 87. e frg. ». 176. edizione di altre
fuc Opere ». aot. loda i’
Ita. ,, Ha liberata . 96. non è Au- rore ( feconde il Sign.
Mar- ohefe Maffci (a) ) della Com- media ("intitolata gl'
Jtrichid' -S } Amo- (a.) Facendo però il Taffo menzione di
certa Commedia, che andava lavo- rande in, Tua Lettera a Giovambaiti'fta
T.icinio, la quale fi legge a car. iff. del Libro intitolato: Lettere del
Sig. Torquato Tuffo, non più ftam . fate ec. Bologna. por Bartelomto
Cocchi quand’anche non fia egli l'autore della Commedia degl' Intrichi
d" Amore , di che per forti ragioni (e ne moftra.anzi dubb>ofo,
che no, l’autore della Prefazione alla nobiiillìma edizione dell’-Qprrr
di Torquato Tuffo in Firenze per li Tariini e Franehi 1714. iti VI.
Volumi m fol. viene a renderli affai vacillante la decisiva temenza del
Signor Marcitele , cioè non avere il Taffo compofte Commedie. Tavola
delle Cofe Notabili. Amore) febbene porta il fuo ne X. H. n. 31.
vuole che il nome 107. fno Amine» da • Tri /Tino foffe fatto- Conte
, chi difcfo, vedi Font /mìni. t Cavaliere da Carlo V. T»rji»
(Tiberio) fuo volgnrìz- 43. fua cfpreflìone dubbio- zamento d’ alcune Ode
d'Ora- fa. 48.». 95. riferifce unepì. zio citato uà. gramtna del
Triffìno. 57. ». di Ttmfo (Antonio) fcrifle in rii. non fa menzione
del ItalianodcH’ Arte Poetica. 7a. Volgarizzamento dell’ Elo.
c quando ivi. quenza di Dante fatto dal T ibride » ( Antonio
) fua Lettera Trillino 118. attribuifee al dìfcnfìvAi citata (
della qua* Trillino molte Opere non le fi tiene eflcre Autore il
mai vedute. 124. loda laSo- Sig. Arciprete Girolamo Ba- fonisba 98.
afferma effere fta- ruffaldì ) 98. ». 1 io. ta rapprefentata con
grande Tiene ( Giovanna) prima mo. apparato per comandamento
glie del Trillino . 12. fua di Leone X. 25. ». 47. «itato
morte ivi . 12. ». Accademico 80. 98. Olimpico * foflnuifcc
ano » della Torri che intervenga a fuo no- fua mone pianta dal Tri/fì-
me a un configlio dell’ Ac- no . 108. ». 243. fu amico di
cademia. citato Girolamo Fracaftoro. ivi. 0. ifteffa. ; j T
rape futi z.io (Giorgio ) noroina- Vedi Saver- 1 to con lode nell’ Italia
libe- &»»no* ! rata. 6. ». io. Tilefio fuo voi- Triffina
Famiglia. Sua antichi- garizzamento d' alcune Ode tà, e nobiltà. 1.
divifa in più d’ Orazio citato ni. linee. ivi. Autori, chen’han-
Tolomci (Claudio) fcrive con- no fcritto . 3; ». 2. Alberi tra il
Trillino in- propofito tre di quella Famiglia alle» dei nuovi
caratteri fotto no- g«*i . 48. ». 9 J. i difecndenti me di ^idriono
-f ranci fuo della linea di GioVan-Giorgio alfabeto > e
caratteri da lui inveititi delle Decime di ai- trovati . 37. ». 67.
citato 38. cune Ville del Vicentino. 14. »• 69. 1 fan lite per
rifcuotetle con- Tomafini ( Monfig. Jacopo Fi- tro ai Comuni d’effe
Ville., lippo) fuoi E log. yirar. Lit - ivi. vengono loro confifca-
ter. t ir fafitnt. Jlluftr. do- te effe Decime , e perchè . 1 j..
ve ftampati . 1 1 J. ». ». 1. fu pofledono l’ Opere manofcric- il
primo a parlar a lungo te del detto GiotGiorgio.nj. del Trinino . 111 .
lo fa ftu- Trijftno ( Co: Aleffandro) lodato, diofiffìmo dell’
Architettura . Vedi la noftra Dedicatoria . 8 .». 16. accenna l’alloggio
di . (Alvifej primo mari. Urbano VII. nei Palazzo di to di Bianca
Triflino . 48. Cricoli. ta. ». 23. regiftra un quando abbia fatto
il fuo Te. franamento di lettera di Leo» fomento , Co: An.
Digitized by Google ] 7 avola delle Ceft Nut abili. Iodato 48. ». 9 j. e 96.
Padre di Alvife, primo marito di Bian- ca feconda moglie di
Giovan- J Giorgio. 48. ». 9j. feconda Moglie di Giovan
Giorgio, fuoi ge- nitori 47. e 48. ». 9 fua dote . ivi . fuo primo
Marito chi folle ivi. di fomma bel- lezza. ivi. detta V Eleva
del- la fua età. ivi. di lei parla il Beccanuoli , e dove.
47.». 194- f“o Teftamento. da chi rogato 52.». 102. lodata da
Giovan-Giorgio confervava on MS. appartenente alla Fa- miglia
Triflina. j. n.tj.figliuolo di Gio- van Giorgio Trillino . 49.
ammalato. 53. , e feg. porta allTmpcrator Carlo V. gli ul- timi
diciotto libri dell’Italia liberata di fuo Padre.raccomandato da
Gio- van-Giorgio al Cardinal Ma- drucci. ivi. figliuolo
di Gì ovan-Giofgto^aaoti^io va- ne. za. , fuo sbaglio
intorno a Giovan-Giorgio O. 6 . ». zj. fuo trac-) tato della fua
Famiglia, cita- to. ivi. e h. 18. ( Gafpare ) padre di
Gio- van Giorgio O.. 2. mi- lita a fue fpefe per la Repub-
blica di Venezia . ivi. fua mor- te. 3.
traduce in metro latino la j Sofonisba di Giovan-Giorgio ! O..
77. h.ijj. dove fi cenfervi. ivi. fi lamenta con Scipione
Errico, per aver que- lli criticato l 'Italia liberata 93. una
lettera di lui dove fi legga . ivi . riempie alcuni vani d’ un’ Egloga
latina di effo Giovan Giorgio non llabilifce fempre nello
fteffo anno la fua nafeita. 2. ». 1. nominato nell’ ulpi del
Ru. celiai. 8. ». 14. fuo Sonetto riferito, e in qual
occafione fatto. 41. ». 7 6. fu creato da Mafsimiliano, c daCarlo
V. Conte, e Cavaliere , ma non del Tofon d’ Oro con altri
privilegj. quando. altro fiso Sonetto riferito quanti anni abbia
fpc- fi nell' Italia liberata . 53. e feg. ». 106. Suo Epi-
gramma latino riferito 5 7. ». in. fatto Brcfciano erronea- mente
dal Cieco d’ Adria. 58. ». ilteffa. La fua Italia libe- rata è
chiamata erroneamen- te dallo Hello Italia il latra- ta. ivi . da
una iferizionc Sepolcrale riferita, appare ef- fe re flato Nunzio
per le iali- ne di Chiazza, e per la refti- tuzione di Verona,
diche in altri luoghi non ne abbiamo trovata memoria Catalogo delle
fue Opere ftam. paté, e MS. tanto in Profa, quanto in Vc.tlo.67 . ,
e fegg. la fua Italia liberata, come e quando Rampata. 53. e
feg. 90. ». 183. di quanti libri compofta. ivi . errori in
que- llo dclFontaniai , e del Com- pilatore del Catalogo della
Li- breria Capponi, ivi. ia pri- mi Tavola delle ma
volta ftampata per Privi- legio di Papa Paolo IV. 94. w. 192. fi
tentò vetfione del- la fiefia in ottava rima. 98. ». 210. le lue
Rime dedicate non al Cardinal Ridotti , ma a Leo- ne X. 101. lue Opere
ad altri attribuite, cioè lette Sonetti a' BuonaccorfiJ. 101. -e
feg. uno a Guittone d' Arezzo ioj. ed una Canzone all’
Ariofto ivi . fuo Ritratto in- tagliato dal Sign. Franccfco Zucchi
perchè adornato 'di quattro CoroncPoetiche 107. fila Opera
imperfetta da chi compiuta ( Giulio ) figliuolo di
Giovan-Giorgio -natogli dalla prima moglie. 12. lette- ra di fuo
Padre a lui , citata. gì. ja. »Cameriere di Clemente Vii. poi Arciprete
della Cattedrale di Vicenza litiga
contra il Padre, e per- chè 49. cui fa ftaggire le rendite viene da lui
di- fendalo vince la lite con tro di lui. ivi. Padre di
Bianca, moglie di Giovan-Giorgio pubblica un' Opera del P. Rugeri,
c quale. }.«.ii. dove facciafc- polto Giovan-Giorgio ( Co: ParmcMiotie )
Bibliotecario delia Bere oliana di Vicenza confcrva copia del
Volgarizzamento di certa Genealogia di fua Famiglia 7. n.i 3. Vedi la
Dedicatoria Nipote di Gio- Cose Notabili. van-Giorgio fece in
un cogli alrri fuoi affini fcolpirc un Elogio allo Zio, e
dove . lo Beffo Elogio riferito Trinizio a lui manda O, il fuo
Cartellano forco il nome di Dona fua morte pianta in un’ Egloga da
Giov.n-Gior- gio^ xo8- Consonante , invenzione del Trillino ,
abbracciata dalla Crufca Faccari avea traf- pottato in .
ottava rima un Canto dell’ Italia liberata io. Val d.’Agno. Vedi Comuni
di Recoaro cc. Fate» ararla (Piero) va con O. a Venezia
Orator per la Patria Farchi edizione del suo Ercolano citata. afferma
c!- e il Firenzuola fende contro O. per giuoco loda la Sofonisba la
biafima fue Legioni) dove stampate loda l’ Italia liberata. . no»
decide la quertione circa l’ inventore del verso stiolto. mal inteso
da Fontanini edizione de’ fuoi Sonet. ti , citata «.a Sonetto ad O. riferito ivi. loda Jovita
Rapido citato F'ewimi Nobile Veneziano , avvoca in Venezia a favor della
Comunità di Schio con Tavola delle Cofe Notabili contro Vicenza , e
perde ( Domenico ) tuo Vol-
garizzamento di alcune Ode rvr In cambio del T da chi, di Orazio citato
ut. fue Ri- j / j e come fi comincia ad ufa- da chi pubblicate. n. 1 re .
ZaccariaVerità Sonetto ai nio)Gefuira, fua StoriaLet- lui foriero d’O.,
ove) teraria, dove ftampata. si legga roi. I. fa 1 Elogio di Apposto-
Verlati, madre di; lo Zeno ivi. Bianca , feconda moglie del '
Zeno ( Apposolo ) ritratta la O. sua Vita d’O. inferi. Vicenza,
perchè detta Primoge- ta nella Galleria di Miner vita della Repubblica di Veva
I. e feg. fue Lettere dove nczia quando fi fia Rampate citate
donata alla flefla ivi. manda c fegfquarci Oratori di congratulazione
al j di lettere ferine all’Autore Doge Andrea Gritti , e chi j di
quella vita c ne invia contrai munica all’ Autore varie noti- la Comunità
di Schio dozie per telTtrc quella Vita ve manda un Vicario a governarla ivi . è
fatta piena WI12. donde l’abbia giuftizia alle fue pretefe. J eflratte fuo
sbaglio conlerifce al Trillino varie lodato dignità, e quali . ivi sua Vigna
fue | Libreria a chi donata ivi. Differì azioni promeffe Vili. |
fua morte quando feguitam. fuo Preliminare dove lodato dal P. Zaccaria
con Rampato ivi. I lungo elogio, ivi . non tcn- Volpi lettera)
ne, che O. folle piti a loi fctitja dal Sign. Cano- j per ufare i caratteri
da lui nico Checozzì iir-tèifcfa del' inventati non tenne per O,,
dove fi legga fattura del Trillino certa operi. ioi. | ra latina citato
(il fo j Vedi Giornale de’ Let- praccennato)eGaetano fratelli) I
rerati d’Italia, (del quale cf. furono i primi a idear una edi- clfedone
egli il principale unzione di rottele Opere delTrif- tore con ragione a lui fi
at- fino U. u Io- 1 ttibuifee
tuttociò, che inef- xo ( Ifcrvazionc erudita fopra j fo fi
contiene). il titolo d’ un’ Egloga del Trif- ; ( P. D. Pier.
Caterino So, fino m. lodato Vrbano Vedi Cafiagna. j Zigiof
ti 1 cfamina P Archivio de’ Co: Trilfini conferva co- Tavola
delle pia del volgarizzamento di certa Genealogia della
famiglia d’O. lede un’ Opera delle Memorie del Teatra Olimpico di Vicenza
citato rac. coglie tutte le Opere
MS. D’O. lodato ZorzÀ fuo Ragguaglio
Jjlonco intorno ad O. MS. ci- tato IV. fuo Discorso intorno
alle Opere dello Kctfo , do. ve fi fcgga . tao. citato
nominato con lode del P. Ruelc, c dove in. fuoi sbagli difende O. per l’invenzione de' nuovi
caratteri loda la Sofonisba numera le cen-. fare fatte alle opere d’O. e
dove - at- Cose Notabili rribuilce certa Opera ad O. ufi-fua opinione
circa alcuni Sonetti, at- tribuiti a’ Iluonaccorfi non vuole O. Autore del Volgarizzamento dell’eloquenza
volgare di Dame nò d’ un’ altra Opera latina lo crede bensì
Autore di certe Opere , che mai non fi fono vedute ivi Zucchetta ftampatore
quando cominciò a pubblicare Opere dai fuoi torch) Zucchi fua Idea
del Segretario ,ec. dove ftamta intaglia il Ritratto d’O. premeffo a
quella Vita il Fine della Tavola. Gian
Giorgio Trissino dal Vello d'Oro. Oro. Keywords: la riforma della lingua
italiana, filosofia del linguaggio, Alighieri, lingua e linguaggio, codice di
comunicazione, il parlare umano, il parlare solo umano, la prima lingua, la
parlata dei genovesi, la filosofia del linguaggio in Alighieri, l’eloquenza, la
filosofia del linguagio, only man speaks. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Trissino” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Orrontio: la ragione conversazionale e la scuola di Roma – Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. A senator and follower of Plotino – cited by Porfirio.
Grice ed Orsi: all’isola -- la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale -- filosofia fascista – la
scuola di Palma di Montechiaro -- filosofia siciliana – filosofia italiana -- Luigi
Speranza (Palma di Montechiaro). Filosofo
siciliano. Filosofo italiano. Palma di Montechiaro,Girgenti, Sicilia. Grice:
“Orsi uses ‘psicologia speculativa’ where I would use ‘psicologia filosofica,’
since speculativa opposes to prattica, rather!” --Allievo di Ottaviano, insegna
a Catania. Pubblica nella sua attività di ricerca scritti minori di autori
italiani e il saggio “Gl’hegeliani di
Napoli.” Cura l'edizione dell'opera di Ottaviano su Campailla; “La psicologia
filosofica di Spaventa” – e stato nella segreteria della rivista “Sophia”.
Altri saggi: “Lo spirito come atto puro,” “La filosofia moderna,” “L'uomo al
bivio: immanentismo o cristianesimo? Saggio di realismo esistenziale, “Antropologia”;
“Psiche e meta-fisica” “Psicologia speculativa” “Sulla psico-patia”. Grice: “The D’Orsi – and
indeed a Domenico D’Orsi, back in the 1700s, are a very noble family in Sicily.
D’Orsi is associated with “Sophia”, founded by Ottaviano. His interests have
been many and varied – but most notably philosophical psychology, which the
Italians call ‘psicologia speculativa’ as opposed to cheap scientific
psychology. They have the great Spaventa, who philosophized on the most
abstract issues concerning the old Roman idea of an ‘animo’. Compared to what
Ryle’s and Watson’s psychological behaviourism is a no-no-no!” D’Orsi has
philosophized on democracy. I democratici can be ingenuii, as I prefer them, or
critici. He has also ‘cured’ the edition of Ottaviano on Campailla, and went
continental to study Napoli!” Grice: “Orsi has done a lot to allow us to
understand Spaventa. As most Italians, Spaventa was fascinated by the Hun, and
cared to trasnalte a book that the Hun never cared to read: Lotze’s Elementi di
psicologia speculativa. I can imagine Spaventa wondering what he was doing,
bringing Lotze’s ‘seele’ as ‘animo’. The ‘elements’ by Lotze, as translated by
Spaventa, are elementary enough – but the section on the ‘soul/body’
(anima/corpo), ‘animo/corpo, corpo animato, corpo inanimate) is interesting.
But far more interesting is Orsi’s unearthing Spaventa’s “Psiche e metafisica”
– not to be confused with LABRIOLA’s essay by the same name. This is a hodge
podge of reflections. But mainly anti-materialistic. While an emergentist,
Spaventa (as discovered by Orsi) struggles to understand the connection between
‘sentire’ and ‘sentito’ and more generally, between the ‘sentire’ as a processo
fisiologico – Spaventa goes on to distinguish three levels of the ‘sentire’ –
the first is the processo fisiologico itself, the second is what Spaventa, as
unearthed by Orsi, calls the ‘unita distintiva del sentito’, and the third is
the ‘unita reflessiva del sentito’ or ‘raprresentazione’. So if you feel cold,
there’s cold qua processo fisiologico of a ‘corpo animato’ – ‘uninanimated
bodies cannot FEEL cold’ – second there is the unity of COLDNESS as distinctive
from say, HEAT. And third there is the concetto ‘’freddo’ – so that there is a
‘unita reflessiva del sentito’ – the expression ‘freddo’ now NAMES or
represents, or stands for the sensation itself. Domenico D’Orsi. Orsi. Keywords: animo, amore,
Ottaviano, Campailla, Spaventa, gl’hegeliani di Napoli, Sophia. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice ed Orsi” – The Swimming-Pool Library.
Grice ed Ortensio:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale – Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo italiano. A philosopher.
Grice ed Ortes – la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale del verso – la scuola di Venezia -- filosofia veneta -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Venezia).
Filosofo italiano.
Venezia, Veneto. Grice: “Being English, I was often confronted with that very
‘silly’ song by Cleese and Idle, but then they were never the first! Which is
good, since they are Cambridge and Ortes is Oxonian! Viva La Fenice!”. Considerato uno dei più dotati tra
i filosofi veneti settecenteschi, precursore nell'analizzare dal punto di vista
della produzione complessiva alcuni aspetti come popolazione e consumo. La sua
impostazione filosofica si fonda su un rigoroso razionalismo. Nel mercantilismo
vide far gran confusione fra moneta e ricchezza. Fu un sostenitore del libero
scambio pur con alcune restrizioni della proprietà che interessavano il clero,
anche se appartenevano al passato ed è considerato per questo un anticipatore
di Malthus, ma con qualche contraddizione. Malthus prevede l'aumento della
popolazione, in trenta anni, in modo esponenziale, quindi molto di più dell'aumento
delle sussistenze. Altre saggi: “Grandi, abate camaldolese, matematico dello
Studio Pisano, Venezia, Pasquali, “ Dell'economia nazionale” (Venezia); “Sulla
religione e sul governo dei popoli” (Venezia); “Saggio della filosofia degli
antichi” -- esposto in versi per musica (Venezia); “Dei fedecommessi a famiglie
e chiese,” Venezia, “Riflessioni sulla popolazione delle nazioni per rapporto
all'economia nazionale: errori popolari intorno all'economia nazionale e al
governo delle nazioni” (Milano, Ricciardi), Donati (Genova, San Marco dei
Giustiniani). Catalano, Dizionario Letterario Bompiani. Milano, Bompiani, Citazionio
su Treccani L'Enciclopedia. Quanto i suoi studi matematici influissero sul suo
metodo economico, vedremo; qui, brevemente, come in fluissero sulle sue
considerazioni filosofiche. Così, scrive egli delle opinioni ed ecco si studia
di ridurre a “Calcolo sopra il valore delle opinioni e sopra i piaceri e i
dolori della vita umana”, Venezia, Pasquali, ristampato dal Custodi, degli
ECON. MOD. FILOSOFIA IN FORMULE MATEMATICHE numero determinato il valore
dell'opinione, che alcun gode, per possedere certa qualità che lo pone innanzi
agli altri nella scelta degli oggetti piacevoli. Questa buona opi nione nasce o
dai natali,come la nobiltà,la patria ecc., o dallaprofessione,come la milizia, le
lettere ecc.,o da qualche prerogativa, come dall'autorità, dal merito ecc.
Ciascun uomo fornito di alcuna di queste qualità gode di qualche cosa che non
godrebbe se ne fosse privo. Ortes si studia di determinare il valore di questi
beni recati dall'opinione. Valga un esempio. Se si chiede quanto aggiunga di
valore alla nobiltà l'opinione della stessa, O. ragiona così: postoche
larenditagiorna liera di tutte le famiglie nobili sia 20,000, quella che
proviene da cariche, magistrature, commende ecc. 3,300, quella che vien data
dall'opinione,cioè coll'autorità di disporre di più posti, e colla riputazione
dei grandi sul volgo, a 700, posto che il numero di tutti i nobili sia 10,000,
il valore di tutta la nobiltà sarebbe espresso da 20,000 + 3,300 + 700 = 2. Falo
stessocoin 10,000 puto per le altre opinioni,di cui dice esser pretesto la
virtù, ma vero fine l’interesse proprio, poichè, dipendendo il valore delle
opinioni dalla ricchezza attuale o possibile, è manifesto che si deve prima
d'ogni altra cosa cercare l'utile proprio. Avverte che v'ha sempre un'opinione
predominante che varia col variare dei secoli: ai tempi di ROMA libera e la
conquista; sotto OTTAVIANO illusso; il platonismo ai tempi di Costantino;
l'investitura ai tempi di Gregorio VII; le lettere sotto Leon X ; finalmente l’ozio
a tempi dell'autore! Strana è questa classificazione, PIACERI E DOLORI.
tuttavia 1?O. mostra come il pretesto della virtù coprisse basse mire di
privato interesse. Lo stesso ozio ha il suo pretesto dell'ordine, benchè sia
figlio di vana alterigia. L'uomo che dee servire a molte di queste opinioni sarà
più civile, ma più timido e finto; chiapoche; sarà più rozzo, ma anche più
sicuro e più libero. E come O. si studia di ridurre a calcolo le opinioni, così
parimenti i piaceri e i dolori. Meno originale e meno astruso è O. in questo saggio.
Con molta inesattezza di idee e di lingua, espone da principio la dottrina che tutto
ciòche è conforme alla conservazione e sviluppo del nostro essere, genera
piacere; il contrario, dolore. Parla dei dolori e piaceri del senso, dei dolori
e piaceri dell'opinione. Mostra l'uomo naturalmente soggetto al dolore, e che
il piacere non è che un sollievo del dolore; con ragionamento curioso studiasi
mostrare che il piacere non può mai superare il dolore, perchè il piacere
essendo preceduto, secondo O., dal dolore, sopito che questo sia, tutto quel di
più di piacere che si volesse applicare generera dolore contrario -- come
l'indigestione dopo la fame cessata, la stanchezza dopo la danza ecc. Il
calcolo del piacere e dei dolori dipende dal grado della elasticità delle fibre
onde alcuno è fornito, e, quanto ai piaceri e dolori d'opinione, dalla stima
che ciascuno fa degli stessi. L'autore non pretende a novità di dottrina,
professa di avere scritto secondo la propria esperienza, con un temperamento
indolente é coi suoi sensi in un'età di mezzo.Vedrem poi com’egli stesso ne
abbia dato un giudizio severo. Due altre opere filosofiche si hanno di O.:
un ragionamento delle scienze utili e delle dilettevoli per
rapporto alla felicità umana; — e riflessioni
sugl’oggetti apprensibili, sui costumi e sulle cognizioni umane per rapporto
alle lingue. Ma si può dispensarsi dal tener dietro a questi discorsi, che, a
dir vero, son pesantissimi. In sostanza l'uno si riduce a mostrare l'ufficio
delle umane facoltà nella scienza e nelle arti belle, anche queste
intitolandole scienze ma dilettevoli, in contrapposto delle altre che chiama
scienze utili. Nelle scienze tiene il campo l'intelletto, nelle arti belle
l'imaginazione. Quelle hanno per oggetto il vero com'è, queste il vero ma elaborato
dalla fantasia. Quindi discorresi in quali termini sia concesso il lavoro
dell'imaginazione e concludesi sul tenore dell'epigrafe: Sol la scienza del ver
giova ed alletta. L'altro ebbe occasione dalla traduzione di Pope, perchè
volendo ragionare delle difficoltà del tradurre, si trova così accresciuta in
mano la materia, che piuttosto d’un proemio s’appiglia a farne un saggio a sè.
In fatto prende la cosa da alto, e filosofeggia sulla varietà reale degli
oggetti e sulla varietà nel modo di rappresentarseli, onde s'apre l'adito a
discorrere delle lingue e delle loro diversità, quindi intorno l'uso della
parola, e particolarmente intorno all'eloquenza. Infine ritorna donde era
partito, e conclude che se il traduttore può benissimo esporre le verità
apprese da altra lingua, non potrà tuttavia produrne tale impressione negli
animi, come ne è prodotta dall'originale, se non facendo sene come nuovo
autore, esprimendole cioè inmodo; tip. Pasquali. SUL MODO DI TRADURRE. Non si
può negare che osservazioni argute si tro vino spesso in O. anche in queste
riflessioni sugli oggetti apprensibili, sui costumi, e sulle cognizioni umane
per rapporto alle lingue; ma pur troppo è d'uopo cercarsele in una lettura
assai noiosa. Qualche volta dà risalto a quell'idea che vedremo poi sua
prediletta in economia, che cioè quello solo riesca ove siavi la pubblica
persuasione, non già ove questa non corrispondaagliimpulsi; e però egregiamente
dice, che allora un ammiraglio potea condurre gli’inglesi in America, come un tempo un romito potea
condurli in Soria, perchè gl’inglesi stessi voleano e avean voluto così.
Qualche volta, faticosamente sì, ma pur si conduce a qualche sentenza netta e
perspicua, come, p. es., dopo GOLDONI, COLTURA ALLAMODA, PUB. OPINIONE. Adatto
all'indolee ai pregi della propria lingua.
Chi volesse calcare l'autore straniero sarebbe come chi cre desse ricopiare un
ritratto con soprapporvi isuoi colori, coprendone così e confondendone
letinte,ecangiando il quadro in un mascherone o in un empiastro. necessità
invece che gli scrittori s'accordino sempre col carattere nazionale de'lettori;
e qui O. osserva, che il miglior poeta comico italiano de'suoi tempi potea
bensi starsene in Francia per passar quivi meglio i suoi giorni, ma non giammai
perchè il suo talento comico fosse così ben rilevato nella lingua francese a
Parigi, come il e già in Venezia nel dialetto suo veneziano. Qualche volta
sembrerebbe anche gaio,come quando si lagna che, temendosi la fatica dello
studio, si trascurassero le cognizioni vere, contentandosi di dizionari,
giornali, compendi o altri repertori per dilettare, divertire, o come diceano, per
amuseare! È USO DELLA PAROLA PEI GOVERNI avere deplorato che il mondo
governisi da chi più ciarla , non da chi più sa, egli conclude: se chi pretende
governar altri senza render ragione del suo governo, e uomo assai vano; il sarebbe
non men certamente chi pretende governarli per sola copia ed eleganza di voci.
Qualche volta infine dimostrasi d'animo aperto e sollecito per le innovazioni. Qui
cade a proposito, così egli, d'avvertire l'errore di quelli che si figurano di
richiamar nelle nazioni la verità e la ragione comune, cioè gli interessi
comuni, pubblici, universali in contrapposto ai particolari, privati, speciali)
perquantovi sifosse smarrita, col rinovar quelle leggi che ne prescrivevano le modificazioni
a'tempi de'loro bisavoli, progetto al tutto assurdo e impossibile. La verità e
la ragione comune potrà ben richiamarsi per leggi, per quanto a'tempi
trasandati fosse stata più riconosciuta per sè stessa in quei costumi, di quel
che il sia ai tempi presenti per costumi che la modificassero in contrario di
sè medesima; giacchè essa in sè stessa è una sola di tutti i luoghi e di tutti i
tempi. Ma il richiamarla al presente per le sue modificazioni antiche, quando
tali modificazioni debbon ad ogni tempo esser diverse, non può essere che una
miseria di mente, per cui si creda la natura non più capace d'invenzioni in sua
natura, di quel che siasi un po vero consigliere segreto che creda operar in
sua rece. Chi declama contro i nuovi costumi che si vanno in troducendo, e
deplora gli usati che si van disusando; ha molta ragione se inuovi costumi son
modificazioni di una ragion men comune, di quel che siano gl’usati che a
quelli dan luogo. Ma seinuovicostumi son » tanto buone modificazioni della
comun ragione, quanto gli usati che siperdono; ei declama inutilmente, come se
ciò fosse contro il variar de venti, essendo l’una e l'altra cosa quanto
innocente, tanto inevitabile e necessaria, e potendo, anzi dovendo, quella
comun ragione, per disposizione di natura e per sapienza illimitata del supremo
suo artefice, praticarsi sempre per modificazioni diverse, e comparire in
sembianze ché non siano giammai le stesse, essendo nondimeno la stessa per sè
medesima. Senza questo una simile verità o ragione correrebbe rischio di non
esercitarsi che per inganno; ed è ancor vero che talvolta con richiamare la
verità, la ragione, e la religione stessa per le sole loro modificazioni
esterne di tempi molto remoti, si riesce a perdere tutto il senso reale ed
interno di queste virtù, incariabili per sè stesse, riducendole a quelle
materiali loro modificazioni esterne, senza alcun rapporto a quell interno lor
senso e significato. Si pigli intanto O. in parola, poichè avrem campo di
trovarlo in seguito così reluttante a certe modificazioni che non sembra quel
desso. Meglio avremo occasione di riandare alcuni suoi pensieri dello stesso
libro, che con certo apparato filosofico mettono innanzi quell'armonia degli interessi,
da lui tanto raccomandata nelle sue opere economiche. Ma lasciamo per ora
queste meditazioni di filosofia. Errori popolari intorno all'economia
nazionale considerati sulle presenti controversie fra i laici e i chierici in
ordine al possedimento dei beni; Della Economia nazionale, parte prima,
libri sei; Lettere concernenti la stessa (oltre quelle che si hanno
nel • Custodi, quelle publicatesi in questo libro); Dei
fedecommessi a famiglie, a chiese e luoghi pii, in proposito del termine di
manimorte introdotto a questi ultimi tempi nella econ. naz.; Lettere in
proposito;Riflessioni sulla popolazione delle nazioni per rapporto alla econ.
naz.; Dell' ingerenza del governo nell'econ. naz., publicato da G.
Fovel. Venezia, tip. del Commercio; Della eguaglianza delle ricchezze e
della povertà nel comune delle nazioni, publicato dal Cicogna.
Portogruaro; Riflessioni sulle rendite del Principato e sulle rendite
publiche in proposito di economia nazionale; Discorso sull' economia nazionale;
Popolazione perchè non cresca per l'agricoltura, per le arti e pel commercio;
Vari pensieri economici sull' interesse del denaro, etc. Tra gli scritti
d'Ortes nella Marciana. LETTERARI. Traduzione del saggio di Pope
sull'uomo; Saggio della filosofia degl’antichi esposto in versi per
musica; Riflessioni sopra i drammi per musica e l'azione drammatica,
Calisso spergiura, sonetti; nelodrammi; traduzione dei treni di Geremia, nella
Marciana; dei sonetti, ve n'ha anche di publicati in raccolte; FILOSOFICI.
Delle scienze utili e delle dilettevoli per rapporto alla FELICITÀ [cf. H. P.
Grice, “Notes on ends and happiness”] umana; Calcolò sopra il valore
delle opinioni, e sopra i piaceri – EDONISMO -- e i dolori della vita umana,
Riflessioni sugl’oggetti apprensibili, sui costumi e sulle cognizioni umane per
rapporto alle LINGUE, alla LINGUA; Lettere relative; Calcolo de’ vizi e
delle virtù, nella Marciana). ATTINENTI A MATEMATICA E FISICA. Vita
del P. Grandl, Calcolo sopra i giuochi della bassetta e del faraone, con un
estratto di lettera sul lotto publico in Venezia, Calcolo sopra la verità della
Storia; Venezia; Sulla probabilità di vincite o perdite nel giuoco delle
carte; Problemi geometrico-matematici; ed altri di matematica e fisica, nella
Marciana. Parmi che molte sien cose scolastiche; in ogni modo, non da
trascurarsi per gli storici delle scienze fisiche e matematiche nel secolo
scorso. RELIGIOSI. Della religione e del governo dei popoli per
rapporto agli spiriti bizzarri e increduli de' tempi presenti, Lettere di
estratto; Della confessione fra i cattolici; Delle differenze della
Religione cattolica da tutte le altre (nella Marciana). POLITICI.
Dell'autorità di persuasione e di forza fra loro divise; Della scienza e
dell'arte politica; tutti due publicati dal Cicogna. Portogruaro.
Inoltre lettere, in parte stampate, in parte inedite presso il Cicogna, e le
memorie autobiografiche, publicatesi dal Cicogna. Ometto gli scritti, che
il Cicogna indica solo come accennati da altri; e ometto pure alcuni scritti,
che il Cicogna indica nella Marciana, ma che in parte sono manifestamente cose
scolastiche, in parte mi sembrano ricordi sceltisi dall' Ortes per suo studio,
senza che si possano sicuramente dir cose sue, in parte son cose del momento.
L'anno che ho aggiunto qui sopra dei vari scritti, è l'anno della prima
publicazione. Del resto non importa aggiungere se non l'osservazione, che
volendosi ripublicare scritti dell'Ortes, converrebbe far collazione delle
edizioni coi manoscritti, che servirebbero a correggerle e completarle. RIFLESSIONI
*5' 'G JL. I - *t j.- *1 X OGGETTI APPRENSIBILI.,
' > I «r . »r , I • - ' r • • y SUICOSTUMI, E
SULLE COGNIZIONI UMANE, PER RAPPORTO ALLE LINGUE. \>atu
jB>ttl{otFircac vMtì^^trì |^ynel*tcv *nr{» {« tRomaine ^«.^ieKHot
.i^rtfi|/j^»jmnaj;o , L e frefentì rìfle$ont innò origine da una
prefa^ zsonCy cb' io volea premenere a un Opufcoto fi- lofofito ,
da me tradotto pili' anni innanzi dalla lingua e poejia ìnglefe nella
italiana; nella qual tra- duzione efiendomì allontanato dalle maniere
[olite ufar- fi dagli altri in fimili cafi, credea di dover di
ciè render conto al lettore . Queflo non poteva io fare^ fenza
entrare a ragionare della divergiti degli og- getti ^ de' cofiumi , e
delle cognizioni , quali pili corrono nelle diverfe nazioni , e della
attiviti e /pi- rito delle lingue diverfe per e/primere tutto
quefioy fia con precifione ^ fia con eleganza ciò che non mi
riufciva mai ben di fare , ne' brevi limiti eh' io m' era prefiPfo (f una
Refezione , per quante volte in piU modi la volgefil e rivolgevi in mente.
Depofto pertanto ogni penfiero per ejfa^ ò giudicato piu facile , anzi
che jerivere una prefazione inftgntficante , di Jìendere tutto ciò che
fui detto propojìto di lingue , e di cofe per effe efprejfe mi fi
prefentava alla men- te^ in un Trattato completo y e intefo a quefto
efpref- f amente ; il quale così non d pili che fare colla tra-
duzione Juddetta , ma à molto che fare per quanto mi fembra , colle
maniere di penfare fugli ftudj , fulle cognizioni umane , fugli affari
comuni , e [ul- ta Religione medefima , per quanto code/le maniere
effendo al prefente diverfe dalle ufate a' tempi paffu- ti y fi reputano
di quelle migliori . Quefto trattata dunque b Lettore .,c quello eh' io
qui ti prefento ^ e che h jeritto per mia e tua ijiruzione migliore y e
per avven- tura dt pochtjjimi altri , e non gid di tutti ; fempre
piu falda in quella mia majjima , che le cognizio- ni vere e reali
abbiano e pojfano ejfer di pochi , a differenza delle Juperficialt e
apparenti , che poffo- no e debbono ficnderfi a molti • e fempre più
con- vinto altresì nel mio particolare , che nulla per me /limerei
di f opere di certo y fe nulla fapejji dt Geometria . DEGL’OGGETTI
APPRENSIBILI, DE’COSTUMI, E DELLE COGNIZIONI UMANE, PER RAPPORTO ALLE
LINGUE. vfc/ievAA<vdv> ^^srssrSFST^ A favella
nell’ Uomo è quel dono eh’ egli CAP. I. U 'f'^'^ M ^ comunicare ad
altri le immagini pre- Oggetti ap* Pii § fl Tentate al fuo cervello dagli
oggetti efter- prenfibili ori- » W ^ quivi combinate inpìbmodi dalla
fa- intellettiva, dono e qualità più ancor fìngolare e più
(ublime dell’ umana natura^. Quelle immagini che fe non s’
intendono per quello nome , non s’ intendono per fpiegazione d’ elio
veruna , fono più o men vive , a norma delle impreflìoni che gli
oggetti llein fanno diverfamente full’ un cervello più che fuir altro, o
coll’aspetto loro attuale, o colla me- moria di elTi apprefi altre volte
, come la ftelTa per- colTa imprime orma diverfa nella creta , nel gellò
, nella cera o nel piombo . E quantunque s’ imprima- no fors’ anco
fu qualdvoglia materia pur infenfata , non fi combinano che fulla materia
animata mediante la facoltà intellettiva fuddetta , o la feparazione
delle più proporzionali ed armoniche dalle più difl'onanti e
deformi, per la quale così diconfi appunto combinarli A ia- 'è<i
1 1 ^ . infra efle. Una fimilc operazione dell’ intelletto tende a
confrontare gli oggetti fra loro, e da un fìmil con- fronto a rilevare fu
elfi e per eflì quelle verità , che fenza ciò rimarrebbero afcole ed
ignote , non arguen- dofi il vero che dalle confonanze di alcuni oggetti
con altri, ficcome dalle dilFonanze degli uni dagli altri fe ne
arguifce ilfalfo. Perchè poi delle confonanze o dif- fonanze di oggetti
ben arguite è indizio l’approvazio- ne o difapprovazìone per elle di
altri , che abbiano o non abbiano fimilmentc combinate quelle immagini
; e perchè una fimile approvazione o difapprovazione non può
confeguirfi, che per qualche mezzo fenlibile per cui efprimere e
partecipare gli uni agli altri code- fte combinazioni; quindi è dunque
che un fimile mez- zo fu ilHtuito nella favella , per la quale
appellando ciafcune immagini o ciafcuni oggetti dai quali quelle
derivano, con altrettante voci o parole diverfe, e col- locando queffe
con certa difpofizione e corruzione ana- loga a quelle, H partecipa da
ciafcuno ad altri i mo- di coi quali gli oggetti che occorrono all’
immaginazio- ne fon da fe apprelì e combinati, afHne di verificare
quanto fian efTì giufti , per quanto reflino approvati dal concorfo
maggior di piò altri ; di maniera che quelle combinazioni d’oggetti s’
appellin migliori , alle quali più altri preflinò un affenfo più facile e
pronto, e quelle s’ appellin peggiori, le quali non fìan fecon-
date, ma fìano all’ incontro contraffate da più altre a quelle oppofle e
contrarie, comunicate ciafcune a tutti mediante una comune favella. II.
£’ chiaro, quelle immagini combinate e comu. nicate così altrui per la
favella , non elTer diverfe dai proprj fentimenti d’animo , coi quali
ciafcuno fi ma- nifcfla agli altri non folo ne’ proprj giudicj fu gli
og- getti efìerni , ma nelle proprie azioni ancora, e negli ufiìcj
e decenze della vita comune che da quelli derivano , per non provenire tai
fentimenti che dalle im- preflioni appunto degli oggetti ertemi , e dalle
combinazioni che fé ne formano nelle ciafcune menti . A' cAP. I. ~ quedo
modo parlando per la verità e fuor d’ illufio- ne , pare che 1’ uomo
tolto per la parte fua fifìca , non didèrifca dai tronchi e dai faflì, fe
non in quan- to imprimendofi si in lui che in quelli le immagini
degli oggetti coi quali del pari comunicano, egli folo mediante 1’ anima
ragionevole che lo informa , à la facoltà che non an quelli, di
fegregarne alcune dall’ al- tre e di combinarle infieme , e quindi di
comunicarle colla favella agli altri, affine di verificarle , e di
de- durne quelle verità che fugli oggetti medefimi poflb- no per
lui concepirfi, e dalle relazioni fra quelli W C. I. », t. fcuoprire per
quanto a intendimento mortale è concef- fo , gli ufi e le convenienze
maggiori alle quali dall’ autore della natura fon pur desinati . Che s’
egli (ì lafcierà trafportare dalle combinazioni cafuali che le
immagini degli oggetti imprimeranno fui fuo cervello fenza fcelta o
interelle alcuno, quella facoltà non farà in lui diverfa dalla Pazxìa ,
la quale in fatti non è che un abbandono alla propria immaginazione ,
com- mofla dagli oggetti veduti o rammentati , e flrana- mente
accozzati infieme . Se poi egli combinerà tali immagini per le fole
confonanze apparenti ed eflerne di pochi particolari oggetti a sè vicini
, per li quali pertanto ei fia prevenuto per fuo folo piacere e
inte- refTe, nulla badando all’ oltraggio o danno che quindi ne
provenifle ad altri, per non iflendere quelle combi- nazioni ai
moltiffimi altri oggetti ren-.oti coi quali quelli avefTero relazione , e
doveDero in confeguenza combinarfi ; quella facoltà fi dirà in lui
Errore, o ra- gione intereffata particolare , il cui indizio farà
que- fto , di ottener cita I’ approvazione di alcuni , ma col- la
difapprovazione di tutti gli altri, potendo così l’er- rore eller bensì
particolare di pochi , ma non mai comune di tutti . E fe finalmente egli
applicherà a combinare le immagini colla fcelta e difcernimento più
accurato , ed ellefo al maggior numero d’ oggetti , e dirtinguendone le
relazioni e le confonanze tan- to più armoniche quanto più fparfe in
lontano, quali collocherù nel miglior grado di Ibmiglianza fra elle,
c quali fegregherà dall’ altre colle quali aveller quelle rap- porto
minore , o non ne avelfer nelluno ; allora ei ften- derà l’ interdlè e il
piacere che da tali combinazioni derivano, da sè ad ogni altro, fenza
oltraggio d’ alcu- no, e una tal facoltà fi dirà \n\n\ Ferità o ragione
co- mune, come quella che riconofeiuta da tutti , non po- trà
contrallarfi da alcuni, o contradata da alcuni , relterà ognor vendicata
dall’allenfo comune di tutti gli altri. III. Quello dà facilmente a
conofeere, come gli uo- mini in generale, mediante la facoltà
intellettiva fud- (j) C.f. II. 2. detta, o l’anima ragionevole che gl’
informa (/»), paf- fino dall’ infenfatezza alla pazzia , col combinare
gli oggetti fortuitamente ed a cafo; e come dalla pazzia pallino
all’errore, combinandoli per proprio folo inte- Tcfle e piacere fenza
riguardo ad altri ; e come final- mente dall’errore fiano tutti condotti
alla verità loro comune, per la quale combinandoli per interelTe e
pia- cerecomune, agitati dapalTioni particolari, ma corret- ti e
follenuti per le comuni , tutti pur infiemc fudi- dono. E febbene tal non
fia d’elTi in particolare, per provvidenza pure particolare, giacché
quafi tutti invero dalla pazzia o dalla inconfeguenza nella quale
litrovano da bambini , padano all’ errore nel qual fi trovan da
adulti, ma non tutti da quell’errore padano alla verità comune, nella
qual fi trovan ben molti nell’ età più ma- tura , ma tutti non vi fi
trovan che al punto ellremo di vita; tal però è d’elliin generale per
provvidenza eter- na . Che fe alcuni fpiriti timidi e ombrofi giudicano
l’errore più comune della verità, in quanto gli uomi- ni bene fpello
contrallano, e non cosi di leggieri s’ac- cordano ne’ loro penfieri ; ciò
nondimeno la verità fi feorgerà fempre dell’error più comune, in quanto
elTa in etì'etto o previene, o modera, o pon fine fempre a quei
contraili medellmi anco ad onta loro , fenza di \ che nulla
v’avrebbe di certo nelle combinazioni d’iin- cAP. i. magini, nelle
cognizioni che ne derivano, e nelle azio- ni per le quali fi fulTide ,
che da tali cognizioni di- pendono, contro l’efperienza manifelta,
giacché pur fi fuflTifte. Ma intanto quindi apparifce, come non
eden- dò le lingue idituite che per efprimere e comunicare altrui i
proprj fentimenti dell’ animo o le proprie com- binazioni d’ immagini ,
per quindi rilevare quanto cia- fcuno per le vie deU’infenlatezza , del
delirio , e dell’ errore nello dato materiale, di bambino, e d’
adulto proceda nell’età ferma alla verità comune nella quale al- hn
s’adagia e tranquillo fudide; la cognizione di quel- le dipenderà dalla
conofcenza di quede . Ond’ è che per ben ragionare della natura e della
diverfità delle lingue, dovrà ragionarfi prima della diverfità delle
co- gnizioni umane da manifedarfi per quelle ad altri , non edendo
certamente podibile ragionare o intender i mezzi coi quali confeguire un
fine , fenza la cono- fcenza di quedo fine medefimo . Siccome ancora
da qued’edèr la favella intefa a efprimer ioltanto le pro- prie
cognizioni falle verità o dilla ragione comune, e dall’ cder eda propria
del folo uomo («), fi rileva, al W folo uomo dunque eder dato il
penetrare coll’intellet- to e r alzarfi a fimili cognizioni , occulte a
tutt’ altre Ibdanze anco animate, ma prive della favella; in gui-
fa che ficcome ei folo podiede la favella, cosi ei folo in queda vita
mortale fia dedinato dalla provvidenza eterna alla conofcenza delle cofe
per una fimil ragio- ne , non odante il deviamento da eda di alcuni ,
rico- noicìuto fempre dalla ragione medefima a tutti gli al- tri
comune . P ER comprender meglio le cofe fuddette , e come gli CAP.
II. oggetti combinati nelle ciafcune menti fi comuni- Della
forni- chino altrui mediante la favella , io confiderò da un 8'**9**
* canto, che fogliono quedi del continuo rinovarli gli . uni
negli altri fecondo alcune leggi di moto , in che confifte la vita , e la
eflenza di tutte le cofe mortali , e fcnza di che refterebbe il tutto
coperto e ingombro di quiete , morte e nullità eterna. Quelle leggi
fono collanci e invariabili , cui natura non preterifce giammai ,
come fi dimollra nel lirico , e da quello li arguifce pur nel morale ,
per la ragione di non procederfi a que- llo che per le vie di quello , o
per la Icorta de’ fenfi , onde non poter formarli regola per lo morale,
che non fia in conformità a quelle per cui fi conofcc proceder il
fifico. Pertanto gli oggetti rinovati per tali invaria- bili leggi,
debbono altresì elTere invariabili e fra loro confimili, ciò eh’ è molto
conforme all’ armonia uni- verfale e alla concordia di tutto il creato,
non prodot- to dal cafo cieco e impolTibile , come figurano gli
fpenfierati , ma ufeito di mano di un folo , eterno e fapientidìmo
autore. Confiderò dall’ altro canto , che quella fomiglianza di oggetti
la quale feorre da tutti ein in cialcuna fpecie a tutti ein nelle
innumerabili altre fpezie nelle quali lì trovan divifi, non toglie
che gli oggetti medefimi non fian fra loro diverfì , colla
diflerenza ancora, che gli oggetti della HelTa fpecie co- me fon fra lor
più confimili , così fono meno diver- lì dagli oggetti nell’ altre fpecie
, dai quali più e più di- verlìficano . Ciò che non può provenire che
dalle mo- dificazioni diverfe e infinite, colle quali procede il
mo- to medefimo tìfico o morale fra gli oggetti. tutti crea- ti, e
che pur concorda colla potenza e fapienza infi- nita del fupremo autore
della natura, cui non convie- ne replicar un oggetto nelle varie o nella
llella fpecie di elTi , e colla varietà di natura medefima , cui
difdi- ce ad altri fpogliare delle infinite forme di oggetti de’
quali è adorna , per rellrignerla folo ad alcune . II. Quelle
confiderazioni Habilifcono dunque quella verità , che gli oggetti creati
fono bensì tutti Confimi^ li y per le llefle collanti leggi di moto
fifico o morale per cui fullìllono, ma che fono altresì tutti Diverfi
, per le diverfe modificazioni di codello moto che procede colle
tnedefime leggi, fcorrendo quella Ibmiglian- c A P. llT za e
dilTomiglianza per gradi inrenfibili dagli oggetti di ciafcuna Ipecie a
quelli di tutte le altre contigue dal regno minerale al vegetale, e dal
vegetale all’animale filico, ( e lo Hello dee intenderli del morale {a) )
co- (a) C.II. n i. me è noto ai naturaliHi e agli altri lilofolì per
quel mifero finitefìmo di natura che fi trafpira, e dal quale
foltanto lice arguir di tutt’ ella. Tal ogni oggetto in ciafcuna fpecie
nel confumarlì procede per gradi di fo- miglianza indifcernibile, e
conferva i caratteri della fua fpecie con sè medefimo, e cogli altri ne’
quali va a ri- produrfi , paflando per infenfibili gradi di
modificazioni diverfe da uno flato all’altro prima nella fua fpecie,
e pofcia da quella ad altre contigue più e più così fimili e
refpettivamente diverfe in infinito, finché dal tronco più informe e
infenfato, fi pervenga all’uomo megfioor- ganizzato e più faggio. Siccome
dunque il moto è la caulà di tutte le produzioni create, cosi certe leggi
di elfo Habili fon la caufa per cui fi producono e n con- fervano
elle tutte confimili ; e le diverfe modificazioni di un moto che procede
per le medefime leggi , fon la caufa della diverfità di ciafcuni oggetti
in ciafcuna del- le loro fpecie e in tutte le fpecie loro , reflando così
il creato uniforme e moltiforme, perchè prodotto e con- fervato per
quel moto, per quelle leggi, e per quelle mifure e modificazioni di elio
. Senza moto , non vi avreb- be cofa alcuna in natura . Senza leggi di
elfo , non vi avrebbe per il moto che un caos di follanze confufe
ed incerte, e da una rapa per efempio ufcirebbe una rofa , da una rofa
una ferpe , da una ferpc un coni- glio , ma il tutto informe e inoHruofo
fenza diHinzio- ne e progreflìone di fpecie , con ifconvoglimento di
tut- to il creato . Senza modificazioni diverfe di moto , per elfo
e per le fole fue leggi non s’ avrebbe in natura che una fpecie di
follanze inalterabili , folTer poi elTe tutte rofe, tutte rape, tutte
ferpi, o tutte conigli. £ folainente per un moto che proceda per le
medefime leggi e per diverfe modificazioni di eflb, può formar- fi e
confervarfi in natura quella uniformità e varietà- di follanze , per le
quali effa pur fi vede ordinatamen- te fuflìftere . Che fe la rofa
verbigrazia è più fimile alla rofa che alla rapa , alla ferpe , o al
coniglio ; ciò non deriva da diverfità di leggi , ma da diverfità
di modificazioni in un moto , che ferbando le leggi me- defime ,
più che da rofa a rofa , procede da rofa a rapa, a ferpe, a coniglio. E
d’altronde la rofa, la ra- pa, la ferpe, e il coniglio fi diran fempre
fimili , per- chè prodotti per le flefle leggi motrici , avvegnaché
fem- pre diverfe per le diverfe modificazioni di quelle. III.
Alcune di quelle leggi colanti di moto , e di quefte modificazioni di
eflo diverfe particolari, furono alìegnate e conofciute dai geometri , ma
il pretender di tutte raccorle con mente mortale , o di portarli da
quelle che fi conofcono alla maffima di tutte dalla qua- le per avventura
tutte dipendono, farebbe lo ftelloche pretendere di mifurar l’infinito
con una fpanna , non che di infonder l’oceano in un bicchiere. Che però
gli oggetti fan fempre diverfi , fi conofce maffimamente da ciò,
che la detta rofa verbigrazia non è già alla fera qual era al mattino , e
un uomo non è in vec- chiaia qual era in giovinezza , e io flefib può
arguirfi d’ogni altra cofa che abbia fenfo onon lo abbia. Que- lla
variabilità poi negli oggetti creduti più volgarmen- te gli flefii, dee
maggiormente feorrere Irai creduti di- verfi, contemporanei o
confecutivi, nella fielTa fpecie e nell’ altre eziandio contigue e
diffimili ; dimaniera- chè non folamente tutte le rofe fian diverfe da
tutte le uova, e tutte le uova da tutti gli uomini , ma di tut- te
altresì le rofe, di tutte le uova, di tutti gli uomi- ni , non ve n’
abbian pur due , fra i quali non corra qualche indifccrnibile difparità,
mercecchè lefolfer per- fettamente le fteffe , non due ma una farebber
quelle rofe, queir uova, quegli uomini , e la prima divina caufa
motrice non più infinita, ma farebbe limitata e finita (/i). Ciò che negli
uomini può arguirfi dai fe- sni ancor materiali edefierni, per cui
ciafcun d’eiTifi didingue da ciafcun altro per iembianze di volto ,
di voce, di carattere, di portamento e (Imili , e lo liefFo
avverrebbe delle rofe , dell’ uova, e de’ grani ftefli di miglio, fe fe
n’ avede una pratica corri fponden te . E quel che avvien delle rofe,
dell’ uova, de’ grani di mi- glio, dee avvenire d’ogni altro oggetto
particolare mi- nore e maggiore , e del compleflb di più altri
ancora vifibili e invifibili ad occhio umano, della terra , de- gli
adri , delie codellazioni , e di tutto infomma il creato . Così la terra
fempre a sè defla confimile, è pur fempre dasè diverfa, e dove al
prefente forgonole città, v’ aveano ad altri tempi i deferti, dove s’
alzano! monti , fcorrevano i fiumi o i mari , e viceverfa ; alla
quale diverfità fi procede per gradi quanto infenfibili , tanto
continuati e incelTanti. IV. Gli oggetti dunque creati pafTati ,
prefenti , e fu- turi fono tanto fimili per le delle leg^i di moto ,
quan- to diverfì per le infinite modificazioni , colle quali può
edb variare, padandofi per infiniti gradi e in infinite maniere di madima
fomiglianza e di minima varie- tà , dall’uno all’altro nella deda fpecie
, e dall’ una eziandio all’altra delle infinite fpecie contigue di
eflì, e accodandofi ciafcun uovo ^r fomiglianza , e fco- dandofi
per diverfità da ciafcun altro o da Ciafcu- na rapa , per oggetti
infiniti intermedi va- rie fpecie , fenza però mai adomigliarlo o
didbmi- gliarlo del tutto; vale a dire fenza effer del tutto quel
dedb o quella rapa (6) , o fenza didrugger del tutto l’altr’ uovo o 1’
altra rapa . Quel che s’ è detto degli oggetti filici , dee pur
applicarfi ai morali , giacché fì- come quelli fi confervano e fi
rinnovano io ciafcuni per le deffe leggi di moto fifico , così operan
quedi per le deffe leggi di moto morale che da quello di- pende (
r). In confeguenza di che 1’ equità , il valo- re, la codanza, 1’ amore e
gli altri affètti umani virtuofi [Oggetti come apprefì di-
verfamente . ] tuofi o viziofi ancora , fi diran propagarfi dagli
uni agli altri in ciafcuni fempre conlìmili , ina tuttavia di-
verfi , non folo ciafcuni in genere , ma nelle loro fpe- cie ancora in
ciafcuno individuo, come paffioni bensì confimili , ma che fono
modificazioni diverfe d’ una verità o d’un errore , eh’ ellendo lo fielfo
e indivifi- bile in ogni paflione, è nondimeno vario in qualfivo-
glia fua apparenza o modificazione particolare. Tallo Ipirito di conquida
per efempio in Alelfandro , in Maometto, in Roberto Guifeardo, o il genio
di filo- fofia in Salomone, in Numa, in Marc’ Aurelio, o il
fentimento di libertà comune in Giunio , in Catone , in Gregorio VII-,
furono ciafeune paffioni medefimein sè llefle , benché ciafeune diverfamente
modificate in ciafeune di quelle perfone, attefe le diverfe
circollan- ze de’ tempi , e le varie difpofizioni de’ popoli, per
le quali ancora furono diverlàmentc fecondate , e ior- tirono vario
efl'etto. L a fomiglianza e refpettivamente diverfità
d’ogget- ti fuddetta , è quella che coliituifce le diverie re-
lazioni fra effi , non riferendofi un oggetto all’ altro che per quanto
ad effo è fimilc, o da effo è diverfo. Le quali relazioni così fono
infinite , per gl’ infiniti gradi di fomiglianza e di diverfità, coi
quali gli uni fi accodano agli altri o fi feodan da quelli, e per li
qua- li podbno infleme paragonarli, fia l’uno coll’ altro nel- la
deda fua fpecie, fìan gli uni cogli altri nelle fpecic loro diverfe (/»)
. Qui prima di proceder più oltre , piacemi avvertire, che parlando io
d’infinito, comeò fatto innanzi e farò in féguito, non intendo
parlarne come di cofa eh’ io comprenda per sè , ma come di cofa eh’
io non intendo che per approlfimazione , im- maginandolo qual conviene a
mente finita, vale a di- re qual finito , maggiore di quanti pollano
alfegnarfi giammai in ciafeuna fua fpecie ; inguifachè egli fia per
l’aggregato di più e più finiti fenza fine di quella Ipe- cie
1 Digitized by Coogic eie d'oggetti di
che fi tratta, per cui fi porga all’ in- telletto umano queir idea
qualunque incompleta , che àffi dell’infinito, fenza perciò che fi
confegua elFo, o fi raggiunga a comprendere polìtivamente giammai .
Ciò avviene per le forze intellettuali umane limitate al contrario e
finite (<»); perciocché fe ad intelletto umano fofle dato di
apprendere verbigrazia tutti gli oggetti e tutte le infinite relazioni
fra loro , un intel- letto tale non farebbe più umano o finito, e non
com- binerebbe gli oggetti , nia farebbe un Dio , che fenza
combinarli li apprenderebbe tutti ad un tratto, come quegli che li avefle
creati , e ne avefle ordinate le re- lazioni di tutti i luoghi, e di
tutti 1 tempi. £ quan* tunque di quella conofeenza l’uomo fcevro dai lenii,
per quanto comporta il grado di fua intellettualità , fia per partecipare
nella vita avvenire ; nella prefente di che II tratta , non potrà egli
mai flenderfi in elTa che per quanto lo conducano le tracce limitate
de’fen- fi medefimi , reflrignendofi così le fue cognizioni ad
alcuni oggetti per combinazioni foltanto finite , fenza fìenderfi a tutte
per comprenfione d’ efiì intuitiva e in* finita . II. Ciò
porto, non dirtinguendofi per or gli oggetti che per le lor dette
relazioni diverfe, ed elTéndo tali relazioni per ciafeuni di erti tanto
infinite, quanti i gra- di di fomiglianza odi diverfità, co’ quali poifan
fra lor riferirfi, fia nella ftefla, fia nelle fpecie loro diverfe
, corrifpondenti alle infinite modificazioni d’un moto che procede
colle medefime leggi (b) ; ciafeun intelletto particolare, che per le
forze fue limitate dee apprender- li non per tutte, ma per alcune fole di
tali relazioni , dovrà apprenderli per relazioni diverfe da quelle , per
le quali le apprenda ciafeun altro, e in confeguenza dovrà
apprenderli diverfamente da tutt’ altri . In ellctto doven- do la
fomiglianza e diflbmiglianza fra gli oggetti a|>- prenderfi da ciafeun
intelletto finito ad un modo, edef- fendo infiniti i modi , coi quali
ciafeun oggetto può paragonare come fimile o diffimile agli altri ; non
potrà di quefti infiniti modi quello col quale apprende quell*
oggetto uno , effer quel delTo col quale lo apprende un altro, ma dovrà
l’uno effer dall’ altro diverfo, per quan- to pur poffa efier a quello
più e più confimile. A que- llo modo faran gl’ intendimenti umani per gli
oggettr medefimi tanto diverfi , quanto le loro fifonomie o al- ia)
C.II, n.^. tre fembianze loro efterne fuddette che poffono bensì affomigliarfi
in bellezza o in deformità , ma non mai in modo di effer del tutto le
fteffe , o di non cor- rervi qualche differenza, per cui uno non fi
ravvifi o non fi diflingua, pollo al confronto coll’altro. Ed ef-
Icndo gli oggetti diverfi e confimili, e le relazioni fra effi infinite ;
di infiniti ancora intelletti umani fe fìa poffibile paffati , prefenti,
e futuri, fu i quali cadano le immagini d’unaflella, d’un fiore, d'un
fallo, non ve ne avran pur due che le concepifeano ifleffamente a
per le medefime relazioni ad altri oggetti, ma farà 1’ immagine di quella
(Iella, di quel fiore, di quel faffo diverfa nelle ciafeune menti di
quelle infinite perfone, confimile però più o meno l’una all’altra,
quanto que- flc relazioni fian più proporzionali ed armoniche, an-
corché armoniche e proporzionali Tempre dìverfamen- te. Fuori di quello
cafo non due, ma uno farebbero* quegl’ intendimenti, i quali ConcepilTero
gli flelli og- . getti per le fleffe immagini, o riferiti ad altri
ogget- ti per le fleffe finite relazioni delle infinite che ve n’
(è)C.J/. ».r . ànno , ciò eh’ è impoffibile {b). III. Qui occorre
offervare , come non è folamcnte (f)C.J/.w.5. la diverntà degli oggetti
apprefi avvertita difopra (r), ma quella ancora delle relazioni loro agli
altri diver- \ <d) C.III.V.3. (g gjjg (j avverte al prefente ( d ) ,
per cui fi concepì- fcano quelli da ciafeuni in vario modo, tanto al
me- defimo tempo uno lleflo identico oggetto , quanto à tempi
diverfi quell’ oggetto a sé confimile , ma da sè diverfo a diverfi tempi
in sè fleffo o nella fuafpecie. Per la qual cofa Tolomeo per efempio,
Ticonc , e Galileo n diranno aver tute’ a tre immaginato il Sole '
diverlamente , quantunque il Sole veduto dal primo in AlelTandria à Tuoi
giorni, non folTe identicamente lo Iteflo che il veduto per avventura dai
due altri all’ idei* fo giorno, quattordici fecoli dopo nella Dania o in
Ita* lia, ma folle da quello infenfibilmente dillimile , per
rinfenfibile alterazione fofl'erta da ogni corpo , e in confeguenza da
ogni pianeta nella Tua durata medefi- ma, come s’è veduto (a). E ciò per
le relazioni fini- te del Sole dell’uno e dell’altro tempo, tolte dall’
in- finità di tutt’ elle cogli altri oggetti di qualfivoglia tem-
po, per le quali relazioni cialcun dei tre potea conce- pire il Sole , e
didinguerlo dagli altri oggetti , o para- gonarlo con quelli. Quello è
ben vero che la diverlì- tà, colla quale fi concepifcono da piò perfone
al mede- fimo tempo e nel medefimo luogo gli oggetti identi- ci,
farà molto minore di quella, colla quale fi conce- pifcano a tempi e
luoghi diverfi oggetti folo confimi- li , per variar appunto in quello
cafo gli oggetti an- cora da sè medeiìmi , e concorrer cosi non una,
ma due ragioni a diverfilìcarne le immagini . Ond’ è che ne’
diverfi luoghi e a diverfi tempi, fi dovrà ragionare di oggetti conlimili
con più di diverfità, di quel che fi ragioni al medefimo tempo e luogo di
oggeui iden- tici llelfi . IV. Del rimanente quella maniera
in ciafcuno di- verfa d’ immaginare gli oggetti llelfi o confimili ,
fi riconol'ce dai giudici diverlT che fe ne formano dacia- fcuni, i
quali giudici dipendono appunto da tali im- maginazioni. Se quei giudici
fugli oggetti llelfi folTer gli llelfi , allora potrebbe dirli , che
quegli oggetti fol- lerò apprefi e immaginati illelTamente . Ma
giudicando ciafcuni diverlamente del color verbigrazia rolFo o del
azzurro, convien pur dire, le immagini di quelli co- lori eflér diverfe
nelle ciafcune immaginazioni. Anzi fe un giudicalTe del rolTo come un
altro dell’ azzurro , potrebbe dirfi, apprender quegli perrolTo quel
cheque- /V! CAP.
HI. (a) C.7/.M.5. Oesetii co- me
nominati per la fteffa favella. (ù)C.II.n.s.
(e)C.m.n. 2 . •5^ XIV^ ’fti apprendelTe per
azzurro, e viccverfa . Ma ciò non è vero nemmeno e attefa la infinità
delle relazioni di ciafcuni oggetti a tutti gli altri , e la fingolarità
iti ciafcuni di apprenderli (/»), le immagini d’cfTì defta- te fui
ciafcuni cervelli fon fcmpre diverfe , come di- verfi ne fono i giudicj ,
e non folo uno apprende cia- fcun colore, ma li apprende ancor tutti in
vario mo- do da ajuel che li apprenda ciafcun altro , inguifachè il
rollo , r azzurro , il bianco , e il nero imprimati di sè diverfe
immagini fui ciafcuni cervelli non mai le Itelle, e non mai permutate, ma
fempre diverfe e im- permutate, avvegnaché fcmpre conlimili.
P orte quefte confiderazioni fulla diverfità degli og- getti , e
fulla maniera in ciafeuno diverfa di con- cepirli , per apprendere come
querto concepimento fi comunichi da ciafeuno ad altri mediante la
favella, è da avvertirfi, noneflcr certamente portibile il commu-
nicarlo per voci del tutto corrifpondenti , e che il fi- gurarfi un
efatta analogia fra le immagini colle quali s’apprendon gli oggetti, e le
voci colle quali s’ efpri- ntono, è figurarfi un aflurdità . Imperciocché
ert'endo ciafcun oggetto infenfibilmcnte diverfo da ogni altro in
ciafeuna e in tutte le fpecie (b) , dovrebber le voci colle quali
fignificarlo, variar infenfibilmentc com’eflb dall’ altre voci colle
quali fignifìcar gli altri oggetti , ed crtér così le voci tante quanti
fofler gli oggetti in- dividui , appellandofi oggetti confìmili ma
noniilertì, con voci pur confìmili ma non iftelTe in partato , al
prefente e nel futuro; anzi appellandofi con voci di- verfe una rofa
fterta per efempio al mattino e alla fe- ra, e un uomo ftertb prima e
dopo una febbre quar- tana. Oltre ciò per effer ancora le immagini di
que- lli oggetti medefimi nelle ciafcuni menti diverfe (c), o per
apprender ciafeuno gli oggetti diverfamente da un altro, ne dovrebbero
altresì le efpreffioni diverfifi- pre nelle ciafcuni bocche irtertamente
, o dovrebbero le favel- Digìtized by Google
XV ^ favelle cfler tante quante le perfone
favellatrlci , eia- c A P. iV. feuna delie quali apprendendo gli oggetti
così diverfi per relazioni eziandìo diverfe ad altri oggetti ,
dovreb- be altresì pronunciarli in modo diverfo . Ognun poi ..vede
quel che avverrebbe per un fimil garbuglio di fa- velle, per cui non
farebbe poìTibile intenderli fra pa- dre e figlio, o fra marito e moglie
, più che fra gli antichi fabbricatori fcefi dall’ altiflima torre di
Babel- le. Poiché dunque non è poHìbile applicar alia favel- la, nè
la diverfità degli oggetti individui , nè quella delle immagini loro
nelle cìafcune menti, ed è pur ne- celTario che quelle immagini lì
comunichino dagli uni agli altri , per conofeere quelle verità che da
mente nmana polTono concepirfi nello flato di vita morta- le (a);
non refla fe non che gli oggetti s’ efprimano (a)C.I.n.t. per voci identiche
flelTe accordate per confenlo e per ufo , per le quali gli oggetti o le
figure e immagini loro, s’ efprimano non elattamente , ma
proflimamen- te, e non già per quanto farebbe neceflario , ma per
quanto foltanto è poflibile ; in guifachè elTendo tali imma- gini tutte
fimili e tutte altresì diverfe, le voci corrifpon- denti le efprimano
bensì efattamente quanto alla lor , fomiglianza comune, ma non quanto
all'individua lo- ro diverfità. II. Quello è ciò che avviene
in efietto, mentre og- getti precifamente non iflelTi, e non concepiti da
cia- Icuno ifleflamente, s’appellano non per tanto con vo- ci
flefle precife, e un faflb per efempio, un fiore, una ilella fi
proferifeono fermamente con quelli flabili no- mi quafi folTer
indifcernibilmente gli llefli , e li con- cepiflero ifleflamente, quando
per verità non lo fono, e fono da ciafeuni ^preli in maniera diverfa .
Con ciò fi vede, come effetto della favella è quello di re-
llrigner il numero degli oggetti e dellefimmagini loro indeterminato e
infinito, a numero tanto finito, quan- to quel delie voci colle quali
fogiiono profcrìrfi gli og- getti medeOmi per quanto fono confnnili , e
non per quanto fono diverfi , giacché alla ìftcflTa voce d’ una lUlla ,
d’ un fiore , d’ un fafTo non fi deflano in ciafcu* ni le flelTe immagini
, ma fi deflano tanto diverfe , quanto quella (Iella, quel fiore, quel
fallo cosi appel- lati fono individualmente variabili, e fi riferifcono
da ' ciafcuni non agliflefli, ma ad oggetti altri diverfi pur
variabili, ed apprefi diverfamente, e appellati tuttavia per quelle voci.
Un tal lavoro poi non può feguire , che mediante cert’ ufo e certa
convenzione di quei par- ticolari che piò comunicano di immagini e di
voci , di appellar appunto con voci immutabili e precifa- mente
ifleffe, oggetti individui e immagini loro, che non fono le flelTe colla
precifione medefima , fia per sè fia nelle ciafcune apprenfioni; o di
appellar verbi- grazia col nome immutabil di rofa un oggetto tanto
variabile quanto una rofa, e lo flelfo dee dirfi d’ogni uomo e d ogni
altro oggetto particolare per sè vario, ed apprefo da ciafcuno in vario
modo, ancorché pure confimile . La qual convenzione e il qual ufo è
ar- bitrario, e libero, mentre come fu convenuto di appel- lar r
acqua e il fuoco con tali denominazioni , cosi niente impediva che non fi
convenirle di appellare al- Jincontro 1’ acqua col nome di fuoco , e il
fuoco col nome di acqua. Perché poi poflbno gli uomini convenire
di chiamar gli oggetti per quanto fono confimili con al- (j)C.iK.
w.i. gypg yQgj jjQj, poflono convenire di render quegli oggetti
cosi invariabili come quelle voci , o di concepirli ciafcuni al medefimo
modo ; quindi avvie- ne che r analogia delle voci invariabili cogli
oggetti variabili in sè fleflì, e nelle ciafcuni immaginazioni ,
non può verifìcarfi che molto imperfettamente , o in quanto fi affuman
per oggetti invariabili , quelli che in effètto non fon tali che per
approlTimazione , va- riando eflì d’altronde del continuo per gradi
infenfì- bili e indeterminabili. In fatti quelli oggetti eie ma-
niere di concepirli , cangiano del continuo non can- giangiando le
voci colle quali s’appellano , ed emendo le voci in ogni lingua tanto
finite, quante poffononume- rarfi ne’ Dizionarj, gli oggetti e le
immagini loropof- fono dirfi tanto finite, quante le innumerabili
modifi- cazioni di moto, dal qual derivano quelli, o le innu-
merabili relazioni degli uni oggetti a tutt’ altri , dalle quali derivano
quelle in ciafcuno . Il qual ciafcuno benché apprenda oggetti finiti per
relazioni finite, per eller però quelli e quelle in infinito variabili ,
li ap- prende in guifa diverl'a da quella d’ ogni altro , febben in
guifa d’ogni altro conlimile (<?), per le medeli me leg- gi di moto,
per le quali fi confervan gli oggetti, pro- ferendoli però lempre per le
ftelfe invariabili voci d’ ogni altro. Onde redi pur llabilito, la
moltitudine di oggetti e d’ immagini loro nelle ciafcune menti ,
ef- fer a numero incomparabilmente maggiore della mol- titudine
delle voci , colle quali pofian quelli denomi- narfi ed efprimerfi . Un
contralTegno efpreflb della det- ta imperfezione d’ analogia fra le voci
, e le immagini d’ oggetti per effe fignificati è quello , che
ciafcuno nello fpiegare altrui le proprie immaginazioni oi pro- pri
fentimenti d’animo, non trova cosi pronte le vo- ci che gli occorrerebbero,
ech’ei defidererebbe , come trova le immagini, e non v’è cofapiù
familiare, quan- to il dolerfi uno di non poter per voci dar così
be- ne ad intender ad altri ciò eh’ ei fente e intende per sé
medefimo , di che gli amanti foglion lagnarli il piò fpeffo. Ciò che non
può derivare , che dal conofeerlui molto bene, che gli altri per quelle
voci non appren- don gli oggetti per elle efpreffi, com’ei le apprende
, ma li apprendono in modo piò o meno diverfo, e che quelle voci
dellando nelle altrui menti non le lleffe, ma confimili immagini ,
fpiegano ad altri una verità apprefa fempre con maggior chiarezza da
quei che la proferifee , che da quegli cui vien proferita . Lo che
fi verìfica tanto delie menti piò chiare che delle piò confufe , effendo
certo che ficcome un uomo fensato per quanto ei fia eloquente , intende meglio
i fuoi penfamcnti di quel che gl’ intendano altri ai quali ei li
fpieghi per voci ; cosi un inCenfato ancora , benché non intenda lui
ftelFo quel che vuol dar ad altri ad intendere, è però fempre mcn capito
da altri di quel eh’ ei capifea sè HelFo, ed è fempre men
feimunitoin sé , di quel eh’ ei fia concepito da altri. Applicate
come fopra una volta alcune voci ad Oggetti co- jlA. alcuni oggetti in
certo luogo e a certo tem- ine nominati po (^), fe quelle voci come fono
finite riguardo a per favelle quegli oggetti , così il follerò riguardo a
fe ftellé , ® avellerò con quegli oggetti una necclTaria
connef- (a)C./K.w. 2 . fjQfjg . qiie(p applicazione avrebbe dovuto elTere
uni- verfale di tutti i luoghi e di tutti i tempi , e non v’
avrebbe al mondo che una favella , la quale for- mata una volta , fi
farebbe prefervata dappertutto la fiefla , invariabile per tutti i fecoli
, per efprimer gli oggetti per quanto almen fono fimili , fe non
(l)C.iy.n.t. per quanto Ibno diffimili (6). Il fatto però è, che febbene
le voci lian finite riguardo agli innumerabi- li e infiniti oggetti per
elle efprefli , fon però elle pur innumerabili e infinite riguardo a sè
medefimc , fenza perciò avere quella infinità relazione alcuna con
quella ; mentre laddove quella degli oggetti dipende dagli infiniti modi,
coi quali procede il moto , che per le ItdTe invariabili leggi li
prelerva e li rinuo- va in ciafeuna e in tutte je fpecie (c); quella
del- le voci dipende dai moti pur infiniti, co’ quali l’aria fiella
può ufeir dalle labbra, fpinta e percolla dagli or- gani della favella ,
e quei modi non àn che fare con quelli. Quindi apparifee perchè le lingue
abbiano ad elTer diverfe a diverfi tempi e nei diverfi luoghi ,
perciocché elléndo le maniere, colle quali le voci pof- fono articolarfi
infinite , c dovendo elle adoprarfi a numero finito per elprinier oggetti
mcdelimi e con- fimili, benché infiniti j non v’à ragione perchè a
quell’ 'it XIX ?$- nfo s’adoprino l’une anziché
l’altre di effe, o perchè CAP. vA un faflo , un fiore , una della
appellati ora in Italia con quedi nomi , non fodero appellati o non foder
per appellarli ad altri tempi in Italia o altrove con nomi diverfi.
Per quedo s’è odervato, gli oggetti non appel- larft con certe voci , che
per convenzione particola- re (a) divifa fra quei che più comunicano d’
immagi- (^a)C.iy. «.i. ni, a efclufione di tutt’ altri chemen comunicano,
non potendo quelli eder mai tutti. E perchè l’infinità delle voci
nonà alcun rapporto a quella degli oggetti , quin- di è ancora che una
tal convenzione non è neccllaria per certe voci , ma è libera ed
arbitraria per tutte , e dove s’applicano ad oggetti dedì e confimili
alcune di ede, dove alcun’ altre, e quando quelte, quando quel- le,
fempre diverfe perchè Tempre finite, tolte dall’in- finità loro intiera.
Se l’tina infinità fode relativa all’ altra , il farebbero pur 1’ una
all’altra quede applica- zioni, ma moltiplicandofi allora le lingue colle
imma< ginazioni delle perf>ne in infinito, ne feguirebbe
quel- la babilonia di lingue odèrvata di fopra (b) per cui non
{b)C.lV.n.t. farebbe più podìbile fpiegarfi gli uni cogli altri , e
per eder quede infinite quante le perfone di tutti i tempi e di
tutti i luoghi , non farebber nediine in alcun luo- go , o ad alcun tempo
. II. Come poi egli avvenga, che le lingue una vol- ta
introdotte fi cangino in altre ai diverfi tempi e ne’ diverfi luoghi , fi
comprenderà da ciò , che dovendo gli oggetti per le voci didinti eder gli
dedi per le dede invariabili leggi di moto, ma dovendo ciafeuni in
ciafeuna fpecie rinovarfi con infenfibili difparità per le infinite
modificazioni o mifure di quedo moto medefimo (c)j dovranno dunque efll
appellarfi per le (f)C. //. ». 2 . voci una volta loro affide e applicate
, in guifa però che confervandofi quede le dede per lo primo
riguar- do , fi vadano infenfibilmente alterando e degenerando in
altre per lo fecondo . Queda ragione s’ avvalora e s’accrefee per le
nuove arti, per le quali gli oggetti C amedefimi e confìmilì fi fan
fervine a nuovi ufi , a(Tu- mendo eflì quindi pur nuove denominazioni c
divcrfe di pria , e introducendofi nelle lingue nuove voci a
efclufione di altre all’ introdurfi di nuove arti , collo fmarrirfi delle
antiche. Dell’introduzione di nuove voci in qualfivoglia lingua fon prova
evidente tutte quelle, che nelle lingue vive fervono all’ arti di nuovo
introdotte nella milizia, nella meccanica, nella fiampa , e fimili
; o quelle colle quali fi fpiegano le nuove foggie di vediti, di mobili ,
di utenfili e così feguendo , le quali prima dell’introduzione di tali
arti e foggienon potevano avervi. E della perdita delle antiche fono
in- dizio quelle innumerabili nelle lingue morte, fulle qua- li
indarno fofifiicano gli eruditi per trovarvi il figni- ficato nell’ arti
ed ufi di oggetti prefenti, quando me- glio dovrebbero non penfarvi ,
come ad appartenenti ad arti ed ufi di oggetti già fmarriti , e la cui
cono- fcenza col fignificato di tali voci rimarrà fempre irre-
parabilmente perduta . Perciocché il figurarfi che al for- ger di nuove
arti o di nuove maniere di fuflillere non abbiano generalmente a
fopprimerfene e a perire altrettante, è una puerilità e debolezza di
mente, per cui fi credan gli uomini in genere più fiupidi o più
fvegliati , e più taciturni o più loquaci a un tempo che a un altro, ciò
che non fi darà mai ad intendere a chi meglio intenda la fpecie umana , e
la natura ge- nerai delie cofe. Variando dunque infenfibilmente gli
(«)C. //.».*. oggcìt* loro ufo per ordine di natura (a), e quindi per
difpofìzione d’ arte ; le lingue altresì debbono va- riare infenfibilmente
per efprimere quegli oggetti e quegli ufi , finché col lungo corfo di
fecoli quelli e que- lle prendano nuovi afpetti , refiando gli oggetti
gli rteflì per le fiefie leggi di moto, ancorché diverfi per le di-
verfe modificazioni di quello ; e refiando le lingue pur le lleflè per la
llelTa perculTìone d’aria dai polmoni fo- Ipinta , ancorché fempre
diverfe per le diverfe articola- zioni di voci provenienti da quella
percufiione, modificata in varie maniere. Ad accrefcer però e ad affretta- CAP.
V. re moltiffìmo una fimile alterazione e rinovazione di lingue, s’
aggiugne la mefcolanza di popoli di lingue diverfe che comunichino di
favella; perciocché appel- lando gli uni e gli altri oggetti fteffi o
confimili con voci diverfe , e non avendo ciafcuni maggior ragione
di così appellarli , è pur forza che riefcano a inferir gli uni le loro
voci nelle voci degli altri , onde imballar- dite così le lingue , vengan
di due a formarfene una o più altre di quelle compone , e da quelle del
pari diverfe . III. Egli è poi da oflervare, come per cffer
gli og- getti confimili fempre divertì , e per eflere una tal di-
verfità molto più notabile a tempi e in luoghi difpa- rati (a) ne’ quali
s’ufino favelle diverfe, che alloflef- v.]. fo tempo e luogo, ove
non fe n’ufi che una ; quegli oggetti efprelTi in un tempo e luogo con
favella d’al- tro tempo e d’altro luogo, non fi concepifcono perciò
quali furono o fono a quei tempo o in quel luogo na- tio, ma feguono a
concepirfi quai fogliono in quello, colla fola diffferenza di replicarli
così in mente , e di cfprimerli altrui con favella ancora ftraniera .
Cosi le produzioni ftefre di animali, di piante, di minerali , più
diverfe nell’ antica Italia e nella prefente Inghil- terra di quel che il
fiano nell’ Italia prefente, efprelTe qui ora colle voci italiane antiche
o colle prefenti inglelì , non fi concepifcono quali erano in Italia
anticamente o quali fono al prefente in Inghilterra , ma quali fono
al prefente in Italia. £ febbene per la voce 'uir fi fì- gnifìcalfe
verbigrazia allora in Italia un uomo come un Lentulus , e per la voce man
fi lignifichi ora in In- ghilterra un uomo come un Richard, e per la voce
uomo fi concepifca ora in Italia untale comeunGiam- pietro; per
tutte quelle voci vir^ many e uomo fi con- cepirà ora in Italia del pari
un tale come un Giam- pietro, e non mai come un Lentulus o come un
Ri- chard. Lo che fi dice per avvertire, che la cognizione
delle lingue morte o vive Oraniere, non amplifica per nulla la
cognizion degli oggetti , ma carica foltanto la mente di più termini
d’eflì apprefi ad un modo folo, diritto o torto ch'ei fiafì, lafciando
cìafcuno nello fla- to d’ ignoranza o di dottrina, nel quale d’altronde
ei fi trovi . Certo è che quantunque ciafcuno apprenda gli oggetti
diverfamente da tutt’ altri , per appellarli con più nomi non li apprende
con più maniere , o colle maniere degli altri , ma fegue a concepirli
all’ ulato fuo modo . Ond’ è che per apprendere più lin- gue n
apprendon più voci , per le quali replicar in mente gli oggetti , e
comunicarli a perlone di lingue- dìverfe non diverfamente all’une che
all’ altre , fcnza apprender perciò niente di più fu quelli , o fenza
ac- crefcer per nulla le proprie cognizioni ; quand’ ancora la
mente occupata ed ingombra dalla farragine di quei moltiplici termini
fugli oggetti medefimi , non reflafT'e perciò impedita dal concepirli con
più chiarezza e con più precifione, reflando così le cognizioni fu effi
tan- to più limitate e riftrette, quanto apprefe per più ma- ni di
lingue , come v’ù gran luogo di dubitare.. CAP. VI. /^Uella
diverfltà e refpettivamente fomiglianza, che Della divef- V^_s’è veduta
correre fra gli oggetti della (lefTa e fità poffibile di diverfe fpecie ,
e fra le maniere diverfc di (^)> è manifefto dover molto più
ampia- C./i/ » " ^ver luogo fra le combinazioni di quelli
nelle ciafcune menti, le quali combinazioni cosi faranno di-
verfe e confimili non folo quanto gli oggetti , ma quanto altresì pofTono
quelli confimilmente combi- narli o accoppiarfi infieme a numero minore o
mag- giore , feparatamente gli uni dagli altri . Da quelle
moltiplici combinazioni d’ oggetti in ciafcuni diverfe procede
quell’ordine, per cui gli uomini diverfificanod’ inclinazioni, di genj ,
di temperamenti, e quindi di maniere di penfare e d’operare, ciò che
coflituifce i di- vcrfi cojìumi loro ne’ divcrfi luoghi e ai diverfi tempi.
Imperciocché llante una fimile diverfità di oggetti c A P. VI.
diverfamentc combinabili, non farà poflìbile che s’ac- cordin eglino di
applicare tutti ad oggetti delle ftelTe fpecie, ma dovranno applicare
quali all’une, quali all’ altre di quelle, e quando a quelle, quando a
quelle , per riferirli cialcuni e combinarli con altri oggetti di
tutte le fpecie diverfamente , onde deriveranno appunto le moltiformi
inclinazioni e coHumi fuddetti . Quindi apparifce la necedìtà di una
limile diverfità di collumi negli uomini adunati ancora più Hrettamente
infìeme , la qual procede dall’ impodìbilitàfuddetta di applicar
cia- fcuni in particolare, e più ancora di ellì in comune , alle
ftelTe fpecie d’oggetti, e di combinarli e riferirli fempre al medefimo
modo finito , quando tali fpecie d’oggetti e tali modi di combinarli e
riferirli fono infi- niti, e il finito tolto dall’infinito in palTato,
alprefen- te , e nel futuro per infinite fiate ancora fe fia polfibi-
le , è fempre diverfo {a). Quella diverfità d’opinioni C. Il.n.i. e di
combinazioni d’immagini, per ufo di combinare ciafcuni più
particolarmente oggetti d’ alcune fpecie in luogo d’altre, è cofa
familiare, e fi manifella ai fre- quenti incontri per le impreflioni diverfe
degli ogget- ti medefimi fulle menti di quelli, che lìan più o me-
no avvezzi ad apprenderli, e a combinarli. Ed è cer- to l’incantefimo per
efempio del villano fra i cittadi- ni , l’orgoglio del cittadino fra i
villani, laprelunzio- ne del cortigiano fra i dotti , la noja del dotto
fra i cortigiani, non proceder da altro, che da maggior ufo in
ciafcuni di quelli di combinare più particolarmen- te oggetti di diverfe
fpecie , nelle varie circollanze nel- le quali ciafcuni fi trovano.
II. Chi poi da una fimile diverfità d’opinioni eco- fiumi riputalfe
derivar difordine e fconccrto fra gli uo- mini , s’ ingannerebbe di molto
, perciocché per quanto diverfi fian gli oggetti apprefi e combinati più
fre- quentemente da ciafcuno, purché le combinazioni co- gli altri
ne fiano armoniche, e conformi alla llelTaragione comune, non potran quelle
elTere che pur (,a) C.I. ». 2, confimili, e perciò conformi fra elle, nè
potran i co- dumi che ne derivano effer difcordi o generar fra cfli
difordine, eflendo anzi tutti in ordine a una ftelTa ve- rità o comun
ragione. In eflètto rcflTer le opinioni e i coflumi diverfi non toglie
che non poffan elTer con- fimili , e ficcome gli oggetti fon confimili
per la fem- plicità e invariabilità delle ftedè leggi motrici , per
cui Il confervano c fi rinnovano in cialcuna e in tutte le l'pecie,
e fono diverfi per le diverfe mifure e modifi- cazioni, colle quali
procede quel moto in ciafcuniper le medefime leggi ; all’ ilidìo modo le
combinazioni loro, e i cofiumi che ne derivano, fon pur confimili
nella loro diverfità, per una ragione comune invaria- bile in sè fiefia ,
ma variabile nelle fue modificazioni , lecondo le quali quegli oggetti fi
a ppret\dono, e fi com- binano da ciafcuni . Che le fi domandi un
rifcontro, per cui conofcere quella conformità di coftumi colla
ragione comune, fi dirà quello efl'er quello, per cui ap- parila, che
elTendo elfi utili a sè niedefimi , il fiano altresì agli altri , lenza
che alcun ne rifenta nocumen- to od oltraggio, mcrcecchè fe elfendo
quelli a sè uti- li, fulfero ad altri nocivi, allora non firebber elfi
alla comun ragione o alla verità di natura conformi , la quale è
Tempre concorde e non mai a sè lidia oltrag- giofa; ma làrebber in
conformità all’errore o alla ra- gion particolare d’ alcuni a quella
comune contraria , dillruttiva disè medefima neila dillruzione degli
altri, li) C.T, n. 2. come s’è dillinto da principio [b). Con ciò
apparifee , come la diverfità di com- binazioni d’immagini, e quindi
d’opinioni e collumi, non folo non apporta difordine in matura, ma ne
co- llituifce aU’oppolto l’ordine e la concordia migliore , purché
non s’ allontanino dalla llelTa ragione a tutti comune, ciò che può
avvenire in infiniti modi; e in tai modi appunto diverfi fi dirà pollo
l’ordine e l’ar- (c) C.II.n.4, monia medefima di natura morale (c), come
ne’ modi di combinazioni in conformità alle ftefTe legni mo- c a"?
VI trici filiclie, è polla l’armonia di natura pur liiTca. E invero
dall’ applicare gli uomini di concerto, quali fu alcune, quali lù altre
fpecie d’oggetti più particolar- mente, ne proviene che le cognizioni fu
effi e per erti refpettivamente s’accrefeano , e gli uni accorrano
in foccorfo degli altri, derivandone quindi quella perfua- lìone e
prudenza umana , per la quale ciafeuni per quanto è polìibile , ne’ varj
ullicj , profertioni e modi di vita per erti intraprcli piacevolmente
fulfirtono . Senza ciò combinando ciafeuni calualmente gli
onnet- ti fenza fcelta e fenza difeernimento di fpecie, non s’
' avrebbe che confufìone , e per clTer gli uomini di tut- te le
opinioni, i collumi c le profellioni , non fareb- bero di nellune. Ov’è
da oU'ervare altresì l’iinportìbil- tà in alcuni foli di riconofeer tutte
le azioni e tutti i cortumi , per quanto fian quelli utili a tutti , e
con- formi alla coniun ragione, dovendo una tal conofeen- za
dipendere dalla ragione appunto comune , e non mai dalla particolare di
quegli alcuni . Se quello folfe portabile , la natura avrebbe dertinati
gli uomini non in foftegno, ma a carico ed oppreHione gli uni degli
altri, e avendo formato alcuni foli intendenti ed atti- vi , avrebbe
collituito tutti gli altri llupidi e inerti . Egli è ben
necellario, che alcuni riconofeano le azio- ni e i collumi tutti, per
quanto forter quelli contrarj al bene e alla ragione a tutti comune, al
qual fine fu- rono illituiti i Governi de’ popoli; mentre il
conofeer fe un’azione coll’crter utile a sè il fia pur ad altri, o
fja ad altri nociva, è dato ad ogni uomo in partico- lare , e martime a
chi è dertinato a quella conofeen- za. Ma il prefumer alcuni* d’
inventariare e regolar tutte le azioni , i collumi , le opinioni e le
profèlfio- ni, per quanto fian utili a tutti, è un prefumer d’efler
quei tali di tutte le azioni , i collumi , le opinioni e le profertìoni ,
cofa allurda , non elTcndo ciò dato dalla natura ad alcuni in particolare
, ma agii uomini in generale di tutti i tempi , e di tutti i luo-
IV. Infatti poiché le combinazioni di oggetti fono infinite non
folo in tutte le fpecic, ma in ciafeune an- cora di e(fi, e non può
intelletto umano apprenderne che un numero finito ; e oltre ciò poiché
gli oggetti non fi combinano che per conol'cere le verità fu effi c
per efiì , e tali verità non poffono rilevarfi per tali («) C.L ». 1 .
combinazioni, che pel confenfo di molti fu quelle (a); iàrà dunque
forza, che molti concorrano ad apprende- re c combinare , quali oggetti
di alcune fpecie, quali di altre particolari, clTendo cosi altri di
alcune , altri di altre inclinazioni e collumi meglio intefi e iftruiti
, a efclulìone limile di tutte le altre; non efi'endo d’al- tronde
poHibile che tutti gli uomini, ciafeuni de’ qua- li debbono apprendere e
combinare alcune fpecie fole d’oggetti finiti; delie infinite fpecie che
ve n’ ànno, s’ imbattano ad apprenderli e combinarli delle lleflè
fpecie finite a efclulìone delle infinite altre , e in tal guifa ad eflér
tutti d’un umore, d’ un’ inclinazione , e {b)C.VI.n.\. d’ un collume (é).
A quello modo fi può dire , eh’ tlfendo le immaginazioni d’oggetti
diverfe, edelfendo pur diverfe le opinioni e i collumi , fra 1’ una e 1’
al- tra diverlità v’ à però quello divario , che elfendo la prima
in riguardo a ciàlcun uomo, la feconda è in ri- guardo a più d’ elTi , e
che non avendovi pur uno che (i) C.III. H. 2 . immagini gli oggetti come
un altro (r), ve n’àn pe- rò moltilTimi della llelfa opinione c collume ,
diverfi dalle opinioni e collumi degli altri; in guilàchè ladi-
verlìtà di opinioni e collumi, anziché divider gli ani- mi, tenda ad
unirli dalla diverlità molto più amplafra le loro particolari
immaginazioni col vincolo d’ una loia ragion comune, alla quale quelle
opinioni e quei collumi , avvegnaché diverti , fian pur femnre
confor- mi. Lo che non avviene indarno, ma è llabilito con provida
dilpcfizione , alfine di verificare l’armonia del- le immaginazioni
diverfe per la conformità delle opinioni confimili (<j), giacché la
diverfità poid’opinio- CAP. VL~ ni fra tutti non induce confufione o
difcordia fraefll, («) c.'l. t. per la uniformità appunto di molti in
ciafcuna di ef- fe , e per non opporfi nelTuna alla ragion umana
co- mune, della quale anzi ciafcuna opinione particolare co-
itituifce una parte, ed è modificazione particolare di- verfa. Certo è,
che ficcome la diverfità degli oggetti immaginati non confonde la natura,
anzi ne coltitui- fce la vaghezza e perfezione migliore ; cobi la
diverfi- tà delle opinioni e cofiumi, che di quella è la conle-
guenza, non incomoda alcuni come quella che cofti- tuifce anzi la varietà
delle azioni , e colla varietà la libertà , che di quelle azioni è il
carattere più gradi- to e migliore, efléndo così ladiverfità de’ colìumi
uma- ni tanto necelTaria all’umana fulTidenza, quanto ladi- verfità
nelle fpecie d’ oggetti lo è nella natura univer- fai delle cofe-
V. Per altro ciò che fa credere come fopra (4), che WC.Ff. n.i- la
diverfità degli oggetti combinati, e de’ coflumi che ne procedono,
apporti confufione edifordine, è l’equi- voco di confondere la diverfità
colla contrarietà di dii oggetti e coflumi , e di prender quella per
quella , non potendo negarfi , che per opinioni e coflumi
repugnanti e contrari non s’apporti fconcerto e non fi dia moti- vo
a difordini, ciò che non è da temerfi per opinio- ni e coflumi diverfi.
La contrarietà però è tanto lun- gi dalla diverfità in tutte le cofe ,
quanto è appunta ad effa contraria , ed è quella tanto implicante
nelle immagini degli oggetti e ne’ coflumi che ne derivano, come lo
è negli oggetti tutti creati , i quali pofìbno bensì efler diverfi , ma
non mai contrari , per dover efier tutti confimili , e poter bensì la
fomiglìanza aver luogo fra gli oggetti diverfi , ma fra i centrar) non
po- terlo avere giammai, come per più induzioni e rifeon- tri fi
farà chiaro qui in feguito. Della contrarietà im- pofTibile
de’ coflumi . (o)C.P/.».i. P ER meglio comprendere le
cofe fuddette è dacon- fiderarH , gli oggetti de’ quali fi tratta , e dai
qua- li procedon le immaginazioni , le opinioni , e i collu- mi
umani (/*), non poter efferc che gli efjftenti , po- litivi, e creati, e
non mai i negativi , non efiftenti , e non creati , i quali non vi fono ,
e non fon nulla . Polli poi alcuni oggetti pofitivi , i negativi loro
con- trari non poter efl'er pofitivi giammai , e in confeguen- za non
poter efl'er del tutto , e pertanto gli oggetti contrari efler del tutto
impoflibili . In efletto fe og- getti tali folfer poflìbili ed efiftenti
, rimarrebber di- brutti gli uni negli altri nella loro efillenza
mede- fima , nè vi avrebber più quelli nè quelli • e il fu- premo
artefice della natura farebbe autor ai contra- ri , o farebbe un
principio contradittorio e implican- te lui Ueflo, vale a dir nullo ;
quando pur non pia- cefle ricorrere al ripiego di due principi in natura
con- trari ed ambo efiftenti , per il’piegar appunto codefta
fuppofta contrarietà di oggetti pofitivi cercati ; ripiego adottato in
vero da alcune menti fupcrficiali, ma tanto pur contradittorio e allurdo
elio llelfo , quanto la fup- pofizione medefima , a fpiegar la quale fu
vanamente chiamato in foccorfo . Il fuppor gli oggetti pofitivi c
creati contrari fraeflì procede da materialità di mente, per cui fi crede
contrario all’altro quel che fembra di- ftrugger l’altro fol perchè il
vince d’ efletto, e fi crede cosi uno di quelli negativo dell’altro,
quando fon tutt’ due pofitivi del pari , e quella apparente
dillruzione non procede da qualità contraria , ma da forza mag-
giore, per cui uno fupera la forza dell’altro, e non la vince nella parte
che per prefervarla nell’ tutto . Cosi r acqua per efempio gettata fopra
un incendio , fi dirà fpegner il fuoco , non perchè ad elfo contra-
ria , o il negativo di quello , ma per impedir al fuoco di diftrugger il
tutto. E all’ iftelfo modo fi di- rà, una fornace di fuoco aflorbire e
vincere una pinta d’ acqua fparfavi fopra , per l’ attività allora fupe- e A P.
VII. riore del fuoco nel confervare fe flelTo , e del par pofitiva
a quella dell’acqua, giacché nell’ uno e nell’ altro cafo ciafeun di
quelli elementi efercita tanto di fua polla full’ altro , quanta ne
efercita quello fu quello , accordandofi così entrambi anco a collo
di loro ellinzione particolare, per la confervazione lo- ro e delle cofe
comun politiva , e non mai per la di- flruzione loro e comune , eh’ è
negativa , impolfibile , e nulla. II. Se li domandi un
contralTegno , per cui dillin- guer gli oggetti politivi e efillenti dai
negativi e ine- lidenti, giacché dal volgo fi confondon gli uni
cogli altri, fari facile additarlo in ciò, d’eU'er quelli fufeet-
tibili di piò modificazioni o mifure, quando quedi il fon di nellune,
come il nulla ch’é appunto di nelTu- na mifura e non efide . Cobi 1’
acqua e il fuoco fud- detri perché fufcettibili di piò modificazioni e
mifure, fi diran politivi ed elidenti del pari, avvegnaché cre-
duti negativi e contrari l’uno all’altro. E all’incontro il calore, la
luce, il moto , il pieno creduti contrari e negativi del freddo , delle
tenebre , della quiete, e del voto , faranno tali in effetto , per elfer
quelli di piò modi , quando quelli il fon di neffuno . Ma per quedo
appunto faran quelle qualità create pofitivc ed elìdenti, quando quede
faranno non create, negative, e inefidenti, o non elideranno che nella
mancanza di quelle. Con ciò fi dirà, il volgo ingannarfi nel primo
cafo col creder l’acqua contraria al loco, quando èfol- tanto da quello
diverfa, e non ingannarfi nel credere quedi due elementi del pari
efillenti ; e nel fecondo fi dirà lui ingannarfi all’incontro nel creder
quelle quali- tà tutte efìdenti , non ingannandofi nel crederle
con- trarie , mentre per quedo appunto eh’ efiflono il cal- do, la
luce, il moto, il pieno che fon di piò modi ; i contrari loro freddo ,
tenebre , quiete e voto che non fon di nclTun modo di quelli, non
potrebber fuffidere. E in vero col toglier del tutto il calore, la luce.
Il moto , 1’ eftcnfione , non è che fi generi cofa alcuna pofitiva,
come freddo, tenebre , quiete , voto, ma è foltanto che annichilate
quelle qualità nelle fofianze create , vi rimangon quelle come nulla di
quelle , giacché il negativo è nulla di quel che nega fenzaef- fer
cola alcuna per sé pofitiva , e gli oggetti o follan- ze create di calde,
lucide, mobili, ed ellefe che fono in più modi , tolte quelle qualità ,
rellan non calde , non lucide, non mobili , e non ellefe ad un modo
, vale a dire a nelTun di quei modi. III. Quel che s’ è qui
detto degli oggetti creati fi- fici, dee altresì applicarfi ai morali,
oai collumi uma- (j) C.ILti.t. jjj come fi li avvedrà dall’appiicarlo
alle umane palTioni figlie delle imprelTioni di quegli oggetti, e
ma- dri di quelli collumi . Imperciocché tali palTioni ef- fendo
fra sé diverfe, e fullillendo come tali , non fo- no fra sé contrarie , e
come tali non potrebber fulfi- llere che con ripugnanza e contraddizione,
eh’ è quan- to a dire non potrebber fulTillere in modo alcuno. In
ell'etto l’amore, la compallione, la giullizia, la liber- tà, e r altre
virtù morali fon tutte palTioni pofitive , create , ed efillenti ; e 1’ odio
, l’ ingiullizia , 1’ oppref- fione, la crudeltà tenute volgarmente per
palTioni vi- ziofe a quelle contrarie, non elìllono altrimenti come
tali, ma fono all’incontro quelle prime palfioni mede- fime che in luogo
di adoprarfi in ufo comune e pol- fibile , per lo quale fono create , fi
adoprano in ufo particolare e negativo, per lo quale non fono create
e fono impolfibili. La contrarietà dunque delle palfioni non é tale
in sé llella , ma é apprefa per tale dalla dillruzione che fi feorge per
elTe nel particolare per p'fefervare il comune , come la contrarietà
degli ele- menti è apprefa dal vederli uno vincer l’altro nel par-
ticolare, quando quella vincita é intefa a prelèrvar 1’ (6) cyjl.n.t^
univerfale (A) . Con ciò fi dirà , che quel che fa le palfioni pofitive ,
fia lo llcnderfi efiTe.da sé ad altri , con che la fpecie umana fi
conferva coll* ordine dina- CAP. VII. tura creato c che fuflìfte; e che
quel che la fa nega- tiva, fia il concentrarfi effe in sè llcffe con
danno d’ altri , contro quell’ ordine che non fuflìfte , e per lo
quale il tutto fe fofle poflìbile s’ annullerebbe e an- drebbe in
difperfione ; lo che però non avviene per la provida natura , che
converte quel difordine partico- lare in ordine univerfale- Tal
Tinterefle per le foftan- ze fparfo da sè ad altri, s’appella equità,
prudenza , gratitudine, e tali altre virtù confervatrici ; e
riftret- to insè folo, degenera in avarizia, ingiuftizia, ingra-
titudine, per le quali contro natura tutti languirebbe- ro e perirebbero
. L’ ambizione di onore , di potenza , grandezza e fimili , difufa da sè
ad altri , è virtù d’ ordine, e di concordia pofitiva; e confinata in sè
fo- lo, è vizio di fuperbia , di oppreflìone, e di difpotif- mo .
L’ amor di fenfo fparfo da sè ad altri , è amor pudico, amiftà,
compaflìcne, per cui la fpecie fi pro- paga e fuflìfte; e raccolto insè
folo, è lafcivia, odio, crudeltà, per cui refterebbe la fpecie fpenta e
diftrut- ta. In fomma qualfivoglia paflìone , eflèndo virtù con-
fervatrice fra tutti difufa, lì cangia in vizio diftrutto- re di tutti
col contrarfi in sè folo ; e finché le foftan- ze, gli oi»ri, i piaceri
procurati per l’interefle, l’am- bizione, famore, colfeller proprj fi
dilatano ad altri, quelle paflìoni fono virtù, non illando la reità di
el- le nel procurare il bene per sè , ma nel toglierlo ad altri , o
ne! procurare il proprio utile e piacere con altrui feiagura , onta , od
inganno . Perchè poi tutti certamente fuflìftono , e finché ciò avviene
non è da dire che tutti non fufliftano , fi diranno le paflìoni ef-
fer fempre virtù pofitive e come tali fulfiftcrc , e co- me vizj a quelle
contrari o negativi di quelle , non fuf- filter efle giammai ( « ) ,
eflèndo tanto contraditto- (j) C.VlI.ti.\. rio che fulTiftano inficine
vizj e virtù fra sè contra- ri , quanto che gli uomini tutti fufliftano e
non fuf- fillano . Non dubito, che quello dichiarare cosi
ampia- mente, che le paflìoni non fufliilano come vizj, non abbia a
parer Urano e (ingoiare a quei poveri di fpiri- to, a’ quali fembra molto
bene veder i vizj trionfare in alcuni. Lo sbaglio però di cortoro Ha, nel
confonder che fanno il particolare col comune degli uomini , e
nello (lar colla mente pur fitti in quello, come chiufi con quello in un
facco, quando la natura e il grande fuo aurore non opera che per lo comune,
e ogni parti- colare alforto e immerfo ncH’univerfale fi perde del
tut- to e s’annulla. D’altronde fe il vizio è contrario alla (j) C.
in, virtù ei contrari non fon pclHbili (//), poiché la vir- 3 -
certamente fudllte, il vizio dunque non può dirli che ludiila che
per equivoco. E quell’equivoco fi dirà proceder da vuote immagini, per le
quali fi prendono a torto per politivi , oggetti che non fono che i
nega- tivi di quelli; e quindi fi apprendono gli uni e gli al- tri
per eiillenti, quando per verità i negativi perquefio appunto che
fiifiiilono i pofitivi , non potrebber lulli- (lere c(Ii (ledi . Cosi
quantunque gli oggetti detti volgar- mente contrari, li prendano a
vicenda per, pofitivi e p.r negativi gli uni degli altri, è certo
nondimeno i pofi- tivi (oli eilere efillenti creali, ei negativi
noncnérche il nulla di quelli, o il nulla alfoluto , il qu^l non
fuf- fille, o (udìile folo nella negazione del pofitivo . Per la
qual cola il contrario dell’ amore , della compadio- ne, della equità ,
della libertà come (opra, non è 1’ odio, la crudeltà, la iniquità eia
opprefTione come volgarmente è creduto , ma è il non amore , la non
equità, non comp.idione, non libertà che non fudìllo- no , come il
contrario del fuoco c dell’acqua non è 1’ acqua o il fuoco , ma il non
fuoco, e la non acqua che pur non vi fono. V. Quelle
coiifiderazioiii fulle padroni umane , che elTendo virtù diverle non fon
mai vizj contrarj a quel- le virtù , fan conofeere, che i codumi altresì
che ne procedono , pollono bensì clfer diverlì , ma non mai contrarj
, e che fe perquefli tufcono difordini, ciònon' avviene che per quel
bene, che dovendo procurarli per sè e per tutti com’è polfibile , fi
vorrebbe procurato per se a efclufione degli altri, quafi ^ruggendo in
tutti quel che vuolfi per sè parte di quelli tutti , ciò che non
può avvenire , e che in fatti non avviene , giacché ogni bene procurato
per sè con danno di altri , lì di- Urugge alla fine in sè ancora per la
oppofizione e il contralto di tutti gli altri . Procurandofi il bene al
pri- mo modo , le difcordie faranno imponìbili , e ciafcun di
tempera diverfa e non mai contraria a quella dell’ altro, s’ unirà ad
elio per coitumi diverfi e non pur contrari, il collerico col tranquillo,
il timido coll’ ar- dito, il fcmplice coll’accorto, e limili altri , come
l* acqua col fuoco, e la terra coll’aria nella compoGzio- ne de’
corpi fifica . Ma procurandofi quel bene al fe- condo modo o con altrui
oltraggio, le difcordie faran- no inevitabili per rimpollìbiltà di unire
i contrari, ^ poterfi bensì unir l’ardito e il timido, ma non 1’
ar- dito e il non ardito, e il timido e non timido, come può unirfi
acqua e fuoco ne’ corpi , ma non acqua e non acqua, e fuoco e non fuoco,
quafi fi voIelTe fulll- fter da un lato quel che fi volefre difirutto
dall’altro, o quel che non potefle fullìftere fenza la diliruzione
di quello che pur fullifte . Egli è ben vero , che ficcome un
elemento nel fìfico non illrugge mai 1’ altro , per quanto contrafiino nel
particolare , attefe le leggi di moto invariabili ed eterne ; cosi nel
morale una paf- fione , e un cofiume che ne deriva , non dillrugge
mai l’altra nel generale, per quanto pur nel particolare s’
apprenda per a quello contraria , per elTer tutti pofiti- vi e conformi a
una comune ragione , non mai a sè llef- fa contraria. Ciò che conferma
quel che s’è detto (/r), le opinioni e i cofiumi umani eficr diverfi , e
combi- narfi diverfamente , mediante una ftefia verità comune ,
della quale fiano modificazioni diverfe e non mai con- trarie, come gli
oggetti fon diverfi e fi combinano ineme nell’ opere di natura inedianti le
fleflè leggi di moto, delle cjuali (ianpur modificazioni nsion trui
con- trarie c tempre diverfe . Airoppotlo non pt)ter quelli nè
queffi etler contrarj, nè combinarli in contrario j er errore comune, o
per contralleggi di moto impoflibili e nulle, per le quali foltanto
potrebbero clfer tali , e per r implicanza di ruflilter la t'pccie umana
per co- iiumi , e la natura umverl'ale per leggi di moto , in-
fierne col principio che dovefle dillruggerle, o per cui dovelfero eller
nulle . E conferma ciò ancora quel che è aggiunto (/»), di elFer bensì
poflTibile per attenzio- ne particolare d’ alcuni nelle nazioni, il
riconofccrvi ogni male e 1’ deluderlo da elle , per elfcr quello
ne- gativo e d’ un Col modo . Ma non elTer cosi poflìbile per
l’attenzione meddima, o introdurvi o crearvi ogni bene, per la ragione
contraria di dfer quello pofiti- vo, e di modi infiniti, onde l'uperare
elio ogni parti- colare attenzione . CAP. Vili. /^Uel che s’è detto
finora dà facilmente ad inten- Collucni ere- Vedere, che non è già la
diverlità , ma la contra- duci comrar) j-jetà e ripugnanza de’ coflumi
quella , per cui non 1 . noco- degenerino quelli in errori , e per
cui nal'can fra gli uomini Iconcerti e difordini , e ciò per la
contrarietà fimilmente e non divcriità di oggetti e di combina-
wC.VI.n.i. zioni loro, ful’e quali verlin le umane menti (i), e dalle
quali quei collumi derivano. Quelle combinazioni d’og- getti diendo
innumerabili , ed elléndo gli uomini nelle diverte iorcircollanze avvezzi
quali all’une, quali all’al- (OC. F/. n.i. tre Ipecie di elle (r), faran
dii cosi di divcrli collumi, allor conformi alla verità, quando gli
oggetti combinaci fian reali, pofitivi edefillenti; e allor contormi all’
errore, quando tali oggetti fian negativi , imponibili , innefi-
flenti c nulli . Imperciocché lebbene gli oggetti fian d’innunurabili
modi , e il nulla d’ un folo (d), ciò nondimeno ficcome la verità eh’ è
una, è di tanti mo- di, di quanti puòcfTa atlermarlì nelle cok divcriè;
cosi l’errore altresì eflTendo uno, s’apprende pur di tanti caP-
Vili! modi, di quanti quella verità può negarfi, inguilà che tanti
fiano i modi politivi di fullìlìere per la verità , quanti s’ apprendono
i negativi di non rulTifìere per 1’ errore , fuililìendo ogni cofa a un
modo , e non lulli» ftendo la Aia contraria al modo a quello contrario
, e corrifpondendo verbigrazia 1’ ardito , il timido , il
collerico, pofitivi tutti creali, ad altrettanti negativi loro non
ardito, non timido, non collerico, con cller ciò non oAante quelli tutti
di più mudi , e queAi d’ un modo folo o di nelTuno, come il nulla eh’ è
di nef- fun modo . E^li è poi da confiderare , eh’ effondo la
verità e la eiiAenza tuttociò ch’efiAe, ed eflendo 1’ errore o il nulla
tuttociò che non efilìe , e non efilten* do cola alcuna che per la
combinazione di oggetti di> verli , e non mai contrari (a) ; parrebbe
che il tutto (a) C.Vir.n.t. dovclie l'ulfiAerc per la verità , e nulla
per l’errore, e che ficcome nella efilìeriza degli oggetti , così nelle
combi- nazioni loro e nelle inclinazioni e coftumi che ne de-
rivano , non dovelfe avervi che verità , efclufo fem- pre l’errore, cofa
non generalmente creduta dal volgo, il quale all’incontro non parla che
di errori, e di con- trarietà nelle inclinazioni e ne’coAumi fra gli
uomini. Chi però meglio rifletta , conolcerà , quello elTcr
verif- ftmo, ed elfer l’errore cosi lontano dai coAumi uma- ni,
come dall’ opere di natura, che non ammette con- trari , e non erra
giammai . Che fe v’ à chi crede di- verfamente, ciò deriva da equivoco di
prendere il par- ticolare per lo comune, come s’è accennato (/>), eco-
(^)C.W. «.4, me più efprelTamente fi dichiarerà ora , per ifpiegar
me- glio coi fatti quelle verità , che fon lempre alcofe al volgo,
e che bene fpedo fi nafeondono ai filofufi an- cora, che nel fìlofofare
non fanno Aaccarfi dalle vol- gari maniere di penfare, reAand > coi,i
nella loro filo- lofofìa più all’nfcuro del volgo medeltmo.
II. Si dice dunque che lo sbaglio di prendere il ne- gativo per
pofitivo , o l’ errore per la verità , nafee da» £ z equi- è* XXXVI
>5- AGP. V'iii, equivoco di prendere il particolare per
univerfafe , c di credere che ciò che può efler in quello con ripu-
gnanza e dilordine, poflTa pur avervi in quello con or- dine ed armonia.
E invero l’errore col nome fuoftef- fo, non porta alla mente che un’
immagine di man- canza e di nullità, e il crederlo nei collumi
comune quando non è che particolare, procede da errore ap- punto o
da mancanza di difeernimento , per cui occu- pata la mente da vani
timori, dà corpo all’ ombre ed al nulla. Del rimanente s’ ei fembra
nafeere e avva- lorarfi :n alcuni , non fi vede mai (lefo a tutti , e
in quegli alcuni medefimi non lì vede che vinto , e di- llrutto
dalla verità a tutti comune . Il fullìller poi vinto e didrutto non è
fullìller in modo alcuno , in guifache chi fi lagna dell’error
ne’coflumi, fi lagni di elTo che volendo pur con vane lulìnghe e con
faifeap- parenze inlìnuarfi e fuHìllere nel particolare, non ten-
ta mai altrettanto neU’univerfale, e in quel particola- re medelìmo è
didrutto da quedo univerfalc , che il difapprova e il dichiara pur nullo
. Per quedo il co- mune degli uomini fi vede Tempre correggere il
parti- colare, e non mai all’oppodo; di che prova evidente fono i
governi de’ popoli, fra i quali tolti i più colti e fenfati, non v’à
dubbio che non confidano quedi in ciò, che per ellì colla verità e la
ragione comune di tutti fi didruggan gli errori , o le ragioni
partico- lari di alcuni a quella contrarie . Che le il governo
delTo reggede i popoli per la ragione fua particolare alla comune
contraria , o per 1’ errore contrario alla verità , come nelle nazioni
barbare o fconcertate ; al- lora non elTendo quedo certamente poflibile ,
quell’ ederno governo fi vedrebbe cangiato in fimulazio- ne , o in
nullità elTo dedb , redando nondimeno la ragione e la verità comune
interna a governar la nazione realmente , Tempre per 1’ errore
partico- lare da elTa vinto e didrutto in ognuno , e nel go- verno
medefimo ; verilicandofi così Tempre , che la verità c la ragion comune
fia cofa reale , pofitiva’i^A~prv'ìTr. ed efiftente , e che 1’ errore fia
cola negativa , in- nefìilente e nulla , comechè i'empre dilirutta
da quella verità medelima. t III. Chi dunque precorre provincie
e climi diverlì, e incontra opinioni e collumi, per li quali fi
fulTide in un luogo, alieni da quelli, per li quali fi fulTilte in
un altro; creda pure tali coliumi quanto fivogliandi- verfi , ma non li
giudichi giammai contrarj, per eller ein modificazioni diverfe d’ una
verità a tutti corna* ne, che non è mai a sè fleffa contraria. £ fe
appari- fcon contrari , li creda tali per fola appunto apparen- za
, attefo ungoverno pur apparente , fimulato c nullo, (a) giacché
l’apparenza e la fimuiazione è nulladiquel^^jjc.p;;/.,,.-. che è in fatto
. Del rimanente che fin a tanto che tutti nelle nazioni fufTiliono, i
coliumi comuni benché di- verfi , non fian mai contrarj a una verità
comune , fi manifclia da quelio , che 1’ errore contrario a quella
verità fi troverà periéguitato e punito, vale a dir di- iirutto da per
tutto del pari , e ciò fempre nel partico- Jare e non mai nel comune ;
altrimenti converrebbe dire, che laddove gli uomini fulTiliono a un tempo
e in un luogo per la verità, fuUìlielIero all’ altro per 1’ errore
e per la menzogna contraria e diliruttiva di quella verità , cofa affatto
affurda e impolTibile . All’ ilielTo modo i difordini ne’ fenomeni ffici
debbono ìmputarfi a irregolarità, particolari ne’ moti conformi
alle leggi collanti e generali, per le quali il tutto fuf- fifte, vinte
però quelle irregolarità e fuperate fempre da quelle leggi , lenza di che
il tutto perirebbe , ef- fendo cosi il difordine, la dillruzione e
l’errore fem- pre particolare , e 1’ ordine , la confervazione e la
ve- rità fempre comune , fia nel fifico. Ila nel morale , e quell’
errore fempre vinto e diflrutto da quella ve- rità . IV. Qui
può oflcrvarfi , come quell’ effer l’ errore fem- pre particolare in ogni
nazione e non mai comune , e quell’ , e queft'annullarfi per
quello, quanto per fa verità co- mune in e(Ta ruflìRe, dà a conofcere ,
che le fedizio- ni , i tumulti , le dilcordie , le guerre fono nelle
na- zioni Tempre errori particolari , e non mai verità co- muni ,
come quelle che in effe diliruggono ciò che pur Tuffìfte in modi diverfi
, ma non mai contrari . Che fimili diTafiri intcreffìno le nazioni
intiere , cuna’ è la Trafc d’efprimerfi de’ Gazzettieri , non è che
uno sbaglio, per cui come fopra (a) fi prende 1’ ambizio- ne e Terrore
particolare d’ alcuni , come Te TolTe co- mune di tutti, i quali
all’incontro non pnfl’on fufiìfie- re e non fufiìfiono, che per la comun
verità e dilàm- bizione . E fi ila pur certi, che ogni nazione
adonta di qualfivoglia an bizione o interclle particolare che muova
in tifa difeordia, prefa in comune non amerà che la concordia e la pace.
Quell’ ambizione poi e quell’ intcreflfe fi manifefiano particolari dal
fatto, per iadi- firuzione che del pari ne fegue delle parti
ambiziofe e interefiate , fufiìliendn le nazioni nell’ intiero per
la concordia, al tempo fieiìo che per la difeordia fi di- firuggnno
nelle parti . Che fe quella difeordia parefie comune, non farebbe di
nazione che fufiìfielle, ma fa- rebbe dell' ultimo particolare fuo avanzo
, che facrifi- caiTe fe (lelTo al riforgimento di altra nazione ,
che fulle reliquie della già diilrutta a parte a parte per errori
particolari , fi nnovafle intieramente per la ve- rità a tutti comune ,
eh' è il calò di tutte le rivolu- zioni negl’ irnperj . Ma tolte alfine
tutte le nazioni progrefiive e contemporanee , e tutti gli uomini
in genere , fempre fia che ogni difeordia , guerra o tu- multo fra
effi abbia a terminar in concordia , pace e amillà per la verità comune
che difirugga 1’ er- rore particolare, quando pur fi voglia prefervar la
fpe- cie umana , ficcome ogni pelhienza o procella dee ter- minar
in aere falubre e tranquillo, quando pur fi voglia prelervar la natura, e
non mandar tutto il fifico e il murale in nonnulla. S’aggiunge, che
la detta prevalenza della ragione c A P. Vili, o verità comune full’
errore particolare a quella contra- rio, fi manifeda non folo negli
uomini conolciuti per giudi, ma in quelli ancora che fi reputano, e
cliepià fembran malvagi , e ciò per lo timore che accompa- gna
infeparabilmente quedi fecondi . imperciocché un fimil timore fe ben fi
confideri , non è che una pofi- tiva virtù eh’ edinta ogni altra , reda
in cialcuno a moderare e rafirenar i luoi eccedi negativi medefimi.
Laonde edèndo qualfivoglia malvagio Tempre più ti- mido che
malvagio, non efclufi i tiranni medefimi ; farà Tempre ogni uomo più
virtuoTo che reo nella deT- fa Tua reità , e farà Tempre vero , che 1’
error negativo rimanga annichilato e didrutto da virtù politiva a
'quello fuperiore in quegli deffi , che più Tembran me- narlo in trionfo.
In queda guiTa il timor pofìtivo e virtuoTo, con frenar l’ambizione e
rintercH'e dall’ offèn- der altri, impedifee che quede padìoni, di
pofitive e virtuoTe che pur fono in propria e comun fuffidenza ,
diventino negative e viziofe in didruzione altrui e pro- pria (<i), e
tien luogo di virtù nello dedb malvagio , ia)C.VlI.n.^. come un elemento
altresì nel fìfico contradando coli’ al- tro per la confcrvazion pofitiva
del tutto, impedifee la didruzion generai di natura, che tolto un (imii
contra- do ne leguirebbe, fcnzachè negativo alcuno lùlTida ,
Tempre per 1’ aperta implicanza di fudidere cola al- cuna
negativamente ( ) . Una fimil providenza nel WC.W/.«.i. morale (i
manifeda non folo ne’ rei fuperbi come fo- pra , ma ne’ giudi ancora da
quelli oppredì, i quali fon così virtuoli nella loro tranquillità e nella
loro fi- danza , come il fon quelli nella loro agitazione e nel
loro timore; ed è certo, ogni oppredb innocente eder così contento per la
verità comune che lo allolve fu- gli occhi dell’univerfo, come il fuo
oppredbre è feon- tento per 1 error fuo particolare , che
combattendolo con quel timore , lo cruccia nella Tua ignoranza fe
non à talento, efe à talento, illude nel fuo rimorfo. Refta dunque Tempre più
flabilito , non avervi di contrario in natura che la verità e 1’ errore ,
ed elfer quella una modificazione di tuttociò eh’ eflde , e quello
una modificazione di tuttociò che non efifle («)C.F///.n. 3 .(u).
Il confidcrar ciò cIT efìfle come contrario a ciò che pur efille , è un
afTurdità ; e fe gli uomini ap- prendono per contrarie quelle cofe che
non fon che diverfe, ciò è Tempre per errore particolare , che non
paflà ad cfTer verità comune (i). Il contrafTegno poi , per cui avvederli
Te gli oggetti fian diverTi o contrar) farà quello, di eflTer effi o non
efTer efiflenti, mercec- chè Te eTiftono Ton certamente diverfi , e Ton
contrarj Te non eTillono . Ma per ben giudicare di quella efi-
llenza o non eTiflenza loro , debbon elR riTerirfì non al Tolo
particolare , ma al comune di tutti . Il dolore per eTempin e il piacere,
poiché ambo Tuffiflono, Ton certamente TenTazioni diverTe , ed elTendo
diverTe non Tono contrarie . RiTerite però al particolare s’
appren- dono per contrarie, ciò che non rieTce Te Ti riTeriTca- no
al comune . Di ciò è prova evidente ognuno che Tofl'ra il dolor con
piacere , Tol che il riTeriTca non a sé Tolo , ma al comune degli altri ;
come Muzio contento del pari e d’arder il Tuo braccio nel Campo di
PorTena , e di llrignerTi con quei braccio al Ten la Tua Clelia , per
addurre un Tolo degl’ innumerabili eTempj di eroi TacrihcatiTi con dolore
al piacere di giovar alla religione, alla patria, alla verità
inTomma comune , ciò che non avverrebbe Te tali TenTazioni ToT- fer
contrarie. Quella comun verità non è in Tollanza (0 C.r/J.a.j. che
la virtù (c), la qual contrallata dai vizj partico- lari e non mai comuni
, può dirTi travagliata , ma non per efiì opprelTa. Laonde elTa fola può
dirli comune , come quella eh’ è approvata da tutti, quando il
vizio non può appellarTi che particolare, come quello eh’ è
dctelfato da ognuno, e dilàpprovato da quei medeTimi che lo proTelTano,
indizio evidente di eller quella po- Titiva ed efìllente, e di efier
quello negativo e nullo. Cer- Digitized by
Google ^ XLI Certo è die (iccome futTifle quel eh’ è
voluto ed è ap- provato da tutti , come la virtù ; cosi quel che non
è voluto e non è approvato da alcuno , come il vizio , non può
dirfi fuffìlìere . E lo sbaglio di conlìderar que- llo come efiftente Ila
in ciò , di confiderar per efiften- te quel eh’ è voluto da alcuni coi
contrailo di tutti , quando non può confiderarfi per tale, che quel che
voluto da tutti , non è contraHato da alcuno. Io non fo, fé tali dottrine
convengano con quelle che lì dicono degli antichi iloici , accademici
, platonici , o altri , interpretate dagli eruditi , e eh’ io non ò
mai avuto la flemma d’ interpretare . So che le ò apprefe dai lume
naturale, dal quale poteano ap- prenderle quelli, e può apprenderle ogni
altro che fia i'eguace della verità comune, non alterata da errore
o da educazione corrotta particolare , e fappia che un uomo non è
tutti gli uomini, nè tutto il creato, ma uno folo di quelli, e un’opera
fola di quello. Se poi le mie dottrine non convengono con quelle che
corro- no al prefente anco fra i più fludiofi , ciò è per erro- re
appunto particolare di quelli , che fedoni maffìme a quelli tempi da
dottrine fuperhciali di Comici che fi fpacciano per fìlofofi , vorrebbero
pur perfuadere il tut- to effer peggio , contro il fatto evidente , per
cui la natura e l’uomo , col conferv'arfi e fufliflere , dimo-
flrano il tutto efler meglio . La dottrina fra le altre della nullità dei
contrae) (a) non dee dirfi nuova , dacché fi troverà ella convenire coll’
altra non nuova del tempo e dello fpazio, che efiendo quello la
dura- ta fola, e quello la fola diflanza degli oggetti e del- le
foflanze create , non fuflìflono così che negativa- mente , e fulTiflendo
in tal modo , pofitivamente fon nulla. Tolte quelle foilanze pofitive e
create, il tem- po e lo fpazio reflan come nulla di quelle , o come
nulla adoluto , non pntendofi inver concepire come polfan pofitivamente
fufliflere o tempo , o fpazio, o diflanza di cole , che non fufliflauo
elleno flefle . F Pro-
CAP. Vili. (ii)c.n/.».i. "S-: xLii
CAP. IX. "pRocedendo le inclinazioni e i coftmni dagli ogget-
Della (labilità ti creati ertemi , e dalle combinazioni loro nelle e
inabilità de' umane menti, è certo eh’ ellendo tali oggetti invaria-
ro(lumi. bili per le rtelfe invariabili leggi motrici , dalle quali
(fl)C. //.w. I. derivano {a), faranno altresì quelle inclinazioni e co-
ftumi invariabili e cortanti , per la rtdià inalterabile verità e ragione
comune, per cui naCcono , fi confer* {b)C.VI.n.i. vano, e fi rinnovano {
b ) . Per la qual cofa ficco- me quegli oggetti fi vedon perfeverare gli
rterti in ogni fpecie , e ogni pianta e animale fi rinuova in
pianta e animale confimile , (enza degenerar mai in altra di natura
diverfa; all' ilierto modo l’ambizione, l’interertè, l’amore, il timore’,
e limili altre partìoni, dalle quali rifultano i cortumi , fon collanti
in natu- ra, nè tralignan mai in partìoni diverte nel propagar- fi
dagli uni agli altri, e il fimile avvien dei cortumi (f)C. 7/.B.4. (c).
Quanto però cederti cortumi per quelli motivi tono rtabili e fermi nella
loro natura, tanto nelle mo- dificazioni loro fon variabili e incollanti,
come appun- to gli oggetti dai quali derivano , o le modificazioni
delle rtellè leggi di moto , dalle quali quelli oggetti procedo-
no. Ertèndo poi le modificazioni dall’ una e dall’altra parte infinite,
ed ertendo quelle di ciafeun tempo e di ciafeun luogo finite ; i cortumi
di ciafeun tempo e luogo , fempre gli rtelll per la rterta verità comune
, faran per le modificazioni di quella verità fempre di- verfi da
quelli di un altro, come gli uomini finiti d’ un luogo e d’un tempo,
fimili fra loro per la rtabile loro natura, variano nondimeno
infenfibilmente in in- finito di fembianze , d’afpetto , di maniere da
quelli d’un altro per le modificazioni diverfe di quella na- tura
rterta . Con ciò rinovandofi gli oggetti e le loro combinazioni in altre
pur fempre diverlè , anco per tempi e luoghi infiniti ; i collumi , le
opinioni , i gen) , e le inclinazioni umane di ciafeun luogo e tem-
po vi dovranno variare in infinito , come modifica- Digìtized by
Google XLIII zioni fempre finite tolte dall’infinità
di tutt’ effe (<j); cAP. IX. fcnza di che dovrebbe dirfi, che degl’
infiniti oggetti i. creati , o dei coflumi che ne derivano ,
doveffer gli uni a un tempo efier gli ftellì che gli altri ad un altro
, ciocché ripugna colla fapienza e perfezione infinita del fupremo
autore della natura nelle fue opere (b). {b)C.lI.n.ì. 11. Perchè
poi tutti gli ilabilimenti umani in ri- guardo alla fucieià, e gf Imper)
lieffi dipendono dal- le opinioni e coliumi in effi comuni ; per effer
quelli nelle loro modificazioni ederne cosi variabili , non po-
tran tali focietà o Imper) avere labilità alcuna dipen- dente da quelle ,
ma dovranno infenfibilmente variar di maniere , cola comprovata molto
bene dal fatto , per cui fcorrendo con occhio fugace per tutta
quanta la ferie de’ tempi e de’ luoghi da Noemo a noi, non ci fi
rapprefenta alla mente , che una perpetua rivolu- zione di Stati e d’ Imper)
. Infatti effendo le opinioni e i collumi in ogni impero attualmente
finiti , ed ef- fendo quelli di maniere infinite pollibili, debbono
dun- que col variar de’ tempi e de’ luoghi finiti variare in-
fenfibilmente di maniere attuali e finite (c), e con ciò {c)C.VI.n.i.
variar quegP Imper) , la cui divifione cosi , ellenfione e forma effendo
fempre tanto (labile e ferma, quanto la verità e la ragione a tutti
comune ; farà eziandio tanto cangiabile, quanto le modificazioni dìverle
e in- finite di quella verità , o quanto la divifione , ellen-
fione e forma delle opinioni e collumi in ciafcun im- pero particolari, e
comuni. Vero è, che fimili rivolu- zioni negl’ Imper) o ne’ governi de’
popoli non fempre fon fubitanee e impetuofe , anzi il più delle volte
fe- guon per gradi infenfibili ; ma fono in ogni cafo le lleffe, o
producono i medefimi effetti, e la differenza ne dipende folo dalla
verità o ragione comune che Ila piò o men riguardata dai particolari , e
per la qual, folamente poffon le nazioni fulfillere (d). Perciocché
fe quella verità farà dalla nazione fparita , l’errore ol’ ambizione
particolare che d’ effa avanza , dovrà dì flrug- F a gerla ,,.
IiT~gerIa , o diftrugger fe ftcflb colle difcordie e le guer- re , per
dar luogo a quella verità di ricorrere a rino- («)C.f7//.».4. var quella
nazione fott’ altro afpetto (//) , e talvolta fott’ altro nome, nel qual
cafo fi diranno feguir le rivolu- zioni con più di violenza e di fdegno .
Ma fé quella comun verità fi foderrà nelle nazioni a fronte di
quìi- fìvoglia errore particolare , le rivoluzioni allora vi fe-
guiranno a (Irida quiete , fenza violenza e per gradi infenfibili ,
trovandoli nondimeno ia nazione col cor- fo di lunghi l'ecoli del pari
cangiata da quella di pri- ma per varietà di opinioni e coliunii , non
però mai fra loro contrarj. Del primo cafo è elempio qualfivo- glia
Impero d’ Afta o di Grecia più rinomato , e in particolare l’antica Roma,
volta di Regno in Repub- blica a’ tempi di Giunio, e indi di Repubblica
in Im- pero a’ tempi di Giulio, per ia verità comune a quei tempi
in e(Ta fmarrita , e per l’errore o per 1’ ambi- (ó)C.r///.a,9. 2 Ìone
particolare non da timore frenata { b ) redatavi fola , per cui non era
poflibile che quel go%^erno, (la in forma di regno o di repubblica più
fuUìdefle • E del fecondo polFon eller efempio quegli Stati
prefenti Europei più moderati , che contano più migliaja di fe-
coli per fuccedioni di Sovrani , ma che per opinioni e codumi non fon
certamente quali erano alla loro origine y e ciò per la delTa verità o
ragione comune non mai da e(Ti partita , quantunque diverfifìcata
in modificazioni diverfe , che (on appunto quelle divcrfe opinioni
e codumi. III. Tuttociò fa conofcere , come quel che cangia
gl’ Imperi è in ogni evento la ragione comune di tut- ti, per la quale
pur fi confervano , e la qual ricorre fempre a occupar il luogo dell’
errore particolare, per cui fe folTe pofTibile rederebber le nazioni
tutte didrut- te, fenza che l’attività particolare di Giunio, di
Giu- lio, o d’altri v’abbia più parte di quella di qualfi vo- glia
altro che podìeda una fimil ragione , e che coll’ unirla alla ragione di
quelli la renda comune . Del rimanente che le nazioni prefenti d’ Europa
non fian c A P. IX. quali erano da principio , e fi fìan rinovate in
altre , non ferbando di fe (ielFe che i nudi nomi , fi compro* va
da quello, che tolta qualfivoglia diede, potrà que- lla ben appellarfi
collo (Iciro nome di due i'ecoli in- nanzi, come per la lleda verità
comune fudlilere, ma non perciò fi troverà la llefla per forma d’
inclinazio- ' ni e coftumi comuni che la collituifcano , o per mo-
dificazioni di quella verità medefima. Anzi fi troverà da quella tanto
diverta per quello capo , quanto dall’ al- tre nazioni fue contemporanee,
e lo fieiro avverrà re- trocedendo di due in due fecoli più o meno ,
per quanto le memorie ne fiano a noi tramandate. Cosi i Francefi
prefenti diflèrifcono forte più per maniere e cotlumi dai pur cosi detti
Francefi di due fecoli in- nanzi , di quel che differifcano dai prefenti
Italiani di- llinti da etti di nome . £ gl’ Inglelì che ora fon
d’opinio- ne di difertar per l’America , avran forfè più di conformi-
tà coi prefenti Francefi loro emoli , di quel che preten- dano aver per
cotlumi cogl’ Inglelì loro antenati , eh’ erano d’opinione dv difertar
per Soria , e così di più altri . E’ poi chiaro , una fimile rivoluzione
di opinio- ni e cotlumi nelle nazioni dover efier tale , da non ri-
correre o rinovarfi mai in netfune allo lleflo , fempre per la detta
ragione delle combinazioni di oggetti , e delle modificazioni che ne
derivano ne’ cotlumi , che tolte dall’ infinito a numero finito , fon
fempre diver- fe fune dall’ altre per quante pur volte fi prendano
(rt) . E ciò non per dil^fizione umana particolare , ma per fitlema
imperferutabile di natura . 11 compren- der quello fitlema , vale a dir
1’ ordine , la ferie , i rapporti di tali combinazioni di oggetti , e di
tali mo- dificazioni di cotlumi , o perchè e come a certune abbiano
a fucceder cert’ altre , in luogo di tutt’ altre qualunque , è rìferbato
alla mente dell’ autore del tutto , nè potrà ciò mai penetrarfi da mente
crea- ta , finché fi trovi nel pafieggiero fuo flato, avviota c ridretu
dalle ritorte e dagl’ inganni de’ fcnli WC.///.».i. (tf).
IV. Qui cade a propofito d’avvertire l’errore di quel- li, che lì
figurano di richiamar nelle nazioni la verità e la ragione comune per
quanto vi fi folTe l'marrita , col rinovar quelle leggi che ne
preferivevano le modifica- zioni a’ tempi decloro bifavoli , progetto del
tutto af- furdo e impofTibile . La verità e la ragione comune potrà
ben richiamarfi per leggi , per quanto a’ tempi trafandati folle Itaca
più riconofeiuta per fé ItelTa in quei coltumi, di quel che il fia a’
tempi prefenti per coltumi che la modificairero in contrario di sè
medelìma , giacché elTa in sè llelTa è una fola di tutti i luoghi e di
tutti {b)C;lX.n.i. I tempi (i). Ma il richiamarla al prefente per le
fue modificazioni antiche , quando tali modificazioni deb- bon ad
ogni tempo elTer diverfe , non può elTere che una miferia di mente , per
cui lì creda la natura non più capace d’invenzioni in fua condotta , di
quel che fiafi un povero Conllgliere fecreto che creda operar in
fua Wce. Chi declama contro i nuovi coltumi che fi van- no
introducendo , e deplora gli ufati che fi van di- ftifando; à molto
ragione fe i nuovi coltumi fon mo- dificazioni dì una ragion men comune,
di quel che il fiano gli ufati che a quelli dan luogo . Ma fe i
nuo- vi coltumi fon tanto buone modificazioni della comun ragione,
quanto gli ufati che fi perdono ; ei declama inutilmente, come fe ciò
foffe contro il variar de’ ven- ti, elTendo 1’ una e l’altra cofa quanto
innocente, tan- to, inevitabile e neceflaria , e potendo , anzi
dovendo quella comun ragione per difpofizion di natura , e per
fapienza illimitata del fupremo fuo artefice, praticar- (.c)C. II. n. I.
fi fempre per modificazioni diverfe (c) , e comparire in fembianze che
non fiano giammai le flelle , elTendo nondimeno la. ItefTa per sé
medefima . Senza quelto una fimile verità o ragione, correrebbe rifehio
di non efercitarfi che per inganno ; ed è ancor vero, che tal-
volta con richiamare la verità , la ragione , il valore e la
religione fteflfa per le fole loro modificazioni eflcr- c A P. Ìx7 ne di
tempi molto remoti, f» rielce a perdere tutto il fenfo reale ed interno
di quelle virtù , invariabili per sè flede , riducendole a quelle
materiali loro modifi- cazioni eflerne , fenza alcun rapponto a quell’
interno lor fenfo e fignificato. V. Ma intanto è qui da
avvertire, che quel che s’è detto finora in ordine all’ illabilità
de’coflumi, non fa torto ad alcuno, e non è detto per accufar gli
uomi- ni di leggerezza o d’incoflanza , ma per anzi giuflifi- carli
d’ ella , e per renderne ragione , come di cofa inevitabile e neceffaria
, la qual non riguarda in eflì coflumi che le modificazioni eflerne d’una
ragione co- mune interna, che debbon cangiare, come le modifi-
cazioni eflerne degli oggetti fenfibìli, dalle quali quel- le tengono
dipendenza (a) . Dail’altro canto ficcome (a)C. IX.n.i. quelli oggetti
cangiando modificazioni fon purgliflef- fi in tutti i luoghi e a tutti i
tempi , per le fleffe leggi di moto che li producono ; il medefimo
avviene de’coflumi, ed è fempre una flefla invariabil ragione e
verità comune, che per varie vie li guida e gover- na . Per quello s’ è
veduto , quella ragione comune effer la fola, per cui gli uomini lufTiflano
infìeme, co- me per quella che può ben effer diverfa nelle
diverfefue modificazioni , ma non può mai a sè flcffa effer con-
traria , nel qual cafo foltanto la comun fuffiflenza farebbe impoffibile
; ond’ è che non è effa contra- ria che per difetto o ragione particolare
di alcuni , e non mai di tutti. Ciò fa che i governi o gl’ Impe- ri
fian fempre confimili , per quella fleffa ragione co- mune per cui
fullìflono (ì), avvegnaché diverfi per le modificazioni diverfe di quella
ragione medefima , non oflante qualfivoglia irregolarità particolare,
come gli oggetti fenlibili eflemi fon fempre confimili nelle loro
fpecie , perchè fempre in conformità alle flefle leggi motrici , benché
ne fìano diverfe le modificazio- ni , e non oflanti alcune irregolarità
in eflì fifiche . £ potranno quelli e quelli fuffiflere a ragione benché
di- ve rfa , giacché i mollri nel filico e le calamità nel mo- rale
lòn cafi infoliti e particolari , e il confueto e co- mune non è calamità
e difordine, ma é ordine ed ar- monia . In effetto la ragion comune,
dalla quale deri- va il difintereffe, la dUambizione ed ogni altra
virtù, per la quale fuflillon gl’ Imperj , é invariabile , ed è di
tutti i luoghi e di tutti i tempi, e ne fon le mo- dificazioni infinite.
E iflelfamente la ragion particola- re, dalla quale procedono 1’
intereffe , l’ambizione , e gli altri vizj per li quali col diflruggerfi
fi rinuovan gl’ Imper) , è pur la lidia , in quanto é Tempre con-
traria alla comune , con modificazioni altresì infinite a quelle
contrarie . Ma è poi imponibile che quella ragione particolare viziofa
diventi comune , com’ è imponibile che i turbini e i terremoti fiano
incdlan- ti e collanti («), mercecché in quello cafo rimarrebbe la
natura non variata, ma dillrutta , come in quello ri- marrebber non
rinovati, ma dillruttì gl’Imp.rj. VI. Nel rimanente le diverfe
circollanze comuni e particolari , nelle quali fi trovino le nazioni per
le di- vcrlé modificazioni d’ una lldfa ragion pur comune o
particolare, fon quelle che giullificano o non giuflifi- no le opinioni e
i collumi diverli . Così gl’ Inglefi avran per avventura tanta ragione di
difettar ora per l’America, quanta ne avevano innanzi di difettar
per (i)C.JX-v.^. Sorla (6), fe tali opinioni diverfe faran conformi
del pari alle diverfe circollanze o modificazioni di ragion loro
comune d ambo quelli tempi , di che farà indi- zio appunto l’ellèr quelle
all’uno e all’altro tempo co- muni. Perciocché fe la nuova opinione non
folfe cosi comune come l’antica , non farebbe quella così con-
forme alla comun ragione, come lo era l’antica, ma potrebbe elfere
qualche opinione o errore ancora par- ticolare alla verità comune
contraria. Il fuppor gl’ In- glefi che difertan per Bollon più fenfati di
quei che difettavano per Sorìa , quando quelli difettavano di comune
confenfo, e quelli difertano coll’oppofizione di 'c’À P IX ' mezzi i voti
della nazione , è un’ alTurdità . Del redo non fi nega che sì una
fpedizione che un pellegrinag- gio non pofian eficr conformi alla comun
ragione , purché fian efiì tali da attirare il comune confenfo .
E ciò non per attività d’un Ammiraglio o d’ un Romito che li pcrfuadano,
ma per ragioni piò alte , ordi- WC.IX.n.ó. nate da una fapienza eterna (
a ) , la quale nel crear una fola ragione , ne coditu) le modificazioni
diver- fe, e volle che non ladiverfità, ma la contrarietà del- le
opinioni e coftumi fodè quella , che da queda co- mun ragione li
dividede. Q Ucl che s’ è detto di fopra ( 6 ) , che le immagini C A
P. X. degli oggetti da ciafcuni apprefi non tengan rap- De’ cofhimi
'porto necedario alcuno colla favella e colle voci, efpreffi perla per le
quali fian ede efpredè agli altri, dee applicarfi f*»ella. eziandio alle
combinazioni di quelle immagini , dalle qua- *• *• li derivano le
inclinazioni e i codumi diverfi, le qua- li combinazioni d’immagini non
terran così nedunne- cedario rapporto con quelle delle voci , o colle
regole gramaticali di lingua, per le quali fi manifedano , oli
partecipano agli altri. Ciò fi verifica idedamente dall’ edere tali
regole pure dabilite di comune confenfo ar- bitrario di quei foli , fra i
^uali quelle combinazioni d’ immagini debbono comunicarfi (c), e che così
comu- (#)C.iF.«,i. nicano di codumi e d’inclinazioni a efclufione d’
ogni altri . Ond’ è che ove manchi queda comunicazione , nedune
lingue o regole di ede fono in ufo, e ove ef- fa v’abbia, le lingue e le
regole d’ede perciò introdot- te , non s’ apprendono dalla natura , ma da
fola mec- canica fcoladica , o da idruzione pratica d’altri, fen-
za apprender perciò niente più di reale (d), e fuor di WCy.n.ì. queda
meccanica , l’ ufo dejle lingue farebbe impoflìbi- Ic • Del primo è prova
ogni felvaggio, il quale perchè non in calo di comunicar ad altri le
proprie combinazioni d immagini, non à favella veruna, nè articola
alcune G voci Digitized by Google
"50 L CAP. X. voci introdotte fra gli altri , non occorrendone
certa- mente a lui alcune per efprimerfi a sè medelìmo . E del
fecondo è prova ogni bambino, che alla villa de- gli oggetti che le gli
prefentano , non proferifce natu- ralmente che llravaganze , finché colla
propria efperien- za e coll’illruzione non ifcientifìca, ma pratica
altrui, non s’ alTuefaccia a proferirli e cultruirli per voci alla
maniera accordata fra gli altri , coi quali più comuni- ca , e non mai
alla maniera fra quelli , coi quali non comunica d’immagini e di collumi
. Ancorché poi le combinazioni d’ immagini degli lleflì oggetti , non
ab- bian verun necelfario rapporto colle combinazioni di voci,
colle quali li proferifcono ; per elTere nondimeno quelle tutte confimili
, atteli gli (ledi oggetti , e tutte diverte , attefe le diverfe
combinazioni loro nelle cia- (a) C.III.n.i. fcune menti (/»); c per
edere altresì una favella colla quale fpiegarle la della per
ciafcuni , ma pur diverfe le combinazioni in clfa di voci nelle ciafcuni
bocche (b) C.V.n.\. (6) j d’innmnerabili perfone ancora le quali
efprima- no altrui uno llelfo fentimento colla llelTa favella ,
fic- come non ve n’àn pur due , che apprendendo gl’ og- getti dell!
li combinino indiamente nel lor cervello ; così non ve n’ àn pur due ,
eh’ efprimendoli con quel- la favella, li efpriman colla deda
difpolizione di voci; in guifa che poda dirfi eziandio , che quede
innume- rabili perfone liccome edendo della della fpecie , pur fon
diverfe ciafeune dall’ altre per fembianze ederne e per tuono delFo di
voce, così elFendo dello dedo fen- timento e della Itelfa lingua,
s’efprimano nondimeno agli altri cialcuno con diverta difpolizione di
voci o di termini di quella lìngua medefmia. II. Inoltre
quella idabilità d’oggetti, eh’ edendo gli dedt per le Itede leggi
motrici , pur lì cangiano del continuo per le infinite modificazioni di
codedo mo- (»)C.i7. W.2. to (c); e quella delle inclinazioni e codumi ,
eh’ ef- fendo gli dedi per le delle padioni d’una ragione co- mune,
van pur perpetuamente cangiando di modificazioni (/>),(! riconofce altresì
nelle lingue , eh’ edendo le llefle per la ftefla impulfione d’aria fofpinta
dai {a)C,VI.n.i. polmoni, rielcon pur diverle per l’ articolazione di
vo- ci, o per modificazioni diverfe di quell’aria fofpinta.
Perciocché eflendo effe intefe a efprimer le immagini quali fon
combinate, e i codumi quali fon praticati, egli è pur forza che feguaciò
che per nota efperienza fi vede feguire, vale a dire che difufati in
ciafeuna lin- gua del continuo alcuni termini, fe ne foftituifean di
nuovi , non per altro certamente , che per fecondare la detta diverfìtà
di modificazioni, (la nelle immagini de- gli oggetti , fia nella pratica
de’ coAumi che ne deri- vano. E quantunque quella diverfìtà di
modificazioni negli oggetti e ne’cofìumi, proceda con più d’unifor-
mità , per elTer ella opera di natura ; non manca però più o men
efattamente di tener dietro a quella la di- verfìtà de’ termini in
ciafeuna lingua, con quella im- perfezione (6), colla quale fi vede
fempre l’arte imitar (*)C. /r.w.j. la natura. In efi'etto, del difufo fuddetto
di termini in ogni lingua viva, e dell’introduzione in efla di
termi- ni nuovi fuir eftinzione di quelli, non fì faprà afìegnar
altra ragione, che quella degli oggetti apprefì e com- binati, e
de’codumi che ne derivano , eh’ elTendogli flefit per la flclTa ragion
comune , fi van rinovando per modificazioni di quella diverfe col variar
de’feco- Ji , giacché le lingue non fono inllituite e non fono
intefe che a quello, di efprimere quegli oggetti e quei collumi così
combinati e cosi diverfamente modificati . Dimanieraché per la ftefla
ragione, per cui non v’ à luogo , in cui corrano le opinioni e i coftumi
di più fecoli innanzi , cosi non v’ abbia luogo , in cui s’ ado-
pri la lingua d’ allora; e fia cosi impolfìbile di richia- mar fra gli
uomini quei coftumi (c) , com’è impof- ( 0 CJX». 4 . fìttile il richiamar
quella lingua . III. Da ciò s’apprende , come il determinar una
favella di tutti i luoghi e di tutti i tempi , farebbe lo fteflo
che determinar un opinione e un coftume, ounacom- G z bina-
\ Digitized by Google Lii 7^ CAP,
X. binazione d’opinioni e di coftumi pur d’ogni luogo e d’ogni tempo ;
vale a dire che determinar la facoltà intellettuale umana , e limiurla
non folo all’ellenfìo- ne, ma alla qualità ancora e ai modi delle fue
cogni- zioni in ogni luogo e ad ogni tempo ; cofa 1’ una e l’altra
imponibile, per non poter elTa accordafi colla fleda limitazione umana
intellettuale . Perciocché l’ in- telletto umano per quello appunto di
edere limitato nelle fue cognizioni, dee variarne’ modi e nelle
qua- lità di edè ; e per eder quedi modi e quede qualità infinite,
dee verfar più quando fu alcune di ede , quan- do fu altre, e quindi
adottar quando alcuni , quando altri codumi , elprimendo in conleguenza e
comuni- cando tuttociò altrui, quando coU’une, ^uandolcoll’al- tre
voci o favelle . Siccome poi col variar di combi- nazioni d’ oggetti e di
codumi non fi ricorre giammai (a) C.yi.tt.t. ai modi ufati altre volte
(/«), ma le modificazioni ne fon fempre diverfe ; così col variar delle
lingue vive non fi ricorre giammai a rinovame o a replicarne al-
cune delle morte oltrepadate , ma fe nc formano altre dapprima fempre
inaudite, e non mai per innanzi ado- prate. 11 tutto per le infinite
maniere, colle quali pof- fono combinarfi gii dedì oggetti , gli dedi
codumi , e le dede articolazioni di voci, colie quali proferirli,
attefa una fapienza eterna e infinita , che regola tut- to quedo magìdero
con leggi uniformi in sé dede , ma varie fempre nelle loro modificazioni
. Per quedo gli eruditi pudono bensì lufingarfi d’ idruird. e di
ra- gionare de’ codumi e delle lingue antiche , per quan- to é podibile
ravvifarle a un lume che d va fempre allontanando , e per quanto è
podibile alla vita uma- na caduca tener dietro al tempo indancabile ed
eter- no . Ma il figurarfi d’ aver de’ codumi e delle lin- gue
perdute , quella contezza che fi à de’ codumi e del- fe lingue viventi, o
il lufingarfi di raccapezzar dai po- chi frammenti che redano , quel
tanto più che non teda de’ lècoli antichi , é una vana credulità ; ed è
co- me Digitized by Googl» ^ Liir^
me lufìngarfi d’ indovinar per le poche fandonie che CAP. X.
foglion narrarfì delle Sibille , tutto quel che per av- , ventura
avelTero quefte fcritto ne’ libri loro , che fi di- , con arfi nell’
incendio del Campidoglio Romano. IV. Per altro la diverfità di
lingue, che come fopra dee avervi nelle nazioni, per la diverfità in elle
di og- getti combinati , e di collumi che ne derivano , e 1’
impoHìbilità di elTer tutti d’ un collume e d’ una fa- vella (a), fan
conofcere che la natura unifce in vero («) C.X.». 2 .;. gli uomini hno a
certa mifura, alla quale polTan elTi giovarfi , ma li difgiunge oltre a
quella mifura , nel qual cafo la loro unione elTendo inutile , farebbe
in- comoda, e potrebbe renderft ancora nociva. Certo è, che fe r
ufo dell’ illelTa favella indica la necelTità di llar gli uomini uniti ,
per accorrere gli uni in foccor- fo degli altri, ciò che non può
verifìcarfì che per fa- vella che fia la llelTa ; 1’ ufo di fevellar
diverfamente indica la nelfuna necellìtà di Har elTi uniti a
quell’ef- fetto, giacché fra perfone di favella diverfa nelluna co-
municazione di fentimenti , o nelfuna fcambievole ali^ llenza può
interceder giammai . D’ altronde le occor- renze umane fono ognor
limitate, e non poflbno llen- derfì oltre a quei limiti che con difagio
comune degli altri, e con illufione particolare disè medefimi ,
elfen- do in vero un’ illufione e un inganno , che quel foc- corfo
Ila di provedimento , di diletto, di piacere, di difefa o d’altra
qualunque occorrenza, che ognun può confeguire da altri loncan tutt’ al
più dieci miglia , abbia da attenderfi edalanguirfi da altri, di favella
in- intelligibile , e lontani le migliaia e migliaia di mK glia.
Con ciò^ fì direbbe, che quel che congrega gli uo^ mini lino a certo
numero, al quale poffano confervarfi dell’ illelTa favella, fia la natura
amica della fuflillen- za e del piacere verace ; e che quel che li
congrega oltre a quello numero, al qual non pollano confervarfi d’
una favella , fia T ambizione particolare dillruttiva della fpecie,
corruttrice del vero piacere, e amica del De’ coftumi
efpreflì per fa- velle diverfe . («} C. I.n.i, '^LIV
^ ‘piacere ingannevole • Ciò fi comprova dal fatto , per cui
gli uomini finché fon dell’ ifiefla favella , più convengono infieme , e
più s’ accrefcono per arti di moderazione c di pace, come nelle nazioni
più limi- tate d’ Europa , e qualor diventano di più lingue , come
negl’ imperj più valli dell’ Afta , non polfo- no fofienerfi che per la
forza , e fi diftruggono per queir arti ftefle di luflb e di guerra, per
le quali cre- dono bonariamente di confervarlì, e di foccorrerfi
gli uni gli altri ; come in fatti fi trovano quivi a molto mi- nor
numero che nell’ altre nazioni d’ una fola lingua, avuto riguardo
all’ellenfion delle terre . E fi compro- va ciò pure dalla dipendenza
neceflarìa degli uni da- gli altri, quando pur voglian gli uni cogli
altri fup- plire ai bìfogni comuni . La qual dipendenza di ordi-
nazione e fubordinazione può ben avervi fra perfone della fleU'a lingua,
ma fra quelle di lingue diverfe non può avervi che con inganno , eflendo
invero impoffi- bile che gli uni dipendan dagli altri , quando
ignora- no fin la favella, per la quale dipendere . Dacché fi
conclude , che la faggia natura vuol veramente uniti e congiunti infieme
tutti gli uomini dell’ univerfo , ma per il folo vincolo di amore e di
ragione lo- ro comune ; e che quel che li tiene uniti per tutt’
altro titolo , non fia che la llolta ambizione e 1’ interefle loro
particolare , ben divcrfo da quell’amo- re e da quella ragione , e talvolta
a quelli con- trario . Q uella ragione che fa , che gli
uomini dell’ illef- _ fo luogo e dell’ ifteflb tempo fiano dell’
illef- fa favella , per la necelfità di comunicare in- fieme d’
immagini d’ oggetti , e di collumi (rf) , fa non meno che a luoghi e
tempi diverfi fian di di- verfe favelle , per la nelTuna necelfità allora
di una li- mile comunicazione, elTendo d’altronde le voci, colle
quali comunicar d’immagini e di collumi per le llef- Digìtized by
Google Lv fe infinite (/j) , ed eflendo finite quelle,
colle quali a' qualunque tempo e luogo particolare, comunicar d’im-
magini c di collumi di quel tempo, c di quel luogo particolare . Ma oltre
ciò quella ragione che fa , che ciafcuna lingua vada alterandoli riguardo
a sè llefla , per r alterazione che va feguendo nelle modificazioni
degli oggetti e de’ collumi medelimi allo IlelFo tempo e nello ItcITo
luogo, fa che s’ alteri molto mag- giormente riguardo all’ altre di tempo
e luogo di verfo , per feguire l’alterazione degli oggetti e de’ collumi
mol- to più notabilmente ne’ luoghi e tempi feparati e lon- tani ,
che in un iltelTo luogo e tempo (c), o lotto al medefimo afpetto de’
pianeti . Da ciò ne deriva , che non polfan gli uomini mai fpiegar così
bene le pro- prie combinazioni d’ immagini , e i proprj collumi e
fentimenti con lingua Itranicra d’ altro tempo e luo- go, come li
fpiegano colla propria , ciò intefo degli uomini in genere, e degli
affari e collumi loro non già meno fìgnificanti, che fi trattano nelle
accademie 0 ne’ gabinetti, ma dei più fìgnificanti e comuni,
che fi trattano nelle piazze e nelle famiglie. E invero ef- fendo
ogni favella illituita per elprimere gli oggetti e 1 collumi d’ un
luogo e d’ un tempo , e dovendo quel- la variare col variar di quelli;
l’adoprar a un tempo c in un luogo una lingua illituita per efprimere
og- getti e collumi d’ un altro , farà ognor più difficile , per
doverli allora follituire alle voci più proprie e più precife di quegli
oggetti e collumi , voci intefe a clpri- mcrne altri da quelli diverfi ,
e in confeguenza men proprie per elprimerli , e men precife . Che
gli oggetti e collumi di ciafeun luogo e tempo fian diverti da quelli di
ciafeun altro , e che per ciafeuni corrifpondano termini e voci diverfe ,
fi manifella oltre per quel che s’è detto (d), per li Dizionari ancora
particolari, ciafeun de’ quali fi vede più carico e ricco di quelle voci
, che più corrifpondono agli oggetti e collumi del luogo e tempo, in cui
la lingua d’eiTi è nativa; carichi in confeguenza cricchi meno di
quelle, che più corri fpande{Iero agli oggetù e coftumi d’ogni altro
luogo e tempo, incuifolTe quel- la lingua ftraniera. Non per altro
certamente, fé non ' perche ciafcun luogo e tempo à i Tuoi coflumi
che non fon precifamente quelli d' un altro , e per efpri- mer ì
quali non mancando mai le voci nella lingua di quel luogo o tempo ,
mancano bene fpefTo nella lin- gua dell’altro. Per elempio nel
vocabolario arabo di- celi , il Cammello efpredo con voci mille ed una
, quando nell’italiano fi tiene per efpreflTo abbadanzapet qued’una
fola, lafciate fuori le mille ; e ciò non per altro, che per la
moltiplicità d’ufi di codeiio animale nelle contrade arabe maggiore che
nelle italiane, per la quale moltiplicità, gli oggetti e i coftumi
diverfihcan- do nell’une e nell' altre regioni, diverfamente s’
efpri- mono. E lo fteifo fi direb^ d’ innumerabili altre pro-
duzioni animali e vegetali diverfe degli uni luoghi e tempi , in riguardo
a quelle di altri . Ch’ è la ragione , per cui un Dragomanno pratico del
pari della lingua araba, e dell’ italiana s’ arreda bene fpelTo nel
ragio- nar di cofe italiane colla prima lingua, e nel ragionar di
arabe colla feconda ; e per cui parrebbe ancora , che Cicerone defl'o non
potcfle al prefente elTer cosi buon fecretario di lettere latine in Roma
, come alcun crederebbe , per gli oggetti e affari romani prefenti
molto diverfi da quelli, de’ quali ei fcriveva ad Attico a’ fuoi tempi ,
e richieder pertanto gli uni e gli altri qualche diverfità ne’ modi di
efprimerli . III. Tutto ciò fi dice, non perchè il poffeder
più lingue non abbia a riputarfi un ornamento, neceffario ancora a
chi non contento degli oggetti e codumi vi- cini , che forfè non
intieramente intende, anela ed ap- plica ai più lontani che intenderà
fempre meno; ma perchè fi fappia che gli uomini delle nazioni,
ficcome ciafcuni ànno i propri oggetti e codumi diverfi da quelli
degli altri, cosi ànno una propria lingua, per cui efprimerli, che non può
effer quella degli altri: e che~^~ A T vi" ficcome non adotteranno
mai bene gli altrui oggetti e coftumicomei propr), cosi non efprimeranno
mai quedi cosi bene coll altrui, come colla propria favella. Dall’
altra parte la cognizione di più lingue non è cogni- zione f«r se Itella
, ma è un mezzo per cui comuni- care foltanto a più altri quelle
cognizioni , che folle cofe e non fulle parole , fi foflcro apprefe (a) -
e un WC.F. n. 3. dotto farà fempre tanto dotto con una lingua , come
con dicci , ficcome uno fciocco non fi manifefterà men Iciocco con
dieci lingue, che con una fola. A ciò ri- guarda lo zelo, col quale ipiù
fenfati antichi, e moder- ni ancora, fi fono ognor dichiarati a favore ,
e àn fempre altamente parlato in commendazione de’ patri lari, de
patrj collumi, de’patrj iflituti, e della patria tavella .Ognun che
trafcuri tutto quefto per quanto é fuo, affine di adottarlo per quanto
folle dUltri, fia cer- to che trafeura quel che a lui è più naturale, per
aflu- mere e tenerfi a quel che gli è meno, e che ciò è co- inè s
ei fpogliafle 1 proprj velliti per adoffarfi gli altrui , che non fe gli
adatteranno mai bene indoflb . Un uomo di tutti 1 coftumi , di tutti i
fentimenti , e di tutte le lingue, fuole dal popolo e dai romanzieri
am- mirarfi come un portento . Un uomo tale per la ve- rità c per
la natura, farebbe un arnefe infignificantee contraddittorio, di nelTun
coftume, fentimento , o fa- vella che almen foffe Aia propria (A), com’ei
farebbe { 6 )C.VI.n.ì. di nelTuna nazione e religione, quando intendeffe
eflèr ^ di tutte. Del rimanente col diffinguere come fopra,
idi- verfi oggetti e coffumi di ciafeun tempo e di ciafeun luogo
(c), non s è già pretefo di dividerli in modo, y che non abbian poi a
convenire allo llelTo, per auan *°‘“«,'.P™«donp dalle ffefle invariabili
leggi motrici , c dall iffefla ragion urnana comune ; per la qual
cofa le lingue altresì fi vedon poi quafi confluir tutte in una,
allorché gli oggetti , i coftumi e i fentimenti in fomma umani efpreffi in
una favella, fi trafportano a qualfivoglia altra. Ma s’è pretefo con
quello foltan- to di far conofcere , che quella convenienza che
cor- re fra r une e 1’ altre lingue in riguardo appunto a codefie
leggi e a codefia ragion comune , per cui gli oggetti e i cofiumi fono
confimili, non pofla cor- rere in riguardo alle modificazioni di quelle
leggi e di quella ragiotie diverfe, per le quali gli oggetti e ico-
». 1 . Itumi fon pur diverfi (a). Ona è che per 1’ une e T altre lingue
s’ efprimono oggetti bensì confimili , ma diverfamente modificati , e per
le voci vir , uomo , e s’ cfprime il medefimo uomo , ma
diverfamente modificato in Lentulo, Giampietro, e Ricardo, come
{b)C.V.n.i. s’è veduto (i). Quefte modificazioni dunque diverfe d’oggetti
e cofìumi confimili fan fempre conofcere , eh’ efpreffi ciafeuni di
quelli in una favella per mo- dificazione a sè naturale e nativa ,
trafportati ad un altra non pefTon ferbare la nativa lor proprietà e
vi- vezza, ma debbon perdere di loro efpréffione più na- turale. A
quello modo fi dirà, che pofla ciafeun va- lerfi d’una lingua flraniera
qualunque, per quanto gli oggetti, i collumi e i fentimenti fono gli
llelfi e con- fimili a tutti i tempi e in tutti i luoghi, ma che
non pofla poi così propriamente valerli di efla come della propria
, per quanto quegli oggetti , collumi e fònti- menti elfendo confimili
nelle loro fpecie, fon poi dif- fimili nelle loro modificazioni col
variar de’ tempi e de’ luoghi . Dacché apparifee di nuovo , come
natura fempre a fe fteflà uguale e fempre faggia, avendo or- dinato
gli oggetti , i collumi e i fentimenti tutti con- fimili, ma pur diverfi
; col conceder agli nomini la ilefla favella perchè poteflero foccorrerfì
gli uni gli al- tri per quanto occorrefle , la concefle altresì
diver- fa , per quanto un fimil foccorfo poteflè renderfì loro
(r)C. X». 4 , inutile, o potefle ancora convertirli in dannofo (c) .
Ma all’illeflb tempo confervò nondimeno tutte le fa- velle
confimili , per avvertirli d’ una Ulefla ragione e amo-
Digitized by Google LIX ?fi- amore comune, per
cui doveflero tutti trovarfi uniti e concordi ; quafi avvertendoli , che
per fuppLire ai bi- fogni fcambievoU di iudilienza , baftava 1’ opera
im* mediata di pochi fra loro vicini d’ una litigai mede- sima; e
che peramarfi dovevano tanto Stenderli , quan- to le favelle loro cflendo
diverfe, foflcr tutte confimili, dovendo cosi il circolo dell’ amore fra
eSli edere incom- parabilmente più ampio , di quello dell’ interede
co- mune medeSitno. V. Ma ritornando airalterazione Solita feguir
col pro- gredo de’ tempi in ciafcuna lingua viva , è da odervar- fi
, che Sebbene queda foglia , e debba molto imputarli al commercio degli
uni cogli altri popoli di lingue di- verfe, e all’invafioni d’un popolo
d’una lingua folle terre de’ popoli di un’ altra; eda nondimeno dee
fem- pre principalmente attribuirfi alle modificazioni degli
oggetti e codumi, che col progreSTo de’fecoli fon Sem- pre diverfe nelle
confimili Specie loro (a)^ Perciocché (.a)CJCLn.i^ lafciando pur dare ,
che prescindendo ancora da inva- sioni e commercio ederno , la lingua
italiana o l’ ingle- fe d’ ora non è già la delTa che la italiana di
Guiton d’ Arezzo, o la inglefe diCaucer; è certo che per quel- le
invasioni e per quel commercio ederno, non è che gli uni adottino la
lingua degli altri , ma é che dall’ impado di due lingue (e ne forma una
terza , che non è alcuna di quelle, liccome dalla compofìzione dell’
une coll’ altre inclinazioni e codumi ne rifulta un’ altra a quelle
consimile, ma non mai la deSTa che quelle, pre- valendo però Sempre in
tutto quedo l’ indole degli og- getti edemi attuali e prefenti, e non mai
dei lonta- ni e padati . L’introdurre in una nazione i codumi e la
lingua d’un’ altra, quando tutto ciò va cangiando in qued’ altra fteSTa ,
è un’ aperta implicanza ; e il pre- tender tutti d’un codume e d’ una
lingua medefima farebbe lo deSTo, che limitar la natura come in
ciafcu- na Sua opera così in tutte , quando eSTa è tanto infi-
nitamente Simile in tutte , quanto infinitamente diffi- H z
milc Digitized by Google CAP. XI. niile in ciafcune
(a). Quindi è che per quanti barba- ci) C. II. n.z. ri così detti , fian
mai fceft in Italia , i coftumi iu> liani àn potuto bensì coiromperfi
ed alterarfi , ma non mai perciò renderli così barrati , come i colìumi
di quelli. E Io lleflb è avvenuto delia lingua, che coll’ alterarfi
per quello motivo, confervò Tempre 1’ indole dell’ antica latina , e non
già della gotica antica . 11 tutto per gli oggetti e le produzioni
italiane Tempre nel rinovarfi men diverfe da sè medeTime , di quel
che il potelTero eflere da quelle della Gozia . Per la qual cofa dovevano
ben i Goti più piegare ai collumi e alle inclinazioni italiane, che gl’
italiani ai collumi e alle inclinazioni de' Goti , giacché quelli col
traTpor* tarfì nelle pianure del Lazio e della Lombardia , non vi
avevano trafporcato i diacci o le rupi delle loro regioni . Certo, la
verità delle coTe non apparire airafpet- Delle cogni- to ellerno di elTe,
ma doverli invelligar per induzioni reali , e ^ioni da cagioni occulte ed
interne , quando più quando ^ e e ipparen- ^ come apparifce dalle molte
implicanze nelle quali s’ incorre nel giudicarne di prima villa , per le
quali implicanze quel che Tembra vero all’ ellerno, Ti Tcuopre
realmente non efler tale , e Ti riconoTce fovente elio Hello eller Talfo.
E’ certo altresì, una tal verità dover {b)C.Vl.n.z. nelle cofe eller
unica (i), mentre fe folTe più d’ una o folTc da fe Heffa diverla, quella
cofa ancora di cui fols’ elTa la verità , farebbe pure più d’ una , o
farebbe diverfa da sè medefima , ciò che certamente è impof- fibile
. Ond’ è che fe d’ una cofa llelTa fi giudichi in più maniere , tali
giudici non faran veri , ma faran dubb) ed incerti, e tutt’al più faran
probabili e veri- fimili, come foglion pure appellarfi ; e allora
foltanto faran elfi veri, quando elfendo d’un modo, fi ricono-
fcano non poter elTere d’ alcun altro. Ciò fa ch’io di- llingua le
cognizioni umane vere t reali, dalie verifi- Olili ed apfarcnri ,
conlidcrando quelle per tali , la cui verità non poffa cambiarfì con altra
, comechè de- c AP. XII. dotta da ragioni immutabili e neccfl'arie ,
colle quali non poflan altre competere , o polTan a quelle refi-
ilere ; e confìderando quede per tali altre , la cui verità poffa
eziandio cfler diverfa, comechè fufcettibi- le di più e di meno, o
proveniente da ragioni che s’ arreffano Aiirefferno, e che eflendo a quel
modo, po- trebbero ancora efferlo a un’ altro , ancorché non da
altre apertamente fmentite. Del primo genere fono le cognizioni che fi
direbber geometriche affratte , della cui verità l’animo riman talmente
convinto , che di più non ricerca per effe . E del fecondo fon tutte
le più ufate , folite fpacciarfi da chi applica coi metodi più
comuni all’ifforia, alla fifica, alle leggi , alla po- litica e fimili
ffudjpiù praticati, filile quali per quan- to la verità apparifca lotto a
un afpetto , lafcia pur luogo di apparir fotto a un altro fenza
contraddizioni , conofciute almeno ed efpreffè; fcgno evidente di
non effer dunque tali cognizioni reali, ma di effer foltan- to
apparenti , giacché le reali non fon che di un modo ( rt) , e quelle fon
di più modi . Dell’ incer- tezza di quelle feconde cognizioni in
confronto alle prime, non diffentono gli rtefli coltivatori di effTe
Ilo- rict , filici , legilli , politici ed altri , quando conven-
gono, le cognizioni loro ei fiffemi di più modi, non effer cosi evidenti
come le verità per efempio numeri- che elementari, da loro pure e da ogni
altro conofciute a un fol modo. II. Chi ben attenda a quello
conofcerà, l’intelletto umano effcre molto più inclinato alle cognizioni
effer- ne ed apparenti , che alle interne e reali , ciò che pro-
cede non già dall’ effer ei più capace del falfo che del vero , come
immaginan alcuni ; ma dall’ effer quelle cognizioni più facili di quelle
, non efigcndofi per le apparenti che certa attenzione fuperficialc,
quando per le reali fi efige un’ applicazione più diligente e più di-
lìntereffata . Q^uclla applicazione poi più diligente e difintereflata
richieda per le cognizioni reali, proviene ‘ dalla neceflltà di 6flar per
elTe lo fpirito per sè volu- bile e fugace, a un punto foto dei
moltiflinii , fra i quali ei fuole fvagare trafportato da’ cavalli dell’
im- maginazione fervidi di natura; e molto pià provien ella dalle
feduzioni de’fenli a proprio interelle, a che ei (la fortemente attaccato
. Per la qual cofa la mente umana o non cura idruirfi di fotta alcuna , e
fchiva d’ ogni applicazione, s’abbandona all’inerzia; o nell’ iftruzione
medefima s’ arreda alle prime imprellìoni , o fegue più la fcorta de’
fenlì in fuo prò, che quel- la della ragione, intollerante di quel freno
che quella cerca d’imporre a quelli, perchè non la traggano lun- pi
dal vero . Certo è , che tolta quell’ inerzia e quella intolleranza ,
farebbero gli uomini cosi ben idrutti del- la verità delle cofe, come ne
fon mal idrutti/ gli ot- timi conofcitori del vero farebbero nelle piazze
e ne’ mercati , nelle accademie e nelle corti , cosi familiari e frequenti,
come vi fon gl’ ignoranti e gl' impodo- ri, e tutti parlerebbero di
verità, come i Parrochi nel- . le Chiefe , e come i filofoli migliori ne’
privati loro recedi. Pare dunque, che la verità reai del le cofe
dia fituata a certo punto di mezzo unico e indivifibile , innanzi e
oltre il quale fia vano il cercarla , o non fia podibile il rinvenirla
che con dubbierà e incertezza ; e che gli uomini per lo più o non fi
muovano a ricer- carla del tutto, o neirinquifizione di elTa
trafcendano quel punto , (edotti e ingannati dai fenfi , che per
loro interede particolare li trafportano dall’ une all’ altre apparenze ,
lenza difcernere o arredarfi al pun- to reai delle cofe , fuor che ben
rare volte . In ef- fetto il didinguer fra tutti quel punto folo, efìge
cer- ta infidenza e applicazione , che non è volentieri incontrata
, ma è al contrario fchivata e abborri- ta ; e dall’ altra parte l’
affidarfì ad un punto fo- lo degli infiniti che ve n’ ànno , fra i quali
può la mente fvagare nella traccia del vero, è cofa ardua e difficile
. Laonde le verità nuile o peggiori faran“cAp xiT fempre più coltivate
delle alcune o migliori , e gli uomini ad ogni tempo e in ogni luogo
faran Tem- pre nelle lor cognizioni medefime più Aiperfìciali e
diftratti , che rifleffivi e raccolti ; perciocché non potendo le
cognizioni reali acquiltarfi che per ap- plicazione più laboriofa, c per
aftrazione dai fenfi , non faranno dunque elleno mai comuni fra gli
uomi- ni , alieni comunemente da quel lavoro e da quell’ aerazione,
maffime per l’interelTe loro che v’intervie- ne particolare , al quale
principalmente riguardano i fenfi . S’ aggiunge a ciò, che quel che
induce gli uo- mini ad applicare di via ordinaria alle cognizioni
ap- parenti, non ollante refler clTe divcrfe dalle reali , è ancor
quello , che quelle cognizioni per quanto fian dubbie , oltre al prefentarfi
Tempre in fembianza di reali , lon bene fpeffo reali effettivamente effe
fteffe ; e la differenza dell’ une dall’ altre confifte foltanto in
ciò, che laddove le reali fon conofciute tali immedia- tamente per sè
medefime, le apparenti non fi ricono- fcono per reali che dagli effetti
confecutivi , o dall’ cfperienze eventuali che lor corrifpondano o non
cor- rifpondano, attendendofi cosi da quelle la prova della verità
loro reale , o della apparente . Allora poi le co- gnizioni corrifpondono
cogli eflfetti confecutivi , o fon comprovate per elfi, quando effendo
quelli dagli altri diverfi, non fono a quelli contrarj; e allora non
ccr- rifpondono, o non fi verificano per gli cfl'etti che ne
confeguono , quando quelli fi trovano implicanti , e a tutt’ altri o ai
comuni contrarj . Imperciocché le co- gnizioni, all’ illello modo che gli
oggetti creati , e i cotlumi c le ^inioni umane che ne derivano (/») , C.VII.n.i.
poffon bensì cller diverfe , ma non poffon fra sé tro- varli giammai
contrarie, e quelle e quelle finché fon diverfe, fon reali e conformi
alia verità comundi na- tura ; e qualor fi readon contrarie , fono
apparenti , imponìbili , e conformi al/alfo e all’errore. Le
cogni> zioni dunque apparenti polTono e(Tcr reali ancorché
fempre noi (ìano, perchè dipendendo dagli effetti con- fecutivi , poflbno
queffi effer dagli altri diverfi , ancora chè poffano eziandio efler a
quegli altri comuni con- trari ; a differenza delle cognizioni reali così
dette , le quali non dipendendo da effètti confecutivi alcuni , ma
da sè fole, ed effendo fra sè diverfe, non poflbn efler contrarie nè fra
sè ffeffe, nè negli effètti comuni che le confeguono . Gli uomini poi
inclinano più a quel- le che a queffe cognizioni, per eflTer più facile
atten- dere la verità dagli eventi confecutivi benché dubbio- li,
che logorarli il cervello, come lor fembra, nel ri- cercarla per sè
medefima e di prima mano. E ciò tan- to più , quanto per le lufìnghe de’
fenfi , o per interef- ie loro particolare, le cognizioni apparenti
dilettano molto più delle reali , avvegnaché queffe iffruifeano più
di quelle , e ognun vede , che inclinando elfì fem- pre più ai diletto
de’fenfì che all’iffruzion della men- te, faranno dunque efft fempre più
avidi di cognizio- ni apparenti che di reali , in tutto ciò che riguarda
la ricerca del vero. Ma intanto qui fi vede, come le co- gnizioni diverfe
e reali, alle apparenti ad effe contra- rie tengono la ffclTa relazione,
che gli oggetti pur di- verfi e reali, ai contrarj ad effì e aita comun
ragione , per queffo appunto, che quei primi coffumi procedo- no da
quelle prime cognizioni , e queffi fecondi da queffe feconde.
IV. Quello ch’io vorrei qui malTimamente avverti-
(»)C.XIJ.n.i. to, egli è, che quantunque il punto fuddetto (a) nel
quale fu detto dler polla la verità reai delle cofe, per edere indubitato
e folo, fembri non poter convenire e non poter confeguirfi che nelle
cognizioni affratte e geometriche cosi dette , convien elio nondimeno e
fi trova molto bene in ogni genere di cognizione pratica. Chi crede
la fola geometrìa e l’ altre cognizioni affrat- te , dette ancora
teoriche , capaci di certezza reale , e l’al- o
Digitized by Google r altre cognizioni dette volgarmente
pratiche, non ca-‘ paci della certezza medefìma; non avverte,
l’adrazione di quelle prime non confidere appunto che nell’
a<ha> rione dai fenll , e la evidenza di elTe dipendere dal
metodo d’ inveliigare il vero , o di dedurre le verità più compone dalle
più femplici. La qual aerazione dai ienfi e il qual metodo può aver
luogo, anzi dee aver- lo, ed applicarfì a qualfrvoglia facoltà di leggi ,
di Itoria , di fìfìca , di politica , di teologia liefla e di
morale , e di tant’ altre , nelle quali foglion dividerfì le cognizioni
umane; di ciafeuna delle quali fi giudiche- rà Tempre realmente , fol che
fi aftragga dagl’ ingan- ni e dalle feduzioni de’ fenfi , e fi giudicherà
femprd con dubbio, non afiraendo datai feduzioni, o non cor-
reggendole per lo reale della ragion comune , come fi pratica nelle
cognizioni dette appunto afiratte e teori- che. In guifa che 1’ incertezza
delle feienze pratiche come le appellano, in confronto delle teoriche o
afirat- te, dipenda Tempre dall’inganno de’ fenfi , dai quali gli
uomini s’ingegnano in vero di aflrarre o di pre- feindere, quando
meditano, ma non fan rifolverfi di far lo fieflb, o duran fatica a farlo,
quando operano. A quello modo ogni fpecie di cognizione umana ,
qualor lia verace e reale , fi renderà una fpecie di geo- metria, e non
rendendofi tale, non farà che una co- gnizione fuperficiale , apparente
ed incerta , come quel- la che involve le illufiioni de’lènfi, perle cui
apparen- ze può ciafeuno cafualmente imbatterfi nei vero, ma può
ancora rellar ingannato o trovarli involto nel falfo. Anzi la Geometria
cosi detta , non farà per sà flella cognizione, ma parlando più
propriamente, farà il metodo ola regola, per la quale
dillinguereinqual- fivoglia fpecie di cognizione il reale dalF apparente
, e di rilevare in ella la verità per quanto è poflìbìle , o di
difingannare per quanto non è polfibile di rile- varla * convenendo così
elTa colla Logica comune , o ellendo la Geometria una Logica pratica ,
quando la } comune cosi detta, non è che una Logica fpeculativa
, men facile a praticarli e men ficura . Del rimanente è poi vero che parlando in
gene- re, lo fpirito umano in ordine a cognizioni , parte (i trova
fotto al punto reale e più precifo di elTe difopra accennato ( a ) , e
parte ancor Io oltrepalTa e trafcende * e che quello è il coliume del
popolo più incolto ed abietto inclinato alla pigrizia, quando quello è il
fo- lito del popolo più colto e volgarmente Hudiofo, aman- te per
lo più delle follecitudini e della gloria alfanno- la . Perciocché egli è
vero, che gli uomini fchivi di quella laboriofa applicazione eh’ elige la
ricerca del vero reale , s’abbandonano fpeflb all’inerzia e non v’
applicano di Torta alcuna . Ma dall’altra parte è vero altresì , che
avidi elTi di cognizioni , e Idegnofì per mancanza di quelle di vederli
confufi col comun del- la plebe, s’alzano fopra quella nella ricerca
medellma , nella quale poi impazienti di freno, lìlafciano trafpor-
tare dalie illulìoni de’fenfi come s’è detto, oltre quel punto, e lo
sfuggono fenza avvederfene, feorrendo dall’ I,: ignoranza propria
del volgo più rozzo, a quella propria de’ comuni (ludiofi, che per
lo più fono i troppo llu- diofi. L’una e l’altra ignoranza può dirfi
comune , ef< tendo ben pochi quei che fcevri da illulìoni ,
ricerchi- no la verità con accuratezza fenza penofa follecitudi- ne
, e eh’ elTendo tranquilli , non fiano pigri ed iner- ti. E l’una e
l’altra ignoranza fi dirà ancora comune^ del pari ; mercecchè chi
toglielTe a follenere , quella' de’ comuni lludioli elTere meno ellefa, e
più tollerabile di quella de' comuni idioti , torrebbe a follenere
ardua e didicil cofa , e a ben riflettere s’ accorgerebbe , la
diffe- renza dell’ una dall’altra ignoranza elTèr polla in ciò
foto, che elTendo quella degli idioti più fempliceemen fallofa, quella
dei più fludioiì tien più di fallo, e men di femplicità. Poiché le
cognizioni apparenti ed ellerne fon mol- to pià coltivate delle reali ed
interne (a) , egli è certo, che gli uomini nella condotta de’ loro
aSari, dovranno di regola generale govemarfi per quelle, più che
per quelle cognizioni , dovendo certamente go- vemarfi ellt comunemente
Mr cognizioni che fiano fra lor più comuni , anziché per quelle che
fodero men comuni. Una llmil condotta loro non può negar- li in
pratica da chi dia ad olTervarli , ed ogni perfona più accorta s’ avvedrà
molto bene , che tenendo cia- fcun in mente certa verità reai delle cofe
non abballan- za da lui fviluppata ed attefa , pure co’ fuoi penfìeri
e colle fue azioni fa forza a sè delTo per adattarli alla verità di
quelle apparente , e ciò per conformarli al comune degli altri , che
paghi di quella verità, mal foflfrono di procedece a quella . Nè v’è cola
più fami- liare, quanto il vedere i più fenlati in ogni fpecie d’
aflàri loro economici e civili ancor più fer) , adattarli con certa
ripugnanza interna colle cognizioni loro rea- li per quante ne tengono,
alle apparenti dei men fenfa- ti, come altresì a quantità di ulRcj,
formalità, e con- venienze ederne di vita vane ed inutili, che di
quegli adari più fer) fon per lo più la difpofizione , il. vei-
colo , e l’impulfo maggiore . Lo che non per altro certamente fuccede ,
che per la facilità maggiore , col- la quale quegli adari fi conducono a
proprio interef- fe colla fcorta dei fenfì per cognizioni apparenti , di
quel che li conducedero per reali, con più d’efame e con più adrazione
dai fenfi , fodrendo così ciafcu* no con qualche fua pena negli altri
quella negligen- za di cognizioni , che brama con maggior fuo co-
modo da altri fodèrta in lui dedb . Tutto quedo poi avviene fenza
difordine , e con efito ancora feli- ce , purché- quelle cognizioni
apparenti non s’oppon- gano alle reali , ciò che negli uomini che fi
regolino a quedo modo non può conofoerfì che per gli effetti
1 2 con- Cognizioni apparenti più pratiche delle
reali . Confecutivi come s’è veduto (/») , o per Toltraggio o danno
che fe ne fcorga provenuto negli altri. Percioc- ché fe quegli aflari
cosi condotti , eflendo utili a sò fteflì , non riurciran dannofi ad
alcuni ; le cognizioni apparenti,- per le quali (I conducono , faran
conformi alle reali e procederanno elll felicemente , e il contra-
rio avverrà, fe da quell’ utile particolare ne feguirà danno ad altri ,
nel qual cafo non potrebber gli ad'ari procedere , che con ifconcerto e
difordine . ' 11. E invero fe gli uomini tutti fi- governalTero
di- rettamente per cognizioni reali e teoriche , gli fcon- certi
fra loro farebber tolti del tutto e farebbero im- polTibili , tutti fi
troverebbero d’ un fcntimento confor- me ed unanime, nè vi avrebbe il
cafo di diirenfioni dell’uno coll’altro in qualfivoglia genere d’
intereife o (ù')C.XII.n.z. d’ affare (é). Ma effendo quello iirpoffìbile,
attefa la (0 feduzione de’fenfi a proprio intercfle ( c ) , ei bada
dun* que per evitar gli fconcerti , che governandoli effi per
apparenza e per pratica , non s’oppongano almeno al reai delle cole .
Quegli fconcerti poi procedono dalla verità di natura , la quale non
laida di regolare gli uomini per io reale , ad onta d’ogni lor
propenfìone , dilegno e inffllenza di regolarfi pure per apparenze
. Ond’ è , che fe tali apparenze fon contrarie a quel rea- le,
debbono quelle andar vuote d’effetto , o confeguir-i lo con difordine,
per poter bensì l’apparente averluo- go, quando non na al reale
contrario, ma non pcter- aver mai, quando al reale s’ opponga {d) .
Quello regolarfi gli uomini da sè fteflì per apparenze , e re-
golarli la natura irrefiffibilmente per io reale, fa cono- feere, che fe
effi pur reggono e fuffiffono, e i loro af- fari procedono felicemente ,
ciò avviene per difpofizic- ne e faper di natura , e non mai per
fapicn-za loro , giacché governandofi effi al primo modo errano
bene ImITo, e fi trovano fvergognati dalla verità reale, quan- do
natura governandoli al fecondo non erra giammai, ed è Tempre a sè llelTa
conforme . Egli è ben vero , esser poi quefto ftcflTo il gran delirio di quei
politici , CAP. XIlT ed altri che più prefumono di prudenza umana ,
i quali vedendo cosi fpenb mancare i loro progetti più ipeciofì ,
non s’ accorgono derivar ciò da quello appun< to, di elTcr quelli
contrari al reai delle cofe, per non riguardarne che l’apparente, per la
qual cofa la natu- ra che non intende apparenze , fconcerta le loro
ini- fure , e delude per lo reale quanto per 1’ apparente eflt
tentano , e non è Tempre polTibile che riefca . Peg- § io però
intendono e ufan quei fcimuniti , che veden- o i molti difordini che
corion fra gli uomini , fogliono imputarli alla natura , o al grande autore di
e(Ta « quando è certo che debbon quelli imputarfi agli uomi- ni
Itein, che in luogo di applicare al reai delle cofe, applicano all’
apparente , che può a quel reale elfer conforme, ma può ancora a quello
cder contrario, e perciò impolTibile a riufcire ( <» ) ; in guifa eh’
effen- ».j- do gli uomini Tempre occupati a imbarazzarfi
infìeme per fole loro follie, la natura non fembri occupata d’altro , che
di sbarazzarli , emendando e correggendo quelle follie medefime . Quello
che qui lì dice è tanto più vero, quanto la verità reale non è già per gli
uomini un arcano, ma è cofa palefe ad ognuno, che nel cercarla fap- pia
prelcindere , o non fr lafci ingannare da illulìoni di fenfi . Ciò fi
manifella , oltre per la forza che co- me (opra ognun fa a fe llelTo
nell’ adattarfi al penfar apparente degli altri (é), per quello ancora ,
chegrin-(i)C.X///.».i- ganni medefimi , nei quali bene fpelTo cadono gli
uo- mini per quelle illufioni , appena incontrati da una parte da
alcuni, fono riconofeiuti da tutti dall’altra , non folo per gli effetti
contrarj che fpelTo ne deriva- no , ma per lo pianto ancora , e pel rifo
che più an- cor di frequente fi fparge full’ azioni umane. Percioc-
ché le ben fi confideri , l’uno e l’altro di quelli non è pollo che in
ciò, di riconofeer gli uni , che s’ollinino gli altri a regolarfi per
apparenze, quando la natura e Hiria neceffità li aftrigne a regolarli per
lo reale . Dacché procedon fra loro quei tanti inganni , e quelle
mife- rie , che vedute in altri folTerte per altrui opera , ge-
neran la compaflìone ; e vedute fofferte da altri per lo- ro colpa ,
generano il ridicolo . Non avendovi poi ge- nere di peribne di
quallivoglia arte, ufficio , o profef- lìone , fui quale non cada qualche
fpecie di compaffio- ne o di ridicolo conofciuto da tutti , non v’avrà
gene- re di perfone , che non fi governi per apparenze . Ma quella
riconofcenza comune medefima farà molto ben noto, una verità reai delle
cofe elTer da tutti fentita, ancorché men coltivata , per eflcre
veramente più fa- cile compatire- le altrui miferie o ridere degli altrui
in- ganni , che coltivar quella verità con più d’ attenzione, aliraendo
dai fenfi e dalle loro illufìoni a proprio favore (a), E qui s’ oflfervi
, come di quella verità rea- le fentita , ma non attefa , fon del pari
lontani ed igna- ri e quei che delle azioni umane fentono
compaflìone, e quei che ne conofcono il ridicolo, colla fola
differen- za , che l’ignoranza dei primi pare efler quella della
plebe meno fludiofa, e l’ignoranza dei fecondi quella degli fludiofi di
fole apparenze, o dei vanamente ftu- diofi (é), quando quei che applicano
al reai delle co- fe , non piangono nè ridono mai delle verità che
cono- fcono . Così Eraclito , e Democrito , come vien detto , erano
tanto faggi , quanto a conofcer le apparenze per cali , ma non quanto a
diftinguerle dai reale o a cono- fcer le verità uefTe reali , al che
nelTuni procederono tanto innanzi, quanto ifilorofì del crillianefimo.
Que- llo però non impedifce, che in ogni flato, poiché le
cognizioni reali vengono in confeguenza della iflruzio- ne , e le
apparenti in confeguenza del diletto durato nell’ acquiflarle, gli uomini
più propenfi a quefto diletto che a quella illruzione, non lian più
ricchi di quelle che di quelle cognizioni , e che gli affari loro
condotti per aroarenze, non fi conducano femprecon implicanze e difordini
, di che non lì ceflTa di lamen- tarli, Digìtized by
Google Lxxi tarfi , e a che non fi cefla di fiudio per
provveder- "c a V. Xlir. vi. 1 quali difordini , (oliti mal
attribuirfi alla debo- lezza delle umane cognizioni , e peggio a diHètto
di natura (<»), abbian tutti a cadere come s’ è detto, fuU’
WC.A^///.».z, avverfione fuddetta all’ifiruzione migliore^ e filila
prò- penfione al diletto fiiperfìciale e peggiore ; mercecchè
dovendo Tempre gli affari proceder per verità reali, e con certo ordine
di natura flabilito dal fupremo Tuo autore, qualora voglian diflrarfi per
apparenti contra- rie a queir ordine , non potranno a meno di non
pro- cedere con difordine. IV. Qui non può a meno di non
prefentarfi alla mente una verità, la quale è quella , che
diflinguen- dofi gli affari particolari dai communi , poffano
nell’, ellerno molto piò facilmente condurfi per cognizioni , reali
quelli che quelli , per edere appunto il particola- re più facilmente
condotto per Io reale, di quel che fia- fi il comune , che come s’ e
veduto (6), non è con- WCJCILn.i, dotto che per apparenze . Una fimile
verità quantun- que di fatto , non fi efprimerebbe da alcuni con
pa- role , quafi per timore di non mollrar per effa dì cre- dere ,
o di dar a credere , che al governo degli altri non fi richiedan che
cognizioni apparenti , polle le reali tutte dapparte. Allopollo però di
quello, chi ri- detta più finceramente apprenderà, che per quello
ap- punto di dover il comune degli uomini regolarfi per cognizioni
apparenti , è necelfario fra elfi un governo ellerno, per cui da quell’
apparente fian tutti condotti al reai delle cofe ; mercecchè fe il comune
degli uo- mini fi regolalfe per lo reale, ogni governo allora fra
loro ellerno farebbe inutile e vano . In edètto fe fi confìderi che per
necedità di natura debbon gli adàri procedere per lo reale , e che
l’apparente può invero elfere a quello reale conforme , ma può ancora
non eflèrlo; ^li è dunque d’ uopo per non trovarfi col- (c)
C.XJI.n.j. la natura in contrailo , che v’ abbian alcuni , i quali
più bene intefi , più efperti ed illrutti degli altri nelle verità reali ( che
o bene o male fon fentite da tut- ma non da tutti dalle apparenti dipinte
(<r) ) pre* fìedano agli altri , e diftinguan loro quali di tutte
le cognizioni apparenti per le quali fì regolano, fianò al- le reali
couformi , e quali fìano a quelle contrarie . Quefto infatti è ciò cn è
intefo per ogni Governo, pri- ma per la perAiaHone della Religione ,
depofìtaria del- le verità reali non corrotte da apparenze contrarie,
e desinata così a infegnarle ai popoli per regola delle loro paOioni
, delle loro azioni , e de’ loro coftumi ; ed indi per la forza o il
comando del Principato , de- Ainato a far valere quelle verità medefime,
e a difèn- derle, per Quanto colle apparenti a quelle contrarie
fof- fero contralUte . La qual difinzione di Religione e di
Principato nel governo non è un giuoco dì fpirito , ma una necefìtà di
natura , per cui nella condizione uma- na non è pofibile , che un
perfuada a ciò a che dovefe pur af rignerc , o afringa a ciò a che
dovefle pur per- fuadere, per l’ abufo d’una di quefe facoltà che
ognun vede poter allora feguire nell’ ufo dell’ altra , come ò
altrove dimofrato ampiamente . Io qui parlo de’ go- verni ben ordinati e
fenfati , ne’ quali la Religione ap- punto e il Principato nelle
refpettive loro appartenenze iuddette , fon del pari lìberi e
indipendenti , come nelle nazioni più colte e più crìfiane ,* e non de’
governi difordinati , ne’ quali confufe quelle due appartenenze in
una , o oppredà l’una dall’altra , il governo (lelTo non è che una
fìmulazione o impofura , rapprefentato da una fola autorità più forte , e
foggetta alle UriTe il- lufioni d’ ogni altro , come nelle nazioni men
colte , o nelle quali più prevale la fchìavitù e 1’ ignoranza.
V. In qualunque modo però proceda un governo* egli è fempre vero ,
che attefa l’inclinazione comune all’apparente più che al reale, elTo non
efibifce opre- fenta mai ai popoli le verità reali , che coll’afpetto
delle ‘ apparenti, e che nel adattare appunto 1’ apparente con-
forme e non il contrario al reai delle cole , è pollo tutto l’arcano e
l’arte ben difficile di regger i popoli, CAP. Xllf. fenza di che quella
non farebbe, che un’arte ben fa- cile di follazzare sè lleflì . I governi
poi ben ordina- ti dagli fconcertati fi dillinguono appunto per quello
foto , eh’ eflendo gli uni e gli altri occupati nell’ ac- comodare il
reale all’ apparente , o all’ intendimen- to fuperficiale del popolo, i
primi per quell’ apparen- te non li fcollano mai dalle verità reali molto
ben conofeiute da chi governa , quando i fecondi per quell’
apparente s’ oppongono più o meno a quelle verità reali , feonofeiute ed
ignote talvolta più a chi governa , che a chi da altrui è governato . Ma
intanto quindi apparifee, come non potrebbe dirli cofa più
inlenfata di quella , che la Religione non abbia ad aver parte nel
governo de’ popoli nell’ illruire , come loà l’Impe- ro nel comandare , o
nell’ allrignere alle verità mede- fime, per le quali i popoli fon
governati; Tempre ciò intefo de’ governi (inceri e reali , e non delle
fimula- zioni o apparenze di ellì , contrarie elTe (lede talvolta
al reai delle cofe. Quello poi ch’è pur detto da alcu- ni con qualche
circofpezione e riferva , toma però a quello che con minor riferva è
detto da più altri ; cioè che al governo Udrò ballino cognizioni
pratiche, vale a dire apparenti (a), e che le teoriche o reali fìa-
(s)CJÌlIIji^. no del tutto inutili . lo fon certo, che gli uomini
di (lato più accorti , converran Tempre meco , che ogni lor pratica
abbia da procedere da conifpondente teo- rica , e che per quella fola da
quella difgiunta, gli (latifli non dovelTer riufeire che a tanti ciechi,
che lì battdTero infìeme / nel qual cafo i popoli di elfi
più faggi àvrebber ragione di lafciarli fare , governandoli inunto
da loro llelfi (è) . P t^emefle quelle conftderazioni Tulle cognizioni urna-
ne reali e Tulle apparenti , per rilevare 1’ effetto Imperfeiione
della favella nel comunicarle altrui, gioverà confiderà- dell» favella re
in prima pur quella fotte un doppio afpetto , o di dichiarare ad altri le
cognizioni della prima fpeciepià ardue e men note, o di trattenerli su
quelle della fe> conda più facili , e quai fon conofciute
comunemen- te ; giacché in eflètto quallìvoglia ragionamento verfa
fempre su qualche foggetto , noto bensì ad ognuno per le lue apparenze
più generali ed elìerne , ma ignoto altresì comunemente per li Tuoi
principi afcolì ed interni. Siccome poi le prime cognizioni fì fon
vedu- te intefe a idruire , e le feconde a dilettare ciafcuni
(«)C.X7I,ff.3.che vi applicano (a); così ufficio della fa\ella fi dirà
pur doppio, o d’ iflruire altri nelle cognizioni non per anco da effi
acquilìate, o di dilettarli nelle giàacqui- lìate; quello molto più
familiare di quello e frequen- te, giacché il più confueto degli uomini è
d’ intrat- tenerfì fra lor per diletto, favellando di quel che fan-
no; e l’inllruir gli uni gli altri di quel che quelli non fanno, par cofa
riferbata alle fcuole , e da non prati- carfi fuor d’efle che con altrui
fallidio , dai foli pedan- ti. Nientedimeno, poiché la favella é pur
dellinata a partecipare ad altri le cognizioni da cialcuni acquiUa-
te , e tali cognizioni dipendono da oggetti appreli e <6) C,XlI.n.i.
combinati ( A ) ; é altresì da confiderare , eh’ elfendo 3 ue(li
oggetti a numero incomparabilmente maggiore elle voci, per le quali
poflfano denominarfi (r), le vo- ci in ogni favella mancheranno bene
fpelTo, come per nominar quegli oggetti , cosi molto più Mr efprimer-
ne le cognizioni , e la favella a quell’ enetto rinfeirà un mezzo dubbio
, confulo e imperfetto . E invero quantunque ciafcuni oggetti in ciafeuna
favella ten- gano alcune voci più efprelfìve e diUinte , dette per-
unto \ot proprie", ciò non fa che tali voci non pollano eziandio
applicarli ad oggetti da quelli diverli , per le quali diventan traslate
, non per altro certamente , che per la povertà appunto di clTe voci in
riguardo agli oggetti, eaU’impoinbiltà di appellar ciafcuni con
voci talmente proprie , che non pòiTan elTer d’altri . Oad’ ,é che una
voce medeGma dellinata cosi a più oggetti , gli cfprime Tempre con
proprietà maggiore o gap. xiv. minore , ma non mai per la fola e precifa
, che cor-' ril'ponda per la cognizione di dii. II. S’ arrese
, eh’ dTendo le apprenfioni e le com- binazioni d’oggetti diverfe nelle
ciafeune menti y tali combinazioni
che ne derivano , debbon pur dier per ciafeuni diverfe , e il comunicar
uno agli altri le proprie, potrà bensì edere per regolarle e
confrontarle con quelle degli altri , ma non mai perchè diventino
cosi proprie d’altri, come fon fue. All’incontro la fa- vella è a
ciafeuno comune , ed è la deda in una def- fa nazione, e quando dante la
diverfità d’apprenfioni e di combinazioni d’oggetti, le cognizioni
particolari fono in altri più chiare ed edefe , in altri più ofeure
e ridrette ; le voci per cui efprìmerfi , non fon più chia> re o
copiofe per ^elli o per quedi, ma fon le dede per tutti , e il più
fciocco parlerà forfè tanto e più ancora del più lenfato. Per la t^ual
cofa la favella do- vrà ognor trovarfi inedìcace o imperfetta per
efprime- re le cognizioni , dovendo eda eder tanto comune al dotto
che più ne podìede , che all’ indotto che ne pof- fiede meno , e dovendo
necedariamente adattarfi all’ intendimento non dei più, ma dei meno
intendenti , che fono a maggior numero fra quei che l’adoprano .
A quedo modo parlando più propriamente , fi direb- bero le lingue
idituite non a efprimere le cognizioni , ma a fufcitarle più o meno nelle
menti a norma dei ciafeuni intendimenti, giacché per le dede voci altri
le apprende più didinte e moltiplici, altri più limitate e confufe
. Perciocché per quanto il dotto tenti parteci- par le fue all’indotto,
ufando la deda di lui favella; quedi non le concepifee mai che in relazione
alle per lui apprefe dianzi , per gli ometti dedi da lui com-
binati diverfamente dall’altro. Per quedo di cento che odano un
rt^ionamento, o che leggano un libro def- fo, ciafeun fe ne idruifee a
norma della qualità delle cognizioni da lui podedute e apprefe dianzi , e
il dottO' K a puù può per un libro fciocco > rettificandolo
e migliorandolo per le Tue cognizioni, farìfipiì^ dotto, <|uando
l’indotto per un libro de’oiù Irafati, può divenir più sguajatodt
prima, o renderli per quella lettura più (Iucche vote e più Impertinente,
ma non già più dotto. Se ciò non fofle , ogni difcepolo al folo udire il
maedro, diverrebbe co- sì dotto che lui , e per divenir Capiente come il
Gali- leo dovrebbe badare il leggere le fue Opere, che par- lando
generalmente è tanto vero, quanto il pretende- re di partecipare alla fua
dottrina , per adìbiarri quel fuo certo collare che forfè fi conferva per
memoria di un tanto uomo, ma non per ridampar qued’uomoad ognun che
Io adìbj. III. Per altro qui cade a propofito di riflettere
al- quanto Alila diverlità delle cognizioni umane , e Alila
moltiplickà per ede e varietà, con cui procede natura nelle Aie
operazioni. Perciocché edcndo in prima le voci in ciafcuna lingua a così
gran numero , quanto è pur noto ; quedo numero moltiplica colla ferie de’
tempi infiniti e de' luoghi finiti, efomminidra una moltitudine
innume- rabile di lingue, in ciafcuna delle quali le voci lon all’
idedb modo moltidtme . Contuttociò fe A confiderino le maniere, colie
quali quede voci prefe a numero mag- giore e minore fogliono combinard e
permutarA in una favella, A conofcerà, tali combinazioni e permute
collocate pur con fenfo e difcemimento , edere a nu- mero
incomparabilmente fuperiore a quello delle voci in eda , ed eder in tutte
le lingue a tanto più anco- ra , quanto imfwrti quedo gran numero di
pennute e ' ' di combinazioni in una lingua , moltiplicato nel nu-
mero delle lingue di tutti i luoghi e di tutti i tempi - Padando poi
dalle voci e combinazioni loro, agli og- getti ocmbinati per ede efpredt
, e alle maniere di co- gnizioni che ne derivano ; A conofcerà , la
moltitudi- ne di tutto quedo edere incomparabilmente ancor fu-
periore a quella delie combinazioni di voci , e tanto- Aiperiore in
ciafcuna lingua, quanto per ciafcuna combinazione di voci in efla ciafcun
apprende e combi- c AP. XIV. na gli oggetti fiedì difl'erentemente , e ne
forma di- verfe le cognizioni, proferendole iftelTamente . Tanto-
pià poi fuperiore in tutte le lingue, quanto quel nu- mero di cognizioni
diverfe in ciafcuno di diverfa lin- gua , moltiplicato pure nel numero
delle lingue tutte diverfe palTate , prefenti , e future . Quello poi che
re- ca maggior forprefa egli è , che tutta quella prima pro-
digiofa quantità di voci e combinazioni loro , non de- riva da più , che
da venti elementi o lettere d’ alfabe- to, più o meno pronunziate in ogni
lingua . E che queda feconda tanto più prodigiofa e incredibile
quan- tità di apprenfloni e di combinazioni d’oggetti , e di cognizioni
su e(Tì, non deriva che da alcune leggi di moto quanto più femplici e
vere, tanto più uniche e fole , giacché tutte le apprenfioni e cognizioni
uma- ne , per quanto fiano individualmente diverfe in cia- fcuno ,
pur fono in tutti confimili (a). Tutta poi («) C. II. mi.. codeda varietà
e fbmiglianza di cofe è unita e con- catenata infìeme , e procede e fi
confegue con certo- ordine e ragione eterna e immutabile, lenza la
quale {^un comprende nulla poter avvenire , e a comprendere la
quale ognun conofce in sè dedb, poter edenderfi ben per poco la umana
capacità, colla fcorta di fenfi infermi- e fallaci. Niente di meno in
quedo dedo natura non manca , giacché dal minimo faggio che di ciò fi
tra- fpira, può altresì ognuno arguire, quanta e quale fia- la
pofTanza e la fapienza del fupremo autore di tutto quedo , e quanto
ammirando l’ordine e il raagidero „ con ch’ei governa e regola
l’univerfo. U NA affai curiofa confeguenza che dalle cofe Aid- CAP.
XV. dette fi viene a dedurre è queda , che l’ imper-
ImMrfezione lezione accennata delle lingue, per cui le voci riefcono
dell» favella a numero molto minore di quello degli oggetti per
dell effe efpredi, par che torni non già a diffctto co- me
fi. crederebbe a prima vida , ma a perfezione ed eleganza di quelle maggiore,
in quanto non avendovi cosi nefTune voci talmente proprie e attaccate
adalcu* ni oggetti, che non poiTano applicarfì anco ad altri ; gli
oggetti tiefli polTono efprimerri , o dedarfene le im- magini negl’
intelletti, non folo per voci dirette, ma per fHÙ altre ancora indirette
chiamate traslate come (a)CJCIF.n.ì. s’è veduto (<»), d’t^getti a
quelli analoghi e confi- mili. A quello modo lebbene manchino nelle
lingue le voci dell’ ultima precisone alle immagini degli og- getti
determinate , foprabbondano per le indetermina- te, e in mancanza e
neU’impofTibiltà di adoperare per ciafeuna immagine ciafeuna voce
diverfa, le ne ado- prano non una , ma più e più altre d’ oggetti a
quel- k affini e confimili , per le quali non una , ma più immagini
fìmilmente occorrono all’ intelletto pur fra sè confimili e combinabili,
ciò che Tuoi avvenire con molto diletto e foddisfazione dell’ intelletto
medefimo. Cosi appellandofi DIO ottimo e grandiffimo, non folo per
quello venerando più proprio fuo nome , ma per altri ancora traslati di
via, di verità, di vita e fimi- li, fi dellan nell’ animo tutte le
immagini proprie e bro affini , polTibili più o meno a dellarfi per
quelle ciafeune voci, a mifura dell’attività dell’animo Udrò, onde
figurar alla mente con più efficacia e grandezza r idea di quella
ineUàbile elTenza . E generalmente laddove fe ciafeuna voce propria
corrifpondellè efatta- mente a ciafeuna immagine a efclufione di tutt’
altre voci , da dieci voci proprie per efempio , non fi de-
Uerebber nell’ animo che altrettante - immagini combi- nabili in alcuni
modi; corrifpondendo quelle nonefat- tamente e non a efclufione di altre
, vi fi dellan per dieci voci proprie e più altre traslate, pur
altrettan- te immagini combinabili in nioltifiime più altre ma-
niere . II. Su quella condizion delle lingue , o fu quello
difetto in effe di vocaboli per efprimer gli oggetti, è pollo tutto i!
pregio deli’ eloquenza, e da ciò derivano tutte le perfezioni e tutti gl’
incantcTimi dell’ arte c AP. XV. oratoria , e più della poetica; vaie a
dire non folo i traslati , ma le allegorie ancora > le allulioni , le
para- bole, le (imiiitudini, le analogie, le efagerazioni , il
palTaggio dal proprio al metaforico , dal ferio al gio- <cofo, dall’
animato all’inanimato , e fimili ornamenti che fan la grazia, la forza, e
la bellezza eh’ è invero delle immagini dedate e .combinate nell’
intelletto, ma che in eflb non fi dellerebbero e combinerebbero,
fei termini nelle lingue coi quali efprimer gli ometti, fof- fer
tanti quanti eflì . Perciocché dall’ dfer folo quelli a molto meno, ne
avviene che non fiano quelli cosi propr) di alcuni oggetti , che non
polTanu eziandio trasferirfi ad altri, per li quali con numero d’
imma- gini maggiore, certe verità intefe afignificarfi, fi rap-
prefentino all’ intelletto con più di vivacità e di va* ghezza . Egli è
ben vero che affinché ciò riefea felice- mente è d' uopo, che tali
traslati feguano con certa fcelta e giudicio, fenza di che tutti gli
ornamenti ret- torici e poetici non avrebbero fenfo; e non
confiden- do edéttivamente l’ infenfatezza che nella combinazio- ne
d’oggetti fatta fenza dilcernimento (<;), fe le voci («)C.7. ». a,
proprie fofler applicate ad oggetti trasìati pure fenza difeernimento ed
a cafo , non potrebbe quindi deriva- re che ofeurità e confufìone .
Laonde i traslati nelle lingue per quanto pur fian difparati, debbono ferbare
certa conneffione e mifura , per la quale fian conofeiu- ti fimili e
relativi agli oggetti lor propr), fenza di che chi fi credefle il più
l'ublime nell'eloquenza, potrebbe edere il più proffimo alla fatuità , e
dalle immajgini più ardite e più ingegnofe di Pindaro , lì potrebbe
Kor- rere con breve pafso alle più infenfate aisurdicà d’ un
vifionario. Quefta .condizione non è della fola rettori- ca e poetica, ma
di tutte le bell’ arti ancor cosi det- te, e di tuue le opere di
entufiafmo , nelle quali il più fublime delirio confiru infcnlìbilmente
col più Ura- no ridicolo , e il pittore e il mufico più eccellente neirarte
fua, con un pafso più oltre trafcende il giu- dicio, e diventa una Aia
caricatura di piazza , nella quale pur procedendo per gradi , può
toccarfi l’eftre* mo, fino all’efser condotto allo fjpedale qual pazzo
di* chiarato . Ch’ è la ragione , per cui comunemente an- cor fu
odervato , ogni pazzo tener un non fo che di poeta, di mufico o di
pittore, fìccome ciafeun dique- Ai, tener talvolta in lor virtù qualche
irregolarità, che li denota prodimi alla pazzia. HI. Per
altro quedo diletto che così apporta la fa- vella, col trafportar
l’intelletto dal projprio al figurato degli oggetti , fa conofeere che l’
imperfezione e la incapacità conofeiura in efsa difopra («) , per
partecipa- ». 1. 2. re altrui le proprie cognizioni, dee edere intefa in
ri- guardo principalmente alle reali , per le quali reda la mente
idrutta, e non già in riguardo alle apparenti , per le quali fuol eda
dilettare {b). E in vero i trasla- ti , le analogie , e gli altri
ornamenti rettorici fuddet- ti, convengono molto bene alle cognizioni di
quedo fecondo genere, per eder ede note comunemente, on- de giovar
rapprel'entarlc altrui con pluralità d’ imma- gini , che imprimendole
nelle menti con più di no- vità , producano quel diletto . Laddove per
efprimere le cognizioni del primo genere più afeofe e men co-
nolciute, ognun vede edere necedario valerfi di termi- ni più propr) e precifi
per quanto è podibile , e che r uiare i traslati non farebbe che od'ufcar
quelle co- gnizioni maggiormente , e renderle a chi n’ è privo più
ofeure ancora ed ignote. Ed è vero che per que- do fecondo edètto, le
voci proprie mancano bene fpeA fo , quando per quel primo le traslate non
mancati giammai . A quedo modo parlando più propriamente ,
{e)C.XIV.n,2. « didinguendo la favella dall’eloquenza, fi dirà, che
ficcome quella è imperfetta, cosi queda è nociva finché fi tratti di
verità reali , o d’ idruir altri di quel che non fanno. Ma che
trattandofi di fole veri- tà fupcrficiali e apparenti, conofeiute
comunque da tutti, quella favella dovelTe eflere un’ arte non folo ini- c A P.
XV. perfetta , ma ancora nojofa , quando non fofle foccorfa
dall’eloquenza, la quale con rinovar alle menti quelle verità coli
qualche varietà d’immagini, riefcille così a dilettarle per elle • Quella
attività maggiore della fa- vella per le cognizioni fuperficiali più
conofciute , che per le reali men conofciute, perchè aHìdita dall’
elo- quenza, fa che lepcrfone più applicate alle verità reali lian
parche di parole ne’ familiari difcorfi, che d’or- dinario non fon che
ferie confecutive d’immagini co- nofciute , e rapprefentate altrui colla
favella fenza efame , e fenza conneflìone dimodrativa per effe ; al
contrario delle perfone contente della • cognizione più volgar delle
cofe, le quali fon copiofiffìme di parole, e parlan rapidamente di tutto
. Le donne in partico- lare, men atte per la delicatezza e debolezza de’
loro organi a penetrar nelle verità men comuni , fe non fon frenate
dalla modeffia, che di quella debolezza è il compenfo più caro e gradito,
favellan delie più co- muni con più diff'ufìone eprontezza degli uomini,
più robuffi di tempera, e più (ermi dipenfamento. Vero è che per
quello lleffo parlando generalmente, i menri- llelHvi c più loquaci
dilettan più quando illruiì'con meno, a differenza de’ più taciturni
eritìeffìvi, chedi- Jettan meno quando più illruifcono . £ che i gran
par- latori di verità apparenti, lafciano per lo più i loro uditori
muti e llorditi , quando i parchi dicitori di ve- rità reali , lafciano i
loro più fereni di mente , e mi- gliori ragionatori di prima .
IV. Per comprovare che l’eloquenza nella favella fia intefa non già
a illruire , ma a fol dilettare , gioverà ancora avvertire, che una delle
condizioni principali, per le quali piùeffa rifalta , è quella
dell’accento, del numero, della inflellìone tenue o piena, grave o
dol- ce , affrettata o fofpefa nelle voci , per le quali fi porti
effa all’ udito , cofa più efpreiramente praticata nella poefia , ma che
fi llende a ogni genere di eloquenza, L per Eloquenza
come nociva alle cognizioni reali. C.XF.n.i. LXXXII
^5- per cui il periodo giunga air udito piùfonoro, quali a
guifa di canto. Tutto quello certamente non è diret- to che a dilettar
l’udito, percuotendolo con vibrazio- ni d’aria pìd regolari; e perchè le
l'enfazioni della fa- vella qualunque fieno, dall’ organo dell’ udito
paUàno all’intelletto; quindi è che quello Hello per quelle sensazioni a
lui tramandate, nerella dilettato al modo medelimo, prefeindendo da cognizioni
di qualunque genere , e non rellando cosi più illrutto delle cole , di
quel che ne redi l’orecchio materiale. Ognun vede quanto per quello
capo rellino pregiudicate le umane cognizio- ni, per Tabulo allora così
evidente della favella , la qual dellinata a illruire, o a pur dilettare
T intelletto colle cognizioni reali, o almeno apparenti delle cofe,
s* arrclla all’ udito per follcticarlo con percuflìoni più ro- do
grate che ingrate, e non tramanda alT intelletto che il diletto elimero
che da tal folletico ne deriva; quali deludendolo con prefentargli per
cognizioni quelle , che per veritù non fon tali. Certo è che T armonia
mu- (leale, dipendente da confonanze di fuoni uditi, è di- verl'a
dalla intellettuale , dipendente da confonanze d’ oggetti e di cofe
intefe , perciocché podbno efprimerfi con verfi canori i più alti
drambezzi , ficcome podb- no efprimerfi con afpro fuono di voci le verità
più reali , non che le apparenti ; ed io conofeo un gran fi- lolbfo
che canta aliai male , come ò conofeiuto un celebre violinilla , che
ragionava molto male del fuo violino. P oiché come s’è veduto
(a), le cognizioni reali ed interne non elìgono eloquenza , ed è queda
ferba- ta per le apparenti cd ederne, chiara cofa è che il più che
prevarrà nelle nazioni e nello fpirito del fecolo T eloquenza , il più
prevarranno quelle cognizioni , pre- valendo men quelle. Perciocché per
quanto l’intellet- to umano fia capace ed attivo , e forpadì per
cogni- zioni Tua l’altro, eiTcndo non per tanto eì Tempre limitato e
finito, non potrà quell’ attività niedefima pii c AP. XVI. adoprarfi
falle cognizioni più trafcurate a tutti comu- ni eh’ efigono eloquenza ,
fenza flenderfi meno Tulle rifervate a pochi che non la efigono,
attenuandofi cosi in tutti le cognizioni reali, quanto più lo fiudio
dell’ eloquenza , che non può occuparfi che Tulle apparenti , farà
coltivato ed efiefo . Si Ta che chi inclina al di- letto più comune,
sfugge l’iftruzion men comune , e viceverfa fimilmente; e per regola
generale ^ gli appli- cati all’ une e all’ altre cognizioni , tanto più
riefeono in ciafeune, quanto men fi (iendono ad altre, e ognun che
fi flenda a più generi di cognizioni , riefee in cia- feuno più leggiero
e più fuperficiale . L’ elTer poi gli uomini in generale, non fol più
inclinati a cognizio- ni apparenti perchè più facili, che a reali perchè
più difficili, ma dcfiderofi eziandio di renderfi per cogni- zioni
accetti a maggior numero d’ altri , fa che incli- nino altresì facilmente
allo fiudio dell’eloquenza, pro- prio di quelle , e non di quelle
cognizioni > Onci’ è che fcbbtne le lingue fian dellinate a iflruire e
a di- lettare, lo fiudio e l’ufo più frequente d’ efle fia in
riguardo più a quello fecondo , che a quel primo ufficio, affine d’elT'er
uno cosi per efle intelò , appro- vato e applaudito da maggior numero di
perfone , rellando intanto per la molta eloquenza più riputate ed
eltcfe le cognizioni apparenti,, e le reali più trafcu- rate e neglette
.. II. Qui cade a propofito di oflervare, che fe le co-
gnizioni fra gli uomini fembrano a’ nollri giorni più avanzate che ad
altri , e fi reputan eflì p«ù illuminati e più. iflrutti delle cofe di
quel che foflero i loro an- tenati , ciò non potrebbe accordarft che in
riguardo alle cognizioni apparenti , giacché una fimite riputa-
zione ridonda inelTì dalla facilità maggiore , colla qual fi ragiona da
tutti d’arti e di feienze , e dalia molti- plicità de’ libri che feorrono
dappertutto fu ogni gene- re di cognizione , tanto più comuni a tutti ,
quanto> L z più adorni de’ pregi dell' eloquenza. Quefto
giudicar però le cognizioni più avanzate , perchè più comuni e
perchè più facili , indica abbalianza eflb fteflb , non poter tali
cognizioni elTer dunque che le apparenti , che in effetto fon tali ;
laddove le reali , per la diffi- cile aerazione daifenfi, eia infiftenza
maggiore richic- fta nell’ acquiftarle , non è poffibile che lian facili
o fian comuni {a). Il pretender poi per iftudio d’ elo- cuzione o
per meccanifmo di parole, di render facile e comune ciò che per sò è
difficile e non comune, o d’ inclinar gli uomini generalmente più alla
fatica di apprendere il reai delle cofe, che al diletto di tratte-
nerfi full’ apparente , farà fempre difperato configlio , ad onta di quanti
Dizionari , Giornali , Compendi o altri repertori poffan formarfi di
cognizioni qualunque fieno, e che fembrino facilitarle . Di ciò par che
con- vengano gli fieffi autori de’ libri letti il più comune-
mente, quando dichiarano di fcriverli per dilettare , divertire,
eamufe(ire^ come direbbero, tutto il mondo, di maniera ch’ei lembri , che
ognun di quelli dovefle quafi recarfi a vile, di fcrivere per iftruir
feriamente lol pochi, nelle verità reali ed interne. Con ciò fi di-
rebbe , che tanta follecitudine fra noi di applicar tut- ti a tutte le
cofe non folle intefa , che a meglio elu- derfi gli uni gli altri per
apparenze , e che dovendo le verità reali rimaner tanto addietro , quanto
le ap- (,b)CJCVI.n.t. parenti procedeffero innanzi ( 4 ) ; per effer
dunque quello fecolo d’ ogni altro il più adorno per cogni- zioni
apparenti , doveffe trovarli ( fia detto per mo- dellia ), il più
fcempiato d’ogni altro per cognizioni reali . Comunque fiafi ,
nelTun negherà che llante l’inclinazione comune al diletto , non potendo le
verità reali eller comuni (c), lo lludio dell’ eloquenza, col render
le apparenti più diffufe e più riputate , noti efcluda maggiormente di
infra gli uomini le reali, e che ogni eloquenza così adoprata per
diffonder le verità in genere , lungi dall’ ottenere di ftender la più
reale , c A P. xVT non ottenga al contrario di llenderla meno , per
non adoprarfì quella che l'ulla verità apparente più comu- ne , a
elclulione della men comune e reale , che non elige eloquenza. Lafcio
conliderare, fe fia perciò (a'ìC.XVI.v.i. che folle creduto, le verità
più venerabili e più arca- ne di religione, la cui cognizione reale può
certamen- te tanto meno clièr comune al popolo, doverli ad elio
annunciare con lingua a lui ignota , e da lui più ri- fpettata che intela
. Certo è, le religioni ancora più materiali antiche , eirerli cipolle al
popolo fra le nazio- ni riputate più laggie con liinboli, hgure ed
emble- mi , c non mai con elprelfioni verbali ; per elFerlì 'ognor
giudicate le verità d’clfe qualiunque follerò , tan- to più venerande,
quanto più ineH'abili, e non con vo- ci eiprimibili . Ma parlando pure di
verità femplici naturali , che 1’ eloquenza col lublimar le
apparenti tenda ad allontanar le reali , lì troverà verificato
trop- po ancora per pratica ; e chi poflìede l’arte d’inten- dere ,
non potrà certamente a meno di non farli un tri- llo Ipettacolo , diveder
come alcuni polFedendo eminen- temente l’arte del dire, riconvochino
IpelTo intorno gran turbe di popolo nobile e ignobile , e prevalendofi
della comun debolezza bro e pigrizia per le cognizioni reali, li traggan
l'eco perle più fuperfìciali e apparen- ti, non lapciido elfi Itelli ove
abbian a riulcire . Per- ciocché l'oratore, adulatore fempre e
lulìnghiero, rap- prelentando almo uditore credulo fempre e vano
l’ap- parente, come le folle indubitatamente reale, lo confer- ma
bensì nel vero quando ei lìa tale, ciò che avvien rare volte, ma Io
conferma altresì e indura nel falfo ? quand’ei noi lìa, il che
avviene più fpelfo, fenzache né lui, nè la ciurma de’ Tuoi uditori aguifa
di pecore, fappiano lo perchè, o lo come. IV. Per altro quel
che s’è detto finora delle cogni- zioni apparenti , non fia già creduto
clferfi detto pec difanimarle, o avvilirle del tutto . Ma fi creda
detto fol- ,'^o*t3nto per avvertire, di noa prender in effe
per rea- le quel che folle folo apparente, e perchè non s’attri*
bulica tanto a quello eh’ elìge eloquenza , quanto a la* feiar del tutto
da banda quella che non la elìge. Dall' altra parte egli è poi vero , che
non potendo le co> gnizioni reali effer comuni, giova che per
occupazio- ne almeno, per commercio di vita , e per diletto ap-
punto comune , tali fian le apparenti , pur che ciò av- venga in modo ,
che non s’ oppongano alle reali , ma che dipendano Tempre quelle da
quelle . £ in vero quel che s’ è detto de’ collumi , ch’cffendo diverli
poHono non- dimeno aver luogo lenza implicanza, ed effer utili a
tutti purché non fiano centrar) (a); Io Hello dee ap- plicarft alle cognizioni
umane , che eilendo apparenti poflono illeffamente non effer implicanti,
nel qualcafo . non fono alle reali contrarie , ma fi concilian con
ef- (é)C.A//jf. 3 . e fupplifcono a quelle (é). 11 diltinguer poi
quan- do r apparente difeordi , e quando concordi col reale in
genere di cognizioni , dipende dalle cognizioni ap- punto reali, o
apprefe per fe medefime e per teoria , allraendo da illufioni di fenfi ;
cofa che non può ap- partenere al comune degli uomini incapace di tali
allra- zioni , e Iblito verificar le fue cognizioni per fola pra-
tica confecutiva de’ fatti , bene fpeffo ingannevole ; ma dee appartenere
a pochi fra tutti piò faggi , e più il- luminati degli altri. Quelli s’è
già avvertito dover ef- fer quelli che agli altri prelìeduno, fia colla
perfuafio- ne della Religione , fia colla forza del Principato ( 0
C.A///.b, 4 ._( f j dellinati perciò all’ ufficio di giudicare quali fra
tutte le verità apparenti, per le quali fi conducon gli ailàri comuni ,
concordino colle verità reali , e quali da effe difeordino , o fiano a
quelle contrarie.. £ ve- ramente che un fimil giudicio o una fimile
cogni- zione abbia ad appartenere , e poffa convenire del pari ,
non folo al nobile e al manovale, o al citta- dino e al rifuggiate , ma
al chierico ancora che iflrui- £ce, e al cialtrone che dee effere
iflruito , o al Ma- giflra- ciftrato che comanda , e al
fuddito che dee obbedirlo ,ó quella un’ aperta impitcanza , malTime quando
già tutti convengono, chegli uomini generalmente fon più
fpenfierati che riflelTivi , e che le cognizioni reali fon riferbate ai
foli più rifleinvi . Ora piacemi ancora olfervare , che quell’ clTer
le cognizioni reali note per sè ftelTe a fol pochi , e que- llo
dover perciò tutti rcllar a quei pochi fubordinati, non fa torto ad
alcuno, e non è che per quello flana- tura cogli uomini parziale od
ingiuHa. Imperciocché non è già elTa, che concedendo le cognizioni reali
ad alcuni , le ricufì a tutti gli altri ; ma fon gli uomini flein,
che inclinando più al facile che al dilhcile , lì lafcian condurre da illufìoni
de’fenfi a proprio favore, anziché da rifledione , per cui conofcere fe
le cognizio- ni che quindi loro derivano , fiano reali , adraendo
an- cora dai fenfi . E quella fubordinazione non fi rende
neceflaria, che per fecondare codeda loro inclinazione più geniale al
facile, e per follevarli da quella più dif- ficile riflelfione . Sol che
gli uomini tutti s’ accordino d’elfere riHclfivi, ogni fubordinazione
ceflerebbe fra lo- ro, tutti fi governerebbero da sè per cognizioni reali
, nè v’ avrebbe d’ uopo di chi li govcrnafle per quelle. Ma efl'endo
quello impolfibile, per la propen- l'ione comune più aldiletto delle
cognizioni apparenti, che all’ illruzione delle reali , come s’ é
replicato più volte; e dovendo pur eglino governarfi per cognizioni
reali , quando voglian fulTillere infieme ; egli è dunque forza che
alcuni almeno fra edì aduman le veci di tutti, o fupplifcano al loro
dilètto, prefìedendo al go- verno degli altri, con quella verità reale,
che altri ri- cufan di darfi la pena di didinguere e d’ invedigar
per sé dedì. Vero é però, che perla propcnfione llef- fa invincibile e
comune all’apparente e al facile, quel- la verità mcdellma non può poi
produrli al popolo da chi governa che per l’apparente , ciò che può
avve- nire lènza implicanza, per edere ogni apparente alrea-
Digitized by Google CAP. XVI. {a)C.XU.n,i. Dell' eloquenza
fulle cognizioni apparenti . (0 C.XKn.^. -5^ LXXXVIII
le conforme, quando non fia a quello contrario: Dimanierachè il
fiflema d’ ogni nazione fia quello , che le verità reali fi propongano
per le apparenti non a quelle contrarie, e per tali conofciute e difiinte
da un governo, procedendo così tutti gli affari per ap- parenze,
con ficurtà di non opporfi per quefìe al rcal delle cole, mercè
l’intelligenza fuperiore di chi a tut- ti prefiede. Se in un fimil
governo la perfuafione eia forza faran libere e indipendenti , il governo
farà giu- fio e fenfato, e la nazione libera e tranquilla ( giac-
che quelle due facoltà nella condizione umana debbon pure dilìinguerfi (
A ) , e o bene o male fi difìinguono dappertutto ). Se faran le due
facoltà confufe in una, o una minilira e non compagna dell’altra, farà il
go- verno fimulato e difpotico , e la nazione inquieta ed opprelfa.
Il tutto non per difetto di natura, ma de- gli uomini e de’ governi
fleffi in particolare, che anzi eh’ effer liberi e tranquilli , amaffero
elfer opprcflì e agitati. Sempre però Ila, che la fubordinazione a
un governo fia per fc flcffa non un dilòrdine , ma un ordine anzi
faggio e ammirando , per cui 1’ umana fiacchezza fi alìolve dall’
applicare a quelle verità rea- li , che fofier per eflà faticofe ad
apprenderli , e fi con- cede ad ognuno di abbandnnarfi ancora alle
apparen- ze e al diletto Hello de’ lenii , purché ciò fia in con-
formità alle regole, calle leggi llabilite e preferitteda un governo ,
che per la fuperiorità de' fuoi lumi , e per fenno e fapienza fia più illrutto
degli altri, nel difeerner quale apparente fia al reale conforme, e
qua- le fia ad elio contrario. C Olfellerli dichiarato di
fopra, di dover l’eloquen- za verfare fulle cognizioni più comuni (c),
non s’è perciò intefo di degradarla in modo, che abbiano gli
oratori, e i poeti a confonderli per fapere colvol- gar della plebe .
All’ incontro fi sa , dover efli mol- to bene dilìinguerfi per cognizioni
dal volgo, e laco- / pia pii di cognizioni , e lo ftudio degli
oggetti su i quali ftenderfi la loro eloquenza, dover precedere
l'eloquen- za medefìma, fenza di che non farebbe poflibile dilet-
tare per ella, e non favellando l’oratore al fuo udito- re che di ciotole
e di pianelle , anziché diletto , non potrebbe recargli che noja e
faftidio . L’oratore dun- que dee più del fuo uditore elTere iihutto e
ricco di cognizioni, per ornarle pofcia coi fregi dell’arte fua , e
fì; li dice tali cognizioni dover efler comuni , ciò non può verifìcarlì
che in quanto abbian elle ad elTe- re delle più apparenti, e delle più
facili a concepirli da Mnuno . Ciò conviene con quanto s’ è
avvertito pur mpra ( ) , di ftar la giuHa cognizion delle cofe in
certo punto di mezzo, innanzi e oltre al quale fìa vano il cercarla ,
come che quinci e quindi ha polla r ignoranza di elTa ; col folo divario
d’ efler dalf una parte la ignobile , propria degl’ idioti e del popolo
più rozzo i e dall’ altra la ignoranza nobile , propria delle
perfone più colte . A quello modo fi dirà , l’ora- tore e ri poeta rare
volte comunicar di cognizioni e d’immagini col popolo più ignobile al di
qua di quel punto , e folo trattenerli quivi con quello ne’
foggettì più comici, burlefchi, o latirici; e qualor s’alzi col- la
tromba più fonora a celebrar eroi, o a trattar argo- menti gravi e
fublimi , allor fi dirà lui trafcender quel punto , e confarfi col p<^lo
più nobile e più ri- S utato . Ma intanto fempre Ila , che al
giullo punto i mezzo, al quale s’arrellano le cognizioni reali , ei
rare volte o non mai fi foflèrrni , per^ l’ inutilità dell’ arte fua
qualor lì tratti di verità reali , fuperiori a or- namenti rettorici e
poetici , atti più tollo a ofcurarle (c) , quando fulle fuperliciali e
apparenti quell’arte fa di sé prova e pompa maggiore. II.
L’ufo delle efagerazioni , de? traslati , delle alle- gorie, e rimili
figure proprie della fola oratoria e poe- tica, fan conofeere tutto quello,
e come tali articoli’ amplificare o ellenuaie gli <^etti , fi
trattengano fotto quel punto o lo formontino ; mentre quantunque le
c(^nizioni Tulle quali verfano, ogii argomenti de’ quali trattano, fiano
agli uditori men noti; pure per efler quelle cognizioni fuperficiali e
apparenti , e in conleguenza facili ad apprenderfi dall’ uno e dall’
altro popolo , polTono da quello elTer apprefe nell’ atto lief- lo
di ellerne ei dilettato . Con ciò fi direbbe , che il partito degli
oratori e de’ poeti in ordine al vero , fof- fe quello dei difperati , i
quali diffidando di sè fteffi per aflegnarlo al giullo Tuo punto,
fcegliellero più to* Ito di raggirarvifi intorno inocrtamente , e di
quafi con- troillruire per più dilettare con varietà d’ immagini
facili , ma tirane e TpetTo implicanti , nell’ incapacità conofciuta d’
iltruire colle piu difficili c più veraci. Quindi ebber luogo quei tanti
poemi su paffioni ed azioni oltre il credibile. Le donne, i cavalier, F
ar~ mi , gli amori, e quei tanti ftrambezzi fugli eroi là* volofi e
Tuli’ antica mitologia , i quali dilettan molto più di quei che verfano
su argomenti filofolici e mo* rali , Alila vera religione , e su azioni
deferitte quai fon accadute precifamente, che non diletterebbero
più di un procelfo civile o criminale, cfpolio a un auditor di rota
. E ciò fol perchè in quel cafo può la mente fvagare dappertutto a Tuo
talento, quando in quello elTa è allretta a hllarfi ad un punto , e a
Aarvi con- fìtta come ad un chiodo ; elfendo d’altronde imponi-
bile di fupplire ad un tempo llelTo a due oggetti , dì dilettare e d’
iAruire precifamente , o fupplendofi al- men meglio ad un folo di quelli
oggetti , che infieme (fl)C«yf7.».i.ad entrambi (a ). Per quello
ftelTo le rapprefentazio- ni maffime teatrali, tantopiùfogliono
dilettare, quan- to più dal vero, o dal verifìmile ancor di natura , trafeendono
all’ implicante od al falfo dell’ immaginario, brillando Tempre il
diletto a fpefe dell’ iAruzione mi- gliore; tanto è quello comunemente
diverloda queAa, e tanto 1’ eloquenza e 1’ altre arti analoghe ad elfa
, c compagne del diletto più comune, sfuggono l’iAru-
zion Digitized by Googic XCI xion
più feverj c meno comune. Chi trova indecente cAP. XVII. che Temiftode
canti andando a morte, non bada che a queda Uhuzione, che non trafcende
il vero ed èbeti di pochi ; ma fol ch’ei badi a quel diletto , che
tra* Icende il vero ed è di molciffimi , troverà quel can- to
adattato all’azione, e piagnerà ad eflb , purché fia preparato a dovere
(<») , e accompagnato da quel de- («)C.Arr.».r. bile che richiede l’azione
medefima. ^ III. Ma infomma generalmente, chi riprende i poe-
ti per la futilità degli argomenti , ai quali d’ordinario e’ s’appigliano
, e per la fallacia delle cognizióni che inOnuan per edi, non bada a
quedo, d’eifere il hne Principal loro quello di dilettare e non d’idruire,
e di dilettare non i più dotti , ma il comune del popolo che non è
dotto (fr)', e che parlando generalmente, C.XVI.n.i ceflTan eglino di
dilettare , todochè prendono a idrui- re . Le allufioni certamente , le
immagini , i traslatì fuddetti , proprj e neceflarj dell’ arte loro ,
occorrono alla mente a numero incomparabilmente maggiore per le
cognizioni più facili al volgo note , che per l’efat* te e didicili
riferbate ai più dotti , per le quali non è così agevole padare dal
proprio e precifo al metafori- co e figurato . Cosi la Luna per efèmpio ,
concepita per le immagini più facili che ne dànno le antiche fa-
vole, non che col nafoecolla bocca Come fugli alma- nacchi, dà motivo a
mille allufioni e figure, che non darebbe apprefa per lo reale de’ fuoi
monti , edellefue ombre nel fidema planetario ; e finché il popolo
la concepirà più facilmente al primo che al fecondo mo- do, il
poeta canterà, e avrà ragion di cantare con più dolcezza del nafo della
Luna, che de' fuoi monti. Gli occhi ideflamentc , cofa la più conofeiuta
e più tri- viale , apprefi per le cognizioni di effi più volgari e
comuni, fomminidrano alla mente mille immagini, ond’ effer chiamati luci
leggiadre , vezzofi rai , fiammell» vivaci , lucide delle , pupille
ferene , drali omicidi , faci gemelle , adii d’ amore , che non
fomminidrerebbcro apprefi per l’ irruzione d’ effi più efatta , o per le
dottrine ottiche e anatomiche migliori , ma men conofciute. Anzi
s’olfervi di più, come da ciò proce- de, che l’oratoria, la poetica, e l’
altre arti dilettevo- li non foffron nemmeno regole iflruttive , per
eflcr tai regole ellratte dalla ragione più elàtta per cui ap-
punto s’iftruHca , quando quell’ arti per illituto prin- cipale , debbono
traCcender quello reale , per dilettare («ICJl^'il.n.i.coll’apparente
{a). Quindi avvien bene rpelTo che un’ orazione , un poema , un’ azione
teatrale dettata fe- condo tutti i precetti che ne dànno Longino ,
Arido- tele, Orazio, o Gravina, dilTecca nondimeno l’anima, e fa
sbadigliare, quando un’altea fenza quelle regole , ma ornata più di drane
apparenze , attrae tutto il po- polo fìa noÙie o ignobile , il quale
feguace del diletto , fchiva ogni idruzione per eflo, e prevenuto anzi
per lo mirabile falfo e apparente , che per lo vero naturale e
verifimile ancora , non intende precetti , per cui fìa qnello confinato e
ridretto ; giudicando di quel che ode e vede , per le ragioni
fuperficiali pur vedute ed udite , e non per le interne che non vede , e
che non potrebbe vedere che prefeindendo dai fenfì , di che il popolo
( e il fod'ra Aridotele ) , non farà mai capace CJCll.n.i. {à ). Quedo
preferirfì poi per l’oratoria fempre l’ap- parente al reale , non può
negarfì che non torni in abufo , il quale però faria tollerabile finch’ei
fi re- ftrignede al divertimento appunto teatrale , e all’ozio
delle corti e delle accademie , fenza perciò opporli al U)CJOI.n,j.
medefìmo, com’è pur podibile (r). Ma il fatto è , che bene fpeflb ei li
dende ancor filila condotta degli affari più fer), ne’ quai l’ eloquenza
col folfermar- fì più full’ apparente , fa più perder di vida il
reale di edi , con altrui dainno e feiagura ; come apparifee ki
pratica per più (inceri uomini e dabbene , fopradàt- ti e delufì ne’ loro
intereffì da chi per fola facondia , e per artificio di ragionare vai più
di loro . E il peggio è an- Digitized by Google
-5^ xeni ^ è ancora, che dagli affari particolari, l’
abufo medefimo s’ inoltra facilmente ai comuni cosi detti di governo
, ne’ quali per l’adulazione, la lufinga , e la fimulazio- ne che
più o meno indifpenfabilmente v’ àn luogo (i*) , l’arte del dire è ancor
più accetta che altrove . C^d’è , che Aiblimando quella più le verità
apparen- ti , mette più a rifehio d’ allontanarfi e d’obbliar le
rnli . Su quelle conliderazioni farebbe a riflettere , fe giovi a’ di
nollri tanto animare e apprezzar l’eloquen- za su i tribunali e nei fori
, o fe anzi oltre al dovere non fi trovi effa incoraggita e apprezzata.
Certo è, che febbene gli affari comuni abbiano a condurfi per co-
gnizioni apparenti ; nientedimeno ciò dee feguire fen- za fcollarfi dalle
reali ( é ) , come s’ è ridetto più voi-’ te, e ciò per imitar per quanto
è poflìbile la natu- ra , che falciando difputar gli uomini ,
accarezzarfi e idolatrarfi fra loro , regola il tutto per lo reale
fenza profferir mai parola . Se poi chi pretendeffe governar altri
fenza render ragione del fuo governo , come ufa natura , farebbe un uomo
affai vano ; il farebbe non men certamente chi pretendeffe governarli per
fola co- pia, ed eleganza di voci. Quei medefimi che fi repu- tan
più valere per eloquenza ne’congrelfi , e ne’ par- lamenti , converranno
di quelle verità , fe l’arte del dire è in lor pari al buon lenfo ; e
accorderanno non meno , che quegli oggetti grandiofi di profperità ,
di felicità , di potenza pubblica , che si fpeffo dai rollri
amplificano all’orecchio del popolo, non fon poi tali quai da lor ir
promettono , o almen ne dubitan ellt nelfi , e ne rellan in gran parte
fofpefi . Dall’ altra par- te, le repubbliche antiche non furono mai più
feon- certate , che a’ tempi dell’ eloquenza più fublime di
Demollene e di Cicerone, quafichè fi governaffero al- lora per cognizioni
più popolari e apparenti , che per vere e reali , per le quali quelle
repubbliche fi fareb- ber per avventura meglio follenute, come a tempi
dei parco Licurgo, e del religiolb Numa. C-»5C. XHI. r. 4
. (J>)C.XVl.n.ì. Fi- 1TInora ei pare che non
fi fia ragionato di doquen- Deir elo- XT za, che affine di fcreditarla, e
di renderla fra gli quen» filile uomini odiofa , proverbiandola come
inutile , vana , cogaizioDire-pregiudiciale, inhdiofa, e nociva alla miglior
condot- * *• ta de’ privati e de’pubÙici affari. Perchè però non
fia creduto , efferfi di cosi mal umore contr’ efla , quanto
a volerla del tutto sbandita dalle nazioni, è da avvtr- tirfi , non
efferfi cosi favellato dell’ eloquenza , che in quanto fuoleffa verfare
fulle cognizioni apparenti e fai* laci , lardate a parte le reali e
migliori . In confeguen- za di che fi apprenderà , che l’odiofità
fuddetta non cade già full’ eloquenza in genere , e che non è effa
cosi pregiudiciale nelle nazioni per sè medefima , ma per la qualità
appunto delle cognizioni alle quali d’ ordinario s’appiglia, e alle quali
ftante la propenfione comune umana al piò facile , dee eifa
cotnunemente (a)CJCyi.n.j. appigliarfi (a) . Con ciò confiderando ogni
cofa , s* arguirà dunque eziandio, che fe l’ eloquenza , in luo» go
d’occuparfi a fiabilir negli animi le cognizioni ap« parenti , s’
applicherà ad ornare e a meglio prcfen* tar alle menti co’ fuoi vivi
colori le più reali ; lun- gi dall’ elfer nelle nazioni nociva , fi
renderà anzi a quelle utile e giovevole . Infatti s’ è veduto ,
uffi- cio della favella effer quello d’ iftruire e di diletta-
(.tjC.Xiy.n.x. re (è), vale a dire dì illruire nelle verità non cono-
fciute , e di dilettare nelle già conofciute . E perchè le verità di
qualfivoglia genere non polTono elfer co- nofciute che per qualche
illruzione , quefta dunque dovrà fempre precedere il diletto che proviene
dil- la favella , e 1’ oratoria così , la poefra , non meii che r
altr’ arti tutte dilettevoli , dovran generalmen- te confeguire la
filofofia , la morale , e 1’ altr’ arti klruttive , fiano apparenti o
fiano reali , fcnza che polfan mai quelle preceder quelle , non elfendo
cer- tamente polfibile adornar coi fiori dell’ eloquenza , e con
immagini traslate e lublimi , ciò che non fi fia pri-
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proprie, più piane e preeife . CAPJCVIir. Stando dunque al diletto della
l'avella , è certo che do- vendo quello cunfeguir Tiilruzione , tanto può
confe- guir la più Aiperficiale e comune, quanto la più vera ertale
eh’ è mcn comune; e che ficcome pollòno con figure e immagini adornarfi
le verità men el'atteepiù popolari , conofeiute da molti ; cosi fi
poflbno pur le più efatte e men popolari , riferbare a fol pochi .
£ la differenza farà , che effendo nel primo cafo 1’eloquenza la più
popolare e comune, della qual s’ è fa- vellato finora ; fi renderà ella
nel fecondo più partico- lare , difufa a non molti , della quale s’
aggiungerà qui qualche cofa . II. Egli è vero' pertanto , che
eli uomini amanti generalmente più del diletto che delf ifhuzione ,
foglion trattenerli più fulle cognizioni apparenti perchè piùfii-
cili e perchè apprefe , che fulle reali perchè non ap- prefe , e perchè
foticofe ad apprenderli, ond’ è che il più frequentemente ufino 1’
eloquenza fu quelle cognizioni , applicandola ben di rado a quelle
\b) Ma ciò non teglie che non poflà effa a quelle appli-
carli , e che non vi fi applichi talvolta effettivamen- te. Anzi quello
fa, che l’eloquenza medefima coll’ef- fer nel primo cafo più comune , Ila
altresì più appa- rente ed equivoca, e in tal guila perigliofa come s’
è detto ; quando nel fecondo coll’ elfere men comune , fi rende più
ficura e reale , e con ciò giovevole , prendendo il diletto che ne
proviene ognor tempera e qualità, dall’iUruzione e dalla cognizione
apparente o reale che lo precede. Così uno fpirito altiero e ambi-
ziofo, potrà tirarfi dietro un popolo di fpenfierati, e -condurli per le
verità apparenti all’incredulità, e quin- di alla fchiavitù , alle
difeordie , alle guerre , e alla povertà che ne derivano , e ciò con
tanto più di veemenza, quanto in lui fìa maggiore f arte del di- re
(c)'. E dall’altra parte può un tìlofofo più fenfato (e) colie verità reali
, perfuadere i più rideliìvi ' per quanti ve n’ànno, alla religione non finta,
e con ciò alla libertà , alla concordia , alla pace e alla felicità
che pur ne confe^uono, con tanto più iiledamcnte di for- za e di
grazia , quanto in lui v’abbia più di facon- dia. £ la prima eloquenza
farà indubitatamente futile e dannosa , eflendo quell’ altra più utile e
reale , giac- ché in eflètto ogni apparente termina in reale , per
la 'natura che non devia mai da quello , per quan- to gli uomini fi
lafcino sbalordire da quello . Ond’ è che (ebbene quel primo cafo (ìa il
più frequente in pratica umana , rella nondimeno e^o fempre tolto
(é)C.XIJIji.2.per lo fecondo ( « ) , o per la pratica della natu- ra ,
eh’ è la più vera , perchè pratica infieme e teorica , di quanto a.v viene
nel corfo generai delle cofe. IH. S’arroge, che la detta
dillinzione xkll’ idruzionc dal diletto che procede dalla favella, non è
poi tale , che 1’ un di quedi s’ efcluda per 1’ altro , o che abbian
perciò f arti dilettevoli a non efler idruttive , e le idruttive non
dilettevoli . Percioc- ché aU’ incontro può ancor dirli , che 1 ’
idruzione deda non vada difgiunta dal diletto , ancorché que- do
proceda non dalla favella , ma dalla verità per eflà avvertita ed intefa
, il qual diletto così é compa- gno e contemporaneo all’ idruzione
medefima , quan- do r altro che procede dalla favella , confegue 1’irruzione
( c ) , e non mai 1 ’ accompagna , e mol- ”* to men la precede . E fi
dirà idedanaente , qud di- letto eder di quedo molto maggiore ,
mafdine in ri- guardo alle verità reali , come quello che li dende
all’ intelletto, quando quello della favella (i porta all’im- (J)
C.XV. U.4. maginazione , e talvolta s’ arreda all’ orecchio ( d ) .
Certo é che il diletto d’ un geometra nel concepire una verità ,
fupera di gran lunga quello d’ un Ora- tore nelteder l’elogio, o nel
commendar legeda d’un eroe , come lo fupera eziandio quello di quedo
eroe ncH’efequir quelle geda, quand’ ei pur le efequifea ; e quattro
linee di Euclide con illruire piit di dieci orazioni di CICERONE (vedasi),
dilettano altresì più di quelle , che ben fovente dilettano con inganno.
Per que- llo i precetti fondamentali , e le regole generali di
morale, di giurifprudenca , e tali altre verità, per quan- to fono reali
e geometriche , dilettano coll’ illru- 1«) zione tanto a’ dì noUri,
quanto a mill’anni innanzi ; vale a dire con diletto più fenfato e
durevole . Laddo- ve i lìmboli di Pitagora , i fogni di Platone , le
mi- nuzie d’ Omero, che a’ lor tempi rapivano gli animi, col
diletto per avventura fugace della fola elocuzione ; al prefente o non lì
comprendono, o non apportan di- letto , quando ciò non folTe in riguardo
lòlo a chi • avelTe l’abilità, di formarfene uno della loro antichità
medelima. IV. Le lingue dunque finché fi trattengono nell’
ufficio d’ illruire, ancorché non dilettino per fe llef- fe , dilettano
per le verità, delle quali ilhuifcono ; e le s’ avanzano a dilettar per
fe Ireire , ciò non é, che per figurar alla mente con colori più vivi le
ve- rità medefime per efle apprefe , e ciò con eloquen- za frivola
e vana , fe le verità fon comuni e volga- ri, e con eloquenza robulla
creale, fe le verità fon pur reali e fuor d’ ogni inganno . Verbigrazia
s’ io dirò : „ La Luna coll’ attrar più la fuperficie convelTà
che „ il centro , e più il centro che la fuperficie conca- „ va più
dillante della terra , alza la parte acquola „ che più cede, filila falda
che men cede nell’ una e „ nell’ altra fuperficie di elTa ; ond’ é che
quelle due „ elevazioni d’ acque comparifcono tulle llabili ripe,
„ al paflàr d’ ella Luna per Io punto fuperiore e in- „ feriore del
meridiano di ciafcun luogo terrelhe * Io con ciò non farò, che dilettar
l’intelletto colla illni- zione men comune , ma più vera che polla darli
del fiulTo del mare , fenza punto dilettarlo per la fa- vella, per cui
Cia efpolla quell’ illruzione, non potendo ella efportì per termini più
femplici e più precisi. Che fe dopo aver dilettato T intelletto con
quc* Ha iftruzione, dirò come in quel terzetto : Sai perché
fale alternamente , e fcende Il mar , che a Cintia che fi /pecchia
in ejfo , Innamorato in fen fi /pigne e tende ; allora
palTerò di più a dilettar l’ intelletto medefimo coir eipreflìone ancor
d’ eloquenza fu quell’ iHruzio- ne , tralportandolo dalle immagini
proprie di Luna , di mare , di attrazione , alle figurate e fimboUche di
Cintia, di fpecchio , d’amore, per le quali quella ve- rità già
conofciuta, fe gli prefenta con più di novità e di vaghezza ; e ficcome
quell’ iftruzione è miglio- re febben men comune, cosi quella eloquenza
che la confegue , può appellarfì migliore . Ma fe in luogo di tutto
quello , fupponendo 1’ uditor pure iftrutto di qualcuna di quelle più
volgari dottrine , per le qua- li iogliono. più comunemente fpiegarfi le
maree , io prendelfi ad ornarla con immagini fimilmente trasla- te,
con figure rettoriche, e con efprellìoni enfatiche ; potrei pur con ciò
dilettarlo, defcrivendo un cieco tur- bine interno, una prelfìon d’aria
verticale, una im- prelfion di vento orientale ellerno , o fimil altra
opi- nione folita fpacciarlì a quello propofito , delle qua- li
tutte vien detto , che mal loddisfatto un filofofo dell’ antichità,
prendelTe la rifoluzione di gettarli in mare , dichiarando elfer giudo
che folTe da quello ca- pito, chi non potea quello capire- Comechè però
ta- li opinioni , per elTer più facili e più comuni , fon meno
efatte e peggiori ; così la eloquenza fu clTe che le confeguilfe ,
farebbe imperfetta, o farebbe un inutile vaniloquio. V. Il
diletto dunque che proviene dall’ eloquenza , può confeguire le
cognizioni tanto apparenti e co- muni , quanto reali e meno comuni , e
per quello ilelTo di elTer ogni eloquenza confecutiva all’ illruzione.
Bc , chiunque afpira al diletto d’ efla migliore, dee prevenirlo per la
migliore irruzione corril'pondente , e per le verità non quai fon
conofeiute dal popolo, ma quai fono in fe ftede, mentre quel diletto
confe- guendo la irruzione fuperfìciale del popolo , non po- trà
appunto elTcre che fuperficiale, e talvolta efimero e menzognero, come
nel cafo degli equivoci , de’ fo- firmi , degli enimmi , de’ paralogifmi
, e degli altri prodigi cosi detti dell’ eloquenza > Per la qual cofa
, che i poeti dilettino più cogli argomenti quai fono apprefi
popolarmente , s’ è detto ciò eflTere in riguar- do al popolo , al quale
più frequentemente favella- no (/r). E fi aggiunge ora ciò elTere ancor
con inganno , in. quanto quel diletto che confegue 1’ idru- zinne
peggiore, è ingannevole , e non v’à diletto di eloquenza reale , che quel
che confegue pur l’ irru- zione vera e reale {b)^ Dacché s’apprende,
perchè 1’eloquenza , e generalmente 1’ arti di diletto più co- moni ,
rade volte appaghino le genti di miglior fen- no , e perchè gli fciocchi
fieri ne refiino cosi toflo annoiati per elTer quelle in confeguenza
.della irru- zione peggiore , che foggetta ad inganno, non può
dilettare che con inganno, e quero non avvertito an- cora , non può a
meno di non generar noja e fpia- cere. Quindi è che agli fpettacoli, alle
fere , ai con- viti , e a ogni fpecie infomma di divertimenti
comuni nobili e ignobili, è d’uopo dar fempre nuove forme, Q
uando ancor del tutto non fì cangino in altri, fenza i che ogni fpecie di
popolo alto e bafTo' ne reda rucco e ammorbato. L’ uomo è fatto
dall’autore del- la natura per l’ irruzione inreme e pel diletto reale
, ad onta, de’ fuoi fenH che lo incantano full’ apparen- te ; come
H convince da ciò ,. che l’ irruzione allor più. diletta , quando è più
diligente ed efatta ; prova J |uefla. evidente della fuperiorità, e
immortalità del i uo intendimento fopra tutte le cofe mortali.(#)
c.hu.j^ Laonde s’ ei fi lafcia trafporur dal diletto apparente
Ni fcnza iftrurione , o coll’ irruzione priore , non pnò alfin ciò
riufcire che a Aio rincrefcimento , e con fu» naturai ripugnanza.
L'oAinarfi poi a contraAar quel reale con quello apparente, è come
contrallar il cor* fo del Sole con un tiro di cannone , o penfar di
dillnigger la natura in sè Aeflb , come fi dillruggono J uattro
poveri ingannati , che A difendono in una iazza . QE piaccia
applicare il detto finora folle cognizioni Delle tradu- O umane, e Alile
lingue per le quali s’efprimono, alle zioaidall’uoa traduzioni dell’
opere d’ingegno ferine dalP una all’ altra all’ altra fa- favella, èda
avvertirfi, eh’ elTendo le lingue intele oa velia. iAruire nelle
cognizioni reali, o a dilettare colle appa- (a}CJC/Kn.i. tenti (a), il
trafporto delle cognizioni dall’ una all’altra lingua potrà agevolmente
riufcire, quanto al primo ca- po dell’iAruzione reale ; perciocché non richiedendoA
a ciò che un’ efprellìone d’oggetti per li termini lor più proprj e
precifi , queAi in ciafeuna lingua fono de- terminati, o efprimon gli
oggetti colla precilìone me- defìma , eh’ è una per tutti i luoghi e per
tutte le lin- gue. Laonde baderà a queAo effetto, che il tradutto-
re ben intefo del fentimento dell’ autore , e iArutto per pratica de’
termini precifì d’ ambe le lingue , fo- Aituifca gli uni agli altri di
quelli , con quella coAro- , zìone o difpoAzione che a lui fembri piò naturale
nel- la Aia lingua ; coB' che egli iAruirà così bene in que-
Aa , come 1’ autore nella lingua Aia originale . Ma quanto al fecondo
capo di dilettare colle cognizioni apparenti , poiché il diletto delie
lingue proviene da Amilitudini, alluAoni , e altre immagini d’oggetti
an- co traslate , queAe in ciafeuna lingua fon più o men naturali,
più o men giudiciofe o ingegnofe, a norma degli oggetti Aedi , eh’ eAendo
conAmili , Aan più o meno diverA , e a combinar i quali Aa una
nazione piùo meno familiarizzata. E pertanto trafportate quel- le
iminagiai per foAituzione di termini come fopra, dall’ una favella ,
debbono perder di molto della lor grazia, e della lor forza nell’altra. In
effetto, quelladif- ferenza che nelle combinazioni d’ immagini proprie ,
e molto più traslate , s’ è oflervato paflàre fra perfo- ne di
varie condizioni in una fteffa nazione (a)j non (a)C.n.n,i. v’à dubbio
che non abbia a renderfi vieppiù notabile fra perfime di varie nazioni e
lingue, i cui coflumi , profeflìoni , e'modi altri efierni , per
impreflìoni più o men forti e frequenti di oggetti diverfi benché
confi- mili, fon più rilevanti , non fol fra ciafcuni in fpe^ eie ,
ma fra tutti eziandio generalmente ; procedendo da ciò un fìgnifìcato più
o men eliefo ne’ termini del- le lingue, per efprimer gli oggetti fterti
o confimili , che fi direbbe tanto più efiefo nelle lingue diverfe ,
quanto quella diverfità fuperaffe quella dei diverfi dia- letti in una
lingua medefima. II. Egli è certo, da quella diverfità di oggetti
con- fimili nelle varie nazioni , derivar le diverie indoli ,
fpiriti, e umori nazionali, come pur le diverfe indoli e fpiriti cosi detti
delle lingue. Concioflìachè ficcome le piante, gli animali, i minerali di
qualfivoglia fpe- cie , e gli uomini flefli nel lor materiale,
ancorché confimili, fon pur diverfi in ciafcuni climi per (4) C. T. ».
j-- tcflìtura di parti più dure o più elafliche , più denfe o più
rare, più fragili o più compatte; all’ ifleflo mo- do il fignificato
delle voci , colle quali efprimer tutto- ciò nelle lingue , è più o meno
eflefo , e le voci fleffe più afpre o più dolci, più rifonanti o più
molli, più acute o più ottufe . Ciò eh’ é ben noto ai viaggiatori ,
che vaghi d’ invefligar una tal varietà, feorrono da"^ dima a clima
e da nazione a nazione ; e un Inglefe che per tal fuo capriccio muova da Londra
all’ Egit- to, o un Affricano che per fua difperazione fia tratto
da Algeri in America , non troverà minor difparità fra i fuoi coflumt e i
coflumi egizj o americani , di quella che trovi fra le maniere diverfe di
efprimerli lotto ciafcuni di quelli climi (c), rimanendo ciafeun
(r)C.Jff. dei due allettato più, come delle fue die delle altrui
immaginazioni e collumi ^ cosi de’ Tuoi che degli al- trui modi di
efprimerli; non per altro che per la di- verfìtà degli oggetti e voci
corrifpondenti ai quali le refpettive lor menti fìan più afluefatte ed
avvezze . Per efler dunque la verità delle cofe reale una, ed in-
variabile dappertutto, e per elTer le maniere di appren- derla e di
dilettare con elTa moldplici e innumerabili , faran le lingue tutte del
pari, qualor lì tratti d'idrui- re nelle verità reali, ma faran fra elTe
diverfe, qualor fi tratti di dilettare culle apparenti ,. elfendo
general- mente elle illituite non per quel fulo udìcio , ina an-
cora per quello, e non per tutti in tutte le nazioni , ma per ciafcuni in
ciafcune. 111. La copia e moltiplicità di termini in una lin-
gua al paragone dell’altra, è un indizio di tutto que- fio , e di quanto
una lingua polla dilettar più d’ un’ altra ; per provenire quella
moltiplicità dalla maggior quantità d’immagini, colle quali efprime
ciafcuna gli oggetti llein o conlìmili; non introducendofi una nuo-
va voce in una lingua, che per introdurvi una nuova immagine, o per
dividere e appellar per due voci le immagini , che prima s’ appellavan
per una . Per la qual cofa la lingua più ricca di voci, farà più
capace d’ immagini divife o traslate , per elprimere la lidia
quantità d’ oggetti, e per dilettare con elTi ; percioc- ché fe un
oggetto ftelTo o conlimile vorrà efprimerli per due lingue, lì dovrà per
la più povera di voci ap- pellarlo talor per la voce, che folle pur
propria d’un altro ; laddove colla più ricca appellando 1’ uno e l’
altro con voci diverfe , coll’ applicar poi a quello la voce propria di
quello, e viceverfa , u viene a efpri- merli entrambi per traslati e
figuratamente. Percfem- pio un Inglefe appellando propriamente un furbo e
un fervo per la llelTa voce Knave^ non può per queAo capo indur
analogia veruna fra quelle due perfone; e l’ Italiana appellando ciafcun
di quefti con quelle voci Digitized by Google
CHI ^ ‘ voci proprie diverfe, collo ftender poi all’ uno la
vo- cAP. XIX. ce propria dell’ altro , riefce ad appellarli tutt’ a
due allufivamente , e a fignificame i caratteri , quando oc* corra
, con più di forza e con più di vivezza . Con tal fondamento ei parrebbe,
che numerandoli nella fa* velia italiana da 38000. termini o voci , e non
nu* merandofene nella inglefe che da zdooo., deflunti gli uni e gli
altri proflimamente , e colla Udrà regola dai più comuni refpettivi Dizionari
; la prima favella fuperalTe la feconda per capacità di alluuoni, e
d’im* magini traslate, in ragione di ip.aiz., eche di tan- to più
potefle quella fopra di quella dilettare nell* ope- re a ingegno
fcritte. IV. Ma fopra tutto è cofa mirabile TolTervare, co*
me dalla detta diverfa ellenlion di lignificato ne’ ter- mini delle
lingue, e dal grado impercettibile d’elTa, con cui li palla dall’uno
all’altro oggetto, unitamen- te a non li là dir quale collocazione dei
termini llef- fi, dipende quella inefplicabile forza, armonia, e
gra- zia di Jiiley che nelle produzioni d’ingegno rapifcegli animi
, e fa bene fpello il più bello e il più dilette- vole di elTe ; lieve
così , che sfugge molte volte il fen- fo dei nazionali medefimi , e che i
forellieri cerumen- te non aggiungon giammai . Io non ò trovato
oltra- montano , per illudiofo che folle della lingua italia- na ,
che rilevalTe differenza veruna jIì flile infra il So- netto per efempio
del Cafa fopra la gelofìa , e quel- lo d’ogni altro comune fiudente di
rettorica che imi- talfe quello poeta , e non folfe difpoHo a giudicar
il primo del fecondo autore , e il fecondo del primo , quando ciò
gli folfe flato dato ad intendere . Le bellezze altresì che trovano i
forellieri nello flile del Pe- trarca , di Dante , del Talfo , fon
diverfe da quelle che vi riconofcono gli italiani , e la novella di Giocondo,
dilettando del par gli uni e gli altri per I’ in- venzione ; per le
grazie dello flile , e per l’ efficacia dell’ elocuzione , non diletterà
mai tanto un francele come un italiano nell’Ariofto , nè mai tanto un
ita- liano come un francefe nel Fonténe. Ciò che fa, che di via
ordinaria , chi giudica dell’ opere d’ ingegno d’ altra lingua e d’ altro
tempo , s’ attacchi ai di- fetti che Hanno in elle dalla parte del
fentimento , del quale è giudice ognuno , come di cofa di tutte le
lingue e di tutti gl’ intendimenti , fenza badare che Hando al diletto
dell’ efpreiEone , quello sfuggen- do un tempo e un luogo, fpazia molto
bene in un C.XVllI. altro, rilevando talvolta fui fentimento medefuno.
i’ Così i! moto verbigrazia della terra per T annua fua paralade
colle Helle fìlTe, che n’ è la cagione di tut- ti i luoghi e di tutti i
tempi , può comprenderfì da ognuno del pari, fiaper la propria, fia per
l'altrui fa- vella ; quando il Capitolo dei Lorenzini fulla ven-
detta , o fimil altro tratto di poefia italiana , il cui pregio confida
nella fola collocazione, cnfafi , dite , e fignifìcato di voci , per cui
dipingere all’ immagina- zione le padloni umane , non farà mai da
neduno cosi ben rilevato, come dall’ italiano , per eder tut- to
ciò diverlb in ciafcuna lingua, e in ciafcuna na- zione . V.
Egli è dunque vero , che trattandofi di tradu- zioni d’ opere d’ ingegno
fcritte dall’ una all’ altra favella , non potran quede mai riufcire
quanto al di- letto della favella deda, o qualora il traduttore
adu- ma di dilettare coll’efprcdìoni del fuo autore, trafpor- tate
nella propria lingua . Quedo nondimeno è quel che .volgarmente fuol
farli, ed è queda la ragione, per cui le traduzioni quand’anche
idruifcano ugualmente che gli originali , dilettan Tempre meno di quelli
, e rie- fcono per quedo capo quanto inutili per chi intende ambe
le lingue , tanto imperfette per chi non ne in- tende che una . E ciò
allor più , quando nell’ opere tradotte , il diletto della favella
prevale alla dottrina deir idruzione, come nelle novelle, ne’ romanzi ,
nel- le produzioni teatrali , poetiche , e fìmili altre, più cv di
spirito che di sentimento. II pretender di dilettare per fodituzioni
grammaticali di termini d’una lingua a quelli d’un’altra, come nel caso suddetto
d’idrui* re \a)y è una vanità, Amile a quella di chi credesse dì meglio
ricopiare un ritratto originale, con foprapporvi i suoi colori, cuoprendone
cosi e confondendone le tinte, e cangiando il quadro in un mascherone, o in un
empiadro. S’aggiunge trattandosi di poesia, che il numero, L’ACCENTO
(Grice), la rima (“Never seek to tell they love, love that never told can be,
pleasure, treasure” – Donne, four-corners – cabbages and kings -- ], e 1’altre
condizioni, per le quali il diletto dell’eloquenza rileva moltidimo, e che
dipendono dall’armonia che palTa all’intelletto per le vìe dell’udito, sono
if>)C.XF.n. del tutto imponibili a tral^rtarfì dall’ una all’altra
iàvella; e che fìccome la musica italiana può farsì udire in Francia, e la
francese in Italia, ciafcuna nel suo carattere, ma non è podibile tradurre la
musica verbigrazia di GALLUPI (vedasi) in quella di Monsù Ramò. All’ ideflb
modo non è podibile per quedo capo, tradurre r una nell’ altra poelia . E il
miglior poeta comico italiano de’nostri tempi, potrà darfene in Francia
per padar quivi meglio i fuoi giorni, ma non giammai perchè il suo
talento comico da così ben rilevato in Parigi, nella lingua francefe non sua, come
il fu già in Venezia, nel dialetto suo veneziano. Da ciò A conclude, che
non potendo il traduttore nella nuova lingua dilettare colrefpredìoni dell’originale,
non gli rederà dunque per tradurre ben che dilettar coll’espresioni della
propria; inguifachè impodedatoA lui del sentimento dell’autore per idruire
com’ edo, l’esponga poi con quei colori di dile, e con quelle fraA d’eloquenza,
che nella fua lioeua fon più vive e più forti, per dedare il piacere, n
terrore, la tenerezza, la compasione, e gl’altr’affetti, quai più occorredero .
£i dee Agurarn d’ effere autore , per non isAgurare il suo autore, e
lafciar a lui l’arte di dileture colla sua lingua, per dilettar
O ci €» colla propria ; e alTumendo le dottrine e le immagini di quello,
esprimer 1’une e rapprefentar 1’altre, coi COLORI (COLORE – Farbung – Grice) colori
della sua lingua e poesia che meglio conofee , e non con quei dell’altra
lingua e poesia, che non potrebbe mai cosi bene conofeere. In altra guisa
gli riulcirebbe bensì di privar la sua traduzione del diletto, che potesse
provenirle nella propria lingua, ma non mai di venirla del diletto, che
1’animala nell’altra. L’ indizio poi per cui ravvifare , s’ ei fi fia nel
tradurre comportato con quelle regole, farà fol que fio, di piacer tanto
la fua traduzione a quei della lingua tradotta , quanto l’originale a quei
della lingua originale, o di poter quella palTar per opera così originale
fra quelli, come 1’originale medesimo pafia per ule fra quelli. Accogliendo
ora le principali verità efpofte di fo- Epilogo, e pra, fi apprenderà
facilmente , una di quefie CoDcluCone . efl'er quella , di dover
difiinguerfi fra le cognizioni umane le apparenti , e le reali (a).
Perciocché io non ò già pretefo per quanto ò qui fcritto , di per*
fuadere gli uomini a governarli col folo reai delle co* fe , e di
difiruggere infra lor 1’ apparente del tutto , come potrebbe alcun
lòfpettare. Ciò faria fiato come voler perfuaderli a lafciar le vie piò
facili e pronte di governarfi, per appigliarfi alle piò lontane e
difficili , e ad abbandonar quegli alietumenti de’fenfi,dai quai
dipende tutto quel commercio di pafiioni , di pende* ri , e di azioni
grandi e luminofe , per cui pia* cevolmente fufiifiono ; cofa che non s’
è mai ottenuta , e che in confeguenza non è da fperarfi che s’ ottenga
giammai. Al contrario di ciò , mio difegno è fiato fol quello , di
didngannare gli uomini fu quello apparente mededmo , e di rapprefentarlo
loro per quello eh’ egli è ( i ) , avvertendoli che oltre a quello
, per cui fogliono elfi governarfi , v' à nelle cofe un reale, per cui li
governa irredllibilmente natura, o riferire 1’ uno all’ altro di quedi ,
dipende quella felicità, di cui fon tanto anfiofi e foJlecitt , o quella
infelicità , per cui alzan- si trilli e si fpein lamenti . E ia vero non
potendo gli uomini acquillar cognizioni che per mezzo de’sen- ii ,
e non^ iflendendofi quelli che alla fuperficie C,XILn. 2 ^ apparente
degli oggetti , le cognizioni loro fu quelli non pollono al primo tratto
effere, che fuperficiali e apparenti. Vero è che oltre ai fenfi, fon
eglin dotati dalla natura eziandio d’ un intelletto , per cui con-
frontando giuHamente fra loro quegli oggetti inferiori ed ellerni ,
arguir le verità fu elH piu fublimi ed interne , e farfi cosi dal
vifibile degli oggetti creati , all’ invifibile di Dio eterno e increato . Ma
efi- gendofi a ciò certa allrazione dai fenfi medefimi, da non
praticarfi che con ripugnanza, per l’amor pro- prio che tiene a quelle
apparenze fortemente attac- cati/ non è poi llupore , le gli uomini di
via ordi- naria s’ arredano fulle prime imprclTìoni , e fe paghi
dell’intereire proprio per quelle, non elaminanpoi, fe quedo concordi o
non concordi col comune degli al- tri, o colla ragione reale di tutti.
Una fimil pi. C.T, grizia in edi e
tanto più fcufabile , quanto le appa- renze medelìme non fon fallaci per
sè , ma per fola mancanza di ridedìone , poda la quale, fi rendono
elTe dede il reai delle cofe . £ oltre ciò i difordini che quindi ne
feguono , facendo ben todo accorti gli uo- mini de’ loro inganni dopo
edervi incorfi , fan si che fe ne correggano, c conofcano quegli errori
che (0 *•?* potean prevenire, ma che non àn prevenuto, ciò
che non è altro che condurli idedamente dall’ apparente al reale,
benché proprio mal grado, a che riguarda quel detto popolare , che la necedità
, o le angudie alle quali li conducono gli uomini da sè dedi ,
infegnan gran cofe . II. Un’ altra verità dedotta dalle cofe
fuddette è pur queda , che le dette cognizioni reali , alle quali
O z conducono le apparenti , non fon poi tanto fcono- Ibiute ed
ignote , nè da ^efte tanto diverfe , quan- to raflembrano , e eh’ eifendo
anzi quelle inufita- te nella pratica edema , nel fentUnento e nella
pra- tica interna , fon più note e paleft di quede . Lo che fi
comprova non fòlo per quella coinpadione e quel ridicolo, che s’ è
odervato cadere sì di frequente sulle azioni c debolezze altrui {a)\ ma per
quella circofpezione ancora , e dudio d’ ognuno di occultare le
verità , o di prefentarle e palliarle ad altri con co- lori alterati , e
talvolta mentiti da quel che fi cono- fcono . Perciocché in ed'etto ciò
non è , che tacere il reai delle cole che più fi lènte e s’ approva , per
re- golarci cogli altri per 1’apparente, che 11 lente e s’approva meno ,
amando meglio adulare e lufingare col facile, che illuminar col mdìcile ,
e infadidir sà dedi con tacer quel reale , più todo che offendere o
turbar altri con lor palefarlo . E ciò non ]xr altro , che per conciliare
una pari condifeendenza d’altri verso di sè medefìmi , contenti cosi gli uomini
con sì. bel garbo, quafi d’ingannarfi a gara a chi fa far me- glio
, e di convenzione comune . Effendo poi queda più o meno la pratica
univerfale , il reai delle cofe non è dunque così arcano e incredibile,
come è cre- duto, ed è anzi più noto ed approvato dell’ apparen-
te, ancorché fimulato quello, e adombrato nelle azio- ni comuni ederae. E
s’odervi, come queda fi mulazio- ne delle verità reali conofeiute in occulto
, è poi altresì fmentita elfa deda io palele da ognuno , allor eh’ ei
dichiara ad alta voce , che le cognizioni uma- ne fon tutte incerte e
fallaci , e che gli uomini fon foggetti tutti a sbagli e a illufioni ,
alle quali efpref- fioni tutti fan eco ed applaufo ; ciò che
propriamente é un vero accordarli da tutti, che febbene gli uomini
fi regolino per P apparente, per cui s’ingannano, ten- gono nondimeno mi
mente e in cuore un reale , per cui alla line del conto, puc ad onta loro
li difìngannano. Ed è eofa maravigliofa , come fu lecito ad ognuno di
dichiarare impunemente e con lode , che fian gli uomini in genere deboli,
lufinghieri , e ad errore foggetti; e non ardifca poi alcuno di far la
ileda di- chiarazione ad un altro, di quello fteflo in ifpecie ,
anzi fia quella creduta cofa villana e indifcreta . L* ignoranza dunque
delle verità reali è polla non già nel non conofcerle , ma nel (ìmularle
ad altri per le apparenti j mercecchè d’ altronde fe tutti conofco-
no , le cognizioni umane elTer generalmente fallaci, in quella conofcenza
medefima additano molto be- ne, le reali eHer loro pur note , e a qualche
mo- do non (on più nell’ inganno , rollo che conofcono d’ eflTervi
. III. Quindi fi prefenta f altra verità pur avvertita, la
qual è, che fe gli uomini prendono errore nel re- golarfi per cognizioni
apparenti , fenza badare fe con- vengano o non convengano quelle colle
reali , il pren- dono molto maggiore, quando condotti perciò in un
pelago di contraddizioni e d’implicanze, dal qual non fan come ufcirne ,
e per ufcire dal quale fon indi allretti a ingannarli , a tradirfi , a
combatterfi inlie- me con quella ferie di calamità, delle quali non
cef- fano di lagnarfi , fi volgono a imputar tutto quello alla
natura , o ai grande autore di ella; quando C.Z//7.n.a» ò indubitato
doverli tutto ciò afcrivere aHa loro pi- grizia , per cui non curano di
proceder dall’ apparen- te al reai delle cofe , e s’ arredano alle prime
im» S rdfioni degli oggetti edemi a loro favore, fenza ba-
are fe con ciò ìiano giudi o ingiudi cogli altri . E in vero che gli
uomini per certa inerzia e condifcen- denza, prefertfcano di adularfi e
di accarezzarfi in- fieme con vide di ambizione, di fado, e di altre
ve- rità apparenti, in luogo d’ iltuminarfi colle reali, te- mendo
ancora per quede di od'endere o conturbare i più inclinati a quelle ; può
ciò palfarfi ( benché con poco onore dell’ umana ragione ), purché ne’
mali che O 3 con 'Òt ex con ciò s’adunano intorno , fi compatifeano e
fi di- fendan fra loro . Quello infatti è ciò che avviene di via
ordinaria, e ben fel vede ogni più faggio ed at- tento , nel quale eccita
ancor tenerezza il vedere co- me quelli poveri fpenlìerati , poiché fon
caduti per inavvertenza negl’ inganni più vergognofi , fatti indi
accorti di quelli per li difordini che ne confeguono , accorrano ad
alfillerfi per ufeirne , a compatirli , e a prellarfi foccorfo gli uni
agii altri, comprovando cosi a elTervi incorfi quafi di confenfo
uniforme. Fin qui li mollrano elfi di un carattere timido e incauto ,
ma buono almeno e fincero. Ma che poi vi fian di quel- li , i quali
degli errori e de’ mali che s’ attirano fo- pra per loro pufillanimità e
miferia di fpirito , accu- fino la natura , quando quella con ingenuo
candore fuggerifee loro, che oltre all’ apparente v’ à negli og-
getti un reale , cui va quello riferito , al qual fi- ne oltre ai fenfi ,
per cut apprender gli oggetti , dà altresì un intelletto , per cui
confrontarli ; quella non può negarfi che non fia la cecità r e la
llolidezza maggiore . PalTando poi al propofìto delle lingue , la
ve- rità più conliderabile avvertita di fopra in ordine ad elTe e,
che quantunque fian quelle dellinate a rappre- fentare ad altri , e a
efprimere gli oggetti e le cogni- zioni per quelli apprefe ; non fon però
così atte a far quello, come il fembrano a prima villa; e eh*
elTcndo anzi elTe imperfette per efprimer le cognizioni reali , fervono
di fomento per dilatare e dar rifalto al- (.é)CJCyi.n.u ìe apparenti a
efclulìone delle reali medellme (b) . Cib avviene per mancanza d’
analogia necellària fra le cofe , e le parole per cui s’efprimono, e fra
la diver- 11 tà colla quale s’ apprendono e fi combinano gli og-
getti , e quella colla quale fi proferifeono e fi combi nan le voci; come
altresì fra le foggie, colle quali cangiano quelli e quelle , che non àn connefilone
o (f) C. XIV. dipendenza necelTaria veruna ì’ une coll’ altre. Quefta
oflTcrvazione che parrà nuova nell’ enunciarla > c A P. xx7 non n
troverà tal nella pratica , fe fi ponga mente alle tante ^legazioni ,
coment! , glofe, e interpreta- zioni che {penb occorrono per i’
intelligenza degli al- trui penfamcnti fui libri, o fulla lettera di
efli, maf- fime fe fì tratti di leggi, di coftumi, e di azioni an-
tiche cfprefie con lingue perdute. Le quali interpretazioni fan conofcere , che
non folo i coiiumi divcrfi pallati non àn relazione necelTaria conofciuta
veruna cogli (ieflTi prefenti, ma che le lingue pur morte diverfe
non 1’ ànno con una llefla pur viva , e ciò fenza di- pendenza di
ciafcuna di quefle relazioni coll' altra ; giacché per le flelTi voci
antiche fi dedano diverfi , e talor contrari concepimenti in perfone d’
una lingua medefìma da quella diverfa, alfiflellb tempo. Quindi
molto più apparifce l’ incapacità delle lingue per det- tar regole di
vita , che fervano a tutti i tempi e i luoghi , ne’ quali fi cangiano e i
coliumi e le lin- gue ; e come elTendo le azioni , per quanto pajan
con- nmili , ciafcuna diverfa da tutte le altre alio flelTo , e
molto più a’ tempi diverfi (a) , ciafcuna doveflb (j)C.F/. ».t. efigere
quafi una legge diverfa, o dettata diverfamen- te , eflcndo invero
in^lTibile il comprenderle e re- golarle tutte, colla fiefia efprefiìone
di voci. Certo è, che nella pratica ancor più fenfata , una legge
per efempio , che non può dettarli dai legislatore che fu tutti i
cafi in afiratto non avvenuti , dee fempre dal faggio giudice
interpretarfi nell’ applicarla ai cafi av- venuti particolari , cial'cun
de’ quali è noto diverfi- iicare da tutti gli altri per adiacenze,
occafioni , cir- cofianze e motivi che lo accompagnano ; fenza di
che quella legge fi trova fempre al propoli to o rigi- da o lenta , o
mancante o eccefiiva , o facile o le- verà . E gl’ Inglefi che pa|ono aver
fempre del fingo- lare, col foggettarfi alla lettera materiale delle lor
leg- gi più tolto che al fenfo di efle, non fi fono accorti, che di
uomini ragionevoli eh’ ei fono, fi fon contentati di confiderarfi come tanti
automi , da muoverfì per quelle leggi come per molle , a guifa di
figure in un quadro movibile ; operando cosi non per la ragione lor
viva , ma per la morta di alcuni loro vecchi parlamentar] , non certamente
d’ efll più ragionevoli . V. Finalmente dall’ elTer le lingue più
atte a dif- fonder le cognizioni apparenti che a efpor le reali ,
fi conferma la verità prima fuddetta , che gli uomi- ni in generale
abbiano ad elTer più ricchi di quelle, che di quelle cognizioni ; giacché
la favella, per cui s’ avanza 1’ apparente , è infatti più comune
della riflelfione e della meditazione , per cui s’ avanza il
i»)CJCyiM.x. reale. Ciò che conviene col detto ancor popola- re ,
che la verità e la virtù fincera Ila nell’ azione e non nella favella , e
che gli uomini più millanta- tori e loquaci Ibn meno attivi degli altri .
Il giu- dicarli più virtuolì e più faggi , perchè più parlano di
virtù e di faviezza , ognun fa eh’ è un giudicio dubbio ed equivoco ; e
che quando ancora fi verifi- calle elTo della virtù e faviezza apparente
, della rea- le non potrà verificarli giammai . Del rimanente io
fon certo , che in propofito di quella mia folenne dillinzione di
apparente e di reale , di che ò fatto qui si grand’ ufo, alcuni avrebbero
defiderato, eh’ io r avelli meglio Specificata , efemplificandola fu
fog- eetti particolari , e tnalTime fu quei che riguardano la comun
fulTillenza e i comuni aflàri , e aflegnan- do in elfi ciò che fia
apparente e ciò che fia reale, o dillinguendo 1’ uno diair altro . Quello
non pote- va io qui fare, trattando di oggetti , di collumi , e di
cognizioni in genere . Trovo però di averlo fat- to in altro luogo, ove
trattando particolarmente dell' Economia e del Governo de’ popoli , ò
polle molte propofizioni col titolo di Error$ popolari , che fono
tante verità apparenti , alle quali ne ò contrappollo altrettante col titolo
di ^JJiomi , che non fono che veri- '-Secxiii ^
errori contrarie, delle quali prò- cap. XX? pofìzioni un faggio fa
ancor veduto da alcuni . Lo lleflo potrà farfi da ognuno in qualfìvoglia
altro par- ticolare foggetto , che fe gli prefenti alla mente j o
eh’ ei prenda in confìderazìone , fui quale proceden- do col metodo col
quale io fon proceduto in quello, allora dovrà fempre temere di giudicare
per 1’ appa- rente , quando flando alle prime impredioni de’ (en-
fi , badi al particolare di sè fteflo o d’ alcuni , tra- feurando il rimanente
degli altri ; e allora potrà a(^ ficurarfi di giudicare realmente ,
quando badando al particolar di sè (le(To o di alcuni , abbia altresì
ri- guardo al comune di tutti , a fomiglianza di giuda e imparziale
natura. Que(ia amica di tutti, non tien nelTuni nemici , e non opera mai
per uno, che con relazione all’ univerfale degli uomini e di fe
def- (a ; e il medefimo dee fare chiunque penfi imitarla. I N-
/^Ggetti apprenGbili origini della fiTelIa . pag. i II. Della
fomigliaaza» edifomiglianza degli ogget* ti appreoGbili. Oggetti
come apprefi diverfamente. la IV. Oggetti come nominati per la
fietfa favella .. 14 V. Oggetti come nominati per favelle diverfe.
18 VI. Della diverGtà poflìbile de’ coftumi . za Della
contrarietà impoffibile de’ coftumi. z8 Vili. Coftumi creduti
contrai non fono comuni. Delia ftabiliti , e iftabilità de’ coftumi . De'
coftumi efpreftS per la fteffa favella. De’ coftumi efprefti per favelle diverfe. Delle
cognizioni reali, e delle apparenti. do Cognizioni apparenti più pratiche
delle reali. Imperfezione della favella
fulle cognizioni reali. 73 XV. Imperfezione della favella motivo
dell’ eloquenza . 77 XVI. Eloquenza come nociva alle cognizioni
reali. Deir eloquenza fulle cognizioni apparenti .Dell’ eloquenza fulle
cognizioni reali. Delle traduzioni dall’ una all’altra favella Epilogo e
ConcIuGone. Gianmaria Ortes. Ortes. Keywords: verso. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice ed Ortes” – The Swimming-Pool Library. Ortes.
Grice ed Ostiliano:
la ragione converazionale e il portico romano -- la filosofia romana sotto il
principato di Vespasiano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A follower of the Portico. His claim
to fame is that Vespasiano (si veda) banishes him from Rome. Ostilliano.
Grice ed Otranto: la ragione conversazionale e l’implicatura
conversazionale – la scuola d’Otranto -- filosofia pugliese -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Otranto).
Filosofo
italiano. Otranto, Puglia. Grice: “Otranto wrote a tractatus ‘de arte
laxeuterii,’ which is an art of ‘divination,’ as when we say that smoke
divinates fire!” -- Grice: “Had Otranto not written ‘scritti filosofici’ we
wouldn’t call him a philosopher!” – Filosofo. Sull'infanzia e sulla formazione poco è noto. Non si
sa dove oggiorna e studia, né chi siano stati i suoi maestri. La sua filosofia,
però, lascia immaginare una formazione molto solida. Insegna a Casole. Tradusse
la liturgia di Basilio ed altri testi liturgici per volontà del vescovo. Le sue
competenze linguistiche gli valeno inoltre degli incarichi diplomatici. Interprete
al seguito dei legati papali Benedetto, cardinale di Santa Susanna, e Galvani.
E a Nicea al seguito del re Federico di Svevia. Saggi: “L'arte dello
scalpello”, con una raccolta di testi geo-mantici ed astrologici; traduzioni di
testi liturgici; “Dialogo contro i giudei”; Tre monografie o syntagmata “Contro
i Latini” -- su questioni dottrinali significative nella polemica fra cattolici
ed ortodossi (quali la processione dello spirito santo o il pane azzimo);
un'appendice ai tre syntagmata; lettere e frammenti di lettere;. J Hoeck-R.J. Loenertz, Nikolaos-Nektarios von O.
Abt von Casole. Beiträge zur
Geschichte der ost-westlichen Beziehungen unter Innozenz III. und Friedrich
II., Ettal. M. Chronz: Νεκταρίου, ηγουμένου μονής Κασούλων (Νικολάου Υδρουντινού): « Διάλεξις κατά Ιουδαίων». Κριτική έκδοση. Athena, L. Hoffmann: Der anti-jüdische Dialog Kata
Iudaion des Nikolaos-Nektarios von O.. Universitätsbibliothek
Mainz, Mainz, Univ., Diss., Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Homosexuality in a textual gap in what was going on in Italian Byzantine
convents under Roman rules. Longobards being raped, or raping Greek monks. Nicola
Nettario d’Otranto. Otranto.
Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Otranto” – The Swimming-Pool
Library. Grice ed Otranto – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza.
Grice ed Ottaviano:
la ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale nel secolo d’oro
della filosofia romana sotto il principato d’Ottaviano -- Roma – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma).
Filosofo
italiano. Il primo principe. Historia augusta, scritta d’Ottaviano. His
philosophical teachers are well known. The education of a prince. O. lascia alla sua morte un dettagliato resoconto
delle sue opere: le Res Gestae Divi Augusti. Svetonio in particolare racconta
che una volta morto, lascia tre rotoli, che contenevano: il primo,
disposizioni per il suo funerale, il secondo, un riassunto delle opere, da
incidere su tavole in bronzo e da collocare davanti al suo mausoleo, il terzo:
la situazione dell'Impero. Quanti soldati sono sotto le armi e dove erano
dislocati, quanto denaro era nell'aerarium e quanto nelle casse imperiali,
oltre alle imposte pubbliche. Il testo dell'opera è tramandato da un'iscrizione
in latino. E incisa sulle pareti del tempio, dedicato alla città di Roma e ad O.,
situato ad Ancyra -- l'odierna Ankara, la capitale della Turchia -- e pertanto
è stata denominata Monumentum Ancyranum. Altre copie, molte delle quali sono
giunte frammentarie, dovevano essere incise sulle pareti dei templi a lui
dedicati. In uno stile volutamente stringato e senza concessioni
all'abbellimento letterario, Augusto riportava gli onori che gli erano stati
via via conferiti dal Senato e dal popolo romano per i servizi da lui resi; le
elargizioni e i benefici concessi con il suo patrimonio personale allo Stato,
ai veterani di guerra e alla plebe; i giochi e le rappresentazioni dati a sue
spese; infine gli atti da lui compiuti in pace e in guerra. Il documento
non menziona il nome dei nemici e neppure quello di qualche membro della sua
famiglia, con l'eccezione dei successori designati: Marco Vipsanio Agrippa,
Gaio Cesare e Lucio Cesare, oltre al futuro imperatore Tiberio. O. e totus
politicus, fin dall'adolescenza. Forse lo rivendica egli stesso nelle sue
memorie. L'unico frammento di una certa ampiezza in cui leggiamo esattamente le
sue parole racconta di lui men che diciannovenne alle prese con una imprevista
e imprevedibile circostanza esterna, prontamente messa a frutto in termini
politici. Si tratta di un miracolo ed egli capì subito che anda capitalizzato.
Durante i giochi da lui organizzati in memoria di GIULIO (si veda) Cesare, in
un momento di massima incertezza politica, tra liberatori perplessi e cesariani
frastornati - apparve una cometa e rimase visibile per ben VII giorni. Il
fenomeno fa molta impressione. «l volgo – scrive O. nelle sue memorie -
credette -- “vulgus credidit -- che quella stella significa che l'anima di
Cesare e stata accolta tra gli dei immortali. Usando tale pretesto (quo nomine)
feci subito (mox) aggiungere quel simbolo al busto di GIULIO Cesare che fa
consacrare nel foro. Il brano è citato da PLINIO nella Naturalis Historia, il
quale commenta. Queste furono le sue parole, destinate al pubblico, ma una
gioia intima gli suggere che quella stella era NATA PER LUI e che lui nasce in
essa. L'episodio ha avuto una eco imponente nella letteratura poetica e
storiografica, coeva e successiva. La formale decisione del Senato romano - che
stabili essere GIULIO Cesare ‘divino’ - ha luogo. Divus lulins. In tal modo O.
diventa ope legis, figlio di Dio, Divi filius. C'è chi pensa che già in
concomitanza con la conquista a mano armata del consolato, O. ottene tale
prezioso riconoscimento. Ma di fatto le premesse O. le aveva poste con
l'operazione «cometa», alla quale del resto si richiama una vasta tradizione
superstite: da Seneca a Svetonio a Plutarco a Dione Cassio. Ma al benefico
astrum Caesariso fa già riferimento VIRGILIO, e ormai rinfrancato, nell'Ecloga.
La carriera d’O. e incominciata già l'anno prima, quando, neanche allora in
ottima salute, aveva raggiunto GIULIO Cesare in Ispagna per esser presente
all'ultima durissima lotta contro i pompeiani, culminata nella battaglia, fino
all'ultimo incerta, di Munda. Difficile stabilire se GIULIO Cesare lo avesse
già allora notato, se Azia - madre di O. - abbia attratto l'attenzione di GIULIO
Cesare su di lui, se O. forza la situazione superando le esitazioni materne.
Quanto ci sia di riscrittura post eventum e quanto invece di autenticamente
vero in questo passaggio, che i biografi cortigiani d’O. esaltano come
premonitore, forse non si potrà mai accertare. In ogni caso spicca la capacità
dimostrata da GIULIO Cesare di scegliere un successore. In politica non accade
quasi mai. I capi carismatici hanno, oltre che l'idea della propria
indispensabilità, anche la certezza della propria superiorità. Di qui la loro
sospettosa sfiducia verso il proprio entourage, nel quale pur debbono pescare
chi verrà dopo di loro. A sua volta O. cerca per anni, e resta tra gli arcana
delle sue ultime ore di vita se sia stato davvero pago della scelta compiuta
(Svetonio, Vita di Tiberio). E ben si comprende. GIULIO Cesare sceglie un
figlio adottivo ed erede che puo, se si e confermato capace, diventare un
capoparte; O., invece, pur avendo restaurato la repubblica cerca un successore.
Anche dal modo in cui risolse questa tormentosa difficoltà degli anni finali
viene fuori il ritratto di un politico totale dotato di una visione in cui la
certezza della propria insostituibilità' -- che rende, tra l'altro, ancor più
disperante la ricerca di un successore -- si sposa con la tenacia nel
perseguire l'attuazione di un disegno; coniugare conservazione e rivoluzione,
dare alle istanze fondamentali della rivoluzione cesariana una salda cornice di
conservazione. Il che era molto di più, e molto più complicato, di una
riproposizione aggiornata del principato di Pompeo. Gli anni della lunga pace
non sono facili. Non sono mancati, in quei lunghi anni di governo solitario,
congiure, insidie, e persino il rischio che i conflitti si riaprissero. Da
qualche cenno di Seneca si deduce che ce ne furono e non irrilevanti. E se
Seneca ne e informato vuol dire che ne trova la traccia nelle inedite Historiae
ab initio bellorum civilium che suo padre continua a scrivere e ad aggiornare
ma non se l'era sentita di pubblicare. E anche questa prudenza di uno storico
accorto, che fa a tempo a intravedere «il mondo di ieri», ci fa capire che per O.,
alla fine, l'unica scelta possibile era quella della storia sacra. Perciò,
quando la lunga pace civile del suo interminabile governo non ha più bisogno di
una ravvicinata e puntuale messa a punto aderente alla quotidianità politica,
egli inventa un altro strumento che affermasse in modi essenziali e
monumentali, sperabilmente per sempre, la sua verità: il solenne e
sacralizzante ri-epilogo dei propri successi, da trasmettere a tutti i sudditi,
non soltanto ad una cerchia più o meno larga dell'élite dirigente. Così nasce
in lui l'idea delle Res gestae, diffuse su supporto durevole per tutto l'impero
e perciò salvatesi: covate e limate nel corso degl’anni, e alla fine pronte,
oltre che per l'impiego monumentale, per la lettura postuma, davanti al Senato
intimidito e allenato ormai alla servitù spontanea, attraverso la bocca
dell'erede designato, anzi, con ulteriore ricamo rituale, del figlio di lui Druso.
Per Roma e una radicale novità. E la via epigrafica alla storia sacra, sul
modello delle grandi epigrafi regie del mondo iranico -- Dario a Bisutun -- e
del mondo egizio, faraonico e poi Il ruolo delle Res gestae e quello non solo
di dichiarare chiuse per sempre le guerre civili, ma di spiegare
anapoditticamente ai posteri, la perfetta riuscita di quel disegno e di fare
accettare questa verità come l'unica vera nel momento stesso in cui la
successio dinastica ne rivelava la principale crepa. Nel che risiede la loro
grandezza e, insieme, la loro fragilità. VOX AVGVSTA. Petrarca, nel secondo
capitolo del primo libro delle Res memorandae, racconta d’essergli
avvenuto, ancora giovinetto, di leggere un libriccino contenente gli epigrammi
e le lettere agli amici dell’im- peratore Cesare Augusto, conditum
facetissima gravitate et luculentissima brevitate adorno di forbita
dignità di stile e di eloquente brevità; un volumetto quasi intonso
e mezzo divorato dalle tarme, che andò per- duto, e che, per quanto
disperatamente cercasse, Petrarca non riuscì più a trovare. I dotti
dubitano della veridicità della notizia, ma forse dubitano a torto,
giacchè nessuna ragione poteva avere Petrarca di men- tire la notizia, e
da nessun’altra fonte che dalla diretta lettura avrebbe egli potuto
derivare un giudizio così vero e preciso sulle doti stilistiche degli
scritti di Augusto. Non resta, dunque, che dichiararci contenti che
a rivelare al mondo la grandezza di Cesare Augusto scrittore sia stato il
primo umanista d’Italia, e che a nessun altro sia riuscito meglio che a
lui di definire, in fresco e saporoso latino, le caratteristiche dello
stile del figlio adottivo di Giulio Cesare. Molti secoli
passarono prima che si ponesse di nuovo mente ad Augusto scrittore, e
solo quando fu ritrovata l’iscrizione di Ankara in Anatolia i dotti si
diedero a raccogliere i frammenti degli scritti imperiali e a riprodurli
più volte in edizioni belle e brutte, rintracciando meticolosamente il
benchè minimo frammento. Sulla iscrizione dell’ Augusteo d’Ankara storici
e filologi discutono ancora, voglio dire che ancora non si sono messi
d’accordo sulla natura e significato di uno dei quattro documenti che O. consegna,
insieme col testamento, alle vergini Vestali perchè alla sua morte
fossero letti in Senato. I quattro documenti erano le disposizioni per i
funerali, il resoconto delle sue gesta, una relazione sulla situazione
militare e finanziaria dell’Impero, i consigli a Tiberio sul modo come
reggere e amministrare la cosa pubblica. Ci è giunto intiero il
secondo dei quattro documenti: ma non già nell’esem- plare che Tiberio,
obbedendo alla volontà di Augusto, fece scolpire nel bronzo dei due
pilastri collocati innanzi al grandioso Mausoleo, che sorgeva, nella
parte setten- trionale del Campo Marzio, tra il Tevere e la via Flaminia;
bensì nella copia che fu incisa nella pietra dell’Augusteo di Ancyra,
capitale della Galazia, cioè nell’Augusteo di Ankara, capitale della
nuova Turchia. Ivi, nel capoluogo di una provincia romana, le Res gestae
Divi Augusti furono incise nel testo latino det- tato dall’Imperatore e
nella traduzione greca fatta eseguire dal successore Tiberio, perchè le parole
di Cesare. O. sonassero più intelligibili alle popolazioni
orientali. Questa è l’iscrizione nota col nome di Monumentum ancyranum,
da venti anni a questa parte riprodotta in un testo sempre meglio
corretto, essendo stata rinvenuta un’altra copia dell’originale latino nella
colonia imperiale di Antiochia di Pisidia. Ma, come ho detto
innanzi, i dotti discutono ancora sul significato del documento, nel
quale Augusto volle rendere pubblica ragione delle cariche ricoperte, dei
donativi elargiti e delle imprese operate. E, purtroppo, anche in
questo caso, taluni critici, per cercare di scoprire i diversi
momenti della redazione dello scritto, hanno affermato che il piano
generale dell’opera è disorganico e disor- dinato, che molte sono le
incoerenze di alcune parti, e che però Cesare Augusto ha redatto il
documento ampliandone uno precedente, più modesto e meglio ordinato.
Insomma... una quistione omerica, che, a parer nostro, è facilissimo
distruggere nelle sue false ed ingannevoli argomentazioni con poche
parole. Il documento di Augusto non è un bilancio, non è un testamento
politico, non è un'iscrizione del tipo degli elogia; ma è rendiconto,
testamento ed elogium, perchè Augusto l’ha redatto quando si appressava
il giorno della morte. Per ciò stesso non rientra in nessun genere.
La solennità del latino del documento augusteo non è soltanto nello stile,
ma è nei fatti che vi sono esposti, e soprattutto è nel fatto che al
Senato e al Popolo di Roma parla il fondatore dell’Impero, il Padre
della Patria, Augusto, e non per esaltare la sua propria opera, ma per
proclamare che essa rimarrà in eterno legata alla fedele collaborazione
del Senato e del Popolo di Roma. Svetonio afferma che Augusto soleva
scrivere tutto ciò che dovesse dire, che scriveva perfino quello
d’importante che dovesse dire a sua moglie Livia; e che si era assuefatto
a scrivere meticolosamente i suoi discorsi al punto che, quando la troppo
cagionevole gola gl’impedisse di arringare la folla, un araldo leg-
geva ad alta voce il suo manoscritto: praeconis voce ad populum
contionatus est. Perciò io dico che anche questo documento è un discorso
al Popolo di Roma: l’ultimo discorso nel quale il Padre della Patria,
Cesare Augusto, rende conto dell’opera sua. E le prove della
mia affermazione sono la presunta incoerenza e il presunto disordine
scoperti e biasimati dai critici. Ma non sono malinconicamente ridicoli
quei critici i quali cercano di dimostrare in « sede scientifica »
che Cesare avrebbe copiato da Posidonio molti capitoli di un libro dei
commentarii della guerra gallica (e sono, purtroppo, Italiani); o questi
altri (e fortunatamente non sono Italiani) che scoprono in Augusto un
errore di cronologia? Giacchè, se dovessimo dar retta a costoro, O.
avrebbe commesso l’errore di menzionare alla fine del documento i due
maggiori titoli del Pater Patriæ e di Augustus conferitigli dal Senato e
dal popolo negli anni 27 e 2 avanti Cristo. Invece che nel
trentaquattresimo e trentacinquesimo paragrafo, Augusto avrebbe dovuto
ricordarli, a giudizio di cotesti critici, molto prima: chè insomma
avrebbe dovuto fare opera di storico mediocre e dimenticare di
essere Cesare Augusto. Leggete il documento. Esso comincia: annos
undeviginti natus exercitum privato consilio et privata impensa
comparavi, per quem rem publicam a dominatione fac- tionis oppressam in
libertatem vindicavi: « all’età di diciannove anni, di mia iniziativa e
con danaro mio apparecchiai un esercito, e con esso restituii
libertà allo Stato oppresso dalla prepotenza di una fazione. E si
chiude così. Tra il sesto e il settimo consolato mio, dopo ch’ebbi
soffocate le guerre civili ed assunto, per universale consenso di tutti i
cittadini, il supremo potere, trasferii dalla mia persona all’arbitrio
del Senato e Popolo romano il governo della cosa pubblica. Per
questa mia benemerenza, mi fu conferito, con decreto del Senato e Popolo
romano, il titolo di Augustus... Durante il tredicesimo mio consolato, il
Senato, l’ordine equestre e il Popolo romano mi acclamarono Padre
della Patria, e decretarono che questo titolo dovesse essere iscritto nel
vestibolo della mia casa e nella curia Giulia, sotto la quadriga che per
decreto del Senato fu eretta ad onor mio. Quando redigevo questo
documento, avevo settantasei anni. Comincia: annos undeviginti natus; finisce:
annum agebam septuagesimum sextum. Non dimentichiamo questa chiara
e significativa corrispondenza tra l’inizio e la chiusa del documento,
nella quale sono compresi i cinquantasette anni della vita politica di
Cesare Augusto. O sembra, forse, strano che per sublime orgoglio il
primo cittadino della Roma imperiale, acco- miatandosi per sempre dalla
plebe romana, di tutti i titoli e honores ch’egli ebbe in vita, voglia
ricordare alle generazioni avvenire il nome di Augustus e il titolo
di Pater Patriæ? O. era infermo, la morte si appressava non temuta, ma
serenamente attesa, chè infatti morì di bella morte. Egli parla per
l’ultima volta al Senato e Popolo di Roma, come un cittadino, che,
amministrata la cosa pubblica, dimesso dall’ufficio, consegni al
successore l’incarico e chieda, con coscienza onesta e proba, il
benservito. C’è in questo documento un crescendo di tono, che verso la
fine raggiunge il maestoso: dal venticinquesimo paragrafo in poi esso si
fa solenne come litania: mare pacavi a praedonibus; omnium
provinciarum populi romani fines auxi; Ægyptum imperio populi romani
adieci; colonias deduxi; signa militaria reciperavi; Pannoniorum gentes
imperio populi romani subieci; ad me ex India regum legationes saepe
missae sunt; ad me supplices confugerunt reges; a me gentes Parthorum et
Medorum reges habuerunt; e finalmente i due ultimi paragrafi
sopratradotti. Sui mari ha debellato i pirati, ha allargato i territori
di tutte le provincie dell’Impero, ha aggiunto la nuova provincia
di Egitto, ha fondato nelle più lontane regioni colonie di Roma, ha
recuperato bandiere e vessilli: a lui hanno fatto ricorso in atto di
supplica i re di tante nazioni, da lui le genti di Oriente hanno avuto i
re che avevano dimandati. Col trentesimo terzo paragrafo si chiude
il rendiconto delle imprese operate da Cesare Augusto; nel
trentaquattresimo e nel trentacinquesimo paragrafo risuona il ricordo del
nome di Augustus e del titolo di Pater Patriæ. Al Senato e Popolo
romano, alle genti tutte dell’Impero, alle generazioni avvenire
Augusto si raccomanda e consacra, prima che la sua terrena giornata si
chiuda, con quel nome solo e solo con quel titolo. * ws
Cesare Augusto affida il manoscritto alle vergini Vestali perchè
fosse consegnato dopo la sua morte al Senato e inciso sul bronzo. Il
successore Tiberio fece riprodurre il testo com’era, con una brevissima
appen- dice e in ortografia un tantino diversa da quella prefe-
rita da Augusto, ma certo senza nessuna sostanziale modificazione. Dunque,
noi possediamo un’opera intera di Augusto, la quale ci rivela la sua
grande personalità di scrittore. Il latino d’O. non è QUELLO DI
GIULIO CESARE. O. scrive e parla IN PRIMA PERSONA, ma si può dire che in
questo scritto egli raggiunga la stessa efficacia dei Commentari. Non
giudica, NON AGGIUNGE NESSUN COMMENTO ai fatti che espone pacatamente e
senza enfasi, ma dalla secca enumerazione dei templi fondati, degl’edifici
pubblici restaurati o costruiti, delle somme elargite all’erario e alla
plebs, delle genti soggiogate, dei nemici sconfitti, delle terre
conquistate, delle leggi promulgate, spira il calore dell’epopea e della
leggenda. La sua opera appare, quale fu, colossale; e vien fatto di
ripen- sare ai primi quattro versi della prima epistola del secondo
libro di ORAZIO (si veda). Se io tentassi di rubarti un po’ di tempo con
una lunga chiacchierata, o Cesare, peccherei contro l’interesse dello
Stato, giacchè da solo sostieni tante e così gravi cure, e l’Italia
difendi con gli eserciti, e ne incivilisci i costumi, e con leggi
la emendi. Epico è il tono di questo scritto d’O., anche là dove
sono riassunte in brevissime parole imprese che durarono anni. Colonie
militari ho inviato in Africa, in Sicilia, in Macedonia, nelle due
Spagne, in Acaia, in Asia, in Siria, nella Gallia Narbonense, in
Pisidia. E l’Italia diciotto colonie possiede; dedotte per ordine mio, le
quali, per tutto il tempo ch'io vissi, sono state assai popolose e
prosperose. Leggendarie appaiono le legioni, che, guidate da lui o dai
generali suoi sotto ì suoi auspici, marciano, di conquista in
conquista, verso confini sempre più lontani; e avvolte nella leggenda
sembrano le triremi sue che fanno vela, =_= 1 -:-—=- esse
poni “bi ski audaci, verso nuovi lidi: « La mia flotta corse
l’Oceano dalla foce del Reno fino al territorio dei Cimbri ad
Oriente, dove, nè per terra, nè per mare, nessun Romano prima di allora
era giunto... ». Augusto ha uno stile sobrio, nient’affatto
enfatico, e tuttavia solenne. Egli adopera vocaboli che sono sempre
esatti e tecnici, censuit, decrevit, ussit, creavit, per dire che il
Senato e Popolo romano ordinò, decretò, comandò, nominò. La collocazione
delle parole è semplicissima, lineare, chiara, antiretorica, come in
questo periodo che è uno dei più ricchi sintatticamente: nomen meum
senatus consulto inclusum est in saltare carmen, et sacrosanctus in
perpetuum ut essem et, quoad viverem, tribunicia potestas mihi esset, per
legem sanctum est. Il mio nome per decreto del Senato fu compreso
nel carme dei Salii, e che inviolabile io fossi in perpetuo, ed a
vita avessi il potere tribunizio, fu per legge sancito. Non fa mai
il nome degli avversari suoi; tace quello dei congiurati che
assassinarono il padre suo Cesare: qui parentem meum interfecerunt, eos
in exilium expulsi iudiciis legitimis ultus eorum facinus et postea
bellum inferentis rei publicae vici bis acie: «Quelli che assas-
sinarono il padre mio li cacciai in esilio punendo con procedimento
legale il loro delitto, e, in seguito, quando essi portaron guerra allo
Stato, per due fiate li sconfissi in campo ». E continua, pacato e
grave: « Guerre per terra e sui mari, civili ed esterne, in
tutto il mondo più volte ho combattuto, e vincitore risparmiai tutti i
cittadini che dimandarono grazia. Le genti straniere alle quali fu
possibile, senza pericolo, perdonare, preferii conservarle anzi che
distruggerle. Sotto le mie bandiere circa cinquecentomila cit- tadini
romani militarono. Di essi più che trecentomila mandai nelle colonie o feci
ritornare ai loro municipi, dopo ch’ebbero compiuto gli anni di servizio,
e a tutti assegnai terre oppure donai danaro a ricompensa del
servizio prestato. Seicento navi catturai, non includendo in questo numero
quelle di tonnellaggio inferiore alle triremi. Entrai in Roma
ovante, due volte: tre ebbi trionfi solenni e ventuna volta fui acclamato
imperator, sebbene il Senato mi decretasse un maggior numero di trionfi,
ai quali tutti rinunciai. L’alloro dei fasci lo deposi in Campidoglio, e
così sciolsi il voto che avevo solennemente fatto in ogni guerra. Per le
imprese felicemente da me o dai miei generali sotto i miei auspici
operate in terra e sui mari, il Senato cinquantacinque volte decretò che
si rendessero grazie agli dèi immortali. Ottocentonovanta furono i giorni nei quali,
per decreto del Senato, s’inalzarono pubbliche preci. Nove re o
figli di re furono nei miei trionfi condotti innanzi al mio cocchio. Ascoltatelo
quando riassume in un periodo solo la sua opera di legislatore: « Con
leggi nuove da me promulgate richiamai in vigore le consuetudini
antiche dei padri, che già cadevano in oblio nella nostra generazione, e
io stesso ho lasciato alle generazioni avvenire esempi di molte cose,
degni d’essere imitati. Sentitelo quando ricorda gli onori che il Senato
e Popolo di Roma conferì ai suoi due figli adottivi, e leggerete in
un brevissimo inciso il dolore del padre per l’immatura morte di Gaio e
Lucio Cesare, e l'umano e affettuoso compiacimento suo nel ricordare che
appena quindicenni essi furono acclamati principi della gioventù romana e
designati consoli. I due figli miei, che il destino mi strappò ancor
giovani, Gaio e Lucio Cesare, il Senato e Popolo romano per farmi onore
li designò consoli appena quindicenni, che entrassero in carica
dopo cinque anni. E il Senato decretò che dal giorno della loro
presentazione nel Foro partecipassero ai pubblici consigli. E tutti i cavalieri
romani li acclamarono principi della gioventù, e offrirono in dono
scudi e lancie di argento ». E, infine, ascoltatelo quando ricorda gli
anni di Azio e dell’ultima guerra civile. Mi giurò fedeltà l’Italia tutta
intera, spontaneamente, e mi volle condottiero della guerra nella quale
vinsi ad Azio. Mi giurarono fedeltà anche le provincie delle Gallie, delle
Spagne, d’Africa, di Sicilia, di Sardegna. O. è filosofo accortissimo,
che aborre da ogni lenocinio sintattico o lessicale, ma che nel giuoco
delle congiunzioni, del polisindeto e dell’asindeto, riesce a far
leggiero o grave il tono della voce, più lento o più celere, ma non mai concitato
il movimento della frase. Abbiamo letto or ora un esempio di asindeto, in
cui le pause tra un nome e l’altro delle provincie rendono più
solenne l’immagine del mondo romano stretto nel giuramento intorno al suo
Duce; eccone, invece, un altro di polisindeto, là dove O. ricorda
l’iscrizione dello scudo d’oro offertogli dal Senato. Il testo originale
dell’iscrizione era il seguente. Il Senato e Popolo di Roma offre ad O. questo
scudo per il suo valore clemenza giustizia pietà – VIRTVTIS CLEMENTIÆ IVSTOTIÆ ET
PIETATIS CAVSA – e, naturalmente, VIRTVS sta a significare l’opera del
condottiero d’eserciti, e PIETAS il profondo ossequio alle
istituzioni religiose. Ma O. riunisce più efficacemente in due
endiadi le quattro virtù, essendo le due prime proprie dell’opera sua di
condottiero, le altre due del magistrato civile e supremo amministratore
dello Stato. VIRTVTIS CLEMENTIÆ IVSTITIÆ ET PIETATIS CAUSA. Perciò io dico che
è molto difficile tradurre bene i paragrafi delle res gestae d’O. A
questa grande iscrizione, che Mommsen chiama la regina delle iscrizioni
latine, è mancato chi la traducesse nella lingua del principe, perchè è
stata rinvenuta troppo tardi. Nei tempi moderni avrebbe potuto
tradurla solo Tommaseo, ma non l’ha fatto perchè non la conosce. TOMMASEO
traduce solo le sette parole che son citate da SVETONIO nella vita d’O,
ed io le ho ripetute nella mia traduzione copiandole dal Dizionario
d’estetica, e le ripeto di nuovo con accanto il latino d’O. BIS OVANS
TRIVMPHAVI ET TRIS EGI CVRVLIS TRIVMPHOS. O entra in Roma ovante, due
volte: tre volte ha trionfi solenni. Solo la collocazione delle
parole semplice ed efficace, e un raro accorgimento nella scelta dei
vocaboli e dei sinonimi potrebbero soddisfare il desiderio nostro di una
traduzione italiana che riproduce gl’effetti del latino d’O. O. e filosofo elegante
e temperato. SVETONIO riferisce che egli filosofa su molte cose, alcune
delle quali legge NELLA CONVERSAZIONE DEGL’AMICI, quasi dinanzi a un uditorio
come le risposte a BRUTO (si veda) intorno a CATONE (si veda), che essendosi
messo a leggere, giunto un pezzo innanzi, finalmente stanco dovè farne
terminare a Tiberio la lettura; l’esortazioni alla filosofia, ed alcune
notizie della sua vita che espose giungendo fino alla guerra
cantabrica e non più in là. Compone anche qualche verso. Rimane, al tempo
di Svetonio, un volumetto in esametri sulla Sicilia e un altro di
Epigrammi, i quali egli e andato COMPONENDO DURANTE IL BAGNO. Anche incomincia con grande alacrità una
tragedia, ma non essendo contento della forma la distrusce, e agl’amici
che un giorno gli dimandano che fa di bello il suo Aiace, risponde che il
suo Aiace s’e buttato non sulla spada, ma in una spugna. Spregia di
fare uso di vocaboli dotti e difficili o com’egli stesso li define
reconditorum verborum fetoribus. Ha a noia i leziosi e gl’arcaizzanti,
ciascuno vizioso nel suo genere, e talvolta li mette in derisione e sopra
ogni altro il suo MECENATE (si veda) di cui continuamente riprende i riccioli
stillanti unguento, come li chiama. Non la perdona neppure a
Tiberio che anda a caccia di parole stantie, e da del matto a Marc’ANTONIO
(si veda), come colui che FILOSOFA PIÙ PER FARSI AMMIRARE CHE PER FARSI
INTENDERE. Nei discorsi, di alcuno dei quali leggesi in CICERONE menzione
entusiastica, sappiamo che O. si preoccupa di riuscire eloquente senza
mai ricorrere alla verbosità e pesante sentenziosità dell’allora
decadente oratoria. In una lettera ad Agrippina, lodando l’ingegno di
lei, l’ammonisce che si studi di non CONVERSARE in modo
disgustevole e lezioso. E per riuscir chiaro, sì che tutti potessero
capire, preferiva una sintassi limpida ad una sintassi più armoniosa e serrata,
e adopera le preposizioni anche dinanzi ai nomi di città, facendo cosa
che un diligente maestro dei nostri tempi sottolinea con frego azzurro
nel compito del malaccorto scolaro. Svetonio, che ci racconta questi
particolari della grammatica e sintassi d’O, e che ha modo di consultarne
gl’autografi, ricorda anche che O non divide mai le parole in fine di
riga per terminarle nella riga seguente, ma le ripiega sotto
chiudendole con una linea curva. E aggiunge che l'ortografia d’O, abituato
a scrivere per CONVERSARE, e quella di chi scrive COME PRONUNZIA. Se
dobbiamo credere agl’antichi, d’O. restano famose le lettere. Raccolte per
tempo in più volumi e alcune di esse rimaste vaganti, non costituirono
mai un vero e proprio corpus, ma andarono a poco a poco disperse. Esse
non hanno la buona e cattiva ventura di entrare nelle scuole come libro
di testo, e neppure l’altra d’essere raccolte in antologia. Restano
però i giudizi degl’antichi e alcuni frammenti degni d’essere ricordati. O.
discorre alla buona, familiarmente, sia che filosofa di affari politici,
sia che si rivolgesse ad amici e parenti. Sollecita VIRGILIO (si veda)
che gli mandas almeno l’abbozzo dei primi versi dell’Eneide; scherza con
ORAZIO (si veda) rimproverandolo che non conversa mai di lui, e chiedendogli
se per caso non crede di rimanere infamato presso i posteri,
qualora dai saggi suoi appare chiara la loro intimità. All’amico MECENATE (si
veda) un giorno scrive che essendo infermo e tuttavia indaffarato in più
cose, chiama e fargli da segretario il suo ORAZIO; lo richiama cioè
dal parassitico desco del nobile etrusco alla sua mensa di pontefice
massimo. VENIET ERGO AB ISTA PARASITICA MENSA AD HANC REGIAM ET NOS IN
EPISTVLIS SCRIBENDIS ADIVVABIT. E un’altra volta gli scrive una lettera che si
chiude con questa forbita apostrofe. Salute o mio ebano di Medullia, città
etrusca, avorio d’Etruria, laserpizio di Arezzo, perla tiberina, smeraldo
dei Cilnii, diaspro degl’Iguvini, berillo di Porsenna, carbonchio d’Adria, e,
per dirle tutte in una parola, céccolo delle meretrici. Suo nipote Gaio
Cesare e da lui chiamato in segno di affetto, asellus tucundissimus; e al
figliastro Tiberio egli scrive lettere gonfie di tenerezza e confidenza,
raccontandogli come avesse passato il giorno, quanto avesse perduto al
giuoco, parlandogli dei suoi digiuni imposti dalla cagionevole salute, e
d’aver sbocconcellato in lettiga, tornando al palazzo, un’oncia di pane e
pochi acini di uva secca. E quando Tiberio, il quale milita lontano con
gl’eserciti, scrive di essere smagrito per le continue fatiche della
campagna, ei lo supplica di riguardarsi, chè, alle cattive notizie
della sua salute, et ego et mater tua (Livia), expiremus et summa
imperti sui populus romanus periclitetur. Alla figlia Giulia vuole un gran
bene, e la licenziosa vita ch’ella conduce amareggia assai l’animo suo. Sole
dire di aver DUE FIGLIE, tutt'e due DELICATISSIME, la RES PVBLICA E
GIULIA. E molto spesso nelle lettere, come riferisce il vecchio PLINIO,
recrimina penosamente la dissolutezza di lei. Umano egli e sempre e ricco
di sentimento. Qualunque cosa scrive, politica o familiare, alieno da
ogni lenocinio di forma e incline piuttosto ad accogliere espressioni còlte
sulla bocca del popolo. Non scrive die quinto ma diequinte, chè così
comunemente dicevasi. E per esprimere la celerità di un avvenimento, dice
ch’esso e accaduto più prestamente che non cuoce uno sparagio, celerius quam
asparagi coquuntur. E per dir stolto adopera baceolus che corrisponde al
nostro baggeo. E per dire che sta male in salute dice vapide se
habere. Abbiamo poco dei suoi scritti, di intero la sola iscrizione
delle res gestæ in latino, e alcuni decreti ed editti in greco, non
tradotti da lui direttamente, ma certo da lui corretti e controllati.
Svetonio racconta che O., sebbene conoscesse il greco e sempre lo
legge e studia, tuttavia non si prova mai a scriverlo, chè teme di non
conoscerlo abbastanza. Studia con retori greci, i quali gli appresero cose
di larga erudizione. Ma scrittore, come ci appare nel lapidario latino
della iscrizione delle res gestæ, egli s'e formato sull’esempio di
Cesare, nell’azione ed esperienza militare e politica di tutti i giorni.
Aveva innanzi tutto imparato ad evitare non la facondia, ma la
loquacità, e a reputare perciò che L’ELOQUENZA CONSISTE NEL NON FAR MOSTRA
D’ELOQUENZA: PARTEM ESSE ELOQVENTIÆ PVTAT ELOQVENTAM ABSCONDERE -- che è
poi la grande virtù della parola destinata a commuovere i popoli e
a guidarli alla vittoria e all’impero. I contemporanei lo salutarono coi
versi di VIRGILIO. Ecco Cesare Augusto, l’eroe che ci era stato promesso e che
resusciterà nel Lazio e nelle campagne d’Italia, dove in antico regnava
Saturno, l’età del- l’oro; e l’Impero di Roma amplierà fino al Fezzan
e all’India, di là dalle vie delle stelle, fin dove l’instancabile
Atlante sostiene sulle spalle lo splendente astro dei cieli. Lo avevano
veduto entrare tre volte in trionfo nelle mura di Roma, e pagare agli dèi
d’Italia l’immortale tributo dei suoi voti consacrando più di
trecento templi, e fra l’applauso della folla e i canti delle vergini e
delle matrone, mentre sugli altari fumanti cadevano immolati migliaia di
tori, l'avevano ammirato, sulla soglia di marmo e di alabastro del tempio
di Apollo, ricevere dall’alto del trono i doni dei popoli sottomessi per
abbellire le magnifiche colonne del superbo porticato. L’immagine
virgiliana -- VIRGILIO (si veda) -- dell’apoteosi di Augusto si è
trasmessa, di generazione in generazione, come l’immagine della pace romana creata
dall’eroismo e dalla vittoria delle legioni, e dalla volontà pura di uno
spirito umanamente libero trasformata in religione politica e ideale di
civiltà: riformatore della costituzione, difensore del territorio,
organizzatore dell’amministrazione e della società, Cesare Augusto rappresenta
la maestosa dignità dell’Impero e il diritto fondamentale dello Stato. I
simboli del suo destino, l'adozione di Cesare, la battaglia di
Filippi, la vittoria d’Azio annunziano, nel tramonto di Roma repubblicana,
la luce di Roma imperiale; più chiaramente ancora l’annunzia il nuovo suo
nome di Imperator Caesar Augustus, che è un simbolo anch’esso e riunisce
in un solo destino l’eroe creatore e la volontà implacabil- mente
lucida del fondatore dell’Impero. Religiosa eredità fu quella di
Cesare: e infatti duravano ancora le leggi, le istituzioni e gli
ordina- menti, coi quali Cesare era salito al potere e il culto del
divus Iulius e diventato il culto dello Stato, garanzia e patrimonio
dell’Impero. Ma rafforzando e difendendo la Romanità così che niente mai
potesse distruggerla, Augusto risolveva a favore dell’Occidente
l’antitesi tra l'Oriente e l'Occidente che Cesare aveva drammaticamente
vissuta negli ultimi anni della vita sua, e che s’era ripresentata,
fortunosa e tragica, nella lotta tra Ottaviano non ancora Augusto e Marco
Antonio. È però costruendo in Occidente la Roma imperiale sognata e creata da
Cesare, Augusto che aveva da Cesare ereditato la legittimità aggiunse
alla grandezza del padre suo la gloria d’aver tenuto a battesimo la
civiltà europea. Insieme con GIULIO (si veda) Cesare, O. è il simbolo
della dignità imperiale, e il nome suo di imperator cæsar avgvstvs
consacra l’identificazione dell’impero con l’occidente. Il titolo di ‘cesare’
da il diritto di successione al trono; quello di ‘augusto’ concede la
dignità imperiale: il rito iniziato dai Flavii e ufficialmente inaugurato d’Adriano
e poi consacrato nelle formule del protocollo. Creatore dell’impero e
Cesare; fondatore e O., il quale e riuscito a far sopravvivere l’opera e
la gloria di Cesare in cinquantasei anni di regno, e della santità di Cesare fa
il patrimonio e il fondamento dell’Impero. Appare dunque ricco di conseguenze
per il mondo l’atto di adozione, col quale Cesare proclama suo
erede il nipote di una sua sorella, quel giorno che, alla vigilia di una
battaglia, mentre fa tagliare un bosco per costruirvi il campo delle
legioni, ordina si risparmiasse una palma come augurio di vittoria, e
quella sùbito gitta polloni alti e fiorenti. All’albo della Rinascenza, quando
si inaugura la ricerca storica e si annunzia fecondo di civiltà il quasi
voluttuoso amore del passato, e la romanità risorge nella cultura e
nell’arte nutrite dalla possente vita dei sensi, allora i due nomi
di cesare e di augusto tornano ad essere creatori della religione
dell’impero. Allora il romanticismo eroico dell’umanesimo celebra ed esalta
l’idea imperiale di Roma con tanto devota ammirazione che gl’italiani ne
trarranno motivo di orgoglio e di serena fede, quando il predone
straniero spoglia e insozza le loro terre. E da quel grido di amore
per l’antica grandezza romana nasce un appassionato libro del
Risorgimento, sul primato della nostra gente e sulla universale missione
d’Italia. |Allora, all’alba della Rinascenza, fiorirono le leggende sui monumenti
che sono rimasti segni tangibili della sua presenza, a testimonio della
grandezza d’O. Ed O. apparve garante del miracoloso destino d’Italia,
come nella formula dell’impero che saluta l’imperatore con l’augurio che
fosse più fortunato di Augusto: felicior augusto. E si divulga la
fama che nel mausoleo comunemente noto col nome di Austa sorge circondata
dalle tombe un’abside, ed O. e i sacerdoti suoi vi celebrassero
sacrifizi solenni, fra sacchi di terra raccolti d’ogni parte del
mondo a perpetuo ricordo delle genti sottomesse all’impero. L’Austa divenne una
fortezza inespugnabile, la fortezza più contesa di Roma, ed e strascinato
allo campo dell’Austa il cadavere di Cola di Rienzo e là e bruciato
in un fuoco di cardi secchi, in quegl’aanni che
Petrarca scopre e vaticina nella grandezza di Roma imperiale l’ideale
politico italiano, distruggendo ogni antitesi tra il passato e
l’avvenire. E dopo che il maestro Marchionne d’Arezzo ha costruita presso il
Mercato di Traiano l’alta Torre delle Milizie, allora nasce, più
suggestiva e più vera, anche l’altra leggenda: che sotto la torre e un
palazzo incantato ed O. vi riposa. E un giorno si desterebbe dal
sonno e tutto armato uscirebbe con milizie e legioni, quando Roma e
pronta a reggere e guidare per la seconda o terza volta le sorti del
mondo. Ottaviano. Keywords: vox augusta. Ottaviano. Luigi Speranza, “La
ragione conversazionale: Grice ed Ottaviano,” pel Gruppo di Gioco di H. P.
Grice, “ The Swimming-Pool Library, Villa Speranza. Ottaviano.
Grice ed Ottaviano: all’isola -- la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale e il collettivismo – la scuola
di Modica – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Modica).
Filosofo siciliano. Filosofo italiano. Modica, Ragusa, Sicilia. Grice: “Perhaps with
Holllinghurst, and Hogarth, of course, Ottaviano is one of the few who have
cherished in the analysis of ‘la curva’ or ‘la linea’ – and it has revived a
debate which should fascinate a few!” Diplomatosi
a Modica, si laurea a Milano. Straordinario di Storia della Filosofia a Cagliari,
poi a Napoli, ottenne la cattedra, conseguendovi la libera docenza ne passò poi
a Catania, dove fonda e diresse l'Istituto di Magistero, insegnandovi. Fonda la
rivista “Sophia”. Grande conoscitore della filosofia del periodo medievale, di
cui peraltro ritrova e studiò molte opere inedite, elaborò una propria teoria. Delle due saggi, “Critica dell'Idealismo”
(Napoli,) e “Metafisica dell'essere parziale” (Padova), la prima ma fu ben
presto censurata e poi bruciata pubblicamente a causa della sua dura critica
all'Idealismo di Gentile. Questa sua opposizione a Gentile, nonché le sue
critiche a Croce, gli valeno dure vessazioni accademiche. Compone inoltre un ampio e comprensivo
Manuale di storia della filosofia (Napoli). Membro dell'Accademia d'Italia, si
occupa, per primo, della filosofia di Gioacchino da Fiore, esaltato d’Aligheri
nella Commedia, pubblicandone un saggio. Pubblica il codice di Oxford “Joachimi
Abbatis Liber contra Lombardum,” che attribuì a qualche seguace della scuola di
Fiore. Mentre celebrava, a Novara, Pietro Lombardo, riprese a parlare di Fiore,
presentandolo come un romantico "ante litteram" e un fautore della
nazione italiana. Segnalò pure due ignorati codici gioachimiti della biblioteca
Casanatense di Roma, occupandosi altresì della condanna di Gioacchino da parte
del Concilio Lateranense ed evidenziandone lo sgomento suscitato. Inoltre,
nella rivista Sophia, diretta da lui ed allora edita dalla MILANI di Padova, da
spazio a vari studiosi gioachimiti. Sempre sull'argomento, ritenne dapprima
Gioacchino un triteista, ma, dopo aver visionato le tavole del Liber figurarum,
scoperto da Tondelli propese invece per un'ortodossia trinitaria. Fonda e
diresse un partito nazionale d'impronta social-liberale, che però non ha
seguito. Saggi principali: PAbelardo. La vita, le opere, il pensiero,
Poliglotta, Roma; Il Tractatus super quatuor evangelia, di Fiore, Archivio di
filosofia, Padova, Testi medioevali inediti. Alcuino, Avendanth, Raterio, AOSTA
(si veda), Abelardo, Incertus auctor, Olschki, Firenze; Joachimi abbatis Liber
contra Lombardum (Scuola di Gioacchino da FIORE (si veda)), Reale Accademia
d'Italia Studi e documenti, Roma, Un documento intorno alla condanna di
Gioacchino da Fiore, Rondinella, Napoli); Pier LOMBARDO (si veda), in
Celebrazioni piemontesi, Istituto d'Arte per la Decorazione e la Illustrazione
del Libro, Urbino; Critica dell'Idealismo, Rondinella, Napoli; Metafisica
dell'essere parziale, MILANI, Padova; “La tragicità del reale, ovvero la
malinconia delle cose. Saggio sulla mia filosofia, MILANI, Padova; Campailla.
Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in Italia,
introduzione e note Orsi, MILANI, Padova; Scarcella, Dizionario Biografico degli
Italiani, Orsi, Il filosofo della quarta età: ricordo di O., quotidiano “La Sicilia”,
Catania, di. Orsi, Tra Socrate e Gesù, Sicilia, Catania,. E. Scarcella, Dizionario
Biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma,. Gioacchino da Fiore Pace, Info Magazine. Grice: “I love
Ottaviano: he had three main interests: philosophy, philosophy, and philosophy.
More specifically, as a Sicilian, he was not interested in Italian philosophy,
which he found too continental; he loved a mediaeval – and he loved Gentile –
he corresponded extensively with him! La
visione cristiana di Buonaiuti, Campitelli, Foligno. A proposito di un libro
sul Prepositino, Rivista di filosofia neoscolastica, Traduzione, prefazione e
note di: Cantuariensis, Opere filosofiche, trad. pref. e note di O., Carabba,
Lanciano. Metafisica del concreto. Saggi di una Apologetica del Cattolicesimo,
Signorelli, Roma. Ricerche lulliane, Estudis universitaris catalans; Abelardo.
La vita, le opere, il pensiero, Tipografia Poliglotta, Roma. Otto opere sconosciute di Lullo,
Rivista di cultura; L'Ars compendiosa de Lulle, avec une étude sur la
bibliographie et le Fond Ambrosien de Lulle, Paris; ristampata sempre in
francese: L'Ars compendiosa de Lulle, avec une étude sur la bibliographie et le
Fond Ambrosien de Lulle, O., Librairie philosophique Vrin. Guglielmo d'Auxerre. La vita, le opere, il pensiero,
Biblioteca di filosofia e scienze, Roma. A proposito di un libro su AOSTA (si
veda), in Rivista di filosofia neoscolastica. I problemi del realismo, Giornale
critico della filosofia italiana; Le Quaestiones super libro Praedicamentorum” di
Faversham, R. Accademia dei Lincei». Roma. Traduzione, prefazione e note di
AQUINO (si veda), Saggio contro la dottrina dell’unità dell’intelletto,
Carabba, Lanciano. Traduzione, prefazione e note di AQUINO (si veda), Saggio
sull'essere e l'essenza e altri opuscoli, prefazione, traduzione e note
critiche d’O., Carabba, Lanciano. Frammenti abelardiani, Rivista di cultura,
Prof. P, Loescher, Roma. Il Tractatus super quatuor evangelia di FIORE (si
veda), iArchivio di filosofia», Padova. Osservazioni critiche sui presupposti
del problema della conoscenza. Il superamento dell'immanenza sulla base della
nozione di individuo, Archivio di filosofia. Il pensiero e il suo atto,
Archivio di filosofia. La riforma della logica di Aristotele, Archivio di
filosofia. Nota polemica, Rivista di cultura. Le opere di Faversham e la sua
posizione nel problema degl’universali, Archivio di filosofia. Traduzione,
curatela e note di: TRACTATVS DE VNIVERSALIBVS attribuito ad AQUINO (si veda), cur. di O., Reale Accademia d'Italia, Roma. Introduzione,
traduzione, prefazione e note di AOSTA (si veda), Il Monologio, Palermo. Antologia
del pensiero medioevale. Per le scuole medie superiori, Ires, Palermo. Testi
medioevali inediti. Alcuino, Avendanth, Raterio, AOSTA (si veda), Pietro
Abelardo, Incertus auctor, a cura di O., Olschki, Firenze; San Vittore, la
vita, le opere, il pensiero, Lincei, Traduzione, prefazione e note di FIDANZA
(si veda), Itinerario della mente verso Dio, traduzione, prefazione e note di
O., Antologia del pensiero medievale per le scuole medie superiori, Palermo. Il
pensiero di Orestano, Ires, Palermo. Il superamento dell'immanenza in Varisco,
Archivio di filosofia, Traduzione e note di: P. Abelardus, Epistolario
completo. Contributo agli studi sulla vita e il pensiero di Abelardo, trad. it.
e note critiche d’O., Ires, Palermo. Joachimi abbatis Liber contra Lombardum.
La Scuola di Gioacchino da FIORE, cur. O., Reale Accademia d'Italia, Studi e
documenti, Roma. Critica del principio d'immanenza, Rivista di Filosofia
Neoscolastica, Il perduto “Liber de potentia, obiecto et actu” di Lullo in un
manoscritto romano, Estudis franciscans, Un documento intorno alla condanna di FIORE
(si veda), Rondinella, Napoli, Siculorum Gymnasium, Catania). Storia,
filosofia della storia, scienza della storia, Rivista di Filosofia
Neoscolastica, Un brano inedito della Philosophia di Conches, Morano, Napoli. Il
cosiddetto riferimento necessario alla coscienza nell'idealismo, Atti del Congresso
di Filosofia, Padova, Novità in filosofia, Milani, Padova. LOMBARDO (si
veda), in Celebrazioni piemontesi, Istituto d'Arte per la Decorazione e la
Illustrazione del Libro, Urbino. Critica dell'Idealismo, Rondinella, Napoli, Milani,
Padova, Traduzione, prefazione e note di: Abelardo, L'origine delle monache; e
La regola del Paracleto, traduzione, prefazione e note di O., Carabba,
Lanciano. L'unica forma possibile di idealismo, Rivista di Filosofia
Neoscolastica, La scuola attualista ed Eriugena, Rivista di Filosofia
Neoscolastica, Riflessioni sulla polemica Orestano – Olgiati, Rivista di
Filosofia Neoscolastica, Curatela di: CAMPANELLA (si veda), Epilogo magno
(Fisiologia italiana). Testo inedito con le varianti dei codici e delle
edizioni latine, cur. O., Reale Accademia d'Italia, Roma, Kritik des
Idealismus, mit einer Einfuhrung von Fritz-Joachim Von Rintelen:
Realismus-Idealismus?, Aschendorff, Munster. Metafisica dell'essere parziale, MILANI,
Padova. L'unità del pensiero cartesiano e il cartesianesimo in Italia, MILANI,
Padova. Scritti con giudizi della critica italiana, Tipografia agostiniana,
Roma. Panteismo o trascendenza, Humanitas; Il problema morale come fondamento
del problema politico, Milani, Padova. L'idealismo trascendentale e la
metafisica classica, Rivista di Filosofia Neoscolastica; La soluzione
scientifica del problema politico, Rondinella, Napoli. Le incertezze della
scienza moderna, Padova. Progetto di un disegno di legge per salvare la
Democrazia dalla dittatura, MILANI, Padova. Dalla democrazia ingenua alla
democrazia critica, MILANI, Padova. Che cosa è il social-liberalismo, MILANI,
Padova, Lineamenti programmatici per una riforma della scuola italiana, MILANI,
Padova. Presentazione di Sepinski, Cristo interiore secondo FIDANZA (si veda),
presentazione O. trad. di Orgiani, Politica popolare, Napoli. La tragicità del
reale, ovvero la malinconia delle cose. Saggio sulla mia filosofia, MILANI,
Padova. Critica del socialismo: ossia Introduzione alla teoria della proprietà
per tutti, MILANI, Padova. Introduzione alla teoria delle proprietà per tutti,
ovvero la mia soluzione al problema economico-politico, MILANI, Padova. Didattica
e pedagogia. Ovvero la mia riforma della scuola, MILANI, Padova. La legge
della bellezza come legge universale della natura. Considerazioni teoretiche e
applicazioni pratiche, MILANI, Padova. Manuale di Storia della filosofia, La
Nuova Cultura, Napoli. Manuale di storia della filosofia e della pedagogia, La
Nuova Cultura, Napoli. Appunti di pedagogia contemporanea. Personalismo e COLLETTIVISMO.
Introduzione alla teoria della proprietà privata per tutti, Solfanelli, Chieti.
Campailla. Contributo all'interpretazione e alla storia del cartesianesimo in
Italia, introduzione e note cur. Orsi, MILANI, Padova. Sophia: fonti e studi di
storia della filosofia, Palermo: Ires, Il complemento del titolo varia in:
rivista internazionale di fonti e studi di storia della filosofia; poi in:
rassegna critica di filosofia e storia della filosofia. Luogo ed editore
variano in: Napoli, Rondinella; poi in: Padova, Milani. Alcuni dei saggi più
significativi da O. per Sophia: Le rationes necessariae in AOSTA (si
veda), in Questioni e testi medievali , Sophia, Novità abelardiane, in
Questioni e testi medievali , Sophia; Storicismo attualista, Sophia, Storicismo
attualista, seconda puntata, Sophia; Controversie medievali. A proposito della
paternità tomistica AQUINO (si veda) di un “Tractatus de universibus, e della
data del De unitate intellectus, Sophia», Intorno al Congresso di Filosofia di
Padova, Sophia; Intorno alla critica dell'immanenza, Sophia, Critica del
principio di immanenza, Sophia, A proposito della storia, Sophia. I grandi
idealisti, Sophia. L'idealismo sulla via di Damasco, Sophia. Contraddizioni
idealistiche, Sophia. La fondazione del realismo, Sophia. Postilla alla difesa
del principio di immanenza, Sophia; Postilla a Immanenza, idealismo e realismo,
Sophia». Idealisti per forza, Sophia, Ancora sulla fondazione del realismo, in
Sophia; Fanatismo idealista, ovvero l'agonia dell'idealismo, Sophia; Nuova
illustrazione del documento intorno alla condanna di FIORE (si veda). Postilla,
Sophia; Intorno all'idealismo e al realismo, Sophia, Postilla a Chiocchetti: “A
proposito dell'idealismo d’O., Sophia; Anti-moderno, Sophia; Intorno alla
critica all'idealismo, Sophia; Intorno alla valutazione della filosofia, Sophia;
La teoria delle “species” e l'idealismo immanentistico, Sophia; La natura della
sensazione e la fondazione del realismo, Sophia; Referendum ai nostri Lettori
in occasione della ripresa delle Rivista, Sophia, Sophia, Il vero significato
della relatività galileiana nel movimento,
Sophia. Natura pura e soprannaturale, Sophia. I fondamenti logici della
relatività, Sophia. Gl’argomenti probativi dell'evoluzionismo, Sophia, Intorno
al significato storico dell'idealismo italiano, Sophia; Intorno alla legge di
conservazione dell'energia, ossia del materialismo, Sophia, Intuizionismo e
logicismo in matematica, Sophia, Intorno alla gratuità dell'ordine soprannaturale,
Sophia; Postilla a Riverso, Aporie e difficoltà del Positivismo logico, Sophia;
Valutazione critica del pensiero di Croce. L'estetica, Sophia, Valutazione
critica del pensiero di Croce; Lo storicismo assoluto, Sophia, Bilancio di
Croce, Sophi. Einstein filosofo, Sophia, Giudizio intorno alla Logistica,
Sophia, Logica, matematica, poesia, Sophia, Crolla l'idolo einsteiniano,
Sophia, Il“compagno Scioccherellov, ossia la tragicommedia del comunismo,
Sophia, Mi intrattengo ancora con il compagno Scioccherellov, Sophia,
“Individui di tutto il mondo unitevi”, ossia Critica della democrazia come
idea-forza, Sophia, Giudizio su Croce come uomo politico, Sophia. L'assalto
alla diligenza, ossia la scuola privata ecclesiastica e laica all'assalto del
tesoro della stato, Sophia, Difesa della scuola statale, ossia l'anti-stato
contro lo stato, Sophia, L'ordine della scuola italiana”, Sophia, In difesa
dell'umanità Abbasso gli scienziati, viva i filosofi!, Sophia. Come integrare
la dottrina relativistica di Einstein, Sophia, O. nella filosofia del
Novecento, Atti dei convegni tenuti a Milano e Catania, cur. Rando e Solitario,
Prometheus, Milano. A. Cartia, Tempo, memoria e infinito. I temi del
tragico nell'opera di O., cur.
Ghisalberti e Rando, Prometheus, Milano Bontadini, Dall'attualismo al
problematicismo, Brescia. Coniglione, Sophia. Nel segno d’O.: una rivista a
tutto campo, in La cultura filosofica italiana attraverso le riviste, cur. Giovanni,
Angeli, Milano, Croce, Conquiste filosofiche a passo di carica e a suon di
tromba, Critica, Orsi, Il filosofo della
quarta età: ricordo d’O., Sicilia”, Catania, Orsi, O: Tra Socrate e Gesù, Sicilia”,
Catania, Orsi, Appunti autobiografici ed evoluzione filosofica d’O., Archivium
Historicum Mothycense, Orsi, Metamorfosi di un'opera quale compendio di una
vita filosofica, Introduzione a O., Campailla. Contributo all'interpretazione e
alla storia del cartesianesimo in Italia, introduzione e note a cura di Orsi, MILANI,
Padova, Noce, Il problema dell'ateismo, Teismo e Ateismo politici: postulato
del Progresso e postulato del Peccato, Mulino, Bologna, Noce, Gentile, Mulino,
Bologna, Tommasi, Compendio di una vita filosofica: Carmelo Ottaviano, in Voci
dal Novecento, a cura di Pozzoni, Limina Mentis, Villasanta Ferro, L'anti-moderno di O., Rivista di
Filosofia Neoscolastica, Garin, Cronache di filosofia italiana, Laterza, Bari, Mathieu,
La filosofia del Novecento. La filosofia italiana contemporanea, Le Monnier,
Firenze Mazzantini, La riduzione ad absurdum dell'immanenza gnoseologica, Rivista
di Filosofia Neoscolastica, Vita e Pensiero, Milano. P. Mazzarella, Il
contributo di O. agli studi di filosofia medievale, Sophia, Mazzarella, Tra
finito e infinito. Saggio sul pensiero di O., Milani, Padova, Mignosi, O.,
Tradizione, Minazzi, Il principio di immanenza nel dibattito filosofico
italiano: il confronto tra Preti e O., Protagora, Aspetti e problemi della
filosofia italiana contemporanea, cur. Quarta, Scarcella, O. in Dizionario
Biografico degl’Italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, Sciacca,
Di una recente critica del principio di immanenza, in «Ricerche filosofiche»,
Sciacca, Il secolo XX, Bocca, Milano. Carmelo Ottaviano. Ottaviano. Keywords. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Ottaviano” – The Swimming-Pool Library. Ottaviano.
Grice ed Ovidio: la
ragione conversazionale e l’implicatura convrsazionale – Roma – la scuola di
Sulmona -- filosofia abruzzese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Sulmona). Filosofo italiano. Sulmona, L’Aquila,
Abruzzo. Publio Ovidio Nasone. Muore a Tomi, rivela influssi filosofici assai
svariati. A Posidonio, mediato da Varrone, si fa risalire la rappresentazione
dell'età dell'oro e dello sviluppo della cultura (“Met.”; “Fasti”). Dalla
setta di Crotona deriva in larga misura il libro XV delle Metamorfosi, in cui
Pitagora -- di cui si dice che si innalza sino al divino colla filosofia e scorge
con l’animo ciò che la natura nega agli sguardi umani -- espone ai discepoli un
ampio insegnamento sulla natura, il divino, numerosi problemi naturali oscuri e
condanna l’uso delle carni animali, giustificando questa proibizione con la
teoria della metempsicosi. Nella tesi che nulla è stabile nella natura e
nell’uomo, che anche gli elementi si trasformano gli uni negli altri, si notano
invece influssi eraclitei e di Girgenti. La formazione del mondo dal caos
(Met.), in complesso, riecheggia il portico, ma include anche elementi che
fanno pensare a Girgenti, ad Anassagora e a Lucrezio. For a contemporary Roman
reader of Ovid's Metamorphoses – usually just the emperor -- who has made his
way through the labyrinth of mythological tales that comprise, one segment
becomes in some ways a fresh start. It begins the third and last pentad. As he
marks this formal boundary, Ovid introduces what he calls a *historical*
emphasis. Troy is founded, and from Troy's story that of Rome arises. Roman
matter, settings, and themes occupy ever more of our attention as the thing
approaches its end. Ovid includes some of the same tales that he had used in
his less successful (less read, not even the emperor read it!) in the Fasti, his “most Roman work” in terms
of its proclaimed matter: the very Roman calendar – “tempora cum causis Latium
digesta per annum.” – And the Romans always found a cause to celebrate! As we
read of Hippolytus deified as Virbius, or encounter the list of Alban kings,
the last pentad of the Metamorphoses, too, begins to resursigate for a more
imperial readership the “Fasti.” And yet the latter ‘Roma historical’ part of
of the Metamorphoses is fully continuous with the first part, simultaneously a
fresh start and a seamless continuation. Ovid’s *Roman* historical emphasis is
a development of long-established patterns. First Trojan, then Roman subjects
signal the work's conclusion, wherein the large-scale historical progression
promised in the work's opening lines will be fulfilled: having set out
"from the first beginnings of the world," primaque ab origine mundi
Ovid's narrative will now reach "my own times," mea tempora the
present for both author and readers. Thus, if we, after reading of so many
nymphs and maidens transformed into trees or waterfowl, are surprised to find
Romulus and Julius Caesar turning up, Ovid's development and fulfillment of
narrative patterns also remind us that from the start we had reason to expect
such figures to appear. His vast work of transformative myth embraces even
them. Whereas Rome contribute something new to the last pentad of the
Metamorphoses, she also functions in a fashion that Ovid has made throughly
familiar. Already at the start, the council of the gods, called by Jupiter to
discuss Lycaon's crime, offers a striking Romanisation of heaven's architecture
and social distinctions, with mention of “atria nobelium,” “plebs,” and the
like." When Ovid represents Jupiter summoning the gods to the “palatia Caeli,”
Jupiter becomes not only Romanized but a reflection of Ottaviano, whose casino stood
on the earthly Palatine Hill. Shortly thereafter, Ovid explicitly addresses
Ottaviano in a context that links Lycaon's assassination attempt on Jupiter to
contemporary attempts on Ottaviano’s life. Both crises cause astonishment
throughout the world. “Nec tibi grata minus pretas, Auguste, tuorum est, quam
fuit illa loui.” Thus, in returning to current events Ovid recalls to our minds
their heralded arrival near the beginning. Also familiar is the narrative use
Ovid makes of the Roman matter. Rome functions largely as a frame for other
tales, which are often only tenuously related to the newly-prominent national
theme – or rather the theme of the history of the nation. We are well aware,
when we arrive at this point, that traditionally important and familiar cycles
of myth, such as those concerning Theseus and Hercules function mainly as
framing devices that connect tales. Many of these are only tangentially related
to the framing narrative, or are even altogether remote from it. No sooner does
Ovid introduce Troy than he begins to employ it in this now-familiar narrative
mode. The traditional story appears to establish a structural pattern for the
progress of the narrative, but it is soon displaced, as tales succeed tales.
Troy may be familiar ground, but its familiarity does not enable us to predict
our convoluted path through Ovid's work with any confidence. Who could guess,
when Laomedon founds Troy, that Ceyx and Alcyone would occupy much of our
attention? As we read their tragic tale, we may observe thematic links to other
tales in the Metamorphoses, as in the personification of Somnus, which formally
recalls those of Inuidia and of Fames. Yet the topic of Troy has disappeared,
at least for now, from view. So has the new historical emphasis. For the tale
of Ceyx and Aleyone is as mythical, as fabulous, as anything in the preceding material.
Indirection and unpredictability remain characteristic of the narrative even as
Ovid draws Roman historical material within his scope. One might expect Roman historical
themes to alter the Metamorphoses. Instead, the Metamorphosis-motif alters
them. An especially powerful symbol of Ovid's transformative language is his
last and most ambitious personification, the House of Fame. After Ceyx and
Aleyone, Ovid abruptly returns to Trojan subjects with Aesacus, then recounts
the sacrifice of Iphigenia and the arrival of the Greek fleet at Troy. But
before proceeding with the Trojan War, he introduces a remarkable descriptive
passage on Fama, beginning with these lines: “orbe locus medio est inter
terrasque fretumque caelestesque plagas, triplicis confinia mundi; unde, quod
est usquam, quamuis regionibus absit, inspicitur, penetratque cauas uox omnis
ad aures. Fama tenet summaque domum sibi legit in arce.” There is a place at
the middle of the world, between land, sea, and the heavenly region, at the
boundary of the threefold universe. From here one can see anything anywhere,
however distant its place; and every voice comes to one's hollow ears. Rumor
holds it, and selected its topmost summit for her house. This is the last and
the most ambitious, though not the longest, of the large-scale personifications
in the Metamorphoses ambitious because, whereas with Inuidia and Fames Ovid
achieves a rich and grimly detailed impression of corporality through his
descriptive language, here indistinctness is paradoxically the goal of precise
description. The lines just quoted appear to establish theplace of Fama's
house, but in a way that defeats definition; for the house occupies a liminal
site, hovering at the boundaries between earth, sea, and sky. The structure
itself if it can be called a struc-scarcely separates inside from outside, for
its porous nature defeats such distinctions: “innumerosque aditus ac mille
foramina tectis addidit et nullis inclusit limina portis: nocte dieque patet;
tota est ex aere sonanti, tota fremit uocesque refert iteratque, quod audit.
nulla quies intus nullaque silentia parte.” She added innumerable approaches to
the building, and a thousand openings. With no doors did she shut its
threshold: it lies open night and day. The whole house is of resounding brass,
produces a roar, echoes and repeats what it hears. There is no quiet within,
silence in no quarter. In and out of the house issue personified rumors: atria
turba tenet: ueniunt, leue uulgus, cuntque mixtaque cum ueris passim commenta
uagantur milia rumorum confusaque uerba uolutant. A throng occupies its halls;
they come and go, a light crowd; lies mixed with truth wander here and there by
the thousands; and the confused words of rumor roll about. Only when this
expansive description is finished do we learn its relevance to its
surroundings: rumors of the Greek expedition have reached Troy. This house of
Fama and her attendant rumors, "lies mixed with truth," creates a
remarkable preface to the beginning of the Trojan War, inviting us readers to
consider it as an interpretive comment on all that follows. Feeney connects the
passage to themes of poetic authority in the Metamorphoses; indeed, the
authority of Ovid's epic predecessors, especially Homer's lad and Odyssey and
Virgil's Aeneid, is at issue in the later books of the Metamorphoses, where
extensively adapted sometimes severely distorted-versions of their tales are
woven into a new fabric. For much of the rest of Book 12, for instance, Nestor
narrates the battle of Lapiths and Centaurs, as he did in Book 1 of the liad:
but Homer's version is a brief summary, meant to illus-trate a point in its
context, Ovid's a vast expansion that engulfs its context, displacing the
Trojan War in our attention for hundreds of lines. Fama dominates the rest of
Ovid's poem, from Book 12 to the end, not only because of the formal introductory
description of the house of Fama, but also because of the increasing role of
internal narration in the later books: as the poem proceeds, the epic narrator
recedes, and more and more tales are reported by an internal narrator to an
internal audience. Fama also forms a boundary, prominently recurring at the
very end of the Metamor-phoses, where fama provides the means of the poet's
continued sur-vival: perque omnia saecula fama,/ siquid habent veri uatum
praesagia, winam. The recurring presence of Fama serves as a reminder of the
fundamental lack of definition and stability characteristic of narrative style
throughout the work. Flux remains Ovid's theme to the end, and Fama provides
both a symbol and an embodiment of flux within the narrative. Fama resists the
tendency toward interpretive simplicity and transparency that the introduction
of historical and political topics might lead us to expect. As we proceed
through the last pen-tad, historical and historico-political modes of
understanding events, however pervasive their presence, ultimately never reduce
Ovidian flux to order. Fate, for instance, a cosmic principle beloved of some
Greek and Roman historians, whose workings they trace in the unfolding of
events, duly turns up from time to time in Ovid's Metamorphoses, and does so as
a theme of historicized myth that is likely to remind us of Virgil's Aeneid.
Yet, whereas the Aeneid is deeply imbued with a sense of fate, guiding the
reader to a teleological understanding of myth and history, fate is an historical
prop in the Metamorphoses part of the furniture of historicized myth. Far from
dominating its context, the context dominates it, as in the summaries of the
Eneide that Ovid employs as framing devices -- non tamen euersam Troide cum
moenibus esse/spem quoque fata sinunt.” These lines introduce Enea’'s departure
from Troy with unmistakable reference to Virgil's plot and theme. WhereasVirgil
integrates fate (fatum, il fato) into the structure and architecture of the
“Eneide”, however, Ovid reduces fate and its impact on events to barest
summary. Ovid acknowledges Virgil's historical vision without permitting that
vision to structure his narrative or his readers' experience of it. Instead, Ovid
shamelessly *appropriates* Virgilian turns of phrase in the national epic for a
characteristic Ovidian witticism, playing simultaneously on the literal and
figurative senses of euersam. Troy's walls are physically overturned, but her
hopes, conceptually and metaphorically are not overturned. Sylleptic implicature
of this kind saturates the Metamorphoses and embodies its themes of
transformation on the narrative surface: the loss of human identity in
metamorphosis, the shifting of boundary between human and natural, indeed the
obscuring of any such boundary are events typical of the Metamorphoses;. Ovid
now sets the plot of Virgil's Aeneid among them, exploiting Virgilian language
for his own transformative wit. Although there is a shift to historical and this
national theme, and with them a more direct engagement with Ovid's epic
predecessors, the Metamorphoses remains the same poem it was. The porous,
echoing, boundary-less, and visually indistinct house of Fame incorporates all
within it. Ovid's epic predecessors are a conspicuous presence and readers
familiar with them may try to understand Ovid's material in similar terms. Yet
Ovidian slipperiness remains. Ovid refuses to be pinned down, to yield to
interpretive stability, although his readers may crave it. In fact, by
introducing interpretive frameworks familiar from his predecessors-Virgilian
fate, for instance, in the lines quoted above Ovid takes advantage of his
readers' desire for clarity: he invites us to reach conclusions, then fails to
sustain them. The concept of fate drawn from the philosophy of the Porch is one
interpretive possibility that turns up in the Metamorphoses, yet without the
structured development that Virgil gives it; Augustan historical vision is
another. By introducing historical and political subjects into his work, Ovid
invites readers to consider the relationship of the Metamorphoses to the world
outside it -- not only to the Aeneid and earlier Roman epic on historical
themes, but also to Augustan ideology and its expression outside poetry -- in
the architectural projects, for instance, by which Ottaviano “transforms’ the
Romans' physical environment. When he introduces the voyage of Aeneas alluding
to the plot and eventhe vocabulary of Virgil's epic, Ovid acknowledges his
contemporary readers' awareness that the Aeneid has overwhelmed other versions
of this story. Ovid could not retell this story with directing readers
awareness from his own text to Virgil's. When Ovid incorporates the apotheosis
of Romulus into the narrative of Book 14, readers are likely to find that their
thoughts turn unavoidably to Ottaviano’s identification of himself as Romolo –
Roma’s first king -- , and to accompanying images and slogans concerning the
foundation of Rome. Because Ottaviano eventually gains, like Romolo, a place
among the dia, Ovid's apotheosis of Romulus invites his readers at least
provisionally to define the relationship between this figure from the remote
past and his contemporary embodiment. Ovid presents a parade of heroes in the
later books of the Metamorphoses. Hercules leads the way; then Aeneas, Romulus,
Julius Caesar, and Ottaviano form a triad of apotheosised mortals. These three figures
are already iconic when they turn up in Ovid's poem iconic in the sense that
they resemble images that are powerfully identified with meanings, like the
statues of these very heroes that stood in Ottaviano's forum. Because Ovid's
parade of heroes arrives accompanied by preexisting interpretive baggage, it
will be worthwhile to contrast these two fundamentally different sites of
meaning, each with its own ways of associating ancient with contemporary heroes.
The Forum of Ottaviano an architectural space well designed and equipped to
promote a unified and coherent set of messages about the relationship of past
to present; and Ovid's Metamorphoses, a fluid narrative on the prevalence of
change, whose author enacts his theme by mischievous artistry, establishing
patterns of meaning, then disrupting and fracturing them. Historical patterns
are among those that Ovid deliberately reduces to incoherence. Each of these
sites of meaning is powerfully manipulative, and each achieves its impact by
means well suited to the message. Meeting a Roman hero in the “Forum Augusti,”
the observer's upward gaze would encounter not only an impressive image, but
also a titulus, identifying him, and an elogium, recording his achievements. Furthermore,
this experience takes place within an architectural complex, the Forum Augusti,
erected by Ottaviano in payment of a vow made while fighting his adoptive
father's assassins at Philippi.Within so structured an experience, the observer
of its visual images and inscriptional texts is unlikely to go far astray in
interpreting them. Although the battle occurred some time ago, the Forum
itself, dedicated, is a recent reminder of that event for the readers of Ovid's
Metamorphoses. In the parallel exedras along its longer sides stood statues of Enea
on one side and Romolo on the other. For Ovid to set the parallel apotheoses of
these same heroes near each other is to make inevitable the reader's
recognition of Ottaviano’s meanings attached to these deified heroes. At the
same time, in the Metamorphoses these figures are iconic in a far less tightly
regulated context of meanings than they are in the forum. Though now purely
verbal, they resemble ideological statements less than do the forum's statues.
Ovid presents his portraits, so to speak, without titulus and elogim to
regulate their interpretation. Thus exposed, the portraits lose their
interpretive transparency and become vulnerable to incorporation into Ovidian
flux. Consistent with the organization and coherence of the Forum Augusti is
the fact that its symbolism is easy to interpret. Within the temple of “Mars
Ultor,” for instance, stood cult statues of Mars – MARTE LUDIVISI – Romolo’s
father, parent and protector of the Romans, and Venus, the ancestress of the
Julian gens. Everything about these images directs the viewer's attention away
from the adultery of Marte and Venere so prominent in their mythological
tradition. Only the irreverent and satirical perspective that Ovid offers in
Tristia 2 resists the ennobling abstraction of such figures and drags adultery
back into view. There, Ovid describes the cult statues of Marte and Venere, who
stood next to each other in the temple's cella, as Venus Vitori ncta (Ir.), "Venus
joined to the Avenger" -- an expression that invites reflection on the
sexual significance of “iungere." Venus's husband stands outside the door,
wir ante fores."? A myth of political origin, its official representation
in art, and resistance to it are prominent also in the Metamorphoses in the
tale of Arachne. It is enough to emphasize here that the tale offers rich
reflections on official interpretation of art. When Minerva chooses to depict
her victory over Neptune in the two divinities' dispute over the naming of
Athens, her tapestry, decorously ordered and balanced, promotes its didactic
message with unavoidable clarity, while offering an aesthetic correlate to the
power of enforcement that lies behind that message. Readers often side with the
Arachne and her irreverent depiction of divine misbehavior; yet Minerva does
not ask for our approval, nor need she take much thought for the judges of the
con-test. Her views of the story are enforceable and will determine the outcome
of the plot. Her power allows her to impose her perspective on events. Because
the historical subjects of the later books of the Metamorphoses so often bring
official interpretations within view, it is worth noting that, according to one
political approach to literature currently in favor, only official
interpretations are possible. On this view, all activity of writing and reading
takes place within a fixed political system, often unrecognized by the
participants, that "advances the interests" of "elites."' Proponents
of this approach offer a powerfully reductive historicism: nothing is important
about literature except the historically determined power-relationships that
govern its production and reception; all attention to literary qualities of a
text is sentimental and self-indulgent aestheticism. Whereas this view
contracts all understanding of literature to the narrowly political, some
recent writers on history in Roman literature expand the historical to a larger
field that embraces Varro's theologia tripertita and the universal history of
Cornelius Nepos, Diodorus Siculus, and others. In the shift, for instance, from
mythological to historical subjects in the Metamorphoses, we can see a broad
similarity to Varro's “De gente populi Romani.” Wheeler's work on elements of
history in the Metamorphoses shows that Ovid's awareness of historical
principles is far deeper and more intimate than has been recognized before. For
instance, the poem's "alternation between diachrony and synchrony is a
narrative technique characteristic of universal history. The poem's
chronological framework from first origins to the present also reflects the
aims of universal history; yet Wheeler, like most critics today, does not view
the poem "as a natural process of evolution from chaos to cosmos, culminating
in the peace and properity of the Augustan age."' Arguing for a subtler
and less overtly political patterning of events, Wheeler traces historical
principles behind the increasingly historical subject matter of the last
pentad. The movement from myth to history represents "a shift," in
Wheeler's view, "from a theologia fabulosa to a theologia civilis."
The terms are Varronian, and invite us to contemplate the Metamorphoses
alongside Varro's “Antiquitates rerum humanarum et divinarum” -- a massive and
comprehensive work, among whose aims was to organize conceptions of divinity
into mythical, natural, and civic (Aug., Ci. Dei). Ovid is known to have used
the “Antiquitates” as a source in the later books of the Metamorphoses as well
as in the Fasti, and it is surely right to call attention to the presence of
Varronian principles in Ovid's work. Yet, Varro's conceptual organization does
not structure Ovid's work, and Varro's religio-historical vision only partly
informs Ovid's. Ovid brings Varro into the mix just as he does Ottaviano’s
mythologizing and the historical mythologizing undertaken by his epic
predecessors, especially Homer, Ennio, and Virgil. P. Hardie has recently
argued for the presence of Livy in the Metamorphoses, arguing that Ovid's
vision is fundamentally historical. Ovid writes the long historical epic that
Virgil self-consciously had abjured. Recent emphasis on history in Ovid has
much to teach us about his intellectual depth and awareness of contemporary affairs;
yet it also runs the risk of presupposing a conceptual tidiness and order that
Ovid's work in fact thwarts and defies. The historical vision of the
Metamorphoses remains deeply fractured, stubbornly resistant to schematizing,
and intentionally incoherent. Ovid acknowledges historical conceptions, but his
work escapes their power to shape his material and to govern our responses to
his text. Ovid's"historical" books are as strange, perverse, unpredictable,
and provocative as the "fabulous" books that precede them.In Book 11,
the Metamorphoses suddenly becomes historical: "the 'historical' section
actually begins at with Laomedon's founding of Troy. To be sure, the poem has
pursued the course of history from the opening lines of Book 1, while Romanization
on both a large and small scale has kept contemporary reference, analogies, and
allegorical interpretive options before our eyes throughout the progress of the
work. Yet the foundation of Troy, which turns up as a narrative topic just
after King Midas has received ass's ears, abruptly brings the poem's
subject-matter within the boundaries of history. For the Romans, in so far as a
distinction was made between history and myth, the Trojan War tended to mark
the dividing line. This, with its aftermath, occupies the next three books. Because,
however, Rome's origins are in Troy, this also begins a narrative sequence that
continues to the end of the poem, and indeed to the moment of reading for
Ovid's Roman audience. In the last pentad, "mythical" tales continue
unabated, but now jostle with tales from Roman history and even "current
events," all brought within the narrative sweep. Among "current
events" we may locate the transformation of Julius Caesar's soul into a
star. Yet this transformation is thoroughly mythologized, for it occurs among
the activities of the goddess Venus. With Troy's foundation, history arrives
well integrated into the poem's patterns of mythological narrative. We might
expect that lin-carity and clarity of narrative progress would arrive along
with historical subjects, and indeed the last pentad is sometimes described as
if this were the case. When we reach Laomedon's Troy the principle of
chronological sequence takes charge again: it is 'after that' rather than
'meanwhile' that sustains the illusion of reality. But Wilkinson's impression
is in fact illusory. The amount of material recounted by internal narrators
steadily increases in the later books, so that chronological movement is constantly
interrupted and postponed by tales of the past, recent or remote. Even more
remarkable is the fact that history arrives together with manifest anachronism.
It is often noted that the participation of Hercules in the foundation of Troy
-- his rescue of Hesione and his capture of the city after Laomedon refuses him
the promised horses -- occurs lines after the hero's death and apotheosis. Ovid
makes no attempt to reconcile the chronology. Wheeler has explored Ovid's
anachronisms in revealing detail, showing that at Hercules' death. Troy is assumed
to exist already in the world of the poem, and that "Ovid could have
avoided the anachronism by placing stories about the dead and deified Hercules
in the mouths of characters who report retrospective events in inset narratives
that temporarily suspend the main chronological thread. Instead, Ovid flaunts
his disruption of chronology, first recounting Hercules' death and apotheosis,
then introducing a narrator, Alemene, mother of Hercules, to recount his birth.
Chronology appears to reverse direction, but chronological dislocation turns
out to be more complex than simple reversal. Wheeler's conclusions refute the
common notion that Ovid's shift to historical topics results in a more linear
narrative explication and greater chronological regularity. The reintroduction
of Hercules is therefore part and parcel of a larger web of anachronism
involving the foundation of Troy and the marriage of Peleus and Thetis, both of
which should have occurred already in the poem's historical continuum. It
should be clear, furthermore, that Ovid's transpositions of the foundation of
Troy and the marriage of Peleus and Thetis are a deliberate structural strategy
to furnish new points of origin for the narrative of the final books of the
poem. That is, Ovid deliberately violates his earlier chronological scheme to
provide new beginning points for the final pentad i.e., from the foundation of
Troy and the birth of Achilles to the present) As a result, the formality and
regularity of the pentadic structure produces a paradoxical result: on the one
hand, it divides the work symmetrically into thirds and hence to some extent
structures the experience of the reader: we may compare the division of
Virgil's Aeneid into halves, in allusive reference to the Odyssey and Iliad."
On the other hand, in effecting a new beginning for thelast pentad, Ovid
reinforces the narrative indirection and unpredictability that have
characterized the Metamorphoses from its beginning. The tales that follow the foundation
of Troy both illuminate and obscure the newly initiated narrative patterns of
the last pentad. At this point, Ovid's readers may expect him to expand upon
the origins of the Trojan conflict. He does so in his account of Peleus and
Thetis, the parents of Achilles, but hastily summarizes the elements of the
story that are traditionally the most important: Thetis receives a prophecy
that she will bear a son who will surpass his father; Jupiter, despite his
passion, avoids mating with Thetis "lest the universe contain anything
greater than Jupiter" (ne quacquam mundus loue maius haberet). Ovid alters
the authority for the prophecy, substituting the shape-shifting divinity
Proteus for Themis as its source. He then develops the story in his own way,
dwelling upon a description of the bay frequented by Thetis, Peleus's attempt
to, assault her (which she thwarts by shape-shifting), Proteus's advice to
Peleus that he tie her up as she sleeps, and the successful results. Some of
this account will remind us of epic predecessors, for Proteus is familiar from
the Odyssey as well as from a brief appearance carlier in the Metamorphoses and
from Virgil's Georgics. Yet in emphasizing shape-shifting and sexual assault,
Ovid flaunts the unedifying nature of his account and its lack of relevance to
any of the large-scale themes, providential, historical, and originary, that
one might expect at the threshhold of events that lead to the foundation of
Rome. An account of origins this may be, with reference to historical subjects,
and formally analogous to Virgil's reworking of Homeric material in the Aeneid.
Yet Ovid offers it manifestly without the interpretive guidance that would
associate it with Virgilian themes. As an account of origins, it explores
causes of the Trojan War still more remote than those developed by Ovid's
pre-decessors, suggesting a line of interpretation that traces events back to
lust, violence, and deception at least as much as to beneficent destiny. Ovid
on the one hand traces Trojan subject matter from its origins, and on the other
characteristically takes his narrative into unforeseen directions. The tales of
Daedalion and his daughter Chione and of Geyx and Aleyone are intricately
linked to the matter of Troy; yet in them Ovid pursues free-wheeling
digressivevariety that is entirely consistent with the earlier books of the
Meta-morphoses, in no way more linear, predictable, or goal-directed than
formerly. At the end of Book 11, Troy, chronology, and fate turn up in another
tale of amorous pursuit. Ovid attaches his tale of Aesacus, a son of Priam
first known from Ovid's version, to that of Geyx and Alcyone, whose unhappy
tale of fidelity and loss has long occupied our attention. Observing the royal
couple, now transformed to kingfishers, near the shore, an old man and his
neighbor shift their conversation to another sea-bird, the diver, who likewise
turns out to have a human history and even royal lineage. In a send-up of
learned claims to poetic authority," Ovid's narrator cannot tell us which
of the two interlocutors is the source for the story: proximus, aut idem, si
fors tulit... dixit. The irony of this crisis of authority is especially marked
by the genealogical king-list that follows, which approaches annalistic, even
inscriptional style: et si descendere ad ipsum ordine perpetuo quaeris, sunt
huius origo Ilus et Assaracus raptusque loui Ganymedes Laomedonue senex
Priamusque nouissima Troiae tempora sortitus. frater fuit Hectoris iste: qui
nisi sensisset prima noua fata iuuenta forsitan inferius non Hectore nomen
haberet. And if you wish to follow his lineage down to him in continuous
sequence, his ancestors were llus, Assaracus, Ganymede, seized by Jupiter, and
Priam, allotted Troy's last days, That bird there was Hector's brother. If he
had not experienced a strange fate in early youth, perhaps he would have no
less a name than Hector's. Ovid appears simultaneously to claim and to obscure
authority for the tale. To complete the paradox, he refers to the king-list as
ordo perpetuus, "a continuous list": thus the pretensions of his
carmen perpetum to be a universal history, conducted in unbroken sequence from
first beginnings to the present, serve to introduce a tale of admittedly indeterminate
origin. The tale that follows is primarily a natural actiology, incorporating
both historical and epic subjects into an account of how Hector's brother
became the origin of a species of sea-bird. Aesacus chasesHesperie, who in her
hasty flight steps on a snake, Eurydice-like, and dies of its bite. Her pursuer
is introduced as hating cities and devoted to rural life, yet unrustic in his
susceptibility to love: non agreste tamen nec inexpugnabile amori/ pectus
habens. Amor agrestis is not uncommon in the Metamorphoses and will soon be
fully developed in the tale of Polyphemus. What is unusual in Aesacus are his
guilt and remorse at Hesperie's death: uulnus ab angue a me causa data est. ego
sum sceleration illo, qui tibi morte mea mortis solacia mittam. The wound was
given by the snake, the cause by me. I committed a greater crime than the
snake, and will send you consolation for your death by my ow. When he throws
himself from a cliff, the sea-goddess Tethys pities him and transforms him into
the diver; the verb mergitur at the end of the story echoes the noun mergus at
its beginning. Thus, the whole story is framed as an aetiology of the bird's
name, and so establishes a link between the history of Troy and the origins of
the natural world. Trojan history, along with all notions of historical
progress to the glorious present, becomes naturalized and incorporated into
aetiological explication; natural phenomena, meanwhile, receive a history, and
suggest that an historicized understanding of nature is possible. Natural
actiologies are prominent in Ovid's integration of Trojan subjects into the
Metamorphoses. As he introduces more Roman subjects and Roman heroes into his
narrative, his atiological focus turns from the earth to the heavens. The
poem's first apotheosis is that of Hercules. A sequence of apotheoses and
catasterisms follows. After Jupiter promises Venus to make the soul of her
descendant, Julius Caesar, into a star, she, although unable to prevent
Caesar's murder, snatches the soul from his limbs and carries it to the
heavens. There, having become a star, it rejoices to see its own deeds outdone
by those of Ottaviano. When Ottaviano forbids his own deeds to be preferred to
his father's, personified Fama reappears to thwart him: hic sua pracferri
quamquam uetat acta paternis, libera fama tamen nullisque obnoxia iussis
inuitum prefert unaque in parte repugnat. Although he forbids his own deeds to
be preferred to his father's, nevertheless Fame, free and not yielding to any
commands, prefers him against his will, defying him in this matter only. To
attribute modestia to a ruler is standard in panegyric, and equally standard
are the exempla that follow;'' but because these lines appear in the
Metamorphoses, they invite multiple perspectives on the events described.
Readers are already familiar with Fara as the source of "lies mixed with
truth," which issue from her echoing house, and have met her also as
"the herald of truth," offering an accurate prophecy about the royal
succession among Rome's early kings: destinat imperio clarum praenuntia
ueri/fama Numam. Later, Pythagoras claims Fama as his authority for predicting
the rise of Rome: nunc quoque Dardaniam fama est consurgere Romam. To be sure,
any claims of truth for Fama are problematic in the Metamorphoses. The
identification of Fama as praenuntia weri occurs in a context of manifest
anachronism, the irony of which would have been obvious to Ovid's Roman
readers. The succession of Numa, the second king of Rome, was an accepted part
of the historical record. But Ovid's readers knew well that the tradition of
his visit to Crotone as a student of Pythagoras is chronologically impossible.
Cicero (Rep.; Tusc.) and Livy point out that Pythagoras did not come to Italy
until the fourth year of the reign of Tarquinius Superbus, years after Numa's
death. The Ovidian narrator, however, exploits the audience's awareness of the
anachronism to launch one of the greatest non-events of the poem. After Fama's
appearance in the tale of Numa, her recurrence as an agent in the tale of Julius
Caesar's soul exemplifies the ambiguous natureof the politically charged
episodes at the end of the Metamorphoses. Few passages in the work provoke such
widely divergent views as the apotheosis of Caesar's soul, and all of them, I
would maintain, can find support in Ovid's text and are in fact generated by
it: that Ovid introduces the apotheosis and Augustan panegyric "in all
seri-ousness," and "employs the official terminology in an entirely
loyal fashion", that this material is ridiculous, satirical, even
subversive. This is intentionally incoherent, presenting the reader with
irreconcilable interpretive options. Certainly there is a striking dichotomy in
modern critical positions taken on whether the apotheosis is integral to the
larger work or loosely added as extraneous matter. The eulogy of Ottaviano and the
account of Giulius Caesar's apotheosis are not the organic end of a persistent
thematic development. It should be evident from the numerous examples of apotheosis
in the Metamorphoses that Julius Caesar's catasterism is the repetition of a
common tale-type, which is associated with the end of narrative sequences,
books, and pentads, and the poem as a whole, however. As for the apotheoses of
Aeneas and Romulus, we find that they prepare for and introduce not only the
apotheosis itself of Caesar's soul, but also the interpretive questions it
raises. Ovid resumes the engagement with Virgil's Aeneid that he had begun, and
intermittently pursued. Ovid takes over from Virgil the burial of Aeneas's
nurse Caieta as an initiatory gesture: in the Aeneid it begins Book 7, and
Ovid's version of Aeneid 7-12 begins here, too. Ovid adds an epitaph for
Caieta: hic me Catam notae pietatis alumnus/ ereptam Argolico quo debuit igne
cremauit. By emphasizing Caieta's rescue from one fire and cremation by
another, Ovid calls attention to an etymological explanation of her name from
kaiew, glossed by cremare. Thereby Ovid alludes to the derivation that Virgil
omitted. Ovid is in a sense commenting on Virgil's text, noting an etymology
that would later find a place also in Servius's commentary on the Aeneid. Another
effect of Ovid's revision is to fill out the earlier account, suggesting that
there is more to the story than what Virgil provides. There follows a severely
abridged summary of the Aeneid. After Aeneas's arrival, the subsequent war in
Latium up to Venulus's embassy to Diomedes requires only nine lines. Ovid here
resumes his earlier procedure in retelling the Aeneid. Most of Virgil's work he
reduces to brief, sometimes comically abbreviated, summary. Ovid also adds many
tales not in Virgil. In parallel fashion, Ovid had earlier refashioned the
lliad, expanding the inset tale of the Lapiths and Centaurs to great length,
and adding two tales not in Homer's account: a nearly inconclusive struggle
between Achilles and the invulnerable Cygnus, and a verbal battle, the debate
over the arms of Achilles. In both of them, Homeric heroism becomes attenuated
until it is barely noticeable. Ovid now reworks two tales from the Aeneid that
had offered accounts of transformation: the companions of Diomedes, transformed
to seabirds (Aen.; Met.), and Aeneas's ships, transformed to nymphs (Aen.; Met.).
In Ovid's account, the first of these becomes a tale of unequal justice typical
of the Metamorphoses, though thematically remote from the Aeneid: Acmon,
recounting the miseries that Diomedes' crew has endured at the hands of Venus,
impiously provokes her (Met.). Dicta placent paucis (Met.), "his words
picase few" of his com-rades; but Venus punishes both Acmon and those who
opposed him with arbitrary transformation. Her power is amply demonstrated; yet
the lesson of the tale remains at best ambiguous, and its conclusion seems to
transfer its uncertainties into the visual sphere. These are uolucres dubiae,
and any attempt to identify them must remain frus-trated: 'si, uolucrum quae
sit dubiarum forma, requiris,/ ut non cygnorum, sic albis proxima cygnis
(Met.). The alternating pattern of severe abbreviation and vast expansion of
Virgilian material provides a context for the apotheosis of Aeneas, an event
foretold but not narrated in the Aneid. Jupiter begins his consolatory prophecy
to Venus in Aeneid 1 by mentioning the foundation of Lavinium and Aeneas's
apotheosis. Both are assurances that fate and Jupiter's established plans have
not changed: parce metu, Cytherea, manent immota tuorum fata tibi; cernes urbem
et promissa Lauini moenia, sublimemque feres ad sidera Caeli magnanimum Aenean;
neque me sententia uertit. Cease from fear, Cytherea: your fates remain for you
unmoved. You will see the city and promised walls of Lavinium, and you will
carry aloft great-souled Aeneas to the constellations of heaven; my decision
has not changed. Jupiter's prophecy, which at this point already has passed
well beyond the plot of the Aeneid, embraces all Rome's fortunes within a
reassuring teleological vision. Among the events prophesied is the
reconciliation of Juno with the Romans, which is to prove important both for
the Aeneid and for Ovid's recontextualization of Virgilian topics: quin aspera
luno, quae mare nune terrasque metu caelumque fatigat, consilia in melius
referet, mecumque fouebit Romanos, rerum dominos gentemque togatam. Furthermore,
harsh Juno, who now wears out sea, earth, and heaven with fear, will turn her
plans to a better course; along with me she will cherish the Romans, lords of
all, the people of the toga. We ought better to call this not the but a
reconciliation, for, introduced after Jupiter's mention of Romulus and the
foundation of Rome, it appears not to refer to the reconciliation that actually
occurs in Aeneid. There, shortly before the final encounter of Aeneas and
Turnus, Jupiter appeals to Juno to give up her wrath. Juno does so, stipulating
that the Latins not be required to give up their language and dress, and that
Troy remain fallen (Aen.). In Aeneid 1, however, Virgil follows Ennius's “Anales”
in dating Juno's reconciliation to the time of the second Punic War, Ennius's
own subject, as Servius notes on the words “consilia in melius referet: quia
bello Punico secundo, ut ait Ennius, placata luno coepit fauere Romanis.” Virgil
mentions the chronologically later reconciliation long before describing the
former. In Book 1 Jupiter takes a longer view of destiny, showing that a
conflict introduced but unresolved in the Aeneid, the future hostility of
Carthage, will eventually be resolved happily. Whether we take Juno's
reconciliation in Aeneid 12 to be incomplete, impermanent, or, limited to only
some of Juno's grudges, it contributes only a partial sense of closure to the
end of Virgil's poem. Ovid's transformation of Aeneas into the divine Indiges
more specifically recalls Aeneid 12 than Aeneid 1, especially the beginning of
Jupiter's address to Juno at Am.: 'indigetem Aenean seis ipsa et scire fateris/
deberi caelo fatisque ad sidera tolli' Ovid does not closely follow the
chronology of Juno's reconciliation in Aeneid 12, however, shifting it instead
to a time beyond Vergil's plot, and just preceding the apotheosis of Aeneas,
which indeed it serves to introduce: iamque deos omnes ipsamque Aencia uirtus lunonem
ucteres finire coegerat iras, cum bene fundatis opibus crescentis Iuli
tempestius erat caelo Cythereius heros. And now Aeneas's virtue had compelled
all the gods, even Juno herself, to put an end to old anger, when the resources
of rising lulus were well established, and the hero, Venus's son, was ripe for
heaven. The thoughts and language strongly recall the Aeneid, but Ovid
introduces these lines into bizarre, surreal surroundings of his own making.
Their immediate context is one of the strangest transformations in the poem-the
tale of Turnus's hometown, Ardea, changed into the heron. Turnus and the town
Ardea may be Virgilian in their associations, but Ovid's treatment is remote
from Virgil, and takes his own aetiological procedure to new extremes. It is
typical of Ovid's natural aetiologies that they account for the first animal of
a species, tum primum cognita praspes, and that they stress the continuity of
traits and features in the change from the old to the new shape. This case goes
beyond the typical in the sheer imaginative effort required to make the shift
from a ruined city, with all its attributes, to a heron. Cities, as human
social organizations, are characteristically distinct from the natural. This is
not just any city, but one embedded in the human history of Rome and Rome's
enemies, and familiar in Rome's national epic. Yet Ardea retains even its name
in its migration into the avian realm as the first heron -- et sonus et macies
et pallor et omnia, captam quae deceant urbem, nomen quoque mansit in illa
urbis et ipsa suis deplangitur Ardea pennis. It had the sound, the wasted
condition, the pallor everything that befits a conquered city. Even the city's
name remained in the bird, and Ardea beats her breast, in mourning for herself,
with her own wings. These remarkable lines, which immediately precede the
apotheosis of Aeneas, provide no contextual introduction to the apotheosis, no
invitation to form a close approximation of Ovid's and Virgil's Aeneas. Aeneas
and his virtus abruptly arrive. Yet no sooner do the gods and Juno give up
their wrath, introducing a new and impressive array of literary, historical, and
political associations, than the tone of Ovid's version of the apotheosis
becomes intrusively comic. Venus canvasses the gods like a Roman politician:
ambieratque Venus superos. She appeals to Jupiter's grandfatherly pride, and
seems to treat numen as a rare and valuable commodity in begging some of it for
her son, 'quamus parvum des, optime, numen,/ dunmodo des aliquod. All these
details are at least potentially comic, as is the argument wholly successful in
the event- with which Venus concludes her speech. One trip to hell is enough:
'satis est inamabile regnum/adspexisse semel, Stygios semel isse per amnes'. These
lines are a comic correction of Virgil. Later readers were to be distressed
that Virgil's Sibyl, otherwise a knowledgeable prophetess, was unaware of
Aeneas's apotheosis, which Jupiter had explicitly prophesied in Book 1 and was
to prophesy again later. Otherwise she would not have assumed a second trip for
Aeneas to the infernal regions after his death: quod si tantus amor menti, si
tanta cupido bis Stygios innare lacus, bis nigra uidere Tartara, et insano
iuuat indulgere labori, accipe quac peragenda prius. (Aen.). But if your mind
has so great a longing, so great a desire to swim the Stygian pools twice,
twice to look upon dark Tartarus, and it pleases you to indulge in an insane
effort, learn what must be accomplished first. Servius tries to reconcile the
death of Aeneas, implied here, with Ovid's apotheosis of him, though he could
have mentioned Jupiter's two prophecies in the Aeneid itself. Servius proposes
that simulacra of apotheosized heroes, no less than of ordinary folk, are to be
found in the underworld. We do not know whether readers and critics in Ovid's
time were already vexed about the Sibyl's evident lack of knowledge, but Ovid's
Venus, correcting bis with semel, sets the record straight. Once Venus has
asked the help of the river Numicius in washing away all that is mortal in
Aeneas, she completes the process of making him into a divinity whom Quirinus's
crowd calls Indiges, and has received with altars and a temple (quem turba
Quirini/nun-cupat Indigetem temploque arisque recepit). This information is
profoundly historical, for how Romans understand the altars and temples of
their gods, how they connect the remote to the recent past, depends on the
symbolic narrative or narratives that their minds associate with monuments in
their city. Ovid's revision of Vergil is the revision of a well known and
compelling historical vision. Ovid's concluding lines on Aeneas also, as
editors note, offer a parallel to the language of an inscription for a statue
of Aeneas found at Pompeii: appel/latus/g.est Indigens (pa)ter et in deo/rum
n/umero relatus (CIL = Dessau). Mention of the turba Quirini looks forward to
the apotheosis of Romulus, but first there intervenes a king-list an annalistic
structuring of the past remarkable in finding a place in the Metamorphoses.
Like the renaming of Aeneas, the list of Latin kings also recalls to Roman
readers their reading of inscriptions. This king-list also recalls earlier
lists in the Metamorphoses, such as the genealogy of Aesacus. His
transformation is a natural aetiology, and likewise Aeneas's shift to divine
status as “indiges” can be viewed as just another transformation, an addition
to the tale of Ardea transformed into a heron. We might almost think of it as
an undifferentiated item in a vast accumulation of transformation-tales that
could be arbitrarily lengthened by further addition. The reason, however, that
we cannot quite do so is the fact that it is not isolated, but participates in
a pattern of apotheoses. The apotheosis of Hercules establishes a pattern that
is reinforced strongly by the apotheoses of Romulus and of Julius Caesar's
soul. Their greater number toward the end of the poem appears to signal both
their own importance and their closural impact. Ovid's list of Latin kings does
not lead directly to the apotheosis of Romulus, but to the tale of Pomona and
Vertumnus, which he dates to the reign of Proca. The tale is rich in closural
features, cut from the same cloth as the apotheoses that frame it. Viewed as an
incident of deceptive seduction and barely-suppressed violence, the tale of
Vertumnus can also appear a distraction, leading the reader's attention away
from the transformation of historically important heroes into gods. The tale is
a "romantic comedy," yet regards it as compromising its context. It
is no secret that it disrupts what might be called the Aeneadisation of what is
otherwise far from being a Roman epic just when it begins to show promise (or
make fraudulent promises) of turning a new leaf and beginning to be such an
epic, and one in the Augustan mode to boot. Coming as it does between Aeneas
and Romulus, the tale of Vertumnus defeats closure and deflates any last hope
of the poem's imagining Rome’sHistorical Destiny (or imagining the World's
destiny as Rome's) because an ample and effective representation of the myth of
Romulus would be crucial to a celebration of Rome's place at the end of history
as the end of history. When Ovid abruptly returns to his long-interrupted
king-list, he remarkably FAILS to mention Romulus. Rome's walls are founded in
the passive voice, and only Romulus's enemy, the Sabine king Tatius, receives
mention by name -- proximus Ausonias iniusti miles Amuli rexit opes, Numitorque
senex amissa nepotis munere regna capit, festisque Palilibus urbis moenia
conduntur. Tatiusque patresque Sabini bella gerunt -- Next the military might
of unjust Amulius ruled rich Ausonia, old Numitor received, by his grandson's
gift, the kingdom that he had lost; on the festival of Pales the city's walls
are founded. Tatius and the Sabine fathers wage war. Scholars have attempted to
explain by various means Ovid's drastic compression of Rome's origins. Ovid
avoids repeating what he writes in the Fasti. The foundation of Rome offers no
opportunity for metamorphosis, although Helenus is to represent Rome's
foundation exactly in such terms later, in another context. And Ovid wishes to
avoid competing with Ennius's account in the Annales. These explanations
themselves are speculative, but the text seems to call for explanation because
Ovid has so strikingly omitted an obvious opportunity to serve up an account of
Rome's origins. Ovid's critics easily fall into the his hermeneutic trap. His
text demands interpretation without providing the resources to arrive at one.
Romulus and his apotheosis are an especially impressive instance of the
self-consciously missed opportunity, the Ovidian narrative tease. Because
Romulus was so well-known to Ovid's Roman readers as a mythico-historical
parallel to Ottaviano, few topics are richer in potential for allegorical
exploitation and panegyric symbolism; and this potential goes almost totally
unrealized here. Ovid's approach to Romulus is no approach at all. Ovid omits
the founder's exploits and shifts all attention to the divine sphere. The
apotheosis of Romulus and, as it turns out, that of his wife Hersilia result
from divine actions, whose description is the province of myth. Historians who
record their exploits give them standing as historical figures. Deprived of
exploits, they re-enter myth. By remythologizing history Ovid incorporates it
into the world of the Metamorphoses, in which divinities are active and humans
largely are acted upon. He also opposes euhemeristic modes of interpreting the
shift from mortal to divinity, in accordance with which a human's heroic
actions approach and approximate the divine, resulting in the hero's veneration
as divine by other humans, and his reception among the divinities as one of
them. Ennius's historical epic, the Annales, reports that, at Romulus's death,
Romolo now has a life among the gods -- Romulus in caelo cum dis genitalibus
aeum/ degit. Ennius probably took a euhemeristic interpretation of Romulus's
deification. Virtue and political merit open the gates of heaven. It is highly
likely that the deification of Romulus, who performed the mighty benefaction of
founding the city, was the innovation of Ennius. Ennius here will have been placing
Romulus in the tradition of the great monarchs who won immortality by emulating
Hercules. Although the details of Ennius's account are far from clear, Ovid's
non-euhemeristic approach is apparently the reverse of his principal source,
the original and canonical version of Romulus's deification. History appears to
be going backwards as the divine agents in the Romans' war with Tatius take
action. Juno unlocks the gate to the invading Sabines despite having so
recently given up her wrath against the Romans -- inde sati Curibus tacitorum
more luporum ore premunt uoces et corpora uicta sopore inuadunt portasque
petunt, quas obice firmo clauserat Iliades; unam tamen ipsa reclusit nec
strepitum uerso Saturnia cardine fecit. Then the Sabines, born at Cures, keep their
voices muffled like silent wolves; they assault the Romans, whose bodies are
sunk in slumber; they seek the gates, which lia's son [Romulus] had barred; yet
one of them Saturnian Juno unlocked. She made no noise as she turned it on its
hinge. After all the emphasis on Juno's reconciliation earlier, in the
apoth-cosis of Aeneas, her behavior here is glaringly inconsistent. We may try
to rationalize Juno's actions by appealing to Ennius's historical framework, by
which Juno gives up her wrath at the second Punic War. But Ovid makes no
attempt to clarify and so rescue historical consistency; indeed, he appears to
mock the tradition of multiplereconciliations of Juno, exploiting it for its
comic absurdity. There are serious consequences as well: the equation of
history with destiny breaks down. Soon Juno will be favorable to the Romans
once again at the apotheosis of Hersilia, but meanwhile two other divinities
intervene: first Venus, unable to undo Juno's hostile act in unbarring the
gate, entreats the Naiads living next to Janus's shrine in the Forum Romanum to
come to her assistance. Their spring, normally cold, they bring to a hasty
boil, thus blocking the way to the Sabines and allowing the Romans time to arm
themselves. Next, Mars addresses Jupiter, requesting deification for Romulus as
the fulfillment, now: due, of a long-standing promise. Mars cites Jupiter's
original words, representing them as an exact quotation: tu mihi concilio
quondam praesente deorum (nam memoro memorique animo pia uerba notaui) "unus
crit, quem tu tolles in cacrula caeli" dixisti: rata sit uerborum summa
tuorum. Once, at an assembled council of the gods, you told me (for I remember,
and marked the pious words in my retentive mind),there will be one whom you
will carry to the blue of heaven.' Let the content of your words be fulfilled. The
words Marte quotes appear to gain even more authority by referential
confirmation from outside the text of the Metamorphoses doubly cited, as it
were: for while Mars cites Jupiter, Ovid cites Ennius's Annales. Readers of
Ovid's contemporary Fasti will remember the recurrence of Ennius's line in a
third context, for Mars cites it there as part of a parallel appeal for
Romulus's deification. Although Marte describes his son to Jupiter as the latter's
"worthy grandson" (Met.), Romulus's exploits have no part in the
appeal. Deification results directly from Jupiter's promise, so strongly
emphasized, and at the beginning of the speech Mars needs only to establish
that now is the time for its fulfillment: tempus adest, genitor, quoniam
fundamine magno res Romana ualet nec praeside pendet ab uno, praemia (sunt
promissa mihi dignoque nepoti) soluere et ablatum terris inponere caelo. Since,
father, Roman affairs are well established on great foundations, and do not
depend on a single protector, it is time to pay the reward it was promised to
me and to my worthy grandson to remove him from the earth and to place him in
heaven. In all this there is no mention of Romulus's great benefactions, such
as might sustain a euhemeristic interpretation of the hero's advancement to
divine status. Far from avoiding comparison to Ennius, Ovid ostentatiously
quotes his predecessor's work, as if to flaunt the fact that in stripping the
hero of exploits he has eliminated Ennius's interpretation of them. Ennius's
words, transferred to so un-Ennian a context, may appear well suited to a
familiar allegorical parallel, reminding Roman readers once again of their
second Romulus, likewise destined for the skies. Yet Ovid's apotheosis of
Romulus functions but feebly as an Ottavian icon precisely because of its lack
of historical specificity. Lacking res gestae, Ovid's Romulus offers readers
little to go on in drawing conceptual parallels to the achievements of
Ottaviano. There are many similarities between the apotheosis of Romulus in the
Metamorphoses and that in the Fasti. In both works Ovid makes an emphatic
identification of deified Romulus with QVIRINVS, reinforcing relatively recent
developments in the story. In both Ovid quotes the line from Ennius and repeats
the apostrophe Romule, tra dabas (Met., F.) at the moment when the apotheosis
occurs. Yet in their larger contexts the two passages are remarkably dissimilar.
While in the Metamorphoses Romulus's apotheosis is his whole story -simply one
in a series of apotheoses extending from Hercules to the end of the work, in
the Fasti his apotheosis has a context in the life and exploits of the hero.
Romulus appears so often in the “Fasti” that the episodes concerning him are
numerous enough to trace out a biography of him, even if by installments. Ovid's
version of the Roman year gives Romulus an unprecedented amount of space, far
beyond the natural occasions offered by tradition (such as, for example,
Romulus's involvement in the foundation myths or in the actual rituals of the
Parilia or the Lupercalia). The identification of Augustus with Romulus even to
the point of his apotheosis demandd a 'positive' picture of Romulus. If the
violence and ruthlessness of Romulus's exploits in the “Fasti” make him a
problematic parallel to Augustus, we may suppose that Ovid gives himself an
easier task in the Metamorphoses by keeping Romulus's deeds out of his
narrative. In the “Fasti”, for instance, Marte mentions Romulus's dead brother
Remus always a difficulty in positive portrayals of the founder whereas in the
Metamorphoses Marte prudently omits *any* mention of Remus. Yet even the
attenuated Romulus of the Metamorphoses presents difficulties to allegorical
interpretation. As we saw earlier, Marte explains that it is now time for
apotheosis because Rome's condition, now well-established, "does not
depend on a single protector" (nec praeside pendet ab uno, Met.). Hence,
Romulus can be safely removed from the earth. Applied to Ottaviano, this remark
makes a poor allegorical fit. It calls attention to problems of succession that
afflicted the princes, on whom alone the res Romana manifestly did depend. The
apotheosis of Hersilia is even more remarkable, and Ovid's de-euhemerizing
revision of Roman history enters upon fresh territory with her. With Hersilia
there was probably no euhemeristic tradition for Ovid to work against. Ovid can
invent an apotheosis for her, representing it as a purely divine initiative. Tradition
granted her notable exploits without apotheosis; Ovid grants her apotheosis
without notable exploits. Romolo’s wife was well known to Roman readers for
being the Sabine wife of Romulus and for her active role in reconciling her own
people to the Romans. In several accounts, after the abduction of the Sabine
women and subsequent conflict between Romulus's men and the angry parents,
Hersilia sues for peace with Tatius and the Sabine fathers (Gellius; Dio
Cass.). Her other signal achievement takes place shortly thereafter. According
to Livy, Romulus blames the Sabine parents for the conflict, which resulted
from their pride in not allowing inter-marriage in the first place. Ersilia,
importuned by the entreaties of her sister Sabines, intervenes with Romulus to
argue that their parents ought to be pardoned and allowed to live in Rome: ita
rem coalescere con-cordia posse. Harmonious union of Romans and Sabines is,
according to LIVIO's patriotic interpretation, the whole point of the rape of
the Sabine women; and this view was widespread. It was not in wanton violence
or injustice that they resorted to rape, but with the intention of bringing the
two peoples together and uniting them with the strongest ties. So writes
Plutarch in introducing Ersilia. Dionysius of Halicarnassus also accepts this
pro-Roman motive for the rape. Ersilia's achievements, like those of her
husband, disappear entirely from Ovid's account of her apotheosis, as does the
whole story of the rape of the Sabines, in which she traditionally plays so
important a part. After Romulus's transformation into the deified Quirinus,
Juno sends Iris to bring instructions to the grieving widow, addressing Ersilia
as "chief glory of both the Latin and Sabine peoples": "o et de
Latia, o et de gente Sabina/praecipuum, matrona, decus.’ Has Juno become
reconciled to the Romans this time because of their union with the Sabines, a
people known for exemplary piety? We might suppose so, especially now that
Romulus is identified with the Sabine divinity Quirinus. For whatever reason,
Juno offers Ersilia a chance to see her husband again if she will go, under
Iris's guidance, to the Quirinale, Quirinus's hill, a place associated with the
Sabines' presence in Rome:53 siste tuos fletus et, si tibi cura uidendi
coniugis est, duce me lucum pete, colle Quirini qui uiret et templum Romani
regis obumbrat:Stop your tears and, if you care to see your husband, under my
guidance seek the grove that grows green on Quirinus's hill, and shades the
temple of Rome's king. Ersilia follows Iris's instructions and proceeds to
Romulus's hill. A star descends, causing Ersili's hair to catch fire a divine
portentand she passes into the air. Rome's founder receives her, changes her
name and body, calling her Hora, quae nunc dea tunca Quirino est (Met.). Of
course, Ersilia's apotheosis, like Romulus's, can be allegorized as panegyric.
There’s a parallel to LIVIA, so reinforcing the connection of Romulus to
Augustus. Yet if Ovid's goal in this double apotheosis is to promote
panegyrical identifications, he has lost an impressive opportunity. Especially
after his irreverent, even scandalous, version of the rape in Ars amatorial, Ovid
could now have made amends with Ottaviano and with history by serving up a
traditionally patriotic rape of the Sabines, including the achievements of
Romulus and Ersilia, both available for cuhemeristic treatment. Ovid's version
is once again conspicuously remote from Ennius's. It is unlikely that Ersilia's
transformation into the divine Hora occurred in the Annales, and Ovid probably
originated Ersilia's apotheosis. In doing so, Ovid remythologizes history,
reducing human agency and minimizing the potential of his Roman characters to
serve as flattering parallels. In evaluating the historical character of the
Metamorphoses, we can view apotheosis as part of historical progress in the
work. As we saw above Wheeler regards the movement from fable to history, from
the heavens to the city of Rome, as "a shift from a theologia fabulosa to
a theologia wilis"67 Another view is, however, possible, in accordance
with which the fabulous incorporates all else into its domain-including
history, politics, and current events. Terms like "fabulous" and
"mythological," of course, are not simply descriptive of the subject
matter that Ovid has taken up; he has entirely transformed the nature of the
fabulous, mythological, and the historical alike. He Ovidianizes them all,
Hersilia no less completely than the rest. When Iris reports Juno's words to
the bereaved Hersilia, she eagerly asks to see once again the face of her
husband, concluding her request with these words: 'quem si modo posse uidere/
fata semel dederint, caelum accepisse fatebor' (Met). Hersilia is using caclum
as a metaphorical equivalent for the summit of happiness, as Bömer aptly
notes, citing Cicero's letters to Atticus: in caelo sum (Att.); Bibulus in
caelo est (Att.). Hersilia supposes Romulus "lost" (amissum, Met.)
and evidently knows nothing yet of his apotheosis -certamly nothing about her
own. She simply uses a conventional, proverbial form of speech to express her
anticipated happiness. But events make her expression literally true, as the
star descends and Hersilia rises to the heavens. Ovid's transformative wordplay
often operates in just this way: words that initially appear figurative become
literal, the conceptual shifts to the physical, and a transformation described
in terms of plot is enacted first on the level of style." Hersilia's
apotheosis is a fine instance of Ovidian wit, yet is also a typical instance,
similar to many others that readers have enjoyed by this stage in the work's
progress. As they enjoy another of Ovid's transformative witticisms, they also
may reflect on the power of his transformative vision, which now incorporates
even their own history. As he exploits Hersilia's apotheosis for so fine a
joke, Ovid grants us an ironic perspective on Roman origins, compromising their
fated-ness and bringing out their contingent character. Throughout the last
pentad, historical events lose their connection to fata and pass under the sway
of Fama in its full range of ambiguity and contradiction: "lies mixed with
truth" (mixtaque cum ueris... commenta) issue from the house of Fama,
while "Fame, the herald of truth" (praemuntia uri/ fama), announces
Numa's impossible visit to Pythagoras. Fama is a touchstone for the fractured
historical vision of the Metamorphoses. Fasti (Ovidio) Fasti Ritratto immaginario di Ovidio
(di Anton von Werner) Autore Publio Ovidio Nasone Original ed. Editio princeps Bologna,
Baldassarre Azzoguidi, Generepoema epico Lingua originalelatino Manuale. I
Fasti sono un poema che espone le origini delle festività romane, quindi è
un'opera di carattere calendariale ed eziologico di Ovidio, scritto in distici
elegiaci, ad imitazione degli Aitia (Cause) di Callimaco, di cui riprende,
oltre che il metro, anche alcune soluzioni formali e narratologiche.
L'opera, scritta molto probabilmente per aderire alla moralizzante propaganda
tipica dell'età augustea, fu progettata in un totale di 12 libri, secondo
l'andamento del calendario. Con essa l'autore, che probabilmente attingeva a
Varrone e a Verrio Flacco, si era proposto di spiegare l'origine della
differenza tra i giorni fasti (dalla parola latina "fas", lecito) in
cui i Romani potevano trattare gl’affari pubblici e privati, e i giorni
“INfasti,” nei quali era vietato. Al tempo stesso, Ovidio, parlando con il dio
di turno, indaga e rivisita, mese per mese, tutti i molteplici riti, le
festività e le consuetudini, tipiche del costume e dell'uomo romano, che, al
suo tempo, si praticavano senza ormai conoscerne l'esatta origine o
valenza. Tuttavia, dei Fasti si sono conservati solamente 6 libri, da
gennaio a giugno. Questo fatto si spiega con la famosa relegatio (esilio che
non comportava la perdita dei beni né tantomeno dei diritti civili) che colpe
Ovidio e che non gli permise di terminarla. Indice 1Struttura 1. 1Libro
I: gennaio 1. 2 Libro II: febbraio 1.3 Libro
III: marzo 1. 4 Libro IV: aprile 1.5 Libro V: maggio 1. 6 Libro VI: giugno 2 Voci
correlate 4 Altri progetti 5 Collegamenti esterni Struttura Libro I: gennaio Il
primo libro doveva presentare una dedica ad Ottaviano. Quest'ultima, ora
spostata al secondo libro, è stata sostituita (verosimilmente nell'esilio di
Tomi, l'attuale Costanza, in Romania) con una al nipote adottivo di Augusto
stesso, Germanico. Dopo la dedica, Ovidio ri-evoca brevemente la nascita del
calendario romano e il significato dei giorni fortunati o dies fasti, per poi
passare al mito di Giano, esposto dal dio stesso in colloquio con Ovidio, sul
modello degli Aitia callimachei e, dopo un distico sulle None di gennaio,
modellato sulle sezioni astronomiche di Arato, all'esposizione dell'origine dei
riti agonali, dei riti in onore di Carmenta, inframmezzato da una esposizione
sulle Idi, che divide questo mini-epillio in due sezioni, la prima delle quali
è una lunga profezia sulle origini di Roma recitata dalla stessa ninfa.
Libro II: febbraio Dopo un'apostrofe al distico elegiaco, che Ovidio afferma di
aver piegato alla poesia eziologica, dopo che in gioventù fu il suo verso
d'amore e ad una dedica a Cesare (forse Augusto), si passa a parlare dell'origine
del nome februarius, per poi discutere delle calende, con la rievocazione del
mito di Arione, delle none, con il mito dell'Orsa Callisto, di Fauno, dei
Lupercali e di Roma arcaica. Ovidio rievoca, poi, le feste Quirinalia, le
cerimonie ferali e la festa del dio Terminus e si sofferma a parlare del
regifugium, con la leggenda di Lucrezia. Infine, parla della festa degli
Equirria. Libro III: marzo Sezione vuota Questa sezione sull'argomento opere
letterarie è ancora vuota. Aiutaci a scriverla! Libro IV: aprile Festività romane Fasti (antica Roma) I Fasti di P. Ovidio Nasone; tradotti in
terza rima dal testo Latino ripurgato ed illustrato con note dal dottor
Giambattista Bianchi da Siena, Venezia, Nella stamperia Rosa Traduzione in
inglese dei Fasti, su tkline.freeserve Publio Ovidio Nasone Portale Antica
Roma Portale Lingua latina Portale Religioni Categorie:
Opere letterarie in latino Opere di Ovidio Opere letterarie del I secolo.
Ovidio. Publio Ovidio Nasone. Ovidio. Keywords: implicatura trasformativa. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice ed Ovidio.” Ovidio.
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